DEAN KOONTZ LA NOTTE DEL KILLER (Mr. Murder, 1993) A Phil Parks, per quel che è spesso all'interno, e a Don Brautigam, p...
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DEAN KOONTZ LA NOTTE DEL KILLER (Mr. Murder, 1993) A Phil Parks, per quel che è spesso all'interno, e a Don Brautigam, per quel che è spesso all 'esterno. E per tutto quel talento che hanno senza nessuna evidente, invadente nevrosi. Be ', quasi nessuna. PARTE PRIMA Babbo Natale e il suo gemello cattivo Strano quell'anno fu l'inverno, e grigio. L'umido vento odorava di Apocalisse, e il cielo del mattino aveva un suo modo singolare di sgusciare nella notte veloce come un gatto. The Book of Counted Sorrows La vita è tutta una commedia. È questa la sua grande tragedia. MARTIN STILLWATER, Un vescovo è morto 1 1 «Ho bisogno...» Sprofondato nella comoda poltrona di cuoio del suo ufficio, dondolandosi appena mentre, con il miniregistratore in mano, dettava una lettera per il suo editor di New York, improvvisamente Martin Stillwater si rese conto che stava continuando a ripetere bisbigliando, come in trance, sempre le
stesse due parole. «Ho bisogno... Ho bisogno... Ho bisogno...» Aggrottando la fronte, Marty spense il registratore. Il treno dei suoi pensieri si era infilato su un binario morto e si era arrestato sferragliando. Non riusciva a ricordare che cosa volesse dire. Bisogno... di che cosa aveva bisogno? La grande casa non era semplicemente silenziosa: su di essa era calato un silenzio soprannaturale. Paige aveva portato le bambine a pranzo fuori e poi al cinema, allo spettacolo pomeridiano del sabato. Ma quel silenzio da assenza di bambini non era solo uno stato della casa. Aveva un che di palpabile. L'aria ne era carica. Si toccò la nuca. Sentì la mano fresca e umida. Rabbrividì. Fuori, la giornata autunnale era silenziosa come la casa, come se tutta la California meridionale fosse stata evacuata. Le ampie imposte dell'unica finestra dello studio al primo piano erano socchiuse. La luce entrava ad angoli sghembi, stampando sul divano e sul tappeto sottili righe di un colore rosso dorato come pelo di volpe; la striscia luminosa più vicina a lui colpiva l'angolo della scrivania a semicerchio. Ho bisogno... L'istinto gli diceva che solo un attimo prima, appena al di fuori della sua visuale, era accaduto qualcosa di importante, e lui ne aveva avuto una percezione subliminale. Ruotò sulla poltrona girevole e controllò la parte della stanza che aveva alle spalle. Oltre alle fasce ramate di sole intervallate dalle stecche d'ombra delle persiane, l'unica luce proveniva da una lampada da scrittoio con l'abat-jour in vetro colorato. Nonostante la penombra, però, lui era in grado di vedere che si trovava solo con i suoi libri, i fascicoli delle ricerche e il computer. Forse la profondità di quel silenzio gli pareva innaturale solo perché da mercoledì, quando le scuole avevano chiuso per le festività del Ringraziamento, la casa si era riempita di voci e di trambusto. Le bambine gli mancavano. Avrebbe fatto bene ad andare al cinema con loro. Ho bisogno... Le due parole erano state pronunciate con particolare intensità, quasi con passione. Improvvisamente un'ansia cupa lo invase, l'acuta sensazione di un pericolo incombente. Era quel senso di premonizione che avvertivano talvolta i personaggi dei suoi romanzi, e che lui cercava sempre di descrivere evi-
tando di ricorrere a luoghi comuni. Erano anni che non gli capitava più di avere quella sensazione, da quando Charlotte a quattro anni si era ammalata così gravemente da far temere che si trattasse di tumore. Costretto a stare tutto il giorno all'ospedale, mentre la sua bambina veniva trasportata in carrozzina da un laboratorio all'altro per gli esami, ad affrontare tutte quelle notti insonni, e i giorni che seguirono, interminabili, prima che i medici azzardassero una diagnosi, Marty si era sentito assillato da uno spirito maligno la cui presenza appesantiva l'aria, rendendogli difficile respirare, muoversi, sperare. Ma poi era risultato che la bambina non era minacciata né da un nemico soprannaturale né da qualcosa di più fisico ma altrettanto maligno. Era soltanto affetta da un disturbo del sangue, curabile. Nel giro di tre mesi, Charlotte si era ristabilita. E ora Marty avvertiva di nuovo quella gelida morsa, anche se non riusciva a comprenderne la ragione. Charlotte ed Emily erano due ragazzine sane, senza problemi. Paige e lui erano felici insieme: assurdamente felici, considerando quante coppie di loro conoscenza sulla trentina erano divorziate, separate, o impegnate in relazioni extraconiugali. Dal punto di vista economico, erano più solidi di quanto avessero mai sperato. Eppure, Marty sapeva che c'era qualcosa che non andava. Depose il registratore, andò alla finestra e spalancò le imposte. Un platano spoglio proiettava la sua ombra lunga e secca sul giardinetto laterale. Oltre i rami contorti, le mura gialline a stucco della casa accanto sembravano imbevute di sole; riflessi dorati e rossastri tingevano le finestre; tutto era silenzioso, apparentemente sereno. Guardando verso destra riusciva a vedere uno spicchio di strada. Le case dall'altra parte dell'isolato erano anch'esse in stile mediterraneo, intonacate a calce con le tegole in terracotta, dorate dal sole del pomeriggio che proiettava su di loro la filigrana delle fronde dei palmizi. Tranquillo, curato, progettato centimetro per centimetro, il loro quartiere, anzi tutta la cittadina di Mission Viejo, sembrava un'oasi di pace nel caos che ormai dominava in quasi tutto il resto del mondo. Accostò le imposte, chiudendo fuori completamente il sole. A quanto pareva il pericolo era solo nella sua mente, una costruzione della sua vivida fantasia, quella stessa immaginazione che, se non altro, aveva fatto di lui uno scrittore di discreto successo. Eppure il cuore gli batteva più forte che mai. Marty uscì dallo studio e percorse tutto il corridoio, fino alle scale che
scendevano al piano di sotto. Rimase fermo, immobile quanto la colonnina in cima alle scale su cui aveva posato la mano. Non sapeva che cosa si aspettasse di sentire. Il cigolio di una porta, alcuni passi furtivi? I rumori sommessi del lento avanzare di un intruso entrato in casa? Un po' alla volta, visto che non udiva nulla di sospetto, e che il galoppo del cuore rallentava, la sensazione di un disastro incombente cominciò a svanire. L'ansia si trasformò in semplice disagio. «Chi c'è?» domandò, solo per rompere il silenzio. Il suono della sua voce, piena di apprensione, spazzò via del tutto quello stato d'animo angoscioso. Ora non c'era che silenzio, il normale silenzio di una casa vuota, privo di qualsiasi minaccia. Rientrò nello studio in fondo al corridoio e tornò ad accomodarsi sulla poltrona dietro la scrivania. Con le persiane ermeticamente chiuse e la sola luce proveniente dal lume sul tavolo, sembrava che gli angoli della stanza arretrassero in una dimensione che andava al di là delle misure fisiche fissate dalle pareti, come lo scenario di un sogno. L'abat-jour era decorato con un motivo di frutta, e il cristallo protettivo sul piano della scrivania rifletteva ovali e cerchi luminosi rosso ciliegia, viola susina, verde uva, giallo limone e blu mirtillo. Anche le superfici di metallo lucido e di plexiglass del registratore poggiato sul cristallo riflettevano il mosaico policromo, scintillando quasi fossero tempestate di gemme. Quando allungò la mano verso l'apparecchio, Marty la vide come inguantata nella pelle squamosa e iridata di chi sa quale esotica lucertola. Esitò, fissando le scaglie multicolori proiettate sul dorso della sua mano e i gioielli fantasma sul registratore. La realtà era fitta di illusioni non meno di qualsiasi invenzione letteraria. Prese il registratore e tenne premuto per qualche seconde il pulsante del riavvolgimento, cercando le ultime parole della lettera all'editor bruscamente interrotta. Il sibilo acuto della sua voce a ritroso emergeva come una lingua sconosciuta dal piccolo altoparlante. Quando schiacciò il bottone del play si accorse di non essere tornato abbastanza indietro: «Ho bisogno... Ho bisogno... Ho bisogno...» Aggrottando le sopracciglia, tenne premuto il bottone del riavvolgimento, facendo arretrare il nastro per il doppio del tempo. Ma ancora: «Ho bisogno... Ho bisogno... Ho bisogno...» Dopo altri due tentativi trovò la lettera. «Per cui dovrei essere in grado di farti avere la stesura definitiva del nuovo libro entro più o meno un me-
se. A mio parere questo è... questo è... ehm... questo...» La dettatura terminava lì. La cassetta continuò a girare in silenzio: solo il suono del suo respiro. Quando finalmente dall'altoparlante scaturì la cantilena di due parole, Marty si era proteso sul bordo della poltrona, teso, fissando cupamente il registratore che teneva in mano. «Ho bisogno... Ho bisogno...» Guardò l'ora. Le quattro passate da quasi sei minuti. All'inizio il mormorio assonnato era uguale a quello che aveva udito quando per la prima volta aveva preso coscienza di quella nenia sommessa, quasi una risposta a un'interminabile, ripetitiva litania religiosa. Dopo un buon mezzo minuto, però, la qualità della sua voce registrata era cambiata, si era fatta più secca, carica di ansia, di angoscia, e poi di rabbia. «HO BISOGNO... HO BISOGNO... HO BISOGNO...» Le due parole comunicavano una profonda frustrazione. Il Marty Stillwater su nastro, che per il Marty Stillwater in ascolto poteva essere un completo sconosciuto, sembrava in preda a un'acuta sofferenza emotiva per la mancanza di qualcosa, qualcosa che lui non avrebbe potuto né descrivere né immaginare. Come ipnotizzato, continuò a fissare le rotelle bianche dentate della cassetta che ruotavano senza sosta dietro lo sportellino di plastica trasparente. Infine la voce tacque, la registrazione cessò, e Marty tornò a guardare l'orologio. Più di dodici minuti dopo le quattro. Sant'Iddio, sette minuti. E non ne ricordava nemmeno uno. Come in trance. Fermò il nastro. La mano gli tremava e, quando rimise il registratore sulla scrivania, non riuscì a evitare che l'urto contro il ripiano fosse rumoroso. Volse lo sguardo in giro per lo studio, dove aveva passato così tante ore a escogitare e risolvere così tanti misteri, dove aveva sottoposto innumerevoli personaggi a gravosissimi travagli e li aveva sfidati a trovare la via d'uscita alle minacce più terribili. Quella stanza era così familiare: gli scaffali traboccanti di libri, alle pareti i dipinti originali di una dozzina di sovracoperte di suoi libri, il divano che aveva acquistato prevedendo oziose sedute per mettere a punto delle trame ma che non aveva mai avuto il tempo o la voglia di usare, il computer con il suo monitor gigante. Ma quella familiarità non gli era più di conforto, perché ora era inquinata dalla stranezza di ciò che era accaduto pochi minuti prima. Si passò sui jeans le mani madide di sudore.
Dopo averlo abbandonato per qualche attimo, la paura tornò a insinuarsi dentro di lui, come l'inquietante corvo di Poe appollaiato sopra la porta della stanza. Quando si era risvegliato dal suo stato di trance, percependo una situazione di pericolo, si era aspettato di trovare l'origine della minaccia fuori, in strada, o nelle vesti di un ladro che si aggirava per le stanze del piano di sotto. Ma le cose stavano peggio di così. La minaccia non era esterna. In un modo o nell'altro, quello che non andava era dentro di lui. 2 La notte è profonda e senza turbolenze. I raggi della luna tingono d'argento le nuvole ammassate al di sotto, e per un po' l'ombra dell'aeroplano ondeggia sulla superficie di quel mare vaporoso. Il volo del killer da Boston arriva in orario a Kansas City, Missouri. L'uomo va direttamente al ritiro bagagli. I viaggiatori che rientrano per le festività del Ringraziamento arriveranno solo l'indomani, per cui l'aeroporto è tranquillo. Le sue due borse, una delle quali contiene una pistola Heckler & Koch P7, con silenziatore smontabile e caricatori extra con munizioni da 9 mm, sono il primo e il secondo bagaglio ad arrivare con il nastro trasportatore. Al bancone dell'agenzia di autonoleggio verifica che la sua prenotazione non sia andata smarrita né registrata male, come spesso avviene. Non dovrà accontentarsi della prima utilitaria che capita, ma potrà disporre della grossa berlina Ford che ha richiesto. La carta di credito intestata a John Larrington è accettata dall'impiegato e dal dispositivo di verifica dell'American Express senza difficoltà, anche se il suo nome non è John Larrington. Quando gliela consegnano, l'auto è in perfetto stato e profuma di pulito. Perfino il riscaldamento funziona. A quanto pare sta andando tutto liscio. A pochi chilometri dall'aeroporto si ferma a un motel, una costruzione gradevole ma anonima di tre piani, dove la receptionist, una rossa, lo informa che l'indomani mattina potrà avere una colazione offerta dalla casa, paste, spremuta d'arancia, caffè, su semplice richiesta. La sua carta Visa intestata a Thomas E. Jukovic viene accettata, anche se lui non si chiama neppure Thomas E. Jukovic.
La sua camera ha una moquette color arancio bruciato e la carta da parati a strisce blu. In compenso, il materasso è abbastanza duro e gli asciugamani sono soffici. La valigetta contenente la pistola automatica rimane chiusa nel bagagliaio dell'auto, dove non costituirà una tentazione per il personale del motel, anche il più ficcanaso. Dopo essere rimasto per un po' seduto in poltrona alla finestra, a guardare Kansas City alla luce delle stelle, scende a cenare. È alto un metro e ottanta, pesa ottanta chili, ma mangia con la voracità di un uomo molto più grosso. Un passato di verdure con crostini all'aglio. Due cheesburger, patatine fritte. Una fetta di torta di mele con gelato alla vaniglia. Mezza dozzina di tazze di caffè. Ha sempre molto appetito. Spesso è una vera e propria fame: una fame talvolta quasi insaziabile. Mentre mangia, la cameriera si ferma due volte al suo tavolo a domandargli se i piatti sono di suo gradimento e se desidera altro. Non è solo premurosa, fa la civetta. È un uomo abbastanza attraente, ma non certo all'altezza di un qualsiasi divo del cinema. Eppure le donne flirtano con lui più spesso che con altri uomini magari più belli e più eleganti. Il suo abbigliamento, un paio di scarpe Rockport, calzoni color cachi, maglione verde scuro a collo alto, niente gioielli e un orologio da polso da pochi soldi, non ha nulla che attiri l'attenzione, che si faccia ricordare. E l'intenzione è esattamente questa. La cameriera non ha elementi per prenderlo per un uomo benestante. Eppure, eccola di nuovo, che sorride leziosa. Una volta, in un locale di Miami dove l'aveva agganciata, una bionda con gli occhi color whisky gli aveva detto che attorno a lui c'era una specie di alone che incuriosiva. Quell'inclinazione al silenzio, quell'espressione di fissità che tanto spesso gli compariva in viso, emanavano, a suo dire, un magnetismo irresistibile. «Tu», aveva affermato, «sei il prototipo dell'uomo forte e silenzioso. Cavoli, se tu dovessi fare un film con Clint Eastwood e Sylvester Stallone, l'autore dei dialoghi potrebbe andarsene in ferie!» Più tardi l'aveva picchiata a morte. Non che si fosse irritato per qualcosa che aveva detto o fatto. Anzi, il sesso con lei era stato soddisfacente. Ma era arrivato in Florida per far fuori un tale chiamato Parker Abbotson e temeva che in seguito la donna potesse collegarlo all'omicidio. Meglio non lasciarle l'opportunità di fornire una sua descrizione alla polizia.
Dopo averla eliminata era andato a vedere l'ultimo Spielberg, e poi un film con Steve Martin. Il cinema è una passione, per lui. A parte il lavoro, i film sono tutta la sua vita. A volte pensa che la sua vera casa sia una serie di cinema in città diverse eppure così simili nei loro centri commerciali che potrebbero essere un'unica sala buia. Ora finge di non accorgersi che la cameriera sta flirtando con lui. Non è male, ma non gli verrebbe mai in mente di liquidare un'addetta al ristorante proprio dell'albergo in cui è alloggiato. Deve trovare una donna in un posto che non abbia niente a che fare con lui. Dopo essere salito un attimo in camera a prendere il giubbotto di pelle foderato, adatto per una sera di fine novembre, monta sulla Ford a nolo e si mette a girare per il quartiere commerciale circostante, descrivendo cerchi sempre più ampi. È alla ricerca del locale in cui potrà trovare la donna adatta. 3 Papà non era papà. Aveva gli occhi azzurri di papà, i capelli neri di papà, le orecchie troppo grandi di papà, il naso lentigginoso di papà; era una copia del Martin Stillwater raffigurato sulle copertine dei suoi libri. Sembrava proprio papà, a sentirlo parlare, perché quando Charlotte ed Emily e la mamma erano rientrate, e lo avevano trovato in cucina che beveva caffè, aveva detto: «E inutile che cerchiate di farmi credere che dopo il cinema siete andate a fare spese. Vi ho fatto seguire da un detective privato. Lo so che siete state in una bisca di Gardena, a giocare a poker e a fumare sigari». In piedi e seduto sembrava proprio papà, si muoveva come papà. Più tardi, quando erano andati in macchina a cena da Islands, guidava anche come guidava papà. Cioè, come diceva mamma, troppo forte. Oppure, come diceva lui, semplicemente con «la mano sicura ed esperta del pilota provetto». Ma Charlotte sapeva che qualcosa non andava, e ne era preoccupata. Oh, non che fosse spuntato un marziano da un baccello venuto dallo spazio e avesse preso il suo posto, niente di così esagerato. Non era diverso fino a quel punto dal papà che lei conosceva e amava. Per lo più si trattava di differenze minime. Anche se appariva come sempre rilassato e disinvolto, si vedeva che era un pochino teso. Si muo-
veva rigido, come se tenesse delle uova in equilibrio sulla testa... o come se si aspettasse da un momento all'altro di essere colpito da qualcuno, da qualcosa. Non sorrideva con l'immediatezza e la frequenza di prima, e quando lo faceva il sorriso sembrava finto. Prima di uscire in retromarcia dal vialetto si era voltato a controllare che Charlotte ed Emily avessero agganciato le cinture di sicurezza, ma non aveva detto: «Il razzo Stillwater è in partenza per Marte» o «Se faccio le curve troppo strette e vi viene da vomitare, da brave, vomitatevi in tasca, non sulla mia bella tappezzeria» o «Se vado così veloce che torniamo indietro nel tempo, non mettetevi a gridare parolacce ai dinosauri» o un'altra delle sue solite scemenze. Charlotte lo aveva notato, e ne era turbata. Il ristorante Islands offriva ottimi hamburger, patatine fantastiche (che si potevano ordinare ben cotte) insalate e tortillas. I panini imbottiti e le patate fritte erano serviti dentro cestini, e l'ambientazione era di conio spiccatamente caraibico. «Conio» era una parola nuova per Charlotte. Le piaceva moltissimo il suo suono, e la usava ogni volta che se ne presentava l'occasione, anche se Emily, irrecuperabile mocciosa, ogni volta doveva intervenire: «Cono? Dov'è questo cono? Io non vedo nessun cono!» Sette anni, possono essere una bella rottura. Charlotte ne aveva dieci, per la precisione li avrebbe avuti di lì a un mese e mezzo, ed Emily ne aveva appena compiuti sette, a ottobre. Em era una brava sorella, ma non c'è niente da fare, le settenni sono così... settennose. In ogni caso, l'ambientazione era di conio tropicale: colori accesi, graticci di bambù al soffitto, avvolgibili di legno, e tante palme in vaso. I camerieri e le cameriere vestivano in short e vivaci camicie hawaiane. Quel posto le ricordava la musica di Jimmy Buffet, una di quelle cose che i suoi genitori adoravano ma che lei non riusciva a mandar giù. Ma almeno era fresco, e le patatine erano eccezionali. Avevano preso posto in un séparé nel settore per non fumatori, dove si stava ancora meglio. Da bere, i suoi ordinarono una Corona, che arrivò in boccali appannati dal freddo. Charlotte prese una Coca, ed Emily chiese un'acqua tonica. «L'acqua tonica è una bibita da grandi», comunicò Em. Accennò alla Coca di Charlotte. «Quand'è che la smetti di bere cose da bambini?» Em era convinta che l'acqua tonica potesse sbronzare come la birra. A volte faceva l'ubriaca dopo il secondo bicchiere, una scena stupida e imba-
razzante. Quando Em si lanciava nella sua pantomima (rutti, sguardo perso e andatura barcollante) richiamando gli sguardi severi degli estranei presenti, Charlotte spiegava che la piccola aveva sette anni. Tutti capivano: che cosa ci si può aspettare da una mocciosa di quella età? Ma era comunque imbarazzante. Quando la cameriera portò la cena, mamma e papà parlavano di una coppia di loro conoscenza che stava per divorziare: noiosissimi discorsi da adulti che, a prestare loro orecchio, erano capaci di rovinare un'ambientazione di qualsiasi conio. Ed Em stava accatastando le patatine in un modo particolare, come versioni in miniatura di certe sculture moderne che avevano visto quell'estate in un museo; era completamente presa da quel lavoro. Visto che erano tutti distratti, Charlotte aprì la lampo del tascone del suo giubbotto di jeans, ne estrasse Fred e lo mise sul tavolo. Lui rimase immobile dentro il suo guscio, le zampe ritratte, senza testa, grande quanto un orologio da uomo. Alla fine la punta a becco del minuscolo muso fece la sua comparsa. Annusò l'aria con circospezione, poi tirò fuori completamente la testa dalla fortezza che si portava sulla schiena. I due lucidi occhietti neri scrutarono tartarughescamente in giro con grande interesse, e Charlotte suppose che Fred dovesse sentirsi affascinato da quell'ambiente di conio inedito. «Stammi dietro, Fred, e ti farò vedere posti che nessuna tartaruga ha mai visto», gli mormorò. Lanciò un'occhiata ai genitori. Erano ancora così presi dal loro discorso che non si erano accorti di Fred. Ora lui era nascosto alla loro vista da un cestino di patate fritte. Con le patate, Charlotte aveva chiesto involtini di tortillas con pollo, e da uno di questi estrasse una strisciolina di lattuga. La tartaruga l'annusò, poi girò la testa disgustata. Lei riprovò con un pezzetto di pomodoro. Ma fai sul serio? parve rispondere Fred, rifiutando il boccone. Fred, certe volte, faceva proprio lo schizzinoso. Colpa mia, pensò Charlotte, sono io che l'ho viziato. Non le pareva che il pollo e il formaggio fossero cibi adatti a lui, e non gli avrebbe offerto nemmeno una briciola di tortilla finché non avesse mangiato la sua verdura; quindi si mise a sbocconcellare una croccante patatina e a guardare in giro per il ristorante come affascinata dagli altri avventori, ignorando quel piccolo rettile maleducato. Sicuramente aveva rifiutato lattuga e pomodoro solo per irritarla. Se vedeva che a lei non im-
portava proprio niente che lui mangiasse o meno, magari si sarebbe deciso a farlo pure lui. Anche Fred aveva sette anni, secondo il calcolo dell'età usato per le tartarughe. L'attenzione di Charlotte fu attirata di colpo da una coppia di metallari, vestiti di pelle e con strani capelli. I due la distrassero per qualche minuto, e il gridolino di allarme della madre la fece sobbalzare. «Ah», aggiunse la mamma dopo il gridolino. «È solo Fred.» La tartaruga, quell'ingrata (dopotutto Charlotte avrebbe potuto benissimo lasciarla a casa), non era più accanto al suo piatto dov'era stata depositata. Aveva fatto tutto il giro del cestino delle patatine ed era arrivata dall'altra parte del tavolo. «L'avevo tirato fuori solo per dargli da mangiare», spiegò Charlotte sulla difensiva. Sollevando il cestino perché Charlotte potesse vedere la tartaruga, la mamma disse: «Tesoro, non gli fa bene stare tutto il giorno in una tasca». «Mica tutto il giorno.» Charlotte si impadronì di Fred e lo rimise nel giubbotto. «Solo da quando siamo usciti di casa per venire qui.» La mamma si accigliò. «Hai altre bestie con te?» «Solo Fred.» «E Bob?» insisté la mamma. «Bleah!» fece Emily con una smorfia. «Ti sei messa Bob in tasca? Bob mi fa schifo!» Bob era un insetto, un lento scarabeo nero grosso quanto l'ultima falange del pollice di papà, con lievi striature blu sul carapace. A casa Charlotte lo teneva in un grosso vaso di vetro, ma qualche volta le piaceva tirarlo fuori e guardarlo arrancare con quel suo passo affaticato sul ripiano di un mobile o perfino sul dorso della sua mano. «Non porterei mai Bob al ristorante», garantì Charlotte. «Sai altrettanto bene che non devi portare neanche Fred», disse la mamma. «È scema», spiegò Emily. La mamma la guardò. «Non più scema di chi usa le patatine come Lego.» «Questa è arte.» Emily aveva la mania dell'arte. A volle era strana, anche per una bambina di selle anni. «Picasso redivivo» la chiamava papà. «Ah, sì?» replicò la mamma. «È arte quello che hai nel piatto? E poi che cosa mangi, un quadro?» «Può essere», rispose Em. «Un quadro di una torta di cioccolato.»
Charlotte richiuse la tasca del giubbotto, imprigionando Fred. «Lavati le mani prima di continuare a mangiare», disse papà. «Perché?» «Che cosa stavi maneggiando?» «Fred, vuoi dire? Ma Fred è pulito.» «Ti ho detto di lavarti le mani.» I modi bruschi del padre ricordarono a Charlotte che non era lui. Raramente si rivolgeva con quel tono a lei o a Em. Lei si comportava bene non per paura di essere sgridata o sculacciata, ma perché ci teneva a non deludere lui o la mamma. Era la cosa più bella del mondo quando prendeva un bel voto a scuola o quando suonava bene al saggio di pianoforte e li vedeva fieri di lei. E non c'era niente, assolutamente niente di più brutto che comportarsi male e vedere un'espressione di tristezza delusa nei loro occhi, anche quando non la punivano e non dicevano niente. La durezza della voce del padre la mandò difilato alla toilette, e per tutto il percorso dovette farsi forza per ricacciare indietro le lacrime. Più tardi, di ritorno da Islands, quando papà calcò il piede sull'acceleratore, mamma disse: «Marty, non siamo a Indianapolis». «Ti pare che stia correndo?» domandò papà, come stupito. «Guarda che non è vero.» «Nemmeno il crociato dal mantello nero può lanciare la Batmobile a questa velocità.» «Ho trentatré anni, e non ho mai avuto un incidente. Una carriera immacolata. Mai una multa. Mai fermato da un poliziotto.» «Perché non riescono a raggiungerti», ribatté la mamma. «Esatto.» Sul sedile posteriore, Charlotte ed Emily ridacchiavano tra loro. Da che Charlotte aveva memoria, il padre e la madre si erano sempre scambiati battute sul suo modo di guidare, anche se la mamma avrebbe voluto molto seriamente che riducesse l'andatura. «Mai avuto una multa nemmeno per divieto di sosta», ribadì papà. «Be', non è facile avere una multa per divieto di sosta quando il tachimetro è sempre al massimo.» In passato, i loro battibecchi erano sempre stati scherzosi. Ma questa volta il padre improvvisamente assunse un tono brusco. «Per l'amor di Dio, Paige, sono un bravo pilota, questa è un'auto sicura, l'ho pagata più di quanto avrei dovuto proprio perché è una delle macchine più sicure che e-
sistano. Allora, vuoi farmi il piacere di piantarla?» «Certo. Scusami.» Charlotte guardò la sorella. Em aveva gli occhi spalancati per lo stupore. Papà non era papà. C'era qualcosa che non andava. Che non andava proprio. Avevano percorso solo la distanza di un isolato quando papà rallentò e lanciò un'occhiata alla mamma. «Scusa.» «No, figurati, hai ragione, sono io che sono troppo apprensiva su certe cose», rispose la mamma. Si sorrisero. Tutto a posto. Non avrebbero divorziato come quei due di cui parlavano a cena. Charlotte non ricordava una sola occasione in cui fossero stati in urto per più di qualche minuto. Ma era ugualmente preoccupata. Forse dopotutto era il caso di dare un'occhiata in giro per casa e dietro il garage, per vedere che non ci fosse davvero un baccello gigante, vuoto, venuto dallo spazio. 4 Il killer fila nelle strade buie, come uno squalo che fende le gelide correnti di un mare notturno. Questa è la prima volta che si trova a Kansas City, ma conosce le strade. La padronanza assoluta della scena fa parte della sua preparazione prima di ogni incarico, nel caso si trovasse inseguito dalla polizia e dovesse compiere una fuga precipitosa. Stranamente, non ricorda di aver visto, e tanto meno studiato, una pianta topografica, e non sa dire dove abbia acquisito un bagaglio di informazioni così dettagliato. Ma non gli piace soffermarsi sulle lacune della sua memoria perché pensarci apre la porta su un baratro nero che lo terrorizza. E allora pensa a guidare. Di solito gli piace. Avere una macchina potente e pronta a rispondere ai suoi comandi gli dà un senso di controllo e di decisione. Ma talvolta, come per esempio adesso, il movimento dell'auto e la vista di una città sconosciuta, indipendentemente da quanta familiarità possa avere con la disposizione delle vie, lo fanno sentire piccolo, solo, sradicato. Il cuore comincia a battergli forte. I palmi delle mani sono d'un tratto così sudati che il volante gli scivola. Ora, mentre frena a un semaforo, guarda nell'auto che ha a fianco e vede una famiglia illuminata dalla luce dei lampioni. Il padre è al volante. La
madre, una bella donna, è sistemata nel sedile del passeggero. Dietro siedono una bambina di una decina d'anni e una più piccola, di sei o sette anni. Di ritorno a casa da una serata fuori. Forse un cinema. Parlano, ridono, genitori e figli insieme, che hanno cose in comune. Nel suo stato, quella scena è un colpo micidiale, che gli strappa un suono inarticolato di angoscia. Esce dalla carreggiata, si infila nel parcheggio di un ristorante italiano. Rimane sprofondato nel sedile. Respira affannosamente. Il vuoto. Il vuoto gli fa paura. E ora è sopra di lui. Ha la sensazione di essere solo un involucro, come se fosse fatto del più sottile vetro soffiato, fragile, appena più consistente di un fantasma. In momenti come questi, ha un disperato bisogno di uno specchio. Il suo riflesso è una delle poche cose che possano confermare la sua esistenza. La complicata insegna al neon del ristorante, rossa e verde, illumina l'interno della Ford. Quando inclina lo specchietto retrovisore per guardarsi, la sua pelle ha una tinta cadaverica e i suoi occhi sono percorsi da mutevoli disegni color cremisi, come se dentro avesse delle fiamme. Questa sera il riflesso non è sufficiente ad alleviargli l'agitazione. Si sente sempre meno consistente di momento in momento. Forse emetterà un ultimo respiro, espellendo in quell'alito l'impalpabile sostanza finale del suo essere. Le lacrime gli velano la visuale. Il senso di solitudine lo travolge, l'insensatezza della sua vita lo tortura. Incrocia le braccia sul petto, si stringe a sé, si china in avanti e appoggia la fronte allo sterzo. Singhiozza, come un bambinetto. Non sa come si chiama, conosce solo i nomi che userà a Kansas City. Vorrebbe tanto avere un nome suo che non sia contraffatto come le carte di credito su cui è stampato. Non ha famiglia, non ha amici, non ha una casa. Non riesce a ricordare chi gli ha assegnato questo incarico, né uno solo di quelli precedenti, e non sa perché la vittima debba morire. Cosa incredibile, non ha la minima idea di chi lo paghi, non ricorda da dove provenga il denaro che ha nel portafoglio né dove abbia acquistato gli abiti che indossa. A un livello più profondo, non sa chi sia. Non ha alcun ricordo di un tempo in cui la sua attività non era quella di uccidere. Non ha un'idea politica, non ha una religione, la minima filosofia personale. Ogni volta che si sforza di interessarsi a quello che accade nel mondo, si accorge che non è
capace di tenere a mente ciò che legge sui quotidiani; non riesce neppure a concentrarsi sul telegiornale. È intelligente, ma si concede, o gli vengono concesse, solo soddisfazioni di tipo fisico: cibo, sesso, l'orgasmo selvaggio dell'omicidio. Vaste regioni della sua mente rimangono inesplorate. Sotto la luce al neon rossa e verde passano alcuni minuti. Le lacrime si asciugano. Un po' alla volta smette di tremare. Tornerà perfettamente in sé. Di nuovo sui binari. Solido, controllato. In effetti quando riesce a emergere dal pozzo di disperazione, ciò avviene con notevole rapidità. Si sorprende lui stesso nel vedere con quanta prontezza sia disposto a proseguire nel suo incarico, a riprendere quell'esistenza che non è che un'ombra di vita. A volte ha l'impressione di operare come se fosse programmato, come un'obbediente macchina senza cervello. D'altronde, se non volesse continuare, che cos'altro potrebbe fare? L'ombra di una vita è l'unica vita che ha. 5 Mentre le bambine erano di sopra a lavarsi i denti e a prepararsi per la notte, Marty controllò metodicamente una dopo l'altra tutte le stanze del pianterreno per accertarsi che porte e finestre fossero ben chiuse. Era a metà del giro, e stava verificando il saliscendi della finestra sopra il lavabo della cucina, quando si accorse della singolarità del compito che si era assegnato. Prima di andare a letto, tutte le sere, controllava la porta d'ingresso e quella di servizio, naturalmente, più le porte-finestre scorrevoli tra il soggiorno e il patio, ma di solito non si accertava che una specifica finestra fosse chiusa a meno che non sapesse che durante il giorno era stata aperta per cambiare l'aria. Eppure, continuò a verificare l'integrità del perimetro esterno della casa con la coscienziosità della sentinella che controlla le difese esterne di una fortezza assediata dal nemico. Stava finendo in cucina quando sentì il passo di Paige che entrava; subito dopo le sue braccia lo strinsero alla vita da tergo. «Tutto bene?» gli domandò. «Sì, insomma...» «Brutta giornata?» «Non proprio. Solo un brutto momento.» Marty si girò ad abbracciarla. Era una sensazione bellissima, il corpo della moglie tra le sue braccia, così caldo, così forte, così vivo. Che il suo amore per lei fosse più profondo adesso che quando si erano
conosciuti, al college, non gli sembrava affatto strano. I trionfi e i fallimenti che avevano vissuto insieme, gli anni di lotte quotidiane per farsi strada nel mondo e per afferrarne il senso, costituivano un terreno fertile su cui l'amore poteva crescere rigoglioso. Comunque, in un'epoca in cui l'ideale di bellezza sembrava rappresentato dalle diciannovenni ragazze ponpon professioniste delle squadre di football di serie A, Marty sapeva benissimo che molti si sarebbero stupiti del fatto che lui trovasse sua moglie sempre più attraente con il passare del tempo (l'aveva conosciuta quando lei aveva diciannove anni e ora ne aveva trentatré). I suoi occhi non erano più azzurri di quando si erano conosciuti, i suoi capelli non avevano una tonalità dorata più profonda, la sua pelle non era più liscia né più elastica. Eppure, l'esperienza le aveva dato carattere, spessore. La cosa poteva sembrare stucchevole in quell'epoca di cinismo, ma a volte gli sembrava che lei risplendesse di una luce interiore, raggiante come una Madonna dipinta da Raffaello. E allora, sì, forse lui aveva un cuore di burro, forse era un'anima candida malata di romanticismo, ma trovava il suo sorriso e l'espressione invitante dei suoi occhi estremamente più stimolanti di un'intera confezione da sei di ragazze ponpon nude. La baciò sulla fronte. «Solo un brutto momento?» ripeté lei. «Che cosa è successo?» Marty non aveva ancora deciso quanto confidarle di quei sette minuti perduti. Per il momento forse era meglio minimizzare la profonda inquietudine di quell'esperienza, passare dal medico lunedì mattina e magari farsi prescrivere qualche esame. Se la salute era buona, quello che era successo nel suo studio quel pomeriggio poteva risultare un episodio di inesplicabile singolarità. Non voleva impensierire Paige inutilmente. «Allora?» insisté lei. L'inflessione con cui aveva pronunciato quell'unica parola gli ricordò che dodici anni di matrimonio escludevano la possibilità di mantenere un segreto su qualcosa di grave, per quanto benintenzionata fosse la sua reticenza. «Ti ricordi di Audrey Aimes?» le chiese. «Chi? Ah, dici quella di Un vescovo è morto?» Un vescovo è morto era un suo romanzo. Audrey Aimes la protagonista. «Ti ricordi qual era il suo problema?» domandò Marty. «Aveva trovato un prete impiccato nel guardaroba dell'ingresso.» «A parte quello.»
«Un altro? Non ti pare abbastanza un prete morto? Sei sicuro di non fare delle trame un po' troppo complicate?» «Dico sul serio», insisté lui, pur sapendo che era piuttosto tortuoso informare la moglie su una sua crisi personale riferendola alle esperienze di un personaggio di un giallo ideato da lui stesso. Il confine tra vita e immaginazione era indistinto anche per gli altri come lo era a volte per uno scrittore? E, eventualmente, si poteva ricavare un libro, da quell'idea? Paige si accigliò. «Audrey Aimes... Ah, sì, parli dei suoi vuoti di memoria.» «Delle sue fughe.» Una fuga è una grave manifestazione di personalità dissociata. Il malato ha un'esistenza assolutamente normale, frequenta persone, svolge varie attività... ma più tardi non è in grado di ricordare dove sia stato o che cosa abbia fatto durante il blackout, come se il tempo fosse passato nel più profondo dei sonni. Una fuga può durare minuti, ore, addirittura giorni. Audrey Aimes aveva cominciato all'improvviso a soffrire di fughe all'età di trent'anni, in seguito al riemergere, dopo più di un ventennio, di ricordi rimossi di violenze subite da bambina, ricordi che la sua psiche cercava di cancellare. Si era convinta di avere ucciso lei il sacerdote mentre si trovava in uno stato di fuga, ma poi si era scoperto che l'autore dell'omicidio era un altro, e l'intera vicenda era legata a quanto le era successo in tenera età. Pur guadagnandosi da vivere tessendo dal nulla elaborate fantasie, Marty aveva fama di possedere una emotività solida quanto la Rocca di Gibilterra, e la cordialità di un golden retriever imbottito di Valium: e probabilmente era questo il motivo per cui Paige continuava a sorridergli, apparentemente poco disposta a prenderlo sul serio. . Si alzò in punta di piedi, lo baciò sul naso e disse: «Insomma, hai dimenticato di portar fuori la spazzatura, e ora ti inventi che è perché soffri di uno sdoppiamento della personalità dovuto a terrificanti violenze dimenticate che hai subito a sei anni. Dai, Marty, vergognati. Tuo padre e tua madre sono le persone più dolci che io abbia mai conosciuto». Lui la lasciò andare, chiuse gli occhi e si portò una mano alla fronte. Gli stava venendo un terribile mal di testa. «Dico sul serio, Paige. Questo pomeriggio, nello studio... per sette minuti... be', so quello che ho fatto in quel fottuto lasso di tempo solo perché ce l'ho registrato su nastro. Non ne ricordo niente. Ed è una cosa che mi dà la pelle d'oca. Sette minuti da brivido.»
Sentì il corpo di Paige irrigidirsi, nell'attimo in cui capiva che quello non era solo uno scherzo complicato. E quando riaprì gli occhi, vide che anche il sorriso allegro della moglie era scomparso. «Forse c'è una spiegazione ovvia», proseguì. «Forse non c'è da preoccuparsi. Ma sono spaventato, Paige. Mi sento stupido, forse non dovrei fare altro che scrollare le spalle e scordarmene. Ma sono spaventato.» 6 A Kansas City, un vento gelido deterge la notte finché il cielo sembra un'infinita lastra di cristallo trasparente punteggiata di stelle dietro la quale è racchiusa un'immensa riserva di tenebre. Sotto quell'enorme massa di spazio buio, il Blue Life Lounge si erge compatto come una stazione di ricerca sul fondo di una fossa oceanica, pressurizzata per resistere all'implosione. La facciata è ricoperta di una lamiera di alluminio che ricorda le roulotte degli anni Cinquanta. Neon blu e verdi scandiscono pigramente il nome e delineano il fronte dell'edificio, scintillando sull'alluminio in un richiamo non molto più allettante delle lampade di Nettuno. All'interno, dove un gruppo amplificato vomita rock degli ultimi due decenni, il killer si muove verso il bancone a ferro di cavallo posto al centro della sala. L'aria è satura di fumo, di odore di birra, di calore di corpi umani; gli oppone una specie di resistenza fisica, come fosse acqua. Lo spettacolo del pubblico è ben diverso dalle scene tradizionali delle feste del Ringraziamento che invadono gli schermi televisivi nel corso di questo fine settimana. Ai tavoli, i clienti sono per lo più giovanotti rauchi, in gruppi, con troppa energia e testosterone. Urlano per farsi sentire al di sopra del frastuono della musica, strattonano le cameriere per farsi servire, lanciano fischi e ululati di approvazione quando la chitarra tira fuori un buon riff. Un terzo degli uomini ai tavoli è in compagnia di giovani mogli o amiche, e tra queste la corrente di pensiero prevalente è: acconciatura più vistosa possibile, trucco più pesante possibile. Sono chiassose quanto gli uomini, e sarebbero fuori posto in una riunione di famiglia quanto un pappagallo gracchiante al capezzale di una monaca moribonda. 11 bancone semicircolare racchiude un palco ovale, inondato dalla luce bianca e rossa dei faretti, dove due ragazze dal corpo eccezionalmente sodo si dimenano al ritmo della musica in quella che per loro sarebbe una
danza. Sono vestite da cowgirl, con costumi fatti per eccitare, tutti frange e lustrini, e una delle due suscita sibili e urla di entusiasmo quando si toglie il pezzo di sopra. Gli uomini seduti sugli sgabelli al banco sono di tutte le età e, a differenza degli avventori ai tavoli, sono soli. Se ne stanno seduti in silenzio, con gli occhi alzati verso le due scultoree danzatrici. Molti di loro ondeggiano leggermente sugli sgabelli o dondolano la testa con aria sognante seguendo il ritmo di un'altra musica, molto meno coinvolgente di quella che sta suonando il gruppo; sono come una colonia di anemoni di mare, mossi da lente e profonde correnti, in torpida attesa che una briciola di piacere venga spinta verso di loro. Il killer siede su uno dei due sgabelli rimasti liberi e ordina una bottiglia di Beck's scura a un barista che sembrerebbe capace di schiacciare una noce nell'incavo del gomito. Tutti e tre i baristi sono alti e muscolosi, di sicuro assunti in base alla capacità di trasformarsi all'istante, in caso di necessità, in buttafuori. Quella che balla in fondo al palco, la ragazza con le tette che sobbalzano in libertà, è una mora niente male con un sorriso da mille watt. È tutta presa dalla musica, e ha l'aria di godersela davvero. L'altra, quella più vicina a lui, una bionda coscialunga, è ancora più notevole della bruna ma il suo numero ha un che di meccanico, sembra istupidita, dalla droga o dalla noia. Non sorride e non guarda nessuno, ma tiene lo sguardo fisso su un luogo lontano, un luogo che solo lei può vedere. Ha un'aria altera, sembra disprezzare gli uomini che se la rimirano, killer compreso. Lui proverebbe un gran piacere a tirar fuori la pistola e a piantare un po' di pallottole in quel corpo perfetto... una, per buona misura, giusto in mezzo alla sua faccia schifata. Un fremito intenso lo scuote al solo pensiero di privarla della bellezza. Rubarle la bellezza lo attira più che l'idea di toglierle la vita. Attribuisce uno scarso valore alla vita, ma moltissimo alla bellezza perché la sua esistenza è insopportabilmente squallida. Per fortuna la pistola è nel bagagliaio dell'auto. L'ha lasciata lì proprio per evitare tentazioni del genere, quelle che gli vengono quando si sente spinto alla violenza. Anche due o tre volte al giorno, lo afferra la voglia di distruggere la prima persona che gli capiti accanto: uomo, donna, bambino, non fa differenza. Nel pieno di queste buie crisi, odia ogni essere umano sulla faccia della terra: bello o brutto, ricco o povero, intelligente o stupido, giovane o vec-
chio. Forse, in parte, l'odio gli viene dalla consapevolezza di essere diverso da loro. Lui è costretto a vivere per sempre come un emarginato. Ma la semplice alienazione non è il motivo principale per cui così spesso gli viene l'idea di ammazzare a caso. Ha bisogno di qualcosa dagli altri, qualcosa che gli altri non sono disposti a dare, e, visto che glielo negano, lui li odia con una tale violenza che è capace di qualsiasi atrocità, anche se non ha la minima idea della reale natura di quel qualcosa che si aspetta di ricevere. Questo inspiegabile bisogno talvolta è così intenso che fa male fisicamente. È come una fame, una fame da morire... ma non farne di cibo. Spesso si ritrova sull'orlo incerto della rivelazione: si rende conto che la risposta sarebbe incredibilmente semplice, se solo riuscisse ad aprirsi a essa, ma l'illuminazione puntualmente gli sfugge. Il killer beve una lunga sorsata dalla bottiglia di Beck's. Desidera la birra, ma non ne ha bisogno. Desiderare non vuol dire aver bisogno. Sulla pedana rialzata, la bionda si sfila il reggiseno, esibendo due pallidi seni all'insù. Se va a prendere la pistola e i caricatori extra dalla Ford, avrà novanta proiettili. Quando la bionda arrogante sarà morta, potrà uccidere l'altra. Poi i tre baristi muscolosi con tre colpi alla testa. È ben addestrato all'uso delle armi da fuoco, anche se non ricorda chi lo abbia addestrato. Con quei cinque morti, potrà mettersi a tirare sulla folla in panico. Molti che non moriranno per mano sua perderanno la vita calpestati nel fuggifuggi. La prospettiva di una strage lo eccita, e lui sa che il sangue può fargli dimenticare, almeno momentaneamente, lo straziante desiderio che lo tormenta. È un ciclo di cui ha già esperienza. Il bisogno alimenta la frustrazione; la frustrazione si trasforma in rabbia; la rabbia in odio; l'odio genera violenza... e la violenza, talvolta, placa. Beve dell'altra birra e si domanda se non sia pazzo. Ricorda un film in cui uno psichiatra spiega al protagonista che solo chi è sano di mente mette in dubbio la propria sanità. I pazzi veri sono sempre solidamente convinti di essere perfettamente razionali. Ergo, lui deve essere sano se è in grado di dubitare di sé. 7 Appoggiato allo stipite della porta, Marty guardava le bambine che a
turno sedevano al tavolino da toeletta di camera loro per farsi spazzolare i capelli da Paige. Cinquanta colpi di spazzola ciascuna. Forse fu il dolce movimento ritmico della spazzola, o forse la familiarità rasserenante della scena, a calmargli un po' l'emicrania. In ogni caso quella fitta continua alla testa diminuì. La capigliatura di Charlotte era di un biondo dorato, come quella della mamma, mentre i capelli di Emily erano di un castano scurissimo, quasi nero, come quelli di Marty. Charlotte chiacchierava ininterrottamente mentre Paige la spazzolava; Emily invece rimaneva in silenzio, inarcava la schiena, chiudeva gli occhi e provava un piacere da gatto in quell'operazione. Le due zone contrastanti della camera che condividevano, testimoniavano anche di altre differenze tra le sorelle. A Charlotte piacevano i poster pieni di movimento: aerostati variopinti sullo sfondo di un tramonto nel deserto; una ballerina classica nel mezzo di un entrechat; un branco di gazzelle in corsa. Emily preferiva poster di foglie d'autunno, sempreverdi carichi di neve, onde inargentate dalla luna che si infrangevano su una spiaggia bianchissima. Il copriletto di Charlotte era verde, rosso e giallo; quello di Emily di ciniglia beige. Il caos regnava sovrano nella zona di Charlotte, mentre Emily teneva la sua in perfetto ordine. E poi c'erano gli animali. Dalla parte di Charlotte, sulle scaffalature a muro facevano mostra di sé il terrario che ospitava Fred la Tartaruga, il grosso vaso di vetro dove Bob lo Scarabeo si era fatto la casa tra l'erba e le foglie secche, la gabbia dove alloggiava Wayne il Criceto, un altro terrario che aveva per inquilino Sheldon il Serpente, un'altra gabbietta dove Whiskers il Topo trascorreva gran parte del suo tempo a tener d'occhio Sheldon nonostante il vetro e le sbarre che li separavano, e un ultimo terrario occupato da Loretta la Camaleontessa. Charlotte respingeva l'idea che un cagnolino o un micio fossero animaletti più idonei. «Cani e gatti se ne stanno sempre in giro liberi, non puoi tenerli al sicuro in una casetta che li protegge», era la sua spiegazione. Emily aveva un solo beniamino. Si chiamava Peepers. Era un ciottolo della grandezza dì un limone, levigato dai decenni passati nelle acque tumultuose del Sierra, dove lei lo aveva raccolto nelle vacanze dell'estate dell'anno prima. Vi aveva dipinto sopra due occhi languidi, e assicurava: «Peepers è la migliore compagnia che c'è. Non devo dargli da mangiare o tenerlo pulito. È in giro da un'eternità, per cui è intelligentissimo e molto
saggio, e, quando sono triste o magari arrabbiata, gli racconto quello che mi capita e lui capisce e pensa a tutto, così io non devo più preoccuparmi e posso essere allegra». Emily sapeva esprimere delle idee che in superficie erano assolutamente infantili, ma a ripensarci apparivano più mature e profonde di quelle che ci si potesse aspettare da una bambina di sette anni. Talvolta, quando guardava in quegli occhi scuri, Marty pensava che i suoi anni in realtà erano tra i sette e i quattrocento, e non vedeva l'ora di verificare quanto sarebbe diventata interessante e complessa, da adulta. Quando furono spazzolate, le bambine si infilarono a letto, e la mamma rimboccò le coperte, le baciò e augurò sogni d'oro. «Non farti pizzicare dalle pulci del materasso», avvertì Emily, perché era una frase che ogni volta la faceva ridere. Mentre Paige andava a mettersi accanto alla porta, Marty spostò una sedia dal suo posto contro la parete e la piazzò ai piedi dei due letti, esattamente nel mezzo. A parte un faretto a pile pinzato sul suo quaderno aperto, e un Topolino luminoso inserito in una presa di corrente a livello del pavimento, spense tutte le luci. Si sedette sulla sedia, mise il quaderno a distanza di lettura e aspettò che il silenzio assumesse quel carattere di piacevole attesa che riempie il teatro nel momento in cui si alza il sipario. L'atmosfera era quella giusta. Era il momento più felice della giornata di Marty. Il momento delle storie. Qualunque cosa succedesse dopo essersi alzato per andare incontro al mattino, poteva sempre pregustare il momento delle storie. Queste storie le scriveva lui stesso, in un quaderno con l'etichetta Storie per Charlotte ed Emily, che un giorno o l'altro forse avrebbe pubblicato. O forse no. Ogni parola era un regalo che faceva alle figlie, per cui la decisione di dividere le storie con altri spettava esclusivamente a loro. Quella sera avrebbe avuto inizio un intrattenimento speciale, una storia in versi, che sarebbe andata avanti fino al giorno di Natale. Forse gli avrebbe fatto dimenticare l'episodio inquietante che aveva vissuto nel suo studio. «Or che il Ringraziamento è infine passato, tanto è il tacchino che abbiamo mangiato...» «È in versi!» esclamò Charlotte entusiasta. «Ssshhhh», la zittì la sorella.
Le regole dell'ora di lettura erano poche ma importanti, e una di esse voleva che il pubblico delle due bambine non interrompesse il dicitore a metà di una frase o, nel caso di una poesia, a metà di una strofa. La loro partecipazione era apprezzata, le loro reazioni gradite, ma un narratore deve pur pretendere il dovuto rispetto. Ricominciò: «Or che il Ringraziamento è infine passato, tanto è il tacchino che abbiamo mangiato, ancor più dello scorso anno imbottito, con più prosciutto e più ancora squisito, siam diventati dei tali ciccioni che non entriamo più dentro i calzoni». Le bambine ridacchiarono esattamente nel punto in cui lui si aspettava una reazione, e Marty si trattenne a stento dal voltarsi verso Paige per vedere se anche lei si stesse divertendo. Ma nessuno avrebbe stimato un narratore che non sapesse aspettare fino alla fine per raccogliere l'applauso; un'aria di assoluta fiducia, vera o simulata, era indispensabile al successo. «Pensiamo allora all'altra grande festa, che tra quelle in arrivo è capolista. Lo avete già capito, siate franche: non dico Pasqua, e Ognissanti neanche. Ognuno è più buono in quel giorno speciale; ditelo voi: è il giorno di...?» «Natale!» risposero all'unisono Charlotte ed Emily, e la loro risposta immediata confermò che le teneva in pugno. «Tra qualche giorno l'albero si appresta (perché non due, tre, un'intera foresta?): tutto di luci e palline decorato che a guardarlo si resta senza fiato. Sul tetto, il sale a sciogliere la neve: se cade lui l'allegria finisce in breve. Dovesse procurarsi una frattura
o cascar giù nel fango: che sciagura!» Lanciò uno sguardo alle bambine. I loro volti sembravano risplendere nell'ombra. Senza una parola, sembrava dicessero: Non fermarti, non fermarti! Dio, come gli piaceva. Come le amava. Se il paradiso esisteva, doveva essere esattamente come quel momento, come quel luogo. «Fermi tutti! Mi è arrivato in quest'istante un annuncio ch'è a dir poco sconcertante. Babbo Natale è stato rinvenuto legato imbavagliato e in più svenuto. La slitta non c'è più e, che cordoglio, è sparito persino il portafoglio. In men che non si dica è il patatràc: gli vuoteranno il conto al bancomat.» «Ahi ahi!» fece Charlotte, raggomitolandosi nel letto. «È una storia che fa paura.» «Be', certo», replicò Emily. «L'ha scritta papà.» «Ma farà troppa paura?» domandò Charlotte tirandosi la coperta fin sotto il mento. «Hai mosso le calze?» domandò Marty. A letto, Charlotte portava sempre le calze, tranne in estate perché i piedi le si raffreddavano molto facilmente. «Le calze? Sì, perché?» Marty si protese e abbassò la voce in un sussurro sinistro. «Perché questa storia durerà fino al giorno di Natale, e per allora sarai schizzata fuori dalle calze per il terrore almeno una dozzina di volte.» Fece una smorfia cattiva. Mentre Charlotte si tirava la coperta fino al naso, Emily fece una risatina. «Forza, papà, e poi?» «È un suono, senti, di campanelline quel che riecheggia tra valli e colline. E quelle lassù in cielo sono renne: come faranno senz'ali e senza penne?
Il guidatore ghigna come un matto, è un folle un dissennato un mentecatto. Qui qualcosa non quadra, si capisce; se quello lì è Babbo, mi impensierisce. Sputacchia ride spernacchia e sghignazza e sembra in preda a una demenza pazza. Gli occhietti perfidi non ferma un istante; ehi, che qualcuno chiami la volante! Visto più da vicino è chiaro che è sballato, e in più, dio mio, come gli puzza il fiato!» «Mamma mia», mormorò Charlotte, tirandosi la coperta fin sotto gli occhi. Sosteneva che le storie paurose non le piacevano, ma era la prima a lamentarsi se in un racconto non succedeva prima o poi qualcosa di spaventoso. «E allora chi è?» chiese Emily. «Chi è che ha legato Babbo Natale e lo ha derubato ed è fuggito con la sua slitta?» «Occhio, bambine, al Natale di quest'anno, si rischia qualche tragico malanno. Non Babbo ma il gemello, cattivissimo e losco, presa la slitta farà il giro al suo posto. Badate a voi, figliolette mie care, chi sa predire quel che un matto può fare?» «Ihhh!» strillò Charlotte, e si nascose completamente sotto la coperta. «Ma come mai il gemello di Babbo Natale era così cattivo?» domandò Emily. «Forse aveva avuto un'infanzia infelice», azzardò Marty. «O forse era nato così», disse Charlotte da sotto la coperta. «Ma è possibile nascere cattivi?» chiese Emily. E poi si rispose da sola prima che Marty potesse intervenire. «Be', certo che è possibile. Visto che c'è chi nasce buono, come tu e mamma, allora qualcuno deve nascere cattivo.» Marty assorbiva le reazioni delle bambine, registrandole. A un certo livello, da scrittore, immagazzinava le loro parole, il ritmo delle loro frasi, le loro espressioni, in vista del giorno in cui potessero tornargli utili in una scena di un suo libro. Probabilmente, pensava, non era proprio ammirevole essere sempre co-
sciente che anche le sue figlie costituivano un materiale da usare; la cosa era forse moralmente discutibile, però lui non poteva farci nulla. Era fatto così. Ma era anche un padre, e reagiva principalmente a quel livello, cercando di immagazzinare mentalmente quei ricordi perché un giorno sarebbero stati tutto ciò che gli restava della loro infanzia, e ci teneva a poter ricordare tutto, il bene e il male, semplici momenti e avvenimenti importanti, in Technicolor e in Dolby e con perfetta nitidezza, perché per lui erano cose troppo preziose perché andassero perse. «Il gemello cattivo ha un nome?» chiese Emily. «Sì», rispose Marty. «Ce l'ha, ma dovrete aspettare un'altra sera per saperlo. Siamo arrivati alla fine della prima tappa.» Charlotte fece capolino dalla coperta, e tutt'e due le bambine insistettero, come previsto, perché leggesse di nuovo la prima parte della storia. Anche alla fine della seconda lettura sarebbero state troppo prese dal racconto per avere voglia di dormire. Avrebbero chiesto un'altra lettura, e lui l'avrebbe concessa, perché a quel punto la familiarità con le parole avrebbe cullato le due bambine. La fine della terza lettura le avrebbe trovate o già immerse nel sonno o in uno stato di dormiveglia. Mentre ricominciava a recitare il primo verso, Marty sentì Paige che lasciava il suo posto accanto alla porta e si avviava verso le scale. Lo avrebbe aspettato in soggiorno, forse davanti al caminetto acceso, forse con due bicchieri di vino rosso e qualcosa da mangiare, e si sarebbero accoccolati l'uno vicino all'altra a raccontarsi della giornata trascorsa. Cinque minuti delle sue sere, in quel momento o più tardi, erano per lui più attraenti di un viaggio attorno al mondo. Era un irriducibile casalingo. Il focolare e la famiglia esercitavano su di lui più fascino che non tutte le misteriose sabbie dell'Egitto, le notti parigine e i misteri d'Oriente messi insieme. Quando, dopo una strizzatina d'occhio all'una e all'altra delle bambine, riprese con «Or che il Ringraziamento è infine passato», aveva quasi dimenticato che quel giorno, nel suo studio, era accaduto qualcosa di inquietante e che la sacralità della sua casa era stata violata. 8 Nel Blue Life Lounge, una donna si struscia contro il killer e si sistema sullo sgabello accanto al suo. Non è bella come le due che ballano, ma è abbastanza attraente per i suoi scopi. Vestita in jeans beige e una T-shirt
rossa aderente, potrebbe essere una cliente come le altre, ma non lo è. Lui conosce il tipo: una Venere a noleggio con la perizia di un ragioniere nato. Iniziano una conversazione chinandosi l'uno verso l'altra per sentirsi al di sopra della musica, e ben presto le teste si toccano quasi. Si chiama Heather, o almeno così dice. L'alito le profuma di menta. Quando le ballerine si ritirano e la band fa una pausa, Heather, ormai convinta che lui non è un poliziotto della buon costume, si fa più audace. Sa che cosa vuole lui, ha quello che lui vuole, e gli fa capire che è un acquirente in un mercato al rialzo. Gli spiega che dall'altra parte della strada, di fronte al Blue Life Lounge, c'è un motel dove è possibile, se la direzione conosce la ragazza, prendere una stanza a ore. La cosa non lo sorprende, perché esistono leggi del piacere e dell'economia immutabili quanto quelle della natura. Heather si infila il giubbotto foderato di montone e insieme escono nella notte gelida, dove il suo alito alla menta si trasforma in vapore. Attraversano il parcheggio e poi la strada, tenendosi per mano come due fidanzatini. Lei sa che cosa lui vuole, ma non ciò di cui ha bisogno, non più di quanto lo sappia lui stesso. Quando avrà ottenuto ciò che vuole, e quando questo non avrà attenuato il suo bisogno, Heather apprenderà il ciclo delle emozioni che ormai a lui è così familiare: il bisogno alimenta la frustrazione; la frustrazione si trasforma in rabbia; la rabbia in odio; l'odio genera violenza... e la violenza, talvolta, placa. Il cielo è una lastra compatta di ghiaccio cristallino. Gli alberi si levano spogli e secchi in quello sterile novembre. Il vento lancia un freddo gemito dolente, calando dalla vasta prateria circostante sulla città. E la violenza talvolta placa. Più tardi, dopo essersi annullato in Heather più di una volta, non più in preda alla voglia urgente, si accorge che lo squallore della stanza del motel gli ricorda in modo intollerabile la vuota, meschina natura della sua esistenza. Il suo desiderio immediato è stato soddisfatto, ma il desiderio di una vita che sia qualcosa di più, che abbia direzione e senso, non ha avuto risposta. La ragazza nuda, sulla quale lui è ancora disteso, ora gli appare brutta, quasi ripugnante. Il ricordo dell'intimità condivisa lo disgusta. Lei non può dargli, o forse non vuole, quello di cui lui ha bisogno. Vivendo al margine della società, mettendo in vendita il suo corpo, è anche lei un'emarginata, e
quindi un simbolo per lui insopportabile della sua alienazione. Il pugno che le sferra sul viso la coglie di sorpresa. Il colpo è così forte da stordirla. Mentre Heather si accascia inerte, quasi priva di sensi, lui le passa le mani attorno alla gola e la strangola con tutta la forza di cui è capace. La lotta si svolge in silenzio. Il colpo, seguito dalla pressione foltissima sulla trachea e dalla riduzione dell'afflusso di sangue al cervello attraverso la carotide, rende la ragazza incapace di opporre resistenza. Sta bene attento a non far nulla che richiami l'attenzione degli altri ospiti del motel. Ma fare il minimo rumore possibile è importante anche perché ammazzare in silenzio è un'esperienza più personale, più intima, più profondamente appagante. Lei soccombe così silenziosamente che gli viene in mente uno di quei documentari naturalistici in cui si vede la femmina di un certo ragno o di una mantide che uccide il compagno subito dopo il primo e unico rapporto sessuale, senza mai un suono né da parte dell'aggressore né della vittima. La morte di Heather è segnata da un rituale freddo e solenne pari alla stilizzata ferocia di quegli insetti. Pochi minuti dopo, fatta la doccia e rivestitosi, attraversa la strada dal motel al Blue Life Lounge e sale in macchina. Il lavoro lo attende. Non è stato mandato a Kansas City per uccidere una puttana di nome Heather. Lei è stata semplicemente un diversivo. Altre vittime lo attendono, e ora è sufficientemente rilassato e concentrato per affrontarle. 9 Nello studio di Marty, Paige, in piedi accanto alla scrivania, sotto la luce multicolore dell'abat-jour, fissava il piccolo registratore ascoltando il marito che cantilenava due parole inquietanti con un tono di voce che andava da un sussurro malinconico a un profondo ringhio di rabbia. Dopo meno di due minuti non ce la fece più a sopportarlo. Quella voce le era contemporaneamente familiare ed estranea: sarebbe stato meglio se non fosse riuscita a riconoscerla affatto. Spense l'apparecchio. Si accorse che aveva ancora in mano il bicchiere di vino rosso, e ne bevve un lungo sorso. Era del buon cabernet californiano, e gli sarebbe spettato un trattamento più meditato, ma improvvisamente si sentì più interessata al suo effetto che al sapore.
Marty era dall'altro lato della scrivania. «Ci sono almeno altri cinque minuti così. Sette minuti in tutto. Dopo che è successo, prima che tu e le bambine rincasaste, ho fatto qualche ricerca.» Accennò agli scaffali che coprivano una parete. «Tra i manuali di medicina.» Paige non aveva nessuna voglia di sentire quanto stava per dirle. Una malattia grave era un'eventualità che non riusciva neppure a concepire. Se fosse accaduto qualcosa a Marty, il mondo sarebbe diventato un luogo assai più buio e molto meno interessante. . Non era assolutamente certa che ce l'avrebbe fatta a sopportare la sua mancanza. Il suo atteggiamento, se ne rendeva conto, era molto peculiare, considerando che, nella sua attività di psicologa infantile, seguiva decine di bambini, nella pratica privata e nelle ore che metteva a disposizione dei gruppi di assistenza, aiutandoli a superare il dolore e continuare a vivere dopo la perdita di una persona cara. Marty, che aveva già finito il suo vino, girò attorno alla scrivania verso di lei. «Una fuga può essere il sintomo di molte cose. Il morbo di Alzheimer nelle prime fasi, per esempio, ma credo che questo possiamo escluderlo. Se avessi l'Alzheimer a trentatré anni, probabilmente sarei un caso eccezionale.» Deposto il bicchiere sullo scrittoio, si accostò alla finestra e si mise a guardare fuori nella notte, tra le stecche della persiana. Paige fu colpita dall'improvvisa fragilità del marito. Un metro e ottanta di altezza, ottanta chili di peso, con i suoi modi allegri e il suo entusiasmo illimitato per la vita, Marty le era sempre apparso più solido e stabile di qualsiasi cosa al mondo, oceani e montagne compresi. Ora sembrava fragile come una lastra di vetro. Dandole la schiena, sempre studiando la notte, disse: «Oppure potrebbe essere il segno di un piccolo ictus cerebrale». «No.» «Ma, secondo i testi che ho consultato, la causa più probabile sarebbe un tumore al cervello.» Paige portò il bicchiere alle labbra. Era vuoto. Non ricordava di aver finito il vino. Anche lei aveva avuto una piccola fuga. Depose il bicchiere sulla scrivania. Accanto all'odioso registratore. Quindi si avvicinò a Marty e gli posò una mano sulla spalla. Quando lui si voltò, gli diede un bacio leggero, rapido. Gli appoggiò la testa al petto e si strinse a lui, che la cinse con le braccia. Marty le aveva insegnato che gli abbracci erano essenziali per la salute della vita non me-
no del cibo, dell'acqua, del sonno. Prima, quando lo aveva sorpreso a controllare sistematicamente la chiusura delle finestre, gli aveva imposto, semplicemente con un'occhiata e una sola parola («Allora?»), di non nasconderle niente. Ora si pentiva di avere insistito per sapere tutto di quel solo brutto momento in una giornata che per il resto era stata perfetta. Alla fine alzò lo sguardo e lo fissò, occhi negli occhi, sempre tenendosi abbracciata a lui. «Potrebbe non essere niente.» «Qualcosa è.» «Voglio dire niente di fisico.» Marty fece un sorrisetto. «È confortante avere uno psicologo in casa.» «Be', potrebbe benissimo essere qualcosa di psichico.» «L'idea che forse sono semplicemente impazzito non è che mi aiuti molto.» «Macché impazzito. Solo stressato.» «E già, lo stress. La giustificazione sovrana del ventesimo secolo, la parola preferita del lavativo che aspira alla pensione per una invalidità inesistente, del politico beccato sbronzo in un motel in compagnia di una minorenne senza mutande...» Paige si staccò da lui e gli volse le spalle, in preda alla collera. Non ce l'aveva proprio con Marty ma con il Padreterno, o con il destino, o con quella forza che improvvisamente aveva suscitato impetuose correnti nel placido fluire della loro esistenza. Si mosse verso la scrivania per prendere il bicchiere di vino, poi ricordò di averlo già bevuto. Tornò a voltarsi verso Marty. «Va bene... tranne durante la malattia di Charlotte, non sei mai stato stressato. Ma forse sei di quelli che lo stress se lo covano dentro. E ultimamente sei stato sottoposto a forti pressioni.» «Ah, sì?» Marty inarcò un sopracciglio. «La scadenza per questo libro è più rigida del solito.» «Ma ho ancora tre mesi, e credo che me ne basti uno.» «Tutte le nuove aspettative per la carriera... l'editore e l'agente, e tutti quelli del settore, ti guardano con un occhio diverso.» Gli ultimi due romanzi, ristampati in paperback, erano entrati nella classifica dei best-seller del New York Times per otto settimane ciascuno. Lui non aveva ancora venduto un numero di copie da best-seller dei suoi libri in edizione rilegata, ma ciò sembrava imminente, con l'uscita del prossimo libro, prevista per gennaio.
L'improvvisa impennata nelle vendite era un evento emozionante e insieme preoccupante. Marty desiderava un pubblico di lettori più vasto, ma era anche determinato a non piegare il proprio modo di scrivere alle esigenze di una maggiore diffusione, perdendo così le caratteristiche specifiche del suo stile. Sapendo che il rischio che correva era di modificare involontariamente il proprio lavoro, ultimamente esercitava un controllo ancora più rigoroso su se stesso, anche se era sempre stato il critico più esigente dei propri romanzi, rivedendo anche venti o trenta volte ogni pagina che scriveva. «E poi c'è la rivista, People», aggiunse lei. «Quello non è uno stress. Ormai è acqua passata.» Qualche settimana prima era venuto un giornalista di People, seguito un paio di giorni dopo da un fotografo per un servizio durato dieci ore. Avendo Marty il carattere che aveva, erano andati d'amore e d'accordo, anche se all'inizio lui aveva opposto una strenua resistenza all'idea dell'intervista e dell'articolo. Considerato il rapporto cordiale con il giornalista e il fotografo, non aveva alcun motivo per pensare che l'articolo sarebbe stato negativo, ma di solito anche la pubblicità favorevole lo faceva sentire a disagio, gli sembrava una meschinità. Per lui quello che importava erano i libri, non la persona che li scriveva, e non gli andava l'idea di apparire, come diceva lui, «la Madonna Ciccone del romanzo del mistero, costretto a posare nudo in una biblioteca, con un diamante incastonato in un dente per far salire le vendite». «Non è affatto acqua passata», replicò Paige. Il numero con il servizio su Marty sarebbe arrivato in edicola solo il lunedì successivo. «So benissimo che sei in ansia.» Marty sospirò. «Non ho nessuna intenzione di fare...» «Madonna con un diamante nel dente. Lo so, ragazzo mio. Quello che intendo dire è che questa storia ti ha stressato più di quanto pensi.» «Al punto da farmi cancellare sette minuti?» «Certo. Perché no? Sono sicura che è esattamente quello che ti dirà il medico.» Marty sembrava scettico. Paige tornò ad abbracciarlo. «Ultimamente le cose ci stanno andando benissimo, quasi troppo. È naturale che subentri un po' di superstizione. Ma abbiamo lavorato sodo, quello che abbiamo ce lo siamo sudato. Non ci capiterà niente di male. Hai capito?»
«Ho capito», rispose lui, stringendola. «Non ci capiterà niente di male», ripeté Paige. «Niente.» 10 Mezzanotte passata. Il quartiere presenta vaste distese tenute a prato e le case sorgono lontane dai perimetri delle proprietà. Alberi enormi, così annosi che sembrano quasi aver acquisito una forma embrionale di intelligenza, montano la guardia lungo le strade, vegliando sulla tranquillità dei ricchi abitanti, protendendo i rami spogliati dall'autunno, come antenne ad alta tecnologia puntate verso il cielo a raccogliere informazioni sulle potenziali minacce al benessere di coloro che dormono protetti da quei muri di mattoni e pietre. Il killer parcheggia dietro l'angolo della casa in cui l'aspetta il lavoro. Compie a piedi il resto del tragitto, mugolando sottovoce un allegro motivetto improvvisato, agendo come se quei marciapiedi li avesse già percorsi diecimila volte. Un comportamento furtivo richiama sempre l'attenzione e, una volta notato, provoca inevitabilmente un allarme. Invece, un uomo che si muove con disinvoltura e immediatezza viene visto come qualcosa di onesto e inoffensivo, passa inosservato e in seguito viene dimenticato del tutto. Freddo vento di nord-ovest. Cielo senza luna. Un gufo sospettoso ripete monotono la sua domanda sempre uguale. La casa è in stile georgiano, di mattoni con colonne bianche. La proprietà è cinta da una cancellata sormontata da punte di lancia. Il cancello di accesso è aperto, e sembra sia in quella posizione da anni e anni. I ritmi e la qualità della vita a Kansas City non lasciano spazio alla paranoia. Come fosse il padrone di casa, l'uomo segue il vialetto circolare fino al portico e all'ingresso principale, sale gli scalini e si ferma davanti alla porta, aprendo la lampo di un taschino del giubbotto di pelle. Ne estrae una chiave. Fino a questo momento non sapeva di averla. Non sa chi gliel' abbia data, ma d'un tratto sa che cosa deve farne. È una cosa che gli è già accaduta. La chiave corrisponde alla serratura. Il killer apre la porta su un buio vestibolo, varca la soglia entrando nel tepore della casa, sfila la chiave dalla serratura. Si chiude la porta alle spal-
le senza far rumore. Messa via la chiave, si volta verso il pannello del dispositivo d'allarme che si trova accanto alla porta. Lui ha sessanta secondi, dal momento in cui ha aperto, per digitare il codice che disinserisce il sistema; in caso contrario, la polizia arriva subito. Ricorda la sequenza di sei cifre per disinserire l'allarme esattamente nel momento in cui gli serve. Toglie un altro oggetto dal giubbotto, questa volta da una tasca interna: una mascherina, di forma eccezionalmente compatta che permette la visione notturna, di un tipo fabbricato per l'esercito, non in vendita ai privati. Il congegno amplifica la minima luce disponibile fino a diecimila volte, con tanta efficacia che gli è possibile muoversi attraverso le stanze buie come se ci fossero tutte le luci accese. Mentre sale le scale, si toglie dalla grande fondina ascellare la Heckler & Koch P7. Il caricatore contiene diciotto proiettili. In una tasca più piccola della fondina è alloggiato un silenziatore. Lo estrae e lo avvita alla bocca della pistola. Gli consentirà dagli otto ai dodici colpi relativamente silenziosi, ma si deteriorerà troppo in fretta per permettergli di vuotare l'intero caricatore senza svegliare gli altri abitanti della casa e il vicinato. Otto colpi dovrebbero essere più che sufficienti. La casa è grande, e sul corridoio del primo piano si affacciano sei stanze, ma non ha bisogno di cercare la sua vittima. Ha familiarità con la disposizione del piano proprio come con la pianta della città. Attraverso il visore, tutto ha una tonalità verdastra, e gli oggetti bianchi sembrano risplendere di una luce spettrale che viene dall'interno. Gli sembra di trovarsi in un film di fantascienza, intrepido eroe che esplora un'altra dimensione o un mondo parallelo, identico al nostro tranne che per qualche particolare essenziale. Apre piano la porta della camera da letto, entra. Si avvicina al letto matrimoniale con la sua elaborata testiera georgiana. Due persone giacciono addormentate sotto la luminosa coperta verdastra, un uomo e una donna sui quarant'anni. Il marito dorme supino, russa. È facile identificare la sua faccia come quella del bersaglio principale. La moglie è stesa sul fianco, con il viso affondato nel cuscino, ma il killer vede quanto basta per accertarsi che è lei il bersaglio secondario. Appoggia la canna della P7 alla gola del marito. Il freddo dell'acciaio lo sveglia, e le palpebre gli si alzano come se avessero il meccanismo a contrappeso degli occhi di una bambola.
Il killer schiaccia il grilletto, squarciando la gola dell'uomo, poi sposta la pistola e gli spara due colpi a bruciapelo in faccia. Gli spari mandano un sibilo come quello di un cobra. Il killer gira attorno al letto, senza far rumore sullo spesso tappeto. Porta a termine la sua missione tirando due pallottole nella tempia sinistra, quella scoperta, della moglie, che non si sveglia neppure. Per qualche momento rimane accanto al letto, gustando l'incomparabile dolcezza del momento. Essere presente a una morte vuol dire condividere una delle esperienze più intime che mai si possano avere a questo mondo. In fondo, soltanto i più cari membri della famiglia e gli amici più sinceri sono ammessi al capezzale di un morente, a essere testimoni dell'ultimo respiro di chi abbandona la vita. È per questo che il killer è in grado di elevarsi al di sopra della sua grigia e grama esistenza solo durante un'esecuzione, poiché allora ha l'onore di partecipare a questa che è la più profonda di tutte le esperienze, più solenne e significativa di una nascita. In quei magici momenti preziosi in cui una sua vittima perisce, lui stringe un rapporto, un legame importante con un altro essere umano, una connessione che per qualche istante cancella la sua alienazione e lo fa sentire inserito, necessario, amato. Benché le vittime per lui siano sempre degli estranei, e in questo caso non ne conosce neppure il nome, l'esperienza può essere tanto coinvolgente da fargli venire le lacrime agli occhi. Questa notte riesce a rimanere completamente padrone di sé. Riluttante a interrompere quel breve contatto, appoggia con tenerezza una mano sulla guancia sinistra della donna, che non è sporca di sangue ed è ancora piacevolmente tiepida. Fa di nuovo il giro del letto e stringe con delicatezza la spalla del morto, come a dire: «Addio, amico, addio». Si domanda chi fossero. E perché hanno dovuto morire. Addio. Si volta, riattraversa la casa verde spettro piena di ombre verdi e del riverbero di forme verdi. Nell'ingresso si ferma a smontare il silenziatore dall'arma e a riporre nel fodero i due pezzi. Si toglie con dispiacere il visore binoculare. Senza, gli sembra di essere stato allontanato dal magico mondo parallelo, dove per qualche breve istante ha sentito un legame con altri esseri umani, per ritrovarsi in quell'altro mondo a cui si sforza con tanta fatica di appartenere ma a cui sente di essere per sempre estraneo. Uscendo dalla casa, accosta la porta, ma non si preoccupa di richiuderla
a chiave. Non pulisce la maniglia d'ottone, perché non gli importa delle impronte digitali. Il vento freddo sospira e fischia sotto il portico. Con uno scalpiccio di topi in fuga, le foglie secche frusciano correndo in branco lungo il vialetto. Gli alberi di sentinella ora sembrano addormentati nelle loro postazioni. Il killer sente che nessuno lo guarda dalle finestre buie lungo la via. Anche la voce interrogativa del gufo tace. Ancora commosso dall'esperienza che ha vissuto, non canticchia più il suo motivetto mentre si avvia verso l'auto. Il tempo di arrivare al motel dove è alloggiato, e di nuovo sente il peso dell'opprimente ghetto in cui è rinchiusa la sua esistenza. Separato. Isolato. Un uomo solitario. Arrivato nella sua camera, si sgancia la fondina e l'appoggia sul comodino. La pistola è ancora nel suo alloggiamento di pelle foderato di nylon. Lo sguardo gli rimane per un po' fisso sull'arma. In bagno, prende un paio di forbici dalla borsa da toilette, abbassa il coperchio del water, vi si siede, sotto la luce cruda del neon, e distrugge accuratamente le due carte di credito false che ha usato nel corso della missione. Prenderà il volo in partenza l'indomani mattina da Kansas City, servendosi di un altro nome ancora, e nel tragitto fino all'aeroporto disperderà i minuti frammenti di plastica lungo l'autostrada. Ritorna al comodino. Fissa la pistola. Dopo aver lasciato i due cadaveri sul luogo del delitto, avrebbe dovuto smontare l'arma nel maggior numero di pezzi possibile. Avrebbe dovuto disseminare quei frammenti in punti molto lontani tra loro: la canna magari in un tombino, metà della struttura in un fosso, l'altra metà in un cassonetto... finché non fosse rimasto più niente. Questa è la procedura standard, e non riesce a capire per quale motivo stavolta non l'abbia seguita. Un vago senso di colpa accompagna questa deviazione dalla routine, ma non intende uscire di nuovo per disperdere l'arma. Accanto al senso di colpa, sente anche un senso di... ribellione. Si spoglia e si mette a letto. Spegne la lampada sul comodino e rimane a fissare le ombre sul soffitto. Non ha sonno. Sente la mente irrequieta, e i suoi pensieri saltano da un argomento all'altro con una rapidità sfibrante, tanto che il suo stato mentale iperattivo presto si traduce in un'agitazione fisica. Cambia posizione, tira le
lenzuola, sistema la coperta, il cuscino. Fuori, sull'interstatale, gli automezzi sfilano senza posa verso mete lontane. Il canto dei loro copertoni, il rombo dei motori, il sibilo dell'aria spostata dal loro passaggio formano un rumore bianco di sottofondo che di solito lo aiuta a rilassarsi. Tante volte si è addormentato cullato da questa musica tzigana della strada. Questa notte, però, succede una cosa inconsueta. Per qualche motivo che non riesce ad afferrare, il familiare mosaico di rumori non è una ninnananna ma un canto di sirena. Non sa resistergli. Si alza dal letto e attraversa la stanza al buio avvicinandosi all'unica finestra. Ha davanti a sé la visione notturna di un tratto di collina erbosa e, sopra, un pezzo di cielo: come le due metà di un quadro astratto. In cima all'altura, a separare cielo e terra, i robusti paletti del guardrail di un'autostrada scintillano a intermittenza illuminati dai fari delle vetture di passaggio. Alza lo sguardo, quasi in trance, sforzandosi di cogliere l'immagine delle auto dirette a ovest. Di solito malinconico, il canto dell'autostrada ora è ammaliante, lo chiama, esprime una misteriosa promessa che lui non capisce, ma che si sente spinto a esplorare. Si veste e prepara il bagaglio. Fuori, il posteggio e i vialetti del motel sono deserti. Parcheggiate con il muso verso le camere, le auto attendono il mattino per rimettersi in viaggio. Dove sono raggruppate le macchine a gettone, un distributore di bibite rumoreggia tra sé come se si stesse riparando da solo. Il killer ha la sensazione di essere l'unica creatura vivente in un mondo ormai dominato dalle macchine, riservato a loro. Pochi momenti dopo è sull'Interstatale 70, diretto verso Topeka, la pistola sul sedile accanto, nascosta da un asciugamano del motel. Qualcosa a ovest di Kansas City lo chiama. Non sa che cosa sia, ma si sente irresistibilmente attirato verso occidente, come il ferro è attratto da una calamità. Per quanto strano, tutto ciò non lo mette in allarme: cede a quest'impulso a spingersi verso ovest. Dopotutto, da che si ricorda è sempre andato dove è andato senza conoscere lo scopo del suo viaggio finché non è arrivato a destinazione, e ha ucciso senza avere la minima idea del perché le vittime dovessero morire né di chi fossero i mandanti dell'omicidio. È sicuro, però, che questa improvvisa partenza da Kansas City non sia ciò che ci si aspetta
da lui. Lui dovrebbe rimanere al motel fino al mattino successivo e prendere il primo volo per... Seattle. Forse a Seattle avrebbe ricevuto istruzioni dai boss che non riesce a ricordare. Ma non saprà mai che cosa sarebbe successo perché ormai Seattle è cancellata dal suo itinerario. Si chiede quanto tempo passerà prima che i suoi superiori, chiunque siano e comunque si chiamino, si accorgano che ha disertato. Quando cominceranno a cercarlo? Come potranno mai trovarlo se lui non segue più le operazioni per cui è stato programmato? Alle due del mattino il traffico sull'Interstatale 70 è scarso, soprattutto camion, e lui percorre il Kansas davanti ad alcuni dei mastodontici autotreni, nella scia azzurrina di altri, e ricorda un film su Dorothy e il cagnolino Toto e il tornado che li strappa dalla loro piatta fattoria scaricandoli in un luogo ben più strano. Dopo essersi lasciato alle spalle sia la Kansas City del Missouri sia la Kansas City del Kansas, il killer si accorge che sta mormorando tra sé: «Ho bisogno, ho bisogno». Questa volta si sente prossimo a una rivelazione che chiarirà la natura esatta del desiderio che lo tormenta. «Ho bisogno... di essere... ho bisogno di essere... ho bisogno di essere...» Via via che la periferia e infine la buia prateria sfrecciano ai due lati dell'auto, l'eccitazione continua ad accumularsi dentro di lui. Sa di trovarsi sull'orlo di un'illuminazione che cambierà totalmente la sua vita. «Ho bisogno di essere... di essere... ho bisogno di essere qualcuno.» Improvvisamente capisce il significato di quello che ha detto. Con «essere qualcuno» non intende ciò che un altro potrebbe voler dire con quelle stesse due parole: non significano che ha bisogno di essere famoso o ricco o importante. Semplicemente qualcuno. Qualcuno con un nome vero. Un tizio qualunque, come si dice. Uno che abbia una consistenza di poco superiore a quella di un fantasma. Il richiamo dell'ignota calamità verso ovest si fa più forte di chilometro in chilometro. Il killer si protende leggermente in avanti, curvo sul volante, scrutando attentamente nella notte. Oltre l'orizzonte, in una città che non può ancora vedere, lo attende una vita, un posto da chiamare casa. Famiglia, amici. Da qualche parte ci sono panni da indossare, un passato che può stargli comodamente addosso, uno scopo. E un futuro in cui potrà essere come gli altri... accettato.
L'auto fila verso occidente, fendendo la notte. 11 A mezzanotte e mezzo, andando a letto, Marty Stillwater si fermò davanti alla camera delle bambine, aprì piano la porta ed entrò senza far rumore. La fioca luce giallina del lume con la faccia di Topolino gli permetteva di scorgere le sagome delle due figlie pacificamente addormentate. Era una cosa che gli piaceva fare ogni tanto, guardarle mentre dormivano, solo per convincersi che esistevano realmente. Felicità, benessere, amore, ne aveva avuto a piene mani, e temeva che una parte di quei doni potesse rivelarsi transitoria, se non illusoria: il fato poteva intervenire a riequilibrare i piatti della bilancia. Gli antichi greci personificavano il Fato in tre sorelle: Cloto, che filava il filo della vita, Lachesi, che misurava la lunghezza del filo, e Atropo, la più piccola ma anche la più potente delle tre, che a suo capriccio lo troncava. A volte, Marty pensava che quello fosse il modo più logico di vedere le cose. Si raffigurava i volti delle tre donne ammantate di bianco con una precisione maggiore di quella con cui ricordava l'aspetto dei suoi vicini di Mission Viejo. Cloto aveva un viso gentile con due occhi allegri, un viso che ricordava un po' Angela Lansbury, l'attrice, mentre Lachesi era graziosa come Goldie Hawn, ma con un alone di santità. Forse era ridicolo, ma lui le vedeva così. Atropo era una strega, bellissima ma gelida: labbra sottili, occhi nerissimi. Il trucco era rimanere in buoni rapporti con le prime due sorelle senza richiamare l'attenzione della terza. Cinque anni prima Atropo, sotto forma di una malattia del sangue, era discesa dalla sua dimora celeste per dare uno strattone al filo della vita di Charlotte, ma fortunatamente non aveva tirato abbastanza forte da spezzarlo. Però questa divinità rispondeva a tanti altri nomi, oltre che Atropo: cancro, emorragia cerebrale, trombosi, incendio, terremoto, veleno, omicidio, e innumerevoli altri. Ora forse stava tornando a visitarli sotto uno dei suoi tanti pseudonimi, e questa volta il suo obiettivo era Marty anziché Charlotte. La vivida immaginazione di un romanziere certe volte può essere una maledizione. Un rumore improvviso, un rapido ticchettio metallico prolungato, venne d'un tratto dall'ombra, dalla parte del letto di Charlotte, facendo sussultare Marty. Basso e minaccioso come l'avvertimento di un serpente a sonagli.
Ma poi capì di che cosa si trattava: la gabbietta del criceto era dotata di una ruota, e l'irrequieto animaletto stava correndo freneticamente. «Dormi, Wayne, dormi», lo ammonì sottovoce. Lanciò un altro sguardo alle sue bambine, poi uscì dalla stanza e si chiuse silenziosamente la porta alle spalle. 12 Raggiunge Topeka alle tre del mattino. E ancora attirato verso l'orizzonte occidentale, come un migratore può essere richiamato irresistibilmente verso sud all'avvicinarsi dell'inverno, rispondendo a un richiamo muto, a un faro invisibile, come se fossero le tracce di ferro presenti nel suo sangue a rispondere all'invisibile calamità. Uscendo dall'autostrada alla periferia della città, si guarda in giro alla ricerca di un'altra automobile. Da qualche parte c'è chi conosce il nome di John Larrington, l'identità sotto la quale ha noleggiato la Ford. Quando vedranno che non si presenta a Seattle per il lavoro che lo aspetta, i suoi strani superiori senza volto si metteranno sicuramente sulle sue tracce. Sospetta che dispongano di notevoli risorse e influenze; deve troncare ogni legame con il passato e non lasciare ai cacciatori alcun modo per rintracciarlo. Parcheggia la Ford in un quartiere residenziale e percorre a piedi tre isolati, provando le portiere di tutte le auto posteggiate lungo il marciapiede. Solo la metà sono chiuse a chiave. È pronto ad avviarle mettendo in contatto il cavetto dell'accensione, se necessario, ma in una Honda blu trova le chiavi nascoste sotto il parasole. Ritorna all'auto dell'agenzia stando al volante della Honda per trasferirvi il bagaglio e la pistola, poi si mette alla ricerca di un supermercato aperto anche di notte. Non ha in testa una mappa di Topeka perché nessuno prevedeva di mandarlo lì. Frustrato dalle targhe stradali che portano nomi sconosciuti, non ha nessuna idea di dove conduca questa o quell'altra via. Si sente più emarginato che mai. Nel giro di un quarto d'ora individua un supermercato e ne saccheggia dagli scaffali intere confezioni di wurstel, cracker al formaggio, noccioline, ciambelle e altro cibo che può mangiare mentre guida. Ha già fame. Se deve rimanere in viaggio per altri due giorni, prevedendo che sia costretto ad arrivare fino alla costa, avrà bisogno di riserve in abbondanza. Non
vuole perdere tempo fermandosi in ristoranti, ma il suo metabolismo accelerato gli impone di mangiare molto e con maggiore frequenza dell'altra gente. Dopo aver aggiunto tre confezioni da sei Pepsi alla sua spesa, si avvicina al bancone, dove il cassiere, solo in negozio, gli dice: «Mi sa che sta organizzando un bel festino, eh?» «Già.» Quando paga, si accorge che i trecento dollari che ha nel portafoglio, la somma che ha sempre con sé quando è in missione, non lo porteranno troppo lontano. Non può più usare le carte di credito false, ne ha ancora due, perché rischia di farsi rintracciare attraverso le spese. D'ora in poi gli toccherà pagare sempre in contanti. Porta le tre grosse borse alla Honda e ritorna con la Heckler & Koch P7. Abbatte il cassiere con un colpo alla testa e svuota il registratore di cassa, ma ne ricava solo il denaro della sua spesa più una cinquantina di dollari. Meglio che niente. A una stazione di servizio della Arco fa il pieno e compra una carta stradale degli Stati Uniti. In sosta al margine della stazione di servizio, sotto un lampione al vapore di sodio che colora tutto di giallo, mangia alcuni wurstel. Ha una fame da lupo. Quando passa alle ciambelle, comincia a studiare la carta. Potrebbe continuare verso ovest sull'Interstatale 70, oppure puntare a sud-ovest sul Kansas Turnpike fino a Wichita, proseguire per Oklahoma City, e poi riprendere la direzione ovest sull'Interstatale 40. Non è abituato a trovarsi davanti a una scelta. Abitualmente fa ciò che è... programmato per fare. Ora, di fronte a due possibilità alternative, trova la decisione imprevedibilmente difficile. Rimane seduto indeciso, sempre più nervoso, rischiando di essere paralizzato dall'indecisione. Alla fine scende dalla Honda e resta fermo nella fredda aria notturna, aspettando un'indicazione. Il vento fa vibrare i fili del telefono: una voce ossessiva, sottile e sinistra come il pianto spaventato di bambini morti che si aggirano nel buio dell'Aldilà. Si volta verso ovest inesorabilmente come l'ago di una bussola cerca il nord magnetico. L'attrazione ha una qualità psichica, come se una presenza laggiù lo invocasse, ma il legame non è così sofisticato, è più biologico, riverbera nel suo sangue, nel midollo delle sue ossa.
Di nuovo al volante dell'auto, trova il Kansas Turnpike e punta verso Wichita. Ancora adesso non ha sonno. Se deve, può passare due o anche tre notti senza dormire, senza che questo intacchi minimamente la sua forma fisica e mentale, e questa è una delle sue doti speciali. È così eccitato dalla prospettiva di essere qualcuno che potrebbe guidare ininterrottamente finché non avrà incontrato il suo destino. 13 Paige, intuendo che Marty sotto sotto temeva che potesse capitargli un altro blackout, questa volta in pubblico, ammirava moltissimo la capacità del marito di conservare una straordinaria apparenza di normalità nel suo comportamento. Sembrava sereno quanto le figlie. Dal punto di vista delle bambine, domenica era una giornata perfetta. Nella tarda mattinata Paige e Marty le portarono al Ritz-Carlton Hotel di Dana Point per il brunch del fine settimana del Ringraziamento. Era uno di quei posti dove si andava solo nelle grandi occasioni. Come sempre, Emily e Charlotte rimasero incantate dal curatissimo parco circostante, dagli splendidi saloni, dal personale impeccabile nelle uniformi perfette. Vestite a festa, con un nastro nei capelli, le bambine si divertivano moltissimo a fare le gran dame... quasi con lo stesso gusto con cui razziarono per due volte il carrello dei dolci. Nel pomeriggio, visto il bel tempo, insolito per la stagione, si cambiarono e andarono al parco di Irvine. Passeggiarono per i vialetti pittoreschi, diedero da mangiare alle anatre nel laghetto e fecero una visita al piccolo giardino zoologico. Emily si impegnò in una lotta di sguardi con un lupo. Il predatore, un animale di grossa taglia, dagli occhi color ambra e il lustro mantello grigio argenteo, incontrò e sostenne intensamente lo sguardo della bambina dalla sua parte della rete di recinzione. «Se uno distoglie gli occhi per primo», li informò Emily con convinzione, «viene un lupo e se lo mangia.» Il confronto durò così a lungo che Paige cominciò a impensierirsi nonostante il solido reticolato. Poi il lupo chinò la testa, annusò il terreno, fece un elaborato sbadiglio per chiarire che non era intimidito ma che semplicemente aveva perso interesse, e se la squagliò. «Se non è riuscito ad acchiappare i tre porcellini con tutto quello sbuffare e soffiare», commentò Emily, «lo sapevo benissimo che non poteva vin-
cere me, che sono più intelligente dei maiali.» Si riferiva al cartone animato di Walt Disney, l'unica versione della fiaba di cui fosse a conoscenza. Paige decise che non le avrebbe mai lasciato leggere la versione originale dei fratelli Grimm, che parlava di sette capretti anziché di tre porcellini. Il lupo ne inghiottiva interi sei, ma questi venivano salvati dalla mamma che apriva la pancia dell'animale tirandoli fuori dalle viscere fumanti. Paige lanciò un'ultima occhiata al lupo mentre si allontanavano. Stava fissando di nuovo Emily. 14 Domenica è una giornata piena per il killer. Poco prima dell'alba, prende l'uscita di Wichita dell'autostrada. In un altro quartiere residenziale, molto simile a quello di Topeka, cambia le targhe della Honda con quelle di una Chevrolet, rendendo più difficile da individuare il veicolo rubato. Verso le nove di domenica mattina arriva a Oklahoma City, dove si ferma a fare il pieno di benzina. Di fronte alla stazione di servizio c'è un centro commerciale. In un angolo del vasto parcheggio deserto sta un cassonetto per i rifiuti. Dopo aver fatto rifornimento, lascia lì le valigie e il loro contenuto. Tiene per sé solo gli abiti che indossa e la pistola. Durante la notte, sull'autostrada, ha avuto tempo per riflettere sulla sua peculiare esistenza, e per chiedersi se per caso non stia portando con sé una minuscola trasmittente che potrebbe aiutare i suoi superiori a localizzarlo. Forse hanno previsto che un giorno o l'altro possa disertare. Sa che una trasmittente di discreta potenza, azionata da una minuscola batteria, si può nascondere in uno spazio estremamente ridotto. Come il piano di una valigia, per esempio. Mentre si immette nell'Interstatale 40 puntando a ovest, una massa di nuvole nere sta coprendo il cielo. Quaranta minuti dopo, quando comincia a venir giù, la pioggia è argento liquido, e cancella all'istante tutto il colore del vasto paesaggio deserto che fiancheggia l'autostrada. Il mondo ha venti, quaranta, cento sfumature di grigio, senza neppure un lampo ad alleviare l'opprimente monotonia. Il panorama monocromo non offre distrazioni, per cui il killer ha ancora tempo per interrogarsi sui cacciatori senza volto che forse gli sono alle cal-
cagna. È paranoia chiedersi se una microtrasmittente possa essere nascosta nella stoffa dei suoi abiti. Dubita che possa trovare posto nel tessuto dei pantaloni, della camicia, del golf, della biancheria o delle calze senza che la si noti semplicemente per il peso o a un'ispezione casuale. Restano le scarpe e il giubbotto di pelle. La pistola è esclusa. Non piazzerebbero mai nella P7 qualcosa che potrebbe interferire con il suo funzionamento. E poi era previsto che se ne disfacesse appena eseguiti gli omicidi per i quali era stata fornita. A metà strada tra Oklahoma City e Amarillo, a est del confine con il Texas, si ferma in un'area di sosta dove già dieci automobili, due autotreni e due camper si sono rifugiati per sfuggire al temporale. In un non lontano boschetto di sempreverdi, i rami degli alberi penzolano appesantiti dalla pioggia e sembrano grigi anziché verdi. Le scure escrescenze delle grosse pigne fanno uno strano effetto. Un tozzo fabbricato ospita le toilette. Il killer raggiunge di corsa, sotto il gelido acquazzone, quella degli uomini. Mentre sta davanti al primo dei tre orinatoi, con la pioggia che picchia rumorosamente sul tetto di lamiera e l'aria umida satura dell'odore fangoso del cemento bagnato, entra un uomo sui sessant'anni. Una rapida occhiata: folti capelli bianchi, viso segnato dalle rughe, naso bulboso istoriato dal reticolo dei capillari rotti. Si dirige verso il terzo orinatoio. «Che acquazzone, eh?» dice lo sconosciuto. «Proprio un annegasorci», risponde il killer, con una frase che ha sentito in un film. «Dovrà ben finire.» Il killer nota che l'uomo è più o meno della sua altezza e della sua corporatura. Mentre si richiude la lampo gli domanda: «Dov'è diretto?» «Per il momento a Las Vegas, ma poi da qualche altra parte e dopo da qualche altra parte ancora. Io e mia moglie siamo in pensione, viviamo la maggior parte del tempo in camper. Ho sempre desiderato visitare il paese, e adesso mi sto togliendo la voglia. Non c'è niente di meglio che la vita in strada, cose nuove da vedere tutti i giorni, libertà assoluta.» «Dev'essere magnifico.» Al lavandino, mentre si lava le mani, il killer esita, chiedendosi se è prudente far fuori subito quel vecchio rincoglionito, e ficcare il corpo in un gabinetto. Ma con tutta la gente che c'è nel parcheggio qualcuno potrebbe entrare all'improvviso. Mentre si abbottona, l'altro dice: «L'unico problema è che Frannie, mia
moglie, non ne vuole sapere di farmi guidare con la pioggia. Basta che vengano giù due gocce e pretende che mi fermi». Sospira. «Oggi non ne faremo tanta, di strada.» Il killer si asciuga le mani sotto l'apparecchio dell'aria calda. «Be', Las Vegas non scapperà via.» «Questo è vero. Fosse pure il Giorno del Giudizio, quelli i tavoli del blackjack li aprono lo stesso.» «Faccia saltare il banco, mi raccomando», dice il killer, ed esce mentre l'uomo si avvicina al lavabo. Di nuovo nella Honda, bagnato e tremante, accende il motore e il riscaldamento. Ma non mette in moto. Lungo il marciapiede sono parcheggiati tre camper. Dopo un minuto, dalla toilette degli uomini esce il marito di Frannie. Attraverso la pioggia che riga il parabrezza il killer guarda l'uomo dai capelli bianchi che corre verso un grosso Road King azzurro e argento, e vi entra dalla portiera del conducente. Dipinto sullo sportello c'è la sagoma di un cuore, e nel cuore due nomi in caratteri fantasia: Jack e Frannie. La fortuna non è con Jack, il pensionato diretto a Las Vegas. Il Road King è a solo quattro posti dalla Honda, e la vicinanza rende più facile al killer fare ciò che va fatto. Il cielo sta scaricando un mare di pioggia. L'acqua precipita attraverso il cielo senza vento, disturbando senza posa la superficie a specchio delle pozzanghere sull'asfalto, riversandosi lungo i marciapiedi in torrenti senza fine. Auto e camion arrivano dall'autostrada, sostano per un po', ripartono, e al loro posto arrivano nuove vetture che si inseriscono tra la Honda e il Road King. Lui è paziente. La pazienza fa parte del suo addestramento. Il motore del camper è in folle. Il gas di scarico sale dai due tubi di scappamento appaiati. I finestrini lungo la fiancata, al di là delle tendine, sono illuminati da una luce ambrata. Invidia la loro confortevole casa su ruote, che dev'essere intima e comoda come qualsiasi casa che lui possa mai sperare di avere. Invidia anche il loro lungo matrimonio. Come sarà avere una moglie? Come ci si sentirà a essere un marito adorato? Dopo quaranta minuti, la pioggia non è ancora diminuita, ma un gruppo di macchine va via. La Honda è l'unico veicolo parcheggiato dal lato dell'autista del Road King.
Presa la pistola, il killer smonta dall'auto e si dirige a passo svelto verso il camper, tenendo d'occhio i finestrini laterali, casomai Frannie o Jack scostino le tendine proprio adesso, al momento meno opportuno. Guarda verso il fabbricato dei servizi. Nessuno in vista. Perfetto. Impugna la fredda maniglia cromata dello sportello. Non è chiuso a chiave. Sale a bordo, montando sugli scalini, e guarda al di là del sedile dell'autista. La cucina è immediatamente oltre la cabina, dietro la cucina c'è uno spazio con il tavolo da pranzo, poi il soggiorno. Frannie e Jack sono seduti a mangiare, la donna dà le spalle al killer. Jack lo vede per primo, fa per alzarsi e sfilarsi dallo spazio angusto, e Frannie guarda al di sopra della spalla, più incuriosita che allarmata. I primi due proiettili raggiungono Jack al torace e alla gola. Crolla sulla tavola. Spruzzata di sangue, Frannie apre la bocca per urlare, ma la terza pallottola a bruciapelo le muta drasticamente la forma del cranio. Il silenziatore è fissato alla canna, ma non ha più tutta la sua efficacia. I deflettori sono ormai compressi. Il rumore che accompagna ogni detonazione è solo un po' meno forte di uno sparo normale. Il killer si chiude la portiera alle spalle. Guarda fuori, il marciapiedi, l'area da picnic battuta dalla pioggia, i gabinetti. Nessuno in vista. Scavalca il cambio e si sistema nel sedile del passeggero. Fuori, da quella parte, si vedono solo quattro veicoli in sosta. Quello più vicino è un Mack, e l'autista dev'essere alla toilette perché nella cabina del camion non c'è nessuno. È improbabile che qualcuno abbia sentito gli spari. Il fragore della pioggia offre la copertura ideale. Fa ruotare il sedile, si alza in piedi e si avvia verso l'interno del camper. Si ferma accanto ai due cadaveri, tocca la schiena di Jack... poi la mano sinistra di Frannie, che giace sulla tavola in una pozza di sangue accanto al piatto della cena. «Addio», mormora piano, dispiaciuto di non avere più tempo per dividere con loro questo momento speciale. Essendosi spinto fin lì, però, non vede l'ora di scambiare i suoi abiti con quelli del marito di Frannie e di rimettersi in viaggio. Si è persuaso che c'è sicuramente una trasmittente nascosta nel tacco di gomma delle sue Rockport, e che il suo segnale proprio in quel momento sta conducendo da lui gente pericolosa.
Al di là del soggiorno c'è un bagno, un grande guardaroba zeppo di abiti di Frannie, e una camera da letto con un armadio più pìccolo che contiene il guardaroba di Jack. In meno di tre minuti si spoglia completamente e indossa altra biancheria, calzerotti bianchi, jeans, una camicia a quadri rossa e marrone, un paio di mocassini sformati e un giubbotto di pelle simile al suo. La misura dei pantaloni va abbastanza bene: sono un po' larghi di vita ma la cintura sistema tutto. Le scarpe sono un po' abbondanti ma portabiti, e camicia e giubbotto vanno alla perfezione. Porta le Rockport in cucina. Per confermare i suoi sospetti, prende da un cassetto un coltello del pane seghettato e taglia via alcuni sottili strati di gomma dal tacco di una delle scarpe finché scopre una piccola cavità che contiene del materiale elettronico. Una trasmittente miniaturizzata è collegata con una serie di pile da orologio, una serie che sembra estendersi per tutta la lunghezza del tacco e forse anche nella suola. Dunque non era paranoia. Stanno arrivando. Abbandonate le scarpe in mezzo ai ritagli di gomma sul bancone della cucina, fruga febbrilmente il cadavere di Jack e prende i soldi che sono nel suo portafoglio. Sessantadue dollari. Cerca la borsa di Frannie, la trova in camera da letto. Quarantanove dollari. Quando lascia il camper, il cielo di piombo sembra convesso, incurvato sotto il peso delle nuvole temporalesche. Megatoni di pioggia si abbattono sulla terra. Spirali di nebbia serpeggiano tra i tronchi dei pini e sembrano volerlo ghermire mentre corre verso la Honda sguazzando nelle pozzanghere; Di nuovo sull'Interstatale, filando nel perpetuo crepuscolo del temporale, alza il riscaldamento al massimo e ben presto attraversa il confine di stato con il Texas, dove il paesaggio piatto diventa incredibilmente ancora più piatto. Ora che si è disfatto degli ultimi tra gli scarsi averi della sua vecchia vita, si sente liberato. Inzuppato di pioggia gelata, è scosso da un tremito incontrollabile, che è anche di attesa e di eccitazione. Il suo destino lo aspetta da qualche parte là a ovest. Toglie la confezione di plastica a un wurstel e lo mangia mentre guida. Un vago aroma che affiora attraverso il sapore principale della carne speziata gli ricorda l'odore metallico di sangue che ha avvertito nella casa di Kansas City, dove ha lasciato la coppia morta senza nome nell'enorme letto georgiano. Il killer spinge la Honda alla massima velocità che osa raggiungere sul-
l'autostrada resa sdrucciolevole dalla pioggia, pronto a uccidere il primo poliziotto che provi a fermarlo. Raggiunta Amarillo, Texas, poco dopo il tramonto della domenica, si accorge che la sua Honda è praticamente a secco. Si ferma a una stazione di servizio solo il tempo necessario per fare rifornimento, usare la toilette e comprare altro cibo da portarsi dietro. Dopo Amarillo, sfrecciando verso ovest nella notte, oltrepassa Wildorado, con il confine del New Mexico davanti a sé, e improvvisamente si rende conto che sta attraversando il deserto nel cuore del Vecchio West, dove sono stati girati tanti splendidi film. John Wayne e Montgomery Clift in Il fiume rosso, con Walter Brennan che ruba scene a destra e a manca. Rio Bravo. E Il cavaliere della valle solitaria era ambientato là nel Kansas, con Jack Palance che stende Elisha Cook Jr. decenni prima che Dorothy si imbarchi sul tornado per Oz. Ombre rosse, Il romantico avventuriero, Il Grinta, Partita d'azzardo, Gli inesorabili, Lo straniero senza nome, Cielo giallo, tanti grandi film, non tutti ambientati nel Texas ma almeno nello «spirito» del Texas, con John Wayne e Gregory Peck e Jimmy Stewart e Clint Eastwood, leggende, luoghi mitici ora resi reali e in attesa laggiù, oltre l'autostrada, offuscati dalla pioggia e dalla nebbia e dall'oscurità. È quasi possibile credere che quelle storie si stiano svolgendo proprio ora, nelle cittadine di frontiera che sta toccando, e che lui sia Butch Cassidy o il Sundance Kid o un altro pistolero di un secolo precedente, un killer ma non un criminale, incompreso dalla società, costretto a uccidere per quello che gli è stato fatto, con una squadra di uomini sulle sue tracce... Ricordi provenienti da schermi cinematografici e da film trasmessi la sera tardi in TV, che costituiscono la quasi totalità dei suoi ricordi, inondano la sua mente turbata, rilassandolo, e per un po' resta così totalmente perduto in queste fantasie che non presta quasi attenzione alla guida. Un po' alla volta si accorge che la sua andatura è scesa a sessantacinque chilometri all'ora. Camion e automobili lo sorpassano rombando, e lo spostamento d'aria del loro passaggio investe la Honda, spruzzando acqua sporca sul parabrezza, e i puntini rossi dei fanalini di coda si allontanano veloci nel buio. Sicuro che il suo misterioso destino si rivelerà grandioso come quello di John Wayne nei suoi film, accelera. Confezioni di cibo vuote e semivuote, appallottolate e sporche e piene di briciole, si accumulano sul sedile del passeggero. Ricadono sul pavimento, sotto il cruscotto, ingombrando completamente lo spazio per le gambe da quella parte dell'auto.
