Markus Heitz
IL DESTINO DEI NANI Das Schicksal der Zwerge,2008
Dedicato a tutti gli amici dei nani. L'avete meritato...
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Markus Heitz
IL DESTINO DEI NANI Das Schicksal der Zwerge,2008
Dedicato a tutti gli amici dei nani. L'avete meritato!
« Si dice che i nani siano molto bravi nel raccontare storielle. Una delle barzellette più famose sarebbe la storiella del mezz'orco che chiede la strada a un nano, e del nano che gli risponde. La storiella reciterebbe più o meno così: Una rotazione, un mezz'orco camminava oziosamente lungo una strada, gli occhi puntati sul percorso, ma senza sapere dove stesse andando. Proprio in mezzo a un incrocio, c'era un nano che controllava quello che accadeva nei dintorni. La sua ascia era di puro vraccasio, la cotta di maglia incantevole e robustissima, tanto da opporsi a ogni tipo di freccia o lama. La corporatura del nano dimostrava che certo si trattava di uno dei più valorosi guerrieri del popolo dei nani! E aveva la barba intrecciata, arricciata e ben ingrassata, cui erano legati piccoli pezzi d'oro e filo d'argento. Un capolavoro di nano, in tutto e per tutto: portamento, armi, armatura! E allora il mezz'orco si avvicina al nano e gli chiede la strada... »
Dalle Annotazioni sui popoli della Terra Nascosta, sulle loro particolarità e peculiarità, Grande archivio di Viransiénsis, scritto da Tanduweyt, raccolto dal magister folkloricum M.A. Het nell'anno del 4300° ciclo solare, frammento incompleto,danneggiato da un incendio « Per essere sinceri, a me quella storia non piace affatto. Non ho ancora capito perché mai tutto il mondo vuole sapere come finisce. È un totale spreco di tempo! Eppure ridono tutti. Chi ci capisce è bravo. » Hargorin Seminamorte, comandante dello Squadrone Nero « Se mi toccherà raccontare ancora una volta la storia del mezz'orco e del nano, ancora una sola volta, cadrò irrimediabilmente preda della mia follia guerriera e non mi darò tregua finché non giaceranno nel loro sangue tutti quelli che vogliono sentire questa vecchia scempiaggine, ho giuro sulla mia azza! E se anche m'implorasse di raccontarla un drago con venti teste o un unicorno parlante e ballerino o una fatina scintillante pronta a
esaudire mille dei miei desideri: non-mi-importa! Truciderò tutto, tutti e tutte! Basta storielle, capito? » Boihdil Duelame del Clan dei Branditori d'ascia, della stirpe dei Secondi, a Mifurdania, in occasione di un banchetto in onore dei commedianti e dei discendenti di Rodario
DRAMATIS PERSONALE LE STIRPI DEI NANI
I Primi Xamtor Frontealta del clan dei Frontealta, della stirpe del Primo, Borengar, detto anche « il Primo », re I Secondi Boïndil Duelame, detto anche il Rabbioso, del clan dei Branditori d'ascia, guerriero Boëndalin Colpopotente, suo figlio maggiore I Terzi Tungdil Manodoro, guerriero ed erudito Goda Ardentecoraggio, guerriera Sanda e Bandaál, due suoi figli Hargorin Seminamorte, comandante dello Squadrone Nero Jarkalin Pugnonero, cavaliere dello Squadrone Nero
Rognor Colpodimorte, re dei Terzi I Quarti Frandibar Cogligioielli del clan dei Battiloro, re dei Quarti Goïmslin Celeremano del clan dei Trovazaffiri, detto Slin, balestriere I Quinti Balyndis Ditadiferro, del clan dei Ditadiferro, regina Balyndar Ditadiferro, del clan dei Ditadiferro, suo figlio I Liberi Gordislan Pugnomartello, re di Aureorifugio Gli Zhadár (albico per « gli Invisibili ») Barskalin, comandante Ringhio, guerriero L'Attaccabrighe, guerriero GLI ESSERI UMANI
L'Irraggiungibile Rodano, attore Rodario Settimo, attore Ladenia, attrice
Mallenia von Ido, combattente per la libertà Regina Wey XI, sovrana spodestata del regno del Weyurn Principessa Coïra Weytana, sua figlia Conte Loytan di Loytansberg, nobile del Weyurn Lot-Ionan, mago Franek, Droman, Vot e Bumina, apprendisti maghi Girìn, governatore incaricato dal drago Lohasbrand Wielgar, Lohasbrander Enslin Rotha, borgomastro di Hangenturm Tilda Küferstein, membro del consiglio di Hangenturm Frederik, macellaio di Hochheiligstadt, ribelle Zedrik, guardia delle porte di Hochheiligstadt, ribelle Uwo, pescivendolo di Hochheiligstadt, ribelle Arnfried, fabbro di Hochheiligstadt, ribelle Tilman Berbush, ribelle Hindrek, guardacaccia Qelda, sua moglie Cobert, suo figlio maggiore Ortram, suo figlio minore
Conte Pawald, vassallo degli albi Wislaf, Gerobert, Vlatin e Diderich, uomini di Pawald Rilde, fattoressa Xara, sua figlia Mila, contadina Lombrecht, anziano contadino GLI ALTRI
Aiphatòn, imperatore degli albi Sisaroth, Tirîgon e Firûsha, albi trigemini, chiamati anche Dsôn Aklàn, « gli dei di Dsôn » Ùtsintas, albo di Dsôn Bharà Pashbar, guardia mezz'orco Yagur, ufficiale ubari a Diga_del_male Fanaril e Alysante, elfi Ilahin, elfo Fiëa, elfa, sposa di Ilahin
PROLOGO Terra dell'Aldilà, Forra Oscura, 6491° ciclo solare, inverno L' odore di polvere d'ossa e di pietra gelida riempiva l'aria. La creatura, che aveva braccia lunghe e sottili, uscì guardinga dal riparo offerto dall'ombra delle sporgenze rocciose e strizzò gli occhi. A una distanza di dieci passi si alzava una parete di aria tremolante che rendeva indistinto il paesaggio oltre quella barriera. La creatura senza nome si passò la lingua bruna sul muso canino, scoprendo così zanne acuminate come chiodi. Poi si passò due delle sedici dita sotto l'armatura coperta di lordume e si grattò sbadigliando il vello raso e scuro. Quindi si aggiustò un poco l'armatura, che premeva in modo fastidioso. Fece un sospiro di sollievo e sbadigliò un'altra volta. Per ordine del Più Forte, dall'alba al tramonto doveva fare la guardia: se l'aria avesse smesso di vibrare e tremolare, avrebbe dovuto annunciarlo immediatamente. Non le piaceva quell'incarico, perché era noioso.
Dopo un poco si chinò, raccolse un coleottero giallo che stava cercando di strisciare sotto un femore imputridito e se lo cacciò in bocca. Mentre masticava, pensò per l'ennesima volta che nessuno delle centinaia di suoi simili ricordava di aver mai visto l'aria non tremolare. Con un ringhio, diede un calcio alla nera parete rocciosa, poi si avvicinò oziosamente al bordo; nella destra stringeva l'elsa di una spada lunghissima che trascinava dietro di sé con noncuranza. Il metallo, coperto da uno strato color ruggine, raschiò la pietra, e nella lama s'impresse un'altra tacca. La creatura si sedette per terra, vicino all'aria tremolante, sbadigliò di nuovo e gettò un sassolino. L'aria s'infiammò all'improvviso, sibilando; per un brevissimo istante divenne lattiginosa come acqua torbida, e non lasciò che il piccolo proiettile continuasse il suo volo. Il sassolino rimbalzò e finì davanti alla punta degli stivali della creatura, che sospirò. Era un rituale che, per quanto ricordasse, si ripeteva senza variazioni. C'era stata un'epoca in cui quella barriera trasparente era stata una parete indistruttibile; faceva male slanciarvisi contro di corsa, ma non
succedeva niente di più. Poi, all'improvviso, la barriera si era messa a distruggere tutto ciò che la toccava: chiunque la sfiorasse veniva avvolto da fiamme crepitanti e consumato fino a diventare polvere chiara, che il vento portava via. Ma da qualche ciclo ci voleva molto più tempo perché la barriera uccidesse per contatto. Chi era veloce abbastanza da togliersi tempestivamente dal tremolio dell'aria se la cavava con una bruciatura. Al di là della barriera, la creatura scorgeva una strana costruzione verticale composta da anelli di ferro, al cui centro, quando il sole era ben alto, si vedeva qualcosa sfavillare. Di tanto in tanto, piccoli e massicci bipedi si avvicinavano alla costruzione e vi giravano un po' intorno, per poi sparire di nuovo. L'aveva visto coi suoi occhi, esattamente come aveva visto le possenti mura intervallate da torri squadrate, sopra le quali sventolavano stendardi colorati, di cui il tremolio dell'aria deformava i contorni. Sapeva che le mura si trovavano a grande distanza. Quando si sforzava molto, riusciva a vedere bipedi che andavano avanti e indietro sulle fortificazioni. Sembravano diversi da quelli che
raggiungevano la costruzione in metallo e la esaminavano. Anche il loro compito era sicuramente molto noioso, almeno finché l'aria, prima o poi, non avesse smesso di tremare. Era quello il momento atteso dal Più Forte, così come da innumerevoli altri, grandi e piccoli, bipedi e multipedi, spiriti strillanti e Laceratori di Anime, e dal Kordrion! Davanti a quell'essere imponente anche il Più Forte provava paura. A quanto aveva promesso loro il Più Forte, quando il tremolio dell'aria fosse finito, si sarebbe aperto per loro un nuovo regno, con deliziosa carne fresca e tesori per tutti. Il Più Forte prima di lui aveva già promesso la stessa cosa, come il Più Forte che lo aveva preceduto e il Più Forte che c'era stato prima ancora del Più Forte. La creatura aveva da tempo smesso di credere a quelle promesse, ma non osava opporsi. Opporsi significava morire. Il Più Forte comandava migliaia di guerrieri senza nome: una vita non era nulla, per lui. Un nuovo sassolino fu raccolto e gettato quasi controvoglia contro il tremolio dell'aria. Il grosso coleottero marrone che si stava azzardando a uscire dal suo roccioso rifugio era
notevolmente più interessante. Con un rapido movimento, la creatura acchiappò l'insetto, ne strappò le mandibole velenose e ne sorbì le interiora, che puzzavano come bacche di wanko. Schioccò le labbra, soddisfatta, e gettò via il guscio vuoto, poi si chinò per raccogliere il sassolino. Le sue lunghe dita saggiarono il suolo circostante, senza trovare il sasso. Allora alzò la testa, curiosa, e vide il sassolino giacere sotto la luce del sole. Con uno sbuffo d'incredulità, la creatura si alzò e guardò meglio: l'aria aveva smesso di tremolare! Non osava muoversi. Si sentiva formicolare tutto il corpo. Le narici si dilatarono mentre fiutava l'aria. Per la prima volta in vita sua, annusava la terra al di là della barriera tremolante senza nessun fastidioso filtro: carne, ferro, polvere, pietra... tante fragranze diverse si affollavano nel naso, aumentando ancora di più la sua eccitazione. Libertà! Bottino! Carne! E tesori leggendari! Si guardò alle spalle, verso il punto in cui si trovava l'ingresso al regno sotterraneo del Più Forte e del Kordrion. Avrebbe dovuto correre laggiù il più in fretta possibile, per fare rapporto,
ma... Puntò di nuovo in avanti la testa sottile, mentre le lunghe orecchie a punta si drizzavano. Perché non arrischiare un'occhiata in giro, prima che arrivassero gli altri? Che aspetto avrebbe avuto il paesaggio senza la distorsione dell'aria tremolante? Poteva forse ottenere del bottino per conto suo? La creatura decise di esaminare un po' meglio la situazione, per rendere il suo rapporto più dettagliato. C'era da temere che una descrizione vaga la facesse passare per bugiarda, e ai bugiardi capitava la stessa cosa che capitava a chi si opponeva. Quello era un motivo molto valido per non correre subito nella Forra Oscura a riferire la notizia al Più Forte, anche lasciando perdere del tutto la questione del bottino. La sentinella fece un passo guardingo dopo l'altro, fino a lasciare l'ombra offerta dalle rocce e trovarsi in pieno sole. La sua speranza di condurre una furtiva scorreria svanì subito. Da sola non sarebbe mai riuscita a superare le possenti fortificazioni; per farlo, aveva bisogno dell'aiuto del Più Forte e del Kordrion. Non essendo più distorte dalla barriera, le torri squadrate sembravano ancora più inespugnabili,
e si contrapponevano alle brame di ricchezze e bottino; l'arte degli scalpellini che la creatura vedeva davanti ai suoi occhi poteva solo essere sognata dai suoi simili. Ma le sue mosse non erano rimaste inosservate: all'improvviso sentì tintinnare innumerevoli armi, grida eccitate dei bipedi sulle mura e il forte, nefasto suono dei corni. La sentinella ebbe paura, e si acquattò. Memorizzò tutto, perfino i colori e i temi degli stendardi, poi si voltò e corse verso le rocce. Qualcosa, però, la colpì alla schiena, gettandola a terra; la spada le scivolò di mano. Il respiro le divenne affannoso. La creatura sputò e vide il suo sangue verde gocciolarle dalla bocca. Per tutto il corpo le corse un dolore insopportabile. Si lamentò e ululò forte; cercò di afferrare quello che aveva nella schiena e sentì tra le dita una sottile asta di legno. Qualcosa sibilò da destra, le perforò il muso e frantumò la mascella, facendola soffrire ancora di più. I mugolìi si fecero più forti, e terminarono all'improvviso quando una dozzina di frecce giunse da diverse direzioni. Tuttavia la creatura continuò a strisciare. Il Più Forte
doveva ricevere il suo rapporto, e vendicarne la morte. Doveva scoppiare la tempesta! Quando raggiunse il riparo delle ombre, in prossimità del punto in cui l'aria fino a poco prima cominciava a tremolare, la sentinella si sentì sollevata, sicura di riuscire a portare le sue notizie. D'un tratto l'odore dell'aria cambiò. Nonostante il naso frantumato, la creatura lo percepì chiaramente: era come poco prima di un fulmine, energie invisibili si raccoglievano crepitando. Strillò di paura, si aggrappò alla polvere e alle ossa macinate, cercando disperatamente di tirarsi in avanti. Improvvisamente la barriera magica avvampò di nuovo, tagliando in due la sentinella all'altezza dei fianchi. Un ultimo strillo acuto sortì dalla gola della creatura; le gambe fremettero ancora un istante, poi anch'esse rimasero immobili. « Sia lode e grazia a Vraccas! Lo scudo è di nuovo al suo posto! » Boindil Duelame, chiamato da amici e nemici « il Rabbioso » a causa della furia che lo assaliva in battaglia, aveva seguito con attenzione la fine della creatura. Posò il cannocchiale sul parapetto di
pietra e osservò lo schermo tremolante di energia magica che circondava la Forra Oscura. « L'artefatto sembra già essere allo stremo delle forze. » Guardò Goda con aria interrogativa. « Sai dirmi di più? » Lui e la sua amata compagna si trovavano sulla torre settentrionale della fortezza di Digadel-male, che da duecentoventi cicli si ergeva a difesa di quel luogo. Costruite da nani, Sotterranei, ubari e uomini, le mura, disposte a rettangolo, circondavano la Forra Oscura. Si ergevano per trenta passi in altezza e, nei punti più spessi, avevano una larghezza di quindici. Il sistema di costruzione era semplice, ma di maestria insuperata. Il gioco di squadra dei diversi popoli aveva creato qualcosa di speciale, anche se il contributo dei nani era quello predominante. Il Rabbioso ne era fiero, e sulle torri le rune lodavano Vraccas, Ubar e Palandiell. Sui larghi camminamenti, le torri e i piani, sotto le piattaforme coperte da tetti, c'erano catapulte e baliste che, in caso di necessità, potevano scagliare pietre, frecce e lance; nei magazzini erano stipati abbastanza proiettili da tartassare forze cento volte superiori a quelle dei difensori. A Diga-del-male vi era inoltre un
presidio di duemila guerrieri, che poteva prendere le armi in qualunque momento e respingere sinistri eserciti. Da duecentoventi cicli, però, non era stato necessario. La creatura che si dissanguava distesa a terra era la prima ad aver oltrepassato la barriera: un cupo taglio lungo mezzo miglio e largo cento passi deturpava la bellezza del paesaggio circostante, contrassegnando il punto da cui sarebbe sgorgato il male, se la barriera magica e la fortezza lo avessero permesso. Goda guardò il guerriero, un nano aitante della stirpe dei Secondi con tanta esperienza di combattimento, e di tale fama, da essere stato nominato comandante della guarnigione della fortezza. La nana inclinò la testa, e capelli biondo scuro le sporsero dal cappuccio. « Temi che lo scudo collassi, o speri che lo faccia? » Al contrario del Rabbioso, che indossava una cotta di maglia rinforzata da piastre di ferro, Goda indossava un lungo abito grigio chiaro che, fatta eccezione per la cintura ricamata di filo d'oro, era semplice e disadorno. La nana non portava neppure un pugnale infilato alla cintura e mostrava apertamente di aver abbandonato il
combattimento tradizionale. Le sue armi erano di natura magica. « Non ho nessuna paura di ciò che si annida nella Forra Oscura! Non può essere molto peggio di quello che si aggira per la Terra Nascosta », brontolò Boïndil, fingendosi offeso e accarezzandosi la barba nera, in cui luccicavano spessi peli grigio argento che annunciavano l'avanzare dell'età. In fondo, però, era ancora nel fiore degli anni. Il Rabbioso rivolse all'amata un sorriso triste. « Non ho mai abbandonato la speranza, da quando lui è andato dall'altra parte. » Volse lo sguardo davanti a sé ed esaminò con aria risoluta l'ingresso della Forra Oscura, che s'intravedeva al di là dello scudo. « Per questo resto qui. Per Vraccas, se soltanto potessi anche solo vagamente intuirne la presenza dietro lo scudo, correrei ad aiutarlo, con tutte le forze che riuscissi a mobilitare. » Colpì con entrambi i pugni la cima del parapetto. Goda guardò l'artefatto, che intesseva intorno alla gola una sfera impenetrabile: sorgeva davanti all'ingresso della Forra Oscura e consisteva di quattro anelli di metallo disposti in verticale e intrecciati l'uno dentro l'altro, a formare l'abbozzo di una sfera del diametro
approssimativo di venti passi. Sugli anelli di metallo c'erano rune, segni e intagli, tacche e punti che tracciavano motivi; innumerevoli sbarre puntavano al centro della sfera, dove si trovava un castone istoriato di simboli. E proprio lì si trovava la fonte del potere: un diamante in cui era stata accumulata un'enorme quantità di energia magica. La pietra, però, presentava sempre più crepe, una in più ogni rotazione. Al formarsi di ogni crepa, scaturiva un forte rumore, che rimbombava contro le mura, e ormai tutti i soldati ne erano consapevoli. « Non so dirti quante crepe reggerà ancora », disse Goda, corrugando la fronte. « Potrebbe frantumarsi da un momento all'altro, o resistere ancora per interi cicli. » Il Rabbioso sospirò, salutando con cenni del capo le sentinelle che passavano accanto a loro. « Che cosa intendi dire? » bofonchiò passandosi le mani sui lati del cranio, rasati; poi si aggiustò la treccia scura che, come la barba, era attraversata da ciocche argentate, e scendeva fino alla cintura. « Quello che ti dico sempre quando mi fai questa domanda, marito mio: non lo so. » Goda
gli perdonò il tono scortese, perché sapeva che nasceva dalla preoccupazione. Da duecentocinquanta cicli di preoccupazione. « Forse Lot-Ionan avrebbe saputo darti una risposta. » Il Rabbioso cavò fuori una breve e fredda risata senza gioia. « So che cosa mi darebbe oggi, se c'incontrassimo: un incantesimo distruttivo in mezzo agli occhi.» Prese l'azza, un tempo brandita in battaglia dal fratello gemello Boëndal Manouncinata, se l'appoggiò sulla spalla e s'incamminò lungo lo spalto. Per rendere onore a Boëndal, usava quell'arma dal lungo manico, alla cui estremità c'erano su un lato una pesante testa piatta, sull'altro un uncino lungo come un avambraccio. Non c'era armatura che potesse resistere all'azza, se a brandirla era un nano. Goda lo seguì. Era tempo di fare una ronda. « Avresti mai detto che avremmo dovuto trascorrere così tanto tempo nella Terra dell'Aldilà? » le chiese il marito, pensieroso. « No. Come non avrei mai detto che le cose, nella Terra Nascosta, sarebbero cambiate in questo modo. » Goda era stupita dall'umore cogitabondo del suo compagno, con cui aveva
stretto il patto di ferro tanti cicli prima. Dal loro amore erano nati sette figli, due femmine e cinque maschi. L'artefatto doveva essere custodito da qualcuno che avesse un'anima pura. E Goda preservava la sua innocenza. Nulla di malvagio aveva ingresso nella sua mente; era scevra da perfidia, malizia e ambizione. Già solo il fatto che si fosse allontanata da Lot-Ionan e non lo avesse seguito, come aveva invece fatto qualche mago accecato, lo rendeva chiarissimo. Ma la sua decisione le aveva procurato un nemico potente. « Non pensi che per te sarebbe ora di tornare indietro e dare loro una mano? » chiese la nana. « Tu sai bene che aspettano te. Aspettano l'ultimo grande eroe che le stirpi dei nani hanno avuto nei gloriosi cicli del passato. » « E dovrei cedere il comando della fortezza e lasciarti sola con l'artefatto che può andare in frantumi? » Il Rabbioso scosse vigorosamente la testa. « Giammai! Quando i mostri e gli orrori si riverseranno dalla Forra Oscura, dovrò essere qui per trattenerli, con te, coi miei figli e coi nostri guerrieri. » Le posò un braccio intorno alle spalle. «Se questo male dovesse fuoriuscire e
raggiungere la Terra Nascosta, non ci sarebbe più la minima speranza. Per nessuno, non importa a quale popolo appartenga. » « Perché proibisci a Boëndalin di andare dal nostro popolo in vece tua? » lo incalzò dolcemente Goda. «Sarebbe almeno un segno per i figli del Fabbro... » « Boëndalin è un guerriero fin troppo capace », la interruppe Boïndil. « Ho bisogno di lui per addestrare le truppe. » Lo sguardo del Rabbioso si fece duro. « Nessuno dei miei figli o delle mie figlie mi lascerà, almeno finché non avremo coperto una volta per tutte la Forra Oscura, riempiendola di acciaio fuso. » Goda sospirò. « Oggi non è una delle tue rotazioni migliori, Rabbioso. » Il guerriero appoggiò a terra l'azza e strinse le mani della nana. « Perdonami, moglie. Ma vedere lo scudo crollare, e quanto tempo c'è voluto perché si ergesse di nuovo, mi turba. E finisco col diventare sgarbato.» Fece un sorriso incerto, implorando perdono con lo sguardo finché lei non glielo concesse con un sorriso. I due raggiunsero la torre e scesero attraverso il montacarichi, che funzionava con un sistema di contrappesi e argani. Alle porte
della fortezza erano già attesi da cento guerrieri ubari in pesanti armature. Il Rabbioso ne squadrò i volti che, nonostante i tanti cicli passati insieme, gli erano ancora estranei. Stringere una profonda amicizia con un popolo che somigliava in modo sorprendente a mezz'orchi di maggiori dimensioni, non era idea che gli andasse a genio. Gli occhi dei guerrieri scintillavano rosa come piccoli soli all'alba. Contrariamente alle creature di Tion, gli ubari avevano cura di sé e si distinguevano anche perché avevano voltato le spalle al male e alla crudeltà indiscriminata verso le altre creature; o, quantomeno, questo era quanto dicevano i Sotterranei, i nani della Terra dell'Aldilà. Anche se non gli avevano mai dato motivo di dubitare, il Rabbioso non riusciva a vincere la propria diffidenza e a vederli come amici a pari titolo degli altri. A differenza di quanto provavano sua moglie e i suoi figli, per lui rimanevano dei semplici alleati. Goda gli diede un colpetto sulla spalla e lo strappò dai suoi pensieri. Lui sapeva che le sue riserve erano ingiuste, ma non poteva farci
niente. Vraccas aveva forgiato tutti i nani della Terra Nascosta con l'odio per i mezz'orchi e per le altre creature di Tion. Gli ubari avevano la sfortuna di somigliare al male, ma non si poteva fare a meno di loro per la difesa dalla Forra Oscura. Quando il Rabbioso fece un cenno alle guardie della porta, risuonarono grida, e forti braccia mossero catene e funi; le carrucole e le pesanti ruote dentate che costituivano il meccanismo di apertura si misero in movimento. Con un gemito metallico, la massiccia porta alta undici passi e larga sette si aprì verso l'esterno, creando un passaggio attraverso il quale la colonna di guerrieri potè uscire e mettersi in marcia verso l'artefatto. «Oggi facciamo il giro lungo i bordi della barriera», disse Boïndil all'ubari che aveva accanto, e che si chiamava Pfalgur. «Le bestie potrebbero scavare un tunnel che le porti al di là. Prendi metà dei guerrieri, io prenderò gli altri. Io comincio dall'artefatto, tu puoi già metterti in marcia. » «Sì, generale», replicò l'ubari con voce profonda, prima di trasmettere gli ordini.
I guerrieri camminavano attraverso lo spoglio avvallamento al cui centro si trovava la Forra Oscura. I bordi erano lisci e neri come vetro colorato; ripidi sentieri conducevano a destra e a sinistra fuori della Forra Oscura, per terminare davanti alla sfera protettiva. Il Rabbioso si diresse a destra, verso l'artefatto; l'ubari, col suo drappello, girò nell'altra direzione. Mentre Goda ispezionava con l'aiuto di un cannocchiale ogni dettaglio del diamante e dell'artefatto, intorno ai quali c'era lo stesso involucro di energia che circondava la Forra Oscura, Boïndil raggiunse il cadavere della creatura. Sul versante in cui si trovava il nano c'erano le sottili gambe; al di là della barriera, sfocato, il torso crivellato dalle frecce. Sangue verde aveva formato pozze e piccoli rivoletti. « Bestia schifosa », mormorò il Rabbioso, dando un calcio alla creatura. « La libertà ti è costata la vita. » Alzò lo sguardo e fissò la Forra. « Eri sola, quando hai visto il momento di debolezza della barriera? Oppure no? » « Boïndil! » gridò Goda, con l'ansia mal dissimulata nella voce.
Il Rabbioso pensò subito che dovesse esserci qualcosa che non andava col diamante. Stava per voltarsi quando credette di scorgere un movimento nell'oscurità. S'immobilizzò e fissò le tenebre. L'energia della sfera gli fece rizzare i peli dei baffi. O era invece un brutto presentimento ad assalirlo? «Boïndil, vieni, su!» insistette Goda. «Devo mostrarti...» Il Rabbioso alzò il braccio destro, per farle capire che aveva sentito ma che aveva bisogno di silenzio. I suoi occhi scuri guizzavano in tutte le direzioni, mentre cercava nella penombra figure indistinte. Notò di nuovo un'ombra guizzare da una roccia all'altra, e subito dopo un'altra, e poi un'altra ancora. Ormai non potevano esserci dubbi: i mostri si aggiravano furtivi. Percepivano che la barriera stava cedendo? Coi loro sensi bestiali erano in vantaggio su di loro? «Vorrei... » cominciò a dire Boïndil, poi tacque per la sorpresa: aveva davvero visto l'elmo di un nano? « Maledette distorsioni! » gridò, facendo un passo in avanti. « Tungdil! » urlò, pieno di speranza, stando pericolosamente
vicino alla barriera, tanto da sentirne il leggero suono, a volte acuto a volte basso. « Vraccas, fa' che i miei occhi non si siano ingannati », pregò, mentre stava quasi per posare una mano contro la parete di energia. Deglutì, e la gola non gli era mai sembrata tanto stretta. All'improvviso guizzò fuori dell'ombra della Forra Oscura un artiglio pallido, grande come tre porte di città, e si abbatté contro la barriera con tanto impeto da emettere un suono cupo e far tremare il suolo. Con un'imprecazione, il Rabbioso fece un balzo all'indietro e istintivamente menò un colpo di azza. L'acciaio colpì la barriera senza conseguenze. « Il Kordrion è tornato! » gridò Boïndil, percependo con feroce soddisfazione che i corni di allarme sui camminamenti chiamavano immediatamente la guarnigione alle catapulte. Le tante esercitazioni erano state proficue. L'artiglio pallido si curvò, le lunghe unghie passarono sulla parte interna della barriera, provocando scintille giallo chiaro. Subito dopo, l'artiglio si ritrasse, e un'ondata di fuoco bianco si fece avanti, lambendo come acqua la barriera
e ripartendosi in modo uguale in tutte le direzioni. Boïndil, abbagliato, indietreggiò fino all'artefatto, senza voltarsi. « Non reggerà a lungo », gridò a Goda. « Le bestie lo sanno, si stanno radunando! » «Il diamante! » replicò la nana. «Sta andando in frantumi! » « Cosa? Oh, Vraccas, non adesso! » Dietro la parete di energia, il Rabbioso vide numerosi mostri con le armi in pugno. La maggior parte somigliava alla creatura che la barriera aveva tranciato in due; c'erano tuttavia molti altri esemplari, notevolmente più grandi, più forti e dall'aspetto spaventoso, che sembravano plasmati dalla materia di cui sono fatti gli incubi. « Per Vraccas! » sibilò Boïndil, dispiaciuto di essersi ingannato; il suo amico non era ricomparso. Diede agli ubari ordini secchi: dovevano disporsi davanti all'artefatto, per proteggere Goda. I guerrieri formarono un muro di corpi, ferro e scudi, sporgendo in avanti le lance, come tentacoli rigidi e pronti alla difesa.
Il Rabbioso si girò verso la nana e vide che teneva una mano contro lo schermo scintillante. « Che cos'è successo? » le gridò. Goda era pallida come la morte. «Un... un pezzo del diamante... si è rotto», balbettò. «Non riesco a trattenerlo...» Risuonò un forte schianto, e tutti guardarono la gemma, diventata di colore scuro; era attraversata nel mezzo da una crepa chiaramente visibile. Mentre la barriera ronzava e tremolava, ai bordi del diamante una scaglia dopo l'altra si staccava e cadeva a terra. «Indietro! » ordinò il Rabbioso. «Dobbiamo tornare alla fortezza! Qui non possiamo resistere. » Prese Goda per mano e cominciò a correre. Già da parecchi cicli riusciva a distinguere tra coraggio e follia, cosa che in gioventù non riusciva a fare. Anche i suoi figli avevano dovuto imparare quella dura lezione. La folle brama di combattere non era un retaggio di cui Boïndil andasse fiero. Gli ubari seguirono i nani mantenendo il loro passo, anche se avrebbero potuto facilmente lasciare indietro i due alleati dalle gambe più corte. Goda, che non voleva allontanarsi
dall'artefatto, venne trascinata via a forza dal compagno. D'un tratto, con un lampo di luce abbagliante e un boato assordante, il diamante andò in frantumi; la detonazione fece saltare in aria con forza brutale l'artefatto. Alcuni cerchi di ferro volarono attraverso l'aria per parecchi passi, fischiando; nei punti in cui atterravano, i rottami incandescenti s'infilavano profondamente nel terreno. Nello stesso istante, la barriera intorno alla Forra Oscura cadde. Goda vide nitidamente l'esercito delle bestie, poiché non vi era più nessuna forza insuperabile che si contrapponesse tra loro. Il vento le portò un fetore incredibile, un misto di escrementi, sangue rappreso e latte inacidito. Nubi di polvere e farina di ossa mulinavano e sembravano nebbia davanti alle rocce scure, nebbia che vomitava mostri. Alle spalle dell'esercito invasore si allungava la pallida testa, simile a quella di un drago, del Kordrion; corna e spine svettavano in alto. I quattro occhi grigi superiori osservavano le mura della fortezza, come se la creatura cercasse di valutare che cosa potesse opporsi a
lui e ai suoi servi. Lo sguardo dei due occhi azzurri disposti sotto il lungo muso ossuto seguiva invece gli ubari e i nani in fuga. « Vraccas! » mormorò Goda, che stava raccogliendo le proprie energie magiche per prepararsi alla difesa. Tra le prime file di mostri più piccoli aveva scorto un elmo simile a quello portato dai figli del Fabbro. Poi un nano fece un passo in avanti, coperto dalla testa ai piedi di una scura armatura in tionio percorsa da intarsi scintillanti. Dinanzi a lui, le creature indietreggiavano con timore reverenziale. Nella mano destra il nano impugnava un'arma che era una leggenda sia nella Terra Nascosta sia in quella dell'Aldilà: era nera come l'ombra più nera, la lama un poco più lunga del braccio di un uomo. Su un lato era spessa e coperta di lunghe punte sottili, che ricordavano un pettine, sull'altro si assottigliava come una spada. «La Sanguinaria...» sussurrò Goda, sgomenta. Anche il Rabbioso si fermò, si voltò e rimase come pietrificato. Il nano in armatura color della notte portò la mano sinistra sulla visiera dell'elmo e la alzò.
Apparve un volto noto, con una benda d'oro su un occhio, ma i tratti si erano fatti duri e spietati; il sorriso freddo e crudele prometteva la morte. Poi il nano alzò l'arma, guardandosi a destra e a sinistra; subito dalle creature si alzò un forte grido. « Vraccas, aiutaci », sussurrò Goda, inorridita. « È tornato, come condottiero del male! » In quel momento risuonarono dalla valle comi cupi, e il Kordrion aprì le fauci in un grido furioso.
I Terra dell'Aldilà, Forra Oscura, 6491° ciclo solare, inverno Il Rabbioso fissava l'amico che tanto gli era mancato: Tungdil era tornato alla testa di un esercito di creature del terrore; con la nera armatura sul corpo, la Sanguinaria in mano e l'espressione gelida sul volto. «Ma non può essere...» gridò Boïndil, esterrefatto. «Non è lui! Vraccas mi sia testimone: quello non è il mio Tungdil! » Guardò Goda, perplesso. « Non è lui », ripetè, come se dovesse convincere se stesso. « È un'allucinazione, mandata per ingannarci e spaventarci. » La sua disperazione si trasformò rapidamente in furore. Il Rabbioso alzò l'azza; dopo tanto tempo, la follia stendeva di nuovo i suoi artigli su di lui, e il nano non intendeva contrastarla. « Ora vado e la distruggo! » « No, Boïndil! » Goda gli si piazzò davanti, gli prese il volto tra le mani e lo guardò negli occhi scuri, che scintillavano di pazzia. «
Ascoltami, marito: non è il momento giusto. Dobbiamo raggiungere la fortezza. Allo scoperto... » Le parole della nana vennero inghiottite dal fracasso delle catapulte. Pietre, frecce e lance partirono dagli spalti e dalle piattaforme in cima alle torri, volando sopra le teste degli ubari e dei due nani; oscurarono il cielo invernale e proiettarono per un istante la loro ombra sul piccolo gruppo di difensori disposti davanti alla porta, prima di abbattersi nella Forra Oscura. Risuonò uno scroscio metallico, punte di ferro perforarono scudi, elmi e armature. L'aria si riempì dell'odore di sangue, mentre si levavano le urla delle vittime. Goda sapeva che quello era solo il principio di eventi peggiori. Nel coro della morte avrebbero presto cantato anche le voci dei difensori. « Vieni con me », pregò, baciando il Rabbioso sulla fronte. Fumanti proiettili incendiari salivano in cielo, sbuffando, per poi frantumarsi sui ripidi pendii della Forra Oscura; liquidi infuocati si riversavano sui mostri e sul Kordrion infuriato. La nana credette di avvertire la tensione di Boïndil allentarsi, e lasciò la presa. Lui
improvvisamente la spinse di lato e con un forte ruggito, e l'azza levata, si lanciò dritto verso i nemici. Goda, colta di sorpresa, cadde a terra. « No! » gridò piena di paura, cercando inutilmente di afferrare il marito. Si girò. « Yagur, seguilo! Proteggilo! » ordinò al comandante degli ubari che, senza esitazione, si mise a seguire il suo generale per poterlo assistere. Considerando il numero infinito dei nemici, non era un compito facile da assolvere. Goda si alzò e raccolse le energie magiche per aiutare da lontano il suo sposo. Il Rabbioso non pensava più a nulla. Vedeva il mondo attraverso una maschera rosso sangue, e l'unico punto dei dintorni che riconoscesse chiaramente era la disgustosa allucinazione che sembrava essere il suo migliore amico. Non poteva lasciar correre un oltraggio del genere. Tu non puoi essere il mio Tungdil! Non dalla loro parte! Il sangue rumoreggiava nelle orecchie, e Boïndil percepiva attutiti i rumori circostanti. L'impulso a distruggere quella illusione per poi gettarsi sugli altri nemici e ridurli a brandelli gli
ottenebrava la mente. Era un impulso troppo sconvolgente per un guerriero come lui, il cui sangue pulsava nelle vene come pietra liquida. In realtà, il Rabbioso non voleva affatto controllarsi. A destra e a sinistra si abbattevano frecce e lance dalla traiettoria troppo corta. La guarnigione della fortezza di Diga-del-male si atteneva agli ordini del proprio comandante, che follemente trasgrediva lui stesso tutti i suoi decreti. Boïndil cercava lo scontro in campo aperto invece di confidare nelle sicure mura e abbattere a distanza le bestie che si gettavano contro esse. Si trovava ormai a meno di dieci passi dalla prima linea dei nemici, che rimaneva immobile all'uscita della Forra Oscura. I rincalzi dei mostri avanzavano sopra i caduti senza curarsi minimamente di loro, il fuoco divampante veniva spento con sabbia e polvere d'ossa. Non appena un mostro cadeva, un altro orrore usciva dalla Forra Oscura, che sembrava contenerne una scorta inesauribile. Era il luogo di cova di creature ripugnanti. Il Rabbioso vide chiaramente che i nemici si tenevano a distanza dal falso Tungdil, come se questi fosse circondato da un'invisibile barriera
fatta di reverenza e paura. Con un grido furioso, Boïndil levò l'azza sopra la testa. «Qualsiasi cosa tu sia, io ti distruggerò! » I due occhi azzurri posti sotto il muso del Kordrion puntarono verso di lui, poi sul nano rivestito di nera armatura, che distolse l'attenzione dal Rabbioso, girandosi verso il colossale mostro; le rune scintillarono. La creatura strillò, e il verso sembrò quasi timoroso. Prima che Boïndil potesse raggiungerlo, Tungdil fece un salto in avanti, finendo su un cadavere, da lì su un altro e usò l'asta sporgente di una spessa lancia come trampolino per raggiungere un grosso masso scagliato da una catapulta. Da lì balzò su un altro masso e su un altro ancora, spostandosi sopra le teste dell'esercito come su sassi in un ruscello. Era ormai molto vicino al corto collo del Kordrion, rannicchiato, che sussultò ed emise un sibilo acuto. Il Rabbioso non poteva più fermare il colpo che aveva preparato e lasciò che si abbattesse su un mostro che gli stava venendo incontro. Sembrava un incrocio tra un gigantesco rettile e un Muso di porco molto grasso, cui fossero state date le braccine di uno gnomo; ciò non impediva
al mostro di brandire spada e scudo con disinvoltura. L'estremità piatta dell'azza frantumò lo scudo insieme col braccio sottile che lo reggeva, fece a pezzi le costole e schiacciò la gabbia toracica; la bestia cadde morta nella polvere. Roteando l'arma, il Rabbioso tenne a distanza i nemici, spargendo generosamente mutilazioni e morte tra loro, senza mai perdere di vista il presunto Tungdil. Continuava a rifiutarsi di accettare che si trattasse del compagno di battaglia dei vecchi tempi, ma i dubbi si stavano sgretolando. Per Vraccas, che cosa sta facendo? All'improvviso Yagur e gli ubari furono al suo fianco e lo aiutarono a tenere testa alle creature del male che, nonostante la superiorità numerica, restavano ferme e attendevano che venisse loro ordinato di attaccare in massa e di gettarsi contro le mura della fortezza. Attaccavano solo individui isolati: frecce rimbalzavano contro i pesantissimi scudi degli ubari, altre si fermavano in aria e cadevano a terra. Era la magia di Goda. « Dobbiamo ripiegare, generale! » gridò Yagur, mentre con un colpo selvaggio spaccava
la clavicola di un nemico arrivando con la lama fino all'ombelico; menò un altro colpo attraverso il corpo che si stava afflosciando. La seconda unità di ubari si affiancò a loro, aumentando la loro forza di combattimento. Il Rabbioso alzò lo sguardo verso il nano in armatura nera che stava menando un colpo con la Sanguinaria contro il corpo del Kordrion. La lama dalla strana foggia tagliò la pelle coriacea, da cui si riversò un grande fiotto di sangue. Il Kordrion ruggì. Il suo urlo paralizzò letteralmente il Rabbioso. Sotto il suono di quella voce tonante, il combattimento s'intorpidì, e anche la Forra Oscura sussultò per il rimbombo. Tutto era fermo... tranne il nano nell'armatura di tionio! Con un gesto pieno di slancio, questi si chiuse la visiera dell'elmo, senza curarsi del sangue che gli si stava riversando addosso. È davvero lui! Ha soltanto aspettato il momento giusto per farsi riconoscerei A quella vista, il Rabbioso non si chiese più se si trattava dell'amico che gli era tanto mancato; era fin troppo disposto a credere che si trattasse di lui. Per quanto riguardava il comportamento eroico
sprezzante del pericolo, l'attacco al Kordrion era uno spettacolo che ben si addiceva a un nano che aveva combattuto innumerevoli battaglie per la Terra Nascosta. E per il fatto che portasse un'armatura completamente diversa, simile a quella di Djerun, ci sarebbe stata di certo una valida spiegazione; per quello e per tutto il resto. Dopo il combattimento. Quando però Tungdil venne avvolto dal fuoco bianco della creatura infuriata e sparì in una palla di luce incandescente, Boïndil lo diede per spacciato. Il Rabbioso ricordava fin troppo bene l'effetto di quelle fiamme abbaglianti, anche se la battaglia in cui le aveva viste risaliva a più di duecentocinquanta cicli prima. Se anche l'armatura di tionio avesse resistito, il calore raggiunto al suo interno sarebbe bastato ad arrostire il corpo. Il ricordo del fratello gemello, ucciso allo stesso modo, era ancora ben vivo in Boïndil. «No! » gridò, disperato, colpendo con la lunga estremità ricurva dell'azza un altro nemico, perforandogli elmo e cranio. Si udì un forte schiocco, poi la punta dell'arma passò attraverso la gola e uscì sopra lo sterno. Boïndil spinse a terra il corpo della vittima, gli appoggiò un piede sulla spalla e con
uno strattone fece uscire l'arma attraverso il volto ripugnante. « Vraccas, fa' sì che io non lo ritrovi soltanto per perderlo di nuovo! » La palla di fuoco si allargò a formare una nube, in cui si distingueva una sagoma nera. Il nano nell'armatura nera sembrava essere sopravvissuto all'attacco! Era caduto su un ginocchio e teneva la Sanguinaria davanti alla testa, di piatto, per proteggersi; l'altro braccio era dietro la schiena. Mentre il soffio ardente andava spegnendosi, Tungdil fece un balzo e menò un colpo verso gli occhi inferiori del Kordrion. Da un occhio del mostro si riversò un umore azzurro, poi sangue nerastro; vene e tendini spessi come braccia pendevano dalla ferita, mentre altri liquidi si spargevano e la creatura si rigirava per il dolore. Il Rabbioso non riusciva a credere a ciò che stava vedendo: il Kordrion, con ferite sanguinanti al fianco e alla testa, si ritirava nella Forra Oscura! Le zampe colossali maciullarono decine di mostri, schiacciandoli a terra, liquidi corporei schizzavano da tutte le parti; poco dopo, la creatura era scomparsa, lasciando sulle rocce una traccia umida. Si sentì un forte ululato e, tra le grida, l'esercito nemico sparì
nell'oscurità delle ripide pareti rocciose. Un ultimo rovescio di frecce e lance ne accompagnò la ritirata, poi le macchine da guerra della fortezza tacquero. In quel repentino silenzio, lo stormire del vento che s'infrangeva sui merli della fortezza e sulle pareti della Forra Oscura sembrava fortissimo. Nessuno vi aveva mai prestato attenzione prima. Il Rabbioso ordinò agli ubari di mettersi dietro di lui e sorvegliare il sentiero che scendeva nelle profondità tenebrose, mentre lui stesso faceva un passo in avanti e appoggiava a terra l'azza imbrattata di sangue. Rivolse lo sguardo verso il nano in armatura nera e lo invitò a scendere con un cenno della mano. « Mostrati, perché io possa vedere se ho davanti un vecchio amico o un nuovo nemico. » Stentava a trattenere l'eccitazione e fluttuava tra la gioia e la diffidenza. Dagli spalti risuonò un corno di segnalazione, la grande porta venne aperta e un reparto di duecento guerrieri nani e Sotterranei accorse sotto il comando di Goda. Si posizionarono dietro il Rabbioso e gli ubari, in attesa, pronti a combattere.
Con un'agilità che, in quell'armatura, nessuno gli avrebbe attribuito, il nano che forse era Tungdil saltellò giù dalla roccia fino a che non fu tornato al livello del suolo; polvere bianca mulinò intorno ai suoi piedi, levandosi fino alle ginocchia, protette da schinieri neri. Passo dopo passo, si avvicinò ai difensori. L'elmo restava chiuso. Boïndil deglutì, con la gola secca. « Alza la visiera. » La sua mano destra stringeva forte l'impugnatura dell'azza; il rivestimento di cuoio scricchiolò leggermente. «Voglio vedere il tuo volto alla luce del sole. » Gli altri nani estrassero le armi mentre il nano in armatura nera proseguiva il suo cammino senza curarsi della richiesta. Il Rabbioso a quel punto poteva vedere chiaramente l'armatura: era cosparsa di segni, rune e simboli a lui sconosciuti. Un breve sguardo a Goda gli fece capire che pure lei si trovava davanti a un mistero. La nana scosse brevemente la testa; da quegli intarsi e quelle incisioni che brillavano d'argento non riusciva a capire nulla nemmeno lei. Boïndil era irritato dal fatto che sull'armatura non vi fosse nemmeno il più
piccolo accenno a Vraccas o al fatto di appartenere a un figlio del Fabbro, pur essendo senza dubbio opera di un grande fabbro nano. Tungdil avrebbe fatto una cosa del genere? Avrebbe rinnegato la sua gente? « Fermati e mostrati! » ordinò, risoluto, alzando l'arma. « Se sei Tungdil Manodoro, allora mostraci il tuo viso. » Il Rabbioso fece roteare l'azza. « Altrimenti, ti frantumo questa sull'elmo! » A quel punto, il nano in armatura nera si fermò. Fronteggiava forze tanto preponderanti con le gambe ben piantate a terra e sicuro di sé. Alzò il braccio sinistro, in modo lento e ponderato, senza fretta né timore. Il reticolo scuro dell'elmo si alzò a poco a poco, senza che si sentisse il minimo rumore di attrito. Boïndil deglutì, emozionato e col cuore in gola. Vraccas, fa' che sia accaduto il miracolo! pregò, chiudendo gli occhi perché la preghiera che spediva al suo dio fosse ancora più fervida. Quasi non osava aprire gli occhi e guardare il volto della persona che aveva davanti; né fu rincuorato dal sentire Goda che sussultava. Alla fine osò guardare. Vide una corta barba castana, intorno ai tratti familiari anche se
visibilmente invecchiati. Avrebbe riconosciuto quel volto tra migliaia di altri. Sopra l'occhio sinistro stava a mo' di benda una piccola piastra d'oro puro, coperta d'intarsi e tenuta al suo posto da fili anch'essi d'oro. L'occhio scuro rimasto era posato su Boïndil, che lesse in quello sguardo curiosità e... qualcosa che non riusciva a definire. Attraverso la folta barba s'intravedevano le pieghe intorno alla bocca e al naso: erano diventate profonde e conferivano a quel volto un'aria imperiosa che qualche re dei nani avrebbe invidiato. Sulla fronte correva una cicatrice scura che scompariva sotto il bordo dell'elmo, al di sopra dell'occhio destro. Il Rabbioso fece un profondo sospiro. A giudicare dall'aspetto, era chiaro che, dopo tutto quel tempo, a stare davanti a lui era il suo vecchio amico. Fece un passo in avanti verso Tungdil, ma ebbe come l'impressione di percepire un senso di repulsa da parte dell'altro. « Di che prova hai bisogno per convincerti che io sono Tungdil Manodoro? » disse il nano in armatura nera mentre si scioglieva i lacci dell'elmo e se lo sfilava dalla testa bruna con un rapido movimento. La cicatrice correva sulla
fronte, attraversando i capelli, lunghi fino alle spalle, per raggiungere la sommità del cranio. Il nano gettò l'elmo a terra e si strappò via un guanto, per mostrare la macchia d'oro che portava sulla mano. « Toccala, se vuoi, Boïndil. È il mio eterno ricordo della contesa per il titolo d'imperatore, cui partecipai pur senza aver mai avuto nessun diritto su di esso. » Protendendo la mano, lo invitò a toccarla. Il Rabbioso passò la mano sulla macchia d'oro, poi scrutò il volto di Tungdil, che sorrise. Ed era il vecchio sorriso, quel sorriso familiare che Boïndil non vedeva più da un'eternità. « Forse devo raccontarti di quando mi volevi far credere che, per conquistare le nane, le si deve massaggiare con puzzolente formaggio di capra? » Tungdil si piegò leggermente in avanti e ammiccò. « Non ci ho mai provato. Tu con Goda hai dovuto farlo? » La maga scoppiò a ridere. « Sei davvero tu! » proruppe il Rabbioso. Lasciò l'impugnatura dell'azza, spalancò le braccia e trasse a sé Tungdil. «Per Vraccas, sei tu! » Dagli occhi presero a sgorgare lacrime. Non c'era nulla che Boïndil potesse fare per contrastare quell'emozione. Strinse Tungdil a sé,
e mentre lo faceva, preso da tanta gioia, non si accorse che l'abbraccio non era corrisposto. Alla fine si staccò dal vecchio amico e si rivolse alle nane e ai nani che lo stavano osservando, tesi. « Guardate! » gridò allegro, sollevando la testa in modo da far riecheggiare la sua voce fino alle mura di Diga-del-male. « Guardate, l'eroe è tornato tra noi! Presto la Terra Nascosta verrà liberata dal molteplice giogo di tutti i suoi mali! » Batté la mano sull'armatura nera. « Ah, ormai non ci sarà più scampo per Lohasbrand, per LotIonan e per i malvagi albi! » Goda era raggiante e si tergeva dagli occhi lacrime di gioia e sollievo, mentre i nani dietro di lei fissavano con profondo rispetto l'eroe, che la maggior parte di loro conosceva soltanto dai racconti. Una figura leggendaria era tornata da loro e, come se non bastasse, con la sua ricomparsa aveva messo in fuga la più temibile creatura della Forra Oscura. Il proclama del Rabbioso era arrivato fino alla guarnigione della fortezza; corni e tamburi risuonavano, annunciando la notizia. Erano particolari sequenze di suoni composte appositamente per quando fosse ritornato
Tungdil, in modo che tutti ne fossero messi subito al corrente. «Probabilmente qualcuno crederà che i suonatori di fanfare si siano sbagliati », disse il Rabbioso, sogghignando, e diede a Tungdil una pacca sulla spalla. « Su, entriamo nella fortezza e lasciamoci alle spalle la Forra Oscura. È tempo di darti il benvenuto coi dovuti onori. Poi dovrai raccontarci che cos'è successo in tutti questi cicli! E anche noi abbiamo molto da raccontare. » Si chinò e gli porse guanto ed elmo, guardandolo dritto nell'occhio. «Non puoi immaginare quanto sono felice di vederti, Sapientone. » Tungdil prese le sue cose e si girò di tre quarti, rivolgendo lo sguardo alla Forra Oscura. « Torneranno, Rabbioso. Ho soltanto colto il Kordrion di sorpresa; non appena le sue ferite saranno guarite, uscirà di nuovo dal suo nascondiglio. Inoltre si spargerà presto la notizia della caduta della barriera. I mostri formeranno un esercito per fuggire dalla Forra... » Boïndil alzò un braccio, indicando le alte e spesse mura. « Per questo la fortezza è qui, e porta il nome di Diga-del-male. Non sopravivranno; nemmeno un singolo disgustoso
esemplare. E per quanto riguarda il Kordrion, lo infilzeremo per bene con le nostre lance più pesanti, fino a che non sembrerà un riccio e non cadrà a terra stecchito. » Guardò Goda, con orgoglio. « E lei è diventata una vera maga. È la nostra arma più potente. » Tungdil osservò la nana, con uno sguardo in cui trapelava una certa perplessità. « Ne avrete bisogno », disse piano, guardando di nuovo il crepaccio. Il Rabbioso sorrise. «Siamo più che fiduciosi, Sapientone. E ora che tu sei con noi, nulla può più spaventare i figli del Fabbro. » Si mise in movimento, e il seguito di guerrieri si aprì facendo loro da ali. Goda guardò Tungdil, mentre le passava accanto. Ebbe l'impressione che il nano non l'avesse riconosciuta; quando l'aveva guardata, il suo unico occhio era rimasto pieno d'indifferenza. E non ha nemmeno chiesto di Sirka. Anche se, nell'entusiasmo del momento, suo marito era stato facile da convincere, in lei si stava destando un lacerante sospetto. Seguì i due eroi, mentre i guerrieri sorvegliavano la loro ritirata dietro le possenti
porte del baluardo. Nelle rotazioni successive avrebbe sottoposto a un intenso esame il nano che suo marito riteneva con certezza Tungdil Manodoro. Mentre entravano tra il suono di corni e il giubilo delle truppe, Goda stava già pensando a delle domande, poiché, se il male aveva mandato loro un falso eroe, di certo mirava a qualcosa di terribile. Col retro della nera armatura di Tungdil davanti agli occhi, la maga diventava a ogni passo più sicura che quello che stavano accogliendo con tutti gli onori non fosse il loro vecchio amico. Stavano ricevendo il male tra loro e, come se non bastasse, lo festeggiavano! Guardò a destra e a sinistra, lungo le torri da cui piovevano su di loro grida entusiaste. In quel momento si rese conto che, presumibilmente, lei era l'unica all'interno della fortezza a essere preoccupata. Tutti gli altri si trovavano in un vortice di entusiasmo scatenato dal tanto atteso ritorno dell'eroe. Goda sospirò. Poi casualmente incrociò lo sguardo di Yagur, il comandante degli ubari, e scoprì sul suo volto la stessa preoccupazione. Terra Nascosta, ex regno del Weyurn, città di Mifurdania, >6491° ciclo solare, inverno
« E qui, stimatissimi spettatori, qui, alla mia sinistra, abbiamo un altro legittimo rampollo dell'eccezionale e ineguagliato Incredibile Rodario! » gridò l'uomo in fastoso abito bianco, dall'alto palcoscenico che, solo poche rotazioni prima, era servito da palco per le esecuzioni. A guardare con attenzione si poteva ancora scorgere una grossa ciocca di capelli appiccicata al sangue rappreso sul bordo del ceppo di legno, coperto di tacche, su cui l'uomo stava in piedi; la cosa non disturbava nessuno. Sulla piazza nel centro della città, davanti all'anfiteatro chiamato Nuovo Curiosum, non c'era più un solo posto libero; era piena anche la piccola tribuna coperta, preparata per nobili, mercanti o altri cittadini cui erano accordati privilegi. Solo la prima fila, riservata a spettatori molto speciali, era rimasta vuota. Tali spettatori andavano raramente a simili allegri spettacoli: preferivano decapitazioni e altre pubbliche punizioni. Nella seconda fila sedeva una giovane e bella donna con dolci occhi e capelli neri che, sotto un velo trasparente, le arrivavano fino alla cintura. Era avvolta in un mantello di pelliccia di
lupo nero; nella mano sinistra teneva un calice di caldo vino speziato. La piazza del mercato era piena di ogni possibile chiosco, in cui i mercanti offrivano le cose più disparate da mangiare: da salsicce calde e prosciutto affumicato a biscotti e dolci con panna. Chi aveva freddo ricorreva volentieri a birra e vino caldi, che venivano serviti entrambi con diversi aromi o miele, a seconda delle preferenze. Nuvole di vapore bianco si alzavano sopra la piazza, prodotte dagli innumerevoli piccoli forni delle botteghe; da una locanda filtravano, attutiti, musica e canti. La giovane donna inspirò il profumo di cibo e sorrise. Finalmente un motivo di gioia nei tristi cicli di occupazione perpetrata da Lohasbrand e dai suoi complici. « Desiderate qualcos'altro, principessa Coïra? » le chiese il suo accompagnatore, che per l'età poteva essere suo fratello. Sotto il mantello di pelliccia marrone, aperto, portava un'armatura di cuoio, e alla cintura una spada corta. Il cappuccio foderato di lana nascondeva i capelli e faceva sembrare innocuo il giovane. Intenzionalmente.
