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KATHY REICHS RESTI UMANI (Deadly Décisions, 2000) Dedicato con affetto al Carolina Beach Bunch RINGRAZIAMENTI Sono molte le persone che mi hanno aiutata a scrivere Resti umani. Particolarmente pazienti sono stati i miei colleghi della polizia e del mondo forense. Devo un sentito ringraziamento al sergente Guy Ouelette della Division of Organized Crime Unit, Sûreté du Québec, e al capitano Steven Chabot, al sergente Yves Trudel, al caporale Jacques Morin e all'agente Jean Ratté dell'Opération Carcajou a Montréal. Presso la polizia della Communauté Urbaine de Montréal devo ringraziare il tenente Jean-François Martin, della Division des Crimes Majeures, il sergente Johanne Bérubé, della Division Agressions Sexuelles, e il comandante Andre Bouchard, della sezione Moralité, Alcool et Stupéfiant del Centre Opérational Sud, che hanno avuto la pazienza di rispondere alle mie domande e di illustrarmi il funzionamento delle unità di polizia. Un ringraziamento speciale deve andare al sergente Stephen Rudman, Superviseur, Analyse et Liaison del Centre Opérational Sud, che ha risposto a molte mie domande, mi ha procurato alcune utili cartine e mi ha accompagnata a visitare il carcere. Dei miei colleghi del Laboratoire de Sciences Judiciaires et de Médecine Légale, devo ringraziare il dottor Claude Pothel per i commenti di patologia e François Julien della Section de Biologie per le sue dimostrazioni sugli spruzzi di sangue. Ringrazio anche Pat Laturnus per avermi fornito una consulenza sullo stesso argomento. In North Carolina vorrei ringraziare il capitano Terry Sult della Intelligence Unit del Dipartimento di polizia Charlotte-Mecklenburg; Roger Thomson, direttore del Crime Laboratory del Dipartimento di polizia Charlotte-Mecklenburg; Pam Stephenson, analista responsabile della sezione Intelligence and Technical Services dello State Bureau of Investigation del North Carolina; Gretchen C.F. Shappert, dell'ufficio del Viceprocuratore Generale, e il dottor Norman J. Kramer del Mecklenburg Medical Group.
Tra gli altri che mi hanno dedicato il loro tempo e le loro conoscenze, non posso non ricordare il dottor G. Clark Davenport, geofisico presso la NecroSearch International, il dottor Wayne Lord, del National Center for the Analysis of Violent Crime presso l'Accademia dell'FBI a Quantico, in Virginia, e Victar Svoboda, direttore dell'ufficio stampa presso il Montréal Neurological Institute e presso il Montréal Neurological Hospital. Il dottor David Taub è stato il guru che mi ha dischiuso il mondo Harley-Davidson. Sono in debito con Yves St. Marie, direttore del Laboratoire de Sciences Judiciaires et de Médecine Légale, con il dottor Andre Lauzon, responsabile del Laboratoire de Médecine Légale, e con il dottor James Woodward, consigliere alla University of North Carolina di Charlotte per il loro ininterrotto sostegno. Rivolgo un ringraziamento particolare a Paul Reichs per i suoi preziosi commenti sul manoscritto. Come sempre, non può mancare un sentito ringraziar mento ai miei straordinari editori, Susanne Kirk di Scribner e Lynne Drew di Random House, e alla mia dinamica agente, Jennifer Rudolph Walsh. Benché il libro abbia beneficiato degli interventi di molti esperti, gli eventuali errori di Resti umani sono da attribuire a me sola. 1 Si chiamava Emily Anne. Nove anni, riccioli neri, ciglia lunghe, pelle ambrata. I lobi forati da due anellini d'oro. La fronte da due proiettili di Cobray semiautomatica calibro nove. Era sabato, e stavo lavorando su speciale richiesta del mio capo, Pierre LaManche. Dopo quattro ore di analisi su tessuti orribilmente straziati, d'un tratto la porta dell'ampia sala autopsie si aprì e l'investigatore Luc Claudel irruppe nella stanza. Claudel e io avevamo già lavorato insieme in passato, ma dai suoi modi sbrigativi era difficile capire che nel tempo aveva imparato a sopportarmi, forse perfino ad apprezzarmi. «Dov'è LaManche?» domandò lanciando un'occhiata al tavolo operatorio che avevo di fronte, ma distogliendo subito lo sguardo. Non risposi. Quando aveva la luna storta, in genere lo ignoravo. «LaManche è già arrivato?» insisté, evitando di guardare i miei guanti sudici.
«È sabato, Monsieur Claudel. LaManche non...» In quel momento Michel Charbonneau fece capolino in sala autopsie e dalla porta semiaperta filtrò il rumore della porta elettrica sul retro dell'edificio. «Le cadavre est arrivé» comunicò al collega. Quale cadavere? E perché due investigatori della Omicidi si trovavano in obitorio di sabato pomeriggio? «Hey, Doc» mi salutò in inglese Charbonneau, un omone dai capelli di porcospino. «Che cosa sta succedendo?» domandai sfilandomi guanti e mascherina. Fu Claudel a rispondermi, la faccia tesa, lo sguardo triste sotto la luce impietosa dei neon. «Tra poco arriverà il dottor LaManche e potrà darle tutte le spiegazioni del caso.» Aveva già la fronte imperlata di sudore e la bocca serrata in una linea sottile. Claudel detestava le autopsie ed evitava l'obitorio il più possibile. Senza aggiungere una sola parola spalancò la porta e uscì, ignorando il collega rimasto sulla soglia. Charbonneau lo guardò allontanarsi nel corridoio, poi si voltò verso di me. «È dura per lui. Ha figli piccoli.» «Figli piccoli?» Il petto mi si strinse in una morsa di gelo. «Questa mattina gli Heathens hanno colpito. Ha mai sentito parlare di Richard Marcotte?» Quel nome mi suonò vagamente familiare. «Forse lo conosce meglio con il soprannome di Araignée. O Ragno, se preferisce. Un grande, oltre a essere un leader riconosciuto nel mondo dei biker irregolari. Ragno è un cosiddetto "questore" ed è membro dei Vipers. Oggi però la giornata gli è andata storta. Stamattina è uscito di casa intorno alle otto, per andare in palestra, e gli Heathens lo hanno fatto secco sparandogli da un'auto in corsa, mentre la sua compagna si è tuffata in un cespuglio di lillà per salvarsi la pelle.» Charbonneau si passò una mano tra i capelli e deglutì. Aspettai. «Nel frattempo sono riusciti a far fuori anche una bambina.» «Dio, no!» Serrai le dita sui guanti che avevo in mano. «Proprio così. Una bambina. L'hanno portata al Children's Hospital di Montréal ma non ce l'ha fatta. Adesso sta arrivando qui. Marcotte invece è arrivato in ospedale già morto. È qua fuori.»
«LaManche sta venendo in istituto?» Charbonneau annuì. I cinque patologi del Laboratoire erano reperibili a turno e, anche se capitava di rado, quando si rendevano necessari un sopralluogo o un'autopsia straordinari qualcuno era sempre a disposizione. Quel giorno era il turno di LaManche. Una bambina. Mi sentii assalire da una ridda di emozioni familiari e sentii il bisogno di scappare via. Il mio orologio segnava le dodici e quaranta. Mi tolsi il grembiule di plastica, lo accartocciai insieme alla mascherina e ai guanti in lattice e gettai il tutto in un bidoncino per i rifiuti biologici. Dopodiché mi lavai le mani, andai all'ascensore e salii al dodicesimo piano Non so per quanto tempo rimasi seduta nel mio ufficio, con lo sguardo fisso sul San Lorenzo e del tutto disinteressata al mio vasetto di yogurt. A un certo punto mi sembrò di udire la porta di LaManche che si apriva, poi il fruscio delle porte a vetri di sicurezza che dividono le varie sezioni della nostra ala. La professione di antropologa forense mi ha portato a sviluppare una sorta di immunità alla morte violenta. E poiché baso le mie consulenze sull'analisi delle ossa di corpi mutilati, bruciati e decomposti, posso dire di aver visto il peggio del peggio. Lavoro tra obitori e sale autopsia, sicché conosco molto bene l'aspetto di un cadavere, il suo odore, il modo in cui reagisce ai tagli del bisturi. Sono abituata ai vestiti insanguinati stesi ad asciugare, al rumore di una sega Stryker che penetra in un osso, alla vista di organi che galleggiano in contenitori di vetro numerati. Ciononostante, la realtà di un bambino morto mi coglie ancora e sempre impreparata. Lo scolaretto seviziato, il neonato picchiato, il figlio emaciato di un fanatico religioso, la vittima preadolescente di un pedofilo. La violazione dei giovani innocenti non manca mai di gettarmi nell'angoscia. Non molto tempo prima avevo lavorato al caso di due gemellini di pochi mesi mutilati e uccisi. Era stata una delle esperienze più difficili della mia carriera, e non volevo infilarmi un'altra volta in un simile tunnel emotivo. Ma devo ammettere che quel caso era stato anche motivo di grande soddisfazione, e quando la fanatica colpevole era finita in prigione avevo avuto la netta sensazione di aver compiuto qualcosa di buono. Sollevai il tappo di alluminio del vasetto e mescolai lo yogurt. Le immagini di quei gemelli continuavano a girarmi in testa. Ricordai gli stati d'animo che avevo provato quel giorno in obitorio, i ricordi di mia
figlia bambina. Santo cielo, ma perché tutta quella follia? I due uomini che avevo lasciato letteralmente a pezzi nel seminterrato erano morti a causa della guerra tra biker. Non farti prendere dallo sconforto, Brennan. Arrabbiati. Dai spazio a una rabbia fredda e determinata. E poi usa la tua professionalità per inchiodare quei bastardi. «Sì» dissi a voce alta approvando i miei pensieri. Terminai lo yogurt e tornai in obitorio. Charbonneau aspettava seduto nell'anticamera di una delle sale autopsia più piccole, sfogliando le pagine di un taccuino a spirale. Il corpo imponente traboccava oltre l'esiguo sedile di una sedia in plastica posta di fronte a una scrivania. Claudel era sparito dalla circolazione. «Come si chiama la bambina?» domandai. «Emily Anne Toussaint. Stava andando al corso di danza.» «Dove?» «Verdun.» Indicò con un cenno della testa la stanza adiacente. «LaManche ha già cominciato.» Passai accanto all'investigatore ed entrai in sala autopsia. Il mio capo stava prendendo appunti e scattando polaroid. Accanto a lui, un fotografo immortalava altri particolari. Osservai LaManche tenere la macchina fotografica dalle impugnature laterali, poi sollevarla e abbassarla sul cadavere. Mentre l'obiettivo ruotava per trovare la messa a fuoco, un puntino sfocato e poi sempre più nitido prese corpo in corrispondenza di una delle ferite sulla fronte della bambina. Quando il contorno del puntino fu perfettamente a fuoco, LaManche premette il pulsante dell'otturatore. Dopo poco un quadrato bianco scivolò fuori dalla macchina. Il patologo lo sfilò e lo posò su un piano di lavoro, accanto ad altre immagini simili. Il corpo di Emily Anne portava i segni dello sforzo immane con cui i medici avevano cercato di salvarle la vita. Nonostante la testa parzialmente bendata, notai una cannula trasparente spuntarle dal cranio: era servita a misurare la pressione endocraniale. Nella gola aveva una cannula endotracheale che arrivava fino alla trachea e all'esofago, inserita per ossigenare i polmoni e per bloccare il rigurgito dello stomaco. Nei vasi sanguigni succlavi inguinali e femorali aveva ancora i cateteri per l'infusione endovenosa e sul petto i cerotti bianchi degli elettrodi per l'elettrocardio-
gramma. Un intervento frenetico, quasi un assalto. Socchiusi le palpebre e mi sentii gli occhi umidi di lacrime. Riportai lo sguardo sul corpicino. Emily Anne indossava solo il braccialetto di plastica dell'ospedale. Accanto a lei, la camicia verdina dei ricoverati, un involto di vestiti, uno zainetto rosa e un paio di scarpe da ginnastica rosse. Luce al neon impietosa. Scintillio di piastrelle e acciaio. Gelidi, sterili strumenti chirurgici. Una bambina non c'entrava niente con quel posto. Quando alzai gli occhi, incrociai lo sguardo di LaManche. Evitammo entrambi ogni riferimento a ciò che avevamo davanti, sul tavolo operatorio d'acciaio, ma questo non mi impedì di indovinare i pensieri del patologo. Un altro bambino. Un'altra autopsia. Un'altra volta in quella sala. Diedi un colpo di tosse per tenere a bada le emozioni e gli descrissi i progressi dei casi che stavo seguendo - i due biker uccisi dalla loro stessa follia - domandando quando avrei potuto consultare la documentazione medica ante mortem. LaManche mi disse che i dossier erano già stati richiesti e con molta probabilità sarebbero arrivati il lunedì seguente. Lo ringraziai e andai a riprendere il mio lugubre compito. Mentre analizzavo i tessuti, ripensai alla conversazione telefonica avuta con LaManche, e desiderai essere ancora tra i boschi della Virginia. Possibile che fossero trascorsi solo due giorni da quella telefonata? Due giorni prima Emily Anne era ancora viva. Quante cose possono cambiare in quarantott'ore. 2 Due giorni prima mi trovavo all'Accademia dell'FBI di Quantico per tenere un seminario sul recupero dei cadaveri. Mentre i miei allievi, una squadra di tecnici addetti al recupero prove, stavano dissotterrando uno scheletro e procedendo alla mappatura del sito, d'un tratto alzai lo sguardo e tra gli alberi notai un agente speciale. Era venuto a riferirmi che un certo dottor LaManche mi voleva parlare con urgenza. A disagio, lasciai la squadra e m'inoltrai nel bosco. Percorrendo il sentiero che conduceva alla strada, pensai a LaManche e al motivo della sua chiamata. All'inizio degli anni Novanta, nell'ambito di uno scambio tra la mia università e la McGill University di Montréal, avevo iniziato a collaborare in qualità di consulente con il Laboratoire de Mé-
decine Légale, l'Istituto di medicina legale, e con il Laboratoire de Sciences Judiciaires, il Laboratorio centrale per le discipline forensi del Québec. LaManche, sapendo che ero abilitata alla professione dall'American Board of Forensic Anthropology, voleva capire se potevo essere utile al suo istituto. La provincia del Québec aveva un sistema di medicina legale centralizzato formato da moltissimi istituti e laboratori, che però non prevedeva la figura professionale dell'antropologo forense. All'epoca lavoravo, e lavoro ancora, come consulente presso l'Office of the Chief Medical Examiner, il dipartimento di medicina legale del North Carolina, e LaManche mi aveva chiesto di collaborare anche con il Laboratoire de Médecine Légale. Così, mentre il ministero trovava i fondi per finanziare un laboratorio di antropologia, io mi ero iscritta a un corso intensivo di francese. E ormai da più di dieci anni i cadaveri scheletrizzati, decomposti, mummificati, bruciati e mutilati della provincia del Québec arrivano da me per essere analizzati e identificati. Quando una normale autopsia è impossibile o inutile, intervengo io ricavando dalle ossa tutte le informazioni che posso. LaManche mi aveva lasciato messaggi urgenti pochissime volte. E non si era mai trattato di buone notizie. Nel giro di qualche minuto raggiunsi un furgone parcheggiato su una strada di ghiaia. Mi sciolsi la coda e passai una mano tra i capelli. Niente zecche. Richiusi il fermaglio, recuperai il mio zaino dal furgone e presi il cellulare. Il piccolo display mi disse che avevo ricevuto tre chiamate. Controllai i numeri telefonici. Tutt'e tre provenivano dal Laboratoire. Provai a mettermi in contatto ma il segnale andava e veniva. In effetti avevo lasciato il cellulare nel furgone proprio per quel motivo. Accidenti. Nel giro di dieci anni avevo acquisito una certa dimestichezza con il francese, ma i rumori di fondo e le linee disturbate mi creavano ancora dei problemi. Tra difficoltà linguistiche e segnale debole, con quel telefonino non sarei mai riuscita a contattare LaManche, così decisi di tornare a piedi alla sede dell'Accademia. Mi sfilai la tuta da lavoro e la riposi in uno scatolone nel bagagliaio del furgone, quindi mi gettai lo zainetto dietro la schiena e cominciai a scendere la collina. In alto un falco volava in cerchio intorno al suo bersaglio. Il cielo era terso, di un azzurro intenso, picchiettato da qualche raro e fluttuante batuffolo bianco. Il seminario in genere si teneva in maggio, ma quell'anno era stato anticipato al mese di aprile, nonostante il rischio di qualche rovescio
o di una temperatura non ancora mite. Invece la colonnina di mercurio si era stabilizzata sui venticinque gradi. Mentre camminavo, ascoltai i suoni che mi circondavano. I miei scarponcini che scricchiolavano sulla ghiaia. Cinguettii. Il fruscio lontano delle pale di un elicottero. Colpi di armi da fuoco. L'FBI condivide l'Accademia di Quantico con altre agenzie federali di polizia e con i Marines, sicché le attività più disparate fervono ovunque e di continuo. La stradina di ghiaia incontrava l'asfalto all'altezza di Hogan's Alley, proprio sotto il finto quadrato di case utilizzato dall'FBI, dalla DEA, dall'ATF e da altri organismi per le esercitazioni. Feci il giro largo sulla sinistra per non intralciare un'operazione di recupero ostaggi e svoltai a destra su Hoover Road, da dove raggiunsi un complesso in cemento dai tetti sovrastati da una selva di antenne. Attraversai un piccolo parcheggio e suonai un campanello per entrare nel Centro Ricerca e Addestramento Discipline Forensi. Una porta si schiuse, aperta da un uomo giovane ma completamente calvo, e con tutta l'aria di esserlo da parecchio tempo. «Hai finito prima?» «No. Devo fare una telefonata al mio istituto.» «Puoi usare il mio ufficio.» «Grazie, Craig. Mi sbrigo in un minuto.» Almeno spero. «Sto controllando delle apparecchiature, quindi fai pure con comodo.» L'Accademia è spesso paragonata a una tana di criceti per via del dedalo di gallerie e corridoi che collega i vari edifici. Ma i piani superiori non sono niente in confronto al labirinto dei sotterranei. Ci inoltrammo in una zona stipata di scatoloni e di casse, di vecchi monitor di computer e parti di apparecchiature metalliche; prima un corridoio, poi altri due, finché non giungemmo a un ufficio grande appena per contenere scrivania, sedia, armadietto e scaffale. Craig Beacham lavorava per il CNACV, il Centro Nazionale Analisi Crimini Violenti, uno dei principali organismi del GRIG, il Gruppo Risposta Incidenti Gravi dell'FBI. Per un certo periodo era stato chiamato USKRI, Unità Serial Killer e Rapimenti Infantili, ma di recente era tornato al nome originario. Da quando l'addestramento delle squadre di Tecnici addetti al Recupero Prove, o TRP, è una delle funzioni del CNACV, l'organizzazione del mio seminario annuale spetta proprio a questa sezione. Per avere a che fare con l'FBI, bisogna sapersi destreggiare molto bene con gli acronimi.
Craig raccolse una pila di dossier dalla sua scrivania e li spostò sull'armadietto. «Così, se devi prendere un appunto, almeno hai un po' di spazio. Devo chiudere la porta?» «No, grazie. Va bene così.» Il mio ospite annuì e scomparve nel corridoio. Inspirai a fondo, mi programmai mentalmente sul francese e composi il numero. «Bonjour, Temperance.» LaManche era l'unico, dopo il prete che mi aveva battezzato, a utilizzare la versione non abbreviata del mio nome. Tutti gli altri mi chiamavano Tempe. «Comment ça va?» Risposi che stavo bene. «La ringrazio di avermi richiamato» riprese. «Quassù si sta delineando una situazione davvero terribile e temo che avremo bisogno del suo aiuto.» «Oui?» Terribile? LaManche non era incline alle esagerazioni. «Les motards. Ne sono morti altri due.» Les motards. I biker. Da più di dieci anni la bande rivali di teppisti motorizzati si davano battaglia per il controllo del traffico di droga nel Québec. Avevo già lavorato a diversi casi di motards, vittime di armi da fuoco successivamente bruciate per impedirne il riconoscimento. «Oui?» «Per il momento questa è la ricostruzione della polizia. La notte scorsa tre membri degli Heathens sono arrivati in automobile davanti alla sede dei Vipers portando con sé una potente bomba di fabbricazione casalinga. L'uomo di guardia alle telecamere di sorveglianza ha notato una coppia avvicinarsi a piedi reggendo un grosso involucro. Ha sparato e la bomba è esplosa.» LaManche si interruppe. «Il conducente è all'ospedale in gravi condizioni. Quanto agli altri due, la porzione di cadavere più grossa pesa quattro chili e mezzo.» Aiuto. «Temperance, ho cercato di mettermi in contatto con l'agente Martin Quickwater. Si trova lì a Quantico, ma è impegnato per tutto il giorno in una riunione per la revisione di un caso.» «Quickwater?» Non era un nome québécois. «È un nativo americano. Un Cree, mi sembra.» «C'entra qualcosa con quelli della Carcajou?» L'Operazione Carcajou è una task force multigiurisdizionale creata per investigare le attività criminali delle bande di motociclisti irregolari in
Québec. «Oui.» «Che cosa devo fare?» «Dovrebbe riferire all'agente Quickwater ciò che le ho detto e chiedergli di mettersi in contatto con me. Poi vorrei che venisse qui appena possibile. L'identificazione dei cadaveri potrebbe darci dei problemi.» «Avete recuperato polpastrelli sottoponibili a dattiloscopia o frammenti dentarii?» «No. E non è molto probabile che riusciremo a trovarne.» «Il DNA?» «Anche per quello potrebbero esserci dei problemi. La situazione è complicata, e preferirei non parlarne al telefono. Per lei è possibile tornare prima del previsto?» Come ogni anno, avevo concluso il semestre primaverile alla University of North Carolina di Charlotte in tempo per tenere il seminario all'Accademia dell'FBI. Mi restavano solo da leggere gli esami finali, poi sarei potuta volare a Washington da alcuni amici per una breve vacanza, prima di andare a Montréal per l'estate. Invece la mia vacanza avrebbe dovuto aspettare. «Sarò lì domani.» «Merci.» LaManche proseguì nel suo francese corretto ed elegante, la voce bassa venata da una nota di stanchezza, o di tristezza. «Non va per niente bene, Temperance. Gli Heathens si vendicheranno. E poi i Vipers verseranno altro sangue.» Lo udii tirare un lungo respiro ed espirare lentamente. «Temo che la situazione evolverà in una guerra di vaste proporzioni che potrebbe costare la vita a molti innocenti.» Ci salutammo e chiamai subito la US Airways per prenotare un volo per il mattino dopo. Mentre abbassavo la cornetta, Craig Beacham comparve sulla porta. Gli spiegai di Quickwater. «Un agente?» «Sì, della Royal Canadian Mounted Polke. O della GRC, se preferisci il francese. Gendarmerie Royale du Canada.» «Aspetta un momento.» Craig compose un numero e chiese dove fosse l'agente. Dopo una pausa scarabocchiò qualcosa e riagganciò. «Il tuo uomo è chiuso in una delle sale qui intorno per una riunione.» Mi porse il numero che aveva annotato e mi diede qualche indicazione. «Tu infilati dentro e siediti. È facile che verso le tre facciano una pausa.»
Lo ringraziai e vagai per i corridoi finché non trovai la sala. Attraverso la porta chiusa udii delle voci soffocate. Il mio orologio segnava le due e venti. Girai la maniglia ed entrai. A parte il fascio di luce di un proiettore e l'alone color albicocca che circondava una diapositiva, la sala era immersa nel buio. Sedute intorno al tavolo centrale riuscii a distinguere una decina di figure. Mentre prendevo posto su una sedia appoggiata a una parete qualche testa si voltò a guardare, ma la maggior parte degli occhi rimasero fissi sullo schermo. Per i successivi trenta minuti osservai la previsione di LaManche concretizzarsi in una serie di dettagli raccapriccianti. Un bungalow colpito da una bomba, brandelli di tessuti appiccicali alle pareti, porzioni di corpi sparpagliati sul prato. Un tronco femminile, una faccia ridotta a una massa informe e rossastra, le ossa del cranio spappolate da un colpo di doppietta. La carrozzeria annerita di un'utilitaria, una mano carbonizzata che penzolava fuori da uno dei finestrini posteriori. Alla destra del proiettore, un uomo faceva scorrere le diapositive e commentava le guerre tra bande di biker a Chicago. La voce mi suonò vagamente familiare ma non riuscii a distinguere i suoi lineamenti. Altre immagini. Esplosioni. Accoltellamenti. Di quando in quando sbirciavo le sagome intorno al tavolo. Tranne una, tutte avevano capelli a spazzola. Alla fine lo schermo divenne bianco, il proiettore prese a ronzare e nel fascio di luce rimasero a fluttuare le particelle di polvere. Le sedie scricchiolarono mentre i loro occupanti si stiracchiavano, guardandosi l'un l'altro. L'uomo che commentava le diapositive si alzò e si avvicinò a una parete. Quando le lampade sul soffitto si accesero riconobbi l'agente speciale Frank Tulio, conosciuto qualche anno prima durante il mio seminario. Anche lui mi vide, e mi salutò con un largo sorriso. «Tempe. Come ti va la vita?» Tutto in Frank era impeccabile. Dai capelli brizzolati scolpiti a rasoio, al corpo compatto, alle immacolate scarpe italiane. Diversamente dal resto di noi, grazie alla moda e all'esercizio fisico Frank si manteneva in gran forma. «Non posso lamentarmi. Sei sempre a Chicago?» «Fino all'anno scorso. Adesso lavoro qui, mi hanno assegnato al GRIG.» Tutti gli sguardi erano concentrati su di noi. E solo allora mi ricordai dello stato del mio abbigliamento e dei miei capelli. Frank si rivolse ai col-
leghi. «Conoscete tutti la grande dottoressa delle ossa?» Mentre Frank procedeva alle presentazioni, le persone sedute intorno al tavolo annuirono e sorrisero. Riconobbi qualcuno, altri no. Un paio di agenti fece qualche battuta su episodi del passato di cui ero stata protagonista. Due dei presenti non erano membri dell'Accademia. L'unica chioma fluente che avevo notato apparteneva a Kate Brophy, supervisore della Unità di intelligence dell'SBI - State Bureau of Investigation - della North Carolina. Kate era da sempre esperta di bande di biker irregolari. Ci eravamo conosciute all'inizio degli anni Ottanta, quando in North e South Carolina imperversava la guerra fra gli Outlaws e gli Hells Angels e io avevo identificato due delle vittime. A una estremità del tavolo una ragazza dattilografava su qualcosa che ricordava una macchina per stenografia. Accanto a lei, Martin Quickwater sedeva dietro a un computer portatile. Aveva il viso largo, gli zigomi alti, le sopracciglia che finivano ad angolo. La sua pelle aveva il colore del mattone bruciato. «Sono sicuro che voi stranieri vi conoscete già» disse Frank. «Veramente no» risposi io, «ma è appunto questo il motivo per cui mi sono intrufolata qui dentro. Devo parlare con l'agente Quickwater.» Quickwater mi concesse non più di cinque secondi di attenzione, poi riportò lo sguardo sullo schermo del suo computer. «Sei arrivata al momento giusto. Siamo pronti per una pausa.» Frank diede un'occhiata all'orologio e andò a spegnere il proiettore. «Andiamo a farci un po' di caffeina e ritroviamoci qui alle tre e mezzo.» Mentre gli agenti mi sfilavano davanti, uno dei membri del CNACV unì pollici e indici formando un quadrato e finse di mettermi a fuoco attraverso un mirino. Eravamo amici da una decina d'anni e sapevo che non mi avrebbe risparmiato una battutaccia. «Bella mossa, Brennan. Per caso hai fatto un patto con il giardiniere? Aiuole e taglio di capelli in un colpo solo?» «Evidentemente qualcuno ha ancora voglia di lavorare davvero, agente Stoneham.» Lui rise e uscì. Quando io e Quickwater rimanemmo soli, gli sorrisi e mi avvicinai per presentarmi meglio. «So benissimo chi è lei» tagliò corto Quickwater, in un inglese lieve-
mente accentato. I suoi modi così sbrigativi mi sorpresero, e trattenni a fatica una risposta altrettanto sgarbata. Forse essere sudata e scarmigliata mi aveva reso suscettibile. Quando gli spiegai che LaManche aveva cercato di contattarlo, Quickwater si sfilò il cercapersone dalla cintura per verificare, quindi scosse la testa e con un sospiro sbatté l'oggetto contro il palmo della mano, per poi riagganciarselo in vita. «Le batterie» disse laconico. Gli riferii ciò che mi aveva detto LaManche, mentre lui mi fissava attento. I suoi occhi erano così scuri che era impossibile distinguere la pupilla. Quando ebbi finito annuì, si girò e lasciò la sala. Per un attimo rimasi lì impalata a riflettere sullo strano comportamento di quell'uomo. Fantastico. Non solo dovevo rimettere insieme i pezzetti di due biker, ma avevo come socio Mister Simpatia. Raccolsi lo zainetto e tornai nel bosco. Nessun problema, Quickwater. L'ho spuntata con gente molto più stronza di te. 3 Il viaggio verso Montréal fu molto tranquillo, a parte l'atteggiamento sprezzante di Martin Quickwater. Pur essendo sul mio stesso volo, non mi rivolse la parola né fece il gesto di venirsi a sedere accanto a me. Ci scambiammo un cenno di saluto al Washington-Reagan, e un altro mentre aspettavamo nella fila della dogana a Montréal-Dorval. Tutto quel gelo comunque mi andava bene: non avevo affatto voglia di entrare in confidenza con lui. Presi un taxi e andai al mio appartamento, che si trovava a Centre-Ville. Posai i bagagli e mi scongelai un burrito, una specie di tortilla messicana ripiena. Poi uscii per andare al Laboratoire. La mia vecchia Mazda si animò al terzo tentativo. Per anni l'Istituto di medicina legale aveva occupato il quinto piano di un palazzo noto come "Edificio SQ". La Sûreté du Québec, cioè la polizia di stato, aveva sempre avuto per sé i piani rimanenti tranne il dodicesimo e il tredicesimo, destinati a un carcere. L'obitorio e le sale autopsia erano nel seminterrato. Di recente, però, il governo del Québec aveva stanziato milioni per ri-
strutturare l'edificio. Il penitenziario era stato trasferito e gli ultimi piani, rimasti liberi, erano stati assegnati agli uffici e ai laboratori dell'Istituto di medicina legale. Erano ormai passati mesi dal trasloco, ma non riuscivo ancora a credere al cambiamento. Dal mio nuovo ufficio, infatti, godevo di una splendida vista sul fiume San Lorenzo, e disponevo di un laboratorio di prima classe. Alle tre e mezzo di venerdì il consueto via vai dei giorni feriali cominciava a scemare. Una a una, le porte si stavano chiudendo alle spalle di un esercito di scienziati e di tecnici in camice bianco. Aprii il mio ufficio e appesi il giubbotto alla piantana di legno. Tre moduli bianchi aspettavano sulla scrivania. Presi quello firmato da LaManche. La Demande d'Expertise en Anthropologie costituisce spesso il mio primo contatto con un caso. Compilata dal patologo richiedente, fornisce dati fondamentali per rintracciare il relativo fascicolo. Spostai lo sguardo sulla colonna di destra. Numero LML, cioè del Laboratoire de Médecine Légale. Numero di obitorio. Numero d'incidente, assegnato dalla polizia. Asettico e funzionale. Il cadavere viene etichettato e archiviato fino a che la macchina della giustizia non ha fatto il suo corso. Passai alla colonna di destra. Patologo. Coroner. Funzionario incaricato delle indagini. La morte violenta è l'intrusione finale, e quelli che la indagano sono gli ultimi voyeur. Pur essendo parte dell'ingranaggio, sono sempre a disagio di fronte all'indifferenza con cui il sistema tratta le persone morte e le indagini sulle circostanze del decesso. Mi rendo conto che un certo distacco è necessario per mantenere l'equilibrio emotivo, eppure ho sempre la sensazione che la vittima meriti un atteggiamento più partecipe, più personale. Esaminai il riassunto dei fatti di cui eravamo a conoscenza. Differiva dal resoconto telefonico di LaManche solo in un punto: fino a quel momento erano stati rinvenuti duecentoquindici porzioni di carne e di ossa, di cui la più grande pesava cinque chili e mezzo. Ignorai gli altri due moduli e i messaggi telefonici e andai a cercare il direttore. Non avevo quasi mai visto Pierre LaManche senza il camice bianco o la tenuta verde da chirurgo. E non avrei potuto immaginarlo ridere o indossare qualcosa di vivace. Lui era sobrio e cortese, rigorosamente in tweed. Ed era il miglior patologo forense che avessi mai conosciuto.
Lo vidi attraverso il rettangolo di vetro accanto alla porta del suo ufficio. Era curvo sulla scrivania, davanti a una confusione di fogli di carta, giornali, libri e a una pila di fascicoli colorati. Quando bussai, alzò lo sguardo e mi fece cenno di entrare. L'ufficio, come il suo occupante, profumava lievemente di tabacco da pipa. LaManche aveva una camminata così silenziosa che spesso quell'aroma era il primo indizio della sua presenza. «Temperance.» Il direttore accentava sempre l'ultima sillaba e, pronunciato da lui, il mio nome faceva rima con France. «Le sono davvero grato per essere rientrata così presto. Ma la prego, si accomodi.» Parlava un francese impeccabile, senza ombra di contrazioni o di inflessioni dialettali. Ci sedemmo al tavolino di fronte alla sua scrivania. Sul ripiano notai diverse buste marroni piuttosto grandi. «So che ormai oggi è tardi per procedere alle analisi, ma forse potremmo vederci domani?» Il viso lungo di LaManche era solcato da profonde rughe verticali. Quando sollevò le sopracciglia per formulare la richiesta, i solchi che correvano paralleli agli occhi si sollevarono verso il centro della fronte. «Sì. Certo.» «Forse è il caso che inizi a esaminare le radiografie.» Mi indicò le buste, poi si spostò alla scrivania. «I due biker che trasportavano la bomba verso la sede dei Vipers sono stati polverizzati, e i loro resti si sono sparpagliati su una zona molto vasta. Gran parte di ciò che è stato rinvenuto dalla squadra addetta al recupero si trovava appiccicato ai muri, o impigliato su rami e cespugli. Per il momento il brandello più grosso è stato ritrovato sul tetto della sede del motoclub. Una porzione di torace è parzialmente tatuata e questo sarà di grande aiuto per l'identificazione.» «E quello che guidava?» «È morto questa mattina all'ospedale.» «La persona che ha sparato?» «È stato fermato, ma questa gente non è mai di nessun aiuto. Piuttosto di fornire qualche elemento alla polizia si farebbe chiudere in carcere.» «Non ha fornito neppure informazioni sulla banda rivale?» «Se parla è un uomo morto, o almeno è molto probabile che lo sia.» «E le impronte o la documentazione odontoiatrica?» «Niente.»
LaManche si passò una mano sulla faccia, fece spallucce e intrecciò le dita in grembo. «Temo che non riusciremo mai a identificare tutti i tessuti.» «Non possiamo utilizzare il DNA?» «Ha mai sentito parlare di Ronald e Donald Vaillancourt?» Scossi la testa. «I fratelli Vaillancourt, altrimenti detti Cric e Croc. A tutt'oggi membri effettivi degli Heathens. Qualche anno fa uno dei due era stato implicato nell'esecuzione di Claude Dubé, soprannominato Coltello. Non ricordo quale.» «La polizia crede che le vittime siano i due Vaillancourt?» Un paio di occhi malinconici incrociarono i miei. «Cric e Croc sono gemelli omozigoti.» Alle sette di quella stessa sera avevo già esaminato tutto, tranne il video. Con una lente di ingrandimento avevo visionato una marea di fotografie che mostravano centinaia di frammenti ossei e masse insanguinate di varie forme e misure. Scatto dopo scatto, le frecce indicavano brandelli rossi e gialli confusi tra l'erba, impigliati sui rami e appiattiti contro asfalto, vetri rotti, coperture impermeabili e lamiere ondulate. I resti erano arrivati in obitorio, chiusi in una serie di buste sigillate con cerniera, in grandi sacchi di plastica nera. Ogni busta era numerata e conteneva un insieme di porzioni corporee, terra, tessuto, metallo e detriti non identificabili. Le fotografie dell'autopsia spaziavano dai sacchi ancora chiusi, alle buste di plastica raggruppate sui tavoli operatori, alle panoramiche del contenuto delle buste suddiviso per categorie. Nelle ultime immagini i brandelli erano ordinati per file, come tagli di carne nella vetrina di un macellaio. Notai alcuni frammenti di cranio, uno di tibia, la testa di un femore, una porzione di cuoio capelluto con un orecchio destro completo. Alcune foto ravvicinate rivelavano i margini frastagliati delle ossa frantumate, altre mostravano capelli, fibre, brandelli di stoffa aderenti alla pelle. Il tatuaggio cui LaManche aveva accennato era chiaramente visibile su una porzione di pelle. Raffigurava tre teschi e tre paia di mani scheletriche che coprivano occhi, bocca, orecchie. L'ironia era impagabile: quel tizio non avrebbe visto, udito, detto niente. Dopo aver analizzato le foto e le radiografie, finii per essere d'accordo con LaManche. Le une e le altre rivelavano la presenza di frammenti di tessuto osseo, e questo mi avrebbe permesso di determinare l'origine ana-
tomica di alcuni tessuti. Ma attribuire quel guazzabuglio di carne a un fratello o all'altro sarebbe stato davvero difficile. Assegnare un'identità distinta a corpi in cattive condizioni e mescolati tra loro è sempre un compito arduo, soprattutto se i resti sono molto danneggiati o incompleti. Ma l'operazione è infinitamente più complessa se i cadaveri sono dello stesso genere, età e razza. Una volta mi ci erano volute settimane per esaminare le ossa e la carne in decomposizione di sette "prostituti" dissotterrati da una buca sotto la casa del loro assassino. Erano tutti bianchi e adolescenti. La sequenza del DNA era stata preziosissima per determinare chi fosse uno e chi fosse l'altro. In questo caso, però, non avrebbe funzionato. Se le vittime erano gemelli omozigoti, si erano sviluppati dallo stesso ovulo e quindi il loro DNA era identico. LaManche aveva ragione. Non sembrava molto probabile che sarei riuscita a suddividere i frammenti in due corpi distinti e a dare loro un nome. Rientrata a casa, la spia della segreteria telefonica mi avvertì che avevo ricevuto un messaggio. Posai il mio sushi da asporto sul tavolo, stappai una Diet Coke e premetti il pulsante. Mio nipote Kit e suo padre stavano viaggiando in camper dal Texas al Vermont. Venivano al nord per prendere all'amo tutto quello che poteva abboccare nelle acque interne in primavera. E poiché il mio gatto preferisce lo spazio e il comfort di una casetta motorizzata all'efficienza dei viaggi aerei, Kit e Howie mi avevano promesso di prelevarlo dalla mia casa di Charlotte e di portarlo fino a Montréal. Il messaggio diceva che sarebbero arrivati il giorno successivo. Mangiai un maki, un rotolino di riso e alga. Stavo per lanciarmi sul secondo, quando trillò il campanello della porta. Sorpresa, andai a controllare sullo schermo di sicurezza. Sul monitor del videocitofono comparve Andrew Ryan, appoggiato al muro del corridoio esterno. Indossava un paio di jeans scoloriti, scarpe da tennis, T-shirt nera e bomber. Un metro e ottantacinque, occhi azzurri e viso squadrato: un incrocio tra Paul Newman e Indiana Jones. Io invece sembravo una che ha appena infilato due dita nella presa elettrica. Fantastico. Sospirai e aprii la porta. «Hey, Ryan. Che cosa succede?»
«Ho visto la luce e ho pensato che forse eri tornata prima.» Mi lanciò un'occhiata indagatrice. «Brutta giornata?» «L'ho passata metà in viaggio e metà ad analizzare brandelli di carne» risposi sulla difensiva. Cercai di sistemarmi i capelli. «Entri?» «Non posso fermarmi.» Mi accorsi che portava pistola e cercapersone. «Volevo solo sapere che piani hai per domani sera.» «Domani passerò la giornata con le vittime di una bomba, perciò credo che sarò uno straccio.» «Be', dovrai pur mangiare qualcosa, no?» «Già, dovrò mangiare qualcosa.» Mi posò una mano sulla spalla e con l'altra mi attorcigliò una ciocca di capelli. «Se sei stanca possiamo lasciar perdere la cena e rilassarci un po'» suggerì a voce bassa. «Hmm.» «Allarghiamo i nostri orizzonti?» Mi scostò i capelli e mi sfiorò l'orecchio con le labbra. Oh, sì. «Certo, Ryan. Se vuoi mi metto anche il perizoma.» «Certe iniziative sono decisamente da incoraggiare.» Gli lanciai uno sguardo di approvazione. «Che ne dici di un ristorante cinese?» «Il cinese va benissimo» rispose lui, e mi sollevò i capelli raccogliendoli in uno chignon. Poi li fece ricadere e mi strinse le braccia intorno alla schiena. Prima che potessi protestare mi attirò a sé e mi baciò, solleticandomi gli angoli della bocca con la lingua. Le sue labbra erano morbide, il petto premeva forte contro il mio. Cercai di allontanarlo ma sapevo che non era ciò che volevo. Sospirando, mi rilassai e lasciai che il mio corpo si fondesse con il suo. Gli orrori della giornata si dissolsero e mi sentii al sicuro dalla follia delle bombe e dei bambini assassinati. Alla fine dovemmo respirare. «Sei sicuro che non vuoi entrare?» gli domandai, facendo un passo indietro e spalancando la porta. Avevo le gambe di gelatina. Lui controllò l'orologio. «Sono sicuro che una mezz'oretta di ritardo non sarà un problema.» Ma in quel preciso istante il suo cercapersone trillò. Ryan verificò il
numero. «Merda.» Merda. Riagganciò l'aggeggio elettronico alla cintura. «Mi spiace» disse, sorridendo imbarazzato. «Lo sai, vero, che avrei preferito...» «Vai.» Sorrisi e gli appoggiai le mani aperte sul petto spingendolo delicatamente fuori dalla porta. «Ci vediamo domani sera. Sette e mezzo.» «Pensami» mi disse, poi si voltò e scomparve in fondo al corridoio. Io tornai al mio sushi e cominciai davvero a pensare ad Andrew Ryan. Ryan è un investigatore della Omicidi con cui di tanto in tanto collaboro nelle indagini. Nonostante me lo domandasse da anni, solo di recente avevo accettato di uscire ufficialmente con lui. Con un po' di autopersuasione, avevo finito per accettare il suo punto di vista, secondo cui, tecnicamente, non lavoravamo insieme e quindi la mia regola "niente storie con i colleghi" con lui non valeva. A meno che io non volessi farla valere a tutti i costi. In ogni caso la cosa mi rendeva piuttosto nervosa. Dopo vent'anni di matrimonio e alcuni da single, stringere una nuova relazione non mi era facilissimo. La compagnia di Ryan, però, mi piaceva e così avevo deciso di tentare. Di "vederlo", come avrebbe detto mia sorella. Oh, Dio. Ricominciare a vedere qualcuno. Dovevo ammettere che lo trovavo sexy da morire. Come gran parte delle altre donne, del resto. Ovunque andassimo, tutti gli sguardi femminili erano puntati su di lui. Nessun dubbio che le proprietarie si chiedessero chissà cosa. Anch'io mi chiedevo delle cose. Ma per il momento la nave era ancora in porto, i motori bene oliati e pronti a partire. La gambe di gelatina me lo avevano appena riconfermato. Andare a cena fuori era decisamente un'idea migliore. Mentre sparecchiavo la tavola, squillò il telefono. «Mon Dieu, sei tornata.» Voce roca e profonda; inglese dal forte accento francese. «Ciao Isabelle. Che cosa succede?» Conoscevo Isabelle Caillé solo da due anni, ma eravamo buone amiche. Ci eravamo incontrate in un periodo difficile della mia vita. Nello spazio di un'estate desolata ero stata il bersaglio di uno psicopatico violento, la mia migliore amica era stata assassinata e avevo dovuto affrontare la realtà
di un matrimonio fallito. Così, in uno slancio di autoindulgenza, avevo prenotato una vacanza in un Club Med ed ero volata verso interminabili partite di tennis e abbuffate a ripetizione. Avevo conosciuto Isabelle sul volo per Nassau, poi al villaggio ci avevano accoppiate per giocare un doppio. Dopo la vittoria, avevamo scoperto di essere lì per ragioni simili e avevamo trascorso una piacevole settimana insieme. Da allora eravamo rimaste amiche. «Non ti aspettavo fino alla prossima settimana. Volevo solo lasciarti un messaggio per chiederti di vederci, ma visto che sei a casa ne approfitto per invitarti a cena domani!» Le dissi di Ryan. «Quell'uomo vale la pena, Tempe. Se per caso ti stanchi del tuo chevalier, mandalo da me, così gli do di nuovo qualcosa a cui pensare. Come mai sei tornata prima?» Le spiegai della bomba. «Ah, oui. L'ho letto su La Presse. È davvero così raccapricciante?» «Diciamo che le vittime non sono in perfetta forma.» «Les motards. Se vuoi sapere come la penso, questi biker irregolari hanno quel che si meritano.» Isabelle aveva opinioni molto precise su tutto, e quasi mai si tratteneva dall'esprimerle. «La polizia dovrebbe lasciare che questi delinquenti si sterminassero a vicenda. Così non dovremmo più vedere in giro i loro corpi sudici e coperti di tatuaggi.» «Hmm.» «Insomma, non è così grave come se fossero dei bambini a morire, no?» «Già» concordai. Il mattino seguente Emily Anne Toussaint sarebbe morta mentre andava a una lezione di danza. 4 Howard e Kit erano arrivati alle sette, avevano lasciato Birdie ed erano ripartiti. Il mio gatto mi aveva ignorata e si stava dedicando a un'intensa ricerca di tracce canine in giro per l'appartamento. Alle otto uscii di casa per andare in istituto a riprendere il lavoro sulle vittime della bomba. Emily Anne sarebbe arrivata poco dopo mezzogiorno. Avevo bisogno di molto spazio, così scelsi la sala autopsie più grande.
Spinsi la lettiga con i resti delle vittime della bomba al centro della stanza e cominciai la ricomposizione dei cadaveri su due diversi tavoli operatori. Essendo sabato, la sala era tutta per me. Dapprima identificai e suddivisi tutti i frammenti ossei visibili. Poi, aiutandomi con le radiografie, presi le porzioni contenenti tessuto osseo e le sezionai in cerca di segni significativi. Ogni volta che trovavo porzioni o frammenti identici, li suddividevo fra i due tavoli. Due tubercoli pubici sinistri, o due processi mastoidei, o due condili femorali significavano due individui diversi. Su alcuni frammenti di ossa lunghe notai le tracce di un problema di crescita occorso nel periodo infantile. Quando la salute è compromessa, un bambino smette di crescere e lo sviluppo dello scheletro si arresta. Simili interruzioni in genere vengono causate da una malattia, o da periodi di alimentazione inadeguata. Quando la situazione migliora, la crescita riprende, ma le interruzioni lasciano segni permanenti. Le radiografie mostravano linee opache su numerosi frammenti di ossa del braccio e della gamba. Quelle striature disposte trasversalmente alle diafisi indicavano i perìodi di arresto della crescita. Deposi su un tavolo i tessuti che contenevano frammenti segnati e su un altro quelli con frammenti normali. Uno dei brandelli di carne conteneva diverse ossa della mano. Dopo averle estratte notai due ossa metacarpali con diafisi irregolari. Sulle radiografie le zone rilevate mostravano una densità maggiore e questo indicava che in passato una delle vittime si era rotta le dita. Misi da parte la porzione di carne I frammenti che non contenevano tessuto osseo erano un problema differente. Cominciai a studiare i brandelli di stoffa a cui aderivano lavorando a ritroso: partendo dai tessuti già suddivisi, associavo fili e fibre presi da un tavolo o dall'altro ai frammenti ancora sulla lettiga. Mi sembrava di aver individuato la trama di un paio di pantaloni da lavoro, di una tela jeans e del cotone bianco. In seguito, gli esperti della sezione peli e fibre avrebbero effettuato un'analisi completa per confermare o meno le mie conclusioni. Dopo la pausa pranzo e la discussione con LaManche, tornai alle vittime della bomba. Alle cinque e un quarto avevo già suddiviso circa due terzi dei resti. Ma senza DNA non avevo molte speranze di assegnare i resti rimanenti a un individuo specifico. Avevo fatto tutto ciò che potevo. E mi ero anche data un obiettivo personale.
Mentre lavoravo alle porzioni corporee dei Vaillancourt avevo trovato molto difficile simpatizzare con le persone che stavo ricostruendo. Anzi, per dirla tutta, doverlo fare mi aveva infastidito. Quei due uomini erano saltati in aria mentre si preparavano a far saltare in aria qualcun altro. Una rozza forma di giustizia aveva prevalso e io, più che dispiaciuta, ero perplessa. Ma Emily Anne era un'altra cosa. La bambina giaceva sul tavolo operatorio di LaManche perché stava andando al suo corso di danza. Quella realtà non era accettabile. La morte di una bambina innocente non poteva essere liquidata come una casualità accidentale in una guerra tra maniaci. I Vipers ammazzavano gli Heathens e gli Outlaws assassinavano i Bandidos. O i Pagans. O gli Hells Angels. Ma non dovevano ammazzare un innocente. Giurai a me stessa che avrei fatto ricorso a tutte le conoscenze forensi in mio possesso, che avrei impiegato tutte le ore necessarie a sviluppare una prova che potesse identificare quegli psicopatici con manie omicide. I bambini avevano il diritto di camminare per la strada senza essere stroncati da una pallottola. Riposi sulla lettiga i resti suddivisi e li riportai nelle celle frigorifere. Quindi mi lavai e mi cambiai. L'ascensore mi portò ai piani superiori dove andai a cercare il mio capo. «Voglio lavorare a questo caso» dissi con voce ferma e tranquilla. «Voglio inchiodare questi bastardi che assassinano i bambini.» Un paio di occhi anziani e velati di stanchezza mi osservarono a lungo. Avevamo parlato di Emily Anne Toussaint. E anche di un altro bambino. Olivier Fontaine stava andando all'allenamento di hockey ed era passato casualmente accanto a una Jeep Cherokee, proprio nel momento in cui il guidatore girava la chiavetta di avviamento. La bomba era esplosa con una forza sufficiente a investire Olivier con una scarica di schegge, e il bambino era morto sul colpo. Quel giorno era il suo dodicesimo compleanno. Il caso Fontaine mi era tornato alla memoria solo vedendo Emily Anne Toussaint. L'incidente era avvenuto nel dicembre del 1995 sulla West Island e ne erano responsabili gli Hells Angels e i Rock Machine. La morte di Olivier aveva sollevato un'ondata di sdegno che aveva portato alla creazione dell'Operazione Carcajou, la task force multigiurisdizionale destinata a indagare i crimini commessi dalle bande di biker. «Temperance, non...» «Farò tutto il necessario. Lavorerò nel tempo libero tra un caso e l'altro. Se l'Operazione Carcajou è come tutte le altre, probabilmente saranno a
corto di personale. Io potrei immettere dati, o fare ricerche sulla casistica passata. Potrei fungere da collegamento tra le varie agenzie, magari stabilire collegamenti con le unità investigative degli Stati Uniti. Potrei anche...» «Temperance, calma.» LaManche alzò la mano aperta. «Questa decisione non spetta a me. Parlerò con Monsieur Patineau.» Stéphane Patineau era il direttore responsabile del Laboratoire de Sciences Judiciaires. Era lui ad avere l'ultima parola riguardo le attività dell'Istituto di medicina legale e dei laboratori scientifici. «Farò in modo che la partecipazione all'Operazione Carcajou non interferisca con il mio lavoro normale.» «Questo lo so. Prometto che parlerò con il direttore già lunedì mattina. Adesso vada a casa. E bonne fin de semaine.» Anch'io gli augurai buon fine settimana. In Québec gli inverni si concludono in modo molto diverso rispetto a quanto accade sui Piedmont della Carolina. Dalle mie parti la primavera arriva poco alla volta; tra la fine di marzo e l'inizio di aprile, i fiori cominciano a sbocciare e l'aria si fa tiepida, ad annunciare l'estate ormai prossima. I québécois invece aspettano sei settimane o più per ripiantare le aiuole dei giardini e rinnovare i vasi sui davanzali delle finestre. Aprile è un mese per lo più grigio e freddo, e le strade e i marciapiedi scintillano ancora di neve e di ghiaccio sciolti. Ma quando la primavera finalmente fa la sua comparsa, è uno spettacolo da togliere il fiato. La stagione letteralmente esplode, e le persone rispondono con impareggiabile entusiasmo. Quel giorno allo spettacolo primaverile mancavano ancora diverse settimane. Il cielo era cupo e cadeva una pioggerella sottile. Chiusi la cerniera del giubbotto, abbassai la testa e corsi verso la mia automobile. Il giornale radio iniziò mentre stavo entrando nel sottopassaggio Ville-Marie. La notizia d'apertura riguardava l'assassinio Toussaint. Quella sera Emily Anne avrebbe dovuto ricevere un premio per un concorso di scrittura organizzato dalla sua scuola. Il titolo del tema con cui aveva vinto era Lasciate vivere i bambini. Spensi l'autoradio. Pensai ai progetti per la mia serata e fui lieta di ricordare che qualcuno mi avrebbe sollevato il morale. Mi ripromisi di non parlare di lavoro con Ryan. Venti minuti dopo aprii la porta del mio appartamento accolta dallo squillo del telefono. Lanciai un'occhiata all'orologio. Le sette meno dieci.
L'appuntamento con Ryan era per le sette e mezzo e prima volevo farmi una doccia. Attraversai il soggiorno e gettai il giubbotto sul divano. La segreterìa telefonica si avviò e udii la mia voce sollecitare un breve messaggio. Birdie si fece vedere nel momento esatto in cui Isabelle cominciò a parlare. «Tempe, se sei in casa rispondi. C'est importante.» Pausa. «Merde.» Non avevo molta voglia di parlare ma qualcosa nella sua voce mi convinse a sollevare la cornetta. «Ciao, Isa...» «Accendi il televisore. CBC.» «So già tutto della piccola Toussaint. Ero in istituto.» «Accendi!» Presi il telecomando e mi sintonizzai sul canale della CBC. Poi ascoltai inorridita. 5 «... E tenente Ryan era sotto indagine ormai da diversi mesi. È stato accusato di possesso di merci rubate e di traffico e possesso di sostanze stupefacenti. L'arresto gli è stato notificato oggi pomeriggio davanti alla sua casa, nel quartiere del Vieux-Port, e l'investigatore ha seguito gli agenti della CUM senza opporre resistenza. Per tutta la durata dell'inchiesta sarà sollevato dai suoi incarichi con sospensione dello stipendio. «E ora passiamo alle notizie finanziarie. La proposta fusione tra...» «Tempe!» L'urlo di Isabelle mi riportò alla realtà. Portai la cornetta all'orecchio. «C'est lui, n'est-ce pas? Andrew Ryan, Crimes contre la personne, Sûreté du Québec?» «Deve esserci un errore.» Mentre pronunciavo quelle parole, spostai lo sguardo sulla spia della segreteria telefonica. Ryan non aveva chiamato. «Adesso devo andare. Sarà qui a momenti.» «Tempe, Ryan è in galera.» «Devo andare. Ti richiamo domani.» Riagganciai e composi il numero dell'appartamento di Ryan. Nessuna ri-
sposta. Lo chiamai sul cercapersone e digitai il mio numero di telefono. Nessuna risposta. Guardai Birdie. Non aveva spiegazioni da darmi. Alle nove capii che non sarebbe venuto. Lo avevo chiamato a casa sette volte e avevo telefonato al suo collega Jean Bertrand ottenendo lo stesso risultato: nessuna risposta. Cercai di correggere i compiti d'esame che mi ero portata dalla University of North Carolina di Charlotte, ma non riuscii a trovare la concentrazione necessaria. Continuavo a pensare a Ryan e fissavo lo stesso compito per interi quarti d'ora senza recepire nulla di quanto lo studente aveva scritto. Birdie mi si era accoccolato in grembo, ma era una magra consolazione. Non poteva essere vero. Non potevo crederci. Non volevo crederci. Alle dieci feci un lungo bagno caldo, poi scongelai una porzione di spaghetti nel microonde e la portai in soggiorno. Scelsi un CD che speravo potesse risollevarmi il morale e lo inserii nel lettore. Mi misi a leggere. Di nuovo Birdie si raggomitolò accanto a me. Niente da fare. Era come se il libro di Pat Conroy fosse stampato in geroglifici. Avevo colto un'immagine di Ryan sullo schermo del televisore: era stretto fra due agenti in uniforme, i polsi ammanettati dietro la schiena. Lo avevo visto piegare le testa per entrare nella volante e sedersi sul sedile posteriore. E ancora non riuscivo ad accettare l'idea. Andrew Ryan spacciava droga? Come potevo aver commesso un errore così grossolano? Ryan spacciava fin da quando lo avevo conosciuto? C'era un lato oscuro nella sua personalità che non avevo colto? O era tutto un terribile sbaglio? Doveva essere uno sbaglio. Gli spaghetti si erano raffreddati sul tavolino. Non avevo voglia di mangiare. Non avevo voglia di ascoltare musica. I Big Bad Voodoo Daddy e la band di Johnny Favourite suonavano uno swing che avrebbe trascinato nel ballo un intero gulag, ma non riuscirono a risollevare il mio spirito. Una pioggia insistente tamburellava sui vetri. La primavera della mia Carolina sembrava più che mai lontana. Arrotolai una forchettata di spaghetti e l'odore di cibo mi rivoltò lo stomaco. Andrew Ryan era un criminale. Emily Anne Toussaint era morta. Mia figlia era in mezzo all'oceano Indiano.
Quando mi sento giù, mi capita spesso di telefonare a mia figlia, ma negli ultimi mesi non era stato molto facile. Stava frequentando il semestre primaverile dell'università a bordo della S.S. Universe Explorer e la nave non sarebbe rientrata prima di cinque settimane. Portai un bicchiere di latte in camera da letto e scostai le tende dai vetri della finestra per guardare fuori. In testa girandole di pensieri caotici come il traffico dell'ora di punta. Le sagome nere di alberi e cespugli filtravano attraverso la foschia scura e scintillante di pioggia. Oltre, i fari delle auto e le luci al neon del dépanneur più vicino. Di tanto in tanto passava un'automobile e un pedone affrettava il passo facendo ticchettare le scarpe sul marciapiede. La solita routine. La solita normalità. Un'altra serata piovosa di aprile. Lasciai ricadere le tende e andai a letto, convinta che il mio mondo non sarebbe tornato alla normalità ancora per molto tempo. Trascorsi il giorno successivo occupata in mille attività. Bagagli. Pulizie. Spesa. Evitai radio e televisione e mi limitai a una breve occhiata al giornale. La Gazette apriva con l'assassinio Toussaint: SANGUINOSA SPARATORIA: MUORE UNA BAMBINA. Accanto al titolo, un primo piano di Emily Anne. I capelli erano pettinati in due trecce fermate da larghi nastri rosa. Sul suo sorriso si apriva qualche finestrella che la dentizione permanente non avrebbe mai avuto la possibilità di chiudere. L'immagine della madre di Anne era altrettanto straziante. Il fotografo aveva immortalato una snella donna nera con la testa piegata all'indietro e la bocca spalancata in un urlo agonizzante. La signora Toussaint aveva le ginocchia piegate, le mani chiuse sotto il mento. Due robuste donne nere la sostenevano. Dall'immagine sgranata filtrava un indicibile dolore. L'articolo forniva pochi particolari. Emily Anne aveva due sorelline più piccole, Cynthia Louise di sei anni e Hanna Rose di quattro. La signora Toussaint lavorava da un fornaio. Il marito era morto per un incidente sul lavoro tre anni prima. Originari delle Barbados, i Toussaint erano emigrati a Montréal in cerca di una vita migliore per le loro figliolette. La messa funebre si sarebbe celebrata il giovedì alle otto del mattino nella chiesa cattolica di Our Lady of the Angels, e la sepoltura avrebbe avuto luogo nel cimitero di Notre-Dame-des-Neiges. Rifiutai di leggere o ascoltare notizie che riguardassero Ryan. Volevo sentirle direttamente da lui. Per l'intera mattinata continuai a lasciargli
messaggi in segreteria telefonica, ma non ricevetti risposta. Il collega di Ryan, Jean Bertrand, era altrettanto irreperibile. Non mi venne in mente altro da fare. Ero certa che nessuno alla CUM o alla SQ mi avrebbe parlato della situazione, e parenti o amici di Ryan non ne conoscevo. Dopo una seduta in palestra, mi preparai una cena a base di petti di pollo in salsa di prugne, carote glassate con funghi e riso allo zafferano. Il mio compagno felino senza alcun dubbio avrebbe preferito del pesce. Il mattino di lunedì mi alzai presto, andai in auto fino al Laboratoire e cercai subito LaManche. Era in riunione con tre investigatori ma mi disse di andare a parlare con Stéphane Patineau appena possibile. Senza perdere tempo, percorsi il corridoio su cui si affacciavano gli uffici del personale medico-legale e i laboratori di antropologia, odontologia, istologia e patologia; poi superai la Section de Documents sulla sinistra e la Section d'Imagerie sulla destra e continuai fino alla reception principale, dove svoltai a sinistra ed entrai nell'ala riservata al personale amministrativo del'Laboratoire de Sciences Judiciaires, detto anche LSJ. L'ufficio del direttore era in fondo al corridoio. Patineau era al telefono ma mi fece cenno di entrare. Mi accomodai su una sedia di fronte alla sua scrivania. Quando ebbe finito si sporse in avanti e mi guardò bene in faccia. Aveva occhi molto scuri, incorniciati da arcate pronunciate e sopracciglia folte. Stéphane Patineau era un uomo che non avrebbe mai conosciuto la calvizie. «Il dottor LaManche mi dice che lei vorrebbe partecipare alle indagini sul caso Toussaint.» «Credo che potrei essere utile all'Operazione Carcajou. Mi sono già occupata di diversi casi di biker. Al momento sto classificando i resti delle vittime della bomba esplosa davanti alla sede dei Vipers. Questo tipo di lavoro non mi è nuovo. Potrei...» Mi fermò con un gesto della mano. «Il direttore dell'Operazione Carcajou mi ha già chiesto se posso assegnare a uno dei miei collaboratori il compito di mantenere i collegamenti tra noi e la sua unità. Vista l'escalation di questa guerra tra bande, vorrebbe essere sicuro che il personale medico-legale e i suoi investigatori siano sintonizzati sulla stessa lunghezza d'onda e nel medesimo tempo.» Non lo lasciai proseguire. «Posso farlo io.»
«Tenga conto che ormai siamo in primavera. Quando il fiume si sarà sgelato e riprenderanno le gite in campagna, il suo lavoro è destinato ad aumentare.» Era vero. Quando il clima si faceva più mite i cadaveri galleggianti e in decomposizione dei morti dell'inverno venivano alla luce, e il mio lavoro regolarmente aumentava. «Farò degli straordinari.» «Avevo intenzione di affidare l'incarico a Réal Marchand, ma non ho niente in contrario a farle fare un tentativo. Anche perché non sarà un lavoro a tempo pieno.» Prese un foglio dalla scrivania e me lo passò. «Alle tre di oggi pomeriggio ci sarà una riunione. Li chiamo per avvertirli che ci sarà anche lei.» «La ringrazio. Non si pentirà di avermi affidato quest'incarico.» Patineau si alzò e mi accompagnò alla porta. «Ci sono novità sui fratelli Vaillancourt?» «Lo sapremo quando riceveremo la documentazione medica. Si spera entro oggi.» «So che farà del suo meglio, Tempe» mi disse, sollevando i due pollici in segno di incoraggiamento. Risposi con lo stesso gesto, poi mi congedò e si ritirò nel suo ufficio. Oltre a essere un ottimo amministratore, Patineau riempiva le camicie in modo molto più accattivante di molti culturisti. Il lunedì è una giornata dura per quasi tutti i coroner e i medici legali, e quel lunedì non fece eccezione. Mentre LaManche illustrava i casi, pensai che la riunione non sarebbe finita mai. Una bambina era morta in ospedale e la madre sosteneva di averla solo scossa un po'. Ma la piccola aveva tre anni e quindi aveva superato l'età della cosiddetta "sindrome del bambino scosso". Inoltre una contusione rivelava che aveva sbattuto violentemente la testa contro una superficie dura. Un paranoico schizofrenico di trentadue anni era stato trovato con lo stomaco aperto e le viscere sparse sulla moquette della sua camera da letto. I parenti sostenevano che si era procurato la ferita da solo. Due camion si erano scontrati fuori Saint-Hyacinthe. Entrambi i conducenti erano carbonizzati al punto da rendere impossibile l'identificazione. Un marinaio russo di ventisette anni era stato ritrovato esanime nella sua
cabina. La morte era stata accertata dal capitano della nave, ma poiché era sopravvenuta in acque territoriali canadesi, il corpo era stato portato sulla terraferma per consentire l'autopsia. Una donna di quarantaquattro anni era stata massacrata di botte nel suo appartamento. Il marito era ricercato. La documentazione medica per i fratelli Vaillancourt era arrivata. Insieme a una busta di fotografie. Mentre guardavamo le immagini, ci rendemmo conto che almeno uno dei due gemelli si trovava sicuramente da noi, nel seminterrato: in una foto, Ronald Vaillancourt a torso nudo mostrava i muscoli possenti e i tre teschi "non vedo, non sento, non parlo" gli decoravano il pettorale destro. LaManche assegnò ai patologi un'autopsia a testa e mi passò la documentazione dei Vaillancourt. Alle dieci e quarantacinque sapevo già quale dei due gemelli si era rotto le dita. Nel 1993 Ronald Vaillancourt, detto Cric, si era fratturato il medio e l'indice della mano sinistra durante un rissa in un bar. Le radiografie confermavano che la frattura era localizzata nello stesso punto delle ossa metacarpali in cui avevo individuato delle anomalie. E confermavano altresì che le ossa del braccio di Cric non presentavano linee di arresto della crescita. Due mesi dopo Cric era finito al pronto soccorso per un incidente in moto, questa volta con un trauma all'anca e al femore. Il quadro radiologico era il medesimo: le ossa della gamba di Ronald erano normali. Sempre dalla documentazione medica, appresi che nel 1995 era stato scaraventato fuori da un'automobile in corsa e pugnalato durante un tafferuglio, mentre nel 1997 era stato massacrato di botte da una banda rivale. Solo il fascicolo delle radiografie era alto due dita. Sapevo inoltre quale dei due non era stato un bambino in perfetta salute. Donald Vaillancourt, detto Croc, era stato ricoverato diverse volte durante l'infanzia. Quando era molto piccolo aveva avuto lunghi periodi di nausea e vomito di cui non era mai stata diagnosticata la causa. A sei anni aveva rischiato di morire di scarlattina. A undici aveva avuto la gastroenterite. Naturalmente anche Croc portava i segni delle sue scaramucce. Il suo dossier, come quello del fratello, conteneva uno spesso fascicolo di radiografie che testimoniava le numerose visite al pronto soccorso. Frattura al naso e allo zigomo. Ferita da coltello al petto. Colpo in testa inferto con una bottiglia.
Mentre chiudevo il dossier, sorrisi all'ironia della sorte. La vita turbolenta dei due gemelli avrebbe fornito la chiave per identificare i loro corpi. Le molte disavventure, infatti, avevano inciso sui loro scheletri una sorta di mappa indelebile. Armata di documentazione medica, tornai nel seminterrato e ripresi le operazioni di identificazione. Iniziai dal segmento di torace tatuato e dai frammenti a esso assodati. Quello era Ronald e a lui dovevo assegnare anche la mano fratturata e tutti i tessuti contenenti ossa lunghe normali. Le ossa degli arti con linee di arresto della crescita appartenevano a Donald, quelle senza al fratello. Dopodiché mostrai a Lisa, uno dei tecnici di autopsia, come radiografare i frammenti che ancora contenevano tessuto osseo nella stessa posizione che avevano sulla documentazione dell'ospedale. Questo mi avrebbe permesso di confrontare la forma e la struttura interna. Dato che il laboratorio di radiologia aveva molto lavoro, lavorai con lei durante la pausa pranzo. Lasciammo il laboratorio all'una e mezzo, mentre gli altri tecnici e i patologi stavano rientrando. Lisa mi promise di terminare il lavoro non appena la macchina fosse stata disponibile e io tornai velocemente di sopra per cambiarmi. Il quartier generale dell'Operazione Carcajou si trovava in un moderno edificio a due piani affacciato sul San Lorenzo, proprio di fronte a VieuxMontréal, il primo nucleo della città. Il resto della struttura era occupato dalla polizia portuale e dagli uffici amministrativi delle autorità marittime. Parcheggiai sul lungofiume. Alla mia sinistra avevo il Pont Jacques Cartier che si inarcava sull'Île-Notre-Dame, alla mia destra il più piccolo Pont Victoria. Enormi blocchi di ghiaccio galleggiavano sulle acque grigie del fiume. Più avanti notai Habitat '67, una torre geometrica costruita in occasione dell'Expo e in seguito convertita in spazio residenziale. La vista dell'edificio mi strinse il cuore. Ryan abitava in quell'alveare. Scacciai il pensiero dalla mente, presi il giubbotto e uscii dall'auto. Il cielo si stava aprendo ma la giornata era ancora cupa e umida. La brezza che veniva dal fiume, intrisa dell'odore di gasolio e di acqua ghiacciata, mi faceva svolazzare i vestiti. Un'ampia scalinata portava al secondo piano, quartier generale dell'Operazione Carcajou. Dietro le porte a vetri dominava un ghiottone imbalsamato, l'animale da cui l'edificio prendeva nome. Nella sala centrale un gran numero di uomini e donne si davano da fare dietro le rispettive scrivanie;
sulla testa di ognuno un cartello indicava a caratteri cubitali il numero del loro interno. Alle pareti, ritagli di giornali incorniciati illustravano i successi degli investigatori dell'Operazione Carcajou. Mi avvicinai alla segretaria, una donna di mezza età con una tinta di capelli eccessiva e un grosso neo sulla guancia. Spostò gli occhi dal suo lavoro per il tempo necessario a indirizzarmi verso la sala riunioni. All'interno trovai una decina di uomini seduti intorno a un tavolo rettangolare e altri appoggiati alle pareti. Il direttore dell'unità, Jacques Roy, si alzò appena mi vide. Era un uomo basso e muscoloso, dalla carnagione rubizza; i capelli brizzolati erano pettinati con la riga in mezzo. Nel complesso ricordava un'immagine di fine Ottocento. «Dottoressa Brennan, siamo contenti di averla con noi. Lei darà un enorme aiuto ai miei investigatori, e anche ai suoi colleghi del Laboratoire. Prego, si accomodi» e mi indicò una sedia vuota. Appesi il giubbotto allo schienale della sedia e presi posto. Mentre altre persone entravano, Roy ci spiegò il motivo della riunione. Alcuni dei presenti erano passati all'Operazione Carcajou solo di recente mentre altri, pur non essendo nuovi, avevano richiesto una seduta di aggiornamento. Roy avrebbe illustrato rapidamente il mondo dei biker in Québec, dopodiché l'agente Quickwater sarebbe venuto a riferirci i risultati della riunione operativa cui aveva partecipato all'Accademia dell'FBI. D'un tratto ebbi la sensazione di trovarmi in una distorsione temporale. Ero di nuovo a Quantico, ma si parlava francese e il massacro descritto era avvenuto in un luogo che conoscevo e che mi era caro. Le due ore che seguirono mi dischiusero un mondo che pochi altri conoscevano, un mondo che fece rabbrividire il mio corpo e raggelò la mia anima. 6 «Comincerò con qualche informazione preliminare.» Roy parlava dal fondo della sala. Sul leggio aveva qualche foglio di appunti, che però non consultava. «I motoclub irregolari comparvero sulla West Coast degli Stati Uniti subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Alcuni reduci, una volta rientrati in patria, non riuscirono più a inserirsi nella società ormai pacificata e presero a scorrazzare per il Paese a bordo delle loro HarleyDavidson molestando la cittadinanza e, più in generale, adottando comportamenti fastidiosi. Formarono gruppi sparsi dai nomi eloquenti: Booze Fi-
ghters, o combattenti della sbronza; Galloping Gooses, cioè oche galoppanti; Satan's Sinners, i peccatori di Satana; Winos, gli avvinazzati. Diciamo che fin dall'inizio si capì che questi tizi non erano i candidati ideali per entrare in seminario.» Risatine e commenti sottovoce. «Il gruppo di maggiore impatto fu una banda di spostati che si faceva chiamare P.O.B.O.B., Pissed Off Bastards of Bloomington, e cioè i bastardi scoglionati di Bloomington, diventati in seguito Hells Angels, dal nome di uno squadrone di cacciabombardieri della Seconda Guerra Mondiale il cui simbolo era un teschio con l'elmetto. Dalla prima senone di San Bernardino, in California, gli Hells Angels si sparpagliarono rapidamente in tutto il Nord America, imitati da altri gruppi che, come loro, si diffusero su scala nazionale e, in seguito, internazionale. Oggi le quattro bande principali sono gli Hells Angels, gli Outlaws, i Bandidos e i Pagans. A parte questi ultimi, tutti gli altri hanno sezioni al di fuori degli Stati Uniti, soprattutto gli Hells Angels.» Un uomo seduto al tavolo alzò la mano. Aveva il ventre pronunciato e la fronte molto stempiata e assomigliava in modo sorprendente all'investigatore Andy Sipowicz della serie televisiva NYPD Blue. «In termini di cifre, tutto questo che cosa significa?» «Dipende dalla fonte, ma secondo le stime più accreditate gli Hells Angels contano più di milleseicento membri in Europa, Australia e Nuova Zelanda. Il grosso ovviamente si trova negli Stati Uniti e in Canada, ma a tutt'oggi contano almeno centotrentatré sezioni in tutto il mondo. «Secondo il rapporto annuale dei servizi segreti canadesi del 1998, i Bandidos hanno sessantasette sezioni e circa seicento adepti in tutto il mondo. Altre fonti li portano a ottocento.» «Sacrement!» «Che cosa identifica un motoclub irregolare?» Il ragazzo che aveva posto la domanda doveva avere meno di vent'anni. «Tecnicamente la dicitura MCI si riferisce a quei motoclub che non sono iscritti alla American Motorcycle Association, né alla Canadian Motorcycle Association, che sono i membri nordamericani della Féderation Internationale de Motocyclisme, con sede in Svizzera. Secondo l'associazione americana i motoclub non iscritti corrispondono solo all'uno per cento del numero complessivo dei motociclisti, ma è proprio questa frangia di deviati che getta discredito sull'intero mondo dei biker. Cattiva reputazione che in ogni caso i ragazzi assecondano di buon grado. Ho visto il simbolo
di questo uno per cento tatuato sulle peggiori spalle del Paese.» «Già. Il triangolino che identifica la crema dei biker.» Il commento era dell'investigatore alla mia destra, coda di cavallo e orecchino a borchia. «La feccia dei biker, vorrai dire.» Sipowicz. Il suo accento francese suonava esattamente come me lo sarei aspettato se NYPD Blue fosse stato girato a Trois Rivières. Altre risate. Roy indicò una pila di manuali al centro del tavolo. «Là troverete informazioni più precise sulla struttura degli MCI. Per il momento leggetele; ci torneremo sopra in un altro momento. Oggi vorrei parlare della situazione locale.» Accese un proiettore. Sullo schermo comparve un pugno chiuso con una svastica tatuata sul polso e le lettere F.T.W. in rosso e nero. «La filosofia cui si ispirano i biker irregolari può essere riassunta in un solo slogan.» «Fuck the world!» gridò all'unisono l'uditorio. «F.T.W. Cioè: fanculo al mondo» ripeté Roy. «Le tue insegne e i tuoi fratelli vengono prima di tutto e pretendono fedeltà assoluta. I non bianchi non sono desiderati.» Roy passò alla diapositiva successiva. Sullo schermo comparve una foto in bianco e nero con sedici uomini raggruppati in tre file disordinate. Avevano tutti la barba lunga e indossavano gilè di pelle corredati di spillette e insegne. I loro tatuaggi avrebbero impressionato un guerriero maori. Per non parlare dell'aria truce. «Alla fine degli anni Settanta i motoclub statunitensi degli Outlaws e degli Hells Angels entrarono in aperto conflitto con certe bande del Québec di cui volevano prendere il controllo. Nel 1977 i Popeye canadesi furono ammessi a corte e diventarono la prima sezione degli Hells Angels della nostra provincia. Ai tempi i Popeye erano il secondo MCI del Canada, con un numero di membri che oscillava tra duecentocinquanta e trecentocinquanta. Sfortunatamente per loro, solo una trentina di ragazzi aveva colpito favorevolmente gli Hells Angels al punto da ottenere il permesso di indossare le loro insegne. Il resto fu licenziato in tronco. In questa immagine vedete alcuni dei reietti. Si tratta della famigerata sezione Nord. Cinque di questi tizi furono liquidati dai loro fratelli Angels e la sezione scomparve.» «Perché?» «Ogni motoclub ha un codice di comportamento che i membri sono te-
nuti a rispettare. Fin dai tempi della fondazione, negli anni Quaranta, gli Hells Angels avevano introdotto una regola che vietava l'uso dell'eroina e degli aghi. E questo principio è diventato ancora più importante dopo la svolta imprenditoriale. Tenete presente che questi non sono i biker di una volta. Questa non è la ribellione sociale degli anni Cinquanta, né la sottocultura della droga e della rivoluzione di moda negli anni Sessanta. I biker di oggi fanno parte di raffinate organizzazioni criminali. Questi tizi sono prima di tutto uomini d'affari. I tossici possono causare problemi e sperperare i soldi del motoclub. E questo non può essere tollerato.» Roy indicò lo schermo. «Tornando ai nostri amici, nel 1982 la sezione di Montréal approvò norme ancora più severe contro l'uso di droghe pesanti e condannò a morte o all'espulsione qualsiasi membro degli Angels che non le rispettasse. I fratelli della sezione Nord, però, erano troppo affezionati alla coca e decisero di continuare per la loro strada. Forse la neve gli aveva fuso i neuroni dedicati all'aritmetica, perché non si resero conto che erano rimasti in pochi.» Roy indicò con una penna cinque uomini tra quelli sullo schermo. «Nel giugno del 1985 questi tizi furono ritrovati addormentati sul fondo del San Lorenzo. Uno dei loro sacchi a pelo venne a galla, mentre per ripescare gli altri si dovette ricorrere a una draga.». «In giro per affari.» Coda di cavallo. «A tempo indeterminato. Erano stati uccisi nella sede degli Hells Angels di Lennoxville. Pare che la festa a cui erano stati invitati si fosse rivelata diversa da quel che si aspettavano.» «È questo che ha innescato la guerra attuale?» domandai. «Non proprio. Un anno dopo che gli Hells Angels ebbero adottato i Popeye, un gruppo di Montréal chiamato Satan's Choice, la scelta di Satana, diventò la prima sezione degli Outlaws in Québec. E da quel momento in poi non hanno più smesso di farsi fuori a vicenda.» Roy indicò sulla fotografia un uomo molto magro accovacciato in prima fila. «La guerra è scoppiata quando questo Hells Angels uccise uno degli Outlaws durante una sparatoria a bordo delle rispettive auto. Da quel momento in poi per molti anni è stata caccia aperta.» «Il loro motto è: Dio perdona, gli Outlaws no.» Mentre parlava, Sipowicz scrisse il suo nome, Kuricek, su uno dei manuali. Mi chiesi quante persone si sbagliavano e lo chiamavano Sipowicz. «Vero. Ma da allora gli Outlaws del Québec hanno subito diversi rovesci
di fortuna. Cinque o sei sono finiti in galera e la loro sede è stata completamente bruciata qualche anno fa. La guerra attuale si combatte tra gli Angels e un gruppo canadese chiamato Rock Machine e relativi motoclub di copertura.» «Gente di classe» commentò Sipowicz-Kuricek. «Anche i Rock Machine hanno conosciuto tempi duri» continuò Roy. «Fino a poco tempo fa.» Passò a una diapositiva che mostrava un uomo con un basco, abbracciato a un compagno in giubbotto di pelle. Quest'ultimo esibiva sul dorso del giubbotto il disegno stilizzato di un bandito messicano, coltello in una mano e pistola nell'altra. Sopra e sotto la figura, due mezzelune rosse e gialle identificavano la persona come il vice presidente nazionale del motoclub dei Bandidos. «I Rock Machine stavano tirando gli ultimi, ma pare che di recente si siano ripresi, perché si sono visti alcuni dei loro adepti andare in giro con le insegne dei Bandidos in prova.» «In prova?» domandai. «I Rock Machine sono in una specie di stallo perché i Bandidos stanno decidendo se sono un buon pollo da spennare.» «Capisco il vantaggio dei Rock Machine, ma mi sfugge quello dei Bandidos» osservai. «Per anni i Bandidos si sono accontentati del traffico locale di anfetamine e sostanze stupefacenti, cui si sommavano i proventi di qualche giro di prostituzione; a livello nazionale l'organizzazione non era molto forte. Oggi però gli equilibri sono cambiati e la nuova leadership riconosce i vantaggi dell'espansione e del controllo stretto delle sezioni. «Guardate il Rocker sullo sfondo.» Roy indicò una delle due mezzelune sul giubbotto di un uomo in secondo piano. «La parola "Québec" è stata sostituita con "Canada". E questa è un'indicazione piuttosto chiara circa la direzione che i Bandidos intendono prendere. Ma potrebbe non essere facile come credono.» Altra diapositiva. Una formazione di motociclette lungo una highway. «Questa foto è stata scattata qualche settimana fa ad Albuquerque, nel New Mexico. I Bandidos stavano andando a un raduno organizzato dalla sezione dell'Oklahoma. Tra i ragazzi fermati dalla polizia per una serie di infrazioni c'era anche il presidente del motoclub internazionale, così gli investigatori hanno colto l'occasione per interrogarlo sulle molte fecce nuove che circolavano al loro interno. Il presidente ha ammesso che i Bandidos
stavano valutando la possibilità di aprire nuove sezioni in tutto il mondo, ma quando gli è stato chiesto dei Rock Machine, ha rifiutato di rispondere. «Ne deriva che tra i due gruppi non ci sono ancora accordi definitivi. Il presidente era appena rientrato da una riunione della National Coalition of Motorcyclists, la lega nazionale dei motociclisti, durante la quale i Bandidos e gli Hells Angels avevano cercato di trovare un accordo sui Rock Machine. Gli Angels non gradiscono la campagna di espansione dei Bandidos e si sono offerti di sciogliere un'aspirante sezione in New Mexico se i Bandidos rinunciano alle trattative con il motoclub del Québee.» «Sicché i Rock Machine sono effettivamente in sospeso?» Coda di cavallo. «Sì. Ma se vengono inglobati nei Bandidos, da queste parti gli equilibri cambieranno.» La voce di Roy era cupa. «A livello locale, la presenza dei Rock Machine è relativamente recente, n'est-ce pas?» domandò un investigatore dall'aria giovanile. «Sono in circolazione dal 1977» rispose Roy. «Ma hanno aggiunto la dicitura MC al loro nome solo nel 1997. Prima non erano interessati ad assimilarsi a una cosa così convenzionale come un motoclub. È stata una sorpresina sui biglietti natalizi di quell'anno.» «Biglietti natalizi?» Pensai a una battuta. «Sì. Questi ragazzi sono molto attenti ai valori della tradizione. Nella sala colloqui della prigione non si parlava d'altro.» Kuricek. Risate. «I biglietti permettono ai vari di membri di tenersi in contatto» spiegò Roy. «Lo svantaggio è che vanno anche a ingrossare i fascicoli del servizio di spionaggio delle bande rivali.» Roy passò a una cartina di Montréal. «Attualmente i Rock Machine stanno dando battaglia agli Hells Angels per il controllo del traffico di stupefacenti all'interno della nostra provincia. E si parla di grosse cifre. Secondo il Viceprocuratore Generale, il traffico di droga in Canada frutta alle bande del crimine organizzato dai sette ai dieci miliardi di dollari l'anno. E al Québec spetta una grossa fetta della torta.» Indicò due zone della città. «Le due bande si contendono le zone est e nord di Montréal e alcune parti della città di Québec. Dal 1994 ci sono state centinaia di esplosioni e di incendi dolosi e niente meno che centoquattordici omicidi.» «Inclusi Marcotte, i gemelli Vaillancourt e la piccola Toussaint?» do-
mandai. «Osservazione corretta. Centodiciotto. E molte altre persone risultano disperse e presumibilmente morte.» «Quanti di questi stronzi di guerrieri sono in trincea?» Kuricek. «La prima linea conta circa duecentosessantacinque persone per gli Angels e una cinquantina per i Rock Machine.» «Tutto qui?» Ero stupita che così poche persone potessero produrre un tale sconquasso. «Non dimentichi la seconda linea.» Kuricek si appoggiò allo schienale della sedia. «Entrambi i contendenti sono fiancheggiati da motoclub di copertura. Sono questi perdenti che fanno tutto il lavoro sporco.» Roy. «Lavoro sporco?» A me tutto ciò che riguardava queste bande sembrava sporco. «Distribuzione e spaccio di droga, recupero crediti, approvvigionamenti di armi ed esplosivi, intimidazioni, violenza, omicidi. Questi motoclub di copertura radunano la feccia del mondo dei biker irregolari e sono disposti a qualunque cosa pur di dimostrare a quelli sopra di loro che hanno le palle. Ecco perché è così difficile incastrare un membro effettivo dei motoclub più importanti. Quei bastardi sono maledettamente sfuggenti e lavorano sempre a distanza di sicurezza.» «Quindi, se anche si riesce a pizzicarli, loro serrano i ranghi e utilizzano i loro fantocci per terrorizzare o far fuori i testimoni.» Kuricek. Ripensai ai brandelli di carne che un tempo erano stati i gemelli Vaillancourt «Gli Heathens sono fiancheggiatori dei Rock Machine?» «C'est ça.» «Chi sono gli altri?» «Vediamo. I Rowdy Crew, i Jokers, i Rockers, gli Evil Ones, i Death Riders...» In quel momento Martin Quickwater apparve sulla porta. Indossava un completo blu scuro e una camicia bianca, e ricordava più un avvocato fiscalista che un investigatore esperto in crimine organizzato. Annuì a Roy e riservò una semplice occhiata al resto dei presenti. Quando mi vide, socchiuse gli occhi e non disse nulla. «Ah, bon. Monsieur Quickwater ci fornirà il punto di vista dell'FBI.» Ma Roy si sbagliava. Quickwater ci portava novità urgenti. Il conto dei morti stava per essere aggiornato.
