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ISBN 88-7016-261-3 Titolo originale: Quark, chaos and Christianity. Questions to Science and Religion Society for Promoting Christian Knowledge (SPCK), London GB © John Polkinghorne, 1994 Per l’edizione italiana: © Claudiana Editrice, 1997 Traduzione di Stefano Vinti Copertina di Umberto Stagnaro In copertina: Una simulazione al computer di uno scontro frontale tra due protoni di altissima energia.
NOTE DI COPERTINA Prevale oggi l’idea, nel nostro mondo scientifico e super tecnicizzato, che ogni credo religioso sia antiquato o del tutto inammissibile. Secondo l’opinione dominante, la scienza si basa su fatti dimostrati e conduce quindi ad una conoscenza reale; la religione si fonda invece solo su opinioni, su «credenze» personali, che possono essere vere per me o per voi, ma non possono ambire ad essere il «vero» puro e semplice. Ma questa è un’idea errata, da respingere, dice Polkinghorne. D’altra parte la religione ha valore solo se può avvicinarsi alla verità: non è una tecnica per farsi coraggio e tenere alto il morale. In realtà, superata la prima impressione, scienza e religione sono cugine, da un punto di vista intellettuale. Ambedue sono alla ricerca di un «credere» che sia motivato. Né l’una né l’altra possono pretendere di possedere la conoscenza assoluta, certa, poiché ciascuna deve fondare le proprie conclusioni sul ruolo reciproco che giocano interpretazione ed esperienza. Nessuna delle due si basa soltanto sui puri fatti o su mere opinioni. Sono parte ambedue del grande tentativo umano di capire. J. Polkinghorne, già docente di Fisica matematica all’Università di Cambridge e ora teologo anglicano, ha alle spalle una lunga serie di opere sul tema «scienza e fede». Qui raccoglie la summa del suo pensiero in forma chiara ed accessibile al non specialista. E’ il libro di uno scienziato serio e scrupoloso che si pone interrogativi inconsueti: «C’è la mente di un Creatore dietro l’universo?», «Come finirà il mondo?», «Uno scienziato può credere in Dio e pregare?», «Che cosa pensare dei miracoli della Bibbia?», «Vi sono argomenti per credere alla risurrezione di Gesù?». Un libro lucido ed originale, per ehi crede e per chi non crede, che invita alla riflessione sul modo in cui procedono la scienza e la lede religiosa, ognuna nel proprio campo, in vista di un superamento di barriere e di schemi precostituiti, tipici del nostro tempo.
INDICE
Introduzione 1. Realtà o opinione? 2. C’è qualcuno lì? 3. Che cosa sta accadendo? 4. Chi siamo noi? 5. Uno scienziato può pregare? 6. E i miracoli? 7. Come andrà a finire? 8. Uno scienziato può essere un credente? Per saperne di più
Quark, caos e cristianesimo Ai nostri nipoti, Katherine, Edward, Rachel, William, Elizabeth, Adam, e David. RINGRAZIAMENTI Vorrei ringraziare una volta ancora la mia segretaria, signora Josephine Brown, per la sua abilità e pazienza nel decifrare la mia scrittura a copiare le minute del manoscritto. Sono anche riconoscente a mia moglie, Ruth, per l’aiuto nella correzione delle bozze e allo staff del SPCK per il lavoro di preparazione del manoscritto per la stampa. Febbraio 1994 John Polkinghorne The President’s Lodge, Queens’ College, Cambridge,
INTRODUZIONE Nella mia qualità di scienziato e allo stesso tempo di pastore anglicano vorrei cercare di comprendere in quale modo la visione scientifica e quella religiosa del mondo siano collegate tra loro. Dobbiamo scegliere una delle due, o sono invece
modi complementari di comprendere che, esaminati assieme, ci forniscono un quadro più completo di quello che ciascuna di esse, per proprio conto, ci potrebbe offrire? Trovo che il modo migliore per mettere ordine tra le cose che penso realmente sia cercare di metterle per iscritto. Il compianto vescovo John A. T. Robinson mi disse una volta che non era in grado di pensare senza avere una penna in mano, ed io compresi esattamente che cosa volesse dire. Di conseguenza, ho scritto sei libri su vari aspetti di questa problematica. Ora ho deciso che potrebbe essere utile cercare di fornire una panoramica generale che offra una visione globale della scena, anziché concentrarmi su questo o quel particolare aspetto caratteristico, come ho fatto nei miei libri precedenti. Ciò mi dà, al tempo stesso, la possibilità di tentare di esporre le linee principali del mio ragionamento senza dover riprodurre tutta la dettagliata discussione in cui mi sono addentrato in precedenza. Su questi argomenti ho tenuto un numero considerevole di conferenze e apprezzo sempre molto i momenti di discussione che normalmente seguono ad esse. Quest’esperienza mi indica quali siano le domande fondamentali che la gente si pone, e quali i suggerimenti di maggior aiuto che si possono offrire loro. In effetti, sono convinto che noi abbiamo bisogno sia della scienza sia della religione, e che ambedue abbiano molte cose importanti da comunicarsi. Spero che questo piccolo libro possa aiutare altri a partecipare ad una discussione del genere. Forse dovrei spiegare che io sono un «cristiano fin dalla culla»1, poiché sono cresciuto in una casa cristiana e ho sempre fatto parte di una comunità di persone credenti ed osservanti. Trovo che la fede cristiana «ortodossa» sia tanto sorprendente quanto eccitante, nello stesso modo in cui una buona teoria scientifica amplia la nostra immaginazione e soddisfa il nostro desiderio intellettuale di comprensione. Ho trascorso la maggior parte della mia vita lavorativa come fisico teorico, e non ho smesso di occuparmi di tale materia perché fossi annoiato o disilluso, ma semplicemente perché sentivo di aver dato il mio piccolo contributo in quel campo e che era venuto il momento di fare qualcosa d’altro. Sono motivato dalla necessità di prendere sul serio entrambe, la scienza e la religione, che – ne sono sicuro – sono tra loro amiche e non antagoniste nella ricerca comune della conoscenza. Quest’ultima osservazione potrebbe essere una sorpresa per alcuni, dato che la nostra società è dominata dalla sensazione che in un’era scientifica il credo religioso sia antiquato, oppure assolutamente impossibile. Non sono d’accordo. In realtà, oserei dire che, se la gente di questa cosiddetta «era scientifica» conoscesse la scienza un po’ più di quanto effettivamente molti la conoscano, sarebbe più facile per loro condividere il mio punto di vista. La giustificazione di quest’affermazione è contenuta nelle pagine che seguono.
1 REALTÀ O OPINIONE? La scienza è una realtà impressionante. Tutti noi beneficiamo dei suoi successi: io non sarei in grado di scrivere questo libro se i progressi in campo medico non mi avessero permesso di sopravvivere ad una grave malattia che mi aveva colpito dieci anni fa. Quando la mia segretaria copierà i miei scarabocchi, sfrutterà tutte le stregonerie elettroniche di un sofisticato word processor. Ciascuno di noi, ogni giorno della sua vita, può beneficiare delle novità rese possibili dallo sviluppo scientifico. Non solo, la scienza illumina le nostre menti e sviluppa la nostra fantasia. Noi sappiamo di essere gli abitanti di un piccolo pianeta insignificante, che ruota in orbita attorno ad una stella insignificante, in un universo che contiene almeno diecimila milioni di milioni di milioni di stelle. In passato, questo universo si presentava in modo molto diverso da come appare oggi, e ha avuto una storia lunga quindici miliardi di anni, iniziata con l’esplosione di fuoco del Big Bang che gli diede origine. La scienza ci dice che cosa fa brillare le stelle, o perché l’acqua è bagnata, o come l’informazione genetica si trasmette da una generazione a quella seguente. È una vicenda dai risultati stupefacenti, e forse la cosa più notevole è che possiamo essere tutti d’accordo sulle risposte. La polvere si deposita veramente. La scienza non si limita a fornire le risposte, ma lo fa in modo da soddisfare tutti. Sarebbe assurdo negare che vi è qui un contrasto stridente con la religione. Sulla risposta alla più fondamentale tra tutte le domande religiose: «esiste un Dio?», non saremo certo tutti d’accordo. Benché le varie fedi si riferiscano senza dubbio ad un’esperienza umana comune dello spirituale, sembra che dicano cose molto diverse al riguardo. L’io umano dell’individuo ha un valore e una rilevanza unici (come dicono il giudaismo, il cristianesimo e l’islamismo), oppure, di fatto, è un’illusione (come afferma il buddismo), o ancora, viene riciclato mediante la reincarnazione (come dice l’induismo)? La sofferenza è qualcosa che va accettata oppure bisogna evitarla? E così via. La conclusione sembra evidente. La scienza si basa su fatti e conduce ad una conoscenza reale; la religione si tonda invece solo su opinioni. A voi, o a me, può essere d’aiuto per vivere le nostre vite – la religione può essere «vera per me», oppure «vera per voi» -, ma non è semplicemente il «vero» puro e semplice, privo di ambiguità. Potrebbe sembrare che le cose stiano in questi termini, eppure credo che una conclusione del genere sarebbe un errore fondamentale, tra i più disastrosi; se io pensassi che corrispondesse a verità, non sarei un credente. Come potrebbe una cosa essere realmente d’aiutò a qualcuno, nella sua vita, se fosse semplicemente un’illusione soggettiva? Soltanto il reale può fornire una base concreta per vivere, ed affrontare la morte. Sono due gli errori che ci portano a concludere, sbagliando, che la scienza e la religione comportino uno scontro tra la realtà e la pura e semplice opinione: l’una
appannaggio della scienza, l’altra della religione. Prendiamo in esame per prima la scienza. La convinzione di molte persone sul modo in cui progredisce la scienza è che prima si formula una previsione («l’aggiunta dell’agente X farà diventare verde il liquido»), poi si esegue un esperimento (diventa veramente verde), e che quindi sia stata compiuta una nuova, grande scoperta. Nella realtà dei fatti è tutto molto, ma molto più complesso e più interessante di così. I fatti di cui si occupano gli scienziati sono, innanzitutto, fatti già interpretati. Il più delle volte non è possibile vedere direttamente ciò che avviene, ma lo si deve dedurre osservando quel che appare ai nostri occhi, e quella deduzione richiede una interpretazione teorica. Un’apparecchiatura moderna è così complicata e tecnica che è molto difficile fare un esempio per illustrare questo concetto a coloro che non sono scienziati: questo già indica di per sé che bisogna conoscere la teoria per poter capire l’esperimento, che è esattamente quel che voglio dire. Invece di esaltare qualche aggeggio elettronico, lasciatemi semplicemente mostrare un disegno riproducente una fotografia di tracce in un dispositivo che per anni ho usato spesso nel mio precedente campo di lavoro nella fisica delle particelle elementari (lo studio dei frammenti più piccoli della materia). L’apparecchio, che si chiama «camera a bolle», contiene un liquido molto vicino al punto di ebollizione; una particella, passandovi attraverso, produce una catena di piccole bollicine che ne rendono visibile la traiettoria. Avviene un po’ come per le bollicine che salgono in un bicchiere di birra, e si dice, in effetti, che l’inventore di questo congegno abbia avuto l’idea meditando sulla propria bevanda durante il pranzo. Una foto di una camera a bolle conterrebbe un mucchio di queste tracce, un intreccio complicato di riccioli e spirali. Non vi è dubbio che ciascuno di noi potrebbe seguire accuratamente ogni traccia e trovarci tutti d’accordo su che tipo di forma abbia, ma questo, di per sé, sarebbe privo di qualunque interesse scientifico. Solo quando vengono interpretate, le strutture diventano significative, indicando che una tal particella si muove ad una determinata velocità ed è costretta a una traiettoria circolare dal forte campo magnetico applicato alla camera. Solo allora tutto acquista significato ed interesse. Mi ricordo un'occasione in cui mi fu mostrata una fotografia insolita: quando i ricercatori sperimentali ne ebbero spiegato il significato, fu chiaro che rivelava l’esistenza di una particella totalmente nuova. Fu veramente un momento eccitante. Ma, senza interpretazione, sarebbe stato soltanto un pasticcio.
Il problema è dunque il seguente. Per poter formulare l’interpretazione dovete già conoscere un poco la scienza. Non potete semplicemente contemplare il mondo: è necessario osservarlo da un punto di vista specifico. La scelta del punto di vista richiede un atto di coraggio intellettuale, scommettendo che le cose possano essere in un certo modo. Questo significa che, nella scienza, esperimento e teoria, realtà e interpretazione sono sempre miscelati tra di loro. Sono inseparabili come il significato e l’inchiostro che danno forma insieme alle parole di questo libro. Qualcuno ha detto che gli scienziati portano «gli occhiali dietro gli occhi»: quel che conta non è soltanto che cosa vedono ma il modo in cui lo fanno. In altre parole, la scienza si avvale di un misto di realtà e di opinione. Naturalmente i convincimenti hanno delle motivazioni, ed i punti di vista possono essere modificati quando sembra che non siano molto efficaci, ma non se ne può fare a meno. C’è un’altra ragione, che non ho ancora menzionato, che giustifica questa analisi. È probabile che, nella foto di una camera a bolle, si presentino delle tracce che non hanno nulla a che fare con l’esperimento, ma sono interferenze casuali, dovute magari ai raggi cosmici che colpiscono incessantemente la terra dallo spazio esterno (nella mia figura 1 sono probabilmente le linee orizzontali, mentre l’elemento d’interesse reale è la V nella parte inferiore). Per poter interpretare correttamente quel che sta accadendo, è necessario identificare ed eliminare questi contributi spuri. Tecnicamente questo è conosciuto come il problema del «rumore di fondo». Non esiste alcun libro che si possa consultare che vi fornisca la regola per filtrare ed escludere questo effetto indesiderato. E’ una questione d’opinione decidere se questo
scopo sia stato raggiunto con successo e quindi, in ultima analisi, è un problema di giudizio degli esperti del settore. Vi potrei raccontare alcuni episodi da far inorridire, sulle conclusioni sbagliate cui si è giunti a causa degli errori fatti nella valutazione del rumore di fondo. L’ipotesi che effetti inspiegabili possano essere causati da un rumore di fondo non considerato, può talvolta far ottenere successi magnifici. Quando fu scoperto il pianeta Urano, nel XVIII secolo, gli astronomi si accorsero che il suo movimento nella volta celeste non corrispondeva alle predizioni della teoria della gravità di Newton, ma questa teoria era straordinariamente bella e troppo efficace per essere abbandonata senza combattere. Due matematici – Adams in Inghilterra e Leverrier in Francia – ebbero, indipendentemente l’uno dall’altro, l’idea brillante che la causa del problema potesse essere la presenza, ancora ignota, di un altro pianeta al di là di Urano, e furono entrambi in grado di calcolare dove avrebbe dovuto trovarsi. Mi dispiace dover dire che gli astronomi britannici furono o troppo pigri o troppo increduli per scomodarsi a controllare se Adams avesse ragione, cosicché l’onore della scoperta di Nettuno spettò ai francesi. La morale di questo episodio è che la difficoltà di interpretare dei «fatti» non rende immediatamente errata una teoria scientifica. Può semplicemente voler dire che c’è sotto più di quanto non avessimo inizialmente pensato. La necessità di una commistione tra realtà e interpretazione, di esaminare il mondo da un punto di vista prescelto, rende la scienza più ardita e più instabile di quanto spesso si ritenga. Questo ha colpito a tal punto alcuni filosofi da indurli a negare che la scienza ci possa offrire qualche conoscenza attendibile sulla realtà effettiva delle cose. Può darsi che non vi sia alcuna scoperta, ma sia soltanto un consenso inconsapevole tra gli scienziati a vedere la realtà in quel modo. Filosofi del genere, ovviamente, non negano che la scienza ottenga dei successi realizzando delle cose concrete, ma affermano decisamente che tutto ciò in cui consiste la scienza è questo: una raccolta di modi di esprimersi tecnologicamente utili. Una carta stradale è utile per aiutarci ad andare da A a B, ma noi non pensiamo certo che le autostrade siano sottili linee blu o che le città siano dei punti neri più grossi. Però, aspettate un momento! Per quanto una cartina non indichi l’intera verità sulla zona, non potrebbe funzionare affatto se non contenesse almeno parte della verità. È questo quel che penso della scienza. Non riesce mai a comunicarci l’intera verità sul mondo fisico (vi sono sempre cose nuove da scoprire) ma, di sicuro, ci dice una parte della verità. Anche se può darsi che non siamo a conoscenza di tutto ciò che c’è da sapere sugli atomi e gli elettroni, questi sicuramente esistono. La scienza mette a disposizione delle cartine del mondo fisico, che per alcuni scopi sono attendibili, anche se non per tutti. Ci sono tre motivi che mi conducono a questa concezione della scienza. Il primo è quello cui ho già accennato. Se la scienza non descrivesse veramente degli aspetti della realtà delle cose, sarebbe impossibile credere che abbia potuto ottenere i successi che ha avuto. Esaminiamo l’idea di elettrone, la più piccola particella di materia, il cui movimento fa fluire le correnti elettriche. Possiamo anche utilizzarli per capire come funziona la chimica, per rendere i microscopi elettronici abbastanza
potenti da «vedere» gli atomi, per progettare dispositivi elettronici di ogni tipo, e per fare molte altre cose oltre a queste. Come potremmo ottenere tutto ciò se gli elettroni non esistessero realmente, con il tipo di proprietà che abbiamo scoperto? Alla maggior parte delle persone questo sembrerà ovvio. Io penso che i filosofi dovrebbero essere d’accordo con loro. Un’altra ragione per la quale dovremmo credere che la scienza ci rivela quale aspetto ha il mondo, è che questo risulta spesso totalmente diverso da quello che ci saremmo aspettati. Il mondo fisico s’impone su di noi perché ha una propria natura, che noi scopriamo ma non inventiamo in alcun modo. Lasciatemi fare un esempio. Uno dei problemi che fin dai primi tempi ha lasciato perplessi gli scienziati è: «Qual è la natura della luce?». Newton ipotizzò, con molta cautela, che potesse essere composta da piccolissime particelle (bullets). Il suo contemporaneo olandese Christian Huyghens riteneva invece che, più probabilmente, fosse formata da onde. Il problema sembrò risolto nel corso del XIX secolo. Thomas Young (lo stesso che aiutò anche a decifrare i geroglifici egiziani) realizzò degli esperimenti molto intelligenti che misero in luce alcuni effetti tipicamente ondulatori. Le onde interferiscono l’una con l’altra in modi diversi a seconda che siano o no in fase. Se lo sono, due creste si sovrappongono e si rinforzano vicendevolmente; se non lo sono, un ventre ed una cresta possono coincidere ed annullarsi l’uno con l’altra. In un caso la luminosità aumenta, nell’altro diminuisce. Young scoprì che questo alternarsi di luce ed oscurità si verificava realmente. Più tardi, nel corso dello stesso secolo, in una delle più brillanti scoperte della fisica di tutti i tempi, James Clerk Maxwell identificò la luce come onde dell’energia elettromagnetica. La questione sembrava ormai risolta nel modo più soddisfacente e definitivo. Immaginate lo sbigottimento (ed il disagio) di tutti quando Max Planck ed Albert Einstein, nei primi anni di questo secolo, dimostrarono che, in determinate condizioni, la luce assumeva non il comportamento delle onde ma quello di particelle! Più avanti dirò qualcosa di più a questo proposito, ma, per il momento, vi prego di notare due cose: nessuno voleva credere che la luce assomigliasse, a volte, a un insieme di particelle; fu soltanto l’evidenza dei fatti a far giungere gli scienziati a questa conclusione. In secondo luogo, anche quando siamo convinti di comprendere molto bene il mondo fisico, un’osservazione più accurata può farci scoprire che questo ha ancora in serbo per noi delle sorprese. Il mio ultimo argomento a favore della convinzione che la scienza corrisponda alla realtà effettiva delle cose, è che lo scopo reale che gli scienziati si prefiggono non è quello di realizzare delle cose, inventando apparecchi ingegnosi, ma di comprendere come è composto realmente il mondo fisico. Per chiarire il concetto lasciatemi raccontare una parabola. Un giorno viene recapitata all’Ufficio meteorologico una grossa scatola nera. Vi è allegato un libretto di istruzioni che dice: «inserite i dati della situazione meteorologica odierna nella fessura A, girate la manopola, e dalla fessura B otterrete la puntuale previsione del tempo per la prossima settimana!». Sembra decisamente inverosimile, ma all’Ufficio meteo sono di larghe vedute e così fanno un tentativo. Ma guarda un po’… funziona! Le previsioni risultano molto spesso esatte. Se l’Ufficio meteo emettesse semplicemente dei bollettini meteorologici, si occupasse soltanto di raggiungere dei risultati, il suo incarico
sarebbe pienamente assolto, ma pensate che questi meteorologi chiuderebbero in fretta e furia l’ufficio e se ne andrebbero a casa? Neanche per sogno! Essi non vogliono soltanto prevedere il tempo, ma vogliono anche capire come il tempo sia determinato dall’azione reciproca tra i mari, le masse di terraferma e l’atmosfera terrestre. Entro poche settimane manometterebbero i sigilli di quella scatola nera nello sforzo di comprendere come possa indicare il comportamento del sistema meteorologico in modo così perfetto. Può darsi che siate un pochino spazientiti. Ho dedicato varie pagine a documentare la tesi che la scienza vuole dirci quel che il mondo fisico è in realtà. La maggior parte delle persone pensa che ciò sia ovvio. Io penso certamente che sia vero, ma, dato che il modo di procedere della scienza è piuttosto sottile, non penso affatto che sia ovvio. Valeva la pena di affrontare il problema scendendo nei particolari, perché la commistione tra realtà ed opinione della scienza, coronata da successo, c’insegna qualcosa sui nostri modi di acquisire conoscenza, e questo può essere utile anche in altri contesti. È il momento di dare un’occhiata alla religione. Tutti sanno che la religione coinvolge la fede. Sembra che molte persone siano convinte che la fede implichi chiudere gli occhi, stringere i denti e credere almeno in sei cose impossibili prima di colazione, perché ce lo dice la Bibbia, o il papa, o qualche altra autorità indiscutibile. Niente affatto! Il salto che la fede può richiederci è verso la luce, non nel buio. Pervenire ad una fede motivata in ciò di cui si tratta è lo scopo sia della ricerca religiosa, sia della ricerca scientifica. La religione, come abbiamo detto, può essere un valore reale solo se è effettivamente vera; non è una tecnica per farsi coraggio e tenere alto il morale. Dal momento in cui decisi che il mio piccolo contributo dato alla scienza era sufficiente, e che per me era venuto il momento di fare qualcosa d’altro (cioè diventare un ministro di culto), ho trascorso un periodo interessante di circa 18 mesi in cui ho dovuto sistemare i miei impegni accademici. Non potevo limitarmi ad abbandonare i miei studenti, che facevano ricerca con me, dicendo soltanto: «Ciao, spero che tu riesca a ottenere un dottorato di ricerca». In questo periodo, in quel «villaggio» internazionale ed intellettuale che è la comunità dei fisici teorici delle alte energie, ho fatto parecchie conversazioni interessanti con i miei colleghi. Mi dicevano: «Ma che cosa stai combinando John?». Più che interrogazioni sulla mia vocazione, sul perché avessi deciso di indossare il colletto bianco da clergyman, di solito mi facevano quella più fondamentale sul perché fossi un credente in Cristo. Davanti ad una tazza di caffè, in un qualche spaccio di un laboratorio, ho cercato di spiegare la mia fede cristiana. Sapevo che dovevo farlo adducendo delle prove. «Che cosa ti fa pensare che questo possa essere vero?», era la domanda alla quale dovevo rispondere. In mezz’ora di conversazione era difficile poter affrontare più di alcuni punti basilari (del resto, se mi fossi trovato nella situazione di comunicare le ragioni del mio credere che i quark e i gluoni sono i costituenti della materia ad una persona che non fosse uno scienziato, sarei stato altrettanto imbarazzato). Sarebbe stato necessario esaminare una struttura, alquanto complessa, di collegamento tra esperienza ed intuito per poter essere in grado di dare una spiegazione completa. Alla fine, scrissi un libretto dal titolo pomposo, The Way
