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J. MICHAEL STRACZYNSKI LA NOTTE DEL DEMONIO (Demon Night, 1988) A Kathryn... per completezza A mani nude cammino, eppure la spada è nelle mie mani; Cammino a piedi, eppure sto correndo su un cavallo; Quando passo sopra un ponte, ecco, l'acqua non scorre, ma il ponte sta scorrendo. PROVERBIO ZEN C'è ben poco di buono in una piccola città sedentaria. Più che altro indifferenza, intrisa a tratti di una malvagità inconsapevole, o peggio ancora, di una malvagità cosciente. STEPHEN KING Le condizioni di un uccello solitario sono cinque: La prima, che vola al punto più alto; La seconda, che non sopporta la compagnia, nemmeno quella della propria specie; La terza, che punta il becco ai cieli; La quarta, che non possiede un colore definito; La quinta, che canta molto dolcemente. S. GIOVANNI DELLA CROCE Prologo Cominciò come era sempre cominciato. Come sarebbe sempre cominciato. Quando il suo cognome era Langren, non Matthews.
Era il tipo di giornata in cui, nonostante il fresco del mattino, il sole sembrava più chiaro di quanto dovesse essere. L'aria era limpida, il profumo dei pini quasi inebriante. Una giornata perfetta, aveva deciso suo padre, per andare in città a comperare le poche cose che non sapevano fare da sé. Dopo le piogge che avevano devastato Dredmouth Point, imprigionando tutti dietro finestre bagnate e davanti a stufe e camini, il clima mite creava quasi un'aria di vacanza. Così Eric e i suoi genitori, Marsh e Claris, si erano ammucchiati nella giardinetta Buick sporca di fango ed erano partiti sulla lunga, serpeggiante discesa per la città. Pensandoci in retrospettiva, l'impressione era stata che, appena lasciata la casa alle spalle, il cielo da azzurro fosse diventato grigio; come se la natura avesse assunto un aspetto gradevole nella speranza di attirarli fuori e dopo esserci riuscita avesse abbandonato subito quel travestimento. Le ombre delle nubi scivolarono sulla strada, inghiottirono la vecchia Buick e si spostarono fino a inghiottire in un solo, avido boccone lo stretto pendio e tutto ciò che si trovava sul pendio. Eric notò il cambiamento solo in maniera vaga. Come al solito, la sua attenzione era puntata sul padre che guidava l'ingovernabile giardinetta lungo le stradine rese scivolose dal fango e dalle foglie. Lo sorprendeva sempre la capacità di suo padre di intuire in quali punti la strada fosse perfettamente compatta; in primavera aggirava le buche coperte di foglie e in inverno girava attorno al ghiaccio, evitando quei pericoli invisibili che potevano fargli perdere il controllo dell'auto. In certi momenti, a Eric sembrava quasi di sentire quello che sentiva suo padre, di dividere con lui la consapevolezza intuitiva che quella parte della strada era rischiosa, che quell'altra era okay. Era un gioco che a volte faceva. E talora gli sembrava più di un gioco. Erano a metà strada quando cominciò a piovere. Dapprima piano, poi più forte. In pochi minuti, il rumore della pioggia diventò un ruggito. Eric ripulì con la manica il finestrino appannato, scrutò le nubi gonfie che avevano fatto sparire le cime delle colline e dei pini. Le spazzole del tergicristallo tagliavano il mondo in frammenti di grigio e marrone. Suo padre era chino sul volante, gli occhi che fissavano la pioggia. «Figurati!» disse, più a se stesso che non a Claris o al ragazzo tranquillo sul sedile posteriore. «Se per caso vedete un'arca piena di animali, avvertitemi, d'accordo?» Claris ripulì il vetro del parabrezza con un fazzoletto preso dalla borset-
ta. «Anche se passasse un'intera flotta non riuscirei a vederla.» Nonostante i suoi sforzi, il vetro si appannò ancora di più. «Deve essere sporco fuori.» «Non preoccuparti, mamma» disse Eric dal sedile posteriore. Aveva avvertito l'inquietudine nella voce di sua madre. «Siamo quasi arrivati.» Marsh sorrise. «Otto anni, ed è così imperturbabile. Sei sicuro che non ne devi compiere ottanta?» Eric incontrò gli occhi del padre nello specchietto retrovisore, poi li perse quando l'auto scivolò sul fondo fangoso e slittò a sinistra. Marsh lottò col volante, usò contemporaneamente freni e acceleratore e riportò la Buick in carreggiata. Adesso correvano parallelamente allo spartiacque e sotto di loro si vedeva la città. Ancora un po' di strada e avrebbero lasciato la discesa, imboccando l'ultimo tratto del percorso. Ma suo padre era pallido, teso. Le dita si aprivano e si chiudevano nervosamente sul volante. Si girò verso Claris. «Non l'ho vista», disse a voce bassa, nervosa. «Non l'ho vista», ripeté, quasi stesse cercando di esprimere qualcosa che non poteva o non voleva tradurre in parole. Se sua moglie capì, non lo diede a vedere. Continuò a fissare la strada dal parabrezza tempestato dalla pioggia. «Forse riusciremo a trovare un punto abbastanza ampio per invertire la marcia e tornare a casa. In città possiamo provare ad andarci un'altra volta.» «Si, forse.» La preoccupazione era svanita dalla voce di suo padre, o era sotto controllo. «Tieni gli occhi aperti, Eric.» «Sì, papà.» Eric guardò fuori. Vedeva solo nebbia e alberi. L'intreccio di rami sopra la discesa che portava al lago era una macchia scura confusa con la nebbia. Più in alto, di lato, per un attimo, nella nebbia, intravide la caverna. Come sempre, gli diede un brivido. Non c'era mai stato (suo padre gli aveva proibito anche solo di avvicinarsi a quel posto), ma quella grande ferita aperta nella terra gli ispirava un timore segreto. Forse era una reazione provocata da suo padre, dall'aria che assumeva ogni volta che Eric gli chiedeva della caverna. Arrossì. Che femminuccia, pensò. Era una paura stupida e la caverna era solo una caverna. Eppure... Fu riportato alla realtà dalla voce di suo padre. Marsh stava guidando a passo d'uomo, passando in continuazione lo sguardo dallo specchietto retrovisore a quello esterno, alla strada. «Non mi piace», disse. «Non mi piace per niente. C'è qualcosa che non va.» Eric si chiese se anche lui avesse visto la caverna, poi smise di pensarci. Ma no. Suo padre era un adulto. Gli adulti non hanno paura delle ca-
verne. «Non possiamo fermarci un po', lasciar passare il temporale?» chiese Claris. Marsh scosse la testa. «Potrebbe arrivare qualche idiota a tutta birra e centrarci in pieno. Non possiamo fermarci, non possiamo tornare indietro...» Sopra di loro, la pioggia batteva sul tettuccio come un animale impazzito che tentasse di entrare. «Resta solo un pezzetto di strada», disse Claris. «Sì», disse Marsh. «Solo un pezzetto...» Poche centinaia di metri, una breve salita e si sarebbero trovati sulla strada principale per la città. Lì avrebbero potuto fermarsi, o tornare indietro. Solo pochi metri. Appena dietro la curva successiva. Poi il suono che lui non avrebbe mai dimenticato. Il grido strozzato di sua madre. «Marsh!» Un'altra auto avanzava verso di loro. Teneva a stento la strada; le gomme slittavano sul fango e sulle foglie. Marsh suonò il clacson due volte, tre. Non c'era spazio. Con sorprendente chiarezza, Eric, nell'attimo prima dell'impatto, vide la faccia dietro l'altro volante: un uomo ubriaco, addormentato, o qualcosa del genere. Un'ombra... «No!» Il suono del metallo contro il metallo. La Buick tremò, sbandò sulla destra. Verso il precipizio. Il fango si aprì sotto le ruote. Poi tutto prese a roteare su se stesso. Sua madre urlò. Eric fu scaraventato sul sedile anteriore, sentì qualcosa spezzarsi nel suo fianco. Il tetto si piegò. Una pioggia di vetro. Qualcosa lo colpì dietro l'orecchio. Tutto intorno divenne confuso, indistinto... Il suono cessò. La Buick era coricata su un fianco. Eric cercò di muoversi, ma braccia e gambe reagirono lentamente; poi esplose un dolore che gli trapassò il cranio. Si trovò incuneato nello spazio fra il sedile anteriore e quello posteriore. Con la coda dell'occhio vide sua madre, per metà fuori dal finestrino e per metà dentro. Il vetro aveva lavorato sul suo corpo come una sega. «Mamma?» chiese lui e deglutì, inghiottendo sangue. Lei non rispose.
Poi, dal sedile dell'autista: «Eric...» Nonostante il dolore che gli squassava i polmoni, Eric si arrampicò sul sedile. Suo padre era disteso sul volante. La testa aveva trapassato il parabrezza e dal cranio colava sangue. L'unico suono era un respiro irregolare. Una pausa, poi un'esalazione tremante. «Papà? Papà?» Gli occhi di suo padre erano fissi poi si puntarono su di lui. Eric vide che il sangue non usciva solo dal cranio, ma anche dal naso e dalla bocca. In un lampo, una vampata di calore al centro della fronte, capì che il corpo di suo padre era ridotto a brandelli, che il volante lo aveva colpito come un pugno gigantesco, recidendo arterie e maciullando il cuore. Seppe al di là di ogni dubbio che suo padre stava morendo. «Non... giusto», riuscì a mormorare suo padre. «Devo... dirti...» «Papà? Ti prego, non...» Suo padre tentò di nuovo di parlare, ma la lingua rifiutò di muoversi; restò a penzolargli in bocca. Eric cercò di spostarsi in avanti, di toccarlo, ma a ogni movimento tutto intorno si rovesciava. Disperatamente, suo padre alzò un dito fratturato e lo puntò in direzione del lago. Il suo sguardo si posò su quello di Eric, implorandolo di capire. Poi Marsh tremò e fece un sospiro. Costrinse le labbra sanguinanti a formare l'ultima parola della sua vita, l'unica benedizione che potesse offrire: «... Attento». Per un lungo momento, troppo stordito e spaventato per piangere, Eric aspettò qualcos'altro. Ma suo padre giaceva immobile. I polmoni non emettevano più rantoli, la mano era ancora puntata verso il lago. Nonostante il dolore, Eric alzò la testa. Tutto gli roteò attorno per un istante. Strizzò le palpebre, poi guardò la riva opposta del lago. Una momentanea schiarita nella nebbia gli svelò l'unica cosa che suo padre avesse potuto indicargli. La caverna lo fissava come una bocca nera e priva di labbra. Poi scomparve dietro la nebbia ed Eric si sentì invadere dal gelo. Tremò, mentre i contorni del mondo intorno a lui diventavano grigi. E udì la voce di suo padre. Guardò suo padre e si trovò di fronte il volto di una cosa morta da tanto tempo, una cosa orribile con grumi di pelle gialla su un cranio nero e orbite vuote che lo fissavano. La voce usciva dall'interno della gola, echeggiava nella bocca immobile, priva di labbra. Torna a casa, Eric, ripeteva. Torna a casa, torna a casa, torna a casa... Eric urlò.
E si svegliò al rumore del vetro che si frantumava e del vento che si scagliava sul suo minuscolo appartamento. Si svegliò al rumore del legno che scricchiolava nel buio e si spezzava. Il rumore era tutt'attorno a lui, assordante. Si coprì le orecchie con le mani e chiuse gli occhi. Non voglio sentire, non voglio vedere. Dopo un attimo, il rumore cessò. Lui staccò le mani dalle orecchie, ascoltò la notte. Per il momento, era finita. Tese la mano, incontrò l'abat-jour sul comodino, cercò con le dita frammenti di vetro, non ne trovò. Questa volta, la carneficina aveva risparmiato la lampada. La accese, aspettandosi il peggio; e vide il peggio. «Oh Dio...» Gli specchi erano in frantumi, i cassetti aperti e rovesciati, i vestiti sparsi in giro e strappati. Gli scaffali che aveva montato un mese prima erano stati divelti, i tasselli avevano lasciato fori nella parete. Il suo televisore era un ammasso fumante. Puoi dire addio a Johnny Carson, pensò, rise e lottò con la punta d'isterismo che percepì nella risata. Si alzò, trovò le ciabatte, aggirò con cautela le macerie e passò nell'altra stanza. Il resto dell'appartamento era nello stesso stato. Lo aveva fatto di nuovo. Su quello non c'erano dubbi. La sua testa pulsava come gli succedeva sempre, dopo. Prima che la situazione cominciasse a precipitare, si era illuso di poter controllare l'impulso. Ma non era mai riuscito e in genere le conseguenze erano state disastrose. Adesso non osava nemmeno provarci. Cominciava a sentire un dolore dietro l'occhio destro. Un'altra prova del fatto che la responsabilità era tutta sua. Anche se stava dormendo. Restò fermo sulla soglia, con la testa che arrivava a pochi centimetri dalla sommità della porta e pensò: ho perso il controllo. Di nuovo. Ma c'era qualcosa di più. Non era mai stato così terribile. E nemmeno il sogno. Guardò in quello che restava del grande specchio sulla porta, scrutò il suo viso di trentaduenne, in cerca del ragazzino di otto anni che era precipitato nel dirupo con il padre. Allora, i suoi capelli erano biondi; oggi erano meno folti e più scuri. L'orecchio sinistro era circondato da una chiazza di grigio. Ma parlava soprattutto la sua faccia: rughe invece di carnagione liscia, ombre sotto gli occhi per la mancanza di sonno. Non che fosse brutto. Era stanco. Così maledettamente, disperatamente
stanco di scappare. Torna a casa, Eric, torna a casa. Era stata quella parte del sogno ad apparire per prima, tre mesi addietro. Poi era successo una seconda volta, sei settimane prima. Per fortuna, quella notte era solo; stava facendo campeggio. Non aveva modo di sapere che cosa sarebbe successo se fosse stato in casa, o con qualcuno. (Eppure, per quanto solo, non gli era forse parso di non esserlo completamente, di sentire dei sussurri fra gli alberi?) Adesso aveva raggiunto l'apice. L'appartamento non era solo danneggiato, era diventato invivibile. Dai tubi spezzati, l'acqua gocciolava sulla moquette del soggiorno. Il piccolo acquario che aveva comperato un mese prima era esploso con tanta forza che i frammenti di vetro si erano conficcati nella parete di fronte. I pochi pesci erano finiti sul pavimento. Quasi tutti avevano smesso di muoversi. Doveva partire un'altra volta. In fretta. «Perché non puoi smettere?» chiese sottovoce, parlando alla notte. «Perché non puoi lasciarmi in pace?» Torna a casa, Eric, torna a casa. Ci ho provato, pensò. Ma ogni volta si era trovato bloccato. Ogni volta, aveva sentito che non era il momento giusto; e non era proprio quello che suo padre gli aveva detto tante volte, quando lui ancora non riusciva a capire bene di che cosa parlasse? Non gli aveva detto di ascoltare le proprie sensazioni? E le sensazioni si erano fatte sentire. Problemi logistici. Soldi. Il lavoro. I rapporti umani. Qualcosa lo aveva sempre fermato. Però adesso non c'era niente a fermarlo, giusto? Guardò l'appartamento distrutto. Di certo non era rimasto nulla che lo trattenesse. Torna a casa, Eric, torna a casa. «Va bene», disse. «Va bene.» Era arrivato il momento. Il momento di tornare a casa. PARTE PRIMA Il Point Vieni, o notte che tutto acciechi, Benda il tenero occhio del giorno pietoso, E con la tua sanguinosa mano invisibile
Annulla e straccia quella solenne cedola Che mi fa esser pallido! La luce s'intorbida; e il corvo Prende il volo verso il bosco pieno dei suoi nidi; Le buone creature del giorno incominciano a cedere alla stanchezza, Mentre i neri agenti della notte si svegliano per andare alla preda. WILLIAM SHAKESPEARE, Macbeth, III, 2 1 Eric A mezzogiorno, Eric era sessantacinque chilometri più a nord di quanto si fosse mai spinto dopo aver lasciato Dredmouth Point. Stava procedendo a velocità sostenuta, facendo quello che faceva sempre. Sceglieva il percorso che sentiva giusto. Quando entrò nel Maine, prese l'autostrada in direzione est, superò New Sharon e Norridgewock, attraversò il grande ponte di cemento sul fiume Kennebec. Il pranzo e un pieno per l'assetata Datsun a Skowhegan, poi di nuovo sull'autostrada. Cominciò a prendere nota dei nomi delle città che superava, a considerarle non semplici punti su una carta ma riferimenti per scoprire quanti chilometri avesse percorso in un certo tempo. Yarmouth e Bowdoinham, Pittston e Vassalboro. Pensò alla gente che viveva e lavorava lì, che andava al cinema e si lamentava del clima. Si chiese che aspetto avessero gli abitanti di Shawmut, in che cosa fossero diversi da quelli di Palmyra... Non pensare a quello che fai. Guarda i nomi sui cartelli stradali e tira diritto. Buon consiglio, pensò e rallentò, preparandosi per lo svincolo successivo. 2 Dopo l'incidente, zia Sandra l'aveva preso con sé, l'aveva portato nella sua casa nel Minnesota. Era decisa ad aiutarlo a superare il trauma. Lo a-
veva adottato ufficialmente, gli aveva persino dato il proprio cognome, Matthews (il cognome da ragazza della madre di Eric), per dargli una vera famiglia. O almeno, così raccontava. Lui si era chiesto più volte se la verità fosse tutta lì. La zia non parlava quasi mai del padre di Eric, che considerava piuttosto eccentrico, anche se non era mai riuscito a farle confessare esattamente che cosa volesse dire. Per sua zia, il cognome Langren sarebbe stato sempre associato a una tragedia. Meglio lasciarselo alle spalle. Eric era diventato un ragazzo relativamente tranquillo, ma era perseguitato da un senso di frustazione e curiosità nei confronti del padre, del quale ricordava ben poco. Sentiva il bisogno di capire, di fare domande, ma sapeva già che non avrebbe avuto risposte. A parte quello, era ragionevolmente felice. Sua zia aveva fatto di tutto per dargli una casa. E anche se il tubo di scappamento di un'automobile a volte lo gettava nel panico, dormiva sonni tranquilli. Lei non lo aveva mai portato a vedere le tombe dei suoi genitori, dopo il funerale. Anzi, era stata terribilmente ansiosa di allontanarlo da Dredmouth Point. Lui si era sempre chiesto di che cosa avesse paura. Solo anni dopo, scomparsa la zia, quando le sensazioni avevano cominciato a risvegliarsi, aveva iniziato a intuire la risposta. Ma ormai era tardi. Le risposte che avrebbe potuto avere erano sepolte ancora una volta in una tomba. E adesso erano arrivati gli incubi e con loro la distruzione di cui sapeva di essere la causa. Che cosa non hai voluto dirmi, zia Sandra? E perché? Perché? Eric uscì dallo svincolo e prese la direzione nord-est, lasciandosi le città alle spalle. A metà mattina aveva superato Green Lake ed Ellsworth Falls, dove l'autostrada riprendeva a correre verso est. Seguì la pietrosa linea costiera del Maine, tra fattorie che producevano fieno, grano e trifoglio. Case bianche e grigie, con le imposte scolorite dal vento e dalla pioggia. Mentre prima il territorio era ricco di paludi e stagni, ora c'erano lunghe distese di roccia nuda che scendeva al mare. La brezza che entrava dai finestrini dell'auto portava aromi pungenti di salsedine. A fianco di Eric passò una sfilata di nomi sui cartelli stradali: Gouldsboro e Milbridge, Columbia Falls e Jonesboro, con la Milton Mountain che incombeva a nord. Poi, dopo Whitneyville, arrivò il cartello che lui stava
aspettando da una ventina di chilometri. Era conficcato nel terreno prima di una rampa d'uscita che aveva le dimensioni di una stradina secondaria: DREDMOUTH POINT. Sono nato da qualche parte lungo questa strada, pensò. Per quanto fosse una fantasia irrazionale, si trastullò con l'idea che dopo il suo ingresso in città, qualcuno avrebbe alzato la testa, avrebbe visto qualcosa di familiare nei suoi occhi, un ricordo di suo padre, nel mento o nella bocca e gli avrebbe detto: «Bentornato a casa, figliolo! Ci sei mancato». Scacciò quella fantasia momentanea. Nessuno lo avrebbe riconosciuto. Se avesse portato ancora il nome Langren, forse la gente lo avrebbe ricordato. Suo padre gli aveva detto che a memoria d'uomo c'era sempre stato un Langren, al Point. Ma adesso era Eric Matthews e nessuno lo conosceva. Probabilmente era meglio così. Essere un osservatore vagamente curioso e non il figlio di Marsh Langren, gli avrebbe permesso di scoprire più cose sulla sua famiglia. Svoltò nella strada d'accesso e, superato il gruppo di alberi ai lati dell'autostrada, vide per la prima volta dopo venticinque anni quella sottile striscia di terra che si protendeva verso Machias Bay come un indice ossuto. Dredmouth Point. O, per quelli che ci vivevano, semplicemente il Point. Le buche e le montagnole della strada sterrata fecero vibrare le sospensioni della Datsun. La strada scese bruscamente, curvò dopo una fila di alti pini. La baia scomparve subito, mentre lui si addentrava nel cuore del Point. Però, appena prima di entrare nella città vera e propria, svoltò a destra, su una strada polverosa ancora più stretta che seguiva la linea costiera. Non era pronto. Non ancora. Era troppo presto. Oltrepassò alte cortine di solidago e cespugli spinosi. L'ultima, lenta curva gli riportò sotto gli occhi Machias Bay. Le onde si infrangevano sulla riva a una ventina di metri dalla strada, spazzando il lungo molo di legno dal quale, stando ai cartelli, ogni due ore partiva un traghetto per Buck's Harbor. Un mare grigio che rifletteva un cielo grigio, coperto; rocce nere e grigie battute da onde scure; e il molo, grigio nella nebbiolina prodotta dall'acqua: ombre vaghe, inconsistenti, come in sogno. Solo che questa volta non era un sogno. Era tornato a casa.
3 Eric raggiunse l'estremità del molo e appoggiò le mani sulla ringhiera di legno, fredda e liscia, levigata dalla salsedine. Fissò l'acqua sotto di sé e, come sempre, si sorprese a scoprire quanto il mare lo mettesse a suo agio. Puntando lo sguardo, poteva perdersi nelle onde coronate di bianco che si infrangevano contro i pilastri con regolarità cronometrica. L'ingresso in città poteva aspettare. Per il momento, gli bastava semplicemente esistere. «Che cosa le dice, amico?» Eric sobbalzò, sorpreso non tanto dalla voce e dal vecchio alle sue spalle, quanto dal pensiero che gli martellò in testa: non l'ho sentito arrivare. «Non volevo spaventarla», disse il vecchio. Era magro, con le mani e il viso segnati da una minuziosa ragnatela di rughe. Si avvicinò alla ringhiera, a fianco di Eric. «Da come guardava il mare, ero sicuro che le stesse raccontando storie molto interessanti.» Eric seguì lo sguardo del vecchio. «Mi spiace. Qualunque cosa dica, non sono capace di decifrarla.» Il vecchio annuì e prese dalla giacca un pacchetto di sigarette tutto spiegazzato. Offrì una sigaretta a Eric con l'espressione di chi preferirebbe un rifiuto cortese. Lo ottenne. Tirò fuori una sigaretta e la accese. «Peccato. Non saprà mai che cosa perde.» Eric sorrise. «Il mare le parla?» «Oh, sicuro. Un sacco di volte. Il mare parla con tutti. Basta saperlo ascoltare. E racconta anche storie molto interessanti.» «Ad esempio?» Il vecchio strizzò l'occhio. «Ehi, ehi, non credo sarebbe da gentiluomo raccontarle agli sconosciuti, no?» «No, immagino di no», disse Eric e rise. «Appunto.» Poi restarono in silenzio per un po', a guardare le luci del tramonto che si distendevano sull'acqua. Il vecchio aspirò una lunga boccata dalla sigaretta. «Pensa di trovare presto un posto dove sistemarsi?» Eric studiò l'altro con crescente curiosità. «Che cosa le fa pensare che non abbia una casa?» «Il buonsenso. Non l'ho mai vista prima e io vedo tutti. Lei non ha l'aria di quei ricconi che ci invadono tutte le estati, quindi scommetto che non sta in uno di quei cottage sulla baia.» Il vecchio spense il mozzicone sulla
ringhiera e lo infilò in tasca. «No», continuò, «da come la vedo io, lei è appena arrivato, non è ricco, non sta nemmeno tanto bene e sta cercando un posto che non le costi tutti i suoi risparmi.» «Centro perfetto», disse Eric, colpito. «Ha capito tutto semplicemente guardandomi?» «Guardandola», disse il vecchio «e prendendomi la libertà di dare un'occhiata nella sua macchina parcheggiata qui davanti. Ho visto un paio di valigie scassate e un po' di altra roba, ma niente che sembri appena uscito da un negozio alla moda.» «Uno Sherlock Holmes in piena regola, eh?» Il vecchio annuì, accettando il complimento. «Ovviamente, la sua è una violazione della mia privacy. Non so se devo prendermela o no.» «Dipende se vuole sapere o no dove può trovare una stanza per poco.» Eric rifletté. «Non me la prendo.» «Provi alla Point Cabins. Nella zona sottovento del Point. Chieda di Zachariah C. Franklin. Fra poco vado anch'io da quella parte, se vuole può seguire il mio furgone. Devo solo aspettare il traghetto, nel caso arrivasse altra gente.» «Che cos'è una specie di servizio pubblico? Aspetta i turisti sul molo e indica loro l'alloggio più economico della città?» «Più o meno», rispose il vecchio. «Lei non deve fare altro che presentarsi a quelli della Point Cabins, dire che la mando io e farà un buon affare.» «D'accordo. Quando arrivo, chi devo dire che mi manda?» «Di solito qui mi chiamano tutti Zach.» Eric sorrise. «Come Zachariah C. Franklin? Come il proprietario della Point Cabins?» «Beccato», disse il vecchio. Solo un angolo della sua bocca tradiva il divertimento. Tese la mano. «Lieto di averla conosciuta.» Il traghetto arrivò quindici minuti dopo, senza neanche un passeggero. 4 Eric seguì il furgoncino verde di Zach, sporco di fango, fino alla zona ovest del Point, riparata dai venti che soffiavano dall'Atlantico al crepuscolo. I cottage della Point Cabins, disseminati lungo la costa in una dozzina di punti, sembravano ciuffetti di barba su una mascella di roccia. Erano stati ricavati dai pini e dagli olmi che crescevano ovunque il terreno fosse
tanto stabile da permettere alle radici di fare presa. Si fermarono davanti alla casa a due piani che Zach divideva con la moglie (la chiamava la Grande Casa, con un tono da melodramma). Zach indicò una casetta di legno distante poche decine di metri. «L'affitto si paga ogni lunedì. Non sono permesse sbronze in pubblico e attività illecite. Niente droga o roba del genere. I pasti vengono serviti due volte al giorno alla Grande Casa. Chi arriva tardi si arrangia da solo. A parte questo, lei può fare quello che vuole e non è che da queste parti ci sia molto da fare.» Zach rifletté un attimo, poi lanciò un'occhiata furtiva alla figura che si stagliava contro la finestra alle sue spalle. «Un po' come nel matrimonio, eh?» Eric convenne che era più o meno lo stesso. «Be', si mangia fra una mezz'oretta», disse Zach. «Dirò alla signora di mettere un altro piatto.» «No, non si preoccupi. Così, senza preavviso...» Zach respinse le proteste con un cenno della mano. «Idiozie. Lo sa il cielo che per lei non sarà un problema, ma non le dia retta. È fatta così. Brontolerà e farà storie, ma è sempre contenta di poter parlare con una faccia nuova.» Eric si avviò verso il cottage. «E la chiave?» «La porta è aperta. Prenderà la chiave quando viene a mangiare. Da queste parti, è inutile tenere chiusa una casa vuota. Abbiamo anche noi i nostri balordi, non creda, ma il Point è un posto sicuro per viverci. È una città per bene. Penso che le piacerà.» Zach girò sui tacchi e salì le scale di legno che portavano al portico sul retro. Eric intravvide per un attimo una vecchia cucina a piastrelle, con una stufa a gas e un lavandino su cui qualcuno stava lavorando. Poi la porta si richiuse ed Eric si incamminò sul sentiero che portava al suo cottage. Spinse i bagagli oltre l'ingresso ed entrò. Non era un gran che. La testiera di un letto matrimoniale era appoggiata alla parete di fronte, e su un lato c'era un comodino. Lungo la stretta parete di destra, una toletta e una cassettiera incorniciavano un piccolo armadio a muro senza ante. Pochi mobili (due sedie a schienale alto, un tavolino da caffé, un tavolo più grosso e un poggiapiedi) erano sistemati in cerchio. Il pavimento era di legno. Un lungo divano un po' sfondato era al centro della parete opposta, sotto un bow-window. Un'altra porta, che presumibilmente dava sul bagno, si trovava a un'estremità del cottage e di fronte c'era un grande caminetto.
No, non era un gran che. Ma come quasi tutti i posti dove aveva vissuto negli ultimi anni, era confortevole e ragionevolmente pulito. Le pareti sembravano abbastanza solide da tener fuori il vento e il letto aveva un'aria morbida. Con qualche ciocco di legna che bruciava nel camino, la casa poteva diventare addirittura accogliente. Gettò la valigia sul letto, aprì la cerniera, tirò fuori i vestiti. Ne mise una parte nell'armadio (in cassetti foderati con una carta pulita che profumava di rose); al resto avrebbe pensato più tardi. Si spogliò, entrò nel bagno spartano e fece una doccia veloce. Mentre si asciugava, guardò lo specchio dell'armadietto dei medicinali, e vide un uomo stanco. Cristo, pensò. Sono davvero qui. Uscito dal bagno, indossò un pesante maglione grigio e una giacca marrone, poi i calzoni. So che non è vero, pensò cupamente mentre si avviava alla porta, ma potrei quasi dire di avere un aspetto normale. La sera era scesa in silenzio su Dredmouth Point. Quasi tutte le altre casette di legno erano al buio. Le finestre erano puntate sull'acqua come occhi morti, occhi che sarebbero rimasti privi di vita fino alla stagione successiva. Eppure... Forse era un gioco di luce, gli ultimi bagliori del crepuscolo riflessi dall'acqua, ma i cottage sembravano quasi brillare: come le immagini che restano dietro le palpebre a occhi chiusi. Eric individuò una delle casette, poi un'altra e ogni volta gli parve di saperne qualcosa: il tipo di persone che le avevano abitate, le gioie e le tragedie che si erano verificate tra quelle mura. Come dischi che lui solo poteva udire, nei cottage vuoti vibravano ancora i gesti e i suoni degli ospiti estivi che non c'erano più. Là, in quella casa, un vecchio era morto dolcemente, nel sonno. Da un'altra, lontana non più di sei metri, riusciva quasi a sentire i bambini che chiedevano il permesso di fermarsi per altri cinque minuti nel buio incantato. Le ombre tra la parete e l'acqua, tra la porta e l'albero, rimandavano gli echi dei suoni della vita. Ma erano soltanto echi e col tempo si sarebbero smorzati sempre più, sino ad annegare nel silenzio. La sua sensazione si spense su quel pensiero. Eric accelerò il passo in direzione della Grande Casa, turbato. Si sentiva una specie di voyeur e non gli piaceva quello che le ombre gli dicevano. Dredmouth Point stava morendo.
2 Liz La cena nella Grande Casa fu molto gradevole. Zach e sua moglie, Sarah, si sistemarono ai due capi di una lunga tavola, circondati da una manciata di pensionanti seduti su sedie di legno. Il posto apparecchiato a fianco di Zach era vuoto. Sarah Franklin era una donna gioviale, cordiale, dal fisico imponente. Continuò a portare dalla cucina una serie di piatti che sembrava interminabile, entrando e uscendo dalla conversazione che fioriva attorno al tavolo, scherzando e prendendo in giro tutti (Zach in particolare) alla minima occasione. Per la maggior parte della cena, Eric si limitò ad ascoltare gli altri commensali, cercando di non confondere i nomi. Davanti a lui era seduto Sam Crawford, professore di antropologia all'università di Farmington nel Maine. Cresciuto al Point, era, come rivelò Zach con considerevole orgoglio, uno dei pochi indigeni che avessero mai frequentato l'università e che fossero riusciti nella carriera accademica. «Di solito, quando fanno fortuna fuori», disse Zach, «non rimettono mai piede qui. Non Sam, però. Non ha un pizzico di buonsenso.» Accanto a Sam sedeva padre Duncan Kerr, che era stato trasferito a Dredmouth Point, alla parrocchia di Saint Benedict, dieci anni prima. Infine c'erano Mark e Kathy Orwoll, che si tennero quasi sempre in disparte per tutta la cena e andarono via subito. La loro settimana di vacanza al Point era finita e volevano prendere l'ultimo traghetto. Come Eric aveva previsto, ci furono le solite domande: cosa ci faceva al Point? Quanto pensava di fermarsi? Era mai stato da quelle parti? Rispose in termini che sperò fossero tanto generici da soddisfare le curiosità senza farne sorgere altre: era semplicemente un turista di passaggio e in passato era stato una sola volta al Point. Dopo cena, si trasferirono nel salotto per il caffé e la torta. La stanza era arredata con una serie eterogenea di mobili acquistati nel corso di molti anni. C'erano vecchie lanterne d'ottone, campane da nebbia per navi e un barometro montato su un timone. C'erano dipinti di paesaggi marini e pezzi di legname portati dalla risacca che erano stati scolpiti e decorati con madreperla. Decine di fotografie in cornice riempivano i pochi spazi rimasti vuoti sulle pareti, si accalcavano tra i mobili come una riunione di
famiglia in miniatura. «Un bel po' di robaccia, eh?» commentò Zach, notando le occhiate di Eric. Eric annuì. «È molto grazioso. Le deve essere occorso parecchio tempo per raccogliere tutto.» «Tutta la vita. Sono cresciuto qui al Point e poi ovviamente c'è stata la guerra. Quando sono tornato a casa, sono tornato per restare. Ho preso l'aereo per la prima volta dal giorno della vittoria, quando sono andato a Los Angeles per assistere ai funerali della moglie di mio figlio.» Zach guardò il ritratto al centro della mensola del caminetto, chiaramente un posto d'onore. Un giovane uomo sorrideva nella foto di fianco a una donna carina, dall'aria dolce. L'uomo aveva gli occhi di Zach. «Si è risposato l'anno scorso. È stato terribile, per lui. Io non ci riuscirei mai. Se restassi solo come lui, specialmente alla mia età, immagino che avvizzirei e morirei.» Scoccò un'occhiata maliziosa a Sarah e sussurrò: «Per di più se non le dispiace, preferirei non dover trascorrere l'eternità con due mogli, no grazie. Una è già abbastanza dura da sopportare quando sei vivo e per un'oretta puoi scappare alla sala da biliardo. Ma quando sei in paradiso, non c'è nessun posto dove andare, non è vero, padre?» «Non credo che dovrai preoccuparti troppo per questo», intervenne Sarah, mettendo giù il vassoio della torta al caffé. «Dove vado io, non ti lasceranno entrare. Anche il Signore ha i suoi standard minimi.» Padre Kerr sorseggiò il tè, abbozzando un sorriso. Era un uomo robusto, quasi pesante, che ce la metteva tutta per mantenere un'espressione severa. Ma l'effetto veniva vanificato dal senso dello humor che trapelava dal suo sguardo e da una voce che, nonostante tutti i suoi sforzi, era aperta e cordiale. «Non avresti molte possibilità di scelta, Zach. Una volta che ci sei, ci resti. Non c'è nessun altro posto dove andare, per lo meno nessun altro posto dove potrebbe piacerti passare le vacanze. Ammesso, come dice Sarah, che ti lascino entrare, il che nella migliore delle ipotesi è problematico. In quanto alle sale da biliardo, le Sacre Scritture non dicono niente, ma se esiste qualcuno che può trovarne una in paradiso, quello sei tu.» «Staremo a vedere», disse Zach. Si alzò e prese la sua tazza, lasciando un cerchio bagnato sul legno lucido. «Io mi prendo qualcosa di forte. Qualcun altro vuole un goccio?» Sam scosse la testa. «Se voglio arrivare alla tua età, credo sia meglio limitarmi al caffé.» Il suo tono era più deciso di quanto dovesse essere.
Beve troppo... No, beveva troppo e ha paura di ricominciare, intuì in un lampo Eric. «Come vuoi.» Zach si avviò verso la cucina. «In quanto a me, vivo obbedendo a quello che Sam Clemens ha detto tanto tempo fa: 'Se non puoi arrivare a settant'anni su una strada comoda, non arrivarci'. Ultima occasione. Qualcun altro? Eric?» «Io passo.» «Qui non c'è nemmeno un vero uomo», mugugnò Zach e scomparve in cucina. Eric si appoggiò all'indietro sulla poltrona e si rilassò. Da parecchio tempo non gli accadeva di sentirsi così bene. «È sempre così, qui?» «Quasi tutti i giorni», disse Sam. «Ha detto di essere già stato al Point?» Eric annuì. «Ci sono venuto in vacanza con i miei, ma è stato più di vent'anni fa. Non ricordo molto.» Era una bugia, ma indispensabile. C'era sempre l'eventualità che gli sfuggisse qualcosa che indicasse la sua familiarità col Point; meglio offrire subito un buon motivo. «Peccato che abbia scelto il periodo sbagliato», disse Kerr. «Praticamente siamo a fine stagione. Il bel tempo è terminato almeno da un paio di settimane e i pochi turisti che abbiamo avuto quest'anno se ne sono andati quasi tutti...» Scosse la testa. «Mi chiedo per quanto tèmpo il Point riuscirà a sopravvivere come zona turistica. Da come stanno andando le cose, fra pochi anni si trasformerà di nuovo nella piccola città di pescatori che era prima che cominciassimo a interessarci ai turisti.» «Dall'altra parte della baia, attorno a Buck's Harbor, stanno costruendo», disse Sam. «Un gruppo di imprenditori ha comperato un bel pezzo di terra e adesso stanno costruendo una serie di hotel di lusso, cottage, ristoranti, negozi, persino una multisala cinematografica. Cose che noi non possiamo offrire. Tra qualche anno, quando avranno finito, non potremo competere. A dire la verità, sono cinque anni che la gente di qui vede diminuire gli affari e molti pensano che questo sarà l'ultimo chiodo piantato nella bara.» «Ormai c'è poca gente che voglia davvero scappare dalla città», disse Kerr. «Vogliono scappare e portarsi dietro tutta la città. Secondo me, quasi tutti sono semplicemente innamorati dell'idea di spostarsi da qui a lì, come se significasse qualcosa. Come se fare e disfare valigie volesse dire godersi di più la vita. Ma è quello che c'è dentro che conta.» Kerr si batté sul petto, all'altezza del cuore. «Se dentro non c'è niente che valga, se nel cuore non c'è un posto tutto nostro per le vacanze, per quanto l'idea possa sembrare retorica, non lo troveremo mai fuori.»
«Ti stai scaldando per il sermone di domenica?» chiese Sam. Kerr sorrise timidamente. «I provini del prossimo film. Non che a te interessino molto, visto che sei un miscredente.» «Non eravamo d'accordo di non infilarci in questa discussione, stasera? La Grande Casa è territorio neutrale, ricordi?» Prima che padre Kerr potesse rispondere, la porta d'ingresso si spalancò. Il vento freddo della sera entrò nella stanza e qualcuno che indossava strati su strati di vestiti superò di corsa i presenti, troppo in fretta perché Eric potesse vedere di chi si trattava. Zach entrò nella stanza appena in tempo per schivare la figura che si dirigeva in cucina ed evitare una collisione. «Un maledetto missile» commentò, appoggiando un bicchiere di birra sul tavolo e rimettendosi a sedere. Un attimo più tardi, la nuova arrivata apparve in soggiorno con una tazza fumante di caffé in una mano e nell'altra un piatto con diverse fette di manzo sotto sale e due pezzi di pane caldo. «Zach», disse, sistemando sulle ginocchia la tazza e il piatto, «hai sposato una santa. Sapeva esattamente di che cosa ho bisogno: caffé, cibo e un minuto davanti a quella meravigliosa stufa. Era tutto pronto per me.» «Non ti ci abituare», disse Zach. «Se la signora vuole trattarti come se fossi qualcosa di speciale, be', è un suo diritto, immagino; ma in quanto a me, tu sei solo un'altra pensionante che non riesce a ficcarsi in zucca gli orari dei pasti.» «Al che rispondo: puah. Sappiamo tutti e due che lei non fa niente senza il tuo permesso, quindi lascia pure il tuo mantello da oste senza cuore nell'armadio. È il posto giusto.» La donna alzò la tazza con entrambe le mani per scaldarsi e bevve un lungo sorso di caffé. Un brivido la percorse. «Dio, potrei anche non riprendermi mai più.» «Ti sta bene. Hai voluto uscire su quella barca. Io ti avevo avvertita, ma mi hai dato retta? No, naturalmente. E per di più...» «E per di più...» La donna imitò Zach alla perfezione: fronte corrugata e labbra piegate all'ingiù. «E per di più», continuò Zach, senza farle caso, «il minimo che potresti fare è comportarti da persona civile e salutare la compagnia, quando entri in una stanza.» «Devi sentirti umana prima di poter essere civile e io ci sto appena arrivando.» Alzò gli occhi dal piatto, sorrise e annuì agli altri. «Buonasera, padre Kerr. Sam.» Si fermò, notando Eric per la prima volta. «Se non lo
sai», disse, girandosi verso Zach, «potresti almeno presentarci, a proposito di buona educazione.» «Il signore ha una lingua, anche se non ha avuto molte occasioni di usarla. Può presentarsi da solo.» La donna guardò Eric. «È vero che ha una lingua? E se sì, a chi appartiene?» «Mi chiamo Eric Matthews.» «Lieta di conoscerla, Eric Matthews. Io sono Elizabeth Chasen. Va bene anche Liz. Liz'beth, invece, no», aggiunse, scrutando cupa Zach. «È una scrittrice», disse Sam. «È qui per scrivere un libro, un libro vero, non una di quelle schifezze sexy che si vedono nei supermercati.» «Allora per me è la prima volta», disse Eric. «Non credo di avere mai conosciuto uno scrittore.» «Il suo modo di parlare dovrebbe averla messa in guardia», disse Sam. «Non fa mai errori di grammatica. Da queste parti, una persona colpevole di conoscere la grammatica è uno scrittore, o uno che viene da fuori, o comunque uno sospettato per principio.» «Ha mai venduto qualcosa?» A metà di un morso al pane, Liz alzò gli occhi al cielo e sospirò. Gli altri risero, scambiandosi occhiate d'intesa. «Liz», disse Kerr, «quante volte le hanno fatto questa domanda da quando è arrivata?» «Quante persone ci sono al Point? Sam? Sei tu il custode di cifre della città.» «D'estate, forse milletrecento, millequattrocento. Al momento, direi fra le ottocentocinquanta e le novecento.» «Allora lei è la novecentesima più uno. E per rispondere alla sua domanda, sì, ho venduto qualcosa. Più che altro articoli, qualche romanzo storico, roba del genere. E una schifezza sexy, per usare il termine di Sam. Quanto basta per sopravvivere. C'è altro che vuole sapere?» «No, mi basta», disse Eric. «Scusi se l'ho offesa.» «Per carità. Ci sono abituata. Se dici che sei un idraulico o un calzolaio o un chirurgo del cervello, quasi nessuno ti chiederà di dimostrare che lo sei davvero. Ma appena dici che sei uno scrittore, non riescono a crederci. Qui è anche peggio. Di solito, la prima cosa che mi dicono quasi tutti è: 'Oh, povera cara, quand'è che hai mangiato l'ultima volta?'» «È colpa sua», disse Zach. «Le scrittrici dovrebbero essere vecchie signore coi capelli azzurrini che passano tutto il tempo dietro una macchina
per scrivere, perché se osassero mostrare la faccia in pubblico, qualcuno gli infilerebbe un paletto nel cuore. In quanto all'aspetto, ammettiamolo, Liz non rientra nella categoria.» Eric pensò che su quello Zach aveva ragione. Liz aveva capelli castano chiaro che le arrivavano alle spalle, tratti del viso quasi aquilini, occhi verdi e piccole rughe lasciate attorno alla bocca dal sorriso. Sospettava che avesse anche un bel corpo, dal poco che poteva intuire sotto gli strati di vestiti. Zach batté una mano sul ginocchio di Eric. «Sarebbe una spogliarellista grandiosa, no?» Liz sospirò. «Zach ricomincia a essere irascibile.» Si rivolse a Eric, con il tono di un'insegnante che stia parlando di un bambino particolarmente difficile. «Deve scusarlo. Ormai ha attacchi sempre più frequenti.» «A rischio di creare ulteriori guai», disse Eric, «qual è l'altra domanda che le rivolgono più spesso?» «Semplice. Che cosa ci fa uno scrittore al Point?» «Vuoi dire che c'è un motivo, oltre al fatto di rompere le scatole a Myrna perché in biblioteca non ci sono i tuoi libri?» chiese Sam. «Ci sono un sacco di libri non compresi nella cosiddetta biblioteca della signorina Cranston», rispose Liz, poi riportò l'attenzione su Eric. «Sono sei mesi che giro da una piccola città a un'altra, raccogliendo materiale per un nuovo libro. Luoghi nascosti: una storia orale dei villaggi del Maine. Non sarà un titolo-bomba, ma sto accumulando materiale affascinante.» «Viene tutti i giorni e ci prosciuga il cervello», disse Sam. «Ogni tanto parla un po', ma più che altro sta ad ascoltare per ore e ore.» «Sam mi è stato di grande aiuto. Dagli una mezza occasione e ti racconterà tutta la storia del Point. Una buona parte è perfettamente credibile, altre parti sono un po' dubbie e c'è qualcosa che ha persino un briciolo di senso.» «Grazie di cuore», disse Sam. Liz mise giù la tazza vuota e si stirò sulla sedia. Si era finalmente riscaldata e sembrava abbastanza soddisfatta. «Bene», disse. «Adesso posso morire felice.» Kerr vuotò il tabacco rimasto nella pipa e ricominciò a riempire il fornello. «Tra quanto finirà? C'è un'intera città che aspetta di vedere se scriverà qualcosa che valga la pena di una denuncia o no.» Liz rifletté. «Fino a ieri, avevo circa cento ore di interviste registrate da trascrivere e mettere a posto. Dopo un'intera giornata con Fred Keller su
quella sua vecchia barca, aggiunga altre quattro ore, quattro ore e mezzo di materiale. Forse mi servirà un nuovo registratore. C'era più acqua salata nella barca che in tutta la Machias Bay. Se il registratore e i nastri sono a posto, e me lo auguro, ho ancora una dozzina di interviste da fare. Poi potrò tirare il fiato, tornare al mio appartamento, ammesso che non sia bruciato durante la mia assenza e cercare di cavare un senso da quello che ho in mano. Scrivere, qualunque cosa abbiate sentito, significa lavorare.» «Significa anche un maledetto peccato.» Era la voce di Zach. «Non è giusto che una donna carina passi tanto tempo da sola o con dei vecchi scorreggioni mummificati come noi. Dovrebbe andare in città a divertirsi.» Zach guardò Eric. «Ha qualche idea su come risolvere il problema, signor Matthews?» Liz intervenne prima che Eric potesse formulare una risposta giudiziosa. «Signora Franklin», urlò verso la cucina, «devi dare a Zach i suoi biscottini e il suo latte caldo e spedirlo in camera.» Lanciò un'occhiata di disapprovazione a Zach. «La sua ora di andare a letto è passata da un pezzo.» 2 Liz frugò tra la miriade di oggetti che ingombravano il sedile posteriore della vecchia Volkswagen e alla fine riuscì a estrarre il registratore e la scatola dei nastri da sotto pile di giornali e di libri. Con la mano libera aprì la porta del suo cottage, entrò, chiuse la porta con un calcio e mise tutto sul letto. Aveva pensato di rimandare all'indomani la lotta fra lei e la macchina, ma era meglio affrontarla subito. Il pensiero che l'acqua salata potesse avere danneggiato il registratore l'aveva perseguitata per l'intera sera. Usava quel registratore da quando aveva cominciato a scrivere, ai tempi del college e lo considerava un compagno logorato dalle battaglie, ma fedele. L'idea di perdere quell'amico era quasi insopportabile. Il manzo sotto sale e la conversazione l'avevano aiutata a non pensarci. Poi Sam e padre Kerr se n'erano andati e il nuovo pensionante (come si chiamava? Eric? Sì, esatto. Eric Matthews) era uscito per una passeggiata prima di coricarsi. A quel punto, o lei se ne andava, o restava a scambiare insulti con Zach per tutta la notte, il che, stando a uno dei suoi intervistati, era «un po' come insegnare a una gallina a stare a testa in giù. Puoi fare tutti gli sforzi che vuoi, dirti che stai combinando qualcosa di utile, ma quando hai finito, l'unica cosa che hai ottenuto è una gallina capovolta».
Anche se le prime impressioni sono sempre poco affidabili, Eric le sembrava a posto. E nemmeno brutto. Però chiuso, in guardia. Pensoso. Era quello il termine esatto, il mot juste che la scrittrice che era in lei esigeva. Lui aveva quel tipo di occhi che sembrano ansiosi di trovare qualcosa, qualunque cosa dì cui ridere. Molto attento e molto sull'attenti: il tipo di persona che ti dà l'impressione di stare in piedi anche quando è seduto. Esattamente il tipo d'uomo che sarebbe piaciuto ai suoi, pensò e corrugò la fronte. Non era il caso di permettere che ne nascesse un pregiudizio su qualcuno che aveva appena conosciuto. Sentiva quasi le loro voci da qualche parte nella mente. Sembra un ragazzo perbene. Ha un lavoro? Prospettive? Lo sa il Signore se non hai bisogno di qualcuno che si prenda cura di te. Era stupido perdere la calma e non lo avrebbe fatto. Cominciava a scaldarsi e a irritarsi perché stava recitando tutte le parti da sola, perché ripeteva quelle frasi avanti e indietro; ma a un certo punto si rese conto dell'assurdità di dare voce agli argomenti che cinque anni prima l'avevano spinta ad andarsene di casa. Che stupida. Che stupidissima idiota. Guardò il tavolo, dove due pile di carte minacciavano di confondersi e di formare un caos completamente ingovernabile. Una era la sua pila speciale, dove teneva note, appunti e abbozzi di dialoghi per un romanzo. Intravvide la pagina col titolo. I pericolosi giochi di Solomon Greene. Un giallo. Ne aveva completato solo pochi capitoli, ma ne era orgogliosa. Così orgogliosa che per una volta, una sola volta, aveva commesso lo sbaglio di accennarne a suo padre. Lui aveva scosso la testa e manifestato la propria disapprovazione, come lei prevedeva. «Senti un po', Lizzie», le aveva detto. «Magari riesco a capire che a qualcuno interessino quei romanzi storici, per la voglia di leggere di altra gente e roba del genere. È pura curiosità. Non puoi sbagliare di molto se conti sul desiderio di ficcare il naso. Ma se credi che qualcuno voglia leggere una storia che hai inventato tu, di testa tua...» Anche prima che lui le pronunciasse, lei sapeva già quali sarebbero state le sue parole. Quando avrebbe smesso di correre qua e là? Quando si sarebbe sistemata? Quando si sarebbe trovata un brav'uomo? Non c'era niente di sbagliato nel fatto che lei avesse un hobby, Dio del cielo, no. Ma un hobby non riempiva il letto e non procurava da mangiare, giusto? Erano le stesse parole che suo padre le aveva detto quando lei era andata
all'università. Erano le stesse parole che aveva detto quando aveva saputo che lei seguiva i corsi di giornalismo e di letteratura creativa e che non li considerava semplici scuse per incontrare uomini. Sua madre, ovviamente, non aveva detto nulla. Era rimasta a guardare impotente, con quella sua aria ombrosa, passiva. «È tuo padre», aveva aggiunto più tardi, come se quello spiegasse tutto. Liz non aveva mai più parlato del romanzo. Sarebbe andata avanti da sola, avrebbe scritto il maledetto libro e a quel punto, quando fosse diventato un best-seller, a quel punto avrebbero capito. Per lo meno, quella era la teoria. Un passo alla volta, pensò e tornò a ciò che doveva fare. Inutile rimandare. Sedette sul letto, si mise il registratore in grembo e tolse la foderina di pelle. Nella griglia dell'altoparlante e sulla cassetta erano visibili frammenti di alghe e incrostazioni di sale. Si mise a raschiare con un'unghia, togliendo tutto il possibile senza danneggiare il nastro. Per la sabbia che si era cementata attorno all'altoparlante sarebbe stato necessario un bagno chimico, prima che il suo fedele registratore tornasse a essere quello di sempre. Ma se non altro, l'interno era asciutto e le testine sembravano a posto. Prese una cassetta e la inserì nel registratore. Un attimo dopo, la voce roca di Fred Keller riempì la stanza, portando con sé il ronzio lontano del motore della barca e le strida dei gabbiani. Il nastro iniziava a metà dell'intervista. «Be', sicuro», stava dicendo Keller, «un po' è preparazione, un po' è pratica. Mai detto che non lo sia. Solo un maledetto idiota può uscire in mare così, alla cieca, pensando di cercare i pesci. Cerchi i pesci e vedi solo alghe, vecchi pneumatici e un maledetto idiota che ti guarda dall'acqua. Devi sapere dove sono le correnti calde. Devi conoscere le acque profonde dove i pesci si nascondono quando fa caldo e le acque basse dove stanno quando la notte è fredda. «Io me la cavo così bene perché so tutto questo e di più. Getto reti attorno a Machias Bay da quando avevo dodici anni. Come mio padre e prima di lui suo padre. Ma anche sapere le cose non è tutto. Cavoli, vedo gente che parte per la baia con tutte le attrezzature più moderne. Sonar, termometri, tutti gli accidenti che basterebbero per aprire una stazione radio e tornano a mani vuote. Secondo lei cosa c'è sotto, eh? Anche loro potrebbero trovare gli stessi posti che trovo io. Ma devi avere la sensazione che
quello sia il posto giusto. Forse non c'entra l'aspetto dell'acqua, o magari devi sapere quando è più probabile che i pesci si spostino da una profondità all'altra. E forse c'entra il rispetto. Devi trattare il mare come una signora e non intendo una di quelle donne emancipate, senza offesa. Però non puoi andare a buttare lattine di birra nel giardino del mare e sperare di concludere qualcosa. Devi avere rispetto.» Soddisfatta della qualità dell'audio, Liz abbassò un poco il volume e continuò ad ascoltare. Intanto, tirò fuori le altre cassette e iniziò a sistemarle in un contenitore di plastica. Keller si era dimostrato una miniera di storie pittoresche; esattamente quello che le serviva per il secondo capitolo. Si tolse il maglione e lo aggiunse al mucchio di abiti da lavare che minacciava di traboccare dal cesto e invadere la stanza. Prima o poi doveva pensare anche a quello. Prese dall'armadio una camicia da notte di cotone e la stese sul letto. Facendo il più in fretta possibile per sfuggire al freddo, si sfilò la camicia dalla testa e poi il reggiseno, che poggiò sulla toletta, vicino a una lampada d'ottone in miniatura. Mentre si cambiava, la sua attenzione tornò al mormorio smorzato del registratore, che adesso le stava facendo ascoltare la propria voce. «C'è qualche posto dove non abbia pescato?» si sentì chiedere. «Nessun posto degno di nota. Ho tirato fuori lucci da ogni grosso lago del Canada e dal fiume Colorado pesci persici grandi come il suo braccio. Ci fu una pausa, riempita dai richiami dei gabbiani. «Da queste parti, be', c'è sempre Indian Lake, nella zona delle caverne. Lì non ho mai pescato e non ho intenzione di pescarci. In primo luogo, è troppo piccolo, e poi...» Un'altra pausa. Di nuovo, nella stanza risuonarono le grida dei gabbiani. «Potrà sembrarle strano», riprese Keller, «ma i pesci di Indian Lake non hanno l'aspetto giusto. Se mi chiedesse che cosa li rende diversi, non saprei dirglielo. Non è che siano più grossi o più piccoli, o che abbiano un colore diverso da quelli degli altri laghi, diciamo. Però hanno qualcosa di sbagliato. Qualcosa negli occhi, e poi non lottano quasi, quando li prendi all'amo. Può considerarmi pazzo, se vuole. Lo sa il Signore, in giro c'è un sacco di gente che sarebbe d'accordo con lei. Ma niente che esista sulla verde terra di Dio potrebbe costringermi a mangiare un pesce uscito da Indian Lake.» Quando si tolse i calzoni, Liz si chiese se dovesse buttarli nel mucchio o invece lasciarli in un angolo, perché le generazioni future li riscoprissero. Erano così incrostati di sabbia e sale, così impregnati di odore di pesce, che non sarebbero mai più tornati gli stessi. Vero, cominciavano a diventa-
re vecchi e logori, ma un tempo erano stati jeans firmati... Il pensiero svanì. In piedi al centro della stanza in mutandine, ebbe una sensazione molto precisa. Qualcuno la stava guardando. Si girò di scatto, posò gli occhi sul grande bow-window. Sulla minuscola apertura fra le tende. Un guizzo dietro la finestra. A due passi da lei! «Ehi!» strillò. «Vattene subito da...» Chiunque fosse, le obbedì. Sentì qualcuno correre tra i cespugli all'esterno della casa. Raggiunse la porta, decisa a... Si fermò. «All'inferno!» Che cosa voleva fare? Inseguire lo sconosciuto? Vestita solo delle mutandine? «All'inferno!» strillò di nuovo. Si sentiva stupida e impotente. Se solo lo avesse visto (era logico presumere che si trattasse di un uomo) un minuto prima... Fece per allontanarsi dalla porta, poi si bloccò, restò in ascolto. Qualcuno stava risalendo il sentiero verso il suo cottage. Le ipotesi che le invasero la mente si concludevano tutte con la stessa domanda: e se quello fosse tornato per un'altra occhiata... o per qualcosa di più? Si guardò attorno. Niente telefono. Niente vestiti. Niente tempo. Prese la borsetta, armeggiò un attimo e trovò la bomboletta di spray antiaggressione. Al diavolo l'idea di infilarsi una vestaglia. Non c'era tempo e comunque, nel peggiore dei casi non avrebbe fatto alcuna differenza. I passi arrivarono alla porta e si fermarono. Silenzio. Liz spostò di lato la levetta di sicurezza e impugnò la bombola come le avevano insegnato. Il tizio dall'altra parte della porta avrebbe avuto una brutta sorpresa. Due colpi alla porta. Una pausa. Altri due colpi. «Chi è?» urlò lei. Da fuori: «Sono io. Eric. Stavo rientrando e l'ho sentita urlare». Liz riconobbe la voce ed emise un sospiro di sollievo. «Tutto a posto?» «Aspetti un secondo.» Liz spostò di nuovo la levetta e infilò la bombola nella tasca della vestaglia che indossò mentre andava alla porta. Scoprì che le tremavano le mani e si maledisse per la lentezza di riflessi. Quasi avrebbe voluto trovarsi di fronte l'uomo che l'aveva spiata. Una buona spruzzata gli avrebbe insegnato la lezione. In base ai suoi canoni, l'unica cosa peggiore di un guardone era un fannullone.
Socchiuse la porta. Entrò un refolo di aria fredda. In piedi sulla soglia, Eric le fece un cenno di saluto, ma i suoi occhi erano puntati dietro le spalle di Liz, per scoprire se ci fosse qualcuno con lei. Un tipo svelto, pensò Liz. Si concesse un attimo di soddisfazione quando notò che lui non cercava di guardare nella scollatura della vestaglia. Se non altro, c'era ancora qualche boy-scout in circolazione. «Problemi?» chiese Eric. «Non al momento. Soltanto un guardone. Per caso ha visto qualcuno scappare?» Eric scosse la testa. «Mi è sembrato di sentire correre qualcuno, ma era scomparso prima che arrivassi qui. Quando l'ho sentita urlare, ho pensato che fosse meglio controllare. Se vuole posso provare a inseguirlo...» Liz scrollò le spalle. «Lasci perdere, non ha importanza. Probabilmente sarà già dall'altro lato della città.» «Vuole che vada alla Grande Casa a chiamare la polizia?» «Stesso problema», rispose lei, con una punta di frustrazione nella voce. «Prima che il nostro buon agente Crandall alzi il culo dal letto, si vesta e arrivi qui, il mio guardone farebbe in tempo a sposarsi, avere tre figli e mandarli all'università. Gliene parlerò domani. Tanto devo andare in città. Anche se ho la sensazione che Crandall sia uno di quelli che pensano che sbirciare una donna sia pericoloso più o meno come sputare sul marciapiede.» «Vuole un testimone?» Liz rifletté. «Credevo non avesse visto niente.» «Infatti. Però mi sembra di avere sentito qualcuno.» Lui sorrise. «E per domani, ne avrò la certezza matematica, se può servirle.» «Servirà», disse Liz. «Grazie.» «Quando vuole.» Con un'ultima buonanotte, Eric girò sui tacchi e ridiscese il sentiero. Liz lo guardò scomparire, poi rientrò e chiuse a chiave la porta. Con una spilla di sicurezza unì l'uno all'altro i due lembi delle tende, sperando che fosse sufficiente. Comunque, per quella notte lo spettacolo era terminato. 3 Eric si diresse verso la spiaggia. Raggiunta la costa salì su un masso e sedette. Tre metri più sotto, l'acqua creava gorghi scuri. Più lontano, a Ma-
chias Bay, la luce della luna veniva catturata e frantumata dalle onde che correvano a riva. Doveva decidere che cosa fare, da dove iniziare la scoperta di... che cosa? Del suo passato? Di se stesso? Della cosa sfuggente che avrebbe messo fine ai suoi sogni. Il giorno dopo, prima di tutto sarebbe andato alla redazione del quotidiano locale. Gli archivi avrebbero potuto offrirgli un punto di partenza. La sua famiglia era vissuta lì sin dalla fondazione del Point: dovevano esserci notizie che la riguardavano. La sua famiglia. Aveva vissuto così a lungo con altra gente che quelle parole gli sembravano a un tempo familiari ed estranee, come il Point stesso. Una parte di lui si sentiva a casa, quasi non fosse mai partito. Oppure (e quel pensiero improvviso lo colse di sorpresa) era come se il Point lo avesse aspettato per tutto quel tempo. Ma d'altra parte, ultimamente aveva avuto parecchi pensieri strani. Liz, per esempio. Si trovava molto lontano dal suo cottage quando aveva avuto la sensazione di qualcosa di sbagliato; il tipo di sensazione che aveva a scuola quando l'insegnante restituiva i compiti in classe e lui sapeva, in qualche modo sapeva, di avere combinato un disastro ancora prima di vedere il votaccio. Un senso di nausea alla bocca dello stomaco. Era stata quella stessa sensazione a dirgli che doveva controllare che a Liz non fosse successo niente. E aveva avuto ragione, no? Si sdraiò, felice dell'aroma fresco dell'oceano, del suono rasserenante del vento e della risacca. Dopo un attimo avvertì uno strano brivido sottopelle, una specie di corrente che pulsava appena. Senza riflettere, chiuse gli occhi e scacciò tutto dalla mente; lasciò solo il suono della baia. Poteva quasi vedere un punto immaginario di luce dietro gli occhi; si concentrò finché non crebbe, divenne distinto. Il punto si espanse ancora di più, divorò i suoi pensieri, li circondò di un bagliore freddo. Poi, piano, cautamente, si protese all'infuori con i propri pensieri. Era una sensazione strana, esaltante. Il suo corpo si tese, quasi vibrò, come una campana che risuonasse nella sera. Immaginò i propri pensieri che raggiungevano il villaggio, si muovevano con cautela, indugiavano in un posto, esitavano in un altro, si spostavano avanti e indietro, trasmettevano immagini casuali al cervello. Un uomo e una donna che facevano l'amore, furiosamente, ansiosamente, prima che il marito di lei rientrasse dal lavoro.
Bambini che dormivano. Un litigio; una lampada scaraventata violentemente contro una parete. E il tocco lontano, morbido, dei sogni di altra gente. Emise un gemito di delizia. Che sensazione! Un'estasi enormemente curiosa, come se lui potesse, grazie al semplice pensiero, lanciarsi nella sera e volare. Ma non si mosse, non volle spezzare l'incantesimo di ciò che stava facendo, o di ciò che gli veniva fatto. Desiderò allargare il raggio. I pensieri sondarono i confini della notte; incontrò resistenza! Ma era assurdo. Quello era il suo sogno, la sua gradevole illusione. Non aveva diritto a un po' di felicità senza barriere nel mondo dei suoi stessi sogni? Ma la resistenza non diminuì, per quanto lui lottasse. La sua mente creò una bussola, si spinse a nord, a sud, a ovest. Nessuna resistenza. A est, invece... A est, qualcosa gli si opponeva. Poi capì. A est c'era Indian Lake. E c'erano le caverne. Una nausea improvvisa. Il senso di qualcosa di sbagliato tornò ancora più forte di prima. Si chinò in avanti, lottò col bisogno di vomitare. I suoi pensieri si ritrassero davanti a... che cosa? Non aveva un nome. Un'ombra più profonda della notte; un'ombra sospesa su Dredmouth Point come un grande uccello nero in cerca di una preda. Di fronte a quella tenebra inconoscibile, Eric scelse di tornare allo stato di veglia e solo a stento soffocò il panico. La sensazione di essere tutt'uno con la città svanì, sostituita da un dolore che gli stritolava la nuca, gli martellava il punto d'incontro fra il cranio e la spina dorsale. Riaprì gli occhi, li scoprì stranamente appiccicosi. Li sfregò, strizzò le palpebre finché la baia smise di essere una macchia confusa e diventò una conca di acqua verde illuminata dall'argento della luna. Guardò l'orologio. Erano trascorse due ore e avrebbe potuto giurare che fossero stati solo pochi minuti. Si alzò lentamente. Aveva la schiena fredda, intorpidita. Continuando a strizzare le palpebre, si girò verso est. Verso le caverne. Erario troppo lontane, troppo oscurate da alberi e colline, perché riuscisse a vederle. Ma c'erano. Attento, aveva detto suo padre, indicando quelle caverne. Che cosa potevano avere di tanto importante da spingerlo a usare l'ultimo respiro per lanciare quell'avvertimento? Fra tutte le parole che avrebbe potuto dire, perché proprio quella?
Perché quel giorno gli occhi di suo padre riflettevano la paura? E non la semplice paura di morire, Eric ne era certo. E perché adesso, a tanti anni di distanza, era lui ad avere paura? Si girò a guardare la baia, poi cominciò a scendere dal masso, diretto al cottage. Se Zach aveva ragione, il mare poteva raccontare storie su quel posto, forse addirittura su Eric stesso. Ma, per il momento, la baia non parlava. 3 Il Point Era ancora buio, poco prima delle quattro del mattino, quando Bud Simmons entrò col furgone del latte nell'area di carico della Ashford Dairy. Il motore continuò a strepitare per quasi un minuto dopo che lui ebbe girato la chiave nel cruscotto, poi emise un ultimo borbottio e si spense. Ci voleva un'altra revisione. Magari la settimana successiva, dopo avere incassato i soldi dai clienti. Con ciò sarebbe arrivato a quanto? Due revisioni in cinque mesi? Doveva ammettere la verità. Il vecchio Ford stava morendo. Doveva sostituirlo e prima lo faceva, meglio sarebbe stato, attorno al primo dell'anno. Sussultò alla prospettiva di un'altra montagna di rate mensili. Bastò quel pensiero a torcergli lo stomaco e a fargli sentire la bile in fondo alla gola. Si costrinse a rilassarsi. L'ultima cosa di cui aveva bisogno era una nuova crisi della sua dannata ulcera. Spalancò la portiera e scese a terra, con l'aria gelida che gli mordeva le orecchie. Accantonò le preoccupazioni. Inutile rovinare una giornata ancora prima che fosse iniziata. Lo facesse pure Beth. Era lei l'esperta, dopo tutto. Un fischio acuto risuonò nella fattoria, seguito da un rombo potente. Clement Ashford apparve al timone del carrello a forca, col carico della giornata. La macchina correva verso Bud come un pipistrello giallo a due zanne; e Bud si chiese se fosse possibile prendere una multa per eccesso di velocità all'interno di una fattoria. Il carrello superò le mungitrici in acciaio, sui due lati del corridoio che sfociava nell'area di carico. Ogni mungitrice era collegata ai box delle mucche. Bud aggrottò la fronte, come faceva sempre. Chiunque altro avrebbe diviso le mucche dalla zona di carico, o meglio ancora, le avrebbe messe in un edificio diverso. Sarebbe servito a migliorare le condizioni di
lavoro e d'igiene. Ma Clement Ashford non era chiunque altro e se c'era una cosa che sapeva fare bene, era risparmiare sulle spese. Era un talento per il quale Bud sarebbe stato felice di dare in cambio diversi anni di vita. E perché no? Aveva sprecato gli ultimi cinque anni. Che differenza poteva fare qualche anno in meno, se fosse riuscito a manovrare i soldi come Clement? Ovviamente, ci sarebbe sempre stato da lottare con Beth e Dio solo sapeva se quella non era capace di spendere soldi più in fretta di quanto la zecca americana riuscisse a produrne... «Ehi, Bud», chiamò Clement. Bud si costrinse a un sorriso di saluto e scacciò Beth dalla mente. «Giorno, Clement.» Clement manovrò i comandi e abbassò la piattaforma del carrello ai piedi di Bud, poi staccò dal volante la sua robusta mole e si avvicinò al furgone. «Tempismo perfetto», disse Bud, con un tono un po' troppo allegro. Non gli piaceva che gli altri toccassero il suo furgone. «Hai già preparato tutto.» «Tempismo perfetto, un accidenti», disse Clement. «Ti ho sentito da una decina di chilometri da qui. Ormai pare che guidi un animale preistorico. Cos'è? Un Ford brontosaurus? Non sapevo che producessero ancora questo modello.» Rise troppo forte, come sempre. La risata sicura di chi sa di potersi permettere di dire praticamente tutto e farla franca. «A volte anch'io ho i miei dubbi», disse Bud. Aprì lo sportello laterale e cominciò a caricare le rastrelliere con le casse di latte, panna, siero di latte, robiola e burro. «Um-hm», disse Clement e si appoggiò al furgone, guardando Bud alle prese con le pesanti rastrelliere. Assumeva sempre la stessa posizione. A Bud ricordava un gatto obeso accoccolato sul davanzale di una finestra. «Conosco un tizio che vende automobili a Cutler», disse alla fine Clement. «È un brav'uomo, un amico della sorella di mia moglie. Un amico molto intimo, se mi spiego. Il che dimostra che certa gente non ha proprio gusto.» Di nuovo quella risata. Bud sorrise debolmente, continuando a scaricare e caricare. «Comunque, se mettessi una parola buona per te, potrebbe farti un prezzo ragionevole per un furgone nuovo. Che cosa ne dici?» Bud soffocò la risposta che gli venne subito in mente: E tu che percentuale ci guadagneresti spiegandogli per bene come fregarmi col piano di
rateazione? Invece, batté le nocche sulla fiancata del furgone, sperando di sembrare più sicuro di quanto non si sentisse. «Apprezzo l'offerta, Clement. Sul serio, ma credo che alla vecchia pollastra resti ancora qualche anno di vita.» Clement annuì. «Come vuoi tu, Bud. Cercavo solo di darti una mano. Dopo tutto, se il furgone schiatta e tu non puoi fare il giro del Point, per i nostri clienti sarà un bell'in-con-ve-nien-te», disse, sillabando la parola per fare più effetto. «Lo sai, odio l'idea che i nostri clienti ci considerino incapaci di servirli. Danneggerebbe gli affari.» Scrutò Bud di sbieco con occhi che parevano due uova in camicia. «Non so che cosa farei se succedesse.» Bud lasciò cadere l'osservazione. In ogni caso, probabilmente non era prevista una risposta. L'unico suono era il suo respiro affannoso mentre caricava le ultime casse. «Suppongo», continuò alla fine Clement, «suppongo che dovrei dare il Point a qualcun altro, qualcuno di cui mi possa fidare. Ma questo bidone...» Percosse la fiancata del furgone con la sua grossa mano. Il colpo echeggiò nel corridoio. Bud sobbalzò. Alzò la testa e incontrò lo sguardo torvo degli occhietti di Clement. Un vero porco e Cristo come mi piacerebbe sentirti strillare una sola volta mentre il martello colpisce e colpisce e colpisce... «Mi preoccupa», finì Clement. «Non mi piace preoccuparmi. La vita è troppo breve.» «Non gli succederà niente», disse Bud, col tremito nella voce, «Non preoccuparti, okay?» Clement annuì, poco convinto. Bud cominciò a sospettare che potesse esserci sotto qualcosa di più della percentuale sulla vendita di un nuovo furgone. Qualcuno, forse addirittura qualcuno del Point, stava facendo pressioni su Clement per toglierlo di mezzo. Il suo non era il migliore dei mestieri, gli faceva guadagnare solo ciò che bastava per vivere in maniera decente, ma erano tempi duri e un sacco di gente guadagnava ancora meno di lui. Se qualcuno era talmente affamato da promettere a Clement una distribuzione migliore, consegne più veloci, più clienti... Qualcuno con un furgone nuovo... «Ci penserò su», disse Bud. «Sì, pensaci.» Bud chiuse lo sportello e si mise al volante. Clement si appoggiò al cofano, lo guardò girare la chiave nel cruscotto. Bud notò l'espressione furba sulla faccia di Clement e finse di non vederla.
Questa volta ebbe fortuna. Il motore si accese e continuò a restare acceso, per quanto ansimante. Lui cominciò a fare retromarcia, poi si fermò e urlò a Clement: «Fra l'altro, penso di avere un po' di clienti nuovi per te fra un paio di settimane». Era una bugia, ma doveva dire qualcosa. E chi lo sapeva? In una settimana o giù di lì, forse sarebbe riuscito a convincere uno o due clienti ad aumentare gli ordini. Forse avrebbe aggiunto un nome nuovo alla sua lista. Forse. E forse avrebbe finito col pagare di tasca sua un altro ordine per far avverare la bugia. Clement grugnì. «Conosco il tuo giro. Come speri di poter trovare qualcun altro?» «È solo una sensazione.» «Per me, le sensazioni non significano una merda di niente.» «La cosa non mi sorprende», disse Bud, la voce coperta dal rombo del motore. Clement alzò la testa di scatto. «Hai detto qualcosa?» «Niente.» «E allora vedi di continuare a stare zitto.» Bud uscì dall'area di carico e tornò in strada. Dovette lottare col cambio per passare dalla prima alla seconda. «All'inferno tutto il fottuto mondo», borbottò. Erano appena le quattro e dieci del mattino e la sua giornata era già stata definitivamente rovinata. 2 Robert T. Williams, R.T. per i suoi clienti, scese i trentacinque gradini fino all'ingresso del suo negozio. Per più di quarant'anni era sceso dagli stessi trentacinque scalini alla stessa ora, ogni giorno; a parte, ovviamente, la mattina in cui Winnie aveva partorito Joel, il loro unico figlio. Lui aveva sperato di poterne avere altri, ma Winnie era già quasi all'età critica quando aveva messo al mondo Joel. In seguito, un aborto e un bambino nato morto li avevano convinti che un figlio doveva bastare. A proposito... «Winnie?» chiamò su per la scala, verso l'appartamento dove vivevano e dove Winnie stava lavando i piatti della colazione. «Non c'è un compleanno in arrivo?» «Joel Junior», rispose Winnie, fra il tintinnio dei piatti. «Compirà otto anni giovedì della settimana prossima.» «Gli avevo promesso qualcosa in particolare?»