7 Il giorno seguente all'alba ero già alla sede dei Vipers di Saint-Basile-leGrand. L'edificio sorgeva all'interno di un appezzamento interamente circondato da una recinzione elettrificata. Una serie di telecamere per la sorveglianza punteggiava il margine superiore della barriera e potenti riflettori illuminavano il perimetro della proprietà. Il cancello che si apriva sul lato della strada principale era controllato elettricamente e monitorato dall'interno della casa. Al nostro arrivo lo trovammo aperto; il citofono rimase muto. Avevo notato una telecamera puntata su di noi ma sapevo che nessuno ci stava osservando. Il mandato di perquisizione era già stato esibito e lungo il viale di accesso si allungava una fila di auto civetta, di volanti e di veicoli dell'ufficio del coroner. C'era anche il furgone della Scientifica. Quickwater oltrepassò il cancello con la sua automobile e guadagnò la fine della fila. Mentre spegneva il motore mi guardò di traverso senza dire nulla. Restituii lo sguardo, presi lo zainetto e uscii. Lo spazio dietro la casa era occupato da un bosco, quello davanti da un terreno incolto attraversato da un viale di ghiaia che univa il cancello a un anello di asfalto attorno all'edificio. L'asfalto era delimitato da una serie di coni in cemento alti più di un metro che impedivano il parcheggio a meno di cinque metri dai muri esterni della casa. L'accorgimento mi fece pensare all'Irlanda del Nord dei primi anni Settanta. Come i cittadini di Belfast, i biker del Québec non sottovalutavano affatto il pericolo di un'autobomba. Un Ford Explorer nero era fermo ai limiti dell'asfalto. La luce del sole splendeva all'orizzonte striando di giallo e di rosa lo sfondo violetto dell'alba. Un'ora prima, quando Quickwater era venuto a prendermi, il cielo era scuro come il mio umore. Non avevo voglia di andare in quel luogo. Non avevo voglia di avere a che fare con Mister Simpatia. Ma soprattutto non avevo nessuna voglia di disseppellire biker morti. Le notizie del giorno prima mi pesavano addosso come un macigno. Ascoltando Quickwater, avevo capito che quello che doveva essere solo un impegno a margine del mio lavoro, accettato per poter lavorare al caso di Emily Anne, sarebbe diventato un incarico a tempo pieno, e il pensiero di tutto ciò che avrei dovuto fare mi metteva sotto pressione. Cercai di motivarmi pensando che una bambina di nove anni era stesa sul tavolo dell'obitorio e che la sua famiglia distrutta non sarebbe stata più la stessa. Io ero lì
per loro. Il cecchino dei Vipers che aveva sparato sui gemelli Vaillancourt si era dichiarato pronto a collaborare. Di fronte al terzo arresto e alle accuse di omicidio di primo grado, aveva offerto la posizione di due cadaveri. Il giudice aveva replicato concedendogli il secondo grado. Voilà. Alba di un nuovo giorno a Saint-Basile. Mentre percorrevamo il viale, il sole si insediò definitivamente nel cielo. Riuscivo ancora a vedere il mio respiro, ma sapevo che presto la giornata si sarebbe intiepidita. La ghiaia scricchiolava sotto le scarpe e di tanto in tanto qualche sassolino schizzava di lato ricadendo nel canaletto laterale. Gli uccellini cinguettavano e brontolavano, comunicandoci il loro disappunto per il nostro arrivo. Ciucciauova, pensai. La mia giornata è iniziata prima della vostra. Non fare la bambina, Brennan. Sei infastidita perché Quickwater è uno stronzo, ignoralo. Pensa al tuo lavoro. Proprio in quel momento mi rivolse la parola. «Devo trovare il nuovo compagno che mi hanno assegnato. È appena entrato nell'Operazione Carcajou.» Non mi disse il suo nome, ma lo sfortunato agente mi ispirò una simpatia immediata. Inspirai a fondo, sistemai lo zainetto e lo seguii guardandomi in giro. Una cosa mi fu subito chiara. I Vipers non sarebbero mai stati eletti Giardinieri dell'Anno. La porzione anteriore della proprietà era un buon esempio di ciò che gli ecologisti eletti al Congresso si sforzavano di proteggere. Il terreno che portava fino alia strada principale era una distesa di vegetazione morta allargata sulla fanghiglia rossastra della primavera. La foresta di cespugli dietro la casa era esclusivo dominio dei quadrupedi che l'abitavano. Ma oltre l'anello di asfalto, all'interno del cortile, una certa progettazione era evidente. Ispirata allo stile delle migliori prigioni americane, la recinzione non mancava di alcun elemento essenziale, compresi muri di mattoni alti tre metri e mezzo, telecamere di sorveglianza, rilevatori di movimento e riflettori. Il cortile era costituito da una spianata di cemento e disponeva di barbecue a gas, una cuccia per cani con catena, dei cerchi di metallo per giocare a pallacanestro. Una porta di acciaio aveva sostituito il cancello originario, e l'entrata del garage era blindata e sigillata. Durante il tragitto, Quickwater aveva aperto bocca solo per darmi qual-
che notizia sulla proprietà. La casa era stata costruita da un newyorkese arricchitosi con il traffico degli alcolici ai tempi del Volstead Act. A metà degli anni Ottanta, i Vipers l'avevano acquistata dagli eredi del contrabbandiere e, prima di esibirvi le loro insegne, avevano speso quattrocentomila dollari per ristrutturarla. Oltre al sistema di sicurezza lungo tutto il perimetro, i ragazzi avevano blindato tutte le porte e installato vetri antiproiettile su tutte le finestre del primo piano. Ma quella mattina le misure di sicurezza erano disattivate. Come il cancello d'ingresso, anche la porta della sede era spalancata. Quickwater entrò e io lo seguii. All'interno la mia prima reazione fu di sorpresa: l'arredamento era estremamente lussuoso. Se mai quei tizi avessero dovuto pagare una cauzione o assumere un avvocato, avevano solo da battere un'asta. La sola attrezzatura elettronica avrebbe assicurato loro la collaborazione del penalista più quotato del momento. La casa era costruita su più piani, collegati da una scala centrale di metallo. Attraversammo l'atrio, piastrellato in bianco e nero, e cominciammo a salire. Alla mia sinistra notai una sala giochi dotata di biliardo, calcetto e bar con bancone. Sulla parete, sopra le bottiglie dei superalcolici, un serpente arrotolato con tanto di teschio, denti veleniferi e occhi sporgenti ghignava in arancione fluorescente. In fondo al bancone del bar, sedici monitor fornivano altrettante prospettive della proprietà su schermi in bianco e nero. Nella stanza c'erano anche un grosso televisore e un impianto stereo che ricordava un pannello di controllo della NASA. Mentre passavamo, un agente del dipartimento di polizia di Saint-Basile ci salutò con un cenno della testa. Al secondo piano c'era una palestra con almeno cinque o sei attrezzi da body building. Sulla sinistra vidi due panche e una serie di bilancieri di fronte a una parete di specchi. I Vipers dovevano essere patiti della fitness. Al terzo piano attraversammo un soggiorno arredato in uno stomachevole stile biker fine millennio. La moquette rosso cupo faceva a pugni con l'oro delle pareti e l'azzurro dei tessuti degli enormi divani e degli amorini. Tavoli e tavolini in ottone e vetro fumé reggevano una collezione di sculture di serpenti. Serpenti in legno, ceramica e pietra adornavano anche i davanzali delle finestre e digrignavano i denti da sopra il televisore più grande che avessi mai visto. Le pareti erano decorate con ingrandimenti di fotografie scattate durante i raduni o le soirée del motoclub. Un'immagine dopo l'altra, i vari membri
flettevano i bicipiti sudati, stavano a cavalcioni delle loro moto o scolavano bottiglie e lattine di birra. Quasi tutti sembravano appartenere a quella porzione del grafico del quoziente di intelligenza dove la curva piega garbatamente verso il basso. Dopo cinque camere da letto e un bagno in marmo nero con idromassaggio e cabina doccia grande quanto un campo da squash, arrivammo alla cucina. Alla mia destra notai un telefono a parete accanto a una lavagnetta bianca con numeri telefonici, scarabocchi in codice e il nome di un avvocato della zona. Alla mia sinistra vidi un'altra scala. «Di sopra cosa c'è?» domandai a Quickwater. Nessuna riposta. Un altro agente del comando di Saint-Basile aspettava in fondo alla stanza, «C'è un'altra sala ricreazione» mi disse in inglese. «Con tanto di terrazza e bagni termali per dieci persone.» Due uomini sedevano a un tavolo di legno davanti a un piccolo bovindo; uno era sciatto, l'altro curatissimo e vestito di tutto punto. Quickwater salutò con un cenno della testa. Io ebbi un tuffo al cuore. L'innominato e sfortunato nuovo compagno di Quickwater era Luc Claudel. Fantastico. Avrei dovuto lavorare con ben due Mister Simpatia contemporaneamente. Claudel parlava tamburellando le dita su un foglio che doveva essere il mandato di perquisizione. L'uomo accanto a lui aveva l'aria di non aver avuto un buon risveglio. Gli occhi erano neri e crudeli, il naso aquilino curvava a sinistra proprio all'altezza della gobba, sul labbro superiore aveva più baffi di un tricheco. Si guardava i piedi nudi, sfregando nervosamente le mani abbandonate tra le ginocchia. Quickwater mi indicò il tricheco. «L'uomo di Neandertal è Sylvain Bilodeau. Luc gli sta spiegando che siamo qui per fare un po' di giardinaggio.» Bilodeau lanciò a Quickwater e a me uno sguardo torvo e gelido, poi tornò a stropicciarsi le mani. Un serpente a tre colori avvolgeva l'intera lunghezza del suo braccio e sembrava strisciare al minimo movimento dei muscoli. Sospettai che la metafora di Quickwater non rendesse giustizia ai nostri cugini del Paleolitico. Ancora qualche parola, poi Bilodeau schizzò in piedi. Non arrivava al
metro e sessanta, ma pareva il testimonial ideale per una pubblicità di steroidi. Dopo un attimo di silenzio, disse: «Tu dici solo stronzate, bello. Non avete nessun diritto di fare le vostre irruzioni del cazzo e di rivoltare tutta la casa e il giardino». Parlava un francese dalle fortissime inflessioni dialettali, e del suo sfogo non riuscii a capire quasi niente. Mi accontentai di afferrare il succo. Claudel si alzò e lo guardò dritto negli occhi. «Guarda caso questo foglietto dice che è esattamente quello che possiamo fare. E come ti ho già spiegato, tu hai solo due possibilità: o fai il tuo bel compitino e noi ti lasciamo qui seduto buono, buono come uno scolaretto, oppure ti portiamo via in manette e ti regaliamo una sistemazione gratuita a tempo indeterminato. A te la scelta, Nasino.» Il tono di Claudel era passato dalla minaccia alla derisione. Bella mossa, pensai. «Che cazzo dovrei fare?» «Devi tranquillizzare i tuoi amici e fargli capire che oggi gli conviene non passare da queste parti. A parte questo, avrai una giornata di tutto riposo. Non dovrai fare assolutamente nulla. E il caporalmaggiore Berringer starà qui con te per essere certo che obbedirai.» «Io qui ho delle cose da fare. Perché cazzo siete arrivati proprio questa mattina?» Claudel gli afferrò una spalla. «Vedi, Nasino, la vita è solo questione di tempismo.» Con una scrollata di spalle Bilodeau si liberò dalla stretta, poi si avvicinò alla finestra. «Bastardi figli di puttana.» Claudel sollevò le mani, come per dire «io che ci posso fare?». «Forse tu hai problemi più seri dei nostri, Nasino. Immagino che i fratelli non saranno contenti di sapere che stavi dormendo durante il turno di guardia.» Bilodeau prese a passeggiare per la stanza come un animale in gabbia. Poi si fermò davanti al piano di lavoro e lo colpì con entrambi i pugni. «Fanculo.» I muscoli del collo gli si gonfiarono per la rabbia, una vena pulsava al centro della fronte. Un attimo dopo si voltò, esaminò una faccia alla volta e mi inchiodò con uno sguardo degno di Charles Manson, puntandomi il dito contro. «Quel vostro bastardo d'un fottuto voltagabbana deve fare centro al primo colpo.» La voce gli tremava per la rabbia. «Perché ormai è un morto ambulante.»
Il fottuto voltagabbana in questione stava aspettando a cento metri da lì, sul sedile posteriore di un'anonima jeep. L'accordo tra lui e il giudice prevedeva che ci accompagnasse sul luogo della sepoltura. Tuttavia, niente l'aveva convinto a scendere dall'auto prima di essere ben lontano dalla casa. O lo accompagnavamo al sito con la jeep, o non se ne faceva nulla. Uscimmo dalla sede e ci infilammo subito in macchina, io sul sedile anteriore, Claudel dietro. Quickwater andò a parlare con la squadra addetta al recupero. L'abitacolo era così pieno di fumo che facevo fatica a respirare. Il nostro informatore era un uomo di mezz'età, con gli occhi verde chiaro e i capelli legati dietro la nuca. La pelle bianca, i capelli lisci e lo sguardo di serpente lo facevano assomigliare a una creatura che si era evoluta nelle acque di una grotta sotterranea. I Vipers parevano un gruppo decisamente appropriato. Come Bilodeau, era basso, ma diversamente da Bilodeau non era interessato a un soggiorno prolungato nella sede del motoclub. Claudel fu il primo a parlare. «Spera che vada tutto bene, Rinaldi, altrimenti i tuoi genitori possono cominciare a organizzarti il funerale. Ho sentito che il tuo indice di gradimento tra i confratelli è precipitato.» Rinaldi aspirò una boccata di fumo, trattenne il fiato per qualche secondo, poi espirò dal naso. Le narici, tese per lo sforzo, diventarono pallide. «Chi è 'sta tipa?» La sua voce era strana. Sembrava che cercasse di alterarla per nascondere la sua vera identità. «La dottoressa Brennan. Sarà lei a dissotterrare il tuo tesoro, Rana. E tu l'aiuterai in tutti i modi possibili, vero?» Rinaldi espirò un'altra boccata di fumo. Anche le labbra, come le narici, impallidirono. «E sarai docile come un cadavere all'obitorio, intesi?» «Cominciamo o no con 'sta cazzo di storia?» «L'obitorio non mi è venuto in mente a caso, Rana. Sappi che se questa è tutta una bufala la similitudine si rivelerà quanto mai azzeccata.» «Non mi sono inventato un bel cazzo di niente. Là sotto ci sono dei tipi che si mangiano la terra. Adesso andiamo avanti con 'sto spettacolo.» «Andiamo» concordò Claudel. Rinaldi puntò un dito ossuto facendo tintinnare le manette che gli legavano i polsi. «Fate il giro della casa e cercate uno sterrato sulla destra.»
«Direi che come inizio può andare, Rana.» Rana. Un altro nomignolo calzante, pensai ascoltando la voce roca e strana di Rinaldi. Claudel scese dalla jeep e mostrò il pollice alzato a Quickwater, che aspettava dieci metri più indietro, vicino al furgone della Scientifica. Mi voltai a guardare e sorpresi Rinaldi che mi fissava, come se volesse scoprire il mio codice genetico. Quando i nostri occhi si incontrarono, continuò a fissarmi. Io feci altrettanto. «Ha qualche problema con me, signor Rinaldi?» gli domandai. «Strano lavoro per una pupa...» commentò senza abbassare lo sguardo. Trascorse qualche secondo, poi Rana sogghignò scuotendo appena la testa e spense il mozzicone nel piccolo posacenere tra i due sedili anteriori. Quando le manette scivolarono indietro, sull'avambraccio gli notai due saette tatuate e sopra la scritta FILTHY FEW, pochi e maledetti. Claudel rientrò nella jeep insieme a Quickwater, che si sedette al volante senza aprire bocca. Fece il giro della casa, poi tagliò dentro la boscaglia. Rinaldi guardava fuori in silenzio, sicuramente agitato dai suoi demoni. Lo sterrato indicato da Rinaldi era in realtà una coppia di solchi appena visibili, su cui le automobili e il furgone della Scientifica dietro di noi procedevano a fatica tra fango e vegetazione bagnata. A un certo punto Quickwater e Claudel furono costretti a scendere per spostare un albero caduto che ostruiva il passaggio. Mentre trascinavano via i rami ormai marci, una coppia di scoiattoli schizzò via per mettersi al riparo. Quickwater tornò alla jeep madido di sudore e fradicio dalle ginocchia in giù. Claudel era perfettamente in ordine, e si muoveva come se indossasse uno smoking. Mi venne il sospetto che quell'uomo riuscisse a darsi un contegno anche quando girava in mutande. Ma forse non gli capitava mai. Claudel si allentò la cravatta di un buon millimetro e tamburellò sul finestrino di Rinaldi. Io aprii la mia portiera per far entrare un po' d'aria ma Rana era già passato a un'altra sigaretta. Claudel tamburellò di nuovo e Rinaldi tirò la maniglia. La portiera si aprì e il fumo cominciò a uscire. «Butta via quella roba prima di costrìngerci alla maschera antigas. Hai ancora qualche neurone in attività, Rana? Riconosci il terreno?» Claudel. «Il posto è questo. Cerca di chiudere quel cazzo di bocca e lasciami trovare qualche punto di riferimento.» Rinaldi scese dalla jeep e cominciò a guardarsi in giro. Mentre il nostro informatore esaminava la zona, Quickwater mi concesse un altro dei suoi
sguardi gelidi. Lo ignorai e cominciai anch'io a esaminare il luogo. Il punto doveva essere stato utilizzato come discarica perché era disseminato di lattine, contenitori di plastica, bottiglie di vino e di birra, un vecchio materasso e diverse molle arrugginite. Il terreno era segnato dalle impronte leggere di un cervo che disegnavano diversi giri e scomparivano in mezzo agli alberi circostanti. «Sto diventando impaziente, Rana» lo sollecitò Claudel. «Conterei fino a tre, come si fa con i bambini, ma sono sicuro che la matematica pura ti manderebbe in confusione.» «Vuoi chiudere quel cazzo di...» «Ehi, cerca di stare calmo» lo avvertì Claudel. «Sono anni che non bazzico da queste parti. C'era una specie di capanno degli attrezzi. Se riesco a trovare quel cazzo di capanno, vi porto dritti sul punto esatto.» Rana cominciò a fare qualche sortita in mezzo al bosco, come un cane da caccia che fiutava una lepre. Attimo dopo attimo, sembrava sempre meno sicuro del fatto suo, e io cominciavo a condividere i suoi dubbi. Avevo partecipato a diversi sopralluoghi guidati dall'informatore di turno e quasi sempre si erano rivelati una perdita di tempo. Le informazioni che arrivano dal carcere sono notoriamente inaffidabili, o perché il messaggero mente o semplicemente perché la memoria lo tradisce. LaManche e io eravamo andati due volte alla ricerca di una fossa biologica che doveva essere la tomba della vittima di un omicidio. Due safari, nessuna fossa. Il delatore era tornato in galera, i contribuenti avevano pagato le spese. Rinaldi tornò alla jeep. «È più avanti.» «Quanto più avanti?» «Ehi, non sono mica un geografo. Quando ritrovo il punto, vedrai che lo riconosco. C'era un capanno di legno.» «Ti stai ripetendo, Rana.» Claudel lanciò uno sguardo eloquente all'orologio. «Sacré bleu! Se la finite di starmi al culo e portate quel catorcio un po' più avanti, magari riuscite anche ad avere i vostri cadaveri.» «Spera solo di avere ragione, Rana. O ti troverai al centro del più grande trenino dell'amore del millennio.» L'uomo risalì sulla jeep e la processione si rimise in movimento. Dopo una ventina di metri Rinaldi sollevò la mano. Poi si appoggiò allo schienale del mio sedile e si sporse in avanti per guardare meglio.
«Ferma.» Quickwater frenò. «Eccolo. È quello.» Rinaldi indicò una piccola struttura in legno, senza tetto. Il capanno era quasi interamente crollato e parecchie assi di legno marcio giacevano sparpagliate sul terreno circostante. Scendemmo tutti. Rinaldi fece un giro completo su se stesso, esitò, poi entrò nel bosco seguendo una traiettoria inclinata di circa quaranta gradi rispetto al capanno. Claudel e io lo seguimmo, aprendoci la strada tra una selva di radici e di piante rampicanti e spostando rami che avrebbero aspettato settimane per vedere i primi germogli. Il sole era ormai alto sull'orizzonte e gli alberi proiettavano una ragnatela di ombre sul terreno fradicio. Trovammo Rinaldi fermo sul limitare di una radura, le mani premute sulle tempie, le spalle curve come un maschio di scimpanzé in procinto di mettersi in mostra. Non aveva un'espressione rassicurante. «Gente, questo posto è cambiato. Non mi ricordavo tutti questi alberi. Venivamo qui per sballarci intorno al fuoco.» «Rana, non mi frega niente di come tu e tuoi amici passavate le vacanze. Guarda che stai andando fuori tempo massimo. E rischi di farti venticinque terribili anni in galera. E noi rischiamo di leggere che ti hanno trovato con un tubo infilato nel sedere mentre facevi la doccia.» Non avevo mai sentito Claudel così colorito. Rinaldi serrò la mascella ma non rispose. L'aria era gelida e lui indossava solo una T-shirt e un paio di jeans. Le braccia magre e muscolose erano increspate dalla pelle d'oca. Si voltò e avanzò al centro della radura. Sulla destra il terreno digradava dolcemente verso un fiumiciattolo. Rinaldi attraversò una macchia di pini e raggiunse la riva, si guardò intorno e proseguì risalendo la corrente. Quickwater, Claudel e io lo seguimmo. Dopo una ventina di metri Rinaldi si fermò e agitò un braccio indicandoci uno spiazzo di terra compreso tra il ruscello e un mucchio di pietre. Era coperto di rami secchi, bottiglie di plastica e lattine, più i soliti detriti lasciati dalle piene stagionali. «Ecco il vostro cazzo di cimitero.» Lo guardai in faccia. L'espressione incerta era stata sostituita dalla solita insolenza. «Se questo è tutto quello che hai da offrire, Rana, su quel tubo hanno già scritto il tuo nome» disse Claudel.
«Ehi, tipo, non mi rompere i coglioni. Sono passati dieci anni. Se la pupa sa il fatto suo, riuscirà a trovarli.» Mentre esaminavo la zona che Rinaldi aveva indicato, mi sentii addosso il peso della sfida. Dieci anni di piene stagionali del fiume. Non ci sarebbe stato un solo indicatore. Niente depressioni del terreno. Nessuna attività entomologica. Nessun cambiamento di vegetazione. Nessuna stratigrafia. Niente che potesse suggerire la presenza di un tomba. Qaudel mi guardò con aria interrogativa. Alle mie spalle il fiumiciattolo gorgogliava. Nel cielo due cornacchie gracchiavano il loro botta e risposta. «Se ci sono, li troverò» dissi con una sicurezza che non corrispondeva affatto al mio stato d'animo. Sopra la mia testa, il verso dei due uccelli risuonò come una risata. 8 A mezzogiorno avevamo ripulito dalla vegetazione e dai detriti un'area di circa cinquanta metri per cinquanta, guidati dai nebulosi ricordi di Rana circa la posizione della fossa. Alla fine era emerso che lui non aveva mai visto i cadaveri ma si era affidato a certe "informazioni sicure". Secondo le leggende che circolavano all'interno della banda, le vittime erano state invitate a una festa in giardino e poi accompagnate nel bosco, dove erano state freddate con una pallottola in testa. Avevo composto una griglia per le ricerche e piantato una serie di picchetti arancioni di plastica a intervalli regolari di un metro e mezzo. Dato che raramente i cadaveri vengono sepolti oltre il metro e ottanta di profondità, avevo richiesto un'unità radar in grado di penetrare il terreno dotata di antenna da 500 MHZ, frequenza efficace a quelle profondità. Era arrivata nel giro di un'ora. Insieme all'operatore radar, avevo scavato una buca di prova oltre la zona delle ricerche per consentire la valutazione della densità, dell'umidità, dei cambiamenti di stratificazione e delle altre condizioni del terreno. Quindi avevamo riempito nuovamente la buca interrando una porzione di sbarra metallica. L'operatore aveva poi ripassato la buca per ricavare i dati di controllo. Mentre completavamo la messa a punto delle apparecchiature, Rana saltò giù dalla jeep e mi si avvicinò furtivamente, seguito a breve distanza dalla guardia. Sollevato dalla consapevolezza di non essere, per una volta, sotto il tiro dei cecchini, era venuto spesso a curiosare, durante la mattina-
ta. «Che cazzo è quella roba?» domandò, indicando una serie di strumenti che sembravano presi a prestito dal set di Ritorno al futuro. In quel momento si avvicinò Claudel. «Rana, non credi che dovresti imparare qualche nuovo vocabolo? Forse uno di quei calendari che insegnano ogni giorno una parola diversa ti potrebbe essere utile.» «Fanculo.» In un certo senso quelle imprecazioni in inglese non mi dispiacevano. Erano pur sempre suoni familiari in una terra straniera. Guardai Rana per capire se mi stesse prendendo in giro, ma i suoi occhi verde chiaro suggerirono un interesse genuino. Okay. Là dove era diretto, Rana non avrebbe avuto molte occasioni per ampliare i suoi orizzonti scientifici. «È un sistema GPR.» Mi guardò inespressivo. «Ground-penetrating radar: radar per la penetrazione del terreno.» Indicai un terminale collegato all'accendisigari di un fuoristrada: «Quella è la macchina GPR. Analizza i segnali inviati da un'antenna e proietta un modello di riferimento su quello schermo». Puntai il dito verso una struttura a forma di slitta con una maniglia sul lato superiore e un lungo cavo che la collegava alla macchina GPR. «Quella è l'antenna.» «Sembra più un tosaerba.» «Già.» Mi chiesi come potesse intendersi di prati da tosare. «Quando un operatore trascina l'antenna sul terreno, questa trasmette un segnale penetrante e invia i dati alla macchina GPR. Questa analizza la forza e il tempo di risposta del segnale.» Sembrava che mi stesse seguendo. Ascoltava anche Claudel, pur fingendosi disinteressato. «Se nel terreno c'è qualcosa, il segnale arriva distorto. La sua intensità risente delle dimensioni delle interferenze sotterranee e delle proprietà elettriche ai margini inferiore e superiore. La profondità è determinata dal tempo che il segnale impiega per scendere e tornare in superficie.» «In poche parole, questa roba ti dice dov'è il cadavere?» «Non deve necessariamente essere un corpo umano. L'apparecchiatura dice che esiste un'interferenza sotto la superficie e può fornire dati su dimensioni e posizione.»
Rana mi guardò con aria persa. «Quando scavi una fossa e ci butti dentro qualcosa, il punto in cui hai scavato non sarà mai più come prima. La terra smossa avrà una densità inferiore, o proprietà elettriche diverse dal terreno circostante.» Vero. Ma dubitai che potesse essere il nostro caso. Dieci anni di piene annullano molto facilmente le differenze del suolo. «E la cosa sepolta, che si tratti di un cavo, di un ordigno inesploso e di un corpo umano, non manderà mai lo stesso segnale del terreno circostante.» «Cenere alla cenere. E se il cadavere si scioglie in quella che sarà l'acqua potabile di domani?» Bella domanda, Rana. «La decomposizione della carne può cambiare la composizione chimica e le proprietà elettriche della terra, quindi anche le ossa e i cadaveri putrefatti possono essere individuati.» Potrebbero. In quel momento l'operatore radar mi segnalò che era pronto. «Quickwater, spinge lei la slitta?» gridai. «Lo faccio io» si offrì Claudel. «Okay. Chiami uno dei ragazzi dell'Anagrafica e si faccia seguire per controllare il cavo. Non è complicato come sembra. Cominci quando l'operatore avrà sistemato l'antenna fuori dell'area che abbiamo ripulito. Quando supera la linea di picchetti più a nord, prema due volte il pulsante del telecomando. È sulla maniglia. Il segnale determinerà i confini di quella sezione. Trascini la slitta più lentamente del suo passo normale, diciamo circa due terzi, cercando di procedere il più dritto possibile. Ogni volta che supera un picchetto est-ovest, prema il pulsante una volta. Quando arriva alla fine, dia un doppio segnale per indicare la fine della sezione. Poi trasciniamo indietro la slitta e cominceremo il secondo passaggio.» «Ma perché non andiamo avanti e indietro?» «Perché i tabulati delle sezioni adiacenti non sarebbero paragonabili se arrivano da direzioni opposte. Copriremo l'intera area procedendo da nord a sud, e sono trenta passaggi, poi ripeteremo la procedura in direzione estovest» Annuì. «Io rimarrò con l'operatore a guardare lo schermo. Se notiamo delle interferenze vi do una voce e il collega potrà picchettare il punto.» Un'ora dopo la ricerca era conclusa e tutti si erano spostati intorno al
furgone per consumare i loro sandwich e bere le bibite. Dodici picchetti azzurri formavano tre quadrati all'interno della griglia di ricerca. I risultati erano stati migliori di quanto avevo sperato. Le letture nella terza e tredicesima sezione nord-sud avevano evidenziato interferenze di lunghezza e profondità quasi equivalenti. Ma era stato il profilo ricavato dall'undicesimo passaggio ad attirare la mia attenzione. Studiavo il tabulato mangiando il mio sandwich con mortadella e formaggio. Le linee orizzontali della griglia riportata sul tabulato indicavano la profondità delle interferenze, ricavata sulla base della taratura eseguita sulla buca di prova; la superficie del terreno risultava in alto. Le linee verticali erano punteggiate e corrispondevano ai segnali inviati da Claudel mentre superava i vari picchetti della griglia. Il motivo risultante sotto la superficie del terreno era una linea ondulata in alcuni tratti, ma in generale piatta. Se però la si sovrapponeva alla griglia dell'undicesimo passaggio nord si ottenevano una serie di curve concentriche a forma di campana, simili alle costole di uno scheletro. Il profilo indicava un'interferenza all'intersezione della linea 11 nord-sud con la linea 4 est-ovest. Si trovava a una profondità di circa un metro e mezzo. Passai ai profili ricavati dai passaggi est-ovest. La comparazione delle sezioni perpendicolari mi permise di stimare le dimensioni e la forma dell'interferenza. Ciò che vidi mi strinse il cuore. L'anomalia era lunga circa un metro e ottanta centimetri e larga meno di un metro. Le dimensioni di una tomba. Alla profondità di una tomba. «È servito a qualcosa?» Non avevo sentito Claudel avvicinarsi. «Ci siamo.» «Davvero?» «Sì.» Finii la mia Diet Coke e saltai sulla jeep. Lentamente ci lasciammo il furgone alle spalle mentre Quickwater ci portava sulle coordinate 11 nord4 est. Avevamo deciso che avrei scavato in quel punto mentre Quickwater e Claudel analizzavano le altre due interferenze. Prima avrei predisposto una semplice griglia intorno a ciascun sito, poi loro avrebbero rimosso la terra in strati sottili, setacciandoli uno a uno. Avevo istruito gli investigatori dell'Operazione Carcajou su come verificare le differenze di colore e consistenza della terra. Alla minima variazione mi avrebbero dato una voce. Ognuno di noi sarebbe stato coadiuvato
dal personale della Section d'Identité Judiciaire, o SIJ, mentre una squadra di operatori avrebbe fotografato e filmato l'intera operazione. E ci mettemmo all'opera. Claudel supervisionò il lavoro del team incaricato di analizzare le interferenze a 13 nord-5 est, a circa tre metri da me. Di tanto in tanto lanciavo un'occhiata e immancabilmente vedevo Claudel gesticolare istruzioni ai suoi collaboratori o chiedere informazioni su qualcosa che aveva notato in mezzo alla terra. Non si era ancora tolto la giacca. Dopo circa mezz'ora, al sito di Claudel una pala urtò contro qualcosa. Alzai la testa. Avevo già un nodo allo stomaco. Doveva essere qualcosa di duro e ben interrato. Sotto lo sguardo attento di Claudel, i tecnici e io ne mettemmo in evidenza i contorni. L'oggetto era arrugginito e incrostato di fango, ma la forma era inconfondibile. Fu l'addetto al setaccio a dargli un nome. «Tabernac! C'est un Weber.» «Ehi, Monsieur Claudel, per caso ha intenzione di organizzare una festicciola all'aperto? Che ci vuole? Il barbecue ce l'abbiamo, ci procuriamo un po' di hamburger, qualche sdraio, invitiamo delle ragazze...» «Jean-Guy, di' a Luc che c'è un modo più semplice di organizzare una festa. I barbecue si comprano anche ai grandi magazzini.» «Già.» Claudel non sprecò neppure un sorriso. «Siete così divertenti che avremo bisogno di un sacco mortuario in più perché sto per morire dalle risate. Continuate a scavare. Dobbiamo ancora tirar fuori questa roba e verificare che sotto non ci siano sorprese.» Claudel lasciò il barbecue ai suoi collaboratori e venne con me al sito 11 nord-4 est. Io ripresi a scavare sul lato settentrionale, mentre Claudel rimase con il mio aiutante del SIJ sul lato sud. Alle due avevamo scavato una profondità di circa un metro e non avevo ancora notato niente, né dentro la buca né sul setaccio, che indicasse la presenza di una tomba. Poi di colpo vidi uno stivale. Era girato di fianco, con il tacco che sporgeva leggermente versò l'alto. Con la mia palettina da giardiniere raschiai via la terra che lo circondava. Il mio aiutante mi guardò per qualche secondo, poi riprese il suo lavoro sull'altro lato della buca, Claudel mi osservò senza commentare. Dopo qualche minuto trovai anche l'altro. Una manata di terra alla volta, lo esposi completamente. La pelle era bagnata e molto scolorita, i ganci di metallo arrugginiti e piegati. Entrambi gli stivali, tuttavia, potevano considerarsi intatti.
Quando le calzature furono esposte del tutto, annotai la loro posizione e il fotografo fissò la mia scoperta su pellicola. Mentre deponevo uno stivale alla volta su un foglio di plastica mi resi conto che nessuno dei due conteneva ossa del piede o della gamba. Non era un buon segno. Il cielo era azzurro come una maiolica. Il sole forte. Di tanto in tanto una brezza filtrava tra i rami degli alberi circostanti, spingendoli delicatamente l'uno contro l'altro. Alla mia destra, il fiumiciattolo scorreva sui massi abbandonati molto tempo prima dai ghiacciai. Una goccia di sudore mi scese dalla fronte fino al collo. Tolsi la felpa e la gettai sul letto di aghi di pino che circondava la nostra buca. Non capivo se le mie ghiandole si erano attivate per via del tepore primaverile o per lo stress a cui mi stavo sottoponendo. Era sempre così durante le esumazioni. La curiosità. Le aspettative. Il timore di fallire. Che cosa ci sarà sotto il prossimo strato? E se non c'è nulla? E se invece c'è qualcosa ma non riesco a estrarlo intatto? Ebbi l'impulso di prendere una vanga e affondarla con decisione in profondità. Ma non sarebbe stata la soluzione migliore. Sapevo che, per quanto stancante, utilizzare la procedura corretta era cruciale. In casi come quello, il recupero del maggior numero di ossa, dei manufatti e dei particolari provenienti dal contesto era fondamentale, sicché procedetti con la consueta lentezza sollevando le zolle di terra e trasferendole in appositi secchi per il setacciamento. Con la coda dell'occhio vedevo il tecnico della SIJ compiere i miei stessi movimenti; accanto a lui Claudel osservava in silenzio. Finalmente si era tolto la giacca. Vedemmo le macchioline bianche nello stesso istante. Claudel fece per dire qualcosa, ma lo precedetti con un: «Accidenti!». Mi guardò sollevando le sopracciglia. «Sembrerebbe del limo. In genere questo significa che c'è qualcuno in casa.» Le macchioline furono presto sostituite da una melma appiccicosa e biancastra. Poi trovammo il primo teschio. Era a faccia in su, come se le orbite colme di terra si fossero volute concedere un ultimo sguardo al cielo. Il fotografo urlò la notizia e gli altri abbandonarono ciò che stavano facendo per riunirsi attorno alla buca. Mentre il sole scendeva verso l'orizzonte, vennero alla luce due scheletri. Erano voltati su un fianco, uno in posizione fetale, l'altro con braccia e gambe piegate all'indietro. Il cranio, le ossa del bacino e quelle della gam-
ba erano totalmente privi di tessuti molli e avevano un colore che ricordava il tè forte, lo stesso del terreno circostante. Le ossa del piede e della caviglia erano contenute in un paio di calzini marci, mentre il tronco era coperto da fili di tessuto putrefatto, lo stesso che aderiva alle ossa delle braccia in una sorta di parodia da spaventapasseri degli arti umani. I polsi erano circondati da un filo metallico. Tra le vertebre notai delle cerniere e pesanti fibbie di cintura. Alle cinque e mezzo la mia squadra aveva terminato di esporre i resti. Oltre agli stivali, i teli di plastica raccoglievano una collezione di cartucce corrose e di singoli denti recuperati durante il setacciamento. I fotografi stavano ancora scattando e filmando; Rana propose alla sua guardia un'altra visita. «Allô. Bonjour» disse rivolto allo scheletro nella buca, toccandosi la tesa di un invisibile cappello. «Porca merda. Perché ci sono solo camicia e calzini?» Non ero dell'umore giusto per tenere una lezione. «Ho capito.» Ridacchiò e guardò dentro la buca, «li hanno fatti camminare scalzi e con le scarpe in mano. Ma dove cazzo sono finiti i pantaloni?» «Cenere alla cenere, non ricorda?» risposi secca. «Forse merda alla merda è più adatto.» La voce gli vibrava per l'eccitazione, come se qualche ingranaggio della gola gli si fosse inceppato. La sua insensibilità mi irritò. La morte fa male. Fa male a chi muore e a chi vuol bene ai morti, e fa male a chi li ritrova. «Veramente è proprio il contrario» ribattei. «È la merda che resiste più a lungo. Le fibre naturali, come il cotone dei jeans, si decompongono molto più rapidamente delle fibre sintetiche. I suoi soci erano vestiti di poliestere.» «Cazzo, che cosa volgare. C'era nient'altro là dentro?» domandò sbirciando nella buca. Gli brillavano gli occhi, come a un topo su una carcassa. «Pessima decisione andare a quel party, vero?» commentò sentendosi spiritoso. Già, pensai, una decisione fatale. Cominciai a ripulire la lama della mia paletta confidando sul potere calmante delle attività manuali. Avevamo davanti due cadaveri e quella specie di ratto si stava divertendo. Mi voltai per vedere se i fotografi avevano terminato il loro lavoro e vidi Quickwater venire verso di me.
Fantastico. Mi augurai che la mia giornata potesse concludersi lì e sperai che stesse cercando qualcun altro. Non era così. Lo guardai avvicinarsi con lo stesso entusiasmo con cui avrei accolto un principio di congelamento. Quickwater mi si fece accanto e mi trapassò con uno dei suoi sguardi, la faccia dura come granito. Dall'odore di pino e di sudore che aveva addosso capii che aveva lavorato tutto il pomeriggio. A differenza degli altri, che si erano concessi delle pause per controllare i progressi alla buca principale, lui non si era mai allontanato dal suo lavoro. Forse voleva mantenere le distanze. In ogni caso a me andava benissimo. «C'è qualcosa che deve vedere.» In lui c'era un'immobilità che trovavo snervante. Attesi una spiegazione ma Quickwater si limitò a darmi le spalle e a tornare verso il suo scavo, pienamente convinto che lo avrei seguito. Sei uno stronzo arrogante, pensai. Gli alberi ormai proiettavano lunghe ombre e la temperatura stava scendendo di minuto in minuto. Guardai l'orologio. Quasi le sei. Il mio sandwich mortadella e formaggio sembrava risalire alla preistoria. Spera solo che sia qualcosa di importante, pensai. Attraversai la zona ripulita dalla vegetazione e raggiunsi le coordinate 3 nord-9 est, il sito delle interferenze assegnato alla squadra di Quickwater. Rimasi sorpresa nel vedere che avevano scavato l'intera griglia. L'oggetto che aveva suscitato le preoccupazioni di Quickwater si trovava un metro sotto terra. Seguendo le mie indicazioni, non lo avevano rimosso. E avevano scavato il resto del quadrato fino a una profondità di due metri. «È quello?» Quickwater annuì. «Nient'altro?» La sua espressione rimase invariata. Mi guardai intorno. Era evidente che avevano fatto un ottimo lavoro. Il setaccio era ancora sul suo sostegno, circondato da coni di terra umida. Sembrava che avessero setacciato ogni particella di terra della provincia. Riportai lo sguardo sul piedistallo di terra e sul macabro reperto. Ciò che avevano dissotterrato non aveva alcun senso. 9 Chiusi gli occhi e ascoltai le mucche muggire in lontananza. Da qualche parte la vita scorreva tranquilla e monotona, e aveva un senso. Quando sollevai le palpebre le ossa erano ancora al loro posto, ma conti-
nuavano a non avere senso. Il crepuscolo avanzava rapidamente, privando il paesaggio dei dettagli, come una dissolvenza in un vecchio film. Per quel giorno non avremmo finito il recupero, e le risposte avrebbero dovuto attendere. Non volevo rischiare di distruggere le prove lavorando al buio. Quei resti erano lì da tanto tempo, potevano rimanere al loro posto ancora per qualche ora. Avremmo rimosso dalle tombe i resti esposti e la giornata sarebbe finita. Il sito sarebbe stato piantonato e i lavori sarebbero ripresi il giorno successivo. Quickwater mi stava ancora osservando. Mi guardai intorno ma non riuscii a trovare Claudel. «Devo parlare al suo collega» dissi avviandomi verso il mio sito. Quickwater sollevò un dito, estrasse il cellulare dalla giacca, digitò un numero e me lo passò. La risposta di Claudel fu quasi immediata. «Dov'è?» domandai. «Dietro un pioppo. O forse dovevo chiederle il permesso per andare al bagno?» Domanda stupida, Brennan. «Il suo collega ha ritenuto che due scheletri non fossero sufficienti, così ne ha trovato un terzo.» «Sacré bleu!» «Be', non è esattamente uno scheletro. Da quello che ho visto, l'amico numero tre per il momento consiste in un teschio e in un paio di ossa lunghe.» «Il resto dov'è?» «Domanda molto pertinente, investigatore Claudel. Ma purtroppo io stessa sono un po' confusa rispetto a questo punto.» «Che cosa intende fare?» «Tiriamo fuori tutte le ossa e poi chiudiamo bottega finché non ci sarà di nuovo un po' di luce. Le autorità di Saint-Basile si incaricheranno di mettere i sigilli alla proprietà e di piantonare ogni tomba con una guardia. Non dovrebbe essere troppo complicato sorvegliare questo posto, dato che ha un sistema di sicurezza degno di Fort Alamo.» «I padroni di casa non impazziranno di gioia.» «Già. Del resto, neanch'io avevo pensato di passare così la settimana.» Ci volle meno di un'ora per impacchettare le ossa e spedirle in obitorio. Il barbecue e gli altri oggetti erano stati etichettati e spediti al laboratorio
della Scientifica. Ricoprii gli scavi con un telo di plastica e li affidai alle cure del dipartimento di polizia di Saint-Basile. Com'era facile prevedere, Quickwater e io rientrammo in città nel più assoluto silenzio. A casa, provai a chiamare Ryan, ma non ottenni risposta. «Perché, Andy, perché?» sussurrai, come se potesse sentirmi. «Ti prego, dimmi che non è vero.» Il programma della serata prevedeva: bagno, pizza, nanna. L'alba del giorno seguente ci ritrovò tutti alla proprietà dei Vipers. Il fiumiciattolo gorgogliava, gli uccellini cinguettavano, io vedevo di nuovo il mio respiro condensarsi nell'aria fredda del mattino. Tutto come il giorno prima. Tranne due cose. Claudel aveva deciso di restare in città per seguire altre piste. La notizia dei due cadaveri era trapelata agli organi di informazione e fummo accolti da un autentico battaglione d'assalto. La strada principale era occupata da una lunga fila di automobili e di furgoni, un nugolo di cronisti ci aggredì con una raffica di domande in inglese e francese. Ignorandoli tutti senza distinzioni, superammo la barriera di telecamere e microfoni e ci qualificammo all'ufficiar le di guardia sgusciando oltre il cancello. Sollevai i teli di plastica dalle buche e ripresi da dove avevamo lasciato il giorno prima, partendo dal sito con i due scheletri. Continuai lo scavo fino a una profondità di un metro e ottanta centimetri, ma trovai solo qualche osso della mano e un altro paio di stivali. Feci altrettanto con il sito di Quickwater, sempre più sconcertata via via che smuovevo la terra. A parte il teschio e le ossa della gamba, le mie ricerche furono del tutto infruttuose. Non trovai gioielli o brandelli di tessuto, niente chiavi o tesserini plastificati, nessuna traccia di peli o capelli né di tessuti molli. L'esame con il GPR non rivelò altre interferenze nella zona ripulita. Ma c'era anche un altro elemento anomalo. Mentre lo scavo principale aveva prodotto molti resti di insetti, quello con coordinate 3 nord-9 est non conteneva larve fossilizzate né pupari. E non sapevo spiegarmi quella differenza. Alle cinque avevamo colmato le buche di terra e caricato la mia attrezzatura sul furgone della Scientifica. Ero stanca, sporca e confusa, i capelli e i vestiti intrisi del puzzo della morte. L'unica cosa che desideravo in quel momento era andare a casa a strofinarmi per un'ora con guanto e sapone. Mentre Quickwater attraversava il cancello della proprietà, una troupe televisiva circondò la jeep, impedendoci di proseguire. Fummo costretti a
rallentare e poi a fermarci: un uomo di mezza età con messa in piega perfetta e dentatura scintillante venne dalla mia parte e bussò al finestrino. Alle sue spalle un cameraman puntò l'obiettivo verso di me. Per niente in vena di diplomazia, abbassai il vetro e sporgendomi fuori dall'abitacolo gli gridai un inequivocabile invito a lasciare libero il passaggio. La telecamera continuò a riprendere e il giornalista mi travolse con una raffica di domande. Io ribattei con una serie di indicazioni su dove mettere la sua preziosa attrezzatura e su alcuni luoghi dove andare a farsi un giro. Quindi, alzando gli occhi al cielo, ritirai la testa e chiusi il finestrino. Nello stesso momento Quickwater accese il motore e schizzammo via. Mi voltai e vidi il giornalista in mezzo alla strada, microfono in mano e un'espressione sbigottita sulla sua impeccabile faccia. Chiusi gli occhi, sapendo che tanto non avrei dovuto fare conversazione. Ma andava bene così. In testa mi frullavano mille domande. Chi era la terza vittima? Com'era morta? Per rispondere contavo sul Laboratoire. A quando risaliva la morte? Com'era possibile che una parte di quel cadavere fosse finito in una fossa nella proprietà dei Vipers? Immaginai che la soluzione potesse arrivare dai Vipers stessi. La domanda che mi lasciava più perplessa era quella riguardante le parti mancanti del cadavere. Dov'era il resto dello scheletro? Mentre estraevo le ossa dalla terra e le impacchettavo per il trasporto, avevo controllato con molta cura eventuali segni di danneggiamenti provocati da animali. Orsi, lupi, coyote e altri predatori banchettano con grande piacere sui cadaveri umani, non appena ne hanno la possibilità. Lo stesso dicasi per gli animali domestici come cani e gatti. Niente di ciò che avevo visto lasciava supporre che qualche animale saprofago fosse scappato con le parti mancanti. Non c'erano articolazioni o diafisi rosicchiate, nessuna graffiatura da denti o lesione da punta. E non avevo neppure rilevato segni di sega o di coltello che indicassero lo smembramento del cadavere. Ma allora dov'era il resto di quello scheletro? La serata di mercoledì doveva essere una replica quasi identica di quella precedente. Bagno. Microonde. Pat Conroy. Nanna. In realtà, a parte la fase numero uno, non si svolse esattamente così. Avevo appena finito di asciugarmi e mi stavo infilando una camicia da notte verde di flanella, quando squillò il telefono. Birdie mi accompagnò
in soggiorno. «Mon dieu, la tua faccia ormai è più conosciuta della mia.» Non era decisamente quello che avevo bisogno di sentirmi dire. Dopo vent'anni di teatro e di cinema, Isabelle era una delle attrici più amate del Québec. La riconoscevano ovunque. «Sono passata al telegiornale delle sei» tirai a indovinare. «Un'interpretazione da oscar, fremente di rabbia e ardente di passione.» «Ero tremenda?» «I capelli erano a posto.» «Mi hanno identificata?» «Mais oui, docteur Brennan.» Accidenti. Mi lasciai cadere sul divano e Birdie mi si accoccolò in grembo, prevedendo una lunga conversazione. «Ma c'era anche l'audio?» «No. Ma io sono molto brava a leggere le labbra. Dove hai imparato quelle parole?» Sospirai, ricordando alcuni dei miei suggerimenti più coloriti sul luogo migliore dove ficcare telecamere e microfoni. «Comunque non è per questo che ti telefono. Voglio averti a cena da me sabato sera. Ho invitato degli amici e ho pensato che un po' di vita sociale ti avrebbe distratto da quegli orribili biker e dalla storia di Ryan.» Già. La storia di Ryan. «Isabelle, non credo di essere di grande compagnia in questo periodo. Non...» «Tempe, non accetto risposte che non siano un sì. E voglio anche vederti in ghingheri, con tanto di collana di perle e profumo. Sicuramente ti migliorerà l'umore.» «Isabelle, assicurarmi che non stai cercando di farmi conoscere qualche uomo.» Per un attimo ascoltai il silenzio. Poi: «Il tuo lavoro ti rende troppo sospettosa. Te l'ho detto: ho invitato qualcuno dei miei amici. E poi c'è una sorpresa per te». Oh, no. «Che cosa?» «Se te lo dico non sarà più un sorpresa.» «Dimmelo lo stesso.» «Bon. C'è un persona che vorrei farti conoscere. E so che anche questa persona vorrebbe conoscerti. Be', veramente vi siete già conosciuti, ma
non ufficialmente. E ti assicuro che quest'uomo non ha il minimo interesse a un relazione sentimentale. Fidati.» Nel corso degli ultimi due anni, avevo conosciuto molti degli amici di Isabelle, per lo più gente di spettacolo. Alcuni erano noiosi, altri intriganti, molti omosessuali. Ma tutti erano a loro modo unici. Isabelle aveva ragione. Una serata frivola mi avrebbe fatto bene. «D'accordo. Che cosa devo portare?» «Niente. Metti i tacchi alti e arriva per le sette.» Mi tolsi l'asciugamano dalla testa e mi pettinai, poi infilai nel microonde un piatto a base di frutti di mare. Stavo programmando il timer quando il campanello suonò. Ryan, pensai subito, andando all'ingresso. Era tutto un clamoroso errore. E se invece non era così? Avevo davvero voglia di vederlo? Avevo davvero voglia di sapere dov'era stato? Che cosa aveva da dirmi? Sì. Mille volte sì. L'esame di coscienza si rivelò inutile perché il videocitofono mostrò l'immagine di Jean Bertrand, il collega di Ryan, che aspettava dietro il portone. Gli aprii e andai in camera da letto a infilarmi un paio di calzini e una vestaglia. Entrando nell'appartamento, ebbe un attimo di esitazione, come se volesse prima darsi un contegno. Dopo un momento di imbarazzo mi tese la mano. Mentre la stringevo nella mia notai che era gelida. «Ciao, Tempe. Scusami se ti colgo di sorpresa.» Sembrava proprio che in quei giorni cogliermi di sorpresa fosse un passatempo molto gettonato. Annuii. Aveva l'aria stanca, e gli occhi cerchiati da due aloni scuri. Solitamente curato ed elegante, quella sera indossava un paio di jeans sbiaditi e una giacca di renna stazzonata. Riprese a parlare ma lo interruppi proponendogli di passare in soggiorno. Lui si accomodò sul divano, io sulla poltrona di fronte. Bertrand mi studiò, il viso teso da emozioni che non riuscivo a decifrare. In cucina il microonde si occupava del mio riso al curry con carote e frutti di mare. Hai deciso tu di venire qua, pensai, determinata a non rompere il silenzio. Finalmente: «A proposito di Ryan...». «Sì?» «Ecco... Ho sentito i tuoi messaggi ma non ero ancora pronto a parlarne.»
«A parlare di cosa?» «È fuori su cauzione ma è stato accusato di...» «Conosco già le accuse.» «Non prendertela con me. Non sapevo che parte avessi nella vicenda.» «Ma santo cielo, Bertrand. Da quanti anni mi conosci?» «Conoscevo Ryan da molto più tempo!» ribatté. «Ma evidentemente non sono bravo a giudicare le persone.» «Be', allora vuol dire che siamo in due.» Odiavo essere così gelida, ma il fatto che Bertrand non mi avesse chiamata mi aveva ferita. Proprio quando avevo bisogno di informazioni importanti, lui mi aveva allontanata, come si fa con un ubriacone che ti tende la mano in mezzo alla strada. «Guarda, non so proprio cosa dirti. Tutti hanno la bocca cucita. Ho sentito che quando avranno finito, non lo vorranno più nemmeno per distribuire i giornali.» «È così grave?» Mi guardai giocherellare con la frangia di un cuscino. «Ce n'è abbastanza per incastrarlo domani stesso.» «Che cosa hanno trovato?» «Quando hanno perquisito il suo appartamento, hanno trovato anfetamine a sufficienza per friggere i cervelli di un intero paese del terzo mondo. E più di diecimila dollari di parka rubati.» «Parka?» «Ma sì. Quei giacconi sportivi che vanno di moda adesso.» «E poi?» stavo torcendo la frangia con una forza tale che avevo male alle dita. «Testimoni, video, banconote segnate, e una scia di puzza che portava dritta al centro del letamaio.» La voce di Bertrand tradiva l'emozione. Respirò a fondo. «E c'è dell'altro. Un sacco di altra roba. Ma non posso parlarne. Ti prego di capirmi, Tempe. Mi dispiace moltissimo di non averti chiamata. Ma ci ho messo un po' di tempo per accettare tutto questo. Io proprio non volevo crederci, ma...» Si interruppe, temendo la sua stessa voce. «Immagino che in realtà non abbia mai realmente chiuso con il suo passato.» Ai tempi del college, Ryan era entrato in un giro di pasticche e di alcol, tanto che aveva finito per abbandonare gli studi, optando per una vita ai margini. Un giorno un teppista l'aveva aggredito con un coltello e Ryan
aveva rischiato di morire, così il ragazzo ribelle aveva cambiato strada, era diventato poliziotto e aveva fatto carriera fino al grado di tenente. Conoscevo già la storia. Eppure... «Sono venuto a sapere che qualcuno l'ha tradito e per quel che ne sapevo potevi anche essere stata tu. Ma ormai non ha più importanza. Il bastardo è sporco e si merita tutto quello che gli pioverà sulla testa.» Rimanemmo in silenzio a lungo. Mi sentivo addosso lo sguardo di Bertrand ma mi rifiutai di guardarlo o di parlare. Il microonde trillò, poi si spense. Silenzio. Alla fine domandai: «Ma tu credi veramente che l'abbia fatto?». Avevo le guance in fiamme e mi sentivo bruciare il petto. «I giorni scorsi non ho fatto altro che seguire tutte le piste possibili per dimostrare che non c'entrava niente. Sono andato dappertutto, ho chiesto a tutti. Mi bastava trovare un indizio che potesse sollevare un dubbio qualsiasi.» Quantificò le proporzioni del dubbio avvicinando pollice e indice, e notai che la mano gli tremava leggermente. «Ma non ho trovato niente, Tempe.» Si passò una mano sul viso. «Comunque ormai non conta più.» «Invece sì. Questa è la sola cosa che conta adesso.» «All'inizio ho pensato: non è possibile. Non Andrew Ryan. Poi ho letto i capi di imputazione.» Di nuovo respirò a fondo. «Tempe, mi dispiace da morire. Mi dispiace per tutto questo casino, perché io non so più chi sono né in che direzione sta andando il mondo. E non sono nemmeno sicuro che valga più la pena di comprare il biglietto.» Sul viso gli lessi tutto il dolore che provava, e capii esattamente quale fosse il suo stato d'animo. Stava cercando di non disprezzare il suo collega per aver ceduto alla cupidigia, ma nello stesso tempo lo detestava per il profondo e gelido vuoto che il suo tradimento aveva creato. Bertrand mi promise di farsi sentire non appena avesse qualche novità. Quando fu uscito, gettai la cena nella spazzatura e piansi fino ad addormentarmi. 10 Il giovedì mattina mi infilai un tailleur blu e andai alla chiesa di Our Lady of the Angels. Era una brutta giornata di vento, in cielo i nuvoloni si rincorrevano senza sosta lasciando rari e brevissimi spazi al sole e ai suoi
raggi. Parcheggiai e mi feci largo in mezzo alla consueta folla di curiosi, giornalisti e poliziotti. Nessuna traccia di Charbonneau, né di Claudel o di Quickwater. L'esigua processione dei partecipanti al funerale, in prevalenza neri, saliva la gradinata con aria composta. I bianchi arrivavano a coppie o gruppetti, tutti accompagnati da almeno un bambino. Probabilmente i compagni di scuola di Emily e le loro famiglie. Vicino al portone di ingresso una folata di vento fece cadere il cappello di una vecchia signora alla mia destra. La donna si portò una mano alla testa, con l'altra cercò di abbassare la gonna che le svolazzava intorno alle gambe. Balzai in avanti, bloccai il cappello contro il muro della chiesa e lo porsi alla donna. Lei se lo strinse al petto e mi ringraziò con un sorrìso. Il suo viso bruno e raggrinzito mi ricordò le bambole che le donne delle Smoky Mountains confezionano con le mele selvatiche. «Sei un'amica di Emily Anne?» mi chiese con la voce rotta dall'emozione. «Sì, signora.» Non avevo voglia di spiegare chi ero. «È la mia nipotina.» «Sono davvero addolorata per questo grave lutto» dissi. «Ho ventidue nipoti, ma Emily Anne è qualcosa di speciale per me. Quella bambina fa un sacco di cose. Scrive lettere, fa danza classica, nuota, pattina sul ghiaccio. Penso che quella ragazzina è perfino più gamba di sua madre.» «Era davvero una bambina meravigliosa.» «Forse è per questo che il buon Dio ce l'ha portata via.» Osservai la nonna di Emily Anne precedermi dentro la chiesa, ripensando a quelle stesse parole pronunciate molto tempo prima. Un dolore che credevo sopito mi salì nel petto, anticipando ciò che sarebbe arrivato di lì a poco. All'interno della chiesa faceva freddo. Ovunque odore di incenso e di cera per legno. La luce filtrava attraverso le vetrate colorate, creando un morbido gioco di colori pastello che avvolgeva ogni cosa. I banchi ospitavano una folla sparsa di partecipanti. Sgusciai in una delle ultime file, giunsi le mani e cercai di concentrarmi sul presente. Ma un attimo dopo avevo già i palmi sudati. Mentre mi guardavo intorno, l'organista concluse un requiem e subito ne attaccò un altro.
Una minuscola bara bianca aspettava davanti all'altare, coperta di fiori e circondata di candele. Dei palloncini oscillavano legati alle maniglie della bara. Quei colori così vivaci stonavano terribilmente con l'ambiente. Nella prima fila notai due testoline e, tra loro, una persona adulta. La signora Toussaint era chinata in avanti, il fazzoletto premuto contro la bocca. Mentre la osservavo, cominciò a singhiozzare. Subito una manina si levò fino al suo braccio e piano piano cominciò ad accarezzarla. Il dolore sopito che avevo dentro si risvegliò del tutto e mi ritrovai di nuovo alla parrocchia di St. Barnabas con padre Morrison sul pulpito e il mio fratellino in una bara minuscola. I singhiozzi di mia madre erano terribili e io mi ero avvicinata per consolarla. Ma lei non si era accorta delle mie carezze e aveva continuato a stringersi al petto la piccola Harriet piangendo sulla sua testa. Mi ero sentita completamente inutile e avevo continuato a guardare i capelli biondo grano di mia sorella inzupparsi delle lacrime di mia madre. Se a sei anni mi avessero dato una scatola di colori e mi avessero chiesto di disegnare il mio mondo, ne avrei usato uno solo. Il nero. Non avevo potuto fare niente per salvare Kevin, per fermare la leucemia che devastava il suo corpicino. Era stato il regalo più bello, il mio fratellino di Natale, e lo adoravo. Avevo pregato e pregato, ma non ero riuscita a impedire che morisse. Né a far sorridere mia madre. Così avevo cominciato a chiedermi se in me non esistesse qualcosa di malvagio, perché le mie preghiere non venivano ascoltate. Una quarantina di anni dopo il dolore per la morte di Kevin era ancora dentro di me. Le immagini, i suoni e gli odori di una messa funebre non mancavano mai di riaprire la vecchia ferita permettendo all'antico dolore di riversarsi nei miei pensieri coscienti. Spostai lo sguardo dalla famiglia Toussaint alle persone riunite nella chiesa. Charbonneau si era nascosto dietro l'ombra di un confessionale. A parte lui, non riconobbi nessun altro. In quel momento il prete entrò e si fece il segno della croce. Aveva un aspetto giovanile, atletico e nervoso. Ricordava più un giocatore di tennis nell'imminenza di una partita che un prete in procinto di celebrare un servizio funebre. Ci alzammo in piedi. Mentre eseguivo i movimenti rituali, mi sentii avvolgere da una vampata di calore e il cuore prese a battere più in fretta. Cercai di concentrarmi, ma la testa oppose resistenza. La mente cominciò ad affollarsi di immagini che
mi riportarono ai tempi della mia infanzia. Una donna enorme salì sul pulpito, a destra dell'altare. Aveva la pelle color mogano, i capelli raccolti in una treccia fermata sulla testa. Intonò Amazing Grace, con le guance che luccicavano di lacrime. Ricordai di averla vista sulla foto di un giornale. Poi il prete parlò dell'innocenza dell'infanzia. I parenti ricordarono il carattere solare di Emily Anne, il suo amore per la famiglia. Uno zio ricordò la sua passione per le cialde. La maestra la descrisse come un'allieva entusiasta, e lesse il tema con cui aveva vinto un premio. Un compagno recitò una poesia scritta da lui. Altri inni. La comunione. I fedeli che tornavano in fila ai loro posti, qualche singhiozzo soffocato. L'incenso. La benedizione della bara. Il gemito soffocato della madre della piccola. Infine il prete si voltò, chiese alle sorelle e ai compagni di Emily Anne di avvicinarsi, e si sedette sui gradini dell'altare. Seguì un momento di silenzio assoluto, rotto solo da un sommesso mormorio. Uno a uno, i bambini emersero dai banchi e si avvicinarono timidamente all'altare. Il prete non disse niente di particolarmente originale. Emily Anne è in cielo con Dio e con il suo papà. Un giorno anche la mamma e le sorelle andranno da lei, insieme a tutti i presenti. Ma ciò che fece fu decisamente originale. Prima disse ai bambini che Emily Anne era felice e che dovevano festeggiare con lei, poi fece un cenno ai chierichetti, che scomparvero in sagrestia e tornarono con enormi grappoli di palloncini colorati. «Questi palloncini sono pieni di elio» spiegò il prete «ed è per questo che volano. Ora ognuno di voi ne prenderà uno e tutti insieme accompagneremo Emily Anne fuori dalla chiesa. Reciteremo una preghiera di saluto e poi libereremo i palloncini, che saliranno in cielo. Così Emily Anne li vedrà e capirà che noi tutti le vogliamo bene.» Guardò le faccine comprese che aveva davanti. «È una buona idea?» Tutti annuirono. Il prete si alzò, sciolse i cordini, consegnò un pallone a ogni bambino e guidò il piccolo corteo verso il centro della chiesa, mentre l'organista intonava l'Ave Maria di Schubert. I portatori si fecero avanti, sollevarono la bara e avanzarono verso l'uscita della chiesa, seguiti dai presenti che via via uscivano dai banchi. Io mi accodai tra gli ultimi.
La processione seguì la bara sul sagrato, poi tutti formarono un cerchio, i bambini all'interno, gli adulti all'esterno. La signora Toussaint si era fermata dietro le figlie, sostenuta dalla donna che aveva cantato. Io rimasi sui gradini. La coltre di nuvoloni si era dissolta, lasciando il posto a un cielo picchiettato di nuvole bianche. Mentre osservavo i palloncini salire verso l'alto, mi sentii trafiggere da un dolore che non avevo mai provato prima. Aspettai qualche secondo, poi lentamente scesi la gradinata asciugandomi le lacrime dal viso e ripetendomi la promessa che mi ero fatta il giorno della morte di Emily Anne. Avrei trovato quei macellai e li avrei messi dove non avrebbero più potuto massacrare altri bambini. La madre non avrebbe riavuto sua figlia, ma almeno avrei potuto darle una piccola consolazione. Lasciai Emily Anne ai suoi cari e salii in macchina diretta in rue Parthenais. Con quell'umore, non potevo far altro che tuffarmi nel mio lavoro. Al Laboratoire gli investigatori dell'Operazione Carcajou avevamo già dato un nome agli scheletri di Saint-Basile. Félix Martineau, ventisette anni, e Robert Gately, trentanove. Erano membri dei Tarantulas, un MCI ormai sciolto, attivo a Montréal negli anni Settanta e Ottanta. Gately era un membro effettivo, Martineau un aspirante. La sera del 24 agosto 1987 i due avevano lasciato l'appartamento di Gately in rue Hochelaga diretti a un party. La compagna di Gately non conosceva né il nome né l'indirizzo di chi dava la festa. Nessuno li rivide più. Trascorsi la giornata con le ossa recuperate dallo scavo dei due scheletri, suddividendole tra i due indivìdui e stabilendo età, sesso, razza e altezza. La forma del cranio e del bacino confermò che entrambe le vittime erano maschi. Le differenze di età e di altezza resero la loro identificazione molto più semplice rispetto a quella dei gemelli Vaillancourt. Quando ebbi terminato con cranio e mandibole, le passai a Marc Bergeron per l'analisi odontologica. Immaginai che anche il suo compito sarebbe stato abbastanza semplice, perché i denti di entrambe le vittime avevano subito trattamenti odontoiatrici. La vittima più alta aveva una frattura ben saldata della clavicola. Stavo fotografando la lesione quando Bergeron entrò nel mio laboratorio. Lo specialista collaborava con il Laboratoire in veste di odontologo forense, ed era una delle persone più bizzarre che avessi mai incontrato: sulla testa gli ondeggiava una corona di capelli bianchi e crespi simile a un soffione,
e il fisico gracile e longilineo ricordava quel ragno dalle zampe lunghissime che si vede sempre attaccato ai muri. Doveva essere sulla sessantina, ma nessuno in istituto sapeva dire con precisione quanti anni avesse. Bergeron attese che scattassi la foto poi confermò l'identificazione. «Come sei riuscito ad avere la documentazione così velocemente?» «Ho trovato due dentisti molto collaborativi. E, per mia fortuna, i due deceduti erano fanatici dell'igiene orale. Almeno... Gately lo era sicuramente: pessima dentatura, molte otturazioni. Martineau era meno fissato ma gli ho trovato in bocca una sorpresina. Quel biker grosso e cattivo se ne andava in giro con quattro denti da latte. A quell'età è molto raro.» Poi Bergeron cambiò argomento: «Hai già cominciato a lavorare sulla terza vittima?». «Non ancora, ma qui posso finire dopo. Ti va di dargli un'occhiata?» Da tutta la mattina aspettavo il momento di occuparmi della terza vittima e Bergeron mi fornì una buona scusa per farlo. «Ci puoi scommettere.» Restituii la clavicola allo scheletro appoggiato a sinistra del mio tavolo di lavoro. «Chi è chi?» domandai, indicando le ossa. Bergeron prese i due crani e controllò prima le cifre su ciascun osso occipitale e poi quelle sui cartoncini che avevo posato accanto agli scheletri, quindi collocò i due crani di conseguenza. Indicò la vittima con la clavicola rotta e disse: «Monsieur Martineau». Poi quella alla sua destra. «E Mister Gately.» «Era anglofono?» «Immagino di sì, visto che il suo dentista non parla una parola di francese.» «Non ce ne sono molti tra les motards.» «Da quello che ho sentito, nessuno» confermò Bergeron. «Darai la bella notizia a Claudel e Quickwater?» «Li ho già chiamati.» Mi avvicinai a uno scaffale e presi la scatola contenente la terza vittima di Saint-Basile. I resti, erano coperti di terra, perciò sistemai un setaccio nel lavello, ce li misi dentro e li sciacquai con acqua tiepida. Le ossa lunghe si ripulirono rapidamente e le deposi subito su un ripiano ad asciugare. Dopodiché cominciai a spazzolare il fango dalla parte esterna del cranio. Dal peso capii che all'interno vi era un unico blocco di terra. Quando i lineamenti furono puliti, capovolsi il cranio e lo posai sotto il ru-
binetto aperto, quindi andai alla mia scrivania a compilare un modulo di identificazione. Quando tornai al lavello, Bergeron stava già osservando il cranio, ruotandolo prima di fronte e poi lateralmente. Fissò a lungo i lineamenti e infine esclamò: «Santo cielo!». Mi passò il cranio e ripetei i suoi movimenti. E a mia volta esclamai: «Santo cielo!». 11 Un'occhiata e mi resi conto di essermi sbagliata. L'occipite e la fronte lisci, gli zigomi poco pronunciati e i processi mastoidei piccoli indicavano senza alcun dubbio che l'amico numero tre in realtà era un'amica. Presi i calibri e andai al ripiano dove asciugavano le ossa lunghe per eseguire alcune misurazioni. La testa del femore è una struttura sferica che si inserisce nell'acetabolo formando l'articolazione dell'anca. Questa aveva un diametro di soli trentanove millimetri, misura che apparteneva decisamente ai valori femminili. Inoltre si trattava di una vittima giovane. Sulla porzione superiore della testa del femore si distingueva nettamente una stria frastagliata, indicante che la fusione dell'epifisi al momento del decesso era incompleta. Tornai al cranio. Le ossa che lo componevano erano separate da linee ondulate. Lo ruotai per osservarne la base. Proprio davanti al foro occipitale - l'apertura attraverso cui il midollo spinale lascia il cervello - notai una fessura tra lo sfenoide e le ossa occipitali. Mostrai a Bergeron la sutura aperta. «Era una bambina» dissi. «Forse un'adolescente.» L'odontologo fece un commento, che però non sentii. Un'irregolarità sull'osso parietale destro aveva attirato la mia attenzione. Con cautela, lo sfiorai con le dita. Sì, c'era qualcosa di strano. Facendo molta attenzione a non danneggiarlo, spostai il cranio sotto il rubinetto e lo ripulii dalla terra con uno spazzolino dalle setole molto morbide. Bergeron osservò l'imperfezione venire alla luce poco a poco. Ci volle solo qualche istante. Ciò che avevo notato era un foro rotondo, situato leggermente sopra e dietro il meato acustico esterno. Valutai che il diametro fosse di un centimetro. «Ferita da arma da fuoco?» domandò Bergeron.