« Non usare quel titolo! » sibilò Coïra, fulminandolo con uno sguardo di rimprovero. « Tu sai che cosa ti farebbero, se ti sentissero mentre ti rivolgi a me in questo modo, Loytan. » Il giovane fece scivolare lo sguardo sulla fila vuota. « Be', qui non c'è nessuno che mi possa condannare perché dico la verità », replicò a voce bassa ma ferma. «Voi siete la principessa, e vostra madre sarebbe la regina del Weyurn, se il maledetto drago... » Coïra gli coprì la bocca con una mano. «Zitto! Parli a rischio della tua stessa vita! Hanno occhi e orecchie ovunque. » Nella sua mente la donna rivide la madre, che viveva prigioniera nel suo stesso palazzo e portava quel collare infamante. La regina era tenuta sotto sorveglianza, umiliata e defraudata del suo potere; se il drago avesse deciso di non lasciarla più in vita, i servi avrebbero potuto stringere il collare e farla soffocare fra i tormenti. Coïra avrebbe dato qualunque cosa per liberarla. Espirò lentamente. « Guarda avanti e goditi quello che ci offrono i discendenti dell'Incredibile, mentre cercano di dimostrare qual è il migliore tra loro. »
Il banditore indicò con la sua bacchetta la fine della fila, che constava di undici uomini e sei donne; indossavano tutti abiti dai colori vistosi e di taglio stravagante. Solo l'ultimo della fila faceva eccezione. Era l'unico cui il sarto aveva cucito indosso abiti che non gli andavano bene; oppure, il suo contegno era tanto miserabile da fargli calzare malamente i vestiti. Come si addiceva a un rampollo dell'Incredibile, aveva capelli castani, che portava lunghi fino al collo, e tratti vagamente aristocratici; le guance però, tonde e sporgenti, rovinavano leggermente l'aria distinta. Il pizzetto, segno distintivo dell'Incredibile Rodario, fondatore di numerose dinastie di attori sparse in diverse regioni della Terra Nascosta, pendeva triste e sembrava arruffato. « Egli si chiama, e ammetto che non si poteva avere meno fantasia, Rodario Settimo! Un applauso, per favore! » Il banditore alzò improvvisamente le braccia per incitare la folla, ma ne seguì soltanto qualche applauso isolato che ammutolì in fretta. « Per gli dei », commentò Loytan, divertito. « Che figura triste in mezzo a tanti pavoni! Non vincerà nemmeno un premio di consolazione. »
«Io lo trovo... molto capace», lo difese subito Coïra. Aveva compassione per il discendente di Rodario, che già godeva di una tragica notorietà. « Lui... spicca. » «Sì, come cattivo esempio», replicò Loytan, ridendo forte. « Come ogni ciclo, secondo me sarà il primo tra gli ultimi. Vogliamo scommettere, principessa?» La guardò allegramente, poi il suo sguardo andò oltre lei, e il volto dell'uomo perse il suo buon umore. Grosse ombre caddero su di loro; Coïra si voltò spaventata. Senza che i due se ne fossero accorti, quattro Lohasbrander erano entrati nella tribuna e camminavano verso la prima fila. Sotto i mantelli portavano pesanti armature a piastre; gli elmi erano plasmati a ricordare il corpo di un drago con le ali piegate. Al loro collo pendeva sempre una catenina d'argento con una scheggia di una scaglia verde scuro di drago, simbolo del loro indiscusso potere sul Weyurn. Erano al di sopra di tutto e tutti. Coïra si piegò su un lato e setacciò la piazza con lo sguardo, finché non trovò i mezz'orchi. Quelle creature appartenevano ai Lohasbrander e ne erano gli obbedienti servitori. In quel
momento stavano sostando in una strada laterale, rimpinzandosi di carne. Il primo dei quattro uomini sogghignò in direzione di Loytan. Era grosso, muscoloso, e sul largo volto cresceva una barba biondo chiaro. «Ho appena sentito una cosa che era meglio non dire. Voi conoscete la legge, conte Loytan di Loytansberg. Vale anche, e soprattutto, per nobili come voi. » Raccolse del catarro in bocca e sputò in faccia al giovane un grosso grumo verde. « Ma anche questa volta userò clemenza. Non ho nessuna voglia di rovinarmi il buon umore. » Il Lohasbrander scese rumorosamente i gradini e si sedette precisamente davanti a Loytan, in modo che l'elmo gli limitasse la visuale sul palcoscenico. « Quando più tardi mi alzerò, vi consiglio di non essere più qui. Qualora doveste sedere ancora al vostro posto, applicherò gli ordini di Mastro Lohasbrand. » I suoi accompagnatori risero a squarciagola, prendendo posto a loro volta. « La prima disciplina, stimati spettatori, è da voi molto amata e dev'essere disputata per prima », gridò dal palcoscenico l'uomo vestito di bianco, in modo da farsi sentire anche da lontano. « È la gara fatta di veloci parole
mordaci, che deve cominciare davanti alle orecchie di Mifurdania, nel luogo in cui l'Incredibile così a lungo soggiornò. » La folla esultava. Coïra tenne stretta la mano di Loytan, che si spostava dalla cintura alla spada corta. « No... » gli sussurrò con urgenza. L'intero corpo dell'uomo fremeva per la collera. «Ma...» « Forse riusciresti a batterlo, ma i mezz'orchi andranno dalla tua famiglia e la massacreranno. Il drago punisce tutti, non uno solo. Il tuo orgoglio te lo ha fatto dimenticare? » Coïra prese un fazzoletto e fece per ripulire il volto del giovane dallo sputo del Lohasbrander. Ma Loytan si girò di lato e lo fece usando la manica. « Verrà una rotazione in cui nulla lo salverà da me. » La ragazza lasciò con cautela la presa. Il pericolo era stato stornato, per il momento. « Lascia ad altri la rivolta », gli sussurrò. « A persone che non hanno parenti. » L'uomo puntò lo sguardo in avanti. « Intendete dire quel vile poetucolo? » « Lui è un vate, non un semplice poeta, e di certo non un 'vile poetucolo'. Le sue opere, che
affigge di nascosto sulle pareti delle case del Weyurn, sono più utili di una spada o di una freccia. » Coïra aveva percepito chiaramente la gelosia nella voce di Loytan, e non poteva fare niente al riguardo. Lo considerava un fratello maggiore e una fonte di protezione, e non aveva ancora incontrato nessuno cui avrebbe voluto donare il suo cuore e la sua innocenza. Del resto, il giovane aveva da tempo preso moglie. « I suoi versi hanno portato la morte a chi li ha seguiti », ribatté Loytan, indicando con un cenno del capo il ceppo di legno. « Riesco a scorgere i capelli attaccati al sangue. Ai poveri viene mozzata la testa perché hanno chiesto libertà per il regno e per vostra madre. » « Ancora un'altra parola, e il prossimo a fare conoscenza col ceppo delle esecuzioni sarete voi», disse il Lohasbrander. «Non voglio che le vostre ciance mi secchino ulteriormente, quindi tacete! O farò in modo che non possiate aprire la bocca mai più. » I suoi compari risero di nuovo. Loytan fremette e prese il suo calice di vino, lo sorseggiò un po' e ingoiò a forza la risposta che stava per dare.
Il banditore drizzò le spalle. « Che dunque volino gli insulti, a insozzare l'aria per il nostro ludibrio. Figli e figlie di Rodario, fateci sentire che cosa siete capaci di fare! » Cominciò una giovane donna che si era appiccicata baffi e pizzo lunghissimi: avanzò verso il margine anteriore del palcoscenico affettando modi esageratamente maschili; là si fermò, si passò la mano sulla peluria posticcia e si toccò in mezzo alle gambe. Attraverso la sua gestualità riusciva a burlarsi davvero bene degli uomini, strappando gli applausi degli spettatori. « Ah, virilità, sta' lontana da me! » gridò, strappandosi la falsa barba. « Io sono Ladenia, e donna, ben lo vedete, eppure più uomo di certi tra voi. » Con un ghigno sfacciato sul volto, passò davanti alla fila di Rodari, fino ad arrivare davanti all'Irraggiungibile. « Voi vorreste il titolo, a quanto mi venne detto, e voi sareste il favorito, a quanto si dice. Poiché voi siete così bello... » aggiunse, dilatando l'ultima parola e sbattendo le palpebre. « Perché voi siete così intelligente... » proseguì, posandosi la mano sulla fronte. « E perché voi avete condiviso il letto con la maggioranza delle donne della città, e loro voteranno per voi. » Scoppiò a ridere. «
Ma ai nostri piedi vedo più uomini che donne: certo devo essere stata più brava di voi! » La folla gridò forte, risate riempirono l'aria. « Tutti conoscete la storia del mezz'orco che chiede la strada a un nano, ma io ne conosco una molto migliore », gridò Ladenia. « Quanti degli inetti Rodari qui presenti occorrono per sollevare un mezz'orco? » Il Lohasbrander, teso, si piegò in avanti con la mano sinistra a mezz'aria. Coïra guardò in direzione dei Pelleverde, che avevano subito sospeso l'abbuffata ed estratto le armi. Si profilava una catastrofe. Non appena il Lohasbrander avesse terminato il gesto, i mezz'orchi si sarebbero avventati sulla piazza e lo spettacolo sarebbe finito. Per una barzelletta. Ladenia non aveva idea di che cosa poteva causare con la sua burla. «E dunque? Che cosa ne dite voi?» insistette la donna sul palco. « Ma che succede? Nessuno ci prova? » Coïra pensò a come poter distrarre il Lohasbrander senza mettere in pericolo se stessa. Sarebbe stato molto difficile, perché gli sgherri del drago sarebbero stati ben lieti di
cogliere l'occasione giusta per arrestare la figlia della legittima regina. Mentre la principessa stava per dire qualcosa, Ladenia diede la risposta alla sua domanda. «Ve lo dico io: cinque. Quattro tengono fermo il mezz'orco, e uno gli scava un buco sotto i piedi, in modo che non tocchino terra! Di peso, non potrebbe sollevarlo nessuno di questi scriccioli. » Coïra vide il Lohasbrander storcere la bocca e abbassare il braccio. Non era un oltraggio che dovesse essere punito con la violenza; non era neanche una battuta divertente. Lo notò anche Ladenia, sentendo il pesante silenzio che continuava a indugiare sulla piazza. Fece qualche rapido passo di danza e una piroetta, e optò per una canzone. Dopo qualche strofa, il banditore le si avvicinò e la spinse bruscamente al suo posto. « Degni spettatori, abbiamo visto che questa discendente almeno al primo turno non può farsi grandi speranze per il titolo », la schernì. « Ci ha inoltre mostrato che la differenza tra canto e pianto sta tutta in un paio di lettere. » Il commento cattivo venne accolto con grasse
risate, e l'uomo fece cenno di farsi avanti al successivo discendente di Rodario. L'uno dopo l'altro, gli attori si fecero avanti e tributarono oltraggi vergognosi ai loro rivali per il titolo di « Più degno discendente dell'Incredibile »; ogni grossolana cattiveria veniva accolta dalla gente con grida di giubilo. Solo tre candidati si cimentarono con un umorismo più fine, che trovò molto meno consenso tra il pubblico. Coïra seguiva ciò che stava succedendo sul palco e contemporaneamente teneva sott'occhio i mezz'orchi e i Lohasbrander. Aveva sperato di potersi godere lo spettacolo, ma la presenza degli odiati nemici le stava guastando il divertimento. I servi del drago esistevano da quando riusciva a ricordare. Non aveva mai visto il drago stesso ma, non appena il discorso cadeva su quell'argomento, sui volti degli anziani che vivevano nel Weyurn si dipingeva il terrore. Dopo la sua comparsa, duecentocinquanta cicli prima, Lohasbrand aveva ricoperto di fuoco mezzo Weyurn e costretto alla resa la regina di allora. Wey V si era sottomessa per la salvezza del suo popolo, non per viltà.
Poi erano giunti i mezz'orchi, i seguaci del drago, e da allora sorvegliavano i territori per conto del mostro. Erano spuntati anche esseri umani che servivano di buon grado lo Squamoso. Da loro discendevano gli attuali Lohasbrander, i nuovi nobili del Weyurn, senza decoro né dignità. Coïra sapeva che Lohasbrand avrebbe annesso molto volentieri il resto della Terra Nascosta, per riempire con ancora più ricchezze il covo in cui custodiva il suo tesoro, nei Monti Rossi; ma c'erano troppi rivali. Stando alle voci, i quattro rivali di Lohasbrand si erano accordati per una tregua; Coïra tuttavia non dava per scontato che sarebbe durata in eterno. Lohasbrand aveva espanso con continuità i suoi domini fino a che non si era scontrato con LotIonan e col Kordrion, e presto ci avrebbe provato di nuovo. La principessa pensava di poterlo dedurre con sicurezza perché, negli ultimi sei mesi, le guardie che circondavano sua madre erano visibilmente più tese di prima. Coïra allungò il collo per guardare l'Irraggiungibile, come si faceva chiamare; un giovane di bell'aspetto, sui venti cicli, tale e
quale ai ritratti del primissimo Rodario. « Vincerà lui », disse la donna a Loytan. « Ha stile. » « Ma nessuna speranza di successo », replicò l'uomo. « Non avete sentito che cosa desiderano le persone semplici? Scherno e derisione, non frasi tornite senza capo né coda. » Coïra si piegò in avanti e osservò più attentamente l'attore. « Da dove viene? » Loytan cercò il nome dell'uomo in un volantino che era stato distribuito agli spettatori. «Eccolo qui, Rodano l'Irraggiungibile. Proviene dal vicino Tabaîn. Là gestisce un suo teatro; viaggia inoltre nel Gauragar e nell'Idoslân, dove calca come ospite i palcoscenici di diversi spettacoli. Un bel tipo, per essere un attore. » Coïra aveva pensato esattamente la stessa cosa. Nella sua immaginazione era lui il poeta misterioso che, senza timore, istigava il popolo contro i Lohasbrander e incitava alla resistenza contro il drago, risvegliando il coraggio nella gente di Mifurdania e ricordando che c'era stato un tempo senza oppressione e imposizioni. Il poeta misterioso prometteva loro un futuro senza paura. E, in più, costituiva una vera minaccia per Lohasbrander e mezz'orchi: gli
venivano già attribuiti tredici assassini. Di affilata non aveva solo la penna, ma anche la spada. L'Irraggiungibile del Tabaîn si adattava perfettamente all'idea che la principessa si era fatta del poeta misterioso: un eroe su cui era stata posta una taglia con cui avrebbero potuto diventare ricche cento persone, ma che tuttavia nessuno aveva ancora consegnato al drago. Nel frattempo giunse per Rodario Settimo il turno di convincere la folla del proprio valore, della propria eloquenza e della propria mordacità. Ma già il modo in cui avanzò sul proscenio lasciava presagire che sarebbe stata un'esibizione penosa. «Ehi, giovane!» gridò uno degli spettatori. «Spero che tu questa volta ti sia esercitato, altrimenti t'infiliamo nel barile di catrame e ti passiamo di nuovo sulla segatura! » « O sul letame! » rincarò un secondo. « Così, se non altro, sarai il più bravo in qualcosa: nel puzzare! » La gente rideva e applaudiva i due che erano intervenuti, mentre l'uomo vestito di bianco pregava di far silenzio con gesti imperiosi. « Ma lasciate che si umili da solo,
esimi spettatori! » disse il banditore/facendo una smorfia. « In questo, se non altro, negli ultimi cicli ha sempre dimostrato di essere imbattibile. » Lo indicò con la sua bacchetta. «Stiamo aspettando! » La compassione indusse Coïra ad augurare a Rodario Settimo che qualche evento imprevisto ne mandasse a monte l'entrata in scena: un temporale, una tormenta di neve, se necessario anche un piccolo incendio che distogliesse da lui l'attenzione. Guardò Loytan, che si stava drizzando sulla sedia per sentire meglio e riuscire a vedere al di là dell'elmo del Lohasbrander. «Guardate, il prestante Ineguagliabile...» cominciò Rodario Settimo con voce tremante, e già i primi davanti al palcoscenico cominciavano a sbuffare. « Perdonate se v'interrompo, ma mi chiamo Irraggiungibile », lo corresse l'interessato in modo gentile ma fermo. « Cominciate di nuovo. » Rodario Settimo si schiarì la voce, che sembrava più da donna che da uomo. «Guardate, il prestante Irraggiungibile», disse guardando il rivale, che gli faceva un gentile
cenno col capo e lo invitava, con un movimento della mano, ad aumentare la velocità della declamazione. Improvvisamente, però, il Settimo impallidì. « Ma... così non fa più rima con la frase seguente », sbottò, sgomento. Si lisciava febbrilmente il pizzo. « E ora che faccio? » Gli spettatori si spanciavano dalle risate provocate involontariamente. Coïra sospirò piano e si dispiacque per il giovane e il suo inutile coraggio. Avrebbe di nuovo abbandonato la contesa umiliato, e nel ciclo seguente avrebbe voluto di nuovo prendervi parte. Rodario Settimo divenne paonazzo. Le risate lo provocavano, e lui strinse i pugni, risoluto. « Ecco che se ne sta qui impalato, e già è impaurito e spaventato, perché mi ha scorto », gridò sopra il chiasso della folla. « E ora scappa, bianco come un morto! » Fece un rapido inchino e, con un passo indietro, rientrò nella fila dei concorrenti. Loytan guardò Coïra e fece una breve risata. « Questo non era tutto il suo pezzo! O forse sì? » « Temo quasi che lo sia. » La ragazza guardò di nuovo verso il suo eroe, l'Irraggiungibile, che
rideva sotto i baffi. Non si compiaceva in modo borioso della sua vittoria, e questo, agli occhi di Coïra, lo rendeva ancora più attraente. La principessa notò con stupore che il cuore le batteva più forte quanto più a lungo lo guardava. Verdure marce e palle di neve presero a volare da tutte le parti in direzione di Rodario Settimo, che subì pazientemente quella pioggia e le parole di scherno che gli venivano gridate contro. L'Irraggiungibile fece inaspettatamente un passo in avanti e alzò un braccio. «Smettetela! » apostrofò la folla. «Non si merita tutto questo. Non sarà un genio dell'eloquenza o un rubacuori, ma è un discendente dello stesso uomo dai cui lombi io origino. » « Ne sei proprio sicuro? » brontolò una donna. L'Irraggiungibile la individuò subito e la indicò con l'indice destro. «Chi sei tu che ti permetti di schernirlo?» l'apostrofò, senza sembrare più per nulla gentile. « Non sai neanche leggere o scrivere, dico bene? » « Mi basta sentire e vedere questo buffone », ribatté la donna, mietendo altre risate.
Rodario Settimo guardò il suo intercessore, che si apprestava a una risposta energica. « Lascia stare », gli disse, con un sorriso amaro. « Quella donna ha ragione. » Si scrollò le foglie d'insalata marcia dalle spalle e le gettò a terra, poi si scosse i capelli, facendo piovere grumi di uovo. « Non sono migliorato. » « Mostra contegno, rampollo dell'Incredibile! » lo rimproverò l'Irraggiungibile, ergendosi in tutta la sua statura. Con un gesto drammatico, ruotò sul suo asse; così facendo, il mantello, che aveva un ampio spacco dalla vita in giù, gli sventolò in alto, facendo cadere a terra molti fogli. La maggior parte di essi rimase sul palcoscenico, ma due vennero ghermiti da una folata di vento prima che l'uomo riuscisse a riprenderli. La stessa folata portò uno dei fogli sopra le teste della folla esagitata e delle sue dita curiose, fino alla tribuna, proprio nelle mani di Coïra. Bastò già solo la prima riga dello scritto perché la giovane capisse che i suoi desideri erano stati esauditi. Cittadini di Mifurdania, resistete al male che viene dalle montagne!
Un guanto corazzato afferrò il foglio. Il Lohasbrander se ne era impadronito. « Léggi ad alta voce », disse a un suo compare, passandoglielo. « Voglio sapere che discorso si è preparato l'Irraggiungibile. » Coïra guardò Loytan, il quale capì subito che sul foglio non c'era scritto nulla d'innocuo. Tuttavia, a quanto pareva, neppure il secondo Lohasbrander riusciva a decifrarlo. « Posso esservi di aiuto? » domandò la principessa, con presenza di spirito. Il capo dei Lohasbrander lanciò uno sguardo al suo accompagnatore, prese lo scritto e lo diede alla ragazza. « Ti ascolto. » Coïra finse di leggere ad alta voce inventandosi un misero discorso irrilevante, non buono da invogliare il Lohasbrander a sentirlo direttamente dalla bocca dell'Irraggiungibile. Non appena lei chiuse la bocca, il Lohasbrander si volse nuovamente verso il palco. «Debole», disse, sprezzante. «Non è meglio di quello di Lade... insomma, di quell'altra donna di prima. Brutta competizione. » Coïra guardò in direzione dell'Irraggiungibile, sollevò il foglio e lo piegò. L'attore le rivolse un
profondo inchino. Non poteva sapere precisamente che cosa la donna avesse fatto ma, visto che gli uomini in armatura non erano balzati sul palcoscenico per mozzargli la testa, poteva dedurne che aveva mentito per lui. «Esimi spettatori, questo era il primo turno», annunciò il banditore. « La vostra votazione con palle di neve e verdure stabilisce che Rodario Settimo non parteciperà alle prove successive; viene dunque onorevolmente eliminato. Una fortuna per Ladenia, la regina delle battute che non fanno ridere. » Il pubblico rise di nuovo. L'uomo vestito di bianco raggiunse il prescelto a lunghi passi e trasse dal mantello un fiore essiccato. « Prego: la rosa del perdente per voi, degno eliminato. » « Di quelle ne ha già un mazzo intero a casa! » gridò un ragazzino. «Se la può anche infilare nel... » « Il banditore sei tu o sono io, strillone? Adesso basta! » A banditore agitò la bacchetta. « Domani, al Nuovo Curiosum, cominciano le rappresentazioni; i biglietti d'ingresso si possono acquistare come al solito presso i chioschi della piazza. » Fece un inchino e ricevette un applauso tonante per la sua eloquente
presentazione dei candidati, cosa che ricambiò con sogghigni e inchini decisamente esagerati. Rodario Settimo se ne stava desolato accanto alla scala di legno, col suo fiore essiccato in mano, e lo osservava avvilito. Non notò che le persone vicino all'uscita si spostavano brontolando e indietreggiando davanti a un gruppo di mezz'orchi che si stava facendo strada attraverso la piazza del mercato; venti creature circondarono il palcoscenico, mentre quattro vi salivano. Chi ancora ricordava le storie sui mezz'orchi che un tempo si aggiravano per la Terra Nascosta si meravigliò alla vista di quegli esemplari, che erano molto diversi. Ciò dipendeva soprattutto dal fatto che, a quanto si diceva, erano originari della parte occidentale della Terra dell'Aldilà, e che quindi erano già da tempo seguaci di Lohasbrand. Le loro dimensioni impressionanti, l'aspetto orribile e il colorito tra il verde e il nero non erano cambiati, eppure i mezz'orchi non puzzavano neanche lontanamente come prima. Rispetto al passato, avevano una maggior cura delle proprie armi, e non emettevano più grida immotivate e grugniti privi di senso. Si
comportavano in modo intelligente e ponderato, e questo rendeva i mostri che seguivano il drago ancora più pericolosi. Camminavano a passi pesanti sulle assi, fra il tintinnio delle armi; il loro capitano si piazzò davanti all'Irraggiungibile. Coïra vide con terrore che teneva nel pugno sinistro un foglietto. «Maledizione», mormorò Loytan. «Il vostro inganno era quasi riuscito. » Posò una mano sull'elsa della spada, con l'altra afferrò la donna. « Venite. Dobbiamo andarcene. » Coïra dapprima fece per opporsi. «Io...» « Avete mentito per quell'uomo. Che cosa pensate che vi farà il Lohasbrander, quando lo scoprirà? Il drago non aspetta altro che un'occasione come questa! » La ragazza impallidì e si alzò; Loytan la imitò e la seguì, a coprirle le spalle. « Che succede, Pashbar? » chiese il capo dei Lohasbrander. Il mezz'orco sollevò il pugno che teneva lo scritto. « Un'opera scritta di pugno dal criminale che si autoproclama poeta della libertà. » Estrasse la lucida spada seghettata e la posò sulla gola dell'Irraggiungibile. «Proviene da quest'uomo. L'hanno visto tutti. »
Il Lohasbrander si guardò al di sopra della spalla, in direzione di Coïra, e vide che la donna era scomparsa. « È dunque così che stanno le cose? » Sguainò la spada. « Arrestate l'attore e portatelo in prigione. E cercate la figlia della regina! Ha cercato di proteggerlo. » «Ma... » Il suo compare, a destra, sembrava titubante. «Si dice che sia una maga, come la madre, e... » « Non m'importa quello che è. Prendetela! E se non si vuole lasciar prendere, uccidetela. La sua fuga è per me una prova sufficiente: è sicuramente in combutta col criminale. » Il Lohasbrander corse via dalla tribuna e spinse i suoi sgherri attraverso la folla. L'Irraggiungibile non osava muoversi. La lama affilata era troppo vicina alla gola e lo costrinse a lasciarsi arrestare. Due mezz'orchi gli legarono le braccia dietro la schiena, mentre il loro capitano lo scrutava con attenzione. « Sei stato dunque tu ad assassinare i nostri uomini alle spalle », ringhiò Pashbar, snudando la dentatura animalesca. « Chiederò a Wielgar di poterti mangiare ancora vivo, in modo da sentirti urlare a ogni taglio e a ogni morso. »
L'Irraggiungibile sorrise, per nulla spaventato, e a testa alta si lasciò portare via dai mostri. Sulla piazza del mercato tutti era rimasti immobili. Mentre passava davanti a Rodario Settimo, l'Irraggiungibile girò la testa e disse, grave: « Contegno, amico mio. Dipende tutto da questo, non importa quello che fai. Non dimenticarlo quando, il prossimo ciclo, entrerai di nuovo in scena. Allora forse potrai farcela ». Poi fu colpito con violenza alla schiena da un mezz'orco, e riprese a camminare. Nessuno ricordava un'altra contesa in cui, in una sola rotazione, erano stati eliminati due candidati. Di certo non in quelle circostanze.
II Terra Nascosta, protettorato dell'Idoslân nordoccidentale, 6491° ciclo solare, inverno Lo squadrone di pony neri era conosciuto nell'Idoslân nordoccidentale, e i suoi centocinquanta cavalieri lo erano ancora di più: erano i Bramanti. Gli abitanti non associavano a quei nani corazzati fino alla punta dell'elmo nulla che non fosse dolore e perdita; gli uomini della piccola città di Hangenturm, verso la quale si dirigeva la colonna, non facevano eccezione. Il nome dello squadrone non derivava affatto da qualcosa di romantico, ma da un semplice dato di fatto: qualunque cosa bramassero, quei nani la ottenevano. Le campane di allarme della torre di vedetta suonarono per mettere in guardia gli abitanti, e il borgomastro Enslin Rotha si affrettò verso la porta principale per ricevere lo squadrone insieme coi notabili. Poiché la notizia di quella visita aveva sorpreso il borgomastro durante il suo sonnellino pomeridiano, l'uomo celava il suo
abbigliamento da riposo sotto il mantello di lana; riponeva poca importanza nelle apparenze. «Sono arrivati davvero troppo presto», mormorò, mettendosi davanti alla porta chiusa. Aspettò che si raccogliessero gli altri membri del consiglio cittadino. A un suo cenno, il carro contenente le decime venne fatto avanzare e posizionato dietro di lui. In quel modo i nani avrebbero visto subito che le imposte loro dovute erano state raccolte; allo stesso tempo si sarebbe impedito che lo squadrone continuasse tranquillamente a cavalcare verso l'interno della città. Benché facesse molto freddo, Rotha sudava. Negli ultimi cicli, gli inverni si erano fatti più rigidi, e l'uomo interpretava quel cambiamento come un segno di quanto le cose andassero male per le genti della Terra Nascosta, anche se a Hangenturm, in quanto protettorato della stirpe dei Terzi, la situazione non era poi così terribile. Se si doveva dare credito alle voci, cose ben peggiori accadevano nei territori del Gauragar in cui gli albi governavano direttamente o in cui essi avevano ceduto la reggenza a umani ambiziosi. E Rotha non aveva nessun motivo di
dubitare di simili voci; ogni crudele particolare corrispondeva sicuramente alla verità. Al suo fianco comparve la consigliera Tilda Küferstein, cui il borgomastro era legato da sincera amicizia. La donna aveva la sua stessa età, capelli biondi spuntavano da sotto il cappuccio, e gli occhi verdi sembravano preoccupati. «Sono davvero molto in anticipo», disse Tilda. Si chiuse il mantello bianco di pelliccia d'orso e alzò il bavero. Rotha annuì. «Sono perfettamente d'accordo.» La paura lo stava facendo sudare. Il volto di Tilda Küferstein si fece ancora più preoccupato. «Hanno motivo di essere scontenti di noi?» Rotha scosse i capelli castani. «No. Da quando sono borgomastro, rispettiamo tutte le disposizioni che ci vengono imposte dai Terzi. Fin nel più piccolo dettaglio.» Alzò il braccio, e le guardie aprirono le porte. Vento freddo spirò all'interno, passando attraverso le aperture dei mantelli di uomini e donne, che rabbrividirono. I battenti delle porte non ostacolavano più la visuale. Lo squadrone di
Terzi si trovava al massimo a un centinaio di passi, e non erano soli. «Albi!» mormorò Tilda, terrorizzata. Circondate dalla neve, le nere armature dei tre alti cavalieri risaltavano ancora di più. Ogni volta che lo zoccolo di un destriero della notte toccava il suolo, si levavano fiammelle. L'albo all'estrema sinistra teneva in mano una lunga lancia alla cui estremità sventolava uno stendardo con una singola, strana runa. Il segno rosso sangue fece paura a Tilda, senza che la donna sapesse perché. Era un incubo diventato materia solida. «Pensate che abbiamo dato l'allarme per scherzo?» Rotha si morse il labbro. La tensione lo rendeva ingiustamente irritato verso la donna. «Perdonatemi...» L'amica gli sorrise. Fu un sorriso debole, incerto. «Siete perdonato, borgomastro.» Osservò gli altri sette membri del consiglio. «L'ultima volta che ho visto un albo... penso sia stato quindici cicli fa. È accaduto quando ci hanno presentato il nuovo comandante dello squadrone.» «Un motivo del genere, tutto sommato, non mi dispiacerebbe», replicò Rotha, mentre
cercava di scorgere il Terzo che cavalcava in testa. «Ma temo che non sia questa la causa della visita», aggiunse, nervoso. «Il loro comandante è ancora Hargorin Seminamorte.» I volti degli albi non gli suggerivano nulla; erano belli, perfetti, glabri... e crudeli. Come tutti quelli della loro specie. Le orbite dei loro occhi sembravano vuote. Da tale caratteristica si distinguevano gli albi dai loro simili, gli elfi: alla luce del sole, il bianco degli occhi si tingeva di nero come la notte più buia. Il borgomastro alzò la testa e osservò le guardie alla porta. «Nessuno di voi leverà le armi contro gli albi. O contro i nani», gridò. «Non importa che cosa faranno a me o agli altri membri del consiglio.» I guerrieri annuirono. Tilda squadrò il borgomastro. «Pensate che vogliano fare del male a noi?» «Gli albi non sono noti per le loro buone azioni», ribatté l'uomo, deglutendo. Più sudore gli scorreva dalla fronte e sotto i vestiti, più Rotha si sentiva la gola secca. «Che chiedano conto a noi di eventuali mancanze, purché lascino stare la città e i suoi abitanti.»
«Molto nobile. Ma qualcuno vi risponderebbe che dovremmo combattere per la libertà», replicò la consigliera. «Basta con questo discorso!» Rotha la fissò. «Conoscete la mia opinione al riguardo. Non riusciremmo mai a opporci a centocinquanta nani. E, anche se ci riuscissimo, che accadrebbe poi?» Sospirò, piegando il capo davanti ai signori dell'Idoslân orientale. «Ne manderebbero altri, e Hangenturm non sopravvivrebbe. La libertà non vale questo prezzo. Chi non vuole servirli deve partire oppure uccidersi, senza costringere gli altri a una morte eroica.» Tilda strinse i denti e s'inchinò davanti ai Terzi e agli albi, che fecero fermare gli animali a quattro passi dai consiglieri. Il cuoio scricchiolò, le briglie tintinnarono; si sentivano gli sbuffi dei quadrupedi e lo sferragliare delle cotte di maglia nascoste sotto le pellicce nere dei guerrieri. Ma nessuno, né gli albi né Hargorin, rivolse la parola ai consiglieri. E, finché ciò non fosse successo, gli umani non potevano alzare la testa. Rotha e Tilda sentirono che qualcuno smontava di sella, atterrando pesantemente a terra. Il borgomastro vide delle punte di stivali
ferrati, le cui dimensioni si adattavano a quelle di un Terzo. Pensò inoltre che, camminando, gli albi non producevano nessun rumore, né si lasciavano alle spalle nessuna traccia; era una delle loro molte spaventose arti. L'uomo prese a sudare ancora di più; quel silenzio gli logorava i nervi più di qualunque urlo o rimostranza, per quanto potesse sembrare folle. Un'arma venne estratta, poi qualcosa sibilò attraverso l'aria. Alla destra del borgomastro, risuonò un rumore scricchiolante seguito da un respiro soffocato. Risuonò un secondo colpo. Sangue schizzò sulla bianca neve immacolata davanti al borgomastro, poi tra le scarpe dell'uomo cadde la testa della consigliera Küferstein, e Rotha gridò per lo spavento e lo sgomento. Subito dopo si accasciò il corpo decapitato della donna. A quel punto, l'uomo non potè più resistere, e alzò lo sguardo. Hargorin Seminamorte, un nano di statura considerevole e di corporatura che imponeva rispetto, si era rivoltato il mantello sulla spalla, in modo da poter alzare il braccio più agevolmente. Nella mano destra teneva una scure dal lungo manico e dalla lama sporca di
sangue. Sulla sua cotta di maglia, rinforzata da piastre di ferro, c'era qualche schizzo rosso, che aveva colpito anche il volto tatuato e la barba rossa striata da ciocche nere. Guardando Rotha, il nano aggrottò le sopracciglia rosse. «Chi ti ha dato il permesso di alzare lo sguardo?» Il borgomastro aprì la bocca, ma il terrore gli paralizzò la voce. Notò che le selle dei destrieri della notte erano vuote; intorno agli unicorni profanati non c'era la minima presenza di orme. Lo stendardo con la runa spaventosa, e al tempo stesso affascinante, era infilato in un sostegno della sella. «Perdonalo, Hargorin», disse una voce dolce accanto all'orecchio sinistro di Rotha, che sussultò. L'alito che gli sfiorava il naso non aveva nessun odore. «È un debole essere umano! Paura e smarrimento privano di forza il suo spirito, rendendolo stupido.» Il borgomastro avrebbe voluto girarsi, ma le gambe non rispondevano ai suoi comandi. L'albo si era portato dietro di lui senza emettere un rumore, e solo gli dei sapevano dove si trovassero gli altri due albi. Hargorin pulì la scure sui vestiti della morta. «Se proprio insistete, Tirîgon», disse in tono
leggero, incrociando le braccia davanti al petto. «Vorrà sapere perché ho tolto la vita alla consigliera. Visto che l'ho fatto su vostro ordine, spiegateglielo voi.» «Era colpevole», venne sussurrato all'orecchio destro di Rotila, che pensò fosse un altro albo a parlare. «Tilda Küferstein era in combutta con un'assassina e una sovversiva già condannata. Non da ultimo, era sua parente. Che stoltezza!» «Già la parentela era sufficiente a condannarla a morte», disse il terzo albo. «Tu non lo sapevi, debole umano?» Rotha gracchiò un no, fissando la testa di Tilda. Una palpebra era mezza abbassata: l'ultimo sguardo della morta sembrava essere rivolto a lui. Il borgomastro vi buttò sopra con cautela della neve, non sopportando la vista dell'amica assassinata. Hargorin diede agli umani presenti il permesso di alzare il capo. «Vedo che la decima è pronta. Questo va bene. Da Hangenturm non ci aspettavamo niente di diverso.» Infilò la scure nel supporto che aveva sulla schiena e fece un cenno; cinque nani smontarono dai pony, si unirono a lui e lo accompagnarono al carro.
Guardarono rapidamente dentro bauli e sacchi stipati di monete e lingotti d'oro. Alla fine Rotha riuscì a riottenere il controllo del proprio corpo e si girò. Gli albi stavano sotto l'arco della porta e parlavano tra loro a bassa voce. L'uomo vide che si trattava di due maschi e una femmina, la cui età era impossibile da stimare. Se fossero stati esseri umani, non avrebbe dato loro più di diciassette cicli, ma di sicuro erano molto più vecchi. Saltava agli occhi la somiglianza dei loro volti. Il borgomastro suppose che si trattasse di fratelli. L'armatura privava l'alba di qualunque apparente attributo femminile, e contemporaneamente dirigeva l'attenzione sui tratti del viso affascinanti e simmetrici. Un avversario maschio si sarebbe fatto distrarre da quella bellezza per un istante, incontrando così la morte. Gli albi portavano sulla schiena lunghe spade sottili; pugnali a doppia lama erano fissati alle protezioni per le cosce. Le armature di tutti e tre erano provviste lungo la colonna vertebrale di creste di ferro aggiuntive. Un poco sopra il coccige, Rotha riconobbe in uno dei maschi dei dischi di metallo grossi come il palmo di una
mano, mentre la femmina portava dischi simili fissati al bracciale di metallo. Si chiese se fossero armi da tiro. L'alba si staccò dal gruppo e si avvicinò al borgomastro, facendogli dimenticare con un sorriso incantevole ogni pericolo. Poi Rotha ne scorse le orbite nere, e tutta l'ammirazione che provava per la bellezza della creatura si trasformò in paura. «Io sono Firûsha», si presentò con voce melodiosa e bassa. Rotha s'inchinò di nuovo, come davanti a una regina. E in effetti, per lui in quel momento lei era tutto. Decideva della vita e della morte, della fortuna e della rovina della città. «Abbiamo un compito da eseguire. Non è rivolto contro Hangenturm né contro i suoi abitanti, ma se qualcuno dovesse sbarrarci la strada, la città non vedrà più sorgere il sole.» La gentilezza nella voce di Firûsha non era scomparsa. «Desideriamo essere condotti dalla famiglia della consigliera, il più presto possibile. E sarai tu a condurci, debole umano.» Rotha deglutì e mandò giù la saliva. Gli sembrava che la gola fosse diventata più stretta della cruna di un ago. «Cosa...?»
«No, borgomastro. Non cosa», lo interruppe gentilmente Firûsha, posandogli l'indice inguantato sulle labbra. «Dove. Guidaci. Hargorin e la sua gente porteranno via la decima.» Gli tirò indietro il cappuccio e gli accarezzò i capelli. «Devi aver paura di me soltanto se non ti attieni alle mie istruzioni.» Come d'abitudine, Hargorin era montato sulla cassetta del carro e lo stava dirigendo verso le porte. Uno degli albi gli sussurrò qualcosa, e il Terzo annuì. Lo squadrone prese il carro nel mezzo e i nani, lentamente, ripiegarono. I tre destrieri della notte restavano davanti alle porte, sbuffanti, e con gli occhi che ardevano rossi osservavano le guardie cittadine. Di tanto in tanto si passavano la lingua sulle froge, lasciando intravedere zanne luccicanti. Gli uomini indietreggiarono; nessuno voleva essere afferrato e sbranato da quelle bestie. Circolavano storie terrificanti sulle cavalcature degli albi: che divorassero gli esseri umani vivi era una tra quelle meno spaventose. Nel frattempo Rotha camminava davanti ai tre albi, guidandoli, e pensando febbrilmente a un modo per aiutare la famiglia Küferstein senza
far ricadere la colpa su nessuno. Era una brava famiglia perbene, composta da molte persone. «Tre figlie e due figli», disse Firûsha alle sue spalle, come se avesse indovinato ciò che stava pensando. «E la madre vive con loro. Così come la sorellastra, vero?» Rotha annuì, sgomento. Non c'era nessun segreto, per loro. Tutto ciò che poteva fare era guidare gli albi per i vicoli più a lungo di quanto fosse necessario. Pregò Palandiell che la notizia dei tre assassini spietati si diffondesse rapidamente, arrivando fino alla famiglia della consigliera. «Non ci lasceremo menare per il naso, borgomastro», disse un albo, poi una lama si appoggiò sulla sua spalla destra. «Provaci, e busseremo alla porta di casa tua.» «No», balbettò Rotha. «No, tutto ma questo no! Vi giuro, saremo lì in un attimo!» Lacrime gli scorrevano sulle guance mentre girava l'angolo e indicava la grande e bella casa cui aveva portato la morte in triplice forma. Che altro avrebbe potuto fare? Si accasciò con la schiena contro un muro.
Gli albi lo superarono senza produrre nessun rumore. L'uno dopo l'altro estrassero i pugnali a doppia lama e si diressero verso l'ingresso. Firûsha bussò, mentre uno dei fratelli spariva nel vicolo laterale per raggiungere il retro della casa; l'altro fletté i muscoli e, senza rincorsa, balzò sul cornicione e da lì su un balcone e poi sul tetto, per scivolare nel camino; contemporaneamente Firûsha superava la soglia. Enslin Rotha scoppiò in singhiozzi non appena sentì le prime grida, e si mise una mano, sugli occhi. Non voleva vedere nulla. Ma le urla terrorizzate dei morenti che presto riecheggiarono per i vicoli bruciavano nella mente dell'uomo. Accusandolo senza scampo, e in eterno. Hargorin diresse il carro lontano dalla città, con lo Squadrone Nero che circondava il suo comandante e le ricche decime. Per quella rotazione, la meta del loro viaggio non era lontana da Hangenturm: era Morgental, un villaggio che apparteneva al Terzo. Lo aveva ricevuto in dono dagli albi per via della sua lealtà nei loro confronti, e il nano lo aveva accettato di buon grado.
Lì stava una delle sue fortezze, Affronto-aVraccas. C'erano voluti cinquanta cicli per ergerla secondo i piani e i desideri del Terzo. Un'opera muraria di simile robustezza e spessore non si trovava più in nessuna parte della Terra Nascosta, neppure in uno dei regni dei nani. La roccaforte aveva molto stupito gli albi, cui il nano aveva però spiegato che le decime risvegliavano l'avidità di molti e che andavano protette. A una spiegazione del genere, non si poteva obiettare nulla. Quando la colonna ebbe girato verso est e costeggiato un boschetto, divenne visibile la fortezza, che, nel suo punto più alto, raggiungeva i trenta passi e che segnalava a tutti i viaggiatori il luogo dove viveva il signore di quella regione. Qualunque viaggiatore che capisse un po' le rune naniche avrebbe dedotto che il castellano odiava tutti i figli del Fabbro, eccetto quelli della stirpe del Terzo: visibili da grande distanza, i caratteri incisi sul maschio promettevano a tutti gli altri nani morte e rovina, e spiccavano oltraggi e insulti scolpiti sulle mura. Ciò che a un occhio inesperto sarebbe sembrato puro ornamento avrebbe fatto infuriare qualunque
figlio del Fabbro, inducendolo a un immediato assalto. Osservando la sua dimora, Hargorin fece un grosso sorriso. Dai comignoli delle case e delle capanne che circondavano Af-fronto-a-Vraccas salivano fili di fumo; per via del freddo, gli abitanti umani di Morgental si erano ritirati nel calore delle loro quattro mura. All'improvviso qualcosa richiamò la sua attenzione: nonostante il rumore prodotto dal carro e il tuonare degli zoccoli, percepì in modo nitido un fruscio di stoffa lacerata, immediatamente alle sue spalle. Hargorin voltò la testa e vide che un sacco si era strappato sotto il peso del carico. Il Terzo non voleva che cadesse neppure una moneta, perché avrebbe dovuto risarcire di tasca sua tutto ciò che mancava alle decime. Si stupì ancora di più quando vide spuntare dal sacco, che si trovava immediatamente alle sue spalle, la punta di un dardo di balestra. «Torna a guardare in avanti e prendi il sentiero che porta nel bosco», ordinò una voce di donna. Hargorin non ci pensò neppure un istante e senza preavviso si gettò a destra. Quasi contemporaneamente udì un sibilo, e percepì un
colpo sordo alla spalla sinistra; avvertì il dolore solo qualche istante più tardi. Si acquattò sulla cornice esterna del carro, mettendosi al riparo da ulteriori proiettili. I suoi rapidi movimenti e i rumori inconsulti avevano spaventato i cavalli, che si lanciarono al galoppo facendosi largo tra i pony davanti a loro. Puntarono direttamente verso il boschetto, come la donna aveva ordinato a Hargorin. I Terzi che galoppavano vicino al loro comandante lo guardavano allarmati e spronavano i pony, cercando di tenere l'andatura dei cavalli in fuga. L'asta insanguinata che spuntava dalla schiena di Hargorin dimostrava che il salto dalla cassetta non era stato un semplice incidente. «Ribelli!» gridò Hargorin, spostandosi a forza di braccia lungo il lato del carro. «Ce n'è almeno una.» Nonostante il dolore, riuscì a saltare sulla superficie di carico posteriore. Atterrò con piede sicuro su una cassapanca ed estrasse la sua scure dal manico lungo; subito dopo colpì con furia il sacco in cui pensava si trovasse la donna. Intanto due nani cercavano di posizionarsi coi pony davanti ai cavalli e di afferrare i
finimenti, ma le bestie erano troppo veloci. L'uno dopo l'altro, i membri dello Squadrone Nero rimasero indietro mentre il carro proseguiva la sua corsa verso il boschetto. Hargorin era rimasto solo. La lama della scure incontrò qualcosa di duro, e si sentì un gemito soffocato. Il sacco si rovesciò in avanti; circondata da monete d'argento e frammenti di legno, cadde sul pianale del carro una giovane donna dai capelli biondi. Il nano suppose che avesse usato il legno per simulare il contenuto del sacco e crearsi uno spazio vuoto in cui nascondersi. La riconobbe subito. «Mallenia», sibilò, soddisfatto. «Allora gli Occhineri non si sono recati a Hangenturm inutilmente. Eri davvero là!» Menò un colpo verso di lei, ma la donna rotolò di lato. La lama si abbassò poco lontano dalla sua testa. Mallenia, discendente dal famoso eroe, il principe Mallen von Ido, diede un calcio al Terzo, colpendolo in pieno petto. «Una rotazione o l'altra ucciderò gli albi, come oggi finalmente ucciderò te, Hargorin!» gridò. «Libertà per Idoslân, Gauragar e Urgon!»
Il nano cadde all'indietro su un altro sacco. Il dardo affondò ancora di più nella carne, facendosi strada verso la parte anteriore del corpo; sulla cotta di maglia si formò un bozzo. Hargorin sentì chiaramente che qualcosa nella spalla si era disarticolato; gemendo, lasciò ricadere il braccio con cui reggeva l'ascia. «I Terzi e gli albi non devono aspettarsi pietà da me», disse la donna, concitata. «Avete causato troppa sofferenza.» La cassa su cui era atterrato Hargorin si aprì, e in un'esplosione di monete apparve un uomo mascherato. Teneva in mano una sciabola, e appoggiò la lama sul collo del nano. «Fermo!» gli ordinò. «Vigliacco!» sbraitò il Terzo. «Abbi almeno il coraggio di mostrare il tuo volto, come questa assassina.» «Chi combatte contro l'oppressione e uccide l'occupante fa un'opera buona, feccia dei nani! Voi siete gli assassini!» Mallenia guardò attraverso la neve turbinante, in direzione dello Squadrone Nero, che non aveva abbandonato l'inseguimento. I Terzi non si arrendevano, e meno che mai l'unità scelta dei Bramanti. A differenza delle
altre stirpi, quella dei Terzi era composta da ottimi cavalieri, che avevano perfezionato la loro arte nell'arco di più di cento cicli. Dal momento che gli altri figli del Fabbro preferivano non usare i cavalli, i Bramanti avevano una superiorità che era stata dimostrata sui campi di battaglia. «Non ci resta molto tempo», disse la donna al suo accompagnatore. Aprì un'altra cassapanca, da cui uscì un altro uomo mascherato, che non era uscito prima dal suo nascondiglio perché il chiavistello era rimasto incastrato. I cavalli correvano lungo la stretta via che attraversava il bosco, sollevando spesse cortine di neve. Erano appena arrivati al riparo offerto dagli alberi quando, dietro il carro, sette tronchi caddero con gran frastuono sul sentiero, rendendo impossibile per i nani al galoppo proseguire nella corsa; avrebbero dovuto addentrarsi nel sottobosco, e ciò li avrebbe rallentati. Il piano era stato preparato nei dettagli, e stava funzionando. Il secondo uomo uscì dalla cassapanca e, mantenendo l'equilibrio, raggiunse la cassetta, ripescò le redini e si mise alla guida del carro,
mentre l'altro continuava a tenere l'arma appoggiata alla gola di Hargorin. Mallenia raggiunse il nano e si sedette sul sacco, accanto a lui. Allungò una mano e trasse a sé una coperta, che si appoggiò sulle spalle. Portava leggeri abiti scuri, anziché un'armatura; era un grosso rischio, considerata la natura della sua missione, ma era l'unico modo per poter entrare senza difficoltà nel sacco. I lunghi capelli biondi erano raccolti in una treccia; gli stivali le arrivavano fino alle ginocchia, l'impugnatura di due pugnali spuntava dai gambali. In una mano teneva una sottile balestra, puntata verso il nano. «E adesso?» chiese Hargorin, in tono sprezzante. «Porteremo la decima al sicuro e, quando ce ne sarà l'occasione, la distribuiremo tra i cittadini dell'Idoslân, cui appartiene. Non spetta né a te né ai tuoi signori», rispose Mallenia, in collera. «Non siete nient'altro che occupanti! A voi spetta la morte, non l'oro!» Hargorin sembrò in procinto di dire qualcosa. Guardò un istante l'uomo con la sciabola, poi abbassò la voce. «Qualunque cosa tu faccia, ragazza, pensa alla tua famiglia.»
Un fremito attraversò Mallenia. Il nano non aveva parlato in modo freddo o altezzoso, era sembrato semplicemente schietto. Si tratta senza dubbio di un inganno. Mi vuole spaventare e confondere. La donna fece una risata ostentatamente forte, per mostrargli che non gli credeva. Hargorin strinse gli occhi. «Dentro al tuo sacco, non hai sentito che la consigliera Küferstein è morta?» Mallenia scosse la testa, mentre le dita le si stringevano più forte sull'impugnatura della balestra. «Ho dovuto ucciderla per ordine degli albi, e lei non resterà la sola vittima, tra i tuoi parenti», proseguì il nano. «Gli albi li stanno cercando.» «Albi?» «E non albi qualunque. Per spazzare via i tuoi parenti, si sono presentati a Hangenturm gli Dsôn Aklàn. Trigemini: tre volte più malvagi e tre volte più crudeli.» Gli occhi scuri di Hargorin la fissavano intensamente. «Non potrei rivelartelo, ma stanno uccidendo tutti gli umani il cui lignaggio discende anche lontanamente dal principe Mallen. E chiariscono a tutti che la causa di questa mattanza sono le tue malefatte. In questo modo perderai
l'appoggio della popolazione dell'Idoslân, del Gauragar e dell'Urgon. Perderai sostegno, e queste terre non otterranno mai la libertà. Non finché esisteranno gli albi.» Il campo visivo di Mallenia si contrasse; a causa del terrore vedeva davanti a sé soltanto il volto di Hargorin. Dal suo nascondiglio non aveva percepito nulla della morte della sua parente. A parte qualche mormorio incomprensibile, niente era filtrato fino a lei. «Non stai dicendo la verità», disse con voce incerta, e colpì il nano con un calcio sulla spalla, nel punto in cui era infilato il dardo. «Voi Terzi siete tutti bugiardi!» Hargorin strinse i denti per non gemere, poi imprecò duramente. «Che Tion ti prenda, femmina! Se non mi vuoi credere, peggio per te.» «Sorveglialo bene», ordinò Mallenia all'uomo con la sciabola, poi raggiunse la parte anteriore del carro. «Quanto dista ancora?» «Stiamo per lasciare la foresta, e là dietro ci attendono i nostri», le spiegò l'uomo che conduceva il carro, indicando un varco luminoso: era l'uscita dal bosco. Qua e là si muovevano delle figure.
«Eccellente», mormorò la donna, dandogli una pacca su una spalla. Ma non riusciva a gustarsi la vittoria sui Bramanti, perché le parole di Hargorin avevano trovato in lei terreno fertile. Non sapeva cosa fare. Tornare indietro? O accompagnare gli uomini? Il carro abbandonava proprio in quel momento la protezione offerta dal bosco, e l'uomo a cassetta lo fece fermare davanti a due dozzine di cavalieri. Questi li accolsero con grida di giubilo, urlando il nome di Mallenia, e si misero subito a scaricare il tesoro. I Bramanti avrebbero dovuto seguire contemporaneamente ventiquattro serie diverse di tracce per recuperare tutte le monete e i lingotti; sebbene fossero abili a cavalcare, era una cosa impossibile con le corte zampe dei pony. Qualcuno passò alla donna la leggera armatura a piastre intarsiata col blasone del suo antenato, il principe Mallen von Ido, e lei la indossò. Mentre guardava l'emblema, i suoi pensieri vagavano nel passato, raggiungendo l'antenato che si era contrapposto a Nôd'onn e aveva cavalcato contro gli Eoîl, rischiando più volte la vita per la Terra Nascosta. Un vero
combattente per il bene e la giustizia, del quale lei avrebbe portato avanti il retaggio finché gli uomini non fossero stati liberi dagli albi e dai loro alleati. Mallenia appese i suoi pugnali al cinturone, si gettò addosso un mantello bianco con cappuccio e montò sul suo cavallo, anch'esso bianco. Si avvicinò al carro, su cui il Terzo continuava a essere sorvegliato. Intorno alla spalla del nano si era formata una macchia di sangue; attraverso una fessura tra le assi, il liquido rosso gocciolava nella neve. «Che ne facciamo di lui?» le chiese un uomo. La donna fissò a lungo il nano. «Lo uccidiamo. Chi è in combutta con gli albi non merita null'altro», rispose. Poi spronò il cavallo per tornare a Hangenturm. Voleva vedere se poteva ancora aiutare i propri parenti, e pregò gli dei di non arrivare troppo tardi. «Ci incontriamo tra quattro rotazioni al solito posto», gridò prima di scomparire dietro una propaggine del boschetto. La decima era stata ripartita e quasi tutti i cavalieri si erano già allontanati. Quattro di loro stavano ancora stipando gli ultimi sacchi sulle
selle, quando si sentì un lontano, rapido scalpiccio. Lo Squadrone Nero si stava avvicinando. «Via di qui!» disse l'uomo che sorvegliava Hargorin, guardando i compagni. «Io mi prendo uno dei cavalli del carro...» Un calcio sul torace lo fece barcollare all'indietro e sbattere contro il coperchio della cassa. Mentre si muoveva all'indietro passò la sciabola da destra a sinistra, per tagliare la gola al nano, e avvertì una certa resistenza. Il nano aveva trattenuto con la mano la lama dell'arma! Sangue sgorgava dal taglio, scorrendo sulla barba, ma il Terzo digrignava i denti con cattiveria, mentre gli occhi gli scintillavano. Hargorin diede un calcio contro la cassa, facendola traballare. Mentre l'uomo ancora lottava per mantenere l'equilibrio, il nano fece un balzo in avanti e col pugno insanguinato lo colpì al mento; gemendo l'uomo si accasciò, mentre il coperchio si chiudeva sopra di lui. Il Terzo afferrò la sua scure dal lungo manico e corse lungo il carro, prendendo la rincorsa per un salto potente che lo portò proprio addosso a uno dei cavalieri. La lama entrò di lato nel collo
dell'uomo, che cadde rantolando nella neve, mentre Hargorin prendeva il suo posto sulla sella. Senza esitazione, lanciò l'animale contro l'avversario successivo, menando un colpo con la scure. L'uomo non riuscì a parare il colpo brutale: il braccio destro, che era levato, venne reciso tra gomito e polso. La pesante lama proseguì la sua traiettoria e colpì l'uomo alla nuca, facendolo crollare sulla neve mentre il sangue schizzava ben lontano dalla ferita, come se volesse scrivere in quel biancore il nome del morente. I due uomini rimasti spronarono i cavalli per scappare al nemico. Hargorin prese le misure e scagliò la scure con un urlo selvaggio. L'arma fendette l'aria sibilando e tranciò la colonna vertebrale del cavaliere sulla destra, mentre era in pieno galoppo. Senza emettere un suono, l'uomo cadde di sella rotolando più volte. «Non mi scapperai nemmeno tu!» promise il nano all'ultimo avversario, spronando il cavallo all'inseguimento. Arrivato all'altezza del morto, che aveva la scure piantata nella schiena, Hargorin s'inclinò profondamente di lato e ne afferrò il manico. Un breve strattone, e aveva di
nuovo la sua arma. Ridendo, la usò per colpire di piatto il fianco della cavalcatura e spronarla. Poco dopo, il nano raggiunse l'ultimo cavaliere che, per diminuire il carico, tagliò i sacchi con le monete. Non servì a niente. Dopo una finta esperta e una rapida torsione a destra, Hargorin arrivò alla stessa altezza dell'uomo e gli impartì un colpo al torace che trapassò redini, armatura e vestiti. Il cavaliere si ribaltò all'indietro, gridando, e cadde di sella abbattendosi sulla terra innevata. Il Terzo fermò bruscamente il cavallo, si girò e vide che lo Squadrone Nero stava sopraggiungendo; in parte aveva attraversato il bosco, in parte lo aveva aggirato da destra e da sinistra. La spalla ferita gli pulsava dolorosamente, il taglio profondo alla mano bruciava, ma la cosa non lo preoccupava, almeno finché riusciva a muovere le dita. Tendini e ossa erano rimasti interi. Hargorin mise al trotto il cavallo, puntando verso l'uomo ferito, che si stava alzando, barcollante, sollevando il braccio. Voleva arrendersi. «E questo che cosa vorrebbe dire?» gridò il nano. «Non combatti per salvarti la vita?»