the World is (Il modo in cui è il mondo, 1983), esponendo le motivazioni della mia fede cristiana così come avrei fatto se avessi avuto molte ore a disposizione per raccontarle. Non è mia intenzione riproporre qui questo esercizio; quel che voglio fare è solo sottolineare che in quel libro c’era una serie di richieste di prove a cui dare una risposta. Quanto è attendibile il Nuovo Testamento? Che cosa possiamo sapere realmente su Gesù? Vi sono motivi per credere alla pretesa che egli sia risuscitato dai morti? Come possiamo venir a capo di quello strano fenomeno – la chiesa cristiana – che ha prodotto sia S. Francesco sia l’Inquisizione? Perché una fede sia possibile, bisogna fornire delle risposte razionali a queste domande. Io penso che scienza e religione, superata la prima impressione, siano cugine, da un punto di vista intellettuale. Ambedue sono alla ricerca di un credere che sia motivato. Né l’una né l’altra possono pretendere di possedere la conoscenza assoluta, certa, poiché ciascuna deve fondare le proprie conclusioni sul ruolo reciproco che giocano interpretazione ed esperienza. Di conseguenza, entrambe devono essere disponibili all’eventualità della correzione. Nessuna delle due si basa soltanto sui puri fatti, o su mere opinioni. Sono parte ambedue del grande tentativo umano di capire. Ciò nonostante, tra la scienza e la religione vi sono, ovviamente, delle differenze. Una delle più significative è che la scienza si occupa di un mondo fisico che è a nostra disposizione per essere maltrattato o fatto a pezzi come più ci garba. In poche parole, la scienza può sottoporre le cose alla verifica sperimentale. Dio, invece, non è a nostra disposizione in questo modo. La Bibbia dice: «Non metterai alla prova il Signore tuo Dio». Non ha alcun senso dire: «Se un Dio esiste, che mi fulmini»2. Decisamente, Egli non accetta di giocare a questa partita folle;, né lo fa la gente. Se, per mettere alla prova la tua amicizia, io escogito in continuazione piccole trappole, di fatto, la diffidenza mostrata distruggerà la possibilità di una vera amicizia tra di noi. Nell'ambito dell’esperienza personale sappiamo tutti che, sia tra di noi sia nei confronti di Dio, la verifica deve lasciar spazio all’avere fiducia. Anche nella scienza ci sono branche nelle quali è impossibile effettuare esperimenti: la cosmologia e la biologia evolutiva, ad esempio. Non abbiamo un mucchio di universi sui quali verificare le nostre teorie; dobbiamo ricavare il miglior significato possibile dall’unico mondo del quale conosciamo, in parte, la storia. Allo stesso modo, non possiamo riprodurre l’evoluzione della vita per vedere come sarebbero cambiate le cose se le circostanze fossero state diverse. In queste scienze connesse alla storia dobbiamo semplicemente trovare la spiegazione più soddisfacente nelle tracce limitate – in alcuni casi frammentarie – di cui disponiamo. Nondimeno queste scienze storiche sono fonti di considerevoli, profonde e chiare comprensioni; sono le cugine scientifiche più prossime alla teologia. Un’altra differenza tra la conoscenza scientifica e quella religiosa sta nelle conseguenze che si ripercuotono su di noi. Dal punto di vista intellettivo, la mia fede nei quark e nei gluoni è appagante, ma non influisce in modo radicale sulla mia vita. D’altra parte, Dio non sta lì solo per soddisfare la nostra curiosità. L’incontro con lui implica sia la richiesta di obbedienza, sia l’apertura delle nostre menti. La conoscenza religiosa esige molto più di quella scientifica. Mentre pretende una scrupolosa
attenzione ai contenuti della verità, richiede anche la risposta nell’impegno per la scoperta della verità. Per comprendere realmente questo mondo ricco e complicato in cui viviamo, abbiamo bisogno dell’aiuto di tutte queste forme d’indagine. Di per sé, la scienza rappresenterebbe un modo disperatamente limitato ed impoverito di vedere le cose. La musica sarebbe ridotta a delle vibrazioni nell’aria. Un quadro meraviglioso sarebbe visto soltanto come un insieme di macchie di colore di cui è nota la composizione chimica. Il fatto che la scienza ignori i problemi di valore fa parte della sua tecnica d’indagine, ma ciò non significa neppure per un istante che non esistano valori o che non siano di fondamentale importanza. Quasi tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta scivola tra le larghe maglie della rete scientifica. Durante le cordiali dispute con i miei amici non credenti, ho sempre cercato di incoraggiarli ad alzare i propri occhi oltre gli orizzonti limitati del punto di vista scientifico. Io credo che la bellezza fornisca una finestra essenziale sulla natura della realtà, e non sia pura e semplice emozione. Io credo di sapere – e se c’è una cosa di cui sono sicuro è proprio questa – che torturare i bambini è sbagliato, e che l’amore è meglio dell’odio. Io non posso supporre, neanche per un momento, che queste intuizioni morali siano soltanto scelte culturali della società particolare in cui, si dà il caso, io viva. Una delle attrattive della fede in Dio è che essa riunisce insieme questi aspetti così differenti presenti nell’universo unico della nostra esperienza umana. Nella sensazione di meraviglia, provata di fronte alla stupenda struttura dell’universo fisico – esperienza veramente fondamentale per lo scienziato, e ricompensa per tutto il lavoro faticoso che richiede la ricerca scientifica – v’è il riconoscimento dell’intelligenza del Creatore. Le nostre esperienze della bellezza sono una condivisione della sua gioia nella creazione. Le nostre intuizioni morali sono un indizio della sua buona e perfetta volontà. Non è che gli atei siano stupidi, ma, semplicemente, il teismo dà più spiegazioni, ed è intellettualmente più soddisfacente. Un’altra forma di esperienza umana resa comprensibile dalla fede in Dio è, ovviamente, la stessa esperienza religiosa. Dovremmo ricordarci che quasi tutte le persone, in ogni tempo ed in qualunque luogo, hanno avuto qualche forma di fede religiosa. La miscredenza, largamente diffusa nel mondo occidentale contemporaneo, è un fenomeno, sia storicamente che geograficamente, limitato. Come la persona stonata dovrebbe valutare seriamente l’eventualità che gli amanti della musica vivano un’esperienza che varrebbe la pena provare, così gli occidentali non credenti dovrebbero esaminare l’eventualità che anch’essi stiano perdendo qualcosa d’importanza vitale. Io vorrei individuare due caratteristiche generali dell’esperienza religiosa. Una è il culto, il riconoscimento, per quanto incostante e debole, dell’incontro con una Realtà meritevole di timore reverenziale e rispetto. L’altra è la speranza. Nonostante tutta la dolorosa sofferenza del mondo, v’è una profonda intuizione posta nell’animo umano, che la Realtà è degna di fiducia, che il conforto portato ad un bambino psichicamente turbato non è la recitazione di un’amorevole menzogna, ma l’affermazione di una vera capacità di comprendere in modo profondo. Abbiamo bisogno delle intuizioni sia della scienza sia della religione nella nostra ricerca di comprensione. La domanda che pone (e a cui risponde) la scienza è
essenzialmente: «Come?». In quale modo avvengono le cose? La domanda che pone (e a cui risponde) fondamentalmente la religione è: «Perché?». C’è un significato, uno scopo che agisce dietro ciò che accade? Se vogliamo capire quel che sta succedendo, abbiamo bisogno di rivolgere ambedue queste domande. La pentola sta bollendo perché il gas è acceso. La pentola sta bollendo perché vorrei farmi una tazza di tè (ne vuoi una anche tu?). Non dobbiamo scegliere tra queste due risposte: abbiamo bisogno di entrambe. Tuttavia, benché le due domande: «Come?» e «Perché?» siano differenti, le risposte devono avere un qualche rapporto credibile tra di loro. Le affermazioni: «Ho messo la pentola nel frigo» e «Voglio farmi una tazza di tè» non si adattano affatto l’una all’altra. Per questa necessità, di avere un senso l’una per l’altra, scienza e religione devono comunicare tra di loro. La parte rimanente di questo libro sarà un’esplorazione sulla natura di questa conversazione necessaria, tra scienza e religione. Lasciatemi attingere dalla scienza una morale che potrà essere d’aiuto alla teologia nella propria ricerca di comprensione. Ho già parlato della scoperta del modo, stupefacente ed imbarazzante, in cui si comporta la luce, qualche volta come le onde ed altre volte come le particelle. Un’onda è qualcosa che si distende e si risolleva; le particelle assomigliano a microscopiche palline. Alle nostre menti, dotate di buonsenso, sembra assurdo che la stessa entità si comporti in modi così radicalmente diversi, eppure, se avessimo negato la serietà del problema, non avremmo fatto alcun progresso. Non sarebbe stato di alcuna utilità cercare di nascondere sotto il tappeto le scoperte sulle particelle di Planck e di Einstein, o tentare di dimenticare le scoperte precedenti sulle onde di Young e Clerk Maxwell. Era una situazione apparentemente ridicola, eppure i ricercatori hanno dovuto solo tenersi aggrappati all’esperienza fondamentale per il rotto della loro cuffia intellettuale, anche se non riuscivano a venirne a capo. Sono contento di poter dire che alla fine tutto ciò ha avuto un esito positivo. Sul finire degli anni venti, a Cambridge, Paul Dirac è stato in grado di inventare una cosiddetta «teoria quantistica dei campi» che spiega come la luce possa dare una risposta da onda, se gli avete fatto una domanda da onda, oppure da particella, se gli avete rivolto una domanda da particella. La natura, dopotutto, non era irrazionale, ma aveva una razionalità più profonda di quanto avremmo mai potuto supporre a priori. Se la scienza ti insegna qualcosa, è che il mondo è pieno di sorprese; non si può misurare ogni cosa con il buonsenso. La teoria quantistica ci dice che su scala atomica, o ancora più piccola, le cose funzionano in modo totalmente differente dal modo in cui si comportano gli oggetti più «estesi» della nostra vita di tutti i giorni. C’è un prezzo da pagare per il trucco ingegnoso che consente di essere a volte come un’onda e altre come una particella. Il prezzo è la mancanza di informazioni accurate su quello che sta succedendo esattamente. Se prendete qualcosa come un elettrone, allora, se sapete dov’è, non potete sapere che cosa sta facendo; e se sapete che cosa sta facendo, non potete sapere dov’è. Questo, in poche parole, è il famoso «principio di indeterminazione» di Werner K. Heisenberg. Questo strano mondo quantistico è inimmaginabile per noi, eppure, nonostante ciò, scopriamo che, alla fine, siamo in grado di capirlo. Impariamo a rispettare i suoi strani modi di essere e ad osservare che hanno un loro modo di avere senso.
Non ho certo bisogno d’insistere per indicare la morale di questo per la teologia. Se questo mondo inimmaginabile di elettroni ci riserva qualche sorpresa, non dovremmo stupirci troppo che anche il Dio inimmaginabile ne tenga in serbo qualcuna per noi. Se mi accorgo, come credente cristiano (come in effetti mi accade, e com’è successo a milioni d’altri prima di me), che quando parlo di Gesù Cristo non ne posso parlare soltanto in termini umani ma sono anche indotto ad usare un linguaggio divino – per quanto possa essere difficile capire come il Dio infinito ed un uomo finito nella Palestina del primo secolo possano, in qualche modo misterioso, essere uniti assieme – devo allora accettare la realtà di questa esperienza. Quel che voglio dire non ha nulla a che fare con affermazioni ridicole del tipo: «La teoria dei quanti è talmente bizzarra che dopo di essa puoi credere a qualunque cosa». Quel che intendo dire è: «Non possiamo decidere in anticipo che cosa riusciremo a scoprire sull’essenza della natura della realtà (di Dio o del mondo reale)». Lo potremo fare soltanto sottoponendoci ad esperienze concrete. Come vedete, non si tratta quindi di contrapporre il fatto scientifico all’opinione religiosa. Sia con la scienza che con la religione, il problema è cercare d’interpretare e capire il ricco, vario e sorprendente modo reale di essere del mondo. Lasciatemi finire questo capitolo con l’affermazione che la religione ha fatto qualcosa per la scienza. Quest’ultima ha raggiunto la completa fioritura, nella sua forma moderna, nell’Europa del XVII secolo. Vi siete mai chiesti perché è stato così? Dopotutto, gli antichi greci erano piuttosto ingegnosi e i cinesi hanno sviluppato una cultura raffinata molto prima che ci riuscissimo noi europei, e tuttavia non si sono imbattuti nella scienza così come la intendiamo noi oggi. Molte persone sono convinte che l’ingrediente mancante sia stato offerto dalla religione cristiana. Naturalmente non è possibile dimostrare che ciò sia vero (non possiamo ripetere nuovamente la storia senza il cristianesimo e osservare quel che succede), ma c’è un argomento degno di rispetto che vale la pena esaminare. Si può esprimere nel modo seguente. La concezione cristiana della creazione ha quattro conseguenze significative (e lo stesso vale per gli ebrei e i mussulmani). La prima è che ci aspettiamo che il mondo sia ordinato, poiché il suo Creatore è razionale e coerente; purtuttavia è anche libero di creare un universo in qualsiasi modo egli preferisca. La seconda conseguenza è che non possiamo capirlo pensando semplicemente a quale dovrebbe essere l’ordine della natura: dovremmo dare un’occhiata e vederne il risultato. In altre parole, l’osservazione e l’esperimento sono indispensabili. Questo è il piccolo elemento che è mancato ai greci: pensavano che si sarebbe potuto fare tutto unicamente riflettendo. Terzo, vale la pena studiare il mondo poiché è una creazione di Dio. Quarto, poiché la creazione non è divina in sé, possiamo stimolarla ed indagarla senza essere irriverenti. Sommate insieme tutte queste caratteristiche e avrete l’ambiente intellettuale nel quale la scienza può progredire. È un fatto storicamente accertato che la maggior parte dei pionieri della scienza moderna sono stati uomini religiosi. Possono aver avuto le loro difficoltà con la chiesa (come Galileo), o avere una struttura mentale eterodossa (come Newton), ma per loro la religione era importante. Solevano dire che Dio ha scritto due libri per il
nostro ammaestramento: il libro delle Scritture e il libro della natura. Sono convinto che noi abbiamo bisogno di cercare di decifrarli entrambi, se vogliamo capire che cosa stia realmente succedendo. 2 C’È QUALCUNO LÌ? Ci potremmo aspettare che, se c’è un Dio, ci fornisca qualche indizio sulla veridicità della propria esistenza. Questo lo potrebbe fare in due modi. Una maniera sarebbe di rendere particolarmente limpido il disegno divino mediante alcuni momenti storici particolari, o persone specifiche. Tutte le grandi religioni considerano in questo modo gli eventi e le persone fondativi, quali fonti di rivelazione su Dio. Il giudaismo fa riferimento a Mosè e alla liberazione di Israele dalla schiavitù d’Egitto; il cristianesimo a Gesù Cristo, la sua morte, e risurrezione; l’islamismo al profeta Maometto e alla dettatura del Corano; e così via. Dato che la scienza si occupa di quel che avviene in generale, non ha molto da dire su avvenimenti particolari di questo genere, che scivolano tra le maglie della sua rete impersonale. La mentalità scientifica (di cercare la prova per sostenere le pretese di ciò che è importante) può essere d’aiuto nell’affrontare questi argomenti, ma dovrà essere commisurata al carattere unico che hanno gli eventi in questione. Abbiamo già osservato che la religione si occupa del personale, il che significa l’individuale e l’irripetibile. C’è un secondo modo in cui si potrebbe lanciare uno sguardo su Dio: mediante le caratteristiche del mondo che Egli sostiene di aver realizzato. Non dovremmo certo aspettarci che il mondo sia pieno di oggetti con impressa l’etichetta: «Made by God» – è più ingegnoso di così -, ma possiamo prevedere che vi siano degli indizi che stanno ad indicare che è la sua creazione. Su questo ci si può attendere che la scienza ci sia d’aiuto. Se c’è uno scopo dietro quel che avviene, il modo in cui la scienza risponde alle proprie domande: «Come?» dovrebbe incoraggiarci ad insistere nel porre allo stesso modo la domanda religiosa: «Perché?». Ovviamente, questo non significa che esista una relazione diretta. Non dobbiamo confondere la scienza con la religione, ma, se realmente esiste un Dio dietro le quinte dell’universo, sembra ragionevole cercare qualche suggerimento che richiami la nostra attenzione in una direzione religiosa. Un momento però! Non siamo già passati da qui? Dal XVII secolo in poi sono stati scritti molti libri per descrivere in che modo stupendo la vita si sia adattata al proprio ambiente. Per intenderci, basta solo pensare al sistema ottico dell’occhio umano, meravigliosamente efficiente. Simili tracce di un progetto non ci rinviano inevitabilmente alla presenza di un Progettista? Tutto appariva piuttosto convincente, fino a quando Darwin tolse il tappeto sotto i piedi di tali autori dimostrando che la sua teoria dell’evoluzione poteva spiegare l’apparente progetto senza l’intervento di un Progettista divino. Il vaglio e l’accumulo paziente di piccole differenze, attraverso
generazioni e generazioni di selezione naturale, poteva produrre lo stesso risultato. Di colpo, la religione perse uno dei suoi argomenti naturali più efficaci. Starò quindi rifacendo, di nuovo, lo stesso errore? Credo di no. Il guaio delle vecchie argomentazioni era di cercare di dare risposte teologiche a quelle che erano, a tutti gli effetti, domande scientifiche. Abbiamo imparato che ci si può aspettare che queste domande scientifiche ricevano delle risposte scientifiche. La scienza può procedere a svolgere il proprio compito senza alcun bisogno di ricevere una sorta di aiuto spurio dalla religione. Affermare il contrario corrisponderebbe a fare l’errore del «Dio tappabuchi»3, che faceva capolino ogni volta che era necessaria una «spiegazione» di ciò che in quel momento era sconosciuto dal punto di vista scientifico. Il pasticcio era che, come il gatto del Cheshire4, quel Dio tendeva a svanire. Il progredire della conoscenza lo rendeva in soprannumero. Abbiamo imparato a non fare affermazioni avventate come: «Solo l’azione diretta di Dio potrebbe produrre la vita dalla materia inanimata!». In realtà, dal punto di vista scientifico, non abbiamo ancora dimostrato come abbia avuto origine la vita, ma non abbiamo alcuna ragione di credere che, in futuro, non riusciremo mai a comprenderlo. Il «Dio tappabuchi» era in effetti un errore teologico. Se è Dio il Creatore Egli è in qualche modo in relazione con l’intera scena, e non solo con gli elementi difficili od oscuri di quel che avviene. Che aspetto abbia questa relazione creativa è un tema che discuterò nel prossimo capitolo. Per il momento, torniamo ad esaminare se l’universo rechi o no qualche traccia di essere realmente una creazione. Immagino che ciò si riduca a chiedersi se ci sia o meno qualcosa di più, oltre il solo racconto scientifico, che valga la pena di essere narrato. Siamo soddisfatti anche solo di quello che la scienza può dirci? Ritengo che non dovremmo esserlo, ed è interessante notare che questo avviene, in parte, perché è la stessa scienza a sollevare -partendo dalla propria esperienza – delle domande che vanno oltre la sua capacità di fornire le risposte. La scienza, in altre parole, deve dare per scontati degli aspetti della natura che noi, mi sembra, non dovremmo ritenere ovvi. Dovremmo cercare di capire perché sono quel che sono. Questi aspetti si incentrano su due domande importanti: «Com’è possibile che siamo in grado, anche solo minimamente di fare scienza?» e: «Perché l’universo è così straordinario?». Siamo così abituati ad usare la scienza per capire il mondo, che raramente ci soffermiamo a pensare quanto sia strano che ciò sia possibile. Ovviamente, dobbiamo avere una comprensione costante degli eventi quotidiani; in caso contrario non saremmo affatto in grado di sopravvivere. Ci faremmo male rapidamente se non sapessimo che c’è qualcosa che ci trascina giù verso la terra, e che quindi non è una buona idea quella di scivolare da un’alta scala a pioli. Tuttavia, per essere in grado di procedere oltre a questo e di capire con Newton che è la medesima forza gravitazionale che costringe anche la luna a orbitare intorno alla terra, e la terra a ruotare attorno al sole; e quindi di comprendere, con Einstein, che questo fenomeno è dovuto alla curvatura dello spazio-tempo (ovvero, che la massa e l’energia piegano realmente lo spazio ed il tempo) e che questo spiega la struttura dell’universo, nella sua interezza – questa è una capacità che va molto al di là di qualunque cosa che ci
serva per sopravvivere. Dove prendiamo questo potere meraviglioso di capire le cose? In realtà, è persino più strano di così, poiché è la matematica che ci fornisce questa curiosa capacità. Penso che uno dei più grandi scienziati che ho mai conosciuto sia stato Paul Dirac, che, per più di trent’anni, ha occupato a Cambridge quella che fu la cattedra universitaria di Newton. È stato uno dei padri fondatori della teoria dei quanti, e ha speso la sua vita nella ricerca di belle equazioni matematiche. Potrete forse pensare che questa sia un’idea piuttosto strana, ma la bellezza matematica è qualcosa che può essere riconosciuta piuttosto facilmente da coloro che hanno l’occhio per queste faccende. Dirac cercava delle equazioni belle perché è stato molto spesso dimostrato che sono queste che descrivono il mondo fisico. Dirac arrivò a dire una volta che è più importante la bellezza delle vostre equazioni che non la loro concordanza con l’esperimento! Naturalmente, non voleva dire che non ha importanza se le equazioni corrispondano o meno ai fatti reali, ma che una possibile discrepanza può essere dovuta al fatto di non aver risolto correttamente le equazioni, oppure, addirittura, al fatto che gli esperimenti possono essere sbagliati. Perlomeno, in tal caso, c’è una possibilità che le cose, alla fine, possano funzionare, ma se le equazioni fossero brutte… beh, allora non ci sarebbe alcuna speranza. Quando usiamo la matematica in questo modo – come chiave per dischiudere i segreti dell’universo – accade qualcosa di molto singolare. La matematica è puro pensiero. I nostri amici matematici stanno seduti nei loro studi e sognano, di testa propria, i magnifici percorsi della matematica pura (questa è proprio l’essenza della matematica, produrre ed analizzare schemi). Quel che voglio dire è che si scopre che alcuni dei più belli di questi schemi esistono realmente, là fuori, nella struttura del mondo fisico che ci circonda. Allora, che cosa collega insieme la ragione interna (la matematica delle nostre teste) e la ragione esterna (la struttura del mondo fisico)? Ricordiamo, è una connessione molto profonda, che va molto al di là di qualsiasi cosa di cui abbiamo bisogno per la sopravvivenza quotidiana. Perché il mondo è così intelligibile? Questo lasciava perplesso Einstein. Una volta disse che l’unica cosa incomprensibile riguardo all’universo è che è comprensibile. Perché riusciamo a rappresentarcelo così Bene? Perché è possibile la scienza? Avete una possibilità di scelta. Potete sempre scuotere le spalle e dire: «Questo è il modo in cui stanno le cose, e fortunati voi ragazzi che siete bravi in matematica!». Ma questa risposta mi sembra proprio incredibilmente pigra. Il mio istinto, come scienziato, è di cercare di capire le cose nel modo più esauriente possibile. Non posso rinunciare ad un’abitudine di una vita proprio adesso. Potreste rifletterci nel modo seguente. Quel che intendo dire è che l’universo, nella sua bellezza e trasparenza razionale, ci appare come un mondo attraversato velocemente da segni d’intelligenza e, forse, è «la M maiuscola» di Mente di Dio che stiamo vedendo. In altre parole, la ragione interna e quella esterna si adattano l’una all’altra poiché hanno un’origine comune nella ragione del Creatore, che è il fondamento di tutto ciò che è. Mi viene in mente un antico versetto della Genesi in cui si dice che l’umanità è fatta «a immagine di Dio». In realtà penso che sia questo quel che rende possibile la scienza.