Dalle cartacce, estrae un pacchetto nuovo di biscotti. Per accompagnarli apre una Pepsi ormai tiepida. A ovest. Sempre a ovest. Un'identità lo attende. Sarà qualcuno. 15 La sera della domenica, a casa, dopo enormi ciotole di popcorn e due videocassette, Paige portò le bambine a letto, diede loro il bacio della buonanotte e si ritirò sotto l'arco della porta guardando Marty che si sistemava per quello che era il momento della giornata che più amava. L'ora della lettura. Continuò la poesia sul gemello cattivo di Babbo Natale, e le bambine furono immediatamente rapite dal racconto. «Scendon le renne dal cielo calando, si vede da qui come stanno tremando. Per la paura strabuzzano gli occhi, hanno capito e gli tremano i ginocchi: sanno benissimo che il guidatore non è il loro amico ma un vile impostore. Se solo potessero in quattro e quattr'otto lo scaraventerebbero giù disotto. Ma quel fratellaccio si è portato un bastone una frusta una fionda un fucile un arpione un mitra un revolver che distrugge anche i miraggi ma il più micidiale è una pistola a raggi.» «Una pistola a raggi?» disse Charlotte. «Ma allora è un extraterrestre!» «Non fare la scema», la zittì Emily. «È il gemello di Babbo Natale, e se lui è un extraterrestre, allora dev'essere un extraterrestre anche Babbo Natale, e invece non mi pare proprio che lo sia.» Con il paternalismo condiscendente di chi a nove anni ha da tempo scoperto che Babbo Natale non esiste, Charlotte dichiarò: «Em, tu hai ancora tanto da imparare. Papà, che cosa fa la pistola a raggi? Ti riduce in poltiglia?» «In pietra», spiegò Emily Tirò fuori una mano da sotto la coperta e mostrò il ciottolo levigato su cui aveva dipinto un paio di occhi. «È capitato a
Peppers.» «Si posa sul tetto la slitta sicura, però quel Babbo lì fa proprio paura. Di tutte le renne l'orecchio conquista e fa una minaccia da bieco teppista: 'Badate che al Polo avete parenti, povere anime del tutto innocenti. Se mentre io son dentro provate a fuggire potete giurarci che vi faccio pentire. Con un aeroplano arrivo lassù e in mezzo alle nevi mi preparo il menù: renne bambine, adulte e stagionate dall'antipasto alle ultime portate'.» «Lo odio, questo tizio», comunicò Charlotte con calore. Si tirò la coperta fin sotto al naso come aveva fatto la sera prima, ma non era davvero spaventata, si divertiva soltanto a fingerlo. «Questo tizio era certamente nato cattivo», decise Emily. «Di sicuro non poteva essere diventato così soltanto perché il papà e la mamma non erano stati abbastanza buoni con lui.» Paige era ammiratissima dell'abilità di Marty di toccare il punto preciso capace di suscitare il coinvolgimento totale delle bambine. Se le avesse dato da leggere la poesia prima di cominciare a recitarla, Paige gli avrebbe detto che le sembrava un po' troppo forte e tenebrosa per poter piacere a delle ragazzine. Un buon punto di partenza per un dibattito sul tema: che cosa è superiore, l'esperienza dello psicologo o l'istinto del narratore? «Arriva al comignolo e guarda verso il basso ma con quel corpaccio farebbe uno sconquasso, e visto che è carico di tutto l'armamento altra via troverà per entrare nell'appartamento. Dal tetto si cala giù giù nella corte e sul retro si accinge ad aprire le porte. Sogghigna pensando al progetto che ha in mente per la casa che russa pacificamente. Oddio quell'infame, quel mostro, quel folle idiota
si sta introducendo in casa Stillwater.» «A casa nostra!» strillò Charlotte. «Lo sapevo», disse Emily. «Non è vero!» «E invece sì.» «No.» «E invece sì. È per questo che dormo con Peppers, così può proteggermi fin dopo Natale.» Vollero che il padre rileggesse tutto dall'inizio, tutti i versi di tutt'e due le sere. Quando Marty ricominciò dal principio, Paige si allontanò in silenzio e andò di sotto a mettere in ordine la cucina. La giornata, per quanto riguardava le bambine, era stata perfetta, ed era stata buona anche per lei. Marty non aveva sofferto un'altra crisi, e questo le permetteva di convincersi che la fuga era stato un episodio isolato: preoccupante, inspiegabile, ma non un segno di un grave disturbo o una malattia seria. Di sicuro nessuno sarebbe in grado di stare al passo con due bambine così piene di energia, intrattenerle, evitare che si mettano a fare i capricci per un'intera intensa giornata se non fosse in perfetta salute. Per quanto concerneva lei, che era esattamente l'altra metà della Favolosa Macchina Genitoriale Stillwater, Paige era sfinita. Senza sapere perché, dopo aver messo via il popcorn avanzato, si trovò a controllare la chiusura di porte e finestre. La sera prima Marty non era stato in grado di spiegare perché sentisse un maggiore bisogno di sicurezza. Il suo turbamento, in fin dei conti, era interiore. Paige immaginò che si trattasse di un semplice transfert psicologico. Era stato riluttante a soffermarsi sull'idea di un tumore al cervello o di un'emorragia cerebrale perché quelle erano cose totalmente al di fuori del suo controllo, e così aveva ripiegato verso l'esterno per cercare un nemico contro il quale fosse in grado di mettere in atto una difesa concreta. D'altronde, era anche possibile che stesse reagendo d'istinto a una minaccia reale avvertita al di là della percezione conscia. Avendo assimilato in parte la teoria junghiana nella sua visione del mondo personale e professionale, Paige aveva spazio dentro di sé per concetti quali l'inconscio collettivo, la sincronicità, l'intuizione. Accanto alla porta-finestra del soggiorno, con lo sguardo sul patio e il
giardino buio, Paige si chiese che genere di minaccia Marty potesse aver percepito là fuori, in un mondo che, nel corso di tutta la sua vita, lei aveva visto caricarsi sempre più di pericoli. 16 Distoglie l'attenzione dalla strada solo per lanciare rapide occhiate alle strane forme che spuntano dal buio e dalla pioggia sui due lati dell'autostrada. Denti spezzati di roccia spuntano dalla sabbia e dalle pietraie come se sotto la superficie della terra un mastodonte antidiluviano stesse spalancando le fauci per inghiottire il primo animale indifeso che passi di lì. Macchie isolate di alberi lottano per rimanere in vita in una terra sterile in cui i temporali sono rari e ancora più rari gli acquazzoni abbondanti; i rami contorti emergono dalla foschia, secchi e cheratinosi come zampe di insetti, brevemente illuminati dai fari, agitati per un momento dallo spostamento d'aria, e subito scomparsi. La Honda dispone di una radio, ma il killer non la accende perché non vuole essere distratto dal potere misterioso che lo attira verso ovest e con cui cerca di raggiungere la comunione. Un monotono chilometro dopo l'altro, l'attrazione magnetica cresce, e solo questo gli interessa: non potrebbe allontanarsene più di quanto la terra potrebbe invertire il senso di rotazione facendo l'indomani sorgere il sole a ponente. Si lascia la pioggia alle spalle e infine passa da un cielo di nuvole sfrangiate a una notte limpida punteggiata di innumerevoli stelle. Lungo l'orizzonte si intravedono cime e creste luminose, così lontane che sembrano segnare il margine del mondo, come contrafforti d'alabastro che proteggano un regno di fiaba, le mura di Shangrila in cui brilla ancora la luna del mese passato. Continua il suo andare nella vastità del sudovest, sfiorando chiazze di luce che sono le città desertiche di Tucumcari, Montoya, Cuervo, e poi al di là del fiume Pecos. Tra Amarillo e Albuquerque, quando si ferma per l'olio e la benzina, usa il cesso di una stazione di servizio che puzza di insetticida, con due scarafaggi morti in un angolo. La luce gialla e lo specchio lercio rivelano un'immagine che è riconoscibile come la sua, ma che ha qualcosa di diverso. L'azzurro dei suoi occhi sembra più scuro e più acceso, e i lineamenti del suo viso abitualmente aperto e cordiale si sono induriti. «Diventerò qualcuno», dice allo specchio, e la bocca dell'uomo nel ri-
flesso formula le parole di concerto con lui. Alle undici e mezzo della notte di domenica, quando raggiunge Albuquerque, fa rifornimento presso un'altra stazione di servizio e ordina due cheesburger da portar via. Inizia la tappa successiva del suo viaggio, cinquecento chilometri fino a Flagstaff, Arizona, mangiando i panini direttamente dai sacchetti bianchi di carta, in cui lascia cadere grasso fragrante, cipolle, mostarda. Sarà la seconda notte passata senza dormire, ma non ha sonno. È dotato di un'energia eccezionale. In altre occasioni gli è capitato di non dormire per settantadue ore, rimanendo perfettamente lucido. Dai film che ha visto nelle sue notti solitarie in città sconosciute, ha imparato che il sonno è l'unico nemico invincibile di soldati impegnati a combattere e vincere la più aspra battaglia. Di poliziotti in caccia. Di quelli che devono valorosamente montare di guardia contro il vampiro finché l'alba porterà il sole e con esso la salvezza. La sua capacità di stringere a volontà una tregua con il sonno è così insolita che lui stesso evita di pensarci. Avverte che ci sono cose in lui che è meglio non appurare, e questa è una di quelle. Un'altra lezione che ha appreso dai film è che ogni uomo ha dei segreti, e perfino segreti che tiene nascosti anche a se stesso. Quindi, i segreti lo fanno simile a tutti gli altri. E questa è esattamente la condizione a cui più aspira. Essere come tutti gli altri. Nel sogno, Marty si trovava in un luogo freddo e ventoso, in preda al terrore. Sapeva di essere su una pianura piatta e informe come uno di quei vasti fondovalle nel deserto del Mojave, in direzione di Las Vegas, ma non riusciva a vedere materialmente il paesaggio a causa del buio, profondo come la morte. Sapeva che qualcosa si stava avventando contro di lui dall'oscurità, qualcosa di incredibilmente innaturale e ostile, immenso e letale ma assolutamente silenzioso; sapeva, lo sapeva nelle ossa, che stava arrivando, Dio, ma non aveva idea della direzione da cui sarebbe giunto. Sinistra, destra, di faccia, alle spalle, dalla terra sotto i suoi piedi o dal cielo nero sopra la sua testa, stava arrivando. Poteva sentirlo, un oggetto di dimensioni e péso così colossali che l'atmosfera veniva compressa dal suo avanzare, l'aria si ispessiva all'accostarsi del pericolo sconosciuto. E si avvicinava alla massima velocità, più forte, più forte, e non c'era dove nascondersi. Quindi, da un punto in quel buio pesto, sentiva la voce di Emily che chiedeva aiuto, che chiamava il suo papà, e anche Charlotte, ma non riu-
sciva a individuarle. Correva da una parte, poi dall'altra, ma le voci sempre più frenetiche delle due bambine continuavano a sfuggirgli, a riecheggiare dietro di lui. La minaccia ignota era più vicina, più vicina, le bambine sempre più spaventate e piangenti, Paige gridava il suo nome con una voce così terrorizzata che Marty si mise a singhiozzare per l'avvilimento, per la sua incapacità di trovarle, Gesù mio, e quella cosa gli era quasi addosso, quella cosa, qualsiasi cosa fosse, inarrestabile come una luna cadente, pianeti in collisione, peso smisurato, forza primigenia come quella che aveva creato l'universo, distruttiva come quella che un giorno gli avrebbe posto fine, Emily e Charlotte che urlavano, urlavano... A ovest del Deserto Dipinto, all'altezza di Flagstaff, Arizona, poco prima delle cinque del lunedì mattina, gli spruzzi di neve agitano il cielo antelucano, e l'aria fredda è uno scalpello penetrante che fende le ossa. Il giubbotto di pelle marrone che ha preso dall'armadio del morto nel camper meno di sedici ore prima nell'Oklahoma non è abbastanza pesante da tenerlo caldo nel gelo del primo mattino. Rabbrividisce mentre riempie il serbatoio a un self-service. Di nuovo sull'Interstatale 40, comincia il tratto di cinquecentosessanta chilometri fino a Barstow, California. La spinta verso l'occidente è così irresistibile che il killer si sente come un asteroide catturato dalla tremenda forza di gravita della terra e trascinato inesorabilmente verso il cataclisma dell'impatto. Il terrore lo scaraventò fuori del sogno di tenebre e di ignota minaccia: Marty Stillwater balzò di scatto a sedere sul letto. Il primo respiro che fece da sveglio fu così esplosivo che ebbe la certezza di aver svegliato Paige, ma lei continuava a dormire tranquillamente. Marty era gelato e al tempo stesso coperto di sudore. Un poco alla volta il cuore smise di martellare in quel modo spaventoso. Grazie al riverbero verde del quadrante digitale della sveglia, la spia rossa del televisore, e la fioca luce che filtrava dalle finestre, la camera da letto era molto meno buia della pianura del sogno. Ma Marty non poteva rimettersi giù. Non aveva mai avuto un incubo così vivido, così allucinante. Addormentarsi gli sarebbe stato impossibile. Alzatosi dal letto si diresse scalzo verso la finestra più vicina. Scrutò il cielo sopra i tetti delle case di fronte, come se qualcosa in quella volta buia potesse calmarlo.
E invece, quando notò che il cielo nero si stava schiarendo, raggiungendo una sfumatura grigioazzurra lunga la linea dell'orizzonte a est, l'idea dell'alba in arrivo lo gettò nello stesso terrore irrazionale che aveva provato nel suo studio quel pomeriggio del sabato. Quando il cielo cominciò a colorirsi, Marty prese a tremare. Cercò di controllarsi, ma il tremito si fece ancora più violento. Quello che temeva non era la luce del giorno, ma qualcosa che il giorno portava con sé, una minaccia senza nome. La sentiva avvicinarsi a lui, cercarlo, ma era un'assurdità, maledizione, e rabbrividì con tanta violenza che dovette appoggiare una mano al davanzale per sostenersi. «Che cos'ho?» mormorò disperatamente tra sé. «Che mi sta succedendo, che cos'ho?» Un'ora dopo l'altra, l'ago del tachimetro trema tra i centotrenta e i centoquaranta. Il volante vibra spasmodicamente finché gli fanno male le mani. La Honda ondeggia, si scuote. Il motore emette un continuo ronzio acuto, non abituato a essere forzato in quel modo. Rosso ruggine, bianco osso, giallo zolfo, il porpora delle vene disseccate, secca come cenere, arida come Marte, sabbia pallida irta delle creste di drago delle rocce, spruzzata di ispidi cespugli: la crudele compattezza del deserto del Mojave si presenta in tutta la sua maestosa nudità. Inevitabilmente, il killer pensa ai vecchi film dei pionieri che avanzano verso ovest a bordo delle loro carovane. Per la prima volta capisce quanto coraggio c'è voluto per fare un simile viaggio su quei carri sgangherati, affidare la propria vita alla salute e all'energia dei cavalli da tiro. Cinema. California. È in California, patria del cinema. Avanti, avanti, avanti. Di tanto in tanto gli sfugge un mugolio involontario. Il suono è come la voce di un animale che sta morendo disidratato in vista di una pozza d'acqua, che si trascina verso il liquido che gli promette la salvezza temendo di soccombere prima di poter spegnere la sua sete bruciante. Paige e Charlotte erano già nel garage, pronte a salire in macchina. Chiamarono all'unisono: «Emily! Sbrigati!» Quando Emily si alzò dal tavolo della colazione e fece per avviarsi di corsa verso la porta che dalla cucina dava sul garage, Marty l'acchiappò per una spalla e la girò verso di sé. «Aspetta, aspetta, aspetta.» «Oh», rispose lei, «mi ero dimenticata», e sporse le labbra per un bacio.
«Questo come seconda cosa», disse lui. «E la prima?» «Questo.» Si piegò su un ginocchio, mettendosi al suo livello, e con un tovagliolino le asciugò uno sbaffo di latte dalla bocca. «Uh, che scema», brontolò lei. . «Anzi, ti donava.» «Era una cosa da Charlotte.» Lui sollevò un sopracciglio. «Cioè?» «È lei quella che fa i pasticci.» «Non essere sgarbata». «Ma lo sa benissimo anche lei, papà.» «Comunque, non devi dirlo.» Dal garage, Paige chiamò di nuovo. Emily gli diede un bacio, e lui l'ammonì: «Non farmi disperare la maestra». «Non più che lei me», rispose Emily. D'impulso, Marty l'attirò a sé, la strinse forte, riluttante a lasciarla andare. Aveva addosso un fresco profumo di sapone e di shampoo, l'alito sapeva di latte e di biscotti. Marty non aveva mai sentito un insieme di profumi più dolce, più piacevole. Il dorso della bambina era esilissimo sotto la sua mano. Era così delicata, poteva sentire il battito del cuore attraverso il petto, stretto a lui, e anche attraverso la schiena, a cui teneva appoggiata la mano. Si sentì travolto dalla sensazione che qualcosa di terribile stesse per accadere e che, se l'avesse lasciata andar via, non l'avrebbe mai più rivista. Ma doveva lasciarla, certo, oppure spiegarle il motivo della sua riluttanza; e questo non era in grado di farlo. Vedi, tesoro, il problema è che dentro la testa di papà c'è qualcosa che non funziona, e continuano a venirmi queste idee paurose, che vi perderò, te, Charlotte e la mamma. Guarda, lo so benissimo che non succederà proprio niente, in realtà, perché il problema vero è tutto dentro la mia testa, come un grosso tumore o una cosa così. Sei capace di dire «tumore»? Lo sai che cos'è? Be', andrò dal medico e me lo farò togliere, tirar via quel vecchio brutto tumore, così non mi capiterà più di sentirmi spaventato senza motivo... Non poteva dire niente del genere, non ne aveva il coraggio. Le avrebbe solo fatto paura. Le diede un bacio su quella guancia tenera, tiepida, e la lasciò andare. Sulla porta del garage Emily si fermò e si voltò. «Un altro pezzetto di poesia, stasera?» «Ci puoi scommettere.»
Ridacchiando, Emily uscì nel garage. Il rumore della porta che si richiudeva dietro di lei era il suono più conclusivo che Marty avesse mai udito. Rimase a fissare la porta, imponendosi di non precipitarsi a spalancarla e gridare a tutt'e tre di tornare in casa. Sentì alzarsi il portellone del garage. Il motore dell'auto si avviò, esitò, fece presa, girò più in fretta quando Paige spinse l'acceleratore prima di innestare la retromarcia. Marty attraversò in fretta la cucina e la stanza da pranzo, entrò in soggiorno. Andò a mettersi a una delle finestre anteriori da cui poteva vedere il vialetto. Le tapparelle erano alzate, e si tenne a un paio di passi di distanza dal vetro. La BMW bianca apparve sul vialetto, retrocedendo dall'ombra della casa verso la luce del sole di fine novembre. Emily era davanti, accanto alla madre, e Charlotte sul sedile posteriore. Mentre l'automobile si allontanava lungo la strada alberata, Marty si accostò alla finestra del soggiorno fino a toccarne il vetro con la fronte. Si sforzò di seguire con lo sguardo le sue tre donne il più a lungo possibile, come se avesse la sicurezza che sarebbero sopravvissute a qualsiasi cosa, perfino alla caduta di un aereo o a un'esplosione nucleare, se solo non le avesse perse di vista. L'ultima immagine della BMW filtrò attraverso un improvviso velo di lacrime cocenti che riuscì a stento a trattenere. Turbato dall'intensità di quella reazione emotiva alla partenza della sua famiglia, diede le spalle alla finestra ed esclamò furibondo: «Ma che diavolo mi prende?» Dopotutto le bambine stavano solo andando a scuola, e Paige al lavoro, come succedeva quasi tutti i giorni. Stavano ripetendo una routine che non aveva mai presentato il minimo pericolo, e lui non aveva nessun motivo razionale per ritenere che potesse essere pericolosa proprio quel giorno. Guardò l'orologio. Le 7.48. All'appuntamento con il dottor Guthridge mancavano poco più di cinque ore, ma quello gli sembrava un tempo interminabile. In cinque ore poteva accadere di tutto. Sulle spine da Ludlow a Daggett. Avanti, avanti, avanti. Ora standard del Pacifico: 9.04. Barstow. Arida città sbiancata dal sole in un'aspra arida terra. Tanto
tempo prima le diligenze facevano tappa qui. Scali ferroviari. Fiumi in secca. Intonaci crepati, vernici screpolate. Verde di piante sbiadito da un perpetuo velo di polvere sulle foglie. Motel, fast-food, ristoranti, altri motel. Una stazione di servizio. Benzina. Toilette. Dolci in confezione per il viaggio. Due lattine fredde di Coca. Inserviente troppo cordiale. Voglia di chiacchierare. Lento a portare il resto. Occhietti porcini. Guance paffute. Sta' zitto, chiudi il becco, sta' zitto. Dovrebbe sparargli. Fargli saltare le cervella. Ma non può rischiare. Troppa gente. Di nuovo in marcia. Interstatale 15. Ovest. Dolci e Coca a centotrenta chilometri all'ora. Pianure desolate. Colline sabbiose. Rocce vulcaniche. Cactus di sentinella con tutte le loro braccia. Come un pellegrino verso il luogo santo, come un lemming verso il mare, come una cometa nel suo eterno corso, a ovest, a ovest, cercando di arrivare prima del sole che punta verso l'oceano. Marty possedeva cinque armi da fuoco. Non era un cacciatore né un collezionista. Non faceva tiro al piattello né si esercitava al bersaglio per divertimento. A differenza di parecchie sue conoscenze non si era armato per paura di un collasso sociale, anche se talvolta ne vedeva le tracce dappertutto. Non poteva neppure dire che gli piacessero le armi, ma riconosceva la loro utilità in un mondo sconvolto. Aveva acquistato le armi una per una a scopo di ricerca. Come autore di gialli, di romanzi in cui agivano poliziotti e assassini, riteneva suo dovere conoscere ciò di cui scriveva. Non essendo un appassionato di armi e disponendo di una quantità di tempo limitata per compiere le ricerche relative agli ambienti e ai temi che toccava in ciascuno dei suoi romanzi, qualche piccolo errore qua e là era inevitabile, ma si sentiva più a suo agio a scrivere di un'arma con cui avesse sparato. Nel cassetto del comodino teneva un revolver Korth .38, scarico, e una scatola di munizioni. Il Korth era un'arma fabbricata a mano di altissima qualità, prodotta in Germania. Dopo aver imparato a usarla per un romanzo intitolato Crepuscolo mortale, l'aveva tenuta per difesa in casa. Diverse volte lui e Paige avevano condotto le bambine a un poligono di tiro al coperto per assistere alle esercitazioni al bersaglio, per instillare in loro un profondo rispetto per il revolver. Quando Charlotte ed Emily fosse-
ro state più grandi, avrebbe insegnato loro a sparare, con un'arma meno potente e con minor rinculo della Korth. Gli incidenti con le armi da fuoco erano provocati praticamente sempre dall'ignoranza. Tolse la .38 dal comodino, la caricò e la portò nel garage, dove la sistemò nel vano portaoggetti della seconda auto, una Ford Taurus verde. Voleva tenerla lì per protezione nel viaggio di andata e ritorno dall'appuntamento che aveva all'una con il dottor Guthridge. Un fucile da caccia Mossberg calibro 12, una carabina Colt M16 A2 e due pistole automatiche, una Beretta modello 92 e una Smith & Wesson 5904, erano custoditi nelle loro confezioni originali dentro un armadietto metallico chiuso a chiave in un angolo del garage. C'erano anche scatole di munizioni dei vari calibri richiesti. Tolse ogni arma, che era stata pulita e oliata prima di essere riposta, dalla sua scatola e la caricò. La Beretta la mise in cucina, in un pensile accanto al fornello, davanti a un paio di tegami di ceramica. Le bambine non avrebbero avuto occasione di trovarla prima che lui avesse convocato un consiglio di famiglia per spiegare i motivi di quelle precauzioni straordinarie... se mai fosse stato in grado di spiegarli. L'M16 finì sul ripiano alto dell'armadio nell'ingresso, accanto alla porta d'entrata. Chiuse la Smith & Wesson nel secondo cassetto di destra della scrivania del suo ufficio, e infilò il Mossberg sotto il letto della loro camera. Per tutto il corso di questi preparativi, continuò a dirsi che doveva aver perso completamente la testa, ad armarsi in quel modo contro una minaccia che non esisteva. Considerando i sette minuti di fuga di cui aveva sofferto il sabato, trafficare con delle armi era decisamente l'ultima cosa che avrebbe dovuto fare. Non aveva alcuna prova di un pericolo imminente. Agiva esclusivamente d'istinto, come una formica soldato che costruisce una fortificazione. Una cosa del genere non gli era mai capitata. Per natura era un pensatore, un programmatore, un riflessivo, e solo in fondo in fondo un uomo d'azione. Ma quella era una «inondazione» di reattività istintiva, e lui ne era travolto. Poi, proprio quando ebbe finito di nascondere il fucile in camera da letto, i dubbi sulla sua salute mentale furono improvvisamente scalzati da un'altra angoscia. L'atmosfera opprimente del suo ultimo sogno gli fu di nuovo addosso, la sensazione di un terribile peso gli calò sulle spalle a velocità omicida. Parve che l'aria si ispessisse. Era terribile quasi quanto nel-
l'incubo. E andava peggiorando. Dio mio, aiutami, pensò, e non avrebbe saputo dire se chiedeva protezione da qualche nemico ignoto o da oscure pulsioni che provenivano dall'interno di se stesso. «Ho bisogno...» Mulinelli di sabbia. Danzanti sull'altopiano desertico. Raggi del sole baluginanti su cocci di bottiglia sull'asfalto. La cosa più veloce sulla strada. Auto di passaggio, camion. Il paesaggio un quadro confuso. Abitati sparsi, tutti confusi. Più in fretta. Più in fretta. Come risucchiato in un buco nero. Oltre Victorville. Oltre Apple Valley. Attraverso il Canjon Pass a quasi milletrecento metri sul livello del mare. Poi in discesa. Oltre San Bernardino. Sulla Riverside Freeway. Riverside. Carona. Attraverso le Santa Aria Mountains. «Ho bisogno di essere...» Sud. La Costa Mesa Freeway. La città di Orange. Tustin. Nel labirinto suburbano della California meridionale. Potente magnetismo, che tira, tira, tira senza tregua. Più che magnetismo. Forza di gravita. Giù nel vortice del buco nero. Svolta per la Santa Ana Freeway. Bocca secca. Un amaro sapore metallico. Il cuore che martella con violenza, il battito che si ripercuote nelle tempie. «Ho bisogno di essere qualcuno.» Più in fretta. Come legato a una pesantissima ancora con una catena che non ha fine, precipitando negli abissi bui di una fossa oceanica senza fondo. Oltre Irvine, Laguna Hills, El Toro. Nel cuore oscuro del mistero. «Bisogno... bisogno... bisogno... bisogno... bisogno...» Mission Viejo. Questa uscita. Sì. Fuori dell'autostrada. In cerca del magnete. L'enigmatica forza di attrazione. Fin qui da Kansas City per trovare l'ignoto, per scoprire il proprio strano
e meraviglioso futuro. Casa. Identità. Senso. Svolta a sinistra qui, due isolati, svolta a destra. Strade sconosciute. Ma per trovare la via non deve far altro che abbandonarsi al potere che lo attira. Case in stile mediterraneo. Prati curati. Ombre di palmizi su muri intonacati in giallo chiaro. Qui. Quella casa. Accosta al marciapiede. Si ferma. Mezzo isolato più in là. Una casa come le altre. Solo che. Qualcosa dentro. Quello che ha avvertito per la prima volta nel lontano Kansas. Quello che lo attira. Qualcosa. La forza di attrazione. Dentro. In attesa. Un grido inarticolato di trionfo gli sfugge dalla gola, e un fremito violento di sollievo lo scuote. Non ha più bisogno di cercare il suo destino. Anche se non sa ancora che cosa possa essere, è certo di averlo trovato, e si lascia andare sul sedile, fa scivolare le mani sudate giù dal volante, felice di essere arrivato al termine del suo lungo viaggio. Non è mai stato così emozionato, pieno di curiosità; liberato però finalmente dalla morsa ferrea della necessità, non sente più quel senso di urgenza. Il cuore si calma, scende a un numero più normale di battiti al minuto. Le orecchie smettono di ronzare, e riesce a respirare più lentamente e profondamente che negli ultimi ottanta chilometri almeno. In un tempo di una brevità che lo sorprende, è esteriormente calmo e controllato quanto lo era nella villa di Kansas City, dove con gratitudine ha condiviso la dolce intimità della morte con l'uomo e la donna nel vecchio letto georgiano. Quando Marty ebbe preso le chiavi della Taurus dal pannello della cucina, fu uscito nel garage, ebbe chiuso la porta della casa e premuto il pulsante per l'apertura del portello del garage, la sua consapevolezza di un pericolo incombente era ormai così acuta e lacerante da spingerlo sull'orlo di un panico cieco. Nella morsa febbrile della paranoia, si era convinto di essere perseguitato da un irreale nemico che impiegava non soltanto i normali cinque sensi ma anche mezzi paranormali, idea assolutamente assurda, Dio santo, un'idea da National Enquirer, pazzesca ma a cui non era in grado di sottrarsi perché sentiva materialmente una presenza... una violenta presenza in agguato che era consapevole di lui, lo pressava, lo sondava.
Aveva l'impressione che un liquido vischioso stesse penetrando nel suo cranio sotto una pressione spaventosa, comprimendogli il cervello, schiacciandogli la coscienza. L'effetto era in parte assolutamente fisico, visto che si sentiva oppresso da un peso come un subacqueo sotto tonnellate di acqua, con le articolazioni doloranti, i muscoli indolenziti, i polmoni incapaci di allargarsi ad accogliere un nuovo respiro. Un'estrema sensibilità a ogni stimolo lo rendeva quasi incapace di agire: lo sferragliare della porta del garage che si alzava sembrò spaccargli i timpani; l'ingresso improvviso della luce del sole gli incenerì gli occhi; un odore di muffa, normalmente troppo debole perché lo notasse, esplose come una nuvola tossica di spore da un angolo del garage, così pungente da provocargli un conato di vomito. Dopo un momento la crisi passò, e Marty tornò padrone di sé. Un attimo prima aveva creduto che il cranio gli scoppiasse; ora la pressione interna diminuì con la rapidità con cui era cresciuta, e lui non temette più di svenire da un momento all'altro. Il dolore alle giunture e ai muscoli passò, e il sole smise di ferirgli gli occhi. Fu come scavalcare il margine di un incubo, solo che era sveglio da tutt'e due le parti del margine. Si appoggiò alla Taurus. Esitava a credere che il peggio fosse passato, attendendo ansioso che un'altra di quelle inesplicabili ondate di terrore paranoico si abbattesse su di lui. Guardò dalla penombra del garage verso la strada, che gli appariva al tempo stesso familiare ed estranea, quasi aspettandosi che un mostruoso fantasma sorgesse dal marciapiede o scendesse dall'aria piena di sole, una creatura inumana e spietata, feroce e votata alla sua distruzione, l'.invisibile spettro del suo incubo che ora si faceva carne. Non riuscì a recuperare la sicurezza, e a smettere di tremare, ma un po' alla volta l'apprensione scese a un livello tollerabile, finché non fu in grado di considerare se fosse o meno in condizioni di guidare. E se uno spasmo di terrore ugualmente angoscioso lo avesse colpito mentre era al volante? Non avrebbe più avuto coscienza di niente, segnali di stop, traffico in arrivo, pericoli di ogni sorta. Più che mai, aveva bisogno di farsi vedere dal dottor Guthridge. Si chiese se rientrare in casa e chiamare un taxi. Ma quella non era New York, con le strade brulicanti di auto pubbliche: nella California meridionale, l'espressione «servizio rapido taxi» era il più delle volte un ossimoro. Cercarne uno e farsi accompagnare allo studio del medico significava quasi certamente mancare all'appuntamento.
Salì in macchina e accese il motore. Con cauta concentrazione, uscì in retromarcia dal garage e poi in strada, manovrando lo sterzo come un novantenne perfettamente cosciente della fragilità delle proprie ossa e dell'esilità del filo della propria esistenza. Per tutto il tragitto fino allo studio del medico, a Irvine, Marty Stillwater pensò a Paige, a Charlotte e a Emily. Il tradimento della sua propria debole carne poteva negargli la gioia di vedere le bambine farsi donne, il piacere di invecchiare al fianco della moglie. Benché convinto dell'esistenza di un mondo dopo la morte, nel quale a suo tempo si sarebbe ritrovato unito alle persone amate, la vita era così preziosa che neppure la promessa della beatitudine eterna poteva compensare la perdita di pochi anni da questo lato del velo dell'esistenza. A distanza di mezzo isolato, il killer guarda l'auto che esce lentamente a marcia indietro dal garage. Mentre la Ford svolta allontanandosi da lui e facendosi sempre più piccola nell'oro del sole autunnale, capisce che il magnete che lo ha richiamato dal Kansas si trova dentro quella macchina. Forse è l'uomo che ha intravisto al volante, anche se potrebbe non trattarsi affatto di una persona ma di un talismano nascosto nella vettura, un oggetto magico al di là della sua comprensione e a cui il suo destino è legato per motivi ancora oscuri. Il killer è lì lì per accendere il motore e seguire la fonte dell'attrazione, ma arriva alla conclusione che prima o poi lo sconosciuto nella Ford dovrà ritornare. Indossa la fondina ascellare, vi infila la pistola e si stringe nel giubbotto di pelle. Dal cruscotto prende la borsa di cuoio con la chiusura lampo che contiene la sua attrezzatura da scasso. Ci sono diversi grimaldelli di acciaio, un tenditoio a L e una bomboletta di lubrificante alla grafite. Scende dall'auto e si avvia di buon passo lungo il marciapiede verso la casa. All'imboccatura del vialetto sta una cassetta per la posta su cui spicca un solo nome: STILLWATER. Quelle dieci lettere nere sembrano possedere una forza simbolica. Still Water: acqua tranquilla. Calma. Pace. Ha trovato la sua acqua calma. Ha attraversato così tante turbolenze, rapide violente, gorghi, e ora ha trovato un punto in cui può riposare, dove la sua anima sarà rasserenata. Tra il garage e lo steccato di divisione del giardino, sgancia il congegno
di chiusura di un cancelletto di ferro battuto. Percorre un vialetto, fiancheggiato sulla sinistra dal muro del garage e sulla destra da una siepe di eugenia che gli arriva all'altezza della testa, fino al retro della casa. L'esiguo giardino posteriore è pieno di piante: una serie di ficus e la continuazione della siepe di eugenia, che lo protegge dagli sguardi curiosi dei vicini. Il patio è schermato da una copertura a graticcio di legno di sequoia a cui è intrecciata una folta bouganvillea. Perfino in quell'ultimo giorno di novembre, grappoli di fiori rosso sangue ornano il tetto del patio. Il pavimento di cemento è cosparso di petali caduti, come se sul posto si fosse combattuta un'aspra battaglia. La porta della cucina e un'ampia porta-finestra offrono due possibilità d'ingresso dal patio. Sono chiuse tutt'e due. La chiusura della porta-finestra scorrevole, al di là della quale può vedere un soggiorno deserto confortevolmente arredato e fornito di un televisore di grandi dimensioni, è rinforzata da un paletto di legno inserito nel binario interno. Se riesce a forzare la serratura dovrà comunque rompere il vetro per infilare la mano e sfilare il paletto. Bussa energicamente all'altra porta, anche se la finestra accanto gli mostra che la cucina è deserta. Visto che non risponde nessuno, bussa ancora, con lo stesso risultato. Toglie dal corredo di attrezzi da scasso la bomboletta di grafite. Chinandosi accanto alla porta, spruzza il lubrificante nella serratura. Polvere, ruggine o altri contaminanti rischiano di rendere inavvertibili le spine del meccanismo. Scambia la bomboletta di spray con il tenditoio e quel grimaldello noto come «rastrello». Prima inserisce il ferro a L per mantenere la tensione necessaria sul nucleo della serratura. Infila il rastrello nell'alloggiamento della chiave per tutta la sua profondità, poi lo tiene sollevato finché sente che spinge contro le spine. Rapidamente estrae il rastrello, ma l'attrezzo non ha sollevato tutte le spine del cilindro fino al punto di separazione, quindi prova ancora, e ancora, finché al sesto tentativo il canale sembra libero. Gira la maniglia. La porta si apre. Per un attimo pensa che può scattare un allarme, ma non sente nessun antifurto. Un rapido esame di stipite e battente non rivela la presenza di interruttori magnetici, per cui non deve esserci neppure un allarme silenzio-
so. Dopo aver riposto gli attrezzi e tirato la lampo della borsetta, varca la soglia e richiude la porta senza far rumore. Rimane per qualche momento nell'ombra fresca della cucina, assorbendo le vibrazioni, che sono buone. Questa casa lo accoglie bene. Qui inizia il suo futuro, e sarà un futuro incommensurabilmente più brillante del suo passato confuso e pieno di zone buie. Nell'uscire dalla cucina per esplorare i locali, non estrae la P7 dalla fondina. È sicuro che in casa non ci sia nessuno. Non avverte alcun pericolo, solo opportunità positive. «Ho bisogno di essere qualcuno», dichiara alla casa, come se fosse un'entità vivente, dotata del potere di esaudire i suoi desideri. Il pianterreno non offre niente di interessante. Le solite stanze presentano un arredamento comodo ma banale. Di sopra, perlustra rapidamente tutte le stanze per farsi un'idea generale del piano prima di dedicare del tempo a un'indagine approfondita. C'è una camera da letto principale con un bagno annesso, uno stanzino guardaroba... una camera per gli ospiti... la stanza dei figli... un altro bagno... L'ultima camera in fondo al corridoio, che affaccia sul davanti della casa, è usata come studio. Contiene una grande scrivania e un computer, ma è più intima di un ufficio. Un soffice divano occupa lo spazio sotto le due finestre dalle persiane chiuse, un lume con l'abat-jour di vetro colorato è poggiato sulla scrivania. Una delle pareti lunghe è coperta di quadri appesi su due file, con le cornici che si toccano quasi. I pezzi della collezione sono evidentemente di diversi artisti, ma il soggetto è in tutti, senza eccezione, buio e violento, reso con implacabile perizia: ombre contorte, occhi senza corpi sbarrati dal terrore, una tavoletta alfabetica da seduta spiritica su cui sta ritto un treppiede insanguinato, palmizi nero pece che si stagliano contro un tramonto sinistro, un volto distorto da uno specchio da baraccone di luna park, le lucide lame d'acciaio di coltelli e forbici affilati, una strada in cui si intravedono figure minacciose appostate al di là del cono di luce giallastra del lampione, alberi spogli dai rami carbonizzati, un corvo dagli occhi accesi appollaiato su un teschio calcinato dal sole, pistole, rivoltelle, fucili, un rampone per il ghiaccio, una mannaia da macellaio, un'ascia, un martello coperto di macchie inquietanti che giace oscenamente sopra un negligé di seta e un lenzuolo ricamato... Queste opere gli piacciono.
Gli parlano. Questa è la vita che lui conosce. Allontanandosi dalla parete, accende il lume e rimane sorpreso dalla bellezza policroma della sua luminosità. Nel vetro che protegge il ripiano del tavolo, il riflesso dei cerchi, degli ovali e delle gocce è altrettanto bello ma più oscuro dell'immagine vista direttamente. In un certo senso, un senso indefinibile, quelle figure specchiate hanno un che di premonitore. Sporgendosi, vede i due ovali dei propri occhi guardarlo dal vetro lucido. Luccicanti dei minuscoli riflessi del mosaico luminoso che vi si rispecchia a sua volta, non sembrano neppure occhi, ma i sensori di una macchina, o, se occhi, quelli febbrili di qualcosa priva di anima, cosicché lui distoglie in fretta lo sguardo prima che un esame troppo ravvicinato di se stesso lo porti a pensieri paurosi e a intollerabili conclusioni. «Ho bisogno di essere qualcuno», dice, nervosamente. Lo sguardo gli cade su una fotografia incorniciata in argento, anche questa sulla scrivania. Una donna e due bambine. Un bel terzetto. Sorridente. Raccoglie la foto per studiarla più da vicino. Tocca con un polpastrello il viso della donna e vorrebbe toccarla davvero, sentire la sua pelle calda ed elastica. Fa scivolare il dito sul vetro, sfiorando prima la bambina bionda, poi piccola dai capelli neri. Dopo uno o due minuti, quando si allontana dalla scrivania, porta la fotografia con sé. I tre visi del ritratto sono così attraenti che ha bisogno di poterli guardare ogni volta che gliene nasce il desiderio. Quando si sofferma a esaminare i titoli sui dorsi dei volumi sugli scaffali, fa una scoperta che gli dà una spiegazione, per quanto incompleta, del motivo per cui è stato richiamato dalle grigie pianure autunnali del Midwest al sole novembrino della California. Su alcuni ripiani i libri, romanzi gialli, sono tutti del stesso autore: Martin Stillwater. Il cognome è quello che ha letto sulla cassetta delle lettere davanti alla casa. Mette da parte il ritratto incorniciato e prende alcuni quei romanzi dagli scaffali, scoprendo con sorpresa che alcune immagini delle copertine le conosce già, perché gli originali sono appesi alla parete di quella quadreria che tanto lo ha affascinato. Ogni titolo appare in una varietà traduzioni: in francese, tedesco, italiano, olandese, svedese, danese, giapponese, e diverse altre lingue. Ma niente è interessante quanto le foto dell'autore che compaiono sul re-
tro delle copertine. Le studia a lungo, seguendo con un dito i lineamenti di Stillwater. Affascinato, scorre i risvolti di copertina. Poi legge la prima pagina di un libro, la prima di un altro, e poi di un altro ancora. Gli cade l'occhio su una dedica nella prima pagina di uno dei romanzi: Quest'opera è dedicata a mia madre e a mio padre, Alice e Jim Stillwater, che mi hanno insegnato a essere una persona per bene... e che non hanno colpa se io sono capace di pensare come un criminale. Sua madre e suo padre. Guarda imbambolato i loro nomi. Non ha nessun ricordo di loro, non riesce a raffigurarsi i loro volti o a ricordare dove possano vivere. Torna alla scrivania e consulta la guida. Scopre un Jim e Alice Stillwater a Mammoth Lakes, California. L'indirizzo non gli dice niente, e si chiede se quella è la casa in cui è cresciuto. Deve voler bene ai genitori. Ha dedicato loro un libro. Ma per lui non sono niente. Quanto è andato perduto. Ritorna alla libreria. Aprendo l'edizione americana o inglese di ogni titolo per studiare le dediche, alla fine trova: A Paige, moglie perfetta, su cui ho basato tutti i miei migliori personaggi femminili... escluse, naturalmente, le assassine psicopatiche. E, due volumi dopo: Alle mie fìglie, Charlotte ed Emily, nella speranza che un giorno, quando saranno cresciute, leggano questo libro e sappiano che il papà in questa storia esprime quello che c'è nel suo cuore quando parla con tanta convinzione ed emozione dei sentimenti che prova per le sue bambine. Messi da parte i libri, riprende la fotografia e la tiene tra le due mani con qualcosa che assomiglia alla reverenza. La bella bionda è sicuramente Paige. La moglie perfetta. Le due bambine sono Charlotte ed Emily, anche se non gli è possibile stabilire quale sia l'una e quale l'altra. Hanno un'aria dolce e obbediente. Paige, Charlotte, Emily. Finalmente ha trovato la sua vita. È a questo mondo che lui appartiene. Questa è casa sua. Il futuro comincia adesso. Paige, Charlotte, Emily. Questa è la famiglia a cui lo ha condotto il destino. «Ho bisogno di essere Martin Stillwater», dice, ed è emozionato all'idea di aver trovato, finalmente, un suo posto caldo in questo mondo di freddo e di solitudine.
2 1 Lo studio del dottor Guthridge aveva tre salette per le visite. Nel corso degli anni Marty era stato in ognuna di esse. Erano identiche tra loro e indistinguibili dalle sale di qualsiasi studio medico, dal Maine al Texas: pareti azzurrine, mobilio in acciaio inossidabile o bianco; lavabo, sgabello, un cartello per la misurazione della vista. Il posto non aveva più fascino di un obitorio, anche se l'odore era più piacevole. Marty sedeva sull'orlo del lettino, dal ripiano imbottito e protetto da un lenzuolo di carta. Si era tolto la camicia, e l'aria della stanza era piuttosto fredda. Aveva addosso i pantaloni, ma si sentiva nudo, vulnerabile. Mentalmente, si vide colpito da una crisi di catatonia, incapace di muoversi, anche solo di battere una palpebra, e allora il medico lo avrebbe creduto morto, lo avrebbe spogliato completamente, gli avrebbe attaccato un cartellino di identificazione all'alluce, chiuso gli occhi e l'avrebbe spedito al coroner per l'autopsia. Anche se gli dava da vivere, la sua immaginazione da autore di romanzi di suspense lo rendeva consapevole molto più della maggioranza della gente, di quanto la morte fosse sempre incombente. Ogni cane era un potenziale portatore di rabbia. Ogni furgone sconosciuto che attraversasse il quartiere era guidato da uno psicopatico maniaco sessuale che avrebbe rapito e ucciso qualsiasi bambino lasciato senza sorveglianza per più di tre secondi. Ogni barattolo nella dispensa era una potenziale infezione da botulino. Non aveva particolarmente paura dei medici, ma non si sentiva neppure decisamente a suo agio in loro presenza. Quello che lo turbava era il concetto stesso della scienza medica, non perché ne diffidasse ma perché, irrazionalmente, con la sua stessa esistenza gli ricordava che la vita era fragile, la morte inesorabile. E lui non aveva bisogno di promemoria del genere. Possedeva già un'acuta consapevolezza della mortalità, e passava la vita sforzandosi di adattarvisi. Deciso a non farsi prendere per un isterico quando avesse descritto i suoi sintomi, Marty espose a Guthridge le inspiegabili esperienze degli ultimi tre giorni in tono pacato, concreto. Si sforzò di usare termini clinici più che
emotivi, iniziando dai sette minuti di fuga nel suo studio e terminando con l'improvviso attacco di panico che lo aveva assalito mentre stava per uscire di casa per recarsi dal medico. Guthridge era un ottimo internista, in parte perché era un valido ascoltatore, pur non possedendone l'aspetto. Quarantacinquenne, dimostrava dieci anni di meno, e aveva un modo di fare da ragazzino. Quel giorno era in scarpe da tennis, jeans e un felpa con Topolino. D'estate portava camicie hawaiane. Nelle rare occasioni in cui indossava un tradizionale camice bianco su calzoni, camicia e cravatta, diceva che stava «giocando al dottore» o che aveva ricevuto un'ingiunzione dall'Ordine dei medici o che era stato «improvvisamente sopraffatto dalle responsabilità divine della missione di medico». Secondo Paige, Guthridge era un terapeuta eccezionale, e le bambine gli concedevano il particolare affetto che di solito si riserva allo zio più simpatico. Anche a Marty piaceva. Aveva il sospetto che le eccentricità del dottore non fossero del tutto calcolate per divertire i pazienti e metterli loro agio. Come Marty, Guthridge sembrava moralmente offeso dal fatto stesso dell'esistenza della morte. Da giovane, forse era stato attirato dalla medicina perché vedeva il medico come un cavaliere che combatte un drago incarnato nella malattia. I giovani cavalieri sono convinti che le nobili intenzioni, la perizia e la fede sbaraglieranno ogni male. I cavalieri più anziani la sanno più lunga, e talvolta utilizzano il senso dell'umorismo come un'arma per rintuzza amarezza e disperazione. Le battute di Guthridge, e la felpa con Topolino, riuscivano a mettere a loro agio i pazienti, ma rappresentavano anche una corazza contro le dure realtà della vita e della morte. «Un attacco di panico? Proprio tu in preda al panico?) chiese Paul Guthridge con aria incredula. «Iperventilazione, battito accelerato, mi sembrava scoppiare... mi pare che siano i sintomi di un attacco di panico bello e buono.» «O di sesso.» Marty sorrise. «Fidati, non era sesso.» «Potresti aver ragione», sospirò Guthridge. «È passato tanto di quel tempo che non so più bene che cosa sia il sesso. Credimi, Marty, questo è un pessimo decennio per gli scapoli, c'è in giro una quantità di malattie proprio brutte. Conosci una ragazza, ci esci, le dai un casto bacio quando la riaccompagni a casa... e ti ritrovi con le labbra che ti cascano marce.»
«Bella immagine.» «Vivida, eh? Forse dovrei mettermi a scrivere.» Cominciò a esaminare l'occhio sinistro di Marty con un oftalmoscopio. «Di recente hai avuto forti emicranie?» «Un mal di testa durante il fine settimana. Ma niente di particolare.» «Ripetuti episodi di vertigini?» «No.» «Perdita temporanea della vista, apprezzabile riduzione del campo visivo?» «Niente di tutto questo.» Guthridge spostò l'attenzione sull'occhio destro. «A proposito di mettermi a scrivere... altri medici lo hanno già fatto, sai. Michael Crichton, Robin Cook, Somerset Maugham...» «Seuss.» «Non sfottere. La prossima volta in cui dovrò farti un'iniezione userò un ago da cavallo.» «Perché, non è già così? Da' retta a me, fare lo scrittore non è affascinante quanto si pensa.» «Se non altro non ti tocca maneggiare campioni di urina», replicò Guthridge mettendo via l'oftalmoscopio. Con l'immagine dello strumento che gli ballava ancora sulla retina, Marty riprese: «Quando uno scrittore è agli inizi, gli editori, gli agenti, i produttori cinematografici lo trattano proprio come se fosse un campione di urina». «Sì, ma ora sei una celebrità», ribadì Guthridge infilandosi gli auricolari dello stetoscopio. «Tutt' altro», protestò Marty. Guthridge premette l'acciaio gelido dello stetoscopio sul torace di Marty. «Allora, fa' un respiro profondo... trattieni... espira... di nuovo.» Dopo aver auscultato cuore e polmoni di Marty, il dottore depose lo stetoscopio. «Allucinazioni?» «No.» «Odori strani?» «No.» «Le cose hanno un sapore diverso? Per esempio, stavi mangiando un gelato e improvvisamente è amaro, o ti sembra di masticare una cipolla, niente del genere?» «Niente.»
Mentre avvolgeva il manicotto di uno sfigmomanometro al braccio di Marty, Guthridge disse: «Be', quello che so è che per finire su People bisogna essere una celebrità, per un verso o per l'altro. Cantante rock, attore, politicante, omicida, o magari il più grande collezionista del mondo di cerume. Perciò, se pensi di non essere una celebrità come autore, allora mi devi dire quanto dannato cerume hai messo da parte». «Che ne sai di People?» «Abbiamo l'abbonamento per la sala d'attesa.» Soffiò aria nel manicotto fino a gonfiarlo, poi lesse la colonnina del mercurio prima di riprendere a parlare. «L'ultimo numero è arrivato con la posta di stamattina. Me l'ha fatto vedere la centralinista, era molto divertita. Dice che tu sei quanto di più lontano da Mr. Murder possa immaginare.» Marty aggrottò la fronte. «Mr. Murder? E chi sarebbe questo Signor Omicidio?» «Non hai letto l'articolo?» chiese Guthridge mentre gli slacciava il bracciale, accompagnando la domanda con il crepitio della striscia di Velcro che si apriva. «No, non ancora. Non li fanno vedere in anticipo. Vuoi dire che sulla rivista mi chiamano Mr. Murder?» «Mi sembra simpatico, no?» «Simpatico? Credi che Philip Roth troverebbe simpatico se lo chiamassero Mr. Letterato, o Terry McMillian Ms. Saga Nera?» «Lo sai che cosa si dice della pubblicità... bene o male, purché se ne parli.» «E questa fu la prima reazione di Nixon al Watergate, vero?» «Di abbonamenti a People ne abbiamo due. Prima di andar via prendi pure una copia.» Guthridge fece un sorrisetto ironico. «Sai, prima di vedere la rivista non mi ero reso conto che tu fossi un tipo così terrificante.» Marty sospirò. «È proprio quello che temevo.» «Niente di male. Conoscendoti, immagino che lo troverai un po' imbarazzante. Ma non ne morirai.» «E di che cosa morirò, invece, dottore?» Guthridge aggrottò le sopracciglia. «A giudicare da questa visita, direi di vecchiaia. Tutti i segni esterni ti danno in buona salute.» «La parola chiave è 'esterni'», commentò Marty. «Esatto. Ti prescrivo alcuni esami. Puoi farli ambulatorialmente all'Hoag Hospital.» «Sono pronto», rispose Marty abbacchiato. Non era affatto pronto.
«No, non oggi. Non ci sarà un posto libero prima di domani, forse addirittura mercoledì.» «Che cosa cerchi, con questi esami?» «Tumori al cervello, lesioni. Gravi squilibri chimici. O magari un ematoma che preme sul tessuto cerebrale... cosa che potrebbe provocare sintomi simili ad alcuni dei tuoi. Altre cose. Ma non stare a impensierirti, perché sono praticamente certo che saranno tutti negativi. Molto probabilmente si tratta di semplice stress.» «Quello che dice Paige.» «Visto? Avresti potuto risparmiare l'onorario.» «Sii sincero, per favore.» «Sono sincero.» «Non ti nascondo che sono spaventato.» Guthridge annuì comprensivo. «È naturale. Ma ascolta, ho visto sintomi ben più strani e gravi dei tuoi... ed è venuto fuori che era solo stress.» «Un problema psicologico.» «Sì, ma non di lunga risoluzione. E non stai neppure per diventare matto, se è questo che ti preoccupa. Cerca di rilassarti, Marty. Sapremo come stanno le cose entro la fine della settimana.» Quando occorreva, Guthridge era capace di assumere un atteggiamento rassicurante e autorevole non meno di qualsiasi pezzo grosso nel campo della medicina, quelli con i capelli bianchi e sempre in giacca e cravatta. Il fugace lampo nei suoi occhi tradì un nuovo mutamento di umore. «Senti, quando ti prenoto per l'ospedale, che nome devo dare, Martin Stillwater o Martin Murder?» 2 Esplora casa sua. È ansioso di sapere tutto della sua nuova famiglia. Poiché quello che più lo appassiona è l'idea di se stesso come padre, comincia con la camera delle bambine. Per un po' rimane sulla soglia, studiando le due zone della stanza, così diverse l'una dall'altra. Si chiede quale sia, delle sue due figliole, quella più effervescente, quella che decora le sue pareti con poster di aerostati multicolori e danze, che tiene un criceto e altri animaletti in gabbie metalliche e terrari di vetro. Ha ancora in mano la fotografia di sua moglie con le bambine, ma quei volti sorridenti non rivelano molto delle loro personalità. La seconda figlia è apparentemente più contemplativa, preferisce avere sulla parete placidi paesaggi. Il suo letto è perfettamente rifatto, il cuscino
sprimacciato come si deve. I libri sui suoi scaffali sono sistemati in bell'ordine e lo scrittoio dalla sua parte è sgombro. Quando apre lo sportello a specchio del guardaroba, trova una divisione analoga tra gli abiti appesi. Quelli a sinistra sono divisi per tipo e per colore. Quelli a destra non seguono un ordine particolare, sono appesi alla bell'e meglio e ficcati in un modo che praticamente assicura le spiegazzature. Dato che i jeans e i vestiti di taglia più piccola sono dal lato sinistro del guardaroba, può dedurre con sicurezza che quella ordinata e contemplativa è la più giovane delle due bambine. Solleva la fotografia e la guarda. Lo scricciolo. Che carina. Ma non sa ancora se sia Charlotte o Emily. Va alla scrivania della maggiore e guarda la baraonda che la ricopre: riviste, libri di scuola, un nastro giallo, un fermacapelli a farfalla, qualche striscia sparsa di gomma da masticare, pennarelli colorati, un paio di scaldamuscoli rosa appallottolati, una lattina vuota di Coca, qualche moneta, un Game Boy. Apre un libro di scuola, poi un altro. Tutti e due hanno lo stesso nome segnato sul frontespizio: Charlotte Stillwater. La maggiore, la disordinata, è Charlotte. La più piccola, quella che tiene le sue cose a puntino, è Emily. Torna a guardare i loro visi in fotografia. Charlotte è graziosa, ha un sorriso dolce. Ma se dovessero esserci problemi con una delle sue due bambine, sarebbero sicuramente con lei. Non tollererà disordine in casa sua. Tutto dev'essere perfetto. Tutto ordinato e pulito e felice. In solitarie camere d'albergo di città sconosciute, sveglio al buio, ha sofferto le fitte del bisogno senza capire che cosa potesse soddisfare il suo desiderio. Ora sa che essere Marty Stillwater, padre di queste figlie, marito di questa moglie, è il destino che riempirà il terribile vuoto e gli porterà finalmente l'appagamento. È grato al potere ignoto che lo ha condotto fin lì, ed è ben deciso a mantenere le sue responsabilità verso la moglie, le figlie, la società. Vuole una famiglia ideale, come quelle che ha visto in certi film che ama, vuole essere gentile come Jimmy Stewart in La vita è meravigliosa, saggio come Gregory Peck in Il buio oltre la siepe e rispettato come entrambi, e farà tutto quanto è necessario per assicurarsi un focolare affettuoso, armonioso e ordinato. Ha visto anche Il giglio nero, e sa che ci sono bambini che possono rovinare una casa e distruggere ogni speranza di armonia perché dentro di loro pullula la potenzialità del male. La sciatteria di Charlotte e il suo strava-
gante giardino zoologico indicano chiaramente che è capace di disobbedienza e forse di violenza. Quando compaiono in un film, i serpenti sono sempre simbolo del male, un pericolo per l'innocenza; quindi, il serpente nel terrario è la prova agghiacciante della corruzione di questa bambina e del suo bisogno di una guida. Tiene anche altri rettili, un paio di roditori e uno schifoso scarafaggio in un vaso di vetro: tutti animali associati, gliel'ha insegnato il cinema, alle potenze delle tenebre. Studia di nuovo la foto, meravigliandosi per quanto Charlotte appaia innocente. Ma ricorda la bambina del Giglio nero. Sembrava un angelo, e invece era marcia di cattiveria. Essere Martin Stillwater potrebbe rivelarsi non così facile come gli era parso in un primo momento. Charlotte potrebbe essere un vero problema. Per fortuna ha visto il film in cui Morgan Freeman è il preside di un liceo che riporta l'ordine in una scuola travolta dall'anarchia, e ha visto The Principal, una classe violenta con Jim Belushi, e quindi sa che anche i ragazzi peggiori in realtà hanno voglia di disciplina. Reagiscono bene se gli adulti hanno abbastanza polso da imporre precise regole. Se Charlotte è disobbediente e ostinata, lui la castigherà finché avrà imparato a essere una bambina come si deve. Sarà irremovibile. All'inizio lei lo odierà vedendosi negati i privilegi a cui è abituata, vedendosi chiusa in camera sua, sculacciata se necessario, ma con il passare del tempo vedrà che lui lo fa per il suo bene, e imparerà ad amarlo e capirà quanta saggezza è in lui. Anzi, il killer vede già il momento trionfale in cui, dopo tante battaglie, la riabilitazione della bambina sarà raggiunta. L'ammissione che aveva torto lei e che lui era stato un buon padre culminerà in una scena commovente. Piangeranno tutti e due. Lei si getterà tra le sue braccia, piena di rimorsi e di vergogna. Lui la stringerà forte a sé e le dirà: «Va bene, va bene, non piangere». Lei dirà: «Oh, papà» con voce tremula, e lo abbraccerà con tutta la propria forza, e da quel momento tra loro tutto andrà meravigliosamente. Non vede l'ora di arrivare a quel dolce trionfo. Già sente il crescendo emozionante della musica che l'accompagnerà. Si gira, dal lato di Charlotte della stanza, verso il letto ordinato della sua figlia minore. Emily. Lo scricciolo. Lei non gli darà mai alcun pensiero. Lei è la figlia
buona. La terrà in braccio e le leggerà delle storie. La porterà allo zoo, e quella manina si sperderà nella sua. Al cinema le comprerà il popcorn, e staranno seduti uno vicino all'altra nel buio, ridendo dell'ultimo cartone animato di Walt Disney. I suoi grandi occhi neri lo adoreranno. Dolce Emily. Cara Emily. Quasi con reverenza, scosta il copriletto di ciniglia. La coperta. Il lenzuolo di sopra. Guarda il lenzuolo di sotto su cui lei ha dormito quella notte, il cuscino su cui la delicata testolina ha riposato. Ha il cuore gonfio di affetto, di tenerezza. Poggia una mano sul lenzuolo, la fa scorrere su e giù, su e giù, sentendo il tessuto su cui il suo giovane corpo ha così di recente giaciuto. Ogni sera le rimboccherà le coperte. Lei premerà quella bocca minuta sulla sua guancia, bacetti così caldi, e il suo alito avrà il dolce profumo di menta del dentifricio. Si china ad annusare il lenzuolo. «Emily», mormora piano. Oh, quanto desidera essere suo padre e guardare dentro quegli occhi scuri ma limpidi, quegli occhioni adoranti. Con un sospiro, torna dalla parte di Charlotte. Getta sul letto la fotografia, incorniciata d'argento, della sua famiglia e osserva le creature ospitate sugli scaffali senza libri. Qualcuno di quegli esseri selvatici lo fissa. Comincia con il criceto. Quando sgancia la chiusura dello sportellino e infila la mano nella gabbia, la timida creatura si rintana in un angolo, paralizzata dalla paura, intuendo le sue intenzioni. Lui l'afferra, la toglie dalla gabbietta. Il criceto tenta di divincolarsi, ma lui gli tiene il corpo saldamente nella destra, la testa nella sinistra, e dà uno strattone, spezzandogli il collo. Un suono secco. Il verso che emette è acuto ma breve. Getta il criceto morto sul copriletto variopinto. Questo sarà l'inizio della disciplina di Charlotte. Lo odierà, per questo. Ma solo per un poco. Alla fine capirà che questi sono animaletti inadatti a una bambina. Simboli del male. Rettili, roditori, scarafaggi. Le creature che le streghe usano come loro corte, per comunicare con Satana. Ha imparato tutto sulle corti delle streghe dai film dell'orrore. Se ci fosse un gatto in casa ucciderebbe anche quello, senza esitare, perché a volte sono simpatici e innocenti, semplici gatti e niente di più, ma altre volte sono
stirpe del demonio. Invitando una creatura del genere nella propria casa si rischia di invitare il diavolo in persona. Un giorno Charlotte capirà. E gli sarà grata. Prima o poi lo amerà. Tutti lo ameranno. Sarà un buon marito e un buon padre. Molto più piccolo del criceto, il topolino trema di spavento nel suo pugno, con la coda che gli penzola dalle dita serrate, la testa che sporge. La paura gli fa vuotare la vescica. Lui fa una smorfia sentendo il caldo del liquido e, disgustato, stringe con tutta la forza, spremendo via la vita dalla schifosa bestiola. La getta sul letto accanto al criceto. L'innocua biscia nel terrario di vetro non fa alcun tentativo di sfuggirgli. L'afferra per la coda e la fa schioccare come una frusta, lo rifà di nuovo, poi la sbatte con violenza contro il muro, una, due, tre volte. Quando è completamente inerte, l'avvicina agli occhi e vede che ha il cranio fracassato. La sistema arrotolata vicino al criceto e al topo. Lo scarabeo e la tartaruga fanno un rumore soddisfacente quando li schiaccia sotto il tallone. Sistema i loro resti umidicci sul copriletto. L'altro rettile gli sfugge. Quando solleva il divisorio di vetro del terrario e cerca di prenderlo, il camaleonte gli si arrampica fulmineo sul braccio e balza giù dalla spalla. Lui si volta, cercandolo, e lo vede sul tavolino da toeletta, che sguscia tra una spazzola e un pettine, sopra un portagioie. Qui si immobilizza e comincia a cambiare colore per mimetizzarsi con lo sfondo, ma quando lui tenta di afferrarlo schizza via, sul comò, poi a terra, attraverso la stanza, sotto il letto di Emily, fuori di vista. Decide di lasciarlo andare. Forse è meglio così. Quando Paige e le bambine torneranno a casa, si metteranno a cercarlo tutti e quattro insieme. Quando lo avranno trovato, lui lo ucciderà davanti a Charlotte, o magari esigerà che lo uccida lei stessa. Quella sarà una buona lezione. Dopo di che, non si permetterà più di portare animali inadatti in casa Stillwater. 3 Nel parcheggio davanti all'edificio in cui si trovava lo studio del dottor Guthridge, una costruzione di tre piani in stile spagnolo, mentre un vento intermittente spingeva le foglie morte sull'asfalto, Marty rimase seduto in macchina a leggere l'articolo che People gli aveva dedicato. Due fotografie e una pagina di testo coprivano tre pagine della rivista. Almeno nei pochi minuti che gli ci vollero a leggere l'articolo, dimenticò tutte le sue altre
preoccupazioni. Il grosso titolo in nero fu un colpo, anche se già sapeva quale sarebbe stato: MR. MURDER, ma altrettanto imbarazzante trovò il sottotitolo, in lettere più piccole: NELLA CALIFORNIA MERIDIONALE, LO SCRITTORE DI GIALLI MARTIN STILLWATER VEDE TENEBRE E MISFATTI DOVE PER GLI ALTRI SPLENDE LA LUCE DEL SOLE. Gli parve di vedersi raffigurato come un cupo menagramo vestito tutto di nero, in agguato sulle spiagge e tra le palme, a fulminare con lo sguardo chiunque si permettesse di divertirsi, a sproloquiare geremiadi sulla malvagità insita nella razza umana. Nel migliore dei casi il sottinteso era che si trattasse soltanto di una fasulla posa teatrale, un travestimento in quella che a suo parere doveva essere l'immagine più vendibile per un romanziere del suo genere. Probabilmente la sua era una reazione eccessiva. Paige gli avrebbe detto che in queste cose era ipersensibile. Era ciò che gli diceva sempre, e di solito lo faceva sentir meglio, che arrivasse o meno a crederle. Esaminò la foto prima di leggere l'articolo. In quella più grande, era ritratto nel giardino dietro la casa, su uno sfondo di alberi e di cielo al tramonto. Sembrava un demente. Il fotografo, Ben Walenko, aveva avuto istruzioni di riprendere Marty in una posa presumibilmente adatta a un autore di gialli, e per questo motivo si era presentato con alcuni accessori di scena che Marty avrebbe dovuto brandire con le espressioni del caso: un'ascia, un enorme coltello, un rampone per il ghiaccio e una pistola. Visto che Marty si era cortesemente rifiutato di usare quegli aggeggi e anche di posare con un impermeabile con il bavero alzato e una federa calcata sulla fronte, il fotografo si era convinto che per un adulto quelle carnevalate erano ridicole, e aveva suggerito di abbandonare i soliti luoghi comuni a favore di una serie di foto che mostrassero semplicemente un comune essere umano di professione scrittore. Adesso risultava chiaro che Walenko era stato tanto furbo da ottenere quello che voleva senza nessun accessorio, dopo aver dato al suo soggetto un falso senso di sicurezza. Il giardino dietro casa gli era sembrato un'ambientazione innocua. E invece, grazie a una combinazione di ombre e luci del crepuscolo, alberi incombenti, nuvole minacciose illuminate in controluce dagli ultimi sprazzi di sole, una disposizione strategica delle luci di studio, e un'angolatura di ripresa esagerata, il fotografo era riuscito a far apparire Marty come una presenza sinistra. Inoltre, delle venti foto scattate in giardino, il giornale aveva scelto la peggiore: Marty aveva una smorfia
sul volto; i suoi lineamenti erano distorti; le luci del fotografo si riflettevano negli occhi socchiusi, che sembravano accesi come quelli di uno zombie. La seconda fotografia era stata presa nel suo studio. Era seduto alla scrivania con lo sguardo rivolto verso l'obiettivo. In questa era sicuramente riconoscibile, anche se ormai avrebbe preferito non esserlo, poiché gli sembrava che l'unico modo per mantenere uno straccio di dignità consistesse nel conservare segreta la sua vera identità; le ombre combinate con la particolare luce della lampada policroma, anche in una foto in bianco e nero, lo facevano sembrare uno zingaro indovino che avesse appena scorto una catastrofe nella sua sfera di cristallo. Era sua convinzione che gran parte dei problemi del mondo moderno potessero essere attribuiti alla saturazione raggiunta dai mezzi di comunicazione di massa nella società, e dalla loro tendenza non solo a semplificare fino all'assurdo le questioni, ma anche a confondere la fantasia con la realtà. I telegiornali privilegiavano la spettacolarizzazione rispetto ai fatti, il sensazionalismo rispetto alla sostanza, inseguendo l'audience con gli stessi strumenti impiegati dai produttori dei telefilm polizieschi e giudiziali di prima serata. I documentari su personaggi storici erano diventati «sceneggiati» in cui l'esattezza dei dettagli di una vita o di eventi celebri era immancabilmente subordinata alle esigenze e ai valori dello spettacolo, o anche alle fantasie personali dell'autore, distorcendo biecamente il passato. In televisione venivano pubblicizzati farmaci da attori che interpretavano ruoli di medici in programmi di successo, come se davvero si fossero laureati alla Harvard Medical School anziché aver frequentato un paio di corsi di recitazione. I politici facevano la loro apparizione in episodi di sceneggiati televisivi, mentre gli attori di quelle commedie comparivano in comizi politici. Non molto tempo prima il vicepresidente degli Stati Uniti si era impegnato in un prolungato dibattito con un attore che in una sitcom interpretava la parte di un reporter televisivo. Il pubblico confondeva sia attori sia politici con i personaggi da loro interpretati. Un giallista non doveva essere solo come un personaggio dei suoi libri, ma anche l'archetipo fumettistico del personaggio più comune di tutto il genere. E anno dopo anno, uno più turbato dell'altro, sempre meno erano quelli in grado di riflettere lucidamente sulle questioni importanti, o di separare la fantasia dalla realtà. Prima o poi un cittadino mentalmente instabile, confondendo i personaggi inventati da Marty per i suoi romanzi con persone concrete che agiscono nella vita reale, sarebbe arrivato a casa sua a bordo di un furgoncino
decorato di cartelli che lo accusavano di avere ucciso John Lennon, John Kennedy, Rick Nelson, e Dio-solo-sa-chi-altro, anche se lui era bambino quando a schiacciare un grilletto omicida c'era Lee Harvey Oswald (o settantamilatrentasette cospiratori, se si vuol credere al film di Oliver Stone). Qualcosa di simile era accaduto a Stephen King, no? E Salman Rushdie aveva di sicuro vissuto qualche anno di una suspense non minore di quella provata da un qualsiasi personaggio di Robert Ludlum. Avvilito dall'immagine bizzarra che la rivista dava di lui, rosso di imbarazzo, Marty percorse con lo sguardo il parcheggio per essere sicuro che nessuno lo guardasse mentre leggeva di se stesso. Un paio di persone si muovevano verso le loro auto, ma senza prestargli attenzione. Le nuvole stavano coprendo il cielo prima limpido. Il vento faceva vorticare le foglie secche in un minitornado che roteava sul vasto spiazzo asfaltato. Lesse l'articolo, punteggiandolo di sospiri e mormoni. Il testo, in generale, a parte qualche piccola inesattezza era obiettivo. Ma l'impostazione corrispondeva alle fotografie. Il buon vecchio spiritato Marty Stillwater. Un personaggio cinico e cupo. Vede il ghigno malvagio del criminale dietro ogni sorriso. Lavora in uno studio in penombra, quasi al buio, perché, a suo dire, così riduce il riflesso sullo schermo del computer (sarà...). Il rifiuto di far fotografare Charlotte ed Emily, per proteggere la loro riservatezza ed evitare di farle infastidire dai compagni di scuola, veniva interpretato come paura dei rapitori che sarebbero stati in agguato dietro ogni cespuglio. Dopotutto, anni prima aveva scritto un romanzo su un rapimento. Paige, «graziosa e cerebrale come una delle eroine di Martin Stillwater», veniva definita «una psicologa il cui lavoro la porta a penetrare nei segreti più oscuri dei suoi pazienti», come se la sua attività non consistesse nel seguire bambini turbati dal divorzio dei genitori o dalla morte di una persona cara, bensì nell'analizzare nel profondo i serial killer più feroci del secolo. «Buona vecchia spiritata Paige Stillwater», disse forte. «Be', e se no perché mi avrebbe sposato, se non era già un po' strana di suo?» Ricordò a se stesso che stava reagendo in maniera spropositata. Chiudendo la rivista, disse: «E meno male che non ho permesso alle bambine di intervenire. Ne sarebbero uscite come i figli nella Famiglia Addams». Si ripeté che stava esagerando, ma l'umore non migliorò. Si sentiva violentato, banalizzato; e il fatto che parlasse solo parve confermare, fastidiosamente, la sua nuova reputazione nazionale di simpatico eccentrico.
Girò la chiavetta dell'accensione e mise in moto. Mentre attraversava il parcheggio per immettersi nel traffico della strada, Marty era turbato dalla sensazione che la sua vita avesse subito qualcosa di peggio di una semplice svolta temporanea con la fuga di quel sabato, che l'articolo sulla rivista fosse il segnale di un'altra tappa sulla sua nuova via oscura, e che avrebbe fatto un lungo viaggio su un fondo accidentato prima di ritrovarsi sul liscio asfalto che aveva perduto. Una raffica di vento piena di foglie investì l'auto, facendolo sobbalzare. Le foglie secche stridettero sul cofano e sul tetto, come gli artigli di una belva decisa a penetrare all'interno. 4 La fame lo sopraffà. Non dorme da venerdì, ha attraversato metà del paese a tutta velocità, quasi sempre con il brutto tempo, e ha vissuto un'ora e mezzo piena di stimoli ed emozioni in casa Stillwater, dove lo aspettava il suo destino. Le sue riserve di energia sono esaurite. Trema, le ginocchia fanno fatica a reggerlo. In cucina, saccheggia il frigorifero, ammucchiando il cibo sul ripiano di quercia del tavolo della colazione. Ingurgita diverse fette di formaggio svizzero, mezza forma di pane, qualche sottaceto, quasi tutta una confezione di bacon, mischiando tutto senza neppure preoccuparsi di preparare dei sandwich, un morso di questo e uno di quello, masticando il bacon così com'è perché non vuole perdere tempo a friggerlo, mangiando in fretta e senza pensare ad altro che al cibo, famelico, dimenticando le buone maniere, ingollando tutto con lunghe sorsate di birra, birra fredda che gli cola spumeggiando lungo il mento. Sono tante le cose che vuole fare prima che sua moglie e le sue figlie rincasino, e non sa quando torneranno. La grassa carne di maiale è difficile da ingoiare, e così ogni tanto infila la mano in un barattolo di maionese, tirandola fuori e succhiandola dalle dita per lubrificare un boccone di cibo che non va giù neppure con l'aiuto di un'altra bottiglia di Corona. Conclude il pasto con due grosse fette di torta al cioccolato, accompagnando anche quelle con la birra, dopo di che si affretta a ripulire alla meglio il tavolo con tovagliolini di carta e si lava le mani al lavandino. Si sente rivitalizzato. Con la fotografia incorniciata in mano, ritorna al piano di sopra, facendo
i gradini a due alla volta. Arrivato alla camera da letto principale, accende tutte e due le lampade sui comodini. Per un po' rimane a fissare il letto matrimoniale, eccitato alla prospettiva di fare del sesso con Paige. Fare l'amore. Quando lo si fa con qualcuno a cui si tiene davvero, si chiama «fare l'amore». A lei, lui tiene davvero. Deve tenerci. Dopotutto è sua moglie. Sa che il suo viso è piacevole, anzi splendido, con una bocca carnosa e una bella struttura ossea e occhi ridenti, ma del corpo, in base alla fotografia, non può dire molto. Immagina che il seno sia sodo, il ventre piatto, le gambe lunghe e ben fatte, ed è ansioso di giacere con lei, profondamente dentro di lei. Va al comò e apre i cassetti finché non trova la sua biancheria intima. Accarezza una corta sottoveste, le lisce coppe di un reggiseno, una camiciola con i merletti. Prende dal cassetto un paio di slip di seta e se li passa sul viso, respirando profondamente e ripetendo in un sussurro il suo nome. Fare l'amore sarà una cosa totalmente, inimmaginabilmente diversa dal sesso sudaticcio che ha conosciuto con le troie raccattate nei bar, perché quelle esperienze gli hanno sempre lasciato un senso di vuoto, di alienazione, di frustrazione per l'impossibilità di soddisfare il suo disperato bisogno di autentica intimità. La frustrazione si trasforma in rabbia; la rabbia in odio; l'odio genera violenza... e la violenza, talvolta, placa. Ma questo ciclo non si metterà in moto quando farà l'amore con Paige, perché lui è destinato alle sue braccia come a quelle di nessun'altra. Con lei, il suo bisogno sarà soddisfatto tanto quanto il suo desiderio. Insieme, raggiungeranno un'unione più forte di qualsiasi cosa lui possa immaginare, la perfetta unità, beatitudine, godimento spirituale e fisico insieme, tutto ciò che lui ha visto in innumerevoli film, corpi immersi in una luce dorata, estasi, una febbrile intensità del piacere possibile solo in presenza dell'amore. Dopo, non sarà costretto a ucciderla perché allora saranno una persona sola, due cuori che battono in armonia, nessun motivo per uccidere nessuno, ogni bisogno soddisfatto in gloria. La prospettiva gli toglie quasi il respiro. «Ti farò felice, Paige», promette alla sua immagine nella foto. Gli viene in mente che non fa un bagno da sabato e, visto che vuole essere pulito per lei, rimette le mutandine di seta sulla pila di biancheria da cui le ha prese, chiude il cassetto e va in bagno a farsi una doccia.
Si toglie i vestiti che ha preso dall'armadio del camper del bianco pensionato, Jack, in Oklahoma, domenica, nemmeno ventiquattr'ore prima. Appallottola a uno a uno gli indumenti e li getta in un cestino dei rifiuti, di ottone. La cabina della doccia è spaziosa, e la temperatura dell'acqua è una delizia. Si ricopre dell'abbondante schiuma della saponetta, mentre le nuvole di vapore lo avvolgono in un inebriante aroma floreale. Dopo essersi asciugato con un asciugamano giallo, cerca le ciabatte da bagno, finché trova i suoi oggetti da toeletta. Usa il flacone del deodorante e si pettina all'indietro i capelli ancora umidi lasciando che si asciughino naturalmente all'aria. Si rade con un rasoio elettrico, si passa sul viso della colonia al lime, e si lava i denti. Si sente un altro. Dalla sua metà del guardaroba, sceglie uno slip di cotone, un paio di blue jeans, una camicia di flanella a quadretti rossi e neri, calzerotti e Nike. Tutto gli va alla perfezione. È bellissimo essere a casa. 5 Paige, alla finestra, guardava le nuvole grigie che avanzavano da occidente, spinte dalla brezza del Pacifico. Via via che si spostavano, la terra sottostante si oscurava, e le costruzioni assolate indossavano un manto di ombra. La saletta interna del suo ufficio, tre locali al quinto piano, era fornita di due finestre dalle quali si godeva una vista tutt'altro che attraente: un'autostrada, un centro commerciale e i tetti ammassati dei complessi residenziali che si estendevano apparentemente all'infinito per l'Orange County. Le sarebbe piaciuto un panorama sull'oceano o una finestra su un giardino fiorito, ma questo avrebbe comportato un affitto più alto, cosa che si era dovuta escludere agli inizi della carriera di scrittore di Marty, quando in pratica era lei a mantenere la famiglia. Ora, nonostante il crescente successo del marito, con conseguente reddito, impegnarsi a pagare un affitto più alto era ancora un'imprudenza. Anche una prospera carriera letteraria era un fondamento instabile dal punto di vista economico. Se si beccava un malanno un commerciante, per esempio, c'erano sempre i commessi per continuare la vendita in sua assenza, ma, se si ammalava Marty, era l'intera impresa ad arenarsi.
E Marty era ammalato. Forse gravemente. No, non voleva pensarci. Non si sapeva niente di certo. Era più tipico della Paige di un tempo, la Paige preMarty, di crucciarsi anche per semplici probabilità, non soltanto per ciò che era già un dato di fatto. Goditi il momento, le diceva Marty. Lui sì che era un terapeuta nato. A volte le veniva di pensare che avesse imparato più da lui che dai corsi che aveva seguito per conseguire la laurea in psicologia. Goditi il momento. In effetti il trambusto ininterrotto della scena alla finestra aveva un che di corroborante. E se un tempo lei era così predisposta alla malinconia che il cattivo tempo poteva incidere negativamente sul suo umore, tutti quegli anni passati in compagnia di Marty e del suo incrollabile ottimismo le avevano insegnato a vedere la bellezza anche in un temporale in arrivo. Lei era nata e cresciuta in una casa triste e senza amore, fredda come una caverna artica. Ma quei tempi se li era lasciati alle spalle, e la loro influenza era molto diminuita. Goditi il momento. Guardò l'ora, e tirò le tendine perché l'umore dei prossimi due clienti era tutt'altro che immune dall'effetto del brutto tempo. Schermate le finestre, la stanza assumeva un'atmosfera intima come quella di un salotto in una casa privata. La scrivania, i libri e gli schedari erano nel terzo ufficio, un ufficio che i suoi assistiti non vedevano quasi mai. Li riceveva sempre in quell'altra stanza, più accogliente. Il divano a fiori con i suoi vari cuscini contribuiva al fascino del luogo, e ciascuna delle tre poltrone imbottite era abbastanza grande da permettere ai suoi giovani ospiti di raggomitolarvisi comodamente, se volevano. Gli abat-jour di seta frangiati dei lumi diffondevano una luce calda che si rifrangeva sui soprammobili disposti sui tavolini e sullo smalto delle statuine di porcellana cinese sulla console di mogano. Paige di solito offriva cioccolata calda e biscotti, o ciambelle con un bicchiere di Coca gelata, e la conversazione era facilitata perché l'effetto complessivo era quello di trovarsi in visita a casa della nonna. O almeno così erano le case delle nonne quando le nonne non si sottoponevano alla chirurgia plastica, non si facevano ridisegnare con la liposuzione, non divorziavano dal nonno, non andavano in crociera da sole a Cabo San Lucas, né volavano a Las Vegas per il weekend con l'amichetto. Molti clienti, alla prima visita, si meravigliavano di non trovare le opere complete di Freud, un lettino e l'atmosfera seriosa dello studio di uno psi-
chiatra. E anche quando Paige faceva notare che lei non era una psichiatra, anzi nemmeno un medico, ma una consulente laureata in psicologia che riceveva «clienti» più che «pazienti», persone con problemi di comunicazione più che nevrotici o psicotici, loro rimanevano molto perplessi per la prima mezz'oretta. Alla fine la stanza, e, le piaceva pensare, l'approccio rilassato da lei adottato, li conquistava. L'appuntamento che Paige aveva alle due, l'ultimo della giornata, era con Samantha Acheson e il figlio, Sean, di otto anni. Il primo marito di Samantha, il padre di Sean, era morto poco dopo il quinto compleanno del bambino. Due anni e mezzo dopo, Samantha si era risposata e i problemi di comportamento di Sean erano cominciati, praticamente, il giorno stesso delle nozze: ovvia conseguenza della convinzione del bambino che lei avesse tradito il padre scomparso e potesse un giorno tradire anche lui. Per cinque mesi, Paige si era incontrata due volte alla settimana con il piccolo, conquistandosi la sua fiducia, aprendo le linee di comunicazione, perché potessero discutere della sofferenza, della paura e della collera di cui Sean non era in grado di parlare con la madre. Quel giorno Samantha avrebbe partecipato per la prima volta, e quello era un importante passo avanti perché di solito, quando il bambino era pronto a dire al genitore ciò che aveva detto al consulente, i progressi erano rapidi. Si sedette sulla poltrona che riservava a sé e allungò la mano verso il tavolino dove era posata un telefono in stile antico, che funzionava sia come telefono sia come interfono che la metteva in contatto con Millie, la segretaria. Intendeva chiederle di far entrare Samantha e Sean Acheson, ma l'interfono squillò prima che lei sollevasse il ricevitore. «Paige, c'è Marty sulla linea uno.» «Grazie, Millie.» Schiacciò il pulsante della linea. «Marty?» Lui non rispose. «Marty, ci sei?» chiese, controllando di aver premuto il pulsante giusto. La linea uno era accesa, ma il silenzio continuava. «Marty?» «Mi piace il suono della tua voce, Paige. È così melodiosa.» Era... strano. Il cuore cominciò a batterle forte nel petto, e si sforzò di reprimere la paura che le cresceva dentro. «Che cosa ha detto il dottore?» . «Mi piace la tua foto.» «La mia foto?» replicò lei, sconcertata. «Mi piacciono i tuoi capelli, i tuoi occhi.»
«Marty, non...» «Tu sei quello di cui ho bisogno.» La bocca le si era seccata. «C'è qualcosa che non va?» Improvvisamente lui cominciò a parlare velocissimo, una frase dopo l'altra senza interruzione. «Ho voglia di baciarti, Paige, baciarti il seno, tenerti stretta a me, fare l'amore, ti farò felice, ho voglia di essere dentro di te, sarà una delizia, come nei film.» «Marty, tesoro, che cosa...» Lui riabbassò, troncandole la frase a metà. Sorpresa e confusa non meno che preoccupata, Paige rimase ad ascoltare per un po' il segnale prima di deporre il ricevitore. Che diavolo?... Erano le due, e non le pareva possibile che la visita di Guthridge fosse durata un'ora; quindi, non le aveva telefonato dallo studio del medico. D'altra parte, non avrebbe avuto il tempo materiale di arrivare fino a casa, il che significava che l'aveva chiamata durante il tragitto. Alzò il ricevitore e schiacciò il pulsante della memoria corrispondente al numero del telefono in macchina. Le rispose al secondo squillo. «Marty, che diavolo succede?» «Paige?» «Che cosa ti è saltato in mente?» «Ma di che cosa parli?» «Baciarmi il seno, Dio santo, come nei film, una delizia...» Lui esitò, e Paige sentì in sottofondo il rombo del motore della Ford: quindi era in viaggio. Passò qualche istante prima che le rispondesse. «Senti, non ti capisco.» «Un minuto fa, mi hai telefonato e mi parevi un...» «No. Non ero io.» «Tu non mi hai chiamato qui?» «No.» «E uno scherzo?» «Stai dicendo che qualcuno ha telefonato facendosi passare per me?» «Sì, lui...» «Parlava come me?» «Sì.» «Esattamente come me?» Paige riflette per un attimo. «Be', non esattamente come te. Assomigliava moltissimo a te, ma... non in tutto. È difficile spiegarlo.»
«Spero che tu gli abbia sbattuto il telefono in faccia quando si è messo a dire sconcezze.» «Hai...» Si corresse. «Ha appeso prima lui. E poi, non era una telefonata oscena.» «No? E quella faccenda di baciarti le tette?» «Be', non sembrava oscena perché pensavo che fossi tu.» «Paige, rinfrescami la memoria... quand'è stata l'ultima volta in cui ti ho telefonato per dirti che avevo una voglia del genere?» Lei scoppiò a ridere. «Be'... mai, probabilmente», e quando rise anche lui, aggiunse: «Ma forse non sarebbe una cattiva idea farlo ogni tanto, potrebbe ravvivare un po' la giornata». «Devo dire che effettivamente hai due tette che vale davvero la pena baciare.» «Grazie.» «E non solo quelle.» «Mi fai arrossire», protestò lei, ed era vero. «Per esempio...» «Ehi, adesso questa telefonata sta diventando oscena», lo interruppe Paige. «Sì, ma la vittima sono io.» «Come sarebbe?» «Tu hai telefonato a me costringendomi praticamente a dire porcherie.» «Va bene, lo ammetto. Sai com'è, il femminismo...» «Dove andremo a finire!» Improvvisamente a Paige si era presentata un'idea inquietante, ma era riluttante a formularla: forse quella chiamata l'aveva fatta proprio Marty, dal telefono dell'auto, mentre si trovava in uno stato di fuga simile a quello che lo aveva colpito il sabato pomeriggio, quando aveva continuato a ripetere quelle due parole a un registratore per sette minuti, e poi non ne aveva avuto il minimo ricordo. Il silenzio improvviso che cadde su di loro le fece sorgere il sospetto che la stessa idea fosse venuta in quel momento anche a lui. Alla fine fu Paige a riprendere la conversazione. «Che cosa ti ha detto Paul Guthridge?» «Secondo lui probabilmente si tratta di stress.» «Sì?» «Mi sta prenotando degli esami per domani o per mercoledì.» «Ma non è preoccupato?»
«No. Oppure ha fatto finta.» Lo stile disinvolto di Paul non corrispondeva al modo in cui usava fornire le informazioni essenziali ai suoi pazienti. Era sempre diretto e conciso. Anche quando Charlotte era stata malata, in una circostanza in cui altri medici avrebbero sfumato al massimo le probabilità più allarmanti per permettere ai genitori di adattarsi lentamente alla prospettiva peggiore, Paul aveva spiattellato senza mezzi termini la situazione della bambina a Paige e Marty. Sapeva che le mezze verità o il falso ottimismo non potevano mai essere presi per compassione. Quindi se Paul non appariva preoccupato più del normale per lo stato e i sintomi di Marty, allora quella era già una buona notizia. «Mi ha dato una copia dell'ultimo numero di People», proseguì Marty. «Ahi. Lo dici come se ti avesse messo in mano un sacchetto pieno di cacca di cane.» «Be', non è proprio quello che speravo.» «Non è brutto come pensi», disse lei. «E come lo sai? Non lo hai ancora visto.» «Lo so perché ti conosco e so come prendi queste cose.» «In una delle foto sembro il mostro di Frankenstein che si è appena svegliato da una sbronza.» «Boris Karloff mi è sempre piaciuto.» Marty sospirò. «Mi sa che dovrò cambiare nome, farmi una plastica ed emigrare in Brasile. Vuoi che prima di prenotare il volo per Rio passi a prendere le bambine a scuola?» «Ci vado io. Oggi escono un'ora dopo.» «Ah, già, lunedì. Lezione di piano.» «Saremo a casa verso le quattro e mezzo», gli assicurò Paige. «Potrai farmi vedere People e passare la sera a piangermi sulla spalla». «Al diavolo. Ti farò vedere People e passerò la serata a baciarti le tette.» «Sei speciale, Marty.» «Ti amo anch'io.» Paige riappese sorridendo. Sapeva sempre farla sorridere, anche nei momenti più neri. Si obbligò a non pensare alla strana telefonata, alla malattia, alle fughe o alle fotografie che lo facevano sembrare un mostro. Goditi il momento. E lei lo fece, per un paio di minuti; poi chiamò Millie all'interfono e le chiese di far entrare Samantha e Sean Acheson.
6 Nel suo studio, si è accomodato nella poltrona dietro la scrivania. È molto confortevole. Può quasi credere di esserci già stato. Eppure, sta sulle spine. Accende il computer. È un personal IBM dotato di un hard disk con molta memoria. Una buona macchina. Non ricorda di averla acquistata. Dopo che il sistema ha caricato un programma di gestione dati, sul video appare un menù principale che gli offre otto selezioni, per lo più programmi di videoscrittura. Sceglie il WordPerfect 5.1, che viene caricato. Non ricorda che gli abbiano insegnato a usare un computer, o il WordPerfect. L'insegnamento è avvolto in una nebbia amnesica, così come l'addestramento nelle armi da fuoco e l'incredibile familiarità con la disposizione stradale di tante città. Evidentemente, i suoi superiori ritenevano che gli sarebbe servito comprendere le operazioni fondamentali di un computer e avere familiarità con determinati programmi per svolgere i suoi incarichi. Lo schermo si pulisce. Pronto. Nell'angolo in basso a destra dello schermo azzurro, lettere e numeri bianchi gli dicono che si trova nel Documento uno, a pagina uno, alla linea uno, sulla decima posizione. Pronto. È pronto a scrivere un romanzo. Il suo mestiere. Fissa il monitor vuoto, cercando di cominciare. L'avvio è più difficile di quanto credesse. Ha portato con sé dalla cucina una bottiglia di Corona, prevedendo che avrebbe avuto bisogno di lubrificarsi le idee. Beve una lunga sorsata. La birra è fresca, e rinfrescante, e lui sa che è proprio quello che ci vuole per farlo andare avanti. A metà bottiglia, pieno di fiducia, comincia a battere sui tasti. Digita due parole, poi si ferma: «L'uomo». Quale uomo? Fissa lo schermo per un minuto, poi batte: «entrò nella stanza». Ma quale stanza? In una casa? In un palazzo di uffici? Com'è la stanza? Chi altro c'è dentro? Che cosa ci fa l'uomo in quella stanza, perché è lì? Dev'essere per forza una stanza? Non potrebbe star entrando in un treno, un aereo, un cimitero? Cancella «entrò nella stanza» e scrive invece «era alto». Dunque, l'uomo
è alto. Ha importanza che sia alto? L'altezza sarà importante per la storia? Quanti anni ha? Di che colore ha gli occhi, i capelli? È un bianco, un nero, un asiatico? Com'è vestito? E anzi, deve proprio essere un uomo? Non potrebbe essere una donna? O un bambino? Con queste domande che gli si affollano nella mente, cancella lo schermo e ricomincia la storia dall'inizio, con la prima lettera dell'articolo: «L». Fissa lo schermo. È spaventosamente vuoto. Infinitamente più vuoto di prima, non solo di quattro lettere e un apostrofo più vuoto, con l'eliminazione di «'uomo». Le scelte che seguono quel semplice inizio di articolo sono illimitate, e questo rende la scelta della seconda parola molto più faticosa di quanto avrebbe immaginato prima di sedersi nella poltrona di pelle nera e di accendere l'apparecchio. Cancella «L». Lo schermo è pulito. Pronto. Finisce la bottiglia di Corona. È fredda e rinfrescante, ma non gli lubrifica le idee. Va allo scaffale e tira fuori otto libri che portano il suo nome, Martin Stillwater. Li porta alla scrivania, e per un po' se ne sta seduto a leggere prime pagine, seconde pagine, cercando di mettere finalmente in moto il cervello. Il suo destino è essere Martin Stillwater. Almeno questo è perfettamente chiaro. Sarà un buon padre per Charlotte ed Emily. Sarà un buon marito e un buon amante per la bellissima Paige. E scriverà romanzi. Romanzi gialli. Evidentemente ne ha già scritti, almeno una dozzina, e quindi potrà scriverne ancora. Deve soltanto riappropriarsi dello stato d'animo per farlo, riprendere l'abitudine. Lo schermo è vuoto. Mette le dita sopra la tastiera, pronto a battere. Lo schermo è così vuoto. Vuoto, vuoto, voto. Si prende gioco di lui. Gli viene il sospetto che a inibirlo sia semplicemente il sommesso ronzio persistente della ventola del monitor e il prepotente campo azzurro del Documento uno, pagina uno. Spegne il computer. Il silenzio che segue è un balsamo, ma il vetro grigio uniforme del monitor è ancora più deridente dello schermo azzurro: aver spento la macchina sembra un'ammissione di sconfitta. Ha bisogno di essere Martin Stillwater, il che vuol dire che ha bisogno di scrivere.
L'uomo. L'uomo era. L'uomo era alto con gli occhi azzurri e i capelli neri, aveva un vestito blu e una camicia bianca e la cravatta rossa, circa trent'anni, e non sapeva che cosa stava facendo nella stanza in cui era entrato. Maledizione. Non va. L'uomo. L'uomo. L'uomo... Ha bisogno di scrivere, ma ogni tentativo si traduce presto in un senso di frustrazione. La frustrazione presto si trasforma in rabbia. Il solito giro. La rabbia genera uno specifico odio per il computer, un disgusto per il computer, e anche un odio meno definito per la sua insoddisfacente posizione nel mondo, per il mondo in sé e per ogni e ciascuno dei suoi abitanti. Lui ha bisogno di così poco, di così pateticamente poco, solo di essere accettato, di essere come gli altri, di avere una casa e una famiglia, di avere uno scopo che capisca. È chiedere troppo? Sì? Non pretende di essere ricco, di farsela con i potenti, di frequentare l'alta società. Non chiede la fama. Dopo tanto combattere, tanta confusione e solitudine, ora ha una casa e una moglie e due figlie, un senso di direzione, un destino, ma sente che tutto questo gli sfugge, gli scivola via dalle dita. Ha bisogno di essere Martin Stillwater, ma per essere Martin Stillwater ha bisogno di essere capace di scrivere, e non sa scrivere, maledizione, non sa scrivere. Conosce la rete stradale di Kansas City, di altre città, e sa tutto delle armi, di come si forza una serratura, perché quelli, chiunque siano, gli hanno piantato quelle conoscenze dentro il cervello, ma non hanno ritenuto opportuno inserirgli anche la capacità di scrivere romanzi gialli, cosa di cui ha bisogno, disperatamente, se vuole essere Martin Stillwater, se vuole conservare la sua bella moglie, Paige, e le sue figlie e il suo nuovo destino, che gli sta scivolando, scivolando, scivolando tra le dita, la sua unica occasione di felicità sta evaporando rapidamente, perché quelli sono contro di lui, tutti, il mondo intero, tutti contro di lui, decisi a farlo rimanere solo e pieno di confusione. Ma perché? Perché? Odia loro e i loro piani e il loro potere senza volto, disprezza loro e le loro macchine con tanta asprezza e intensità che... Con un urlo di rabbia, pianta il pugno nello schermo buio del computer, colpendo insieme il proprio riflesso inferocito e la macchina e tutto ciò che rappresenta. Il rumore del vetro in frantumi rimbomba nella casa deserta, e il vuoto all'interno del monitor esplode simultaneamente con il breve sibilo dell'aria che entra. Ritira la mano dal rottame mentre frammenti di vetro piovono ancora sulla tastiera, e guarda il rosso vivo del proprio sangue. Schegge aguzze spuntano come da un puntaspilli dal dorso della mano. Sul palmo si è incastonato un frammento di forma ellittica.
È ancora infuriato, ma sta piano piano riprendendo il controllo. La violenza talvolta placa. Ruotando la poltrona si sposta dal computer al lato opposto dell'area di lavoro a ferro di cavallo, e si sporge in avanti a esaminarsi le ferite alla luce della lampada. I pezzetti di vetro nella carne scintillano come gemme. Non prova troppo dolore, e sa che presto gli passerà. È solido e resistente; gode di un potere di recupero magnifico. Alcuni frammenti dello schermo non sono penetrati a fondo nella mano, ed è in grado di estrarli con le unghie. Altri però sono infitti nella carne. Allontana la poltrona dalla scrivania, si alza in piedi e si avvia verso il bagno principale. Gli servirà un paio di pinzette per togliersi le schegge più ostinate. All'inizio sanguinava copiosamente, ma già il flusso si sta arrestando. Comunque, tiene il braccio alto, la mano eretta, perché il sangue gli scorra giù per il polso e lungo la manica della camicia anziché sgocciolare sul tappeto. Quando avrà estratto tutti i vetri, forse chiamerà di nuovo Paige al lavoro. Era così emozionato quanto ha trovato il numero dell'ufficio sulla guida nel suo studio, era eccitato all'idea di parlarle. Alla voce gli è sembrata intelligente, sicura di sé, gentile. Una voce con un timbro lievemente gutturale che lui ha trovato sexy. Sarà uno splendido regalo in più se è sexy. Questa sera divideranno lo stesso letto. La farà sua più di una volta. A giudicare dal volto che ha visto nella fotografia e dalla voce calda al telefono, è sicuro che lei soddisferà i suoi bisogni come non è mai accaduto prima, che non lo lascerà inappagato e frustrato come hanno fatto così tante donne. Si augura che sia all'altezza delle sue aspettative, o che le superi. Si augura di non avere motivi per farle del male. Nella stanza da bagno, trova un paio di pinzette nel cassetto in cui Paige tiene i cosmetici, le forbicine, le limette per le unghie, e altri aggeggi simili. Si mette davanti al lavabo e vi tende sopra la mano. Aveva smesso di sanguinare, ma il flusso riprende da ogni punto da cui estrae laboriosamente un pezzo di vetro. Apre l'acqua calda per far scomparire nello scarico il sangue che gocciola. Forse stanotte, dopo il sesso, parlerà con Paige del blocco dello scrittore che lo ha preso. Se gli è già capitato di sentirsi bloccato, lei forse potrebbe
ricordargli quali passi ha intrapreso nelle altre occasioni per spezzare l'impasse creativa. Anzi, è sicuro che lei conosca la soluzione. Piacevolmente sorpreso, e con un senso di sollievo, si rende conto che non dovrà più affrontare da solo i suoi problemi. Ora che è sposato, ha una compagna devota con cui condividere i tanti affanni della giornata. Solleva la testa, guarda il riflesso nello specchio sopra il lavabo, sorride. «Ora ho una moglie.» Si accorge di una chiazza di sangue sulla guancia destra, un'altra sul lato del naso. Ride piano. «Sei un disastro, Marty. Devi darti una regolata. Ora hai moglie. Alle mogli piace avere un marito in ordine.» Riporta l'attenzione sulla mano e, con le pinzette, afferra l'ultima scheggia. Sempre più allegro, scoppia a ridere e dice: «Domani mattina per prima cosa esco e vado a comprare un monitor nuovo». Scuote la testa, stupito del proprio comportamento infantile. «Sei proprio un bel tipo, Marty», si dice. «Ma si sa che gli scrittori sono gente impulsiva, no?» Dopo aver tirato fuori l'ultimo pezzetto di vetro, depone la pinzetta e mette la mano sotto il getto dell'acqua calda. «Non puoi continuare a fare così. Non più. La farai fare addosso dalla paura alle piccoline, povere Emily e Charlotte.» Guarda di nuovo nello specchio, scuote la testa, ghignando. «Sei matto», dice, come parlando affettuosamente a un caro amico. «Che matto che sei.» La vita è bella. 7 Il cielo plumbeo sembrava schiacciato dal suo stesso peso. Secondo il bollettino della radio, prima del tramonto si sarebbe messo a piovere, e questo garantiva un traffico di rientro, all'ora di punta, che avrebbe reso l'inferno preferibile alla San Diego Freeway. Marty sarebbe dovuto andare direttamente a casa dallo studio di Guthridge. Il romanzo che aveva in corso era alla fine, e nel sofferto periodo di conclusione di un libro di solito dedicava tutto il tempo possibile al lavoro perché le distrazioni avevano un effetto deleterio sulla spinta narrativa. Inoltre, l'idea di guidare lo teneva insolitamente in ansia. A riandare in-
dietro con la mente, era in grado di dar conto minuto per minuto del tempo passato da quando aveva lasciato il medico, ed era sicuro di non aver chiamato lui Paige in preda a una fuga mentre era al volante della Ford. Ovviamente, la vittima di una fuga non aveva memoria di averla subita, per cui anche una ricostruzione meticolosa dell'ultima ora poteva non rivelare la verità. Facendo ricerche per Un vescovo è morto aveva scoperto che le vittime di questo male potevano percorrere centinaia di chilometri e interagire con decine di persone trovandosi in stato di dissociazione, senza ricordare nulla, in seguito, di quello che avevano fatto. Il pericolo non era grave come guidare in stato di ubriachezza... ma portare in giro una tonnellata e mezzo di acciaio a tutta velocità in stato di alterazione non era una cosa molto saggia. Nonostante questo, anziché andare direttamente a casa, deviò per il centro commerciale di Mission Viejo. Gran parte della giornata lavorativa era ormai passata. E lui si sentiva troppo irrequieto per leggere o guardare la televisione in attesa del ritorno a casa di Paige e delle bambine. Dato che «quando il gioco si fa duro i duri vanno a far spese», si mise a curiosare tra libri e dischi, comprò un romanzo di Ed McBain e un CD di Alan Jackson, sperando che un'attività così quotidiana lo aiutasse a dimenticare i suoi problemi. Passò due volte davanti alla vetrina della pasticceria, adocchiando le paste più grosse, quelle con il caramello e il cioccolato sbriciolato, ma trovò la forza di resistere al richiamo. Il mondo è un posto più bello, pensò, se ignori le regole della giusta alimentazione. Quando uscì dal centro commerciale, le gocce fredde di pioggia cominciavano a screziare il marciapiede di cemento. Mentre correva alla Ford un lampo illuminò il cielo, seguito dal rombo del tuono, e le gocce si mutarono in un acquazzone nel momento in cui tirava a sé la portiera sistemandosi al volante. Guidando verso casa, Marty contemplò con un certo piacere il luccicare delle strade inargentate dalla pioggia, gli spruzzi sollevati dai copertoni nelle profonde pozzanghere, le fronde ondeggianti delle palme che sembravano pettinare le trecce grigie del cielo nuvoloso e gli facevano venire in mente certe storie di Somerset Maugham e un vecchio film di Humphrey Bogart. Visto che la pioggia visitava così raramente la California sempre afflitta dalla siccità, i suoi benefici e la novità ne superavano abbondantemente gli inconvenienti. Parcheggiò nel garage ed entrò in casa dalla porta della cucina, godendo
del profumo di umido diffuso nell'aria e dell'odore di ozono che sempre accompagnava l'inizio di un temporale. Nella cucina semibuia, il quadrante verde luminoso dell'orologio elettronico sopra il fornello diceva 4.10. Paige e le bambine sarebbero rientrate di lì a una ventina di minuti. Accese le luci via via che passava da una stanza all'altra. Mai la casa era più casa di quando era calda e ben illuminata mentre la pioggia picchiava sul tetto e il grigio manto di un temporale velava il mondo al di là di ogni finestra. Decise di accendere il fuoco nel caminetto del soggiorno e di preparare tutto l'occorrente per la cioccolata calda, perché fosse pronta appena Paige e le bambine fossero arrivate. Prima andò al piano di sopra per controllare il fax e la segreteria telefonica nel suo studio. Molto probabilmente la segretaria di Paul Guthridge aveva già chiamato per confermargli gli appuntamenti all'ospedale. Qualcosa gli diceva inoltre che il suo agente letterario gli aveva lasciato un messaggio su una certa cessione di diritti all'estero, o magari la notizia di un'offerta per un'opzione cinematografica, un motivo per festeggiare. Stranamente, il temporale aveva migliorato il suo umore anziché intristirlo, probabilmente perché il brutto tempo tendeva a spostare la mente sui piaceri della casa, benché fosse comunque nel suo temperamento trovare motivi per essere ottimista anche quando il buon senso suggeriva che il pessimismo sarebbe stata una reazione più realistica. Non era proprio capace di continuare a covare il malumore a lungo; e da sabato in poi aveva avuto una quantità tale di pensieri negativi che gli sarebbe bastata per un paio di anni. Entrando nello studio, allungò la mano verso l'interruttore accanto alla porta per accendere la luce centrale, ma non lo toccò, sorpreso di trovare accese la lampada con l'abat-jour di vetro colorato e la lampada da lavoro. Quando usciva di casa spegneva sempre le luci. Prima di andare allo studio del medico, però, si era sentito incredibilmente oppresso dall'inspiegabile sensazione di trovarsi sulla rotta di un pericolo ignoto, ed evidentemente, distratto da questo, si era dimenticato di spegnere. Nel ripensare all'attacco di panico nel suo momento più grave, nel garage, quando il terrore gli aveva quasi tolto ogni capacità di agire, sentì sgonfiarsi un po' la sua riserva di ottimismo. Il fax e la segreteria telefonica erano nell'angolo in fondo all'area di lavoro a ferro di cavallo. Sulla segreteria lampeggiava la spia che indicava l'arrivo di messaggi, e nel vassoio del fax c'erano un paio di fogli di carta
termica. Prima di raggiungere i due apparecchi, Marty vide lo schermo del monitor in pezzi, con le schegge appuntite che sporgevano ancora dalla cornice. Nel mezzo si apriva un buco nero. Un pezzo di vetro scricchiolò sotto la sua scarpa mentre spostava la poltrona della scrivania e fissava incredulo il computer. La tastiera era cosparsa di frammenti di vetro. Un senso di nausea gli serrò lo stomaco. Era stato lui a fare questo in un momento di fuga? Aveva impugnato un oggetto e ridotto lo schermo a pezzi? La sua vita si stava disintegrando come il monitor. Poi, oltre al vetro, sulla tastiera notò qualcos'altro. Nella fioca luce gli parve di vedere delle gocce di cioccolato sciolto. Accigliandosi, Marty toccò una delle macchie con la punta dell'indice. Era ancora leggermente fluida. Gliene rimase un po' appiccicata al dito. Avvicinò la mano alla lampada da lavoro. La sostanza viscosa sul polpastrello era di un colore rosso scuro, quasi marrone. Ma non era cioccolato. Alzò il dito sporco fino al naso, cercando un odore che identificasse la sostanza. L'odore era lievissimo, quasi impercettibile, ma subito seppe di che cosa si trattasse, probabilmente lo aveva saputo appena l'aveva toccata, perché a un livello profondo, primitivo, era programmato in modo da riconoscerla: sangue. Chi aveva spaccato il monitor si era tagliato. Le mani di Marty non mostravano nemmeno un graffio. Rimase perfettamente immobile, avvertendo un formicolio lungo la spina dorsale che gli fece venire la pelle d'oca. Lentamente si girò, aspettandosi di scoprire che qualcuno era entrato nella stanza dietro di lui. Ma era solo. La pioggia batteva sul tetto e gorgogliava lungo una grondaia vicina. Balenò un lampo, visibile attraverso le fessure tra le larghe stecche delle persiane, e il tuono che seguì fece tremare i vetri della finestra. Ascoltò la casa. Gli unici rumori erano quelli del temporale. E il battito rapido del suo cuore. Si avvicinò alla fila di cassetti sul lato destro della scrivania, e aprì il secondo dall'alto. Quella mattina vi aveva sistemato la Smith & Wesson da 9 mm, sopra una risma di fogli. Temeva di non trovarla più, ma nemmeno questa volta la previsione si avverò. Anche alla luce fioca e ingannevole che filtrava dal paralume colorato, poteva vedere il nero luccichio dell'arma. «Ho bisogno della mia vita.»