«Voglio trattare», gemette l'uomo. «Ma davvero? E cosa mi puoi offrire?» «Lasciami in vita e ti dirò dove si trova il nostro punto di ritrovo segreto», disse tra i colpi di tosse, abbassando una mano per premerla contro la ferita al ventre. «Tu tradiresti il tuo capo, l'eroina dell'Idoslân, per condurre una vita nell'umiliazione e nella vergogna?» lo derise Hargorin. «Per quale motivo la tua vita dovrebbe valere più di quella di lei?» L'uomo gemette, lottando contro se stesso. Non era affatto una scelta facile, quella che aveva preso. «Ho famiglia», disse, disperato. «Quattro figli e una moglie che mi aspettano. Non posso abbandonarli. Non di questi tempi.» Cadde sulle ginocchia, mentre il nano continuava ad avvicinarglisi. «Ti prego, risparmiami e lasciami tornare da loro!» Hargorin lo squadrò dall'alto della sella, cogliendone la disperazione e il dolore interiore. «Come ti chiami?» «Tilman Berbusch.» «È un viaggio molto lungo quello che devi intraprendere per tornare a casa?»
«No. Ce la farò, nonostante la ferita. Sono di Hügelblick.» L'uomo respirava a fatica, tormentato dai dolori. «Il luogo d'incontro segreto è...» Halgorin levò la scure e fendette il cranio dell'uomo prima che potesse dire altro. Si sentì uno schiocco, sangue fuoriuscì dalla ferita, dal naso e dalla bocca. Mentre il Terzo estraeva la lama, il cadavere si accasciò a sinistra. «Mi occuperò io della tua famiglia, Tilman Berbusch di Hügelblick», promise Hargorin, indirizzando il cavallo oltre il morto, verso il carro e lo Squadrone Nero. «Vraccas, perdona il mio comportamento; ma tu solo sai perché lo faccio», sussurrò prima di raggiungere i suoi soldati. Quella rotazione sarebbe stata costosa per lui, e avrebbe impoverito in modo considerevole la sua stanza del tesoro. Gli albi avrebbero insistito per avere la loro decima, e il nano avrebbe dovuto mettere mano ai suoi beni per accontentarli. Hargorin levò gli occhi marroni; il suo sguardo puntò verso ovest, dove una scura, grande nube di fumo si allargava in cielo.
Gli Dsôn Aklàn sembravano aver finito il loro lavoro a Hangenturm. Mallenia si guardò alle spalle e riconobbe un reparto dello Squadrone Nero che aveva fatto il giro intorno al bosco. Si trovava abbastanza lontana dai nani, i Bramanti non erano più un pericolo per lei. Ma quando puntò di nuovo lo sguardo in avanti, le si fermò il cuore: c'era un immenso pennacchio di fumo sopra Hangenturm. La donna spronò il cavallo perché aumentasse ulteriormente la velocità e lo diresse lontano dai campi aperti, sulla strada, per avanzare più rapidamente. Le porte della città erano spalancate, davanti a esse giacevano distese nella neve figure umane; Mallenia capì che si trattava delle guardie della città, e frenò il cavallo. Il forte crepitare del fuoco imperversava, voci confuse si avvicinavano, e il cavallo sbuffò agitato. Le sentinelle erano state uccise con colpi precisi. In mezzo alla strada giaceva il cadavere decapitato di Tilda Küferstein. Lacrime riempirono gli occhi di Mallenia; angoscia e odio dominavano i suoi pensieri e la costrinsero ad
affrettarsi per i vicoli, verso la casa dei suoi parenti. Tuttavia sapeva di essere arrivata troppo tardi. Per le strade vagavano persone che gridavano e e si tenevano stretti i loro averi; qualcuno portava con sé soltanto i bambini, altri avevano caricato le cose necessarie o più di valore su cavalli, asini o bovini e affluivano in massa verso l'uscita della città. L'incendio infuriava nel quartiere in cui un tempo sorgeva la casa dei Küferstein. Mallenia si fermò davanti a ciò che restava dell'edificio, mentre il flusso di profughi le passava ai lati; qualcuno, in preda al panico, sbatteva contro il petto del cavallo bianco, che si agitava sulle zampe. Nessuno tentava di circoscrivere le fiamme; forse qualcuno ci aveva provato e si era arreso. L'intera città era ormai condannata a essere vittima del fuoco. I pensieri della donna turbinavano. Non avrebbe potuto dire di conoscere Tilda molto bene, tuttavia si era sentita legata a lei. In vita loro non si erano incontrate più di dieci volte e, soprattutto, il consigliere non aveva avuto la minima idea riguardo al piano per la rapina della decima; in quel momento, nemmeno gli albi
potevano già sapere qualcosa della perdita del tesoro. A causare la rovina di Tilda, dunque, era stata solo la comune ascendenza con Mallenia. All'improvviso qualcuno afferrò un piede della donna. «Siete voi, Mallenia!» disse un uomo col volto coperto di fuliggine e vesciche. Il mantello di lana e le scarpe erano per la maggior parte bruciati, come se l'uomo avesse corso qua e là tra le fiamme. «Enslin?» Mallenia fece per smontare, ma l'uomo la dissuase con un gesto. «Scappate! Gli Dsôn Aklàn sono ancora nei paraggi», disse il borgomastro, guardandosi intorno pieno di timore. «Stanno cercando voi.» Afferrò i finimenti del cavallo bianco e lo fece girare su se stesso, puntandone il muso in direzione della porta. «Voi dovete rimanere in vita, Mallenia. Continuate a opporre la vostra resistenza e non arrendetevi mai, mi avete sentito? Sono stato un folle a non appoggiare le vostre iniziative.» «Ma...» Lo sguardo della donna corse sulle persone in fuga, che erano in procinto di perdere tutto ciò che avevano costruito nei cicli precedenti. La sua lotta le pareva priva di senso
se aveva come conseguenza la rovina di persone innocenti. Rotha le appoggiò una mano sullo stivale, e la mano ustionata vi lasciò sopra un'impronta sanguinolenta. «Gli albi e i Terzi sono i veri nemici del nostro popolo, non voi», le disse in tono deciso. «Voi siete l'unica speranza che ci è rimasta. Se morite voi, è la fine.» Diede al cavallo una forte pacca, e la bestia partì al galoppo. Per quanto la donna si sforzasse, l'animale non si lasciava controllare. La gente nei vicoli, le grida, l'odore di fumo e il crepitio del fuoco ne avevano fatto montare la paura a dismisura. Mallenia lasciò Hangenturm sentendosi impotente e avvilita come mai prima di allora, e questo nonostante il successo conseguito sui Bramanti. Anche il trionfo sul loro capo sbiadì.
III Terra dell'Aldilà, fortezza di Diga-del-male, 6491° ciclo solare, inverno Alla luce di numerose lampade, Boïndil stava seduto di fronte all'amico e osservava sogghignando il modo in cui Tungdil si rimpinzava di cibo. «Quelli dall'altra parte della barriera non avevano niente di decente», osservò, ridacchiando. «Nessuno prepara la carne di gugul bene come Goda. Dico bene, Sapientone?» • I due si erano ritirati nelle stanze di Boïndil per mangiare in pace, dopo la baraonda. Le pareti erano coperte di armi e scudi, un lato era riservato a diverse mappe della Terra Nascosta e, sotto la lastra di vetro che lo copriva, il tavolo al quale si erano seduti mostrava una dettagliatissima sezione della fortezza articolata nei suoi diversi piani. Era un locale che dimostrava attenzione e preparazione al combattimento, come si addiceva alla stanza di un generale.
Tungdil si era separato dall'armatura in tionio e indossava una sottoveste ocra su cui erano ricamate rune e simboli; continuava a portare corta la barba bruna, che però sembrava più folta ed esibiva un'evidente ciocca grigia sul mento. I lunghi capelli castani erano tenuti aderenti alla testa con dell'olio e scendevano sulla nuca. Il nano rallentò la masticazione. «Non smetti di fissarmi.» «E puoi farmene un torto?» replicò il Rabbioso, portando la mano al suo boccale di birra. «Non ti vedo da duecentocinquanta cicli!» «E adesso vuoi recuperare tutto in una sola sera, scavandomi con lo sguardo altre righe sul viso?» ribatté Tungdil, salace. Prese la sua coppa e fece per brindare col Rabbioso, ma lo sguardo gli cadde sul contenuto. «Ma... è acqua?» Allontanò la coppa da sé, quasi disgustato. «Non c'è più grappa? I guerrieri della fortezza bevono così tanto? E perché io non ho della buona birra scura come te?» Boïndil posò il boccale, stupito. «L'ultima volta che ti ho visto eri più cauto con l'alcol.» «Cauto?» Tungdil sembrò confuso, poi gli s'illuminò il volto. «Ah, sì, adesso capisco che cosa intendi.» Afferrò il boccale dell'amico e ne
trasse un lungo sorso, che finì solo quando l'ultima goccia di birra gli fu corsa giù per la gola. Poi posò pesantemente il boccale, si terse la schiuma dalla barba e ruttò forte. «Il passato è passato.» Un largo sorriso gli comparve sul volto. Boïndil lo osservò, ammiccò e poi scoppiò in una risata fragorosa. «Così mi piaci!» Rise ancora a singhiozzo. «Già che ci siamo: che ne dici delle mie figlie e dei miei figli? Goda te li ha presentati, no?» «Sono in tutto e per tutto come il loro padre. Se questo è un complimento», rispose Tungdil. «Seriamente: puoi esserne fiero. Scusa se non ricordo i nomi, ma Goda ha detto che un maschio e una femmina sembrano essere predisposti verso la magia. E questo è davvero eccezionale! I due giovanotti dalle braccia forti sembrano guerrieri notevoli. Hanno uno stile di combattimento che è un misto tra le tattiche ubari e la tecnica dei nani, e questo li rende unici.» Sembrava dispiaciuto. «Scusa se te lo dico in questo modo, ma gli altri tre... sono diversi. Completamente diversi.» Il Rabbioso si sentì colto alla sprovvista. «Cosa?»
Tungdil cercava visibilmente le parole adatte. «Mi dispiace doverlo dire, ma sono tutti...» corrugò la fronte, preoccupato. «Tutti artigiani migliori di te! I loro lavori d'intaglio della pietra sono fantastici.» Poi ridacchiò, divertito. Boïndil si unì a lui, sollevato. «Sì, scherza pure finché vuoi...» Lo guardò, visibilmente felice. «Non so dirti quanto sia lieto del tuo ritorno. Non riuscivo quasi a credere che fossi tu. Sembravi così cupo e tenebroso; come se, in quella tua armatura, fossi alla testa dei mostri. Come se tu fossi... uno di loro.» Tungdil abbassò lo sguardo, con la mano sinistra si toccò la benda d'oro. «Sono successe molte cose, Rabbioso», disse con voce più profonda, diversa. L'allegria era scomparsa di colpo, e le ombre erano tornate sul volto. «Sono accadute molte cose che mi hanno cambiato.» Guardò il suo compagno d'armi. «Ti chiedo già da ora di essere indulgente verso tutto ciò che ti sembrerà strano nel mio comportamento. Ti capiterà di dubitare...» «Io?» Boïndil sorrise, poi chiamò un soldato per farsi portare una caraffa di birra. Dopo averci pensato un attimo chiese un barilotto e
una bottiglia della miglior grappa. Un proverbio dei nani recitava: preoccupazioni, ricordi e birra vanno d'accordo. «Ma come potrei...?» «Ti capiterà di dubitare, Rabbioso», sussurrò Tungdil con fare misterioso. «E un tempo ero davvero alla testa dell'esercito che hai visto.» Boïndil non sapeva che cosa dire, quindi si limitò a fissare l'amico. Tungdil respirò profondamente, come se i ricordi gli procurassero un dolore fisico. Attesero in silenzio finché la porta non si aprì e arrivarono il barilotto e la bottiglia che avevano richiesto. Vuotarono in silenzio un altro boccale, poi Tungdil si sforzò di parlare di nuovo. «Ho fatto cose, Rabbioso, di cui nessuno mi riterrebbe capace; nessuno che avesse conosciuto il Tungdil di un tempo. Tuttavia le ho dovute fare, per sopravvivere nei posti in cui ho viaggiato alla ricerca di un'uscita da quel mondo demoniaco.» Parlava con voce roca; lo sguardo passava attraverso Boïndil, giungendo in un altro mondo. «Ci sono creature, amico mio, che procurano alle loro vittime torture indicibili. Per poterle battere, bisogna essere peggio di loro.» Si toccò le rune sulla sottoveste. «Credimi, io
ero peggiore di loro. Perfino gli albi mi avrebbero definito crudele.» Tungdil afferrò la bottiglia. Boïndil osservava l'amico, che all'improvviso gli sembrava completamente estraneo. «Puoi raccontarmi di più?» riuscì a dire alla fine, versandosi anche lui della grappa. Tungdil scosse la testa. «Ogni cosa a suo tempo. Ho vissuto troppo a lungo nella tenebra. Permettimi di rallegrarmi alla luce della tua compagnia.» Si schiarì la gola, poi brindarono. «E dunque? Che novità ci sono, nella Terra Nascosta?» «Dalla tua parte non si sentiva niente al riguardo?» «No. Non c'era nessun collegamento, almeno finché lo scudo è stato in funzione.» Tungdil beveva con velocità crescente, e ogni volta che si versava da bere riempiva il bicchiere un poco di più. «Hai menzionato LotIonan. E, camminando per i corridoi di Diga-delmale, ho colto al volo alcune dichiarazioni che mi hanno fatto preoccupare.» Si versò della birra. «Si parlava di un drago che vive a ovest, del Kordrion che domina il nord e degli albi che hanno conquistato l'est. Quanto di quello che ho sentito corrisponde a verità?»
«Tutto, Sapientone.» Boïndil sospirò. «Da tempo ormai la Terra Nascosta non è più nascosta alle grinfie del male.» Si alzò e raggiunse un tavolino su cui erano arrotolate altre mappe. Ne scelse una, tornò dall'amico e la distese. «La mente di Lot-Ionan è andata, lo sanno tutti, ormai. Ha strappato ai Secondi la mia patria, i Monti Blu, e li ha scacciati con le sue arti magiche. Chi non voleva allontanarsi è stato annientato. Lot-Ionan raccoglie apprendisti intorno a sé e, se vuoi sapere la mia opinione, si sta da tempo preparando a una nuova guerra.» Tungdil fissava i confini tracciati sulla carta. «Contro il Kordrion?» «No, contro il drago Lohasbrand, che ha strappato i Monti Rossi ai Primi. A quanto ne sappiamo, ormai esiste solo una manciata di nani di quella stirpe, che tiene il passo molto a ovest, difendendolo dai mostri che stanno all'esterno.» L'indice di Boïndil indicò il Tabaîn e poi il Weyurn. «Sono tributari del drago. Lo Squamoso ha trovato esseri umani che si prestano a fare da vassalli e che si fanno chiamare Lohasbrander. Ognuno di loro governa come un nobile e comanda un contingente di mezz'orchi.» Boïndil si accarezzò la barba. «Ah,
già: i Musi di porco sono diventati più intelligenti, almeno quelli che il drago ha condotto nella Terra Nascosta. E questo non rende le cose più semplici.» «Per gli Empi!» sbottò Tungdil, menando sul tavolo un pugno che fece sobbalzare coppa, bottiglia e boccale. Il Rabbioso strinse gli occhi. «Empi? E chi sarebbero?» Tungdil fece cenno di lasciar perdere. «Continua a raccontare.» «A est, gli albi hanno ricostruito le loro città...» «Gli albi sono tornati?» Boïndil annuì. «Sono altri albi. Sono giunti attraverso la Porta Alta, dopo che Lot-Ionan ha scacciato i Secondi. A guidarli è una nostra vecchia conoscenza: Aiphatòn. Ti ricordi di lui?» «Sì. E non avrei mai creduto che avrebbe portato sventure alla Terra Nascosta.» Il Rabbioso annuì. «Erano tutti sorpresi quando ha riportato gli albi nelle vecchie città degli Occhineri e ha cominciato una guerra contro gli ultimi elfi e coloro che volevano aiutarli. Be', sì, in effetti non si può chiamare
guerra una lotta contro circa quaranta Orecchi appuntiti.» «Gli elfi sono stati sterminati...» «Non del tutto. La maggior parte è stata assassinata, gli altri sono scomparsi. Nessuno sa dove siano andati a finire. Circolano le storie più diverse riguardo alla loro rovina, e non le conosco nemmeno tutte, ma di certo non troverai più elfi nella Terra Nascosta.» Boïndil si grattò il naso. «I Terzi sono diventati alleati di Aiphatòn e, nell'est, dominano su una grossa fetta di quello che una volta era l'Idoslân. Gli albi governano inoltre quelli che un tempo erano i regni umani del Gauragar e dell'Urgon, a nord e a est.» Notò che gli occhi di Tungdil guardavano oltre la mappa. «È troppo per te?» «Va' avanti. Posso sopportare più dolore di quanto sembri», replicò l'altro. Il Rabbioso picchiettò con un dito sulla mappa, dov'erano raffigurati i Monti Grigi. «Ci manca ancora il nord. La regina Balyndis...» Si voltò a guardare l'amico. Tungdil annuì, con aria assente, come se la persona di cui l'amico stava parlando gli fosse indifferente.
Il Rabbioso si meravigliò del fatto che il nome di Balyndis non provocasse nessuna reazione nell'amico, ma proseguì. «La regina tiene la Porta di Pietra coi Quinti rimasti, e allo stesso tempo si difende dal Kordrion e dalla sua nidiata. È una battaglia lunga e difficile, perché il mostro si riproduce in continuazione. Nessuno sa come funzioni la cosa, perché il Kordrion non ha una compagna.» «Non hanno bisogno di femmine», spiegò Tungdil. «Sono tutti in grado di deporre uova, e questo li rende una piaga ancora peggiore.» Si piegò all'indietro, incrociando le braccia dietro la nuca e puntando lo sguardo verso il soffitto. «Non riesco a crederci. Torno a casa dopo duecentocinquanta cicli, logorato da infiniti combattimenti; le mie stanche ossa bramano un posto tranquillo in cui potersi adagiare... ma qui mi aspettano più asprezze di quante non ce ne siano mai state dall'altra parte della barriera.» Restando seduto, Tungdil diede un calcio al tavolo, facendo rovesciare coppa e bottiglia. La grappa si riversò sulla mappa, e Boïndil cercò d'impedire che le linee si cancellassero del tutto.
«La gente della Terra Nascosta non ne ha abbastanza?» continuò Tungdil. «Devo di nuovo prendere le armi che avrei preferito gettare nel più profondo lago del Weyurn?» Il Rabbioso tossicchiò, imbarazzato. «Ho dimenticato di dirti una cosa: il Weyum non è più un regno fatto di isole. Mentre si faceva strada per raggiungere la Terra Nascosta, Lohasbrand ha creato un profondo foro attraverso il quale si sono riversate le acque del Weyurn. Deve poi aver provveduto a formare altri punti di deflusso per...» Con un urlo selvaggio, Tungdil saltò in piedi, afferrò il pesante tavolo con una mano sola e lo scagliò contro la parete, lontana sette passi. Nell'impatto, il legno massiccio si frantumò; cocci si sparsero con fragore sul pavimento. Boïndil fissava l'amico con la bocca spalancata. Nessun nano normale, nemmeno lui stesso che era molto forte, sarebbe stato in grado di fare ciò che l'amico aveva appena fatto. Tungdil gemette e si mise le mani in testa; sprofondò nella sua sedia, ansimando e imprecando allo stesso tempo in una lingua
sconosciuta. Il Rabbioso credette di vedere alcune rune del suo abito scintillare debolmente. Sopraggiunsero di corsa alcune guardie e fissarono preoccupate il loro generale, che con un cenno le mandò via. Boïndil sapeva, però, che l'episodio avrebbe provocato chiacchiere tra i soldati. «Vedi?» gemette Tungdil con voce profonda. «Era quello che intendevo quando ti dicevo che avresti dubitato di me. Ti stai di certo chiedendo come sia possibile che io abbia scagliato un tavolo di quel peso quasi fosse un sacco di piume.» «Be'... sì, Sapientone», mormorò Boïndil. «Con una mano! È un'impresa che vale la pena guardare.» Fece in modo di sembrare allegro e divertito. «Ah, questi sì che sarebbero combattimenti divertenti: gare di lancio del Muso di porco!» Tungdil si tolse le mani dal volto e guardò l'amico. Intorno alla benda d'oro andavano attenuandosi sottili vene nere. «Non posso spiegarti. Non ancora», disse Tungdil. «Ho bisogno della tua fiducia.» Gli porse la mano. «Me la accorderai? Giuro che non la ingannerò
né la deluderò. Per quello che abbiamo passato insieme!» Che cosa ti è successo? Dopo un po' di esitazione, Boïndil gli strinse la mano. Riteneva che fosse la cosa migliore da fare per il suo compagno d'armi appena tornato dall'inferno. Con la sicurezza di avere al suo fianco almeno un nano su cui poter contare, si sarebbe ambientato più rapidamente e, sperava Boïndil, sarebbe tornato più in fretta il vecchio Tungdil. «Per quello che abbiamo passato insieme», disse il Rabbioso, ripetendo la formula proposta dall'amico. «Ah, sono certo che Boëndal sarebbe contento di vederti.» «Boëndal?» «Il mio gemello!» sbottò Boïndil, stupito. Prima Balyndis, poi Boëndal. Tungdil si batté la mano contro la fronte. «Mi dispiace, la mia memoria continua a essere avvolta dalle tenebre.» Si alzò, raccolse i boccali, che erano sopravvissuti al volo, e li riempì di birra scura. Uno lo passò a Boïndil, l'altro lo tenne in mano. «Quando lo vedrò?» «Chi?» domandò Boïndil, confuso. «Boëndal! Ora che lo hai menzionato, mi è tornato in mente il suo volto.»
«Tungdil, mio fratello è morto da molto tempo.» Le labbra del Rabbioso erano diventate una linea sottile. Che atrocità bisogna subire per dimenticare tutto quello che ha dimenticato lui? Quanto ha sofferto la sua mente? Forse la cicatrice che ha sulla fronte c'entra qualcosa... Tungdil guardava il pavimento, imbarazzato. «Perdonami. Per me...» Sospirò. «E Sirka? Hai dimenticato anche lei?» Al Rabbioso bastò vedere l'espressione sul volto dell'amico per capire che non aveva la minima idea di chi fosse la persona menzionata. Boïndil afferrò Tungdil per le spalle. «Sapientone, era una Sotterranea, e il tuo grande amore! E tu vorresti dirmi che ti è sfuggito di mente?» Lo guardò nell'unico occhio, in cerca di una spiegazione, una scusa, una risposta. La palpebra si chiuse prima che l'iride potesse svelare dei segreti. Tungdil girò la testa di lato. «Mi dispiace», mormorò. Si scrollò di dosso le mani dell'amico e si diresse lentamente verso la porta. «Riprenderemo a parlare domani, se a te va bene. Ho bisogno di più tempo per...» Con gli stivali stava macinando i frammenti del tavolo in pezzetti ancora più piccoli.
Il Rabbioso ebbe l'impressione che l'amico volesse ancora dirgli qualcosa, prima di aprire la porta e uscire in corridoio; ma Tungdil lasciò invece la stanza in silenzio. «Per Vraccas, che cosa gli è successo?» ripetè Boïndil, a bassa voce, fissando la mappa della Terra Nascosta. La mappa era diventata inutilizzabile. La grappa aveva distrutto il lavoro del disegnatore; confini e nomi erano diventati macchie e segni illeggibili. Boïndil inclinò la testa e osservò il titolo: La Terra Nascosta. Con un pizzico d'immaginazione, l'alcol e la carta rigonfia l'avevano trasformato in: La Terra Esposta. «Che denominazione calzante», mormorò, gettando la mappa a terra; così facendo, scorse una gemma color turchese che in precedenza aveva visto alla fibbia del cinturone dell'amico. A quanto pareva, doveva essersi staccata mentre Tungdil scagliava via il tavolo. Il Rabbioso la prese e s'incamminò per riportarla all'amico. Era una gemma di pregio. Anche se la levigatura delle gemme non era il suo forte, il guerriero sapeva però ben stimare il valore di un pezzo di quel tipo. Si trovavano ben di rado diamanti di fumo.
«Oh, anch'io sono diventato sbadato. Non abbiamo parlato per niente dei Quarti. E dei Liberi», gli venne in mente. Altri due motivi per disturbare l'amico poco prima del riposo notturno. A Boïndil pareva uno scherzo di Vraccas che proprio i nani meno robusti e cui si attribuivano in genere minori capacità belliche avessero resistito a ogni tentativo di conquista. I Terzi conducevano contro di loro una campagna dopo l'altra senza riuscire a sottometterli. E i Liberi si difendevano con altrettanto successo. «Questo lo stupirà», si disse il Rabbioso aprendo la porta della stanza di Tungdil, dopo aver bussato in modo forte e chiaro. «Ehi, Sapientone! Ti ho riportato una cosa. Tu semini in giro diamanti costosi, non lo sapevi?» Tungdil era in piedi, voltato di spalle, e sembrava non averlo notato. Si era sfilato la sottoveste dalla parte superiore del corpo e mostrava involontariamente a Boïndil la schiena nuda. La pelle era completamente coperta di cicatrici: alcune erano simili a punti, altre correvano apparentemente oltre il fianco, proseguendo davanti, sul petto. Ce n'erano di larghe e di sottili che s'incrociavano e
sovrapponevano, alcune nette, altre dentellate, e potevano essere state causate da armi, da zanne o da artigli. I rigonfiamenti rovinavano rune e immagini tatuate. Boïndil trasalì. Anche il suo corpo era ornato dai ricordi di combattimenti e battaglie, ma quello che vedeva su quella schiena era ineguagliabile. Poiché sapeva che Tungdil disponeva di eccellenti doti di combattimento, non riusciva a immaginare chi, tra gli avversari con cui l'amico si era misurato, avesse potuto conciarlo in quel modo. Che cosa doveva temere un guerriero che aveva affrontato il Kordrion? Tungdil intanto non dava segno di aver notato il Rabbioso. Teneva il capo chino, sembrava osservarsi il petto. Poi gettò uno straccio insanguinato in una ciotola piena d'acqua; emise un gemito sommesso, e subito dopo qualcosa davanti a lui s'illuminò all'improvviso. Senza emettere un suono, Boïndil posò la gemma sul pavimento della stanza e si ritirò in fretta. Aveva disturbato l'amico in qualcosa che nessuno avrebbe dovuto vedere, ne era certo. Lasciò quell'ala della fortezza e cercò di coprire i
dubbi, sempre più forti nella sua mente, canticchiando una canzone. Tuttavia i dubbi non lo abbandonarono. A preoccupare Boindil erano soprattutto le vene nere intorno all'occhio che l'amico aveva perduto. Un sospetto particolarmente ostinato esigeva che lui guardasse sotto la benda: che cosa si nascondeva lì? Goda e Boïndil sedevano nella grande stanza delle riunioni, in cui di solito si consultavano con gli ufficiali in merito all'assegnazione dei turni di guardia e delle ronde. Sul tavolo c'era una riproduzione in scala della Forra Oscura e della fortezza; erano state modellate pieghe del terreno anche molto piccole, e ciò permetteva di concordare itinerari molto precisi. «Di questi non abbiamo proprio più bisogno.» Il Rabbioso afferrò la campana di vetro che era servita a rappresentare la barriera magica e la mise da parte; poi allontanò molto lentamente il modellino che rappresentava l'artefatto. Fissò pensieroso le rocce. «Ti aspetti che spunti il Kordrion?» lo punzecchiò Goda. «Per ora, il modello e la realtà concordano: dei mostri non c'è traccia.»
«Stavo pensando se sia il caso di provare a tradurre in realtà il nostro vecchio piano», disse il guerriero, passando la mano sui margini della Forra Oscura. «Demoliamo i bordi e riempiamo tutto con una fusione di metalli di scarso valore, in modo da formare un grosso grumo attraverso il quale nulla si possa più riversare nella Terra Nascosta e in quella dell'Aldilà. Un tappo contro il male.» Rivolse lo sguardo alla moglie. «Che cosa ne pensi? Con la tua magia sarebbe possibile far crollare la Forra Oscura. Ma credo che i tuoi apprendisti non siano abbastanza preparati per aiutarti in una cosa del genere.» Goda gli passò la mano sulla schiena. «Forse potrei riuscirci, ma poi non avrei più energia per altri incantesimi. E la massa di metallo fuso sarebbe colossale! Dove la prenderemmo?» «Ce la porterebbero gli ubari da tutte le parti del loro regno. Lo farebbero, se in questo modo riuscissero a porre fine per sempre a questa minaccia.» Il Rabbioso raggiunse il tavolino e riempì d'acqua una coppa di terracotta. «Temo che i mostri potrebbero tornare scavando attraverso la semplice roccia. Hanno atteso più di duecentocinquanta cicli prima di fronteggiarci con un esercito. Come quando riportammo in
vita per la prima volta la barriera; senza quello scudo, ci avrebbero travolti.» Goda si sedette. «Non ritieni che la fortezza da te stesso creata sia in grado di contenere le loro orde?» «Alla lunga?» Boïndil scosse la testa. Gli accenni di Tungdil gli avevano fatto venire i brividi alla schiena. «Non ho voglia di sapere che cosa potrebbe uscire dalla Forra, se aspettiamo ancora a lungo. Di certo il Kordrion non sarebbe la creatura più pericolosa tra quelle che si avventeranno su di noi.» «Chi ci dice che la creatura più pericolosa non sia già tra noi?» mormorò Goda. Avrebbe voluto solo pensarlo, ma la lingua era stata più veloce. Spostò rapida lo sguardo sulla coppa. Il Rabbioso aggrottò la fronte. «Hai dei dubbi su Tungdil.» «Ho dei dubbi sul fatto che abbiamo dato il benvenuto tra le nostre mura al vero Tungdil», replicò Goda, con voce più sicura. «È lui!» ribatté Boïndil, caparbio. Tuttavia evitò lo sguardo della moglie. «Come fai a dirlo con certezza? Soltanto perché ieri avete sbevazzato insieme?» Goda sospirò. «Anch'io vorrei che fosse il nostro
Tungdil, e non una creatura ingannevole mandata da qualche oscura forza per condurci in trappola. Ma trovo che non si comporti come allora...» Boïndil sbottò in una risata forzata. «Ha trascorso tanto tempo in un mondo fatto di uccisioni, sofferenza e violenza. Pensi che se uno di noi dovesse mai tornare da un posto del genere avrebbe un grosso sorriso stampato in faccia e non farebbe altro che raccontare barzellette? Questo mi avrebbe reso diffidente», disse il Rabbioso, difendendo animatamente l'amico. «Probabilmente io sarei irrimediabilmente caduto nella mia follia.» La guardò. «Tungdil si è opposto al Kordrion, da solo. Per noi!» «Poteva essere tutto concordato», ribatté Goda. «Quella bestia ci ha rimesso un occhio! Non ho avuto l'impressione che ne sia rimasta contenta.» «Un piccolo sacrificio, davanti a uno scopo superiore... come sconfiggere Diga-del-male. Il Kordrion ha occhi in abbondanza.» Il guerriero alzò le braccia. «È inutile che io cerchi di convincerti; non faresti altro che
rispondere a tutto quello che dico con queste storie di complotti e macchinazioni.» Boïndil schioccò la lingua, irritato. «Tu sei una maga. Perché non pronunci un incantesimo che lo metta alla prova?» Si mise a fissare incollerito la riproduzione della fortezza, cercando di mettere ordine tra i propri pensieri. «L'ho già fatto. Mentre gli presentavo i nostri figli», rivelò la nana, con grossa sorpresa del marito. «E...» Si sentì bussare, la porta si aprì e sulla soglia comparve Tungdil, in armatura. Gli bastò uno sguardo per capire che i due avevano discusso animatamente, anche se si davano la pena di nasconderlo, sorridendogli. «Non sono in anticipo, vero? Ci eravamo dati appuntamento...» disse, entrando nella stanza. Si sedette dall'altra parte del tavolo, puntando lo sguardo su Goda. Per un istante la guardò torvo, come se avesse origliato e sapesse cosa aveva detto la nana contro di lui; poi guardò amichevolmente il Rabbioso. «Bella riproduzione. Ci sono anche piccoli mostri?» Boïndil rise, sollevato. «Avevamo costruito qualche bandierina della misura giusta. Ma ormai dobbiamo ritrovarle: chi poteva prevedere
che le avremmo mai usate?» In breve, spiegò all'amico come pensava di sigillare la Forra Oscura, in modo che nulla ne potesse più fuoriuscire. Goda si tenne in disparte, limitandosi a osservare Tungdil. Aveva intenzione di provocarlo, per indurlo a tradirsi con le parole e con le azioni. Secondo lei non era il celebre eroe, ma una raffinata imitazione che occorreva smascherare. Il suo sguardo, però, gli scivolava addosso come una lama su una buona armatura. «I pozzi e le caverne immediatamente sottostanti la Forra Oscura sono profondi e ramificati», spiegò Tungdil. «Nella Terra Nascosta e nella Terra dell'Aldilà non c'è abbastanza metallo per richiuderla. Formare una sorta di tappo ha senso, ma si potrà cominciare questo lavoro solo quando sarà stato distrutto l'esercito che è annidato nella Forra.» «E che tu hai condotto da noi», lo interruppe Goda, sarcastica. «Sarebbe giunto da voi anche per conto suo.» Tungdil era rimasto incredibilmente calmo, rispetto a come aveva reagito con Boïndil. «Ci sono voluti innumerevoli cicli per far sì che
quelle creature si fidassero di me e mi accettassero come uno di loro. Solo così sono riuscito a diventare il loro capo, da cui perfino il Kordrion si lascia comandare. Sapevo che prima o poi la barriera sarebbe caduta, e in quel momento volevo essere in prima fila. In quanto Terzo, un normale figlio del Fabbro, mi avrebbero fatto a pezzi; cosa che all'inizio era loro quasi riuscita.» A ogni frase, la voce del nano diventava più profonda e minacciosa, fino a che non se la schiarì energicamente, scacciando via quel tono. «Ho fatto loro credere che li avrei guidati e condotti contro di voi. Non ci vorrà molto tempo perché si riprendano dalla sorpresa; allora attaccheranno con odio ancora maggiore.» «Diga-del-male li respingerà», affermò il Rabbioso. «Non basterà, amico mio. Io so cosa ci riserva il futuro.» Tungdil guardava alternativamente Boïndil e Goda. «Avete bisogno di un esercito, un grande esercito, che faccia irruzione nelle camere e nei cunicoli superiori per respingere più in profondità le bestie, mentre qui si faranno i preparativi per chiudere la Forra. E avrete bisogno di un mago.
Un mago molto potente.» Guardò la nana. «Non c'è altra possibilità.» Goda aveva notato il cambiamento nel tono di voce. «A quanto pare, tu non ci aiuterai.» «Come ti viene in mente una cosa del genere?» replicò Boïndil. «Certo che ci aiuterà!» «Ha ragione lei», disse Tungdil, calmo, congiungendo le mani come se volesse pregare. «Io ho combattuto le mie battaglie e non ho più nessuna voglia di continuare a essere un guerriero.» «Stai scherzando, Sapientone!» sbottò il Rabbioso. «Non prendermi in giro! Non su questo argomento. Sono tantissime le persone che ti hanno aspettato e che hanno riposto in te ogni speranza di porre fine alle ingiustizie nella Terra Nascosta. Uomini, elfi - ovunque siano - e nani. Il tuo popolo ti aspetta!» «Lo so, ma io non ho mai promesso a nessuno che sarei tornato come salvatore», replicò Tungdil. «Ho impedito un primo attacco alla fortezza e vi ho messi in guardia sulla minaccia dei mostri. Adesso sapete che cosa dovete fare per contrastarli. Non farò di più.»
«Ieri sera le cose sembravano molto diverse!» Boïndil era avvilito. «Tu stesso hai detto...» «... di essere tornato a casa per trovare un po' di pace», lo interruppe Tungdil. «Nient'altro. E che ho bisogno di tempo per...» «Che cosa intendi per casa, Tungdil Manodoro?» intervenne Goda. «Dimmi: dov'è la tua casa? Nella galleria di Lot-Ionan? Non esiste più da molto tempo. O vorresti raggiungere i Liberi, il cui regno sotterraneo è circondato dai Terzi, e da cui loro non possono uscire? O tornerai da Balyndis, il tuo primo amore? O sono forse i Sotterranei quelli con cui vorresti trascorrere il resto dei tuoi cicli?» Indicò la finestra. «O forse la tua casa è nella terra cui conducono i cunicoli che portano nella Forra Oscura! Hai trascorso la maggior parte della tua vita laggiù. Sarebbe appropriato chiamarla patria, non trovi?» La nana si alzò. «A me non importerebbe nulla, se tu scomparissi.» «Goda!» tuonò Boïndil, scosso. «Tu forse non sai se prestare ascolto ai tuoi dubbi, Boïndil, ma io non ignoro i miei. A cosa ci serve questo Tungdil in sontuosa armatura, se non muove un dito?» chiese la nana, aggressiva.
«Per Vraccas, non può essere Tungdil!» Gettò uno sguardo sprezzante al nano da un occhio solo. «Il Sapientone si sarebbe già mosso per porre fine alle miserie della Terra Nascosta.» Puntò l'indice contro di lui. «Tu non sei Tungdil, quindi tornatene nella Forra Oscura. Preferisco che le nostre truppe credano che tu sia dovuto partire all'improvviso e che prima o poi ritornerai!» Goda si voltò, scrollandosi dal braccio la mano di Boïndil, poi lasciò la stanza. Il Rabbioso osservò Tungdil, che, impassibile, aveva incassato le accuse. Nessuna opposizione, nessuna resistenza. «Di' qualcosa, Sapientone!» lo implorò. «Per il nostro creatore, il Fabbro Divino: di' qualcosa che contraddica le parole di Goda e che mi faccia credere in te. Che faccia credere in te tutti noi! Tu non puoi immaginare quale effetto potrebbe avere il tuo ritorno sugli umani e sui nani rimasti.» Tungdil si alzò, girò intorno al tavolo e si fermò qualche istante davanti al vecchio amico per appoggiargli la mano sinistra sulla spalla; poi uscì dalla porta e raggiunse il corridoio. «Questa non è una risposta!» gridò Boïndil, adirato. «Torna indietro e rispondimi!» Lo seguì e, raggiuntolo a grandi passi, lo afferrò per le
spalle e tentò di farlo voltare. Ma non riuscì a smuoverlo. Sentì alla mano un formicolio ammonitore. Senza ulteriore preavviso, fu investito da un colpo che lo scaraventò contro la parete; si accasciò gemendo sul pavimento di pietra. Stelle e fiammelle danzavano davanti agli occhi del Rabbioso che, attraverso di esse, vedeva il volto di Tungdil, chino su di lui. «Ti porto un guaritore. Questo non avresti dovuto farlo, mio amico dal sangue caldo. Ma non temere, presto sarai di nuovo in forma.» Le ultime parole scemarono nelle orecchie di Boïndil, mentre perdeva i sensi. Tungdil s'incamminò verso la sua stanza. L'agitazione per il collasso di Boïndil si era acquietata. Il guaritore che era accorso dava per scontato che il generale della fortezza avesse sofferto di un piccolo attacco di nervi: troppa gioia, e forse troppa grappa, la sera precedente. Anche se qualcuno immaginava che ci fosse dell'altro, nessuno mise Tungdil in relazione con l'accaduto; non apertamente, almeno. E, al suo risveglio, il Rabbioso non aveva detto nulla che potesse incolpare il suo amico.
Quando girò l'angolo, Tungdil quasi si scontrò con una nana. A giudicare dal viso sottile e giovane, la nana non aveva visto molti cicli. La pelle era marrone scuro, come quella di chi ha vissuto tutta la vita all'aria aperta; il cranio era rasato, gli occhi azzurri. Indossava un abito ricamato color ocra, che stava aperto sul davanti, permettendo uno sguardo sulla sottostante camicia bianca, anch'essa adorna di ricami. «Tu sei Tungdil Manodoro?» «E tu, a giudicare dalla statura, sei una Sotterranea», le disse lui. «Più alta di una nana e più piccola di un'umana.» Lei annuì e si avvicinò di un passo. «Sono Kiras.» Alzò il volto, in modo che la luce delle lampade vi cadesse meglio. «Si dice che io somigli molto a una mia antenata», disse, e sembrava piena di aspettative. Gli occhi azzurri erano fissi sull'occhio di Tungdil. «Indossò un abito ispirato al suo. Per te.» Tungdil corrugò la fronte. «E dunque? La cosa mi riguarda?» «Non lo immagini?» L'espressione piena di speranze di Kiras cambiò. «Mi piaceva molto l'idea di poterti fare una sorpresa. Al tuo ritorno
non puoi più stringere lei tra le tue braccia, ma speravo di poter essere io a mitigare il tuo dolore: sono una pronipote di Sirka.» Gli rivolse un sorriso radioso. «Ci mancava solo questo...» mormorò Tungdil, irritato. «Non voglio offendere te e il retaggio che porti, Kiras, ma io non mi ricordo più di Sirka. Né del suo aspetto né dell'amore che provavo per lei. Molto di ciò che un tempo ho vissuto nella Terra Nascosta è ormai scomparso dalla mia testa.» La guardò intensamente, come se osservarla potesse far riaffiorare in lui i ricordi. «No», disse, alla fine. «Non riesco a ricordarla, neppure vedendo te.» Kiras deglutì. La delusione che provava era palese. «Allora ti do comunque il benvenuto in suo nome, Tungdil Manodoro.» Si fece avanti, per abbracciarlo. «Non ha importanza che tu ti ricordi o no. Io sono un'ambasciata per te: il vostro amore...» Il guerriero indietreggiò, come se la Sotterranea fosse contaminata da una malattia mortale. «No, Kiras, non farlo», le ordinò, e la sua voce cupa oscurò la luce del corridoio. «Non desidero che tu mi abbracci.»
La nana si fermò davanti a lui, sgomenta, e abbassò le braccia. «Così respingi non soltanto me, ma anche Sirka.» «Perdonami. E prego che il suo retaggio in te prevalga rispetto al mio. Il mio significa morte.» La guardò, poi le girò intorno come se fosse un barile che gli ostacolasse il cammino, per proseguire in direzione della sua stanza. «Ma... ho una sua lettera per te!» Kiras portò la mano alla cintura e ne trasse una pergamena sigillata. «Bruciala, o facci quello che vuoi», le suggerì Tungdil, senza voltarsi. Kiras lo osservò proseguire lungo il corridoio. «Non può essere vero», mormorò, incredula. Abbassò lentamente il braccio che reggeva l'antico messaggio. «Che cosa ti avevo detto?» Goda aveva osservato da una nicchia l'incontro tra i due. Non era stato un caso che la Sotterranea e l'eroe si fossero incontrati proprio in quel luogo della fortezza. «Come ha potuto lasciarmi così?» Goda seguì con lo sguardo il guerriero e intanto appoggiò un braccio sulle spalle della Sotterranea, per consolarla. Perché non è il vero
Tungdil. Tutti dovranno presto rendersene conto. Tungdil tornò nel suo alloggio. Si sfilò le manopole e le appoggiò su una cassapanca. Mentre portava la mano alla prima fibbia dell'armatura, una delle rune intarsiate sulla parte destra del petto s'illuminò, mettendolo in allarme. «C'è sicuramente un motivo se, quando sono entrato, non hai palesato la tua presenza», disse il nano, con lo sguardo fisso davanti a sé. «Potresti rimediare adesso.» Tungdil portò la destra sull'elsa della Sanguinaria. «Ma, visto che non lo fai, potrei supporre che tu non sia venuto con intenzioni amichevoli.» Dietro di lui, un ubari in armatura si alzò ed estrasse un'arma. «La vostra supposizione è giusta», disse, con voce profonda. «Ma solo se non otterrò risposta alle mie domande.» Tungdil si girò e vide il comandante degli ubari che aveva scortato lui, Boïndil e Goda dall'artefatto alla fortezza. L'ufficiale teneva la lunga spada dalla pesante punta rinforzata rivolta verso il basso; i suoi occhi rossi erano puntati su Tungdil, pieni di attenzione. Era alto
all'incirca il doppio del nano, e i muscoli del massiccio braccio armato guizzavano. «Quali domande mi può mai porre un ubari, Yagur?» replicò Tungdil, in tono canzonatorio. «Ti ha forse mandato un nano a porle per conto suo? O dovrei dire: una nana?» Yagur non raccolse l'allusione. «Conosco le leggende su di voi e sul generale Boïndil, Tungdil Manodoro. L'ultima cosa che vorrei fare è mancarvi di rispetto, ma non sono il solo a nutrire dubbi sul vostro conto» disse, cauto. «E tu pensi che renderò conto a te che sei strisciato furtivamente nella mia stanza e che mi minacci con la spada?» ribatté il nano, con l'occhio scuro che scintillava minaccioso. «Presto ti stupirai molto, Yagur.» Lentamente allontanò la mano dall'impugnatura dell'arma. «Che cosa farai davanti al mio silenzio? Cercherai di corrompermi? O d'impietosirmi?» L'ubari incassò la testa e fece un passo in avanti. «So sciogliere le lingue», minacciò. «Credimi, se ti dico che non hai nessuna possibilità d'interrogarmi contro la mia volontà.» Tungdil indicò con un cenno del capo la porta. «Va' e racconta a Goda quello che ti pare. Puoi anche mentirle, io non ti smaschererò.» Sganciò
il sostegno cui appendeva la sua arma e se lo tolse, adagiando la Sanguinaria accanto ai guanti. Yagur puntò verso il nano. «L'avete voluto voi...» La spada si alzò puntando verso la gola di Tungdil. «Non opponete resistenza. Vi porto in un posto in cui possiamo parlare indisturbati.» «No.» Tungdil non indietreggiò e lasciò invece che l'ubari lo afferrasse per la collottola. Poi mise la mano destra sulla mano del guerriero, tenendola ferma, con l'altra colpì l'avambraccio. Si sentì un forte scricchiolio, mentre il gomito dell'ubari si rompeva e usciva dall'articolazione, sprizzando sangue. Prima che Yagur vincesse lo stupore e riuscisse a gridare, Tungdil aveva aveva estratto un pugnale e lo aveva lanciato. L'ubari, trafitto al collo, non riuscì a emettere più di un rantolo; cadde sulle ginocchia, si riversò sulla pietra e lasciò cadere la spada. «Devi parlare in modo più comprensibile, Yagur. Così non capisco quello che dici», lo sbeffeggiò Tungdil, senza nessuna compassione. Poi la porta si spalancò e, armi in pugno, fecero irruzione nella stanza altri tre ubari mascherati.
Il nano inclinò la testa in avanti e un sorriso crudele gli increspò le labbra. Come dal nulla, nere vene sottili apparvero intorno alla benda e si diffusero su tutto il volto come una tela di ragno. «Lasciatemi indovinare: siete qui per interrogarmi.» Due rune brillarono sulla sua armatura, gettando il loro bagliore dorato sugli aggressori. «Ascoltate, dunque. Ma guardatevi dalle mie risposte!» All'improvviso risuonò un corno, modulando una temuta melodia: i mostri erompevano dalla Forra Oscura per fare ciò che la prima ondata di aggressori non era riuscita a fare. Tungdil drizzò la schiena; sul suo volto c'era una superbia smisurata. «Lascio a voi la scelta: volete morire nella mia stanza o là fuori, sul campo di battaglia?»
IV Terra Nascosta, ex regno del Weyurn, città di Mifurdania, 6491° ciclo solare, inverno Coïra correva di ombra in ombra. Sceglieva costantemente i vicoli più stretti della città per non trovarsi sul percorso della ronda dei mezz'orchi; questi infatti non vi si avventuravano, perché negli spazi più angusti tra le case potevano camminare solo in fila per uno. I vicoli erano il posto migliore possibile per tendere un agguato a guerrieri forti e superiori di numero. I mezz'orchi avevano smesso di cercare la ragazza, perché si supponeva che ormai fosse tornata da parecchio al suo palazzo sull'isola di Seenstolz, ma i Lohasbrander continuavano a far marciare per la città le loro guardie pesantemente armate, in modo da ostentare la forza del drago e intimidire gli abitanti. La situazione a Mifurdania era molto tesa. Lo spettacolo dei più degni discendenti dell'Incredibile Rodario aveva attirato molti
visitatori e quindi all'interno delle mura cittadine s'intrattenevano più persone del solito. Allo stesso tempo, era stato messo agli arresti il famoso combattente per la libertà, molto amato dal popolo, che aveva compiuto assassini ai danni degli odiati occupanti e che aveva cercato di attizzare il fuoco dell'insurrezione. Perfino in quel momento, dall'interno della galera, prometteva alla gente tempi migliori, come le scritte comparse più di recente dimostravano. Nelle osterie c'era agitazione. Circolava per le strade la voce che la liberazione del poeta fosse imminente. Ma nessuna delle persone che ne parlavano, a voce bassa, tra birra e vino, presagiva che Coïra voleva trasformare le voci in verità. Liberando Rodario l'Irraggiungibile, la principessa sapeva di non comportarsi in modo del tutto disinteressato. Avrebbe avuto finalmente l'occasione di parlare con l'uomo che venerava per il coraggio e la maestria nella poesia, oltre che per l'avvenenza fisica. Erano dunque diversi i motivi che le facevano battere il cuore più velocemente del solito; l'eccitazione per l'imminente attacco alla prigione era solo uno di essi.
Coïra si avvicinava alla torre molto alta e stretta, situata nei pressi della porta orientale della città, in cui erano detenuti i criminali che avevano trasgredito alle leggi del drago. Poiché negli ultimi cicli erano sempre di più quelli che si erano resi colpevoli di qualcosa, la costruzione era stata ampliata in verticale. Quando il vento soffiava forte, la torre cominciava a oscillare; di tanto in tanto i merli perdevano qualche pietra, che andava a forare i tetti delle case circostanti. Diverse persone ci avevano già rimesso la vita. Coïra fece un profondo respiro e guardò in alto. Presumeva che l'Irraggiungibile fosse molto in alto; avrebbe dovuto quindi farsi strada tra i diversi piani facendo attenzione che nessuno suonasse l'allarme. Le sue capacità di maga potevano agevolarla nell'intento, ma il potere bastava solo per qualche incantesimo, poi la principessa avrebbe dovuto attingere per nuova energia alla fonte della magia situata nei pressi del palazzo. Ciò la rendeva vulnerabile. «Dovrebbero inventare una fonte portatile», mormorò Coïra, e si diresse, stando china, verso l'ingresso della torre. Origliò attraverso la spessa porta senza percepire nessun rumore.
Spiando attraverso la finestra chiusa da una grata, si trovò a guardare una tenda. L'unica cosa che riuscì a capire era che c'era luce nel posto di guardia. Il sangue pulsava nelle orecchie della ragazza. Era veramente difficile stimare le forze con cui si sarebbe confrontata. Quanti mezz'orchi siederanno là dentro? si chiese. Solitamente il numero delle guardie non superava la mezza dozzina, ma in quel momento, considerata la situazione in città, potevano essere anche il triplo. Coïra estrasse la spada da sotto il mantello, raccolse le energie magiche e si preparò per un incantesimo che avrebbe dovuto far addormentare i guardiani. L'aveva sperimentato abbastanza spesso sugli esseri umani, ma non poteva prevedere come avrebbero reagito i mezz'orchi. Si tirò la sciarpa davanti bocca e naso, poi si sforzò di assumere un'espressione truce, prima di abbassare la maniglia e fare irruzione nella stanza. «Non muovetevi, altrimenti...» La stanza era vuota. Sul tavolo c'erano sette boccali, tutti pieni. Erano chiaramente visibili tracce della cena:
ossa di pollo, briciole di pane e avanzi di verdure giacevano su un vassoio. Coïra richiuse la porta e attraversò la stanza, con circospezione. Che le guardie fossero ai piani superiori, a portare il pasto ai prigionieri? Gli occhi della ragazza osservarono la mensola fissata accanto al passaggio che portava alle celle; non vi era appeso nessun mazzo di chiavi. La cosa si faceva sempre più strana e, più Coïra ci pensava, più giungeva alla conclusione che qualcuno era arrivato prima di lei. Si affrettò a salire la scala, verso il primo piano, tenendosi sempre pronta a impiegare spada e magia. Sul pianerottolo del terzo piano vide subito che le porte delle celle erano aperte. Il poeta della libertà aveva amici tanto coraggiosi da liberarlo a dispetto delle numerose guardie? Quel pensiero la fece sorridere, felice. Continuò a salire le scale, finché non si fu accertata che tutte le celle erano vuote. La delusione per non essere stata lei a liberare il poeta durò non più di uno schiocco di dita: la cosa importante era che l'Irraggiungibile fosse libero.
Coïra scese a perdifiato la lunga scalinata e improvvisamente si trovò davanti a Rodario Settimo. Questi trasalì almeno quanto lei e si lasciò perfino sfuggire un debole e acuto grido; il pugnale gli cadde a terra tintinnando. «E voi che ci fate qui?» chiese la ragazza, meravigliata. Rodario deglutì e raccolse l'arma, la pulì sul vestito, tenendola maldestramente, poi la mise via schiarendosi la voce, imbarazzato. «Sono qui per la vostra stessa ragione, credo», balbettò, guardando la spada della ragazza. Si tirò via dagli occhi un paio di ciocche di capelli. «Liberare l'Irraggiungibile.» Coïra rise. «Da solo?» L'uomo corrugò la fronte, sembrava offeso. «Certo. Non potevo mettere in pericolo qualcun altro.» Rodario Settimo guardò oltre la donna, su per la scala. «Dov'è?» «Siamo arrivati entrambi troppo tardi. È già stato liberato.» Coïra trovava incredibilmente toccante che proprio quel gracile e impacciato attorucolo si fosse messo in marcia per battersi coi mezz'orchi e liberare l'Irraggiungibile. Ancora più commovente era che quel Rodario non
possedesse proprio nessuna di quelle qualità di cui il grande attore e poeta disponeva in abbondanza. Il volto di Rodario Settimo s'illuminò. «Oh, grazie a Samusin! Tanto meglio.» Sembrava sollevato. «Allora possiamo andare via, insieme.» Dallo sguardo dell'uomo, Coïra capì di piacergli. Ci mancava soltanto questo! Improvvisamente, dall'esterno, si avvicinarono all'ingresso voci cupe e forti; poi i due giovani sentirono lo scalpiccio di stivali e lo sferragliare metallico di armature. Un gruppo di guardie tornava dalla ronda. «La torre ha soltanto quell'accesso», mormorò Coïra, spegnendo le lampade. «Forza, nascondiamoci!» L'uomo di primo acchito fece per salire le scale, ma lei lo trattenne per la manica. «No, non nelle celle. Non potremmo rendere loro le cose più facili di così.» Gli diede uno spintone che lo fece barcollare nella nicchia d'angolo, accanto all'armeria. Le ombre erano favorevoli, potevano sperare che le guardie passassero accanto a loro senza notarli. La porta venne aperta e un mezz'orco entrò nella stanza. Dopo solo tre passi gridò i suoi
ordini, estraendo la spada dal fodero. Otto dei suoi soldati si gettarono con lui su per le scale, quattro rimasero nel posto di guardia a controllare l'uscita e riaccesero le lampade. Coïra sapeva di non poter evitare un combattimento. E soprattutto sapeva di dover agire in fretta, prima che tornassero gli altri nove mostri. «Avrò bisogno di voi, Rodario Settimo», gli sussurrò in un orecchio, e vide che il giovane rabbrividiva di piacere mentre il suo respiro lo lambiva. «Tutto ciò che volete», disse l'attore, zelante, ma purtroppo non a bassa voce. «Là!» gridò uno dei mezz'orchi, concitato. «Nell'angolo!» Estrasse la spada. Gli altri tre seguirono il suo esempio e attaccarono. «Bravissimo!» sbottò Coïra, mentre lanciava un incantesimo contro gli aggressori. Dalla sua mano sinistra sfrecciarono quattro sfere gialle, grosse come biglie. Frantumandosi, avvolsero i mostri in una specie di corona luminosa. Due creature si accasciarono, ma per le rimanenti l'effetto non arrivò.
«È Coïra Weytana!» tuonò uno di loro in direzione della scala. «La figlia della maga è qui! Svelti, aiutateci!» «Forza!» disse Rodarlo, tenendo il pugnale davanti a sé. «Morte a loro!» Balzò sul mezz'orco più vicino e affondò il colpo. Coïra divenne perfettamente consapevole che il Settimo non solo non aveva un bell'aspetto e non era pronto di spirito, ma non era neppure un buon guerriero: aveva eseguito il suo attacco in modo così goffo che perfino un cieco avrebbe facilmente scansato la lama. Il mezz'orco ricambiò col giusto disprezzo. Afferrò uno dei boccali che ingombravano il tavolo, fece un derisorio passo di lato, per far cadere nel vuoto l'attacco, e spaccò il recipiente sulla nuca dell'uomo. Rodario gemette e perse l'equilibrio, volò in avanti e cadde lungo disteso sul tavolo. I boccali rimasti si schiantarono sul pavimento, e la birra si versò spumeggiando. Coïra menò un colpo di spada verso il mezz'orco che aveva davanti. Questi parò all'ultimo momento: la lama gli era arrivata molto vicino al collo. Grugnendo abbassò la lama, allontanandola da sé, e restituì il colpo.
La ragazza contrappose la sua spada, ma la forza del colpo quasi la costrinse ad aprire il pugno; un formicolio le si diffuse dalle dita all'avambraccio. Doveva difendersi in un modo diverso, anche se avrebbe preferito farne a meno. Scatenò un incantesimo mortale contro l'avversario. Crepitanti fulmini rossi le uscirono dagli occhi, colpendo il mezz'orco al volto. La pelle del mostro ribollì di vesciche, gli occhi si liquefecero ed evaporarono. Strillando, il mezz'orco cadde a terra. Allora la creatura che aveva atterrato Rodario scagliò il suo pugnale contro la maga. Coïra usò le sue facoltà per fermare in aria la lama roteante: un pensiero e una breve formula bastarono a far ribollire e sciogliere il metallo. Rispedì il grumo rosso incandescente contro chi lo aveva lanciato. Il mezz'orco non riuscì a evitare il proiettile. Il ferro fuso si spiaccicò sul collo e sibilando bruciò la pelle, facendosi strada verso l'interno. In preda al panico, il mostro cercò di toglierselo con le mani, consumandosi le dita fino alle ossa. Il dolore lo fece cadere a terra privo di sensi. Giù per la scala intanto risuonavano ordini gridati e si avvicinava uno scalpiccio di stivali.