«Forse. No. Non credo.» Anche se il foro era delle dimensioni giuste per un proiettile di piccolo calibro, non aveva le caratteristiche di un foro d'entrata. Il margine era liscio e smussato, come l'interno di una ciambella. «E allora?» «Non sono sicura. Forse una specie di difetto congenito. Forse un ascesso. Capirò meglio quando avrò svuotato il cranio e potrò dare un'occhiata alla superficie endocraniale. Ho anche bisogno di una radiografia per capire come si presenta l'interno delle ossa. Bergeron guardò l'orologio. «Fammi sapere quando hai finito così posso fare qualche panoramica anche di questa arcata dentale. Non ho visto nessuna otturazione, ma con le radiografie potrei trovare qualcosa. Il canino destro ha uno strano allineamento che potrebbe essermi utile, ma preferirei avere la mandibola inferiore.» «La prossima volta cercherò meglio.» «Non è necessario» rise. Quando Bergeron uscì dal laboratorio, sistemai delicatamente il cranio capovolto su un anello di gomma e regolai il rubinetto in modo che il getto non fosse troppo potente ed entrasse direttamente nel foro occipitale. Dopodiché tornai a fotografare Gately e Martineau per documentare le caratteristiche scheletriche utili all'identificazione. Scattai anche molte fotografie dei fori di proiettile dietro la testa di entrambi. Di tanto in tanto controllavo il cranio della ragazza senza nome, ripulendolo dal fango via via che l'acqua ammorbidiva il blocco di terra all'interno. Poco prima di mezzogiorno, qualcosa si staccò e urtò l'interno del cranio mentre lo tenevo in mano per svuotarlo. Lo posai sull'anello e feci scivolare dentro le dita. L'oggetto sembrava lungo e sottile. Cercai di estrarlo, ma c'era ancora una specie di coda imprigionata nella terra. Trattenendo a stento la curiosità, regolai nuovamente il rubinetto e tornai alla mia relazione su Gately. All'una l'oggetto galleggiava in superficie ma l'estremità era ancora saldamente inglobata nella terra. Impaziente, riempii il lavello di acqua, vi immersi il cranio e scesi alla caffetteria per il pranzo. Al mio ritorno, l'ammollo aveva sciolto anche l'ultima porzione di terra: finalmente avrei potuto estrarre l'oggetto. Trattenendo il fiato, inserii le dita nel cranio e lo afferrai. Era un tubicino di circa dieci centimetri con una valvola a una estremità.
Lo pulii e lo posai su un vassoio. Certa che fosse una cosa importante, ma incerta sulla sua natura, mi lavai le mani e andai a cercare un patologo. Secondo la tabella dei turni di servizio, LaManche era alla riunione del comitato sulla mortalità infantile. Marcel Morin invece doveva essere al suo posto. Quando bussai alla sua porta sollevò lo sguardo. «Hai un minuto?» «Ma certo.» Parlava un francese caldo e musicale, che tradiva l'infanzia trascorsa ad Haiti. Entrai e gli posai davanti il vassoio. «Ah. Un impianto chirurgico.» Sollevò le sopracciglia oltre il bordo degli occhiali. Erano brizzolate, come la zazzera crespa la cui attaccatura andava progressivamente arretrando. «Ci avevo pensato anch'io. Sapresti dirmi qualcosa di più?» Alzò entrambe la mani. «Non molto. Sembrerebbe avere a che fare con uno shunt ventricolare, ma io non sono un neurochirurgo. Forse potresti parlare con Carolyn Russell. Ci ha fornito alcune consulenze neurologiche.» Cercò nella rubrica, scarabocchiò un numero e mi passò il foglietto. «Lavora al Montréal Neurological Institute.» Lo ringraziai, tornai nel mio ufficio e composi il numero dell'MNI. La dottoressa Russell era in riunione e le lasciai un messaggio. Avevo appena riagganciato la cornetta che il telefono squillò. Era Claudel. «Ha parlato con Bergeron?» mi domandò. «È appena andato via.» «Dunque, sembrerebbe che due siano passati dall'elenco delle persone scomparse a quello delle persone decedute.» Aspettai che continuasse. Ma fu inutile. «E allora?» Un'altra delle pause di Claudel, e poi: «Abbiamo iniziato a fare delle telefonate, ma nessuno sa niente. Non c'è da sorprendersi, visto che sono passati dieci anni e che questa gente non è molto stabile, geograficamente parlando. Comunque non ci avrebbero detto un fico secco nemmeno se da quel buco avessimo tirato fuori le loro nonne». «E Rinaldi?» «Rana è fermo sulle sue posizioni. Dice che sapeva quel che sapeva perché l'aveva sentito dire. Secondo la leggenda nota nel giro dei motoclub, Gately e Martineau credevano di andare a un party e invece sono andati dritti al loro funerale.» «Con i calzini ai piedi e senza scarpe?»
«Appunto. Questa gente tende a svestirsi facilmente. Ma Rana non era lì quando è successo.. Probabilmente era la sua serata di beneficenza. Che mi dice del terzo?» «Che il terzo è una terza.» «Una donna?» «Sì. Rana che cosa sa di lei?» «Niente. Ma di certo ci penserebbe meglio se sapesse che potrebbe ricavarne un premio. Lei che cosa mi sa dire?» «Femmina, bianca, adolescente o preadolescente.» «Così giovane?» «Sì.» Sentii il rumore del traffico e immaginai che Claudel mi stesse chiamando da fuori. «Mi procuro un elenco di ragazze e ragazzine scomparse. Di quanto devo andare indietro nel tempo?» «Almeno una decina di anni.» «Perché dieci anni?» «Direi che sicuramente la vittima è morta da almeno due anni, ma con quello che abbiamo recuperato in realtà mi è molto difficile definire meglio quanto indietro si debba risalire. Ho la sensazione che si tratti di una sepoltura secondaria.» «Che cosa significa?» «Credo che prima fosse sepolta altrove, e che poi sia stata dissotterrata e spostata nel luogo in cui l'abbiamo trovata.» «Perché?» «Ancora una delle sue domande pertinenti, investigatore Claudel.» Gli dissi dell'impianto chirurgico. «E che cosa significa?» «Quando lo scopro glielo faccio sapere senz'altro.» Non feci in tempo ad abbassare la cornetta, che il telefono squillò di nuovo. Carolyn Russell poteva incontrarmi alle tre. Guardai l'orologio. Se i numi tutelari dei parcheggi mi avessero assistita, forse potevo farcela. Scrissi il numero del caso sul coperchio di un contenitore di plastica per campioni e vi chiusi dentro l'impianto. Mi fermai da Bergeron per dirgli che poteva prendere il cranio della ragazza e corsi alla mia auto per andare all'appuntamento. Il Royal Victoria Hospital è un articolato complesso di pietra grigia costruito alla fine dell'Ottocento su un'altura nel cuore di Montréal, da cui
domina il campus della McGill University, come un castello medievale su un poggio toscano. Sul lato verso rue Peel si trova il famigerato Allan Memorial Institute, dove alla fine degli anni Cinquanta la CIA conduceva esperimenti sulla tossicodipendenza. Il Neurological Institute sorge a destra del Royal Victoria, oltre rue Université. Gli istituti di ricerca e i dipartimenti della McGill University, l'MNI e il nuovo Brain Tumor Research Institute si trovano a ridosso dello stadio di football: la dimostrazione in mattoni e cemento della scala di valori delle moderne università. La Neuro, nome con cui sono conosciuti l'ospedale e l'istituto di ricerca, è nata negli anni Trenta per volontà di Wilder Penfield, brillante scienziato e neurochirurgo. Il quale però non è stato altrettanto brillante nel prevedere l'evoluzione del traffico cittadino: trovare un parcheggio in zona è un vero incubo. Seguendo il consiglio della dottoressa Russell, pagai dieci dollari per entrare all'interno del Royal Victoria, e cominciai a fare pazientemente il giro del parcheggio. Al terzo passaggio notai una Audi che faceva manovra. Accostai e attesi che la piazzuola si liberasse per infilarmi nello spazio vuoto, evitando così di dovermi sintonizzare sugli 88.5 FM per un aggiornamento sulla disponibilità di parcheggi. Il mio orologio segnava le due e cinquantacinque. Arrivai all'ufficio della dottoressa Russell sudata e ansimante, dopo una corsa lungo avenue des Pins e un trekking all'interno dell'ospedale. Aveva cominciato a piovere, e i capelli bagnati mi si erano incollati al viso. Quando entrai, la dottoressa mi guardò con aria perplessa. Mi presentai e lei si alzò per stringermi la mano. Aveva capelli corti e brizzolati pettinati con la riga da una parte. Il viso era solcato da rughe profonde ma la sua stretta era forte come quella di un uomo. Doveva essere sulla sessantina. «Mi scusi il ritardo, ho avuto qualche problema a trovarla.» «Lo immagino. Orientarsi in questo posto è difficile anche per noi. La prego, si accomodi» mi disse in inglese, indicando una sedia di fronte alla sua scrivania. «Non sapevo che l'istituto fosse così grande» dissi mentre mi sedevo. «Già. L'MNI è attivo in moltissimi settori.» «So che è famoso in tutto il mondo per le ricerche sull'epilessia.» Mi tolsi la giacca. «Sì, qui da noi si praticano più interventi sugli epilettici che in tutto il
resto del mondo. La tecnica chirurgica della resezione corticale è stata messa a punto in questo istituto. Qui da noi i primi studi sulla mappatura della funzione cerebrale sono stati condotti proprio sui pazienti epilettici più di sessant'anni fa. È stato quel lavoro che ha aperto la strada alla mappatura del cervello tramite RMN e PET.» «Conosco la Risonanza Magnetica Nucleare, ma la PET che cos'è?» «PET sta per Positron Emission Tomography, e cioè tomografia a emissione di positroni. Come la risonanza magnetica, è una tecnica utilizzata per produrre immagini relative alla struttura e alla fisiologia del cervello. Il nostro McConnel Brain Imaging Centre è considerato una delle più importanti strutture al mondo in questo campo.» «In quali settori della ricerca siete attivi?» «L'MNI produce un'incredibile quantità di studi d'avanguardia. Lo sviluppo dell'elettroencefalografia, il concetto di epilessia focale e generalizzata, i nuovi metodi di chirurgia stereotassica, i contributi allo studio della biochimica delle prostaglandine nel sistema nervoso, la localizzazione della distrofina del muscolo scheletrico. E potrei continuare ancora a lungo.» Ne ero certa. La dottoressa Russell era molto fiera di lavorare lì. Le manifestai la mia ammirazione con un sorriso, anche se avevo afferrato solo una piccola parte di ciò che mi aveva elencato. Poi si sporse verso di me e rise. «Sono sicura che lei non è venuta qui per una lezione sulla Neuro.» «No, ma è comunque molto affascinante. Vorrei poterla ascoltare a lungo, però so che lei è molto occupata e non vorrei rubarle più tempo dello stretto necessario.» Presi il contenitore dalla mia borsa e glielo passai. Lei lo guardò, sollevò il coperchio e fece scivolare l'impianto sul foglio di carta che aveva davanti. «Questo è un modello vecchio» disse rigirandolo con una matita. «Credo che abbiano smesso di produrlo ormai da anni.» «Che cos'è?» «È un catetere ventricoloperitoneale. In genere viene impiantato per il drenaggio dell'idrocefalo.» «Idrocefalo?» Conoscevo il termine, ma mi sorprese sentirglielo pronunciare. Quali altre tragedie avrei scoperto nella vita di quella ragazzina? «Comunemente si tende a chiamarlo "acqua nel cervello", ma non è una definizione molto precisa, anche se si tratta della traduzione letterale dal greco. Il liquido cerebrospinale, o CSF, viene continuamente prodotto in
certe cavità del cervello chiamate ventricoli. In condizioni di normalità circola attraverso i quattro ventricoli e defluisce sulla superficie del cervello e nel midollo spinale. Alla fine viene assorbito dal flusso sanguigno, e la quantità di fluido mantiene la pressione all'interno dei ventricoli entro limiti accettabili. «Ma se per qualche motivo il drenaggio non funziona, il liquido si accumula provocando una dilatazione dei ventricoli con conseguente pressione sui tessuti circostanti.» «Quindi l'idrocefalo è uno squilibrio tra la quantità di liquido cerebrospinale prodotto e la velocità con cui viene drenato dai ventricoli?» «Esattamente.» «E via via che il CSF si accumula provoca una dilatazione dei ventricoli e un aumento della pressione all'interno del cranio.» «Ha capito tutto. L'idrocefalo è una patologia che può essere acquisita o congenita, che non significa ereditaria. Congenita significa semplicemente che la condizione era già presente alla nascita.» «Ho trovato quel catetere in un cranio dall'aspetto normale. L'idrocefalo non determina un aumento delle dimensioni del cranio?» «Solo nella prima infanzia, e solo se non viene curato. Come saprà meglio di me, nei bambini più grandi e negli adulti le ossa del cranio sono già formate.» «Quali sono le cause?» «Le ragioni che determinano un drenaggio inadeguato del CSF sono molteplici. I neonati prematuri sono ad alto rischio. E quasi tutti i neonati affetti da spina bifida sono anche affetti da idrocefalo.» «La spina bifida implica un difetto del tubo neurale, no?» «Sì. Il problema si verifica durante le prime quattro settimane di gravidanza, spesso prima che la madre si accorga di essere incinta. Il tubo neurale dell'embrione, che darà origine al cervello, al midollo spinale e alla colonna vertebrale, non si forma in modo appropriato e causa diversi livelli di danni permanenti.» «Qual è l'incidenza di questa patologia?» «Decisamente troppo alta. Si stima che la spina bifida colpisca un neonato su mille negli Stati Uniti, e circa uno su settecento in Canada.» «Non ho recuperato nessuna vertebra, quindi non ho modo di sapere se la mia signorina era affetta da spina bifida»» La dottoressa Russell annuì e riprese la sua spiegazione. «A parte la spina bifida, ci sono molte altre cause che provocano l'idrocefalo.» Le enume-
rò sulla punta delle dita. «Può essere provocata da un'emorragia cerebrale. L'infiammazione e le scorie derivanti dalle infezioni cerebrali come la meningite, per esempio, possono ostruire i canali di drenaggio. I tumori possono provocare compressione e dilatazione del tessuto cerebrale e determinare un cattivo drenaggio. Lo stesso dicasi per certi tipi di cisti. Infine l'idrocefalo può essere una tara familiare.» «Cioè può essere ereditato?» «Sì. Anche se è un evento raro.» «E da dove salta fuori questo catetere?» «L'idrocefalo è una patologia che non è possibile curare né prevenire. Ormai da quarant'anni il trattamento più efficace consiste nell'inserimento chirurgico di un catetere sottocutaneo. Quello che ha portato lei è un po' superato, ma direi che è abbastanza tipico. «Quasi tutti i cateteri sono dei tubicini flessibili posti all'interno dei ventricoli per deviare il flusso del CSF. Ognuno di questi tubicini è dotato di una valvola che controlla l'entità del drenaggio e impedisce il riflusso. I primi modelli - chiamati ventricoloatriali - deviavano il CSF in eccesso in una vena del collo e poi nell'atrio destro del cuore. Alcuni sono ancora in uso ma comportano problemi quali infezioni o, più raramente, insufficienza cardiaca dovuta all'ostruzione dei vasi sanguigni polmonari a causa di particelle di coaguli ematici che si staccano dall'estremità del catetere. Oggi il drenaggio avviene per lo più utilizzando un catetere ventricoloperitoneale, cioè una derivazione che mette in comunicazione il ventricolo cerebrale e la cavità peritoneale.» Indicò l'oggetto che avevo trovato dentro il cranio. «Questo è un catetere ventricoloperitoneale. Nei pazienti viventi è possibile sentire la parte inferiore del tubicino sotto la pelle che copre le costole.» Attesi che proseguisse. «La cavità peritoneale è ampia e in genere può ricevere qualsiasi quantità di fluido drenato dal catetere. Un altro vantaggio è che le contrazioni ritmiche degli organi intestinali spostano l'estremità del catetere impedendo così al catetere stesso di ostruirsi o di isolarsi nel tessuto cicatriziale.» «Quando vengono impiantati i cateteri?» «Appena l'idrocefalo viene diagnosticato. Nell'addome di un neonato possono trovare posto ben novanta centimetri di tubicini. E man mano che il bambino cresce, i cateteri si distendono per adeguarsi alla maggiore lunghezza del busto.»
«Nel cranio ho trovato un piccolo foro, vicino alla sutura parietotemporale.» «Si tratta di un foro praticato con un trapano chirurgico durante un intervento per inserire la parte superiore del catetere nel cervello. In genere questi fori vengono praticati dietro l'attaccatura dei capelli, o dietro l'orecchio, oppure sulla nuca.» Lo sguardo della dottoressa Russell si spostò sull'orologio di metallo posato sulla scrivania, poi tornò su di me. Ero curiosa di sapere quali problemi implicasse l'idrocefalo, ma sapevo che il tempo della donna era limitato. Avrei dovuto scoprirlo da me. Mi infilai la giacca intanto che la dottoressa rimetteva a posto il catetere facendolo scivolare dal foglio di carta al suo contenitore. Ci alzammo contemporaneamente e la ringraziai per l'aiuto che mi aveva dato. «Ha già un'idea su chi sia la sua signorina?» mi domandò. «Non ancora.» «Vuole che le mandi del materiale da leggere sull'idrocefalo? Esistono problematiche associate a questa patologia che forse potrebbe trovare utili.» «Sì, mi farebbe un grande favore. Grazie.» 12 Lasciata la Neuro andai direttamente al quartier generale dell'Operazione Carcajou per partecipare alla seconda riunione di aggiornamento. Quando arrivai, l'incontro era già iniziato e silenziosamente mi sedetti su una delle sedie più defilate. Avevo ancora la testa piena delle informazioni ricevute da Carolyn Russell. La nostra conversazione aveva risposto a molte domande ma altrettante ne aveva sollevate. In che modo l'idrocefalo aveva colpito la mia ragazza senza nome? Era di salute cagionevole? Disabile? Ritardata? Com'era possibile che un'adolescente in quelle condizioni fosse finita sepolta presso la sede di un motoclub? Ne faceva parte o era un'altra vittima innocente, come Emily Anne Toussaint? Roy stava utilizzando dei lucidi. In quel momento lo schermo era occupato da un elenco. Mi sforzai di trovare un po' di concentrazione. «I motoclub irregolari sono caratterizzati da una serie di elementi comuni. Quasi tutti sono organizzati secondo il modello mutuato dagli Hells Angels. Torneremo dopo sulla struttura e la analizzeremo in dettaglio.»
Indicò il secondo punto. «I criteri per diventare membri del motoclub sono molto selettivi, e agli aspiranti - o striker - viene richiesto di dimostrarsi degni di indossarne le insegne.» Passò al punto successivo. «Le insegne - o patch - del motoclub sono il bene più prezioso per un biker, ma non tutti possono esibirle. Esistono, per esempio, individui utili alla banda che hanno il permesso di interagire con il motoclub o di fiancheggiarlo, senza tuttavia farne effettivamente parte. «L'obiettivo principale di un MCI è l'attività criminosa. Ogni motoclub ha regole che ammettono la violenza se questa ha lo scopo di promuovere gli interessi del motoclub stesso e dei suoi membri. La raccolta di informazioni da parte di una sorta di servizio segreto è costante e comprende il monitoraggio delle altre bande e delle forze di polizia.» Roy puntò la penna sull'ultimo punto dell'elenco. «La sede, che spesso è massicciamente fortificata e arredata con sfarzo, è il luogo dove i vari membri si incontrano e partecipano alle attività del motoclub.» Pensai alla sede dei Vipers a Saint-Basile e mi chiesi quali attività prevedessero la partecipazione di una ragazzina di sedici anni affetta da idrocefalo. Roy tolse il lucido e lo sostituì con uno a tre voci. La prima recitava: STRUTTURA POLITICA, DI UN MCI: NAZIONALE. Roy spiegò l'ordine gerarchico, partendo dal fondo. «La cellula costitutiva della struttura dell'MCI è il chapter, o sezione. Un MCI indipendente diviene parte di un'organizzazione più grande, per esempio gli Hells Angels, solo dopo che una delibera è stata approvata dalla struttura nazionale tramite votazione. L'approvazione è il risultato di una lunga procedura di cui parleremo più tardi, se ci resterà tempo. «Ogni sezione opera a livello locale in una zona geografica specifica e conserva un certo grado di autonomia, naturalmente nel rispetto delle regole stabilite dall'organizzazione. Queste, riassunte in semplici regolamenti o in una costituzione, definiscono i diritti e i doveri dei membri della banda.» Roy posò un nuovo lucido sul proiettore. Questa volta il titolo era: STRUTTURA POLITICA DI UN MCI: SEZIONE. «Ogni sezione ha il proprio organismo di controllo, o esecutivo, eletto dai membri. In genere è formato da presidente, vicepresidente, segretario-
tesoriere e questore. Queste sono le persone cui spetta il compito di mantenere l'ordine interno e la pace al di fuori del gruppo.» «Allora immagino che quest'anno nessuno dei nostri cretini locali riceverà la candidatura per il Nobel.» Kuricek. Roy soffocò la risata generale con un gesto della mano. «Esiste anche la figura del cosiddetto capitano di strada, che si occupa di organizzare i raduni. Poi ci sono i membri di basso rango, che hanno diritto di parola su questioni che riguardano il gruppo, anche se poi la decisione finale spetta al presidente. Alcuni dei motoclub più grandi hanno anche un funzionario addetto alla sicurezza, cui spetta il compito di aggiornare di continuo i dati su bande rivali, giornalisti, avvocati, giudici, funzionari pubblici, testimoni e, ovviamente, sui sottoscritti.» Roy indicò se stesso e tutti i presenti. «Che genere di informazioni?» «Personali, finanziarie, notizie sui familiari, su fidanzate e fidanzati, numeri di telefono, date di nascita, indirizzi, descrizioni di veicoli, targhe, luoghi di lavoro, abitudini... pensate a qualcosa che vi riguardi e questa gente lo sa. Il loro archivio fotografico fa sfigurare la National Portrait Gallery. Se c'è una vittima predestinata, il suo fascicolo riporterà anche dei suggerimenti sui luoghi migliori per farla fuori.» «Merde!» «'Esti!» Roy spostò la penna sugli ultimi riquadri del diagramma. «Alla base della gerarchia della sezione ci sono gli aspiranti, i saltuari e le donne.» Roy indicò sul lucido il riquadro intitolato MEMBRI IN PROVA. «Gli aspiranti, o striker, devono essere nominati da un membro effettivo. Saranno loro a sbrigare i lavori peggiori in sede e durante i raduni. Non hanno diritto di voto e non possono partecipare alla messa.» «Messa?» Quel giorno l'orecchino di Coda di cavallo era un piccolo teschio d'argento. «L'incontro settimanale obbligatorio di ogni sezione.» «Quanto tempo ci vuole per diventare membri effettivi?» «Per gli aspiranti in genere dai sei mesi a un anno. È facile riconoscerli perché nelle loro insegne c'è solo la striscia a mezzaluna inferiore.» «Che riporta il nome del luogo dove ha sede la sezione.» Coda di cavallo. «C'est ça. Sui manuali che vi ho dato troverete molte pagine sulle inse-
gne dei motoclub. Alcune sono dei veri e proprii capolavori.» La penna di Roy andò sul riquadro ASSOCIATI. «Anche i saltuari devono essere presentati da un membro effettivo. Alcuni diventeranno aspiranti, altri no. I saltuari svolgono i lavori più umili e tutti insieme formano una struttura che fiancheggia il motoclub all'interno della comunità. Sono esclusi da tutte le attività del motoclub.» Dall'ultimo riquadro sulla destra, intitolato ASSOCIATE, dipendevano altri due riquadri. «Le donne occupano il livello più basso della gerarchia e si dividono in due grandi categorie. Le cosiddette ole ladies sono le compagne ufficiali, sposate legalmente o conviventi, e sono off-limits per tutti i membri della banda, salvo esplicito invito. Le altre, chiamate mamas o anche sheep, sono un'altra storia. Come posso dire?» Sollevò spalle e sopracciglia. «Diciamo che fanno amicizia molto facilmente.» «Delle signore generose.» Kuricek. «Molto generose. Le mamas sono selvaggina non protetta accessibile a tutti i membri dotati di insegne. Ma anche se le ole ladies godono sicuramente di un certo grado di protezione, gli MCI sono gruppi dominati dal maschilismo e dallo sciovinismo dove le donne vengono comprate, vendute e scambiate come oggetti.» «Mi sembra di capire che se un biker sente parlare di una donna liberata pensa subito a quella a cui ha tolto le manette dopo essersela spupazzata per bene. Forse.» Kuricek. «Più o meno è così. Le donne sono decisamente usate e abusate.» Roy. «In che modo vengono usate?» «A parte il sesso, c'è anche quella che potremmo definire divisione dei proventi. Spingono le donne a lavorare nei locali notturni o alla prostituzione, oppure le introducono al piccolo spaccio, e poi si fanno dare il pizzo. Una prostituta di Halifax sosteneva che doveva girare il quaranta per cento dei suoi incassi al tipo degli Hells Angels che la proteggeva.» «E come reclutano queste donne?» Cominciavo a sentire una stretta allo stomaco. «Nel solito modo. Sono donne che bazzicano i bar, che vanno in giro facendo l'autostop, che scappano.» «Ehi dolcezza, vuoi cavalcare la mia Harley?» Kuricek. Mi vennero in mente il cranio e il tubicino. «La cosa sorprendente è che le scorte non si esauriscono mai» proseguì Roy. «Ma non dovete fraintendere. Se è vero che molte di queste donne
sono vittime costrette ad agire contro la loro volontà, un buon numero abbraccia questo stile di vita con grande piacere. "Uomini veri", droga, alcol, armi, sesso a volontà. È una vita brada che loro sono ben felici di vivere. «Le donne si rendono utili anche in campi diversi da quello sessuale o economico. Spesso sono proprio le signore che trasportano le armi o la droga, e sono molto brave a squagliarsela in caso di retate. Alcune diventano spie molto efficienti e, per esempio, si fanno assumere nelle agenzie governative, alla società dei telefoni, all'anagrafe, ovunque sia possibile accedere a informazioni utili. Certe ole ladies hanno il porto d'armi o proprietà intestate a loro nome, essenzialmente per due ragioni: o perché il maritino è interdetto, o per proteggere il patrimonio comune da eventuali confische.» Roy guardò l'orologio. «Per oggi direi che possiamo interrompere qui. Dato che alcuni colleghi della CUM si sono da poco uniti al nostro gruppo, pensavo che forse è il caso di fare ancora una riunione.» CUM. Communauté Urbaine de Montréal. Polizia municipale. Mi chiesi come mai Claudel non fosse presente all'incontro. «Appena possibile, vi comunicherò la data.» Mentre guidavo verso il Laboratoire, ripensai alla ragazzina di SaintBasile-le-Grand e alle spiegazioni di Carolyn Russell. Era una vittima della follia dei biker? C'era qualcosa che non quadrava e cercai di nuovo di mettere insieme tutto ciò che sapevo di lei. Era morta negli anni dell'adolescenza, non più bambina ma non ancora donna. Le sue ossa non erano in grado di rivelare niente di come era morta ma avevano aperto una finestra su come aveva vissuto. L'idrocefalo avrebbe potuto aiutarmi a identificarla. Il foro dai bordi smussati suggeriva che il catetere le era stato inserito già da un po' di tempo. Chissà se lo odiava? Chissà se la notte, a letto, si tastava il tubicino sotto la pelle. Aveva altri problemi fisici? I suoi compagni la deridevano? Era una studentessa modello? Aveva abbandonato gli studi? Avremmo mai trovato la documentazione medica di una ragazza scomparsa che ci aiutasse a identificare quel cranio? Diversamente dal solito, non avevo nessuna sensazione su chi potesse essere quella ragazza senza nome. La Ragazza. Così avevo cominciato a chiamarla nella mia mente. La Ragazza nella buca dei Vipers. E perché era sepolta presso la sede dei biker? La sua morte era legata al-
l'omicidio di Gately e Martineau? O era semplicemente un'altra vittima della tradizionale violenza dei biker contro le donne? La sua vita era stata interrotta in modo premeditato, o si era semplicemente trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato, come la piccola Emily Anne Toussaint? Intrappolata nel traffico dell'ora di punta, mi sentii assalire dal dolore e dalla rabbia. Dolore per quella vita vissuta solo in parte, rabbia per l'indifferenza di quelli che se l'erano presa. E poi pensai ad Andy Ryan, ai suoi occhi azzurri come il cielo e vibranti di intensità. Perfino il suo odore mi rendeva felice. Come avevo potuto non accorgermi del suo lato oscuro, della sua doppia vita? Ma era proprio tutto vero? Il cervello mi diceva sì. Bertrand giurava di sì. Allora perché il mio cuore rifiutava di crederci? I pensieri continuavano a rimbalzarmi in testa formando giri viziosi. Il collo mi faceva male e sentivo il sangue pulsare dietro l'occhio sinistro. Svoltai in rue Parthenais e parcheggiai, poi mi appoggiai al sedile e chiusi gli occhi. Avevo bisogno di un attimo di tregua. Avrei riferito a Claudel le informazioni ottenute e poi basta con le ossa e con Ryan, almeno per tutto il fine settimana. Mi sarei limitata a dare un'occhiata al manuale di Roy, avrei letto, fatto compere e sarei andata alla festa di Isabelle. Poi, da lunedì, avrei ripreso a onorare le mie promesse, perché nel frattempo se n'era aggiunta una seconda: cercare gli assassini di Emily Anne e dare un nome alla Ragazza nella buca dei Vipers. 13 Arrivai a casa dopo le sette. In istituto avevo messo via le ossa e il catetere e avevo chiamato Claudel per comunicargli le informazioni avute da Carolyn Russell. Avevamo deciso che io avrei controllato tutti i casi di scheletri incompleti degli ultimi dieci anni mentre lui avrebbe proseguito con l'elenco delle ragazze scomparse. Se nessuno dei due avesse ottenuto risultati entrò il lunedì sera, avremmo inserito il caso nel database del CPIC, il Canadian Police Information Centre e, in caso di responso negativo, in quello dell'NCIC, o National Crime Information Center. Aveva tutta l'aria di un piano operativo. Dopo un cambio d'abiti e una breve conversazione con Birdie, andai a piedi fino alla McKay, salii all'ultimo piano di un edificio, e mi allenai per un'ora nella mia palestra. Uscita di lì, comprai un pollo arrosto e una scorta
di frutta e verdura. A casa riscaldai dei fagiolini nel microonde e misi in freezer metà del pollo per il giorno dopo, quindi tirai fuori la mia bottiglia di salsa per grigliate Maurice's Piggy Park. Montréal è una vera babele di cucine diverse, e ospita molti dei migliori ristoranti al mondo. Cinesi, tedeschi, thailandesi, messicani, libanesi... non c'è arte culinaria che non sia rappresentata. Che si voglia gustare un pranzo rapido e leggero o una elaborata cena da buongustai, questa è la città ideale. Unico neo: la scarsa attenzione per le grigliate. In Québec la salsa per grigliate è una densa brodaglia marrone, inodore e insapore come il monossido di carbonio. Un consumatore zelante forse riuscirebbe a scovare la varietà texana a base di pomodoro, ma il connubio di aceto e senape della salsa tipica della Carolina orientale è una delicatezza che mi vedo costretta a importare. Gli amici di Montréal guardano sempre la mia dorata pozione con aria scettica. Poi la assaggiano e ne rimangono conquistati. Versai la salsa Maurice's in una ciotola, portai il cibo in soggiorno e cenai di fronte al televisore. Alle nove il fine settimana stava ancora andando bene. Fino a quel punto le decisioni più impegnative implicavano la mia fedeltà sportiva. I Cubs stavano vincendo sui Braves ma io optai per i playoff dell'NBA e tifai per gli Hornets finché non vinsero per 102 a 87 sui Knicks. Birdie era lacerato tra l'odore del pollo, che lo attirava, e il mio ampio gesticolare, che lo respingeva. Trascorse la serata dall'altra parte della stanza, muso sulle zampe, occhi che accennavano ad aprirsi ogni volta che esultavo. Alle undici mi seguì a letto, dove compì due giri completi prima di accoccolarsi dietro le mie ginocchia. Pochi minuti e ci addormentammo entrambi. Mi svegliò il trillo del campanello. O forse dovrei dire il cinguettio. Quando qualcuno suona alla porta, il sistema cinguetta come un passero con il singhiozzo. Dalle tendine filtrava una luce grigio chiaro, le cifre verdine della radiosveglia dicevano otto e un quarto. Birdie non era più accoccolato tra le mie gambe. Gettai via le coperte e mi infilai una vestaglia. Andai in ingresso e fui salutata da un enorme occhio verde. Involontariamente mi portai le mani al petto e mi allontanai di un passo dal videocitofono.
L'occhio scomparve, sostituito dalla faccia di mio nipote. Fece uno sberleffo alla telecamera oscillando la testa e allargandosi la bocca con le dita. Gli aprii. Birdie mi si strusciò contro le gambe e mi guardò con i suoi occhi gialli. «Non chiederlo a me, Birdie.» Kit si presentò con una sacca di tela, un sacchetto di carta e due zainetti sulle spalle. Indossava un cappello di lana multicolore che aveva tutta l'aria di essere all'ultimo grido in Guatemala. «Zia T» mi salutò con voce stentorea. E riconobbi subito la spiccata cadenza texana. «Ssh!» gli intimai portandomi l'indice alle labbra. «È sabato mattina.» Spalancai la porta per farlo entrare. Mentre mi passava accanto, gli sentii addosso odore di legna bruciata, di muffa e di qualcosa che ricordava i funghi o il muschio. Lasciò cadere la sacca e gli zainetti e mi gettò le braccia al collo. Poi mi lasciò andare e si tolse il cappello, scoprendo una chioma stile Edward Mani di Forbice. «Splendida acconciatura, zietta.» «Non mi sembra che tu abbia niente da invidiarmi» risposi ravviandomi i capelli. Mi porse il sacchetto di carta. «Un pensierino dalle acque del Vermont.» Vide Birdie. «Ehi, Bird. Come sta il mio amichetto?» Il gatto schizzò via e si nascose in camera da letto. Sbirciai fuori dalla porta. «Howard è con te?» «No. È partito subito per il suo amato sud.» «Eh?» Richiusi la porta, leggermente in apprensione. «Sissignora. Doveva assolutamente tornare a giocare con il petrolio. Io invece ho pensato di fermarmi qui per un po', se per te non ci sono problemi.» «Figurati. È un'idea magnifica.» Un po'? Lanciai un'occhiata al mucchio di bagagli e ripensai all'ultima visita di sua madre. Era venuta da me per partecipare a un seminario di cinque giorni e si era fermata per settimane. «Adesso però sono stanco morto. Ti va bene se faccio una doccia e un riposino? Abbiamo levato le tende quando il sole non aveva neanche pensato di alzarsi sull'orizzonte.» «Dormi pure quanto vuoi. Ma poi mi racconti tutto del tuo viaggiò.» E
forse sarebbe più indicato un bel bagno, pensai. Gli portai degli asciugamani e lo accompagnai nella stanza degli ospiti. Poi mi infilai un paio di jeans e una T-shirt e scesi dal dépanneur sotto casa per comprare la Gazette. Quando rientrai trovai un cumulo di asciugamani bagnati sparsi sul pavimento del bagno e la porta della camera chiusa. Andai in cucina e annusai il pacchetto portato da Kit. Pesce, nessun dubbio. Lo avvolsi in un sacchetto di plastica supplementare e lo chiusi nel freezer in attesa di ulteriori istruzioni. Mi preparai un caffè e aprii il giornale sul tavolo della cucina. E fu a quel punto che il fine settimana andò a farsi benedire. IL CONTO DEI MORTI SALE A 120 ALTRI DUE CADAVERI DI BIKER IDENTIFICATI L'articolo era in terza pagina. Mi aspettavo un certo interesse da parte dei giornali; la foto invece non me l'aspettavo. Era un'immagine sgranata, scattata da una grande distanza e con un teleobiettivo molto potente; il soggetto però era riconoscibile. Ero inginocchiata su una fossa con un cranio in mano. Come di consueto, la didascalia mi identificava come "... un'antropolpga forense americana che lavora per il Laboratoire de Médecine Légale et de Sciences Judiciaires". La fotografia era così sfocata che non riuscii a capire se era stata scattata alla sede dei Vipers o se era una vecchia immagine di repertorio relativa a un altro sito. Il mio aspetto e la mia attrezzatura variano poco da uno scavo a un altro, e non c'era niente nell'inquadratura che suggerisse un luogo specifico. L'articolo era accompagnato da altre tre fotografie: due riguardavano le vittime, una raffigurava l'entrata della sede dei Vipers. Il testo descrìveva l'esumazione di Gately e Martineau e ricordava le circostanze della loro scomparsa; seguiva un breve riassunto della guerra fra bande. La chiusura era dedicata all'aggiornamento del conto dei cadaveri. Fin lì i fatti di cui parlava l'articolo potevano essere stati divulgati dai canali ufficiali. Il seguito però mi lasciò sconcertata. Vi si raccontava della confusione creata dal ritrovamento della terza vittima, e descriveva con dovizia di particolari i resti incompleti recuperati nell'altro scavo. La conclusione affermava che, al momento, l'identità della
giovane era circondata dal più fitto mistero. Come diavolo avevano saputo quelle cose? Cominciai ad agitarmi. In generale non amo attirare l'attenzione dei mezzi di informazione, e mi sento particolarmente a disagio quando questa attenzione rischia di compromettere un caso. Chi aveva divulgato le informazioni? Inspirai a fondo e mi alzai per riscaldare il caffè. D'accordo. Qualcuno faceva trapelare notizie riservate. E allora? Allora non avrebbe dovuto succedere, ecco tutto. Regolai il timer rapido del microonde. Vero. Ma avrebbe davvero compromesso il caso? Riflettei sulla possibilità. Il timer trillò e io recuperai la tazza. No. Anzi, l'articolo avrebbe potuto anche provocare un'utile soffiata. Forse qualcuno avrebbe fatto un nome. Sicché niente danni. Ma la divulgazione di quelle notizie era stata una decisione ufficiale? Probabilmente no, altrimenti l'avrei saputo. In ogni caso qualcuno aveva chiamato la redazione del giornale. E questo era un comportamento inaccettabile. Chi sapeva delle ossa della ragazza? Quickwater? Claudel? Un membro dell'Anagrafica? Un tecnico di laboratorio? La dottoressa Russell? Non lo scoprirai certo nel fine settimana. Anche questo era vero. Decisi di rimandare la questione al lunedì successivo e mi concentrai su lettura e shopping. E sulla festa di Isabelle. Kit. Oh. Andai al telefono e composi il numero di Isabelle. «Bonjour.» «Isabelle, sono io.» «Tempe! Non credere di potermi fare un bidone.» In sottofondo sentii La sagra della primavera e capii che era ai fornelli. Isabelle cucina sempre ascoltando Stravinskij. «Veramente, è successo che...» «L'unica scusa convincente per questa sera è un incidente aereo mortale a bordo di un sette-quattro-sette. Mortale per te, naturalmente.» «Questa mattina è arrivato all'improvviso mio nipote, e dice che vuole fermarsi qui da me per un po'.»
«Oui?» «Non mi sembra il caso di lasciarlo solo in casa proprio il primo giorno.» «Ma certo che no. Infatti questa sera porterai anche il tuo nipotino.» «Ha diciannove anni.» «Extraordinaire. Una volta credo di aver avuto anch'io quell'età. Mi sembra che fosse negli anni Sessanta. Ho dovuto vivere tutti gli anni Sessanta per poter arrivare agli anni Settanta. Mi ricordo che prendevo l'LSD e portavo dei vestiti orrendi. Vi aspetto tutti e due alle sette e mezzo.» Salutai e riagganciai la cornetta. Bene. A quel punto dovevo convincere mio nipote a trascorrere il sabato sera mangiando lumache e costolette di agnello con una manica di dinosauri. Ma di lì a poco avrei scoperto che in realtà per lui non era affatto un problema. Kit riemerse verso le tre e un quarto, stropicciato e famelico. Spolverò i rimasugli del pollo e mi chiese se poteva fare il bucato. Quando gli parlai della cena, accettò subito. Pensai che avrei dovuto chiamare mia sorella. Ricordando l'adolescenza di mia figlia Katy, la giovialità di Kit mi sorprese. Anche se era vero che mio nipote a Montréal era un pesce fuor d'acqua e probabilmente non sapeva dove andare. Trascorsi le ore successive terminando una lettera di referenze per uno studente, pulendo la mia camera da letto e spiegando a mio nipote tutti i segreti di tessuti e detersivi. Verso le sei schizzai a Le Faubourg per una bottiglia di vino e un mazzolino di fiori. Isabelle vive sull'Île-des-Sœurs, un fazzoletto di terra al centro del San Lorenzo, posseduto per lunghissimo tempo da un ordine di suore e solo di recente colonizzato da una comunità di yuppie. Su quest'isola a "uso promiscuo" i condomini, le villette a schiera, le ville private e i grattacieli sono armoniosamente integrati con campi da tennis, vie per lo shopping, piste ciclabili, spazi verdi curatissimi. L'isola è collegata alla riva sud dal Pont Champlain e a Montréal da due ponti più piccoli. L'appartamento di Isabelle si trova all'ultimo piano di un complesso formato da due palazzi, situato sull'estrema punta settentrionale. Dopo il fallimento del suo terzo matrimonio, la mia amica aveva firmato le carte per il divorzio e venduto la casa con tutto quel che c'era dentro, dopodiché si era trasferita sull'Île-des-Sœurs per dimenticare il passato. Gli unici ri-
cordi che aveva portato con sé erano i preziosi CD e gli album delle fotografie. Per adeguare la casa al suo nuovo atteggiamento mentale, perfettamente riassunto dall'espressione "chi se ne frega", Isabelle aveva scelto lo stile safari. L'arredatore aveva mescolato fibre naturali che sembravano approvate dal WWF, con finte pelli di tigre e di leopardo. Le pareti erano decorate con stampe di animali, e una collezione di oggetti intagliati africani occupava il ripiano di vetro di un tavolino dalle gambe simili a zampe di elefante. In camera, il letto king-size era sormontato da un baldacchino circondato da una nuvola di tulle. Kit era ammaliato. O almeno così sembrava. Mentre Isabelle ci faceva fare il giro dell'appartamento, lui la tempestava di domande sull'origine di tutto ciò che vedeva. Non ero certa della sincerità del suo interesse, ma il suo savoir-faire mi fece molto piacere. Io invece ero affascinata dalla vista. Mancava ancora un ospite, così dopo un drink e qualche chiacchiera con gli altri invitati, andai sulla terrazza a godermi il panorama. Cadeva una pioggia leggera, e oltre il fiume il profilo della città scintillava di ogni possibile colore. La montagna svettava oltre gli edifici di Centre-Ville, massiccia e nera. Riuscivo a vedere le luci della croce che si ergeva sulle sue pendici. Udii il campanello suonare, poi Isabelle che chiamava il mio nome. Un ultimo sguardo e rientrai. L'invitato che attendevamo era appena arrivato e stava consegnando il soprabito a Isabelle. Quando lo vidi in faccia rimasi a bocca spalancata. 14 «Vous!» Non era uno dei miei saluti più affabili. Fulminai Isabelle con uno sguardo della serie "dopo facciamo i conti", che lei abilmente lo ignorò. «Oui. Sorpresa, Tempe?» mi domandò raggiante la mia amica. «Ti avevo detto che vi eravate già conosciuti, anche se in via ufficiosa. Adesso però passo alle presentazioni ufficiali.» Il giornalista mi tese la mano con aria amichevole. Questa volta non aveva microfoni, e nemmeno l'espressione sconcertata che ricordavo di avergli visto in faccia durante il nostro incontro fuori dalla sede dei Vipers. «Tempe, ti presento Lyle Crease. Sono sicura che lo avrai già visto in te-
levisione.» Solo a quel punto riuscii a collocare la sua faccia. Era un cronista investigativo della CTV. «Lyle, non c'è bisogno che ti dica il nome della dottoressa Brennan. Noi la chiamiamo Tempe. All'inglese, con la finale allungata. Da queste parti molti hanno qualche problema a pronunciarlo correttamente.» Quando permisi a Crease di stringermi la mano, lui si avvicinò e mi baciò prima sulla guancia destra e poi sulla sinistra, com'era tradizione in Québec. Io indietreggiai e borbottai una frase che speravo interpretasse come qualcosa di freddo ma educato. Isabelle presentò Crease agli altri ospiti; il giornalista strinse la mano agli uomini e baciò le signore. Poi la padrona di casa sollevò una coppa di champagne in direzione di Kit. «Credo che in onore di questo giovane e avvenente texano, questa sera tutti noi dovremmo rispolverare un po' di inglese.» Gli ospiti risposero al brindisi e annuirono. Kit parve enormemente sollevato. «Posso aiutarti con la cena?» domandai gelida a Isabelle, ansiosa di scambiare due parole con lei. «No, no. È tutto pronto. Vi prego, prendete posto a tavola. Accanto a ogni piatto troverete dei cartellini con il vostro nome.» Merda. Isabelle si ritirò in cucina e noi ci avvicinammo al tavolo per trovare il nostro posto. Come temevo, il mio era accanto a quello di Crease. Kit era alla mia destra. Eravamo sette in tutto. Un vecchio attore sedeva accanto a mio nipote. L'avevo conosciuto in un'altra occasione ma avevo dimenticato il suo nome e al momento delle presentazioni non ero riuscita a captarlo. Gli altri due ospiti non li conoscevo, ma presto avrei scoperto che erano una coppia: la moglie si occupava di antiquariato e lui era un produttore cinematografico. Facemmo un po' di conversazione mentre Isabelle portava i piatti dalla cucina. L'attore aveva appena terminato di recitare il ruolo di Polonio in una produzione francese di Amleto, al Théâtre du Rideau Vert. Crease ci raccontò della sua ultima fatica, un servizio su un hacker di sedici anni che era riuscito a violare una rete dell'esercito statunitense e poi aveva telefonato alla polizia canadese chiedendo di essere arrestato. «Cercava solo un po' di notorietà» commentò l'attore.
«Avrebbe potuto provare con il football» replicò mio nipote. Non male, Kit «E voi che cosa avete fatto di recente?» domandò Isabelle alla coppia, facendo il giro del tavolo per versare il vino. Quando arrivò a Kit si fermò e mi guardò. Io annuii. Ma sì. In fondo in Québec era legale. E poi guidavo io. Kit accettò con entusiasmo. Il produttore si chiamava Claude-Henri Brault. Era appena rientrato da tre mesi di riprese in Irlanda. Marie-Claire, la moglie, era proprietaria di un negozio a Vieux-Montréal e aveva trascorso quegli stessi tre mesi comprando mobili antichi in Provenza. Ci raccontò del regno di Arles, della dinastia degli Angioini, e di almeno una decina di re Luigi, spiegandoci come ognuno di loro avesse innovato radicalmente il settore del mobile. Tra un boccone di vitello e l'altro, cercai di inquadrare Lyle Crease. Capigliatura e denti impeccabili, le rughe profonde che ricordavo. L'unica imperfezione che notai era un velo di forfora sul colletto. Lyle era un buon ascoltatore. Non distoglieva mai lo sguardo da MarieClaire e non dimenticava di annuire di tanto in tanto, come se in quel momento l'estetica di tessuti e armadietti fosse per lui la cosa più importante al mondo. Quando la donna si interruppe per riprendere fiato, Isabelle si fece avanti e prese a dirigere la conversazione con l'abilità e la prontezza di un controllore di volo. Ammirai la sua bravura ma non apprezzai affatto la direzione che scelse. «Tempe sta lavorando su queste terribili bande di assassini. Perché non ci racconti qualcosa di loro?» «I biker?» domandò Claude-Henri. «Sì.» L'avrei voluta incenerire, ma decisi che non era educato. Avrei anche voluto strangolarla, ma forse lo era ancora meno. «Lei c'entra qualcosa con il ritrovamento di cui ho letto oggi sul giornale?» «Sì. Ma come Isabelle sa» le rivolsi un sorriso raggelante «io non posso...» «Zia, che cosa stai facendo con i biker?» L'interesse di Kit era andato scemando durante la lezione di antiquariato, ma il nuovo argomento lo rinvigorì. «Tu sai che lavoro per l'Istituto di medicina legale del Québec, vero?» Kit annuì. «La settimana scorsa il direttore mi ha chiesto di occuparmi di alcuni ca-
si di omicidio.» Non parlai del mio ruolo nell'Operazione Carcajou. «Quanti?» «Alcuni.» «Più dei Bee Gees?» insisté. «Cinque.» «Cinque persone freddate in una settimana?» Kit spalancò gli occhi per la sorpresa. Gli altri si erano fatti silenziosi. «Due di loro sono stati uccisi nel 1987. Questa settimana abbiamo recuperato i corpi.» «Sì, l'ho letto sul giornale» intervenne Claude-Henri indicando con la forchetta nella mia direzione. «C'est ça. Dunque era lei la donna della fotografia.» «Gli altri chi erano?» incalzò Kit. Adesso avrei voluto strangolare mio nipote. «Due erano vittime di una bomba. Una era una bambina uccisa accidentalmente durante una sparatoria tra due auto in corsa.» «Mon dieu» esclamò Marie-Claire, dimenticando la promessa di parlare inglese. Mi versai un bicchiere di Perrier, maledicendomi per non averla ascoltata e non poter quindi cambiare discorso con una domanda sulle impiallacciature del Rinascimento. «Tra questi casi è compreso anche quello della giovane donna di cui sono state rinvenute le ossa a Saint-Basile-le-Grand?» La domanda di Crease mi fece voltare. Il suo tono suonava distaccato, ma negli occhi aveva una luce che prima mi era sfuggita. Se sperava che lo aiutassi a scrivere un articolo, si sbagliava di grosso. «No.» «L'avete identificata?» Si versò del vino. «No.» «Di chi state parlando?» si intromise Kit. «Vicino alla fossa dei due biker abbiamo rinvenuto anche altre ossa. Appartengono a una ragazza ma ancora non sappiamo chi sia né se sia collegata ai Vipers. Il suo interramento potrebbe essere avvenuto prima che acquistassero la proprietà.» «Lei ne è convinta?» Crease. «Non lo so.» «Chi sono i Vipers?» Mi stavo ricredendo sul savoir-faire di mio nipote.
«Sono un motoclub di copertura per gli Hells Angels.» «Sul serio?» «Sul serio. Insieme ai loro fratelli in armi sono responsabili di quasi centoventi morti negli ultimi cinque anni; questo solamente per quanto riguarda la provincia del Québec. E Dio sa quante altre persone sono scomparse.» «I biker si stanno ammazzando a vicenda?» «Sì. Combattono per il controllo del traffico di droga.» «Ma allora perché non li lasciate fare?» domandò l'attore. «In un certo senso la si potrebbe considerare come una forma di autoregolamentazione dei sociopatici.» «Perché può capitare che persone innocenti come Emily Anne Toussaint, una bambina di appena nove anni, rimangano prese in mezzo al loro fuoco incrociato.» «E forse anche quest'altra ragazza?» «Forse, Kit.» «Crede che riuscirà a dimostrarlo?» Crease. «Non lo so. Claude-Henri, perché non ci parla del suo film?» Mentre il produttore parlava, Crease prese la bottiglia di chardonnay e fece per riempirmi il bicchiere. Scossi la testa ma lui ignorò il mio gesto. Quando posai la mano sul bordo, rise, la spostò e versò il vino. Furiosa, ritrassi la mano e mi riappoggiai allo schienale. Non tollero le persone che insistono con chi non vuole bere. La voce di mio nipote mi riportò alla conversazione. Isabelle aveva rivolto i riflettori su Kit. «Sì, ci sono andato con mio padre. Lui si occupa di petrolio. Abbiamo fatto tutta la strada dal Texas al Vermont su un vecchio Winnebago. Un'idea di papà. Voleva fare una cosa che ci facesse sentire uniti. «Slamo arrivati fin qui per portare il gatto alla zia, poi abbiamo proseguito verso est fino al Vermont, a Derby Line. Papà ha pianificato questo viaggio nei minimi dettagli, neanche fosse lo sbarco in Normandia. È per questo che ricordo tutti in nomi. «Comunque sia, abbiamo piantato la tenda vicino a una cittadina chiamata Westmore e pescato i salmoni nel Willoughby River. Là i salmoni non hanno sbocchi al mare e in primavera è un vero sballo. Immagino che i veri pescatori lo considerino una specie di paradiso. «Poi ci siamo spostati a sud, fino a Manchester, e abbiamo pescato nel Battenkill, e mio padre ha comprato ogni genere di porcata da Orvis. Can-
ne da lancio, canne da mosca, e un sacco di altra roba. Poi è ripartito per il Texas con il 'Bago e io sono venuto qui da mia zia, l'acchiappa-biker.» Alzò il bicchiere per brindare a me e tutti lo imitarono. «È una strana coincidenza» continuò Kit «perché mio padre circa un anno fa mi ha regalato una moto.» Ero sconfortata, ma non sorpresa. Howard era il secondo marito di mia sorella, un petroliere texano con più soldi che buon senso, e un difetto alla doppia elica del DNA che lo rendeva incapace di monogamia. Avevano divorziato quando Kit aveva sei anni. L'approccio di Howard alla paternità consisteva nel coprire il figlio di soldi e giocattoli. A tre anni erano pony e macchinine motorizzate. A diciotto era passato alle barche a vela, poi era stata la volta di una Porche. «Che tipo di moto?» domandò Isabelle. «Una Harley-Davidson. Papà impazzisce per le Harley. La mia è una Road King Classic mentre lui ha una Ultra Classic Electra Glide. Sono due Evo. Ma il suo vero amore è la vecchia testa a nocca. È stata prodotta solo tra il 1936 e il 1947.» «Che cosa significa "testa a nocca"?» domandò Isabelle. «Sono soprannomi che derivano dalla forma della testata dei cilindri. Il motore Evolution V2 è stato prodotto per la prima volta negli anni Ottanta. In orìgine veniva chiamato testa a blocco, ma questo nomignolo non ha mai attaccato ed è stato ribattezzato Evo. Molte delle moto che vedete oggi sono delle testa a pala, prodotte tra il 1966 e il 1984. Dal '48 al '65 c'erano le testa a tegame, e prima ancora le testa piatta, uscite nel '29. Guardando la forma della testata dei cilindri è molto facile identificare il periodo di produzione.» L'interesse di Kit per i biker non era niente in confronto al suo ardore nel descrivere le moto. «Sapevate che tutte le Harley moderne discendono dalla Silent Grey Fellow, la prima moto uscita dalla catena di montaggio di Milwaukee a cavallo del secolo? La Silent Grey Fellow aveva un motore monocilindrico di quattrocento centimetri cubici capace di sviluppare una potenza di tre cavalli. Niente punteria idraulica. Niente avviamento elettrico. Niente motore bicilindrico a V.» Kit scosse la testa incredulo. «Un moderno motore a doppio albero a camme arriva fino a 1450 centimetri cubici. Perfino una vecchia FLH 1200 del '71 ha un rapporto di compressione di ottanta virgola cinque a uno. Be', ne è passata di acqua sotto i ponti; eppure tutte le Harley che vedete in giro non esisterebbero
senza quella vecchia Silent Grey Fellow.» «Ma non ci sono altre case che producono moto?» domandò l'attore. «Sissignore» rispose Kit con aria sdegnata. «Ci sono la Yamaha, la Suzuki, la Kawasaki e la Honda. Ma quelli sono solo mezzi di trasporto. Gli inglesi facevano delle buone moto - Norton, Triumph, BSA - ma oramai sono tutte fuori produzione. Le BMW erano macchine notevoli, ma per i miei gusti non esiste moto migliore della Harley.» «Sono molto costose?» Claude-Henri. Kit alzò le spalle. «La Harley non fa roba scadente. Non sono moto economiche, queste.» Ascoltai mio nipote parlare. Aveva per quelle moto la stessa reverenza e la stessa competenza che Marie-Claire aveva per i mobili. Forse aveva scelto un buon momento per la sua visita. Avrebbe potuto aiutarmi a capire meglio lo strano mondo in cui stavo entrando. Quando ci congedammo e ci infilammo in ascensore era quasi mezzanotte. Io ero pronta per il letto, Kit invece non si era ancora esaurito e continuava a blaterare di motori e a commentare la serata e gli altri invitati. Forse era il vino, forse la gioventù. Invidiai la sua resistenza. Aveva smesso di piovere, ma si era alzato un forte vento che scuoteva alberi e piante e faceva mulinare le foglie secche sulla strada. Quando Kit si offrì di andare a recuperare l'automobile, valutai con cura le sue condizioni, poi gli consegnai le chiavi e attesi nell'atrio. In meno di un minuto arrivò, parcheggiò, uscì e si sedette nel sedile del passeggero. Quando mi sistemai davanti al volante, mi gettò una busta marrone in grembo. «Cos'è?» «Una busta.» «Lo vedo. Da dove salta fuori?» «Era sul parabrezza, infilata sotto un tergicristallo. Devi avere un ammiratore.» Osservai la busta. Era una di quelle imbottite all'interno, chiusa su un lato con i punti di una cucitrice e sull'altro da una striscia adesiva. Il mio nome era scritto con un grosso pennarello rosso. Osservai le lettere mentre un campanello d'allarme mi suonava nel cervello. Chi sapeva che sarei andata da Isabelle quella sera? Chi aveva riconosciuto la mia auto? Ci avevano seguiti? Spiati? Tastai con circospezione il contenuto. Era qualcosa di duro. «Allora?»
La voce di Kit mi fece sussultare. Quando mi voltai, il suo viso era sinistramente pallido, i lineamenti scuri e distorti dalla debole luce giallastra che filtrava dall'atrio del palazzo. «Porca miseria, Kit! Potrebbe essere...» Mi fermai, non sapendo dove mi avrebbe portata quel pensiero. «Potrebbe essere cosa?» Kit si sporse verso di me, appoggiando il braccio sul mio sedile. «Dai, aprilo» mi sollecitò. «Scommetto che è uno scherzo. Uno dei tuoi amici poliziotti probabilmente ha visto la macchina e ti ha lasciato qualcosa per spaventarti.» Era possibile. Nell'ambiente chiunque avrebbe potuto controllare la targa. E in passato ero già stata oggetto di scherzi. «Coraggio!» Kit accese la luce di cortesia. «Forse è un biglietto per l'Expo.» Sollevai la strisciolina adesiva e frugai dentro la busta. Le mia dita si chiusero intorno a un barattolino di vetro. Estrassi il contenitore e lo portai alla luce. Di colpo sentii un saporaccio di bile salirmi in gola e le contrazioni ritmiche sotto la lingua mi dissero che stavo per vomitare. Cercai affannosamente la maniglia della portiera, la voce di Kit era un suono lontano. «Porca merda, zia! Ma chi hai fatto incazzare?» 15 Il bulbo oculare era immerso in un liquido torbido in cui fluttuavano filamenti di carne e poggiava sul fondo del barattolo con la pupilla rivolta verso l'alto. L'organo era pallido e parzialmente collassato; su un lato sembrava esserci una lacerazione dai margini frastagliati. Il contenitore, anche se perfettamente sigillato, emanava un odore familiare. Attaccato sotto il fondo, notai un foglietto ripiegato. Kit lo prese e lo lesse. «On te surveille.» Era strano sentir pronunciare il francese con la cadenza texana. «Che cosa significa, zia?» «Ti stiamo tenendo d'occhio.» Con mano tremante riposi barattolo e biglietto nella busta e l'appoggiai sul sedile posteriore. L'odore di formaldeide era ripugnante. Sapevo che era solo dentro la mia testa ma non fu sufficiente a calmare la mia nausea. Sforzandomi di controllare il riflesso del vomito, mi strofinai i palmi delle mani sui pantaloni per asciugare il sudore e avviai l'automobile.
«Credi che sia uno scherzo?» mi domandò Kit mentre svoltavamo in boulevard Hedes-Sœurs. «Non lo so.» Avevo la voce alterata. Mio nipote capì al volo il mio stato d'animo e decise di non insistere sull'argomento. Arrivata a casa, avvolsi il barattolo in diversi sacchetti di plastica e lo chiusi in un contenitore con il coperchio ermetico, dopodiché lo riposi in frigorifero, non senza aver svuotato il cassetto delle verdure. Kit mi osservò in silenzio, sul viso un'espressione perplessa. «Lunedì lo porto in istituto» spiegai. «È un occhio vero?» «Sì.» «Credi che sia uno scherzo?» domandò di nuovo. «Probabilmente.» Non ne ero per niente convinta, ma non volevo metterlo in allarme. «Ho la sensazione che non dovrei chiedertelo. Ma se è uno scherzo, perché lo porti in istituto?» «Perché così gli allegri buontemponi si prendono una bella paura» dissi cercando di sembrare distaccata, poi lo abbracciai. «Io vado a nanna. Domani troveremo qualcosa di divertente da fare.» «L'idea mi piace. Posso ascoltare un po' di musica?» «Fai pure.» Quando Kit chiuse la porta della sua stanza, controllai minuziosamente le serrature di porte e finestre e mi accertai che il sistema d'allarme funzionasse. Resistetti alla tentazione di controllare se c'era qualcuno sotto il letto o nell'armadio. Kit aveva scelto i Black Sabbath, che continuò ad ascoltare fino alle due e mezzo. Il rumore sordo dell'heavy metal mi tenne sveglia a lungo, a chiedermi se quella potesse chiamarsi musica, a chiedermi quante telefonate dei vicini avrei ricevuto, a chiedermi chi potesse sentirsi così forte da mandarmi un messaggio sottolineato con un occhio umano. Nonostante una doccia di venti minuti, l'odore di formaldeide mi aveva impregnato il cervello. Mi addormentai con un leggero senso di nausea e con le increspature della pelle d'oca su tutto il corpo. Il mattino seguente dormii fino a tardi. Quando mi alzai, ancora stanca per le ripetute sveglie notturne, i miei pensieri si concentrarono subito sul
cassetto per la verdura. Chi? Perché? C'entrava con il mio lavoro? C'era uno psicopatico nei dintorni? Chi mi stava sorvegliando? Misi da parte le domande, rimandandole al lunedì. Nel frattempo, sarei stata estremamente allerta. Controllai lo spray anti aggressione e i tasti del telefono per le chiamate abbreviate, assicurandomi che fossero impostati sul numero del soccorso d'emergenza. Fuori c'era un sole splendido e alle dieci del mattino il termometro sulla veranda indicava ben cinque gradi. Avremmo avuto una torrida giornata canadese. Conoscendo i ritmi diurni dei giovani, sapevo che Kit non sarebbe apparso prima di mezzogiorno, così mi infilai una tuta e andai in palestra. Camminai con più circospezione del solito, i muscoli tesi, gli occhi vigili su chiunque mi sembrasse sospetto. Dopo l'allenamento, comprai bagel e cream cheese, e qualche leccornia con cui accompagnare il formaggio. Mi fermai anche al chiosco dei fiori e seguendo l'impulso del momento comprai un vasetto di erba gatta con cui speravo di riconquistare l'affetto di Birdie, che mi aveva completamente dimenticata da quando era arrivato Kit. Ma né i bagel né l'erba gatta furono molto efficaci. Mio nipote si fece vedere solo verso l'una e un quarto, languidamente seguito dal mio gatto. «Non pronunciare nessuna frase che includa le parole "pigliar pesci" o "alba"» mi intimò Kit. «Accettabile.» «Cream cheese, salmone affumicato, limone, cipolle e capperi?» «Cancella capperi e premi invio.» Birdie adocchiò l'erba gatta ma finse di ignorarla. Mentre Kit mangiava, illustrai il programma della giornata. «Il tempo è splendido: proporrei delle attività all'aperto.» «Accetto.» «Possiamo andare al Jardin Botanique, gironzolare un po' sulla montagna, o posso recuperare un paio di biciclette per andare fino al Vieux-Port o pedalare lungo il Canal de Lachine.» «I pattini sono permessi?» «I pattini?» «Ma sì. Non possiamo noleggiare dei rollerblade e poi usarli su questa pista ciclabile?» «Credo di sì.» Povera me. «Scommetto che sei una scheggia sui pattini. Harry è molto brava.»
«Ma perché la chiami Harry?» Me lo chiedevo da sempre. Kit chiamava sua madre per nome da quando aveva cominciato a parlare. «Non lo so. Forse perché non è proprio un tipo stile La casa nella prateria.» «Ma lo fai da quando avevi due anni.» «All'epoca lei non era molto amante della vita domestica. Ma non tentare di cambiare argomento. Sei pronta per i rollerblade?» «Certo.» «Zia, sei davvero mitica. Lasciami fare una doccia e poi andiamo.» Fu una giornata quasi perfetta. All'inizio ero un po' traballante sulle gambe, ma trovai rapidamente il ritmo giusto e cominciai a scivolare sull'asfalto come se fossi nata con i rollerblade ai piedi. Mi tornarono in mente le mie pattinate sui marciapiedi, quand'ero piccola, e le molte volte in cui avevo rischiato di scontrarmi con i pedoni o di finire sotto un'automobile. La bella giornata aveva stanato frotte di pattinatori che dividevano la pista con ciclisti e ragazzi con lo skateboard. Pur essendo la prima volta, imparai a sufficienza per evitare le collisioni. L'unica cosa che proprio non riuscivo a fare era la frenata. Ai miei tempi i pattini con il freno non esistevano. Alla fine del pomeriggio procedevo fluida come Black Magie I in Coppa America. O come la merda attraverso un'anatra, come aveva detto Kit. Per non sbagliare, avevo comunque preteso di indossare imbottiture degne di un giocatore di football americano. Restituimmo i roller verso le cinque e andammo da Chez Singapore per una cena asiatica. All'uscita noleggiammo La pantera rosa e Uno sparo nel buio e passammo la serata a ridere di fronte all'ispettore Clouseau che dimostrava come sia possibile essere parte del problema e della soluzione nello stesso tempo. I film erano stati una scelta di Kit. Aveva detto che l'ambientazione francese lo avrebbe aiutato a calarsi nell'atmosfera di Montréal. Solo quando finalmente riuscii a sdraiarmi a letto, stanca, dolorante e gonfia di pop-corn, mi ricordai dell'occhio. E cominciai a girarmi e rigirarmi cercando di non pensare all'oggetto in frigorifero né alla persona che l'aveva messo sulla mia automobile. Il lunedì la temperatura era ancora mite ma il cielo di Montréal era co-
perto da una bassa coltre di nuvoloni scuri che creava una leggera foschia e costringeva gli automobilisti ad accendere i fari. Arrivata in istituto, portai il barattolo di vetro al laboratorio di biologia e compilai un modulo di richiesta senza specificare l'origine del campione. Il tecnico non fece domande e assegnò al reperto un numero fuori registro, poi disse che mi avrebbe chiamata per comunicarmi i risultati. Avevo un vago sospetto circa le origini dell'occhio, che tuttavia speravo infondato. Le implicazioni sarebbero state davvero spaventose. Conservai la ricevuta in attesa di ritirare le analisi. La consueta riunione del mattino fu relativamente breve. Il proprietario di una concessionaria Volvo era stato trovato morto nel suo garage con un foglio attaccato al petto che spiegava le ragioni del suicidio. Un aeroplano da turismo era precipitato a Saint-Hubert. Una donna era stata spinta sulle rotaie della metropolitana alla stazione di Vendòme. Per me non c'era niente. Andai nel mio ufficio e mi sedetti al terminale. Utilizzando anthropologie, squelette, inconnue, femelle e partiel come parole chiave, interrogai il database per trovare tutti i casi di scheletri femminili parziali non identificati. Il computer mi fornì ventisei numeri LML - cioè del Laboratoire de Médecine Légale - relativi agli ultimi dieci anni. Poi chiesi di individuare nell'elenco ottenuto i casi in cui il cranio era mancante. Questa seconda ricerca, però, poteva riguardare solo i resti analizzati dopo il mio arrivo al Laboratoire. Prima, infatti, l'inventario delle ossa non veniva effettuato e lo scheletro veniva semplicemente indicato come completo o parziale. Evidenziai tutti i casi registrati come parziali. Tra questi ultimi cercai quelli dove mancava il femore. Niente. I dati inseriti si limitavano alle voci cranio presente o cranio assente, resti postcraniali presenti o assenti, e le ossa specifiche non erano state registrate. Avrei dovuto richiedere i fascicoli. Senza perdere tempo, scesi in archivio. Una ragazza snella in jeans neri e camicia sportiva sedeva alla scrivania centrale. Era quasi monocromatica: capelli ossigenati, pelle bianca, occhi color sciacquatura di piatti. Le uniche note di colore erano una striatura rosso ciliegia alle tempie e una spruzzata di lentiggini sul naso. Non riuscii a contare la quantità di borchie e di anelli che aveva alle orecchie. Non l'avevo mai vista prima. «Bonjour. Je m'appelle Tempe Brennan.» Le tesi la mano. Lei annuì ma non mi offrì né la mano né il suo nome. «Sei nuova?»
«Ho un contratto a tempo determinato.» «Credo che non ci siamo mai incontrate.» «Sono Jocelyn Dion.» Fece spallucce. Va bene. Abbassai la mano. «Jocelyn, questo è un elenco di fascicoli che devo controllare.» Le passai il tabulato e indicai i numeri evidenziati. Quando allungò la mano, sotto il tessuto trasparente della manica notai il profilo dei muscoli. Jocelyn passava il suo tempo in palestra. «Mi rendo conto che sono molti, ma temo di doverti chiedere di procurarmeli tutti al più presto.» «Non c'è problema.» «Mi serve il fascicolo completo, non solo la relazione antropologica.» Un'ombra le attraversò il viso, un cambiamento appena percettibile e subito ricomposto. «Dove glieli devo mandare?» domandò, abbassando lo sguardo sull'elenco. Le diedi il numero del mio ufficio e me andai. Ma in corridoio mi ricordai di non averle detto delle fotografie. Quando mi voltai, vidi Jocelyn completamente immersa nel mio tabulato. Muoveva le labbra mentre scorreva le pagine aiutandosi con un dito dall'unghia laccata. Sembrava stesse leggendo ogni singola parola. Quando la avvisai delle foto, sussultò. «Sono già all'opera» disse, scendendo dallo sgabello. Davvero uno strano tipo, pensai, tornando di sopra per occuparmi della relazione su Gately e Martineau. Jocelyn mi portò i fascicoli un'ora dopo e io trascorsi le tre successive a esaminarli. Alla fine avevo trovato sei casi di donne senza testa. A due mancavano anche le ossa della coscia, mentre nessuna era abbastanza giovane per essere la ragazza nella buca. Tra i casi del periodo precedente al mio arrivo a Montréal, individuai sette scheletri femminili non identificati e senza cranio. Due erano dell'età giusta, ma la descrizione dei resti era sommaria, e senza inventario dello scheletro non c'era modo di sapere quali ossa fossero state recuperate. Nessun fascicolo conteneva fotografie. Tornai al computer e controllai le conclusioni del caso più vecchio. Le ossa erano state trattenute per cinque anni, rifotografate e restituite per essere sepolte o distrutte. Il fascicolo però non conteneva alcuna immagine. Strano.
Cercai il sito del ritrovamento. Le ossa provenivano da Salluit, un paese all'estremità della Penisola Ungava, quasi duemila chilometri a nord di Montréal. Inserii il numero LML del caso più recente e chiesi il sito del ritrovamento. Sainte-Julie. Il cuore si mise a battere più veloce. Era a meno di quindici chilometri da Saint-Basile. Tornai al fascicolo. Ancora una volta niente foto. Controllai le conclusioni e non trovai nulla che segnalasse la chiusura del caso. Possibile che fossi stata così fortunata? Quando avevo cominciato a collaborare con il Laboratoire, avevo ereditato una serie di casi non ancora chiusi di cui però ero riuscita a occuparmi solo in parte, accumulando il materiale relativo in una specie di ripostiglio accanto all'ufficio. Aprii la porta della stanzetta e trascinai una sedia fino alla parete di fronte, tappezzata, come le altre, di scatoloni di cartone impilati in ordine cronologico e secondo il numero LML. Mi avvicinai alla sezione che aveva i codici più vecchi. Il caso che cercavo era sul ripiano più alto di uno scaffale. Salii sulla sedia, presi lo scatolone e lo posai a terra. Quindi lo spostai su un piano di lavoro, lo spolverai e sollevai il coperchio. Sulla sinistra trovai un mucchietto di vertebre e di costole, a destra un fascio di ossa lunghe. Anche se quasi tutte le superfici erano state rosicchiate dagli animali, era evidente che i femori c'erano entrambi. Accidenti. Estrassi tutte le ossa dallo scatolone e controllai eventuali disomogeneità, ma non sembrava mancare nulla. Delusa, rimisi le ossa a posto e lo scatolone sullo scaffale. Mi lavai le mani e tornai in ufficio, decisa ad aggiornare la seduta per concedermi un sandwich al tonno e una porzione di budino. Ruotai la sedia e appoggiai i piedi sul davanzale della finestra, quindi sollevai il coperchio del vasetto di budino. Una collega d'università, a Charlotte, aveva sulla porta un adesivo che diceva: NELLA VITA NON SI SA MAI. COMINCIA SEMPRE DAL DESSERT. Mi era sempre sembrato un buon consiglio. Con lo sguardo al fiume, mi gustai il budino lasciando i pensieri liberi di vagare. In questo modo la mente lavora per associazione di idee e spesso
ottengo risultati migliori di quando costringo i pensieri entro gli schemi della razionalità. Il cranio e i femori che avevamo ritrovato a Saint-Basile non erano le parti mancanti di un cadavere rinvenuto in precedenza. Questo era chiaro. Almeno, non quelle di un corpo rinvenuto in Québec. Va bene. A meno che Claudel non fosse riuscito a trovare un nome, il passo successivo sarebbe stato il CPIC. Facile. Se poi non avesse funzionato, si poteva passare all'NCIC. Niente lasciava supporre che la ragazza fosse del posto. Avrebbe potuto arrivare dagli Stati Uniti. La terapista di Ally McBeal aveva ragione. Dovevo trovarmi una colonna sonora per i momenti di stress. Gli Eagles? Running down the road tryng' to loosen my load Got a world of trouble on my mind... Forse. O magari Simon & Garfunkel. Slow down, you move too fast. Got to make the morning last. Mentre mi accingevo ad addentare il sandwich, mi venne in mente un'immagine del macabro regalo ricevuto il sabato notte. Di nuovo mi sentii gelare il sangue. Lascia perdere. Potrebbe essere l'occhio di un maiale. La tua fotografia era su tutti giornali, e chiunque avrebbe potuto mettere il pacchetto sulla macchina, tanto per farsi una risata. Se c'è qualcuno che ti tiene d'occhio è sicuramente un cretino che non ha altro da fare nella vita. I am a woman watch me... Non è proprio il caso. It's a beautiful day in the neighborhood... Santo cielo...