La voce fece sobbalzare Marty, ma quella reazione fu nulla paragonata allo choc che lo paralizzò quando sollevò lo sguardo dalla pistola e vide la persona che aveva parlato. L'uomo era davanti alla porta che dava in corridoio. Aveva addosso quelli che potevano essere i jeans e la camicia di flanella di Marty, che gli stavano alla perfezione perché era la copia esatta di Marty. Anzi, non fosse stato per i vestiti, lo sconosciuto poteva essere una sua immagine speculare. «Ho bisogno della mia vita», ripeté sommessamente. Marty non aveva fratelli, tantomeno gemelli. Ma solo un gemello poteva essere così simile a lui in ogni particolare: lineamenti, altezza, peso, complesso della corporatura. «Perché mi hai rubato la vita?» domandò l'intruso con un tono che sembrava autenticamente incuriosito. La sua voce era calma e controllata, come se la domanda non fosse del tutto folle, come se fosse realmente possibile, almeno secondo la sua esperienza, rubare una vita. Rendendosi conto che l'intruso aveva anche la sua voce, Marty chiuse gli occhi e si sforzò di negare la realtà di ciò che aveva davanti. Si disse che stava avendo un'allucinazione, che stava lui stesso parlando per bocca di quel fantasma attraverso una sorta di ventriloquio inconsapevole. Le fughe, un incubo incredibilmente intenso, l'attacco di panico, e ora le allucinazioni. Ma quando aprì gli occhi, il suo doppio, ostinata illusione, era ancora lì. «Chi sei?» chiese la copia. Marty non poteva parlare: il cuore gli era salito in gola, e a ogni battito forsennato il respiro gli veniva meno. E non osava parlare perché attaccare discorso con un'allucinazione gli avrebbe di sicuro fatto perdere l'ultimo appiglio alla razionalità, precipitandolo nella follia più totale. Il fantasma riformulò la sua domanda, sempre parlando in tono di affascinato stupore, ma con una voce ora più bassa, e per questo più minacciosa. «Che cosa sei?» Senza la soprannaturale fluidità o il riverbero spettrale di un'apparizione psichica o paranormale, né trasparente né radiante, il doppio fece un altro passo verso il centro della stanza. Quando si mosse, luce e ombra danzarono su di lui esattamente come avrebbero accarezzato qualsiasi oggetto tridimensionale. Sembrava solido come un uomo reale. Marty notò la pistola nella mano destra dello sconosciuto. La teneva appoggiata alla coscia. Puntata verso il pavimento. Il sosia avanzò di un altro passo, fermandosi a meno di tre metri dall'al-
tro lato della scrivania. Con una smorfia più agghiacciante di qualsiasi alone luminoso, l'uomo con la pistola domandò: «Come può succedere? E adesso? Dobbiamo in qualche modo diventare una sola persona, fonderci l'uno nell'altro, come in certi pazzeschi film di fantascienza...» Il terrore aveva acuito i sensi di Marty. Come se lo guardasse attraverso una lente d'ingrandimento, poteva vedere ogni contorno, ogni linea, ogni poro del volto del suo doppio. Nonostante la scarsa luce, i mobili e i libri nei punti in ombra erano nitidi in tutti i loro dettagli quanto gli oggetti su cui cadeva direttamente la luce delle lampade. Ma anche con gli accresciuti poteri di osservazione, non riuscì a riconoscere il modello della pistola che l'uomo impugnava. «... oppure semplicemente ti ammazzo e prendo il tuo posto?» continuò quello. «E se ti ammazzo...» Un'allucinazione creata da lui, riflette, avrebbe avuto un'arma che gli era familiare. «... i ricordi che mi hai rubato torneranno ad appartenermi quando sarai morto? Se ti ammazzo...» In fin dei conti, se quella figura non era altro che una minaccia simbolica costruita da una mente ammalata, allora tutto, il fantasma, gli abiti, il suo armamento, doveva provenire dall'esperienza e dall'immaginazione di Marty. «... ritorno intero? Quando tu sarai morto, io verrò restituito alla mia famiglia? E sarò di nuovo capace di scrivere?» Se la pistola era invece reale, allora il doppio era reale. Chinando la testa da un lato, protendendosi leggermente in avanti, come interessatissimo alla risposta di Marty, l'intruso proseguì: «Ho bisogno di scrivere, se voglio essere quello che devo essere, ma le parole non mi vengono». Il monologo continuava a sorprendere Marty con il suo saltare di palo in frasca, e questo non deponeva a favore dell'idea che fosse stata la sua psiche disturbata a inventare l'intruso. Per la prima volta nella voce dell'uomo si fece sentire la collera, più amarezza che rabbia, ma che aumentava progressivamente: «Mi hai rubato anche quelli, le parole, il talento, e devi ridarmeli, mi servono così tanto che sto male. Uno scopo, un senso. Lo sai? Lo capisci? Qualunque cosa tu sia, riesci a capirmi? Il vuoto tremendo, il vuoto, Dio, un vuoto così profondo, così nero». Ora sputava fuori con rabbia le parole. «Rivoglio quello che è mio, mio, maledizione, la mia vita, mia, rivoglio la mia vita, il mio
destino, la mia Paige, è mia, la mia Charlotte, la mia Emily...» La larghezza della scrivania e altri tre metri: la distanza giusta. Marty estrasse la pistola dal cassetto, la impugnò a due mani, tolse la sicura, premette il grilletto mentre ancora alzava la canna. Non aveva importanza se il bersaglio era reale o un essere immateriale. Quello che gli importava era cancellarlo prima che uccidesse lui. Il primo proiettile strappò una grossa scheggia di legno dal bordo della scrivania, e i frammenti esplosero come uno sciame di vespe inferocite. Il secondo e il terzo colpo raggiunsero l'altro Marty al torace. Non lo attraversarono come avrebbero fatto con un ectoplasma né lo disfecero come se lui fosse l'immagine riflessa in uno specchio, ma invece lo scaraventarono all'indietro, prendendolo di sorpresa prima che potesse alzare la sua arma, che gli sfuggì di mano volando sul pavimento con un pesante tonfo. Finì contro una libreria e cercò di aggrapparsi a uno scaffale, scaraventando a terra una dozzina di volumi, mentre una macchia di sangue gli si allargava sul petto, Dio santo, quanto sangue, gli occhi sbarrati per lo choc, senza nemmeno un grido, solo un basso e aspro «uh», più di sorpresa che di dolore. Il bastardo sarebbe dovuto andar giù di schianto, come un sasso in un pozzo, invece rimase in piedi. Nel momento stesso in cui colpì la libreria, se ne staccò, si tuffò barcollando fuori della porta, scomparendo nel corridoio. Sbalordito più per aver premuto il grilletto contro qualcuno che per il fatto che questo qualcuno fosse un'immagine perfetta di se stesso, Marty si appoggiò alla scrivania, cercando disperatamente di prendere fiato, come se avesse smesso di respirare nel momento stesso in cui il suo doppio era entrato nella stanza. E forse era così. Sparare a un uomo per davvero era cosa ben diversa che far fuori un personaggio di romanzo; sembrava quasi che, come per magia, parte dell'impatto dei proiettili sul bersaglio si ripercuotesse in colui che aveva sparato. Il petto gli faceva male, gli girava la testa, e il margine del campo visivo per qualche momento fu invaso da un buio fitto che lui dovette respingere con la forza della volontà. Non aveva il coraggio di lasciarsi svenire. Pensò che l'altro Marty doveva essere gravemente ferito, moribondo, forse morto. Dio, quel sangue che si allargava sul suo petto, fiori scarlatti, rose sbocciate all'improvviso. Ma non poteva esserne certo. Forse quelle sembravano soltanto ferite mortali, forse la fugace visione che ne aveva avuto era ingannevole, e forse il suo sosia non solo era vivo ma aveva ancora sufficiente forza da uscire dalla
casa e fuggire via. Se quello fosse scappato e sopravvissuto, prima o poi sarebbe tornato, allucinato e folle come prima ma ancora più rabbioso, più deciso. Marty doveva terminare quello che aveva iniziato prima che il suo doppio avesse modo di riprovarci. Guardò il telefono. Formare il 911. Chiamare la polizia, poi mettersi sulle tracce del ferito. Ma sulla scrivania, accanto al telefono, c'era l'orologio, e vide l'ora... 4.26. Paige e le bambine. Di ritorno da scuola, più tardi del solito, per la lezione di piano. Oh, Dio. Se arrivando a casa avessero visto l'altro Marty, o lo avessero trovato in garage, avrebbero pensato che fosse il loro Marty, e sarebbero corse da lui, spaventate dalle ferite, per soccorrerlo, e forse lui sarebbe stato ancora abbastanza in forze da far loro del male. La pistola caduta era l'unica arma che avesse? Non poteva saperlo. E poi, quel figlio di puttana poteva prendere un coltello dalla cucina, il coltello della carne, nasconderselo addosso, lungo il fianco, dietro la schiena, far avvicinare Emily e poi squarciarle la gola, o immergerlo nella pancia di Charlotte. Ogni secondo era vitale. Niente 911. Perdita di tempo. I poliziotti non sarebbero mai arrivati prima di Paige. Girò attorno alla scrivania con le gambe che gli tremavano, ma già mentre attraversava la stanza diretto verso la porta la debolezza svanì. Vide il sangue schizzato sul muro, che colava lungo i dorsi dei suoi libri, macchiandogli il nome. Di nuovo l'ondata nera cercò di sopraffarlo. Strinse i denti e proseguì. Quando raggiunse la pistola dell'altro, con un calcio la spedì verso l'interno della stanza, lontana dalla porta. Quel semplice atto gli diede una certa carica di sicurezza, perché gli parve che così si sarebbe comportato un poliziotto pronto di riflessi: rendere più difficile al criminale recuperare la sua arma. Forse ce l'avrebbe fatta, avrebbe sistemato la faccenda, per quanto incredibile e terrificante, il sangue e tutto il resto... Forse avrebbe messo tutto a posto. Allora, inchiodalo. Accertati che sia fuori gioco. Completamente. Per scrivere i suoi romanzi aveva fatto ricerche approfondite sulle procedure della polizia, non limitandosi a studiare i loro manuali scolastici o i film didattici ma andando in giro di notte con gli agenti in divisa sulle autopattuglie o frequentando detective in borghese, in servizio e fuori. Sapeva perfettamente come si varca una soglia in circostanze come quelle. Non essere troppo sicuro di te. Fa' conto che il criminale abbia un'altra
arma oltre a quella che gli è caduta, una pistola o un coltello. Tieniti basso, supera in fretta la soglia. Una soglia è il posto dov'è più facile morire perché ogni porta si apre sull'ignoto. Impugna la pistola a due mani mentre avanzi, le braccio davanti a te, tese e vicine, girale a destra e a sinistra mentre esci dalla porta, rotea la pistola coprendo entrambi i fianchi. Poi portati da un lato o dall'altro e avanza con la schiena rasente alla parete, così saprai di avere sempre le spalle coperte, e dovrai badare solo a tre lati. Tutto questo gli passò come un lampo nella mente, come sarebbe passato nella mente di uno dei poliziotti di sua creazione... ma agì come qualsiasi civile preso dal panico, piombando a precipizio nel corridoio, tenendo la pistola solo con la destra, le braccia giù, affannando, facendo di sé più un bersaglio che una minaccia, perché a ben vedere lui non era un poliziotto, ma solo un imbecille che qualche volta scriveva di poliziotti. Puoi abbandonarti quanto ti pare alle fantasie, ma non puoi vivere una fantasia, non puoi comportarti da poliziotto in una situazione di forte tensione se non sei stato addestrato da poliziotto. Si era macchiato come chiunque altro della colpa di confondere realtà e fantasia, pensando di essere invincibile come l'eroe di una pagina stampata, ed era stato maledettamente fortunato a non trovare l'altro Marty ad aspettarlo. Il corridoio del piano era deserto. Era esattamente uguale a me. Adesso non puoi pensare a questo, non è ancora il momento. Pensa solo a rimanere vivo, a liquidare il bastardo prima che faccia del male a Paige o alle bambine. Se ne esci vivo, ci sarà tempo per cercare la spiegazione di quell'incredibile rassomiglianza, per risolvere il mistero, ma non ora. Ascolta. Un movimento? Forse sì. No. Niente. Tieni su la pistola, puntata davanti a te. Subito fuori dello studio, l'impronta di sangue di una mano macchiava la parete. In quel punto, il sangue formava una pozza orrenda sulla moquette beige. Per una parte almeno del tempo in cui Marty era rimasto davanti alla scrivania, stordito e temporaneamente paralizzato dalla violenza, l'uomo ferito era appoggiato al muro del corridoio, forse cercando invano di fermare l'emorragia. Marty era tutto sudato, preso da un senso di nausea e di paura. Il sudore gli scorreva nell'occhio sinistro, facendoglielo bruciare, velandogli la vista. Si strofinò la fronte bagnata con la manica della camicia, battè furiosamen-
te le palpebre per mandare via il sale dall'occhio. Quando l'altro si era staccato dalla parete e aveva ripreso a muoversi, forse mentre Marty era ancora immobilizzato dietro la scrivania, doveva aver messo il piede nella pozza del suo stesso sangue. Il tragitto era segnato dalle impronte rosse e frammentarie delle suole delle sue scarpe da ginnastica, oltre che dalla scia continua delle gocce di sangue. Silenzio nella casa. Con un po' di fortuna, poteva essere silenzio di morte. Rabbrividendo, Marty seguì con circospezione la scia repellente oltre il bagno del corridoio, dietro l'angolo, oltre la doppia porta della buia camera da letto principale, oltre l'inizio delle scale. Si fermò nel punto in cui il corridoio del primo piano diventava una galleria che si affacciava sul soggiorno del pianterreno. Sulla destra aveva la ringhiera di legno di quercia, al di là della quale pendeva il lampadario di ottone che aveva acceso prima, quando aveva attraversato l'ingresso. Sotto il lampadario scendevano le scale che arrivavano alla sala d'ingresso piastrellata, che dal pavimento al soffitto prendeva tutta l'altezza della casa e dava direttamente nel soggiorno, anch'esso alto due piani. Sulla sinistra, qualche passo più in là lungo la galleria, c'era la stanza che Paige usava come studio in casa. Un giorno sarebbe diventata la camera per Charlotte o per Emily, quando avessero deciso che era il momento di dormire ognuna per conto suo. La porta era socchiusa. Al di là si muovevano ombre nere come pipistrelli, schiarite solo dalla grigia luce temporalesca del giorno che si spegneva, una luce che a stento filtrava dalle finestre. La traccia di sangue conduceva oltre lo studio, verso la fine della galleria, direttamente alla porta delle bambine, che era chiusa. L'uomo era lì dentro, ed era orribile pensarlo in mezzo alle cose delle bambine, intento a toccare gli oggetti, a insozzare la stanza con il suo sangue e la sua follia. Ricordò la voce piena di rabbia, venata dalla follia eppure così simile alla sua: La mia Paige, è mia, la mia Charlotte, la mia Emily... «Col cazzo, sono tue», ringhiò Marty, puntando la Smith & Wesson contro la porta chiusa. Abbassò lo sguardo sull'orologio. 4.28. E adesso? Poteva rimanere lì nel corridoio, pronto a spedire il bastardo al creatore
se appena avesse aperto la porta. Aspettare Paige e le bambine, gridare di chiamare il 911 quando fossero arrivate. Poi lei poteva portare le piccole da Vic e Kathy Delorio, che abitavano di fronte, e lì sarebbero state al sicuro, mentre lui teneva d'occhio la porta fino all'arrivo della polizia. Il piano sembrava buono, responsabile, lucido e ragionevole. Dopo poco, il battito del suo cuore contro la cassa toracica si fece meno insistente, meno doloroso. Ma poi la sua dannata maledizione di romanziere lo colpì, come un nero gorgo che lo risucchiava nelle più buie possibilità, la maledizione dell'«e se...». E se l'altro Marty era ancora abbastanza forte da aprire la finestra della camera delle bambine, calarsi sul tetto del patio sul retro della casa e di lì saltare sul prato? E se fuggiva lungo il fianco della casa e usciva in strada proprio mentre Paige imboccava il vialetto con le bambine? Non era impossibile che succedesse. Era probabile che succedesse. Era sicuro che sarebbe successo. O sarebbe successo qualcos'altro, di altrettanto brutto, anzi di peggio. Il gorgo della realtà snocciolava possibilità più terribili dei più neri pensieri della mente di uno scrittore. In quest'epoca di dissoluzione sociale, anche nelle vie più pacifiche dei quartieri più tranquilli, potevano verificarsi atti improvvisi di incredibile ferocia, che lasciavano la gente scossa e inorridita, ma non sorpresa. Forse stava tenendo d'occhio la porta di una stanza vuota. 4.29. Forse Paige stava svoltando l'angolo due isolati più in là, immettendosi nella loro strada. Forse i vicini avevano sentito gli spari e avevano già avvertito la polizia. Dio, ti prego, fa' che sia così. Non vedeva altra scelta che spalancare la porta della camera delle bambine, entrare e controllare se l'Altro era dentro o no. L'Altro. Nello studio, prima, quando era iniziato lo scontro, aveva scartato rapidamente l'idea iniziale di avere davanti a sé una creatura soprannaturale. Uno spirito non poteva essere solido e tridimensionale come quell'uomo. Posto che esistessero, gli esseri provenienti dall'altro lato del confine tra la vita e la morte non potevano essere vulnerabili alle pallottole. Ma il senso di soprannaturale persisteva, schiacciandolo sempre più di momento in momento. Pur sospettando che la natura del suo avversario fosse ben più incomprensibile di qualsiasi fantasma o demone multiforme, che quell'essere fosse contemporaneamente quanto di più terrificante e terreno esistesse, che fosse una creatura di questo mondo e di nessun altro, ciononostante non riusciva a non pensare nei termini di solito riservati alle
storie di spiriti: Fantasma, Spettro, Spirito Tornante, Apparizione, Il Noninvitato, Il Non-morto, L'Entità. L'Altro. La porta rimaneva immobile. Il silenzio della casa era più profondo della morte. Già concentrata sull'inseguimento dell'Altro, l'attenzione di Marty si intensificò ancora di più, finché non smise di avere coscienza del proprio battito cardiaco, cieco a tutto tranne che alla porta, sordo a ogni suono tranne che a quelli che potevano provenire dall'interno della camera delle bambine, senza avvertire altra sensazione che non fosse la pressione del dito sul grilletto della pistola. La scia di sangue. Rossi frammenti di impronte di passi. La porta. Attendere. L'indecisione lo paralizzava. La porta. Improvvisamente sentì un rumore sopra di sé. Alzò di scatto la testa e guardò il soffitto. Si trovava giusto sotto il pozzetto che, ampio un metro quadrato e profondo un paio di metri, saliva a un lucernario di plexiglas a cupola. La pioggia batteva contro il plexiglas. Solo pioggia, il rumore della pioggia. Come se la tensione dell'incertezza lo avesse reimmerso nell'intero spettro della realtà, divenne bruscamente consapevole di tutte le voci del temporale, a cui era stato assolutamente sordo per tutto il tempo in cui aveva inseguito l'Altro. Le aveva trascurate perché intento ad ascoltare, attraverso il rumore di fondo, i più furtivi indizi della presenza della sua preda. Ora i gemiti e i sibili del vento, il tamburellare della pioggia, il rombo improvviso del tuono, il secco grattare del ramo di un albero contro il fianco della casa, lo sferragliare di un pezzo di grondaia allentata, e altri suoni meno identificabili lo investivano da ogni parte. Con il frastuono del temporale i vicini non potevano assolutamente aver udito gli spari. Fine di quella speranza. E il frastuono parve spingere Marty in avanti, lungo la scia di sangue, un passo esitante, poi un altro, inesorabilmente, verso la porta. 8
Il temporale aveva prodotto un precoce crepuscolo, malinconico e senza fine, che costrinse Paige a tenere accesi i fari per tutto il tragitto dalla scuola delle bambine fino a casa. I tergicristallo, anche alla velocità massima, non ce la facevano a far fronte alle cataratte che precipitavano dal cielo gonfio di pioggia. Se quell'acquazzone non era il segno della fine del periodo di siccità di cui si soffriva da tanto tempo, allora la natura stava giocando uno scherzo crudele alimentando aspettative su una promessa che non avrebbe mantenuto. Gli incroci erano allagati. I canaletti lungo i marciapiedi straripavano. La BMW sollevava grandi baffi d'acqua passando in una pozzanghera dopo l'altra. E, uscendo dal velo nebbioso della pioggia, i fanali delle auto sulla corsia opposta la sfioravano come fari di un batiscafo che frugasse negli abissi di una fossa oceanica. «Siamo in un sottomarino», esclamò Charlotte, tutta eccitata, dal sedile del passeggero accanto a Paige, guardando dal finestrino attraverso le onde sollevate dalle loro ruote. «Navighiamo con le balene, il capitano Nemo e il Nautilus ventimila leghe sotto i mari, con i calamari giganti che ci danno la caccia. Te lo ricordi, mamma, il calamaro gigante del film?» «Come no?» rispose Paige senza distogliere lo sguardo dalla strada. «Alza periscopio», ordinò Charlotte, impugnando le manopole dello strumento immaginario, strizzando gli occhi davanti al visore. «Battiamo le rotte dei mari, speroniamo le navi con la nostra prua di acciaio extraforte - bum! - mentre il comandante pazzo suona l'organo! Te lo ricordi l'organo, mamma?» «Certo.» «Andiamo sempre più giù, sempre più giù, lo scafo scricchiola sotto la pressione, ma il folle capitano Nemo dice 'ancora di più', suona il suo organo e dice 'ancora di più', e il calamaro gigante ci viene sempre dietro.» Attaccò il tema da Lo squalo: «Dum-dum, dum-dum, dum-dum, dumdum, da-da-dum!» «Che scemenza», commentò Emily dal sedile posteriore. Charlotte si voltò. «Quale scemenza?» «Il calamaro gigante.» «Ah, sì? Probabilmente cambieresti idea se mentre stai nuotando ne arriva uno e ti spezza in due con un morso e ti mangia in due bocconi e poi sputa le ossa come semi di uva.» «I calamari non mangiano gli uomini.» «E invece sì.»
«È tutto il contrario.» «Eh?» «Sono gli uomini che mangiano i calamari.» «Ma quando mai?» «Sempre.» «Come ti viene in mente una cretinata del genere?» «L'ho letto sul menu di un ristorante.» «Quale ristorante.» «Anzi due ristoranti. È vero, mamma? È vero che gli uomini mangiano i calamari?» «Sì, è vero», annuì Paige. «Le stai dando ragione solo per non farla sembrare una scema di sette anni», replicò scettica Charlotte. «No, è proprio vero», confermò Paige. «I calamari si mangiano.» «E in che modo?» chiese Charlotte, come se non riuscisse nemmeno a immaginare una cosa simile. «Be'», disse Paige frenando a un semaforo rosso, «non certo in un pezzo solo.» «Ci credo!» esclamò Charlotte. «Comunque non un calamaro gigante.» «Per esempio puoi tagliarli a fettine e saltarli nel burro e aglio», spiegò Paige, e guardò la figlia per vedere l'impatto che aveva su di lei qualche rudimento culinario. Charlotte fece una smorfia e tornò a guardare davanti a sé. «Vuoi prendermi in giro.» «Guarda che è buono», insisté Paige. «Piuttosto mangerei fango.» «È più buono del fango, ti assicuro.» Dal sedile posteriore intervenne Emily. «Si possono anche tagliare a rondelle e friggere, come le patatine.» «Esatto», confermò Paige. La valutazione di Charlotte fu semplice e diretta: «Che schifo». «Sono come gli anelli di cipolla, solo che sono di calamaro», specificò Emily. «È disgustoso.» «Morbidi anellini di calamaro fritti sgocciolanti di inchiostro», ridacchiò Emily. Charlotte si girò di nuovo sul sedile a guardare la sorella con un'espressione schifata.
«Comunque», insisté Emily, «non siamo in un sottomarino.» «Lo so bènissimo», rispose Charlotte. «Siamo su un'automobile.» «Siamo su un omercraff.» «Un che?» Emily spiegò: «Come quello che abbiamo visto quella volta in tivvù, quella barca che va tra l'Inghilterra e non so dove, e che corre sull'acqua, ma proprio cooooorre». «Tesoro, vuoi dire hovercraft», la corresse Paige, togliendo il piede dal freno quando il semaforo passò al verde, e accelerando con cautela per attraversare l'incrocio allagato. «Già», disse Emily. «Overcraff. Siamo in un overcraff, e stiamo andando in Inghilterra a trovare la regina. Io prenderò il tè con la regina, prenderemo il tè con i calamari e parleremo dei gioielli di famiglia.» A questa uscita Paige scoppiò quasi a ridere. «Le regine non offrono calamari», la informò Charlotte esasperata. «Lei sì», assicurò Emily. «No», insisté Charlotte, «la regina offre dolcini e biscotti e pasticceria mignòt.» Paige questa volta rise forte. L'immagine della regina d'Inghilterra in pompa magna che compitissima indica una puttana in guepière all'ospite venuto a palazzo a prendere il tè chiedendogli «Gradisce?» era irresistibile. «Che c'è da ridere?» volle sapere Charlotte. Paige frenò l'ilarità. «Niente, mi era venuta in mente una cosa, una cosa che mi era capitata tanto tempo fa, se ve la raccontassi ora non vi sembrerebbe nemmeno buffa, è solo un vecchio ricordo della mamma. Comunque si dice mignon, pasticceria mignon, tesoro, non mignòt.» L'ultima cosa che avrebbe voluto era inibire la loro conversazione. Quando era in macchina con loro, non capitava quasi mai che accendesse la radio. Niente, nei programmi, era nemmeno lontanamente divertente quanto il Charlotte and Emily Show. La pioggia cadeva più forte, ed Emily mostrava di essere in uno dei suoi momenti di maggiore loquacità. «È molto meglio stare su un overcraff per andare a trovare la regina che in un sottomarino con un calamaro gigante che vuole sbranarti.» «La regina è una pizza», disse Charlotte. «Non è vero.» «È venissimo.» «Sotto la reggia ha una camera di tortura.»
Charlotte tornò a voltarsi verso il retro dell'auto, interessata suo malgrado. «Sul serio?» «Già», confermò Emily. «E ci tiene uno con una maschera di ferro.» «Una maschera di ferro?» «Una maschera di ferro», ripeté mestamente Emily. «E perché?» «È brutto forte», spiegò Emily. Paige era certa che, da grandi, sarebbero diventate tutt'e due delle scrittrici. Avevano ereditato la vivida e sfrenata immaginazione di Marty. Probabilmente si sarebbero sentite entrambe spinte a esercitarla, proprio come lui, anche se avrebbero scritto cose diverse dai romanzi del padre, e molto diverse l'una dall'altra. Non vedeva l'ora di raccontare a Marty ogni cosa: sottomarini, omercraff, calamari giganti, anellini fritti e mignatte della regina. Aveva deciso di prendere per buona la diagnosi preliminare di Paul Guthridge, attribuendo gli inquietanti sintomi di Marty a nient'altro che lo stress, e di smetterla di preoccuparsi fino all'arrivo dei risultati dei test clinici. Se lì ci fosse stata qualche brutta notizia, allora potevano ricominciare a impensierirsi. Ma a Marty non sarebbe successo niente di male. Lui era una forza della natura, un pozzo senza fondo di energia e di allegria, indomabile e sempre pronto a rimettersi in piedi. Si sarebbe rialzato così come Charlotte cinque anni prima si era rialzata dal suo letto di morte. Niente di male sarebbe successo a nessuno della famiglia perché c'era in loro troppa vita da vivere, troppi bei momenti da passare insieme. Un lampo violento, di quelli che raramente accompagnano i temporali nella California meridionale ma che questa volta divampò in tutta la sua pienezza, illuminò il cielo, portandosi dietro il rombo di un tuono, incandescente come sarebbe stato il carro celeste sul quale Dio avrebbe fatto la sua uscita dal cielo il Giorno del Giudizio. 9 Marty era a due o tre metri dalla porta della camera delle bambine. Cercava di accostarsi dal lato dei cardini, per poter allungare la mano verso la maniglia e spingere il battente verso l'interno senza che la sua sagoma si stagliasse controluce sotto l'arco della porta. Per non mettere i piedi nelle tracce di sangue, abbassò gli occhi per un solo secondo sul tappeto, dove ora le chiazze si facevano più piccole e ra-
de. Colse un'anomalia che in un primo momento registrò solo inconsciamente, e fece un altro passo con lo sguardo puntato sulla porta prima di rendersi conto pienamente di quello che aveva visto: la traccia della metà anteriore di una suola, leggermente tinta di rosso, uguale alle venti o trenta che aveva già passato, solo che la piccola porzione di quest'ultima impronta puntava in un'altra direzione rispetto a tutte le altre, nell'altro senso, verso il punto di partenza. Afferrando l'importanza di quello che aveva visto, si immobilizzò. L'Altro era arrivato fino alla camera delle bambine, ma non vi era entrato. Aveva fatto dietrofront, quando l'emorragia era diminuita tanto da non segnare più con chiarezza il suo cammino, a parte quell'impronta rivelatrice, e forse altre due o tre di cui Marty non si era accorto. Ruotando su se stesso, tenendo la pistola a due mani, Marty lanciò un grido alla vista dell'Altro che gli veniva addosso provenendo dallo studio di Paige, muovendosi molto più agevolmente di un uomo che ha due pallottole in corpo e un bel po' di sangue in meno. Colpì Marty con violenza, nel basso ventre, scagliandolo contro la ringhiera della galleria e costringendolo ad alzare le braccia. Istintivamente, Marty schiacciò il grilletto mentre veniva spinto all'indietro, ma il proiettile si piantò nel soffitto dell'ingresso. Sentì contro le reni la mazzata del solido parapetto e un urlo strozzato gli sfuggì dalla gola mentre una fitta atroce schizzava verso l'alto arrampicandosi fulminea lungo la scaletta delle vertebre. Mentre urlava, perse la pistola. Gli sfuggì di mano e fece un volo ad arco sopra la sua testa finendo nel vuoto sotto di lui. La ringhiera di quercia ebbe un brivido, uno schianto secco segnalò il crollo imminente, e Marty ebbe la certezza che sarebbero piombati di sotto. Ma le colonnine non cedettero, e il corrimano rimase solidamente attaccato alle colonne ai due lati. Senza allentare la pressione, l'Altro piegò Marty all'indietro, al di sopra della balaustrata, cercando di strangolarlo. Mani di ferro. Dita come pistoni idraulici spinti da un potente motore a comprimere la carotide. Marty tentò di piazzare una ginocchiata all'inguine dell'assalitore, ma fu bloccato. Il tentativo lo lasciò sbilanciato, con un solo piede a terra, e venne spinto ancora più fuori contro il parapetto, finché sentì che la ringhiera lo bloccava e al tempo stesso lo teneva in equilibrio. Soffocando, incapace di respirare, consapevole che il pericolo peggiore era la diminuzione dell'afflusso di sangue al cervello, Marty unì le mani e
le spinse verso l'alto in mezzo alle braccia dell'Altro, cercando di allargarle e di spezzare la presa che lo strozzava. L'aggressore raddoppiò i suo sforzi, determinato a non mollare la presa. Anche Marty era al massimo dello sforzo, con il cuore che gli martellava dolorosamente contro lo sterno. Avrebbero dovuto avere forze pari, maledizione, erano della stessa altezza, dello stesso peso, della stessa corporatura, nelle stesse condizioni fisiche, sotto tutti gli aspetti lo stesso uomo. E invece l'Altro, pur raggiunto da due colpi potenzialmente mortali, era il più forte, e non solo perché aveva il vantaggio della posizione sovrastante e di una maggiore stabilità. Sembrava in possesso di una potenza sovrumana. A faccia a faccia con il suo duplicato, inondato da ognuno dei suoi ansimi roventi, era come se Marty si trovasse di fronte a uno specchio, ma nel feroce riflesso che aveva davanti scorgeva espressioni che lui sul suo volto non aveva mai visto. Rabbia bestiale, odio di una tossicità pura come cianuro, spasmi di piacere maniacale stravolgevano i lineamenti familiari come se lo strangolatore godesse nell'atto di dare la morte. Con le labbra tirate sui denti, spruzzando saliva, aumentando a ogni frase la stretta per sottolineare le parole, l'Altro disse: «Ho bisogno della mia vita, proprio adesso, della mia vita, mia, mia, adesso! Ho bisogno della mia famiglia, adesso, adesso, mia, adesso, adesso, adesso, ne ho bisogno, BISOGNO!» Lucciole negative svolazzarono davanti al campo visivo di Marty, negative perché erano il rovescio fotografico delle lucciole che si vedono in una calda notte estiva, non pulsazioni luminose nel buio ma pulsazioni di buio nella luce. Cinque, dieci, venti, cento, un intero sciame brulicante. La faccia incombente dell'Altro spariva a settori sotto lo sciame nero lampeggiante. Disperando di spezzare la presa dell'aggressore, Marty tentò di allungare le mani verso quel viso pieno di odio, ma non riuscì a raggiungerlo. Ogni suo sforzo sembrava debolissimo, inutile. Quante lucciole negative. E in mezzo a loro, il volto malvagio e feroce del nuovo marito di sua moglie, il volto imperioso del severo nuovo padre delle sue figlie. Lucciole. Dappertutto, dappertutto. Dispiegavano le loro ali cancellando ogni cosa. Bang. Secco come una fucilata. Una seconda, una terza, una quarta esplosione, una dopo l'altra. Le colonnine della ringhiera che si spezzavano.
Il corrimano si spaccò. Crollò all'indietro. Non aveva più il sostegno delle colonnine che erano ormai andate in pezzi. Marty smise di resistere all'aggressore e tentò freneticamente di aggrapparsi con le braccia e le gambe alla ringhiera nella speranza di rimanere ancorato ai resti piantati nel pavimentò anziché precipitare attraverso il varco che si andava aprendo. Ma il tratto centrale della balaustrata si disintegrò così radicalmente, così rapidamente, che non riuscì a trovare un appiglio nei suoi elementi; in aggiunta il peso dell'aggressore dava alla forza di gravita più aiuto del necessario. Mentre erano in bilico sull'orlo, però, i movimenti di Marty alterarono la dinamica della lotta facendo sì che l'Altro gli rotolasse addosso e andasse giù per primo. L'aggressore abbandonò la gola di Marty ma se lo tirò dietro, in posizione sovrastante. Precipitarono nella tromba delle scale, schiantando la ringhiera esterna e riducendola in schegge all'istante, e piombarono sul pavimento di piastrelle messicane della sala d'ingresso. Non erano caduti da una grande altezza, nemmeno letale, al massimo un paio di metri, e la caduta era stata anche smorzata dal corrimano inferiore. Ma l'impatto aveva tolto a Marty quel po' di fiato che era riuscito a prendere durante il volo, anche se il colpo era stato attutito dal corpo dell'Altro, che toccò terra di schiena con il sonoro rimbombo di un maglio. Ansimando e tossendo, Marty si allontanò dal suo doppio strisciando e cercò di mettersi fuori della sua portata. Era senza fiato, la testa gli girava, e non era sicuro di non essersi fratturato qualche osso. Quando inspirava, l'aria gli bruciava nella gola dolorante, e quando tossiva le fitte non sarebbero potute essere più dolorose se avesse tentato di inghiottire una matassa di filo spinato e chiodi piegati. Sgusciare via rapido come un gatto, quello cioè che aveva in mente di fare, in pratica si rivelò irrealizzabile, e si accorse che era soltanto in grado di trascinarsi attraverso il pavimento dell'ingresso, con i sobbalzi e gli spasimi di uno scarafaggio spruzzato con l'insetticida. Asciugandosi le lacrime che la tosse violenta gli aveva fatto salire agli occhi, vide la Smith & Wesson. Era distante poco più di tre metri, al di là del punto in cui il passaggio dal pavimento di mattonelle al parquet segnava la fine dell'ingresso e l'inizio del soggiorno. A giudicare dall'intensità con cui si concentrò sull'arma e la dedizione con cui trascinò il suo corpo intorpidito e dolente verso di lei, la pistola poteva anche essere il Santo Graal. Ebbe la percezione di un rumore estraneo ai suoni del temporale, seguito
da un tonfo, e pensò vagamente che dovesse avere a che fare con l'Altro, ma non si girò a guardare. Forse quello che aveva sentito era uno spasimo di morte, i tacchi battuti contro il pavimento, una convulsione finale. Come minimo quel bastardo doveva essere gravemente ferito. Storpiato e moribondo. Ma Marty voleva assolutamente mettere le sue mani tremanti sulla pistola prima di festeggiare la propria sopravvivenza. Raggiunse l'arma, la impugnò ed emise uno stanco grugnito di trionfo. Rotolò sul fianco, ruotò su se stesso e puntò la pistola verso l'ingresso, quasi rassegnato a scoprire che il suo assalitore gli era già addosso. Ma l'Altro era ancora steso sul dorso. A gambe aperte. Le braccia lungo i fianchi. Immobile. Forse poteva essere morto. Ma non era così fortunato. La sua testa ruotò verso Marty. Era pallidissima, velata di sudore, bianca e lucida come una maschera di porcellana. «Rotto», ansimò. Sembrava in grado di muovere solo la testa e una parte della mano destra, le dita. Una smorfia di fatica, più che di dolore, contorceva i suoi lineamenti. Sollevò la testa dal pavimento, e le dita ancora vitali si aprirono e si chiusero come le zampe di una tarantola in agonia, ma appariva incapace di mettersi a sedere o di piegare le ginocchia. «Rotto», ripeté. Qualcosa nel modo in cui aveva pronunciato la parola fece venire in mente a Marty un soldatino di plastica, una molla piegata, un ingranaggio distrutto. Sostenendosi con una mano alla parete, Marty si alzò in piedi. «Adesso mi ammazzi?» chiese l'Altro. La prospettiva di ficcare una pallottola nel cervello di un uomo ferito e indifeso lo inorridiva, ma Marty fu tentato di compiere quell'atrocità e affrontare in un secondo momento le conseguenze psicologiche e legali. Però fu trattenuto dalla curiosità almeno quanto dalle considerazioni morali. «Ammazzarti? Mi piacerebbe.» La sua voce era arrochita, e lo sarebbe rimasta di sicuro per uno o due giorni, finché non si fosse riavuto dal tentativo di strangolamento. «Chi diavolo sei?» Ogni parola gli bruciava in gola, ricordandogli quanto fosse fortunato a essere vissuto abbastanza da fare quella domanda. Il rombo sommesso si ripeté, lo stesso rumore che aveva sentito mentre si trascinava verso la pistola. Questa volta lo riconobbe: non erano le convulsioni di un uomo in agonia, ma semplicemente le vibrazioni del portellone automatico del garage, che la prima volta si era alzato e ora si stava
riabbassando. Dalla cucina arrivarono le voci di Paige e delle bambine che entravano in casa dal garage. Meno malfermo a ogni passo, e avendo recuperato il fiato, Marty attraversò in fretta il soggiorno verso la sala da pranzo, ansioso di fermare le bambine prima che vedessero quello che era successo. Dopo quel giorno, non sarebbe stato facile per loro sentirsi di nuovo a proprio agio in quella casa, sapendo che vi era penetrato qualcuno che aveva cercato di uccidere il padre. Ma il trauma sarebbe stato ben più grave se avessero visto tutta quella distruzione e l'uomo insanguinato steso sul pavimento dell'ingresso. Considerando inoltre il macabro fatto che l'intruso era la fotocopia del padre, c'era il rischio che non riuscissero mai più ad addormentarsi in quella casa. Quando Marty irruppe nella cucina dalla sala da pranzo, lasciandosi oscillare alle spalle la porta a molla, Paige si voltò sorpresa dall'attaccapanni a cui stava appendendo l'impermeabile. Le bambine, che avevano ancora addosso l'impermeabile e il cappello da pioggia gialli, sorrisero girando la testa ansiose, probabilmente immaginando che la sua esplosiva entrata in scena fosse il preludio di uno scherzo o di una delle buffe improvvisate del papà. «Andate via di qui», gracchiò all'indirizzo di Paige, cercando di mostrare un tono calmo, ma sconfitto nel tentativo dalla voce roca e dalla tensione fin troppo evidente. «Che cosa ti è successo?» «Subito», insisté lui, «immediatamente, portale da Vic e Kathy, di fronte.» Le bambine si accorsero della pistola che aveva in mano. Il loro sorriso si spense e spalancarono gli occhi. «Sei tutto insanguinato», disse Paige. «Che...» «Non è mio», la interruppe lui, rendendosi conto solo in quel momento che la camicia gli si era tutta sporcata del sangue dell'Altro quando gli era caduto addosso. «Io sto bene.» «Che cosa è successo?» domandò ancora Paige, sempre più allarmata. Marty spalancò la porta che dava sul garage. «Abbiamo una cosa, qui.» Con la gola che gli faceva male, balbettava quasi per l'ansia di vederle al sicuro fuori della casa, parlava in modo incoerente forse per la prima volta nella sua vita ossessionata dalle parole. «Un problema, una cosa, Cristo, capiscimi, una cosa che è successa, una difficoltà...»
«Marty...» «Avanti, avanti, dai Delorio, tutt'e tre.» Varcò la soglia nel garage buio, schiacciò il pulsante della porta, che cominciò a salire. Guardò Paige negli occhi. «A casa dei Delorio sarete al sicuro.» Senza neppure rimettersi l'impermeabile, Paige spinse le bambine verso l'uscita che si apriva. «Chiama la polizia», le gridò dietro lui, con una smorfia per il dolore che gli era costato alzare la voce. Paige si girò a guardarlo, con il viso segnato dall'apprensione. Lui cercò di rassicurarla. «Io sto bene, ma abbiamo uno, qui, ferito, malridotto.» «Vieni con noi», lo scongiurò lei. «Non posso. Chiama la polizia.» «Marty...» «Vai, Paige, vai!» Lei si mise tra Charlotte ed Emily, le prese per mano e le condusse fuori del garage, sotto l'acqua che cadeva a rovesci, voltandosi ancora una volta a guardarlo. Lui le seguì con gli occhi mentre raggiungevano la fine del vialetto, guardavano a sinistra e a destra e cominciavano ad attraversare la strada. A ogni passo che facevano penetrando nella cortina argentata della pioggia, prendevano sempre più l'aspetto di spiriti che si dissolvevano, anziché persone in carne e ossa. Ebbe lo sconcertante presentimento che non le avrebbe mai più viste vive; sapeva che non era niente di più che una reazione irrazionale provocata dall'adrenalina, ma la paura mise ugualmente radici dentro di lui, e crebbe. Una ventata fredda e umida raggiunse gli angoli più profondi del garage, e il sudore che si era raccolto sul viso di Marty parve trasformarsi istantaneamente in ghiaccio. Rientrò in cucina e chiuse la porta. Tremava, si sentiva mezzo congelato, ma aveva assoluto bisogno di bere qualcosa di fresco perché la gola gli bruciava come se dentro ci fosse una stufa a cherosene. Forse l'uomo nell'ingresso stava morendo, stroncato da un'emorragia proprio in quel momento, o da un attacco cardiaco. Era ridotto in condizioni penose. Forse era meglio, quindi, andare a dargli un'occhiata, nel caso che fosse necessario un massaggio cardiaco prima dell'arrivo delle autorità. A Marty non importava niente se quello moriva, anzi, lo voleva mor-
to, ma non prima che ci fossero state delle risposte a una quantità di domande, e gli ultimi avvenimenti avessero almeno cominciato ad avere un minimo di senso. Ma prima di ogni altra cosa, doveva bere qualcosa per alleviare il bruciore alla gola. In quel momento, ogni volta che deglutiva era una tortura. All'arrivo dei poliziotti doveva essere in condizione di parlare. L'acqua del rubinetto non gli parve sufficientemente fredda, perciò aprì il frigorifero che, lo avrebbe giurato, sembrava molto più sguarnito di quanto fosse quella mattina. Prese un cartone di latte. No, l'idea di bere latte gli fece venire la nausea. Il latte gli ricordava il sangue perché erano entrambi liquidi corporei; la cosa era ovviamente ridicola, ma, visto che gli eventi dell'ultima ora erano assolutamente illogici, era quasi inevitabile che anche le sue reazioni avessero dell'irrazionale. Rimise il cartone di latte sul ripiano, allungò la mano verso il succo d'arancia, poi vide le bottiglie di Corona e le lattine di Coors. Niente gli era mai parso più desiderabile di quelle birre ghiacciate. Afferrò una lattina perché conteneva una quantità di bevanda maggiore rispetto alla bottiglia. La prima lunga sorsata gli attizzò le fiamme nella gola anziché calmarle. La seconda fu un po' meno bruciante, la terza meno ancora, e in seguito ogni sorso fu come un balsamo. Con la pistola in una mano e la lattina semivuota di Coors nell'altra, rabbrividendo più per il ricordo di quello che era successo e per la prospettiva di quello che lo aspettava che per la birra gelata, riattraversò la casa fino all'ingresso. L'Altro era scomparso. La sorpresa fu tale che Marty si lasciò sfuggire di mano la Coors. La lattina rotolò dietro di lui, versando birra schiumosa sul parquet del soggiorno. Ma, se anche la lattina gli era scivolata di mano così facilmente, solo un martinetto idraulico avrebbe potuto costringerlo a lasciar andare la pistola. Colonnine spezzate, un pezzo di corrimano e schegge di legno erano sparsi sul pavimento dell'ingresso. Diverse mattonelle di maiolica erano spaccate o scheggiate, colpite dal duro legno di quercia e dalla Smith & Wesson. Del corpo non c'era traccia. Nell'attimo in cui il suo doppio era entrato nello studio di Marty, la giornata era piombata in un incubo senza servirsi di quel consueto passo preliminare che era il sonno. Gli eventi erano sfuggiti alle catene della realtà, e la sua casa era diventata un buio paesaggio di sogno. Per quanto surreale
fosse stato lo scontro, mentre si stava svolgendo lui non aveva mai dubitato seriamente della sua realtà. E non ne dubitava nemmeno adesso. Non aveva sparato a una creazione della sua mente, non era stato mezzo strangolato da un'illusione, non era precipitato da solo attraverso il parapetto della galleria. Mentre era sdraiato inerte sul pavimento dell'ingresso, l'Altro era reale quanto la ringhiera che ora giaceva in pezzi sulle mattonelle. Allarmato all'idea che Paige e le bambine fossero state aggredite in strada prima di arrivare a casa dei Delorio, Marty si voltò verso la porta d'ingresso. Era chiusa. Dall'interno. La catena di sicurezza era al suo posto. Lo squilibrato non aveva lasciato la casa per quella via. E non l'aveva lasciata per nessuna via. Come avrebbe potuto, nelle sue condizioni? Niente panico. Calma. Riflessione. Marty avrebbe scommesso un anno di vita che le catastrofiche ferite dell'Altro erano reali, non un trucco. La schiena del bastardo era davvero spezzata. L'impossibilità di muovere altro che la testa e le dita di una mano significava che probabilmente la spina dorsale era stata troncata quando il pavimento aveva messo fine alla sua acrobazia aerea. E allora dov'era? Di sopra no. Anche ammesso che la spina dorsale non fosse stata danneggiata, che fosse sfuggito alla quadriplegia, non poteva assolutamente aver trascinato quel corpo malconcio fino al primo piano nel breve tempo in cui Marty era in cucina. Di fronte all'accesso al soggiorno si apriva uno stanzino. La luce grigio sporco che filtrava dalle stecche delle persiane non illuminava nulla. Marty entrò nel locale e accese la luce. Lo stanzino era deserto. Si avvicinò all'armadio, aprì lo sportello a specchio, ma l'Altro non era nascosto neppure lì dentro. Il guardaroba d'ingresso. Niente. Il profondo ripostiglio sotto le scale. Il bagno piccolo. Niente. Niente. La lavanderia. Il soggiorno. Niente, niente, niente. Marty continuò a cercare freneticamente, imprudentemente, incurante della propria sicurezza. Si aspettava di scoprire il suo aggressore praticamente ridotto all'impotenza, forse morto, ora che il disperato tentativo di fuga gli aveva consumato le ultime risorse. Invece, in cucina, trovò la porta posteriore aperta sul patio. Una folata di vento freddo la attraversò, facendo tremare gli sportelli degli armadietti. Sull'attaccapanni accanto all'uscita sul garage, l'impermeabile di Paige svolazzava falsamente vivo.
Mentre Marty ritornava nell'ingresso attraverso la stanza da pranzo e il soggiorno, l'Altro aveva raggiunto la cucina seguendo un diverso tragitto. Doveva aver percorso il breve corridoio su cui si affacciavano il bagno e la lavanderia, e poi aveva attraversato una delle estremità del soggiorno. Non avrebbe potuto fare quel percorso così in fretta strisciando. Si era alzato in piedi, forse malfermo, ma comunque in piedi. No. Non era possibile. D'accordo, forse non si era spezzato la spina dorsale. Forse non si era fratturato nulla. Ma la schiena doveva essere a pezzi. Non era credibile che l'Altro fosse semplicemente balzato in piedi e se ne fosse andato sulle sue gambe. L'incubo aveva di nuovo spazzato via la realtà. Di nuovo era il momento di mettersi in caccia, o di sfuggire all'inseguimento, di qualcosa che godeva della capacità rigenerativa del mostro di un sogno, qualcosa che diceva di essere venuto a cercarsi una vita e che sembrava spaventosamente attrezzato a prendersela. Marty uscì sul patio dalla porta aperta. La paura rinnovata lo spinse a uno stato di coscienza acuito, in cui i colori erano più intensi, gli odori più penetranti, i suoni più chiari e più nitidi di quanto fossero mai stati. La sensazione era simile a quella inesprimibilmente acuta di certi sogni di bambini e adolescenti, soprattutto quella in cui il sognatore solca il cielo senza sforzo, come un uccello, o vive una comunione sessuale con una donna dalle forme così perfette che in seguito né il suo viso né il suo corpo potranno essere ricordati, ma solo l'essenza raggiante della bellezza assoluta. Quei sogni speciali non sembravano fantasie, ma fugaci visioni di una realtà superiore e più particolareggiata, al di là della realtà del mondo della veglia. Uscendo dalla porta della cucina, passando dal tepore della casa al freddo reame della natura, Marty ebbe una strana reminiscenza della straordinaria vivezza di quelle visioni da tempo dimenticate, ora che gli capitava di avvertire sensazioni altrettanto acute, sensibile a ogni sfumatura di ciò che vedeva-udiva-odorava-toccava. Dal fitto pergolato di bouganvillea la pioggia gocciolava in pozze nere come petrolio nella luce del giorno che si spegneva. Sopra quel nero liquido galleggiavano i fiori scarlatti producendo disegni che, benché casuali, sembravano consapevolmente misteriosi, portentosi e pieni di significati reconditi come l'antico esercizio calligrafico di un mistico cinese scomparso da secoli. Attorno al perimetro del giardino sul retro della casa, piccolo e cintato, come in tante zone della California meridionale, i lauri e le macchie di eu-
genia erano scossi senza pietà dal vento tagliente. All'angolo di nord-ovest, i lunghi rami flessibili degli eucalipti sferzavano l'aria, lasciando cadere le oblunghe foglie dal colore argento-fumo che hanno le ali delle libellule. Nell'ombra delle piante, e dietro alcuni dei cespugli più alti, c'erano punti in cui un uomo avrebbe potuto nascondersi. Marty non aveva intenzione di cercare lì. Se la sua preda si era trascinata fuori di casa per rintanarsi sotto un gelsomino o un agapanto, sul terreno freddo e inzuppato di pioggia, indebolito per il sangue perduto, e questa era l'ipotesi più probabile, trovarlo non era cosa urgente. Più importante era assicurarsi che in quel momento non stesse fuggendo indisturbato. Da sempre adattati a condizioni climatiche di aridità e abituati a servirsi della sola acqua offerta dal sistema di irrigazione, i rospi cantavano in coro dai loro rifugi, decine di voci stridule che, di solito simpatiche, ora suonavano sinistramente minacciose. Al di sopra del loro canto si levava sempre più forte il lamento delle sirene che si avvicinavano. Se l'aggressore stava cercando di tagliare la corda prima dell'arrivo della polizia, le possibili vie di scampo erano poche. Poteva aver scavalcato in qualche punto il muro di cinta, ma la cosa sembrava improbabile perché, per quanto miracolosa potesse essere la sua guarigione, non aveva avuto il tempo materiale per attraversare il prato, superare i cespugli e arrampicarsi sul muro per poi lasciarsi cadere in uno dei giardini vicini. Marty svoltò a destra e uscì di corsa dalla copertura del patio gocciolante. Bagnato fino alle ossa già dopo pochi passi, seguì il vialetto posteriore lungo la casa, poi aumentò l'andatura lungo il fondo del garage. L'acquazzone aveva attirato in superficie le lumache dai loro umidi e bui nascondigli sotterranei, dove abitualmente rimanevano fino a notte inoltrata. I corpi bianchicci e molli spuntavano dai loro gusci, con le antenne ben allungate. Inevitabilmente ne calpestò qualcuna, spiaccicandola, e nella sua mente passò come un lampo l'idea superstiziosa che un'entità cosmica lo avrebbe da un momento all'altro schiacciato sotto il tallone con pari insensibilità. Quando girò l'angolo sul vialetto di servizio fiancheggiato da un lato del garage e da una siepe di eugenia, si aspettò di vedere il sosia zoppicare verso l'ingresso della proprietà. Il vialetto di accesso era deserto. Il cancelletto in fondo era socchiuso. Le sirene erano molto più forti quando Marty scattò lungo il vialetto davanti alla casa. Sguazzò con un piede fino alla caviglia nel canale di scolo
sotto il marciapiede, pieno di un'acqua gelida come quello dello Stige, scese in strada, guardò a sinistra e a destra, ma le auto della polizia non erano ancora in vista. Nemmeno l'Altro si vedeva. Marty era solo in strada. All'altezza dell'isolato più a sud, troppo lontano perché potesse riconoscerne la marca e il modello, un'auto si allontanava a tutta velocità. Nonostante l'andatura eccessiva, soprattutto con quel tempo, Marty dubitò che fosse il suo sosia a guidarla. Gli era ancora troppo difficile credere che il ferito fosse in grado di camminare: più ancora che fosse riuscito a raggiungere la macchina e a partire così in fretta. Sicuramente lo avrebbero ritrovato negli immediati paraggi, nascosto sotto un cespuglio, privo di sensi o morto. L'auto svoltò l'angolo troppo in fretta: il lontano stridio di protesta dei copertoni superò il rumore della pioggia. E poi scomparve. Dall'altra direzione, l'urlo delle sirene si fece all'improvviso molto più forte, e Marty si girò in tempo per vedere un'auto bianconera della polizia uscire dalla curva quasi con la stessa velocità con cui l'altra macchina aveva svoltato l'angolo a sud. I lampeggiatori di emergenza rossi e azzurri lanciavano vividi lampi di luce attraverso la pioggia grigia sopra l'asfalto. La sirena tacque mentre l'auto si arrestava slittando a pochi metri da Marty nel centro della strada, con una scena da film d'azione che gli parve eccessiva perfino in quelle circostanze. La sirena di un'auto di appoggio riecheggiò in lontananza mentre le portiere anteriori della prima macchina si spalancavano. Due agenti in uniforme ne discesero tenendosi bassi, facendosi scudo degli sportelli, gridando: «Butta via la pistola! Subito! Buttala! Buttala immediatamente o ti ammazzo, stronzo! Subito!» Marty si rese conto che aveva ancora in pugno la Smith & Wesson. I poliziotti non sapevano niente di più di quanto Paige aveva detto al 911, che avevano sparato a un uomo, per cui immaginavano ovviamente che fosse lui il criminale. Se non avesse fatto per filo e per segno quello che gli ordinavano, e in fretta, gli avrebbero sparato, e sarebbero stati pienamente giustificati. Lasciò cadere la pistola. L'arma colpì rumorosamente il marciapiede. Gli ordinarono di allontanarla con un calcio. Lui eseguì. Mentre uscivano dal riparo delle portiere, uno dei poliziotti gridò: «A terra, faccia in giù, mani dietro la schiena!» Sapeva che non era il caso di tentare di spiegare che lui era la vittima e
non l'aggressore. Prima volevano l'obbedienza, poi le spiegazioni, e se lui si fosse trovato al loro posto non si sarebbe comportato diversamente. Si mise in ginocchio, appoggiò le mani a terra e si allungò sulla strada. Anche attraverso la camicia, l'asfalto bagnato era così freddo che gli tolse il fiato. La casa di Vic e Kathy Delorio era dall'altra parte della strada, proprio di fronte al punto in cui lui si trovava disteso a terra, e Marty si augurò che Charlotte ed Emily fossero state tenute lontane dalle finestre. Non dovevano vedere il padre preso di mira dai poliziotti. Erano già abbastanza spaventate. Ricordò i loro occhi sbarrati quando era entrato di corsa in cucina con la pistola in mano, e non voleva che si atterrissero ancora di più. Il freddo gli attanagliava le ossa. A un tratto il suono della seconda sirena cominciò a farsi più forte da un secondo all'altro. Immaginò che l'auto di appoggio avesse appena svoltato l'angolo e si stesse avvicinando dall'estremità dell'isolato. L'urlo penetrante era gelido come un ghiacciolo acuminato che gli entrasse in un orecchio. Con un lato della faccia a terra, battendo le palpebre per togliersi l'acqua dagli occhi, vide i poliziotti che si avvicinavano. Continuavano a puntargli addosso le pistole. Quando uno dei due mise un piede in una pozzanghera, a Marty sembrò che gli spruzzi fossero onde altissime. Quando gli uomini lo raggiunsero, disse: «Tutto a posto. Io abito qui. Quella è casa mia». La sua voce, già roca, era distorta ancora di più dai brividi che lo squassavano. Temette che lo prendessero per un ubriaco, per un demente. «Quella è casa mia.» «Sta' giù», gli intimò bruscamente uno dei due. «Tieni le mani dietro la schiena e resta disteso.» «Hai un documento?» domandò l'altro. «Sì, certo, nel portafoglio», rispose lui battendo i denti per i brividi. Non volendo correre rischi, lo ammanettarono prima di prendergli il portafoglio dalla tasca posteriore dei calzoni. Le manette d'acciaio erano ancora tiepide dell'aria riscaldata dell'autopattuglia. Gli sembrava di essere un personaggio di uno dei suoi romanzi. E decisamente non era una bella sensazione. La seconda sirena tacque. Si sentirono sbattere due portiere. Udì il crepitio e le voci metalliche della ricetrasmittente di bordo. «Hai un documento con una foto?» chiese il poliziotto che gli aveva preso il portafoglio. Marty torse l'occhio sinistro, cercando di vedere dell'uomo qualcosa al di
sopra del ginocchio. «Sì, certo, in uno dei comparti di plastica, la patente.» Nei suoi libri, quando un personaggio era sospettato di un delitto che non aveva commesso, spesso era spaventato e angosciato. Ma Marty non aveva mai scritto dell'umiliazione di un'esperienza del genere. Sdraiato sull'asfalto gelido, prono davanti agli agenti, si sentiva mortificato quanto non lo era mai stato in vita sua, pur non avendo fatto niente di male. La situazione stessa, trovarsi in una posizione di sottomissione totale, guardato con il massimo sospetto da rappresentanti dell'autorità, sembrava scatenare una sorta di innato senso di colpa, una sensazione congenita di responsabilità per qualche mostruosa trasgressione impossibile da individuare chiaramente, la vergogna per qualcosa che adesso sarebbe saltata fuori, benché lui sapesse benissimo che non c'era nulla che gli si potesse imputare. «Quanti anni ha questa foto sulla patente?» chiese il poliziotto che aveva il portafoglio. «Mah, non saprei, due, tre anni.» «Non ti assomiglia mica tanto.» «Ma lo sapete come sono le fototessera», mormorò Marty, sgomento nel sentire nella propria voce un tono più di supplica che di collera. «Tiratelo su, non ha fatto niente, è mio marito, è Marty Stillwater», gridò Paige, che stava evidentemente arrivando di corsa dalla casa dei Delorio. Marty non poteva vederla, ma la sua voce lo consolò e restituì un senso di realtà a quel momento da incubo. Si disse che sarebbe andato tutto bene. I poliziotti avrebbero riconosciuto il loro errore, lo avrebbero aiutato ad alzarsi, avrebbero frugato i cespugli attorno alla casa e nei giardini dei vicini, avrebbero trovato il sosia e sarebbero arrivati a una spiegazione per tutti gli avvenimenti incomprensibili dell'ultima ora. «È mio marito», ripeté Paige, molto più vicina, e Marty sentì che i poliziotti si voltavano a guardarla. Era una benedizione disporre di una moglie attraente a cui valesse la pena dare un'occhiata anche se inzuppati fino al midollo e distrutti: non era solo attraente ma anche intelligente, affascinante, simpatica, affettuosa, unica. Le sue figlie erano delle gran bambine. Lui aveva una splendida carriera di romanziere, e amava profondamente il suo lavoro. Niente sarebbe riuscito a modificare anche solo minimamente quello stato di cose. Niente. Eppure, mentre i poliziotti gli toglievano le manette e lo aiutavano a mettersi in piedi, mentre Paige lo abbracciava e lui la stringeva pieno di
gratitudine, Marty avvertiva con precisione e con inquietudine che il crepuscolo stava cedendo il posto alla notte. Guardò al di sopra della spalla, frugando con lo sguardo innumerevoli punti bui lungo la strada, chiedendosi da quale nido di tenebra sarebbe arrivato il prossimo attacco. La pioggia era così fredda da sembrare nevischio, i lampeggiatori di emergenza gli ferivano gli occhi, la gola gli bruciava come se avesse fatto i gargarismi con l'acido, il corpo gli faceva male in una ventina di punti per tutto quello che aveva subito, e l'istinto gli diceva che il peggio doveva ancora venire. No. Non era l'istinto a parlare. Era solo la sua immaginazione iperattiva all'opera. La maledetta fantasia dello scrittore. Sempre alla ricerca della prossima svolta nella trama. La vita non era come i romanzi. Le storie vere non avevano secondi e terzi atti, strutture precise, ritmo narrativo, risoluzioni in crescendo. Le assurdità succedevano e basta, senza la logica della narrativa, dopo di che la vita riprendeva a scorrere come al solito. I poliziotti lo guardarono mentre abbracciava Paige. Gli parve di cogliere dell'ostilità sui loro volti. Un'altra sirena si levò in lontananza. Aveva tanto freddo. 3 1 Il paesaggio notturno dell'Oklahoma metteva a disagio Drew Oslett. Un chilometro dopo l'altro, su tutti e due i lati dell'interstatale, con rare eccezioni, il buio era così fitto e continuo che l'impressione era di attraversare su un ponte un immenso abisso senza fondo. Migliaia di stelle punteggiavano il cielo, suggerendo un'immensità a cui lui preferiva non pensare. Lui era una creatura di città, la sua anima era in sintonia con il frastuono urbano. Un ampio viale fiancheggiato da alti edifici era il massimo dello spazio aperto con cui si sentisse perfettamente a suo agio. Aveva vissuto per molti anni a New York, ma non aveva mai visitato il Central Park: quei prati e quei boschetti erano sì circondati dalla città, ma Oslett li trovava sufficientemente vasti e bucolici da farlo sentire sulle spine. Era nel suo elemento soltanto quando si trovava sotto la protezione di una foresta di grattacieli, dove i marciapiedi brulicavano di passanti e le
vie erano intasate di auto strombazzanti. Nel suo appartamento di Manhattan, dormiva senza tendine alle finestre, lasciando che la luce ambiente della metropoli inondasse la stanza. Quando si svegliava di notte, provava un senso di sicurezza nel sentire le intermittenti sirene d'allarme, i clacson, le grida degli ubriachi, i tombini sferraglianti sotto le ruote delle auto, e altri rumori meno consueti che si levavano dalle strade anche nel cuore della notte, sia pure a volume ridotto rispetto al glorioso assordante frastuono di mattino, pomeriggio e sera. La ininterrotta cacofonia e le infinite distrazioni della città costituivano la seta del suo bozzolo, lo proteggevano, gli assicuravano che non si sarebbe mai trovato nelle silenziose circostanze che incoraggiano la contemplazione e l'introspezione. Buio e silenzio non offrivano distrazioni, ed erano quindi nemici del godimento di chi si accontenta. L'Oklahoma rurale offriva una dannata sovrabbondanza di entrambi: buio e silenzio. Leggermente sprofondato nel sedile del passeggero della Chevrolet presa a nolo, Drew Oslett spostò l'attenzione dall'inquietante paesaggio alla mappa elettronica, gioiello della tecnologia, che aveva in grembo. L'apparecchio aveva le dimensioni di una piccola ventiquattrore, ma era quadrato anziché rettangolare, e funzionava collegato alla rete elettrica dell'auto con un cavo inserito nella presa per l'accendisigari. Il coperchio, piatto, sembrava la parte anteriore di un apparecchio televisivo: uno schermo circondato da una cornicetta di acciaio satinato e una fila di manopole di comando. Su uno sfondo luminoso verde chiaro, le autostrade interstatali erano indicate da un colore smeraldo, le strade statali in giallo e le strade di contea in azzurro; gli sterrati e i sentieri erano contrassegnati da un tratteggio in nero. I centri abitati, ben pochi in quella parte del mondo, erano color rosa. La loro vettura era un puntino rosso di luce verso il centro dello schermo. Il puntino si muoveva con andatura regolare lungo la linea verde smeraldo che rappresentava l'Interstatale 40. «Da qui quasi sette chilometri ancora», annunciò Oslett. Karl Clocker, il conducente, non rispose. Anche nei suoi momenti migliori, Clocker non era un gran conversatore. Un sasso, mediamente, era più loquace. Lo schermo quadrato della mappa elettronica, impostato su una scala di medio raggio, mostrava cento chilometri quadrati di territorio su un reticolo che scandiva le decine di chilometri. Oslett toccò un pulsante e la mappa scomparve lampeggiando, sostituita quasi istantaneamente da un quadro di
venticinque chilometri quadrati, cinque chilometri per lato, che ingrandiva uno dei quadranti dell'immagine precedente facendogli riempire tutto lo schermo. Il punto rosso che rappresentava la loro auto ora era quattro volte più grande. Non era più nel mezzo dell'immagine, ma spostato sulla destra. Verso il margine sinistro del visore, a meno di quattro miglia, una X bianca lampeggiante rimaneva stazionaria a un centimetro a destra dell'Interstatale 40. La X contrassegnava la preda. A Oslett piaceva lavorare con la mappa perché lo schermo era tutto colorato, come la scena di un videogame di qualità. I videogame gli piacevano moltissimo. Anzi, benché avesse già trentadue anni, tra i suoi locali preferiti c'erano le sale-gioco, dove file e file di apparecchi richiamavano l'occhio ipnotizzandolo con luci stroboscopiche di ogni colore e accarezzavano l'orecchio con incessanti ronzii, sibili, squittii, sirene, waw-waw, tonfi, frasi musicali e oscillanti suoni elettronici. Purtroppo, la mappa non aveva i movimenti vivi di un videogame. E mancava anche di effetti sonori. Ma lo eccitava lo stesso perché non era da tutti mettere le mani su quel giochetto, che si chiamava SATU: Satellite Assisted Tracking Unit. Non era in vendita al pubblico, in parte perché aveva un costo talmente esorbitante che i potenziali acquirenti sarebbero stati troppo pochi per giustificarne un'ampia commercializzazione. Inoltre, parte della tecnologia era coperta da rigorosi divieti di diffusione per motivi di sicurezza nazionale. E poiché la mappa era in primo luogo uno strumento per eseguire importanti operazioni di sorveglianza clandestina, la quasi totalità del numero relativamente ridotto di apparecchi esistenti era attualmente usata da enti di polizia e di raccolta informazioni controllati a livello federale, o era nelle mani di organismi analoghi in paesi alleati degli Stati Uniti. «Cinque chilometri», disse a Clocker. L'autista non rispose neppure con un grugnito. Dal SATU usciva un altro cavetto, oltre a quello dell'alimentazione, che terminava in una ventosa dal diametro di sette o otto centimetri, che Oslett aveva fissato al punto più alto del parabrezza ricurvo. Un congegno elettronico microminiaturizzato alla base della ventosa costituiva la ricetrasmittente del contatto via satellite. Grazie a impulsi di microonde in codice il SATU poteva interfacciarsi rapidamente con decine di satelliti geosincroni per comunicazione e sorveglianza, di proprietà dell'industria privata
e di vari corpi militari, scavalcarne i sistemi di sicurezza, inserire il suo programma nelle loro unità logiche, e utilizzarli per il proprio uso senza disturbare le loro funzioni primarie né avvertire dell'invasione i loro controllori a terra. Usando due satelliti per la ricerca (e l'aggancio) del segnale di una particolare emittente, il SATU era in grado di eseguire la triangolazione della posizione precisa di chi portava con sé l'emittente. Di solito il trasmittente bersaglio era un pacchettino che passava inosservato piazzato sotto l'auto, o a volte un aereo o una barca, del soggetto da sorvegliare, così da poterlo seguire a distanza senza che questi si accorgesse di essere pedinato. In questo caso, l'emittente era stata nascosta nel tacco di gomma di una scarpa. Oslett usò i comandi del SATU per ridurre della metà l'area rappresentata sullo schermo, ingrandendo fortemente i particolari della mappa. Studiando la nuova configurazione, ugualmente colorita, disse: «Non si muove ancora. Forse si è spostato sul margine della strada e si è fermato a riposare». I microchip del SATU contenevano mappe particolareggiate di ogni chilometro quadrato degli Stati Uniti, del Canada e del Messico. Se Oslett si fosse trovato a operare in Europa, in Medio Oriente o altrove, avrebbe potuto installare la libreria elettronica adeguata al territorio. «Quattro chilometri», annunciò Oslett. Continuando a reggere il volante con la sinistra, Clocker infilò l'altra mano sotto la giacca e tolse il revolver dalla fondina ascellare. Era una Colt .357 Magnum, un'arma singolare, e alquanto datata, per un uomo che lavorava nel settore di Karl Clocker. A lui piacevano anche le giacche di tweed con i bottoni ricoperti di pelle, le toppe di camoscio ai gomiti e talvolta, come in quell'occasione, il bavero di pelle. Aveva un'incredibile collezione di gilet in tessuti dalle vivaci fantasie. Le sue calze, dai vividi colori, erano scelte di solito in contrasto con il resto dell'abbigliamento, e le sue scarpe erano immancabilmente di camoscio marrone. Considerando la corporatura e l'atteggiamento dell'uomo, era ben difficile che qualcuno facesse obiezioni sul suo gusto nel vestire, e men che meno che avanzasse commenti non richiesti sulle sue scelte in fatto di armi da fuoco. «Non ci servirà una grande potenza di fuoco», osservò Oslett. Senza una parola di risposta a Oslett, Clocker depose la .357 Magnum sul sedile accanto a sé, vicino al cappello, dove poteva raggiungerla facilmente.
«Ho quella dei tranquillanti», aggiunse Oslett. «Dovrebbe bastare.» Clocker non lo guardò neppure. 2 Prima di accettare di togliersi dalla strada battuta dalla pioggia e di raccontare alle autorità quello che era successo, Marty pretese che fosse messo un agente a tener d'occhio Charlotte ed Emily dai Delorio. Era certo che Vic e Kathy avrebbero fatto tutto il necessario per proteggere le bambine. Ma non sarebbero stati una difesa sufficiente contro l'implacabile ferocia dell'Altro. Non era neppure tanto sicuro che una guardia armata di tutto punto potesse costituire una protezione adeguata. Davanti alla veranda dei Delorio la pioggia si riversava fitta dalla pensilina. Alla luce delle lanterne d'ottone sembrava fatta di stelle filanti. Riparandosi lì sotto, Marty cercò di far capire a Vic che le bambine erano ancora in pericolo. «Non far entrare nessuno in casa, tranne i poliziotti e Paige.» «Sta' tranquillo, Marty.» Vic era un insegnante di educazione fisica, istruttore della squadra di nuoto del liceo locale, capo dei boy scout, uno dei principali attivisti del programma di volontariato civile di sorveglianza strade del quartiere, e organizzatore di varie collette di beneficenza: un tipo energico e cordiale che amava aiutare la gente e che portava le scarpe da ginnastica anche nelle occasioni in cui era in giacca e cravatta, come se temesse che delle calzature più formali non gli avrebbe permesso di muoversi con la necessaria velocità e portare a compimento tutto ciò che aveva in mente. «Nessuno tranne i poliziotti e Paige. Lascia fare a me, le ragazze staranno al sicuro con me e Kathy. Gesù, Marty, ma che cosa è successo lì da te?» «E, per l'amor di Dio, non dare le bambine a nessuno, poliziotti o altri, se non c'è Paige con loro. Non darle nemmeno a me se non c'è Paige.» Vic Delorio distolse lo sguardo dalle attività dei poliziotti e spalancò gli occhi per la sorpresa. Mentalmente, Marty sentiva ancora la voce rabbiosa del suo sosia, vedeva gli spruzzi di saliva che accompagnavano le parole: Voglio la mia vita, la mia Paige... la mia Charlotte, la mia Emily... «Hai capito, Vic?» «Nemmeno a te?» «Solo se con me c'è Paige. Solo in quel caso.»
«Ma che...» «Ti spiego dopo», lo interruppe Marty. «Mi stanno aspettando.» Si voltò e si avviò a passo svelto verso la strada lungo il vialetto, girandosi una volta a ripetere: «Solo Paige». ...La mia Paige... la mia Charlotte, la mia Emily... A casa, in cucina, mentre riferiva dell'aggressione all'agente che aveva raccolto la chiamata e che per primo era arrivato sul posto, Marty lasciò che un tecnico della polizia gli inchiostrasse i polpastrelli e glieli premesse su un modulo. Dovevano avere un mezzo per distinguere le sue impronte da quelle dell'intruso. Si chiese se lui e l'Altro si sarebbero rivelati identici anche in quel particolare come a quanto pareva lo erano in tutto il resto. Anche Paige si sottomise all'operazione. Era la prima volta che capitava loro di farsi prendere le impronte digitali. Marty comprendeva che era una cosa indispensabile, ma ciononostante non poté fare a meno di vederla come un'intrusione. Quando ebbe avuto quel che voleva, il tecnico inumidì una salvietta con un liquido e disse che con quello tutto l'inchiostro sarebbe andato via dalle dita. Non andò via. Per quanto strofinasse, nelle pieghe della pelle rimanevano macchie scure. Prima di sedersi per rilasciare una dichiarazione più completa al poliziotto responsabile, Marty andò di sopra a mettersi dei vestiti asciutti. Prese anche quattro compresse di Anacin. Alzò il termostato, e in breve la casa si surriscaldò. Ma di tanto in tanto continuava ad avvertire brividi improvvisi, in buona parte per la presenza snervante di tanti poliziotti. Erano dappertutto. Alcuni di loro erano in divisa, altri no, e tutti erano degli estranei la cui presenza dava a Marty l'impressione di essere ulteriormente violentato. Non aveva previsto che l'intimità di una vittima potesse essere devastata così completamente a partire dal momento in cui denunciava un grave crimine. Poliziotti e tecnici invasero il suo studio per fotografare la stanza in cui aveva avuto inizio lo scontro, estrassero un paio di proiettili dalla parete, raccolsero impronte digitali e campioni di sangue dal tappeto. Stavano facendo fotografie anche nel corridoio del piano di sopra, lungo le scale, nell'ingresso. Alla ricerca di qualche prova che l'aggressore potesse aver lasciato, sembravano convinti di aver ricevuto l'invito a frugare in tutte le stanze, in tutti gli angoli. Certo, se si trovavano in casa sua, c'erano per aiutarlo, e Marty era grato
dei loro sforzi. Ma era imbarazzante pensare che degli estranei potessero notare il modo ossessivo in cui sistemava i suoi abiti nel guardaroba in base al colore, come faceva anche Emily, o il fatto che raccogliesse penny e nichelini in un barattolo di vetro come farebbe un ragazzine che mette da parte i risparmi per la sua prima bicicletta, e altri particolari privi di importanza ma molto personali della sua vita. E il detective in borghese responsabile delle indagini lo turbava più di tutti gli altri messi insieme. Si chiamava Cyrus Lowbock, e suscitava una reazione complessa che andava al di là del semplice imbarazzo. Il detective avrebbe potuto tranquillamente guadagnarsi da vivere facendo il fotomodello per le pubblicità di Rolls-Royce, smoking, caviale, servizi finanziari. Era sulla cinquantina, corporatura asciutta, capelli pepe e sale, abbronzato perfino a novembre, naso aquilino, zigomi alti, e due straordinari occhi grigi. Con i suoi mocassini neri, calzoni grigi, maglione blu e camicia bianca (si era appena tolto una giacca a vento) Lowbock riusciva ad apparire al tempo stesso elegante e atletico, anche se gli sport che veniva in mente di associargli non erano il football o il baseball ma il tennis, la vela, la motonautica d'altura e altre attività tipiche delle classi più elevate. Più che all'immagine popolare del poliziotto faceva pensare a un uomo nato nella ricchezza e capace di maneggiarla e conservarla. Lowbock, seduto al tavolo da pranzo di fronte a Marty, ascoltava attentamente il suo racconto dell'aggressione, interrompendolo di tanto in tanto per chiedergli chiarimenti sull'uno o l'altro particolare, e scrivendo su un taccuino con una preziosa Montblanc nera e oro. Paige sedeva al fianco di Marty, per offrirgli un sostegno emotivo. Erano le sole tre persone presenti nella stanza da pranzo, anche se periodicamente entravano agenti in divisa interrompendoli per conferire con Lowbock, e due volte il detective si allontanò per esaminare determinate prove ritenute importanti. Sorseggiando una Pepsi da un boccale di ceramica, rinfrescandosi la gola mentre ricapitolava lo scontro mortale con l'intruso, Marty sentì anche rinascere quell'inesplicabile senso di colpa che aveva avvertito per la prima volta quando lo avevano tenuto ammanettato sull'asfalto bagnato. La sensazione non era meno irrazionale di quella di prima, considerando che il delitto più grave di cui lo si potesse giustamente accusare era un abituale disprezzo, su determinate strade, per i limiti di velocità. Ma questa volta capiva che all'origine del suo disagio c'era il modo in cui il tenente Cyrus Lowbock lo guardava, con una sorta di muto sospetto. Lowbock era educato, ma non diceva molto. Il suo silenzio era vaga-
mente accusatorio. Quando non prendeva appunti, i suoi occhi grigio zinco si appuntavano implacabilmente, con aria di sfida, su Marty. Perché mai il detective dovesse sospettarlo di non essere totalmente sincero non era chiaro. Marty però supponeva che dopo anni di attività di polizia, a contatto quotidiano con gli elementi peggiori della società, la tendenza fosse comprensibilmente allo scetticismo. Indipendentemente dalla promessa contenuta nella costituzione degli Stati Uniti, chi faceva quel lavoro da tempo immemorabile probabilmente sentiva giustificata la convinzione che ogni uomo, e ogni donna, fosse colpevole finché non veniva dimostrata la sua innocenza. Marty finì la sua storia e bevve un altro lungo sorso. Il liquido fresco aveva fatto quanto poteva per la sua gola irritata; quello che più gli dava fastidio adesso erano i tessuti del collo, dove la morsa delle mani aveva lasciato la pelle arrossata e dove sicuramente entro il mattino sarebbero apparsi vasti ematomi. Benché le quattro compresse di Anacin cominciassero a fare effetto, una fitta simile a una frustata gli provocava una smorfia di dolore ogni volta che cercava di girare la testa per più di qualche grado a destra o a sinistra. Aveva quindi adottato una posizione, e un modo di muoversi, tenendo il collo completamente rigido. Per un tempo che parve lunghissimo, Lowbock sfogliò i suoi appunti, riesaminandoli in silenzio, tamburellando piano con la stilografica sulle pagine. I rumori della pioggia continuavano a ravvivare la notte, anche se il temporale era diminuito d'intensità. Il pavimento del piano di sopra scricchiolava ogni tanto, sotto il peso dei poliziotti ancora al lavoro. Sotto il tavolo, la mano di Paige cercò quella di Marty, e lui la strinse come per dirle che ormai andava tutto bene. Ma non andava affatto tutto bene. Niente era stato spiegato né risolto. Per quello che ne sapeva lui, i loro problemi erano appena cominciati. La mia Paige... la mia Charlotte, la mia Emily... Finalmente Lowbock alzò lo sguardo su Marty. Con un tono di voce incolore, irritante proprio per l'assoluta mancanza di inflessioni interpretabili, il detective disse: «Che storia». «Lo so che sembra pazzesca.» Marty si trattenne dall'assicurare Lowbock che non aveva esagerato il grado di rassomiglianza tra lui e il sosia, né alcun altro aspetto del proprio racconto. Aveva detto la verità. Non doveva scusarsi perché la verità, in quel caso, era più incredibile che se fosse
stata inventata. «E lei dice di non avere un gemello?» chiese Lowbock. «No, signore.» «Non ha fratelli?» «Sono figlio unico.» «Fratellastri?» «I miei si sposarono a diciotto anni. Nessuno dei due era mai stato sposato prima. Le assicuro, tenente, non c'è una spiegazione plausibile.» «Be', ovviamente un altro matrimonio non è indispensabile perché lei abbia un fratellastro... o anche un fratello», disse Lowbock, fissando Marty con uno sguardo così diretto che distogliere gli occhi sarebbe equivalso ad ammettere qualcosa. Mentre Marty assimilava l'affermazione del detective, Paige gli strinse la mano sotto il tavolo, in un gesto che lo ammoniva tacitamente a non farsi intimidire da Lowbock. Cercò di dirsi che il detective stava solo constatando un dato di fatto, ed era così, ma sarebbe stato più corretto portare lo sguardo sul taccuino o verso la finestra nel proporre un'implicazione del genere. Marty rispose, con la stessa rigidezza con cui teneva la testa: «Vediamo... immagino che le alternative siano tre. Primo, mio padre può avere inguaiato mia madre prima che si sposassero, e questo fratello, questo fratello bastardo, sarebbe stato dato in adozione. Oppure dopo che i miei si sono sposati, papà ha messo incinta qualcun'altra, e così sarebbe nato un fratellastro. Terzo, mia madre si è fatta mettere incinta da un altro, prima o dopo aver sposato mio padre, e questa gravidanza è rimasta un profondo, oscuro segreto di famiglia». Lowbock non interruppe il contatto di sguardo. «Mi dispiace se l'ho offesa, signor Stillwater.» «Dispiace anche a me.» «Non sarà un po' ipersensibile sull'argomento?» «Le sembra?» chiese seccamente Marty, pur domandandosi se non stesse reagendo davvero in maniera eccessiva. «Ci sono coppie che hanno un figlio prima di essere pronte a legarsi», proseguì il detective. «E poi spesso lo danno in adozione.» «I miei no.» «Lo sa per certo?» «Li conosco.» «Forse potrebbe chiederglielo.»
«Forse lo farò.» «Quando?» «Devo pensarci.» Un sorriso appena accennato e rapido come l'ombra fugace di un uccello in volo attraversò il viso di Lowbock. Marty era sicuro che ci fosse del sarcasmo in quel sorriso. Ma, parola d'onore, non riusciva a capire perché mai il detective dovesse vederlo come qualcosa di diverso da una vittima innocente. Lowbock guardò gli appunti, aprendo una lunga parentesi di silenzio. Poi riprese: «Se è vero che questo sosia non ha rapporti di parentela con lei, fratello o fratellastro che sia, lei ha idea di come si spiega una somiglianza così sorprendente?» Marty fece per scuotere la testa, e strinse i denti allo scoccare della fitta di dolore lungo il collo. «No. Nemmeno la minima idea.» «Vuoi dell'aspirina?» gli domandò Paige. «Ho preso dell'Anacin», rispose Marty. «Adesso mi passa.» Lowbock tornò a fissare Marty negli occhi. «Pensavo che magari si fosse fatto una teoria.» «No. Mi dispiace.» «Visto che fa lo scrittore.» Marty non capì che cosa intendesse dire. «Prego?» «Lei usa la sua immaginazione tutti i giorni, si guadagna da vivere così.» «E quindi?» «E quindi pensavo che magari potrebbe risolvere questo piccolo mistero, se ci si applicasse.» «Io non faccio il poliziotto. Sono abbastanza bravo a costruire misteri, non a scioglierli.» «Alla televisione», replicò Lobock, «qualsiasi giallista, anzi qualsiasi investigatore dilettante, è sempre più in gamba dei poliziotti.» «Nella vita reale non è così», rispose Marty. Lowbock lasciò scorrere qualche secondo di silenzio, scarabocchiando sul fondo di una pagina del taccuino, prima di rispondere: «No, non è così». «Io non confondo la fantasia con la realtà», ribadì Marty, un po' troppo duramente. «Non lo pensavo affatto», assicurò Cyrus Lowbock, concentrandosi sul suo scarabocchio. Marty voltò la testa con cautela per vedere se anche Paige sembrava co-
gliere un'ostilità nel tono e nell'atteggiamento del detective. Lei stava squadrando accigliata Lowbrock, e questo fece sentire meglio Marty; forse a conti fatti la sua non era una reazione esagerata, e non aveva bisogno di aggiungere la paranoia alla lista dei sintomi che aveva esposto a Paul Guthridge. Confortato dall'espressione contrariata di Paige, Marty tornò a rivolgersi a Lowbock. «Che cosa c'è, tenente, qualcosa non va?» Sollevando le sopracciglia come se la domanda lo sorprendesse, Lowbock rispose, in tono malizioso: «La mia impressione è che c'è di sicuro qualcosa che non va, altrimenti non ci avrebbe chiamati». Marty trattenne a stento la risposta caustica che Lowbock meritava. «Voglio dire, avverto una certa ostilità in lei, e non ne comprendo la ragione. Qual è la ragione?» «Ostilità? Davvero?» Senza alzare lo sguardo dal suo disegnino, Lowbock aggrottò la fronte. «Be', non vorrei mai che la vittima di un crimine si sentisse intimidita da noi come dal criminale che lo ha aggredito. Non sarebbe quello che si chiama un buon rapporto con il pubblico, le pare?» In questo modo, evitava di rispondere esplicitamente alla domanda che gli aveva fatto Marty. Il disegno era finito. Rappresentava una pistola. «Signor Stillwater, la pistola con cui ha sparato all'intruso... era la stessa arma che le è stata tolta in strada?» «Non mi è stata tolta. L'ho lasciata cadere volontariamente quando mi è stato intimato. Comunque, sì, era la stessa arma.» «Una Smith & Wesson nove millimetri?» «Sì.» «L'ha acquistata da un rivenditore autorizzato?» «Certo, naturalmente.» Marty gli disse il nome del negoziante. «Ha una ricevuta del negozio e la documentazione dell'ente di polizia preposto?» «Che cosa c'entra questo con quello che è successo qui oggi?» «È la procedura. Più tardi dovrò riempire tutte le caselle del formulario del rapporto. Semplice procedura.» A Marty non piaceva affatto il modo in cui il colloquio sembrava trasformarsi sempre più in un interrogatorio, ma non sapeva che cosa farci. Frustrato, guardò Paige per avere la risposta alla richiesta di Lowbock, visto che era lei a tenere i documenti contabili da passare al commercialista. Paige rispose: «Tutta la documentazione dell'armeria si trova raccolta
con le ricevute di quell'anno». «L'abbiamo comprata tre anni fa, credo», aggiunse Marty. «Tra la roba imballata nel soppalco del garage», precisò Paige. «Ma può farmela avere?» chiese Lowbock. «Be', sì... scavando un po'», rispose Paige e fece per alzarsi. «Oh, non è il caso che si disturbi in questo momento», la fermò Lowbock. «Non è urgente.» Tornò a rivolgersi a Marty: «E la Korth trentotto nel portaoggetti della Taunus? L'ha comprata nello stesso negozio?» Sorpreso, Marty rispose: «Che cosa siete andati a fare nella Taunus?» Lowbock finse sorpresa alla domanda di Marty, ma l'espressione sembrava calcolata per apparire falsa, per stuzzicare Marty facendogli il verso. «Nella Taunus? A investigare per il caso. È quello che ci è stato chiesto di fare, no? Voglio dire, se ci sono dei luoghi, dei settori in cui preferisce che non guardiamo ce lo dica pure, perché ovviamente in questo caso rispetteremo i suoi desideri». Il detective era così sottile nella sua ironia, così vago nelle sue insinuazioni che qualsiasi reazione forte da parte di Marty sarebbe apparsa la reazione di chi ha qualcosa da nascondere. Era chiaro che Lowbock era convinto che lui avesse davvero qualcosa da nascondere, e stava giocando con lui cercando di spingerlo a qualche ammissione involontaria. Marty desiderò quasi di avere qualche ammissione da fare. Così come lo stavano conducendo, quel gioco era incredibilmente frustrante. «La trentotto l'ha comprata nello stesso negozio in cui ha acquistato la Smith & Wesson?» insisté Lowbock. «Sì.» Marty bevve un sorso di Pepsi. «Ha i documenti anche per quella?» «Sì, sicuramente.» «Porta sempre in macchina quella pistola?» «No.» «Oggi c'era.» Marty sentiva che Paige lo stava guardando un po' sorpresa. Proprio in quel momento non avrebbe potuto spiegarle il suo attacco di panico né raccontarle della strana sensazione che l'aveva preceduto, l'impressione che un mostro infuriato stesse per piombargli addosso, e che lo aveva spinto a prendere qualche precauzione straordinaria. Considerando la piega imprevista e tutt'altro che benevola che aveva assunto l'interrogatorio, quella non era un'informazione che desiderava mettere a conoscenza del detective, nel timore di apparire uno squilibrato, e di ritrovarsi in-
volontariamente spedito a fare un esame psichiatrico. Marty bevve ancora della Pepsi, non per addolcirsi la gola ma per guadagnare un po' di tempo per pensare prima di rispondere a Lowbock. «Non sapevo che fosse lì», disse infine. «Lei non sapeva che la pistola si trovasse nel cassetto del cruscotto?» ripeté Lowbock. «No.» «È al corrente del fatto che portare un'arma carica in auto è illegale?» Ma voialtri poliziotti che diavolo credevate di fare, ficcando il naso nella mia macchina? «Come le ho detto, non sapevo che fosse lì, per cui ovviamente non sapevo neppure che fosse carica.» «Non l'ha caricata lei?» «Be', probabilmente sì.» «Vuol dire che non ricorda se l'ha caricata o come sia finita nella Taunus?» «Potrebbe essere successo... che l'ultima volta che sono andato al poligono, forse l'ho caricata per un'ultima serie di bersagli e poi me ne sono dimenticato.» «E l'ha portata a casa dal poligono chiusa nel cruscotto?» «Esattamente.» «Quand'è stata l'ultima volta che è andato a sparare?» «Non lo so... tre, quattro settimane fa.» «Quindi se n'è andato in giro portandosi dietro un'arma carica per tutto un mese?» «Ma avevo dimenticato dove fosse.» Una bugia, detta per evitare di spiegare il vero motivo per cui la pistola era lì, aveva portato a tutta una catena di altre menzogne. Erano tutte bugie di poco conto, ma Marty aveva abbastanza rispetto per le capacità di Cyrus Lowbock da sapere che il detective le percepiva come affermazioni non vere. Visto che il poliziotto già sembrava immotivatamente convinto che quella che era con tutta evidenza la vittima dovesse invece essere vista come un sospettato, avrebbe ritenuto che ogni bugia fosse un'ulteriore prova del fatto che gli si nascondessero segreti inconfessabili. Inclinando leggermente la testa all'indietro, fissando Marty con uno sguardo distaccato ma accusatore, usando il suo atteggiamento di superiorità per intimidire ma mantenendo la voce controllata e priva di inflessioni significative, Lowbock disse: «Signor Stillwater, lei è sempre così impru-
dente con le armi da fuoco?» «Non mi sembra di essere stato imprudente.» Di nuovo il sopracciglio inarcato. «No?» «No.» Il detective impugnò la penna e scrisse rapidamente qualcosa sul taccuino. Poi si mise di nuovo a scarabocchiare. «Mi dica, signor Stillwater, lei ha il permesso di portare un'arma nascosta?» «No, naturalmente no.» «Ah.» Un altro sorso di Pepsi. Sotto la tavola, Paige gli cercò di nuovo la mano. Marty le fu grato per quel contatto. Il nuovo disegno stava prendendo forma. Un paio di manette. «Lei è un appassionato di armi, un collezionista?» domandò infine Lowbock. «No, non proprio.» «Ma ne ha un buon numero.» «Non direi.» Lowbock le enumerò sulle dita di una mano. «Dunque, la Smith & Wesson, la Korth... la carabina Colt M16 nel guardaroba dell'ingresso.» Oh, Cristo santo. Alzando gli occhi dalla mano, Lowbock puntò in quelli di Marty il suo sguardo freddo, intenso. «È al corrente che anche l'M16 era carico?» «Le armi le ho comperate tutte principalmente per motivi di ricerca, per i miei libri. Non mi piace scrivere di un'arma senza averla mai usata.» Era la verità, ma Marty stesso ne avvertì l'inconsistenza. «E le tiene cariche e disseminate in armadi e cassetti per tutta la casa?» Nessuna risposta sicura venne in soccorso di Marty. Se avesse detto che sapeva che la carabina era carica, Lowbock avrebbe voluto sapere perché mai qualcuno dovesse aver bisogno di tenere un'arma da guerra in un tale stato di pronto impiego in un quartiere residenziale così pacifico. Un M16 poteva essere adatto come arma di difesa casalinga solo, forse, vivendo a Beirut o a Kuwait City o a South Central Los Angeles. Se invece avesse affermato di non sapere che il fucile era carico, ci sarebbero state altre domande insidiose sulla sua imprudenza con le armi e più esplicite insinuazioni sul fatto che stesse mentendo. Inoltre, qualsiasi cosa avesse detto sarebbe sembrata insensata o fuorviante al massimo qualora avessero scovato anche il Mossberg infilato sot-
to il letto nella loro camera o la Beretta che aveva nascosto in un pensile della cucina. Cercando di non perdere la calma, rispose: «Che cosa hanno a che fare le mie armi con quello che è successo oggi? Mi sembra che stiamo uscendo dal seminato, tenente». «Le sembra?» chiese Lowbock, come se fosse sinceramente stupito dell'atteggiamento di Marty. «Sì, sembra proprio così», intervenne Paige seccamente, che evidentemente si era resa conto di trovarsi più di Marty in condizione di essere dura con il detective. «A sentir lei si direbbe che sia stato Marty a introdursi in casa di qualcuno e a cercare di strangolarlo.» «Ha fatto cercare nel vicinato?» aggiunse Marty. «Ha diramato un BS?» «Un BS?» Marty era irritato per l'intenzionale ottusità del detective. «Un Bollettino segnaletico per l'Altro.» Lowbock aggrottò la fronte. «Per il che cosa?» «Per il sosia, per l'altro me.» «Ah, sì, lui.» Non era una vera e propria risposta, ma Lowbock proseguì per la sua strada prima che Marty o Paige potessero insistere perché rispondesse in maniera più chiara. «La Heckler & Koch è un'altra delle armi che ha acquistato per documentarsi?» «Heckler & Koch?» «La P7. Usa munizioni da nove millimetri.» «Non posseggo nessuna P7.» «No? Be', ce n'era una sul pavimento del suo studio, al piano di sopra.» «Era la sua pistola», esclamò Marty. «Gliel'avevo detto che aveva una pistola.» «Sapeva che la canna di questa P7 ha la filettatura per il silenziatore?» «L'unica cosa che so è che aveva una pistola. Francamente non avevo né il tempo né l'agio per studiarmela e catalogare tutte le sue caratteristiche tecniche.» «Materialmente il silenziatore non c'era, ma la canna era predisposta. Signor Stillwater, lo sa che è illegale dotare di silenziatore un'arma da fuoco?» «Non è mia, tenente.» Marty cominciava a chiedersi se non fosse il caso di rifiutarsi di rispondere ad altre domande senza un avvocato. Ma era una cosa assurda. Lui non aveva fatto niente. Era innocente. Lui era la vittima, sant'Iddio. La po-
lizia non sarebbe nemmeno arrivata se lui non avesse detto a Paige di chiamarla. «Una Heckler & Koch P7 preparata per il silenziatore... è un'arma molto professionale, signor Stillwater. Un sicario, un assassino, come preferisce chiamarlo. Lei come lo chiamerebbe?» «Che cosa intende dire?» chiese Marty. «Be', mi chiedevo, se lei stesse scrivendo di un personaggio del genere, un professionista, come lo chiamerebbe?» Marty avvertì una tacita implicazione nella domanda, qualcosa che si avvicinava al cuore del percorso mentale che Lowbock stava portando avanti, ma che lui non riusciva a individuare. Anche Paige dovette avere la stessa impressione, perché domandò: «Esattamente, che cosa sta cercando di dire, tenente?» Ancora una volta, in maniera esasperante, Cyrus Lowbock si sottrasse al confronto diretto. Abbassò lo sguardo sul taccuino fingendo che nella sua domanda non ci fosse stato altro che una casuale curiosità sulle scelte lessicali di uno scrittore. «Comunque, è stato fortunato che un simile professionista, un uomo armato di una P7 filettata per il silenziatore, non sia riuscito ad avere la meglio su di lei.» «L'ho colto di sorpresa.» «Evidentemente.» «Con la pistola che avevo nel cassetto della scrivania.» «Essere preparati conviene sempre», commentò Lowbock. E subito dopo: «Ma è stato fortunato anche ad avere la meglio su di lui in un corpo a corpo. Un professionista come quello sarà stato sicuramente pratico di lotta, forse anche esperto di Tae Kwon Do o discipline analoghe, come succede sempre nei libri e nei film». «Era rallentato dalle due pallottole nel torace.» «Già, già, mi ricordo», annuì il tenente. «Avrebbero dovuto abbatterlo, un uomo comune.» «Ma lui era piuttosto vivo», disse Marty toccandosi la gola. Lowbock cambiò argomento con una repentinità che voleva sconcertare. «Signor Stillwater, questo pomeriggio aveva bevuto?» Marty non riuscì a nascondere l'irritazione. «Non riuscirà a spiegarlo così facilmente, tenente.» «Quindi non aveva bevuto?» «No.» «Proprio niente?»
«No.» «Non vorrei essere polemico, signor Stillwater, davvero, ma quando l'ho vista per la prima volta ho sentito che il suo alito sapeva di alcol. E in soggiorno c'è una lattina di Coors, a terra, e birra versata sul parquet.» «Ho bevuto un po' di birra dopo.» «Dopo che cosa?» «Dopo che è finita. Lui era steso sul pavimento dell'ingresso, con la schiena rotta. Almeno, io pensavo che fosse rotta.» «E così ha pensato che, dopo tutto quello sparare e quel lottare, una birra fresca era quello che ci voleva.» Paige squadrò con durezza il detective. «Lei sta facendo di tutto per far apparire grottesca la situazione...» «...e io vorrei proprio che lei si decidesse a spiegarmi, fuori dei denti, perché non mi crede», aggiunse Marty. «Non è che non le creda, signor Stillwater. Mi rendo conto che tutto ciò è assai frustrante, so che si sente bistrattato, è ancora scosso, è stanco. Ma io sto ancora assimilando, ascolto e assimilo. Questo è ciò che faccio. È il mio mestiere. E le assicuro che non mi sono formato né teorie né opinioni.» Marty era sicuro che non fosse vero. Lowbock aveva tutta una serie di opinioni già formate non appena lo aveva visto seduto al tavolo da pranzo. Dopo aver scolato le ultime gocce di Pepsi, Marty disse: «Avevo pensato di bere del latte, del succo d'arancia, avevo la gola che mi faceva male, era in fiamme. Inghiottire era uno strazio. Quando ho aperto il frigorifero, la birra mi è sembrata la scelta migliore, la cosa più rinfrescante». Lowbock si era messo di nuovo a disegnare con la sua Montblanc sull'angolo di un foglietto del taccuino. «Insomma ha bevuto quella sola lattina di Coors.» «Nemmeno tutta. Ne ho bevuta metà, forse due terzi. Quando ho visto che la gola andava meglio, sono tornato a vedere come stava l'Altro... il mio sosia. Avevo la birra con me. La sorpresa, quando ho visto che era scomparso mentre lo avevo lasciato lì mezzo morto, è stata tale che la lattina di Coors mi è sfuggita di mano.» Benché capovolto, Marty riusciva a vedere il disegno che stava tracciando il detective. Una bottiglia. Una bottiglia a collo lungo da birra. «Allora, diciamo mezza lattina di Coors», disse Lowbock. «Esatto.» «Forse due terzi.»
«Sì.» «Non di più.» «No.» «E le tre bottiglie di Corona vuote nella pattumiera sotto il lavandino della cucina?» 3 «Area di servizio, prossima uscita», lesse Drew Oslett. Poi disse a Clocker: «Vedi quel cartello?» Clocker non rispose. Oslett riportò l'attenzione sul SATU che aveva in grembo. «Ecco dov'è, ci siamo, magari è nel cesso che sta pisciando, o forse se ne sta steso sul sedile posteriore a fare un pisolino.» Stavano per entrare in azione contro un avversario imprevedibile e potentissimo, ma Clocker appariva imperturbabile. Anche quando era impegnato nella guida, sembrava perso in uno stato di meditazione. Il suo corpo da orso era rilassato quanto quello di un monaco tibetano immerso in un'estasi trascendentale. Le sue mani gigantesche posavano sul volante, con le tozze dita appena incurvate, mantenendo al minimo la presa. Oslett non sarebbe stato sorpreso se avesse saputo che quell'omone pilotava l'auto soprattutto con qualche arcano potere mentale. Nulla, nel viso largo e massiccio di Clocker, faceva pensare che conoscesse il significato della parola «tensione»: una fronte liscia come marmo levigato; nemmeno una ruga sulle guance; occhi color zaffiro vagamente luccicanti del riflesso delle luci del quadro dei comandi, puntati lontano, non solo sulla strada davanti a sé ma probabilmente al di là di questo mondo. La larga bocca era aperta quel tanto da accogliere un'ostia consacrata. Le sue labbra erano incurvate in un accenno di sorriso, ma sarebbe stato impossibile dire se a rallegrarlo fosse qualcosa che stava contemplando in un suo sogno spirituale o la prospettiva dell'imminente violenza. Karl Clocker aveva un grande talento per la violenza. Per questo motivo, nonostante il gusto nel vestire, era un uomo dei suoi tempi. «Ecco l'area di servizio», annunciò Oslett mentre si avvicinavano alla fine della strada d'accesso. «Dove altro dovrebbe essere?» fu la risposta di Clocker. «Eh?» «È lì dov'è.» L'omone non era un gran parlatore, e quando capitava che avesse qual-
cosa da dire, la metà delle volte si esprimeva in modo ermetico. Oslett sospettava che Clocker fosse un esistenzialista in incognito o, dall'altra parte dello spettro, un mistico New Age. Ma forse la verità era che l'uomo era così autocentrato da non avere troppo bisogno di contatti o interazioni con gli altri: i suoi pensieri e le sue osservazioni bastavano a impegnarlo e a intrattenerlo. Una cosa era sicura: Clocker non era stupido quanto sembrava; anzi, aveva un QI molto superiore alla media. Il parcheggio dell'area di servizio era illuminato da otto alti lampioni. Dopo tutti quei chilometri ininterrotti di buio in quella sorta di paesaggio postnucleare, l'umore di Oslett si sentì risollevato dal bagliore delle luci, pur essendo di un tetro giallo orina che ricordava la luce acida di un brutto sogno. In quel posto nessuno avrebbe mai creduto di trovarsi a Manhattan, ma almeno c'era la conferma che la civiltà esisteva ancora. Un grosso camper, l'unico veicolo in vista, era parcheggiato presso il fabbricato di blocchi di cemento che comprendeva i servizi. «Gli siamo addosso.» Oslett spense lo schermo del SATU e appoggiò l'apparecchio a terra. Staccata la ventosa dal parabrezza e lasciatala cadere sulla mappa elettronica, disse: «Nessun dubbio, il nostro Alfie è rintanato dentro quel carrozzone. Probabilmente lo ha portato via a qualche povero coglione, e ora sta tagliando la corda con tutte le comodità di una casa». Costeggiarono una zona erbosa con tre tavoli da picnic e si fermarono a cinque o sei metri dal Road King, dalla parte del conducente. Il camper era tutto buio. «Per quanto abbia deviato, il nostro Alfie», continuò Oslett, «sono sicuro che risponderà bene. Noi siamo tutto quello che ha, no? Senza di noi è solo al mondo. Diavolo, siamo la sua famiglia.» Clocker spense le luci e il motore. «Indipendentemente dalle condizioni in cui si trova», proseguì Oslett, «non credo che vorrà farci del male. Il vecchio Alfie. Potrebbe far fuori chiunque gli si metta tra i piedi, ma non noi. Che ne pensi?» Scendendo dalla Chevy, Clocker raccolse il cappello e la Colt .357 Magnum dal sedile anteriore. Oslett prese una torcia elettrica e la pistola con proiettili tranquillanti. La massiccia arma era dotata di due canne sovrapposte, ciascuna armata di una grossa cartuccia ipodermica. Il suo impiego era previsto nei giardini zoologici, e a più di una quindicina di metri il suo tiro non era preciso, ma tale distanza era più che sufficiente per lo scopo di Oslett, che non aveva intenzione di andare a caccia di leoni nella savana.
Oslett si ritenne fortunato che l'area di servizio non fosse affollata di viaggiatori. Sperava che lui e Clocker finissero il lavoro e ripartissero prima che dall'autostrada arrivasse qualche auto o qualche camion. Quando però scese dalla Chevy e richiuse senza far rumore la portiera, il vuoto della notte lo mise a disagio. Oltre al fruscio dei copertoni sull'asfalto e al sibilo dell'aria spostata dal traffico di passaggio sull'interstatale, il silenzio era opprimente come forse nel vuoto dello spazio. Un boschetto di alti pini si levava sullo sfondo del vasto parcheggio, e nel buio senza vento i loro pesanti rami pendevano come festoni di decorazioni funebri. Sentiva un bisogno quasi fisico del frastuono delle strade urbane, dove l'attività incessante offriva continue distrazioni. Il trambusto permetteva la fuga dalla contemplazione. Nella città, il bailamme della vita quotidiana gli permetteva di dirigere sempre, se voleva, l'attenzione verso l'esterno, mettendolo al sicuro dai rischi insiti nell'autoriflessione. Raggiungendo Clocker presso lo sportello del Road King, Oslett considerò l'idea di penetrare nel veicolo nel modo più furtivo possibile. Ma se dentro c'era Alfie, come la mappa elettronica del SATU indicava inequivocabilmente, si era probabilmente già accorto del loro arrivo. Inoltre, ai livelli cognitivi più profondi, Alfie era condizionato a rispondere a Drew Oslett con obbedienza assoluta. Era quasi inconcepibile che tentasse di fargli del male. Quasi. Avevano anche creduto che le probabilità che Alfie se la squagliasse fossero praticamente inesistenti. E avevano avuto torto. Il tempo poteva rivelare che si erano sbagliati anche in altre cose. Per questo Oslett aveva la pistola con proiettili tranquillanti. E per questo non aveva cercato di dissuadere Clocker dal portare la .357 Magnum. Preparandosi a ogni imprevisto, Oslett bussò alla porta metallica. In quelle circostanze, bussare sembrava un modo ridicolo di annunciarsi, ma lo fece ugualmente, aspettò qualche secondo e bussò di nuovo, più forte. Nessuna risposta. La porta non era chiusa a chiave. La aprì. La luce gialla del parcheggio che filtrava dal parabrezza bastava a illuminare la cabina del camper. Oslett poté vedere che non c'era nessun pericolo immediato. Mise il piede sul predellino, si sporse verso l'interno e guardò verso il fondo del Road King, che si perdeva in un buio fitto come i cubicoli di antiche catacombe.