Coïra corse al tavolo e tirò su per il bavero l'attore stordito. «Venite, più sfortunato tra gli sfortunati», disse, schiaffeggiandolo per fargli riprendere i sensi. Rodario roteò gli occhi, poi sorrise incerto. «Ben fatto, principessa.» «La stessa cosa non si può dire per voi!» La ragazza corse verso l'uscita. «Via di qua! O volete incontrare i Pelleverde per combattere altre gloriose battaglie?» disse, senza riuscire a trattenere il sarcasmo. «Ma non so dove andare», si lamentò l'uomo, prendendo il pugnale con entrambe le mani. Due mezz'orchi spuntarono dalla scala, fermandosi sulla soglia del posto di guardia. Coïra sospirò. «Venite con me. Vi porterò al sicuro, anche se in realtà dovrebbe essere il contrario. In fin dei conti, voi siete l'uomo.» «Lo so.» Rodario annuì, amareggiato, affrettandosi a raggiungerla alla porta. «È l'eroe a salvare la principessa, non il contrario.» «Già! Prendete nota per la prossima volta», replicò Coïra, mentre correva a ritroso per gli stretti vicoli. Era diretta verso un punto delle mura attraverso il quale si poteva raggiungere l'esterno, dove Loytan la stava aspettando. Con
due cavalli. Uno in realtà era stato destinato all'Irraggiungibile, ma sarebbe toccato alla brutta imitazione del Rodario che le interessava. «Non è giusto!» mormorò, voltando la testa per guardare l'attore. L'uomo incespicava di continuo nelle sue vesti; a un certo punto gli cadde il pugnale, e lui si fermò a cercarlo nel cumulo d'immondizia. Coïra dovette trascinarlo via. Improvvisamente da un vicolo sbucò una figura, che si parò davanti a loro; teneva una lanterna nella mano sinistra e sembrava aspettarli. Era l'Irraggiungibile. Aveva qualche graffio insanguinato sul volto e l'occhio destro tumefatto, a riprova della simpatia che mezz'orchi e Lohasbrander nutrivano per lui. Porse la mano prima a Rodario Settimo, che era a corto di fiato, poi alla ragazza. «Volevo ringraziarvi per quello che avete tentato di fare per me», disse. «Non lo dimenticherò mai.» «Venite con noi», replicò Coïra, sperando che l'uomo non sentisse quanto il cuore le batteva forte. Non le aveva ancora lasciato la mano. «Abbiamo cavalli per portarvi...» L'Irraggiungibile scosse la testa. «No. Non posso abbandonare Mifurdania. Ci sono troppe
persone cui i miei versi devono ancora dare speranza. Ora più di prima.» Accennò un baciamano. «E poi devo vincere il titolo.» Fece un cenno di capo a Rodario Settimo, e a Coïra sembrò che in quel modo si scambiassero un silenzioso messaggio. «Porta il mio amico con te. È anche più in pericolo di me. Non c'è nessuno in città che sarebbe disposto a dargli rifugio, e il suo volto è troppo conosciuto.» Rodario Settimo sorrise, imbarazzato, giocherellando con l'orlo della manica sinistra. Coïra venne colta da una nuova delusione, ma annuì. «Lo farò», promise all'Irraggiungibile, sentendo il desiderio di non lasciarlo andare mai più. Invece doveva andarsene con l'attore imbranato, mentre il suo fulgido combattente rimaneva indietro a compiere nuove imprese eroiche. Che ingiustìzia! Si chinò in avanti e diede all'Irraggiungibile un accenno di bacio sulla guancia; poi si allontanò, tirandosi dietro Rodario Settimo. «Che uomo!» esclamò l'attore. «Cosa non darei per essere come lui...» «Cosa non darei io, perché foste come lui», mormorò Coïra, poi arrossì. Si vergognò subito
per quella cattiveria, che però evidentemente Rodario non aveva sentito. Raggiunsero una porta segreta che si apriva lungo le mura e che risaliva ai tempi della vecchia Mifurdania; allora era stata disposta perché gli esploratori potessero osservare le forze nemiche in caso di assedio. Era nota a poche persone; a Coïra l'aveva mostrata Loytan, e fino a quel momento era rimasta nascosta ai Lohasbrander. La ragazza cercò il meccanismo di apertura, mentre Rodario si guardava incessantemente a destra e a sinistra per controllare che non arrivassero mezz'orchi. «Ehi! Voi, lì sotto!» gridò qualcuno, più in alto. Una sentinella notturna, in armatura, si chinò sul parapetto per vederli meglio. «Che fate lì, attaccati al muro?» Scese di un paio di gradini sulla piccola scala, alzò la lancia e la girò in modo che la punta guardasse in basso e potesse essere usata per colpirli. Coïra indietreggiò di un passo, alzò la mano sinistra e provò a zittire la sentinella con un altro incantesimo di sonno, ma la sua riserva magica interiore era esaurita. Gli ultimi avanzi di
energia le sgorgarono dalle dita, ma non ne sortì nulla più di un luccichio, grazioso ma inutile. La sentinella imprecò e si portò alle labbra il corno. Rodario reagì con presenza di spirito. Scagliò in alto e con forza un secondo pugnale, che aveva tirato fuori come dal nulla. Aveva però dimenticato di sfilarlo dalla guaina! Con un tonfo cupo, il piatto dell'arma sbatté contro la fronte della guardia, che gemette scomparendo istantaneamente dietro il parapetto; subito dopo si sentì il corpo cadere. «Ho perso il mio ultimo pugnale!» si lamentò Rodario. «Maledizione, era costoso! Era fatto di...» «State calmo!» Coïra azionò il meccanismo di apertura, e il muro si scostò un poco di lato. «Ve ne comprerò io uno nuovo, ma adesso muovetevi!» gli disse, spingendolo fuori. «Anche un pollo cieco ogni tanto trova un chicco, vero?» «Io... non sono un pollo!» replicò Rodario, tornando a balbettare. Loytan li aspettava dall'altra parte; guardò l'attore, confuso, poi rivolse alla ragazza uno sguardo di rimprovero. «Sapete di aver liberato quello sbagliato, principessa?»
Coïra sospirò, balzando in sella. «Risparmiami il sarcasmo.» Il cavallo fece qualche passo, e l'attore si ritrovò a saltellargli accanto su una gamba: l'orlo del suo vestito era rimasto impigliato alla staffa. «Non una parola. Ti spiegherò strada facendo», aggiunse Coïra, vedendo che Loytan stava per aprire di nuovo la bocca. Alla fine, anche il Settimo riuscì a montare in sella. «Ora possiamo fuggire», annunciò. «Da lui, magari?» sussurrò la donna a Loytan, mandando al trotto il suo morello. «Dove andiamo?» chiese Rodario. «A palazzo», rispose Coïra, guardandosi alle spalle. Aveva notato un bagliore nell'oscurità. In lontananza apparvero cavalieri muniti di torce, mentre parecchi segugi correvano davanti ai cavalli e si mettevano sulle tracce dei fuggiaschi. I Lohasbrander non avevano intenzione di farli scappare così facilmente. Per Coïra, la cosa più importante era raggiungere la sorgente presso Seenstolz per attingere nuove energie magiche. Altrimenti... Terra Nascosta, protettorato del Gauragar meridionale, 6491° ciclo solare, inverno
Hindrek stava conducendo fuori della foresta la slitta su cui era accatastata la legna, in direzione della casa che si trovava al centro della radura innevata. Doveva spaccare la legna in pezzi di dimensione adatta alla stufa; i ciocchi a casa stavano per finire, erano appena bastati per accendere il focolare in cucina. Fece fermare i cavalli accanto al fienile e chiamò i suoi due figli perché lo aiutassero a scaricare. La porta si aprì e ne uscirono due ragazzi di undici e quattordici cicli. Come il padre, portavano mantelli variegati e berretti ottenuti da pezzi di pelliccia diversi: scoiattolo o lepre, non aveva nessuna importanza, l'essenziale era che tenessero caldo. La madre fece un cenno dalla finestra, tenendo in mano un coniglio spellato; sarebbe diventato il pranzo. Hindrek iniziò a passare la legna a Cobert, il più grande dei due ragazzi. «E dunque? Chi ha preso il coniglio?» «Io», rispose Ortram, orgoglioso. «Pendeva dal mio cappio.» «Lui sa sempre dove passano le piccole bestie», lo lodò Cobert, sorridendo. «Io ho più dimestichezza con l'arco.»
«Ma tu è da tanto che non porti selvaggina a casa», replicò il fratello, facendogli la linguaccia. «Io sono molto più bravo di te!» «Già, già, senza di te saremmo sicuramente morti di fame.» Hindrek sorrise mentre dava anche a Ortram un grosso pezzo di legno. «Segalo, spaccalo a pezzi e rinforzati i muscoli. Altrimenti non riuscirai mai a tendere un arco come fa Cobert.» I due ragazzi si avviarono verso il ceppo in cui era infilata la grossa ascia. Hindrek li guardò allontanarsi, poi alzò la mano a salutare la moglie, Qelda, che gli mandò un bacio con una mano prima di scomparire dalla finestra. L'uomo osservò i figli sistemare la legna e litigare su chi a quel punto avrebbe fatto il lavoro più pesante. Era soddisfatto della sua vita di guardacaccia, anche se avrebbe preferito non essere al servizio del conte Pawald, vassallo degli albi. Ma così almeno lo lasciavano in pace, finché si dedicava al suo lavoro. Hindrek sperava soltanto che, al contrario di lui, i suoi figli potessero prima o poi vivere liberi da qualsiasi padrone. Il vento girò, soffiando da nord. Portò ai tre un canto magnifico, che li commosse già dalle
prime note, facendo rizzare loro i peli sulle braccia e sulla nuca per l'emozione. Il motivo constava di semplici sillabe senza senso, ma la limpidezza della voce della donna e il sentimento che conteneva avvinse i tre, facendoli fermare dov'erano e costringendoli a guardare nella foresta, da cui proveniva la voce, mentre si affievoliva sempre più fino a diventare impercettibile. Ortram si girò verso il padre, col volto estasiato. «Che cos'era?» Hindrek trasalì, provando un desiderio struggente. Desiderio di poter ascoltare di nuovo quello che aveva appena ascoltato. «Non so dirti. Forse una viandante che cercava d'ingannare il tempo della sua marcia con un canto.» Cobert gettò l'ascia nella neve e si diresse verso gli alberi. «Voglio vedere che aspetto ha una donna con una voce simile», gridò, mettendosi a correre. «Fermo!» gli ordinò Hindrek, saltando giù dalla slitta. «Abbiamo del lavoro da fare.» Ma in realtà capiva fin troppo bene il desiderio del figlio più grande. «Aspetta!» Si mise a seguire il figlio, che stava per scomparire tra gli alberi.
«Ortram, tu aspetta qua. Io penso a tuo fratello.» Hindrek vide il mantello a pezze di Cobert sparire tra gli alberi. Il giovane era incredibilmente veloce; si spingeva in avanti come posseduto, trascinando il padre sempre più in profondità nella foresta. Le ombre s'infittivano e, all'improvviso, sembrò che il sole perdesse la sua forza a mano a mano che si allontanavano da casa. «Cobert, fermati!» gridò il guardacaccia, preoccupato, appoggiandosi a un abete di Palandiell. Ormai, sotto il mantello, era tutto sudato. «Qui c'è qualcosa che non va. Forse sono gli spiriti della foresta che si vogliono prendere gioco di noi. Mi senti?» L'uomo trattenne il fiato e si mise in ascolto. Le note e la voce limpida come cristallo spazzarono via tutte le sue riserve, facendogli tornare il desiderio di vedere coi suoi occhi la cantante. Poterla ammirare e pendere dalle sue labbra, mentre cantava solo per lui. Solo per lui! Nessun altro avrebbe dovuto goderne! Una divampante gelosia crebbe rapida in lui. Senza rendersene conto, Hindrek estrasse il suo
pesante coltello da caccia; la robusta lama affilata brillò debolmente. L'uomo seguì la melodia, che era molto vicina. I passi rapidi si trasformarono in una corsa eccitata che non si sarebbe lasciata ostacolare da nulla. Il guardacaccia si fece strada attraverso la boscaglia, attraverso la neve, attraverso rovi e sopra tronchi di alberi caduti. Non sentiva freddo né dolore; gli angoli della bocca erano sollevati in un sorriso beato, mentre gli occhi scintillavano febbrili. Avanti, sempre avanti! Poi, inaspettatamente, si ritrovò alla spalle del figlio maggiore, che era inginocchiato a capo scoperto davanti a una donna avvolta in un mantello nero ricamato d'argento. Il canto proveniva dalla figura in nero, e Cobert l'ascoltava con devozione. La donna gli teneva la mano destra sulla testa bionda e l'accarezzava dolcemente, come si accarezza la testa di un amante. Il volto della cantante era pieno di grazia; perfino la donna più bella che Hindrek avesse mai incontrato scompariva accanto a lei. Nella mente del guardacaccia non c'era più null'altro che l'incantevole cantante. I lunghi capelli neri
della donna erano mossi da una leggera brezza, e le circondavano il volto allungato; sulla fronte portava uno scuro diadema di tionio, argento e oro, mentre due diamanti grandi come polpastrelli le scintillavano sopra gli occhi. In Hindrek crebbe un'ardente gelosia, che nemmeno la melodia riusciva a placare. Doveva essere lui al posto di Cobert e sentire su di sé le dolci dita della donna. Che ne sapeva il ragazzo di amore e sensazioni? Poco dopo, la sua gelosia crebbe ulteriormente. Quando Cobert premette la guancia contro il polso della donna e fece per baciarlo, Hindrek si gettò su di lui, con un grido esagitato, lo afferrò per i capelli e gli passò il coltello attraverso il cuore. Il canto cessò. «Sta' lontano da lei!» gridò l'uomo, gettando il cadavere di lato come fosse un sacco di frumento. «È mia. L'ho sentita prima io», sussurrò, inginocchiandosi sulla neve insanguinata. Abbassò le braccia e guardò la donna, che gli sorrideva in silenzio. Hindrek attendeva con struggimento che lei lo accarezzasse come aveva accarezzato Cobert;
sporse la testa e chiuse gli occhi. «Ti prego, dea, canta per me!» implorò. «Che cosa saresti disposto a fare, Hindrek?» chiese lei, toccandogli la guancia. «Attendo qualcosa in cambio, prima di levare di nuovo la mia voce.» «Qualunque cosa», rispose l'uomo, con le labbra tremanti. Il corpo gli doleva per la brama di sentire di nuovo quelle note; voleva sentirle sino alla fine dei suoi giorni, sempre e ancora, senza interruzioni. «Torna alla tua capanna e portami le teste della tua famiglia», disse la donna, ammaliante. «Poi canterò per te un'altra melodia.» Si piegò verso di lui e con le labbra sfiorò le sue. «La melodia del piacere.» Hindrek balzò in piedi e si mise a correre. Ripercorse la strada da cui era venuto, e sentiva la voce e le note della donna, che lo incitavano e davano alle sue gambe forza sufficiente per raggiungere la sua casa, veloce come il vento. Si era fatto buio. All'interno del semplice edificio bruciavano i ciocchi, e il fumo usciva dal camino. I cavalli erano stati staccati, una piccola catasta di legna stava vicino al ceppo con l'ascia.
Il guardacaccia trasse l'ascia dal ceppo e la impugnò con entrambe le mani, poi ansimando si diresse verso l'ingresso. Non intendeva lasciare aspettare un minuto di più la cantante, di cui continuava a sentire nelle orecchie la voce. La melodia del piacere... Rabbrividì, estasiato. La porta si spalancò, Ortram stava sulla soglia. «Mamma, eccolo qua!» esclamò, sollevato. Poi chiese: «Dov'è Cobert?» Gli occhi del ragazzino si spalancarono, vedendo il sangue sul mantello del padre. «Che cos'è successo?» Qelda raggiunse il figlio sulla soglia di casa e gettò al marito uno sguardo preoccupato. «Hindrek? Che hai? E dov'è il ragazzo?» Il suono di quella voce tanto familiare frantumò l'effetto obnubilante del canto che ammaliava. L'uomo si fermò davanti ai suoi familiari, con l'ascia sollevata. Ammiccò, vide il volto della moglie e del figlio. «Io...» Per quanto si sforzasse, non riusciva a ricordare. «Io ero sulla slitta...» Si girò verso il capanno dove si trovava il veicolo. «C'era una voce... una melodia...»
Cercò di cantare quella melodia, ma dalla sua bocca suonava orribile. «Ho...» Col volto terrorizzato, Qelda si avvicinò al marito. «Hindrek, dov'è nostro figlio? E di chi è il sangue che hai sul mantello?» Quella voce risuonò alta e sgradevole alle orecchie del guardacaccia. Il volto gli s'illuminò. «La donna! Nella foresta... ha cantato per me!» «Mamma...» gemette Ortram, scoppiando a piangere e aggrappandosi di corsa al fianco della madre. «Che cos'ha papà?» Poi sentirono di nuovo la melodia. Spirava su di loro, come seta, accarezzando la mente. «Mamma, eccola di nuovo!» sussurrò il ragazzino. «Sta' zitto!» gridò Hindrek, irritato. «Sembri un ratto che squittisce!» Qelda indietreggiò, tirando il figlio dietro di sé. «Torniamo in casa», disse con urgenza. «Tuo padre è posseduto dagli spiriti della foresta.» Il volto di Hindrek si contrasse, pieno di disgusto. «Silenzio! I tuoi strilli sono orribili!» Alzò l'ascia, e gli tornarono in mente le parole della donna in nero. La promessa della melodia del piacere e la terribile richiesta.
Prima che Qelda potesse fare qualcosa, l'uomo colpì. La lama passò attraverso il collo, staccando la testa di netto. Il corpo decapitato della donna cadde a terra; il cranio rotolò in un mucchio di neve, scomparendovi dentro. Ortram fissava il cadavere della madre strillando, con le mani strette a pugno e le braccia lungo il corpo. Hindrek si accinse senza esitazione a porre fine a quel suono fastidioso, che lacerava il magnifico canto della sconosciuta. Quattro rapidi passi e si trovò davanti al figlio, tenendo l'ascia di traverso e pronta a colpire. Presto otterrò la mia ricompensa. Qualcosa lo colpì alla gamba destra, sbilanciandolo. La lama dell'ascia sibilò sopra la testa del ragazzo, e lo slancio stesso fece cadere l'uomo. Nel ginocchio destro era infilato un dardo di balestra, e a quel punto si sentì uno scalpiccio di zoccoli. Dal sentiero che conduceva al villaggio stavano avanzando quattro cavalieri in armature di cuoio brune e lunghi mantelli chiari. Uno di loro teneva in mano la balestra che aveva appena tirato il dardo.
«Sta' lontano dal bambino!» gridò il balestriere, ricaricando l'arma. «La melodia del piacere...» gemette Hindrek, usando l'ascia come una stampella per rialzarsi. Riconosceva gli uomini: erano Wislaf, Gerobert, Vlatin e Diederich, uomini di fiducia del conte Pawald. Hanno udito anche loro il canto divino e sono venuto per portarmelo via! Zoppicò fino alla porta di casa, dove nel frattempo Ortram si era rifugiato. «Voglio sentire la melodia del piacere!» gridò furente il guardacaccia, appoggiandosi con una mano sulla parete. Poi colpì la porta chiusa con la lama. Dall'interno giungevano le grida terrorizzate del ragazzo. I cavalieri avanzarono, gridando più volte il nome del guardacaccia che, come fuori di sé, continuava a colpire il legno della porta. All'improvviso Hindrek si fermò e si girò. «La volete anche voi!» gridò, e scagliò l'ascia verso di loro. «Morirete!» L'ascia sbatté contro il petto del cavallo di Diederich, che si spaventò e si alzò sulle zampe posteriori; l'uomo cadde sulla neve. «Comincerò da te!» Hindrek estrasse il lungo pugnale e si trascinò in direzione
dell'uomo caduto a terra. Un dardo lo colpì in pieno petto. Il guardacaccia afferrò l'asta del dardo, che sporgeva per solo un terzo, poi cadde in avanti e rimase immobile. Diederich si rialzò, imprecando e scrollandosi la neve di dosso. «Per gli empi poteri di Tion, che cos'è successo qui?» Vlatin, che aveva tirato con la balestra e che era un po' più giovane di Diederich, appese l'arma alla sella e smontò. Come i suoi compagni, portava una corta barba; un cappuccio di zibellino lo proteggeva dal rigore invernale. «La solitudine ha già vinto parecchi altri tipi come Hindrek. Può fare impazzire la gente.» Guardò il cadavere di Qelda. «Non si può spiegare altrimenti ciò che ha fatto.» Gerobert diresse il cavallo alla capanna. «Preferisco dare un'occhiata in giro. Forse c'è qualcos'altro da scoprire.» Diederich, Vlatin e Wislaf, che era il più giovane del gruppo, raggiunsero insieme l'ingresso della casa e sfondarono la porta sbarrata. Il grande locale interno era pulito e ordinato. La tavola era apparecchiata, sul focolare ribolliva un paiolo, e nell'aria c'era odore di coniglio, patate e verdure. Se non ci
fosse stato il cadavere davanti alla casa, sarebbe sembrato tutto molto tranquillo. Ortram si era acquattato accanto alla stufa e teneva davanti a sé un attizzatoio incandescente per proteggersi. Le lacrime gli scorrevano giù per le guance, e tremava tutto. «Non ti faremo niente», disse Diederich, mostrando al ragazzino di avere le mani vuote. «Tuo padre non può più farti del male.» Ma Ortram continuava a tenerli a distanza. «Uno viene a comprare pellicce, ed ecco che s'imbatte in una tragedia così terribile», mormorò Wislaf. «È incredibile che cosa riescano a farsi le persone.» «Che spettacolo ipocrita, seppur ben recitato», disse una bella voce melodiosa ma piena di scherno, proveniente dall'ingresso. Gli uomini si girarono di scatto. Vlatin e Diederich estrassero le spade, più per la sorpresa che per la paura. Attraverso la soglia entrò un albo vestito di nero; dovette chinarsi per far passare attraverso la porta la sua statura ragguardevole e le armi, che portava sulla schiena. «Sappiamo tutti che cosa fai alle persone, se e quando ti va.» La seconda voce usciva dal
grande camino alle loro spalle, e Wislaf si voltò. Un secondo albo, gemello dell'altro a giudicare dalla somiglianza, si stagliava contro il fuoco. Era un enigma capire come la creatura fosse passata attraverso le fiamme senza bruciarsi. Diederich e Vlatin tenevano le spade in pugno. Avevano l'impressione che i due nuovi arrivati sbarrassero loro la strada. Wislaf si schiarì la voce. «Che ci fate voi qui? Avete forse qualcosa a che fare con quanto è accaduto?» «No di certo. Volevamo semplicemente fare una visita», rispose l'albo davanti all'uscita, sorridendo. I bianchi denti regolari rilucevano come quelli di una belva. «Chiamatemi Sisaroth; questi è mio fratello Tirîgon.» Wislaf presentò se stesso e i suoi compagni. «Siamo uomini del conte Pawald e vassalli di Môrslaron. Immagino conosciate il nome dell'albo cui appartiene questa zona del Gauragar», aggiunse, per prevenire un attacco. Gli albi rispettavano soltanto i loro simili. Sisaroth annuì, senza spostarsi dalla porta. «Conosco Môrslaron.»
Non sembrava che temesse quel nome. Wislaf trovò che quello non fosse un buon segno. Dietro Sisaroth apparve un'alba, che lo superò ed entrò nella stanza. Portava anche lei un mantello nero; un diadema stava sui lunghi capelli corvini, mettendone in risalto il volto incantevole. «Trigemini», mormorò Diederich. «Giusta osservazione.» L'alba sorrise. «Non sarebbe conveniente mettere via le armi? In fin dei conti, stiamo dalla stessa parte.» «Possiamo esservi d'aiuto?» chiese Vlatin, e aveva occhi solo per lei. L'alba scambiò brevi sguardi coi fratelli. «Se voleste essere così gentili... Stiamo cercando una lettera che Hindrek ha ricevuto per errore. Potrebbe aver perso la ragione leggendone il contenuto: le rune degli albi possono sortire un mortale effetto sugli esseri umani. Per questo vi consiglio di cercarla senza guardare ciò che v'è scritto.» Fece cenno agli uomini di cominciare la ricerca, e quelli si misero a rovistare la stanza del guardacaccia. L'alba notò il ragazzino sconvolto vicino alla stufa e gli si avvicinò con passi leggeri, senza far
scricchiolare il pavimento. Sembrava più uno spettro che non un essere in carne e ossa. «Povera creatura.» Senza curarsi dell'attizzatoio, si accovacciò davanti a lui e gli toccò la fronte. Ortram trasalì, fissandole la mano, terrorizzato, ma non si difese; i fratelli dell'alba intanto restavano immobili al loro posto e osservavano gli umani al lavoro. «Eccola!» gridò Diederich, sollevando una busta. «Potrebbe essere questa, vero?» Fece molta attenzione a non gettare nemmeno uno sguardo sulle rune. Sisaroth gli fece cenno di avvicinarsi e si fece consegnare la busta. Ne trasse fuori la lettera e ne scorse le righe, poi fece un cenno di capo a Tirîgon; sembrava soddisfatto. «Il ragazzo forse ne sa qualcosa di più», disse. «Sorella, chiedigli cos'ha detto il messo a suo padre.» L'alba non aveva distolto lo sguardo da Ortram. «Hai sentito», mormorò, dolcemente. «Di che cosa hanno parlato tuo padre e l'uomo che gli ha portato la lettera?» Quegli occhi neri riversavano sul ragazzo un'intensa paura, che filtrava dentro di lui e gli
tormentava la mente, mentre l'alba continuava a sorridergli. «Di una città», disse Ortram. Voleva colpire l'alba, cavarle con l'attizzatoio quegli occhi orribili, fracassarle il volto tanto amabile e scappare via. Invece non riusciva a muoversi ed era costretto a risponderle; un terrore inconcepibile lo teneva paralizzato in quell'angolo accanto alla stufa. «Va' avanti, Ortram», lo invitò l'alba, accarezzandogli una guancia. «Hochheiligstadt», piagnucolò il ragazzino. Credette di vedere l'oscurità delle orbite dell'alba staccarsi per strisciare verso di lui; scure tele gli s'intessevano intorno. Il respiro gli accelerò, e lui gemette. «E chi dovrebbe essere in città? Il messaggero ha detto qualcosa al riguardo?» «Una donna che si chiama Mallenia», gridò. «Sta aspettando là. Non so altro!» Ortram deglutì. «Ti prego, non so altro, davvero!» L'alba gli accarezzò i capelli chiari. «Ti credo.» «Mallenia?» disse Vlatin, sorpreso. «La ribelle? Non ha assalito poco tempo fa lo
Squadrone Nero a Hangenturm, alleggerendolo della decima?» Wislaf si guardò intorno. «Ma dov'è Gerobert? Non voleva raggiungerci, dopo aver dato uno sguardo intorno?» «Un uomo alto e forte con uno sporco mantello grigio e la barba?» s'informò Tirîgon. «L'ho visto su un baio.» «È lui», confermò Wislaf. «Avete detto che si è allontanato a cavallo?» «No, non ho detto questo.» L'albo indicò fuori. «Ci siamo incontrati. Dietro la casa.» Posò in modo eloquente la mano destra sull'impugnatura del pugnale a doppia lama. «Dal momento che io sono davanti a voi, potrete immaginare come sia finito il nostro incontro.» Diederich estrasse la spada. «Maledetto! Perfide creature!» sbraitò. «Non rispettate neanche le alleanze.» Sisaroth rise in modo altezzoso e si voltò verso verso il fratello. «Come fa a dire che esseri come gli umani possono essere nostri alleati? Sono vassalli di Môrslaron e niente più.» Tirîgon annuì, divertito. «E visto che Môrslaron è molto al di sotto di noi, possiamo
disporre di tutto ciò che gli appartiene.» All'improvviso si fece serio. «O distruggerlo.» A quel punto anche Wislaf e Vlatin levarono le spade. «Male ve ne incoglierà!» li ammonì Wislaf. «Sorella, credo che gli animi degli uomini qui presenti siano un po' surriscaldati», disse Sisaroth, senza accennare minimamente a difendersi col pugnale. «Avresti voglia di cantare qualcosa che li addolcisca?» «Tu sai bene che mi affatica molto. La mia voce ne soffre.» «No», gemette Ortram. «No, per favore, non cantate! Abbiate pietà...» «Ma canterò ugualmente.» L'alba baciò il ragazzino sulla guancia, trasse un profondo respiro e levò la voce.
V Terra dell'Aldilà, Forra Oscura, fortezza di Diga-del-male, 6491° ciclo solare, inverno Il Rabbioso stava armato di tutto punto sulla torre meridionale e osservava le disgustose bestie marciare verso l'uscita della Forra. Un'accozzaglia di creature terribili si accingeva ad assalire la regione. Accanto al nano c'era Goda, col mantello appoggiato sulle spalle, che sondava le forze magiche rimastele. Con la mano vagò a tentoni fino al borsello appeso alla cintura; vi custodiva diverse grosse schegge del diamante prese nei dintorni del punto in cui un tempo si trovava l'artefatto. Come aveva scoperto, al loro interno giacevano minuscoli frammenti di energia, e anche il più piccolo quantitativo di essa era importante. In precedenza aveva potuto trarre dall'artefatto energia inesauribile, semplicemente appoggiando le mani sulla barriera. Quei tempi erano finiti. La fonte di
magia più vicina non si trovava a molte rotazioni di distanza, ma era nel regno degli albi; Goda dubitava di potere anche solo arrivarci viva. L'altra fonte si trovava nel Weyurn; un viaggio molto lungo che non poteva affrontare, almeno finché la Forra Oscura avesse continuato a riversare senza tregua i suoi mostri contro Digadel-male. Stando alle voci, anche Lohasbrand, nei Monti Rossi, era accovacciato su una sorgente. Goda sospirò. Non le era rimasto nient'altro che un borsello pieno di schegge di diamante, in cui si trovava un'ombra del potere originario dell'artefatto. Più vi avrebbe fatto ricorso, più disperata sarebbe diventata la, situazione dei difensori. Presagiva che, alla lunga, le catapulte non sarebbero bastate a contenere le creature di Tion. Avrebbero dovuto trovare un nuovo sistema per proteggersi da esse. «Dov'è Tungdil?» chiese il Rabbioso all'ubari che aveva accanto. «Hai mandato un soldato a chiamarlo?» «Sì, generale.» Il guerriero accennò un inchino. «Hanno trovato vuota la sua stanza.» «È sicuramente partito per la Terra Nascosta», intervenne Goda, sistemandosi il
mantello. «Dopotutto, ci ha detto chiaramente che non intende avere nulla a che fare con quello che succede qui. Ma quando tornerà in patria rimarrà sicuramente molto stupito. Sempre che la Terra Nascosta sia la sua vera patria. Vraccas, fa' sì che non abbiamo permesso al male peggiore di tutti di partire indisturbato!» «Secondo me, l'abbiamo messo troppo sotto pressione», osservò il Rabbioso. «Condurre una guerra per uno, due o tre cicli... questo l'abbiamo fatto tutti. Ma lui non ha fatto nient'altro che combattere, per più di duecento cicli.» Guardò sua moglie. «Anche se tardi, forse troppo tardi, io ho capito perché si è rifiutato.» «E che cosa c'è da capire?» replicò la nana. «Io non posso...» «No, Goda. Risparmia il fiato», la interruppe Boïndil. «Lascia che Tungdil vada nella Terra Nascosta e veda il male che la solca. Presto sarà di nuovo qui con noi, e scenderà in campo contro gli oppressori. Non possiamo essere noi a convincerlo a farlo. Deve volerlo lui.» Il Rabbioso fece segno alle catapulte di tirare. «Non ci vorrà molto prima che torni. Di sua spontanea volontà», aggiunse a bassa voce, mentre
osservava le bestie colpite e uccise dai proiettili. Le grida e i gemiti dei mostri s'infrangevano contro le mura di Diga-del-male. Boïndil non aveva detto a Goda il motivo del suo collasso. Nessuno sapeva che cosa gli fosse veramente accaduto; tuttavia il Rabbioso restava convinto che il nano in armatura nera era davvero il suo vecchio amico, il Sapientone. L'armatura, si era detto Boïndil, doveva essere il regalo di una creatura magica. Doveva essere stata realizzata con metalli lavorati in modo da conservare la magia, come aveva fatto a suo tempo il diamante, e proteggere attraverso di essa chi la indossava. Per quel motivo l'incantesimo di controllo di Goda non aveva funzionato. Quei metalli non distinguevano tra un contatto amichevole e un attacco. Se non fosse Tungdil, avrebbe colto l'occasione per uccidermi. E invece ha perfino chiamato un guaritore per farmi soccorrerei E tuttavia il suo migliore amico continuava a essergli estraneo. Il Rabbioso sospirò. I cicli trascorsi nell'oscurità avevano avuto effetti terribili sul Sapientone.
«Riavrò il mio vecchio amico», si ripromise Boïndil, vedendosi nei suoi ricordi seduto insieme con Boëndal e Tungdil, a ridere, a scherzare e a raccontare storie. Ricordò le cacce ai Musi di porco; le risse coi Lunghi; la volta in cui si erano soffermati sotto un albero, mentre pioveva, e avevano aspettato il rovescio di pioggia per prendere in giro il Sapientone con storie inventate... «Vraccas, tu e io scacceremo il buio dalla sua anima.» Un guerriero ubari alzò il cannocchiale e controllò i risultati dei tiri di catapulta. «La prima linea delle bestie è stata completamente annientata, generale», annunciò, soddisfatto. «Ma dalle sagome riconosco che la successiva... No, questi non sono mostri. È qualcos'altro!» affermò, confuso. «Il Kordrion?» Boïndil prese dal borsello i tappi di cera. Su suo ordine, tutti i soldati ne avevano in dotazione: una volta infilati nelle orecchie, infatti, il grido del mostro alato risultava meno paralizzante. «No, è piuttosto...» L'ubari gli passò il cannocchiale. «Guardate voi stesso, generale.» Il Rabbioso guardò attraverso le lenti e cercò di distinguere qualcosa nella scura fenditura.
«Un qualche tipo di costruzione... Lunga, sottile e alta», disse, alzando la voce in modo che pure Goda potesse sentire. «Sembra fatta di legno molto chiaro... o di ossa. E la tengono al riparo delle pareti rocciose.» «Che sia una torre d'assedio?» suggerì l'ubari. «O un gruppo di scale d'assalto?» Goda annuì. «Sarebbe la loro unica possibilità di attaccare la fortezza.» Il Rabbioso aumentò l'ingrandimento del cannocchiale. Se non s'ingannava, l'enigmatica costruzione veniva proprio in quel momento tirata all'indietro. «La stanno... tendendo!» esclamò. «Comandate ai soldati di tirare con le catapulte direttamente dentro la fenditura!» ordinò all'ubari. «Non voglio che quella cosa laggiù riesca a sparare.» Mentre gli ordini del Rabbioso venivano trasmessi con l'aiuto di corni, nella Forra i nemici continuavano ad affaccendarsi. Boïndil vide che il dispositivo si piegava bruscamente in avanti come un albero molto giovane, e dietro di esso scattavano in alto quattro lunghe catene cui erano appese sfere bianche, del diametro di forse sette passi, che ricordavano bozzoli di ragno. Al punto più alto
del volo, le catene si sciolsero e le strane strutture si lanciarono su Diga-del-male. «Decisamente troppo alto», commentò l'ubari, sogghignando. «Stupide bestie! Troppo idiote per mirare correttamente.» «No, è voluto che viaggino tanto in alto», replicò il Rabbioso. «Cadranno alle spalle della fortezza! Dite alle squadre sugli spalti meridionali di prestare molta attenzione a ciò che succederà dopo l'impatto. Temo che vogliano impegnarci su entrambi i lati.» Puntò lo sguardo verso Goda. «Puoi intercettare quelle cose?» La nana inclinò il capo e rifletté. «Non sarebbe meglio aspettare? In fin dei conti è solo un diversivo, e rischio di sprecare le mie energie per qualcosa d'irrilevante.» Il Rabbioso concordò e ordinò che le catapulte caricate con frecce incendiarie puntassero contro gli oggetti simili a bozzoli e dessero loro fuoco. Uno degli addetti fu così bravo da colpire una palla ancora in volo. Il fuoco avvampò immediatamente sull'intera sfera, come se fosse imbevuta di olio combustibile, e si sentirono sibili e crepitìi. L'involucro diventò cenere in un
istante, liberando numerose creature grandi come cani, dalle lunghe zampe e simili a ragni, che piovvero dal cielo impattando tra le scintille sul pavimento roccioso. La maggior parte venne annientata dalle fiamme e dalla caduta, ma tre esemplari sopravvissero all'impatto e si mossero velocissimi con le loro zampe pelose verso il retro della fortificazione, aprendo e chiudendo rumorosamente le lunghe mandibole dentellate. Le sfere rimanenti atterrarono oltre le mura, rimbalzarono un paio di volte e poi si aprirono, lasciando fuoriuscire altre bestie. Le frecce scagliate contro di esse rimbalzavano sulla spessa corazza. Boïndil imprecò. «Maledizione! Bisogna usare le...» «Generale, stanno ricaricando!» gridò l'ubari, inducendo il Rabbioso a voltarsi. Il lungo e sottile dispositivo di lancio veniva di nuovo tirato in giù con le catene. «Goda, distruggi quell'arnese», disse Boïndil. «Altrimenti non riusciremo più a gestire i mostriciattoli. Non sappiamo quanti bozzoli abbiano a disposizione.»
La nana annuì e gli prese il cannocchiale per osservare meglio quella specie di mangano. Allungò una mano verso il borsello coi frammenti di diamante e ne estrasse uno; prima di consumare la sua riserva di energia interiore, intendeva ricorrere a quella esterna. Lanciò l'incantesimo distruttivo contro l'angolo superiore destro della Forra Oscura. Un lampo accecante le partì dalla mano e colpì la roccia, frantumandola in grossi pezzi. Poi si sentì un gran fracasso, e un forte mormorio di delusione sortì dalla Forra; le bestie avevano perso l'arma, e sicuramente anche qualche guerriero. Goda sentì la scheggia che aveva usato trasformarsi in polvere e restarle appiccicata alla mano. «Molto bene», disse il Rabbioso. In lui si rafforzava l'idea che Tungdil avesse ragione quando diceva che dovevano scacciare i mostri dall'ingresso della Forra e far crollare la roccia. Far cadere le montagne: per un compito del genere, quale popolo era più adatto dei nani? Improvvisamente sentì armi sferragliare. Guardò lo spalto alla sua sinistra e vide che i mostri aracnoidi si erano arrampicati sulle mura; ubari, Sotterranei e nani stavano battagliando
contro le creature. Ciò che il Rabbioso vide lo convinse della necessità di annientare subito quelle bestie: soltanto le armi più pesanti, come le asce, le mazze e i mazzafrusti avevano qualche effetto su quei corpi corazzati; frecce e spade erano inutili. «Che Vraccas li schiacci col suo martello!» gridò. Mentre Goda prendeva un'altra scheggia e si preparava per l'incantesimo successivo, sul lato destro della Forra Oscura qualcosa scintillò. Dove le pareti scoscese scendevano perpendicolari a terra, c'era una figura che, in piedi, scagliò contro la nana una sfera gialla di pura magia. L'ubari notò il pericolo che la minacciava e avvisò Goda con un grido. La nana riuscì a sviluppare una barriera appena davanti ai merli, contro la quale l'attacco si frantumò; l'onda d'urto fece turbinare polvere davanti alle porte, privando i difensori della visuale sulla Forra Oscura. Tutt'intorno a loro l'aria rumoreggiava come in una tempesta; scudi ed elmi volavano via, stendardi e gagliardetti si strappavano e scomparivano. Non avrebbero visto arrivare un secondo attacco.
«Per il Creatore! Ora il male ha anche un altro mago dalla sua parte!» Il Rabbioso tossì e si tirò davanti a bocca e naso il fazzoletto che portava al collo. «Questa sì che è una vera sfida!» Sentì che sullo spalto risuonavano grida di giubilo e si sforzò di guardare attraverso le cortine di polvere turbinante. Tungdil era in mezzo ai difensori e usava la Sanguinaria per menare colpi contro le bestie a forma di ragno. L'arma frantumava le corazze e sparpagliava visceri in ogni direzione; sangue verde spruzzava all'intorno. Tungdil si era tolto l'elmo, in modo che tutti i soldati potessero vederlo in viso. Avanzava, truce, contrapponendosi alle creature aracnoidi, mentre di tanto in tanto gli s'illuminavano gli intarsi dell'armatura. Quando uno dei mostri gli si gettò contro alle spalle e lo toccò con due sottili zampe, si sentì un forte schianto, e la bestia scomparve in una detonazione. Boïndil deglutì. A lui sarebbe potuta capitare la stessa cosa. I guerrieri si lanciarono contro i nemici con rinnovato coraggio. Tungdil dava loro ordini secchi e ne guidava gli attacchi meglio di quanto qualunque re dei nani avrebbe potuto
condurre il suo esercito. Il Rabbioso dovette concederglielo; pensava già di lasciare all'amico il comando della fortezza, sempre se Tungdil l'avesse voluto. Finalmente la cortina di detriti e polvere si depositò, permettendo ai difensori di guardare nella Forra Oscura. Goda si teneva pronta per lanciare un incantesimo difensivo. Rimasero non poco sbalorditi: intorno alle rocce si era formata di nuovo una campana di energia. Aveva riflessi tendenti al rosso e in qualche punto era più splendente che in altri. Ma quella volta i bordi arrivavano fin quasi alle quattro torri e alle mura di Diga-del-male. «Sei stata tu?» chiese Boïndil, stupito. «No», rispose la nana, confusa. Il frammento di diamante che teneva in mano era ancora lì. «Dev'essere stato il mago nemico.» Tungdil si avvicinò loro, accompagnato da grida frenetiche e dal ritmico frastuono generato dai soldati che battevano tra loro armi e scudi. Non ansimava nemmeno, cosa incredibile dopo uno sforzo tanto intenso. Goda non lo guardò neanche, e continuò a tenere sotto controllo la Forra Oscura.
Il Rabbioso invece gli porse la mano. «Eccezionale, Sapientone! Come ai vecchi tempi! Vraccas può essere fiero di te, così come lo sono io!» «Un po' adulatorio da parte tua: ai vecchi tempi non ero affatto così bravo», replicò Tungdil, con un breve sorriso. Poi guardò lo schermo che pulsava di luce rossa, e impallidì visibilmente. «Goda già pensava che tu fossi partito per la Terra Nascosta e che ci avessi lasciati soli», disse il Rabbioso, mettendosi al fianco dell'amico. «Ringrazio Vraccas che tu sia rimasto con noi. Chissà come sarebbe finita la giornata, altrimenti.» «Non è finita. È ancora da vedere quanto posso essere utile a Diga-del-male.» Tungdil ignorò completamente Goda e si avvicinò al parapetto. Osservò a lungo la cupola di energia, poi si voltò verso l'amico. «È venuto il peggio, come avevo pensato», gli rivelò. «Dobbiamo andare nella Terra Nascosta. Subito.» «Mi fa piacere che tu abbia cambiato idea sul fatto di aiutarci...» Boïndil si strofinava la barba, non sapendo bene come prendere quell'ultima osservazione dell'amico. «Ma
perché dovremmo andare laggiù? La minaccia è qui! E, per Vraccas, che minaccia!» «Una minaccia contro la quale non si può fare nulla», replicò Tungdil a bassa voce. «Non tu, non Goda e nemmeno io.» Boïndil era sempre più perplesso. «Ma...» Tungdil gli fece cenno di avvicinarsi e indicò la Forra Oscura. «Sotto la protezione di quello schermo prenderanno posizione fino ai margini, e nessuno potrà fare nulla per impedirlo», disse, tratteggiando ciò che era imminente. «Già mentre parlo stanno costruendo indisturbati torri e scale, preparando arieti e si dispongono. L'intera piana, in tutte le quattro direzioni in cui spira il vento, sarà coperta delle bestie più crudeli. Allora la cupola sparirà, e loro attaccheranno.» Mise una mano sulla spalla del Rabbioso. «Anche se hai lavorato sodo per costruire Diga-del-male, e anche se è una fortezza superba, cadrà.» Distese il braccio sinistro, che brandiva la Sanguinaria. «Hanno con loro qualcuno che ritenevo morto. Abbiamo bisogno di un mago che possa competere con lui. E, stando a quanto ho sentito da te, soltanto Lot-Ionan sarebbe in condizione di farlo.»
«Ma Lot-Ionan è diventato malvagio!» disse Goda, con impeto. «Non serve più il Bene.» «Proprio per questo abbiamo bisogno di lui», replicò Tungdil, dolcemente. La nana abbassò lo sguardo, perché non aveva la coscienza pulita nei confronti di Tungdil. Il Rabbioso non lo aveva notato. «Non ne otterremo nulla. Ci distruggerà non appena ci avvicineremo! Ha giurato di governare la Terra Nascosta come suo unico signore. Non ci aiuterà mai di sua volontà.» Tungdil assicurò la Sanguinaria al suo supporto. «Allora significa che prima dovremo batterlo, e costringerlo così a servirci.» Il suo sorriso era più freddo del ghiaccio. «Ma tu sei diventato matto, Sapientone!» sbottò Boïndil. «Per Vraccas, stai parlando di Lot-Ionan, il mago! Tuo padre adottivo! Non ricordi di quanto potere disponeva quando te ne andasti? Credi di poter immaginare quanto sia potente oggi?» «Metteremo insieme un piccolo, grazioso esercito. Fatto di suoi nemici.» Tungdil era impassibile. «E questi sarebbero, come mi hai detto: un drago, un Kordrion e Aiphatòn coi suoi
albi», disse, contando sulle dita. «Forse ci metteremo in combutta anche coi Terzi.» Boïndil scoppiò in una breve risata, poi alzò le braccia. «Siamo perduti. Davanti a me c'è un pazzo che crede in tutta serietà di riuscire in una simile impresa!» gridò, afferrando l'azza. «Vraccas, tu sei crudele!» «Smettila di lagnarti, Rabbioso», lo schernì Tungdil. «Forse mi verrà in mente un'idea migliore, strada facendo. E comunque eri tu quello cui una volta piacevano le grosse sfide.» Fece un cenno del capo verso la nana. «Goda e i vostri figli rimarranno qui, per aiutare i soldati nel caso in cui le bestie attacchino prima del nostro ritorno.» Guardò l'amico dritto negli occhi. «Ho bisogno di un incontro coi sovrani dei nani, per verificare se il mio piano possa essere in qualche modo fattibile. E non dimenticare i Liberi.» Seguì il sole con lo sguardo. «Partiremo domani, coi primi raggi.» Senza aspettare una risposta, tornò sullo spalto, dove fu acclamato ancora una volta dai guerrieri. «Dicci chi si contrappone a noi e perché pensavi che fosse morto!» gli gridò dietro Goda. «Il suo nome non vi sarebbe di nessun aiuto», replicò Tungdil. «Lo credevo morto
perché la mia spada lo aveva trafitto e io gli avevo preso l'armatura.» Continuò ad allontanarsi. La nana lo seguì con lo sguardo. «Non mi fido di lui. Potrebbe essere un tranello per ricongiungere i peggiori maghi dopo che nella Terra Nascosta avremo...» «Smettila, Goda!» le ingiunse Boïndil. «Andrò nella Terra Nascosta col Sapientone e farò quello che propone.» Si mise la mano destra sul petto. «Perché io mi fido del mio cuore.» La piantò lì e seguì Tungdil, per prestare soccorso a chi era rimasto ferito nel combattimento contro i mostri simili a ragni. Si recò dapprima nell'angolo dov'erano esposti i morti, sui loro scudi. Tra loro scorse Yagur, le cui ferite gli parvero strane: un avambraccio strappato e un profondo taglio netto sulla gola. Non era quello che si sarebbe aspettato in un combattimento contro gli strani aracnoidi. La sua meraviglia aumentò. Accanto all'ubali giacevano tre dei suoi guerrieri di fiducia, le cui armature erano state tranciate da un'arma molto affilata, come potè intuire dai bordi assai netti. Non si adattavano in nessun modo a delle mandibole.
Boïndil volse lo sguardo verso Tungdil, al cui cinturone pendeva la Sanguinaria. «Non può essere», mormorò, affrettandosi a raggiungere i feriti per congratularsi della vittoria. I deboli sospetti si unirono strada facendo a formare un coro, reclamando ascolto. Ottennero perlomeno che, contro tutti i suoi fermi propositi, il nano si ripromettesse di fare qualche domanda al Sapientone durante il viaggio. Terra Nascosta, ex regno del Weyurn, Seenstolz, 6491° ciclo solare, inverno Coïra non lo avrebbe creduto possibile, eppure erano riusciti a sfuggire ai loro inseguitori grazie a un espediente: avevano comprato tre cavalli, li avevano zavorrati e li avevano condotti con loro per un po'. Dopo mezza rotazione di viaggio attraverso un torrente, Coïra aveva liberato gli animali in più, mentre loro avevano continuato il loro viaggio verso Seenstolz. Quel trucco aveva sviato gli inseguitori, almeno sulle prime. Ma il suo nome finì sulla lista delle persone per la cui testa si ottenevano parecchie monete nel Weyurn, se consegnata, mozzata, a un Lohasbrander. Ciò non rese più facili le restanti miglia del loro viaggio.
La ragazza osservò Rodario tenersi volenterosamente in sella. Quattro volte si erano dovuti fermare e attendere che rimontasse dopo essere caduto a terra. «Ancora un poco e saremo al sicuro», lo incoraggiò. «Vedete l'isola? È una delle poche ancora rimaste nella terra di mia madre. Dovremo arrivarci in barca.» Un verso spaventato uscì dalle labbra del giovane. «Acque profonde? Io non so nuotare!» «Un tempo nel Weyurn ci riusciva qualunque bambino», disse Loytan, dopo aver fatto schioccare la lingua in segno di biasimo. «Questo doveva accadere almeno duecento cicli fa. E comunque io non sono del Weyurn», replicò Rodario, piccato. «Non avevo nessuna necessità di combattere con le onde. Per lavarmi mi basta un torrente, e sui fiumi ci sono ponti e guadi.» «In questo caso non ci sono né gli uni né gli altri.» Coïra sorrise. «È soltanto un breve tragitto. Ma se voi riuscite a camminare sulle acque, fate pure.» «Molto divertente, principessa», disse Rodario, offeso. Nessuno avrebbe saputo dire se stesse fingendo o se lo fosse davvero.
Cavalcarono su una duna bassa, sulla quale l'erba si piegava a destra e sinistra al freddo vento del lago. La brina si era posata sugli steli, facendoli sembrare di vetro; sfregavano l'uno contro l'altro, scricchiolando leggermente, mentre il sole conferiva loro uno splendore rilucente. «Oh, che bellezza!» esclamò Rodario, estasiato. «Ci sarebbe da tirar fuori carta e penna e scrivere!» Loytan gemette. «Se il risultato sarà come quello che avete mostrato sulla piazza del mercato, lasciate entrambi dove sono. Sarebbe uno sperpero di materiale.» Rodario strinse gli occhi. «Prima o poi vi stupirete grandemente di quello che sono in grado di fare, conte. E scommetto che allora vi scuserete», profetizzò. Mentre parlava in quel modo, nello sguardo dell'attore c'era qualcosa che sorprese Loytan. Risolutezza? Probabilmente se l'era soltanto immaginato. «E magari mi salverete anche la vita e sposerete la principessa?» Si fece una grassa risata, e lo spavento causato dall'insolito rumore fece volar via dalla riva i gabbiani.
«Perché no?» L'attore sorrise a Coïra e si accarezzò il pizzetto sfrangiato. «Mi trovate troppo ripugnante o posso sognare di...» La ragazza alzò un dito in segno di ammonimento. «State diventando arrogante, Rodario Settimo! Ricordate con chi state parlando.» Condusse il cavallo giù per la duna e lo diresse verso un approdo cui era ormeggiato un barcone con una piccola vela ammainata. L'attore guardò l'isola, che era lontana circa un miglio dalla riva. Da quando i laghi del Weyurn avevano cominciato ad abbassarsi, ciclo dopo ciclo, parecchie isole emergevano ben sopra il pelo dell'acqua, mentre altre erano rimaste completamente all'asciutto. Gli abitanti avevano dovuto costruire scale e montacarichi per scendere dalle isole. Spinti dalla necessità, i pescatori erano diventati contadini e sul fondo dei laghi erano stati ricavati nuovi campi, non particolarmente fertili. Tuttavia Seenstolz non si trovava in condizioni altrettanto disastrose. Rodario vide che l'isola si librava sopra il livello del lago, su una specie di stelo roccioso alto circa sessanta passi; la forma ricordava quella di un tulipano che si aprisse sul suo stelo. L'attore contò sette grosse chiatte, tre navi e
diciotto piccole barche ormeggiate a un pontile ancorato all'isola con spesse catene e pertiche; una scala a chiocciola molto ripida conduceva alla zona abitata dell'isola. Vide pure che c'erano dei montacarichi; gli abitanti dell'isola si erano adattati alla situazione facendo di necessita virtù. «Si potrebbe dire che l'isola potrebbe piegarsi e cadere nel lago da un momento all'altro.» Loytan annuì. «Sì, lo si potrebbe dire. Ma il pilastro su cui poggia è di pietra vulcanica. Nulla lo può far crollare.» Spronò il cavallo a scendere lungo la collina di sabbia. «La gente di Seenstolz ha avuto fortuna; almeno sono potuti restare pescatori.» I tre fuggiaschi si raccolsero davanti a un barcone piatto, e il traghettatore uscì dalla piccola casa e li raggiunse sul pontile. Una lunga veste di stoffa blu ne avvolgeva la figura, lasciandone intuire i muscoli delle spalle; intorno al collo portava il fazzoletto bianco della sua corporazione. Bracciali di cuoio davano ai polsi sicuro sostegno nel suo pesante lavoro. L'uomo riconobbe subito Coïra, e fece un inchino. «Per me è un onore potervi di nuovo riportare al
vostro palazzo», disse, pieno di rispetto, e l'aiutò a salire sul barcone. Come sempre, la ragazza si offrì di pagare il servizio, e come sempre il compenso venne rifiutato. Coïra sorrise al traghettatore. «Se dovessero comparire dei mezz'orchi che ci stanno cercando...» «Dirò di non avervi visto», completò l'uomo. «E la mia barca avrà sicuramente una falla.» Coïra smontò e accarezzò il collo del cavallo. «Non metterti in pericolo. Traghettali pure, se insistono, ma non credo che oseranno. L'isola è il mio regno incontestato; là sanno di non essere alla mia altezza.» Rodario e Loytan saltarono anche loro giù di sella e tennero le bestie per le redini, mentre il traghettatore issava la vela e cominciava la traversata. Non avendo il vento a favore, dovettero navigare di bolina e stringere il vento, e ciò implicò che si avvicinassero all'ormeggio dell'isola descrivendo un arco. Dunque divennero visibili le possenti e arrugginite pareti di ferro che, apparentemente senza senso, spuntavano dall'acqua un po' a est e sotto l'isola.
Rodario allungò il collo per osservarle meglio. «Che cosa significa quella costruzione? È un frangiflutti a protezione dell'isola?» «No. Sono palancolate.» Coïra fece cenno al traghettatore di cambiare rotta e di dirigersi verso quel punto. «Palancolate? E, per Elria, che cosa sono mai delle palancolate?» «La struttura di sostegno di un pozzo. Si tratta della nostra prima meta, e voi avrete la straordinaria occasione di ammirare un prodigio dell'ingegneria nanica», spiegò la ragazza. «L'hanno costruita i Quinti su richiesta della mia bisnonna.» «Un pozzo, in mezzo a un lago. Ma... perché mai una cosa del genere? E quanto è profondo?» L'attore era così entusiasta della costruzione da spostarsi a prua. Il vento gli soffiava tra i capelli castani e giocava con la barbetta. Il barcone puntò direttamente verso il pozzo, e l'attore vide le rune naniche sulle pareti. Ogni lastra di ferro era lunga quattro passi e larga uno; ogni dieci lastre c'erano fasce d'acciaio spesse come un uomo che si tendevano di traverso intorno a esse, impedendo che si spezzassero. Muschio e alghe si erano stabiliti
su un lato, e nelle sue immediate vicinanze c'era odore di metallo. «Tutto ciò è...» Rodario non conosceva una parola che cogliesse in modo adeguato quel prodigio. «Il fondale sta a circa duecentoundici passi sotto la chiglia dell'imbarcazione su cui ci troviamo», disse Coïra, gustandosi l'infantile entusiasmo dell'attore. Prese il velo e lo usò per legare in una coda di cavallo i capelli mossi dal vento. «Le pareti di ferro scendono così tanto. Potreste camminare sul fondale qua e là senza bagnarvi i piedi, ma, poiché non vi porterò con me durante la mia discesa, non lo vedrete.» Rodario si voltò verso di lei. «Là sotto? Perché?» «Pensateci, e troverete da voi la risposta.» La ragazza alzò una mano e gesticolò in direzione di un punto in cui era comparsa una testa che guardava in direzione del barcone. Coïra gridò tre parole che Rodario non comprese, e le giunse una risposta. «Era la parola d'ordine. Se non la ricevono, le sentinelle hanno l'ordine di affondare qualunque imbarcazione si avvicini alle pareti.»