Programma: finire le relazioni su Gately e Martineau, concludere quella sui gemelli Vaillancourt, parlare a Claudel. A seconda di quanto dice lui, CPIC, e poi NCIC. La vita è sotto controllo. Questo è il mio lavoro. Non c'è ragione per farsi prendere dallo stress. Non avevo fatto in tempo a digerire quel pensiero che il telefono squillò, distruggendo la calma tanto faticosamente ritrovata. 16 Una voce femminile disse: «C'è una chiamata da parte del signor Crease. Attenda, prego». Prima che potessi rifiutarla lui era già in linea. «Spero che non le dispiaccia se la chiamo in ufficio.» Mi dispiaceva, ma abbozzai. «Volevo solo dirle che sabato è stata davvero una piacevole serata e speravo di poterla rivedere.» Originale. «È libera, una di queste sere, per una cena?» «Mi spiace, ma questo non è un buon periodo. Sono davvero molto impegnata.» Non avrei cenato con Lyle Crease neanche fossi stata libera fino alla fine del millennio. Era troppo curioso per i miei gusti. «Possiamo fare la prossima settimana, allora?» «No, non credo.» «Capisco. Almeno potrei avere suo nipote come premio di consolazione?» «Eh?» «Kit. È un ragazzo fantastico.» Fantastico? «Ho un amico che ha un concessionario di motociclette. E ha qualcosa come cinquemila diversi accessori per Harley-Davidson. Credo che Kit lo troverebbe interessante.» L'ultima cosa al mondo che potevo desiderare era che il mio giovane e impressionabile nipote finisse sotto le grinfie di un viscido uomo dei media. Anche se dovevo ammettere che in effetti Kit avrebbe gradito molto. «Anch'io ne sono certa.» «Bene, allora è contenta se lo chiamo?»
«Certo.» Contenta come durante un attacco di dissenteria. Cinque minuti dopo la fine della telefonata, Quickwater comparve sulla porta. Mi lanciò il consueto sguardo gelido e posò una cartellina sulla scrivania. La canzone per i momenti difficili era più che mai necessaria. «Che cos'è?» «Sono dei moduli.» «Devo compilarli?» Quickwater era già pronto a ignorare la mia domanda quando il suo collega ci raggiunse. «Deduco che non ha trovato nulla.» «Nulla di nulla» replicò Claudel. «Neanche l'ombra di un indizio. Neppure qualcosa che si avvicinasse.» Guardò la cartellina sulla mia scrivania. «Se compila quel documento posso entrare nel CPIC mentre Martin si occupa dell'NCIC. Bergeron sta lavorando ai contrassegni dentali.» Il CPIC e l'NCIC dell'FBI sono database elettronici su base nazionale che consentono di accedere in tempi rapidissimi ai dati cruciali per le indagini. Anche se avevo usato il sistema canadese diverse volte, conoscevo molto meglio quello americano. L'NCIC è nato nel 1967 come banca dati relativa a furti di auto, targhe, armi e immobili, persone ricercate e latitanti. Nel corso degli anni sono state aggiunte molte informazioni e dai dieci database originali si è passati a diciassette, tra i quali l'indice di identificazione interstatale, i file protetti dei Servizi Segreti statunitensi, il database dei ricercati stranieri, quello dei terroristi e delle bande violente, infine quello delle persone scomparse e non identificate. Il computer dell'NCIC si trova a Clarksburg, in Virginia occidentale. A esso sono collegati i terminali dei comandi di polizia e degli uffici dello sceriffo presenti negli Stati Uniti, in Canada, a Puerto Rico e nelle Isole Vergini statunitensi. Le richieste possono essere inoltrate solo da persone autorizzate, in genere membri della polizia o persone coinvolte a vario titolo nelle indagini. Nel primo anno di attività, l'NCIC aveva elaborato due milioni di richieste. Oggi ne evade altrettante ogni giorno. Il database delle persone scomparse, creato nel 1975, viene utilizzato per individuare persone che non sono "ricercate" ma di cui si sono perse le tracce, per esempio i ragazzi fuggiti da casa i disabili o le persone in pericolo. Ma anche le vittime dei rapimenti e i dispersi in seguito a disastri naturali. Un genitore, o il tutore, o il medico della persona scomparsa, o an-
che il dentista o l'oculista, devono compilare un modulo e consegnarlo al comando di polizia per l'inserimento dei dati. Il database delle persone non identificate è stato creato nel 1983 per effettuare dei controlli incrociati tra i dati sui resti rinvenuti e quelli relativi alle persone scomparse. È possibile entrare nel sistema per la ricerca di cadaveri non identificati o parti di essi, di vittime di catastrofi naturali ma anche di persone viventi. Nella cartellina che Quickwater aveva posato sulla scrivania c'era appunto il modulo per la ricerca in questo database. «Se compila il modulo NCIC possiamo lavorare su entrambe le reti. Sono gli stessi dati, cambia solo il metodo di codifica. Quanto ci metterà?» «Mi dia un'ora di tempo.» Con solo tre ossa da codificare non avevo molto da scrivere. Appena uscirono dal mio ufficio mi misi subito al lavoro, controllando di tanto in tanto i codici sulla guida per l'inserimento dati. Il codice per i deceduti non identificati era DNI. Scrissi una S sulle caselle 1, 9 e 10 del diagramma relativo alle parti corporee, indicando così che erano stati recuperati il cranio scheletrizzato e le ossa delle due cosce. In tutte le altre caselle segnai una N, che segnalava le parti non rinvenute. Poi scrissi una F per sesso femminile e una B per razza bianca e inserii il possibile range dell'altezza. Lasciai vuoti gli spazi per le date presunte di nascita e di morte. Nella sezione riservata ai segni particolari, scrissi CATETERE CERB, per indicare il catetere cerebroventricolare e spuntai la stessa voce con una x sul modulo supplementare. Era tutto. Niente fratture, deformità, tatuaggi, nei o cicatrici. Poiché non avevo abiti, gioielli, occhiali, impronte o gruppo sanguigno, e nemmeno informazioni circa la causa di morte, il resto del documento rimase in bianco. Avrei potuto aggiungere solo una nota sul luogo del ritrovamento del cadavere. Stavo completando la sezione che riguardava il nome dell'ente richiedente e il numero del caso, quando Quickwater tornò. Gli passai il modulo. Lui lo prese, annuì e uscì senza dire una parola. Ma cosa aveva quell'uomo? D'un tratto mi venne in mente un'immagine, che un istante dopo era già andata via. Un bulbo oculare chiuso in un barattolo di marmellata. Quickwater?
No, figuriamoci. In ogni caso, decisi di non raccontare l'incidente né a Qaudel né al suo collega dell'Operazione Carcajou. Avrei potuto rivolgermi a Ryan, avrei potuto chiedere consiglio a lui, ma Ryan non c'era e io dovevo cavarmela da sola. Completai le relazioni su Gately e Martineau e le portai in segreteria. Tornata in ufficio, trovai Claudel seduto davanti alla mia scrivania con un tabulato in mano. «Aveva ragione per l'età ma non per la data di morte. Dieci anni erano troppo pochi.» Attesi che proseguisse. «Si chiamava Savannah Claire Osprey.» Dal nome intuii che la ragazza poteva essere del sud, o comunque nata nel sud. Fuori dagli stati sud-orientali, infatti, non erano molti i genitori che chiamavano le figlie Savannah. Con un certo sollievo, e incuriosita, mi sedetti al mio posto. «Di dove?» «Shallotte, in North Carolina. Non viene da lì anche lei?» «Io sono di Charlotte.» I canadesi facevano spesso confusione tra Charlotte, Charlottesville e le due Charleston. Al pari di molti americani, del resto. Perciò avevo rinunciato da tempo alle spiegazioni. Ma Shallotte era una cittadina costiera che mi sembrava non dovesse rientrare tra quelle che creavano confusione. Qaudel lesse il tabulato. «La scomparsa è stata denunciata nel 1984, due settimane dopo il suo sedicesimo compleanno.» Attesi che continuasse, ma l'investigatore rimase in silenzio. «Monsieur Claudel, qualsiasi informazione lei mi possa dare mi aiuterà a confermare l'identità della vittima» lo sollecitai. Pausa. E poi: «I dati sul catetere e sulla documentazione odontoiatrica erano molto specifici, perciò il computer ha fornito il nominativo immediatamente. Ho chiamato il dipartimento di polizia di Shallotte e ho parlato direttamente con la funzionaria, la quale ha riferito che la madre inizialmente aveva inserito il nominativo nel database ma poi aveva rinunciato. All'inizio i mezzi di informazione avevano sollevato il solito polverone, ma poi tutto è caduto nel dimenticatoio. Le indagine sono andate avanti per mesi, ma non sono mai approdate a nulla». «Una ragazzina difficile?» Lunga pausa. «Non risultano esserci stati problemi con droghe o alcol. L'idrocefalo le
aveva causato qualche difficoltà di apprendimento e problemi di vista, ma non era ritardata. Frequentava con profitto una normale scuola superiore. Non è mai stata considerata una potenziale fuggiasca. «Spesso però veniva ricoverata in ospedale a causa del catetere. Sembra che ogni tanto si bloccasse e dovesse essere risistemato. Questi episodi erano in genere preceduti da periodi di letargia, emicrania, a volte confusione mentale. Un'ipotesi è che abbia perso il senso dell'orientamento e abbia cominciato a vagare.» «E dove? Per tutto il pianeta? L'altra ipotesi quale sarebbe?» «Il padre.» Claudel consultò un piccolo taccuino a spirale. «Dwayne Allen Osprey. Un vero gentiluomo, con una fedina penale lunga come la Transiberiana. All'epoca la vita familiare di Dwayne era tutta centrata sull'alcol e sulle botte a moglie e figlia. Secondo le prime dichiarazioni rilasciate dalla donna, che però in seguito aveva ritrattato, il marito non aveva mai voluto bene a Savannah, e via via che la ragazza cresceva le cose erano andate peggiorando. Pare che il padre la riempisse di botte abbastanza spesso. Per lui la figlia era una delusione. La chiamava "cervello pieno d'acqua".» «Gli investigatori credono che sia stato lui a ucciderla?» «È possibile. Whiskey e rabbia sono un cocktail micidiale. L'ipotesi è che le cose gli siano sfuggite di mano, che l'abbia ammazzata e poi abbia occultato il cadavere.» «E com'è finita in Québec?» «Una domanda davvero pertinente, dottoressa Brennan.» Claudel si alzò e si sistemò i polsini della camicia più bianca e più stirata che avessi mai visto. Non feci in tempo a rispondergli con uno sguardo sprezzante che lui era già uscito dall'ufficio. Sospirai e mi abbandonai sullo schienale della sedia. Ci puoi scommettere, stronzetto d'un Monsieur Claudel, che la mia è una domanda pertinente. E ho tutta l'intenzione di trovare una risposta. 17 Respirai a fondo. Come sempre, Claudel era riuscito a irritarmi. Quando riacquistai la calma, guardai l'orologio. Le cinque meno dieci. Era tardi, ma forse riuscivo ancora a trovarla. Consultai la rubrica e com-
posi il numero dello State Bureau of Investigation di Raleigh. Kate Brophy rispose al primo squillo. «Ciao, Kate. Sono Tempe.» «Hey, ragazza. Tornata nel sud?» «No. Sono ancora a Montréal.» «Quando ti decidi a scendere di nuovo da queste parti per farci una bella bevuta insieme?» «I tempi delle bevute per me sono morti e sepolti, Kate.» «Oops. Scusami. Mi ero scordata.» Kate e io ci eravamo conosciute all'epoca in cui giocavo con i superalcolici come una matricola a un party di fine semestre. Solo che non avevo diciott'anni e avevo dimenticato già da un pezzo l'euforia che segue il periodo degli esami. Infatti ero oltre la trentina, ero moglie e madre, ed ero anche una professoressa universitaria impegnata sul duplice fronte dell'insegnamento e della ricerca. Non ho mai capito quando sono andata a ingrossare le fila dei fratelli e sorelle in crisi da astinenza, so solo che fino a un certo punto il mio consumo di alcol era molto razionale. Un bicchiere di Merlot a casa la sera. Una birra dopo le lezioni. Una festa durante il fine settimana. Non avevo bisogno di sbronzarmi. Non bevevo mai da sola. Non perdevo un giorno di lavoro. In poche parole, non era un problema. Ma poco alla volta il bicchiere è diventato una bottiglia e le bisbocce serali non esigevano più la compagnia di nessuno. È questo l'aspetto seducente di Bacco. Non si paga niente all'ingresso. Non ci sono limiti nelle ordinazioni. E, in men che non si dica, un luminoso sabato pomeriggio ti ritrovi a letto, mentre tua figlia gioca una partita di calcio e tutti gli altri genitori sono lì a sostenere i loro figli. Ormai, però, quello spettacolo era finito, per me, e non avevo alcuna intenzione di rialzare il sipario. «È curioso che tu mi abbia chiamata proprio adesso» disse Kate. «Pensa che stavo giusto parlando con uno dei nostri investigatori dei biker che avevi rimesso insieme negli anni Ottanta.» Ricordavo quei casi. Due biker piuttosto intraprendenti avevano commesso l'errore di spacciare in una zona controllata dagli Hells Angels. I loro corpi fatti a pezzi erano stati ritrovati chiusi in sacchi di plastica e io avevo ricevuto l'incarico di distinguere lo spacciatore A dallo spacciatore B. Quell'incursione nelle discipline forensi era stata per me una sorta di rivelazione. Fino a quel momento avevo lavorato su scheletri dissotterrati
nei siti archeologici, esaminando le ossa per rilevare la presenza di eventuali malattie e stimare l'aspettativa di vita in epoca preistorica. Un lavoro affascinante, ma totalmente avulso dalla realtà. Le prime consulenze per l'Istituto di medicina legale del North Carolina mi avevano dato un brivido che non avevo mai provato con i lavori precedenti. I biker di Kate, al pari dei casi successivi, comunicavano un'urgenza che i morti dell'antichità non avevano. Potevo dare un nome ai senza nome. Potevo dare a una famiglia la certezza di una fine. Potevo contribuire agli sforzi delle forze dell'ordine per ridurre i massacri sulle strade d'America e per identificare e punire i responsabili. Di colpo avevo spostato l'obiettivo della mia professione, avevo chiuso con l'alcol e non ero più tornata sulle mie decisioni. «Che cosa ci facevi alla riunione con Tulio?» domandai. «Ho accompagnato un paio dei miei analisti fino a Quantico per un seminario di addestramento del VICAP. E già che c'ero, ho deciso di partecipare anch'io e di sentire le novità.» «E quali sono le novità?» «A parte il fatto che i tuoi biker si stanno facendo fuori con un impegno e un'applicazione non comuni, direi che non ci sono grandi novità.» «Credo che ormai siano anni che non mi capita di occuparmi di un biker della Carolina. Al momento chi va per la maggiore da quelle parti?» «In pista ci sono sempre tre delle quattro bande principali.» «Hells Angels, Outlaws e Pagans.» «Sissignora. Ancora niente Bandidos. Ed è già passato un po' di tempo. Anche se non si può mai dire. La situazione potrebbe esplodere già il mese prossimo, con il raduno degli Angels a Myrtle Beach.» «Qui la situazione è sempre piuttosto calda, ma non è per questo che ti chiamo.» «No?» «No. Hai mai sentito parlare di una ragazzina chiamata Savannah Claire Osprey?» Ci fu una lunga pausa. A quella distanza, la linea telefonica frusciava come il mare nelle conchiglie. «È uno scherzo?» «Niente affatto.» La sentii tirare un lungo respiro. «La scomparsa della Osprey è stato uno dei primissimi casi a cui ho lavorato per il Bureau. Sono passati diversi anni. Savannah Osprey era una
ragazza di sedici anni con un sacco di problemi di salute. Non frequentava cattive compagnie. Non si drogava. Un pomeriggio è uscita di casa e nessuno l'ha più vista. Almeno, così dice la versione ufficiale.» «Tu non credi che sia scappata?» «La polizia locale aveva dei sospetti sul padre, ma non si sono mai trovate le prove per inchiodarlo.» «Secondo te era coinvolto?» «È possibile. Savannah era una ragazzina timida, portava occhiali spessi un dito, usciva poco, non flirtava con nessuno. E tutti sapevano che il suo vecchio la riempiva di botte.» La sua voce era colma di disprezzo. «Il tipo si meritava solo la galera. Veramente c'era anche stato, ma solo in seguito, e per motivi di droga. È morto cinque anni dopo la scomparsa della figlia.» La frase successiva mi colpì come un pugno in pieno petto. «Quell'uomo era un tale miserabile e la figlia una creaturina così patetica che avevo finito col prendermi a cuore la vicenda. Al punto che conservo ancora le ossa della ragazza.» «Che cosa hai detto?» Mi aggrappai alla cornetta senza quasi riuscire a respirare. «I genitori non lo hanno mai accettato, ma io so che sono le sue. Le ho archiviate nell'ufficio del medico legale. Il dottore ogni tanto chiama, e io ogni volta gli dico di tenerle lì ancora un po'.» «Ma allora i resti sono stati ritrovati?» «Nove mesi dopo la scomparsa di Savannah, uno scheletro femminile è stato rinvenuto a Myrtle Beach. È stato proprio questo ritrovamento a farci sospettare di Dwayne Osprey. Il quale, pur non essendo mai stato quel che si dice un lavoratore indefesso, intorno all'epoca in cui la figlia aveva fatto perdere le sue tracce aveva cominciato a fare le consegne per una ditta locale che produceva cheesecake. Il giorno della scomparsa, il paparino aveva fatto un giretto proprio a Myrtle Beach.» Ero così sconvolta che non riuscivo quasi più a formulare una domanda. «Ma l'origine delle ossa è mai stata confermata?» «No. Mancavano troppe parti, e ciò che era stato recuperato era in condizioni troppo cattive. Ovviamente, all'epoca non si lavorava con il DNA. Ma perché ti interessa Savannah Osprey?» «Avevate recuperato il cranio?» «No. E quello era stato il problema più grosso. La vittima era stata abbandonata in un bosco e coperta con una lamiera. Gli animali erano riusciti a strappare alcune parti del corpo e le avevano sparpagliate ai quattro an-
goli del globo. Il cranio e la mandibola non sono mai stati ritrovati, e abbiamo ritenuto che fossero stati trascinati via. Le ossa rimaste sotto la lamiera erano intatte ma non molto utili, mentre il resto dello scheletro era rovinato al punto che non era possibile determinare nulla a parte il sesso. L'analisi antropologica era stata affidata a un patologo, il quale nella sua relazione aveva scritto che non era rimasto nulla che potesse indicare l'età, l'altezza o la razza.» Un patologo non poteva intendersi di metodi microscopici per la diagnosi dell'età o del calcolo della statura a partire da ossa lunghe parziali. Pessimo lavoro, dottore. «Perché allora sei convinta che si tratti di Savannah?» domandai. «Vicino alle ossa avevamo trovato un ciondolo d'argento. Raffigurava una qualche specie di uccello. E nonostante la madre non avesse voluto riconoscere l'oggetto, la sua reazione mi aveva fatto capire il contrario. In seguito avevo effettuato qualche ricerca scoprendo che il ciondolo era la riproduzione di un falco pescatore.» Attesi. «E il falco pescatore nella nostra lingua viene anche chiamato osprey, no?» Le raccontai del cranio e dei due femori ritrovati a Montréal. «Porca miseria.» «La madre è ancora in giro?» «Tutto è possibile da quando hanno clonato quella pecora. Verificherò.» «Hai ancora il fascicolo di Savannah?» «Ci puoi scommettere.» «Le radiografie ante mortem?» «A vagoni.» Decisi all'istante. «Tira fuori quelle ossa, Kate. Vengo lì.» Patineau autorizzò il viaggio e io prenotai il primo volo per Raleigh. Quella sera Kit e io cenammo tardi, ed entrambi evitammo qualsiasi riferimento al pacchetto, rimasto nell'ingresso, con cui ero tornata dall'istituto e che avrei portato con me a Raleigh. Mio nipote non vedeva l'ora di incontrare Crease, il giorno dopo, e la mia assenza non gli creava il minimo problema. L'aereo era affollato dal consueto campionario di studenti, uomini d'affari e giocatori di golf del fine settimana. Mentre hostess e steward offrivano
bibite e caffè, guardai fuori dall'oblò, desiderando di essere diretta anche io verso un green: Pinehurst, Marsh Harbor, Oyster Bay, uno qualsiasi, ma non la triste analisi delle ossa di una ragazzina. Lo sguardo mi cadde sulla borsa sportiva sotto il sedile di fronte. Aveva un aspetto innocuo ma sarei stata curiosa di sapere che cosa avrebbero detto gli altri passeggeri se avessero conosciuto la natura del suo contenuto. Partivo così spesso dall'aeroporto di Dorval, che ormai gli operatori della macchina a raggi X non mi chiedevano più spiegazioni. Ma chissà cosa sarebbe successo alla partenza da Raleigh? Fuori, il sole del mattino stendeva sulle nuvole un velo rosa fluorescente. Quando uscimmo dalla nebbia rosata, vidi la sagoma scura di un minuscolo aeroplano che volava parallelo al mio. Ecco, pensai, è così che vedo la ragazza sotto il sedile. Anche se ormai conoscevo il suo nome, nella mia mente rimaneva una sagoma stagliata su un paesaggio indistinto. Sperai che quel viaggio avrebbe trasformato l'immagine in un'identificazione certa. 18 Kate venne a prendermi all'aeroporto Durham di Raleigh e andammo direttamente al laboratorio dell'SBI, dove aveva già portato le ossa ritirate dall'ufficio del medico legale, a Chapel Hill, e dove aveva trovato una sala per poter lavorare. Se avessimo dovuto sottoporre dei campioni all'esame del DNA, quella soluzione sarebbe stata la più funzionale. Mi infilai un paio di guanti e aprii il mio pacco, mentre Kate prendeva il suo da un armadietto chiuso a chiave. Posò una lunga scatola bianca sul tavolo e si allontanò. Mentre slegavo lo spago e sollevavo le ali di cartone che chiudevano la scatola, sentii una tensione familiare pesarmi sul petto. Estrassi le ossa una a una, disponendole nella corretta posizione anatomica. Costole. Vertebre. Bacino. Ossa lunghe. Come già aveva rilevato il patologo, i danni provocati dagli animali erano notevoli. Quelli che si nutrivano di carogne avevano rosicchiato le ossa, tranne quelle più piccole, al punto da non lasciare neppure un margine, una cresta o una superficie articolare. Le sinfisi pubiche e le creste iliache erano completamente scomparse; era rimasto solo qualche frammento di clavicola. Ma su un punto non c'erano dubbi. Mancavano entrambi i femori. Aggiunsi le ossa di Saint-Basile a quelle già sul tavolo. Non completa-
vano lo scheletro, ma non erano nemmeno dei doppioni. Kate fu la prima a parlare. «Sembrerebbero omogenee per dimensioni e sviluppo muscolare. La ragazza doveva essere un tipo minuto.» «Partendo dal femore, ho calcolato un'altezza di un metro e cinquantacinque, centimetro più centimetro meno. Vediamo che cosa ci dice la tibia.» Indicai due punti di repere sulla diafisi. «Esiste una formula di regressione che permette di utilizzare solo questo segmento.» Presi le misure ed eseguii i calcoli. Il margine di errore era ampio, ma comprendeva la stima che avevo ottenuto con il femore. Quando le mostrai le cifre, Kate andò a sfogliare un fascicolo più spesso dell'elenco telefonico di Manhattan. «Eccoci. Savannah era alta una metro e cinquantaquattro.» Lo sfogliò di nuovo e ne estrasse una grande busta che conteneva diverse fotografie. Cominciò a studiare le immagini e intanto mi raccontò come erano andate le indagini. «Era tutto così triste. Quasi nessuno tra i compagni di scuola di Savannah aveva idea di chi fosse. E Shallotte non è certo una metropoli. I ragazzi che invece avevano riconosciuto il nome o una foto, non seppero dirci niente. Era una di quelle persone che nessuno ricorda. Nata nel 1968. Morta nel 1984.» Kate mi passò un'istantanea. «La poverina faceva davvero una vita infelice. Pessima famiglia. Niente amici... Ecco: da qui si vede che non era tanto alta.» Guardai la fotografia e provai una gran pena. Seduta su una coperta, Savannah si nascondeva alla macchina fotografica con un braccìno da spaventapasseri mentre con l'altro cercava di allontanare il fotografo. Indossava un costume intero e aveva la pelle così bianca che sembrava sfumata di azzurro. Voleva nascondere la faccia ma l'obiettivo l'aveva colta mentre guardava in alto, gli occhi enormi dietro le lenti spesse. Sullo sfondo notai le strisce orizzontali delle onde che lambivano la spiaggia. Osservare quel faccino smunto mi faceva male. Che cosa poteva aver scatenato un'aggressione contro un essere così fragile? Forse uno sconosciuto l'aveva violata, coltello alla mano, e poi l'aveva strangolata e lasciata in pasto ai cani? Quando aveva capito che stava per morire? Aveva urlato di terrore sapendo che nessuno avrebbe udito le sue grida? Era morta nella sua casa, e poi era stata trascinata via e abbandonata? Mentre chiude-
va gli occhi per l'ultima volta, era terrorizzata, rassegnata, furiosa, stordita, o semplicemente stupita? Aveva sentito dolore? «... confrontare le caratteristiche del cranio.» Kate aveva preso alcune lastre da una grossa busta marrone e le stava fissando sul diafanoscopio. «Questa è una serie di radiografie del cranio che risale a quattro mesi prima della scomparsa.» Presi le mie dalla borsa sportiva e le fissai accanto a quelle dell'ospedale. Partendo dalle proiezioni frontali, confrontai la forma dei seni. Piccole e semplici ma anche grandi e con molte cellette, queste cavità sopra le orbite sono diverse in ogni individuo, come le impronte digitali. I seni di Savannah salivano verso la fronte, simili alla cresta sulla testa di un cacatua, come risultava dalle radiografie del suo ospedale e da quelle che avevo portato io da Montréal. Il foro per il catetere era chiaramente visibile su ogni lastra, identico per forma e posizione in quelle ante mortem e in quelle post mortem. Non c'erano dubbi, quindi, che il cranio dissotterrato a Saint-Basile appartenesse a Savannah Claire Osprey. Ma questo - e i due femori - appartenevano allo scheletro ritrovato vicino a Myrtle Beach? Prima di lasciare Montréal avevo asportato una scheggia di osso dalla dialisi di uno dei due femori ed estratto un molare dalla mandibola superiore, ritenendo che, se mai avessimo rintracciato i genitori, o se fossimo riusciti a procurarci dei campioni ante mortem del sangue o dei tessuti della vittima, la sequenza del DNA avrebbe potuto confermare la presunta identità. Ma dato che la documentazione odontoiatrica e radiologica relativa alle ossa di Montréal era sufficiente per la loro identificazione e rendeva inutile il ricorso all'esame del DNA, mi concentrai su un altro obiettivo. Con un'apposita sega, asportai una porzione di osso dai due peroni e dalle due tibie che Kate aveva conservato per tutti quegli anni. Lei mi osservava mentre la lama circolare penetrava nell'osso secco, vibrando e sollevando un ventaglio di polvere bianca. «Non è molto probabile che in ospedale abbiano ancora dei campioni utili per l'esame del DNA dopo tutti questi anni.» «No» concordai. «Ma a volte succede.» Era vero. Calcoli biliari. Pap test. Macchie di sangue. Il DNA si poteva recuperare nei luoghi più disparati. «E se i genitori non ci sono più?» «Confrontando la sequenza rilevata dalle ossa di Myrtle Beach con quel-
la delle ossa di Saint-Basile-le-Grand potremo almeno sapere se i resti appartengono allo stesso individuo. Se è così, in pratica avremo identificato le ossa di Myrtle Beach, perché il cranio di Montréal presenta un inconfutabile elemento di identificazione. Comunque, vorrei fare ugualmente il test del DNA.» «E se non riusciamo a trovare il DNA?» «Ho già alcuni vetrini ricavati dai femori di Saint-Basile. Una volta rientrata a Montréal, ne ricaverò altri da questi campioni, quindi li esaminerò con un ingrandimento elevato.» «E che cosa scoprirai?» «Innanzitutto l'età. E potrò determinare se è la stessa per tutti i resti. Poi potrò cercare all'interno della microstruttura dei particolari utili.» Finimmo di etichettare e numerare i quattro campioni quasi all'una. Kate mi aveva già preparato i documenti necessari per portare il materiale con me. Decidemmo di fare un rapido spuntino prima di cominciare a spulciare il fascicolo. Davanti a cheeseburger e patatine fritte al Wendy's più vicino, Kate mi raccontò ciò che sapeva delle ultime ore di Savannah Osprey. Secondo i genitori, Savannah aveva avuto una settimana molto normale. La salute non le dava problemi ed era ansiosa di assistere a una manifestazione organizzata nella sua scuola, anche se non ricordavano quale. Il giorno della sua scomparsa aveva studiato un po' per un'interrogazione di matematica, che comunque non sembrava preoccuparla più di tanto, e verso le due era uscita dicendo che doveva comprare qualcosa dal droghiere. Non l'hanno più rivista. «Almeno, questa è la versione del paparino» concluse Kate. «Quel giorno lui era a casa?» «Fino alle tre e mezzo circa. Poi era uscito per andare a caricare della merce da consegnare a Myrtle Beach. L'orario era stato confermato dal suo datore di lavoro. Era arrivato un po' in ritardo per la consegna, ma aveva dato la colpa al traffico.» «Avevi potuto perquisire la casa o il furgoncino?» «Negativo. Non avevamo niente contro di lui. Così non siamo mai riusciti a ottenere il mandato.» «E la madre?» «Brenda. Anche lei era tutta un programma.» Kate addentò un morso di cheeseburger e si pulì la bocca con un tovagliolino di carta. «Brenda quel giorno lavorava. Credo facesse le pulizie in un motel. Se-
condo la sua deposizione, quando era rientrata, alle cinque, la casa era vuota. Ma aveva cominciato a preoccuparsi solo la sera, vedendo che Savannah non tornava né telefonava. A mezzanotte, in preda al panico, aveva denunciato la scomparsa della figlia.» Finì il bicchiere di Coca Cola. «Per circa due giorni Brenda si era mostrata disponibile a collaborare, poi di colpo aveva ritrattato tutto dicendo che la figlia era andata via con gli amici. Da quel momento in avanti era stato come parlare con un arrosto surgelato. Noi siamo stati contattati dal Dipartimento di polizia di Shallotte, dove si erano anche procurati la documentazione medica e odontoiatrica da inserire nel database dell'NCIC. Cosa che in genere viene fatta dai genitori o dal tutore.» «Come ti spieghi il voltafaccia?» «Probabilmente Dwayne l'ha minacciata.» «Che ne è stato di lui, poi?» «Circa cinque anni dopo la scomparsa di Savannah, pare che a Dwayne fosse scoppiata la passione per la montagna. E per festeggiare il quattro di luglio, era andato in macchina fino a Chimney Rock con l'idea di trascorrere qualche giorno in tenda bevendo e gozzovigliando con gli amici. La seconda sera era sceso in città per fare scorta di birra, ma al ritorno è uscito di strada finendo nella Hickory Nut Gorge. È stato sbalzato dall'abitacolo e l'automobile gli si è schiantata addosso. Ho saputo che quando l'hanno ritrovato, la testa era più larga della ruota di scorta.» Kate radunò i contenitori del cibo al centro del vassoio e si alzò da tavola. «Con la morte di Dwayne sono morte anche le indagini sul caso» disse mentre svuotava il vassoio in una pattumiera. Uscimmo e passammo sotto una piccola veranda dove un anziano uomo di colore ci salutò con il tipico hey. Stava innaffiando i fiori con un tubo di gomma e il profumo delle petunie e della terra si mescolava a quello dell'olio fritto. Il sole del pomeriggio brillava sul cemento e mi scaldò la testa e le spalle mentre attraversavamo il parcheggio per raggiungere l'auto di Kate. Dopo che ebbe messo in moto le chiesi: «Secondo te è stato lui?». Kate non rispose. Dopo un po' disse: «Non lo so. Ci sono delle cose che non quadrano». Attesi che ordinasse i suoi pensieri. «Dwayne Osprey aveva problemi di alcolismo ed era un uomo cattivo,
ma il fatto che vivesse a Shallotte significa che qualche villaggio dei dintorni era stato privato del suo scemo. Voglio dire che quell'uomo era stupido. Non ho mai pensato che potesse uccidere la figlia, trascinare il cadavere in un'altra città e poi cancellare tutte le tracce. Non aveva abbastanza neuroni per farlo. Inoltre quella settimana c'erano molte cose in ballo.» «Cioè?» «Ogni anno, verso la metà di maggio, Myrtle Beach ospita un imponente raduno di motociclisti. È un raduno obbligatorio per le sezioni degli Hells Angels del South Carolina, e in genere richiama anche molti Pagans. Quella settimana il posto brulicava di biker di ogni genere, da quelli irregolari ai BRU.» «BRU?» «Biker Ricchi Urbanizzati. Insomma, questo è il motivo per cui sono arrivata a occuparmi del caso. Il mio capo pensava che potesse esserci un legame con le bande di biker.» «E c'era?» «Non l'abbiamo mai trovato.» «Secondo te, c'era?» «Diamine, Tempe, non lo so. Shallotte si trova proprio sulla Highway 17, lungo la strada per Myrtle Beach, e da quelle parti ci sono anche decine e decine di hotel e di fast food. Quella settimana, con tutto il traffico che andava e veniva dal South Carolina, la ragazza avrebbe potuto incappare in qualche psicopatico fermo sulla highway in cerca di avventure.» «Ma perché ucciderla?» Mi resi conto della stupidità della domanda solo dopo averla formulata. «Ci sono persone che si beccano una pallottola perché guidano troppo vicino a qualcun altro, perché si vestono di rosso dalle parti della banda che veste di blu, perché comprano un prodotto nel negozio sbagliato. Magari qualcuno l'ha uccisa solo perché portava gli occhiali.» Oppure per nessun motivo, com'era successo a Emily Anne Toussaint. Rientrate al laboratorio dell'SBI, aprimmo il fascicolo e cominciammo a esaminarlo. Documentazione medica. Documentazione odontoiatrica. Tabulati telefonici. Verbali. Trascrizioni degli interrogatori. Verbali delle testimonianze dei vicini. Appunti scrìtti a mano durante gli appostamenti. Gli investigatori dell'SBI e di Shallotte avevano seguito tutte le piste possibili. Alle ricerche aveva partecipato anche il vicinato che, diviso in squadre, aveva perlustrato laghi, fiumi e boschi. Senza ottenere risultato.
Savannah Osprey era uscita di casa e si era dissolta nel nulla. Nove mesi dopo la scomparsa, a Myrtle Beach furono ritrovati dei resti umani. Sospettando un nesso con il caso di Savannah Osprey, il coroner di Horry County aveva contattato le autorità del North Carolina e inviato le ossa a Chapel Hill. Nella sua relazione, il medico legale aveva confermato una certa corrispondenza, ma aveva anche concluso che l'identificazione certa dello scheletro non era possibile. Ufficialmente, nessuna traccia di Savannah era mai stata ritrovata. L'ultimo documento inserito nel fascicolo portava la data del 10 luglio 1989. Dopo la morte di Dwayne Osprey, Brenda era stata di nuovo interrogata ma aveva riconfermato la versione della figlia scappata di casa. Chiudemmo il fascicolo dopo le sette. Gli occhi mi bruciavano e avevo la schiena a pezzi per essere stata ore e ore curva su fogli fitti di scarabocchi indecifrabili o stampati a caratteri minuscoli. Ero stanca, scoraggiata e avevo perso l'aereo. E non avevo scoperto quasi niente di nuovo. Un sospiro di Kate mi disse che era nelle mie stesse condizioni. «E adesso?» domandai. «Adesso andiamo a cercarti un posto dove stare, a mangiare qualcosa di buono e capire in che direzione muoverci.» Aveva tutta l'aria di essere un programma. Riservai una stanza al Red Roof Inn, sulla I-40, e prenotai un posto sul primo volo del mattino. Poi cercai di telefonare a Kit, ma non lo trovai. Sorpresa, gli lasciai un messaggio e il numero del mio cellulare. Quando ebbi finto, Kate e io impacchettammo le nostre ossa e andammo in auto fino al suo ufficio, in Garner Road. La struttura che ospitava la sede dell'SBI - un'elegante villetta a un piano in mattoni rossi e rifiniture color crema - contrastava nettamente con la sede ultramoderna del laboratorio, un alto palazzo in cemento armato, asettico ed efficiente. Circondata da un prato curatissimo attraversato da un viale di accesso ai cui lati crescevano querce maestose, la sede era più in sintonia con il negozietto di antiquariato che aveva di fronte che con il megalite in fondo alla strada. Parcheggiammo sulla via principale, recuperammo i nostri pacchi e ci dirigemmo verso la villetta. Sulla destra incontrammo un'aiuola circolare di viole e calendule. Al centro del giardino tre aste ricordavano gli alberi di una nave a vele quadrate. Un fruscio di tessuto e un tintinnio di metallo indirizzarono il mio sguardo verso un ufficiale che stava ammainando l'ultima bandiera. Alle sue spalle un sole a metà scompariva dietro il tetto del
Highway Patrol Training Center. Superammo la porta a vetri sormontata dallo stemma dello State Bureau of Investigation del North Carolina, espletammo le procedure di sicurezza e salimmo al primo piano. Qui mettemmo al sicuro le ossa chiudendole in un armadietto nel piccolo ufficio di Kate. «Cosa ti va di mangiare?» «Carne» risposi convinta. «Carne rossa screziata di vero grasso.» «Ma oggi abbiamo mangiato cheeseburger.» «Vero. Ma ho appena letto una teoria sulla evoluzione dell'uomo di Neandertal. Sembra che la chiave della transizione verso l'uomo moderno sia stata l'aumento del consumo di grassi animali. Forse una bella costata di manzo aiuterà i nostri processi mentali.» «Mi hai convinta.» Il manzo si rivelò un'ottima idea. O forse l'ottima idea fu prendersi una pausa dalle pagine sbiadite dei documenti fotocopiati. Quando arrivarono i nostri cobbler, i drink a base di vino, agrumi e zucchero, avevamo individuato il nocciolo della questione. Le ossa di Montréal appartenevano senza dubbio a Savannah. Per le ossa di Myrtle Beach la giuria non si era ancora pronunciata. Possibile che una sedicenne timida, con problemi di salute e di vista, fosse scappata di casa e avesse viaggiato per quasi duemilacinquecento chilometri, arrivando in un paese straniero dove poi sarebbe morta? Oppure solo una parte delle ossa di una ragazza morta erano state portate via dalla Carolina e sepolte a Montréal? Se il decesso era avvenuto in Canada, le ossa di Myrtle Beach non erano le ossa di Savannah. Kate non era d'accordo con questa ipotesi, ma ammise che era plausibile. Se invece le ossa di Myrtle Beach erano di Savannah, una parte dello scheletro era stato asportato. Avevo studiato le immagini scattate sul luogo del ritrovamento, e non avevo rilevato niente di anomalo. Il processo di decomposizione sembrava confermare i nove mesi e un intervallo post mortem che collimava con la data della scomparsa della ragazza. Diversamente dagli scavi effettuati alla sede dei Vipers, qui non c'erano indizi che lasciassero supporre una sepoltura secondaria. Da questa ipotesi si aprivano diverse possibilità. Savannah era morta a Myrtle Beach. Savannah era morta altrove e poi il suo cadavere era stato portato a
Myrtle Beach. Il corpo di Savannah era stato smembrato, e le varie parti portate a Myrtle Beach, oppure lasciate a Myrtle Beach mentre cranio e femori erano stati prelevati e trasportati in Canada. Ma se il corpo era stato volutamente smembrato, perché nessuna delle ossa presentava i caratteristici segni dei tagli? La domanda chiave era: come mai Savannah, intera o in parte, viva o morta, era finita nel Québec? «Credi che sarà possibile riaprire il caso?» domandai mentre aspettavamo il conto. «Ne dubito. Tutti sono piuttosto convinti che il colpevole fosse Dwayne. Le indagini erano ferme già prima del suo incidente, ma la sua morte le ha definitivamente chiuse.» Passai la mia Visa al cameriere ignorando le proteste di Kate. «E adesso?» «Adesso stai a sentire quello che penso» mi disse. «Prima di tutto, penso che quella di pagare il conto sia stata una mossa molto scorretta.» Sì, sì. La invitai a proseguire con un cenno della mano. «Secondo: il cranio di Savannah è stato ritrovato in Québec all'interno di una proprietà dei biker.» Enumerò i vari punti contandoli sulle dita. «I Vipers sono un club di copertura per gli Hells Angels, giusto?» Annuii. «La settimana in cui Savannah è sparita gli Angels partecipavano a un raduno proprio in fondo alla highway che parte dalla città della ragazzina.» Un terzo dito si alzò accanto agli altri due. «Lo scheletro della ragazza è stato ritrovato nel parco nazionale di Myrtle Beach, a un tiro di sputo dal luogo del raduno.» Ci guardammo. «Sembrerebbe il caso di fare qualche indagine, non credi?» «Ma le avete già fatte» osservai. «Sì, ma all'epoca non avevamo il collegamento con il Québec.» «Che cosa proponi?» «I primi anni Ottanta sono stati molto agitati per i biker del North Carolina. Andiamo a prendere i miei fascicoli sulle bande e vediamo quello che c'è.» «Hai in archivio fascicoli così vecchi?» «La raccolta di dati storici è uno dei miei compiti. I casi del passato
spesso sono molto importanti nelle indagini RICO, soprattutto quando si tratta di omicidi.» Stava parlando del Racketeering Influenced and Corrupt Organizations Act, cioè della legge contro il racket e la corruzione firmata da Nixon nel 1970, a cui si spesso si ricorreva per perseguire il crimine organizzato. «Inoltre, i membri delle bande spesso passano da una sezione all'altra, e quando cerchiamo dei testimoni, è utile sapere chi era, dove, e quando. Ho raccolto tonnellate di dati, comprese fotografie e video.» «Io ho tutta la notte a disposizione» dissi io. «Allora andiamo a dare un'occhiata ai biker.» Ed è ciò che facemmo. Ma alle cinque e ventitré del mattino il mio cellulare trillò. Mi chiamavano da Montréal. 19 Contrariamente al loro nome, gli Appartements du soleil non suggerivano affatto un'idea di solarità. Ma un nome in sintonia con le reali caratteristiche del luogo non avrebbe fatto una grande pubblicità al palazzo. Era un edificio buio e deprimente, le finestre opache per il sudiciume e bloccate da anni di manutenzione inesistente. Gli angusti balconcini che sporgevano a ciascun piano erano chiusi da verandine turchesi e stipati di barbecue arrugginiti e sdraio sgangherate, da pattumiere di plastica e attrezzature sportive assortite. Solo un paio esibivano cassette per i fiori, ma il contenuto era rinsecchito dal passare delle stagioni. Sul sistema di riscaldamento, però, non c'era niente da ridire. Durante la giornata trascorsa in North Carolina, in Québec era finalmente sbocciata la primavera, e al mio ritorno avevo trovato una temperatura di venti gradi. Eppure, benché nel frattempo fosse addirittura aumentata, i radiatori degli Appartements du soleil funzionavano come in pieno inverno e all'interno c'erano circa ventisei gradi. Il calore e il puzzo di carne putrefatta creavano una combinazione esplosiva che prendeva allo stomaco e toglieva il fiato. Dal mio punto di osservazione potevo vedere tutte le stanze dello squallido appartamento in cui mi trovavo. Alla mia sinistra avevo la cucina, il soggiorno era a destra, la camera e il bagno di fronte. Dallo stato della casa sembrava che gli occupanti vi tenessero un mercato di roba usata, anche se il tanfo e la sporcizia avrebbero scoraggiato anche il più incallito fra i cacciatori di buoni affari. Ogni piano di appoggio disponibile era coperto di utensili, giornali, libri
in edizione economica, bottiglie ed elettrodomestici rotti. Sparsi su tutto il pavimento si vedevano articoli da campeggio, ricambi per moto e per auto, pneumatici, scatoloni, mazze da hockey e buste di plastica chiuse con dei laccetti dall'anima metallica. In fondo al soggiorno svettava una piramide di lattine di birra vuote che toccava quasi il soffitto. Alle pareti poster strappati e arricciati. Uno di questi annunciava un concerto dei Grateful Dead. Diciassette luglio 1983. Sotto, un pugno chiuso stile "potere bianco" rivendicava la purezza della razza ariana. In alto a sinistra un poster intitolato Le Hot Rod, "verga bollente", mostrava un pene in Ray-Ban, completo di sigaretta accesa infilata tra questo e gli attributi che lo accompagnavano. Sotto, un fallo eretto sormontato dalla scritta a caratteri cubitali Astro-Cock, "Astro-cazzo", era circondato dai simboli dello Zodiaco, ognuno seguito da una perla di saggezza. Non provai la curiosità di leggere quella relativa al mio segno. A quanto vedevo, gli unici mobili di utilità pratica erano un tavolo in formica e una sedia in cucina, il letto matrimoniale nella camera e una poltrona in soggiorno. Che al momento era occupata da un cadavere: la testa una massa rossa e informe, il busto e gli arti anneriti dal fumo. Inglobato nella carne riuscii a distinguere il cranio sfondato e le ossa facciali, una porzione di narice attaccata a un brandello di cute con i baffi, un occhio completo. La mandibola inferiore era disarticolata ma intatta, con la lingua viola e i denti macchiati dalle carie. Qualcuno aveva raccolto frammenti di ossa e budino di cervello e aveva sigillato il tutto in una busta con cerniera. Il sacchetto era appoggiato in grembo al cadavere, come se questo avesse ricevuto l'incarico di vegliare il suo stesso cervello. Un ampio lembo di pelle aderiva al margine della poltrona, liscio e lucente come il ventre di un pesce persico. Il morto era seduto di fronte a un piccolo televisore su cui era stato montato un attaccapanni in sostituzione dell'antenna rotta. Un'estremità contorta sporgeva verso la testa, come il dito di un testimone oculare che indicava la persona riconosciuta. Nessuno si era preso la briga di spegnere l'apparecchio e sentivo la voce di un noto giornalista che intervistava alcuni uomini separati dall'amante a causa della madre. Mi chiesi che cosa avrebbero pensato del loro raccapricciante spettatore. In camera da letto, un uomo dell'Anagrafica stava rilevando le impronte digitali con la polvere reagente. Un altro faceva lo stesso in cucina. Un terzo girava per l'appartamento con una videocamera riprendendo ogni stanza e zoomando sui cumuli di oggetti sparsi ovunque. Prima del mio arrivo,
aveva già scattato decine di fotografie della vittima e del deprimente luogo che la circondava. LaManche era stato lì ma era andato via quasi subito. Dato che il cadavere non era carbonizzato e lo stato di decomposizione non era avanzato, la mia presenza non sarebbe stata necessaria, ma al momento del ritrovamento non era stato possibile valutare la situazione con sicurezza. I primi rapporti, infatti, avevano riferito di un cadavere e di un incendio, così ero stata convocata d'urgenza. Dopo un sopralluogo, la situazione era stata valutata meglio, ma ormai ero già partita da Raleigh, sicché Quickwater era venuto a prendermi all'aeroporto e mi aveva portata all'appartamento. Gli Appartements du soleil si trovavano a sud-ovest di Centre-Ville, in una strada secondaria che partiva da rue Charlevoix. Il quartiere, noto con il nome di Pointe-Saint-Charles, si trovava sull'isola di Montréal, perciò l'omicidio ricadeva sotto la giurisdizione della CUM. Davanti a me avevo Michel Charbonneau, pallido come uno straccio, i capelli a spazzola quasi bagnati. Si era tolto la giacca, il colletto della camicia era fradicio di sudore, la cravatta allentata e tuttavia sempre troppo corta. Lo guardai prendere un fazzoletto dalla tasca e detergersi la fronte madida. Charbonneau una volta mi aveva raccontato che da adolescente aveva lavorato nei pozzi di petrolio del Texas. Ma pur amando la vita rude, non aveva resistito al caldo torrido ed era tornato a Chicoutimi, la sua città, per poi trasferirsi a Montréal quando si era arruolato nella polizia municipale. In quel momento Quickwater emerse dalla cucina. La vittima apparteneva al mondo delle bande e la presenza di un rappresentante dell'Operazione Carcajou era sembrata necessaria. L'agente si avvicinò a Charbonneau e insieme osservarono gli specialisti che esaminavano le macchie di sangue dietro la vittima. Ronald Gilbert appoggiò una riga bianca e grigia a forma di L contro la parete mentre il suo assistente scattava fotografie e riprendeva con la videocamera. Ripeterono l'operazione con un filo a piombo, poi Gilbert passò ai calibri scorrevoli, con cui prese una serie di misure che inserì in un computer portatile, per poi tornare al righello e al filo a piombo. Altre riprese video. Altre fotografie. Altre misure. Il sangue era schizzato ovunque, sul soffitto, sulle pareti, sugli oggetti ammucchiati contro il battiscopa. I due uomini avevano tutta l'aria di essere impegnati in quel lavoro da molto tempo. Inspirai a fondo e mi avvicinai ai due investigatori. «Bonjour. Comment ça va?»
«Salve, Doc. Come va la vitaccia?» Charbonneau parlava uno strano inglese, in cui si riconoscevano inflessioni québécois e texane. «Bonjour, Monsieur Quickwater.» Quickwater si voltò lentamente, come se dovermi salutare gli pesasse, quindi riportò l'attenzione sui due specialisti degli spruzzi di sangue. Stavano filmando una chitarra acustica appoggiata contro una gabbia arrugginita. Dietro la gabbia, schiacciato contro la parete, notai un berretto con le insegne di una squadra, le lettere - COCK - visibili al centro di una macchia color vinaccia. Pensai ai poster e a quanto umorismo da caserma tutto quel sangue ci aveva risparmiato. «Dov'è Claudel?» domandai a Charbonneau. «È alle prese con un sospettato, ma sarà qui tra poco. Questa gente è davvero particolare, vero?» Il tono di Charbonneau era pieno di disgusto. «Hanno la statura morale di uno stercorario.» «Siete sicuri del collegamento con le bande?» «Sì. Quel tipo che non sembra avere una buona cera, quello seduto in poltrona, si chiama Yves Desjardins, nome di battaglia: Cherokee. Era uno dei Predators.» «A quale schieramento appartengono?» «I Predators sono un altro dei motoclub di copertura degli Hells Angels» «Come i Vipers.» «Appunto.» «Quindi tutto questo è opera dei Rock Machine?» «È probabile. Anche se mi è sembrato di capire che Cherokee è fuori dal giro da anni. Ha problemi di fegato. No. Cancro al colon. Non c'è da stupirsi viste le schifezze che questa gente si ingolla.» «Che cosa ha fatto per provocare l'altra fazione?» «Cherokee si occupava di pezzi di ricambio.» Charbonneau mi indicò con un gesto del braccio il caos che avevamo intorno e gli notai un'ampia macchia scura sotto l'ascella. «Ma pare che ingranaggi e carburatori non rendessero abbastanza. Abbiamo trovato quasi due chili di cocaina nascosti nel cassetto della biancheria. Sicuramente il posto più sicuro della casa, dato che il tipo non sembra essersi mai cambiato le mutande in vita sua. Comunque è probabile che il motivo della visita a sorpresa sia proprio questo. Ma come si fa a sapere? Forse è una ritorsione per l'omicidio di Marcotte.» «Ragno?» Charbonneau annuì. «La porta è stata forzata?»
«No. Ma c'è una finestra rotta in camera da letto, anche se non è da lì che sono entrati.» «No?» «Quasi tutti i cocci sono giù in strada. Come se il vetro fosse stato rotto dall'interno.» «E da chi?» Sollevò i palmi per dire che non lo sapeva. «E allora l'assassino come è entrato?» «Deve avergli aperto Cherokee.» «Perché avrebbe dovuto farlo?» «Cherokee era furbo come una volpe e per nulla socievole. Ma era sopravvissuto oltre ogni previsione statistica e probabilmente cominciava a sentirsi immortale.» «A parte il cancro.» «Appunto. Venga a vedere una cosa.» Si avvicinò al cadavere e io lo seguii. A distanza ravvicinata l'odore era ancora più forte, un misto nauseante di lana carbonizzata, benzina, escrementi e carne putrefatta. Charbonneau prese il fazzoletto e se lo premette contro il naso. «Guardi i tatuaggi.» Voce ovattata. Cherokee aveva la mano destra abbandonata in grembo, mentre la sinistra era appoggiata al bracciolo con le dita rivolte verso il pavimento. Nonostante lo spesso strato di fuliggine, individuai senza fatica un grappolo di teschi tatuati sul polso destro. Erano quindici in tutto, disposti a piramide, come le misteriose offerte ritrovate in certe grotte europee. Ma questi trofei avevano un particolare che li distingueva da quelli dei nostri antenati di Neandertal. Tredici teschi avevano le orbite nere, due le avevano rosse. «Sono come le tacche sul calcio della pistola.» Charbonneau si tolse il fazzoletto dalla bocca solo per il poco tempo necessario a parlare. «Le orbite nere indicano i maschi che ha fatto fuori, quelle rosse le femmine.» «Mi sembra una cosa piuttosto stupida farsi tanta pubblicità.» «Già. Ma il nostro apparteneva alla vecchia guardia. Oggi quelli come lui danno molta più retta ai loro avvocati.» Sulla base del gonfiore e dell'epidermolisi valutai che la vittima doveva essere morta da circa un paio di giorni. «Chi l'ha trovato?» «Al solito. Un vicino si è lamentato per la puzza insopportabile. Incredibile che in un posto simile qualcuno se ne sia accorto, vero?»
Guardai di nuovo il cadavere. A parte i baffi e i denti guasti, era impossibile capire che aspetto avesse. Ciò che rimaneva della testa era appoggiato contro lo schienale della poltrona, circondato da una larga macchia scura sulla tappezzerìa; inglobati nella carne che doveva essere la faccia, vidi i pallini del fucile a canne mozze. «Le piacciono gli effetti speciali?» Charbonneau mi indicò il tappetino ai piedi della vittima. Era quasi interamente carbonizzato, così come la parte inferiore della poltrona. Anche Cherokee era annerito dal fumo, mentre la mano appoggiata al bracciolo, i polsini e gli stivali erano bruciacchiati. A parte questo, il fuoco non aveva fatto altri danni. Dovevano averlo acceso di fonte alla poltrona, e il persistente odore di benzina indicava anche l'uso di un accelerante. Le fiamme probabilmente avevano raggiunto il corpo, ma si erano subito estinte per mancanza di combustibile. E a quel punto i killer erano già lontani. Charbonneau spostò di nuovo il fazzoletto. «Tipica roba da biker. Fanno saltare le cervella alla vittima e poi bruciano il cadavere. Solo che questi non dovevano essere troppo esperti.» «Perché questo tizio avrebbe dovuto aprire la porta se spacciava cocaina in territorio altrui?» «Forse il cancro al colon gli era arrivato al cervello. Forse era fatto. Forse soffriva di deliri di normalità. Porca miseria, ma come si fa a capire quello che pensa questa gente? Ammesso che pensino qualcosa.» «Non potrebbe essere stato qualcuno del suo motoclub?» «Non sarebbe la prima volta.» Claudel arrivò proprio in quel momento e Charbonneau si congedò per raggiungere i colleghi. Anche se ero curiosa di sentire quel che diceva l'indiziato che Claudel aveva interrogato, non volevo trovarmi contemporaneamente a tu per tu con lui e Quickwater. Decisi di tornare dai due specialisti degli spruzzi di sangue, che nel frattempo avevano terminato con la parete ovest e si erano spostati su quella nord. Mi ero sistemata il più lontano possibile dal cadavere eppure l'odore stava diventando insostenibile. Charbonneau aveva ragione: il corpo era solo uno degli ingredienti di un disgustoso cocktail composto da muffa, olio di motore, birra stantia, sudore e anni di pessima cucina. Era difficile immaginare come qualcuno avesse potuto vivere in un ambiente così putrido. Guardai l'orologio. Le due e un quarto. Pensai di prendere un taxi e mi voltai verso la finestra che avevo alla spalle.
Cherokee abitava al pianterreno, e il balcone era a meno di due metri dal marciapiede. Attraverso i vetri sudici vidi la consueta armata di volanti, furgoni e auto civetta. Gli abitanti del quartiere curiosavano riuniti in capannelli o affacciati alle finestre degli edifici vicini. Le automobili e i furgoncini della stampa contribuivano alla confusione che regnava nella viuzza. Il furgone dell'obitorio parcheggiò proprio mentre osservavo la folla. Due inservienti saltarono a terra, aprirono il portellone posteriore e fecero uscire una lettiga. Dopo aver fissato le ruote, la spinsero lungo il passaggio che conduceva al portone del palazzo, passando tra pozzanghere di fango e solchi colmi di acqua stagnante sulla cui superficie scintillava una patina iridescente. Bello. Il cortile principale del "Palazzo del sole". Nel giro di qualche secondo gli inservienti bussarono alla porta. Claudel li fece entrare e si unì nuovamente al gruppo con cui stava discutendo. Mi feci forza e mi avvicinai agli investigatori. Claudel non interruppe il racconto dell'interrogatorio con l'indiziato principale. «Secondo voi quella parete è un casino?» Claudel gesticolò verso l'angolo dove i due specialisti stavano ancora misurando e filmando le macchie di sangue. «Be', vi dico che il giubbotto di quel tipo sembra quello di un macellaio del mattatoio.» «Ma perché se l'è tenuto?» Charbonneau. «Forse perché non poteva permettersi un altro giubbotto di pelle. E poi perché ha pensato che non saremmo mai arrivati a lui. Comunque, ha avuto il tempo di pulirlo e di nasconderlo sotto il letto, tanto per non sbagliare.» «L'hanno visto da queste parti lunedì sera?» «Poco dopo mezzanotte.» «Questo quadra con l'ora presunta del decesso stabilita da LaManche. La sua versione qual è?» «Ha qualche problema a ricordarla. Sembra che George alzi un po' il gomito.» «Nessun rapporto con la vittima?» «George è stato per anni un saltuario degli Heathens. Lo utilizzavano come autista e gli lasciavano spacciare un po' d'erba, così l'amico si sentiva importante. Ma era così in fondo alla struttura gerarchica che per respirare doveva usare le bombole.» Un inserviente attirò l'attenzione di Claudel e l'investigatore gli fece cenno di procedere. L'inserviente aprì un sacco mortuario e lo depose sulla
lettiga, mentre l'altro copriva la mano sinistra di Cherokee con un sacchetto di carta marrone. Osservai Claudel e fui colpita da come sembrasse fuori posto. Sulla fronte non aveva una goccia di sudore, i capelli erano perfetti, la piega dei pantaloni impeccabile. Uno spot di Armani nel bel mezzo di un incubo. «Forse ha pensato che questa fosse la sua grande occasione per scalare le vette della scala gerarchica.» Charbonneau. «Sicuramente. Peccato che per un po' George Dorsey non potrà pensare tanto alla carriera.» «Ma abbiamo abbastanza elementi per trattenerlo?» Quickwater. «Se è il caso lo arresto con l'accusa di aver sputato per terra. Da fonti ben informate ho saputo che di recente Dorsey ha messo in giro la voce che stava cercando lavoro. Qualsiasi genere di lavoro. L'avevamo fermato per un altro reato così ho fatto vedere in giro la sua fotografia. Un testimone ha detto di averlo visto da queste parti proprio all'ora in cui Cherokee è stato seccato. E quando sono andato da lui per fare due chiacchiere su questa coincidenza, ho trovato il giubbotto coperto di sangue. Non ti sembra abbastanza?» In quel momento la radio di Claudel produsse una serie di scariche elettrostatiche. L'investigatore uscì dalla porta, ascoltò, parlò nel microfono e infine fece un cenno a Quickwater. I due uomini scambiarono qualche parola poi Quickwater si voltò verso Charbonneau, indicò me e subito dopo la porta. Quando Charbonneau alzò il pollice per conferma, Quickwater salutò e andò via. Claudel tornò da noi. Fantastico. Mi avevano trattata come la loro sorellina minore. Ci sono due stati d'animo che mi mettono in agitazione: sentirmi in trappola e sentirmi inutile, li stavo provando entrambi ed ero inquieta. In quell'appartamento c'era qualcosa che mi disturbava. Sapevo che ero fuori dal mio elemento, ma continuavano a venirmi in mente le diapositive che avevo visto alla sede dell'Operazione Carcajou. In quell'appartamento c'era qualcosa che non quadrava. Che diamine. Non avevo chiesto io di essere portata là. «Ma non hanno fatto le cose diversamente dal solito?» Claudel si voltò verso di me, la faccia contratta nella consueta espressione gelida. «Prego?» «Il fucile a canne mozze non rientra nel modus operandi degli omicidi dei biker, no? E l'incendio mancato?»
Charbonneau sollevò un sopracciglio e fece spallucce. Claudel non disse nulla. «La sensazione, qui dentro, è che gli assassini fossero piuttosto disorganizzati» insistei, decisa a dare il mio contributo. «Mentre nei casi che ho esaminato gli omicidi erano eseguiti con grande efficienza.» «Succedono tante cose» disse Charbonneau. «Magari il killer è stato interrotto.» «Il punto è proprio questo. I biker non sono sempre informatissimi sulle loro vittime? E non scelgono luoghi dove non possano essere interrotti?» «Con un biker morto che lavorava come free lance nel mondo dello spaccio, non dobbiamo controllare i registri della parrocchia per trovare il killer.» La voce di Claudel era gelida. «Ma non dobbiamo nemmeno mettere il cervello in naftalina dopo che la prima ipotesi ci porta dritti dritti da loro» ribattei sarcastica. Claudel mi guardò con gli occhi di chi sta per perdere la pazienza. «Lei sarà anche bravissima a dissotterrare cadaveri e a misurare ossa, signora Brennan. Ma queste capacità non sono cruciali per lo svolgimento delle indagini su questo omicidio.» «È difficile trovare un assassino quando non si sa chi è stato assassinato, Monsieur Claudel. Per caso sarà lei a rimettere insieme la faccia di questo tizio?» Ero avvampata di rabbia. «Non si porrà il problema. Basteranno le impronte digitali.» Lo sapevo, ma l'arroganza di Claudel stava tirando fuori il peggio di me. Charbonneau incrociò le braccia ed espirò a fondo. Claudel controllò l'orologio. Notai lo scintillio di un gemello d'oro. Poi il suo braccio tornò a lambire il fianco. «L'investigatore Charbonneau e io l'accompagneremo a casa.» Dal tono di voce capii che non aveva intenzione di discutere oltre. «Grazie.» Uscendo dalla stanza diedi un'ultima occhiata alla poltrona dove Yves Desjardins detto Cherokee era morto. Ormai era vuota, ma una chiazza rosso scuro segnava il punto dov'era appoggiata la testa. Claudel tenne aperta la porta e io uscii nel corridoio, stringendo le mie borse con una tale forza che le unghie mi entrarono nella carne. Infastidita dall'atteggiamento sprezzante di Claudel, mentre gli passavo accanto non riuscii a trattenere un'ultima stoccata. «Come lei saprà, Monsieur Claudel, io sono l'elemento di collegamento tra l'Istituto di medicina legale e l'Operazione Carcajou. Quindi, le piaccia
o no, lei ha l'obbligo professionale di mettermi al corrente di idee e informazioni, e io mi aspetto che lo faccia.» Con ciò, mi avviai lungo il corridoio e scesi in strada, verso la luce del giorno. 20 Nonostante la giornata di sole, i miei pensieri erano cupi. Quando avevo scelto di entrare nella task force dell'Operazione Carcajou, l'avevo fatto per dare il mio contributo al caso di Emily Anne, non per entrare nel club dell'omicidio-del-giorno. Ripensai a Yves Desjardins, detto Cherokee, e a Savannah Claire Osprey, due vittime lontane tra loro come Charles Manson e la sagra dello zucchero filato. Non riuscivo a togliermi Savannah dalla mente. Continuavo a ripensare all'immagine di quella ragazzina in costume da bagno con le gambette come stuzzicadenti. E continuavo a chiedermi in quale malefica rete fosse rimasta imprigionata. E poi ero tormentata dall'orrore che avevamo appena lasciato. La dinamica coppia seduta in auto davanti a me era convinta che Cherokee fosse stato ucciso dai biker, ma per me in quel luogo c'era qualcosa che non quadrava. Non era una questione di mia competenza, eppure il pensiero non smetteva di ronzarmi in testa. Savannah e Cherokee. Cherokee e Savannah. E Ronald e Donald Vaillancourt, Robert Gately e Félix Martineau. Ed Emily Anne Toussaint, la bambina che andava alla lezione di danza, e pattinava, e amava le cialde. Sembrava che tra quelle vite non ci fosse alcun legame, tranne quello postumo, creato dai fascicoli della Omicidi. Nessuno dei tre aprì bocca. Di tanto in tanto la radio emetteva qualche scarica passando in rassegna i vari canali, diligente nella sua attenzione alle questioni di polizia. Nel sottopassaggio Ville-Marie rimanemmo brevemente intrappolati nel traffico che usciva sulla Beni. Osservai il flusso di automobili dirette verso il centro storico e mi sentii invadere dalla malinconia. Perché ero bloccata lì con Mister Scontroso e il suo socio, con le ossa di una ragazzina in una borsa e la testa piena di immagini di biker mutilati? Perché non ero diretta in Place Jacques Cartier per una serata romantica a base di cenetta a lume di candela, drink e danze cori un innamorato? Perché il piacere di un drink non mi era concesso.
E non avevo un innamorato. Ryan. Lascia stare, Brennan. Questi pensieri ti porteranno dalla malinconia alla depressione. Il fatto è che questa vita te la sei scelta. Potevi limitare le tue analisi alle ossa dei siti archeologici e i tuoi interventi professionali ai libri di scuola o alle aule dove tu parli e gli studenti ascoltano. Hai voluto la bicicletta e adesso devi pedalare, quindi smettila di rimuginare e concentrati sul tuo lavoro. Quando Charbonneau parcheggiò davanti all'Edificio SQ, pronunciai uno stentato «Grazie», sbattei la portiera e mi avviai verso il portone d'ingresso. Prima che fossi arrivata, il mio cellulare trillò. Posai a terra la borsa con le ossa e lo estrassi dalla borsetta. «Zia Tempe?» «Ciao Kit.» La sua voce mi tranquillizzò e infastidì al contempo. Da quando avevo lasciato Raleigh l'avevo chiamato diverse volte ma non aveva mai risposto. «Hai trovato i miei messaggi?» «Sì. Ma ero fuori e quando sono tornato mi sono subito messo a cuccia. Ho pensato che fosse tardi per chiamarti.» Attesi. «Ero con Lyle.» «Per due giorni?» «È un tipo a posto.» A posto? «Siamo andati da quel concessionario. Ehi, non stava affatto esagerando. Là dentro avevano più roba che nella fabbrica delle Harley.» «Hmm.» Posai la portadocumenti accanto alla borsa con le ossa e ruotai un po' le spalle per sciogliere un muscolo indolenzito. Da un camper fermo sul lato opposto della Parthenais arrivava il ritmo martellante della musica hiphop. Il guidatore era seduto di traverso, un braccio appoggiato al volante, l'altro sullo schienale a battere il tempo. «Sarò a casa per le sei» dissi a Kit «Dimmi quello che vuoi mangiare e cercherò di mettere insieme una cena.» «Ti chiamavo appunto per questo. Lyle dice che mi vuole portare allo studio televisivo per assistere alla trasmissione di questa sera.» Un uomo uscì da un appartamento di fronte e scese lentamente i gradini che portavano al marciapiede. Una sigaretta gli pendeva tra le labbra. I ca-
pelli sembravano quelli di un passante sfiorato da un'esplosione. Dal gilè di jeans spuntavano le braccia più tatuate che avessi mai visto: a quella distanza la pelle sembrava blu. L'uomo inspirò una lunga boccata di fumo ed esaminò la strada. Quando mi vide, socchiuse gli occhi come un terrier che ha avvistato un topo. Espirò dalle narici, scagliò via il mozzicone e salì sul camper, dove lo aspettava il fanatico di hip-hop. Mentre si allontanavano, sentii un brivido di freddo, nonostante la calda giornata di sole. «... mai visto dal vivo?» «Cosa?» «Il telegiornale. Sei mai stata nello studio durante la trasmissione?» «Sì. È molto interessante.» «Quindi vuol dire che non ti dispiace se ci vado? Mi piacerebbe molto.» «Ma certo. Ti divertirai. E poi oggi sono davvero esausta.» «Hai scoperto chi è?» Il cambio di argomento mi lasciò spiazzata. «La ragazza. Hai scoperto se è proprio quella che pensavi?» «Sì.» «Wow! Posso dirlo a Lyle?» «Non è ancora ufficiale. È meglio se prima aspetti la dichiarazione del coroner.» «Nessun problema. Allora ci vediamo più tardi.» «D'accordo.» «Sicura?» «Sì, Kit. Non sei il primo uomo che mi scarica.» «Ooh. Non rigirare il coltello nella piaga.» «Ciao.» Lyle Crease. Quel bastardo stava per caso tentando di usare mio nipote per carpirgli le informazioni che non sarebbe mai riuscito a ottenere da me? Arrivata nel mio ufficio, misi sotto chiave i resti di Savannah e consegnai alcuni campioni di ossa a Denis, il tecnico del laboratorio di istologia. Utilizzando un microtomo, avrebbe tagliato delle fette spesse meno di cento micron, poi le avrebbe colorate e montate su vetrini per le analisi. Portai altri campioni alla sezione DNA e ne approfittai per chiedere notizie del bulbo oculare. Mentre aspettavo, sentii un'improvvisa tensione alla nuca e cominciai a massaggiarmi il collo. «Mal di testa?» domandò il tecnico al suo ritorno.
«Un po'.» I risultati non erano ancora pronti. Decisi di andare a parlare con LaManche. Il patologo ascoltò senza interrompere mentre riferivo del mio incontro con Kate e gli mostravo le foto e le copie della documentazione medica. Quando ebbi finito, si tolse gli occhiali e si massaggiò i lati del naso. Poi si appoggiò allo schienale, la faccia priva delle emozioni che in genere suscita la morte. «Chiamerò l'ufficio del coroner.» «Grazie.» «Ha già parlato con quelli dell'Operazione Carcajou?» «Ne ho accennato a Quickwater, ma in questo momento sono tutti concentrati sull'omicidio di Cherokee Desjardins.» In realtà quando gliene avevo parlato, in automobile, Quickwater non mi aveva quasi ascoltata. «Domani parlerò anche a Roy» aggiunsi. «L'agente del North Carolina crede che questa ragazza sia stata uccisa da quelli delle bande?» «Kate Brophy. Diciamo che lo ritiene abbastanza probabile.» «Che lei sappia, esiste qualche collegamento fra le bande di Myrtle Beach e del Québec?» «No.» LaManche trasse un lungo respiro. «Sono passati davvero molti anni dal 1984.» Seduta di fronte al mio capo che, illuminato dal riverbero del San Lorenzo, mi parlava con il suo accento elegante, dovevo ammettere che l'ipotesi del North Carolina suonava bizzarra anche a me. Quello che a Raleigh era sembrato probabile in quel momento mi appariva come un sogno in cui non riuscivo a distinguere la realtà dalla fantasia. «Ci siamo dovute interrompere quando ho ricevuto la chiamata che mi avvertiva del cadavere di Cherokee, ma l'agente Brophy mi ha prestato del materiale proveniente dal fascicolo dell'SBI, comprese delle vecchie foto. Domani porterò tutto alla sede della Carcajou e vedremo che cosa ne viene fuori.» LaManche si rimise gli occhiali. «Questo scheletro rinvenuto in North Carolina potrebbe essere estraneo al caso.» «Lo so.» «Quando crede che le daranno i risultati relativi al DNA?»
Resistetti all'impulso di alzare gli occhi al cielo, ma di sicuro la mia espressione lasciò trasparire tutta la mia impotenza. «Sono pieni di lavoro per via dei gemelli saltati in aria in seguito all'esplosione della bomba, e non hanno voluto fare previsioni.» Mi venne in mente l'occhiata ricevuta dal tecnico quando gli avevo portato i campioni di Savannah. «E poi, come ha detto lei, non è esattamente una morte recente.» LaManche annuì. «Ma è una morte rimasta senza spiegazione, e i resti della vittima sono stati ritrovati in Québec, quindi seguiremo la procedura riservata agli omicidi. Sperando che la SQ faccia altrettanto» aggiunse. In quel momento il suo telefono squillò. Mentre parlava, radunai i documenti sparsi sulla scrivania, e quando riagganciò dissi: «L'omicidio Cherokee non presenta lo stesso modus operandi dei casi più recenti, ma chi può sapere perché la gente uccide?». Mi rispose scarabocchiando qualcosa su un foglietto giallo, la mente ancora concentrata sulla conversazione telefonica. O forse pensò che stessi parlando di un'altra cosa. «A volte Monsieur Claudel può essere brusco, ma alla fine fa sempre centro.» Che diavolo voleva dire? Prima che potessi parlare, il telefono squillò di nuovo. LaManche sollevò la cornetta, ascoltò, poi se l'appoggiò sul petto. «Deve dirmi altro?» Un modo cortese per congedarmi. Ero così concentrata sul commento di LaManche su Claudel che, uscendo dall'ufficio, rischiai di scontrarmi con Jocelyn, la ragazza assunta a tempo determinato. Dalle orecchie le pendevano due grossi orecchini di perline e le mèche dei capelli erano diventate del colore delle violette africane. Mentre ci incrociavamo, aggiustando la valanga di documenti che avevamo in mano, di nuovo rimasi colpita dal candore della sua pelle. Sotto l'aspra luce dei neon, le occhiaie erano color prugna, la pelle pallida come la parte interna della scorza di limone. Mi venne in mente che Jocelyn poteva essere albina. Per qualche motivo mi sentii obbligata a dirle qualcosa. «Come va, Jocelyn?» Mi fissò con uno sguardo che non riuscii a interpretare. «Spero che il lavoro qui all'istituto non sia troppo pesante.»
«Posso cavarmela.» «Certo che puoi. Volevo solo dire che è dura essere l'ultima arrivata.» La ragazza stava per rispondermi, ma una segretaria uscì da un ufficio attiguo e Jocelyn andò via di fretta. Gesù, pensai. Questa ragazza dovrebbe fare un corso di simpatia. Forse se si presenta con Quickwater le propongono un pacchetto due-al-prezzodi-uno. Per il resto del pomeriggio mi occupai dei foglietti dei messaggi. Cestinai quelli dei giornalisti, risposi a quelli dei poliziotti. Studiai una richiesta di Pelletier, il patologo più anziano del Laboratoire. Il proprietario di una casa, a Outremont, aveva ritrovato delle ossa scavando una buca nel pavimento della cantina. I resti erano vecchi e friabili, ma non era sicuro che fossero umani. Niente di urgente. Una volta evasi i messaggi, andai a casa e passai un'altra favolosa serata nella città francese più antica del Nord America. Pizza. Bagno. Baseball in tivù. Birdie resistette fino all'ottavo inning, poi si acciambellò sul letto della camera degli ospiti. Quando andai a dormire, verso le undici e un quarto, si stiracchiò e traslocò sulla poltrona della mia camera. Mi addormentai quasi subito e sognai un serie di situazioni confuse e senza senso. Kit mi salutava da una barca, Andrew Ryan era accanto a lui. Isabelle serviva una cena. Un Cherokee Desjardins senza testa pizzicava brandelli di carne e li lasciava cadere in un sacchetto di plastica. Mi svegliai quando Kit rientrò, ma ero troppo stordita per salutarlo. Ricaddi nell'oblio mentre lui stava ancora armeggiando in cucina. Il mattino dopo ero al lavoro sulle ossa di Pelletier quando Denis entrò nel mio laboratorio. «C'est la vedette!» La protagonista? Oh no. Aprì una copia di Le Journal de Montréal e mi mostrò una mia fotografia scattata alla sede dei Vipers. Accanto c'era un breve articolo che riferiva del ritrovamento di Gately e Martineau e che attribuiva il misterioso terzo scheletro alla sedicenne Savannah Claire Osprey, secondo quanto dichiarato dal coroner, una ragazza americana di cui si erano perse le tracce dal 1984. La didascalia mi descriveva come un membro della task force
Carcajou. «C'est une promotion ou une réduction?» Sorrisi. Mi chiesi se Quickwater e Claudel avrebbero considerato l'errore una promozione o una retrocessione, quindi ripresi il mio lavoro sulle ossa. Fino a quel momento avevo messo insieme due cene a base di agnello, un brasato e più polli allo spiedo di quanti ne avessi previsti. Alle dieci avevo finito e avevo già scritto una dettagliata relazione in cui affermavo che non si trattava di resti umani. Portai la relazione in segreteria e tornai in ufficio per telefonare alla sede dell'Operazione Carcajou. Jacques Roy era in riunione e non si sarebbe liberato prima del tardo pomeriggio. Lasciai il mio nome e il numero di telefono. Provai a contattare Claudel e gli lasciai lo stesso messaggio. Charbonneau. Stesso nome, stesso numero. Per favore chiamatemi. Pensai di ricorrere al cercapersone ma valutai che la situazione non fosse abbastanza urgente. Frustrata, ruotai la sedia e osservai il fiume. Non potevo esaminare la microstruttura delle ossa di Myrtle Beach perché i vetrini non erano pronti. Dio solo sapeva quando avrei avuto i risultati del DNA, o se c'era materiale sufficiente a rilevarne la sequenza. Pensai di chiamare Kate Brophy, ma non volevo assillarla. Era interessata al caso Osprey tanto quanto me, se non di più. Se avesse scoperto qualcosa me lo avrebbe fatto sapere. E adesso? LaManche stava eseguendo l'autopsia di Cherokee. Potevo scendere da lui, e metterlo a parte dei miei dubbi sull'omicidio. No grazie. Il pensiero di studiare un altro biker sparpagliato su un tavolo operatorio non mi allettava per niente. Decisi di ordinare il materiale che mi aveva dato Kate. Ero partita così di fretta che non lo avevo nemmeno guardato. Avevamo stilato un rapido elenco di priorità, chiuso il tutto nella mia cartella, firmato i documenti necessari ed eravamo uscite di corsa per andare all'aeroporto. Svuotai la cartella sulla scrivania, impilai le fotografie alla mia sinistra, le cartelline con i fogli alla mia destra. Presi una busta marrone, estrassi una serie di stampe 13x18 e ne scelsi una. Sul retro erano segnati la data, il luogo, l'occasione, il nome e diversi numeri di riferimento. Voltai la fotografia e fissai la faccia di Martin DeLuccio, detto Deluxe, immortalato il 23 luglio 1992 durante un raduno a Wilmington, in North Carolina.