«Be', sembrava gli piacesse uno di quei videogame da tavolo, ma era quattro mesi fa, mi pare. Meglio telefonare a Joel o a Susie, nel caso avesse cambiato idea.» «Okay.» Avviandosi alla porta, R.T. aggrottò la fronte. Probabilmente, la chiamata in California sarebbe costata quanto il giocattolo e aggiungendo la confezione e le spese postali... be', era quello il dovere dei nonni, no? Girò la chiave nella serratura, voltò il cartello in vetrina in modo che dall'esterno fosse visibile la scritta APERTO e socchiuse la porta. Una brezza fresca, frizzante, entrò in negozio, scompigliando i pochi capelli che gli restavano. Inspirò profondamente, assaporando la dolcezza dell'aria. «Sarà una bella giornata», disse, rivolgendosi solo in parte a Winnie. «Una giornata splendida.» Dall'altro lato della strada, Karin Whortle vide apparire la scritta APERTO alla vetrina dello spaccio alle sette e trenta precise. Come sempre. Con il signor Williams ci si potrebbe regolare l'orologio, pensò, mentre sistemava il suo cartello per annunciare che anche il Point Inn era aperto. Fece un cenno di saluto al signor Williams dalla finestra, ma non capì se lui avesse visto o no. Be', lei ci aveva provato e come le aveva ficcato in testa sua madre, l'importante era quello. A nessuno, dal buon Dio in giù, piace vedere una faccia scura di primo mattino. Guardò dall'altra parte, giù per la strada e vide Walter Kriski. Chiuse la porta, corse dietro il banco, si controllò allo specchio, poi si sgridò mentalmente. Come una ragazzina. Sì, Walter le aveva chiesto di uscire qualche volta (lei aveva risposto no, ovviamente); sì, Walter era vedovo; sì, da quello che si diceva in città era piuttosto simpatico per essere un polacco arrivato lì da poco. Ma quell'ultima definizione non era giusta: se non eri nato al Point, smettevi di essere un nuovo arrivato solo quando ti seppellivano nel cimitero della città. Ci risiamo, pensò. Il cimitero. Il suo sguardo tornò allo specchio. Anche adesso, a quarantacinque anni, era di aspetto tutt'altro che sgradevole. Forse aveva qualche chilo di troppo e che differenza faceva se i suoi capelli stavano diventando grigi, invece di prendere il colore argento che aveva sperato? Le uniche rughe del suo volto erano state tracciate dal sorriso. In fondo, era ancora giovane. Sua madre non aveva sempre detto che un giorno o l'altro avrebbe fatto la felicità di un uomo fortunato? Non c'è da preoccuparsi, pensò. Il buon vino ha bisogno di tempo per
invecchiare al punto giusto. D'altra parte, se non fosse stata ancora attraente, come spiegare le attenzioni di Walter? Lui sapeva cucinare quanto lei, ma questo non gli aveva impedito di presentarsi due settimane di fila per una colazione a base di uova (ben cotte), pancetta, spezzatino di manzo, pane tostato e caffé. Era sempre il primo a entrare al ristorante, per poter chiacchierare con lei senza altra gente attorno. Alle sue spalle, si udì la campanella della porta. A quel suono, lei inspirò profondamente e decise che forse doveva dirgli di sì, la prossima volta che lui le avesse chiesto di uscire. Si girò, sorrise. «Buongiorno, Walt.» Lui sedette al suo solito posto e le restituì il sorriso. No, non era per niente un brutto soggetto. Se solo non fosse stato un custode di cimitero... E del cimitero di Cutler, per di più. 4 Alle otto del mattino, l'agente Tom Crandall accese il riscaldamento del piccolo ufficio che rappresentava l'unica intrusione delle forze dell'ordine a Dredmouth Point. Estrasse una sigaretta dal taschino della giacca, la accese, aspirò una lunga boccata. Buffo come andassero le cose, a volte. Quasi tutti i giorni, non vedeva anima viva fino alle dieci di mattina. Poi c'erano giorni in cui non si presentava nessuno; e lui poteva passare tutto il tempo a leggere le riviste che aveva sulla scrivania: Police Product News, Police Times, Command Magazine. In una giornata veramente fiacca, poteva persino tirare fuori le copie di Playboy e di Penthouse dal cassetto in basso della scrivania. Erano i suoi giorni migliori. Tranquilli. Niente zuffe tra ubriachi, niente gatti sugli alberi, niente vicini fracassoni, niente. E poi c'erano giorni in cui il mondo intero decideva di rompergli le scatole fin dalle prime ore. Giorni come quello. Aveva appena smesso di parlare al telefono col sindaco Morgan quando si era presentata quella scrittrice con la sua storia del guardone. Probabilmente gli sarebbe toccato indagare, anche se secondo lui doveva trattarsi solo di un ragazzino che cercava di dare sfogo in pubblico alla sua pubertà. Non era successo niente, no? Comunque, si rassegnò all'idea di andare in giro a fare domande, di cercare di scoprire chi avesse permesso ai figli di fare più tardi del solito. Trovare un guardone in un posto piccolo come il Point non doveva essere
difficile, ammesso che la signorina non si fosse inventata tutto. Però c'era un testimone, giusto? Come se non bastasse, il sindaco gli stava rompendo l'anima con il preventivo del nuovo anno. Le cifre andavano presentate alla riunione della commissione bilancio, di lì a una settimana e lui aveva appena cominciato ad abbozzarle. Tanti altri agenti di polizia stendevano bilanci per chiedere cose che non avrebbero mai usato (fucili per lacrimogeni, armi semiautomatiche, roba del genere), ma per lui era inutile sprecare i soldi dei contribuenti per cose superflue. E più lui riduceva al minimo i prelievi dalle tasche della gente, più gli abitanti della città sarebbero stati disposti a lasciarlo a capo della stazione di polizia; e in cambio di quella sicurezza, lui era più che disposto a barattare qualsiasi arma. Decise di passare il caso del guardone a Ray Price, il suo vice. Così avrebbe avuto un po' di tempo per lavorare al preventivo. Se avessero trovato un guardone, ovviamente sarebbe entrato in azione lui. Era un compromesso ragionevole. D'altronde, se Price con il nuovo anno si aspettava un aumento, doveva cominciare a guadagnarselo. E dove diavolo era Ray, fra l'altro? 5 Padre Duncan Kerr attraversò la navata centrale della chiesa di Saint Benedict, s'inginocchiò brevemente davanti all'altare e si diresse in sacrestia. Esitò prima di aprire la porta, prevedendo nervosamente ciò che avrebbe potuto trovare, poi entrò. La croce che normalmente era appesa vicino alla vetrata con l'Arcangelo Michele che trionfa su Satana era caduta un'altra volta. Come in passato, era precipitata a più di un metro e mezzo di distanza dal punto in cui sarebbe stato logico che cadesse. Raccolse il pesante crocefisso, lo ripulì dalla polvere e lo rimise al suo posto, sopra il tavolo su cui erano distesi i suoi paramenti sacri e le tovaglie d'altare. Fissò per un attimo il crocefisso, quasi sperando che la figura di Cristo potesse rispondere alle domande che lo turbavano. Era caduto per tre notti di seguito. No, non era caduto, era stato scaraventato in mezzo alla stanza. Non c'erano tracce di effrazioni e la chiesa sorgeva su solide fondamenta di roccia. Aveva sfruttato quel fatto in diversi sermoni. Però, col tempo, anche la struttura più solida poteva assestarsi, a volte in maniera imprevedibile. Forse era quella la spiegazione. Mentalmente, prese nota di cercare
i disegni del progetto, che forse potevano offrirgli qualche aiuto. Comunque, ne avrebbe parlato con l'agente Crandall. Poteva anche darsi che qualche ragazzo avesse scoperto un nuovo gioco. Uscito dalla sacrestia, infilò le dita nell'acquasantiera, per fare il segno della croce prima di entrare in chiesa. Ritrasse la mano di scatto, stupito. La notte non era stata troppo fredda. Allora perché l'acqua era ghiacciata? Si girò a guardare il Cristo trafitto dai chiodi sulla croce, ma non trovò risposte. 6 Alle 8.15 il dottor Will Cameron riappese il ricevitore dopo la prima telefonata della giornata. Barbara LeMarque aveva un'altra delle sue crisi oniriche e aveva bisogno di qualcosa che la aiutasse a dormire. Will scrisse una ricetta per una modesta dose di tranquillante, il minimo necessario. Le crisi iniziavano in genere tutti gli anni attorno a quell'epoca e per fortuna duravano solo un paio di settimane. La prima volta che lei si era recata al suo studio a causa dei sogni, lui aveva provato un certo scetticismo. Barbara LeMarque era sempre stata una donna volubile e nervosa, eppure terribilmente empatica. Se restava per troppo tempo in sala d'aspetto con altri pazienti, al momento della visita l'osmosi emotiva la portava a sviluppare alcuni dei sintomi delle altre persone. L'aveva curata anche per piccoli disturbi di natura isterica che diventavano sempre più frequenti con l'avvicinarsi della mezza età; ma la cosa peggiore erano i sogni. Will aveva letto qualche articolo in materia. A quanto risultava, era un disturbo innocuo; nel peggiore dei casi, si trattava di un disordine nervoso che portava a sogni tanto reali e spesso così spaventosi, da lasciare spossato il soggetto. Barbara era turbata dal fatto di non riuscire mai a ricordare il contenuto dei sogni, oltre che dalla stanchezza e dal nervosismo che le procuravano. Forse, a scatenare i sogni era il desiderio di un po' d'attenzioni. E di sicuro, vivendo con Gregory, Barbara doveva averne bisogno. Gregory aveva qualcosa che non piaceva per niente a Will. Cupo e silenzioso quando non era ubriaco, passava da un lavoro all'altro. Era una specie di miccia accesa per ventiquattr'ore al giorno. L'unica cosa di cui Will fosse certo era che i sogni erano iniziati poco
dopo che i due si erano trasferiti nella vecchia casa dei Langren, dalle parti di Indian Lake. Finì di scrivere la ricetta, si tolse gli occhiali e guardò fuori dalla finestra dello studio, una gradevole stanza rivestita di pannelli di legno, sul retro della sua casa. Provò un sollievo immediato. Di solito, gli occhi non gli davano problemi fino al tardo pomeriggio, ma ultimamente li scopriva sempre più spesso asciutti e affaticati. Sto invecchiando, pensò. Era quasi arrivato il momento di andare a Machias per un'altra visita specialistica. Forse doveva cominciare a fare la ginnastica per gli occhi di cui aveva letto. Domani. Ci penserò domani. Il bollettino meteorologico aveva promesso giornate più limpide e temperature più basse lungo la costa. Sospirò. Ci sarebbe stato un aumento delle telefonate dei suoi pazienti affetti da artrite, borsite e reumatismi. Poteva anche contare su un aumento delle chiamate dei pazienti che non avevano niente di serio, a parte la vecchiaia e il desiderio di vincere la noia e l'inattività raccontando i propri sintomi al telefono. Avrebbe risposto alle chiamate, sarebbe andato a visitarli a casa; tenendoli per mano, avrebbe ascoltato le loro lamentele e nella maggior parte dei casi avrebbe lasciato un flacone di pastiglie di zucchero ricoperte di qualche sostanza assolutamente innocua e assolutamente disgustosa. Lo sanno tutti che più le medicine fanno schifo, più funzionano. Prese la valigetta, il lungo elenco di visite che lo attendevano e si avviò alla porta, infilando nella tasca della giacca la ricetta per Barbara LeMarque. Magari si sarebbe fermato in farmacia a prendere lui stesso il tranquillante. Avrebbe risparmiato a Barbara un viaggio e lunghe spiegazioni. Sapeva benissimo che Gregory disapprovava lo spreco di soldi per i medicinali. Barbara lo avrebbe rimborsato con comodo. Scosse la testa. Povera Barbara. 7 Ruth Miller alzò il telefono alle 9.15 del mattino. L'apparecchio era un duplex; la linea era in comune con altri tre abbonati. Coprì il microfono con la mano e avvicinò il ricevitore all'orecchio. Era fortunata: Winnie Williams stava parlando con Judy Markle, la moglie di Dave Markle. Ruth premette il palmo della mano sul microfono, per essere certa che nemmeno il suo respiro potesse giungere alle altre due. Con l'altra mano prese una pralina al cocco e la sgranocchiò, mentre Winnie continuava a
chiacchierare del compleanno di suo nipote. Ma per la miseria, pensò, delusa, la gente non ha niente di meglio da fare che parlare di compleanni? Si mosse sulla sedia e la sua mole provocò minacciosi scricchiolii nel legno. Sperò solo che non fossero udibili sulla linea telefonica. Ci furono passi alle sue spalle. Karl Jergen entrò in soggiorno. «Esco, ma'», disse. Lo disse piano, ma non c'era niente di dolce nella sua voce. Era un uomo grosso, con un viso spigoloso. L'arruffata massa di capelli neri terminava bruscamente appena sopra il colletto della camicia e gli scendeva a cascata dalla fronte. «Ma'?» Con l'indice sulle labbra, lei gli fece cenno di stare zitto finché non riuscì a riappendere. Riagganciò con estrema lentezza, per evitare un clic sulla linea. «Karl, te l'ho già detto di non cogliere di sorpresa tua madre.» «Scusa», disse lui e lei sospettò che non avesse la minima intenzione di scusarsi. In Karl c'era qualcosa che trasformava anche una scusa in un insulto. In momenti del genere, a Ruth ricordava troppo il suo defunto marito: gli stessi occhi poco distanziati e una bocca che sembrava eternamente piegata in un ghigno di disprezzo. «Esco», ripeté lui. «Ti ho sentito», disse lei. «Dove vai?» «In nessun posto. Esco e basta.» «Stanotte hai fatto molto tardi. Stai combinando qualcosa che dovrei sapere?» «No.» Karl incontrò lo sguardo di Ruth, la fissò finché lei non fu costretta ad abbassare gli occhi. «Se qualcuno chiama e chiede di te? Se qualcuno avesse un lavoro...» «Digli che prima o poi torno.» Lui prese la giacca e uscì sul marciapiede, sbattendo la porta. Maledetta vecchia, pensò. Sempre a impicciarsi degli affari miei. Sempre a pensare a quella santa di sua figlia, quella che piscia profumo e cammina sull'acqua. Però lui aveva sentito battute molto pesanti per tutta la città, aveva visto le occhiate e i sogghigni. Ma non valeva la pena di dirglielo. No, sarebbe stato più facile convincere la vecchia che Mosè era un assassino. Non avrebbe mai creduto che la sua figliola benedetta potesse avere anche un solo difetto. In quanto alla notte prima, che andasse a farsi fottere. Che pensasse pure quello che voleva. Oh, Karl avrebbe pagato tutto l'oro del mondo per vedere l'espressione della vecchia, se avesse scoperto che cosa aveva fatto. Ma
nessuno lo avrebbe saputo. Nessuno lo avrebbe mai saputo. E quello stronzo di Duane Kincaid aveva avuto quello che si meritava. Così imparava a credersi chissà chi solo perché aveva una farmacia. Lo stronzo pensava che il vecchio Karl non andasse bene per sua figlia, che fosse troppo vecchio per una ragazza delle superiori più giovane di lui di dieci anni. Aveva persino avuto il coraggio di dire che ne avrebbe parlato con sua madre, che sarebbe andato diritto da Tom Crandall se lui non l'avesse piantata. Credeva di poterlo mettere sotto i piedi. Be', vai a farti fottere anche tu, Duane Kincaid. Hai qualche gatta in più da pelare. Non vedeva l'ora di sapere come l'avrebbe presa il vecchio Duane. Ancora adesso, fumava di rabbia al ricordo della scenata davanti alla farmacia. Davanti a tutti. E aveva visto Jessie, che se ne stava a divertirsi dentro con i suoi amici mentre suo padre lanciava tuoni e fulmini. Gliel'avrebbe insegnata, la lezione. La prossima volta, ci avrebbero pensato due volte prima di insultare una persona perbene. No, non avrebbero mai saputo che era stato lui, però avrebbero saputo che era stato qualcuno e forse sarebbe bastato quello a farli riflettere un attimo. Comunque, lo avrebbe saputo lui. Ed era quello che contava. Socchiuse le palpebre alla luce del sole e l'idea che lo aveva tormentato tutta la notte si ripresentò alla sua mente. Forse nessuno avrebbe mai saputo che era stato lui. Il guaio era che la notte prima, mentre tornava a casa, era passata l'auto del vecchio Sam Crawford e per un secondo lo aveva inquadrato nella luce dei fari. Ora, era più che probabile che Sam non lo avesse visto per niente. Ma poteva anche averlo visto. Non che Karl si preoccupasse troppo. Sam era furbo. Sì, aveva studiato all'università, però sapeva come girava il mondo; non gli avrebbe mai rotto le scatole. E se gliele avesse rotte... Okay, bisognava dare una lezione anche a lui. Svoltò nel sentiero che da Morton Hill portava a Walnut Avenue. Aveva parcheggiato l'auto davanti al negozio di Williams, perché sentiva il bisogno di fare due passi. Girò la testa e vide la finestra dove, senza dubbio, sua madre stava seduta col suo binocolo, a scrutare la città con occhi avidi. Prima di svoltare in Walnut Avenue, le fece un gestaccio. Era troppo lontano per capire se lei avesse visto o no, ma non importava. Lui sapeva di averlo fatto. 8
«Un'altra volta», disse Cheryl Miller. Ridacchiando, si strofinò contro il sedile. Era coricata con la gonna sollevata sui fianchi. Ray Price alzò le mani in un'ironica resa. «Non posso. Sono già in ritardo.» Guardò l'orologio. Cheryl Miller aveva il più bel culo di tutta la contea, però lui era in ritardo e dubitava che una ragazza valesse la lavata di testa che Tom Crandall gli avrebbe fatto se non si fosse presentato subito in ufficio. «Sei sicuro?» «Sicurissimo. La ricreazione è finita. Dai, muovi le chiappe.» Ray finì di infilarsi la camicia nei calzoni e aprì la portiera posteriore della Ford Mustang. L'auto gli serviva anche per il servizio di pattuglia; bastava mettere sul tetto la luce rossa intermittente che teneva nello scomparto del cruscotto. «Non sai stare al gioco», disse lei. «Io ho saltato la scuola. Perché tu no?» «È diverso, tutto qui. Io ho un lavoro da fare.» «Già. Giochi a fare il poliziotto. Gran lavoro», scherzò lei. «Ho un'idea! Farò una denuncia! Così non avrai problemi, se il capo ti chiede dove sei stato.» Cheryl rifletté. Nei suoi occhi socchiusi alla luce del sole brillavano lampi divertiti. «Ci sono. Dirò che un tizio mi ha molestata sul sedile posteriore della sua macchina. Dirò che ho strillato. Così.» Aprì la bocca per urlare, ma Ray gliela chiuse con la mano. Lei ridacchiò sotto le dita. «Gesù!», disse Ray. «Piantala con queste stronzate! Vuoi metterci nei guai tutti e due?» Lei scosse la testa e lui tolse la mano. Cheryl giocherellò col distintivo sul taschino di Ray. «E non fare il serio. Qui non c'è nessuno. Nemmeno mamma. È molto divertente, non ti pare? Quella ficca il naso negli affari di tutti e si sta perdendo uno degli scandali più grossi dell'intera città.» Rise di nuovo, passandosi una mano nei capelli biondi. «Okay, è divertente. Ma non troppo», disse Ray e spinse Cheryl sul sedile anteriore. Fece il giro dell'auto e sedette al volante. «Vuoi vedere un'altra cosa divertente?» gli chiese Cheryl, chinandosi su di lui. «Non ho tempo per i giochetti», disse lui e si bloccò. Aveva davanti agli occhi la canna della sua calibro 38 di servizio. La fondina era vuota sul sedile, a fianco di Cheryl, dove lui l'aveva lasciata quando si erano fermati. «Cheryl. Mettila giù, tesoro.» Ray non si mosse, non cercò di afferrare l'arma. Lei aveva il dito sul grilletto. Cheryl rise. «Hai un problema serio, agente Price. Lo sai qual è?»
Ray scosse la testa. Teneva gli occhi fissi sulla canna, puntata diritta al centro della sua fronte. Lei contrasse il dito sul grilletto. «Il tuo problema», disse, «è che non hai il senso dell'umorismo.» Chiuse un occhio. «Cheryl...» «Bang!» Cheryl non riuscì più a frenarsi. Lasciò cadere la pistola e crollò contro la portiera, scossa dalle risate. Ray si rese conto di sudare abbondantemente. «Accidenti a te, Cheryl Ann Miller», sbottò, raccogliendo l'arma e mettendola sul sedile posteriore. «Io non mi sono divertito.» Accese il motore e imboccò la strada che portava in città. «Te l'ho detto, non hai il senso dell'umorismo. E comunque», aggiunse lei, guardandolo come si guarda un cagnolino appena salvato dal canile, «che cosa vuoi fare? Mi denunci? Tieni presente che anch'io ho qualcosina da raccontare.» Mentre guidava a denti stretti, in silenzio, Ray si chiese, non per la prima volta, se uscire con Cheryl fosse davvero una buona idea. A volte pensava che nella sua famiglia fossero tutti matti: lei, suo fratello Karl, sua madre. Al diavolo, lo sapevano tutti che suo padre buonanima era matto da legare. Però Cheryl era un gran pezzo di ragazza... 9 Barbara LeMarque salì in camera da letto e chiuse la porta. Voleva isolarsi da Julie, da Billy e dai suoi cartoni animati, dalla radio e dal telefono e dalle richieste per la colazione che dopo un po' si trasformavano in ordini... Sedette sul letto, mise la testa fra le ginocchia e cercò di respirare in maniera regolare, rilassata. Inspirare. Espirare. Inspirare. Espirare. Ma non serviva a niente. Quella notte aveva vomitato due volte, il minimo rumore le era insopportabile e dietro il suo occhio sinistro sentiva nascere un'emicrania, come se qualcuno esercitasse una pressione. Una pressione che cresceva di secondo in secondo. Aveva già avuto altre emicranie in passato, sempre in quel periodo del-
l'anno, ma non erano mai state così tremende. Succedeva in autunno e peggiorava ogni volta. Certi giorni, era sicura che la pressione le avrebbe fatto esplodere la testa. Se almeno avesse saputo qual era la causa, si sarebbe sentita meglio; avrebbe affrontato il male con qualcosa di simile alla dignità. Ma dalle radiografie non era risultato niente: nessun tumore, niente. Il dolore esisteva semplicemente, e trasformava tutto ciò che lei aveva attorno in una fonte di disagio. Billy salì le scale e cominciò a bussare alla porta. Chiese il gelato anche se sapeva che era troppo presto, che lei non gli dava mai il gelato a quell'ora... Barbara pregò che il dottor Cameron si sbrigasse. Aveva bisogno di parlare con qualcuno. Un bisogno estremo. Doveva sentirsi dire che non stava impazzendo. 10 Quando Jay Carmichael aprì la stazione di servizio, erano le dieci passate e davanti alle pompe di benzina si era già formata una fila di auto. Ace Jackson teneva premuto il clacson come fosse la sirena di un allarme antiaereo. Jay uscì, raggiunse le pompe, infilò il boccaglio nel serbatoio della giardinetta di Ace. Altre due macchine attendevano il loro turno. Ace ripartì rombando appena il serbatoio fu pieno e una Toyota si fece avanti. Judith Carlyle fece un cenno a Jay dietro il finestrino. «Il solito», disse. Lui le restituì il saluto e cominciò a riempirle il serbatoio con dodici dollari di normale. Intanto, la scrutò dal finestrino posteriore. Una bella ragazza, ma tremendamente timida. Portava sempre camicie a maniche lunghe e collo alto, o abiti lunghi, anche d'estate. Non che la cosa importasse molto, pensò lui con un sorriso furtivo, ricordando le sere trascorse sull'albero davanti alla sua camera da letto; le sere in cui l'aveva vista togliersi tutto, sdraiarsi sul letto e lasciare correre le mani nei posti segreti che erano proibiti a chiunque altro. Una donna maledettamente carina. Non aveva due tette grosse come la scrittrice che abitava da Zach, ma era carina lo stesso. Quel pensiero gli diede un brivido. Sei stato stupido, pensò. Ieri sera potevi farti beccare da quel tizio. Stupido, goffo e troppo eccitato. Nell'immediato futuro, doveva stare più attento. Tenersi alla larga per qualche giorno, poi ritentare quando la scrittrice avesse abbassato la guardia.
Nel suo hobby, la strategia era tutto. Rimise a posto la pompa e andò a prendere i dodici dollari. Lei gli passò i soldi senza alzare gli occhi. Jay, mentre infilava il denaro in tasca e la guardava partire, si sentì molto soddisfatto all'idea che Judith Carlyle non potesse nemmeno lontanamente sospettare quello che stava pensando lui. Sì, una donna molto carina. Peccato che non sia una bionda naturale. Ma questo resterà il nostro piccolo segreto, pensò. Continuando a sorridere, passò all'auto successiva. 11 Ginny Kincaid uscì nel cortile sul retro proteggendosi gli occhi del sole che stava finalmente disperdendo la nebbia di metà mattina. «Qui, micio», chiamò. «Vieni qui, Gattoto.» Si sentiva sempre un po' sciocca nel chiamare Gattoto con quel nome, ma era così che Duane aveva battezzato il micino fulvo che cinque anni prima era apparso nella loro cucina. All'epoca, era solo un cucciolo. Adesso aveva ancora un carattere dolce, ma gli anni lo avevano reso molto schizzinoso su tutto, dal cibo al posto dove dormiva. L'unica cosa su cui non avesse mai trovato da discutere era il suo nome. «Si chiama Gattoto», diceva Duane agli ospiti, «con due to.» Quando gli chiedevano il perché, lui rispondeva con quel suo sorriso contagioso: «Perché balbetta». Ginny scese dal portico, si pulì le mani sul grembiule. «Qui, Gattoto! Vuoi la colazione o no?» Non ci furono movimenti fra i cespugli del giardino, dove al micio piaceva dormire tutta la mattina. Ginny cominciava a preoccuparsi. Gattoto non era rientrato, quella notte. Ma la cosa non era del tutto insolita: il gatto aveva già trascorso intere notti a cacciare e di solito tornava con una rondine morta che lei doveva buttare nella spazzatura. Controllò la siepe che correva lungo la casa. Niente. Alzò gli occhi sulle grondaie, nel caso il micio fosse rimasto bloccato sul tetto come l'ultimo Giorno del Ringraziamento, quando a Duane e a metà delle loro (modeste) forze di polizia era occorsa un'ora e mezzo per tirarlo giù. Si schermò gli occhi e guardò la banderuola che Duane aveva installato l'estate prima... E restò paralizzata. Si coprì il viso con le mani. «Duane!» strillò, cor-
rendo verso casa, gli occhi sgranati dall'orrore. «Duane!» Superato lo choc, entrò in casa, lontano da quella visione terribile, dalla banderuola su cui Gattoto era impalato, sbudellato. Alle sue spalle, la banderuola fu mossa dal vento e due occhi morti in una maschera di pelo fulvo si girarono a guardare, ciechi, la casa da cui usciva un pianto. Gli occhi rimasero impassibili. PARTE SECONDA La Breccia Ma per qual motivo sei tu solo? Per qual motivo con te Non si è scatenato l'intero Inferno? JOHNMILTON, Paradiso perduto, IV, 917 4 Eric Mentre passava a prendere Eric per andare in città, Liz decise che avrebbe parlato di qualunque cosa, ma non del proprio lavoro. La sera prima, era stato il principale argomento di conversazione e lei non credeva nelle sinfonie a una sola nota. Ma dopo i saluti e qualche commento stupido sul clima, si trovò a mani vuote. Le parve che il miglior compromesso fosse parlare del Point. Con gli indigeni, era un ottimo modo per rompere il ghiaccio. E non si trattava esattamente del suo lavoro. «Il Point è stato fondato nel 1603, due anni dopo che i francesi avevano cercato di creare una colonia a nord, lungo il fiume San Lorenzo», disse mentre superavano Cambridge Road, che delimitava il confine della città vera e propria. «I coloni erano quasi tutti inglesi, oltre a qualche francese che giurò fedeltà alla corona britannica. Ebbero la fortuna di riuscire a stabilire buoni rapporti con gli indiani algonchini fin dall'inizio.» Eric borbottò un humm di risposta, guardando le case mentre la città si chiudeva lentamente attorno a loro. Al diavolo le chiacchiere sciocche, pensò Liz e si concentrò a sua volta sull'esterno.
Dredmouth Point era una città tranquilla e aveva un aspetto abbastanza cordiale, di una cordialità indifferente. Prati ben rasati erano delimitati dalle chiazze di colore dei fiori che tentavano di sopravvivere nel clima fresco. I sentieri d'argilla erano numerosi quanto i marciapiedi di cemento, ma le strade erano molto più pulite di quelle di una grande città. Camini, solai e attici si alzavano da case in pietra o in mattoni. Cancellate in ferro battuto confinavano con staccionate in legno. Un posto simpatico. Tranquillo. Rurale. Ma molto chiuso in se stesso, diffidente degli estranei. Liz si mosse sul sedile. Ancora adesso, dopo aver trascorso tanto tempo lì, non poteva fare a meno di prevedere le persiane che si chiudevano di fronte agli sconosciuti; le nubi che oscuravano il sole, facendo piombare Dredmouth Point nella notte e negli incubi. Però non accadde nulla. Qua e là, c'era gente che falciava il prato, parlava attraverso i cancelli... Guardò Eric, muto al suo fianco. «Ti sto annoiando, eh? La storia non è la tua passione? Sii onesto. Il fatto che io mi sia dovuta immergere in tutto questo per un anno non significa che debba interessare anche a te.» Eric fece un cenno con la mano. «No. Sul serio. È interessante.» «Non è una risposta di cortesia?» Eric sorrise. «Mi hanno attribuito un sacco di difetti, ma mai la cortesia.» Con un'occhiata di sbieco, Liz soppesò la sua sincerità, ebbe un responso soddisfacente e continuò. E che diavolo, l'automobile era sua. «Il Point è stato poco più di un gruppo di fattorie finché è stato dichiarato ufficialmente città attorno al 1749. Quando arrivò la notizia, tutti quanti festeggiarono per una settimana. Fu permesso anche agli algonchini di dare dimostrazione dei loro riti celebrativi nel centro della città, il che per l'epoca era piuttosto insolito. Buona parte della popolazione era convinta che gli indiani fossero creature del demonio, ma nessuno se la sentiva di rovinare la festa. «A parte questo, il Point è sempre stato un posto tranquillo, monotono. Ogni tanto è successo qualcosa... qual è la città che non ha i suoi scheletri?... ma si tratta di eccezioni, non della regola. Si dice che un tempo il Point sia stato una base per il contrabbando di rum e per gli schiavisti. Poi ci sono state le guerre, ovviamente. Qualcuno del Point ha combattuto dalla nostra parte durante la rivoluzione. Quasi tutti gli altri erano lealisti. C'è stata qualche caccia alle streghe, ma niente di spettacolare e naturalmente c'è stato l'incidente con gli algonchini.» Liz corrugò la fronte e smise di
parlare. «Che cosa è successo?» Lei scrollò le spalle. «Non si sa con certezza. È successo all'epoca delle guerre con i francesi e gli indiani, attorno al 1755. Dappertutto scoppiavano scaramucce con gli indiani, così gli algonchini del posto hanno fatto un trattato col Point, giurando di restare neutrali. Era una piccola tribù, chiusa e riservata come i coloni, il che potrebbe spiegare perché andassero d'accordo, e solo lontanamente imparentata con le altre tribù della zona. Da quello che ho saputo, volevano mantenere piccolo il loro gruppo e interagire il meno possibile con le altre tribù. Ecco perché quello che accadde non ha molto senso. «C'è chi dice che gli indiani hanno violato il trattato, si sono alleati con i francesi e con le altre tribù e hanno attaccato diverse famiglie del luogo. Sono corse voci di mutilazioni orribili. Dati successivi dicono che sono stati i francesi a farla sporca e che gli indiani si sono presi la colpa. In ogni caso, è scoppiata una piccola guerra. La tribù è stata spazzata via. Dei pochi superstiti un gruppo è rimasto intrappolato fra le colline. Sono stati uccisi o sono morti di fame. Questo, se ci rifletti, non ha molto senso. Quando furono scoperti, avrebbero potuto essere già fuggiti dall'altra parte dello stato. Ma sono rimasti qui, nelle caverne. Si sono rifiutati di lasciarle anche quando è stato offerto loro un processo equo.» «Quali caverne?» chiese Eric. «Le caverne indiane, naturalmente. Hanno preso il nome da loro. Perché?» «Semplice curiosità.» 2 Erano quasi le dieci quando arrivarono alla stazione di polizia e a Eric non occorse molto tempo per decidere che Crandall era tutt'altro che ben disposto. Liz ripeté quello che gli aveva già raccontato al telefono sull'incidente del guardone, poi fece il suo racconto una terza volta mentre Crandall compilava il rapporto. Crandall finì, rilesse e chiese a Liz di firmare, aggiungendo all'indirizzo temporaneo del cottage di Zach l'indirizzo fisso di New York. «E lei?» chiese Crandall, girandosi verso Eric. «Lei è il testimone?» «Ho visto qualcuno, sì. Ma non bene. Vuole che le detti un resoconto
anch'io?» Crandall scosse la testa. «Una rogna inutile, per il momento. Lei è arrivato ieri, giusto?» Eric annuì. «Pensa di fermarsi molto?» «Un po'. Perché?» «Nessun motivo particolare. Mi piace solo tenere le cose sotto controllo. Scoraggiare i piantagrane di passaggio.» Crandall guardò il rapporto. «Sicuro di non avere visto bene il guardone? Sa niente che potrebbe aiutarci a trovarlo?» «Vorrei poterle essere d'aiuto, ma ho visto solo qualcuno che correva fra gli alberi all'esterno del cottage di Liz.» «Allora poteva essere qualunque cosa. Un cane, magari.» Il poliziotto guardò Liz. «Ha detto lei stessa che era esausta. Crede che potesse essere un cane?» «No», rispose Liz. «Riconosco un uomo quando lo vedo, anche se vedo solo un pezzo della faccia. Sono una scrittrice, si suppone che possieda spirito d'osservazione. La gente mi paga per questo.» Crandall sospirò. «Signora, conosco quasi tutti quelli che vivono in città e nessuno è il tipo da andare a spiare alle finestre. Be', quasi nessuno. Senta, non sto dicendo che non ha visto niente, quindi non faccia quella smorfia. Poteva essere un ragazzo in vena di scherzi, o qualcuno che non abita nemmeno al Point. Nel primo caso, l'episodio è innocuo e nel secondo, è probabile che il colpevole sia già scomparso.» «Il che le risparmia il disturbo di indagare», disse Eric. «Certo, non si tratta di un omicidio di primo grado, ma non crede sia almeno possibile che uno dei suoi santi uomini timorati di Dio abbia strane idee sul modo di divertirsi?» La voce di Crandall era dura. «Il sarcasmo non mi va a genio, giovanotto. Lei sta facendo parecchie illazioni, per essere uno che non sa nemmeno di che cosa parla.» «Sto solo cercando di fare il mio dovere di buon cittadino, agente.» Crandall alzò le mani. «Va bene, va bene, mi arrendo.» Guardò Liz. «Sentirò in giro, farò qualche domanda, vedrò che cosa riesco a scoprire. Ma non posso prometterle niente.» «Perfetto», disse Liz. «Grazie.» Crandall li scortò alla porta, li guardò attraversare la piazza e raggiungere lo spaccio di Robert. Gli spiaceva di avere assunto quel tono. La ragazza era nei suoi pieni diritti. Fosse stato un altro giorno, avrebbe sguinzagliato
Ray, avrebbe fatto tanto rumore da spaventare il guardone. Ma Ray non c'era, doveva occuparsi lui del problema e ne aveva piene le tasche del sindaco. Poi c'era stata la telefonata dei Kincaid, neanche cinque minuti prima dell'arrivo di Liz. Cristo, chi poteva uccidere il gatto di qualcuno? La porta sul retro si aprì e Ray entrò in ufficio. «Giorno, Tom.» Crandall gli saltò subito addossò. «Dove cavolo eri andato a ficcarti?» Ray si bloccò. «Ho avuto delle noie con l'auto.» «Allora perché non hai chiamato? Potevo mandarti qualcuno.» «Non pensavo...» «Che tu non pensi è piuttosto ovvio, direi.» Crandall prese la giacca e si avviò alla porta. «Ne parleremo dopo. Per adesso voglio che tu resti qui. Devo correre da Duane Kincaid.» «Problemi?» Crandall indicò col pollice i rapporti sulla sua scrivania. «È tutto lì. Abbiamo anche un guardone che si diverte a combinare scherzi a quella scrittrice, Liz Chasen. Voglio che ti metta al lavoro appena torno.» «Deve essersi divertito un bel po'», sogghignò Ray. Crandall gli puntò gli occhi addosso. «Hai esattamente dieci secondi per toglierti quell'espressione dalla faccia e sostituirla con quella che avevi quando hai fatto giuramento.» Ray ci riuscì in tre secondi. «Nient'altro?» chiese con tono sottomesso. Crandall rifletté un attimo. C'era qualcosa, adesso che ci rifletteva. Quel Matthews era arrivato in città la sera prima, la stessa sera in cui qualcuno aveva ucciso il gatto di Duane. E chi poteva saperlo? Forse non era una coincidenza che si trovasse davanti al cottage della Chasen nello stesso momento del guardone. «Sì, qualcosa c'è. Voglio un controllo veloce sul tizio che ha controfirmato la denuncia per il guardone. Niente di complicato. Fai girare il suo nome, vedi se ci sono precedenti, se è ricercato, se c'è qualcosa di strano.» «Ricevuto.» «Fammi un fischio, se scopri qualcosa», strillò Crandall, mentre raggiungeva l'auto parcheggiata lì davanti. 3
Liz si fermò davanti al negozio ed estrasse dalla borsa un taccuino e il registratore. «Ho un'intervista con il proprietario. Vuoi venire anche tu?» «Non questa volta. Andrò un po' in giro. Quando ci vediamo?» Liz controllò l'orologio. «Fra due ore. Al parco.» «Ciao.» Si divisero ed Eric continuò a procedere sullo stretto marciapiede. Era una città da cartolina: la bottega del barbiere; una cartoleria che fungeva anche da ufficio postale; un ristorante; un negozio di attrezzature da pesca; e un drugstore. Eric era pronto a scommettere che dentro ci dovevano essere frullatori in acciaio con grandi coppe di metallo e una vera fontana della soda, come nei posti che frequentava da ragazzo. Svoltò in Walnut Avenue, scrutando la strada in su e in giù. Da quello che gli aveva detto Liz, doveva essere lì attorno... Poi la vide. Una costruzione tozza, una specie di scatolone con lettere dorate sulla vetrina: BIBLIOTECA PUBBLICA DI DREDMOUTH POINT. Dentro, la biblioteca era piccola e sfornita come aveva detto Liz. Una donna minuta, con la faccia da falco e i capelli castani raccolti in una crocchia assurda, alzò gli occhi al suo ingresso. Dalla descrizione di Liz doveva essere Myrna Cranston. «Posso aiutarla?» gli chiese lei. «Do solo un'occhiata», rispose Eric, studiando le file di libri. Su uno sgabello in legno, vicino a due poltroncine e a un divano completamente diversi fra loro, c'erano alcune riviste. «Qual è il quotidiano della città?» «Il North Cutler Journal. Pubblica un supplemento settimanale per il Point. Si parla di pubblicare un giornale locale, ma credo che non succederà presto.» «Avete numeri arretrati?» «Abbiamo la collezione completa del Journal a partire dal 1960. Se le interessa qualcosa di precedente deve andare a North Cutler. Abbiamo anche dei ritagli più vecchi, con uno schedario dei nomi e degli argomenti, ma la ricerca dei dati non è semplice. Le interessa un giorno o un anno in particolare?» Eric rispose senza esitare. «Il 3 novembre 1963.» «Va bene.» Myrna si alzò. «Se mi dà la sua tessera, le prendo il materiale.» «Mi spiace. Non ho tessera.» La donna prese un foglio rosso dalla scrivania. «Lo riempia e me lo re-
stituisca assieme alla patente o alla tessera dell'assistenza sanitaria. Potrà usare la biblioteca in via provvisoria e prendere due libri per volta, non di più.» Gli tese il foglio. «Può mettersi lì a compilarlo.» Eric sedette e cercò di rispondere il meglio possibile alle domande. Incredibile quante informazioni fossero necessarie. Alla fine, riportò alla scrivania il foglio compilato e la patente. La donna passò gli occhi dalla foto al suo viso e di nuovo alla foto con l'aria sospettosa di un doganiere sicuro che lui volesse introdurre eroina nel paese. «Un momento», disse Myrna e andò sul retro della biblioteca, dove svanì in una stanza laterale. Lui immaginò che stesse consultando una poderosa rete di computer, in cerca di condanne o di arresti a suo carico per avere fatto le orecchie alle pagine di un libro. Alla fine, tornò con un pesante raccoglitore nero, sporco di polvere e di chiazze marroni: le stimmate di sostanze chimiche in decomposizione. Lo passò a Eric. «Stia attento con le pagine per favore. Sono molto fragili.» Eric tornò a sedere, aprì il raccoglitore in grembo, girò le pagine... Ed ecco. RITROVATO UN RAGAZZO DOPO L'INCIDENTE MORTALE DEI GENITORI Eric Langren, otto anni, scomparso dopo l'incidente automobilistico in cui sono morti i suoi genitori sabato pomeriggio, è stato ritrovato domenica mattina dalla polizia di North Cutler e Dredmouth Point dopo ricerche durate l'intera notte. Le ricerche sono iniziate quando alcuni testimoni, avvertiti dell'incidente da una nube di fumo, hanno riferito di avere trovato nel fango impronte di piccoli piedi che partivano dal punto dell'incidente. L'intervento delle autorità ha permesso di identificare prontamente nell'autista e nel passeggero Marsh e Claris Langren, di Dredmouth Point. La polizia, dopo avere concluso che il terzo passeggero doveva essere il figlio della coppia Eric, ha iniziato le ricerche nonostante il forte temporale. Si temeva che il ragazzo potesse essere ferito o in stato di choc e che da solo non riuscisse a superare la notte. Il ragazzo è stato ritrovato poco prima dell'alba di domenica, all'interno delle caverne indiane. Anche se i soccorritori lo hanno descritto come «confuso e spaventato», le sue condizioni fisiche sembrano buone. Ha solo lievi ferite peggiorate dall'esposizione al temporale. La polizia ritiene che il ragazzo, sotto choc, forse in cerca di aiuto, si sia allontanato e si sia per-
so, finendo poi nelle caverne dove si è rifugiato per la notte. «Ha fatto benissimo», ha detto l'agente Phillip Dejunne, che per tutta la notte ha supervisionato e diretto gli sforzi del gruppo di ricerca. «Sapeva che restare all'aperto era più pericoloso che trovare un qualche tipo di rifugio.» Dejunne ha sottolineato il coraggio del ragazzo nel cercare aiuto per i genitori e ha aggiunto che è stato fortunato a non addentrarsi troppo nelle caverne, ben note per i loro cunicoli tortuosi. «Se si fosse spinto più all'interno, forse non lo avremmo visto», ha detto Dejunne. Eric rilesse l'articolo. Era la prirria volta che trovava dati specifici su ciò che era successo quel pomeriggio. In qualche modo, leggere la cronaca dei fatti lo riportò a quell'esperienza con un'intensità e un'immediatezza che non provava da anni. Il lato curioso era che non ricordava affatto di essere stato trovato nelle caverne indiane, o nei paraggi. Ricordava l'incidente, benissimo. Ricordava di essersi svegliato sull'ambulanza, la visita medica, il poliziotto troppo gentile che aveva cercato di dirgli che i suoi erano andati molto, molto lontano e non sarebbero tornati... Le caverne distavano almeno tre chilometri dal luogo dell'incidente. Erano sulla riva opposta del lago. Chiuse gli occhi. Cercò di ricordare. Perché mai doveva essere andato proprio lì, di tutti i posti possibili? Era... buio... era buio e lui era solo e sentiva male Dio che male e le voci che erano tutt'attorno a lui lo chiamavano lo chiamavano il bagliore dentro che danzava nei suoi occhi ma non sulla parete quindi come poteva vederlo e sempre le voci così dolci così amichevoli che lo chiamavano lo invitavano a giocare a entrare appena un po' di più dove fa caldo ma no fa freddo e c'è buio e... Riaprì gli occhi di scatto. Stava respirando in fretta; cominciava ad andare in iperventilazione. Come tutte le volte in cui si svegliava da un incubo terribile, quello che non riusciva mai a ricordare: ricordava solo il senso di orrore, l'incapacità di muoversi, di fare qualunque cosa, di scappare o urlare. Le sue mani sudate stringevano il raccoglitore con tanta forza che le nocche diventarono bianche. Gradualmente, si impose di rilassarsi. Trascorsero diversi minuti prima che le ginocchia lo reggessero e le mani smettessero di tremare. Allora si alzò e restituì il raccoglitore. Che cosa era successo quel giorno? Perché mai era andato alle caverne?
E perché non ricordava? Doveva esserci una risposta. Adesso, però, ancora più di prima, non poteva sopportare il pensiero di andare là, di rivedere le caverne. La sera precedente, senza sapere perché, aveva intuito la presenza di qualcosa di oscuro e pericoloso. Prima di avvicinarsi a quel luogo, ne voleva sapere di più. Myrna prese il pesante raccoglitore notò con sgomento i punti scuri dove dita umide avevano lasciato tracce sulla copertina. Cercò di ripulirla col dorso della mano. «Nient'altro?» «Potrei vedere tutto quello che ha sulle caverne, per favore?» 5 Will Will Cameron tolse la valigetta dal sedile posteriore, controllò di avere con sé la ricetta per Barbara, chiuse la portiera dell'auto e si avviò sul sentiero a ciottoli. La casa dei LeMarque era muta. Normalmente, dalle finestre usciva il suono della televisione. La giardinetta di Barbara era ancora parcheggiata sul sentiero, quindi lei doveva essere in casa, a meno che non fosse uscita con i figli sull'auto di Greg. C'è un solo modo per scoprirlo, decise Will. Bussò alla zanzariera e attese. Niente. Indietreggiò di un passo, guardò le finestre del primo piano. «Ehi, c'è qualcuno?» Qualcosa si mosse dietro una delle finestre. Bussò di nuovo. «Barbara?» Aprì la zanzariera, scoprì che la porta interna non era chiusa a chiave e infilò dentro la testa. Il lungo corridoio era deserto, con le tende abbassate. Tutto era buio, a parte la lama di luce che si proiettava sul pavimento dall'esterno. Entrò, lasciando socchiusa la porta. «Barbara?» ripeté. «Sono Will. Will Cameron.» Niente. Ma se non altro, si era annunciato: inutile farsi scambiare per un ladro. Proseguì lungo il corridoio. Il soggiorno era deserto, il televisore spento. Sulla sinistra, era deserta anche la cucina, con una scodella di cereali rovesciata sul tavolo. Latte e fiocchi d'avena colavano sul pavimento. Quando raggiunse la scala in fondo al corridoio, si fermò. Prima non se ne era reso conto, ma adesso percepiva chiaramente dei gemiti. Scese dal
primo gradino e si diresse verso il ripostiglio sotto la scala. I gemiti venivano da lì. Si inginocchiò e guardò dentro. Billy LeMarque era raggomitolato contro la parete sul fondo. Stringeva a sé la sorella di quattro anni. Era lei a gemere. Billy guardò Will con occhi asciutti. Il suo viso infantile era teso, spaventato. «Mamma», mormorò. «Di sopra.» «Andrà tutto bene, Billy», disse Will. «Aspettami qui. Torno fra un secondo.» «È stata colpa nostra», disse Billy. «Ma è stato un incidente. Dì a mamma che non abbiamo fatto apposta. Volevamo solo aiutarla, non combinare un disastro.» Il suo labbro inferiore tremava. «Dille di non arrabbiarsi.» Will annuì, carezzò Billy su una spalla, ricominciò a salire la scala. Che cosa era successo da spaventare tanto Billy? Per quanto ne sapeva, era un bambino sempre allegro. Barbara non lo aveva mai toccato con un dito. Il primo piano era muto. Will si allontanò dalla scala, superò la camera dei ragazzi. Lenzuola, cuscini e materassi erano sparsi nella stanza. Giocattoli rotti ingombravano il pavimento. Preoccupato proseguì per il corridoio verso la camera da letto. Stava succedendo qualcosa di serio; non aveva bisogno di vedere i danni per capirlo. Nell'aria c'era tensione, la sensazione di qualcosa che stava per accadere. Se n'era accorto non appena era entrato e adesso la sensazione era quasi tangibile. Esitò davanti alla porta della camera da letto. Si leccò le labbra, le scoprì aride. Dall'interno non si sentivano rumori. Bussò piano. «Barbara?» Lo disse in un sussurro, ma parve un urlo nel corridoio silenzioso. Toccò la maniglia, che si abbassò. Dall'interno della stanza si sentì un gemito soffocato. Will aprì la porta di pochi centimetri. La stanza era nel caos: cesti rovesciati, cassetti aperti, tende strappate dalle finestre. Con un'ultima spinta, spalancò la porta ed entrò. Qualcosa. Là, nell'angolo. Barbara era raggomitolata in posizione fetale in un angolo della stanza. Si dondolava avanti e indietro, le mani strette sulle orecchie e gemeva: una specie di ronzìo, ritmico, indistinto, che riempiva la camera. Sembrava che cento ali di falene stessero sbattendo contro un fulmina-insetti elettrico. «Barbara?» Si diresse verso la donna. Lei indossava solo la vestaglia, stretta ai fianchi, col colletto alzato a nasconderle il viso. Mentre si avvicinava, pensò che le azioni di Barbara gli ricordavano un bambino che si copre le orecchie ed emette suoni inarticolati per non sentire quello che qualcuno cerca di dirgli.
Ma nella stanza non c'era nessun altro. Si inginocchiò al suo fianco. Lei parve non accorgersi della sua presenza. Si dondolava. Gemeva. Escludeva il mondo. «Barbara? Sono io, Will.» Lentamente, tese una mano e le toccò il braccio. Barbara urlò. Alzò di scatto la testa. Gli occhi erano colmi di terrore. Non vedevano lui, ma qualcos'altro. «No! No!» Si sottrasse al contatto e strisciò sul pavimento, annaspando. Will la seguì carponi, difendendosi dai deboli colpi che gli piovevano sulle spalle. Le mani di Barbara erano in continuo movimento, lo colpivano, come due pallidi uccelli. Lui riuscì ad afferrarle una mano, poi l'altra e gliele strinse forte. Barbara urlò, si divincolò. Lui la attirò a sé, costringendola a guardarlo. «Barbara! Guardami! Sono Will. Will Cameron! Mi hai telefonato, ricordi? Sono qui per aiutarti.» Continuò a parlare, dicendo tutte le cose rassicuranti che gli venivano in mente, cercando di penetrare la barriera dell'isterismo. Poteva schiaffeggiarla, ma non osava lasciarle andare le braccia il tempo necessario per provarci. Alla fine, lei si stancò e dopo un po' i suoi occhi lo misero a fuoco e lo riconobbero. «Will?» Solo un sussurro. Il viso di Barbara si contrasse fra dolore e pianto e lei gli crollò tra le braccia, singhiozzando. «Dio, Will, Dio», riuscì a dire. «I bambini... Non gli ho fatto del male, Dio ti prego, non permettere che gli faccia del male...» «Stanno bene. Sono un po' spaventati, ma stanno bene. Per adesso è di te che dobbiamo preoccuparci.» «Sia ringraziato Dio.» Barbara affondò il viso nel suo petto. «Non potevo più resistere, Will. Hanno continuato a chiamarmi. Tutta notte. Non sono riuscita a dormire. Li sentivo... Sapevano il mio nome, Will. Come possono sapere il mio nome?» «Sono i tuoi figli, Barbara. È logico...» Lei scosse freneticamente la testa. Batté i pugni sul pavimento. «No! Non loro! Non sono stati i bambini! Ho controllato! Io... Will, mi chiamavano. Non capisci? Erano... Dio... Come potevano sapere il mio nome, Will? Come?» «Chi ti chiamava?» Lei lo guardò con occhi disperati. «Non lo so. So solo... Ti prego, Will. Aiutami! Non lasciarmi. Non permettere che faccia del male ai bambini. Per favore, Dio...» «Non preoccuparti. Io non vado da nessuna parte. Sono qui.»
La tenne stretta, aspettando che i singhiozzi cessassero. La strinse ancora di più, deciso, nonostante l'indolenzimento dei muscoli, a stringerla per l'eternità, se fosse stato necessario. «Andrà tutto bene», continuò a ripetere, per calmarla. «Andrà tutto bene.» 6 Sam Tenendo in mano la mappa, Sam Crawford tornò nel vano principale all'imboccatura della caverna, passando dall'ombra alla luce. Non che servisse a molto. L'aria che circolava nelle caverne indiane era fredda, umida e molto sgradevole, con un odore opprimente di sporcizia. Il gelo gli era entrato nelle ossa. Avrebbe voluto uscire e scaldarsi alla scarsa luce del sole che arrivava lassù, ma era troppo stanco anche per quello. Si buttò pesantemente sulla sedia pieghevole vicino al frigorifero portatile che conteneva il suo pranzo. Cercò di trovare un po' di entusiasmo, ma non aveva ancora fame. Quel posto avrebbe fatto passare l'appetito a chiunque, pensò, poi scosse la testa. No, non era la caverna. Una caverna è solo una cavità nel terreno. Era colpa delle sue sensazioni. Si stava rendendo conto di essere un idiota. Un asino. Un vecchio che dava la caccia alle ombre. Dieci anni. Erano passati dieci anni da quando il primo scavo che aveva diretto nelle caverne aveva fatto notizia. Chi avrebbe mai immaginato che un paio di studentelli di antropologia potessero inciampare, più o meno letteralmente, in un mucchio di cimeli indiani in un posto che era già stato ripulito da cima a fondo anni addietro? Eppure li avevano trovati, in un passaggio mai esplorato, che non risultava nemmeno sulle mappe: vasellame, disegni schizzati su pelli di animali, punte di frecce e strumenti vari. Oh, come era stato divertente! Gli articoli sui giornali, le interviste e la cattedra all'università. Sì, pensò, davvero splendido. Dopo la scoperta, erano riusciti a far dichiarare le caverne indiane zona di scavi, a salvarle da turisti e indigeni. Il consiglio comunale aveva fatto resistenza, ovviamente: non volevano che un branco di universitari capelloni invadesse il Point per scavare le ossa di chissà chi. Ma alla fine si erano arresi, come già sapevano sarebbe accaduto, soprattutto quando l'università aveva concesso i fondi per le ricerche, aggiungendo un contributo
fisso al consiglio comunale in cambio del disturbo. Però, tutti i loro sforzi di cinque anni, con le due proroghe di un consiglio accademico sempre più affamato di risultati che giustificassero le spese, avevano prodotto ben poco di nuovo o di interessante. Avevano sperato (inutilmente e lui lo sapeva sin da allora) che le caverne fossero un tempo appartenute a una colonia di algonchini e che ulteriori scavi potessero portare alla luce un ricco bottino di reperti. Ma non era stato così e alla fine il denaro si era esaurito, assieme alla pazienza del consiglio accademico. Negli anni successivi, quando le caverne erano ancora chiuse ai turisti, c'era stato qualche sporadico tentativo di esplorarle: tutte imprese fatte casualmente mal finanziate e di discutibile valore scientifico. Sam fremeva ancora al ricordo di una sensitiva che aveva cercato diverse volte un presunto tesoro visto in sogno. Altri tipi strani si erano avventurati sul sentiero per le caverne, sostenendo di avere udito la voce di Dio o dei marziani, in cerca della salvezza o di un segno dell'imminente apocalisse. Dopo un po', la gente del posto aveva smesso di dare indicazioni a chiunque sembrasse con la testa fuori posto. Il che aveva più o meno messo fine all'intera faccenda. Qui c'è qualcosa che attira gli svitati, pensò Sam e si chiese se per caso lui non fosse ancora lì proprio per quello. Abbassò gli occhi sulla mappa tracciata a mano: rappresentava dieci anni di esplorazioni; eppure era sempre incompleta, copriva solo il labirinto di passaggi che si estendevano fino al primo livello. Più in giù, i passaggi erano così stretti, così tortuosi, così inclini a finire nel nulla o a fondersi tra loro o a scendere a precipizio, che spingersi più in là sarebbe stato rischioso anche per una squadra bene attrezzata. Presto le caverne sarebbero state riaperte ai turisti. La gente che si recava lì diminuiva di anno in anno e al Point avrebbe fatto comodo una buona attrattiva turistica. Lui sapeva che il progetto era quello. Le caverne si sarebbero riempite di speleologi dilettanti e gente con più fegato che cervello si sarebbe avventurata ai livelli inferiori nonostante tutti gli avvertimenti. Dopo di che, era solo questione di tempo: qualcuno sarebbe inciampato in qualcosa degno di finire sui giornali... No. Quelle erano le sue caverne. Se c'era qualcosa da trovare, l'avrebbe trovata lui. Scrutò l'imboccatura, col cuore ancora in tumulto dopo le ultime esplorazioni. Si sentiva un vecchio che si aggirava nella sporcizia. In cerca di trionfi passati.
Bella prospettiva. Già. Allora perché era ancora lì, a esplorare passaggi di roccia che aveva percorso decine di volte? Sfregò le mani l'una contro l'altra, per scaldarsi. La pelle era piena di polvere, simile a carta vetrata per il continuo contatto con le pareti rocciose nella ricerca di imperfezioni, linee innaturali, qualunque cosa fosse al di fuori del normale. Perché? Perché, pensò, una parte di lui era certa che non avessero trovato tutto! Sì, era illogico. Ma la sensazione bruciante di avere trascurato qualche cosa lo riportava alle caverne, anno dopo anno, e si rifiutava di svanire anche di fronte alla logica più ferrea. Lì c'era qualcosa. E lui era deciso a trovarla. Ma dopo il pranzo. Come ripeteva spesso, forse era eccentrico, però non era matto. Tirò fuori dal frigo la borsa con il pranzo e diverse bottiglie di succo d'arancia. Pane di segale, prosciutto, sottaceti... Il suo stomaco borbottò contento. Poi gli arrivò l'odore. «Maledizione!» Allontanò da sé il sandwich e con l'altra mano si coprì naso e bocca. Il pane era un grumo di polvere nera e quel poco di carne e formaggio che ebbe il coraggio di guardare era coperto da uno strato viscoso di muffa bianca e verde. Ma aveva preparato i panini quel mattino. Aveva comperato il prosciutto il giorno prima. «Che diavolo...» disse e sobbalzò un poco al suono della sua stessa voce. Fu allora che si accorse che il silenzio nella caverna non era totale. Forse il suono era presente già da tempo, ma solo in quel momento si impose alla sua attenzione: un grattare lontano, profondo, che echeggiava piano nel passaggio più vicino. Il rumore, pensò, di una roccia sfregata su altra roccia. La prima cosa cui pensò fu ad una frana. Ma il suono era troppo regolare, troppo circoscritto. Appoggiò la mano alla parete, in cerca delle vibrazioni che indicassero uno smottamento. La parete era immobile. Restò fermo, a dibattersi fra l'impulso di fermarsi e quello di scappare, senza più pensare al sandwich. Un altro attimo e il rumore crebbe di tono e di volume: sembrava che
una grossa pietra imprigionata in una morsa venisse sfregata a ritmo sempre più veloce. Il suono si alzò, raggiunse l'acme e parve che le pietre stesse urlassero. Sam corse verso l'imboccatura della caverna e si preparò a fuggire, nel caso fosse davvero una frana. Poi, di colpo, il suono cessò. Sam esitò, già quasi fuori dalle caverne. Rimase in ascolto, ma le caverne erano di nuovo mute. Non cadevano rocce, non si udivano scricchiolii. Non c'era traccia di altri fenomeni. Con cautela, raccolse la mappa e la lanterna e si avviò nel passaggio principale. Tenne la lanterna davanti a sé. La luce proiettava ombre nette che si inseguivano nel lungo passaggio di pietra. Esitò, poi riprese a procedere, addentrandosi ancora un po'. Soltanto un po'. È pazzesco, pensò vagamente, come in sogno. Ma andò avanti lo stesso, anche se gli ultimi residui di buonsenso gli urlavano di tornare indietro. La situazione era assurdamente pericolosa; eppure, in qualche strana maniera, si sentiva al sicuro. Il passaggio ora era sempre lo stesso, ora era lievemente diverso; e lui proseguiva, girava un angolo, poi un altro. Si muoveva come spinto da un istinto addormentato da anni, dalla sensazione che ci fosse qualcosa di importante dietro l'angolo successivo. Ma dietro quell'angolo e dietro l'altro ancora, non c'era niente. Poco per volta, la sua innata cautela tornò a prevalere, soprattutto quando giunse vicino alla fine del primo livello. Andare oltre sarebbe stata follia. Quindi non sarebbe andato più avanti. Invece avanzò. Seguì un'ampia curva. Ancora pochi passi, e si sarebbe fermato. Si arrestò, deciso a tornare indietro. Conosceva quel passaggio, lo aveva controllato un'infinità di volte. Non c'era niente. Lo sapeva. Mai fidarsi dell'istinto. Stava per tornare all'ingresso quando un riflesso della luce attirò la sua attenzione. Scrutò il punto in cui il bagliore della lampada veniva catturato e riflesso da una sottile fessura sulla parete. Si avvicinò, lasciando scorrere la mano sulla fessura. In passato, non l'aveva mai notata. Premette piano. La parete si mosse. Una sezione della parete rientrò nella roccia. Sam balzò indietro, pronto a fuggire se la parete fosse crollata. Non accadde nulla. Premette di nuovo sulla roccia e la parete rientrò ancora di più. Con mani tremanti, Sam studiò ogni fessura della roccia, quasi intimorito all'idea di affrontare la realtà di ciò che aveva trovato. Chiuse gli occhi e li riaprì. Tutto era come prima. Una porta. Una porta!
Superò lentamente la soglia. Alzò la lampada, per seguire i contorni della porta. Era stata scavata nella roccia e mimetizzata in maniera perfetta. Ogni linea combaciava con le linee naturali della parete. Adesso era chiaro perché non l'avevano mai trovata! I pensieri correvano nella mente di Sam. I rumori che aveva udito poco prima dovevano essere stati provocati dall'assestamento della porta, forse scatenato da una piccola scossa in un'altra zona della caverna. I pesi che azionavano la porta dovevano essersi spostati, rendendola visibile. Si spinse un po' più in dentro, in preda a emozioni contrastanti. Il suo primo istinto sarebbe stato quello di andare a cercare qualcun altro. Al tempo stesso, voleva sapere, doveva sapere cosa ci fosse dietro quella porta che qualcuno aveva nascosto con tanta meticolosità. E voleva saperlo subito. Avanzò di qualche altro centimetro e alzò ancora di più la lanterna. La luce svelò una caverna alta, circolare. Su ogni lato si aprivano rientranze buie dove la luce veniva inghiottita dalle ombre, il che indicava la possibilità di un'intera rete di passaggi sconosciuti che si diramavano in tutte le direzioni. I piedi di Sam lasciarono tracce in una polvere che era rimasta indisturbata da... da quanto? Cento anni? Duecento? Se erano stati gli algonchini a costruire quel passaggio, era possibile che la porta non fosse stata più aperta dai tempi delle guerre con i francesi e gli indiani. Mosse la lanterna tracciando un lungo, lento arco. Scoprì solo il buio dei molti passaggi. Ma da una delle aperture la luce tornò indietro, rimbalzando su qualcosa. Forse quello non era un passaggio, ma solo una piccola rientranza. Una stanza. Meglio esplorarla più tardi, pensò. Quando ci sarà qualcuno con me. Però avanzò lo stesso. No, pensò, ma l'ordine non ebbe effetto. Si sentiva attirato ancora più di prima da quello che si trovava appena oltre il raggio della lanterna. I suoi piedi si muovevano da soli, come gli accadeva negli incubi, quando tentava di scappare e si trovava paralizzato, incapace di fare qualcosa, costretto a vivere il sogno. A metà della caverna riuscì a distinguere dei colori all'interno della nicchia. Pochi passi e la raggiunse. Respirava affannosamente, rabbrividendo per l'eccitazione. «Ah!» urlò. L'esclamazione gli uscì dalle labbra alla vista dei disegni. Erano i disegni murali più complessi che avesse mai incontrato. Conservati nei recessi della caverna, lontano dall'aria e dalla luce, erano vividi come il
giorno in cui erano stati creati. Alcuni erano normali rappresentazioni di antilopi e orsi: disegni propiziatori per la caccia, destinati a portare fortuna ai cacciatori. Ma ce n'erano altri: minuziosi disegni di indiani e accanto a ogni figura, una seconda copia dell'individuo, identica in tutto tranne che per il colore. I duplicati erano schizzati in nero e possedevano contorni indistinti, come se l'artista avesse voluto alludere a un'ombra vivente, rappresentare gli spiriti dei defunti. C'erano scene di battaglia, visi sospesi sopra dei falò. Ma il disegno che catturò l'attenzione di Sam, che lo costrinse a inspirare profondamente nel vano tentativo di calmare i nervi, fu quello centrale. Il suo primo pensiero fu: Jung aveva ragione. Deve esistere un inconscio collettivo. A una prima occhiata, le immagini che aveva davanti dovevano risalire a un periodo precedente i primi insediamenti di coloni, eppure eccolo lì: Quadricornutus serpens. Il serpente a quattro corna. Identico a certi disegni degli alchimisti del sedicesimo secolo. Simbolo di Mercurio, noto agli antichi greci come drakon. Il Drago. Per i cristiani: il Demonio. E c'era di più. I disegni che circondavano l'immagine centrale erano simili ai doccioni delle cattedrali gotiche europee. Esistevano alcune differenze minime, ma del tutto insignificanti, una semplice questione di interpretazioni soggettive. Le immagini erano le stesse, anche se la specifica natura di linee e forme era stata chiaramente influenzata dalle fedi naturalistiche degli indiani, non dai rigidi dogmi del cristianesimo. E tutto quello era stato disegnato sulle pareti centinaia di anni prima che gli esploratori raggiungessero il Nuovo Mondo. Sam soffocò un brivido d'eccitazione. Non era il momento adatto per bearsi all'idea degli effetti che la sua scoperta avrebbe avuto. Per prima cosa, bisognava ottenere fotografie dei disegni il più in fretta possibile. Adesso che erano stati esposti all'aria, non avrebbero impiegato molto a scolorire. Si maledisse per non avere portato la macchina fotografica: l'unica volta che mi serve, l'ho lasciata a casa. In seguito, dopo le foto, avrebbe portato altri studiosi che lo aiutassero a documentare i disegni, che ne stabilissero la data approssimativa di origine e avrebbe scritto delle sue scoperte. Poi avrebbe sottoposto i risultati al mondo scientifico e con tutta calma sarebbe rimasto a godersi il successo. Ritornò al presente e scoprì che da diversi minuti stava fissando l'occhio del serpens. Contemporaneamente, con estrema chiarezza, si rese conto di
dove si trovava e provò un inspiegabile senso di panico. Si trovava sepolto nel sottosuolo, circondato da aria viziata, un'aria che non veniva respirata da centinaia d'anni. Indietreggiò, lanciando occhiate nervose al serpens, quasi aspettandosi che il disegno si animasse e lo azzannasse. La claustrofobia che non aveva mai provato in tanti anni di esplorazione lo assalì con una furia micidiale. Bile in fondo alla gola; la nausea che cresceva. Si girò, lottò per continuare a respirare. Davanti a lui si aprivano i passaggi che aveva appena scopertp: ognuno portava in una direzione diversa e si addentrava sempre più nel buio e nelle viscere della terra. Incombevano enormi nella sua mente, come se lui si trovasse sul cornicione di un palazzo altissimo, guardasse giù e il cornicione cominciasse a sgretolarsi sotto i suoi piedi. La paura gli montò in gola. Sentì il bisogno di correre, di scappare da qualunque altra parte. Eppure... Eppure i tunnel lo invitavano, le tenebre erano attraenti. Emanavano quasi un mormorio di voci dolci, deboli, udibili soltanto a livello inconscio. No, pensò indietreggiando, cercando di ritrovare la porta, di non vomitare. Se fosse sceso in quel buio invitante, ci sarebbe stato più fresco. Bastava fare un passo, scendere, rotolare giù... Trovò la porta, cominciò a uscire; e quasi contro la sua stessa volontà, il suo sguardo tornò al serpens, trafitto sulla parete dal sottile raggio di luce. In quella prospettiva, sembrava quasi che guardasse direttamente lui, dentro di lui. Con un ultimo passo barcollante, tornò nel passaggio esterno. Il senso di nausea e di panico diminuì all'istante. Sam si mise a camminare. Conosceva a memoria ogni percorso necessario per uscire dalle caverne, ma controllò lo stesso la mappa. Era in una zona dalla struttura complessa e se il panico lo avesse ripreso... No. Non poteva fidarsi di se stesso. Non ancora. Accelerò il passo. La lanterna proiettava sul pavimento una chiazza di luce quasi del tutto inutile; gli mostrava a stento dove posare i piedi. Sinistra. Sinistra. Destra. Ancora a destra. Una svolta più avanti. Cercò di pensare solo all'atto del camminare. L'aria stava diventando davvero opprimente. Lo stringeva da ogni lato, sembrava quasi fermarlo, frapporsi fra lui e l'uscita. Imprecò contro la propria debolezza e accelerò ancora. Altri dieci passi e sarebbe stato fuori. Otto. Immaginò di sentire passi alle sue spalle. Sapeva che era solo un'eco, ma aumentò il ritmo. Sei. Quattro. Più veloce.
A destra e fuori. Dietro la lunga curva della caverna spuntò la luce del sole di mezzogiorno. Sam spense la lampada, inspirò a pieni polmoni e scosse la testa per la propria stupidità. Non aveva più avuto un momento di panico come quello da quando aveva iniziato a scavare nelle caverne, vent'anni prima. Si vergognava alla sola idea ed era felice che non ci fossero stati testimoni. Superò l'imboccatura, scoprì quanto fosse dolce l'aria. Da lì poteva vedere quasi tutto il Point. Oltre gli alberi distingueva le onde bianche che correvano verso Machias Bay. Era uno spettacolo familiare e il terrore delle tenebre venne attenuato da quella familiarità. Allontanò le ultime tracce di irrequietezza con una scrollata di spalle. Quel cedimento era senz'altro da attribuire a una momentanea, imbarazzante crisi di nervi. Si concentrò sulle necessità più immediate. La prima cosa da fare era recuperare la sua attrezzatura fotografica e portarla lì il più presto possibile. Sarebbe stata necessaria una lampada a infrarossi. Non osava rischiare il lampo di un normale flash; avrebbe fatto scolorire i disegni molto più in fretta. Il pensiero di tornare da solo gli diede un brivido di preoccupazione che soffocò subito. Non poteva aspettare che arrivasse qualcuno dall'università. Se voleva scattare le foto prima che l'aria intaccasse i colori, doveva provvedere da sé. Si guardò alle spalle. Vide il passaggio, poi notò il sandwich che aveva dimenticato sul pavimento. C'erano insetti che strisciavano sopra e attorno alle nere fette di pane. A Sam si rivoltò lo stomaco. Tanto non ho fame, pensò e si avviò sul sentiero che lo avrebbe riportato alla strada. 2 Quindici minuti dopo, Sam raggiunse la sua Buick verde. Aveva appena aperto la portiera quando sentì arrivare un'altra macchina. Girandosi, vide l'automobile bianca e nera di Tom Crandall arrampicarsi su per la collina. Il veicolo si fermò sul lato opposto della strada. Crandall scese e attraversò la strada. «Giorno, Sam.» Sam annuì. «Come va, Tom?» Crandall scrollò le spalle. «Non troppo bene. Bazzichi ancora da quelle parti?» Puntò l'indice verso le caverne. «È solo un hobby», disse Sam. «Già, già. Be', ci sono hobby e hobby. Non vorrei doverti venire a cerca-
re, se ti perdessi là dentro.» «Grazie del consiglio, papà. Ti spiace se stasera prendo la macchina?» «Okay. Ricevuto.» «Bene.» Sam notò la tensione sul viso di Tom. «Qualcosa che non va?» Tom annuì. «Mai avuta una di quelle giornate quando tutto va per un verso... non sbagliato, ma strano?» «A me succede tutti i giorni. Ti spezzano la schiena, eh?» «Puoi giurarci. Lo stramaledetto telefono non ha fatto altro che squillare per una cosa o per l'altra, più che altro roba da poco e ho appena saputo via radio che è successo qualcosa a Barbara LeMarque.» «Sta bene?» Sam conosceva appena Barbara, un saluto per strada e niente di più, ma gli era sempre parsa una donna cordiale. «Per quanto ne so, sì. E oltretutto abbiamo guardoni, vandali e ragazzini che rubano i giornali davanti ai portici delle case e un pazzo che ha ucciso il gatto di Duane Kincaid.» Crandall scosse la testa. «Una grana via l'altra.» Sam divenne pensoso. «Che cosa hai detto del gatto di Duane? Quando è successo?» «Gesù, non lo so. Mi hanno detto, approssimativamente, fra le undici di ieri sera e le sette di stamattina. Ci sono appena stato. Quel povero gatto è stato sventrato. Ci vuole un vero pazzo, se ti interessa la mia opinione.» Sam aggrottò la fronte. La sera prima, aveva visto Karl Jergen correre all'automobile, proprio a due passi dalla casa di Duane. Gli era sembrato abbastanza strano, ma non ci aveva fatto troppo caso. Aveva pensato che Karl avesse guai con l'auto. D'altra parte, Karl finiva spesso coinvolto in faccende tutt'altro che simpatiche e i tempi coincidevano. Si chiese se parlarne a Tom, ma in città impicciarsi degli affari di Karl, che aveva la memoria lunga e un pessimo carattere, non era considerata una buona idea. E aveva tante cose da fare. Gli occorreva la macchina fotografica, subito, il che gli lasciava ben poco tempo da sprecare per uno come Karl. «Okay», disse alla fine. «Se sento qualcosa ti faccio sapere. C'è altro?» «No. Più o meno è tutto. Ero solo di passaggio. Volevo vedere come te la cavavi tu. Un pensiero di meno. Ciao.» «Ciao», rispose Tom. Ed esitò. Dannazione, era in debito con Tom. Tom lo aveva aiutato più di una volta, un po' per tutto, dai permessi alle multe. Il minimo che potesse fare era ricambiare il favore.
Abbassò il finestrino. «Ehi, Tom.» «Sì?» «Forse dovresti parlare con Karl Jergen. Non sto dicendo che abbia fatto qualcosa, però ieri sera tardi l'ho visto girare attorno alla casa di Duane. Forse non è niente, ma non si sa mai. Tu non fare il mio nome, okay?» «Non c'è problema. Almeno è un punto di partenza. E anche se non è stato lui, potrebbe avere visto il colpevole, o avere visto qualcuno che ha visto qualcun altro. Che merda.» Crandall accese il motore. «Grazie dell'informazione, Sam.» L'auto della polizia ripartì. Sam aspettò che Tom fosse scomparso, poi si avviò nella direzione opposta, verso la città. Sperava proprio di avere fatto la cosa giusta. 7 Liz Era quasi l'ima quando Liz uscì dal negozio. R.T. era un gran chiacchierone, ma la loro conversazione la incuriosiva più per quello che lui non aveva detto che per quello che aveva detto. Era chiaro che sapeva più cose su quello che accadeva in città dello stesso Crandall: sapeva di che cosa parlava la gente quando, nelle giornate fredde, si riuniva nel suo negozio a scuotere la testa e mormorare; o quando, nelle giornate calde, la gente sedeva sul portico del suo negozio e ricordava avvenimenti di cui non c'era traccia nei giornali locali. R.T. godeva della fiducia generale e per un buon motivo: era un maestro nell'arte di tenere la bocca chiusa. Era un esperto nell'irritante gioco di lasciar capire che sapeva qualcosa, senza però dire che la sapeva e senza offrire indizi meno che vaghi. Lei lo aveva rimproverato di non voler collaborare, ma lui aveva sorriso sostenendo di non saper nemmeno di che cosa Liz stesse parlando. «Sicuro, d'accordo, c'è un'intera città, ci sono famiglie che vivono qui da quattro generazioni, per cui è probabile che ci siano state rivalità e una bella fetta di rancori ed esplosioni di collera. Un sacco di cose.» «Solo che a sentire lei», aveva ribattutto Liz, «dopo la Seconda Guerra Mondiale non è più successo niente di interessante.» «Con tutto il dovuto rispetto, non vedo che cosa c'entri il suo libro con storie del genere, signora. Se ho capito bene, lei sta scavando nel passato. Il presente non conta.» «È importante per il quadro d'insieme. Io voglio scrivere della vita nelle
piccole città. La vita passata, presente e futura. Dopotutto, una città non è quello che è a causa di ciò che è accaduto in passato?» «Se sta parlando di chi è stato sindaco e perché, di quali leggi sono state approvate, di come tanta gente di qui sia riuscita a restare isolata dal resto del mondo, probabilmente non ha tutti i torti.» R.T. si era messo a pulire la base di una lampada d'ottone, sorridendo fra sé. «Ma in quanto al resto... «Senta, per amore di discussione immaginiamo che le racconti quello che ho sentito. E attenzione, non tutto quello che ho sentito è vero. Diciamo che è vero a metà. Se le dicessi che il tizio che vive dall'altra parte della strada è un alcolizzato? Che il proprietario del negozio qui vicino picchia la moglie quando è ubriaco? O che la moglie del tale se la spassa col marito della tale? A che cosa le servirebbe? Proprio a niente, è chiaro. «Sicuro, ci sono chiacchiere. E scandali. Ma in questa città non c'è stato un crimine serio, non un omicidio o uno stupro o roba del genere da... da che io ricordi. Io a volte penso che ci sia qualcosa che fa la guardia al Point. Che tiene fuori il resto del mondo, come è giusto.» A quel punto, la campanella sulla porta aveva annunciato l'ingresso di un cliente e R.T. si era allontanato, mettendo fine all'intervista. Davanti al negozio, Liz si schermò gli occhi, scrutò la strada e scoprì Eric seduto in un gazebo bianco, all'ombra del monumento che commemorava la Rivoluzione americana: la statua di un soldato che guardava in direzione del mare, a est. La targa in bronzo ai suoi piedi diceva: L'ETERNA VIGILANZA È IL PREZZO DELLA LIBERTÀ. Eric sembrava assorto nella lettura di qualcosa. Però sorprese Liz alzando la testa mentre lei attraversava la strada, molto prima che avesse potuto sentire i suoi passi. Le sorrise, poi riportò per un attimo l'attenzione su ciò che stava leggendo. In un lampo veloce, Liz intravide sul suo volto qualcosa che la turbò, come se quel sorriso fosse stato imbastito solo per farle piacere. Le fece tornare in mente un ragazzino che aveva visto una volta, un ragazzino che si era perso: era spaventato ma si sforzava di non darlo a vedere e cercava con accanimento ancora maggiore di trovare la strada di casa. Stranamente, lei provò il desiderio irrazionale di mettergli un braccio sulle spalle e assicurargli che sarebbe andato tutto bene. Qualunque fosse il problema. Quando raggiunse il gazebo, Eric le sorrise nuovo. Piegò i fogli che stava studiando e li infilò nella tasca della giacca. Liz intravide colonne bianche a stampa su carta nera: il tipo di fotocopie che potevano uscire dal-
l'antiquata fotocopiatrice della biblioteca. «Trovato qualcosa di interessante da leggere?» «Niente di straordinario.» Eric mise le mani in tasca. A Liz si ripresentò l'immagine del ragazzino sperduto. Lo poteva quasi vedere strusciare la scarpa nella polvere, colto in flagrante mentre rubava una mela da una bancarella. «Com'è andata l'intervista?» Lei scrollò le spalle. «Niente di straordinario.» Se lui afferrò il sarcasmo, non lo diede a vedere. Batté la mano sulla ringhiera del gazebo. «Non ne vedevo più da anni.» «E qui lo usano ancora. Il sindaco lo usa per il suo discorso inaugurale, il picnic del quattro luglio finisce sempre con i fuochi artificiali sopra il gazebo e due volte al mese c'è il concerto della banda.» «È come tornare nel passato.» «O come se il passato tornasse nel presente.» «Mi domando che cosa avrebbe significato crescere qui, restare sempre nello stesso posto, non spostarsi in continuazione...» La voce di Eric si spense. Lei si portò al suo fianco. «Qui è molto carino, vero?» Senza rispondere, Eric fissò, sull'altro lato della piazza, la chiesa di Saint Benedict, l'edificio più grande del Point. Per quanto distante, la struttura gotica dominava il centro della città. Era una costruzione sobria, quasi severa. «Imponente», disse Eric. Liz annuì. «La chiesa ha quasi la metà degli anni della città. Dovrebbe avere una storia interessante.» «Sì?» «Soltanto voci, storie antiche, ma mi piacerebbe moltissimo cercare di verificarne qualcuna. Dicono che sia stata costruita con fondi di provenienza piuttosto strana, ma non sono riuscita a scoprire niente di preciso. Non mi sorprenderebbe se buona parte delle storie fossero state inventate solo per attirare i turisti.» «Una vera scettica», disse una voce alle loro spalle. Si girarono. Padre Kerr stava salendo i gradini. «Credevo che origliasse solo nel confessionale, padre», disse Liz. «Be', visto che lei non viene a confessarsi, forse il Signore ha cercato di offrirmi una compensazione.» Kerr sorrise. «A dire il vero, stavo facendo qualche commissione. Vi ho visti e ho pensato di invitarvi a cena stasera. Potrei persino invitare anche Sam, così mi diverto un po'. Ammesso di riu-
scire a portarlo nelle vicinanze di una chiesa.» «Sarà un piacere», disse Eric. «Accettato. A che ora dobbiamo venire?» chiese Liz. «Alle sei e trenta. Ci vediamo stasera, allora.» Il sacerdote si allontanò con un cenno cordiale. «Oh, Elizabeth.» «Sì?» «Visto che vi ha accennato, per lei terrò il confessionale aperto ventiquattro ore su ventiquattro.» «Cercherò di sfruttare l'offerta, padre. Così tutti i peccati mortali che commetterò da adesso all'ora di cena saranno solo colpa sua.» Padre Kerr scosse la testa bonariamente, ostentando rassegnazione e attraversò il parco, diretto alla chiesa. «In momenti come questo, quando ho a che fare con la gente del posto, con Sam, Zach, padre Kerr o chiunque altro, sono felice di essere cresciuta a New York», disse Liz. «Riesco sempre a rispondere alle loro frecciatine senza perdonargliene una.» «Da quello che ho visto, direi che è il tuo comportamento a stimolare le frecciate.» «Probabilmente. E a quanto pare li stimolo anche a cercare di combinare matrimoni. O l'antifona ti era sfuggita?» «No, no. Però io stesso sarei capace di trovare scuse anche peggiori pur di invitarti a cena.» Liz soppesò la risposta, in cerca di una battuta tagliente. Il fatto era che le sembrava un'idea piacevole. «Dai», disse, «togliamoci dal sole.» «Ma io ci sto benissimo.» «È pericoloso. Non leggi i giornali?» Mentre scendevano i gradini del gazebo, Eric le prese il braccio. «Alla cena manca ancora parecchio. Che cosa ne dici di mettere qualcosa sotto i denti?» «Offri tu?» «Ovvio.» «Allora fammi strada.» Mentre si dirigevano al ristorante Liz scoprì di sentirsi piuttosto contenta, nonostante l'intervista inconcludente. Non che volesse lasciarsi suggestionare, ma da quando era con lui... Dopo tutto, aveva lavorato al libro quasi per un anno intero. Non c'era proprio nulla a impedirle di mischiare il lavoro con un po' di piacere. O il piacere con un po' di lavoro.