È importante esser chiari su quel che intendo affermare. Non sto dicendo: «La scienza funziona, perciò Dio esiste: è proprio questo che si deve dimostrare». Di fatto, io non penso che si possa provare che Dio esista, né che non esista – ci troviamo in un campo di discussione che è troppo profondo per una semplice prova. Sto dicendo che l’esistenza del Creatore potrebbe spiegare perché il mondo sia così profondamente intelligibile, ed io non riesco a immaginare qualsiasi altra spiegazione che valga almeno la metà di questa. Ad una grossa, fondamentale domanda, com’è quella se si crede (o non si crede) in Dio, non si può rispondere con un solo argomento. È troppo complicata per questo. Quello che uno deve fare è di esaminare un gran numero di aspetti diversi e vedere se le risposte che si ottengono vadano a formare insieme un quadro globale che abbia senso oppure no. A mio parere, il nostro potere di comprendere il mondo fisico è soltanto una parte di un’argomentazione complessiva per una fede religiosa. Rendersi conto di vivere in un universo incredibilmente straordinario, e che l’unica ragione per la quale ci troviamo qui è appunto perché è così, fornisce un altro contributo a questa stessa argomentazione. Non lo è invece il fatto che l’evoluzione, di per sé, non è sufficiente a spiegare le nostre origini. Quasi tutti gli universi che potremmo immaginare sarebbero sterili, incapaci di far evolvere la vita, per quanto a lungo si aspettasse. Questa è una conclusione così importante e sorprendente che è stata definita con un nome dotto: il «principio antropico» (che deriva da ànthropoi, parola greca che significa uomini, umanità). Fatemi esprimere il concetto in questo modo. Supponiamo che Dio vi consenta di usare in prestito la sua macchina crea-universi. Appena vi avvicinate a questo macchinario, senza dubbio impressionante, vi accorgete che c’è un gran numero di manopole da regolare. Sono queste che devono determinare la struttura scientifica del mondo che state per creare. Per esempio, c’è un insieme di manopole che si riferiscono alla gravità. Una è un interruttore (acceso/spento): volete che ci sia o no un po’ di gravità nel vostro mondo e, se lo volete, di che tipo? La legge dell’inverso del quadrato (quella che Newton ha scoperto nel nostro universo) o qualche altra forma? Una volta che avete deciso questo, c’è un’altra manopola da regolare per stabilire quanto volete che sia intensa la gravità. Potrebbe sorprendervi apprendere che, a seconda del modo in cui gli scienziati misurano queste forze, nel nostro mondo la gravità è in realtà una forza molto debole (potrebbe non sembrarvi vero se vi è mai capitato di cadere da una finestra del piano rialzato, ma questo è dovuto al fatto che la gravità si somma sempre; non c’è nulla che la possa eliminare). Forse la vorreste più forte nel vostro universo, o invece più debole? Decidete e regolate le manopole di conseguenza. Poi tutte le altre forze della natura attendono la vostra attenzione. C’è l’elettromagnetismo, la forza che tiene insieme la materia (e noi). Nel nostro universo è molto più forte della gravità. Come vi piacerebbe che fosse nel vostro? Dovreste seguire la stessa procedura per le altre forze della natura. Infine, ci sono alcune manopole per stabilire la dimensione e le caratteristiche di quel genere. Volete un universo vasto, come il nostro, con il suo miliardo di miliardi di stelle, o qualcosa di un po’ più piccolo e casereccio?
Bene! Tutte le manopole sono regolate, tirate la leva ed ecco arriva l’universo che Dio vi ha permesso di creare. Aspettate per vedere quel che succede. Dovrete essere pazienti, può darsi che ci vogliano miliardi di anni. Tirando ad indovinare, penso che alla fine, se avete aspettato sufficientemente a lungo, la maggior parte degli universi formeranno qualcosa d’interessante. Modificando le forze si otterranno alcuni effetti. Per esempio, avendo scelto una gravità più intensa la popolazione sarebbe più bassa, perché sarebbe più difficile crescere in altezza. Qualunque cosa sia accaduta, si sarà sicuramente ottenuto qualche tipo di risultato utile. Non necessariamente degli esseri umani, ovviamente, ma forse dei piccoli uomini verdi. Mi sarei quindi completamente sbagliato! Possiamo capire adesso che il mondo che avevate deciso di creare avrebbe avuto una storia monotona e sterile, salvo che aveste regolato queste manopole in modo molto preciso, registrandole attentamente su valori estremamente vicini a quelli del nostro stesso universo. Non avrebbe prodotto nulla che assomigliasse ad una conseguenza interessante come siamo voi ed io. Noi viviamo in un universo molto particolare – si potrebbe dire uno su un miliardo di miliardi. Vorrei illustrare alcuni dei motivi che abbiamo per arrivare a questa conclusione, che è molto sorprendente. Innanzitutto, dovete stare attenti a partire con il piede giusto. Se il vostro universo si espande troppo velocemente dal Big Bang iniziale, diventerà rapidamente troppo diluito perché succeda qualcosa d’interessante. Se, d’altra parte, si espande troppo lentamente, crollerà prima che possa avvenire qualsiasi cosa interessante. Inoltre, sarà meglio che il vostro universo sia sostanzialmente uniforme, altrimenti le vaste disomogeneità che si verificano nei momenti iniziali della sua storia genereranno, in modo catastrofico, una turbolenza distruttiva. E tuttavia, non dovrà essere neppure assolutamente liscio e uniforme, poiché le stelle e le galassie non avrebbero la possibilità di formarsi in assenza assoluta di granulosità. Avete bisogno delle stelle perché devono giocare due ruoli assolutamente indispensabili per rendere possibile la vita. Uno, ovviamente, è quello di essere fonti energetiche affidabili. La vita ha potuto svilupparsi sulla terra perché il sole è stato una sorgente costante e regolare di energia termica nei miliardi di anni richiesti dall’evoluzione. Sappiamo che cos’è quel che fa bruciare le stelle in modo uniforme per periodi molto lunghi: è un delicato equilibrio tra gravità ed elettromagnetismo. Modificate questo equilibrio, e le stelle diventeranno o troppo fredde per funzionare come vere fonti di energia, o talmente calde che si bruceranno completamente nel giro di pochi milioni di anni – un tempo decisamente troppo breve per dare origine alla vita. Quindi, sarà meglio che abbiate regolato quelle manopole di controllo della gravità e dell’elettromagnetismo con grande attenzione. Eppure, di per sé, questo non è sufficiente, perché le stelle hanno un secondo ruolo vitale. Esse sono le fornaci nucleari in cui vengono prodotti gli elementi che costituiscono la materia prima della vita. Nei primi tre minuti della sua storia, l’intero universo era caldo a sufficienza per essere l’arena delle reazioni nucleari. Si presentava come una bomba all’idrogeno cosmica. Tuttavia, l’universo dei primissimi istanti era anche molto semplice, e quindi poteva solo fare cose molto semplici. Ha
creato soltanto i due elementi più elementari: l’idrogeno e l’elio. Questi non hanno una chimica sufficientemente interessante per fornire la base della vita. Per questo avete bisogno delle possibilità più ricche offerte dagli elementi più pesanti. In particolare avete bisogno della chimica, assai fertile, del carbonio. Ogni atomo di carbonio contenuto nei nostri corpi si trovava un tempo all’interno di una stella; siamo tutti composti dalle ceneri delle stelle morte. Per creare del carbonio in una stella bisogna che tre nuclei di elio siano costretti ad unirsi l’uno all’altro. Riuscirci è difficile ed è possibile solo perché un effetto speciale (in linguaggio tecnico, una «risonanza») si verifica proprio nel posto giusto. Questo posizionamento molto delicato dipende dall’intensa forza nucleare che tiene insieme i nuclei. Cambiate di poco questa forza, e perderete l’effetto di risonanza. Ancora: il carbonio non è sufficiente; molti altri elementi sono necessari per la vita; ad esempio, l’ossigeno. Questo lo create unendo un altro nucleo di elio ad uno di carbonio; e dev’essere possibile farlo, ma non troppo rapidamente, altrimenti tutto il vostro carbonio, ottenuto faticosamente, si convertirebbe in ossigeno e lo perdereste. Questa è un’altra limitazione delle forze nucleari. Se le manopole sono regolate proprio nella giusta posizione, questa catena di reazioni nucleari, delicatamente bilanciata, può continuare fino al ferro. Dato che il ferro è il nucleo più stabile e non si trasforma facilmente in qualcosa di più pesante, all’interno di una stella non potrete ottenere altro che questo. Rimangono quindi due compiti. Il primo è di ottenere gli elementi oltre il ferro, alcuni dei quali, come lo zinco e lo iodio, sono essenziali alla vita. L’altro è di assicurare che gli elementi che avete appena prodotto siano realmente disponibili perché la vita giunga all’essere. Non c’è alcuna utilità nel fatto che essi rimangano rinchiusi, inservibili, all’interno del nocciolo freddo di una stella morente. Di conseguenza, alcune stelle devono esplodere come supernovae, disperdere i propri elementi generatori di vita nello spazio, dove, con il condensarsi dei detriti dell’esplosione, possano dar luogo all’ambiente chimico delle stelle di seconda generazione e dei pianeti. Se noi siamo fatti di polvere cosmica, è necessario che vi sia in giro della polvere proveniente dalle stelle. Se siete molto abili, potrete regolare le manopole in modo tale che gli elementi più pesanti (zinco, iodio e così via) siano prodotti nel corso di queste esplosioni di supernovae. Facendo questo si realizza uno stretto controllo della forza nucleare debole, responsabile di determinati tipi di decadimenti radioattivi. È possibile che abbiate avuto qualche difficoltà a seguire tutti i dettagli della discussione precedente, ma ne sono sicuro – vi renderete conto che produrre le materie prime per la vita non è affatto una faccenda banale. Può accadere unicamente in un universo veramente particolare. Potrei proseguire a dare esempi di queste «messe a punto» che si rendono necessarie e, in effetti, vari studiosi hanno scritto libri interi per descrivere minutamente le considerazioni che ci conducono al principio antropico. Io sarò soddisfatto se mi lasciate fare solo un altro esempio, questa volta riferito alla manopola contrassegnata «dimensioni». Quando pensiamo al nostro universo, con i suoi miliardi di miliardi di stelle, possiamo facilmente rimanere turbati dalla nostra apparente insignificanza come abitanti di quello che, effettivamente, è solo un granello di polvere cosmica. Eppure
non dovremmo, perché, se tutte quelle stelle non ci fossero, noi non potremmo essere qui intimiditi, a pensarle. Non servirebbe a nulla regolare la manopola delle dimensioni in modo da ottenere un mondo molto più piccolo di quello in cui viviamo. Perché la cosmologia moderna riconosce la correlazione esistente tra quanto è grande un universo e quanto a lungo durerà la sua storia. Solo un cosmo grande almeno come il nostro potrebbe resistere per i quindici miliardi di anni necessari all’evoluzione della vita fondata sul carbonio. Avete bisogno di dieci miliardi di anni affinché le stelle di prima generazione producano carbonio, e poi di circa cinque miliardi di anni perché l’evoluzione ci conduca ad esseri di una complessità del nostro tipo. È un processo che non può proprio essere affrettato. Ora, che cosa possiamo farcene di tutto questo? Innanzitutto, dobbiamo prendere in considerazione alcune tesi scientifiche. Può darsi che alcune di queste coincidenze, apparentemente eccezionali, siano in effetti soltanto delle semplici conseguenze dirette di una più profonda teoria fondamentale, e che quindi non richiedano affatto una «messa a punto». In verità, gli scienziati hanno già individuato un esempio di questa possibilità. Non è probabilmente necessario che vengano specificate le condizioni iniziali dell’universo primordiale l’esatto tasso di espansione, e il corretto grado di uniformità -, si ottengono automaticamente mediante un processo fisico chiamato «inflazione», che molti ritengono abbia avuto luogo quando l’universo era nato appena da una minuscola frazione di secondo. È una specie di «bollitura» dello spazio e, per quanto sia solo una congettura che ciò sia realmente accaduto, a mio parere è piuttosto plausibile. Questo non significa, tuttavia, che ciò possa avvenire in un qualsiasi universo ormai vecchio. Ancora una volta, solamente un tipo di universo molto particolare può riscaldarsi in questo modo specifico. Ritengo perciò che, nonostante si possano presentare in futuro altri modi di capire e di spiegare le cose, non cambierà il fatto che un mondo in grado di sviluppare una vita basata sul carbonio è un universo di tipo veramente particolare. Tuttavia, forse è proprio qui che abbiamo introdotto qualcosa di contrabbando. Il principio antropico dovrebbe in realtà essere chiamato più correttamente il principio del carbonio, visto che la maggior parte delle sue considerazioni sono rivolte verso quelle che sono le condizioni necessarie per l’evoluzione della vita basata sul carbonio. Può darsi che questo metta in mostra solamente una mancanza d’immaginazione. Forse altri universi hanno le proprie forme intelligenti di «vita consapevole», ma sono completamente differenti da come vanno le cose nel nostro mondo. Sono fecondi a modo proprio, non secondo i nostri metri. Questa è un’argomentazione cui è terribilmente difficile replicare, perché coloro che fanno una simile affermazione staccano degli assegni in bianco, intellettualmente molto munifici, su un conto totalmente sconosciuto. Tutto quello che posso dire è che la consapevolezza, per essere sostenuta, sembra richiedere una complessità fisica decisamente notevole (i nostri cervelli sono incomparabilmente i sistemi fisici più complessi che abbiamo mai incontrato, da qualunque parte), ed è veramente ben poco persuasivo che esistano molti percorsi alternativi che possano generare una simile complessità.
Quindi, io concludo che è giusto prendere sul serio l’intuizione che un universo che sia in grado di sviluppare esseri pressapoco della nostra complessità, è certamente un universo molto particolare. Ancora una volta dobbiamo affrontare una scelta. Siamo sulle tracce di qualcosa, oppure facciamo soltanto un’alzata di spalle dicendo: «Siamo qui perché ci siamo, e questo è tutto»? Di nuovo, io non posso essere così pigro intellettualmente. A questo punto, qualcuno potrebbe protestare che non si può certamente imparare molto da un unico esempio, e che noi abbiamo solo un universo su cui riflettere. Penso che questa contestazione abbia origine da un fraintendimento. Se è vero che abbiamo un’esperienza scientifica diretta di un solo universo, possiamo certamente immaginare una intera serie di mondi differenti. Queste ultime pagine, infatti, sono state proprio un esercizio di tal genere. Quando lo facciamo, riconosciamo che il nostro universo possiede questa speciale qualità di «ottima messa a punto» per la vita. Questo mi convince sempre di più che nel principio antropico c’è qualcosa d’interessante, che dovremmo tentare di comprendere. John Leslie è un filosofo che condivide il mio punto di vista e che ricorre, per gran parte del suo filosofeggiare, al genere, seducente, del racconto. Nel suo libro Universes (Londra, Routledge, 1989) riporta la seguente storiella. State per essere giustiziati; siete legati al palo e i vostri occhi sono bendati. Dieci tiratori scelti, molto ben addestrati, spianano i loro fucili in direzione del vostro petto. L’ufficiale dà il comando di fare fuoco e risuonano gli spari… Vi accorgete che siete sopravvissuti! Che cosa fate, scuotete soltanto le spalle e dite: «Beh, siamo qua, me la sono cavata per un pelo»? No, naturalmente. Vorrete capire che cosa è successo, perché non siete morti. Leslie suggerisce che ci siano, per la vostra buona sorte, due sole spiegazioni razionali. La prima è che oggi ci siano state tante, tante esecuzioni e che a voi sia capitato di finire proprio in quell’unica in cui tutti quanti hanno sbagliato la mira. L’altra spiegazione è che stesse succedendo qualcosa di più di quanto voi stessi potevate rendervi conto; il plotone d’esecuzione era dalla vostra parte. Come vedrete, questo si traduce nel riflettere su un universo accuratamente messo a punto e antropicamente fecondo. Qualche spiegazione è necessaria. Una possibilità è che ci siano molti, molti universi, ciascuno con le proprie condizioni e leggi naturali. In altre parole, quegli universi «immaginari» a cui abbiamo pensato sono, in fin dei conti, reali ma disgiunti dal nostro mondo. Se il loro numero è immenso, allora, per caso, in uno di essi le condizioni saranno quelle giuste per lo sviluppo della vita – e naturalmente è quello in cui viviamo, poiché non potremmo vedere la luce in nessun altro. L’altra spiegazione è che esista un unico universo, ma in esso accada qualcosa di più di quello che avevamo ipotizzato. In altre parole, non è soltanto «un qualsiasi vecchio mondo», ma è quello particolare e accuratamente e messo a punto in funzione della vita, perché è la creazione di un Creatore la cui volontà è che così sia. Notate che entrambe le spiegazioni vanno oltre quello che la stessa scienza ci può dire. Dal punto di vista scientifico, non abbiamo ragione di credere nell’esistenza di un qualunque altro universo che non sia il nostro (la gente a volte ha la presunzione di sostenere che le cose non stiano così, per sostenere la tesi dei molti universi, ma – credetemi – se siamo attenti e scrupolosi su quello che la scienza può effettivamente
dire, è così). Limitandosi a considerare il significato dell’accurata messa a punto, Leslie sostiene che ciascuna delle due spiegazioni è ugualmente plausibile. Io penso che abbia ragione, ma, ovviamente, sono convinto che esistano altri motivi per credere in Dio e quindi, per me, la creazione è di gran lunga la concezione migliore. Ponendo le domande: «Com’è possibile che siamo in grado, anche solo minimamente, di fare scienza?» e «Perché l’universo è così straordinario?», cercando di darvi una risposta, abbiamo ricevuto una lieve spinta nella direzione di una fede religiosa. Le risposte che abbiamo dato c’inducono a pensare che c’è realmente Qualcuno lì. Ho già detto di essere d’accordo che ciò non raggiunge il livello di una prova, ma penso che non siano molte le cose veramente importanti che possano essere accertate in questo modo, puramente logico e necessario (cercate solo di provare che qualcuno è vostro amico e che non sia disponibile e gentile solo per quel che può ottenere da voi, oppure dimostrare ch’è sbagliato. derubare un cieco). Ad incoraggiarmi a prendere tutto questo sul serio c’è l’osservazione che ad interpretare le cose in questa maniera non ci sono solo persone piuttosto devote come il sottoscritto. Ci sono un certo numero di scienziati, come Paul Davies e Fred Hoyle, che non hanno affinità ideali con la fede religiosa tradizionale, i quali nondimeno percepiscono che la bellezza razionale ed il fecondo equilibrio del mondo costituiscono un argomento molto forte a favore dell’esistenza di un’intelligenza dietro di esso. In realtà, Davies si spinge così lontano da dire, nel suo libro God and the New Physics (Dent, 1992)5, che «può sembrare bizzarro, ma, secondo me, la scienza offre un cammino verso Dio più sicuro di quello della religione». Bene, per quanto si possa imparare qualcosa su Dio dalla struttura e dallo sviluppo della sua creazione, io penso che questo sia veramente bizzarro, poiché ci sono molte altre cose che possiamo conoscere di lui solo se corriamo il rischio ed accettiamo l’intuizione che proviene da una forma d’incontro più personale. Nello stesso tempo, lasciatemi sottolineare che il significato generale di questo capitolo sarebbe apparso familiare all’apostolo Paolo, anche se i particolari scientifici lo avrebbero sorpreso (ma interessato, ne sono sicuro). Egli scrisse, allora: «le perfezioni invisibili di lui [Dio], la sua eterna potenza e divinità, si vedono chiaramente sin dalla creazione del mondo, essendo intese per mezzo delle opere sue» (Romani 1,20). 3 CHE COSA STA ACCADENDO? Un paio di anni fa, mentre partecipavo alla riunione di un comitato della Royal Society, qualcuno mi si avvicinò con un messaggio telefonico per me, che diceva: «Sarebbe disposto a partecipare oggi, in diretta, al notiziario dell’una sulla ITN?». Mi sembrò un invito che difficilmente si sarebbe ripetuto: così dissi: «Sì» e fui puntualmente spedito allo studio. Il messaggio non diceva perché fosse richiesta la mia presenza, ma quella mattina, prima di partire per Londra, avevo sentito le notizie alla radio e sapevo di quel che si trattava. La NASA, l’agenzia spaziale americana, aveva annunciato la scoperta di «increspature cosmiche».