Aveva una bandana in testa e gli occhi nascosti da un paio di occhiali scuri. Sul giubbotto di jeans senza maniche spiccavano le insegne degli Outlaws: teschio che ride e pistoni incrociati. La mezzaluna inferiore lo identificava come un membro della sezione di Lexington. La carne del biker appariva gonfia, la mascella cascante e da sotto il giubbotto sporgeva una pancia prominente. La macchina fotografica lo aveva colto a cavallo di una potente Harley-Davidson, una lattina di birra nella mano sinistra, un'espressione assente sulla faccia. Deluxe aveva l'aria di uno che ha bisogno di istruzioni anche per usare la carta igienica. Stavo passando all'immagine successiva quando squillò il telefono. Posai Eli Hood, detto Robin, accanto a Deluxe e sollevai la cornetta, sperando che fosse Roy. Non era lui. Una voce grave chiese di me. La pronuncia del mio nome era corretta: lo sconosciuto era sicuramente anglofono. Risposi in inglese. «La dottoressa Brennan sono io.» Ci fu una lunga pausa durante la quale udii dei rumori metallici ed ebbi la sensazione che la persona chiamasse da un posto pubblico. «Sono la dottoressa Brennan» ripetei. Sentii qualcuno che si schiariva la gola, poi il rumore del respiro. Infine una voce disse: «Sono George Dorsey». «Sì?» Quel nome non mi diceva nulla. «Lei è quella che ha tirato fuori le mummie da sottoterra?» Non sentii più nessun rumore, come se George Dorsey avesse coperto il microfono della cornetta con la mano. «Sì.» Eccoci. «Ho letto il suo nome sul giornale di og...» «Signor Dorsey, se lei ha delle informazioni che riguardano quei due individui, dovrebbe rivolgersi a uno degli investigatori responsabili delle indagini:» Che fossero Claudel o Quickwater a occuparsi del circo dei mitomani. «Lei non è nella Carcajou?» «Non nel senso che pensa lei. L'investigatore che...» «Quello stronzo ha la testa così lontana dal culo che ha bisogno di un sonar solo per trovarla.» Con questo attirò la mia attenzione. «Ha parlato con l'agente Quickwater?» «Non posso parlare con un cazzo di nessuno finché questo cretino di un
Claudel mi sta addossò per rompermi le palle.» «Prego?» «Questo pezzo di carta da culo vuole fare un po' di carriera, e così io mi ritrovo in un mare di merda.» Per un istante nessuno dei due parlò. La chiamata sembrava arrivare da una batisfera. «Scommetto che sta cercando di farsi notare dalla CNN.» Ero sempre più impaziente, ma non volevo correre il rischio di perdere informazioni che potevano rivelarsi utili. «Mi ha chiamata per gli scheletrì dissotterrati a Saint-Basile?» Colpi di tosse, poi: «No, merda». E finalmente quel nome mi disse qualcosa. George Dorsey era l'indiziato fatto trattenere da Claudel. «L'hanno incriminata, signor Dorsey?» «Cazzo, no.» «Allora perché la trattengono?» «Quando mi hanno pizzicato, avevo delle anfetamine.» «Perché mi ha telefonato?» «Perché nessuno di questi stronzi ha voglia di ascoltarmi. Non sono stato io a far fuori Cherokee. Quella era roba da bassa manovalanza.» Sentii il cuore battere più forte. «Che cosa intende dire?» «Che non è questo il modo in cui i fratelli trattano i loro affari.» «Mi sta dicendo che l'omicidio di Cherokee non c'entra con le bande?» «Risposta esatta.» «E allora chi l'ha ucciso?» «Porti il culo fin qui e le spiffero tutto.» Non dissi niente. Il silenzio amplificava il respiro di Dorsey. «Non si preoccupi. Non la voglio fregare.» «Non ho motivo di fidarmi di lei.» «E io non la eleggerei Donna dell'Anno. Ma nessuno di questi stronzi ha intenzione di starmi a sentire. Hanno lanciato il D-Day dei cazzoni della polizia e mi hanno piazzato sulla spiaggia di Omaha.» «Sono davvero colpita dalla sua conoscenza della storia, signor Dorsey, ma perché mai dovrei crederle?» «Per caso avete una pista migliore?» Riflettei un istante. George Dorsey aveva fatto centro. E poi quel giorno pareva che nessuno avesse voglia di parlare con me.
Guardai l'orologio. Le undici e venti. «Sarò lì tra un'ora.» 21 La Communauté urbaine di Montréal è suddivisa in quattro circoscrizioni, ognuna con un comando di polizia che coordina l'attività delle divisioni operativa, scientifica e investigativa e da cui dipende un penitenziario. Le persone accusate di omicidio o di reati a sfondo sessuale vengono trattenute in una struttura vicino a place Versailles, all'estremità orientale della città, mentre tutti gli altri attendono la contestazione dei capi d'accusa in uno dei quattro carceri circoscrizionali. Dorsey, accusato di possesso di anfetamine, era finito al penitenziario circoscrizionale di Op South. Il carcere di Op South si trova all'incrocio tra rue Guy e boulevard Rene Lévesque, alla periferia di Centre-Ville. È una zona separatista e federalista, abitata in prevalenza da anglofoni e francofoni, ma anche da cinesi, estoni, arabi e greci; ci sono barboni e benestanti, studenti e operatori di Borsa, immigrati e québécois puri o, come dicono loro, pur laine. La circoscrizione di Op South è chiese e bar, boutique e sexy shop, vecchie case senza ascensore e moderni palazzoni. Gli omicidi di Emily Anne Toussaint e di Yves Cherokee Desjardins erano stati perpetrati entro i suoi confini. Mentre lasciavo la Guy per entrare nel parcheggio, superai un gruppo di manifestanti con cartelli e striscioni. Erano usciti dall'edificio attiguo alla struttura carceraria, invadendo la strada, ed erano per lo più operai che chiedevano un aumento di salario. Buona fortuna, pensai. Forse era l'instabilità politica, forse l'economia canadese in generale, ma la provincia del Québec era nella morsa di una stretta finanziaria. I bilanci avevano subito tagli sostanziosi, i servizi erano stati ridotti. Io non vedevo un aumento di stipendio da sette anni. Varcai la soglia del portone d'ingresso e salii i pochi gradini che portavano alla reception, sulla destra. «Sono venuta per parlare con George Dorsey» dissi alla guardia di servizio. La donna posò la merendina che stava mangiando e mi guardò con aria annoiata. «Lei è nell'elenco?» «Sono Temperance Brennan. Il detenuto ha chiesto di vedermi.» Si strofinò le mani paffute, si tolse qualche briciola di dosso e digitò
qualcosa su una tastiera. Quando si sporse in avanti per leggere i dati sul monitor la luce si rifletté sui suoi occhiali: le schermate passarono rapidamente sulle lenti, poi si fermarono. Riprese a parlare senza alzare lo sguardo. «Carcajou?» mi chiese in tono dubbioso. «Sì.» Almeno, secondo Le Journal era così. «Ha un documento di identità?» Mi guardò e le mostrai il mio pass per l'Edificio SQ. «Niente distintivo?» «Questo è più comodo.» «Deve firmare qui e lasciare gli oggetti personali.» Sfogliò le pagine di un registro, scrisse qualcosa e mi passò la penna. Io annotai l'ora e il mio nome, quindi mi sfilai la borsetta dalla spalla e gliela passai. «Ci vorrà un minuto.» Miss Merendina chiuse la mia borsa in un armadietto, alzò la cornetta e parlottò con qualcuno. Dieci minuti dopo vidi una chiave girare nella serratura di una porta verde di metallo, e una guardia mi fece cenno di entrare. L'uomo era scheletrico e l'uniforme gli pendeva addosso come un abito su una gruccia. Una seconda guardia mi controllò con il metal detector e mi invitò a seguirlo. Mentre percorrevamo un corridoio illuminato da tubi al neon e sorvegliato da telecamere fissate alle pareti e sul soffitto, un enorme mazzo di chiavi gli tintinnava sul fianco. In fondo vidi una grande cella delimitata da sbarre, con una finestra che si apriva sul corridoio in cui mi trovavo. All'interno cinque o sei uomini sedevano o dormivano sul pavimento e su panche di legno, oppure guardavano fuori appoggiati contro le sbarre, come primati in cattività. Oltre la cella degli ubriachi vidi un'altra porta verde di metallo, a destra un cartello con la scritta BLOC CELLULAIRE in grandi caratteri bianchi, e accanto un'altra reception. Una guardia stava riponendo un faldone segnato con le lettere XYZ in uno scaffale suddiviso in scompartimenti. Intuii che un signor Z stesse arrivando. Non avrebbe più visto cintura, lacci, gioielli, occhiali o altri oggetti personali se non al momento del rilascio. «L'uomo è qui dentro» disse la guardia, indicando con un cenno una porta con la scritta ENTREVUE AVOCAT, l'entrata degli avvocati. Sapevo che Dorsey sarebbe entrato da una porta identica ma con la scritta ENTREVUE DÉTENU, riservata ai detenuti.
Lo ringraziai ed entrai in una stanzetta che sicuramente non era stata progettata per risollevare il morale del visitato né quello del visitatore. Le pareti erano gialle, le rifiniture verdi, gli unici arredi un bancone rosso in plastica, uno sgabello fissato al pavimento e un telefono a muro. George Dorsey sedeva dietro un pannello rettangolare di vetro, la schiena curva, le braccia penzoloni tra le gambe. «Prema il pulsante quando ha finito» mi disse la guardia. Quindi uscì, chiudendosi la porta alle spalle, e ci lasciò soli. Dorsey non si mosse ma mi puntò gli occhi addosso finché non arrivai al bancone e sollevai la cornetta. D'un tratto mi sembrò di rivedere il quadro di mia nonna. Gesù con la corona di spine e la fronte coperta di gocce di sangue. Il suo sguardo mi seguiva ovunque. Guardavo, e lui mi guardava. Sbattevo le palpebre, ma lui era sempre lì. Quel quadro era così inquietante che avevo evitato di entrare nella camera di mia nonna per tutta l'infanzia. Dorsey aveva lo stesso sguardo. Agitata da un tremore interno, sedetti sullo sgabello e intrecciai le mani sul bancone. L'uomo che avevo di fronte era asciutto e muscoloso, il naso aquilino e le labbra sottili come rasoi. Dalla tempia sinistra partiva una cicatrice che scendeva lungo la guancia e scompariva in un ciuffo di barba. Aveva la testa completamente rasata, a parte una striscia di capelli a forma di fulmine che finiva proprio sopra la fine della cicatrice. Attesi che sollevasse la cornetta e rompesse il silenzio. Fuori dalla stanzetta udii delle voci e il clangore dell'acciaio contro l'acciaio. Nonostante l'intensità dello sguardo, sembrava che Dorsey non dormisse da un po'. Un'infinità di tempo dopo, Dorsey sorrise. Le labbra scomparvero, sostituite da due file di dentini gialli. Ma negli occhi non aveva nessuna allegria. Con uno scatto staccò la cornetta dal sostegno e la portò all'orecchio. «Lo sa, signora, che lei deve averci proprio un bel paio di palle a venire qui...» Scrollai le spalle. «Ha delle sigarette?» «Non fumo.» Unì i piedi sotto lo sgabello alzando i talloni e prese a muovere nervosamente le gambe. Silenzio. Poi: «Non ho niente a che fare con il lavoretto di Pointe-Saint-Charles». «Questo lo dice lei.» Ripensai al raccapricciante scenario che avevo trovato a Les Appartements du soleil.
«Quello stronzo di Claudel mi sta massacrando i coglioni. Forse è convinto che se mi tiene sotto pressione prima o poi gli dico che sono stato io a seccare Cherokee.» Le gambe aumentarono il ritmo. «L'investigatore Claudel sta facendo semplicemente il suo lavoro.» «L'investigatore Claudel non sa far bene neppure una scoreggia.» C'erano occasioni in cui ero perfettamente d'accordo con quell'affermazione. «Lei conosceva Cherokee Desjardins?» «Ne avevo sentito parlare.» Seguì con il dito un solco sul ripiano del bancone. «Lei sapeva che Cherokee spacciava?» Dorsey scrollò le spalle. Attesi. «Forse la roba gli serviva per uso personale. Ha capito, no? Come una medicina. Ho sentito che aveva problemi di salute.» Si passò il dito tra i peli della barba, poi tornò a occuparsi del solco. «Lei è stato visto nei pressi della casa di Desjardins intorno all'ora in cui gli hanno sparato. Hanno trovato un giubbotto macchiato di sangue nel suo appartamento.» «Il giubbotto non era mio.» «Già. Come i guanti che non erano di O.J. Simpson.» «Ma quale idiota si terrebbe il souvenir di un omicidio?» Non aveva tutti i torti. «Perché lei era da quelle parti?» «Sono affari miei.» Si sporse in avanti di scatto e allargò i gomiti sul bancone. Io trasalii ma non mi spostai di un millimetro. «E comunque quello che ho fatto non c'entrava niente con il lavoretto a Cherokee.» Notai un certa tensione intorno i suoi occhi, e mi chiesi quale scenario stava inventando a mio uso e consumo. Silenzio. «Tu sai chi l'ha ucciso, George?» Errore. «Senti, senti...» Intrecciò le dita e appoggiò il mento sul dorso della mano. «Ma allora io posso chiamarti Tempe?» «Senta, questa non è una visita di cortesia. È stato lei a chiedermi di ve-
nire qui.» Dorsey si voltò di lato e allungò una gamba verso il muro. Cominciò a giocherellare con il filo della cornetta e a scalciare contro il battiscopa con gli anfibi senza lacci. Fuori dalla porta una voce di uomo chiamava un certo Marc. Attesi. Alla fine: «Ascolti, io le dico che quell'omicidio è roba da dilettanti». Dorsey si voltò nuovamente verso di me e mi fissò cercando di farmi abbassare lo sguardo. Alla fine però fu lui a cedere, e aprì e chiuse le dita diverse volte, mentre le lettere F.T.W. sopra le sue nocche cambiavano forma. «E allora?» «Quel lavoretto era roba di serie B. Per il momento è tutto quello che ho da dire.» «In questo caso io non posso aiutarla. Avevamo già stabilito che l'omicidio è stato commesso in modo affrettato.» Di nuovo Dorsey scattò in avanti. «Il suo amico Claudel può anche pensare che sono una merda capace solo di fare il tirapiedi degli Heathens, ma su una cosa si sbaglia di grosso. Io non sono stupido. E nemmeno loro.» Evitai di fargli notare che aveva citato due motivi di errore. «Sarà per questo che lei gli piace.» Dorsey era così vicino al vetro che potevo vedergli i punti neri ai lati del naso. «È una stramaledetta balla. Io non ho ucciso Cherokee.» Guardai la faccia che avevo davanti, a pochi centimetri dalla mia, e per una frazione di secondo la maschera cadde. E in quell'unico istante vidi la paura e l'incertezza. E in quegli occhi risentiti e scuri vidi anche un'altra cosa. Sincerità. Ma subito Dorsey socchiuse gli occhi e la spavalderia tornò. «Voglio arrivare subito al punto. A lei non piace il modo in cui io e i miei amici seguiamo i nostri affari. Lo posso capire. A me non piacciono tutte le sue stronzate su quello che è giusto e quello che è sbagliato. Però lei deve capire una cosa. Continuate pure a torchiare me, ma intanto quelli che hanno ucciso Cherokee saranno liberi di andarsene a spasso.» «Questo è tutto quello che mi può dire, signor Dorsey?» Mi guardò negli occhi; l'odio era così intenso che riuscii quasi a sentirne l'odore. «Potrei metterla al corrente di altre informazioni» disse ispezionandosi le unghie con finta disinvoltura.
«Su che cosa?» «Per il momento non le dico altro. Ma in questi ultimi giorni Cherokee non è stata la sola mummia di cui hanno parlato i giornali.» Cercai di fare mente locale. Stava parlando di Ragno Marcotte? Conosceva l'identità dei killer di Emily Anne Toussaint? Prima che potessi domandarglielo, Dorsey si tirò indietro e mi guardò con un'espressione divertita. «C'è qualcosa di divertente che mi vuole dire?» Dorsey si passò una mano sotto il mento arrotolandosi il pizzetto tra le dita. Spostò la cornetta all'altro orecchio. «Deve dire a quel sacco di merda di lasciarmi in pace.» Feci per andare via, ma le sue parole mi fermarono. «Se lei sta dalla mia parte, le darò la ragazza.» «Quale ragazza?» domandai, sforzandomi di mantenere calma la voce. «Quella creaturina che ha tirato fuori dalla buca.» Lo fissai, così furente che il cuore mi batteva all'impazzata. «Mi dica tutto quello che sa» sibilai. «Facciamo un patto?» Anche se un sorriso gli scopriva i dentini di topo, gli occhi erano scuri come il nono girone dell'Inferno di Dante. «Sta mentendo.» Sollevò le sopracciglia e il palmo della mano libera. «Ma se la verità è il fondamento della mia vita.» «Cerchi di darla a bere a qualcun altro, Dorsey.» Tremante di rabbia, sbattei giù la cornetta e premetti il pulsante. Non sentii l'ultima battuta di Dorsey ma lo guardai in faccia mentre passavo come una furia accanto alla guardia che mi aveva aperto al porta. Le sue labbra erano chiaramente leggibili. Si sarebbe fatto vivo. Per rientrare a casa impiegai quasi un'ora. A causa di un incidente tutte le corsie della 720 erano bloccate, tranne una, e il traffico nel tunnel VilleMarie era ingorgato per chilometri. Quando mi resi conto della situazione, cambiare strada non era più possibile, così non mi restò altro che mettermi in coda insieme a tutti gli altri automobilisti frustrati. Il sottopassaggio di cemento non permetteva di ascoltare la radio, sicché non c'erano diversivi. Dorsey occupò tutti i miei pensieri. Durante il colloquio era teso come una molla, possibile che fosse innocente?
Mi vennero in mente i suoi occhi, e quell'istante in cui la maschera era caduta. Innestai la prima, avanzai di qualche metro, rimisi in folle. Claudel stava seguendo la pista sbagliata? Non sarebbe stata la prima volta. Osservai un'ambulanza farsi largo lungo la corsia d'emergenza sulla destra, proiettando la luce rossa e intermittente sulle pareti della galleria. Che cosa avrebbe detto Claudel della mia visita a Dorsey? Non era difficile immaginarlo. Tamburellai con le dita sul volante. Dorsey sapeva veramente qualcosa di Savannah Osprey? Cambiai corsia e avanzai della lunghezza di un'automobile. Era solo uno dei tanti detenuti che cercava di pararsi il culo? Nessuna risposta. Rividi la faccia di Dorsey, il prototipo del disprezzo "machista" e dell'arroganza antisociale. Quell'uomo era repellente. Eppure, anche solo per un nanosecondo, ero stata certa di vedere in lui la verità. Potevo credergli? Avevo bisogno di credergli? In fondo, se avesse fornito informazioni attendibili su Savannah Osprey in cambio di indagini più approfondite sull'omicidio Cherokee da parte della polizia, che cosa c'era da perdere? Ma era possibile farlo? Non certo tramite Claudel. Dopo quaranta minuti arrivai in prossimità dell'incidente. Un'automobile era rovesciata su un fianco, un'altra era ferma contro la parete della galleria, i fari puntati nella direzione sbagliata. Il fondo stradale luccicava di cocci di vetro e le vetture della polizia e gli automezzi di soccorso circondavano i rottami come una carovana. Mentre osservavo gli addetti posizionare le ganasce per sollevare l'auto capovolta, mi chiesi se i suoi occupanti fossero diretti dov'ero diretta io. Finalmente la coda finì e potei percorrere l'ultimo tratto del tunnel fino all'uscita per de Lorimier; ancora qualche isolato e arrivai al Laboratoire. Quando uscii dall'ascensore, al dodicesimo piano, capii che qualcosa non andava. Alla reception non c'era nessuno e il telefono reclamava inutilmente attenzione. Contai gli squilli mentre attraversavo l'atrio. Cinque. Una pausa, poi riprese a squillare. Inserii il pass e la porta a vetri si aprì. All'interno vidi l'impiegata della reception accanto ai bagni delle donne, occhi rossi, una palla di fazzolettini
di carta in mano. Una segretaria le cingeva le spalle cercando di consolarla. In corridoio, capannelli di persone che parlavano a voce bassa, le facce tese. Sembrava di essere nella sala di aspetto di un reparto di chirurgia. Un altro flashback. Quindici anni prima. Avevo affidato Katy a mia sorella per poter sbrigare delle commissioni. Svoltando l'angolo di casa mia, la stessa paura, la stessa scarica di adrenalina. Frammenti di memoria. Harry e i vicini in strada. Strano vederli insieme, dato che non si conoscevano. La faccia di mia sorella, mascara che colava sulle guance pallide. Le mani che si stropicciavano. Dov'era Katy? Esitazioni. Dio, no. Non Katy. Non la mia bambina. Gli occhi dei vicini, spalancati di comprensione mentre scendevo dalla macchina. McDuff era schizzato davanti a una Buick. Il cane era morto. Sollievo, in seguito dolore. Stavo male, ma mi sarei ripresa. Il mio barboncino era morto, ma mia figlia no. In quel momento, guardando i miei colleghi, provai lo stesso terrore. Che cosa era successo? Dietro la seconda porta a vetri vidi Marcel Morin chiacchierare con Jean Pelletier. Inserii il pass e mi affrettai lungo il corridoio. Il rumore dei miei passi li zittì. Guardarono entrambi verso di me. «Cosa succede?» domandai. «Il dottor LaManche.» Morin aveva gli occhi lucidi. «Ha avuto un collasso mentre eseguiva l'autopsia di Cherokee Desjardins.» «Quando?» «All'ora di pranzo. Stava lavorando da solo. Quando Lisa è tornata l'ha trovato riverso a terra. Aveva perso conoscenza e respirava a fatica.» «È grave?» Pelletier si schiarì la gola. Morin scosse la testa. «È nelle mani di Dio.» 22 Il venerdì, appena alzata, chiamai l'ospedale. Le condizioni di LaManche
si erano stabilizzate, ma era sempre nel reparto di terapia intensiva, e non erano ammesse visite. L'infermiera non aggiunse altro. Sentendomi impotente, ordinai dei fiori, poi feci la doccia e mi vestii. La porta di Kit era chiusa. Non ci incrociavamo dalla cena di mercoledì e non ero sicura di dove fosse stato la sera prima. Arrivata a casa, avevo trovato un biglietto sul frigorifero. Sarebbe rientrato tardi. Non era il caso di aspettarlo sveglia. Non lo aspettai. Mentre preparavo il caffè mi dissi che dovevo chiamare Harry. Mio nipote aveva diciannove anni e aveva superato da un pezzo l'età della sorveglianza stretta, ma volevo capire che tipo di cura genitoriale mi veniva richiesto. E per quanto tempo. Piano piano Kit si stava allargando. Il frigo era stipato di pizze surgelate e di sandwich di pane pita, hot dog, scatole di fagioli e lattine di bevande gassate; sul piano di lavoro una lunga fila di chips al formaggio, triangolini di mais, ciambelle, snack e merendine di ogni tipo. In soggiorno, il televisore era stato convertito in una play station, e un groviglio di cavi si incrociava sul pavimento come un piatto di spaghetti rovesciato per terra. Accanto al battiscopa aveva sistemato una pila di CD, il resto era sparpagliato alla rinfusa sulla mensola del caminetto. Accumulata su una poltrona, una montagna di jeans, calze e pantaloncini spiegazzati; appeso allo schienale di un'altra, uno Stetson. Nell'ingresso, due stivali da cow-boy giacevano dimenticati là dove erano stati gettati con un calcio. Il mio appartamento sembrava un campo di battaglia. Sostituii il biglietto di Kit con una nota di risposta, in cui gli dicevo che sarei rientrata verso le cinque e che avrei gradito la sua compagnia per cena. Dopodiché andai a lavorare. L'atmosfera al Laboratoire era ancora cupa. Durante la riunione del mattino Morin ci comunicò che aveva parlato con la moglie di LaManche. Il patologo era ancora in stato di coma ma le funzioni vitali erano stabili. Per il momento attribuivano le sue condizioni a uno shock cardiogenico. Ci avrebbe chiamati se ci fossero state novità. I casi del giorno furono discussi rapidamente e senza il solito chiacchiericcio. Un albero si era schiantato su un uomo a Dollard-des-Ormeaux, schiacciandolo. Una coppia era stata trovata morta a letto a Pointe-aux-Trembles; probabilmente un omicidio-suicidio. Il cadavere di una donna era stato trovato sulla riva a Rivière-des-Prairies.
Niente per l'antropologa. Perfetto. Sarei stata libera di guardare il materiale che Kate mi aveva prestato. Se Jacques Roy era disponibile, sarei andata fino al quartier generale della Carcajou per avere un suo parere. Alla fine della riunione, presi la mia tazza e andai a bere un caffè. Davanti alla macchinetta trovai Ronald Gilbert che chiacchierava con uno dei nuovi tecnici della sezione. Non conoscevo il suo nome, ma ricordavo di averlo già visto sulla scena del delitto Cherokee. Era l'assistente di Gilbert durante le operazioni di rilevamento degli spruzzi di sangue. Mentre aspettavo il mio turno, colsi qualche parola della loro conversazione e mi resi conto che stavano discutendo proprio quel caso. Tesi l'orecchio per sentire meglio. «No, grazie a Dio non sono tutti così complicati. Sei capitato proprio male alla tua prima uscita.» «La fortuna dei principianti. Si dice così, no?» «Vorrei potermi consultare con LaManche prima di scrivere la mia relazione, ma immagino che non sarà possibile.» «Come sta?» Gilbert scrollò le spalle, mescolò il caffè e gettò il bastoncino di legno che fungeva da cucchiaino in un bidone per i rifiuti. Mentre li osservavo allontanarsi, ripensai all'appartamento di Cherokee e di nuovo ebbi la sensazione che vi fosse qualcosa di strano. Nessuno aveva pensato che si trattasse di un omicidio atipico. Ma allora perché io avevo avuto questo sospetto? Quali erano gli elementi che non mi convincevano? Per il momento, tuttavia, le mie domande dovevano rimanere senza risposte. Mi riempii la tazza, aggiunsi un po' di latte e tornai al mio ufficio, per pensare e bere il mio caffè. Appoggiai le gambe sul davanzale e fissai lo sguardo su una chiatta che risaliva placida il fiume. Che cosa non quadrava nell'appartamento di Cherokee? La porta non era stata forzata. Quindi la vittima aveva aperto di sua spontanea volontà. E allora? Succede. L'incendio fallito? Charbonneau probabilmente aveva ragione. Qualcosa era andato storto e il killer se l'era svignata. Anche i piani migliori possono fallire se eseguiti malamente. Basti pensare al Watergate. Sorso di caffè. Che cosa voleva dire Gilbert con "sei capitato proprio male"? Altro sorso. Che cosa era "così complicato"? Sorso.
Che cosa voleva discutere con LaManche? Chiedere non ha mai fatto male a nessuno. Basti pensare al Watergate. Trovai Gilbert seduto al computer. Quando bussai, ruotò sulla sedia e mi guardò da sopra gli occhiali. Riccioli castani e barba folta, poteva ricordare un eroe della mitologia greca. «Hai un minuto?» «Tutto il tempo che vuoi.» Mi indicò una sedia accanto alla sua. «A proposito del caso Cherokee Desjardins.» «Sì. Ho visto che c'eri anche tu nell'appartamento. Come mai te ne stai occupando?» «In realtà non è proprio così. Ero là perché inizialmente sembrava ci fosse un cadavere carbonizzato. Poi però si è visto che la vittima non era così in cattivo stato.» «Non era in cattivo stato? Ma se sembrava una natura morta dipinta con tessuto cerebrale.» «Be', sì. In effetti volevo parlarti proprio di questo. Avrei voluto chiederlo al dottor LaManche, ma ovviamente per il momento non è possibile.» Gilbert mi guardò perplesso. «Gli investigatori che lavorano al caso Cherokee sono convinti che sia un omicidio dei biker.» Esitai, incerta su come esporre i miei dubbi. «Non riesco ancora a capire cosa, ma sulla scena del delitto secondo me c'era qualcosa di strano.» «Strano?» Gli parlai del mio incarico nell'ambito dell'Operazione Carcajou e di ciò che avevo appreso durante la prima riunione. «Capisco che sono nuova a questo genere di cose, ma forse è appunto per questo che vedo le cose con occhi diversi.» «E che cosa ti dicono i tuoi occhi?» «Che l'omicidio Cherokee non è stato un lavoro ben fatto.» «Nient'altro?» «Che la vittima si è comportata in modo strano. Apparentemente, Cherokee ha fatto entrare il suo assassino. Ti sembra normale per l'ex membro di una banda che si è messo a spacciare in proprio?» Non dissi niente di Dorsey né della sua pretesa innocenza. Ero certa che meno si sapeva della mia visita in prigione, meglio era.
Gilbert mi fissò a lungo, poi sorrise. «Secondo Claudel, sei una rompiballe che ficca il naso dove non deve.» «L'opinione che ho di lui è altrettanto elevata.» Scoppiò a ridere, poi tornò subito serio. «Quanto sai delle analisi degli spruzzi di sangue?» «Non molto» ammisi. «Sei pronta per un corso intensivo?» Annuii. «Va bene. Allora procediamo.» Si appoggiò allo schienale e guardò il soffitto, sicuramente pensando da dove cominciare e come condensare anni di esperienza in una breve lezione. Lo immaginai fare la stessa cosa di fronte a una giuria. «Una goccia di sangue che cade ha una forma sferica per via del duplice effetto della forza di gravità e della tensione superficiale. Pensa a quando ti pungi un dito. Il sangue si accumula sulla ferita fino a che la goccia è in grado di staccarsi e di cadere. Semplice, vero?» «Sì.» «Invece non lo è affatto. Perché in quel momento agiscono forze opposte. La gravita e il peso crescente del sangue "tirano" la goccia verso il basso. Allo stesso tempo la tensione superficiale del sangue cerca di ridurre la superficie esposta della goccia e quindi la "spinge" verso l'alto.» Chiuse i verbi tra virgolette con un gesto delle dita. «La goccia riesce a staccarsi solo quando le forze che "tirano" superano le forze che "spingono". Dapprima ha una forma allungata, poi, mentre cade, si appiattisce per effetto della resistenza dell'aria. Le forze di attrazione della tensione superficiale inducono la goccia ad assumere una forma che esponga la minore estensione possibile di superficie. Perciò le gocce di sangue diventano sfere e perdono la tipica forma a lacrima con cui si è soliti disegnarle. La forma delle gocce è uno dei fattori che prendiamo in considerazione per l'analisi degli spruzzi. «Una macchia di sangue viene prodotta per effetto di una forza che colpisce il sangue fermo. Può essere in una pozza sul marciapiede o all'interno della testa della vittima. Quando viene colpito, il sangue si frantuma in un ventaglio di gocce che si spostano nell'aria in forma di sfere.» Annuii. «Quando queste sfere colpiscono una superficie lasciano segni prevedibili. L'interpretazione del disegno lasciato dagli spruzzi di sangue riguarda le macchie che non seguono le configurazioni tipiche, cioè che per qualche
motivo producono spruzzi e scie alterate, in genere a causa di un'attività violenta. «L'obiettivo dell'interpretazione delle macchie è ricostruire la meccanica dei fatti partendo dalla scena del delitto e procedendo a ritroso. Che cosa è successo? In quale sequenza? Chi era dove? Quali armi sono state usate? Quali oggetti sono stati spostati? Per rispondere a queste domande cerchiamo di capire che cosa ha alterato le gocce di sangue presenti. «Ed è un lavoro molto complesso.» Cominciò ad enumerare una serie di punti sulle dita. «Innanzitutto si deve tenere conto delle proprietà del bersaglio. Il sangue si comporta diversamente se colpisce una superficie liscia o una superficie irregolare.» Primo punto. «La forma. Dato che il rapporto tra ampiezza e lunghezza di una macchia riflette con precisione il suo angolo di impatto, a prescindere dal tipo di superficie, controlliamo con molta attenzione la forma delle macchie.» Secondo punto. «La dimensione dello spruzzo. Le forze deboli o che si muovono lentamente producono spruzzi ampi, mentre le forze intense o che si muovono più velocemente, producono spruzzi più piccoli.» Si fermò con il pollice premuto sull'anulare. «Riesci a seguirmi?» «Sì.» «Tra addetti ai lavori, si parla di spruzzi a bassa, media, alta velocità di impatto, anche se si tratta di definizioni piuttosto relative.» «Puoi farmi degli esempi?» «Possiamo fare di meglio. Vieni con me.» Uscimmo in corridoio e raggiungemmo un frigorifero di acciaio inossidabile dal quale Gilbert prese una bottiglia da un litro etichettata SANG DE BOEUF. «Sangue di bue» mi spiegò. Lo seguii lungo un corridoio laterale fino a una porta senza targhetta. Entrammo in una stanza priva di finestre e quasi interamente tappezzata da fogli di carta bianca. La stanzetta ricordava il teatro di un massacro. Il sangue ristagnava lungo il battiscopa, striava le pareti, colava da chiazze di varie dimensioni situate all'altezza del ginocchio in un angolo della stanza. Sopra ogni macchia, delle annotazioni a matita. «Questa è la stanza per i nostri esperimenti sugli spruzzi» mi spiegò Gil-
bert posando la bottiglia sul pavimento. «Guarda.» La stappò, vi intinse un lungo bastoncino di legno e lo lasciò sgocciolare sulla carta che aveva sotto i piedi. «Gli spruzzi a ridotta velocità di impatto vengono associati alle gocce che cadono passivamente su una superficie. Come il sangue che cola, per esempio. In questi casi la dimensione tipica dello spruzzo è superiore ai tre millimetri di diametro, e il sangue si muove lentamente: dalla normale forza gravitazionale fino a 1,5 metri al secondo.» Osservai le macchiette circolari che aveva creato. «Lo spruzzo a media velocità impatto è prodotto da incidenti come le percosse, le lesioni da trauma contusivo o da coltello. Qui il sangue si muove più rapidamente, a una velocità compresa tra 1,5 e 7,5 metri al secondo.» Mentre parlava, versò una piccola quantità di sangue in un piatto, mi fece segno di stare indietro e lo colpì con il bastoncino. Il sangue schizzò verso l'alto e andò a sporcare la parete. Gilbert mi invitò ad avvicinarmi e indicò alcune macchie. Erano più piccole delle precedenti. «Vedi questi spruzzi? Le dimensioni di uno spruzzo di media velocità sono inferiori, e oscillano fra uno e quattro millimetri di diametro.» Posò il bastoncino. «Ma non sono mai piccole come quelle causate da spruzzi di velocità elevata. Vieni a vedere.» Ci spostammo verso una parete, dove mi indicò una zona che sembrava tinteggiata con uno spray. «Lo spruzzo di velocità elevata implica una velocità superiore a trenta metri al secondo ed è causato da colpi di arma da fuoco, esplosioni e incidenti meccanici. Ricorda una sorta di nebbiolina dove la singola gocciolina misura in media meno di un millimetro di diametro. «Ma attenzione. Non tutti gli spruzzi rientrano perfettamente in una di queste categorie. Il sangue zampillato, schizzato o proiettato complica di molto il quadro.» «In che modo?» «Queste che vedi sono le configurazioni causate da uno spruzzo di velocità compresa tra quella ridotta e quella media, ma sono diverse da quelle che ti ho appena descritto. Per esempio, lo zampillo prodotto da una persona che fa un passo dentro una pozza di sangue fermo lascia uno spruzzo lungo e stretto intorno a una macchia centrale, con pochissime macchie rotonde.
«Il sangue schizzato, invece, è quello sollevato da una persona che corre in una pozza di sangue o che la colpisce violentemente con la mano. Oppure quello che fuoriesce da un fiotto arterioso, o da una testa sbattuta contro il pavimento. Anche in questo caso è presente uno spruzzo lungo dai bordi spinosi che si irradia da una macchia centrale. Ma, a differenza del caso precedente, qui anche i bordi della macchia centrale sono irregolari. «Il sangue proiettato da un'arma lascia un segno ancora diverso. Adesso ti faccio vedere.» Riprese il bastoncino, lo intinse nella bottiglia e disegnò un arco nell'aria. Il sangue scivolò via dalla punta e sporcò la parete sulla destra. Mi avvicinai e studiai la macchia. «Le gocce proiettate sono più piccole di quelle tipicamente presenti in uno spruzzo di velocità ridotta, e più è intensa la forza, più piccole sono le gocce. Inoltre, poiché il sangue si stacca da un oggetto in movimento, questo tipo di spruzzo si configura in scie diritte o leggermente arcuate, e le gocce sono piuttosto omogenee lungo tutta la scia.» «Quindi mi sembra di aver capito che è possibile determinare la natura di un'aggressione sulla base delle dimensioni e della forma dello spruzzo?» «Sì. E nella maggior parte dei casi possiamo stabilire anche dove l'aggressione si è verificata. Torniamo nel mio ufficio così ti mostro un'altra cosa.» Quando ci ritrovammo di fronte al computer, digitò una serie di comandi sulla tastiera. «L'altro giorno, nell'appartamento della vittima, hai visto che stavamo filmando le macchie di sangue, vero?» «Sì.» «Abbiamo utilizzato una videocamera molto semplice, ma è possibile usare anche quella digitale. Abbiamo registrato ogni zona di spruzzo con il riferimento di una riga e di un filo a piombo.» «Perché con il filo a piombo?» «Il programma utilizza quel riferimento per determinare la direzione verticale della macchia.» Gilbert premette un tasto e sullo schermo si materializzò un grappolo di ellissi marroni. «Le immagini della videocassetta vengono inserite nel computer e possono essere richiamate sullo schermo. I singoli fotogrammi vengono registrati sul disco fisso come bitmap. Dopodiché un programma mostra l'immagine di ciascuna macchia in modo che la si possa misurare: le misure
vengono poi utilizzate per calcolare due angoli: quello di direzione e quello d'impatto.» Altri comandi digitati sulla tastiera, e una sagoma bianca ovale andò a sovrapporsi alla macchia al centro dello schermo. Gilbert la indicò. «La direzione dell'asse principale dell'ellisse rispetto al filo a piombo definisce l'angolo di direzione, detto anche gamma di una macchia. È compreso tra zero e trecentosessanta gradi. «L'angolo di impatto, o alfa, invece è compreso tra zero e novanta gradi. E viene calcolato sulla forma dell'ellisse.» «Perché?» «Ricordati che quando la goccia si muove nello spazio ha una forma sferica. Ma quando colpisce il bersaglio si appiattisce e lascia una scia. Questo accade perché la base della goccia in genere striscia contro la superficie.» E illustrò il movimento con un gesto della mano. «Al momento dell'impatto della goccia, la scia è piccola ma poi si allarga fino a che il suo punto più largo corrisponde al diametro della goccia, cioè al punto di maggior ampiezza. A questo punto la scia si restringe fino a diventare molto sottile. Vedi questa?» Mi indicò un ovale allungato con un puntino a una estremità; assomigliava a molti di quelli visti nella stanza per gli esperimenti. «Sembra un punto esclamativo.» «Infetti si chiama così. A volte un puntino di sangue si stacca dalla goccia originaria e salta fino alla testa della scia. Sicché, visto da sopra, lo spruzzo ricorda un girino, o un punto esclamativo, dipende se l'estremità si allunga e basta, o se si stacca completamente. In entrambi i casi la direzione di marcia è chiara.» «Il puntino è rivolto nella direzione in cui si stava muovendo la goccia.» «Appunto. Il programma produce un file contenente i valori degli angoli per ciascuna delle macchie analizzate. È da questi dati che viene calcolato il punto di origine. E, credimi, il computer è molto più veloce del vecchio metodo del filo.» «Fai un passo indietro, per favore.» «Scusami. Questo metodo prevede che un filo venga fissato in corrispondenza della macchia e poi teso nella presunta direzione del movimento. La procedura viene ripetuta per un certo numero di macchie dislocate su tutta la scena del delitto. Ne risulta un intreccio di fili che si estendono dallo spruzzo verso l'origine del sanguinamento, che è il punto in cui tutti i
fili convergono. È una procedura molto laboriosa e lascia un margine di errore molto ampio. Il computer fa esattamente la stessa cosa, cioè disegna dei fili virtuali calcolati utilizzando i dati.» Le sue dita si spostarono sui tasti richiamando una nuova immagine. Le coordinate X e Y si allungavano lungo il lato sinistro e inferiore dello schermo. Una decina di linee formavano un disegno a forma di X, intersecandosi l'un l'altra in un fiocco geometrico. «Questa è una veduta dall'alto di una serie di fili virtuali basati su dodici spruzzi. È difficile ottenere questo punto di vista con il metodo del filo, e tuttavia è proprio quello più utile.» Gilbert digitò altri comandi producendo un'altra immagine. Le linee questa volta scendevano tutte insieme dall'angolo in alto a sinistra dello schermo verso quello in basso a destra, convergendo in un punto situato a due terzi dalla base dello schermo e aprendosi leggermente, come il gambo di un mazzo di fiori secchi. «Il programma è anche in grado di fornire una vista laterale, che è necessaria per stimare l'altezza dell'origine del sangue. Combinando le due viste si ottiene un'idea molto precisa del punto di convergenza e, quindi, della posizione della vittima.» Gilbert si voltò verso di me. «Allora, che cosa vuoi sapere della scena del delitto Cherokee?» «Tutto quello che puoi dirmi.» Per i successivi quaranta minuti ascoltai e osservai, interrompendo solo per chiedere chiarimenti. Gilbert mi guidò attraverso il bagno di sangue trovato nell'appartamento con pazienza e precisione. Ciò che mi disse rafforzò la mia convinzione che Claudel ci stava portando in una direzione sbagliata e pericolosa. 23 Lo schermo era occupato da centinaia di puntini, che ricordavano la pittura spray già vista nella stanza degli esperimenti di Gilbert. Tra questi notai particelle di carne e di ossa. «Stai osservando una sezione della parete nord, proprio dietro la poltrona della vittima. Quello è uno spruzzo in avanti.» «Spruzzo in avanti?» «Prodotto dai pallini fuoriusciti dalla testa di Cherokee. Il sangue di un foro d'entrata produce uno spruzzo indietro. Guarda questa.»
Gilbert toccò la tastiera e sullo schermo comparve una nuova immagine. Anche questa era una spruzzata simile di sangue nebulizzato, ma meno densa e priva delle particelle più consistenti di tessuto. «Questa viene dal televisore. Quando i pallini hanno colpito Cherokee, il sangue è schizzato all'indietro.» «Quindi è stato colpito mentre era seduto sulla poltrona?» «Sì.» Digitò una serie di comandi e l'immagine fu sostituita da una vista della poltrona in cui era stato ritrovato il cadavere. Fasci di linee si dipartivano in diagonale dalla parete e dal televisore, incrociandosi in un punto al di sopra della poltrona. «Ma il fucile è stato solo la ciliegina sulla torta. Se non era già morto, ci mancava poco. Guarda quest'altra.» Altri comandi. Altra immagine. Questa volta con puntini più grandi e maggiore varietà di dimensioni. «Questo è uno spruzzo di media velocità. L'abbiamo trovato nell'angolo nord-ovest dell'appartamento.» «Ma...» «Aspetta.» Richiamò un'altra immagine. Questa mostrava puntini leggermente più grandi dei precedenti, ma più omogenei nelle dimensioni. La forma variava da ovoidale a rotonda. Gilbert ridusse l'ingrandimento dell'immagine e vidi che gran parte di quello spruzzo si distribuiva lungo una linea curva con alcune gocce su entrambi i lati dell'arco. «Questa viene dal soffitto.» «Dal soffitto?» «Questa è quella che in gergo chiamiamo configurazione da proiezione. E prodotta dal sangue proiettato da un oggetto in movimento, come il mio bastoncino, ricordi? Quando colpisce, l'aggressore ritira bruscamente l'arma e poi riparte per un secondo colpo invertendo la direzione del movimento. Gran parte del sangue viene proiettato durante la brusca ritirata dell'arma, sempre che ci sia forza sufficiente, ma una parte può anche schizzare via con il colpo successivo.» Mi indicò alcune gocce al centro della scia. «Questi sono gli spruzzi originati dalla brusca ritirata dell'arma.» Mi indicò alcune gocce sul margine dell'arco. «Questa configurazione, invece, è quella derivata da un colpo discenden-
te.» Mi ci volle qualche istante per assorbire la spiegazione. «Quindi tu stai dicendo che prima di sparargli l'hanno massacrato di botte?» «Questa scia è una delle cinque che abbiamo potuto individuare. In genere, supponendo che le ferite da trauma contusivo siano l'unica origine del sangue, o quanto meno la principale, il numero di scie equivale al numero dei colpi più due.» «Perché più due?» «Perché il primo colpo non provoca sanguinamento, mentre con il secondo il sangue viene raccolto dall'arma e quindi proiettato mentre l'aggressore prepara il terzo colpo.» «Chiaro.» «Questo spruzzo di media velocità è stato trovato lungo la parte bassa delle pareti e sulle porcherie ammucchiate nell'angolo.» Digitò altri comandi e comparvero altre immagini in cui le linee convergevano in un punto a meno di mezzo metro dal pavimento. «Per come la vedo io, Cherokee è stato picchiato vicino all'angolo della stanza, è caduto a terra e qui è stato colpito ripetutamente. Dopodiché è stato messo a sedere sulla poltrona e colpito con il fucile.» «E con cosa l'hanno picchiato?» Gilbert sporse le labbra. «Questo non spetta a me stabilirlo.» «Ma perché picchiarlo a sangue e poi sparargli?» «Di nuovo, non sta a me stabilirlo.» «Ma se l'hanno trascinato, non dovrebbe esserci una scia?» «L'aggressore potrebbe averla ripulita. E poi non dimenticare che c'era sangue dappertutto, e che le persone sulla scena del delitto erano così numerose che non è stato possibile procedere ai rilevamenti delle macchie sul pavimento.» «E poi anche il fuoco potrebbe averne cancellato una parte.» «Almeno sul tappetino. Potremmo usare il Luminol, ma non cambierà il responso che mi hanno dato gli spruzzi.» Stavo ancora riflettendo quando Gilbert riprese a parlare. «C'è dell'altro.» «Dell'altro?» Per l'ennesima volta digitò qualcosa sulla tastiera. Di nuovo sullo schermo comparve la nebbiolina dello spruzzo di sangue schizzato a velocità elevata. Ma questa volta in un punto dello spruzzo mancava una por-
zione della scia, come succede quando si usa una vernice spray su uno stencil. «Questa è un'altra immagine relativa alla parete dietro la testa della vittima. Si chiama configurazione vuota, e ricorre quando un oggetto che si frappone tra il sangue e il bersaglio in seguito viene rimosso.» «Quale oggetto?» «Non lo so.» «E chi l'ha rimosso?» «Non lo so.» Mentre tornavo velocemente nel mio ufficio, le parole di Dorsey mi tornarono in mente, sovrapponendosi a quelle di Gilbert come una voce fuori campo. Roba da dilettanti. Quelli che hanno ucciso Cherokee sono liberi di andarsene a spasso. Sollevai la cornetta e digitai il numero. Una segretaria mi disse che Jacques Roy era andato a Val-d'Or e non sarebbe stato reperibile fino al lunedì successivo. Spazientita, cercai Claudel. Ma non trovai né lui, né il suo collega della Carcajou. Pensai di ricorrere al cercapersone, ma di nuovo decisi che la situazione non era così urgente e lasciai un messaggio a entrambi. Non feci quasi in tempo ad abbassare il ricevitore che il telefono squillò. «Devo mandarti il più grande cesto di frutta del mondo?» «Ciao, Harry.» Come sempre, mia sorella parlava come se fosse reduce da un immane sforzo fisico. «Perché hai il fiatone?» «Aikido.» Non le chiesi nulla. «Il mio piccolo per caso ti ha spinto nuovamente verso i paradisi artificiali dell'alcol?» «Va tutto bene, Harry.» «Sei sempre così allegra di venerdì?» «No, ma ho appena ricevuto delle notizie poco rassicuranti. Allora, che mi racconti?» «Suppongo che tu sappia che Kit e Howard sono di nuovo in rotta.» «Ah sì?» Avevo avuto qualche sospetto, ma non avevo domandato nulla. «Tutto come quella volta del golf cart.»
Ricordavo l'episodio. Quando Kit aveva quindici anni, aveva sottratto dal club di Howard una di quelle automobiline usate sui campi da golf. Il cart era stato ritrovato il mattino dopo, semisommerso in un ostacolo d'acqua alla quindicesima buca, con una mezza bottiglia di tequila nello spazio posteriore. Il paparino era uscito dalla grazia di Dio, e Kit aveva tagliato la corda. Una settimana dopo mio nipote si era presentato da me a Charlotte, ma dato che l'ultimo tratto di autostop non era stato fortunato, doveva novantasei dollari a un tassista. Katy e Kit avevano subito legato, e mio nipote si era fermato da me per tutta l'estate. «E perché hanno litigato?» «Non ne sono sicura, ma credo c'entrasse l'attrezzatura da pesca. Si sta comportando bene?» «Veramente, non ci vediamo quasi mai. Credo che si stia facendo degli amici.» «Lo conosci. Comunque, se potessi tenere il delinquentello lì con te per un po' mi faresti un vero piacere. Credo che lui e suo padre abbiano bisogno di stare un po' lontani per qualche tempo.» «Ma scusa, Howard non vive ad Austin?» «Sì.» «E Kit non sta a Houston con te?» Se quello non era stare lontani... «Vedi, Tempe, il problema è un altro. Ho programmato questo viaggio in Messico da un sacco di tempo e dovrei partire domani. Se rinuncio alla partenza, non mi restituiscono neanche un centesimo, e inoltre Antonio non gradirebbe affatto. Ma, ovviamente, tu sei libera di non accettare, e in tal caso io rinuncerei al mio viaggio.» «Ecco...» Mi chiesi se Antonio c'entrasse qualcosa con l'aikido. Per Harry, un uomo nuovo in genere significava un nuovo interesse. «Non potrei sopportare di lasciare Kit da solo a casa mia per una settimana, e in questo momento non posso mandarlo da suo padre. Ma dato che adesso è lì con te, e tu hai detto che non ti sta dando problemi...» Lasciò la frase in sospeso. «Sai bene che avere qui Kit mi fa piacere.» Ma non necessariamente questa settimana, pensai. «Tempe, se questo ti crea anche solo un minimo problema, ti prego di dirmelo, e cancello quel volo più velocemente...» «Vorrei sapere che tipo di controllo devo esercitare - secondo te - su tuo
figlio.» «Controllo?» Sembrava del tutto disorientata. «Guida? Ruolo del genitore? Mai sentito parlare di questa roba?» «Andiamo, Tempe, torna su questa terra. Kit ha diciannove anni. Un genitore non può tenere un figlio sotto controllo per tutta la vita. Quel ragazzo è nato per vivere, ed è quello che farà. Mi basta che torni a casa ogni giorno, che sia tutto intero e non ricercato dalla polizia. E poi non voglio che usi la casa come un ritrovo per ubriaconi minorenni. Questo però non significa che devi farti mettere i piedi in testa da lui. Devi pretendere che si tenga a posto la sua roba e che lavi i piatti almeno una volta ogni tanto.» Mi vennero in mente i vestiti ammonticchiati in soggiorno. «Anzi, adesso lo chiamo e mi assicuro che abbia capito che la tua casa non è un deposito dove accumulare tutto quello che gli salta in mente di comprarsi.» «Quanto starai in Messico?» «Dieci giorni.» «E se lui vuole tornare a casa prima che tu sia rientrata?» «No problem. Howie gli ha dato almeno undici carte di credito diverse. Tu devi solo fargli capire che un ritorno anticipato significa Austin, e non Houston. E non lasciare che si deprima. Ma tu sei molto brava in queste cose, no? E poi lo sai che Kit per te ha un debole.» Eravamo alla sviolinata. «Lo terrò a mente per quando impegnerà l'argenteria di nonna. Divertiti. E lascia un numero dove poterti rintracciare.» Mentre abbassavo la cornetta Claudel entrò nel mio ufficio, la faccia così tesa che le ossa sembravano voler schizzare via dalla pelle. Venne a sedersi sulla sedia di fronte alla mia scrivania. Fantastico. «Bonjour, Monsieur Claudel.» Non mi aspettavo nessuna risposta. Non la ottenni. «Lei ha fatto una visita non autorizzata in carcere.» «Il signor Dorsey le ha riferito della nostra conversazione?» domandai con aria innocente. «Lei ha interrogato il mio indiziato.» «Per caso quell'uomo è di sua proprietà?» «Lei non appartiene alla Omicidi, e non è nemmeno un investigatore.» Claudel si sforzò di controllare il tono della voce. «Lei non ha nessun motivo di ficcare il naso nei miei casi.»
«È stato Dorsey a chiamarmi.» «Avrebbe dovuto indirizzarlo a qualcun altro.» «Ha chiamato me perché aveva la sensazione che lei non l'avrebbe ascoltato.» «Quell'uomo la sta solo usando per interferire con le mie indagini.» «Senta Claudel, ma perché non vuole nemmeno prendere in considerazione l'ipotesi che questa pista non sia quella giusta?» «Lei sta tirando troppo la corda, e inoltre non sono tenuto a darle nessuna spiegazione.» «La pista Dorsey è davvero molto debole.» «Peccato però che questa sia la mia pista debole, signora, e non la sua.» «Lei è convinto che Cherokee sia stato assassinato dai biker» dissi senza scompormi. «Bene, allora le ricordo che io ho ricevuto un incarico temporaneo nell'Operazione Carcajou.» «E io sto facendo il possibile per farglielo revocare, il suo incarico» ribatté Claudel, trattenendo a stento l'irritazione. «Ah, davvero?» Mi sentii avvampare. «Non ho intenzione di discutere oltre, signora Brennan. Stia alla larga dalle mie indagini.» «Io non prendo ordini da lei!» «Vedremo.» «Abbiamo già lavorato insieme altre volte, e con ottimi risultati.» «Questo non fa di lei un investigatore, né le dà il diritto di prendere iniziative personali in un caso di mia competenza.» «Lei non può neanche immaginare quanto mi stia sottovalutando, Monsieur Claudel.» Claudel si ricompose e respirò a fondo. Riprese solo quando si fu calmato. «Continuare questa conversazione è inutile.» Concordai. Si alzò e raggiunse la porta, la schiena rigida come quella di un fantino di dressage. Prima di uscire si voltò, alzò la testa e mi disse: «C'è un'ultima cosa che le devo dire, signora Brennan». Attesi. «Questa mattina George Dorsey è stato formalmente accusato di omicidio di primo grado» mi disse gelido. Dopodiché se ne andò. Trassi un lungo respiro e cercai di rilassarmi, quindi mi sedetti a guarda-
re i bambini che giocavano a palla nel cortile di una scuola, dodici piani sotto di me. Ero arrabbiata per Dorsey. Ero frustrata dall'ostinato rifiuto di Claudel di stare ad ascoltare. Ero mortificata dal fatto che stesse cercando di sollevarmi dall'incarico nella Carcajou. Ero furiosa con Claudel, ma lo ero altrettanto con me stessa. Detesto perdere il controllo, ma quando discutevo con Claudel sembrava proprio che fossi incapace di mantenere la calma. E non era tutto. Odiavo ammetterlo, ma quell'investigatore mi metteva in soggezione. E cercavo ancora la sua approvazione. Credevo di aver guadagnato qualche punto rispetto al passato, invece era ovvio che quell'uomo continuava a considerarmi con disprezzo. E mi bruciava. E poi sapevo benissimo che avevo sbagliato a non avvertirlo del colloquio con Dorsey. Lavorare in un team investigativo implica che tutte le informazioni siano messe a disposizione della squadra. Giustamente. Ma dato che sapevo che Claudel non mi avrebbe mai considerato parte del team, avevo deciso di non informarlo. Peccato che lui fosse uno degli investigatori incaricati del caso Cherokee. Con il mio comportamento, gli avevo fornito un'ottima arma da usare contro di me. «Al diavolo anche Claudel.» Distolsi lo sguardo dal pallone da calcio ed esaminai il contenuto del mio ufficio. Articoli da archiviare. Moduli da firmare per la distruzione dei resti. Messaggi telefonici. Una portadocumenti colma di informazioni sui biker. Fermai lo sguardo su una pila di fotocopie ammassate in un armadietto d'angolo. Perfetto. Era un lavoro che rimandavo da mesi. Decisi di prendere le distanze da quel ginepraio di ossa, di biker e di investigatori intrattabili, dedicandomi all'aggiornamento del mio database dei casi conclusi. E così feci fino al momento di andare casa. Rientrando, passai al supermercato della fermata della metropolitana di Papineau e comprai gli ingredienti per una pasta alla puttanesca. Mi chiesi se Kit avrebbe gradito le acciughe e, nel dubbio, presi anche quelle. Avrei fatto esattamente ciò che facevo con Katy quando preparavo un pasto esotico: lo avrei messo di fronte al piatto compiuto. La cucina serale era un punto controverso. Ma quando arrivai a casa trovai solo Birdie ad accogliermi. Gli stivali e i mucchi di vestiti erano spariti e una enorme composizione floreale troneggiava sul tavolo della sala da pranzo. Sullo sportello del frigorifero notai un messaggio.
Mio nipote era dispiaciuto, molto dispiaciuto. Ma aveva preso un impegno che non poteva assolutamente disdire. Disegnino con faccina triste. Ma prometteva di dedicarmi l'intera giornata di sabato. Disegnino con faccina sorridente. Sbattei le borse sul piano di lavoro, andai in camera da letto e mi tolsi le scarpe con un calcio. All'inferno. Che caspita di vita era quella? Un altro venerdì sera con gatto e televisore. Forse Claudel avrebbe apprezzato una cena. Se non altro avrei dato un senso alla mia giornata. Mi spogliai, gettai gli abiti su una sedia e mi infilai un paio di jeans e una felpa. È colpa tua, Brennan. Ammetterai che non sei esattamente una reginetta di simpatia. Cercai in giro per la stanza le scarpe da vela e mi spezzai un'unghia mentre le infilavo. Erano secoli che non mi sentivo così giù di corda. E così sola. L'idea mi saltò in mente senza preavviso. Chiama Ryan. No. Andai in cucina e cominciai a svuotare i sacchetti della spesa. La faccia di Ryan occupava tutti i miei pensieri. Chiama. È finita. Ripensai a un punto sotto la sua clavicola sinistra che accoglieva la mia guancia alla perfezione. Un punto così sicuro, così tranquillo, così protetto. Chiamalo. L'ho già fatto. Parla con lui. Non voglio sentire le sue inutili scuse. O le sue menzogne. Forse è innocente. Jean Bertrand ha detto che le prove sono schiaccianti. Arrivata alle scatole di pelati, la mia fermezza cominciò a vacillare, ma terminai di svuotare le borse, che poi appallottolai e stipai sotto il lavello. Riempii la ciotola di Birdie. Infine andai al telefono del soggiorno. Quando vidi la spia, mi sentii stringere lo stomaco. Premetti il pulsante. Isabelle.
L'atterraggio fu come quello di un ginnasta dopo un volteggio eseguito male. La segreteria diceva che avevo due messaggi non cancellati. Premetti ancora, sperando che Kit li avesse ascoltati e dimenticati lì. Il primo era di Harry, che cercava suo figlio. Il secondo messaggio era sempre per Kit. Mentre ascoltavo, sentii la peluria alla base del collo rizzarsi, e il respiro mi si bloccò in gola. 24 Dopo aver tentato invano di decodificare il confuso messaggio che parlava di un incontro, lasciato a Kit da un certo "Predicatore", conclusi che con molta probabilità c'entravano delle Harley, e non certo quelle di un motoclub di provincia. Pensai che avrei dovuto aspettare. Decisi di non farlo. Composi il numero di Ryan d'impulso. Mi rispose la segreteria telefonica. Totalmente demoralizzata, me ne andai a letto. Dormii un sonno agitato che vide i miei pensieri comporsi, come i frammenti colorati di un caleidoscopio, in immagini distinte, e subito coagularsi in motivi senza significato. Gran parte delle scene includevano la presenza di mio nipote. Kit che guidava il pick-up in una galleria di alberi. Kit con le braccia cariche di fiori. Kit su una Harley, dietro di lui Savannah Osprey e accanto due biker a fargli da sostegno. A un certo punto udii il bip del sistema antifurto, seguito dal rumore del vomito e dello scarico del gabinetto. Tra un'immagine e l'altra di mio nipote, il mio inconscio proponeva qualche idea per la colonna sonora. Lord of the Dance continuava a ripetere. Una musica che era come le pulci in un tappeto: una volta lì, era impossibile scacciarla. Dante, dance, wherever you may be... Quando la luce pallida e grigiastra del primo mattino illuminò i margini della persiana, mi svegliai. Mi coprii la feccia con un cuscino, lo abbracciai e avvicinai le ginocchia al petto. I am the lord of the dance said he...
Alle otto cedetti. Perché prendersela? ragionai. Il problema non è alzarsi presto. Il problema è doversi alzare presto. E quella mattina nessuno mi obbligava a farlo. Era una mia scelta. Saltai giù dal letto e mi infilai gli stessi vestiti del mio venerdì sera in compagnia di Birdie e del televisore. Un "Brennanismo": quando non si sa dove va a parare la giornata, vestirsi comodi. Mentre la Krups mi preparava un cento per cento arabica, sbirciai fuori dalla porta finestra. Pioveva forte. I rami e i tronchi erano lucidi, le foglie e i cespugli oscillavano, l'acqua formava pozzanghere nel cortile di mattoni. Solo i crochi sembravano felici. Ma chi volevo prendere in giro? Quella era la classica mattinata da passare a letto. E invece tu non la passerai a letto. Quindi cerca di fare qualcos'altro. Mi misi un giubbotto e scesi dal giornalaio per comprare la Gazette. Rientrata a casa, trovai Birdie accoccolato su una poltrona della sala da pranzo, pronto per il nostro rituale del sabato. Versai un po' di corn-flakes in una scodella, aggiunsi del latte e la posai vicino al giornale. Presi anche una tazza di caffè e mi accinsi a una lunga lettura. Birdie mi osservava, nella certezza che tutti i fiocchi di cereali rimasti sarebbero stati suoi. Una commissione per i diritti civili delle Nazioni Unite aveva aspramente condannato il Canada per il trattamento riservato alle popolazioni autoctone. Dance, dance... L'Equality Party festeggiava il decimo anniversario della fondazione. Ma che cosa avevano da festeggiare, poi? Alle ultime elezioni non avevano ottenuto nemmeno un seggio. Il partito era stato fondato in seguito a una crisi linguistica, ma negli ultimi dieci anni il problema non era stato molto sentito e il partito ormai si reggeva con le ventose. Potevano solo sperare in un'altra insurrezione linguistica. Il Canal de Lachine avrebbe beneficiato di uno stanziamento di milioni di dollari per la ristrutturazione. Quella era una buona notizia. Mentre mi versavo dell'altro caffè e davo a Birdie il suo latte, ripensai al luogo in cui Kit e io eravamo andati a pattinare la domenica precedente. La pista ciclabile si snodava lungo il canale, quindici chilometri di acqua in-
quinata da tossine e scarichi industriali. Ma non era sempre stata una fogna. Costruito nel 1821 per aggirare le rapide Lachine, e assicurare così alle navi provenienti dall'Europa il collegamento diretto con i Grandi Laghi, il canale era perfettamente integrato nell'economia della città. Finché non venne aperto il St. Lawrence Seaway, nel 1959, e l'imboccatura del canale e alcuni bacini collaterali vennero riempiti con la terra rimossa durante la costruzione della rete metropolitana. Il Canal de Lachine, ormai compromesso da un secolo di inquinamento industriale, venne chiuso alla navigazione e, se si esclude la costruzione della pista ciclabile, cadde nel dimenticatoio coinvolgendo nella sua triste sorte i quartieri limitrofi. Di recente era stato varato un piano per la riqualificazione dell'intera zona sud-occidentale della città, e il canale, insieme al Parc du Mont-Royal, progettato da Frederick Law Olmstead intorno al 1880, era stato l'elemento di punta di questo rinascimento. Forse è arrivato il momento di comprare un altro appartamento. Tornai al tavolo e passai a un'altra pagina. La RCMP doveva spremere dal suo bilancio più di ventuno milioni di dollari per coprire gli aumenti retributivi. Il governo federale avrebbe contribuito solo per una parte. Ripensai agli operai che avevo visto manifestare sulla Guy. Bonne chance. Gli Expos avevano perso con i Mets per 10 a 3. Accidenti. Forse Piazza valeva realmente i novantun milioni scuciti dalla Grande Mela per averlo. I nuovi capi d'accusa contestati a Dorsey erano a pagina cinque, accanto a un articolo sulla pirateria in Internet. L'unica cosa che riuscii a scoprire fu che Dorsey era stato incriminato nel tardo pomeriggio di venerdì e poi trasferito da Op South al carcere statale di Rivière-des-Prairies. Alle dieci telefonai all'ospedale. La signora LaManche mi riferì che le condizioni del marito erano stabili ma lui ancora non comunicava. Mi ringraziò e rifiutò garbatamente la mia offerta di aiuto. Mi sembrò sfinita e sperai che le figlie fossero lì a sostenerla. Suddivisi i vestiti da lavare e caricai una lavatrice di bucato bianco. Poi mi infilai pantaloncini, maglietta e scarpe da ginnastica, percorsi un tratto di strada lungo la McKay e la Sainte-Catherine e salii all'ultimo piano dell'edificio che ospitava la mia palestra. Venti minuti di corsa sul tapis-roulant, altri dieci con lo stepper, mezz'o-
retta con i pesi. Fine. Il mio solito programma. Entro. Mi alleno. Esco. La mia palestra mi piace per questo. Niente ambiente hi-tech. Niente personal trainer. Pochissime tutine superaderenti. Quando uscii, la pioggia era cessata e la coltre di nuvole si stava sfilacciando. Sulla montagna si era aperta una macchia di azzurro particolarmente promettente. A casa ritrovai lo stesso silenzio che avevo lasciato. Birdie stava smaltendo con una pennichella i cereali e il latte; mio nipote stava smaltendo allo stesso modo qualcosa che non volevo immaginare. Dance, dance... Controllai la segreteria telefonica. La spia dei messaggi era immobile. Nessuna risposta da Ryan. Come per tutte le chiamate più recenti al suo numero, la segreteria continuava a non richiamare. Va bene, Ryan. Ricevuto forte e chiaro. Dopo una doccia e un cambio d'abiti, tornai al tavolo della sala da pranzo. Suddivisi il materiale che Kate mi aveva prestato. Fotografie a sinistra, documenti a destra. Di nuovo, cominciai dalle foto. Diedi un'occhiata a Martin DeLuccio detto Deluxe e a Eli Hood detto Robin, cui seguirono una decina di altri elementi della stessa specie: barba, baffi, pizzetto, barba di tre giorni. Passai a un'altra busta. Delle foto a colori caddero sul tavolo. Quasi tutte erano sfocate e male inquadrate, come se fossero state scattate in fretta e di nascosto. Le guardai rapidamente. L'ambientazione era prevedibile. Parcheggi. Piscine di motel. Grigliate. Eppure la qualità amatoriale delle immagini rendeva quelle scene più convincenti, conferiva loro una vivacità che mancava alle fotografie scattate dai poliziotti in appostamento. Mentre scorrevo le immagini, notai una serie di situazioni casuali catturate da turisti, commessi, automobilisti di passaggio, ciascuna con la storia di un incontro casuale, di un incrocio fortuito del mondo regolare con quello sommerso. Attimi di attrazione e di paura impressi in uno scatto. Cuore che batte, mani sudate, puntare l'obiettivo prima che moglie e figli tornino dalla toilette. Ne raccolsi una e la studiai attentamente. Una stazione Esso. Sei uomini a cavallo delle loro Harley, a venti metri dalla macchina fotografica eppure lontani un intero universo. Potevo sentire il timore reverenziale del foto-
grafo, la sua attrazione-repulsione per l'aura che circondava questi fuorilegge del mondo motociclistico. Per un'ora non feci altro che esaminare mucchi di fotografie. Da Sturgis in South Dakota, a Daytona Beach in Florida, scattate da un poliziotto o da un comune cittadino, le immagini ritraevano situazioni e partecipanti noiosamente simili. Raduni. Campeggi. Incontri per barattare oggetti di comune interesse. Bar. All'una avevo visto abbastanza. Era arrivato il momento di fare quattro chiacchiere con mio nipote. Mi preparai alla conversazione e andai a bussare alla camera degli ospiti. Nessuna risposta. Bussai più forte. «Kit?» «Eh?» «È l'una passata. Vorrei parlarti.» «Mmmin.» «Sei sveglio?» «Uhmm.» «Non rimetterti a dormire.» «Dammi cinque minuti.» «Colazione o brunch?» «Sì.» La considerai una risposta affermativa per la seconda possibilità, che era la mia preferita, e preparai dei sandwich al prosciutto e formaggio conditi con salsa all'aneto. Mentre radunavo il materiale di Kate per fare spazio sul tavolo, sentii una porta aprirsi e del movimento in bagno. Quando mio nipote finalmente si presentò a mangiare, mi fece quasi perdere l'ispirazione. Aveva gli occhi cerchiati di rosso, il viso pallido come uno straccio, i capelli sparati in ogni direzione. «'Giorno, zia.» Alzò le braccia per stropicciarsi la faccia, e notai il bordo di un tatuaggio che spuntava da sotto la manica della maglietta. «Ormai è pomeriggio.» «Scusa. Ma sono tornato un po' tardi.» «Sì. Sandwich al prosciutto?» «Certo. C'è una Coca?» mi chiese con la voce impastata. «Solo una Diet.» «Va bene lo stesso.» Presi due lattine e mi sedetti a tavola. Kit guardava i sandwich come fos-
sero scarafaggi schiacciati. «Se ti sforzi di mangiare qualcosa ti sentirai meglio» cercai di incoraggiarlo. «Devo solo svegliarmi. Va tutto bene.» Aveva l'aspetto di una vittima del vaiolo. Guardandolo da vicino notai che aveva gli occhi solcati da un reticolo di venuzze rosse, e i capelli puzzavano di fumo. «Ehi, Kit, è con me che stai parlando. Ci sono già passata.» E infatti sapevo perfettamente come si sentiva. Ricordavo la sensazione dell'alcol residuo che ancora circolava nel sangue, che mi rivoltava lo stomaco e pulsava nei vasi dilatati del cervello. La bocca asciutta. Il tremito alle mani. La sensazione che qualcuno mi avesse versato un bicchiere di piombo fuso nello spazio sotto lo sterno. Kit si strofinò gli occhi, accarezzò la testa di Birdie. Sapevo che avrebbe voluto essere da tutt'altra parte. «Mangiare qualcosa aiuta.» «Sono a posto così.» «Prova almeno un sandwich.» Alzò lo sguardo e mi sorrise. Ma appena si rilassò gli angoli della bocca si ripiegarono all'ingiù, incapaci di sostenere lo sforzo senza l'aiuto di una guida cosciente. Prese un panino e ne mangiò un boccone grande come un cece. Aprì la Coca e bevve. Era ovvio che non aveva nessuna intenzione di seguirmi nella direzione che volevo prendere. Be', nemmeno io. E forse non ce n'era motivo. Aveva diciannove anni. Aveva fatto baldoria tutta la notte. Doveva smaltire una sbronza. Ci eravamo passati tutti. Ma poi mi venne in mente il messaggio sulla segreteria telefonica. E il tatuaggio. C'era motivo. E dovevamo parlarne. Sapevo che ciò che avrei detto non avrebbe fatto molta differenza. Probabilmente nessuna. Era giovane. Invulnerabile. E "nato per vivere", come aveva detto Harry. Ma dovevo almeno fare un tentativo. «Chi è il Predicatore?» domandai. Mi guardò e prese a giocare con la lattina di Coca. «Un tipo che ho conosciuto.» «Conosciuto dove?» «Al concessionario Harley. Quando sono andato lì con Lyle.»
«Che tipo è?» Scrollò le spalle. «Niente di speciale. Un tipo qualsiasi.» «Ti ha lasciato un messaggio.» «Ah sì?» «Te lo devi ascoltare. Non sono in grado di tradurlo.» «Già. Il Predicatore è un po' strano.» Un eufemismo. «In che senso?» «Non lo so. Non lo conosco. Ma ha una HD del '64 troppo giusta.» Bevve una lunga sorsata di Coca. «Mi dispiace per il pacco che ti ho fatto ieri sera. Hai trovato il mio biglietto?» Stava cercando di cambiare argomento. «Sì. E qual era questo impegno che non potevi assolutamente disdire?» «Dovevo andare a un incontro di boxe» disse con tono incolore. La sua faccia aveva la consistenza della pasta da pane. E più o meno lo stesso colore. «Segui la boxe?» «Non proprio. Ma questi tipi la seguono, così ci sono andato anch'io.» «Quali tipi?» «Questi che ho conosciuto.» «Al concessionario Harley.» Scrollata di spalle. «E il tatuaggio?» «Una figata, vero?» Sollevò la manica. Uno scorpione con una specie di casco in testa gli allungava le zampe sul bicipite. «E che cosa dovrebbe significare?» «Non significa niente. Però è da brivido.» In effetti... «Tua madre mi ucciderà per questo.» «Ma se lei ne ha uno sulla chiappa sinistra!» I am the lord of the dance, said he... Per un po' nessuno dei due disse una parola. Io mangiavo il mio sandwich mentre Kit piluccava il suo, staccando morsi da un grammo e bevendoci sopra litri di Coca Cola. «Ti va un'altra Coca?» mi chiese, scuotendo la sua lattina vuota e alzandosi dalla sedia. «No grazie.» Quando tornò a sedersi, tornai alla carica.
«Quanto hai bevuto questa notte?» «Troppo.» Si grattò vigorosamente la testa con entrambe le mani, aggravando le condizioni dei capelli. «Ma era solo birra, zia. Niente di diverso. E qui ho l'età giusta.» «Solo birra?» Mi guardò per essere sicuro di aver capito bene. «Se c'è una cosa su cui non devi avere dubbi, quella è il mio no alle porcate chimiche. Il mio corpo non è niente di speciale, ma lo tengo bene alla larga dalla droga.» «Sono molto contenta di sentirtelo dire.» Lo ero davvero. «Ma che mi dici di questo Predicatore e dei suoi amici?» «Dài, zia. Vivi e lascia vivere.» «Ma non funziona sempre così, Kit.» Insisti. Chiediglielo. «Questi tizi sono dei biker?» «Ma certo. Se no perché mi sembrerebbe di essere a Disneyland da quando sono qui? Hanno tutti una Harley.» Riprovai. «Ma fanno parte di un motoclub?» «Zia, io non gli faccio tutte queste domande. Se vuoi sapere se portano delle insegne, la risposta è no. Girano con gente che le porta? La risposta è: sì, è probabile. Ma non ho intenzione di vendermi la barca e di entrare negli Hells Angels, se è questo che ti preoccupa.» «Kit, i biker irregolari non fanno distinzioni tra i curiosi e quelli che vogliono entrare in una sezione. Se hanno la sensazione che tu rappresenti per loro anche solo una vaga minaccia, o perfino un leggero disturbo, sono pronti a mangiarti in un boccone e a sputarti via nel giro di un attimo. Non voglio che ti accada questo.» «Ma ti sembro un idiota?» «Mi sembri un ragazzo di diciannove anni, innamorato delle Harley e con un'idea romantica dei selvaggi.» «Cosa?» «Hai presente Il selvaggio?» Sguardo assente. «Marlon Brando?» «Ne ho sentito parlare.» «Lasciamo perdere.» «Ma mi sto solo godendo un po' di libertà. Un po' di divertimento.»