«Quindi sul fondale c'è qualcosa che per voi è molto, molto...» L'attore si dette una manata sulla fronte. «Ho capito: una sorgente magica!» «L'ultima sorgente magica della Terra Nascosta che mi sia accessibile», lo corresse Coïra. «La maggior parte è prosciugata, e ne sono nate poche nuove. Una si trova nella terra degli albi, e naturalmente una nei Monti Blu, dove Lot-Ionan ha fondato il suo regno e ora istruisce i suoi apprendisti.» «Come se non lo sapessi», disse Rodario. Loytan sogghignò con cattiveria. «Evidentemente no. Altrimenti non avreste chiesto.» Il barcone fece il periplo del lato del pozzo e raggiunse un attracco, su cui erano in attesa quattro guardie. Portavano armature leggere, in modo che, in caso di caduta nel lago, potessero tornare alla superficie con le loro forze e non affogare tra i flutti. Coïra e i suoi compagni scesero dal barcone, salirono i gradini di ferro e raggiunsero un'angusta porta, dietro la quale cominciava un camminamento. Ai quattro angoli del pozzo erano state costruite delle casupole di legno in
cui le guardie potevano riposare o ritirarsi in caso di brutto tempo. Rodario vide che diverse funi metalliche intrecciate portavano al bordo superiore dell'isola, e che da quelle funi pendevano abitacoli a forma di gabbia, evidentemente usati per trasportare sentinelle, scorte e armi al pozzo. «Sotto il camminamento c'è ancora un secondo livello», disse Loytan, togliendosi il cappuccio. «Vi si trovano le baliste che, in caso di necessità, possono tirare attraverso portelli. Nessuna nave è in grado di resistere a quei proiettili.» «Siete davvero pronti a qualunque evenienza.» Rodario osò avvicinarsi al parapetto interno e a guardare in basso. Un vento incostante prese a strattonargli i vestiti, tirandoli e rilasciandoli alternativamente. Il pozzo sembrava un grande buco nero e pareva portare dritto nel nulla. Ne saliva un odore putrido che ricordava una cantina calda e piena di licheni in cui fosse depositato ferro arrugginito. «Ciò non sembra adeguato al rango di una principessa», disse l'attore, tenendosi stretto al
parapetto. «Non lo si poteva sistemare in modo un poco più... gradevole?» «Di questo non me n'è mai importato», replicò Coïra. Poi salutò il comandante delle guardie, che le abbozzò un inchino. «Preparate la cabina per la discesa», lo pregò, e l'uomo in armatura corse a farlo. «Si trova là, nella casa sull'angolo orientale», disse rivolta a Rodario. «Voi mi aspetterete là, insieme con Loytan.» «Mi attira molto l'idea di vedere coi miei occhi il prodigio della magia», confessò l'attore. «Non potrei venire con voi a vederlo?» «Non è spettacolare, brilla soltanto un poco.» Coïra camminava in testa, i due uomini la seguivano. «Non è niente che per voi valga la pena vedere.» «Gli state tacendo che preferite accostarvi nuda alla sorgente», s'intromise Loytan, guardando Rodario. «Nuda?» L'attore arrossì all'istante. «Ah, allora capisco perché non posso accompagnarvi, anche se invidio chi sarà al vostro fianco.» «Ma voi non sapete affatto che cosa si nasconde sotto i miei abiti», replicò la ragazza, imbarazzata. «Il complimento è un po' prematuro.»
«No, non era un complimento. Parlavo di vedere la sorgente...» disse Rodario, e notò che il volto di Coïra diventava di ghiaccio. Loytan scoppiò a ridere forte. «Ah, siete davvero un discendente dell'Incredibile. Voi sì che sapete come trattare con le donne e conquistarle di slancio.» «Fa' silenzio», lo apostrofò la principessa. «Hai cominciato tu a mettermi in imbarazzo.» Entrarono nella casupola, nella cui parte posteriore c'era una cabina con le pareti in grate di metallo assicurata a due funi. Coïra vi salì sopra e chiuse il portello, poi fece un cenno alla guardia, che azionò una leva. La cabina scese spedita passando attraverso un'apertura sul fondo della casupola. «A dopo», disse la ragazza, poi scomparve. «Nuda...» Rodario sospirò, mentre raggiungeva l'apertura per guardare la principessa allontanarsi. Se non s'ingannava, la ragazza si era già sfilata il mantello ed era alle prese con la camicia. «Mi sarei offerto volentieri come suo appendiabiti.» «Tutti lo farebbero volentieri, ma lei ammira soltanto un uomo: il poeta sconosciuto», disse
Loytan, versandosi del tè bollente in una tazza. «Ne volete anche voi? Per scaldarvi?» Rodario guardò in basso e gli parve di veder brillare pelle chiara. Che cosa non faceva la forza d'immaginazione... «Qualcosa per rinfrescarmi mi giungerebbe più a proposito», replicò, guadagnandosi una risata. «Questa era buona», lo lodò il conte, passandogli comunque una tazza di tè. «Penso che le rotazioni del poeta sconosciuto siano contate, visto che ormai si sa di chi si tratta.» Il volto di Loytan si fece pensieroso. «I Lohasbrander faranno distruggere la sua famiglia e il suo villaggio.» «Ma non riusciranno a distruggere l'idea di libertà», obiettò Rodario, sorseggiando il tè senza distogliere lo sguardo dal fondale del pozzo. All'improvviso in profondità si accese una luce azzurrognola, e l'ultimo terzo delle pareti del pozzo splendette come una gemma azzurra al sole. L'attore riconobbe chiaramente i contorni della ragazza, e nella sua fantasia la vide svestita. Svestita e desiderabile. Sospirò profondamente e si girò. «Non amerà mai un uomo come me.»
Loytan brindò con la sua tazza. «Allora abbiamo qualcosa in comune, attore.» «Ma voi avete già una moglie, no?» replicò Rodario, stupito. «Certo. Vi volevo soltanto consolare, perché non vi sentiste solo», minimizzò Loytan, bevendo il tè. «A proposito, che ne è della vostra famiglia? Vi siete messo dalla parte di una criminale molto ricercata. Occorre mettere qualcuno al sicuro dai Lohasbrander?» Rodario scosse la testa, «No. I miei genitori sono morti da tempo e per il resto non ho nessuno, a parte gli altri discendenti dell'Incredibile; ma non penso che il drago arriverà a farli uccidere tutti.» «Con lui non si sa mai.» Loytan si sedette. «Vi siete presentato alla gara per l'ottava volta e siete arrivato di nuovo ultimo. Perché non usate riguardo verso voi stesso e non rinunciate?» Rodario fece un sorriso amaro e si lisciò il pizzetto. «Ho promesso a qualcuno di prendere parte alla disputa finché non l'avrò vinta almeno una volta.» Vuotò la sua tazza. «So che cosa state per dire: è un compito impossibile. Ma io non la vedo così. Prima o poi...»
Loytan alzò una mano. «L'avete già detto, ma io continuo a nutrire i miei dubbi. Soprattutto adesso: essendo ricercato, sarà impossibile per voi tornare a Mifurdania e salire sul palco.» «Vuol dire che vi salirò per la mia esecuzione», disse Rodano. «Ma sarebbe un ingresso in scena che nessuno mi contenderebbe.» Si tirò indietro i capelli con gesto teatrale. «Guarda, guarda: un altro barlume di eloquenza. I miei rispetti, state lentamente migliorando. Su questo non vi contraddico.» Loytan appoggiò i piedi sul tavolo, incrociò le mani sopra la pancia e abbassò la testa. «Farò un sonnellino. Potrebbe volerci molto prima che la principessa torni da noi.» Chiuse gli occhi. «Bevete tutto il tè che volete. E cominciate a cercare le parole giuste per salutare la legittima regina del Weyurn, quando le sarete davanti. A differenza della figlia, lei ama l'etichetta.» Rodario bevve il suo tè, posò la tazza sul tavolo e tornò con calma all'apertura; la luce all'interno del pozzo era ancora visibile. Guardò Loytan, che già inspirava ed espirava profondamente, poi le funi che portavano giù
nell'oscurità. «Sei il discendente dell'Incredibile», si disse, togliendo i guanti dalla cintura. Li infilò e si tolse l'ingombrante mantello. «Coraggio, allora. Fa' qualcosa che gli sarebbe piaciuto. Di brutte figure ne hai già fatte fin troppe, anche se per un buon motivo.» Con un balzo raggiunse le funi metalliche, tenendosi ben aggrappato. Più agilmente di quanto chiunque si sarebbe aspettato, si calò attraverso l'apertura, avvicinandosi alla luce azzurra. In qualche punto delle palancolate l'acqua del lago filtrava attraverso delle fessure, formando piccoli rivoli; in altri, schizzavano getti spessi come dita. Ma le pareti tenevano, non scricchiolavano nemmeno; si era soltanto formata della ruggine, crescendo in spessi strati friabili. Rodario non riusciva a immaginare che cosa avrebbero potuto fare gli abitanti del Weyurn per impedire il declino delle pareti. E i nani avevano cose più urgenti da fare che non rattoppare quel posto; combattevano sui monti per la loro stessa sopravvivenza, contro il drago... contro il Kordrion. Il fondo si trovava ormai a solo dieci passi dall'attore; era stato rivestito di assi, in modo
che la principessa non sprofondasse nella melma. Rodario trattenne il fiato e si aggrappò stretto alla fune. Loytan aveva detto la verità: Coïra era davvero nuda, eccetto il guanto che portava all'avambraccio destro. Era sospesa al centro del pozzo, nella luce azzurra; i lunghi capelli neri si muovevano come se si trovasse sott'acqua. La ragazza aveva gli occhi chiusi, e sorrideva. Si gustava le energie in cui era immersa e che la sostenevano. Rodario si godette lo spettacolo e si chiese quando mai avrebbe di nuovo potuto vedere davanti a sé, nudo, un corpo femminile di tale perfezione. Trovava curioso che la principessa non si fosse tolta un guanto. Improvvisamente lo colse un senso di vergogna: quello che stava facendo non era giusto. La conquisterò, decise distogliendo lo sguardo, imbarazzato. Poi cominciò a salire, tirandosi su mano dopo mano. La volta successiva in cui avrebbe visto Coïra nuda, lei si sarebbe dovuta svestire soltanto per lui e di sua iniziativa. «Contegno. Il contegno è la cosa più importante», mormorò.
In quel momento lo investirono grida concitate. Sentì sulla schiena contemporanee ondate di caldo e di freddo: le guardie lo avevano sorpreso nel suo imperdonabile delitto!
VI Terra Nascosta, protettorato del Gauragar occidentale, Hochheiligstadt, 6491 ° ciclo solare, inverno Quattro candelieri erano sparsi per la cantina in muratura, diffondendo fioca luce tra i venti uomini e donne là riuniti. L'abbigliamento semplice non tradiva nulla sul ceto sociale o sull'origine dei presenti, i cappucci tenevano prudentemente in ombra i volti. Si trovavano sotto la casa del sindaco, che dormiva due piani più sopra, nel suo letto, e che non voleva sapere niente di quello che stava succedendo là sotto. Il coraggio gli bastava soltanto a lasciare aperta la spessa porta di ferro che conduceva alla sua cantina dal soffitto a volta. Mallenia sedeva in cerchio coi suoi amici congiurati e si rifiutava di credere a quanto aveva appena ascoltato dalla bocca di Frederik. «Il Terzo è ancora vivo?» Fece un profondo respiro, anche se le costò molta fatica.
L'aria era calda e viziata, odorava di cibo e sudore. La riunione tra barilotti di crauti, barattoli di frutta e di marmellata, prosciutti affumicati e tini pieni di carne salata durava già da un po', perché si era parlato molto e concitatamente. Frederik, un onesto macellaio di Hochheiligstadt che nessuno avrebbe potuto sospettare di ribellione, annuì imbarazzato. Aveva poco più di trent'anni e un volto troppo innocente per il suo mestiere e per la pericolosa attività sediziosa. «Proprio così, mia signora. Hargorin cavalca di nuovo in testa allo Squadrone Nero e incassa le decime. Si dice che sproni i suoi guerrieri con meno scrupoli che mai.» Tirò fuori dal risvolto della manica della camicia un foglio piegato e glielo passò. «Leggete. La taglia sulla vostra testa è stata aumentata. Chi vi consegni a Hargorin può prendere dalla sua stanza del tesoro qualunque cosa gli piaccia.» Mallenia osservò il proprio volto disegnato su un foglio sgualcito: le somigliava in modo spaventoso; sotto compariva il numero «1000». Era molto denaro. «Si dice che Hargorin
possieda oggetti di valore mozzafiato», mormorò, pensierosa. Frederik rivolse agli astanti uno sguardo incerto. Si tolse il cappello, facendo apparire i suoi corti capelli neri. «Signora, so che non vorreste sentirlo dire, ma noi pensiamo che sarebbe meglio se faceste una pausa. Avete fatto ribollire il sangue agli albi e ai loro servi, e con ricompense del genere...» «Continuerò a farlo», lo interruppe subito la giovane, con decisione. «Mi daranno la caccia senza sosta, anche se dovessi rintanarmi in un buco per interi cicli.» Mallenia fece scorrere lo sguardo sui presenti. I suoi compagni di lotta avevano un aspetto stanco, su qualche volto apparivano paura e disagio: temevano per le loro famiglie. La morte dei loro amici, caduti durante l'agguato allo Squadrone Nero, aveva reso chiaro che pure il piano migliore nascondeva rischi imprevedibili. Mallenia sapeva il vero motivo per cui Frederik aveva fatto quella proposta, e non poteva dare torto a quegli uomini e a quelle donne. Sorrise. «Vi ringrazio per quello che avete intrapreso con me nei cicli passati, ma ora vi congedo», disse con voce gentile, dandosi
pena di mostrare loro che non nutriva nessun rancore. «A partire da questa rotazione, cavalcherò da sola.» «Signora!» sbottò Frederik. «No! Noi non vogliamo arrenderci, vogliamo...» Mallenia gli mise una mano sull'avambraccio. «È meglio così. Non posso più assumermi la responsabilità di mettere in gioco la vita di altre persone per la mia battaglia.» «Il Gauragar è la nostra patria, signora. Siamo tenuti a combattere l'occupante esattamente quanto voi. Siamo molto felici di avervi al nostro fianco. Se qui ci fosse gente dell'Urgon, vi direbbero la stessa cosa.» Si alzò Zedrik. Era una delle guardie della porta di Hochheiligstadt, un uomo dall'aspetto rozzo; lo si vedeva sempre in armatura, come se per lui non ci fosse vita al di fuori del suo servizio. «Che gli dei e voi possiate perdonarmi, signora, ma è già da tempo che rifletto sul senso di ciò che facciamo. Rubiamo le decime, uccidiamo qualche Terzo... ma abbiamo portato un reale miglioramento nella vita della gente del Gauragar?» La guardia sembrava triste e scoraggiata. «Gli abitanti sono dalla nostra
parte, è vero, ma soffrono sempre più sotto i colpi della rappresaglia.» «E allora qual è la tua proposta?» Frederik la squadrava. «Vorresti piegarti in eterno davanti agli Occhineri? Vuoi sapere oppressi anche i tuoi figli e i figli dei tuoi figli?» «Lo eravamo già prima, e non facevamo una brutta vita. Finché pagavamo, ci lasciavano in pace», replicò Zedrik, sospirando. Mallenia seguiva attentamente la discussione, vedendosi rafforzata nella sua decisione di sciogliere il gruppo di congiurati. Certo, il macellaio non voleva arrendersi, ma altri erano inclini a farlo, ed erano troppi. La paura poteva partorire traditori, esattamente come una ricompensa elevata. Frederik sbuffò. «Quanto sei ingenuo, Zedrik! E quando non avremo più niente con cui pagarli? Quando decideranno di radere al suolo i nostri insediamenti soltanto perché, nel loro folle delirio estetico, gli albi vorranno riplasmare la regione secondo i loro parametri di bellezza? Avete dimenticato tutti ciò che è successo a Tareniaborn?» Tareniaborn. Mallenia deglutì, e il ricordo di quella città, coi suoi quarantamila uomini, donne
e bambini, la fece rabbrividire. Non aveva mai visto nulla del genere. Era successo undici cicli prima. Uno dei principi degli albi aveva deciso di trasformare Tareniaborn e tutta la regione circostante in un'opera d'arte. Nessuno aveva mai scoperto se l'albo fosse folle o se a ogni città dell'Idoslân potesse essere riservato un destino del genere. «Voi eravate lì, signora. Fate capire ai vigliacchi quanto possono essere crudeli i nostri occupanti», la invitò Frederik, furibondo. «Di certo gli albi non inorridiranno in futuro davanti ad altre gesta di questa portata.» Le teste dei presenti si volsero verso Mallenia. «Che cosa sia successo di preciso, io non so dirlo. Arrivai quando tutto era già finito. Stavo cavalcando con un piccolo gruppo di volontari su una collina vicina, da cui si aveva una buona vista sulla città e sulla pianura circostante.» Mallenia sentì una sensazione spiacevole allo stomaco, e fu aggredita dalla nausea. «Vedemmo un disegno nella neve, intorno alle mura, e uno scintillio rossiccio che rivestiva l'intera città. Tutto ciò che potete immaginare era coperto da uno strato di sangue ghiacciato.
Giaccio rosso, ovunque!» Vedeva davanti a sé i vicoli cupi di Tareniaborn. «Sulla piazza del mercato avevano trafitto i cuori degli abitanti con sbarre e fili d'argento, li avevano intrecciati e ne avevano costruito un albero gigantesco: i cuori degli adulti adornavano il tronco, quelli dei bambini i rami, e come frutti avevano appeso le teste dei lattanti.» Dovette tacere, perché il macabro albero era comparso con tutti i dettagli davanti al suo occhio interiore, coi molti ciuffi di capelli di diverso colore che erano serviti da sostituto del fogliame e avevano reso l'opera ancora più agghiacciante... Mallenia lesse l'orrore negli occhi degli uomini e delle donne intorno a sé. «Siate felici che un simile spettacolo vi sia stato risparmiato», aggiunse a bassa voce. «Nei campi intorno a Tareniaborn avevano sventrato i cadaveri e utilizzato le ossa per formare un immenso disegno sul terreno, al cui centro stava la città. Poteva essere dedicato a una delle loro divinità, non so. Ma era qualcosa di così unico e potente che non si poteva fare a meno di osservarlo, e si sprofondava in quella vista spaventosa. Le ossa si univano alle ossa, come se per esse non ci fosse mai stato altro scopo che formare quel disegno.» La donna
guardò Zedrik. «Avevano aggiunto le interiora delle vittime per colorare il tutto. Visto da lontano, non era chiaro di che cosa si trattasse ma, poiché avevamo con noi i nostri cannocchiali, vedemmo...» La guardia corse fuori, e altre due persone la seguirono per non vomitare sui piedi di amici e conoscenti. Frederik era impallidito, ma manteneva il controllo. «E voi pensate ad arrendervi?» gridò. «Quando gli albi decideranno che Hochheiligstadt deve diventare un'opera d'arte, morirete pensando di essere stati troppo vigliacchi per fare qualcosa per impedirlo!» La rabbia gli aveva fatto gonfiare la vena della fronte. «Ma che cosa dovremmo fare allora?» domandò Zedrik dalla porta, pulendosi la bocca. Aveva le punte degli stivali coperte di vomito. «Muovere guerra contro i Terzi e gli albi? Prima dovremmo uccidere le persone che ci sono più care con le nostre mani, perché non vengano giustiziate dai vincitori.» Fece una risata amara. «Nessuno ci può salvare da loro, Frederik. Al massimo potrebbero farlo gli dei, ma di certo
hanno deciso di lasciarci soffrire ancora qualche ciclo.» «Gli dei accorrerebbero subito in nostro aiuto, se osassimo ribellarci», ribatté il macellaio. Mallenia alzò una mano, ottenendo silenzio. «So quali sono le preoccupazioni di tutti voi, e credo che dovrei ritirarmi per un poco, come il mio buon amico Frederik propone», annunciò. Un leggero sospiro di sollievo attraversò il locale. «Vi farò sapere quando torneremo a cavalcare insieme, ma fino ad allora rimanete con le vostre famiglie e comportatevi senza dare nell'occhio, come al solito. Ho bisogno di voi, vivi.» Si alzò. «Verrà il momento in cui cominceremo la rivolta contro gli albi, ma non sarà domani e nemmeno tra trenta rotazioni. Capiremo quando i tempi saranno maturi e tutto sarà pronto nei tre regni.» Estrasse la spada e la alzò. «Per il Gauragar, l'Urgon e l'Idoslân, e per la libertà degli uomini!» Tutti si unirono al grido e regalarono alla discendente del principe Mallen un vigoroso applauso. Poi, all'improvviso, i candelieri si spensero.
Nell'oscurità qualcuno rise, altri chiesero luce, spaventati. Dai rumori, Mallenia capì che almeno due dei congiurati avevano estratto le armi: temevano un attacco o l'attacco era proprio quello? Portò la mano sinistra all'impugnatura della seconda spada. Intanto già pensava ai diversi avversari che potevano attaccarli nella cantina: i Terzi e Hargorin, cacciatori di taglie o gli Dsôn Aklàn. Si rese conto che non c'era stato nessun colpo d'aria abbastanza forte da spegnere tutte le fiammelle dei candelieri. Era stata magia? Un tipo specifico di magia. I capelli le si rizzarono sulla nuca. Mi hanno trovata? La porta della cantina venne aperta con fracasso, un debole bagliore entrò dall'esterno. Sulla soglia c'era una figura leggermente china in avanti, che impugnava una spada estremamente lunga. I congiurati notarono subito le orecchie a punta che spuntavano tra i capelli. Quella vista li paralizzò, perché sapevano che cosa significasse per tutti coloro che si trovavano in quella cantina: morte. Dietro l'albo si trovava il sindaco; sul suo volto cereo cadde un singolo raggio di luce.
«Guarda un po': i ribelli», disse l'albo, con voce morbida come il velluto. «Hai fatto bene attenzione, sindaco. Hanno davvero fatto irruzione nella tua cantina per fare provviste.» Dal tono di voce si evinceva che l'albo offriva protezione al traditore e non lo avrebbe messo in relazione coi criminali. Prese un sacchetto dalla cintura e se lo gettò alle spalle, nella neve fangosa, davanti al sindaco. «Ecco. Il tuo compenso.» «Pietà, signore!» gridò Zedrik, lamentoso. «Pietà per le nostre famiglie! Non sapevano ciò che facevamo.» Cadde sulle ginocchia davanti alla scala che portava all'unica via d'uscita, e alzò le braccia. «Risparmiate loro la vita!» L'albo scese di due gradini in modo da potersi ergere in tutta la sua statura. I congiurati continuavano a vederlo solo come contorno, poiché la luce lo illuminava da dietro. Nessuno aveva più osato muoversi e accendere di nuovo le candele. «Che cosa fate dunque, di preciso? Deponete una confessione, e le vostre famiglie continueranno a poter godere della luce del sole.» L'albo alzò il braccio armato e posò la lama rivolta verso l'alto nella piega del gomito
sinistro/come se stesse sorreggendo un lattante. «Sto ascoltando.» Zedrik deglutì. «Ci siamo resi colpevoli...» «... di voler liberare il Gauragar», lo interruppe Mallenia, alzandosi. «Di scacciare gli occupanti, gli albi e i Terzi e tutti i vassalli, e di chiedere conto delle loro malefatte!» «No! Tacete! Voi non sapete...» le gridò Zedrik. «Al contrario, lo so molto bene. Non danno la caccia soltanto a me, ma a tutti quelli che appartengono alla linea del mio antenato, il principe Mallen.» La donna fissò l'albo. «Guardatelo, sta giocando; non ci pensa nemmeno a risparmiare le vostre famiglie. L'unico modo per salvare i vostri cari è ucciderlo prima che scopra i vostri nomi e li possa comunicare ad altri.» Strinse con più forza le sue due spade corte e si mise in posizione di attacco. L'albo alzò la testa e la guardò. «Mallenia! Mentirei se dicessi che non mi aspettavo di vederti qui.» Continuando a tenere la spada nella piega del gomito, tolse la mano dall'elsa e tirò fuori qualcosa dal mantello, che lanciò verso
di lei con un movimento rapido. «Ho trovato questa. È tua forse?» Davanti ai piedi della donna atterrò una busta, che lei riconobbe subito: vi aveva infilato un avvertimento diretto a Hindrek, un cugino di terzo grado. Quella busta, davanti ai suoi piedi, raccontava il tristo destino occorso all'uomo e alla sua famiglia. «Siete dei mostri e meritate mille volte la morte», disse Mallenia, a denti stretti. «Non è quindi ancora più sorprendente che portiamo la morte mille volte, invece di riceverla?» L'albo fece un gesto, e le candele si accesero di nuovo. Poi posò di nuovo la mano destra sull'elsa della spada. «Portiamo la morte, quando così dev'essere; o quando così ci piace. Era già da un po' che sostavo davanti alla cantina, senza che mi abbiate notato, e ho sentito il tuo meraviglioso racconto su Tareniaborn.» Parlava in tono da conversazione, come se si trovasse davanti ad amici o in compagnia di persone che avevano qualcosa da festeggiare. Sotto il mantello nero faceva capolino una scura armatura a piastre. «Le tue parole mi hanno commosso e inorgoglito, poiché io, Tirîgon, ho avuto il piacere di essere il
creatore di quell'opera d'arte davanti alla quale ti sei trovata tu, piena di commozione.» Accennò un inchino. «Fu per me un piacere e un onore al tempo stesso innalzare la città e liberare gli abitanti dalle loro preoccupazioni mortali. Tutti gli albi ricordano molto bene Tareniaborn. Trovo dunque che a qualcosa, almeno, gli uomini sono davvero utili.» L'orrore nella cantina era palpabile. L'albo se ne compiacque. «L'abisso tra le nostre razze è insormontabile. È in situazioni come questa che lo vedo con particolare chiarezza: non siete pronti a prendere le armi e a uccidere per qualcosa che non sia la libertà, la ricchezza o il potere. Il mio popolo, sì. Morte e arte formano per noi un tutt'uno: la transitorietà avanza accompagnandosi alla grandezza e alla perfezione.» Tirîgon si guardò intorno con aria dispiaciuta. Aveva occhi blu acciaio, in cui si rifletteva la luce delle candele. «Nei vostri brutti corpi vedo infilate alcune ossa decenti, con cui saprei creare qualcosa di bello.» Mallenia aveva sentito abbastanza. Corse verso l'albo, con le spade levate, pronta a colpire.
L'avversario sorrise. «Che coraggio impetuoso! Le tue ossa saranno per me un vanto speciale. So apprezzare l'ardimento.» Afferrò l'elsa della spada con entrambe le mani e distese la lama in avanti, perpendicolare al corpo. La lama era lunga almeno un braccio e mezzo e su un ordinario campo di battaglia garantiva al suo proprietario il vantaggio di un'enorme portata, ma tra barilotti e scaffali quella lunga arma si trasformava in una limitazione. Mallenia confidava in questo. Frederik la accompagnava brandendo la sua mannaia. «Fate attenzione», gridò la donna ai congiurati. «Sono tre gemelli. Due devono essere ancora nei paraggi.» A quel punto aveva raggiunto l'albo, ne scansò la lama con una spada, si piegò in avanti e colpì con l'altra arma. Ma Tirîgon era maledettamente veloce e possedeva capacità che lei non poteva neanche sognare. Balzò contro la parete che aveva di fianco, usando lo slancio stesso per fare qualche passo sul soffitto. Dopo quella prestazione acrobatica che, nonostante mantello e armatura, non gli era costata fatica, atterrò alle
spalle di Frederik e gli infilò la spada nella nuca, facendone fuoriuscire la punta dalla bocca aperta. «Bel tentativo, Mallenia. Se questo valoroso macellaio non fosse stato dietro di te, ora tu saresti morta.» Con uno strattone, l'albo girò la lama e la trasse verticalmente verso l'alto. Il metallo era tanto affilato da tagliare in due la testa di Frederik. Sangue, materia cerebrale e fluidi scrosciarono sul pavimento della cantina, poi il macellaio crollò; la mannaia sbatté per terra con un tonfo. Le due metà della testa si erano scostate, dando al cadavere un aspetto grottesco. Mallenia si girò e si gettò sull'avversario, una spada puntata alla testa, l'altra al torso di Tirîgon; ma l'albo si spostò velocemente, posizionandosi di nuovo alle spalle della donna. Lei sentì lo spostamento d'aria che le fece svolazzare i capelli, mentre il suo attacco cadeva nel vuoto. Poi ricevette una botta sulle reni che la scaraventò in avanti, contro un barilotto di crauti. Vi sbatté contro con un fianco, cadde e si ritrovò stesa accanto a un tino di carne salata. Subito si girò su se stessa, sporgendo in aria le spade incrociate.
Appena in tempo: le lame si scontrarono tintinnando e le braccia della donna rincularono all'indietro. L'albo aveva menato un fendente molto forte. Mallenia vide l'arma dell'avversario a un dito scarso dal proprio naso. Con un ruggito furioso, inclinò la spada di lato e menò un calcio, colpendo l'albo al torace. Questi, pur portando un'armatura che assorbì gran parte del colpo, fu costretto a indietreggiare. Ridendo, fece roteare la spada in gesto di scherno. Mallenia si alzò e si allontanò dal tino. Voleva avere dietro una parete, per coprirsi le spalle. Non contava davvero di lasciare la cantina viva, quel nemico era troppo veloce per lei; ma spesso una boria tanto sfacciata poteva esigere un suo prezzo. Gli uomini e le donne erano indietreggiati davanti ai due e seguivano il duello impari. «Mi trovo in una cantina colma di vigliacchi?» li derise Tirîgon. «Siete in venti... anzi, diciannove contro uno! Mallenia ha detto il vero: se non mi uccidete, le vostre famiglie moriranno, e tuttavia ve ne state lì a guardare con l'espressione da idioti?» Ammiccò verso
Mallenia. «Rendo omaggio al tuo valore, e ti ucciderò per ultima. Guarda e impara. Ne avrai bisogno, contro di me.» Fece due veloci passi, saltò sul bordo del tino e atterrò coi piedi in avanti sulla parete; ci corse di traverso, fino a raggiungere il soffitto e poi ridiscendere dall'altra parte. Mentre lo faceva, menava contro i congiurati sottostanti colpi che l'occhio non riusciva a seguire. A ogni colpo, il sangue schizzava con alte volute da profondi tagli. Tirîgon atterrò con grazia su una botte di vino, tenendo la spada in diagonale davanti a sé; soddisfatto, osservava il risultato dei suoi veloci attacchi. Più della metà dei presenti giaceva morta sul pavimento della cantina: l'albo non aveva lasciato dietro di sé nessun ferito. «L'arte sta in questo: lasciare integre le ossa di cui avrò bisogno», spiegò ai sopravvissuti, alzando la lama insanguinata. «Visto che ora conoscete il vostro destino, siete pronti a difendervi?» Tre donne si girarono e corsero verso l'uscita. Ma là c'erano gli altri due gemelli; gli Dsôn Aklàn erano riuniti. Barricavano la porta con la loro sola presenza e senza neppure dover
estrarre le armi. Il loro cupo sorriso era una minaccia sufficiente. Tirîgon saltò giù dalla botte e fronteggiò i sopravvissuti, che a quel punto finalmente estrassero le loro spade, sciabole e pugnali e lo circondarono. «Ho dovuto pregarvi di farlo», commentò, sarcastico. «Vi faccio una promessa: feritemi, procuratemi anche un solo graffio, e le vostre famiglie rimarranno in vita.» Rinfilò la spada nel fodero che teneva sulla schiena e si presentò loro disarmato, distendendo le braccia e girando su se stesso. «Che cosa state aspettando?» Mallenia guardò i due albi sulla soglia, che restavano immobili; lasciavano il piacere al fratello, tenendosi in disparte. Poi il volto della femmina improvvisamente si rivolse verso Mallenia. Il senso di superiorità che aveva dipinto sul volto si trasformò in malcelata curiosità, e fece per scendere di un passo, ma il fratello la trattenne per un braccio. Gli occhi blu dell'alba continuarono a restare fissi sulla donna, indagatori, come se stesse studiando una vecchia conoscenza. Mallenia non aveva idea del motivo di quell'interesse verso di lei. Cercando di farsi
coraggio, si fece strada tra i cadaveri per raggiungere la manciata di uomini fidati che si apprestavano a combattere contro Tirîgon. Voleva morire in mezzo alle persone che si erano dedicate al Gauragar. Era animata dal pensiero d'infliggere al nemico un singolo, minuscolo taglio, per salvare le famiglie dei suoi compagni. Tirîgon si aggiustò i bracciali e rimase in attesa, sorridente. Uwo, un uomo basso, unico pescivendolo della città, fece un affondo. L'albo parò con l'avambraccio, e l'urto frantumò la lama di Uwo in tre parti. Tirîgon ne afferrò al volo la più lunga e la scagliò contro il pescivendolo, che, colpito al petto, si accasciò per terra. Ma l'albo aveva già afferrato un altro frammento di lama, gettandolo di traverso contro un altro congiurato. Il metallo squarciò il collo dell'uomo, che cadde a terra in un fiotto di sangue. La disperazione spinse i sopravvissuti a un attacco congiunto contro Tirîgon, che si divertiva a scansare gli affondi e a colpire le mani nemiche in modo da deviare le armi in un'altra direzione: così facendo, le lame finivano nei corpi di amici e compagni di battaglie.
Dopo pochi minuti, erano rimasti soltanto Mallenia e Arnfried il fabbro. Gli altri erano morti o si contorcevano a terra, agonizzanti. Il robusto fabbro dalla lunga barba e dai muscoli spessi come ceppi sanguinava da una ferita alla spalla destra, ma teneva stretto il pugnale e sbuffava pieno d'odio. Tirîgon osservò gli schizzi rossi che aveva sulla propria armatura. «Questo non sarebbe dovuto succedere», si lamentò. «Il sangue finisce nelle cesellature e ci si rapprende dentro.» Arnfried si gettò in avanti senza preavviso, per cogliere di sorpresa il nemico. Simulò un affondo col pugnale e menò contemporaneamente un pugno in direzione del volto dell'albo. Anche Mallenia si lanciò in avanti. Intendeva inserirsi nei movimenti con cui l'albo si sarebbe difeso da Arnfried. Tirîgon schivò la lama e afferrò il pugno del fabbro, ma aveva sottovalutato la forza dell'uomo e venne spinto all'indietro, contro una botte di vino. Arnfried alzò un ginocchio e lo puntò contro le costole dell'albo; l'armatura stridette. L'alba gridò qualcosa nella sua lingua, allarmata.
Mallenia fece un affondo con la spada sinistra, e Tirîgon lo schivò di stretta misura. La punta dell'arma trapassò il legno della botte, e vino rosso gli si versò sulla schiena; il terreno argilloso si fece sdrucciolevole. «I miei rispetti», ringhiò Tirîgon al fabbro, parandone l'attacco successivo con l'altra mano. Si sentì uno scatto metallico, e due dischetti di metallo spuntarono sul bracciale. Fulmineo l'albo li passò sul petto dell'uomo che, gridando, fece un balzo indietro e scivolò sul terreno bagnato. Con un violento colpo contro il plesso solare, Tirîgon gli frantumò la gabbia toracica. Le ossa si piegarono verso l'interno, devastando i polmoni, e Arnfried si contorse nella poltiglia, rantolando. Mallenia non stette a riflettere e si gettò contro Tirîgon, per gettarlo a terra. L'albo non si fece cogliere di sorpresa e, con un salto, si allontanò da lei ma, come il fabbro, finì vittima della melma: il suo piede destro scivolò. Mentre ancora tentava di mantenere l'equilibrio, si schiantò contro il tino pieno di carne. L'alba gridò.
Mallenia scagliò entrambe le spade contro Tirîgon, che era disteso: una puntava alla testa, l'altra al basso ventre. Non sarebbe riuscito a parare entrambi gli attacchi, o così almeno sperava la donna. D'istinto Tirîgon alzò entrambi gli avambracci corazzati: la prima spada rimbalzò su uno di essi e volò in un angolo della cantina, la seconda si frantumò contro il tionio. Ma l'albo gemette comunque. Mallenia stentava a credere ai suoi occhi: una lunga scheggia di lama aveva perforato la guancia sinistra del nemico, inchiodandone la testa al tino di legno. Non era una ferita mortale, ma di sicuro era dolorosa, e distruggeva la perfezione del volto. Dietro di sé, la donna sentì passi affrettati e il rumore di armi sguainate. Tirîgon alzò una mano e disse qualcosa nella sua lingua, che risuonò ancora più spaventosa a causa della ferita. «Hai giurato di risparmiare le famiglie dei miei compagni», gli ricordò Mallenia. Non aveva bisogno di girarsi per sapere che l'alba era dietro di lei con la spada sguainata, e che
fremeva dal desiderio di ucciderla. «Ti atterrai alla tua parola?» «Sì», fu la cupa risposta di Tirîgon. «E io portò andarmene da questa cantina?» «Mai e poi mai», sibilò l'alba. Ma il fratello sconfitto confermò anche quella parte dell'accordo. «E tu dicevi che non ci sarebbe riuscito di ucciderti», disse Mallenia, mentre portava la mano sinistra all'elsa del pugnale. Si chinò e tagliò una ciocca di capelli neri dell'albo. «Questo sarà il ricordo del mio trionfo su di te e sulla tua presunzione.» Lo sguardo assassino negli occhi di Tirîgon le rivelava tutto quello che stava pensando. «Non sfidare la sorte, ultima degli Ido», disse l'albo che era rimasto sulla soglia, in tono minaccioso. «Potrai lasciare la cantina e alle famiglie degli altri congiurati sarà concessa la vita. Da parte nostra. Ciò che invece ordinerà l'imperatore Aiphatòn, quando verrà a sapere quanto è successo, non lo sappiamo.» «E lo verrà a sapere sicuramente», aggiunse l'alba.
Mallenia si voltò, furente. «Avrei dovuto immaginare che avreste cercato un pretesto per rompere l'accordo!» «Non è un pretesto. È la corretta interpretazione dell'accordo.» Il fratello di Tirîgon inclinò la testa. «Se dovessi interpretarlo in modo ancora più corretto, potrei dire che Tirîgon si è ferito da solo, e che non sei stata tu a riuscirci.» Indicò la sorella. «Firûsha sarebbe molto felice, se raggiungessimo questa conclusione. Ma finché noi riflettiamo su come dobbiamo interpretare la tua vittoria, tu puoi quantomeno arrivare illesa fino alla porta.» Si spostò di lato, lasciandole libero il passaggio. Mallenia non esitò e si affrettò a lasciare la stanza, in cui gli odori di sangue, interiora, vino e carne salata si erano mescolati a formare un fetore disgustoso. Mentre camminava trasse da sotto il mantello la balestra a una mano che teneva in un supporto sulla schiena, la tese e, giunta sulla soglia, si girò ancora una volta. Mirò alla testa di Tirîgon e fece partire il dardo, che sibilò attraverso la stanza e colpì l'albo al collo. Mallenia imprecò, perché le era tremata la mano; tuttavia si disse che, con un poco di aiuto da parte degli dei, Tirîgon sarebbe comunque
morto. Uscì sbattendo la porta. La chiave era all'esterno - il sindaco aveva dimenticato di toglierla -, così la donna potè rinchiudere gli albi; un piccolo vantaggio per fuggire. Poi vide tre destrieri della notte, fermi a pochi passi da lei. Sarà una buona idea? Nessun umano aveva mai osato montare una delle cavalcature degli albi; o, se qualcuno lo aveva fatto, non era sopravvissuto per raccontarlo. Mallenia sapeva che in groppa a una bestia del genere avrebbe avuto più possibilità di tenere a distanza gli inseguitori. «Vediamo un po' se riesco a farvela in barba», mormorò, avvicinandosi col braccio disteso a porgere la ciocca di capelli dell'albo. Osservava con attenzione le froge degli animali e credette di riconoscere quale di loro aveva percepito l'odore del suo padrone. Strofinò i capelli sul morbido naso, poi si passò la ciocca su braccia, torso e gambe. «Senti? È stato Tirîgon a permettermi di cavalcarti», disse in tono gentile, camminando intorno alla grande bestia nera dagli spaventosi occhi rossi in cui sembrava allignare il calore
della lava. Infilò un piede in una staffa e balzò in sella. Il destriero della notte s'impennò, con un nitrito simile a uno stridio. Gli zoccoli pestarono il selciato, provocando lampi bianchi intorno alle pastoie; segni di bruciature restavano sulla pietra. Mallenia si avvinghiò al collo, appiattendosi per non essere raggiunta dai morsi delle affilate zanne, e non si lasciò disarcionare; poi spronò energicamente coi talloni i fianchi del destriero. L'unicorno si gettò al galoppo per i vicoli della città. Alle loro spalle, quando i ferri colpivano il suolo, c'erano continue scintille e tremiti. Mallenia reggeva strette le briglie e guidava il destriero con tutte le sue forze, come non le era capitato di fare con nessun cavallo. A una normale cavalcatura si sarebbe già strappata la pelle intorno alla bocca, e le vertebre si sarebbero sicuramente rotte sotto tanta violenza. Invece quell'animale non ne sembrava disturbato e obbediva ai comandi. Superarono in piena corsa la porta, già aperta dalle guardie che avevano pensato si trattasse di uno degli albi. In una selvaggia
cavalcata uscirono da Hochheiligstadt, tuonando sulla strada che portava a ovest. Terra dell'Aldilà, settantaquattro miglia a sud-ovest della Forra Oscura, 6491° ciclo solare, inverno Tungdil e il Rabbioso cavalcavano l'uno accanto all'altro, avvicinandosi miglio dopo miglio alla fortezza dei Quarti, attraverso la quale si arrivava alla Terra Nascosta, la vecchia patria. Nella fortezza avrebbe avuto luogo l'incontro coi restanti sovrani dei nani. Boïndil si era scelto un pony pezzato; un secondo, parecchio carico, gli trottava dietro attaccato a una corda fissata alla sella. Tungdil invece cavalcava un befùn, alla maniera degli ubari. La bestia sembrava un gigantesco mezz'orco dalla pelle grigia che marciasse a quattro zampe, con un corto moncone di coda. Il corpo era muscoloso come quello di un cavallo, il muso era schiacciato, il che rendeva la testa ancora più tozza. Massicce mani a tre dita e una spessa epidermide donavano all'animale un aspetto vigoroso. Il Rabbioso sapeva che in combattimento un befùn si alzava sulle zampe posteriori e aiutava
coi suoi artigli il cavaliere. Grazie a una particolare sella dal lungo schienale curvo, il cavaliere scivolava nella posizione giusta e non veniva sbalzato di sella. I due nani costituivano una coppia stranamente assortita, non solo a causa delle cavalcature. Boïndil sembrava un tipico nano, come veniva descritto in innumerevoli storie in tutti i regni della Terra Nascosta, dai tempi delle gesta eroiche compiute dal piccolo popolo contro Nôd'onn, gli avatar o le bestie della Forra Oscura. Tuttavia quei bei tempi erano finiti da molto, e la maggior parte delle battaglie più recenti era stata perduta: contro gli albi, contro Lot-Ionan, contro il drago. Il Rabbioso aveva un'imponente barba intrecciata e un volto rugoso. Sotto un chiaro mantello di pelliccia, indossava una cotta di maglia rinforzata; teneva l'azza infilata in un sostegno della sella, fumava a grandi sbuffi una pipa e borbottava una canzone. Per contro, Tungdil, nella sua armatura nera sembrava un albo in miniatura. Era proprio il befùn a rafforzare quella lugubre impressione, e la Sanguinaria, l'arma albica al suo fianco, non
contribuiva a trasmettere l'impressione di un amichevole figlio del Fabbro. Qualunque appartenente alla stirpe dei Terzi, i nemici dei nani, si sarebbe chinato rispettosamente davanti a lui, poiché lo avrebbe ritenuto uno dei signori albi. Boïndil era continuamente preso da simili indesiderati pensieri; era fin troppo contento quando riusciva a spingerli da parte e a non riflettere troppo sulla trasformazione dell'amico. Emise una nuvoletta di fumo azzurrognola e trasse la borraccia da sotto il mantello: la portava ben stretta al corpo perché l'acqua non congelasse. «Allora, ti ricordi ancora la strada?» chiese, bevendo un lungo sorso. «Io preferisco affidarmi al mio pony, piuttosto che ai miei ricordi. Lui ha la testa più grossa.» Rimise a posto la borraccia. «Credo che siano più di centocinquanta cicli che non mi metto in viaggio in questa direzione.» Tungdil sorrise. «Allora abbiamo qualcosa in comune.» Si guardò intorno. «Non ricorderei la strada nemmeno con tutta la buona volontà: senza il sentiero che ci sta guidando, sarei perduto.» Tornarono a tacere.
Lo scalpiccio degli zoccoli, mentre colpivano la pietra, riecheggiava tra le montagne, mentre un leggero venticello faceva danzare la neve e la portava ad ammucchiarsi in certi punti, dove i pony avanzavano a fatica. «Non hai nessuna domanda?» chiese Boïndil dopo un po', cimentandosi con un anello di fumo. «Sto ancora cercando di capire quello che ho sentito dalla tua bocca», confessò Tungdil, guardando dritto davanti a sé. «Lot-Ionan il Paziente. Che cosa può averlo cambiato? La magia?» Fece un forte sospiro. «Mi piacerebbe ricordarmi di molte cose, per convincerti che un tempo le sapevo. Che sono io, il tuo amico e compagno di battaglie.» Si toccò la cicatrice sulla fronte. «Penso di dovere a questo colpo la perdita di ricordi belli e ricordi brutti. Me lo diede il mio maestro, e quasi mi uccise. Certo, non ha distrutto la mia vita, ma ha cancellato le immagini del mio passato. Questa è l'unica spiegazione che posso offrire.» Il Rabbioso guardò la cicatrice. «Ho già sentito di certi che hanno perso il lume della ragione dopo essere stati colpiti in testa molto forte. Probabilmente, in casi come questi, la
smemoratezza è il male minore.» Sembrava sollevato. «A dire la verità, avrei potuto arrivarci da solo...» «... ma le molte voci del malaugurio intorno a te ti hanno invece indotto a credere, o temere, che io non sia il Sapientone che ti è tanto debitore.» Tungdil sprofondò nei suoi pensieri. Boïndil lo lasciò in pace. Del maestro gli avrebbe chiesto quando se ne fosse presentata l'occasione, non in quel momento. «Mi ricordo! Quando vidi Lot-Ionan l'ultima volta, portava una veste azzurra e un guanto bianco...» Tungdil sembrava allarmato. «Il guanto, Rabbioso! Me lo ricordo davvero: lo indossava per nascondere l'ustione che gli aveva procurato l'artefatto», gridò, agitato. «La pelle guarì, ma rimase nera.» «Molto bene, Sapientone!» disse il Rabbioso, rallegrandosi di quel successo. «L'artefatto ha giocato un brutto tiro al mago. Già allora ebbi un cattivo presentimento al riguardo», aggiunse. «Vedo con piacere che cominci a ricordare. L'artefatto aveva impedito l'accesso a Lot-Ionan perché non era puro di cuore. All'epoca pensammo che il mago potesse aver perduto la sua purezza per via di una qualche innocua
mancanza, ma sappiamo ormai da tempo che in realtà doveva trattarsi di qualcosa di peggio.» Boïndil sperò che gli passasse accanto un'orda di mezz'orchi per potere sfogare la collera su di loro. Da parecchi cicli si rimproverava di non aver agito allora e di essersi lasciato placare da Goda. «La colpa è in buona parte mia. Se lo avessimo rinchiuso allora, o messo fuori combattimento in qualche altro modo, la stirpe dei Secondi non sarebbe stata sterminata quasi per intero.» «Goda ha cominciato il suo apprendistato presso di lui?» Il Rabbioso annuì. «È stata sua apprendista per circa dieci cicli. Gli ubari non avevano trovato nessuno che fosse adatto a diventare mastro di rune. Poi lei notò che l'artefatto cominciava a reagire alla sua presenza in modo diverso dal solito. Molto presto divenne per lei doloroso toccare la sfera di energia per attingere a nuovo potere. Capì che la sua purezza d'animo era in pericolo, senza riuscire a spiegarsi da che cosa dipendesse. Il nostro primo figlio era venuto al mondo già molto prima di quel cambiamento, quindi non era quello a disturbare l'artefatto.»
Tungdil si sistemò la benda d'oro, e i raggi del sole fecero scintillare il lucido metallo. «Il cambiamento è cominciato lentamente?» Boïndil guardò l'amico, perplesso. L'ha sempre portata a destra? Non aveva perso l'occhio sinistro? Non riusciva a stabilirlo, e quel pensiero aumentò la sua incertezza. «Si può dire così, finché Lot-Ionan non pretese d'insegnare a Goda formule che a lei sembravano crudeli. Quando si rifiutò d'impararle, lui andò in collera e partì, offeso. In seguito ci arrivarono alcune lettere in cui pregava Goda di andare da lui nella Terra Nascosta per discutere di tutto, ma lei non voleva abbandonare l'artefatto. L'ultima lettera che ricevemmo era minacciosa e sfacciata al tempo stesso, e noi la considerammo una conferma del fatto che avevamo preso la decisione giusta.» Il Rabbioso adocchiò un rifugio che era stato costruito lungo il passo, affinché nelle notti gelide i viaggiatori non dovessero dormire all'aperto. «Guarda! Alloggio modesto, ma meglio di un materasso di neve.» «E i popoli della Terra Nascosta sono rimasti a guardare mentre Lot-Ionan conquistava i Monti Blu?» domandò Tungdil.
«E che cosa avrebbero potuto fare contro un mago così potente, Sapientone? Da quando, grazie alla sorgente della magia, Lot-Ionan si è liberato dalla pietrificazione, il suo potere è cresciuto di rotazione in rotazione. È riuscito ad annientare quasi totalmente la mia stirpe: ha messo in ginocchio le rocce, e così anche i nani.» Il Rabbioso strinse i pugni, frustrato. «Ha fatto crollare i pozzi e le gallerie?» «Proprio così, Sapientone. Ci ha mandato un terremoto dopo l'altro, ha fatto crollare le nostre aule e le nostre fortezze, ha inondato i nostri corridoi di pietra liquida e fatto salire il livello dell'acqua dai pozzi più profondi. Questo è costato migliaia di vite, e lui ha atteso in agguato i fuggiaschi davanti alla fortezza di Orcomorto per colpirli coi suoi incantesimi.» Sul volto di Boïndil comparvero lacrime di collera e di cordoglio. Scivolarono sulle guance finendo nella barba, dove il freddo vento le congelava in gocce scintillanti. «Sono rimasti in non più di cento, e ora vivono presso i Liberi.» Tungdil fece una smorfia. «Questo non sembra un comportamento degno del mio padre adottivo», mormorò. «Ma non ho nessun motivo di dubitare delle tue parole, amico mio.
Qualcosa in passato deve averlo corrotto. La sorgente che lo ha risvegliato?» Il Rabbioso si tolse dalla barba le perle di lacrime, che gli si scioglievano tra le dita. «Nessuno lo sa. Tu sei l'unico che osi marciare contro di lui, a parte l'imperatore degli albi, Aiphatòn.» «La Porta Alta? È aperta o chiusa?» «L'ha chiusa di nuovo, dopo che gli Occhineri hanno fatto ingresso da sud. Deve aver pensato che era meglio non fare entrare troppe creature di Tion», disse Boïndil. «Il tuo piano continua a essere lo stesso, Sapientone? O hai trovato un altro modo per sottomettere un avversario come lui e costringerlo pure a servirci?» Tungdil non rispose; guardava invece in avanti, verso la capanna. «Siamo già attesi. Mi chiedo solo perché non abbiano acceso un fuoco.» Boïndil spalancò gli occhi. «Dici sul serio? Qualche brigante ha osato mettersi in agguato?» Intanto si chiedeva in che modo Tungdil avesse potuto notare i nemici. La capanna era sottovento, sulla neve non c'era la minima traccia e, in quel silenzio che li
circondava, anche lui avrebbe percepito il minimo rumore. Attribuì la cosa ai fini sensi dell'amico, acuiti dai continui combattimenti, e fece per impugnare l'azza, ma Tungdil lo trattenne con un gesto. «Non so quanti siano. Facciamo come se non ci fossimo accorti di niente e lasciamo loro credere di avere a che fare con facili prede.» «Hai ragione. Se avessero con loro delle balestre, potrebbero tirarci addosso mentre siamo ancora in sella», disse il Rabbioso. «Spero che la capanna pulluli di briganti! Sarà divertente!» «Di certo non per chi ci sta aspettando.» Tungdil accarezzò il collo del befùn. «Vogliamo scommettere?» «Questa volta no, Sapientone», rispose il Rabbioso, sogghignando.
VII Terra dell'Aldilà, settantasei miglia a sud-ovest della Forra Oscura, 6491° ciclo solare, inverno Idue nani cavalcavano verso la capanna, che dava l'impressione di essere da tempo abbandonata. Trenta passi li separavano dall'ingresso, e seguitava a non mostrarsi nessuno. Per il Rabbioso continuava a essere un mistero come Tungdil avesse percepito che qualcuno si trovava all'interno. Tese le orecchie e guardò di nuovo in avanti, sistemandosi nel frattempo sulla sella. «Sei sicuro, Sapientone?» Simulò una risata, come se stesse raccontando una storiella, in modo da ingannare possibili osservatori. Notò che due rune dell'armatura di Tungdil avevano iniziato a brillare. «Tra un attimo lo vedrai da te. Tieniti pronto.» «E se si trattasse di innocui viandanti?»
«Che se ne stanno al freddo? Che non entrano o escono da rotazioni?» ribatté Tungdil, sarcastico. Le cavalcature si fermarono a poca distanza dalla costruzione e i nani smontarono. «E adesso?» s'informò Boïndil mentre, con corregge di cuoio, legava i pony a un sostegno di metallo posto davanti alla capanna. Non strinse molto i nodi, in modo da poterli sciogliere con facilità in qualunque momento. «Facciamo irruzione?» «No.» Tungdil estrasse la Sanguinaria dal fodero. «Busseremo.» Picchiettò sulla testa dell'azza. «Con questa.» «Grande! Finalmente si comincia!» Il Rabbioso posò la pipa a terra, vicino alla porta, in modo che non rimanesse danneggiata nello scontro; poi abbatté l'azza contro la porta. La serratura saltò via dal legno tra le schegge, e la porta si spalancò con tale violenza da uscire dai cardini. Boïndil non rinunciò a entrare per primo, con un forte grido, e si ritrovò a fissare panche e tavoli vuoti; all'interno faceva freddissimo e non c'era nessun segno del fatto che qualcuno si trattenesse lì, o che lo avesse fatto recentemente. «Ehi, Sapientone! Guarda che i
tuoi sensi si sono presi gioco di te. Vieni a vedere!» Dietro di lui, tutto rimaneva in silenzio. Il Rabbioso si girò, ma Tungdil era scomparso. «Per Vraccas, e adesso che sta succedendo?» gridò. Poi sentì un rumore alle sue spalle e si girò di scatto, con l'azza levata. «Sapientone?» Passo dopo passo si mosse per la stanza. Mentre camminava, cercò cenere nel camino, impronte di piedi sul pavimento di legno, o altre tracce. Niente. «Devono essere gli spiriti delle montagne», mormorò. «Sapientone? Dove ti sei cacciato? Non vorrei attaccarti per sbaglio mentre sbuchi da dietro un angolo!» Il focolare era coperto da uno spesso strato di brina; era un bel po' che nessuno preparava un pasto lì. Tuttavia da una traversa del soffitto pendeva una salsiccia. Il nano notò stupito che, benché non ci fosse nessuna corrente d'aria, il salame stava oscillando. Guardando meglio, vide che le travi del soffitto sopra di lui si muovevano leggermente, e sogghignò. Ecco dove si
nasconde il ratto! Chiunque volesse tendere loro un agguato, si era rintanato nel fienile. «Sapientone?» chiamò Boïndil ancora una volta, prima di saltare sulla piastra del focolare e piantare tra le assi del soffitto il lungo spuntone dell'azza. Fece un balzo e si aggrappò con entrambe le mani al manico dell'arma, in modo che le tavole sopra di lui si frantumassero per via del peso. Fili di erba asciutta caddero nella stanza ricoprendo il nano, mentre la polvere lo privava della vista. Tuttavia il Rabbioso credette di aver scorto un'ombra, nella pioggia di fieno. Poiché presupponeva che, se si fosse trattato di Tungdil, si sarebbe fatto riconoscere, menò un colpo senza pietà. L'attacco venne parato, il metallo cozzò contro il metallo. Il Rabbioso dovette far ricorso a tutte le sue forze per non vedersi strappare l'arma dalle mani. Circondato da ciuffi di fieno, Boïndil intraprese un ulteriore attacco contro il suo avversario, che continuava a vedere solo come scuro contorno. A giudicare dalla statura, si trattava di un nano! «Sapientone, sei tu?» chiese il Rabbioso, trattenendo il colpo per un istante.