Stavano utilizzando un satellite per osservare la radiazione cosmica di fondo. È un radio-rumore che riempie l’universo, un residuo fossile di quel che era l’aspetto delle cose quando il mondo aveva circa 500.000 anni. Fino ad allora l’universo era stato talmente caldo che la radiazione, interagendo così intensamente con la materia, non consentiva ad alcun atomo di sopravvivere. Non avvenne più così quando il mondo si espanse e si raffreddò in modo sufficiente: si formarono gli atomi e la radiazione rimase, così com’era, a bighellonare in giro. Tutto ciò che le accadde dopo fu di continuare a raffreddarsi mentre l’universo continuava ad espandersi, ed è attualmente molto fredda (270°C sotto lo zero). Quella radiazione ci fornisce un’istantanea di qual era la situazione all’età cosmica molto giovane di mezzo milione di anni, quando si separò per la prima volta dalla materia. In verità, a quel tempo, tutto era estremamente uniforme. Gli astronomi non riescono a trovare differenze fra le diverse parti della radiazione cosmica di fondo che siano superiori ad una parte su diecimila. Tuttavia, allora non poteva essere completamente uniforme, altrimenti, alla fine, l’universo non sarebbe stato in grado di apparire come un fitto mucchio di stelle e galassie. Ci devono essere state piccole variazioni, germi da cui più tardi è cresciuta una struttura. Gli strumenti del satellite avevano per l’appunto scoperto quel tipo di increspature in questo fondo uniforme. Si era così ottenuto un indizio importante sul modo in cui le galassie hanno avuto origine. Dal punto di vista scientifico tutto ciò era molto interessante, anche se non era proprio «la scoperta del secolo, forse di tutti i tempi», come è stata definita, molto imprudentemente, da Stephen Hawking. Il mio compito per la televisione, comunque, non era di illustrare la scienza – per quello avevano convocato un’astronoma, una signora incantevole – ma di rispondere ad una domanda: «Questo dove lascia Dio?». «Esattamente dov’era prima!», fu la mia risposta. Dietro questa semplice risposta si riscontra un importante argomento teologico. Dio non è lì solamente per dare il via alle cose; non è semplicemente la risposta alla domanda: «Chi ha dato fuoco alla miccia del Big Bang?». E questo perché la creazione non riguarda come siano iniziate le cose, ma che cosa sta succedendo. Dio è il Creatore tanto oggi quanto lo era quindici miliardi di anni fa. Egli sostiene l’universo nell’essere, e dietro lo sviluppo della storia stanno la sua mente ed il suo scopo. Egli è la risposta alle domande: «Che cosa sta accadendo?» e «Che significa tutto ciò?». E’ sorprendente quanta fatica sembra fare la gente a comprendere questo punto così semplice. Torniamo a Stephen Hawking per un momento; egli ha formulato una teoria speculativa, ma molto interessante, sull’universo primordiale, quando questo era così giovane (aveva solo una minuscola frazione di secondo) da essere sufficientemente piccolo perché gli effetti quantistici lo potessero influenzare. La teoria dei quanti tende a rendere indistinte le cose e la conclusione di Hawking è che, pur avendo l’universo un’età limitata, non ha un inizio databile a causa della sfocatura quantistica iniziale. Questa mi sembra una conclusione plausibile, quali che siano le riserve che è lecito avere sui particolari della proposta di Hawking. Ancora
una volta ci s’imbatte in qualcosa che, dal punto vista scientifico, è veramente interessante. Stephen Hawking pensa tuttavia che questo abbia anche delle conseguenze teologiche. In un brano famoso del suo libro A Brief History of Time (Una breve storia del tempo) (Bantam Press, 1988), scrive: «Se l’universo, non avendo confini o estremità, è realmente del tutto autosufficiente, non dovrebbe avere nemmeno inizio né fine; dovrebbe soltanto essere. Quale sarebbe allora il posto di un Creatore?». Sarebbe in effetti teologicamente ingenuo non rispondere: «Ogni luogo, essendo Colui che stabilisce e sostiene tutto ciò che avviene». Dio non è un Dio delle estremità, con un interesse acquisito per gli inizi. È il Dio dello spettacolo completo. È quindi allo «spettacolo completo» che dobbiamo rivolgere la nostra attenzione, se vogliamo riflettere su Dio e sulla creazione. In altre parole, la domanda dell’origine nel tempo apre la via a quella su che cosa sia man mano accaduto nella storia del cosmo. Tutto è iniziato molto semplicemente. L’universo primordiale è una palla quasi uniforme di energia che si espande. Non potreste trovare cosa più semplice di questa. Che sia in effetti un sistema decisamente non complicato, è uno dei motivi per cui i cosmologi possono disquisire con una tale sicurezza dell’universo iniziale. Eppure, questo mondo, inizialmente così semplice, è diventato, dopo quindici miliardi di anni, immensamente ricco e complicato. Tu ed io siamo le conseguenze conosciute più complicate di questa fruttuosa storia. Un universo che era soltanto un brodo caldo di particelle elementari, quando aveva un’età di un decimillesimo di milionesimo di secondo, è diventato la patria di santi e di scienziati. Questo – ricordate – è stato possibile solamente perché esso possiede, incorporata nella propria struttura fisica, un’accurata messa a punto antropica. Questa stupefacente fertilità non assomiglia affatto ad un mondo del caso, senza alcuna ragione d’essere. Un momento, però! Un esame più dettagliato della storia dell’universo mostra un quadro assai più strano e problematico. Noi comprendiamo una buona parte dei processi da cui si è evoluta questa ricca complessità. Ciascuno di essi sembra caratterizzato da un’interazione tra due opposte tendenze che si potrebbero chiamare, usando uno slogan: «caso e necessità». Ma queste sono parole sfuggenti, ed è meglio quindi che io spieghi quel che intendo con esse. Per «caso» intendo un evento casuale, il mondo in cui si dà il caso che le cose siano, il fatto che siano in questo modo piuttosto che in quell’altro. Con «necessità» voglio indicare la regolarità data dalle leggi che governano il modo in cui le cose si sviluppano. Un paio di esempi renderanno più chiari i concetti. Come abbiamo visto, l’universo primordiale non era completamente uniforme, v’erano delle increspature in cui si trovava un po’ più di materia che altrove. Queste fluttuazioni sono il caso, gli eventi casuali. Vengono accresciuti dalla necessità, il rispetto della legge della forza di gravità. Un po’ più di materia esercita una forza d’attrazione gravitazionale leggermente maggiore, che a sua volta attrae un po’ più di materia. È iniziato il processo di crescita a valanga con il quale, dopo circa un miliardo di anni, l’universo è diventato ricco di protuberanze fatte di galassie, e le galassie si sono riempite di grumi di stelle.
Più familiare è la storia dell’evoluzione biologica. Le mutazioni genetiche sono eventi casuali, che avvengono solo di tanto in tanto. Sorgono così, in questo modo, nuove forme di vita che vengono passate al setaccio e mantenute dalla selezione naturale in un ambiente ordinato. Se le informazioni genetiche fossero trasferite inalterate da una generazione all’altra non accadrebbe mai nulla di nuovo e, se la sua trasmissione non fosse ragionevolmente affidabile, non si perpetuerebbe mai nulla. Un mondo in grado di dare frutti non dev’essere né troppo rigido né troppo sciolto; ha bisogno di ambedue, del caso e della necessità. Il caso è il motore della novità. La necessità, invece, è quella che preserva la capacità di dare frutti. Tutto questo è evidente. E tuttavia, il ruolo del caso non è forse una smentita della pretesa teologica che la storia universale sia lo sviluppo di un disegno divino? I biologi, in particolare, sono stati propensi a questa interpretazione. A quanto sembra, sono meno impressionati (o perfino, forse, meno consapevoli) di quanto lo siano i loro colleghi fisici, dalle regole fondamentali della precisa messa a punto del gioco cosmico. Il biochimico francese Jacques Monod, vincitore del premio Nobel, in un libro famoso dal titolo II caso e la necessità (Milano, Mondadori, 1972), ha esaminato la storia dell’evoluzione e ha concluso che «alla fine l’uomo sa di essere solo nella disagevole immensità dell’universo, dal quale è emerso per caso». La storia dell’universo, per Monod, è un racconto narrato da un idiota. È solo il caso che la rende tale. È questo allora il modo in cui dobbiamo interpretarla? Io penso di no. Quel che la scienza ci dice sul mondo e sulla sua storia ci lega per quel che possiamo continuare a credere sui problemi che riguardano il significato più profondo e lo scopo dell’universo, ma, di per sé, non determina quali risposte si debbano dare a tali interrogativi. C’è spazio per manovre metafisiche, e il fatto che noi giungiamo o meno a conclusioni teistiche o atee, dipenderà da considerazioni di più ampio respiro. Nel capitolo precedente ho cercato di mostrare in qual modo la bellezza razionale e l’accurata messa a punto dell’universo potrebbero essere intese come argomenti a favore della fede in Dio, senza pretendere che questa fede debba essere la conseguenza necessaria del risultato positivo di una prova. Allo stesso modo, non credo che Monod, e coloro che lo seguono, come Richard Dawkins in The Blind Watchmaker (L’orologiaio cieco) (Longman, 1986), possano pretendere di aver dimostrato in modo conclusivo le proprie tesi atee. Alla fine, ciò che dobbiamo accertare è che cosa faccia più senso nel suo complesso. Consentitemi di esporre una interpretazione alternativa di quello che è stato il ruolo del caso e della necessità. Mi piacerebbe sostenere, rispettosamente, che quando Dio si trovò a creare il mondo, dovette affrontare un dilemma. Dio è fedele, ed il dono naturale del Dio fedele sarà l’affidabilità nel funzionamento della sua creazione. Di per sé, tuttavia, l’affidabilità potrebbe indurirsi in pura e semplice rigidità, producendo un mondo che funziona come un orologio, in cui non è mai avvenuto nulla di realmente nuovo. Ma Dio è anche amorevole, e il dono naturale del Dio che ama sarà un’indipendenza accordata alla propria creazione. Questa è una cosa che, in quanto genitori, conosciamo bene. Viene il momento in cui ad ogni bambino dev’essere dato il permesso di uscire, da solo, sulla propria bicicletta, nel mondo rischioso del traffico.
Il lasciar fare dei genitori è un dono indispensabile per dar luogo al processo di crescita. L’indipendenza, da sola, può però degenerare in mero arbitrio, dando luogo ad un mondo di caos tumultuoso. Io credo che Dio, il quale è tanto amorevole quanto fedele, ha fornito alla propria creazione i doni paralleli dell’indipendenza e dell’affidabilità. Queste trovano il loro riflesso nell’interazione fruttuosa del caso e della necessità, nell’evolversi della storia cosmica. Una concezione di questo tipo ci offre un’immagine molto più positiva del ruolo del caso. A Monod e Dawkins piace riferirsi al caso con l’aggettivo «cieco», che fa pensare a privo di scopo e di significato, ma noi non abbiamo bisogno di farci abbindolare dalla loro scelta delle parole, fatta in modo tendenzioso. Le operazioni di rimescolamento, dovute ad un evento casuale, sono un modo per esplorare e portare alla luce la profonda fruttuosità antropica di cui il mondo fisico è stato dotato. Arthur Peacocke, biochimico e pastore anglicano, in Creation and the World of Science (La creazione e il mondo della scienza) (OUP, 1979) definisce il caos come «il radar di ricerca di Dio, che perlustra da cima a fondo tutti i possibili obiettivi della sua indagine». Delle varie descrizioni della relazione che Dio ha con la creazione, ve ne sono due, estreme, che sono inaccettabili per la teologia cristiana. Una è l’immagine dell’universo come il teatro delle marionette di Dio, dove Egli tira ogni filo e fa sì che tutte le creature danzino soltanto sulla sua melodia. Il Dio d’amore non può essere un tiranno cosmico di questo genere, ma non può nemmeno essere uno spettatore indifferente, che abbia soltanto dato l’avvio al tutto e poi abbandonato l’universo a se stesso. Dobbiamo sforzarci di raggiungere un livello di comprensione che sia al centro fra questi due estremi. La storia del cosmo non è lo svolgimento di un inesorabile programma divino. Da un punto di vista teologico, un mondo prodotto dall’evoluzione dev’essere inteso come un mondo cui il Creatore ha concesso di farsi da sé in larga misura. E tuttavia questo farsi da sé si verifica in un insieme di potenzialità accuratamente regolate, e io credo che Dio interagisca con la sua storia in modo provvidenziale (questo è un argomento che riprenderò in un prossimo capitolo). In altre parole, la creazione non corrisponde a dare il via ad un qualcosa che è stato prodotto bell’e pronto; è piuttosto un processo continuo. Come ho detto innanzi, Dio è il Creatore oggi tanto quanto lo era quindici miliardi di anni fa. Di conseguenza, poiché la creazione continua fornisce, all’interno di questo processo, uno spazio per la libertà umana, ci saranno moltissime cose che nel corso della storia sono accadute «per caso». Io non credo che, fin da quando sono state poste le fondamenta del mondo, sia stato stabilito che gli esseri umani dovessero avere cinque dita – è andata semplicemente così – ma non credo affatto che esseri in grado di avere consapevolezza di sé e di rendere il culto a un Dio siano emersi nel corso della storia del cosmo per puro caso. In altre parole, c’è un disegno universale complessivo che viene rispettato in quel che avviene, ma i dettagli di ciò che accade realmente sono lasciati alle contingenze della storia (succede questo piuttosto che quello). Il quadro è quello di un mondo dotato della capacità di dare frutti, condotto dal proprio Creatore, ma al quale è concessa la capacità di essere fruttifero secondo le
proprie scelte particolari. Il caso è un segno di libertà, non di cieca insensatezza, di mancanza di uno scopo. Un universo con queste caratteristiche è vincolato ad essere un mondo dagli orli sfilacciati. Le esplorazioni, alla rinfusa, del caso portano al deterioramento così come alla fertile novità, ci conducono tanto in vicoli ciechi quanto su nuove strade che ci stanno dinanzi. È a questo punto che cominciamo ad avere un contatto con il grande punto interrogativo che pende su tutto ciò che è successo nella storia del mondo. Naturalmente mi riferisco al problema del male e della sofferenza, che non ha bisogno di molta elaborazione, dato che nessuno di noi vive senza avere a che fare con la sua natura sconvolgente. Ciascuno di noi conosce delle persone le cui vite sono state ridotte o interrotte bruscamente da una malasorte immeritata. Può un mondo in cui vi siano il cancro ed i campi di concentramento assomigliare veramente alla creazione di un Dio potente e amorevole? Io penso che questa sia la difficoltà che, più di ogni altra, trattiene la gente dal credere in Dio. E tuttavia, anche quelli di noi che mantengono questa fede sono nondimeno sempre consapevoli dei gravi problemi posti dall’amarezza dell’esperienza umana. Esistono realmente due problemi. Uno è quello normalmente definito il male morale, la scelta della crudeltà e l’abbandono dei metodi umani. Eppure, come può esistere un mondo in cui gli umani siano liberi di scegliere senza che alcune di queste scelte si rivolgano al male, anziché verso il bene? Noi non siamo degli automi perfettamente programmati, siamo degli esseri morali, con tutte le possibilità di immoralità che questo implica. Non vi è alcun dubbio che le nostre scelte siano spesso soggette alla pressione che esercita la nostra società, che ci spinge in direzioni malvagie. Mentre scrivo, in Bosnia è in atto un’angosciosa guerra civile. In questo conflitto, in parte a causa dell’odio personale, in parte per il coinvolgimento nella propria comunità, con il suo cumulo di ricordi dei conti in sospeso che derivano dai crimini commessi nel passato, degli atti di atrocità vengono perpetrati da individui appartenenti a ciascuna delle parti. Le scelte umane, individuali e collettive, sono fonte di molta sofferenza. Ciò nonostante, secondo i nostri istinti morali, gli esseri umani non possono essere trasformati in automi. Ci ripugnano i metodi coercitivi che possano prefiggersi un simile scopo (come imporre la castrazione ai recidivi di crimini sessuali). I filosofi chiamano questa intuizione: «la difesa del libero arbitrio», intendendo che il prezzo che bisogna pagare per quel sommo bene che è la libertà umana, è accettare la possibilità della malvagità morale. Anche se potete trovarvi d’accordo su questo, rimane il secondo problema che riguarda il male fisico, le malattie e le calamità, che sono il nostro comune destino. Alcuni degli effetti di questo tipo di male possono essere inaspriti dall’errore umano – come quando contaminiamo senza alcun riguardo l’ambiente con agenti cancerogeni, o costruiamo scuole sulle faglie sismiche perché il terreno è più economico – ma, in questo caso, la responsabilità principale non è nostra. Detto in modo un po’ brusco, la responsabilità del male fisico è senza dubbio di competenza di Dio. Egli ha creato il mondo così com’è. Che cosa si può dire in sua difesa? Noi abbiamo la tendenza a credere che, se ne avessimo avuto la responsabilità, la creazione l’avremmo fatta meglio. Con un po’ più di cura per i dettagli, avremmo
mantenuto la bellezza dei tramonti, ma avremmo eliminato germi come gli stafilococchi. Eppure, più comprendiamo i processi della natura, meno verosimile appare il fatto che questo sia possibile. L’ordine creato ha l’aspetto di un «pacchetto» tutto compreso6. Esattamente gli stessi processi biologici che consentono alle cellule di modificarsi, rendendo possibile l’evoluzione, sono quelli che mettono anche in grado le cellule di diventare cancerose e generare tumori. Non si possono avere le une senza le altre. In altre parole, l’eventualità di ammalarsi non è ingiustificata, è il prezzo necessario della vita. Così devono andare le cose, se l’universo dev’essere ordinato. Dio potrebbe, ovviamente, aver creato un mondo magico in cui intervenire ogni volta che una cellula sia sul punto di diventare maligna, o le nostre mani si stiano avvicinando troppo al fuoco pericoloso. Non vi è alcun dubbio che questa scelta non era al di là del potere di Dio, ma credo che questo sarebbe stato contrario al suo carattere. E’ importante capire cosa intendiamo quando chiamiamo Dio «onnipotente». Non vogliamo soltanto dire che egli può fare qualsiasi cosa gli piaccia, come se intendessimo con questo una qualche specie di comportamento bizzarro. Ciò che veramente a lui piace si concilia con il tipo di essere che Egli è. Il Dio razionale darà vita ad un universo razionale; non ha creato un mondo magico perché non è un mago. Un tale mondo non sarebbe potuto essere la casa di individui moralmente responsabili, poiché in un mondo del genere non ci sarebbero vere conseguenze delle nostre azioni. Non avrei bisogno di preoccuparmi che sia stata fatta una revisione accurata sull’aereo sul quale state per partire, o di dovermi prendere cura di voi quando siete malati. Anche se mi sottraggo a queste responsabilità, che importa? Qualunque cosa possa accadere, Dio rimetterà tutto a posto. Inoltre, un mondo in cui Dio intervenisse del continuo in questo modo magico non sarebbe una creazione cui egli continuerebbe a concedere in tutta libertà di essere se stessa. Austin Farrer, un teologo di Oxford, si chiese qual era la volontà di Dio nel terremoto di Lisbona. Questo disastro terribile ebbe luogo il giorno di Ognissanti del 1755. Le chiese erano piene e crollarono tutte, uccidendo cinquantamila persone. Era un esempio molto amaro di male naturale. La risposta di Farrer fu dura, ma schietta. La volontà di Dio era che gli elementi della crosta terrestre debbano comportarsi secondo la propria natura. In altre parole, ad essi è permesso di essere a modo loro, proprio come a noi è concesso di essere a modo nostro. Ho definito questo modo di comprendere la realtà: «difesa del libero processo», che ha con il male naturale la stessa relazione che ha la difesa del libero arbitrio con il male morale. «Un momento però! – vi sento dire – ci può essere qualcosa di moralmente valido nel concedere la libertà agli esseri umani, ma a che serve fare lo stesso per le falde tettoniche? Infatti, non è forse solamente un abuso del linguaggio indicare con una parola come “liberi” quegli oggetti inanimati?». Capisco dove volete arrivare, ma ho il sospetto, ancora una volta, che le cose non si possano separare l’una dall’altra in un modo così netto. Vedete, nella rappresentazione cosmica, noi siamo dei personaggi che sono emersi dalla scena. Esseri animati si sono evoluti da materia inanimata, e la nostra natura è legata a quella del mondo fisico, che ci ha dato la luce. Ancora una volta, ho il sospetto che si tratti di un «pacchetto» da prendere o
lasciare. Ci si può attendere che solo un universo al quale sia applicato il libero processo di difesa possa far sorgere esseri ai quali si applichi la difesa del libero arbitrio. Non credo che Dio voglia direttamente l’azione di un omicida, né l’insorgere di un cancro. Credo che permetta ad entrambi di verificarsi in una creazione alla quale egli ha dato il dono di essere se stessa. Se queste idee sono corrette, ci mostrano che la sofferenza ed il male del mondo non sono dovuti a debolezza, svista o insensibilità da parte di Dio, ma rappresentano piuttosto il costo ineludibile di una creazione cui è stato concesso di essere altra da Dio, liberata dallo stretto controllo divino, e a cui è permesso di essere se stessa. Tuttavia, il mistero della sofferenza rimane. Quando una giovane madre viene colpita da una malattia mortale, questo non può certo essere interpretato come un’orribile forma di punizione divina, o una conseguenza dell’indifferenza divina, ma la tragedia di questo caso non può essere eliminata osservando semplicemente che l’eventualità del cancro è il prezzo necessario da pagare per lo sviluppo di una nuova vita. Rimane un problema profondo, che va oltre la portata del solo argomento intellettuale. Una delle ragioni principali del mio essere cristiano è che il cristianesimo affronta il problema della sofferenza al livello più profondo possibile. Il Dio cristiano non è soltanto uno spettatore compassionevole, che getta uno sguardo pietoso verso l’amara sofferenza dello strano mondo che ha creato. Noi crediamo che Egli sia stato un compagno partecipe della sofferenza del mondo, che la conosca dall’interno e non che ne abbia solo pietà dall’esterno. Questo è uno dei significati della croce di Cristo. I cristiani credono che Dio abbia condiviso la nostra sorte vivendo un’autentica esperienza umana in Gesù Cristo. Questa è un’affermazione straordinaria ed emozionante: significa che Dio ha agito in modo da rendersi conoscibile a noi nei termini più chiari possibili, vale a dire per mezzo di una vita ed una morte umane. E’ altresì un’affermazione profondamente misteriosa. Altrove (ad esempio in The Way the World is, Il modo in cui è il mondo) ho cercato di spiegare perché sono convinto che questo sia vero. Non ripeterò qui la discussione, ma, per il momento, notate soltanto che, dai primissimi documenti del Nuovo Testamento in poi, i cristiani non sono mai stati in grado di esprimere la loro esperienza di Gesù Cristo senza sentire la necessità di usare sia il linguaggio divino sia quello umano, per quanto potesse risultare difficile comprenderne la commistione. È un po’ come nel caso citato prima dei fisici con la luce: essi sapevano che per essa dovevano usare sia il linguaggio delle onde sia quello delle particelle molto prima che venissero a conoscenza di come i due linguaggi potessero essere conciliati. Alle volte con l’intelletto ci possiamo aggrappare solo per il rotto della cuffia al modo curioso in cui la realtà ci si rivela. Se questa concezione di Gesù è vera, allora, in quella figura solitaria pendente dalla croce, vediamo Dio stesso che accetta la sofferenza e apre le sue braccia per stringere a sé l’amarezza del mondo. Egli non è al di sopra di noi nel nostro tormento, ma accanto a noi nelle tenebre del mondo. In un campo di concentramento della seconda guerra mondiale, un giovane ragazzo ebreo si contorceva morente, appeso ad un cappio della Gestapo. Dalla folla dei suoi compagni ebrei, costretti ad essere