«È quello che fa anche un cane con la testa fuori dal finestrino. Finché non lascia il cervello su un palo della luce.» «Ma non sono così pessimi.» «I biker sono degli imbecilli, e non solo sono pessimi, sono anche peggio.» «Quello che dicono sembra sensato, in parte. In ogni caso, so quello che faccio.» «No, tu non lo sai. Nelle ultime due settimane ho imparato molto più di quello che avrei voluto sapere su questa gente. E non ho imparato niente di buono. Sì, una volta l'anno regalano giocattoli ai bimbetti, ma i biker restano dei teppisti, con nessun rispetto per la legge e una notevole inclinazione alla violenza.» «Ma che cosa fanno di tanto cattivo?» «È gente sconsiderata e sleale che approfitta dei più deboli.» «Ma facendo che cosa? Non mi dirai che praticano aborti con il ferro da calza? Che stuprano le suore? Che fanno secchi gli anziani nei fast food?» «Per prima cosa, spacciano droga.» «Non mi sembra che siano i soli.» «Poi mettono bombe che massacrano donne e bambini. Chiudono un uomo in un camion, lo portano in una zona fuori mano e gli fanno saltare le cervella. Fanno a pezzi i rivali con la sega elettrica, impacchettano quel che resta nei sacchi per la spazzatura e gettano il tutto nelle acque del porto.» «Zia, rallenta. Ci siamo solo fatti qualche birra.» «Tu non hai niente a che spartire con quel genere di mondo.» «Ma sono solo andato a uno stupido incontro di boxe!» Mi puntò addosso gli occhi verdi e acuti. Poi li socchiuse e prese a massaggiarsi le tempie con due dita. Immaginai il sangue scorrere a velocità doppia dietro le orbite. «Kit, ti voglio bene come fossi mio figlio, e tu questo lo sai.» Rifiutò di guardarmi negli occhi, ma percepii il suo malessere nella curva della spina dorsale. «Ho fiducia in te. E sai anche questo» proseguii. «Ma vorrei che tu ti rendessi conto di chi sono queste persone. Alimentano il tuo interesse per le moto, conquistano la tua fiducia e poi ti chiedono un piccolo favore che sicuramente rientra in qualche attività illegale, solo che tu non lo saprai mai.» Restammo a lungo in silenzio. Fuori, i passeri litigavano per accaparrarsi
i semi che avevo sparso nel cortile. Infine, a occhi bassi, mio nipote mi chiese: «E tu, zia, in che pasticcio ti sei cacciata?». «Prego?» «In questi giorni sei sempre in giro.» Non avevo idea di dove volesse andare a parare. «Saluti dalle fogne. Benvenuti» ironizzò Kit. «Ma di che cosa stai parlando?» «Zia, ma per chi mi prendi? Credi di potermi nascondere le cose senza che me ne accorga?» «Ma cosa ti sto nascondendo?» Il suo sguardo era fisso su di me, il bianco degli occhi striato di rosso. «L'altra settimana, da Isabelle, ho ascoltato quello che dicevi. Ho visto l'occhio. Ho visto il misterioso pacchetto in corridoio, ti ho vista partire in gran segreto per il tuo viaggetto. Tu stessa hai detto che nelle ultime settimane hai visto più porcherie di quante la gente normale vede in tutta la vita.» Riprese a giocherellare con la lattina di Coca. «Tu vuoi sapere tutto di me, ma quando ti chiedo che cosa stai facendo cambi discorso.» «Kit, ma...» «E non è finita. Perché mi sono accorto benissimo che per via di quel tuo Ryan salti a ogni squillo di telefono.» Aprii la bocca, ma non ne uscì alcun suono. «Mi stai addosso perché pensi che mi stia facendo di chissà cosa, ma quando io chiedo qualcosa a te, tu mi rispondi picche.» Ero troppo sorpresa per parlare. Kit abbassò lo sguardo e si morse le labbra, imbarazzato dalle emozioni che aveva lasciato affiorare. Alle sue spalle, il sole splendeva attraverso le tende di mussola, disegnando la sagoma della sua testa contro la luce. «Non mi sto lamentando, ma quando ero piccolo tu eri l'unica che mi ascoltava. Harry era...» voltò le mani verso l'alto e chiuse le dita, come per afferrare la parola giusta. «... Ecco, Harry era Harry. Tu invece ascoltavi. E mi parlavi. Eri l'unica a farlo. E adesso mi stai trattando come l'ultimo dei cretini.» Su questo aveva ragione. Ogni volta che Kit mi aveva manifestato il suo interesse, ero stata evasiva e distante, e gli avevo taciuto qualsiasi informazione significativa. Vivo da sola, e sono abituata a discutere i casi a cui lavoro solo con i colleghi dell'istituto. Quando sono con amici, svio automa-
ticamente le domande che potrebbero pormi. Però quella mattina, di punto in bianco, avevo pensato di chiedergli un resoconto dettagliato delle sue attività «Hai ragione, Kit. Ma solo in parte. È vero che ho eluso domande a cui avrei potuto rispondere, ma è anche vero che io sono tenuta a non discutere dei casi aperti né delle indagini in corso. Lo impone il mio lavoro, non sono io a deciderlo. Vuoi veramente sapere a cosa sto lavorando?» Alzata di spalle. «Vedi tu.» Guardai l'orologio. «Perché non vai a farti una doccia mentre sparecchio la tavola? Poi andiamo a fare una passeggiata sulla montagna e ti racconto quello che posso. Va bene?» «Va bene.» Appena percettibile. Ma la mia decisione non andava affatto bene. 25 I locali la chiamano "la montagna", ma la dolce altura situata al centro di Montréal non ha niente a che vedere con i picchi scoscesi delle Rocky Mountain, o con le vette rigogliose delle Smoky Mountain, nella mia Carolina. Il Mont-Royal è ciò che resta di un antico vulcano, levigato dagli eoni in una curva gentile. Si erge nel cuore della città come il corpo sonnacchioso di un gigantesco orso. Carente in altezza e priva di fascino geologico, la montagna da a Montréal molto più del semplice nome. È il fulcro dell'attività cittadina. La McGill University si estende lungo le pendici orientali, di fronte al quartiere anglofono di Westmount. L'Université de Montréal e la zona francofona, invece, rivendicano per sé le pendici settentrionali. Subito sotto inizia Centre-Ville, una fusione poliglotta di industria, finanza, utile e dilettevole. La montagna significa promontori, parchi e cimiteri. Sentieri boscosi e rocce coperte di muschio. Turismo, passeggiate romantiche, jogging e picnic nei gradevoli mesi estivi; in inverno racchette da neve, slitte, pattini da ghiaccio. Per me, come per quasi tutti gli abitanti di Montréal, la montagna è un'isola di tranquillità nel clamore urbano che si agita ai suoi piedi. Nel primo pomeriggio la temperatura era mite, il cielo terso. Kit e io attraversammo il boulevard de Maisonneuve per svoltare in rue Drummond. Dopo averla risalita fino a un alto edificio circolare, la cui ampia base cur-
vilinea ricordava la prua di una fregata di cemento, imboccammo una scalinata di legno sulla destra, che conduceva in avenue des Pins. «Che cos'è quell'edificio?» domandò Kit. «Il McIntyre Medical. È una dipendenza della McGill.» «Assomiglia al Capitol Record Building di Los Angeles.» «Dici?» A metà percorso, sentimmo il penetrante odore di una moffetta. «Une mouffette» gli spiegai. «Suona bene in francese, ma ha una puzza che prende allo stomaco» commentò Kit arricciando il naso. «Che ne dici di accelerare il passo?» «D'accordo.» Avevo già il fiatone. Giunti in cima alla scalinata, attraversammo avenue des Pins e seguimmo un tortuoso sentiero di terra battuta fino a un'altra scalinata, questa volta di cemento. Salimmo, svoltammo sulla destra, altra strada, altra scalinata di legno arrampicata sul fianco della montagna. Arrivati in cima, pensai seriamente a una defibrillazione. Decisi per una sosta e Kit andò a godersi il panorama. Attesi che il battito cardiaco scendesse dalla troposfera, poi raggiunsi mio nipote alla balaustra. «È davvero grandioso» disse Kit, curvo su un paio di frecce di ottone che puntavano sul McTavish Reservoir. Aveva ragione. Da lassù la vista è un vero spettacolo, una finestra a trecentosessanta gradi su una città in pieno movimento. In primo piano svettano i grattacieli, i palazzi, le ciminiere e le guglie delle chiese del centro; oltre, i dock del porto e l'arteria principale della città, il fiume San Lorenzo. In lontananza, dominano le vette di Saint-Bruno e di Saint-Hilaire, con le Eastern Townships ai loro piedi. Kit seguì le linee indicate dalle varie frecce, e io gli additai dei punti di riferimento che pensai gli potessero interessare. Place Ville-Marie. Lo stadio McGill. Il Royal Victoria Hospital. Il Montréal Neurological Institute e il relativo ospedale. Il complesso mi ricordò Carolyn Russell e la nostra conversazione sul catetere per l'idrocefalo. Ripensare a Savannah Osprey mi provocò una familiare sensazione di tristezza. «Andiamo, Kit. Così ti racconto a che cosa sto lavorando.» Salimmo su una serie di gradoni di pietra evitando le biciclette appoggiate a terra, e ci sedemmo su una delle panchine di legno che fiancheggiavano l'ingresso dello chalet. Sopra di noi, i piccioni tubavano sommessamente tra le pesanti travi di
legno. «Da dove devo cominciare?» «Dall'inizio.» «Buona idea.» Ma qual era l'inizio? «La provincia del Québec ha la discutibile prerogativa di essere teatro dell'unica guerra tra biker attualmente in corso sull'intero pianeta.» «Quella storia tra i Rock Machine e gli Hells Angels di cui parlavi alla cena di Isabelle?» «Appunto. Queste bande si contendono il controllo del traffico di droga.» «Quale droga?» «Cocaina per lo più, ma girano anche hashish e marijuana.» Una comitiva di turisti giapponesi arrivò al parcheggio, scese dal pullman e si avvicinò alla balaustra per fotografarsi in varie combinazioni. «Io ho cominciato a occuparmene circa due settimane fa. Due membri degli Heathens, un motoclub di copertura dei Rock Machine, sono stati uccisi mentre cercavano di piazzare una bomba alla sede dei Vipers, nella zona sud-occidentale della città.» «Chi erano i bombaroli?» «Due gemelli, Cric e Croc Vaillancourt.» «I Vipers stanno con gli Hells Angels?» «Sì. Il cecchino che li ha fatti secchi è stato arrestato e ha contribuito al ritrovamento dei due cadaveri di cui parlavamo quella sera a cena.» «I tipi sepolti dietro la sede dei Vipers?» «Sì.» «Dov'è questa sede?» «Saint-Basile-le-Grand.» Una strana espressione gli attraversò il viso, ma tacque. «Gli scheletri sono stati poi identificati come quelli di due membri di un MCI chiamato Tarantulas, che oggi non esiste più ma che era attivo negli anni Settanta e Ottanta.» «E le ossa della ragazza che avete trovato dietro alla sede dei Vipers?» «Quella ragazza è stata identificata come Savannah Claire Osprey, di Shallotte, in North Carolina. È per questo che sono andata a Raleigh. Nel 1984, quando è scomparsa, Savannah aveva sedici anni.» «E chi l'ha uccisa?» «Vorrei saperlo anch'io.»
«Ma come è finita laggiù?» «Stessa risposta. Aspetta, lasciami fare un passo indietro. Prima di quei ritrovamenti di Saint-Basile-le-Grand, c'era stato un altro omicidio. Il cosiddetto "questore" dei Vipers, un signore chiamato Richard Marcotte, detto Ragno, è stato ucciso fuori da casa sua durante una sparatoria a bordo di un'auto. E potrebbe essere stata una rappresaglia degli Heathens per vendicare i gemelli Vaillancourt.» «Così i contribuenti risparmiano un po' di soldi.» «Sì, però ricordati che i contribuenti hanno comunque pagato un caro prezzo, perché una bambina è rimasta coinvolta nella sparatoria.» «Giusto. Aveva nove anni.» Mi guardò. «È morta, vero?» Annuii. «Emily Anne Toussaint è stata uccisa il giorno in cui tu e Howard mi avete lasciato Birdie.» «Porca miseria.» «Da quel momento in poi ho affiancato gli investigatori nella ricerca delle prove relative ai crimini commessi dai biker. Adesso dovresti capire meglio la mia mancanza di entusiasmo per i tuoi nuovi amici.» «E per i tatuaggi. Devo ammettere che di merda ne stai vedendo molta.» «C'è dell'altro.» Lo guardai in faccia. I suoi occhi, pur messi in ombra dalla grondaia, erano accesi di interesse. «La settimana scorsa hanno ucciso un altro biker. Yves "Cherokee" Desjardins.» «Da che parte stava?» «Era un Predatore. Hells Angels.» «Quindi gli Heathens stanno ancora pareggiando i conti per i due gemelli?» «Forse. Il problema è che Cherokee era un biker della vecchia guardia, ritirato da un pezzo a vita privata. Inoltre, pare che si gestisse da solo la sua concessione di cocaina.» «Quindi potrebbero anche essere stati i suoi stessi compagni a metterlo fuori gioco?» «È possibile. Ma non abbiamo ancora prove sufficienti e non possiamo dirlo con certezza. Al momento le indagini sono a un punto morto.» Gli raccontai di LaManche. «Porca miseria. Non è che c'è lo zampino di quelli?» «Di chi?»
«Degli Angels. Forse stava per scoprire qualcosa che loro non volevano fosse scoperto.» «Kit, non credo proprio.» «Ma magari gli hanno dato qualcosa. Sai, uno di qui veleni che non lasciano traccia.» «Era in sala autopsie. È un posto sicuro.» «Ma all'istituto potrebbe esserci una talpa. Lo fanno, sai? Intendo dire, infiltrare un loro uomo all'interno.» «Accidenti.» Scoppiai a ridere. «Kit, non lasciamoci prendere la mano.» Si voltò e guardò oltre i giapponesi, lontano, verso i picchi velati dalla foschia. Qualcuno aprì una porta dietro di noi e i piccioni svolazzarono via spaventati. «Dio, zia. Mi sento davvero uno stronzo. Il tuo capo sta male, tu fai i salti mortali per dare un senso a tutti questi omicidi, e io che cosa faccio? Mi presento da te, ti sbatto un pesce morto sul tavolo e me ne vado in giro per la città a divertirmi.» I giapponesi stavano venendo verso di noi. «E io ero troppo distratta per seguire quello che stavi facendo. Comunque sia, sei pronto a camminare?» «Hai davanti a te il re delle escursioni.» Facemmo il giro dello chalet e ci avventurammo lungo uno dei tanti sentieri sterrati che solcano la montagna. Per un po' passeggiammo in silenzio, osservando gli scoiattoli che zampettavano tra le foglie dell'anno precedente, euforici per l'arrivo della primavera. Sopra di noi, gli alberi echeggiavano di cinguettii, trilli, gorgheggi e stridii. A un certo punto ci fermammo per ascoltare un vecchio che si esibiva in un arrangiamento dell'Inno alla gioia. In cappotto lungo e cappello con paraorecchie, suonava con la concentrazione di un virtuoso della musica sinfonica. Mentre procedevamo verso ovest, la cupola dell'Oratoire Saint-Joseph apparve all'orizzonte, e raccontai a Kit la storia del cuore di frate André. Rubato dalla cripta dell'altare, l'organo era stato oggetto di un'imponente caccia al tesoro. Alla fine era riapparso nel nostro istituto e in seguito era stato sistemato in una zona più sicura della chiesa. A sud si ergeva il palazzo giallo pallido dell'École Polytechnique, prèsso l'Université de Montréal, che nel 1990 era stato teatro del massacro di tredici donne. Ma la giornata era troppo bella per rievocare quella vicenda. Durante la discesa, Kit affrontò un argomento altrettanto sgradevole. «E questo Ryan, chi è?»
«Un amico» nicchiai. «Harry mi ha parlato di lui. È un investigatore, giusto?» «Sì. Lavora per la SQ, la polizia di stato.» Avevo presentato Ryan a mia sorella durante il suo soggiorno a Montréal. Tra loro era nato qualcosa, ma avevo lasciato la città quasi subito e non seppi mai se c'era stato un seguito. Dopodiché avevo evitato Ryan per un lungo periodo di tempo, e poi non gli avevo chiesto più nulla. «E qual è il problema?» «Si è cacciato nei guai.» «Che genere di guai?» Un calèche passò sulla strada sopra di noi, procedendo nella direzione da cui eravamo venuti. Udii il conducente impartire dei comandi e il rumore delle briglie che si muovevano contro il collo dell'animale. «Potrebbe essere coinvolto in un giro di droga.» «Uso personale?» «No. Spaccio.» Nonostante mi sforzassi di controllarmi, mi tremava la voce. «Ah.» Il rumore degli zoccoli scemò, poi scomparve. «E tu tieni a questa persona, vero?» «Sì.» «Più che a zio Pete?» «È una domanda molto personale, Kit.» «Scusami.» «E che ne è stato di quel pesce?» domandai, cambiando discorso. «È in freezer.» «Senti il programma: tiriamo fuori Miss Trota e snidiamo un po' les motards mentre si scongela. Poi questa sera la sbattiamo sulla grìglia e dopo cena ce ne andiamo da Hurley's per una birra. Ti va?» «È un salmone. A parte questo, il programma mi piace.» Arrivammo alla fine del sentiero, tagliammo per l'Hópital General de Montréal e continuammo sulla Cóte-des-Neiges. Al fondo del viale, mi voltai e guardai la cima della montagna. «Hai mai visto la croce di notte?» «Sì. È bella.» «Da qui, sì. Ma da vicino è solo una rete d'acciaio coperta di lampadine. Credo che Andrew Ryan sia un po' così. Bello da lontano, uno sgradevole impiccio da vicino.»
26 I Berawan sono una popolazione del Borneo dedita all'orticoltura. Quando tenevo il corso propedeutico di antropologia li utilizzavo per illustrare l'assurdità delle pratiche funerarie del mondo occidentale. Secondo le credenze dei Berawan, le anime dei morti possono passare nell'aldilà solo dopo la decomposizione della carne. Fino a quel momento, il defunto è sospeso in un limbo dove non fa più parte del mondo dei vivi ma non può unirsi a quello dei morti. Ma c'è anche un altro problema. I cadaveri possono essere rianimati dagli spiriti maligni che vagano per il mondo in cerca di asilo. Una volta rianimati, i morti viventi non possono più essere uccisi. Inutile dire che questa popolazione evita in tutti i modi di tenersi i defunti troppo vicini I Berawan erano disgustati e terrorizzati dalle risposte ricevute dagli etnografi alle loro domande sulle usanze americane. Dal loro punto di vista, l'imbalsamazione, il trattamento con cosmetici e cere, la sepoltura in bare e cripte a tenuta stagna erano azioni di pura follia perché oltre a prolungare la transizione dei nostri cari, trasformano i nostri cimiteri in un ricettacolo di potenziali zombie. Mi chiesi come avrebbe reagito un Berawan di fronte all'immagine di Bernard Silvestre, protagonista della fotografia che avevo in mano. Il salmone non finiva più di scongelare, così Kit e io ingannavamo l'attesa esaminando il materiale di Kate. Silvestre giaceva nella bara, baffi e basettoni suddivisi equamente tra le due guance, le mani devotamente intrecciate sul giubbotto di pelle nera. Accanto alla bara, quattro uomini in piedi; sotto, dieci accovacciati. Tutti in jeans e stivali regolamentari. A parte i vestiti e l'aspetto truce, sembravano una confraternita riunita per una festicciola. Elaborate corone si estendevano da un lato all'altro della fotografia, come una mostra di condoglianze floreali. Su una c'era scritto "SUCK" in giallo e azzurro, su un'altra "ADDIO BS" in diversi toni di rosso e di rosa. Una corona a forma di 13 si alzava proprio dietro la bara e alludeva al legame tra "Stick" e la marijuana, o le anfetamine. Il pezzo forte, però, era il rettangolo in alto a destra, un mosaico di petali che raffigurava moto e motociclista, completo di favoriti, occhiali da sole e ali d'angelo. Tentai invano di leggere la mezzaluna sopra il casco e sotto la ruota anteriore.
«Sai niente di Slick?» domandò Kit. «Direi che non ha l'aria di essere il personaggio più in vista del gruppo.» «Già. Direi anch'io.» Rigirò la foto. «Ehi, questo tipo è schiattato quando io avevo tre anni.» C'erano altre due immagini del funerale di Slick, scattate entrambe da lontano. Una al cimitero, l'altra sul sagrato della chiesa. Molti dei convenuti portavano i cappelli calati sulla fronte e la bandana legata davanti alla bocca. «La foto che hai in mano appartiene a un privato.» Passai a Kit le altre due. «Credo che queste invece siano foto della polizia. Si direbbe che gli affranti convenuti non morissero dalla voglia di mostrare le loro fecce.» «Ehi, questa moto è una sinfonia in acciaio e cromature. Nessuna meraviglia che il tipo non l'abbia lasciata neppure per avvicinarsi alla tomba.» Feci il giro del tavolo e guardai da dietro le spalle di mio nipote. «A me sembra piuttosto spoglia.» «È proprio questo il punto. Pura potenza. Il tipo probabilmente è partito da una moto della polizia, forse un modello da turismo FLH. Poi ha eliminato tutte quelle stronzate inutili di serie, tipo il parabrezza, il roll-bar, i bagagliai laterali in vetroresina, e le ha sostituite con pezzi personalizzati aerodinamici.» «Per esempio?» A me sembrava solo una moto senza i pezzi migliori. Kit mi indicò alcuni elementi della motocicletta. «Ruota anteriore sottile, serbatoio a forma di bara, parafango posteriore corto, sellino affusolato. Una vera figata. Perché sembra che uno stia a cavallo del motore.» Mi indicò la ruota anteriore. «E poi ha allungato la parte anteriore e aggiunto le grucce da scimmia.» Immaginai che si riferisse al lungo manubrio curvato all'indietro. «E guarda le decorazioni! Dio, quanto avrei voluto vederla dal vivo. Questa moto è un'opera d'arte. L'unica cosa che gli manca per essere perfetta è il sissy-bar.» «Dove si beve qualcosa mentre si viaggia sparati su un rettilineo?» «Ma no. È il maniglione sul retro del sellino.» La moto in effetti era strana, ma non più del suo proprietario. Questo portava degli alti bracciali di cuoio, un giubbotto di jeans senza maniche con assortimento di spille e coccarde Harley-Davidson, calzoni in pelle e una selva di capelli in testa. Sembrava una minaccia ambulante. «Vado a controllare Mister Salmone. Se è ancora criogenico, lo ficchia-
mo nel microonde.» E dato che lo era ancora, così facemmo; ma poi lo mettemmo sulla griglia a rifinire. Mentre Kit puliva e serviva il pesce, saltai i fagiolini nel burro e preparai l'insalata. Avevamo appena aperto i tovaglioli, che squillò il telefono. Risposi io. Una roca voce maschile mi chiese di mio nipote. Senza parlare, passai a Kit il telefono. «Hey. Che succede?» Kit fissava una macchiolina sul ripiano di vetro del tavolo. «Niente da fare. Non posso.» Pausa. «Niente da fare.» Cambiò posizione e cercò di grattare via la macchiolina con l'unghia del pollice. «Questa volta non posso.» Nonostante fosse attuata dall'orecchio di mio nipote, riuscii ugualmente a sentire la voce all'altro capo del filo. Suonava aspra, come di un cane chiuso in un scantinato. Mi si strinse lo stomaco. «Senti, è così e basta.» Dall'altra parte arrivò una risposa agitata. Senza alzare lo sguardo, mio nipote si alzò da tavola e andò in corridoio, fuori dalla portata delle mie orecchie. Infilzai un fagiolino, masticai, deglutii. Meccanicamente, ripetei la sequenza, ma il mio appetito era scomparso. Dopo cinque bocconi, Kit tornò. L'espressione che aveva sulla faccia mi procurò una sensazione di dolore fisico al petto. Avrei voluto gettargli le braccia al collo, ravviargli i capelli e consolarlo come facevo quando era piccolo. Ma qualunque cosa gli fosse successa, non era sicuramente un ginocchio sbucciato, e non potevo farlo. E anche se lui me l'avesse concesso, sapevo che il gesto l'avrebbe solo messo a disagio. Percepii la sua pena, ma non potevo fare nulla per addolcirla. Mi sorrise, scrollò le spalle, sedette e si gettò sul pesce. Gli fissai la testa. Alla fine, alzò gli occhi. «È fantastico.» Ingoiò e bevve un sorso di tè freddo. «Sì, era uno di loro. No, non ci vado.» Di colpo mi tornò una fame da lupi. La chiamata successiva arrivò mentre finivamo di riordinare la cucina. Rispose Kit, e questa volta il rumore della lavastoviglie mi impedì di sentire. Nel giro di qualche minuto ricomparve sulla porta della cucina.
«Era Lyle. Credo di avergli detto che mi piacciono quelle riunioni dove ci si scambia la roba, così ci invita tutti e due a un mercato coperto per domani.» «Un mercato coperto?» «Be', è un mercatino delle pulci in un posto chiamato Hudson. Ha pensato che se ti dicevo mercato coperto saresti stata più invogliata a venire.» Il giochino non influenzò più di tanto la mia risposta. Un giretto a Hudson l'avrei fatto volentieri, ma non valeva il prezzo di un pomeriggio con Lyle Crease. «Tu vai, Kit. È davvero un posto carino. Campagna e cavalli. Io purtroppo devo rimanere qui a fare una cosa che continuo a rimandare.» «Cioè?» «Ecco... devo andare a tagliarmi i capelli.» «Wow.» Lui tornò in soggiorno e io terminai di rigovernare. Non avrei mai immaginato di sentirmi sollevata all'idea che mio nipote uscisse con Lyle Crease. Quell'uomo era viscido come un serpente. Ma perché poi Crease era così interessato a un ragazzo di diciannove anni? Ero sicura che Kit sapeva gestire quel cretino ma mi ripromisi di chiamare ugualmente Isabelle per farle un paio di domande. Basta così! Adesso vai a pettinarti e poi via, ad ascoltare i suonatori di violino. Hurley's è il locale più simile a un pub irlandese che Montréal possa offrire. E anche se non approfitto della lista degli alcolici, i miei geni gaelici apprezzano comunque l'atmosfera. Il locale fu un grande successo con Kit come lo era stato con sua madre. Del resto, è difficile essere depressi con un violino e un mandolino che suonano un reel dietro l'altro, e i ballerini che saltellano su e giù come un Nijinski con una disfunzione neurologica. Rientrammo ben oltre la mezzanotte. Quando, il mattino dopo, Lyle Crease si presentò al mio appartamento, stavo pigramente scartabellando le fotografie che Kit e io avevamo lasciato sul tavolo la sera prima. «Come va?» mi chiese mentre lo facevo entrare nell'ingresso. Indossava pantaloni beige dal taglio militare, una camicia bianca a maniche lunghe e una giacca a vento con la scritta CTV NEWS stampata a sinistra sul petto. Al posto dei capelli sembrava avere una scultura di plastica.
«Bene, e lei?» Parlavamo in inglese. «Non posso lamentarmi.» «Kit sarà pronto tra un minuto. Si era riaddormentato.» «Nessun problema» sorrise Crease, lanciandomi uno sguardo ammiccante. Che non raccolsi. «Posso offrirle un caffè?» «Oh, no. Grazie. Questa mattina ne ho già presi tre.» Mi mostrò un chilometro di denti rifatti. «È una giornata splendida. È sicura che non ha cambiato idea?» «No, ho molto da fare. La ringrazio comunque. Davvero.» «Magari la prossima volta.» Aspetta e spera, pensai. Rimanemmo uno di fronte all'altra per qualche istante, non sapendo cosa dire. Crease perlustrò la stanza, soffermandosi su una fotografia incorniciata di Katy. «Sua figlia?» «Sì.» Si avvicinò e prese in mano la foto. «È carina. Studia?» «Sì.» Ripose il ritratto e spostò lo sguardo in sala da pranzo. «Una composizione notevole. Lei deve avere un ammiratore molto determinato.» Bella mossa. «Posso?» Annuii, anche se Crease era benvenuto in casa mia come poteva esserlo il demone de L'esorcista. Si avvicinò ai fiori e li annusò. «Adoro le margherite.» Notò le foto di Kate. «Vedo che sta facendo un po' di ricerche.» «Vuole accomodarsi un momento?» Gli indicai il divano in soggiorno. Crease prese una foto, la rimise sul tavolo, ne prese un'altra. «Ho saputo che partecipa alle indagini sul caso Desjardins» disse senza guardarmi. «Solo marginalmente» risposi, e mi affrettai a ritirare le fotografie. Tirò un lungo sospiro. «Il mondo sta davvero andando a rotoli.» «Forse» replicai, tendendo la mano per farmi restituire la fotografia del funerale di Silvestre. «La prego» dissi indicandogli nuovamente il divano. «Si accomodi pu-
re.» Crease si sedette e accavallò le gambe. «Mi sembra di aver capito che l'accusa contro Dorsey è stata formalizzata e che lui è stato trasferito a Rivière-des-Prairies, vero?» «Così ho sentito.» «Lei crede che sia stato lui?» Quel tipo non mollava proprio mai. «Veramente io non c'entro niente con quel caso.» «E che mi dice della Osprey? Ci sono novità su quel fronte?» Ma guarda che faccia tosta, pensai. In quel momento arrivò mio nipote, vestito in perfetto stile urban cow boy. Levi's, stivali, cappellone. Mi alzai in piedi. «Di sicuro vorrete arrivare presto, prima che tutto il meglio sparisca.» «Quale meglio?» domandò Kit. «Be', per esempio le esche da spigola e le magliette di Elvis.» «Io veramente sto cercando una Madonna di plastica.» «Allora prova alla cattedrale.» «L'altra Madonna.» «Stai attento, eh» lo ammonii scherzosamente con il dito. «Attento è il mio secondo nome. Christopher Attento Howard, CAH. per gli amici.» E sfiorò con due dita la tesa del cappello. «Bene.» Salutando, Crease mi posò una mano sulla spalla, poi la spostò lungo il braccio e mi strinse appena sopra il gomito. «Mi raccomando» disse con aria ammiccante. Andai a farmi una doccia. Una volta pulita e profumata di sandalo, controllai la posta elettronica. Non c'era niente di eclatante. Dispensai qualche consiglio relativo ai problemi che mi sottoponevano i miei studenti, inviai un parere a un patologo che lavorava a un cranio dalla forma anomala, risposi alle mie tre nipoti di Chicago. Figlie delle sorelle di Pete, le ragazzine impazzivano per l'informatica e mi tenevano aggiornata sugli avvenimenti che riguardavano la grande famiglia del mio ex marito. Da ultimo ringraziai un collega dell'Istituto di Patologia delle Forze Armate che mi aveva inviato una foto molto divertente. All'una e mezzo mi scollegai e provai a chiamare Isabelle. Com'era prevedibile, non era in casa. Cercando una scusa qualsiasi per uscire, decisi di andare a comprare dei
gamberoni in poissonnerie, in pescheria. Non avevo neppure superato l'isolato che mi bloccai davanti alle fotografie del Coiffeur Simone. Osservai la donna in bianco e nero. Stava bene. Elegante, ma essenziale. Professionale, ma vivace. Dio, Brennan. Sembra che tu stia recitando la pubblicità di uno shampoo. Tra un po' dirai perfino «Perché io valgo». In effetti, però, avevo detto a Kit che sarei andata a tagliarmi i capelli. Studiai il poster, valutando la quantità di manutenzione necessaria per quel tipo di taglio. Forse poteva rientrare nella mia regola dei dieci minuti. Feci per proseguire, ma mi accorsi della mia immagine riflessa nella vetrina. E ciò che vidi era lontano anni-luce dalla donna della fotografia. Da quanto tempo non mi facevo una nuova acconciatura? Anni. E quel parrucchiere proponeva uno sconto speciale per la domenica. Cinque dollari. In valuta americana, circa tre e mezzo. Un nuovo taglio di capelli può tirar su il morale. Ma può anche essere un disastro. I capelli ricrescono. Questa veniva direttamente da mia madre. Spinsi la porta ed entrai. Ore dopo stavo cenando davanti al canale Discovery. Sullo schermo, dei canguri maschi se le davano di santa ragione per il controllo del gruppo. Per terra, Birdie mi guardava silenzioso e incuriosito, tenendosi a distanza. «I capelli ricrescono, Bird.» Intinsi un gambero nella salsa e lo portai alla bocca, augurandomi che potesse succedere prima che Kit rientrasse. «E potrei aver bisogno del tuo sostegno» comunicai al mio gatto. Se il nuovo look doveva avere lo scopo di tirarmi su il morale, l'esperimento era stato una vera catastrofe. Da quando ero tornata a casa, non avevo smesso di pensare al modo di evitare qualsiasi contatto con il mondo esterno. Grazie ai progressi delle telecomunicazioni, avevo molte scelte. Avrei usato telefono, fax e posta elettronica. E moltissimi cappelli. Alle dieci mi sentivo depressa come la sera di venerdì. Lavoravo troppo, mi apprezzavano poco, e avevo scoperto che il mio potenziale amante preferiva i ladri alle guardie. Il mio capo stava male, mio nipote era in giro con l'essere più sordido della città e io sembravo una che aveva subito un'aggressione da un tosaerba. Poi squillò il telefono e le cose si misero molto peggio.
«Claudel ici.» «Sì» risposi, troppo sorpresa per passare subito al francese. «Ritengo che lei debba sapere che George Dorsey è stato aggredito circa due ore fa.» «Aggredito da chi?» «È morto, signora Brennan. Ucciso perché lei si è impicciata di cose che non la riguardavano.» «Io?» Ma stavo già parlando a un segnale di libero. Per il resto della serata fui troppo distratta per concepire pensieri coerenti. A malapena mi resi conto che Kit era rientrato e che mi aveva detto di aver trascorso una bellissima giornata. «Ucciso perché lei si è impicciata di cose che non la riguardavano.» Non era giusto. Dorsey aveva chiesto di parlare con me. E se avesse chiesto di Claudel, o di Charbonneau, o di Quickwater? Questo era un omicidio concepito all'interno della prigione, un gesto contro qualcuno che rappresentava una minaccia per gli altri. Sono cose che accadono. Non ero stata io a provocarle. Claudel era ingiusto. Mi rigirai nel letto per tutta la notte ripetendomi la parla "ingiusto". 27 Il mattino dopo alle sette e mezzo ero già in istituto. Gli altri non sarebbero arrivati prima di un'ora e l'edificio era silenzioso come un cimitero. Benedissi quella tranquillità e cercai di approfittarne. Arrivata nel mio ufficio, mi infilai un camice, andai al laboratorio di antropologia e recuperai dal ripostiglio la scatola contenente i resti di Savannah. intendevo mettermi subito al lavoro e lasciare che Claudel usasse la vicenda di Dorsey nel modo che preferiva. Posai il cranio e i due femori sul tavolo e cominciai il minuzioso riesame di ogni millimetro di osso servendomi di una lente di ingrandimento e una di luce molto potente. Anche se ero piuttosto scettica, speravo che mi fosse sfuggito un dettaglio. Magari una minuscola tacca, o una raschiatura, qualcosa che potesse indicarmi come le ossa erano state separate dal resto del corpo. Ero ancora assorbita dalla mia ricerca quando qualcuno bussò alla porta. Alzai lo sguardo e notai che il vetro era occupato dalla figura di Claudel. Come sempre, era dritto come un fuso e i capelli erano impeccabili come
quelli di Douglas Fairbanks in un ritratto fotografico. «Bella cravatta» dissi aprendogli la porta. Lo era davvero. Viola chiaro. Probabilmente di seta. Probabilmente firmata. Perfetta con la giacca di tweed. «Merci» bofonchiò con la cordialità di un pit bull. Posai il femore, spensi la luce a fibre ottiche e andai al lavandino. «Che cosa è successo a Dorsey?» domandai lavandomi le mani. «Ha avuto un incontro ravvicinato con un cacciavite elettrico. Stava facendo la doccia. La guardia era fuori a leggere. Probabilmente si stava mettendo in pari con le pubblicazioni del settore.» Ripensai all'uomo con i dentini da topo. «Pare che a un certo punto la guardia abbia sentito un cambiamento nel rumore dell'acqua e sia andata a controllare. Dorsey era riverso nella doccia a faccia in giù, con ventotto buchi nella parte superiore del corpo.» «Dio santo.» «Ma non è morto subito» proseguì Qaudel. «Mentre lo portavano all'ospedale è riuscito a dire qualcosa. Ed è per questo che sono qui.» Presi un asciugamano di carta, sorpresa dalla loquacità di Claudel. «L'infermiere che lo accompagnava non ha afferrato tutto, ma una cosa l'ha capita chiaramente.» Claudel sollevò leggermente il mento. «Brennan.» Le mani mi si pietrificarono all'istante. «Tutto qui?» «L'infermiere ha dichiarato che era troppo occupato a cercare di tenerlo in vita, però ha notato il nome per via del suo cane.» «Il suo cane?» «Sì. Ha un setter irlandese di nome Brennan.» «È un nome piuttosto comune.» «Forse a Galway; qui no. Lei aveva parlato con Dorsey di Cherokee Desjardins, vero?» «Sì. Ma non lo sa nessuno.» «A parte tutti gli ospiti di Op South.» «Ma eravamo chiusi nella stanza per gli avvocati. Da soli.» Claudel non rispose. Rividi il corridoio, con la cella degli ubriachi distante non più di tre metri. «Immagino che qualcuno mi abbia notata.» «Già. In genere queste cose si vengono subito a sapere.»
«Ma chi le viene subito sapere?» «Dorsey era un saltuario degli Heathens. I suoi amici certamente non avranno approvato di saperlo impegnato in una campagna di autoconservazione.» Il collo mi si irrigidì di tensione al pensiero che potevo essere stata io a provocare l'aggressione. «Non credo che Dorsey avesse ucciso Cherokee» dissi, appallottolando l'asciugamano e gettandolo nell'immondizia. «Non lo crede.» «No.» «Immagino che Dorsey si sia dichiarato innocente e puro come acqua di fonte.» «Sì. Ma c'è dell'altro.» Mi guardò con aria incerta poi incrociò le braccia sul petto. «D'accordo, sentiamo.» Gli raccontai delle analisi degli spruzzi di sangue. «A lei questo sembra un tipico omicidio dei biker?» domandai. «A volte le cose vanno storte.» «E che mi dice del pestaggio? I sicari in genere sparano, no?» «L'ultimo biker ripescato nel fiume era stato ucciso a martellate. Lui e la sua guardia del corpo.» «Sto pensando a quello spruzzo a configurazione vuota dietro la testa di Cherokee. E se fosse stato ucciso proprio a causa di quell'oggetto che poi è stato rimosso?» «Sulla scena del delitto giravano un sacco di persone. Qualcuno potrebbe aver urtato l'oggetto facendogli cambiare posizione. O magari la vicina se l'è fregato.» «Ma era coperto di sangue.» «In ogni caso andrò a farle qualche domanda.» La pazienza di Claudel si stava chiaramente esaurendo. «E perché Cherokee avrebbe dovuto lasciar entrare qualcuno in casa sua?» insistei. «Forse il sicario era un amico dei vecchi tempi.» In effetti era possibile. «La perizia balistica ha dato risultati?» L'investigatore fece di no con la testa. «Chi si sta occupando delle indagini su Ragno Marcotte?» «Quel caso e quello della bambina sono andati a Kuricek.»
Sipowicz. «Risultati?» Claudel sollevò entrambi i palmi delle mani. «Dorsey aveva lasciato intendere che aveva qualche informazione da barattare.» «Questi degenerati direbbero qualsiasi cosa pur di salvarsi la pelle.» Abbassò lo sguardo e si tolse dalla manica un inesistente peluzzo. «C'è un'altra cosa di cui vorrei parlarle.» «Eh?» In quel momento udimmo aprirsi la porta del laboratorio attiguo: i tecnici stavano arrivando. «Le dispiace se...?» Indicò il mio ufficio con un cenno della testa. Incuriosita, lo accompagnai nel mio ufficio e mi sedetti alla scrivania. Claudel si accomodò di fronte a me, prese una fotografia dalla tasca interna della giacca e la posò sul ripiano. Non erano molti gli elementi che la distinguevano dalle foto dei biker avute da Rate. Il periodo: più recente. La qualità: migliore. Il soggetto. Al centro dell'immagine, in mezzo al gruppo di uomini in giubbotto di pelle, c'era Kit. Guardai Claudel con aria interrogativa, «È stata scattata la settimana scorsa in un locale chiamato La Taverne des Rapides.» Distolse lo sguardo. «Quello è suo nipote, vero?» «E allora? Non vedo nessuna insegna» dissi secca. «Sono Rock Machine.» Mi mostrò una seconda fotografia. Mi stavo stancando di tutti quei biker di celluloide. Di nuovo Kit, questa volta a cavallo di una Harley, immerso in una fitta conversazione con altri due motociclisti. I suoi compagni sembravano a posto, ma indossavano l'immancabile divisa: stivali, gilè di jeans e bandana. Sulla schiena sfoggiavano una figura con un largo sombrero e carica di armi. La mezzaluna superiore recitava BANDEDOS, quella inferiore HOUSTON. «Questa è stata scattata a un incontro di scambi e baratti al luna park della contea di Galveston.» «Che cosa vuole insinuare?» domandai con voce alterata. «Non sto insinuando un bel niente. Le sto solo mostrando delle fotografie.» «Vedo.»
Claudel corrugò la fronte, poi incrociò le gambe e mi fissò intensamente. Io intrecciai le mani per dissimulare il tremito. «Mio nipote vive in Texas. Di recente il padre gli ha comprato una Harley-Davidson e lui si è innamorato della filosofia delle due ruote. Tutto qui.» «Sfrecciare nel vento non è più la principale occupazione dei biker di oggi.» «Lo so. Ma sono certa che si è trattato di incontri casuali. In ogni caso gli parlerò.» Restituii le fotografie. «La polizia di Houston ha un fascicolo su Christopher Howard.» Se in quel momento avessi avuto Harry per le mani, l'avrei uccisa. «È stato arrestato?» «Quattro mesi fa. Possesso di droga.» Nessuna meraviglia che il padre l'avesse trascinato nelle foreste del nord. «So bene qual è la quotazione di mercato dei consigli» proseguì Claudel. «Tuttavia vorrei dirle di fare attenzione.» «Attenzione a cosa?» Mi fissò a lungo, di sicuro chiedendosi se parlare o no. «L'infermiere in realtà ha colto più di una parola.» Squillò il telefono. Lo ignorai. «Dorsey ha detto: "Il ragazzo della Brennan".» Ebbi la sensazione che qualcuno mi accendesse un fiammifero nel petto. Come potevano sapere di Kit? Guardai altrove, per non rivelare a Claudel la mia paura. «Significato?» Claudel scrollò le spalle. «Era una minaccia? Un avvertimento?» «L'infermiere ha detto che non ascolta i pazienti mentre si occupa di loro.» Studiai la parete che avevo di fronte. «Lei che cosa pensa?» «Non vorrei allarmarla, ma l'agente Quickwater e io riteniamo che...» «Sì, bravo quello» lo interruppi. «Si sarà fatto una bella risata» ribattei in preda alla paura e alla rabbia. «È un bravo investigatore.» «È uno stronzo. Quando gli parlo sembra che sia sordo.»
«Lo è.» «Cosa?» «Quickwater è sordo.» Tentai di replicare, ma non riuscii a pronunciare una sola parola. «Veramente, è diventato sordo. È un po' diverso.» «E come?» «Si è preso un tubo di ferro dietro la testa mentre tentava di mettere fine a una rissa in un vicolo. Poi hanno infierito su di lui con un folgoratore elettronico finché non si è scaricata la batteria.» «Quando?» «Circa due anni fa.» «E questo gli ha compromesso l'udito?» «Per il momento sì.» «Potrebbe recuperarlo?» «Lui ci spera.» «E come fa?» «Questo lo vedranno i medici.» «No, volevo dire... come riesce a comunicare?» «Mi hanno detto che ha imparato a leggere le labbra in un amen. Quickwater è uno degli studenti più veloci che abbia mai conosciuto, e naturalmente è subito diventato un asso. Per le comunicazioni a distanza usa un computer con posta elettronica, fax e modalità terminale.» «Modalità terminale?» «Certo, la modalità terminale. In sintesi, si tratta di una funzione particolare basata sulla trasmissione di dati via modem. E infatti, nel computer di casa, Quickwater ha un modem speciale che può comunicare con lo stesso protocollo utilizzato dalle reti informatiche, e con cui può collegarsi via fax o in modalità terminale su una stessa linea telefonica, utilizzando un dispositivo automatico di commutazione che riconosce il tipo di chiamata in arrivo. Le stesse apparecchiature e gli stessi software sono stati installati alla sede operativa, sicché le chiamate in arrivo e in uscita non sono un problema.» «E quando è fuori?» «Usa un portatile alimentato a batteria.» «Ma come fa a parlare con qualcuno quando non può utilizzare il computer?» «Esiste un servizio di smistamento messaggi che agisce da intermediario. L'operatore del servizio riceve la chiamata e la trascrive sul sistema,
rendendola visibile sul monitor dell'utente. Se questo è sordomuto, l'operatore leggerà a voce alta la sua risposta scritta. Ma Quickwater parla perfettamente, perciò non ha bisogno di digitare le risposte.» Mi era difficile accettare quello che Claudel mi stava dicendo. Rividi Quickwater alla sede dei Vipers, poi a Quantico, nella sala riunioni. «Ma a Quantico lui aveva il compito di riferire ciò che era stato detto durante l'incontro. Come riesce a prendere appunti e a leggere le labbra contemporaneamente? E come fa a capire ciò che viene detto quando le luci sono spente, o quando non riesce a vedere chi parla?» «Quickwater glielo saprebbe spiegare molto meglio di me. Si serve di una cosa chiamata TSC, Traduzione Simultanea Computerizzata. Un operatore ascolta e trascrive con una macchina stenografica ciò che viene detto; queste informazioni vengono tradotte in tempo reale da un computer e visualizzate su un monitor. È lo stesso sistema utilizzato per i sottotitoli delle trasmissioni televisive in diretta. L'FBI, a Quantico, ha un operatore che si occupa di questo, ma il collegamento si può realizzare ovunque, anche con l'operatore lontano da Quickwater.» «Attraverso computer e telefono?» «Esattamente.» «E le altre mansioni?» In realtà stavo pensando a situazioni molto specifiche. Riferire quanto detto in una conferenza era un conto, ma come poteva un agente sordo proteggersi da un aggressore che lo attaccava alle spalle? «Quickwater è un agente di grande esperienza e molto attaccato al suo lavoro. È stato ferito in servizio e nessuno sa dire se la perdita dell'udito sia permanente oppure no. È ovvio che non può più fare tutto quello che faceva prima, così per il momento lavora in questo modo.» Stavo per tornare a Dorsey, quando Claudel si alzò e mi posò un foglio sulla scrivania. Mi preparai a un'altra brutta notizia. «Questi sono i risultati dell'esame del DNA relativi al sangue trovato sul giubbotto di Dorsey.» Non ebbi bisogno di leggerli. Mi bastò guardare la sua espressione per capire che cosa dicevano i moduli. 28 Quando Claudel uscì, rimasi seduta alla mia scrivania e continuai a pensare alla conversazione appena conclusa.
Il DNA non mente. Il sangue della vittima era sparso su tutto il giubbotto, e questo significava che Dorsey aveva ucciso Cherokee, proprio come aveva sospettato Claudel. O forse no? Dorsey aveva detto che il giubbotto non era suo. Quell'uomo non sapeva nulla di Savannah Osprey. Stava cercando di fregarmi per salvarsi, e io c'ero cascata. E la mia visita in carcere aveva provocato l'assassinio di Dorsey. O no? Dorsey era stato ucciso perché era il killer o perché non lo era? In ogni caso, era morto perché qualcuno temeva quello che mi avrebbe detto. Sentivo un pizzicore sotto le palpebre. Non piangere. Non osare metterti a piangere. Deglutii. E poi c'era Quickwater. Non mi guardava di traverso. Mi leggeva le labbra. Chi aveva trattato male chi? Ma come facevo a saperlo? E Kit Le foto della polizia si riferivano veramente a degli incontri casuali, come avevo detto a Claudel, o Kit aveva realmente a che fare con i Bandidos? Questo spiegava la telefonata del Predicatore? Mio nipote era venuto a Montréal solo mosso dalla rabbia nei confronti del padre, o c'era un'altra ragione? Magari un po' di bene per la sua stupida zietta? E l'occhio. Kit l'aveva davvero trovato sul parabrezza? Claudel aveva ottenuto i suoi risultati. Dove caspita erano i miei? Colpii il ripiano della scrivania con il palmo delle mani e balzai in piedi. Zigzagando tra impiegati carichi di scartoffie e tecnici che spingevano i carrelli dei campioni, arrivai fino all'atrio, salii al tredicesimo piano e andai dritta alla sezione DNA. Vidi la persona che cercavo china su una provetta in fondo al laboratorio, e puntai nella sua direzione. «Bonjour, Tempe. Comment ça va?» mi salutò Robert Gagné. «Ça va.» «Hai i capelli diversi.» I suoi erano scuri e ricci, appena brizzolati sulle tempie. Li portava corti e molto curati. «Sì.» «Hai intenzione di farli ricrescere?» «È difficile impedirlo» ribattei. «Naturalmente questo taglio ti sta bene» borbottò, posando una provetta. «Allora, immagino che quel giubbotto inchioderà questo Dorsey. Quando gli ho dato la notizia, Claudel ha sorriso. Be', quasi. Diciamo che le labbra hanno avuto un fremito.» «Volevo sapere se per caso hai avuto il tempo di fare il confronto che ti avevo chiesto.»
«Quello non numerato, giusto?» Annuii. «L'occhio?» Annuii ancora. «Quello che doveva essere confrontato con la sequenza del caso LML 37729?» «Sì.» La sua memoria per i codici dei casi mi lasciava sempre di stucco. «Aspetta.» Gagné si avvicinò a uno schedario, sfogliò il contenuto di uno dei cassetti di mezzo e prese un fascicolo. Attesi che ne esaminasse il contenuto. «Il confronto è stato fatto, ma non abbiamo ancora riportato sul modulo i risultati.» «Allora?» «Corrisponde.» «Senza ombra di dubbio?» «Mais oui. L'occhio e il campione di tessuto appartengono alla stessa persona.» O persone, pensai, se per caso sono gemelli. Lo ringraziai e tornai al mio ufficio. I miei sospetti erano fondati. L'occhio apparteneva a uno dei gemelli Vaillancourt. Un membro dei Vipers probabilmente l'aveva trovato sul luogo del delitto e l'aveva conservato per qualche macabra ragione. Ma chi l'aveva messo sulla mia auto? Prima ancora di arrivare alla porta, udii lo squillo del telefono. Affrettai il passo. Era Marcel Morin, dall'obitorio. «Questa mattina ci sei mancata, alla riunione.» «Mi spiace.» Andò dritto al punto. In sottofondo si sentivano delle voci e il rumore di una sega Stryker. «Due settimane fa è attraccata in porto una nave che ha scaricato un certo numero di container da riparare.» «Quelli enormi che vengono trasportati dai TIR?» «C'est ça. Ieri gli operai del cantiere hanno aperto l'ultimo container e ci hanno trovato dentro un cadavere. Il capitano pensa che probabilmente il morto era un clandestino ma, a parte questo, non sa fornire altre spiegazioni.» «Che bandiera batte la nave?» «Malese. Io ho iniziato l'autopsia ma i resti sono davvero in cattive con-
dizioni e non credo che potrò fare molto. Vorrei che gli dessi un'occhiata anche tu.» «Sarò da te tra un attimo.» Riattaccai e andai al mio laboratorio. Ci trovai Jocelyn china sul mio tavolo di lavoro. Miss Simpatia portava calze a rete e una minigonna di pelle così corta che non lasciava nulla all'immaginazione. Non appena aprii la porta, si raddrizzò di scatto e si voltò verso di me. «Il dottor Morin mi ha chiesto di darle questo.» Tese un braccio e gli orecchini dondolarono come minuscole altalene. Ogni anello era grande a sufficienza per ospitare un fringuello. Mi avvicinai e presi il modulo di richiesta, stupita che Morin non me lo avesse lasciato sulla scrivania. «Un taglio da killer» osservò a voce bassa, e non capii se era solo una battuta. Era più pallida del solito; gli occhi erano cerchiati di rosso e sottolineati da due virgole nere. «Grazie, Jocelyn.» Esitai, incerta se domandare o meno. «Stai bene?» La domanda sembrò mandarla in confusione. Alzò una spalla e borbottò: «In primavera le allergie mi fanno uscire di testa. Ma sto bene». Mi lanciò un ultimo sguardo stupito e uscì dal laboratorio. Richiusi le ossa di Savannah Osprey nella loro scatola e trascorsi il resto della mattinata con il clandestino malese. Morin non aveva esagerato. La massa di tessuti molli contenuta nel sacco mortuario era completamente invasa dai vermi. A mezzogiorno salii in ufficio e trovai Kit seduto alla mia scrivania, gli stivali appoggiati sul davanzale, un cappello alla Frank Sinatra calzato molto indietro sulla testa. «Come hai fatto a salire fin qua?» domandai, cercando di non tradire la mia sorpresa. Avevo completamente dimenticato che, tramite frigorifero, avevamo concordato di vederci nella pausa-pranzo. «Ho lasciato la patente alla guardia e lui mi ha fatto salire.» Mi mostrò il pass azzurro dei visitatori che aveva pinzato sul colletto. «Arrivato qua mi sono seduto nell'atrio, ma una signora si è impietosita e mi ha portato nel tuo ufficio.» Abbassò le gambe e ruotò la sedia verso di me. «Wow! Veramente da brivido!» Doveva aver notato qualcosa. «Non fraintendermi, zia. Questo nuovo taglio è una vera figata. Sembri
più giovane.» «Andiamo» tagliai corto, e presi il maglione dall'appendiabiti. Ne avevo abbastanza di commenti sulla mia nuova acconciatura. Tra un sandwich submarine e una porzione di patatine, mio nipote mi descrisse la sua domenica con Lyle Crease, culminata nell'acquisto del cappello che indossava. Niente Madonna né esche da spigola. Dopo essere rientrati a Montréal, avevano consumato una cena a base di carne affumicata da Ben's, Dopodiché Crease lo aveva portato allo studio televisivo. «Ma di che cosa parlate, quando siete insieme?» «È un tipo troppo giusto.» Biascicato tra formaggio e carne fredda. «È assurdo tutto quello che sa sulla TV. E si intende anche di moto.» «Ti fa molte domande?» Mi chiedevo in che misura Crease stesse usando Kit per avere informazioni sui miei casi. La guerra tra biker era la notizia del momento. «Un po'.» Kit prese un tovagliolo di carta dal contenitore di metallo all'estremità del tavolo e si pulì il mento. «Su che cosa?» Appallottolò il tovagliolo e ne prese un altro. «Un po' di tutto. Lyle è straordinario. Gli interessa qualsiasi cosa.» Una sfumatura della sua voce mi disse che mio nipote aveva cominciato a subire il fascino di Lyle Crease. E va bene, pensai. Sopravviverò anche a questo. Per viscido che sia, Crease batte il Predicatore dieci a zero. Dopo pranzo, Kit insisté per tornare con me al Laboratoire. Pur avendo fretta di riprendere la mia autopsia dello scheletro, lo accompagnai a fare un rapido giro turistico dei laboratorii. Anch'io potevo essere troppo giusta. Durante il nostro giro, Kit fece solo due commenti. In seguito mi sarebbero tornati in mente e mi sarei rimproverata di non averli presi in considerazione. «Chi è quella tossica ripulita?» domandò dopo aver incrociato Jocelyn alla fotocopiatrice. «Lavora in archivio.» «Scommetto che si fa di tutto quello che capita.» «Ma no. Ha problemi di allergia.» «Sì. Alle sniffate.» L'altra osservazione arrivò alla sezione balistica. Definì la loro collezione di armi "dolce". Dopo che Kit ebbe lasciato il Laboratoire, tornai dal clandestino. Alle
quattro e mezzo avevo terminato l'esame preliminare, concludendo che doveva trattarsi dei resti di un maschio non ancora trentenne. Avevo già dissezionato le ossa e le avevo mandate di sopra per la bollitura. Poi mi ero lavata, cambiata, ed ero tornata in ufficio. Stavo per infilarmi il pullover quando notai una fotografia a colorì al centro della mia scrivania. Oh, fantastico, finalmente una cosa nuova. In effetti non esaminavo fotografie almeno da due ore. Guardai la foto, pensando che appartenesse a Claudel. Non era di Claudel. Pur essendo vecchia e solcata da un reticolo di crepe, il colore e il fuoco erano buoni. Era una foto di gruppo, scattata in un campeggio o in una piazzuola da picnic. In primo piano una folla di uomini e donne brulicava intorno a una fila di tavoli disposti a ferro di cavallo. Il terreno era coperto di lattine e bottiglie vuote, i tavoli carichi di zaini, borse termiche, pacchi e sacchetti di carta. Sullo sfondo, una macchia di pini tagliata dal bordo superiore della fotografia. Appoggiata contro la gamba di un tavolo, un grande sacchetto attirò la mia attenzione. La scritta era rivolta verso l'obiettivo. -GGLY WIGGLY. Guardai il retro della fotografia. Niente. Riappesi il pullover all'appendiabiti, tirai fuori la lente di ingrandimento e mi sedetti a esaminare l'immagine. Nel giro di qualche secondo la conferma ai miei sospetti arrivò attraverso un tontolone parente di un gorilla, in gilè di jeans e mezzi guanti di pelle. Sul braccio, ripiegato sul petto e largo quanto un'autostrada, esibiva svastica, fulmini e il poetico acronimo F.T.W. Nonostante il monumentale braccio di King Kong oscurasse parte della T-shirt, la porzione inferiore della scritta si leggeva perfettamente. MYRTLE BEACH. Quasi senza respirare, procedetti a un esame minuzioso delle persone che comparivano nella fotografia. Lentamente, passai la lente su tutta l'immagine verificando le fecce una a una. Un attimo dopo l'avevo trovata. Seminascosta tra un mare di cappelli e di chiome selvagge, una fragile figura posava appoggiata al tronco di un albero, le braccine strette intorno alla vita. Aveva la testa piegata di lato e un raggio di sole scintillava sulle enormi lenti che eclissavano i suoi lineamenti. Savannah Claire Osprey.
Pur avendo un'espressione indecifrabile, Savannah comunicava una grande tensione del corpo. Causata da cosa, mi domandai. Euforia? Paura? Disagio? Passai oltre. L'uomo a destra di Savannah sembrava un personaggio uscito dalla saga nordica Vita e morte di Kormak lo Scaldo. I capelli gli arrivavano alle spalle, la barba al petto. La macchina fotografica lo aveva immortalato con la testa all'indietro e una lattina di birra premuta contro le labbra. Alla sua sinistra, Savannah aveva un uomo molto alto, con i capelli corti e baffi e barba ispidi. La feccia era in ombra, ma l'elemento saliente della sua figura era lo stomaco, che debordava oltre la cintura in una serie di rotoli flaccidi. Questa era chiusa da una fibbia ovale su cui erano incise delle lettere. Alzai e abbassai più volte la lente per decodificare il messaggio, ma era troppo coperto dal pancione. Delusa, riportai la lente sulla faccia, sperando di avere qualche illuminazione. Niente da fare. Tornai alla fibbia e avvicinai l'occhio al vetro. Ma d'un tratto qualcosa scattò nella mia mente. Passai di nuovo alla faccia. Possibile? No, quest'uomo era molto più grosso. Ma forse. Non avrei saputo dire. Troppo tardi. Troppi danni. Eppure la rassomiglianza c'era. Ma allora George Dorsey sapeva veramente qualcosa? Con il cuore che batteva forte, sollevai la cornetta del telefono. 29 Quando Claudel rispose, gli dissi chi ero e andai subito al punto. «C'è qualcos'altro che non le ho detto. Ragno Marcotte non è l'unica persona di cui Dorsey mi ha parlato. Sosteneva anche di avere informazioni su Savannah Osprey.» «La ragazzina trovata a Saint-Basile-le-Grand?» «Sì. Ho motivo di credere che dicesse la verità.» «Il marchio di Dorsey.» Ignorai il sarcasmo. «Per caso lei ha lasciato una fotografia sulla mia scrivania?» «No.» «Be', allora l'ha fatto qualcun altro. È una vecchia istantanea presa a un raduno di biker.»
«Probabilmente un raduno di preghiera.» «Si direbbe un picnic, o un campeggio.» «Senti, senti...» Respirai a fondo per controllare il tremito della voce. «C'è anche Savannah Osprey.» «Davvero?» Dal tono capii che non ci credeva. «Ne sono certa.» «E Dorsey che cosa c'entrava con...» «La fotografia è stata scattata a Myrtle Beach.» «Come fa a saperlo?» «Uno dei fedeli indossa una maglietta con la scritta Myrtle Beach.» «Mio figlio ne ha una dei Chiefs di Kansas City.» «So riconoscere il caprifoglio e la pueraria quando li vedo. E so riconoscere anche il marchio del Piggly Wiggly su un sacchetto di carta.» «Che cos'è il Piggly Wiggly?» «È una catena di supermercati. Nella zona di Myrtle Beach ce ne sono molti.» «E perché qualcuno dovrebbe chiamare un supermercato Pig...» «Uno dei gitanti potrebbe essere Desjardins.» Ci fu un momento di silenzio. «Che cosa glielo fa pensare?» «Sulla fibbia della sua cintura c'è inciso il nome CHEROKEE.» «Come si presenta il tipo?» «Come qualcuno da tenere alla catena e da rabbonire con dei bocconcini di carne cruda» ribattei. Il suo scetticismo mi stava irritando. «Volevo dire, l'uomo con la fibbia assomiglia a Cherokee Desjardins?» «I lineamenti non sono chiari. E poi non ho mai avuto il piacere di dare un'occhiata a Desjardins quando aveva ancora indosso la faccia.» Cadde di nuovo il silenzio. Poi udii il rumore di un respiro. «Prendo le fotografie di Desjardins e passo da lei domani mattina.» «Posso provare a ingrandire l'immagine.» «Allora ci provi. Ma deve essere una cosa rapida. Prevediamo di avere difficoltà a causa dell'omicidio di Dorsey, e tutta la Omicidi è sul chi vive.» Tornai a casa tormentata da mille dubbi. Ero stata raggirata da Dorsey e la mia ingenuità aveva provocato il suo omicidio.
E se poi l'uomo nella fotografia non era Cherokee? Era chiaro che Claudel aveva ancora delle riserve. Se mi sbagliavo, si sarebbe convinto definitivamente che ero un'idiota. Come del resto ero stata nei confronti del suo collega della Carcajou. Non avevo proprio capito niente di Quickwater. Era successo lo stesso con Ryan? E con mio nipote? Da dove arrivava la fotografia che avevo trovato sulla mia scrivania? Perché non era accompagnata da un biglietto, da una telefonata? Doveva essere stato uno degli investigatori, o un collega dell'istituto. Nessun altro avrebbe potuto lasciarla lì. Guidavo come un automa, senza quasi rendermi conto del traffico che avevo intorno. Dovevo fare una visita a sorpresa a Ryan? Mi avrebbe aperto? Probabilmente no. Ryan si era tagliato fuori da tutto perché preferiva così. Ma com'era possibile che fosse vero? Non riuscivo ancora a credere che quell'uomo fosse un criminale. Kit aveva a che fare con i Bandidos? Bazzicava il mondo della droga? Era in pericolo? Che cosa aveva cercato di dire Dorsey a quell'infermiere? E Katy? Che fine aveva fatto? La sua ultima lettera arrivava da Penang. Chi stavo prendendo in giro? Dorsey era stato ucciso in carcere nonostante la sorveglianza di una guardia armata. Se les motards volevano metterti in pericolo, sapevano benissimo come riuscirci. «Merda!» Colpii il volante con il palmo della mano. Per Ryan non potevo fare niente. Per mio nipote invece sì. Mi ripromisi di chiarire la situazione con Kit prima che la giornata finisse. O che ricominciasse, pensai, svoltando sulla rampa che conduceva nei sotterranei del mio palazzo. Non avevo idea di quando sarebbe rientrato, ma ero determinata ad aspettarlo alzata. Non fu necessario. «Hey, zietta» mi salutò quando entrai in casa. L'appartamento era invaso da un forte odore di curcuma e cumino. «Che buon profumo» dissi posando la portadocumenti nell'ingresso. Mio nipote e il mio gatto erano sdraiati sul divano, circondati dai resti della Gazette. La play station Sony era stata ricollegata al televisore e i fili serpeggiavano sul pavimento. «Mi sono fermato alla Maison du Cari. Ho pensato che forse era arrivato il mio turno di cucinare.» Si era tolto le cuffie e le aveva appese intorno al collo. Sentivo il sound
metallico dei Grateful Dead. «Fantastico. E che cosa hai preso?» «Un momento.» Balzò in piedi e gettò le cuffie sul divano. L'improvvisa vicinanza con Jerry Garcia fece sussultare Birdie. Kit recuperò uno scontrino dalla cucina e lesse a voce alta i nomi di nove pietanze. «Pensavi di invitare l'intero corpo diplomatico?» «No, signora. Ma non ero sicuro delle sue preferenze, così ho optato per una selezione dei migliori piatti della cucina regionale.» Pronunciò le ultime parole imitando l'accento di un immaginario ristoratore francese. «Non preoccuparti, zia. Vedrai che spolveriamo tutto» aggiunse, tornando all'accento texano. «Lascia solo che mi cambi e ci mettiamo a tavola.» Andò a recuperare la Gazette e mi mostrò una pagina piegata a metà, indicandomi il titolo. DETENUTO ASSASSINATO IN UN REGOLAMENTO DI CONTI TRA BANDE L'articolo riassumeva i fatti relativi all'omicidio di Dorsey, definendolo l'indiziato principale della "esecuzione" di Yves Desjardins, detto Cherokee. Dorsey veniva descritto come un fiancheggiatore degli Heathens, e Cherokee un membro dei Predatore, ormai fuori dal giro da qualche anno. L'articolo proseguiva avanzando l'ipotesi che la morte di Dorsey potesse essere una rappresaglia per l'omicidio di Desjardins, e ricordava gli omicidi dei gemelli Vaillancourt, di Richard "Ragno" Marcotte, di Emily Anne Toussaint. Proseguiva dicendo che il funerale avrebbe avuto luogo non appena ottenuto dal coroner il nulla osta alla sepoltura. Il pezzo concludeva riferendo che le autorità temevano una escalation di violenza, e che il funerale di Dorsey poteva rappresentare un'occasione di vendetta per i fiancheggiatori degli Heathens. Nelle settimane a venire la polizia avrebbe rafforzato le misure di sicurezza. Quando ebbi finito di leggere, vidi che Kit mi fissava intensamente. «Sarebbe troppo figo andare a quel funerale.» «Non se ne parla nemmeno.» «Ma ci sarebbe un tale spiegamento di polizia che si comporterebbero tutti come chierichetti alla funzione.»
«No.» «Ma ci saranno un sacco di Harley. Vere Harley.» «Non provare nemmeno ad avvicinarti a quel funerale.» «Te le immagini? Tutte quelle meraviglie che arrivano in formazione.» Imitò un biker impegnato in una sterzata. «Kit.» «Sì?» Gli brillavano gli occhi. «Non voglio che tu ci vada.» «Zia, tu ti preoccupi troppo.» Quante volte Katy mi aveva detto la stessa cosa? «Mi infilo un paio di jeans e ceniamo. Vorrei parlarti di una cosa.» Affrontai l'argomento al dessert. «Un investigatore della Carcajou oggi è venuto da me.» «Ah sì?» Kit raschiò via la glassa del budino di riso con il cucchiaino. «Veramente quella si dovrebbe mangiare.» «Ma sembra argento.» «Lo è.» Stavo tergiversando. «L'investigatore mi ha portato una serie di fotografie scattate dalla polizia.» Sguardo interrogativo. Altra cucchiaiata. «In cui si sei tu.» Mio nipote abbassò la testa e sollevò le sopracciglia. «Le fotografie sono state scattate al luna park della contea di Galveston. Tu sei con alcuni membri del Bandidos MC.» «Ahi ahi» disse con un sorriso sciocco. «Beccato con le mani nel sacco.» «È così?» «Così cosa?» «Giri con i Bandidos?» «Li ho visti solo una volta. Non è stata colpa mia.» «Non c'è niente di divertente, Kit! Tu sei stato fotografato insieme a degli spacciatori!» Posò il cucchiaino e mi rivolse un altro dei suoi smaglianti sorrisi. Non glielo restituii. «Zia, io vado ai mercatini delle pulci. I biker vanno ai mercatini delle pulci. A volte andiamo agli stessi mercatini delle pulci. E parliamo di Harley. Tutto qui.» «L'investigatore dice che sei stato arrestato con l'accusa di possesso di
stupefacenti.» Mi sforzai di controllare il tono della voce. Lui si appoggiò allo schienale della sedia e allungò le gambe. «Oh, porca miseria. Ancora quella merda.» «Quale merda?» «Dio santo. Neanche avessi spacciato fuori da una scuola elementare!» Il tono era secco, l'umorismo scomparso. Attesi. «Avevo comprato una bustina da dieci dollari per un'amica, perché aveva dimenticato il borsellino a casa. Prima che le potessi dare la sua erba, uno sbirro mi ha fermato perché avevo svoltato a sinistra dove non potevo, e mi ha trovato la roba in tasca. Che te ne pare, per uno spacciatore incallito?» «Perché il poliziotto ti ha perquisito?» «Mi ero fatto qualche birra.» Sfiorò il tappeto con l'alluce. Era lungo e sottile, nodoso alle articolazioni e oblungo sotto l'unghia. L'alluce di mio padre. A guardarlo mi si strinse il cuore. «D'accordo. Avevo bevuto molto. Ma non mi faccio; te l'ho già detto. Cristo, ti comporti proprio come mio padre.» «O come un qualsiasi genitore preoccupato.» Rabbia e amore lottavano per prendere il controllo della mia voce. «Ascolta, ho fatto il mio periodo in comunità e ho partecipato a quel loro stupido programma contro l'abuso di sostanze stupefacenti. Ma quando vi deciderete a lasciarmi in pace?» Con il che, si alzò dalla sedia e uscì dalla stanza. Dopo qualche secondo lo udii sbattere la porta della sua camera. Ben fatto, Brennan. Ti meriti il primo premio come miglior genitore dell'anno. Sparecchiai, riposi gli avanzi in frigorifero, caricai la lavastoviglie e provai a chiamare Howard. Nessuna risposta. Accidenti a te, Harry, per non avermi detto niente di questa storia. E accidenti a te per essere andata in Messico. Cercai Isabelle, sperando di poterle parlare di Crease. Segreteria. Trascorsi il resto della serata con il libro di Pat Conroy che avevo interrotto due settimane prima. Niente poteva essere meglio che trovarsi in Carolina.
Com'era prevedibile, Kit dormiva ancora quando uscii per andare a lavorare. Quel giorno non saltai la riunione del mattino. Quando tornai nel mio ufficio, vi trovai Claudel. «Ha capito chi ha ucciso Dorsey?» gli domandai gettando la cartellina con i casi del giorno sulla mia scrivania. Mi lanciò uno sguardo che avrebbe potuto congelare un vulcano in eruzione. Sedetti, aprii il cassetto della scrivania e gli passai la fotografia di Myrtle Beach. «Mi ha detto che questa foto arrivava da...?» «Non gliel'ho detto.» Gli passai la lente di ingrandimento. «Perché non lo so.» «È arrivata dal nulla?» «Sì.» Esaminò l'immagine. «L'ho vista ieri per la prima volta. Ma non le saprei dire con precisione quando è arrivata sulla mia scrivania.» Dopo qualche secondo la lente si fermò e Claudel si avvicinò alla fotografia. Poi: «Lei sta parlando dell'uomo accanto a Z.Z. Top?». «Mi faccia vedere» dissi, sorpresa dal riferimento musicale. Ero convinta che Claudel ascoltasse solo musica classica. Voltò la foto verso di me e mi indicò la persona. «Sì. La ragazza accanto a lui è Savannah Osprey.» Claudel tornò alla lente. «È sicura?» Gli diedi l'annuario scolastico che avevo avuto da Kate. Lui lo studiò, passò alla foto del picnic, poi tornò all'annuario e così via. Alla fine: «Ha ragione». «Che mi dice di Mister Fibbia?» Indicò la busta che avevo in mano. «Prima della malattia, Desjardins era un uomo robusto.» Sparsi le foto sulla scrivania e Claudel venne dalla mia parte in modo che potessimo guardarle insieme. Robusto era dire poco. La massa insanguinata che avevo visto sulla poltrona non aveva niente a che fare con il corpo che in passato aveva ospitato Cherokee Desjardins. Prima che il cancro si mangiasse le sue viscere, e che i farmaci e la chemio completassero l'opera, Cherokee era un uomo
imponente, anche se non si poteva certo dire che avesse un fisico da culturista. Le fotografie coprivano un certo lasso di tempo. La barba andava e veniva, l'attaccatura dei capelli arretrava. Ma pancia e lineamenti cambiavano poco. Finché non era arrivato il cancro. Sei mesi prima di morire, Cherokee era ormai l'ombra di se stesso, calvo e magro come un internato dei campi di concentramento; e se la fotografia non avesse fornito altri indizi, non avrei mai immaginato che il soggetto fosse lo stesso uomo. Mentre studiavo la sua faccia da una foto all'altra, mi venne in mente un'altra citazione di Marlon Brando. Ho gli occhi di un maiale morto, aveva detto di se stesso l'attore ormai invecchiato. Non preoccuparti, Marlon. Quegli occhi ti hanno reso un buon servizio. Questo tizio appariva soltanto bieco e cattivo come un cane randagio alle prese con una bistecca rubata. Ma, nonostante i nostri sforzi, non riuscimmo a determinare con certezza se il nostro poco rimpianto Cherokee fosse l'uomo con la fibbia di Myrtle Beach. 30 Raccolsi le fotografie di Cherokee e percorremmo il corridoio fino a una sezione chiamata IMAGERIE. Avevamo deciso che avrei manipolato le immagini utilizzando Photoshop, un programma che conoscevo. Se non fosse stato sufficiente, un tecnico ci avrebbe aiutato con programmi grafici più sofisticati. Ci aspettavano, e avevano messo un computer a nostra completa disposizione. Il tecnico avviò lo scanner, caricò il programma che ci serviva e ci lasciò al nostro lavoro. Posizionai l'istantanea sullo scanner badando di comprendere l'intera inquadratura, poi digitalizzai l'immagine e la salvai sul disco fisso. Quindi aprii il file con il picnic di Myrtle Beach. Cliccai sulla faccia di Mister Fibbia e zoomai finché i lineamenti occuparono l'intero schermo. Poi ripulii l'immagine dai "disturbi" - polvere e screpolature - modificai le curve che controllano la distribuzione dei rossi, dei verdi e dei blu, regolai la luminosità e il contrasto, resi più nitidi i contorni.
Claudel mi osservava digitare i comandi sulla tastiera, dapprima in silenzio, poi dandomi suggerimenti via via che il suo interesse cresceva, nonostante l'iniziale scetticismo. Ogni correzione migliorava i controluce, le ombre e i mezzi toni, modificando le curve e i piani della faccia e mettendo in risalto dettagli altrimenti non visibili sulla fotografia originale. Dopo neanche un'ora stavamo già studiando la nostra opera. Non c'erano dubbi: Mister Fibbia era effettivamente Yves Cherokee Desjardins. Ma questo che cosa significava? Fu Claudel a parlare per primo. «E così Cherokee conosceva la Osprey.» «Pare proprio di sì.» «E Dorsey l'ha ucciso.» Claudel stava pensando ad alta voce. «Secondo lei quali erano le informazioni che Dorsey voleva scambiare?» «Forse Cherokee aveva ucciso Savannah e Dorsey lo sapeva.» «Forse era arrivata fin qui insieme a lui.» Di nuovo, Claudel non stava dialogando ma solo verbalizzando un pensiero. Immaginai la faccina perplessa di Savannah, gli occhioni spalancati che leggevano il mondo attraverso le enormi lenti. Scossi la testa. «Non volontariamente.» «Potrebbe averla uccisa a Myrtle Beach e poi aver trasferito il cadavere in Québec.» Questa volta era una battuta di dialogo. «Perché trasportarla così lontano?» «Perché c'erano meno probabilità che il cadavere venisse ritrovato.» «Secondo lei questo è un comportamento tipico per questa gente?» «No.» Negli occhi gli lessi confusione. E rabbia. «E il resto del corpo dov'è?» insistei. «Forse le ha tagliato la testa.» «E le gambe?» «Non è un problema che mi riguarda.» Si tolse il solito invisibile peluzzo dalla giacca e si aggiustò la cravatta. «E come mai è finita sepolta accanto Gately e Martineau?» Claudel non rispose. «E lo scheletro ritrovato a Myrtle Beach di chi era?» «Questo è un problema della sua amica dell'SBI.» Dato che per una volta Claudel sembrava disponibile a parlare, decisi di approfittarne. Cambiando direzione. «Forse l'omicidio di Cherokee non è stato affetto una vendetta.» «Non capisco dove vuole arrivare.»