«Sta' in pace, Alfie», disse sottovoce. Il comando avrebbe dovuto provocare l'immediata risposta rituale, come in una litania: Sono in pace, padre. «Sta' in pace, Alfie», ripeté Oslett, con minore speranza. Silenzio. Anche se Oslett non era né il padre di Alfie né un sacerdote, e quindi in nessun modo poteva legittimamente esigere quel titolo, il suo cuore avrebbe ugualmente gioito se avesse udito il bisbiglio dell'obbediente risposta: Sono in pace, padre. Quelle quattro semplici parole mormorate avrebbero significato che sostanzialmente andava tutto bene, che la deviazione di Alfie dalle sue istruzioni era, più che una ribellione, una temporanea confusione di scopi, e che la festa di morte in cui si era imbarcato era qualcosa che poteva essere dimenticata e lasciata alle spalle. Pur sapendo che era inutile. Oslett provò per la terza volta, alzando un po' la voce. «Sta' in pace, Alfie.» Visto che dal buio non gli rispondeva nessuno, accese la torcia e montò sul Road King. Non poté fare a meno di pensare allo spreco e all'umiliazione che avrebbe significato farsi ammazzare su un camper qualsiasi su un'interstatale nella vastità dell'Oklahoma alla tenera età di trentadue anni. Un giovanotto così in gamba, così promettente (avrebbero detto amici e parenti seguendo il feretro), con due lauree, una a Princeton e l'altra a Harvard, e un invidiabile pedigree. Togliendosi dalla cabina mentre Clocker entrava dietro di lui, Oslett fece oscillare a destra e a sinistra il fascio della torcia. Le ombre sussultarono e svolazzarono come neri manti, ali d'ebano, anime perdute. Solo pochi membri della sua famiglia (e quasi nessuno degli artisti, scrittori e critici di Manhattan che costituivano la cerchia dei suoi amici) avrebbero capito che era caduto nell'adempimento del dovere. Gli altri avrebbero trovato i particolari della sua dipartita sconcertanti, bizzarri, forse sordidi, e avrebbero spettegolato con l'attività febbrile di uno stormo di uccelli che spolpa una carogna. La luce della torcia rivelò una serie di armadietti di formica. Il ripiano di una cucina. Un lavello di acciaio inossidabile. Il mistero che avrebbe circondato la sua morte peculiare avrebbe fatto sì che il mito crescesse su se stesso come una barriera corallina, incorporando scandali e basse supposizioni di ogni colore, ma lasciando attorno alla sua memoria uno scarsissimo alone di rispetto. Il rispetto era una delle po-
che cose a cui Drew Oslett tenesse. Aveva preteso rispetto fin da bambino. Era suo diritto naturale, non soltanto un piacevole riconoscimento del nome di famiglia, ma un tributo che andava pagato a tutta la storia famigliare e a tutte le realizzazioni che lui incarnava. «Sta' in pace, Alfie», ripeté nervosamente. Una mano, bianca come il marmo e apparentemente altrettanto solida, era in attesa che la torcia la trovasse. Le dita di alabastro erano tese verso il tappeto accanto al divanetto imbottito del cucinino. Più in là c'era il corpo di un uomo dai capelli bianchi prono sul tavolo insanguinato. 4 Paige si alzò dal tavolo della stanza da pranzo, andò alla finestra più vicina, allargò le stecche delle tapparelle e guardò fuori nel temporale che un po' alla volta andava scemando. Quella finestra dava sul cortile sul retro della casa, dove non c'era illuminazione. Non vedeva niente con chiarezza, tranne le righe di pioggia dall'altra parte del vetro, che le fecero venire in mente degli sputi, forse perché aveva davvero voglia di sputare in faccia a Lowbock, in pieno volto. Dentro di sé sentiva più ostilità di quanta ne provasse Marty, non solo verso il detective ma verso il mondo intero. Per tutta la sua vita adulta si era impegnata a risolvere i conflitti infantili che erano alla base della sua collera. Aveva fatto notevoli progressi. Ma davanti a una provocazione come quella sentiva rinfocolarsi il risentimento e l'amarezza della sua infanzia, e la sua rabbia imprecisata trovava un bersaglio in Lowbock, rendendole difficile tenere i nervi sotto controllo. L'arretramento consapevole (quel mettersi davanti alla finestra, evitando di guardare il detective) era una tecnica che si era sempre dimostrata efficace per mantenere l'autocontrollo. Riducendo il livello di interazione riusciva a contenere anche l'ira. Si augurò che quella tecnica funzionasse con i suoi clienti meglio che con lei, perché si sentiva letteralmente fumare dalla rabbia. Al tavolo con il detective, Marty sembrava risoluto a comportarsi in maniera ragionevole e collaborativa. Lo conosceva troppo bene per non sapere che sarebbe rimasto quanto più possibile aggrappato alla speranza che l'inspiegabile ostilità di Lowbock potesse essere attenuata. Nonostante che lui stesso fosse infuriato, e sembrava esserlo più di quanto lei avesse mai visto, aveva comunque una fede irremovibile nella capacità delle buone in-
tenzioni e della parola, soprattutto della parola, per riportare e conservare l'armonia in qualsiasi circostanza. Marty si rivolse a Lowbock. «Dev'essere stato lui a bere le birre.» «Lui?» domandò Lowbock. «Il sosia. Dev'essere stato in casa per un paio d'ore mentre io ero fuori.» «Quindi l'intruso ha bevuto le tre Corona?» «Ho vuotato io la pattumiera ieri sera, domenica sera, quindi so che non erano rimaste lì dal weekend.» «Questo tale si è introdotto in casa sua perché... com'è che ha detto esattamente?» «Aveva bisogno della sua vita.» «Bisogno della sua vita?» «Sì. Mi ha chiesto perché gli avevo rubato la vita, chi ero.» «Quindi entra qui dentro», disse Lowbock, «agitato, dicendo frasi sconnesse, ben armato... ma mentre aspetta che lei rincasi decide di prendersi una pausa e di farsi tre bottiglie di Corona.» Senza volgersi dalla finestra, Paige intervenne. «Quelle tre birre non le ha bevute mio marito, tenente. Non è un ubriacone.» «Sono prontissimo a sottopormi al test di verifica del livello di alcol assunto, se vuole», aggiunse Marty. «Se avessi bevuto tante birre, una dopo l'altra, il livello alcolico nel sangue dovrebbe essere certamente alterato.» «Be'», precisò Lowbock, «se avessimo voluto fare una cosa del genere, avremmo dovuto farlo subito. Ma non è necessario, signor Stillwater. Non sto assolutamente dicendo che lei fosse ubriaco, che si sia inventato tutto sotto l'effetto dell'alcol.» «E allora che cosa sta dicendo?» volle sapere Paige. «Capita», osservò Lowbock, «che la gente beva per darsi il coraggio necessario ad affrontare un impegno difficile.» Marty sospirò. «Può darsi che io sia tardo di comprendonio, tenente. Intuisco che in quello che ha appena detto c'è un'implicazione spiacevole, ma, parola mia, non riesco proprio a capire che diavolo lei stia sottintendendo.» «Ho forse detto che volevo sottintendere qualcosa?» «Non potrebbe smettere di parlare per enigmi e dirci chiaro e tondo perché mi sta trattando così, come un sospettato anziché come la vittima?» Lobwock rimase in silenzio. Marty insisté: «Io so che la situazione è incredibile, questa storia del sosia, ma se lei mi dicesse senza mezzi termini i motivi che la rendono così
scettico, sono sicuro che potrei eliminare ogni suo dubbio. Almeno, posso provarci». Lowbock non rispose per un tempo così lungo che Paige fu quasi sul punto di girarsi dalla finestra a guardarlo, chiedendosi se la sua espressione non potesse rivelare qualcosa sul significato di quel silenzio. Alla fine parlò. «Viviamo in un mondo litigioso, signor Stillwater. Se un poliziotto fa un errore anche minimo nel trattare una situazione delicata, il dipartimento viene querelato e talvolta la carriera del poliziotto è rovinata definitivamente. Capita anche ai migliori.» «Che cosa c'entrano le querele con tutto questo? Io non intendo querelare nessuno, tenente.» «Mettiamo che uno raccolga la segnalazione che è in corso una rapina a mano armata: risponde, fa il suo dovere, si trova in una situazione di grave pericolo, rischia di prendersi un colpo di pistola, uccide il criminale per autodifesa. E allora che cosa succede?» «Sentiamo.» «In men che non si dica i famigliari del rapinatore e l'Associazione per le libertà civili attaccano il dipartimento per eccesso di violenza, chiedono un indennizzo. Pretendono le dimissioni dell'agente, addirittura trascinano il povero fesso in tribunale, gli danno del fascista.» «È uno schifo, sono d'accordo con lei», annuì Marty. «Oggigiorno sembra che il mondo si sia capovolto, ma...» «Se quello stesso poliziotto non risponde con la forza, e uno che passa viene ferito perché il delinquente non è stato fatto fuori alla prima occasione, il dipartimento si becca una denuncia per negligenza dai famigliari della vittima, e gli stessi attivisti dell'Associazione ci piombano tra capo e collo come una tonnellata di mattoni, ma per motivi diversi. La gente dice che il poliziotto non ha premuto il grilletto abbastanza in fretta perché è insensibile alla minoranza di cui faceva parte la vittima, sarebbe stato più pronto se la vittima fosse stata un bianco, o dice che è un incompetente, o che è un vigliacco.» «Non invidio affatto il suo lavoro. Mi rendo perfettamente conto di quanto sia difficile», convenne Marty. «Ma qui non c'è stato nessun poliziotto che ha o non ha sparato a nessuno, e non capisco che cosa abbia a che fare questo con la mia situazione.» «Formulando delle accuse un poliziotto può cacciarsi negli stessi guai che sparando a un delinquente», concluse Lowbock. «Ho capito. Il punto è che la mia storia la lascia scettico, ma non dirà il
perché finché non avrà la certezza assoluta che si tratta di una balla.» «Non ammetterà neppure di essere scettico», precisò in tono aspro Paige. «Non prenderà posizione, né in un senso né nell'altro, perché prendere posizione significherebbe correre un rischio.» «Ma, tenente», riprese Marty, «come possiamo arrivare a una soluzione, come faccio a convincerla che tutto è avvenuto esattamente come gliel'ho raccontato, se lei non mi dice neppure perché non mi crede?» «Signor Stillwater, non ho mai detto che non le credo.» «Gesù», sospirò Paige. «Non le chiedo altro», disse Lowbock, «che di fare il possibile per rispondere alle mie domande.» «E noi non le chiediamo altro», replicò Paige, continuando a dargli le spalle, «che trovare lo squilibrato che ha tentato di uccidere Marty.» «Questo sosia.» Lowbock pronunciò la parola in tono inespressivo, senza la minima inflessione, e questo la fece sembrare più carica di sarcasmo che se l'avesse detta sogghignando. «Esattamente», sibilò Paige. «Questo sosia.» Lei non aveva alcun dubbio sulla veridicità della storia di Marty, per quanto incredibile apparisse, e sapeva che in qualche modo l'esistenza di quella copia vivente del marito era collegata alla fuga di Marty, all'incubo e agli altri problemi che lo avevano afflitto di recente. La sua furia nei confronti del detective cominciava a sfumare, ora che si faceva strada in lei la convinzione che la polizia, per chi sa quale motivo, non li avrebbe aiutati. La rabbia lasciava il posto alla paura, perché si rendeva conto che si trovavano a combattere contro qualcosa di incredibilmente fuori del comune, e avrebbero dovuto farlo da soli. 5 Clocker tornò dalla cabina di guida del Road King annunciando che le chiavi di accensione erano inserite nel cruscotto, in posizione ON, ma che evidentemente il serbatoio era completamente a secco e la batteria esaurita. Le luci nell'abitacolo non si potevano accendere. Temendo che il raggio della torcia, visto dall'esterno, potesse apparire sospetto a chi si fosse avvicinato all'area di servizio, Drew Oslett esaminò rapidamente i due cadaveri nello spazio ristretto del cucinino. Visto che il sangue versato era perfettamente secco e coagulato, sapeva che l'uomo e la
donna erano morti da tempo, più di poche ore. Anche se il rigor mortis era ancora presente in entrambi i corpi, i due non erano più completamente rigidi: l'irrigidimento evidentemente aveva raggiunto il culmine e aveva cominciato a diminuire, cosa che avviene di norma tra le diciotto e le trentasei ore dalla morte. I cadaveri non avevano iniziato ancora a decomporsi in maniera avvertibile. L'unico cattivo odore proveniva dalle bocche aperte: i gas fetidi prodotti dal cibo in putrefazione nello stomaco. «Possiamo ritenere che siano morti nel pomeriggio di ieri», disse a Clocker. Il Road King doveva trovarsi parcheggiato nell'area di servizio da oltre ventiquattr'ore, per cui almeno una pattuglia della polizia autostradale dell'Oklahoma doveva averlo notato in due passaggi di ricognizione. La legge statale vietava sicuramente l'uso delle aree di servizio come zona di campeggio. Il posto mancava di allacciamenti elettrici, prese d'acqua e scarichi fognari, e questo creava potenziali problemi igienici. I poliziotti potevano aver chiuso un occhio con una coppia di pensionati impauriti dal temporale che si era abbattuto il giorno prima sull'Oklahoma: l'adesivo con lo stemma dell'Associazione pensionati americani applicato sul retro del camper poteva aver garantito una certa tolleranza. Ma neppure un poliziotto particolarmente comprensivo avrebbe permesso di sostare per due notti. Da un momento all'altro un'autopattuglia poteva entrare nel parcheggio e avrebbe subito bussato alla porta. Contrario a complicare i loro problemi già gravi uccidendo un agente della stradale, Oslett si staccò dalla coppia e si dedicò a un rapido esame dell'interno del camper. Non c'era più da temere che Alfìe, disobbediente e malfunzionante, gli piantasse una pallottola in testa. Alfìe ormai era lontano. Trovò le scarpe sul mobile della cucina. Con un grosso coltello seghettato Alfie aveva sfogliato uno dei tacchi finché aveva scoperto il circuito elettronico e la catena di minibatterie. Fissando le Rockport e il mucchietto di ritagli di gomma, Oslett si sentì gelare il sangue da una premonizione di disastro. «Non sapeva niente delle scarpe. Come gli è venuto in mente di guardarci dentro?» «Be', lui sa quello che sa», rispose Clocker. Oslett interpretò la spiegazione di Clocker nel senso che l'addestramento di Alfie comprendeva la conoscenza delle più aggiornate tecniche e attrezzature di sorveglianza elettronica. Di conseguenza, anche se nessuno gli
aveva detto che era «segnato», sapeva che era possibile produrre una trasmittente microminiaturizzata così piccola da entrare nel tacco di una scarpa e, ricevendo le microonde di un segnale attivatore a distanza, capace di attingere sufficiente energia da una serie di pile da orologio da trasmettere un segnale individuabile per almeno settantadue ore. Pur non essendo in grado di ricordare che cosa fosse o chi lo controllasse, Alfie era abbastanza intelligente da applicare alla propria situazione quanto sapeva delle tecniche di sorveglianza e arrivare alla conclusione logica che i suoi controllori avevano preso tutte le misure prudenziali per localizzarlo e seguirlo nel caso che decidesse di disertare, anche se loro erano stati certissimi che una ribellione fosse impossibile. Oslett era terrorizzato all'idea di riferire la brutta notizia alla sede centrale di New York. L'organizzazione non uccideva il latore di cattive informazioni, soprattutto se il caso voleva che questi si chiamasse Oslett. Però, come principale controllo di Alfie, sapeva che parte della responsabilità sarebbe ricaduta su di lui, anche se la ribellione dell'operativo non era minimamente colpa sua. L'errore doveva essere a monte, maledizione, nel condizionamento di Alfie, non nella sua gestione. Lasciando Clocker nella cucina a tener d'occhio eventuali visitatori indesiderati, Oslett procedette a una rapida ispezione del resto del camper. Non trovò niente di interessante a parte una pila di indumenti sul pavimento della camera principale in fondo al veicolo. Alla luce della torcia, gli bastò smuovere appena gli abiti con la punta della scarpa per vedere che si trattava di quelli che aveva addosso Alfie quando il sabato mattina era salito a bordo dell'aereo per Kansas City. Oslett ritornò alla cucina, dove Clocker attendeva al buio. Puntò per l'ultima volta il fascio di luce sui due pensionati uccisi. «Bel casino. Maledizione, non doveva proprio succedere.» Clocker accennò con disprezzo alla coppia assassinata. «Chi se ne frega, perdio? Erano solo due fottuti klingon.» Oslett non si riferiva alle vittime ma ad Alfìe che a quel punto non era più semplicemente un disertore, ma un disertore irrintracciabile, e quindi un pericolo per l'organizzazione e per tutti quelli che ne facevano parte. Lui non aveva più pietà di Clocker per l'uomo e la donna morti, e riteneva che tutto sommato il mondo stesse meglio con due parassiti non riproduttivi in meno, che succhiavano le risorse della società e rallentavano il traffico con la loro ingombrante casa su ruote. Non aveva alcun amore per le masse. Per come lo vedeva lui, il problema basilare dell'uomo e della don-
na medi stava proprio nel fatto che erano così medi e che ce n'erano tanti, che prendevano molto di più di quanto dessero al mondo, del tutto incapaci di gestire in maniera intelligente la propria vita, per non dire della società, del governo, dell'economia, dell'ambiente. Ciononostante, il modo in cui Clocker aveva espresso il suo disprezzo per le vittime lo allarmava. La parola «klingon» lo metteva a disagio perché era il nome della razza di alieni che era stata in guerra con l'umanità in tanti episodi televisivi e film della serie Star Trek prima che gli eventi di quel lontano futuro virtuale cominciassero a riflettere il deterioramento dei rapporti tra Stati Uniti e Unione Sovietica nel mondo reale. Oslett trovava Star Trek di una noia insopportabile. Non aveva mai capito come facesse tanta gente ad appassionarcisi. Clocker invece era un acceso fan della serie, si definiva senza vergogna un «trekker», era capace di raccontare per filo e per segno la trama di ogni episodio e di ogni film mai girati, e conosceva la storia privata di ogni personaggio come se fossero tutti suoi intimi amici. Star Trek era l'unico argomento su cui sembrava disposto o capace di condurre una conversazione; e, taciturno com'era per gran parte del tempo, diventava di una loquacità torrenziale quando si toccava il tema della sua storia preferita. Oslett faceva di tutto perché non lo si toccasse mai. Ora, nella sua mente, la temuta parola «klingon» risuonò come un campanello d'allarme. Con l'intera organizzazione in pericolo perché si era persa traccia di Alfie, con qualcosa di ignoto e di smisuratamente violento che si aggirava in libertà nel mondo, il viaggio di ritorno verso Oklahoma City lungo così tanti chilometri di territorio buio e spopolato si presentava desolato e deprimente. L'ultima cosa di cui Oslett aveva bisogno era uno degli snervanti entusiasti monologhi di Clocker sul comandante Kirk, Mr. Spock, Scotty, il resto dell'equipaggio, e le loro avventure nelle più lontane plaghe di un universo che, nella finzione cinematografica, era imbottito di tanto più significato e momenti di illuminazione che l'universo reale delle difficili scelte, delle spiacevoli verità e della insensata crudeltà. «Andiamo via», disse Oslett, spingendo da parte Clocker e dirigendosi verso la parte anteriore del Road King. Non credeva in Dio, ma pregò lo stesso che Karl Clocker ripiombasse nel suo abituale silenzio semiautistico. 6
Cyrus Lowbock si allontanò momentaneamente per conferire con alcuni colleghi che desideravano parlare con lui in un'altra parte della casa. Marty provò un senso di sollievo. Quando il detective lasciò la stanza da pranzo, Paige si staccò dalla finestra e si rimise a sedere accanto a Marty. La Pepsi era finita, ma nel boccale erano rimasti alcuni cubetti di ghiaccio ormai in parte sciolti, e lui bevve l'acqua gelata. «L'unica cosa che mi interessa è farla finita con questa storia. Non dovremmo star qui, con quel tizio in giro, libero.» «Credi che ci sia da preoccuparsi per le bambine?» Ho bisogno... della mia Charlotte, la mia Emily. «Già», rispose Marty. «Io me la faccio addosso.» «Ma lo hai colpito due volte al petto.» «Pensavo di averlo lasciato nell'ingresso anche con la schiena rotta, eppure si è alzato in piedi e se l'è filata. Magari zoppicando. O magari si è semplicemente dissolto nel nulla. Non so che diavolo stia succedendo, Paige, ma è più pazzesco di qualsiasi cosa io abbia mai messo in un mio libro. E non è ancora finita, proprio per niente.» «Ci fossero solo Vic e Kathy a proteggerle... ma c'è anche un poliziotto.» «Se quel bastardo sa dove sono le bambine, può far fuori il poliziotto, Vic e Kathy in un minuto netto.» «Tu gli hai tenuto testa.» «Questione di fortuna, Paige. Pura e semplice fortuna. Non immaginava minimamente che avessi una pistola nel cassetto della scrivania, o che, avendola, l'avrei usata. L'ho colto di sorpresa. Non lascerà che succeda di nuovo. L'elemento sorpresa sarà dalla sua parte.» Portò il boccale alle labbra, facendosi scivolare sulla lingua un cubetto di ghiaccio quasi sciolto. «Marty, quand'è che hai tolto le armi dall'armadietto del garage e le hai caricate?» «Ho notato la tua sorpresa», rispose Marty con il cubetto in bocca. «Stamattina. Prima di andare da Paul Guthridge.» «Perché?» Marty cercò di descrivere come meglio poteva la sensazione inspiegabile che l'aveva assalito, l'idea che qualcosa stesse precipitando su di lui, e che lo avrebbe distrutto senza neppure dargli l'opportunità di identificarla. Cer-
cò di farle capire come quella sensazione si fosse aggravata trasformandosi in un attacco di panico, fino a convincerlo che avrebbe avuto bisogno di armi per difendersi, e paralizzandolo quasi per la paura. Si sarebbe sentito molto in imbarazzo a raccontarglielo (le sarebbe sembrato uno squilibrato) se gli eventi non avessero confermato la validità di quelle premonizioni, e delle conseguenti precauzioni. «E qualcosa stava arrivando», disse lei. «Quel sosia. Lo hai sentito avvicinarsi.» «Già. Penso di sì. Chissà come.» «Un fenomeno psichico.» Lui scosse la testa. «No, non lo chiamerei così. No, se intendi una visione psichica. Non c'era alcuna visione. Non ho visto quello che stava arrivando, non ho avuto una chiara premonizione. Solo questo... questo spaventoso senso di tensione, di angoscia... come su uno di quei giochi dei luna park, dove giri sempre più veloce e sei inchiodato al sedile, avvertendo un peso sul petto. Tu lo sai, sei stata su una di quelle giostre, a Charlotte piacciono tanto.» «Sì. Ho capito... credo.» «È cominciato così... e poi è diventato cento volte peggio, finché non riuscivo quasi a respirare. Poi improvvisamente è cessato mentre stavo per uscire per andare dal medico. E più tardi, quando sono rientrato, quel figlio di puttana era qui, ma non ho sentito niente entrando in casa.» Rimasero in silenzio per qualche momento. Il vento spruzzò una raffica di pioggia contro la finestra. «Com'è possibile che fosse identico a te?» chiese Paige. «Non lo so.» «Perché diceva che hai rubato la sua vita?» «Non lo so, non lo so proprio.» «Ho paura, Marty. Voglio dire, è tutto così incredibile. Che cosa facciamo?» «Dopo questa notte, non lo so. Ma almeno stanotte non rimaniamo qui. Andiamo a dormire in un hotel.» «Ma se la polizia non lo trova morto da qualche parte, ci sarà un domani... e un dopodomani.» «Sono scosso, stanco, non riesco a pensare bene. Per il momento posso concentrarmi solo su questa notte, Paige. Di domani mi preoccuperò domani.» Il bel viso di Paige era segnato dall'ansia. Era dalla malattia di Charlotte,
cinque anni prima, che non la vedeva così angosciata. «Ti amo», le disse, toccandole delicatamente il viso. Paige pose la mano sulla sua. «Oh, Dio, anch'io ti amo, Marty, te e le bambine, più di qualsiasi altra cosa al mondo, più della vita stessa. Non possiamo permettere che ci succeda qualcosa, che venga distrutto ciò che abbiamo costruito. Non possiamo.» «E non lo permetteremo», esclamò lui con forza, ma le sue parole suonarono vuote e false come la spacconata di un ragazzino. Si rendeva conto che nessuno dei due aveva espresso la minima speranza che la polizia li proteggesse. Non riusciva a reprimere la rabbia per il fatto che non avevano ricevuto nulla che somigliasse neppure minimamente allo spirito di servizio, alla cortesia e alla considerazione che le autorità concedevano sempre ai personaggi dei suoi romanzi. Essenzialmente, i libri che scriveva lui parlavano del bene e del male, del trionfo del primo sul secondo, dell'affidabilità del sistema giudiziario in una democrazia moderna. Avevano successo perché rassicuravano il lettore sul fatto che il sistema in buona sostanza funzionava, anche se l'esperienza della vita quotidiana talvolta suggeriva una conclusione più inquietante. Marty aveva potuto lavorare all'interno di quel genere con convinzione e grande piacere perché amava credere che le istituzioni preposte alla legalità amministrassero bene la giustizia, con deviazioni rare e involontarie. Ma ora, quando per la prima volta in vita sua si rivolgeva al sistema chiedendo aiuto, si trovava davanti a una porta sbarrata. Quel mancato aiuto non solo metteva in pericolo la sua vita, oltre a quella della moglie e delle figlie, ma sembrava gettare un'ombra di dubbio sul valore di tutto ciò che aveva scritto e un sospetto di inutilità sullo scopo a cui aveva dedicato tanti anni di duro lavoro e di lotta. Il tenente Lowbock tornò attraversando il soggiorno, muovendosi come se si trovasse nel bel mezzo di un servizio fotografico per la rivista Esquire. Aveva in mano un sacchetto di plastica trasparente che conteneva una borsetta nera dotata di chiusura lampo, grande più o meno la metà di una borsa da toilette. Appoggiò il sacchetto sul tavolo della stanza da pranzo e tornò a sedersi. «Signor Stillwater, porte e finestre della casa erano chiuse stamattina, quando lei è uscito?» «Chiuse?» chiese Marty, domandandosi dove volesse andare a parare adesso e cercando di non mostrare la propria ira. «Sì, ermeticamente chiuse. In queste cose sono molto attento.»
«Ha pensato a come questo intruso potrebbe essere penetrato in casa?» «Avrà rotto un vetro, probabilmente. O forzato una serratura.» «Sa che cosa c'è qua dentro?» chiese il detective, toccando la borsetta di pelle nera attraverso la busta trasparente. «Purtroppo non ho la vista a raggi X, tenente», rispose Marty. «Pensavo che potesse riconoscerla.» «No.» «L'abbiamo trovata nella sua camera da letto.» «È la prima volta che la vedo.» «Sopra il cassettone.» «Insomma, tenente, viene al dunque?» intervenne Paige. Sul viso di Lowbock passò di nuovo l'ombra di un sorriso, come un fantasma che brilla per un attimo nell'aria al di sopra del tavolino di una seduta spiritica. «C'è una serie completa di grimaldelli da scasso.» «È così che è entrato?» chiese Marty. Lowbock si strinse nelle spalle. «Probabilmente è la deduzione che ci si aspetta da me.» «Mi sto stancando, tenente. Siamo preoccupati per le nostre bambine. Sono d'accordo con mia moglie: si decida a venire al dunque.» Il detective si protese verso Marty fissandolo con il suo sguardo intenso. «Faccio il poliziotto da ventisette anni, signor Stillwater, e questa è la prima volta che mi capita di riscontrare l'irruzione in una casa privata mediante il ricorso a grimaldelli professionali.» «E allora?» «Rompono un vetro o forzano una serratura, come ha detto lei. A volte smontano una porta scorrevole. Lo svaligiatore medio ha cento modi per entrare, tutti e cento più rapidi del grimaldello.» «Non era uno svaligiatore medio.» «Oh, questo lo vedo bene», convenne Lowbock. Tornò ad appoggiarsi allo schienale. «Il suo assalitore è molto più teatrale del delinquente medio. Si traveste in modo da apparire identico a lei, ciancia a vanvera sulla sua vita che rivuole indietro, viene armato di una pistola da assassino professionista predisposta per il silenziatore, usa strumenti da scasso come in un film hollywoodiano, si becca due pallottole al torace che non gli fanno un baffo, perde tanto sangue da fare restare secco chiunque e poi se ne va tranquillamente. È teatrale ma anche muy misterioso, un po' un personaggio di quelli che potrebbe interpretare Andy Garcia, o anzi, meglio, Ray Liotta di Quei bravi ragazzi.»
Marty improvvisamente vide dove stava puntando il detective e capì perché. L'obiettivo inevitabile dell'interrogatorio sarebbe dovuto apparire evidente già da tempo, ma a Marty era sfuggito proprio perché troppo evidente. Da scrittore, aveva cercato di individuare qualche motivo più complesso per la diffidenza e l'ostilità a stento mascherate, mentre in tutto quel tempo nella mente di Cyrus Lowbock c'era il più vieto luogo comune. Ma il detective aveva un'altra spiacevole sorpresa da rivelare. Si sporse di nuovo in avanti e lo fissò negli occhi con quell'atteggiamento che aveva ormai smesso di essere un efficace sistema di contatto ed era diventato una sorta di tic personale, irritante e trasparente quanto il disarmante atteggiamento di umiltà e di autodeprecazione del Colombo di Peter Falk, il pensoso sporgere delle labbra di Nero Wolfe nei momenti di ispirazione, il sorrisetto lungimirante di James Bond, o ognuno dei tratti pittoreschi che servivano a caratterizzare Sherlock Holmes. «Le sue figlie hanno degli animali, signor Stillwater?» «Sì, Charlotte. Diversi.» «Una strana collezione di animali.» «Per Charlotte non sono strani», replicò freddamente Paige. «E per lei?» «Nemmeno. Che importanza ha se siano strani o no?» «Li ha da molto tempo?» «Alcuni più, altri meno», rispose Marty, sconcertato da questa nuova svolta nell'interrogatorio, pur rimanendo convinto di aver intuito la teoria che Lowbock tendeva a dimostrare. «Vuole bene ai suoi animali?» «Sì. Moltissimo. Come qualsiasi bambino. Per quanto a lei possano sembrare strani, li ama.» Annuendo, tornando ad appoggiarsi allo schienale, tamburellando con la penna sul taccuino, Lowbock disse: «È un altro tocco teatrale, ma anche convincente. Voglio dire, se lei fosse un detective, e fosse portato a mettere in dubbio l'intero scenario, sarebbe spinto a cambiare idea se l'intruso avesse ucciso tutti gli animaletti della bambina». Il cuore di Marty prese a sprofondargli nel petto come un sasso che cerca il fondo dello stagno. «Oh, no», gemette Paige. «Il povero Whiskers, Loretta, Fred... tutti?» «Il criceto era spappolato», confermò Lowbock, con lo sguardo fisso su Marty. «Il topo ha avuto il collo spezzato, la tartaruga è stata schiacciata sotto i piedi così come lo scarabeo. Gli altri non li ho esaminati altrettanto
accuratamente.» La rabbia di Marty divampò in una furia trattenuta a stento, e strinse forte i pugni sotto il tavolo, perché sapeva che Lowbock lo stava accusando di aver ucciso gli animali della figlia solo per dare credibilità a un'elaborata messa in scena. Nessuno poteva credere che un padre affezionato potesse fracassare il guscio della tartaruga della figlia e tirare il collo al topolino per lo sporco proposito che secondo Lowbock motivava Marty; per questo, perversamente, il detective dava per scontato che invece Marty lo avesse proprio fatto, e proprio perché era un atto così ignobile da escluderlo automaticamente: il perfetto tocco finale. «Charlotte ne avrà il cuore spezzato», disse Paige. Marty sapeva di essere paonazzo di collera. Sentiva il calore sulle guance, come se avesse passato un'ora sotto la lampada, e le orecchie gli sembravano quasi in fiamme. Sapeva anche che il poliziotto avrebbe interpretato il rossore come una vampata di vergogna, testimonianza della sua colpevolezza. Quando il sorrisetto tornò a comparire sulle labbra di Lowbock, Marty ebbe la voglia di tirargli un cazzotto sul muso. «Signor Stillwater, mi corregga se sbaglio, ma mi sembra che lei di recente abbia avuto un libro nella classifica dei tascabili più venduti. È la ristampa di un libro pubblicato l'anno scorso. Esatto?» Marty non gli rispose. Lowbock non aveva bisogno di risposta. Proseguì. «E non ha un nuovo libro in uscita tra un mese, più o meno, che secondo qualcuno potrebbe essere il suo primo best-seller in edizione rilegata? E probabilmente sta già lavorando a un altro libro ancora. C'è un inizio di manoscritto sulla sua scrivania, mi pare. E immagino che, una volta ottenuti un paio di grossi successi, si sia obbligati a tenere il piede sull'acceleratore, per così dire, per sfruttare appieno la forza d'inerzia.» Corrucciata, con tutto il corpo di nuovo teso, Paige sembrava sul punto di afferrare totalmente il senso della risibile interpretazione che il detective dava del racconto di Marty, il motivo della sua ostilità. In famiglia era lei quella che si concedeva le sfuriate; Marty si chiese, visto che lui si tratteneva a stento dal picchiare il poliziotto, quale sarebbe stata la reazione di Paige quando Lowbock avesse resi espliciti i suoi sospetti da demente. «Avere un profilo su People deve essere un bell'aiuto alla carriera», continuò il detective. «E immagino che se Mr. Murder diventa lui stesso il bersaglio di un killer muy misterioso, la pubblicità gratuita che riceverà
sulla stampa sarà molto gradita, e proprio in un momento così importante della carriera.» Paige sussultò sulla sedia come se avesse ricevuto uno schiaffo in faccia. La sua reazione richiamò l'attenzione di Lowbock. «Sì, signora Stillwater?» «Non crederà davvero...» «Credere che cosa, signora Stillwater?» «Marty non è un bugiardo.» «Ho detto che lo è?» «Detesta la pubblicità.» «Allora People deve aver insistito molto.» «Ma gli guardi il collo, Dio santo! È tutto rosso, è gonfio, tra qualche ora sarà pieno di lividi. Non crederà che si sia conciato così da solo!» Mantenendo un'insopportabile falsa aria di obiettività, Lowbock domandò: «È questo che lei crede, signora Stillwater?» A denti stretti, Paige lanciò la risposta che Marty sentiva di non poter dare lui stesso: «Pezzo di imbecille». Sollevando le sopracciglia in un'espressione stupita, come se non riuscisse a immaginare che cosa mai avesse fatto per meritarsi un simile trattamento, Lowbock disse: «Lei si rende certamente conto, signora Stillwater, che c'è gente, in questo cinico mondo, che potrebbe affermare che il tentato strangolamento è la forma di aggressione meno rischiosa da simulare. Voglio dire, darsi una coltellata a un braccio o a una gamba potrebbe essere un tocco convincente, ma c'è sempre il pericolo di un piccolo errore di calcolo, si lede un'arteria e ci si ritrova improvvisamente a perdere sangue in modo molto più grave del previsto. Quanto alle ferite d'arma da fuoco autoinferte, be', il rischio è ancora più alto, con la possibilità che il proiettile venga deviato da un osso e penetri più a fondo nella carne, e c'è sempre il pericolo dello choc». Paige schizzò in piedi con tanta veemenza da rovesciare la sedia. «Fuori.» Lowbock battè le palpebre fìngendosi perplesso. «Prego?» «Fuori di casa mia», intimò Paige. «Immediatamente.» Pur comprendendo che stavano perdendo l'ultima esile speranza di convincere il detective e di assicurarsi l'aiuto della polizia, anche Marty si alzò in piedi, così pieno di collera che tremava. «Mia moglie ha ragione. Credo che lei e i suoi uomini fareste bene ad andarvene, tenente.» Rimanendo seduto perché così mostrava di sfidarli, Cyrus Lowbock re-
plicò: «Intende dire prima di aver concluso l'indagine?» «Sì», confermò Marty. «Conclusa o meno.» «Signor Stillwater... Signora Stillwater... vi rendete conto che è contro la legge presentare una falsa denuncia?» «Noi non abbiamo presentato nessuna falsa denuncia», replicò Marty. «Se c'è una cosa falsa in questa stanza», aggiunse Paige, «è lei. Si rende conto che è contro la legge farsi passare per un poliziotto?» Sarebbe stata una soddisfazione vedere arrossire di rabbia la faccia di Lowbock, vedergli stringere occhi e labbra all'insulto, ma la sua imperturbabilità non fu minimamente scossa. Alzandosi lentamente in piedi, il detective disse: «Se i campioni di sangue che abbiamo raccolto dalla moquette del piano di sopra sono, poniamo, solo sangue di maiale o di vitello o simili, è inutile dire che il laboratorio sarà in grado di determinarlo con precisione». «Sono al corrente delle capacità di analisi della medicina legale», assicurò Marty. «Oh, sì, certo, lei è uno scrittore di gialli. Stando a People, lei fa una quantità di ricerche per i suoi libri.» Lowbock chiuse il taccuino e vi agganciò la penna. Marty attese. «Nelle sue ricerche, signor Stillwater, ha imparato quanto sangue c'è in un corpo umano, un corpo diciamo della sua corporatura?» «Cinque litri.» «Esatto.» Lowbock appoggiò il taccuino sopra il sacchetto di plastica contenente la borsa di pelle dei grimaldelli. «A prima vista, ma è un'ipotesi di uno che ha esperienza, direi che il sangue che ha inzuppato la moquette del piano di sopra dovrebbe corrispondere a uno o due litri. Tra il venti e il quaranta per cento dell'intera riserva di questo sosia, e più vicino al quaranta che al venti, salvo errori. Sa che cosa mi aspetterei di trovare insieme a tanto sangue, signor Stillwater? Mi aspetterei di trovare il corpo da cui è uscito, perché bisogna proprio fare un grosso sforzo di immaginazione per pensare che un uomo ferito in modo così grave possa essere uscito di scena con le sue gambe.» «Gliel'ho già detto, nemmeno io so spiegarmelo.» «Muy misterioso», disse Paige, caricando quelle due parole di un sarcasmo pari all'ironia con cui le aveva pronunciate il detective poco prima. Marty decise che almeno una cosa buona c'era in tutto quel pasticcio: il fatto che Paige non aveva dubitato di lui nemmeno per un attimo, anche quando la ragione e la logica rendevano praticamente inevitabile il dubbio; glielo diceva il modo in cui si schierava adesso al suo fianco, fiera e risolu-
ta. In tutti gli anni che avevano vissuto insieme, non l'aveva mai amata come in quel momento. Lowbock raccolse taccuino e busta di plastica. «Se invece il sangue del piano di sopra risulterà sangue umano, questo solleverà ogni sorta di altri interrogativi che ci imporranno di continuare l'indagine, indipendentemente dai vostri desideri. In pratica, quali che siano le risposte del laboratorio, tornerò a farmi sentire.» «Saremo deliziati di rivederla», rispose Paige, con la voce non più tesa, come se improvvisamente avesse cessato di considerare Lowbock una minaccia e non potesse impedirsi di vederlo come una figura comica. Marty sentì che l'atteggiamento della moglie era contagioso, e si rese conto che, pure in lui, quell'improvviso scoppio di ilarità macabra era una reazione all'insopportabile tensione dell'ultima ora. «Senza complimenti, torni a trovarci.» «Le faremo trovare una bella tazza di tè», aggiunse Paige. «Con i pasticcini.» «E i biscotti.» «E una fetta di torta.» «E non dimentichi di portare la sua signora», concluse Paige. «Noi siamo molto aperti. Ci farà un enorme piacere conoscerla anche se appartiene a un'altra specie.» Marty si accorse che Paige era lì lì per scoppiare a ridergli in faccia, perché lo stesso stava succedendo anche a lui, e sapeva bene che si stavano comportando come due bambini; gli ci volle tutto il suo autocontrollo per non continuare a prendersi gioco di Lowbock fino alla porta d'ingresso, incalzandolo con il sarcasmo e vedendolo retrocedere come il conte Dracula che arretra rinculando davanti al professor Van Helsing che avanza brandendo il crocifisso. Stranamente, il loro atteggiamento ironico sconcertò il detective più di quanto avessero fatto le manifestazioni di collera o l'insistenza sulla realtà dell'intruso. Il dubbio era visibile sul suo viso, e sembrava che stesse per proporre di rimettersi seduti e ricominciare daccapo. Ma, essendo il dubbio una debolezza a lui poco familiare, non era in condizione di sostenerlo a lungo. L'incertezza lasciò presto il posto alla sua più abituale espressione di sussiego. «Porteremo con noi la Heckler & Koch del sosia, e naturalmente anche le sue armi finché non sarà in grado di produrre i documenti che le ho chiesto.»
Per un terribile istante, Marty ebbe la certezza che avessero trovato la Beretta nel pensile della cucina e il Mossberg sotto il letto, oltre alle altre armi, e che lo avrebbero lasciato indifeso. Ma Lowbock elencò le armi, e ne menzionò tre soltanto: «La Smith & Wesson, la Korth trentotto e l'M16». Marty si sforzò di non lasciar trapelare il sollievo che provava. Lowbock fu distratto da Paige: «Tenente, non si deciderà mai a togliersi dalle palle?» Questa volta il detective non poté impedire al suo volto di irrigidirsi in un'espressione di collera. «Di sicuro affretterà la mia partenza, signora Stillwater, se avrà la compiacenza di ripetere la sua richiesta in presenza di altri due agenti.» «Sempre a preoccuparsi di quelle querele», commentò Marty. «Sarò lieta di accontentarla, tenente», rispose Paige. «Desidera che la formuli negli stessi termini?» Mai, tranne nelle circostanze più intime, Marty le aveva sentito usare quel genere di parole, e questo significava che, pur mascherata da un tono di voce leggero e da un modo di fare frivolo, la sua rabbia era più forte che mai. Era un bene. Andata via la polizia, avrebbe avuto bisogno di quella rabbia per superare la nottata che li aspettava. La rabbia avrebbe aiutato a tenere a bada la paura. 7 Quando chiude gli occhi e cerca di raffigurarsi il dolore, lo vede come una filigrana di fuoco. Uno splendido merletto luminoso, bianco incandescente con sfumature rosse e gialle, si irradia dalla base del collo pulsante lungo la schiena, gli cinge i fianchi, si annoda in complicati intrecci fin sul petto e sull'addome. Visualizzando il dolore può capire più chiaramente se il suo stato stia migliorando o peggiorando. In realtà, l'unica cosa che gli interessi è quanto velocemente stia migliorando. È rimasto ferito già altre volte, ma mai così gravemente, e sa che cosa aspettarsi: un peggioramento prolungato sarebbe per lui un'esperienza del tutto nuova e allarmante. 11 dolore è stato straziante nei primi uno o due minuti dopo essere stato colpito. Gli era parso che un feto mostruoso si svegliasse dentro di lui e si scavasse la via per uscire.
Per fortuna è dotato di una capacità di sopportazione del dolore singolarmente alta. Serve a rincuorarlo anche la consapevolezza che la sofferenza presto scenderà a un livello meno insopportabile. Quando esce barcollando dalla porta posteriore della casa e si dirige verso la Honda, l'emorragia è completamente cessata, e i morsi della fame si fanno più terribili delle fitte delle ferite. Lo stomaco gli si annoda, si distende spasmodicamente, e subito dopo torna ad annodarsi, si stringe e si scioglie ripetutamente con violenza, come se fosse un pugno che tenta di afferrare il nutrimento di cui ha un così disperato bisogno. Mentre si allontana in macchina dalla sua casa in mezzo ai grigi torrenti del temporale al culmine, si sente così famelico che comincia a tremare per la mancanza di cibo. Non è solo un tremito di carenza, ma sono brividi che lo squassano facendogli battere i denti. Le mani incontrollabili battono un ritmo continuo sullo sterzo, che riesce a stento a tenere fermo quanto è necessario per controllare il veicolo. Un susseguirsi di starnuti asciutti lo scuote convulsamente, vampate bollenti si alternano a sensazioni di gelo, e il sudore di cui è coperto è più freddo della pioggia di cui sono ancora intrisi capelli e vestiti. Lo straordinario metabolismo gli dà una grande forza, mantiene alto il suo livello di energia, lo libera dalla necessità di dormire tutte le notti, gli permette di guarire con una rapidità che ha del miracoloso, ed è in generale una cornucopia di doti stupefacenti, ma richiede moltissimo da lui. Già in un giorno normale, ha un appetito formidabile anche per due spaccalegna. Quando si priva del sonno, quando è ferito, o quando il suo sistema è sottoposto a superlavoro, il semplice appetito si trasforma in una fame lancinante, e la fame degenera quasi istantaneamente in un puro bisogno di alimento che allontana ogni altro pensiero dalla sua mente e lo obbliga al rapace consumo di tutto quanto gli capita di trovare. L'interno dell'auto è invaso dalle confezioni vuote di cibo (buste, sacchetti e scatole di ogni genere), ma tra quei rifiuti non è rimasto neppure un boccone. Nella discesa finale dalle montagne di San Bernardino verso i bassopiani dell'Orange County, ha consumato febbrilmente fino all'ultima briciola rimasta. Ora ci sono solo macchie secche di cioccolato e di mostarda, lucidi veli sottili d'olio, grasso, granelli di sale, niente che basti a compensare l'energia spesa per frugare e trovare nel buio quei resti, e leccarli. Quando individua un fast-food con uno sportello per il drive-in, in mezzo alle viscere sente un vuoto ghiacciato in cui gli sembra di sciogliersi,
che si allarga sempre più, si fa sempre più gelido, come se il suo corpo si stesse autoconsumando per ripararsi, catabolizzando due cellule per ognuna che crea. Si addenta quasi una mano nel tentativo frenetico e disperato di alleviare i morsi lancinanti della fame. Immagina di strappare brani della sua carne con i denti e di inghiottirli famelicamente, bevendo il suo stesso sangue caldo, qualsiasi cosa pur di calmare le sue sofferenze, qualsiasi cosa, per repellente che sia. Ma si trattiene perché, nella follia della sua fame disumana, è quasi certo che non gli rimanga più carne sulle ossa. Si sente totalmente svuotato, più fragile della più evanescente palla di vetro natalizia, e pensa che potrebbe disintegrarsi in migliaia di frammenti senza vita nell'attimo in cui i denti bucassero la superficie inaridita della sua pelle. Il ristorante è un McDonald's. Il microfono dell'interfono allo sportello delle ordinazioni è esposto da tanti anni al sole estivo e al freddo invernale che il saluto dell'invisibile addetto è condito da scariche elettriche. Sicuro che la sua voce rotta e tremante non suonerà strana, il killer ordina tanto cibo da soddisfare lo staff di un piccolo ufficio: sei cheesburger, Big Mac, patate fritte, un paio di sandwich di pesce, due frappe al cioccolato, e una grande quantità di Coca perché il suo metabolismo frenetico, se non alimentato, porta in breve anche alla disidratazione. Si trova in una lunga fila di auto, e l'avvicinamento al finestrino delle consegne è di una lentezza esasperante. Non ha alternative, deve aspettare: con quegli abiti insanguinati e la camicia strappata dalle pallottole non può entrare in un ristorante o in un negozio di alimentari e comprare quello che gli serve senza richiamare un'attenzione indesiderata. Infatti, se i vasi sanguigni hanno ripreso a funzionare, le due ferite al petto non si sono ancora rimarginate, per l'impossibilità di alimentare il processo anabolico. Quei due buchi, in cui potrebbe infilare il pollice fino a una preoccupante profondità, susciterebbero ancora più commenti della camicia sporca di sangue. Uno dei due proiettili lo ha trapassato completamente, uscendogli dal dorso alla sinistra della colonna vertebrale. Sa che il foro d'uscita dev'essere più grosso dei buchi che ha nel torace. Sente i labbri frastagliati della ferita allargarsi quando si appoggia allo schienale del sedile. Per fortuna nessuno dei due colpi lo ha raggiunto al cuore. Quello avrebbe potuto fermarlo definitivamente. Quello, e un proiettile in testa che gli spappoli il cervello, sono le uniche due ferite che teme. Quando raggiunge lo sportello della cassa, paga quanto ha ordinato at-
tingendo al denaro che ha preso a Jack e Frannie in Oklahoma più di ventiquattr'ore prima. La giovane alla cassa può vedergli il braccio mentre le porge le banconote, per cui si sforza di controllare quel tremito violento che potrebbe incuriosirla. Tiene la faccia girata dall'altra parte: con il buio e la pioggia non le è possibile vedere il petto dilaniato né la sofferenza che distorce i suoi lineamenti pallidi. Allo sportello della distribuzione, quanto ha ordinato gli viene consegnato in diversi sacchetti di carta bianca, che sistema sul sedile ingombro accanto a sé, riuscendo anche in quel caso a non mostrare il viso. Gli occorre tutta la forza di volontà di cui dispone per trattenersi dal lacerare subito le buste e divorare immediatamente il cibo appena ricevuto. Gli rimane ancora lucidità sufficiente per capire che non deve provocare una scena bloccando la corsia. Si ferma nell'angolo più buio del parcheggio del ristorante, spegne i fari e ferma i tergicristallo. La faccia che intravede nello specchietto retrovisore gli appare così smunta che capisce di aver perso moltissimo peso nell'ultima ora; i suoi occhi sono infossati e sembrano cerchiati di nerofumo. Riduce al minimo le luci sul cruscotto ma lascia il motore acceso perché, nel suo stato di debilitazione, ha bisogno dell'aria tiepida che entra dalle ventole del riscaldamento. La pioggia che scorre lungo il vetro rimanda il riflesso delle insegne al neon, e cambia la notte in forme mutanti, contemporaneamente schermandolo da occhi indiscreti. In questa sua caverna meccanica, torna a un primitivo stato selvaggio e, per qualche tempo, diventa qualcosa di meno che umano, divora il cibo con impazienza animale, se ne riempie la bocca più in fretta di quanto possa ingurgitarlo. Il pane, la carne, le patatine gli si spiaccicano insieme contro le labbra, i denti, una scia organica gli macchia il petto; Coca e frappe gli colano sul davanti della camicia. Soffoca quasi, tossisce convulsamente spruzzando cibo sul volante e sul cruscotto, ma continua a mangiare non meno famelicamente, non meno ansiosamente, con brevi versi inarticolati di ingordigia e bassi guaiti di soddisfazione. La frenesia alimentare si traduce in un periodo di torpore assente e muto molto simile a uno stato di trance, da cui infine emerge con tre nomi che gli salgono alle labbra, sussurrati come una preghiera: «Paige... Charlotte... Emily...» Sa per esperienza che nelle ore che precedono l'alba sarà aggredito da nuove fitte di fame, ma nessuna devastante e angosciante come la crisi di cui ha appena sofferto. Qualche tavoletta di cioccolato o qualche wurstel o
qualche hot dog, a seconda che siano carboidrati o proteine ciò di cui avrà bisogno, permetterà di placare quel bisogno. Potrà concentrare l'attenzione su altri problemi cruciali senza essere disturbato da distrazioni di natura psicologica. Il più grave di questi problemi è la schiavitù a cui l'uomo che gli ha rubato la vita continua a sottoporre sua moglie e le sue figlie. «Paige... Charlotte... Emily...» Quando pensa alla sua famiglia nelle mani di quell'odioso impostore, gli occhi gli si velano di lacrime. Sono preziose, per lui. Sono la sua unica risorsa, la sua ragione di vita, il suo futuro. Ricorda lo stupore gioioso con cui ha esplorato la sua casa, è entrato nella camera delle sue figlie, ha toccato il letto in cui lui e sua moglie fanno l'amore. Nell'attimo in cui ha visto i loro volti nella fotografia che tiene sulla scrivania, ha capito che sono il suo destino e che tra le loro braccia amorose sarebbe cessata la confusione, la solitudine e la muta disperazione che lo hanno sempre afflitto. Ricorda, anche, il primo sorprendente incontro con l'impostore, lo choc e lo sbalordimento nel vedere la loro incredibile rassomiglianza, il tono e il timbro assolutamente identici delle loro voci. Ha capito all'istante come possa aver fatto quell'uomo a insinuarsi nella sua vita senza che nessuno se ne accorgesse. Anche se l'esplorazione della casa non gli ha dato alcun elemento che lo aiuti a spiegare la provenienza dell'impostore, gli sono venuti in mente alcuni film che potranno dargli la risposta quando avrà l'occasione di rivederli. L'invasione degli ultracorpi in tutt'e due le versioni, quella con Kevin McCarty e quella con Donald Sutherland. Il remake di John Carpenter di La cosa, ma non l'edizione originale. Forse anche Gli invasori spaziali. Un film con Bette Midler e Lily Tomlin di cui non ricorda il titolo. Il principe e il povero. Il dittatore del Parador. Devono essercene altri. I film hanno tutte le risposte ai problemi della vita. Dai film lui ha imparato tutto sui sentimenti e sull'amore e sulle gioie della vita domestica. Nel buio delle sale, passando il tempo tra un'uccisione e l'altra, assetato di significati, ha imparato a sentire il bisogno di ciò che non aveva. E rifacendosi alle grandi lezioni dei film potrebbe riuscire a sciogliere il mistero del furto della sua vita. Ma prima deve agire. Questa è un'altra lezione che ha imparato dal cinema. L'azione deve venire prima del pensiero. Raramente nei film ci si mette seduti a riflettere
sulle situazioni difficili in cui ci si trova. Perdio, per risolvere anche i problemi peggiori, loro fanno qualcosa: continuano a muoversi, ad agire incessantemente, cercando con risolutezza lo scontro con l'avversario, lottando con il nemico per la vita o per la morte, scontri da cui usciranno sempre vincitori finché saranno sufficientemente determinati e convinti di essere nel giusto. Lui è determinato. Sa di essere nel giusto. La vita gli è stata rubata. È una vittima. Ha sofferto. Ha conosciuto la disperazione. Ha sopportato abusi e angoscia e tradimento e perdite come Ornar Sharif nel Dottor Zivago, come William Hurt in Turista per caso, Robin Williams in Il mondo di Garp, Michael Keaton in Batman, Sidney Poitier in La calda notte dell'ispettore Tibbs, Tyrone Power in Il filo del rasoio, Johnny Depp in Edward Mani di Forbice. Lui è il prototipo di tutti i brutalizzati, disprezzati, calpestati, incompresi, ingannati, emarginati, manipolati che vivono sullo schermo argentato e che si comportano da eroi di fronte alle più devastanti tribolazioni. Le sue sofferenze sono gravi quanto le loro, il suo destino altrettanto glorioso, la sua speranza di trionfo altrettanto grande. Questo pensiero lo commuove nel profondo. È scosso da violenti singhiozzi, le sue lacrime sono di gioia, non di tristezza, si sente travolto da un senso di comunanza, di fraternità, di appartenenza all'umanità. Ha vincoli profondi con coloro di cui condivide la vita sugli schermi cinematografici, e questa sfolgorante epifania lo spinge ad alzarsi, a muoversi, agire, affrontare, sfidare, lottare, e trionfare. «Paige, vengo da te», dice tra le lacrime. Spalanca la portiera ed esce sotto la pioggia. «Emily, Charlotte, non vi deluderò. Voi dipendete da me. Abbiate fiducia. Morirò per voi, se devo.» Scuotendo via le briciole residue del suo banchetto, fa il giro della Honda e apre il bagagliaio. Trova una spranga per le ruote che da un lato ha una leva per smontare i coprimozzo, e dall'altro una chiave inglese. Peso e bilanciamento sono soddisfacenti. Torna in macchina, si mette al volante e appoggia il ferro sui rifiuti fragranti che ingombrano il sedile accanto al suo. Vede con gli occhi della memoria la fotografia della sua famiglia e
mormora: «Morirò per voi». Sta guarendo. Quando si tocca i fori dei proiettili sul torace vede che ora il dito entra di poco più della metà rispetto a prima. Nella seconda ferita, il suo dito incontra un grumo duro che potrebbe essere un frammento di cartilagine fuori posto. Ma subito dopo capisce che si tratta invece di una delle pallottole che non ce l'ha fatta a trapassarlo. Il suo organismo la sta espellendo. Scalza e tira con le dita finché il proiettile deformato si libera con un suono di risucchio; lo getta a terra. Pur sapendo di possedere un metabolismo e una capacità di ripresa fuori del comune, non si vede molto diverso dagli altri uomini. I film gli hanno insegnato che tutti i maschi, per un verso o per l'altro, sono straordinari: alcuni hanno un potente magnetismo nei confronti delle donne, le quali non riescono a resistere; altri hanno un coraggio smisurato; altri ancora, quelli portati sullo schermo da Arnold Schwarzenegger o da Sylvester Stallone, possono passare illesi sotto una pioggia di pallottole e uscire vincitori da un corpo a corpo con una mezza dozzina di avversari, contemporaneamente o in rapida successione. Godere di una rapida convalescenza gli sembra meno eccezionale, a paragone, della diffusa capacità degli eroi dello schermo di attraversare incolumi l'inferno stesso. Afferra un sandwich freddo di pesce e lo consuma in sei grossi bocconi mentre esce dal McDonald's. Si mette alla ricerca dì un centro commerciale. Visto che quella è la California meridionale, non ci mette molto a trovare quello che cerca: un ampio complesso di negozi e servizi, con il tetto fatto con tante di quelle lastre di metallo da mettere in secondo piano una corazzata e le mura di cemento formidabili quanto i muraglioni di una fortezza medioevale, circondato da ettari di asfalto rischiarato da lampioni. La spietata natura commerciale del posto è mimetizzata da filari di siepi e boschetti di alberi e palme. Passa accanto a un numero infinito di piazzole di auto in sosta finché vede un uomo in impermeabile che si allontana a passo svelto dal fabbricato appesantito da due borse per la spesa di plastica. Si ferma dietro una Buick bianca, appoggia a terra i sacchetti e si fruga in tasca cercando le chiavi per aprire il bagagliaio. A tre auto dalla Buick è libero un posto per parcheggiare. La Honda, che lo ha accompagnato fin dall'Oklahoma, non ce la fa più. Deve abbandonarla lì. Alfie scende dall'auto con l'attrezzo di ferro nella destra. La tiene vicina
alla gamba per non richiamare l'attenzione. Il temporale comincia a perdere un po' di forza. Il vento sta calando. I fulmini non rigano più il cielo. Anche se la pioggia non è meno fredda di prima, se ne sente rinfrescato più che gelato. Mentre si dirige verso i negozi e verso la Buick bianca controlla l'immenso parcheggio. Per quanto è in grado di dire, nessuno lo sta guardando. Nessuno dei veicoli lungo quel tratto sta per andarsene: non si vedono luci di posizione né nuvole di fumo di scarico. L'auto in movimento più vicino è a tre file di distanza. L'uomo che ha fatto la spesa ha trovato le chiavi, aperto il baule della Buick e messo via una delle due borse di plastica. Mentre si china a raccogliere la seconda si accorge di non essere più solo, volta la testa, guarda all'indietro e verso l'alto dalla sua posizione chinata appena in tempo per vedere la spranga di ferro che gli piomba sulla faccia, dove ha appena il tempo di formarsi un'espressione di allarme. Il secondo colpo probabilmente è superfluo. Il primo ha sicuramente sparato frammenti di ossa facciali dentro il cervello. Lui sferra ugualmente un altro colpo all'uomo inerte e muto. Getta nel bagagliaio aperto il ferro, che urta qualcosa con un rumore sordo. Muoversi, agire, affrontare, sfidare, lottare, e trionfare. Senza perdere tempo a guardarsi attorno per vedere se è ancora solo, alza l'uomo da terra come un sollevatore di pesi. Scarica il cadavere nel bagagliaio e l'auto ondeggia sotto l'impatto del peso morto. La notte e la pioggia gli offrono quel minimo di copertura di cui ha bisogno per sfilare l'impermeabile al cadavere mentre giace nascosto nel baule aperto. Un occhio resta fisso mentre l'altro balla nell'orbita, e la bocca è paralizzata in un urlo di terrore a denti spaccati, un urlo che non è mai uscito. Quando infila l'impermeabile sugli abiti bagnati, vede che è un po' largo e un po' lungo di maniche, ma per il momento è quello che gli occorre. Gli copre gli indumenti strappati, insanguinati e sporchi di cibo, rendendolo sufficientemente presentabile, e questo è l'importante. Sente ancora su di sé il calore corporeo del vecchio proprietario. Più tardi si sbarazzerà del cadavere, e domani si comprerà degli abiti nuovi. Intanto ha troppo da fare, e così poco tempo per farlo. Sfila il portafoglio al morto, che risulta piacevolmente gonfio di denaro.
Getta il secondo sacchetto della spesa nel baule, addosso al cadavere, richiude il cofano. Le chiavi sono lì, che ciondolano dalla serratura. Nella Buick, armeggia con i comandi di regolazione del riscaldamento mentre esce dal parcheggio. Muoversi, agire, affrontare, sfidare, lottare, e trionfare. Comincia a cercare con gli occhi una stazione di servizio, non perché la Buick abbia bisogno di benzina ma perché gli serve un telefono. Ricorda le voci che ha sentito in cucina mentre agonizzava tra i pezzi della ringhiera distrutta. L'impostore si affrettava a mandar via Paige e le bambine dalla casa prima che potessero entrare nell'ingresso e vedere il loro vero marito e padre dibattersi per tirarsi su e mettersi a quattro zampe. «...portale da Vic e Kathy di fronte...» E, pochi secondi dopo, c'era stato un nome ancora più utile: «...a casa dei Delorio...» Benché siano suoi vicini, non ricorda né Vic né Kathy, né quale sia la loro casa. È una nozione che gli è stata rubata insieme con il resto della vita. Comunque, se sono sull'elenco, li troverà. Una stazione di servizio. Un'insegna azzurra della Pacific Bell. Già mentre si affianca alla cabina di plexiglas intravede la grossa guida fissata alla mensola con una catena. Lasciando il motore acceso, entra nella cabina sguazzando in una pozzanghera di pioggia. Chiude la porta perché si accenda la luce sul soffitto e sfoglia freneticamente l'elenco. La fortuna è dalla sua parte. Victor W. Delorio. L'unico presente con quel nome. Mission Viejo. La strada dove abita lui. Centro pieno. Impara a memoria l'indirizzo. Entra di corsa nella stazione di servizio ad acquistare barre di cioccolato. Venti. Hershley alle mandorle, tre Musketeers, Mound, Crunch Nestlé di cioccolato bianco. L'appetito per il momento è a posto: non vuole mangiarle adesso, ma ben presto ne avrà bisogno. Paga prendendo il denaro da quello che ha tolto al morto nel bagagliaio della Buick. «A quanto pare ha proprio un debole per il dolce», commenta l'uomo alla cassa. Tornato nella Buick, mentre si immette di nuovo nel traffico uscendo dall'area di servizio, sente crescere l'ansia per le sue donne, che sono ancora sotto l'incantesimo dell'impostore. Potrebbe averle portate in un posto lontano dove lui non riuscirà a trovarle. Potrebbe far loro del male. Addi-
rittura ucciderle. Può accadere di tutto. Lui ha solo visto la loro fotografia e ha appena cominciato a riprendere confidenza con loro, ma potrebbe perderle prima ancora di avere avuto l'occasione di baciarle di nuovo, di far sapere loro quanto le ama. È ingiusto. Il cuore gli batte con forza, rinfocolando il dolore da poco cessato nelle ferite prontamente rimarginate. Oh, Dio, lui ha bisogno della sua famiglia. Ha bisogno di stringerla a sé, di sentirne l'abbraccio. Ha bisogno di confortare moglie e figlie e di essere confortato e di sentir pronunciare il suo nome. Sentendole dire il suo nome, una volta e per sempre sarà qualcuno. Accelerando a un semaforo che sta passando dal giallo al rosso, parla ad alta voce alle sue bambine, con una voce che trema per l'emozione. «Charlotte, Emily, sto arrivando. Siate forti. Papà sta arrivando. Papà sta arrivando. Papà. Sta. Arrivando.» 8 Il tenente Lowbock fu l'ultimo poliziotto a uscire dalla casa. Sul gradino della porta, mentre gli sportelli delle autopattuglie si chiudevano nella strada dietro di lui, si voltò verso Paige e Marty a elargire un ultimo fugace e appena percettibile sorriso. Evidentemente aborriva l'idea di essere ricordato per la manifestazione sia pur controllatissima di rabbia da cui alla fine si era lasciato cogliere. «Mi farò vedere appena pronti i risultati degli esami di laboratorio.» «Non sarà mai troppo presto», rispose Paige. «È stata una visita così affascinante che non vediamo l'ora che arrivi la prossima.» «Buona sera, signora Stillwater», concluse Lowbock. Quindi si rivolse a Marty. «Buona sera, Mr. Murder.» Marty sapeva che sbattere la porta in faccia al detective era una cosa infantile, ma fu ugualmente soddisfacente. Infilando la catena di sicurezza mentre Marty girava la manopola della serratura, Paige chiese: «Mr. Murder?» «È così che mi chiamano nell'articolo su People.» «Non l'ho ancora visto.» «Proprio nel titolo. Oh, aspetta a leggerlo. Viene fuori un Marty Stillwater assolutamente ridicolo e grottesco. Dio mio, se gli è capitato di leggere oggi l'articolo, non posso biasimare Lowbock per aver pensato che fosse tutta una montatura pubblicitaria.» «Quell'uomo è un idiota.»
«Ma questa effettivamente è una storia assolutamente incredibile.» «Io ci ho creduto.» «Lo so. E per questo ti amo.» La baciò. Lei si tenne stretta a lui, ma solo per un momento. «Come va la gola?» domandò. «Sopravviverò.» «Quell'imbecille pensa che ti sia strangolato da solo.» «Non l'ho fatto. Ma probabilmente è possibile.» «Piantala di vederla dal suo punto di vista. Mi fai andare in bestia. Adesso che cosa facciamo? Non sarebbe meglio andar via?» «Al più presto», annuì lui. «E non torneremo finché non avremo capito che cos'è tutta questa maledetta storia. Ce la fai a mettere insieme un paio di valigie, il minimo indispensabile per qualche giorno?» «Certo», rispose lei, già dirigendosi verso le scale. «Io vado a chiamare Vic e Kathy, mi accerto che da loro vada tutto bene, poi vengo a darti una mano. Ah, Paige... il Mossberg è sotto il letto in camera nostra.» «D'accordo», rispose lei cominciando a salire le scale scavalcando i frammenti scheggiati di balaustra. «Tiralo fuori e mettilo sul letto mentre fai i bagagli.» «Va bene», replicò lei già a un terzo della rampa. Gli parve di non aver fatto abbastanza perché le fosse chiaro il bisogno di prendere misure assolutamente straordinarie. «Portalo con te anche nella camera delle bambine.» «Sì.» Con un tono tanto brusco da fermarla, e avvertendo una fitta di dolore al collo mentre volgeva la testa e l'alzava a guardarla, Marty insisté: «Maledizione, dico sul serio, Paige». Lei lo fissò, sorpresa da quel tono di voce totalmente insolito. «Ho capito. Lo terrò a portata di mano.» «Bene.» Si diresse verso il telefono della cucina, ed era arrivato già nella stanza da pranzo quando sentì Paige lanciare un grido dal primo piano. Con il cuore che gli batteva così forte da togliergli il fiato, Marty tornò a precipizio nell'ingresso, con il terrore di trovarla tra le grinfie dell'Altro. Era in cima alle scale, paralizzata dall'orrore, con lo sguardo fisso sulle macchie di sangue sulla moquette, che vedeva per la prima volta. «Sentivo quando ne parlavate, ma non pensavo...» Guardò Marty. «Quanto sangue.
Come ha fatto... come ha potuto andarsene?» «Non avrebbe potuto se fosse stato... un uomo come tutti. È per questo che sono sicuro che tornerà. Forse non questa notte, forse non domani, forse non questo mese, ma tornerà.» «Marty, è pazzesco.» «Lo so.» «Dio santo», mormorò lei, più in tono di preghiera che di comune esclamazione, e corse nella camera da letto. Marty tornò in cucina e tolse la Beretta dal pensile. Benché l'avesse caricata lui stesso, sfilò il caricatore, lo controllò, lo reinserì e mise di nuovo un colpo in canna. Il pavimento piastrellato era tutto coperto di impronte di piedi. Molte erano ancora umide. Nelle ultime due ore i poliziotti avevano continuato a entrare e uscire, ed evidentemente non tutti erano tanto educati da pulirsi i piedi sullo stuoino. Pur sapendo che gli uomini della polizia erano indaffarati e che avevano ben altro da fare che preoccuparsi di non sporcargli la casa, quelle impronte, e l'insensibilità che segnalavano, gli parvero una violazione non meno profonda dell'aggressione dell'Altro. Un risentimento di sorprendente intensità scattò dentro di lui. Mentre i criminali si aggiravano per il mondo moderno, il sistema giudiziario operava in base al criterio che a generare il male fosse principalmente l'ingiustizia sociale. I delinquenti erano considerati vittime della società, così come le persone che rapinavano o uccidevano erano le loro vittime. Di recente un uomo era stato rilasciato da un penitenziario della California dopo aver scontato sei anni per aver violentato e ucciso una bambina di undici anni. Sei anni. La bambina, ovviamente, non aveva smesso di essere morta. Tali nefandezze erano ormai così comuni che la stampa non aveva prestato al fatto la minima attenzione. Se i tribunali non proteggevano un'innocente di undici anni, e se Camera e Senato non formulavano leggi in grado di imporre ai tribunali di farlo, allora su giudici e politici non era più possibile contare perché proteggessero un qualsiasi cittadino, in qualsiasi luogo, in qualsiasi momento. Ma, maledizione, almeno ci si poteva aspettare che i poliziotti ti proteggessero, perché loro erano sulla strada tutti i giorni, nel cuore delle cose, e sapevano come andava veramente il mondo. I grandi saloni di Washington e le eminenze grigie nelle aule di giustizia si erano isolati dalla realtà con stipendi altissimi e generose pensioni; vivevano in ville protette da cancel-
late e guardie di sicurezza, mandavano i figli a scuole private... e perdevano il contatto con i danni che provocavano. Ma i poliziotti no. I poliziotti erano dei lavoratori. Lavoratori e lavoratrici. Nel loro lavoro vedevano il male quotidianamente: sapevano che era diffuso in uguale misura tra le classi privilegiate, la borghesia e i poveri, che le colpe della società erano minori di quelle della natura tarata della razza umana. La polizia sarebbe dovuta essere l'ultima linea di difesa contro la barbarie. Ma se gli agenti diventavano cinici di fronte al sistema che si erano impegnati a sostenere, se cominciavano a credere di essere rimasti gli unici a difendere la giustizia, avrebbero smesso di prendersi a cuore le cose. Quando si fosse avuto bisogno di loro, avrebbero condotto le loro indagini, riempito le loro scartoffie per accontentare la burocrazia, infangato il vostro pavimento che prima era pulito, e se ne sarebbero andati senza neppure un minimo senso di compassione. Lì in cucina, con la Beretta carica in mano, Marty sapeva che ormai la loro ultima linea di difesa era costituita da lui stesso e da Paige. Nessun altro. Nessuna autorità superiore. Nessun custode del benessere pubblico. Gli serviva coraggio, ma anche l'immaginazione sbrigliata a cui ricorreva per scrivere i suoi libri. Improvvisamente gli parve di vivere in un romanzo nero, in quel mondo amorale in cui si svolgevano le storie di James M. Cain o Elmore Leonard. Per sopravvivere in un mondo così oscuro sarebbe stato necessario pensare rapidamente, agire in fretta, in modo spietato. Gran parte delle sue speranze era legata alla capacità di prevedere il peggio che la vita avrebbe potuto portare alla prossima svolta, e quindi essere pronto a quell'evento anziché farsi prendere alla sprovvista. La sua mente era vuota. Non aveva la minima idea di dove andare, che cosa fare. Fare le valigie e allontanarsi da casa, sì. Ma poi? Rimase a fissare la pistola che aveva in mano. I romanzi di Cain e di Leonard gli piacevano, ma i suoi non erano mai così neri. I suoi erano una celebrazione della ragione, della logica, della virtù, del trionfo dell'ordine sociale. La sua immaginazione non lo portava a soluzioni di vendetta privata, alla relatività della morale, all'anarchia. Vuoto totale. Angosciato dai dubbi sulla propria capacità di affrontare tutto quello che gli stava piombando addosso, Marty staccò il ricevitore del telefono della cucina e chiamò i Delorio. Quando Kathy, al primo squillo, rispose, lui disse: «Sono Marty».
«Marty, tutto bene? Abbiamo visto la polizia andare via, e poi se n'è andato anche l'agente che era qui, ma nessuno ci ha spiegato niente. Allora, avete sistemato tutto? Che diavolo sta succedendo?» Kathy era un'ottima vicina, realmente preoccupata, ma Marty non aveva intenzione di perdere tempo a raccontare tutto quello che gli era capitato con il killer e con la polizia. «Charlotte ed Emily dove sono?» «Guardano la televisione.» «Dove?» «Be', in soggiorno.» «Avete chiuso le porte?» «Sì, certo, credo di sì.» «Assicuratene. Controllale. Avete un'arma?» «Un'arma? Marty, di che cosa si tratta?» «Avete un'arma?» insisté lui. «Io sono contraria alle armi. Ma Vic ne ha una.» «L'ha con sé adesso?» «No. Ha...» «Digli di caricarla e tenerla a portata di mano fino a quando verremo Paige e io a prendere le bambine.» «Marty, questo non mi piace. Non...» «Dieci minuti, Kathy. Vengo a prendere le bambine tra dieci minuti al massimo, più presto che posso.» Riappese prima che lei potesse replicare. Salì di corsa le scale fino alla stanza che fungeva da studio di Paige, dove lei teneva l'amministrazione della casa e si occupava degli affari finanziari della famiglia. Nell'ultimo cassetto a destra della scrivania di legno di pino erano raccolte le ricevute, le fatture e gli assegni incassati. Il cassetto conteneva anche il libretto degli assegni e il libretto di risparmio, tenuti insieme con un elastico. Li infilò in una tasca dei calzoni. La sua mente non era più vuota. Aveva pensato ad alcune precauzioni da prendere, benché troppo esili per poterle considerare un piano di azione. Tornato nel suo studio, entrò nel ripostiglio e scelse quattro contenitori di cartone dalle pile di trenta o quaranta scatole della stessa forma e dimensione. Ciascuna conteneva venti libri cartonati. Poté portarne solo due alla volta nel garage. Le mise nel portabagagli della BMW, stringendo i denti per il dolore al collo, rinfocolato dallo sforzo. Entrando nella camera da letto dopo il secondo viaggio fino al garage, si
bloccò sulla soglia alla vista di Paige che afferrava il fucile e glielo puntava contro. «Scusami», gli disse quando vide che era lui. «Hai fatto bene», rispose Marty. «Hai già preso le cose delle bambine?» «No, ho appena finito qui.» «Allora ci penso io», disse lui. Seguendo la traccia di sangue verso la stanza di Charlotte ed Emily, nel passare accanto alla ringhiera schiantata, Marty lanciò un'occhiata al piano di sotto. Si aspettava quasi di vedere un morto steso sulle mattonelle scheggiate del pavimento. 9 Charlotte ed Emily erano sprofondate una accanto all'altra nel divano del soggiorno di casa Delorio. Fingevano di essere profondamente assorte in uno stupido serial televisivo su una stupida famiglia di stupidi ragazzini e stupidi genitori che per risolvere uno stupido problema facevano ogni sorta di stupidaggini. Visto che sembravano prese dalla trasmissione, la signora Delorio si era recata in cucina, a preparare la cena. Il signor Delorio camminava su e giù per la casa o si metteva davanti alle finestre anteriori a guardare i poliziotti all'esterno. Ignorate, le bambine avevano la possibilità di chiacchierare sottovoce tra loro e cercare di immaginare che cosa stesse succedendo a casa. «Forse hanno sparato a papà», azzardò Charlotte preoccupata. «Te l'ho già detto un milione di volte che non è così.» «Ma come fai a saperlo tu, che hai solo sette anni?» Emily sospirò. «Ci ha detto che stava bene, in cucina, quando mamma ha creduto che era ferito.» «Era tutto insanguinato», rabbrividì Charlotte. «Ha detto che non era sangue suo.» «Questo non me lo ricordo.» «Io sì», dichiarò Emily con enfasi. «Se non hanno sparato a papà, allora a chi?» «Forse a un ladro.» «Non siamo mica ricchi, Em. Che cosa poteva volere un ladro a casa nostra? Ehi, forse papà ha sparato alla signora Sanchez.» «E perché doveva spararle? È solo la donna delle pulizie.» «Magari è ammattita», suggerì Charlotte, e quell'evenienza solleticò
straordinariamente la sua sete di teatralità. Emily scosse la testa. «No, la signora Sanchez è una persona per bene.» «Anche le persone per bene ammattiscono.» «No.» «E invece sì.» Emily incrociò le braccia. «Dimmene una.» «La signora Sanchez», rispose pronta Charlotte. «A parte la signora Sanchez.» «Jack Nicholson.» «E chi è?» «Ma sì, quell'attore. In Batman faceva il Joker, ed era matto come un cavallo.» «Ma forse è sempre matto come un cavallo.» «No, qualche volta è bravo, come in quel film con Shirley MacLaine, lui fa l'astronauta, e la figlia di Shirley si ammala e scoprono che ha il cancro, lei muore, e Jack era buonissimo e bravissimo.» «Comunque, oggi non è il giorno della signora Sanchez», precisò Emily. «Eh?» «Lei viene solo di giovedì.» «Ma dai, Em, se uno ammattisce come vuoi che sappia che giorno è?» replicò Charlotte, soddisfatta della propria logica. «Forse è scappata da una clinica di svitati, gira in cerca di lavori da domestica, poi ogni tanto dà di fuori e ammazza la famiglia, l'arrostisce e se la mangia a cena.» «Sei tu che sei matta», commentò Emily. «No, senti», insisté Charlotte in un sussurro, «come Hannibal Lecter.» «Hannibal il Cannibale!» esclamò Emily. Nessuna delle due aveva visto il film (che Emily insisteva a chiamare Il silenzio degli incoscienti) perché secondo mamma e papà erano troppo piccole, ma lo avevano sentito raccontare dai compagni di scuola che avevano visto la cassetta un miliardo di volte. Charlotte si rese conto che Emily non era più tanto sicura nei confronti della signora Sanchez. Dopotutto Hannibal the Cannibal era un medico che ammattiva alla grande e staccava a morsi alla gente nasi e altre parti del corpo, per cui l'idea di una donna delle pulizie ammattita e cannibale d'un tratto aveva una sua logica inattaccabile. Il signor Delorio entrò in soggiorno e scostò le tendine della portafinestra per guardare il giardino sul retro, rischiarato in parte dalle luci del patio. Impugnava una pistola, che prima non aveva.
Lasciando ricadere le tende, si girò dal vetro e sorrise a Charlotte e a Emily. «Tutto bene, ragazze?» «Sì, signor Delorio», rispose Charlotte. «È una trasmissione bellissima.» «Avete bisogno di niente?» «No, grazie», disse Emily. «Vogliamo solo guardare la televisione.» «E una trasmissione bellissima», ripeté Charlotte. Mentre il signor Delorio usciva dalla stanza, Charlotte ed Emily si girarono a guardarlo finché non fu fuori vista. «Perché avrà la pistola?» domandò Emily a bassa voce. «Per proteggerci. E sai che cosa significa? Che la signora Sanchez dev'essere ancora viva e in libertà, alla ricerca di qualcuno da mangiare.» «E se il prossimo ad ammattire è il signor Delorio? Con quella pistola non riusciremo mai a metterci in salvo.» «Ma andiamo!» rispose Charlotte. Subito dopo però le venne in mente che un insegnante di educazione fisica correva gli stessi rischi di ammattire di una donna delle pulizie. «Ascolta, Em, lo sai che cosa si fa se ammattisce?» «Si chiama il nove uno uno.» «Non ne avresti il tempo, sciocca. Quello che devi fare è questo: un calcio nelle palle.» Emily aggrottò la fronte. «Eh?» «Non ti ricordi più il film di sabato?» chiese Charlotte. La mamma si era così arrabbiata per il film che era andata a protestare dal gestore del cinema. Com'era possibile, aveva voluto sapere, che la pellicola fosse stata giudicata «per tutti», nonostante il linguaggio e la violenza che vi comparivano, e il gestore aveva risposto che era sì per tutti, ma «con riserva», cosa ben diversa. Una delle scene che aveva irritato la mamma era quando il buono si era salvato dal cattivo sferrandogli un violento calcio tra le gambe. Dopo, quando uno aveva chiesto al buono che cosa volesse il cattivo, il buono aveva risposto: «Che cosa voleva non lo so; so che quello che gli serviva era un buon calcio nelle palle». Charlotte aveva intuito immediatamente che la battuta aveva infastidito la mamma. Più tardi avrebbe potuto chiederle una spiegazione, e la mamma gliel'avrebbe data. Mamma e papà ci tenevano a rispondere sempre sinceramente a tutte le domande delle bambine. Ma qualche volta era più stimolante cercare di trovare da sola la risposta, perché così c'era qualcosa che lei sapeva e loro non sapevano che lei sapeva.
A casa, aveva cercato nel vocabolario per vedere se c'era qualche definizione di «palle» che spiegasse quello che il buono aveva fatto al cattivo, e che spiegasse anche perché la mamma se l'era presa tanto. Visto che uno dei significati della parola era un termine volgare per «testicoli», era corsa a cercare la spiegazione di quella parola misteriosa nello stesso vocabolario, aveva appreso quanto poteva, poi era entrata nello studio del papà e aveva consultato l'enciclopedia medica per saperne di più. Si trattava di roba piuttosto stravagante. Ma lei aveva capito. Più o meno. Forse più di quanto avrebbe voluto. Lo aveva spiegato alla meglio a Em. Ma Em non aveva creduto nemmeno a una parola e, evidentemente, aveva subito dimenticato il tutto. «Come nel film di sabato», le ricordò Charlotte. «Se le cose si mettono male e lui ammattisce, gli tiri un calcio tra le gambe.» «Ah, sì», annuì Em dubbiosa. «Un calcio nei pessicoli.» «Testicoli.» «Era pessicoli.» «Testicoli», insisté Charlotte con energia. Emily si strinse nelle spalle. «Sarà.» La signora Delorio entrò in soggiorno, asciugandosi le mani con uno strofinaccio giallo. Sulla gonna e la camicetta aveva un grembiule. Aveva addosso l'odore delle cipolle che stava tritando: quando erano arrivate stava cominciando a preparare la cena. «Ancora un po' di Pepsi, ragazze?» «No grazie, signora Delorio», rispose Charlotte. «Va bene così, grazie. Ci stiamo godendo la televisione.» «È una trasmissione bellissima», dichiarò Emily. «Una delle nostre preferite», aggiunse Charlotte. «È la storia di un ragazzo che ci aveva certe palle», spiegò Emily, «e tutti volevano darci dei calci.» Charlotte fu lì lì per darle un cazzotto in testa. Perplessa, la signora Delorio si accigliò e lanciò uno sguardo al televisore. «Palle?» «Sì, aveva un pallone da calcio e uno da football», cercò di rimediare Charlotte. In quel momento suonarono alla porta, prima che Em potesse fare altri danni. «Scommetto che sono i vostri genitori», disse la signora Delorio affrettandosi a uscire dal soggiorno. «Deficiente», sussurrò Charlotte alla sorella.
Emily aveva un'espressione soddisfatta. «Te la prendi tanto perché ti ho dimostrato che ti sei inventata tutto. Lei non aveva mai sentito parlare di ragazzi con le palle.» «Shhh!» «Ecco!» «Testa di cavolo!» «Testa di pomodoro!» «Ah! Testa di pomodoro non esiste nemmeno.» «E invece sì, se io lo voglio.» Il campanello continuava a squillare, come se qualcuno ci si fosse appoggiato contro. Dallo spioncino, Vic vide che l'uomo davanti alla porta era Marty Stillwater. Aprì la porta, tirandosi indietro per lasciare entrare il suo vicino. «Dio mio, Marty, pareva un congresso di poliziotti lì da te. Che cos'è successo?» Marty lo scrutò intensamente per un attimo, fissando soprattutto la pistola che aveva in mano, poi parve prendere una decisione e battè le palpebre. Bagnata di pioggia, la sua pelle appariva innaturalmente lucida e bianca come quella di una statuina di porcellana. Sembrava raggrinzito, avvizzito, come un uomo che emerga da una grave malattia. «Stai bene, Paige sta bene?» chiese Kathy, entrando nella stanza d'ingresso dietro Vic. Esitante, Marty varcò la soglia e si fermò davanti alla porta senza entrare del tutto, impedendo così a Vic di chiudere. «Che cosa c'è», chiese Vic, «hai paura di bagnare il pavimento? Non ti preoccupare, Kathy è abituata a vivere con me, che da questo punto di vista sono un disastro! Entra, entra.» Senza avanzare, Marty spinse lo sguardo oltre Vic in direzione del soggiorno, poi in alto, verso la cima delle scale. Indossava un impermeabile nero abbottonato fino al collo, troppo grande per lui, e questo era uno dei motivi per cui sembrava raggrinzito. Proprio quando Vic cominciò a pensare che avesse perso la parola, Marty disse: «Dove sono le bambine?» «Stanno bene», lo rassicurò Vic. «Sono al sicuro.» «Ho bisogno di loro», disse Marty. La sua voce, non più roca come prima, ora aveva un che di legnoso. «Ho bisogno di loro.» «Be', vecchio mio, non puoi fermarti almeno per il tempo di spiegarci
che cosa...» «Ho bisogno di loro, subito», insisté Marty. «Sono mie.» No, riflette Vic, in effetti la voce non era legnosa, ma controllatissima, come se Marty stesse lottando per trattenere l'ira o il terrore o qualche altra emozione forte, temendo di perdere il controllo di se stesso. Tremava leggermente. Forse parte di ciò che sembrava pioggia, sul suo viso, era sudore. Kathy avanzò verso la porta. «Marty, che cosa c'è che non va?» Vic stava per fargli la stessa domanda. Abitualmente Marty Stillwater era una persona apertissima, rilassata, pronta al sorriso, mentre ora appariva rigido, impacciato. Quello che era accaduto quella sera, qualsiasi cosa fosse, doveva avergli lasciato un segno profondo. Prima che Marty potesse rispondere, Charlotte ed Emily comparvero in fondo al corridoio, sulla porta del soggiorno. Dovevano essersi infilati gli impermeabili nel momento in cui avevano sentito la voce del padre. Finirono di abbottonarsi mentre si avvicinavano. «Papà.» La voce di Charlotte era un po' tremolante. Alla vista delle figlie, gli occhi di Marty si riempirono di lacrime. Quando Charlotte gli rivolse la parola, fece un altro passo verso l'interno e Vic poté chiudere la porta. Le bambine superarono Kathy di corsa; Marty si lasciò cadere in ginocchio e Charlotte ed Emily gli volarono tra le braccia con tanta veemenza da farlo quasi cadere. Mentre erano tutti e tre abbracciati, le bambine si misero a parlare contemporaneamente. «Papà, stai bene? Che paura che abbiamo avuto. Stai bene? Ti voglio tanto bene, papà. Eri tutto sporco di sangue. Io gliel'ho detto che non era sangue tuo. Era un ladro, era la signora Sanchez? Era ammattita, era ammattito il postino, chi era ammattito, perché poi delle brave persone devono ammattire da un momento all'altro?» In realtà erano in tre a parlare contemporaneamente, perché anche Marty interveniva sovrapponendosi alle loro domande. «Charlotte, Emily, bimbe mie, vi amo, vi amo tanto, non vi lascerò mai più portar via, mai più.» Le baciava sulle guance, sulla fronte, le stringeva forte a sé, accarezzava i loro capelli con le mani che gli tremavano, le guardava e agiva come se non le vedesse da anni. Kathy sorrideva e al tempo stesso piangeva sommessamente, asciugandosi gli occhi con lo strofinaccio giallo. Per Vic quell'incontro era sì toccante, ma non si sentiva commosso quanto la moglie, in parte perché vedeva in Marty qualcosa di strano, non
quello che ci si può aspettare in un uomo che abbia appena finito di lottare per cacciare via di casa un estraneo (se questo era effettivamente ciò che era successo) ma solo... be' era strano. Insolito. Le cose che stava dicendo Marty avevano qualcosa di inspiegabile: «Emily mia, Charlotte mia, mie, belle come nella fotografia, mie, saremo sempre insieme, è il mio destino». Anche il tono di voce era insolito, troppo scosso e ansioso se quella prova faticosa era superata, e doveva essere così se la polizia era andata via, ma anche troppo forzato. Drammatico. Teatrale. Non parlava spontaneamente, sembrava che recitasse una parte sulla scena, che si sforzasse di ricordare le battute giuste. Tutti dicono che i creativi sono strana gente, soprattutto gli scrittori, e quando Vic aveva fatto la conoscenza di Martin Stillwater si era aspettato di trovarsi davanti un romanziere eccentrico. Ma in questo Marty lo aveva deluso: si era mostrato il più normale, equilibrato vicino di casa che chiunque potesse desiderare di avere. Fino a quel momento. Rialzandosi in piedi, sempre abbracciato alle bambine, Marty annunciò: «Dobbiamo andare». Si volse verso la porta. «Aspetta un secondo, Marty», lo fermò Vic. «Non puoi scappare così, senza una parola di spiegazione.» Marty aveva lasciato Charlotte solo per il tempo necessario ad aprire la porta. Le afferrò di nuovo la mano mentre il vento si insinuava nell'ingresso e scuoteva l'arazzo con i pettirossi e i fiori di campo, che pendeva incorniciato dalla parete. Quando lo scrittore uscì di casa senza dargli la minima risposta, Vic si voltò a guardare Kathy e vide che la sua espressione era mutata. Le lacrime le brillavano ancora sulle guance, ma aveva gli occhi asciutti, e sembrava sconcertata. Allora non sono soltanto io, pensò. Uscì anche lui e vide che lo scrittore aveva già disceso i gradini, e si avviava lungo il vialetto sotto la pioggia che arrivava a folate, tenendo per mano le bambine. L'aria era gelida. Le rane gracidavano, ma il loro canto era innaturale, freddo e metallico, come lo stridio di un giunto inceppato in un meccanismo fuori uso. Quel suono gli fece venire voglia di tornare dentro, sedersi davanti al fuoco e bersi un bel po' di caffè bollente con il brandy. «Maledizione, Marty, aspetta un minuto!» Lo scrittore si girò a guardarlo, le bambine strette a sé. «Ti siamo amici», gli ricordò Vic. «Vogliamo aiutarti. Quale che sia il
problema, vogliamo aiutarti.» «Non c'è niente che tu possa fare, Victor.» «Victor? Amico, lo sai benissimo che odio 'Victor', nessuno mi chiama così, nemmeno la mia cara vecchia madre.» «Scusami... Vic. Sono solo... ho tante cose per la testa.» Riprese il cammino giù per il vialetto tirandosi dietro le bambine. Davanti al cancelletto era parcheggiata un'auto. Una Buick nuova. Sotto la pioggia sembrava tempestata di gemme. Il motore era acceso. Le luci anche. Dentro non c'era nessuno. Saltato giù dagli scalini sotto l'acqua, che non era più un acquazzone ma bagnava lo stesso, Vic li raggiunse. «È tua questa macchina?» «Già», rispose Marty. «Da quando?» «L'ho comprata oggi.» «Dov'è Paige?» «Abbiamo un appuntamento.» Il viso di Marty era bianchissimo, come il teschio nascosto sotto la pelle. Tremava visibilmente, e i suoi occhi avevano un'aria innaturale sotto la luce dei lampioni. «Senti, Vic, le bambine si stanno bagnando fino all'osso.» «Sono io che mi sto bagnando», rispose Vic. «Loro hanno gli impermeabili. Paige non è in casa?» «E già andata via.» Marty lanciò un'occhiata preoccupata alla casa di fronte, dove si vedeva la luce ancora accesa al pianterreno e al primo piano. «Dobbiamo incontrarci.» «Ti ricordi quello che mi hai detto...» «Vic, per favore...» «Me n'ero quasi dimenticato io stesso, quello che mi hai detto, ma poi mentre scendevi per il vialetto mi è tornato in mente.» «Dobbiamo andare, Vic.» «Mi hai detto di non dare le bambine a nessuno se non c'era anche Paige. A nessuno. Ti ricordi che cosa hai detto?» Marty portò di sotto due voluminose valigie. La Beretta Parabellum da 9 millimetri infilata nella cintura dei calzoni gli comprimeva fastidiosamente la pancia. Il maglione nascondeva il calcio della pistola. Aveva lasciato sbottonata la giacca a vento rossa e nera per poter impugnare l'arma senza impaccio, semplicemente lasciando cadere le valigie.
Paige entrò in cucina dietro di lui. Portava anche lei una valigia e il Mossberg calibro dodici. «Non aprire la porta esterna», le disse Marty uscendo dalla porticina che metteva in comunicazione la cucina con il garage buio. Non voleva che il portellone si aprisse mentre caricavano l'auto perché così sarebbero diventati un bersaglio vulnerabile. Per quanto ne sapeva lui, l'Altro poteva essere tornato indietro quando i poliziotti erano andati via, e trovarsi lì fuori in quel preciso istante. Seguendolo nel garage, Paige accese l'illuminazione al neon sul soffitto. I lunghi tubi tremolarono ma la luce non si avviò subito perché gli starter non erano in buone condizioni. Le ombre guizzarono lungo le pareti, tra le auto, dietro le travi. Sottoponendo a tortura il collo malandato, Marty voltò istintivamente la testa seguendo quei fantasmi balenanti. Nessuno di loro aveva un volto, e tanto meno un volto identico al suo. I neon finirono di accendersi. La dura luce bianca, fredda e piatta come il sole di un mattino d'inverno, arrestò di colpo la danza delle ombre. È arrivato a pochi passi dalla Buick, stringendo forte le mani delle bambine, è lì lì per andar via con loro. La sua Charlotte. La sua Emily. Il suo avvenire, il suo destino, così vicino, così esasperantemente vicino. Ma Vic non lo molla. Quell'uomo è una sanguisuga. Li segue per strada fino alla macchina, come se non si accorgesse che piove, senza smettere un momento di blaterare, di fare domande, bastardo rompiscatole. Così vicino all'auto. Il motore in folle, le luci accese. Emily da una parte, Charlotte dall'altra, e loro lo amano, lo amano davvero. Prima, nell'ingresso, lo abbracciavano, lo baciavano, così felici di vederlo, le sue bambine. Loro conoscono il loro papà, il loro vero papà. Se solo riesce a entrare in macchina, chiudere la portiera e andare via, saranno sue per sempre. Forse potrebbe uccidere Vic, il bastardo rompiscatole. Dopo sarebbe facilissimo scappare. Ma non è sicuro di farcela. «Mi hai detto di non dare le bambine a nessuno se non c'era anche Paige. A nessuno», ripete Vic. «Ti ricordi che cosa hai detto?» Lui fissa Vic, pensando non tanto a una risposta quanto a un modo per liquidare quel figlio di puttana. Ma ha di nuovo fame, è incerto sulle gambe, comincia ad aver voglia delle barre al cioccolato che ha lasciato sul sedile, di zuccheri, di carboidrati, di altra energia per le riparazioni ancora in corso nel suo organismo.
«Marty? Ti ricordi che cosa hai detto?» Non è armato, oltre tutto, cosa che normalmente non rappresenterebbe un problema. È stato ben addestrato a uccidere a mani nude. Potrebbe anche avere la forza per farlo, nonostante il suo stato e il fatto che Vic ha l'aria di essere abbastanza forte da resistere. «Mi era sembrato strano», insiste Vic, «ma me lo hai detto tu, hai detto di non darle nemmeno a te se non c'era anche Paige.» Il problema è che l'altro è armato. Ed è sospettoso. Secondo dopo secondo, ogni speranza di fuga si sta sbriciolando, dilavata dalla pioggia. Le bambine gli tengono ancora la mano. La sua presa è forte, sì, ma cominciano a scivolargli via, e lui non sa che cosa fare. Fissa Vic a bocca aperta, con la mente che gli turbina, incapace di escogitare qualcosa da dire come lo era stato davanti al computer quel pomeriggio, alla ricerca di qualcosa da scrivere, sforzandosi di iniziare un nuovo libro. Muoversi, agire, affrontare, sfidare, lottare, e trionfare. Improvvisamente si rende conto che se vuole affrontare questo problema e trionfare deve agire da amico, nel modo in cui si trattano e si parlano a vicenda gli amici nei film. Questo spazzerà via ogni sospetto. Un torrente di ricordi cinematografici gli attraversa la mente, inondandolo. «Vic, santo cielo, Vic, io... io ho detto questo?» Immagina di essere Jimmy Stewart perché tutti vogliono bene a Jimmy Stewart, di lui si fidano tutti. «Non so che cosa intendevo dire, dovevo essere fuori di me dall'ansia. Cribbio, è solo che... solo che sono rimasto così maledettamente impressionato da tutta quella roba pazzesca che era successa, una roba folle.» «Ma che cosa è successo, Marty?» Impaurito ma sempre cortese, esitante ma sincero, Jimmy Stewart in un film di Hitchcock: «È una faccenda complicata, Vic, è tutto... è folle, incredibile, io stesso faccio fatica a crederci. Mi ci vorrebbe un'ora per raccontarti tutto, e purtroppo non ho tanto tempo, non ho un'ora, nossignore, adesso proprio no. Le mie bambine, queste bambine qua, sono in pericolo, Vic, e Dio mi aiuti se dovesse accadere loro qualcosa. Non vorrei più vivere». Nota che il suo nuovo modo di fare sta avendo l'effetto desiderato. Spinge le bambine per gli ultimi passi verso l'auto, quasi certo che il vicino non li fermerà. Ma Vic li segue, sguazzando in una pozzanghera. «Non puoi dirmi niente?» Apre lo sportello posteriore della Buick, fa salire le bambine, torna a gi-
rarsi verso Vic. «Mi vergogno di dirlo, ma sono io che le sto mettendo in pericolo, io, il padre, per quello che faccio per vivere.» Vic sembra disorientato. «Scrivi dei libri.» «Vic, lo sai che cos'è un ammiratore ossessivo?» Vic sgrana gli occhi, poi li socchiude quando uno spruzzo di pioggia gli colpisce il viso. «Come quella donna con Michael J. Fox qualche anno fa?» «Esatto, esatto, come Michael J. Fox.» Le bambine sono tutt'e due dentro. Richiude la portiera. «Solo che è un uomo che ci sta perseguitando, e non una donna squilibrata, e stasera si è spinto troppo in là, fa irruzione in casa, è violento, ho dovuto fargli del male. Io. T'immagini, io che devo fare del male a qualcuno, Vic? Adesso ho paura che torni, e devo portar via le bambine.» «Dio mio», mormora Vic, caduto in pieno nella trappola. «Per ora questa è l'unica cosa che ho il tempo di dirti, Vic, è più di quanto ho il tempo di dirti, per cui... per cui... fa' il favore, torna dentro prima di beccarti una polmonite. Ti chiamerò tra qualche giorno, ti racconterò il resto.» Vic esita. «Se possiamo fare qualcosa per aiutarti...» «Va', ora, va', ti ringrazio per quello che avete già fatto, ma l'unica cosa che puoi fare per aiutarmi è toglierti dalla pioggia. Ma guardati, sei tutto zuppo, per l'amor del cielo. Togliti dalla pioggia, così non avrò il rimorso di saperti con la polmonite per colpa mia.» Raggiunto Marty dietro la BMW, dove aveva deposto i bagagli, Paige appoggiò a terra la terza valigia e il Mossberg. Quando lui aprì la serratura del cofano e lo alzò, lei vide le scatole di cartone. «Che cosa sono?» «Roba che potrebbe esserci utile», rispose lui. «Di che genere?» «Ti spiego dopo.» Cominciò a sistemare le valigie nel portabagagli. Quando vide che entravano solo due valigie, Paige disse: «Ho preso il minimo indispensabile. Almeno una di quelle scatole dobbiamo lasciarla qui». «No. La valigia piccola la mettiamo vicino al sedile posteriore, a terra, sotto i piedi di Emily. Che comunque non arrivano al pavimento.» A metà strada Vic si volta a guardare verso la Buick. Sempre interpretando Jimmy Stewart: «Va', Vic, va' a casa. È uscita an-
che Kathy, si ammala anche lei se non entri, se non entrate tutti e due». Si volta, fa il giro della Buick passando da dietro, e guarda verso la casa solo quando è arrivato allo sportello. Vic è sui gradini con Kathy, troppo lontano ormai per impedirgli la fuga, con o senza la pistola. Fa un cenno di saluto con la mano e loro rispondono. Sale sulla Buick, al volante, sistemando l'impermeabile troppo grande. Chiude la portiera. Dall'altra parte della strada, in casa sua, le luci sono ancora accese in tutti e due i piani. L'impostore è lì con Paige. La sua meravigliosa Paige. Non può farci niente, per ora, senza un'arma. Quando si gira verso il sedile posteriore, vede che Charlotte ed Emily si sono già messe le cinture di sicurezza. Brave bambine. E sono un amore con quei loro impermeabili gialli, con quei cappelli gialli di plastica. Neppure nella foto erano così carine. Si mettono a parlare tutt'e due, prima Charlotte: «Dove andiamo, papà, di chi è questa macchina?» Emily: «Mamma dov'è?» Senza lasciargli il tempo di rispondere continuano con la loro raffica di domande. «Che cosa è successo, a chi hai sparato, hai ucciso qualcuno?» «Era la signora Sanchez?» «È ammattita come Hannibal il Cannibale, papà, era una furia scatenata?» chiede Charlotte. Sbirciando dal finestrino laterale, vede che i Delorio sono entrati in casa e stanno chiudendo la porta. Emily dice: «Papà, è vero?» «Sì, papà, è vero quello che hai detto al signor Delorio, come con Michael J. Fox, è vero?» «State un po' zitte», fa lui con impazienza. Innesta la marcia, schiaccia l'acceleratore. L'auto sobbalza ma non parte perché ha dimenticato di togliere il freno a mano, e quando lo fa la macchina ha un altro scossone e il motore si spegne. «Perché mamma non c'è?» vuole sapere Emily. L'eccitazione di Charlotte cresce, e il suono della sua voce gli sta facendo girare la testa. «Accidenti, avevi la camicia tutta piena di sangue, di sicuro avrai sparato a qualcuno, era proprio disgustoso, un vero schifo.» Il bisogno di mangiare è intenso. Le mani gli tremano tanto che le chiavi tintinnano quando cerca di rimettere in moto. Questa volta la fame non sa-
rà insopportabile come prima, ma non potrà fare più di qualche isolato prima di essere travolto dalla necessità di buttarsi su quelle barre di cioccolato. «Dov'è mamma?» «Deve aver cercato prima lui di spararti, è vero che ha cercato prima lui di spararti, aveva un coltello, quello sì che sarebbe stato terribilissimo, un coltello, che cosa aveva, papà?» Il motorino di avviamento gracchia, l'auto tossisce, ma il motore non si avvia, deve averlo ingolfato. «Mamma dov'è?» «Hai fatto la lotta con lui, tu eri a mani nude, gli hai tolto il coltello, è andata così, papà, come hai fatto, con il karaté, o come?» «Dov'è mamma? Voglio sapere mamma dov'è.» La pioggia tamburella sul tetto dell'auto. Rimbalza sul cofano. Il motore ingolfato continua a non rispondere, è esasperante: ruuurrrr-ruuurrrrruuurrrr. I tergicristallo vanno su e giù, su e giù. Incessantemente. Le vocette dal sedile posteriore, sempre più stridule. Come un ronzare di api: bzz-bzz-bzz. Deve concentrarsi per mantenere la presa sulla chiavetta. Le dita, sudate e spastiche, continuano a scivolare. Ha paura di fare un gesto troppo brusco, di spezzare la chiave nell'accensione. Ruuurrrr-ruuurrrr. Ha fame da morire. Deve mangiare. Deve andare via di lì. Il rumore della pioggia. Il rumore dei tergicristallo. Rumori incessanti. Nelle ferite ormai quasi sanate torna una fitta di dolore. Gli fa male respirare. Maledetto motore. Ruuurrrr. Non parte. Ruuurrrr-ruuur. Papà-papà-papà-papà, bzzzzzzzzzzz. La frustrazione diventa rabbia, la rabbia odio, l'odio violenza. La violenza, talvolta, placa. Smanioso di colpire qualcosa, qualunque cosa, si gira sul sedile, squadra con ira le bambine, urla: «Zitte, state zitte, zitte!» Sono rimaste folgorate. Come se non si fossero mai sentite apostrofare così da lui. La più piccola si morde il labbro, non riesce a sostenere il suo sguardo, volta la faccia verso il finestrino. «Silenzio, Cristo santo, fate silenzio!» Quando torna a girarsi verso il volante, la maggiore scoppia a piangere come una bambina piccola. Il tonfo ritmato dei tergicristallo, il gracchiare del motorino, il verso stridulo del motore, il picchiettare continuo della pioggia, e ora quel pianto acuto, così penetrante, lacerante, è assolutamente insostenibile, non ce la fa a sopportare. Lancia un urlo inarticolato verso la
bambina, così forte da coprire per un momento il pianto e tutti gli altri suoni. Pensa di scavalcare lo schienale, afferrare quella maledetta nanerottola urlante, farla smettere, picchiarla, sbatacchiarla, piazzarle una mano su bocca e naso finché non esca più nessun suono, di nessun genere, finché smetta di piangere, smetta di dibattersi, smetta, smetta... E improvvisamente il motore si avvia, prende a girare, ronza dolcemente. «Torno subito», avvertì Paige mentre Marty finiva di sistemare la valigia sul pavimento dietro il posto di guida della BMW. Lui alzò lo sguardo in tempo per vedere che si stava dirigendo verso l'interno della casa. «Aspetta, dove vai?» «A spegnere le luci.» «Lascia perdere. Non tornare lì dentro.» Quella situazione era una tipica scena da film o da romanzo, e Marty la riconobbe immediatamente. Preparati i bagagli, arrivati fino alla macchina, a un passo dal mettersi in salvo illesi, sarebbero rientrati in casa per fare qualcosa di inessenziale, certi di essere ormai al sicuro, e lo psicopatico sarebbe stato lì dentro, o perché era ritornato mentre loro erano nel garage o perché era riuscito a rimanere celato in qualche astuto nascondiglio durante tutta la perquisizione della polizia. Sarebbero andati di stanza in stanza a spegnere luci, lasciando che l'oscurità si impadronisse della casa... ed ecco che il sosia si sarebbe materializzato, ombra tra le ombre, impugnando la mannaia tolta dalla rastrelliera della cucina, tirando fendenti, affondi, trucidandoli entrambi. Marty sapeva che la vita non aveva né la stravaganza pittoresca dei romanzi d'azione né lo squallore della letteratura cosiddetta accademica, e che era meno prevedibile tanto dei primi quanto della seconda. La paura che aveva all'idea di tornare in casa a spegnere le luci era irrazionale, prodotto di una fantasia troppo fertile e dell'inclinazione, tipica del romanziere, a vedere dramma, ostilità, tragedia a ogni svolta delle faccende umane, in ogni mutamento di tempo, sogno, speranza, a ogni tiro di dadi. In ogni caso, non sarebbero rientrati in quella dannata casa. In nessun modo. «Lasciale accese», ribadì. «Chiudi la porta, alza il portello del garage, prendiamo le bambine e andiamo via.» Forse Paige aveva vissuto con un romanziere troppo tempo perché non fosse corrotta anche la sua immaginazione, o forse le tornò in mente tutto
il sangue che aveva visto nel corridoio del primo piano. Comunque, non protestò per lo spreco di elettricità che avrebbe significato lasciare accese inutilmente tante luci. Schiacciò il pulsante che azionava l'apertura del garage, e tirò a sé la porta della cucina con l'altra mano. Mentre Marty chiudeva il portabagaglio della BMW, la porta del garage finì di alzarsi. Con uno scatto finale si sistemò nella posizione di apertura completa. Marty puntò lo sguardo verso la notte piovosa, pronto a correre con la mano al calcio della Beretta infilata nella cintura. La sua immaginazione era ancora in tumulto, ed era quasi sicuro di trovarsi davanti l'implacabile sosia che veniva su per il vialetto. Quello che vide, invece, fu peggio di qualsiasi immagine creata dalla sua fantasia. Un'auto era parcheggiata accanto al marciapiede di fronte, davanti alla casa dei Delorio. Non era l'auto dei Delorio. Marty non l'aveva mai vista. I fari erano accesi, ma il conducente aveva difficoltà a mettere in moto. Anche se l'uomo al volante era solo una sagoma nera, il piccolo ovale pallido del viso di una bambina era visibile attraverso il finestrino posteriore, che guardava verso l'esterno. Anche da lontano, Marty ebbe la certezza che la bambina nella Buick fosse Emily. Accanto alla porta di comunicazione con la cucina, Paige stava cercando le chiavi di casa nelle tasche del giubbotto di velluto. Marty era paralizzato dallo choc. Non poteva chiamare Paige, non poteva muoversi. Al di là della strada, il motore della Buick si avviò, ansimò, prese a girare regolarmente. Nuvole di vapore uscivano dal tubo di scappamento. Marty si accorse di aver spezzato la paralisi e di essersi messo in moto solo quando si rese conto di essere fuori del garage, a metà del vialetto, lanciato a tutta velocità verso la strada, sotto la pioggia battente. Ebbe l'impressione di essere stato teletrasportato per dieci metri in una frazione di secondo, ma la realtà era che, spinto dall'istinto e dal puro terrore animale, il corpo precedeva la sua mente. Aveva la Beretta in mano. Non ricordava di averla estratta dalla cintura. La Buick si staccò dal marciapiede e Marty svoltò a sinistra per seguirla. L'auto si muoveva lentamente perché il conducente non si era ancora accorto di essere seguito. Emily era ancora visibile. Il suo volto spaventato ora era schiacciato contro il lunotto posteriore. Aveva lo sguardo puntato in direzione del padre.