testimoni dell’esecuzione, salì l’urlo: «Dov’è Dio adesso?». Uno di loro racconta che sentì dentro di sé la risposta: «Egli è qui, appeso al cappio». Questa percezione di Dio come il compagno di sventura, che i cristiani credono sia stata storicamente rappresentata nella croce di Gesù Cristo, affronta il problema della sofferenza al livello più profondo possibile. C’è un’altra cosa da dire. Abbiamo ragionato sul male e sulla sofferenza; dovremmo anche riflettere sulla speranza. Nonostante una così gran parte dell’esperienza umana sia avvolta dalle tenebre, in noi v’è anche l’intuizione, radicata in profondità, che tutto alla fine andrà bene. Quando di notte una madre consola un bambino impaurito con le parole: «Va tutto bene», non crediamo che stia pronunciando un’amorevole bugia. Sappiamo piuttosto che, per la crescita umana e lo sviluppo del bambino, questa rassicurazione è fondamentale. Io credo che sia così perché ciò rappresenta una percezione veritiera di come stiano le cose. Nonostante tutte le apparenze contrarie, la realtà è dalla nostra parte. Non siamo «soli in un universo crudele»; il mondo è la nostra casa. Al di là della fecondità e delle futilità della storia cosmica, non vedo come questo potrebbe avvenire se non vi fosse la volontà ed il disegno misericordiosi del Dio dall’amore tenace. Concludendo, forse sarebbe meglio che dicessi qualcosa su come i primi due capitoli della Genesi si armonizzano con quello che ho detto. Per me la Bibbia è molto importante, e ho per essa la massima considerazione; parte di questa consiste nel cercare di capire esattamente quel che sto leggendo. Vedete, la Bibbia non è un libro, è una biblioteca. In questa biblioteca potete trovare scritti di ogni sorta: poesia e prosa, storia e racconti, leggi, lettere e così via. È un grosso errore leggere la poesia come se fosse prosa. Quando Robert Burns dice che il suo amore è come una rossa, rossa rosa, non vuol dire che è innamorato di Ena Harkness, o che la sua ragazza ha foglie verdi e spine. E’ un grosso errore leggere Genesi 1 e 2 come se fossero un testo scientifico garantito dalla divinità. In realtà, sono qualcosa di ben più interessante di questo: sono uno scritto teologico, ed il loro scopo principale è di affermare che tutto ciò che esiste, esiste per volontà di Dio (Dio disse: «che ci sia…»). I primi cristiani lo sapevano molto bene, ed è stato solo nel basso Medioevo ed ai tempi della Riforma che si cominciò ad insistere per un’interpretazione letterale. Quando la scienza rese questa interpretazione insostenibile, Genesi 1 e 2 furono resi nuovamente liberi di giocare il ruolo teologico che gli spetta. In realtà, Dio non ha creato un mondo bell’e pronto. Ha fatto qualcosa di molto più intelligente di questo: ha creato un mondo capace di farsi da sé. 4 CHI SIAMO NOI? Quando iniziai a fare ricerca nel campo della fisica teorica, molti anni fa, credevamo che la materia fosse fatta di atomi composti di elettroni in rotazione attorno ad un nucleo, e che il nucleo stesso fosse composto di particelle chiamate
protoni e neutroni. Nel corso dei miei venticinque anni di lavoro, all’incirca, nel settore, abbiamo imparato che protoni e neutroni sono a loro volta composti di particelle ancora più piccole: i famosi quark e le particelle che li tengono uniti insieme, che sono chiamate (povero me!) gluoni7. Questo è tipico del modo in cui procede la fisica: smonta le cose in pezzetti sempre più piccoli. Per questa via abbiamo imparato ogni sorta di cose interessanti e degne di essere conosciute. La domanda è se questo sia o no l’unico modo di apprendere quale sia la reale natura delle cose. In definitiva, siamo soltanto degli insiemi immensamente complicati di quark, gluoni ed elettroni? Le persone che rispondono: «Sì» a quest’ultima domanda sono chiamate riduzioniste. Secondo il loro punto di vista, l’intera realtà si riduce semplicemente ad una raccolta di parti. Alle volte sono anche dette «nient’altro che-isti»8, poiché credono che noi siamo «niente altro che» insiemi di particelle elementari. Quelli di noi che non condividono questa visione sono chiamati antiriduzionisti e credono che «di più è differente», che il tutto è qualcosa di più della semplice somma delle sue parti. Se siete un riduzionista, la fisica è la disciplina fondamentale ed il resto – biologia, antropologia, e via di seguito – sono sue conseguenze (molto complicate). Se siete un antiriduzionista, avete una visione della realtà molto più ampia e credete, per esempio, che la biologia non sarà mai soltanto una fisica complicata. Ciò non significa pensare che, per portare avanti la vita, si debba aggiungere alla materia comune un qualche genere d’ingrediente magico. Una concezione del genere è chiamata «vitalismo», e più si conosce la biochimica della vita, più sembra improbabile che sia vera. Una ragione importante a sostegno di quest’ipotesi, è l’apparente esistenza di una vicenda ininterrotta, che va dalla ricchezza chimica delle pozze poco profonde della terra primordiale ai primi sistemi elementari viventi e riproducentisi, fino ad arrivare, attraverso l’evoluzione biologica, a voi e me. Non siamo certamente in grado di capire tutti i passaggi di questa storia feconda. In particolare, a tutt’oggi, non sono noti i sentieri biochimici attraverso i quali la vita ha cominciato a mettersi in moto, ma si può tranquillamente scommettere che sia stato un processo senza soluzione di continuità, che in futuro possiamo sperare di comprendere. Se questo è esatto, la novità che rende «più differente» non nasce dall’immissione di qualcosa d’aggiuntivo dal di fuori, ma dagli effetti di maggiore complessità sull’interno. In altre parole, mentre i sistemi diventano sempre più complicati, emergono proprietà completamente nuove, che potrebbero essere prive di significato considerando le semplici parti isolatamente. A questo proposito, un esempio molto 2 semplice è l’umidità dell’acqua. Poche molecole di H 0 di per sé non sono umide, ma, se mettete assieme miliardi di quelle molecole, queste interagiscono l’una con l’altra in modo tale da produrre un’energia alla superficie dell’insieme che i fisici chiamano tensione di superficie e che noi avvertiamo come umidità. È relativamente semplice capire a grandi linee (anche se è difficile descriverlo in dettaglio) come si possa manifestare una proprietà del genere come l’umidità. È un effetto collettivo di tutte le molecole d’acqua nel loro insieme. L’umidità è una
proprietà energetica e, poiché tutte le molecole posseggono una certa energia, possiamo attenderci che il modo in cui se la ripartiscono cambi quando sono messe insieme. L’energia viene distribuita tra loro in un modo nuovo. Non c’è nulla di molto profondo nell’apparizione dell’umidità. Molto più profonda è la manifestazione di una proprietà come la consapevolezza. Questo è, in effetti, il fatto più sorprendente e significativo che si è verificato nell’intera storia dell’universo. Un mondo che un tempo era soltanto una sfera di energia in espansione è divenuto consapevole di se stesso, a tal punto che, per mezzo nostro, l’universo sa di essere stato in passato una sfera di energia in espansione. La consapevolezza è sicuramente qualcosa di più di un effetto di certi campioni d’energia. C’è qui qualcosa che è infinitamente molto più misteriosa della pura e semplice umidità. Non credo che i notevoli progressi della neurofisiologia (lo studio dei processi biochimici del cervello), o quelli dell’intelligenza artificiale (la realizzazione di computer in grado di elaborare enormi quantità di informazioni) abbiano cominciato a risolvere questo mistero. Per quanto questi sviluppi siano stati impressionanti, non hanno neanche iniziato ad intaccare il mistero della consapevolezza. Tra una conversazione fra reti neurali che avviene all’interno del cervello (per quanto sofisticato possa essere questo colloquio), e la più elementare esperienza mentale di percezione, come, ad esempio, quella di una macchia rosa, c’è un vuoto abissale. L’essenza della coscienza è la consapevolezza. Riterremmo immorale staccare la spina di un computer dalla presa di corrente solo se pensassimo che è cosciente. Non dobbiamo essere fuorviati dalle affermazioni, trionfalistiche e campate in aria, dei riduzionisti quando sostengono che l’antichissimo problema della mente e del cervello stia per essere risolto. Naturalmente, tra i due c’è un’intima connessione. Se ci diamo una secca martellata sulla testa, l’effetto che ha quest’atto sui nostri processi mentali ci consentirà di verificare il concetto abbastanza rapidamente. Nondimeno, il pensiero è ancora diverso dall’eccitare complicati schemi di neuroni; la mente non si riduce soltanto a «ciò che fa il cervello» in termini fisici semplicistici. L’emergere della consapevolezza è qualcosa di più radicalmente originale di quanto possa essere spiegato esclusivamente in termini di energia. Sono convinto che siamo distanti molti secoli dal comprendere che cosa avviene realmente, in continuazione, nella nostra esperienza cosciente. È collegato con quel che avviene nei nostri crani, ma non s’identifica del tutto con la nostra attività neurale. Certo non mi rallegro della nostra attuale ignoranza su questi argomenti, ma l’onestà c’impone di riconoscerla. Eppure, nonostante la nostra cecità intellettuale, appaiono uno o due esilissimi barlumi di luce. Ce li fornisce l’intuizione della scienza del XX secolo che il mondo fisico, primo, non è meccanico e, secondo, è interconnesso. Ambedue queste proprietà si sono manifestate a livello subatomico, dove i processi sono in modo naturale meccanico-quantistici, ed anche a livello quotidiano, dove i processi corrispondono molto di più al modo in cui li aveva descritti Newton, ma sono più interessanti di quanto egli stesso si fosse reso conto. La meccanica quantistica è famosa per la sua irregolarità. Non possiamo dire con esattezza quale sarà il risultato di un evento quantistico. Se cerchiamo un elettrone,
potremmo trovarlo «qui» oppure potremmo trovarlo «là». Possiamo attribuire dei gradi di probabilità a queste scoperte – in modo tale, forse, da predire che il più delle volte la nostra ricerca lo troverà «qui» – ma non siamo in grado di dire dove si situerà realmente in ogni singola occasione in cui cercheremo di scovarlo. Una tale casualità, così radicale, rende il mondo quantistico imprevedibile e non meccanico. Eppure, quando sommiamo insieme i comportamenti di un gran numero di particelle quantistiche (come dobbiamo fare persino per un piccolissimo pezzo di materia), queste variazioni e incertezze tendono ad annullarsi reciprocamente, dando luogo ad uno schema estremamente affidabile di comportamento complessivo. È un po’ come l’assicurazione sulla vita. Le agenzie che emettono la polizza non sanno quando avverrà il vostro decesso; conoscono esclusivamente, in base alle statistiche, la probabilità di morte di qualcuno della vostra età nel corso degli anni che seguiranno. Questo è sufficiente a garantire un guadagno alle agenzie assicurative, purché riscuotano i premi da un numero sufficiente di persone. Quali che siano le singole fluttuazioni, l’andamento di un gruppo sufficientemente vasto sarà ancora abbastanza prevedibile. Per il nostro scopo attuale è più interessante un’altra, meno nota, proprietà della teoria quantistica. Una volta che due elettroni (o qualunque altra coppia di particelle quantistiche) abbiano interagito vicendevolmente, per quanto successivamente possano distanziarsi tra di loro, hanno il potere di influenzarsi l’un l’altro. Se un elettrone si trova qui attorno, nel laboratorio, e l’altro è (come si usa dire) «al di là della luna», allora qualunque cosa che io faccia all’elettrone che è qui avrà un effetto immediato sul suo compagno lontano. In altre parole, incorporata nella struttura del mondo quantistico c’è una «solidarietà nella separazione» decisamente sorprendente. Einstein fu uno dei primi a rendersene conto, e gli sembrò talmente assurda che lo indusse a pensare che ci fosse qualcosa di sbagliato nella teoria quantistica (benché Einstein sia stato in un certo senso un nonno della meccanica quantistica, i suoi sviluppi successivi non gli piacquero e cercò sempre di screditarla). Tuttavia, circa dieci anni fa, alcuni scienziati francesi hanno effettuato degli esperimenti molto abili e hanno dimostrato che questa strana «solidarietà» si verifica realmente (ovviamente, non hanno spedito un elettrone oltre la luna ma hanno trovato il modo di verificare la teoria in un modo meno sensazionale). Nel nostro ambiente chiamiamo questo effetto: «l’esperimento EPR», dato che fu Einstein che concepì l’esperimento originale con due giovani collaboratori, Boris Podolsky e Nathan Rosen. Per maggiori particolari, si veda il capitolo 7 del mio The Quantum World (Il mondo dei quanti). Qui sta avvenendo qualcosa di molto significativo. I fisici delle particelle elementari cercano di smontare le cose, ma la realtà fisica contrattacca, o così almeno sembra. L’esperimento EPR dimostra che il mondo subatomico non può essere trattato da un punto di vista atomistico. C’è una interconnessione intrinseca che non si può spezzare. Gli studiosi stanno ancora cercando di analizzare tutte le implicazioni di questa stupefacente scoperta. Con alcune differenze, il mondo quotidiano della nostra esperienza fisica diretta, su larga scala, presenta delle caratteristiche simili. Il suo comportamento è descritto
dalle leggi che Newton scoprì più di 300 anni fa. In questo secolo ci siamo resi conto che queste leggi, che pensavamo di conoscere piuttosto bene, hanno invece delle conseguenze che nessuno aveva previsto. Come la maggior parte dei fisici, ho imparato la meccanica classica (così si chiama questa branca della fisica) studiando sistemi poco complessi, come un pendolo oscillante in maniera regolare. Una cosa del genere è abbastanza robusta: intendo dire con questo che, se disturbato leggermente, il pendolo modificherà solo di poco il suo modo di oscillare. Un sistema di questo tipo è docile, cioè controllabile e prevedibile; in altre parole è meccanico. Una volta pensavamo che tutto il mondo quotidiano fosse simile a questo. Adesso sappiamo che era un errore. Il mondo in cui viviamo tutti i giorni ha, sì, degli orologi al suo interno, ma è soprattutto formato da nuvole. Con ciò voglio dire che la maggior parte dei sistemi sono così delicatamente sensibili alle circostanze in cui si trovano, che la più leggera perturbazione farà sì che si comportino in maniera del tutto differente. Questa scoperta sorprendente è chiamata talvolta: «l’effetto farfalla». Non sarete stupefatti di sapere che uno dei primissimi esempi di questo comportamento venne alla luce nel tentativo di studiare i sistemi atmosferici terrestri. Questi sono talmente sensibili che basta una farfalla che oggi, con le sue ali, smuova l’aria nella giungla africana, perché, nel giro di tre o quattro settimane, si verifichino delle conseguenze per i temporali di Londra. Poiché non possiamo sapere tutto di queste farfalle africane, posso dire con sicurezza che previsioni del tempo particolareggiate e a lungo termine non saranno mai in grado di funzionare! Nel prossimo capitolo mi soffermerò un po’ di più su quale significato si debba attribuire a queste scoperte, ma per il momento accontentiamoci di registrare due conseguenze immediate. Questi sistemi così delicatamente sensibili sono, nel proprio comportamento, intrinsecamente imprevedibili e non meccanici. Allo stesso tempo, non possono essere mai realmente separati dal loro ambiente, poiché sono vulnerabili ai cambiamenti apportati dalle più piccole variazioni nelle loro condizioni. Ancora una volta, si può dimostrare che il programma riduzionista di scindere il mondo in mucchi di piccoli pezzi separati non funziona. Queste percezioni sono soltanto dei barlumi nelle tenebre dell’ignoranza su quel che siamo realmente, ma certamente non incoraggiano alcuna forma rozza di pensiero tipo il «nient’altro che-ismo» (nothing buttery). La realtà si forma dalle relazioni. Gli insiemi hanno un significato che va ben oltre quello dei singoli pezzi che li compongono. Eppure, il mondo è pieno di scienziati che vanno in giro a fare affermazioni grossolanamente improbabili come quella che gli esseri umani sono «macchine genetiche di sopravvivenza», o «computer fatti di carne». Le intuizioni che hanno raggiunto mediante le loro discipline specifiche – e che possono avere un proprio ruolo legittimo come vedute parziali nei nostri tentativi di conoscere la realtà nella sua interezza – sono gonfiate fino a farle diventare regole grossolane ed improbabili, valide in ogni caso. Sono soprattutto i biologi e gli scienziati della conoscenza a fare affermazioni del genere. Perché lo fanno? Ebbene, li abbiamo già incontrati, ma l’ultima volta si trattava dei fisici, nella seconda metà del XVIII secolo, che si comportavano da «nient’altro che-isti». Le grandi scoperte di Newton erano state utilizzate e sfruttate. Il mondo fisico (col quale
s’intendeva sostanzialmente il sistema solare, composto dal Sole e dai suoi pianeti orbitanti) appariva ai suoi discepoli un pezzo gigantesco di un meccanismo ad orologeria, cosa che non era mai stata sostenuta dallo stesso Newton. Così, ogni cosa doveva essere un meccanismo d’orologeria… Si scrivevano libri dai titoli come Man the Machine (L’uomo: la macchina). Poiché il mondo newtoniano contiene in sé molte più nuvole che orologi, abbiamo già visto di che razza d’errore si trattasse. Eppure, nonostante questo, essendo molto più facili da capire di quelle nuvole così delicatamente sensibili, sono gli orologi ad essere compresi per primi. La tentazione era, quindi, di fare di queste prime scoperte meccanicistiche uno schema valido per tutta la conoscenza. Penso che, nella seconda metà del XX secolo, sia avvenuta press’ a poco la stessa cosa con la biologia. Ha segnato il suo primo grande, sbalorditivo successo quantitativo scoprendo la base molecolare della genetica. I biologi se ne sentono, giustamente, piuttosto compiaciuti. Tuttavia, è anche richiesto un certo grado di sobrietà e di cautela. La struttura del DNA, e la trasmissione di informazioni genetiche, è essenzialmente un problema meccanico (per questo motivo Crick e Watson hanno potuto costruire il loro famoso modello della doppia elica usando dei pezzetti di metallo). Da ciò però non segue che tutti gli aspetti della vita siano meccanici, o che la biologia sia soltanto una pura e semplice fisica su larga scala. Noi non comprendiamo quel che siamo, ma dovremmo respingere fermamente ogni valutazione che, impoverendo la natura umana, neghi o banalizzi l’esperienza umana, che rimane invece fondamentale. Siamo, ovviamente, parte del mondo fisico e quindi gli scienziati, con la loro accentuazione del ripetibile e del misurabile, hanno qualcosa da dirci su quel che siamo; dobbiamo però anche prestare attenzione agli artisti, poiché il fatto che il mondo sia portatore di bellezza è di certo profondamente significativo. Non penso che la nostra esperienza estetica sia solo un prodotto emotivo collaterale de «l’insieme delle connessioni elettriche» del nostro cervello. Non è semplicemente un fenomeno peculiare degli esseri umani di mera origine accidentale. L’arte è piuttosto una finestra sulla realtà, che fornisce la propria rappresentazione vitale dell’essenza delle cose. Dobbiamo prestare attenzione anche agli scrittori. Quando sono particolarmente profondi, ci ritraggono un mondo come arena della scelta morale e della responsabilità. Certamente, mi rendo conto che nei sistemi etici sono contenuti elementi culturali, ma non posso credere che la mia convinzione che torturare i bambini è sbagliato sia solo un accordo convenzionale della mia società, affinché si vedano le cose in questo modo. Io credo di sapere – e se c’è una cosa di cui sono sicuro è proprio questa – che l’amore è meglio dell’odio, che la verità è meglio della menzogna. Dobbiamo prestare attenzione anche ai santi ed ai mistici. La moderna incredulità occidentale è una bizzarria storica e geografica. In ogni parte del mondo, ed in ogni periodo storico, è presente l’impressionante testimonianza umana di incontri con una Realtà, che è allo stesso tempo al di là di noi e tuttavia più vicina di quanto non lo sia il respiro, quella di Colui che va incontro all’umanità con giudizio e misericordia.
I riduzionisti cercheranno di dare spiegazioni che eliminino questi aspetti non scientifici dell’esperienza umana. Per loro non c’è posto nel mondo freddo, duro, privo di vita della visione riduzionista. Per quest’ultima, la musica, in realtà, è soltanto una serie di vibrazioni nell’aria; la Monna Lisa di Leonardo è in realtà solo un insieme di granelli di pittura dalla composizione chimica nota. I proponimenti etici e le prescrizioni religiose sono solo strategie per la sopravvivenza, programmate in noi da geni egoisti. È difficile esagerare nel dichiarare quanto questa visione della realtà sia poco plausibile. Tutto quello che c’è di più profondo, tutto ciò che rende la vita umana degna di essere vissuta, è svalutato e scartato, sacrificato ad un ingiustificato imperialismo scientifico. Il personale è trattato come pura e semplice schiuma sulla superficie della materia. Persino l’esperienza della meraviglia, così fondamentale nella vita scientifica, non troverà spazio in questa vicenda desolata. II mondo in cui viviamo nella realtà è più volte stratificato nella ricchezza della sua realtà. Una delle attrattive di una valutazione religiosa è di rendere più intelligibile questa ricchezza osservando la volontà e la natura del Creatore che sorregge ed unifica le varietà dell’esperienza umana. Le nostre esplorazioni scientifiche sono percezioni dell’ordine razionale di cui Dio ha dotato il suo universo. Le sensazioni di bellezza che sperimentiamo sono una condivisione della sua gioia nella creazione. Le nostre prescrizioni morali sono intuizioni della sua buona e perfetta volontà. Le nostre esperienze religiose sono incontri con la sua presenza nascosta. Una concezione del genere è completa e soddisfacente: ha il suono della verità. Chi siamo noi? Siamo creature di Dio. 5 UNO SCIENZIATO PUÒ PREGARE? Suppongo che dipenda un po’ da che cosa s’intenda con pregare. Abitualmente gli scienziati sperimentano la meraviglia di fronte alla bellezza del mondo fisico, e questa è un tipo di preghiera, che ne siano coscienti o no. Eppure, quando qualcuno pone la domanda che dà il titolo a questo capitolo, la prima preghiera che viene in mente alla maggior parte di noi è quella di petizione (che chiede qualcosa a Dio). Nel Nuovo Testamento siamo incoraggiati a «rendere note le nostre richieste a Dio». Gesù dice qualcosa di analogo: «Chiedete e vi sarà dato». La preghiera è un’attività umana molto naturale. Devono essere poche le persone che non hanno mai formulato una richiesta. Personalmente sono divenuto cosciente della necessità di pregare, più intensamente di quanto lo fossi mai stato, quando ho iniziato a fare visite in ospedale. I pazienti che andavo a visitare erano tutti gravemente ammalati, ed alcuni sembravano vicini alla morte. Era impossibile non pregare per loro. Non è che, con questo, mi aspettassi che a ciascuno sarebbe stato accordato un miracolo immediato, ma era un modo, piuttosto, di condividere la loro esperienza e di cercare, in quello che stava avvenendo, la grazia e la presenza di Dio per loro, che possono apportare sia la guarigione, sia l’accettazione della morte.