Fu un errore. Una lama molto sottile apparve davanti a Boïndil, che riuscì a malapena a girare il corpo verso destra. Senza la prontezza di spirito del nano, la punta affilata gli avrebbe forato il petto; riuscì invece a farsi strada tra mantello, anelli della cotta di maglia e la sottoveste imbottita e colpirlo alla clavicola. Boïndil ringhiò, per il dolore e per la collera, mentre l'arma veniva prontamente tirata indietro. Il nano sentì il sangue scorrergli caldo dalla ferita, ma giudicò che non fosse grave: riusciva a muovere spalla e braccio, e l'aria non gli mancava. Con un cupo brontolio, afferrò l'impugnatura dell'azza con entrambe le mani e saltò contro l'avversario attraverso il fieno, vibrando l'arma in orizzontale. «Non nasconderti, vigliacco!» gridò, furente, mentre usciva dalla nube di polvere e fieno. Vide una figura davanti alla porta. «Fermo lì!» Scattò a correre, seguendo lo sconosciuto all'aperto. Ma quando Boïndil si trovò in mezzo alla neve, l'aggressore era scomparso. «Per tutte le disgustose...» Il Rabbioso ricevette un colpo alla nuca, che gli procurò una forte vertigine sebbene l'elmo ne avesse in
parte assorbito la forza. «Attaccare alle spalle, eh... questo sai fare!» sbottò Boïndil nella sua collera, e davanti alla sua vista velata per il colpo si alzò una cortina rossa. «Ehi, fatti vedere!» Il nemico era fermo accanto alla porta. Portava un elmo di cuoio nero, adornato da numerosi rivetti e fili d'argento. Proteggeva il corpo con un'armatura di cuoio dello stesso colore, su cui erano fissate delle piastre di tionio decorate, e nascondeva le gambe sotto una protezione simile a una gonna fatta di piastrine di metallo annerite, come quelle prodotte dai Terzi. «Ma guarda: un nemico dei nani. Che cosa ti avrà spinto fin qua?» Boïndil si passò la mano sugli occhi. Accanto ai piedi dell'aggressore vide la propria pipa, calpestata. «Guarda che hai fatto, maledetto! E adesso come faccio a farmi una serena fumata?» Strinse i denti e sbuffò due volte per la collera. Tungdil comparve sopra di loro, sul bordo del tetto, tenendo la Sanguinaria nella destra. Era impressionante da vedere. «Cosa ben più importante da sapere: com'è riuscito a superare i Monti Marroni e la fortezza dei Quarti?
Dovremmo trovare la falla, prima che altri possano passare.» «Aspetta, Sapientone. Lo tartasso volentieri io di domande!» Il Rabbioso alzò l'azza. «È proprio per tartassare che me la porto dietro.» Si lanciò contro l'avversario. Il Terzo in una mano teneva uno scudo rotondo e nell'altra un'arma simile a una spada. La parte inferiore dell'arma era spessa, per reggere colpi pesanti, poi si assottigliava fino a diventare una punta lunga e sottile con cui era più agevole colpire attraverso i punti deboli delle armature. «Ti spezzo in due quello spadino!» minacciò Boïndil, ruggendo e girandosi per caricare il colpo con la torsione del corpo, in modo da rendere impossibile al nemico una parata. Il Terzo non pensò minimamente di mettersi sulla traiettoria dell'azza in arrivo. Scartò di lato e sollevò istantaneamente il braccio con lo scudo. Il Rabbioso notò troppo tardi che l'altro gli gettava qualcosa contro. Davanti a lui si gonfiò una nube di polvere nera, e il nano vi si trovò in mezzo. Immediatamente gli occhi presero a bruciargli come fuoco, e gli sgorgarono tante
lacrime da non riuscire più a vedere nulla; ogni respiro gli doleva, dovette tossire e si ritrovò senza fiato. Ma la follia guerriera era ormai divampata in lui e lo costringeva a menare colpi intorno a sé, alla cieca e inutilmente. Le forze gli diminuivano sempre più, fino a che Boïndil non cadde nella neve, ansimante e dolorante. La furia guerriera lo abbandonava, la neve si scioglieva per via del suo calore corporeo e gli ripuliva gli occhi. Quando rialzò la testa, il Rabbioso vedeva di nuovo qualcosa. Sputò. Il suo sputo, come la neve che aveva avuto sotto il volto, era tinto di nero. Tungdil e lo sconosciuto stavano combattendo; i tintinnii delle lame che cozzavano l'una contro l'altra si susseguivano in rapida successione e le pareti delle montagne rimandavano indietro quei rumori, mentre i due volteggiavano nel loro mortale duello. Quei movimenti vorticosi non avevano nulla a che fare con un ordinario combattimento. Era la prima volta che Boïndil vedeva una cosa del genere; gli sembrava che due fratelli in armature nere stessero duellando l'uno contro l'altro.
Tungdil incalzava freneticamente il nemico. Gli aveva già spaccato lo scudo; la punta della strana arma si era spezzata e l'armatura si apriva in tre punti, da cui trapelava sangue. Il Rabbioso si tirò in piedi; gemendo, si sforzò di riprendere fiato e alzò l'azza. «Aspetta, Sapientone! Sto arrivando!» gridò barcollando in avanti. «Devo ancora qualcosa a quel... Gonnaiolo!» Tungdil lasciò che un colpo dell'avversario superasse la guardia offerta dalla Sanguinaria e cozzasse contro l'armatura. Non appena ferro e tionio s'incontrarono, ci fu un lampo accecante, e si sentì il grido attutito del Terzo. Lo sconosciuto aveva dovuto lasciare l'elsa della sua arma; la spada cadde nella neve e vi sprofondò, tra i crepitìi. Una nube di vapore salì da quel punto. Il Terzo indietreggiò di tre passi, alzò la mano sinistra e una parola incomprensibile, che ricordava la lingua degli albi, sortì dall'elmo. Tutte le rune sull'armatura di Tungdil s'illuminarono. Il Sapientone scomparve in un mare di raggi accecanti. Boïndil si riparò gli occhi con la destra e corse verso il nemico. «Sta' lontano, schifoso!»
Quando raggiunse il punto in cui prima si era trovato il Terzo, vide solo delle orme che portavano a un ripido pendio. Si è buttato giù? Cauto, il Rabbioso seguì le tracce, che conducevano oltre il bordo. Molto più sotto scorse la figura di un nano che rotolava avvicinandosi al fondovalle sino a che non gli riuscì d'infilare lo scudo rovinato sotto il corpo e di scivolare sopra di esso sulla neve ghiacciata, come se fosse una slitta. Intorno a lui, cumuli di neve iniziarono a staccarsi. Una valanga si accingeva ad accompagnare il Terzo nel suo viaggio verso il basso. «Ehi, Gonnaiolo! Tion è stato dalla tua parte fin troppo tempo!» gridò Boïndil. «Spero che la Morte bianca ti prenda e ti faccia scomparire!» Il Rabbioso attese finché non vide sparire il Terzo tra le cortine di neve. Si girò sogghignando verso Tungdil, che era in piedi, a pochi passi di distanza. «Peccato solo che non lo abbiamo potuto interrogare.» Accarezzò l'arma. «Voglio dire: tartassare di domande. Lo avresti lasciato in vita, Sapientone?» Tungdil non rispose e rimase immobile.
Pieno di brutti presentimenti Boïndil corse dall'amico e gli sollevò la visiera. Il volto di Tungdil era inespressivo, gli occhi oltrepassavano il Rabbioso per andare lontano. «Oh, per Vraccas! Che cosa ti ha fatto?» Boïndil picchiettò contro l'armatura. «O è stata lei? Questa latta nera sembra avere anche i suoi svantaggi.» Prese una manciata di neve e la gettò in faccia all'amico. Subito una palpebra tremolò, e Tungdil puntò lo sguardo su di lui. «Ah, ecco, la paralisi sta diminuendo.» Il Rabbioso fece un sospiro di sollievo. «Non del tutto.» Il volto di Tungdil si fece rosso per lo sforzo. «Per quanto mi sforzi, l'armatura non si muove!» «Che cosa?» Boïndil posò l'arma, afferrò il braccio destro dell'amico e cercò di abbassarlo con forza. Le cerniere rimasero dov'erano, come se fossero state saldate. In compenso, Tungdil prese a oscillare per poi cadere all'indietro sulla neve. «Davvero eccellente, Rabbioso», disse Tungdil, sarcastico. «Congelerò qui dentro.» «Ma comunque sarebbe meglio che soffocare nei propri escrementi, che ne dici?»
«Non lo trovo divertente, Rabbioso!» «Sta' tranquillo. Mi occuperò io di te.» Boïndil guardò in direzione del befùn. «Il befùn ti trascinerà fino alla capanna, e il mio pony ti farà passare attraverso la porta. In qualche modo ti metterò davanti a un fuoco che ti scaldi, e poi penseremo a che cosa possiamo fare.» Poco dopo, Tungdil giaceva davanti al fuoco che il Rabbioso aveva acceso nel camino. La porta divelta della capanna era stata appoggiata all'ingresso, puntellata da un tavolo, per bloccare il vento freddo. Con le scarse provviste a disposizione, Boïndil preparò un pasto semplice ma saporito. «Ti devo imboccare?» chiese a Tungdil, sogghignando. Si concesse un po' di maligno divertimento, benché fosse preoccupato dell'eventualità che l'armatura rimanesse bloccata per sempre. «Un bel mucchio di costosa ferraglia», mormorò. «No, non imboccarmi. Chissà dove andrebbero a cadere i bocconi», brontolò Tungdil di cattivo umore. Il Rabbioso mangiava con appetito. «Ti è già successo, Sapientone?» chiese, con la bocca piena.
«No. Ma non mi è neanche mai capitato di battermi con un Terzo che conosca la lingua degli albi.» Boïndil masticava piano, meditando. Se si può costringere quell'armatura a fermarsi parlando la lingua degli Occhineri, chi sarà mai stato a fabbricarla? Chi l'ha indossata prima di Tungdil? Il suo amico non avrebbe mai pensato di armarsi con qualcosa che fosse inconfondibile opera del male; ma molte cose erano cambiate da quand'era finito nella Forra Oscura. Gli occhi del Rabbioso si posarono sulla lama. Forse giudicava Tungdil in modo errato? L'amico aveva forgiato un'arma partendo da un'arma degli albi... La Sanguinaria! Boïndil trovava che la sua riflessione fosse valida: probabilmente era quell'arma la responsabile del cambiamento dell'amico, diventato cupo e pericoloso. «Spero che tu non abbia acqua di cui sbarazzarti...» «Non ancora.» «Posso metterti a testa in giù, così esce fuori dall'elmo», disse il Rabbioso, ridendo. «E tu saresti anche capace di farlo!» «Ma certo!» «Per gli Empi! Se solo conoscessi il controincantesimo.»
Boïndil a quelle parole trasecolò, rimanendo a bocca aperta. «Quel Terzo ti ha lanciato un incantesimo? Un nemico dei nani che sa usare la magia?» Prese la tazza di tè. «Che Vraccas ci aiuti! La cosa si fa sempre più misteriosa.» «No, non era magia. Era più... un ordine», replicò Tungdil. «Ah, come coi pony. Io dico 'fermo', e lui si ferma.» Il Rabbioso indicò col cucchiaio l'armatura dell'amico. «Perché funziona così?» «Perché così il proprietario può assicurarsi che nessun altro la usi», rispose Tungdil. «Ci vorrebbe troppo tempo per spiegartelo.» «Be', io ho tempo.» Boïndil leccò il cucchiaio. «E anche tu, Sapientone.» «Non ne ho voglia, maledizione!» «Se ho capito bene, questo significa che potrebbe succederti di nuovo. Per esempio, se devi affrontare un albo.» Il Rabbioso alzò il cucchiaio. «E questo è molto probabile, almeno nella Terra Nascosta.» Osservò le rune. «Dovresti davvero togliertela non appena il blocco si allenta.» Gli strizzò l'occhio. «In caso di necessità, ti posso trascinare indietro a Diga-delmale. Nella mia fucina ci metterei un attimo a rompere quella scatoletta. Ho certi martelli!»
«Non servirebbe a niente.» Tungdil alzò gli occhi al soffitto e guardò il salame penzolante. «L'effetto sparirà!» esclamò mentre cercava con tutte le forze di mettersi dritto. Ma l'armatura non si lasciava muovere; le giunture non cigolavano nemmeno. «Che dici, potrei usarti come slitta?» «Ti diverti a prendermi in giro? Preferirei la compassione alla malignità.» Tungdil rivolse all'amico uno sguardo accusatore. «Io non sono maligno. Ti faccio soltanto notare che ha degli svantaggi andarsene in giro con un'armatura straniera capricciosa come una femmina. E ti prego di notarlo anche tu.» Boïndil s'infilò in bocca un pezzo di pane e si alzò. «Mi è venuta in mente una cosa», farfugliò, prendendo con una mano l'azza mentre con l'altra continuava a tenere la pagnotta. Con le gambe ben piantate si erse sopra Tungdil, all'altezza delle ginocchia. «Forse è davvero come con le femmine testarde: quando si vuole qualcosa da loro, bisogna provocarle.» S'infilò il resto della pagnotta in bocca. Tungdil lo guardava esterrefatto. «Che cos'hai in mente di fare?»
«Provocare. E come si deve, vedrai.» Calibrò il colpo in modo da colpire l'amico in pieno petto con la parte piatta della testa dell'arma. «Potrebbe fare male, Sapientone. Ma è per una buona causa.» «No, Rabbioso! Aspetta! Mi... mi sta tornando in mente...» Boïndil alzò l'arma. «Chiudi gli occhi. Ci saranno di certo altri lampi», lo avvertì, sorridente, e lasciò sfrecciare l'azza verso il basso. Terra Nascosta, ex regno del Weyurn, 6491° ciclo solare, inverno Rodario imprecò e cercò di fondersi con l'oscurità del pozzo. Temeva che le guardie sui camminamenti lo mettessero sotto tiro. Come potevano sapere che si trattava solo di un innocuo, curioso attore, e non di un cacciatore di taglie o di un avventuriero che voleva guadagnarsi la ricompensa che pendeva sulla testa della principessa Coïra? Si fece più piccolo che potè e attese le loro mosse. Grida di scuse non sarebbero servite a nulla, le sue proteste d'innocenza, a quella distanza, sarebbero finite in schiamazzi incomprensibili.
Le grida, sopra di lui, si fecero più forti. Risuonarono le fanfare, emettendo segnali rapidi e preoccupanti. Rodario cominciò a sudare. In altre circostanze lo avrebbe molto onorato che si facesse tanto strepito per lui, ma in quella situazione non riusciva a godere di tanta attenzione. La luce blu sul fondo del pozzo diminuì, e Coïra tornò vicino ai suoi vestiti, sulle tavole. Facendolo si girò per atterrare sul legno coi piedi in avanti. Rodario riuscì a vederla ancora una volta da tutte le angolazioni e potè ammirarne la bellezza. Sospirò, felice e innamorato. Coïra si allacciò la cintura e si affrettò a tornare alla cabina, dove manovrò una leva. Cominciò il viaggio di ritorno verso la superficie. Anche l'attore veniva in quel modo tirato su; gli veniva così risparmiata l'estenuante risalita. Tuttavia non era stato ancora scongiurato un pericolo per lui: la carrucola su cui si avvolgeva la fune. Rodario vide il rettangolo di luce avvicinarsi sempre più, le funi vi sparivano dentro. Getti d'acqua lo bagnarono, infradiciandogli schiena e
nuca. Erano freddissimi, e lui dovette stringere i denti per non gridare. Mentre passava attraverso l'apertura per la cabina, si slanciò di lato e mollò la presa. Atterrò con piede sicuro sul pavimento, e dovette solo fare due passi in avanti per ammortizzare lo slancio. Con sollievo, si rese conto che nessuno lo stava aspettando; il trambusto non era scoppiato per causa sua. Subito dopo, la cabina passò attraverso l'apertura. Coïra tirò da parte la porta di grata e osservò l'attore. «E voi che ci fate lì?» Posò una mano sul bottone più alto della camicia e lo allacciò. «Vi stavo aspettando», rispose Rodario. Se tu sapessi tutto quello che sono riuscito a vedere di te. Guardò i guanti della ragazza: non si distinguevano affatto, non mostravano nessuna particolarità, come rune o segni. Forse non ha semplicemente avuto il tempo di sfilarsi il destro... Coïra notò che alle spalle dell'attore si stava formando una pozza d'acqua. «Non ditemi che sudate, con questo tempo?» Rodario rise, imbarazzato. «Quella? No, viene... viene ancora dalla nostra traversata. Mi
ha bagnato la spuma.» Si girò di tre quarti per indicarle il lago. «Spuma. Ma davvero? Una spuma così mirata non l'avevo ancora vista, e io conosco i laghi molto bene.» Coïra gli rivolse uno sguardo indagatore; gli occhi lo scrutavano dalla testa ai piedi, fermandosi poi sulla dita sporche. «Siete stato tutto il tempo qui ad aspettarmi, dite?» Prima che l'attore fosse costretto a mentire di nuovo, Loytan comparve davanti a loro. «Dovete vedere coi vostri occhi, principessa!» disse, indicando l'esterno. «Sta avendo luogo una strana gara.» Coïra guardò ancora una volta Rodario negli occhi, poi uscì. Con un sospiro di sollievo, l'attore seguì i due all'esterno. Si era alzato un freddo vento di tempesta, sul lago si gonfiavano grigie nubi. Era chiaro che le onde che lambivano le palancolate si erano alzate, rispetto al momento del loro arrivo; una leggera acquerugiola si alzava dal lago e copriva di goccioline mantelli, elmi e volti. Loytan li accompagnò sul lato occidentale da cui, oltre l'isola vera e propria, si poteva guardare una porzione della terraferma. Passò alla principessa il suo cannocchiale. «Guardate
la riva. Poco fa erano lontani circa mezzo miglio dall'imbarco del traghetto.» La ragazza portò la lente all'occhio. Per Rodario la riva era troppo lontana, vedeva soltanto che due lineette nere su due punti neri inseguivano una lineetta bianca su un punto nero. «E dunque? Che c'è?» domandò. Poi una delle guardie gli porse un cannocchiale. «Quelli sono... destrieri della notte?» chiese in un misto di meraviglia e paura. Le muscolose bestie nere galoppavano lungo la cresta delle dune. La sabbia sembrava esplodere sotto i loro zoccoli, si librava alta, guizzando intorno alle caviglie degli animali. I cavalieri in armatura nera che li montavano erano albi. Rodario si spostò sul malcapitato cui stavano dando la caccia, ed esclamò ad alta voce: «Per Elria e Palandiell! Una cosa del genere non l'avevo ancora vista: un umano su un destriero della notte!» «Dev'essere una donna molto coraggiosa, per osare montare su una bestia del genere.» Coïra vedeva i lunghi capelli biondi della fuggiasca agitati dal vento.
«Per farlo, deve avere ucciso un albo», commentò Rodario. «Quelli di certo non cedono la sella di loro spontanea volontà.» Riusciva a scorgere, attraverso il cannocchiale, il volto della donna: era bello, e non vi si scorgeva traccia di paura. «È incredibile che quel destriero le obbedisca.» Loytan si grattò il mento. «A Lohasbrand non piacerà affatto sapere che gli albi osano entrare nel suo territorio.» «Questo incidente potrebbe riaccendere la cordiale, vecchia inimicizia tra il drago e gli albi, se giochiamo bene le nostre carte», disse Coïra. «Per gli dei! Quella dev'essere Mallenia!» esclamò Rodario all'improvviso. «Mallenia? La combattente per la libertà?» chiese Coïra. Rodario annuì. Non si era accorto che la principessa lo stava fissando; lui continuava invece a guardare la riva attraverso il cannocchiale. «Sì! L'ho riconosciuta dai manifesti che ho visto appesi durante i miei viaggi attraverso il Gauragar e l'Idoslân. Gli albi e i vassalli da loro insediati sono disposti a pagare una montagna d'oro per la sua testa.»
«A quanto pare, hanno preso personalmente in mano la situazione», osservò Loytan. «Stanno acquistando velocità. Tra non molto l'avranno raggiunta.» L'attore abbassò il cannocchiale e fece un passo verso Coïra. «Principessa, anche se apparentemente la cosa non ci riguarda, vi prego: soccorrete Mallenia dell'Idoslân», disse, in tono accorato. «Io so quanto il suo popolo la ama. Se lei muore, morirà anche la lotta contro gli occupanti nella parte orientale della Terra Nascosta!» Coïra sollevò un sopracciglio. Rodario interpretò il gesto come un invito a dire di più per convincerla. «Vi imploro: intervenite! Voi avete il potere di salvarla dagli albi e di conservare le speranze del popolo dell'Idoslân.» Deglutì. «Lo farei io stesso, se possedessi i vostri poteri o una barca veloce con abbastanza uomini per ostacolare il male.» «A parte ciò, non sarebbe un bene se si spargesse la voce che Mallenia è morta nel Weyurn, davanti ai vostri occhi. In vista del palazzo di vostra madre», disse Loytan. «Se ne potrebbe trarre la conclusione che abbiamo aiutato gli albi. O che Mallenia volesse venire da
noi per unire la resistenza del Weyurn con quella dell'Idoslân. In un modo o nell'altro, quando il drago lo verrà a sapere, si metterà in viaggio per verificare le voci.» Il conte scosse la testa. «Ci furono molti morti l'ultima volta che Lohasbrand è apparso da queste parti, se ricordo bene gli antichi scritti.» A Rodario non piacquero le argomentazioni dell'uomo, perché poggiavano sul calcolo e sulla paura e non propugnavano semplicemente la vittoria del bene, ma un aiuto era pur sempre un aiuto. «Principessa, per favore!» L'attore s'inginocchiò. «Vi sarò debitore in eterno, se salverete Mallenia!» Coïra gli sorrise. Aveva negli occhi un'espressione nuova, strana e fino a quel momento sconosciuta, e gli poggiò una mano sulla spalla. «Alzatevi, Rodario Settimo. Non dovete inginocchiarvi davanti a me. Non una persona con sentimenti nobili come i vostri.» La principessa si arrampicò sul parapetto della palancolata e saltò giù. Rodario si lanciò in avanti con un grido impaurito, per guardare in basso nei flutti in tempesta e vedere che cosa fosse successo a Coïra.
La vide librarsi sulle onde sferzanti, muovendosi a incredibile velocità verso la riva. La circondava un bagliore blu; fulmini turchesi saettavano verso il basso e la portavano sull'acqua. «Che donna!» esclamò, ammirato. «Scendete dalle nuvole, attore. Anche se in questo la vostra corporazione è poco esperta», disse Loytan. «Da questo momento, Coïra avrà un po' più di considerazione di voi, ma rispettarvi... non lo farà mai. Siete al di sotto della sua dignità.» Il tono di voce dell'uomo era diventato tagliente. «Sentendovi parlare così, si potrebbe pensare che nutrite aspettative alle quali non avete diritto, in quanto già sposato», replicò Rodario, drizzando la schiena. «Parliamo francamente: non vi posso soffrire e, con questa palese dichiarazione, con me avete chiuso.» La presunzione scomparve dal volto del conte. «Vedo che, quando volete, avete una lingua tagliente.» «Vi taglierebbe in sottilissime rondelle, se finiste a duellare con lei.» «Non mi occorre farlo. Coïra crederà alla mia parola, piuttosto che alla vostra. Farò in modo
che ci lasciate molto presto.» Loytan digrignò i denti. «Dopo che vi sarete asciugato, attore. Nel migliore dei casi. L'acqua del nostro lago può davvero portare la morte.» Rodario si terse qualche goccia dal braccio. «Non m'importa niente di un po' di umidità.» «E chi mai sta parlando della spuma?» Senza preavviso, Loytan diede all'attore uno spintone con entrambe le mani. Le dita intorpidite di Rodario scivolarono sul ferro. Gridando, l'uomo cadde oltre la palancolata, nel lago che ribolliva per la tempesta in avvicinamento. Cadde testa in giù nei flutti e credette d'immergersi in ghiaccio liquido. Ogni fibra del suo corpo congelò; pensò di sentir scricchiolare, mentre il sangue gli si fermava nelle vene. Correnti subacquee lo schiacciarono senza pietà contro la parete del pozzo, pigiandolo con forza mostruosa e facendogli fregare il volto contro il metallo. In Rodario, la vita si oppose. Agitando le braccia selvaggiamente, l'uomo lottò per raggiungere il punto in cui vedeva la luce e immaginava trovarsi la superficie.
Mallenia si guardò ancora una volta indietro e riuscì a scorgere solo l'alba: si trovava a non più di cento passi indietro, e spronava il suo destriero della notte con violente sferzate. La donna tornò a guardare avanti. «Più veloce!» gridò nell'orecchio del suo destriero, estraendo il pugnale e posandone la lama sul collo della creatura. «Giuro che, se mi prendono, tu morirai prima di me!» Senza preavviso alla sua destra comparve un'ombra nera dagli ardenti occhi rossi; scese la duna e sbatté contro il destriero di Mallenia, buttandolo di lato. In un groviglio, la donna e l'unicorno rotolarono giù per il pendio sabbioso, verso la riva del lago. Il destriero nitriva in modo spaventoso, furente. Mallenia si mise al riparo dal peso della bestia, ma quella le morse l'avambraccio sinistro, strappandole un pezzo di carne grande come un pugno; le zanne raschiarono sull'osso, l'afferrarono e la scagliarono in direzione dell'acqua. Mallenia gridò e in un primo momento credette di aver perduto il braccio. Il sangue sgorgava dalla ferita, scorrendo sul braccio e da lì sui ciottoli chiari, dove si depositava. Anche se tutto in lei doleva, la donna non poteva
permettersi una sosta. Si tirò a sedere e fece per alzarsi e proseguire a piedi la sua fuga, ma le gambe le rifiutarono la cortesia. Lo scalpiccio di zoccoli si avvicinava, i fratelli albi si serravano con calma intorno a lei. All'improvviso non avevano più nessuna fretta, l'esito della gara era stato deciso. «Eccola qui, la ladra assassina», disse Firûsha, smontando di sella. Raggiunse Mallenia e cominciò a batterla con la sferza. La donna alzò il braccio illeso per proteggersi, e ogni colpo le tagliuzzava la pelle. Nella sferza erano inserite delle spine che la facevano somigliare a una sega. Quando Mallenia fece per portare la mano alla spada, si prese un calcio in testa che la gettò all'indietro, nel lago freddissimo. «Fa' attenzione, Firûsha, altrimenti annega», disse il fratello, in tono di rimprovero. «Abbiamo ancora molto in serbo per lei. E ferma l'emorragia, prima che si dissangui. A quanto pare, il destriero della notte aveva fame.» Mallenia vide Firûsha sopra di sé, poi dita inguantate l'afferrarono per il bavero trascinandola di nuovo a terra.
«Non posso darle una morte tanto dolce.» L'alba colpì la donna al mento, facendole perdere i sensi. Quando la tensione dal corpo di Mallenia fu diminuita, le prese la cintura e la usò per legare il braccio sopra la ferita; il flusso di sangue si arrestò quasi completamente. «Che facciamo, Sisaroth?» «La riportiamo viva nell'Idoslân. La santa degli oppositori, il loro sostegno e la loro speranza, dev'essere spezzata», disse. «Davanti agli occhi di tutti, la giustizieremo. Così la volontà dei ribelli verrà spezzata. Non hanno nessun successore che possa colmare una simile lacuna.» Firûsha guardò il fratello, che continuava a stare in sella al suo destriero. «Non c'è il rischio che un'esecuzione pubblica provochi una violenta ribellione?» Sisaroth sorrise, maligno. «Lo spero. Così la reprimeremo, e con essa sopprimeremo tutti gli altri oppositori. Verranno a noi per liberare Mallenia, e riceveranno la morte.» «Un buon piano.» Firûsha non sembrava però convinta. «Hai forse delle riserve?» «No. Pensavo alla reazione di Aiphatòn.»
Sisaroth scoppiò a ridere forte, tirando indietro la testa. «Il nostro sovrano, l'Imperatore Eterno, è molto impegnato a tener buoni i suoi seguaci, a sud.» Smontò e si avvicinò alla sorella. «Un debole buffone, nonostante il potere che possiede. Ha paura di una ribellione. Ma come si è ridotto? Prima sarei corso incontro alla morte per lui, oggi gli cederei il passo.» I ciottoli scricchiolavano sotto i piedi dell'albo. «Quali aspettative avevo riposto in lui, il discendente degli Eterni, dopo che aveva sconfitto Lot-Ionan! E sembrava che volesse restaurare i tempi gloriosi della prima generazione degli albi. Invece niente di tutto ciò è accaduto! Ma presto finalmente le cose cambieranno...» Firûsha corrugò la fronte. «Tu mi nascondi qualcosa, fratello! Che altro sai?» «Sono venuto a sapere che alla fine hanno strappato all'Imperatore Eterno la promessa di marciare contro il mago, entro questo ciclo.» «Sarà una guerra difficile e costerà vite in gran numero! E a che scopo?» «Per aprire di nuovo la via verso sud; sono in tanti nella Terra dell'Aldilà ad aspettare di poter entrare. Aiphatòn non si accorge nemmeno che così facendo sta mettendo il suo potere in mani
altrui.» Sisaroth era in piedi accanto a Mallenia e ne osservava il volto. «Per questo è importante che pacifichiamo l'Idoslân, il Gauragar e l'Urgon prima della guerra.» Abbassò la voce. «Siamo d'accordo sul fatto che non li lasceremo più entrare a Dsôn Balsur, sorella?» «D'accordo, come sempre.» Firûsha annuì. «In nessuno dei tre regni che un tempo appartenevano agli elfi. Appartengono a noi, gli Dsôn Aklàn, non agli stranieri.» Emise un richiamo e il destriero della notte su cui aveva cavalcato Mallenia trottò col capo chino verso di lei. Intorno alla bocca e alle narici dell'animale c'era il sangue di Mallenia. Veloce come una freccia l'alba estrasse la spada e, con un colpo potente, mozzò il capo alla creatura. Il destriero della notte cadde sulla riva, accanto alla donna, col sangue che sgorgava dal collo lordando la prigioniera. «Mangiate il traditore», ordinò Firûsha ai destrieri rimasti. I due si avvicinarono avidi alla carne calda. Il lungo inseguimento aveva messo loro fame. «Che cos'hanno smarrito due albi nel Weyurn?» chiese all'improvviso una voce
femminile. «Questo al drago di certo non piacerà.» Le mani degli albi volarono sull'impugnatura delle armi, mentre i due si giravano simultaneamente. Sisaroth e Firûsha videro una donna dai capelli neri in piedi sulla cima della duna, vestita in abiti raffinati; non aveva con sé nemmeno una spada. Gli occhi brillavano più chiari di quelli degli umani normali, e ciò sorprese i fratelli. «Una maga», sussurrò Sisaroth, in tono di ammonizione. Percepiva il potere invisibile che la sconosciuta aveva in sé in abbondanza. «Chi sei?» chiese l'albo. «Questo non è importante», rispose Coïra in tono imperioso, indicando la prigioniera. «Non le farete nulla, monterete sui vostri destrieri e lascerete il Weyurn. Tornate nell'Idoslân, nel Gauragar o nell'Urgon e causate sventura là.» Firûsha poggiò il piede sinistro sul petto di Mallenia. «Be', lei appartiene all'Idoslân.» «Provate pure a portala con voi», replicò Coïra, che sembrava divertita. «Il drago si rallegrerà quando lo verrà a sapere. Finalmente avrà di nuovo un motivo per dichiarare guerra
agli albi. È già passato molto tempo dall'ultima volta. E mi pare di ricordare che in quell'occasione il vostro popolo non se la sia cavata bene.» «È una criminale ricercata e...» «Allora avreste fatto meglio a prenderla neìl'Idoslân, e non nel Weyum. Andate via!» Coïra scosse le braccia e le alzò leggermente. «Questo è l'ultimo avvertimento che vi do.» Un uomo col volto escoriato uscì barcollante dalle onde. In mano teneva un pugnale, e sembrava molto deciso. Deciso quanto la principessa maga. «Allontanatevi da lei!» ordinò Rodario agli albi. «Lasciate in pace Mallenia, o la maga vi ridurrà in cenere!» S'inginocchiò accanto alla donna priva di sensi e la trascinò lontana dai destrieri della notte, che stavano mangiando con gli zoccoli pericolosamente vicini a lei. Una zampa posteriore si alzò improvvisamente e scalciò verso l'uomo, che la evitò con sbalorditiva prontezza. «Non siete seguaci del drago», disse Sisaroth. «Non vedo nessuna scaglia di drago appesa al vostro collo. Come mai dunque ci
minacciate parlando di Lohasbrand come se lo conosceste bene?» Coïra non diede nessuna risposta; almeno, non con la voce. Distese invece il braccio destro, col palmo della mano rivolto verso l'alto. Sopra il guanto comparve una sfera luminosa che prese a muoversi lentamente verso gli albi; la luce acquistava sempre maggior forza a mano a mano che si avvicinava ai due. I destrieri della notte indietreggiarono davanti alla sfera, sbuffando, mentre Rodario si gettava su Mallenia per proteggerla dagli zoccoli. Sisaroth e Firûsha fecero una smorfia: il brillare della sfera bruciava loro gli occhi. «Una mia parola, e questa creazione andrà in pezzi e vi accecherà per sempre con la sua luce», minacciò Coïra, dalla cima della duna. «Vi consiglio di lasciare il Weyum. E dirò al drago che gli albi non hanno rispetto per gli accordi. Sono curiosa di vedere come regolerà la faccenda.» Firûsha fece per attaccare, ma Sisaroth la trattenne. Raggiunse il suo destriero, che era molto agitato, e vi montò in sella; poi, i due albi partirono verso est.
La sfera li seguì per un po', come se la luna piena fosse scesa dal cielo per dare loro la caccia. Dopo dieci miglia si dissolse lentamente, trasformandosi in polvere scintillante che si posò sulla neve. Sisaroth a quel punto fermò subito il cavallo e Firûsha fece girare il suo. La vera luna illuminava i loro volti adirati, su cui si erano tracciate sottili linee nere. Il ribollio dei loro sentimenti non si poteva nascondere facilmente. Avrebbero trasformato volentieri quei sentimenti in brama di sangue, ma contro una maga non avevano nessuna speranza di successo; non con un attacco frontale. Guardarono in direzione dell'isola, su cui ardevano molte luci, e scorsero la struttura dalle pareti di ferro in mezzo alle acque del lago. «Là troveremo ciò che ci spetta», disse Sisaroth, cupo. «Porteremo loro la morte dall'acqua.» «Non intendo andarmene senza Mallenia», disse Firûsha. «È la chiave per la nostra incontrastata signoria sui tre regni. E voglio vendetta per Tirîgon!» Sisaroth scorse un villaggio di pescatori nelle vicinanze e puntò verso un sentiero che
conduceva là. «Andiamo a domandare chi abita sull'isola dei coraggiosi. E poi vediamo un po' se tra gli umani c'è del materiale con cui realizzare una nuova opera d'arte. Sento il bisogno di fare grandi cose.» Firûsha non replicò. Ma aveva già deciso che molto presto l'isola che si ergeva nel lago sarebbe stata chiamata «Isola dei morti».
VIII Terra Nascosta, ex regno del Weyurn, Seenstolz, 6491° ciclo solare, inverno Mallenia aprì gli occhi e vide sopra di sé la parte inferiore di un baldacchino. Era di tonalità rosso-arancione, con ricami gialli e bianchi di un tipo che le era del tutto sconosciuto; l'aria era umida e fredda, come se le finestre fossero completamente spalancate. L'odore di candele di cera aleggiava dolce per la stanza, e la luce tremolava. L'eroina dell'Idoslân girò la testa a destra e vide una ragazza dai capelli neri seduta accanto al suo letto: portava un abito sciancrato rosso chiaro che ne sottolineava la postura dritta del torso. «Benvenuta.» La ragazza sorrise a Mallenia. «Il mio nome è Coïra, e voi vi trovate sull'isola di Seenstolz, nel Weyurn. Qui dovreste essere al sicuro dagli albi che vi hanno inseguito, Mallenia von Ido», aggiunse con voce sommessa. «Siamo riusciti a salvare il vostro braccio ma, anche
ricorrendo alla mia magia, ci vorrà un po' prima che sia guarito del tutto. Il morso del destriero della notte vi è costato carne e ossa.» Mallenia si guardò il braccio, nascosto da una spessa fasciatura, e credette di sentire ancora le zanne dell'animale che lo mordevano. Si schiarì la voce. «Vi devo la vita. È una grazia che non potrò mai ricambiare.» «Questo di certo non importa», replicò Coïra. «Siete una combattente per la libertà e osate ciò che io non potrei mai osare.» «Non siate così modesta, principessa», disse una voce maschile, dall'altro lato del letto. «A Mifurdania vi siete contrapposta ai mezz'orchi di Lohasbrand. Questo rende anche voi una donna che difende la libertà.» L'uomo con pizzo e baffi arruffati s'inchinò in direzione di Mallenia. «Mi permetto di presentarmi: Rodario Settimo.» «Sulla spiaggia vi ha difesa dai destrieri della notte, mentre io mi occupavo degli albi», precisò Coïra. Le venne in mente che il giovane non le aveva ancora spiegato come aveva fatto a non annegare. In fin dei conti, aveva affermato di non saper nuotare. Mallenia fece un cenno col capo. «Allora sono in debito anche nei vostri confronti.»
«Be', noi combattenti per la libertà dobbiamo essere solidali tra noi», minimizzò Rodario, in tono scherzoso. «E non vi ho esattamente difesa. Ho soltanto fatto attenzione che non finiste sotto gli zoccoli di quelle bestiacce.» Mallenia gli indirizzò un sorriso, poi guardò Coïra. «Gli albi... Siete riuscita a batterli? Tutti e due?» «Pur non essendo potente come le mie antenate, sono in grado di servirmi della magia. Fortunatamente per voi, gli albi sono comparsi dopo che ho riacquistato tutte le mie forze. Un attimo prima, e le cose sarebbero andate male.» Coïra porse alla convalescente una tazza di tè. «Sono tuttavia costretta a deludervi: gli albi sono ancora vivi, ma li ho rimandati nell'Idoslân.» Mallenia strinse le labbra. «Voi non li conoscete.» «Sono fratelli, dico bene?» s'informò Rodario. «Si somigliano molto.» «Trigemini», precisò la donna, accettando il tè. Bevve qualche sorso, per vincere la secchezza della gola.
Coïra si passò una mano sui lunghi capelli neri. «Dal momento che ne abbiamo incontrati solo due e che voi cavalcavate su un destriero della notte, posso intuire che cosa sia capitato al terzo.» «Mi hanno intercettato a Hochheiligstadt, nel Gauragar. Hanno ucciso i miei compagni; io ho ucciso uno di loro e sono fuggita, finché non mi hanno raggiunta. E torneranno per uccidermi. Ho sentito quello che dicevano mentre pensavano che fossi svenuta.» «Capite ciò che dicono?» Rodario si sedette e osservò la donna. Gli piaceva davvero molto, almeno quanto Coïra, anche se, per costituzione e colore dei capelli, era l'opposto della maga: si vedeva che si esercitava molto con le armi e che attribuiva parecchia importanza all'esercizio fisico. «I miei complimenti! Come avete fatto a imparare la loro lingua? Dev'essere molto difficile.» Mallenia si costrinse a un sorriso, che risultò stiracchiato. «Quando una terra è occupata da così tanti cicli come il mio Idoslân, prima o poi è inevitabile riuscire a comprendere la lingua del conquistatore.» Non osava toccare la fasciatura; sotto le bende il braccio prudeva, come se la
ferita fosse in corso di guarigione, ma allo stesso tempo pulsava dolorosamente. «Quanto tempo ci vorrà perché il braccio guarisca?» «L'osso è stato seriamente danneggiato ed è molto scheggiato. La mia magia ha fuso i frammenti; ma, prima che torniate a usarlo come un tempo, dovrete osservare sette o otto rotazioni di riposo.» Coïra si alzò. «Tra due rotazioni potrete alzarvi. Devo mandare un messo che informi i vostri amici della situazione?» Mallenia fece un profondo sospiro. «Non c'è più nessuno. Gli Dsôn Aklàn, come si fanno chiamare, hanno ucciso tutti quelli che mi erano vicini e tutti i discendenti del mio antenato, il prìncipe Ido von Mallen.» Rodario si mise a sedere. «Che cosa significa l'appellativo degli albi?» «Se lo traduco in modo corretto, qualcosa come Dei dello Dsôn.» «Questo sì che è un titolo!» L'attore si fregò il mento. «Con licenza, ma che motivo ha una simile mattanza da parte degli albi? Serve ad annientare una volta per tutte lo spirito della ribellione? O c'è qualche altro scopo?»
«Che cosa intendete con altro!» replicò Mallenia, perplessa. «E come posso saperlo? Voi siete dell'Idoslân e conoscete le vecchie saghe e leggende. Esiste forse una profezia che collega il tramonto di un nemico invasore ai discendenti del leggendario principe Mallen?» Improvvisamente Mallenia venne colpita da una profonda inquietudine. «Non ho mai pensato prima a una cosa del genere», ammise. «Gli albi sono noti per amare ciò che è mistico. Almeno a quanto si dice», precisò subito Rodario. «Sarebbe abbastanza in linea con la loro natura dare la caccia a voi e agli altri per impedire il compimento di una profezia.» Sembrava emozionato quanto la donna. «Questa sembra proprio una storia che andrebbe rappresentata sul palco, non pensate?» «Con tutta la dovuta considerazione per il vostro entusiasmo, ma su quale palco vorreste rappresentarla?» intervenne Coïra. Temeva che l'uomo, con le sue speculazioni, facesse perdere alla convalescente la calma di cui aveva bisogno per guarire. «Nel Weyurn vi mancano gli spettatori e nell'Idoslân non andreste oltre la
terza battuta del pezzo, se gli albi avessero nella storia il ruolo dei perdenti.» Rodario si grattò di nuovo la rada barba, come se potesse stimolarne la crescita. «Questo è senz'altro vero», mormorò, meditabondo. «Raccoglierò un po' d'informazioni. Scopriremo se c'è qualcosa, oltre alla brama di sangue, a spingere gli Occhineri.» Si sentì bussare, e un servitore fece capolino attraverso la porta. «Principessa, vostra madre richiede la vostra presenza. È arrivato un messaggero. Un Lohasbrander.» A un cenno della ragazza, l'uomo si ritirò. «Riposatevi, Mallenia. Torneremo presto a trovarvi», si accomiatò Coïra, facendo segno a Rodario di accompagnarla. «Più dormite, più rapidamente guariranno le ferite.» I due lasciarono la stanza e camminarono fianco a fianco attraverso il palazzo, che si trovava sulla cima dell'unica montagna dell'isola. Rodario non riuscì più a trattenersi. «Che cosa pensate che il drago ci mandi a dire?» «Non lo so», disse Coïra, sentendosi molto a disagio. Si rimproverava di essersi comportata in modo tanto sconsiderato a Mifurdania, e di aver
rivelato la sua identità. In quel modo non aveva messo in pericolo soltanto se stessa, ma anche la sua amata madre. Il drago non perdonava nulla, e di certo non la morte dei suoi alleati o l'appoggio dato a un criminale. «Mi posso consegnare spontaneamente, qualora Lohasbrand lo richieda», cominciò Rodario, ma la principessa scosse la testa. «Nessuno si consegnerà spontaneamente a chicchessia. Pensavo che potremmo cercare di attirare l'attenzione del drago sugli albi, ma senza rivelare cosa stessero cercando qui. I resti del destriero della notte ci servirà da prova. A quel punto, la nostra piccola impresa a Mifurdania risulterà irrilevante», suggerì Coïra, poco convinta delle sue stesse parole. «E voi, state bene? Come va il vostro volto?» Rodario si toccò la guancia escoriata. «Niente di grave. La parete di ferro mi ha soltanto baciato.» «Continuo a non capire come siate riuscito a cadere oltre il parapetto. E a raggiungere la riva. Non dicevate di non saper nuotare?» «Imprudenza e una piccola pozza d'acqua scivolosa. Suppongo di dovere la mia vita a Samusin», mentì l'attore. Aveva deciso di non
raccontare nulla dell'aggressione di Loytan, e di regolare invece la questione a quattr'occhi col conte. Da quel momento, però, sarebbe stato più prudente e non gli avrebbe più voltato le spalle. «Tanto meglio: la mia goffaggine mi ha fatto giungere a riva proprio al momento giusto. Voi sola contro gli albi... Come sarebbe andata a finire?» Coïra rise a quell'affermazione, che sembrava assolutamente seria. Come se l'attore credesse davvero che, senza di lui, si sarebbe trovata in difficoltà. «Sì, Rodario Settimo, voi siete il mio salvatore», disse con gentilezza, stringendogli la mano. «Chi avrebbe mai immaginato che aveste il cuore di un guerriero? Perdonatemi se lo dico, ma di certo non io... Non dopo la nostra avventura notturna a Mifurdania.» «Come devo prendere quanto state dicendo?» «Il modo in cui gridaste quando mi trovai davanti a voi era da fanciulla. Mi fa piacere aver intravisto la vostra vera natura.» La maga lo guardò negli occhi marroni ed era sul punto di punzecchiarlo con un'altra dichiarazione, ma poi tacque, confusa. Per un istante, l'espressione
insicura sul volto di Rodario era scomparsa e aveva ceduto il posto a un'aria molto virile; si era diffusa sull'attore, conferendogli tutta un'altra aura. La ragazza lo fissò incantata, ma sul volto dell'uomo già era tornata la consueta goffaggine. Rodario sorrise e le strinse le dita. «Il piacere è tutto mio.» Le lasciò la mano mentre giravano l'angolo del corridoio ed entravano nel campo visivo dei domestici. Coïra continuava a chiedersi che cosa gli fosse appena successo, quando entrarono nell'ala occidentale, in cui risiedeva la regina del Wevurn; nei fatti, quella sede era ormai da molto tempo una prigione. I servitori aprirono le alte porte, e i due entrarono in una stanza con una grande finestra rotonda, composta da singoli pezzi di vetro tenuti insieme da un'intelaiatura di piombo. Dietro la vetrata si estendeva fino all'orizzonte il lago, con la sua bellezza: nuvole scivolavano sopra la superficie brillante, qua e là spuntavano isole che sembravano piatti appoggiati su pali, altre somigliavano a birilli. Wey XI, esautorata regina del Weyurn, sedeva su una comoda poltrona posta davanti
alla finestra; intorno a lei, seduti o in piedi, c'erano quattro Lohasbrander in armatura. La donna era avvolta da un abito di seta color vino rosso, e aveva scelto una cuffia nera. Ciò che poco si adattava al suo guardaroba era l'anello di ferro che portava intorno al collo; a quattro asole erano legate catene che arrivavano alle guardie. Rodario vide le guide attaccate alle catene e concluse che il diametro del collare poteva essere ridotto tirandole. Morte per soffocamento: se tutti e quattro gli uomini avessero strattonato le catene contemporaneamente, il congegno avrebbe decapitato la regina. L'attore ammirò Wey, che non lasciava intuire quanto quelle pastoie la mortificassero. Aveva sentito dire che le guardie non la perdevano mai di vista, per impedire che accedesse alla sorgente della magia. La sovrana era la più potente maga della Terra Nascosta, a quanto si raccontava, perfino più forte di Lot-Ionan; nessuno conosceva la sua vera età. Tuttavia il drago l'aveva battuta, e le aveva promesso di risparmiarne la figlia e il Paese se si fosse lasciata prendere in custodia.
Rodario si chiese perché qualcuno non uccidesse semplicemente i quattro Lohasbrander. Perché si temevano ritorsioni sugli abitanti del regno? Wey rivolse loro un cenno di capo, e le catene tintinnarono leggermente. Coïra e l'attore s'inchinarono davanti a lei e presero posto sulle sedie che vennero sistemate per loro dai servitori. Un quinto Lohasbrander sbucò da dietro una libreria, tenendo un pesante volume, e Rodario stimò che avesse circa cinquanta cicli; portava i capelli scuri tagliati corti, e una cicatrice da bruciatura gli spiccava sotto l'occhio sinistro. Era fiancheggiato da due mezz'orchi: grossi, corazzati fino al collo e ripugnanti alla vista. Il Lohasbrander notò i nuovi arrivati, li squadrò e si sedette alla scrivania che apparteneva alla regina. «Avete sbagliato posto», gli disse Coïra, in tono sgarbato. «A meno che sotto la vostra armatura non siate una donna, e che non vi spetti la corona del Weyurn.» Il Lohasbrander scoppiò a ridere. «L'irruenza della gioventù...» Aprì il libro e prese a sfogliarlo. «Come al solito, parlate in modo molto diretto.
Se si considerano i misfatti di cui vi siete resa colpevole, si potrebbe ritenere il vostro comportamento spavaldo e sciocco.» Rodario guardò la scaglia che pendeva da una catenina d'oro intorno al collo dell'inviato: le incisioni testimoniavano che chi la indossava era uno dei più fidati seguaci del drago; le sue parole erano ordine e legge, esattamente come se a parlare e giudicare fosse lo Squamoso stesso. L'attore lo interpretò come un segno non particolarmente incoraggiante e si alzò. «Confesso di essere l'unico colpevole.» «Colpevole?» Il Lohasbrander lo guardò stupito. «Per Tion, adesso capisco chi siete: un altro di quei palloni gonfiati discendenti da Rodario», gemette. «Vi si dovrebbe uccidere tutti, così non dovrei più sopportarne la faccia.» Si piegò in avanti. «Vediamo un po'... Avete il volto troppo rotondo, la barba è ridicola, accentate le frasi in modo non molto espressivo e per di più farfugliate come se aveste le guance piene di ovatta. Tutto il contrario di quello che abbiamo giustiziato a Mifurdania. Sono sicuro che sarebbe stato lui a vincere la contesa.» Rodario e Coïra s'irrigidirono.
Il Lohasbrander sogghignò. «Ah, non fate più lo smargiasso!» Indicò la scaglia che portava al collo. «Ma torniamo al vero motivo della mia visita. Io sono il governatore Girin e sono stato inviato da Lohasbrand per andare a fondo riguardo agli incidenti avvenuti a Mifurdania. Si dice che voi siate coinvolta.» Rivolse lo sguardo a Coïra. «Sono accadute cose che soltanto una maga può far accadere.» Con la mano sinistra indicò Wey. «Visto che vostra madre non ha lasciato l'isola, come mi assicurano le sue guardie, rimanete voi. Questo comporta una grave violazione dell'accordo!» «Governatore, chi avete giustiziato?» balbettò Rodario. Girìn alzò gli occhi al cielo. «Siete così tanti... Come posso ricordarmi tutti i soprannomi? Ma penso che si facesse chiamare 'l'Irraggiungibile'.» Ridacchiò. «La spada lo ha raggiunto, quindi per noi non era affatto così irraggiungibile come credeva di essere. Così abbiamo letteralmente decapitato la ribellione. Gli scarabocchi su libertà e resistenza sono finiti.» Coïra si portò una mano davanti alla bocca, Rodario addirittura vacillò.
Girìn guardò la principessa. «Tornando a voi...» «I vostri sospetti sono infondati», lo interruppe l'attore, drizzando la schiena. Contegno! si disse. «Sono stato io.» «Voi?» Il governatore scoppiò a ridere. «A che cosa mirate? A farmi morire dal ridere?» «Noi attori conosciamo trucchi con cui ingannare gli occhi di chi ci osserva. Usiamo polveri per produrre illusioni, spegniamo lampade o evochiamo demoni, quando abbiamo a portata di mano un po' di tempo e di materiali», spiegò. «Penso ricorderete ancora le storie sul magister technicus Furgas, o sbaglio? Avevo tempo sufficiente per prepararmi al salvataggio. Un mio amico si è travestito e abbiamo fatto insieme irruzione nella torre per liberare l'Irraggiungibile. I mezz'orchi erano abbastanza stupidi da lasciarsi ingannare.» Girìn si drizzò sulla sedia, poi levò il braccio sinistro e con l'indice gli fece cenno di avvicinarsi. «Venite qua, attore.» Con passi misurati, Rodario si diresse verso la scrivania. Wey e Coïra si scambiarono sguardi preoccupati. La principessa trovava toccante
quello che l'attore stava facendo per lei, ed era combattuta. La vita di sua madre sarebbe finita in pericolo, se il Lohasbrander avesse deciso che l'accordo col drago era stato infranto; allo stesso tempo, però, non voleva permettere all'attore di sacrificarsi al posto suo. Si meravigliò di quanto Rodario fosse valoroso; in lui c'era più coraggio di quanto lei ne avesse visto al loro primo incontro. Girìn stava esaminando l'attore, che aveva raggiunto la scrivania. «Bene, allora. Mostratemi come avete fatto. Fateci un po' vedere i vostri falsi incantesimi», gli ordinò, tornando ad appoggiarsi sullo schienale. «Ma... non ho avuto tempo di prepararmi», si giustificò Rodarlo, alzando le maniche della camicia. «Lasciate che vi spieghi. Prendiamo, per esempio, le palle di fuoco. Servono dei congegni caricati coi semi di certe piante. Quando si aziona il dispositivo e la pietra focaia...» Il Lohasbrander scosse la testa. «Non voglio delle spiegazioni. Voglio vedere coi miei occhi.» «Per questo dobbiamo andare a Mifurdania a prendere le mie apparecchiature.» Rodario alzò le spalle. «Non posso fare diversamente. Forse
saremo fortunati e, strada facendo, incontreremo gli albi che girano in segreto per il Weyurn come spie.» «Certo, albi. Li si vede quasi ovunque nel nostro Paese. Solo poco fa ne ho visto uno che pescava nel lago», replicò Girìn, beffardo. I mezz'orchi sghignazzarono. «Non mi credete?» L'attore si girò verso Coïra. «La principessa ha dovuto attaccarne tre, ieri, altrimenti sarebbero avanzati in profondità nel Weyurn. Presumibilmente si trattava di spie. Sulla spiaggia troverete il cadavere di un destriero della notte. Sono sicuramente ancora nei paraggi, e farete bene a raccontarlo al drago. Rispettano sempre meno gli accordi, eh?» Il governatore rifletté a lungo su quella notizia; poi spedì uno dei mezz'orchi sulla terraferma. Coïra dovette reprimere un sorriso: Rodario aveva abilmente distolto l'attenzione da sé. Era chiaro che Girìn non poteva permettersi di gestire in modo negligente una questione di quel genere. «Tuttavia, a prescindere dal fatto che quanto abbiate detto riguardo all'albo possa essere
vero, non siete esentati dalla vostra colpa», disse il Lohasbrander, tornando a guardare Rodario. Fece un cenno all'altro mezz'orco, che si avvicinò all'attore. «Vi porterò con me a Mifurdania e vi metterò a confronto con le guardie che sono sopravvissute al vostro attacco. Se dovessero ritenere di aver scambiato voi, travestito da donna, per Coïra, l'onta sarà stornata dalla famiglia regnante del Weyurn, e nessuno che le appartenga ne avrà danno.» Girìn fece un cenno di capo in direzione della regina. «Per voi, Rodario Quello-che-è, in un modo o nell'altro il viaggio finirà a Mifurdania. Avrete comunque la fortuna di conoscere il finale della contesa prima che il boia vi prema la testa sul ceppo dell'esecuzione.» Il mezz'orco fissò con le catene le mani dell'attore dietro la schiena. Rodario, però, rimase dritto, e col mento leggermente sollevato. Coïra guardò di nuovo in direzione della madre, cercando di leggerle nello sguardo che cosa stesse pensando. «Sto dicendo la verità, governatore», disse l'attore. «Ma se i mezz'orchi non si trovassero
d'accordo? In che misura ci si può affidare alla loro mente?» «Se restassero convinti che sia stata proprio Coïra a prendere parte all'assalto della prigione, sarà Wey a subirne le conseguenze.» Girìn sembrava indifferente. «Così recita l'accordo che avete sottoscritto», aggiunse, rivolto alla regina. «Il drago ha sempre avuto cura di attenersi ai patti, e non vorrebbe essere l'unico a farlo. Qualunque cosa succeda, ringraziate la carne della vostra carne.» «Questo non accadrà. Coïra non c'entra nulla con tutto ciò», dichiarò Rodario, mentre il mezz'orco lo trascinava di lato e lo spingeva verso la scrivania. «Madre, che cosa ne pensate?» chiese Coïra, posando le mani sulla larga cintura che portava intorno ai fianchi. «Gli albi oserebbero scontrarsi con un governatore del drago?» «Ne dubito», rispose la regina. «Dobbiamo immediatamente pregare il drago di soccorrerci contro chi minaccia la nostra isola.» «Ma di che cosa state parlando?» sbottò Girìn, guardando alternativamente madre e figlia. «Qui non ci sono albi, e di certo non oserebbero attaccare un delegato del potente
Lohasbrand. Sanno bene quali sarebbero le conseguenze.» Wey si alzò lentamente dalla poltrona, con le mani incrociate sul ventre come Coïra. «Aspettavo da molto tempo l'occasione giusta per liberarmi da queste pastoie, governatore», annunciò, con voce grave e sguardo fiero. «Gli dei hanno avuto comprensione e li hanno mandati a me, in questa memorabile rotazione. Ringrazio voi e gli albi.» Girìn capì che cosa stava per succedere e saltò in piedi. «Svelti! Uccidete entrambe!» Il mezz'orco estrasse la sua imponente spada e fece per avventarsi su Coïra, mentre le quattro guardie strattonarono le catene; l'anello si restrinse con rumore del metallo che scorre sul metallo. Rodario fece uno sgambetto al mezz'orco, facendogli perdere l'equilibrio. Fulmini rossi colpirono il mezz'orco al petto e al volto; la creatura gridò il suo dolore e cadde sul pavimento di marmo; perfino il sangue scuro che gli sgorgava dalle ferite era in fiamme. Bianchi raggi di energia si posarono intorno al collare della regina, impedendogli di stringersi ancora; poi sfrecciarono lungo le catene e
raggiunsero le mani dei Lohasbrander, le cui dita avvamparono come se fossero state di legno secco. Le fiamme danzarono sulla pelle spostandosi a velocità vertiginosa, scivolando sotto le armature; subito dopo si levò del fumo dalle aperture del collo. Gridando, le guardie lasciarono le catene e cominciarono a percuotersi le vesti per spegnere il fuoco sotto di esse. Dopo qualche istante, si accasciarono a terra, carbonizzate. L'anello di ferro posto intorno al collo della regina si spaccò rumorosamente e cadde ai piedi della donna, ridotto in frantumi incandescenti. Wey guardò Girìn, che aveva estratto la spada e stava tremante davanti alla grande finestra. «Credevi davvero che in me non vi fosse più nessuna traccia di magia, Lohasbrander?» disse la regina, furente. «Il drago verrà a distruggervi! Distruggerà il Weyurn! Lo sommergerà in un mare di fuoco e prosciugherà il lago!» «Il drago non verrà a sapere nulla di tutto ciò. Ma saprà di te e degli albi che si sono battuti con te, a palazzo. Rallegrati: sarai protagonista di un'eroica storia.» Coïra sorrise e si avvicinò a Rodario. Un lampo, e le catene
dell'attore si sbriciolarono. «Ci offriremo di cercarli. In fin dei conti, a noi sta a cuore il benessere del Weyurn esattamente come a lui, anche se per motivi diversi. Lo Squamoso accetterà la nostra offerta, questo è sicuro.» Wey si avvicinò al Lohasbrander. «Ma prima tu devi morire, per rendere la nostra storia inattaccabile.» Girìn colpì con la spada la grande vetrata, mandando in frantumi quattro lastre di vetro. Un forte vento irruppe attraverso l'apertura, spazzando via tutti gli oggetti leggeri e spostando i mobili che si trovavano nella stanza. «Giammai!» gridò il governatore, saltando fuori. Sapeva che sarebbe caduto nel lago, anche se ciò avrebbe implicato un volo infinito. Rodario non voleva affidare al caso la morte del Lohasbrander. Con inaspettata velocità, si chinò sul cadavere di una delle guardie, prese un pugnale e lo scagliò contro Girìn. La lama colpì il governatore sulla nuca; il corpo perse tutta la sua tensione e la mano lasciò cadere la spada. I tre cospiratori accorsero alla finestra per osservare la caduta del corpo. Videro Girìn
ridotto a una lineetta nera che precipitava incontro alle onde scure. «Saranno almeno... ottanta passi. L'impatto con l'acqua l'avrebbe comunque dilaniato», disse Rodario. «A questo non aveva pensato.» Coïra si chiese se il tiro di Rodario fosse stato fortunato o volontario. Non giunse a nessuna conclusione ragionevole. Insieme guardarono il Lohasbrander cadere nel lago e scomparire. «Abbiamo bisogno del suo cadavere?» chiese alla madre. «Sarebbe meglio. Certo, abbiamo abbastanza cadaveri per rendere la storia credibile per il drago, ma il cadavere del governatore sarebbe risolutivo.» Wey puntò lo sguardo sulla barca che si muoveva verso la spiaggia. «Là sta remando il mezz'orco inviato a cercare il destriero della notte.» «Farò in modo che non possa scappare, nel caso avesse visto chi è caduto dalla finestra», disse Coïra. Poi abbracciò la madre e la tenne stretta. «Quanto tempo ho dovuto aspettare questo momento!» «Un'eternità. Così pare a me.» Wey aveva gli occhi chiusi e le braccia intorno al corpo della figlia.