Marty si stava accostando alla macchina, era a tre metri dal paraurti posteriore. Poi la Buick accelerò allontanandosi progressivamente, molto più veloce di quanto potesse correre lui. Le ruote alzavano spruzzi bianchi dalle pozzanghere. Come un passeggero della barca di Caronte, Emily non veniva semplicemente trasportata lungo una strada, ma traghettata attraverso lo Stige, verso la terra dei trapassati. Un'onda nera di disperazione si abbatté su Marty, ma il suo cuore prese a battere ancora più forte, e trovò dentro di sé una forza che non immaginava di possedere. Spinse l'andatura al massimo, sguazzando tra le pozzanghere, pestando con i piedi l'asfalto con la potenza di un maglio a vapore, pompando con le braccia, la testa incassata nelle spalle, gli occhi fissi sulla preda. Alla fine dell'isolato la Buick rallentò. Si arrestò all'incrocio. Ansimando, Marty la raggiunse. Paraurti posteriore. Parafango posteriore. Portiera posteriore. Il viso di Emily al finestrino. Ora lo stava fissando. Marty sentiva i propri sensi acuiti dal terrore, come se avesse assunto una droga che gli alterava la coscienza. Coglieva una visione allucinogena di ogni dettaglio delle decine di gocce di pioggia sul vetro tra sé e la figlia (le loro forme arrotondate e pendule, gli sprazzi di illuminazione stradale che si riflettevano sulle loro superfici tremolanti) come se ciascuna di quelle gocce avesse la stessa importanza di qualsiasi altra cosa al mondo. Allo stesso modo, vedeva l'interno dell'auto non come una penombra indistinta ma come un'elaborata tessitura di ombre in innumerevoli sfumature di grigio, blu, nero. Al di là del volto pallido di Emily, nell'intreccio aggrovigliato delle ombre, c'era un'altra figura, un'altra bambina: Charlotte. Proprio mentre si affiancava allo sportello del conducente e allungava la mano verso la maniglia, l'auto si rimise in moto. Svoltò a destra, oltre l'incrocio. Marty scivolò e cadde quasi sull'asfalto bagnato. Riprese l'equilibrio, riuscì a non farsi sfuggire la pistola di mano e riprese la corsa verso la Buick che si avviava verso la strada laterale. L'uomo al volante stava guardando alla sua destra e non si era accorto di Marty. Aveva un impermeabile nero. Attraverso il finestrino rigato dalla pioggia era visibile solo la parte posteriore della sua testa. Aveva i capelli più scuri di quelli di Vic Delorio.
Dato che l'auto si muoveva ancora lentamente nel completare la svolta, Marty la raggiunse di nuovo, con il fiato corto e il battito del cuore che gli rimbombava nelle orecchie. Questa volta non tentò di afferrare la maniglia, perché forse la portiera aveva la sicura. Cercando di aprirla avrebbe bruciato l'elemento sorpresa. Alzò la Beretta e puntò alla nuca dell'uomo. Le bambine potevano essere colpite da un frammento di vetro. Doveva correre il rischio. Altrimenti, erano perdute per sempre. Pur essendo scarsissime le probabilità che l'uomo al volante fosse Vic Delorio o un'altra persona innocente, Marty non poteva schiacciare il grilletto senza sapere con sicurezza chi fosse quello a cui stava per sparare. Continuando a muoversi, correndo parallelo alla macchina, gridò: «Ehi, ehi, ehi!» Il conducente voltò di scatto la testa verso il finestrino laterale. In fondo alla canna della pistola, Marty si trovò a puntare lo sguardo sul suo proprio viso. Il vetro che aveva davanti sembrava uno specchio magico in cui il suo riflesso non fosse tenuto all'imitazione esatta ma libero di rivelare sentimenti così abietti che non avrebbe mai voluto mostrarli al mondo: mentre lo fissava, quel volto a specchio si contrasse in una smorfia di odio e furore. Preso alla sprovvista, all'uomo sfuggì il piede dall'acceleratore. Per un attimo la Buick rallentò. A meno di un metro e mezzo dal finestrino, Marty fece fuoco due volte. Nell'attimo in cui il boato del primo sparo riecheggiò su un'infinità di superfici bagnate nella notte piovosa, gli parve di vedere l'uomo abbattersi di fianco, sempre tenendosi al volante con una mano almeno, ma tentando di portare la testa fuori della linea di fuoco. All'imboccatura della canna scoccò una vampata, e il vetro frantumandosi oscurò il destino del bastardo. Mentre il secondo sparo risuonava, subito dopo il primo, le ruote dell'auto stridettero. La Buick scartò in avanti come un cavallo selvaggio che sgroppa per fuggire dalla pista del rodeo. Marty corse dietro la macchina, ma questa si staccò da lui lasciandosi dietro una scia di turbolenza e gas di scarico. Il sosia era ancora vivo, forse ferito ma ancora vivo, e ben deciso a fuggire. Sfrecciando verso est, la Buick cominciò a puntare verso l'altro lato della strada a due corsie. Seguendo quella traiettoria, sarebbe saltata sul marciapiede e finita nel prato anteriore di qualche casa. Con l'occhio della mente, Marty vide l'auto urtare il gradino del marciapiede a tutta velocità, sbandare, fare un testacoda, schiantarsi contro un al-
bero o contro il fianco di una casa, prendere fuoco, con le bambine intrappolate in quella bara di acciaio in fiamme. Nell'angolo più buio della mente, le sentì urlare mentre il fuoco le scarnificava. Ma la Buick si riportò verso il centro della via, tornò a destra, nella sua corsia. Si muoveva ancora velocemente, troppo velocemente, e lui aveva perso ogni speranza di raggiungerla. Tuttavia continuò a correre come se fosse la sua vita quella che. correva a salvare, con la gola che tornava a bruciargli ora che respirava a bocca aperta, il petto che gli faceva male, aghi di dolore che gli trafiggevano le gambe in tutta la loro lunghezza. La mano destra stringeva così forte l'impugnatura della Beretta che i muscoli del braccio fremevano dal polso alla spalla. E a ogni falcata disperata, gli riecheggiavano nella mente i nomi delle figlie, in un urlo muto di sofferenza e angoscia. Quando sentì il padre che urlava di stare zitte, Charlotte fu come colpita da uno schiaffo bruciante, perché non era mai successo, in tutti i suoi nove anni, che lei dicesse o facesse qualcosa, qualsiasi cosa, che lo facesse arrabbiare così. E non capiva che cosa avesse potuto farlo infuriare in quel modo, perché lei non aveva fatto altro che qualche domanda. Quella sgridata era stata quanto mai ingiusta; e il fatto che, per quanto lei poteva ricordare, il padre non si fosse mai comportato in maniera ingiusta non faceva che rendere ancora più bruciante il rimprovero. Sembrava che fosse adirato con lei per il solo fatto che lei era lei, come se improvvisamente qualcosa nella sua natura lo avesse disgustato, e quello era un pensiero insopportabile perché lei non poteva certo diventare diversa da quella che era, da ciò che era, e forse suo padre non le avrebbe mai più voluto bene. Lui non avrebbe mai più potuto ritirare quell'espressione di rabbia e di odio dalla sua faccia, e lei non avrebbe mai potuto dimenticarla, per tutta la sua vita. Tra loro tutto era cambiato, per sempre. Tutto ciò lo pensò e lo capì in un secondo, prim'ancora che lui avesse finito di gridare, e scoppiò a piangere. Si accorse appena che l'auto si era messa finalmente in moto, si era staccata dal marciapiede ed era arrivata in fondo all'isolato; riemerse in parte dalla sua disperazione solo quando Em si voltò dal finestrino, la prese per un braccio e la scosse, bisbigliando con forza: «Papà!» In un primo momento pensò che Em ce l'avesse ingiustamente con lei perché aveva fatto arrabbiare il padre, e la invitasse a stare buona. Ma prima di avere il tempo di lanciarsi in un conflitto fra sorelle, si rese conto
che la voce di Em era piena di gioia emozionata. Stava succedendo qualcosa di importante. Si asciugò le lacrime e vide che Em era tornata a schiacciare il viso contro il vetro. Mentre l'auto attraversava l'incrocio e svoltava a destra, Charlotte seguì la direzione dello sguardo della sorella. Appena scorse il papà che correva accanto all'auto, seppe immediatamente che quello era il suo vero padre. Il papà al volante (il papà con lo sguardo di odio, quello che sgridava le bambine senza motivo) era falso. Un'altra persona. O forse un'altra cosa, come nei film, spuntato da un baccello venuto da un'altra galassia, ieri solo un ammasso di robaccia gelatinosa e oggi perfettamente formato nella figura di papà. A differenza di qualsiasi adulto, non provò nessuna confusione alla vista di due padri identici, non ebbe alcun problema a riconoscere quello vero, perché lei era una bambina, e i bambini queste cose le sanno. Raggiunta la macchina mentre svoltava nella strada successiva, puntando la pistola contro il finestrino del posto di guida, papà gridò: «Ehi, ehi, ehi!» Mentre il finto padre si rendeva conto di chi fosse l'uomo che gli stava gridando, Charlotte si sporse fin dove la cintura di sicurezza le permetteva, afferrò l'impermeabile di Em e tirò via la sorella dal finestrino. «Stai giù, copriti la faccia, presto!» Si strinsero l'una all'altra, rannicchiate insieme, proteggendosi a vicenda la testa con le braccia. BAM! Lo sparo fu il rumore più forte che Charlotte avesse mai sentito. Le orecchie le ronzarono. Fu sul punto di rimettersi a piangere, di paura questa volta, ma doveva essere forte, per Em. In un momento come quello una sorella maggiore doveva pensare alle sue responsabilità. BAM! Mentre ancora risuonava il secondo sparo, un attimo dopo il primo, Charlotte capì che il finto papà era stato colpito, perché mandò un verso di dolore e imprecò, ripetendo all'infinito la parola che comincia con M, quella che non si dice. Però era ancora in grado di guidare, e l'auto fece un balzo in avanti. Sembrava che procedessero senza controllo, spostandosi verso sinistra, molto velocemente, e poi ripiegando bruscamente a destra. Charlotte pensò che sarebbero andati a sbattere contro qualcosa. Se non
si disintegravano nell'urto, lei ed Em dovevano essere pronte a muoversi in fretta appena si fossero fermati, scendere dall'auto e togliersi di mezzo per lasciare papà libero di liquidare quello falso. Non aveva nessun dubbio che papà ce la facesse. Anche se non aveva letto i suoi libri, perché non era abbastanza adulta, sapeva che scriveva di killer e armi e inseguimenti in auto, proprio quel genere di cose, e quindi avrebbe saputo esattamente come comportarsi. Il falso si sarebbe pentito di essersela presa proprio con papà: sarebbe finito in gattabuia per tanto, tantissimo tempo. L'auto sbandò a destra e a sinistra, e nel sedile anteriore il finto papà emetteva versi acuti di dolore che le ricordarono quelli di Wayne, il criceto, la volta in cui era rimasto impigliato con una zampetta nel meccanismo della ruota della sua gabbietta. Ma Wayne ovviamente non imprecava, mentre quell'uomo imprecava più che mai, non solo con la parola che comincia con M, ma anche nominando il nome di Dio invano, più ogni sorta di parole che lei non aveva mai sentito ma che inequivocabilmente erano parolacce della peggiore specie. Sempre tenendo stretta Em, Charlotte spostò la mano libera lungo la cintura di sicurezza cercando il pulsante di sgancio, lo trovò, e vi appoggiò leggermente il pollice. L'auto sobbalzò su qualcosa, e l'uomo al volante frenò. Slittarono lateralmente sull'asfalto bagnato. La coda della macchina scivolò verso sinistra. Il lato dell'autista urtò qualcosa, ma non tanto forte da ucciderli. Lei schiacciò il bottone della cintura di sicurezza, che si sganciò. Cominciò ad armeggiare con quella di Em («La cintura, togliti la cintura»), trovò il pulsante in un paio di secondi. Lo sportello di Em era bloccato dalla cosa contro cui erano finiti. Bisognava uscire dal lato di Charlotte. Tirò Em dall'altro lato facendosela passare addosso. Aprì la portiera. Spinse fuori Em. Nello stesso tempo, Em stava spingendo lei, come se fosse Em quella che faceva il salvataggio, e Charlotte fu lì lì per protestare: Ehi, chi è la maggiore, qui? Il falso papà vide, o sentì, che stavano uscendo. Allungò il braccio oltre lo schienale del sedile («Maledetta bestiola!») e agguantò il cappello di Charlotte. Lei si liberò del cappello, sgusciò dalla portiera, verso il buio e la piog-
gia, buttandosi a quattro zampe sull'asfalto. Alzando gli occhi vide che Em stava già correndo attraverso la strada verso l'altro marciapiede, barcollando come un bambino che ha appena imparato a camminare. Si alzò in piedi e corse dietro la sorella. Qualcuno stava gridando i loro nomi. Papà. Il loro vero papà. Verso la fine dell'isolato seguente la Buick urtò un ramo finito in una profonda pozzanghera e slittò tra gli spruzzi d'acqua. Marty ne fu felice perché ciò gli permetteva di ridurre la distanza, ma al tempo stesso inorridì all'idea di quello che poteva accadere alle figlie. Il film mentale dell'incidente non dovette ripetersi: semplicemente non era mai cessato. Ora sembrava sul punto di uscire dall'immaginazione, allo stesso modo in cui le scene si traducevano da immagini mentali in parole sulla pagina, solo che questa volta le cose stavano compiendo un balzo in avanti, scavalcando la tastiera, passando direttamente dall'immaginazione alla realtà. La sua mente fu attraversata dall'idea assurda che la Buick non avrebbe perso il controllo se lui non avesse immaginato la circostanza, e che le sue figlie sarebbero rimaste carbonizzate nell'auto solo perché lui aveva pensato che potesse accadere. La Buick si arrestò di colpo, rumorosamente, contro la fiancata di una Ford Explorer in sosta. Il fragore della collisione lacerò la notte, ma l'auto non si ribaltò né prese fuoco. Sotto gli occhi sbalorditi di Marty, la portiera posteriore di destra si spalancò, e le sue bambine schizzarono via come pupazzi a molla da un giocattolo a sorpresa. Apparentemente non erano ferite; gridò loro di allontanarsi dalla Buick. Ma non avevano bisogno del suo consiglio. Avevano già un programma, e immediatamente attraversarono la strada di corsa, cercando un riparo. Lui continuò a correre. Ora che le bambine erano fuori dell'auto, la sua furia era diventata più forte della paura. Aveva voglia di fare del male all'uomo che era al volante, di ucciderlo. Non era una collera cieca, ma una fredda ira, una ferocia da rettile che lo spaventò ma a cui non esitò ad abbandonarsi. Era a meno di un terzo di isolato dall'auto quando il motore si riavviò e le ruote presero a girare mandando fumo. L'Altro stava cercando di fuggire, ma le due macchine erano incastrate. Le lamiere torturate scricchiolarono e si sganciarono rumorosamente. La Buick cominciò a staccarsi dal-
l'Explorer. Marty avrebbe preferito trovarsi più vicino al momento di aprire il fuoco, per avere una maggiore sicurezza di colpire l'Altro, ma sentì che più vicino di così non sarebbe arrivato. Si bloccò, sollevò la Beretta tenendola con due mani, tremando così violentemente da non riuscire a mantenere fermo il mirino sul bersaglio, maledicendosi per la sua debolezza, cercando di essere solido come una roccia. Il rinculo del primo sparo alzò la canna verso il cielo, e Marty dovette abbassarla prima di tirare ancora. La Buick finì di sganciarsi dall'Explorer e avanzò faticosamente di qualche metro. Per un momento le gomme persero la presa sull'asfalto bagnato e tornarono a girare a vuoto, sollevando due spruzzi argentei. Marty schiacciò il grilletto, con un verso di soddisfazione quando vide il lunotto posteriore della Buick esplodere, e immediatamente tornò a far fuoco, mirando al conducente, cercando di visualizzare il cranio del bastardo mentre esplodeva come aveva fatto il vetro, sperando che ciò che immaginava si traducesse in realtà. Quando le gomme tornarono a far presa sull'asfalto, la Buick schizzò via. Marty sparò ancora, e ancora, anche se l'auto era già fuori portata. Le bambine non erano nella linea di fuoco e pareva che nella strada piovosa non ci fosse nessun altro, ma era ugualmente irresponsabile continuare a sparare perché aveva scarsissime probabilità di raggiungere l'Altro. Rischiava piuttosto di colpire un innocente che passava per caso in qualche incrocio più in là, o di sfondare una finestra in una delle case vicine, spacciando qualcuno che se ne stava a guardare la televisione. Ma questo non gli venne neppure in mente, non riusciva a fermarsi, voleva sangue, vendetta, vuotò il caricatore, continuò a schiacciare il grilletto ripetutamente dopo che l'ultimo proiettile era partito, mandando selvaggi versi inarticolati di rabbia, totalmente fuori controllo. La BMW di Paige bruciò il semaforo. Prese la curva sollevandosi quasi su due ruote, riuscì a raddrizzarsi e puntò a est lungo la strada trasversale. La prima cosa che Paige vide dopo aver svoltato fu Marty in mezzo alla strada. Era lì a gambe aperte, di schiena, e sparava in direzione della Buick che si allontanava. Si sentì mozzare il fiato e il cuore le si fermò. Le bambine dovevano essere su quell'auto. Spinse l'acceleratore a tavoletta, con l'intenzione di superare Marty e raggiungere la Buick, tamponarla con violenza, buttarla fuori strada, ag-
gredire il rapitore a mani nude, cavargli gli occhi con le unghie, qualsiasi cosa, qualsiasi. Ma poi vide le bambine con i loro impermeabili gialli sul marciapiede di destra, sotto un lampione. Erano strette l'una all'altra. Apparivano così piccine e fragili sotto la pioggia e l'acida luce giallastra. Paige accostò al marciapiede, spalancò la portiera e si lanciò fuori della BMW, lasciando i fari accesi e il motore in folle. Mentre si precipitava dalle bambine, si accorse che continuava a mormorare: «Dio ti ringrazio, Dio ti ringrazio, ti ringrazio». Non riuscì a interrompere la sua giaculatoria neppure quando si accovacciò e strinse tra le braccia le due figlie, come se fosse profondamente convinta che quelle parole possedessero un potere magico e che le sue bambine potessero svanire all'improvviso dal suo abbraccio se avesse smésso di recitare quel mantra. Le bambine la stringevano febbrilmente. Charlotte sprofondò la faccia nell'incavo del collo della mamma, gli occhi di Emily erano grandi e sbarrati. Marty si inginocchiò accanto a loro. Continuava a toccare le piccole, soprattutto i loro visi, come se avesse difficoltà a credere che la loro pelle fosse ancora calda e i loro occhi pieni di vita, stupito di vedere che il respiro alitava ancora da loro. Ripeteva: «State bene, vi siete fatte male, state bene?» L'unica ferita che riuscì a trovare fu una piccola abrasione sul palmo sinistro di Charlotte, che si era fatta quando si era buttata dalla Buick ed era atterrata a quattro zampe. L'unica grossa, e preoccupante, differenza nelle due bambine era il loro insolito silenzio. Sembravano mortificate, come se avessero appena ricevuto una severa sgridata. La breve esperienza con il sequestratore le aveva lasciate spaventate e chiuse. La loro consueta sicurezza probabilmente non sarebbe tornata per qualche tempo, forse mai più forte come prima. Bastava quello a far desiderare a Paige le peggiori sofferenze per l'uomo della Buick. Lungo l'isolato, un paio di persone si erano fatte sulla soglia per vedere cosa fosse quel trambusto, ora che la sparatoria era cessata. Altri erano alle finestre. In lontananza urlavano le sirene. Marty si alzò in piedi. «Andiamo via di qui.» «La polizia sta arrivando», disse Paige. «Appunto.» «Ma loro...»
«Sarà peggio dell'ultima volta.» Prese in braccio Charlotte e si avviò di corsa con lei verso la BMW mentre il suono delle sirene si faceva più vicino. Schegge di vetro gli sono penetrate nell'occhio sinistro. La gran parte del finestrino si è dissolto in una massa gommosa. Non gli ha tagliato la faccia. Ma alcuni minuti frammenti sono finiti in profondità nei fragili tessuti oculari, e il dolore è straziante. Ogni movimento dell'occhio spinge il vetro più all'interno, aggrava il danno. Poiché l'occhio gli batte quando arrivano le fitte più acute, continua ad ammiccare involontariamente, anche se farlo è una tortura. Per smettere, appoggia le dita della mano sinistra sulla palpebra chiusa, esercitando una pressione delicatissima. Per quanto gli è possibile, guida con la sola mano destra. Talvolta deve lasciare che l'occhio batta senza la protezione della mano perché ha bisogno di usarla per la guida. Con la destra, lacera la confezione di una barra di cioccolato e se la ficca in bocca con tutta la velocità con cui può mandarla giù. La fornace del suo metabolismo chiede combustibile. Una ferita di proiettile gli segna la fronte sopra lo stesso occhio. Il solco è largo quanto un dito e profondo un paio di centimetri. Fino all'osso. All'inizio sanguina copiosamente. Ora il sangue rappreso cola denso sopra il sopracciglio e gli scorre tra le dita con cui si regge la palpebra. Se la pallottola fosse passata due dita più a sinistra lo avrebbe centrato alla tempia e gli si sarebbe piantata nel cervello, preceduta dalle schegge dell'osso del cranio. Le ferite alla testa lo preoccupano. Non è sicuro di poter guarire da un danno cerebrale con la stessa rapidità o altrettanto completamente che dalle altre ferite. Mezzo accecato, guida con cautela. Con un occhio solo, ha perso la percezione tridimensionale. Le strade piene di pozzanghere sono un pericolo. La polizia ormai avrà una descrizione della Buick, forse anche la targa. La cercheranno, se non attivamente almeno per routine, e le ammaccature sul fianco, dalla parte del posto di guida, la rendono più facilmente identificabile. In questo momento non è in grado di rubare un'altra auto. Non solo è mezzo cieco, ma in più è ancora scosso dalle ferite di tre ore prima. Se lo scoprono nell'atto di rubare una macchina incustodita, o se incontra resi-
stenza tentando di uccidere un altro automobilista come quello di cui indossa l'impermeabile e che è temporaneamente sepolto nel bagagliaio della Buick, rischia di essere catturato o ferito più gravemente. Puntando in direzione nord-ovest da Mission Viejo, ben presto supera il confine cittadino di El Toro. Anche in questo nuovo centro abitato, non si sente al sicuro. Se c'è una segnalazione sulla Buick, probabilmente sarà a livello nazionale. Il pericolo maggiore viene dal rimanere in movimento, che accresce il rischio di essere visto dai poliziotti. Se riesce a trovare un luogo appartato dove parcheggiare la Buick, dove sarà al sicuro almeno fino all'indomani, potrà sistemarsi sul sedile posteriore e dormire. Ha bisogno di dormire, di dare al suo organismo l'opportunità di guarire. Da quando è partito da Kansas City ha passato due notti insonni. In circostanze normali potrebbe rimanere sveglio per una terza notte, e forse per una quarta, senza che le sue facoltà ne soffrano. Ma le ferite, combinate con il sonno perduto e uno straordinario sovraffaticamento fisico, richiedono un periodo di sospensione di attività per la convalescenza. Domani riavrà la sua famiglia, si riapproprierà del suo destino. Ha vagato solo nel buio per tanto tempo. Un giorno in più non farà differenza. Era così vicino al successo. Per un breve tempo le sue figlie gli sono appartenute di nuovo. La sua Charlotte. La sua Emily. Ricorda la gioia che ha provato nell'ingresso di casa Delorio, quando ha tenuto stretti a sé i corpicini delle due bimbe. Erano così dolci. Baci lievi come farfalle sulle sue guance. Le loro voci musicali («Papà, papà»), così piene di amore per lui. Ricordando quanto è stato vicino a riprendere definitivamente possesso di loro, sente di essere sul punto di scoppiare a piangere. Non deve. La convulsione dei muscoli dell'occhio danneggiato amplificherebbe in maniera insopportabile il dolore, e le lacrime nell'altro occhio lo ridurrebbe sostanzialmente alla cecità totale. Invece, mentre attraversa quartieri residenziali da El Toro a Laguna Hills, dove le luci delle case brillano calde nella pioggia e lo perseguitano con immagini di serenità domestica, pensa a come quelle stesse bambine poi l'abbiano sfidato e abbandonato, perché questo pensiero lo allontana dalle lacrime e lo spinge verso l'ira. Non capisce perché le sue dolci bambine debbano preferire quel ciarlatano al loro vero padre, quando pochi minuti prima lo avevano inondato di baci e adorazione. Il loro tradimento lo turba. Lo affligge.
Mentre Marty era al volante, Paige sedeva dietro con Charlotte ed Emily, tenendo le loro mani. L'emozione le impediva di lasciarle andare. Marty seguiva un percorso indiretto attraverso Mission Viejo, tenendosi inizialmente lontano il più possibile dalle vie principali, riuscendo così a evitare di incrociare la polizia. Un isolato dopo l'altro, Paige continuava a studiare il traffico attorno a loro, aspettando che da un momento all'altro comparisse la Buick e cercasse di buttarli fuori strada. Due volte si girò a guardare dal lunotto posteriore, sicura che la Buick li stesse seguendo, ma le sue paure si rivelarono infondate. Solo quando Marty imboccò Marguerite Parkway e puntò verso sud, Paige domandò: «Dove stiamo andando?» Lui la guardò dal retrovisore. «Non lo so. So solo che dobbiamo andarcene. Dove, non lo so ancora.» «Forse questa volta ti crederebbero.» «Assolutamente no.» «Laggiù devono aver visto la Buick.» «Può darsi. Ma l'uomo che la guidava non l'hanno visto. Nessuno può confermare la mia storia.» «Vic e Kathy devono averlo visto.» «E hanno pensato che fossi io.» «Ma ora capiranno che non eri tu.» «Non ci hanno visti insieme, Paige. Questo è quello che conta, maledizione! Qualcuno che ci veda insieme, un testimone indipendente.» «Charlotte ed Emily», gli ricordò lei. «Loro hanno visto lui e te contemporaneamente.» Marty scosse la testa. «Non conta. Vorrei che non fosse così, ma sono sicuro che Lowbock non prenderebbe in minima considerazione la testimonianza di due bambine piccole.» «Mica tanto piccole», interloquì Emily sempre stretta a Paige, con un tono di voce che la fece sembrare ancora più piccola e fragile. Charlotte se ne stava insolitamente silenziosa. Le bambine tremavano ancora entrambe, ma Charlotte era scossa da brividi più violenti. Cercava di trovare calore nell'abbraccio della mamma, con la testa stretta tra le spalle. Marty aveva alzato al massimo il riscaldamento. Il caldo all'interno della BMW sarebbe dovuto essere soffocante. Non lo era. Anche Paige aveva freddo. «Forse», insisté, «dovremmo tornare indietro
e cercare comunque di farli ragionare.» Marty era irremovibile. «No, tesoro, non possiamo. Rifletti. È più che sicuro che si prenderebbero la Beretta. Con quella ho sparato a quell'uomo. Dal loro punto di vista, in un senso o nell'altro, c'è stato un reato, e la pistola è stata usata per commetterlo. Qualcuno ha veramente cercato di rapire le bambine, e io ho cercato di ucciderlo. Oppure è ancora tutta una montatura per vendere più libri, per salire in classifica. Magari ho pagato un amico perché si mettesse al volante della Buick, gli ho tirato a salve, ho indotto le bambine a mentire, e ora sto presentando un'altra denuncia falsa.» «Dopo tutto questo, Lowbock non avrà il coraggio di sostenere ancora quella ridicola teoria.» «Ah, no? Altro che.» «Marty, non può.» Lui sospirò. «D'accordo, va bene, non può, probabilmente non lo farà.» «Si renderà conto che sta accadendo qualcosa di molto più serio...» «Ma non crederà comunque alla mia storia, che, lo ammetto, sembra proprio una balla, grande quanto una casa. E se tu avessi letto l'articolo su People... In ogni modo, si prenderà la Beretta. E se scopre il fucile nel bagagliaio?» «Non ha nessun motivo per requisire anche quello.» «Una scusa la troverà senz'altro. Ascolta, Paige, Lowbock non cambierà parere su di me tanto facilmente, solo perché le bambine dicono che è vero. Continuerà a sospettare molto più di me che di qualcuno su una Buick che lui non ha mai visto. Se ci portano via tutt'e due le armi, restiamo indifesi. Supponi che i poliziotti se ne vadano, e poi quel bastardo, il sosia, entri in casa dopo due minuti, e noi non abbiamo niente per difenderci.» «Se la polizia continua a non crederti, se non vogliono darci protezione, allora non rimaniamo in casa.» «No, Paige, dico che il bastardo può arrivare letteralmente due minuti dopo che la polizia è andata via, senza darci neppure il tempo di scappare.» «E improbabile che voglia rischiare...» «Altro che! È probabilissimo. La prima volta è tornato quasi immediatamente dopo che la polizia se n'era andata, non è stato forse così? Poi ha avuto il coraggio di presentarsi alla porta dei Delorio e suonare il campanello. Sembra vivere di rischio. Non escluderei che il bastardo possa fare irruzione in casa mentre ci sono ancora i poliziotti, far fuori tutti quelli che si trova davanti. Quello è un pazzo, tutta la situazione è da pazzi, e io non
ho nessuna intenzione di mettere a repentaglio la mia vita, la tua e quella delle bambine aspettando di vedere quale sarà la sua prossima mossa.» Paige sentiva che Marty aveva ragione. Comunque, era difficile, penoso, accettare l'idea che la loro situazione fosse talmente assurda da ricadere al di fuori della protezione della legge. Se loro non potevano ricevere assistenza e copertura ufficiale, allora il governo aveva fallito nei loro confronti nel suo dovere più fondamentale: garantire l'ordine imponendo il giusto ma rigoroso rispetto della legge. Nonostante la sofisticata vettura in cui viaggiavano, nonostante la moderna autostrada che percorrevano e le luci suburbane che punteggiavano gran parte delle colline e delle vallate della California meridionale, quel fallimento significava che il mondo in cui vivevano non era civile. I centri commerciali, gli elaborati sistemi di trasporto, gli scintillanti teatri, gli stadi sportivi, gli imponenti edifici pubblici, i grattacieli degli uffici, le multisale cinematografiche, i sofisticati ristoranti francesi, le chiese, i musei, i parchi, le università, gli impianti nucleari, non erano null'altro che un'elaborata facciata di civiltà, sottile come cartone nonostante l'apparente solidità, e in realtà loro stavano vivendo in un'anarchia tecnologicamente avanzata, che si reggeva sulla speranza e l'autoinganno. Il brusio monotono delle ruote sulla strada le faceva accrescere dentro la paura, un'angoscia da calamità incombente. Era un rumore assolutamente comune, quello della gomma dura dei copertoni che giravano velocemente sull'asfalto bagnato, nient'altro che una delle tante voci della musica quotidiana della vita di tutti i giorni, ma improvvisamente le parve sinistro come il ronzio di bombardieri in avvicinamento. Quando Marty svoltò in direzione sud-ovest sulla Crown Valley Parkway, verso Laguna Niguel, Charlotte finalmente ruppe il silenzio. «Papà?» Paige lo vide lanciare un'occhiata allo specchietto retrovisore, e dai suoi occhi preoccupati capì che anche lui era turbato dall'insolita quiete della bambina. «Sì, piccola?» rispose. «Che cos'era quella cosa?» chiese Charlotte. «Quale cosa, tesoro?» «Quella cosa uguale a te.» «Questa è la domanda da un milione di dollari. Ma chiunque sia, è un uomo, non una cosa. È un uomo che assomiglia spaventosamente a me.» Paige ripensò a tutto quel sangue sulla moquette del corridoio di sopra,
alla rapidità con cui il sosia era guarito dalle ferite al petto, una rapidità tale da permettergli di fuggire e ritornare subito dopo, tanto forte da ritentare l'assalto. Non pareva umano. E le affermazioni in contrario di Marty non erano altro, lei lo sapeva, che le obbligatorie rassicurazioni di un padre consapevole che i bambini a volte hanno bisogno di credere nell'onniscienza e inscalfibile serenità degli adulti. Dopo un altro periodo di silenzio, Charlotte riprese: «No, non era solo un uomo. Era una cosa. Cattiva. Brutta dentro. Una cosa fredda». Un brivido la scosse, e le parole che seguirono vennero fuori tremolanti. «Io gli ho dato un bacio, e gli ho detto ti voglio bene, ma era solo una cosa.» Il vasto parco residenziale comprende una ventina e più di costruzioni di dieci o dodici appartamenti ciascuno. Il terreno del parco prende ombra da una piccola foresta di alberi. Le stradine del complessa sono tortuose. I residenti dispongono di rimesse comuni, strutture di legno che hanno solo il muro posteriore e una tettoia, che ospitano ognuna una decina di automobili. Le bouganvillee si arrampicano sui pilastri che sostengono le tettoie, e portano un tocco di grazia, anche se di notte i vividi fiori perdono gran parte del loro colore sotto la luce azzurrastra delle lampade di sicurezza al vapore di mercurio. Lungo tutto il parco esistono aree di parcheggio contrassegnate con scritte in lettere nere: RISERVATO AI VISITATORI. In una profonda via cieca, trova una zona visitatori che gli sembra il luogo ideale per passare la notte. Nessuno dei sei spazi è occupati, e l'ultimo è fiancheggiato da un lato da una siepe di oleandro alta un metro e mezzo. Quando entra a marcia indietro con l'auto nella piazzola, rasente la siepe, l'oleandro nasconde le ammaccature lungo la fiancata. Al lampione più vicino si è avviticchiata un'acacia, che scherma la luce con i suoi rami frondosi. La Buick è quasi tutta coperta dall'ombra. È improbabile che la polizia passi più di una volta, due al massimo, tra adesso e l'alba. E quando lo farà, non starà a controllare le targhe ma terrà d'occhio il parco in cerca di indicazioni di furti o altri reati in corso. Spegne i fari e il motore, raccoglie quello che gli resta della riserva di dolci, e scende dall'auto, scuotendosi di dosso i frammenti di vetro temperato. Non piove più. L'aria è fresca e pulita. La notte serba i suoi consigli, muta, a parte lo sgocciolio degli alberi.
Lui monta sul sedile posteriore e chiude piano la portiera. Non è un letto comodo. Ma ne ha conosciuti di peggiori. Si sistema in posizione fetale, raggomitolato attorno alle barre di cioccolato neanche fossero un cordone ombelicale, coperto solo dall'ampio impermeabile. Mentre aspetta che il sonno lo vinca, ripensa alle figlie e al loro tradimento. Inevitabilmente, si chiede se preferiscano l'altro padre a lui, il falso al vero. È una spaventosa ipotesi che è costretto a prendere in considerazione. Se è vero, significa che quelle che più ama non sono vittime come lui, ma complici attive del complotto bizantino ordito contro di lui. Probabilmente il falso padre è indulgente con loro. Le lascia mangiare quello che vogliono. Le lascia andare a dormire quando vogliono. Tutti i bambini sono anarchici per natura. Hanno bisogno di regole e di modelli di comportamento, altrimenti crescono selvatici e asociali. Quando ucciderà l'odioso falso padre e riprenderà il controllo della sua famiglia, fisserà delle regole per tutti, e le imporrà rigorosamente. Ogni infrazione verrà punita all'istante. La sofferenza è una delle più grandi maestre di vita, e lui è un esperto nel distribuire sofferenza. L'ordine tornerà a regnare in casa Stillwater, e le sue bambine non faranno un passo senza prima riflettere attentamente sulle regole che le governano. Inizialmente, è naturale, lo odieranno perché è tanto severo e intransigente. Non capiranno che fa così per il loro bene. Ma ogni lacrima che verseranno per le sue punizioni sarà preziosa per lui. Ogni gemito di dolore sarà musica per le sue orecchie. Sarà irremovibile con loro perché s,a che con il tempo capiranno che se impone la disciplina è solo perché tiene tanto a loro. Lo ameranno per la sua severa premura paterna. Lo adoreranno per aver dato loro la dura guida di cui necessitano, e che segretamente desiderano, ma da cui, per la loro stessa natura, recalcitrano. Anche Paige avrà bisogno di disciplina. Lui conosce i bisogni delle donne. Ricorda un film con Kim Basinger in cui si vedeva che sesso e voglia di disciplina erano intrecciati inestricabilmente. Si prefigura le istruzioni per Paige con un piacere particolare. Dal giorno in cui la sua carriera, la famiglia, i ricordi gli sono stati rubati (potrebbe essere un anno come dieci anni, per quanto ne sa lui), ha vissuto soprattutto attraverso i film. Le avventure a cui ha partecipato e le cocenti lezioni che ha appreso in innumerevoli sale buie gli sembrano non meno reali del sedile d'auto su cui
ora si trova sdraiato o del cioccolato che gli si sta sciogliendo in bocca. Ricorda di aver fatto l'amore con Sharon Stone, con Glenn Close, dalle quali ha imparato quali potenzialità abbiano il pensiero fisso del sesso e la tendenza al tradimento insiti nelle donne. Ricorda l'allegra sensualità di Goldie Hawn, il rapimento vertiginoso di Michelle Pfeiffer, l'eccitante angoscia sudaticcia di Ellen Barkin quando lui la sospettava ingiustamente di essere un'assassina ma l'aveva inchiodata alla parete del suo appartamento e l'aveva penetrata ugualmente. John Wayne, Clint Eastwood, Gregory Peck, e tanti altri uomini lo hanno preso sotto l'ala e gli hanno insegnato il coraggio e la determinazione. Se sa che la morte è un mistero tremendamente complicato lo deve a quello che ha imparato da tante lezioni contrastanti sull'argomento: Tim Robbins gli ha mostrato che l'aldilà non è che un'illusione, mentre Patrick Swayze gli ha fatto capire che invece si tratta di un luogo di gioia, reale quanto questo mondo, e che quelli che ami (come Demi Moore) li ritroverai là quando lascerai questa terra, ma Freddy Krueger gli ha insegnato che l'oltretomba è un incubo orrendo da cui puoi fare ritorno per goderti la vendetta. Quando Debra Winger è morta di cancro, lasciando un vuoto incolmabile in Shirley MacLaine, lui si è sentito inconsolabile, ma solo pochi giorni dopo l'ha rivista, di nuovo viva, più giovane e più bella che mai, reincarnata in una nuova vita in cui ha avuto in sorte un nuovo destino al fianco di Richard Gere. Paul Newman ha spesso diviso con lui il suo bagaglio di saggezza su morte, vita, biliardo, poker, amore e onore; ecco perché considera quest'uomo uno dei suoi maestri più importanti. Allo stesso modo Wilford Brimley, Gene Hackman, il vecchio burbero Edward Asner, Robert Redford, Jessica Tandy. Spesso assorbe lezioni assai contrastanti da questi amici, ma da qualcuno di loro ha sentito dire che tutte le fedi hanno pari valore e che non esiste una verità unica, e quindi è perfettamente a suo agio con le contraddizioni che si trova a vivere. La più segreta di tutte le verità l'ha imparata non in una sala cinematografica o da un televisore a scheda in una camera d'albergo. Quel momento di stupefacente illuminazione gli è arrivato nella saletta di proiezione privata di uno degli uomini che aveva l'incarico di uccidere. Il suo bersaglio era un membro del Senato degli Stati Uniti. Una clausola dell'eliminazione era che la morte apparisse dovuta a suicidio. Era entrato nell'abitazione una sera in cui si sapeva che il senatore era solo. Gli era stata fornita la chiave così che non ci sarebbero stati segni di effrazione.
Dopo aver guadagnato l'accesso alla casa, aveva trovato il senatore nel locale di proiezione, una saletta da otto posti dotata di THX Sound e di un sistema di proiezione di livello professionale, in grado di proiettare immagini televisive, di videocassette e di laser disk su uno schermo di un metro e mezzo per uno e ottanta. Era un posto di lusso, senza finestre. C'era perfino un antiquato distributore di Coca da cui, come venne a sapere in seguito, uscivano le classiche bottigliette di vetro da dieci once, più un altro distributore di dolciumi rifornito di Milk Dud, Jujube, Raisinette e altri tipici snack da sgranocchiare al cinema. Grazie alla musica del film, gli era stato facile arrivare alle spalle del senatore senza farsi sentire e ridurlo all'impotenza con un tampone imbevuto di cloroformio, che aveva tirato fuori da una busta di plastica un attimo prima di servirsene. Trasportò l'uomo politico al piano di sopra, fino al lussuoso bagno padronale, lo spogliò e lo immerse delicatamente nella vasca riempita di acqua calda, ricorrendo periodicamente al cloroformio per mantenere la sua vittima in stato di incoscienza. Con una lametta praticò un'incisione netta e profonda nel polso destro del senatore (poiché l'uomo politico era mancino, e molto probabilmente avrebbe usato la sinistra per il primo taglio), e lasciò ricadere il braccio nell'acqua, che presto cominciò a colorirsi del sangue arterioso. Prima di gettare la lametta nella vasca, fece qualche graffio sul polso destro, senza incidere in profondità, perché il senatore non sarebbe stato in grado di reggere la lama con forza nella destra dopo essersi reciso tendini e legamenti insieme con l'arteria del polso. Seduto sul bordo della vasca, somministrando il cloroformio ogni volta che il politico emetteva un gemito e sembrava sul punto di svegliarsi, divise con lui, con gratitudine, la sacra cerimonia della morte. Quando fu lui l'unico essere vivente nella stanza da bagno, ringraziò il trapassato per la preziosa opportunità che gli aveva concesso, cioè di essere partecipe di quell'esperienza di estrema intimità. Di norma, a quel punto avrebbe lasciato la casa, ma quello che aveva visto sullo schermo lo richiamò alla saletta del pianterreno. Aveva già avuto occasione di vedere film pornografici, nei cinema a luci rosse di tante città, e da quelle esperienze aveva imparato tutto quello che c'era da sapere su ogni possibile posizione e tecnica sessuale. Ma il porno che si svolgeva su quello schermo casalingo era diverso da tutto ciò che aveva visto fino a quel momento, perché coinvolgeva catene, manette, legacci di cuoio, cinture chiodate, più tutto un armamentario di altri strumenti di castigo e restrizione. Cosa incredibile, le splendide donne che apparivano sullo
schermo sembravano eccitate dalla brutalità. Quanto più crudelmente venivano trattate, tanto più volentieri si concedevano all'orgasmo del piacere: anzi, spesso scongiuravano loro stesse di essere trattate con ancora più violenza, di essere sottoposte a torture ancora più sadiche. Si sistemò sulla poltrona da cui aveva rimosso il senatore. Fissò affascinato lo schermo, assimilando, imparando. Quando la videocassetta giunse al termine, una rapida ricerca lo portò a un ripostiglio aperto, di solito abilmente celato dietro un pannello della parete, che conteneva tutta una collezione di argomento analogo. C'era una raccolta ancora più incredibile di video che mostravano bambini impegnati in atti sessuali con adulti. Figlie con padri. Madri con figli. Sorelle con fratelli, sorelle con sorelle. Rimase lì per ore, fin quasi all'alba, ipnotizzato. Assimilando. Imparando, imparando. Per essere diventato un senatore degli Stati Uniti, un personaggio onorato, il morto nella vasca da bagno doveva essere stato una persona estremamente saggia. Quindi, la sua videoteca personale doveva ovviamente contenere diverso materiale di natura trascendente, rispecchiando le sue visioni intellettuali e morali, incarnando filosofie troppo complesse per essere comprese dal frequentatore medio di cinematografi. Quale grande fortuna aver scoperto l'uomo politico lì nella saletta di proiezione anziché in cucina a prepararsi uno spuntino o a letto a leggere un libro. Altrimenti, questa opportunità di attingere alla saggezza celata nel ripostiglio segreto del grand'uomo non si sarebbe mai presentata. Ora, in posizione fetale sul sedile posteriore della Buick, può anche trovarsi temporaneamente cieco da un occhio, ferito e sfregiato dalle pallottole, stanco e indebolito, per il momento sconfitto, ma non dispera. Oltre a un organismo dotato di una magica capacità di ripresa, un'energia senza pari e una conoscenza illimitata dell'arte di uccidere, possiede un altro punto a suo vantaggio. Possiede quella che ai suoi occhi è una grande saggezza, assimilata da schermi pubblici e privati, e quella saggezza gli assicura il trionfo finale. Conosce quelli che ritiene i grandi segreti che gli uomini più saggi nascondono in ripostigli celati: le cose che le donne in realtà vogliono ma che possono anche non conoscere mai a livello cosciente, quelle che i bambini vogliono ma di cui non osano parlare. Sa che sua moglie e le sue bambine accetteranno con gioia il dominio totale, la dura disciplina, la violenza fisica, la sottomissione sessuale, anche l'umiliazione. Alla prima occasione, intende realizzare quei loro desideri più profondi e più primiti-
vi, così come quell'indulgente falso padre non sarà mai in grado di fare, e insieme saranno una famiglia, vivranno nell'armonia e nell'amore, divideranno la sorte, tenuti insieme per sempre dalla sua singolare saggezza, forza, e cuore esigente. Scivola verso il sonno salutare, fiducioso di svegliarsi in piena salute e vigore tra qualche ora. A poca distanza da lui, nel bagagliaio dell'auto, giace morto l'uomo che un tempo possedeva la Buick: freddo, rigido, e privo, lui, di attraenti prospettive. Com'è bello essere speciali, essere desiderati, avere un destino. PARTE SECONDA Ora di lettura nella gabbia di matti Là dove speranza e ragione si separano, è il punto in cui comincia la follia. Speranza in un mondo più pulito. Ma la speranza ha fiori di realtà. Non giace in pace il leone con l'agnello se non in un pianeta ch'è oltre Orione. Chi insegna al gufo clemenza verso il topo? Rapace è il gufo non per crudeltà. La burrasca non cessa per preghiera né placa la marea parola umana. La natura, che è benevola e crudele, non per un sapiente o uno sciocco muterà. L'imperfetta natura è dentro l'uomo, la vedi subito, alla prima occhiata. Migliorar resistendo è il nostro marchio. Utopia, sorte dell'umanità. The Book of Counted Sorrows Noi ci rendiamo conto che la vita è un'oscura commedia e forse quest'idea possiamo sopportarla. Ma poiché il tutto è scritto per lo svago degli dei, il buffo di molte battute ci sfugge. MARTIN STILLWATER, Due vittime svanite nel nulla
4 1 Subito dopo aver lasciato l'area di servizio dove i due pensionati riposavano per sempre nell'intimità del cucinino del loro camper, mentre riprendeva l'Interstatale 40 verso Oklahoma City con l'impassibile Karl Clocker al volante, Drew Oslett si servì del suo cellulare, un apparecchio tecnologicamente avanzatissimo, per mettersi in contatto con la sede di New York. Riferì gli sviluppi e chiese istruzioni. Il telefono che usava non era ancora sul mercato, ma per il cittadino medio il modello che aveva Oslett non sarebbe mai stato disponibile. Si inseriva nella presa dell'accendino come gli altri cellulari, ma a differenza di questi era utilizzabile in ogni angolo del mondo e non solo nello stato o nell'area operativa per cui era stato predisposto. Come la mappa elettronica, il telefono disponeva di un collegamento diretto con i satelliti. Poteva accedere direttamente ad almeno il novanta per cento dei satelliti di comunicazione che fossero in quel momento in orbita, scavalcando le stazioni di controllo, infischiarsene dei programmi di protezione e mettersi in collegamento con qualsiasi apparecchio telefonico, senza lasciare traccia della chiamata fatta. La compagnia telefonica segretamente utilizzata non avrebbe mai mandato a Oslett il conto per quella telefonata a New York perché non avrebbe mai saputo che era stata fatta servendosi della sua rete. Oslett parlò liberamente con il suo contatto a New York di quel che aveva trovato nell'area di sosta, senza temere intercettazioni, perché il suo telefono disponeva anche di un dispositivo di disturbo acustico attivabile con un semplice interruttore. Un decifratore utilizzato dal telefono ricevente ritraduceva all'arrivo il rapporto in un segnale intelligibile, ma se qualcuno avesse intercettato la conversazione, tra l'Oklahoma e la Big Apple, gli sarebbe sembrata solo una serie di rumori senza senso. Per New York l'unico motivo di preoccupazione per i due pensionati uccisi era costituito dalla possibilità che le autorità dell'Oklahoma collegassero gli omicidi ad Alfie o al Network, nome che usavano tra loro per indicare l'organizzazione. «Non avrai lasciato lì le scarpe?» chiese New York. «Certo che no», rispose Oslett, irritato che potessero attribuirgli una simile leggerezza. «Tutta l'apparecchiatura elettronica nel tacco...» «Ho qui le scarpe.»
«È roba appena uscita dal laboratorio. Chiunque ne mastichi un po', nel campo, potrebbe...» «Ho qui le scarpe», ribadì secco Oslett. «Bene. Allora lasciamo pure che trovino i cadaveri e si rompano la testa nel tentativo di capire com'è andata. Non è affar nostro. I rifiuti se li spazzino via loro.» «Esatto.» «Mi faccio vivo al più presto.» «Ci conto», rispose Oslett. Interrotta la comunicazione, mentre aspettava una risposta dalla sede, si sentì in preda a un senso di disagio alla prospettiva di trascorrere quasi duecento chilometri neri e vuoti, senza altra compagnia che quella di se stesso e di Clocker. Per fortuna era attrezzato in modo da avere una rumorosa e coinvolgente attività di svago. Dal pavimento sotto il sedile di guida tolse un Game Boy e si piazzò la cuffia in testa. Ben presto si era felicemente distratto dallo snervante paesaggio rurale impegnandosi nella sfida di un gioco elettronico predisposto al massimo livello di difficoltà. Le luci suburbane punteggiavano la notte quando Oslett alzò lo sguardo per la prima volta dal piccolo schermo, rispondendo a Clocker che gli aveva battuto sulla spalla. Sul pavimento tra i suoi piedi, il telefono cellulare squillava. Il contatto di New York aveva un tono cupo come se fosse appena tornato dal funerale della madre. «Quanto tempo vi ci vuole per arrivare all'aeroporto di Oklahoma City?» Oslett trasmise la domanda a Clocker. La faccia di pietra di Clocker non cambiò espressione. «Mezz'ora, quaranta minuti... sempre che tra qui e lì nel tessuto della realtà non si formi una piega.» Oslett riferì a New York solo la previsione temporale, lasciando perdere la fantascienza. «Arrivateci al più presto», disse New York. «Poi partirete per la California.» «California dove?» «John Wayne Airport, Orange County.» «Avete una traccia di Alfie?» «Ma che cazzo vuoi che ne sappia?» «Per favore, risposte meno freddamente tecniche», replicò Oslett. «Non ti seguo.»
«Quando arrivi all'aeroporto di Oklahoma City, trova un'edicola. Compra l'ultimo numero di People. Guarda da pagina sessantasei a pagina sessantotto. A quel punto ne saprai quanto noi.» «Che cos'è, una barzelletta?» «Lo abbiamo appena scoperto.» «Ma che cosa?» chiese Oslett. «Guarda che non me ne frega niente dell'ultimo scandalo della famiglia reale inglese o della dieta che segue Mia Roberts per tenersi in forma.» «Pagine sessantasei, sessantasette e sessantotto. Quando l'avrai visto, chiamami. È come se stessimo nella benzina fino al ginocchio e qualcuno avesse appena acceso un cerino.» New York interruppe la comunicazione prima che Oslett potesse replicare. «Andiamo in California», informò Clocker. «Per fare?» «Secondo People è un posto che ci piacerà», rispose, decidendo di dare anche lui al bestione un assaggio di comunicazione ermetica. «Probabilmente ha ragione», commentò Clocker, come se quello che aveva detto Oslett fosse assolutamente logico. Mentre attraversavano la periferia di Oklahoma City, Oslett provò un certo sollievo nel vedersi circondato dai segni della civiltà, anche se personalmente si sarebbe sparato piuttosto che vivere lì. Anche nelle ore di maggiore attività, Oklahoma City non riusciva ad aggredire tutti i cinque sensi come Manhattan. Per lui il sovraccarico sensoriale non era solo un piacere: lo trovava indispensabile alla vita quasi quanto mangiare e bere, e più importante del sesso. Seattle già era meglio di Oklahoma City, anche se non all'altezza di Manhattan. In realtà, aveva troppo cielo, per essere una città, troppo poco affollamento. Le strade erano così tranquille, e la gente appariva così inspiegabilmente rilassata. Sembrava che non si rendessero conto che per loro, come per chiunque, prima o poi sarebbe arrivata la morte. Lui e Clocker si erano già trovati all'aeroporto internazionale di Seattle alle due del pomeriggio precedente, domenica, quando era previsto l'arrivo di Alfie su un volo da Kansas City, Missouri. Il 747 era atterrato con diciotto minuti di ritardo, ma Alfie non c'era. Nei quasi quattordici mesi in cui Oslett aveva avuto in carico Alfie, ovvero tutto il tempo in cui Alfie era stato in servizio, non era mai accaduto niente di simile. Alfie si presentava sempre immancabilmente là dov'era aspettato, andava dove veniva mandato, eseguiva il compito assegnatogli,
ed era puntuale come il macchinista di un treno giapponese. Fino al giorno prima. Al momento loro non si erano lasciati prendere immediatamente dal panico. Era possibilissimo che un contrattempo, magari un banale ingorgo stradale, avesse impedito ad Alfie di arrivare in tempo all'aeroporto, facendogli perdere l'aereo. Ovviamente, nell'attimo in cui fosse andato fuori programma, si sarebbe dovuto attivare un «comando profondo» impiantatogli a livello inconscio, che l'avrebbe spinto a telefonare a un certo numero di Philadelphia per riferire del mutamento. Ma questo era il guaio dei comandi profondi: talvolta erano impiantati così in profondità nella mente del soggetto che l'attivazione non funzionava e tutto rimaneva lì sepolto. Mentre Oslett e Clocker aspettavano all'aeroporto di Seattle per vedere se il loro ragazzo si sarebbe presentato con un volo successivo, un contatto del Network a Kansas City era andato a controllare all'albergo dove Alfie aveva alloggiato. La preoccupazione era che il loro ragazzo avesse perduto l'intero condizionamento e addestramento, un po' come con le informazioni su un hard disk danneggiato, nel qual caso lo avrebbero trovato seduto nella sua camera, in stato catatonico. Ma nel motel non c'era. E non era nemmeno sul volo seguente da Kansas City a Seattle. A bordo di un Learjet privato di proprietà di un affiliato del Network, Oslett e Clocker erano partiti da Seattle. Il tempo di arrivare a Kansas City, la domenica sera, e l'auto noleggiata da Alfie era stata trovata abbandonata in un quartiere residenziale di Topeka, a un'oretta di macchina verso ovest. Non era più possibile nascondersi la verità. Avevano tra le mani un ragazzaccio. Alfie aveva disertato. Naturalmente, era impossibile che Alfie disertasse in senso proprio. Catatonico sì, disertore no. Di questo era convinto chiunque fosse connesso intimamente con il programma. Erano tutti fiduciosi, quanto l'equipaggio del Titanic un minuto prima del bacio con l'iceberg. Dato che controllava le comunicazioni della polizia a Kansas City e altrove, il Network sapeva che Alfie aveva ucciso nel sonno i due bersagli assegnati, tra le dodici e l'una della notte tra sabato e domenica. Fino a quel punto aveva seguito perfettamente il programma. Da quel momento in poi; non si sapeva più niente di certo. C'era da presumere che si fosse dato alla fuga già all'una di notte della domenica, secondo l'orario standard centrale, il che significava che di lì a
tre ore sarebbero stati due giorni pieni che aveva disertato. «Possibile che sia arrivato fino in California guidando per quarantott'ore?» si chiese Oslett mentre Clocker svoltava nella corsia di accesso dell'aeroporto di Oklahoma City. Ritenevano che Alfie fosse in macchina perché era stato segnalato il furto di una Honda in una via residenziale non lontana dal punto in cui era stata abbandonata l'auto noleggiata. Da Kansas City a Los Angeles c'erano quasi tremila chilometri. Avrebbe potuto farcela in molto meno di quarantott'ore, ma solo a condizione che non avesse avuto altro in mente e non avesse dormito. Alfie poteva restare tre o quattro giorni senza dormire. E riusciva a concentrarsi su un solo pensiero peggio di un politico alla caccia di un dollaro. Domenica notte Oslett e Clocker erano arrivati a Topeka per esaminare l'auto abbandonata. Avevano sperato di trovare un elemento che li mettesse sulle tracce del loro sicario sfuggito di mano. Poiché Alfie era abbastanza sveglio da non usare le carte di credito false che gli avevano fornito loro, e che avrebbero permesso di rintracciarlo, e poiché era in possesso delle capacità necessarie per portare a termine con successo tutte le rapine a mano armata che voleva, avevano usato i contatti del Network per accedere ai dati computerizzati del dipartimento di polizia di Topeka. Avevano scoperto che verso le quattro del mattino della domenica era stato rapinato un negozio; l'impiegato era stato ucciso con un colpo alla testa, e dal bossolo trovato sul posto si era accertato che l'arma del delitto usava munizioni da 9 mm. La pistola fornita ad Alfie per il colpo di Kansas City era una Heckler & Koch P7 Parabellum da 9 mm. A tagliare la testa al toro era stata la natura dell'ultima vendita che il commesso aveva fatto pochi minuti prima di essere ucciso, accertata dalla polizia da un esame delle registrazioni della cassa computerizzata. Era una spesa spropositata per un negozio di quel genere: confezioni e confezioni di wurstel, cracker al formaggio, noccioline, ciambelle, barre al cioccolato e altri alimenti ipercalorici. Con il suo metabolismo galoppante, Alfie avrebbe sicuramente fatto provvista di articoli simili se fosse stato in fuga e con l'intenzione di rinunciare al sonno per un po'. E a quel punto lo avevano perso da troppo tempo. Da Topeka si sarebbe potuto dirigere a ovest sull'Interstatale 70 fino al Colorado. A nord sulla Federai Highway 75. A sud lungo diversi tragitti fino a Chanute, Fredonia, Coffeyville. A sud-ovest fino a Wichita. Dovunque.
In teoria, pochi minuti dopo che fosse stato considerato disertore, sarebbe stato possibile attivare la trasmittente che aveva nel tacco della scarpa tramite un segnale in codice trasmesso con microonde per via satellitare su tutti gli Stati Uniti continentali. Quindi si sarebbe potuta usare una serie di satelliti geosincroni di individuazione per rintracciare la posizione esatta, raggiungerlo e riportarlo a casa nel giro di qualche ora. Ma c'erano stati dei problemi. C'erano sempre dei problemi. Il bacio dell'iceberg. Il segnale del trasmettitore era stato localizzato solo martedì pomeriggio, nell'Oklahoma, a est del confine con il Texas. Oslett e Clocker, in attesa a Topeka, erano volati a Oklahoma City e, equipaggiati di mappa elettronica, si erano messi in viaggio con un'auto a nolo verso ovest sull'Interstatale 40, viaggio che li aveva condotti ai due anziani morti e al paio di Rockport con una suola fatta a fette per arrivare al congegno elettronico. E ora eccoli di nuovo lì, all'aeroporto di Oklahoma City, su e giù come due palline del flipper più grande dell'universo. Quando entrarono nel parcheggio dell'agenzia di noleggio per restituire l'auto, Oslett era ormai sull'orlo dell'isterismo. L'unico motivo per cui non si mise a urlare fu che non c'era nessuno a sentirlo tranne Karl Clocker. E con lui era come urlare alla luna. Nel terminal trovò un'edicola e acquistò l'ultimo numero di People. Clocker comprò un pacchetto di gomme da masticare alla frutta, una spilletta con su scritto SONO STATO IN OKLAHOMA: ORA POSSO ANCHE MORIRE, e un tascabile con il fantastilionesimo episodio di Star Trek. Fuori, sulla terrazza, dove il passaggio della gente non era né continuo né bizzarramente interessante come al JFK o al La Guardia di New York, Oslett si sedette su una panchina circondata da rachitiche piante in vaso. Sfogliò la rivista fino alle pagine sessantasei e sessantasette. MR. MURDER NELLA CALIFORNIA MERIDIONALE, LO SCRITTORE DI GIALLI MARTIN STILLWATER VEDE TENEBRE E MISFATTI DOVE PER GLI ALTRI SPLENDE LA LUCE DEL SOLE La doppia pagina che apriva il servizio era occupata quasi completamente da una fotografia dello scrittore. Crepuscolo. Nuvole minacciose. Alberi sinistri come sfondo. Un'angolatura grottesca. Stillwater, come proteso
verso l'obiettivo, con i lineamenti distorti, gli occhi scintillanti della luce riflessa, sembrava una specie di zombie o di killer in preda a una furia omicida. Quello lì doveva essere di sicuro un idiota, uno schifoso arrivista pronto a travestirsi da Agatha Christie se poteva servire a vendere un libro in più. O a cedere il nome per un cereale da prima colazione: Fiocchi del Brivido Martin Stillwater, fatti di avena e misteriosi scarti di mulino; e dentro ogni confezione una figurina, di una serie di undici vittime di omicidio, ognuna ammazzata con un metodo diverso, ogni ferita evidenziata in rosso fosforescente; iniziate oggi stesso la vostra collezione e il vostro intestino ringrazierà l'ingrediente misterioso. Oslett lesse tutto il testo della prima pagina, ma ancora non vedeva il motivo per cui l'articolo aveva fatto salire la pressione al contatto di New York. Leggendo di quello Stillwater gli parve che il pezzo più che «Mr. Murder» andasse intitolato «Mr. Tedium». Drew Oslett detestava i libri con l'intensità con cui alcune persone detestano i dentisti, e pensava che quelli che li scrivevano, soprattutto i romanzieri, fossero gente nata nella metà sbagliata del secolo, e avrebbero dovuto dedicarsi a lavori veri nell'informatica, nella cibernetica, nelle scienze spaziali o nelle fibre ottiche, settori che potevano offrire un qualche contributo alla qualità della vita qui e ora, alla fine del millennio. Come svago, leggere era un'attività insopportabilmente lenta. Gli scrittori pretendevano di portarti dentro la mente dei personaggi, mostrando quello che stavano pensando. Al cinema, non ti toccava sottoporti a una lagna simile. I film non ti portavano mai all'interno dei personaggi. E comunque, anche se avessero potuto farlo, a chi mai sarebbe importato, santa Madonna, di quello che succedeva nella mente di Sylvester Stallone o di Eddie Murphy o Susan Sarandon? I libri erano troppo, troppo intimi. Non importa quello che pensa la gente, ma solo quello che fa. Azione e velocità. Ormai, alle soglie di un nuovo secolo ad alta tecnologia, le parole d'ordine erano soltanto due: azione e velocità. Voltò la pagina dell'articolo e vide un'altra foto di Martin Stillwater. «Oh, cazzo.» In questa seconda immagine, lo scrittore era seduto alla scrivania, di fronte alla macchina fotografica. La qualità della luce era strana, sembrava provenire soprattutto da una lampada con l'abat-jour di vetro colorato sistemata di fianco, ma l'uomo era del tutto diverso da quello zombie dagli
occhi infiammati delle pagine precedenti. Clocker era seduto all'altra estremità della panchina, come un orso ammaestrato vestito in panni umani e in paziente attesa che la banda del circo attaccasse la musica del suo ballo. Era immerso nel primo capitolo del suo libro, Spock si becca la gonorrea o come diavolo si chiamava. Oslett allungò la rivista in modo che Clocker potesse vedere la foto. «Guarda qua.» Dopo essersi preso il tempo necessario per finire il paragrafo che stava leggendo, Clocker lanciò un'occhiata a People. «È Alfie.» «E invece non è lui.» Masticando la sua cicca alla frutta, Clocker commentò: «Certo che ci somiglia». «Qua c'è qualcosa che non quadra.» «È identico.» «Il bacio dell'iceberg», disse Oslett in tono sinistro. Clocker alzò un sopracciglio. «Eh?» Nel comodo saloncino a dodici posti del jet privato, tappezzato con gusto in camoscio beige e finiture di pelle verde scuro, Clocker aveva preso posto nei sedili davanti e leggeva La minaccia del proctologo extraterrestre o come diavolo era intitolato il suo dannato libro. Oslett era seduto verso la metà dell'aereo. Già nella fase di decollo da Oklahoma City, telefonò al suo contatto di New York. «Okay, ho visto People.» «Da restare annichiliti, non credi?» disse New York. «Che storia è?» «Non lo sappiamo ancora.» «Credi che la somiglianza sia una semplice coincidenza?» «Non può essere. Cristo, sembrano due gemelli monovulari.» «Che vado a fare in California? A dare un'occhiata a quello stronzo di scrittore?» «E magari trovare Alfie.» «Secondo voi Alfie è in California?» «Be', da qualche parte dev'essere. E poi, nell'attimo in cui ci è piovuta addosso la faccenda di People, abbiamo cercato di raccogliere tutti gli elementi possibili su Martin Stillwater, e abbiamo saputo che oggi, tra il pomeriggio e la sera, c'è stato un qualche casino nella sua casa di Mission Viejo.»
«Che genere di casino?» «Il rapporto della polizia è stato scritto ma non ancora inserito nel computer, per cui non possiamo leggerlo. Ci serve una copia su carta, e stiamo lavorando per metterci le mani. Per ora sappiamo solo che qualcuno si è introdotto in casa sua. Sembra che Stillwater gli abbia sparato, ma quello ha tagliato la corda.» «Credete che abbia a che fare con Alfie?» «Qui nessuno crede molto alle coincidenze.» Il tono dei motori del Lear cambiò. Il jet aveva terminato la salita, e si era stabilizzato in assetto e velocità di crociera. «Come ha fatto Alfie a sapere di Stillwater?» chiese Oslett. «Forse legge People», rispose New York con un risolino nervoso. «Se pensate che l'intruso fosse Alfie, perché secondo voi doveva fare una cosa del genere?» «Non abbiamo ancora una teoria.» Oslett sospirò. «Mi sembra di essere dentro una toilette cosmica, e Dio ha appena tirato la catena.» «Forse avresti dovuto gestirlo con maggiore cura.» «Questo non è stato uno sbaglio di gestione», si irrigidì Oslett. «Guarda che non sto accusando nessuno. Ti riferisco solo una delle cose che sono state dette quaggiù.» «Per me la fregatura l'hanno data quelli della sorveglianza del satellite.» «Non puoi pretendere che lo seguano anche dopo che si è tolto le scarpe.» «Ma com'è che ci hanno messo un giorno e mezzo per trovare quelle dannate scarpe? Maltempo sul Midwest. Macchie solari, disturbi magnetici. Troppo vasta l'area di ricerca iniziale. Scuse, scuse, scuse.» «Almeno loro ne hanno», ironizzò New York. Oslett tacque, fumante di rabbia. Odiava trovarsi lontano da Manhattan. Nell'attimo in cui l'ombra del suo aereo lasciava la cerchia urbana, quegli ambiziosi pigmei tiravano fuori i coltelli, e cominciavano a tentare di ridurre la sua reputazione alle loro meschine dimensioni. «Troverai un nostro uomo in California», disse New York. «Lui ti darà un aggiornamento.» «Splendido.» Oslett aggrottò la fronte e schiacciò END sul telefono, mettendo fine alla conversazione. Aveva bisogno di bere qualcosa.
Oltre al pilota e al copilota l'equipaggio comprendeva una hostess. Con un pulsante sul bracciolo della poltrona, poteva chiamarla dalla piccola galleria in fondo all'aereo. Arrivò dopo pochi secondi, e lui ordinò un doppio scotch con ghiaccio. Era una bionda molto attraente, in camicetta rosso cupo e gonna e giacca grigia. Oslett si girò a guardarla mentre si allontanava lungo il corridoio. Chissà se ci sta, si chiese. Poteva provarci, e magari si lasciava portare nel gabinetto e ci scappava una sveltina in piedi. Per un intero minuto si abbandonò a quella fantasia, ma poi affrontò la realtà e se la tolse dalla mente. Anche se era un tipo facile, ci sarebbero state conseguenze spiacevoli. Dopo, la ragazza avrebbe voluto sedersi accanto a lui, probabilmente per tutto il viaggio fino alla California, e confidargli pensieri e sentimenti su ogni cosa, dall'amore e il destino alla morte e all'importanza della televisione. A lui di quello che pensava e sentiva non importava proprio niente, gli interessava solo quello che lei era capace di fargli, e non era dell'umore giusto per recitare la parte dell'uomo sensibile. Quando gli portò il whisky le chiese quali cassette erano disponibili. Lei gli diede una lista di quaranta titoli. Il miglior film di tutti i tempi era presente nella videoteca dell'aereo: Arma letale 3. Aveva perso il conto di tutte le volte in cui l'aveva visto, e il piacere che ne ricavava non diminuiva con la ripetizione. Era il film ideale perché non aveva una trama tanto sensata che valesse la pena seguire, non pretendeva che lo spettatore vedesse i personaggi cambiare e crescere, era composto unicamente da una serie di azioni violente, ed era più chiassoso di una corsa automobilistica e di un concerto dei Megadeth messi assieme. Quattro monitor separati permettevano di proiettare contemporaneamente quattro film a diversi passeggeri. La hostess mandò Arma letale 3 sul monitor più vicino a Oslett e gli porse una cuffia. Lui la inforcò, alzò il volume e si accomodò nella poltrona con un sorriso. Più tardi, finito lo scotch, sonnecchiò un po' mentre Danny Glover e Mel Gibson intessevano un dialogo urlato e inintelligibile, gli incendi divampavano, i mitra crepitavano, gli esplosivi detonavano, e la musica tuonava. 2 Il lunedì sera si fermarono a pernottare in un motel di Laguna Beach, in due camere comunicanti. Non era un albergo a cinque stelle e nemmeno a
quattro, ma le stanze erano pulite e in bagno c'era abbondanza di asciugamani. Passato il weekend, e con la stagione turistica estiva ancora lontana, almeno la metà del motel era libero e, benché fossero proprio sulla Pacific Coast Highway, la quiete regnava sovrana. La stanchezza degli avvenimenti della giornata si faceva sentire. Paige aveva l'impressione di non dormire da una settimana. Perfino il suo materasso, troppo soffice e un po' bitorzoluto, era accogliente come un letto fatto di nuvole, su cui avrebbero potuto dormire dei e dee. Per cena mangiarono pizza, in camera. Andò Marty a comprarle, e prese anche dell'insalata e deliziosi cannoli, in un ristorante poco lontano. Quando tornò con la spesa, bussò insistentemente alla porta, e quando entrò trafelato con le braccia cariche era pallidissimo e con gli occhi incassati nelle orbite. Sulle prime Paige pensò che avesse visto il sosia bazzicare nella zona, ma poi capì che aveva temuto di scoprire, tornando, che erano scomparse... o morte. Le porte esterne delle camere erano dotate di robuste serrature e catene di sicurezza. Oltre a quelle, incunearono anche le spalliere di due sedie sotto le maniglie. Né Paige né Marty potevano immaginare in che modo l'Altro avrebbe potuto scovarli. Ma bloccarono ugualmente le porte con le sedie. Per sicurezza. Incredibilmente, nonostante lo spavento che avevano provato, le bambine si lasciarono convincere volentieri da Marty che quella nottata fuori casa fosse una specie di festa. Non erano abituate ai motel, per cui tutto, dal materasso che vibrava a pagamento agli articoli omaggio nei frigoriferi delle camere, alle minuscole saponette profumate, riusciva a interessarle e incuriosirle quando Marty vi richiamava la loro attenzione. Rimasero colpite particolarmente dal fatto che i sedili dei gabinetti fossero entrambi avvolti in strisce di carta crespa bianca, con la scritta in tre lingue che assicurava che gli impianti igienici erano stati disinfettati. Emily ne dedusse che alcuni ospiti del motel dovevano essere «veri maiali» se non erano capaci neppure di pulire da soli, e Charlotte approfondì l'argomento chiedendosi se quella comunicazione significava che per sterilizzare le superfici avevano usato qualcosa di più del semplice sapone o Lysol, come un lanciafiamme o radiazioni nucleari. Marty capì subito che i sapori più insoliti delle bibite che si trovavano nel distributore del motel, bibite che le bambine a casa non bevevano mai, sarebbero stati anch'essi una piacevole sorpresa e avrebbero contribuito a
sollevare gli spiriti. Comperò Yoo-Hoo al cioccolato, Mountain Dew, Sparkling Grape, Cherry Crush, Tangerine Treat e Pineapple Fizz. Si misero a sedere sui due letti di una delle camere, con i sacchetti del cibo sparsi tutt'attorno sui materassi e le bottigliette delle bibite sui comodini. Prima che la cena fosse finita Charlotte ed Emily dovettero assaggiare tutte le bevande una dopo l'altra, provocando una certa apprensione in Paige. Grazie alla sua pratica di consulente famigliare, Paige aveva imparato ormai da tempo che potenzialmente, in una situazione traumatica, i bambini avevano una capacità di ripresa superiore a quella degli adulti. Quel potenziale si realizzava al meglio quando godevano di una struttura famigliare stabile, ricevevano generose dosi di affetto e si ritenevano rispettati e amati. Sentì una vampata di fierezza nel vedere che le sue bambine si stavano dimostrando emotivamente così elastiche e solide, e subito, di nascosto, toccò superstiziosamente il legno della testiera del letto, chiedendo in silenzio a Dio di non punire né lei né le bambine per quel sentimento di orgoglio. Cosa ancora più sorprendente, quando si furono lavate, ebbero infilato i pigiama e si furono messe a letto nella camera adiacente, Charlotte ed Emily chiesero che Marty tenesse come al solito la sua lettura, e continuasse la poesia sul gemello cattivo di Babbo Natale. Paige riscontrava una somiglianza a dir poco inquietante tra il frutto della fantasia di Marty e gli avvenimenti che avevano sconvolto la loro vita. Era sicura che anche Marty e le bambine ne fossero coscienti. Ma Marty sembrava tanto contento di recitare altri versi quanto le bambine erano ansiose di sentirli. Sistemò una sedia ai piedi dei due letti, esattamente in mezzo. Nella furia di sgomberare la casa si era ricordato perfino di prendere il quaderno con l'etichetta Storie per Charlotte ed Emily, con il faretto da lettura a pinza. Si sedette e sistemò il quaderno alla distanza giusta per mettere a fuoco. Il fucile era sul pavimento, accanto a lui. La Beretta era appoggiata sul comò, dove Paige poteva raggiungerla in due secondi. Marty aspettò che calasse il silenzio dell'attesa. La scena era del tutto simile a quella a cui Paige aveva assistito tante volte nella camera delle bambine a casa, con due differenze. I letti da una piazza e mezzo facevano sembrare ancora più piccine Charlotte ed Emily, come due bimbe in una fiaba, che smarrite e senza casa si fossero introdotte nel castello del gigante per rubargli un po' del suo porridge e godersi la
camera degli ospiti. E il faretto a pile applicato al quaderno non era l'unica fonte luminosa: anche una delle lampade sul comodino era accesa, e sarebbe rimasta accesa per tutta la notte, unica apparente concessione delle bambine alla paura. Scoprendo con sorpresa che anche lei non vedeva l'ora di sentire il seguito della storia, Paige sedette ai piedi del letto di Emily. Si chiese quale fosse il segreto nascosto nel narrare, quello che faceva desiderare una storia quasi quanto il cibo e l'acqua, e nei momenti brutti più ancora che in quelli belli. I film non avevano mai richiamato tanta gente come durante la Grande Depressione. In ogni periodo recessivo la vendita dei libri aumentava. Era un bisogno che andava al di là del semplice desiderio di svagarsi e distrarsi dai propri problemi. Era qualcosa di più profondo e misterioso. Quando nella stanza si fece silenzio e il momento gli parve il più adatto, Marty cominciò a leggere. Charlotte ed Emily vollero che iniziasse dal principio, pertanto recitò i versi che già avevano sentito la sera del sabato e della domenica e che arrivavano al momento in cui il gemello cattivo di Babbo Natale giungeva davanti alla porta di servizio di casa Stillwater, pronto a forzarla. «Per scassinare ha l'attrezzatura e fa presto a far saltar la serratura. Entra in cucina senza far rumore, è pronto a farne già d'ogni colore. Aperto il frigo, la torta si mette a mangiare studiando gli sfracelli che può fare: il latte versa sopra il pavimento, birra, vino, ketchup: è un godimento. Sbriciola il pane, il bianco e l'integrale, e sputa nella pizza, quel maiale!» «Ma che schifo!» esclamò Charlotte. E subito dopo si chiese: «Chi sa che genere di pizza era». «Di carne», precisò Paige. «Blah. Allora non ha torto se ci ha sputato.» «Su un tabellone, fissati con puntine, vede i disegni delle due bambine.
Emily ha fatto un faccione ghignante, Charlotte un domatore e l'elefante. Il bandito tira fuori un pennarello che portava infilato nel cappello e con un lampo negli occhi stretti due rossi 'puah' scarabocchia sui quadretti.» «È un critico!» fece sgomenta Charlotte, stringendo le manine a pugno e colpendo vigorosamente l'aria. «Oh, i critici», aggiunse Emily con aria esasperata e alzò gli occhi al cielo come aveva visto fare al padre qualche volta. «Dio mio», disse ancora Charlotte, coprendosi il viso con le mani, «Abbiamo un critico in casa.» «Lo sapevate già che sarebbe stata una storia paurosa», intervenne Marty. «Dentro di sé sghignazza a più non posso mettendo a segno un colpo più grosso. Quanto è cattivo, altrettanto è vigliacco: al forno a microonde porta un pacco da cinque chili di grano da soffiare: di certo il vecchio forno andrà a scoppiare. Ma siccome è un vigliacco, come ho detto, carica e scappa da quel mortaretto.» «Cinque chili!» L'immaginazione ebbe la meglio su Charlotte. Alzò la testa dal cuscino appoggiandosi ai gomiti ed esclamò eccitatissima: «Accidenti, ci vorrebbe un carrello elevatore e un camion per portarlo via, tutto quel grano, quando è scoppiato, perché sarebbe come una tempesta di neve, però non è neve ma montagne di popcorn. Ci vorrebbe un'autocisterna di caramello e forse un triliardo di chili di noccioline per farne palline di popcorn. Ci staremmo dentro fino al culo». «Che cos'hai detto?» chiese Paige. «Ho detto, ci vorrebbe un carrello elevatore...» «No, quella parola che hai usato.» «Quale parola?» «Ci staremmo dentro fino al...?» «Quella non è una parolaccia», protestò Charlotte.
«Ah, no?» «In TV la dicono continuamente.» «Non tutto quello che dicono in televisione è intelligente e di buon gusto», replicò Paige. Marty abbassò il quaderno. «Anzi, quasi niente.» «Alla televisione», continuò Paige rivolta a Charlotte, «ho visto gente che salta con l'auto giù da un dirupo, che avvelena il padre per avere l'eredità, che fa duelli con la spada, che rapina banche... tutte cose che sarà bene non vi peschi mai a fare, voi due.» «Soprattutto quella faccenda dell'avvelenamento», aggiunse Marty. «D'accordo», annuì Charlotte. «Non dirò più culo.» «Bene.» «Che cosa posso dire, invece?» «Che ne dici di 'sedere'?» «Credo che possa andar bene.» Emily, che durante la discussione era rimasta in silenzio, assorta nei propri pensieri, cambiò argomento. «Cinque chili di mais da popcorn non c'entrano mica nel forno a microonde.» «Ma sì che c'entrano», la rassicurò Marty. «Io credo di no.» «Ho fatto le mie ricerche sull'argomento prima di mettermi a scrivere», ribadì lui energicamente. Emily fece una smorfia di scetticismo. «Lo sai bene che faccio sempre ricerche su tutto», insisté lui. «Forse questa volta te n'eri dimenticato», replicò la bambina dubbiosa. «Cinque chili», confermò Marty. «Sono un mucchio di roba.» Marty si rivolse a Charlotte: «Ecco, abbiamo un altro 'critico' in casa». «Va bene», cedette Emily. «Va' avanti, leggi ancora.» Marty inarcò un sopracciglio. «Sei sicura di voler sentire ancora di questa robaccia così poco convincente, così mal documentata?» «Ma sì, ancora un po'», concesse Emily. Con un lungo sospiro teatrale, Marty lanciò un'occhiata a Paige, alzò di nuovo il quaderno e riprese a leggere. «Sale le scale al piano soprastante mentre pensa a qualcosa di eclatante e a un tratto vede l'albero coi doni
ed esclama: 'Vedrete che bidoni che vi preparo per quando domani aprirete i pacchi fregandovi le mani. Invece dei regali che sperate troverete aglio e bucce di patate, cacche di gatto e pezzi di carbone, lische di pesce e scorze di melone'.» «Non la passerà liscia», affermò Charlotte. «Potrebbe anche», disse Emily. «Ma no.» «E chi può fermarlo?» «Charlotte ed Emy dormono pacifìche sognando un mucchio di strenne magnifiche quando d'un tratto le sveglia un rumore e tutt'e due balzano su col batticuore. Più non si sente nemmeno una mosca, ma per le bimbe la faccenda è losca. Sarà premonizione teleparanormale, o forse hanno sentito quel fiato micidiale. Saltano giù dal letto scordando le ciabatte, silenziose e veloci come fossero gatte. Non è solo per il freddo che d'oca hanno la pelle, ma se la caveranno: son sorelle!» Questa svolta (Charlotte ed Emily eroine della storia) entusiasmò le bambine. Si voltarono a guardarsi attraverso lo spazio tra i letti, e sorrisero. Charlotte ripeté la domanda di Emily: «Chi può fermarlo?» «Noi!» esclamò Emily. «Be'... forse», disse Marty. «Oh», mormorò Charlotte. Emily era su di giri. «Non ti preoccupare. Papà vuole solo farci stare con il fiato sospeso. Saremo noi a fermarlo, sta' tranquilla.» «Giù nel soggiorno sotto l'abete gode il gemello del suo scherzo da prete.
Ha con sé di schifezze una raccolta che da una pattumiera sembra tolta. C'era per Lottie un orologio di nuovo conio che con massima gioia quel demonio scambia con un molliccio e verde pastrocchio di bava luccicante di ranocchio. Al posto della bambola per Emy piazza una sbobba che se la vedi tremi: è verminosa, sfrigolante e, ahimè, forse nemmeno lui sa davvero che cos'è.» «Che cosa sarà, mamma?» chiese Charlotte. «Probabilmente quel paio di calze che hai messo chissà dove sei mesi fa.» Emily ridacchiò, e Charlotte assicurò: «Prima o poi le troverò, quelle dannate calze». «Scalze, in pigiama, un po' sul chi va là le bimbe sono a caccia di quello che non va. In cima alle scale si fermano in agguato più in silenzio di un pesce imbalsamato. Sono così delicate e piccoline, con quei piedini rosa, quelle tenere manine, come sperano di fermare senza sbagli quei due pugni che sembrano magli? Son forse esperte di karaté e judo? Eh no, purtroppo la risposta è no. Forse hanno bombe nascoste nel pigiama? Una pistola, un randello, una lama? Anche qui la risposta è negativa, eppure scendono con aria furtiva. Non sanno il rischio che le sta aspettando, quello di sotto non è solo strambo: gli son saltate tutte le rotelle; ma se la caveranno: son sorelle!» Charlotte sollevò in aria il pugno in un gesto esultante di sfida. «Sorelle!»
«Sorelle!» ripeté Emily imitando il gesto. Quando scoprirono che erano arrivate alla fine per quella sera, vollero assolutamente che Marty rileggesse i nuovi versi, e Paige si accorse che anche lei aveva voglia di risentirli. Pur protestando di essere troppo stanco e provocando altre insistenze, Marty ci sarebbe rimasto male se non gli avessero chiesto una seconda lettura. Quando il padre arrivò alla fine dell'ultimo verso, Emily riuscì solo a mormorare un «sorelle» tra veglia e sonno. Charlotte russava già sommessamente. Marty rimise la sedia nell'angolo da dove l'aveva presa. Controllò la chiusura di porte e finestre, poi si accertò che non ci fossero varchi nelle tende da cui si potesse sbirciare dall'esterno. Paige sistemò le coperte sulle spalle delle due bambine e diede loro la buona notte con un bacio. L'amore che sentiva per loro era così intenso, come un peso sul petto, che non riusciva a respirare a fondo. Quando lei e Marty si ritirarono nella camera vicina, portando con sé le armi, non spensero la lampada del comodino e lasciarono aperta la porta di comunicazione. Nonostante questo, le figlie sembravano a Paige pericolosamente lontane. Come se si fossero messi d'accordo, lei e Marty si sdraiarono l'uno accanto all'altra sullo stesso letto. L'idea di essere separati anche di pochi passi era intollerabile. Una lampada era accesa sul comodino, ma Marty la spense. La luce che attraverso la porta filtrava dalla camera vicina era sufficiente a rischiarare anche buona parte della loro stanza. Le ombre indugiavano in tutti gli angoli, ma il buio più fitto era tenuto lontano. Si presero per mano e rimasero a fissare il soffitto, come se potessero leggere il loro destino negli strani disegni tracciati dal gioco di luci e ombre. Non era solo il soffitto: nelle ultime ore Paige aveva l'impressione che tutto ciò su cui posava lo sguardo fosse carico di presagi minacciosi. Non si spogliarono per la notte. Anche se era difficile credere che fossero stati seguiti senza accorgersene, volevano essere in grado di muoversi con tutta la rapidità possibile. La pioggia era cessata da un paio d'ore, ma il ritmo dell'acqua continuava a cullarli. Il motel sorgeva su un'altura sopra l'oceano, e l'infrangersi cadenzato delle onde era, nella sua costanza metronomica, un suono tranquillizzante e pacifico.
«Dimmi una cosa», disse Paige, parlando piano perché la voce non arrivasse nell'altra stanza. La voce di lui era stanchissima. «Qualunque sia la domanda, probabilmente non so la risposta.» «Che cosa è successo di là?» «Adesso? Nell'altra stanza?» «Sì.» «Magia.» «Dico sul serio.» «Anch'io. Non è possibile analizzare gli effetti più profondi che ha su di noi un racconto, non si riesce a capire il perché e il come, non più di quanto re Artù capiva come facesse e sapesse Merlino le cose che faceva e sapeva.» «Siamo arrivati qui stravolti, terrorizzati. Le bambine erano ammutolite, imbambolate dalla paura. Tu e io eravamo pronti a darci addosso...» «No, non è vero.» «Oh, sì.» «D'accordo», riconobbe lui, «pronti a darci addosso.» «Cosa che, per noi, è grave. Eravamo tutti... a disagio, reciprocamente ostili.» «Non mi pare che le cose fossero proprio così tragiche.» «Da' ascolto a un consulente famigliare con una discreta esperienza in materia: eravamo proprio messi male. Poi tu racconti una storia, una poesia insensata, adorabile ma comunque insensata... e ci troviamo tutti più rilassati. Ci aiuta a sentirci più uniti. Ci divertiamo, ridiamo. Le bambine si scaricano, e in men che non si dica riescono addirittura ad addormentarsi.» Per qualche minuto non parlarono. Il metronomico sussurro delle onde nella notte era come il battito lento e regolare di un grande cuore. Quando Paige chiuse gli occhi, immaginò di essere tornata bambina, rannicchiata tra le braccia della mamma come faceva tante volte, con la testa contro il suo petto, un orecchio sintonizzato sul cuore nascosto della donna, pronta a cogliere un piccolo suono che non fosse solo biologico, un bisbiglio speciale che potesse riconoscere come la voce preziosa dell'amore. Ma non sentiva mai altro che il tum-dum di atrio e ventricolo, un suono vuoto, meccanico. Eppure si sentiva rasserenata. Forse a un profondo livello inconscio, ascoltando il battito del cuore della madre, ricordava i nove mesi passati nel
suo grembo, durante i quali quella stessa pulsazione giambica la circondava ventiquattr'ore al giorno. Nell'utero c'è una pace perfetta che non si ritroverà mai più: finché non siamo ancora nati non sappiamo niente dell'amore e quindi non possiamo conoscere l'infelicità che sorge dall'esserne privati. Si sentiva riconoscente perché aveva Marty, Charlotte, Emily. Ma finché fosse vissuta si sarebbero ripresentati momenti come quello, in cui qualcosa di elementare come il ritmo del mare le avrebbe ricordato il profondo pozzo di tristezza e isolamento in cui era vissuta per tutta l'infanzia. Aveva sempre fatto di tutto per assicurare che le sue figlie non dubitassero mai, nemmeno per un attimo, di essere amate. Ora era altrettanto determinata a impedire che quest'irruzione di follia e violenza nelle loro vite portasse via a Charlotte o a Emily anche un solo briciolo di infanzia, che a lei era stata sottratta interamente. Poiché il distacco tra suo padre e sua madre aveva avuto come conseguenza il loro distacco dall'unica figlia, Paige era stata costretta a crescere in fretta per garantirsi la sopravvivenza emotiva; fin dalle elementari era stata consapevole della fredda indifferenza del mondo, e comprendeva che una forte autosufficienza le era indispensabile se voleva far fronte alle crudeltà che la vita poteva infliggere. Ma le sue figlie, maledizione, non dovevano essere obbligate a imparare quella dura lezione dal giorno alla notte. Non alla tenera età di sette e quasi dieci anni. Per nulla al mondo. Sentiva il disperato desiderio di proteggerle, ancora per qualche tempo, dalle più aspre realtà dell'esistenza umana, e concedere loro l'occasione di crescere gradualmente, felicemente, senza amarezze. Marty fu il primo a spezzare il confortevole silenzio che si era creato. «Quando Vera Conner fu colpita da ictus e noi passammo tanto tempo, quella settimana, davanti al reparto di terapia intensiva, lì c'era molta altra gente, che andava e veniva, e aspettava di sapere se i loro amici o parenti avrebbero vissuto o meno.» «Sembra impossibile che siano quasi due anni che Vera se n'è andata.» Vera Conner era stata una docente di psicologia all'UCLA, aveva assistito Paige nei suoi studi, e poi, negli anni seguenti, si era trasformata in un'amica esemplare. Aveva lasciato un vuoto che lei sentiva ancora, e avrebbe sentito sempre. «Alcune delle persone che aspettavano in quel posto», proseguì Marty, «si limitavano a starsene seduti con lo sguardo fisso nel vuoto. Altri passeggiavano su e giù, guardavano dalle finestre, giocherellavano. Ascoltavano la musica con il Walkman. Giocavano con un Game Boy. Passavano
il tempo nei modi più vari. Ma, non so se lo hai notato, quelli che sembravano reggere meglio la paura o il dolore, le persone più in pace, erano quelle che leggevano un libro.» A parte Marty, e nonostante una differenza d'età di quarant'anni. Vera era stata l'amica più cara di Paige, e la prima persona che si fosse presa realmente cura di lei. La settimana in cui Vera era stata ricoverata in ospedale, prima in stato confusionale e sofferente, poi in coma, era stata la peggiore settimana della vita di Paige; quasi due anni dopo, le salivano ancora le lacrime agli occhi quando pensava all'ultimo giorno, l'ora finale, quando lei era stata al capezzale di Vera, tenendo la mano dell'amica, calda ma inerte. Sentendo che la fine si avvicinava, Paige aveva detto delle parole sperando che Dio le lasciasse udire alla donna morente: Ti voglio bene, sentirò per sempre la tua mancanza, tu per me sei la madre che mia madre non ha mai saputo essere. Le lunghe ore di quella settimana erano incise a fuoco nella memoria di Paige, nei più minimi dettagli, più di quanto lei avrebbe voluto, perché la tragedia è lo strumento di incisione più affilato che esista. Non solo ricordava con spaventosa precisione forma e arredamento della sala d'attesa dell'unità di terapia intensiva, ma rammentava ancora i volti di tanti sconosciuti che, per un certo tempo, avevano condiviso quella sala con lei e Marty. «Tu e io», proseguì lui, «passavamo il tempo leggendo romanzi, come anche altri, non per sfuggire alla realtà ma perché... perché ai suoi livelli migliori la letteratura è una medicina.» «Una medicina?» «La vita è così maledettamente caotica, le cose succedono come capita, e sembra che quello che ci accade non abbia il minimo senso. Talvolta il mondo pare una gabbia di matti. La narrativa condensa la vita, le dà ordine. Le storie hanno un inizio, uno svolgimento, una fine. E quando una storia è finita, perdio, significa qualcosa, forse non qualcosa di complesso, forse quello che aveva da dire era semplicissimo, magari ingenuo, ma un significato c'era. E questo ci dà speranza, è una medicina.» «La medicina della speranza», annuì lei pensosa. «O forse quelle che ho in testa sono tutte stronzate.» «No, assolutamente.» «Ma sì, probabilmente almeno la metà di quello che ho in testa sono stronzate... ma forse in questo caso no.» Lei sorrise e gli strinse dolcemente la mano.
«Chissà», continuò Marty, «forse se qualche università facesse una ricerca approfondita, scoprirebbe che chi legge narrativa soffre meno di depressione, si suicida di meno, vive più felice. Non tutto quello che si scrive, è chiaro. Non i romanzi pieni di disperazione tanto di moda, quelli per cui gli esseri umani sono spazzatura, la vita fa schifo, Dio non esiste.» «Ecco il dottor Marty Stillwater che prescrive la medicina della speranza.» «Tu lo pensi, allora, che sono tutte stronzate.» «No, caro, no», rispose lei. «Credo che tu sia una persona meravigliosa.» «No, non lo sono. Tu sei meravigliosa. Io sono solo uno scrittore nevrotico. Per natura gli scrittori sono troppo arroganti, egoisti, insicuri e al tempo stesso pieni di sé per poter essere meravigliosi.» «Tu non sei né arrogante né egoista né insicuro né pieno di te.» «Questo vuol dire che in tutti questi anni non mi hai mai ascoltato.» «Va bene, ti concedo la tua parte di nevrosi.» «Grazie, cara. È bello vedere che almeno un po' mi hai ascoltato.» «Ma sei anche meraviglioso. Un meraviglioso scrittore nevrotico. Vorrei essere anch'io una meravigliosa scrittrice nevrotica che prescrive la sua medicina.» «Rimangiati tutto.» «Dico davvero.» «Forse tu riesci a vivere con uno scrittore, ma io non credo che ne avrei il fegato.» Lei si girò sul fianco a guardarlo, e lui si voltò verso di lei, e si baciarono. Baci di tenerezza. Delicati. Per un po' rimasero abbracciati, ascoltando il mare. Senza ricorrere alle parole, avevano concordato di non discutere più delle loro ansie o di quello che si sarebbe dovuto fare il mattino dopo. Talvolta una carezza, un bacio, un abbraccio dicevano più di tutte le parole che uno scrittore poteva mettere insieme, più di tutte le assennate indicazioni e terapie che una consulente famigliare poteva fornire. In piena notte, il grande cuore dell'oceano batteva lento, sicuro. In un'ottica umana, il mare era una forza eterna; in un'ottica divina, transitoria. Paige si accorse con sorpresa che stava scivolando nel sonno. Come il battito improvviso delle nere ali di un uccello, un senso di allarme frullò dentro di lei all'idea di giacere incosciente, e quindi vulnerabile, in quel luogo sconosciuto. Ma la stanchezza era più forte della paura, e il respirò del mare l'avvolgeva e la trascinava, sull'onda del sogno, verso l'infanzia, quando poggiava la testa sul seno della mamma e cercava con l'orecchio lo speciale bisbiglio segreto dell'amore, nascosto da qualche parte tra il river-
bero dei battiti. 3 Sempre con la cuffia in testa, Drew Oslett si svegliò al suono di sparatorie, esplosioni, urla e musica così assordante e stridente da poter essere la colonna sonora scelta dal Padreterno per l'accompagnamento del Giorno del Giudizio. Sullo schermo televisivo, Glover e Gibson correvano, saltavano, tiravano pugni, sparavano, dribblavano, ruotavano, balzavano tra le fiamme in un eccitante balletto di violenza. Tra un sorriso e uno sbadiglio Oslett guardò l'orologio e vide che aveva dormito per più di due ore e mezzo. Evidentemente, quando il film era finito la hostess, vedendo che per lui era una specie di ninna nanna, lo aveva riavvolto e riavviato. Dovevano essere vicini alla loro destinazione, sicuramente a meno di un'ora dal John Wayne Airport di Orange County. Si tolse la cuffia, si alzò e percorse la cabina sino a Clocker per riferirgli quello che aveva appreso dalla conversazione telefonica con New York. Clocker dormiva nella sua poltrona. Si era tolto la giacca di tweed con le toppe e il bavero di pelle, ma aveva ancora in testa il cappello con le piume d'anatra nella fascia. Non russava ma aveva la bocca semiaperta, e da un angolo colava un filo di saliva; tutto un lato del mento luccicava in maniera disgustosa. Talvolta Oslett pensava che il Network gli stesse facendo uno scherzo colossale, a farlo lavorare in coppia con Karl Clocker. Suo padre era un pezzo grosso all'interno dell'organizzazione, e Oslett si chiedeva se il vecchio non gli avesse appiccicato addosso una figura ridicola come Clocker solo per umiliarlo. Odiava il padre e sapeva che il sentimento era ricambiato. In fondo, però, non poteva credere che il vecchio, nonostante il profondo e acceso antagonismo, potesse tirargli uno scherzo del genere, soprattutto perché così facendo avrebbe esposto Oslett al ridicolo. Proteggere l'onore e l'integrità della famiglia aveva sempre precedenza sui sentimenti personali e sulle grane tra parenti stretti. Nella famiglia di Oslett certe lezioni venivano insegnate così presto che Drew sentiva quasi di essere nato con quelle cognizioni innate, e una profonda certezza del valore del nome Oslett sembrava radicata nei suoi geni. Non c'era nulla, tranne una grande ricchezza, di così prezioso come il buon nome, mantenuto nel corso di generazioni: dal buon nome nasceva tanto potere quanto da una grande ricchezza, perché i politici e i giudici trovava-
no più facile accettare cospicue bustarelle quando l'offerta veniva da persone la cui stirpe aveva prodotto senatori, segretari di stato, grandi industriali, noti esponenti dell'ambientalismo e onorati protettori delle arti. L'accoppiamento con Clocker era semplicemente uno sbaglio. Alla fine avrebbe fatto in modo che provvedessero a rettificare la situazione. Dato che la burocrazia del Network era lenta a ridistribuire gli incarichi, se fosse riuscito a recuperare il disertore in condizioni tali da poter essere ancora gestito come prima, avrebbe preso da parte Alfie e gli avrebbe affidato il compito di far fuori Clocker. Il paperback di Star Trek, con il dorso spaccato, giaceva aperto sul petto di Clocker, a faccia in giù. Facendo attenzione a non svegliarlo, Oslett prese il libro. Lo aprì alla prima pagina, senza preoccuparsi di tenere il segno alla pagina dov'era arrivato Clocker, e cominciò a leggere, pensando che magari poteva formarsi una vaga idea del motivo per cui tanta gente era stregata dall'astronave Enterprise e dal suo equipaggio. Dopo pochi paragrafi, il dannato autore del libro lo stava già portando dentro la mente del comandante Kirk, territorio mentale che Oslett avrebbe esplorato di sua volontà solo se l'alternativa fosse stata la mente di tutti i candidati delle ultime elezioni presidenziali. Saltò un paio di capitoli, si soffermò, si ritrovò nella mente meschinamente razionale di Spock, saltò qualche altra pagina e scoprì di essere nella mente di «Bones» McCoy. Stufo, chiuse il Viaggio nel retto dell'universo, o come diavolo si chiamava il libro, e lo sbatté sul petto di Clocker per svegliarlo. Il bestione si drizzò così di soprassalto che il cappello fece un volo e gli finì in grembo. «Che? Che?» farfugliò con voce impastata. «Tra un po' atterriamo.» «È ovvio», commentò Clocker. «Viene a prenderci un contatto.» «La vita è tutta un contatto.» Oslett era di pessimo umore. Dare la caccia a un sicario che aveva tagliato la corda, pensare al padre, riflettere sulla possibile catastrofe rappresentata da Martin Stillwater, leggere qualche pagina di Star Trek, e ora sorbirsi i messaggi in codice di Clocker: subire tutto questo e in più mantenere il buon umore sarebbe stato troppo per chiunque. «O ti sei sbavato dormendo o ti è passato sul mento e in bocca un branco di lumache.» Clocker sollevò un braccio e si asciugò la parte inferiore della faccia con la manica della camicia.
«Questo contatto», riprese Oslett, «dovrebbe avere una traccia di Alfie, ormai. Dobbiamo essere lucidi, pronti a muoverci. Sei completamente sveglio?» Gli occhi di Clocker erano cisposi. «Nessuno è mai completamente sveglio.» «Per favore, la pianti con queste stronzate? In questo momento non ho la pazienza per star dietro al tuo misticismo.» Clocker lo fissò a lungo in silenzio. Poi replicò: «Tu hai un cuore turbolento, Drew». «No, è lo stomaco a diventarmi turbolento, nel sentire le tue cazzate.» «Una tempesta interiore di cieca ostilità.» «Vaffanculo.» Il rumore dei motori cambiò leggermente di tono. Qualche istante dopo si avvicinò la hostess annunciando che l'aereo aveva iniziato la manovra di atterraggio all'aeroporto di Orange County e chiedendo di allacciare le cinture di sicurezza. Secondo il Rolex di Oslett, erano l'1.52 del mattino, ma quell'orario valeva per Oklahoma City. Mentre il Lear scendeva di quota, rimise indietro le lancette dell'orologio finché non segnarono otto minuti a mezzanotte. Quando toccarono terra, il lunedì era scattato nel martedì come il timer di una bomba che si avvicinava alla detonazione. Il contatto, un uomo sulla trentina, non molto più giovane di Drew Oslett, era in attesa al terminal dei voli privati. Si presentò con il nome di Jim Lomax, che probabilmente non era quello vero. Oslett disse che i loro nomi erano Charlie Brown e Dagwood Bumstead. Il contatto parve non cogliere lo spirito della battuta. Li aiutò a portare i bagagli fino al parcheggio, dove li caricò nel cofano di una Oldsmobile verde. Lomax era uno di quei californiani che, fatto un tempio del proprio corpo, aveva proceduto poi a una più elaborata architettura. L'etica dell'esercizio fisico e dell'alimentazione igienica si era da tempo diffusa in ogni angolo del paese, e da anni gli americani si dannavano per ottenere natiche sode e cuore gagliardo fin nei più lontani recessi del nevoso Maine. Era però il Golden State il luogo dove era stato versato il primo cocktail al succo di carota, dove si era aperto il primo bar di bevande naturali, ed era ancora l'unico posto dove esistesse una porzione apprezzabile di popolazione convinta che i bastoncini crudi di jicama costituissero un soddisfacente sostituto delle patatine fritte; per cui solo alcuni californiani fanatici nella loro dedizione possedevano la costanza necessaria a ottenere i requi-
siti strutturali di un tempio. Jim Lomax aveva un collo che era un pilastro di granito, per spalle due architravi, un torace che poteva reggere una navata, un ventre piatto come una pietra d'altare: insomma del suo corpo aveva fatto una grande cattedrale. Anche se la sera prima c'era stato un violento temporale e l'aria era ancora umida e fresca, Lomax era vestito solo in jeans e una T-shirt su cui era disegnata Madonna a seno nudo, come se gli elementi non avessero su di lui più effetto che sulle mura fortificate di una possente fortezza. Più che camminare incedeva, eseguendo ogni gesto con grazia calcolata ed evidente autoconsapevolezza, ovviamente cosciente e soddisfatto dell'attenzione e dell'invidia della gente. Oslett sospettava che Lomax non fosse semplicemente un uomo fiero di sé, ma profondamente affetto da vanità, da narcisismo addirittura. L'unico dio adorato nella cattedrale del suo corpo era l'io che lo abitava. Nonostante questo, a Oslett quel tipo andava a genio. La cosa più piacevole di Lomax era che, in sua compagnia, Karl Clocker sembrava più piccolo. Anzi, era l'unica cosa piacevole di quel tipo, ma bastava. In realtà Lomax era solo leggermente più grosso di Clocker (se pure lo era) ma era sicuramente più compatto e più in forma. A paragone Clocker sembrava lento, sgangherato, vecchio e molle. Poiché talvolta si sentiva intimidito dalla stazza di Clocker, Oslett godeva al pensiero di Clocker intimidito da Lomax... ma la cosa frustrante era che, se anche il Trekker era impressionato, non lo dimostrava affatto. Lomax si mise al volante. Oslett si sedette davanti e Clocker sprofondò nel sedile posteriore. Lasciato l'aeroporto svoltarono a destra sul MacArthur Boulevard. Si trovavano in un'area di lussuosi grattacieli e complessi di uffici, molti dei quali dovevano essere le sedi regionali o nazionali di importanti aziende, arretrati rispetto alla strada e da essa separati da grandi e curatissimi prati, aiole fiorite, macchie di arbusti e tanti alberi, e illuminati da riflettori disposti ad arte. «Sotto il sedile», disse Lomax a Oslett, «troverai una fotocopia del rapporto della polizia di Mission Viejo sull'incidente a casa Stillwater. Non è stato facile procurarselo. Leggilo subito perché devo portarlo via e distruggerlo.» Insieme al rapporto c'era una piccola torcia elettrica con cui leggerlo. Mentre seguivano il MacArthur Boulevard in direzione sud e poi a ovest verso Newport Beach, Oslett studiò il documento con crescente stupore e
scoraggiamento. Raggiunsero la Pacific Coast Highway e svoltarono a sud, e arrivarono fino a Corona Del Mar prima che avesse finito. «Questo poliziotto, questo Lowbock», disse Oslett, alzando gli occhi dal rapporto, «è convinto che sia tutta una manovra pubblicitaria, che l'intruso non ci sia stato nemmeno.» «E questo è un punto a nostro favore», rispose Lomax. Sorrise, e fu un errore, perché lo fece sembrare il ragazzo del manifesto di un'organizzazione umanitaria per l'aiuto ai deficienti. «Considerando che qui tutto il Network rischia di finire giù nello scarico, credo che ci serva qualcosa di più di un punto. Ci serve un miracolo.» «Fa' vedere», disse Clocker. Oslett gli passò il rapporto e la pila e poi si rivolse a Lomax. «Come faceva il nostro scapestrato a sapere che Stillwater era lì, come lo ha trovato?» Lomax si strinse nelle spalle di granito. «Chi lo sa?» Oslett emise un verso inarticolato di disgusto. Sulla destra dell'autostrada, superarono un lussuoso e cintato campo da golf, al di là del quale il Pacifico si estendeva così vasto e nero verso occidente che sembrava stessero procedendo sull'orlo dell'eternità. Lomax disse: «Secondo noi, se mettiamo un controllo su Stillwater, prima o poi il nostro uomo si farà vedere, e potremo recuperarlo». «Dov'è Stillwater, adesso?» «Non lo sappiamo.» «Magnifico.» «Be', sai, nemmeno mezz'ora dopo che i poliziotti se n'erano andati, è successa un'altra cosa agli Stillwater, dopo di che, a quanto pare, hanno lasciato la loro casa e sono andati a nascondersi.» «Quale altra cosa?» Lomax aggrottò la fronte. «Nessuno lo sa con certezza. È successo proprio all'angolo di casa loro. Alcuni vicini hanno assistito solo in parte alla scena, ma uno che corrisponde alla descrizione di Stillwater avrebbe sparato parecchi colpi a un tale in una Buick. La Buick va a sbattere contro un'Explorer parcheggiata e resta incastrata per qualche secondo. Due bambine che corrispondono alla descrizione delle figlie di Stillwater saltano fuori dal sedile posteriore della Buick e scappano, la Buick parte, Stillwater le scarica contro la pistola, e poi una BMW, che corrisponde alla descrizione di una delle auto degli Stillwater, spunta da dietro l'angolo come un pipistrello dall'inferno, guidata dalla moglie di Stillwater, e tutti
montano a bordo e partono.» «Dietro la Buick?» «No, quella era sparita da tempo. Sembra che gli Stillwater avessero deciso di sgomberare prima dell'arrivo della polizia.» «Nessuno dei vicini ha visto l'uomo al volante della Buick?» «No. Troppo buio.» «Era il nostro scapestrato.» «Lo credi davvero?» chiese Lomax. «Be', se non era lui si trattava del papà in persona.» Lomax lo guardò con aria strana, poi riprese a fissare la strada. Prima che il deficiente potesse chiedere in che modo il papà fosse coinvolto in tutto ciò, Oslett domandò: «Perché non abbiamo il rapporto della polizia sul secondo incidente?» «Non c'è stato. Nessuna denuncia. Nessuna vittima di reato. Solo un rapporto sul danno all'Explorer.» «Secondo quanto Stillwater ha dichiarato ai poliziotti, il nostro Alfie crede di essere lui Stillwater, o che dovrebbe esserlo. Crede che gli sia stata rubata la vita. Il povero ragazzo è completamente fuori di testa, e gli sembra logico tornare indietro e prendersi le piccole Stillwater perché pensa che siano le sue bambine. Cristo, che casino.» Un segnale stradale indicò che presto avrebbero raggiunto il confine di Laguna Beach. «Dove stiamo andando?» volle sapere Oslett. «Al Ritz-Carlton Hotel di Dana Point», spiegò Lomax. «C'è una suite per voi. Ho fatto un giro largo per darvi il tempo di leggere il verbale della polizia.» «Abbiamo dormito in aereo. Pensavo che, appena a terra, saremmo entrati in azione.» Lomax parve sorpreso. «In che modo?» «Andando a casa di Stillwater, per cominciare, a dare un'occhiata in giro per vedere se c'è qualcosa di interessante.» «Non c'è niente da vedere. Comunque, io ho l'ordine di portarvi al Ritz. Dormite un po' e siate pronti per le otto di domattina.» «Pronti per andare dove?» «Contano di avere una traccia su Stillwater o sul vostro ragazzo o su tutti e due entro domani mattina. Qualcuno verrà all'hotel alle otto per aggiornarvi, e dovrete essere riposati, pronti a muovervi. E dovreste proprio esserlo, perché quello è il Ritz. Dico, un albergo stupendo. Anche il cibo è
magnifico. Perfino quello del servizio in camera. Potete farvi portare una ottima colazione, sana, non la solita schifezza degli alberghi. Omelette dietetica, pane ai sette cereali, frutta fresca di ogni genere, yogurt magro...» «Io spero solo», lo interruppe Oslett, «di trovare una colazione come quella che faccio a Manhattan tutte le mattine. Embrioni di alligatore e teste di anguilla fritte su un letto di alghe saltate nel burro all'aglio, con contorno di cervella di vitello. Ah, amico, mai in vita tua potrai sentirti 'pompato' nemmeno la metà di come ti senti dopo un breakfast così.» Tanto sbalordito da lasciar dimezzare l'andatura della Oldsmobile, Lomax lo guardò fisso. «Be', al Ritz hanno cibo eccellente, ma forse non così esotico come quello che puoi trovare a New York.» Tornò a guardare la strada e l'auto riprese velocità. «Comunque, sei sicuro che sia roba che fa bene? Sembrerebbe piena zeppa di colesterolo.» Non un briciolo di ironia, non una traccia di umorismo nella voce di Lomax. Chiaramente aveva creduto davvero che Oslett mangiasse teste di anguilla ed embrioni di alligatore a colazione. A malincuore, Oslett dovette accettare l'idea che potenzialmente esistevano partner peggiori di quello che lui già aveva. Almeno Karl Clocker aveva solo l'aria da idiota. A Laguna Beach, dicembre era stagione morta, e le strade erano quasi deserte all'una meno un quarto di quel martedì mattina. All'incrocio nel cuore della cittadina, con la spiaggia pubblica sulla destra, si fermarono al semaforo rosso anche se non si vedevano auto in movimento. Oslett pensò che la città era lo stesso mortorio dell'Oklahoma, e sentì una fitta di nostalgia per il frastuono di Manhattan: l'andirivieni ininterrotto per tutta la notte delle autopattuglie e delle ambulanze, la nera musica delle sirene, lo strombazzare continuo dei clacson. Le risate, le voci degli ubriachi, gli alterchi, il dissennato farfugliare degli schizofrenici abitanti della strada scoppiati di droga che riecheggiavano fino al suo appartamento anche nelle ore più piccole della notte, di tutto ciò avvertiva dolorosamente la mancanza in quel borgo sonnolento sulla riva del mare d'inverno. Mentre proseguivano per uscire da Laguna Beach, Clocker passò di nuovo a Oslett il rapporto della polizia di Mission Viejo. Oslett attese un commento dal Trekker. Visto che non arrivava, e quando non ce la fece più a sopportare il silenzio che aveva riempito l'auto e sembrava aver avviluppato tutto il mondo esterno, si girò a metà verso Clocker. «Allora?» «Allora che?»