Ho imparato che questa forma di preghiera è veramente efficace quando io stesso mi sono ammalato seriamente. Costretto nel mio letto d’ospedale, con le flebo che mi alimentavano, la mia vita era fortemente ridotta. Sentivo come se Dio fosse ad una distanza quasi infinita, ma ero estremamente consapevole e molto sostenuto dalle preghiere di coloro che sapevo mi avrebbero ricordato. Quando non ero in grado di pregare molto, le loro preghiere hanno fatto per me qualcosa di reale. Eppure, in ultima analisi, tutto questo non era soltanto un po’ di conforto psicologico? Possiamo noi, oggi, realmente pregare Dio per chiedergli delle cose? Potremmo pregare durante una siccità perché il tempo cambi? Questo poteva avere senso quando la gente credeva che la pioggia scendesse solo quando veniva aperto il rubinetto del cielo. Adesso siamo un po’ più sofisticati. Non è forse vero che il tempo atmosferico, semplicemente, accade? La scienza non ha forse dimostrato che il mondo è talmente ordinato e regolare che a Dio non è rimasto spazio per fare alcunché di particolare? Tre argomenti – uno scientifico, uno umano, uno religioso – dovrebbero farci sostare per riflettere prima di liquidare così frettolosamente tale questione. Prima quello scientifico. Se il mondo fosse meccanizzato, una specie di gigantesco meccanismo ad orologeria, dove Dio è il grande orologiaio invisibile, senza dubbio, tutta la realtà sarebbe soltanto un ticchettio continuo e dovremmo sperare che egli l’abbia caricato così bene che le cose non ne escano troppo male. Eppure, l’ultimo capitolo ci ha mostrato che la scienza moderna non descrive affatto il mondo in questa maniera. E’ molto più astruso e, forse, anche più duttile di così. Il tempo è incredibilmente complicato, in modo tale che rende impossibile prevedere esattamente se pioverà o no il prossimo sabato. Ricordate tutte quelle farfalle africane? I più piccoli stimoli possono produrre i più vasti effetti finali. In secondo luogo, poiché abbiamo sempre saputo – e questa è una cosa di cui siamo certi – che noi non siamo automi, non abbiamo veramente bisogno che sia la scienza moderna a dirci che non tutto è meccanico. So che alcuni filosofi lo negano, ma l’esperienza della scelta concreta – e quindi della responsabilità effettiva – è basilare per gli essere umani. Inoltre, siamo anche noi parte del mondo fisico. Ciò significa che i processi che regolano il mondo non possono essere intesi come un lavoro a maglia così fitta da non lasciarci uno spazio di manovra al loro interno. E se noi possiamo agire in un mondo sufficientemente aperto al futuro perché questo sia possibile, non può darsi il caso che anche Dio possa agire in esso? L’ultimo punto è religioso. Il cristianesimo, il giudaismo e l’islamismo parlano di Dio in termini personali. Ora, siamo coscienti del fatto che quando noi, esseri umani finiti, parliamo del Dio infinito, la nostra comprensione e il nostro linguaggio non sono proprio adeguati a questo compito. Le nostre parole devono essere in qualche modo stiracchiate, persino per iniziare ad affrontare l’argomento. Ciò nonostante, è il linguaggio dell’individuo quello che sembra meno inadeguato a questo scopo. Dio è pensato come «Padre», non come «Forza»; il che, ovviamente, non significa che egli sia un anziano gentiluomo con una lunga barba bianca, lassù, sopra il brillante cielo blu. Nessuno lo pensa. Mi sembra che significhi, però, che Dio è qualcuno che si
prende cura, che ha un interesse personale ed individuale per le sue creature. Come potrebbe Dio essere Padre in tal modo se non fosse in grado di agire in modo speciale in occasioni particolari, in circostanze particolari? Non è solo il Dio del grande spettacolo globale, è anche il Dio di Abramo, d’Isacco e di Giacobbe, il vostro, ed il mio. Un tale Dio dev’essere in grado di compiere azioni specifiche. Le leggi della natura (che, dopotutto, in se stesse non sono altro che l’espressione universale della volontà del Creatore fedele) non possono essere tali da impedirgli di interagire con la propria creazione. Abbiamo quindi una forte motivazione per cercare di comprendere in che modo, noi e Dio, abbiamo entrambi la capacità di operare nel mondo. Devo ammettere di averne una comprensione limitata: non sappiamo in che modo i nostri atti mentali di volere che le nostre braccia si alzino producano le azioni fisiche del loro alzarsi. Non sappiamo come la mente e il cervello siano tra loro correlati. Siamo ignoranti, e dobbiamo quindi fare delle congetture; ma penso che, nel fare questo, ci accorgeremo di due cose. La prima è che possiamo fare un qualche tipo di congettura sul come le azioni abbiano luogo; l’altra è che il tipo di supposizione che può funzionare per gli atti umani sarà anche un utile indizio sul come pensare alle azioni divine. La chiave di tutto ciò – credo – sta nella delicata sensibilità che una così gran parte del mondo fisico quotidiano possiede. Detto in altri termini, non siamo orologi perché ci sono così tante nuvole attorno a noi. Questa sensibilità è un punto talmente fondamentale che è venuto il momento di darne un esempio. Prendiamo in considerazione l’aria che ci circonda. Come sapete, è composta di una miriade di piccole molecole, che sfrecciano via e si urtano le une con le altre. In effetti, in un decimillesimo di milionesimo di secondo (un tempo decisamente breve) ciascuna molecola ha avuto una cinquantina di collisioni con le sue vicine. Ora, anche se le molecole non sono perfettamente simili a delle palline sferiche da biliardo, esse si urtano in un modo che è esattamente identico a quello delle palle da biliardo. Di conseguenza, per descrivere la situazione, possiamo seguire l’esempio delle palle da biliardo. Poniamo ora la seguente domanda. Con quanta precisione dobbiamo conoscere la situazione iniziale per poter essere in grado di prevedere come si muoverà una di queste molecole un decimillesimo di milionesimo di secondo più tardi, dopo le sue cinquanta collisioni? L’impatto tra due palle da biliardo è un problema che ha risolto lo stesso Newton. A condizione che noi sappiamo esattamente come le due palle sono venute in collisione, egli ci fornisce una risposta molto precisa. Tuttavia, una piccola incertezza sulle loro direzioni iniziali produrrà un’incertezza molto maggiore sulle direzioni verso le quali si separeranno (chiunque abbia giocato a biliardo sa che un piccolo errore nel colpire la palla con la stecca provoca un grave errore nella direzione del colpo). Questo è ciò che succede per una collisione. Per molte collisioni successive, questi errori si moltiplicano ad una rapidità allarmante (in modo esponenziale, detto in termini tecnici). Un semplice calcolo ci conduce alla seguente, stupefacente, conclusione: per quanto riguarda le molecole d’aria, nel tempo così breve di un decimillesimo di milionesimo di secondo, faremmo un grave errore nel nostro calcolo, se trascurassimo di tener conto dell’effetto di un solo elettrone (la più piccola particella
di materia) che si trovi dall’altra parte dell’universo osservabile (all’incirca lontano quanto siamo in grado di arrivare) e che interagisce con l’aria per mezzo dell’attrazione gravitazionale (la più debole delle forze presenti in natura). In altre parole, anche per un sistema molto semplice come l’aria, in un periodo di tempo che è una piccolissima frazione di secondo, il suo comportamento particolareggiato è assolutamente imprevedibile se non si è in possesso di una conoscenza letteralmente universale. Questo è quello che s’intende per sensibilità delicata. Questi sistemi hanno un comportamento imprevedibile perché non possono mai essere isolati dalle minime sollecitazioni ricevute dal loro ambiente. Alle spiegazioni scientifiche per i sistemi di questo tipo è stato dato il nome di teoria del caos. Ma attribuirle questo nome è stata una scelta piuttosto infelice perché, mentre il loro comportamento manifesta un grado di apparente casualità, questi sistemi mostrano, nello stesso tempo, un certo grado di ordine. Non si può dire quale sarà il comportamento futuro di un sistema del genere, ma la sua gamma di possibilità immediate è contenuta entro limiti ben definiti. Nel gergo di questa disciplina, diciamo che il suo moto non lo porterà assolutamente in nessun luogo, ma che sarà confinato ad uno «strano attiratore» (strange attractor). Non cercherò di entrare in dettagli, ma si noti che la teoria del caos è una bizzarra miscela di ordine e disordine, di casualità contenuta all’interno di uno schema preordinato. Che fare di tutto questo? Ricordiamoci che siamo partiti dalle leggi di Newton, che hanno la caratteristica di essere meccaniche e deterministiche – ovvero, quando due palle da biliardo si sono urtate, sapendo esattamente come questo sia avvenuto, si potrà calcolare con precisione in che modo si sono separate. L’impossibilità di prevedere e l’apparente casualità sono una conseguenza dell’estrema sensibilità ai minimi particolari (sostanzialmente inconoscibili) di quel che è accaduto. Quindi, tutto questo è solamente un problema di ignoranza? Il tempo atmosferico è veramente determinato e ciò che ci preclude la possibilità di prevedere se farà bello il mese prossimo è solamente la nostra scarsa conoscenza sul battito d’ali delle farfalle africane? O c’è qualcosa di più interessante di questo? Ci troviamo, a questo punto, di fronte ad una scelta che corrisponde a quale congettura fare. Possiamo supporre che Newton avesse pienamente ragione, e quindi tutti i nostri problemi sono riconducibili all’ignoranza, oppure possiamo ipotizzare che questa radicale imprevedibilità sia un segnale del fatto che la natura è più ingegnosa e più duttile di quanto avessimo riconosciuto finora. Come scienziato, il mio istinto mi spinge a fare quest’ultima congettura. Gli scienziati sono realisti; credono che quel che sappiamo, o quel che non possiamo sapere, ci mostrino quale sia la realtà delle cose. Di recente mia moglie mi ha regalato una maglietta su cui è scritta la frase emozionante: «L’epistemologia modella [rende conforme a sé] l’ontologia», o, con parole meno forbite, quel che possiamo conoscere è una guida affidabile a come stanno le cose. Potrete rendervi conto di quanto questo sia naturale per uno scienziato ricordando un episodio che avvenne agli albori della storia della teoria dei quanti. Riguarda il famoso principio di indeterminazione di Heisenberg, già
incontrato in precedenza, il quale afferma che, se sappiamo dove si trova un elettrone, non possiamo sapere che cosa stia facendo, e, se sappiamo che cosa sta facendo, non possiamo conoscere dove si trovi. Al momento in cui Heisenberg compì questa grande scoperta, lo fece immaginando che cosa si potesse realmente misurare. Se hai misurato la posizione con precisione assoluta, il disturbo recato al sistema sarà tale da rendere la quantità di moto completamente indeterminata, e viceversa. In altri termini, si stava occupando di quel che si può conoscere, di epistemologia, come dicono i filosofi. Tuttavia, pochissimo tempo dopo, Heisenberg e quasi tutti gli altri fisici interpretavano il principio di indeterminazione non come un principio di ignoranza, ma come un principio di imprecisione. Il problema non era soltanto che non si poteva conoscere la quantità di moto dell’elettrone se era stata fissata la sua posizione, ma semplicemente che l’elettrone non aveva una quantità di moto definita che si potesse rilevare. In altre parole, la domanda verteva su che cosa era (o non era) il fatto. I fisici si erano spostati dall’epistemologia all’ontologia. Il mio suggerimento è di fare lo stesso con la teoria del caos. Ciò che potrebbe risultarne è qualcosa del genere: la sensibilità dei sistemi caotici significa che non possono mai venire isolati da quel che avviene attorno a loro. Questo implica che essi possono essere discussi adeguatamente solo da un punto di vista olistico, ovvero in termini di tutto ciò che sta accadendo, e non utilizzandone solo brani e parti localizzate. Il modo in cui essi reagiscono a piccole sollecitazioni non corrisponde ad una variazione in energia (perché le perturbazioni possono essere piccolissime, tendenti a ridursi al nulla), ma ad una variazione dello schema di comportamento entro i confini delle possibilità costituite dallo «strano attiratore». Ovviamente è anche possibile modificare il loro comportamento immettendo energia, come quando le condizioni atmosferiche sono modificate da un’eruzione vulcanica piuttosto che dai battiti d’ala di una farfalla, ma sono le variazioni non-energetiche ad essere più significative per noi in questo capitolo. Da questo possiamo trarre la raffigurazione di due tipologie di causalità che agiscono nel mondo fisico. Una è quel genere che da lungo tempo è familiare agli scienziati – di fornire energia, descritta dalla fisica tradizionale attraverso il comportamento delle parti. Potremmo chiamarla: «causalità dal basso verso l’alto», poiché questo implica l’esistenza di interazioni localizzate con elementi costitutivi. L’altra è di un nuovo tipo, almeno per quanto concerne la fisica – l’immissione di schemi formativi (information è la parola tecnica usata), descritti nei termini del comportamento globale dell’insieme. Potremmo chiamarla «causalità dall’alto verso il basso». In base a questa interpretazione, il futuro di questi sistemi sensibili, intrinsecamente imprevedibili e caotici, è aperto, non nel senso che dia luogo a qualche tipo di risultato bizzarramente casuale, ma nel senso che i princìpi causali addizionali sono liberi di agire, del tipo dall’alto verso il basso, e così i princìpi causali familiari, del tipo dal basso verso l’alto, descritti da una scienza riduzionista. Abbiamo ragione di ritenere che questi ultimi non vincolino così strettamente a sé il comportamento della natura al punto da escludere un ruolo del primo tipo di causalità.
Prima di procedere oltre nel commentare alcune delle conseguenze di questa immagine del mondo, mi devo occupare di un aspetto che probabilmente vi ha turbati. Ho descritto questa immagine come una «congettura», e ho parlato esclusivamente della fisica newtoniana del mondo quotidiano. Eppure, questi sistemi delicatamente sensibili dipendono di preferenza dai minuti particolari del loro ambiente, di quel tipo che il principio di Heisenberg dichiara indeterminati. Questo impegolarci con l’incertezza quantistica non ci darà già la soluzione del problema? Non ci dice forse che il futuro è inevitabilmente aperto? Può darsi. I motivi della mia esitazione ad invocare semplicemente la teoria quantistica per risolvere la questione sono di natura piuttosto tecnica. Nella sostanza del problema, noi non comprendiamo come il mondo quantistico ed il mondo d’ogni giorno siano collegati tra di loro. Per i competenti le perplessità sono connesse al problema irrisolto di come vengano eseguite le misurazioni (si veda il capitolo 6 del mio The Quantum World, Penguin, 1990, per una discussione particolare dell’argomento). Fino a che questo non sarà risolto, dobbiamo essere un po’ cauti nell’utilizzare forbici quantistiche per tagliare il nodo gordiano della causalità quotidiana. Dopo questa prudente escursione, torniamo a pensare alla causalità dall’alto verso il basso. Potrebbe assumere almeno tre forme. Primo, ci possono essere delle leggi olistiche della natura in grado di spiegare la spinta davvero notevole verso la complessità, che si è manifestata nel corso della storia cosmica e terrestre. Tra gli scienziati che si occupano di fenomeni fisici, molti nutrono il sospetto che l’esposizione neodarwiniana della selezione naturale delle mutazioni genetiche sia solo una parte della vicenda dello sviluppo della vita avvenuto in modo così sorprendentemente rapido. Se esistono simili leggi dall’alto verso il basso, è certamente compito della scienza tentare di identificarle. Secondo, all’interno dell’area ultracomplessa del cervello, le nozioni di causalità dall’alto verso il basso cominciano ad offrire un barlume di comprensione su quale potrebbe essere il meccanismo che ci permette di essere in grado di eseguire, mediante le azioni fisiche dei nostri corpi, quella che era un’intenzione della mente. Non voglio affermare, neanche per un momento, che la soluzione del mistero della mente e del cervello sia vicina, ma una delle maggiori attrattive della «congettura» che sto proponendo è che essa inizia a descrivere un mondo fisico di cui noi stessi possiamo considerarci abitanti. Sembra che il modo in cui agiamo nei nostri corpi sia dotato di questo carattere olistico, dall’alto verso il basso. Terzo, c’è un processo imprevedibile, estremamente oscuro, presente in ogni parte del mondo fisico nel suo complesso. È la possibilità coerente che Dio interagisca con la storia della sua creazione utilizzando «immissioni informative» nei processi fisici aperti di tale creazione. La rete causale dell’universo non è tesa a maglie così strette da escludere questa possibilità. Il mero meccanicismo è morto ed un universo più acuto e più duttile è accessibile all’interazione provvidenziale del Creatore. Vi sono quelli che dicono: «Ma non è questo un ritorno al Dio dei gaps (lacune)?». Per rispondere a questa domanda bisogna chiedersi: «Che cosa c’era di sbagliato in quell’idea?». Il guaio era che, a quel tempo, i «buchi» di conoscenza cui ci si
appellava erano soltanto pezze dell’ignoranza contemporanea. E con il progresso della conoscenza, insieme al Dio ad esse associato, si sono semplicemente dissolte. Tuttavia, se c’è una reale apertura, che consente sia la causalità dall’alto verso il basso, sia quella dal basso verso l’alto, allora solo in quest’ultima descrizione dovranno esistere delle lacune intrinseche che possano lasciare spazio all’azione dall’alto verso il basso. Non vi può essere alcuna obiezione a lacune di questo tipo. Noi siamo la gente delle lacune, e Dio, in modo perfettamente accettabile, può esserlo altrettanto. Se questo quadro della capacità di agire divina è esatto, ne scaturiscono un buon numero di conseguenze. Primo, essendo contenuta entro la nebulosità di processi imprevedibili, l’azione divina risulterà sempre occulta. La sensibilità di questi processi implica che le differenti forme di causalità presenti non possono mai essere identificate separatamente e districate l’una dall’altra. Non si potrà mai dire: «È la natura che ha prodotto questo evento» e «Quell’evento era dovuto alla divina provvidenza». Mi sembra che sia questo il riflesso adeguato, nel mondo fisico, di quella necessità teologica, discussa in precedenza, secondo la quale Dio non è colui che fa ogni cosa, né colui che non fa nulla, ma interagisce, pazientemente e con amore, con il processo della sua creazione, alla quale egli aveva dato una propria, adeguata misura di indipendenza. Questo mescolarsi della grazia provvidenziale con la libertà della natura significa che l’azione divina non sarà mai dimostrabile con esperimenti, benché possa essere distinguibile mediante l’intuito della fede. Secondo, benché vi siano così tante nuvole nel mondo, vi sono anche alcuni orologi. La regolarità degli aspetti meccanici della natura devono essere interpretati dal punto di vista teologico come segni della fedeltà del Creatore. Dio non li sovvertirà. Molto tempo fa, nella rovente Alessandria, il grande pensatore cristiano Origene riconobbe che non aveva senso pregare per il fresco della primavera mentre si soffre la calura estiva. La successione regolare delle stagioni è meccanica, e non può essere sconvolta. Terzo, il quadro che sto tracciando è quello di un mondo veramente «in divenire». Vi si trovano all’opera molte forme di causalità, ed esse producono vere novità nel corso di quel che accade. Giunto al culmine del fervore meccanicistico postnewtoniano, Laplace, il grande successore di Sir Isaac, aveva parlato di un prodigioso «dèmone calcolatore» che, mediante una conoscenza totale, nel presente, delle proprietà degli elementi e delle parti esistenti, sarebbe in grado di predire il futuro e di spiegare il passato in modo completo ed accurato. Questo di Laplace sarebbe un inondo che viene riordinato, non uno in cui appaiano vere novità. Sarebbe inoltre anche un mondo di sola causalità dal basso verso l’alto, e quindi la nostra «congettura» che le cose stiano in modo diverso fa sciogliere la presa alla mano morta del dèmone di Laplace. Potremmo ben considerare questo un vantaggio, ma ciò suscita un problema per la teologia. Dio conosce le cose come sono realmente; perciò, in un mondo realmente in divenire, non le conoscerà in ciò che diverranno, cioè, nella loro successione temporale? In altre parole, se il futuro non è soltanto un rimaneggiamento del passato
ma è realmente aperto, non dovrà Dio conoscere lo stato del mondo nel tempo, mentre si evolve? Se è così, neppure Dio conosce ancora il futuro non ancora formato. Questa non è una imperfezione di Dio, perché il futuro non è ancora lì per essere conosciuto. Se questo è esatto, vi dev’essere allora in Dio un’esperienza del tempo, in aggiunta alla sua natura eterna. Una conclusione del genere è molto controversa, ma credo che sia corretta, benché non tutti saranno d’accordo con me. La teoria teologica classica sulla relazione tra Dio ed il tempo era che Egli lo avesse contemplato tutto «subito», guardando giù, per così dire, dall’alto all’intera storia del mondo. Dio non aveva preconosciuto il futuro, ne era semplicemente a conoscenza, perché il passato, il presente ed il futuro gli erano tutti simultaneamente presenti. Io trovo difficile accettare un simile punto di vista perché non penso che un mondo realmente in divenire possa essere dispiegato al di fuori del tempo, come vorrebbe la teologia classica. La storia si svolge, e non si limita ad esistere. Noi facciamo il futuro; non è là fuori ad aspettare il nostro arrivo. Credo, naturalmente, che Dio sia pienamente preparato al futuro, ma non credo che Egli sappia esattamente in anticipo quale sarà la scelta di un agente libero o il risultato di un libero processo. Quarto, uno scienziato può pregare. Possiamo recepire con assoluta serietà tutto quello che la scienza ci può dire, e credere ancora che ci sia lasciato uno spazio per il nostro agire nel mondo, ed anche per l’azione di Dio. Questo, ovviamente, non significa che pregare equivalga a limitarsi a compilare una serie di assegni consegnatici in bianco da un celestiale Babbo Natale. È per questo che non posso attendermi che tutti quei pazienti per i quali ho pregato si ristabiliscano senz’altro, proprio come ho fortemente sperato che accadesse. La preghiera non è magia. È qualcosa di molto più personale, poiché è un’interazione tra l’umanità e Dio. Riguardo alla preghiera, rimangono ancora alcuni problemi da esaminare. La prima domanda è: in fin dei conti, perché dobbiamo pregare? Perché dovremmo chiedere delle cose a Dio? Dio è buono, dopotutto. Non ci darà quel ch’è bene per noi senza che glielo si debba richiedere in continuazione? Che cosa facciamo quando preghiamo? Cerchiamo di attirare l’attenzione di Dio, che altrimenti potrebbe essere rivolta altrove? Ci stiamo comportando in modo talmente insistente da costringerlo davvero ad agire in un certo modo? Stiamo forse suggerendo qualche piano particolarmente astuto per il futuro del mondo – avrete avuto spesso questa impressione quando ascoltate le preghiere che si dicono in chiesa -, un piano al quale Dio potrebbe non aver pensato? Ovviamente no. La preghiera non può essere nessuna di queste cose. Allora, che cosa stiamo facendo quando preghiamo? Penso che stiamo facendo due cose. La prima è la seguente. Ho parlato di un mondo fisico duttile ed aperto al futuro, un mondo realmente in divenire. Noi abbiamo la nostra piccola parte da giocare per determinare questo futuro; abbiamo il nostro piccolo spazio di manovra. Dio ha riservato anche a se stesso uno spazio di manovra provvidenziale per determinare il futuro del mondo. Quando preghiamo, la prima cosa che facciamo è di offrire il nostro spazio di manovra a Dio affinché lo prenda e lo utilizzi, in riferimento al proprio spazio di manovra, nel modo più efficace possibile, in accordo con la sua volontà provvidenziale. Utilizzando un linguaggio più tradizionale, noi offriamo di allineare