8 Il Point Il vecchio furgone del latte si fermò davanti alla Royal Flush Tavern poco prima delle quattro. Un po' presto, anche per Bud Simmons. Comunque, Ace Jackson mise automaticamente sul banco un bicchiere e una bottiglia di birra. Quando Bud si accomodò sullo sgabello, era già tutto pronto. Ace fece un cenno di saluto. «Come va?» Bud scrollò le spalle e riempì il bicchiere, gli occhi puntati sulla schiuma bianca. Bevve una lunga sorsata, poi tornò a fissare la birra. Deve avere il cuore a pezzi, pensò Ace, senza troppa simpatia. Il cuore di Bud era una brutta bestia. Una seconda sorsata svuotò il bicchiere e Bud chiese un altro giro. Aveva ancora il becco chiuso, ma non poteva durare. Bud era il tipo di ubriaco che dopo un po' di birre vomita tutto quello che lo rode dentro. Il tipo di ubriaco che Ace non sopportava. Se c'è qualcosa che ti preoccupa, per Dio datti da fare e vedi di sistemare le cose, non aspettare che l'alcol ti dia il coraggio e la scusa per tirare avanti un altro giorno. Comunque, Bud era un cliente fisso e far girare le palle alla clientela non è il modo migliore di condurre gli affari. «Come sta Beth?» chiese Ace, senza aspettarsi una risposta. Bud passò il dito su un cerchio d'umidità sul bancone. «Come diavolo faccio a saperlo?» «Be', credevo...» «Quando sono uscito stava bene, okay? Ma allora era allora e adesso è adesso.» Molto profondo, pensò Ace. Bud lo fissò di traverso. «Altre domande?» «Nemmeno una», rispose Ace. Girò dietro il banco e cominciò a sistemare le sedie. Vai a farti fottere, pensò. Nella mezz'ora successiva, Ace tornò dietro il banco solo il tempo necessario per servire un'altra bottiglia di birra. Non fece altri tentativi di conversazione. Nessuno entrò nella taverna a spezzare il silenzio. Alla fine, Bud mise un dollaro sul banco, si alzò e si avviò alla porta. «Grazie», borbottò e si incamminò verso quel bidone del suo furgone, parcheggiato al lato opposto della strada. Ace restò a guardare dalla finestra,
lo sguardo puntato oltre l'insegna rossa al neon. Vide Bud fermo davanti al furgone, con l'aria di chi sta riflettendo profondamente. Dopo un attimo, Bud salì al volante e cercò di mettere in moto. Il risultato dei suoi sforzi fu un fracasso infernale che si dovette sentire fino all'altro capo della città. Non mi meraviglia che Bud sia sottosopra, pensò Ace. Doveva essere un pistone rotto, senza dubbio. L'unica cosa da fare era prendere il vecchio bidone e dargli il colpo di grazia, magari venderlo come rottame. Di sicuro non sarebbe più andato da nessuna parte. Come a conferma dei suoi pensieri, il fracasso si interruppe e Bud scese dal furgone, sbatté la portiera e si incamminò sulla strada verso la città. Al Point non esistevano autobus, per cui, a meno che non riuscisse a farsi dare un passaggio, Bud aveva davanti una lunga camminata. Ace ricominciò a sistemare il bar per i clienti fissi del pomeriggio. Aveva il sospetto che il vecchio Bud e la sua signora si sarebbero goduti una lunga, dura serata. Ma meglio Beth di me... E a quel pensiero, sorrise. Ehi, Beth, pensò, alla tua! 2 Karin Whortle portò il conto al sindaco: una salsiccia con pochi crauti, insalata di cavoli, patatine fritte, caffé e una fetta di torta. Si chiese se non fossero sempre le stesse cose che George Morgan ordinava tutte le volte che si fermava a mangiare lì, il che accadeva solo quando si avvicinavano le elezioni. Altrimenti chissà che scenate gli avrebbe fatto sua moglie, pensò Karin. Ma un uomo nella sua posizione, ogni tanto doveva farsi vedere nei posti che di solito non frequentava; così, al momento della campagna elettorale, nessuno si sarebbe stupito che il buon vecchio George fosse culo e camicia con tutti quanti. Però poteva anche darsi che avesse semplicemente fame e volesse mangiare un boccone prima di tornarsene a casa. Non c'era motivo di essere sempre cinici. Gli diede il suo resto, ma lui alzò le mani per rifiutarlo. «Karin», le disse, «tu sei la migliore cameriera del Point. Tieni il resto.» Lei guardò i tre dollari di mancia su un conto di sei e cinquanta, sorrise e infilò i soldi nel grembiule. «Grazie», disse. Sì, George si stava preparando alle elezioni. Forse, pensò, una sana dose di cinismo ha i suoi vantaggi. Trasudando una consumata giovialità, George si avviò alla porta, fer-
mandosi qua e là' per una pacca sulla schiena a vari clienti. Poi, dopo un cenno a qualcuno sul fondo della sala e un'occhiata all'orologio (i sindaci occupati, con tante cose da fare, non guardavano sempre l'orologio?), uscì nel tardo pomeriggio. «Il buon re George si è rimesso in movimento.» Karin si girò alla voce e scoprì Walter Kriski appoggiato al banco. Le sorrideva e lei vide che aveva un bel sorriso. Era una cosa che notava sempre più, negli ultimi tempi. «Fra parentesi», le disse lui, porgendole il conto, «mi chiedevo se hai progetti per venerdì sera. A Cutler danno Fantasia. Se ti interessa...» Karin si affaccendava alla cassa e intanto la sua mente correva da una risposta all'altra. Walter era un uomo simpatico e di certo tanto insistente da farle pensare che avesse per lo meno qualche intenzione seria. Prendere una decisione le parve più lungo di quanto in realtà non fosse. Dopo aver contato il resto e averglielo dato, aveva pronta la risposta. «Sicuro», disse. Sei lettere, una parola. Bella risposta, vista tutta la fatica che le era costata. Ma l'importante era il contenuto delle parole, non la loro quantità. Walter sembrò raggiante e allo stesso tempo così sinceramente sorpreso che Karin dovette soffocare una risata. «Alle sei, allora? Possiamo cenare fuori. Ti farai servire da qualcun altro, tanto per cambiare. Ci vediamo venerdì», disse Walter e partì verso la porta. Per il resto del suo turno, Karin immaginò una scena dopo l'altra. Quasi tutte finivano con un cambiamento di nome: da Karin Whortle a Karin Kriski. Il suono era piuttosto buffo, doveva ammetterlo. Ma quello era uno dei rischi di una relazione sentimentale, no? Se ne fosse nato qualcosa di serio, forse poteva prendere in considerazione l'idea di mantenere il proprio cognome. Perché, francamente, Karin Kriski sembrava una marca di cereali per bambini. 3 Alle quattro e un quarto, Tom Crandall tornò in città e notò Karl Jergen camminare in direzione di Veteran's Hill. Spense il motore a mezzo isolato dalla stazione di polizia e scese dall'auto, avviandosi verso Karl. I Kincaid non erano stati di grande aiuto nel cercare di immaginare chi potesse avere torturato e ucciso il loro gatto, ma nel corso della conversazione, il nome
di Karl era saltato fuori più di una volta. Gli avevano detto di scomparire dopo una telefonata di troppo a Jessie, la figlia maggiore di Duane. Non sembrava un buon motivo per un gesto atroce come uccidere un gatto, però Sam lo aveva visto in zona più o meno all'ora giusta. Tom salì sul marciapiede. «Ciao, Karl. Come va?» Karl si fermò, scrollò le spalle. «Bene.» «È un po' che non faccio quattro chiacchiere con te. Niente di nuovo?» «No. Mi spiace.» Tom infilò le mani nelle tasche della giacca. «Vorrei poter dire lo stesso. C'è stato un bel movimento, negli ultimi due giorni. Probabilmente avrai sentito che cosa è successo dai Kincaid ieri sera.» «Vuoi dire il gatto? Basta essere andati da R.T. per saperlo. Ray non parla d'altro.» Tom prese nota: dare una strigliata a Ray per la sua boccaccia. «Ti spiacerebbe dirmi dove eri ieri sera?» Cercò la minima traccia di emozione sul viso di Karl e non trovò nulla. «In casa.» Una grossa, brutta faccia di bronzo, pensò Tom. «Qualcuno può confermarlo?» «Sì», disse Karl. «Perché?» «Be', diciamo che ho motivo di sospettare che ieri sera tu fossi in giro, forse proprio dalle parti dei Kincaid.» «Allora ti sbagli», disse Karl. «Ero in casa. Okay?» Una nota nella sua voce diceva che la conversazione era terminata. «Se hai sentito raccontare il contrario, o qualcuno è pazzo oppure ti racconta balle. Nient'altro?» «No. Non per il momento.» «Bene.» Karl girò attorno al poliziotto e riprese il cammino, senza voltarsi. Perplesso, Tom si diresse in ufficio. Normalmente, sarebbe stato incline a pensare che un comportamento come quello di Karl nascondesse qualcosa. Il guaio era che Karl si comportava sempre come se avesse un alveare infilato tra le chiappe. Comunque, una cosa era certa. Di Sam si fidava. E se Sam aveva detto che la sera prima Karl era fuori, allora Karl era fuori e se Karl sosteneva il contrario, mentiva. Spalancò la porta e vide Ray seduto alla scrivania. Stava parlando al telefono. Alzò un dito per segnalare a Tom che si sarebbe sbrigato in un minuto. Alla fine riappese e batté le dita sul foglio che aveva davanti. «Ci sia-
mo.» «Ci siamo a che?» Tom era sempre intenzionato a farla pagare cara al suo vice, ma la lavata di capo poteva aspettare. «Ho raccolto tutte le informazioni possibili su quell'Eric Matthews. È uno che si sposta di professione. Si è lasciato dietro una scia di casini da un lato all'altro del paese. Nessuno è riuscito a inchiodarlo, però lo hanno interrogato più volte a proposito di una figlia unica che è rientrata a casa con cinque ore di ritardo.» Tom aggrottò la fronte. Sino ad allora, il sospetto numero uno era Karl. Ma se quel Matthews era un piantagrane... «Denunce o imputazioni?» «No. Un paio degli sceriffi con i quali ho parlato avrebbero piacere di fargli una domanda o due, però a tutti quanti è sempre bastato che stesse alla larga dalla loro città.» «Allora per adesso non si può fare altro. Non possiamo sbattere uno dentro perché ha l'hobby del trasloco. Se abita da Zach, significa che ha soldi, il che significa che non possiamo arrestarlo per vagabondaggio. In quanto al fatto che sia un piantagrane, diavolo, se dovessi chiudere in cella tutti i piantagrane, in un'ora svuoteremmo mezza città. «Il che non significa che dobbiamo ignorarlo», continuò Tom. «Abbiamo tutti i motivi di tenerlo d'occhio finché non ripartirà da qui. Forse non succederà niente. Forse è stato solo perseguitato dalla sfortuna. E forse dovremmo cercare di fare in modo che non abbia altre sfortune intanto che è qui.» Ray sorrise. «Ricevuto.» Si avviò alla porta sul retro, in cerca di caffé. «Credo che ce la possiamo fare.» «Bene», urlò Tom verso l'altra stanza. «Allora forse puoi darmi una mano con l'altro piantagrane di cui mi hanno parlato. Un agente di polizia rompicoglioni che va in giro a raccontare tutto delle indagini in corso.» Il silenzio riempì l'ufficio nei minuti successivi, prima che Ray trovasse il fegato di ritornare dentro, e fu la prima volta, a memoria di Tom, in cui Ray fosse riuscito a stare zitto per tanto tempo. Pensandoci su, decise che la cosa gli piaceva. 4 Erano le quattro e trenta quando Fred Keller tirò la rete. Le sue dita esperte impedirono agli anelli di aggrovigliarsi fra loro mentre si accumula-
vano in cerchi concentrici sul ponte della piccola imbarcazione. A est, l'orizzonte stava diventando scuro e un vento freddo annunciava l'arrivo della sera. La sua giornata di lavoro era quasi terminata. Pochi minuti dopo, la rete, tirata su dall'argano era a bordo. E dove normalmente ci sarebbero stati pesci che cercavano di liberarsi, c'era solo l'immobilità assoluta. Per la terza volta nella giornata, la rete era vuota. Keller crollò pesantemente a sedere. Non aveva senso. A rigor di logica, i pesci avrebbero dovuto nuotare poco sotto la superficie, dove stavano sempre quando faceva freddo. Ma dopo la prima rete aveva capito che non c'erano. Così l'aveva fatta scendere più in profondità e ancora niente. Aveva persino tirato fuori le canne, le aveva disposte lungo il corridoio d'accesso alla cabina, regolando la lunghezza dei fili per diverse profondità. Sempre niente: non un morso, non uno strattone. Niente. Andò al frigorifero della cabina e prese una birra. In qualunque altro giorno, avrebbe catturato qualcosa nella rete: un maccarello, una sogliola, magari una passera. Pescava da una vita e quella sfortuna gli era capitata solo due volte. In entrambi i casi, era stato tanto stupido da uscire in mare prima di un temporale. I pesci non sono idioti come pensa la gente; sanno quando sta per scatenarsi un temporale e si rifugiano nelle acque profonde, in attesa che passi. Scrutò l'orizzonte. Qualche nube, sì, ma per il resto il cielo era sgombro. Non c'erano temporali in arrivo, il che escludeva quella teoria. Dopo aver deciso che starsene seduto lì non gli sarebbe servito a riempire la rete, Keller mise giù la birra e accese il motore. Forse avrebbe avuto più fortuna nella zona sottovento del Point. Se non altro, valeva la pena di tentare. 5 Karl Jergen scivolò in casa e salì le scale fino alla sua stanza. Si mise una camicia di flanella più pesante e un giubbotto, poi cercò di arrivare alla porta senza interferenze. Non era nello stato d'animo più adatto per sopportare rotture di scatole. Come poteva prevedere, Ruth lo aspettava nell'atrio d'ingresso, il binocolo in mano. «Ti ho visto parlare con la polizia. Ti sei messo un'altra volta nei guai?» «No», disse Karl, spingendola via. Lei gli balzò addosso, lo prese per un braccio, appiccicò la faccia alla
sua. Quanto gli sarebbe piaciuto prenderla a pugni. «Oh, sicuro, Tom si è fermato solo per due chiacchiere, giusto? Ti avverto, Karl, se stai combinando qualcosa...» Karl si tolse dal braccio la mano di sua madre. La strinse finché non vide la smorfia di dolore sulla faccia di Ruth. «Non toccarmi mai. Mai.» Lei si dibatteva. «Basta! Mi fai male!» «Mi toccherai ancora?» «No, va bene, no», disse Ruth e indietreggiò nell'ingresso. «Bastardo!» sibilò. «Sono tua madre! Dimostrami un po' di rispetto! Vattene... Vattene dove diavolo vuoi. Non mi interessa. Maledetto figlio di puttana!» Karl la guardò. Provava solo disgusto. Per un attimo, la immaginò col filo del suo stramaledetto telefono stretto attorno al collo. Quasi lo avesse intuito, lei si scostò ancora di più. «E dai» strillò, con un velo di paura che si insinuava nella voce, «vattene!» Karl uscì. Sentì la madre chiudere la porta a chiave e mettere il catenaccio. E chi se ne fregava? C'erano mille modi per rientrare in casa, anche se lei avesse osato tenerlo fuori. In ogni caso, lui non sarebbe tornato per un po', non prima che lei si addormentasse. La cosa gli stava benissimo. Era pieno di rabbia. Tutti stavano cercando di farlo fesso. Prima Kincaid, poi il poliziotto e adesso sua madre, anche se quella non era una novità. Ma Sam... Adesso doveva dare una lezione a Sam, fargli capire che mettere il naso nei suoi affari era stata una pessima idea. Doveva essere stato Sam a raccontare di averlo visto dalle parti dei Kincaid la sera prima. Be', Sam avrebbe cambiato opinione molto in fretta su chi o che cosa aveva visto. E Karl sapeva esattamente che cosa fare. Sapeva che Sam stava combinando qualcosa dalle parti di Indian Lake. Gli bastava andare al lago, rintracciare l'auto di Sam, seguire le sue tracce, dopo di che... Dopo di che, cosa? Rifletté sull'interrogativo mentre saliva sulla vecchia giardinetta Chevy. E chi se ne fregava? Gli sarebbe venuto in mente qualcosa. 9 Eric Eric chiuse a chiave la porta del cottage, contento di avere qualche minuto di solitudine prima che Liz venisse a prenderlo per la cena. Aveva bisogno di restare solo per un po', di pensare.
Sistemò sul tavolo i ritagli di giornale che aveva trovato in biblioteca. I fatti della giornata gli tornarono alla mente. Se voleva conservare l'anonimato, Crandall sarebbe stato un problema. Gli dava l'idea del tipo di poliziotto che fa l'impossibile per sapere tutto degli altri, specialmente dei turisti di passaggio. La forte personalità di Crandall era quasi palpabile. Il che significava che lui doveva stare attento a tutto ciò che faceva e pregare che la situazione non sfuggisse di nuovo al suo controllo prima di avere concluso quello che voleva fare. Sfuggire al controllo: una definizione molto approssimativa. Pensò all'ultimo appartamento, alla serie di appartamenti e roulotte demolite che si era lasciato alle spalle in tutto il paese e immaginò che si verificasse lì. L'idea lo spaventò. Non aveva mai fatto del male a nessuno, ma le crisi stavano peggiorando. La notte prima non era successo niente. Come sempre, dopo un forte attacco, seguiva un periodo di quiete. Per quanto tempo, questa volta? Si chiese se essere tornato in quel posto, dove tutto era iniziato, sarebbe servito a migliorare o a peggiorare le cose. Cosa cercavi di dirmi, papà? si domandò. Cosa mi stai facendo? O era stato stabilito tutto tanto tempo fa? Torna a casa, Eric, torna a casa. «Sono qui», disse, guardando i fogli sul tavolo. «Adesso dimmi cosa dovrei fare.» La stanza rimase muta. Anche gli echi nella sua mente svanirono subito nel silenzio. Benissimo. Lo scoprirò da solo. Lisciò le fotocopie sul piano del tavolo. Gli articoli che aveva davanti coprivano un arco di quasi ottant'anni della storia del Point, in particolare della parte di storia che aveva a che fare con le caverne. Mentre li esaminava, provò di nuovo una sensazione di familiarità, come se conoscesse già il contenuto dei diversi pezzi. Come se li avesse già visti. Nella mente, o in sogno. Il primo ritaglio era datato 12 giugno 1962: RITROVATA RAGAZZA SCOMPARSA Una ragazza di quattordici anni, scomparsa da martedì mattina, è stata ritrovata oggi. Si aggirava nei pressi di Indian Lake. Le autorità riferiscono che la ragazza, scomparsa nel corso di una gita del liceo di Cutler, ha subito molestie sessuali. Non esistono indizi sull'identità del suo assalitore, an-
che se la polizia ne ha parzialmente ricostruito il volto e sta cercando un furgone verde con la targa del Maine... Un altro articolo recava la data del 28 settembre 1973: QUARANTANOVENNE DISOCCUPATO SI SUICIDA Robert Jergen, abitante a Dredmouth Point, è stato trovato ieri notte nelle caverne indiane, dopo una ricerca durata l'intera notte e iniziata col ritrovamento della sua auto nei pressi di Indian Lake. Secondo le autorità, Jergen, disoccupato dall'anno scorso dopo la chiusura della cartiera Henderson di North Cutler, era depresso per i problemi economici e per la recente morte del figlio maggiore in Vietnam. Un litigio in famiglia lo aveva lasciato molto scosso. Jergen era noto per le frequenti zuffe nei bar della zona ed era stato arrestato varie volte per disturbo della quiete pubblica. Accanto al corpo è stato ritrovato un messaggio (il cui contenuto non è stato divulgato) e il fucile da caccia che si presume abbia usato per suicidarsi. Jergen, che aveva quarantanove anni, lascia la moglie Ruth, il figlio Karl e una figlia, Cheryl. 3 gennaio 1967: LA POLIZIA ABBANDONA LE RICERCHE La polizia di stato e quella locale hanno rinunciato al tentativo di rintracciare un ragazzo di undici anni, scomparso da mercoledì, a causa della temperatura sotto lo zero e della forte nevicata che ha reso impossibile l'individuazione di eventuali tracce. Il ragazzo si era recato a pattinare a Indian Lake senza il permesso dei genitori. Si ritiene che sia stato investito dalla tormenta e abbia perso l'orientamento. I tentativi di ricerca all'interno delle caverne indiane, dove il ragazzo potrebbe essersi rifugiato, non hanno avuto successo a causa delle cattive condizioni meteorologiche e del labirinto di tunnel all'interno delle caverne, di cui non esiste una mappa. L'agente di polizia John Daniels ha emesso un comunicato per informare che le ricerche riprenderanno non appena il clima lo permetterà, anche se le previsioni per le prossime ventiquattro ore non indicano alcun miglioramento. Daniels non ha voluto dire quali siano le probabilità del ragazzo di sopravvivere nel frattempo. 19 agosto 1979:
VETERANO DEL VIETNAM UCCIDE LA MOGLIE E SI SUICIDA Dredmouth Point è stata scossa oggi da uno dei crimini più efferati della sua storia. Un veterano del Vietnam che campeggiava nella zona di Indian Lake ha preso in ostaggio la moglie e dopo una serie di trattative con la polizia locale durate l'intera giornata, ha improvvisamente sparato alla moglie e si è poi suicidato con la stessa arma. La coppia, di cui non è stato reso noto il nome, stava esplorando le caverne indiane quando, stando al racconto dell'agente di polizia Richard Markham, «lui è impazzito». Sostenendo di udire voci e di provare altre allucinazioni, l'assassino ha impedito alla moglie di andarsene e ha accusato la polizia, arrivata poco dopo, di essere in combutta con le voci. Alla domanda se si possa essere trattato di un caso ritardato di sindrome da stress, da cui sembrano affetti tanti reduci del Vietnam, Markham ha risposto che per il momento non esclude nessuna ipotesi. Si attendono ulteriori particolari dalle indagini sull'omicidio-suicidio e dall'inchiesta che seguirà. Eric accese la lampada da tavolo. Nell'insieme, aveva raccolto circa una dozzina di ritagli. A giudicare dagli accenni negli articoli più recenti, c'erano stati diversi altri incidenti che risalivano indietro nel tempo. Cominciava a emergere uno schema. Quasi tutti gli incidenti si verificavano durante un temporale o una tormenta (quel giorno, mentre suo padre guidava in direzione della città, il cielo chiaro del pomeriggio si era oscurato all'improvviso sotto nubi grigie e minacciose...) e dato che le caverne erano l'unico rifugio possibile nel raggio di diversi chilometri, attiravano irresistibilmente le persone in difficoltà. Gli altri episodi coinvolgevano individui dalla natura violenta e imprevedibile. Le caverne esaltavano prepotentemente quei tratti, il che aveva un senso: se una persona non era equilibrata, finire sottoterra non poteva che esasperare questa caratteristica. Maledizione, pensò Eric, deve esserci sotto qualcosa di più. Suo padre lo aveva messo in guardia dalle caverne, lo ricordava benissimo. Doveva avere un motivo preciso. E adesso che aveva cominciato a indagare, si rendeva conto che l'avvertimento non era poi inspiegabile. Adesso più che mai era deciso a non andare là finché non fosse stato pronto. Forse Liz poteva aiutarlo a...
Liz! Guardò l'orologio e imprecò. Quasi le cinque e trenta. Aveva solo pochi minuti prima che Liz passasse a prenderlo. Appena il tempo per cambiarsi. Corse in bagno, sbottonandosi la camicia. Mentre si lavava il viso con l'acqua fredda, rifletté sui vestiti che aveva e decise di mettere i calzoni e la giacca marrone e un maglione sopra la camicia bianca. Le sere stavano diventando sempre più fredde. Asciugandosi, uscì dal bagno e rimase immobile sulla soglia. Sul letto, dove prima non c'era niente, erano stesi in perfetto ordine la giacca e i calzoni marroni, un maglione di lana e la camicia bianca. Le sue ginocchia diventarono come masse di gelatina. «Gesù...» Stava succedendo di nuovo. Aveva sperato almeno in una settimana di pace, ma non avrebbe avuto tanta fortuna. Stava ricominciando tutto da capo: prima, gli oggetti che si muovono da soli; poi gli specchi che esplodono, le pareti che si mettono a sussurrare, una violenza incontrollabile, e... Aspetta un minuto, pensò. Alt. Guardò con maggiore attenzione gli abiti sul letto. Erano ben sistemati, non scaraventati a casaccio. Erano in perfetto ordine, come avrebbe potuto metterli un maggiordomo. Come li metteva sempre lui. Lo schema era cambiato! Era una novità. Aveva sempre creduto che i suoi pensieri influenzassero la forza sconosciuta, che per lo meno una parte della responsabilità fosse sua. Però non era mai riuscito a esercitare un controllo cosciente sui movimenti degli oggetti, tutte le volte che aveva tentato. Adesso non aveva tentato. Anzi, non si era nemmeno reso conto di che cosa stesse facendo. Ammesso, ovviamente, che lo avesse fatto davvero lui. «Maledizione», borbottò e cominciò a vestirsi. 10 Will Il North Cutler Memorial Hospital non era molto più grande di una modesta clinica, però era l'unica struttura ospedaliera abbastanza vicina al Point da poter essere utile a Will. Il primo passo era isolare Barbara LeMarque dagli altri pazienti, poi procedere a una serie di esami che sarebbero stati impossibili nello studio di Will. Gli occorreva un check-up comple-
to: sangue, ormoni, tutto. Will percorse lo stretto corridoio, superando le sale contraddistinte dalle scritte GINECOLOGIA, CHIRURGIA, PEDIATRIA, la farmacia e una porta più pesante con la scritta RADIOLOGIA. Le luci fluorescenti proiettavano rettangoli molto vivaci sulla moquette e sulle pareti color pastello. Frecce blu, verdi e rosse indicavano le direzioni dei diversi reparti. Tutto molto tranquillo, efficiente, moderno. Will sbuffò, insoddisfatto. Un ospedale doveva avere l'aria di un ospedale, non di una specie di liceo artistico. Girò un angolo, entrò in un'accogliente sala d'attesa. Gregory LeMarque, in piedi, stava fumando una sigaretta. «Sono arrivato appena ho potuto», disse Gregory. «Ero a Bangor per un lavoro. Sono partito prima dell'alba. Ho trovato il tuo messaggio rientrando a casa...» Si passò una mano nei capelli, turbato. «Come sta Barbara, Will?» chiese. «Sono di nuovo quei maledetti sogni, eh?» «Non lo sappiamo. È possibile che qualche stress, forse i sogni, abbiano scatenato l'episodio.» «Come sarebbe a dire, episodio? Mi stai dicendo che ha avuto un collasso nervoso?» Will spalancò le braccia. «È questo che non sappiamo, quello che vorremmo scoprire. Potrebbe essere solo una crisi momentanea, un accesso irrazionale. Se è così, se si tratta di semplice stress senza componenti fisiologiche, dovrebbe cavarsela bene, con un po' d'aiuto specialistico. Dobbiamo scoprire che cosa l'ha spinta fino a questo punto. Non possiamo attribuire tutto ai sogni. Di solito, sogni come i suoi sono il sintomo di qualcosa di più profondo, qualcosa...» «Però adesso sta bene, giusto?» «Per il momento, sì, sembra che stia bene, anche se è un po' scossa.» «E i ragazzi?» «Sono al primo piano, in pediatria. C'è una sala d'attesa speciale per i bambini.» Una stanza talmente ricca di colori da poter provocare il delirium tremens a un astemio, pensò Will, ma non lo disse. «L'hanno presa abbastanza bene. E Barbara ha avuto il buonsenso di tenersi lontano da loro durante la crisi.» «Quanti guai», borbottò Gregory. «Merda. Merda.» Will considerò l'altro per un istante. «Greg, quali siano i rapporti fra te e Barbara non sono affari miei, a meno che in qualche modo i vostri rapporti non c'entrino con tutto questo. Se fosse così, prima o poi dovrai affrontare
il problema. Per adesso, però, ti consiglio di astenerti da certi atteggiamenti. Barbara avrà bisogno di tutto il tuo sostengo e di tutta la tua comprensione. Ha avuto un momento difficile. La stiamo trattando con farmaci antipsicosi, ma tu sei la migliore medicina che possa avere. Chiaro?» Gregory incontrò il suo sguardo. «Posso vederla?» Will tornò sui propri passi. «Per di qua», disse, aprendo la porta del reparto d'isolamento. «È il reparto malattie mentali?» «No. È l'isolamento. Non è la stessa cosa. Lo usiamo quando vogliamo tenere un paziente separato dagli altri. Il che significa da chi ha una malattia infettiva a...» «Ai pazzi?» Will si girò a guardarlo. «Barbara non è pazza. Chiariamo subito la questione. È molto più sana di mente di tanta gente che sta qui, anche di alcuni dottori.» Si fermarono davanti alla porta della stanza di Barbara. Will non voleva che Gregory creasse altri problemi alla moglie, ma non trovava nessuna scusa ragionevole per tenerlo fuori da lì. A certi uomini, semplicemente, risulta molto difficile affrontare il problema di una moglie che comincia a comportarsi in maniera irrazionale. Dopo un po', o ce la fanno, o no. Gregory doveva solo cercare di farcela. Will aprì la porta. «È qui dentro.» Illuminata solo da una piccola lampada, Barbara era coTicata a occhi chiusi. Per un attimo, Will pensò che dormisse, ma al suono della porta i suoi occhi si spalancarono. Il viso di Barbara si addolcì. «Oh, Greg...» Gregory si accostò al letto. «Sono qui, tesoro.» Sorrise, ma la sua voce era stranamente piatta. «Come stai?» «Okay», rispose lei, restituendo il sorriso. Un sorriso molto scarno, decise Will. «Credo di poter tornare a casa, adesso che ci sei tu. Posso, Will?» «Preferirei che passassi la notte qui. Così potremo tenerti sotto osservazione un po' di più, per accertare che tu abbia recuperato il tuo solito caratteraccio.» Barbara sospirò. «Potremmo far venire mia madre a casa nostra per qualche giorno, no, Greg?» «È proprio necessario?» chiese Gregory rivolto a Will. «Tecnicamente, no. Non posso costringerla a restare. Ma come suo medico raccomanderei...» Gregory lo interruppe. «Allora la riporto a casa. Il suo posto è a casa,
con la sua famiglia, non qui. Giusto, Barb?» Lei era incerta, però gli prese la mano e la strinse. «Sicuro.» Will aggrottò la fronte. «Allora insisto perché torni domani. Ci sono alcuni esami che vorremmo farle.» «No. Non permetterò che trattiate mia moglie come una pazza.» «Greg!» disse Barbara. «Sta solo cercando di...» «So che cosa sta cercando di fare», sbottò Gregory. «E so che cosa stai cercando di fare tu. Vuoi solo un po' d'attenzione. Sono settimane che non parli d'altro che dei tuoi sogni e adesso questo...» «Ero preoccupata, tutto qui. Sconvolta.» «Sconvolta? Per che cosa? Gesù! Te ne stai in casa, guardi la TV per tutto il fottuto giorno... Che cosa diavolo hai da preoccuparti?» Barbara lisciò e lisciò le lenzuola sul petto, automaticamente. Aveva gli occhi umidi. «Greg», disse lentamente, «ho... ho bisogno d'aiuto. Adesso me ne rendo conto. Sono quei sogni...» «Non voglio sentire un'altra parola sui tuoi stramaledetti sogni! Ne ho piene le scatole di...» «Okay, adesso basta», disse Will. Prese Gregory per il gomito con uno strattone e lo trasse in disparte. «Non serve proprio a niente che tu perda la calma. So che è difficile. È difficile per tutti, Barbara compresa. Perché non...» «E tu perché non ti fai gli affari tuoi, Will? La colpa è anche tua. Stare a sentire tutta quella robaccia...» «Ho detto basta.» Will abbassò la voce. «Immagino che tu sia molto sotto pressione, quindi sono pronto a dimenticare quello che hai appena detto. Non credo fossi del tutto in te. Ma un'altra parola e ti farò rimangiare tutto quanto. Potrò avere il doppio dei tuoi anni, però sono un medico, il che significa che conosco quindici punti diversi per farti vedere le stelle senza quasi muovere un dito. Ci siamo capiti?» Gregory restò a fissarlo, poi girò gli occhi. «Okay», disse. «Mi spiace. È stato lo choc.» Si voltò verso Barbara. «Pronta per tornare a casa?» Lei guardò Will, come per chiedergli il permesso, poi annuì. «Okay. Dammi qualche minuto.» «Certo», disse Gregory. Uscirono ad aspettare. Will raggiunse la sala delle infermiere e tirò fuori la penna. «Le fisso subito un appuntamento.» «Non potremmo farlo più tardi? Domani? Devo controllare quando posso liberarmi dal lavoro.»
«Pensa solo a farla arrivare qui. Finché non scopriamo che cosa ha scatenato l'episodio, è impossibile prevedere se ce ne sarà un altro o no. Vorrei che le facessero qualche esame neurologico, poi magari possiamo vedere come vanno le cose e...» «Ho detto che sistemeremo la faccenda, va bene?» Will inghiottì la rispostaccia quando Barbara uscì dalla stanza. Le sorrise con tutto il suo calore. Barbara stava meglio di quando era entrata, ma era ancora piuttosto scossa. «Che aspetto ho?» chiese. «Sei pronta per il concorso di Miss Universo», rispose Will. Barbara accennò un sorriso. «Grazie, ma non credo di essere all'altezza.» Prese la mano di Will e la strinse con forza, impacciata come una bambina. «Grazie ancora, di tutto.» «Abbi cura di te.» «Lo farò.» Gregory la prese a braccetto. «Andiamo. La macchina è qua dietro.» Su quella battuta, si portò via Barbara. Will la vide sorridere un'ultima volta mentre girava l'angolo, poi lei scomparve. C'era qualcosa di vagamente familiare nella sua espressione. Fu solo quando arrivò a metà strada da Dredmouth Point che si rese conto di che cosa gli ricordasse l'espressione di Barbara. Sembrava Will Junior il primo giorno d'asilo: spaventato, incerto, ma con una voglia disperata di dimostrarsi coraggioso. Will aggrottò la fronte. Avrebbe chiamato l'ospedale il pomeriggio del giorno dopo e se Barbara non fosse stata lì entro le cinque, per Dio, qualcuno gliel'avrebbe pagata. 11 Kerr Padre Duncan Kerr sedeva alla scrivania della canonica, in attesa di brutte notizie. Operai, pensò. Gli egiziani se l'erano cavata con poco: soltanto mosche, rane e tutto il resto. Se il Signore fosse stato davvero arrabbiato con loro, avrebbe mandato un operaio. Alzò gli occhi in direzione della provvidenza. Sperava in un intervento divino, ma trovò solo travi di legno. Un'osservazione che Sam avrebbe apprezzato, pensò.
Quasi sempre Kerr amava la sua parrocchia, per quanto piccola fosse. Chiesa e canonica erano solide come rocce, costruite ai tempi in cui esisteva ancora gente capace di erigere strutture destinate a durare fino al Giorno del Giudizio. Tutto ciò che non era di mattoni e cemento era fatto di solido legno lavorato a mano; c'erano soltanto cavicchi, nemmeno l'ombra di un chiodo. Sì, l'orgoglio era un peccato. Era stato proprio l'orgoglio a far precipitare Lucifero e a portare il male nel mondo, ma quasi tutti i giorni Kerr non poteva impedirsi un lampo di orgoglio per la perfezione dell'arte che tanto tempo prima era stata trasfusa nelle stesse pietre di Saint Benedict. In un giorno come quello, invece, si sarebbe accontentato di qualcosa che fosse anche solo vagamente moderno. Pensava in particolare alla cucina, installata negli anni Quaranta e ammodernata in misura modesta alla fine degli anni Cinquanta. E poi c'era il problema della temperatura della chiesa, torrida d'estate e gelida d'inverno. Da ottobre a marzo, anche se tutte le porte e le finestre erano chiuse, sembrava sempre che da qualche parte arrivasse una brezza. Il portone... Ma per il momento non ci avrebbe pensato. Gli bastava la cucina. Una crisi alla volta. Perché l'operaio ci metteva tanto? Il guasto non poteva essere così terribile. O poteva? Decise di pensare ad altro. Nessuna delle cose che gli vennero in mente era terribilmente eccitante. La vita quotidiana di Saint Benedict era fatta più di telefonate dei notabili e di raccolte di beneficenza che di lavoro coi giovani o di consigli alla gente in crisi. Un'esistenza tranquilla aveva i suoi vantaggi, ma a volte lui desiderava qualcosa di diverso. In origine, aveva chiesto una parrocchia in un'area urbana, ma i suoi superiori avevano ritenuto il suo temperamento più adatto a una piccola città. Non poteva che essere d'accordo. Però, ogni volta che sentiva le stesse identiche confessioni ripetute all'infinito (i sogni peccaminosi, i piccoli furti, le messe saltate), si chiedeva che cosa avrebbe significato condurre una parrocchia in una metropoli, dove i peccati e la necessità della redenzione erano tanto più grandi. Non che l'incarico che svolgeva non gli desse piacere. Non era ossessionato dal bisogno radicale di cambiare i sistemi sociali o mettersi in politica o scrivere libri. Solo che, di tanto in tanto, l'idea di fare qualcosa di impor-
tante era straordinariamente attraente. Si rese conto che lo stava contagiando una malattia molto diffusa in America: la noia in assenza di gratificazioni immediate. Ma c'era qualcosa di sbagliato nel desiderio di un solo uomo di avere una parte importante in una situazione più grande di lui? Probabilmente sì, pensò e sigillò l'idea nella scatola nera delle fantasie inopportune. Per adesso mi accontenterei di un forno che funziona, decise. Si alzò e infilò il pesante maglione che teneva sullo schienale della sedia. La signora Graham entrò nello studio in quel momento. Lui vide la sua espressione truce e si preparò al peggio. «Allora?» «L'operaio se n'è appena andato», disse lei. «Uscire per una riparazione all'ora di pranzo non gli ha dato brividi di gioia, ma dopo la prima occhiata al forno aveva quell'espressione soddisfatta che ha sempre quando viene da noi. Lo guardi negli occhi e vedi che immagina la pensione a quarant'anni, un giro del mondo e l'università per i suoi figli.» La signora Graham l'aveva presa molto male. Era una donna alta, magra, con grandi occhiali rotondi. I suoi capelli grigi erano stati tinti una volta di troppo. Kerr sospirò. Conosceva bene l'espressione che lei gli aveva descritto, ma non poteva farci niente. Il vescovo preferiva scucire i soldi a piccole rate, riparare una cosa qui e una là, invece di fornire i fondi per un riammodernamento completo. Comunque, la chiesa di Saint Benedict sarebbe sopravvissuta a quel vescovo e a quello successivo, finché qualcuno non avesse capito che era più saggio ricorrere a soluzioni radicali. «Qual è il verdetto?» «Ha sostituito il termostato, ma questo non è servito a niente per l'arrosto, che sembra uscito da un bombardamento ed è ormai tardi per scongelarne un altro.» «Che cosa abbiamo a disposizione?» Kerr la vide consultare la lista dei cibi che teneva a mente, aggiornata fino all'ultima carota. «Un po' di questo e un po' di quello. Qualche fetta del roastbeef di ieri...» «Avanzi», disse Kerr. «Lo stufato», disse la signora Graham. «Allora vada per lo stufato. Faccia del suo meglio. Sono certo che sarà più che sufficiente.» «Ci proverò», disse lei e girò sui tacchi, con una mossa che a Kerr era sempre parsa un po' troppo militare. Però si bloccò appena prima della por-
ta. «Posso fare qualcosa per lei, signora Graham?» Lei girò la testa. «Odio doverle dare questo fastidio, ma francamente sto perdendo la pazienza con quei ragazzi.» «Quali ragazzi?» «Non so di preciso. Non li ho visti, ma li ho sentiti. Quando lei era ragazzo, padre, ha mai lanciato sassi su un tetto per poi guardarli rotolare giù?» Con un sorriso, Kerr ammise di averlo fatto. «Be', credo ci siano dei ragazzi che stanno facendo la stessa cosa con la chiesa. Ieri sera e anche stamattina, ho sentito dei sassi rotolare sul tetto. Ne ho visto qualcuno ed erano piuttosto grossi, due o tre centimetri di diametro. Ho cercato di trovare i piccoli vandali, ma le giuro che non sono nemmeno riuscita a immaginare dove potessero nascondersi. Lo so che i ragazzi sono fatti così, però ho paura che intasino le grondaie o ancora peggio rompano una finestra.» «Va bene, signora Graham. Domattina per prima cosa telefonerò a Crandall.» «Grazie, padre.» La donna uscì in corridoio. «E se prendesse quei piccoli delinquenti, sarei lieta di poter restare sola con loro per cinque minuti.» Kerr sorrise. Cinque minuti con la signora Graham potevano servire alla riabilitazione spirituale più della galera. 12 Barbara «Tesoro? Stai bene?» Gregory LeMarque, appena visibile, di profilo contro la finestra, annuì ma non disse nulla. Da quando erano tornati dall'ospedale si era chiuso al buio nella camera da letto. Rassegnata al suo silenzio, Barbara lasciò la porta leggermente socchiusa, nel caso lui la chiamasse, e scese al pianterreno. Dapprima aveva pensato che la colpa di quel silenzio fosse sua, che Gregory non riuscisse ad accettare quello che era successo. Ora, però, cominciava ad avere qualche dubbio. La sua freddezza era tutt'altro che una novità. Da quando avevano comperato quella casa, Gregory si era gradualmente allontanato da lei. Il suo comportamento di quella sera, lì e all'ospedale,
era tipico. Lei non avrebbe nemmeno voluto acquistare la casa. Il prezzo era ottimo, però la casa aveva qualcosa... qualcosa di indefinibile. A volte si svegliava nel cuore della notte con la sensazione di qualcosa di terribilmente sbagliato, qualcosa che non aveva fatto e con l'impressione di non essere sola nella stanza. Certo, erano reazioni stupide, ma non riusciva a liberarsene. Forse la vera causa era la lontananza dalla città, o la vicinanza delle caverne. Le caverne. Non le erano mai piaciute molto, non c'era mai stata di persona e di certo non avrebbe permesso ai ragazzi di andarci con i loro amici, per quanto potessero implorarla. Non erano sicure. Avevano persino un aspetto pauroso. E naturalmente, grazie alla sua fortuna sfacciata, si era trovata con la camera da letto rivolta verso il lago: spesso le caverne erano la prima cosa che vedeva al mattino. A volte si svegliava e scopriva Gregory con lo sguardo puntato in lontananza. Una volta, a notte fonda, si era svegliata e lo aveva visto fissare le caverne e per diversi minuti lui non aveva nemmeno strizzato le palpebre. Il mattino dopo, ovviamente, aveva negato di avere mai aperto occhio per tutta la notte. Dopo un po', Barbara aveva cominciato a chiudere le tende ogni sera; però, ultimamente, al mattino le trovava aperte. Ironia della sorte. Aveva bisogno più che mai dell'aiuto di suo marito e lui dov'era? Immobile al buio, solo, a scrutare la sera come se si aspettasse di vedere comparire all'improvviso qualche amico. Okay, benissimo, pensò. Quando sarà pronto per parlare, parleremo. Arrivata al pianterreno, guardò in soggiorno. Billy sfogliava di malumore fumetti che aveva letto e riletto e Julie giocava con la sua bambola senza alcun entusiasmo. Prima o poi dovrò affrontare anche i miei figli, pensò Barbara. Billy alzò gli occhi sentendola arrivare. «Papà scende per cena?» «Non ancora, amore. Papà ha bisogno di stare solo per un po'. Scenderà presto.» «Possiamo guardare la televisione?» chiese Julie. Barbara rifletté. La televisione avrebbe creato per lo meno l'apparenza di una vita normale, però lei non sopportava l'idea degli spot pubblicitari a tutto volume, delle scene d'inseguimento, dei telefilm comici con le loro risate artificiali. Le risate le sembravano fuori luogo, al momento. Nella casa c'era una strana tensione, come se tutti loro fossero in attesa di qual-
cosa che doveva accadere; anche se, lo sapeva il cielo, la giornata era già stata sufficientemente piena. «Ho paura di no, Julie», rispose Barbara. «Però senti qui. Se aspettate un po', vi lascerò alzati mezz'ora più del solito e potrete guardare quello che volete. Affare fatto?» Julie meditò sulla proposta per un secondo. «Affare fatto!» «Molto bene», disse Barbara e baciò Julie sulla testa. Mentre cominciava a raccogliere alcuni dei giocattoli sparsi nella stanza, Billy le si accostò. «Mamma? Adesso starai bene?» «Credo di sì. Almeno, lo spero.» «E non sei più arrabbiata con noi?» È questa la cosa peggiore, pensò lei. Dio, non avevo nessuna intenzione di farti del male, Billy. «Non sono mai stata arrabbiata con voi. Con nessuno dei due. Mamma ha soltanto avuto una brutta giornata, tutto qui.» Billy sorrise: un sorriso esitante, tenero. Barbara temette che potesse spezzarle il cuore. «Okay», disse il bambino e tornò ai suoi fumetti. Barbara andò nel bagno. Aprì la scatola di pillole che Will le aveva dato e ne prese un'altra, in perfetto orario. Cercò di non pensare alla domanda di Billy, ma le fu impossibile. Mamma starà bene? Soprattutto, non sapeva come avrebbe fatto a superare un'altra notte con la paura di fare un sogno come quello della notte precedente. La paura era un serpente freddo raggomitolato nel suo stomaco, pronto ad aprirsi la strada a morsi. Se i sogni fossero tornati, doveva essere pronta ad affrontarli meglio. Doveva essere forte, perché sapeva di non poter contare su Gregory. Mamma starà bene? Lo sperava. Ma quando alzò gli occhi sulla camera da letto al primo piano, la loro camera da letto, ancora buia e muta, si chiese se ormai la vera domanda non fosse un'altra: papà starà bene? E che cosa stava fissando, nel buio oltre la finestra? 13 Sam Poco dopo il tramonto, Sam Crawford tornò alle caverne con le lampade a bassa intensità, la macchina fotografica e il treppiede, pieno d'eccitazione. Il panico e l'imprevedibile claustrofobia del pomeriggio erano, se non
del tutto dimenticati, per lo meno relegati in secondo piano. Meno di un'ora più tardi, l'unica cosa che Sam desiderasse era uscire dalle caverne indiane. Sistemare la macchina fotografica era stato uno sforzo colossale. Non riusciva a concentrarsi; si guardava attorno in continuazione, con l'assurda sensazione di essere osservato da qualcuno. Mentre caricava la pellicola, le sue dita erano di piombo. Gli sembrava di essere tornato all'università, di avere alle spalle un professore che lo scrutava per vedere come se la sarebbe cavata con un'enigmatica equazione. Però lì non c'era nessuno. Si stava comportando da idiota. Comunque, mentre regolava l'obiettivo, continuò a evitare gli occhi neri e verdi del serpens dipinto sulla parete di fronte. Va a finire che comincerò a lasciare la luce accesa in camera tutta la notte, pensò. E rise della propria stupidità. Il suono della risata fu inghiottito dalle tenebre. E continuò a evitare il serpens. Si chiese se le sue sensazioni non fossero provocate da qualcosa che si trovava in quella zona delle caverne, più che da una sua improvvisa tendenza all'irrazionalità. Se, come gli facevano sospettare i disegni, quel luogo era stato la sede di antichi riti indiani, era possibile che nell'aria fossero rimaste tracce di sostanze chimiche prodotte dalla combustione di erbe. Non poteva darsi che avessero ancora qualche effetto sul sistema nervoso umano? Probabilmente no, ma se non altro era meglio pensare a quello che a un drago con gli occhi verdi e neri. Alla fine, le attrezzature furono sistemate. Accese le batterie per le lampade, predispose il timer della macchina fotografica, regolò al minimo il tempo di esposizione. Nel silenzio della caverna il lieve ronzio del motorino elettrico risuonò con singolare intensità. L'apparecchio si sarebbe spostato automaticamente di cinque gradi tra una foto e l'altra, sino a fotografare l'intera parete. Adesso non c'era altro da fare che tornare a prendere la pellicola il mattino dopo. Sam tornò nel passaggio principale, illuminato dai faretti che aveva disposto sul pavimento a intervalli regolari. Con un sospiro di sollievo, si avviò verso l'imboccatura della caverna, raccogliendo a mano a mano i faretti. Una volta fatta sviluppare la pellicola dal laboratorio dell'università,
convincere il sindaco e la commissione a prolungare il divieto d'accesso alle caverne non sarebbe stato un problema. Si infilò la giacca, immensamente contento di andarsene da lì. Soltanto in quel momento, con la mente sgombra da preoccupazioni, si rese conto di non avere mangiato niente per tutto il giorno. Al pensiero del cibo, il suo stomaco brontolò. Grazie a Dio, Kerr e la signora Graham preparavano quelle che forse erano le migliori cene del Point. Sam non vedeva l'ora. Gli spiaceva solo non poter raccontare cosa aveva trovato. Non ancora. Non finché le sue scoperte non fossero state confermate. Ma la conferma sarebbe arrivata presto. Stasera avrebbe festeggiato. 14 Eric «Sei mostruosamente tranquillo», disse Liz. Fuori, oltre il parabrezza, le luci dei fari illuminavano per un attimo abeti e pini, poi gli alberi svanivano di nuovo nel buio. «Ti renderai conto che padre Kerr si aspetta da noi divertimento e cortesia, spero.» Eric concentrò l'attenzione sull'interno dell'auto. Più le tenebre esterne s'infittivano, più lui aveva la sensazione che qualcosa non andasse. «Scusa», disse. «Stavo pensando. Appena arriviamo, sarò così spiritoso e cortese da farti urlare di gioia.» «Ah. Be', non potresti offrire un saggio del tuo fascino all'autista?» «Ti avevo proposto...» cominciò Eric, poi sussultò: l'automobile aveva sfiorato i rami di un pino talmente vicino al finestrino da poter incidere sul tronco le proprie iniziali. «Hai voluto guidare tu per provocare l'infarto a un nuovo arrivato?» «Volevo solo attirare la tua attenzione.» «Ci sei già riuscita la prima volta che ti ho vista.» «Adulatore.» «Quando c'è in ballo la mia vita, sono capace di tutto, anche delle azioni più disgustose.» Liz lo guardò a occhi socchiusi. Lui pensò che avrebbe fatto meglio a tenere lo sguardo puntato sulla strada. «Ti andrebbe di fare il resto della strada a piedi?»
«Troppo tardi», rispose Eric. «Siamo arrivati.» Di sera, illuminata dai fari, la chiesa di Saint Benedict era ancora più imponente che di giorno. Un'alta croce si proiettava verso il cielo, in un fascio di luci colorate. Appena sotto, un rosone dai disegni complessi era illuminato dall'interno. Una fila di aperture romboidali circondava il rosone e le vetrate raffiguravano Gesù e Maria che scrutavano la città con volti severi, enigmatici. Sotto, due massicce porte di quercia portavano all'interno. Di fianco, un sentiero a ciottoli conduceva alla canonica. Sceso dall'auto, Eric si fermò sul sentiero, appoggiò una mano su un lato della chiesa. La parete stranamente era calda, sembrava quasi vibrare. Questo posto, pensò, è pieno di potere. E quando toccò un'altra parte della parete, la sua mano fu invasa da un freddo improvviso, un freddo pungente che non era provocato solo dalla sera. Freddo e immagini. Sensazioni, vaghe eppure... Sì, pensò. Qui è successo qualcosa di brutto. O sta per succedere. Ma che cosa? «Vieni o no?» chiamò Liz. Eric sfregò le dita ancora intorpidite e corse a raggiungerla. Kerr li accolse all'interno della canonica, che era piccola ma non meno elegante del resto della chiesa. Li salutò calorosamente, poi li accompagnò nel suo studio passando per il lungo corridoio a pannelli di legno. Liz gesticolò, indicando l'interno della costruzione. «Vista da vicino è ancora più bella.» «A noi piace.» «Una chiesa piuttosto monumentale per una città così piccola, no?» chiese Eric. «Sì. L'uomo che l'ha progettata, un certo reverendo Milcraft, aveva viaggiato a lungo in Europa. Ha deciso che se le cattedrali andavano bene per la Germania e l'Inghilterra, andavano bene anche per Dredmouth Point.» «Ma il costo...» «Ho sentito dire che non è stato un problema», intervenne Liz, lanciando un'occhiata in direzione di Kerr. Kerr sospirò. «Conosco le voci. A quanto si dice, le tecniche di Milcraft per la raccolta di fondi erano... poco ortodosse è il termine esatto. Sì, era spregiudicato. Se vuoi iniziare la costruzione di una chiesa e hai delle
grandi ambizioni come le aveva lui, devi essere almeno un po' spregiudicato. Il che probabilmente ha irritato parecchia della gente che viveva qui. Si racconta che fosse un uomo freddo, un solitario in un villaggio molto unito, chiuso in se stesso; e questo potrebbe essere vero. Ma sono portato a pensare che le voci siano nate soprattutto dalla gelosia e dallo snobismo. Dopo tutto, ciò che voleva creare era un po' diverso dalle solite chiese di provincia. Per quanto ne so, nessuno ha mai dimostrato che i fondi venissero da fonti discutibili. E se anche fosse stato così, non vedo che differenza faccia. Storicamente, alcune delle maggiori cattedrali del mondo sono state erette con fondi provenienti da guerre di conquista, però sono sempre opere d'arte e strumenti di Dio. Il fatto che un albero abbia radici in un terreno roccioso non significa che non produrrà frutti. La chiesa è il cuore di Dredmouth Point ed è un buon cuore.» «Ne sono certo», disse Eric, studiando i pesanti pannelli di legno alle pareti e i solidi armadietti. Era una bella costruzione, senza dubbio. Ma da quello che aveva sentito e intuito sin dal suo arrivo, sospettava che il vero cuore del Point fosse altrove, non lì. E la sensazione forte di qualcosa di sbagliato non lo lasciava... Bussarono alla porta, ed entrò la signora Graham. Alle sue spalle c'era Sam Crawford. «L'ultimo ospite è arrivato», annunciò la donna. «In ritardo come al solito.» «È per questo che Dio ci ha dato la pazienza», disse Kerr, prendendo il cappotto di Sam. Sam ridacchiò. «Duncan, stasera sono talmente di buonumore che te la lascio passare liscia. Anzi, sono talmente soddisfatto del mondo che se vuoi posso persino chiamarti padre... Solo per stasera, attenzione.» Kerr rifiutò l'offerta con un cenno della mano. «Grazie, Sam, ma alla tua età non vorrei affaticarti il cuore.» «Come vuoi», disse Sam. «Quando si mangia? Muoio di fame.» «Tra dieci minuti», disse la signora Graham. «Vada per i dieci minuti», disse Kerr. «Ti sta bene?» «Mi accontento», rispose Sam. «Ti chiederei se hai del vino, ma in una chiesa cattolica non sai mai da dove - o da chi - provenga.» Sam notò l'espressione allarmata di Eric e sorrise. «Non si preoccupi. Se faccio vedere i sorci verdi a Duncan è perché siamo buoni amici. Prendo in giro solo la gente che mi piace, ed è per questo che non lo prenderò più in giro.» Eric rise con tutti gli altri, anche se il suo sguardo preoccupato aveva
poco a che fare col senso dell'umorismo di Sam. Nella presenza di Sam c'era qualcosa di diverso. Tentò di tradurre in parole quell'impressione, ma l'unica sensazione che ricavò fu che Sam si fosse trovato nei dintorni o all'interno di un posto di grande potere. A Eric sembrava il quadrante di un orologio fosforescente. Più rifletteva sull'idea, più giungeva alla conclusione di avere già avvertito in passato quel particolare potere. Era... Sam è stato alle caverne. È entrato, nel buio in attesa là è entrato entrato... Provò la stessa sensazione sconvolgente che aveva vissuto la sera in cui aveva lasciato vagare i suoi pensieri verso le caverne. Non c'era dubbio. Sapeva. Sam era stato alle caverne. No. Ancora di più. Era stato dentro, pensò Eric, lottando con un'improvvisa vertigine. Dentro... 15 Karl Karl Jergen superò l'ultima, stretta striscia di roccia che portava alle caverne indiane. Entrò nell'imboccatura, studiando l'entrata col raggio della torcia elettrica. Allora era lì che Sam passava tanto tempo! A terra c'era un po' di tutto: una dozzina di faretti lampeggianti, un frigorifero portatile, scatole di pellicole fotografiche, alcune aperte, altre ancora chiuse. Sbuffò disgustato alla vista di un sandwich in putrefazione. Il grande professore universitario non si preoccupava nemmeno di raccogliere i suoi rifiuti; lasciava tutto lì per gli insetti. Cominciava a chiedersi se Sam fosse davvero intelligente come tanta gente pensava. Lui era riuscito a seguirlo senza difficoltà e a restare nascosto finché Sam non se n'era andato, senza essere scoperto. Meglio così. Non voleva essere disturbato nella ricerca di qualcosa con cui ferire il professore. Per il bene di Sam, sperava di trovarla. Altrimenti avrebbe dovuto passare a una lezione di tipo più diretto. Si addentrò nella caverna e sentì un freddo improvviso. Infilò le mani nelle tasche del giubbotto, a disagio. Conosceva bene il motivo del suo nervosismo. Per l'intero tragitto, aveva cercato di non pensarci, come aveva fatto per tanti anni, ma adesso il ricordo riemergeva. Era successo lì.
Era lì che suo padre si era suicidato. Guardò le buie pareti della caverna, muovendo la torcia lentamente. È l'ultima cosa che il mio vecchio ha visto prima di premere il grilletto. Come sempre, si sentì esplodere di rabbia. Rabbia per l'azienda che aveva licenziato suo padre; per tutti quelli che non lo ritenevano degno di imparare un altro mestiere; per quella vacca di sua madre che due mesi dopo il suicidio aveva sposato un porco che aveva rubato tutto il possibile ed era scappato; per sua sorella, che aveva preso il cognome del porco solo perché il cognome del vecchio, di colpo, l'aveva resa impopolare. Be', Jergen era un cognome che andava benissimo per Karl. E un giorno o l'altro l'avrebbe fatta vedere a tutti, alla sua cosiddetta famiglia, alla città, alla gente, come Kincaid e Crawford, che credeva di essere stramaledettamente migliore di tutti quanti! Avrebbe cominciato subito. Esaminò meglio il materiale sul pavimento. C'era qualcosa che non andava. Aveva visto Sam salire con un sacco di attrezzature che lì non c'erano. E siccome sapeva che non aveva riportato nulla all'auto, quei costosi arnesi dovevano essere nelle caverne. Di là, pensò, puntando il raggio della torcia verso il passaggio principale che scendeva in profondità nella collina. Per la prima volta Karl provò incertezza. Aveva sentito parlare di persone che si erano perse nelle caverne. Persino veri professionisti se l'erano vista brutta. Ma se Sam riusciva a entrare e uscire dai passaggi, poteva farcela anche lui. Scrutò il pavimento e sorrise. Nella polvere c'era un lungo solco, chiaramente recente, lasciato da qualcosa che Sam si era trascinato dietro. Una traccia esile, ma per lui andava bene. Karl raccolse da terra alcuni faretti lampeggianti per contrassegnare il percorso e si avviò nel passaggio principale. Sistemò il primo faretto pochi metri più avanti, in modo che illuminasse le gallerie laterali. Il solco lasciato da Sam deviava bruscamente a sinistra e scompariva dietro un angolo. Lui proseguì nel passaggio, depositò un altro faretto all'angolo, poi girò a destra. Procedeva lentamente, frugando le pareti e il pavimento con la torcia elettrica. Per il momento, niente. Fece una smorfia. Doveva esserci qualcosa, se Sam sprecava tanto tempo e tanti sforzi. Devo andare avanti non manca molto lo sento. Avrebbe voluto trovare quello che cercava e tagliare la corda. L'aria fredda diventava più opprimente a ogni passo e ricacciare il ricordo di suo
padre che riemergeva in continuazione era un grosso sforzo. Ha ucciso lui, potrebbe uccidere me. Tale padre, tale figlio, no? Passo dopo passo, cominciò a chiedersi se quella fosse davvero una buona idea. Doveva esserci un modo migliore per punire Sam, ma inizialmente gli era parso così giusto, così naturale. L'idea gli era venuta come se gliel'avessero sussurrata all'orecchio. Adesso, la realtà della situazione lo opprimeva. Okay, ancora gualche metro ed esco di qui e... Si fermò. Davanti a lui, la parete di destra del passaggio si apriva. Anzi, più che una parete era una porta. Dietro c'era una piccola stanza, fiocamente illuminata da un paio di lampade sistemate ai lati di una macchina fotografica. Passò il raggio della torcia elettrica per tutto il locale e scoprì una ragnatela buia di gallerie che si diramavano dalla caverna centrale. Ritrovato il coraggio, entrò, dopo avere depositato l'ultimo faretto all'esterno della porta. Tombola! Si avvicinò ai disegni della parete sul fondo. Ecco che cosa interessava tanto a Sam: i disegni di una manciata di indiani morti e sepolti. Li guardò. Soltanto animali, pensò, alcune cose che non riconosceva, qualche indiano e un grande serpente alato al centro. Sbuffò. Un serpente con le ali! Le sue labbra si curvarono in un sorriso, ma più guardava il serpente, più gli era difficile conservare un senso di superiorità. Negli occhi, nei riflessi che traevano dalla luce, c'era qualcosa che li faceva sembrare più vivi del normale. Avevano qualcosa di diverso, quasi di familiare. Più cercava di mettere a fuoco quegli occhi, più i suoi stessi occhi bruciavano. Era come se quei due occhi non fossero affatto dipinti, come se fossero invece due pozzi grigio-neri di fumo che ondeggiavano davanti al disegno. Si chinò per toccarli... Clic! Balzò indietro, stupefatto. Ci fu un ronzio e Karl si rese conto che i suoni erano prodotti dalla macchina fotografica. L'apparecchio aveva scattato una foto, fatto avanzare la pellicola e poi aveva compiuto una leggera rotazione sul treppiede. Provò imbarazzo per la propria paura e fu contento che non ci fosse nessuno a vederlo. Poi se ne rese conto: sono stato fotografato. Raggiunse la macchina fotografica, la aprì, tirò fuori la pellicola, esponendola alla luce. Non sono più fotografato, pensò. Probabilmente avrebbe potuto vendere la macchina. Sam ci avrebbe rimesso qualche dollaro. Ma non bastava. Una macchina fotografica si pote-
va sostituire. Lui voleva fare del male a Sam. E c'era un modo sicuro per farlo. Svitò la macchina dal treppiede e la mise a terra, poi prese il treppiede e chiuse le gambe. Lo impugnò come una mazza da baseball. Tornò ai disegni e guardò gli occhi del serpente. «Vai a farti fottere anche tu», disse e colpì. Il treppiede piombò sul disegno, sollevando pezzetti di roccia e polvere. L'impatto provocò un clang soddisfacente. Karl si sentì subito meglio. Quello era il suo vero terreno. Tirò un altro colpo con la mazza, centrando il muso del serpente. Gli occhi rimasero intatti, ironici. Colpì di nuovo. E di nuovo. L'impatto gli provocò dolore alla mano, ma continuò. Si sentiva grande. Stava facendo qualcosa, per Dio! Prendi questo, Sam! Smash! Pensavi di diventare famoso, eh, Sam? Smash! Occhi che lo fissavano. Smash! Rise. Adesso il muso del serpente era disfatto. Non era poi così robusto, dopotutto! Un altro colpo lo avrebbe finito. Karl alzò il treppiede sopra la testa. Le luci si spensero. Le tenebre calarono nella caverna come una cosa viva. Karl indietreggiò senza colpire e inciampò sulle lampade spente. Precipitò a terra con una bestemmia, fra un groviglio di cavi elettrici. Freneticamente, si tirò su un ginocchio. Poi: Aspetta un minuto. Com'è possibile che il buio sia completo? E il faretto? Cercò il minimo bagliore di luce. Niente. Impossibile. Non poteva certo essersi spento anche il faretto. Karl restò accucciato, intimorito all'idea di muoversi. Aspettò che i suoi occhi si abituassero al buio. Ammesso che il faretto davanti alla porta si fosse spento, l'altro, più indietro di pochi metri, avrebbe dovuto essere visibile almeno parzialmente. Sgranò gli occhi fino ad avvertire dolore per lo sforzo. Niente. Cercò di ricordare che percorso avesse seguito per entrare, ma cadendo
aveva perso l'orientamento, non sapeva più dove si trovasse il passaggio principale. Sentiva attorno a sé le gallerie. Chissà qual era quella giusta. Tutte le altre lo avrebbero portato ad addentrarsi sempre più nel labirinto di passaggi. Dopo di che... Deglutì, lottò con il panico che gli cresceva in gola. Voleva alzarsi, ma non osava. Poteva solo restare accucciato al buio, con le pareti che gli si chiudevano attorno. Al diavolo, pensò, devo fare qualcosa. Non poteva restare lì tutta la notte. Sam sarebbe tornato presto e lui avrebbe fatto la figura del perfetto idiota: si sarebbe lasciato scoprire solo perché aveva troppa paura per ritrovare la via d'uscita. Un corno, pensò e cominciò a strisciare avanti. Non era possibile che tutti i faretti si fossero spenti di colpo, giusto? No, pensò freneticamente e continuò ad avanzare. Se qualcuno dei faretti funzionava ancora, la luce sarebbe arrivata fin lì. Doveva solo muoversi, fare il giro della camera, finché non avesse visto la luce. Dopo qualche minuto notò una differenza nel buio di uno dei passaggi. Non tanto una luce, quanto una curiosa assenza di oscurità, come il bagliore che resta sulla retina dell'occhio dopo il lampo di un flash. Gli sembrava addirittura di vedere meglio a occhi chiusi, ma era ridicolo. Stendendo le mani davanti a sé, cercando ostacoli sul terreno, deviò a destra, strisciando più in fretta. Entrò nel passaggio. Nonostante il bagliore, le pareti della caverna alle sue spalle non erano più visibili. Non poteva essere sicuro che fosse la stessa galleria da cui era entrato. Ma la luce doveva indicare una via d'uscita. Doveva. Un po' più avanti, si alzò, tastando la parete con le mani. Arrivò a una biforcazione nel passaggio: l'intersezione con un'altra galleria. Il percorso da cui era arrivato lo aveva fatto girare dietro un angolo, ma c'era anche una galleria che lo intersecava? Non ricordava. Scrutò i due passaggi, uno buio, l'altro vagamente illuminato dalla strana luce. Seguì la luce. Passarono diversi minuti, ma non gli sembrò di essersi avvicinato alla sorgente della luce. Ancora peggio, la galleria continuava a stringersi. Bestemmiò fra le tenebre, con voce spezzata. Cristo, pensò. Cristo, Cristo, Cristocristocristo. Le pareti lo soffocavano. Aveva la gola chiusa, come se qualcuno lo stesse strozzando. Il cuore era impazzito. Doveva uscire! Non riusciva a respirare!
Ma da che parte? Tornare alla stanza e ritentare, o proseguire? Si bloccò, incapace di ricordare che direzione avesse preso quando aveva girato l'angolo. Dal soffitto cadeva polvere. Da che parte? Si morse il labbro e ripartì in avanti. Seguì la luce. Era la sua unica speranza. Il tunnel si restringeva a ogni passo. Dopo un po', le pareti arrivarono a sfiorargli le braccia. Però adesso la luce sembrava più forte. Poi sentì una brezza. Il suo cuore ebbe un tuffo. Se c'era vento doveva esserci un'apertura! Andò avanti, preoccupato all'idea che le pareti si stringessero tanto da impedirgli di raggiungere l'uscita. Correndo, inciampando, proseguì. Era più vicino. C'era quasi. Il passaggio si allargò. Karl sorrise, fece un passo avanti... e incontrò il vuoto. Cadde in avanti, annaspando nell'aria. Niente a cui aggrapparsi, nel mezzo secondo prima che l'accelerazione lo facesse precipitare nel buco. Diversi metri più giù, sbatté contro le pareti del pozzo, rimbalzò e riprese a cadere. Gomiti e ginocchia urtarono violentemente. Roccia e sabbia gli entrarono negli occhi, in bocca. Tentò di urlare, ma gli uscì solo un gemito fioco. Era senza fiato. Precipitò e precipitò fino a toccare il fondo del pozzo. L'impatto scatenò nuove tenebre che gli danzarono dentro gli occhi. Restò immobile per un attimo, cercando di ritrovare il fiato. Sassi e detriti gli piovvero addosso, come per prenderlo in giro. Finalmente riprese a respirare, boccheggiando, ansimando. Dio, voleva uscire! Non avrebbe mai più fatto del male a nessuno per il resto dei suoi giorni, se solo per favore, per favore, fosse riuscito ad andarsene da lì! «Aiuto!» urlò al buio. «Qualcuno mi aiuti!» Ma non c'era nessuno a sentirlo. Con movimenti lenti, dolorosi, si rialzò. Temeva di scoprire di essersi rotto un braccio o una gamba: allora non sarebbe mai uscito. Però i suoi arti sembravano intatti, anche se da braccia e gambe sentiva il sangue colare sulla pelle, inzuppare i vestiti. Cercò la forza per muoversi e per un istante non la trovò. Alla fine, fece un passo in avanti, un altro. Camminò in linea retta, tastando le pareti della caverna che si restringevano. L'intersezione con un'altra galleria. La luce che aveva seguito era svanita. Barcollò ciecamente a braccia tese. Il passaggio svoltava bruscamente. Karl lo seguì e si trovò di nuovo in una caverna. Anche se non vedeva niente, dall'eco dei suoi passi capì che doveva essere un po' più grande dell'altra. Scrutò nel buio e
di nuovo vide la luce. Era più forte, sulla sua sinistra. Speranzoso, camminò verso la luce che formava angolazioni strane, come se fosse riflessa da chissà dove. E sì, adesso vedeva: poco più avanti c'era una curva, appena visibile, e la luce proveniva da lì. Forse aveva solo trovato un percorso diverso per l'uscita. Accelerò. Cinque metri. Tre. Raggiunse l'ingresso della sorgente di luce ed entrò. Dentro, una nebbiolina sottile si alzava dalle fessure del pavimento, diffondendo la luce. Karl strizzò le palpebre, cercò di mettere a fuoco lo sguardo. Di fronte a lui c'era quella che sembrava una solida parete di nebbia, spessa e lattiginosa che copriva una parete vera. Avanzò. La parete aveva qualcosa... Karl si fermò. No. Venne fermato. Bloccato. Non voleva fermarsi, ma lo fece. A un metro e mezzo dalla parete. Le braccia gli ricaddero lungo i fianchi, intorpidite. Tentò di indietreggiare, ma non riusciva a muoversi. Poteva solo ondeggiare leggermente, come se mani invisibili gli premessero il petto. Puntò lo sguardo avanti, verso la nebbia; e capì che dietro non c'era nessuna parete. Però c'era un movimento. Qualcosa si avvicinava. Karl cercò di muoversi, di urlare, ma come in un sogno, non ci riuscì. Poteva solo restare a guardare mentre la forma vaga, distante, si avvicinava nella nebbia. Si fermò appena dietro la nebbia, esitante, forse incapace di uscire. Però lui la vedeva. Una forma angolosa, scura, in perenne trasformazione di secondo in secondo. Un solo tratto restava sempre identico: gli occhi. Lo inchiodavano alle tenebre come una farfalla trafitta da uno spillo. Occhi freddi, di una profondità impossibile, che artigliavano l'anima di Karl ed entravano dentro di lui, riempiendolo. L'ultimo pensiero di Karl mentre il buio gli correva incontro fu che aveva già visto quegli occhi. Nella stanza di sopra. Poi, come per concedergli un attimo di misericordia, gli occhi gli permisero di urlare. Una sola volta. 16 Liz
Curioso, pensò Liz mentre mangiava lo stufato. Dopo l'arrivo di Sam, in Eric si era verificato un sottile cambiamento. Per adesso, se ne era accorta soltanto lei. Padre Kerr, seduto alla sua destra, ascoltava Sam con sofferente pazienza e ovviamente Sam, seduto di fronte a lei, era tutto preso dal suo puntiglioso attacco alla religione. Non che avesse qualcosa da rimproverare ai due: conoscevano Eric molto meno di lei e lui non stava facendo niente di insolito. Era proprio quel suo modo di non fare niente: un'osservazione che probabilmente poteva avere senso solo per lei. Erano tante piccole cose. Eric era diventato sempre più silenzioso col passare delle ore e quando guardava Sam aveva una strana espressione in viso. A un certo punto, Liz era riuscita a intercettare il suo sguardo subito dopo che lui aveva guardato Sam e per un attimo le era parso che Eric emanasse qualcosa che penetrava direttamente nella sua anima. La sensazione era svanita immediatamente. Eric aveva riportato l'attenzione sulla cena e quando l'aveva guardata di nuovo, nel suo sguardo non c'era niente di strano. In seguito, lei aveva cercato inutilmente di coglierlo impreparato un'altra volta, di rivedere quella strana profondità che aveva intuito. O lui si era messo in guardia (aveva percepito il suo interesse?) oppure quell'esperienza era stata frutto della sua immaginazione. Mentre ascoltava la conversazione, Eric aveva sempre un'espressione curiosa, un'espressione con qualcosa di familiare. Liz ci mise un'ora per ricordare dove l'avesse già vista. Era successo molto tempo prima, quando Liz frequentava le scuole medie. Era in vacanza nel ranch di suo zio. Aveva portato con sé il suo gatto, Mowser, convinta che dopo un'intera vita trascorsa in città qualche settimana in una fattoria gli sarebbe piaciuta. Un pomeriggio, Mowser si era intrufolato nel recinto dove lo zio di Liz teneva i suoi animali più preziosi, una coppia di pavoni. Mowser sapeva che cosa fosse un uccello; a casa aveva dato la caccia a parecchi piccioni. Ma mentre se ne stava in un angolo a scrutare i pavoni, grandi il triplo di lui, Liz si era accorta che il gatto non sapeva che cosa fare. Per Liz, l'espressione sul muso di Mowser mentre studiava i pavoni aveva significato vedere per la prima volta un gatto confuso. Ed era stata esattamente quella l'espressione stampata sul viso di Eric per tutta la cena. Confusione e l'istinto del cacciatore che tentava di prendere il sopravvento.
Ma chi c'era da cacciare, lì? Liz cercava di risolvere l'enigma. La mano di Sam che batteva sul tavolo la riportò alla discussione. «Allora lo ammetti», disse Sam, puntando l'indice contro Kerr. «Ammetto solo che alcuni passi della Bibbia non sono di facile comprensione. Dio comunica la sua parola in maniera eterna. Certe cose possono non avere senso oggi, ma forse fra qualche anno, quando sapremo di più, lo avranno. Questo vale anche per ogni apparente contraddizione.» «Apparente contraddizione?» «La scienza non spiega sempre...» «Non sto parlando delle contraddizioni fra Bibbia e scienza, Duncan, anche se questo di per sé è piuttosto grave. Penso anche alle contraddizioni interne. Da una parte, Giacobbe dice: 'Ho visto il volto di Dio e la mia vita è salva'.» «Genesi 32,30», disse Kerr. «Eppure Giovanni, 1,18, dice: 'Nessun uomo ha mai visto Dio in nessun tempo'. Tu dici che Dio è onnipotente, ma in Giudici 1,19 non riesce a scacciare gli abitanti della valle perché hanno carri di ferro.» «Per uno che sostiene di essere ateo», disse Liz, «conosci la Bibbia molto bene. Non è una contraddizione anche questa?» Sam scrollò le spalle. «Bisogna conoscere il nemico.» «La religione non è il nemico di nessuno», disse Kerr. «Davvero? Allora immagino che i tizi che stavano dietro le Crociate e l'Inquisizione si preoccupassero solo di divertire il popolo.» «Storia antica», sospirò Kerr. «Se non hai argomenti migliori...» «Vuoi dire come i problemi in Irlanda, la gente in Medio Oriente che taglia la mano a chi ruba un po' di pane, i libri messi al bando nel nostro stesso paese, cose del genere? E sarò onesto con te, Kerr. I cristiani si lamentano di essere perseguitati e discriminati, però non vedrai mai un ateo eletto a cariche veramente importanti.» «Verissimo», disse Kerr. «Altra dimostrazione che il perfido vento dell'ateismo non fa del bene a nessuno.» Sam guardò Eric e strizzò l'occhio. «Sarebbe un fascista perfetto, non crede?» Kerr ignorò la frecciata. «Troverai qualche mela marcia in qualunque organizzazione. Questo non invalida la fede in sé. Devi guardare lo spirito della religione, non le azioni di pochi fedeli.» «Cosa piuttosto difficile, devi ammetterlo.»
«È questa l'essenza della fede. Ma non c'è niente di sbagliato nel fare domande. Prima o poi, tutti i sentieri portano a Dio. Ricorda che cosa è successo a Saul.» «Le minacce non ti serviranno a niente», disse Sam e persino Kerr fu costretto a ridere. Durante una pausa, la signora Graham apparve con un vassoio colmo di piatti di budino di riso. Poi Sam si protese in avanti, serio in volto. «Un'ultima cosa, va bene?» chiese. «Poi starò calmo, prometto.» Kerr alzò gli occhi al cielo. «Se, e soltanto se, i nostri ospiti non si annoiano.» «Per niente», disse Liz. «Concordo», disse Eric. Kerr li guardò con occhi disperati. «Traditori», disse, poi si girò verso Sam. «Forza.» «Okay. Lasciami cominciare con un'ipotesi. Il presupposto di base del cristianesimo è che Cristo si sia lasciato uccidere per salvare il mondo, esatto?» «Esatto.» «Cioè per salvarlo dall'inferno?» «Sì.» «Il che significa salvarlo dal Demonio?» Kerr sospirò. «C'è un vero punto sepolto sotto tutte queste parole?» «Ci sto arrivando. Stando alla teologia cristiana, c'è un Dio, c'è un Demonio e fra loro è in corso una battaglia per vedere quante anime riescono a racimolare, giusto? Ma il punto è che la lotta è troppo sbilanciata. Il Demonio è spaventosamente forte. Farebbe di tutto per rastrellare la sua quota di anime. E la gente non ha difesa contro di lui.» «Obiezione», disse Kerr. «Abbiamo la Bibbia proprio per imparare a evitare le trappole di Satana.» «Esatto!» Sam batté di nuovo la mano sul tavolo. «Se io ti chiedessi: e gli indiani?» Kerr aggrottò la fronte. «Va bene, Sam, abbocco. Cosa c'entrano gli indiani?» «Che ne sarà delle loro anime immortali? C'erano indiani in tutta l'America del nord e centrale molto prima che arrivassero i missionari con la lieta novella.» «La Bibbia ci dice che chi non ha ancora conosciuto il Verbo sarà giudicato in base alle sue opere. Ovviamente non possono essere condannati, se
non hanno mai avuto accesso alla parola di Dio.» «Non sto parlando di come saranno giudicati. Sto parlando della loro protezione. Sto parlando della partita in corso fra Dio e il Demonio. In concreto, al diavolo non interessa niente che qualcuno sappia o non sappia di Dio. Anzi, meglio per lui se uno non sa niente. Ora, sappiamo da Giobbe che il Demonio cammina su tutta la terra, per lui un salto in America non è niente. Il cristianesimo ci insegna anche che Satana ha il potere di manifestarsi fisicamente, di possedere le persone, tentarle, ingannarle, influenzare il loro comportamento. «Quindi ritorno alla domanda iniziale: e gli indiani? Senti, diciamo che Satana sia arrivato in America un migliaio di anni fa. Se si fosse manifestato fisicamente a un popolo primitivo che non aveva modo di sapere chi o che cosa era? Poteva raccontare tutto quello che voleva. Non c'era nessuno a contraddirlo. Poteva compiere falsi miracoli, incarnare una divinità, o un distruttore. Come potevano resistergli? Dio non ha mai messo il guinzaglio alle attività di Satana. Perché non si è trasferito in America a prendere il controllo della situazione?» Kerr rifletté e Liz si chiese come sarebbe riuscito a cavarsela. Dall'altro lato del tavolo, Eric fissava Sam. Di nuovo con quello sguardo. Per un attimo, lei ebbe l'impressione che lui tentasse non di guardare Sam, ma dentro Sam; quasi come se, fissandolo in quel modo, potesse superare la facciata esterna e vedere... che cosa? «Naturalmente», disse alla fine Kerr, «stai seguendo la linea di pensiero che ha portato alla formazione del mormonismo. L'idea che Cristo sia apparso agli indiani dopo avere lasciato Israele e abbia portato loro il Vangelo.» «No, niente affatto. Joseph Smith non mi convince più del cristianesimo ortodosso. Ti sto solo facendo una semplice domanda: come ha potuto Dio permettere che Satana agisse indisturbato fra gli indiani, se loro non avevano idea di come difendersi? Non vedi le implicazioni? Senza un avversario, Satana avrebbe avuto una giornata trionfale. Immagina che danni poteva fare a una cultura ignara della sua esistenza. Se è davvero l'incarnazione del male... Duncan, c'è da sgomentarsi. Quindi, quando gli esploratori sono arrivati in America, a rigor di logica avrebbero dovuto trovare la devastazione più completa, oppure un intero continente di adoratori del Demonio. «Però non è stato così. Hanno trovato gente normale. Civiltà, culture, linguaggi, arte. Perché, Duncan? O per meglio dire, come? Se gli indiani
sono riusciti a sopravvivere così a lungo senza l'aiuto del cristianesimo, la logica ci porta a tre conclusioni. Uno, il Demonio possiede un tale senso dell'onestà da non prendersela con chi vive nel buio spirituale. Due, in qualche modo gli indiani sono riusciti a difendersi senza l'aiuto della dottrina cristiana, il che implicherebbe che oltre al Dio cristiano esistano altri poteri. Per il cristiano medio, queste due conclusioni sono chiaramente inaccettabili. Quindi resta solo la terza possibilità: non c'è mai stato alcun pericolo perché il Demonio non esiste. «Faccio un passo in più. Se potessimo dimostrare che il simbolo del Demonio era noto agli indiani prima dell'arrivo dei primi missionari dal Vecchio Mondo? Che cosa dedurre dal fatto che gli indiani se la siano cavata benissimo in assenza del cristianesimo? Questo non rafforzerebbe l'idea che Satana non sia un essere reale ma piuttosto una specie di archetipo universale? Che sia solo un simbolo delle tenebre uscito dall'inconscio collettivo? E se seguiamo questa logica, non entra in discussione anche l'esistenza di Dio?» «Posso intervenire?» chiese Eric. Era sempre rimasto così zitto che il suono della sua voce stupì tutti. «Forse ho capito male, ma ho la sensazione che lei non stia parlando in senso astratto. Ha qualcosa di concreto in mente, una risposta a tutte le sue domande?» Sam fece una pausa, improvvisamente calmissimo. «No, niente di specifico. Non ancora, per lo meno. Sto solo lavorando su una teoria e temo che non le interesserebbe molto. La storia degli indiani è il mio hobby.» «Hobby?» disse Kerr e guardò Eric. «Forse è troppo modesto per ammetterlo, ma Sam è la nostra celebrità locale. Si è fatto un nome quando ha guidato gli scavi nelle caverne indiane.» «Scoperto qualcòsa di interessante?» chiese Eric. Come grato per aver cambiato discorso, Sam attaccò con la sua storia. Liz l'aveva già sentita raccontare (Sam era stato una delle prime persone che aveva intervistato al Point), ma ascoltò lo stesso. Era strano che Sam fosse disposto a parlare d'altro quando aveva messo Kerr alle corde della teologia. «Abbiamo trovato qualche reperto, le solite punte di freccia, vasellame. Ma era l'insieme delle cose a essere molto interessante. Quasi tutti i manufatti risalivano solamente a un paio di centinaia di anni fa, all'incirca al periodo delle guerre con francesi e indiani. Però abbiamo scoperto anche numerosi reperti che avevano sei, settecento anni. «La chiara implicazione era che le caverne erano state usate per scopi re-
ligiosi. Gli algonchini, come molti indiani, non hanno mai dato troppa importanza al possesso delle cose. Il mondo apparteneva al mondo, loro appartenevano a se stessi e così trovavano un equilibrio. Un padre poteva lasciare al figlio il suo arco preferito, o qualche altro strumento, ma non molto di più. Di regola, gli unici oggetti trasmessi di generazione in generazione erano quelli con un significato religioso. Quindi, trovare lì quell'insieme di cose aveva delle implicazioni piuttosto chiare. «Il dato curioso è che alcuni dei disegni sul vasellame indicano che attorno alle caverne, o per le caverne, sono state combattute diverse grandi battaglie. Questo è singolarmente insolito. Gli indiani consideravano sacri i loro luoghi di culto. Non erano permesse lotte o intrusioni. È un piccolo mistero.» «Immagino che non conosceremo mai la storia per intero», disse Kerr. «Non si sa mai», sorrise Sam. «Non si sa mai.» 2 Erano le dieci passate quando Liz ed Eric lasciarono la canonica. Il resto della serata era andato bene. Dimenticata la discussione, avevano scambiato aneddoti e storie personali. Prevedibilmente, i racconti più vaghi erano stati quelli di Eric, anche se verso la fine lui aveva cominciato a sgelarsi. Mentre camminavano verso l'auto, lei lo prese a braccetto. «Sei piuttosto timido con la gente nuova, eh?» Lui sorrise. «Un po'. Il fatto è che mi interessava quello che diceva Sam.» Liz annuì. Un bell'uomo, timido e un buon ascoltatore, pensò. La timidezza le appariva sempre una qualità attraente. «Sam parla molto, questo è sicuro. Il che può essere negativo quanto positivo. A volte penso che abbia passato troppo tempo a insegnare e troppo poco ad ascoltare. Comunque, è fuori dubbio che ti abbia interessato con i suoi discorsi sulle caverne.» Fu un'affermazione, non una domanda. Eric non disse niente. Dopo un po' Liz si chiese se avesse sentito. Poi, a pochi passi dall'auto, lui si fermò. «Vuoi parlare un po'?» «Certo.» Eric imboccò la strada che portava in centro, deserta a parte qualche raro passante. Lei gli strinse il braccio più forte. Lui cominciò lentamente. «Tu mi piaci. Stare con te è divertente. Più ti vedo, più la situazione per me di-
venta difficile. Quindi, se per te va bene, vorrei dirti alcune cose, se prometti di non raccontarle in giro.» «Mi va bene. Ma che cosa ti fa pensare di poterti fidare di me?» Lui sorrise. «Una sensazione», disse. «Allora, la verità è che io qui non sono un estraneo. Sono nato al Point, a circa otto chilometri da qui.» Mentre camminavano, continuò a raccontare. I genitori morti, gli anni trascorsi coi parenti, gli spostamenti continui da città a città, il tentativo di capire chi e che cosa fosse, il sentirsi perso, senza una direzione. Era una sensazione che Liz capiva bene; aveva lottato a lungo per definire la propria identità. Da alcune pause, dalle incertezze nel racconto, intuì che c'erano cose che lui non diceva, ma le stava bene anche quello. Gli argomenti che Eric evitava erano l'incidente in cui erano morti i genitori, la sua fuga, il ritrovamento nelle caverne, di cui ricordava poco. Adesso capiva perché apparisse così spesso pensoso, irrequieto. Dopo un po' lui tacque. Tornarono indietro. Sull'altro lato della strada, il ristorante chiudeva. Gli ultimi due clienti svanirono nella notte. «Allora perché sei tornato, dopo tanto tempo?» chiese lei. «È una lunga storia», disse lui e il suo sorriso era triste. «Immagino di aver voluto rivedere il posto che sarebbe stato la mia casa, la mia vera casa, se non ci fosse stato l'incidente. Però volevo affrontare le cose con calma, senza destare l'attenzione, lasciarmi il passato alle spalle. Per questo non ne ho parlato con nessun altro. Voglio solo vedere la città a modo mio, poi ripartire.» Di nuovo, lei intuì che Eric le nascondeva qualcosa, ma preferì non approfondire. «E le caverne?» «In che senso?» «Hai intenzione di andarci prima di partire? Potrebbero far scattare qualche ricordo.» «Ci stavo pensando», rispose Eric, mentre raggiungevano l'auto. «Adesso voglio stare in giro per un po', respirare l'atmosfera. Magari, prima di andarmene...» Liz si fermò di colpo, con le chiavi in mano. «Accidenti!» disse. «La torta.» «Oh.» La signora Graham era talmente dispiaciuta per lo stufato che aveva insistito per offrire agli ospiti un pezzo della sua torta. Non accettarla l'avrebbe offesa. «Torno subito», disse Eric, e partì di corsa sul sentiero buio della cano-
nica. Girò l'angolo e la porta della canonica si aprì prima che lui bussasse. La signora Graham era ferma sulla soglia, con la torta pronta in una borsa. Non le sfugge niente, pensò Eric. Prese la borsa. «Grazie di nuovo per la cena», disse. «È stato un piacere», rispose la signora Graham, poi si protese con aria da cospiratrice. «Non che siano affari miei, ma credo che lei le piaccia.» Poi, con una strizzatina d'occhi e un sorriso, si girò e chiuse la porta. Eric restò sul gradino, sorridendo. No, proprio niente. Tornò indietro verso la strada, e... Fra i cespugli... nel buio... nascosto... LÀ! Il pensiero gli esplose nella mente con tanta forza da farlo quasi barcollare. Poi: Una pistola. Ha una pistola! Accelerò il passo. Mancavano cinque metri alla fine del sentiero, al marciapiede. Liz era già in macchina, ad aspettare. Eric si mise a correre. All'improvviso: «Okay, fermo lì!» Eric si immobilizzò. Una figura si staccò dal buio e gli andò incontro. L'agente Ray Price si fece avanti, gli puntò negli occhi il raggio di una torcia elettrica. «Stia fermo. Tenga le mani dove posso vederle.» «Posso fare qualcosa per lei?» chiese Eric. «Stia attento a quello che fa», ribatté Ray. «Che cosa c'è nella borsa?» «Torta.» «Allora non le spiace se do un'occhiata. Abbiamo il vizio di controllare gli estranei che se ne vanno in giro nel cuore della notte.» Liz arrivò dalla strada. «È con me. Sono le dieci, abbiamo entrambi il diritto di stare qui, a meno che non abbiano modificato la costituzione e quella è torta. Altre domande?» «Sto solo tenendo la situazione sotto controllo», disse Ray. «Come dicevo al tuo amico qui, non è che odiamo gli estranei. Vogliamo soltanto tenerli d'occhio, assicurarci che non ci siano problemi. Specialmente se si tratta di qualcuno con i suoi precedenti.» «E questa fesseria cosa significherebbe?» chiese Eric. «Niente. È il mio modo di dirle che abbiamo fatto un piccolo controllo su di lei, tutto qui. Il buonsenso dice che nessuno si sposta in continuazione come ha fatto lei, se non ha qualcosa alle calcagna.» «Datti una calmata, Ray», disse Liz. «Se uno vuole vedere la campagna,
sono affari suoi. Nemmeno io ho condotto una vita esattamente sedentaria.» «Fossi in te, starei zitta. Non sei un caso del tutto normale nemmeno tu», disse Ray. D'accordo, decise Eric, ne ho abbastanza. «Senta, lei ha fatto il suo lavoro. Ha strigliato i nuovi arrivati. Adesso, che gliene pare di scomparire, okay? Se avremo bisogno di lei, la chiameremo.» Il suo sguardo incontrò quello di Ray. Senza volerlo, penetrò nei suoi pensieri, sentì una risposta sarcastica nascere nella mente del poliziotto. Eric pensò, intensamente: Vattene e lasciami in pace... E di colpo sentì qualcosa tremare dentro di sé, esitare una frazione di secondo, poi balzare fuori, uscendo non attraverso gli occhi ma attraverso il suo viso. I muscoli delle guance si contrassero. Per un istante, tutto fu grigio. Contemporaneamente, dietro gli occhi di Ray ci fu il buio. La sua mascella si aprì per un attimo, in maniera quasi impercettibile, poi si chiuse. Fu solo un momento, una breve pausa nella conversazione. Ma cambiò tutto. Ray riaprì la bocca, la chiuse. Girò la testa. «D'accordo», disse, «adesso è meglio che me ne vada.» Superò Liz. «Se hai bisogno, chiama.» «Mi venisse...» disse Liz, guardando Ray che scompariva in strada. «Non l'ho mai visto prendere ordini da nessuno, a parte Crandall e il sindaco.» «Già», mugugnò Eric. I suoi pensieri erano altrove, lavoravano furiosamente. È stato come se mi fossi proteso ad afferrare la sua forza di volontà, a stringerla fra le mani! «Un leader nato, eh?» scherzò Liz. «Uh-huh», disse Eric. La sua voce suonava lontana alle sue orecchie. «Sicuro.» Ma non era mai successo io l'ho stretto che cosa diavolo sta succedendo ho sentito come un nuovo muscolo... «Andiamo, generale Patton», disse Liz, prendendogli il braccio. «Sarà meglio sparire prima che Ray cambi idea e denunci tutti e due per respirazione troppo rumorosa dopo le sette di sera.» Eric si lasciò trascinare all'auto. La cosa che stava succedendo dentro di lui da qualche giorno, la cosa che cresceva nella sua testa, stava accelerando. L'interrogativo era: perché?