Il cuore di Rodario batteva forte. «Che cosa facciamo adesso?» s'informò, concitato. «Qual è il piano? Ne avete uno, vero?» «In parte», rispose Coïra, staccandosi dalla regina. «Faremo credere al drago che gli albi hanno ucciso i suoi uomini, poi staremo a vedere che cosa succede. Nel migliore dei casi, dichiarerà loro guerra. Mentre s'indeboliscono a vicenda, noi potremo intraprendere altre iniziative.» La principessa si avvicinò a Rodario e lo strinse a sé. «Sarà molto gradito, se vorrete contribuire alla nostra ribellione con le vostre idee.» Rodario sentì caldo. La sentiva contro di sé e, nella sua immaginazione, la vedeva nuda come sul fondo della sorgente. «Molto volentieri, principessa», sussurrò, alzando le braccia, impacciato. Posso abbracciarla? Prima che lui avesse deciso su tale questione, Coïra si staccò. «Siete un tesoro, Rodario Settimo!» «Io avrei già una proposta», si affrettò a dire l'attore. «Che ne direste se facessimo credere al popolo che lo sconosciuto poeta della libertà è ancora vivo?» Drizzò la schiena. «Raccoglierò la
sua eredità. Almeno per quanto riguarda i versi.» Coïra annuì, anche se non proprio entusiasta. «Pensate di poterlo fare? Non che abbia qualcosa contro la vostra vena poetica...» «Imparo in fretta. Lo vedrete.» L'attore fece un profondo inchino. «Vi prometto che sarete addirittura stupita da quanto io impari in fretta.» Ecco che improvvisamente qualcosa aveva di nuovo scintillato, o così pensò Coïra: l'immagine di un altro Rodario, che era virile e lanciava i coltelli con molta precisione. A quel punto, era molto curiosa di leggere i suoi versi. Wey continuava a stare alla finestra e osservava il lago. «Occupati del Pelleverde, Coïra», ordinò. «Ha appena raggiunto la riva.» Si voltò verso di loro. «Nel frattempo io parlerò col nostro nuovo poeta. In lui sembra nascondersi un genio incompreso.» Rodario s'inchinò davanti alla regina. «Per servirvi, altezza!» Terra dell'Aldilà, settantasei miglia a sud-ovest della Forra Oscura, 6491° ciclo solare, inverno La testa piatta dell'azza cozzò contro il petto corazzato di Tungdil, e di nuovo avvamparono le
rune sull'armatura di tionio, come se volessero dichiarare guerra al sole e a tutti gli astri notturni. Un fulmine salì lungo l'arma, raggiungendo il manico, e si proiettò in verticale fino al soffitto; poi l'azza cadde a terra. «Ah!» Boïndil era in piedi accanto all'amico immobilizzato nell'armatura coricata. «Questa volta non mi sono preso nessuna botta magica.» Sogghignava, lisciandosi la barba, sulla quale, a causa della scarica di energia, si era rizzato qualche pelo. «Se mollo la presa sull'arma e faccio un balzo indietro, l'energia non può venirmi trasmessa. Eh, Sapientone? Che ne dici? Sono o non sono furbo?» Il Rabbioso raccolse l'azza e ne esaminò la testa di metallo. «Sembra a posto.» Porse la mano a Tungdil. «E tu? Puoi muoverti di nuovo?» Tungdil sbatté le palpebre più volte. «Vedo soltanto lucette brillanti che mi danzano davanti agli occhi.» Le dita dell'amico si strinsero intorno alle sue e, un attimo dopo, Tungdil era in piedi accanto al Rabbioso. «Ma è servito. Sistema brutale, ma efficace.» Boïndil fece una risata tonante. Salì con lo sguardo al buco sul soffitto, grande come una mucca, aperto dalla magia. «Adesso so cosa
posso fare, qualora tu dovessi avere di nuovo questo problema. Ma in futuro bada sempre che io sia nei tuoi paraggi. Quando ti capiterà un'altra volta di rimanere paralizzato nell'armatura, c'è il rischio che qualcuno ti prenda per una statua e ti metta su un piedistallo.» Tungdil alzò braccia e gambe e fece ruotare testa e torso; l'armatura aveva riacquistato mobilità. «Cercherò di tenerlo a mente, quando mi troverò a combattere coi nostri nemici», replicò, avvicinandosi al tavolo per mangiare qualcosa. Il Rabbioso non gli aveva lasciato quasi niente. «Non potevo proprio immaginare che la mia cura contro le armature pigre avrebbe avuto successo così in fretta», si difese Boïndil, vedendo il silenzioso rimprovero che sortiva dall'occhio dell'amico. «Cos'ha causato di preciso il mio colpo?» «Non lo so. Non sarebbe dovuto affatto succedere.» Il Rabbioso rise e tirò giù il salame. «Aspetta, gli do una pulita con la neve. Di sicuro è buono.» Lo usò per picchiettare sull'armatura di Tungdil. «Se non è congelato, intendo.»
«Mi sta bene quello che c'è qui», disse Tungdil, trattenendo Boïndil dall'uscire. «Che fine ha fatto il Terzo?» «La Morte Bianca lo ha trascinato con sé sul fondovalle. Vraccas è stato con noi.» Rughe di preoccupazione comparvero sulla fronte del Rabbioso. «È la prima volta che vedo un nano abbigliato in quel modo, con quella specie di gonnellino. E mi è parso che sull'armatura ci fossero rune albiche. Davvero strano...» «Che c'è di strano? Hai detto tu che i Terzi e gli Occhineri hanno stretto un patto.» Tungdil prese l'ultima mestolata della pietanza, la mise nel piatto e cominciò a mangiare. «C'è una bella differenza tra l'avere stretto un patto con un altro popolo e portare le sue rune su un'armatura bizzarra. Non pensavo che i Terzi e gli Occhineri fossero così legati da darsi reciprocamente lezione nell'arte di costruire armature.» Boïndil guardò l'armatura in cui era infilato l'amico. Tungdil bevve un sorso di tè. «Vorresti sapere quale creatura ho derubato e ucciso, vero?» chiese, interpretando lo sguardo dell'amico.
«Esatto, Sapientone. Che fosse una sporca canaglia, lo so già. E che, per preparare questa armatura, abbia utilizzato una magia nefasta, come quella degli albi, mi sembra evidente, dopo quanto è accaduto poco fa.» Il Rabbioso fissò l'amico. «Che altro dovrei sapere al riguardo? In caso di emergenza?» Tungdil pulì il piatto dai resti e leccò il cucchiaio. «Era molto buono. Un po' poco, ma molto buono.» Boïndil strinse gli occhi. «È un misero tentativo di eludere la mia domanda?» Si frugò in tasca e ne trasse una nuova pipa. «Meno male che me ne sono portate dietro due. Quel cretino ha calpestato l'altra. La mia pipa preferita!» La caricò e accese il tabacco, con una scheggia incandescente presa dal camino. Tungdil seguiva con lo sguardo il vapore che saliva dalla sua tazza, tracciando effimere volute che si mescolavano con le nuvolette azzurrognole prodotte dalla pipa. Cominciò a raccontare. «Lo incontrai poco dopo il mio arrivo dall'altra parte; probabilmente era passato un ciclo, ma la luce lì si comporta in modo diverso, e così si perde la percezione del tempo. Dovetti difendermi da un'orda di mezz'orchi e mi trovai
a perdere terreno, perché non mi ero ancora del tutto rimesso dalle ferite che avevo dovuto incassare nella Forra Oscura. I primi venti mostri caddero molto in fretta, ma nuovi mostri continuavano a riversarsi dai corridoi, attratti dalle grida dei morenti. Io mi difendevo con le spalle al muro, due dardi infilati nel corpo e il braccio sinistro quasi amputato. Stavo mandando la mia ultima preghiera a Vraccas, quando improvvisamente apparve lui.» La voce si ruppe, e Tungdil dovette bere un sorso. «Portava un'armatura diversa da questa, ma di qualità simile. Era la prima che aveva forgiato.» Si sporse verso l'amico. «Ti giuro, la sua forza nel combattere supera tutti noi! Perfino te, Boïndil. Prendi tuo fratello, me e te insieme, e ti ci avvicinerai. Porta due armi dal peso paragonabile a quello della tua azza e tuttavia continua a essere tanto veloce che quasi non si vedono arrivare i suoi colpi. Porta una terza arma sulla schiena. Lui...» «Ha anche un nome?» chiese il Rabbioso, ammaliato. Gli occhi di Tungdil lampeggiarono. «Ha molti nomi. Ne posso pronunciare uno», disse, evitando lo sguardo dell'amico. «Vraccas.»
«Cosa?!» Il Rabbioso drizzò immediatamente la schiena. «Inaudita bestemmia! Come può osare?» «È senza dubbio un essere molto particolare e, prima che arrivassi io, era l'unico nano nelle tenebre dell'altra parte.» Tungdil rabbrividì. «Se lo vedessi, Boïndil, capiresti perché, per me, quel nome ha un senso. E mi ha salvato dai mezz'orchi.» Abbassò lo sguardo sulla tazza. «Mi ha portato nel suo rifugio, una vecchia fortezza che era stata abbandonata dalle creature di Tion. L'aveva rinforzata e vi aveva allestito una gigantesca fucina. Mi sono sempre immaginato così la Fucina Eterna di Vraccas! La brace della sua forgia è tanto calda da sciogliere qualunque cosa, Boïndil... roccia, minerali, tutto! Vapordrago, al confronto, è una calda brezza.» Tungdil si alzò, spinto dall'inquietudine interiore. «Là trascorreva tutto il suo tempo a concepire armature e a costruirle. Sono diventato il suo apprendista, se così si può dire.» Boïndil si fregò la barba. Non gli piaceva affatto quello che stava sentendo. «E queste rune? Le ha ideate il falso Vraccas?» Tungdil annuì. «Possedeva una certa conoscenza della magia, se è quello che mi stai
chiedendo. Tuttavia si tratta di un altro tipo di arte rispetto a quella che padroneggiano le maghe e i maghi della Terra Nascosta. Dall'altra parte, gli incantesimi vengono vincolati a rune; attraverso parole particolari li si può richiamare in vita e scatenare. Oppure agiscono in modo autonomo.» «Mi ricordo perfettamente», brontolò il Rabbioso. «Quell'unica volta mi è davvero bastata.» Guardò il soffitto, da dove entravano i fiocchi di neve per poi sciogliersi sul pavimento. Meglio un buco nel tetto che un braccio strappato. Puntò i gomiti sul tavolo e appoggiò la testa sul palmo delle mani. «Era lui il tuo maestro?» Tungdil camminava su e giù. «Mi ha insegnato tecniche di fucina che prima non conoscevo, e presto cominciai a lavorare sulla mia armatura. Non mi sfuggiva che ricevesse frequenti visite da parte di mostri e che li trattasse con la massima cortesia. Creature crudeli, Rabbioso... mediatori del Kordrion e altri mostri ancora peggiori che richiedevano armi e armature per i loro eserciti. Sarebbero stati felici di metterlo alla testa dei loro eserciti; gli avrebbero dato tutto ciò che chiedeva. Tra le
bestie imperversava una guerra. Non potevano uscire dalla Forra Oscura, e tuttavia la loro natura esigeva violenza e assassinio, così lottavano le une contro le altre.» La forza d'immaginazione del Rabbioso era all'opera, creando scenari allarmanti. Vedeva corridoi rozzamente sgrossati pieni di mostri che si massacravano coprendo di sangue e viscere pareti, soffitti e pavimenti; enormi caverne occupate da spaventose armate che, tra le grida, cozzavano le une contro le altre; nere fortezze prese d'assalto, con le mura scosse dai colpi delle pietre e l'urto degli arieti. Boïndil sentì di essere osservato e guardò l'amico, che gli rivolse un sorriso amaro. «Tutto ciò che riesci a immaginare non basta a descrivere ciò che ho visto», disse Tungdil, rimettendosi a sedere. «Che cosa non darei adesso per un buon sorso di grappa o un barilotto di birra scura.» «Anch'io.» Il Rabbioso sospirò. «Poi cosa ti è successo?» «Il mio maestro, se così vogliamo chiamarlo, non ha mai accettato quelle offerte: non voleva diventare un condottiero. Non erano né la sua guerra né la sua gente.»
«Qual era la sua terra d'origine?» chiese Boïndil. L'amico ignorò la domanda. «Consegnava armi a tutte le parti che le richiedevano, ma mai armature valide come quelle che forgiava per se stesso. Dopo trenta cicli, ottenni la sua completa fiducia; cominciò a mandarmi dalle creature del male come mediatore. Presto i mostri iniziarono a fare proposte anche a me.» Tungdil deglutì e abbassò il capo. «Io non mi opposi. La mia mente mi diceva che era una cosa buona mandare a morte il maggior numero possibile di bestie, e il modo migliore che avevo per farlo era aizzarle le une contro le altre. Inoltre dovevo raggiungere la Forra Oscura, e come avrei potuto farlo meglio che in testa a un esercito?» «Questa è stata certo una saggia decisione, Sapientone.» «Ma mi è costata l'ostilità del mio maestro. Gli ho sempre fatto credere che mi comportavo esattamente come lui: non mi schieravo mai dalla parte di nessuno e mi facevo pagare da tutti.» Tungdil fece per sorbire un altro sorso di tè, ma notò che la sua tazza era vuota. «Un mercenario. Per cento cicli non sono stato altro
che un mercenario e ho servito i padroni che mi offrivano la più alta ricompensa. Avevo un mio regno, Rabbioso.» Sorrise in modo assorto, ma crudele. «Mi obbedivano a migliaia, le mie due fortezze erano inespugnabili. Ma in questo modo suscitai la diffidenza dei principi di quegli inferi. Quelli che avevo servito si unirono per annientarmi.» «Dovesti fuggire?» Tungdil scoppiò a ridere. Quel suono provocò in Boïndil un brivido lungo la schiena. Il Rabbioso percepì un'abissale malvagità nella voce dell'amico. «No. Li ho battuti e ho annesso i loro domini. I miei guerrieri erano i migliori, perché li avevo addestrati alla maniera dei nani. Si facevano strada attraverso le file dei miei nemici come se non ci fosse nulla di più facile. Il mio dominio durò circa trenta cicli, e io ero l'incontrastato signore.» «E così ti sei tirato contro il tuo vecchio maestro», suppose Boïndil, che non riusciva più a scrollarsi di dosso quella sensazione di freddo. «Perché non c'era più nulla da guadagnare. Avevo distrutto i suoi affari.» Tungdil inspirava ed espirava profondamente. Le ombre
rendevano il suo volto più duro, ricalcandone di scuro le rughe e la cicatrice. «Per oggi lasciami al mio riposo, vecchio amico. Sono stanco, e mi fanno male tutti questi ricordi. Mi fanno male al cuore e alla mente.» Si alzò e raggiunse i letti. «Fai tu il primo turno?» «Certo, Sapientone.» Boïndil cercò di nascondere la delusione; mille domande gli passavano per la testa. Tuttavia aveva pietà per il suo compagno di battaglia, che osservava coricarsi rigido e gemente, quasi fosse un nano di ottocento cicli. Si alzò, mise dei ceppi nel camino e accanto al focolare, perché non si congelassero; attraverso il buco nel soffitto fuoriusciva molto del calore necessario alla loro sopravvivenza. Il Rabbioso si sfregò la barba. Stava in piedi in mezzo alla stanza, indeciso, e il tempo passava fin troppo lentamente. A un certo punto si accostò al giaciglio dell'amico che dormiva e si chinò. Osservò con cura quel volto familiare. Distese lentamente la mano destra; le dita si avvicinarono alla benda d'oro. Quando i polpastrelli della mano si trovarono a un pelo di distanza, Boïndil esitò. Non è giusto,
si disse. Strinse la mano a pugno e ritrasse cautamente il braccio; poi tornò al tavolo. Prima o poi lo rimpiangerai! Questa è un'opportunità che non si ripresenterà tanto presto, ulularono i suoi dubbi. Boïndil cercò di non prestarvi attenzione. Attraverso il buco nel soffitto, fissò le stelle e pregò Vraccas. Il vero Vraccas... quello che non viveva dall'altra parte della Forra Oscura, in mezzo a mostri e orribili creature.
IX Terra Nascosta, nord-est dei Monti Marroni, regno dei Quarti, 6491° ciclo solare, inverno Il Rabbioso e Tungdil cavalcavano verso Rocca d'Argento, il cui compito era proteggere la Terra Nascosta dalle minacce provenienti da nord-est. Duecentoundici cicli prima, il clan dei Quarti l'aveva rinforzata con nera pietra di basalto che doveva servire da prima linea difensiva, qualora le bestie della Forra Oscura fossero mai giunte lì. Le sue svettanti torri e muraglie innevate celavano la vista dell'ancora più imponente Rocca d'Oro, posta alle sue spalle, che costituiva una seconda barriera contro i nemici. Il Rabbioso guardò i conci di pietra che, pur essendo stati squadrati da mani di nani, erano privi della maestria che Vraccas aveva concesso alla sua stirpe: il vero talento dei Quarti consisteva nella lavorazione delle pietre e dei metalli preziosi.
I pony e il befùn avanzavano sulla bianca piana rilucente su cui un tempo avevano imperversato prima i mezz'orchi e poi gli acronta. Il Rabbioso conosceva i racconti al riguardo, ma non era stato presente di persona alla battaglia. «Posso bene immaginare come siano andate le cose. Quella sì che dev'essere stata una battaglia: proprio di mio gusto!» esclamò, mentre il fiato gli diventava visibile in forma di bianche nuvolette. «Musi di porco, orchi e troll che si gettano contro le mura, cercando di arrampicarsi.» Indicò verso destra. «Là, parte della torre è crollata sotto i colpi delle loro catapulte, uccidendo centinaia di bestie.» Sospirò. «Poi sono riusciti ad avvicinarsi sempre di più, a poggiare sempre più scale. Volevano raggiungere gli spalti degli intagliatori di gemme, quando...» Fece una pausa e guardò l'amico. «Quando furono loro a scomparire!» Tungdil stava a sentire, e non lasciava in nessun modo intendere che sapeva come proseguiva la storia. «I mostri erano sul punto di sopraffare i Quarti, ma gli acronta caricarono attraverso la pianura e si divertirono a dare la caccia ai Musi
di porco, come i cani fanno coi gatti.» Boïndil rise e si diede una pacca sulla coscia. «Quanto mi sarebbe piaciuto vederlo e parteciparvi!» «Dopo, gli acronta non hanno mangiato i mezz'orchi?» «Oh, sì! Ti ricordi ancora di Djerun, la guardia del corpo di Andôkai la Burrascosa?» Boïndil osservava le mura che, dopo quell'attacco avvenuto ben duecentocinquanta cicli prima, erano state rese due volte più forti. Ormai avversari molto più pericolosi si trovavano sul versante meridionale del regno, ma ai tempi della ristrutturazione della fortezza non sarebbe stato possibile immaginare quello sviluppo. Due bandiere sventolavano sulle torri più alte: una per il regno dei Quarti, una per l'intera comunità dei figli del Fabbro. Tuttavia una vera comunità, guidata da un imperatore unico, non esisteva più da tempo. Tungdil accarezzò il collo del befun. «No. Ci sono ampie parti della mia esistenza di cui non so più niente o quasi.» Si toccò la cicatrice sulla fronte e guardò il Rabbioso. «Cosa volevi dire di questo Djerun?»
Boïndil fece cenno di lasciar perdere. «Non è così importante, Sapientone. Volevo solo parlare degli acronta e... Ma non fa niente.» Prese il suo corno, lo posò sulle labbra e fece risuonare una nota. Poco dopo, al segnale venne risposto da una seconda serie di note. Il portale della Rocca d'Argento veniva aperto per loro, in modo lento ma costante. I due amici raggiunsero l'ingresso, davanti al quale si stava raccogliendo un reparto di nani armati di lunghe lance. Tungdil notò che i merli erano occupati da balestrieri che tenevano pronte le armi. «Non sembriamo essere proprio benvenuti», osservò. «Non hanno nulla contro di noi. È il regolamento», spiegò Boïndil. «Frandibar Cogligioielli del clan dei Battioro lo ha adottato su mio consiglio. Nessuno arriva dall'altra parte senza prima essere stato accuratamente controllato. Nemmeno io.» In cuor suo, era molto preoccupato da come i delegati dei clan dei nani avrebbero reagito alla trasformazione dell'eroe del loro popolo. «Qualche dubbio, Rabbioso?» Tungdil parlava senza traccia di rimprovero. Sorrise con
amarezza. «Ci saranno ancora altri che preferiranno credere in un sosia o in un inganno, quando mi vedranno. Soprattutto dopo che avranno sentito le mie proposte su come mettere in ginocchio Lot-Ionan. Si tratterà di questo: batterlo, non ucciderlo. E questa, Rabbioso, è la cosa più difficile, quando si ha a che fare con un nemico deciso e disperato.» «Disperato? Lot-Ionan è un mago, perché mai dovrebbe essere disperato?» «Più a lungo combattiamo contro di lui, più la disperazione lo assalirà. Fidati di me.» Di nuovo comparve sul volto di Tungdil quell'allarmante traccia di follia che ci si poteva aspettare di vedere sul volto di un demone. In quel momento il Rabbioso non avrebbe dato le spalle al compagno; tuttavia ricambiò il sorriso. Avevano raggiunto le guardie del portale: nani dallo sguardo truce e pesantemente armati, con spessi mantelli sopra le armature. Tenevano le lance in modo da poterne fare uso in qualunque momento. «Come vi chiamate e che cosa volete?» li interrogò il capitano.
Tungdil lasciò che fosse il Rabbioso a spiegare che cosa ci facessero lì. Boïndil notò che l'attenzione delle guardie era rivolta soprattutto al Sapientone. Nella sua appariscente armatura e su una cavalcatura poco usuale, il nano in nero suscitava molta diffidenza. La cosa cambiò quando le guardie vennero a sapere chi fosse quel cupo figuro. «Per Vraccas!» esclamò il capitano, facendo un profondo inchino davanti ai due. «È dunque vero che i più grandi eroi dei nani sono ricomparsi per liberare la Terra Nascosta? Non si pensava che sareste arrivati così presto. I delegati non sono ancora arrivati tutti.» «Allora cominceremo a discutere senza di loro», replicò Tungdil bruscamente. «Possiamo passare?» «Certamente, Tungdil Manodoro», disse il capitano. Fece un cenno alle guardie, che si aprirono lasciando un passaggio per i viaggiatori. «Come fai a sapere che io sono il vero Tungdil Manodoro?» chiese Tungdil. «Ti sembro un figlio del Fabbro? Con questa armatura? E cosa credi che significhino le rune sul tionio?
Cosa diresti se promettessero la morte a chi le guarda?» «Be'... stai cavalcando... accanto a Boïndil Duelame. La nota del suo corno ce lo ha indicato. Pensavo...» Il capitano esitò e guardò il Rabbioso. Non si era aspettato di venir trattato malamente in cambio della sua gioia e della sua cortesia. «Grazie. Adesso entriamo», disse Boïndil, più gentile. Poi spronò il pony. «Dacci un soldato che ci conduca per la strada più veloce attraverso i Monti Marroni, fino a re Frandibar Cogligioielli. Non c'è rotazione da perdere, e la mancanza di tempo si fa sentire anche per eroi come Tungdil Manodoro. Perdona le sue maniere brusche.» Il capitano fece il saluto e chiamò qualcuno. La guida prese a cavalcare davanti ai due eroi, mantenendo una certa distanza; le parole dell'oscuro eroe erano state sentite chiaramente. «Ma che ti prende, Sapientone?» sussurrò Boïndil, irritato, non appena si furono lasciati alle spalle l'enorme arco del portale, sotto il quale sarebbe potuto passare un Kordrion. «Non
ti basta che i dubbi sorgano spontaneamente? Ti diverti a seminarne tu stesso?» «Pensavo che ci sarebbe stato un controllo», replicò Tungdil. «Invece siamo entrati tranquilli e beati, senza neanche dover smontare di sella. Avrebbero dovuto almeno perquisire le nostre borse.» Passò la mano destra sul pettorale di tionio, seguendo il disegno di una runa. «E con questa, Boïndil, non mi avrebbero dovuto lasciar entrare. Hai visto come mi hanno guardato? Come se fossi un mostro.» «Al momento sembri esserlo, Sapientone», ribatté Boïndil, offeso. «Non ti si riesce ad accontentare. Che cosa avrebbero dovuto fare, secondo te?» «Di' al capitano che, dopo di noi, non deve fare entrare più nessuno. Non importa chi sia o chi dica di essere. Abbiamo visto un Terzo nella Terra dell'Aldilà e non credo che fosse l'unico. Cercheranno di entrare da nord nel regno degli intagliatori di gemme.» «Una spia... Ma certo!» esclamò il Rabbioso. «Passano intorno ai Monti Marroni e analizzano i punti deboli nelle difese, finché non saranno pronti a colpire.»
Tungdil accennò un applauso. «Adesso mi hai capito, e spero che tu riesca a comprendere perché mi sono comportato così.» Il Rabbioso non approvava, anche se la spiegazione sembrava illuminante. Il Sapientone avrebbe potuto spiegarlo in tono calmo anche al capitano, come stava facendo con lui. «Lo dirò alla nostra guida, in modo che lo spieghi alla guarnigione della Rocca d'Argento. Così diventeranno più prudenti che con noi.» Il portale principale della Rocca d'Oro era per loro spalancato, e anche lì si ripetè la cordiale accoglienza per i due famosi eroi, con frenetiche acclamazioni unite a suono di corni, trombe e tamburi. Ogni guerriero si era allontanato dal suo posto di guardia per salutarli. Mentre sorrideva e faceva cenni con la mano, il Rabbioso osservava segretamente Tungdil. Il Sapientone guardava a destra e a sinistra con volto impassibile; teneva una mano appoggiata alla coscia, con l'altra reggeva le briglie del befùn. Faceva il suo ingresso come un condottiero accigliato, non sollevava la mano, non salutava, non sorrideva; solo uno scintillio
nell'occhio, la consapevolezza del proprio potere e l'orgoglio tradivano ciò che stava provando. Non si trattennero ulteriormente e Tungdil incitò la guida a proseguire senza interruzioni. Il Rabbioso continuava a pensare al Terzo in cui si erano imbattuti nella capanna. «Questo significherebbe che i Gonnaioli non si sono messi d'accordo solo con gli Occhineri», disse all'improvviso, mentre cavalcavano attraverso una grande caverna le cui pareti laterali erano coperte da una pellicola d'acqua. Tungdil aveva chiuso gli occhi, ascoltava le gocce che cadevano nelle nicchie della caverna. «L'armatura aveva le rune degli albi, giusto?» continuò Boïndil, spronando il pony in modo da raggiungere la cavalcatura dell'amico. «Ho trovato tutto l'atteggiamento del nemico assai strano. Dove aveva preso la polvere che mi ha soffiato in faccia? I Terzi normalmente fanno affidamento sulla loro forza e sulla loro abilità nel combattere, non su simili trucchi da coboldo. E poi quel modo insolito di muoversi; non si addice a un nano. Mi ha quasi...» Girò la testa verso Tungdil. «Mi ha quasi ricordato Narmora. Tu che ne dici?»
Tungdil aprì gli occhi e sospirò. «Chi è Narmora?» «Avresti dovuto chiedere chi era Narmora», brontolò il Rabbioso, sbuffando. «Per Vraccas! Come posso renderti partecipe dei miei pensieri, se hai dimenticato la metà delle cose che abbiamo vissuto insieme?» «Anch'io preferirei ricordare.» Tungdil guardò l'amico. «Era un'alba?» «Una mezz'alba. La compagna del magister technicus impazzito...» Boïndil esitò, in trepida attesa. «Furgas», disse Tungdil, quasi senza esitazione. «Di lui mi ricordo bene: un vero genio, eppure accecato e caduto vittima della follia. Narmora quindi possedeva il retaggio di... Era sua madre o suo padre ad appartenere al popolo degli albi?» «La madre.» «Fammi capire: tu sei convinto che gli Occhineri abbiano insegnato ai Terzi qualche elemento delle loro arti», riassunse il Sapientone, meditabondo. «E come potrebbe funzionare? Il nostro popolo non ha il minimo talento magico...»
«E che dici di Goda? E dei miei figli?» lo incalzò il Rabbioso, faticando a imbrigliare il suo orgoglio. La sua compagna era una maga... l'unica maga tra i nani. «Un tempo apparteneva alla stirpe dei Terzi. Potrebbe non essere l'unica con del talento magico.» «Quindi il dono di Vraccas ai Terzi potrebbe essere stata la magia», proseguì Tungdil. «Un dono che non ha menzionato espressamente. Anzi, l'ha nascosto, in modo che lo trovassero da soli.» Il Rabbioso si passò una mano sulla barba, risistemando le ciocche intrecciate. «Perché avrebbe dovuto farlo? Io la ritengo piuttosto una coincidenza.» Mentre ancora stava parlando, gli venne in mente che l'amico aveva trascorso molti cicli nella galleria di un potente mago. «Di' un po', Sapientone: hai mai provato a pronunciare un incantesimo?» «No.» La risposta fu così rapida che il coro di dubbi del Rabbioso emise un gemito. Boïndil chiuse gli occhi e chiese alle voci di smettere di dubitare della sincerità dell'amico; ma, per quanto lui stringesse le palpebre, i dubbi si limitavano a diventare più deboli. Attese inutilmente che
ammutolissero. Che cosa mi può convincere del tutto, Vraccas! Dopo una lunga cavalcata attraverso i Monti Marroni e dopo aver superato un arco alto sette passi, fatto di puro argento e di inserti in onice, giunsero nell'area del regno dei Quarti che fungeva da zona di rappresentanza. Alle pareti dei corridoi si trovavano immagini a grandezza naturale realizzate non con pittura, ma con gemme di diverso tipo; vi erano rappresentati eventi tratti dalla storia dei Quarti e delle altre stirpi. Poco prima di smontare dalle cavalcature, e su indicazione della loro guida, i due eroi notarono un'opera in cui era rappresentata la Forra Oscura: l'artista aveva ritratto un nano in posa eroica, e la spada che il guerriero teneva tra le mani era la Sanguinaria. Tungdil smontò dal befun e osservò l'opera. Alzò lentamente la mano destra e toccò l'immagine. «Per gli Empi! È passato così tanto tempo...» sussurrò, deglutendo forte. Il Rabbioso lo affiancò. «Dagli intagliatori di gemme dovevo aspettarmelo: avrebbero potuto rappresentare anche me, ma non l'hanno fatto», si lamentò in tono scherzoso, senza distogliere lo sguardo dai tratti dell'amico.
«Hai ragione», mormorò Tungdil, continuando a toccare l'immagine fatta di pietre preziose. «Ti prometto che sarai nella prossima opera.» «Fianco a fianco con te, Sapientone.» Tungdil osservava la rappresentazione della Forra Oscura. «No. Lì non mi si vedrà, Rabbioso. Ho già fatto la mia parte, adesso tocca ad altri eroi.» Si girò di scatto verso l'amico. «Eroi come te e i tuoi discendenti. Eroine come Goda.» Una lacrima gli corse sulla guancia, scivolando nella barba, come se vi si volesse nascondere. «Io sarò soltanto quello che li ha messi insieme, ma lottare e compiere imprese gloriose... questo lo farete senza di me.» Fece un profondo respiro, e sul suo volto riapparve l'espressione fredda e spietata. «Andiamo.» Il Rabbioso era troppo stupito per dire qualcosa. Seguì Tungdil, che si stava dirigendo verso una grande porta placcata d'oro, davanti alla quale aspettava la loro guida; rune fatte di brillanti splendevano sulla superficie della porta e promettevano pace e sicurezza a chi l'avrebbe attraversata. Quattro nani montavano la guardia davanti a essa e accennarono ai nuovi arrivati un saluto militare; dalla loro corporatura
relativamente leggera si capiva che erano Quarti. Tungdil e Boïndil entrarono nella stanza, dov'era stato allestito un tavolo esagonale di pietra. Ogni stirpe aveva il suo posto, compresi i Liberi. Tuttavia l'inconciliabile ostilità coi Terzi aveva fatto sì che qualcuno avesse fracassato il posto del tavolo previsto per loro; si apriva così una fessura tra i Secondi e i Quarti. Non era l'unica cosa che saltasse immediatamente agli occhi: erano presenti solo i rappresentanti dei Quarti e dei Quinti; davanti a loro, sul tavolo, c'erano cibo e bevande. A una certa distanza, stavano seduti su panche di pietra i rappresentanti dei clan delle stirpi corrispondenti. Il Rabbioso vide subito che il loro numero era esiguo. Il suo animo minacciò di sprofondare. All'ingresso dei due eroi, i nani in attesa si alzarono e chinarono il capo. «Benvenuti», disse un nano che indossava una corazza d'argento con lucidi intarsi in oro, e che non faceva nessun mistero della sua ricchezza; le scintillanti pietre preziose incastonate nell'armatura l'avrebbero comunque
reso difficile. Aveva lunghi capelli biondi e basette che gli arrivavano al petto, mentre dal mento gli scendeva fino alla cintura una ciocca di peli; il resto della barba era lungo un dito e tagliato con molta cura. «Sono Frandibar Cogligioielli del clan dei Battioro, re dei Quarti. Do il benvenuto a entrambi, Tungdil Manodoro e Boïndil Duelame, e mi rallegro di essere il primo a poter salutare nella Terra Nascosta gli eroi del nostro popolo. Per me è davvero un grande onore!» Si avvicinò loro e porse la destra prima a Tungdil. Il nano monocolo squadrò il re come se avesse a che fare con un supplice lebbroso e dovesse sforzarsi di porgergli la mano; lo fece lentamente e controvoglia. Il Rabbioso sospirò; poi strinse la mano a sua volta, decisamente più in fretta e vigorosamente. Un altro nano si allontanò dal tavolo, puntando verso di loro. Teneva i capelli ondulati raccolti in una treccia, e la barba tagliata corta. Al contrario del sovrano dei Quarti, indossava un'armatura da combattimento; al cinturone teneva attaccati a destra un mazzafrusto con due teste irte di punte e a sinistra una corta scure da lancio.
La corporatura ne tradiva la forza. I Quinti raccoglievano membri di diverse stirpi dei nani e avevano avuto il controllo del regno nei Monti Grigi. Da molto tempo non era più in vita nessuno dell'originaria stirpe dei Quinti, i primi difensori della Porta di Pietra; Boïndil congetturò di avere a che fare con un nano i cui ascendenti appartenevano alla stirpe dei Primi o dei Secondi. «Io sono Balyndar Ditadiferro del clan dei Ditadiferro, figlio di Balyndis Ditadif erro, della stirpe dei Primi, regina della stirpe dei Quinti», si presentò. «Mia madre si scusa, ma è stata costretta a rimanere alla Porta di Pietra. Non dobbiamo combattere solo contro i mostri di Tion, ma anche contro una subdola malattia di cui molti sono caduti vittima. È una febbre nota dai tempi antichi, quando la Porta di Pietra cadde per la prima volta. La salute della regina è stata intaccata dalla malattia, e ho preferito non esporla al lungo e pericoloso viaggio fin qui nei Monti Marroni.» Fece un nuovo inchino. «Sono stato mandato dalla regina per ascoltare che cos'ha da dire l'eroe della Terra Nascosta. Anche se anticipo che mia madre è dubbiosa: secondo lei, non è possibile battere Lot-Ionan.»
Il Rabbioso guardò Tungdil, perché gli era saltata agli occhi la somiglianza tra i due nani: il mento, la bocca e il naso erano quasi uguali, le voci corrispondevano quasi fino al minimo tono. Per Vraccas! Se non sapessi come stanno le cose, penserei che sono padre e figlio. Un breve sguardo a Cogligioielli gli fece capire che il re stava pensando qualcosa di simile. Tungdil guardò il figlio della regina, aprì la bocca e la chiuse di nuovo. «Mi dispiace», disse alla fine, anche se sembrava fosse stato sul punto di dire qualcosa di completamente diverso. «Pensavamo che la maledizione che gravava sul regno del nord fosse spezzata per sempre.» «Il potere di Tion si è rafforzato. E chi se ne meraviglia, se si considera cosa sta succedendo nella Terra Nascosta?» replicò Balyndar. «Ti ringrazio per la tua partecipazione.» Fece un cenno col capo. Gli occhi del Rabbioso andavano avanti e indietro, confrontando i due nani nel modo meno appariscente possibile; il suo sospetto iniziale ne uscì rafforzato. Balyndis era stata la compagna di Tungdil, tuttavia il nano si era dovuto allontanare da lei e
aveva poi scelto una Sotterranea, Sirka. Balyndis allora era andata presso i Quinti ed era stata accolta dal loro re; poco dopo si era seduta sul trono e gli aveva dato un figlio. Che mostruoso sospetto. Il guerriero strinse gli occhi. L'età potrebbe essere giusta. «Vi vorrete sicuramente rifocillare...» intervenne Frandibar. Tungdil scosse la testa. «Prima discutiamo delle questioni importanti», disse interrompendo il sovrano, per poi guardare i delegati dei clan. «Meravigliatevi pure di ciò che sto per dirvi, ma non deridetemi. Quello che vi mostrerò è l'unico modo per liberarci dai numerosi flagelli che tormentano la Terra Nascosta... che tormentano il nostro popolo.» Girò intorno al tavolo e si fermò davanti al posto danneggiato. «Io sono un Terzo, e siederà qui», annunciò. Stava dritto, senza paura o timore nello sguardo. Tutti capivano che era abituato a comandare e a ottenere immediata obbedienza. Boïndil constatò con stupore che tra le file dei clan non si levava nessuna opposizione. Tungdil era un'apparizione troppo impressionante. O forse il suo ingresso semina tanta paura da renderli docili?
Cogligioielli fece portare uno scranno, e Tungdil vi prese posto come se fosse un re, come se fosse ancora signore di un vasto dominio e comandante di un esercito. «Che cosa ne è stato del titolo d'imperatore?» chiese. «Dopo Ginsgar Senzafuria e ciò che è accaduto nella Terra Nascosta, non c'è stata più occasione di eleggere un imperatore di tutte le stirpi», rispose Balyndar. «Eravamo tutti troppo occupati a difenderci dagli attacchi. E continuiamo a farlo anche oggi.» «I Secondi sono stati sterminati, i Terzi non sono più dei nostri. Che ne è stato dei Primi? Per timore del drago, si sono rintanati così in profondità nelle caverne che non trovano più la via d'uscita?» Tungdil guardò prima Balyndar, poi Frandibar. «Quali sono le ultime notizie che avete avuto da loro?» «C'è stata una lettera indirizzata a mia madre», disse Balyndar. «Un certo Xamtor Frontealta richiedeva aiuto contro il drago, ma noi gli abbiamo dovuto rispondere che la penuria di guerrieri era troppa per inviare loro un corpo di spedizione. Per raggiungere i Monti Rossi avrebbero dovuto superare il Kordrion e attraversare le terre del drago.» Il volto di
Balyndar s'incupì. «I Lohasbrander, a quanto ci è stato detto, uccidono tutti i nani che vedono. Un nostro reparto non sarebbe mai arrivato vivo a ovest.» «Anche noi la vedevamo allo stesso modo», concordò il re dei Quarti. «La regina Balyndis inoltrò a noi la richiesta, ma dovevamo difenderci dai Terzi e dagli albi. Avevamo bisogno di ogni spada e ogni scure.» Tungdil guardò l'altro posto vuoto. «Dove sono i Liberi?» I suoi interlocutori scrollarono le spalle. «Ora, in ogni caso dovete mettere insieme un gruppo per liberare la Terra Nascosta.» Con le dita corazzate, Tungdil fregò i bordi frastagliati del tavolo. «Un gruppo composto dai migliori tra i Quarti e i Quinti. Come allora, quando si dovette forgiare la Lama di Fuoco.» Tacque per qualche secondo. «È poi mai ricomparsa?» Gli altri nani fecero cenno di no. Tungdil prese il boccale di birra e lo vuotò tutto d'un fiato, poi lo posò e sembrò guardare nel vuoto. Il Rabbioso percepiva l'inquietudine che si diffondeva nell'assemblea. I capiclan si aspettano più di quanto hanno sentito finora.
«Lot-Ionan», disse Tungdil improvvisamente, e quasi tutti trasalirono. La sua voce aveva un suono profondo, attizzava la paura nei cuori. «È l'ultimo grande mago, e questo lo rende imbattibile per il nostro popolo. In realtà, nella situazione in cui versano attualmente le stirpi, anche gli altri avversari sono al di fuori della nostra portata; anche affrontando i nostri nemici uno per volta, le perdite sarebbero spaventose, e arrecherebbero solo vantaggio agli avversari rimasti.» Batté il pugno sul tavolo. «Se siete stolti, attaccherete per primi. Ma se lasciate fare il lavoro preliminare a qualcun altro e poi colpite i nemici quando sono indeboliti, allora la vittoria è possibile.» «Che significa?» domandò Balyndar. Boïndil notò che il figlio di Balyndis beveva acqua e lasciava da parte tutte le pietanze più grasse. «Porteremo il Kordrion, gli albi, Lot-Ionan e il drago ad attaccarsi tra loro», spiegò Tungdil, con un sorriso cupo. «Il vincitore verrà distrutto dai figli del Fabbro.» Balyndar emise uno strano verso, che si trasformò in una risata di scherno. «Facile, vero? Si sono spartiti la nostra patria da cicli, ed ecco
che di punto in bianco si assaliranno a vicenda soltanto perché il grande Tungdil Manodoro fa la sua comparsa e li prega di farlo?» Il Quinto si alzò, furente. «Mia madre aveva ragione: tu non risolverai nulla. È come una battaglia in cui si stiano aspettando i veterani, e in cui alla fine venga mandato un solo debole vegliardo.» Non aveva nemmeno finito di pronunciare l'ultima parola che si prese un colpo nelle reni e cadde in avanti sul tavolo. Un'ombra lo teneva per la nuca, premendogli il volto sulle rune che attribuivano quel posto ai Quinti. Boïndil strizzò gli occhi, e solo a quel punto riconobbe l'amico. Com'è riuscito a muoversi così velocemente? «Balyndar Ditadiferro! Forse hai ereditato da tua madre molte qualità, ma non la sua ferrea volontà», tuonò Tungdil. «Guarda i simboli del tuo popolo!» Rafforzò la pressione. Balyndar cercava di difendersi e di afferrare in qualche modo il suo aggressore, ma non vi riusciva. «Guardali!» gridò Tungdil. «Il nome di Balyndis sarà quello dell'ultimo sovrano di una lunga serie di regine e di re, se tutti la penseranno come te. E allora non ci sarà più
nessuno che riuscirà nemmeno a leggere i caratteri della lingua dei nani.» Tungdil attese ancora qualche secondo, poi lasciò la presa su Balyndar e tornò al suo posto. Il figlio di Balyndis si tirò su e fissò adirato l'eroe; sulla guancia e sulla tempia destra aveva impressa la forma delle rune, che lentamente spariva mentre la pelle riprendeva il suo volume. «Tu osi...» «Io oso, esatto! Io oso!» gridò Tungdil. «Oso dire a te e a tutti gli altri che cosa dovete fare. Perché è una soluzione semplice, perché richiede abilità, coraggio e lame affilate, ma non un esercito. Non al principio, almeno.» L'eroe puntò il dito verso nord. «Rubate al Kordrion le uova e portatele a Lot-Ionan. La bestia si metterà in viaggio e cercherà la sua prole. Voi dovrete stare pronti con un piccolo corpo di spedizione per battere il vincitore dello scontro. Sarà senza dubbio Lot-Ionan. Avete bisogno del mago per contenere ciò che si sta preparando nella Forra Oscura.» Frandibar incrociò le braccia davanti al petto. «Ma se il Kordrion battesse il mago? Stando a quanto hai detto, saremmo indifesi.»
«Questo non succederà. Un Kordrion ha scarse possibilità di difendersi dalla magia. Riuscirà forse ad annientare gli apprendisti del mago, ma non Lot-Ionan.» Il dito di Tungdil si spostò sui Monti Rossi. «Poi rubate a Lohasbrand l'oggetto più prezioso del suo tesoro e portatelo agli albi. Il drago manderà i suoi seguaci umani e i mezz'orchi a Dsôn Balsur e, poiché da soli non ce la faranno a battere gli Occhineri, dovrà recarvisi di persona.» Guardò gli astanti. «Anche in questo caso, il popolo del Fabbro dovrà soltanto aspettare e attaccare il vincitore indebolito. Almeno questo dovrebbe riuscirvi. Ed ecco che la Terra Nascosta sarà libera dalle sue preoccupazioni.» «È diventato pazzo», mormorò un capoclan. «Quale spedizione sarà mai in grado di compiere imprese del genere?» «Non avete più giovani audaci e valorosi? Era questa la scusa per non muovere un dito fino a che non sono tornato io?» Tungdil si girò di scatto. «In questa stanza vedo braccia forti e occhi svegli. Prendete Balyndar. È adatto!» esclamò, per poi indicare il Rabbioso. «Non dimenticate il mio buon amico. Lui e la sua azza sanno spezzare crani e armature. Cercate anche
un buon tiratore di balestra e date loro una manciata di prodi come scorta. Quando li avrete trovati, pregate Vraccas e metteteli in cammino.» «Tu non andrai con loro?» chiese il re dei Quarti, sgomento. «No.» Tungdil si sedette pesantemente sullo scranno. «Dopo duecento cicli pieni di guerre, lotte e battaglie, ne ho abbastanza. Mi cercherò il mio grazioso posticino nella Terra Nascosta e starò a guardare con gioia voi che annientate il male. Mi basta sapere di avervi messo in mano il piano, con cui farlo.» Balyndar aveva domato la sua collera, ma sembrava enormemente deluso. «Questo è dunque il grande, ineguagliato eroe... Ha l'aspetto di un guerriero di Tion, tiene concioni, pretende l'impossibile da noi e vuole sistemarsi in tutta comodità per starci a guardare mentre falliamo.» Rise senza gioia. «Benvenuto, Tungdil Manodoro.» Boïndil sentiva che i capiclan erano immersi in discussioni sussurrate e che non prestavano più attenzione a ciò che succedeva intorno al tavolo esagonale. Continuava a riflettere sul piano che l'amico aveva proposto. Non può
finire senza un accordo! Fece un profondo respiro e disse a voce alta: «Il Sapientone ha ragione!» All'istante, nella sala calò il silenzio. Tutti lo fissavano. «Ha ragione lui», continuò Boïndil, posando una mano sulla mappa della Terra Nascosta. «Non abbiamo più grandi eserciti con cui metterci in marcia. Le nostre fortezze sono state per la maggior parte distrutte, e quelle che ancora levano il capo con orgoglio aspettano solo la morte. Che sia attraverso la freccia di un albo, o l'attacco di un Kordrion, o la febbre, o le fiamme del drago.» Boïndil si alzò. «A noi rimane solo il piano suggeritoci da Tungdil.» Posò la mano sull'azza. «Io partirò per salvare il nostro popolo. Il destino dei nani verrà deciso dai nani.» Frandibar lo osservò con attenzione, poi guardò Tungdil. «C'è sicuramente qualcosa di vero in quanto abbiamo sentito», disse, cauto. «E saremo orgogliosi se potremo dire che Boïndil Duelame partirà alla testa di un gruppo di audaci. Ma la persona di cui abbiamo bisogno è il più noto di tutti noi.» Il suo sguardo si posò su Tungdil. «Ti supplico: accompagnalo. Riposati
quando sulla Terra Nascosta sarà tornata la pace.» Balyndar gettò a Tungdil uno sguardo sprezzante. «Altrimenti saremo testimoni del più inutile ritorno di un eroe mai verificatosi nella Terra Nascosta.» Il nano in armatura nera fece un sorriso cattivo. «Non riusciranno a impressionarmi né le suppliche né le minacce. Ho vissuto troppe battaglie. Anzi, sono sopravvissuto a troppe battaglie.» Nella mente di Boïndil balenò un pensiero che sembrava così anomalo e mostruoso da avere senso. Era impossibile allettare il suo amico con tesori o solleticare il suo altruismo; aveva ottenuti a iosa fama e onori, dall'altra parte della Forra Oscura. Nel cumulo di titoli e riconoscimenti, però, ne mancava ancora uno... «E se tu partissi come imperatore?» disse Boïndil, esprimendo ad alta voce ciò che stava rimuginando. Subito ci fu un gran chiasso, perché i capiclan presero a parlare tutti insieme. «Silenzio!» ordinò Frandibar, alzando un braccio. «State in silenzio e lasciate che Boïndil Duelame finisca di parlare.»
Il Rabbioso espose la propria idea. «La mia proposta non è buttata a caso. Riflettete: se alla testa delle stirpi dei nani ci fosse un Terzo, avremmo la possibilità di negoziare coi Terzi stessi. Immaginate che ci riesca... che Tungdil riesca a convincerli di tenersi fuori della lotta durante la nostra spedizione contro gli albi e di aspettare e vedere che cosa succede. O addirittura immaginate se Tungdil li convincesse ad aiutarci!» Non si levarono grida. Le nane e i nani discutevano tra loro a bassa voce; c'era chi gesticolava, chi annuiva e chi scuoteva la testa. Boïndil guardò l'amico, che stava ricambiando lo sguardo. Il sorriso di Tungdil era cambiato, indicava una commistione di divertimento, incredulità e soddisfazione. Balyndar rimuginava, con la destra appoggiata al manico del mazzafrusto. «Devo accettare, anche se non ne sono entusiasta», disse, rivolgendosi all'assemblea. «La proposta di Boïndil Duelame non è facile da liquidare. Siamo in condizione di eleggere Tungdil Manodoro imperatore. Sta alle generazioni che verranno dopo di noi decidere se abbiamo gestito in modo corretto l'emergenza. Non
dobbiamo neanche dimenticare l'effetto che il suo ritorno avrà su Lot-Ionan, che è stato suo padre adottivo.» Balyndar guardò Tungdil. «Tuttavia non ho un buon presentimento. Questo lo dico apertamente.» «Vedilo come un motivo in più per prendere parte all'impresa», replicò il Rabbioso, senza riuscire a difendersi dal disagio che lo rodeva e che diventava più forte ogni volta che vedeva Tungdil sorridere. Vraccas, aiutaci. Frandibar poi si alzò dal suo posto. «È una decisione che, nella storia del nostro popolo, non è mai stata presa in questa maniera. Fino a questa rotazione. Per me è importante chiedere a ogni singolo capoclan la sua opinione e il suo voto.» Indicò il primo nano, della stirpe dei Quinti, e ne ottenne un voto favorevole. Ci volle parecchio tempo perché venisse sentito ogni membro dell'assemblea, ma alla fine il giudizio fu univoco. Tutti gli occhi si puntarono su Tungdil, mentre Frandibar apriva la bocca e gli rivolgeva la parola. Boïndil entrò nell'alloggio di Tungdil, dove bruciava una sola candela; piccole fiammelle tremolavano sulle braci nel camino, e la poca
luce immergeva la stanza in un cupo rosso scuro. Tungdil sedeva con ancora indosso tutta l'armatura, rivolgendo le spalle alla porta. La mano destra teneva il pomo della Sanguinaria, la cui punta poggiava al suolo. La benda d'oro scintillava color sangue; gli intarsi nel nero dell'armatura in tionio ardevano, come se le fiamme del camino li avessero scaldati ed essi ne avessero immagazzinato il calore. Il Rabbioso vide che il piatto con la cena era rimasto intatto, mentre la caraffa con la birra era vuota. «Non sei felice dell'esito della votazione, Sapientone», constatò. Tungdil non gli rispose. «Sapientone?» Boïndil girò intorno alla poltrona per poter guardare in faccia l'amico, e si spaventò. L'occhio marrone aveva cambiato colore, sembrava attraversato da turbinii verdi; subito dopo ne emersero punti giallo scuro, scacciando quel turbinio. La pupilla, per contro, sembrava vitrea e morta. Il Rabbioso si piegò in avanti. «Ma che sta...?»
La vista di Tungdil tornò a fuoco, e in un istante l'occhio riprese il suo colore naturale. «Scusa, mi ero addormentato», disse il Sapientone a mo' di saluto, toccandosi il viso, come per assicurarsi che tutto fosse al suo posto. «Che cosa posso fare per te?» Boïndil tirò indietro la testa e vinse la sorpresa e lo spavento. «Volevo sentire un po' come stai. Se sei contento dell'esito della votazione.» Si sedette sulla sedia di fronte all'amico. «Questo è il vero motivo della tua visita?» Tungdil respirava a fatica. «O volevi vedere che cosa faccio quando penso di non essere osservato?» «Perché, ti si può cogliere di sorpresa? Con quell'armatura?» cercò di scherzare il Rabbioso, facendo un sorriso sghembo. Tungdil guardò l'amico, e Boïndil si rallegrò della vecchia, ben nota espressione che vide sul suo volto. In quei momenti non dubitava minimamente di avere davanti a sé il vero Sapientone. «Non ti ho ancora chiesto che cosa ne pensi del mio piano», disse Tungdil.
«Non è troppo tardi per questo? La decisione è stata già presa.» «Sì, avrei dovuto informarti prima. Ma tu sei stato un eccezionale intercessore.» Boïndil rise. «Non ti posso certo lasciare solo contro tutte quelle teste dure. Che razza di amico e compagno d'armi sarei?» Si grattò la fronte, poi congiunse le dita. «Di sicuro è pericoloso, di sicuro qualcuno perderà la vita. Non mi faccio illusioni. Ma potremmo farcela, perché nessuno dei nostri nemici si aspetta un tranello del genere. Li abbatteremo con le loro stesse armi.» Brontolò. «Be', sì... almeno gli Occhineri.» «Non provi nessuna incertezza?» Il Rabbioso diede ascolto ai suoi dubbi. «Nel tuo piano ci sono molti elementi imponderabili, al di là della nostra influenza: gli albi potrebbero uccidere il drago più in fretta di quanto piacerebbe a noi; il Kordrion potrebbe non preoccuparsi delle sue uova, come tu invece supponi; Lot-Ionan potrebbe schioccare le dita e con un incantesimo trasformare la bestia in pietra.» Incrociò le braccia sull'ampio petto. «Ma non lo credo.»
«Confidi nel piano perché sei abbastanza disperato da farlo o perché sono io ad averlo proposto?» «Sono a favore perché è un buon piano, anche se temerario, Sapientone», replicò Boïndil, prudente. «Ne ho passate tante con te, e insieme abbiamo compiuto così tante imprese impossibili...» Tungdil annuì in silenzio e distese la mano verso la caraffa vuota. Contrariato, la tolse dal tavolo. «Pensi che il titolo d'imperatore mi si addica?» Era una domanda che Boïndil avrebbe evitato volentieri. «È stata una mia proposta. Se non ne fossi stato convinto, non l'avrei fatta.» «Tu pensi che sia stata una tua proposta. Ma se le mie rune ti avessero stregato?» suggerì Tungdil, con voce stanca. «Se fossi stato io a metterti in testa questo pensiero? In modo che alla fine io potessi portare quel titolo, che ho bramato nei cicli passati, anche se sapevo perfettamente che in circostanze normali non sarei mai riuscito a ottenerlo?» La palpebra tremolava, l'occhio si girava in su. Tungdil era sul punto di addormentarsi.