la nostra volontà alla volontà divina. Credo che quando questo allineamento si verifica, diventano possibili cose che non sono possibili quando la volontà umana e quella divina si prefiggono scopi contrapposti. Quindi, la preghiera è puramente strumentale: cambia autenticamente il mondo. A questo proposito propongo spesso un esempio tratto dalla scienza: è la parabola della luce del laser. Quel che garantisce alla luce del laser le sue straordinarie proprietà è ciò che i fisici chiamano «coerenza». La luce è composta da onde e, nella luce coerente, tutte le onde sono in fase: tutte le creste e tutti i ventri arrivano insieme e si sommano per dare il massimo effetto, le une in altezza, gli altri in profondità. Invece, quando la luce è incoerente perché le onde non sono in fase, è probabile che una cresta ed un ventre coincidano e si annullino l’una con l’altro. Quando preghiamo, stiamo cercando una coerenza, tipo la luce del laser, tra la nostra volontà e quella di Dio. Questo ha due conseguenze. Una è che la preghiera non si sostituisce all’azione, ne è piuttosto una componente necessaria. Se ho un attempato vicino che si sente solo, ma è fastidiosamente ripetitivo, non posso scaricarmi delle mie responsabilità limitandomi semplicemente a pregare per il vicino: devo andare a trovarlo ed ascoltare, per l’ennesima volta, i suoi racconti dei tempi di gioventù. L’altra conseguenza è che essa spiega qualcosa che intuitivamente avvertiamo essere così, ma che altrimenti potrebbe sembrare un po’ sconcertante. Noi percepiamo che è un bene il fatto che molte persone preghino per lo stesso motivo. In che cosa consiste la forza di questo? Più pugni che bussano alle porte del paradiso e quindi più opportunità di attirare l’attenzione divina? Non credo. Tuttavia, più volontà sono allineate alla volontà divina e, di conseguenza, un maggior potere è all’opera nella collaborazione divino-umana: è questa l’azione della preghiera di richiesta; e questo è quel che stiamo facendo quando preghiamo insieme. C’è un’altra cosa che facciamo quando preghiamo, e questo l’ho imparato da John Lucas, un filosofo di Oxford. Egli dice che, quando preghiamo, siamo invitati ad esprimere quel che vogliamo realmente. Siamo invitati ad affidarci interamente a ciò cui attribuiamo il massimo valore nel mondo. Io trovo che questo sia un pensiero che ci aiuta molto e ci procura tranquillità. Quando, nel Vangelo, un cieco si avvicina a Gesù, il Signore gli chiede: «Che cosa vuoi?». È perfettamente chiaro che cosa può volere, ma, prima di essere risanato, deve dire: «Che io possa avere la vista, Signore». Quando preghiamo, siamo chiamati ad affidarci a ciò che ha realmente valore per noi nel mondo. Naturalmente, dobbiamo sforzarci di pregare in accordo alla volontà di Dio. Dio prende in seria considerazione i nostri desideri, ma questi non devono sovvertire le sue finalità rivolte al bene. Quando parliamo di preghiera, dobbiamo sempre cimentarci con i misteri, realmente profondi, della singolarità dei destini di ciascun individuo e saperli riconoscere. Non è possibile fare un facile, semplice resoconto della provvidenza divina; il modo in cui questa si manifesta è spesso strano e ci lascia perplessi. Avevo un amico, alcuni anni fa, cui fu diagnosticato un cancro terminale; gli furono dati sei mesi di vita. Fu un grande shock: un vero fulmine a ciel sereno. Era un credente in Cristo, come sua moglie, ed avevano molti amici cristiani giudiziosi. Sua moglie fu incoraggiata a pregare quotidianamente con il mio amico, e ad imporre le
sue mani su di lui per ottenere da Dio la guarigione. Così fecero, fedelmente, giorno dopo giorno. Il mio amico morì alla scadenza quasi esatta dei sei mesi dal momento in cui aveva ricevuto la diagnosi dal suo medico. Quando morì, sua moglie si chiese quali fossero state le risposte alle proprie preghiere. Solo lei poteva rispondere a questa domanda. Nessuno poteva intervenire dall’esterno e dirle quel che Dio stava facendo nelle loro vite. Questa fu la sua risposta. Suo marito – il mio amico – durante la propria vita, era stato al centro di molta rivalità, c’erano varie persone che lo avevano avversato, ma queste rimasero profondamente impressionate dalla forza d’animo e dalla fede con cui egli affrontò la sua morte imminente. Ciò ebbe degli effetti veramente positivi nella comunità in cui viveva: le relazioni interpersonali furono sanate. Egli si trovava inoltre in una condizione che avrebbe potuto portare ad una morte realmente angosciosa, ma in realtà ebbe una fine molto serena in casa propria. La moglie del mio amico fu quindi in grado di concludere che le proprie preghiere, in questo modo, erano state esaudite, benché – penso sia corretto dire ad esse non fu data risposta nel modo in cui la moglie aveva sperato quando, lei e suo marito, avevano inizialmente cominciato a pregare insieme. Era chiaro che avevano sperato in una vita più lunga insieme e nel recupero fisico di lui. C’è un mistero nel destino dell’individuo che è parte della vita spirituale, e va accettato, dalla mano del Signore. Questo destino può realizzarsi mediante il recupero fisico o l’accettazione dell’imminente destino di morte. Nessuno può sapere in anticipo quale sarà, e solo coloro che sono direttamente coinvolti sono in grado di interpretare le proprie esperienze. Su di esse le nostre preghiere devono avere questo tipo di apertura. È l’unico autentico modo spirituale in cui uno scienziato, o chiunque altro, può pregare. 6 E I MIRACOLI? Nel capitolo precedente ho sostenuto che la scienza sta cominciando a descrivere un mondo in cui si può individuare la presenza sia della nostra azione sia di quella di Dio. Poiché la storia è lontana dall’essere un processo meccanico ineluttabile, il futuro si presenta aperto e, compatibilmente con la flessibilità dei processi fisici, sia la provvidenza divina sia l’azione umana giocano il loro ruolo nel farlo progredire. Fin qui tutto bene, ma i miracoli? Il cristianesimo non può evitare questo argomento, perché al suo centro sta l’affermazione del miracolo straordinario della risurrezione di Cristo. Qualunque cosa si possa dire sull’imprevedibilità dei movimenti delle nuvole, sicuramente non possiamo supporre che Gesù sia risuscitato dai morti, per non morire mai più, grazie ad un abile sfruttamento della teoria del caos. Se questo è realmente accaduto (e io lo credo), è stato un miracolo, un atto divino di grande potenza. Una delle difficoltà che incontriamo nel pensare ai miracoli è che il mondo comprende una molteplicità di eventi di natura diversa. Il loro significato originale è semplicemente qualcosa di stupefacente. Possono essere motivi d’ogni sorta a causare
meraviglia; uno di questi potrebbe essere l’esercizio di una normale facoltà umana, ma posseduta ad un livello eccezionalmente alto. Per prendere in esame un esempio scientifico, la capacità di eseguire alcuni calcoli prodigiosi moltiplicando a mente numeri enormi può sembrare un miracolo a quelli di noi dotati di più modeste capacità di calcolo. Siamo sempre più coscienti della reciproca influenza che esercitano tra loro la mente e il corpo. L’avere riconosciuto il carattere psicosomatico di alcune malattie rende più accettabile il fatto che esistano davvero persone che sembrano avere facoltà curative. Mi pare probabile che Gesù possedesse, al più alto livello, facoltà umane di questo tipo. Se è così, alcuni dei suoi incontri di guarigione possono essere interpretati come la perfetta applicazione di una capacità naturale che anche altri posseggono in misura minore. Dato che questi avvenimenti provocano meraviglia (e gratitudine), sono, da questo punto di vista, dei miracoli, ma non lo sono nel senso di essere qualcosa di totalmente contrario alla natura. Un’altra categoria di racconti di miracoli che sembra aperta a spiegazioni «naturali» si basa sulla possibilità che esistano coincidenze significative. Due eventi che avvengono contemporaneamente, e ciascuno dei quali si manifesta in maniera perfettamente normale, assumono significato e producono stupore a motivo della loro simultaneità. Si possono interpretare in questo modo alcuni dei miracoli della Scrittura riferiti alla natura. La tempesta sedata potrebbe esserne un esempio. Gesù dice parole rassicuranti ai propri discepoli mentre, nello stesso tempo, la violenta tempesta che li stava angosciando viene spazzata via. Il significato sta nella coincidenza. Per la fede è certamente possibile scoprire la mano di Dio nell’accaduto, dato che potrebbe ben essere la sua provvidenza ad aver posto fine alla tempesta, nel modo particolare che abbiamo discusso nel capitolo precedente. Penso che quasi tutti abbiano, nel corso della propria vita, vissuto l’esperienza di coincidenze occasionali e significative. Credo che sia giusto prenderle sul serio, ma questo non implica necessariamente che esse siano avvenute solo grazie ad una interruzione violenta del corso della natura. Detto e fatto questo, rimangono da esaminare i racconti di avvenimenti che si presentano come miracoli nel senso popolare di fatti assolutamente contrari alla natura. Ne sarebbe un esempio la trasformazione dell’acqua in vino che Gesù fece alle nozze di Cana in Galilea (Giovanni 2,1-11). L’acqua e il vino sono talmente diversi come composizione chimica che in nessun modo si può pensare che si trasformino naturalmente l’una nell’altro all’interno di un otre. E d’altra parte, non è stato piuttosto un eccesso usare un potere miracoloso per produrre questa trasformazione? Dopotutto, la situazione era tale da provocare solo un lieve imbarazzo sociale. Certo, era un peccato che il vino fosse terminato, ma non c’è dubbio che, prima che finisse, tutti dovevano averne già bevuto in notevole quantità. Preso alla lettera, francamente, sembra un racconto alquanto assurdo. Ovviamente lo possiamo interpretare a livello simbolico, e allora ha decisamente molto senso, quello che la presenza di Gesù produce una differenza come quella che c’è tra l’acqua e il vino. Alcune allusioni presenti nel racconto c’incoraggiano ad andare in questa direzione. Il riferimento a «sei recipienti di pietra destinati ai riti di purificazione degli ebrei» appare come un richiamo a contrapporre la nuova vita in Cristo alla
vecchia vita sottoposta alla Legge. Si tratta quindi soltanto di un racconto di fantasia, finito nel testo come se si trattasse di un fatto realmente accaduto, oppure è una parabola su un’azione miracolosa che Gesù ha effettivamente compiuto? Credenti diversi darebbero risposte differenti. Personalmente, non penso di dover dare una risposta certa a questo genere di domande per tutte le affermazioni di miracoli riportati dalla Bibbia. Quale sia la questione soggiacente sembra chiaro: il problema del miracolo non è in primo luogo scientifico, ma teologico. La scienza ci dice semplicemente che questi eventi sono contrari alle normali aspettative. Ma questo lo sapevamo fin dall’inizio. La scienza non può escludere la possibilità che, in particolari circostanze, Dio faccia cose speciali, senza precedenti. Dopotutto, Egli è colui che stabilisce le leggi della natura, e non è ad esse sottoposto. E tuttavia, proprio perché queste sono le sue leggi, rovesciarle semplicemente sarebbe un’azione di Dio contro Dio, il che è assurdo. Il problema teologico è: ha senso ipotizzare che Dio abbia agito in un modo nuovo? Una cosa che non è teologicamente credibile è che Dio sia una specie di prestigiatore celeste, che per far colpo esegua oggi un numero a cui ieri non aveva pensato, e che non si prenderà la briga di ripetere l’indomani. Dio non può essere capriccioso; dev’essere completamente coerente. Coerenza non vuol dire però uniformità desolante. In circostanze che non hanno precedenti, Dio può fare cose inattese. Ci dovrà essere sempre, comunque, una profonda coerenza soggiacente che renda comprensibile, ad esempio, che Dio risuscitò Gesù dalla morte in quel primo giorno di Pasqua mentre, nel corso della storia presente, la nostra esperienza è che un morto rimane morto. La ricerca di questa coerenza è la sfida teologica del miracolo. A questo punto ci può aiutare una semplice parabola tratta dalla scienza. Le leggi della natura non cambiano, sono immancabilmente coerenti, eppure le conseguenze di queste leggi possono mutare in modo spettacolare quando ci si sposta sotto un nuovo regime. Pensate di scaldare dell’acqua. La temperatura cresce costantemente, in modo perfettamente uniforme, fino a raggiungere il punto di ebollizione. Quindi succede qualcosa che, se non l’avessimo osservata in ogni giorno della nostra vita, ci lascerebbe stupefatti. La crescita costante della temperatura si ferma, ed una piccola quantità d’acqua si tramuta in una grande quantità di vapore. I fisici chiamano questo una «transizione di fase». Ci siamo spostati dal regime liquido a quello gassoso. Eppure, le leggi della natura non sono cambiate a 100°C, ma sono soltanto le loro conseguenze a diventare radicalmente diverse. È questo il tipo di spiegazione che dobbiamo cercare, con una profonda continuità che soggiace ad un comportamento apparentemente discontinuo, se vogliamo comprendere il miracoloso. Per questo metodo, il banco di prova è la risurrezione di Gesù. Chiediamoci innanzitutto: dobbiamo o no considerarlo seriamente come un fatto realmente accaduto? Non potrebbe essere soltanto un altro racconto di fantasia, il cui scopo in questo caso è di trasmettere l’idea che il messaggio di Gesù è continuato anche dopo la sua morte? Vi sono state certamente delle persone che l’hanno interpretato in questo modo. Io non posso fare altrettanto. È importante riconoscere l’eccezionalità della morte di Gesù. La maggior parte dei grandi leaders religiosi mondiali – Mosè, Budda, Maometto – sono morti, attorniati
dai loro discepoli, ad una venerabile tarda età. Gesù morì a metà della propria vita, abbandonato da tutti coloro che avevano avuto fiducia e riposto la propria speranza in lui. La sua esecuzione mediante la crocifissione non fu solo una morte particolarmente dolorosa ed umiliante, ma anche una morte in cui ogni pio giudeo doveva riconoscere un segno del rifiuto di Dio. Nella Legge è scritto che chiunque penda da un albero si trova sotto la maledizione divina. Dall’oscura solitudine del Calvario provengono le parole: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (il fatto che Marco e Matteo riportino entrambi questo grido terribile, ci dice molto sulla sincerità degli autori dei Vangeli). Per quanto le parole e le azioni di Gesù possano essere state straordinarie, la sua vita termina apparentemente con un completo fallimento. Se la vicenda da raccontare fosse tutta qui, credo che non avremmo mai sentito parlare di lui. Eppure tutti abbiamo sentito parlare di questo falegname errabondo, proveniente dalla periferia dell’impero romano, in un luogo lontano, tanto tempo fa, che non scrisse alcun libro e patì una fine così miseranda. Qualcosa è successo perché ciò sia potuto accadere. Qualcosa ha trasformato i discepoli spaventati e demoralizzati del Venerdì Santo in coloro che, a Pentecoste, affrontarono le autorità e proclamarono convinti che Gesù, quest’uomo che era stato giustiziato, è il Signore e il Cristo di Dio (il suo eletto, colui che è la chiave del disegno divino). Questo qualcosa dev’essere stato di un’ampiezza sufficiente per produrre una trasformazione così stupefacente. I discepoli dichiararono che quel qualcosa fu la risurrezione dalla morte di Gesù. La primissima testimonianza di quest’affermazione ci è data dall’apostolo Paolo, quando scrive alla chiesa di Corinto: Poiché io v’ho prima di tutto trasmesso, come l’ho ricevuto anch’io, che Cristo è morto per i nostri peccati, secondo le Scritture; che fu seppellito; che risuscitò il terzo giorno, secondo le Scritture; che apparve a Cefa (Pietro), poi ai dodici. Poi apparve a più di cinquecento fratelli in una volta, dei quali la maggior parte rimane ancora in vita ed alcuni sono morti. Poi apparve a Giacomo; poi a tutti gli apostoli; e, ultimo di tutti, apparve anche a me, come all’aborto.
(I Corinzi 15,3-8) Paolo scriveva a metà degli anni cinquanta (la crocifissione è del 30 d. C. o del 33 d. C.). Quando scrive di aver trasmesso ai Corinzi «quello che anch’io ho ricevuto», possiamo dedurne che si riferiva all’insegnamento che ricevette dopo la sua sbalorditiva conversione sulla via di Damasco, che avrebbe avuto luogo circa tre anni dopo la crocifissione. Questi versetti ci portano quindi molto indietro nel tempo, e rinviano alla testimonianza vivente di coloro che affermavano di aver veduto il Signore risorto. Se vogliamo dei resoconti di come siano avvenute queste apparizioni, dobbiamo rivolgerci ai Vangeli. Questi, nella loro forma attuale, sono stati scritti più tardi – tra la metà degli anni sessanta ed i novanta – ma sono basati su racconti che devono essere stati tramandati oralmente nella chiesa primitiva. Il materiale riguardante tali apparizioni è sconcertante perché assume forme molto diverse nei vari Vangeli. Alcuni avvenimenti sono collocati a Gerusalemme, altri in Galilea; vi è quindi una
sovrapposizione molto scarsa tra i diversi resoconti, eppure si riscontra in ogni caso un aspetto comune, inaspettato e non enfatizzato, che mi convince che questi resoconti sono fondati su ricordi sinceri, e che non sono soltanto pie dicerie. Questo aspetto è il fatto che fosse difficile riconoscere il Gesù risorto. Maria Maddalena lo scambia per il giardiniere; la coppia sulla via per Emmaus comprende solo alla fine chi fosse colui che aveva parlato a loro; solo il discepolo prediletto riconosce chi sia la figura sulla sponda del lago di Galilea; quando Gesù appare ad una folla di discepoli in Galilea, nel Vangelo di Matteo, ci viene persino detto che «alcuni dubitarono» (Matteo 18,17). Non ci aspetteremmo certo questa notazione, strana e ricorrente, in una serie di racconti inventati. Nei resoconti evangelici delle apparizioni sono presenti una serie di dati di fatto ed un’assenza di trionfalismo che io trovo convincenti. Tutti i Vangeli contengono anche un racconto della tomba vuota, cioè la scoperta, quella prima mattina di Pasqua, che il corpo di Gesù non era più nella tomba. Poiché non è credibile che sia stato trafugato dai discepoli per ordire un inganno (gli uomini sono forse disposti a morire per ciò che sanno essere una menzogna?), molti hanno visto in questo la prova più forte della risurrezione. Se le autorità fossero state in grado di spiegare la tomba vuota, perché non avrebbero stroncato sul nascere il turbolento movimento di Gesù esibendone il corpo decomposto? Qui bisogna però essere prudenti. Per i romani era un uso normale gettare in una fossa comune i corpi dei criminali giustiziati. Non dovremmo supporre che la stessa cosa sia avvenuta per Gesù? I racconti del Vangelo di una tomba identificabile, trovata più tardi vuota, non potrebbero essere soltanto storie inventate da una generazione posteriore? Certamente i contemporanei non la pensavano così, poiché, a quanto pare, all’epoca in cui scoppiarono le dispute tra giudei e cristiani, i primi non negarono mai che vi fosse una tomba vuota, ma cercarono di giustificarla sostenendo che questo era un inganno dei discepoli. Anch’io credo che vi sia stata una tomba vuota. Perché vengono menzionati in questo racconto Giuseppe di Arimatea e Nicodemo? Non sembra che abbiano avuto un ruolo importante nella chiesa primitiva; pertanto il motivo per cui vengono citati deve essere sicuramente quello che furono loro ad occuparsi realmente della tumulazione di Gesù. Perché sono le donne a svolgere il ruolo di protagoniste nel racconto della scoperta della tomba vuota? Nel mondo antico la loro testimonianza non era accettabile in un tribunale. Ancora una volta, l’ovvia spiegazione del ruolo onorevole che viene loro assegnato è che esse l’abbiano realmente svolto. Si è detto spesso che Paolo non fa riferimento alla tomba vuota, ma vi sono moltissime cose che non menziona nelle proprie lettere, e questa è certamente una di quelle. Tuttavia, in quel resoconto così scarno che ho citato dalla sua prima lettera ai Corinzi, trova lo spazio per dire che Gesù «fu sepolto». Ciò mi fa pensare che Paolo sapesse che, a proposito della sepoltura, vi fosse qualcosa di importante e significativo. Paolo era un giudeo ed è improbabile che un israelita possa accogliere un punto di vista così esclusivamente spirituale di fronte al fatto che un uomo venga considerato nuovamente in vita mentre il suo corpo sta marcendo in una tomba. Spero di aver mostrato a grandi linee (vi sono molti altri particolari che potrebbero essere analizzati) che vi sono argomenti di prova che giustificano una fede in Gesù
risuscitato dalla morte, ma il valore che diamo a questi argomenti dipende dal fatto che l’idea della sua risurrezione, nel suo insieme, abbia senso o no. Siamo ritornati a quella che ritengo sia la questione fondamentale riguardo ai miracoli. Ha senso credere che Dio abbia agito in questo modo straordinario e senza precedenti? Al di là della meraviglia iniziale di fronte all’evento, possiamo trovarvi una coerenza profonda? Io credo che la risposta a queste domande debba essere un chiaro «Sì» per quel che riguarda la risurrezione. Questa costituisce una triplice rivendicazione. In primo luogo essa conferma Gesù. Egli non è morto sconfitto e deluso, battuto dal sistema. Le tenebre del Calvario non furono l’ultima parola. Lo schema tripartito di vita, morte e risurrezione ha un senso che vita e morte da sole non potrebbero avere. In secondo luogo, conferma Dio. Egli non abbandona l’unico uomo che si è completamente affidato a lui e ha vissuto la propria vita in totale fiducia ed obbedienza. L’amore tenace e costante di Dio non è sconfitto dalla malvagità o dall’indifferenza di questo mondo. In terzo luogo, conferma le speranze dell’umanità. Una volta qualcuno ha detto che c’è un profondo desiderio umano che l’omicida non debba trionfare sulla sua vittima innocente. La risurrezione di Gesù ci dimostra che tale desiderio sarà soddisfatto. E questo perché i cristiani credono che l’unicità della risurrezione di Gesù non sta nel fatto che è avvenuta, ma nel quando è avvenuta. Quel che Dio ha fatto per Gesù nel mezzo della storia, Egli lo farà per tutti noi alla fine della storia. Paolo espresse questo pensiero nella sua prima lettera ai Corinzi quando scrisse: «Poiché, come tutti muoiono in Adamo, così anche in Cristo saranno tutti vivificati» (I Corinzi 15,22). Sulla coerenza logica di questa speranza avrò altre cose da dire nel prossimo capitolo e spiegherò quindi anche perché ritengo che la tomba vuota sia così significativa ed importante. I miracoli, come azioni del Dio fedele, sono credibili solamente se rappresentano nuove possibilità che si presentano perché l’esperienza è entrata in un nuovo regi me in cui le coerenze del passato devono aprirsi ad un ampliamento, alla luce delle novità del presente. Questa sensibilità al nuovo regime deve essere la risposta ad una delle nostre più gravi perplessità riguardo i miracoli, che non è il fatto che avvengano, ma che si manifestino così raramente in un mondo che sembra chiedere a gran voce un’azione divina più energica. C. S. Lewis ha fatto notare una volta come i racconti dei miracoli si raggruppino intorno a quello ch’egli chiamò: «i grandi gangli della storia spirituale», momenti nei quali si verificano i movimenti possenti della scoperta religiosa. La vita di Gesù Cristo è stata un’epoca preminente di questo tipo. Come cristiano, credo che Dio era in Cristo in un modo speciale, perfettamente a fuoco, un modo nel quale non è stato presente in nessun’altra persona. Gesù rappresentava perciò la presenza di un nuovo regime nel mondo (questo è quel che intendeva affermare proclamando che, con la propria venuta, si realizzava il «regno» – cioè il governo – di Dio). Sono convinto che sia una credenza perfettamente coerente e ragionevole che questo nuovo regime debba essere accompagnato da nuovi fenomeni, persino dal fatto che un uomo risusciti dalla morte per una vita glorificata ed eterna.