17 Jim Jim Stevens si soffiò sulle mani per scaldarle. Saltellò, battendo le mani contro la giacca. Faceva un freddo maledetto. Scrutò la lunga strada in cerca di un'automobile, ma a quel punto si sarebbe accontentato anche di due clown su un monopattino: il freddo era veramente insopportabile. Si strinse nella giacca. Non avrebbe dovuto lasciare la superstrada. Il tizio del furgone Ford (Gary, giusto?) aveva detto che doveva uscire dalla statale solo il tempo necessario per consegnare qualche pacco. Jim si era chiesto se non fosse il caso di scendere, ringraziare Gary Comesichiama per il passaggio e cercare un altro mezzo. Ma non lo aveva fatto. Bel coglione. Dopo un po', il caro vecchio Comesichiama aveva deciso di avere guidato abbastanza per quel giorno. Aveva preso una stanza e aveva detto al caro vecchio Jim, a Jim che gli teneva compagnia da centonovanta chilometri, di andare a farsi fottere. Scalogna nera, vecchio mio. Adesso devi cavartela da solo. «Porca vacca», borbottò Jim e ripartì. Camminò sul ciglio della strada, tra le foglie smosse dal vento che danzava ai suoi piedi. Non sarebbe mai arrivato a Portland in mattinata. Impossibile. Con ciò andavano a farsi benedire i biglietti per il concerto di Bowie, andavano a farsi benedire un giorno e una notte di festa non stop; e andava a farsi benedire Linda, che probabilmente avrebbe trovato qualcun altro con cui divertirsi. Doveva tenere duro fino alla superstrada e poi sperare in bene. Alle sue spalle sulla strada due fari spezzarono per un attimo l'oscurità. Jim si voltò verso le luci e tirò fuori il pollice. Una Buick Skylark lo superò, proseguì per un'altra ventina di metri, poi si fermò. Jim sorrise e corse alla portiera. David Bowie, arrivo! Afferrò la maniglia. Non successe niente. La portiera era chiusa. Ebbe appena il tempo di intravedere l'autista, che gli fece un gesto eloquente prima di schiacciare l'acceleratore. La Skylard schizzò via strombazzando. Jim rincorse l'auto per qualche metro poi si fermò, senza fiato. «Stronzo!» urlò. I fanalini posteriori lo fissarono come gli occhi di un demone terribil-
mente soddisfatto, poi scomparvero nella sera. Lui li guardò svanire. Infilò le mani in tasca e ricominciò a camminare. Che altro poteva fare? Nei dieci minuti successivi non passò una sola auto. Il freddo gli tagliava la faccia. Un concerto di David Bowie valeva davvero tutte quelle fatiche? All'inferno, sì, pensò, e continuò a camminare. Un istante dopo sentì il motore di un'altra macchina. Jim si girò, tirò fuori il pollice e scoccò all'autista uno dei suoi sorrisi speciali da cento watt, di quelli che funzionavano sempre, con la pioggia o con il sole, con uomini, donne, o animali. Fermati, coglione, fermati! Il furgone superò la lieve salita, tirò diritto, poi si spostò sulla banchina. Jim corse avanti, afferrò la maniglia. Questa volta, la portiera non era chiusa. «Ehi, grazie», disse, salendo. «Mi hai davvero salvato. Vai verso la superstrada?» L'autista annuì. Era solo vagamente visibile nel bagliore verdastro del cruscotto. Era un tipo grosso, pesante, con occhi troppo poco distanziati per i gusti di Jim. «Grande», disse Jim. «Io devo andare a Portland.» «Anch'io», disse l'autista e riportò il furgone in carreggiata. Non si girò nemmeno a guardare il nuovo passeggero. Il tipo che si fida di tutti, decise Jim. O forse aveva troppi pensieri per la testa. Comunque, lui era riuscito a rimettersi in movimento, ed era l'unica cosa che contasse. «Vivi da queste parti?» chiese Jim dopo un minuto. «Più o meno.» Di sicuro non è un chiacchierone, decise Jim. Però non c'era niente di male a cercare di essere cordiali. La strada da lì a Portland era lunga. «Mi chiamo Jim. Jim Stevens.» L'autista rispose sottovoce, continuando a guardare la strada. «Karl Jergen.» «Lieto di conoscerti, Karl», disse Jim. Silenzio. «Già, come ti ho detto, è una fortuna che tu mi abbia preso su. A Portland mi aspettano due biglietti per il concerto di Bowie e odierei sprecarli. Tu sei un fan di Bowie?» Niente. Probabilmente è uno di quelli che quando guidano non parlano molto, decise Jim. Per non rischiare di irritarlo, si sistemò meglio sul sedile, si rilassò e puntò gli occhi fuori, aspettando di veder apparire la rampa d'ac-
cesso alla superstrada. Dopo diversi minuti, trascorsi a sobbalzare su stradine disastrate, lanciò un'occhiata all'orologio. Non si era allontanato così tanto dalia superstrada, no. A meno che non stessero seguendo la via più lunga, ma era assurdo. «Dovremmo essere quasi arrivati alla superstrada», disse. «Quasi.» Jim cercò di non lasciar affiorare la paranoia. Aveva solo perso il senso dell'orientamento, tutto lì. Niente di strano, in un posto del genere. Passò qualche altro minuto. Siamo quasi arrivati, pensò Jim, un istante prima che succedesse. Ci siamo quasi. Avrebbe dovuto prevederlo. Non era un cretino, giusto? Ma non l'aveva previsto. Vide tutto succedere all'improvviso, come al rallentatore: Karl che si chinava con aria indifferente e quando si rialzava aveva in mano una mazza da baseball, o una mezza stecca da biliardo, o un grosso bastone, o quello che era, l'unica cosa importante era che la cosa era lunga e pesante, e Karl la fece roteare nell'abitacolo del furgone, senza nemmeno staccare gli occhi dalla strada mentre la mazza colpiva Jim al viso, sopra il naso... Poi il mondo girò su se stesso e scomparve. 18 Liz «Mi ricorda un po' il posto dove abito io», disse Liz, mentre Eric le apriva la porta del proprio cottage. «Che coincidenza incredibile.» Si tolse la giacca e la sistemò sulla spalliera di una sedia vicino al tavolo. A parte qualche particolare (il tavolo quadrato invece che rotondo, la stoffa che copriva le sedie), il cottage di Eric era praticamente identico al suo. Eric chiuse la porta. «Posso offrirti qualcosa? C'è del tè, del caffé, persino un paio di birre, se non ricordo male.» «Accetto il tè.» «Arriva subito.» Liz fece il giro del cottage, che non conteneva nulla di personale. Vero, Eric era arrivato da poco, ma lei provvedeva subito a definire il proprio territorio seminando in giro fotografie, libri e vestiti. Era un segnale preciso, un modo di dire io vivo qui; secondo sua madre, era solo una scusa per giustificare la sua innata tendenza al disordine.
A sua madre sarebbe piaciuto molto quel cottage. Era spoglio al punto da essere quasi spartano. Non c'era niente che potesse fornire indicazioni su chi lo occupava: solo un paio di valigie e una sacca (tutte rigorosamente chiuse), un rasoio e un tubetto di dentifricio (spremuto dal basso in alto) sul lavandino del bagno. Sul tavolo centrale erano sparpagliate alcune carte, il che significava che forse c'era ancora speranza per Eric. Ma a infrangere ogni speranza provvedeva il letto: era riassettato con tanta precisione che probabilmente una monetina sarebbe rimbalzata sulla coperta. Se, come sosteneva sua madre, si può capire molto di una persona dalla stanza in cui vive, o Eric non esisteva, o era il tipo più ordinato del mondo, o era pronto a una fuga precipitosa. Guardò le carte sul tavolo e riconobbe le fotocopie della biblioteca del Point. Tutti i ritagli di giornale parlavano delle caverne indiane, il che se non altro coincideva con quello che Eric le aveva raccontato. Non che avesse dubitato di lui. Eric possedeva un viso che le ispirava fiducia, gli occhi cordiali e una risata aperta; cosa più importante, sembrava una delle poche persone sensibili che Liz avesse incontrato negli ultimi tempi. Quando gli parlavi, ti stava ad ascoltare. E il suo modo di muoversi... A volte, quando camminava, sembrava come in ascolto di una musica lontana che lei non udiva. Fece una smorfia. Il dolce musicista dell'amore, un romanzo di Elizabeth Chasen. Cerca di crescere, pensò. Stava correndo parecchio, visto che lo conosceva da ventiquattr'ore. A modo suo, Eric era una persona gradevole, ma di per sé questo non significava molto. Chiunque può essere piacevole per ventiquattr'ore. Liz sorrise del proprio senso pratico. Ciò non modificava in maniera sensibile i suoi piani per la serata, ma era sempre meglio buttarsi in un certi tipo di cose a occhi ben aperti. «Latte e zucchero?» chiese Eric, cogliendola di sorpresa. Liz rimise giù le carte. «Latte e zucchero, grazie. Solo un'ombra.» Eric tornò con due tazze. Per quasi tutto il viaggio di ritorno aveva oscillato fra il sorriso e la serietà. Niente di eccessivo, niente sbalzi improvvisi d'umore; solo la sensazione che stesse riflettendo su qualcosa che poteva essere positivo o negativo, secondo il punto di vista. Lei decise che le piaceva di più quando sorrideva, come in quel momento. Gli venivano due buffe fossette sulle guance. Le dolci fossette dell'amore? Oh, piantala!
Prese la tazza e sedette accanto al tavolo. Eric si dedicò al caminetto. Quando le prime ondate di calore cominciarono a diffondersi, Liz avvertì una gradevole sensazione al viso e sulle mani. «Mi piace il fuoco», disse. «Da bambina me ne stavo davanti al camino in casa di mio zio gettavo pezzetti di carta sulle fiamme. Il fuoco li prendeva, li trasformava in puntini di luce che duravano un secondo, poi svanivano. Inventavo storie sui posti dove andavano a finire.» Eric sedette per terra, di fianco alla sedia di Liz. Sorrise. «Quando vivevo in una comune a San Diego... è successo tanto tempo fa, avevo appena cominciato a correre da una parte all'altra... la casa aveva un grande camino. Al confronto, questo è una pulce. Lo accendevamo, ci sedevamo sul tappeto e dopo un po' nessuno diceva più niente. Guardavamo il fuoco e vedevamo... quello che la gente vede quando fissa le fiamme.» Si girò un poco a guardarla e scoprì che lei sorrideva. «Ho detto qualcosa di buffo?» «Stavo pensando che a parte la tua autobiografia, questo è il discorso più lungo che ti ho sentito fare da che sei arrivato qui. Cominciavo a chiedermi se qualche oscuro credo religioso non ti proibisse di pronunciare più di dieci parole per volta.» «Probabilmente sono uno di quelli che non hanno mai imparato l'arte delle chiacchiere», disse lui. «Parlo quando ho qualcosa da dire.» «Be', è già un inizio», disse Liz. «E che altro fai?» «Trasloco, più che altro», rispose lui, in tono serio, pacato. «Su questo quel poliziotto aveva ragione. Nel nostro paese c'è tanto da vedere che non basterebbero sette vite. Comunque, io ci provo. Ho pescato al largo di San Francisco, tagliato alberi, lavorato in ristoranti e ferramenta nel Midwest, giudato camion da Philadelphia a Los Angeles, camminato in giro per il Canada. Un po' di tutto.» «Ti invidio. Io mi sono spinta solo fino al Connecticut. Per uno scrittore è uno svantaggio, invece tu hai il retroterra perfetto. Hemingway sarebbe d'accordo.» «Non è poetico come sembra», disse Eric e nella sua voce, qualcosa diceva che preferiva non pensarci. «E poi credo che per uno scrittore sia più importante trovare nuove idee che vedere nuovi posti.» Liz scrollò le spalle. «Dipende dai punti di vista sulla letteratura. Molti autori pensano che si dovrebbe scrivere solo di quello che si conosce personalmente. Ma se fosse vero, nessuno potrebbe scrivere un giallo o un thriller, perché sono pochi gli scrittori che abbiano ucciso qualcuno.»
«Tu da che parte stai?» «Nel mezzo, credo. Sono qui perché penso sia importante vivere in un posto, prima di scriverne. L'unica cosa che tutte le ricerche di questo mondo non possono dirti è come si comporta qualcuno quando ti racconta cosa è successo al vicino. Quello che mi interessa di più è il lato personale della storia, gli effetti che ha sulla gente, sui posti, cose del genere.» «Non hai detto di avere scritto dei romanzi?» «Storici. E non sono esattamente quello che vorrei scrivere.» Liz fissò il fuoco. Poteva permettersi di andare fino in fondo? E perché no? «Però adesso, finalmente, sto lavorando a qualcosa in cui credo sul serio. Un vero romanzo. I pericolosi giochi di Solomon Green. Un giallo. Mi piace. Ci lavoro a sprazzi, quando ho tempo, e penso che potrebbe avere successo. Ti sembrerà strano, ma adesso che sto facendo una cosa che mi interessa, la mia preoccupazione maggiore è che possa succedermi qualcosa prima di avere finito. Un po' paranoico, non trovi?» «Allora perché non ci lavori a tempo pieno?» «Forse perché non sono sicura di me stessa come mi piacerebbe credere.» «Questo lo avevo capito.» «Eh?» «Non ho mai conosciuto qualcuno che usi verbi come 'credo' o 'penso' più spesso di te. Niente di strano, intendiamoci. Lo facciamo tutti, ma nel tuo caso, secondo me, è perché quasi ti vergogni di dire certe cose ad alta voce. 'Sì, questo lavoro è riuscito bene', 'Sì, questo è esattamente quello che voglio fare.' Come se non prendessi del tutto sul serio quello che fai, il che è chiaramente falso.» Liz annuì. L'abitudine, pensò. Se gli altri prendono il tuo lavoro alla leggera, se lo considerano un hobby, dopo un po' riescono a convincerti. Riconobbe nelle proprie parole l'atteggiamento di suo padre e si odiò per questo. Sorrise. «Non sapevo fossi uno psicologo parttime.» «Scusa», disse lui. «È che secondo me hai molto da offrire, e non dovresti sottovalutarti.» «Ricevuto.» Eric non voleva criticarla. Anzi, le aveva fatto un complimento. Era in assoluto il primo uomo che si fosse sforzato di capirla. Riportò l'attenzione sul fuoco. Nell'aria c'erano calore e simpatia. Ogni tanto, uno dei due diceva qualcosa in tono pacato, poi tornava a guardare il
fuoco. «Interessante», disse alla fine lei. «Che cosa?» «Tu. Uomo senza fissa dimora, psicologo viaggiatore, salvatore di giovani signore importunate dai voyeur, terrore degli agenti di polizia. Che cosa fai nel tempo libero?» Eric fece finta di riflettere e il sorriso riapparve sul suo volto. «Faccio i migliori massaggi alla schiena da qui al Mississippi.» «Vedo che segui i tuoi stessi consigli. Farti pubblicità non ti spaventa», disse Liz. «Ma siccome non sono mai stata nel Mississippi, temo che dovrò chiederti qualche prova concreta. Qual è la tariffa per uno dei tuoi fantastici massaggi?» «Sono gratis. Accettane uno come segno di ringraziamento per tutto l'aiuto che mi hai dato fino a ora.» «Fino a ora? Vuoi dire che ci sarà dell'altro?» «C'è sempre dell'altro», disse lui e cominciò a sciogliere i muscoli sulla schiena di Liz. Aveva davvero un tocco magico. «C'è sempre qualcosa di più.» «E nel nostro caso, di cosa potrebbe trattarsi?» Lei sentì un sorriso nella voce di Eric. «Oh, troveremo qualcosa.» «Non ne dubito», disse Liz, poi si abbandonò alle dita che si muovevano lungo la sua spina dorsale. Chiuse gli occhi, piegò la testa di lato, mentre lui premeva e accarezzava. Le sue mani erano straordinariamente calde. Un tocco risanatore. «Attento», gli disse piano. «Se mi rilasso troppo, puoi dire addio a tutto il resto, per stasera.» «E che cosa ti fa pensare che debba succedere qualcosa d'altro?» «Non so. È un'idea che mi è venuta così.» Stranamente, per un attimo, Eric parve esitare. «Davvero?» chiese, serio. «No. Credo di essermi trastullata con questa idea fin da quando sei apparso alla Grande Casa.» Liz si interruppe. «Un altro 'credo', eh?» «Sei perdonata», disse lui. Anche senza guardarlo, lei poteva sentire il suo... sollievo? Piacere? «Volevo essere sicuro di non esercitare un'influenza sleale su di te.» «Per un massaggio? Non mi vendo per così poco.» «Mai pensato di poterti comperare con due lire.» Lei girò la testa per guardarlo. Lui si chinò in avanti, le baciò la spalla, il collo e dopo quella che le parve un'eternità insopportabile, le labbra.
E Liz scoprì un'altra cosa che le piaceva. Eric baciava con attenzione completa; nei suoi baci affiorava la stessa sensazione di presenza totale che metteva in tutto ciò che faceva. Bellissimo, pensò lei. 19 Karl La caverna era fredda, ma lui quasi non se ne accorgeva. La mente di Karl era ripiegata su se stessa, chiusa in un circolo vizioso. (Sistema la lastra la lastra sbrigati.) Sì, certo. Ecco che cosa. Mise giù la borsa che aveva preso dal furgone e raggiunse la lastra di pietra che sporgeva dalla parete opposta. La pietra era grigia, con sottili linee bianche, ruvida ma levigata dal tempo. Sulla lastra c'era un corpo. Non quello nuovo... (Non pensarci.) ...Quello vecchio. Così vecchio che l'aria umida della caverna filtrando fra le ossa in putrefazione aveva fatto nascere muschio dove un tempo c'era carne, funghi dove un tempo c'erano capelli e occhi e orecchie. Orbite piene di insetti erano rivolte verso l'alto. Karl sollevò lo sguardo solo un poco, in direzione della parete che non era realmente una parete. Le pareti sono solide. La parte di lui che non esisteva lo sapeva. Le pareti sono fatte di materia solida. Quella, no. La zona solida si perdeva in un ammasso confuso di spigoli, fumo e una luce che non era una vera luce, perché lui la vedeva più con la mente che con gli occhi. L'insieme vibrava come una cortina di calore su una strada arroventata. Karl distolse lo sguardo. Fissare quella cosa troppo a lungo era doloroso. Il corpo vecchio era legato alla lastra da viticci. Solo vagamente cosciente di ciò che faceva, Karl staccò il corpo dalla lastra. (L'altro sbrigati.) Sì. L'altro. Il corpo nuovo. L'autostoppista (si chiamava davvero Jim, o era solo un'altra parte del sogno?) giaceva a pochi metri. Era svenuto, ma respirava piano. Oltre alla ferita su un lato della testa, aveva le braccia e la faccia graffiate dopo la lunga discesa nelle caverne. Era stato difficile far passare nei punti più stretti il suo corpo inerte. Dapprima Karl si era chiesto se loro si sarebbero arrabbiati per quei graffi, se avesse rovinato tutto, ma ora capiva che non
importava, che fra poco niente avrebbe più avuto importanza. E un accenno di pensiero brillò negli abissi della sua mente. Perché fra poco... E il dolore lo trafisse di nuovo. Gli trapanò il cranio come se un topo gli entrasse nel cervello passando dagli occhi e azzannasse il tenero tessuto grigio. (Non fare domande non pensare devi solo...) ...obbedire. Il dolore diminuì un po'. Il pensiero era rientrato. Karl strizzò le palpebre per schiarire la vista. Afferrò il ragazzo per le braccia e lo trascinò alla lastra. Il sangue dalla ferita alla testa gli colò sulle maniche. Sistemò il corpo sulla pietra, poi tornò alla borsa, tirò fuori diversi pezzi di corda robusta, li passò sulla lastra e attorno al corpo. Strinse forte i nodi, assicurandosi che le braccia fossero stese lungo i fianchi e le palme in su. L'autostoppista emise un gemito. Stava cominciando a rinvenire. (Più in fretta più in fretta piùinfrettapiùinfretta.) L'ultima corda gli bloccò i piedi. Karl strinse il nodo, senza osare guardare la strana parete dove le cose si muovevano appena dietro la nebbia, appena davanti. Quando ebbe finito, indietreggiò in un angolo e aspettò altre istruzioni. E guardò. Guardò il corpo sulla lastra che si muoveva un'altra volta, gli occhi che finalmente si aprivano. L'autostoppista gemette piano, cercò di guardarsi attorno, gemette ancora per lo sforzo. Con maggiore cautela, maggiore lentezza, reclinò la testa su una spalla e trovò Karl. Dall'espressione del volto, Karl capì che gli stava tornando la memoria, che i vuoti si riempivano. «Ehi, ma che cosa vuoi... Dove sono...» Il ragazzo lottò debolmente con le corde. Era confuso, quasi non riuscisse ad accettare quello che gli succedeva. Jim... Si chiamava così, no? Jim? Karl non era più capace di ordinare i pensieri, di trovare una risposta e per qualche motivo gli sembrava importante sapere. «Lasciami andare», stava dicendo Jim. «Non ti ho fatto niente di niente. Slegami.» Stava tentando di tenere un tono ragionevole, modulato, di fare appello alla razionalità. Ma Karl non era razionale. Praticamente, era come se non fosse lì. E le cose dietro la parete erano ancora meno razionali. «Senti, che cosa vuoi da me? Soldi? Posso... posso chiamare mio padre. È pieno di soldi. Ti darà tutto quello che vuoi. Se mi lasci andare, non dirò niente a nessuno, okay?» Karl non rispose. Restò a guardare e ad aspettare. Ad aspettare istruzio-
ni. Sapeva che loro guardavano lui. «Cristo!» Adesso la paura era chiara negli occhi dell'autostoppista. Lottò di nuovo con la corda che lo teneva inchiodato alla lastra di pietra. «Dio ti maledica!» urlò e la minuscola parte di Karl che era ancora Karl gli diede ragione. Sì, era molto probabile che Dio lo maledicesse. In vita sua, aveva commesso azioni malvagie, davvero malvagie e ne era orgoglioso, ma quello... quello era diverso. Dio lo avrebbe maledetto. Il dolore ricominciò, straziandolo, spingendo nel cervello ordini e pensieri, che ringhiarono incontrando ciò che aveva osato formulare una frazione di secondo prima. Senza averlo deciso, si trascinò verso la borsa, tirò fuori il coltello da pesca che aveva messo vicino alla... (Non pensarci non pensarci.) e adesso teneva il coltello per l'impugnatura e la sua mano si apriva e si chiudeva, si apriva e si chiudeva. La lama, lunga quanto la mano, era liscia e affilata nella parte esterna. La parte interna era seghettata, ma altrettanto affilata. Abbassò gli occhi sui dentini d'acciaio. Qualche volta, tanto tempo fa, aveva usato la lama per raschiare il pesce. L'autostoppista si contorse, tentò di scoprire dove fosse. «Ehi, cosa...» Poi vide. «Dio», sussurrò e si mise a urlare. Hai ragione, pensò Karl, da molto lontano. È proprio così. Avanzò con il coltello in mano, la lama seghettata puntata in avanti. Si fermò davanti al ragazzo, che si contorse disperatamente sulla lastra, gli occhi gonfi di lacrime. «Ti prego...» Il coltello scese ad arco. L'autostoppista gridò. La lama tracciò una lunga ferita sul suo avambraccio, dal gomito al polso, seguendo il percorso blu delle vene, aprendole a una a una con minuziosa precisione. Il sangue zampillò. Karl girò il coltello e tagliò il braccio trasversalmente alla ferita, attento a non sfiorare la corda, preciso e metodico come se stesse pulendo del pesce. Il sangue uscì più in fretta. In fretta, ma non troppo. Occorreva tempo per quello che doveva accadere. Si spostò al centro della caverna, al di sopra della lastra di pietra. Non udiva più le urla che rimbalzavano sulle pareti. Si inginocchiò, aprì la bocca e si formarono parole che non aveva mai udito; parole che non sembravano adatte a una bocca umana; parole dolorose da pronunciare. Ma Karl continuò, mentre il sangue dell'autostoppista si raccoglieva alla base della
lastra. Qualcosa gli martellava nelle orecchie: era come se grandi pugni stessero percuotendo le pareti attorno a lui. C'era il sussurrio di voci che non erano il tipo di voci che lui conosceva; voci che dall'altra parte della parete facevano eco alle sue parole. La luce fioca dietro la parete crebbe, assunse ogni colore, tremò, si piegò. Poi lui si interruppe. Di colpo. Sulle sue labbra restava un'ultima frase da pronunciare. Solo un'altra... (Non ancora quasi.) Guardò l'autostoppista, che stava scivolando per sempre nell'incoscienza. La pelle era grigia, le labbra bluastre. In qualche modo, Karl riusciva a sentire i battiti del suo cuore, a udire le pulsazioni, il respiro. Sempre più lento. Irregolare. Ma non era il momento. Non ancora. Era necessario catturare l'unico istante in cui Jim si sarebbe trovato sulla linea di confine, non ancora morto, non del tutto vivo, intrappolato... L'autostoppista tremò. (ADESSO!) Le ultime parole vennero strappate alla gola di Karl. Un vento spazzò la caverna. La luce dietro la parete si liberò, un lampo accecante gli bruciò gli occhi mentre lui cercava di puntare lo sguardo su un colore che conoscesse. Non ne trovò nemmeno uno. I peli delle braccia si rizzarono, sfrigolarono per il calore. E su tutto, la sensazione che qualcosa di terribile, qualcosa di antico, fosse entrato nella caverna. Karl riaprì gli occhi, vinse il bruciore, il dolore. Guardò la non-luce che si frantumava mentre colpiva le pareti. Niente era più come prima. Non la caverna, non i suoi abiti, non l'autostoppista, immobilizzato in quell'ultimo brivido, a metà di un battito del cuore mai terminato, a metà di un respiro non esalato... (Morto ma non morto, vivo ma non vivo, preso.) I colori pulsavano sulla sua pelle come qualcosa di vivo. E c'erano altre cose che aspettavano, ancora dietro la parete. Fluivano come olio, così vicine, così lontane, ancora là e non qui. E c'era un ultimo compito da assolvere. Karl si tolse giacca e camicia. Lottò per muoversi nell'aria densa, impenetrabile; lottò per vincere la sensazione di cadere, cadere... Cercò di non guardare gli occhi dell'autostoppista e non ci riuscì. Vi lesse la terribile consapevolezza. Lui sa. Karl si chinò, infilò una mano nella borsa, tirò fuori la pistola che aveva
messo vicino al coltello. La pistola che aveva usato per il tiro al bersaglio, per dare il colpo di grazia ai cervi. Non era il fucile che suo padre aveva usato per ammazzarsi in quelle stesse caverne, ma avrebbe potuto esserlo. Sarebbe bello che fosse il suo fucile, pensò, mentre alzava la pistola e appoggiava la canna fredda contro il suo stesso petto nudo. Cercò di trovare la forza di volontà per fare qualcosa, qualunque altra cosa, ma non quello che doveva fare. Con dolorosa lentezza, aprì le labbra aride, screpolate. «No», gemette, piano. Gli concessero solo questo. Poi, con una forza irresistibile, inevitabile, giunse la loro risposta. (Sì.) Karl premette il grilletto, lentamente, con una pressione costante, come gli era stato insegnato. 20 Il Point Zachariah Franklin si dondolava piano sul portico della Grande Casa. Era il momento della sera che preferiva: tardi, ma non troppo. Tranquillo, ma non troppo. Le assi del portico scricchiolavano sotto la sedia a dondolo. Presto nevicherà, pensò. Magari nei prossimi giorni. La neve gli piaceva. Gli era sempre piaciuta. La porta alle sue spalle si aprì. «Lo sapevo che ti avrei trovato qui.» Quiete, addio, pensò Zach. «Ma guardati», disse Sarah, tendendo le mani verso il suo maglione. «Il minimo che potresti fare è abbottonarti. Non ho intenzione di dover essere costretta a curare la tua polmonite.» Lui allontanò le mani della moglie. «Lasciami perdere. Mi piace il freddo. Non devi sempre stare a preoccuparti per me.» «Di solito non ti dispiace.» «Il passato è passato. Oggi è oggi. Non ho voglia di accettare favori da te. Ho paura di essere arrabbiato.» Zach vide un lampo negli occhi di lei, scosse la testa. «No, non con te. Con me. Sono solo un maledetto idiota, punto e basta.» «Io ho già dimenticato tutto», disse lei, sedendo al suo fianco. Lui mugugnò un hmm di risposta. Adesso, la discussione di mezz'ora prima gli sembrava assurda. Non ricordava nemmeno per quale motivo avessero litigato.
L'unica cosa che ricordasse era la sensazione improvvisa di sentirsi intrappolato in quella casa: la casa che avevano diviso per trent'anni. Quella sera, però, ogni suono gli pareva amplificato al punto da portarlo all'esasperazione. «Il rumore dei piatti mi ha dato sui nervi.» «Succede. Non c'è bisogno di aggiungere altro.» Restarono in silenzio per un po'. Stranamente, era in momenti come quello che si sentiva più vicino a Sarah: faceva qualcosa di cretino, di stupido, la rimproverava per questo o per quello, come se stare con lei significasse farle un grande favore e alla fine, sempre, si rendeva conto che praticamente qualunque altra donna lo avrebbe sbattuto fuori da anni. Sarah significava tanto per lui, soprattutto adesso, con i ragazzi lontani da un'eternità, i ragazzi che si facevano vivi solo un Natale su due o tre. Decise che avrebbe dovuto dirglielo più spesso. «Sei pronto a rientrare?» chiese alla fine lei. «Credo di sì.» Zach si staccò dai propri pensieri, poi gesticolò in direzione del cottage del loro ultimo ospite. «Fra parentesi, hai visto...» «Ho visto e non dirò una sola parola. Dovresti tenere il becco chiuso anche tu. Se uno decide di passare la notte con qualcun altro, sono solo affari suoi.» «Io l'ho detto fin dall'inizio che per mettersi a posto la ragazza aveva bisogno di un brav'uomo.» Zach fece l'occhiolino. «Per te, trovare un uomo ha fatto miracoli, no?» «Sì, Zach», sospirò lei, ma lui vide l'ombra lieve di un sorriso sulle sue labbra, bagnato dal chiarore lunare. Sarah era ancora bellissima. Ecco un'altra cosa che doveva dirle. Senza chiedere, lei gli mise una mano sul maglione e questa volta lui se lo lasciò abbottonare. «Fatto. Così va meglio. Allora, entri o no?» «Perché dovrei? Adesso sto al caldo anche qui fuori.» «Zach...» «Va bene, va bene.» Lui si alzò lentamente. Scaldarsi sul serio non sarebbe stata una cattiva idea. Il freddo cominciava a penetrargli nelle ossa. Alla luce che usciva dalla porta, poteva leggere le rughe sul viso di Sarah come fossero un libro familiare. La responsabilità di molte di quelle era sua. «A volte penso che sei matta a tenermi ancora fra i piedi.» «E probabilmente hai ragione», disse lei. Zach stava ancora cercando una risposta quando la zanzariera sbatté e Sarah tornò dentro. Lui la guardò raccogliere gli ultimi piatti e metterli nel lavandino pieno di acqua calda.
Senza un motivo, si rese conto di quanto lei fosse preziosa per lui. Era un'idea che negli ultimi giorni si presentava spesso alla sua mente. Adesso più che mai, sentiva la terribile, divorante paura di perderla, il desiderio di non restare solo. Scosse la testa. Sei un vecchio idiota, pensò, ed entrò in casa. 2 A Bud Simmons non importava affatto dove stesse andando. L'essenziale era scappare da lei. Superò una curva con la Ford, pronto a fare a pezzi chiunque o qualunque cosa si fosse messo sulla sua strada. Ancora pieno di rabbia, si mordicchiò il labbro. Avrebbe dovuto saperlo che Beth gli avrebbe dato lo stesso sostegno morale che una madre di cinque figli poteva dare a un infanticida. «Allora?» aveva chiesto lei, quando le aveva detto che il furgone del latte era passato a miglior vita. «Che cosa hai intenzione di fare?» «Non lo so.» «Non puoi comperarne un altro?» In piedi in mezzo al soggiorno, la voce stridula, Beth era rimasta a fissarlo, con uno sguardo che lo condannava già per i tempi duri che sarebbero arrivati. «Certo, possiamo comperarne un altro, se non ti dà fastidio smettere di mangiare per un anno o due.» «Allora fallo aggiustare.» «Non posso! La riparazione costerebbe più del valore di quel bidone. E anche se lo portassi in officina e ce lo lasciassi per qualche giorno, al momento non mi servirebbe molto, giusto? Devo avere un mezzo di trasporto per domani, o Clement darà il mio giro a qualcun altro.» «Dio, Bud, ti avevo detto di farlo controllare più spesso! Se mi avessi dato retta...» «Non potevamo permettercelo.» «Be', adesso ce lo possiamo permettere ancora meno! Il solito genio. Risparmi il centesimo e butti i milioni.» Poi lei gli aveva lanciato il suo sguardo da martire. «E adesso che cosa devo fare?» gli aveva chiesto, come se fosse stato lui a combinare tutto solo per renderle la vita difficile. In quel momento, lui l'avrebbe incollata al muro. E più ci pensava, più gli veniva voglia di farlo. «Perché non vai a farti fottere?» aveva sbottato, ed era corso fuori. Era partito in macchina con l'idea di allontanarsi il più possibile.
Superò un'altra curva, poi imboccò una delle stradine che portavano al lago. L'auto sussultò sulle buche. I fari erano poco più che inutili; gli davano il minimo di luce sufficiente per non sbattere contro un albero. Dopo un minuto, raggiunse una radura a poche centinaia di metri dal lago. Frenò e spense il motore. Per un po' fissò la superficie calma del lago, poi incrociò le braccia sul volante e vi appoggiò la testa. «Porca miseria», disse. Era sull'orlo delle lacrime. Che cosa poteva fare? Aveva pensato di farsi prestare un furgone, ma al Point nessuno aveva un mezzo dotato dell'impianto di refrigerazione. Vedeva già sorridere la faccia da porco di Clement, mentre dava a qualcuno di cui si fidava il giro del latte. Poteva chiedere il sussidio di disoccupazione, ma non era molto. E ci sarebbe sempre stata Beth, con quell'espressione ferita... Sobbalzò al rumore di un ramo che si spezzava. Karl Jergen era a meno di sei metri da lui, appena visibile nel chiarore lunare. Sorrideva. Si avvicinò all'auto. Grande, pensò Bud. L'ultima cosa che mi serve è farmi rompere l'anima anche da lui. Abbassò il finestrino. Avrebbe sentito cosa voleva Karl, poi se ne sarebbe andato e a costo di girare tutta notte, avrebbe trovato un posto dove stare solo. Karl era più vicino. Camminava in fretta. Non aveva ancora detto niente; non faceva altro che sorridere in una maniera che preoccupava Bud. Più che un sorriso era una smorfia. E nel suo aspetto c'era qualcosa di strano. Naturalmente, pensò Bud soffocando una risatina, Karl aveva quasi sempre quell'aria. «Ehi, Karl», lo salutò. Poi vide la chiazza rosso scura sul petto, la macchia di sangue raggrumato. «Che diavolo...» Il sorriso diventò un ringhio. Karl afferrò Bud per il collo e lo trascinò fuori dal finestrino. Lo sollevò sopra la testa, lo scrollò, poi lo scaraventò a terra, come un cane rabbioso con una bambola di stracci. Bud piombò nella polvere a faccia in giù, senza più fiato. Qualcosa gli si spezzò nella schiena. Tentò di alzarsi, ma Karl superò in un istante lo spazio che li divideva. Si muoveva a una velocità assurda, impossibile. Poi la punta d'acciaio del suo stivale si conficcò nel costato di Bud che volò all'indietro e atterrò di
nuovo. Sentì il rumore delle sue ossa che si rompevano. Il dolore gli perforò il petto come un ferro incandescente. Non respirava più. Non poteva più muoversi. Un altro calcio lo raggiunse alla testa, dietro l'orecchio sinistro. Tentò di urlare, ma non capì se ci fosse riuscito o no. Non respirava più, sentiva solo scorrere il sangue nelle orecchie, nient'altro e Karl non aveva ancora detto una parola. Avanzava di nuovo verso di lui, muto, deciso a finirlo. Perché? pensò Bud, dietro la cortina di dolore. Poi Karl gli fu addosso. Gli mise attorno alla gola mani grosse, forti, fredde e strinse. Bud si divincolò, picchiò le braccia che lo tenevano fermo e le braccia non erano carne, erano pietra. I suoi polmoni lottarono freneticamente, ma le dita erano sempre lì, a premere, a stringere come morse d'acciaio. Bud si sentì cadere. Guardò Karl e la faccia non era più quella di Karl. Era qualcos'altro. Qualcosa di terribile. Gli occhi della cosa si aprirono un varco di fuoco nella sua anima. Occhi vuoti. Affamati. Bud starnutì, boccheggiò, precipitò ancora di più nel buio. È finita, pensò. Poi, di colpo, non fu più solo. Qualcosa stava penetrando nel suo viso, nel suo petto e lo scacciava dal suo corpo. Qualcosa. Qualcosa che voleva entrare. 3 Jay Carmichael era certo che gli si sarebbe fermato il cuore. Acquattato all'esterno della finestra di George Morgan, si chiese se fosse davvero possibile morire d'eccitazione. Lo sapeva il cielo, già il rischio in sé sarebbe bastato a fargli venire un infarto. Dopotutto, stava spiando dalla finestra sul retro della casa del sindaco George Morgan! Ma il gioco valeva la candela. Il buffo era che era uscito senza avere nemmeno in mente quel posto. Camminava fra gli alberi, diretto a casa di Judith Carlyle, quando aveva visto le persiane socchiuse di un paio di centimetri. Più che sufficiente per i suoi scopi. Si era avvicinato, consapevole del pericolo, ma ugualmente curioso. Un'occhiatina e se ne sarebbe andato. Si sbagliava. Il sindaco era fuori e Carol (la moglie del sindaco, ci credereste?) era
sola in camera da letto. Era appena entrata e sotto gli occhi di Jay si era tolta il vestito a fiori, le mutandine di seta, gli altri pizzi, fino a restare nuda. La porta del bagno era aperta; si sentiva scrosciare l'acqua della doccia. Carol era una donna giovane, troppo giovane per George. Già altre volte, Jay l'aveva guardata quando era andata a fare benzina, aveva ammirato quei seni, il modo in cui muoveva il culo quando tornava all'auto. Stava tremando d'eccitazione. Carol era completamente sola, in mostra soltanto per lui. Si avvicinò di più alla finestra. In casa non c'era nessuno. Potrei entrare e prenderla. Immaginò di spuntare dal nulla alle sue spalle, sorprendendola; si immaginò mentre si insinuava tra quelle cosce e l'espressione di sorpresa di lei si sarebbe mutata nell'accettazione di un vero uomo, di uno che non era un politico smidollato. Si spinse in avanti. Immaginava la scena. Sarebbe stato così semplice. La finestra non era chiusa. Così semplice. Si immobilizzò mentre allungava la mano verso la finestra. Che cosa diavolo sto facendo qui? Saltò indietro come se avesse toccato qualcosa d'incandescente. Il panico gli strinse il cuore al pensiero di quello che avrebbe voluto fare. Non una semplice fantasia. Non un gioco. Voleva farlo sul serio. Non era mai arrivato a quel punto. Follia. Guardare... guardare era un hobby, ma quello era follia! La moglie del sindaco, Cristo santo! Indietreggiò. Non gli interessava più nemmeno la fine dello spettacolo. Quando fu abbastanza lontano da non essere sentito, girò sui tacchi e si mise a correre. Rallentò solo quando arrivò all'automobile, parcheggiata a lato della strada, dove nessuno l'avrebbe mai notata. Salì e partì a tutta velocità. Si sentì al sicuro, pulito, solo dopo avere raggiunto la porta di casa sua ed essere entrato. Rimase appoggiato alla porta, ansimante, a chiedersi: che diavolo mi sta succedendo? 4 R.T. Williams si svegliò per la terza volta in due ore. Guardò la sveglia digitale: l'una e trentacinque. Al suo fianco, Winnie dormiva profondamente. Anzi, russava. Lui si appoggiò su un gomito e la guardò. Come poteva fargli una cosa del genere? Come poteva starsene lì a rus-
sare in quel modo (e forse, chissà, deliberatamente), privandolo del suo sonno? Non era più un ragazzo! Aveva bisogno di dormire come chiunque altro. Pensandoci, si arrabbiò sempre più. Alla fine, era pronto a scaraventarla giù dal letto. Svegliarla sarebbe stato troppo semplice, troppo misericordioso. D'altronde, lei si sarebbe girata su un fianco e avrebbe ricominciato a dormire e a russare. Sapeva già che restare ad ascoltarla avrebbe significato solo diventare sempre più furibondo. Scese dal letto, trovò le pantofole, si tirò in piedi. Alle sue spalle, Winnie si mosse. «Tesoro? Stai bene?» «Da crepare.» Lei si girò dalla sua parte. «Che cosa ti ha preso?» «Niente. Sei tu che hai qualcosa di strano e probabilmente avrai svegliato metà isolato.» R.T. uscì dalla camera da letto e si diresse alla scala. Ci rifletta su per un po', pensò. Si perda un po' di sonno anche lei, tanto per cambiare. È quello che si merita. 5 Judith Carlyle sedeva a luci spente, le lenzuola tirate sulle ginocchia come una tenda. A fianco del letto c'era una torcia elettrica. Questa volta avrebbe scoperto se aveva ragione o no. Già un paio di volte, di notte, le era parso di sentire qualcuno fuori dalla finestra, però non aveva mai potuto esserne certa. Non aveva visto nessuno... Eppure sapeva. Lo sentiva. Quella sera aveva preso tutte le precauzioni possibili. Porte e finestre a pianterreno erano chiuse. Il telefono era vicino a lei. Se fuori c'era qualcuno, lo avrebbe colto in flagrante con la torcia elettrica e avrebbe informato la polizia. Rabbrividì al fresco della notte. Si strinse nella camicia da notte di flanella. L'idea che qualcuno la spiasse era insopportabile e probabilmente proprio per questo si era rifiutata di prenderla in considerazione sino a quel momento. Dapprima aveva cercato di convincersi che era solo paranoia. Non sarebbe stata la prima volta. Da quando Kent era morto, l'anno prima, aveva familiarizzato con ogni suono che la casa produceva di notte, perché temeva che il minimo rumore insolito indicasse un intruso. Però tutte le sue indagini l'avevano portata solo a concludere che si trattava del vento, o
dell'assestamento della casa, o... Dal cortile giunse un rumore. Passi. Judith afferrò la torcia elettrica. Il metallo era freddo nella mano, ma anche rassicurante. In silenzio, scostò le lenzuola, scese dal letto, si accucciò sul pavimento. Avanzò a quattro zampe, tastando il muro finché non raggiunse la finestra. Aspettò. Un altro suono. Più vicino. Adesso! pensò. Balzò su, accese la torcia e spalancò la finestra. La luce trafisse le tenebre, delineando la figura al centro del cortile. Aveva ragione! C'era qualcuno! E lo riconobbe immediatamente. «Ti vedo, Karl Jergen», urlò, ormai sicura di sé, come se il fatto di conoscere il nome del voyeur le conferisse un arcano potere su lui. «Vattene subito dal mio cortile, prima che chiami la polizia!» Lui non rispose. Dall'alto, la sua espressione era illeggibile. Avanzò verso la casa. «Cristo», disse lei. Corse al telefono, alzò il ricevitore, cominciò a comporre il numero che conosceva a memoria. Non c'era il segnale di linea. Impossibile! Il cavo andava direttamente dal palo al tetto. Nessuno poteva averlo tagliato da sotto. Poi sulla linea non ci fu più silenzio. Dal ricevitore uscì l'urlo di una risata folle, prima lontana, poi più vicina. Judith premette i pulsanti, terrorizzata all'idea di non sapere dove fosse Karl. Non aveva sentito rumore di vetri infranti, però... «Pronto?» disse. La risata continuò. «Chi è? È un'emergenza! Liberi la linea!» La risata aumentò di volume. Adesso non era più una sola voce, ma molte. Judith sbatté il ricevitore, corse al comò, aprì il primo cassetto in alto. La calibro 38 di Kent risplendette debolmente alla luce della luna. Kent le aveva insegnato a usarla poco prima di morire e lei la teneva sempre carica. La prese, tolse la sicura, corse di nuovo alla parete opposta. Si girò verso la porta, l'unico ingresso possibile nella stanza. Se Karl voleva entrare, doveva passare da lì. Judith restò in ascolto, in attesa del minimo suono. Dov'era Karl? Si avvicinò alla finestra per vedere che cosa succedeva sotto. Non c'era pericolo. Tra la finestra e il terreno c'erano sei metri di vuoto e niente su
cui arrampicarsi. Se fosse riuscita a vederlo si sarebbe sentita meglio. Guardò giù e vide solo il cortile vuoto. Dove? Poi qualcosa si interpose tra la finestra e la luna. Una nube? Karl era sospeso in aria appena sopra la finestra. Sorrideva. Judith urlò e sparò. Corse indietro, barcollando. Si precipitò alla porta, lontano dalla grande forma impossibile che torreggiava nell'aria della notte. Poi lui fu nella stanza. Lei si girò. Troppo tardi per scappare. Alzò la pistola, stringendola con entrambe le mani. Karl le si avvicinò. Sembrava non si fosse nemmeno accorto dell'arma puntata al suo cuore. «Indietro!» urlò Judith e sparò due volte. Il revolver sussultò nelle sue mani. Nessun effetto. Lei si lanciò verso la porta. Poi le mani di Karl, fredde e dure, la raggiunsero. La fecero girare, le strapparono la pistola e c'era quel viso, quel viso terribile, sempre più vicino e l'ululato della risata folle. Poi su di lei scese il freddo e la risata le entrò nella testa. 6 Sam rinunciò all'idea di dormire. Non riusciva a staccare la mente dalle caverne, dai dipinti, da ciò che quella scoperta avrebbe significato per la sua carriera. Pensò a come avrebbe reagito Duncan, e come l'avrebbe presa il preside della sua facoltà che ormai non attribuiva più alcuna importanza alle caverne, a cosa avrebbero detto gli abitanti della città e la stampa. La sua mente era persa in una giostra di pensieri che si fondevano l'uno nell'altro, come un serpente che si mangia la coda... Ci risiamo. Aggrottò la fronte. I suoi pensieri tornavano di continuo al serpente dipinto nella caverna. Doveva lottare contro l'impulso di andare subito là, recuperare la macchina fotografica, sviluppare la pellicola e partire per l'università. Gratificazione istantanea. Pazienza, pensò e ricordò a se stesso che qualunque caverna era molto più pericolosa di notte che di giorno. Quella in particolare. Si costrinse a chiudere gli occhi. Alle prime luci del giorno, però... 7 Beth Simmons si svegliò al rumore della porta d'ingresso che si apriva.
Ah, finalmente ha deciso di tornare a casa, pensò. I numeri verdi della sveglia sul comodino indicavano l'una e quarantacinque. Si girò sotto le coperte, in modo da rivolgere la schiena alla porta della camera. Se Bud voleva scusarsi, la andasse a cercare. Lei non si sarebbe mossa. Di sicuro, suo marito sapeva fare poco o niente; non sapeva tenere una cosa semplice come il giro del latte, litigava in continuazione. Le dimostrasse almeno se era bravo con le scuse. La porta della camera si aprì. Beth chiuse gli occhi. Il bastardo deve pensare che dormo. Non gli darò la soddisfazione di lasciargli capire che l'ho aspettato sveglia. Lo sentì appena camminare (sembrava incredibile, ma quando ci si metteva diventava silenziosissimo), poi capì che era arrivato al letto. Passò quasi un minuto e Bud continuò a stare zitto. Beth sospirò fra sé all'idea che probabilmente lui era troppo vigliacco per trovare il coraggio di svegliarla e chiedere scusa. Si voltò sull'altro fianco e socchiuse un poco gli occhi, appena quello che bastava per dargli l'imbeccata. Fissò la sua sagoma. Strano. Aveva il collo piegato ad angolo in modo davvero bizzarro. Beth tese la mano, accese l'abat-jour. Nell'istante prima che lui le cadesse addosso e le afferrasse la gola con mani che sembravano artigli d'acciaio, lei non ebbe il tempo di urlare. Ebbe solo il tempo di stupirsi del viso morto, degli occhi morti che la guardavano. Occhi che non erano più quelli di Bud. 8 Padre Duncan Kerr sedeva nello studio comunicante con la camera da letto. Aveva in grembo una copia di un libro di Carl Jung. Glielo aveva prestato Sam settimane addietro, dicendogli che poteva gettare luce sui suoi paragoni fra la teologia cristiana e i miti indiani. Cominciò a leggere un paragrafo sottolineato da Sam. «Nell'oscura tribù degli indiani Winnebago del Nord America, l'Imbroglione è una figura i cui appetiti fisici dominano il comportamento; ha la mentalità di un bambino. Privo di qualunque scopo al di là della gratificazione dei suoi bisogni primari, è crudele, cinico e insensibile.» L'Imbroglione. Nella teologia cristiana, Satana veniva sempre descritto come Grande Ingannatore. Tutt'altro che sorprendente, però il parallelo era abbastanza buono, ammise Kerr.
Passò a un altro paragrafo sottolineato: «La figura successiva è Lepre. Anch'egli, come Imbroglione (i cui tratti animali sono spesso rappresentati come quelli di un coyote fra gli indiani d'America), appare dapprima in forma animale. I Winnebago credono che, avendo dato loro il famoso Rito della Medicina, sia diventato il loro salvatore, oltre che il loro eroe. Questo mito era così forte che i membri del Rito del Peyote si dimostrarono riluttanti a rinunciare a Lepre, quando il cristianesimo cominciò a penetrare nella tribù. Lepre si fuse con la figura di Cristo e qualcuno sostenne che non c'era bisogno di Cristo, visto che c'era già Lepre». Forse era a questo che alludeva Sam. Se era così, aveva deliberatamente trascurato metà dell'equazione spirituale. Sì, era possibile che gli indiani avessero leggende corrispondenti a Satana molto prima dell'arrivo dei missionari. Però avevano anche la leggenda di Cristo. Ma Sam, probabilmente, avrebbe visto in quello un'ulteriore prova della tendenza di culture diverse a creare leggende teologiche simili, per cui anche il cristianesimo era solo un'altra di quelle leggende. La Bibbia diceva che Dio si rivela al pagano attraverso le forze della natura, rendeando così manifesta la sua parola. Era possibile che si fosse rivelato agli indiani in forme per loro più semplici da capire? E se era così, il culto di Lepre era stato sufficiente a proteggerli dalle forze di Satana? Lo sguardo di Kerr si posò sulla pagina di fronte: «I Winnebago, come gli irochesi e alcune tribù algonchine, probabilmente mangiavano carne umana come rituale totemico capace di domare i loro impulsi individualistici e distruttivi.» No, pensò Kerr. Dio non avrebbe mai permesso il cannibalismo in nessun ramo della sua chiesa. Appoggiò il libro sul tavolino. Per quella sera, era abbastanza. Doveva ancora fare gli ultimi giri prima di coricarsi. Lasciato lo studio, arrivò al portone principale e da lì tornò indietro, controllando le serrature e accertandosi che tutte le finestre fossero chiuse. Percorse la navata verso il battistero, controllò la cappella, si inginocchiò davanti all'altare prima di passare in sacrestia. Voleva avere la certezza matematica che nessuno potesse entrare in chiesa. Se, al mattino, avesse trovato di nuovo a terra il crocefisso della sacrestia, l'unica spiegazione sarebbe stata un assestamento irregolare della chiesa. In quel caso, era rassegnato all'idea di tirare fuori i disegni e assumere qualcuno per un minuzioso controllo delle fondamenta. Fermo davanti all'altare, sobbalzò sentendo bussare al portone. Chi po-
teva essere, a quell'ora? Un altro colpo, così forte da ripercuotersi su tutta la chiesa. Per produrre un rumore del genere occorreva un pugno molto grande, sbattuto con violenza contro il legno. Forse qualcuno aveva un bisogno estremo d'aiuto. Si avviò al portone, ma ad ogni passo una pesantezza plumbea calava sul suo cuore. I colpi continuavano a intervalli regolari. Erano lenti, deliberati; non davano l'idea di una persona in pericolo. Nel suono c'era qualcosa che lo turbava. Gli echi che creava, forse. La forza necessaria per ogni colpo. «Chi è?» gridò. Nessuna risposta. Solo il bussare ritmico, lento. «Ho detto, chi è?» Ancora niente. A metà della navata, riluttante a proseguire ma nemmeno disposto a una ritirata, Kerr si rimproverò per quelle esitazioni. Quella era la casa di Dio. Una chiesa è aperta a chiunque, a ogni ora del giorno. Non avrebbe tradito le responsabilità del suo sacro ufficio solo per... Per che cosa? Perché non conosceva l'identità della persona che stava bussando? Be', il problema aveva una soluzione molto semplice, no? Giunse in fondo alla navata e si fermò davanti al portone. La sua decisione perse vigore. «Chi c'è?» urlò di nuovo e non ebbe risposta. Nella fessura tra portone e pavimento distinse l'ombra di qualcuno che si muoveva all'esterno, che camminava avanti e indietro: una macchia nera contro l'esile striscia di luce proiettata dal lampione esterno. Uno strano timore lo invase mentre guardava ondeggiare l'ombra. Scacciando la riluttanza, Kerr afferrò la maniglia d'ottone. Strano, era gelida. Nel preciso istante in cui risuonava un altro colpo, lui girò la chiave nella serratura e aprì. Qualcosa cadde sul pavimento della chiesa. Kerr balzò indietro, poi abbassò gli occhi, incredulo, sull'oggetto ai suoi piedi. Guardò fuori, ma non vide nessuno, il che era impossibile. Aveva aperto il portone mentre qualcuno bussava; nessuno avrebbe potuto scappare tanto in fretta da non essere visto. Eppure, non c'era nessuno. C'era soltanto il crocefisso della sacrestia sul pavimento, con gli occhi di Cristo rivolti all'alto soffitto. 9 Billy LeMarque non riusciva a dormire. Non con quello che stava succedendo. Diverse ore prima, sua madre era entrata nella stanza che Billy
divideva con la sorella e aveva messo a letto tutti e due. Poi, invece di uscire, si era avvolta in una coperta, si era sistemata sulla grande sedia nell'angolo e si era addormentata. Adesso parlava nel sonno, da diversi minuti. Affascinato, Billy guardava sua madre che si agitava e borbottava qualcosa che lui non riusciva a sentire. Poi all'improvviso lei si rizzò a sedere di scatto, come se cercasse di distinguere la presenza di qualcun altro nella camera. «Mio Dio», sussurrò Barbara. Corse alla finestra e guardò fuori. Billy si chiese che cosa stesse guardando: non c'era proprio niente, a parte il lago e le caverne. «Dio», ripeté lei, poi si girò verso di lui. «Billy?» «Sì, mamma?» «Devi alzarti, amore. Forza.» Lo aiutò a scendere dal letto, poi andò a svegliare Julie. Billy si sentiva strano, come se fosse imprigionato in una massa di gelatina. Sedette sull'orlo del letto, sfregandosi gli occhi. Sua madre non gli permetteva mai di alzarsi a quell'ora. «Mamma?» «Shh. Parla piano. Dobbiamo andarcene via da qui.» «Dove andiamo?» Barbara lottava con Julie, ancora più addormentata del fratello. «Via. Subito. Prima che sia troppo tardi.» Si girava in continuazione verso la finestra che dava sul lago, come se si aspettasse di veder entrare qualcosa da lì. I suoi occhi sembravano impazziti. Billy non aveva mai visto sua madre così spaventata. «Mamma? Ho paura.» «Ho paura anch'io, amore, ma devi sbrigarti. È successo... È successo qualcosa», disse Barbara. «Non so esattamente cosa, ma ho fatto un sogno, così vivido, Dio, e c'è qualcosa... qualcosa di molto brutto, qualcosa in...» Non terminò la frase. Si immobilizzò e restò in ascolto. L'unico suono erano i passi del padre di Billy, sotto. «Stai fermo lì, Billy», disse lei. «Non muoverti per un minuto. Mamma deve fare una telefonata. Mamma cercherà aiuto.» «E papà?» Ma l'unica risposta di Barbara fu un'occhiata preoccupata alla finestra. In punta di piedi, uscì in corridoio. Billy si infilò la camicia, la sentì comporre un numero. Ci fu un secondo di silenzio, poi suo padre chiamò da sotto e sua madre riappese il ricevitore. «Niente», disse, in risposta a quello che aveva chiesto Gregory. Billy sentì il padre salire le scale. Non capiva le parole, ma la voce di
suo padre era diversa. Rabbrividì. Julie lo guardò con occhi che erano ancora quasi chiusi. All'improvviso, la madre di Billy urlò. «Mio Dio! Gregory, dove hai... Metti giù quella cosa!» Il padre di Billy le rispose in tono basso, minaccioso. Julie emise un gemito. Billy si portò l'indice alle labbra, le fece segno di stare zitta. «Greg, ti prego. Dobbiamo andarcene da qui. Ragiona! Pensa con la tua testa. Non sai quello che stai facendo. Ti prego, lascia andare i bambini. Fai quello che vuoi a me, ma i bambini, Greg, ti prego!» «Mamma!», strillò Julie. «Farà del male a mamma!.» «Zitta! No, non le farà niente», disse Billy, tutt'altro che sicuro. «Dio, ti prego!» urlò sua madre. «No!» Un suono. Un clic metallico. «Scappa, Billy!» urlò Barbara. «Scappa!» Un'esplosione scosse la casa. Julie urlò. Un istante dopo, la porta della camera si spalancò. Il padre apparve sulla soglia. Aveva gli occhi sgranati. Alle sue spalle, Billy vide che la parete del corridoio era schizzata di sangue. Gregory LeMarque alzò il fucile da caccia, appoggiò il calcio alla spalla, puntò l'arma su Billy. Julie urlò. «Papà!» strillò Billy. Suo padre premette il grilletto. 10 Trenta secondi prima, Will Cameron aveva afferrato il telefono dopo il terzo squillo, lo aveva tirato sul letto ed era finalmente riuscito a trovare il ricevitore. «Pronto?» borbottò. Dall'altro capo della linea ci fu un suono. Sembrava una voce femminile, ma non poteva esserne certo. Poi, di colpo, silenzio. «Pronto?» ripeté, sveglio solo a metà. Un attimo dopo, udì il segnale di libero. Will si protese sul letto e rimise a posto l'apparecchio. Probabilmente sono solo dei ragazzi che giocano con il telefono, pensò e si girò su un fianco, intenzionato a riprendere sonno. Solo dei ragazzi. E se invece fosse stato qualcosa di importante? Se la donna, ammesso che fosse una donna, fosse stata interrotta? Be', richiamerà.
Respirò lentamente. La sua mente andò in cerca dei ritmi del sonno. Maledetti ragazzi. 11 Fred Keller si svegliò di colpo, guardò l'orologio e bestemmiò. Il dondolio regolare della barca lo aveva fatto addormentare. Quello e le dodici lattine di birra. E che diavolo, pensò. La giornata è già stata un disastro. Perché non rovinare anche la notte? Uscì dalla cabina e salì sul ponte. L'aria era umida; sull'acqua, verso l'orizzonte, era sospesa una nebbia bassa. A parte le luci della sua imbarcazione, la baia era immersa nel buio. Logico. Chi poteva essere tanto idiota da uscire in mare a quell'ora? Che giornata, pensò, l'ultimo tentativo non era andato meglio dei precedenti. Le reti erano completamente vuote e le trappole per aragoste contenevano solo due granchi rachitici. Che giornata. Si chinò per ritirare l'ancora, guardò in acqua e si bloccò alla vista di un banco di pesci che nuotava velocissimo appena sotto la superficie. Nel chiarore della luna, sembrava un'onda viva. C'era ogni tipo possibile di pesce. Il banco era come un immenso foglio di metallo argenteo che si estendeva a perdita d'occhio in ogni direzione. Tutti i pesci si muovevano nella stessa direzione: scappavano dal Point, andavano verso il mare aperto. Poi, in un lampo, così come erano apparsi, scomparvero. Keller corse a dritta, appena in tempo per poter dare un ultimo sguardo al banco prima che svanisse del tutto. Restò lì a bocca aperta. In tutto il giorno non aveva pescato nemmeno una decina di pesci e adesso quello! Si sentì invadere da una strana apprensione. Aveva imparato sulla propria pelle che tutto ciò che accade in natura ha un motivo. Se vedi i gabbiani volare a stormo verso riva, puoi stare sicuro che sta per scoppiare un grosso temporale. Che cosa poteva significare la fuga improvvisa di tutti i pesci della baia? Nessuno mi crederà mai, pensò Keller. Avesse avuto almeno il buonsenso di lasciare una rete in acqua. Però in fondo non gli dispiaceva troppo. Se non si fosse svegliato proprio in quel momento, non avrebbe mai visto nulla. Aveva l'impressione di essere stato reso partecipe di un segreto che solo il mare conosceva. Si scrollò di dosso l'inerzia. Scese in cabina e accese il motore. No, pensò mentre si dirigeva verso il Point, questo non lo crederà mai nessuno.
Quindici minuti dopo era nei pressi del molo. Lo sorprese vedere che c'era qualcuno. Una donna, se non si sbagliava. E sembrava che... Sì, gli stava facendo cenni di saluto. E indossava solo una camicia da notte! Somigliava un po' a Judith Carlyle, ma da quella distanza era difficile esserne sicuro. Keller spense il motore, saltò sul molo, assicurò con destrezza la gomena. La donna gli si avvicinò, senza parlare. Non sembrava nei guai e non tremava nemmeno, anche se era a piedi nudi sul molo freddo, bagnato. Chissà che cosa voleva. PARTE TERZA La notte del demonio Che può significare questo, Che tu, morto cadavere, di nuovo, tutto in acciaio, Rivisiti così i bagliori della luna, Facendo la notte spaventosa; e che noi zimbelli della natura Così orribilmente scotiamo la nostra fibra Con pensieri di là dai limiti delle nostre anime? WILLIAM SHAKESPEARE, Amleto, I, 4 Faust: Dimmi, ov'è il luogo che gli uomini chiamano inferno? Mefisfofele: ...L'inferno non ha limiti, né è circoscritto In un unico luogo; ma dove noi siamo, là è l'inferno, E ove è l'inferno, là sempre saremo. E, in breve, quando il mondo sarà dissolto, E ogni creatura purificata, dove non sarà cielo sarà inferno. Faust: Io credo l'inferno una favola. Mefistofele: È pensalo dunque, finché l'esperienza non muterà le tue idee.
CHRISTOPHER MARLOWE, Dottor Faust, II, 1 21 La casa dei LeMarque Correva, ma non serviva a niente. Le tenebre lo avvolgevano. E nelle tenebre: occhi. Adesso correva più forte, ma aveva i piedi intirizziti dal freddo. Correva su un grande campo. Aveva paura di fermarsi, paura di girarsi a guardare, perché sapeva che ci sarebbero state le tenebre, pronte a scendere su di lui come un grande uccello nero. Gli occhi della cosa erano su di lui, bruciavano. Sa che sono qui! E la paura tornò, più forte: sapore di metallo in fondo alla gola. Accelerò e all'improvviso cominciò a cadere (freddo, così freddo) e c'erano corde attorno al suo corpo e non riusciva a liberarsi. All'improvviso, tutto divenne lento, tranne le tenebre, le terribili tenebre che urlavano da un cielo grigio. I suoi polmoni soffiavano come montici, ma lui non poteva urlare, perché lo tenebre lo avevano trovato. Entrarono nella sua bocca e gli scesero in gola, soffocandolo... Eric si svegliò di colpo. Sentiva un dolore al petto. Rallentò il ritmo del respiro. Va tutto bene, tutto bene. Solo un incubo, niente di più. Sì, stava bene. Ma stava ricominciando. A un ritmo più veloce di prima. Si girò di fianco, cercò di affondare la testa nel cuscino. Le gambe ebbero una contrazione. «Gesù», gemette, massaggiandosi i muscoli infiammati dei polpacci. Era lo stesso dolore di quando giocava nella squadra di football della scuola. Ripensò al sogno e i battiti del cuore accelerarono. Dove stavo correndo? Dove... (... così freddo, dio fa così freddo, perché non viene qualcuno, qualcuno, per favore aiutatemi...) Si alzò sui gomiti. La voce sembrava molto vicina. Ma nel cottage non c'era nessuno. Nessuno? Guardò verso il lato del letto che Liz aveva occupato. Vide solo un biglietto piegato sul cuscino. Lo aprì. Eric, ho degli appuntamenti. La gente di qui ha l'abitudine di alzarsi presto. Non volevo svegliarti. Sei molto carino, con i capelli arruffati. Ci ve-
diamo più tardi. Liz. Appoggiò i piedi sul pavimento. Il dolore alle gambe stava diminuendo gradualmente. Se Liz non c'era, chi aveva parlato? Era sicuro di avere sentito qualcuno: con le orecchie, o forse con la mente, come se chi parlava avesse una linea diretta col suo cervello. La voce gli aveva trasmesso la sensazione di qualcuno in preda all'angoscia. Qualcuno che sentiva un freddo tremendo. Chiuse gli occhi, tentò di identificare la provenienza della voce, ma ormai non c'era più nulla. Gli restava solo una debole eco nella mente, un senso di urgenza che gli correva tra le circonvoluzioni del cervello; un'ombra che stava già scivolando nell'oblio. Si sfregò gli occhi. L'incubo e l'inquietante sensazione di un contatto mentale erano un epilogo del tutto indegno per la notte precedente. Da molto tempo non osava più dividere il letto con una donna, però la sera prima era stato diverso. Desiderava Liz, sentiva buone vibrazioni. Ma aveva anche paura. Voleva essere certo che lei lo desiderasse di sua spontanea volontà. In passato, aveva scoperto di saper essere molto convincente, se ci si metteva. Ogni tanto si era chiesto se il merito non fosse del suo talento (ammesso che lo si potesse chiamare così), ma non ci aveva mai riflettuto molto. Forse non voleva sapere. La sera prima, però, il contatto con Ray Price era stato così forte, così innegabile, da rendere impossibile ogni dubbio. Aveva pagato quello sforzo con un'emicrania e con un senso di nervosa euforia. Se era in grado di influenzare l'altra gente con tanta facilità, a che cosa sarebbe potuto arrivare, mettendosi d'impegno? Specialmente adesso. Il sospetto, l'idea che i suoi poteri potessero crescere ritornando nel posto dove tutto era cominciato, si stava dimostrando fondato. La prospettiva era eccitante e al tempo stesso terrificante. Si alzò, si stirò, rabbrividì un poco per il freddo del cottage. Si mise una vestaglia, andò alla finestra e scostò le tende quel tanto che bastava per guardare fuori. Mentre lui dormiva, era successo qualcosa. Sotto un cielo grigio di nubi, il litorale sembrava identico a prima. Tutto, apparentemente, era come era sempre stato; eppure non lo era. Dovette fare uno forzo per mettere a fuoco la vista, come se su tutto fosse sovraimpressa un'immagine in negativo. Dopo qualche istante, riuscì finalmente a
eliminarla; se muoveva gli occhi troppo in fretta, però, vedeva ancora il cambiamento, come un lampo sulla retina. Il suo stomaco sussultò, gli diede la nausea, di fronte a quella verità indiscutibile: al Point era successo qualcosa. La sua mente rifiutava l'idea che potesse accadere qualcosa di tanto enorme da provocare un cambiamento visibile addirittura nel paesaggio. Eppure, l'immagine che gli occhi gli presentavano era una prova innegabile. Adesso esistevano due diversi Point che lottavano per la supremazia: uno oscuro, uno luminoso. E la sensazione che avvertì fu la stessa che aveva provato la prima sera, quando aveva lasciato vagare i pensieri nella città ed era stato respinto dalle caverne. «Maledizione», borbottò. Era un idiota. Si era sempre detto che tornare lì era una specie di viaggio turistico, una ricerca del suo passato. Ma non era così; non aveva voluto ammettere la verità. Lo avevano ritrovato nelle caverne. Suo padre gli aveva detto di stare attento alle caverne e lui se n'era andato. Adesso era tornato e le evitava ancora. Ne aveva paura come tanto tempo prima. Era davvero un idiota. E aveva aspettato abbastanza. Guardò l'orologio sul comodino. Le otto. Ancora presto. Prima cosa da fare, una doccia veloce. Poi aveva un appuntamento con le caverne indiane. 2 Alle 8.15, Sam Crawford tolse un panino dal tostapane. Dato che aveva fretta, decise di lasciarlo raffreddare un po' mentre finiva di vestirsi e di mangiarlo mentre guidava. La sveglia, come sempre, aveva suonato due ore prima, ma invece di alzarsi lui l'aveva spenta e si era rimesso a dormire, cosa che in genere faceva solo dopo una bevuta. Il guaio era che ormai da un anno non beveva più di una birra ogni tanto, eppure in quel momento avvertiva tutti i postumi della sbronza. Era stanco, confuso; gli sembrava di avere il cervello imbottito di cotone. Probabilmente era solo una reazione all'eccitazione per la scoperta del giorno prima, pensò. La sua attesa era quasi finita. Non doveva fare altro che recuperare la macchina fotografica nella nicchia della caverna e poi partire per l'università.
Era impaziente di vedere le facce dei colleghi quando avrebbe mostrato loro la sua ultima scoperta. 3 Il dottor Will Cameron controllò il calendario e fu un sollievo scoprire che lo attendeva una giornata leggera: le solite visite a domicilio, nessuna delle quali gli imponeva di rispettare degli orari precisi. Non si sentiva in vena di appuntamenti. Per la verità, non aveva voglia di fare niente. Ma a dire quelle cose era la voce della pensione e lui l'aveva sempre ascoltata ancora meno di quanto ascoltasse sua moglie. Prese l'agenda degli appuntamenti e trascrisse le informazioni. Si fermò a riflettere prima di infilare l'agenda in tasca. Non sarebbe stato male dare un colpo di telefono a Greg LeMarque, per accertarsi che non si fosse dimenticato dell'appuntamento di Barbara. E poi era curioso di sapere se Barbara aveva avuto altri sogni. Per amor del cielo, non sei suo padre, pensò. Poi si ricordò come si era comportato Greg il giorno prima, il tono che aveva assunto con Barbara. No, non era il padre di Barbara; era il suo medico e dal suo punto di vista era quasi lo stesso. Prese il telefono e compose il numero. Occorse un po' di tempo per avere la linea e quando la ebbe, sentì squilli strani, come se stesse chiamando in interurbana. Aspettò, contando gli squilli. Niente. Will guardò l'orologio. Le otto e trenta. A quell'ora, in casa doveva esserci qualcuno. Forse erano già andati in ospedale per gli ultimi esami. Chiamò l'ospedale. L'impiegata gli confermò che il medico che lui aveva raccomandato per Barbara sarebbe arrivato solo all'una. Ringraziò, riappese e riprovò a chiamare la casa dei LeMarque. Ancora nessuna risposta. Tamburellò con le dita sulla scrivania. Era più che probabile che si stesse preoccupando troppo. Non aveva motivo di sospettare che fosse accaduto qualcosa, però Barbara si trovava in uno stato molto delicato e Greg sembrava del tutto insensibile. Certo quello non era l'ambiente migliore per Barbara. Gli tornò alla mente la scena del giorno prima: i bambini che si nascondevano, Barbara in preda al panico al piano di sopra... All'inferno. Prese portafoglio e chiavi dell'auto e si avviò alla porta. Lungo la strada si sarebbe fermato da Betsy Goodall per una visita. Significava allungare il giro, ma se non altro si sarebbe calmato un po'.