«Forse è legato alla scoperta della tomba di Savannah.» «Forse.» Guardò l'orologio e si alzò. «E forse mi inviteranno a unirmi alle Spice Girls. Ma fino a quel momento mi conviene inchiodare qualche cattivo.» Di nuovo un riferimento alle canzonette? Dopo che Claudel ebbe lasciato la sezione Imagerie, salvai l'originale e la versione modificata dell'istantanea di Myrtle Beach su un OD, dopodiché scansionai alcune delle fotografie di Kate e ve le aggiunsi, pensando che a casa avrei potuto giocare un po' con le immagini. Tornata al mio ufficio, chiamai la sezione DNA, pur conoscendo già la risposta. Ma non tolleravo il pensiero di un'altra incursione nell'album dei ricordi dei biker. Avevo ragione. Gagné si scusava, ma i test che avevo richiesto non erano ancora stati terminati. Un caso del 1984 non poteva avere la precedenza su quelli recenti, ma sperava di darmi presto i risultati. Giusto. Del resto ti hanno già fatto un favore con l'occhio. Abbassai la cornetta e mi infilati il camice. Le diapositive almeno dovevano essere pronte. Trovai Denis impegnato ad aggiornare l'archivio sul computer del laboratorio di istologia. Attesi che leggesse l'etichetta di un barattolo di plastica che conteneva pezzi di cuore, rene, milza, polmone e altri organi immersi nella formaldeide. Digitò qualche parola poi ripose il contenitore sul carrello insieme ad altri simili. Gli chiesi ciò di cui avevo bisogno e mi portò una scatolina bianca di plastica. Lo ringraziai e andai nel mio laboratorio. Denis aveva ricavato delle diapositive dai campioni che avevo portato da Raleigh. Sistemai sul microscopio una sezione della tibia, regolai la luce e avvicinai l'occhio all'oculare. Due ore dopo ebbi la risposta che cercavo. I campioni che avevo prelevato dalla tibia e dal perone dello scheletro non identificato di Kate non erano distinguibili, dal punto di vista istologico, da quelli ricavati dal femore di Savannah. E le caratteristiche di ciascuna sottile sezione erano compatibili con l'età di Savannah all'epoca della sua scomparsa. Compatibile. La parola preferita di ogni perito chiamato a testimoniare. Può affermare oltre ogni ragionevole dubbio che le ossa ritrovate a Myrtle Beach appartengono a Savannah Claire Osprey? No, non posso affermarlo. Capisco. E può affermare che le ossa ritrovate a Myrtle Beach proven-
gono da un individuo di età identica a quella di Savannah Claire Osprey? No, non posso affermarlo. Capisco. Allora che cosa può affermare davanti a questa Corte, dottoressa Brennan? Le ossa recuperate a Myrtle Beach sono compatibili, per età e microstruttura istologica, con altre ossa identificate come appartenenti a Savannah Claire Osprey. Spensi la luce e coprii il microscopio con il suo cappuccio di plastica. Era un inizio. Dopo un pranzo a base di pizza vegetariana e gelato, mi recai alla sede operativa della Carcajou. Morin aveva completato l'autopsia e stava per dare il nulla osta alla sepoltura del cadavere di Dorsey. Jacques Roy aveva indetto una riunione per discutere le misure di sicurezza da attuare durante il funerale, e aveva richiesto anche la mia presenza. Dorsey viveva in un quartiere a sud-ovest di Centre-Ville, una zona di viuzze e vicoli, di appartamenti stipati di persone, con scale ripide e minuscoli balconi. A ovest c'era la Main, a est Hochelaga-Maisonneuve, teatro di alcuni tra gli scontri più violenti della guerra in corso tra le bande. La zona vanta il tasso di furti d'auto più alto della città. E, fatto raro a Montréal, non ha un nome. Ma ha una certa fama. Il quartiere è territòrio dei Rock Machine, e ospita anche la sede della Sûreté du Québec. Dal mio ufficio mi capita spesso di osservare quelle strade, i giardinetti, il lungofiume, il ponte, perché il Laboratoire de Médecine Légale si trova proprio nel cuore del quartiere. Il funerale di Dorsey si sarebbe svolto a non più di sei isolati dal nostro portone e, dato che le strade si sarebbero riempite di teppisti locali, la polizia non voleva farsi cogliere impreparata. Roy utilizzò una cartina dell'isola per illustrarci lo spiegamento delle forze. Il servizio funebre era previsto per le otto del mattino di venerdì, alla chiesa di Fullum e Larivière. Dopo la messa, il corteo funebre si sarebbe mosso verso nord, lungo la Fullum, fino a incrociare avenue Mont-Royal, dove avrebbe svoltato. Procedendo poi verso ovest, avrebbe raggiunto la montagna, e quindi il cimitero di Notre-Dame-des-Neiges. Roy illustrò la dislocazione delle transenne, delle autopattuglie, degli agenti a piedi e del personale di sorveglianza, e descrisse il piano studiato per l'occasione. La zona intorno alla chiesa sarebbe stata tenuta sotto stretta sorveglianza, le strade laterali chiuse all'incrocio con avenue Mont-
Royal durante il transito del corteo funebre, che avrebbe potuto occupare solo la carreggiata ovest e sarebbe stato scortato dalla polizia. Anche al cimitero lo spiegamento di forze sarebbe stato massiccio. Erano stati sospesi tutti i turni di riposo e i giorni di congedo degli agenti. Venerdì tutti si sarebbero presentati a ricevere le consegne. La proiezione di diapositive fu salutata da cori di «Sacré bleu!» e di «Tabernac!», ma le rimostranze cessarono non appena lo schermo fu occupato dalle scene di precedenti funerali. Diapositiva dopo diapositiva, osservammo i vari personaggi fumare sul sagrato della chiesa, guidare le moto incolonnati dietro il carro funebre, affollarsi intorno alla tomba. Le facce che avevo intorno passavano dal rosa all'azzurro e al giallo via via che una nuova diapositiva veniva illuminata. Il proiettore ronzava e Roy continuava a parlare, fornendo data e luogo di ogni situazione, e indicando i personaggi principali. Faceva caldo, e buona parte del mio sangue aveva disertato il cervello per andare a occuparsi della digestione del gelato. Dopo un po', mi sentii cedere alla monotonia. La palpebra superiore raggiunse quella inferiore e il peso della testa si avvicinò alla portata massima dei muscoli del collo. Mi appisolai. Ma appena il proiettore illuminò un'altra diapositiva, mi svegliai. La schermo mostrava dei biker a un blocco stradale. Alcuni erano ancora a cavallo delle loro Harley, altri erano scesi e stavano gironzolando nei paraggi. Tutti esibivano il teschio e il casco alato degli Hells Angels, ma la mezzaluna inferiore era visibile solo su due persone. Una recitava DURHAM, l'altra LEXINGTON. Su un furgone giallo in secondo piano, invece, si leggevano le parole MÉTRO POLICE, ma il resto della scritta era coperto da una figura barbuta che fotografava il fotografo. Accanto, Cherokee Desjardins fissava strafottente l'obiettivo. «Dove è stata presa?» domandai a Roy. «In South Carolina.» «È Cherokee Desjardins.» «Il grande capo trascorreva molto tempo in South Carolina all'inizio degli Ottanta.» Osservai le persone raffigurate nella diapositiva e mi soffermai su una moto e un motociclista ai margini del gruppo. L'uomo era di schiena, ma la moto era visibile in tutto il suo profilo. Aveva un'aria familiare. «Chi è il tipo all'estrema sinistra?» domandai. «Quello sulla moto?»
«Sì.» «Non lo so.» «L'ho già visto in un paio di vecchie foto» disse Kuricek. «Niente di recente. Roba vecchia.» «E la moto?» «Un'opera d'arte.» Grazie. Alla proiezione seguì una discussione sull'operazione del venerdì. Quando gli investigatori furono usciti, mi avvicinai a Roy. «Potrebbe prestarmi la diapositiva di Cherokee Desjardins?» «Preferisce una stampa?» «Sì, certo.» «Ha visto qualcosa di interessante?» «La moto mi sembra familiare.» «È un hummer.» «Già.» Andammo nel suo ufficio e Roy prese un fascicolo da uno schedario di metallo, quindi lo sfogliò finché non trovò quello che cercava. «Può star certa che oggi sono rimasti in pochi a bardarsi così» disse passandomi la fotografia. «Adesso preferiscono vestire Versace e gestire fast food in franchising. Il nostro lavoro era più semplice quando erano zozzi e sempre ubriachi.» «Per caso in questi giorni mi ha lasciato sulla scrivania una fotografia scattata in South Carolina?» «No. È qualcosa che mi può interessare?» «È come questa che mi ha appena dato, ma si vede Savannah Osprey. L'ho già mostrata a Claudel.» «Questo sì che è interessante. Sono curioso di sapere che cosa ne pensa.» Lo ringraziai e andai via, promettendo di restituire la fotografia appena possibile. Arrivata al Laboratoire, andai direttamente alla sezione Imagerie e aggiunsi la foto al mio CD. Era solo una sensazione, probabilmente sarebbe stato un buco nell'acqua, ma volevo fare un confronto. Uscii dall'ufficio alle quattro e mezzo e passai all'ospedale Hôtel-Dieu de Montréal, sperando che le condizioni di LaManche gli consentissero almeno di ricevere visite. Niente da fare. Continuava a non reagire alle terapie, perciò lo tenevano in sala rianimazione, dove non erano ammessi vi-
sitatori a parte i parenti stretti. Sentendomi ancora una volta impotente, ordinai un mazzo di fiori al negozio dell'ospedale e andai al parcheggio. Salita in macchina, accesi l'autoradio e premetti il tasto SCAN per azionare la ricerca automatica dei canali. Il selettore di banda si fermò sul talk show di una stazione locale. Il tema del giorno era la guerra tra biker, e l'imminente funerale della sua ultima vittima. Il conduttore sollecitava gli ascoltatori a telefonare per esporre le loro idee in proposito. Le opinioni circa l'operato della polizia erano molto varie. Una cosa però era evidente: gli ascoltatori erano nervosi. Interi quartieri erano diventati zone ad alto rischio da cui ci si teneva alla larga. Le madri erano costrette ad accompagnare i bambini a scuola. Chi amava fare bisboccia fino a tarda notte era costretto a cambiare locale, e a guardarsi le spalle quando ne usciva, correndo alla propria auto. Ed erano arrabbiati. Volevano una città libera dalla minaccia di questi moderni Unni. Quando rientrai a casa, Kit era al telefono. Si appoggiò il cordless sul petto e mi informò che Harry aveva chiamato da Puerto Vallarta. «Che cosa ha detto?» «Buenos dias.» «Ti ha lasciato il numero?» «Ha detto che si stava spostando. Ma ti richiama verso la fine della settimana.» Riprese la conversazione telefonica, scomparendo in camera sua. Brava Harry, continua così. Non persi tempo a preoccuparmi per mia sorella e posai sul tavolo la stampa che Roy mi aveva prestato. Cercai tra le foto di Kate quelle del funerale di Bernard Silvestre, detto Slick. Ero particolarmente interessata all'immagine della tomba che avevo esaminato con Kit. Scorsi l'intero mazzo di foto per tre volte e non la trovai. Controllai nella mia cartella. Sulla scrivania della camera da letto. Tra le scartoffie intorno al computer. E in tutto il materiale che Kate mi aveva dato. Le foto erano scomparse. Interdetta, mi affacciai alla porta di Kit e domandai se per caso le avesse prese lui. Non le aveva prese lui. D'accordo, Brennan. Facciamo un passo indietro. Quando le hai viste per l'ultima volta? Sabato sera con Kit?
No. Domenica mattina? Sì. In mano a Lyle Crease. Mi sentii avvampare di rabbia. «Maledetto bastardo figlio d'un cane!» Ero furiosa con Crease, ma ancora di più con me stessa. Vivendo da sola, avevo preso l'abitudine di esaminare il materiale relativo alle indagini a casa, una pratica che in istituto avevano sempre scoraggiato. E adesso mi mancava un potenziale elemento di prova. Cercai di calmarmi. E ripensai a una cosa che mi era stata detta da un investigatore mentre lavoravamo a un caso di omicidio, a Charlotte, e i furgoni dei media circondavano la casa carbonizzata dove stavamo recuperando ciò che rimaneva di una famiglia di quattro persone. «La nostra stampa è come una rete fognaria» aveva detto, «che risucchia tutti e li trasforma in merda. Soprattutto quelli che non fanno attenzione.» Non avevo fatto attenzione, e adesso avrei dovuto recuperare quelle fotografie. 31 Per farmi passare la rabbia nei confronti di Crease, il disgusto per me stessa, e la paura per LaManche, corsi quattro chilometri sul tapis-roulant, sollevai pesi per mezz'ora e sedetti al bagno turco per altri dieci minuti. Mentre rincasavo lungo la Sainte-Catherine, mi sentivo stanca nel fisico ma ancora agitata nella mente. Mi sforzai di pensare a qualcosa di neutro. Il tempo era di nuovo umido e opprimente e i gabbiani gridavano ai nuvoloni che coprivano la città, intrappolando i miasmi provenienti dal San Lorenzo e anticipando il crepuscolo. Pensai ai gabbiani di città. Perché contendere ai piccioni i rifiuti urbani quando un fiume di prima classe scorreva a un chilometro da lì? I piccioni e i gabbiani erano varianti della stessa specie di uccelli? Pensai alla cena. Pensai al doloretto che sentivo al ginocchio sinistro. Pensai a un dente che sospettavo cariato. Pensai a come nascondere i miei capelli. Ma più che altro pensai a Lyle Crease. E compresi la rabbia dei fondamentalisti islamici e degli impiegati postali. Gli avrei telefonato per chiedergli di restituire le fotografie. Poi, se la strada di quel viscido serpente avesse di nuovo incrociato la mia, probabilmente sarei finita sui giornali.
Mentre svoltavo nella mia via, vidi una figura venirmi incontro, un buzzurro con l'espressione di una iena, vestito di pelle da capo a piedi. Era uscito dal mio palazzo? Kit! Mi sentii stringere il cuore. Allungai il passo e mi tenni al centro del marciapiede. L'uomo continuò per la sua strada e quando ci incrociammo mi urtò. La sua massa era tale che l'impatto mi fece perdere l'equilibrio. Incespicai e alzai lo sguardo su un paio di occhi scuri, resi ancora più scuri dalla visiera di un berretto da baseball. Lo fissai. Guardami, stronzo. Ricordati la mia faccia, perché io mi ricorderò della tua. Incrociò il mio sguardo e sporse le labbra per un bacio esagerato. Gli mostrai il dito. Con il cuore in tumulto, corsi fino al mio palazzo e mi infilai nell'atrio salendo i gradini a due a due. Con mano tremante, presi le chiavi e aprii il portone, percorsi velocemente il corridoio e inserii la chiave nella serratura della mia porta. Kit era in cucina. Stava versando la pasta nella pentola d'acqua bollente. Sul lavello c'era una bottiglia vuota di birra, un'altra mezza piena nella sua mano. «Kit.» Il suono della mia voce lo fece sobbalzare. «Hey. Tutto bene?» Mescolò la pasta con un cucchiaio di legno e bevve una sorsata di birra. Nonostante il saluto disinvolto, si muoveva a scatti, tradendo un certa tensione. Non dissi niente, aspettando che fosse lui a proseguire. «Ho trovato un sugo pronto. Aglio e olive nere. Non sarà il massimo, ma ho pensato che avresti apprezzato un pasto caldo.» Mi rivolse uno dei suoi accattivanti sorrisi e bevve un altro sorso di birra. «Che cosa succede?» «Questa sera ci sono i play-off NBA.» «Non fare il finto tonto.» «Io?» «Kit.» Non feci nessun tentativo di nascondere la mia irritazione. «Cosa c'è? Ha solo da chiedere, signora.»
«Qualcuno è stato qui mentre io non c'ero?» Mescolò di nuovo le linguine, batté il cucchiaio sul bordo della pentola, mi fissò. Per qualche momento fummo divisi da un velo di vapore. Poi socchiuse gli occhi e batté di nuovo il cucchiaio. «No.» Abbassò lo sguardo, mescolò ancora, tornò a guardarmi. «Qual è il problema?» «Ho visto un tizio, giù in strada, e ho pensato che potesse essere uscito dal palazzo.» «Non posso aiutarti.» Un altro sorriso compiaciuto. «Vanno bene al dente le linguine, per lei, signora?» «Kit...» «Ti preoccupi troppo, zia.» Stava diventando un ritornello familiare. «Vedi ancora quei tizi del concessionario?» Tese in avanti le braccia premendo i polsi l'uno contro l'altro. «Okay. Mi arrendo. Arrestami con l'accusa di collusione con la nuova pasta organizzata.» «È così?» Assunse un tono serio, «Chi l'ha autorizzata a fare simili domande, signora?» Era evidente che non aveva nessuna intenzione di dirmi qualcosa. Cercai di relegare la paura in un angolo della mente, sapendo che non ci sarebbe rimasta a lungo, e andai in camera a cambiarmi. Ma la decisione ormai era presa. Mio nipote tornava a Houston. Dopo cena Kit si sedette davanti al televisore e io andai a lavorare al computer. Non appena caricai i file JPG delle foto di Kate e di quella avuta da Jacques Roy, il telefono squillò. Rispose Kit, e attraverso la parete lo sentii ridere e scherzare. Ma poi il suo tono cambiò di colpo. Non riuscivo a distinguere le parole ma capivo che Kit era arrabbiato. Cominciò a parlare ad alta voce e a un certo punto mi sembrò che sbattesse qualcosa. Dopo un attimo comparve sulla porta. Era chiaramente agitato. «Zia, esco un attimo.» «Esci?»
«Sì.» «Con chi?» «Con dei tizi.» Sorrideva, ma solo con la bocca. «Non va bene, Kit.» «Oh, porca miseria. Non ricominciare.» E con questo, si precipitò in corridoio. «Merda!» Scattai in piedi e lo seguii, ma quando arrivai in soggiorno, era già fuori dalla porta. «Merda!» Stavo per rincorrerlo, ma il telefono squillò di nuovo. Pensando che fosse la persona che aveva appena chiamato, afferrai la cornetta. «Sì!» urlai, tremante di rabbia. «Santo cielo, Tempe. Forse è il caso che intensifichi la tua attività sportiva. Stai diventando davvero aggressiva.» «Harry, dove diavolo sei?» «Nel grande stato di Jalisco. Buenos noch...» «Perché non mi hai detto niente dei guai di Kit, giù a Houston?» «Guai?» «Ma sì, quel trascurabile incidente dell'arresto per droga!» Stavo quasi gridando. «Ah, quello.» «Sì, quello.» «Senti, sono convinta che non fosse affatto colpa di Kit. Non fosse stato per quegli stronzetti con cui andava in giro, non sarebbe mai rimasto coinvolto in una cosa simile.» «Però è successo, Harry. E adesso la polizia ha un fascicolo su Kit.» «Ma non ha fatto neanche un giorno di galera. L'avvocato di Howard è riuscito a ottenere la sospensione condizionale della pena e l'affidamento ai servizi sociali. Tempe, quel ragazzo si è fatto cinque giorni in un ricovero per barboni, mangiando e dormendo con loro e tutto il resto. Io credo proprio che questa vicenda gli abbia dato un'idea di come le persone meno fortun...» «L'hai portato da uno specialista?» «Ma sono le scemenze che si fanno da ragazzi. Kit è un ragazzo a posto.»
«Potrebbe avere un problema serio.» «Ma no. Aveva solo cominciato a frequentare le persone sbagliate.» Stavo per esplodere per l'esasperazione. Poi mi venne in mente un'altra cosa. «Hai detto che Kit ha avuto la sospensione condizionale della pena?» «Sì, tutto qui. Per questo non mi sembrava valesse la pena parlarne.» «E quali sono i termini della condizionale?» «Eh?» «Kit deve rispettare delle restrizioni, no?» «Non può guidare dopo mezzanotte. E questa è una vera scocciatura. Ah, sì. Non può avere rapporti con criminali.» Pronunciò l'ultima parola con enfasi esagerata. Poi: «Come se andasse sempre in giro con Bonnie e Clyde». L'incapacità di Harry di capire l'ovvio non aveva mai smesso di stupirmi. Parlava con le piante di casa ma non aveva alcuna idea di come comunicare con il figlio. «E tu sei al corrente di quello che fa, con chi esce?» «Tempe, non credo proprio che Kit abbia intenzione di svaligiare una banca.» «Il punto non è quello.» «Be', non ho voglia di continuare a discutere.» Harry era maestra nell'arte del "non ho voglia di continuare a discutere". «Devo scappare, Harry.» La conversazione stava degenerando in un litigio, e non era quello che volevo. «Okay. Volevo solo essere sicura che tutto andasse bene. Ci sentiamo più avanti.» «Bene. Fai così.» Riagganciai e rimasi cinque minuti davanti al telefono, valutando il da farsi. Non avevo grandi possibilità, ma alla fine la decisione fu presa. Dopo aver cercato un indirizzo sull'elenco telefonico, agguantai le chiavi e uscii. Il traffico era scorrevole e nel giro di una ventina di minuti parcheggiai in rue Ontano. Spensi il motore e mi guardai in giro, mentre nello stomaco sentivo che il nodo già cominciava a formarsi. Avrei preferito dieci anni di cure dentistiche a quello che stavo per fare. La Taverne des Rapides era davanti a me, incuneata tra un laboratorio di tatuaggi e un concessionario di moto.
Il luogo appariva squallido, come ricordavo di averlo visto sulle foto di Kit che Claudel mi aveva portato in ufficio. Un'insegna al neon prometteva birra Budweiser e Molson da dietro una vetrina che non vedeva spugna e acqua saponata dai tempi di Colombo. Mi infilai in tasca uno spray anti aggressione, uscii, chiusi l'automobile e attraversai la strada. La musica martellante che faceva vibrare il locale si sentiva già dal marciapiede. Quando aprii la porta, fui travolta da un tanfo di fumo, di sudore e di birra stantia. All'interno, il buttafuori mi squadrò dall'alto in basso. Indossava una Tshirt con la scritta BORN TO DIE, nato per morire, intrecciata a un teschio che urlava. «Dolcezza» mi disse untuoso, fissandomi il seno. «Mi sono già innamorato.» Gli mancavano diversi denti e sembrava far parte dei Teppisti Anonimi. Non risposi al suo saluto. «Torna da Rémi, dolcezza, se ti va qualcosa di speciale.» Il Teppista Anonimo mi accarezzò il braccio con la mano pelosa e mi fece segno di passare. Mi lasciai Rémi alle spalle, con il desiderio frustrato di privare la sua mandibola di un altro paio di denti. L'atmosfera del luogo ricordava quella di una taverna degli Appalachi, con tanto di biliardo, juke-box e televisori fissati a mensole d'angolo. Un'intera parete era occupata da un bancone, un'altra da divanetti. Il resto dello spazio era stipato di tavolini. L'unica luce proveniva dai fili di lampadine natalizie che incorniciavano il bancone e le vetrate affacciate sulla strada. Quando mi abituai all'oscurità, cominciai a guardarmi intorno. La clientela era prevalentemente maschile, per lo più potenziali comparse di un film sulle invasioni barbariche. Le donne avevano acconciature complicate, solidificate con il gel, e il seno compresso in top ridottissimi. Non riuscii a vedere Kit. Mi stavo spostando in fondo al locale quando udii delle grida e il rumore di una sedia rovesciata. Abbassai la testa, mi feci largo attraverso un mare di pance debordanti e andai ad appiattirmi contro un muro. Vicino al bancone, un picchiatore con le sopracciglia di Rasputin e le guance incavate scattò in piedi e si mise a sbraitare. Il sangue che gli colava dalla faccia gli sporcava la catena d'oro e la felpa. Un uomo con un faccione paffuto lo guardò con astio dal lato opposto di un tavolino. Tene-
va una bottiglia di Molson dalla parte sbagliata e l'agitava davanti al suo rivale per tenerlo lontano. Con un grido, Rasputin afferrò una sedia e la scagliò contro l'uomo paffuto. Udii il vetro andare in frantumi e vidi uomo e bottiglia cadere a terra. Tavolini e sgabelli di colpo rimasero vuoti e gli avventori si assieparono attorno ai due litiganti, felici di prendere parte a qualunque cosa stesse succedendo. Rémi il buttafuori arrivò con una mazza da baseball e salì sul bancone. Ne avevo abbastanza di tutta quella faccenda. Decisi di aspettare Kit fuori dal locale. Ma prima che potessi raggiungere la porta, qualcuno mi afferrò per le braccia. Cercai di divincolarmi ma le mani serrarono la presa. Furiosa, girai la testa e mi trovai faccia a faccia con una sorta di alligatore delle paludi: collo possente, occhi piccoli e sporgenti, mascella lunga e stretta che si protendeva all'infuori formando un angolo ottuso. L'alligatore produsse un fischio che lacerò l'aria. Rasputin si pietrificò e nel locale cadde un silenzio sorpreso, mentre tutti cercavano di individuare l'origine del fischio. In sottofondo un motivo di George Strait. «Ehi, basta con 'sto casino.» La voce dell'uomo era incredibilmente forte. «Rémi, togli quella merda di bottiglia dalle mani di Tank.» Rémi abbassò la mazza da baseball - continuando a tenerla bene in vista sulla spalla - e scese dal bancone, tra i due litiganti. Pestò con il piede il polso di Tank e premette finché quel che restava della bottiglia non cadde a terra. Lo calciò via e rimise in piedi Tank. Questi cominciò a farfugliare qualcosa ma l'uomo che mi teneva lo zittì. «Chiudi quel cazzo di bocca e ascolta.» «Stai parlando con me, J.J.?» Tank barcollò e allargò i piedi per tenersi in equilibrio. «Puoi scommetterci quella merda di culo che ti ritrovi che sto parlando con te.» Di nuovo, Tank farfugliò qualcosa di indecifrabile. Di nuovo, J.J. lo ignorò. «Gente, guardate chi abbiamo qui.» Alcuni guardarono - quelli non ancora annebbiati dall'alcol o dalla noia i più si voltarono dall'altra parte. George Strait finì la sua canzone e fu sostituito dai Rolling Stones. Il barista riprese a servire da bere. Il baccano ricominciò. «Ma guarda che cazzo di uomo fortunato» abbaiò un tizio seduto al ban-
cone. «Hai trovato una pollastra che non vomita l'anima quando ti vede.» Risata generale. «Guarda bene, razza di testa di minchia» replicò J.J. con voce nasale. «Hai mai sentito parlare della famosa Signora delle Ossa?» «E chi cazzo sarebbe?» «Hai presente quella che ha fatto un po' di giardinaggio dai Vipers?» Gridava, e i tendini del collo erano spessi come gomene. Un pugno di avventori si voltò verso di noi, osservandoci con aria confusa. «Possibile che tra tutti questi pezzi di merda nessuno legge il giornale?» tuonò J.J., la voce incrinata dallo sforzo. Quasi tutti tornarono alle loro birre e alla loro conversazione. Tank invece si avvicinò, muovendosi con l'attenzione esagerata dei veri ubriachi. Respirando pesantemente, mi si piazzò di fronte e mi toccò la guancia. Voltai il viso dall'altra parte, ma lui mi afferrò il mento e mi costrinse a guardarlo. L'alito puzzolente di birra mi rivoltò lo stomaco. «A me non sembra una rompicoglioni.» Non risposi. «Sei fuori per un giro turistico, plotte?» Ignorai l'insulto e lo guardai dritto negli occhi. Con la mano libera si abbassò la cerniera del giubbotto e subito notai il calcio della calibro 38 che portava infilata nella cintura. Una fitta di paura mi serpeggiò in tutto il corpo. Con la coda dell'occhio vidi un uomo scendere da uno sgabello e venire verso di noi. Salutò Tank con una pacca sulla spalla. «Tabernouche, un'altra di queste pacche e ci rimetto un osso!» L'uomo portava pantaloni neri oversize, catene d'oro al collo, un gilè aperto sulla pelle lattea. Petto e braccia erano decorati da opere d'arte carceraria, aveva un paio di occhiali neri che gli coprivano anche le tempie, e muscoli gonfi di steroidì. L'accento era molto marcato. Tank mi lasciò il mento e fece un passo indietro, barcollando leggermente. «È la stronza che ha trovato Gately e Martineau.» Stai calma, mi dissi. «Adesso invece hai trovato Pascal, dolcezza, e hai trovato davvero qualcosa di grande.» Quando Pascal si tolse gli occhiali, la mia paura esplose. Aveva lo sguardo vitreo e onnipotente che solo l'anfetamina e il crack possono dare.
Pascal fece per toccarmi ma io liberai un braccio con uno strattone e lo fermai. «Cazzo fai, eh?» Mi guardò con astio, negli occhi una pupilla enorme. «Qualcuno gli metta un guinzaglio» dissi, simulando una spavalderia che non avevo. La rabbia di Pascal aumentò e gli irrigidì i muscoli del collo e delle braccia. «Chi cazzo è questa stronza?» Di nuovo allungò la mano verso di me. Di nuovo gliela allontanai. Ero quasi paralizzata dalla paura ma non potevo permettere che se ne accorgessero. «Probabilmente vieni da un posto di incivili dove nessuno è in grado nemmeno di pronunciare la parola educazione, quindi forse la mancanza di buone maniere non è colpa tua. Ma non permetterti più di toccarmi» gli sibilai a denti stretti. «Sacré bleu!» Le dita di Pascal si chiusero in un pugno. «Se vuoi le faccio saltare il culo per aria» si offrì Tank appoggiando la mano sulla calibro 38. «Datti una calmata, stronzetta, o questi ragazzi ti spiaccicano il cervello sul muro.» J.J. ridacchiò e mi spinse via, poi si confuse tra la folla degli avventori. Feci per scappare ma Pascal mi afferrò un braccio e me lo torse dietro la schiena. Sentii un fitta lancinante che mi salì fino alla spalla. Gli occhi mi si riempirono di lacrime. «Pascal, non qui» gli intimò Rémi con voce bassa e indifferente. Si era portato dietro il mio aggressore, la mazza ancora sulla spalla. «Portala da un'alta parte.» «Nessun problema.» Pascal mi passò un braccio intorno alla gola e premette il suo corpo contro il mio. Sentii un oggetto duro e freddo premuto sul collo. Cercai di divincolarmi ma non potevo competere con la forza della droga che gli pulsava nelle vene. «Allons-y» ringhiò Pascal, spingendomi e trascinandomi verso il retro del locale. 32 «No!» reagii, sopraffatta dal terrore e incapace di rimanere calma come
avrei voluto. Un braccio serrato contro la mia trachea, l'altro a torcermi il gomito, Pascal mi spinse attraverso la calca. A ogni passo la lama del coltello mi scivolava sulla nuca e già sentivo un rivolo di sangue colarmi sul collo. La rabbia e la paura mi avevano fatto esplodere l'adrenalina e la mente mi urlava ordini contraddittori. Fai come ti dice! Non andare con lui! Disperata, mi guardai intorno cercando aiuto. Il barista ci osservava, la faccia avvolta in una nuvola di fumo. La musica rockabilly martellava dal juke-box. Intorno a me sentivo fischi e grida di approvazione, ma le facce che mi sfilavano davanti erano fissate nell'apatia. Nessuno pareva interessato a quello che mi stava succedendo. Non lasciarti portare fuori! Cercai di divincolarmi con tutte le mie forze, ma contro Pascal ogni tentativo era inutile. Stringendomi ulteriormente la gola, mi costrinse a uscire da una porta posteriore e a scendere dei gradini di metallo. Un rumore di stivali strascicati mi disse che Tank era dietro di noi. Quando misi i piedi sulla ghiaia di un cortiletto, presi un lungo respiro, mi piegai e diedi uno strattone, con l'unico risultato che Pascal strinse ancora di più la morsa che mi serrava la gola. Disperata, abbassai il mento e gli morsi la mano con tutta la forza che le mie mandibole conoscevano. Pascal gridò e mi spinse a terra. Annaspai tra cartacce, preservativi, lattine di birra e mozziconi di sigarette, lo stomaco in rivolta per il tanfo di orina e di fengo, cercando di aprire la cerniera della tasca per prendere lo spray anti aggressione. «Che cazzo credevi di fare, eh?» ringhiò il mio aguzzino, sferrandomi un calcio sulla schiena. Crollai sulla ghiaia, l'aria mi schizzò fuori dai polmoni e una luce bianca mi esplose nel cervello. Grida! Avevo il torace in fiamme, non mi usciva un filo di voce. Pascal abbassò la gamba, poi sentii un rumore di passi e la portiera di un'automobile che si apriva. Ansimando, cercai di rimettermi in piedi ma gomiti e ginocchia scivolarono nel fango fetido. «Ehi, troia, per te è arrivato il gran giorno.» La canna di una pistola contro la tempia mi paralizzò. La faccia di Tank era così vicina che di nuovo fui investita dal tanfo del suo fiato.
Rumore di stivali sulla ghiaia. «La tua limousine è arrivata, stronza. Tank, sbattila dentro.» Due mani brutali mi sollevarono come un tappeto arrotolato. Urlai e scalciai più che potei, ma non servì a nulla. In preda al panico, perlustrai con gli occhi tutto il vicolo, ma non vidi nessuno. Tank mi rivoltò e mi sbatté dentro l'auto; le stelle e i tetti delle case intorno scomparvero dalla mia vista. Tank sedette sul sedile posteriore e mi schiacciò uno stivale contro la spalla, mandandomi con la faccia contro il tappetino dell'auto. Il fetore di vino, di fumo e di vomito mi provocò ondate di nausea. Le portiere si chiusero e l'auto lasciò il vicolo sgommando. Ero in trappola! Stavo soffocando! Cercai disperatamente di alzare la testa. Tank sollevò lo stivale e mi colpì la schiena con il tacco. «Prova a fiatare e ti ritrovi con una pallottola nel culo.» La sua voce era dura, decisa, non aveva più le incertezze da ubriaco che avevo udito nel locale. Con alcol e pasticche ad alimentare la loro naturale disposizione alla cattiveria, non avevo dubbi che quei due mi avrebbero fatta fuori senza pensarci due volte. Non provocarli finché non hai la possibilità di scappare, mi dissi. Cerca una via di fuga. Abbassai la testa e attesi. Pascal guidava a scatti, accelerando e frenando di continuo. L'auto procedeva a scossoni, intensificando la mia nausea. Impossibilitata a vedere fuori, contai le fermate e le svolte, cercando di memorizzare la strada. Arrivati a destinazione, Tank sollevò lo stivale e uscì dall'auto richiudendo la portiera. Udii delle voci, poi la portiera posteriore si riaprì. Pascal mi prese per le braccia e mi trascinò fuori dall'abitacolo. Mentre cercavo di rimettermi in piedi, lo sguardo mi cadde su Tank e fui presa dal terrore. Mi puntava la calibro 88 direttamente alla testa. Nella luce rosata dei lampioni vidi i suoi occhi scintillare di bestiale eccitazione. Resistetti all'impulso di implorarlo, sapendo che le mie preghiere avrebbero solo alimentato la sua sete di sangue. Pascal mi spinse verso un edificio con il tetto verde e i muri di mattoni. Quando prese le chiavi e aprì il cancello, la calma che dolorosamente mi ero imposta svanì miseramente. Corri via! Non entrare! «No!» «Muovi il culo, stronza.»
«Per favore, no!» Il cuore mi batteva all'impazzata. Cercai di puntare i piedi per non avanzare, ma Pascal mi spinse a forza oltre il cancello e attraverso un cortile. Tank era dietro di me, lo sentivo puntarmi la pistola sulla nuca, e sapevo che fuggire sarebbe stato impossibile. «Che cosa volete da me?» Stavo quasi singhiozzando. «Tutto quello che hai più qualche altra cosa, stronza» mi ringhiò Pascal. «Roba che non ti sei mai sognata.» Parlò in un citofono. Sentii una voce metallica seguita da un clic, poi lui aprì la porta blindata con una spallata e mi spinse dentro. Ci sono momenti nella vita in cui capisci che la tua fine è arrivata. Il cuore batte e la pressione del sangue aumenta, ma sai già che quel sangue presto sarà versato e non ti scorrerà mai più nelle vene. La mente è incerta tra l'urgenza di fare un ultimo, disperato sforzo e il desiderio di cedere, di rassegnarsi. Avevo già provato quella sensazione, ma mai era stata forte come in quel momento. Mentre Pascal mi spingeva lungo il corridoio seppi con certezza che non sarei uscita viva da quell'edificio. Il cervello mi impose di reagire. Mi voltai e sferrai un pugno sulla faccia di Pascal con tutta la forza di cui ero capace. Sentii qualcosa crocchiare, ma ritirai il braccio e colpii di nuovo, questa volta sotto il mento. Pascal rovesciò la testa all'indietro. Io ne approfittai per sgusciargli sotto il braccio e scattare verso la porta alla mia sinistra. Mi ritrovai in una sala da ricreazione, simile a quella della sede dei Vipers, a Saint-Basile-le-Grand. Stesso bar. Stessa arte al neon. Stessi monitor. La sola differenza era che qui erano accesi, e proiettavano una fredda luce azzurrina sul bancone del bar e sui due unici avventori. Corsi dietro il tavolo da biliardo, afferrai una stecca e mi frugai in tasca cercando lo spray. Intanto perlustravo con lo sguardo lo spazio intorno a me, sperando in una via di fuga. I due uomini sedevano al bancone, un terzo li serviva. Tutti e tre si voltarono, incuriositi dalle urla di Pascal. Mi guardarono muovermi per la stanza, e subito la loro attenzione si spostò sulla porta da cui Pascal irruppe nel locale. «La uccido, quella stronza piena di merda! Dove cazzo è andata?» La luce dei neon si posava obliqua sulla faccia di Pascal, accentuando le rughe e disegnando coni d'ombra su occhi e guance.
«Fermo dove sei.» La voce era bassa e dura come il diamante. Pascal si pietrificò sulla soglia. Il rumore di una porta esterna suggerì che Tank aveva deciso di togliere il disturbo. Guardai di sfuggita l'uomo che aveva parlato. Indossava un completo a doppio petto color cammello, camicia color pesca e cravatta intonata. La carnagione era fresca di lampada solare e probabilmente frequentava un barbiere da ottanta dollari a seduta. Su entrambe le mani portava grossi anelli d'oro. Ma fu l'uomo seduto accanto a luì a darmi un tuffo al cuore. Andrew Ryan indossava jeans neri, stivali e una felpa grigia con le maniche tagliate. I muscoli del viso erano tesi, le guance e il mento coperti dalla barba non fatta. Gli occhi di Ryan incrociarono i miei e le palpebre ebbero un movimento impercettibile. Distolse subito lo sguardo. Mi sentii avvampare di rabbia, le gambe mi tremavano e dovetti appoggiarmi al biliardo per mantenere l'equilibrio. Dopo qualche secondo Ryan ruotò sullo sgabello e allungò le gambe nella mia direzione. Mi guardò con un sorrisetto sprezzante. «Ma guarda chi si vede.» «Perché, conosci questa troia di merda?» La voce di Pascal tremava di rabbia. Un rivoletto di sangue gli colava dal naso. Si pulì con la manica. «Certo. È la dottoressa Ho Tante Lauree Che Non So Dove Metterle» rispose Ryan prendendo una sigaretta dal pacchetto di Marlboro che aveva appena tirato fuori dalla tasca. Gli altri lo osservarono mettersi la sigaretta tra le labbra, prendere un fiammifero, accendere ed espirare una boccata di fumo. Lo guardai anch'io. Le mani di Ryan mi erano così familiari che sentii le lacrime salirmi agli occhi. Trattenni un sospiro. Perché è qui? Ryan prese la sigaretta fra pollice e indice, si mise il fiammifero tra i denti poi, facendo leva sugli incisivi, lo scagliò verso di me. Osservai il legnetto compiere una parabola e cadere sul panno verde, poi la mia rabbia esplose. «Traditore bastardo! Disgustoso figlio d'un cane! Spero di vederti morto stecchito.» «Mi capite adesso?» disse Pascal pulendosi di nuovo il naso. «Bisogna insegnare a questa troia un po' di buone maniere.» «Pessima idea» replicò Ryan inspirando una lunga boccata di fumo.
L'uomo in doppio petto fissò la faccia di Ryan. Passarono alcuni interminabili secondi. La tensione si tagliava con il coltello. Poi: «Perché dici così?». «Perché è uno sbirro.» Boccata di fumo. «E gli sbirri stanno già addosso a Pascal proprio per una puttanata del genere.» «E allora? Ti mancano le palle per caso?» lo provocò Pascal. Ryan espirò una boccata di fumo dalle narici. «Ehi, pezzo di merda... adesso cerca di ascoltare bene la novità: ci hai fatto già bruciare una valanga di tempo con il servizietto che hai fatto a una delle tue puttane, e adesso ti fai venire in mente di trascinare qui uno sbirro. Tu prova a fare i tuoi giochetti a uno sbirro, per di più femmina, e ti ritrovi tutta la polizia della città attaccata al culo. Forse a te non frega niente di avere gli sbirri al culo e preferisci divertirti lo stesso con Riccioli d'oro, ma ti assicuro che al resto di noi invece frega molto. Perché mentre gli sbirri ci controllano anche i peli del culo, tutti i nostri affari vanno a farsi fottere.» Pascal fulminò Ryan con un'occhiata furiosa di rabbia e di anfetamina. «Quella maledetta puttana mi ha preso a pugni! Adesso le rimetto il culo a nuovo.» L'uomo in doppio petto continuò a studiare con aria indifferente la faccia di Ryan. Poi si voltò verso Pascal. «No» disse calmo. «Non lo farai.» Pascal stava per esplodere, ma Ryan alzò una mano. «Vuoi vederla coperta di sangue? Allora guarda.» Ryan si spostò all'estremità del bancone, prese una bottiglia rossa di plastica e si avvicinò al biliardo. Tese il braccio e mi spruzzò addosso il contenuto della bottiglia con movimenti lenti e circolari. Io non mi mossi di un centimetro. «Leggiti questo Shakespeare, se ti viene la voglia.» E scagliò la bottiglia contro il biliardo. Abbassai lo sguardo. La camicia era coperta di ghirigori di ketchup. Riportai gli occhi su Ryan, in testa un turbinio di parole che, sapevo, non avrei mai usato. Il sorriso era scomparso e per un lungo momento i fanali azzurri di Ryan si incollarono ai miei. Infine si spostarono su Pascal. «La festa è finita.» «La festa è finita quando lo dico io.» La pupille di Pascal erano più larghe di una cloaca massima. Si rivolse al compagno di Ryan. «Questa merda non si deve permettere di parlarmi così. Non è nemme-
no...» «Invece io mi posso permettere. La festa è finita. Adesso alza il culo e sparisci.» La sua voce non era più di un sussurro. Pascal corrugò la fronte. Gli pulsavano le tempie. Con un ultimo «Figlio d'un cane!» si voltò e uscì dalla stanza. Ryan si rivolse di nuovo a me. L'uomo in doppio petto lo osservò in silenzio. «Ti sei salvata il culo, zoccola, ma cerca di non farti delle idee sbagliate. Non l'abbiamo fatto per te.» Sottolineò ogni parola dandomi altrettante spintarelle sul petto. «Per quel che mi frega di te, potresti essere di sopra a intrattenere Pascal chinata a quattro zampe. E ricordatelo.» Mi stava così vicino che sentivo l'odore del suo sudore, un profumo familiare come il mio stesso corpo. «L'avventura di questa sera è solo un enorme buco nero nella tua memoria. Non è mai accaduta.» Mi. afferrò per i capelli e mi spinse la faccia contro la sua. «Tu parli, e mi incaricherò di portare personalmente Pascal fino da te.» Mi lasciò con uno spintone e io barcollai all'indietro. «Ti apriamo il cancello. Sparisci.» Ryan tornò a sedersi accanto all'uomo in doppio petto, aspirò un'ultima boccata di fumo e scagliò il mozzicone contro l'acciaio alla base del bancone. Osservai il ventaglio di scintille e sentii qualcosa di simile a una palla dura e fredda prendere forma dentro di me. Senza dire una parola, posai la stecca e scappai via sulle gambe malferme. Fuori dal cancello, finalmente trovai in tasca la bomboletta e per sfogare il misto di frustrazione, umiliazione, sollievo e rabbia che avevo accumulato, mi voltai di scatto e la spruzzai contro la casa. Singhiozzando e battendo i denti, mi strinsi la bomboletta al petto e mi precipitai incontro al buio. La sede era a meno di sei isolati da La Taverne des Rapides. Coprii la distanza correndo e camminando e finalmente arrivai alla mia auto. Una volta dentro, chiusi la portiera e ripresi fiato, le gambe e le braccia scosse da un tremito incontrollabile, la mente annebbiata. Poi trassi un lungo respiro e mi costrinsi a partire compiendo i movimenti necessari molto lentamente. Cintura. Avviamento. Marcia. Acceleratore.
Nonostante i fulmini in lontananza e le prime gocce di un temporale sul parabrezza, tornai a casa infrangendo tutti i possìbili limiti di velocità. I miei pensieri non trovavano più un ordine. Ryan aveva dato al suo socio un saggio consiglio. Un'impresa illegale ha bisogno di un motivo molto valido per far fuori uno sbirro, anche uno sbirro aggiunto come me. Un caso del genere scatenerebbe un'offensiva tale per cui l'organizzazione non potrebbe più gestire i suoi affari per molto tempo. Quindi, a meno che il poliziotto in questione non stia causando danni maggiori, la sua morte non ha senso. E l'uomo in doppio petto l'aveva capito perfettamente. E Ryan? Possibile che fosse mosso unicamente dal suo ruolo di saggio consigliere? Che cosa era successo? Mi ero casualmente imbattuta in Ryan e nella sua nuova vita? Era lì come membro del branco, o c'erano altri motivi? Che cosa significava il suo comportamento? Mi aveva umiliata per chiarire una volta per tutte che aveva chiuso con il passato e che ormai apparteneva a quel mondo? Oppure era tutta una finzione per riuscire a tirarmi fuori di lì sana e salva? Si era esposto per me? Sapevo che dovevo riferire l'incidente alla polizia. Ma che cosa ci avrei guadagnato? I partecipanti all'Operazione Carcajou conoscevano la sede, e sicuramente avevano già i fascicoli di Pascal e Tank. Carcajou. Claudel e Quickwater. Mi si strinse lo stomaco. Che cosa avrebbero detto sapendo che mi ero letteralmente gettata in pasto al nemico correndo un grave pericolo? L'incidente avrebbe confermato Claudel nel suo proposito di farmi sollevare dal mio incarico? E se Ryan era un infiltrato? Riferire l'accaduto alla polizia avrebbe potuto far saltare la sua copertura? Non sapevo rispondere. Ma presi ugualmente una decisione. Non avrei mai fatto niente per mettere in pericolo Andrew Ryan, a prescindere dalle sue motivazioni. Se esisteva la minima possibilità che un mio rapporto sull'incidente potesse danneggiarlo, non avrei fatto alcun rapporto. Mi presi solo una notte di tempo per la decisione definitiva. A casa trovai la porta di Kit chiusa, ma sentii la musica attraverso le pareti. Bella mossa, zia. Ecco perché non sei uno sbirro. Gettai i vestiti su una poltrona e crollai a letto. D'un tratto mi assalì un pensiero. E se Pascal mi avesse portato in un altro posto? Il sonno mi vinse molto, molto tempo dopo.
33 Il giorno dopo mi alzai verso le dieci, pesta e dolorante. Trascorsi la mattinata tra aspirine, tè e bagni caldi, cercando di scacciare le immagini della sera precedente. Avevo lividi sulle gambe e sulla schiena, e un taglio non troppo profondo sul collo; fortunatamente la faccia era uscita dall'avventura quasi illesa. Pranzai piuttosto tardi e uscii subito per andare al Laboratoire, non senza aver prima abbondato con il fondotinta e indossato una maglia a collo alto. Trascorsi il pomeriggio sbrigando lavori di routine. Non scrissi il rapporto sull'incidente. Tornata a casa, consumai una cena silenziosa con Kit. Non mi fece domande sulla mia uscita serale, e supposi che non ne fosse al corrente. Io evitai di ritornare sulla sua sfuriata e lui non offrì nessuna spiegazione. Dopo cena decisi di fare il bucato. Presi il cesto della roba sporca dall'armadio della mia camera, aggiunsi i vestiti della sera prima e andai a caricare la lavatrice separando prima i capi che richiedevano un trattamento particolare. Quando sollevai la camicia sporca di ketchup, tutta la scena mi tornò in mente, e sentii un nodo stringermi lo stomaco. Stesi la camicia su un piano e cominciai a spruzzarla con lo spray per le macchie difficili. Ma quelle chiazze rosse continuavano a ricordarmi il sorriso sprezzante di Ryan, la sua mano contro il mio petto, quella frase assurda. Leggiti questo Shakespeare! Mi bloccai di colpo, fissando le macchie che avevo davanti. I ghirigori non erano casuali. Formavano due sei perfetti. Leggiti questo Shakespeare. Shakespeare. I sonetti erano la passione di Ryan. Mi venne in mente un ricordo di tanti anni prima. Il liceo. Il signor Tomlinson. Letteratura inglese. Possibile? Corsi in camera da letto e presi dallo scaffale il volume che raccoglieva l'opera completa di William Shakespeare. Trattenendo il fiato, lo aprii sui sonetti e cercai il numero sessantasei. Forza, Willy, dimmi che è qui. Quando trovai il verso sentii le lacrime salirmi agli occhi. E la perfezione ingiustamente perseguitata...
Ingiustamente perseguitata. Era un messaggio. Ryan mi stava dicendo che le cose non erano come sembravano. La perfezione. Ryan non era nato per il lato dell'ombra! Non era passato dall'altra parte! Ma allora? Era sotto copertura? Perché non si era messo in contatto con me? Non poteva, Brennan. Lo sai benissimo. Ormai non importava più. Di colpo ero certa che qualunque cosa Ryan stesse facendo, era ancora l'uomo che conoscevo. A suo tempo avrei saputo tutta la storia. Ed ero altrettanto certa che non avrei mai steso un rapporto sui fatti della sera precedente. Non avrei fatto nulla per compromettere la copertura di Ryan. Chiusi il libro e tornai al bucato. Sapevo bene che le operazioni di quel genere potevano durare mesi, perfino anni, ma almeno adesso sapevo. Sorridente, presi la camicia e la gettai nel cestello della lavatrice. Posso aspettare, Andrew Ryan. Posso aspettare. Mi sentivo felice come non lo ero da settimane. Mi liberai delle immagini di Tank e Pascal e tornai alle fotografie, che avevo abbandonato la sera prima per correre dietro a Kit Non feci in tempo ad accendere il computer che Kit comparve sulla porta. «Ho dimenticato di dirti che ha chiamato Isabelle. Stava partendo e dato che l'avevi cercata, voleva sentirti prima di andare via.» «Dove andava?» «Non me lo ricordo. C'entrava con un premio, mi sembra.» «Quando partiva?» «Non mi ricordo.» «Grazie.» Kit diede un'occhiata allo schermo. «Cosa fai?» «Sto cercando di ripulire certe vecchie fotografie per poter vedere bene le facce.» «Di chi?» «In una c'è Savannah Osprey. E l'uomo che è stato ucciso la settimana scorsa.» «Il tipo che hanno fatto fuori in galera con il cacciavite?»
«No. La persona che secondo la polizia doveva essere la sua vittima.» «Grandioso.» Entrò nella stanza. «Posso guardare?» «Be', direi che queste non sono "informazioni strettamente riservate", come noi le definiamo, perciò, se mi prometti di non parlarne a nessuno, puoi prenderti una sedia.» Caricai la foto di Myrtle Beach e gli indicai Savannah e Desjardins. «Porca miseria, ma qui c'è qualche fuoriuscito del WWF.» «World Wrestling Federation?» chiesi, pensando parlasse di Desjardins. «No. World Wildlife Fund.» E mi indicò Savannah. «Quella non è di sicuro una ole lady.» «Infatti. Ma non è raro per i biker drogare delle ragazzine e trascinarle con loro, contro la loro volontà.» «E direi che non è neanche un animale da spiaggia. Guarda la pelle: è bianca come il latte.» Mi venne un'idea. «Vorrei farti vedere una cosa.» Chiusi la foto del picnic e aprii quella della polizia. Kit si sporse verso lo schermo e la studiò con attenzione. «È lo stesso tipo di prima?» Indicò Cherokee. «Sì.» «Siamo sempre nel sud?» «Sì. In South Carolina.» «Si direbbe un blocco stradale.» Scrutò le facce del gruppo una a una, poi si fermò sulla moto su un lato dell'immagine. «Porca merda. Scusa, zia. Ma questa foto quando è stata fetta?» «Non è chiaro. Perché?» «Perche quella è la stessa moto che abbiamo visto sulla foto del funerale.» Di cuore prese a battermi più forte. «Sei sicuro?» «Zia, quello era il miglior ferro di Milwaukee che io abbia mai visto. Su due ruote così puoi veramente fare tutto quello che vuoi.» «Questo è il motivo per cui ti ho chiesto se avevi visto le altre foto.» «Le hai trovate?» «No.»
«Non importa. Tanto io sono sicuro che è la stessa moto.» «Ma perché sei così sicuro?» «Puoi ingrandire l'immagine?» Utilizzai la funzione zoom solo su quel dettaglio della fotografia. «Dio. Quelli sono duecentocinquanta chili di tuono.» «Dimmi perché sei sicuro che è la stessa moto.» «Perché, come ti ho già detto, questa è una vecchia FLH, una moto della polizia rielaborata e personalizzata. Fin qui niente di eccezionale. Ma la vera figata è il modo in cui l'amico ha eseguito il lavoro.» Una a una, mi enumerò nuovamente tutte le meraviglie della moto. «Il tipo voleva sicuramente ottenere una macchina molto potente, perciò ha modificato il rapporto peso-potenza.» Sfiorò la parte anteriore della moto. «Ha allungato il passo della ruota e sollevato la parte anteriore installando delle forcelle più lunghe. Dio, quelle cose devono essere mezzo metro oltre lo standard. Probabilmente ha modificato il cannotto di sterzo. Per fare una cosa simile l'amico doveva essere un vero mago con le moto.» «Perché?» «Perché se canni, la moto si apre in due e tu ti spalmi sull'asfalto. A quelle velocità, capisci anche tu che non è il massimo.» Mi indicò il manubrio. «Qui ha usato delle prolunghe di acciaio per distanziare il manubrio.» «Mhm.» «Se il tipo ha fatto questa modifica, vuol dire che della comodità se ne sbatteva alla grande. La sua moto non ha forcelle telescopiche ma molloni esterni, niente ammortizzatoli idraulici, niente sospensioni posteriori. In pratica, una vera "frullaossa".» «Perché "frullaossa"?» «Perché su una moto del genere il sedere prende un sacco di contraccolpi, se il fondo stradale è irregolare.» Poi indicò un paio di spunzoni sulla parte anteriore della motocicletta. «Questi sono gli appoggi da highway.» Immagino di averlo guardato con aria interrogativa. «Ha piazzato un paio di poggiapiedi supplementari sul davanti, spostando anche le leve del cambio e del freno per poter guidare con le gambe allungate. L'amico non scherzava affatto.» «Quindi tu sei sicuro che questa è la stessa moto che abbiamo visto accanto alla tomba di Silvestre?»
«La stessa moto da urlo. Ma c'è un altro motivo per cui sono sicuro.» Sapevo di non essere nel mio campo e non dissi nulla. «Guarda questo.» Indicò il serbatoio. «Il tipo ha decorato il serbatoio con della creta, o qualcosa del genere. Secondo te a cosa assomiglia?» Mi avvicinai allo schermo. In effetti aveva un aspetto strano, ma non mi ricordava niente di particolare. Guardai meglio, obbligando le mie cellule cerebrali a ricavare un significato da quella forma affusolata. E finalmente lo vidi. «Non è una cosa normale?» domandai. «Non ne avevo mai visto uno simile.» Kit fissò lo schermo, ipnotizzato. Poi: «Yeah! Sfrecciare nel vento seduto sulla testa di un serpente». D'un tratto assunse un'espressione strana. Si allontanò e si avvicinò allo schermo, poi si allontanò di nuovo, come un uccello che ha avvistato un insetto curioso. «Potresti ingrandire la faccia di quel tipo?» «Quello sulla moto?» «Sì.» «Se la ingrandisco diventerà sfocata.» «Prova.» E così feci. Dopodiché la manipolai come già avevo fatto davanti a Claudel con la faccia di Desjardins. Mentre le linee e le ombre cambiavano, coagulando i pixel in lineamenti riconoscibili, capii ciò che mio nipote aveva intravisto. Nel giro di una ventina di minuti, lavorando in un silenzio assoluto, avevo fatto ciò che potevo. Fui io la prima a parlare. «Come hai fatto a riconoscerlo?» «Non sono sicuro. Forse la mascella. Forse il naso. Mi ha colpito mentre ti stavo indicando la testa del serpente. Prima di quel momento non l'avevo neanche notato.» Osservammo l'uomo sulla sua meravigliosa Harley. «Ti ha mai detto che girava con gli Angels?» «Lui non porta nessuna insegna.» «Te ne ha parlato o no, Kit?» Mio nipote sospirò. «No.» «Ma adesso gira con loro?» «Oh, ti prego, zia. Hai visto anche tu che tipo è, no?» Già. L'avevo visto. Su una strada di campagna a Saint-Basile-le-Grand.
Seduto a un tavolo accanto a me. Al telegiornale della notte. E a casa mia. L'uomo sulla moto era Lyle Crease. 34 Parole e immagini mi turbinavano nella mente. La faccia di Pascal sotto il neon. George Dorsey che biascicava il mio nome a un infermiere. Un bulbo oculare sotto formaldeide. «... pensi di fare?» stava domandando Kit. «Chiamo Isabelle, poi vado a letto.» Chiusi il programma e riposi il CD nella sua custodia. «Tutto qui?» «Tutto qui.» A volte, quando i pensieri continuano a rimbalzarmi in testa, la migliore strategia è dimenticarli e lasciare che trovino da soli la loro strada. «Non sei curiosa?» «Molto. E puoi star certo che riuscirò a scoprire se Crease ha dei legami con gli Hells Angels. Ma non questa notte.» «Potrei chiedere in giro.» «Questo è esattamente quello che non devi fare» ribattei d'impulso. «Potrebbe essere un uomo pericoloso con amici pericolosi.» Kit mi guardò stupito. «Se lo dici tu» e scrollò le spalle. Attesi che la porta della sua camera si chiudesse e telefonai a Isabelle. Rispose dopo quattro squilli. Mi sembrò che avesse il fiatone. «Mon Dieu, ero sepolta in fondo alla cabina armadio. Non riesco più a trovare la mia ventiquattrore Louis Vuitton. Credimi, non c'è niente che la possa sostituire.» «Isabelle, mi servono delle informazioni.» Dal mio tono doveva trasparire che non ero dell'umore giusto per una conversazione sulle valige firmate. «Oui?» «Vorrei sapere qualcosa di più su Lyle Crease.» «Ah ah ah, Tempe, birichina che sei. Sapevo che avresti cambiato idea.» Al diavolo. «Dimmi qualcosa di lui.» «È carino, vero?» Come un verme, pensai, ma non dissi nulla. «Be', sai già che è un cronista investigativo della CTV. Ed è anche molto
quotato.» «Da quanto tempo fa questo lavoro?» «Da quanto?» «Sì. Da quanti anni?» «Be', non lo so con sicurezza. Ma mi sembra di averlo visto in TV da sempre.» «Che cosa faceva prima di questo?» «Prima?» «Sì, prima di lavorare alla CTV.» Era più difficile interrogare lei di Dorsey. «Lasciami pensare.» Udii un leggero ticchettio e la immaginai tamburellare sulla cornetta con l'unghia laccata. «Questo lo so, Tempe, perché me l'ha detto Véronique. Véronique adesso conduce un talk show su RadioCanada, hai presente, no? Interviste a personaggi famosi e roba simile, ma ha cominciato con le previsioni del tempo alla CTV. La conosci?» «No.» Il mio occhio sinistro cominciava a pulsare. «Usciva con Lyle Crease...» «Sono sicura di averla vista.» «Credo che mi abbia detto che Lyle arrivava da un giornale americano. No. Aspetta. Adesso mi sta tornando in mente.» Tic. Tic. Tic. «Era un giornale dell'ovest. Dell'Alberta forse. Ma in origine, Crease arriva dagli Stati Uniti. O forse è andato a scuola laggiù. Non ricordo.» «Ti ricordi da quale Stato?» «Dal sud, credo. Dovresti essere contenta.» «Quando è arrivato in Canada?» «Oh, santa pace. Non ne ho idea.» «E dove abita?» «Da qualche parte sull'isola. O forse in centro.» «Ha parenti qui?» «Non lo so. Mi spiace.» «Ma lo conosci bene o no?» «Non sono la sua confidente, Tempe.» Si stava mettendo sulla difensiva. «Però hai cercato di affibbiarmelo!» Cercai di mantenere un tono di voce neutro, ma la mia irritazione trasparì ugualmente. «Non è il caso che tu la prenda in questo modo. Il signore mi ha chiesto di conoscerti, e io ho pensato che non ci fosse motivo di rifiutare. D'altra parte, non mi sembra che la tua vita sentimentale ultimamente faccia faville.»
«Calma. Fa' un passo indietro. È stato Crease a volermi incontrare?» «Sì.» Sulla difensiva. «E quando è successo?» «Non lo so, Tempe. L'ho incontrato a L'Express, quel bistrot di rue Saint-Denis...» «Sì.» «Lyle aveva visto la tua fotografia sui giornali e si era innamorato di te. Almeno, così ha detto lui, anche se forse ha usato parole diverse. Comunque sia, abbiamo cominciato a chiacchierare, e poi sai come succede, da cosa nasce cosa e ho finito per invitarlo a cena quasi senza accorgermene.» Tic. Tic. Tic. «E devo dire che tutto sommato non era male. Anzi, è stato davvero amabile.» «Uhm...» Come poteva esserlo Charles Manson. Seguì qualche attimo di silenzio. «Tempe, per caso sei arrabbiata con me?» «No, Isabelle. Non sono arrabbiata.» «Se vuoi posso fare qualche domanda. Magari telefono a Véronique e...» «No. Lascia perdere. Non è così importante.» L'ultima cosa che desideravo era allarmare Lyle Crease. «Ero solo curiosa. Fai buon viaggio, Isabelle.» «Merci. Secondo te dove posso aver cacciato la mia ventiquattr'ore?» «Prova a guardare in dispensa.» «Bonne idée. Bonsoir, Tempe.» Dopo che ci fummo salutate, mi resi conto che non le avevo domandato dove fosse diretta. Un'ora dopo cominciò il solito lavorio mentale. Distesa a letto, impegnata a non sentire la musica di Kit, mi trovai il cervello invaso da un magma di immagini, fatti e domande. Immagine. Lyle Crease che versa del vino. Fatto. Crease ha volutamente cercato di conoscermi. Era a Saint-Basilele-Grand e sapeva degli scheletri, e aveva visto l'articolo sulla Gazette prima della cena da Isabelle. Domande. Che cosa ci faceva Crease con i ragazzi delle bande? Era stato lui a rubarmi la foto del funerale di Silvestre? Se sì, perché l'aveva fatto? Il suo passato poteva rappresentare un pericolo per lui? Di chi aveva paura? Immagine. Un buzzurro dalla faccia di iena che camminava sul marcia-
piedi davanti a casa mia. Fatto. Oltre a spaventarmi, l'uomo mi aveva smosso qualcosa nella psiche. Domande. Kit mi aveva mentito quando gli avevo domandato di eventuali visitatori? Perché? Chi era l'energumeno in berretto da baseball? Perché quell'uomo mi sollecitava una reazione così forte? Immagine. LaManche intubato e assistito dalle macchine. Fatto. Il patologo aveva passato i sessant'anni e non aveva mai fatto esercizio fisico né osservato una dieta sana. Domande. Sarebbe sopravvissuto? Sarebbe mai tornato a lavorare? Immagine. Ryan appollaiato sullo sgabello del bar. Fatto. Era sotto copertura, e non era andato a ingrossare le fila del nemico. Domande. Quello che aveva fatto per salvarmi aveva compromesso la sua copertura? Era in pericolo? Il mio gesto aveva contribuito a metterlo in pericolo? Il tutto mescolato a riflessioni più banali. Come spedire Kit a Houston. Le vaccinazioni scadute di Birdie. La carie. I capelli che dovevano ricrescere. Ma dietro a tutti i miei pensieri, perdurava l'assillante segnale prodotto dal mio inconscio, inesorabile, e tuttavia inafferrabile. Il buzzurro con il berretto da baseball. Mi rigirai nel letto, frustrata da quel messaggio che lampeggiava nella mia psiche ma che non riuscivo a decifrare. Mi ero assopita da poco quando squillò il telefono. «Pronto.» Assonnata. «Oh, eri già a letto?» Le cifre luminose della radiosveglia dicevano che era l'una e un quarto. «Mhm.» «Era la University of South Carolina» cinguettò Isabelle. «Cosa?» «Lyle è di London, nell'Ontario. Ma ha completato gli studi in South Carolina.» La voce le brillava di soddisfazione. «E non preoccuparti della mia fonte. Sono stata très discrète.» Siamo a posto. «Grazie, Isabelle» bofonchiai. «Adesso toma a dormire. A proposito. La valigetta l'ho trovata. Era nell'armadio del bagno. Che testa. Bonsoir.» Tu-tuu.
Riagganciai e abbandonai di nuovo la testa sul cuscino, notando che la stanza aveva smesso di vibrare. Kit era uscito? Mentre indugiavo nel torpore che precede il sonno, il mio inconscio tentò di mandarmi qualche altra immagine. La iena riprese forma nei miei pensieri con tanto di gilè di pelle e lunghi capelli unti. Stivali. Berretto. Berretto. Spalancai gli occhi e balzai a sedere, cercando nell'archivio della mia memoria visiva un'altra immagine. Possibile? La mattina dopo mi alzai prima che suonasse la sveglia. Un'occhiata mi disse che Kit dormiva nel suo letto. Doccia. Vestiti. Qualche lavoretto per ingannare l'attesa. Finalmente arrivò il momento di uscire per andare a lavorare. Arrivata al Laboratoire, andai subito in ufficio da Ronald Gilbert e gli esposi la mia richiesta. Senza una parola, si avvicinò a uno scaffale, scelse una videocassetta e me la passò. Lo ringraziai e andai velocemente in sala riunioni. Con un gesto nervoso inserii la cassetta in un videoregistratore e accesi il monitor. Non sapendo in quale punto avrei trovato ciò che cercavo, partii dall'inizio e premetti il tasto di avanzamento veloce. Le immagini dell'appartamento di Desjardins sfilavano rapide sullo schermo. Il soggiorno, la cucina, il cadavere senza testa. Poi l'inquadratura si soffermò sul dettaglio delle pareti insanguinate. L'obiettivo puntò verso un angolo, avvicinandosi e allontanandosi. Premetti il tasto PLAY e il nastro riprese a scorrere a velocità normale. Due minuti dopo notai l'oggetto infilato tra il muro e una gabbia arrugginita che sosteneva una chitarra. Premetti PAUSE e vidi quattro lettere confuse sotto una macchia color vinaccia. C-O-C-K Studiai il berretto da vicino. Era rosso e bianco, e vi si distinguevano parti di uno stemma che il giorno del sopralluogo non avevo notato. La mia mente completò la parola coperta dal sangue di Cherokee. G-A-M-E----S Sì. Gamecocks. Il berretto non diffondeva ironia da caserma ma pubblicizzava il nome di una squadra sportiva. I Gamecocks. I Gamecocks della University of South Carolina.
Il berretto della iena aveva solleticato il mio inconscio. E la telefonata di Isabelle aveva consentito al cervello di mettere insieme le informazioni che avevo e di capire. In quel momento la porta si aprì e Charbonneau sporse la testa ispida nella sala. Teneva in mano una busta marrone. «Claudel mi ha chiesto di dargliela. È il piano di intervento ufficiale per domani. Roy ha voluto che l'avesse anche lei.» «Immagino che Monsieur Claudel fosse troppo occupato.» Charbonneau diede una delle sue scrollate di spalle. «Sta lavorando a questi omicidi per due sezioni diverse.» Poi spostò lo sguardo sul monitor. «Desjardins?» «Sì. Guardi questa.» L'investigatore fece il giro del tavolo e si fermò in piedi accanto a me. Gli indicai il berretto. «È della University of South Carolina.» «You can't lick our cocks.» Non potete leccarci l'uccello. «Conosce la squadra?» «Con un motto del genere, chi non la conosce?» «Ma non è quello ufficiale.» «L'arredamento di Cherokee indicava che fosse un tifoso.» Ignorai l'osservazione. «Tra tutte le fotografie che ha visto, ce n'era per caso una nella quale Cherokee portava un berretto?» Charbonneau rifletté un istante. «No. E allora?» «Forse il berretto non era suo. Forse apparteneva al suo assassino.» «Dorsey?» Gli raccontai delle fotografie di Lyle Crease. «Quindi l'amico ha passato un po' di tempo in South Carolina? Non è difficile. Metà della popolazione del Québec va in vacanza laggiù.» «Ma perché Crease si sarebbe interessato così tanto a me, dopo aver saputo che ho dissotterrato quei cadaveri?» «A parte il fatto che lei è carina come un mostro marino?» «A parte questo.» «D'accordo. Appena le acque si calmano, andiamo a prendere Crease e lo interroghiamo su Gately e Martineau. Ma non abbiamo niente per incastrarlo sull'omicidio di Cherokee.»
Gli raccontai della fotografia di Myrtle Beach. «Crease e Cherokee si conoscevano, e in quella foto non erano certo a una riunione di boy scout» «Un viaggio nel Sud ai tempi delle glaciazioni. Però Crease è un giornalista. Poteva essere lì per un servizio.» Charbonneau fece atterrare la busta di Claudel sul tavolo. «Senta, Cherokee aveva fatto la chemio. Probabilmente quando è sfumata anche la possibilità del riporto, è passato ai berretti. Ma se serve a farla stare tranquilla, posso fare un controllo su Crease.» Quando uscì, mi concentrai nuovamente sulla videocassetta, vagando con la mente nel labirinto delle possibili spiegazioni. Il berretto poteva appartenere a Dorsey. Lui sosteneva di aver conosciuto Savannah Osprey. Forse era stato in South Carolina. Quando l'inquadratura si allontanò dall'angolo, premetti REWIND e tornai sulle immagini precedenti. Macchie di sangue. Chitarra. Gabbia. Berretto. Poi l'obiettivo si fece molto vicino e sentii i peletti alla base del collo sollevarsi. Mi sporsi verso lo schermo per guardare meglio, sperando di capire meglio la natura di ciò che vedevo. Era indistinto, ma c'era. Riavvolsi la cassetta, spensi il videoregistratore e uscii velocemente dalla sala. Se quello che avevo visto c'era davvero, Claudel e Charbonneau avrebbero dovuto cambiare pista. Salii al tredicesimo piano e andai fino a una porta a vetri dietro cui si apriva una stanza stipata di scaffali e di armadietti. Una targa azzurra la identificava come SALLE DES EXHIBITS. La sala degli oggetti personali. Un agente della SQ stava consegnando un fucile per la caccia al cervo. Attesi che l'impiegata compilasse i moduli di prammatica, consegnasse all'agente una contromarca e riponesse l'arma debitamente etichettata. Quando fu libera le mostrai i numeri del caso Cherokee. «Potrebbe controllare se l'inventario delle prove include anche un berretto sportivo?» «Ricordo che l'inventario era molto lungo» disse inserendo i numeri nel computer. «Potrebbe volerci qualche minuto.» Controllò lo schermo. «Sì, eccolo. Effettivamente c'era un berretto.» Lesse le note. «È andato al laboratorio di biologia per un test sulle macchie di sangue, ma ce l'hanno rimandato.»
Scomparve tra gli scaffali e dopo qualche minuto tornò con una busta di plastica chiusa da una cerniera. All'interno vidi il berretto. «Deve prenderlo in consegna?» «Se per lei va bene, lo guardo qui.» «Bene.» Aprii la busta e posai il berretto sul bancone. Sollevando delicatamente la visiera, studiai l'interno. Eccola lì. Forfora. Restituii la busta di plastica e ringraziai l'impiegata. Dopodiché volai nel mio ufficio e alzai il telefono. 35 Claudel e Quickwater non erano alla sede operativa dell'Operazione Carcajou. E neanche al comando della CUM. Lasciai i messaggi di rito e tornai all'ufficio di Ronald Gilbert. «Grazie per la videocassetta.» «Ti è servita?» «Posso chiederti una cosa?» «Dimmi pure.» «Ti ricordi l'angolo della stanza con la chitarra e la gabbia?» «Sì.» «C'era anche un berretto.» «Sì. Me lo ricordo.» «Hai scritto qualcosa a proposito delle macchie di sangue in quel punto?» «Certamente.» «Mi interessa la posizione del berretto al momento dell'omicidio. I tuoi appunti dicono qualcosa in merito?» «Non ho bisogno degli appunti. Mi ricordo tutto. Le macchie e lo spruzzo sul berretto dipendono dall'aggressione con corpo contundente avvenuta vicino a quell'angolo.» «Non dal fucile, quindi.» «No. In quel caso il quadro sarebbe stato molto diverso. E l'orientamento dello spruzzo era compatibile con il tipo di aggressione di cui abbiamo parlato.» «Con Cherokee riverso sul pavimento.» «Appunto.»
«Portava il berretto?» «No, perbacco. Non è possibile. Il berretto era dietro la gabbia quando è stato investito dalla maggior parte dello spruzzo.» «E com'è finito lì?» «Probabilmente era caduto durante la colluttazione.» «E come mai dici questo?» «Perché era sporco di sangue all'esterno e all'interno. L'aggressore probabilmente l'ha perso nello scompiglio del momento.» «Quindi non era indossato da Cherokee?» «Posso scommetterci tutto quello che vuoi.» «Grazie.» Tornata in ufficio, guardai l'ora. Le dieci e mezzo. Non avevo ricevuto messaggi. Non avevo ricevuto richieste di consulenza. Tamburellai con le dita sulla scrivania e fissai il telefono, sperando che suonasse. Non successe. Pessimista, composi il numero di Harry, a Houston, e ascoltai il messaggio in pessimo spagnolo della segreteria. Cercai Kit, ma trovai solo la mia voce registrata. Accidenti. Ma dov'erano finiti tutti quanti? Chiamai di nuovo Claudel, e questa volta gli lasciai il numero del mio cellulare. Idem con Charbonneau. Dopodiché afferrai la borsa e schizzai via, incapace di attendere oltre. Superato il portone, per qualche istante rimasi accecata dalla luce. Era una giornata di sole e i passeri cinguettavano sui rami. Il personale del Laboratoire e della SQ chiacchierava lungo il vialetto e si rilassava ai tavolini sparsi sul prato, godendosi chi una sigaretta chi un caffè di mezza mattina. Inspirai a fondo e mi avviai verso rue Parthenais, chiedendomi com'era possibile che non mi fossi accorto dell'arrivo della primavera. Per un attimo mi vennero degli strani pensieri. Il funerale di Dorsey si sarebbe tenuto tra poco meno di ventiquattr'ore. Se solo avessi potuto congelare il tempo, tenere tutto sotto controllo, gli uccellini avrebbero continuato a cantare, il sole a splendere e le donne sul prato a togliersi le scarpe. Ma non potevo, e la tensione mi faceva saltare come un protone in un acceleratore di particelle. Dio, Brennan. Un attimo fa, in ufficio, volevi che tutto andasse più veloce, e adesso vuoi congelare il tempo. Non sarebbe il caso di decidersi? La situazione esigeva hot dog e patatine. Svoltai a sinistra, in rue Ontano, proseguii per un isolato ed entrai da La-
fleur. Alle undici non c'era coda e andai direttamente al bancone. Lafleur è la versione québécoise del fast food. Vi si trovano hot dog, hamburger e poutine. L'ambiente è tutto plastica e cromature, la clientela composta in gran parte da operai. «Chien chaud, frites et Coke Diète, s'il vous plait» dissi all'uomo davanti alla cassa. Perché poi la traduzione letterale di hot dog in francese mi suonava così strana? «Steamé ou grillé?» Scelsi la versione al vapore e in pochi secondi mi consegnarono un contenitore in cartone. Le patatine avevano già macchiato d'unto il lato sinistro. Pagai e portai il cibo fino a un tavolino con una splendida vista sul parcheggio. Mentre mangiavo, osservai gli altri avventori. Alla mia sinistra, quattro ragazze in camice da infermiere, studentesse della scuola professionale sull'altro lato della strada. Le targhette le identificavano come Mann, Lise, Brigitte e Marie-José. Poco oltre, due imbianchini mangiavano in silenzio. Indossavano la tuta da lavoro e avevano braccia, capelli e faccia picchiettati di vernice come le pareti del laboratorio degli esperimenti di Gilbert. Gli uomini erano chini su vassoi colmi di patate coperte di formaggio e salsa marrone. In una città rinomata per la sua cucina, il fascino del poutine continuava a sfuggirmi. Di fronte agli imbianchini, un ragazzo che faceva del suo meglio per farsi crescere il pizzetto. Portava un paio di occhialini tondi ed era sovrappeso. Finii le mie patatine e controllai il cellulare. Il telefono era acceso, le tacche c'erano tutte ma di messaggi neanche l'ombra. Porca miseria! Ma perché nessuno rispondeva alle mie chiamate? Avevo bisogno di sfogarmi. Sfogarmi fisicamente. Trascorsi due ore correndo, saltando, rotolando su una grossa palla di gomma, frequentando una lezione di aerobica intensiva. Alla fine dell'allenamento, riuscii a malapena a trascinarmi fino alle docce. Ma l'esercizio fisico mi aveva disintossicata. La rabbia si era dissolta insieme con le tossine dell'hot dog e delle patatine. Quando rientrai in istituto trovai due messaggi sulla scrivania. Charbonneau aveva richiamato. Morin voleva parlarmi di LaManche. Strano. Perché non mi aveva telefonato di persona?