«Che ne pensi?» «Non buono», dichiarò Clocker dalla sua tana in ombra. «Non buono? È tutto quello che sai dire? A me pare un casino pazzesco.» «Be'», replicò filosoficamente Clocker, «in ogni organizzazione criptofascista non può non cadere un po' di pioggia.» Oslett scoppiò a ridere. Si voltò verso la strada, lanciò un'occhiata a Lomax che era rimasto impassibile, e rise più forte. «Karl, a volte penso che forse tutto sommato non sei male.» «Male o bene», rispose Clocker, «in ogni cosa riverbera lo stesso movimento delle particelle subatomiche.» «Adesso non sciupare uno splendido momento», lo ammonì Oslett. 4 Nella più fonda palude della notte, emerge da vividi sogni di gole squarciate, teste sfracellate da proiettili, pallidi polsi recisi da lame di rasoio, prostitute strangolate, ma non balza a sedere o ansima o soffoca un urlo come chi si svegli da un incubo, perché quei sogni per lui sono sempre rasserenanti. Continua a giacere in posizione fetale sul sedile posteriore dell'auto, mezzo dentro e mezzo fuori del suo sonno di convalescente. Un lato del volto è bagnato da una sostanza densa e appiccicosa. Si porta una mano alla guancia e tocca con cautela il materiale viscoso con le dita, cercando di capire che cosa sia. Sente la presenza di frammenti di vetro nella sostanza e capisce che l'occhio, nel guarire, ha espulso le schegge del finestrino dell'auto assieme al materiale oculare danneggiato, che è stato sostituito da tessuto sano. Batte le palpebre, apre gli occhi e verifica che riesce di nuovo a vedere con il sinistro come con il destro. Anche nella Buick buia, percepisce nettamente forme, variazioni di superfici e l'oscurità notturna meno fonda che si accalca attorno ai finestrini. Tra qualche ora, quando le palme proietteranno verso ponente le ombre dell'alba e i topi arborei si saranno rintanati nei loro rifugi segreti tra le fronde lussureggianti in attesa che passi il giorno, sarà completamente guarito. Sarà nuovamente pronto a rivendicare il possesso del proprio destino. Mormora: «Charlotte...» All'esterno, sorge gradatamente una luce magica. Le nuvole rimaste sulla scia del temporale sono lievi e lacere. Tra un brandello e l'altro si affac-
cia il volto freddo della luna. «Emily...» Al di là dei finestrini dell'auto, la notte balugina appena come argento lievemente brunito al lume della fiammella di una sola candela. Papà starà bene... guarirà... non abbiate paura... papà starà bene presto... Adesso gli è chiaro che è stato attirato verso il suo doppio da un magnetismo che dipende dal loro essere sostanzialmente una cosa sola, e che lui ha percepito attraverso un sesto senso. Non sapeva che esistesse un altro sé, ma è stato trascinato a lui come se l'attrazione fosse una funzione involontaria del suo organismo, così come il battito del cuore, la produzione e conservazione della massa sanguigna, il funzionamento degli organi interni sono funzioni automatiche che vengono poste in atto senza alcun bisogno di una volontà consapevole. Ancora non del tutto fuori dell'abbraccio del sonno, si chiede se gli sia possibile utilizzare quel sesto senso con un'intenzione cosciente e stabilire il contatto con il falso padre tutte le volte che voglia. Nel dormiveglia, si raffigura come una figura scolpita nel ferro e magnetizzata. L'altro sé, nascosto nella notte, è una figura uguale. Ciascun magnete ha un polo positivo e uno negativo. Immagina che il proprio positivo sia allineato con il negativo del falso padre. Gli opposti si attraggono. Cerca l'attrazione, e quasi immediatamente la trova. Onde invisibili di forza gli danno lievi strappi, poi meno lievi. Ovest. A ovest e a sud. Come durante la sua traversata frenetica e irresistibile per più di mezzo paese, sente il potere di quell'attrazione crescere finché sembra l'immensa forza di gravita di un pianeta che attiri un piccolo asteroide nella veemente promessa della sua atmosfera. Sud-ovest. Non lontano. Pochi chilometri. L'attrazione è esigente, curiosamente gradevole all'inizio, ma poi quasi dolorosa. Ha la sensazione che, se uscisse dall'auto, comincerebbe istantaneamente a levitare, a staccarsi da terra e fendere l'aria ad alta velocità direttamente nell'orbita dell'odioso falso padre che gli ha portato via la vita. Improvvisamente sente che il suo nemico sa di essere cercato e percepisce le linee di forza che li legano. Smette di immaginare l'attrazione magnetica. Immediatamente si ritira in se stesso, si spegne. Non è ancora del tutto pronto a ingaggiare di nuovo un combattimento con il nemico, e non vuole fargli sospettare che un altro in-
contro sia in arrivo. Chiude gli occhi. Sorridendo, scivola nel sonno. Sonno ristoratore. All'inizio i sogni riguardano il passato, sono popolati dalle persone che ha assassinato e dalle donne con cui ha fatto sesso concedendo loro in seguito il beneficio di una morte postcoitale. Poi a rapirlo sono scene di contenuto sicuramente profetico, che riguardano le persone che lui ama: la sua dolcissima moglie, le sue stupende figlie, in momenti di profonda tenerezza e gratificante sottomissione, immerse in una luce dorata, così adorabili, tutte in una meravigliosa luce dorata, tra vampe color argento, rubino, ametista, giada, indaco. Marty si svegliò dall'incubo con la sensazione di venire schiacciato. Anche quando il sogno si interruppe e si dissolse, quando ormai sapeva di essere sveglio e di trovarsi nella camera del motel, non riusciva a respirare né a muovere un solo dito. Si sentiva piccolo, insignificante, e aveva l'inspiegabile certezza di essere sul punto di finire disintegrato in miliardi di atomi sotto il colpo di una forza cosmica che sfuggiva alla sua comprensione. Il respiro gli tornò all'improvviso, con un'implosione. La paralisi si spezzò con uno spasmo che lo scosse dalla testa ai piedi. Guardò Paige sul letto accanto a sé, temendo di averle disturbato il sonno. Lei farfugliò qualche parola priva di senso, senza svegliarsi. Si alzò cercando di fare il minimo rumore possibile, si avvicinò alla finestra anteriore, allargò con cautela le tendine e guardò verso il parcheggio del motel e, al di là, verso la Pacific Coast Highway. Nessuno si muoveva attorno alle macchine in sosta. Per quello che poteva ricordare, tutte le ombre che erano lì in quel momento c'erano già prima. Non vide nessuno acquattato in un angolo. Il temporale si era portato dietro, verso est, tutto il vento, e Laguna era così immobile che gli alberi sembravano dipinti su una tela. Passò un autotreno sull'autostrada, diretto a nord, ma quello fu l'unico movimento nella notte. Sulla parete opposta a quella della finestra anteriore, una tenda copriva una porta-finestra scorrevole che dava su un terrazzino affacciato sul mare. Attraverso il vetro e al di là della ringhiera, ai piedi dello strapiombo, si vedeva un tratto di spiaggia candida su cui le onde si infrangevano in ghirlande di spuma bianca. Nessuno poteva arrampicarsi facilmente fino al ter-
razzino, e la spiaggia era deserta. Forse era stato solo un incubo. Si allontanò dal balcone, lasciando ricadere le tende, e guardò il quadrante luminoso dell'orologio che aveva al polso. Le tre. Aveva dormito quasi cinque ore. Non abbastanza, ma avrebbe dovuto accontentarsi. Il collo gli faceva male in maniera insopportabile, e la gola gli bruciava ancora. Andò in bagno, chiuse piano la porta e accese la luce. Dalla borsetta con il necessario da viaggio tolse un flacone di Extra-Strength Excedrin. L'etichetta consigliava non più di due compresse alla volta, e non più di otto nelle ventiquattr'ore. Quei momenti, però, sembravano fatti apposta per sconfinare al di là del lecito, e così ne buttò giù quattro con un bicchier d'acqua preso dal rubinetto, poi si mise in bocca una pastiglia per il mal di gola e cominciò a succhiarla. Dopo essere ritornato in camera da letto e aver raccolto da terra il fucile a canna corta, passò nella camera delle bambine dalla porta di comunicazione. Erano profondamente addormentate, rintanate sotto le coperte come tartarughe nel guscio per difendersi dalla fastidiosa luce proveniente dal lume del comodino. Guardò dalle loro finestre. Niente. Prima aveva riportato nell'angolo la sedia che aveva usato per la lettura, ma ora la spinse verso il centro della stanza, dove potesse essere raggiunta dalla luce. Non voleva che Charlotte ed Emily si spaventassero se, svegliandosi prima dell'alba, avessero visto la sagoma di un uomo nell'ombra senza capire chi fosse. Si sedette con le ginocchia allargate, il fucile appoggiato sulle gambe. Benché possedesse cinque armi da fuoco, tre delle quali in quel momento nelle mani della polizia, e ne conoscesse perfettamente le caratteristiche, benché avesse scritto numerose storie in cui poliziotti e altri personaggi maneggiavano armi con estrema disinvoltura, Marty era sorpreso dall'assoluta mancanza di esitazione con cui aveva deciso di ricorrervi quando se n'era presentata l'occasione. Dopotutto, non era un uomo d'azione, né un esperto killer. La sua vita, e poi quella della sua famiglia, era stata messa a repentaglio, ma lui, prima di convincersi del contrario, era sicuro che avrebbe avuto delle riserve la prima volta che avesse poggiato il dito sul grilletto. Si sarebbe aspettato almeno un attimo di rimorso dopo aver sparato a un uomo nel petto, anche se quel bastardo lo meritava. Ricordava chiaramente il cupo piacere provato mentre scaricava la Be-
retta contro la Buick in fuga. L'essere primitivo e selvaggio nascosto nell'eredità genetica umana di ogni uomo era prontamente accessibile, a lui come a tanti, per quanto fosse educato, istruito e civilizzato. Quello che aveva scoperto su di sé non gli era dispiaciuto quanto forse avrebbe dovuto. Anzi, non gli era dispiaciuto affatto. Sapeva di essere capace di uccidere chiunque per salvare la propria vita, quella di Paige, o delle bambine. E, pur vivendo in una società in cui era intellettualmente corretto abbracciare il pacifismo come unica speranza per la sopravvivenza della civiltà, non si vedeva come un irrecuperabile reazionario o un essere rimasto un gradino indietro nella scala evolutiva, o un degenerato, ma come un uomo che agiva esattamente secondo i dettami della natura. La civiltà cominciava con la famiglia, con dei figli protetti da una madre e da un padre pronti a sacrificarsi e anche a morire per loro. Se la famiglia non era più al sicuro, se il governo non poteva o non sapeva proteggerla dagli attacchi di stupratori, pedofili e criminali, se uno psicopatico omicida veniva scarcerato dopo aver passato in prigione meno tempo di un predicatore fraudolento che imbrogliava la gente dal pulpito della sua chiesa o di un'avida miliardaria che aveva frodato il fisco, allora la civiltà cessava di esistere. Se i bambini erano in balìa di chiunque, cosa che i giornali testimoniavano tutti i giorni, allora il mondo aveva subito un'evoluzione in direzione della barbarie. La civiltà esisteva solo in ambiti ristretti, entro le mura di quelle case in cui i membri di una famiglia erano legati da un amore tanto forte da renderli pronti a mettere in gioco la vita per la reciproca difesa. Che giornata avevano trascorso! Un giorno terribile. L'unica cosa buona era stata aver scoperto che la sua fuga, i suoi incubi, gli altri sintomi non erano il prodotto di una malattia mentale o fisica. Il problema non era dunque dentro di lui. L'uomo nero esisteva davvero. Ma quella diagnosi lo consolava fino a un certo punto. Aveva sì riacquistato la fiducia in se stesso, ma aveva perso ben altre cose. Tutto era cambiato. Per sempre. Sapeva di non aver neppure cominciato a capire fino in fondo quanto spaventosamente le loro vite fossero state modificate. Nelle ore che mancavano all'alba, mentre si sforzava di decidere quali passi dovessero compiere per difendersi, e mentre azzardava quelle poche considerazioni sulle possibili origini dell'Altro che la logica permetteva, la loro situazione si sa-
rebbe fatta inevitabilmente sempre più difficile, e le loro opzioni più ridotte di quanto per il momento potesse prevedere o ammettere. Per prima cosa, sospettava che non sarebbero mai più stati in grado di far ritorno alla loro casa. *** Si sveglia mezz'ora prima dell'alba, risanato e riposato. Torna al posto di guida, accende la luce interna ed esamina nello specchietto la fronte e l'occhio sinistro. Il segno del proiettile sulla fronte si è rimarginato senza lasciare cicatrici visibili. L'occhio non è più danneggiato, e nemmeno iniettato di sangue. Metà della faccia è però sporca di sangue rappreso e del vischioso materiale biologico di scarto del processo di guarigione accelerato. Una parte del suo volto sembra uscito da L'abominevole dottor Phibes o da Darkman. Frugando nel cassettino portaoggetti, trova un pacchetto di Kleenex. Sotto i fazzoletti c'è una scatola da viaggio di Handi Wipes, salviette umidificate sigillate in confezioni di stagnola. Profumate al limone. Usa i Kleenex e le salviette per togliersi quella roba dalla faccia, e si ravvia con le mani i capelli scompigliati dal sonno. Ora non farà più paura a nessuno, ma non è ancora abbastanza presentabile da non farsi notare, come desidera. Anche se l'abbondante impermeabile, abbottonato fino al collo, copre la camicia lacerata dai proiettili, la camicia puzza di sangue e della varietà di cibo che ci ha versato sopra ingozzandosi freneticamente nel parcheggio del McDonald's battuto dalla pioggia, la sera prima, nella Honda ormai abbandonata, prima dell'incontro con lo sfortunato proprietario della Buick. Neanche le mutande sono più fresche di bucato. Con la speranza di trovare qualcosa di utile, toglie le chiavi dal cruscotto, esce dall'auto, fa il giro fino al retro, e apre il portabagagli. Dall'interno buio, illuminato solo parzialmente dalla luce proveniente da un lampione non lontano, il morto lo fissa con uno sguardo stupito, come sorpreso di rivederlo. Le due borse di plastica sono gettate sopra il cadavere. Lui rovescia sul cadavere il contenuto di entrambe. Il proprietario della Buick aveva fatto una spesa piuttosto varia. La cosa che gli sembra più utile al momento è un maglione a collo alto. Tenendo l'indumento nella sinistra, chiude il cofano
con la destra cercando di fare il minor rumore possibile. Tra un po' la gente comincerà a svegliarsi, ma il sonno attanaglia ancora la maggior parte degli inquilini degli appartamenti. Chiude il portabagagli con le chiavi che si mette in tasca. Un parco residenziale così grande avrà sicuramente almeno un paio di lavanderie: si accinge a cercarne una. Nel giro di un minuto trova un cartello che gli indica dove raggiungere la sala giochi, la piscina, la reception, e la più vicina lavanderia. I vialetti che collegano gli edifici serpeggiano per ampi giardinetti piacevolmente curati sotto folti lauri e lampioni in ferro battuto. Il parco è ben disegnato e molto gradevole. Non gli dispiacerebbe abitare qui. Certo, la sua casa di Mission Viejo è più bella, e sicuramente le bambine e Paige sono così affezionate che non vorrebbero mai lasciarla. La porta della lavanderia è chiusa, ma questo non è un grande ostacolo. La direzione ha installato un sistema di chiusura da quattro soldi. Prevedendo la situazione, ha con sé una carta di credito presa dal portafoglio del morto: la infila lungo il battente e la solleva, incontra una resistenza, spinge e la serratura si apre. All'interno trova sei lavatrici a gettone, quattro asciugatrici a gas, un distributore pieno di scatolette di detersivi e ammorbidenti, un tavolone su cui si possono piegare i panni, e un paio di profondi lavandini. Tutto è piacevolmente pulito sotto le luci al neon. Si toglie l'impermeabile e la camicia di flanella sporca. Appallottola i due indumenti e li getta in un grande bidone per i rifiuti messo in un angolo. Sul torace non c'è più alcun segno. Non ha bisogno di guardarsi il dorso per sapere che anche il foro d'uscita è perfettamente guarito. Si lava le ascelle in uno dei lavandini e si asciuga con degli asciugamani di carta presi da un distributore a parete. Pregusta la lunga doccia calda che farà prima che quel giorno sia finito, nel suo bagno, in casa sua. Una volta localizzato e ucciso il falso padre, una volta ripreso possesso della sua famiglia, avrà tutto il tempo di dedicarsi ai semplici piaceri. Paige farà la doccia con lui. Le piacerà. Se necessario, potrebbe togliersi i jeans e lavarli in una delle macchine della sala, usando le monete prese al proprietario della Buick. Ma dopo che ha grattato via con le unghie i residui di cibo incrostati sulla tela e ha sfregato le poche macchie ancora umide con qualche asciugamano bagnato, il risultato è soddisfacente.
Il maglione è una piacevole sorpresa. Pensava che fosse troppo grande per lui, come l'impermeabile, ma evidentemente il morto non lo aveva comprato per sé. Gli va alla perfezione. Il colore, un rosso mirtillo, sta bene con i jeans, ed è un colore che gli piace. Se il locale avesse uno specchio, è sicuro che si vedrebbe come un individuo non solo normalissimo ma anche abbastanza rispettabile, e perfino attraente. Fuori, l'alba è solo un fantasma di luce a oriente. Gli uccelli del mattino hanno cominciato a cinguettare tra gli alberi. L'aria è dolce. Gettate le chiavi della Buick in un cespuglio, abbandonata l'auto con dentro il suo cadavere, si avvia a passo sostenuto verso la più vicina area di parcheggio coperta, e prova sistematicamente gli sportelli dei veicoli in sosta sotto la copertura di bougainvillea. Proprio quando sta cominciando a pensare che siano tutte chiuse, la portiera di una Toyota Camry si apre. Si siede al volante. Controlla se le chiavi siano sotto il parasole. Sotto il sedile. Non è così fortunato. Non importa. Lui è pieno di risorse. Prima che il cielo si sia rischiarato del tutto, ha messo in moto l'auto ed è di nuovo in marcia. Molto probabilmente il proprietario della Camry scoprirà che la sua auto non c'è più solo tra un paio d'ore, quando sarà il momento di andare al lavoro, e denuncerà il furto. Nessun problema. A quel punto le targhe saranno su un'altra auto, e la Camry ne avrà di nuove, che la renderanno praticamente invisibile agli occhi della polizia. Si sente rinvigorito, mentre attraversa le colline di Laguna Niguel nella luce rosata dell'alba. Il cielo mattutino è ancora di un blu stinto, ma le alte formazioni di nubi sono striate di un rosa carico. È il primo giorno di dicembre. Il Giorno Uno. Lui sta ripartendo da zero. Da quel momento in poi tutto andrà secondo i piani perché non farà più l'errore di sottovalutare il nemico. Prima di uccidere il falso padre, caverà gli occhi di quel bastardo per punirlo delle ferite che gli ha inferto. Pretenderà che le figlie assistano, perché questa per loro sarà una lezione importante, la prova che il falso padre alla lunga non può trionfare e che il loro vero padre è un uomo a cui non si può disobbedire perché altrimenti si rischia il più grave castigo. 5 1
Poco dopo il sorgere del sole Marty svegliò Charlotte ed Emily. «Doccia e subito in viaggio, signore. Abbiamo tante cose da fare, stamattina.» Emily si svegliò immediatamente. Saltò fuori delle coperte e si mise in piedi sul letto nel suo pigiamino giallo, arrivando quasi all'altezza del padre. Volle da lui un abbraccio e il bacio del buongiorno. «Questa notte ho fatto un sogno super.» «Vediamo se indovino. Hai sognato che eri abbastanza grande da uscire con Tom Cruise, guidare una macchina sportiva, fumare un sigaro, sbronzarti e poi vomitare l'anima.» «Ma va'», rispose lei. «Ho sognato che per colazione andavi al distributore e ci prendevi dei Mountain Dew e barre al cioccolato.» «Mi dispiace, ma non era un sogno profetico.» «Papà, non fare lo scrittore, con questi paroloni.» «Intendevo dire che era un sogno che non si realizzerà.» «Be', questo lo sapevo. Tu e mamma piantereste un candemonio a vederci far colazione con una barra al cioccolato.» «Pandemonio. Un pandemonio, non un candemonio.» Lei fece una smorfia. «Ha importanza?» «No, forse no. Candemonio, pandemonio, come preferisci.» Emily si sciolse dalle braccia del padre e saltò giù dal letto. «Vado in bagno, devo fare una cosa.» «Quella per cominciare. Poi fa' la doccia, lavati i denti e vestiti.» Charlotte, come sempre, faceva fatica a svegliarsi del tutto. Quando Emily chiuse la porta del bagno, Charlotte era riuscita solo a spingere via la coperta e a sedersi sulla sponda del letto. Fissava con uno sguardo cupo i suoi piedi nudi. Marty le si sedette accanto. «Si chiamano 'dita dei piedi'.» «Mmmmmm», rispose lei. «Sono indispensabili per riempire il fondo delle calze.» Lei sbadigliò. «Ancora più utili sono se intendi fare la ballerina. Ma per molte altre professioni non sono essenziali. Per cui se non hai in programma di fare la ballerina puoi fartele asportare chirurgicamente, solo gli alluci o tutte e dieci, dipende solo da te.» Lei inclinò la testa e gli lanciò uno sguardo del tipo «visto che ha voglia di fare lo spiritoso, diamogli corda». «No, credo che le terrò.» «Come vuoi», disse lui e le diede un bacio in fronte.
«Mi sembra di avere i denti tutti pelosi», si lamentò Charlotte. «E anche la lingua.» «Avrai mangiato un gatto, mentre dormivi.» Ormai era abbastanza sveglia da concedergli un risolino. Dal bagno si sentì lo scarico, e un secondo dopo la porta si aprì. «Charlotte», chiese Emily, «hai bisogno di chiuderti subito o posso fare prima la doccia?» «Meglio che fai la doccia», rispose Charlotte. «Hai un odore!» «Ah sì? Allora tu puzzi.» «E tu sei fetida.» «Perché lo voglio io», ribatté Emily, probabilmente perché non le veniva in mente una replica valida. «Mie graziose figliolette, avete proprio un eloquio da contesse.» Mentre Emily scompariva nel bagno e cominciava ad armeggiare con i rubinetti della doccia, Charlotte disse: «Bisogna che mi tolga questa roba dai denti». Si alzò e si avviò verso la porta aperta. Sulla soglia si voltò verso Marty. «Papà, oggi non andiamo a scuola?» «No, oggi no.» «L'avevo immaginato.» Esitò. «Domani?» «Non lo so, tesoro. Probabilmente nemmeno.» Un'altra esitazione. «Non ci andremo mai più?» «Ma certo che sì, naturalmente.» Lo fissò a lungo, molto a lungo, poi annuì ed entrò nella stanza da bagno. La domanda colpì Marty. Non capiva se la figlia stesse solo fantasticando su una vita senza scuola, come ogni tanto capita a tutti i bambini, o se stesse esprimendo un timore più autentico sulla gravita del guaio che le era piombato addosso. Mentre era seduto sul letto con Charlotte aveva sentito l'audio della televisione nell'altra stanza, segno che Paige era sveglia. Si alzò per andare a salutarla. Mentre si avvicinava alla porta di comunicazione, Paige lo chiamò. «Marty, presto, vieni a vedere.» Entrò in fretta nell'altra camera e la vide in piedi davanti al televisore. Stava guardando il notiziario del mattino. «Parla di noi», gli annunciò. Lui riconobbe la loro casa sullo schermo. Una giornalista era in strada, con le spalle alla casa, di fronte all'obiettivo.
Marty si accovacciò davanti al televisore e alzò il volume. «... quindi il mistero rimane, e la polizia ci terrebbe molto a conferire con Marty Stillwater questa mattina...» «Ah, questa mattina vorrebbero parlare», commentò Marty disgustato.» Paige lo zittì. «... un irresponsabile scherzo di pessimo gusto di uno scrittore assetato di pubblicità, o qualcosa di molto più sinistro? Ora che la Scientifica ha confermato che il sangue trovato in casa Stillwater è effettivamente umano, le autorità hanno bisogno di appurare nel più breve tempo possibile quale sia la situazione reale.» Fine del servizio. Mentre la telecronista dava il suo nome e la località, Marty si accorse della scritta IN DIRETTA che compariva nell'angolo in alto a sinistra dello schermo. La scritta era stata lì per tutto il tempo, ma solo ora ne comprendeva l'importanza. «In diretta?» esclamò. «Non mandano mai inviati in diretta, a meno che l'avvenimento non sia ancora in corso.» «È ancora in corso», rispose Paige. Era in piedi con le braccia conserte, e fissava il televisore accigliata. «Quello squilibrato è ancora in giro.» «Voglio dire, quando c'è una rapina in corso o una situazione in cui ci sono degli ostaggi e una squadra speciale pronta a intervenire. Secondo gli standard televisivi questa storia non ha il minimo interesse, non c'è azione, nessun testimone a cui piazzare un microfono davanti alla bocca, solo una casa deserta da riprendere. Non è il genere di notizia che usano per un servizio in diretta, troppo costoso e per niente appassionante.» La linea era tornata allo studio. Con sua sorpresa, il commentatore non era uno degli speaker di secondo piano di una stazione locale di Los Angeles, com'era normale in un programma del primo mattino, bensì un viso ben noto delle reti nazionali. Ne fu sbalordito. «Siamo in nazionale. Da quando in qua una violazione di domicilio fa notizia a livello nazionale?» «Sei stato anche aggredito», disse Paige. «E con ciò? Oggigiorno ogni dieci secondi in qualche punto del paese si commette un reato più grave di questo.» «Ma tu sei una celebrità.» «Col cavolo!» «Può non piacerti, ma lo sei.» «Non sono una tale celebrità. Due soli best-seller in paperback. Lo sai quanto è dura farsi invitare a un programma su questa rete?» Picchiò le
nocche sulla faccia del commentatore. «Più dura che ottenere un invito a una cena ufficiale alla Casa Bianca! Anche se pagassi un ufficio stampa pronto a vendere l'anima al diavolo, non riuscirebbe a farmi partecipare a questo programma, Paige. Non sono abbastanza importante. Per loro non sono nessuno.» «E allora... che cosa intendi dire?» Marty andò alla finestra che dava sul parcheggio e scostò le tendine. Un pallido chiarore. Il traffico scorreva costante sulla Pacific Coast Highway. Gli alberi si agitavano pigramente, sospinti dalla lieve brezza marina. Non c'era nella scena alcunché di minaccioso o insolito, ma a lui parve piena di insidie. Gli sembrava di guardare un mondo che non gli era più familiare, un mondo cambiato in peggio. Le differenze erano indefinibili, soggettive più che oggettive, percepibili dallo spirito più che dai sensi, ma non per questo meno reali. E il ritmo di quell'oscura modificazione si andava accelerando. Presto la veduta da quella stanza, o da qualsiasi altra, per lui sarebbe stata come qualcosa vista dall'oblò di una navicella spaziale su un pianeta lontanissimo che superficialmente assomigliasse al suo mondo ma che, al di là dell'ingannevole superficie, fosse infinitamente alieno e ostile alla vita umana. «Non credo», riprese Marty, «che in circostanze ordinarie la polizia avrebbe completato gli esami di quei campioni di sangue così in fretta, e so che non è pratica standard fornire senza motivo ai media i risultati di laboratorio della Scientifica.» Lasciò ricadere le tendine e si volse verso Paige, che ora aveva la fronte segnata dall'ansia. «Il telegiornale nazionale? In diretta dalla scena del reato? Non so che diavolo stia succedendo, Paige, ma è ancora più incomprensibile di quanto pensassi ieri sera.» Mentre Paige faceva la doccia Marty portò una sedia davanti al televisore e si mise a saltare da un canale all'altro alla ricerca di altri notiziari. Colse la fine di un secondo servizio su di lui su un canale locale, e poi un terzo, completo, su un programma nazionale. Si sforzava di tenere a bada la paranoia, ma aveva la precisa sensazione che entrambi i servizi facessero capire, senza lanciare alcuna accusa diretta, che la falsità della sua denuncia alla polizia di Mission Viejo era la conclusione più prevedibile, e che il suo vero motivo fosse stato o vendere più libri o qualche cosa di più oscuro e sinistro della semplice ricerca di pubblicità. I due programmi facevano entrambi uso delle fotografie dell'ultimo numero di People, in cui lui appariva come uno zombie da cinematografo
con gli occhi torvi, in agguato nell'ombra, violento e squilibrato. Ed entrambi accennavano con insistenza alle tre armi che la polizia gli aveva requisito, presentandolo come un maniaco suburbano che viveva in cima a un bunker zeppo di armi e munizioni. Verso la fine del terzo servizio, gli parve che venisse buttata lì l'idea che potesse essere pericoloso, anche se l'allusione era così accennata e inserita subdolamente che emergeva più dall'intonazione e dall'espressione del commentatore che dalle parole pronunciate. Scosso, spense l'apparecchio. Per un po' rimase a fissare il teleschermo vuoto. Il grigio del monitor corrispondeva perfettamente al suo umore. Quando si furono lavati e vestiti tutti, le bambine salirono sul retro della BMW e subito si allacciarono coscienziosamente le cinture di sicurezza, mentre i genitori sistemavano le valigie nel portabagagli. Quando Marty riabbassò il cofano e chiuse a chiave, Paige gli parlò sottovoce perché Charlotte ed Emily non sentissero. «Credi davvero che dobbiamo arrivare così lontano, fare quelle cose, siamo davvero messi così male?» «Non lo so. Come ti ho detto, ci sto rimuginando fin da quando mi sono svegliato, dalle tre di questa mattina, e ancora non so se la mia è una reazione eccessiva.» «Sono passi gravi, rischiosi.» «Il fatto è che... per strano che sia ciò che è accaduto, parlo dell'Altro e di quanto mi ha detto, quello che c'è sotto è ancora più inspiegabile. Più pericoloso di uno squilibrato con una pistola. Più mortale e ben più tremendo. È una cosa così mostruosa che ci schiaccerà se tentiamo di opporre resistenza. È così che mi sono sentito nel cuore della notte, terribilmente spaventato, ancora più terrorizzato di quando quell'individuo aveva le bambine in macchina con sé. E dopo ciò che ho visto stamattina in televisione, sono ancora più portato a seguire l'istinto.» Si rendeva conto che la sua espressione di terrore era estrema, con un inequivocabile sapore di paranoia. Ma non stava facendo l'allarmista, e contava di potersi fidare dei propri istinti. Gli eventi avevano spazzato via tutti i dubbi che aveva avuto sulla sua salute mentale. Si augurava di poter identificare un nemico diverso dall'incredibile sosia, perché l'intuito gli diceva che un altro nemico c'era, e sarebbe stato di conforto riuscire a individuarlo.
La mafia, il Ku Klux Klan, i neonazisti, un consorzio di perfidi banchieri, il consiglio di amministrazione di una qualche multinazionale ferocemente avida, la destra militare pronta a istaurare una dittatura, una combriccola di fanatici mediorientali, scienziati pazzi decisi a far saltare in briciole il mondo per il puro gusto di farlo, o Satana in persona in tutto il suo cornuto splendore: uno qualsiasi dei cattivi di un qualsiasi telefilm o di un qualsiasi romanzo, per quanto improbabile e stantio, era preferibile a un avversario senza faccia, senza forma, senza nome. Mordendosi il labbro, persa nei suoi pensieri, Paige lasciò correre lo sguardo tra gli alberi mossi dalla brezza, sulle altre auto in sosta e sulla facciata del motel, prima di alzare gli occhi sui tre gabbiani che lanciavano il loro rauco grido nel cielo azzurro e imperturbabile. «Lo senti anche tu», disse Marty. «Sì.» «Un'oppressione. Non c'è nessuno che ci osservi, ma la sensazione è quasi la stessa.» «Di più. È diverso. Il mondo è cambiato... o è cambiato il mio modo di guardarlo.» «Anche il mio.» «Qualcosa è... qualcosa è andato perduto.» E non lo ritroveremo mai più, aggiunse lui mentalmente. 2 Il Ritz-Carlton era uno splendido albergo, di ottimo gusto, con generose applicazioni di marmo, arenaria, granito, opere d'arte di qualità, e pezzi d'antiquariato in tutti gli spazi comuni. Le enormi composizioni floreali, dovunque ci si girasse, erano le più artistiche che Oslett avesse mai visto. Nella sua divisa discreta, gentile, onnipresente, il personale sembrava più numeroso della clientela. Nel complesso, la situazione gli faceva venire in mente casa sua, la tenuta nel Connecticut in cui era cresciuto, anche se la villa di famiglia era più grande del Ritz-Carlton, era arredata con mobili antichi, quasi da museo, aveva un rapporto domestici-famigliari di sei a uno, e vantava un campo di atterraggio sufficiente ad accogliere gli elicotteri militari che il presidente degli Stati Uniti usava a volte quando si spostava con il suo seguito. La suite in cui si erano acquartierati Drew Oslett e Clocker aveva oltre alle due camere da letto uno spazioso soggiorno, e offriva ogni comodità,
da un bar fornitissimo a due cabine per la doccia in marmo così spaziose che un ballerino classico avrebbe potuto esercitarsi nell'entrechat durante le abluzioni mattutine. Gli asciugamani non erano di Pratesi, come quelli che lui aveva usato per tutta la vita, ma erano di buon cotone egiziano, morbidi e assorbenti. Alle otto meno dieci del mattino dopo, Oslett era già vestito di tutto punto: camicia bianca di cotone con bottoni di osso di balena dei Teophilus Shirtmakers di Londra, un blazer blu di cachemire creato con sublime attenzione per i dettagli dal suo sarto personale di Roma, calzoni di lana grigia, un paio di Oxford nere (tocco di eccentricità) fatte a mano da un artigiano italiano residente a Parigi, e una cravatta a righe blu, marrone e oro. Il colore del fazzolettino di seta si intonava perfettamente con il disegno della cravatta. Così abbigliato, con l'umore risollevato dalla sua perfezione sartoriale, andò a cercare Clocker. Non che desiderasse la compagnia del bestione, no; solo che si sentiva più tranquillo se sapeva momento per momento che cosa stesse combinando Clocker. E nutriva la speranza di trovarlo, un bel giorno, morto, schiantato da un massiccio attacco cardiaco, da un'emorragia cerebrale o da un raggio della morte degli extraterrestri come quelli di cui andava continuamente leggendo. Clocker era sprofondato in una poltrona da giardino sul balcone del soggiorno, senza prestare la minima attenzione al panorama mozzafiato del Pacifico, con il naso ficcato nell'ultimo capitolo del Proteiforme ginecologo della Galassia Nera, o come diavolo era intitolato. Portava lo stesso cappello con la piuma di anatra, la stessa giacca sportiva di tweed e le stesse Hush Puppies, mentre aveva un nuovo paio di calze viola, altri pantaloni e una camicia bianca pulita. Aveva indossato anche un panciotto con una diversa fantasia arlecchino, in blu, rosa, giallo e grigio. Portava la camicia sbottonata, e il pelo nero che spuntava dall'apertura era così folto che a prima vista dava l'impressione di essere una cravatta. Al primo saluto di Oslett non rispose, ma alla ripetizione del «buongiorno» Clocker fece l'improbabile gesto con le dita usato dai personaggi di Star Trek per salutarsi tra loro, senza distogliere l'attenzione dal tascabile. Se Oslett avesse avuto sotto mano una sega elettrica o una mannaia gli avrebbe volentieri troncato di netto la mano e l'avrebbe gettata nell'oceano. Si chiese se il servizio in camera gli avrebbe mandato uno strumento sufficientemente affilato dal corredo di arnesi da taglio dello chef. La giornata era tiepida, doveva esserci già una ventina di gradi. Il cielo
azzurro e la brezza profumata erano un gradito cambiamento rispetto al freddo della notte precedente. Alle otto in punto (giusto in tempo per evitare che le grida dei gabbiani, il suono tranquillizzante delle onde che si infrangevano, e le lontane risate dei surfisti più mattinieri che spingevano verso il largo le loro tavole facessero impazzire Oslett) il rappresentante del Network arrivò ad aggiornarli sugli ultimi sviluppi della situazione. Era ben diverso dal colosso che non molte ore prima li aveva accompagnati dall'aeroporto al Ritz-Carlton. Abito Savile Row, cravatta rigata, mocassini Bally di buona qualità. Un solo sguardo bastò a Oslett per essere certo che nel suo guardaroba non compariva nessun capo su cui fosse stampata una foto di Madonna a seni nudi. Disse di chiamarsi Peter Waxhill, e probabilmente era vero. Era abbastanza in alto nell'organizzazione da conoscere i nomi veri di Oslett e di Clocker, anche se la prenotazione della suite era stata fatta a nome di John Galbraith e John Maynard Keynes, e quindi non c'era motivo che tenesse nascosto il suo. Doveva avere quarantanni da poco compiuti, dieci più di Oslett, ma i capelli rasati sulle tempie erano screziati di bianco. Con il suo metro e ottanta era alto ma non eccessivamente imponente; era snello e in forma, bello ma non in modo vistoso, alla mano e tuttavia non invadente. Si comportava non solo come se fosse da decenni in diplomazia, ma come se fosse stato programmato geneticamente per quella carriera. Dopo le presentazioni e un commento sul tempo, Waxhill disse: «Mi sono preso la libertà di informarmi presso il personale del servizio in camera se avevate già fatto colazione e, poiché mi è stato detto di no, mi sono permesso di ordinare per tre, così possiamo discutere di affari durante il breakfast. Spero che non abbiate nulla in contrario». «Assolutamente», rispose Oslett, colpito dalla cortesia e dall'efficienza di quell'uomo. Aveva appena parlato che suonarono alla porta, e Waxhill fece entrare due camerieri che spingevano un carrello coperto con una tovaglia bianca e carico di piatti. Raggiunto il centro del soggiorno, i camerieri sollevarono alcune prolunghe laterali nascoste trasformando il carrello in un tavolo rotondo, e sistemarono il tutto con la grazia e la rapidità di due prestigiatori che maneggiano un mazzo di carte. Insieme, fecero saltare fuori una varietà di piatti di portata da compartimenti senza fondo sotto il carrello, finché all'improvviso apparve la colazione al completo, come dal nulla: uova strapazzate con peperoncino rosso, bacon, salsicce, aringhe affumicate, to-
ast, croissant, fragole di serra accompagnate da zucchero di canna e minuscole lattiere con la panna, succo fresco d'arancia, e una caffettiera termica in silver plate. Waxhill si complimentò con i camerieri, li ringraziò, diede loro una mancia e firmò il conto, senza fermarsi un attimo e restituendo lo scontrino e la penna ai camerieri dell'hotel nel momento in cui uscivano nel corridoio. Non appena Waxhill chiuse la porta e tornò verso il tavolo, Oslett domandò: «Harvard o Yale?» «Yale. Tu?» «Princeton. Poi Harvard.» «Nel mio caso, Yale e poi Oxford.» «Il presidente è stato a Oxford», osservò Oslett. «Ma davvero», disse Waxhill sollevando le sopracciglia, fingendo di ignorarlo. «Be', Oxford resiste, come si dice.» Avendo evidentemente finito l'ultimo capitolo del Pianeta dei parassiti gastrointestinali, Karl Clocker rientrò dal balcone, suscitando in Oslett una fastidiosa sensazione di imbarazzo. Waxhill si fece presentare al Trekker, gli strinse la mano e diede l'impressione di non essere attanagliato dalla repulsione o dall'ilarità. Avvicinarono tre sedie alla tavola e si sedettero a far colazione. Clocker non si tolse il cappello. Mentre trasferivano il cibo dai vassoi ai piatti, Waxhill disse: «Da ieri abbiamo raccolto altre informazioni interessanti su Martin Stillwater, la più importante delle quali riguarda il ricovero in ospedale della figlia, cinque anni fa.» «Che cos'aveva?» chiese Oslett. «All'inizio non riuscivano a capirlo. In base ai sintomi, sospettavano un tumore. Charlotte (così si chiama la figlia, che all'epoca aveva circa quattro anni) sembrava in uno stato disperato, ma alla fine si scoprì che si trattava di un raro squilibrio ematico, perfettamente curabile.» «Una fortuna per lei», commentò Oslett, anche se non gliene importava niente che la figlia di Stillwater fosse viva o morta. «Sì, una fortuna», annuì Waxhill, «ma nel momento peggiore, quando i medici si stavano orientando verso una diagnosi più infausta, il padre e la madre furono sottoposti a un prelievo di midollo spinale. L'estrazione di un campione di midollo dalle ossa con uno speciale ago aspirante.» «Dev'essere doloroso.»
«Indubbiamente. I medici vollero i campioni per determinare quale dei due genitori sarebbe stato il donatore più idoneo se fosse stato necessario un trapianto. Il midollo di Charlotte produceva pochi globuli rossi e si temeva che ciò dipendesse da un tumore maligno.» Oslett prese una forchettata di uova. Erano al basilico, meravigliose. «Non riesco a immaginare quale relazione possa esserci tra la malattia di Charlotte e il nostro problema.» Dopo una pausa a effetto, Waxhill rispose: «La ricoverarono al CedarsSinai di Los Angeles». Oslett si irrigidì, restando con una seconda forchettata a mezz'aria. «Cinque anni fa», ripeté Waxhill con enfasi. «Mese?» «Dicembre.» «In che giorno Stillwater ha fatto il prelievo?» «Il sedici. Il sedici dicembre.» «Accidenti. Ma noi avevamo anche un campione di sangue, un sostegno...» «A Stillwater prelevarono anche alcuni campioni di sangue. Ognuno di essi venne messo insieme a un campione di midollo per le ricerche di laboratorio.» Oslett si portò la forchetta alla bocca. Masticò, inghiottì e disse: «Com'è possibile che i nostri abbiano combinato un casino del genere?» «Probabilmente non lo sapremo mai. E comunque il 'come' non importa tanto quanto il fatto che lo hanno combinato, e noi ne subiamo le conseguenze.» «E così non abbiamo cominciato dal punto in cui pensavamo.» «Né con chi pensavamo di aver cominciato», aggiunse Waxhill. Clocker stava mangiando come un cavallo. Oslett avrebbe voluto coprirgli la testa con un tovagliolo per risparmiare a Waxhill lo spiacevole spettacolo di quella vigorosa masticazione. Per lo meno il Trekker non era ancora intervenuto nella conversazione con i suoi fastidiosi commenti. «Le aringhe sono eccellenti», disse Waxhill. «Ne assaggerò una», ribatté Oslett. Dopo aver bevuto un sorso di succo d'arancia ed essersi asciugato le labbra con il tovagliolo, Waxhill riprese: «Riguardo al problema di come abbia fatto il tuo Alfie a sapere dell'esistenza di Stillwater e sia riuscito a rintracciarlo... al momento esistono due teorie». . Oslett notò il «tuo Alfie» anziché «nostro Alfie», cosa che poteva non
significare niente, ma poteva anche indicare che era già in atto il tentativo di scaricare su di lui la responsabilità nonostante il fatto incontrovertibile che il disastro era il risultato diretto di procedure scientifiche balorde e non aveva niente a che fare con il modo in cui il ragazzo era stato gestito nei suoi quattordici mesi di servizio. «Primo», spiegò Waxhill, «c'è chi pensa che Alfie si sia imbattuto in un libro di Stillwater con la foto dell'autore in copertina.» «Non può essere così semplice.» «Lo credo anch'io. Però è vero che il risvolto di copertina con le notizie sull'autore, negli ultimi due suoi libri, rivela che vive a Mission Viejo, cosa che potrebbe aver dato una buona traccia ad Alfie.» «Chiunque vedesse la foto di un proprio gemello di cui non ha mai sospettato l'esistenza avrebbe la curiosità di approfondire la questione... chiunque tranne Alfie. Una persona comune ha la capacità di occuparsi di una cosa del genere, ma Alfie no. Lui ha una libertà d'azione molto ristretta.» «È puntato come un proiettile.» «Esattamente. Per fare quello che ha fatto, ha infranto le regole dell'addestramento, cosa che ha comportato un trauma gigantesco. Che diavolo, è qualcosa di più di un addestramento. Addestramento è un eufemismo. Questo è indottrinamento, lavaggio del cervello...» «È programmato.» «Sì. Programmato. E quanto di più prossimo a una macchina, e la sola vista di una fotografia di Stillwater non può averlo mandato fuori controllo più di quanto il computer del tuo ufficio si metterebbe a produrre sperma e a farsi spuntare i peli sul dorso solo perché gli hai mandato un'immagine di Marilyn Monroe sull'hard disk.» Waxhill rise sommessamente. «Mi piace questo paragone. Credo proprio che lo userò per far cambiare idea a qualcuno, naturalmente citando la fonte.» Oslett fu contento dell'approvazione di Waxhill. «Ottimo questo bacon», disse Waxhill. «Proprio magnifico, vero?» Clocker continuò a mangiare. «La seconda fazione, minoritaria», continuò Waxhill, «propone un'ipotesi meno concreta, ma secondo me più credibile, secondo la quale Alfie possederebbe una capacità segreta di cui noi non siamo al corrente e che lui stesso potrebbe non comprendere o controllare completamente.»
«Una capacità segreta?» «Una rudimentale percezione parapsichica, magari. Molto primitiva... ma abbastanza forte da stabilire un contatto tra lui e Stillwater, da attrarli l'uno verso l'altro a causa... a causa di tutto quello che hanno in comune.» «Non è un'ipotesi un po' fantascientifica?» Waxhill sorrise e annuì. «Devo ammettere che sembra uscita da un telefilm di Star Trek...» Oslett strinse i denti e lanciò uno sguardo allarmato a Clocker, ma gli occhi del bestione non si alzarono dal cibo ammassato nel suo piatto. «...anche se è l'intero progetto a puzzare di fantascienza, non ti pare?» concluse Waxhill. «Direi di sì», convenne Oslett. «Il fatto è che gli esperti di ingegneria genetica hanno fornito Alfie di alcune capacità veramente eccezionali. Intenzionalmente. E allora, non sarebbe possibile che inavvertitamente, involontariamente, gli abbiano dato anche qualche qualità sovrumana?» «Anzi, inumana», precisò Clocker. «Be', ecco, mi hai appena indicato un modo più sgradevole di vedere la cosa», replicò Waxhill, guardando Clocker con serietà, «e con ogni possibilità un modo più vicino al vero.» Tornò a rivolgersi a Oslett. «Un qualche legame psichico, una qualche strana connessione mentale potrebbe aver fatto saltare il condizionamento di Alfie, cancellato il suo programma o averlo spinto a ignorarlo.» «Il nostro amico era a Kansas City, e Stillwater in California, Dio santo!» Waxhill alzò le spalle. «Un segnale televisivo arriva dappertutto, fino alla fine dell'universo. Punta un laser da Chicago verso l'ultima estremità della galassia, e quella luce un giorno o l'altro ci arriverà, tra migliaia di anni, anche dopo che Chicago sarà ridotta in polvere... e proseguirà oltre. La distanza potrebbe non significare nulla anche per quanto riguarda le onde mentali, o quel diavolo che sono, che hanno messo Alfie in contatto con lo scrittore.» Oslett aveva perso l'appetito. Sembrava che l'avesse ritrovato Clocker e che lo avesse aggiunto al suo. Waxhill indicò il cestino con i croissant. «Sono eccellenti e, se non lo hai notato, sono di due tipi diversi, semplici e alle mandorle.» «I croissant alle mandorle sono i miei preferiti», disse Oslett, ma non ne prese.
«I migliori croissant del mondo...» riprese Waxhill. «...si trovano a Parigi», intervenne Oslett, «in un caffè caratteristico a due passi...» «...dagli Champs Elysées», terminò Waxhill, sorprendendo Oslett. «Il proprietario, Alfonse...» «...e la moglie, Mirelle...» «... sono due geni della cucina, e ospiti senza uguali.» «Gente affascinante», convenne Waxhill. Si sorrisero. Clocker si servì di altre salsicce, e Oslett provò l'impulso di fargli saltare quello stupido cappello dalla testa. «Se esiste l'eventualità, per quanto remota, che il nostro amico abbia ricevuto inavvertitamente dei poteri che non avevamo mai pensato di dargli», disse Waxhill, «allora dobbiamo considerare l'ipotesi che alcune delle qualità che intendevamo dargli non abbiano avuto l'effetto sperato.» «Temo di non seguirti», disse Oslett. «Sostanzialmente, mi riferisco al sesso.» Oslett si mostrò sorpreso. «Non ha alcun interesse per l'argomento.» «Ne siamo proprio sicuri?» «All'apparenza è maschio, ovviamente, ma è impotente.» Waxhill rimase in silenzio. «È stato fatto in modo da essere impotente», sottolineò Oslett. «Un uomo può essere impotente e al tempo stesso interessatissimo al sesso. Anzi, si potrebbe argomentare che la sua stessa incapacità di raggiungere l'erezione lo metta in uno stato di frustrazione, e che questa frustrazione lo porti a essere ossessionato dal sesso, ossia da ciò che non può avere.» Per tutto il tempo che Waxhill parlava, Oslett aveva continuato a scuotere la testa. «No. Anche in questo caso, non è tanto semplice. Non è solo impotente. Ha ricevuto centinaia di ore di intenso condizionamento psicologico per eliminare l'interesse sessuale, in parte in ipnosi profonda, in parte sotto l'influsso di sostanze che rendono l'inconscio suscettibile a qualsiasi suggestione, in parte tramite immissione di dati subliminali di realtà virtuale durante un sonno indotto da sedativi. Per il nostro ragazzo la differenza principale tra maschi e femmine sta nel modo in cui si vestono.» Poco colpito dall'obiezione di Oslett, continuando a spalmarsi marmellata d'arancia su una fetta di pane tostato, Waxhill disse: «Il lavaggio del cervello, anche il più sofisticato, può fallire. Sarai d'accordo, no?»
«Sì, ma con un soggetto comune si verificano problemi perché occorre contrastare le esperienze di tutta una vita per radicarvi un nuovo atteggiamento o un falso ricordo. Con Alfie è stato diverso. Era una tabula rasa, una splendida tabula rasa, per cui non c'era la minima resistenza a qualsiasi atteggiamento, ricordo o sentimento volessimo ficcare in quella bella testa vuota. Non c'era niente, nel suo cervello, da lavare prima.» «Può darsi che il controllo mentale sia fallito con Alfie proprio perché eravamo così sicuri che fosse un soggetto facile.» «La mente è controllo di se stessa», intervenne Clocker. Waxhill lo guardò storto. «Io non credo che sia fallito», insisté Oslett. «E comunque c'è ancora il piccolo problema dell'impotenza programmata da superare.» Waxhill prese tutto il tempo necessario per masticare e ingoiare un boccone di toast, seguito da un sorso di caffè. «Può darsi che sia stato il suo corpo a superarlo per lui.» «Come sarebbe?» «Il suo corpo incredibile con i suoi sovrumani poteri di recupero.» Oslett sobbalzò come se l'idea lo avesse punto come uno spillo. «Aspetta un momento. Le sue ferite guariscono con eccezionale velocità, d'accordo. Squarci, contusioni, ossa rotte. Una volta danneggiato, il corpo può rigenerarsi tornando alle condizioni programmate originariamente in un lasso di tempo miracolosamente breve. Ma la chiave sta qui: alle sue condizioni programmate originariamente. Non è in grado di 'rifarsi' da solo a un livello fondamentale, non può eseguire una mutazione, Cristo.» «Ne siamo sicuri, sì?» «Sì!» «Perché?» «Be', perché... il contrario... è impensabile.» «Immaginiamo che Alfie non sia impotente. E sia interessato al sesso. Il ragazzo è stato costruito in modo da avere uno spaventoso potenziale di violenza, una macchina biologica omicida, senza remore o rimorsi, capace di qualsiasi atrocità. Immaginiamo questa bestialità accoppiata con una spinta sessuale, e teniamo presente che le pulsioni sessuali e gli impulsi di violenza possono alimentarsi a vicenda e amplificarsi se non sono temperati da uno spirito civile e morale.» Oslett spinse da parte il suo piatto. La vista del cibo cominciava a dargli la nausea. «È stato considerato. È per questo che si sono prese tante precauzioni.»
«Come con l'Hindenburg.» E il Titanic, pensò cupamente Oslett. Anche Waxhill scostò il piatto e appoggiò le mani attorno alla tazza del caffè. «E così ora Alfie ha trovato Stillwater, e vuole la famiglia dello scrittore. Ora è un uomo completo, almeno fisicamente, e i pensieri del sesso conducono prima o poi a pensieri di procreazione. Una moglie. Dei figli. Dio sa quale strana, distorta immagine ha del senso e della finalità di una famiglia. Ma ecco qui una famiglia già bell'e fatta. La vuole. La vuole a tutti i costi. Evidentemente è convinto che gli spetti.» 3 Per motivi concorrenziali, la banca aveva un orario di sportello prolungato. Marty e Paige intendevano trovarsi davanti all'ingresso, con Charlotte ed Emily, alle otto in punto del martedì, appena il direttore apriva. L'idea di tornare a Mission Viejo non andava affatto a genio a Marty, ma pensava che avrebbero avuto meno difficoltà a effettuare le loro operazioni nell'agenzia in cui avevano i loro conti correnti. La banca era a otto o nove isolati dalla casa. Molti degli impiegati avrebbero riconosciuto lui e Paige. La banca era in un edificio isolato all'angolo nord-ovest del parcheggio di un centro commerciale, una bella costruzione di mattoni circondata dai pini, fiancheggiata su due lati dalle strade e sugli altri due dai vasti spiazzi asfaltati del parcheggio. All'altro capo dell'area di sosta, verso sud-est, c'era una serie di costruzioni a L, collegate tra loro, che ospitavano trenta o quaranta esercizi commerciali, compreso un supermercato. Marty parcheggiò sul lato sud. Il breve tragitto tra la BMW e l'ingresso della banca, con le bambine tra lui e Paige, fu snervante perché avevano dovuto lasciare le armi in macchina. Si sentiva vulnerabile. In nessun modo avrebbero potuto introdurre di nascosto un fucile in banca, neppure un modello compatto con il calcio a pistola come il Mossberg. Né voleva rischiare di portare la Beretta sotto la giacca a vento perché non era certo che non fosse in funzione un sistema di sicurezza in grado di individuare un'arma nascosta addosso a chi entrava. Se un impiegato lo avesse scambiato per un rapinatore e avesse chiamato la polizia per mezzo di un allarme silenzioso, i poliziotti non gli avrebbero mai concesso il beneficio del dubbio... senza considerare la reputazione che si era già guadagnato presso di loro dopo la sera precedente.
Mentre Marty si dirigeva verso uno degli sportelli, Paige portò Charlotte ed Emily nella zona in cui si trovavano due divanetti e due poltrone, in fondo alla lunga sala destinata ai clienti in attesa di essere ricevuti da un funzionario dell'istituto. La banca non era uno di quei marmorei monumenti al denaro, con tanto di colonne doriche e soffitto a volta, ma un locale relativamente piccolo con il soffitto a pannelli antiacustici e una moquette verde. Anche se Paige e le bambine erano a pochi metri da lui, visibilissime ogni volta che lanciava un'occhiata dalla loro parte, Marty non si sentiva a suo agio anche a quella breve distanza. L'impiegata era una giovane donna (Lorraine Arkadian, secondo il cartellino apposto sullo sportello) a cui gli occhiali rotondi dalla montatura di tartaruga davano un aspetto da gufo. Quando Marty le comunicò che intendeva fare un prelievo di settantamila dollari dal suo deposito di risparmio, che assommava a più di settantaquattromila, lei fraintese, pensando che intendesse trasferire la somma sul conto corrente. Quando gli mise davanti il modulo per la richiesta dell'operazione, lui chiarì l'equivoco e chiese di dargli la somma, se possibile, in biglietti da cento. Lei disse: «Ah. Ecco. Vede... una transazione per questa somma non è di mia competenza, signore. Devo chiedere l'autorizzazione al cassiere capo o alla vicedirettrice». «Ma certo», rispose lui, con disinvoltura, come se ritirasse cifre di quella entità tutte le settimane. «Capisco.» L'impiegata andò in fondo al salone a parlare con una donna più anziana che stava esaminando alcuni documenti nel cassetto di un grosso schedario. Marty la riconobbe: Elaine Higgens, la vicedirettrice. La signora Higgens e Lorraine Arkadian lanciarono uno sguardo a Marty, poi ripresero a confabulare. Mentre aspettava, Marty continuava a tenere d'occhio i due ingressi, cercando di non dare nell'occhio, aspettandosi da un momento all'altro di veder entrare l'Altro, questa volta armato di Uzi. L'immaginazione dello scrittore. Forse, in fin dei conti, non era una maledizione. Forse in certe occasioni era uno strumento di sopravvivenza. Una cosa era certa: anche l'immaginazione più fervida, di quei tempi, faticava a tenere dietro alla realtà. Gli occorre più tempo del previsto per trovare un paio di targhe da scambiare con quelle della Toyota Camry rubata. Si è svegliato troppo tardi e ha impiegato troppo tempo per rendersi presentabile. Ora il mondo
comincia a ridestarsi, e lui non ha più il vantaggio del riparo della notte che avrebbe facilitato lo scambio. I grandi complessi residenziali, con le aree di sosta coperte e un'abbondanza di veicoli, offrono il territorio di caccia ideale per quel che gli serve, ma provandone diversi uno dopo l'altro vede che ci sono troppi residenti in giro, che escono per andare al lavoro. Alla fine la sua diligente ricerca trova la ricompensa nel parcheggio dietro una chiesa. È in corso la funzione mattutina. Sente la musica dell'organo. I parrocchiani hanno lasciato quattordici auto da cui scegliere: il gregge dei fedeli non è dei più folti, ma per i suoi scopi è più che adeguato. Lascia acceso il motore della Camry mentre cerca un'auto in cui il proprietario abbia lasciato le chiavi. Nella terza, una Pontiac verde, una serie completa ciondola dal cruscotto. Apre il cofano della Pontiac sperando che contenga almeno l'attrezzatura di emergenza con un cacciavite. Non avendo le chiavi della Camry, non può aprire il suo portabagagli. Ha di nuovo fortuna: un kit completo di emergenza stradale, con materiale di pronto soccorso e una borsetta di attrezzi, fra cui quattro cacciaviti di diverso tipo. Dio è con lui. In pochi minuti scambia le targhe della Camry con quelle della Pontiac. Ripone il corredo degli attrezzi nel portabagagli della Pontiac e le chiavi nel cruscotto. Mente si avvia alla Camry, l'organo della chiesa attacca un inno che non gli è familiare. Il fatto che non conosca il nome dell'inno non è strano, visto che da quel che ricorda è stato in chiesa solo tre volte. In due casi, c'è andato per ammazzare il tempo in attesa dell'apertura dei cinema. La terza volta stava seguendo una donna che aveva visto per strada e con cui gli sarebbe piaciuto condividere un po' di sesso e la speciale intimità della morte. La musica lo prende. Si ferma nella lieve brezza del mattino, ondeggiando come in sogno, a occhi chiusi. L'inno lo ha commosso. Forse ha talento musicale. Deve scoprirlo. Forse suonare uno strumento e comporre canzoni sarà più facile che scrivere romanzi. Quando il pezzo finisce, monta sulla Camry e riparte. *** Marty scambiò alcuni convenevoli con la signora Higgens quando lei ri-
tornò con la cassiera. Evidentemente in banca nessuno aveva visto il notiziario, dato che le due donne non fecero cenno all'aggressione. Il golf e il colletto della camicia nascondevano i lividi bluastri che aveva al collo. Aveva ancora la voce un po' roca, ma non tanto da provocare commenti. La signora Higgens osservò che il prelievo che intendeva fare era insolitamente alto, formulando quel commento in modo da indurlo a spiegare come mai avesse voglia di portarsi in giro tanto contante. Lui si limitò a convenire che in effetti era insolitamente alto ed espresse la speranza di non esserle troppo di disturbo. Mostrarsi affabili era essenziale, probabilmente, per completare l'operazione nel più breve tempo possibile. «Non sono sicura di poterglieli dare tutti in biglietti da cento», disse la signora Higgens. Parlava a bassa voce, discretamente, sebbene nella banca ci fossero solo altri due clienti, e nessuno dei due fosse vicino. «Devo controllare la riserva di quel taglio.» «Qualcuno da venti e da cinquanta andrà benissimo», le assicurò Marty. «Vorrei solo evitare un carico troppo ingombrante.» La vicedirettrice e la cassiera erano entrambe sorridenti e sollecite, ma Marty avvertiva chiaramente in loro curiosità e preoccupazione. Dal loro punto di vista, sapevano che non erano molti i motivi legittimi, e ancor meno quelli sensati, per portarsi dietro settantamila dollari liquidi. Anche se si fosse sentito tranquillo a lasciare Paige e le bambine in macchina, Marty non lo avrebbe fatto. Il primo sospetto che si sarebbe affacciato alla mente di un funzionario di banca era che quel denaro servisse a pagare un riscatto, e la prudenza avrebbe imposto una telefonata alla polizia. Con l'intera famiglia presente, un sequestro di persona era automaticamente escluso. La cassiera di Marty cominciò a consultare le colleghe degli altri sportelli, verificando il numero di biglietti da cento contenuti nelle loro casse, mentre la signora Higgens imboccava la porta aperta verso il locale di sicurezza sul retro della sala. Marty lanciò uno sguardo a Paige e alle bambine. All'ingresso est. A sud. All'orologio. Sorridendo, sempre sorridendo, sorridendo come un idiota. Entro un quarto d'ora saremo fuori di qui, si disse. Forse anche dieci minuti. Fuori di qui e al sicuro. L'onda nera si abbatté su di lui. In un Denny's, dopo aver usato la toilette, sceglie un tavolo accanto alla
vetrata e ordina una colazione gigantesca. La cameriera che lo serve, una mora carina, si chiama Gayle. Fa qualche battuta sul suo appetito. Lo stuzzica. Lui considera l'idea di proporle di uscire insieme. Ha un corpo molto bello, gambe snelle. Fare del sesso con Gayle sarebbe adulterio perché lui è sposato con Paige. Si chiede se sarebbe ugualmente adulterio se, dopo il sesso con Gayle, la uccidesse. Le lascia una buona mancia e decide di ritornare dopo una o due settimane e chiederle di uscire con lui. Ha il nasino all'insù, labbra sensuali. Tornato nella Camry, prima di rimettere in moto, chiude gli occhi, fa il vuoto nella mente e immagina di essere magnetizzato, come il falso padre, poli opposti che si attirano. Sente l'attrazione. Questa volta è entrato nell'orbita dell'altro più rapidamente di quando ha provato a stabilire il contatto in piena notte, e il potere di attrazione è infinitamente più forte di prima. Anzi, è così forte, così istantaneo, che gli strappa una esclamazione di sorpresa e lo costringe a stringere il volante tra le mani, come se rischiasse realmente di essere strappato dalla Toyota attraverso il parabrezza, scagliato come un proiettile verso il cuore del falso padre. Il suo nemico è immediatamente consapevole del contatto. L'uomo è spaventato, minacciato. A est. E a sud. Questo lo porterà nella direzione di Mission Viejo, anche se dubita che l'impostore si senta così al sicuro da essere già tornato a casa. Un'onda d'urto, come quelle emesse da un'enorme esplosione, si abbatté su Marty, facendolo quasi crollare a terra. Si aggrappò con tutt'e due le mani alla mensola davanti allo sportello per mantenere l'equilibrio. Si appoggiò al ripiano, reggendosi forte. La sensazione era totalmente soggettiva. L'aria gli sembrava compressa fino al punto di liquefare, ma nulla si disintegrava, si crepava, cadeva. Lui evidentemente era l'unica persona a soffrirne. Dopo lo choc iniziale dell'onda, Marty si sentì come sepolto da una valanga. Schiacciato da incommensurabili tonnellate di neve. Senza fiato. Paralizzato. Gelato. Pensò che doveva essersi fatto pallidissimo, cereo. Era assolutamente certo che non sarebbe stato in grado di articolare parola se qualcuno lo a-
vesse interpellato. Se una delle due donne fosse tornata allo sportello mentre era in preda a quella crisi, la paura nascosta sotto il suo atteggiamento disinvolto si sarebbe rivelata in tutta la sua evidenza. Lo avrebbero visto come un uomo disperato, e non sarebbero state più disposte a dare tanto denaro a qualcuno che era così chiaramente fuori di sé, fisicamente o mentalmente. Sentì il freddo aumentare a dismisura quando avvertì una carezza mentale della stessa maligna presenza spettrale che aveva percepito il giorno prima nel garage, quando stava per recarsi nello studio del medico. La gelida «mano» dello spirito toccò la nuda superficie del suo cervello, quasi lo stesse leggendo diteggiando dati impressi in Braille sulle circonvoluzioni della corteccia cerebrale. Ora capiva che lo spirito in realtà era il suo sosia, i cui incredibili poteri non si limitavano alla guarigione spontanea dalle ferite mortali. Tronca il contatto magnetico. Esce dal parcheggio del ristorante. Accende la radio. Michael Bolton canta d'amore. La canzone è toccante. Se ne sente profondamente commosso, è quasi in lacrime. Ora che è finalmente qualcuno, ora che ha una moglie che lo aspetta e due figlie che hanno bisogno della sua guida, conosce il significato e il valore dell'amore. Si chiede come abbia potuto vivere finora senza di esso. Punta a sud. E a est. Il destino chiama. Improvvisamente, il tocco della mano spettrale si interruppe. La pressione soffocante si sollevò, e il mondo tornò alla normalità... se mai esisteva ancora qualcosa chiamata normalità. L'attacco per fortuna era durato solo cinque o dieci secondi. Nessuno degli impiegati della banca si era accorto di niente. Nonostante la sensazione di sollievo, avvertiva sempre più urgente il bisogno di incassare il denaro e andare via di lì. Guardò Paige e le bambine nel salottino aperto in fondo alla sala. Spostò lo sguardo, ansioso, verso l'ingresso a est, quello a sud, di nuovo a est. L'Altro sapeva dov'erano. Tra qualche minuto, al massimo, il loro nemico misterioso e implacabile li avrebbe raggiunti. Le uova strapazzate sul piatto che Oslett aveva spinto di lato, ormai
fredde, avevano preso una tinta grigiastra. Il profumo del bacon, prima così appetitoso, cominciava a provocargli un vago senso di nausea. 4 Folgorato dal pensiero che Alfie potesse essersi trasformato in una creatura dotata di impulsi sessuali e della capacità di soddisfarli, Oslett era comunque deciso a non mostrarsi preoccupato, almeno in presenza di Peter Waxhill. «Be', tutti questi discorsi non sono che congetture.» «Sì», rispose Waxhill, «ma stiamo indagando nel passato per vedere se la teoria tiene.» «Quale passato?» «I rapporti di polizia degli ultimi quattordici mesi in tutte le città in cui Alfie ha operato. Stupri e omicidi sessuali commessi durante le ore in cui non lavorava.» Oslett aveva la bocca secca. Il cuore gli andava all'impazzata. Non gli importava niente di quello che era capitato alla famiglia Stillwater. Che diavolo, non erano che dei Klingon. Non gli importava nemmeno se il Network crollava e le sue grandi ambizioni andavano alla malora. Prima o poi avrebbero formato un'organizzazione analoga, e il sogno si sarebbe rinnovato. Ma se il loro amico risultava impossibile da recuperare o da bloccare, c'era il rischio che la macchia arrivasse a toccare in profondità la famiglia Oslett, mettendone a repentaglio la ricchezza e indebolendone gravemente il potere politico per decenni. Soprattutto, Drew Oslett pretendeva rispetto. La massima garanzia di rispetto era sempre stata la famiglia, la consanguineità. La prospettiva che il nome degli Oslett diventasse oggetto di scherno e di ridicolo, esposto al pubblico ludibrio, spunto per le barzellette idiote di ogni comico televisivo, e argomento di articoli imbarazzanti su tutti i giornali, dal New York Times al National Enquirer, ebbene, quella prospettiva era terribilmente sconfortante. «Ti sei mai chiesto», domandò Waxhill, «che cosa fa il tuo ragazzo nel tempo libero, tra un incarico e l'altro?» «Lo abbiamo controllato da vicino, è ovvio, per le prime sei settimane. Andava al cinema, al ristorante, nei parchi, guardava la televisione, faceva tutto quello che fa la gente per ammazzare il tempo... come noi volevamo che agisse quando si trovava all'esterno di un ambiente controllato. Niente di strano. Assolutamente niente di fuori dell'ordinario. Certamente niente che avesse a che fare in qualche modo con le donne.»
«Si sarà comportato al meglio, ovviamente, se sapeva di essere osservato.» «Non lo sapeva. Non poteva saperlo. Non si è mai accorto dei nostri sorveglianti. Mai. Sono i migliori.» Oslett si accorse che si stava accalorando troppo. Ma non poté impedirsi di aggiungere: «Impossibile». «Forse se n'è accorto allo stesso modo in cui si è accorto di Martin Stillwater. Una sorta di percezione parapsichica.» Quell'uomo cominciava a non piacergli. Era un irrecuperabile pessimista. Waxhill prese la caffettiera e riempì le tre tazze. «Anche se andava soltanto al cinema, se guardava la televisione... questo non ti impensieriva?» «Senti, lui doveva essere l'assassino perfetto. Programmato. Senza rimorsi, senza ripensamenti. Difficile da trovare, più difficile ancora da uccidere. E se qualcosa fosse andata male, non sarebbe mai stato possibile risalire a chi lo gestiva. Lui non sa chi siamo né perché vogliamo eliminare quelle persone, per cui come testimone non vale nulla. Non è niente, è un guscio, un uomo completamente vuoto. Che però deve funzionare in società, passare inosservato, agire come uno qualunque, fare le cose che fa la gente nel tempo libero. Se in albergo lui fosse sempre rimasto chiuso in camera, seduto sul letto a fissare il vuoto, le cameriere avrebbero cominciato a fare commenti tra loro, a pensare che fosse un tipo strano, a ricordarsi di lui. E poi, che male fa un film, un po' di televisione?» «Influenze culturali. Potrebbero in qualche modo modificarlo.» «È la natura quello che conta, il modo in cui è stato programmato, non come trascorre il sabato pomeriggio.» Oslett si appoggiò allo schienale, sentendosi leggermente meglio, ora che aveva un po' convinto se stesso, se non Waxhill. «Controlla pure il passato. Ma non troverai niente.» «Forse qualcosa l'abbiamo già trovata. Una prostituta a Kansas City. Strangolata in un alberghetto di fronte a un bar chiamato Blue Life Lounge. Due diversi camerieri del locale hanno fornito alla polizia di Kansas City una descrizione dell'uomo con cui la donna era uscita. Sembrerebbe Alfie.» Oslett aveva percepito un legame di classe e di esperienza tra sé e Peter Waxhill. Aveva perfino nutrito una qualche speranza di instaurare un'amicizia. Ora aveva l'inquietante sensazione che Waxhill si divertisse a dargli tutte quelle belle notizie. «Uno dei nostri contatti», proseguì Waxhill, «è riuscito a procurarci un campione dello sperma che la Scientifica di Kansas City ha raccolto dalla
vagina della prostituta. Ora è in volo per il nostro laboratorio di New York. Se è sperma di Alfie, lo sapremo.» «Non è in grado di produrre sperma. È stato programmato...» «Comunque, se è suo lo sapremo. Conosciamo il suo apparato genetico, il suo corredo cromosomico meglio di quanto la Rand McNally conosca il mondo. Ed è unico. Più unico di un'impronta digitale.» Quelli di Yale. Tutti uguali. Bastardi presuntuosi e pieni di sé. Clocker prese tra pollice e indice una polposa fragola di serra. Esaminandola con la massima attenzione, come se avesse standard rigorosissimi in fatto di alimentazione e non mangiasse nulla che non fosse in grado di superare la sua esigente ispezione, disse: «Se Alfie è attirato da Martin Stillwater, allora quello che ci serve di sapere è dove possiamo trovare Stillwater». Si mise il fragolone, grosso la metà di un limone, tutt'intero sulla lingua e poi in bocca, come un rospo che mangia una mosca. «Questa notte abbiamo mandato qualcuno in casa loro a dare un'occhiata», replicò Waxhill. «Sembrerebbe che se la siano filata in tutta fretta. Cassetti lasciati aperti, qualche valigia vuota abbandonata perché ritenuta di troppo. A giudicare dalle apparenze non intendono ritornare a casa per alcuni giorni, ma teniamo ugualmente il posto sotto sorveglianza, non si sa mai.» «E non avete la minima idea di dove diavolo si trovino», disse Oslett, perversamente contento di poter mettere Waxhill alle corde. Waxhill non si scompose. «In questo momento non siamo in grado di dire dove siano, no...» «Ah.» «Pensiamo, tuttavia, di avere in mano una valida traccia. I genitori di Stillwater vivono a Mammoth Lakes. Lui non possiede altri parenti sulla costa occidentale, e, a meno che non abbia qualche amico intimo di cui non siamo al corrente, è più che probabile che si faccia vivo con il padre e la madre, se non di persona almeno telefonicamente.» «E i parenti della moglie?» «Quando lei aveva sedici anni, il padre uccise la moglie sparandole in faccia e poi si suicidò.» «Interessante.» «Sì, senza dubbio. Paige tornò a casa da scuola e trovò i cadaveri. Per alcuni mesi rimase sotto la tutela di una zia. Ma la donna non le piaceva, e presentò istanza al tribunale per essere dichiarata legalmente adulta.» «A sedici anni?»
«Il giudice fu tanto colpito da lei da pronunciarsi a suo favore. È raro, ma succede.» «Doveva avere un avvocato con i fiocchi.» «Sì, lei stessa. Studiò norme di legge e precedenti applicabili al suo caso, e poi si rappresentò da sé.» La situazione si faceva sempre più nera. Anche ammesso che fosse stato aiutato dalla fortuna, Martin Stillwater aveva comunque avuto la meglio su Alfie, e questo voleva dire che era un uomo ben più notevole del ridicolo personaggio che emergeva da People. Ora che era saltato fuori che anche la moglie aveva una personalità superiore alla media, si capiva che sarebbe stato un degno avversario. «Per indurre Stillwater a mettersi in contatto con i suoi», suggerì Oslett, «potremmo incaricare gli affiliati al Network che lavorano nei media di mettere nella massima evidenza gli incidenti di ieri sera a casa sua.» «Già fatto», fu la risposta esasperante di Waxhill. Inquadrò con le mani alcuni titoli immaginali: «'Scrittore di successo spara a un intruso. Una montatura o un'autentica minaccia? Scrittore e famiglia introvabili. Si nascondono al killer o si sottraggono alle domande della polizia?' Cose del genere. Quando Stillwater vedrà un giornale o sentirà un notiziario alla televisione, chiamerà immediatamente i genitori, sapendo che anche loro avranno visto e sentito e che saranno preoccupati.» «Avete messo il telefono sotto controllo?» «Sì. Abbiamo installato sulla linea un congegno di identificazione di chiamata. Nel momento in cui si stabilisce il contatto veniamo a sapere il numero dell'apparecchio da cui Stillwater sta chiamando.» «E intanto noi che cosa facciamo?» chiese Oslett. «Ce ne stiamo seduti qui a limarci le unghie e a mangiare fragole?» Visto il ritmo con cui Clocker le stava mangiando, l'albergo ne sarebbe rimasto sfornito in brevissimo tempo, poi anche l'intera produzione delle serre della California e stati confinanti si sarebbe esaurita. Waxhill guardò il Rolex d'oro che aveva al polso. Drew Oslett cercò di scorgere qualche traccia di ostentazione nel modo in cui Waxhill consultava il suo costoso orologio. Sarebbe stato contento di notare qualcosa che svelasse la cafonaggine dell'impostore sotto una verniciatura di eleganza e sofisticatezza. Ma Waxhill guardò il suo orologio come Oslett guardava il proprio Rolex: come se non fosse diverso da un Timex comprato al K-Mart. «No. Questa mattina stessa raggiungerete in volo Mammoth Lakes.»
«Ma non possiamo essere sicuri che Stillwater vada proprio lì.» «È una ragionevole ipotesi», replicò Waxhill. «Se lo fa, ci sono buone speranze che Alfie lo segua. E sarete in condizione di recuperare il vostro ragazzo. Se poi Stillwater non ci va, se si limita a fare una telefonata a babbo e mammina, potrete proseguire subito, in auto o in aereo, verso la località da cui ha chiamato.» Riluttante a rimanere seduto lì anche per un altro minuto soltanto, nel timore che Waxhill potesse comunicargli qualche altra brutta notizia, Oslett depose il tovagliolo sulla tavola e scostò la sedia. «Allora andiamo. Più tempo passa con il nostro amico libero, più aumentano i rischi che qualcuno veda lui e Stillwater insieme. Se questo dovesse accadere, la polizia comincerebbe a credere all'autenticità della sua storia.» Waxhill rimase seduto e prese la tazza di caffè. «Un'altra cosa.» Oslett si era alzato. Non aveva intenzione di tornare a sedersi perché avrebbe dato l'impressione che Waxhill controllasse la situazione. In realtà era vero che la controllava, ma solo perché era in possesso di informazioni che a lui servivano, non perché fosse superiore a Oslett per grado o per altro. Nella peggiore delle ipotesi, il loro potere all'interno dell'organizzazione era pari, e più probabilmente era Oslett il più importante dei due. Rimase in piedi accanto alla tavola, con lo sguardo sull'uomo di Yale. Nonostante che avesse finalmente terminato di mangiare, Clocker rimase seduto. Oslett non capiva se il comportamento del suo partner rappresentava un piccolo tradimento o se era solo il segno che la mente del Trekker era con Spock e la sua banda in qualche remoto angolo dell'universo. Dopo un sorso di caffè, Waxhill disse: «Se sarete costretti a liquidare il vostro ragazzo, la cosa è spiacevole ma accettabile. Se riuscite a riprenderne il controllo, almeno per il tempo di portarlo a riparare, tanto meglio. Ma, comunque vada... Stillwater, la moglie e le bambine vanno eliminati». «Nessun problema.» 5 La direttrice dell'agenzia, la signora Takuda, si fermò a salutare Marty mentre aspettava allo sportello, poco dopo che l'onda nera lo aveva colpito e si era smorzata. Marty era convinto che, se si fosse guardato in uno specchio, si sarebbe visto ancora pallido e con le labbra contratte, e con uno sguardo da animale selvaggio negli occhi; se però la signora Takuda aveva notato qualcosa di strano nel suo aspetto, era troppo educata per rilevarlo.
La sua preoccupazione principale era che uno dei clienti stesse ritirando la maggior parte dei suoi risparmi perché qualcosa nella banca non gli andava a genio. Rimase sorpreso lui stesso di essere capace di mostrare un sorriso convincente e un atteggiamento sufficientemente cordiale da persuaderla che non aveva niente contro la banca e da tranquillizzarla. Dentro di sé, nel profondo, si sentiva gelato e tremante, ma il tremito non raggiungeva la superficie né influiva sulla sua voce. Quando la signora Takuda andò nel locale dove c'era la cassaforte per dare una mano a Elaine Higgens, Marty guardò Paige e le bambine, l'ingresso est, l'ingresso sud, e il suo Timex. La vista della lancetta rossa che scandiva i secondi sul quadrante gli fece imperlare la fronte di sudore. L'Altro stava arrivando. Tra quanto tempo? Dieci minuti, due minuti, cinque secondi? Un'altra ondata lo colpì. Un ampio viale. Il sole riflesso sulle cromature delle auto provenienti dalla direzione opposta. Phil Collins alla radio che canta di tradimento. Simpatizzando con Collins, cerca di stabilire di nuovo il contatto magnetico. Click. Contatto. Sente un'attrazione irresistibile verso est e sud, quindi sta procedendo ancora nella direzione giusta. Stacca il contatto pochi secondi dopo averlo stabilito, sperando di individuare il falso padre senza rivelarsi. Ma anche durante quel breve collegamento, il nemico si è accorto dell'intrusione. La seconda onda d'urto, benché di durata più breve della prima, non fu meno potente. Marty si sentì come colpito al petto da una martellata. La cassiera tornò allo sportello assieme alla signora Higgens. Aveva con sé banconote sciolte e in mazzette, in fogli da cento e da venti. In tutto erano due pile alte sette o otto centimetri. La cassiera cominciò a contare i settantamila dollari. «Va bene, va bene», disse Marty. «Le metta pure in un paio di buste.» «Ma, signor Stillwater», replicò sorpresa la signora Higgens, «ha firmato l'ordine di prelievo, dobbiamo contarli davanti a lei.» «Non importa, sono sicuro che li avete già contati esattamente.» «Ma la procedura...» «Mi fido di lei, signora Higgens.» «Be', la ringrazio, ma veramente...»
«Per favore.» 6 Rimanendo semplicemente seduto mentre Drew Oslett aspettava in piedi impaziente accanto al tavolo, Waxhill dimostrava la propria superiorità. Oslett lo detestava e al tempo stesso, a malincuore, lo ammirava. «E quasi certo», disse Waxhill, «che la moglie e le bambine abbiano visto Alfie nel secondo incidente di ieri sera. Capiscono ben poco di quello che sta succedendo, ma se hanno la certezza che Stillwater stesse dicendo la verità quando parlava di un sosia, sanno già troppo.» «Nessun problema, l'ho già detto», ripeté Oslett con impazienza. Waxhill annuì. «Sì, va bene, ma la casa madre vorrebbe che venisse fatto in un certo modo.» Sospirando, Oslett cedette e si rimise a sedere. «E cioè?» «Dando l'impressione che Stillwater sia arrivato a toccare il fondo.» «Omicidio e suicidio?» «Sì, ma non solo. La casa madre sarebbe contenta se si potesse far apparire Stillwater come se avesse agito in preda a un particolare delirio psicotico.» «Sì?» «La moglie dev'essere uccisa con un colpo in ciascun seno e uno in bocca.» «E le figlie?» «Prima, le fai spogliare. Leghi loro i polsi dietro la schiena. Leghi le caviglie. C'è un tipo particolare di spago intrecciato che vorremmo che usassi. Ti sarà fornito. Poi due colpi di pistola per ciascuna. Prima nelle... parti intime, poi in mezzo agli occhi. Quanto a Stillwater, dovrà apparire che si è ucciso con un colpo in bocca. Ti ricorderai tutto?» «Certamente.» «È importante che tu faccia tutto esattamente così, senza deviazioni dal copione.» «Qual è la storia che intendete far passare?» chiese Oslett. «Non hai letto l'articolo su People?» «Non tutto», riconobbe Oslett. «Stillwater ne esce come un imbecille... e un imbecille noioso, anche.» «Quattro anni fa, nel Maryland, un uomo uccise la moglie e le due figlie esattamente in questo modo. Era un pilastro della comunità, per cui la cosa
lasciò tutti sconvolti. Una tragedia. Tutti continuarono a chiedersi il perché. Sembrava una cosa insensata, lontanissima da lui. Stillwater rimase colpito dal delitto e stava pensando di scrivere un romanzo sull'argomento, per esplorare le motivazioni possibili. Ma dopo aver fatto una quantità di ricerche abbandonò il progetto. A People ha dichiarato che lo deprimeva troppo. Dice che la letteratura, il suo genere di letteratura, ha bisogno di dare senso alle cose, portare ordine nel caos, mentre lui non riusciva a trovare il minimo senso in quanto era accaduto nel Maryland.» Oslett rimase seduto in silenzio, sforzandosi di odiare Waxhill ma constatando che la sua antipatia per quell'uomo si andava dileguando rapidamente. «Devo dire... è molto bello.» Waxhill sorrise, quasi con ritrosia, e si strinse nelle spalle. v «È stata un'idea tua?» volle sapere Oslett. «Mia, sì. L'ho proposta alla casa madre e loro l'hanno subito accettata.» «È ingegnosa», disse Oslett con genuina ammirazione. «Grazie.» «Molto pulita. Martin Stillwater massacra la famiglia allo stesso modo di quel tale in Maryland, e viene fuori che il vero motivo per cui non riusciva a scrivere un romanzo sul caso originale era che lo toccava troppo da vicino, perché era quello che segretamente voleva fare lui alla sua famiglia.» «Esattamente.» «E fin da allora la cosa lo stava ossessionando.» «Lo perseguitava in sogno.» «Questo bisogno psicotico di violentare simbolicamente...» «...e uccidere letteralmente...» «...le figlie...» «...e uccidere anche la moglie, la donna che...» «...che le aveva generate e nutrite», concluse Oslett. Si stavano sorridendo, come si erano sorrisi quando avevano accennato a quel caffè delizioso non lontano dagli Champs Elysées. Waxhill riprese: «Nessuno riuscirà mai a immaginare che cosa avesse a che fare la strage della famiglia con l'assurda denuncia dell'aggressione da parte del fantomatico sosia, ma immagineranno che anche il sosia facesse parte della sua allucinazione». «Mi è appena venuto in mente che i campioni di sangue di Alfie raccolti nella casa di Mission Viejo risulteranno sangue di Stillwater.» «Già. Forse si stava sottoponendo periodicamente a salassi, mettendo da
parte il sangue per la sua montatura? E perché? Di sicuro verranno avanzate numerose teorie, e alla fine questo sarà un mistero meno interessante di ciò che ha fatto alla sua famiglia. Nessuno riuscirà mai a tirar fuori la verità da questo groviglio.» Oslett cominciava a sperare che forse, dopotutto, ce l'avrebbe fatta a recuperare Alfie, salvare il Network e mantenere intatta la reputazione. Waxhill si rivolse a Clocker. «E tu, Karl? Tutto questo ti presenta qualche problema?» Benché seduto a tavola, Clocker sembrava lontano in spirito. Riportò l'attenzione su di loro come se i suoi pensieri fossero stati fino a quel momento con l'equipaggio dell'Enterprise su un pianeta ostile nella nebulosa del Granchio. «Sulla terra ci sono cinque miliardi di abitanti», rispose. «Per questo pensiamo che sia affollata, ma per ognuno di noi l'universo contiene innumerevoli migliaia di stelle, un'infinità di stelle per ognuno di noi.» Waxhill continuò a fissarlo, in attesa di un chiarimento. Quando capì che Clocker non aveva altro da dire, si voltò verso Oslett. «Credo che Karl intenda dire che... Be', che nel vasto schema delle cose, che cosa importa se qualche individuo muore un po' prima di quanto avrebbe voluto il corso naturale degli eventi?» 7 Il sole è alto sulle montagne lontane, dove i picchi più elevati sono bianchi di neve. Fa una strana impressione quell'immagine invernale in un mattino di dicembre che è quasi primaverile, tra palme e fiori. Punta a sud e a est verso Mission Viejo. È vendetta su ruote. Giustizia su ruote. Avanti, sempre più avanti. Pensa di cercare un armaiolo e comprare un fucile da caccia o un'arma del genere, per cui non è necessario aspettare un certo numero di giorni per ottenere il permesso di acquisto. Il suo avversario è armato, lui no. Non vuole però rimandare l'inseguimento del rapitore che ha sequestrato la sua famiglia. Se il nemico viene colto all'improvviso mentre è in movimento, è più probabile fargli compiere un errore. La tensione ininterrotta è un'arma più efficace di qualsiasi fucile. E poi lui è vendetta, giustizia e virtù. È l'eroe di questo film, e l'eroe non muore mai. Possono sparargli, sprangarlo, spingerlo fuori strada in un inseguimento automobilistico, accoltellarlo, buttarlo giù da un precipizio,
chiuderlo in una segreta piena di serpenti velenosi, infliggerli una serie infinita di torture tra le più fantasiose, ma lui non morirà. Con Harrison Ford, Sylvester Stallone, Steven Seagal, Bruce Willis, Wesley Snipes, e tanti altri eroi, ha in comune l'invincibilità della virtù e della nobiltà dei fini. Capisce perché il suo attacco iniziale al falso padre, quello del giorno prima in casa sua, era destinato a fallire benché fosse lui l'eroe. Era stato attirato a ovest dalla potentissima attrazione tra lui e il suo doppio; così come lui era consapevole di qualcosa che lo attirava, anche il doppio era cosciente di qualcosa che si avvicinava, per tutte le giornate di sabato e domenica. Nel momento in cui si erano affrontati nello studio, il falso padre era ormai avvertito e pronto a reagire. Adesso sa di poter aprire e chiudere a volontà il contatto tra loro. Come la corrente elettrica in qualsiasi impianto casalingo, può essere controllato da un interruttore. Anziché lasciare l'interruttore sempre sulla posizione di acceso, può aprire il circuito per qualche istante, il tempo necessario a stabilire il contatto con il falso padre e individuarne la posizione. La logica suggeriva pure che la potenza che attraversava il filo psichico potesse essere da lui modificata. Immaginando il controllo psichico come un interruttore variabile, un reostato, dovrebbe essere in grado di abbassare l'amperaggio della corrente nel circuito, rendendo il contatto meno avvertibile di prima. Dopotutto, usando un interruttore reostatico, la luce di una lampada può essere gradualmente ridotta fino a diventare un minimo barlume. Analogamente, immaginando l'interruttore psichico come un altro reostato, potrebbe riuscire ad aprire il contatto a un amperaggio così basso da individuare il falso padre senza che costui possa rendersi conto di essere stato quasi raggiunto. Fermo a un semaforo rosso nel cuore di Mission Viejo, immagina un interruttore a manopola con una capacità di rotazione di trecentosessanta gradi. Lo porta a novanta gradi, e immediatamente sente la trazione del falso padre, leggermente più a est e ora leggermente verso nord. Fuori della banca, diretto verso la BMW, Marty improvvisamente sentì un'altra onda d'urto, e, dietro, il gigantesco mostro che aveva conosciuto nei sogni. La sensazione non era forte come quelle provate in banca, ma lo colse a metà di un passo e gli fece perdere l'equilibrio. Incespicò, barcollò e cadde. Le due buste piene di denaro gli sfuggirono di mano e scivolarono sull'asfalto. Charlotte ed Emily rincorsero le buste mentre Paige aiutava Marty a
rialzarsi. L'onda passò e Marty si rimise in piedi, tremando. «Tieni, prendi le chiavi, è meglio che guidi tu. Mi sta dando la caccia. Sta arrivando.» Paige guardò in giro per il parcheggio, presa dal panico. «No, non è ancora qui», disse Marty. «E come prima. Ho la sensazione di trovarmi sulla rotta di qualcosa di potentissimo che arriva a tutta velocità.» Due isolati. Forse neanche. Velocità ridotta. Controllo della strada, davanti, a destra, a sinistra. Cercarli. Un'auto dietro di lui lo sollecita con il clacson. L'autista è impaziente. Piano, piano, scrutando a destra e a sinistra, controllando le persone sui marciapiedi oltre che nelle auto di passaggio. Il clacson dietro di lui. Fa un gesto osceno che sembra zittire l'automobilista impaziente. Piano, piano. Nessuna traccia di loro. Altro tentativo con il reostato. A sessanta gradi questa volta. Contatto ancora forte, urgente e irresistibile trazione. Avanti. Verso sinistra. Al centro commerciale. Quando Marty si fu sistemato sul sedile anteriore ed ebbe chiuso la portiera, tenendo le buste che le bambine avevano recuperato, fu di nuovo scosso da un contatto con l'Altro. L'impatto era ancora meno doloroso delle volte precedenti, ma la diminuzione di potenza non lo consolò. «Via, andiamo via di qui», sollecitò Paige, prendendo la Beretta da sotto il sedile. Paige mise in moto e Marty si girò verso le figlie. Si stavano allacciando le cinture di sicurezza. Mentre Paige innestava la retromarcia e usciva dalla piazzola, lo sguardo di Marty incontrò quello delle bambine. Erano spaventate. Il rispetto che aveva per la loro sensibilità era troppo forte per mentire. Anziché fingere che andasse tutto bene, disse: «Tenetevi forte. Adesso la mamma proverà a guidare come me». «Da che direzione arriva?» chiese Paige togliendo la marcia indietro. «Non lo so. Non rifare la strada da cui siamo venuti. Non la sento sicura. Usa l'altra via.»
È attirato dalla banca più che dal supermercato, e parcheggia presso l'ingresso est. Mentre spegne il motore sente un breve stridio di pneumatici. Con la coda dell'occhio vede un'auto che si allontana velocemente dall'estremità sud dell'edificio. Voltandosi, vede una BMW bianca a una trentina di metri da lui. Sfreccia verso il centro commerciale passandogli accanto come un lampo. Coglie solo una porzione del viso della persona che è al volante: uno zigomo, la linea della mascella, la curva del mento. E un bagliore dell'oro dei capelli. È possibile a volte riconoscere la canzone preferita da tre sole note, perché la melodia ha lasciato un segno indelebile nella mente. Allo stesso modo, da quel profilo parziale, colto in un avvicendarsi di ombre e luci, nell'indeterminatezza del movimento, riconosce la sua moglie adorata. Chissà chi gli ha sradicato dalla memoria i ricordi di lei, ma la fotografia che ha trovato il giorno prima gli si è stampata nel cuore. Sussurra: «Paige». Riavvia la Camry, esce dalla piazzola in retromarcia e svolta verso il centro commerciale. A quell'ora la vasta spianata di asfalto è semideserta, perché sono aperti solo il supermercato, una panetteria e un negozio di articoli per ufficio. La BMW attraversa a tutta velocità il parcheggio passando alla larga dai pochi gruppetti di auto in sosta, e imbocca la strada di servizio che corre davanti ai negozi. Svolta a sinistra e punta verso l'uscita nord del centro. Lui segue la BMW, ma non in maniera aggressiva. Se li perde, individuarli di nuovo sarà facile grazie al misterioso ma affidabile legame che c'è tra lui e l'uomo odioso che ha usurpato la sua vita. La BMW raggiunge l'uscita e si immette nella strada. Quando lui arriva in quello stesso punto, la BMW è già a due isolati di distanza, ferma a un semaforo e appena visibile. Per più di un'ora li segue discretamente lungo le strade di superficie, a nord sulla Santa Ana e sulla Costa Mesa, poi a est sulla Riverside Freeway, tenendosi a distanza. Stretta tra il fitto traffico dei pendolari del mattino, la sua piccola Camry è praticamente invisibile. Sulla Riverside Freeway, a ovest di Corona, immagina di azionare l'interruttore della corrente psichica tra sé e il falso padre. Si raffigura il reostato e lo alza di soli cinque gradi. Questo gli basta ad avvertire la presenza
del falso padre nel traffico, davanti a sé, pur senza dargli una localizzazione precisa. Sei gradi, sette, otto. Otto è troppo. Sette. Sette gradi sono l'ideale. Con l'interruttore aperto di soli sette gradi l'attrazione è abbastanza potente da servirgli da punto di riferimento senza avvertire il nemico che il contatto è stato ristabilito. Nella BMW, l'impostore punta a est verso Riverside, teso e vigile, ma ignaro di essere controllato. Ma nella mente del cacciatore il segnale della preda agisce come la spia rossa lampeggiante di una mappa elettronica. Ora che si è impadronito del funzionamento di questo strano potere, potrà colpire il falso padre con una certa dose di sorpresa. Anche se l'uomo sulla BMW si aspetta un attacco e sta fuggendo per evitarlo, è anche abituato a essere preavvisato. Quando sarà passato un certo tempo senza disturbi nell'etere, quando non sentirà più quei sondaggi snervanti, si sentirà al sicuro. Con il ritorno di una sensazione di sicurezza, la sua attenzione diminuirà, e diventerà vulnerabile. Al cacciatore non serve altro che rimanere sulla traccia, seguire la pista, prendere tempo, aspettare il momento opportuno per colpire. Quando passano per Riverside il traffico del mattino attorno a loro si dirada. Lui aumenta la distanza che li separa, finché la BMW è un lontano puntino incolore che di tanto in tanto scompare temporaneamente, come un miraggio, in un bagliore di luce solare o in un mulinello di polvere. Avanti e a nord. Attraverso San Bernardino. Sull'Interstatale 15. Verso l'estremità settentrionale delle montagne di San Bernardino. Attraverso il passo di El Cajon a milletrecento metri. Poco dopo, a sud della cittadina di Hesperia, la BMW lascia l'interstatale e punta direttamente a nord sulla Highway 395, immettendosi sulle propaggini occidentali dell'inospitale deserto del Mojave. Lui segue, continuando a tenersi a una distanza tale che per loro sia impossibile capire che il punto scuro nel retrovisore è la stessa auto che li sta seguendo ormai da tre contee. Dopo un po' supera un cartello che indica le distanze da Ridgecrest, Lone Pine, Bishop e Mammoth Lakes. Mammoth è lontano: quattrocentocinquanta chilometri. Il nome della città suscita in lui un'associazione immediata. La sua memoria è fotografica. Vede le parole sulla pagina della dedica di uno dei romanzi che ha scritto e che conserva nello scaffale del suo studio a Mission Viejo: Quest'opera è dedicata a mia madre e mio padre, Jim e Alice Stillwater,
che mi hanno insegnato a essere una persona per bene... e che non hanno colpa se sono capace di pensare come un criminale. Ricorda anche la schedina con i nomi e l'indirizzo. Abitano a Mammoth Lakes. Sente di nuovo acutamente la pena per quello che ha perduto. Anche se riuscirà a recuperare la moglie dall'impostore che si è impadronito del suo nome, forse non si riapproprierà mai dei ricordi che gli sono stati rubati. La sua infanzia. L'adolescenza. La prima ragazza con cui è uscito. Le sue esperienze liceali. Non rammenta l'amore di sua madre e di suo padre, e gli sembra oltraggioso, mostruoso, che sia stato privato del sostegno di quei ricordi così essenziali e durevoli. Per quasi un centinaio di chilometri, oscilla tra lo strazio per l'alienazione che rappresenta la caratteristica principale della sua esistenza e la gioia alla prospettiva di recuperare il proprio destino. Anela disperatamente a incontrare il padre e la madre, scorgere i loro cari volti (che sono stati cancellati dalla lavagna della sua memoria), abbracciarli e riformare i profondi vincoli che lo legano alle due persone a cui deve la propria esistenza. Dai film che ha visto, sa che i genitori possono essere una maledizione: la madre già morta prima della scena d'inizio di Psycho, la madre e il padre egoisti che schiacciano il povero Nick Nolte nel Principe delle maree. È certo che i suoi siano di una qualità più elevata, affettuosi e sinceri, come Jimmy Stewart e Donna Reed in La vita è meravigliosa. L'autostrada è fiancheggiata da laghi asciutti bianchi come sale, improvvisi affioramenti di rocce rosse, oceani scolpiti dal vento di sabbia, arbusti, lontane pareti di pietra nera. Dappertutto si estendono testimonianze di sconvolgimenti geologici ed eruzioni laviche risalenti a lontani millenni. All'altezza di Red Mountain, la BMW esce dall'autostrada. Si ferma a una stazione di servizio a fare rifornimento. Lui li segue per accertarsi delle loro intenzioni, ma supera la stazione di servizio senza fermarsi. Loro sono armati. Lui no. Troverà un momento migliore per ammazzare l'impostore. Rientrato sulla 395, percorre una breve distanza in direzione nord verso Johannesburg, che sorge a ovest delle Lava Mountains. Esce di nuovo e fa il pieno alla Camry presso un'altra stazione di servizio. Compra cracker, barre al cioccolato e noccioline ai distributori automatici per sostenersi durante il lungo viaggio che lo aspetta. Forse Charlotte ed Emily hanno avuto bisogno della toilette alla sosta a Red Mountain, perché sull'autostrada si trova a precedere la BMW, ma la
cosa non ha importanza perché non ha più bisogno di seguirli. Sa dove sono diretti. Mammoth Lakes, California. Jim e Alice Stillwater. Che gli hanno insegnato a essere una persona per bene. Che non hanno colpa se lui è capace di pensare come un criminale. A cui lui ha dedicato un romanzo. Caii. Affezionati. Che gli sono stati portati via, ma che presto saranno recuperati. Non vede l'ora che aderiscano alla crociata che sta conducendo per riconquistare la sua famiglia e il suo destino. Il falso padre potrà forse ingannare le sue figlie, e forse anche Paige potrà cadere nel tranello e accettare l'impostore come il vero Martin Stillwater. Ma i genitori riconosceranno il vero figlio, il sangue del loro sangue, e non si faranno fuorviare dall'astuta imitazione di quel truffatore rubafamiglie. Da quando si è reimmessa sulla 395, dove il traffico è scarso, la BMW ha mantenuto un'andatura costante tra i novanta e i cento chilometri all'ora, anche se, in molti tratti, la strada permetterebbe una velocità maggiore. Ora lui spinge la Camry verso nord a centoventi o centotrenta all'ora. Dovrebbe farcela a raggiungere Mammoth Lakes tra le due e le due e un quarto, mezz'ora o tre quarti d'ora prima dell'impostore, il che gli darà il tempo di avvertire il padre e la madre delle cattive intenzioni dell'essere che si è mascherato da loro figlio. L'autostrada piega a nord-ovest attraverso la Indian Wells Valley, con le montagne di El Paso a sud. Chilometro dopo chilometro, il suo cuore si gonfia di emozione all'idea di trovarsi riunito con mamma e papà, da cui è stato crudelmente separato. Sente come una fitta il bisogno di abbracciarli, di abbandonarsi al loro amore incondizionato, al loro amore perfetto e imperituro. 8 Il lussuoso elicottero Bell JetRanger che trasportava Oslett e Clocker a Mammoth Lakes apparteneva a uno studio cinematografico affiliato al Network. Con le sue poltroncine di cuoio nero, gli accessori d'ottone e le pareti della cabina lussuosamente tappezzate in pelle di lucertola verde smeraldo, l'ambiente era ancora più sontuoso del compartimento passeggeri del Lear. L'elicottero offriva anche letture più interessanti di quelle che si trovavano sul jet, comprese le edizioni del giorno di The Hollywood Reporter e di Daily Variety, più gli ultimi numeri di Premier, Rolling Stone,
Mother Jones, Forbes, Fortune, GQ, Spy, The Ecological Watch Society Journal e Bon Appétit. Per occupare il tempo durante il volo, Clocker tirò fuori un altro romanzo di Star Trek che aveva comprato all'edicola del Ritz-Carlton Hotel quando avevano lasciato l'albergo. Oslett era convinto che la diffusione di quel genere di letteratura persino in un hotel a cinque stelle così ben gestito ed elegantemente fornito (un posto che un tempo richiamava gente fornita di potere e cultura, non solo di quattrini) fosse un segno allarmante dell'imminente crollo della civiltà, alla pari con gli spacciatori di crack e cocaina che, armati di tutto punto, smerciavano la loro roba davanti alle scuole. Mentre il JetRanger puntava a nord sorvolando il Sequoia National Park, il King's Canyon National Park e il fianco occidentale della Sierra Nevada, piegando poi direttamente verso quelle maestose montagne, Oslett continuava a spostarsi da un lato all'altro dell'elicottero, non volendo perdersi niente di quel panorama straordinario. I vastissimi paesaggi sotto di lui erano così scarsamente popolati che avrebbero potuto scatenare la sua avversione, quasi un'agorafobia, per gli spazi aperti e i panorami rurali. Ma il territorio mutava di minuto in minuto, presentando nuove meraviglie e vedute sempre più splendide a un ritmo abbastanza rapido da interessarlo. Inoltre il JetRanger, che viaggiava a un'altezza molto più ridotta di quella del Lear, dava a Oslett la sensazione di muoversi a capofitto. L'interno dell'elicottero era più rumoroso e più scosso dalle vibrazioni che non il jet, e anche questo gli piaceva. Due volte aveva richiamato l'attenzione di Clocker sulle meraviglie che sfilavano appena al di là del finestrino. Tutt'e due le volte il bestione si era limitato a osservare il panorama per uno b due secondi, tornando senza fare commenti a immergersi in Le Amazzoni a sei tette del pianeta di melma. «Che cosa c'è di così maledettamente interessante in quel libro?» chiese infine Oslett, lasciandosi cadere nella poltroncina di fronte a Clocker. Prima di alzare lo sguardo, Clocker finì il paragrafo che stava leggendo. «Non potrei dirtelo.» «Perché?» «Perché se anche ti dicessi che cosa ci trovo di interessante in questo libro, tu resteresti indifferente.» «E questo che vorrebbe dire?» Clocker si strinse nelle spalle. «Non credo che ti piacerebbe.» «Io odio i romanzi, li ho sempre odiati, soprattutto quelli di fantascienza
e stronzate simili.» «Appunto.» «E questo che cosa vorrebbe dire?» «Solo che hai confermato quello che ho detto... che non ti piace questo genere di cose.» «Certo che no.» Clocker alzò di nuovo le spalle. «Appunto.» Oslett lo guardò con odio. Fece un gesto verso il libro. «Come ti possono piacere quelle cazzate?» «Noi viviamo in universi paralleli», dichiarò Clocker. «Eh?» «Nel tuo, Johannes Gutenberg ha inventato il flipper.» «Chi?» «Nel tuo, forse il Faulkner più famoso era un virtuoso di banjo.» Oslett fece una smorfia. «Niente di queste stronzate ha il minimo senso per me.» «Appunto», ripeté Clocker, e riportò l'attenzione su Kirk e Spock, due cuori un'anima, o come diavolo si chiamava il libro. Oslett avrebbe voluto ucciderlo. Questa volta, nel vaneggiare ermetico di Karl Clocker aveva individuato una profonda, anche se sottile, mancanza di rispetto. Avrebbe voluto fargli volare dalla testa quello stupido cappello e dargli fuoco, piuma e tutto, strappargli di mano il tascabile e farlo a pezzi, ficcargli in corpo a bruciapelo un migliaio di proiettili a punta cava. Invece si girò verso il finestrino per calmarsi i nervi alla vista della maestosità dei picchi montuosi e dei boschi che scorrevano a una velocità di duecentoquaranta chilometri all'ora. Sopra di loro, le nuvole avanzavano da nord-ovest. Gonfie e grigie, si muovevano come una flotta di dirigibili verso le cime dei monti. All'una e dieci del martedì pomeriggio, al campo di atterraggio alla periferia di Mammoth Lakes, c'era ad attenderli un rappresentante del Network chiamato Alec Spicer. Li aspettava sulla pista, accanto all'hangar fatto di blocchi di cemento e lamiera ondulata. L'uomo conosceva i loro nomi veri, ed era quindi almeno dello stesso grado di Peter Waxhill, ma non era altrettanto impeccabile nel vestire, beneducato e piacevole conversatore del gentiluomo che li aveva aggiornati sugli sviluppi della situazione durante il breakfast. E, a differenza del muscoloso Jim Lomax conosciuto al John Wayne Airport di Orange County
la sera prima, lasciò che si portassero da sé il bagaglio fino alla Ford Explorer verde che sostava a loro disposizione nel parcheggio dietro l'hangar. Spicer aveva una cinquantina d'anni, era alto un metro e ottantacinque, aveva ottanta chili di peso e capelli a spazzola grigio ferro, più un viso squadrato e due occhi nascosti dietro un paio di occhiali da sole anche se il cielo era coperto. Indossava stivaletti da combattimento, calzoni e camicia kaki e un giubbotto di pelle da pilota pieno di tasche con la cerniera. Il suo portamento eretto, il fare disciplinato, il modo di esprimersi con frasi secche rivelavano in lui quasi sicuramente un ufficiale a riposo, poco disposto a rinunciare ad atteggiamenti, abitudini e guardaroba di un militare di carriera. «Il vostro abbigliamento non è il più adatto per Mammoth», esordì bruscamente Spicer mentre si avviavano verso l'Explorer, con il fiato che gli usciva di bocca sotto forma di fumo bianco. «Non immaginavo che avrebbe fatto così freddo quassù», rispose Oslett, continuando a rabbrividire. «Sierra Nevada», disse Spicer. «Quasi duemila e cinquecento metri sul livello del mare. Non potevate aspettarvi palme, camicie hawaiane e pina colada.» «Sapevo che era freddo, ma non così.» «Vi gelerete il culo», ribadì seccamente Spicer. «Questa giacca è calda», replicò Oslett sulla difensiva. «È cachemire.» «Buon per te», concluse Spicer. Sollevò il portello posteriore dell'Explorer e si fece da parte per lasciarli caricare il bagaglio. Poi si mise al volante. Oslett si sedette davanti accanto a lui. Sul sedile posteriore, Clocker riprese la lettura di La flatulente ferocia del satellite Ganimede. Nel tragitto verso la città, Spicer rimase in silenzio per un po'. Poi: «Aspettiamo per oggi la prima neve della stagione». «L'inverno è la mia stagione preferita», rispose Oslett. «Potrebbe non piacerti troppo, con la neve fino al culo e quelle belle Oxford che si faranno dure come un paio di zoccoli olandesi.» «Sai chi sono?» tagliò corto Oslett. «Sissignore», rispose Spicer, con un tono ancora più secco del solito ma inclinando leggermente la testa quasi a riconoscere la propria posizione di subalterno. «Bene», disse Oslett. A tratti, alti sempreverdi si assiepavano lungo i due lati della strada.