4 «Troppo presto per lei, eh?» urlò Thaddeus Smith sopra il rombo del motore del camioncino. Liz scosse la testa. «Stavo pensando.» La verità era che avrebbe dato tutto per dieci minuti di sonno. A differenza di tutti i postini con un po' di sale in zucca, Thaddeus cominciava i suoi giri alle sei del mattino e se lei voleva scoprire il suo punto di vista sul Point doveva stare a quegli orari. Fino ad allora le cose erano andate bene (Thaddeus dava del tu a tutti e le aveva presentato un'infinità di persone, spianandole la strada per future interviste), però lei faceva una fatica tremenda a tenere gli occhi aperti. Quando il camioncino non centrava una buca, cosa che secondo lei accadeva troppo spesso per essere una semplice coincidenza, il ronzio monotono del motore la faceva piombare in uno stato di dormiveglia. Quasi rimpiangeva di non essersi addormentata prima, la sera, ma ne era valsa la pena. Le venne da sorridere. Eric era stato perfetto come sperava. Sorprendentemente forte, ma dolce, tenero. Fra le sue braccia, Liz si era sentita al sicuro come mai in vita sua. «Ehi, guardi un po' là», disse Thaddeus, indicandole i moli lungo la riva. Lei puntò gli occhi in lontananza, verso il lago. «Non vedo niente.» «Più avanti. Là.» Liz seguì l'indice del postino finché non intravvide vagamente la sagoma del traghetto che si allontanava nella nebbia del primo mattino. «E con ciò?» «A quest'ora il traghetto dovrebbe arrivare, non partire.» Thaddeus scrollò le spalle. «Henry passerà l'inferno per il ritardo, poco ma sicuro. La gente deve andare a lavorare. Be', quasi tutti, a parte gli scrittori.» A Liz vennero in mente diverse risposte, ma le ricacciò indietro. Per il momento. Ti dedicherò un intero capitolo, decise quando centrarono un'altra buca. Postino killer fa strage in un villaggio. Thaddeus lanciò un'ultima occhiata al traghetto. «Sì, sembra proprio che oggi siano quasi tutti in ritardo. Tutti a parte Thaddeus Smith», aggiunse, strizzando l'occhio a Liz. La mattinata si annunciava lunga. 5
«Porca miseria, Ray! È il secondo giorno di fila.» Ray si bloccò a metà dell'ufficio. Si era aspettato un po' di guai per il ritardo, ma l'intensità della reazione di Tom lo sorprese. «Sono solo quindici minuti.» L'orologio alla parete segnava le otto e quarantacinque. «Non è questo il punto. Sei arrivato in ritardo ieri e oggi. Non mi importa se sono quindici minuti o cinque! È una questione di atteggiamento e non credo che il tuo vada bene per questo ufficio. Se non cominci ad arrivare puntuale, forse ti conviene pensare a un altro tipo di lavoro. Chiaro?» Ray grugnì. Non era nello stato d'animo adatto per sorbirsi le prediche di Tom, ma se c'era di mezzo il lavoro non avrebbe certo fatto discussioni. «Bene. Hai dei rapporti da finire. Ti consiglio di cominciare.» Ray si tolse la giacca e la sistemò sull'attaccapanni dietro la porta, prima di sedere alla scrivania. Tom si mise a sfogliare le carte che aveva davanti con aria truce, rabbiosa. Se va avanti così gli verrà l'ulcera, pensò Ray. Strano. Di solito, Tom era il poliziotto più controllato che lui avesse mai visto. Doveva avere delle rogne. Non che ciò lo giustificasse. Dopo tutto, anche Ray aveva i suoi problemi. Si sentiva ancora avvampare al ricordo di quel vagabondo che lo fissava in quel certo modo davanti alla chiesa. La prossima volta che se lo fosse trovato fra i piedi, avrebbe pareggiato i conti. Squillò il telefono. Tom alzò il ricevitore. «Sì? Sì, George, ci sto lavorando», disse, con il tono che riservava al sindaco. «Senti, ti ho detto che sarà pronto per la riunione e sarà pronto. Però puoi scommetterci la camicia che non ce la farò, se tu continui a rompermi le scatole.» Restò in ascolto un momento. «Allora ti suggerisco di trovarti un ragioniere, non un poliziotto, perché ho cose più importanti da fare che occuparmi di cartacce. Devo...» Si interruppe, inspirò profondamente. «Okay, scusa lo sfogo. Senti, George, te lo prometto. Appena il preventivo sarà pronto, sarai il primo a vederlo. Sì. Okay. Ciao.» Tom riappese. «Ray», disse, scuotendo la testa, «hai mai la sensazione che tutta la maledetta città, me compreso, dovrebbe passare al caffé decaffeinato?» Ray si concesse una risatina. Ecco il Tom che conosceva. Adesso poteva solo sperare che il resto della giornata non andasse male come era cominciata. 6
Eric percorreva la stretta strada per le caverne. Ogni volta che intravedeva la grande bocca nera, rabbrividiva involontariamente. Ciò che non riusciva a capire erano le sue reazioni di fronte ad alcune case che aveva superato. Notò i nomi sulle cassette della posta di due abitazioni. Su una cassetta bianca, era scritto a lettere nere il cognome SIMMONS. Poco più avanti, su una cassetta a forma di ciocco di legno, spiccava a caratteri svolazzanti il nome J. CARLYLE. Eric non aveva ricordi sgradevoli legati a quei nomi, però lo turbavano come le case stesse: avvertiva un improvviso intensificarsi dell'immagine negativa che si manifestava ancora nella sua mente. Non aveva nessuna voglia di fermarsi a indagare; anzi, provava il desiderio di allontanarsi il più possibile. Premette l'acceleratore, incapace di soffocare un senso di urgenza sempre più forte. 7 Sam raggiunse l'ingresso delle caverne poco dopo le otto e trenta. Si fermò a prendere fiato, poi entrò nel buio... E un'ondata di panico gli catturò il cervello. Fu come un maglio incandescente scagliato in mezzo agli occhi. Sam barcollò all'indietro e urlò, alzò le mani per proteggersi dal colpo successivo. Ma il colpo arrivò e lui cadde. Gli erano attorno. Dappertutto. Cose che si muovevano fra le ombre davanti a lui. Cose senza volto, senza occhi, eppure lo guardavano. Guardavano direttamente lui. Si muovevano e al loro passaggio le pietre urlavano. Si stavano precipitando su di lui attraverso le pareti. Sentì le pareti muoversi, piegarsi, accartocciarsi sotto pugni scuri che picchiavano, picchiavano... Le pareti? Crollavano. Una frana? Una frana! Si alzò in piedi, barcollò, tentò di fuggire, ma adesso c'erano cose che gli si arrampicavano su per le gambe, insetti lunghi, marroni, con le mandibole in continuo movimento e all'improvviso i vermi cominciarono a divorargli gli occhi, la bocca, cercarono di entrare in lui... «No!» urlò Sam, tentando di scrollarsi di dosso le cose, ma erano dappertutto. L'unica via di scampo era una ritirata a carponi, verso l'imbocca-
tura della caverna, verso il sentiero, che cercò con disperata frenesia. Dio, fammelo trovare, lasciami uscire da qui! Un attimo dopo, precipitava. Il cielo ruotava sopra di lui e il terreno gli correva incontro. Ogni particolare restò impresso nella sua mente: le nuvole, il terreno sotto, le rocce, qualcuno che scendeva da un'automobile e lo guardava cadere, qualcuno che gli sembrava familiare. Ma prima di poter completare il pensiero, Sam sbatté violentemente contro una sporgenza di roccia e tutto divenne grigio, poi nero e il mondo scomparve. 8 Alle 9.15, Will Cameron si fermò davanti alla casa dei LeMarque. La loro giardinetta era parcheggiata sul sentiero. La casa muta. Niente si muoveva sulla strada. A Will non piacque il silenzio della casa: l'altra volta, quella quiete aveva annunciato uno spettacolo orrendo! Non fare l'idiota, si disse. La valigetta in mano, traversò il cortile verso il portico. Probabilmente, dopo i traumi del giorno prima stavano ancora tutti dormendo. Gregory avrebbe fatto una scenata anche peggiore di quella che lui prevedeva già. Ragione di più per andarsene e magari tornare più tardi. Raggiunse la casa, aprì la zanzariera e bussò due volte. Passò un minuto senza che ci fosse risposta. Bussò di nuovo, più forte. Ancora niente. No, non un'altra volta, pensò, addolorato. A malincuore, provò la maniglia della porta d'ingresso. Non era chiusa a chiave. Aprì la porta. «Barbara? Greg? C'è nessuno?» Silenzio. Un odore strano ma familiare gli giunse alle narici e in un attimo fu di nuovo in Corea, dove si era trovato più volte di fronte a cadaveri di uomini dispersi da parecchi giorni. Cristo, pensò, e sentì le ginocchia cedere. Dio, ti prego, no. Il pianterreno era deserto. Arrivò alla scala, cercò il sostegno della ringhiera e salì lentamente. A un metro e mezzo dal pianerottolo vide una mano sull'ultimo gradino. Una mano di donna. Ancora più lentamente, superò lo spazio che restava, studiò il lungo corridoio in cerca del minimo movimento. L'unico segno della tragedia che si era consumata nella casa era il corpo di Barbara LeMarque. Era riversa sulla moquette, la mano sinistra ripiegata sotto il petto. Non aveva più metà del viso. L'occhio rimasto intatto lo fissava con aria d'accusa. Perché non c'eri quando avevamo
bisogno di te? Will si chinò sulla ringhiera. Aveva in gola il sapore della bile. Inutile cercare segni di vita: Barbara era morta da diverse ore, come minimo. Poi: i bambini! Aggirò le gambe di Barbara e proseguì lungo il corridoio, verso la camera dei bambini. La porta era socchiusa. E sui due lati della porta, sangue. C'era altro sangue sulla parete e sulla scala che portava al solaio. Attento a non toccare la maniglia (le impronte digitali, gli disse la piccola parte della mente ancora razionale), Will infilò la testa nella camera e guardò dentro. Un gemito gli uscì dalle labbra alla vista di Billy e Julie, fianco a fianco su un letto inondato di sangue. Il viso di Julie era sepolto fra le braccia di Billy. Forse la piccola aveva cercato rifugio lì prima che sparassero anche a lei. Will si allontanò barcollando e si ritrovò di fronte al cadavere di Barbara, a quell'unico occhio che lo accusava. Sei stata tu a chiamare stanotte, Barbara? Stavi cercando di metterti in contatto con me, di chiedere aiuto? Sapevi che cosa sarebbe successo? Ma dalle labbra blu, immobili, non venne alcuna risposta. «Bastardo», disse Will, ad alta voce. «Porco schifoso bastardo.» Si rese conto di non avere ancora trovato né Gregory LeMarque, né l'assassino. L'omicida poteva ancora essere in casa. E poteva essere Gregory. Esci dalla casa! Gli stava urlando la parte razionale della mente. È ancora qui. Deve essere qui. Cristo santo, esci! No. Non ancora. Stringendo i pugni sino a farsi male, raggiunse il telefono in corridoio. Funzionava. Se ne sarebbe andato, sì, dopo aver chiesto a Tom di arrivare lì il più in fretta possibile. 9 Il crocefisso della sacrestia era appoggiato alla spalliera del divano, nello studio di Duncan Kerr. Kerr continuò a studiarlo dalla scrivania. Aveva passato quasi tutta la notte a fissarlo e alla fine era riuscito ad addormentarsi. Un'ora prima, senza avere quasi neppure toccato la colazione, era tornato lì, al suo studio, al crocefisso, alle domande che lo assillavano. Era un uomo logico; ne andava orgoglioso. E sì, credeva in Dio. Senza riserve. Però il soprannaturale era tutt'altra questione, no? In base alla sua
esperienza, chi praticava le cosiddette arti occulte era pericoloso quanto un qualunque radicale. Lasciati in pace, erano in genere tipi tranquilli. Esisteva anche Satana, su quello la Bibbia era molto chiara. Personalmente, però, Kerr aveva sempre creduto che Satana fosse più una metafora che un essere soprannaturale. Il concetto di un demone cornuto che tendeva agguati al genere umano era difficile da accettare. Persino la Chiesa, già dal dodicesimo secolo, aveva considerato la maggior parte dei casi di manifestazioni di spiriti o potenze soprannaturali come sintomi di disturbi psicologici. Ma restava sempre un punto: solo la maggior parte. Vero, i riti della Chiesa comprendevano anche gli esorcismi. Vero, a volte erano stati usati. Ma come molti sacerdoti, lui riteneva che il loro valore fosse più terapeutico che spirituale. Se una persona credeva nella possessione e credeva che un certo rito l'avrebbe guarita, il rito avrebbe funzionato a prescindere da quale fosse in realtà la causa del disturbo. Kerr pensava che il mondo, come la Trinità stessa, si componesse di tre parti: Dio, l'uomo e il male; e che molto spesso proprio l'uomo fosse il peggior nemico di se stesso. O la sua era solo ipocrisia? Negli ultimi tempi, credere in Dio era diventato di moda, mentre lo era di meno credere ai demoni. Persino gli evangelici sprecavano più tempo a mettere in guardia contro gli uomini del partito democratico che contro i demoni. Poteva darsi che la sua riluttanza ad affrontare ciò che sembrava tanto evidente fosse solo il timore di apparire antiquato? Fissò il crocefisso. Per quanto cercasse approcci diversi al problema, le risposte andavano sempre in direzioni che lo facevano sentire a disagio. Era un uomo logico, ma i fatti non gli offrivano soluzioni logiche. Uno: la notte prima, la porta della sacrestia era chiusa a chiave. L'unica chiave era in suo possesso e le finestre non erano state forzate. Dalla stanza non mancava nient'altro. Eppure il crocefisso, che pesava quasi nove chili, era stato spostato in un altro locale. Due: dopo aver chiuso la porta della sacrestia, aveva fatto il giro della navata della chiesa. Aveva tenuto sempre sotto controllo la porta. Nessuno avrebbe potuto sgattaiolare via senza essere visto, tanto meno con una croce di nove chili. Tre: nessuno poteva bussare al portone della chiesa e scappare senza essere visto nell'esatto secondo in cui lui aveva aperto. La facciata della chiesa si estendeva per una dozzina di metri su entrambi i lati del portone,
ed era ben illuminata. Quattro: c'erano state altre cose. Il crocefisso caduto (no, scaraventato) a terra le notti precedenti, quando la porta della sacrestia era chiusa a chiave; frequenti e inesplicabili avarie di diversi impianti; e ultimamente nella chiesa si respirava un'atmosfera opprimente. Perfino la signora Graham ne risentiva. Cinque: da due giorni trovava l'acqua santa in sacrestia ghiacciata, mentre una ciotola di acqua normale in una stanza attigua era rimasta intatta. Giocherellò con i fogli di carta che aveva sulla scrivania, incerto su come procedere. Non gli era mai successo niente del genere. Poteva consultarsi con il vescovo, ma preferiva tenere di riserva quella possibilità. Nel frattempo, avrebbe continuato a cercare una soluzione logica. Avrebbe consultato i progetti della chiesa, nel caso ci fossero altri accessi di cui non era al corrente. Era sempre possibile che esistesse un'altra spiegazione del tutto prosaica che lui aveva trascurato. Il suo sguardo tornò al massiccio crocefisso , al Cristo che lo guardava con gli occhi socchiusi. Forse non c'è nessun'altra spiegazione. 10 Tom Crandall correva sulla Old Lake Road a sirene spiegate. Non riusciva a credere a quello che era successo. Se gli avesse telefonato qualcun altro, ma Will... Povera Barbara. Poveri bambini. Tom era preoccupato per l'effetto che la notizia avrebbe avuto sulla città. Cose del genere non succedevano, al Point. A New York e a Chicago, forse. Ma non lì. Non mentre lui era il capo della polizia. E c'era da pensare anche a Will. Non appena ricevuta la telefonata, Tom gli aveva detto di scappare a gambe levate: impossibile prevedere se e quando l'assassino sarebbe tornato. L'assassino. Chiunque fosse. Però lui lo avrebbe scoperto, quello era certo. Serrando le labbra, superò una doppia curva, nel punto in cui la strada girava attorno a Indian Lake. Poi: qualcuno sulla strada! Tom schiacciò i freni. L'auto si fermò a pochi metri dalle due figure. Il primo era il nuovo arrivato, Eric. Il secondo era Sam Crawford, svenuto sul terreno a fianco di Eric. Erano spuntati da un gruppo di alberi mentre lui completava la curva. Un secondo più tardi e li avrebbe centrati in pieno.
Saltò fuori dall'auto e corse da Sam. «Che cos'è successo?» Si inginocchiò davanti a Sam, controllò gli occhi. Dilatati. Il viso e le mani di Sam erano coperti di graffi e contusioni che stavano già diventando di un rosso accesso per la rottura dei capillari. Il braccio era tutto storto. «È caduto», disse Eric. «È uscito di corsa dalle caverne ed è precipitato. È scivolato lungo il pendio. Buon per lui che non è caduto nel vuoto, o ci avrebbe rimesso la pelle.» «Dobbiamo portarlo da un dottore. Mi dia una mano.» Sollevarono Sam con tutta la cautela possibile e lo adagiarono sul sedile posteriore dell'auto della polizia. Mentre chiudeva la portiera Tom notò i graffi sul viso e sulle braccia di Eric, graffi che poteva essersi provocato trascinando Sam fra i cespugli. Però... «Sarà meglio che venga con me», gli disse. «Dovrà aiutarmi a compilare il rapporto.» «Ma la mia auto...» «Manderò qualcuno a prenderla più tardi.» Riluttante, Eric salì. La macchina ripartì ancora prima che lui avesse chiuso la portiera. Tom prese il microfono della radio. «Ray, sono Tom. Il coroner sta già andando dai LeMarque?» La radio gracidò. «Affermativo.» «Manda anche un'ambulanza. Sam è ferito.» Un secondo di pausa, mentre Ray incassava la notizia. «Gesù. È conciato male?» «Abbastanza. Ti richiamo appena arrivo dai LeMarque.» Tom riagganciò il microfono. «Grazie a Dio, forse Will è ancora là. È l'unico lato positivo.» «È successo qualcosa», disse Eric. Tom strinse le mani sul volante. Eric lo aveva detto col tono di chi fa un'affermazione, più che una domanda. Per qualche motivo che gli sfuggiva, l'idea lo turbava. «Sì, è successo qualcosa. Scoprirà presto che cosa. Come diceva mio padre, stiamo correndo a testa bassa verso i guai e i guai ci verranno incontro a mezza strada.» 11 Sull'altro lato del Point, Thaddeus Smith si protese sul retro del suo ca-
mioncino e prese la posta per quella fermata. Solo poche lettere, una circolare della chiesa e il sollecito per il rinnovo dell'abbonamento a People. Sulla cassetta della posta c'era scritto SIMMONS. «Bud Simmons, il lattaio», spiegò Thaddeus, mentre Liz trascriveva l'informazione. «Sua moglie, Beth, è cresciuta anche lei da queste parti. Come la signora Dunkle.» «Il lattaio. Una bella macchia di colore locale. Me lo può presentare?» «Starà facendo il suo giro, ma se vuole, controllo.» Lei gli sorrise. «Molto gentile, grazie.» Thaddeus si avviò alla porta dei Simmons. Salì sul portico, alzò la mano per bussare ed esitò. All'improvviso, provava un acuto senso di disagio. La casa era in silenzio, le persiane chiuse. Sembrava non ci fosse nessuno. Eppure, non riusciva a scrollarsi di dosso l'impressione che lo stessero osservando. Si girò a guardare Liz, sorrise e bussò. Pianissimo. Non ci fu risposta. Thaddeus fece per andarsene, poi si fermò ad ascoltare. Avrebbe giurato di avere sentito un rumore da dentro. «Signora Simmons? Salve. Sono il postino.» Tentò di sembrare allegro, ma il tono della sua voce parve svanire ancora prima di avere toccato la parete. Dall'interno: «Lasci nella cassetta». La voce era bassa, ma apparteneva senz'altro a Beth. Comunque, aveva qualcosa che diede i brividi a Thaddeus. «C'è Bud? Ho qui qualcuno che vorrebbe conoscerlo.» «No.» Di nuovo, lo strano timbro di voce. «Sta bene, Beth? Posso fare qualcosa?» «No.» Adesso il tono era più insistente. «D'accordo. Lascerò la posta nella cassetta.» Quando non ci fu risposta, Thaddeus scrollò le spalle e si avviò. Raggiunse la cassetta, mise dentro la posta e tornò sul camioncino. La scrittrice dormiva come un ghiro. Tipico, pensò e ripartì. 12 Tom Crandall fermò davanti alla casa dei LeMarque. Will era seduto sul portico, ma non appena vide arrivare l'auto della polizia corse loro incontro.
«C'è qualcuno che ha bisogno del tuo aiuto», disse Tom e spalancò la portiera posteriore. Will sobbalzò riconoscendo Sam. Si mise immediatamente al lavoro. «Dove lo hai trovato?» Tom gli spiegò in fretta i particolari, poi piegò la testa in direzione della casa. «Hai toccato qualcosa?» «Niente. Hai chiamato un'ambulanza?» «Dovrebbe essere qui a minuti. Intanto controllerò la famiglia. Non è uscito nessuno da quando sei qui?» «La gente che sta lì dentro non andrà più da nessuna parte. Vai pure. Se non altro, io qui servo a qualcosa.» Tom si avviò verso la casa, poi si accorse che Eric lo seguiva. «Meglio che resti fuori. La faccenda è di competenza della polizia. E poi può darsi che Will abbia bisogno d'aiuto.» «A me sembra che abbia la situazione in pugno», ribatté Eric. La sua espressione intensa mise Tom a disagio. «Credo che lei non dovrebbe entrare da solo.» Tom si sottrasse allo sguardo dell'altro. Per quanto odiasse ammetterlo, Eric non aveva tutti i torti. Lì dentro c'erano almeno tre cadaveri, nessun indizio su dove potessero essere finiti Greg o l'assassino e l'idea di entrare senza qualcuno che gli coprisse le spalle non gli piaceva troppo. «Si consideri momentaneamente arruolato nella polizia», disse. «Però tenga le mani dove le posso vedere, non tocchi niente e se si muove qualcosa che non dovrebbe muoversi, si tolga dai piedi, chiaro?» Non ci fu risposta. Tom lanciò un'occhiata a Eric e scoprì che stava fissando la casa con un'aria stupefatta, come se l'avesse appena riconosciuta. «Mi sente?» gli chiese. Eric mise a fuoco lo sguardo. «La sento. Farò quello che vuole. Il capo è lei.» Tom salì sul portico. Aprì la zanzariera dall'alto, per non cancellare eventuali impronte sulla maniglia. L'odore lo colpì immediatamente. Will gli aveva spiegato dove si trovavano i cadaveri, ma controllò lo stesso le stanze a pianterreno, per sicurezza. Le trovò deserte. Prese a salire la scala. Eric lo seguì in silenzio. La scena sul pianerottolo era terribile come l'aveva descritta Will. Guardò nella camera da letto dei bambini e gli venne voglia di vomitare. Cristo. Si girò sulla soglia, vide Eric che fissava pensoso il corpo di Barbara LeMarque, come se stesse riflettendo su qualcosa che la donna gli aveva ap-
pena detto. Serio in volto, Eric distolse gli occhi dal cadavere, li posò per un attimo su Tom, che avvertì una gelida profondità in quello sguardo, poi guardò in fondo al corridoio, dove una scala portava al solaio. «È lassù» disse. «Chi?» «L'assassino.» «Come lo sa?» Eric scrollò le spalle. «Lo so e basta.» Tom archiviò nella mente quella frase. Uno strano commento, anche se le macchie di sangue sulla scala portavano a quella conclusione. Ed era molto sensato controllare l'intera casa prima di presumere che non ci fossero rischi. Afferrò l'ultimo piolo della scala retrattile e tirò. La molla doveva essere vecchia, perché la scala scese di scatto sul pavimento con un colpo secco. Tom sobbalzò, imprecò sottovoce. Ma Eric era perso nei suoi pensieri. Guardava la parete sporca di sangue con la testa piegata sulla spalla, come se ascoltasse chissà che cosa. Quel tizio ha qualcosa che non va, decise Tom. In guerra aveva visto molte reazioni alla morte, ma mai niente del genere. Sistemò un attimo la scala e cominciò a salire. Raggiunse la botola e spinse. Incontrò resistenza. Non era chiusa a chiave, ma c'era qualcosa che la bloccava. Spinse più forte e il peso rotolò via. Tom sollevò la botola. La sua mano destra non lasciò mai il calcio della pistola. Da lì non si vedeva niente; il solaio sembrava deserto. Scatole e giocattoli rotti erano ammucchiati in pile disordinate sui tre lati che poteva vedere. Nella lunga stanza aleggiava un odore pungente di polvere, materiale isolante e legno vecchio. Quando la sua testa spuntò oltre il livello del pavimento, Tom si girò a guardare dal quarto lato. Sussultò e per poco non perse l'equilibrio. Dietro la botola c'era un corpo accasciato sul pavimento. I vestiti erano del tipo che di solito portava Greg. A pochi centimetri dalla mano destra, un fucile da caccia e una scatola di munizioni. Tom si fece avanti cercò di distinguere il viso nella luce fioca che entrava in solaio da una finestra aperta. Sì, era Greg. Riconobbe la faccia, anche se la gola non c'era più. Da quanto poteva capire, Greg doveva essersi infilato la canna del fucile sotto il mento, leggermente rivolta verso l'alto e poi aveva premuto il grilletto. Oppure lo aveva premuto qualcun altro. Si accorse che la canna era coperta di sangue. Salito del tutto nel solaio,
Tom si spostò dal cadavere alla finestra, che guardava su Indian Lake e sulle caverne più avanti. Eric sapeva. O aveva indovinato. Comunque, aveva centrato il bersaglio. Era davvero tutto lì? Il fatto che Greg fosse caduto proprio sulla botola sembrava scagionarlo. Sarebbe stato difficile per chiunque sistemare il cadavere lì prima di scendere la scala. A meno che quel chiunque non fosse uscito dalla finestra. Tom guardò fuori. Sulla sinistra, non molto lontano, sporgeva un'ala del tetto del primo piano. Forse una persona sufficientemente agile sarebbe riuscita a raggiungerla senza troppi problemi. Esistevano due sole alternative: omicidio, o omicidio-suicidio. La seconda era molto comoda. Quasi comoda quanto il fatto che Eric si fosse trovato in zona quando era successo l'incidente a Sam... Se era stato un incidente. Era tutto molto strano. La reazione di Eric alla vista della casa. Nei suoi occhi c'era stata sorpresa e choc. Perché? Poi il suo modo di guardare il corpo di Barbara. La sua insolita calma. E un'altra cosa, la più importante. Eric non si era limitato a dire che in solaio c'era qualcuno. Aveva detto che c'era l'assassino. Troppe coincidenza. Troppe. Tom tornò alla botola mentre la sirena di un'ambulanza spezzava il silenzio del mattino. 13 Eric attraversò il soggiorno dei LeMarque. Si appoggiò alla finestra, in cerca di luce, di aria, di sostegno; di qualunque cosa non facesse parte dell'atmosfera che si respirava dentro. Ma l'aria non riusciva a passare tra le maglie della zanzariera, come se il mondo esterno non volesse entrare nella casa. La sua casa. Gli era bastato un attimo per riconoscerla, ma dopo la prima occhiata, ne era stato più che certo. Quella era la casa dove aveva trascorso i primi otto anni di vita. No, pensò, non è esatto. La struttura, la facciata, la pianta: tutte quelle cose erano identiche, sì. Però la casa era diversa. Era cambiata. Un male oscuro si era infiltrato tra le pareti. Rientrava tutto nella logica generale? Era quella la chiave? La cosa che aveva cambiato il Point si era spinta lì, in cerca di lui? Di suo padre? Della sua famiglia? E invece aveva
trovato un'altra famiglia? Sino ad allora, aveva pensato che quello che c'era di sbagliato al Point riguardasse le caverne. Adesso, invece, cominciava a chiedersi se l'epicentro del problema non fosse il Point stesso. 14 Ray scese dall'auto mentre l'ambulanza ripartiva dalla casa dei LeMarque. Guai. Soltanto guai. Trovò Tom sul portico, che guardava l'assistente del coroner che fotografava tutto. Alla base dei gradini del portico era già stata stesa una sottile striscia di plastica gialla che diceva INDAGINI DI POLIZIA - VIETATO L'INGRESSO. Per il momento, le persone che si erano raccolte più in giù sulla strada erano poche e Ray dubitava che volessero avvicinarsi maggiormente. Raggiunse Tom, che annuì con aria truce mentre un cadavere coperto da un lenzuolo verde veniva portato via su una barella. Il nuovo arrivato, Eric, era a qualche metro di distanza. Girato di schiena, guardava gli alberi attorno alla casa. «Non ricordo di avere chiesto rinforzi», disse Tom. Ray scrollò le spalle. «Ho pensato che potesse servirti una mano. In ufficio non c'era molto da fare. Ho già telefonato a tutti. Il sindaco sta preparando un comunicato e così ho pensato...» Tom bloccò il resto delle spiegazioni con un cenno della mano. «Sì, lo so. Forse hai fatto la cosa giusta, dopotutto.» «È saltato fuori qualcosa?» «Può darsi. Stammi vicino», rispose Tom, mentre Eric tornava verso di loro. Ray fu sorpreso di vederlo così pallido. «Abbiamo finito?» «Per il momento, sì», disse Tom. «Bene. Senta, lo so che è nei guai fino al collo, ma se lei o qualcun altro poteste darmi un passaggio fino alla mia auto...» «Va da qualche parte in particolare?» chiese Tom, a voce bassa. Il cuore di Ray accelerò i battiti. Sì, stava succedendo qualcosa. Forse il nuovo arrivato colse quel tono, perché si irrigidì. «No. Ho solo delle commissioni da sbrigare. Obiezioni?» «Temo di sì, signor Matthews. Un paio d'ore fa, lei era sul posto quando uno degli abitanti del Point ha avuto un incidente e adesso è qui e in en-
trambi i casi mi ha dato l'impressione di saperne di più di quanto dicesse. Di sicuro più di quanto dovrebbe saperne su quello che è successo qui.» «È stato un omicidio-suicidio», disse Eric. «Può darsi. E probabilmente esistono ottimi motivi per spiegare come mai lei si trovasse nel posto sbagliato al momento sbagliato e come facesse a sapere cose di cui non poteva sapere niente. Ma finché non avrò delle risposte, devo essere in grado di controllare ogni suo movimento e c'è un solo modo per farlo.» Il viso di Eric si incupì. «Non è necessario. Non ho niente a che fare con questo.» La sua voce era bassa, intensa, concentrata su ogni parola. Tesa. Ray si trovò d'accordo. Ma è chiaro che non c'entra niente. Basta guardarlo in faccia per capirlo. Tom lasciò durare il silenzio qualche secondo. «È possibile, signor Matthews, però io la tratterrò per interrogarla. Se il coroner stabilirà che si è trattato di suicidio, lei sarà libero di fare quello che vuole.» Eric sospirò, rassegnato. E in quell'istante Ray alzò la testa di scatto, come scrollandosi di dosso un breve sogno a occhi aperti. Chiaro che Tom aveva ragione. Che cosa gli era passato per il cervello? «Si giri e metta le mani dietro la schiena», disse Tom, togliendo le manette dalla cintura. Eric esitò un istante, quasi cercando la traccia di un dubbio sul volto di Tom, poi obbedì. Le manette si chiusero. Lo guidarono giù per i gradini del portico e i pochi curiosi puntarono l'indice sul gruppetto. Ray sapeva cosa stavano dicendo. Eccolo lì. Deve essere lui. L'assassino. 22 Saint Benedict Padre Kerr, fermo sotto l'unica lampadina dello scantinato, studiava i disegni sbiaditi. Lo scantinato non era la parte della chiesa che preferiva, però era anche la zona che frequentava di meno, quindi poteva essere un ottimo punto di partenza. Come sempre, il pavimento, oltre che sporco, era umido; nell'aria c'era un odore di umidità che né lui né i suoi predecessori erano mai riusciti a sconfiggere. Lo scantinato era una delle molte eccentricità strutturali dell'edificio. La chiesa era perennemente percorsa da correnti d'aria; le porte non si chiude-
vano mai alla perfezione e sotto il pianterreno, l'umidità regnava sovrana. A suo giudizio, i problemi erano due. Il primo riguardava l'edificio in sé: era una delle costruzioni più antiche del Point e da tempo aveva bisogno di un'opera di restauro. Ma il problema era ulteriormente complicato dalle dimensioni della chiesa, troppo grande perché fosse possibile riscaldarla in maniera efficiente; un particolare che con ogni probabilità non era mai stato preso in considerazione dal suo fondatore. Il pastore Edgar Milcraft era uno dei personaggi più noti della storia locale: eccentrico, dominato dalla visione della grande chiesa che in un modo o nell'altro avrebbe costruito. Il suo progetto aveva incontrato scherno e derisione, però lui aveva insistito e chissà come era riuscito a raccogliere i fondi per la sua fantastica chiesa. All'epoca, era corsa voce che i soldi fossero arrivati dai contrabbandieri di rum che avevano la loro base a Machias Bay tra la fine del diciottesimo secolo e l'inizio del diciannovesimo, e che volevano mettersi la coscienza in pace. Ma in genere, le voci erano solo voci e Kerr aveva imparato molto tempo prima che le origini di storie simili erano, nel migliore dei casi, dubbie. A prescindere dalla loro provenienza, una volta raccolti i fondi, Milcraft aveva elaborato piani ancora più grandiosi. Qualcuno diceva che avesse davvero voluto costruire una chiesa nella più classica tradizione delle grandi cattedrali europee. Altri, invece, vedevano nella sua impresa solo il desiderio di umiliare la comunità che lo aveva deriso: molti dei membri di quella comunità erano adesso al lavoro per lui. Finalmente la costruzione fu terminata. Ma le controversie non finirono lì. Per molti anni, la chiesa era stata considerata una follia architettonica, un atto di presunzione e si era verificato almeno un tentativo di bruciarla. Ma la sua stessa eccentricità bastava ad attirare visitatori e anche se i padri fondatori della città se ne sarebbero scandalizzati, col tempo la chiesa era diventata un monumento storico ufficiale e un'attrattiva turistica. Kerr pensava che Milcraft avrebbe trovato divertente la situazione. Al momento, però, l'interrogativo che premeva di più a Kerr era uno solo: Milcraft aveva voluto imitare le grandi cattedrali fino al punto di mettere stanze o passaggi segreti? Aveva deciso di controllare ogni millimetro della chiesa, dalle fondamenta in su, per accertarsi che non ci fosse niente di strano, di insolito. Una volta eliminata la possibilità di passaggi segreti di cui potesse essersi servito un intruso (e Milcraft, data la sua bizzarra personalità, poteva benissimo averli inclusi nei progetti), si sarebbe deciso a prendere in considerazione altre ipotesi.
Ammesso, ovviamente, di non diventare cieco mentre si aggirava fra quelle ombre. O di non impazzire come era successo al pastore negli ultimi anni della sua vita. «Matto come Milcraft» era un'espressione locale che aveva conosciuto momenti di gloria. Dopo anni di prosperità, la chiesa era decaduta. Qualcuno diceva che Milcraft avesse perso entusiasmo per l'impresa, o che avesse perso la fede. Dopo la morte di Milcraft, la chiesa era rimasta abbandonata per anni; poi un sacerdote che aveva ricevuto dal vescovo l'ordine di trovare la sede adatta per una chiesa cattolica l'aveva riscoperta e a malincuore il vescovo aveva dato la sua approvazione. Il fatto che la costruzione fosse ancora intatta era un degno riconoscimento alla visione di Milcraft. Kerr avvicinò i disegni alla lampada. Stava cercando di stabilire le dimensioni dello scantinato. Da quanto poteva capire, doveva essere lungo nove metri e largo sei. Non gli sembrava tanto lungo, ma con quella luce fioca era difficile esserne sicuro. Sarebbe stato meglio se Milcraft avesse provveduto a far costruire qualche finestra. Mucchi di vecchi abiti, decorazioni, sedie pieghevoli e scatole colme di cianfrusaglie, residuo di tante pesche di beneficenza, rendevano ancora più difficile una stima esatta. Misurò la larghezza dello scantinato. Sei metri. Quel dato corrispondeva ai disegni. Poi misurò la lunghezza: sette metri e mezzo. Kerr aggrottò la fronte. I disegni indicavano nove metri. Si fece strada nel caos fino a raggiungere la metà di una parete. Sì, adesso che li guardava da vicino, in quel punto i mattoni sembravano diversi. Con un cacciavite, cominciò a battere sul muro ogni quindici centimetri. Dopo un po', sentì un'eco, come se dietro la parete ci fosse una camera o un cunicolo. Si mise a raschiare la superficie con la punta del cacciavite. La vecchia calcina resistette per qualche secondo, poi si sgretolò. Il cacciavite affondò fino all'impugnatura. Kerr lo fece ruotare in un senso e nell'altro: non incontrò alcuna resistenza. Estrasse il cacciavite, si spostò leggermente di lato, infilò di nuovo la punta nel muro e mosse il cacciavite in su e in giù. La calcina si ridusse in polvere e il mattone cominciò a scivolare in fuori. Dopo qualche attimo, uscì del tutto. Kerr scrutò dentro, ma la lampadina alle sue spalle non bastava a dissolvere le tenebre dietro la falsa parete. Andò a prendere una torcia elettrica. Almeno in parte, i suoi sospetti erano fondati. I disegni della chiesa non dicevano tutto. E se anche quello non bastava a spiegare in che modo fosse stata violata la sacrestia, la sua fiducia cresceva. Se esisteva una discrepanza fra i progetti e la costruzione
finita, quante altre ce ne potevano essere? La chiesa poteva essere piena di stanze e passaggi segreti. Considerata la natura eccentrica di Milcraft, gli sembrava più che possibile. Puntò il raggio della torcia elettrica nel foro e dietro la parete intravide un vuoto che corrispondeva, grosso modo, ai metri mancanti. Ovviamente, distinguere i particolari era del tutto impossibile. Be', se ho fatto trenta... pensò. Si mise al lavoro col cacciavite sui mattoni vicini. Tolto il primo, gli altri cedettero senza molti problemi. Nel giro di cinque minuti aveva ottenuto un'apertura di una novantina di centimetri di diametro. Adesso vedeva chiaramente, dietro il muro, una serie di piccoli scalini che salivano verso il pianterreno della chiesa. Armato della torcia, si infilò con cautela nell'apertura. In un angolo c'era un topo morto da chissà quanto, ma per il resto la scala era sgombra. Saggiò il primo gradino, lo trovò solido e cominciò a salire lentamente, controllando ogni scalino prima di appoggiarvi tutto il peso del corpo. Dopo uno spazio che corrispondeva all'incirca a un piano, la scala terminava bruscamente in una L che sfociava in una stanzetta priva di finestre, buia come la notte. Il raggio della torcia gli svelò un rozzo tavolo, diverse casse, una sedia a schienale alto e due tazze di porcellana sul tavolo, piene solo di polvere e di antiche ragnatele. Tre botti erano allineate lungo la parete di fronte; la parete sud della chiesa, se non si sbagliava. Vicino alle botti c'era un cumulo informe, un'ombra fra le ombre. Kerr si accucciò per vedere meglio e scoprì che si trattava di un telo ruvido steso su qualcosa. Sollevò il telo con due dita. E rimase senza fiato. Sotto c'era un corpo mummificato. Gli abiti erano completamente marci in alcuni punti, ma da quello che restava era chiaro che dovevano essere antichi. Dovevano risalire all'inizio del diciannovesimo secolo, giudicò. Milcraft? Si chiese e respinse subito l'idea. Milcraft era morto nel 1860 ed era stato sepolto a North Cutler. Il corpo non presentava segni evidenti di violenza, ma non bastava certo a calmare la sua inquietudine. Se si era trattato di morte per cause naturali, perché quel tentativo di nasconderla (il telo, la falsa parete eretta per sigillare la stanza e creare una cripta segreta proprio nel cuore della chiesa)? E se si era trattato di omicidio, perché non rimuovere il cadavere? Ispezionò la stanza con maggiore attenzione. Andò per prima cosa al tavolo, poi controllò sistematicamente le casse e le botti. Nella seconda botte
trovò un libro avvolto in un pezzo di stoffa. Attento a non rovinare le pagine delicate, lo aprì e diede un'occhiata. Doveva essere un diario, ma solo le prime venti pagine contenevano annotazioni e alla luce della torcia la grafia minuscola era illeggibile. Badando a non impolverare la camicia col volume, Kerr si girò a guardare il corpo mummificato, mormorò una preghiera per il morto, e tornò alla scala. Il suo primo impulso sarebbe stato di chiamare Crandall, ma lo fermò il pensiero dello scandalo; come avrebbero reagito la comunità e il vescovo all'idea che i sacramenti del battesimo e della comunione fossero stati impartiti a pochi metri da una cripta nascosta? Certo, lo scandalo sarebbe stato minore se l'uomo fosse morto per cause naturali, non per qualcosa di sinistro come un omicidio. Forse, pensò mentre riemergeva nello scantinato, forse questo libro mi darà la risposta. Se era così, sarebbe riuscito a minimizzare lo scandalo spiegando chiaramente i motivi della presenza del cadavere. Non poteva assolutamente nascondere quel fatto alle autorità e non aveva intenzione di farlo. Ma non c'era fretta: dopo essere rimasto nascosto per più di cento anni, il cadavere poteva aspettare ancora qualche giorno. Non sarebbe andato da nessuna parte intanto che lui studiava una soluzione. Ammassò sedie e scatole per nascondere l'apertura nella falsa parete. Finalmente soddisfatto del suo lavoro, si avviò alla scala. La signora Graham apparve sul pianerottolo in quel preciso momento. «È stato qui sotto per tutto questo tempo?» chiese a Kerr. «Sì.» Più o meno, era la verità. La signora Graham scosse la testa. «Strano che non mi abbia sentito chiamarla. Il signor Crawford ha avuto un incidente.» Il cuore di Kerr perse un colpo. «Che cos'è successo? Come sta?» «La polizia non me lo ha detto. Mi hanno solo detto che Crandall ha ordinato di informarla che lo portavano all'ospedale di Cutler.» «Va bene», disse Kerr. «Partirò subito, appena mi sarò cambiato. E annulli tutti i miei appuntamenti per il resto della giornata. Anzi, si prenda un giorno di libertà.» «Lo consideri già fatto», disse la donna. «Ma se avesse bisogno di me, sarò a casa o da Judy Carlyle. Ho saputo che non sta troppo bene. Pensavo di fare un salto a tirarle su il morale.» «Okay.» Kerr salì la scala, portando con sé il volume che aveva trovato. Povero Sam! pensò, scuotendo la testa. In che guaio si sarà cacciato, questa volta?
23 La casa dei Simmons Ruth Miller passeggiava avanti e indietro in salotto, irritata col figlio. Karl era rientrato solo verso l'alba, o almeno era quello che lei presumeva. L'unica cosa di cui fosse certa è che stava dormendo, disturbata da sogni che ricordava vagamente, quando, attorno alle cinque del mattino, aveva sentito chiudersi la porta della stanza di Karl. Da allora, non lo aveva più visto né sentito. Non era uscito dalla sua camera nemmeno per colazione. Sarà stato fuori a bere, decise Ruth. Come suo padre: tutta la notte fuori, tutto il giorno a dormire, buono a nulla. Come avrebbe potuto occuparsi di lei nella sua vecchiaia (che ovviamente era lontanissima) e di Cheryl finché la ragazza non si fosse sposata? E che cosa si aspettava ora? La colazione a letto? Col cavolo, pensò. «Mamma?» Ruth si girò alla voce. Cheryl arrivò in soggiorno dalla cucina, sistemandosi i capelli dietro le orecchie. «Che cosa c'è, amore?» «Esco un po'. Torno fra un paio d'ore.» Ruth aggrottò la fronte. «Credevo non stessi bene.» Cheryl si era lamentata di un dolore allo stomaco e per quello non era andata a scuola. «È vero, ma adesso sto meglio. E ho voglia di prendere un po' d'aria.» «Non potresti andare a scuola, seguire almeno le ultime ore di lezione?» «Ma dai! È già mezzogiorno passato. Che senso avrebbe? E poi, è venerdì. Vuoi rovinarmi un venerdì perfetto?» Cheryl assunse la sua aria di imbronciata innocenza. Era la stessa espressione che usava da sempre per cavarsela dopo le malefatte. «Va bene. Non ci vedo niente di male. Ma tornerai in tempo per la cena?» «Promesso», disse Cheryl, già a metà strada dal bagno. Qualche altro colpo di spazzola ai capelli, un po' di trucco e sarebbe stata pronta. Era una ragazza attraente, una brava ragazza. Ruth alzò gli occhi sulla porta della camera da letto al primo piano. Peccato che certa altra gente non le somigliasse. Giunta a una decisione, prese a salire la scala. Gli avrebbe fatto un'ultima predica e se nemmeno quella fosse servita, si sarebbe lavata le mani di lui. Karl aveva quasi trent'anni e se voleva diventare un buono a nulla co-
me suo padre, facesse pure. Lei non avrebbe più sprecato tempo o fiato per lui. Per di più, quei pensieri la stavano distogliendo dal suo hobby preferito, le conversazioni che si intrecciavano sulla linea del suo duplex. Arrivò davanti alla porta della camera e di colpo trovò ripugnante l'idea di bussare. Che stupidaggine. Non pensava che Karl potesse avere a letto una ragazza (era brutto come un rospo; l'idea che una donna si interessasse a lui era semplicemente ridicola), però provava lo stesso una curiosa riluttanza a toccare la porta. Oh, non fare la vecchia, pensò. Allontanato ogni indugio, bussò e il suono fu sorprendentemente forte. Nessuna risposta. Be', Ruth non si sarebbe lasciata ignorare. Quando fu chiaro che la porta non si sarebbe aperta, bussò di nuovo, più forte. «So che sei lì, Karl, quindi è inutile che tu faccia finta di non esserci. Esci. Voglio parlarti.» Per un attimo non ci fu risposta, solo un movimento indistinto dietro la porta. Poi: «Lasciami in pace. Ti avverto una volta sola. Non mi ripeterò». Ruth indietreggiò come se l'avessero schiaffeggiata. La voce era strana, però era sempre quella di Karl. Era stato il tono a lasciarla scioccata. La avvertiva! Ma con chi diavolo credeva di avere a che fare? Afferrò la maniglia e la abbassò. La porta era chiusa a chiave. A chiave! Come osava escludere sua madre da una stanza della casa che le apparteneva? «Karl, apri subito questa porta, mi senti? In questo preciso istante!» Restò in ascolto, in attesa di reazioni. Se lui non avesse aperto, doveva andare a prendere la copia della chiave che teneva nel... La serratura scattò. Non lo aveva sentito avvicinarsi alla porta, però la chiave girò nella serratura. Non accadde altro. A quanto sembrava, Karl voleva che lei entrasse. Non sarebbe uscito. Benissimo, pensò Ruth e spinse la porta. Cercò Karl nella penombra e alla fine lo intravide nell'angolo di fronte. Era solo una macchia scura contro la vecchia tapezzeria. Come aveva fatto a spostarsi al lato opposto della stanza in così poco tempo, dopo avere aperto? E senza il minimo rumore? Ruth fece un passo avanti. Le assi del pavimento scricchiolarono sotto i suoi piedi. «Karl?» «Chiudi la porta!» Un ordine secco, dato nel tono di chi è abituato a dare ordini e a essere obbedito. Istintivamente, lei si girò verso la porta, poi si fermò. Karl poteva prendere quel suo atteggiamento da essere superiore
e ficcarselo dove voleva. Nessuno poteva dare ordini a Ruth in casa sua! Però la sua mano da sola trovò la porta e la chiuse, di sua spontanea volontà. Non appena il catenaccio scattò, il buio nella stanza divenne ancora più fitto. La camera era calda, l'aria opprimente, come se all'improvviso fossero finiti nelle viscere della terra. «Karl?» ripeté lei. Non lo vedeva più; aveva solo la vaga sensazione di essere sola con un animale feroce. Per un breve attimo, le parve addirittura di vedere due occhi a mandorla che riflettevano una luce inesistente. Poi sentì. Non subito, stupefatta com'era dalla sinistra pacatezza della sua voce e dal fatto che sembrava scendere dal soffitto sopra la sua testa, per quanto la cosa fosse chiaramente impossibile. Una sola parola: Punisci. Una mano la schiaffeggiò, forte, scaraventandola contro la porta. La guancia destra le bruciava per l'impatto e a Ruth occorse un momento per realizzare che era stata la sua stessa mano a colpirla. Tese la mano in avanti, la fissò come se appartenesse a un estraneo. Di colpo, la mano si chiuse a pugno e la centrò al viso. Vide le stelle. Da sotto le giunse il rumore della porta d'ingresso che si apriva, di Cheryl che usciva. Ruth avrebbe voluto urlare, chiedere aiuto, ma il mondo esterno non aveva più importanza. Al momento, l'unica cosa che esistesse era quella stanza e quello che si muoveva al suo interno. Punisci, mormorò di nuovo la voce, morbida come lo sbattere delle ali di una falena. La mano rimase immobile, ma dentro Ruth qualcosa si contorse. Lei boccheggiò e cadde su un ginocchio, ansimante, senza fiato. Era come se una mano le fosse entrata nello stomaco e avesse cominciato a straziarlo. Il dolore lancinante si diffuse in ogni organo, stritolandole il cuore, i polmoni, la testa. La stanza ondeggiò sotto di lei. Ruth cadde sul pavimento, incapace di respirare. Da qualche parte, lontano, qualcosa rise. Ruth sentì il cuore batterle forte in petto, capì che da un secondo all'altro sarebbe esploso e quella sarebbe stata la fine del dolore. Un sollievo. Ma prima che potesse accadere, il dolore diminuì. Nel buio, stordito silenzio che seguì, Ruth comprese che una logica fredda e implacabile stava decidendo del suo destino. Alla fine, forse perché qualcuno aveva concluso che lei poteva ancora essere di una minima utilità, il dolore svanì del tutto. Alzati, ordinò la voce. Ruth si alzò barcollando, appoggiandosi al muro. Un altro secondo di silenzio, poi:
Dimentica. E il dolore tornò, entrando dagli occhi e raggiungendo il suo cervello, divorandola come un topo alle prese con una creatura non ancora del tutto morta. Ruth boccheggiò, alzò le mani al viso per cacciare le tenebre che la stavano mangiando viva. La lotta fu breve. Il corpo di Ruth assunse la posizione eretta. Dove prima c'era stato dolore adesso c'era solo un pulsare distante, un intorpidimento che le rifluì alle guance e le avvolse la testa come un manto di neve. Perfettamente calma, lei si girò, cercò la maniglia, la trovò, uscì in corridoio. Chiuse la porta e si fermò un solo istante prima di scendere la scala ed entrare in soggiorno, dove si sistemò al suo solito posto alla finestra. Non sollevò il ricevitore. Fissò il telefono senza muoversi, come fosse un oggetto sconosciuto ma interessante che si era materializzato all'improvviso dal nulla. Forse avrebbe squillato. Se l'avessero chiamata, avrebbe detto che Karl e lei erano rimasti alzati tutta la notte, che avevano controllato i conti di casa, che Karl dormiva e non bisognava disturbarlo. Col passare del tempo, il suo sguardo si staccò dal telefono e lei azzardò un'occhiata alla scala. Sì, lo avrebbe lasciato dormire. Karl aveva bisogno di riposare. 2 Thaddeus Smith entrò nella stazione di servizio alla periferia della città. Era una delle ultime tappe del suo giro. «Siamo in perfetto orario», disse. Thaddeus andava orgoglioso di riuscire a consegnare tutta la posta entro la una, ogni giorno della settimana, con la pioggia o col sole. Liz, che era con lui, lo sapeva bene, perché lui non aveva perso occasione per ricordarglielo. Di fronte a loro, Jay Carmichael finì di parlare con qualcuno su una vecchia Chevy, poi si avvicinò al camioncino. L'automobile ripartì. Jay infilò la testa dal finestrino, dalla parte di Liz. «Ehi, avete sentito?» «Sentito che cosa?» ribatté Thaddeus. Dal tono della voce, Liz capì che Jay non era simpatico nemmeno a lui. Il benzinaio aveva qualcosa che le dava i brividi. «È morto qualcuno di colpo o roba del genere?» Doveva essere una battuta, ma la testa di Jay cominciò ad annuire, eccitata. «Centro! E non sono solo morti. Li hanno assassinati. Tutti e quattro.» Si mise a raccontare le storie che aveva sentito da cinque o sei clienti. Quando Jay ebbe terminato, Thaddeus era pallidissimo. «Incredibile», disse. «È il tipo di cosa che non pensi mai possa succedere qui. A New
York, magari, ma qui...» «Quando è successo?» chiese Liz. La casa dei LeMarque era uno dei primi posti dove si erano fermati. L'avevano trovata immersa nel buio e nel silenzio, ma a quell'ora le era parso normale. L'idea che i LeMarque fossero dentro, morti, mentre Thaddeus infilava la posta nella loro cassetta, fece tremare Liz. «Da quello che ho sentito», disse Jay, «la polizia pensa che possa essere successo stanotte, forse alle prime ore del mattino.» «Gesù.» Liz chiuse gli occhi. Quando li riaprì, Jay la stava fissando. Avrebbe giurato che provava piacere. «Hanno qualche idea?» chiese Thaddeus. Jay scrollò le spalle. «Un paio di tizi che conoscono gente all'ospedale di Cutler hanno detto che è stato Greg LeMarque. Un omicidio-suicidio. Però non sono sicuri.» Gesticolò in direzione dell'auto che era appena partita. «Ho saputo da uno dei vicini dei LeMarque che Tom ha arrestato qualcuno.» «Qualcuno di qui?» chiese Thaddeus. Non era disposto ad ammettere che il responsabile fosse uno del Point, una persona che conosceva. «Naa. Ho sentito che è uno appena arrivato. Un certo Eric.» Lo stomaco di Liz si tramutò in pietra. «Eric Matthews?» «Sì, mi pare. La polizia lo ha sbattuto dentro. Lo conosce?» Lei si girò, ignorando la domanda. «Thaddeus, può portarmi alla mia auto? So che deve finire il suo giro, ma le farò perdere solo un minuto ed è importante.» «Sicuro.» Thaddeus passò la posta a Jay prima di riaccendere il motore. «Sarà la prima volta che non finisco in orario», continuò, «però deve pur esserci una prima volta per tutto. Lo sa Dio, questa è la prima volta che al Point succede una cosa del genere. Spero solo che non si ripeta.» Liz vide i muscoli contrarsi sotto le guance del postino. «Quei poveri bambini», disse Thaddeus, chiaramente in preda a un'angoscia che non sapeva esprimere a parole. «Spero che impicchino quello schifoso figlio di puttana.» 3 Will chiuse la sua valigetta proprio mentre padre Kerr infilava la testa nella stanza. Sam Crawford era immobile sul letto, collegato a una serie di tubi ed elettrodi che tenevano sotto controllo il suo stato.
«Come sta?» chiese Kerr. «Non qui», rispose piano Will e uscì in corridoio. Kerr aspettò che la porta si chiudesse alle sue spalle. «Allora?» «La situazione non è buona, ma potrebbe essere molto peggio. Da quanto possiamo capire, non ci sono state lesioni interne, diminuzioni critiche della pressione, emorragie ai vasi sanguigni o agli organi principali. Ha l'omero fratturato... il braccio sinistro, così se non altro potrà scrivere... Due costole fratturate, escoriazioni massicce nella zona superiore del tronco e parecchie altre cose. Comunque, niente di particolarmente grave. Tutto l'essenziale è intatto. I centri vitali sono solidi.» «Se non sbaglio, c'è un però.» Will abbassò gli occhi sul pavimento. «È in stato di incoscienza da quando lo hanno trovato. Non ci sono lesioni gravi alla testa e se siamo fortunati questo significa che il cervello non è stato danneggiato, però non possiamo escludere la possibilità di una commozione cerebrale. A questo punto, non voglio parlare di coma. È più che possibile che si tratti solo di una reazione psicologica alle ferite. La mente si chiude per sfuggire al dolore e intanto il corpo guarisce. Ma se non ne esce nel giro di ventiquattr'ore, farò eseguire una TAC.» «Ha idea di che cosa sia successo?» «Tom e il tizio che hanno arrestato dicono che è precipitato dalle caverne e per il momento non ho trovato niente che non combaci col racconto. Ma la mia è solo un'opinione preliminare. Altri medici lo esamineranno e arriveremo a una conclusione comune. Idem per le autopsie. Il coroner dovrebbe arrivare entro un'ora. Per fortuna oggi qui in ospedale è una giornata fiacca.» Will trovò insopportabile quel suo tentativo di fare dello spirito. Il viso di Barbara non gli usciva dalla mente. Eri tu stanotte, Barbara? Saresti ancora viva se io avessi risposto qualche secondo prima? «Ho saputo dei LeMarque», disse sottovoce Kerr. «Ne stava parlando un infermiere quando sono arrivato.» «E per i funerali?» «Erano protestanti. Mi hanno detto che qualcuno dell'ospedale si è messo in contatto con dei parenti del New Hampshire. Stanno provvedendo per il trasporto delle salme e tutto il resto. Ho sentito che li ha trovati lei.» «Sì», disse Will. «E troppo tardi, maledizione.» Si sfregò gli occhi: erano stanchi e nelle ultime ore avevano visto troppo. «Vuole parlarne?»
«Non adesso. Non ancora. Magari tra un po'. Mi dia qualche anno.» «Pensa che possa essere stato lui?» «Quell'Eric?» Will scrollò le spalle. «E chi lo sa? L'ho visto solo per qualche minuto davanti alla casa dei LeMarque. Si comportava in maniera piuttosto strana, questo posso confermarlo. Però aveva appena trovato Sam, era stato arruolato su due piedi da Tom e costretto a entrare in una casa con un'intera famiglia sterminata. Forse è normale che si comportasse in modo strano. Sinceramente, non so.» «Ieri sera è stato a cena da me», disse Kerr. «Con Liz e Sam. Mi sono accorto che guardava di continuo Sam, come se lo stesse studiando. Però mi è sembrato un ragazzo a posto. Pacato. Intelligente. Non che di questi tempi la cosa significhi molto, vero? Non è quello che scrivono sempre degli omicidi? 'Era un tipo pacato, tranquillo, l'ultima persona di cui si potesse sospettare.' D'altra parte...» «Allora è vero quello che dicono di lei...» «Cioè?» «Vai da padre Kerr a chiedere consiglio, perché ti dirà sia sì che no.» Will tentò un sorriso, ma ebbe l'impressione che potesse cadergli dal viso. Guardò l'orologio. «Devo scappare. Fra mezz'ora mi vedo con il coroner. Vuole che sia presente alle autopsie. Pensa che potrei fornirgli qualche particolare interessante, dato che li ho trovati io. Spiegargli qual era l'esatta posizione dei corpi, cose del genere.» Kerr indicò con un cenno della testa la stanza di Sam. «Posso entrare, restare con lui per un po'?» «Credo di sì. Potrebbe persino fargli bene, se il problema è psicologico e non fisiologico. A volte, una voce familiare può far uscire una persona da uno stato del genere.» «Grazie», disse Kerr. «Istruzioni particolari?» «Non tocchi l'ago della flebo, non lo trascini su un campo da baseball e non gli racconti barzellette sugli ospedali. A parte questo, faccia quello che crede.» Will girò sui tacchi e si incamminò lungo il corridoio. Kerr si concesse un attimo per ricomporsi, poi entrò nella camera di Sam. 4 Era l'una passata quando Liz entrò nella stazione di polizia di Dredmouth Point. Tom sedeva a una scrivania, intento a scrivere; alla scrivania accanto, Ray era al telefono. Tutti e due alzarono gli occhi al suo ingresso.
«So che avete qui Eric Matthews», disse lei. «Vorrei cercare di farlo uscire.» I due poliziotti si scambiarono un'occhiata. Liz sospettò che la sua richiesta fosse più o meno prevista. Forse avrebbe risparmiato tempo. «Mi spiace, ma dobbiamo trattenerlo per ventiquattr'ore. È sospettato di omicidio e di aggressione.» «Su quali basi?» «Prove indiziarie. Non gli è stata ancora mossa nessuna accusa.» «Non potreste affidarlo alla mia custodia?» «No. Anche lui prevedeva il suo arrivo e ha suggerito la stessa soluzione, ma io non lo lascerò libero finché non avrò il verdetto definitivo dell'ufficio del coroner.» «Eric le ha detto perché prevedeva che io venissi qui?» «No. Ha detto solo che sarebbe venuta e ha chiesto di informarlo del suo arrivo.» Ray ridacchiò. «Che cosa crede, di essere all'Hilton? Pensa che noi siamo il servizio in camera?» Liz ignorò il commento. «Senta, io so di sicuro che non ha fatto proprio niente.» «Davvero?» disse Tom. «Stanotte ero con lui. Se gli serve un alibi, eccomi.» Tom scrisse qualcosa sull'agenda. «Non per impicciarmi dei fatti suoi, ma è rimasta con lui tutta la notte?» «Più o meno, sì.» «Fino a che ora?» «Perché?» «Risponda alla domanda, per favore.» «Fino alle quattro, forse le quattro e trenta del mattino.» «E poi?» «E poi ho seguito il postino nel suo giro di consegne.» Tom mise giù la penna. «Un bel problema. I corpi che abbiamo trovato non erano morti da molto. A una stima approssimativa, devono averli ammazzati fra l'una e le cinque del mattino. Stiamo aspettando che il coroner ci dia un'ora più precisa. Se dirà che tutto è successo prima delle quattro, okay, ha ragione lei. Ma se è stato dopo le quattro, lei non può essere certa che Eric Matthews non sia colpevole, giusto?» Liz scrollò le spalle. «E io l'ho trovato con Sam verso le dieci del mattino, mentre lei stava facendo il suo giro. Anche in questo caso, potrebbe essere stato lui.»
«Ma non ha senso. Che cosa poteva spingerlo a cercare di uccidere Sam? Si conoscevano appena.» «Vero. Non abbiamo un movente. Non ancora. E potrebbe essere stato un incidente. Però l'unica persona che può confermare questa versione è Sam e non sapremo che cosa ha da dirci finché non riprenderà i sensi.» Ray riappese il telefono. Aveva un'aria eccitata. «Ho trovato qualcosa», disse, spostandosi alla scrivania di Tom. «Guarda qui. Secondo me, direi che ci siamo.» Tom lesse il foglietto. «Il computer di Bangor ha controllato il suo amico», disse. «Lei lo sapeva che il suo vero cognome è Langren?» «E questo che cosa c'entra?» «Oh, la casa dove c'è stata la strage apparteneva alla sua famiglia. L'ultimo figlio della famiglia Langren torna in città a distanza di anni, non dice a nessuno chi è, scopre che qualcun altro vive nella sua casa. Poi ci troviamo con un'intera famiglia sterminata. Secondo me è un ottimo motivo per tenerlo sotto chiave, non crede?» Liz distolse lo sguardo. Si era illusa di poter salvare Eric, ma evidentemente sbagliava. «Ha chiesto un avvocato?» «Non ancora.» Fu Ray a rispondere. «Prima voleva parlare con lei.» «Va bene», disse Liz. «Posso vederlo per un minuto?» Tom si alzò, prese le chiavi da un cassetto della scrivania e le fece cenno di seguirlo. «Dovrà lasciarla qui», disse, indicando la borsa di Liz. Lei la mise sulla scrivania mentre lui apriva la porta della guardiola. Si avviarono nel lungo corridoio su cui si affacciavano una serie di celle identiche, tutte vuote, tranne l'ultima in fondo. Eric si avvicinò alle sbarre. Era stanco, forse anche un po' imbarazzato, ma non confuso o arrabbiato. Controllato. Le sue mani si sporsero dalle sbarre. Era lo stesso gesto che Liz aveva visto quando aveva scritto un articolo sulla situazione di carcerati; ma era successo tanti anni prima. Con quanta velocità ci si abitua a cercare quei venti centimetri di libertà, pensò. Si fermarono davanti alla cella. «Se ha bisogno di qualcosa sono in fondo al corridoio», disse Tom. «Ha cinque minuti.» Se ne andò. Liz azzardò un sorriso. «Ciao.» «Ciao.» Eric le sorrise in risposta, senza troppa convinzione. «Vedi che cosa succede se esci presto?» «Mi spiace. Avevo un appuntamento con Thaddeus, c'era tanto da fare...» «Non preoccuparti», disse lui. «Non è colpa di nessuno. Soltanto un er-
rore. Un tragico errore.» Il suo viso si incupì. «Spero che non diventi ancora più tragico.» «Che cosa vorresti dire?» Eric sospirò. «Non ne sono certo, però sta accadendo qualcosa. Quello che so è che devo uscire di qui prima possibile. Non credo che ventiquattr'ore facciano molta differenza, ma non ne sono sicuro.» Liz lo studiò in viso. Era preoccupatissimo, su quello non c'era dubbio. Però era innocente. La relazione del coroner lo avrebbe dimostrato. «Posso fare qualcosa?» gli chiese. «Lo vorrei tanto.» Lui si avvicinò di più alle sbarre. «Come sta Sam? Se potessi vederlo, parlargli...» «Impossibile. È ancora in stato d'incoscienza. Hai visto che cosa gli è successo?» «Solo in parte. Stava uscendo dalle caverne ed è caduto. Anzi, si è buttato, come se fosse inseguito da qualcosa.» Una smorfia. «Liz, devo sapere che cosa faceva là. Tienilo d'occhio, se puoi. Assicurati che si riprenda. Appena torna in sé, devi scoprire esattamente che cosa faceva nelle caverne. Qualunque cosa ricordi potrebbe essere utile. È importante, Liz. Puoi farlo?» «Credo di sì. Ma tutto questo cosa c'entra? L'essenziale è che possa testimoniare che tu non sei responsabile del suo incidente...» «Devi fidarti di me, Liz. Vorrei poterti spiegare, ma nemmeno io capisco fino in fondo. Mi mancano troppi tasselli. So solo che quello che è successo a Sam è in rapporto con gli omicidi. Se puoi fare questo per me, a tirarmi fuori di qui ci penserò io. Va bene?» Liz sorrise. «Affare fatto, uomo mascherato.» Lui le restituì il sorriso. «Una cosa è certa. Avrai un capitolo eccezionale per il tuo libro.» Una voce alle spalle di Liz annunciò: «Fine del colloquio». 5 Karin Whortle sedeva al banco. Stava cercando le parole giuste. R.T. era entrato poco prima a darle le ultime notizie e lei non riusciva ancora a crederci. Conosceva Barbara LeMarque solo di vista e Greg per niente. Da un po' voleva rimediare alla situazione: era così sicura che ne avrebbe avuto il tempo. Era convinta che ci fosse sempre tempo. Si sbagliava.
Buffo scoprire che tutti vivono di giorno in giorno come se fossero immortali. Come se avessero a disposizione tutto il tempo del mondo. Era un errore che, in altri modi, aveva commesso anche lei. Adesso se ne rendeva conto. Aveva sempre pensato di avere un'infinità di tempo per trovare l'uomo giusto, l'uomo che corrispondesse a tutti i requisiti che lei aveva fissato da anni e anni. Be', non l'aveva trovato. E adesso, più di ogni altra cosa, capiva che forse non avrebbe avuto il tempo di trovarlo; però aveva il tempo per trovare qualcuno che le volesse bene. Dalla vetrina, vide che nel negozio di R.T. entrava sempre più gente. R.T. seguì il suo sguardo. «Altre brutte notizie, oppure altre persone in cerca di brutte notizie», disse. Come al solito, il suo negozio era diventato l'epicentro delle chiacchiere, di informazioni che contenevano solo un'ombra di verità, o che erano del tutto false. Il ristorante, invece, era deserto come Karin non lo aveva mai visto. R.T. finì il caffé, si alzò, mise una moneta sul banco. «Offre la casa», disse Karin. «E grazie delle informazioni.» «Non c'è problema», disse R.T. e lasciò la moneta sul banco. «Va bene, torno nell'occhio del ciclone.» «E se ci fossero novità su Sam...» «Sarai la prima a saperle», disse R.T. dalla porta. «Dopo il resto del mondo civile, ovviamente», aggiunse e ripartì per l'affollato negozio. Karin si mise in tasca i cinquanta cents. Stava per prendere la tazza quando squillò il telefono. Alzò il ricevitore. «Point Inn.» Riconobbe subito la voce. Walter Kriski. «Hai sentito?» «In città non c'è nessuno che non abbia sentito.» «Già. Il fatto è che pensavo che con tutto quello che è successo, forse dovremmo rimandare il nostro film a domani sera, se per te va bene. E poi qui avrò del lavoro extra. Probabilmente farò tardi.» Logico, pensò lei. Lavora al cimitero, per cui... Non riuscì a completare il pensiero. «Non i LeMarque?» «No, no», rispose subito Walter. «Li spediscono fuori dallo stato per i funerali, da certi parenti. È così che l'ho saputo. Mi hanno chiesto di dare una mano.» Karin si rilassò. Già la notizia in sé era terribile, ma l'idea che Walter, l'uomo con il quale stava per uscire, fosse addetto al cimitero dove tutti e quattro sarebbero stati sepolti era quasi insopportabile. Poi si rimproverò: ricominciava a pensare da immortale. Il lavoro di Walter era onesto e ac-
cettabile quanto il suo. «Sei ancora lì?» chiese Walter. «Sì, ci sono. Domani sera va benissimo. Stessa ora?» «Stessa ora. Ci vediamo domani. Ciao.» Karin fece per riappendere, poi si fermò. La linea aveva un suono strano, rimbombante. Come se il suo telefono fosse un duplex e ci fosse qualcun altro in ascolto. Ma non era un duplex. «Pronto?» disse. Niente. Solo degli squilli sordi e un sibilo ondeggiante. Pensò a un serpente e scacciò l'idea. Un'interferenza, tutto lì. 6 Padre Kerr sedeva accanto al letto di Sam. Cercava qualcos'altro da dire, dopo un'ora trascorsa a colmare il silenzio. «Ti sbagliavi», disse. «Non sono il chiacchierone che credevi.» Sam era immobile a occhi chiusi, col viso gonfio, il collo e le spalle escoriate. Kerr doveva ammettere che la loro era un'amicizia singolare ma gratificante. Si erano incontrati molte volte a cene e riunioni ufficiali. Sam aveva reagito al nuovo sacerdote con un sarcasmo che non era una presa in giro, ma un modo di metterlo alla prova. E lui invece di affidarsi ai dogmi, come senz'altro Sam si aspettava, aveva deciso di ribattere alla logica con la logica. Considerava Sam un brav'uomo alla ricerca della verità e non aveva nulla contro un individuo mosso da una sincera curiosità, perché sapeva che prima o poi tutte le verità portano a Dio. «Ti ho detto che sto leggendo il libro che mi hai prestato?» Nessuna risposta. «Piuttosto interessante, tutto sommato. Ho lavorato anche su quello che hai detto ieri sera a cena e ho preparato una buona scorta di munizioni per la nostra prossima discussione. Forse imparerai a non servirti spudoratamente del Demonio con un cristiano che è disposto a leggere i tuoi libri miscredenti.» Kerr si trovò senza parole, confuso. Di che cosa stava parlando? Dove voleva arrivare? Era così difficile mantenere ordine nei pensieri. Erano successe tante cose. Gli omicidi, Sam, gli strani incidenti in chiesa, la scoperta della stanza segreta, il cadavere e il libro: troppe cose da affrontare contemporaneamente. No, decise. Tutto il resto poteva aspettare. Sam aveva bisogno di lui. Sam, che non aveva mai avuto bisogno della Chiesa in vita sua. Al momento, era quella la cosa più importante; anzi, l'unica cosa importante in
assoluto. Tese la mano in un gesto d'amicizia, nella speranza di penetrare il muro del trauma, e restò sorpreso quando trovò freddo quel braccio bianco. Terribilmente freddo. Toccò tutte e due le mani: erano gelide in maniera anormale. Premette il pulsante sopra il letto di Sam. Un istante dopo, un'infermiera apparve alla porta. «Sì, padre?» «Mi spiace moltissimo disturbarla, ma non potrebbe prendergli la temperatura?» «L'abbiamo misurata quindici minuti fa.» «Lo so, però mi sembra troppo freddo. Non vorrei che entrasse in stato di coma.» L'infermiera mise un termometro elettronico nella bocca di Sam. «Un grado o due sopra la norma, ma è sempre nei limiti di tolleranza», annunciò un secondo più tardi. «Una temperatura alta?» L'infermiera annuì. «Ma è gelato. Senta anche lei.» L'infermiera percorse con le dita il braccio di Sam, fino alla mano. «A me sembra a posto, padre. Un po' caldo, ma niente di anormale. C'è altro?» «No, grazie», rispose Kerr. L'infermiera uscì dalla stanza. Appena fu scomparsa, lui prese la mano di Sam. Era ghiacciata. Impossibile. Eppure, tutti i dati delle macchine erano a posto. Perché la temperatura di Sam doveva sembrare normale a tutti, tranne che a lui? Cercò la risposta sul viso dell'amico, ma questa volta Sam non aveva niente da dirgli. Kerr strinse più forte la mano, cercando inutilmente di scaldarla. 7 Ray riagganciò, attento a non lasciar trasparire la sua ira. Per fortuna, anche Tom era al telefono. Era troppo occupato per accorgersi di quello che era successo. Ray aveva detto a chiare lettere a Cheryl di non chiamarlo mai in ufficio; c'era sempre la possibilità che le rispondesse Tom. D'altra parte, Cheryl era pazza. Lo sapeva da parecchio tempo. Il fatto che volesse le ultime notizie sugli omicidi era del tutto normale. Il telefono non aveva fatto altro che squillare e squillare per l'intera mattina. Ma oltre
a chiedergli le novità, lei gli aveva detto che voleva vederlo per un po'. Per un po'. In una giornata del genere. Con tutto l'inferno che si stava scatenando. Il fatto era che l'aveva sentita molto eccitata all'idea di nascondersi da qualche parte per una sveltina, in quel caos colossale. Pazza, pensò. Pazza da legare. «Abbiamo un problema», disse Tom, riappendendo. Ray sussultò. Un altro problema? «Che cosa c'è?» Tom indicò il telefono. «Era Clement Ashford, dalla fattoria. Incavolato nero, ma anche un po' preoccupato. Dice che stamattina Bud Simmons non si è presentato. Non lo ha sentito per tutto il giorno e quando ha chiamato i Simmons, non gli ha risposto nessuno. Dopo aver saputo dei LeMarque, be', ha chiamato noi.» «Secondo te dobbiamo controllare?» «Qualunque altro giorno ti direi no. Oggi dico sì. Ho appena tentato di chiamare Bud e non risponde. Perché non fai un salto veloce a vedere come stanno le cose?» «Vado», rispose Ray e si avviò alla porta. Probabilmente non c'era nulla di cui preoccuparsi, ma se non altro, poteva uscire per qualche minuto. Nel parcheggio, scrutò l'automobile di Eric Matthews, trainata lì da Indian Lake. Chissà che sorprese potevano trovarci, se Matthews fosse stato ufficialmente accusato di omicidio. Mentre saliva sulla sua macchina, Ray ripensò a quello che gli aveva detto Cheryl. Per un po', non sarebbe tornato in ufficio e lei abitava lì vicino... Bloccò il pensiero prima di completarlo. No, impossibile. Cristo! Pensò. Sto diventando pazzo come lei. 8 Eric passeggiava avanti e indietro nella cella. Lo sguardo correva di continuo all'orologio. Le due. Di attimo in attimo, il senso di urgenza, il bisogno di uscire di lì, diventavano più forti. Fra gli omicidi e l'incidente di Sam esisteva un legame, ne era certo. Più lo tenevano chiuso, più tempo gli sarebbe occorso per scoprire quale fosse quel rapporto e per affrontarlo. Era sicuro che tutto fosse collegato a quello che era accaduto a lui nelle caverne, alle forze che lo avevano richiamato lì in quel preciso momento e alle sue particolari capacità. Sensazioni. Intuizioni. Lampi improvvisi. Ma sempre imprevedibili. Incontrollabili. Da bambino, gli erano stati utili per indovinare le risposte e-
satte ai test scolastici. Da adulto, gli erano stati meno che inutili al tavolo da gioco. Anzi, avevano contribuito ad aumentare il suo senso di insicurezza. Però tutto aveva cominciato a cambiare da quando era tornato al Point, no? La capacità di influenzare Ray, la sera prima, era stata del tutto nuova, no? E aveva saputo istintivamente che cosa fare. Alla casa dei LeMarque, aveva ritentato e si era accorto di nuovo che Ray vacillava sotto la sua influenza. Però, per l'ennesima volta, i suoi pensieri si erano dimostrati inconsistenti. Con Crandall non aveva concluso nulla; gli era solo venuta un'emicrania tremenda. C'era sempre la possibilità che Crandall avesse una forza di volontà più robusta, che con lui fosse necessario più tempo e una concentrazione estrema. Proprio per quello, quando aveva intuito che uno dei due stava uscendo, aveva sperato che si trattasse di Tom. Ray, da solo, sarebbe stato una buona occasione, un bottone da premere. La fortuna non lo aveva assistito. Guardò il lucchetto della cella e di colpo si chiese se il suo potere non potesse influire anche sugli oggetti inanimati. Gli tornarono in mente i vestiti che si erano sistemati da soli sul letto del cottage. Era stato lui, senza saperlo? Aveva voluto a livello inconscio che uscissero dall'armadio e si mettessero sul letto? Appoggiò le mani sulla porta della cella, sentì il metallo freddo sotto le palme e si concentrò sulla serratura. Chiuse gli occhi e provò a immaginare il meccanismo interno. Immaginò di infilarsi nella serratura, di percorrerla da dentro sino ad arrivare al paletto. Pensò al paletto di metallo, lo vide scivolare indietro. Corrugò la fronte. Il sudore gli scese lungo la schiena. Più forte. Più forte. Si staccò dalla porta nel preciso momento in cui la sua scodella di alluminio volò fra le sbarre, seguita un secondo dopo dal vassoio e dallo spazzolino che gli avevano dato. Tutti gli altri oggetti della cella non inchiodati al pavimento schizzarono via come missili, superarono le sbarre e si schiantarono contro la parete di fronte. Il dolore fu immediato. Eric si accorse solo vagamente della porta che si apriva, di Tom che appariva in corridoio, abbaiando ordini. Quasi non lo sentì. Quell'emicrania era ancora peggio della precedente: un incessante martellare dietro l'occhio destro.
Quando riaprì gli occhi, Tom era scomparso. Erano passati dieci minuti. Aveva fallito, ma non del tutto. Qualcosa era successo. Forse aveva fatto prendere ai suoi pensieri la direzione sbagliata. Si era davvero concentrato sulla serratura, o invece soltanto sull'idea di uscire? Forse quel potere obbediva più ai suoi desideri che alla sua tattica. Se era così, gli serviva soltanto a metà. E al momento, aveva bisogno di qualcosa che gli servisse per intero, non a metà. 9 Ray parcheggiò di fronte alla casa dei Simmons. Dopo aver visto cosa era successo dai LeMarque, la prospettiva di ficcare il naso in casa di qualcuno gli sembrava tutt'altro che eccitante. Be', se non altro c'erano ottime probabilità che quello fosse solo un falso allarme. Si avviò e controllò la cassetta della posta. Nessuno aveva toccato le poche lettere che come minimo erano lì da un paio d'ore. Nessuno poteva restare a letto fino a quell'ora, a meno che tutti non fossero usciti di primo mattino. Si fermò davanti alla porta e si mise in ascolto. Silenzio. Indietreggiò di un passo e bussò due volte. Il suono echeggiò all'interno, ma la porta restò chiusa. Provò la maniglia. Non si mosse. Ray scese dal portico, percorse il prato cosparso di foglie, raggiunse le due finestre sul davanti. Erano chiuse anche quelle, come le tapparelle. Anzi, le tapparelle davano l'idea di essere bloccate dall'interno da qualcosa di pesante: quasi sporgevano in fuori. Passò sul retro della casa. Le due finestre sul cortile erano chiuse, come la porta. Arrivò alle sdraio, scrutò le finestre al primo piano, chiedendosi che cosa fare. Nulla lo portava a sospettare che lì fosse stato commesso un crimine e di certo nulla avrebbe giustificato un gesto estremo come l'effrazione di una porta o di una finestra. L'idea di tornare da Tom senza una spiegazione non gli piaceva, ma niente e nessuno lo avrebbero spinto a esporsi al rischio di una denuncia per violazione di proprietà privata. Non senza un ordine esplicito, comunque. Decise di chiamare Tom e chiedere istruzioni. Se Tom gli avesse detto di rientrare in ufficio, sarebbe già stata una soluzione; se invece gli avesse dato l'okay per un'irruzione, be', lui avrebbe avuto le spalle coperte. Chi dice che l'indecisione non è una decisione? Dopo un'ultima occhiata in giro, si avviò verso l'ingresso principale.