Uscii in corridoio, ma la porta di Morin era chiusa. Era già uscito. Rientrai nel mio ufficio e composi il numero di Charbonneau. «Su questo Crease potrebbe esserci molto più di quanto credevo.» «Cioè?» «Pare che lui e gli Angels si siano conosciuti tanto tempo fa. Crease è canadese, ma ha studiato alla Universily of South Carolina. Forza Cocks.» «Vedo che si è proprio fissato con questa storia.» «Il nostro anchor man ha preso una laurea breve in giornalismo nel 1983 e poi ha deciso di prendere il master, con una tesi sui biker irregolari. A proposito, all'epoca si chiamava Robert» «E perché uno dovrebbe scegliere Lyle al posto di Robert?» «È il suo secondo nome. Comunque sia, Roby si è procurato una Harley e un certificato d'ammissione rilasciato dai fratelli motorizzati, e ha cominciato a sfrecciare con il branco.» «Il master come è finito?» «In una bolla di sapone. Ha frequentato i corsi per un paio di mesi e poi i suoi professori non ne hanno più sentito parlare.» «Non ci sono tracce di dove sia andato? Patente? Dichiarazione dei redditi? Richieste di carte di credito? Iscrizione a Blockbuster?» «Nada. Poi Crease è riemerso in superficie in Saskatchewan nel 1989, come cronista di nera per una testata locale e comparendo in video al telegiornale della sera. Alla fine è stato assunto alla CTV e si è trasferito in Québec.» «Così a Crease piacevano le moto, quando era studente? Ai tempi delle glaciazioni, ricorda?» «Sembra che Crease abbia lasciato il Saskatchewan un po' di fretta.» «Ah sì?» «Ha mai sentito parlare dell'Operazione CACUS?» «Non era un'operazione sotto copertura con cui l'FBI aveva infiltrato degli informatori tra gli Hells Angels?» «Un informatore solo. Tony Tait è entrato nella sezione dell'Alaska all'inizio degli anni Ottanta e poi ha fatto carriera fino a ricoprire incarichi a livello nazionale. E per tutto il tempo si è portato addosso una ricetrasmittente collegata con il bureau.» «Angels per sempre, per sempre Angels.» «Immagino che Tony preferisse il contante.» «Adesso dov'è finito?» «Se è furbo, in un programma di protezione.»
«Ma questo che cosa c'entra con Crease?» «Sembra che negli anni Ottanta anche la polizia a cavallo avesse in corso le sue indagini.» «Mi sta dicendo che Crease era un informatore della RCMP?» «Nessuno parla e non ho trovato documenti scritti, ma ho sempre sentito dire che anche noi, per un po', abbiamo avuto qualcuno all'interno. Un giorno ho chiesto a un paio di colleghi anziani, che non hanno confermato ma nemmeno smentito.» Si interruppe. «E allora?» lo incalzai. «Questo deve rimanere tra noi, Brennan.» «Ma come faccio? Io racconto sempre tutto alla commessa della lavanderia.» Ignorò la battuta. «Ho consultato le mie fonti in giro per la città. Merda, non posso credere che le sto raccontando queste cose.» Lo sentii passarsi la cornetta sull'altro orecchio. «Circola voce che qualcuno all'epoca andava a messa con gli Angels, e che il tipo era americano. Ma era una strada a doppio senso di marcia.» «Cioè il delatore faceva il doppio gioco?» «Questa è la storia che arriva dalle mie fonti.» «Rischioso.» «Come un'emorragia cerebrale.» «Secondo lei il tipo era Lyle Crease?» «Altrimenti come sarebbe possibile far sparire sei anni della propria vita?» Riflettei. «Ma perché allora scegliere di mettersi sotto i riflettori?» «Forse pensa che la visibilità gli dia una certa protezione.» Rimanemmo in silenzio per qualche istante «Claudel sa tutto questo?» «Lo sto per chiamare.» «E adesso che succede?» «Adesso mi metto a scavare un po' più a fondo.» «Interrogherà Crease?» «Non ancora. Non vogliamo spaventarlo. E Roy ha sequestrato Claudel fino alla fine di questo stramaledetto funerale. Ma dopo deve aiutarmi a torchiare Crease.»
«Secondo lei Crease è coinvòlto nell'omicidio di Cherokee?» «Non ci sono prove, però potrebbe sapere qualcosa.» «Il berretto non appartiene né a Cherokee né a Dorsey.» «Come può esserne sicura?» «Perché c'è della forfora all'interno.» «E allora?» «Dorsey si rasava i capelli, e Cherokee era calvo a causa della chemio.» «Non male, Brennan.» «Gately e Martineau sono stati uccisi all'epoca in cui Crease era sotto copertura.» «Vero.» «E anche Savannah Osprey.» Attimo di silenzio. «E se chiedessimo aiuto a Rinaldi?» «Rana?» «Sì, proprio lui. Aveva tanta voglia di vomitarci addosso tutto quello che sapeva sulle tombe di Gately e Martineau. Magari potrebbe sapere qualcosa anche di Cherokee.» «Claudel dice che l'hanno interrogato fino alla nausea. Era disponibile a scambiare informazioni sui cadaveri di Saint-Basile-le-Grand perché era roba vecchia e per una cosa simile i fratelli quasi sicuramente non gli avrebbero fatto niente. Ma quando si comincia a parlare di fatti recenti, pare che si chiuda a rìccio. «Ascolti, mi farò aiutare da Claudel a incastrare Crease appena il circo del funerale avrà levato le tende. Comunque sia, Brennan, cerchi di volare basso, perché in giro si sono viste delle insegne dei Bandidos e circola voce che gli Angels potrebbero azzardare qualcosa. Non...» Esitò. «Sì?» «Ecco, magari suo nipote potrebbe farsi venire la voglia di andare a vedere cosa succede.» Mi sentii avvampare. Claudel aveva parlato di Kit con i colleghi della CUM. «Mio nipote non andrà da nessuna parte.» «Bene. La presenza dei Bandidos potrebbe costringere gli Angels a mostrare i muscoli. La situazione potrebbe farsi tesa.» Riagganciai e subito fui assalita dalla preoccupazione. Come avrei potuto convincere Kit a stare alla larga dal funerale se lui aveva intenzione di
esserci? Che cosa voleva dirmi Morin? Forse che il mio vecchio amico era morto? Ryan correva un pericolo serio? Avermi aiutata aveva compromesso la sua copertura? L'avevo esposto al pericolo come avevo fatto con George Dorsey? Appoggiai la testa sulla superficie verdina della mia scrivania e lentamente chiusi gli occhi. 36 Ero sott'acqua e Lyle Crease mi stava parlando. Sotto di me ondeggiavano le alghe, simili ai capelli di un cadavere sommerso. Qualche lama di luce penetrava nell'oscurità immobile, illuminando le particelle che ci fluttuavano intorno. Mi faceva male il collo. Aprii gli occhi, poi sollevai e ruotai la testa, massaggiandomi lentamente i muscoli indolenziti della zona cervicale. Il mio ufficio era immerso nel buio e l'unica luce arrivava da una pallida fosforescenza che filtrava dal vetro accanto alla porta. Per quanto tempo avevo dormito? Mi sforzai di leggere l'ora. Di colpo notai la figura fuori dalla mia porta e una sensazione di allarme mi arrivò al cervello. Mi bloccai, occhi e orecchie in stato d'allerta. Il piano era immerso nel silenzio e l'unico rumore che sentivo era il battito del mio cuore contro le costole. La figura era immobile, una sagoma disegnata dalla luce fioca che usciva dal mio laboratorio. Guardai il telefono. Devo chiamare la sorveglianza? Avevo già la mano sulla cornetta quando la porta si spalancò. La faccia di Jocelyn era spettrale. Era vestita di nero, e la pallida testa ovale sembrava navigare nel nulla, una zucca senza corpo, con buchi scuri al posto di occhi e bocca. «Oui?» Mi alzai, per non lasciarle il vantaggio dell'altezza. Non mi rispose. «Puis-je t'aider?» le domandai. Posso aiutarti? Di nuovo, non rispose. «Jocelyn, per favore, accendi la luce.» Il comando riuscì dove le domande avevano fallito. La ragazza premette
l'interruttore e l'ufficio di colpo si illuminò. Aveva i capelli appiccicati alla faccia e al collo, e i vestiti erano sgualciti, come se fosse rimasta seduta a lungo in un luogo caldo e molto affollato. Tirò su col naso e si pulì con il dorso della mano. «Che cosa succede, Jocelyn?» «Tu li stai facendo scappare» mi disse con rabbia. «Chi?» domandai confusa. «Credevo che tu eri diversa.» «Ma diversa da chi?» «Non frega niente a nessuno. Ho sentito gli sbirri che ci scherzano. Li ho sentiti ridere. Un altro biker morto. Bene, dicono gli sbirri. Finalmente un po' di pulizia.» «Ma di che cosa stai parlando?» avevo la bocca secca. «Ma sono loro lo scherzo. Gli sbirri sono uno scherzo. Sono delle teste di cazzo.» L'odio che le leggevo negli occhi mi lasciò sconcertata. «Dimmi perché sei arrabbiata.» Seguì un lungo silenzio che servì a Jocelyn per studiare il mio viso. Il suo sguardo sembrava mettere a fuoco e poi concentrarsi altrove, come se nella sua mente stesse sottoponendo la mia immagine a un esame minuzioso.» «Non si meritava quello che gli hanno fatto. Non se lo meritava proprio per un cazzo.» La volgarità suonò strana in francese. Con calma le dissi: «Se non mi spieghi non ti posso aiutare». Jocelyn esitò, poi prese una decisione e puntò gli occhi rabbiosi nei miei. «George Dorsey non ha ucciso quel vecchio.» «Cherokee Desjardins?» Rispose con una scrollata di spalle. «Come lo sai?» Aggrottò la fronte, per decidere se la domanda fosse una trappola o meno. «Basta avere un QI più alto di quello di un sedano per sapere che è così.» «Non è una spiegazione molto convincente.» «Un vero esperto avrebbe fatto tutto per bene.» «Che cosa signif...» Mi interruppe. «Mi vuoi ascoltare sì o no?» Attesi.
«Ero lì quella sera.» Deglutì. «A momenti non ero ancora entrata quando si è presentato un tipo. Io allora me ne sono andata nella camera. Lui e Cherokee hanno cominciato a chiacchierare, all'inizio in modo amichevole, ma quasi subito ho sentito gridare, poi ho sentito un gran trambusto, della urla, dei colpi. Ho capito che sarebbe successo qualcosa, così mi sono nascosta nell'armadio.» «Ma perché eri là, Jocelyn?» «Perché Cherokee voleva sponsorizzarmi l'entrata in un club di ricconi» ironizzò. «Continua.» «Mi sono accucciata lì finché le acque non si sono calmate. E quando credevo che il tipo era andato via, sono uscita. Ma poi ho sentito il fucile. Dio, che strizza mi sono presa.» Spostò lo sguardo oltre le mie spalle. Cercai di immaginare che ricordo terribile potesse essere per lei. «E poi ho sentito il tipo fare un gran casino, buttare tutto per terra, rovesciare i cassetti. Ho pensato che era un tossico e che cercava la roba di Cherokee, e me la sono fatta sotto dalla paura, perché la roba era proprio nella stanza dov'ero io. «Ma quando ho sentito la puzza del fumo, ho capito che, tossico o non tossico, era arrivato il momento di alzare il culo. Ho rotto la finestra, sono saltata giù in strada e sono scappata di corsa. Ma le cose strane cominciano proprio qui. Quando sono arrivata all'angolo, ho svoltato e ho dato un'occhiata in fondo all'isolato. Lo stronzo era ancora lì, fuori dalla casa di Cherokee, e stava grattando nel fango. Poi è arrivata una macchina e lui è andato via.» «Che cosa stava cercando?» «E come cavolo faccio a saperlo?» «E poi che cosa è successo?» «Quando sono stata sicura che non tornava più indietro, mi sono avvicinata.» Ci fu un lungo silenzio. Alla fine Jocelyn si tolse lo zainetto dalla spalla, frugò per qualche istante e ne estrasse un oggettino piatto. «Nel punto dove il tipo stava frugando ho trovato questo.» Me lo diede. In un sacchetto di carta trovai una cornicetta di plastica che racchiudeva la fotografia di due uomini che sorridevano attraverso le macchioline di uno spruzzo di sangue. Si cingevano reciprocamente la vita con un braccio,
e tenevano l'altro sollevato puntando il dito medio verso il cielo. Quello sulla destra era Cherokee Desjardins, robusto e pieno di vita. Quando riconobbi l'uomo sulla sinistra, sentii la gola chiudersi e il respiro uscire a fatica. Jocelyn continuò a parlare ma io non la sentivo più. «... un sacchetto appallottolato lì vicino. Appena i fari l'hanno illuminato lui è schizzato via come una lepre.» I pensieri accelerarono. Le immagini mi sfilarono davanti. «... perché cazzo lo voleva. Ma vai a capire che cosa passa per la testa di un tossico.» Vidi una faccia. «... che non sono riuscita a vederlo.» Vidi un berretto da baseball. «... figlio di puttana è riuscito a squagliarsi.» Vidi puntini d'oro mulinare in un vortice d'acqua. «... non se lo meritava proprio.» Cercai di tornare al presente e mi assumere un'espressione naturale. «Jocelyn, conosci un giornalista televisivo di nome Lyle Crease?» «Inglese?» «Sì.» «Non guardo la TV inglese. Perché me lo chiedi? L'hai capito o no che sto cercando di dirti che Dorsey non ha seccato Cherokee?» «No» concordai. «Non l'ha fatto.» Ma avevo un'idea abbastanza precisa di chi l'avesse fatto. Quando Jocelyn uscì, telefonai a Claudel. Non c'era, ma questa volta lo chiamai al cercapersone. È abbastanza urgente, pensai, digitando il mio numero. Quando Claudel richiamò gli raccontai la storia di Jocelyn. «Potrebbe identificare l'uomo?» «Non lo ha mai visto in faccia.» «Fantastique.» «È Crease.» «Come può esserne sicura?» «Il berretto trovato nell'appartamento di Desjardins ha uno stemma della University of South Carolina. Crease studiava li.» «Abbiamo già...» «Charbonneau le ha detto della forfora?» «Sì.»
«Ho avuto il piacere di cenare con Crease non molto tempo fa. E sul colletto gli ho notato forfora sufficiente per aprire una pista di neve artificiale.» «Movente?» Gli descrissi cos'altro avevo visto sulla fotografia. «Gesù Cristo santissimo.» Era raro che Claudel fosse blasfemo. «Che rapporto c'è tra questa donna e Dorsey?» «Non era molto disponibile per le domande personali.» «È affidabile?» «È chiaro che è una tossicodipendente, ma le credo.» «Ma se era terrorizzata, perché è rimasta lì?» «Probabilmente ha pensato che il visitatore di Cherokee fosse anche uno spacciatore e sperava in una dose gratis.» «Michel Charbonneau mi ha riferito della vostra conversazione. Direi che è arrivato il momento di andare a pizzicare questo Crease.» Dopo aver parlato con Claudel, chiamai l'agenzia per prenotare un volo. Che lo volesse o no, Kit stava per tornare in Texas. E fino a quel momento non l'avrei perso più di vista. Rientrata a casa, trovai Kit sotto la doccia. «Hai mangiato?» gridai attraverso la porta del bagno quando non sentii più lo scroscio dell'acqua. «Non molto.» E va bene, ragazzo, adesso ti faccio vedere che anch'io so cucinare la pasta. Scesi da Le Faubourg e comprai capesante e verdura. Rientrata a casa, feci saltare i molluschi con cipolle e funghi, poi aggiunsi una salsa a base di yogurt, senape, limone e aneto. Adagiai il tutto su un letto di capelli d'angelo e servii con baguette e contorno di insalata mista. Perfino Kit era impressionato. Mangiammo chiacchierando, ma non dicemmo granché. «Com'è andata la giornata?» domandai. «Molto bene.» «Che cosa hai fatto?» «Non molto.» «Sei rimasto qui?» «Ho preso la metropolitana fino a un'isola che non mi ricordo, e poi ho
girato per il parco.» «Île-Sainte-Hélène.» «Proprio quella. C'è una spiaggia e un sacco di piste. Si scivola che è una bellezza.» Ecco spiegato lo skateboard in ingresso. «E tu? Com'è andata la tua giornata?» domandò prendendo un crostino Ora i resti dell'insalata. «Molto bene.» Una tossica fuori di testa assunta nel nostro istituto mi ha accusato di scarsa sensibilità nei confronti dei biker, e ho scoperto che uno dei tuoi amici Easy Rider è un assassino. «Grande.» Inspirai a fondo. «Oggi ho prenotato un volo.» «Vai a farti un altro giretto?» «Il volo è per te.» «Oh, oh. La zia si è stufata di avermi intorno.» Fissò lo sguardo sulla terrina dell'insalata. «Kit, sai che ti voglio bene e che mi piace averti qui, ma credo sia arrivato il momento di tornare a casa.» «Com'è quella storia degli ospiti e del pesce che puzza? O sono i parenti?» «Sai benissimo che non è così. Ma sei qui da almeno due settimane. Non sei stanco? Non hai voglia di rivedere i tuoi amici e tornare a occuparti della barca?» Scrollò le spalle. «Tanto loro mica scappano.» «Ma Harry e tuo padre sentiranno la tua mancanza.» «Sì, certo. Ci sono le linee roventi per tutte le telefonate che mi hanno fatto.» «Tua madre è in Messico. Non è facile...» «È tornata a Houston lunedì scorso.» «Eh?» «Non volevo dirtelo.» «E perché?» «Perché sapevo che quando lei tornava tu mi avresti spedito a casa.» «Ma perché pensi una cosa del genere?» Fuori, una sirena lacerò l'aria, forte, piano, forte, piano... Kit rispose senza guardarmi.
«Quando ero piccolo, tu ti tenevi sempre alla larga da me, perché avevi paura che Harry potesse ingelosirsi. O arrabbiarsi. O risentirsi. O sentirsi inadeguata. O...» Prese un crostino ma poi lo gettò di nuovo nella terrina. Le gocce d'olio macchiarono il tavolo. «Kit!» «Vuoi saperne una? Lei avrebbe dovuto veramente sentirsi inadeguata. L'unica cosa per cui devo ringraziare mia madre è non avermi sepolto in un cavolo di scatola da scarpe quando sono nato.» Si alzò in piedi. «Vado a fare i bagagli.» Mi alzai e lo afferrai per un braccio. Quando lo guardai mi accorsi che aveva il viso contratto per la rabbia. «Harry non ha niente a che fare con questo. Ti sto mandando a casa perché sono preoccupata per te. Mi fanno paura le persone che frequenti e quello che potrebbero fare. E mi fa paura l'idea che tu possa esserti lasciato invischiare in cose pericolose.» «Stronzate. Non sono più un bambino. E sono in grado di prendere le mie decisioni.» D'un tratto mi venne in mente "Rana" Rinaldi e la sua ombra allungata su una tomba. Gately e Martineau avevano preso una decisione. Una decisione mortale. E così pure Savannah Osprey. E George Dorsey. Non avrei permesso che Kit facesse altrettanto. «Se ti dovesse succedere qualcosa, non potrei mai perdonarmelo.» «Non ho nessuna intenzione di farmi del male.» «È un rischio che non posso correre. Credo che tu ti sia cacciato in una situazione pericolosa.» «Zia, non sono un lattante. Se vuoi, puoi sbattermi fuori di qui, ma non puoi più dirmi che cosa devo fare.» I muscoli della mascella si contrassero e deglutì più volte vistosamente. Rimanemmo in silenzio, entrambi consapevoli di essere molto vicini a pronunciare parole che, una volta dette, avrebbero fatto male. Gli lasciai il braccio e Kit scomparve in fondo al corridoio, i piedi che frusciavano sulla moquette. Dormii un sonno agitato, infine mi svegliai e rimasi al buio a pensare a mio nipote. Le persiane passarono dal nero all'antracite. Rinunciai a dormire, mi preparai un tè e lo portai in veranda. Avvolta nella trapunta di mia nonna, osservai le stelle spegnersi lentamente nel cielo, e ripensai a certe serate estive a Charlotte, quando Kit e
Katy erano piccoli e giocavamo a trovare le costellazioni e a inventarne di nuove battezzandole come piaceva a noi. Katy vedeva un topo, un cagnolino, un paio di pattini. Kit vedeva una madre e un bambino. Mi coprii i piedi e sorseggiai il liquido bollente. Come potevo far capire a Kit le ragioni per cui lo stavo mandando via? Era giovane, e vulnerabile, e disperatamente bisognoso di riconoscimento e approvazione. Ma il riconoscimento e l'approvazione di chi? Perché voleva stare con me? Forse perché gli fornivo una base sicura da cui poter svolgere attività di cui non voleva parlarmi? Dal giorno in cui era arrivato, la sua apatia mi aveva sorpreso. Mentre Katy avrebbe desiderato avere rapporti continui con i suoi coetanei, mio nipote sembrava accontentarsi di qualche passeggiata in giro per la città, video game e la compagnia di una zia matura con un gatto maturo. Il Kit di quei giorni era distante anni luce dal ragazzino che conoscevo. Ginocchia sbucciate. Punti di sutura. Ossa rotte. A causa dell'irrequietezza di Kit, Harry aveva dato del tu agli infermieri del pronto soccorso per tutta la durata dell'infanzia di suo figlio. Kit rimaneva in casa o usciva con Lyle Crease? O con il Predicatore? O con la iena? Forse lo vedevo sempre letargico perché era stanco? Altro tè. Ormai tiepido. Vidi l'immagine di due uomini dietro uno strato di plastica schizzato di sangue e nemmeno il tè riuscì a scaldare il gelo che mi scese dentro. Stavo commettendo un errore? Se Kit si era messo su una cattiva strada, potevo avere un'influenza positiva su di lui? Se era coinvolto in qualcosa di discutibile, non sarebbe stato più sicuro tenerlo con me? No. La situazione generale era troppo rischiosa. Avrei fatto come avevo deciso. Mio nipote sarebbe stato in Texas prima che il cadavere di George Dorsey scomparisse sotto terra. L'alba si alzò all'orizzonte e una luce delicata si diffuse nel cortile, tingendo alberi, siepi e le vecchie case di mattoni al di là della strada. Gli spigoli si addolcirono finché la città non assomigliò a un paesaggio di Winslow Homer. Un acquerello, un perfetto sfondo per un funerale di biker. Rovesciai l'avanzo di tè sul prato e andai a svegliare mio nipote. La sua stanza era vuota. 37
Sulla porta del frigorifero trovai un biglietto. Mi tremavano le mani e non lo staccai. GRAZIE DI TUTTO. NON PREOOCUPARTI. SONO DA AMICI. Amici? Mi sentii morire. Guardai l'orologio. Al funerale di Dorsey mancava poco più di un'ora. Chiamai Claudel sul cercapersone, preparai il caffè, mi vestii e rifeci il letto. Sette e un quarto. Bevvi il caffè e mi staccai una pellicina da un'unghia. La terra aveva ruotato. I continenti si erano mossi. Cinque ettari di foresta equatoriale erano scomparsi per sempre dalla faccia della terra. Andai in bagno, mi pettinai, mi truccai e tornai in cucina per una seconda tazza di caffè. Sette e mezzo. Ma dove caspita era finito Claudel? Tornai in bagno e mi pettinai di nuovo. Stavo per passare al filo interdentale quando il telefono squillò. «Non avrei mai detto che lei fosse un tipo mattiniero.» Claudel. «Kit se n'è andato.» «Cibole!» In sottofondo sentii il rumore del traffico. «Lei dov'è?» «Fuori dalla chiesa.» «Com'è la situazione?» «Un parco a tema sui peccati capitali. Accidia e ingordigia sono quelli più rappresentati.» «Immagino che lì non lo abbia visto.» «No, ma bisogna dire che in questa ressa non riuscirei a distinguere Fidel Castro. Pare che tutti i biker del continente oggi si siano dati appuntamento qui.» «E Crease?» «Neanche l'ombra.» La sua voce ebbe un'esitazione. «Cosa c'è?» domandai.
«Charbonneau ha fatto altri controlli. Dal 1983 al 1989 Lyle Crease giocava a fare il corrispondente estero, non l'agente segreto. Ma i soli servizi di cui si occupava erano quelli che puliva nella sua cella.» «È stato dentro?» domandai sorpresa. «Sei anni, oltre confine.» «Messico?» «Juarez.» Il cuore riprese a battermi nel petto. «Crease è un assassino e Kit potrebbe essere con lui. Devo fare qualcosa.» «Si tolga dalla testa di prendere iniziative personali, signora Brennan.» La voce di Claudel si era fatta gelida e professionale. «Oggi questi biker sembrano squali che annusano l'odore del sangue, e le cose potrebbero mettersi molto male da queste parti.» «E Kit potrebbe finire in pasto a quella gente!» Udii la mia voce salire di tono, e mi interruppi per ritrovare un po' di calma. «Mando una volante a prendere Crease.» «E se invece lui pensa di partecipare al funerale?» «Se si fa vedere qui in giro, lo arrestiamo.» «E se un ragazzo di diciannove anni rimane preso in mezzo?» Stavo quasi gridando. «Io le sto dicendo semplicemente di non venire qui.» «Allora trovate quel bastardo!» Non feci in tempo a chiudere la telefonata con Claudel, che squillò il cellulare. Kit! Corsi in camera da letto e presi l'apparecchio dalla borsa. Udii una voce tremula, che ricordava quella di un bimbo dopo un lungo pianto. «Devi assolutamente sapere quello che stanno facendo.» Ebbi un attimo di confusione, poi riconobbi la voce e cominciai a preoccuparmi. «Chi, Jocelyn?» «Qualcuno deve sapere che cosa stanno facendo questi rifiuti umani degli Heathens.» Tirò un lungo respiro. «Raccontami tutto.» «Questa città si sta trasformando in un macello, e tuo nipote sta andando dritto verso la sala della morte.»
Lo stomaco mi si annodò di paura. «Che cosa vuoi dire?» «So quello che sta per succedere.» «Che cosa ha a che fare questo con mio nipote?» «Mi servono dei soldi e una copertura.» La sua voce aveva preso corpo. «Dimmi quello che sai.» «Prima dobbiamo fare un patto.» «Non ho questo potere.» «Però conosci chi ce l'ha.» «Cercherò di aiutarti, ma prima mi devi dire se mio nipote è in pericolo.» Silenzio. Poi: «Che si fottano tutti quanti, tanto io sono morta in ogni caso. Vediamoci alla fermata di Guy tra venti minuti. Banchina direzione Angrignon». La sua voce aveva il tono grave della persona sconfitta. «Aspetto dieci minuti. Se arrivi tardi, o se ti porti dietro qualcuno, me ne vado e il ragazzo sarà solo una nota a piè di pagina sul testo di questa storia.» Tu-tuu. Chiamai il cercapersone di Claudel e lasciai il mio numero. Poi fissai il telefono, valutando le possibilità che avevo. Claudel non era raggiungibile. Non potevo aspettare che mi richiamasse. Quickwater. Idem. Claudel non mi aveva detto di stare lontana anche dalla metropolitana. Avrei incontrato Jocelyn e poi lo avrei chiamato per comunicargli le novità. Digitai il numero della sede operativa della Carcajou, ma senza premere il tasto di invio. Buttai il cellulare in borsa e schizzai fuori. Jocelyn era seduta alla fine della galleria, una borsa di tela sulle ginocchia, un'altra ai piedi. Aveva scelto una panchina d'angolo, come se avere il cemento alle spalle potesse proteggerla dalle minacce che la terrorizzavano. Si rosicchiava un'unghia e scrutava i pendolari fermi su entrambi i lati della banchina. Mi vide arrivare e mi seguì con lo sguardo. Camminavo al centro della banchina e, più forte di ogni altro rumore, avevo nelle orecchie il battito del mio cuore. L'aria era calda e viziata, come fosse stata respirata più e
più volte da legioni di viaggiatori sotterranei. Sentii in bocca un gusto acido e deglutii. Jocelyn mi guardò in silenzio mentre sedevo sulla panchina. Sotto le luci artificiali, la sua pelle era violetta, la cornea gialla. Cominciai a parlare ma lei mi interruppe con un gesto della mano. «Ti dirò quello che ho da dire una volta sola. Poi prendo il volo. Io parlo. Tu ascolti.» Non risposi. «Sono una tossica, lo sappiamo tutt'e due. Ma sono anche una puttana e una bugiarda.» Il suo sguardo scrutava le persone che affollavano la banchina. «Prima ero una tipa normale - per intenderci: campeggi estivi con i boyscout e pasticcio di tonno - esattamente come te. Solo che a un certo punto del cammino mi sono ritrovata in un giro di tossici da cui non sono più riuscita a uscire.» Sotto le ombre violacee, gli occhi di Jocelyn ricordavano quelli di un cadavere. «Poi ho avuto il mio periodo di odio puro. Odiavo tutto il mondo. Ma più di tutti odiavo me stessa.» Si pulì la scia lucida che le colava dal naso con il dorso della mano. «E quando ti accorgi che non riesci a guardarti nell'acqua di un lago, o non riesci a passare davanti a uno specchio o a una vetrina perché disprezzi quello che vedi, capisci che è arrivato il momento di chiudere.» Si voltò verso di me, gli occhi vividi di rabbia e senso di colpa. «Parlare con te potrebbe voler dire la morte, per me. Ma io voglio uscirne, in qualsiasi modo. E voglio che questa gente paghi.» «Che cosa offri?» «Ragno Marcotte e la bambina.» «Ti ascolto.» «È stato George Dorsey. Adesso lui è morto, quindi non importa più niente.» Distolse lo sguardo, poi lo riportò su di me. «Marcotte è stato la vendetta degli Heathens contro i Vipers per la morte dei Vaillancourt L'hanno fatto fuori George e un certo Sylvain Lecomte, un membro effettivo. La bambina è stata uno sbaglio.» Sollevò un ginocchio contro il petto e se lo abbracciò. «George credeva che se seccava Marcotte finalmente lo facevano entrare nella banda con tutti gli onori. Ma poi gli Heathens hanno fatto fuori George perché credevano che poteva tradire Lecomte.» Ebbe un gesto di disap-
punto. «Quando c'è stato l'omicidio di Cherokee, George era in zona perché stava aspettando me. Ma poi quelli della Carcajou l'hanno messo dentro e lui ha parlato con te, e allora gli Heathens hanno deciso di far fuori George prima di perdere Lecomte. Davvero un grand'uomo, Lecomte. Ha seccato una bambina. Grande stronzo» sibilò di getto. «Nient'altro?» Scrollò le spalle. «I cadaveri di Saint-Basile-le-Grand. Bazzico tra questa gente da nove anni, e ho un sacco di cose da raccontare.» «Parli del programma di protezione?» «Soldi e poi via.» «Riabilitazione?» Scrollò le spalle. «Che mi dici di Cherokee?» «Aveva portato le ossa della ragazza al nord. Comunque la sua storia l'ho scritta. E spiffero tutto solo quando mi sono messa il culo al sicuro e lontano anni luce da qui.» Dava l'impressione di non credere neppure lei a quella possibilità. «Perché adesso?» «Hanno fatto fuori Dorsey. Lui ha fatto il lavoro per loro e loro l'hanno fatto fuori.» Scosse la testa e riprese a sorvegliare la banchina. «E adesso sono diventata anch'io come loro.» Dal tono della sua voce traspariva tutto l'odio che aveva per se stessa. «Ho sistemato il cronista.» «Quale cronista?» «Lyle Crease. Quando mi hai chiesto di lui, ho sentito puzza di qualcosa, e così quella sera ho deciso di guardare il suo telegiornale. E infatti era proprio il tipo che ho visto da Cherokee. Ho spifferato il suo nome ai Vipers per una bustina di roba.» «Dio santo.» «Io sono una tossica, te lo sei scordato?» Stava quasi gridando. «Quando vai in down e senti che il mondo ti si chiude addosso, ti venderesti anche tua madre per una dose. E poi avevo anche altre ragioni per farlo.» Cominciarono a tremarle la mani, e si premette le dita contro le tempie. «Poi ho telefonato a Crease e ci siamo messi d'accordo per vederci al cimitero.» Ancora una risatina di autocommiserazione. «Di nuovo in pista sulla neve fresca.» «Sono stati loro a chiederti di organizzare l'incontro?»
«E chi sennò? Hanno deciso di far fuori lui e anche qualche Heathens.» «Ma tutto questo che cosa c'entra con mio nipote?» Avevo la bocca così secca che non riuscivo quasi a parlare. «Crease ha detto di non provare a fare scherzi perché si sarebbe portato dietro il ragazzo.» Udii il rombo di un treno in fondo alla galleria. Jocelyn scosse di nuovo la testa. Visti di profilo, i suoi lineamenti sembravano più duri. «Questo funerale sarà un bel film con finale a sorpresa, e tuo nipote potrebbe essere il protagonista.» Sentii un cambiamento nella pressione dell'aria e il rombo del treno farsi più forte. I passeggeri si avvicinarono ai margini della banchina. Lo sguardo di Jocelyn si bloccò su qualcosa oltre i binari. Per un istante sembrò confusa, ma subito spalancò gli occhi, riconoscendo qualcuno. «Lecom...!» gridò, e portò la mano sulla cerniera della borsa. Il treno entrò sferragliando nella stazione. La testa di Jocelyn schizzò indietro e una nuvola scura sporcò la parete alle sue spalle. D'istinto mi gettai a terra e cercai di ripararmi la testa con le mani. Sentii i proiettili fischiarmi intorno. Mi trascinai dietro la panchina, sotto, ovunque pur di mettermi al riparo. Ma era inchiodata al muro! Non potevo andare da nessuna parte! La porte si aprirono. Sulla banchina opposta i pendolari salirono e scesero. Sulla nostra, urla. Gente che si voltava. Stupore. Orrore. Il treno lasciò la stazione. Il rumore cambiò. Il panico si diffuse e la gente si affollò verso le scale mobili per correre via. Cessati gli spari, lasciai passare un minuto abbondante, poi, con cautela, mi alzai in piedi. Vidi sul mio giubbotto schizzi di materia cerebrale e frammenti di osso. Ebbi un conato di vomito e sentii in bocca il sapore della bile. Voci. Inglese. Francese. «Attention!» «Sacrifice!» «Bisogna chiamare la polizia!» «Elle est morte?» «Stanno arrivando.
«Mon dieu!» Confusione. Di corsa verso gli ascensori. Il corpo di Jocelyn ebbe un tremito e un rivolo di saliva le uscì dalla bocca. Sentii l'odore dell'orina e delle feci, vidi il sangue colare sulla panchina e sul pavimento. Mi venne in mente Cherokee. E subito dopo gli altri. Gately. Martineau. Savannah Osprey. Emily Anne Toussaint. Non avrei potuto impedire quelle morti, né avevo fatto nulla per causarle; e non avrei potuto fare più niente per Jocelyn. Ma non avrei lasciato che mio nipote fosse il prossimo della lista. No, non lo avrei permesso. La morte sentenziata dai biker non ci sarebbe stata. Non per Kit. Non per Harry. E non per me. Incerta sulle gambe, riuscii a trascinarmi fino alle scale mobili e mi infilai nel flusso delle persone che prendevano le distanze dalla tragedia. L'entrata era già bloccata da due autopattuglie, luci lampeggianti e portiere aperte. Altre erano in arrivo, annunciate dall'urlo delle sirene. Sarei dovuta rimanere, riferire la mia versione dei fatti e lasciare che la polizia si occupasse del resto. Avevo la nausea e guardavo con disgusto al massacro che sembravamo incapaci di fermare. La paura per la sorte di Kit mi attanagliava lo stomaco procurandomi un dolore fisico, e non teneva conto né delle convenienze né del senso del dovere. Mi feci largo tra la folla e mi misi a correre. 38 Quando entrai in casa, mi tremavano ancora le mani. Il mio appartamento era immerso nel silenzio. Chiamai a voce alta, senza aspettarmi di ricevere risposta. Presi dalla cartella la busta che Charbonneau mi aveva consegnato da parte di Roy. Controllai la procedura e l'ora del funerale e corsi in garage. Il traffico si stava già diradando, ma Centre-Ville rimaneva intasato. Mi rassegnai alla coda, il motore che languiva, il cuore che batteva, le mani sudate sul volante, finché non arrivai alla fine dell'ingorgo e potei volare fino alla montagna, dove parcheggiai di fronte al Lac aux Castors. I cimiteri si stendevano lungo il pendio dello Chemin Remembrance, città dei morti adagiate verso l'orizzonte. Secondo la cartina di Roy, la tomba di Dorsey era subito dopo il muro di cinta, a venti metri dal cancello sud. Il corteo funebre sarebbe arrivato da est ed entrato nel cimitero di fronte al
punto dove mi trovavo io. Mi asciugai le mani sui jeans e controllai l'ora. Presto. In genere ci sono poche persone sulla montagna, di primo mattino. Quel giorno, invece, davanti al cimitero e lungo il viale che conduceva al cancello d'ingresso si era già radunata una folla di persone. Altri passeggiavano tra gli alberi e le tombe del cimitero. L'ipocrisia di quel rituale mi sembrava surreale. Gli Heathens e i Rock Machine seppellivano con tutti gli onori il compagno che loro stessi avevano assassinato. Gli agenti avevano parcheggiato le volanti su entrambi i lati dello Chemin Remembrance, radio e lampeggianti accesi. Chiusi l'automobile e attraversai la strada, scivolando sull'erbetta che cominciava a spuntare sulla striscia di terreno che separava le due corsie. Mi avviai verso il cancello osservando le persone che avevo intorno, per lo più maschi, giovani e bianchi. Vidi Charbonneau appoggiato a una volante, ma non c'era traccia né di Kit né di Crease. Un agente in divisa mi bloccò all'entrata. «Calma, signora. Si fermi. Mi spiace, ma sta per arrivare un funerale e questo cancello è chiuso. Deve fare il giro.» Tese le braccia in avanti, in caso fosse stato necessario dissuadermi con mezzi diversi. «Sono la dottoressa Temperance Brennan» mi presentai. «Carcajou.» Mi guardò sospettoso. Stava per rispondere qualcosa quando un fischio lacerò l'aria. Ci voltammo entrambi. Claudel ci guardava da una collinetta non lontana dalla tomba di Dorsey. Dopo aver catturato la nostra attenzione, indicò all'agente di farmi passare con un gesto secco della mano. La guardia puntò il dito verso di me, e Claudel annuì. Con uno sguardo di disapprovazione mi consenti di varcare il cancello. I cimiteri del Mont-Royal sono luoghi strani e molto belli, ettari di elegante paesaggio e di preziosa architettura funeraria, adagiati sui dolci pendii della montagna. Mont-Royal. Gli ebrei. Notre-Dame-des-Neiges. Quest'ultimo è il cimitero cattolico. Ci sono tombe elaborate e monumenti, ma anche semplici loculi con concessione decennale. A partire dalla metà del XIX secolo, sono state più di un milione le anime che hanno riposato dietro i cancelli di ferro battuto del cimitero. Il complesso contiene mausolei, forni crematori, loculi e lotti per la sepoltura in terra per i più tradizionalisti.
Ci sono sezioni per i polacchi. Per i vietnamiti. Per i greci. Per i francesi. Per gli inglesi. I visitatori possono richiedere una cartina dove vengono indicate le tombe delle personalità di Montréal. La famiglia Dorsey si trovava nella sezione di Troie, non lontano da Marie Travers, la cantante degli anni Trenta nota con il nome di La Bolduc. Più importante, però, era il fatto che il funerale di Dorsey si sarebbe svolto a meno di dieci metri dallo Chemin Remembrance. I collaboratori di Roy erano convinti che se quel giorno era previsto un omicidio, il cimitero era il luogo più probabile. E anche il più difficile da tenere sotto controllo. Accelerai il passo sul sentiero di ghiaia e risalii la collinetta fino a Claudel. Il suo saluto non fu affatto caloroso. «Che cosa diavolo crede di fare, eh?» «Kit è con Crease e stanno venendo qui.» Ansimavo. «Lei proprio non vuole ascoltare, vero, signora Brennan?» Intanto scrutava la folla. «Oggi c'è già stato un omicidio.» Tornai con la mente alla scena della metropolitana. Jocelyn che controllava le banchine. Jocelyn tra gli spasimi dell'agonia. «Ero con lei.» «Cosa?» Claudel mi guardò in faccia, poi lo sguardo gli cadde sul mio giubbotto sporco di sangue e di materia cerebrale. Gli raccontai l'accaduto. «E lei ha lasciato la scena del delitto?» «Non potevo fare niente.» «Non vorrei dover puntualizzare l'ovvio.» «Ma era morta!» scattai. Il suo atteggiamento poco comprensivo non calmò il misto di rabbia, paura e senso di colpa che mi rodeva dentro. Sentii un singhiozzo scuotermi il petto. No. Niente lacrime! In quel momento il suo collega della Carcajou comparve sulla collinetta. Quickwater si avvicinò a Claudel, gli parlò sottovoce e se ne andò senza considerarmi. Riapparve ai piedi della collinetta dopo qualche secondo, passò tra le lapidi e andò a posizionarsi dietro un obelisco di granito rosa. «Se grido "a terra", lei si butta giù. Niente proteste. Niente atti di eroismo. Ha capito?» «Bene.» La nostra conversazione non riprese. E anche quello andava bene. Evitai di dare voce alle mie paure per Kit temendo che questo potesse in qualche modo concretizzare la minaccia che
pesava su di lui. Di Lecomte gli avrei parlato in seguito. Trascorsero cinque minuti. Dieci. Scrutai i presenti. Abiti seri mischiati a catene, svastiche, borchie e bandane. Udii il rumore del corteo funebre prima ancora di vederlo. Iniziò come un rombo sordo, ma piano piano crebbe fino a essere un boato. Due pattuglie della polizia sbucarono dall'ultima curva, seguite dal carro funebre, una limousine e cinque o sei automobili. Una falange di moto accompagnava il corteo, quattro affiancate alle automobili, le altre dietro, allineate a file di due o di tre, a formare una coda di cui non riuscivo a veder la fine. Via via che arrivavano davanti al cancello d'ingresso, le moto rompevano la formazione e si ammassavano intorno all'entrata, con il sole che scintillava sulle cromature e un ultimo rombo del motore. Uomini in jeans luridi, barba e occhiali da sole scesero e si avviarono verso l'entrata. Claudel socchiuse gli occhi e osservò il cimitero trasformarsi in uno zoo umano. «Sacré bleu. Dovremmo tenerli tutti fuori dal cancello.» «Roy dice che non è possibile.» «Al diavolo i diritti civili. Bisognerebbe bloccarli, e poi che i loro avvocati facciano pure causa.» Il corteo sfilò lungo il viale alberato che portava verso la sezione Troie. Quando si arrestò, un uomo in giacca e cravatta si avvicinò alla limousine e aprì la portiera posteriore. Ne scesero delle persone con l'espressione sorpresa di chi non è avvezzo a questo genere di trattamento. Osservai il cerimoniere guidare la famiglia verso le sedie pieghevoli sistemate sotto una tettoia verde. Un uomo anziano con un vestito démodé. Due matrone vestite di nero con girocollo di perle finte. Una ragazza giovane con un abitino a fiori. Un bambino con una giacchetta le cui maniche non gli arrivavano ai polsi. Un vecchio prete. Mentre amici e parenti uscivano dalle automobili, l'altra "famiglia" di Dorsey si strinse a formare un approssimativo ferro di cavallo al di fuori della tettoia. Sotto di essa, la nuova tomba aspettava, bardata come un paziente in attesa di un intervento chirurgico. Un drappello di otto persone in jeans e occhiali da sole lentamente si riunì vicino al carro funebre. A un cenno del cerimoniere, un assistente offrì loro dei guanti, che un energumeno rifiutò. A mani nude, i portatori estrassero il feretro dal carro e lo portarono verso la tettoia, faticando sotto il peso del defunto e del suo contenitore. Le fronde sopra di me ondeggiarono e percepii un profumo di fiori e di
terra appena smossa. Il rumore dei motori era cessato. Un singhiozzo arrivava da sotto la tettoia verde, portato dalla brezza sulle tombe degli altri defunti. «Sacré bleu.» Mi voltai e vidi Claudel fissare il cancello. Seguii il suo sguardo e mi sentii assalire dalla paura. Crease e Kit stavano superando le persone assiepate all'entrata e si stavano avvicinando a un angelo di bronzo in grandezza naturale. Feci per parlare ma Claudel mi zittì con un gesto della mano. Sollevò la radio e indirizzò un cenno d'intesa al suo collega. Quickwater rispose con un gesto discreto, spostando la mano prima a destra e poi davanti a sé. Guardai nella direzione che aveva indicato. Oltre i partecipanti, parzialmente nascosti da alberi e monumenti, notai delle persone che non seguivano la cerimonia. Come Claudel e Quickwater, scrutavano senza posa la scena e impugnavano delle ricetrasmittenti. Diversamente da loro, esibivano stivali e tatuaggi. Guardai Claudel con aria interrogativa. «Servizio d'ordine dei Rock Machine.» Sotto la tettoia, il prete si alzò e aprì il messale. Le mani dei presenti salirono e scesero incrociandosi sul petto. Le pagine del grosso libro svolazzarono, il sacerdote le fermò con un dito nodoso e diede inizio al rito funebre. La brezza giocava con le sue parole, rubandone alcune, diffondendone altre. «... che sei nei cieli..» Accanto a me, Claudel entrò in allarme. Un uomo comparve tra le cripte di cemento a una ventina di metri da noi. A testa bassa, camminava verso la tettoia. «... il tuo regno, sia fatta...» Guardai Quickwater. Aveva lo sguardo fisso sulle guardie dei Rock Machine. Una parlava alla ricetrasmittente. Non molto lontana, un'altra ascoltava. Quickwater li osservò, poi sollevò la sua radio. Claudel si sintonizzò con il collega, gli occhi incollati all'uomo che si avvicinava alla sepoltura. «... peccati, come noi li rimettiamo...» «Problemi?» domandai quando finirono di comunicare via radio. «Non è un Rock Machine. Potrebbe essere un Bandidos, ma le insegne non sono chiare.» «Ma come...?»
«Legge le labbra.» «È un tizio conosciuto?» «Non è un poliziotto.» Mi innervosii. Come molti altri convenuti, l'uomo che si stava avvicinando portava una bandana davanti alla bocca e un cappello calcato sulla fonte. Ma c'era qualcosa di strano. Il giubbotto era troppo pesante per quella giornata, le braccia troppo rigide lungo i fianchi. D'un tratto una jeep ruggì sullo Chemin Remembrance e curvò verso il muro di cinta. Nello stesso momento un motore si accese e una Harley sfrecciò oltre il cancello. Quel che successe dopo sembrò continuare all'infinito, come se ogni singola azione si svolgesse al rallentatore. In seguito mi dissero che non durò più di due minuti. Un uomo tra quelli disposti a ferro di cavallo si gettò contro uno dei pali che sostenevano la struttura. Grida. Colpi d'arma da fuoco. Crollo della tettoia. Un istante di paralisi tra i presenti. Fuggì fuggi generale. «A terra!» Claudel mi diede uno spintone sulla schiena facendomi cadere faccia avanti. Un uomo con la barba si districò dalla tettoia crollata e corse verso un Gesù di pietra con le braccia aperte. A metà strada, incurvò la schiena e stramazzò al suolo. Cercò di trascinarsi avanti ma il suo corpo ebbe un ultimo spasimo e crollò definitivamente sul terreno. Sputai via un po' di terra e cercai di capire che cosa stava succedendo. Una pallottola fischiò tra le foglie del castagno alle mie spalle. Quando rialzai la testa, l'uomo con la bandana sulla faccia si trovava dietro una cappella, curvo dietro la base di una cripta. Poi si alzò e il sole scintillò sull'acciaio della sua semiautomatica. Fece scivolare il caricatore e stese il braccio lungo il fianco spostandosi verso l'angelo di bronzo. Di nuovo mi sentii attanagliare dalla paura. Senza pensare, cominciai a strisciare verso il sentiero. «Brennan, torni indietro» mi urlò Claudel. Non gli diedi retta. Balzai in piedi e corsi giù per la collinetta, tenendomi sul lato più coperto. Poi mi accucciai e cominciai ad avvicinarmi all'angelo, scattando da un monumento all'altro per ripararmi. Intorno a me fischiava il fuoco incrociato di pistole e semiautomatiche. Gli Angels stavano consumando la loro vendetta e i Rock Machine rispondevano con pari violenza. I proiettili schizzavano su tombe e lapidi. Una
scheggia di granito mi colpì una guancia e sentii qualcosa di tiepido colarmi sul viso. Raggiunsi la statua insieme all'uomo con la bandana sulla faccia, che arrivò dalla parte opposta. Crease e Kit erano proprio in mezzo a noi. Il sicario sollevò il braccio e prese la mira. Crease si fece scudo con Kit. «A terra!» gridai. Ero madida di sudore e sentivo la brezza alitarmi fredda sul viso. Mio nipote impiegò qualche secondo a capire la situazione. Poi si voltò di scatto e sferrò una poderosa ginocchiata tra le gambe di Crease. Il giornalista scagliò le mani verso l'alto e lanciò un grido di dolore, ma subito afferrò Kit per la camicia. Kit si girò verso destra ma Crease lo strattonò con forza proprio mentre il sicario premeva il grilletto. Un rumore assordante riverberò contro la figura di bronzo sopra di noi. Mio nipote crollò a terra immobile. «No!» Il mio grido fu inghiottito dal rumore dei motori e della sparatoria. Esplose un altro boato. Vidi un buco aprirsi sul petto di Crease e un fiume rosso colargli dal busto. Percepii una figura che si muoveva intorno al monumento e mi gettai su Kit per coprirlo. Mio nipote mosse debolmente una mano mentre una macchia scarlatta gli si allargava sulla schiena. La figura si fece più vicina e andò a occupare lo spazio tra l'angelo e la tomba adiacente, gambe larghe e pistola puntata contro il sicario che avevo davanti. Il proiettile fischiò. Un altro rumore assordante. L'occhio dell'uomo con la bandana esplose e lui crollò a terra accanto a me. Un rivolo di sangue gli colava da un angolo della bocca. Il mio sguardo incontrò i due occhi più azzurri del mondo. Poi Ryan si girò e sparì. In quel momento Quickwater si precipitò sotto l'angelo e trascinò e spinse Kit e me verso la base del monumento. Accucciato di fronte al corpo di Crease e del suo assassino, rispose al fuoco riparandosi dietro la statua. Cercai di deglutire, ma la mia bocca era un deserto. I proiettili si conficcavano nel terreno intorno a me e di nuovo mi arrivò il profumo della terra e dei fiori. Fuori dal nostro angusto riparo vedevo figure che correvano in tutte le direzioni. Quickwater scrutava la situazione, il corpo teso e pronto a scattare. In lontananza udii l'urlo delle sirene e il rombo dei motori, poi il boato di un'esplosione.
Con l'adrenalina alle stelle, premetti una mano contro il foro aperto sulla schiena di mio nipote e con un fazzoletto feci altrettanto sul petto. Il tempo aveva perso ogni senso. Cadde il silenzio. Tutto sembrava immobile. Oltre Quickwater vidi delle persone uscire da sotto la tettoia, scompigliate e singhiozzanti. I biker sbucarono fuori dai loro rifugi di fortuna e si riunirono in gruppetti, i volti furenti. Altri giacevano immobili sul terreno. Ai piedi della montagna, le sirene ululavano. Guardai Quickwater, e i nostri sguardi si incrociarono. Mi tremarono le labbra ma non riuscii a emettere alcun suono. Quickwater si avvicinò e mi pulì il sangue dalla guancia. Il suo sguardo si fece più intenso, e mi confermò ciò che avevo visto. Il segreto era condiviso. Cominciai a singhiozzare e le lacrime mi rigarono le guance. Mi voltai, turbata dalla mia fragilità. L'occhio mi cadde su un piccolo ritratto, fissato al piedistallo della statua. Una faccia guardava il mondo con aria solenne, separata dalla morte e sbiadita da anni di pioggia e di sole. «No, Signore. Ti prego, non Kit.» Guardai il sangue che mi sporcava le dita. Scossa da un pianto irrefrenabile, premetti le ferite di Kit con più forza, poi chiusi gli occhi e pregai. 39 «Cosa diavolo pensava di fare?» «Non ho pensato niente. Ho agito d'istinto.» «Ma era disarmata.» «Ero armata di tutta la mia rabbia.» «Che raramente ha la meglio su una semiautomatica.» Era passata una settimana dalla sparatoria al cimitero di Notre-Damedes-Neiges, e ne avevamo parlato almeno una decina di volte. Charbonneau era nel mio laboratorio, e mi guardava preparare le ossa di Savannah Osprey per la spedizione. La sequenza del DNA era risultata positiva e aveva collegato lo scheletro di Myrtle Beach ai resti di Saint-Basile-le-Grand. Kate Brophy aveva scoperto che la madre di Savannah era morta, ma era riuscita a rintracciare una zia materna. La sepoltura avrebbe avuto luogo in North Carolina. Quando pensavo a quella creaturina così sola mi sentivo prendere dalla malinconia, e la soddisfazione per aver trovato e identificato Savannah si
stemperava nella tristezza per una vita così difficile. Era così giovane e fragile, menomata dal problema fisico, sola, odiata dal padre, abbandonata nella morte dalla madre. Mi chiesi se qualcuno avrebbe mai pregato sulla sua tomba. «Lei crede che Savannah, quel giorno, abbia scelto volontariamente di andare a Myrtle Beach?» domandai all'investigatore cambiando argomento. «Secondo Crease, la ragazza li aveva seguiti di sua spontanea volontà.» «Pessima decisione.» Pensai alla ragazzina pallida e mi chiesi che cosa poteva averla spinta a una simile scelta. «Già. Una decisione fatale.» Guardai Charbonneau, sorpresa dalla vicinanza dei nostri pensieri. C'erano state così tante decisioni fatali. Gately e Martineau, Jocelyn Dion. George Dorsey, gli Hells Angels responsabili dell'aggressione al cimitero. E quasi fatali. Kit e Crease, sopravvissuti entrambi. Uno squadrone della morte era stato inviato dagli Hells Angels di New York per far fuori Crease, perché Jocelyn lo aveva indicato come il killer di Cherokee Desjardins. Gli Angels volevano comunicare l'idea che uccidere uno di loro avrebbe innescato una rappresaglia anche peggiore. E avevano scelto un luogo pubblico per inviare il messaggio. Il sicario destinato a Crease sarebbe dovuto fuggire in moto. La moto era riuscita a dileguarsi, ma il sicario no, grazie al personale contributo di Ryan e Quickwater. Anche se la versione ufficiale sarebbe stata diversa. Poco pratici della zona, i cecchini sulla jeep erano usciti fuori strada e precipitati lungo un fianco dalla montagna, mentre cercavano di sfuggire all'inseguimento della polizia. I due seduti sul sedile anteriore erano morti sul colpo, il terzo era stato ricoverato in ospedale con ferite multiple. Da un controllo di routine era risultato che su di lui pendeva un mandato di cattura per omicidio, spiccato a New York. L'uomo aveva offerto una limitata collaborazione, preferendo l'avversione alla pena di morte dei nostri vicini settentrionali alle dure leggi del suo Stato. Aveva dichiarato che un ergastolo in Canada era preferibile a un'iniezione letale a New York, anche se questo Stato non emetteva sentenze di condanna a morte ormai dal 1963. Sei ore di intervento chirurgico avevano salvato Crease, ma il giornalista era ancora in terapia intensiva. Il mosaico delle sue responsabilità si stava componendo una tessera alla volta, via via che i momenti di lucidità diventavano più lunghi.
All'inizio degli anni Ottanta, Cherokee e Crease frequentavano gli Angels, il primo aspirando all'affiliazione, il secondo - studente solo di nome - affascinato dallo stile di vita dei biker. I due si erano conosciuti per via delle comuni origini canadesi. Secondo Crease, lui e Cherokee avevano incontrato Savannah Osprey al raduno di Myrtle Beach e l'avevano invitata a seguirli. In seguito una festa era finita male e Savannah aveva manifestato la volontà di rientrare a casa. La situazione era sfuggita di mano e la ragazza era morta strangolata. Dopodiché Cherokee aveva nascosto il cadavere nel bosco. «Crease ha ammesso di aver preso parte all'omicidio?» «L'ha negato, ma ammette di essere tornato a Myrtle Beach con Cherokee per recuperare le ossa. Con cui poi avrebbero decorato le pareti della sede.» «Bastardi.» Guardai i resti di Savannah e sentii la stessa rabbia e la stessa repulsione provata di fronte alla foto che Jocelyn aveva preso dall'appartamento di Cherokee. Avevo immediatamente riconosciuto il cranio per via del forellino del catetere. Era stato fissato a una parete sopra ai due femori incrociati, a imitare il simbolo dei pirati. Crease e Cherokee posavano sotto di esso, mostrando il dito medio. «Dov'è stata scattata la fotografia?» Ancora non me l'avevano detto. «Alle sede dei Vipers, a Saint-Basile. Crease e Cherokee erano tornati a Myrtle Beach l'inverno successivo all'omicidio di Savannah. Avevano cercato il cadavere, ma solo il teschio e i due femori erano ancora intatti, mentre il resto del corpo era ormai scheletrizzato o disperso dagli animali. Pensando che un teschio umano avrebbe avuto molto successo presso i fratelli, avevano deciso di portarlo in Québec.» Ero troppo disgustata per fare qualsiasi commento. «Le ossa di Savannah avevano decorato il bar per diversi anni. Poi, preoccupati per un eventuale interessamento della polizia, i Vipers le avevano sepolte nel bosco dietro la sede.» «Perché così vicino a Gately e Martineau?» «La vicinanza delle due tombe era casuale. L'omicidio di Gately e Martineau era una pura questione di affari. Nel 1987 gli Angels volevano un bar di proprietà di Gately. E quello era stato il loro modo di condurre la trattativa. Martineau era un amico di Gately, e aveva sparato a uno degli Angels che tormentava Gately per via del bar.» «Pessima mossa.»
«Davvero.» «Se Crease non è responsabile dell'omicidio di Savannah Osprey, perché voleva a tutti i costi riavere quella fotografia?» «Perché pensava che se le ossa fossero finite sulle prime pagine dei giornali, il suo passato sarebbe tornato a galla e la sua carriera sarebbe finita.» «E per questo ha ucciso Cherokee.» «Ancora non lo abbiamo stabilito. Ma lo faremo. E il sangue sulla fotografia lo metterà fuori gioco per il resto della sua miserabile vita.» «Ma lui negherà qualsiasi coinvolgimento con quella foto, e l'unico testimone oculare non potrà testimoniare.» Jocelyn era arrivata all'ospedale cadavere. «Vuol dire che sarà inchiodato dalla forfora.» «E se il test del DNA non è risolutivo?» «Non importa. È sporco e prima o poi vuoterà il sacco.» E rimanemmo convinti di questo, per altre nove ore. All'ospedale le persiane erano chiuse, la stanza illuminata da una debole luce a strisce. Kit guardava un talk show con il volume completamente abbassato, Harry sfogliava una rivista di moda. Mio nipote era uscito dal reparto di terapia intensiva da quattro giorni, ma era ancora molto pallido e aveva gli occhi cerchiali da un alone violaceo. Il petto era fasciato e un ago per infusione venosa gli bucava la vena del braccio sinistro. Quando mi vide si illuminò. «Come va?» Gli accarezzai un braccio. «Dolorosamente bene, zia.» «Ti ho portato altri fiori.» E mostrandogli il mazzo che avevo comprato dal fiorista dell'ospedale, cinguettai: «Bouquet di margherite primaverili. Garantito per risollevare lo spirito più avvilito». «Tra un po' dovremo farci rilasciare un permesso speciale dalle autorità, per tutta la fotosintesi in corso in questa stanza.» Cercando di sedersi in una posizione più comoda, sporse la mano per prendere il bicchiere di succo d'arancia sul carrello, ma subito la ritirò con una smorfia. «Lascia che ti aiuti.» Gli passai il bicchiere e Kit si riappoggiò al cuscino, chiudendo le labbra intorno alla cannuccia. «Riesci a respirare?»
«Sto bene.» Si appoggiò il bicchiere sul petto. Il proiettile destinato a Crease aveva ferito Kit fratturandogli due costole, colpendo di striscio un polmone e uscendo attraverso il muscolo. Si sarebbe ripreso completamente. «Li hanno presi, quei figli di cane?» Mi voltai verso mia sorella. Era seduta in un angolo, le lunghe gambe intrecciate come quelle di una contorsionista cinese. «La moto che aspettava per la fuga si è dileguata. Il tizio sopravvissuto all'incidente della jeep è stato accusato di tentato omicidio, tra le altre cose. Ma sta collaborando con la polizia.» «Tempe, se gli metto le m...» «Harry, potresti chiedere all'infermiera un altro vaso?» «Vado. È il momento di una chiacchierata zia-nipote. Io ne approfitto per la mia dose di nicotina.» Prese la borsa, baciò il figlio sulla testa e uscì in corridoio, lasciandosi dietro una scia di Cristalle. Mi sporsi sul bordo del letto e strinsi la mano di Kit Era fredda e senza tono. «Dolorosamente bene?» «È una tortura, zia. Ogni cinque minuti arriva un'infermiera a bucarmi da qualche parte o a mettermi il termometro. E non stiamo parlando di Labbra Bollenti. Queste donne divorano animaletti pelosi a colazione.» «Ma dài...» «E dicono che devo stare qui altri due o tre giorni.» «I medici vogliono accertarsi che il polmone non collassi nuovamente.» Kit esitò. Poi: «Il conto a che punto è?». «Oltre a te e a Crease, sono rimasti feriti due famigliari di Dorsey, e tre biker di entrambe le fazioni sono morti. Del commando di aggressori, uno è fuggito, uno è stato ucciso, due sono morti in un incidente e uno è stato catturato. Per il Canada questo è stato un bagno di sangue quasi senza precedenti.» Kit abbassò gli occhi e stropicciò il bordo della coperta con la mano libera. «Lui come sta?» «Ce la farà. Ma sarà accusato dell'omicidio di Cherokee Desjardins.» «Io so che Lyle non ha ucciso quel tipo. Non ne sarebbe stato capace.» «Ha cercato di sacrificare te per proteggere se stesso.» Kit non disse niente. «E ti stava usando per avere informazioni riservate.»
«Può darsi che abbia fatto questo, ma non avrebbe mai ammazzato nessuno.» Pensai al teschio e ai femori incrociati appesi al muro, ma non lo contraddissi. «Perché ti ha portato al funerale?» «Lui non voleva, ma io volevo vedere le moto a tutti i costi. Gli ho detto che se non mi portava lui, ci sarei andato da solo. Comunque, a parte i tizi del concessionario, Lyle non conosce nessuno tra quella gente. E quando andavamo lì, lui cercava di darsi un tono ma ti posso garantire che in realtà nessuno lo considerava più di tanto.» Ricordai la mia conversazione con Charbonneau, e i nostri sospetti che Crease fosse un infiltrato che faceva il doppio gioco. Col senno di poi, l'idea sembrava ridicola. Ma era comunque un'ironia pensare che la mia preoccupazione per Kit derivava dal timore che frequentasse i biker, quando invece mi sarei dovuta preoccupare di Lyle Crease. Kit strappò un filo dalla coperta. «Zia, volevo dirti che mi dispiace molto per tutti i problemi che ti ho procurato.» Deglutì, e continuò a tormentare i fili. «Il Predicatore e gli altri sono solo degli sfigati che da soli non sanno neanche comprarsi le ruote che gli servono.» Claudel mi aveva già detto tutto, ma lo lasciai continuare. «Ti ho lasciato pensare che fossero dei biker duri e puri solo per farmi bello. E invece a momenti ti facevo uccidere.» «Kit, chi era il tizio che ho incrociato sul marciapiedi davanti a casa?» «Credimi, non ne ho idea. Probabilmente uno spostato qualsiasi che passava di là.» Un sorriso gli sollevò gli angoli della bocca. «Forse era uno che cercava lavoro nel posto dove ti hanno tagliato i capelli.» Gli diedi una spintarella sulla spalla sana. Questa volta gli credetti. «Ehi, stai attenta con le maniere forti. Guarda che sono un invalido.» Bevve un sorso di succo e mi passò il bicchiere. «Che mi dici dell'occhio?» «La polizia crede che siano stati i Vipers a metterlo sulla mia auto per convincermi a non intromettermi nei loro affari.» Una pausa. Sullo schermo, un uomo muto leggeva le notizie, sotto di lui scorrevano le quotazioni della Borsa. «Credo che metterò il naso a scuola quando torno a casa. Provo qualche corso e poi vedo come va.»
«Mi sembra un'idea splendida.» «Penserai che sono proprio un tordo.» «No... Un pollo!» «Spero che adesso non mi mollerai.» «Non potrei mai.» Imbarazzato, Kit cambiò argomento. «Il tuo capo come sta?» «Molto meglio. Sta cominciando a dare filo da torcere alle infermiere.» «Allora è come me. E Ryan?» «Non ti sembra di essere un po' troppo curioso?» «Secondo te per quanto tempo continuerà a stare qui, in attesa di mazzi di fiori e scatole di caramelle?» Harry si era affacciata alla porta della stanza, il sorriso sulle labbra, un vaso tra le mani. L'uno e le altre dello stesso rosso geranio. Lasciato l'ospedale andai al mio appartamento, cenai con Birdie e mi dedicai alle faccende di casa. Cercavo di tornare alla normalità immergendomi nella vita pratica. Quello era il programma. E stava funzionando. Finché non suonò il campanello. Lasciai cadere per terra un mucchio di felpe sporche e guardai l'orologio. Le otto e un quarto. Troppo presto perché fosse Harry. Curiosa, andai a controllare il monitor del videocitofono. Che diavolo era venuto a fare? Davanti al citofono aspettava l'investigatore Claudel, le mani intrecciate dietro la schiena. Questo non è tanto normale, pensai aprendogli il portone. «Bonsoir, Monsieur Claudel.» «Bonsoir. Mi scuso per averla disturbata a quest'ora. Ma ci sono novità.» Notai che i muscoli della mascella erano contratti, come se quello che stava per dire fosse un concetto al limite dell'educazione. «E credo che lei debba saperla.» Una cortesia da Claudel? In inglese? Che cosa stava succedendo? Birdie mi disegnò un otto intorno alle caviglie, ma non azzardò nessuna ipotesi. Feci un passo indietro e indicai all'investigatore di accomodarsi. Lui entrò e attese rigido che io gli facessi strada. Si sedette sul divano del soggiorno e io mi sistemai sulla poltrona di fronte. Mi venne in mente la conversazione avuta con Jean Bertrand, e come sempre il pensiero di Ryan mi
provocò un nodo allo stomaco. Signore, fa che sia al sicuro! Scacciai il pensiero e attesi che Claudel parlasse. Lui si schiarì la gola e distolse lo sguardo. «Lei aveva ragione su George Dorsey. Non è stato lui a uccidere Cherokee.» Quella era davvero una rivelazione. «E non l'ha ucciso nemmeno Lyle Crease.» Lo guardai, troppo sorpresa per replicare. «Poco prima di morire, Jocelyn ha spedito una lettera alla madre in cui le parlava di una serie di attività illegali dei biker. Tra i vari argomenti trattati, raccontava anche della sparatoria in cui erano morti Emily Anne Toussaint e Richard Ragno Marcotte, e dell'omicidio di Cherokee Desjardins.» «Ma perché ha fatto questo?» «Le motivazioni sono molteplici. Prima di tutto, temeva per la sua vita e sentiva che quella lettera poteva essere una protezione; poi era arrabbiata per l'omicidio di Dorsey che, per inciso, era stato deciso dalla sua stessa banda. Jocelyn Dion viveva con George Dorsey, in quel periodo.» Sentii una vampata di calore salire ai lati del collo, ma non rivelai ciò che Jocelyn aveva detto della morte di Dorsey. «Dorsey è stato ucciso perché aveva parlato con me?» Claudel ignorò la mia domanda. «Jocelyn Dion, inoltre, provava rimorso per certe sue azioni. Fra cui l'omicidio di Cherokee Desjardins.» «Ma Jocelyn mi aveva detto di aver sentito Crease massacrare di botte Desjardins e poi sparargli.»' «Sembra che la vostra impiegata non fosse molto generosa in fatto di verità.» Si portò una mano al mento. «Stando alla lettera, la signorina era andata da Desjardins per avere della droga. Ma poi è arrivato Crease, che voleva la famosa fotografia con le ossa. I due uomini hanno litigato, Crease ha colpito Cherokee con un tubo di ferro e l'ex biker ha perso conoscenza. Crease ha cominciato a rivoltare l'appartamento, ma sentendo dei rumori nella camera si è fatto prendere dal panico ed è scappato via. «Sembra che la nostra Jocelyn avesse un grande bisogno di roba ma un portafogli molto piccolo. È arrivata da Desjardins fatta, e mentre era li ha capito che forse poteva approfittare dell'occasione per fare un po' di prov-
viste gratis. Ha massacrato di botte il corpo svenuto di Cherokee, l'ha trascinato sulla poltrona e gli ha sparato per sfigurarlo.» «Ma perché prendersi la briga di sparargli?» «Non voleva che Desjardins si vendicasse. E poi è vero che era stonata, ma non abbastanza da non rendersi conto che doveva confondere le sue tracce, così ha cercato di farlo passare per un omicidio dei biker.» Claudel abbassò le mani. «Su questo punto lei aveva ragione.» Si schiarì nuovamente la gola e riprese. «Pensando che contenesse altri stupefacenti, Dion ha raccolto il pacchetto perso da Crease. Conteneva la vecchia fotografia di Crease e Desjardins. In seguito Dion ha escogitato un bel ricatto, immaginando che se Crease era disposto a picchiare Cherokee per quella foto, probabilmente avrebbe anche sborsato una bella cifra per averla.» «Nel frattempo, gli Heathens hanno sentito del mio colloquio con Dorsey e lo hanno condannato a morte.» Di nuovo mi sentii il collo stretto in una morsa di tensione. «Sì. Temendo per la propria incolumità, Dion si è inventata la storia che Crease aveva fatto fuori Desjardins. La notizia è arrivata alle orecchie dei Vipers, che hanno deciso per la rappresaglia. Desjardins era stato un Hells Angels, il suo killer era un fuoriuscito degli Angels, disprezzato dai fratelli, perciò il suo killer doveva morire. Inoltre, per quel che li riguardava, i conti per Ragno Marcotte non erano mai stati pareggiati. Hanno telefonato a New York per richiedere aiuti esterni, poi hanno convinto Dion ad attirare Crease al funerale, e deciso che avrebbero saldato anche altri conti in sospeso con gli Heathens.» Pausa. «Allora deve essere stata Jocelyn a lasciare quella fotografia sulla scrivania.» «Sì, per attirare i sospetti su Crease.» Pensai a un'altra cosa. «Ecco perché il sangue di Cherokee era su quel giubbotto.» «Per una volta la piccola vipera aveva detto la verità. Il giubbotto era suo, ma Dorsey, per proteggerla, non l'aveva rivelato.» «E incontrando me ha firmato la sua condanna.» Mi morsi le labbra. «Dorsey è stato ucciso perché i suoi fratelli temevano che stesse per tradirli. Se non avesse incontrato lei, avrebbe contattato qualcun altro.» Mi sentii deglutire. «Lei crede alla lettera di Jocelyn?»
«Avevamo già motivo di sospettare di Lecomte per gli omicidi Marcotte-Toussaint. Lo stiamo tenendo sotto stretta sorveglianza. L'accusa ritiene che ciò che Dion ha gridato nel momento in cui veniva uccisa per il momento non è ancora sufficiente per arrestarlo. Ma più avanti si vedrà.» «Mi sembra chiaro che la talpa all'interno del Laboratoire era Jocelyn.» «Si era fatta assumere lì per passare informazioni agli Heathens, ma non disdegnava qualche chiacchiera occasionale con la stampa.» «Naturalmente con l'autorizzazione della casa madre.» «Ovvio.» Claudel inspirò a fondo. Poi espirò. «Queste bande di biker sono la mafia del nuovo millennio, e hanno uno straordinario potere su quanti si sentono attratti dal loro modo di vivere. Jocelyn Dion era tra quelli alla base della piramide, le prostitute, i protettori, le spogliarelliste, i piccoli spacciatori. Probabilmente doveva chiedere il permesso anche per portare la madre in chiesa la domenica. «Un livello sopra ci sono i piccoli imprenditori, i gestori di carrozzerie clandestine, i ricettatori, i proprietari di locali, gente cui è concesso di esistere perché devono riciclare il denaro sporco o rendere qualche servizio utile al motoclub. Salendo ancora, si trovano i membri a pieno titolo che gestiscono il loro traffico di droga. In vetta, ci sono uomini che tengono i contatti con i cartelli messicani e della Colombia, e con la loro controparte nelle bande di tutto il mondo.» Non avevo mai visto Claudel così animato. «E chi sono questi degenerati che si guadagnano da vivere sfruttando i più deboli? Quasi tutti non hanno né la volontà né l'intelligenza per completare un normale percorso di istruzione o per destreggiarsi nel libero mercato. Usano le donne perché, in fondo in fondo, hanno paura di loro. Sono ignoranti, frustrati e, in molli casi, fisicamente inadeguati, e così si coprono di tatuaggi, inventano soprannomi e si riuniscono in bande per rafforzare il loro comune nichilismo.» Trasse un respiro e lentamente scosse la testa. «Sonny Barger è in pensione, ed è probabile che stia scrivendo la sua autobiografia. Il suo libro venderà milioni di copie e Hollywood ci farà un film. I Selvaggi verranno nuovamente circondati da un'aura di romanticismo, e il loro mito deluderà altre generazioni.» Claudel si stropicciò la faccia con le mani. «E la droga continuerà a circolare nei cortili delle nostre scuole e nei ghetti dei diseredati.»
Tirò indietro le maniche, sistemò i gemelli d'oro e si alzò. Quando riprese la parola, la sua voce era dura come l'acciaio. «È una vera ironia della sorte che mentre gli Angels commettevano il massacro al cimitero, le bande rivali stavano mandando avanti i loro sicari. Io non so quali di questi subumani abbia ucciso George Dorsey, e non ho le prove per dimostrare che Lecomte abbia sparato a Jocelyn Dion, a Ragno Marcotte e a Emity Anne Toussaint. Ma le troverò. Un giorno le troverò.» Mi guardò dritto negli occhi. «E non mi fermerò finché questo cancro non sarà estirpato dalla mia città.» «Lei crede che sarà mai possibile?» Annuì. Poi esitò e aggiunse: «Lei sarà dei nostri?». Senza incertezze, annuii a mia volta. «Oui.» 40 Il mattino dopo dormii fino a tardi, andai in palestra, portai caffè e ciambelle a casa e divisi la colazione con mia sorella. Quando Harry usci per andare in ospedale, telefonai in istituto. Non c'erano casi di antropologia perciò ero libera di riprendere il programma interrotto dalla visita di Claudel. Misi a mollo le felpe e mi dedicai con grande entusiasmo al frigorifero. Gli articoli più vecchi di un mese finirono dritti in pattumiera. Idem per tutto ciò che non poteva essere identificato. Ero di buon umore, come non mi sentivo più da settimane. Claudel mi aveva espresso apprezzamento per il contributo che avevo dato alle indagini, riconoscendomi come collega. Ero sicura che lui, Charbonneau e Quickwater avrebbero continuato le ricerche finché i killer di Dion e di Dorsey non fossero stati dietro le sbarre. Mi ero scusata con Quickwater, e lui non sembrava aver serbato rancore. Mi aveva perfino sorriso. LaManche stava migliorando. Il caso di Savannah Osprey era stato risolto e le sue ossa erano pronte per essere consegnate alla famiglia. Katy sarebbe tornata nel giro di due settimane. Mio nipote si sarebbe rimesso in sesto, in tutti i sensi.
E i miei capelli mostravano segni di ricrescita. L'unica ombra della mia vita riguardava la sicurezza di Ryan. Aveva interrotto la sua copertura per salvarmi la vita, e io pregavo che quel gesto non gli costasse la sua. Sperai con tutta me stessa che non si trattasse di un'altra decisione fatale. E la perfezione ingiustamente perseguitata. Quel verso mi riempì di nuovo gli occhi di lacrime. Sapevo che Ryan non poteva mettersi in contatto con me, e non avevo idea di quando lo avrei rivisto. Non importava. Potevo aspettare. Gettai nella pattumiera un pezzo di formaggio cheddar stantio. Ma ci sarebbe voluto del tempo. Due barattoli di marmellata ammuffita. Via. I Temptations finalmente mi fornirono la colonna sonora che avevo tanto cercato. I've got sunshine on a cloudy day... FINE