Molti motel, ristoranti e bar esibivano un'imitazione di architettura alpina, e in alcuni casi le loro insegne comprendevano parole che richiamavano alla mente immagini da film diversissimi tra loro, da Tutti insieme appassionatamente ai veicoli di Clint Eastwood: Il Qualcosa Bavarese, Lo Svizzero Talaltro, Eiger, Matterhorn, Ginevra, Ofbrau. «Dov'è la casa degli Stillwater?» domandò Oslett. «Stiamo andando al vostro albergo.» «So che c'è un'unità di sorveglianza in postazione davanti a casa Stillwater», insisté Oslett. «Sissignore. Proprio di fronte, in un furgone con i vetri opachi.» «Voglio andare da loro.» «Non mi pare una buona idea. Questo è un piccolo centro. Nemmeno cinquemila persone, contando i turisti. Troppa gente che entra ed esce da un furgone parcheggiato in una via residenziale richiamerà di sicuro l'attenzione.» «E allora che cosa proponi?» «Telefonare alla squadra di sorveglianza, comunicare dove possa mettersi in contatto con voi. Poi aspettare in albergo. Nel momento in cui Martin Stillwater telefonerà ai suoi o si presenterà alla loro porta, sarete avvisati.» «Non ha chiamato ancora?» «Il telefono ha squillato diverse volte nelle ultime ore, ma non c'era nessuno in casa a rispondere, quindi non sappiamo se era il figlio o meno.» Oslett era incredulo. «Non hanno la segreteria telefonica?» «Il ritmo della vita che si conduce qui non la rende indispensabile.» «Incredibile. Comunque, se non sono in casa, dove sono?» «Sono usciti stamattina a fare spese, e poco fa si sono fermati a pranzo in un ristorante sulla Route 203. Dovrebbero rincasare entro un'ora al massimo.» «Li stiamo seguendo?» «Ovviamente.» In previsione della probabile nevicata, gli sciatori stavano già arrivando in città con i portasci pieni sulle auto. Quando si fermarono a un semaforo, dietro una giardinetta così stipata di bionde in maglioni da sci da poter popolare una mezza dozzina di spot pubblicitari per una birra o un burro di cacao, Spicer disse: «Sentito di quella puttana a Kansas City?» «Strangolata», annuì Oslett. «Ma non ci sono prove che sia stato il nostro amico, anche se quello che ha lasciato il locale con lei poteva assomi-
gliargli.» «Allora non sai le ultime notizie. Il campione di sperma arrivato a New York. È stato analizzato. È del nostro.» «Ne sono certi?» «Assolutamente.» Le cime dei monti scomparivano nel cielo che si andava abbassando. Il colore delle nuvole si era scurito, passando dal grigio cenere al nero fumo. Anche l'umore di Oslett si faceva sempre più scuro. Seguendo il carico di bionde oltre l'incrocio, Alec Spicer riprese: «Quindi è perfettamente in grado di fare sesso». «Ma se era costruito in modo da...» Oslett non finì neppure la frase. Ormai non aveva più fiducia nell'opera degli ingegneri genetici. «Finora», proseguì Spicer, «grazie ai contatti all'interno della polizia, la casa madre ha compilato un elenco di quindici omicidi a sfondo sessuale che potrebbero essere attribuiti al nostro ragazzo. Casi mai risolti. Donne giovani e attraenti. In città dove lui è stato, nei momenti in cui era lì. Dinamica dell'azione sempre la stessa, compresi atti di estrema violenza dopo che la vittima era stata ridotta all'impotenza, talvolta con un colpo alla testa ma in genere con un pugno in faccia... evidentemente per assicurarsi il silenzio durante l'omicidio vero e proprio.» «Quindici», ripeté Oslett sbalordito. «Forse di più. Forse molti di più.» Spicer distolse lo sguardo dalla strada e lanciò un'occhiata a Oslett. I suoi occhi erano non solo impenetrabili, ma del tutto invisibili dietro le lenti scurissime. «E speriamo che le abbia ammazzate tutte, le donne che si è scopato.» «Che cosa intendi dire?» Spicer tornò a guardare la strada. «Ha un alto conteggio spermatico. E lo sperma è attivo. È fertile.» Anche se non avrebbe potuto ammetterlo finché Spicer non lo avesse detto, Oslett sapeva che quella brutta notizia era in arrivo. «Ti rendi conto che cosa significa?» chiese Spicer. Dal sedile posteriore intervenne Clocker. «Il primo clone umano operativo di generazione Alfa è un disertore, capace di mutazioni che potremmo non capire neppure, e di infettare il patrimonio genetico umano con altro materiale genetico che potrebbe dar vita a una razza nuova e profondamente ostile di esseri superiori pressoché invulnerabili.» Per un attimo Oslett pensò che Clocker stesse leggendo ad alta voce una frase dal suo Star Trek, ma poi si rese conto che aveva semplicemente sin-
tetizzato la natura della loro crisi. «Se il nostro ragazzo non ha eliminato ogni mignotta che si è fatto», aggiunse Spicer, «se ne ha messa qualcuna incinta e questa, anche una sola, per qualche motivo non ha abortito, siamo nella merda fino al collo. Non solo noi tre, non solo il Network, ma l'intera razza umana.» 9 Mentre attraversava in direzione nord la Owens Valley, con i monti Inyo a est e la torreggiante catena della Sierra Nevada a ovest, Marty dovette prendere atto che il telefono cellulare non funzionava sempre a dovere perché le caratteristiche del territorio interferivano con le trasmissioni di microonde. E le poche volte che era riuscito a stabilire la comunicazione con la casa di Mammoth dei suoi genitori, il telefono aveva continuato a squillare a vuoto. Al sedicesimo squillo, schiacciò il pulsante di END, interrompendo la linea. «Ancora non sono rientrati». Suo padre aveva sessantasei anni, la madre sessantacinque. Entrambi insegnanti, erano andati in pensione tutti e due l'anno prima. Erano ancora giovani, per gli standard moderni, sani e vigorosi, innamorati della vita, per cui non c'era da stupirsi che fossero in giro chissà dove anziché passare il giorno in casa, in poltrona, a guardare i quiz alla televisione, o qualche telenovela. «Quanto tempo restiamo dai nonni?» chiese Charlotte dal sedile posteriore. «Abbastanza perché la nonna mi insegni a suonare la chitarra bene come la suona lei? Al piano me la cavo, ma mi piacerebbe suonare anche la chitarra e, se divento una famosa musicista, e credo che mi interesserebbe diventarlo, ma non ho ancora deciso, sarebbe molto più facile portarmi con me dappertutto la mia musica, perché difficilmente puoi metterti a tracolla un pianoforte.» «Non restiamo dai nonni», rispose Marty. «Anzi, non ci fermiamo neppure da loro.» Charlotte ed Emily fecero un verso di delusione. «Potremo andare a trovarli più tardi, tra qualche giorno», aggiunse Paige. «Vedremo. Per ora andiamo allo chalet.» «Alé!» fece Emily e «Urrah» Charlotte, e le due si toccarono la mano in un gesto di trionfo. Lo chalet, una piccola baita che i genitori di Marty possedevano da
quando lui era piccolo, era annidato tra le montagne a pochi chilometri da Mammoth Lakes, tra la cittadina e i laghi, non lontano dal centro ancora più piccolo di Lake Mary. Era un posto molto bello, su cui il padre aveva fatto grossi lavori nel corso degli anni, protetto da pini e abeti secolari. Per le bambine, cresciute com'erano nel labirinto suburbano della contea di Orange, lo chalet era qualcosa di speciale, come la casetta incantata di una fiaba. Marty aveva bisogno di qualche giorno per pensare prima di prendere una decisione sul da farsi. Intendeva studiarsi i notiziari e vedere come continuavano a presentare la sua storia; dal modo in cui i mezzi d'informazione la gestivano poteva verosimilmente farsi un'idea della forza se non dell'identità dei suoi veri nemici, che certamente non si limitavano all'incredibile e squilibrato sosia che aveva invaso la loro casa. Non potevano stare in casa dei suoi genitori. Era troppo accessibile ai giornalisti, nel caso che la storia avesse continuato a crescere su se stessa. E altrettanto accessibile era agli ignoti cospiratori che stavano dietro il sosia, quelli che avevano fatto sì che una notiziola di cronaca ricevesse tutto quello spazio, dipingendolo come un uomo dall'incerta stabilità mentale. Inoltre non voleva mettere in pericolo anche la madre e il padre rifugiandosi presso di loro. Anzi, appena fosse riuscito a contattarli telefonicamente, avrebbe insistito perché montassero sul loro camper e se ne andassero via da Mammoth Lakes per qualche settimana, un mese, forse più. Finché fossero stati in viaggio, cambiando campeggio ogni paio di notti, nessuno poteva cercare di rintracciare lui tramite loro. Dopo il contatto alla banca di Mission Viejo, Marty non era stato soggetto ad altri tentativi di aggancio da parte dell'Altro. La sua speranza era che la rapidità e la decisione con cui erano fuggiti a nord li avesse messi in salvo. Anche la chiaroveggenza o la telepatia, o quello che diavolo era, aveva i suoi limiti. Altrimenti, non si sarebbero trovati soltanto di fronte a uno straordinario potere mentale, ma a pura e semplice magia; e, se Marty poteva essere indotto dall'esperienza a dare credito all'esistenza di capacità parapsichiche, alla magia non riusciva proprio a credere. Ora che tra loro e l'Altro c'erano centinaia di chilometri, molto probabilmente erano al di fuori della portata di quel suo sesto senso. Le montagne, che periodicamente interferivano con il funzionamento del telefono cellulare, probabilmente li isolavano ancora di più dalla sua ricerca telepatica. Forse sarebbe stato più sicuro tenersi alla larga da Mammoth Lakes e nascondersi in una città in cui lui non aveva nessuna connessione. Tuttavia
optò per lo chalet perché quelli che eventualmente controllavano la casa dei suoi genitori come suo eventuale rifugio non erano a conoscenza della casetta in montagna, ed era improbabile che venissero a sapere per caso della sua esistenza. Inoltre, due suoi compagni di liceo ricoprivano da un decennio la carica di vicesceriffo a Mammoth Lakes, e la baita era vicina alla cittadina in cui lui era cresciuto ed era ancora ben noto. Da bravo ragazzo del posto che in gioventù non aveva mai combinato grossi pasticci, poteva aspettarsi che le autorità lo prendessero sul serio e gli assicurassero una maggiore protezione se l'Altro avesse tentato davvero di mettersi di nuovo in contatto con lui. In un luogo sconosciuto, invece, sarebbe stato un estraneo e guardato con ancora maggiore sospetto di quello dimostrato dal detective Cyrus Lowbock. Nei dintorni di Mammoth Lakes, se le cose si fossero messe male, non si sarebbe sentito così isolato e alienato come di certo sarebbe stato in qualsiasi altro luogo. «Credo che dovremo aspettarci brutto tempo», disse Paige. Il cielo, verso est, era quasi tutto sgombro, ma sopra i picchi e lungo i passi della Sierra Nevada, a occidente, si ammassavano grosse nuvole nere. «Meglio fermarsi a una stazione di servizio a Bishop», disse Marty. «Vediamo se la stradale richiede l'uso delle catene per salire a Mammoth.» Forse una bella nevicata gli avrebbe fatto comodo. Avrebbe isolato ulteriormente lo chalet rendendolo meno accessibile a chi eventualmente stesse dando loro la caccia. Ma la prospettiva di una tempesta di neve lo preoccupava. Se la fortuna non era dalla loro, poteva rendersi necessaria una fuga precipitosa da Mammoth Lakes. Le strade interrotte a causa di una tormenta potevano portare un ritardo abbastanza lungo da significare la morte per tutti loro. Charlotte ed Emily vollero giocare a Chi È l'Asino, un gioco che Marty aveva inventato un paio di anni prima per distrarle durante i lunghi viaggi in macchina. Da quando avevano lasciato Mission Viejo avevano già fatto due partite. Paige, adducendo la necessità di non distogliere l'attenzione dalla guida, aveva deciso di non partecipare, e Marty aveva finito con l'essere lui l'asino più spesso del solito perché era distratto dalle sue preoccupazioni. Le cime dei monti svanivano nella foschia. Le nuvole si facevano sempre più scure, come se le fiamme di un sole nascosto stessero bruciando tutto, lasciando in cielo solo rovine carbonizzate.
10 Le costruzioni del motel erano circondate da pini di Douglas alti più di trenta metri, pini più bassi e larici. Il complesso era studiatamente rustico. Le stanze non potevano essere paragonate a quelle del Ritz-Carlton, ovviamente, e il tentativo dell'arredatore di richiamare alla mente la Baviera, con i suoi pannelli di pino con i nodi in evidenza e il mobilio in legno massiccio, era ingenuo, ma per Drew Oslett la sistemazione era ugualmente piacevole. L'ampio camino di pietra, in cui erano già stati disposti i ceppi, era particolarmente attraente: erano arrivati da pochi minuti e il fuoco bruciava già allegro. Alec Spicer telefonò alla squadra di sorveglianza posizionata nel furgone di fronte a casa Stillwater. Con lo stesso linguaggio criptico di alcune esternazioni di Clocker, li informò che l'uomo che gestiva Alfie era arrivato e poteva essere raggiunto al motel. «Niente di nuovo», annunciò Spicer quando riappese. «Jim e Alice Stillwater non sono ancora tornati. Nemmeno il figlio con la famiglia si è fatto ancora vedere, e non c'è traccia del nostro ragazzo.» Spicer accese tutte le luci della stanza e aprì le tendine perché aveva ancora le lenti scure, anche se si era tolto il giubbotto. Oslett aveva il sospetto che Alec Spicer non si togliesse gli occhiali neppure quando si portava a letto una donna e forse neppure quando andava a dormire. I tre si sedettero attorno al tavolo di pino del cucinotto. Dalla finestra vicina si vedevano le pendici boscose dietro il motel. Da una valigetta di pelle nera Spicer tolse alcuni oggetti che sarebbero serviti a Oslett e Clocker per inscenare l'uccisione degli Stillwater secondo i desideri della casa madre. «Due rotoli di spago intrecciato», disse, mettendo sul tavolo un paio di matasse avvolte nella plastica. «Usatelo per legare polsi e caviglie delle bambine. Legatele strette. Da far male. Nel caso del Maryland fu così.» «Va bene», annuì Oslett. «Non tagliate lo spago», proseguì Spicer. «Dopo aver legato i polsi, continuate con lo stesso capo fino alle caviglie. Una matassa per ciascuna bambina. Anche questo come nel Maryland.» Il secondo articolo estratto dalla valigetta era una pistola. «È una SIG nove millimetri», spiegò Spicer. «Progettata da fabbricanti svizzeri ma prodotta dalla Sauer tedesca. Un'arma eccellente.» Oslett prese la SIG. «Con questa facciamo fuori la moglie e le figlie?»
Spicer annuì. «E poi Stillwater.» Oslett si familiarizzò con la pistola mentre Spicer tirava fuori un pacchetto di munizioni da nove millimetri. «È la stessa arma usata nel Maryland?» «Esattamente. I documenti di acquisto mostreranno che è stata comprata da Martin Stillwater tre settimane fa, nello stesso negozio in cui ha acquistato altre armi. Un commesso è stato pagato per ricordarsi di avergliela venduta.» «Molto bene.» «L'astuccio della pistola e la ricevuta sono già stati piazzati in fondo a un cassetto dello studio di Stillwater, nella casa di Mission Viejo.» Sorridendo, preso da autentica ammirazione, ormai quasi convinto che ce l'avrebbero fatto a salvare il Network, Oslett commentò: «Straordinaria attenzione ai dettagli». «Come sempre», rispose Spicer. La machiavellica complessità del piano entusiasmava Oslett quanto lo avevano appassionato da bambino gli elaborati schemi di Wile Coyote nei cartoni animati di Road Runner... con la differenza che in questo caso i coyote sarebbero stati gli inevitabili vincitori. Lanciò uno sguardo a Karl Clocker, aspettandosi di vederlo altrettanto affascinato. Il Trekker si stava pulendo le unghie con un temperino. Aveva un'espressione cupa. Tutto lasciava pensare che la sua mente fosse ad almeno quattro parsec e due dimensioni da Mammoth Lakes, California. Dalla valigetta, Spicer trasse ancora una busta di plastica con la chiusura lampo, contenente un foglio ripiegato. «Questo è il biglietto per il suicidio. Falso. Ma così ben fatto che qualsiasi grafologo si convincerebbe che è di mano di Stillwater.» «Che cosa dice?» chiese Oslett. Oslett recitò a memoria. «'C'è un verme. Che scava dentro. Tutti noi siamo contaminati. Resi schiavi. Parassiti dentro di noi. Non si può vivere così. Non si può vivere.'» «Dal caso del Maryland?» domandò Oslett. «Parola per parola.» «Quell'uomo fa venire i brividi.» «Non ti do torto.» «Lo lascio vicino al cadavere?» «Sì. Maneggialo solo con i guanti. E dopo che l'hai ucciso riempilo di impronte di Stillwater. La carta è bella liscia e robusta. Dovrebbe prendere
bene.» Spicer tirò fuori un'altra busta di plastica dalla valigetta, anche questa con la lampo, contenente una penna nera. «Pentel Rolling Writer», spiegò Spicer. «Presa da una confezione quasi piena in un cassetto della scrivania di Stillwater.» «Il biglietto è stato scritto con questa?» «Già. Lasciala da qualche parte in vicinanza del corpo, senza il cappuccio.» Sorridendo, Oslett guardò la serie di oggetti disposti sulla tavola. «Ci sarà proprio da divertirsi.» Mentre aspettavano un segnale dalla squadra di sorveglianza appostata davanti alla casa degli Stillwater, Oslett arrischiò una passeggiata fino a un negozio di attrezzature sportive che si trovava in un raggruppamento di negozi e ristoranti di fronte al motel. La temperatura era calata parecchio nel breve periodo in cui erano stati nella stanza, e il cielo appariva livido. La mercé nel negozio era di prima qualità. In breve fu in grado di equipaggiarsi con ottima biancheria termica importata dalla Svezia e un completo nero da neve. La tuta aveva una fodera in tessuto argentato riflettente, un cappuccio a scomparsa, ginocchiere anatomiche, paracolpi rinforzati di nylon e un numero di tasche che avrebbe soddisfatto un prestigiatore. Sopra la tuta indossò un giubbotto viola U.S. Freestyle Team con isolamento in Thermoloft, fodera riflettente, inserti elasticizzati e spalle rinforzate. Comperò anche un paio di guanti: italiani, di pelle e nylon, flessibili quasi quanto una seconda pelle. Pensò di prendere un paio di occhialoni supertecnologici, ma decise di accontentarsi di un buon paio di occhiali da sole, visto che non aveva intenzione di affrontare le piste. Gli scarponi da sci, impressionanti, sembravano le calzature che avrebbe scelto Terminator per farsi strada a calci attraverso i muri di cemento. Si sentiva incredibilmente forte. Dato che era necessario provare ogni capo di abbigliamento, approfittò dell'occasione per togliersi gli abiti con cui era entrato nel negozio. Il commesso piegò i suoi indumenti e li sistemò in un sacchetto, che Oslett portò con sé tornando verso il motel nel suo nuovo abbigliamento. Si sentiva di minuto in minuto più ottimista sulle loro prospettive. Niente solleva il morale quanto fare una bella spesa. Quando rientrò nella stanza, anche se era stato via una buona mezz'ora, non c'erano novità.
Spicer era seduto in poltrona, sempre con gli occhiali da sole addosso, a guardare un talk show in televisione. Una donna di colore, dalla corporatura pesante e una gran massa di capelli, intervistava quattro travestiti che avevano tentato di arruolarsi, come donne, nel corpo dei marines, ed erano stati scartati, anche se sembravano convinti che il presidente intendesse intervenire a loro favore. Oslett ovviamente era seduto al tavolo accanto alla finestra, nella luce argentata che precede la tempesta, e leggeva Huckleberry Kirk e le bagasce purulente di Alpha Centauri, o come diavolo si chiamava quel maledetto libro. Come unica concessione alle condizioni climatiche della Sierra si era scambiato il gilet fantasia con un maglione di cachemire con le maniche lunghe, di una tinta arancione che era un pugno nello stomaco. Oslett portò la valigetta nera in una delle due camere da letto che davano nel soggiorno. Ne vuotò il contenuto su uno dei letti, vi si sedette a gambe incrociate, si tolse gli occhiali scuri appena comprati ed esaminò il corredo di scena che avrebbe assicurato a Martin Stillwater un'incriminazione post mortem per omicidio e suicidio. Aveva un certo numero di problemi da risolvere, tra cui il modo di uccidere tutte quelle persone facendo il minimo rumore. A preoccuparlo non erano gli spari, che in un modo o nell'altro si potevano attutire. Piuttosto le urla. A seconda di dove si fosse svolta la cosa, potevano esserci dei vicini. Messi in allarme, avrebbero chiamato la polizia. Dopo un paio di minuti si rimise gli occhiali e tornò in soggiorno. Interruppe lo spettacolo di Spicer: «Quando li avremo liquidati, chi si occuperà delle indagini?» «Se succede qui» rispose Spicer, «probabilmente l'ufficio dello sceriffo della contea di Mammoth.» «Abbiamo amici qui?» «Adesso no, ma sono sicuro che potremo averne.» «Il coroner chi è?» «Probabilmente il medico del posto.» «Senza pratica di medicina legale?» «Al massimo saprà distinguere un buco di pallottola da un buco di culo.» «Quindi se facciamo fuori prima la moglie e Stillwater, non c'è nessuno tanto esperto da individuare la successione temporale degli omicidi?» «Anche il laboratorio più attrezzato di una grande città avrebbe dei problemi, se la differenza è, diciamo, di meno di un'ora.»
«Sto pensando...» disse Oslett, «che se cerchiamo di eliminare prima le bambine avremo dei problemi con Stillwater e la moglie.» «Perché?» «Clocker o io possiamo tenere a bada i genitori mentre l'altro porta le figlie in un'altra stanza. Ma spogliare le bambine, legar loro mani e piedi... ci vorranno dieci o quindici minuti per farlo alla perfezione, come nel Maryland. Anche se uno di noi tiene Stillwater e la moglie sotto la minaccia di una pistola, non se ne staranno buoni. Cercheranno di saltare addosso a me o a Clocker, a quello che li sorveglia, e insieme potrebbero avere la meglio.» «Ne dubito.» «Come fai a dirlo?» «Oggigiorno la gente non ha le palle.» «Stillwater ha avuto la meglio su Alfie.» «Questo è vero», ammise Spicer. «E sua moglie, quando aveva sedici anni, trovò il padre e la madre morti. Il vecchio aveva ucciso la moglie, poi si era sparato...» Spicer sorrise. «Un simpatico legame con la nostra messinscena.» Oslett non ci aveva pensato. «Già. Potrebbe anche spiegare come mai Stillwater non riuscisse a scrivere il romanzo basato sul caso del Maryland. Comunque, tre mesi dopo fece domanda perché il tribunale la sottraesse alla custode legale e la dichiarasse maggiorenne.» «Un tipo tosto.» «Il tribunale accettò. Accolse la sua petizione.» «Che fottuta idiozia», esclamò Spicer. Per un attimo Oslett pensò che il commento fosse rivolto al piano che avevano elaborato per eliminare gli Stillwater. Invece si riferiva al programma televisivo, su cui la sua attenzione era ricaduta. Nella trasmissione, la conduttrice con la gran capigliatura aveva mandato via i travestiti e aveva fatto accomodare un nuovo gruppo di ospiti. Sul palco sedevano quattro donne dall'aria arrabbiata. Portavano tutte strani cappelli. Mentre usciva dalla stanza, con la coda dell'occhio Oslett colse l'immagine di Clocker. Il Trekker era ancora al tavolo presso la finestra, inchiodato al libro, ma Oslett si rifiutò di farsi rovinare il buonumore dal bestione. Tornato in camera sua, si rimise a sedere sul letto, in mezzo ai suoi giocattoli, si tolse gli occhiali e prese allegramente a ripetere dentro di sé le fasi degli omicidi, preparandosi a ogni contingenza.
Fuori, il vento aumentava di intensità. Sembrava l'ululato di un branco di lupi. 11 Si ferma a una stazione di servizio per chiedere indicazioni riguardo all'indirizzo che ha letto sulla scheda. Il giovane inserviente riesce a fornirgli qualche dettaglio utile. Alle due e dieci fa il suo ingresso nella zona della cittadina in cui è evidentemente cresciuto. I giardini delle case sono ampi, e vi crescono numerose betulle spoglie per l'inverno e un'ampia varietà di sempreverdi. La casa di mamma e papà è al centro dell'isolato. È una modesta costruzione a due piani, bianca con le persiane verde bosco. La profonda veranda sulla facciata ha pesanti balaustre bianche, un corrimano verde e fasce decorate lungo le grondaie. Il posto ha un che di caldo e accogliente. È come la casa in un vecchio film. Jimmy Stewart potrebbe benissimo vivere lì. Si capisce a prima vista che ci abita una famiglia felice, persone per bene con tante cose in comune, tante cose da dare. Non ricorda assolutamente nulla dell'isolato, e men che meno della casa in cui evidentemente ha trascorso l'infanzia e l'adolescenza. Potrebbe essere anche l'abitazione di perfetti sconosciuti in una città che non ha mai visto prima di quel momento. L'idea di quanto profondo sia stato il lavaggio del cervello a cui lo hanno sottoposto, estirpandogli ricordi così preziosi, lo fa infuriare. Gli anni perduti lo assillano. La separazione totale da quelli che ama è così crudele e devastante che si ritrova sul punto di piangere. Reprime però la rabbia e il dolore. Non può permettersi di lasciare via libera alle emozioni mentre la sua situazione è ancora così precaria. L'unica cosa che riconosce nella strada è un furgone parcheggiato di fronte alla casa dei genitori, accanto all'altro marciapiede. Quel furgone in particolare non l'ha mai visto, ma conosce il tipo. Prova un senso di allarme. È un veicolo da vacanze. Rosso mela. Il telaio di base ampliato offre un maggiore spazio interno. Una cupola ovale da camper sul tetto. Il paraurti posteriore è tappezzato di adesivi rettangolari, rotondi, triangolari, che ricordano visite allo Yosemite National Park, allo Yellowstone, all'annuale Calgary Rodeo, a Las Vegas, alla Boulder Dam, e altre attrazioni turisti-
che. Strisce ondulate parallele verdi e nere decorano la fiancata, interrotte da un paio di finestrini a specchio. Forse il furgone è solo quello che sembra, ma già alla prima occhiata lui è convinto che si tratti di una postazione di sorveglianza. Intanto, appare aggressivamente vacanziero, eccessivo. Con la sua preparazione in tecniche di sorveglianza, sa che talvolta furgoni del genere si sforzano di dichiarare la propria inoffensività richiamando l'attenzione, perché chi teme di essere sorvegliato si aspetta che un veicolo attrezzato per raccogliere informazioni sia discreto, e non immaginerebbero mai di essere controllato da, poniamo, un carrozzone di circo. Poi c'è la faccenda dei finestrini a specchio, che permettono a chi è dentro di guardare senza essere visto, offrendo quella privacy che qualsiasi villeggiante auspicherebbe, ma che è l'ideale anche per chi opera sotto copertura. Non rallenta mentre si avvicina alla casa dei genitori, e si sforza di non mostrare interesse né per la costruzione né per il furgone color mela. Grattandosi la fronte con la destra, riesce anche a coprirsi il volto mentre passa accanto ai finestrini del veicolo. Gli occupanti del furgone, se ce ne sono, devono essere al soldo di quegli sconosciuti che lo hanno manipolato così spietatamente fino a Kansas City. Sono un collegamento con i suoi misteriosi superiori. L'interesse che prova per loro è pari al suo desiderio di ristabilire il contatto con i suoi adorati genitori. Dopo due isolati, svolta a destra e torna verso una zona commerciale in centro, dove è già passato, e dove ha visto un negozio di attrezzature sportive. In mancanza di un'arma da fuoco, e comunque nell'impossibilità di comperarne una con il silenziatore, ha bisogno di procurarsi un paio di semplici armi. Alle due e venti suonò il telefono nella stanza del motel. Oslett si mise gli occhiali da sole, saltò giù dal letto e andò alla porta che dava nel soggiorno. Spicer rispose al telefono, ascoltò, mormorò qualcosa che poteva voler dire «bene» e riappese. Si rivolse a Oslett: «Jim e Alice Stillwater sono appena rientrati dal pranzo». «Speriamo che Marty adesso chiami.» «Lo farà», rispose Spicer con sicurezza. Clocker alzò gli occhi dal libro. «A proposito di pranzo, l'ora è passata da un pezzo.»
«Il frigorifero in cucina è pieno», disse Spicer. «Affettati, insalata di patate, pasta, torta di formaggio. Non moriremo di fame.» «Per me niente», dichiarò Oslett. Era troppo eccitato per mangiare. Quando torna nel quartiere in cui abitano i suoi, sono le tre meno un quarto, mezz'ora dopo il suo primo passaggio. È fin troppo consapevole del trascorrere dei minuti. Il falso padre, Paige e le bambine potrebbero arrivare da un momento all'altro. Anche se hanno fatto un'altra sosta dopo Red Mountain o non hanno mantenuto la velocità a cui viaggiavano quando lui li seguiva, è praticamente certo che arriveranno tra non più di quindici o venti minuti. Desidera disperatamente vedere i suoi genitori prima che il micidiale impostore arrivi da loro. Ha bisogno di prepararli a quello che sta succedendo e di assicurarsi il loro aiuto nella battaglia per riappropriarsi della moglie e delle figlie. Non vuole che il truffatore arrivi per primo. Se quell'essere è riuscito a insinuarsi così totalmente nella mente di Paige, Charlotte ed Emily, forse c'è il rischio, per quanto remoto, che possa convincere anche papà e mamma. Quando svolta l'angolo dell'isolato dove ha passato quell'infanzia che non ricorda più, non è al volante della Camry che ha rubato a Laguna Hills all'alba. Ora è a bordo del furgoncino delle consegne di un fioraio, una fortunata acquisizione che si è procurato con la forza dopo aver lasciato il negozio di articoli sportivi. In mezz'ora ha fatto una quantità di cose. Ma il tempo scarseggia ugualmente. Anche se la giornata si fa sempre più grigia, guida con il parasole abbassato. Ha in testa un berretto da baseball con la visiera tirata sulla fronte, e indossa un giubbotto con la sigla di un'università che appartiene al giovanotto che fa davvero le consegne per la Murchison's Flowers. Mascherato com'è dal visore e dal berretto, se anche qualcuno lo guardasse da fuori non sarebbe in grado di identificarlo. Accosta al marciapiede e parcheggia subito dietro il furgone in cui sospetta che si nasconda una squadra di osservazione. Scende dal suo veicolo e si avvia rapidamente verso il retro, senza dare il tempo a nessuno di vederlo bene. Apre il portellone posteriore. I cardini andrebbero lubrificati: cigolano. Dà appena un'occhiata al fattorino morto, disteso supino nel retro del furgone. Ha le mani intrecciate sul petto ed è circondato dai fiori, come se
fosse già pronto per la visita dei parenti in gramaglie. Da un sacchetto di plastica accanto alla salma toglie la piccozza da ghiaccio che ha scelto tra il vasto assortimento per alpinisti nel negozio di sport. L'attrezzo, un pezzo unico di acciaio, ha l'impugnatura in gomma. Una estremità ha la forma e la dimensione di un martello da bullette, mentre l'altra termina in una punta acuminata. Infila il manico nella cintura dei jeans. Dallo stesso sacchetto di plastica prende una bomboletta spray di decongelante. Se lo si spruzza sul ghiaccio già esistente, lo fonde in pochi momenti. Se lo si applica al vetro dell'auto, alle serrature o ai tergicristallo prima che geli, si scongiura la formazione di ghiaccio. O almeno così promette l'etichetta. In realtà a lui non interessa che mantenga o meno i risultati promessi. Toglie il coperchio dalla bombola pressurizzata, scoprendo l'ugello. Ci sono due posizioni: SPRUZZO e GETTO. Lo predispone su GETTO, poi infila il flacone nella tasca del giubbotto. Tra le gambe del cadavere c'è una grande composizione di rose, garofani, piccoli giacinti e felci in un vaso. La toglie dal furgone e, tenendola con tutt'e due le mani, richiude la portiera con la spalla. Portando il mazzo in modo del tutto naturale, ma allo stesso tempo nascondendo la sua faccia agli occhi di chi lo sta osservando dal veicolo rosso, si avvia verso la porta della casa di fronte alla quale sono parcheggiate entrambe le vetture. I fiori non sono destinati a quella casa. Spera di non trovarvi nessuno. Se qualcuno viene ad aprire, fingerà di accorgersi di aver sbagliato casa, e così potrà tornare in strada sempre con i fiori davanti al volto. La fortuna è dalla sua. Nessuno risponde al campanello. Suona più volte, mostrando irritazione e impazienza. Fa dietrofront. Ripercorre il vialetto verso la strada. Guardando attraverso i fiori e il fogliame che tiene tra le braccia, vede che anche da quel lato del furgoncino rosso ci sono due finestrini a specchio nella parte posteriore. Considerando quant'è deserta e tranquilla la strada, è sicuro che lo stanno osservando, se non altro perché non hanno di meglio da fare. Va bene. Lui è solo il fattorino frustrato di un fioraio. Non vedranno alcun motivo per aver paura di lui. Meglio che lo guardino, decidano che è poco interessante, e riportino la loro attenzione sulla casa bianca dall'altro lato della via.
Passa obliquamente davanti alla fiancata del veicolo di sorveglianza. Ma invece di seguire il marciapiede fino al retro del suo furgone, scende dal gradino nello spazio tra le due vetture, tra il muso della prima e il retro dell'altra. Nella portiera posteriore del veicolo di sorveglianza c'è un altro finestrino, più piccolo, anche questo a specchio, e, nell'eventualità che lo stiano ancora seguendo con lo sguardo, simula un incidente. Inciampa, si lascia cadere i fiori di mano e si mette a imprecare sul vaso in pezzi sull'asfalto. «Oh, perdio! Porca puttana! Bella roba, proprio bella. Maledizione, maledizione, maledizione.» Non ha ancora finito di imprecare che si lascia cadere al di sotto del finestrino posteriore e tira fuori dalla tasca del giubbotto la bomboletta di sostanza chimica scongelante. Con la sinistra, afferra la maniglia della portiera. Se la porta è chiusa con la sicura, avrà rivelato le sue intenzioni tentando di aprirla. In tal caso, si troverà nei guai perché probabilmente gli altri sono armati di pistole. Loro però non hanno motivo di aspettarsi un attacco, quindi lui dà per certo che la porta sia aperta. La previsione è esatta. La maniglia ruota senza difficoltà. Non sta a controllare se qualcuno sia uscito in strada e lo stia osservando. Guardarsi attorno gli darebbe un'aria ancora più sospetta. Apre la portiera con uno strattone. Mentre si infila nell'interno relativamente buio del furgone, prima ancora di essere sicuro che ci sia dentro qualcuno, schiaccia con l'indice l'ugello della bombola, agitandola avanti e indietro. Una quantità di apparecchi elettronici è stipata nel veicolo. Quadranti di controllo vagamente illuminati. Due poltroncine girevoli fissate al pavimento. Due uomini della squadra di sorveglianza. Quello più vicino sembra essersi alzato dalla poltroncina e voltato verso la porta posteriore una frazione di secondo prima, con l'intenzione di guardare dal finestrino. Lo spalancarsi della portiera lo lascia interdetto. Il denso getto di antigelo lo raggiunge al viso, lo acceca. Gli entra nel naso, gli brucia la gola, i polmoni. Il fiato gli si mozza prima che l'uomo riesca a emettere un grido. Ora un movimento confuso. Come una macchina. Programmata. Ad alta velocità. La piccozza. Sfilata dalla cintura. Un arco regolare, potente. Calata con
gran forza. Alla tempia destra. Un tonfo sordo. L'uomo cade di schianto. L'arma viene disincagliata. Il secondo uomo. La seconda sedia. Ha una cuffia. Seduto a una consolle dietro la cabina di guida, con la schiena alla porta. La cuffia attutisce il gemito del suo partner. Avverte un movimento. Sente il furgone oscillare quando il primo finisce a terra. Ruota su se stesso. Sorpreso, mette mano, troppo tardi, alla pistola nella fondina sotto l'ascella. Il liquido gli inonda la faccia. Muoversi, agire, affrontare, sfidare, lottare e trionfare. Il primo uomo a terra, in convulsioni. Scavalcarlo, passargli sopra, continuare a muoversi, avanzare, dritto verso il secondo uomo. Piccozza. Ancora. Piccozza. Piccozza. Silenzio. Immobilità. Il corpo sul pavimento non si dibatte più. È andata benissimo. Nessun urlo, nessun grido, nessuno sparo. Sa che l'eroe è lui, e l'eroe vince sempre. Eppure, è un sollievo quando il trionfo è raggiunto e non solo previsto. È più rilassato di quanto si sia sentito per tutta la giornata. Tornato alla portiera posteriore, si sporge a guardare in strada. Nessuno in vista. Tutto tranquillo. Richiude la porta, lascia cadere la piccozza a terra e guarda i morti con gratitudine. Si sente vicinissimo a loro per quello che hanno condiviso. «Grazie», dice con tenerezza. Fruga i due cadaveri. Ci sono documenti di identità nei loro portafogli, ma lui immagina che siano falsificati. Non trova niente di interessante, a parte settantasei dollari in contanti, di cui si impadronisce. Da un rapido esame dell'interno del furgone non vengono fuori fascicoli, quaderni, taccuini o altro che gli permettano di identificare l'organizzazione a cui appartiene il veicolo. Stanno svolgendo un'operazione serrata, pulita. Una fondina ascellare con un revolver è appesa allo schienale della poltroncina su cui era seduto il primo operatore. È una Smith & Wesson 38 Chief's Special. Si toglie il giubbotto, allaccia la fondina sopra il maglione, la sistema in modo da sentirsela comoda, e indossa di nuovo il giubbotto. Estrae il revolver e apre il tamburo. Completamente carico. Richiude e infila di nuovo l'arma nella fondina. Il morto a terra ha una borsetta di cuoio alla cintura. Contiene due cari-
catori rapidi. La prende e la aggancia alla cintola; ora ha più munizioni di quante gliene servano per liquidare il falso padre. I suoi superiori senza volto, però, sembra che lo abbiano raggiunto, e non può prevedere quali problemi dovrà affrontare prima di recuperare il proprio nome, la propria famiglia e la vita che gli è stata portata via. Il secondo morto, accasciato sulla sua sedia, il mento sul petto, non è riuscito a raggiungere la pistola. È ancora nel fodero. La estrae. Un'altra Chief's Special. La canna corta gli permette di infilarla nella tasca relativamente spaziosa del giubbotto. Sentendo che il tempo che gli rimane è sempre più limitato, lascia il furgone e si chiude la portiera alle spalle. I primi fiocchi della nevicata in arrivo giungono da nord-ovest portati da un vento gelido. Sono pochi, all'inizio, ma grossi e pesanti. Mentre attraversa la strada verso la casa bianca con le persiane verdi, tira fuori la lingua per prenderne qualcuno al volo. Probabilmente ha già fatto quel gesto quando da bambino abitava in quella via, tutto contento della prima neve della stagione. Non ha ricordi di pupazzi di neve, di battaglie a palle di neve con gli altri bambini, di corse in slittino. Di sicuro avrà fatto quelle cose, ma sono state cancellate assieme a tante altre, gli è stato negato il piacere dolce della nostalgia. Un vialetto di pietra attraversa l'erba scura invernale del prato anteriore. Sale tre scalini e supera l'ampia veranda. Alla porta, è paralizzato dalla paura. Al di là della soglia sta il suo passato. E anche il futuro. Dal momento della sua improvvisa presa di coscienza, della disperata fuga per la libertà, è arrivato fin lì. Potrebbe essere, quello, il momento più importante della sua campagna di giustizia. Il punto di svolta. I genitori sanno essere validi alleati, nei momenti di difficoltà. La loro fedeltà. La loro fiducia. Il loro amore imperituro. Ha paura di fare qualcosa, sull'orlo del trionfo, che possa renderli ostili e distruggere la speranza di riappropriarsi della vita che gli appartiene. È in gioco moltissimo, se osa suonare il campanello. Angosciato, si volta a guardare la strada e resta incantato dalla scena, perché la neve sta cadendo molto più fitta di quando si avvicinava alla casa. I fiocchi sono ancora grandi e soffici, a milioni, danzanti nel vento moderato di nord-ovest. Sono di un bianco così intenso da sembrare luminosi, ciascuna forma cristallina piena di una soffusa luce interna, e la giornata
non è più grigia. Il mondo è così silenzioso e sereno, due qualità rare nella sua esperienza, che non sembra neppure più reale, come se una magia lo avesse trasportato in una di quelle sfere di vetro che contengono una scena invernale, su cui il bianco torrente scorre eterno, almeno finché si continua a scuoterle. Quella fantasia è molto bella. Una parte di lui cerca la staticità di un mondo sotto vetro, una benevola prigione, senza tempo e immutabile, in pace, tutto pulito, senza paure e senza lotte, senza dolore, dove il cuore non è mai turbato. Bellissima, bellissima la neve che cade, imbiancando il cielo prim'ancora della terra, un'effervescenza nell'aria. È così bella, lo commuove così profondamente, che gli occhi gli si inumidiscono di lacrime. La sua è una sensibilità acutissima. Talvolta le esperienze più banali sono le più commoventi. La sensibilità, in un mondo tanto duro, può essere una maledizione. Raccogliendo tutto il suo coraggio, torna a voltarsi verso la porta. Schiaccia il campanello, aspetta qualche secondo, suona di nuovo. Sua madre apre la porta. Non ha nessun ricordo di lei, ma sa istintivamente che quella è la donna che gli ha dato la vita. Il suo viso è un po' paffuto, relativamente liscio per la sua età, la quintessenza della dolcezza. I lineamenti sono un'eco dei suoi. Lei ha gli occhi con la stessa tonalità di azzurro che lui vede quando si guarda allo specchio, ma quelli di lei gli sembrano finestre su un'anima ben più pura della sua. «Marty!» esclama sorpresa e subito sul suo volto appare un caldo sorriso, gli apre le braccia. Commosso da quell'accettazione immediata, varca la soglia, si concede al suo abbraccio, la stringe forte come se lasciarla andare significasse annegare. «Gioia, che cosa c'è? Che cosa è successo?» gli domanda. Soltanto in quel momento si accorge che sta singhiozzando. È così commosso dal suo amore, così riconoscente di aver trovato un posto a cui appartiene, in cui è accolto, che non sa controllare le proprie emozioni. Preme la faccia sui suoi capelli bianchi, che hanno un vago profumo di shampoo. Gli sembra così calda, più calda di chiunque altro, e si domanda se siano così tutte le madri. Lei chiama il marito. «Jim! Jim, vieni, presto!» Lui cerca di parlare, di dirle che la ama, ma la sua voce si spezza prima
di riuscire a formare una sola parola. Ed ecco che suo padre compare nell'ingresso e si dirige trafelato verso di loro. La distorsione creata dalle lacrime non gli impedisce di riconoscere il suo papà. La somiglianza con lui è molto più forte che con la mamma. «Marty, che cosa è successo?» Passa dall'abbraccio dell'una a quello dell'altro, inesprimibilmente grato per le braccia aperte di suo padre, non più solo, ma ospite di un mondo sotto vetro, apprezzato e amato, adorato. «Dov'è Paige?» chiede la madre, guardando dalla porta aperta verso la giornata piena di neve. «Dove sono le bambine?» «Siamo stati a pranzo al ristorante», dice il padre, «E Janey Torreson ci ha detto che hanno parlato di te nel telegiornale, che avresti sparato a qualcuno ma che forse è tutta una montatura. Non ci ho capito niente.» È ancora soffocato dall'emozione, incapace di rispondere. «Abbiamo cercato di telefonarti appena rientrati», prosegue suo padre, «ma abbiamo trovato la segreteria telefonica e ti ho lasciato un messaggio.» Sua madre chiede di nuovo di Paige, Charlotte ed Emily. Deve ritrovare l'autocontrollo, perché il falso padre potrebbe arrivare da un momento all'altro. «Mamma, papà, siamo nei pasticci», dice finalmente. «Dovete aiutarci, vi prego, Dio mio, dovete aiutarci.» La madre chiude la porta sulla fredda aria di dicembre, poi lo conducono nel soggiorno, uno da una parte e l'altra dall'altra, circondandolo del loro amore, toccandolo, con i volti pieni di apprensione e compassione. È a casa. È finalmente a casa. Non ricorda il soggiorno, più di quanto ricordi il padre, la madre o la neve della sua infanzia. Il parquet di quercia è coperto per più di metà da un tappeto persiano nelle tonalità del rosa pesca e del verde. I divani sono imbottiti e il colore del legno visibile è scuro. Sulla cappa del camino, tra due vasi cinesi su cui sono dipinte scene religiose, un orologio ticchetta solennemente. Accompagnandolo al divano, la madre gli chiede: «Tesoro, di chi è questo giubbotto che hai indosso?» «Mio», risponde lui. «Ma questi sono i giubbotti universitari che usano adesso.» «E Paige e le bambine come stanno?» domanda papà. «Sì, stanno bene, non si sono fatte niente.»
La mamma tocca il giubbotto. «L'università ha adottato questo genere d'indumento solo due anni fa.» «È mio», ripete lui. Si toglie il berretto da baseball prima che si accorgano che gli sta un po' largo. Su una parete sono esposte le foto di lui, Paige, Charlotte ed Emily a diverse età. Distoglie lo sguardo da quella galleria, perché lo colpisce troppo in profondità e minaccia di provocargli altre lacrime. Deve recuperare e conservare il controllo delle emozioni se vuole comunicare l'essenziale di quella complessa e misteriosa situazione ai suoi genitori. Loro tre hanno poco tempo per studiare un piano d'azione prima che arrivi l'impostore. La madre si siede accanto a lui sul divano. Gli prende la destra tra le mani, stringendola dolcemente, in un gesto di incoraggiamento. Alla sua sinistra, il padre si siede sul bordo di una poltrona, proteso in avanti, attentissimo, con il volto segnato dall'ansia. Lui ha tanto da dire e non sa da dove cominciare. Esita. Per un momento ha paura di non riuscire a trovare le parole per iniziare, si sente muto, oppresso da un blocco psicologico ancora peggiore di quello che lo ha afflitto quando si è seduto al computer nel suo studio e ha tentato di scrivere la prima frase di un nuovo romanzo. Quando però d'un tratto comincia a parlare, le parole gli sgorgano come un torrente in piena che travolge un'ostruzione. «Un uomo, c'è un uomo, sembra me, è esattamente uguale a me, neppure io riesco a vedere la minima differenza, e mi ha rubato la vita. Paige e le bambine sono convinte che quello sono io, ma non è me, non so chi è, non so come ha fatto a ingannare Paige. Mi ha portato via i ricordi, mi ha lasciato senza niente, e io non so proprio come, non so come... come sia riuscito a rubarmi così tanto e a lasciarmi così vuoto.» Suo padre sembra sorpreso, ed è naturale che lo sia tenendo conto di quelle terrificanti rivelazioni. Ma c'è qualcosa che non va nella sorpresa di papà, una impalpabile qualità che sfugge alla definizione. Le mani della mamma si stringono sulla sua in un movimento che sembra più un riflesso che un gesto consapevole. Non ha il coraggio di guardarla. Lui prosegue tutto d'un fiato, cosciente che sono confusi, ansioso di farli capire. «Parla come me, si muove e si atteggia come me, sembra essere me, e allora ci ho pensato attentamente, cercando di capire chi possa essere, da dove possa essere venuto, e continuo ad arrivare alla stessa spie-
gazione, anche se sembra incredibile, ma dev'essere come nei film, sapete, come con Kevin McCarthy, o Donald Sutherland nel remake L'invasione degli ultracorpi, qualcosa di non umano, non di questo mondo, qualcosa che può imitarci perfettamente e cancellare i nostri ricordi, diventare noi, solo che, chissà come, non è riuscito a uccidermi ed eliminare il mio corpo dopo aver preso quello che c'era nella mia mente.» Senza fiato, fa una pausa. Per qualche istante, nessuno dei due genitori parla. Si scambiano un'occhiata. Quell'occhiata non gli piace. Non gli piace affatto. «Marty», dice papà, «forse è meglio che ricominci daccapo, con calma, dicci esattamente che cosa è successo, passo dopo passo.» «Sto cercando di spiegarvelo», dice lui esasperato. «Lo so che è incredibile, difficile da credere, ma te lo dico io, papà.» «Io voglio aiutarti, Marty. Voglio crederti. Per cui calmati, dimmi tutto dall'inizio, dammi la possibilità di capire.» «Non abbiamo molto tempo. Non capisci? Paige e le bambine stanno venendo qui con questo... questo essere, questa cosa inumana. Devo portargliele via. Con il vostro aiuto, devo riuscire a uccidere quella cosa e riprendermi la mia famiglia prima che sia troppo tardi.» La madre è diventata pallida, si morde il labbro. Gli occhi le si stanno riempiendo di lacrime. Le sue mani si sono strette così forte alla sua che gli fa quasi male. Osa sperare che stia afferrando l'urgenza e la natura spaventosa della minaccia. Dice: «Andrà tutto bene, mamma. Ce la faremo. Insieme, possiamo farcela». Guarda dalla finestra anteriore. Si aspetta di vedere arrivare la BMW nella strada coperta di neve, svoltare nel vialetto. Non ancora. Hanno ancora un po' di tempo, forse solo qualche minuto, ma ne hanno ancora. Papà si schiarisce la gola. «Marty, non so che cosa stia succedendo...» «Te l'ho detto che cosa sta succedendo!» grida lui. «Maledizione, papà, non hai idea di quello che ho passato.» Gli salgono di nuovo le lacrime agli occhi, e si sforza di rimandarle giù. «Sono stato così male, ho avuto tanta paura, da quando mi ricordo, tanta paura e solitudine, sempre sforzandomi di capire.» Il padre allunga una mano, gliela poggia sul ginocchio. Papà è turbato, ma non come dovrebbe. Non è evidentemente furioso del fatto che un'entità aliena abbia rubato la vita di suo figlio, non è spaventato come dovrebbe dalla notizia che una presenza inumana ora si aggira per la terra, facendosi
passare per umana. Piuttosto, sembra solo preoccupato e... triste. C'è sul suo volto e nella sua voce un'inequivocabile e inappropriata tristezza. «Non sei solo, figliolo. Noi siamo sempre qui per te. Questo lo sai.» «Staremo al tuo fianco», aggiunge la mamma. «Ti daremo tutto l'aiuto di cui hai bisogno.» «Se Paige sta venendo qua, come hai detto», riprende il padre, «ci metteremo tutti seduti appena arriva, ne parleremo a fondo, cercheremo di capire che cosa sta succedendo.» Le loro voci sono vagamente condiscendenti, come se parlassero a un bambino intelligente e sensibile, ma comunque un bambino. «Silenzio! State zitti!» Strappa la mano da quelle della madre e balza in piedi dal divano, tremando dalla frustrazione. La finestra. La neve. La strada. Nessuna BMW. Ma presto. Si volta dalla finestra, verso i genitori. La madre siede sull'orlo del divano, con il viso nascosto tra le mani, le spalle curve, in una posa di dolore o di disperazione. Deve assolutamente far sì che capiscano. È consumato da quella necessità e scoraggiato dall'incapacità di trasmettere anche gli elementi essenziali della situazione. Il padre si alza dalla sedia. Sta lì indeciso. Le braccia lungo i fianchi. «Marty, sei venuto da noi in cerca di aiuto, e noi vogliamo aiutarti, Dio lo sa, ma non possiamo farlo se tu non ce lo permetti.» Abbassando le mani dal volto, con le guance rigate dalle lacrime, la madre dice: «Ti prego, Marty. Ti prego». «Tutti fanno degli errori, ogni tanto», dice suo padre. «Se si tratta di droga», riprende sua madre tra le lacrime, parlando tanto al padre quanto a lui, «possiamo risolverla, amore, possiamo risolverla, possiamo trovare una cura.» Il suo mondo sotto vetro, meraviglioso, pacifico, senza tempo, in cui ha vissuto per i pochi minuti da quando sua madre gli ha aperto le braccia sulla porta, improvvisamente s'incrina. Una brutta crepa frastagliata segna la liscia curvatura del cristallo. La dolce, pulita atmosfera di quel breve paradiso sfugge con un sibilo, lasciando entrare l'aria avvelenata del mondo di odio in cui l'esistenza esige una lotta ininterrotta contro l'impotenza, la solitudine, il rifiuto. «Non fatemi questo», scongiura. «Non mi tradite. Come potete farmi questo? Come potete rivoltarvi contro di me? Sono vostro figlio.» La frustrazione si muta in rabbia. «Il vostro unico figlio.» La rabbia in odio. «Ho
bisogno. Ho bisogno. Non capite?» Trema di rabbia. «Non vi importa niente? Siete senza cuore? Come potete essere così spietati con me, così crudeli? Come avete potuto arrivare a tanto?» 12 Si fermarono a una stazione di servizio a Bishop, il tempo di comprare le catene da neve e, pagando un extra, farsele applicare alla BMW. La California Highway Patrol raccomandava, anche se non era ancora obbligatorio, che tutti i veicoli diretti verso la Sierra Nevada fossero equipaggiati di catene. A ovest di Bishop la Route 395 diventava un'autostrada, e nonostante la forte pendenza, mantennero una buona andatura superando Rovanna e Crowley Lake, McGee Creek e Convict Lake, e uscendo dalla 395 sulla Route 2203 un po' a sud di Casa Diablo Hot Springs. Casa Diablo. La casa del diavolo. Il significato del nome non aveva mai colpito l'immaginazione di Marty. Ora ogni cosa era un presagio sinistro. La neve cominciò a cadere prima che raggiungessero Mammoth Lakes. I grossi fiocchi scendevano molli. Cadevano così fitti che sembrava che più della metà del volume di aria tra terra e cielo fosse occupata dalla neve. Cominciarono a prendere immediatamente, coprendo il paesaggio di un manto di ermellino. Paige attraversò Mammoth Lakes senza fermarsi e svoltò a sud verso Lake Mary. Nel sedile posteriore, Charlotte ed Emily erano così prese dalla nevicata che, per il momento, non c'era bisogno di intrattenerle. A est delle montagne il cielo era grigio-nero e tempestoso. Lì, nel cuore invernale della Sierra, era come l'occhio di un ciclope velato da una cataratta lattiginosa. L'uscita dalla Route 203 era contrassegnata da un boschetto di pini in cui l'esemplare più alto mostrava le cicatrici decennali di un fulmine, che non aveva soltanto danneggiato l'albero, ma aveva prodotto una mutazione nel suo sviluppo, fino a farlo diventare una torre contorta e maligna. I fiocchi di neve, ora più piccoli, cadevano più rapidi, spinti dal vento di nord-ovest. Dopo un inizio giocoso, la tempesta stava facendosi seria. Tagliando attraverso i pascoli montani e le foreste, queste ultime via via più frequenti dei primi, la strada in salita arrivò a fiancheggiare una proprietà cintata di una cinquantina di ettari. Il terreno era stato acquistato un-
dici anni prima dalla Chiesa Profetica del Rapimento, un culto che seguiva la dottrina del reverendo Jonathan Caine, secondo la quale presto i fedeli si sarebbero staccati levitando dalla terra, lasciando solo i non battezzati e i dannati a sopportare mille anni di spaventosa guerra e di inferno sul pianeta prima che arrivasse il giudizio finale. Era poi saltato fuori che Caine era un pedofilo, che filmava le violenze a cui sottoponeva i figli dei seguaci del suo culto. Lui era finito in carcere, i suoi duemila fedeli si erano dispersi al vento della disillusione e del tradimento, e la proprietà con tutte le sue costruzioni era stata oggetto di liti giudiziarie per quasi cinque anni. Alcune fantasie sono distruttive. La recinzione sormontata di filo spinato era sfondata in più punti. In lontananza il campanile della chiesa spiccava alto al di sopra delle cime degli alberi. Sotto di esso c'erano i tetti a spiovente di una serie di edifici in cui i fedeli alloggiavano, consumavano i pasti e aspettavano di essere sollevati al cielo dalla mano destra del Signore Onnipotente. La torre era intatta. Ma alle costruzioni sottostanti mancavano molte porte e finestre, ed erano ormai diventate dimore di ratti, opossum e procioni, private di gloria e fatiscenti. Talvolta i vandali erano umani. Ma il vento e il ghiaccio e la neve erano i maggiori responsabili dei danni, come se Dio, attraverso gli elementi scatenati dalla Sua volontà, avesse pronunciato sulla Chiesa del Rapimento un giudizio che non era ancora pronto a pronunciare sul resto dell'umanità. Anche lo chalet era situato lungo la stretta strada provinciale, sulla destra, la proprietà immediatamente successiva alla vasta estensione di terreno appartenuta alla setta ormai defunta. Arretrata di una trentina di metri rispetto alla strada, alla fine di uno sterrato, era uno dei tanti rifugi disseminati per le colline dei dintorni, quasi tutti circondati da un piccolo appezzamento di terreno. Si trattava di una costruzione a un solo piano con le pareti di legno di cedro inargentato dal tempo, il tetto di ardesia, la veranda anteriore schermata e le fondamenta in pietra di fiume. Nel corso degli anni il padre e la madre avevano ampliato il fabbricato originario fino a dotarlo di due camere da letto, la cucina, il soggiorno e due stanze da bagno. Parcheggiarono davanti alla baita e scesero dall'auto. Gli alberi circostanti, pini e larici, erano secolari e giganteschi, e l'aria frizzante era piena del loro profumo. Aghi morti e pigne secche formavano un tappeto su tutta la proprietà. La neve raggiungeva il terreno solo negli spazi in mezzo agli
alberi e attraverso gli occasionali varchi tra i fitti rami. Marty andò alla rimessa dietro la baracca. La porta era tenuta chiusa con un piolo. Sulla destra dell'ingresso, contro il muro, una chiave di riserva era avvolta ermeticamente nella plastica e sepolta nel terreno, a un paio di centimetri di profondità. Quando Marty ritornò sul davanti dello chalet, Emily stava girando attorno a uno degli alberi più grandi, china a esaminare le pigne che ne erano cadute. Charlotte era impegnata in una radura tra gli alberi, su cui la neve cadeva come il fascio di un riflettore su un palcoscenico. «Sono la Regina della Neve!» annunciò Charlotte a perdifiato tra un balzo e una piroetta. «Comando all'inverno! Posso ordinare alla neve di cadere! Posso rendere il mondo tutto bianco e splendente!» Visto che Emily cominciava a raccogliere una bracciata di pigne, Paige disse: «Tesoro, non penserai di portarle in casa, vero?» «Devo fare delle opere d'arte.» «Sono sporche.» «Sono bellissime.» «Sono bellissime e sporche», replicò Paige. «La farò qua fuori, un po' di arte.» «Cadi, neve! Soffia, vento! Fa' capriole e mulinelli!» ordinò la Regina della Neve mentre Marty saliva gli scalini di legno e apriva la porta schermata della veranda. Quel mattino le bambine si erano vestite in jeans e maglioni di lana, per essere pronte ad affrontare il clima della Sierra, e indossavano pesanti giubbotti imbottiti di nylon e guanti. Avrebbero voluto rimanere fuori a giocare. Ma, anche se avessero avuto gli scarponcini da neve, quella sarebbe stata una zona proibita. Questa volta la capanna non era semplicemente un posto di vacanza, ma un rifugio che avrebbero forse dovuto trasformare in fortezza, e i boschi circostanti avrebbero potuto prima o poi nascondere qualcosa di ben più pericoloso dei lupi. Dentro casa c'era un lieve odore muschioso. Sembrava che vi facesse ancora più freddo che fuori, nonostante la giornata nevosa. La legna fu accatastata nel camino, e di lato, all'interno dello spazioso focolare, fu sistemata una riserva di ceppi. Più tardi avrebbero acceso il fuoco. Per riscaldare in fretta la casa, Paige andò in tutte le stanze ad accendere i termosifoni elettrici a parete. In piedi davanti a una delle finestre anteriori, spingendo lo sguardo oltre la veranda schermata, lungo il vialetto sterrato, verso la provinciale, Marty
usò il cellulare che aveva portato dall'auto per cercare ancora una volta di mettersi in contatto con i suoi a Mammoth Lakes. «Papà», disse Charlotte mentre lui formava il numero, «ma chi darà da mangiare a Bob, Sheldon, Fred e agli altri mentre noi non ci siamo?» «Mi sono già messo d'accordo con la signora Sanchez perché se ne occupi lei», mentì Marty, che non aveva ancora trovato il coraggio di dirle che tutti i suoi animali erano stati uccisi. «Ah, bene. Allora meno male che non è stata la signora Sanchez ad ammattire completamente.» «A chi telefoni, papà?» volle sapere Emily, mentre il primo squillo risuonava all'altro capo della linea. «Ai nonni.» «Digli che farò per loro una scultura di pigne.» «Accidenti», commentò Charlotte, «questo li farà vomitare dall'emozione.» Il telefono squillò per la terza volta. «A loro piace la mia arte», ribatté Emily. «Per forza», disse Charlotte, «sono tuoi nonni.» Quattro squilli. «Sì, e allora nemmeno tu sei la Regina della Neve», replicò Emily. «E invece sì.» Cinque. «No, sei la Nanerottola della Neve.» «E tu sei il Rospo della Neve», contrattaccò Charlotte. Sei. «Verme della Neve.» «Scarafaggio della Neve.» «Moccio della Neve.» «Vomito della Neve.» Marty lanciò alle due uno sguardo di ammonizione che mise fine alla gara di insulti. Si limitarono a mostrarsi la lingua. Dopo il settimo squillo, mise il dito sul pulsante di END, ma un attimo prima di schiacciarlo sentì che dall'altra parte veniva alzato il ricevitore. Chi aveva preso la linea, però, non parlava. «Pronto?» disse Marty. «Mamma? Papà?» La voce all'altro capo del filo, irata e triste al contempo, disse: «Come hai fatto a portarli dalla tua parte?» Marty, si sentì ghiacciare vene e midollo, non per il freddo penetrante
dentro lo chalet ma perché la voce che gli aveva risposto era perfettamente identica alla sua. «Perché devono amare più te che me?» domandò l'Altro, con un leggero tremito dettato dall'emozione. Una cappa di terrore piombò su Marty, un senso di irrealtà disorientante come un incubo. Gli sembrava di sognare da sveglio. Disse: «Non toccarli, figlio di puttana. Non toccarli nemmeno con un dito». «Mi hanno tradito.» «Voglio parlare con mio padre e mia madre.» «Con MIO padre e MIA madre», precisò l'Altro. «Falli venire al telefono.» «Così potrai raccontare loro altre menzogne?» «Falli venire al telefono immediatamente», ripeté Marty a denti stretti. «Non possono sentire più le tue menzogne.» «Che cosa hai fatto?» «Hanno finito di darti ascolto.» «Che cosa hai fatto?» «Non volevano darmi quello che mi serviva.» Comprendendo finalmente il significato di quelle parole, Marty sentì il terrore trasformarsi in dolore. Per un momento, non riuscì a parlare. «Non mi serviva altro che essere amato», riprese l'Altro. «Che cosa hai fatto?» Ora stava urlando. «Chi sei, che cosa sei, maledizione, che cosa sei, che cosa hai fatto?» Ignorando le domande, l'Altro rispondeva con altre domande. «Mi hai messo Paige contro? La mia Paige, la mia Charlotte, la mia piccola dolce Emily? Ho qualche speranza di riaverle o devo uccidere anche loro?» La voce era rotta dall'emozione. «Oh, Dio, c'è ancora sangue nelle loro vene, sono ancora umane, o le hai trasformate in qualcos'altro?» Marty capì che era impossibile parlare con quell'essere. Tentare un dialogo era una pazzia. Per quanto identici potessero apparire, non avevano un terreno comune. Fondamentalmente, erano così lontani l'uno dall'altro come se fossero appartenuti a due specie diverse. Schiacciò il pulsante END. Le mani gli tremavano così violentemente che il ricevitore gli sfuggì e cadde. Quando si voltò dalla finestra, vide che le bambine si erano strette l'una
all'altra e si tenevano per mano. Lo fissavano, pallide e spaventate. Le sue urla al telefono avevano richiamato Paige da una delle camere da letto, dove stava sistemando il termosifone. Le immagini dei volti dei genitori, i ricordi di una vita piena di amore si affollavano nella sua mente, ma lui li allontanò risolutamente. Se in quel momento avesse ceduto al dolore, se avesse perso del tempo a piangere, avrebbe condannato Paige e le bambine a morte certa. «È qui», comunicò. «Sta arrivando, e non abbiamo molto tempo.» PARTE TERZA Nuove mappe dell'Inferno Quelli che vorrebbero bandire il peccato dell'avidità abbracciano il peccato dell'invidia come loro credo. Quelli che vorrebbero bandire anche l'invidia, non fanno che tracciare nuove mappe dell'Inferno. Quelli che hanno la passione di cambiare il mondo si vedono come santi, come gioielli, e lanciandosi in nobili crociate sfuggono per sempre alla temuta introspezione. The Book of Counted Sorrows Ridiamo dei tiranni e delle tragedie che infliggono. Uomini siffatti godono delle nostre lacrime come di una prova di sottomissione, ma le nostre risate li condannano all'ignominia. LAURA SHANE, Endless River 6 1 Sta nella cucina dei suoi genitori, guardando dalla finestra sopra il lavandino la neve che cade, tremando dalla fame, ingollando un po' di cibo avanzato. Questo è uno di quei momenti decisivi che separano i veri eroi dai millantatori. Quando tutto è buio, quando a tragedia si somma tragedia, quando la speranza sembra solo un gioco per idioti e folli, Harrison Ford, Kevin
Costner, Tom Cruise, Wesley Snipes, Kurt Russell abbandonano forse il campo? No. Mai. Impensabile. Loro sono eroi. Perseverano. Cercano l'occasione. Non solo affrontano le avversità, ma in esse si rafforzano. Avendo condiviso i momenti peggiori della vita di quei grandi, sa come reagire alla devastazione emotiva, alla depressione mentale, alla violenza fisica, e anche alla minaccia di un dominio alieno sulla terra. Muoversi, agire, affrontare, sfidare, lottare e trionfare. Non deve soffermarsi sulla tragedia della morte dei genitori. E, comunque, gli esseri che ha soppresso di sicuro non erano sua madre e suo padre, ma volgari imitazioni, come quello che ha rubato la sua vita. Potrebbe non venir mai a sapere quando i suoi veri genitori sono stati uccisi e sostituiti, e in ogni caso deve rimandare il momento di piangerli. Pensare troppo ai suoi genitori, o a qualsiasi altra cosa, non è soltanto una perdita di tempo prezioso, è anche antieroico. Gli eroi non pensano. Agiscono. Muoversi, agire, affrontare, sfidare, lottare e trionfare. Finito di mangiare, va in garage attraverso il locale della lavanderia a cui si accede dalla cucina. Accendendo la luce al neon appena varcata la soglia, scopre di avere a disposizione due veicoli, una vecchia Dodge blu e una Jeep Wagoneer apparentemente nuova. Userà la jeep perché ha la trazione integrale. Le chiavi del veicolo sono appese a un quadro nella lavanderia. In un mobiletto trova anche un fustino di detersivo. Legge l'elenco dei componenti chimici sulla confezione, soddisfatto di quel che vi scopre. Torna in cucina. Una serie di armadietti finisce con una rastrelliera per il vino. Dopo aver trovato un cavatappi in un cassetto, apre quattro bottiglie e le vuota nel lavandino. In un altro cassetto contenente vari strumenti da cucina trova un imbuto di plastica. Un terzo cassetto contiene strofinacci puliti, e da un quarto prende un paio di forbici e una scatoletta di fiammiferi. Porta le bottiglie e gli altri oggetti nel locale della lavanderia e sistema il tutto sul banco piastrellato accanto all'acquaio. Di nuovo nel garage, prende una tanica rossa di benzina da venti litri da una scaffalatura alla sinistra del banco di lavoro. Quando svita il tappo, dal recipiente esce una zaffata di vapore ad alto numero di ottani. Dall'inizio della primavera fino all'autunno, probabilmente era lì che papà teneva di
solito la benzina da usare nel tosaerba, ma ora la tanica è vuota. Frugando nei cassetti e nei pensili attorno al banco di lavoro, trova un rotolo di tubo flessibile di plastica in una scatola di pezzi di ricambio per l'impianto di filtraggio dell'acqua che è in cucina. Con quello aspira la benzina dal serbatoio della Dodge riempiendo la tanica. Tornato nella lavanderia versa con l'imbuto nell'acquaio due dita di detersivo sul fondo di ogni bottiglia vuota di vino. Aggiunge la benzina. Taglia gli strofinacci in strisce delle dimensioni che gli occorrono. Anche se dispone già di due revolver e di venti proiettili, preferisce aggiungere le bombe molotov al suo arsenale. Le esperienze delle ultime ventiquattr'ore, da quando si è scontrato per la prima volta con il falso padre, gli hanno insegnato a non sottovalutare l'avversario. Spera ancora di salvare Paige, Charlotte e la piccola Emily. Continua a desiderare che sia possibile tornare insieme e insieme riprendere a vivere. Deve però affrontare la realtà e prepararsi all'eventualità che la moglie e le figlie non siano più le stesse di un tempo. Potrebbero semplicemente essere state plagiate mentalmente. Oppure potrebbero essere state infettate da parassiti non di questo mondo, il loro cervello vuotato e riempito di brulicanti mostruosità. O ancora, potrebbero non essere loro, ma semplici replicanti della vera Paige, delle vere Charlotte ed Emily, così come il falso padre è un replicante di lui stesso, sbucato da un baccello gigante proveniente da qualche pianeta lontano. Le varietà dell'infestazione extraterrestre sono illimitate e imprevedibili; ma c'è un'arma che ha salvato il mondo più spesso di tutte le altre: il fuoco. Kurt Russell, quando era un membro di una spedizione di ricerca scientifica in Antartide, si era trovato davanti un extraterrestre capace di assumere un'infinità di forme e dotato di grande astuzia, forse l'alieno più spaventoso e potente che avesse mai tentato la colonizzazione della terra, e contro quel formidabile nemico il fuoco era stata l'arma di gran lunga più efficace. Si chiede se quattro bombe incendiarie siano sufficienti. Probabilmente non avrà comunque il tempo di usarne di più. Se qualcosa schizza fuori dal falso padre, da Paige o dalle bambine, e se questo qualcosa è ostile quanto le cose che spuntavano dalle persone nella stazione di ricerca di Kurt Russell, lui sarà senza dubbio sopraffatto prima di poter usare più di quattro bombe molotov, considerando che gli serve il tempo per accenderle una per una. Rimpiange di non disporre di un lanciafiamme. 2
Davanti a una delle finestre anteriori, guardando la fitta neve cadere tra gli alberi e sul viottolo che portava sulla provinciale, Marty estraeva a manciate le pallottole da 9 mm dalle scatole di munizioni che aveva portato con sé da Mission Viejo, distribuendole tra le numerose tasche del giubbotto da sci rosso e nero e anche nelle tasche dei jeans. Paige caricava il Mossberg. Lei aveva avuto meno tempo di Marty per esercitarsi con la pistola al poligono, e si sentiva più a suo agio con il fucile da caccia. Avevano ottanta cartucce per il Mossberg e circa duecento proiettili da 9 mm per la Beretta. Marty si sentiva indifeso. Non esistevano armi sufficienti a farlo sentire tranquillo. Dopo aver interrotto la comunicazione con l'Altro, aveva preso in considerazione l'idea di fuggire. Ma se erano stati seguiti fin lì così facilmente, sarebbero stati seguiti ovunque andassero. Era meglio prendere posizione in un posto difendibile che essere raggiunti su un'autostrada deserta o colti di sorpresa in un luogo più vulnerabile della baita. Era stato sul punto di telefonare alla polizia locale per mandarla a casa dei suoi genitori. Ma l'Altro sarebbe sicuramente fuggito prima dell'arrivo dei poliziotti, e le prove che avrebbero raccolto, impronte digitali e Dio sa che cos'altro, avrebbero solo fatto pensare che fosse stato lui a uccidere la madre e il padre. I mezzi d'informazione lo avevano già dipinto come un personaggio mentalmente instabile. La scena nella casa di Mammoth Lakes avrebbe confermato la messinscena che loro stavano cercando di far passare per vera. Se fosse stato arrestato quel giorno o l'indomani o la settimana seguente, o anche soltanto trattenuto per qualche ora, Paige e le bambine sarebbero rimaste in balia di chiunque, situazione che gli appariva intollerabile. Non avevano altra scelta che stringere i denti e battersi. Una scelta molto prossima a una condanna a morte. Sedute sul divano, Charlotte ed Emily avevano ancora indosso i giubbotti e i guanti. Si tenevano per mano, traendo forza l'una dall'altra. Benché spaventate, non piangevano né chiedevano rassicurazione come avrebbero fatto tanti bambini in quella stessa situazione. Erano sempre state delle brave combattenti, ognuna a suo modo. Marty non sapeva neppure bene come portare conforto alle figlie. Di solito, come a Paige, non gli capitava di incontrare difficoltà a trovare le in-
dicazioni di cui avevano bisogno per risolvere i problemi della vita. Paige diceva scherzando che loro erano la «Favolosa Macchina Genitoriale Stillwater», una frase che conteneva tanta autoironia quanto autentico orgoglio. Ma questa volta non sapeva trovare le parole perché non gli era mai successo di mentire loro, né aveva intenzione di cominciare in quella circostanza, però non aveva il coraggio di metterle a parte della sua valutazione pessimistica del loro futuro. «Bambine, venite qui, fatemi un favore», le chiamò. Contente di distrarsi, scesero dal divano e lo raggiunsero alla finestra. «Mettetevi qua», disse, «tenete d'occhio la strada laggiù. Se una macchina svolta nel viottolo, o se passa troppo lentamente, se fa qualcosa di sospetto, chiamateci. Chiaro?» Le due annuirono con aria seria. Marty si rivolse a Paige. «Controlliamo tutte le altre finestre, accertiamoci che siano chiuse e tiriamo tutte le tende.» Se l'Altro fosse riuscito ad avvicinarsi alla capanna senza farsi scorgere, Marty non voleva che il bastardo potesse osservarli, o sparare, da una finestra. Tutte le finestre erano chiuse. In cucina, mentre copriva con la tenda una finestra che dava sul folto bosco dietro lo chalet, si ricordò che quelle tendine le aveva confezionate la madre con la macchina per cucire che teneva nello sgabuzzino della casa di Mammoth Lakes. Nella sua mente si disegnò l'immagine di lei seduta alla Singer, con il piede sul pedale, che seguiva con attenzione l'ago che andava su e giù ticchettando. Sentì una stretta al petto. Inspirò a fondo, emise il fiato in un respiro spezzato, poi di nuovo, cercando di espellere non solo il dolore ma anche il ricordo che lo aveva suscitato. Ci sarebbe stato tempo per piangere, dopo, se fossero sopravvissuti. Per ora doveva pensare solo a Paige e alle bambine. Sua madre era morta. Loro erano vive. La fredda verità: piangere era un lusso. Raggiunse Paige nella seconda delle due piccole camere da letto mentre finiva di sistemare le tende. Aveva acceso il lume su uno dei comodini, per non trovarsi al buio quando avesse chiuso le tende sulle finestre, e ora si avviava a spegnerlo. «Lascialo acceso», disse Marty. «Con la tempesta, il tramonto sarà lungo e anticipato. Dall'esterno, probabilmente sarà in grado di vedere quali stanze sono illuminate e quali no. Non è il caso di rendergli più facile capi-
re esattamente dove siamo.» Lei rimase in silenzio. A fissare il tessuto ambrato del paralume. Come se nei vaghi disegni su quella stoffa illuminata fosse possibile leggere il loro futuro. Infine alzò gli occhi su di lui. «Quanto tempo abbiamo?» «Forse dieci minuti, forse due ore. Dipende da lui.» Poi restò in silenzio. Nemmeno a Paige aveva voglia di mentire. Quando alla fine le parlò, Marty fu sorpreso nel sentire le sue stesse parole, perché giungevano da profondità ignote, erano autentiche, e indicavano un ottimismo maggiore di quanto avvertisse a livello cosciente. «Lo ammazzeremo, quel pezzo di merda.» Ottimismo o autoillusione. Paige fece il giro attorno al letto e gli venne vicino. Si abbracciarono. Si sentiva così bene tra le sue braccia. Per un attimo il mondo non le parve più il luogo della follia. «Non sappiamo ancora neppure chi sia, che cosa sia, da dove venga», disse. «E forse non lo scopriremo mai», rispose Marty. «Forse, anche dopo che avremo ucciso quel figlio di puttana, non sapremo mai come sono andate le cose.» «Se non lo scopriamo non potremo rimettere insieme i pezzi.» «Già.» Gli appoggiò la testa sulla spalla e baciò delicatamente le macchie scure dei lividi sul collo. «Non potremo mai più sentirci al sicuro.» «Non nella nostra vecchia esistenza. Ma finché siamo insieme, noi quattro», disse lui, «io posso anche lasciarmi tutto alle spalle.» «La casa, tutto quello che c'è dentro, la mia carriera, la tua...» «Niente di tutto ciò ha veramente importanza.» «Una nuova vita, nomi nuovi... Quale futuro ci sarà per le bambine?» «Il migliore che potremo dare loro. Di garanzie non ce ne sono mai state. Non ce ne sono mai in questa vita.» Lei alzò la testa e lo guardò negli occhi. «Sarò capace di fare quello che devo, quando arriverà?» «Certamente.» «Io sono solo una consulente famigliare specializzata nei problemi comportamentali dei bambini, rapporti genitori-figli. Non sono l'eroina di un romanzo di avventure.» «E io sono solo uno scrittore di gialli. Ma possiamo farcela.» «Ho paura.»
«Anch'io.» «Ma se ho tanta paura adesso, dove troverò il coraggio di imbracciare un fucile e difendere le mie bambine da qualcosa... da una cosa come questa?» «E tu immagina di essere davvero l'eroina di un romanzo d'avventure.» «Se solo fosse così semplice.» «In un certo senso... forse lo è», replicò lui. «Lo sai che non amo molto le tesi freudiane. Il più delle volte, secondo me, noi decidiamo di essere quello che siamo. Tu ne sei un esempio vivente, dopo tutto quello che hai dovuto sopportare da bambina.» Paige chiuse gli occhi. «Devo dire che mi è più facile immaginarmi come consulente famigliare che come Kathleen Turner in Alla ricerca della pietra verde.» «Quando ci siamo conosciuti non riuscivi a immaginarti neppure come moglie e madre. Una famiglia, per te, non era altro che una prigione, prigione e camera di tortura. Non avresti mai voluto tornare a far parte di una famiglia.» Riaprì gli occhi. «Me lo hai insegnato tu.» «Io non ti ho insegnato niente. Ti ho solo mostrato come immaginare una bella famiglia, una famiglia sana. Una volta in grado di immaginarla, potevi imparare a credere in tale possibilità. Da lì in poi, hai imparato da sola.» «Quindi», concluse lei, «la vita sarebbe una forma di letteratura?» «Ogni vita è una storia. La costruiamo noi via via che procediamo.» «D'accordo. Mi sforzerò di essere Kathleen Turner.» «O meglio ancora.» «Cioè?» «Sigourney Weaver.» Lei sorrise. «Magari avessi uno di quegli enormi incredibili fucili avveniristici come quelli che usava lei nei panni di Ripley.» «Vieni, andiamo a vedere se le nostre sentinelle sono ancora ai loro posti.» Nel soggiorno, diede il cambio alle bambine all'unica finestra su cui non fossero state tirate le tende, e le mandò a mettere dell'acqua sul fuoco per preparare qualche tazza di cioccolata bollente. Lo chalet era sempre rifornito di cibo in scatola: della scorta faceva parte un barattolo di latte al cacao in polvere. Le stufe elettriche non avevano ancora smorzato il gelo che c'era nell'aria, per cui un po' di riscaldamento interno era quello che ci vo-
leva. E poi, preparare la cioccolata calda era un'attività così normale che poteva allentare un po' di tensione e calmare i nervi. Guardò dalla finestra, al di là della veranda schermata, oltre il fondo della BMW. Erano così numerosi gli alberi tra la capanna e la strada che il centinaio di metri del viottolo era cosparso di chiazze di ombra fitta, ma era ancora possibile vedere che non c'era nessuno nelle immediate vicinanze, né in macchina né a piedi. Marty era abbastanza sicuro che l'Altro sarebbe piombato su di loro dalla parte anteriore, e non dal retro della baita. Intanto, la loro proprietà confinava a valle con il terreno della chiesa, e a monte con un terreno ancora più vasto, il che rendeva relativamente arduo, oltre che una perdita di tempo, l'approccio indiretto. A giudicare dal comportamento passato, l'Altro preferiva l'azione frontale e l'attacco diretto. Sembrava che gli mancassero il gusto e la pazienza per la strategia. Era un uomo d'azione più che di pensiero, il che lasciava prevedere un attacco furibondo, più che furtivo. Quella caratteristica poteva essere la debolezza fatale dell'avversario. Era comunque una speranza da coltivare. La neve cadeva. Le ombre si infittivano. 3 Dalla stanza del motel Spicer chiamò il furgone di sorveglianza per un aggiornamento. Lasciò squillare una dozzina di volte, riappese, riprovò, ma anche la seconda volta non rispose nessuno. «E successo qualcosa», disse. «Non avrebbero mai lasciato il furgone.» «Forse c'è un guasto al telefono», suggerì Oslett. «Sta suonando.» «Magari dalla parte loro no.» Spicer tentò ancora, con lo stesso risultato. «Andiamo», disse, afferrando il giubbotto di cuoio da pilota e dirigendosi verso la porta. «Non vorrai andare lì?» obiettò Oslett. «Non hai paura di bruciargli la copertura?» «È già bruciata. Qualcosa è andato storto.» Clocker si era infilata la giacca di tweed sul maglione di cachemire arancione. Non perse tempo a mettersi il cappello perché non aveva mai perso tempo a toglierselo. Ficcandosi Star Trek in tasca, si avviò anche lui alla porta. Oslett li seguì con la valigetta nera. «Ma che cosa potrebbe essere andato
storto? Si era rimesso tutto a girare così bene.» La nevicata aveva già lasciato un manto alto un dito. Ora i fiocchi erano minuti e relativamente asciutti, e le strade erano bianche. I rami dei sempreverdi avevano cominciato ad assumere un'aria natalizia. Spicer si mise al volante dell'Explorer, e in pochi minuti raggiunsero la via dove abitavano i genitori di Stillwater. Indicò la casa quando furono a mezzo isolato di distanza. Di fronte all'abitazione, accanto al marciapiede, sostavano due veicoli. Oslett identificò la postazione di sorveglianza con il furgoncino rosso grazie ai finestrini a specchio nella sezione posteriore. «Che ci fa quel furgone da fioraio?» si domandò Spicer. «Una consegna», ipotizzò Oslett. «Poco probabile.» Spicer superò il veicolo e gli si fermò davanti. «Ti sembra prudente?» chiese Oslett. Con il cellulare, Spicer chiamò un'altra volta la squadra di sorveglianza. Non rispose nessuno. «Non abbiamo scelta», disse Spicer aprendo la portiera e uscendo tra la neve. I tre si avviarono verso il retro del furgone rosso. A terra, tra quel veicolo e il mezzo del fioraio, giaceva una ricca composizione floreale. Il contenitore di ceramica era in pezzi. Gli steli dei fiori e delle foglie di felce erano ancora infilati nel materiale spugnoso verde usato dai fioristi per sistemare le composizioni, e perciò il vento che non soffiava con particolare violenza non aveva scompaginato l'insieme, ma qualcuno doveva averlo calpestato ripetutamente. I colori di alcuni fiori erano mascherati dalla neve, segno che si trovavano lì da almeno mezz'ora o tre quarti d'ora. Quelle corolle sciupate, quelle felci imbiancate avevano una loro strana bellezza. A scattare una foto, esporla in una galleria, darle un titolo come Romanticismo o Assenza, molto probabilmente la gente le si sarebbe fermata davanti a lungo, assorta. Mentre Spicer bussava sulla portiera posteriore del veicolo di sorveglianza, Clocker comunicò: «Io controllo l'altro furgone». Ai colpi picchiati sulla portiera non rispose nessuno; Spicer l'aprì di scatto e salì. Oslett lo seguì e sentì che mormorava: «Oh, cazzo». L'interno del veicolo era buio. Dai finestrini schermati entrava poca luce.
A illuminare quello spazio c'erano solo i quadranti e gli schermi dell'attrezzatura elettronica. Oslett si tolse gli occhiali da sole, vide i morti, e richiuse lo sportello. Anche Spicer si era tolto gli occhiali. I suoi occhi erano di uno strano, sinistro colore giallo. O forse era solo il riflesso della strumentazione elettronica. «Alfie dev'essere andato dagli Stillwater, ha visto il furgone, ha capito che cos'era», ricostruì Spicer. «Prima di entrare si è fermato qui e ha sistemato la faccenda in modo da non essere intercettato mentre attraversava la strada.» L'attrezzatura elettronica era alimentata da batterie collegate a una serie di piatte cellule solari poste sul tetto del veicolo. Quando la sorveglianza si svolgeva di notte, le batterie potevano essere caricate in maniera convenzionale, se necessario, accendendo il motore per brevi periodi. Anche nei giorni di cielo coperto, però, le cellule erano in grado di raccogliere una quantità di luce solare sufficiente a tenere in funzione il sistema. A motore spento, la temperatura all'interno del furgone era comunque confortevole, benché leggermente fredda. Il veicolo era particolarmente ben isolato, e le cellule solari azionavano anche un piccolo apparecchio di riscaldamento. Scavalcato il cadavere sul pavimento, guardando da uno dei finestrini laterali, Oslett disse: «Se Alfie è stato attirato fino alla casa, il motivo è uno solo: Martin Stillwater era già qui». «Credo anch'io.» «Ma questa squadra non l'ha visto né entrare né uscire.» «Evidentemente no», convenne Spicer. «Ce lo avrebbero fatto sapere, se avessero visto Stillwater, la moglie o le figlie, no?» «Assolutamente sì.» «E quindi... è lì dentro, adesso? Magari sono tutti lì, la famiglia al completo e Alfie.» Spicer guardò dall'altro finestrino. «Ma forse no. Qualcuno è andato via non molto tempo fa. Vedi le tracce di copertone nel vialetto?» Un veicolo era uscito retrocedendo dalla rimessa adiacente alla casa bianca. Aveva curvato a sinistra immettendosi nella strada, poi aveva innestato la marcia e si era allontanato verso destra. La neve aveva appena cominciato a coprire la serie di impronte lasciate dalle ruote. Clocker aprì la portiera, facendoli sobbalzare. Salì nel furgone e richiu-
se, senza fare alcun commento sulla piccozza insanguinata abbandonata a terra né sui due agenti ammazzati. «A quanto pare Alfie ha rubato il furgone del fioraio per copertura. Il fattorino è nel retro con i fiori, morto come un sasso.» Nonostante il pianale ampliato che rendeva maggiore lo spazio all'interno del furgone, il posto non occupato dall'attrezzatura di sorveglianza e dai cadaveri non bastava a ospitare comodamente i tre. Oslett si sentiva soffocare. Spicer spinse via l'uomo seduto dalla sedia su cui era morto. Il cadavere rotolò a terra. Prima di sedersi, Spicer si accertò che la sedia non fosse sporca di sangue, quindi si girò verso la serie di monitor e comandi, con cui sembrava avere familiarità. Oppresso dalla presenza incombente di Clocker, Oslett chiese: «È possibile che sia arrivata una telefonata in casa, che questi due non hanno potuto comunicarci prima che Alfie li liquidasse?» «È quello che voglio controllare», rispose Spicer. Mentre le sua dita volavano sulla tastiera, la mezza dozzina di monitor lampeggiò di forme e grafici vivacemente colorati. Tentando, in quell'ambiente così angusto, di piantare un gomito nello stomaco di Clocker, Oslett si girò di nuovo verso il primo finestrino laterale. Studiò la casa sul lato opposto della strada. Clocker si chinò a guardare dall'altro finestrino. Oslett pensò che il Trekker stesse immaginando di trovarsi davanti all'oblò di un'astronave, intento a scrutare un mondo alieno attraverso un vetro spesso trenta centimetri. Passarono due automobili, poi un camioncino. Un cane fece di corsa il marciapiede; con la neve sulle zampe, sembrava portasse due paia di calze bianche. La casa dei vecchi Stillwater era silenziosa, tranquilla. . «Ecco», disse Spicer, togliendosi la cuffia che si era messo mentre Oslett guardava fuori. Aveva trovato una telefonata, intercettata e registrata dall'attrezzatura automatica forse mezz'ora dopo che Alfie aveva ucciso la squadra di sorveglianza. E anzi, quando la telefonata era arrivata, Alfie era nella casa, e aveva risposto dopo sette squilli. Spicer mandò la registrazione da un altoparlante, perché potessero ascoltarla tutti contemporaneamente. «La prima voce che si sente è dell'uomo che ha chiamato», spiegò Spicer, «perché chi ha alzato il ricevitore in casa Stillwater inizialmente non ha detto nulla.»
«Pronto? Mamma? Papà?» «Come hai fatto a portarli dalla tua parte?» Spicer arrestò il nastro. «La seconda voce è della persona che ha ricevuto la telefonata. Alfie.» «Sembrano Alfie tutti e due.» «Il primo è Stillwater. Poi parla Alfie.» «Perché devono amare più te che me?» «Non toccarli, figlio di puttana. Non toccarli nemmeno con un dito.» «Mi hanno tradito.» «Voglio parlare con mio padre e mia madre.» «Con MIO padre e MIA madre.» «Falli venire al telefono.» «Così potrai raccontare loro altre menzogne?» Ascoltarono l'intera conversazione. Era allucinante, perché sembrava che fosse un solo uomo che rispondeva a se stesso, una personalità radicalmente scissa. Peggio, il loro ragazzo non solo era evidentemente un disertore, ma anche chiaramente uno psicotico. Quando il nastro finì, Oslett disse: «Insomma, Stillwater non è mai arrivato a casa dei genitori». «Evidentemente no.» «E allora come ha fatto Alfie a rintracciare questo indirizzo? E perché è venuto qui? Perché tanto interesse per i genitori di Stillwater e non per lui soltanto?» Spicer si strinse nelle spalle. «Potrai sempre domandarglielo, se riesci a recuperarlo.» A Oslett non piaceva avere tante domande senza risposta. Non si sentiva più padrone della situazione. Guardò ancora dal finestrino verso la casa e le tracce delle ruote sul vialetto coperto di neve. «Probabilmente Alfie non è più qui.» «È andato a cercare Stillwater», annuì Spicer. «Da dove veniva la telefonata?» «Da un cellulare.» «Possiamo comunque rintracciarlo, no?» chiese Oslett. Spicer indicò tre serie di numeri su uno schermo. «Abbiamo la triango-
lazione da satellite.» «Per me quelli non hanno alcun senso, sono solo dei numeri.» «Il computer può tradurli in una mappa. Disegnare un'area con un raggio di trecento metri dalla fonte del segnale.» «Quanto tempo ci mette?» «Cinque minuti al massimo», rispose Spicer. «Bene. Pensaci tu; intanto noi controlliamo la casa.» Oslett uscì dal furgone rosso con Clocker al seguito. Mentre attraversavano la strada coperta di neve, Oslett non badò al fatto che una dozzina di vicini era alle finestre. La situazione era già sfuggita al loro controllo e non era più possibile recuperarla. Però lui, Clocker e Spicer avrebbero sgombrato il campo, con i loro morti, in meno di dieci minuti, dopo di che nessuno sarebbe stato in grado di dimostrare che erano stati lì. Salirono apertamente sulla veranda di casa Stillwater. Oslett suonò il campanello. Nessuno rispose. Suonò di nuovo e provò la porta, che si rivelò aperta. Dalla strada si sarebbe avuta l'impressione che Jim o Alice Stillwater avessero aperto e li avessero invitati a entrare. Dopo che furono entrati, Clocker si richiuse la porta alle spalle ed estrasse la sua Colt .375 Magnum dalla fondina sotto l'ascella. Rimasero fermi per qualche secondo, con l'orecchio teso verso la casa silenziosa. «Sta' in pace, Alfie», disse Oslett, benché dubitasse che il ragazzo fosse ancora nei paraggi. Non sentendo la risposta rituale al comando, ripeté più forte le quattro parole. Silenzio. Cautamente, si mossero verso l'interno della casa, e trovarono la coppia uccisa nella prima stanza in cui entrarono. I genitori di Stillwater. Tutti e due avevano una certa somiglianza con lo scrittore, e anche, naturalmente, con Alfie. Fecero un rapido sopralluogo nella casa, ripetendo il comando prima di attraversare ogni soglia, ma l'unica cosa interessante la trovarono nella lavanderia. Il piccolo locale puzzava di benzina. Quello che Alfie aveva fatto risultava evidente dai brandelli di straccio, dall'imbuto e da una confezione semivuota di detersivo che ingombravano il banco accanto al lavandino. «Questa volta non vuole correre rischi», commentò Oslett. «Si muove contro Stillwater come fosse in guerra.» Dovevano fermarlo, il ragazzo, e presto. Se avesse ucciso la famiglia Stillwater, o anche solo lo scrittore, avrebbe reso impossibile inscenare
l'omicidio-suicidio che doveva riannodare così bene tanti fili pendenti. E, visto il demente e feroce spettacolo che aveva in mente, rischiava di richiamare tanta attenzione su di sé che sarebbe diventato impossibile mantenere segreta la sua esistenza e ricondurlo all'ovile. «Maledizione», mormorò Oslett, scuotendo la testa. «Cloni psicopatici», disse Clocker, come se si sforzasse di essere irritante. «Sono sempre un problema.» 4 Sorseggiando la cioccolata, Paige faceva il suo turno di guardia alla finestra anteriore. Marty, seduto a gambe incrociate sul pavimento del soggiorno con Charlotte ed Emily, giocava con un mazzo di carte che avevano preso dallo scatolone dei giochi. Era la partita di Va' a Pescare meno animata a cui Paige avesse mai assistito, portata avanti senza commenti né contestazioni. I loro volti erano scuri, come se non stessero affatto giocando ma consultando un mazzo di tarocchi che non dava altro che brutte notizie. Studiando la giornata nevosa di fuori, Paige improvvisamente capì che lei e Marty non sarebbero dovuti rimanere entrambi ad aspettare nello chalet. «Così non va bene.» «Che cosa?» chiese Marty alzando gli occhi dalle carte. «Io vado fuori.» «Perché?» «Quella formazione rocciosa laggiù, sotto gli alberi, verso la provinciale. Nascosta lì posso ugualmente tener d'occhio il viottolo.» Marty lasciò cadere le carte sul tavolo. «Che senso ha?» «Ha perfettamente senso. Se arriva dalla strada, come pensiamo che farà, come deve fare, passerà davanti a me, verso la baita. Io mi troverò alle sue spalle. Posso scaricare il fucile nella nuca di quel bastardo prima che si renda conto di quanto sta succedendo.» Marty si alzò, scuotendo la testa. «No, è troppo pericoloso.» «Se rimaniamo tutti e due dentro, sarà come cercare di difendere un forte.» «L'idea del forte mi sta bene.» «Non ti ricordi tutti i western con la cavalleria che difende il forte? Prima o poi, per quanto bene sia munito, gli indiani sfondano e riescono a entrare.»
«Ma si tratta di film.» «Sì, ma forse li ha visti anche lui. Vieni qui.» Quando Marty la raggiunse alla finestra lei gli indicò il masso, visibile a malapena tra le ombre dei pini. «È perfetto.» «Non mi va.» «Funzionerà benissimo.» «Non mi piace.» «Lo sai anche tu che è così.» «Va bene, forse è così, ma non per questo deve piacermi», replicò lui seccamente. «Io vado fuori.» La guardò fisso negli occhi, forse cercando un segno di paura da sfruttare per farle cambiare idea. «Ti credi l'eroina di un romanzo di avventure, vero?» «Sei tu che mi hai messo in moto la fantasia.» «Avessi tenuto la bocca chiusa!» Rimase a guardare a lungo l'insieme di rocce ammantate dall'ombra, poi sospirò. «Va bene, ma fuori ci vado io. Tu stai qui con le bambine.» Lei scosse la testa. «Non è così che funziona, ragazzo mio.» «Non farmi la femminista.» «Non ci penso nemmeno. Il fatto è che... sei tu quello che ha la cimice psichica addosso.» «E allora?» «E allora lui sente dove ti trovi, e se la sua percezione è abbastanza raffinata può accorgersi che sei tra le rocce. Devi rimanere dentro, così lui sente che sei qui, punta direttamente su di te... e mi passa davanti.» «Potrebbe percepire anche te.» «Finora le prove dimostrano che sente solo te.» La paura per lei era angosciosa, quello che sentiva gli scavava rughe profonde nel volto. «Non mi piace.» «Questo l'hai già detto. Io vado fuori.» 5 Quando Oslett e Clocker lasciarono la casa degli Stillwater e attraversarono la strada, Spicer si stava mettendo al volante del veicolo di sorveglianza. Il vento si era fatto più forte. La neve scendeva obliqua dal cielo ammas-
sandosi al suolo. Oslett si accostò alla portiera del posto di guida del furgone rosso. Spicer si era rimesso gli occhiali scuri anche se la luce del giorno era quasi svanita. I suoi occhi, gialli o meno che fossero, erano nascosti. Guardò Oslett. «Porto questa baracca via di qui, attraverso il confine di contea ed esco dalla giurisdizione locale prima di chiamare la sede e farmi dare una mano per eliminare i cadaveri.» «E il fattorino nel furgone del fioraio?» «Che se la sbrighino loro», rispose Spicer. Porse a Oslett un tabulato su cui il computer aveva stampato una mappa, individuando la zona da cui Martin Stillwater aveva telefonato a casa dei suoi. C'erano tracciate solo poche strade. Oslett ripose il foglio all'interno della giacca da sci prima che il vento glielo strappasse di mano o la neve lo bagnasse. «È solo a pochi chilometri da qui», avvertì Spicer. «Prendete voi l'Explorer.» Mise in moto, chiuse la portiera e si allontanò tra la neve che cadeva fitta. Clocker era già al volante dell'Explorer. Il gas di scarico usciva a nuvolette dal tubo di scappamento. Oslett si affrettò a raggiungere il lato del passeggero, entrò, chiuse lo sportello e tolse la mappa del computer dalla giacca. «Andiamo. Abbiamo poco tempo.» «Solo su scala umana», precisò Clocker. Mentre si allontanava dal marciapiede e azionava i tergicristallo contro la neve spinta dal vento, aggiunse: «Da un punto di vista cosmico, il tempo potrebbe essere l'unico elemento di cui esiste una riserva inesauribile». 6 Paige diede un bacio alle bambine e si fece promettere che sarebbero state coraggiose e avrebbero fatto esattamente quello che diceva il padre. Lasciarle con l'incertezza di quello che poteva accadere fu una delle cose più dure che le fosse mai toccato di fare. Fingere di non avere paura per aiutarle a trovare anche loro il coraggio necessario, fu quasi altrettanto difficile. Quando Paige uscì dalla porta anteriore, Marty l'accompagnò sulla veranda. Il vento soffiava a raffiche tra le pareti schermate e faceva sbatacchiare la porta in cima alle scale.
«C'è un altro modo», disse Marty accostandosi a lei per farsi udire al di sopra della tormenta senza dover gridare. «Se sono io quello che lo attira, forse dovrei andarmene via, da solo, condurlo il più lontano possibile.» «Scordatelo.» «Ma non dovendo preoccuparmi di te e delle bambine forse riesco a cavarmela meglio.» «E se invece ti ammazza?» «Almeno non ci farebbe fuori tutti.» «E pensi che non tornerebbe a cercarci? Lui vuole la tua vita, ricordatelo. La tua vita, tua moglie, le tue figlie.» «E allora se mi finisce e viene da te, tu hai ancora la possibilità di fargli saltare il cervello.» «Ah, sì? E qualora comparisse, nella breve opportunità che avrei prima che si avvicini, come potrei sapere se è lui o sei tu?» «Non potresti», ammise lui. «Allora facciamo come dico io.» «Hai una forza straordinaria, tu.» Non poteva sapere che Paige si sentiva le viscere di gelatina, che il cuore le martellava con violenza, che il vago sapore metallico del terrore le riempiva la bocca. Si abbracciarono, ma solo per un breve istante. Impugnando il Mossberg, lei uscì dalla veranda, scese i gradini, attraversò il piccolo giardinetto sul davanti della casa, superò la BMW e si infilò tra gli alberi senza mai voltarsi, temendo che lui potesse accorgersi di quanto profonda fosse la sua paura e insistesse per riportarla dentro lo chalet. Sotto il curvo riparo dei rami dei sempreverdi, il vento risuonava sordo e lontano, tranne quando Paige passò sotto un paio di aperture che puntavano come camini fino al cielo senza luce. Da quei passaggi arrivavano fischiando raffiche gelide come ectoplasmi. Benché il terreno fosse in pendio, il suolo tra gli alberi era facile da attraversare. Il sottobosco era rado, perché fin lì i raggi diretti del sole non arrivavano mai. Molti alberi erano così annosi che i rami più bassi erano alti dal suolo più di lei, permettendole di scorgere senza ostacoli fino alla strada. Nel bosco il terreno era sassoso. Tavolati e formazioni granitiche affioravano in superficie qua e là, antichissimi e levigati. L'ammasso roccioso che aveva mostrato a Marty era a metà strada tra la
baita e la provinciale, sei o sette metri più su del viottolo. Era come una mezzaluna dentata, tozzi molari alti fino a un metro, come la struttura dentaria di un innocuo dinosauro erbivoro molto più grande del previsto o dell'ipotizzato. Mentre si accostava all'affioramento granitico, in cui tra quei molari si condensavano ombre nere come pece, Paige ebbe l'improvvisa sensazione che il sosia fosse già lì, che stesse osservando lo chalet da quel nascondiglio. A tre metri dalla sua meta si arrestò, scivolando leggermente sul tappeto di aghi di pino. Se davvero fosse stato lì l'avrebbe vista arrivare e avrebbe potuto ucciderla in qualsiasi momento. Il fatto che lei fosse ancora viva andava contro l'ipotesi della sua presenza. Eppure, quando cercò di rimettersi in movimento, le parve di essere precipitata nel fondo di una fossa oceanica e di dibattersi per avanzare vincendo la resistenza della massa di un intero mare. Con il cuore che le batteva forte, aggirò la formazione a mezzaluna e si insinuò nella convessità buia. Il sosia non era lì ad attenderla. Si stese bocconi. Nella sua giacca a vento blu scuro, con il cappuccio che le copriva i capelli biondi, sapeva di essere praticamente invisibile tra le ombre e sullo sfondo nero di pietra. Attraverso i varchi tra le pietre poteva controllare il viottolo in tutta la sua lunghezza senza dover sollevare troppo la testa con il rischio di essere vista. Oltre il riparo costituito dagli alberi, la nevicata si avviava rapidamente a trasformarsi in una vera e propria tempesta. Il volume della neve che cadeva sul viottolo fiancheggiato dalle due pareti alberate era tale che le sembrava di guardare la facciata spumeggiante di una cascata. La giacca a vento le teneva calda la parte superiore del corpo, ma i jeans non riuscivano a proteggerla dal freddo penetrante della pietra su cui era allungata. Via via che il calore corporeo le sfuggiva, cominciavano a farle male le giunture delle anche e delle ginocchia. Si rammaricò di non aver indossato un paio di pantaloni termici da sci, e capì che avrebbe dovuto portarsi dietro almeno una coperta da porre tra sé e il granito. Scosse dalla tormenta che aumentava di intensità, le cime degli alberi scricchiolavano come se decine di porte si stessero aprendo ruotando su cardini arrugginiti. Neppure le impalcature protettive costituite dai rami dei sempreverdi riuscivano ad attutire la voce crescente del vento. La luce dell'ultima ora del giorno che sfumava piano piano aveva la tinta
metallica del ghiaccio su un laghetto invernale. Ogni visione e ogni suono erano freddi e sembravano aggravare il gelo che la penetrava dal granito. Si chiese angosciata quanto tempo avrebbe resistito all'aperto prima di dover tornare alla baita per riscaldarsi. In quel momento una jeep blu arrivò lungo la provinciale e sterzò bruscamente nel viottolo. Sembrava la jeep dei genitori di Marty. Reostato a sette gradi. A sud da Mammoth Lakes, in mezzo a turbinose cortine di neve, attraverso bianchi mulinelli, tra torrenti e fiumi e cataratte e muri compatti di neve, lungo una strada a malapena visibile sotto lo strato che va ispessendosi, superando il traffico che si muove lento, lampeggiando per intimare a chi gli ostruisce la strada di farsi da parte e lasciarlo passare, sorpassando perfino uno spazzaneve della contea e un camion spargisale con i lampeggianti di emergenza rossi e gialli che per un attimo trasformano i milioni di fiocchi bianchi in scintille di brace. Svolta a sinistra. Una strada più stretta. In salita. Sul fianco boscoso del monte. Lungo reticolato sulla destra, sormontato da filo spinato, sfondato in qualche punto. Non ancora qui. Un po' più in là. Vicino. Tra poco. Le quattro bombe incendiarie sono infilate in piedi in una scatola di cartone incastrata sul pavimento davanti al sedile del passeggero. Gli spazi tra loro sono riempiti con carta di giornale, in modo tale che le bottiglie non urtino una contro l'altra. Dalle micce di tela sature emanano vapori acri. Il profumo della distruzione. Guidato dall'attrazione magnetica del falso padre, svolta bruscamente a destra in uno stretto viottolo già seminascosto dalla neve. Frena il meno possibile, slittando lievemente, e riporta il piede sull'acceleratore mentre la jeep sta ancora cercando la presa e le ruote posteriori girano a vuoto. Direttamente davanti a lui, almeno a un centinaio di metri verso il folto degli alberi, scorge una baita. Una luce fioca alle finestre. Il tetto coperto di neve. Anche se alla sinistra della casa non fosse parcheggiata la BMW, saprebbe di aver scovato la sua preda. L'odiosa presenza magnetica dell'impostore lo spinge ad andare avanti. Appena scorta la capanna decide di fare un assalto frontale totale, senza badare alla praticabilità o alle conseguenze. Sua madre e suo padre sono morti, la moglie e le bambine probabilmente anche loro morte da chi sa quanto tempo, le loro forme e i loro visi beffardamente imitati dalla perfi-
da specie aliena che ha rubato il suo nome e i suoi ricordi. È fremente di rabbia, di un odio così intenso che gli procura un dolore fisico, di un'angoscia che è come un fuoco che gli brucia il cuore, e solo la giustizia più rapida potrà dargli il sollievo di cui ha disperatamente bisogno. Le ruote sgommando fanno presa sul terreno sotto la neve. Spinge a fondo il piede sull'acceleratore. La jeep balza in avanti. Un grido selvaggio di furore e di vendetta gli sfugge dalla gola e il reostato mentale ruota di scatto da sette a trecentosessanta gradi. Marty era alla finestra anteriore quando i raggi dei fari sciabolarono la neve che veniva giù sulla provinciale, ma in un primo momento non riuscì a distinguerne l'origine. Procedendo in salita, il veicolo era nascosto dagli alberi e dalla vegetazione del ciglio della strada. Ma poi gli si presentò alla vista: era una jeep che sterzò bruscamente nel viottolo, slittando di coda, sollevando spruzzi di neve e fango con le ruote posteriori che giravano a vuoto. Un attimo dopo, mentre stava ancora reagendo mentalmente all'arrivo della jeep, fu investito con la massima violenza da una brutale onda psichica, più forte di quelle che aveva avvertito fino a quel momento, ma di qualità differente. Non era solo l'onda d'urto che lo aveva colpito in altre occasioni, ma una deflagrazione di oscura emotività, cruda e incontrollata, che lo portò dentro la mente del suo avversario come a nessun altro essere umano era mai accaduto prima. Era un regno surreale di ira psicotica, disperazione, egoismo infantile, terrore, confusione, invidia, carnalità e appetiti incontrollabili così bassi che un torrente di materiale fecale e di cadaveri in putrefazione non sarebbe stato altrettanto ripugnante. Per tutto il tempo di quel contatto telepatico, Marty si sentì come precipitato in uno dei gironi più profondi dell'inferno. Pur non durando più di tre o quattro secondi, il collegamento gli parve interminabile. Quando fu interrotto, si ritrovò con le mani premute convulsamente contro le tempie, la bocca spalancata in un urlo muto. Annaspò in cerca d'aria e fu percorso da un brivido violento. Il rombo di un motore rimise a fuoco la sua vista e richiamò la sua attenzione verso l'esterno, al di là della finestra. La jeep stava accelerando su per il viottolo, verso lo chalet. Forse stava valutando male il grado di follia dell'Altro, ma lui era stato dentro quella mente e credeva di sapere che cosa stava per arrivare. Si vol-
tò in fretta dalla finestra, verso le bambine. «Presto, fuori dal retro, subito!» Essendosi già alzate da terra abbandonando la partita a due in cui fingevano di essere impegnate, Charlotte ed Emily sfrecciarono verso la cucina prima che Marty avesse finito di urlare il suo avvertimento. Le seguì di corsa. In una frazione di secondo, gli attraversò la mente una strategia alternativa: rimanere nel soggiorno, sperare che la jeep si schiantasse contro la veranda e non riuscisse ad arrivare al muro anteriore della baita, poi precipitarsi fuori, dopo l'impatto, e sparare al bastardo prima che uscisse da dietro il volante. E in un altro millesimo di secondo, il potenziale contrario di quella strategia: forse la jeep ce l'avrebbe fatta ad arrivare (assi sfondate, travi spezzate, fili elettrici, pezzi di intonaco, vetri infranti disseminati a pioggia nel soggiorno, soffitto crollato, micidiali tegole di ardesia piombate al suolo) e lui sarebbe rimasto ucciso dai detriti volanti, o sarebbe sopravvissuto ma intrappolato tra le macerie, con le gambe incastrate. Le bambine sarebbero rimaste abbandonate a se stesse. Non poteva correre quel rischio. Fuori, il rombo del motore si avvicinava. Raggiunse le bambine mentre Charlotte afferrava il pomo della porta della cucina. Allungò un braccio al di sopra della testa della bambina, sganciò il blocco della maniglia e girò il chiavistello inferiore. L'urlo del motore riempì il mondo, e stranamente più che un rumore meccanico sembrava il grido selvaggio di un gigante del Giurassico. La Beretta. Squassato dal contatto telepatico e dalla jeep in arrivo, aveva dimenticato la Beretta. L'aveva lasciata sul tavolino nel soggiorno. Non c'era tempo per andare a riprenderla. Charlotte girò la maniglia. Il vento ululando le strappò la porta di mano e gliela sbatté addosso. Il colpo la mandò a terra. E poi, bam, un boato nella parte anteriore della casa, come la detonazione di una bomba. Il grosso fuoristrada passò davanti al suo nascondiglio a tale velocità che Paige capì subito che non avrebbe avuto la possibilità di aspettare che quel bastardo parcheggiasse, per poi avvicinarglisi furtivamente passando da un albero all'altro e da un'ombra all'altra, come avrebbe fatto la brava eroina da romanzo di avventure nei cui panni si vedeva. Lui giocava secondo le
sue regole, e cioè senza alcuna regola, e qualsiasi sua azione sarebbe stata imprevedibile. Quando riuscì a rimettersi in piedi, la jeep era a una ventina di metri dallo chalet. E continuava ad accelerare. Pregando che le gambe intorpidite dal freddo non venissero aggredite dai crampi, si arrampicò sopra la formazione rocciosa, scavalcandola. Si mise a correre verso la casa, tenendosi nell'ombra degli alberi, zigzagando tra i tronchi. Poiché la BMW non era parcheggiata proprio davanti alla baita ma sulla sinistra, la jeep aveva il campo libero verso gli scalini della veranda. Un paio di dita di neve non erano sufficienti a rallentarla. Il terreno sotto il manto bianco non era congelato e compatto come un sasso, come lo sarebbe stato a inverno inoltrato, per cui i copertoni vi facevano presa, trovandovi tutto l'attrito di cui avevano bisogno. L'uomo al volante sembrava avesse schiacciato entrambi i piedi sull'acceleratore. Era un suicida. O convinto di essere invulnerabile. Il motore urlava. Paige era ancora a trenta metri di distanza dalla casa quando la ruota anteriore sinistra della jeep attaccò i bassi gradini di cemento della veranda e li salì come fossero una rampa. La ruota destra girò a vuoto sospesa nell'aria per un momento, poi aderì al pavimento della veranda mentre il paraurti lacerava il fitto reticolato della schermatura. Si aspettava che la veranda cedesse sotto il peso. Ma la jeep sembrava aver preso il volo, lanciata dalla ruota posteriore sinistra oltre l'ultimo scalino. In volo. Tirandosi dietro pannelli di reticolato e i riquadri che li sostenevano, come fossero veli, ragnatele. Diritto contro la porta. Come un colpo di mortaio in arrivo. Una bomba di due tonnellate. Chiude gli occhi. Il parabrezza poteva implodere. Impatto da fracassare le ossa. Scagliato in avanti. La cintura di sicurezza lo rigetta all'indietro, esala il fiato come in un'esplosione, fitte di dolore gli martellano brevemente il torace. Una sinfonia per percussioni di tavole che si schiantano, assi che si spezzano a metà, montante della porta che si disintegra. Poi la spinta in avanti cessa, la jeep si abbatte con un tonfo. Apre gli occhi.