All'improvviso, alle sue spalle si udì un suono, come di un catenaccio che venisse smosso. Ray si fermò, guardò la porta sul retro e gli alberi attorno, in cerca dell'origine del rumore. Sì, poteva essere stata la porta. Ma se in casa c'era qualcuno, perché non si faceva vivo? A meno che non stessero tutti male. Che non potessero parlare. «Ehi?» urlò, tornando al portico sul retro. «C'è nessuno?» Salì i gradini e provò di nuovo la maniglia, che si abbassò, anche se con una certa difficoltà. Aprì la porta, quasi aspettandosi di vedere Bud che lo accoglieva con una birra. Ma la stanza (un ripostiglio, a giudicare dalle scatole e dai vestiti vecchi) era deserta. Ray raggiunse la porta che immetteva nell'altro locale. «Bud? Signora Simmons? C'è nessuno in casa?» Passò nello studio. Faceva buio anche lì, molto buio. Scatole e assi erano state ammassate davanti alle finestre per tenere fuori la luce. Ray esitò un attimo, aspettò che i suoi occhi si abituassero all'oscurità. Distingueva solo forme vaghe: qualcosa che poteva essere un divano, un televisore, due grandi poltrone. L'aria era pesante. Gli si fermò in gola, quasi non riusciva a scendere nei polmoni. Di colpo, le labbra si erano inaridite. Si spostò in soggiorno, cercando di non urtare contro spigoli affilati. Incredibile, il buio che c'era lì dentro. Porte e finestre erano praticamente sigillate, ma un po' di luce avrebbe dovuto filtrare lo stesso. Invece, l'unica fonte di illuminazione era il debole chiarore del pomeriggio alle sue spalle. Provò ad accendere un'abat-jour, ma la lampadina doveva essere fulminata, oppure non c'era corrente. Arrivato quasi al centro della stanza, si fermò. Non sarebbe andato oltre senza una torcia elettrica. Ne aveva una in auto e si maledì per non averla portata. D'altra parte, come poteva sapere che ne avrebbe avuto bisogno a metà pomeriggio? Si girò per uscire, ma gli obbedirono solo il collo e le spalle. Le gambe si rifiutarono di muoversi. Poi, per la prima volta, intuì di non essere solo nella stanza. Sobbalzò a un rumore sulla destra: qualcuno che si muoveva sulla soglia della camera da letto. Qualcuno che più che camminare, scivolava sul pavimento. Istintivamente, Ray cercò di prendere la pistola, ma di nuovo il suo corpo rifiutò di collaborare. Le mani erano fredde, intorpidite, quasi incapaci di chiudersi; non sarebbero mai arrivate al calcio della pistola. Sulla sinistra, si mosse qualcos'altro. Ray girò la testa. Intravide solo
qualcosa che aveva le dimensioni di un uomo e che si stagliava contro il profilo scuro di una poltrona. «Chi c'è?» tentò di dire, ma la lingua gli si incollò al palato. La porta alle sue spalle, l'unica fonte di luce, si chiuse lentamente. Nella notte improvvisa, lui cercò di vedere, di distinguere qualcosa, qualcuno; ma il nulla che lo circondava era assoluto. Per un istante, pensò alle serate in cui era uscito in barca con suo padre, quando stelle e luna venivano nascoste dalle nubi e la notte sembrava stendersi all'infinito. Un rumore. A destra. Nella falsa notte, qualcosa (due sagome, gli parve) si mosse. Si avvicinarono, lo circondarono. Gli sembrò che gli sfiorassero una gamba, ma un torpore gli proibiva ogni certezza. E sotto il torpore, nel suo petto stava crescendo un urlo che cercava uno sfogo e non lo trovava. C'era solo il buio, le cose o le persone che si muovevano nel buio e un suono. Un suono nuovo che in realtà era una specie di pressione, un ronzio alla nuca, uno sciame di api; e il suo cervello era l'alveare. Probabilmente stava impazzendo per la paura, per quel torpore che si diffondeva sempre più nei suoi pensieri. Immaginò che le api stessero discutendo di lui, che qualcuna volesse pungerlo e restare a guardarlo morire e che altre api non fossero d'accordo: facevano notare che lui era solo, poteva andare in posti per loro ancora inaccessibili e quindi poteva essere utile. Gli insetti allentarono la presa. Lo avrebbero ucciso più tardi. Poi, le api ronzanti che gli strisciavano sotto il cranio si fusero in un pulsare di ali. Spostarono l'attenzione sul tessuto molle, morbido. Le loro mandibole azzannarono la materia grigia, superarono le pieghe del cervello, scavarono in profondità. E, finalmente, trovarono quello che cercavano. E si nutrirono. 24 Cutler Will spostò la lampada, in maniera che la luce cadesse meglio sulla cavità che il dottor Morrison stava aprendo nella testa di Gregory LeMarque. Le tre precedenti autopsie erano state veloci. Non c'erano dubbi sulla causa delle morti: tre colpi di fucile a distanza ravvicinata, traumi massicci alla testa e al petto, morte quasi istantanea.. I decessi si erano verificati fra le tre e le cinque del mattino. Era con quell'ultima autopsia che il coroner a-
veva difficoltà. Gli esami preliminari avevano trovato tracce di polvere da sparo sulle mani di Gregory, il che dimostrava al di là di ogni dubbio che aveva sparato almeno una volta. Ma era impossibile stabilire esattamente quante altre volte avesse sparato ed era proprio quello che dovevano scoprire per stabilire se fosse stato lui a uccidere le altre tre vittime. Se non fossero giunti a una conclusione certa, sarebbe rimasta in sospeso una domanda essenziale: chi, o che cosa, aveva ucciso Gregory LeMarque? «Lì. Vede?» chiese il coroner. Dopo anni passati a esaminare cadaveri, molti dei quali ridotti in condizioni peggiori di quelli, il suo modo di fare era distaccato. Scostò le pieghe del cervello, appena sopra e sul lato dorsale dell'ippocampo. «Riconosce l'area?» Will esaminò la regione. Gli sarebbe piaciuto aver avuto il tempo per rinfrescare le sue nozioni di fisiologia cerebrale. Come medico generico, era fiero di sapere un po' di tutto e adesso si trovava impreparato. Però era deciso a non arrendersi senza lottare. «Siamo nella zona del complesso amigdaloide?» Morrison sorrise. «Eccellente. Allora conoscerà il lavoro di Kluver e Bucy.» «Un po'.» Ovviamente, Will non ne sapeva nulla, ma non era nello stato d'animo per una conferenza di psicofisiologia. Morrison sondò il tessuto in profondità, indicandone le caratteristiche col distacco di una guida turistica. «La divisione corticomediale... Siamo vicini, ma non è esattamente quello che voglio... Ecco, la regione basolaterale... Mi interessa sempre in maniera particolare, soprattutto quando ho a che fare con un presunto omicida. È l'area che secondo molti psicopatologi può essere stimolata per indurre un comportamento aggressivo. Novantonove volte su cento, non trovo niente di anormale. Ma ogni tanto...» Toccò il tessuto con una sonda. «Guardi, per favore.» Will si chinò in avanti. Il tessuto sotto la sonda di Morrison era gonfio, dilatato. Nei vasi sanguigni c'erano piccole lesioni che avevano scolorito il tessuto circostante. «Non è un tumore», disse. «Non esattamente, no. Però è strano, non trova? Una situazione come questa nel nucleo amigdaloide basolaterale potrebbe portare a una stimolazione del tessuto circostante e provocare un comportamento molto aggressivo.» «Una follia momentanea.» «Sostanzialmente, sì. Però organica, non funzionale.»
«Secondo lei che cosa l'ha provocata?» «Difficile dirlo. È possibile che sia iniziata come disturbo congenito. Lei era il suo medico. Le ha mai parlato di emicranie prolungate?» «Che io ricordi, no.» «Allora non era un male cronico, ma acuto, almeno nelle fasi finali. È questo che trovo strano. Il tasso di deterioramento deve essere stato elevatissimo, eppure non ci sono tracce di danni ai tessuti circostanti. Sembrano normalissimi. È come se una pressione tremenda fosse stata esercitata solo su questa zona del cervello.» «Se soffriva, non ne ha mai parlato. Quindi il male deve averlo colpito da poco e la metastasi è stata velocissima. Il dato curioso è che sua moglie, Barbara, si è lamentata spesso di emicranie stagionali.» «Davvero? Ah, peccato che dei suoi tessuti cerebrali sia rimasto così poco da studiare. Non credo possano esistere rapporti, ma sarebbe stato ugualmente interessante.» Will rabbrividì alla freddezza di quella frase. Il fatto che l'avesse pronunciata un collega non smorzò l'intensità della sua reazione. L'unica cosa che desiderasse era tornare a casa e fare un bagno. «In ogni caso», continuò Morrison, «come dice lei, questa anomalia porta alla possibilità che se e quando il LeMarque ha commesso gli omicidi fosse in preda alla follia.» «Perché dice se?» «Guardi di nuovo il sangue attorno ai tessuti. Vede come si è diffuso in fretta nella regione? Tutto indica una rottura dei vasi sanguigni. In un'area così critica, il fenomeno sarebbe quasi certamente fatale. La situazione sarebbe all'incirca la stessa di un'emorragia cerebrale. Fin qui, lo stato del corpo sembrerebbe indicare un omicidio-suicidio. Ed è possibile che l'emorragia si sia verificata mentre lui premeva il grilletto. Forse alla fine ha rivolto il fucile contro sé per sfuggire al dolore, che deve essere stato immenso, a dire poco. Ma per esserne certi, dobbiamo studiare il percorso e la densità del sangue che si è coagulato nella regione. «Perché, visto quello che ho davanti, è del tutto possibile che il soggetto sia morto prima di poter premere il grilletto. Se è così, resta una sola conclusione logica: era già morto quando sono stati commessi gli omicidi. In questo caso, il colpevole è qualcun altro, che poi ha sparato anche a Gregory LeMarque per inscenarne il suicidio.» «Ma le tracce di polvere da sparo...» «Potrebbero essere un falso indizio. Se LeMarque era morto, non sareb-
be stato difficile mettergli il fucile nelle mani, dato che il rigor mortis non poteva essere ancora sopravvenuto e poi premere il grilletto. Ne sarebbe risultato un suicidio apparente, con tracce di polvere da sparo sulle mani e sugli abiti della vittima. Will fischiò sottovoce. «Sarà un caso difficile, eh?» Morrison scrollò le spalle, imperterrito. «No, se ci muoviamo in fretta. Dobbiamo stabilire il percorso del sangue prima che le tracce si deteriorino ancora di più. Se riusciamo a scoprire che il sangue si è coagulato prima nella zona attorno all'aberrazione e che poi si è diffuso nel resto del cervello, allora è morto per cause naturali prima di sparare. Se invece il sangue si è coagulato inizialmente in altre aree del cervello, in seguito a forze esterne e non a un'emorragia, allora è morto per cause non naturali, cioè per un colpo di fucile. Il che significherebbe che probabilmente si è suicidato, come in effetti sembra.» Il dottore rifletté. «Non dovrebbe occorrere più di un'ora circa. Le consiglio di telefonare al capo della polizia di Dredmouth Point e di farlo venire qui per un colloquio preliminare.» «Devo dirgli altro?» «Solo che al momento nessuno può decidere se ha arrestato un assassino o un innocente. L'unica persona che potrebbe risolvere l'enigma...» Indicò Gregory LeMarque. «È un testimone piuttosto reticente.» 2 Tom sentì aprirsi la porta dell'ufficio alle sue spalle. Bene, pensò. Per una volta, Ray arriva in tempo. «Ray?» chiamò. Erano quasi le tre e trenta. La porta dell'altra stanza si socchiuse leggermente. «Sì?» Tom prese la giacca. «Ha appena telefonato Will. Dice che può esserci qualche novità preliminare sugli omicidi.» Non ci fu risposta. Di solito, la curiosità di Ray era sterminata, ma forse quel giorno era bastato a spegnere anche il suo interesse. «Vuole che io vada a una riunione con il coroner. Tu resta qui a tenere d'occhio la situazione. Non muoverti senza informarmi. Se all'ospedale salta fuori qualcosa, ti farò sapere, okay?» «Bene.» «Torno fra un'oretta», disse Tom e uscì nel parcheggio. Sperava di poter finalmente avere un responso definitivo. Prima fosse riuscito a chiudere quella storia, meglio si sarebbe sentito.
3 Eric non vide uscire Tom, ma lo sentì. Il che significava che Ray era tornato. Si concesse un attimo di sollievo. A parte la leggera pulsazione alle tempie, era sicuro di poter dominare Ray. Doveva solo attirarlo nelle celle. Stai attento, si disse. A questo stadio, non puoi peccare di troppa fiducia in te stesso. Si preparò allo sforzo, poi si appoggiò alle sbarre. «Ehi!» urlò. «Ehi, statemi a sentire! Sono pronto a confessare!» Se c'era una cosa che potesse portare lì Ray era la prospettiva di ottenere da solo una confessione. Una pausa, poi la porta si aprì. Eric sedette sulla brandina, assunse un'aria il meno minacciosa possibile. I passi di Ray si avvicinarono. Eric chiuse gli occhi, si concentrò. Sperava solo di avere abbastanza potere per convincere Ray ad aprire la porta della cella. Ray si fermò davanti alla cella. La prima cosa che Eric notò fu che aveva la pistola. Strano. Gli agenti di polizia non erano tenuti a entrare disarmati nelle celle? Poi vide gli occhi. Non quelli di Ray. Quelli sospesi sopra la spalla sinistra di Ray. Appena visibili, entravano e uscivano di continuo dal raggio dei sensi potenziati di Eric. Erano ondeggianti, vaghi; c'erano e non c'erano: gli occhi di un serpente, un capro, un coyote; non umani, ma senzienti. Alla fine, si misero a fuoco su di lui, e in quell'istante lui seppe. Li vide sgranarsi davanti a lui, e seppe. Lo avevano riconosciuto! Il viso di Ray non esprimeva emozioni. I suoi occhi erano morti, ripiegati su se stessi. «Sapevano che saresti venuto», disse Ray, in tono piatto. Estrasse la pistola dalla fondina e la puntò su Eric. «No!» urlò Eric. Gli occhi, pozzi d'oro con bordi di fuoco, stretti ed evanescenti, lo fissavano... Concentrati! ...Duri e infiammati e colmi d'odio. Fallo adesso, stavano dicendo, fallo adesso... La pistola! ...Il dito sul grilletto...
No! Eric urlò. E la stanza esplose in un uragano. Coperte, cibo, tutto si mise a volare, prigioniero del tornado. La testa di Eric vibrava al ritmo del vento, ma lui continuò a spingere col pensiero, a sferzare il vento. Gli occhi alle spalle di Ray si ritrassero. Ray indietreggiò di un passo, confuso. Restava una sola possibilità. Eric si appoggiò alla parete, chiuse gli occhi e si concentrò. Si proiettò dentro se stesso, più in profondità di quanto avesse mai osato fare. Doveva essere adesso. Adesso! Il metallo stridette, si squarciò. Un'esplosione, che Eric sentì più con la mente che con le orecchie, lo scaraventò a terra. La pressione era terribile. Temette che la testa gli scoppiasse. Frammenti di metallo affilati come rasoi gli sfiorarono le orecchie. Lui continuò a spingere. Era cosciente solo in maniera molto vaga di ciò che faceva; era come guardare la scena dall'esterno, da lontano. Scaraventò la tempesta contro la porta, contro Ray e contro la cosa dietro Ray. Il suo cuore era sul punto di cedere per lo sforzo. Ci fu un altro urlo, questa volta dall'esterno della cella. Salì e salì, sempre più acuto: un gemito che gli straziò le orecchie. Poi, di colpo, il suono cessò. Eric aprì gli occhi, ignorò il dolore che gli squassava il cranio, si concentrò sul punto dove un minuto prima c'era la porta della cella. Adesso la porta era conficcata nella parete di fondo, scardinata. Aveva scavato nel muro una tacca di almeno cinque centimetri. Ray era stato sbattuto sul pavimento. Non si muoveva. Era successo come nell'appartamento, pensò Eric, stordito. Ma le altre volte, dormiva. Non lo aveva mai visto accadere. Si alzò, barcollò verso l'uscita, mentre il pavimento minacciava in continuazione di svanire sotto i suoi piedi. Si chinò su Ray. Sulla fronte dell'agente c'era una ferita profonda e graffi sul viso e sulle mani. L'uniforme era tagliata in diversi punti e il sangue colava fuori. Però respirava ancora e le ferite sembravano superficiali. Prima o poi, sarebbe tornato in sé. La cosa più importante, comunque, era che gli altri occhi erano scomparsi. Per il momento. Eric non aveva intenzione di fare del male a Ray e adesso non avrebbe voluto abbandonarlo. Quello che aveva fatto non dipendeva completamen-
te dalla sua volontà. Era stato qualcosa dentro di lui. Qualcosa che si era liberato, aveva colpito ed era svanito dopo avere esaurito il proprio compito. Doveva uscire da lì. Non sapeva quanta parte del frastuono che aveva sentito fosse stata solo nella sua mente e quanta fosse invece stata percepibile all'esterno. Potevano scoprirlo da un momento all'altro e difficilmente qualcuno avrebbe creduto alla sua storia. Studiando i danni che in qualche modo aveva provocato, quasi non ci credeva lui stesso. Ma lo spaventava ancora di più l'idea che quegli occhi tornassero. Esprimevano un potere e una fame agghiaccianti. Corse nel corridoio, guardò fuori dalla finestra. O nessuno aveva udito, o nessuno voleva indagare. La prima ipotesi era la più probabile. Cercò nella scrivania di Tom la busta che conteneva le sue cose, la trovò, andò alla porta. La strada era tranquilla; c'era in giro poca gente. Quasi tutti i negozi avevano già chiuso. Cercando di assumere un'aria indifferente, uscì nel parcheggio e individuò la sua Datsun, che evidentemente era stata trainata fin lì. Con un ringraziamento silenzioso all'efficienza di Crandall, mise in moto e imboccò la strada che lo avrebbe portato fuori città. Si diresse a nord. Il suo unico desiderio sarebbe stato non fermarsi mai, arrivare in Canada, o a New York, o da qualunque altra parte. Allontanarsi da lì. E in passato lo avrebbe fatto; lo aveva sempre fatto. Ma gli occhi avevano cambiato tutto. Nell'istante in cui li aveva visti, aveva capito che fuggire era impossibile. Aveva capito che lo avrebbero trovato ovunque andasse. Lo avevano riconosciuto! E avevano usato Ray per cercare di ucciderlo. Stavano prendendo coraggio; correvano il rischio di scoprirsi pur di arrivare a lui. Eric cominciava a sospettare che quello che accadeva al Point non sarebbe rimasto confinato in quel posto a lungo. La domanda era: come facevano a sapere di lui? E chi, o che cosa, erano? Era sicuro che Sam avesse la risposta. La sera prima, aveva intuito che il professore nascondeva qualcosa sulle caverne; il giorno dopo, al Point tutto era cambiato. Sam doveva saperne qualcosa. Quindi, il suo punto di partenza doveva essere Sam. Era la sua principale speranza, a meno di rischiare un confronto diretto con la cosa nelle caverne e a quello non era pronto: non ancora,
non dopo ciò che aveva visto. All'inferno. Sam doveva sapere qualcosa. Avrebbe scoperto cosa. 4 Sola nel cottage, Liz riagganciò. Niente di nuovo dall'ospedale. L'infermiera era stata gentile, addirittura cordiale, ma semplicemente non c'erano novità. Sam era ancora in stato d'incoscienza. Liz si fissò le mani intrecciate in grembo. Si sentiva così maledettamente impotente. Poteva solo starsene lì a fare delle telefonate. L'altra possibilità, cioè andare a Cutler e aspettare che Sam riprendesse i sensi, era impensabile. Non osava andarsene. Eric poteva avere bisogno di lei, se la sua innocenza fosse stata accertata. Il che sarebbe successo senz'altro. Era solo questione di tempo. Tipico. Sentiva la voce di suo padre, gravida di ironia e sottintesi. Come sempre, hai scelto l'uomo sbagliato. Tu proprio non li sai giudicare, gli uomini. Come mamma, pensò lei e alzò la testa quando bussarono alla porta. Era Sarah Franklin con un vassoio di cibo caldo coperto da una tovaglietta. Alle sue spalle, il cielo stava assumendo un colore violaceo. Presto si sarebbe fatto buio. «Non sei venuta a cena», disse Sarah, «così ho pensato di portarti qualcosa. È solo polpettone di carne, patate lesse e mais, ma penso che ti farà bene.» «Grazie, Sarah», disse Liz, accettando il vassoio. «Però ho paura che a Zach verrà un infarto, quando saprà che uno dei suoi pensionanti ha avuto il servizio in camera.» «Oh, è probabile. Ma io ho imparato da molto tempo che il modo migliore per sopravvivere con Zach è ascoltare quello che dicono i suoi occhi, non la sua bocca. La sua bocca non fa altro che cacciarsi nei guai.» Sarah si passò le mani sul grembiule ed esitò, come se volesse aggiungere qualcos'altro. «Volevo solo dirti che anche secondo me è innocente», disse alla fine. «Andrà tutto bene. Lo dice anche Zach. Dice che dalla prima volta che ha visto il signor Matthews ha capito che è un brav'uomo, non il tipo capace di...» La sua voce si interruppe. «Comunque, siamo tutti e due con voi e se possiamo fare qualcosa...» Liz sorrise, sinceramente commossa. Per quanto gli abitanti del Point si
sforzassero di nasconderlo, quasi tutti possedevano un cuore grande come Manhattan. «Lo ricorderò. Grazie. Cercherò di fare un salto più tardi, se ci sono novità.» «Va bene. Goditi il pasto.» «Senz'altro», rispose lei e la salutò con la sinistra, impacciata dal vassoio. «Ah, fra l'altro», si girò a dire Sarah, «volevo chiederti se hai problemi con il telefono.» «Non mi sembra. Perché?» «Non so. È che il suono della linea mi è sembrato strano per tutto il giorno. Sarà solo la mia immaginazione.» La donna proseguì in direzione della Grande Casa. Liz chiuse la porta del cottage con un piede, raggiunse il tavolino da caffé e mise giù il vassoio. Incuriosita, alzò il ricevitore e lo avvicinò all'orecchio. Tutto normale. Però, continuando a restare in ascolto, le sembrò che il suono fosse davvero strano: una specie di ronzio insistente, come se ci fossero decine di voci che cercavano di parlare insieme, però lontane, indistinte, impercettibili. «Pronto?» disse, premendo il ricevitore all'orecchio, cercando di decifrare qualcosa nel sibilo che udiva. No, mi sto sbagliando, pensò e riappese. Come aveva detto Sarah, immaginazione. Certi rumori sono come i test di Rorschach: ci senti quello che vuoi sentire. Tolse la tovaglia dal vassoio e si dedicò alla cena. Era impossibile che avesse sentito qualcuno chiamarla per nome. 5 Eric entrò al Cutler Memorial Hospital da un ingresso laterale. Era fortunato. L'atrio era deserto, a parte un'anziana signora che procedeva con passo incerto verso la porta con la targa CONSULENZA GERIATRICA. La superò con tutta calma, cercando di dare l'impressione che la sua presenza fosse perfettamente legittima. Arrivato all'intersezione con un corridoio, rallentò e si avviò al banco dell'accettazione. Due impiegate riempivano moduli rosa e azzurri e li sistemavano nell'archivio. Eric si fermò. Era ragionevolmente sicuro di poter influenzare una delle due donne, ma non entrambe e a giudicare da quello che facevano, sarebbero rimaste lì per un bel pezzo. Non poteva rischiare un approccio diretto.
Se avessero scoperto e segnalato la sua fuga, una delle due si sarebbe senz'altro ricordata di un'uomo che corrispondeva alla sua descrizione e che aveva chiesto di Sam. Però doveva scoprire dove fosse il professore. Guardandosi attorno, individuò un paio di cabine telefoniche fuori dalla visuale delle impiegate. Perché no? Si infilò in una delle cabine, chiuse la porta a vetri. Cercò sull'elenco il numero dell'ospedale e lo compose sulla tastiera dell'apparecchio. Alle sue spalle, una delle due impiegate alzò il ricevitore. «Cutler Memorial.» Eric sentì distintamente la voce dall'atrio, oltre che dal telefono. «So che avete un paziente che è stato ricoverato in tarda mattinata», disse. «Sam Crawford.» «Esatto, ma temo che al momento il signor Crawford non possa ricevere telefonate.» «Capisco. Volevo solo mandargli dei fiori. Qual è il numero della stanza?» «Stanza 233.» «Grazie», disse Eric e riappese. Uscì dalla cabina e si diresse all'ascensore, sperando di non avere problemi. Alle sue spalle, qualcuno disse: «Signore?» Eric si girò, sorrise. «Sì?» Era la stessa donna che gli aveva risposto al telefono. «L'orario delle visite finisce tra dieci minuti.» «Oh, non ci metterò molto. Ho solo dimenticato il mio libro.» «Va bene», disse l'impiegata e tornò ai suoi moduli. Eric salì in ascensore e premette il pulsante del secondo piano. Mentre aspettava che le porte si chiudessero, sentì la donna dire: «Un'altra telefonata per Crawford». «Un tipo popolare», disse la seconda impiegata. «Quella donna deve avere chiamato almeno cinque volte.» Eric sorrise alle porte dell'ascensore che si chiudevano. Brava Liz! Il letto della stanza 233 era vuoto. Grande, splendido, pensò Eric. Se non altro, nella stanza non c'era nessuno. Fece per entrare e sobbalzò alle voci che giungevano da dietro l'angolo opposto del corridoio. Tom e il medico, Will. «Accidenti», borbottò Eric. Nessun posto per nascondersi, a parte il posto dove avrebbero guardato per prima cosa, ammesso che decidessero di guardare: sotto il letto. Era a malapena riuscito a infilarsi sotto quando la porta si riaprì e i due entrarono, accompagnati da un inserviente con una
barella. «...Non del tutto certi», stava dicendo Tom. La barella si fermò a fianco del letto. «No, e anche se c'è ancora qualche esame da eseguire, né Morrison né io prevediamo di scoprire qualcosa di diverso da quello che abbiamo accertato sinora. Oh, ci sarà un'inchiesta, naturalmente, ma è solo una formalità. A questo punto, tutto indica un chiaro caso di omicidio-suicidio. Greg è morto per il colpo di fucile, non per l'anomalia nei suoi tessuti cerebrali. Non che per lui abbia fatto molta differenza, immagino. Sarebbe morto in qualunque caso, però direi che farà una differenza notevole per il tuo prigioniero.» «Notevolissima», disse Tom. «Allora telefonerai per farlo rilasciare?» «Non ancora», rispose Tom. «Voglio tornare in ufficio. Voglio le risposte a qualche altra domanda sull'incidente di Sam, prima di mollarlo. E poi, ho promesso a Matthews di offrirgli una bistecca se fosse risultato che l'ho arrestato senza motivo e non ho nessuna intenzione di buttare i miei soldi.» «Forse gli dobbiamo molto di più», disse Will. «Da come stanno le cose, se Matthews non si fosse trovato lì al momento giusto, Sam non sarebbe nemmeno vivo.» «Già, però siamo sempre di fronte a coincidenze esagerate. Non mi ha ancora spiegato come mai si trovasse sulla strada del lago.» Le molle scricchiolarono. Sam era stato trasferito dalla barella al letto. «Sono tutti in pensiero per te, Sam. Anche il sacerdote che prendi in giro da un paio d'anni.» «Dov'è il padre?» chiese Tom. «L'ho rimandato a casa», rispose Will. «Era esausto. Ha continuato a parlare con Sam tutto il giorno, anche se per ora pare non sia servito a molto. Magari domani. La sai una cosa? In vita mia, non ho mai desiderato tanto arrivare alla fine di una giornata.» «Amen.» I due si avviarono alla porta. «Fra parentesi», disse Will, «potresti darmi un passaggio? Ero talmente sottosopra che sono arrivato qui in ambulanza con Sam e ho lasciato la mia macchina dai LeMarque.» «Non c'è problema», disse Tom. «Aspetta solo che compili un po' di scartoffie, poi partiamo. Puoi aspettare mezz'ora?» «Non c'è problema.» Will sospirò. «La gente vive e muore, i governi sorgono e cadono, gli imperi nascono e finiscono in polvere, ma le scartof-
fie sono eterne, eh, Tom?» La risposta del poliziotto si perse al chiudersi della porta. Quando il suono dei loro passi fu lontano, Eric uscì da sotto il letto. Grande, pensò. Adesso sanno che sono innocente, ma quando Crandall rientrerà in ufficio e vedrà cosa ho fatto, avrà grossi dubbi. Mentre si appoggiava al letto per alzarsi, la sua mano sfiorò il braccio di Sam... (serpente era un serpente e mi guardava nella caverna ed era buio così buio e le pareti crollavano e io dovevo uscire dovevo uscire) ...e si ritrasse di scatto. Che diavolo? Eric mise la mano sul braccio di Sam, sentì i pensieri uscire dalla pelle nuda come una corrente elettrica. Il contatto era stato improvviso, stupefacente. Quasi stupefacente come la pelle stessa di Sam, che era gelida in maniera innaturale. Sedette a fianco della forma immobile di Sam. Le contusioni che quel mattino erano solo lievi gonfiori adesso erano chiazze rosse e viola. Le guance erano scavate, il viso tirato. Be', sono qui. Che cosa devo fare? Ma conosceva la risposta ancora prima di formulare la domanda. Lo aveva già fatto per un secondo, casualmente. Adesso doveva finire. La prospettiva non era allettante. Preparandosi al colpo, prese la mano di Sam e strinse piano. Chiuse gli occhi, chiedendosi quanto tempo sarebbe occorso per... (...serpens...) Eric sussultò all'intensità dell'immagine, ma mantenne il contatto e non aprì gli occhi. Si concentrò. Scese più in profondità. Intravide frammenti, immagini. (... la caverna... buio... passaggi... gli indiani sapevano?. .. il serpens che mi fissa.... panico... scappare... fuggire, il serpens... sa... non è un semplice simbolo... scappa. .. vede tutto... passaggi giù, sotto, la camera segreta... freddo... mi mangia la mente... l'altro... via dalla caverna... sono dappertutto... devo uscire... salta... salta... il terreno mi viene incontro...) «No!» Eric riaprì gli occhi, lasciò andare la mano di Sam. Il contatto svanì all'istante. Toccò il letto, per ritrovare la sensazione, la certezza di essere lì, non nella caverna. Era stato solo un lampo, un attimo al di fuori del tempo: ma aveva intuito ciò che era successo. Sam aveva trovato una camera segreta nelle caver-
ne, l'aveva esplorata e qualcosa là dentro, il serpens, lo aveva spaventato al punto da spingerlo a buttarsi di sotto. Quello era l'essenziale. C'erano altre cose che non riusciva a capire, cose che non avevano senso: una macchina fotografica, un sandwich. Però, unito a ciò che era accaduto nelle ultime ventiquattr'ore, tutto ciò bastava a mettere Eric nella direzione giusta. Sam aveva liberato qualcosa che si trovava nelle caverne, al di là di ogni dubbio; qualcosa (o diverse cose) che attendeva da molto tempo. Era l'unica conclusione sensata. La stessa cosa che Eric aveva incontrato tanti anni prima, quando si era avventurato nelle caverne? La stessa cosa che aveva visto alla stazione di polizia? Non ne era certo. Aveva bisogno di tempo per pensare. Aveva bisogno di un posto dove loro non venissero a cercarlo prima che lui fosse pronto. Un posto... La risposta gli giunse subito. La risposta che, istintivamente, sapeva giusta. L'ultimo posto dove qualcuno potesse cercarlo. Il cimitero di North Cutler. La tomba di suo padre. 6 Padre Kerr girò un'altra pagina del diario del reverendo Milcraft. Le annotazioni, scritte con precisione e minuzia, lo rendevano sempre più irrequieto. Sistemò la lampada della scrivania per illuminare meglio il testo che stava leggendo. 10 giugno 1868 Un'altra discussione fra Carlton, Monroe e me. Non voglio che continuino a profanare la casa del Signore, eppure temo ancora che il mio ruolo in tutto questo possa essere svelato e se dovesse accadere... No, non mi soffermerò qui sul pensiero. Ho ricevuto una missione da Dio Onnipotente: servirlo ed erigere un tempio consono alla sua gloria, e l'ho fatto. Non permetterò al demone del dubbio di gettare ombre su questa impresa. Che usino il luogo noto soltanto a noi; la Bibbia non dice forse di dare a Cesare quel che è di Cesare? Non è ciò che viene dall'esterno a corrompere l'uomo, dice Cristo, ma ciò che esce dalla sua anima. Quello che accade in questa casa non contaminerà i buoni risultati che emergeranno. Eppure, non posso fare a meno di chiedermi...
L'annotazione terminava lì. Kerr passò alla pagina successiva. 18 giugno 1868 Carlton è un'idiota! Una delle botti che ha lasciato nella stanza non aveva raggiunto la stagionatura giusta e si è rotta nel corso della notte. Non lo avessi scoperto stamattina, quando sono tornato a prendere i piatti che abbiamo usato ieri sera, sono certo che l'odore del rum avrebbe impregnato il legno. E come avrei potuto spiegarlo ai miei parrocchiani, per pochi che siano? Maledetto Carlton! Non mi importa cosa fa del suo rum, o dove se lo procura, o a chi lo vende. Il rum è per gli infedeli. Ma non permetterò che questo luogo puzzi come una distilleria! È già abbastanza brutto che Carlton e Monroe continuino a litigare per la divisione dei guadagni. Posso tollerare l'avidità, ma l'incompetenza è tutto un altro discorso. Un'altra pagina. 24 giugno 1868 Temo che fra Carlton e Monroe possa scorrere il sangue. Litigano incessantemente sulla divisione dei guadagni e ieri sera Monroe è precipitato in un tale stato di ubriachezza da cominciare a scherzare sul 'vero spirito... e i veri spiriti' della chiesa con i suoi amici. Fortunatamente per lui, non ha mai insozzato con le sue parole questa chiesa in mia presenza, o giuro davanti a Dio stesso che lo avrei steso con le mie mani. Potesse Dio liberarmi da questa diabolica complicità! Detesto le circostanze che mi hanno costretto a fare società con questi uomini. Fossero esistite altre fonti di denaro per la costruzione di questa chiesa e la gente non avesse fatto tanta resistenza, non avrei dovuto rivolgermi ai contrabbandieri, permettere loro di usare questo luogo come magazzino per la loro ripugnante merce. Chi mai penserebbe di cercare i frutti del Demonio in un luogo di culto? Ah, sono stati astuti, e gli abitanti del villaggio stupidi. Potranno rimproverare solo se stessi per tutto ciò che accadrà loro. Sarà conseguenza della loro stupidità. Kerr chiuse gli occhi, allora le storie erano vere. Milcraft aveva davvero ricevuto i soldi per costruire la chiesa dai contrabbandieri di rum, però i contrabbandieri non lo avevano aiutato per mettersi la coscienza in pace. Avevano usato la chiesa per nascondere le botti di rum e mettersi al sicuro
dalle indagini delle autorità. Una complicità terribile, come Milcraft aveva gradualmente scoperto. Passò all'ultima annotazione. 1 luglio 1868 Dio abbia pietà di me! Sono perso, distrutto. Ho contaminato la chiesa del Dio Eterno e la mia dannazione è certa. Cristo stesso potrà mai perdonarmi, dopo ciò che è accaduto? È successo ieri sera, poco prima che un nuovo carico di rum venisse lasciato nella stanza. Carlton e Monroe hanno ricominciato a litigare, più violentemente che mai. Ho temuto che potessero venire alle mani e nella mia stupidità ho cercato di intervenire. Non posso permettere la violenza in questo luogo. Idiota che sono! Mentre prendevo in disparte Monroe e tentavo di calmarlo, Carlton lo ha pugnalato alle spalle. Monroe ha urlato una sola volta ed è caduto a terra, immobile. Ho convinto Carlton ad andarsene subito (come se a quel punto fosse necessaria molta opera di persuasione!) e gli ho detto che avremmo deciso che cosa fare non appena la calma ci avesse permesso di affrontare l'accaduto. Siamo usciti, dopo aver chiuso a chiave la stanza. Stamattina sono tornato nella stanza, ancora incerto sul da farsi. Ho scoperto... Dio mi aiuti a scrivere le parole... che Monroe non era morto come pensavamo, ma solo gravemente ferito. Quando ho aperto la porta, ho trovato Monroe lì accanto con schegge di legno sotto le unghie. Aveva graffiato la porta nel tentativo di raggiungere la serratura. Se l'avessimo aiutato, forse sarebbe vissuto. Così ora, avendolo abbandonato, sono colpevole del crimine quanto Carlton, che è scomparso. Non mi aspetto di vederlo mai più tornare. Ha lasciato a me l'incarico di provvedere al corpo. E lo farò! Anche se la chiesa deve vivere, se il lavoro di Dio deve continuare, io sono dannato. Non potrò mai nascondere questo crimine agli occhi di Dio. Chiederò il perdono, ma non può esservi perdono senza penitenza. Lascerò il corpo qui, in questa stanza. Questa casa di Dio diventerà il suo sepolcro, questo diario il suo elogio funebre. Non posso confessare il crimine agli uomini e questa sarà la mia confessione al tempo. Possa chi la troverà pregare per la mia salvezza. Ora sigillerò la stanza e murerò le scale che portano a essa. Se qualcuno troverà questo diario, prego che abbia misericordia per me. Dio di Israele, accetta questa offerta come mia penitenza, come mio desiderio di fare giustizia quando giustizia non può essere fatta. Finché questa chiesa rimarrà integra, mi ricorderà questo crimine e io pregherò per il perdono.
Kerr mise giù il diario. Orribile. Non c'era da stupirsi se con gli anni Milcraft era impazzito: il continuo ricordo di ciò che aveva fatto, della profanazione della chiesa che era stata la sua ragione di vita, doveva essergli stato insopportabile. Si chiese se potesse esistere qualche rapporto fra la scoperta del corpo e del diario e gli avvenimenti degli ultimi giorni. Il crocefisso della sacrestia si era mosso tre volte e una volta era apparso all'esterno della chiesa, davanti al portone. Forse era la maniera scelta da Cristo per portare finalmente alla luce il delitto. Forse aveva già deciso di svelare a lui il segreto perché la sua casa potesse esser purificata. Questo avrebbe spiegato molte cose. Quale che fosse la realtà, non poteva affrontare da solo la situazione. Doveva consultare il vescovo. A differenza di Milcraft, aveva qualcuno cui rivolgersi. L'orologio alla parete segnava le diciassette e sedici. Nel giro di un'ora sarebbe calato il buio. Era troppo tardi per rintracciare il vescovo, soprattutto di venerdì. Lo avrebbe chiamato l'indomani, lasciandogli un messaggio molto cauto. Forse, entro lunedì, avrebbero potuto incontrarsi ed elaborare un piano. Lasciò correre la mano sul dorso logoro del diario di Milcraft. Povera anima tormentata. Quella sera avrebbe acceso una candela e recitato una preghiera per lui. Forse Milcraft avrebbe sentito e trovato un po' di pace. Dopo tutti quegli anni, la meritava. 7 Solo nella stazione di polizia, Ray Price aprì gli occhi. Sentiva un dolore alla fronte e c'era del sangue sul suo viso. Ma non importava. Aveva fallito nella sua missione, ma nemmeno quello era più importante; ormai era troppo tardi perché qualcuno potesse interferire. Tutto era perso. Sapeva, confusamente, che ciò avrebbe significato la sua morte, ma quelle parole erano prive di senso. Nulla importava più. C'erano soltanto la quiete, il buio del pomeriggio e il suo scopo. Poi sentì il mormorio delle api che ricominciavano a muoversi nel suo cervello e non fu più solo. 8
Eric individuò un punto abbastanza basso nel recinto che delimitava il cimitero di North Cutler. Lo scavalcò ed entrò. Era troppo tardi per i visitatori; almeno per un po', nessuno lo avrebbe disturbato. Trovare la tomba non fu difficile. La lapide, semplicissima, riportava solo il nome e la data di nascita e di morte. Più sotto, le parole Ti piangiamo. Nient'altro. Del resto, che altro c'era da dire? Dopo tutti quegli anni, dopo tutta l'attesa, Eric era finalmente tornato. Dopo gli anni di angoscia e inquietudine, il silenzio del cimitero era quasi una delusione. Strano, pensò. In quel luogo di morte, aveva finalmente la sensazione di essere a casa. Si accoccolò davanti alla tomba. Toccò la pietra. «Sono qui», disse, piano. Passò la mano sul terreno che delimitava il rettangolo d'erba. Corrugò la fronte: qualcosa non andava. Poi capì. Non era ancora abbastanza vicino. Suo padre non poteva sentirlo. Si coricò sulla tomba a faccia in giù nell'erba, nella stessa posizione del corpo che stava sotto di lui. Guardò in basso, non in alto. Girò la testa e premette l'orecchio sul terreno. Ascoltò. E all'improvviso, le tenebre che stavano sotto si sollevarono e lo abbracciarono, gli strapparono un urlo, lo trascinarono nel terreno che lo inghiottì, sempre più giù, più giù. Il legno si spezzò e lui vide le orbite vuote dei suoi incubi, il viso privo di pelle, il teschio vuoto. Il viso di suo padre. Che gli sorrise. Bentornato a casa, gli disse. E, nella mente di Eric, il mondo esplose. 25 Langren In distanza, un punto di luce. Correva avanti, come un treno in un lungo tunnel. Veloce. Un ruggito nella notte. E la luce colpì. E la voce parlò.
Parlò con la voce di suo padre, la voce di sua madre, la voce che gli si era presentata in sogno e nei momenti di bisogno: una voce di foglie secche e vento e oro e compassione. Nelle tenebre, lui restò in ascolto delle parole. Le parole. Le caverne sono sempre state un luogo di potere. Molto prima che i bianchi giungessero in questo paese, lì c'era il potere. E c'era il pericolo. Gli indiani conoscevano la storia. La ripetevano di generazione in generazione. La storia narrava di come, tanto tempo prima, Giorno e Notte avessero combattuto una grande battaglia per il dominio del mondo degli uomini. La lotta divampò su terra e oceano. I loro colpi abbatterono montagne e i loro talloni scavarono grandi vallate nella terra, finché Notte, ferito, non si rifugiò in quel luogo. La storia diceva che le caverne si erano formate quando Notte si era sepolto nelle viscere della terra, nel suo tentativo di fuga. Ma Giorno aveva seguito Notte nelle caverne e lì si erano affrontati. Una lotta grandiosa, terribile. Il sole e le stelle erano cadute dal cielo e Giorno e Notte avevano continuato a combattersi. Il loro corpo a corpo minacciava di distruggere le fondamenta del mondo. Alla fine, esausti, si erano fermati. Incapaci entrambi di sopraffare l'altro, si erano divisi il controllo del mondo. Quando Notte regnava, Giorno si ritirava nella sua dimora sulle colline lontane; e quando regnava Giorno, Notte sprofondava nel suo regno sotterraneo. Ma Notte era geloso, diceva anche la storia, perché mentre Giorno regnava supremo sulla terra, Notte era costretto a dividere il regno con la luna e le stelle. Così Notte cospirò di nuovo per impadronirsi della terra. Più astuto di prima, cercò alleati che combattessero al suo fianco. Spiriti delle viscere della terra, spiriti che dimoravano al di là della terra, alleati che non si erano mai interessati alla terra finché Notte non li tentò. Con il loro aiuto, venne creata una porta fra questo mondo e il mondò degli spiriti. Venne creata nel luogo del potere, dove Giorno e Notte avevano combattuto. Da quella porta, gli alleati sarebbero entrati di nascosto per distruggere Giorno. Poi, assieme a Notte, avrebbero governato la terra. La storia diceva anche che Giorno vide ciò che stava accadendo e apparve alla tribù che viveva su quelle colline, la tribù che aveva visto la lotta fra Giorno e Notte. La custodia delle caverne fu affidata a loro. Gli indiani divennero guardiani della casa di Notte, incaricati di sorvegliare le caverne come l'aquila sorveglia il cacciatore che va in cerca dei suoi piccoli.
Ma sorvegliare non bastava, perché Notte era forte e sapeva ingannare. Quindi, uno di loro venne scelto e ricevette il potere di fermare Notte. Il potere di vedere, il potere di muovere. Il potere si trasmise di padre in figlio. Il padre doveva insegnare al suo successore a usare il potere, a controllarlo in modo che non fosse il potere a controllare chi lo possedeva. Il potere permetteva al prescelto di vedere oltre gli inganni di Notte, di lottare con Notte in assenza di Giorno. L'unica cosa proibita al prescelto era tentare di distruggere Notte. Perché doveva sempre esistere un equilibrio. Come le stagioni svaniscono l'una nell'altra e la morte segue alla vita, Notte doveva sempre venire dopo Giorno. E la loro lotta doveva continuare. Così narrava la storia. La storia continuò a essere raccontata fino all'arrivo dei bianchi. Quando essi giunsero, alcuni indiani pensarono che fossero stati mandati da Giorno: la loro pelle non era luminosa come il sole? Diedero il benvenuto ai bianchi, divisero con gli stranieri giunti dall'altra riva della grande acqua tutto il possibile. Ma tennero per sé il segreto delle caverne. Nemmeno i fratelli delle tribù algonchine sapevano delle caverne e di ciò che contenevano. La maggioranza dei bianchi era ostile o indifferente. Qualcuno fece gesti di amicizia. Uno di questi era Nathaniel Langren. Lui, fra tutti coloro che si trasferirono sul lembo di terra che un giorno si sarebbe chiamato il Point, andò in cerca degli indiani, imparò la loro lingua, prese parte alle loro cerimonie. Anche suo figlio, Joshua Langren, venne accolto nei riti. Non molto prima che Nathaniel Langren morisse, gli indiani gli dissero delle caverne, della guerra fra Giorno e Notte. Nathaniel lo raccontò a Joshua e per la prima volta il segreto uscì dalla tribù. Ma era al sicuro e non si diffuse oltre. Il che fu un bene, perché si avvicinavano tempi difficili. La guerra era nell'aria. La guerra tra francesi e inglesi, che avrebbero usato gli indiani come soldati. Molti degli algonchini si rifiutarono di combattere e stipularono trattati di pace coi bianchi. I guardiani si opposero alla volontà di altre tribù, che volevano scacciare i bianchi. Il loro dovere era salvare Giorno da Notte e custodire le caverne, non prendere parte a una guerra fra uomini. Più tardi si sarebbero resi conto che nel loro isolamento, nella fedeltà a un dovere superiore, erano diventati arroganti, pigri. Non riuscirono a vedere in quella guerra i segni che annunciavano il loro destino.
Avevano dimenticato l'astuzia di Notte. Perché Notte è come il coyote. È scaltro. Stanca la preda e per colpire attende l'attimo di distrazione; non affronta la luce, non mostra il proprio viso se può agire camuffandosi o trovare altri che uccidano al suo posto e gli permettano di cibarsi della carcassa. Come aveva cercato alleati fra le tenebre al di là del nostro mondo, ne cercò fra i vicini degli algonchini. Notte sussurrò alle orecchie dei coraggiosi, disse loro che nelle caverne c'era un luogo di grande potere, che parole e gesti esatti avrebbero liberato un grande esercito di spiriti pronti a obbedire ai loro ordini. I coraggiosi entrarono nelle caverne e cercarono quel potere, decisi a scatenarlo contro l'uomo bianco. Essi penetrarono nelle viscere di quel luogo, dove nemmeno il prescelto sarebbe entrato senza temere per la propria vita. Lì trovarono il cuore delle caverne. Gli alleati di Notte sussurrarono alle loro orecchie, avvelenarono i loro sentimenti, li ingannarono, li spinsero ad aprire la porta. Aperta la porta, i coraggiosi morirono. E non morirono. Gli spiriti di Notte, gli oscuri alleati in agguato nelle viscere della terra, si fusero in loro. Per farlo, dapprima portarono i corpi quasi alla morte. Ma la morte non è permessa. Nell'attimo dell'estrema debolezza, quando l'anima si libra fra vita e morte, gli alleati di Notte escono dalla porta e scacciano lo spirito delle loro vittime. Entrano nei loro corpi e prendono il loro posto. Fu questo il destino dei coraggiosi che osarono sfidare il cuore delle caverne. I loro spiriti vennero sconfitti e cacciati, condannati a vagare per sempre in terre desolate. E un gruppo di alleati di Notte fu libero di compiere la sua opera. Ma la transizione in questo mondo richiede grande forza e lo spirito dell'alleato rimane debole, il suo potere limitato. Solo con un grande sforzo può lasciare le caverne nel nuovo corpo, cercare un'altra vittima e attaccare, aprendo la via della libertà a un altro alleato. Poi deve riposare. Per un certo tempo dopo aver varcato la soglia, un alleato non può affrontare Giorno, il suo nemico. Il sole lo distrugge, come il fuoco e la separazione della testa dal corpo. Ma più a lungo la porta resta aperta, più cresce il numero degli spiriti che emergono in questo mondo, più diventano forti e più la loro vera natura emerge. Possono mutare forma. Di notte possono presentarsi come lupi, o uccelli. Possono piegare la mente dei de-
boli alla loro volontà. La loro sola presenza in questo mondo ha un effetto profondo. Rafforza tutto ciò che è più crudele nello spirito umano, tutto ciò che potrebbe giacere addormentato. Se sono state commesse azioni malvage in segreto, la loro presenza entra in risonanza con le nuove tenebre e non può più essere tenuta nascosta. I crimini si protendono ad abbracciare Notte. Una volta liberi, gli alleati di Notte si muovono veloci e il loro numero cresce a un ritmo spaventoso. Da due diventano quattro e poi otto. Più essi emergono, più il cielo si fa nero, creando angoscia anche nel cuore più forte. Se riuscissero a trionfare, ogni luogo diventerebbe Notte. Era quello il piano di Notte. Una volta liberati, i suoi alleati iniziarono l'assalto. Attaccarono dapprima i bianchi, che non conoscevano la natura del nemico e sarebbero stati impotenti. E Notte aveva ragione. Quando gli attacchi cominciarono, i bianchi credettero che i vicini indiani fossero entrati in guerra contro di loro. La tribù sapeva di avere poco tempo. Mentre i bianchi si organizzavano, i guardiani delle caverne cercarono gli alleati di Notte e li sterminarono. Un alleato deve essere distrutto entro tre giorni dalla liberazione, o il suo potere diventerà insormontabile. Col tempo, gli spiriti possono riuscire a sopravvivere anche se la porta è stata chiusa. Il prescelto guidò la battaglia contro gli alleati di Notte e si racconta che la lotta fu aspra e terribile, colma di furia e sangue e fuoco. Tutti coloro che furono catturati vennero radunati in un solo luogo e bruciati. Ma nemmeno quella fu la fine. Era ancora necessario distruggere il cuore della caverna, perché se fosse rimasto intatto, altri alleati potevano tentare di aprire nuovamente la porta del mondo degli spiriti. Così, dopo avere distrutto gli alleati, il prescelto tornò alle caverne e ne distrusse il cuore. Adesso, però, il pericolo veniva da un'altra direzione. I bianchi non sapevano nulla delle caverne; sapevano solo che gli indiani li avevano attaccati, avevano bruciato le loro case. Non sapevano, e non avrebbero capito, che chi era stato distrutto non era più umano. Esausti per la guerra con gli spiriti, gli indiani furono facile preda degli attacchi degli abitanti del villaggio. Molti morirono. Altri vennero scacciati. Ferito a morte, il prescelto si trascinò a casa di Joshua Langren. Sapeva che gli indiani sarebbero stati allontanati dal luogo, che non sarebbe rimasto nessuno a guardia delle caverne, a tenere a bada Notte.
Doveva trasmettere il potere a qualcuno che accettasse la responsabilità, che restasse al Point, generazione dopo generazione, trasmettendo il potere, preparando il figlio e poi il figlio del figlio, insegnandogli a usarlo in modo buono e saggio. Joshua Langren accettò l'incarico. Accettò il potere. E la maledizione che lo accompagnava. Da quel giorno, il primogenito dei Langren è sempre rimasto al Point. A fare la guardia e ad aspettare. Negli anni successivi, Notte ritentò molte volte i suoi inganni. Le caverne attirarono i viaggiatori e se la loro mente o la loro forza di volontà era abbastanza fragile, gli alleati sepolti nel cuore della terra cercavano di influenzarli. Alcuni morirono, o si uccisero. Qualcuno impazzì. E qualcuno cadde sotto l'influenza degli alleati. E fu sempre un Langren a fermarli. La voce di suo padre cambiò, diventò triste. Fino alla mia morte. Sono caduto nello stesso errore commesso dai primi guardiani. Mi sono lasciato prendere dall'imprudenza. Dall'eccesso di fiducia. Le caverne erano inerti da tanto tempo e ho cominciato a pensare che Notte avesse rinunciato alla guerra. E in quel momento di distrazione, Notte mi ha colpito. Sperava di abbatterci tutti, di non lasciare nessuno a sbarrargli il cammino. Ma tu sei sopravvissuto, Eric. Anche se ti ho lasciato prima di poterti parlare della missione che ti attendeva, prima di insegnarti a usare il potere, prima di poterti spiegare. E tu sei rimasto a difenderti da solo. Sei stato lasciato a cercare di capire sensazioni incomprensibili, attimi di intuizione e preveggenza inspiegabili. È questo che mi dispiace più di ogni altra cosa. Anche se mi dispiace ancora di più per ciò che ora ti attende. Uccidere me e tua madre ha richiesto un grande sforzo. In seguito, gli alleati di Notte hanno dovuto riposare e raccogliere le forze per l'attacco successivo. Ci sono voluti anni perché le loro forze tornassero. Quando si sono rimessi all'opera, non ho avuto scelta. Ho dovuto chiamarti. Dovevi tornare, finire ciò che io non ho potuto finire.
Hai in te il potere di distruggere la porta per sempre, di sigillare l'ingresso e liberarti dal dovere che è stato imposto alla tua famiglia. Hai in te il potere di compiere grandi azioni anche altrove. E potresti morire. Posso darti ben poco da usare nella battaglia che sta per scoppiare. Posso darti solo il dono della consapevolezza. E il potere che è in te si manifesterà completamente. Sarà veloce. Sarà doloroso. Perdonami, figlio mio. 26 Il Point Myrna Cranston lasciò la biblioteca di Dredmouth Point poco dopo le sei e trenta del pomeriggio. Il venerdì, era sua abitudine controllare se c'era qualcuno in ritardo con la restituzione dei libri e preparare i moduli rosa che avrebbe spedito il giorno dopo. A differenza di altri bibliotecari, che concedevano una proroga ai ritardatari, Myrna non aveva mai rimandato alla settimana successiva quello che andava fatto subito. Trattenere i libri oltre il lecito indicava un atteggiamento irresponsabile nei confronti della proprietà pubblica e lei riteneva suo dovere di funzionario statale farlo presente. Era fiera di sapere che il lunedì mattina parecchie cassette postali di tutto il Point avrebbero contenuto le cartoline rosa di Myrna Cranston. Erano del colore perfetto per poter essere viste anche da lontano: i passanti avrebbero saputo che in quella casa viveva un uomo o una donna di dubbia moralità. «La lettera scarlatta», la chiamava qualcuno. Myrna aveva sentito quella definizione e se ne infischiava. Per di più, le sue cartoline non erano scarlatte. Erano rosa. Le cartoline erano ammucchiate in bell'ordine sul sedile al suo fianco, mentre lei guidava lungo Lakefront Road. Stringeva il volante nell'esatta posizione delle due meno dieci, come le avevano insegnato tanto tempo fa. I fari della Volkswagen proiettavano pallidi cerchi di luce sulla strada, la stessa strada che Myrna percorreva due volte al giorno, cinque giorni la settimana, da dodici anni. Ne conosceva ogni millimetro, però non permetteva mai alla sua mente di distrarsi dalla guida. Quindici minuti per arrivare in città, quindici per tornare, gli occhi sempre fissi su ogni centimetro di
asfalto, e... Un uomo sulla strada! Myrna schiacciò il freno e per un soffio riuscì a schivare la figura che era apparsa di colpo sulla sua corsia. La Volkswagen sbandò sulla cunetta, si fermò tra due pini distanziati appena quel tanto che bastava per contenere l'automobile. Le mani di Myrna erano coperte di sudore; i muscoli delle braccia tremavano. Era stata la pura e semplice fortuna a salvarla da una collisione. Si concesse un momento per ricomporsi, prima di scendere e far passare un quarto d'ora d'inferno a quel disgraziato, chiunque fosse. Guardò nello specchietto retrovisore... E non vide nessuno. Si girò sul sedile, guardò dal finestrino posteriore. La strada era illuminata da un unico lampione molto più indietro, ma anche da quella distanza era più che evidente che non c'era nessuno. Però prima c'era qualcuno! Ne era certissima. Un improvviso senso di orrore le risalì su per lo stomaco. E se avesse urtato l'uomo? Era successo tutto così in fretta... Dio! Frenetica, slacciò la cintura di sicurezza e scese. Il vento fece cadere dal sedile alcune delle sue cartoline rosa. Myrna percorse il terreno, raggiunse l'asfalto. Nessuno. No, non esattamente. Socchiuse gli occhi nel buio, scrutò oltre il lampione. C'era qualcuno appoggiato a un albero? Fece un passo avanti. Sì! Sembrava un uomo, ma nell'oscurità non poteva esserne sicura. «Ehi, si sente bene?» chiese. Arrivò all'albero e di nuovo non trovò nessuno, come se l'uomo fosse svanito. Era la sua immaginazione che le giocava brutti scherzi? Si girò verso la direzione da cui era giunta. C'era una donna stagliata nella luce del lampione. Aveva i capelli biondi. Myrna riconobbe la figura con certezza assoluta: «Beth? Beth Simmons!» Si avviò. Beth era immobile al centro della strada. La luce le pioveva sulle spalle, rendendo indistinti i tratti del volto. Myrna ebbe l'impressione che Beth stesse guardando dietro di lei e si girò, seguendo lo sguardo dell'altra. Dove meno di un minuto prima si trovava lei, c'era un uomo. Stava camminando verso loro due. Bud? Sembrava lui, però...
Myrna rallentò, si fermò a metà strada, lontana solo cinque o sei passi dall'uno e dall'altra. Bud aveva qualcosa di strano. Le si avvicinò ancora di più e lei vide. La faccia. «Oh mio Dio», mormorò Myrna. Il viso di Bud era sfigurato, in alcuni punti squarciato. Boccheggiò. Allora lo aveva colpito! Ma come mai lui camminava, se... Poi vide che non camminava. Scivolava al di sopra della strada, avvicinandosi lentamente a lei, a lei e a... Beth? Myrna si girò in tempo per vedere la faccia di Beth (gonfia, violacea, quasi pronta ad esplodere) che torreggiava sopra di lei. Poi quel volto le si avventò contro di scatto, senza il minimo rumore, a parte il sibilo che sembrava giungere da tutt'attorno... 2 Jay Carmichael si arrampicò sull'albero davanti alla camera da letto di Judith Carlyle. Quel giorno, Judith non era andata al lavoro al drugstore, Bill Dumar, il proprietario, le aveva telefonato e lei gli aveva detto di essere malata. Bill aveva riferito di avere sentito una voce distrutta. Be', se Judith stava davvero male, doveva essere in camera da letto; e dal punto di vista di Jay, era l'ideale. L'albero era pieno di rami nei posti più adatti. Più o meno, era come salire una scala. Jay si sistemò sul ramo che gli offriva la migliore panoramica della stanza. La corteccia era leggermente scalfita, dopo tutte le volte che lui era stato lì. La cortina di foglie avrebbe impedito a chiunque di vederlo, anche a distanza ravvicinata. Ah, le cose che aveva visto! La finestra, lontana non più di quattro metri, gli aveva offerto spettacoli che non avrebbe mai dimenticato. Quella sera, purtroppo, la finestra era buia. Aveva notato che nemmeno le stanze al pianterreno erano illuminate, ma siccome l'auto di Judith era parcheggiata sul sentiero di accesso, aveva pensato che lei stesse guardando la televisione in camera da letto. Aspettò che i suoi occhi si abituassero all'oscurità, sperando di poter riuscire a vedere Judith almeno un attimo. Dopo un po', l'istinto gli disse che era meglio scendere e tornare a casa. Però niente indicava che lei non ci fosse. Avrebbe aspettato ancora qualche minuto. Un po' più tardi, sul sentiero apparve un'auto. Al volante c'era la signora
Graham, la perpetua della chiesa. Jay sapeva che era amica di Judith e sorrise a quella fortunata coincidenza. Adesso avrebbe finalmente scoperto se Judith era in casa o no e se non gli convenisse impiegare il suo tempo da un'altra parte, magari al cottage della scrittrice. Si, aveva tante cose fra cui scegliere. Come sul menu di un maledetto ristorante cinese, pensò. La signora Graham bussò alla porta. Non si accesero luci, però Judith doveva avere detto qualcosa, perché la signora Graham aprì la porta ed entrò. Per un minuto, fu come se la casa l'avesse inghiottita: nessun suono, nessun movimento, nessuna luce. Poi, una luce si accese al pianterreno, in cucina, e un'altra sulla scala. Jay riuscì a seguire gli spostamenti della signora Graham in base alle luci che si accendevano e si spegnevano. Alla fine, si illuminò la camera da letto. Jay vide la signora Graham ferma sulla soglia e anche se la finestra chiusa bloccava il suono della voce, poteva benissimo immaginare quello che lei stava dicendo. Judy? Judy, tesoro, ci sei? La signora Graham si spostò in avanti, come se avesse udito una risposta... All'improvviso, qualcosa balzò dall'angolo dove stava nascosta e passò in un lampo davanti alla finestra. Una cosa velocissima e micidiale. Piombò addosso alla signora Graham, soffocando con una mano l'urlo che le sarebbe uscito di gola. Caddero sul letto. La signora Graham si dibatteva; la cosa era dappertutto nello stesso momento e picchiava, graffiava, mordeva! Arcuò la testa all'indietro per un breve istante e Jay vide che era Judith. Però era cambiata; il suo viso era mostruoso. La vide spalancare la bocca almeno il doppio di quello che è concesso a qualunque essere umano; e come il serpente che una volta aveva inghiottito un topo intero sotto gli occhi di Jay, la bocca divorò la faccia della signora Graham. Jay si ritrasse, orripilato. La sua schiena sbatté contro il tronco dell'albero. Avrebbe voluto distogliere lo sguardo, ma ne era incapace. La signora Graham lottava ancora con la cosa che un tempo era Judith Carlyle, sempre più debolmente. Alla fine, smise di muoversi. Jay voltò la testa, sicuro di vomitare. Sentiva in gola il sapore della bile. Ma non c'era tempo. Non adesso. Non lì. Cercò di ricomporsi. Doveva tornare in auto, segnalare alla polizia quello che aveva visto. Orribile, pensò. Eppure, i suoi occhi vennero di nuovo attirati dalla finestra. Quello che vide gli gelò il sangue. La luce della stanza diminuì. No, cominciò a scomparire, come se scappasse da qualche altra parte, come se scivolasse tra le fessure della casa.
Nell'oscurità crescente, vide Judith ritrarsi. Il corpo della signora Graham era al suo fianco. Poi, all'improvviso, attorno al corpo si formò una macchia di tenebre, un manto innaturale di oscurità assoluta, talmente intenso da essere quasi doloroso per gli occhi. Qualcosa si mosse nelle tenebre: un'immagine in negativo che apparve per un secondo e poi svanì. E la signora Graham si mise a sedere. Solo che non era più la signora Graham. La faccia di quella cosa era allungata, quasi canina e la carne lacerata. Si alzò, poi scomparve quando il buio inghiottì l'intera stanza. Jay non si accorse quasi, scendendo dall'albero con un salto di un paio di metri, di correre all'auto con una caviglia slogata. L'unica sensazione che provava era il bisogno di fuggire da quel posto terribile, trovare aiuto. Spiegare come mai si fosse trovato in quel posto non lo preoccupava. Lo sappiano pure tutti quanti, pensò, mentre guidava verso il centro a una velocità folle. Non gliene importava niente. Per tutto il viaggio, gli parve di vedere quelle cose in ogni ombra. Lo osservavano. Erano pronte a saltargli addosso. Dopo quella che gli sembrò un'eternità, raggiunse la stazione di polizia. Balzò fuori dalla macchina e si mise a correre. Notò solo vagamente che la città era silenziosa, ancora più tranquilla del solito. «Tom!» esclamò, entrando in ufficio. La voce gli si spezzò. Stava per esplodere in una crisi isterica. «Tom, porca miseria! Dove diavolo sei andato a ficcarti?» Si aprì una porta. Il vice di Tom, Ray Price, apparve dalla stanza sul retro. «Grazie a Dio», disse Jay. «Devi venire con me. Gesù, è orribile! Avresti dovuto vedere! Quella ha... Dio, Ray, ha...» Ray non si mosse. Restò a fissarlo con aria calma, addirittura distante. Jay si accorse della ferita che aveva sulla fronte. Strano, non l'aveva fasciata. Con gesti molto precisi, Ray estrasse la pistola dalla fondina e la puntò contro lui. «Mio Dio, Ray! No! No!» Ray premette il grilletto. Una volta sola. 3 ... Duane, Jess, e Ginny Kincaid. Roberta Kohl. Edgard Jennings. Cee Trent. Bill, Jackie, e Rosemary Dumar. Dave, Johnny, Susan, ed Elaie
Markle. Walter Kriski... 4 Ace Jackson non ci capiva niente. Venerdì sera e non aveva visto più di cinque clienti. Gli ultimi due a farsi vivi erano stati il sindaco Morgan e la moglie, ma erano ripartiti appena si erano resi conto che il locale sarebbe rimasto deserto. Inutile farsi vedere in giro se non c'è nessuno a vederti. Stai calmo, pensò Ace e continuò a pulire bicchieri. Forse in città c'era una riunione o roba del genere e lui non lo sapeva. Non sarebbe stata la prima volta. Del resto, le riunioni popolari non erano mai state la sua passione. Il massimo che fosse disposto a fare era mettersi a disposizione degli altri nella taverna, sul suo terreno. Sistemò altre due bottiglie di whisky irlandese contro lo specchio e sobbalzò al suono del jukebox che si accendeva alle sue spalle. «Okay, perfetto», disse. Col sorriso sulle labbra, si girò a vedere chi fosse entrato. Era solo. Un corto circuito? Si chiese, mentre nella taverna vuota il jukebox continuava a suonare, più forte del solito. No, non era solo più forte. Era diverso. Stridulo. Gli occorse un momento per accorgersi che le parole della canzone erano scomparse. E al loro posto, il mormorio di molte voci che si alzavano e si abbassavano, sussurravano, ridevano, urlavano, dove vai adesso, dove vai, da nessuna parte, da nessuna parte... Il rumore come di mille pugni che battevano sulle pareti della taverna, noi siamo una legione, un sibilo, ti conosciamo, oh, ti conosciamo... Ace indietreggiò verso lo specchio e le bottiglie dietro di lui cominciarono a esplodere a una a una. Frammenti di vetro e spruzzi di alcol lo colpirono in viso, sul vestito. Si accucciò sotto il banco e riemerse dal lato opposto mentre l'ultima bottiglia andava in frantumi. Come se quello fosse un segnale, lo specchio si curvò al centro, si gonfiò in maniera impossibile, poi scoppiò, inondando la taverna con una cascata di minuscole schegge. Ace urlò quando cento piccoli aghi gli entrarono nella schiena, nel collo, nelle gambe. Il dolore gli bruciò nella carne come fuoco. Strisciò alla porta e uscì dalla taverna che stava diventato buia, per sfuggire alla pioggia di vetro, alle voci del jukebox. Percorse qualche metro, poi crollò a terra. Il sangue gli colava giù per la
schiena, gli inzuppava la camicia. Rumore di passi che si avvicinavano, si fermavano a pochi centimetri dal suo viso. Ace alzò gli occhi su un paio di calzoni verdi: era Fred Keller, vestito per la pesca, con la testa che penzolava in un modo impossibile. Lo stava fissando. Mentre Keller si chinava su di lui, Ace, dietro la cortina di dolore, si rese vagamente conto che le voci del jukebox adesso uscivano dalla bocca di Keller. 5 Tom Crandall guidava l'auto della polizia sulla strada che li avrebbe riportati al Point. Le sue mani erano verdi alla luce fosforescente del cruscotto, il cui orologio segnava le 19.57. Al suo fianco, Will scrutava nel buio. La tensione era palpabile. Superato il folto gruppo di alberi che dividevano il Point dal resto del mondo, le poche case che avevano incontrato erano sembrate tutte buie, mute. Era troppo presto perché il Point fosse così morto. Tom non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che tutto fosse profondamente sbagliato, come se ogni casa su quel percorso fosse la casa dei LeMarque. Era irrazionale, lo sapeva, ma nelle ultime ventiquattr'ore erano successe tante cose. Era naturale provare un po' di paura. Persino Will la sentiva nell'aria. Be', presto sarebbero stati alla stazione di polizia. Tom si sarebbe fatto dare le ultime notizie da Ray, avrebbe accompagnato Will alla sua auto e sarebbe tornato a casa. Procedettero in silenzio fino a Walnut Road, dove Tom svoltò e cominciò a percorrere gli ultimi isolati per il centro. Tutto era molto tranquillo, di solito il venerdì sera c'era più vita. Ma dopo quello che era successo ai LeMarque, era probabile che molta gente non avesse voglia di passare la serata fuori. Si fermò davanti alla stazione. La prima cosa da fare era scarcerare quel Matthews. Il rapporto definitivo sulle condizioni di Sam e sulle cause del suo incidente non era ancora pronto, ma tenera Matthews in cella non aveva molto senso. Dentro, era accesa una sola lampada. «Finalmente a casa», disse Tom, tanto a Will che a se stesso. A motore spento, la sua voce rimbombò nell'auto in maniera esagerata.
Will annuì. «Credevo che non saremmo mai arrivati. Adesso voglio solo andare a casa, fare una doccia e dormire per tre giorni.» «Dammi due minuti per prendere la mia roba», disse Tom e scese dall'auto. Will lo raggiunse sul marciapiede proprio mentre la luce all'interno della stazione di polizia si spegneva. Attorno a loro, i lampioni si spensero a uno a uno. L'intero centro della città restò immerso nel buio. «E adesso che cosa c'è?» borbottò Tom. «Un black-out.» «Fantastico. L'ultima cosa che mi serviva. Be', nella stazione ci sono torce elettriche a batterie. Vieni.» Attraversarono. Un quarto di luna era sospeso all'orizzonte e dava quel tanto di luce che bastava per guidarli alla porta. Tom aprì, entrò. Will lo seguì. Tom si fermò di colpo. «Aspetta un secondo», sussurrò e scrutò fra le tenebre. Qualcosa non andava. Ray avrebbe dovuto tirare fuori le torce, essersi già dato da fare. Invece, nella stazione niente si muoveva. «Qualcosa che non va?» chiese Will. «Non sono sicuro.» Poi, più forte: «Ray? Ray, ci sei?» Tom si fece avanti. La sua scarpa incontrò qualcosa. Qualcosa di grosso, che si spostò leggermente quando lui tirò un calcio. Si chinò. Anche prima di toccarlo, capì che si trattava di un corpo. La sua mano incontrò i vestiti, poi un braccio (freddo, ma non completamente) e si bagnò. Will si inginocchiò al suo fianco, prese il polso dell'uomo. «È morto.» Tom annuì. «Hai un fiammifero?» «Ancora meglio.» Will gli passò un accendino a gas placcato in oro. «Grazie», sussurrò Tom e accese. Si aspettava di vedere, alla luce della fiammella, la faccia di Ray. Trovarsi davanti il corpo di Jay Carmichael fu uno choc. Una pallottola gli aveva scavato un foro al centro della testa. Sangue e tessuti cerebrali erano sparsi sul pavimento e sulla parete di fronte. Anche le mani di Tom ne erano sporche. Chi poteva sparare a Jay proprio lì, nella stazione di polizia? Da quanto vedeva, Jay non era armato e Ray non sarebbe ricorso alla pistola senza motivo. Ma se non l'aveva ucciso Ray, chi? E dov'era Ray, per la miseria? «Siamo nei guai», disse Tom. Si alzò ed estrasse la pistola. «Forse è me-
glio che tu esca.» «Che cosa ti fa pensare che fuori sarei più al sicuro?» Tom grugnì. Will aveva ragione. Raggiunse la sua scrivania. Alla fiamma dell'accendino, tirò fuori la seconda automatica che teneva nel cassetto in alto e la passò a Will. Poi, stringendo la pistola con entrambe le mani, controllò il ripostiglio. Niente. A parte i barattoli di caffé e le scatole di materiale da ufficio, la stanza era deserta. La porta sul retro era chiusa a chiave. Uscendo dal ripostiglio, prese una torcia elettrica da una scatola vicino alla fotocopiatrice e la accese. La torcia rimase spenta. Con la destra, svitò il retro della torcia e inserì due batterie nuove. Non ottenne alcun effetto. Lanciando un'occhiata perplessa a Will, attraversò l'ufficio e raggiunse la porta che immetteva nelle celle. Delle batterie si sarebbe preoccupato più tardi; adesso non aveva tempo da perdere. La porta delle celle non era chiusa a chiave. Tom la aprì con la punta dello stivale. La porta rimbalzò contro la parete con un rumore che, gli parve, si sarebbe sentito fino a Boston. Il cuore gli sbuffava in petto come un mantice. Entrò in corridoio. Will era alle sue spalle. Nulla si muoveva, almeno per quello che Tom riusciva a vedere. Controllò a mano a mano tutte le celle. Vuote. Quando arrivò a quella di Matthews, sfregò di nuovo la rotella dell'accendino. «Gesù!» Non riuscì a trattenere l'esclamazione. La porta della cella era stata scardinata e scaraventata contro la parete di fronte, dove si era praticamente conficcata. Frammenti di coperte, metallo, vetro e legno erano sparsi dappertutto. Stranamente, non si sentiva l'odore della dinamite e non c'era nemmeno traccia di bruciature sui muri e sul pavimento, il che escludeva gli esplosivi convenzionali. Avvicinò la fiamma dell'accendino al pavimento. Sangue: qualche goccia davanti a una piccola pozzanghera vicino alla parete. O la persona rimasta ferita (Ray? Matthews?) era riuscita a rialzarsi e uscire, o l'aveva spostata qualcun altro. Ma perché trasportare un corpo via da lì, dove nessuno l'avrebbe visto e poi lasciare un cadavere in ufficio, sotto gli occhi di tutti? Niente aveva senso. L'unica cosa che Tom sapesse era di essere solo. C'era soltanto Will che potesse dargli una mano e sospettava che avrebbe avuto un gran bisogno di aiuto. «Andiamo», disse. Tornarono in ufficio, dove Tom sollevò il ricevitore del telefono. Auto-
maticamente, prese nota dell'ora per il rapporto che avrebbe steso: le 20.15. La corrente elettrica mancava da poco più di cinque minuti, cinque minuti che gli erano sembrati un secolo. Appoggiò la cornetta all'orecchio e aggrottò la fronte. Nessun segnale, però la linea non sembrava interrotta. Dava più l'impressione che dall'altro capo del filo ci fosse qualcuno che ascoltava senza parlare. Premette due o tre volte i pulsanti della forcella e riprovò. Ancora lo stesso suono. C'era davvero qualcuno in ascolto? Magari il qualcuno che aveva ucciso Jay Carmichael e fatto chissà che cosa di Ray e del prigioniero? O il colpevole era lo stesso Matthews? Non lo sapeva e non intendeva correre rischi. Riagganciò. «Il telefono non funziona», disse. «Forse è sotto controllo. Non sono sicuro. Meglio provare la radio dell'auto. Ci occorre tutto l'aiuto possibile.» «Credo proprio di sì.» Con gli occhi assuefatti all'oscurità, aggirarono il corpo di Jay e uscirono. La strada era ancora deserta; per quanto riuscivano a vedere, non c'era in giro nessuno. Arrivarono all'auto senza problemi. Tom accese la radio. Al posto delle solite scariche udì solo il silenzio. Spense e riaccese. «Sei sicuro che funzioni a motore spento?» chiese Will. «Naturalmente», rispose Tom, poi decise di fare lo stesso un tentativo. Girò sei volte la chiave di accensione. Il motore non partì. «Non ci capisco niente», disse Will. «In giro deve pur esserci qualcuno. Percorriamo l'isolato e vediamo chi riusciamo a trovare.» «Ci avevo già pensato anch'io. Ma finché non sappiamo che cosa diavolo sta succedendo, potremmo imbatterci nelle persone sbagliate. Dobbiamo trovare un telefono che funzioni e chiedere rinforzi. Appena arriva lo sceriffo di contea, possiamo passare di casa in casa, se sarà necessario.» «Va bene», disse Will e aprì la portiera. Non erano ancora scesi dall'auto quando udirono l'urlo. «Resta qui!» disse Tom e corse verso il punto da cui era giunto il grido. «Nemmeno per tutto l'oro del mondo», ribatté Will e lo seguì. Tom girò un angolo. Davanti a lui, una donna era riversa su un'automobile. Qualcuno era chino su di lei e le azzannava la gola. L'urlo si spense di colpo. Tom corse avanti. «Fermo! Polizia!» La figura lo ignorò. Anche nell'oscurità, era perfettamente identificabile: Fred Keller.
Che diavolo...? Tom si lanciò su Keller e si trovò sollevato in aria e scaraventato indietro. Ricadde sul selciato come una bambola di stracci. Il dolore alle ginocchia fu lancinante, ma se non altro non aveva sentito le ossa rompersi. Keller si girò a guardare la sua vittima, che gemette un'altra volta. Avanzò di un passo. Era impossibile, ma a Tom parve di vedere una macchia d'oscurità formarsi attorno al pugno di Keller. Poi, prima che potesse toccarla, la donna scivolò a terra, morta. Keller ringhiò. La sua testa prese a oscillare avanti e indietro in maniera assurda, come se il collo fosse spezzato. «Rovinato», borbottò e la parola parve provenire più dall'esterno della bocca che dalla bocca stessa. Si girò, piegò la testa, scrutò i due intrusi. Cominciò ad avanzare. «Fermati lì!» Tom alzò la pistola. Keller fece un altro passo avanti. Tom sparò quattro volte. I proiettili si conficcarono nel petto di Keller, ma riuscirono solo a farlo indietreggiare di un passo verso l'auto. Altri colpi esplosero alle spalle di Tom. Will si era messo a sparare all'impazzata. Centrò la portiera della macchina, il finestrino, il serbatoio della benzina. Il serbatoio della benzina! «Giù!» strillò Tom. Il suo ordine si perse nell'esplosione. La Pinto fu avvolta dalla fiamme. Una scia di benzina incendiata raggiunse Keller e ci fu un urlo come Tom non aveva mai udito in vita sua. Crebbe fino a fargli temere che gli sarebbero scoppiati i timpani. Un vento improvviso spazzò la strada. Keller piombò a terra. La fiamma diventò rosso acceso, poi viola, poi assunse un colore indefinibile. Keller restò immobile. Il puzzo della carne bruciata invase la strada. Will si avvicinò, incapace di staccare gli occhi dallo spettacolo che aveva davanti. «Prima i LeMarque e adesso questo», disse. Gli tremavano le mani. «Il mondo è impazzito.» Tom annuì. «Forse hai ragione, ma lo decideremo più tardi. Al momento, dobbiamo trovare un telefono.» A metà isolato c'era una cabina telefonica. Tom infilò un quarto di dollaro nella fessura, ma al posto del suono della linea udì lo stesso silenzio rimbombante, come se qualcuno fosse in ascolto. Di chiunque si trattasse, doveva correre il rischio. «Pronto? C'è qualcuno in linea? Ci occorre aiuto.» Il silenzio sembrò quasi sibilare. «Non c'è aiuto», sussurrò una voce.