7 COME ANDRÀ A FINIRE? La storia dell’universo è il racconto di un gigantesco tiro alla fune. Da un lato c’è l’effetto del Big Bang, che spinge alla separazione la materia dell’universo. Dall’altra parte, c'è l’inesorabile forza d’attrazione gravitazionale che cerca di ricongiungere le cose. Queste due forze sono equilibrate molto alla pari e non si può dire quale delle due vincerà alla fine. Se prevale l’espansione, le galassie continueranno ad allontanarsi le une dalle altre per sempre. La gravità prevarrà sicuramente all’interno di ciascuna galassia, e si formeranno grandi buchi neri che decadranno infine in radiazione di bassa frequenza. Per questa via, il mondo finirà in un piagnucolio di morte. Non è una prospettiva molto allegra. Andranno meglio le cose se vince la gravità? Temo di no. In questo caso, un giorno, l’attuale espansione si arresterà e sarà rovesciata nel suo contrario. Quel che aveva avuto inizio con il Big Bang finirà nel Big Crunch9, poiché tutta la materia precipiterà indietro in un crogiolo cosmico. Per questa via, il mondo “finirà in un’esplosione. In entrambi i casi, in ultima analisi, tutto è inutilità e vanità. Naturalmente non accadrà domani. Questo destino è iscritto nel futuro, tra dieci miliardi di anni, ma è tanto sicuro quanto lo può essere il fatto che l’umanità, e la vita intera, saranno solamente un episodio transitorio nella storia dell’universo. Che cosa se ne fa, di questo, la religione? Queste tetre predizioni non smentiscono forse l’affermazione che vi sia un disegno all’opera nel mondo? Qui si manifesta una sfida che dobbiamo prendere in considerazione. Io credo che la morte dell’universo, su una scala temporale di decine di miliardi di anni, non ponga un problema radicalmente differente da quello presentato, su una scala temporale di decine di anni, dalla consapevolezza, sicuramente più certa, delle nostre proprie morti. In ciascun caso, la questione è: la speranza è un’illusione, oppure c’è, alla fin fine, Qualcuno in cui confidare per un destino che vada oltre la gelida realtà della morte? La predizione scientifica dell’inutilità cosmica ci ricorda semplicemente che un tipo di ottimismo evolutivo – una convinzione che lo svolgimento della storia debba portare a compimento il progresso – è inadeguato come fondamento della speranza. Se c’è realmente un’autentica e duratura speranza, può solo fondarsi sull’essere eterno di Dio stesso. Era questa la tesi sostenuta da Gesù in una disputa che ebbe con i sadducei (Marco 12,18-27). Questi costituivano un gruppo che concentrava la propria fede esclusivamente sulla Legge, sui primi cinque libri della nostra Bibbia. Essendo consapevoli di non avervi potuto trovare alcuna promessa di un destino al di là della morte, credevano in una vita solo in questo mondo. Cercarono di dimostrare la propria tesi proponendo un ingegnoso rompicapo su una donna che era stata sposata ad una serie di fratelli deceduti l’uno dopo l’altro. Di chi sarebbe stata dunque la moglie nel mondo a venire? Come ha spesso fatto con coloro che lo interrogavano, Gesù affrontò il vero punto in questione trascurando la discussione superficiale sull’argomento proposto. Li riportò all’Esodo, uno dei libri che riconoscevano come
autorevole, e ricordò loro che, quando Dio parlò a Mosè, vicino all’arbusto ardente, gli disse: «Io sono il Dio di Abramo, e il Dio di Isacco, e il Dio di Giacobbe». Gesù commentò: «Egli non è il Dio dei morti ma dei vivi; voi siete completamente fuori strada». Il punto è che, se Abramo, Isacco e Giacobbe sono stati importanti per Dio una volta – e sicuramente è stato così , lo rimangono per sempre. La stessa cosa vale per voi e per me. Dio non si sbarazza semplicemente di noi, come vasi rotti da eliminare, buttandoci nella discarica dell’universo una volta morti. La nostra fede in un destino oltre la nostra morte si fonda sull’amorevole fedeltà del Dio eterno. E tuttavia, ha senso una fede del genere? C’era un tempo in cui la gente pensava che gli esseri umani fossero composti di due parti, una mortale, il corpo materiale che si decompone alla morte, ed una separabile, l’immortale anima spirituale che poteva sopravvivere alla morte. Era quasi come se fossimo angeli apprendisti, e la morte fosse la nostra liberazione dal tirocinio di questo mondo. Ho già parlato un po’ di mente e corpo e abbiamo notato che, sebbene essi non s’identifichino, sembrano più intimamente connessi l’una all’altro di quanto avverrebbe in questo schema bipartito. Sembriamo essere delle unità, dei corpi animati, anziché delle anime incarnate. In effetti, era questo il modo in cui gli antichi giudei pensavano la natura umana; in un certo senso, quindi, siamo semplicemente ritornati ad un vecchio concetto. E allora, che cos’è l’anima? Dev’essere «il vero io» (real me). Certamente non è il materiale del mio corpo, perché questo cambia in continuazione. Gli atomi che mi sono rimasti, di quelli che avevo alcuni anni fa, sono pochissimi. Bere e mangiare, consumare e logorare, significano sostituirli incessantemente. Il «vero io» è lo «schema» immensamente complicato in cui sono organizzati questi atomi, sempre mutevoli. Che Dio voglia ricordare lo «schema» che io sono e lo ricrei, mediante là sua grande azione della risurrezione finale, in un nuovo ambiente di sua scelta, mi sembra una speranza comprensibile e logicamente coerente. La credenza cristiana in un destino oltre la morte si è sempre incentrata sulla risurrezione, non sulla sopravvivenza, o immortalità dell’anima. La risurrezione di Cristo è la primizia e la garanzia, all’interno della storia, della nostra risurrezione, che ci attende oltre la storia. È importante sottolineare che stiamo parlando di risurrezione in un mondo nuovo, e non semplicemente di un ritorno in vita in quello vecchio. È lo «schema» ad essere significativo, non la materia che lo compone. L’antica curiosa idea di radunare le cose com’erano (cosicché, talvolta, la gente che aveva subito l’amputazione di una gamba veniva seppellita con essa per renderne agevole l’utilizzo il giorno del giudizio universale) non è in programma. La Bibbia parla di un nuovo cielo e una nuova terra dove «la morte non sarà più, né vi saranno più cordoglio, né grido, né dolore, poiché le cose di prima sono passate» (Apocalisse 21,4). Da dove proverrà la nuova «materia» di questo nuovo mondo? Presumo che sarà tratta dalla materia trasformata del mondo attuale, perché Dio si preoccupa di tutta la propria creazione e deve avere un destino per l’universo oltre la sua morte, esattamente come ha una sorte per noi oltre la nostra. È per questo che la tomba vuota è così importante. Il corpo risorto di Gesù è la forma trasformata e glorificata del suo
corpo morto. Questo ci dice che in Cristo c’è un destino per la materia, così come c’è per l’umanità. Di fatto, i nostri destini sono indissolubilmente legati, proprio perché gli umani sono esseri incarnati. La scienza sa che lo spazio, il tempo e la materia sono indissolubilmente legati. Ciò significa che nel mondo a venire vi sarà «tempo» così come vi sarà «materia». Il nostro destino è la vita che si prolunga senza fine, non l’eternità in quel significato speciale, fuori dal tempo, che appartiene a Dio soltanto. Dio è un Dio del procedere – è il modo paziente in cui opera l’amore – e questo sarà vero al di là della morte, come era vero prima. Il nuovo cielo non sarà noioso. La sua vita sarà l’eccitante ed inesauribile esplorazione delle ricchezze della vita divina, rese accessibili a noi più chiaramente di quanto non possano esserlo in questo mondo. Le ferite di questa vita saranno risanate, sarà compiuta l’attività rimasta incompleta, i rifiuti che qui avevamo ammassato lì saranno spazzati via. È una visione meravigliosa, ma una domanda petulante potrebbe ben venirvi in mente. Se la nuova creazione sarà così splendida, perché Dio si è tanto preoccupato della vecchia? Se quel mondo sarà libero da sofferenza, morte e dolore, perché invece ha creato questo, che sembra contenere così tanta sofferenza? Una domanda così seria richiede una risposta. Questa sta, penso, nel riconoscere che la nuova creazione non è un secondo tentativo di Dio di realizzare un po’ meglio quel che aveva già fatto una prima volta nella vecchia creazione. Questo mondo presente è un mondo cui Dio ha concesso di essere se stesso. Abbiamo visto come un universo prodotto dall’evoluzione possa essere compreso da un punto di vista teologico come una creazione cui è riconosciuto di autodeterminarsi. Un mondo del genere deve contenere la morte come prezzo necessario per la vita; come parte dell’esplorazione del possibile, che costituisce la sua storia fruttuosa, non può evitare di avere confini indefiniti e d’imboccare vicoli ciechi. Ricorderete che avevamo già notato come il medesimo processo che permette ad una nuova vita di svilupparsi consenta anche ad alcune cellule di diventare cancerose. La nuova creazione è qualcosa di diverso; il che significa che può funzionare in un modo differente. Teologicamente la s’intende come un mondo nuovo che, per mezzo di Cristo, è stato liberamente integrato con la vita del Creatore. Questa concentrata presenza divina, che in questo mondo i cristiani associano in modo particolare con gli eventi chiamati sacramenti, lì sarà presente ovunque. La nuova creazione non è un secondo tentativo rispetto a ciò che è successo in precedenza; è la redenzione e la trasformazione radicale del vecchio. Proprio come Gesù non ha potuto arrivare a Pasqua senza passare per il Venerdì Santo, così la creazione non può raggiungere il proprio destino sacramentale senza attraversare questa attuale valle di sofferenza. Questi sono pensieri profondamente misteriosi, ma penso che siano veri. Sono due le cose che mi convincono di questo. Una è la risurrezione di Gesù, l’avvenimento germinale dal quale la nuova creazione ha cominciato a crescere. L’altra è la profonda intuizione umana della speranza, nonostante tutte le evidenze contrarie. Ricordate come abbiamo detto in precedenza, che quando un bambino viene confortato dai genitori, di notte, con l’assicurazione: «Va tutto bene», si fa un’affermazione dal significato profondo. In quel caso ho anche detto di non credere
che questa sia l’espressione di un’amorevole bugia, ma una percezione della natura definitiva della realtà di Dio. E’ un’affermazione dell’invincibile scopo divino che persegue il bene. Per quanto questo capitolo sia stato speculativo, sono convinto che sia una parte indispensabile di una fede cristiana coerente l’attendersi un destino oltre la morte, per noi stessi e per l’universo. Non penso che questo mondo, per quanto sia ricco e fruttuoso, e la sua storia, abbiano senso se sono l’unica cosa da raccontare. Alla fine, ritengo che la migliore risposta alle nostre domande sul futuro finale sia: «Aspetta e vedrai». Confidando nella fedeltà di un Dio che non permetterà ad alcuna cosa buona di andare perduta, credo che si possa fare così. 8 UNO SCIENZIATO PUÒ ESSERE UN CREDENTE? La mia vita è cambiata sotto tutti i punti di vista quando ho lasciato l’attività scientifica a tempo pieno e ho indossato il colletto bianco da clergyman. Una cosa importante, tuttavia, è rimasta immutata poiché, nell’una e nell’altra carriera, ho avuto a che fare con la ricerca della verità. La religione non è solo una tecnica per tener alto il morale, un pio anestetico per alleviare un poco la sofferenza della vita reale. La questione religiosa fondamentale è il problema della verità. Naturalmente, la religione può essere in grado di sostenerci nella vita, o nell’avvicinarsi della morte, però solo se si occupa della reale natura delle cose. Tra le persone che conosco e che mi sembrano le più intelligenti e risolute nell’affrontare la realtà vi sono monaci e monache, persone che praticano la vita religiosa della consapevolezza acquisita mediante la preghiera. Indagando sui molteplici aspetti dell’esperienza che riguardano la scienza e la religione, mi sembra che esse condividano un medesimo desiderio di apprendere il vero. In questa ricerca, nessuna delle due potrà raggiungere una certezza assoluta; entrambe esigeranno una fede che sia motivata ma non al riparo dal poter essere messa in discussione. Basta, in effetti, considerare come ciascuna affronti il proprio compito. Quando, da studente, cominciai la ricerca nel campo della fisica delle particelle elementari, nel 1952, ritenevamo che la materia fosse composta di protoni, neutroni ed elettroni. Gli elettroni ci hanno ben ripagato delle nostre fatiche, e tuttora li consideriamo elementi fondamentali. Tuttavia, nel 1979, quando ho lasciato l’attività, avevamo raggiunto la conclusione che protoni e neutroni fossero loro stessi composti da costituenti ancora più basilari: i famosi quark e i gluoni di cui abbiamo già parlato. Nessuno ha mai visto, e crediamo che nessuno sarà mai in grado di vedere, un quark. All’interno dei protoni e dei neutroni, i quark sono così strettamente legati gli uni agli altri, che niente può riuscire a liberarli singolarmente. Perché allora, credo a questi quark invisibili? E’ una vicenda lunga, che mi piacerebbe raccontarvi; però, dato che non corrisponde esattamente all’argomento di questo libro, sarò costretto a rimandarne i particolari ad un’altra occasione. In breve, il motivo è che l’ipotesi dei
quark dà un senso ad un gran numero di esperimenti fisici diretti, come gli schemi in cui le particelle possono essere raggruppate, e lo strano modo in cui dei proiettili, come gli elettroni, rimbalzano collidendo con protoni e neutroni, esattamente come se, al loro interno, vi fossero alcuni costituenti minuscoli e duri. In modo abbastanza simile, credo al Big Bang. Naturalmente non ero lì ad osservare mentre avveniva, tuttavia esso dà un significato al modo in cui oggi ci appare l’universo, con galassie che si allontanano le une dalle altre, e tutt’attorno con un sibilo di radio-rumore (la radiazione di fondo), la cui migliore interpretazione è quella di un’eco prolungata proveniente da quei tempi remoti. Credo anche all’evoluzione biologica. Vi sono dei rompicapi irrisolti, alcune prove sono alquanto frammentarie, ed è probabile che sul processo vi sia ancora molto più da capire di quanto sia stato già svelato dai biologi. Ciò nondimeno, che la vita sia cresciuta dalla semplicità iniziale all’attuale complessità mediante una storia di evoluzione che comprende certamente, attraverso la selezione naturale, la paziente cernita ed accumulazione di piccole differenze, è di gran lunga la migliore comprensione cui siamo pervenuti della documentazione fossile e dei rapporti tra le sequenze di DNA nei differenti organismi. La strategia intellettuale della scienza non è né un’eccessiva credulità né un perpetuo scetticismo. Non si potrebbe progredire affatto se si mettesse in discussione ogni cosa in ogni momento. Quando, a volte, si rende necessario, gli scienziati hanno in realtà le stesse difficoltà di chiunque altro nel rivedere convinzioni che siano state accettate da molto tempo. La comprensione che conseguiamo non è mai fuor di dubbio e, spesso, vi sono aspetti sconcertanti o persino totalmente inspiegabili di ciò che succede. Facciamo del nostro meglio, ed una teoria scientifica generale è persuasiva, in linea di massima, poiché fornisce la miglior spiegazione possibile di una gran fascia di esperienze fisiche. La produttività cumulativa della scienza, cioè la sua capacità di dare frutti, m’incoraggia a credere che questa sia una strategia intellettuale efficace da perseguire. Il mio desiderio è d’intraprendere un’analoga strategia nei confronti della realtà invisibile di Dio. La sua esistenza dà senso a molti aspetti della nostra conoscenza ed esperienza: l’ordinamento e la capacità di dar frutti del mondo fisico; il carattere multistratificato della realtà (vedi p. 68); l’esperienza umana, pressoché universale, del culto di un Essere supremo e della speranza; il fenomeno di Gesù Cristo (inclusa la sua risurrezione). Non voglio sviluppare qui queste considerazioni (non più di quanto lo abbia fatto con le motivazioni delle mie credenze scientifiche), ma penso che in entrambi i casi siano presenti processi riflessivi molto simili. Quando passo dalla scienza alla religione, non credo di cambiare marcia con qualche strano meccanismo intellettuale. In particolare, non sostengo che la fede religiosa salti fuori da una qualche fonte di conoscenza avallata in modo misterioso e incontestabile, che non sia aperta ad una valutazione razionale e, se necessario, ad una revisione. La teologia sa da tempo che le nostre immagini di Dio sono inadeguate all’infinita ricchezza della sua natura; che i concetti umani di Dio sono, in ultima analisi, idoli da distruggere di fronte alla realtà che è ben più grande.
Al di sotto di uno strato superficiale, la scienza e la religione, nella loro ricerca della verità, sono intellettualmente cugine. Nel XIX secolo, A. D. White scrisse un celebre libro dal titolo The Warfare of Science and Theology in Christendom (Appleton, 1896), ma la sua tesi del conflitto tra scienza e teologia si rivelò un errore costoso fondato su giudizi errati. Al contrario, io ho cercato di presentare un resoconto dell’amicizia tra scienza e teologia; e credo che questa sia la valutazione più giusta. La religione è il nostro incontro con la realtà divina, esattamente come la scienza è il nostro incontro con la realtà fisica. Uno scienziato può essere un credente (e molti lo sono). Io sono felice di essere uno di costoro e ho scritto questo libro nella speranza che possa aiutare altri a fare un’analoga scoperta.
PER SAPERNE DI PIÙ Se questo libro ha stimolato il vostro appetito per riflettere sulla scienza e sulla religione, esistono una molteplicità di libri che sviluppano maggiormente la materia. Con la sfrontatezza tipica degli autori, posso forse citare per primi i miei scritti: The Way the World is (Triangle, 1983) – una difesa della fede cristiana allo stesso livello di questo libro. One World (SPCK, 1986) – una rassegna più dettagliata di molti temi, ove brani di altri autori vengono riportati e discussi. Science and Creation (SPCK, 1988) – si occupa principalmente della teologia naturale (come il capitolo 2) e dell’idea cristiana di creazione (come il capitolo 3). Science and Providence (SPCK, 1989) – ci si chiede: «Dio agisce nel mondo?» e altre domande collegate che riguardano la preghiera, i miracoli, ed il problema del male (come i capitoli 5 e 6). Reason and Reality (SPCK, 1991) – una discussione più dettagliata di alcuni temi, compreso il confronto tra scienza e teologia (come i capitoli 1 e 8). Science and Christian Belief (SPCK, 1994) – un’apologia molto più circostanziata della fede cristiana. Uno dei capitoli si occupa di come finirà il mondo (come il capitolo 7) ed un altro di combattere il riduzionismo (come il capitolo 4). In italiano è stato pubblicato: Scienza e fede (Milano, Mondadori, 1987). Infine, se siete interessati a saperne di più sulla teoria dei quanti, potete ricorrere a The Quantum World (Penguin, 1990). [trad, it.: Il mondo dei quanti, Milano, Garzanti, 1986]. Per una rassegna ragionata delle teorie di molti autori sull’argomento potete rivolgervi a Religion in an Age of Science (SCM Press, 1990), di Ian Barbour. Su alcuni temi i biologi la pensano in modo sottilmente diverso dai fisici. In particolare, e comprensibilmente, hanno qualcosa di più da dire sul significato dell’evoluzione biologica. Il biochimico Arthur Peacocke ha scritto Creation and the World of Science (Oxford University Press, 1979) e God and the New Biology (Dent, 1986).
Chi discute gl’interrogativi della teologia naturale affrontandoli dall’esterno rispetto ad ogni tradizione religiosa è Paul Davies. Si veda il suo God and the New Physics (Dent, 1983) e The Mind of God (Simon & Schuster, 1992). Un libro eccellente sul principio antropico è Universes (Routledge, 1989), di John Leslie. Un buon resoconto sulla teoria del caos è contenuto in Chaos (Heinemann, 1988), di James Gleick.
1 «cradle Christian»: una persona che è cristiana di famiglia, d’origine culturale cristiana, ecc.,
che è da sempre in quest’ambiente (N.d.E.). 2 Come disse Benito Mussolini a Losanna, nel 1912, durante una disputa pubblica con il pastore
metodista Alfredo Taglialatela (N.d.E.). 3 In inglese: «God of the gaps». 4 È il gatto che appare in Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie, che svanisce
lasciando il proprio sorriso sospeso a mezz’aria (N.d.E.). 5 Trad. it.: Dio e la nuova fisica, Milano, Mondadori, 1984. 6 «Package», un programma predeterminato ed omogeneo alle finalità che si prefigge, da
accettare o respingere nel suo complesso (N.d.E.). 7 Dal vocabolo inglese «glue» (colla). 8 In inglese: «nothing butters», da «nothing but». 9 II termine significa letteralmente grande frantumazione ed è usato dall’autore in assonanza con Big Bang (N.d.E.).