Il parabrezza è ancora intatto. La jeep è dentro il soggiorno della baita, davanti a un divano e a una poltrona rovesciata. È inclinata in avanti perché le ruote anteriori hanno sfondato il pavimento e sono finite nell'intercapedine sotto la casa. Gli sportelli della jeep, rimasti al di sopra del pavimento, non sono bloccati. Si slaccia la cintura di sicurezza ed esce dal veicolo impugnando una delle due pistole. Muoversi, agire, affrontare, sfidare, lottare e trionfare. Sente uno scricchiolio in alto e alza la testa. Il soffitto è crepato e rigonfio ma probabilmente terrà. Neve farinosa e bruni aghi di pino secchi piovono dalle crepe. Il pavimento è cosparso di vetri rotti. Le finestre accanto alla porta della baita sono andate in frantumi. Tutta quella distruzione lo eccita. Infiamma la sua furia. Il soggiorno è deserto. Attraverso l'arcata di una porta può vedere gran parte della cucina, e anche lì non c'è nessuno. Sull'ampio passaggio che unisce il soggiorno alla cucina danno due porte, chiuse, una a sinistra e l'altra a destra. Si dirige verso quella di destra. Se il falso padre è in agguato dall'altra parte, il solo aprire la porta scatenerà una raffica di colpi. Finché è possibile, vorrebbe evitare di farsi colpire, perché non intende trovarsi di nuovo in condizione di dover strisciare via per guarire dalle ferite. Vuole farla finita ora, qui, oggi. Se la moglie e figlie non sono state già duplicate e rimpiazzate con forme aliene, sicuramente non sarà loro permesso di rimanere umane ancora per molto. La notte si avvicina. Meno di un'ora. Dai film ha imparato che queste cose succedono sempre di notte: attacchi di extraterrestri, iniezioni di parassiti, aggressioni di mutanti e ladri di anima e cose che succhiano il sangue, tutto di notte, che la luna sia piena o che non ci sia affatto, comunque sempre di notte. Invece di spalancare la porta da una posizione laterale di sicurezza, le si mette davanti, punta la .38 e apre il fuoco. La porta non è di legno pieno, ma di masonite con l'anima di plastica espansa, e a così breve distanza i proiettili a punta cava praticano buchi enormi. Riverberandosi lungo le braccia, il rinculo della Chief's Special gli offre una sensazione di estremo piacere, quasi un'esperienza sessuale, e porta un qualche sollievo al suo stato di intensa frustrazione e rabbia. Continua a schiacciare il grilletto finché il percussore scatta a vuoto.
Dall'interno della stanza nessun urlo. Nessun rumore quando il boato dell'ultimo sparo si spegne. Getta a terra la pistola ed estrae la seconda .38 dalla fondina nascosta sotto il giubbotto universitario. Apre la porta con un calcio ed entra rapidamente, puntando la pistola a braccio teso. È una camera da letto. Deserta. La crescente frustrazione attizza le fiamme della rabbia. Tornato in corridoio si piazza proprio davanti all'altra porta chiusa. Per un momento, la vista della jeep che volava sopra la veranda schiantandosi nel muro anteriore dello chalet arrestò la corsa di Paige. Anche se stava succedendo davanti ai suoi occhi, e pur non avendo dubbi che fosse tutto vero, la scena aveva il carattere irreale di un sogno. Il fuoristrada sembrò rimanere sospeso in aria per un tempo impossibilmente lungo, praticamente veleggiando attraverso la veranda, con le ruote che continuavano a girare. Parve quasi dissolversi attraverso il muro dentro la capanna, svanendo come se non ci fosse mai stata. La distruzione fu accompagnata da un gran frastuono, ma in un certo senso non era abbastanza cacofonico, il fragore non era nemmeno la metà di quanto sarebbe stato se fosse accaduto in un film. Subito dopo, il relativo silenzio della tempesta occupò l'aria, accompagnato solo dal gemito del vento: la neve continuava a cadere in un diluvio muto. Le bambine. Con l'occhio della mente vide la parete crollare su di loro, seguita immediatamente dall'impatto della jeep. Alzò il fucile a due mani, la sinistra sulla parte anteriore, la destra attorno all'impugnatura e l'indice sul guardamano. Non avrebbe dovuto far altro che fermarsi, puntare l'imboccatura della canna verso il bersaglio, far scivolare il dito sul grilletto, e far fuoco. Prima, quando aveva caricato il Mossberg, aveva inserito un proiettile anche nella camera di scoppio, in modo da avere un colpo extra nel caricatore. Uscì di corsa dagli alberi sul viottolo e, quando si trovava a non più di quattro metri dagli scalini della veranda, dalla casa arrivò il rumore degli spari. Cinque colpi in rapida successione. Invece di rallentarla, gli spari la spronarono a superare il viottolo e il giardinetto anteriore con tutta la velocità possibile. Scivolò sulla neve e cadde con un ginocchio proprio mentre raggiungeva
il primo gradino. Il dolore le strappò una sommessa, involontaria imprecazione. Se non fosse inciampata, però, si sarebbe trovata sulla veranda o già nel soggiorno nel momento in cui Charlotte spuntò da dietro l'angolo della baita. Subito dietro apparve Marty, con Emily per mano. Spara tre volte contro la porta sul lato sinistro del corridoio, l'apre con un calcio, supera veloce la soglia tenendosi basso, e trova un'altra camera da letto vuota. Da fuori, il rumore dello sportello di un'auto che viene chiuso. *** Marty lasciò aperto lo sportello mentre si metteva al volante, tastando sotto il sedile con una mano alla ricerca delle chiavi, e non pensò ad avvertire Charlotte ed Emily di non sbattere la portiera posteriore prima che le avesse trovate: l'eco riverberò tra gli alberi intorno. Paige non era ancora salita nella BMW. Davanti allo sportello aperto, guardava la casa con il Mossberg pronto e in posizione. Dove diavolo erano finite le chiavi? Si chinò in avanti, piegandosi su se stesso, cercando di arrivare fino in fondo al sedile. Nell'attimo in cui le dita di Marty si chiusero sulle chiavi, il Mossberg fece fuoco. Alzò la testa di scatto mentre un colpo di risposta mancò Paige, attraversò la portiera aperta e si piantò nel cruscotto a pochi centimetri dalla sua faccia. Un quadrante andò in pezzi, inondandolo di schegge di plastica. «Giù!» gridò alle bambine. Paige sparò di nuovo e di nuovo le fu risposto. L'Altro apparve davanti allo squarcio frastagliato nel muro dove un tempo era la porta dello chalet, con il braccio destro teso per far fuoco. Subito si ritirò nel soggiorno, forse per ricaricare. L'arma di Paige l'avrebbe costretto a stare alla larga, ma lui era troppo lontano perché potesse infliggergli ferite mortali, soprattutto considerando le incredibili capacità di recupero di cui disponeva. La pistola di lui, invece, anche a quella distanza era micidiale. Marty infilò le chiavi nell'accensione. Il motore si avviò senza protestare. Tolse il freno a mano, inserì la marcia.
Paige salì in macchina e chiuse la portiera. Marty guardò nello specchietto retrovisore, passò in retromarcia davanti alla casa, quindi si immise nella traccia lasciata dalle ruote della jeep nella sua corsa da kamikaze. «Eccolo!» gridò Paige. Sempre retrocedendo, Marty lanciò un'occhiata dal parabrezza e vide l'Altro che si precipitava giù dalla veranda, lungo i gradini, attraverso il giardinetto, in ogni mano una bottiglia da cui spuntava uno straccio, uno straccio in fiamme. Il fuoco divampava furioso, potevano esplodergli in mano da un momento all'altro, ma sembrava che lui non avesse la minima preoccupazione per la propria sicurezza, aveva anzi un'espressione di godimento selvaggio sul viso, come se fosse nato per quello, per nient'altro che quello. Si fermò slittando e allungò il braccio destro all'indietro, come un quarterback che stia per passare la palla al suo ricevitore. «Vai!» gridò Paige. Marty stava già andando, e non aveva bisogno di sollecitazioni per correre più in fretta. Anziché voltarsi e guardare dal finestrino posteriore, usò il retrovisore per essere sicuro di rimanere sul viottolo e non deviare verso gli alberi o il fosso o contro le rocce, per cui percepì l'arrivo della prima bottiglia lungo una traiettoria ad arco in mezzo alla neve che scendeva, e la vide infrangersi contro il paraurti anteriore della BMW. La maggior parte del contenuto si sparse inoffensivo sul viottolo, dove una chiazza di neve parve prendere fuoco. La seconda bottiglia raggiunse il cofano, a un palmo dal parabrezza, di fronte a Paige. Si spaccò, il contenuto esplose, il liquido in fiamme dilagò sul vetro, e per un momento non videro altro che il divampare delle fiamme. Sul sedile posteriore, assicurate alle cinture, tenendosi basse, strette l'una all'altra, le bambine urlavano dal terrore. Marty non poteva far nulla per rassicurarle, se non continuare a indietreggiare, il più velocemente possibile, sperando che il fuoco sul cofano si esaurisse e il calore non facesse implodere il parabrezza. Metà strada verso la provinciale. Due terzi. Accelerando. Ancora cento metri. Le fiamme sul parabrezza si spensero quasi subito, appena la sottile pellicola di benzina sul vetro fu consumata, ma sul cofano e sul parafango dal lato del passeggero continuavano a divampare. La vernice aveva preso
fuoco. Tra le fiamme e il fumo nero, Marty vide l'Altro correre di nuovo verso di loro, non veloce quanto la macchina, ma nemmeno molto più lento. Paige tolse due cartucce da una tasca della giacca a vento e le inserì nel caricatore, al posto di quelle già sparate. Sessanta metri dalla strada. Cinquanta. Quaranta. Gli alberi e la vegetazione impedivano a Marty di vedere la strada a valle, e temeva di finire contro un veicolo in arrivo. Ma non osava rallentare. Il rombo della BMW non gli fece udire lo sparo. Un foro di proiettile apparve, con uno schiocco secco, sul parabrezza sotto il retrovisore, tra lui e Paige. Un attimo dopo un secondo colpo bucò il vetro, a cinque centimetri a destra del primo, così vicino a Paige che fu un miracolo che non la colpisse. La seconda aggressione scatenò una reazione a catena nel parabrezza, e un milione di minuscole crepe si formarono nel vetro temperato, rendendolo opalescente. Il passaggio dal viottolo alla strada non fu liscio. Toccarono il fondo stradale con tanta violenza da sobbalzare sui sedili, e il vetro screpolato crollò verso l'interno in innumerevoli frantumi. Marty girò lo sterzo a destra, svoltando in salita, e frenò fino a fermare completamente l'auto quando il muso puntò in direzione della strada. Sentiva il calore delle fiamme che stavano divorando la vernice del cofano, senza però penetrare nell'abitacolo. Un proiettile rimbalzò sul metallo. Inserì la marcia avanti. Dal finestrino vedeva l'Altro che si era piazzato a gambe divaricate a quindici metri dalla fine del viottolo, e impugnava la pistola a due mani. Quando Marty schiacciò l'acceleratore, un'altra pallottola colpì il suo sportello, sotto il finestrino, senza trapassarlo. L'Altro riprese a correre mentre la BMW partiva in discesa distaccandolo. Benché il vento spingesse verso destra gran parte del fumo, improvvisamente questo aumentò considerevolmente, più nero che mai, e invase l'interno dell'auto. Paige si mise a tossire, le bambine starnutivano, e Marty non riusciva a vedere bene la strada davanti a sé. «Un copertone ha preso fuoco!» gridò Paige al di sopra del fischio del vento. Ancora duecento metri e il pneumatico scoppiò, facendo slittare la
BMW sull'asfalto reso viscido dalla neve. Marty cercò di assecondare la sbandata con lo sterzo, ma in simile circostanza la fisica applicata si rivelò poco affidabile. L'auto ruotò su se stessa di trecentosessanta gradi, slittando al tempo stesso lateralmente, e si fermò solo quando uscì di strada e finì contro il reticolato metallico che segnava il perimetro della proprietà della defunta Chiesa Profetica del Rapimento. Marty balzò fuori della macchina. Aprì con uno strattone la portiera posteriore e si chinò per aiutare le bambine terrorizzate a sganciare le cinture di sicurezza. Non si girò neppure a guardare se l'Altro li stava ancora inseguendo perché sapeva che quel bastardo stava arrivando. Non si sarebbe mai fermato, mai, finché non lo avessero ucciso, e forse nemmeno allora. Mentre Marty estraeva Emily dallo sportello posteriore, Paige usciva dalla parte del posto di guida perché il suo lato era incastrato nella rete. Prese le buste del denaro da sotto il sedile, se le infilò nella giacca a vento. Richiuse la lampo guardando verso l'alto della strada. «Merda!» esclamò, e il fucile fece fuoco. Marty aiutò Charlotte a uscire dall'auto e il Mossberg sparò di nuovo. Gli sembrò di sentire anche lo sparo più secco di una pistola, ma la pallottola doveva essere finita lontano. Coprendo le bambine con il corpo, spingendole dietro di sé lontano dall'auto in fiamme, lanciò un'occhiata verso la strada. L'Altro se ne stava arrogante nel centro della strada, a un centinaio di metri da loro, convinto che dal fucile da caccia lo proteggesse la distanza, il forte vento e forse la sua capacità soprannaturale di riprendersi dalle ferite più gravi. Era esattamente della corporatura di Marty, ma anche a distanza sembrava torreggiare su di loro, con la sua figura oscura e minacciosa. Forse era un effetto della prospettiva. Quasi con noncuranza, aprì il tamburo del suo revolver e gettò nella neve i bossoli esauriti. «Sta ricaricando», disse Paige, approfittando dell'occasione per aggiungere cartucce al caricatore del suo fucile. «Togliamoci di qui.» «E dove?» chiese Marty, girando freneticamente lo sguardo sul paesaggio battuto dalla neve. Desiderò che dall'una o dall'altra direzione comparisse una macchina. Ma poi cancellò quel desiderio, pensando che l'Altro avrebbe ucciso sicuramente chiunque avesse tentato di intervenire. Si avviarono in discesa, nel vento tagliente: avrebbero pensato al da farsi mentre aumentavano la distanza dall'inseguitore.
Scartò l'idea di cercare di raggiungere una delle altre baite sparse tra le pendici boscose. Quasi tutte erano case di villeggiatura. In un martedì di dicembre non ci sarebbe stato nessuno: forse solo il mattino dopo sarebbe arrivato qualcuno richiamato dalla neve appena caduta. E anche se avessero trovato una baita abitata, con l'Altro alle calcagna, Marty non voleva sulla coscienza la morte di innocenti. La Route 203 correva in fondo alla provinciale. Già nelle prime ore della nevicata, ci sarebbe stato un traffico intenso tra i laghi e Mammoth Lakes. Se c'erano tanti testimoni, l'Altro non avrebbe potuto ucciderli. Sarebbe stato costretto a ritirarsi. Ma la fine della strada era troppo lontana. Non ce l'avrebbero mai fatta a raggiungerla prima di esaurire le munizioni per tenere a bada il nemico, o prima che la superiore precisione e portata del revolver non gli avesse permesso di abbatterli, uno dopo l'altro. Arrivarono in un punto in cui la rete era sfondata. «Qua, venite», disse Marty. «Non è quel posto abbandonato?» obiettò Paige. «Non c'è dove altro andare», rispose lui, prendendo Charlotte ed Emily per mano e facendole entrare nel terreno della chiesa. La sua speranza era che di lì a poco passasse qualcuno, vedesse la BMW semibruciata, e lo comunicasse all'ufficio dello sceriffo. Anziché attizzare le fiamme che si erano alimentate della vernice, il vento le aveva smorzate, ma il copertone bruciava ancora, ed era difficile che il rottame passasse inosservato. Se a controllare che cosa era successo fossero arrivati alcuni uomini dello sceriffo bene armati, e si fossero impegnati in uno scontro a fuoco, di certo non avrebbero potuto prevedere quanto formidabile fosse l'Altro, ma sarebbero comunque stati più preparati e meno sprovveduti di un comune cittadino. Dopo una breve esitazione, dopo uno sguardo verso il loro persecutore, Paige seguì lui e le bambine attraverso il varco nel reticolato. Il caricatore gli sfugge di mano e finisce nella neve mentre lo sta togliendo dalla borsa affibbiata alla cintura. È l'ultimo dei due che ha preso all'uomo nel furgone di sorveglianza. Si china, lo raccoglie e lo strofina contro il maglione rosso sotto il giubbotto universitario. Lo accosta al revolver aperto, lo applica al tamburo, lo fa ruotare, lo sgancia e richiude l'arma. Dovrà usare con cura gli ultimi proiettili. I replicanti non saranno facili
da eliminare. Ormai sa che la donna è un replicante esattamente come il falso padre. Carne aliena, non umana. Non può essere la sua Paige perché è troppo aggressiva. La sua Paige sarebbe remissiva, desiderosa di sottomissione, come le donne della collezione di cassette del senatore. La sua Paige è sicuramente già morta. È un'idea che deve accettare, per quanto difficile. Quella cosa è solo mascherata da Paige, e nemmeno troppo bene. La cosa peggiore è che, se Paige se n'è andata per sempre, se ne sono andate anche le sue figlie adorate. Le bambine, graziose e credibilmente umane, sono anch'esse dei replicanti: demoniaci, extraterrestri e pericolosi. La sua vita di un tempo è irrecuperabile. La sua famiglia è scomparsa per sempre. Un nero abisso di disperazione si spalanca sotto di lui, ma non deve precipitarvi. Deve trovare la forza di continuare a lottare finché non abbia raggiunto la vittoria in nome dell'umanità, o finché non venga distrutto. Dev'essere coraggioso quanto Kurt Russell e Donald Sutherland quando si trovano in circostanze analoghe, perché lui è un eroe, e come tale deve perseverare. In basso, i quattro esseri scompaiono attraverso un buco nel reticolato. Ora tutto quello che desidera è vederli morti, spappolare loro il cervello, smembrarli e decapitarli, sbudellarli, darli fuoco, prendere ogni precauzione contro la loro resurrezione, perché loro non sono soltanto gli assassini della sua vera famiglia, ma una minaccia per tutta la terra. Gli si affaccia alla mente l'idea che, se ne esce vivo, queste terribili esperienze gli offriranno nuovo materiale per un romanzo. Sicuramente sarà capace di superare l'ostacolo della frase iniziale, cosa che non gli era riuscita il giorno prima. Anche se la moglie e le figlie sono perdute per sempre, potrebbe farcela a salvare la carriera dalle rovine della sua vita. Scivolando e slittando, corre verso il varco nella rete. I tergicristallo erano incrostati della neve che si andava ghiacciando e avanzavano a fatica sul vetro. Oslett consultò la mappa disegnata dal computer, poi indicò un bivio davanti a loro. «Lì, a destra.» Clocker azionò la freccia. ***
Simile alla nave fantasma Mary Celeste che si materializzò silenziosamente in una nebbia inquietante con le lacere vele spiegate e la tolda deserta, la chiesa abbandonata prese corpo in mezzo alla nevicata. In un primo momento, nella luce incerta della tempesta e del tardo pomeriggio, Marty ebbe l'impressione che l'edificio fosse in buone condizioni, ma dovette presto ricredersi. A distanza ravvicinata, si vedeva chiaramente che dal tetto mancava buona parte delle tegole. Tratti della grondaia di rame erano assenti, mentre altri pezzi ciondolavano pericolosamente, oscillando e cigolando al vento. Quasi tutti i vetri delle finestre erano rotti, e i vandali avevano graffito oscenità sui muri. Il complesso degli altri edifici (uffici, laboratori, una nursery, dormitori, un refettorio) era sparso attorno alla costruzione principale. Quello della Chiesa Profetica del Rapimento era stato un culto che imponeva ai suoi membri di donare tutti i propri beni mondani al momento dell'affiliazione e di vivere in una comunità rigidamente governata. Attraversarono il terreno su cui la neve si era depositata formando uno strato di un paio di centimetri, correndo alla massima velocità che potevano raggiungere le bambine, puntando verso l'ingresso della chiesa, anziché quello di uno degli altri fabbricati, perché la chiesa era il riparo più vicino. Dovevano togliersi dalla vista al più presto. Anche se l'Altro poteva rintracciarli dovunque andassero tramite il contatto con Marty, almeno non poteva colpirli se non li vedeva. Dodici larghi gradini portavano ai due portoni doppi di quercia, alti tre metri e sormontati ciascuno da un finestrone di quasi due metri. Le vetrate istoriate erano infrante, c'erano solo buchi neri tra le robuste armature di piombo. Le porte erano incassate in un'arcata pentalobata, sopra la quale si apriva un enorme rosone dal disegno assai elaborato, che ancora conteneva quasi un quarto del vetro originale, molto probabilmente perché era un bersaglio più difficile da raggiungere con un sasso. I quattro battenti di quercia scolpita mostravano i segni delle intemperie, ed erano graffiati, pieni di crepe, deturpati da altre oscenità tracciate con lo spray, che riverberavano fiocamente alla luce livida di quel crepuscolo anticipato. Su uno dei battenti, un vandalo aveva tracciato rozzamente una sagoma femminile, completa di seni e di un inguine definito con una Y, e accanto aveva disegnato un fallo delle dimensioni di un uomo. Grandi lettere, scolpite da un mastro intagliatore, nell'architrave di granito che sovrastava ciascuna coppia di porte promettevano: EGLI CI PORTERÀ IN CIELO; ma sopra le parole, i vandali avevano scritto CAZZATE con la
vernice rossa. Il culto era terrificante, e il suo fondatore, Jonathan Caine, era un truffatore e un pedofilo, ma Marty era raggelato più dai vandali che dai poveri sprovveduti che avevano seguito Caine. Almeno i fedeli, per quanto fuorviati, avevano creduto in qualcosa, avevano voluto essere degni della grazia di Dio, e avevano compiuto sacrifici per quello in cui credevano, anche se quei sacrifici si erano poi rivelati insensati: avevano avuto il coraggio di sognare anche se i loro sogni erano finiti in tragedia. L'odio irrazionale di cui le volgarità dei graffitisti erano piene facevano capire che si trattava di gente vuota che non credeva in nulla, incapace di sognare, che viveva della sofferenza altrui. Una delle porte era socchiusa. Marty ne afferrò il bordo e tirò. I cardini erano corrosi dalla ruggine, il legno era imbarcato, ma pur a fatica il battente si spostò di altri trenta o quaranta centimetri. Paige entrò per prima. Charlotte ed Emily la seguirono. Marty non sentì lo sparo del proiettile che lo colpì. Mentre stava per seguire le bambine, una lancia di ghiaccio lo impalò, entrandogli nel quadrante superiore sinistro della schiena e uscendo tra i muscoli e i tendini sotto la clavicola dello stesso lato. La sensazione di gelo fu così penetrante che la tormenta che tempestava la chiesa gli parve in confronto un acquazzone estivo, e il suo corpo fu scosso da brividi incontenibili. Subito dopo si trovò steso sul gradino coperto di neve davanti alla porta, chiedendosi come fosse arrivato lì. Pensò quasi di essersi appena sdraiato per un breve riposo, ma il dolore nelle ossa gli fece capire che era piombato a peso morto su quel letto così poco adatto. Alzò lo sguardo, attraverso la neve che cadeva e la luce invernale, verso le lettere impresse nel granito e quelle scritte sopra. EGLI CI PORTERÀ IN CIELO. CAZZATE. Capì di essere stato colpito solo quando Paige si precipitò fuori della chiesa e si inginocchiò al suo fianco, gridando: «Marty, Dio mio, Dio mio, sei ferito, quel figlio di puttana ti ha sparato», e pensò, Oh, sì, certo, è questo, è stato un proiettile, non una lancia di ghiaccio. Paige si rialzò, puntò il Mossberg. Sentì due spari. Il rumore era incredibilmente forte, a differenza della pallottola silenziosa che lo aveva abbattuto. Incuriosito, voltò la testa per vedere quanto fosse arrivato vicino il loro
infaticabile nemico. Si aspettava di vedere il sosia che lo caricava, solo a pochi metri, uscito illeso dalle fucilate. Invece, l'Altro rimaneva distante dalla chiesa, al di fuori della portata del fucile da caccia di Paige. Era una sagoma nera in campo bianco, e i lineamenti di quel volto fin troppo familiare rimanevano celati nella luce evanescente. Si spostava avanti e indietro nella neve, avanti e indietro, veloce e furtivo, come un lupo a caccia di un gregge di pecore, vigile e paziente, pronto a cogliere il momento opportuno, il momento della massima vulnerabilità. Il pugnale di ghiaccio che aveva trafitto Marty si trasformò da un secondo all'altro in uno stiletto di fuoco. Con il calore arrivò un dolore atroce che gli tolse il fiato. Finalmente il concetto astratto di ferita da arma da fuoco trovava la sua traduzione nell'idioma della realtà. Paige sollevò di nuovo il Mossberg. Recuperando lucidità con il dolore fisico, Marty disse: «Non sprecare munizioni. Per ora lascialo andare. Aiutami ad alzarmi». Con il suo sostegno, riuscì a rimettersi in piedi. «Come va?» chiese lei ansiosa. «Non sto morendo. Entriamo prima che decida di spararci di nuovo addosso.» La seguì oltre la soglia fin nel nartece, dove l'oscurità era rischiarata solo dai deboli raggi di luce che penetravano dalla porta semiaperta e dalle lunette senza vetri. Le bambine piangevano, Charlotte più forte di Emily, e Marty cercò di confortarle. «Non è successo niente, sto bene, solo un graffio. Mi serve solo un cerotto, uno di quelli con sopra Snoopy, e tornerò a posto.» In realtà sentiva il braccio sinistro mezzo intorpidito. Poteva usarlo solo parzialmente. Quando fletteva la mano, non riusciva a stringerla a pugno. Paige si avvicinò allo spiraglio della porta, da cui il vento entrava fischiando. Guardò fuori, verso l'Altro. Cercando di capire meglio il danno fatto dal proiettile, Marty infilò la destra nella giacca a vento e con cautela esplorò la spalla sinistra. Anche il tocco più leggero gli provocò una fitta che gli fece stringere i denti. Il maglione di lana era inzuppato di sangue. «Porta le bambine verso l'interno della chiesa», bisbigliò con urgenza Paige anche se il nemico non poteva assolutamente sentirla, là fuori nella tormenta. «Dall'altro lato, in fondo.» «Che cosa stai dicendo?» «Io lo aspetto qui.»
«No, mamma, no», scongiurarono le bambine. «Mamma, vieni con noi, ti prego.» «Qua sto benissimo», disse Paige. «Sono assolutamente al sicuro. Sul serio. Andrà tutto bene. Non capisci? Marty, quando quel bastardo sentirà che ti stai allontanando, entrerà nella chiesa. Penserà che siamo tutti insieme.» Mentre parlava, inserì altre due cartucce nel Mossberg per sostituire le ultime due che aveva usato. «Non se lo aspetta che io sia qui ad attenderlo.» Marty ricordò che quella stessa discussione l'avevano già fatta, allo chalet, quando lei aveva voluto andare ad appostarsi tra le rocce. Allora il suo piano non aveva funzionato, e non perché avesse dei difetti. L'Altro le era passato davanti nella jeep, evidentemente ignaro che lei fosse lì in attesa. Se non avesse usato quel metodo così imprevedibile, di speronare la casa con il fuoristrada, lei avrebbe potuto arrivargli alle spalle e sparargli. Nonostante questo, non avrebbe voluto lasciarla sola vicino alla porta. Ma non c'era tempo da perdere in discussioni, perché sentiva che presto la ferita gli avrebbe tolto quel po' di forza che ancora gli rimaneva. E poi, non aveva un piano migliore da proporre. Nella penombra, riusciva a stento a riconoscere il viso di Paige. Sperò ch'e quella non fosse l'ultima volta che lo vedeva. Spinse Charlotte ed Emily fuori del nartece, verso la navata. Quel posto odorava di polvere e di umidità, e degli esseri viventi che vi avevano fatto il nido in quegli anni, da quando i fedeli del culto erano andati via per riprendere le loro esistenze distrutte anziché levarsi per sedere alla destra del Signore. Sul lato nord, il vento implacabile soffiava la neve dalle finestre distrutte. Se l'inverno avesse avuto un cuore, inanimato e scolpito nel ghiaccio, non sarebbe stato più freddo di quel luogo, né la morte sarebbe potuta essere più gelida. «Ho freddo ai piedi», si lamentò Emily. «Shhh. Lo so.» «Anch'io», aggiunse Charlotte bisbigliando. «Lo so.» Avere qualcosa di così ordinario di cui lagnarsi aiutava a far sembrare meno bizzarra la loro situazione, meno terrificante. «Proprio freddo», precisò Charlotte. «Continua a camminare. Fino in fondo alla chiesa.» Nessuno di loro aveva scarponcini da neve, solo scarpe da ginnastica. La
neve aveva infradiciato la tela, si era incrostata in ogni screpolatura e si era ghiacciata. Per il momento, pensò Marty, non c'era da temere un congelamento. Per questo ci voleva del tempo. Era possibile che non vivessero abbastanza da soffrirne. Le ombre pendevano come festoni attraverso la navata, ma quella sala così ampia era più luminosa del nartece. Le bifore, da tempo alleggerite del peso dei vetri, si aprivano lungo le mura laterali raggiungendo i due terzi dell'altezza totale dal pavimento al soffitto a volta. Lasciavano entrare luce sufficiente a rivelare le file dei banchi, il lungo corridoio centrale che portava alla balaustra, il grande coro, e anche parte dell'altare. Quello che spiccava di più nella chiesa erano i segni dissacranti lasciati dai vandali, che avevano tracciato le loro oscenità sulle pareti interne più ancora che sui muri esterni. Marty aveva pensato subito che la vernice fosse luminescente quando l'aveva vista sull'esterno della costruzione: e infatti, nella penombra della sala, gli sgorbi serpentini mandavano un riverbero arancione e blu e verde e giallo, sovrapponendosi, contorcendosi, intrecciandosi, fino a dare quasi l'impressione che le pareti brulicassero di veri serpenti. Marty era tesissimo, nell'attesa di sentire gli spari. Alla balaustra mancava il cancelletto. «Continuiamo», sollecitò le bambine. Proseguirono fino alla piattaforma dell'altare, dal quale erano stati rimossi tutti gli oggetti sacri. Sulla parete di fondo era appesa una croce di legno, alta tre metri, drappeggiata di ragnatele. Il braccio sinistro di Marty era quasi insensibile, ma se lo sentiva gonfio. Il dolore era simile a quello dell'ascesso a un dente. Aveva la nausea: non sapeva se per il sangue perduto o per la paura che provava per Paige o perché l'atmosfera inquietante della chiesa gli dava il capogiro. Paige si ritrasse dalla zona d'ingresso rintanandosi in un punto del nartece che sarebbe rimasto in ombra anche se la porta fosse stata aperta di più. Fissando lo spiraglio, vedeva fantasmi in movimento nella confusa luce grigiastra e tra la neve scossa dal vento. Più volte alzò il fucile e poi lo riabbassò. Ogni volta sembrava che il momento dello scontro fosse arrivato, e ogni volta il respiro le si fermava in gola. Non dovette aspettare a lungo. Arrivò dopo tre o quattro minuti, e non si muoveva con prudenza come lei si era aspettata. Captando evidentemente il movimento di Marty verso il fondo della costruzione, l'Altro era entrato
spavaldo, sicuro di sé. Mentre varcava la soglia, stagliandosi contro l'ultima luce del giorno, lei mirò al petto. Il fucile le tremava tra le mani già prima che premesse il grilletto, e schizzò all'indietro per il rinculo. Immediatamente inserì un'altra cartuccia, fece di nuovo fuoco. Il primo colpo lo prese in pieno, ma il secondo probabilmente danneggiò più lo stipite che lui, che tuttavia cadde all'indietro, verso l'esterno, fuori della sua visuale. Sapeva di averlo ferito gravemente, ma, non sentendo né urla né lamenti, si fece sulla porta, cautamente, ma sperando di trovarsi davanti un cadavere. Invece lui era sparito, e quella non fu del tutto una sorpresa, ma la rapidità della scomparsa la lasciò così disorientata che si voltò addirittura a guardare in alto, sulla facciata della chiesa, come se gli fosse stato possibile arrampicarsi su quel muro liscio con la prontezza di un ragno. Avrebbe potuto cercare le sue tracce nella neve e tentare di seguirlo. Ma sospettava che fosse proprio ciò che lui voleva. Sconvolta, rientrò di corsa nella chiesa. Ucciderli, ucciderli tutti, ucciderli subito. È stato colpito. Alla gola, e giù giù dentro la carne. Lungo un lato del collo. Alla tempia sinistra. L'orecchio sinistro lacero e sanguinante. Un'acne di piombo punteggia la carne della guancia sinistra, fino al mento. Il labbro inferiore strappato. Denti spezzati e scheggiati. Sputa pallini. Un lampo di dolore ma nessun danno agli occhi, la vista è intatta. Si allontana, corre chinato lungo il lato sud della chiesa, in una luce così piatta e grigia, così avvolto nella garza della neve, che non proietta alcuna ombra. Niente ombra. Niente moglie, niente figli, niente madre, niente padre, tutto scomparso, niente vita, rubata, usata e gettata via, niente specchi in cui guardare, niente riflessi per confermare la sua consistenza, niente ombra, solo orme nella neve fresca ad avvalorare la sua pretesa all'esistenza, le orme e il suo odio, come Claude Rains nell'Uomo invisibile, definito dalle orme e dal furore. Cerca freneticamente un ingresso, esaminando in fretta ogni finestra a cui passa accanto. Praticamente tutto il vetro è scomparso dagli alti pannelli delle vetrate, ma le costole di acciaio rimangono. Tra le costole rimane anche la gran parte delle intelaiature di piombo che delineavano i disegni originali, anche se in molti punti sono ritorte e deformate, torturate dal tempo o dalle mani
dei vandali, rendendo irriconoscibili i profili dei simboli e delle figure originarie, lasciando al loro posto forme teratogene insensate come le colate di cera fusa di una candela. Al penultimo finestrone della navata manca il telaio d'acciaio, le costole e le profilature. La lastra di granito che segna la base della finestra è a un metro e mezzo da terra. Si issa con la levità di un ginnasta e si accovaccia sul profondo davanzale. Punta lo sguardo in innumerevoli ombre intrecciate a strani segni sinuosi, quasi serpentini color arancione, giallo, verde, blu fosforescenti. Una bambina strilla. Correndo lungo il corridoio centrale della chiesa imbrattata dai graffiti, Paige aveva la strana sensazione di trovarsi sott'acqua in una regione tropicale, in una rada caraibica, in grotte di vividi coralli luminescenti, circondata dalle alghe equatoriali con le loro lunghe fronde piumose in movimento. Charlotte lanciò un urlo. Raggiunta la balaustra, Paige ruotò su se stessa, fronteggiando la navata. Puntando il Mossberg a destra e a sinistra, cercando in preda al panico il pericolo, vide l'Altro nell'attimo in cui Emily gridava: «Nella finestra, prendilo!» Era acquattato infatti nell'arco di una delle finestre del lato sud, una sagoma scura che sembrava solo per metà umana sullo sfondo della fioca luce del giorno e della bianca cascata di neve. Le spalle curve, la testa bassa, le braccia ciondolanti, aveva l'aspetto di una scimmia. I suoi riflessi erano pronti. Fece fuoco con il Mossberg senza esitare. Anche se la distanza non avesse giocato a favore di quel demonio, sarebbe rimasto comunque illeso perché aveva già cominciato a muoversi mente lei schiacciava il grilletto. Con la grazia fluida di un lupo, sembrò che scorresse dal davanzale al pavimento. La rosa dei pallini attraversò inoffensiva lo spazio che lui occupava e tempestò la cornice della finestra che lo aveva inquadrato. Evidentemente a quattro zampe, scomparve tra le file dei banchi, dove si raccoglievano le ombre più fitte della chiesa. Se lo avesse inseguito lì, l'avrebbe trascinata giù e uccisa. Retrocedendo superò la balaustra dal varco del cancelletto e attraversò il presbiterio raggiungendo Marty e le bambine, sempre con il fucile pronto all'uso.
Si ritirarono tutti insieme in un locale adiacente che forse fungeva un tempo da sacrestia. Un paio di finestre permettevano l'ingresso di una luce a malapena sufficiente a rivelare la presenza di tre porte oltre a quella dalla quale erano entrati. Paige chiuse la porta che dava sul presbiterio e tentò di bloccarla. Ma non c'era serratura. Né c'erano mobili con cui bloccarla. Marty provò una delle altre porte. «Un ripostiglio.» Una raffica di vento e neve entrò fischiando dalla porta aperta da Charlotte, che si affrettò a richiuderla. Emily controllò la terza possibilità. «Scale.» *** Tra i banchi. Strisciando. Con circospezione. Sente il rumore di una porta che sbatte. Si ferma. Ascolta. Fame. Le fitte incandescenti di dolore si riducono presto a un calore appena avvertito. L'emorragia rallenta, si fa rivolo, sgocciolio. Ma la fame lo travolge ora che il suo organismo necessita di una quantità enorme di carburante per facilitare la ricostruzione del tessuto danneggiato. Sta già metabolizzando il grasso e le proteine del corpo per effettuare le riparazioni più urgenti sui vasi sanguigni recisi e strappati. Il suo metabolismo accelera spietatamente, funzione totalmente autonoma sulla quale non ha alcun potere. Il dono che lo rende così poco vulnerabile rispetto agli altri esseri umani presto comincerà a presentare il conto. Il peso diminuirà. La fame crescerà fino a diventare insopportabile quasi come il dolore atroce di ferite mortali. La fame diventerà un bisogno assoluto e disperato. Pensa che potrebbe ritirarsi, ma ormai è così vicino. Così vicino. Loro sono in fuga. Sempre più isolati. Non possono farcela contro di lui. Se persevera, entro pochi minuti saranno tutti morti. Inoltre, l'odio e la rabbia dentro di lui sono grandi come la sua fame. Ha un bisogno frenetico della dolce soddisfazione che solo l'estrema violenza può assicurare. Sullo schermo cinematografico della sua mente scorrono eccitanti immagini omicide: crani sfracellati da pallottole, facce colpite brutalmente da martelli, occhi cavati, gole lacerate, busti squartati, lame lampeggianti, accette, asce, arti mozzati, donne avvolte dalle fiamme, bambini urlanti, gole
tumefatte di giovani prostitute, carne che si decompone sotto un getto di acido... Esce strisciando dalle panche, al centro del corridoio, si alza in piedi rimanendo chinato. Le pareti brulicano di geroglifici extraterrestri luminescenti. È nella tana del nemico. Nemico alieno e incomprensibile. Ostile e inumano. La paura è grande. Ma non fa che alimentare la collera. Si precipita verso la parte anteriore della grande sala, attraverso un varco in un basso recinto, verso la porta dietro la quale si sono ritirati. La luce, priva di consistenza come brodo di pesce, filtrava da finestre invisibili, più in alto e oltre le spire della scala a chiocciola. Il fabbricato adiacente alla chiesa era alto due piani. Poteva esserci un passaggio che metteva in comunicazione quelle scale con un'altra struttura, ma Marty non aveva idea di dove stessero andando. Per questo si pentì quasi di non aver scelto la porta che dava all'esterno. Il braccio intorpidito, però, ostacolava gravemente i suoi movimenti, e il dolore alla spalla, che continuava a peggiorare da un minuto all'altro, assorbiva pesantemente le sue energie. Privo di riscaldamento, nell'edificio faceva freddo come all'aperto, ma almeno era possibile ripararsi dal vento. Tra la ferita e la tormenta, non pensava che sarebbe sopravvissuto a lungo al di fuori delle mura della chiesa. Le bambine salivano davanti a lui. Paige chiudeva la fila, rammaricandosi ad alta voce perché la porta ai piedi delle scale, come quella della sacrestia, non aveva la serratura. Avanzava a ritroso, uno scalino dopo l'altro, tenendo sotto tiro il campo dietro di loro. Presto raggiunsero una finestra profondamente incassata nella parete esterna, quella da cui pioveva la scarsa luce che rischiarava il tratto sottostante della scala. Gran parte del vetro era intatta. Verso l'alto l'illuminazione era altrettanto incerta, e molto probabilmente veniva da un'altra finestra della stessa dimensione e forma. Marty si muoveva più lentamente, e il respiro gli si faceva più faticoso, via via che salivano, come se stessero raggiungendo altezze dove la quantità di ossigeno nell'aria diminuiva drasticamente. Il dolore alla spalla sinistra si faceva più intenso, e il senso di nausea cresceva. L'intonaco macchiato delle pareti, il grigio dei gradini di legno, il colore
acqua sporca della luce gli facevano venire alla mente i deprimenti film svedesi degli anni Cinquanta e Sessanta, storie di incomunicabilità, disperazione, impotenza davanti al destino. Inizialmente non dovette aggrapparsi al corrimano lungo la parete esterna per salire. Dopo poco però questo divenne una stampella indispensabile. Presto, avvilentemente presto, si accorse che non poteva più contare esclusivamente sulla forza delle gambe sempre più incerte, e che doveva tirarsi su anche con il braccio sano. Quando raggiunsero la seconda finestra, che illuminava altri scalini con la sua luce grigia, capì dove si trovavano. In un campanile. La scala non li avrebbe condotti a un passaggio per il primo piano di un altro edificio, perché erano già più in alto di un primo piano. Ogni scalino che salivano ribadiva irreversibilmente che a loro restava soltanto quell'unica opzione. Aggrappato al corrimano con la destra, con i primi accenni di vertigine in arrivo e temendo di perdere l'equilibrio, Marty si fermò per avvertire Paige che forse era meglio tornare indietro. Forse la prospettiva rovesciata della scala a chiocciola le aveva impedito di rendersi conto della natura precisa di quella trappola. Prima che potesse aprir bocca, la porta in basso si spalancò rumorosamente, nascosta al di là delle prime curve del muro. L'ultimo suo pensiero netto è l'improvvisa consapevolezza che non ha più la .38 Chief's Special, deve averla perduta quando è stato colpito all'ingresso della chiesa, lasciata cadere nella neve, e non si è accorto della sua mancanza fino a questo momento. Non ha il tempo di recuperarla, seppure sapesse dove cercarla. Ora la sua arma è il suo corpo, le sue mani, le sue doti omicide, la sua forza eccezionale. Anche l'odio feroce è un'arma, perché lo spinge a correre qualsiasi rischio, ad affrontare il pericolo più estremo, a sopportare atroci sofferenze che ridurrebbero all'impotenza un uomo comune. Ma lui non è un uomo comune, lui è un eroe, è il giudizio e la vendetta, è la furia della giustizia, il vendicatore dei suoi famigliari uccisi, il persecutore di tutti gli esseri che non sono di questa terra e che vorrebbero impadronirsene, il salvatore dell'umanità. Questa è la ragione della sua esistenza. La sua vita ha finalmente senso e scopo: salvare il mondo da questa piaga inumana. Poco prima che la porta si aprisse sotto di lei, la stretta scala a spirale
aveva richiamato alla mente di Paige i fari visti al cinema. Dall'immagine del faro era saltata alla conclusione che si trovavano nella torre campanaria della chiesa. A quel punto la porta in basso si era aperta, nascosta dalle pareti ricurve della scala, e a loro non restava altra scelta che proseguire fino in cima. Per un attimo considerò l'idea di lanciarsi verso il basso, aprendo il fuoco nell'attimo in cui se lo fosse visto davanti. Ma, sentendola scendere, l'Altro poteva ritirarsi nella sacrestia, dove già la penombra si stava infittendo, e dove lui avrebbe potuto mettersi in agguato nell'oscurità e attaccarla quando la sua attenzione fosse stata distratta dalle ombre. Avrebbe potuto anche aspettarlo lì dov'era, lasciarlo salire, e sparargli in faccia appena si fosse affacciato. Se lui però si accorgeva che era lì in attesa, e apriva il fuoco svoltando dalla curva, era impossibile che la mancasse in quello spazio angusto. Poteva ritrovarsi morta prima di avere il tempo di schiacciare il grilletto, o poteva nel migliore dei casi colpire il soffitto cadendo, senza altri danni che all'intonaco. Ripensando alla nera sagoma sul davanzale del fìnestrone della navata, e all'incredibile fluidità dei suoi movimenti, concluse che i sensi dell'Altro dovevano essere più acuti dei suoi. Aspettarlo in agguato con la speranza di prenderlo di sorpresa era probabilmente una follia. Continuò a salire, cercando di convincere se stessa che la loro situazione era la migliore possibile: difendere una postazione elevata da un nemico che poteva utilizzare un'unica via d'accesso, e ridottissima. La piattaforma in cima al campanile doveva essere una roccaforte inespugnabile. Straziato dalle fitte della fame, coperto dal sudore del bisogno e della furia, espellendo dalla carne pallini di piombo, a ogni gradino che sale perfeziona la sua guarigione, ma a caro prezzo. Le sostanze grasse del suo corpo si esauriscono e anche parte del tessuto muscolare e della massa ossea è sacrificata all'opera freneticamente accelerata della ricostruzione delle ferite. Digrigna i denti ritmicamente con la necessità irresistibile di mangiare, masticare e inghiottire, mordere e lacerare, alimentarsi, anche se non c'è cibo per soddisfare i tremendi morsi che lo assalgono. In cima alla torre, metà dello spazio era completamente chiuso tranne una porta che dava su una terrazza aperta su tre lati. Charlotte ed Emily spalancarono la porta senza difficoltà e si precipitarono fuori. Marty le seguì. Si sentiva debolissimo, e soprattutto assalito dalle verti-
gini. Si afferrò allo stipite della porta e poi al parapetto, un muretto alto fino alla vita, che correva sui tre lati della piattaforma esterna del campanile. In quella terrazza spazzata dal vento, la temperatura doveva essere di qualche grado sotto lo zero. Strinse i denti in una smorfia quando la raffica gelida lo investì... e non osò pensare al freddo che li avrebbe attanagliati dopo dieci minuti o un'ora. Paige doveva avere ancora una quantità di cartucce sufficiente a impedire all'Altro di raggiungerli, ma non ce l'avrebbero fatta a superare la notte. Se i bollettini meteorologici erano esatti e la tempesta fosse durata fin dopo l'alba, non avrebbero potuto sperare di richiamare l'attenzione di qualcuno con il Mossberg. L'ululato del vento avrebbe disperso il rumore degli spari prima che arrivasse al di là del terreno della chiesa. La piattaforma scoperta aveva un'ampiezza di quattro metri con il pavimento di piastrelle e i fori di scarico per l'acqua piovana. Due pilastri d'angolo, alti un paio di metri, sorgevano dal muretto perimetrale sostenendo, assieme al muro sul lato orientale, un tetto a punta. Nella cella campanaria la campana non c'era. Quando Marty alzò lo sguardo verso i bui recessi di quello spazio conico, vide le sagome nere di quelli che dovevano essere gli altoparlanti da cui un tempo risuonavano i rintocchi registrati. La neve, ancora più bianca ora che la giornata si scuriva, cadeva di sbieco nella cella spinta dal vento di nord-ovest. Lungo la base del muretto a sud se ne stava accumulando un mucchietto. Le bambine erano corse direttamente verso il lato occidentale, il più lontano possibile dalla porta, ma Marty si sentiva troppo debole per coprire anche quella breve distanza senza un sostegno. Mentre faceva il giro della piattaforma per raggiungerle, appoggiandosi con la destra al parapetto, gli parve che le piastrelle del pavimento fossero scivolose sebbene la loro superficie fosse lavorata in modo da non essere sdrucciolevole anche se bagnata dalla pioggia. Fece l'errore di gettare lo sguardo al di là del parapetto, verso il mantello fosforescente di neve che copriva il terreno sei o sette piani più in basso. La visione gli scatenò un attacco di vertigini così forte che fu quasi sul punto di svenire prima di riuscire a distogliere gli occhi da quell'abisso. Quando raggiunse le figlie, Marty aveva una nausea spaventosa e tremava talmente che ogni tentativo di parlare si sarebbe tradotto in una catena spezzata di suoni che solo vagamente avrebbero ricordato delle parole.
Benché si sentisse interiormente gelato, il sudore gli scorreva abbondante lungo la schiena. Il vento ululava, la neve turbinava, la notte calava, e la torre campanaria sembrava ruotare come una giostra. Il dolore si era diffuso dalla spalla a tutta la parte superiore del corpo, finché la ferita non divenne il centro di una sofferenza più generale che si irradiava a ogni pulsazione del suo cuore in rapida accelerazione. Si sentiva impotente, inutile, e imprecò contro se stesso per l'impossibilità di agire proprio nel momento in cui la sua famiglia aveva più bisogno di lui. Paige non aveva raggiunto Marty e le bambine sulla piattaforma. Ferma dall'altra parte della porta aperta, sul pianerottolo coperto, scrutava verso il basso della scala ricurva. Una fiammata divampò dalla canna del fucile, scompaginando le ombre. Il boato dello sparo, e l'eco che seguì, si ripercossero sulla piattaforma del campanile, e dal pozzo delle scale venne un urlo di dolore e di rabbia che non era umano, seguito immediatamente da un secondo sparo e da un grido ancora più acuto e alieno. Le speranze di Marty ripresero quota... per crollare un istante dopo quando il grido di agonia dell'Altro fu seguito dall'urlo di Paige. Lungo il muro ricurvo, un passo dopo l'altro, bruciando dalla fame, pieno di fuoco, la fornace del corpo portata al calor bianco, torturato dal bisogno, i sensi tesi a cogliere un suono, più su, più su nel buio, fremendo dentro, disperato e trascinato, trascinato dal bisogno, poi l'incombere della cosa, la cosa-Paige, una sagoma avvolta dalle ombre ma riconoscibile come la cosa-Paige, ripugnante e mortale, semenza aliena. Incrocia le braccia davanti al volto, a proteggersi gli occhi, per assorbire il primo sparo, mille chiodi di dolore, infissi a fondo, quasi scaraventato all'indietro giù per le scale, ondeggiando sui talloni, le braccia paralizzate per un attimo, sanguinanti e lacerate, infiammato dal bisogno, bisogno, sofferenza interna più atroce di quella esterna, muoversi-agire-affrontare-sfidare-lottare-etrionfare, tuffarsi in avanti, verso l'alto, con un urlo involontario, la seconda fucilata una martellata nel petto, il cuore si inceppa, si inceppa, cala il buio, il cuore scalcia, il polmone sinistro scoppia come un palloncino, senza fiato, sangue in bocca. La carne si straccia, il sangue sgorga, la carne si rammenda, il sangue rallenta. Inspira, inspira e sta di nuovo avanzando verso l'alto, verso l'alto verso la donna, mai provato tanto dolore, un mondo di dolore, una caldaia di fuoco, un flusso di lava nelle vene, un incubo di fame che tutto consuma, mette alla prova i limiti del suo corpo miraco-
loso, in bilico sull'orlo della morte, piomba su di lei, la scaraventa all'indietro, afferra l'arma, gliela strappa, la getta via, punta alla gola, alla faccia, spezzarle la faccia, morderle la faccia, lo respinge, ma lui ha bisogno della sua faccia, la faccia, la faccia pallida e liscia, carne aliena, alimento per alleviare il bisogno, il bisogno, il terribile bruciante infinito bisogno. L'Altro strappò il fucile dalle mani di Paige, lo scagliò via, le piombò addosso e la scaraventò all'indietro attraverso la porta. La cella campanaria sembrava rischiarata più dalla fosforescenza naturale della neve che dalla luce del giorno che scemava rapidamente. Marty vide che l'Altro era stato orrendamente sfigurato e aveva subito una sorta di mutazione, anzi la stava ancora subendo, anche se la livida luce crepuscolare oscurava i dettagli della sua metamorfosi. Paige crollò sul pavimento della piattaforma. L'Altro le piombò addosso come un predatore sulla preda, lacerandole la giacca a vento, emettendo un sibilo secco di eccitazione, digrignando i denti con la ferocia di una belva uscita dai boschi delle montagne. Ora era una cosa. Non un uomo. Qualcosa di orrendo, anche se non ancora del tutto identificabile, stava accadendo a quell'essere. Trascinato dalla disperazione, Marty trovò dentro di sé un'ultima riserva di forza. Vinse la vertigine che ormai lo spingeva sull'orlo del disorientamento totale, e tirò un calcio al volo contro quella cosa orribile che voleva la sua vita. La raggiunse in piena testa. Benché portasse delle scarpe da ginnastica, il calcio ebbe un impatto tremendo e fece schizzar via tutto il ghiaccio che si era formato sulla scarpa. L'Altro ululò, rotolò giù dal corpo di Paige, ruzzolò fino al muro sud, ma improvvisamente si rizzò sulle ginocchia, poi in posizione eretta, imprevedibile e rapido come un felino. Mentre la cosa stava ancora rotolando, Paige si trascinò in tutta fretta verso le bambine, proteggendole con il suo corpo. Marty si tuffò a recuperare il fucile gettato sul pianerottolo, a pochi centimetri dalla porta aperta. Si chinò e, con la mano destra, afferrò il Mossberg per la canna. Paige e una delle bambine lanciarono un grido di avvertimento. Non ebbe il tempo di rigirare l'arma e inserire una cartuccia nella camera di scoppio. Si alzò e ruotò su se stesso in un unico movimento, emettendo un urlo selvaggio non diverso dai suoni che faceva il suo avversario, impugnando il fucile come una clava.
Il calcio del Mossberg si abbatté sul lato sinistro del torace dell'Altro, ma non tanto forte da spezzargli le costole. Marty era stato costretto a usarlo con una sola mano, incapace di utilizzare la sinistra, e il contraccolpo gli provocò una fitta al petto, facendogli più male di quanto lui avesse fatto all'Altro. Strappando il Mossberg dalla mano di Marty, il sosia non pensò a impiegarlo secondo il suo uso normale, come se l'essere fosse regredito a uno stadio subumano in cui nell'arma non riconoscesse altro che una mazza. Gettò via il Mossberg, facendolo volare al di sopra del parapetto, nella sera piena di neve. Ma ormai non era più un sosia. Marty poteva ancora riconoscere qualcosa di sé in quei lineamenti deformi, ma anche nella mezza luce del crepuscolo nessuno li avrebbe scambiati per fratelli. Non erano gli effetti della fucilata a segnare le principali differenze. Il volto pallido stranamente smagrito e puntuto, la struttura ossea troppo prominente, gli occhi profondamente incassati e cerchiati da due chiazze scure: era il volto di un cadavere. Il Mossberg stava ancora roteando per aria in mezzo alla neve quando la cosa si avventò su Marty e lo scaraventò contro il muretto sul lato nord. Il bordo del parapetto gli si piantò nelle reni con tale violenza da strappargli quel minimo di forza che era riuscito a mettere insieme. L'Altro lo teneva per la gola. Una ripetizione della scena svoltasi nel corridoio del primo piano il giorno prima, a Mission Viejo. Piegato all'indietro come era stato piegato sulla ringhiera della galleria. Più vicino al punto di caduta, stavolta, verso un buio più nero della notte, in un gelo più fondo delle tormente invernali. Le mani che gli stringevano la gola non sembravano neppure mani. Dure come le ganasce d'acciaio di una tagliola per orsi. Roventi, nonostante la notte gelida, così calde che quasi lo ustionavano. Non stava solo strangolandolo, ma anche cercando di morderlo come aveva cercato di mordere Paige, scattando come un serpente, sibilando. Con un sordo ringhio ingoiato. I denti si chiusero di scatto, a vuoto, a due dita dalla faccia di Marty. Un fiato acre e denso. Il fetore della decomposizione. Marty ebbe la sensazione che se avesse potuto lo avrebbe divorato, gli avrebbe squarciato la gola e succhiato il sangue. La realtà sbaragliava l'immaginazione. La ragione svaniva. Gli incubi erano reali. I mostri esistevano.
Con la mano sana, Marty gli afferrò una manciata di capelli e strappò con tutta la forza che gli restava, tirandogli all'indietro la testa, nel frenetico tentativo di allontanare da sé quelle zanne luccicanti. Gli occhi della cosa strabuzzarono e ruotarono verso l'alto. Lanciò un urlo spruzzando bava schiumosa. Il suo corpo emanava calore, scottava al contatto quanto il sedile di vinile di un'auto lasciata sotto il sole estivo. Mollando la presa alla gola di Marty ma sempre tenendolo inchiodato al parapetto, l'Altro alzò il braccio e afferrò la mano con cui gli teneva i capelli. Dita ossute. Inumane. Artigli durissimi. Sembrava non avesse carne, facile da spezzare, ma si faceva sempre più feroce e forte, e gli fracassò quasi la mano prima che lui lasciasse andare i capelli. Quindi portò di scatto la testa di lato e gli morse l'avambraccio, strappando la manica del giubbotto ma non la carne. Di nuovo si avventò, gli addentò la mano, facendo emettere un urlo a Marty. La cosa lo afferrò per la giacca a vento, tirandolo a sé dal parapetto mentre lui cercava di allontanarsi verso il vuoto, serrò i denti di scatto a un centimetro dalla sua guancia, rantolò un'unica torturata parola, «bisogno», e scattò ancora per affondargli i denti nel viso, negli occhi. «Sta' in pace, Alfie.» Marty registrò le parole ma inizialmente non ebbe la lucidità sufficiente né a comprenderne il senso né a capire che quella che le pronunciava era una voce che lui non aveva mai sentito. L'Altro rovesciò indietro la testa, come per preparare l'affondo finale verso il suo viso. Ma rimase in quella posizione, gli occhi lampeggianti, il volto scheletrico vagamente luminescente, come la neve, i denti scoperti, ruotando la testa a destra e a sinistra, emettendo un sottile verso inarticolato come se non capisse perché stava esitando. Marty sapeva che avrebbe dovuto approfittare del momento per piantare una ginocchiata all'inguine della cosa, cercare di spingerla attraverso la piattaforma, contro il parapetto opposto, al di sopra, al di là. Poteva immaginare tutto quello che avrebbe dovuto fare, vedeva con l'occhio dello scrittore una successione di azioni pienamente realizzata da inserire in un romanzo o in un film, ma non gli era rimasto un briciolo di forza. Il dolore alla spalla ferita, alla gola, alla mano morsicata, riprendeva vita, la vertigine e la nausea lo travolgevano, sapeva di essere sul punto di perdere i sensi. «Sta' in pace, Alfie», ripeté la voce, con maggiore enfasi.
Sempre senza mollare Marty, impotente nella morsa feroce della sua presa, l'Altro voltò la testa verso l'uomo che aveva parlato. Il raggio di una torcia illuminò la faccia della cosa. Battendo le palpebre verso la luce, Marty vide un omone, grosso come un armadio, e un uomo più piccolo in tenuta da neve nera. Non sapeva chi fossero. Si mostrarono sorpresi, ma non inorriditi come Marty si sarebbe aspettato. «Cristo», fece il più piccolo, «che cosa gli sta succedendo?» «Fusione metabolica», disse il più grosso. «Cristo.» Marty lanciò un'occhiata verso il muro occidentale della cella campanaria, dove Paige era rannicchiata con le bambine, riparandole, tenendone le teste contro il petto perché non vedessero troppo della creatura. «Sta' in pace, Alfie.» Con la voce torturata da rabbia, pena, confusione, l'Altro gracchiò: «Padre. Padre. Padre?» Marty era ancora stretto con forza, e la sua attenzione fu richiamata nuovamente dalla cosa che un tempo aveva il suo aspetto. Il volto illuminato dalla torcia era ancora più ripugnante di quanto fosse apparso nella penombra. In alcuni punti si sollevava davvero del vapore, confermando la sensazione che scottasse. Decine di piccole ferite deturpavano il lato della testa, ma non sanguinavano e, anzi, sembravano già in via di guarigione. Sotto gli occhi di Marty, un pallino nero di piombo spuntò dalla tempia della cosa e gli colò lungo la guancia accompagnato da una sottile scia di materia giallastra. Le ferite erano la cosa meno repellente. Nonostante la forza fisica che possedeva ancora, era così sottile lo strato di carne che ricopriva le ossa che sembrava un morto uscito da una tomba dopo un anno di sepoltura. La pelle del volto aderiva alla struttura ossea. Le orecchie si erano rattrappite in due duri nodi di cartilagine appiattiti contro il cranio. Le labbra disseccate si erano ritirate sulle gengive, dando ai denti la massima evidenza e creando l'impressione di un ghigno in formazione, del muso feroce di un predatore. Era la Morte personificata, il Tetro Falciatore privo del suo voluminoso mantello nero e della falce, diretto a un ballo mascherato in un costume d'accatto, un involucro così sottile da non essere minimamente convincente.
«Padre?» disse di nuovo, fissando lo sconosciuto con la tuta nera. «Padre?» Insistente: «Sta' in pace, Alfie». Il nome Alfie era così inadatto a quell'essere che Marty credette che l'arrivo dei due uomini fosse il frutto di una sua allucinazione. L'Altro distolse lo sguardo dal fascio di luce e tornò a fissare Marty. Sembrava incerto sul da farsi. Poi spinse in avanti la sua faccia cadaverica, chinando la testa da un lato, come incuriosito. «La mia vita? La mia vita?» Marty non sapeva che cosa gli stesse chiedendo, ed era così debole per la perdita di sangue e per lo choc che non poté far altro che respingerlo debolmente con la destra. «Lasciami.» «Bisogno», disse quello. «Bisogno, bisogno, bisogno, bisogno, BISOGNO, BISOOOOGNO.» Il tono di voce salì a spirale in un urlo stridente. La bocca si spalancò in un ghigno tetro, e calò sulla faccia di Marty. Risuonò uno sparo. La testa dell'Altro scattò all'indietro, Marty si accasciò contro il parapetto mentre l'essere lasciava la presa, e il suo urlo di furia demoniaca provocava sommessi strilli terrorizzati in Emily e Charlotte. L'Altro si artigliò il cranio con le mani scheletriche, come cercando di tenerlo insieme. Il fascio di luce oscillò, lo ritrovò. La frattura nell'osso era guarita, e il foro del proiettile cominciava già a richiudersi, spingendo la pallottola fuori del cranio. Ma il prezzo di quella miracolosa guarigione si manifestava in tutta la sua evidenza: il cranio dell'Altro cominciò a trasformarsi in maniera ancora più spettacolare, rimpicciolendo e facendosi più lupesco, come se le ossa si stessero fondendo sotto la tesa copertura della pelle, prendendo massa da un punto per riparare il danno in un altro. «Sta cannibalizzando se stesso per chiudere la ferita», disse il più grosso dei nuovi arrivati. Dalla creatura si alzavano altri sbuffi di vapore; cominciò a strapparsi gli abiti come se non sopportasse il calore. Il più piccolo gli sparò di nuovo. In faccia. Sempre reggendosi la testa, l'Altro fece alcuni passi barcollando sulla piattaforma del campanile e urtò il parapetto. Fu lì lì per rovesciarsi e precipitare nel vuoto. Crollò in ginocchio, liberandosi degli indumenti lacerati come se fossero
gli strati di un bozzolo, sprofondando in una forma più oscura e totalmente inumana, contorcendosi spasmodicamente. Non urlava né sibilava più. Singhiozzava. Nonostante l'aspetto via via più mostruoso, i singhiozzi lo rendevano meno minaccioso, anzi, quasi penoso. Implacabile, l'uomo con la pistola fece un passo avanti e sparò per la terza volta. I singhiozzi raggelarono Marty, forse perché c'era in essi qualcosa di umano e di patetico. Troppo debole per reggersi in piedi, si lasciò scivolare a terra, con la schiena appoggiata al parapetto, e dovette distogliere lo sguardo dalla creatura in agonia. Passò un'eternità prima che l'Altro raggiungesse l'immobilità totale. Marty sentì le figlie che piangevano. Riluttante, voltò gli occhi verso il corpo che giaceva sulla piattaforma di fronte a lui ed era illuminato spietatamente dal fascio della torcia. Il cadavere era un insieme di ossa nere e carne luccicante, la gran parte della sua sostanza consumata nella frenesia di guarire e rimanere vivo. I resti contorti e irti sembravano più quelli di una forma di vita aliena che quelli di un uomo. Il vento soffiava. La neve continuava a cadere. Il freddo si faceva più acuto. Dopo un po' l'uomo con la tuta nera si staccò dalla spoglia e si rivolse a quello più grosso. «Proprio un ragazzaccio.» L'altro non rispose. Marty avrebbe voluto chiedere chi fossero. La presa con cui si manteneva aggrappato alla coscienza, però, era così tenue che era certo che se avesse tentato di parlare sarebbe svenuto per lo sforzo. L'uomo più piccolo parlò di nuovo al suo amico. «Che te ne pare della chiesa? Più allucinante ancora delle storie inventate da Kirk e dal suo equipaggio, no? Tutte quelle oscenità fosforescenti sui muri. Renderà più convincente la nostra piccola messa in scena, ti sembra?» Benché si sentisse girare la testa come dopo una sbronza, e avesse difficoltà a mantenere a fuoco i pensieri, Marty ebbe la conferma di quello che aveva sospettato quando i due uomini erano arrivati: non erano dei salvatori, ma solo dei nuovi esecutori di morte, e solo in misura minima meno incomprensibili dell'Altro. «Hai intenzione di farlo?» chiese il più grosso dei due.
«Troppo fastidio riportarli nella baita. Non ti pare che questa specie di chiesa sia un ambiente ancora più adatto?» «Drew», disse l'altro, «ci sono diverse cose in te che mi piacciono.» Il più piccolo parve confuso. Si asciugò la faccia dalla neve portata dal vento. «Come sarebbe?» «Sei maledettamente in gamba, anche se sei stato a Princeton e a Harvard. Hai uno straordinario senso dell'umorismo, davvero, mi diverti, anche quando è di me che ridi. Anzi, soprattutto quando è di me che ridi.» «Ma che cosa stai dicendo?» «Che sei un pazzo e disgustoso figlio di puttana», disse il grosso, sollevò la pistola e sparò al suo partner. Drew, se quello era il suo nome, piombò a terra violentemente, come se fosse stato di pietra. Cadde sul fianco, di fronte a Marty. Aveva la bocca aperta, e anche gli occhi, ma aveva lo sguardo di un cieco e sembrava non aver nulla da dire. In mezzo alla fronte di Drew c'era un orribile foro di proiettile. Per tutto il tempo che riuscì a rimanere aggrappato alla coscienza, Marty fissò la ferita, ma non pareva volesse rimarginarsi. Il vento soffiava. La neve cadeva. Scese un freddo ancora più freddo, e un buio ancora più buio. 7 Marty si svegliò con la fronte premuta contro un vetro freddo. La neve si scagliava contro l'altro lato della lastra. Erano parcheggiati accanto alle pompe di una stazione di servizio. Al di là, in mezzo alla neve che cadeva, vide un piccolo supermercato illuminato, con ampie vetrine. Staccò la testa dal vetro e si drizzò a sedere. Era nel sedile posteriore di una station wagon, una Explorer o una Cherokee. Al volante sedeva l'omone del campanile. Era mezzo girato sul sedile, e guardava indietro. «Come va?» Marty cercò di rispondere. Aveva la bocca secca, la lingua appiccicata al palato, la gola indolenzita. Il verso che emise non era una parola. «Penso che te la caverai», disse lo sconosciuto. La giacca da sci di Marty era aperta; portò una mano tremante alla spalla sinistra. Sotto il maglione inzuppato di sangue, sentì una strana massa vo-
luminosa. «Medicazione da campo», spiegò l'uomo. «Il meglio che ho potuto fare in tutta fretta. Appena fuori da queste montagne, al di là del confine di contea, ripulirò la ferita e rifarò la fasciatura.» «Fa male.» «Non ne dubito.» Marty si sentiva non solo debole, ma fragilissimo. Si guadagnava da vivere con le parole e non aveva mai avuto difficoltà a trovare quelle giuste, quando gli servivano, per cui era frustrante ritrovarsi senza neppure l'energia necessaria per parlare. «Paige?» domandò. «Lì dentro, con le bambine», rispose lo sconosciuto, indicando il piccolo supermercato. «Le ragazzine stanno usando il bagno. La signora Stillwater sta comprando qualcosa, bevendo un po' di caffè caldo. Io ho appena fatto rifornimento.» «Lei è...» «Clocker. Karl Clocker.» «Gli ha sparato.» «Altroché.» «Chi... chi... chi era?» «Drew Oslett. Domanda più difficile: che cosa era?» «Eh?» Clocker sorrise. «Nato di uomo e di donna, sì, ma non più umano del povero Alfie. Se lassù, da qualche parte, c'è una specie aliena malvagia che va in giro a saccheggiare la galassia, non vorrà mai sporcarsi le mani con noi se viene a sapere che siamo in grado di produrre esemplari come Drew.» Clocker era alla guida, e Charlotte occupava il sedile del passeggero al suo fianco. Lui la chiamava il «Primo Ufficiale Stillwater» e le aveva assegnato il compito di «porgere al comandante il suo caffè quando ha bisogno di un altro sorso, ed evitare catastrofici rovesciamenti che potrebbero contaminare irreparabilmente la nave». Charlotte si mostrava insolitamente riservata e con poca voglia di giocare. Marty era angosciato all'idea delle ferite psicologiche che il loro calvario aveva potuto lasciare su di lei, e si chiedeva quali altri terribili traumi potessero essere riservati a loro tutti. Sul sedile posteriore, Emily sedeva dietro Karl Clocker, Marty dietro
Charlotte e Paige tra loro due. Emily non era solo tranquilla, ma totalmente silenziosa, e Marty era preoccupato anche per lei. Nell'uscire da Mammoth Lakes sulla Route 203 e poi a sud sulla 395 dovettero procedere a rilento. A terra c'erano sei o sette centimetri di neve, e la tempesta infuriava ancora. Clocker e Paige bevevano caffè, e le bambine cioccolata calda. Gli aromi delle bevande sarebbero dovuti essere invitanti, ma non facevano che aggravare la nausea di Marty. Gli concessero un po' di succo di mela. Al supermercato, Paige ne aveva comprato una confezione da sei lattine. «E l'unica cosa che riuscirà a tener dentro», spiegò Clocker. «E, anche se sente voglia di vomitare, cerchi di trattenerne il più possibile perché, con quella ferita, è maledettamente certo che si sta disidratando in maniera pericolosa.» Marty tremava talmente che neppure con la destra riusciva a bere dalla lattina senza versare il liquido dappertutto. Paige vi infilò una cannuccia e gli tenne la lattina, asciugandolo ogni volta che la bevanda gli scorreva sul mento. Si sentiva sfinito. Si chiese se la ferita non fosse più grave di quanto gli avessero detto, o di quanto avessero capito. Intuitivamente sentiva che stava per morire... ma non avrebbe saputo dire se era una precisa percezione della realtà delle cose o quella sua maledetta immaginazione di scrittore. La notte era piena di fiocchi bianchi, come se il giorno non fosse semplicemente svanito ma si fosse disintegrato in una miriade di frammenti che avrebbero continuato a venir giù all'infinito attraverso un'oscurità definitiva. Al di sopra del rotolio delle catene e del brontolio del motore, mentre scendevano dalla Sierra incolonnati con altri veicoli dietro uno spazzaneve, Clocker raccontò del Network. Era un'organizzazione creata da individui che facevano parte del governo, dell'industria, della magistratura, delle forze dell'ordine e dell'informazione, legati dalla comune convinzione che la tradizionale democrazia occidentale rappresentasse un sistema politico-sociale inefficiente e inevitabilmente catastrofico. Questi personaggi erano convinti che nella stragrande maggioranza i cittadini fossero deboli, assetati di sensazioni forti, privi di valori spirituali, avidi, scansafatiche, invidiosi, razzisti e afflitti da una
spaventosa ignoranza su praticamente tutte le questioni fondamentali. «Sono convinti», spiegò Clocker, «che tutta la storia dimostra che le masse sono sempre state irresponsabili e che la civiltà è andata avanti solo grazie alla fortuna e al diligente impegno di pochi visionari.» «Credono di essere originali?» domandò sprezzantemente Paige. «Non hanno mai sentito parlare di Hitler, Stalin, Mao Zedong?» «Ciò che secondo loro è originale», rispose Clocker, «è l'idea che abbiamo raggiunto un'epoca in cui le basi tecnologiche della società sono così complesse, e così vulnerabili a causa di tale complessità, che la civiltà, anzi il pianeta stesso, non può sopravvivere se il governo prende le sue decisioni in base alle motivazioni frivole ed egoistiche delle masse che esprimono la propria volontà nella cabina elettorale.» «Stronzate», commentò Paige. Marty si sarebbe detto d'accordo con lei se solo avesse avuto la forza di partecipare alla discussione. Ma l'energia che aveva gli bastava appena per succhiare il succo di mela e ingoiarlo. «Il punto vero di tutta la faccenda», proseguì Clocker, «è il potere, il potere bruto. L'unica novità, in loro, indipendentemente da quello che pensano, è che lavorano assieme pur essendo agli estremi opposti del quadro politico. Chi vorrebbe bandire Huckleberry Finn dalle biblioteche e chi bruciare i libri di Anne Rice: possono sembrare spinti da motivazioni diverse, ma spiritualmente sono fratelli.» «Certamente», annuì Paige. «L'obiettivo è lo stesso: non solo controllare quello che gli altri fanno, ma anche quello che pensano.» «Gli ambientalisti più radicali, quelli che vorrebbero ridurre la popolazione mondiale con misure estreme nel giro di uno o due decenni, perché convinti che l'ecologia del pianeta sia in pericolo, sono per certi versi in consonanza con quelli che amerebbero ridurre drasticamente la popolazione mondiale solo perché per i loro gusti ci sono troppi neri e scuri di pelle.» «Ma un'organizzazione che raccoglie questi estremi», obiettò Paige, «non può reggere a lungo.» «Sono d'accordo», convenne Clocker. «Ma se la loro voglia di potere, del controllo totale, è abbastanza forte, potrebbero lavorare insieme fino a ottenerlo; poi, una volta ottenuto, rivolgeranno le armi gli uni contro gli altri, e noialtri ci troveremo sotto il fuoco incrociato.» «Quanto è grande quest'organizzazione?» chiese Paige. Clocker esitò un istante. «E grande.»
Marty succhiava dalla sua cannuccia, straordinariamente grato a un livello di civiltà che permetteva la sofisticata integrazione di agricoltura, industria di trasformazione, confezionamento, marketing e distribuzione di un prodotto così futile e consolatorio come il dolce, fresco succo di mela. «I vertici del Network ritengono che la moderna tecnologia rappresenti una minaccia per l'umanità», spiegò Clocker, riducendo la velocità dei tergicristallo, «ma non sono contrari a sfruttarla per raggiungere il potere.» Lo sviluppo di un insieme di cloni controllabili, da usare come forza di polizia e militare di impareggiabile obbedienza nel prossimo millennio, era solo uno di una moltitudine di programmi di ricerca tesi a elaborare il nuovo mondo, ma era stato anche uno dei primi a dare frutti: Alfie. Il primo individuo della prima generazione, la generazione Alfa, di cloni operativi. Essendo la società piena di cattivi maestri in posizioni autorevoli, i primi cloni sarebbero stati impiegati per sopprimere personaggi di rilievo nell'economia, nella politica, nell'informazione e nell'istruzione, personaggi dalle posizioni troppo retrograde da potere essere convinte della necessità del cambiamento. Il clone non era una persona vera ma più o meno una macchina fatta di carne; era quindi l'assassino ideale. Non era consapevole di chi lo aveva creato e istruito, quindi non poteva tradire o far scoprire la cospirazione che serviva. Clocker scalò la marcia mentre la colonna di veicoli rallentava in un tratto particolarmente ingombro di neve. «Non essendo gravato da vincoli religiosi, filosofici, da un sistema di convinzioni, da una famiglia, da un passato, non c'è pericolo che un sicario clone possa cominciare a mettere in discussione la moralità delle atrocità che commette, sviluppare una coscienza, o mostrare un minimo di libero arbitrio che possa interferire con l'esecuzione dei suoi incarichi.» «Ma con Alfie evidentemente qualcosa è andato storto», obiettò Paige. «Già. E non sapremo mai di che cosa, precisamente, si è trattato.» Perché era come me? avrebbe voluto chiedere Marty, e invece la testa gli crollò sulla spalla di Paige, e perse conoscenza. Un labirinto di specchi in un luna park. La ricerca frenetica della via d'uscita. I riflessi lo scrutano con rabbia, invidia, odio, senza riuscire a replicare esattamente le sue espressioni e i suoi movimenti, uscendo da uno specchio dopo l'altro, inseguendolo, un esercito sempre crescente di Martin Stillwater, così esteriormente simili a lui, così bui e freddi dentro. Ora an-
che davanti a lui si protendono specchi accanto ai quali lui corre e contro i quali si scontra, tentano di ghermirlo, tutti parlando con un'unica voce: Ho bisogno della mia vita. Gli specchi andarono tutti in pezzi, contemporaneamente, e si svegliò. La luce di una lampada. Ombre sul soffitto. Sdraiato in un letto. Freddo e caldo, brividi e sudore. Cercò di mettersi a sedere. Non ci riuscì. «Tesoro?» A malapena la forza di voltare la testa. Paige. In una poltrona. Accanto al letto. Al di là, un altro letto. Forme sotto le coperte. Le bambine. Addormentate. Tende alle finestre. Notte ai margini delle tende. Lei sorrise. «Sei tornato in te, caro?» Cercò di leccarsi le labbra. Erano screpolate. Aveva la lingua asciutta, impastata. Lei prese una lattina di succo di mela da un secchiello di plastica con il ghiaccio, gli sollevò la testa dal cuscino e gli guidò la cannuccia tra le labbra. Quando ebbe bevuto, riuscì a dire: «Dove?» «Un motel a Bishop.» «Abbastanza lontano?» «Per ora, il più possibile», rispose lei. «Lui?» «Clocker? Tornerà.» Moriva di sete. Lei gli diede altro succo. «Preoccupato», bisbigliò. «No. Non devi. Ora è tutto a posto.» «Lui.» «Clocker?» chiese lei. Marty accennò di sì con la testa. «Possiamo fidarci di lui», replicò Paige. Sperò che avesse ragione. Anche il semplice atto del bere lo sfinì. Riabbassò la testa sul cuscino. Il viso di lei era come quello di un angelo. Svanì lentamente.
Fuori della sala degli specchi, in un lungo tunnel nero. La luce in fondo, si affretta in quella direzione, rumore di passi dietro di lui, una miriade di gente lo insegue, lo raggiunge, sono gli uomini degli specchi. La luce è la sua salvezza, un'uscita dal baraccone. Emerge dal tunnel, nel bianco luminoso, che è poi il campo di neve davanti alla chiesa abbandonata, dove corre verso l'ingresso principale con Paige e le bambine. L'Altro dietro di loro, ed esplode una detonazione, una lancia di ghiaccio gli penetra nella spalla, il ghiaccio si muta in fuoco, il fuoco... Il dolore era insopportabile. Le lacrime gli offuscavano la vista. Battè le palpebre, con il bisogno disperato di sapere dove fosse. Lo stesso letto, la stessa stanza. Le coperte erano state scostate. Era nudo fino alla cintola. La fasciatura non c'era più. Un'altra esplosione di dolore nella spalla gli strappò un urlo. Ma non aveva abbastanza forza per gridare, e l'urlo si tradusse in un fievole «Ahhhh». Scacciò via altre lacrime battendo di nuovo le palpebre. Le tende erano ancora chiuse sulle finestre. Ai margini la luce del giorno aveva rimpiazzato il buio. Clocker era chino su di lui. Faceva qualcosa alla sua spalla. In un primo momento, poiché il dolore era atroce, pensò che stesse cercando di ucciderlo. Poi accanto a Clocker vide Paige e pensò che lei non avrebbe permesso che accadesse niente di male. Stava cercando di spiegargli qualcosa, ma lui riusciva a cogliere solo una parola qua e là: «polvere di zolfo... antibiotico... penicillina...» Gli rifecero la fasciatura alla spalla. Clocker gli praticò un'iniezione al braccio sano. Lui guardò. In preda a tanti dolori, non si accorse neppure della puntura dell'ago. Per un po' fu di nuovo nella sala degli specchi. Quando si ritrovò nel letto del motel, girò la testa e vide Charlotte ed Emily, sedute sulla sponda dell'altro letto, che lo guardavano. Emily stringeva Peepers, il sasso su cui aveva dipinto un paio di occhi, il suo amico. Le bambine avevano un'aria terribilmente solenne. Riuscì a sorridere. Charlotte si alzò dal letto, si avvicinò a lui, gli diede un bacio sul viso sudato. Anche Emily lo baciò, e poi gli mise Peepers nella destra. Riuscì a chiu-
dere le dita. Più tardi, affiorando da un sonno senza sogni, sentì Clocker e Paige che parlavano: «...non credo che sia bene muoverlo adesso», diceva Paige. «È indispensabile», rispose Clocker. «Non siamo abbastanza lontani da Mammoth Lakes, e le strade che avremmo potuto prendere non sono più di tante.» «Non possiamo avere la certezza che qualcuno ci stia cercando.» «Esatto, non lo sappiamo. Ma è prevedibile. Prima o poi qualcuno si metterà a cercarci... e probabilmente per il resto della nostra vita.» Continuava a entrare e uscire dalla coscienza, dentro e fuori, e quando vide di nuovo Clocker accanto al letto, chiese: «Perché?» «L'eterna domanda», disse Clocker, e sorrise. Marty precisò l'eterna domanda. «Perché tu?» Clocker annuì. «Ti sembra strano, certo. Be'... non sono mai stato uno di loro. Hanno fatto il grave errore di credere che fossi un fedelissimo. Per tutta la vita avevo sognato l'avventura, l'eroismo, ma sembrava che nelle mie carte non ci fosse quel destino. Poi questo. Pensavo che, se avessi fatto il loro gioco, sarebbe venuto il giorno in cui avrei avuto l'occasione di danneggiare seriamente il Network, se non di disintegrarlo, puf, come con un'arma a raggio di plasma.» «Grazie», disse Marty, sentendo che i sensi lo abbandonavano e volendo esprimere la sua gratitudine finché ne aveva ancora la possibilità. «Ehi, non siamo ancora fuori dei guai», rispose Clocker. Quando Marty riprese conoscenza, non sudava più né tremava, ma si sentiva ancora debole. Erano in un'automobile, su una strada deserta al tramonto. Paige era al volante, e lui le sedeva al fianco, con la cintura di sicurezza agganciata. «Stai bene?» gli chiese. «Meglio», rispose lui, e la sua voce era meno tremante di quanto fosse stata da un pezzo. «Ho sete.» «C'è del succo di mela sul pavimento, tra i tuoi piedi. Cerco un posto dove fermare.» «No, ce la faccio», rispose lui, non del tutto sicuro. Mentre si chinava allungando il braccio destro, si accorse di avere il sinistro appeso al collo. Riuscì a prendere una lattina togliendola dalla confezione da sei. La strinse tra le ginocchia, tirò l'anello e l'aprì. Il liquido era appena fresco, ma gli parve di non aver mai assaggiato
niente di meglio, in parte perché era riuscito ad arrivarci da solo, senza aiuti. Vuotò l'intera lattina in tre sorsate. Quando girò la testa, vide Charlotte ed Emily addormentate sul sedile posteriore. «Sono due notti che dormono malissimo», disse Paige. «Incubi. E sono preoccupate per te. Probabilmente il fatto che ci siamo rimessi in moto le fa sentire più sicure, e anche il movimento dell'auto aiuta.» «Notti? Due notti?» Sapeva che erano fuggiti da Mammoth Lakes martedì notte. Pensava che fosse mercoledì. «Che giorno è?» «Venerdì», fu la risposta. Era rimasto privo di coscienza per quasi tre giorni. Guardò in giro, verso l'ampio tratto di pianura che si andava perdendo nel tramonto. «Dove siamo?» «Nevada. Route 31 a sud di Walker Lane. Prenderemo l'Highway 95 e punteremo a nord fino a Fallon. Pernotteremo lì in un motel stanotte.» «E domani?» «Wyoming, se te la senti.» «Me la sentirò. Immagino che ci sarà un motivo per il Wyoming.» «Karl conosce un posto dove possiamo stare.» Quando le chiese dell'auto, che non aveva mai visto, lei spiegò: «Sempre Karl. Come la polvere di zolfo e la penicillina con cui ti sto curando. Sembra sapere sempre dove procurarsi quello che serve. È un bel tipo». «Non lo conosco neppure», disse Marty, chinandosi a prendere un'altra lattina di succo di mela, «ma già gli voglio bene come a un fratello.» Aprì la lattina e bevve quasi un terzo del contenuto. «Perfino il suo cappello mi piace», aggiunse. Paige scoppiò a ridere in modo sproporzionato rispetto alla flebile battuta, ma Marty rise con lei. «Dio», disse Paige, continuando a puntare verso nord attraverso la grigia pianura desertica, «ti amo, Marty. Se mi fossi morto, non te l'avrei mai perdonata.» Quella notte presero due camere al motel di Fallon, usando un nome falso e pagando in anticipo e in contanti. Cenarono, pizza e Pepsi, in camera. Marty era affamato, ma due fette di pizza lo saziarono. Mentre mangiavano fecero una partita di Guarda Chi È l'Asino, in cui bisognava trovare il maggior numero di nomi di cibi che cominciavano con la P. Le bambine non erano nella forma migliore. Anzi, erano così
mogie che Marty si preoccupò. Forse erano solo stanche. Dopo cena, nonostante il sonnellino fatto in macchina, Charlotte ed Emily si addormentarono nell'attimo stesso in cui posarono la testa sul cuscino. Lasciarono aperta la porta tra le due camere adiacenti. Karl Clocker aveva procurato a Paige un mitragliatore Uzi illegalmente modificato per il fuoco automatico. Lo tennero sul comodino a portata di mano. Paige e Marty usarono lo stesso letto. Lei si sdraiò a destra in modo da potergli tenere la mano sana. Parlando, Marty scoprì che lei aveva saputo la risposta alla domanda che non gli era mai stato possibile fare a Karl Clocker: Perché era uguale a me? Uno degli uomini più potenti del Network, il proprietario del pacchetto di maggioranza di un impero dell'informazione, aveva perso un figlio, morto di cancro all'età di quattro anni. Mentre il bambino era ricoverato moribondo al Cedars-Sinai Hospital, cinque anni prima, gli erano stati prelevati campioni di sangue e di midollo perché suo padre aveva deciso che i cloni della serie Alfa dovessero svilupparsi dal materiale genetico del figlio. Se i cloni funzionali fossero diventati realtà, sarebbero stati un duraturo monumento alla memoria di suo figlio. «Gesù, è terrificante», disse Marty. «Quale padre penserebbe che una stirpe di killer frutto di ingegneria genetica possa essere un degno monumento? Dio onnipotente!» «Dio non c'entra con questo», ribatté Paige. Gli uomini del Network che avevano l'incarico di procurarsi quei campioni dal laboratorio avevano fatto confusione e avevano preso il sangue e il midollo che erano stati prelevati a Marty per determinare se sarebbe stato un donatore adatto nel caso in cui Charlotte avesse avuto bisogno di un trapianto. «E vorrebbero governare il mondo», commentò Marty, incredulo. Era ancora lontano da una piena ripresa, e aveva bisogno di dormire, ma doveva sapere un'altra cosa prima di lasciarsi andare al sonno. «Se hanno cominciato a lavorare su Alfie solo cinque anni fa... com'è possibile che fosse un uomo adulto?» «Stando a Clocker, avrebbero 'migliorato' i meccanismi umani di base sotto vari punti di vista», rispose Paige. Avevano dotato Alfie di un metabolismo fuori del comune e di una capacità di autoguarigione straordinariamente accelerata. Avevano anche
provocato la sua fulminea maturazione con l'ormone della crescita e lo avevano portato dalla situazione di feto a quella di trentenne alimentandolo per endovenosa ininterrottamente, stimolando elettricamente lo sviluppo muscolare in un arco di tempo inferiore ai due anni. «Come un dannato vegetale in coltura idroponica», disse lei. «Gesù Cristo», commentò Marty, e lanciò un'occhiata al comodino per accertarsi che l'Uzi fosse ancora lì. «E a nessuno è venuto un dubbio quando hanno visto che il clone non assomigliava al bambino?» «Intanto, il piccolo era stato devastato dal cancro tra i due e i quattro anni. Non sapevano quale aspetto avrebbe avuto da adulto se fosse stato sano. E poi, erano intervenuti sul materiale genetico così massicciamente che non potevano comunque essere certi che la generazione Alfa avrebbe presentato troppe somiglianze con il bambino. «Gli insegnarono a leggere e scrivere, a far di conto e così via, soprattutto grazie a sofisticati input subliminali, mentre lui dormiva, e cresceva.» Aveva altro da dirgli, ma la sua voce si faceva sempre più lontana, mentre Marty si abbandonava a un sonno popolato di serre in cui forme umane galleggiavano in vasche trasparenti di un liquido vischioso... ...sono collegate a grovigli di tubicini di plastica e apparecchi di alimentazione vitale, e crescono rapidamente dallo stato di feto alla piena maturità, tutti suoi doppioni, e all'improvviso gli occhi si spalancano contemporaneamente in mille di loro, in file e file di vasche in una serra dopo l'altra, e parlano come in una sola voce: ho bisogno della mia vita. 8 La baracca di tronchi era in mezzo a un vasto terreno boscoso, a pochi chilometri da Jackson Hole, Wyoming, che non aveva ancora goduto della prima neve della stagione. Le indicazioni di Karl erano precisissime, e trovarono il posto senza difficoltà, arrivando nel tardo pomeriggio del sabato. La baracca aveva bisogno di essere ripulita e arieggiata, ma la dispensa era ben fornita. Quando i primi getti ebbero portato via la ruggine dalle tubature, l'acqua che uscì dal rubinetto aveva un sapore pulito e dolce. Il lunedì una Range Rover arrivò lungo la provinciale e si fermò davanti alla loro porta. La osservarono dalle finestre, in preda alla tensione. Paige tolse la sicura all'Uzi, e si rilassò soltanto quando vide che l'uomo che scendeva dal posto di guida era Karl. Era arrivato in tempo per pranzare con loro, un pranzo preparato da
Marty con l'aiuto delle bambine. Uova, salsicce e biscotti. Mentre loro cinque mangiavano al grande tavolo di pino della cucina, Karl presentò le loro nuove identità. Marty rimase sorpreso dal numero di documenti. Certificati di nascita per tutti e quattro. Un diploma delle superiori per Paige, di una scuola di Newark, New Jersey, e uno per Marty di una scuola di Harrisburg, Pennsylvania. Un congedo con onore dall'esercito per Marty, concesso dopo tre anni di servizio. Avevano patenti rilasciate dallo stato del Wyoming, tessere della sicurezza sociale e altri documenti ancora. Il loro nuovo nome era Gault. Ann e John Gault. Il certificato di nascita di Charlotte diceva che il suo nome era Rebecca Vanessa Gault, e ora Emily era Suzie Lori Gault. «Abbiamo potuto scegliere i nostri nomi di battesimo», disse Charlotte più animata di quanto apparisse da giorni. «Io sono Rebecca come nel film, donna piena di bellezza e di mistero.» «Non abbiamo esattamente avuto i nomi che volevamo», precisò Emily. «Di certo non la prima scelta.» Marty, quando i nomi erano stati definiti, a Bishop, in California, era profondamente addormentato. «Qual era stata la tua prima scelta?» chiese a Emily. «Bob», rispose lei. Marty rise, e Charlotte sogghignò. «Bob mi piaceva», protestò Emily. «Be', devi riconoscere che non era proprio adattissimo», disse Marty. «Suzie Lori è delizioso, da far vomitare», intervenne Charlotte. «Va bene, se non può essere Bob», concluse Emily, «allora voglio essere Suzie Lori, e dovete chiamarmi sempre con i due nomi, mai soltanto Suzie.» Mentre le bambine lavavano i piatti, Karl andò a prendere una valigetta dalla Range Rover, l'aprì sul tavolo e discusse del suo contenuto con Marty e Paige. C'erano decine di dischetti di computer contenenti informazioni riservate sul Network, che Karl aveva copiato segretamente per anni, più almeno un centinaio di microcassette di conversazioni che aveva registrato, compresa quella al Ritz-Carlton Hotel a Dana Point, un colloquio tra Oslett e un uomo che si chiamava Peter Waxhill. «Questa», disse Karl, «spiegherà in breve l'intera crisi del clone.» Cominciò a riporre di nuovo il tutto nella valigetta. «Sono tutte copie,
dischi e cassette. Ne avete due serie complete. E ho fatto anche altri duplicati.» Marty non capiva. «Perché vuoi che le abbiamo noi?» «Tu sei uno scrittore in gamba», disse Karl. «Ho letto un paio di tuoi libri, da martedì sera. Prendi il tutto, scrivi una spiegazione, una spiegazione di quello che è successo a te e alla tua famiglia. Io ti lascerò il nome del proprietario di un importante quotidiano e di un pezzo grosso dell'FBI. Sono sicuro che nessuno dei due fa parte del Network, perché erano entrambi nella lista dei futuri bersagli di Alfie. Manda la tua spiegazione e una serie completa di dischetti e nastri a ognuno dei due. Spediscili senza mittente, ovviamente, e da un altro stato, non dal Wyoming.» «Non dovresti farlo tu?» chiese Paige. «Ci riproverò se la tua spedizione non provoca la reazione che dovrebbe. Ma è meglio che arrivi prima da te. La tua scomparsa, quello che è successo a Mission Viejo, l'assassinio dei tuoi genitori, i corpi che ho fatto in modo che venissero trovati, sul campanile e vicino alla baita dei tuoi... tutto questo ha tenuto in caldo la tua storia. Il Network ha fatto di tutto perché continui a fare notizia, perché ha un bisogno disperato che qualcuno vi trovi. Usiamo la tua notorietà e cerchiamo di fare in modo che la situazione gli scoppi tra le mani.» La giornata era fresca ma non fredda. Il cielo era di un azzurro cristallino. Marty e Karl andarono a fare un giro lungo il perimetro del bosco, rimanendo sempre in vista della baracca. «Quell'Alfie...» disse Marty. «Sì?» «Era l'unico?» «Il primo e unico clone operativo. Altri si stanno sviluppando.» «Dobbiamo fermarli.» «Li fermeremo.» «Bene. Supponiamo che si riesca a far saltare il Network», riflette Marty. «Tutto il loro castello di carte crollerebbe. Dopo... potremo mai tornare a casa, riprendere la nostra vita?» Karl scosse la testa. «Io non ho intenzione di farlo. Non ne ho il coraggio. Alcuni di loro sfuggiranno sicuramente. E quella è gente che è capace di tenerti il muso per un bel po'. Bravissimi a odiare. Rovina la loro vita o solo quella di loro parenti, e prima o poi vi ammazzano tutti.»
«Allora il nome, Gault, non è solo una copertura temporanea?» «Sono i migliori documenti di identità che possiate mai avere. Buoni quanto quelli veri. Li ho avuti da una fonte di cui il Network non è a conoscenza. Nessuno si accorgerà mai che sono contraffatti... né riuscirà mai a rintracciarvi attraverso di loro.» «La mia carriera, i proventi dei libri...» «Scordatene», disse Karl. «Ormai siete imbarcati in un nuovo viaggio di scoperta, via verso mondi sconosciuti.» «Anche tu hai un nuovo nome?» «Sì.» «E saperlo non è affar mio, vero?» «Vero.» Karl partì quel pomeriggio stesso, un'ora prima del tramonto. Mentre lo accompagnavano alla Range Rover, tolse una busta da una tasca interna della giacca di tweed e la porse a Paige, spiegandole che si trattava del certificato di proprietà della capanna e del terreno su cui sorgeva. «Avevo comprato e preparato due posti dove nascondermi, uno a ciascuna estremità del paese, per essere pronto a questa evenienza, se fosse arrivato il momento. Tutti e due sotto nomi falsi, impossibili da far risalire a me. Ho trasferito questo ad Ann e John Gault, dato che posso usarne uno soltanto.» Parve imbarazzato quando Paige lo abbracciò. «Karl», disse Marty, «che fine avremmo fatto se non ci fossi stato tu? Ti dobbiamo tutto.» L'omone arrossì. «Ve la sareste cavata comunque. Voi avete l'animo di chi sopravvive. Quello che ho fatto per voi, lo avrebbe fatto chiunque.» «Di questi tempi no», rispose Marty. «Anche di questi tempi», replicò Karl, «le persone per bene sono più numerose delle altre. Ne sono convinto. Devo esserlo.» Alla Range Rover, Charlotte ed Emily diedero a Karl un bacio di addio, ben sapendo, anche se nessuno gliel'aveva detto, che non lo avrebbero mai più rivisto. Emily gli regalò Peepers. «Hai bisogno di qualcuno», disse. «Sei solo solo. E poi, non si abituerà mai a chiamarmi Suzie Lori. Ora è il tuo amico.» «Grazie, Emily. Mi prenderò cura di lui.» Quando Karl si mise al volante e chiuse la portiera, Marty si appoggiò al
finestrino aperto. «Se facciamo saltare il Network, credi che potrà mai più riformarsi?» «Quello o uno simile», rispose Karl senza esitazioni. Turbato, Marty annuì. «Probabilmente sapremo che si è riformato... quando sospenderanno tutte le elezioni.» «Oh, le elezioni non saranno mai sospese, almeno non in modo palese», replicò Karl mettendo in moto la Rover. «Andranno avanti come sempre, con partiti politici contrapposti, congressi, dibattiti, campagne furibonde, tutti gli annessi e i connessi. Ma i candidati saranno scelti tutti dai fedeli del Network. Se mai dovessero prendere il potere, solo loro lo saprebbero.» Marty improvvisamente sentì più freddo di quanto avesse patito nella tormenta del martedì sera. Karl alzò una mano separando le dita, in un gesto che Marty riconobbe come il saluto degli uomini di Star Trek. «Lunga vita e prosperità», augurò, poi partì. Marty rimase sul vialetto di ghiaia, a guardare la Rover finché non raggiunse la provinciale, svoltò a sinistra e si perse in lontananza. 9 Quel mese di dicembre e per tutto l'anno seguente, quando sulle prime pagine dei giornali divampò lo scandalo Network, tradimento, cospirazione politica e una crisi mondiale dopo l'altra, John e Ann Gault non prestarono ai quotidiani e ai telegiornali tutta l'attenzione che avrebbero creduto. Avevano una nuova vita da costruirsi, e non era un'impresa da poco. Ann tagliò corti i capelli biondi e li tinse di castano. Prima di fare la conoscenza con i vicini che abitavano le sparse baracche e fattorie della zona rurale, John si fece crescere la barba; senza grande sorpresa scoprì che era grigia più che nera, e molti fili bianchi cominciavano a comparirgli anche tra i capelli. Una semplice tintura cambiò da bionda in ramata la capigliatura di Rebecca, e a trasformare Suzie Lori fu sufficiente un nuovo taglio, molto più corto. Le due bambine crescevano in fretta. Il tempo avrebbe presto confuso le somiglianze tra loro e quelle che erano un tempo. Ricordarsi di usare i nuovi nomi fu facile rispetto all'inventare e imparare a memoria un semplice ma credibile passato. Ne fecero un gioco, un po' come Guarda Chi È l'Asino.
Gli incubi continuarono. Pensare al nemico che avevano conosciuto era altrettanto angoscioso alla luce del giorno che di notte; tuttavia, irrazionalmente, accoglievano ogni calare della sera con il disagio che gli uomini avevano conosciuto in tempi più antichi e più superstiziosi. E ogni rumore improvviso li faceva sobbalzare. La vigilia di Natale fu la prima volta in cui John osò sperare di riuscire a immaginare una nuova vita e a ritrovare la felicità. Fu quando Suzie Lori chiese del popcorn. «Quale popcorn?» domandò John. «Il fratello cattivo di Babbo Natale ne aveva messi cinque chili nel forno a microonde», ricordò lei, «anche se secondo me non poteva starci. Comunque, anche ammesso che ci sia entrato, che cosa è successo quando ha cominciato a scoppiare?» Quella sera, l'ora di lettura fu ripresa per la prima volta dopo più di tre settimane. Da allora in poi, divenne una consuetudine. Verso la fine di gennaio si sentirono abbastanza sicuri da iscrivere Rebecca e Suzie Lori alla scuola pubblica. In primavera, c'erano nuovi amici e una crescente riserva di ricordi di famiglia che i Gault non dovevano inventare. Possedendo settantamila dollari in contanti ed essendo proprietari della modesta casetta, non avevano il problema immediato di trovare un lavoro. Avevano anche quattro scatoloni pieni delle prime edizioni dei primi romanzi di Martin Stillwater. La copertina del Time aveva posto una domanda che non avrebbe mai trovato risposta: «Che fine ha fatto Martin Stillwater?» e le prime edizioni, che un tempo valevano un paio di centinaia di dollari sul mercato del collezionismo, si erano cominciate a scambiare, entro primavera, per un prezzo cinque volte superiore; probabilmente il loro valore sarebbe aumentato ancora, negli anni a venire, più in fretta dei migliori titoli di borsa. Vendendone uno o due alla volta, in città lontane, avrebbero mantenuto ricca la dispensa di famiglia durante gli anni magri. John si presentò ai nuovi vicini e conoscenti come un ex assicuratore di New York. Affermava di aver ricevuto una buona eredità, anche se niente di eclatante. Stava realizzando il sogno di una vita, quello di ritirarsi in campagna e tentare di diventare poeta. «Se non riesco a vendere qualche poesia in due o tre anni, magari potrei provare a scrivere un romanzo», diceva talvolta, «e se non funziona nemmeno quello, allora sì che comincerò a preoccuparmi.» Ann si accontentava di presentarsi come casalinga; libera però dalle
pressioni di un tempo, clienti disturbati e traffico di pendolari, riscopriva un talento per il disegno che aveva abbandonato con il liceo. Cominciò con l'illustrare le poesie e i racconti contenuti nel quaderno delle composizioni originali che il marito scriveva da anni: Storie per Rebecca e Suzie Lori. Vivevano nel Wyoming da cinque anni quando Il gemello cattivo di Babbo Natale di John Gault, con le illustrazioni di Ann Gault, ebbe uno strepitoso successo nelle vendite dei libri per Natale. Non vollero che sulla copertina comparissero le foto degli autori del testo e dei disegni. Declinarono cortesemente ogni offerta di tour promozionali e interviste, preferendo una vita tranquilla e la possibilità di fare altri libri per l'infanzia. Le bambine crebbero piene di salute, e Rebecca cominciò a selezionare i ragazzi con cui uscire, tutti giudicati carenti, per un verso o per l'altro, da Suzie Lori. Talvolta John e Ann avevano la sensazione di vivere un po' troppo in un mondo fantastico, e si sforzavano di aggiornarsi sulle ultime vicende, cercando segnali e preannunci di qualcosa di cui non amavano discutere neppure tra loro. Ma il mondo era infinitamente turbato e tedioso. Troppo poche erano le persone che sembravano capaci di immaginare una vita senza la mano soffocante di questo o quel governo, questa o quella guerra, questa o quella forma di odio, per cui i Gault persero l'interesse per le ultime notizie e fecero ritorno nel mondo che immaginavano per se stessi. Un giorno arrivò per posta un paperback. La semplice busta marrone non portava il nome del mittente, né il libro era accompagnato da un biglietto. Era un romanzo di fantascienza ambientato nel lontano futuro, quando l'umanità aveva vinto le stelle ma non tutti i propri problemi. Il titolo era La rivolta dei cloni. John e Ann lo lesserò. Lo trovarono molto ben ideato, e si rammaricarono di non poter avere l'opportunità di congratularsi con l'autore. FINE