«Chi parla? Lei dov'è?» La voce di un ragazzino cantilenò: «Dov'è Dio? Dio è in ogni luogo». Poi, ringhiante, la voce di prima: «Siamo qui. Con te». «Chi è lei?» «Noi siamo la legione.» E quel sibilo, acuto, terribile. «Se non scappi, non ti faremo soffrire molto. I tuoi amici sono qui con noi. Ti aspettano.» «Vai all'inferno», abbaiò Tom e riappese. «E adesso che cosa facciamo?» chiese Will. Era pallidissimo. Tom tolse dalla cintura un caricatore, infilò le nuove pallottole nel revolver. «Cerchiamo il modo di metterci al sicuro», disse. «Ma prima dobbiamo organizzarci. Di qua.» Uscì dalla cabina e fece strada in un vicolo. Dovevano togliersi dalla strada, dovevano riflettere e la loro posizione era troppo esposta. Il vicolo fra il negozio di articoli per la pesca e la farmacia era perfetto. Nessuno poteva attaccarli senza essere visto. Spinse avanti Will, controllò che non li seguissero prima di raggiungerlo. Arrivarono in fondo al vicolo. «Okay», disse Tom. Ma prima che potesse continuare, l'aria attorno a loro divenne più densa. Il vicolo diventò più buio. Tom lottò con un improvviso stordimento. Si girò in tempo per vedere Will che alzava gli occhi al cielo e piombava a terra. Riuscì ad afferrarlo un secondo prima che la sua testa sbattesse sul marciapiede. «Will!» Stava adagiando il dottore sull'asfalto quando anche il suo mondo si tinse di grigio, poi di nero. 6 Alle 20.10, mentre Karin Whortle chiudeva il Point Inn, le luci si spensero. Era già abbastanza nervosa, con quasi tutti i negozi chiusi e deserti e adesso quello! Girò la chiave nella serratura, tornò dietro il banco e si diresse all'uscita sul retro. Si muoveva con la sicurezza dovuta a lunghi anni di lavoro. Più di una volta aveva detto che lì dentro sarebbe riuscita a orientarsi nel buio totale e adesso che aveva l'occasione di dimostrarlo, non c'era nessuno a vederla. Tipico. Sperava che l'interruzione di corrente fosse limitata al centro della città: fra lì e casa sua c'erano due soli semafori, ma superare un
incrocio al buio la innervosiva sempre. E poi, nel surgelatore aveva una scorta di bistecche per una settimana. La prospettiva della fine che avrebbero fatto se l'elettricità non fosse tornata in fretta le diede un colpo al cuore. Trovò la porta sul retro, afferrò la maniglia e aprì. Scrutò il parcheggio deserto. No, non deserto. Qualcuno uscì dall'ombra dietro il ristorante. Lei restò ferma sulla soglia, ad aspettare. Dopo un po', le parve di riconoscere la figura. «Walter?» Lui si avvicinò lentamente, senza parlare. Il piacere che Karin aveva provato nel vederlo diminuì. Anche in quella luce scarsa, si era resa conto che Walter aveva qualcosa di strano: il modo di camminare, le macchie scure che gli coprivano il viso. Lui stese le mani. «Non sei contenta di vedermi, Karin?» Una voce vuota, senza anima. «Non ti piaccio?» Karin rientrò e chiuse a chiave la porta. Assurdo! Conosceva Walter. Si fidava di lui. Ma adesso, nella sua voce c'era solo minaccia. Si aspettava di sentirlo bussare, ma non ci fu alcun rumore. In un certo senso, la cosa la spaventava ancora di più. Prese il telefono e compose un numero. E dal ricevitore: «Karin, mi deludi». Lei fissò il telefono. Si aspettava quasi che Walter, o la persona, o la cosa là fuori uscisse dai forellini del microfono. Dall'esterno le giunse un rumore di passi. Karin sbatté giù il telefono e corse alla porta di ingresso. Si fermò solo un attimo a prendere un coltello da cucina. Si affacciò al vetro della porta e guardò fuori... Aveva davanti i resti straziati del viso di Walter. Orripilata, si rese conto che le orbite erano vuote, che gli occhi erano stati strappati, eppure lui la stava guardando dall'altra parte del vetro! Karin indietreggiò, portò una mano alla bocca. «Non ti piace il mio sorriso?» disse lui e infilò la destra nel vetro. Karin barcollò in sala da pranzo. Si voltò, vide che Walter non era più alla porta. Corse a un finestra e vide la sua faccia. L'altra finestra, sul lato opposto del ristorante. La faccia di Walter. Impossibile. Non poteva avere fatto il giro così in fretta. Nessuno ci sarebbe riuscito. Karin urlò, una volta, due, ma prima che il terzo urlo le uscisse dalle labbra, l'aria all'interno del ristorante le si congelò attorno. Cadde a terra. Vagamente, sentì rompersi dei vetri e anche se non la vede-
va, capì che la cosa che un tempo era stata Walter si chinava su di lei e non riusciva a muoversi, o a urlare e il coltello era immobile nella sua mano paralizzata e un urlo risuonò muto nella sua mente, mentre aspettava che accadesse quello che doveva accadere. 7 ... Ginny, Adam e il sindaco George Morgan. Marie Desveux. Thomas, Mark, e Suzanne Bingham. Zachariah e Sarah Franklin... 8 R.T. Williams si svegliò di colpo. Dalla vetrina del negozio chiuso non entrava luce. Si chiese che cosa fosse stato a svegliarlo. Poi, dall'esterno, colpi di pistola. Winnie lo chiamò dal piano sopra. «Richard!» strillò. «Arrivo! Arrivo!» R.T. salì la scala e trovò sua moglie avvolta nell'accappatoio. Evidentemente aveva fatto il bagno. «Qui!» Winnie corse alla finestra. Lui la raggiunse e intanto nelle strade buie risuonarono altri quattro colpi di arma da fuoco. Un secondo dopo, ci fu un'esplosione. Una palla di fuoco illuminò la sera, poi svanì. «Che cosa sta succedendo?» «Non lo so, ma sarà meglio chiamare la polizia.» R.T. andò al telefono. Non c'era il segnale di linea. «Non funziona», disse. «Deve essere stata l'esplosione. Sarà meglio che esca a vedere se posso dare una mano.» Si girò verso Winnie in tempo per vederla cadere. Vagamente, come da lontano, si rese conto che anche lui stava precipitando sul pavimento. 9 La luce nello studio di padre Duncan Kerr divenne più fioca, poi si spense. Lui sospirò, rassegnato e chiuse il diario di Milcraft, che aveva letto di nuovo. Non era la prima volta che saltava una valvola e certo non sarebbe stata l'ultima. Raggiunse il cassettodove teneva l'occorrente per i casi d'emergenza. Provò la torcia elettrica. Niente. Accese una candela e si spostò in fondo al corridoio, dove c'era una porta che dava sulla scala dello scantinato. Teneva sempre una scatola di valvole di scorta vicino al contatore
elettrico. Bastava metterne una al posto giusto e... Si fermò. Colpi ritmici risuonavano all'interno della chiesa. Rimase immobile, cercò di identificarne la fonte, ma non ci riuscì. Be', forse era meglio anteporre la prudenza all'audacia. Avrebbe indagato dopo avere sostituito la valvola. Scese con cautela la scala. Il contatore elettrico si trovava in fondo alla scala, sulla sinistra. Ormai l'aveva già rintracciato tante volte al buio da essere un esperto. Aprì l'armadietto di metallo e alzò la candela, per individuare la valvola che era saltata. Strano, nessuna sembrava bruciata. Forse il guasto era da un'altra parte. Un corto circuito... I colpi ricominciarono. Adesso capiva benissimo da dove venissero. Dall'entrata della stanza segreta. Kerr si sentì raggelare. Possibile che qualcuno avesse già scoperto il segreto della chiesa? Chi? E come aveva fatto a entrare? Scrutò le tenebre alla fiamma della candela. Gli oggetti che aveva sistemato davanti al foro della parete erano ancora al loro posto. Eppure i colpi dall'interno continuavano. Ormai erano così forti che li avrebbero sentiti fino all'isolato vicino. Attraversò il locale, spostò le scatole e infilò dentro la testa. Adesso i colpi erano ancora più distinti. E c'era anche un altro rumore: qualcosa o qualcuno che si muoveva. Sì, senza dubbio qualcuno stava camminando nella stanza segreta. Doveva sapere chi fosse stato a introdursi lì e che cosa avesse scoperto. Dannazione a loro, quella era la sua chiesa! Salì lentamente la scala, si fermò solo un istante davanti alla porta della stanza. Inspirò profondamente, poi aprì la porta. I colpi si interruppero al suo ingresso. La stanza era identica a come l'aveva lasciata; solo che il cadavere mummificato non si trovava più sul pavimento, coperto dal telo, ma sedeva al tavolo. La sua mano sinistra, scheletrica, stringeva l'antica tazza di metallo e la polvere sul tavolo era stata smossa, come se un cliente avesse battuto la tazza sul legno per chiedere rum. Il cadavere aveva la testa appoggiata al braccio destro, il viso rivolto verso Kerr. La luce della candela riempì le sue orbite vuote. Le orbite che stavano fissando lui. Kerr indietreggiò verso la scala. Il terrore gli salì in gola. Vuole il suo rum, pensò in un attimo di isterismo folle, ma il bar è chiuso! Scese i gradini di corsa. Arrivò allo scantinato mentre la sera si avvolge-
va attorno a lui, densa. Perdere conoscenza, poter dimenticare l'orrore di ciò che aveva visto, fu un sollievo. 10 ... Thaddeus Smith, Algernon Drake, Vernon e Nancy Wintz. Ruth e Cheryl Miller... 11 Alle otto, Liz uscì dal cottage e salì in auto. Era stanca di restare sempre nel solito posto, di chiamare l'ospedale e sentirsi ripetere le stesse cose. Sì, signora, la situazione del signor Crawford era leggermente migliorata quando siamo andati a controllare alle sei, ma temo che non possiamo dirle niente di più. Aveva bisogno di bere qualcosa. Era già stata tre o quattro volte alla Royal Flush Tavern. Un posto da due soldi, ma non aveva scelta. Sarebbe rientrata in tempo per un'altra telefonata all'ospedale. E il giorno dopo, Eric sarebbe stato senz'altro scarcerato. Forse le avrebbe spiegato che cosa stesse succedendo di tanto importante fra lui e Sam. Aveva appena svoltato in Edgemont Road quando le luci attorno a lei si spensero. E poi i fari. E poi il motore. Provò a schiacciare i freni, ma l'auto continuò a scendere verso gli alberi a lato della strada. Liz sterzò da una parte e dall'altra, per diminuire l'accelerazione. L'auto rallentò, ma non abbastanza. Una grande quercia le correva incontro. Liz si coprì il viso con le braccia appena prima dell'impatto. Fu scaraventata in avanti. Il volante le assestò un doloroso colpo al seno. Quando le luci smisero di pulsarle nella testa, Liz si appoggiò al sedile. Era stordita, ma viva. Le sembrava di non avere niente di rotto. Doveva scendere, cercare aiuto. Ma la portiera rifiutava di muoversi, probabilmente la serratura si era rotta. Provò la portiera del passeggero e sorrise di sollievo realizzando che si apriva. Le tenebre e uno strano stordimento si precipitarono su di lei. Crollò sul sedile. Chissà se mi troveranno, fu il suo ultimo pensiero prima che il buio la sommergesse.
27 La strada chiusa Quando Eric aprì gli occhi, il dolore fu la prima cosa che sentì. Iniziò dalla testa, scese nei muscoli, nel terreno freddo su cui era riverso. E il cielo era luminoso, così luminoso. Sono rimasto qui tutta la notte. Tentò di mettersi a sedere, ma un'ondata di capogiro e di nausea gli artigliò il cervello. Piegò la testa all'indietro, a occhi socchiusi. Si abituò gradualmente alla luce del sole che pioveva sul cimitero. Che ora era? Sapeva che la risposta era importante, ma alcune zone della sua mente non si erano ancora svegliate del tutto, non gli fornivano spiegazioni. Più di ogni altra cosa, avrebbe voluto dormire. Un giorno, una settimana, un mese: solo dormire. Però nella sua testa, una sveglia impossibile da spegnere scandiva il tempo. Che cosa ci faceva lì? Probabilmente, anche quella era una domanda importante. Cominciò a raccogliere le idee, i pensieri. Li sistemò in un ordine cronologico approssimativo, come un bambino alle prese con i pezzi di una costruzione. Il processo era terribilmente difficile: sarebbe' stato tanto più comodo coricarsi e limitarsi a esistere. Una ghiandaia, appollaiata sul ramo di un albero, piegò il capo per guardare meglio quello strano intruso. Eric sorrise all'uccello senza sapere perché, scrutò meravigliato la simmetria delle ali e del corpo, ma non riuscì a trovare le parole capaci di esprimere ciò che provava. Mentre rifletteva con calma sull'elegante semplicità della ghiandaia, i suoi pensieri iniziarono a cristallizzarsi, anche se lui avrebbe preferito che non accadesse. La sua identità e tutti gli altri dati legati alla realtà del momento cominciarono a tornargli in mente. Lo hanno ucciso. Lo hanno ucciso perché poteva fermarli e lo sapeva. E hanno ucciso mia madre. E avrebbero ucciso anche me, se ci fossero riusciti. Potrebbero ancora uccidermi. Un pensiero sgradevole, ripugnante. Lui si ribellò. Non voleva tornare a quel mondo in cui era Eric Matthews, o per meglio dire, Eric Langren: il nome di una persona nata con un dovere di cui non sapeva nulla, un dovere che non aveva mai accettato.
Sono davvero rimasto qui tutta la notte? Si girò di lato. Incredibilmente, dolore e stanchezza svanirono al primo movimento. A rigor di logica, se aveva trascorso l'intera notte all'aperto, avrebbe dovuto restare intirizzito per ore e ore. Invece, si sentiva sempre meglio. Riposato. Aveva una profonda consapevolezza dei battiti del proprio cuore, del contatto fresco dell'erba sulle mani. Per la prima volta dall'inizio della sua vita, era completamente in pace. Guardò la lapide, notando ogni asperità della pietra, ogni imperfezione. E da sotto la lapide, silenzio. Non il vuoto, non il nulla; ma, per il momento, la comunicazione era terminata. Anche se il suo lavoro era appena cominciato. Con quel pensiero, gli avvenimenti del giorno prima tornarono alla sua mente in ogni particolare. Sam. La casa dei LeMarque. La cella. Ray e la cosa che era con lui. Suo padre... Lo hanno ucciso, lo hanno ucciso... le cose che... Si alzò in piedi di scatto. L'orrore gli invase il cuore, glielo strinse in una morsa. Le cose che vivono nelle caverne! Le cose che quella notte dovevano essere uscite. E lui era rimasto a dormire! D'istinto, proiettò i pensieri all'interno del petto, rallentò i battiti frenetici del cuore. Dodici ore. Che cosa potevano fare quelle cose, in dodici ore? Moltissimo, pensò e la paura tornò. Se solo avesse potuto seguire l'istinto, andare lì il mattino del giorno prima... Sarebbe rientrato in città la sera, in tempo per fermarli. Notte era astuto. E lui era in ritardo. Pensò a Liz, sola. Stranamente, intuì che per il momento era in salvo, ma non lo sarebbe rimasta a lungo, se lui non si fosse mosso. Si stirò. I muscoli delle braccia e delle gambe risposero con un'immediatezza nuova. Si incamminò e, prima di scavalcare il muretto di recinzione del cimitero, si girò una volta sola a guardare la tomba di suo padre. 2 Demoni. Alleati di Notte, li aveva chiamati suo padre. E forse era quella la descrizione più accurata, pensò Eric mentre guidava in direzione di
Dredmouth Point. Gli tornò in mente qualcosa che Sam aveva detto due sere prima a padre Kerr: «I cristiani puntano l'indice sulle stelle e parlano della meravigliosa immaginazione del Dio cristiano... Ma Duncan, le stelle esistevano molto prima che la tua religione ne reclamasse il possesso ed esisteranno ancora quando Cristo si sarà unito a Thor nel grande olimpo degli dei defunti». Sam aveva ragione. Nel mondo esistevano forze colossali molto prima che gli uomini dessero loro un nome. Alcuni nomi erano più esatti di altri, ma nessuno aveva mai centrato completamente il bersaglio. E probabilmente non lo avrebbe mai centrato. Era tutto così chiaro, così dolorosamente semplice. Eric si perdeva nelle sue riflessioni, poi si riscuoteva di colpo qualche minuto dopo. Una parte della sua mente, come per un automatismo innato, provvedeva a guidare. Allo stesso modo, un'altra parte della mente gli permetteva di assorbire, filtrandola a gradi, la nuova consapevolezza che ora possedeva. Era stata aperta una breccia fra due mondi e da quella breccia erano usciti i demoni. Il «cuore delle caverne» era la chiave di tutto. Doveva distruggerlo per sigillare la porta. Però non sapeva ancora esattamente che cosa fosse quel cuore. Nel frattempo, i demoni avrebbero continuato il loro attacco. Avrebbero atteso l'attimo di sospensione fra la vita e la morte e in quel preciso istante, avrebbero scacciato dal corpo l'anima umana, per sostituirla con un'entità demoniaca. Se qualcuno non li avesse fermati, il contagio si sarebbe diffuso. La terra stessa ne sarebbe rimasta contaminata e ogni luogo soggetto al loro dominio si sarebbe trasformato in un pezzo di inferno. Tenne per ultimo il pensiero peggiore. Dopo tre giorni nel mondo degli uomini, un demone sarebbe riuscito a sopravvivere anche in assenza del cancello d'ingresso. Se non si sbagliava, il cancello era stato aperto due sere prima, il che gli lasciava esattamente una notte per fermarli. In un modo o nell'altro. E a quel punto, il primo demone uscito doveva essere il più forte, il più pericoloso. Tamburellando nervosamente sul volante, imboccò la strada che portava a Dredmouth Point. Niente gli avrebbe mai permesso di sfuggire al suo dovere. Doveva aiutare i suoi simili.
3 Non appena entrò al Point, sentì il terribile senso di oppressione che gravava nell'aria. Guidò attentamente, scrutando la strada in cerca di... ...un ostacolo, un posto di blocco... Rallentò, quasi a passo d'uomo. Sapeva che dopo la curva successiva sarebbe apparsa la città; ma prima, qualcosa gli sbarrava il cammino. Fermò sulla cunetta e scese. Un'altra auto diretta al Point lo superò. Avanzò a piedi fra gli alberi. Sei metri più avanti, una macchina della polizia era disposta di traverso sulla strada. Ray Price si avvicinò all'auto che era appena arrivata. Sulla sua fronte, nel punto dove era stato colpito dai frammenti della porta della cella, c'era una benda. Il blocco stradale poteva solo significare che le creature avevano il controllo almeno parziale della città, decise Eric. Il cuore gli si gonfiò d'orrore. Era già tardi? «... Ma volevo andare a trovare mia zia», stava dicendo la signora al volante, una donna di mezza età. «Mi spiace, la strada è chiusa. C'è stato un incidente.» «Quando la riaprirete?» «Non prima di sera. Torni stasera.» La voce di Ray era calma, pacata, ma i suoi occhi guardavano altrove. Lontano. Cose che lui solo poteva vedere. La donna fece inversione di marcia. Sulla stretta linea costiera, quella era l'unica strada che portasse al Point. Eric si chiese se anche il traghetto fòsse fermo. Si accucciò fra i cespugli mentre la macchina tornava indietro. Il blocco stradale, probabilmente, avrebbe funzionato. Il traffico diretto al Point era sempre piuttosto scarso; nessuno si sarebbe accorto dell'interruzione. Poi riportò lo sguardo su Ray. Gli occhi che aveva visto ondeggiare sopra la sua spalla il giorno prima erano ancora lì, anche se la luce del giorno li rendeva molto più impercettibili. Lo controllano, pensò. Be', l'ho fatto anch'io. Poi si corresse. No, non era la stessa cosa. Lo sentiva anche a quella distanza: quello che gli stavano facendo era molto peggio di quello che gli aveva fatto lui. Lo hanno toccato dentro, nei centri più vulnerabili. Lo hanno toccato e cambiato.
Avevano bisogno di qualcuno che potesse operare anche di giorno, finché loro stessi non fossero stati in grado di affrontare la luce del sole. Tornò alla Datsun. Blocco stradale o no, doveva entrare in città. Forse avrebbe potuto raggiungere il Point a piedi, ma sospettava che l'auto gli sarebbe servita di lì a poco. Quindi, doveva superare Ray. Era già riuscito a influenzarlo un paio di volte; forse ce l'avrebbe fatta di nuovo. Vero, il giorno prima non aveva esercitato alcuna influenza su Ray, ma era successo di sera, quando il potere dei demoni era più forte. Eric accese il motore e riportò l'auto sulla carreggiata. Raggiunse il posto di blocco. Ray si avvicinò, la destra sul calcio della pistola. Eric sperò che non lo avesse ancora riconosciuto. «Mi spiace. La strada è chiusa.» Ray si chinò sul finestrino inondato dal sole. «Ho detto...» Poi riconobbe l'uomo al volante. Adesso! Eric proiettò in fuori la mente, strinse. Lottò con la cosa che occupava la psiche del poliziotto. Ray esitò, senza togliere la mano dal revolver. Eric strinse di più. Il cuore stava per scoppiargli in petto. All'improvviso, Ray ringhiò. «Tu!» Era la cosa a parlare con la sua bocca. Però il legame fra la cosa e Ray era debole, sotto il sole. Eric penetrò in quel legame. «Dormi», disse, non a Ray, ma alla cosa che era in lui. L'ombra lottò, vibrò. Eric strinse più forte. Fissò gli occhi dietro gli occhi di Ray. La cosa tremò, si protese in fuori per un istante, poi arrivò al collasso. Ray barcollò come una marionetta senza fili. Restò in piedi solo per un automatismo inconscio della volontà. «Spostati», disse Eric. Ray obbedì. «Dimentica che sono stato qui», disse Eric. «Hai capito?» Il viso di Ray si tese: qualcosa dentro di lui opponeva resistenza. Eric parlò a denti stretti. Lo sforzo era tremendo. «Mi... hai... capito?» Strinse ancora di più, nonostante il dolore che gli pulsava in testa... e all'improvviso sentì cedere qualcosa dietro gli occhi di Ray. Eric superò l'auto della polizia. Respirava affannosamente. Nello specchietto retrovisore vide Ray riprendere il suo posto. Con il calare della se-
ra, quando gli occhi d'ombra avrebbero ripreso il loro potere, la sua manovra sarebbe stata scoperta; ma nelle ore di luce che restavano, lui poteva fare molto. 4 Più si avvicinava alla città, più l'atmosfera diventava opprimente. Era come se tutta la luce venisse filtrata dall'alto. La poca luminosità che riusciva a trapelare trasformava quello che avrebbe dovuto essere un mattino chiaro in un pomeriggio cupo. Eric sentiva le tenebre artigliargli la mente, sentiva il desiderio di dormire. Lottò con la forza segreta e continuò a guidare. Superò case che quattro giorni prima lo avevano accolto con facciate dipinte di fresco e prati appena falciati. Adesso sembravano vecchie; tutti i colori tendevano a sfumare nel grigio. Le nubi incombevano sul Point come grandi montagne che da un istante all'altro potevano abbattersi sul terreno. Persino l'automobile faceva resistenza. Dopo un po', fu costretto a concentrare una parte delle sue energie per impedire che il motore si spegnesse. Ormai era quasi in città. Le case che incontrò erano contrassegnate da oscuri segni che lui solo sapeva leggere. Quelle occupate da loro erano immerse in ombre più fitte e nulla si muoveva fra gli alberi circostanti; nemmeno gli uccelli osavano avvicinarsi troppo. Nelle altre, sentiva persone ancora vive, ma addormentate sotto l'effetto dell'ombra che schiacciava la città. Proiettò i pensieri all'esterno e cercò di farsi un'idea di quanti individui non fossero ancora posseduti... L'orrore della rivelazione gli strinse la gola. La sua mente si rifiutava di accettare ciò che aveva scoperto. Un terzo? Un terzo dell'intera città, perso? Incredibile! Significava tre, quattrocento persone in due notti! E quella notte, i demoni non avrebbero avuto difficoltà a terminare la loro opera. L'immensità del compito che lo attendeva lo fece tremare. Che cosa poteva fare contro tanti nemici? Che cosa doveva fare, solo, con le sue limitate capacità? Ma non sarebbe rimasto solo a lungo. Avrebbe trovato gli altri. Li sentiva già, nella città: Liz, Crandall, Will, padre Kerr. Svoltò in Walnut Road, nel centro della città e sentì più intensa la presenza della vita. No, pensò,
non è ancora troppo tardi. Ma non sarebbe stato facile. O divertente. O sicuro. Benvenuto a Dredmouth Point, pensò. Potrebbe piacerti così tanto che forse ci rimarrai per sempre. 28 Di casa in casa Eric imboccò Edgemont Road. Sentiva che Liz era da quelle parti, ma non aveva dati precisi. Alla fine, restrinse la ricerca a un tratto di strada delimitato da alberi e vide la sua auto sporgere dalla vegetazione. Scese dalla Datsun e trovò Liz riversa sul sedile. Il respiro era tenue, la pelle fredda. Le prese una mano, chiuse gli occhi e spinse. La parete di tenebre che era calata sulla mente di Liz avvertì la sua presenza e si oppose. A Eric sembrava di esercitare tutta la sua pressione su uno spesso strato di ghiaccio nero, col viso di Liz imprigionato sotto. Alla fine il ghiaccio si spezzò e il viso di Liz riemerse dalle acque stagnanti. I suoi occhi si aprirono e lo videro. «Va tutto bene», disse Eric, aiutandola a mettersi a sedere. «Non muoverti troppo in fretta. Prenditi un minuto.» Lei annuì, stordita. Dopo un po', Eric lesse sul suo volto che stava cominciando a ricordare. «Un incidente», disse Liz. «Il motore dell'auto si è spento di colpo.» «Come ti senti?» «Bene, credo.» Lei si sistemò meglio sul sedile. «Mi sembra di avere la testa imbottita di cotone.» «Sarà meglio prendere la mia macchina.» Eric si sforzò di soffocare il senso d'urgenza che gli batteva in petto. Avrebbe dovuto spiegare a ciascuno di loro che cosa stava succedendo. Avrebbe perso tempo e forse non ne avevano a sufficienza. Liz mise a fuoco lo sguardo e le ultime tracce di stordimento svanirono dai suoi occhi. «Aspetta un attimo. Sei libero! Quando sei uscito?» «Ieri sera.» «Ieri sera? Vuoi dire che non... Sono rimasta qui tutta la notte? E sei venuto a cercarmi solo adesso?» Lui le aprì la portiera. «È una lunga storia.» 2
Il centro della città era come lui lo aveva lasciato: muto, buio, morto. A Liz non occorse molto tempo per rendersene conto. «Dove sono tutti?» «Dormono. Quasi tutti, per lo meno.» «A quest'ora?» Superarono la carcassa di un'automobile bruciata. Sulla strada c'erano i resti di due corpi. «Mio Dio... Eric, che cosa sta succedendo?» «Ti spiegherò tutto a tempo debito. Prima dobbiamo fare alcune cose.» Liz si girò a guardare gli edifici deserti, silenziosi. «Cristo», disse sottovoce. «Sembra che abbiano buttato una bomba.» La prima cosa che Eric doveva fare era portare Liz a Saint Benedict. Sentiva che Kerr era lì, vivo. La chiesa era ben fortificata e lui sperava che la fede che rappresentava potesse avere un suo peso. Lì sarebbero stati al sicuro, anche se non per molto. Entrarono in chiesa e trovarono il sacerdote addormentato nello scantinato, vicino alla scala. Eric si accucciò su Kerr, di schiena a Liz, per nasconderle quello che faceva e ripeté il processo che aveva usato per risvegliare lei. Stava imparando sempre più cose circa le sue capacità; le istruzioni che aveva ricevuto nel corso della notte emergevano a frammenti, man mano che si rendevano necessarie. Lo sforzo, a così poca distanza dal precedente, gli riempì la testa di un dolore pulsante. Kerr si mosse. «Sta bene», disse Eric e si rialzò, debolissimo. «Occupati di lui. Io torno fra qualche minuto.» Ignorò l'occhiata interrogativa di Liz e salì i gradini a due a due. Avvertiva distintamente il trascorrere di ogni secondo. Gli occorreva tempo, prima per recuperare Tom e Will, poi per riprendersi e poterli guidare in ciò che andava fatto. Era già metà mattina. Così poco tempo! Dov'erano? Corse in Walnut Street, assillato da un senso di frustrazione. Sapeva che Tom e Will erano lì attorno, ma aveva guardato dappertutto e non li aveva trovati. Cercò di concentrarsi, ma era difficile. A complicare ancora di più le cose c'era la consapevolezza di altre presenze che dormivano o si nascondevano dietro finestre chiuse, sui due lati della via. Alla fine, disperato, tornò in un vicolo che aveva già controllato due volte e che dalla strada sembrava cieco. Finalmente, trovò Will e Tom in un
cul-de-sac dietro uno degli edifici. Decise di svegliare per primo Will. Il dottore avrebbe testimoniato che era stato lui a far uscire dal sonno Tom. Sperava che quello bastasse a mettere a tacere eventuali sospetti del poliziotto. In effetti, Crandall aveva dei sospetti. «Le spiacerebbe dirmi come ha fatto a uscire di cella e che diavolo è successo al mio vice?» Tom era ancora stordito dal sonno indotto, ma la rabbia lo aiutò a riprendersi più in fretta. «Non qui», rispose Eric. «Non abbiamo molto tempo e non voglio dover ripetere tutto quattro volte...» «Quattro?» chiese Will. Eric annuì. «Contando padre Kerr e Liz. Ci aspettano in chiesa. È l'unico posto sicuro.» Si girò verso Tom. «So che sta succedendo tutto molto in fretta, ma dovrà fidarsi di me. Siamo in guai grossi.» «La cosa non mi sorprende, dopo quello che ho visto ieri sera», disse Tom. «Che ora è?» «Le dieci», disse Eric. «Gesù!» «Andiamo.» Eric li guidò in Walnut Street. Aspettò, impaziente, mentre i due si fermavano a guardare i corpi bruciati vicino alla macchina. «Cristo santissimo!» esclamò Tom. «Non c'è nessuno che abbia il buonsenso di...» Si guardò attorno. «Ma dove sono tutti?» Eric, senza rispondere, si rimise in cammino. In un sabato normale, i negozi sarebbero stati pieni di clienti e le panchine del parco piene di vecchi; ma quello non era un sabato normale. Eric sentì la tensione crescere nei due che camminavano alle sue spalle, mentre scrutavano inquieti case e negozi. Non sanno, eppure una parte di loro, una parte profonda, capisce. Era quella parte che lui doveva raggiungere. Dopo essersi raccolti nello studio di Kerr, Liz e gli altri ascoltarono la storia di Eric. Lui nascose alcuni particolari, che non avrebbero capito, non ancora. Presto avrebbero visto con i loro occhi di che cosa stava parlando, ma dovevano essere preparati, o sarebbe stata la fine, per tutti. Concluse la storia nel silenzio generale. Persino Liz, che ne aveva già sentito qualche frammento, era stupefatta. 304 «Ci sta chiedendo di fare un grosso atto di fede», disse Will. «Sta dicendo che qualcosa è uscito dalle caverne e ha... attaccato la città?»
«In un certo senso. Uccidono, o almeno feriscono a morte, le loro vittime e un altro demone si impadronisce del corpo.» «Possessione?» chiese Kerr. «Quasi, ma non del tutto. Se una persona è posseduta, nel corpo resta sempre lo spirito umano. In questo caso, c'è solo il guscio esterno, cioè il corpo umano e il demone che lo abita.» Tom si alzò, si mise a passeggiare. «Non so», disse. «Sicuro, è successo qualcosa... Basta guardare dalla finestra per accorgersene... Ma in quanto a tutto il resto...» «È la verità», ribatté Eric, secco. «Ora, abbiamo già perso un terzo della città e più restiamo qui a discutere, più aumenta il rischio di perdere tutto. E non solo il Point. Se non lo fermiamo, si diffonderà.» Tom continuava a resistere. «E se ci fosse qualcosa nell'aria? Se fosse successo un disastro chimico?» Guardò Will. «È possibile, no?» «Suppongo di sì», rispose Will. «In questioni del genere, sappiamo ben poco di quello che combina il governo. Magari tossine sintetiche che provocano allucinazioni, comportamenti violenti... Avrebbe molto più senso di tutto quello che ho sentito finora.» «Devi ammettere che è più credibile», disse Liz. «Sarei propenso a dare ragione a Tom», disse Kerr. «E si staglierebbe come lui», ribatté Eric. «Be', voi quattro discutete pure finché volete», disse Tom, «ma io vado a chiedere aiuto. Medici, lo sceriffo di contea, chiunque riuscirò a trovare.» Si avvicinò al telefono. «Non lo faccia», disse Eric. «La linea non è sicura.» «Senta, Eric, sono stato a sentirla, ho ascoltato tutto quello che ha detto e adesso devo mettermi a fare qualcosa. Forse lei crede davvero in quello che dice. Forse 305 quelle sostanze chimiche hanno contaminato il suo cervello come quello di Keller. E forse ha addirittura ragione, anche se ne dubito. Quello che so di certo è che, uno, c'è qualcosa che non va nell'intera città e due, il mio compito è segnalarlo e trovare aiuto.» «Per l'ultima volta, il telefono non è sicuro. E anche se lo fosse, Ray impedirebbe a chiunque di entrare al Point finché non fosse troppo tardi.» «Che cosa c'entra Ray?» «È sotto la loro influenza.» Tom lanciò un'occhiata incredula a Eric. «E al telefono ci sentirebbero. All'inferno, per quel che ne so, forse qualcuno
di loro è dentro le linee telefoniche. Se chiamiamo, sapranno esattamente dove siamo. Non possiamo permettercelo.» Tom esitò. Guardò Will. «Ieri sera», disse Will, ricordando, «quando hai cercato di usare il telefono...» «Scherzi idioti», disse Tom, ma dalla sua voce era scomparsa ogni sicurezza. «Vi faccio una proposta», disse Eric. «Tra pochi minuti avrete tutte le prove che volete. Datemi almeno questa possibilità.» Si interruppe, aspettandosi obiezioni. Non ce ne furono. «Allora è ora di muoversi. Siamo già in ritardo. Abbiamo forse sette ore prima che faccia buio. Al momento, le loro capacità sono limitate, soprattutto quelle dei demoni usciti da poco. Dobbiamo distruggere il maggior numero possibile di ospiti.» «Sta parlando di omicidio», disse Will. «No. Tecnicamente, i corpi sono già morti e le anime li hanno abbandonati. Cercate di capire. So che avete dubbi, ma non li avete ancora visti. Non vi chiederò di fare niente finché non avrete la certezza assoluta.» «E come dobbiamo distruggere questi... ospiti?» chiese Liz. «Decapitazione, fuoco e luce del sole.» Eric sembrò non notare l'espressione orripilata di Liz. «Dobbiamo sbrigarci. Adesso sono deboli, ma sempre pericolosi.» «Trecento ospiti in sette ore», disse Liz. «Non è possibile.» «Se siamo fortunati, non dovremo cercarli a uno a uno», disse Eric. «Sarebbe troppo rischioso, anche se ne avessimo il tempo. In seguito potremo giocare un'altra carta, ma solo dopo avere eseguito la prima parte del piano.» «Cioè?» chiese Tom. Eric si morse il labbro. «Vorrei dirglielo, Tom, ma se la prendessero, scoprirebbero tutto quello che sa in un secondo. Possono leggere nella mente delle persone, penetrare nei pensieri.» «E non possono leggere in te?» domandò Liz. «Credo di no. In ogni caso, è improbabile. Non sono onniscienti, e forse è questo il nostro unico vantaggio.» «Ammesso che esistano», disse Tom. «Okay, le darò una possibilità di convincermi, ma mi fermerò a questo. Se non mi convince, faremo a modo mio.» Le sue dita, come per sottolineare la frase, si appoggiarono al calcio della pistola. «Affare fatto?»
«Affare fatto», rispose Eric. 4 Per quanto non volesse credere alla spiegazione di Eric, Will trovò agghiacciante la quiete delle strade. La città era completamente sbagliata. A parte gli anni dell'università e il breve servizio in Corea, aveva trascorso quasi l'intera vita al Point, aveva visto la città al meglio e al peggio, ma mai con una vitalità così degradata, così... stanca. Chiaramente, erano nel bel mezzo di qualcosa di terribile. Dall'espressione di Tom, capì che anche il poliziotto provava le stesse sensazioni. «Qui.» Eric si fermò, indicò il negozio di R.T. «Due delle persone che dormono sono qui dentro.» Si girò verso Will. «Vuole esaminarle?» «Certo», rispose Will. Trovarono R.T. e sua moglie al primo piano. Will controllò se davano segni di vita. «Sembrano in perfette condizioni», disse, «però sono in stato comatoso.» «Ci sono api», disse Eric «che pungono la preda e la fanno cadere in coma finché non sono pronte a mangiarla. Il principio è lo stesso.» «Ha svegliato noi. Perché non lo fa anche con loro?» chiese Will. «Non c'è tempo e anche le mie forze sono limitate. E poi, se dovessimo fallire, per loro sarebbe meglio così.» «Non possiamo lasciarli qui», disse Tom. «Non c'è scelta, a meno che lei non voglia portarseli sulle spalle fino al blocco stradale del suo vice e oltrepassarlo.» Tom grugnì. Evidentemente era ancora riluttante ad accettare l'idea che Ray fosse coinvolto in tutto quello, anche se contro la sua stessa volontà. «Okay», disse Eric, avviandosi. «È il momento di dare a Tom la sua prova.» 5 Tom restò in coda al gruppo. Il suo cuore stava giungendo a conclusioni che la mente rifiutava. Se l'intera città era ridotta come R.T. e la moglie, che cosa poteva essere la causa? Non sapeva molto di chimica, ma se gli effetti di eventuali sostanze erano diminuiti al punto di permettere a loro quattro di svegliarsi, ormai anche il resto della città avrebbe dovuto cominciare a ridestarsi. E non solo: le autorità federali si sarebbero precipita-
te lì come formiche. Eppure le strade restavano mute. C'era solo il rumore dei loro passi. Si fermarono davanti al negozio di articoli da pesca di Dave Markle. Tutti lo chiamavano Davy Jones. «Okay», disse Eric, piano. «Procederemo così. Liz, tu resti fuori. Se arrivasse Ray, avvertici. Non so se rischieranno di toglierlo dalla sua postazione per darci la caccia, ma è possibile.» Guardò Kerr. «Padre, la sua religione sarà più importante di giorno che di notte, quindi toccherà a lei tenere la cosa occupata intanto che noi cerchiamo di attirarla fuori o di distruggerla sul posto. Vorrei poter essere più preciso, ma dovremo andare a istinto finché non troveremo una tattica che funzioni.» Si interruppe, guardò gli altri in viso, come cercando qualcosa dietro i loro occhi. Alla fine, annuì, soddisfatto di ciò che aveva visto. «Va bene», disse. «Andiamo.» 6 Padre Kerr si tenne indietro mentre Eric apriva la porta del negozio, lasciando agli altri lo spazio necessario per muoversi in fretta quando sarebbe giunto il momento. Kerr si fermò a riflettere su quel quando. Allora cominciava già a credere a Eric? Gli insegnamenti della Chiesa e la logica gli suggerivano di non credergli. Eppure... A volte, immerso nella meditazione della preghiera, aveva intuito la presenza come di una luce. Era il tipo di epifania personale che lo convinceva dell'esistenza di un'intelligenza superiore che vegliava sull'umanità. Adesso, era come se quella luce fosse completamente immersa nel buio e quel buio era altrettanto convincente. Era quello l'inferno? Non fuoco e gelo, ma una stanchezza enorme che grava sul cuore fino a farlo scoppiare? Cominciava a chiedersi se non esistesse un rapporto con gli incidenti che avevano perseguitato la sua chiesa. Ma non aveva il tempo di rifletterci. Will entrò. Lui lo seguì, stringendo il crocefisso che portava al collo. Non appena fu dentro, sentì ancora più forte la presenza del male. Era ovunque nel negozio. Le tenebre erano così fitte da dare l'impressione che un frammento di notte fosse stato imprigionato dentro, mentre altrove regnava la luce del giorno. Persino Tom e Will se ne accorsero. I loro visi invecchiarono di anni in un istante.
«Strano», mormorò Kerr. Gli parve che la parola cadesse dalle sue labbra e finisse sul pavimento, tanto era pesante. Tom non disse nulla. Solo Eric sembrava preparato. I suoi occhi frugarono il negozio buio, in cerca di... chissà che cosa. Kerr seguì lo sguardo di Eric sugli scaffali con ami e fili da pesca, lattine di esche artificiali, casse di legno piene di vermi, vasche di pesciolini. I suoi occhi si fermarono sulle vasche mentre il suo cervello interpretava i dati che stava assorbendo. «Morti», disse. «I pesci sono tutti morti.» Nelle vasche, centinaia di ciprinidi e altri pesci galleggiavano a ventre in su. Tom toccò con l'indice una delle casse dei vermi. «Anche i vermi.» «Niente può vivere a lungo qui dentro», sussurrò Eric. La sua attenzione, però, era concentrata sulla porta chiusa che dava sul magazzino nel retro. Si girò verso Kerr. «È pronto a recitare la preghiera del Signore?» Kerr sorrise. Certo che era pronto. «Allora lo faccia.» «Padre nostro che...» La voce di Kerr si spezzò. Gli parve che l'aria stessa gli si solidificasse in gola, distorcendo e uccidendo le parole prima che potessero uscire. «Continui!» ordinò Eric. Kerr chiamò a raccolta tutte le sue risorse e ritentò. Questa volta, le parole uscirono dalla sua bocca, anche se a fatica. Quando arrivò a «benedetto sia il nome Tuo», la porta del magazzino si spalancò con un'esplosione di suoni e vento. La poca luce ancora presente in negozio venne inghiottita da una grande oscurità. Il vento scaraventò via ami, mulinelli, ogni cosa. Kerr notò che alcuni oggetti volavano in direzione contraria al vento. Piombi che pesavano diversi etti presero a volteggiare nel locale. Padre Kerr esitò. La sua voce si spense. «Non si fermi!» urlò Eric, immobile controvento. Kerr si costrinse a continuare. E all'improvviso, i pezzi di piombo formarono una nube micidiale che gli si scagliò addosso. «Giù!» strillò Eric. Però Eric non si abbassò sul pavimento. Tese una mano verso la nube di metallo e gridò qualcosa che Kerr non capì. Ci fu un lampo di luce e i pezzi di piombo ricaddero a terra. «Non sai fare di meglio?» urlò Eric. Kerr si rese conto che stava parlando alla cosa ancora nascosta in magazzino. Nel buio dietro la porta, qualcosa ringhiò. Un brivido attraversò il corpo
di Kerr. Quel suono non poteva uscire da una gola umana. Soffocò la paura che lo stava invadendo e riprese la preghiera. «... Come noi li rimettiamo ai nostri debitori e non ci indurre in tentazione...» L'urlo diventò un ululato, un gemito di dolore e rabbia. Qualcosa si muoveva nel magazzino. «... E liberaci dal male...» La cosa attaccò. Kerr riuscì solo a intravedere qualcosa che balzava nella stanza: una forza allo stato primordiale che lo sbatté a terra e non si fermò. Sentì Tom sparare. Alzò la testa e vide Eric staccare la cosa da Tom, scaraventarla in un angolo. La cosa restò accucciata, a scrutarli con occhi che anche in quelle tenebre erano chiaramente pieni di un odio implacabile. Per un attimo, ci fu una tregua. La cosa che un tempo era stata Dave Markle ondeggiò leggermente, come un serpente in cerca della parte più indifesa della preda. Kerr notò il viso contorto, segnato dalle ferite e la posizione innaturale del corpo. Adesso, la cosa aveva anche tre proiettili in petto. Non se n'era nemmeno accorta. Per una creatura simile, una pistola era meno di un giocattolo. Sembrava esitare solo a causa della presenza di Eric, anche se i suoi occhi si posavano spesso su Kerr. Il sacerdote si alzò, raggiunse lentamente Eric. Lo sguardo della creatura si fissò su di lui, rabbioso. Un sibilo basso, terribile, le uscì dalle labbra. Un istante dopo, il sibilo si era mutato in parole coerenti. «Ti conosciamo», disse la cosa. La sua voce era enorme, pesante. «Ti aspettavamo.» L'essere guardò entrambi e Kerr si chiese a chi alludesse. Poi fissò direttamente lui. «Abbiamo molti sacerdoti, da dove vengo. Tutti i tuoi papi sono con noi. Vuoi parlare con uno di loro?» «Non lo ascolti», disse Eric. I suoi occhi non lasciavano la cosa. «Chi è stato il primo di voi a uscire?» La cosa ebbe un sorriso osceno. «Oh, non ti piacerebbe incontrarlo. No», disse. «È antico, il più antico di tutti noi, il più saggio, il più forte. No, non ti piacerebbe.» «Rispondi alla domanda!» riuscì a dire Kerr, tenendo il crocefisso. «Sa!» la cosa si rannicchiò contro la parete, il viso colmo d'odio e si preparò a colpire. «Non il crocefisso!» urlò Eric. «Non ancora!» Troppo tardi. La cosa balzò avanti, volò sopra le loro teste, artigliò il viso del sacerdote. Kerr cadde a terra. La cosa atterrò sulla parete di fronte, vi restò attaccata come un ragno. Kerr si rialzò, barcollando. La cosa si mi-
se a strisciare sulla parete, minacciandoli con parole indistinguibili, ma dal senso molto chiaro. Tom la tenne sotto tiro con la pistola, ma non sparò. I suoi colpi erano inutili, contro un essere simile. «È la tua ultima possibilità», disse Eric, costringendo la cosa a indietreggiare verso la finestra sbarrata. «Rispondi alla mia domanda e il tuo viaggio di ritorno non sarà doloroso. Chi è stato il primo a uscire? Qual è il corpo che avete corrotto per primo?» La cosa sputò. Un liquido viscoso ribollì sul pavimento. «Lo saprai presto!» «Allora lascia questo luogo! Ti scacciamo! Ora!» Una forza, un uragano in miniatura, passò sopra la testa di Kerr. Colpì la cosa e la scaraventò contro le assi che chiudevano la finestra. Il legno esplose all'impatto e la cosa cadde fuori, in strada. «Venite! Correte!» urlò Eric. Uscirono. La cosa si contorceva all'esterno del negozio. Le sue urla echeggiavano nella via. Kerr vide Liz ferma in un angolo, una mano sulla bocca. La pelle della cosa diventò nera, si crepò come la buccia di un'anguria troppo matura, poi sfrigolò e prese fuoco. Un fumo denso ammorbò l'aria. Le fiamme si spensero in fretta. Dove un minuto prima c'era un corpo, restava solo una chiazza nera. Dietro di loro, Will vomitava. Per quanto preoccupato, Kerr non si girò neanche a guardarlo: quello spettacolo avrebbe fatto perdere anche a lui il controllo dello stomaco. 7 Eric concesse loro quindici minuti per riprendersi. Odiava quello spreco di tempo, ma era necessario. Per quanto consapevole di ciò che poteva aspettarsi, era rimasto profondamente scosso dalla realtà di quello scontro, ma non osava darlo a vedere. Seduti sul marciapiede, si passarono una tanica di plastica che avevano trovato nel negozio. Era piena d'acqua e dopo il sudore e la paura ne avevano bisogno. Kerr fu il primo a rompere il silenzio. «Vent'anni», disse. «Sono vent'anni che faccio il sacerdote e per tutto questo tempo non ho mai riflettuto molto sul problema dei demoni. Ci hanno raccontato che le possessioni riguardano più lo psicologo che il sacerdote. Eppure, da sempre qualcuno è stato scelto per imparare i riti dell'esorcismo. Io non ci ho mai pensato troppo. Abbiamo tutti una nostra specializzazione, giusto? I demoni erano
un'idea astratta, ma adesso, vederne uno...» La sua voce si spense. «Credo di doverti le mie scuse, Eric», disse Tom, dopo un attimo, passando bruscamente al tu. «Lascia perdere.» Eric pensò che forse, prima della fine di quel giorno, Tom avrebbe avuto motivo di ritirare le scuse. Aveva intuito che quella cosa era stata liberata da poco. E siccome i demoni guadagnavano sempre più forza in base al tempo che trascorrevano nel mondo degli uomini, gli altri avversari sarebbero stati molto più difficili. Se anche tutto fosse andato secondo i suoi piani, era impossibile prevedere quanti di loro sarebbero morti prima che la città fosse salva. Se fossero riusciti a salvarla. Andò da Liz, che sedeva raggomitolata contro l'edificio e guardava in continuazione la macchia nera sull'asfalto. «Come va?» «Okay», rispose lei. Eric le toccò una spalla. Negli occhi di Liz c'era paura e incapacità di capire; ma non avrebbe mai permesso che quei suoi sentimenti contagiassero gli altri. Lui, invece, li vide e capì che era stata lei a permettergli di vederli. L'avrebbe portata fuori da quella faccenda. Lo giurò a se stesso. Qualunque cosa potesse succedere a lui prima che la notte finisse, Liz ne sarebbe uscita viva. Aspettò ancora un attimo, poi guardò gli altri. Erano pronti. «Dobbiamo muoverci», disse. 8 Eric li riportò al negozio di R.T., dove requisirono tre lattine di vernice a spruzzo (verde, giallo e rosso), alcune grosse candele (le torce elettriche erano inutilizzabili), un'ascia e un'accetta per ognuno. Sapevano a cosa sarebbero servite le asce, ma infilando gli arnesi negli zainetti, non dissero nulla. Fecero un'ultima sosta alla chiesa, dove Eric non ebbe la minima difficoltà a convincere tutti a prendere uno dei piccoli crocefissi di Kerr. Kerr prese anche una fiala di acqua benedetta, che infilò nella camicia. Più di così non possiamo premunirci, pensò Eric. Si avviarono in strada in gruppo. Eric si fermava davanti a ogni casa e a ogni negozio, chiudeva gli occhi e si concentrava, cercando di sentire che cosa ci fosse dentro. A quel punto, Tom e gli altri avevano accettato l'idea che lui fosse dotato di poteri speciali, anche se c'erano ancora molte occhiate interrogative, soprattutto di L'iz, che Eric fingeva di non vedere.
Le case vuote venivano spruzzate di giallo; quelle in cui qualcuno dormiva, di verde; il rosso serviva a indicare una presenza. Se mai avessero avuto la possibilità di far evacuare le persone ancora vive, dovevano poter accedere immediatamente alle informazioni necessarie, senza affidarsi alla memoria. Dipinsero il primo negozio di verde, poi superarono due case: una gialla e una verde. Si fermarono davanti a una casa a due piani, dove Eric spruzzò di rosso la porta d'ingresso. «Non sarà facile», disse. «Sono in due.» Ancora peggio, sapeva che uno dei demoni era libero da due notti. «Okay, come prima. Appena dentro, dobbiamo separarli. I crocefissi dovrebbero servire per altre cinque ore, finché non farà buio, per cui sfruttateli al massimo.» Al cenno degli altri, Eric provò la porta. Era chiusa a chiave. «Lascia fare a me», disse Tom e tirò un calcio alla porta. Il primo impatto provocò una pioggia di schegge, il secondo spalancò la porta. Tom sorrise soddisfatto a Eric. «È sempre la mia città.» Come tutte le altre case, anche quella era buia. Solo minuscoli spiragli di luce entravano dalle finestre sbarrate. C'erano vecchie poltrone, un divano sfondato al centro, centrini dappertutto. La casa di una vecchia signora. Eric fece un passo in avanti, seguito dagli altri, poi si fermò di colpo. Sul pavimento c'era un'ombra. «Qui c'è qualcosa», disse. «Un corpo.» Si inginocchiò accanto al corpo e accese una candela, senza preoccuparsi del rischio. Tanto ormai sapranno che siamo qui. «La signora Haggler», disse Will, accucciandosi a fianco di Eric. «È solo un'ipotesi, ma dalla sua espressione direi che è stato un infarto.» «Tanto meglio», disse Eric. «È morta prima che potessero servirsene.» Avvicinò la candela al volto della donna, rabbrividì all'orrore che lesse su quei tratti. Si rialzarono. «Non possiamo abbandonarla così», rispose Kerr. «Non le succederà più niente», ribatté Eric, sorpreso dal proprio cinismo. Nonostante l'occhiata di rimprovero che gli lanciò Kerr, sapeva di non poter perdere tempo per l'estrema unzione. Proiettò in fuori la sua attenzione, cercando di individuare il punto in cui si trovavano le cose. Dolcemente, come se fosse il suo cervello a sussurrare le parole all'orecchio, sentì: sopra e sotto. «Uno è in cantina, l'altro sopra.» Il gruppo si irrigidì. «Okay», disse Tom. «Qual è il primo?»
«La cantina.» A Eric sembrava la cosa migliore. Trovarono le scale sulla sinistra della cucina. Accesero le candele e cominciarono a scendere. Eric faceva strada. Quasi al buio, protese i suoi sensi in fuori. Cercò di indivìduare la posizione della creatura, di capire cosa potesse aspettarsi, di... La metà del nono scalino non c'era. Eric urlò e precipitò di sotto. Tentò di rimettersi in piedi, ma riuscì solo a contorcersi goffamente. Cadde su un fianco. Restò senza fiato e per un attimo la cantina parve scomparire. Devo tenere duro. Lontano, sentì gli altri urlare, sentì qualcosa ringhiare. «Qui!» gridò qualcuno. «Aiuto!» Era Will. Ci furono colpi di pistola. Due, poi altri due. Eric si alzò in piedi, arrivò all'inizio delle scale. Will era a terra, stordito. Alla luce fioca della candela che bruciava sul pianerottolo, vide Kerr e Tom girare attorno alla cosa, con i crocefissi tesi in avanti. La cosa cercava di artigliarli con una mano, mentre con l'altra si riparava la faccia. Era praticamente irriconoscibile, tanto erano distorti i tratti del viso. Non conoscere l'identità dell'ospite rendeva tutto ancora più difficile. Il piede di Tom toccò la candela. «Attento!» urlò Eric, troppo tardi. La candela si spense. La cosa emise un ringhio e balzò. «Giù!» strillò Eric, nel buio. «State giù!» Estrasse l'ascia dallo zaino, la alzò di fronte a sé. I sensi gli gridavano di stare all'erta. La cosa si muoveva in cerchio, ora attenta solo a lui. Se fosse riuscita a eliminarlo, sarebbe stata la fine di tutto. Lui non si mosse. Sapeva di essere osservato. Aspettò, cercò di sentire dove fosse la cosa... A sinistra! La cosa spiccò un balzo. Lì! Eric strinse l'ascia con entrambe le mani e vibrò un colpo. Uno solo: non gli sarebbero state concesse altre possibilità. Colpì qualcosa. Sentì i tessuti lacerarsi. La lama affondare nell'osso, poi nei muscoli e nello strato di grasso. L'esofago e infine il vuoto. La cosa barcollò per un attimo, ancora in piedi. Dalla sua gola uscì un gorgoglio, poi cadde a terra. Eric aspettò di sentire svanire la presenza all'interno della cosa prima di allentare la presa sull'ascia. «State tutti bene?» La fiamma di un accendino. Will. «Sì, credo di sì.» «Tom? Padre?» chiamò Eric. «Siamo qui», rispose Kerr e accese una candela. Tom si avviò verso il corpo. Eric gli mise una mano sul petto. «No, non guardare.»
Tom lanciò un'occhiata alla forma immersa nell'ombra. «Due di meno», disse e si girò verso la scala. Eric provò ammirazione per il poliziotto. Will e Kerr erano pronti a fare tutto ciò che era necessario, ma per Tom quella era ormai una missione: doveva proteggere la sua città. Da buon soldato, avrebbe fatto il suo dovere, in ogni caso. Risalirono al pianterreno, fecero un segnale a Liz che era rimasta di guardia fuori e si avviarono al primo piano. Eric non invidiava la posizione di Liz. Lì dentro, sapevano che cosa aspettarsi; erano loro i cacciatori. Ma fuori... La cosa era in camera da letto, sulla sinistra della scala. Non tentò di nascondersi. Chiazza di tenebre quasi impercettibile nel buio circostante, sedeva su una poltrona vicino a un comò. Li aspettava. «Fermi», disse. La voce aveva quel tono di superiorità indiscutibile che si può assumere con un cane o con uno schiavo. Era la stessa voce che avevano udito nel negozio di articoli da pesca. Parlano tutti con la stessa voce, capì Eric. Alzò la candela per vedere meglio. La cosa si ritrasse leggermente ma non dimostrò la minima paura. Era una donna. «Judith Carlyle», disse Tom, addolorato. «Mio Dio», disse Kerr. «Già», disse la cosa. «Il tuo dio.» La voce era colma di disprezzo. «Dov'è il tuo dio? È qui? Oppure il dio pazzo se n'è andato in vacanza per gli ultimi millenni?» La voce si alzò di tono, divenne una cantilena infantile. «Dov'è Dio? Dio è in ogni luogo.» «Ieri sera... ti ho sentito», disse Tom. «Il telefono...» «Hai sentito tutti noi e nessuno di noi.» La cosa guardò Kerr, con espressione trionfante. «A differenza del tuo dio, noi siamo in ogni luogo.» Eric si morse il labbro. Nascose la paura in profondità dove sperava il demone non la vedesse. È uscito da due notti. «Che cosa volete?» chiese Will. «Perché state facendo tutto questo?» «Chiedilo al prete», rispose la cosa. «Dopotutto, sono stati loro a cominciare. È solo colpa sua. Non è nemmeno un prete. Chiedigli quali segreti non ha ancora confessato sulla...» «Taci!» urlò Kerr, tendendo il crocefisso. La cosa sobbalzò, poi si ricompose. «Pagherai per questo, prete», sibilò. Guardò Eric. «Vi offro una via d'uscita.» Nessuno parlò. «Siete liberi di andarvene, tutti. Il nostro servo vi lascerà passare indenni. Se restate, morirete. Lasciateci questo posto. Per voi non può essere più importante delle
vostre vite.» «Niente da fare», disse Eric. A bocca spalancata, la cosa guardò gli altri. «Costui parla anche per voi?» Gli altri annuirono. «Allora siete pronti a morire per il capriccio di qualcuno che vi è estraneo come lo siamo noi? Non è uno di voi.» La voce era un sussurro. Le parole, insetti malvagi che penetravano nelle orecchie. «Chiedetevi se un uomo normale potrebbe fare ciò che lui ha fatto. Perché fidarvi di lui? Voi non gli interessate affatto. Quando avrà finito, vi lascerà a morire qui.» Un sorriso orribile. «Adesso accettate la mia offerta?» «Forse», rispose Eric. «Se ci dirai chi è stato il primo a uscire.» «Il primo sarà l'ultimo e l'ultimo sarà primo... Giusto, prete?» La cosa si girò di nuovo verso Eric. «Non credere di poter mentire col principe delle menzogne.» «Ti stai adulando», disse Kerr. «Sono solo un umile servo del vero principe, ma ho il mio posto.» «Per l'ultima volta», disse Eric, «chi è stato il primo?» «Che cosa importa? Quando verrà il tuo momento, non farà differenza. Però potrei rispondere a un'altra domanda.» Eric rifletté un attimo, poi sopraggiunse il panico. Idiota! Sta cercando di farci perdere tempo! Ma perché... Da fuori si udì un colpo di pistola. «Liz!» urlò Eric. «Vado io!» Tom uscì di corsa, scese le scale. La cosa sorrise. «E ne rimasero solo quattro.» «Mostro!» urlò Kerr. Estrasse dalla camicia la fiala di acqua benedetta e la lanciò in facci alla cosa. La cosa urlò. Si scaraventò oltre Will e Kerr, verso la finestra di fronte. Dalla faccia uscivano pus e sangue. Fuori risuonarono altri colpi di pistola. «Siete morti!» urlò la cosa. Poi si scaraventò giù dalla finestra, piombò sulla strada sotto. Prese fuoco non appena la luce del sole la toccò. Eric corse a raggiungere Tom. Arrivò al pianterreno. Tom era dietro la porta d'ingresso, con la pistola spianata. Liz era raggomitolata dietro una sedia. «Un cecchino», disse Tom. «È Ray. Deve essere Ray.» «Già. Lo avevo immaginato anch'io», ammise Tom, a malincuore. «Mi spiace», disse Liz. «Non l'ho visto. Ho sentito un colpo e sono corsa
dentro.» «Te la sei cavata benissimo», disse Eric. «E adesso?» chiese Will. «Ci tiene bloccati qui.» Eric gemette. Era stata una stupidaggine colossale mettersi a discutere con una delle cose. Le creature volevano solo guadagnare tempo, metterli in posizione di svantaggio. E infatti... C'era una via d'uscita. Forse. «Dov'è?» chiese Eric. «Lassù.» Tom gli indicò il gazebo. Eric distinse vagamente una forma accucciata sul tetto. L'importante, però, era che riuscisse anche solo a intravederla. «Che cosa sta usando?» «La stessa pistola che ho io. Una 38. Ottima per colpire bersagli in movimento. Perché?» «Devo saperlo.» Eric aveva bisogno di visualizzare l'obiettivo. Chiuse gli occhi e cercò di concentrarsi su Ray, accucciato in cima al gazebo; sul revolver che aveva in mano; sulle pallottole del caricatore. Le pallottole si riscaldavano... Da fuori sentirono un crack! e un urlo di dolore. «Fottuto!» strillò Tom. Eric riaprì gli occhi in tempo per vedere Ray che scivolava giù dal gazebo, con un braccio che perdeva sangue. Cadde a terra e corse via. «Gli si deve essere inceppata la pistola», disse Tom, lanciando un'occhiata piena di curiosità a Eric. «Non credo che ci darà più molti fastidi.» Eric annuì. La testa gli stava scoppiando. Guardò in direzione di Liz. Anche lei sospetta che io c'entri in qualche modo, pensò, rattristato dalla paura e dall'incredulità che lesse sul volto di lei. Era felice che Liz non si fosse trovata di sopra quando la cosa lo aveva accusato di non essere uno di loro. I fattori contro cui doveva lottare erano già tanti; non poteva permettere che le creature scavassero un abisso fra lui e gli altri. Era sempre stato il diverso, l'estraneo. Adesso non poteva più esserlo. Lui e gli altri non se lo potevano permettere. Perché altrimenti non sarebbero sopravvissuti. 29 Squilli di telefono
Alle quattro del pomeriggio, furono costretti a fermarsi al Point Inn, dopo che Eric ebbe stabilito che il posto era sicuro. Chiaramente, durante la notte lì era successo qualcosa. La porta d'ingresso era rotta e c'erano vetri sparsi su tutto il pavimento; ma erano troppo esausti per poter continuare. Liz fu felicissima di poter mangiare qualcosa, a prescindere dal sapore del cibo, e di potersi sedere per cinque minuti. Si sistemò su uno degli sgabelli e appoggiò le mani sul bancone cercando di fermarne il tremito. Nelle ultime due ore erano riusciti a eliminare soltanto altre tre cose. Strano, pensò. Non ci è voluto molto per abituarci a considerare cose i corpi posseduti. Forse era l'unico modo di affrontare quello che stavano facendo. Non stavano uccidendo persone: distruggevano cose. Dopo la sparatoria, Ray era scomparso. Forse era tornato al posto di blocco. Impossibile prevedere se e quando si sarebbe ripresentato. Quella prospettiva turbava Liz. Chiuse gli occhi. Dal mattino, da quando Eric l'aveva trovata, tutto si era svolto così velocemente. Non riusciva a tenere il passo con gli avvenimenti e vedeva la stessa, stanca verità riflessa sui visi stravolti degli altri. Ormai da un'ora agivano meccanicamente e parlavano solo se era necessario. Forse, quello che pensavano era intraducibile in parole: se uno di loro avesse dato voce alle paure e ai dubbi che senz'altro tutti provavano, si sarebbero fermati? Avrebbero rifiutato di continuare? Guardò il resto del gruppo, cercò un contatto visivo, un rapporto umano; ma tutti erano ripiegati su se stessi, lontano da lei. Avrebbe voluto dire qualcosa. Pensava che qualcuno dovesse dire qualcosa. Però non le veniva in mente niente. Desiderava soltanto dormire, fermare il dolore alle ossa e il senso di debolezza alle ginocchia. Guardò Eric, in piedi davanti alla finestra. Stava scrutando la strada tra le fessure delle tapparelle. A che cosa stava pensando? Al passo successivo? Liz trovava sorprendente quel cambiamento. Era come se Eric, in qualche modo, si fosse collegato a una batteria, diventando per tutti una fonte di luce; al tempo stesso, non lo aveva mai visto così lontano, così poco disponibile alla comunicazione. Gli credeva ciecamente quando diceva che li avrebbe tirati fuori di lì, che in una maniera o nell'altra sarebbero riusciti a salvare la città; intuiva in lui il potere e la decisione necessari per quel compito. Però il suo isolamento la turbava e non riusciva a liberarsi dalla sensazione che lui non avesse raccontato tutta la verità. Lo aveva visto fare cose che aveva sempre giudicato impossibili, ma lui si era rifiutato di darle spiegazioni.
Sì, la curiosità era forte, ma si sentiva troppo stanca per fargli pressioni. Diede un morso a una brioche che aveva trovato sotto un contenitore di plastica: era vecchia, come tutto il resto, però si costrinse a mangiarla. La mandò giù con un bicchiere d'acqua. Avrebbe voluto che Eric lasciasse il suo posto alla finestra e andasse da lei. Fuori non si muoveva niente e lei aveva bisogno di lui. Una parola, un abbraccio, qualunque cosa le sarebbe bastata. Ma lui restò girato di schiena e Liz si guardò bene dal chiedergli il sostegno che desiderava con tanta intensità. Non era il momento adatto per dimostrarsi debole. D'altra parte, era poi così sbagliato sentire il desiderio di un braccio sulle spalle? Will si sfregò gli occhi. Avrebbe dato l'anima per un po' di acqua borica, ma a quanto ricordava, non ne vedeva da secoli. A dire il vero, tutti i ricordi di quello che era accaduto prima del risveglio di quel mattino erano terribilmente sfuocati. Più ci pensava, più l'acqua borica diventava una specie di icona mentale. Non poteva averla e quindi non sapeva pensare a nient'altro. Forse poteva convincere il gruppo a entrare in farmacia. Gli sarebbe bastato un flacone... Ma che diavolo ti prende? Si chiese, deluso dalla banalità delle proprie riflessioni. Erano nel mezzo di un incubo diventato realtà e lui riusciva solo a preoccuparsi dei suoi occhi? Sì, dannazione, non sapeva pensare ad altro. Le alternative erano troppo grandi per lui. Era un po' come cercare di immaginare una linea che si estende all'infinito: dopo un po', la mente si ribella e ripiega su cose più normali. Meglio pensare agli occhi che alla sopravvivenza, se non voleva lasciarsi andare alla disperazione. Eppure, non era ancora disposto ad arrendersi. Dopo tutto, avevano eliminato sei cose ed erano ancora vivi. Forse c'era una speranza di sopravvivere, anche se ogni volta che ci pensava, la sua mente tornava alla cifra spaventosa che Eric aveva dato loro. C'erano ancora quasi trecento cose nascoste nel Point. Non potevano sperare di distruggerle tutte prima che facesse buio; e stando a Eric, la loro forza si sarebbe dispiegata in pieno con il calare della sera. Che piano ha in mente? Eric era riuscito a farli restare sani e salvi per tutte quelle ore. Forse sapeva davvero che cosa stava facendo, anche se continuava a tenere la bocca chiusa nel più irritante dei modi. Will decise che si sarebbe sentito enormemente meglio se avesse saputo
quale doveva essere il loro passo successivo. Padre Kerr sedeva solo a uno dei separé del ristorante e lottava con una marea di emozioni. Più di ogni altra cosa, era invaso da una rabbia profonda per quello che era successo al Point. Tutto era accaduto così in fretta che non aveva avuto tempo per interrogarsi, per riflettere a fondo; era stato costretto a limitarsi ad agire e reagire. Adesso, però, mentre assorbiva la realtà di quel giorno, si sentì sommergere da un'ira così violenta che si mise a tremare. Judith Carlyle... Ricordava il suo sorriso dolce, il suo calore. Dave Markle e il pesce parlante che raccontava di avere incontrato. Come poteva essere accaduto? Com'era possibile che un Dio misericordioso avesse permesso che accadesse? Si sentiva come Giobbe; chiedeva a Dio di giustificare se stesso. Ma non faceva parte della natura umana porre domande, cercare una ragione dove apparentemente non esisteva alcuna ragione? L'umanità di Giobbe stava proprio nella sua mente piena di interrogativi e Dio aveva trionfato su Satana perché Giobbe, di sua volontà, aveva scelto di fare il lavoro di Dio. Un'infinità di volte, Sam e altri gli avevano chiesto: «Perché un dio misericordioso permette dolore e sofferenza e la morte di bambini innocenti che non possono capire che cosa siano la vita, la morte, il peccato?» La sua risposta era sempre stata che per quanto certi eventi fossero incomprensibili agli uomini, rientravano comunque nei piani di Dio. Quindi, anche quello che stava succedendo doveva avere una ragione. Forse proprio attraverso quei fatti Dio si sarebbe manifestato al mondo attuale. Forse. Però doveva esistere un modo più facile. Altre sensazioni gli ribollivano dentro. Odiava ammetterlo, ma assolvere ai compiti della sua chiesa in maniera così concreta, tangibile, lo portava quasi all'euforia. Di solito, le sue battaglie quotidiane erano più con gli impianti idraulici che con le forze di Satana. Si sentiva straordinariamente vivo e di quello chiese perdono. C'era anche un senso di sollievo. Non doveva più interrogarsi su quale fosse stata la causa degli strani avvenimenti che si erano verifìcati in chiesa. Era naturale che l'edificio si muovesse, reagisse in qualche modo, al risveglio delle forze del bene che si preparavano alla lotta. La stanza segreta era stata svelata per purificare l'atmosfera prima dell'inizio della battaglia. Il crocefisso che si muoveva e alla fine appariva all'esterno della chiesa... Un segno: l'immagine stessa di Cristo che si disponeva a uscire, ad affron-
tare le tenebre. Per ultima c'era la paura, che sapeva di dividere con gli altri. La paura di fallire, di non essere all'altezza. Era un buon sacerdote, o, per essere precisi, un sacerdote efficiente. Negli anni di servizio, la sua fedeltà era stata sottoposta a ben poche prove, in genere non più gravi di un'occhiata veloce, subito repressa, al petto particolarmente florido di una giovane donna. Era pronto a un confronto di quella portata? Ma d'altra parte, esistevano tecniche o dottrine capaci di preparare qualcuno ad affrontare ciò che lui aveva visto nelle ultime dodici ore? Ne dubitava. Tom si agitò sul suo sedile, irrequieto. Sapeva che avrebbe dovuto mangiare qualcosa (chi poteva dire quando si sarebbe presentata un'altra occasione?), ma non se la sentiva. Sin dall'inizio erano stati tenuti occupati; non avevano avuto il tempo di pensare. Forse era proprio quella l'intenzione di Eric e forse stava bene anche agli altri, ma lui era preoccupato del fatto che non avessero ancora un piano concreto. Si corresse. Non era esatto. Eric diceva di avere un piano, ma non voleva informarne gli altri. Dopotutto, erano troppo vulnerabili. Non lo aveva detto l'onnipotente Eric Matthews? Dunque, doveva automaticamente essere vero. A Tom dava molto fastidio. Gli piaceva avere in mano le redini della situazione. Era abituato a comandare, a sapere in che modo A avrebbe portato a B e poi a C. Al momento, invece, soltanto Eric sapeva che cosa avrebbero fatto. Eric. Si voltò a guardarlo. Eric girava la schiena al resto del gruppo, in segno di... che cosa? Isolamento? Superiorità? Disdegno? Cercare di capire le sue intenzioni era un'impresa folle. Per il momento, però, aveva avuto ragione su tutto. Aveva vinto la loro incredulità, aveva rinsaldato le loro speranze e gli aveva salvato la vita due volte. Ma in Eric c'erano ancora molte cose che non quadravano. Dove aveva passato la notte precedente? Come mai la sua automobile era l'unica che funzionasse in tutto il Point? Come era riuscito a sapere che cosa stava succedendo? Aveva raccontato di avere ricostruito la verità in base a vecchie leggende indiane, ma nessuno di loro ne aveva mai sentito parlare. E se sapeva già da un po' che cosa li attendeva, perché non si era messo in azione subito, invece di aspettare che un terzo della città si trasformasse in
un'orda di mostri? Ma anche supponendo che Eric sapesse tutto da tempo e che avesse tentato di passargli l'informazione, sarebbe servito a qualcosa? Tom ne dubitava. Probabilmente, lo avrebbe chiuso in cella ancora prima di quanto avesse fatto. E anche le domande implicite in quel fatto lo turbavano: arrestando Eric, aveva contribuito senza volerlo a far precipitare la situazione? L'unica cosa certa era che Eric era molto più di ciò che sembrava. Non lo aveva detto una delle cose che lui non era come loro, che li stava semplicemente usando? No, si disse Tom. Era solo quello che loro volevano fargli pensare; e se loro volevano che pensasse in una certa maniera, per Dio, avrebbe fatto l'impossibile per pensare il contrario. Per di più, Eric si era esposto al pericolo quanto tutti gli altri, forse anche di più. Non lo avrebbe fatto, se avesse pensato solo al proprio interesse. E sino ad allora, non li aveva traditi. A differenza di Ray. Ray. Chi avrebbe mai immaginato che il suo vice, pur contro la propria volontà, avrebbe cercato di ucciderlo? Tom accettò l'inevitabile realtà. Eric era la loro unica speranza, almeno a quello stadio. Non c'era nessun altro su cui contare. Questo, però, non significava dover obbedire ciecamente ai suoi ordini. Prima o poi, avrebbe scoperto che cosa c'era sotto. Nel frattempo, non gli avrebbe tolto gli occhi di dosso. Eric guardava Walnut Street. Tra due ore, la luce sarebbe stata tanto scarsa da permettere ai demoni di lasciare i loro rifugi. E allora... Chiuse gli occhi. Non voleva che gli altri vi leggessero la sua paura. Il suo stato d'animo si era incupito assieme al giorno. La fiducia con cui aveva iniziato quel mattino era svanita da un pezzo. Al suo posto c'era solo un senso di rassegnazione. Poteva attribuirlo in parte all'atmosfera opprimente del Point, ma in quanto al resto... Sapeva che presto avrebbe dovuto lasciare il gruppo, dopo averlo messo al sicuro per quello che era possibile, ed entrare in azione da solo. Gli altri non potevano seguirlo dove doveva andare. Lui stesso non sapeva di preciso che cosa lo attendesse; sapeva solo di dover distruggere il cuore delle caverne in fretta e in maniera radicale. Niente gli garantiva la sopravvivenza. Più di tutto odiava l'idea di lasciare Liz, ma almeno sarebbe stata con gli altri. Poteva solo sperare che i quattro, insieme, resistessero finché lui non
avesse fatto quello che doveva fare, prima di... No. Non ci avrebbe pensato. Se quello che avevano fatto sino ad allora stava ottenendo l'effetto che lui prevedeva, c'era una speranza di successo. Le loro incursioni nel Point avevano confermato i suoi sospetti. Come Judith Carlyle e Dave Markle, allo spuntare del sole i demoni avevano cercato il primo rifugio raggiungibile. Li sentiva attorno a sé, sentiva il terrore che emanavano. Da quando era tornato al Point, aveva sentito lo stesso senso di terrore ogni volta che aveva guardato in direzione delle caverne, però amplificato centinaia di volte, il che poteva solo significare che lì si era rifugiato un grande numero di demoni. Lontano dalle caverne, affrontandoli a uno a uno, era possibile sconfiggerli. Ma nemmeno cinque persone dotate dei suoi stessi poteri potevano sperare di vincere così tante cose sul loro terreno. Si era reso conto che esisteva una sola speranza: lasciar credere loro che li avrebbero affrontati individualmente, che ignoravano il significato delle caverne. Scesa la sera, le cose avrebbero lasciato le caverne e invaso la città, per distruggere i pochi ostacoli che si frapponevano ai loro piani. E le caverne sarebbero rimaste indifese. Purtroppo, quella strategia significava correre sul filo dei minuti. Doveva restare in città, guidare gli attacchi fino all'ultimo momento. Se aveva fortuna, le cose avrebbero scoperto troppo tardi quello che stava accadendo. Non erano onniscienti. Però non bisognava nemmeno sottovalutarle: quasi sicuramente, se il gruppo avesse attaccato le caverne, se ne sarebbero accorte e sarebbero entrate in azione. Ecco perché doveva lasciare lì gli altri. Non tanto a fare da esca, quanto a creare ulteriori diversioni. I demoni avrebbero saputo in maniera approssimativa dove si trovava il gruppo. Con il tempo, lo avrebbero individuato. A quel punto, le loro vite e la sua, sarebbero state perse, a meno che lui prima non riuscisse a distruggere il cuore delle caverne. Qualunque cosa fosse. E non sapeva nemmeno che cosa sarebbe accaduto quando lo avesse distrutto. Sapeva solo che doveva farlo e quella stessa notte. Scrutò fuori. Guardò il sole pallido che scendeva dietro le cime degli alberi. Era ora di muoversi, decise. Si girò per parlare agli altri... E il telefono squillò all'improvviso. Balzarono in piedi all'istante. Lo squillo risuonava non solo nel ristoran-
te, ma anche fuori. Ogni telefono della zona, forse ogni telefono del Point, stava squillando. Il frastuono era assordante. «Allora?» chiese Tom. «Il capo sei tu. Che cosa facciamo?» «Che cosa vogliono?» chiese Liz. «Parlare», rispose Eric. «In un certo senso, è un buon segno. Non proverebbero con tutti i telefoni della città se sapessero dove siamo.» I telefoni continuavano a squillare. «Rispondiamo?» chiese Will. Poi, all'improvviso come erano iniziati, gli squilli si interruppero. E un secondo dopo, l'edificio tremò. Il solaio era stato distrutto da un'esplosione. «Giù!» urlò Eric, buttandosi a terra. Che stupidi siamo stati, ci siamo fermati per troppo tempo in un solo posto ci hanno individuati maledizione! Piatti volarono in ogni direzione, posate furono scaraventate contro le pareti. Le tapparelle della finestra scesero da sole, si chiusero. Sopra, qualcosa si mosse. La sentirono spostarsi pesantemente. E arrivarono le mosche. A migliaia. A milioni. Una nube nera, vivente, che riempì la stanza, che entrò nelle loro bocche, nelle loro orecchie. «Tutti fuori!» gridò Eric. «Adesso!» Liz e Kerr, i più vicini alla porta, corsero verso l'uscita. Qualcosa esplose sul soffitto. Cadde a terra e sbarrò loro il cammino. Si alzò davanti a loro. La sua evoluzione demoniaca era quasi completa. Il viso era una cortina di fumo ondeggiante; i tratti umani di un tempo erano quasi irriconoscibili. Le sue membra avevano la capacità di piegarsi tanto in avanti che all'indietro, come le zampe di un ragno. Grossi brandelli di carne pendevano dal corpo. Liz rimase paralizzata. Cominciò ad aprire e chiudere la bocca senza emettere un solo suono, indifferente alle mosche che la coprivano. La cosa avanzò di un passo verso di lei. «No!» urlò Will. Balzò fuori dal separé, afferrò Liz per un braccio e la tirò indietro, mettendosi fra lei e la cosa. La cosa piegò la testa e guardò Will, il viso contorto in un sorriso. «Molto bravo», sussurrò. Poi la mano scattò in avanti come un serpente. Passò sul volto di Will in
un lampo. Sembrò che non lo avesse toccato, ma Will gridò. «I miei occhi!» urlò. Inciampò, cadde. «Non vedo più!» Kerr e Tom fecero un passo avanti. La cosa li fissò divertita. «Sì», mormorò. «Venite a giocare.» «Toglietevi!» strillò Eric. «È mio.» «È mio» lo scimmiottò la cosa. Eric guardò una scatola di posateria, sul lavandino alle sue spalle. La scatola si aprì. Eric protese in fuori i pensieri e scagliò i coltelli contro la cosa davanti alla porta. Le lame affondarono nel petto, nelle braccia, nella faccia, nelle gambe. La cosa non reagì. Parve non essersene nemmeno accorta. Restò a fissare Eric a occhi socchiusi, poi guardò Liz. Lei si portò le mani alla gola, in cerca d'aria. La carne della sua gola pulsò, divenne violacea, come fosse stretta da una mano invisibile. «Lasciala stare!» disse Eric. «È me che vuoi. Sono qui! Vieni a prendermi!» «Bastardo!» urlò Tom alla cosa. Estrasse il revolver e scaricò tutti e sei i proiettili nel petto e nella testa della cosa. Non ottenne il minimo effetto. Liz cadde a terra. Stava soffocando. «Lasciala andare!» gridò Kerr e si lanciò contro la cosa, brandendo il crocefisso. È tutto sbagliato, pensò Eric, ma da lontano, come se stesse guardando la scena da fuori. Le loro tattiche, le loro strategie, erano inutili, dimenticate al primo contrattacco. Senza staccare gli occhi da Liz, la cosa allungò un braccio e colpì Kerr alla tempia. Il sacerdote finì contro la parete, vicino alla finestra... La finestra! Le tapparelle si erano chiuse appena prima che la cosa apparisse nella stanza. «Padre!» urlò Eric. «La finestra! Apra le tapparelle!» Kerr cercò il nastro, lo trovò mentre la cosa si voltava e faceva un passo verso di lui. Le tapparelle si alzarono e la luce del giorno entrò nel ristorante. La cosa urlò: un suono terribile, un'esplosione d'ira peggiore di tutto il resto. Barcollò, si allontanò dalla finestra... Ma non morì! Liz si mosse sul pavimento. Il colore le stava tornando in viso e respira-
va meglio. Lo ha indebolito, ma niente di più! Il cuore di Eric ebbe un tuffo. Quello doveva essere uno dei primi demoni che si erano liberati e adesso era tanto forte da sopportare la poca luce che arrivava da fuori. La cosa si raddrizzò, si girò verso di loro. La sua faccia era colma d'odio, di rabbia. Ci siamo! Colpì la parete con un pugno. L'edificio tremò, l'urto fece cadere tutti a terra. Grandi crepe si formarono sulle pareti. Le piccole lampade che si trovavano sui tavoli precipitarono sul pavimento, si ruppero... Eric si mise in ginocchio. Le lampade! Ne afferrò una, tolse il cappelletto di metallo e la lanciò contro la cosa. Il vetro andò in frantumi e il cherosene colò sulle gambe della cosa. Eric estrasse l'accendino dalla tasca, saltò sul banco e atterrò dal lato opposto, a una trentina di metri dalla cosa. Fece scattare la rotella dell'accendino e avvicinò la fiamma alla piccola pozzanghera di cherosene. Le fiamme corsero su per le gambe, coprendole di un manto di fuoco. La cosa urlò di nuovo e si lanciò dalla finestra. Contorcendosi violentemente, tentò di spegnere le fiamme, mentre le sue urla echeggiavano fra gli edifici. Alla fine crollò in mezzo alla strada e rimase immobile nel fuoco che la divorava. Tom prese un estintore dietro il banco e spense il cherosene sul pavimento. Eric controllò il buco nel soffitto, nel caso ci fossero altri demoni in agguato. Non ce n'erano. Come sospettava, la parete fra il solaio del ristorante e la casa accanto era stata perforata. Una serie di fori si estendeva da quel lato della strada per almeno altri quattro edifici. Da uno dei fori vide entrare una modesta quantità di luce. Si era sbagliato sullo scopo dello squillare dei telefoni: erano stati un diversivo, un modo per coprire il rumore mentre il demone si apriva un varco, arrivava sopra le loro teste. Le cose cominciavano a essere disperate e quindi erano ancora più pericolose. Eric corse da Liz, raggomitolata contro Will e le guardò la gola. Profondi lividi le segnavano la carne; il suo respiro era una serie ansimante di singhiozzi. «Va tutto bene», le disse lui. «Non c'è più.» «Non va tutto bene, maledizione», sbottò lei e girò la testa. Eric guardò Will, che teneva il viso sepolto fra le mani. «Non ci vedo più», mormorò Will. Kerr si portò al suo fianco con Tom e recitò una preghiera. Will prese a ondeggiare avanti e indietro, sotto choc.
«Dio, non ci vedo più...» Avevano appena perso la prima vera battaglia. La sconfitta successiva sarebbe stata l'ultima. 30 Saint Benedict Eric tenne aperto il portone della chiesa mentre padre Kerr aiutava Will a entrare e lo guidava all'ultima fila di panche. Mancavano meno di trenta minuti al tramonto. Eric poteva sprecare qualche altro minuto per convincere le cose che senza dubbio li osservavano che sarebbero rimasti assieme, ma non più di pochi minuti. «Controllo le altre porte», disse Tom e si allontanò. Liz guardò Will. «Sei certo che qui sarà al sicuro?» «Penso di sì», rispose Eric. «È il posto più sicuro di tutto il Point.» «Il che significa che non è affatto sicuro.» «Prima dovranno trovarci», disse Kerr. Diede una tazza d'acqua a Will, poi raggiunse gli altri due. «E poi dovranno entrare e non credo che ci riusciranno. Persino il diavolo in persona ci penserebbe due volte, prima di violare la casa di Dio.» «Non ci conti troppo», disse Eric. Non gli piaceva la direzione che i pensieri di Kerr stavano prendendo. «Questo non è il libro della Rivelazione diventato realtà, padre. Niente ci assicura che quegli esseri si fermeranno davanti a qualcosa, specialmente quando sarà buio.» «Però abbiamo la speranza.» «Sì, esiste una possibilità, ma una sola. Un eccesso di fiducia potrebbe ucciderci tutti.» Il viso di Kerr rimase privo d'espressione. «Non entreranno qui.» Lo disse con la convinzione di chi finalmente si trova faccia a faccia con la realtà di ciò che le sue convinzioni implicano, ed è deciso, forse ispirato, a difenderle. Eric ritenne inutile approfondire la discussione. Si girò verso Liz. «Dovrai restare qui finché non torno, d'accordo?» «No. Padre Kerr si occuperà di Will. Io vengo dove vai tu.» «Nemmeno per idea», ribatté lui. Lasciare Liz era l'ultima cosa che il suo cuore desiderasse, ma non aveva scelta. «Mi servi più qui che dove andrò. È troppo pericoloso.» «E qui non lo è?» La voce di Liz diceva chiaramente che lei non capiva.
«No, se vi nascondete bene.» Eric guardò Kerr. «Se, solo se, quelle cose trovassero il modo di entrare, c'è un posto ben riparato dove barricarvi?» «Una seconda linea difensiva?» «Esatto.» Kerr rifletté un attimo. «Sì», rispose lentamente, «c'è. Ma dovrete aspettare qualche minuto. Devo preparare tutto.» Eric lo osservò. Il prete gli nascondeva qualcosa, però non c'era il tempo per scoprire che cosa. «D'accordo», gli disse. «Vada.» Scomparso Kerr, restava una sola cosa da fare. Eric passò una mano sulla spalla di Liz. Lei lo scrutava, in attesa di sentire quello che avrebbe detto. Eric cercò di trovare parole che non suonassero false. Stai attenta? Andrà tutto bene? Come poteva dirglielo, se la raccomandazione era al di là del loro controllo e la rassicurazione era intrisa di dubbi? Non le avrebbe mentito. Ma fu Liz a parlare per prima. «Non è giusto», disse. «All'inferno, Eric, non puoi piantarmi qui.» «Posso e lo farò. Non potrò fare quello che devo fare se tu sarai con me e io dovrò preoccuparmi per tutti e due.» Lei lo abbracciò. «Se mi lasci, non tornerai, lo so.» Lui la tenne stretta, ma i suoi pensieri erano altrove. Seguivano il sole che si avvicinava sempre più all'orizzonte. «Prova a fermarmi», le sussurrò e la baciò dolcemente. «Adesso va ad aiutare padre Kerr. Lui e Will avranno bisogno di te, nelle prossime ore.» Liz annuì. Senza una parola, si avviò nella direzione che padre Kerr aveva preso. Tom tornò nella navata un momento dopo. «Tutte le porte sono sicure, per quanto possono esserlo», annunciò. «Bene. Dunque, finché non torno...» «Te lo puoi scordare. Io vengo con te.» «Porca miseria, Tom, non ho tempo per discutere!» «E io non ho tempo per i martiri. Dici che devi fare da solo l'accidenti che devi fare. Forse è vero e forse no. Potrebbe servirti una mano. Non si sa mai.» «Ma che cosa ti prende?» chiese Eric. «Non hai ancora capito con che cosa abbiamo a che fare?» «Fin dove mi è possibile, sì.» «Tom, non posso permetterlo.» «E come pensi di fermarmi? Se parti in macchina, ti seguirò a piedi. Nel
caso lo avessi dimenticato, sono ancora il capo della polizia. Maledizione, Eric, è la mia città e se si può fare qualcosa, voglio esserci anch'io.» Tom aveva ragione. E in ogni caso, non c'era più tempo per perdersi in lunghe discussioni. «D'accordo, d'accordo. Ma a una condizione. Qualunque cosa succeda, qualunque cosa ti sembri che succeda, dovrai fare esattamente quello che ti dirò.» «Solo se mi racconti tutta quanta la storia.» «Accettato.» Se Tom voleva seguirlo, aveva il diritto di conoscere la verità. «Vado ad avvertire padre Kerr», disse Tom. «Tu nel frattempo puoi cominciare ad accendere il motore dell'auto.» «Hai un minuto esatto», disse Eric. Uscì dalla chiesa. Le ombre si stavano allungando in fretta. Guardò l'orologio. Venti minuti al tramonto. Stavano davvero correndo contro il tempo. 31 Il Point «Ci occorrerà della dinamite», disse Eric, al volante della Datsun. La lotta col motore era continua. «Conosco il posto adatto», disse Tom. «Il capannone di un'impresa di costruzioni, non è lontano da qui.» Guidò Eric al capannone, che sorgeva a lato di Lakewood Drive. Ruppe una finestra per entrare. Prese detonatori, una mezza dozzina di candelotti di dinamite, miccia, una manciata di torce di segnalazione e infilò tutto in due borse di tela. Mentre percorrevano le strade buie che portavano alle caverne, Eric raccontò la sua storia. Parlò degli incubi, della scoperta della sua particolare sensitività. Tom aveva già avuto prove più che a sufficienza; non fu difficile convincerlo. La sua espressione si fece grave al racconto del tentativo di Ray di ucciderlo e al resoconto sulla visita alla stanza di Sam e al cimitero. A un certo punto, l'automobile borbottò e si fermò. Non aveva più intenzione di ripartire. «Il tramonto», disse Eric, nel silenzio improvviso. «E adesso?»
Eric aprì la portiera, prese una delle borse di tela. «Continuiamo a piedi. Forse è meglio. Se ci teniamo alla larga dalle strade principali, ci sono minori rischi di incontrare qualcuno di loro.» Tom prese l'altra borsa e scese. Insieme spinsero l'auto a lato della strada, nascondendola fra gli alberi. «È un bel po' di cammino», disse Tom. «Abbiamo tempo a sufficienza?» «Lo spero», rispose Eric avviandosi. «Ma non credo che sia il tempo la nostra principale preoccupazione.» «Allora quale sarebbe?» Eric si girò a guardarlo. Chissà se il poliziotto, fra le ombre, riusciva a vedere il suo sorriso preoccupato. «Ottima domanda.» 2 Kerr scese la scala segreta ed entrò nello scantinato. Liz si teneva stretta a Will. In una mano stringeva un cero votivo e con l'altra sosteneva il dottore. «Tutto pronto», disse Kerr. «Mi segua. Sarà meglio sbrigarci.» Anche se non c'erano finestre nello scantinato, sentiva la sera calare al Point. «Da questa parte», disse Liz e guidò Will nel labirinto di scatole, sedie pieghevoli e vestiti, fino all'apertura nella parete di fronte. In cima alla scala, Kerr diede un'ultima occhiata alla stanza segreta, poi fece entrare gli altri due. Qualche minuto prima, aveva trovato il corpo mummificato steso a. terra come era in origine, non più seduto al tavolo. Un buon segno: a quanto sembrava, le forze del nemico non conservavano a lungo la loro potenza all'interno della chiesa. Gli erano bastati pochi attimi per coprire lo scheletro con qualche lenzuolo. Adesso, la stanza sembrava solo un ripostiglio; e da quel giorno in avanti, non sarebbe stata niente di più. Li guidò al tavolo, dove aveva preparato una bottiglia d'acqua, due bicchieri e alcune candele. Al momento, una sola delle candele era accesa. «Dovrebbero durare circa un'ora ciacuna», disse. «Di solito le accendiamo per i morti, ma stanotte offriranno luce ai vivi.» «Andranno benissimo», disse Will, sforzandosi di apparire allegro. «In ogni caso, sono più che sufficienti per le mie necessità.» «Bene», disse Kerr. Si sentiva nervoso e impacciato per quello che doveva annunciare. «Direi che siamo a posto. Io scendo e nascondo l'apertura
nel muro. Voi due restate qui finché Eric o io non torniamo.» Liz gli prese il braccio. «Ma che cosa dice? Non resta con noi?» «Questa è la mia chiesa», rispose Kerr. «Abbandonare il timone significherebbe tradire tutto ciò in cui credo. Non penso oseranno entrare in chiesa. Ma se lo facessero...» Aprì le mani a ventaglio e lasciò la frase in sospeso. «La prego, Liz, non mi chieda di rinunciare ai miei obblighi.» Lei gli puntò gli occhi addosso. «Almeno stia attento», disse. «Certo.» Kerr continuò verso la scala. «Padre?» Lui si fermò. «Sì?» «Volevo solo dirle che mi spiace di avere fatto certe cose. Di averla presa in giro, di avere dato una mano a Sam con le sue battute, ogni tanto...» Lui respinse le scuse con un cenno. «Perdonata.» Sorrise. «Visto? Le avevo detto che per lei il confessionale è sempre aperto e lei ha accettato la mia offerta. Cosa può chiedere di più un sacerdote?» Le strizzò l'occhio, poi scese la scala. Giunto in fondo ammassò contro l'apertura tutte le scatole, le sedie e gli abiti che riuscì a trovare. Indietreggiò per osservare il suo lavoro e ne fu soddisfatto. Il varco nella parete era praticamente invisibile. Poteva bastare. Salì in sacrestia. Prese i paramenti sacri e si vestì per la celebrazione della messa. Il significato di ciò che indossava gli parve più forte che mai, alimentato dalla consapevolezza che la sua era una vera e propria uniforme da soldato. E adesso, come un soldato appena rientrato da una licenza, sarebbe andato in guerra. Forse era ingenuo sperare nella vittoria alla vigilia della battaglia, ma c'era sempre una possibilità. Avrebbe affrontato le cose e se il destino non gli avesse riservato una vittoria netta, sperava, pregava, di avere almeno la fede necessaria per permettere a Eric di fare ciò che andava fatto. Sapeva che prima della fine della notte sarebbe stato messo alla prova in maniera terribile, però attendeva lo scontro con impazienza. Si era sempre vantato di essere un sacerdote capace di ragionare e di restare fedele alla logica, in un mondo dove troppo spesso una cosa escludeva l'altra. Ma anche la ragione, a modo suo, era una trappola, perché prima o poi doveva giungere il momento in cui tutto si riduceva a una questione di fede. In un certo senso, era un sollievo non doversi più porre domande. Per il momento, era sufficiente credere e agire.
Entrò nella chiesa vera e propria. Il cielo visibile dalle vetrate era scuro. Il tramonto era giunto. Scese sulla sinistra, fino alle candele per le offerte votive, le accese, poi tornò all'altare, s'inginocchiò e accese i ceri ai due lati del crocefisso. Da quel punto sopraelevato, gli parve che la chiesa fosse piena di file di stelle: le candele lottavano coraggiosamente col buio. Non c'era altro da fare. Si inginocchiò sugli scalini dell'altare, all'altezza della balaustra, gli occhi puntati sulle luci e le ombre che si inseguivano sul viso di Cristo. Cristo lo guardava e aspettava con lui. Quando fossero arrivati, lo avrebbero trovato intento a pregare. 3 Eric avanzava fra gli alberi che portavano a Indian Lake. Si muoveva a passi cauti ma con sicurezza, concentrato sul fatto di mettere davanti prima un piede e poi l'altro: se cercava di pensare a qualcosa di più, qualcosa di diverso, nella mente trovava il nulla. Non appena lui e Tom avessero raggiunto le caverne, il piano essenziale che aveva formulato si sarebbe esaurito e a quel punto... Un piede davanti all'altro, pensò. Sinistro, destro, sinistro, destro, sinistro... (freddo, così freddo, voglio andare a casa, ma non me lo permettono...) Eric si bloccò. Le parole ondeggiavano al limite dei suoi pensieri, risuonavano come il mormorio distante di una conversazione udita dietro una parete. Distanti, tenui, eppure vagamente familiari. «Qualcosa non va?» sussurrò Tom. «Non sono sicuro.» Eric si concentrò per individuare la voce che si muoveva nella sua mente, leggera come una piuma. Non era diretta a lui; lo aveva trovato per caso, come un forte segnale radio che si infiltra nelle frequenze vicine. (... così solo, non mi lasciano andare, non dovrebbe fare così freddo, ma c'è tanto, tanto freddo...) Poi ricordò. Era la stessa voce che aveva sentito il mattino prima, quando si era svegliato e aveva scoperto che Liz era uscita. Chiuse gli occhi, per cercare di toccare la voce. Visualizzò le parole e le proiettò nella sera. (Sono qui, ti sentiamo, possiamo aiutarti.) La voce tremò, si ritrasse spaventata. (... no, sei uno di quelli che mi fanno male, che mi tengono al buio, così freddo, così solo... no, basta... sia
fuoco, sia ghiaccio, ma lasciatemi andare, vi prego, lasciatemi andare...) (Dove sei? Arriveremo appena possibile.) (... così freddo, buio, un buco scuro nel terreno, tomba e non tomba, niente...) Eric perse la concentrazione. Tom gli tirava il braccio e sussurrava in tono urgente. «Ascolta!» Non lontano, di lato, udì un movimento. Un fruscio d'ali e un mormorio di voci che si avvicinavano in fretta. «Giù!» disse Eric. Si buttarono a terra, si attaccarono al terreno mentre il suono cresceva. D'istinto, Eric chiuse gli occhi, si seppellì mentalmente nel terreno come una talpa. Andò lontano, non fu più lì. Azzerò i pensieri. Il suono crebbe. Non era un solo rumore, ma una cacofonia. C'erano passi e il fruscio di cose che venivano trascinate; sibili lontani, cori di strilli; l'incalzare veloce di zampe di lupi, un vento che passò sopra loro... E l'Occhio. Lo sentì attraverso la pelle, come le scariche d'elettricità di un lampo nel temporale; lo sentì anche se i suoi pensieri erano il più lontano possibile. L'immagine gli invase la mente: un occhio che cercava dappertutto, che cercava loro, che trovava solo il buio e continuava la ricerca, passando sopra loro e proseguendo nella sua opera con impegno assoluto. Quando passò, si udì il rumore di qualcosa che volava veloce su grandi ali coriacee. Il primo è uscito, pensò Eric. Gradualmente, il suono svanì. Quando fu a distanza di sicurezza, Eric rialzò la testa. Gli bruciavano gli occhi e aveva stretto le mani con tanta forza che le unghie avevano tagliato la pelle, facendo uscire il sangue. Ma era un prezzo modesto da pagare. Non li avevano scoperti! Eppure, i suoi pensieri corsero al potere di quell'occhio terribile. Era riuscito a nascondersi una volta; dubitava di poterlo fare una seconda volta. Si rese conto che non doveva esserci una seconda volta. Tom era a una trentina di centimetri da lui, pallido, il viso coperto di sudore anche nel fresco della sera. Aspettarono in silenzio per un attimo, finché non furono certi che le cose, che avanzavano come una marea, li avessero superati: lontano da loro, verso il centro della città. 4
Liz versò un po' d'acqua sul fazzoletto di Will e glielo passò sul viso, attorno agli occhi. Non poteva aiutare Eric (anzi, si stava sforzando di non pensare troppo a lui), ma poteva servire a qualcosa. Prese tra le mani il volto di Will. Era triste e vulnerabile. «Senti dolore?» «Ho solo la faccia intorpidita, come se me l'avessero imbottita di novocaina.» Lui scosse la testa. «Quella cosa mi ha solo... toccato.» Si passò una mano sul viso. «Non ci sono danni, spero.» «Vediamo.» Lei avvicinò di più la candela e boccheggiò involontariamente a ciò che vide. Solo poco prima, gli occhi di Will erano di un azzurro intenso e adesso erano coperti da una spessa pellicola gialla. La pellicola brillava un poco alla luce della candela. Lui si irrigidì alla sua reazione. «Che cosa c'è?» «Niente, niente...» «Maledizione, Liz, non è il momento di cercare di non urtare la mia sensibilità!» Liz gli descrisse ciò che vedeva il più freddamente possibile. Will non reagì. Annuì pensoso, come se stesse riflettendo sulla situazione di un paziente. Però le sue mani, sul tavolo, tremavano. Dannazione, pensò lei, questo non è il posto adatto per una visita. Will aveva bisogno di un aiuto specialistico; lì non c'era niente che potesse servire. La stanza era sporca, piena di polvere e puzzava. Ed emanava vibrazioni terribilmente negative. Liz si aspettava che da un momento all'altro le ombre proiettate dalla candela si staccassero di colpo dalle pareti per lanciarsi su di loro. Non lasciarti andare, si disse. Magari più tardi, quando la posta in gioco sarà meno alta. Al momento, Will non aveva certo bisogno di un'isterica. Aveva bisogno di un'infermiera e lei era l'unico surrogato disponibile. Gli carezzò la testa. «Sono sicura che guarirai, appena potremo affidarti a uno specialista.» «Non prenderti in giro da sola.» Will strinse le braccia sul petto. Cominciava a fare freddo. «Non vedo niente.» «Be', è comprensibile. Il buio è quasi totale.» «Però c'è un po' di luce, giusto?» «Sì, una candela, ma...» «Mettila di fronte a me», disse lui. «Devo sapere se riesco a vedere qualcosa. Ritentiamo un'altra volta.»
«Se sei certo che è questo che vuoi...» Liz spostò la candela davanti al viso di Will, la mosse lentamente da una parte all'altra. «Qualcosa?» chiese. «Non ancora.» La stanza diventò un poco più fredda. Liz si strinse nel maglione. Spostò la candela sulla sinistra di Will e lui si fece in avanti di scatto. «Sinistra?» chiese. «Esatto.» A destra. «Destra?» Il cuore di Liz ebbe un tuffo. Forse c'era speranza! Sinistra. «Sinistra.» Destra. «Destra.» Lei spostò ancora di più la candela sulla destra. «Sempre destra.» Adesso Will sorrideva. «Credevi di poter imbrogliare il vecchio doc, eh?» «Non avrei nemmeno dovuto provarci.» Sinistra. «Sinistra.» Destra. «Destra.» «È meraviglioso, Will!» disse lei e appoggiò la candela sul tavolo. «Sinistra.» Liz fissò a lungo il viso di Will. Gli occhi continuavano a muoversi avanti e indietro, seguendo... che cosa? «Destra. Sinistra. Ancora sinistra! Liz, credevo potessi fare di meglio.» Gli occhi di Will continuavano a spostarsi da una parte e dall'altra, sulle tracce di... qualcosa. Il suo viso era raggiante di soddisfazione. «Deve essere una delle candele votive di Kerr», disse Will. «Ha una luce azzurra molto gradevole.» La candela, chiusa nel vetro, aveva una fiamma rossiccia. Un brivido corse su per la spina dorsale di Liz, come la lama di un coltello. «Will, che cosa vedi?» chiese, ma ciò che disse si perse nel rumore improvviso che fece sobbalzare tutti e due. Una grandinata tremenda si stava abbattendo sul tetto della chiesa. 5 Al rumore, la testa di padre Kerr si rialzò di scatto dalla balaustra. No, non era grandine. Erano sassi. Una quantità incalcolabile di sassi stava piovendo sulla chiesa.
Si alzò, fece il giro della navata, mentre il frastuono cresceva. Adesso vedeva piccoli sassi scivolare lungo le vetrate. Sobbalzò quando una grossa pietra sfondò il rosone al centro della facciata. Poi il diluvio si interruppe. Qualcuno, qualcosa, bussò al portone. Kerr inspirò profondamente. «Chi è?» urlò. «Chi è?» Dall'esterno giunse il mormorio di molte voci: risate basse, sussurri, parole che rimasero al di sotto dei limiti della sua comprensione. A Kerr venne la pelle d'oca. Come poteva sentire dei mormoni dietro il portone, se il portone era al lato opposto della chiesa? Poi i sussurri uscirono dappertutto, dalle finestre sopra di lui e ai suoi lati, da dietro la chiesa stessa. Intravide qualcosa che si muoveva davanti a una vetrata, ma la cosa scomparve prima che il suo sguardo potesse identificarla. Kerr si fermò all'altare, la schiena appoggiata alla balaustra. «Non potete entrare qui», urlò alle cose che stavano fuori. «Questa è la casa di Dio!» All'improvviso, i sussurri cessarono. Fu come se un'ascia avesse falciato i suoni, lasciando solo un silenzio che gli rimbombò nelle orecchie. Poi: risate. Risate stridule, ripugnanti, scoppiarono attorno a lui, a un volume assordante. Lui premette le mani sulle orecchie, ma il suono non diminuì. Sembrava uscire dall'interno della testa quanto dall'esterno. Le risate si interruppero. Bussarono di nuovo al portone. Un graffiare debole, come di un cane che chiedesse di entrare. «In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo», urlò Kerr, sgomento al tremore che udì nella propria voce, «non entrerete qui!» Si aggrappò alla balaustra per bloccare il tremito delle mani. Dov'era tutta la sua attesa per quello scontro? Svanita! Era stata inutile, stupida. Eppure, era più che deciso a impedire che accadesse qualcosa alle due persone affidate alle sue cure. Non potevano fargli nulla per cambiare quella sua decisione. Nulla! Il graffiare si interruppe. Il portone si spalancò. Un vento terribile riempì la chiesa. I tendaggi diventarono bandiere in balia dell'uragano. Le candele che aveva acceso con tanta cura si spensero in un istante. L'odore portato dal vento (il fetore della decomposizione, del marciume) era quasi insopportabile. Si posò sulla sua pelle come una nebbia invisibile, la lasciò fredda e umida.
Kerr restò fermo fra le candele dell'altare, le uniche rimaste accese, in attesa dell'inevitabile assalto. L'assalto non venne. Ci fu invece un ulteriore infittirsi dell'oscurità attorno al portone quando le cose entrarono, avanzando lentamente sul pavimento e sulle pareti in direzione del soffitto, spandendosi come una macchia d'olio nero. Kerr si morse il labbro sino a farlo sanguinare. Non voleva lasciarsi vincere dal panico, fuggire. Le cose si riversavano all'interno e anche se lui non riusciva a vedere le loro forme e le loro facce, a volte loro lo guardavano e i loro occhi intercettavano e riflettevano la luce delle candele: centinaia di occhi che ardevano di un rosso acceso. Scivolarono avanti, in alto. Riempirono le panche sul fondo e poi quelle al centro, massa di fedeli sacrileghi che si muoveva nel silenzio più totale, quasi aspettando che lui parlasse. No, non aspettavano lui. Aspettavano qualcun altro, o qualche altra cosa. Kerr non si mosse. Se volevano la soddisfazione di vederlo fuggire o implorare, sarebbero rimasti delusi. Avrebbe sostenuto quegli occhi ardenti e come loro avrebbe aspettato. 6 «Ci siamo quasi», sussurrò Eric. Erano a pochi metri dall'ingresso delle caverne. Estrasse dalla borsa una delle torce di segnalazione, ma l'avrebbe accesa solo una volta dentro. Tom appoggiò la mano a una roccia. «La pietra ha quasi la stessa temperatura di un corpo umano.» «Lo so. Questo è un luogo di grande potere. Sì, il cuore deve essere qui.» Piegò la testa. «E c'è anche qualcun altro.» «Uno di loro?» «Non credo. Non mi dà la sensazione di essere una di quelle creature. Per quanto ne so, la caverna è libera, almeno per il momento.» Ascoltò il vento, sfregando la punta delle dita l'una contro l'altra, come potrebbe fare un insegnante con le mani sporche di gesso. Lesse le caverne. Proiettò all'interno di esse delicati tentacoli di pensiero. Saggiò i passaggi. E incontrò difficoltà. «Come pensavo», disse, più a se stesso che a Tom. «Hanno predisposto una serie di difese. Non so che cosa siano, o se possano attirarci addosso tutto quanto l'esercito di demoni.» Si girò a guardare Tom. «Sicuro di voler
entrare?» «Hai altri suggerimenti?» «Purtroppo, no. Posso solo dirti di stare molto attento a tutto quello che troveremo dentro, o che crederemo di trovare.» «Allucinazioni?» «Probabilmente. Ma ci sono anche pericoli reali.» «Sai riconoscere la differenza?» Una pausa. «Sì, credo. Ma in quanto a te...» Lasciò la frase in sospeso. Tom deglutì. «Andiamo.» Entrarono. Non appena Tom mise piede nella caverna, nella sua mente si alzò un muro di panico. Nell'umida oscurità dell'imboccatura, cose si muovevano e svolazzavano, cose che intravedeva con la coda degli occhi. Una cosa grossa e coriacea gli balzò sui piedi. Ci fu il suono di grandi mascelle che si aprivano e si chiudevano. Le pareti gli correvano incontro. Lo stringevano. Lo soffocavano. Si afferrò la gola, mentre i suoi polmoni lavoravano spasmodicamente. Non respirava più. Niente aria e tutt'attorno a lui, cose... «No!» Corse all'ingresso. Doveva uscire, uscire! «Tom!» Qualcosa lo fermò, gli impedì di fuggire. Uno di loro, una delle cose. Urlò, respinse con tutte le sue forze le mani che lo bloccavano, le colpì. Vattene, vattene! Poi la cosa lo inchiodò a terra, gli bloccò le braccia. «Stammi a sentire! Sono io! Apri gli occhi!» La cosa gli urlava oscenità e Tom sapeva che se l'avesse guardata negli occhi, sarebbe morto. In maniera orribile, fra dolori atroci e interminabili. Lottò per liberarsi, ma le sue braccia erano incollate al pavimento come da grandi macigni. La cosa... «Tom! Reagisci! Combatti!» Gli occhi lo guardavano, lo bruciavano, ma adesso non erano più così alieni... «Bene!» Tom mise a fuoco lo sguardo e scoprì di avere sopra di sé non la cosa che aveva visto prima, ma Eric. Negli occhi di Eric ardeva uno strano fuoco freddo che gli scendeva dentro. Tom si leccò le labbra. «Che cosa...» mormorò e si tirò a sedere. «C'era qualcosa...» «Un'allucinazione.» Provò vergogna. «Non me la sto cavando troppo bene, eh?»
«Stai andando benissimo. Ne sei uscito, è questo l'importante.» Eric gli lasciò andare le braccia. Fu allora che Tom si accorse per la prima volta che Eric sembrava... cresciuto. Non era più grosso; era aumentata la sua presenza, come se entrando nella caverna avesse ritrovato una parte di sé. Tom si alzò. Anche adesso, se distoglieva lo sguardo da Eric, sentiva il panico mordergli il cervello. Solo uno sforzo di volontà lo teneva a bada. «Se non altro, sappiamo che cosa è successo a Sam.» «Sì.» Un istante di silenzio. «Sei pronto?» «Credo di sì.» Eric si rialzò. «Allora muoviamoci.» 7 Kerr non aspettò a lungo. Dopo pochi minuti, la massa nera di figure sul fondo della chiesa si aprì. Non riuscì a distinguere chiaramente il nuovo arrivato, ma sentì il potere della cosa che avanzava nella navata verso lui. Si fermò a un terzo della distanza dall'altare, abbastanza vicino perché la sua presenza permeasse l'aria attorno a Kerr e tanto lontano da restare solo una forma stagliata nel buio. Il bagliore delle candele dell'altare si arrestava appena prima della cosa. L'altare! pensò lui e la speranza rinacque. Non osa avvicinarsi all'altare! Dall'ombra, invisibile tranne gli occhi, la cosa parlò. «Dov'è il prete?» La voce era un ringhio che raggiungeva la mente, oltre le orecchie e l'eco che lasciò era quello di molte voci. Kerr si schiarì la gola. «Sono qui.» La cosa sputò e il suo sputo bruciò il pavimento. Parlò di nuovo, lentamente, come rivolgendosi a un bambino ritardato. «Dov'è... il... prete?» E dall'oscura congregazione uscì un coro sussurrato: Dov'è... il... prete? Dov'è... il... prete? «Ti ho detto...» La cosa tese un braccio in fuori e tutte le vetrate sul lato sinistro della chiesa esplosero verso l'interno. Frammenti di vetro volarono in uno sciame multicolore. Kerr alzò le braccia a proteggersi la testa. Un cuneo di vetro gli penetrò nel braccio. «Ah!» urlò, prima di riuscire a impedirselo. Ah, fecero eco le cose, avide, soddisfatte.
Poi restarono mute. Nel silenzio, la cosa parlò di nuovo. «Tu sei debole. Non sei un prete.» Kerr estrasse dal braccio il frammento di vetro, sforzandosi di non gridare per il dolore., «No, non sei affatto un prete», disse la cosa, e si fece più avanti. Il fetore terribile crebbe. «Dov'è il prete?» E il coro oscuro ripeté, una volta e un'altra e un'altra: Dov'è il prete? Dov'è il prete? Dov'è il prete? 8 Liz sedeva al tavolo, quasi di fronte a Will. Da quando la grandinata si era interrotta, non avevano sentito più niente. Lei stava a braccia conserte. Avrebbe voluto correre, urlare, fare qualcosa, non stare ad aspettare che altri agissero per lei. Con una fitta di desiderio, si chiese dove fosse Eric, come se la stesse cavando. Will sedeva tranquillo, a testa eretta. Di tanto in tanto, sembrava intravedere una luce che lei non vedeva. Una luce azzurra, le aveva detto prima. Anche adesso i suoi occhi guizzavano da sinistra a destra, seguendo qualcosa. Poi, di colpo, il suo sguardo si puntò sul lato opposto della stanza, vicino ad alcune botti vuote. «Will?» chiese Liz, in un sussurro. «Che cosa vedi?» «Non ne sono certo. C'è qualcun altro nella stanza?» Lei sentì un brivido. «No. Naturalmente no.» «Allora lui chi è?» Will indicò le botti. «Io non vedo nessuno!» «Io sì. Forse è solo una reazione alla mia cecità, come chi dopo un'amputazione riceve ancora impulsi da un arto che non c'è più. Forse voglio solo vedere qualcosa, qualunque cosa. Però è così... reale.» Liz chiuse gli occhi. Dio, facci uscire di qui, pensò. Quando riaprì gli occhi, Will stava di nuovo guardando... qualcosa. La cosa aveva ripreso a muoversi. 9 Dopo che si furono addentrati nell'imboccatura della caverna, Eric tirò fuori una torcia e la accese. La luce gettò un bagliore tremolante nel passaggio in cui si trovavano, direttamente collegato alla camera d'ingresso. Il
passaggio si estendeva in entrambe le direzioni e ognuna delle due diramazioni svaniva dietro un angolo. «Da che parte?» chiese Tom. Da che parte? Eric sondò. Non sapeva esattamente di quante delle proprie sensazioni potesse fidarsi. Se non altro, adesso che avevano superato la prima linea difensiva, il panico iniziale era diminuito. Da che parte? Il suo impulso sarebbe stato di svoltare a destra e proseguire... (... cosa vuoi...) Eric sobbalzò alla voce che si infiltrò nei suoi pensieri, la voce che era rimasta muta dall'incontro con le cose fra gli alberi. (... li riporterai qui perché mi facciano del male, perché mi mettano per sempre nel posto freddo...) (No! Siamo qui per aiutarti, ma tu devi aiutare noi...) (... non posso... così stanco, voglio dormire, ma non me lo permettono...) (Allora aiutaci!) Una pausa. «Eric? Che cosa c'è?» «Zitto!» Alla fine: (... dove sei...) (Al primo passaggio. Dove sei tu?) (... qui...) Risate folli al limitare della mente. (Da che parte?) (... da questa parte, verso di me...) Eric provò l'impulso di girare a sinistra. Era un impulso diverso dal primo, più sicuro. Da lì in poi, non sarebbe stato difficile trovare il percorso giusto. A turbarlo era l'incertezza di ciò che avrebbe incontrato lungo il cammino. «Di qui», disse. Fece strada nel passaggio a sinistra, lo seguì oltre l'angolo. Teneva alta la torcia, avanzando il più velocemente possibile. Poi si accorse che Tom non era più con lui. «Tom?» «Eric?» La voce giungeva da un punto più indietro. «Dove sei?» «Dietro l'angolo.» «Quale angolo? Io vedo un passaggio chiuso!» «Arriva in fondo al passaggio, chiudi gli occhi e gira a destra.» «Se lo dici tu.» Un attimo dopo: «Porca miseria», borbottò Tom, più indietro. «Avrei
giurato che un minuto fa ci fosse una parete.» Poi tornò di fianco a Eric. «Non importa», disse Eric. Fece strada nel tunnel, finché non raggiunse un'apertura nella parete di destra. Tenendo alta la torcia, si infilò dentro, seguito da Tom. «Serpenti!» urlò Tom. La camera, su cui sfociava una miriade di passaggi, era piena di serpenti. Erano quasi tutti piccoli, ma un serpente immenso ondeggiava davanti a loro. I suoi occhi catturavano e riflettevano la luce della torcia. «Non esistono tanti serpenti in tutto il Maine», disse Tom, deciso. «Non sono reali.» Il serpente più grosso, grande quanto un uomo, si spostò dalla parete. Le squame grigio-verdi grattarono il pavimento della caverna. «Allucinazioni», disse Tom. Eric strinse forte le palpebre, cercò di schiarire la vista. Raggiunse il potere che vibrava in lui, si concentrò... e il groviglio di piccoli serpenti svanì. Ma quello grande restò. «Indietro!» strillò Eric e gettò la torcia davanti al serpente. L'animale emise un sibilo e indietreggiò. Tom estrasse la pistola, sparò tre volte. Due proiettili centrarono il bersaglio. L'animale fu scaraventato all'indietro. Fece per sollevarsi, ondeggiò, poi cadde e non si mosse più. «Gesù!» borbottò Tom. Mentre sostituiva le pallottole usate con altre nuove, gli tremavano le mani. «Adesso da che parte?» Eric scrutò i passaggi, si sentì attratto da uno leggermente spostato sulla sinistra rispetto al centro. «Di qua», disse. 10 Kerr guardò le cose avvicinarsi, disporsi in cerchio a due terzi della navata. «Falso prete!» intonarono. Kerr restò con la schiena appoggiata alla balaustra, deciso a non indietreggiare oltre. «È Satana, il principe delle menzogne, il grande ingannatore.» Il loro capo, il più forte, fece un altro passo avanti. «Allora dimmi, prete, sei disposto a morire per la tua fede?» «Non sarei il primo.»
«Ma sei disposto?» «Sono disposto a fare ciò che Dio mi chiede.» «Bugiardo! Tu vuoi il martirio, vuoi morire per poter sedere alla destra del tuo prezioso Cristo.» «No!» «Sì!» Fu un sibilo prolungato. «Tu vuoi morire per la tua fede.» Un'altra delle cose, con la stessa voce: «Non sei migliore di un suicida». Un'altra: «Che cosa dice il tuo dio del suicidio?» Kerr non rispose. Sottovoce, maliziosamente: «Col suicidio brucerai all'inferno per l'eternità. Non dice questo la tua fede?» Si unirono altre voci: «Non dice questo?» «Non dice questo?» Nessuna risposta. «Dio è morto, prete», disse il capo. «Solo un idiota segue un dio morto», disse un altro essere. Kerr raddrizzò le spalle. «E solo un idiota ancora più idiota ha paura di un Dio che dovrebbe essere morto.» La cosa puntò gli occhi oltre Kerr, sul crocefisso. «Credi che il tuo uomo sulla croce mi spaventi?» Ringhiò, alzò le braccia (Kerr intravide arti che erano solo vagamente umani) e alle spalle di Kerr ci fu un tonfo. Uno dei vasi sull'altare cadde a terra. Il sacerdote si girò in tempo per vedere il crocefisso ondeggiare, poi sollevarsi in aria. Non mi muoverò, non scapperò, non abbandonerò gli altri... Il crocefisso salì ancora di più, si spostò in avanti, si fermò tre metri sopra la sua testa. Qualcosa di bagnato piovve in faccia a Kerr. Alzò una mano per pulirsi. Sangue. Cristo stava sanguinando dalle ferite. Sanguinava per i chiodi, per la corona di spine... «Un falso dio e una falsa chiesa», disse il capo delle cose. «Hai trovato il tuo Cristo fuori», disse un'altra creatura. «Ricordi? Bussava alla porta.» Un'altra: «Il tuo Cristo non cercava di uscire». Sangue, dappertutto. «Il tuo Cristo cercava di entrare.» «Falso dio», cantilenarono le cose. «Falsa chiesa.» Kerr non si mosse. Indietreggiare significava ammettere la paura; avanzare lo avrebbe portato più vicino a loro. Chiuse gli occhi. L'odore del
sangue era penetrante. Sollevò la testa nonostante la pioggia di sangue. «Padre nostro che sei nei cieli...» «Sia santificato il nome tuo», continuò la cosa. «Bestemmia!» urlò Kerr. «No», disse la cosa. «Sei tu il bestemmiatore. Racconti menzogne.» Si avvicinò di più. I suoi tratti erano mostruosi nella loro deformità. «Chi servi, prete?» «Dio», sussurrò Kerr. «Nostro Signore Gesù Cristo.» «Progenie di un idiota», disse la cosa, «non capisci niente! Noi esistevamo molto prima che il tuo Cristo uscisse dalle cosce di una prostituta...» E gli altri continuarono: «Prima che nascesse il primo ebreo. Le vostre parole ci descrivono...» «Ma non avete un nome per noi.» «Non esiste Cristo, non esiste Dio.» «Accettiamo le vostre parole perché ci fanno comodo, ci divertono e la paura che ci ispirano ci è ancora più utile. Siete voi preti a fare il lavoro per noi...» «Ci aiutate a nascondere la nostra vera natura. Tu stai già lavorando per noi.» «Di giorno puoi avere una piccola superiorità, ma di notte...» «Di notte», intervenne il capo, «di notte siamo noi a regnare.» «Bugiardo», disse Kerr. «Conosci la verità, sai che cosa sei e lo sa anche il resto del mondo.» «E la verità li libererà?» La voce aveva un tono di ironica compassione. «Allora come mai la verità non ha liberato te? Perché i tuoi simboli non hanno funzionato?» La cosa si avvicinò di più. «Ti offro l'ultima occasione, falso prete di un falso dio. Dimmi dove sono gli altri e forse potrai vivere.» «No», disse Kerr. Con un ululato, la cosa balzò sul crocefisso, staccò la testa di Cristo e la scaraventò nella navata. Poi si girò verso Kerr. «Vuoi essere un martire», sibilò. «Così sia! Avrai il marchio del tuo folle messia!» Kerr urlò allo strazio improvviso della sua carne. Gocce di sangue uscirono dai fori che erano apparsi sulle sue palme, dalle scarpe. Cadde su un ginocchio: i piedi feriti non riuscivano più a sostenere il suo peso. Il sangue gli colò sugli occhi dalla fronte. Non aveva una corona di spine, ma la sua fronte era trafitta in decine di punti.
Non è questo che dovrebbe accadere! La sua mente vagò in un labirinto d'agonia. Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Chissà dove, trovò la forza di ricomporsi. Era quello che la cosa voleva: vederlo cedere. Nonostante il dolore, riuscì a mormorare: «Padre nostro...» La cosa si chinò su di lui. Il suo viso nero, gonfio, era lontano solo pochi centimetri da quello di Kerr. «Sì, figlio mio», disse. 11 Tom si fermò in fondo a un altro passaggio e scrutò il buio. Nemmeno la torcia riusciva a vincere quelle tenebre assolute; la luce si era ridotta a un bagliore impercettibile. Gradualmente, Tom si rese conto che la torcia si stava davvero spegnendo, molto prima di quanto fosse prevedibile. Come se il buio le succhiasse la vita. «È meglio spegnerla», disse Eric, fermo sulla soglia di una grande caverna. «Qui non durerà più di un secondo.» Parlava con aria assente, la testa piegata di lato. Sembrava ascoltare qualcosa che Tom non sentiva. «La prossima entrata è di fronte a noi, sull'altro lato della caverna. Dobbiamo avanzare in linea retta. Se sbagliamo, non troveremo mai l'uscita.» Eric fece un passo all'interno della caverna e svanì all'istante, inghiottito da tenebre solide come un muro. Riapparve dopo un attimo e si tolse la cintura. «Attaccati», disse, «e qualunque cosa succeda, non lasciare andare.» «Ricevuto.» Nella caverna, Tom si trovò immerso in un buio così assoluto, così opprimente, che gli parve di essere sul fondo di un oceano. Respirare richiedeva uno sforzo considerevole: l'aria era densa e i suoi polmoni non ne ricevevano mai abbastanza. Eric lo precedeva di pochi centimetri, ma era come se fosse lontano chilometri. Il loro unico legame, l'unica prova che Tom aveva di non essere solo, era la cintura che lo trascinava avanti. Il terreno era disseminato di rocce e di sassi. Tom inciampò su una sporgenza, ritrovò l'equilibrio. Gli sembrava di camminare sul cornicione di un grattacielo, di ondeggiare in qua e in là a ogni soffio di vento. Non avevano percorso più di tre metri quando Eric urlò di dolore e di sorpresa. «Che cosa...» cominciò Tom, poi sentì anche lui. Una cosa affilata gli sfiorò il viso nelle tenebre, poi si allontanò rapidamente con un bizzarro svolazzare. La presa di Tom sulla cintura si allentò.
«Che cos'era?» «Non lo so. Non fermarti, non lasciare la cintura.» Eric fece una pausa. «E non guardarle.» Grazie tante, pensò Tom e soffocò un urlo quando una cosa coperta di scaglie si strusciò contro la sua gamba. Con la coda dell'occhio intravide qualcosa: due punti luminosi, forse occhi... Non guardare! Abbassò lo sguardo sui propri piedi, anche se non li vedeva. Un piede avanti, poi l'altro, sinistro, destro, sinistro, destro... Un dolore lancinante alla gamba destra. Tirò un calcio furibondo, centrò una forma che si ritrasse subito, emettendo una risatina acuta. «Maledizione», borbottò. Adesso zoppicava per il morso. Quanta strada restava? «Siamo quasi arrivati», disse Eric. «Solo pochi...» Le sue parole furono interrotte da un urlo smorzato. Tom si spostò in avanti seguendo la cintura, raggiunse Eric... Eric aveva in faccia una delle cose. Tom lo sentì lottare, cercare di liberarsene. Afferrò anche lui la cosa e un morso rabbioso gli affondò nella mano. Balzò indietro. Eric gridò e scaraventò via la cosa, che atterrò non molto lontano. Artigli graffiarono la pietra. «Tutto bene?» chiese Tom. «Sì», rispose Eric, ma la sua voce diceva il contrario. «Dai, siamo quasi fuori.» Proseguirono. Eric camminava adesso con estrema cautela, fermandosi ogni due passi, come se fosse su un sentiero stretto, infido. Tom di colpo immaginò centinaia di creature deformi che li circondavano da ogni lato, nell'attesa sempre più impaziente che uno dei due uscisse dal sentiero; e davanti a lui, Eric, epicentro di una forza che nemmeno i servi della caverna osavano attaccare liberamente. Però restavano in agguato, pronti a colpire... «Di qui!» disse Eric. Ed entrarono in un'oscurità che era sempre totale, ma non opprimente come quella che avevano appena attraversato. «Ce le siamo lasciate alle spalle. Possiamo usare le torce, per un po'.» Eric ne accese una. «Gesù!» Nella luce, Tom vide che il volto di Eric era coperto di graffi, lunghe striature rosse che andavano dalla fronte al mento. Per fortuna, solo poche gli avevano lacerato la pelle in profondità. Eric si passò un fazzoletto sulla faccia. La stoffa si macchiò di sangue.
«Maledizione», borbottò. «Dovevo portare dell'acqua. Dovremmo lavare le ferite.» «Rabbia?» Chiese Tom, studiando i tagli sul proprio corpo. Sembravano prodotti da grandi artigli spigolosi. «No», rispose Eric. «Non sono esattamente animali. Alleati delle caverne, ecco che cosa sono. Non potenti come i nostri nemici, ma sempre pericolosi. Non possiamo permetterci di sottovalutare niente.» Si avviarono verso l'imboccatura di una stretta galleria, grande appena quel tanto necessario per strisciare all'interno. Era l'unica apertura visibile, a parte quella da cui erano arrivati e Tom non aveva voglia di tornare là a sfidare di nuovo le cose. Meglio proseguire. Scrutò la galleria. Era di una cinquantina di centimetri, poco più larga di un uomo. Il pavimento era coperto da un tappeto marrone che dal fondo risaliva lungo le pareti, fino al soffitto. Lo esaminò con maggiore attenzione, boccheggiò di repulsione quando capì di che cosa si trattava. Scarafaggi. A migliaia: in alcuni punti, formavano uno strato spesso almeno cinque centimetri. Camminavano l'uno sull'altro, muovendo le antenne. Sentiva il rumore delle loro zampe, il loro strusciare. «Non posso», disse. Si vergognava di se stesso, ma semplicemente non poteva costringersi a camminare fra quelle cose per chissà quanto tempo. «Preferisco tornare indietro.» «Non credo sia possibile», disse Eric. Tom si sentì in trappola. Poi gli venne un dubbio. «Eric, sono veri?» Una pausa, poi: «No». Tom fissò gli scarafaggi. Non scomparvero. Ma Eric aveva sempre avuto ragione... «Va bene», disse. «Dammi la torcia. Vado io per primo.» «Sei sicuro?» Tom respirò profondamente e fece un passo avanti. Fra gli scarafaggi ci fu un'esplosione di attività. Gli si arrampicarono su per le braccia e le gambe, gli caddero sulla testa e sul collo dall'alto, strisciarono sulla faccia. Non sono veri, non sono veri, continuò a ripetersi Tom, certo che da un momento all'altro si sarebbe messo a strillare come un bambino. Però continuò a camminare, cercando inutilmente di ignorare le cose che strisciavano sotto le sue palme e sulle ginocchia, le antenne che si muovevano nelle sue orecchie. Avanzò per quelle che gli parvero ore e alla fine emerse in una camera appena più larga di quella che avevano appena lasciato. Uscì
dalla galleria. Aveva ancora addosso gli scarafaggi. Cominciò a scrollarseli di dosso con le mani. I minuscoli gusci marroni cadevano a terra con un clic smorzato, poi correvano subito indietro verso la galleria. «Un'illusione maledettamente realistica», disse. Le sue ginocchia minacciavano di cedere. Eric si fermò al suo fianco, cominciò a liberarsi dagli scarafaggi con gesti frenetici. Strano, pensò Tom. Perché dovrebbe scrollarli via se non esistono? Risposta: non avrebbe nessun motivo di farlo. «Merda», mormorò Tom. «Merda, merda, merda!» Si mise a schiacciarli con furore distruttivo. Aveva la pelle d'oca su ogni centimetro di pelle. Uno scarafaggio gli cadde dai capelli e lui lo spiaccicò sotto il tacco. Sapeva già che se li sarebbe sentiti addosso per mesi. «Perché non mi hai detto che erano veri?» Eric, ancora alle prese con gli insetti, non alzò nemmeno la testa. «Avresti preferito saperlo?» Tom continuò a schiacciare. Eric aveva ragione, porca miseria. Aveva sempre ragione, a quanto sembrava. Però questo non faceva nessuna differenza. «Lasciamo perdere. Ma quando saremo fuori di qui...» Non sapeva di preciso che minaccia usare, ma di certo avrebbe trovato qualcosa. Si spostò verso un macigno lontano poco più di un metro. Aveva bisogno di sedersi, magari solo per un secondo... «Attento!» strillò Eric. «Che cosa?» Tom si girò a metà di un passo. Il terreno, che un secondo prima sembrava perfettamente solido, svanì sotto i suoi piedi. Cadde in un pozzo. Le sue unghie graffiarono la roccia, in cerca di una presa. Atterrò a piedi in avanti. Nella sua gamba destra qualcosa si spezzò. Tom urlò di dolore. «Sei vivo?» gridò Eric. La torcia sfuggita di mano a Tom era in alto, sull'orlo del pozzo. Tom fissò la fiamma. Era sopra di lui di tre o quattro metri. Be', poteva anche essere stato un chilometro. «Mi sono rotto la fottuta gamba.» Cercò di spostarsi, di trovare una posizione più comoda per la gamba, ma il minimo movimento gli inondava il corpo di fitte di dolore. «Dovrai continuare senza di me.» «Te lo puoi scordare», disse Eric. La torcia scomparve e per un attimo Tom ripiombò nel buio. Quando Eric riapparve, aveva un capo della cintura arrotolato attorno alla mano. «Afferrala», disse, e si sporse il più possibile oltre il bordo del pozzo.
«Tu sei matto», disse Tom. «Peserò almeno una ventina di chili più di te.» «Afferrala, per la miseria, prima che...» Poi Tom sentì. Il terreno sotto di lui si muoveva. Non erano sabbie mobili. Sembrava invece che qualcosa stesse scavando da sotto per emergere in superficie. Qualunque cosa fosse, saliva in fretta. «Sbrigati!» disse Eric. Ignorando il dolore che minacciava di precipitarlo nell'incoscienza, Tom afferrò la cintura con una mano, poi con l'altra. «Presa!» «Non mollare!» urlò Eric e tirò. Tom si trovò scaraventato all'insù come un sacco di patate. Sull'orlo del pozzo, Eric lo afferrò per le spalle e lo tirò fuori. Tom si girò a guardare e per un istante intravide sul fondo una cosa morbida, candida: una bocca smisurata che si aprì e si chiuse diverse volte prima di sprofondare di nuovo. Crollò a un metro dall'orlo, ansimante per lo sforzo. «Sei... più forte di quello che sembri.» Eric si accoccolò sui talloni. Ansimava anche lui. Tom cercò di spostare la gamba. Ci fu un rumore di ossa che strusciavano contro altre ossa. Impedirsi di svenire era il massimo che potesse fare. Alzò la testa e incontrò lo sguardo di Eric. Conoscevano tutti e due la realtà dei fatti: Tom non era più in grado di proseguire. «Tutto a posto», disse Tom. «Me la caverò. Tu continua, okay? L'importante non è salvare la nostra pelle. La posta è molto più alta.» Eric guardò nella borsa delle torce. «Ne restano quattro. Ti lascio questa», disse, agitando quella già accesa che aveva in mano, «e un'altra. Due dovrebbero bastarmi.» «Allora vai.» Eric esitò. «Tornerò a prenderti appena avrò finito.» «Vattene da qui!» A malincuore, Eric obbedì. Un minuto dopo, era solo un puntino di luce nella notte della caverna. Poi svanì del tutto. Tom imprecò. Non gli era nemmeno venuto in mente di dare la pistola a Eric. Stupido. Maledetto stupido idiota. Poi il suo sguardo si posò sul pozzo e lui pensò che forse era meglio così. Forse, la cosa poteva arrampicarsi su per le pareti. Non era una prospettiva rassicurante.
12 Liz sobbalzò all'urlo che giunse da qualche parte della chiesa: lungo, straziante, orribile nella sua intensità. L'idea che Kerr stesse soffrendo (se era davvero lui; l'urlo aveva ben poco di umano) era quasi insopportabile. Ma non poteva abbandonare Will, indifeso com'era. E le sue condizioni la preoccupavano molto. Will continuava a sostenere di vedere qualcun altro nella stanza, oltre a loro. In certi momenti, lei cominciava quasi a credergli. Aveva già visto tanto... No, pensò e rifiutò di accettare quella possibilità. Doveva essere un'allucinazione. Però restava a fissare, affascinata e inorridita al tempo stesso, gli occhi di Will che seguivano qualcosa che si muoveva. «Will?» «Sì?» La voce del medico era esile. Solo il lato sinistro del suo viso era illuminato dalla candela. Dio, ti prego, basta, pensò lei. «È ancora qui?» «Lo vedo. Credo che stia cercando di parlarmi, ma non riesco a sentirlo.» «Che aspetto ha?» «Difficile dirlo.» Una pausa. «Altezza media. Capelli scuri. Naso schiacciato. Porta una specie di cappotto... Non vedo molto di più. Continua a guardare da questa parte.» Il dottore indicò la propria sinistra. «La candela?» «Forse.» Will spostò le mani sul tavolo, trovò la candela, e la avvicinò a sé. «Sì, la candela. La fissa. È stanco, e... affamato.» La sua testa si piegò di lato. «Adesso sta andando alla porta. Striscia su mani e ginocchia.» Liz seguì lo sguardo del dottore, ma non vide niente. Poi qualcosa grattò la porta. «Le sue dita», disse Will. «Sanguinano.» 13 Padre Kerr si toccò il viso e incontrò solo brandelli umidi di carne. Il costato gli procurava fitte lancinanti a ogni respiro. L'idea che avrebbe continuato a respirare soltanto per poco tempo era quasi una consolazione. Il demone gli si accucciò di fronte, studiandolo con spassionato interesse. «Perché vuoi farti tutto questo?» chiese. La sua voce era simile al fru-
scio di foglie morte su un marciapiede. «Sappiamo che gli altri sono vicini. Fiutiamo i tuoi simili. Li troveremo. Puoi risparmiarci tempo e salvarti la vita. Ti lasceremo andare.» «Ti lasceremo andare», intonò il coro di cose. Il demone indietreggiò di un passo. «Altrimenti diventerai come lui», disse e si scostò per lasciarlo guardare. Ray era appoggiato alla parete, gli occhi vuoti, la mano destra avvolta in una camicia. Gli occhi gonfi di Kerr incontrarono lo sguardo del poliziotto. «Ray... aiutami. Sparami...» Ma Ray parve non accorgersi nemmeno della sua esistenza. «Ah, ancora il suicidio», disse il capo delle cose, soddisfatto. «Un peccato mortale. No, non possiamo permetterlo. Provvederemo noi alla tua fine. Diventerai uno di noi. Così.» Con la mano ad artiglio, indicò una delle cose alle sue spalle. La cosa si separò dalle altre e uscì dall'ombra. «Buon Dio», mormorò Kerr, all'apparizione di ciò che un tempo era stata la signora Graham. Occhi alieni lo fissarono da un volto quasi irriconoscibile. «Non dovrai pagare nessun pedaggio. Basta che tu ci dica dove...» La cosa si interruppe. Si sollevò, torreggiò su Kerr come un immenso pipistrello, restò in ascolto. Poi emise un ululato. Il pavimento tremò. La faccia della creatura esprimeva un'ira al di là della comprensione umana. «Tu!» Afferrò Kerr, lo sollevò a un centimetro dalla propria faccia. L'alito era fetido; i suoi occhi bruciavano. Poi lo scaraventò via. Kerr piombò sui gradini dell'altare. Qualcosa si spezzò nella sua schiena. Quando riaprì gli occhi, intravide solo vagamente la cosa che si alzava in volo, superava l'orda di demoni e usciva dalla chiesa. Quando fu scomparsa, le altre cose avanzarono verso di lui. Ti prego, Dio, pensò Kerr, mentre un'onda nera gli si chiudeva attorno, fa' che tutto questo non sia stato inutile. 14 La cosa sa, pensò Eric e la voce tornò nella sua mente. (... ho cercato, mi dispiace... sente i miei pensieri... sa che sei qui...) (Va tutto bene. Adesso sono qui.) Eric entrò nell'ultima caverna. Aveva la testa pesante. Come sospettava, il cancello da cui erano entrati i demoni non era lontano dal punto in cui si trovava Tom, ma era stato meglio non portare lì il poliziotto. Se fosse successo qualcosa, Tom poteva ancora ave-
re una probabilità di cavarsela. La caverna era rotonda, col pavimento piatto al centro. Dal soffitto pendevano stalattiti che parevano denti aguzzi, minacciosi, in precario equilibrio. Uno zaino, una mazza da baseball e diversi metri di corda si trovavano a qualche metro da una lastra di pietra al centro della camera. Ai piedi di Eric, una pistola e un coltello coperti di sangue raggrumato. Sul fondo della caverna, un bagliore terribile, impossibile da fissare. Se non altro, non avrebbe avuto bisogno dell'ultima torcia. Si avvicinò alla lastra. L'aria densa opponeva resistenza. Ogni passo gli costava uno sforzo. Era quasi esausto. La sensazione della presenza del male, opprimente, gli impediva di concentrarsi. Davanti a lui, sulla lastra di pietra, una figura a braccia spalancate. Il corpo era avvizzito, in alcuni punti completamente distrutto, come se fosse stato divorato dall'interno. Le guance erano scavate, i capelli tirati indietro, i piedi arcuati: poco più di un guscio vuoto. Si chinò sulla figura e lesse sul suo volto la disperazione più completa. Vivo e non vivo, pensò. Morto, eppure non morto. Era quello il cuore della caverna: un'anima umana, sospesa tra la vita e la morte, che teneva aperto il cancello. Il condotto che i demoni usavano per infiltrarsi nel mondo. (... non perdere tempo... lasciami andare, lasciami dormire. .) Sonno. Sarebbe stato meraviglioso dormire, pensò Eric. Scrollarsi di dosso tutta la stanchezza e non riemergere mai più. Scrutò gli occhi imploranti, puntati su qualcosa che nemmeno lui era in grado di vedere. (... ti prego...) Non poteva aiutare l'uomo sulla lastra di pietra. Però poteva dargli la pace, e al tempo stesso distruggere l'unico collegamento dei demoni con la fonte del loro potere. Doveva solo spingere quell'anima oltre il limite, farle raggiungere la morte che desiderava tanto intensamente. Facendosi forza per soffocare il dolore spasmodico che vibrava dietro i suoi occhi, Eric corse alla pistola abbandonata sul pavimento. Restavano tre pallottole. Tornò presso la figura emaciata. Per un secondo, gli parve che lo sguardo di quella creatura tormentata lo vedesse, esprimesse un'approvazione totale. «Mi spiace», disse Eric e appoggiò la canna della pistola alla tempia della figura. (... non perdere tempo... fai quello che devi fare... così freddo... voglio
dormire...) «Perdonami.» Premette il grilletto. La prima pallottola inondò la lastra di frammenti di ossa e tessuti cerebrali. Il cancello vibrò. Colori impazziti presero a pulsare. A Eric parve che qualcosa si muovesse dall'altra parte del cancello, ma si rifiutò di guardare. Si accorse che stava piangendo. La seconda pallottola spazzò via quello che restava della testa. Sperò che bastasse. Diversamente, avrebbe dovuto sparare una terza volta e non era certo di riuscirci. Ma dopo un attimo, sentì liberarsi l'anima prigioniera. Avvertì la sua presenza nella stanza e non ci furono recriminazioni per ciò che lui aveva fatto: soltanto sollievo e un senso di libertà. Poi scomparve, come fumo nel vento. Il cancello vibrò un'ultima volta, diventò una cortina pulsante di blu. Era ancora lì, ma ormai privo di ogni collegamento col mondo degli uomini. Non poteva più offrire alcun sostegno alle creature che erano entrate negli ultimi due giorni. Presto, tutti i demoni avrebbero risentito delle conseguenze. Il cuore era morto. Eric cadde in ginocchio, appoggiò la testa alla fredda lastra di pietra. Dietro la cortina del dolore e della spossatezza, pensò a Liz e a tutti gli altri e sperò di avere fatto in tempo. 15 Kerr riemerse dall'incoscienza al primo urlo. Quel suono non poteva essere uscito da una gola umana. Aprì gli occhi gonfi. La chiesa era immersa in un chiarore che non giungeva dall'esterno. Erano le cose a urlare. Si contorcevano nei gemiti dell'agonia. Le loro facce si stavano dissolvendo e non c'era più una forza sovrannaturale a sostenerle. Si scagliavano contro le pareti, contro il pavimento, ululando rabbiose. Inutilmente. A una a una, presero fuoco. Ci sono riusciti, pensò Kerr, con una remota parte di sé. Grazie, Dio. Le fiamme correvano da una cosa all'altra, rimbalzavano fra le panche. I paramenti che decoravano il soffitto si incendiarono. Stavano morendo, ma avrebbero portato con sé la chiesa.
Era un prezzo modesto. Adesso, almeno, Kerr poteva morire in pace. Si coricò, pronto ad accogliere le tenebre che lo chiamavano. Poi, come da lontano: Liz! Will! Si rizzò a sedere, maledicendo la propria debolezza. Non poteva lasciarli morire. Non ancora. Liz e Will si sarebbero accorti dell'incendio troppo tardi. Aveva promesso di salvarli. Non poteva abbandonarli. Riuscì a mettersi in ginocchio, ma la vittoria fu breve. Cadde. Il fumo stava riempiend,o in fretta la chiesa. Mosse le mani e si aggrappò alla passatoia. Alzò un piede. L'altro. Luci stroboscopiche che correvano dietro i suoi occhi. No, non ancora. Non poteva arrendersi. Non... Un'ombra si proiettò sul suo corpo. Una delle cose, ululante negli spasmi dell'agonia, gli piombò addosso. I suoi occhi erano quasi completamente divorati dal fuoco, ma riuscì lo stesso a individuarlo. «No», sussurrò. «Resta... con noi.» Gli artigli afferrarono la gola di Kerr e, con le poche forze che le restavano, la cosa lo scaraventò nell'inferno di fuoco. No, pensò Kerr. Non è giusto, non è giusto. Le tenebre scesero prima che la sua testa colpisse la parete. 16 Tom alzò gli occhi al rumore. Era un vento impazzito, uno strillo folle che correva sopra la sua testa. Al suo passaggio, si sentì invaso dal terrore. Viene a prendermi, pensò. Ma il vento si fermò un solo attimo, poi proseguì, come se lui non avesse la minima importanza. Con un ululato, si precipitò verso le viscere delle caverne. Verso Eric. Straziato dal dolore, Tom seguì il vento. 17 Eric sentì arrivare la creatura. Poi, l'urlo. «Come osi?» All'estremità opposta della caverna, la cosa-demone emerse da una nube scura. Aveva occhi grandi, dorati, stretti al centro come quelli di un serpente. La pelle era nera, il viso oblungo, la mani deformi. I suoi contorni erano vaghi: ondeggiavano, oscillavano, diventavano impercettibili, in mancanza della forza del cancello.
Il primo che è uscito. L'unico che riuscisse ancora a restare nel mondo degli uomini, adesso che il varco era distrutto. «Come osi profanare la mia chiesa?» La cosa indicò il corpo sulla pietra. «Prenderai tu il suo posto! O mi troverai un altro! Che cosa scegli?» Già, che cosa scelgo? pensò Eric. Era stanco, disfatto. Però in lui ardeva ancora una fiamma, un'ultima riserva di energia, così luminosa che temeva di lasciarsene assorbire. Non ancora, no, non ancora. Aveva sempre in mano la pistola. Contro la creatura sarebbe stata inutile, ma quell'ultimo proiettile era la sua estrema difesa. La cosa non si sarebbe servita di lui per riaprire il cancello. L'ultima pallottola era per lui. Ma se fosse morto, avrebbe trascinato con sé la cosa, giù fino all'inferno. «Niente da fare», disse. 18 Quante urla! Liz si portò le mani alle orecchie. Il grattare alla porta si era fatto più forte. Non poteva restarsene lì senza fare qualcosa. Sobbalzò al rumore improvviso che giunse dalla scala. Anche Will lo sentì. «Arriva qualcuno», disse. E il grattare si interruppe. «Ssh!» Liz corse alla porta. Qualcuno, o qualcosa, stava togliendo la massa di oggetti che camuffavano l'ingresso alla scala. Un attimo dopo, una luce entrò nella stanza. «Padre!» Padre Kerr salì i gradini. Reggeva in mano una grossa candela bianca. «Dovete sbrigarvi», disse. Ma la sua voce era pacata, stranamente calma. Liz prese Will per un braccio, lo aiutò ad alzarsi. «Dove andiamo?» chiese il dottore. «Fuori!» rispose lei. «Vieni, non dobbiamo perdere tempo.» Lo guidò alla scala e cominciò a scendere. Alle loro spalle, Kerr indugiò sulla soglia. Liz lo sentì dire qualcosa: non parlava con loro, ma con qualcun altro. Poi il sacerdote li seguì. Erano a metà dei gradini quando sentirono l'odore di bruciato. «Un incendio!» esclamò Liz. Sbucarono nello scantinato, che si stava riempiendo di fumo. Kerr li precedette. «Per di qui. Sbrigatevi.»
«E l'uomo in quella stanza?» chiese Will. «Non sapeva di essere morto», rispose Kerr. «Credeva di essere stato abbandonato. Adesso troverà la pace.» Salirono. Liz guidò Will su per i gradini. Avrebbe voluto che Kerr rallentasse, che le desse una mano, ma era sempre davanti a loro. Distante. Entrarono in sacrestia. Un fumo denso aveva invaso il locale. «Restate giù. Respirerete meglio», disse Kerr. «Usciremo dal retro.» Mentre si spostavano, Liz intravide il fuoco che stava divorando la chiesa. Le fiamme risalivano su per le pareti, inghiottivano paramenti e panche, si concentravano in una grande pira al centro della chiesa. Boccheggiò quando vide che alcune delle cose si muovevano ancora nel fuoco. «Non le guardi», disse Kerr. «Guardi solo in avanti.» Lei strinse più forte Will, lo allontanò da quell'orrore. «Ho visto quelle cose», disse Will, girando la testa. «Ho visto...» «Meglio non parlarne», disse Kerr. Liz si stupì di trovarlo così calmo, così pacato. Nel suo atteggiamento c'era qualcosa che le dava speranza. E poi, ovviamente, c'era quello che aveva visto: in un modo o nell'altro, Eric e Tom ce l'avevano fatta! Uscirono nell'aria della sera. Le spirali di fumo si addensavano alle loro spalle. Non appena furono a distanza di sicurezza dalla chiesa, Liz lasciò il braccio di Will. Le ginocchia non la reggevano più. Crollò sull'erba. «Grazie, padre», disse. «Padre?» Kerr era scomparso. «Dov'è andato? Will?» «Non so», rispose Will. «Era qui un secondo fa. L'ho...» Si interruppe. «Liz, lo vedevo. Come facevo a vedere lui, se non vedo te?» 19 La cosa volò addosso a Eric. Ciò che lo colpì era in parte lupo, in parte pipistrello, in parte demone: una cosa in continua metamorfosi che ringhiava e mordeva. L'impatto gli fece perdere la presa sulla pistola. L'arma rimbalzò sul pavimento, si fermò davanti all'ingresso della camera. Lui alzò le mani sul collo della cosa e le sentì bruciare. Lottarono al centro della caverna. La faccia della cosa era a pochi centimetri dal viso di Eric. Gli enormi canini brillavano nella poca luce; gli occhi ardevano di rabbia e di una spaventosa intelligenza. Poi, all'improvviso, la cosa affondò gli artigli nella sua mente, scavò, di-
vorò ciò che incontrava. (no, esci, esci, esciesciesci!) La fiamma che era dentro di lui vacillò. «Esci!» urlò Eric e scaraventò la cosa al lato opposto della caverna. I suoi artigli gli scavarono una lunga ferita sul braccio. La cosa atterrò in piedi e si girò verso di lui, ringhiando. Eric le vide un'espressione trionfante: gli aveva strappato il primo sangue. Il pavimento gli esplose sotto i piedi, un geyser di roccia e polvere. Eric balzò via. La fiamma che ardeva in lui dava nuova forza ai muscoli. Si accucciò dietro la lastra, mentre proiettili di pietra, come colpi di mortaio, si frantumavano sopra la sua testa. La cosa stava giocando con lui. Era sicura della propria superiorità. Poi si preparò a un altro attacco. È finita, pensò Eric. Un colpo di pistola echeggiò mentre la cosa gli balzava addosso. La creatura ululò, atterrò sul pavimento, intatta. Si girò verso l'essere che aveva osato interferire. Tom era accucciato all'ingresso della caverna, coperto di polvere e graffi. Stringeva il revolver con entrambe le mani. Sparò un'altra volta, ma la cosa era troppo veloce per lui. Troppo veloce per chiunque. Il proiettile colpì il soffitto, rimbalzò, centrò una stalattite che cadde a terra. Il soffitto. Eric alzò gli occhi sulla fila di stalattiti che pendevano sopra di loro. Sì, c'era una via d'uscita. Il rischio era grande, ma se non avesse fatto qualcosa, erano già condannati. Un secondo prima che la cosa spiccasse il balzo, Eric cercò in sé la fiamma tremante e le diede tutta l'energia della propria anima. Si abbandonò. Si lasciò investire dall'esplosione di potere. Padre, pensò. E non fu più solo. Adesso, gli sussurrò la voce nella mente, una voce calma che si aggiungeva alla sua forza. Colpisci! Si sentì bruciare dentro da un sole e diventò più di ciò che era. La cosa intuì il suo cambiamento, si girò verso di lui: ma era troppo tardi per fermare la luce che lo aveva invaso. Eric gettò la testa all'indietro. Tutto il suo corpo vibrava per lo sforzo. Urlò. La caverna tremò, sotto un potere antico finalmente risvegliato, un
potere che si proiettò sul soffitto, centrò le stalattiti, le liberò. La cosa le vide cadere. Una lama di pietra le trafisse il petto, inchiodandola al suolo. La cosa ululò di dolore, cercò di estrarre la lancia. L'urlo improvviso di Eric fece eco a quello della cosa. Una stalattite gli si era conficcata nel fianco. È doloroso, padre, Dio, com'è doloroso. Le tenebre tornarono in tutta la loro forza. Una parte di lui avrebbe voluto arrendersi; un'altra parte, appena rinata, voleva resistere. La forza che era stata liberata si muoveva dentro di lui, cresceva. Quasi accecato dal dolore, Eric estrasse dal fianco la stalattite che lo aveva trafitto e barcollando, strisciando, superò i pochi centimetri che lo dividevano dalla cosa che si contorceva a terra. La cosa sibilò quando lui alzò sulla sua gola la pietra coperta di sangue, tentò freneticamente di smuovere la stalattite che la inchiodava al pavimento. Eric lasciò cadere sul suo collo la lama, la ghigliottina di pietra che l'avrebbe decapitata... Lui e la cosa urlarono contemporaneamente. 20 «Ehi! Che cosa diavolo è successo?» R.T. Williams correva verso Liz, gli occhi fissi sulla chiesa che stava bruciando. «Ho chiamato i pompieri e l'ospedale. Ci sono feriti, dentro?» Liz vide altra gente uscire dalle case, correre verso di loro. «Non so...» Le parole le morirono in bocca. Non sapeva da dove cominciare; non sapeva che cosa dire, o non dire. Will si alzò alle sue spalle. «È in stato di choc, R.T. Dobbiamo portarla in un posto riparato.» «Anche Will ha bisogno di un medico», disse Liz. Dietro di loro, la chiesa stava bruciando. «C'era dentro qualcuno?» chiese R.T. «Non si può più salvare nessuno», rispose Liz. Si stava domandando dove fosse Eric. 21 Per un momento, Tom non capì di preciso se avesse gli occhi chiusi o aperti. Poi cominciò a vedere le stelle. Allora che cosa diavolo ci faccio qui al freddo, sdraiato sulla schiena?
Cercò di sedersi. Sentì un dolore tremendo alla gamba destra. L'ultima immagine che ricordava era la lotta fra Eric e la cosa nella caverna. Aveva sparato, il buio gli era andato incontro e quello era tutto. Solo che, se non sbagliava, era stato trascinato fuori dalla caverna da qualcuno che non conosceva, una persona anziana, con i capelli neri. Ma non era possibile. All'improvviso, il terreno tremò. Un'esplosione. Qualche istante dopo, vi fu un secondo tremito. La dinamite? Poi qualcuno corse fuori dall'imboccatura della caverna e si tuffò al suo fianco mentre una terza esplosione scuoteva il terreno. Anche da lì, Tom sentì tonnellate di roccia che cadevano e riempivano la caverna. Si girò verso la figura sdraiata al suo fianco. Di nuovo il vecchio. Poi guardò meglio e la figura diventò confusa, difficile da distinguere. Si sfregò gli occhi e dopo un attimo, vide solo il volto di Eric, calmo, tranquillo. Gli sentì il polso: Eric era svenuto, ma vivo. Poi Tom vide il sangue che colava a terra. Cercò nella borsa l'ultima torcia di segnalazione. La accese e si mise a sventolarla sopra la testa, sperando che qualcuno li vedesse. «Non osare morirmi tra le braccia», disse alla figura immobile. «Non te lo permetterò.» Non ci fu risposta. «Maledizione a te, questa è la mia città!» Toccò Eric con una mano, per assicurarsi che respirasse ancora. «Ehi, qualcuno», si mise a urlare. «Qualcuno ci aiuti!» Epilogo Calma. Niente si muoveva nel buio che non fosse solo una sfumatura smorzata di luce. Lì, giorno e notte erano tutt'uno: una cosa gradevole, calda, rassicurante... Vagò fra lunghi corridoi dove persone discutevano di cose importanti che lui non capiva. Poi, anche se non lo voleva, riemerse gradualmente in superficie, risalì verso l'altra luce; e anche se l'unica cosa che desiderava era restare lì, fra le braccia di quella notte speciale, tornò su... «Bentornato.» Eric strizzò gli occhi. Gli sembrava di avere della colla sotto le palpebre. Quando cercò di togliere la colla, scoprì che le sue braccia erano collegate a lunghi tubi. «Ci sono qui io», disse Liz e gli passò sugli occhi qualcosa di umido. Dopo un po', lo sguardo di Eric si mise a fuoco. Liz era appoggiata a una
parete bianca. La luce del sole entrava da una finestra. Lui si inumidì le labbra. «Che giorno è?» chiese. La sua voce era roca. «Mercoledì», rispose Liz. Dolcemente, gli mise una mano sul petto. «Non hai più ripreso conoscenza da quando ti hanno tirato fuori, sabato sera.» Gli carezzò i capelli. «Eravamo tutti preoccupati. Come ti senti?» «A pezzi», disse lui. Ogni millimetro del suo corpo era indolenzito e il dolore pulsante al fianco destro diventava sempre più forte. Spostò la testa per vedere che cosa gli fosse successo, ma Liz gli prese la mano, la strinse fra le sue. «Sarà meglio che tu non ti muova troppo. Sei pieno di punti. Avevi uno squarcio enorme nel fianco, per non parlare delle infezioni e di altre complicazioni che ti racconterò in un altro momento. Però nessun organo vitale è stato danneggiato e non dovrebbero esserci conseguenze, a meno che le infezioni non si ripresentino.» «Che infermiera... deliziosa sei», disse Eric. «Ce ne sono di migliori?» chiese lei e lo baciò dolcemente. «Ti ho fatto male?» «Te lo farò sapere.» Lui le sorrise e anche quel gesto richiese uno sforzo insolito. Alzò le mani al viso... «Non toccare le bende», disse Liz, poi sollevò il ricevitore e compose un numero. «Sì, mamma.» Lei finse di dargli uno scapaccione. Avvicinò il microfono all'orecchio. «Tom? È sveglio. Okay.» Riagganciò. «Tom», disse Eric. I ricordi stavano lentamente tornando. «Come...» «Tom sta benissimo. Meglio di te, a dire il vero. Sarà qui fra qualche minuto, probabilmente con un dottore. Dobbiamo metterci d'accordo su una versione dei fatti. Stando ai rapporti che Tom ha spedito all'ufficio dello sceriffo di contea, voi due stavate ispezionando le caverne per cercare di capire che cosa fosse successo a Sam quando è crollato tutto. Tu ricordi solo le rocce che ti cadevano addosso. Capito?» Eric annuì. Sembrava tutto così lontano: frammenti di un'altra vita. «In quanto al resto, questo dovrebbe colmare i tuoi vuoti.» Liz gli tese una copia del North Cutler Journal. «Ho paura che parlarne mi sia ancora un po' difficile.» «Non c'è problema», disse Eric. L'articolo era messo in rilievo da un evidenziatore, anche se non ce n'era bisogno. La fotografia era della chiesa di Saint Benedict, o meglio, di quello che ne restava. L'articolo era datato
lunedì, due giorni prima. INCENDIO MIETE 357 VITTIME AL POINT Dredmouth Point. Il peggior incendio da molti anni a questa parte si è scatenato sabato sera a Dredmouth Point. Stando ai rapporti di polizia, più di trecento persone erano presenti a una messa serale nella chiesa cattolica di Saint Benedict quando un incendio è scoppiato nella navata centrale della chiesa. Le fiamme hanno avvolto l'intero edificio e ucciso le 357 persone intrappolate all'interno, fra le quali il parroco, padre Duncan Kerr e l'agente di polizia Raymond Price, accorso per soccorrere le vittime. Si ritiene che l'incendio si sia diffuso molto più rapidamente di quanto non accadrebbe in un edificio moderno, precludendo ogni via d'uscita alle vittime. «È stato terribile, semplicemente terribile», ha dichiarato R.T. Williams, proprietario di un negozio vicino, uno dei primi ad accorrere sul luogo della sciagura. «Ho sentito un'esplosione, poi tutta la chiesa ha preso fuoco. È bruciata in un attimo. Quando siamo arrivati, il calore era così intenso che non ci si poteva avvicinare a più di quaranta metri.» Le autopompe sono riuscite a circoscrivere l'incendio alla chiesa, salvando le abitazioni e i negozi vicini. «Non c'è ragione di sospettare un incendio doloso», ha dichiarato il capo della polizia locale, Tom Crandall, facendo notare che la chiesa aveva avuto in passato frequenti problemi con l'impianto elettrico. Si attende ancora un comunicato ufficiale, ma un portavoce della squadra incaricata delle indagini ha precisato che, data l'entità dei danni, «forse non riusciremo mai a stabilire la causa esatta». Un elenco completo delle vittime sarà diramato al più presto non appena saranno stati identificati i corpi e avvertiti i parenti più prossimi. «Una tragedia terribile», ha detto l'agente Crandall, a sua volta rimasto ferito mentre indagava su un incidente che si è verificato nelle caverne indiane (vedi articolo a pagina 7). Crandall ha anche chiesto una medaglia alla memoria per l'agente Raymond Price, presente sulla scena dell'incendio e morto nell'adempimento del suo dovere. Il vescovo Edward C. O'Leary, raggiunto a Portland, ha espresso tutto il proprio cordoglio e ha chiesto aiuti concreti per i superstiti. Eric mise giù il giornale. Non voleva leggere altro su ciò che era accaduto. Ripensò alla cena con padre Kerr e scoprì, dolorosamente, che il viso del sacerdote era svanito dal suo ricordo.
«Non ha voluto restare con Will e me», disse Liz. «Ha affrontato quelle cose. Ha fatto guadagnare tempo a te e a noi. Però te lo giuro, Eric, è tornato da noi. Ci ha portati fuori prima che le fiamme divorassero tutto. Lo so che sembra assurdo, però...» «Ti credo», disse Eric. La porta si aprì. Tom entrò su una sedia a rotelle, seguito da un dottore. Aveva una gamba ingessata. «Bene», disse il medico. «Ci siamo svegliati.» Tese una mano. «Sono il dottor Alridge. Può chiamarmi Ben. Come si sente?» «Okay», rispose Eric, mentre Alridge gli metteva lo stetoscopio sul petto. Fece una smorfia quando vide il cerchio di punti che aveva sul fianco destro, ma non disse niente. Era vivo, e quello bastava. Alridge batté due dita sul petto di Eric. «Mi sembra tutto a posto.» «Be', non durerà molto, se lei continua a tirargli colpi del genere», disse Tom. «Chi dice che i medici sono i peggiori pazienti?» chiese Alridge. «Balle. I poliziotti ci battono di anni luce. Quando non correva in giro su quella sedia a rotelle come se fosse un'auto della polizia, era sempre qui nella sua stanza, a tenerla d'occhio.» «Curiosità professionale», disse Tom. «Già. Però la sua curiosità professionale le procurerà una ricaduta.» Il medico si girò di nuovo verso Eric. «Il suo amico qui è stato morso da un animale, mentre voi due aspettavate i soccorsi. Ha un'infezione terribile e non vuole le vaccinazioni antirabbia.» «Non mi servono», disse Tom. «Lo so da fonte sicura.» «Vedremo.» Alridge prese in mano la cartella ai piedi del letto di Eric. «Anche lei è un tipo fortunato. Si è ripreso prima di quanto sperassimo, viste le sue ferite.» «Fra quanto potrò uscire?» «A fine settimana, forse. Adesso che il periodo di osservazione è terminato, il signor Crandall potrebbe andarsene domani, se promette di non fare sforzi.» «Ci conti», disse Tom. «Be'», disse Alridge, «devo finire il mio giro. Torno fra un'oretta per fare quattro chiacchiere. Ci vediamo.» Appena la porta si fu chiusa, Eric si girò verso Tom. «E Sam e Will? Come stanno?» «Abbastanza bene. Sam è uscito dal coma più o meno quando è crollata
la caverna. All'inizio era sconvolto all'idea di dover rinunciare alla sua grande scoperta, ma ormai si è rassegnato. In quanto a Will», aggiunse Tom, «gli oftalmologi non hanno trovato lesioni. Liz dice che aveva una pellicola gialla sugli occhi, ma quando gli specialisti lo hanno esaminato era scomparsa, per cui non ci crede nessuno. «Pensano sia una reazione psicologica. L'incendio della chiesa e tutto il resto, l'idea di non poter fare niente...» Tom corrugò la fronte. «Naturalmente, non abbiamo raccontato quello che è successo, altrimenti saremmo tutti sotto il microscopio. Però dicono che oggi vede un po' più di ieri, quindi c'è una possibilità che recuperi la vista, almeno in parte.» «Gli effetti di un trauma sono imprevedibili», aggiunse Liz. «Come si spiegherebbe altrimenti che tutti gli abitanti della città abbiano perso un intero giorno di vita? Gli psicologi sono arrivati a frotte. Stanno cercando di capirci qualcosa.» Tom sospirò. «Tutti quegli esperti, tutto quel lavoro e secondo me, non capiranno mai che cos'è successo. A volte, anch'io penso che debba essere stato solo un brutto sogno, l'incubo degli incubi. Poi guardo questa cosa», disse, indicando l'ingessatura alla gamba, «e so che è stato tutto vero... Dio ci aiuti. Ma almeno adesso è finita.» «È finita, Eric? Per sempre?» chiese Liz. «Credo di sì», rispose Eric, mentre il sonno lo riprendeva. «Credo di sì.» Poi si coricò e lasciò che il calore dell'oscurità scivolasse dietro le sue palpebre. 2 Quando lo dimisero dal Cutler Memorial Hospital, Eric tornò al Point seguendo la via più lunga. Guidò la vecchia Datsun sulle strade assolate e si fermò al cimitero, al limitare della città. Andò alla tomba di suo padre. Ne sentì uscire solo pace, solo silenzio. Adesso, quella pace era anche sua. Gli incubi erano svaniti. Era libero. Però non si sentiva più perso, senza radici. Sapeva di essere ancora legato al mondo che aveva scoperto. Anche per quello si era spinto a tornare, a rivedere un'ultima volta suo padre. Doveva ringraziarlo. E dirgli addio. 3
Eric Matthews fermò l'auto sul ciglio della strada, prima di imboccare l'autostrada. Si era chiesto se non fosse il caso di entrare in città, ma non ne vedeva il bisogno. Aveva fatto quello che doveva fare. E, a giudicare da ciò che Liz gli aveva raccontato, sospettava che anche in sua assenza ci sarebbe sempre stato qualcuno a vegliare su Dredmouth Point. D'altra parte, odiava gli addii. Il mondo era troppo piccolo per dirsi addio. Avrebbe sempre saputo dove trovare tutti (Tom, Will, gli altri), se e quando ne avesse avuto bisogno. Numeri di telefono e indirizzi non avevano più alcuna importanza. Avrebbe saputo e basta. Un dito morbido gli carezzò il collo. «Dove andiamo?» Si girò verso Liz, seduta al suo fianco. Sul sedile posteriore c'erano le sue valigie. Il suo libro (il suo romanzo, si corresse) era nel bagagliaio, da solo. Questioni di priorità, gli aveva spiegato Liz. Dove? «A ovest», rispose lui e accese il motore. «Seattle, magari.» Non sapeva perché, ma sentiva che era giusto. FINE