«Questo non lo credo, Sapientone», disse Boïndil, alzandosi. «Contro la mia volontà, nessun pensiero esterno può impossessarsi di me.» Si guardò intorno e trovò una coperta di lana, che distese sopra l'amico. «Tu sarai il migliore imperatore che le stirpi abbiano mai avuto», sussurrò, mentre indietreggiava. «Nato nel bisogno e superiore a tutti quelli che ti hanno preceduto. Forse sarai il sovrano che finalmente metterà pace tra tutti i figli del Fabbro. Vera pace, non una semplice tregua.» Il guerriero raggiunse la porta e sorrise al nano assopito, poi lasciò il sobrio appartamento, poco degno dell'imperatore appena eletto.
X Terra Nascosta, protettorato del Cauragar, undici miglia a est dell'ingresso ai Monti Grigi, 6491°/6492° ciclo solare, inverno Il Rabbioso continuava a guardare le catene di colline che si alzavano a nord: erano le propaggini dei Monti Grigi, che si stagliavano all'orizzonte promettendo riparo ai viaggiatori. «Mi piacerebbe essere già là», brontolò. «Non c'è stata ancora una situazione in cui sembrasse che fossimo in pericolo.» Tungdil cavalcava accanto a lui e, come in precedenza, aveva preferito montare il befun. Così sovrastava tutti gli altri membri del gruppo che, oltre a loro due, comprendeva Balyndar e la delegazione dei Quinti; Frandibar aveva affidato loro i suoi cinque migliori guerrieri, tra cui un balestriere. «Questo mi sorprende», disse Balyndar, mentre controllava la distesa di neve. «Durante il viaggio di andata siamo scampati a stento a
una pattuglia del duca Amtrin. È al servizio degli albi.» «Scampati! Ma sentite un po'... Non riesco a crederci! Un tempo saremmo stati noi a dare loro la caccia, invece di scappare o nasconderci», sbuffò il Rabbioso. Balyndar pensò che quelle parole fossero rivolte contro di lui e i Quinti. «Non me la prendo per quello che hai detto, Duelame. Infatti non sai che quelle pattuglie sono sempre accompagnate da due albi, e contro i loro archi lunghi non possiamo nulla.» «Lo so bene anch'io», replicò Boïndil. «Mio fratello è stato quasi ucciso dalle loro frecce nere.» Tungdil si drizzò sulla sella del befun. «Abbiamo l'occasione di dimostrare il contrario», disse a mezza voce, usando la Sanguinaria per indicare verso sud-est. «Ci seguono già da un po'. Se vedo bene, sono venti cavalieri. Coi loro cavalli, ci avrebbero potuto raggiungere già da un pezzo.» «Aspettano di vedere cosa facciamo. Dove stiamo andando.» Balyndar lasciò che il suo pony si facesse raggiungere dalle cavalcature di Tungdil e del Rabbioso, finendo in mezzo ai due.
«Questo è molto insolito. Gli altri ci correvano dietro senza darci tregua.» «Avranno paura.» Boïndil si mise a ridere. «Non appena incontrano più di quaranta nani, nonostante il freddo finiscono col sudare.» «Penso che non siano in compagnia di albi», disse Tungdil. «Non vedo tori di fuoco né destrieri della notte. Sulla neve, bestie di quel tipo si dovrebbero scorgere facilmente.» «Oppure significa che ci hanno aggirati e che intendono attaccarci di fronte», intervenne Balyndar, allarmato. Ordinò subito ai Quinti d'imbracciare gli scudi che portavano sulle spalle e di tenersi pronti. Il Rabbioso stimò che i soldati nemici fossero distanti almeno due miglia, se non di più. Per lui era un miracolo che Tungdil potesse anche solo capire che si trattava di uomini a cavallo. Che la perdita di un occhio abbia portato l'altro a diventare più acuto per una compensazione? Altrimenti come si spiega? Il befùn emise uno sbuffo allarmato e girò il capo verso destra, dove spuntavano rocce nere alte fino a sette passi. «Al riparo!» ordinò Tungdil, lasciandosi cadere di sella.
Boïndil seguì senza esitazione l'esempio dell'amico, e così fece Balyndar. La freccia nera indirizzata verso il capo di Boïndil sibilò attraverso l'aria, gli passò accanto all'orecchio destro e s'infilò nella neve; dal bianco non sporgeva nemmeno più l'impennatura. Subito dopo risuonò un urlo soffocato, e una nana cadde dal suo pony: una freccia aveva oltrepassato il bordo del suo elmo, infilandosi nella tempia destra. A quel punto, tutti i nani avevano capito che i tiratori dovevano trovarsi dietro le rocce. Si gettarono a terra e utilizzarono i corpi dei pony come copertura contro le frecce mortali. Nessuno perse la testa o si mise a strillare, come forse sarebbe accaduto se fossero stati umani. Tre sibili, e altri tre nani persero la vita. Le frecce nel cuore e in testa non lasciavano nessuna speranza sul fatto che i malcapitati fossero sopravvissuti. «Maledetti Occhineri!» esclamò Boïndil, furente, strisciando attraverso la neve fino a raggiungere Tungdil. «Infilerò loro l'arco nel didietro, e a seguire le frecce, l'una dopo l'altra!»
«Li vedi? Sono sulla seconda roccia», disse l'amico, tranquillo, spiando tra le zampe del befùn. «Portano mantelle che in mezzo alla neve li rendono praticamente invisibili.» Il Rabbioso dovette sforzarsi molto per scorgere le figure: si scoprivano quanto bastava per tirare le loro frecce sopra il bordo del masso, per poi abbassarsi subito dopo. Ancora una volta, Boïndil si meravigliò del buon occhio di Tungdil. «Almeno quaranta passi ci separano dalle rocce», valutò. «Un tempo sufficiente per guarnirci di frecce.» Guardò Balyndar. «Proposte?» Nitrendo, un pony si accasciò; una freccia gli era entrata in un occhio, portandogli la morte. Gli albi stavano cambiando tattica: sottraevano ai nani le loro coperture. I cavallini venivano abbattuti l'uno dopo l'altro, cadevano scalciando selvaggiamente e ferendo con gli zoccoli ferrati i loro cavalieri. Il Rabbioso allungò la mano nella neve e la strinse fino a trasformarla in un ammasso compatto di ghiaccio. «Mettiamo tre scudi l'uno sopra l'altro e assaltiamo gli Occhineri, Sapientone? Così potremmo arrivare fin là.»
«La pattuglia si è lanciata al galoppo», gridò qualcuno del gruppo. «Attaccano!» «Adesso si fa dura», mormorò Boïndil. Improvvisamente dalla roccia risuonò un forte grido. Il Rabbioso girò rapidamente la testa in avanti e vide uno degli albi vacillare e poi cadere dietro la sua copertura. «Cos'è successo? Si è rotta la corda e lo ha ucciso?» Boïndil notò che la neve sulla roccia si era tinta di rosso. «Non hai sentito lo schiocco della balestra?» ribatté Tungdil, soddisfatto. Si sentì un forte rumore metallico, e un secondo albo si accasciò. «Sembra che Frandibar ci abbia dato un balestriere davvero bravo!» Boïndil si tirò su, levò l'azza e ordinò ai nani di costituire un muro di scudi contro i cavalieri che si avvicinavano a grande velocità. «Adesso va molto meglio.» Nel trambusto cercò con lo sguardo il Quarto che aveva risparmiato loro ulteriori perdite. Il tiratore giaceva premuto contro il cadavere di un pony e ricaricava la balestra in tutta calma, mentre la pattuglia si avvicinava rapidamente. Il rumore degli zoccoli si faceva
più forte, e il reparto di nani si preparava all'urto. Il balestriere era pronto e posò il martinetto con cui aveva ricaricato sulla sella della cavalcatura morta, si girò sulla pancia e mirò al comandante della cavalleria all'attacco. A quella distanza, era facile riconoscerne le insegne. Un dardo sibilò, e l'uomo, colpito al petto, si piegò all'indietro prima di scivolare dalle staffe e cadere da cavallo; i cavalieri subito dietro di lui non riuscirono a evitarlo e il comandante scomparve sotto gli zoccoli e i mucchietti scintillanti di neve. «All'attacco!» gridò il Rabbioso, pregustando la gioia del combattimento, e si lanciò contro i nemici mulinando l'azza sopra la testa. Cercava un altro bersaglio, più a portata di mano, per la rabbia che avrebbe voluto sfogare sugli albi. I guerrieri nani lo seguirono, correndo incontro ai nemici senza nessuna cura per la propria incolumità. La pattuglia di cavalieri allargò i ranghi, si sentirono forti urla, e l'attacco si sfilacciò; a causa delle urla dei nani, tre soldati non avevano sentito che era stato ordinato di fermarsi e continuarono ad avvicinarsi a loro,
mentre gli altri perdevano terreno e si volgevano in fuga. «Ah! Venite ad assaggiare la mia azza!» Boïndil si chinò passando sotto la punta di una lancia e colpì il primo cavaliere, sbalzandolo di sella. Quindi usò lo slancio e la forza trasmessa dall'impatto per girare su se stesso, verso destra, e piantare il lungo spuntone dell'arma nella gamba del cavaliere successivo. «Beccato!» Il Rabbioso puntò i piedi nella neve, tenendo ben stretto il manico. «Fermo qui, Lungo!» Dapprima fu trascinato di qualche passo sulla neve, poi i tacchi dei suoi stivali trovarono sostegno su una pietra. La gamba dell'uomo venne bruscamente rigirata all'indietro e disarticolata, e si sentì chiaramente il rumore di ossa che si spezzavano; poi il Rabbioso lo trascinò nella neve. L'uomo si contorceva a terra, gridando. Balyndar intanto colpì col mazzafrusto il terzo cavaliere, disarcionandolo. Le sfere coperte di punte colpirono al torace e al collo, e l'uomo cadde rantolando. Boïndil stava sopra il suo prigioniero, tenendo l'azza con una mano e il piede destro premuto contro il corpo dell'uomo. «Da quanto
tempo ci seguivate? Qual era il vostro compito?» domandò. «Di' la verità e vivrai.» «Stavamo seguendo le vostre tracce», gemette l'uomo, col dolore che gli deformava la voce e il volto. «Da due rotazioni. Gli albi volevano attirarvi in un'imboscata per poter interrogare i sopravvissuti e scoprire le vostre intenzioni. Dovevamo attaccare solo quando avessero cominciato a tirare.» Balyndar affiancò il Rabbioso. «Avete inviato un messaggero per comunicare la nostra presenza?» Fece penzolare le sfere insanguinate del mazzafrusto davanti al volto del soldato. «No», gemette l'uomo. «No, siamo gli unici che sanno di voi.» Tungdil si avvicinò camminando pesantemente sulla neve, tenendo l'occhio puntato sull'orizzonte, dove la pattuglia si allontanava al galoppo. «Non ha più nessuna importanza», disse, tetro. «Torneranno alla guarnigione più vicina e faranno rapporto. Per allora dovremo essere nei Monti Grigi. Gli albi immagineranno che un numero di nani così consistente implichi qualcosa d'importante, e che per loro non possa essere un bene.»
«Ah, quando si poteva sfrecciare attraverso i tunnel! Quelli sì che erano tempi!» esclamò Boïndil. «Ormai sono in gran parte sommersi dall'acqua, ve l'ho già detto», fece Balyndar. «Crediamo che i laghi del Weyurn si siano svuotati lì dentro. La voragine nella Terra dell'Aldilà non può essere l'unica causa.» Tungdil ordinò ai nani di montare sui pony e appoggiò la punta della Sanguinaria sulla nuca del soldato. «C'è altro che dovremmo sapere?» «No, no!» gridò l'uomo spaventato. «Vi ho detto tutto!» «Allora non sei più utile.» Il braccio si mosse in avanti; la lama tagliò pelle, muscoli e tendini, e le vertebre si separarono tra gli scricchiolii. «Andiamo a esaminare gli Occhineri», disse Tungdil, con indifferenza. «Gli avevo promesso di risparmiarlo, Sapientone!» sbottò Boïndil. «Se avesse detto la verità. Questo avevi detto», precisò Tungdil. «E come intendevi scoprire se ti aveva mentito oppure no?» Raggiunse il befùn, montò in sella e si diresse verso le rocce davanti alle quali gli albi giacevano in pose scomposte.
Balyndar seguì con lo sguardo il nano in armatura nera, poi guardò il cadavere che aveva davanti, e dalla cui nuca zampillava sangue. «Di certo non provo pietà per il Lungo», disse, pensieroso. «Ma comunque non capisco il comportamento di Manodoro. Avremmo potuto benissimo lasciarlo lì. Ci avrebbe pensato l'inverno.» Si girò e raggiunse il suo pony. Il Rabbioso estrasse lo spuntone dell'azza dalla gamba del soldato, lo ripulì col mantello del morto e raggiunse le rocce. Il vecchio Tungdil non avrebbe mai fatto una cosa del genere. «No, l'avrebbe fatto», obiettò, in un mormorio. «L'avremmo comunque dovuto fare. Il Sapientone si è comportato in modo giusto. Non è stata una bella cosa, ma era la cosa giusta da fare.» «Che cos'hai detto, generale?» Il nano armato di balestra, accanto al quale stava passando, si girò verso di lui. «Non ho capito bene.» Boïndil si fermò a osservare il Quarto. Sotto il mantello aperto portava un'armatura leggera fatta più di cuoio che non di anelli di maglia, cosa che, grazie al peso minimo, rendeva il nano più mobile; solo di traverso sul petto portava
una larga striscia di metallo, a protezione di cuore e polmoni. Lunghi capelli castani cadevano sulle spalle, spuntando da sotto l'elmo; la barba, dello stesso colore, era intrecciata; appena sotto il mento, il nano aveva disposto le ciocche a ventaglio, usando del filo d'argento. Al fianco gli pendeva una faretra piena di dardi e un sostegno che era pensato per agganciare e tendere il meccanismo di ricarica della balestra. La spessa corda della pesante arma a distanza, che il nano stava ricaricando in quel momento, doveva tuttavia essere tirata indietro con un martinetto; in quel modo si otteneva una forza perforante smisurata, come gli albi e il comandante della pattuglia di cavalieri avevano sperimentato sulla loro pelle. Boïndil seguì l'operazione. «A dire la verità, non ho mai sopportato archi e balestre», disse. «Privano di fascino il combattimento. Ma oggi sono grato a Vraccas, che ha fatto sì che uno come te fosse con noi.» Porse la mano al nano. «Come ti chiami?» «Goïmslin Celeremano del clan dei Trovazaffiri, della stirpe del Quarto, Goïmdil. Ma mi chiamano Slin», si presentò, mentre
assicurava la balestra alla sella del pony per poter stringere la mano al Rabbioso. «So che tutti i figli del Fabbro stimano più le lame che non i dardi. Ma quando non si è molto bravi con le lame, come me, allora è l'unica via che rimane.» Indicò le formazioni rocciose. «Dal momento che stai andando a esaminare gli albi, scommetto che li ho colpiti entrambi al cuore. In caso contrario, ti devo due pezzi d'oro.» «Sei così preciso?» Slin annuì. «Miro sempre al cuore. Delle donne e delle mie altre vittime.» Strizzò l'occhio. Il Rabbioso sorrise. «Controllerò con molta attenzione.» Si affrettò a unirsi agli altri, che si trovavano già presso le rocce. La mira di Slin era davvero acuta. Entrambi gli albi giacevano nella neve col cuore trafitto. I dardi rinforzati avevano perforato le armature, e Boïndil si sorprese a domandarsi se l'armatura di Tungdil sarebbe riuscita a opporsi efficacemente all'arte di Slin. «Hanno legato i destrieri della notte dietro le rocce», lo informò Tungdil. Il Rabbioso accarezzò l'azza. «Seguiranno i loro signori nella morte.» Guardò i due cadaveri e ordinò che fossero perquisiti.
Balyndar e altri due nani si misero all'opera. Sotto i mantelli si nascondevano le armature a piastre degli albi; le spade erano infilate nelle else, inutilizzate. I nani non s'interessarono delle provviste, ma solo di un pugnale che uno dei nemici portava alla cintura. Balyndar fu il primo a notarlo. «Per Vraccas!» esclamò, estraendo l'arma dal fodero. «Questo è opera di un fabbro nano!» Girò e rigirò la lama, la tenne alla luce del sole, vi passò il pollice sopra per saggiarla. «Non c'è dubbio: questo pugnale è stato forgiato da un nano.» Si chinò ed esaminò meglio l'armatura. «Stento a crederci! I Terzi hanno fatto lega con gli Occhineri, più di quanto io supponessi nelle mie peggiori visioni.» Il Rabbioso guardò Tungdil e pensò al loro incontro con l'assassino di nani, nella Terra dell'Aldilà. «Hanno prodotto per loro anche le corazze?» Balyndar alzò lo sguardo. «Ne sono assolutamente certo.» «Allora i Terzi non potranno aspettarsi nessuna pietà da parte nostra, una volta che avremo sconfitto gli albi», tuonò Boìndil. «Che abbiano tradito le altre stirpi in questo modo è
imperdonabile. Hanno rivelato i segreti delle nostre fucine!» «Eppure il tuo imperatore è un Terzo.» Tungdil sembrava calmo. Colpì con lo stivale uno dei due cadaveri. «A che sono valse loro le armature dei nani? Finché abbiamo noi i dardi migliori, i Terzi possono continuare a forgiare armature per gli albi.» Balyndar riprese a esaminare il pugnale, passandovi sopra le dita. «Qui c'è qualcosa che non va.» Si accinse a spogliare gli albi. Tungdil lo richiamò. «Che stai facendo?» «Voglio portare via le armature, per poterle esaminare con più cura. Credo che...» «Non c'è tempo per questo.» Tungdil fece un cenno alla compagnia. «Va' dall'altra parte e aiuta il Rabbioso a uccidere i destrieri della notte. Poi ci rimetteremo in cammino. Tra poco la pattuglia di cavalieri raggiungerà una guarnigione del conte e farà rapporto.» Balyndar fece per rispondere, ma Tungdil alzò la mano. «È un ordine!» Guardò con aria imperiosa il Quinto, che si avviò scuotendo la testa in modo eloquente. A Boïndil non era sfuggito che il figlio di Balyndis aveva preso il pugnale senza che
Tungdil lo notasse. «Allora vado, eh!» disse, seguendo Balyndar. Poi sentì dei rumori alle sue spalle e si guardò dietro: Tungdil stava infliggendo altri colpi agli albi, trafiggendone i torsi. «Ma che stai facendo, Sapientone?» domandò, stupito. «Mi assicuro che non sopravvivano», rispose Tungdil, pulendo la Sanguinaria nella neve, per poi rimontare in sella al befùn. «Sbrigatevi. Voglio raggiungere in fretta i Monti Grigi.» Fece fare un balzo in avanti alla cavalcatura e si mise in testa alla colonna. «Ha distrutto la runa», disse Balyndar, alle spalle del Rabbioso. «Anche tu l'hai vista, non è vero, Duelame?» «Runa?» Boïndil raggiunse il Quinto, il cui mazzafrusto grondava sangue. I destrieri della notte erano già morti. «Non capisco.» «Non capisci?» Col sangue che scorreva dalla sua arma, Balyndar tracciò un segno sulla neve. «Ecco cosa intendevo. Guarda la parte sinistra del petto del tuo amico, Duelame, e la vedrai anche lì.» Terra Nascosta, regno dei Quinti, Monti Grigi, 6491°/6492° ciclo solare, inverno
L'ingresso nel regno dei Quinti era cambiato. Davanti al portale vero e proprio si ergeva una costruzione di pietra che si alzava per venti passi, e nelle cui mura si aprivano innumerevoli feritoie di scarico; una porta molto stretta, grande appena per far passare un befun, costituiva l'ingresso. Il Rabbioso intuiva a cosa servissero le feritoie. Se da lì si versano pece bollente e metallo fuso, si può spazzar via un intero esercito. La porta si aprì e, ad attenderli per salutarli e guidarli in nome della regina, c'erano solo un messo e il corpo di guardia. Mentre i guerrieri entravano, non si sentì nessuno esultare, né suonarono fanfare che annunciassero l'arrivo dell'imperatore nei Monti Grigi; non c'erano pareti adornate a festa, né bandiere. Non c'erano nane e nani a dare il benvenuto. Boïndil era deluso e irritato, ma rimase in silenzio. Sapeva che Balyndar aveva mandato un guerriero per annunciare il loro arrivo, eppure l'accoglienza era davvero fredda. Si poteva pensare ciò che si voleva della comparsa di Tungdil e del modo in cui si comportava, ma in
ogni caso portava il titolo d'imperatore. Il rispetto riservato a quella carica esigeva che venisse mostrata maggiore considerazione per la compagnia sotto la sua guida, che presto avrebbe compiuto imprese eroiche. «Entriamo nel regno dei Quinti come mercanti non troppo desiderati», commentò Slin, che aveva condotto il suo pony vicino a quello di Boïndil. Non faceva nessun mistero della sua scontentezza e voleva che venisse recepita sia da Balyndar sia dal messo. «La regina ha dimenticato chi sta ricevendo?» «No, non l'ha dimenticato», replicò il figlio di Balyndis, dalla testa della colonna. «Al contrario dei Quarti, le nostre nane e i nostri nani hanno un compito duro e lottano sia contro il Kordrion sia contro la febbre. Entrambi c'indeboliscono e fanno sì che abbiamo cose più importanti da fare che non metterci in fila a inneggiare agli eroi dei cicli passati.» Sottolineò intenzionalmente, e con un po' di disprezzo, le ultime parole. «Riceverete presto cibo e bevande. E, se avrete anche voglia di danzare e cantare, fatemelo sapere. Ma sarà difficile trasformare persone in lutto in ospiti allegri e vivaci.»
«Non essere così permaloso, Balyndar», ribatté Slin. «Non rimarcherò più che questa accoglienza è inferiore alla dignità dell'imperatore che tu stesso hai scelto.» Il Rabbioso gli lanciò uno sguardo duro, per indurlo al silenzio. «Lascia perdere», lo pregò a voce bassa. «Non abbiamo bisogno di alimentare i dissidi. Pensa che presto ti getterai in combattimento al suo fianco.» «Ma io gli starò sempre alle spalle, Duelame.» Slin sogghignò, appoggiando la destra sull'impugnatura della pesante balestra. «Un altro privilegio dei tiratori.» Cavalcarono in silenzio attraverso i corridoi, il cui tracciato era cambiato. Boïndil non riconosceva nulla, e senza una guida si sarebbe perso. Vennero condotti in una sala in cui lasciarono i pony e il befùn, per proseguire a piedi. Dopo un breve commiato, i membri dei Quinti lasciarono la colonna per tornare ai loro clan, sinché alla fine restarono con Balyndar soltanto i Quarti, Tungdil e il Rabbioso. «Si potrebbe quasi pensare a un tranello», sussurrò Slin, ma in modo che gli altri sentissero. Teneva la balestra appesa alla
schiena; al cinturone invece era infilata una maneggevole scure. «Se non ci trovassimo fra amici.» Strada facendo si unì a loro un secondo messo, che sussurrò qualcosa nell'orecchio a Balyndar. «Mia madre sarà lieta di conoscere i valorosi che partiranno sotto la guida dell'imperatore Tungdil Manodoro», annunciò il figlio di Balyndis, indicando una grande e disadorna porta di ferro, davanti alla quale montavano la guardia due guerrieri armati di alabarde. «Un tempo la sala del trono non era da un'altra parte?» chiese Boïndil, stupito. «Di certo è cambiato qualcosa...» «Hai ragione. Là dietro non c'è la vecchia sala del trono», lo interruppe Balyndar. «Si trova nella regione dei Monti Grigi ancora preda del morbo. Non ci tratteniamo più in quella zona, e non facciamo eccezioni neppure per le nostre visite di maggior riguardo.» Fece un cenno alle guardie, che aprirono i battenti. «Questa è la nostra nuova sala del trono.» Su di loro cadde una fredda luce argentata. L'intera sala era stata rivestita di lucido acciaio. I mobili, i tavoli, le sedie rilucevano freddi alla
luce delle lampade; perfino le colonne che sostenevano l'alto soffitto sembravano fatte d'acciaio, e la loro superficie era tanto liscia e regolare che tutto vi si rifletteva senza nemmeno deformarsi. Ornamenti pieni di ghirigori erano incisi sul metallo e colorati in modo diverso perché risaltassero; in quel modo venivano creati motivi che confondevano la vista e sembravano muoversi, se osservati a lungo. In altri punti, gli artisti si erano limitati a incidere nell'acciaio i ritratti di antichi sovrani dei nani, adornandoli con metalli preziosi e pietre dure. Guardando la stanza si capiva che vi dava udienza una regina un tempo appartenuta alla stirpe dei Primi, fabbro e lavoratrice di metalli molto dotata. «Sembra che la montagna stessa abbia partorito questa sala», mormorò uno dei Quarti. «Gli elementi scorrono gli uni negli altri, senza sbavature né giunture.» Su un trono leggermente rialzato, sedeva Balyndis Ditadiferro. Portava i lunghi capelli castano scuro sciolti sotto la corona di lucente acciaio, e la sua armatura di scaglie dello stesso metallo riluceva tanto da costringere i visitatori a strizzare gli occhi.
«Immagino quale possa essere l'effetto in piena luce solare», commentò Slin. «Di certo accecherà tutti nel raggio di dieci passi.» Balyndis si alzò e scese due gradini. «Entrate e prendete posto alla tavola dei Quinti», li invitò. «Mi rallegro della vostra visita e delle molte buone notizie che il messo mi ha riferito prima del vostro arrivo. Quindi il dominio del male sulla Terra Nascosta avrà presto una fine. Vraccas sarà sicuramente con noi.» Il Rabbioso cercò di osservare il volto del Sapientone mentre la regina si avvicinava e porgeva loro la mano. Molti cicli addietro era stata la compagna di Tungdil, avevano vissuto insieme e avuto un figlio che aveva perso la vita in un terribile incidente. Quell'incontro serbava sufficienti motivi per scatenare una ridda di sentimenti disparati. Ma, sebbene Boïndil si sforzasse, sul volto dell'amico non leggeva nessuna emozione. Se ne vedeva molta di più sul volto di Balyndis. «Per Vraccas», disse la regina, commossa, rallentando mentre si avvicinava al nano con un occhio solo. «È vero, allora! È proprio vero! Sei vivo e sei tornato dalle tenebre!» Lacrime le scintillavano agli angoli
degli occhi e scorrevano sulle guance coperte di fine peluria; i piccoli peli erano più visibili che non sul volto delle giovani nane. Commossa, Balyndis si fermò davanti a Tungdil, continuando a porgergli la mano. «Proprio così. Sono tornato dalle tenebre. Ma ho portato con me l'oscurità», replicò Tungdil. «Io so chi sei, Balyndis Ditadiferro, regina dei Quinti, ma non ricordo nulla di ciò che un tempo ci ha uniti.» Con aria di scusa, indicò la cicatrice che aveva sulla fronte. «Un colpo ha cancellato veramente troppo di ciò che mi era caro.» Balyndis deglutì e continuò a guardarlo con insistenza, come se in quel modo potesse riportare alla luce ricordi sepolti. Quando però notò che l'espressione dell'occhio scuro del nano non cambiava, abbassò il braccio e si lasciò cadere su un ginocchio. «Io ti saluto, imperatore Tungdil Manodoro», disse con voce triste, chinando il capo. «Vraccas benedica te e tutti coloro che ti seguiranno nella tua impresa per la salvezza della Terra Nascosta.» «Io ti ringrazio, regina Balyndis.» Toccandole una spalla, Tungdil le fece cenno di alzarsi, e raggiunse il tavolo apparecchiato.
Numerose prelibatezze erano ammassate in vassoi e zuppiere, e il profumo risvegliò nel Rabbioso la fame che aveva dimenticato a causa della tensione. «Era ora!» disse Slin a bassa voce, accanto a lui. «Ero quasi sul punto di far tacere il borbottio della mia pancia leccando l'acciaio.» Si sedettero intorno al tavolo. I nani che li servivano si preoccuparono che né i piatti né i boccali fossero mai vuoti. Durante il pasto, Tungdil spiegò ancora una volta come intendeva agire. Balyndis si astenne dal replicare, limitandosi ad annuire di tanto in tanto. Boïndil aveva l'impressione che la nana continuasse a cercare di sondare i sentimenti nascosti di Tungdil. Sono curioso di sapere se anche lei faticherà a comprenderlo, come me. «Questo, per parte mia, è tutto», disse a un certo punto l'imperatore. «Dimmi della febbre che è scoppiata, regina Balyndis. Da quanto tempo tu e i Quinti lottate contro il morbo?» «Da circa centodieci cicli. È iniziata in modo strisciante, e dapprincipio non l'aveva notata nessuno dei nostri guaritori», spiegò la regina, bevendo alla loro salute da un boccale di birra scura. «Ma dopo un po' i casi si fecero più
frequenti, e noi ci ricordammo del flagello degli antichi Quinti. Abbiamo sgomberato gallerie e caverne e le abbiamo sigillate. Desideri vedere su una mappa quali zone sono state colpite?» «I focolai si manifestano in modo arbitrario o c'è uno schema?» Tungdil non aveva quasi toccato cibo e sembrava più pallido del solito. Lasciò che gli mostrassero la mappa, e la esaminò con cura. «Nessuno schema che noi riusciamo a cogliere», rispose Balyndis. «Dei volontari hanno perfino perquisito i posti in cui si sono verificati più morti, per controllare se fosse opera di qualche potere sinistro degli albi, ma non abbiamo trovato nessuna traccia. E i volontari della spedizione si sono ammalati dopo poche rotazioni e sono morti.» «Come?» chiese Tungdil. «Soffocando nel loro stesso sangue. Le vittime sudano e i polmoni si riempiono di sangue, finché non si riesce più a respirare.» Balyndis rabbrividì. «È una morte atroce, Tungdil.» L'imperatore scostò la mappa e vuotò il suo boccale. Il settimo, se il Rabbioso aveva contato bene. Un numero del genere, per un nano che
non aveva mangiato molto e che sembrava ancora sobrio/era una prestazione non da poco. Perfino eroica. «Le membra hanno cambiato colore? I polpastrelli delle dita, per esempio? E la punta della lingua?» Balyndis e suo figlio si scambiarono un breve sguardo. «Io non gli ho detto niente al riguardo», disse poi Balyndar. «Nessuno lo sapeva.» Tungdil gli rivolse un sorriso pericoloso. «Non c'era bisogno che me lo dicesse qualcuno. Ci sono arrivato da solo.» Chiese un altro boccale di birra. «Non è una maledizione. È un gas inodore.» Balyndar scosse la testa. «No, non lo è! Lo abbiamo escluso.» «I sistemi con cui si accerta la presenza delle comuni esalazioni delle montagne sono inutili per questo flagello, Balyndar. È il Kordrion. È responsabile in più sensi delle morti che affliggono i Monti Grigi», disse Tungdil, in tono saccente. «Non si limita a mangiare chi gli si oppone. I suoi escrementi causano la morte che mi avete descritto. Non appena entrano a contatto con l'acqua.» Prese in mano la mappa.
«Il Rabbioso mi aveva detto che il Kordrion si è insediato nella parte settentrionale dei Monti Grigi, nei pressi della Porta di Pietra. Questa è la spiegazione: l'acqua piovana fa scorrere gli escrementi giù per i pendii, nei fiumi, che attraverso piccoli canali fluiscono nelle zone in cui compare la presunta febbre.» «Perfino la sua merda provoca devastazioni?» sbottò Boïndil, incredulo. «Ah, questo sì che è un mostro subdolo! Per fortuna, stiamo per ucciderlo!» «Non saremo noi. Lo farà Lot-Ionan.» Tungdil si portò il boccale nuovamente pieno alla bocca e ne bevve un lungo sorso. «Penso che ci vorranno uno o due cicli prima che l'effetto degli escrementi decada e voi possiate nuovamente abitare quelle zone.» Capì che Balyndar non gli credeva. «Si tratta sostanzialmente di alchimia, Ditadiferro», gli spiegò. «Io sono cresciuto presso un mago, nel suo laboratorio. La composizione degli escrementi del Kordrion è unica ed è, per così dire, una sorta di acido secco. Non appena l'acqua entra in contatto con essi, le sostanze si mescolano e ne scaturisce un'esalazione mortale. Dall'altra parte della Forra Oscura, ho spesso usato questi escrementi
come estremo espediente cui ricorrere quando un assedio fallisce.» Bevette un altro sorso di birra. «Ai vostri malati posso dare poche speranze. I polmoni non guariscono più dalla corrosione. La Fucina Eterna per loro è assicurata.» «Ti credo», disse Balyndis, pallida, prima di spiegare con l'aiuto di altre cartine dove stesse il Kordrion e dove avesse costruito il suo nido. «Vraccas ha avuto pietà di noi ed è stato al nostro fianco. Finora siamo riusciti a distruggere tutte le sue uova prima che le covate fuoriuscissero dai gusci. I nostri esploratori riferiscono che il Kordrion si trova di nuovo nel nido. Ha imparato la lezione e ha preparato delle scorte; così, se saremo sfortunati, non sarà costretto a lasciare la covata per nutrirsi. Nei cicli passati abbiamo sempre sfruttato quell'occasione per colpire.» «Ci verrà sicuramente in mente un diversivo adatto», disse Boïndil, fiducioso. «E dunque, Sapientone: andiamo al nido, arraffiamo le uova e corriamo attraverso i Monti Grigi fino a raggiungere il Gauragar?» «No. Dobbiamo passare per le strade di superficie, in modo che possa seguire le nostre
tracce. Ho già pensato a un sentiero che potremmo prendere.» Balyndar spalancò gli occhi. «In inverno? Sei impazzito?» Dopo una pausa, aggiunse: «Imperatore». Senza esitare, Tungdil elencò le vette che avrebbero valicato, nominò luoghi di sosta e itinerari. «Continua a sembrarti follia o piuttosto una camminata faticosa ma risolutiva?» chiese, in tono tagliante. Balyndis gli fece un cenno col capo. «Sono sbalordita da quanto ancora sai della mia patria, mentre allo stesso tempo non riesci a ricordarti di altre cose», disse, senza riuscire a trattenersi. «Ho come l'impressione che la tua mente si sia spostata interamente sul versante dell'erudizione, lasciando fuori ogni sentimento. È così, imperatore?» «È possibile, regina Balyndis. Tuttavia ciò aiuta noi e la Terra Nascosta. Di questo non mi lamenterò.» «Nemmeno io», annunciò Boïndil, che continuava a essere stupito dell'abbondanza di dettagli della strategia dell'amico. Durante il viaggio, non lo aveva visto trafficare nemmeno una volta con una mappa. «Propongo di partire il
più in fretta possibile, prima che le bestiole escano dal guscio.» «Domani. Non appena sorgerà il sole», disse Tungdil, alzandosi. «Desidererei riposarmi. Regina Balyndis, sii così gentile da farmi condurre al mio alloggio. E domani vorrei avere pony riposati e provviste per il mio gruppo. Provvedi, per favore.» La regina fece cenno a uno dei nani che li aveva serviti di accompagnare l'imperatore. Tungdil uscì dalla sala del trono senza nemmeno salutare. Anche Slin e i Quarti si ritirarono, lasciando il Rabbioso solo con Balyndis e Balyndar. Continuarono a mangiare in silenzio, evitando, nonostante tutte le discussioni sulla Forra Oscura e sulle minacce che gravavano sulla Terra Nascosta, di parlare di Tungdil. Poi la regina pregò Balyndar di lasciare la stanza, in modo da poter parlare a quattr'occhi col vecchio amico. Boïndil presagì cosa stava per succedere e bevve rapidamente un sorso di birra. Poiché gli pesava dover continuare a difendere sempre il Sapientone davanti agli altri, iniziò lui la conversazione. «Può essere che m'inganni,
Balyndis, ma c'è una somiglianza fra tuo figlio e Tungdil?» Era del tutto consapevole che la sua era una domanda sfacciata, arrogante e offensiva. In fin dei conti, stava asserendo che la nana avesse attribuito a suo marito, Glaïmbar Lamatagliente, del clan degli Schiacciaferro, un figlio che non era suo. Balyndis non si scompose a quelle parole, sembrava anzi quasi sollevata dal fatto che l'amico ne avesse parlato. «È molto evidente, vero?» replicò a bassa voce. «È stato un errore mandare Balyndar all'incontro nei Monti Grigi. Tutti i capiclan hanno visto lui e il suo padre naturale l'uno accanto all'altro, e hanno potuto di certo capire qual è la verità.» «E questo potrebbe avere conseguenze sul tuo governo?» Balyndis fece segno di no. «Nessuno mi contende il trono, da quando Geroïn Fasciadipiombo è morto di febbre. Era il fratello di Syndalis Fasciadipiombo, la seconda moglie del re, che è stata ripudiata a causa mia; Geroïn e qualcuno del suo clan non me lo hanno mai perdonato. Io governo bene e, quando il Kordrion sarà stato scacciato, la stirpe dei Quinti rifiorirà.» Balyndis dovette tossire e deglutire.
«Avevo dimenticato che pure tu sei malata!» Boïndil la guardò, sgomento. «Andrà meglio. Adesso sappiamo che cosa scatena la febbre e il dolore ai polmoni.» «Abbiamo la causa, ma non il rimedio.» Il Rabbioso pensò alla spiegazione di Tungdil, che aveva parlato di morte certa per chi avesse contratto la malattia. «Ma troveremo di sicuro qualcosa che contrasti la malattia», si affrettò a dire. Il dolore si diffuse dentro di lui. Controllati. Ancora non è morta. La regina sospirò. «Glaïmbar lo sapeva.» «Cosa? Che Balyndar non era suo figlio?» «Sì. Non me lo ha mai detto, ma i suoi sguardi lo tradivano. La sua grandezza stava nel fatto di non averlo mai esternato e di non aver mai disconosciuto Balyndar. Per questo l'ho amato, di tutto cuore.» Balyndis sorrise. «Balyndar mi succederà sul trono dei Quinti, Rabbioso. Anche Glaïmbar l'ha voluto, perché sapeva che sarebbe diventato un sovrano eccezionale.» «Tuttavia non riesce ad accettare il padre naturale.» Boïndil si tolse dalla barba qualche briciola. «Intuisce chi ha davanti a sé? Voglio
dire, non è cieco e dovrebbe aver notato la somiglianza.» «Questo può essere il motivo della sua repulsa: non vuole essere il figlio di Tungdil Manodoro, che per lui è un estraneo. Ammirava Glaïmbar. Da lui ha imparato a combattere, da me a forgiare. Tungdil non se la cavava sempre bene nei miei racconti, se capisci cosa intendo dire. Dopo che mi ha lasciato con una lettera, per molto tempo ho provato rabbia e delusione nei suoi confronti. Il tempo ha addolcito i miei sentimenti.» La regina chiuse gli occhi. «Eppure, vedendolo davanti a me, Rabbioso, i vecchi sentimenti spiccano il volo.» «Sei dunque sicura che si tratti davvero di Tungdil?» Boïndil si morse la lingua per il dubbio che aveva appena manifestato. Balyndis sorrise, in modo franco. «Non farti indurre in errore dalla tetra scorza.» La nana si posò una mano sul petto. «Il mio cuore lo ha subito riconosciuto. E non si è mai ingannato.» «Al mio è capitato lo stesso», replicò il Rabbioso, alzando il calice.
XI Terra Nascosta, ex regno del Weyurn, 6491 °/6492° ciclo solare, inverno Seenstolz era facile da difendere contro navi nemiche, perché si ergeva sulle acque e i suoi soldati non avevano bisogno di nessun dispositivo per scagliare rocce; per affondare gli aggressori bastava far rotolare le pietre oltre il bordo. Il pozzo che circondava la fonte della magia era presidiato da altri soldati; le cabine che collegavano l'isola e la fortificazione facevano avanti e indietro. Dall'alto dei merli della torre di avvistamento, Mallenia e Rodano osservavano i preparativi che erano stati disposti dalla regina Wey e dalla principessa Coïra per l'arrivo del drago o dei Lohasbrander. «Quello che vedete non è l'arma più potente contro il drago», disse Rodario. «La regina e sua figlia...» Mallenia guardò nel cortile interno del palazzo, che si trovava trenta passi sotto di loro: da quella distanza, le
persone sembravano estremamente piccole. «Tutte e due hanno raggiunto il loro massimo livello di forza?» «Mi hanno riferito che la regina ha appena fatto un bagno nella sorgente della magia. E non chiedetemi come abbia fatto a conservare un poco del suo potere fino alla rotazione in cui si è liberata; questo è probabilmente il motivo per cui è considerata più forte di Lot-Ionan. Lohasbrand valuterà bene se sia il caso di attaccare oppure no.» Rodario si mise davanti alla donna, per poterla guardare negli occhi. «Non è detto che attaccherà. Penso che prima inghiottirà l'esca delle spie albiche nel suo dominio. I draghi soffrono di manie di persecuzione e sono profondamente diffidenti per quanto riguarda i loro tesori: temono sempre che qualcuno glieli voglia sottrarre.» «Non siete solo un attore, ma anche un esperto di draghi?» Mallenia sorrise divertita e afferrò il pizzetto dell'attore. «Un uomo eclettico, Rodario Settimo. Se soltanto aveste dei muscoli e sapeste combattere, sareste un vero uomo.» Lui fece una smorfia e mise il sottile pizzetto al riparo dalle dita della donna. Ma gli piaceva
quando Mallenia lo punzecchiava. «Considero un segno di segreto affetto che mi offendiate per cercare di provocarmi e vedere com'è il mio carattere.» «Dunque è così che la vedete?» La donna scoppiò a ridere. «Voi siete un tenero sognatore. Il mio affetto sta nel fatto che, in caso di bisogno, sarei disposta a proteggervi come si protegge un bambino piccolo. Siete così indifeso, così teneramente impacciato...» Fulmineo, Rodario estrasse una delle spade corte della donna. «Siatene fiera, Mallenia: siete riuscita a provocarmi», annunciò, minaccioso. «In guardia!» La donna estrasse la seconda spada e accettò la piccola farsa. «E allora attaccatemi, Rodario! Mostrate a una debole donna come comportarsi e quale debba essere il suo posto!» Le guizzavano i muscoli delle braccia e del petto; sembravano più forti di quelli dell'attore. Rodario accennò un colpo prevedibile contro la testa di Mallenia, e lei istintivamente gli afferrò il polso e gli diede un bacio sulla fronte. «Questo tentativo era davvero dolce», disse, tirandolo verso di sé e poi spingendolo via. «Provateci ancora, piccolo imbranato.»
L'attore saltellò verso di lei e inciampò col piede sinistro nel mantello. Barcollò oltre Mallenia, dritto verso i merli. Rapida, la donna allungò la mano verso di lui per salvarlo dalla caduta, e le dita afferrarono il vuoto. Si prese invece un bacio sulla bocca. Le labbra di Rodario erano morbide e piacevoli, sapevano leggermente del tè aromatizzato che aveva bevuto poco prima per combattere il freddo. Poi l'attore ritrasse la testa, lasciandola paonazza. «Colpita!» esclamò, euforico, alzando l'arma in alto. «Eccovi sbalordita, valorosa guerriera, e sconfitta, a quanto vedo: il bacio è più forte della spada!» Mallenia deglutì. Era confusa; continuava ad avvertire quel contatto che non aveva autorizzato, e non sapeva cosa fare. Era stato un atto così sfrontato da richiedere una punizione. Rodario notò che la donna era incerta. «Oh, io... io non volevo mettervi in imbarazzo», disse, turbato. «Voleva essere solo un gioco, e poiché voi mi avete baciato sulla fronte...» Finì col balbettare e tacque.
«Un gioco», concordò Mallenia, sporgendo la mano perché lui le ridesse la spada. «Dimentichiamocene. Voi avete vinto, e non avrete una seconda occasione.» L'attore si schiarì la voce. «Perdonatemi, mi sono lasciato prendere la mano. Mi scuso in tutti i modi. Non avrei mai dovuto farlo.» S'inchinò davanti alla guerriera. «Colpitemi, se volete.» «In modo che possiate schivare e baciarmi un'altra volta? No, molte grazie, Rodario Settimo», rifiutò la donna, rinfoderando le armi. «Lasciamo stare.» Anche se cercava di volgere in scherzo l'accaduto, Mallenia non era riuscita ad accantonare la sua insicurezza. Odiava sentirsi in quel modo. Raggiunse di nuovo il bordo della piattaforma della torre e guardò dritto davanti a sé, per ammirare la bellezza del lago, ma i suoi pensieri erano troppo agitati. È stato solo un bacio sfuggente, si rimproverò. Il bacio di un bambino. Perché sono così turbata? «Rodario? Mallenia? Siete là sopra?» risuonò la voce di Coïra, su per le scale. «Sì, principessa. Ci godiamo la vista e, nel frattempo, controlliamo che non si avvicinino nemici del Weyurn», rispose l'attore, in modo
esageratamente serio. «Che cosa possiamo fare per voi?» «Venire giù. Ci sono novità che interesseranno Mallenia.» In tutta fretta i due scesero i gradini e si unirono a Coïra, che li aspettava a metà strada. «Mia madre ha ricevuto notizie da un villaggio nei pressi di Seenstolz», disse la principessa, dopo un breve saluto. Poi puntò lo sguardo sulla benda che Mallenia portava al braccio. «Ricordatemi di togliercela domani. La ferita dovrebbe essere ormai sufficientemente migliorata perché l'aria e il sole accelerino la guarigione.» «Sono notizie buone o notizie cattive?» chiese Rodario. «Non lo so. Mia madre ha fatto chiamare anche me. Lo sapremo tra poco.» Attraversarono velocemente il palazzo, passando per alti corridoi e stanze inondate di luce, fino a raggiungere la sala in cui Rodario aveva visto Wey XI per la prima volta. La finestra era stata aggiustata e la vista sulle onde luccicanti alla luce del sole, sulle barche da pesca con le vele variopinte e sugli uccelli che
volteggiavano davanti a un orizzonte che pareva infinito non aveva perso nulla del suo fascino. La regina Wey sedeva dietro la sua scrivania. Era estremamente elegante nell'abito color turchese, e sembrava più in salute e riposata. In compenso le si leggeva in volto la preoccupazione. «Sedetevi», pregò gli ospiti. «Ci sono cose che debbo riferirvi.» «È successo qualcosa nell'Idoslân, altezza?» chiese subito Mallenia, prendendo posto. «No. Riguarda un luogo qui nei dintorni, il villaggio di Seelingen. Un pescatore mi ha riferito di due albi che si aggirano in quei paraggi», disse la regina. «A stupirmi è il fatto che solo lui li abbia visti, e nessun altro.» Picchiettò con l'indice sul piano del tavolo. «Penso che il villaggio taccia per paura. Di certo gli albi si nascondono lì e attendono in agguato un'occasione favorevole.» Guardò Mallenia. «Per introdursi a Seenstolz e uccidere voi.» «Allora lasciate che io vada a controllare, madre», la pregò Coïra. «Non possono farmi nulla.» «Contro una freccia tirata in un agguato, non puoi fare molto nemmeno tu», replicò Wey. «Sulla spiaggia li hai colti di sorpresa, ma
adesso sanno con che tipo di avversario hanno a che fare. Eviteranno di mostrarsi apertamente alla luce del sole.» La regina guardò Mallenia. «La mia proposta è dare loro un'opportunità d'introdursi nella fortezza. Un'opportunità controllata da noi.» «Altri l'avrebbero chiamata trappola», intervenne Rodario, divertito. «Altezza, questa è un'idea incredibilmente buona!» «Oh, vi ringrazio per il vostro sostegno», disse Wey, sorridendo. «Il pescatore che mi ha rivelato la presenza degli albi andrà al villaggio e racconterà qualcosa non corrispondente a verità; e queste notizie attireranno gli albi. Dirà che le nostre guardie soffrono di dissenteria e che faticano anche solo a muoversi.» «In quanti sanno che vi siete liberata dalle catene, altezza?» domandò Mallenia. «Di certo gli albi non si faranno vedere se sapranno che, per uccidermi, devono confrontarsi con due maghe.» «Nessuno lo sa, a parte la mia gente più fidata.» «E che cose dice il drago di quanto è accaduto?» chiese Rodarlo. «Ha annunciato che
verrà? Ho visto parecchio movimento sugli spalti del pozzo.» Wey lo fissò. «Sapete, Rodario Settimo, a volte - ma solo a volte - mi sembrate molto strano.» Catturò il suo sguardo. «Ho l'impressione che in voi ci sia un attore che recita molti ruoli, così tanti da non sapere più dove si nasconde il vero Rodario.» L'uomo arrossì. «Non comprendo.» «Vi ho osservato. A volte siete audace, a quanto mi riferisce mia figlia, poi siete maldestro, poi lesto come una donnola; a volte eloquente, a volte impacciato come un balbuziente, a volte conoscete le buone maniere, altre no. Come ora, avendo interrotto una regina», disse Wey, massaggiandosi la tempia con l'indice destro, come se avesse mal di testa. «Non vedo in voi neppure la minima traccia di magia che mi possa spiegare questi cambiamenti. Quindi il vostro spirito è forse un po' confuso? È possibile?» Mallenia pensò a quanto era appena accaduto vicino ai merli e dovette concordare con la regina. «Vi chiedo scusa, altezza», disse Rodario, compunto, e s'inchinò profondamente davanti
alla sovrana. «Naturalmente avete ragione: devo attendere.» «Per tornare alla vostra domanda, Rodario l'Impaziente, devo annunciarvi che il drago mi deve ancora una risposta.» La voce della donna era un poco addolcita. «Tuttavia sono certa che la notizia, insieme col cadavere del destriero della notte e con le salme dei suoi seguaci, deve averlo convinto.» La regina guardò Mallenia. «Ma i vostri interessi hanno la priorità. Non mi piace affatto che gli albi siano qui nei dintorni. Il pescatore tornerà oggi a Seelingen e metterà in giro le voci. Poi dovremo aspettare e comportarci tutti come se fossimo malati di dissenteria. Le mie guardie sono state informate, e Coïra vi spiegherà il piano. Quanto a me, mi attende ancora del lavoro.» Wey guardò verso la porta. I tre non avevano bisogno di indicazioni più esplicite, quindi lasciarono la sala. La principessa li condusse nelle sue stanze, dove continuarono a discutere davanti a tè e dolci. «È semplice. Gli albi prenderanno una delle nostre sentinelle e la interrogheranno per sapere di voi, Mallenia», disse Coïra. «È previsto che voi aspettiate nella vostra stanza con me.
Gli albi entreranno e io mostrerò loro che avrebbero fatto meglio a lasciare il Weyrun.» «Sembrate molto fiduciosa.» Rodario teneva in mano una tazza e un grosso pezzo di torta. «Come ha già detto vostra madre: non pensate che mettano in conto d'imbattersi in voi?» Coïra rise. «E cosa possono fare contro una sfera di pura magia?» «Schivarla?» replicò lui, guadagnandosi una risata da parte di Mallenia. In compagnia delle due donne si sentiva estremamente bene. «Gli albi sono veloci come fulmini e più agili dei gatti. Non ci avete pensato?» La principessa fece un suono che dimostrava la sua disapprovazione. «Voi mugugnate davvero troppo. È un piano semplice, e quindi valido.» Rodario diede un morso al suo dolce e lo masticò in modo esagerato. «E come funziona il piano di emergenza?» sussurrò. «Che cosa accadrebbe se Fratellino e Sorellina riuscissero a superarvi? Chi salverà voi, se qualcosa dovesse andare storto?» chiese, indicando Coïra con la fetta di torta morsicata.
«Voi», lo punzecchiò Mallenia. «O, se non altro, sembrava proprio che vi voleste candidare per farlo.» «Se i miei baci avessero sugli albi un effetto paralizzante simile a quello avuto su di voi, perché no?» ribatté Rodario. «Tuttavia sarei responsabile solo per la sorellina. Vi occuperete voi dell'albo?» Sorseggiando rumorosamente, bevve un po' del suo tè. Coïra guardò prima lui, poi Mallenia. Da quanto era rossa la faccia di quest'ultima, capì che Rodario non aveva mentito. «Potete certo provarci, se si arrivasse a quel punto», disse in tono frivolo, senza approfondire la questione. «Troverei molto utile se, potendo, non uccidessimo gli albi», disse Mallenia. «Li interrogherei volentieri.» Coïra annuì. «Questo dovrebbe essere possibile. Posso chiedervi perché?» «Mentre pensavano che fossi priva di sensi, ho origliato una loro conversazione, e non sono sicura di aver compreso bene. È importante per la Terra Nascosta.» Mallenia lesse la curiosità sui volti degli altri due. «Ne parlerò soltanto dopo aver capito meglio», sottolineò. «Non voglio creare inutili scompigli.»
«Questo sì che è uno stimolo ad acciuffare vivi gli Occhineri!» esclamò Rodario, infilandosi il resto del dolce in bocca, tutto intero. La luna piena era alta sulla Terra Nascosta, e quindi anche su Seenstolz. Era una notte senza nubi; il lago scintillava argenteo e faceva sembrare nere ombre una manciata di barche condotte fuori del porto per pescare granchi e anguille. Le barche tenevano una rotta che passava vicino all'isola e al pozzo. Così, una di esse giunse pericolosamente vicina alla colonna di roccia su cui poggiava l'isola; stava quasi per naufragarvi contro. Il timoniere virò bruscamente e l'imbarcazione si salvò all'ultimo momento. A prima vista non era stato nulla d'inconsueto. Le correnti intorno all'isola potevano essere insidiose e mettere in difficoltà anche il pescatore più esperto. Per Rodario, che aveva osservato l'accaduto dal suo nascondiglio, era la prova che gli albi avevano appena messo piede sull'isola. Non riuscì a scorgerli, ma la cosa non lo stupì. «Adesso ci siamo», mormorò, uscendo dal suo
cesto di vedetta, fatto di filo di ferro intrecciato, e tornando sulla superficie attraverso una stretta scaletta. Corse lungo il sentiero tra le rocce e raggiunse l'entrata del palazzo. Se Mallenia e Coïra non volevano pensare a un piano di emergenza e desideravano affidarsi ciecamente alla magia, Rodario si sentiva in dovere di fornirne uno. La prospettiva più piacevole sarebbe stata salvare la vita a entrambe le donne. Le imprese eroiche erano sempre un buon sistema per conquistare i cuori, o almeno per addolcirli. Le guardie lasciarono passare l'attore, che corse rapido e silenzioso attraverso il palazzo immerso nell'oscurità. Nessuno sapeva che intendeva fornire un piano di emergenza. Mallenia e Coïra si trovavano nella stessa stanza, la regina Wey in quella di fronte, per poter accorrere subito in aiuto della figlia. Rodario doveva ammettere che era impossibile superare entrambe le maghe. Perfino gli dei dello Dsôn, qualunque cosa significasse l'espressione, erano destinati a soccombere. Se Mallenia era riuscita col dardo di una vile balestra a uccidere uno dei tre
gemelli, che cosa avrebbero fatto le maghe ai due Occhineri? Ma forse Tion, proprio quella notte, sarebbe stato al fianco delle sue creature... e allora l'ingresso in scena dell'attore sarebbe potuto essere decisivo! Rodario aveva raggiunto la nicchia coperta da una tenda in cui aveva nascosto i congegni da lui stesso costruiti. Fissò agli avambracci i piccoli soffietti pieni di semi di erba strega. In punta c'era una pietra focaia che, azionando il dispositivo, produceva scintille e faceva così avvampare i semi in uscita. Erano palle di fuoco del tutto prive di magia. Ne aveva acquistato il progetto di costruzione a caro prezzo, al mercato di Mifurdania; in teoria sarebbe dovuto essere un originale del leggendario magister technicus Furdas, ma Rodario non ne era convinto. Né gli importava, a patto che funzionasse. E i dispositivi avevano superato due prove senza il minimo intoppo. «Staremo a vedere se oggi avremo bisogno di voi.» Tirò le maniche sui congegni, in modo che non si vedesse nulla, e si girò. Davanti a lui c'era Sisaroth, che lo guardava sorridendo freddamente.
L'attore non aveva sentito i suoi passi, né un respiro che ne tradisse la presenza. «Oh, dei!» riuscì a dire mentre l'albo compiva un rapido movimento delle braccia. Qualcosa di duro colpì l'uomo alla testa, poi un lampo caldo gli attraversò la gola. In silenzio, Rodario si accasciò sul pavimento di pietra, mentre l'albo lo oltrepassava dirigendosi verso la camera della Ido. Mallenia era coricata sotto le coperte, armata e in armatura completa, e teneva lo sguardo lontano dalla porta; un piccolo specchio sul comodino le mostrava cosa succedeva sulla soglia. Pigiata contro l'armadio e invisibile per una persona che entrasse in quel momento, Coïra, immobile, stava concentrando tutti i suoi pensieri sulla magia. Per impedire che gli albi uccidessero Mallenia, doveva essere in condizione di pronunciare immediatamente un incantesimo. Le due donne tacevano, ascoltando con le orecchie tese tutti i rumori che provenivano dall'esterno della stanza e dalle due finestre. A ogni passo che sentivano davanti alla porta,
trattenevano involontariamente il fiato. Ma ancora non c'era traccia dei due gemelli. «Perché lo sappiate: non mi sono lasciata baciare dall'attore», sussurrò improvvisamente Mallenia. «Mi ha rubato un bacio.» Coïra dovette sogghignare. «Mi sarei stupita se le cose fossero andate altrimenti», replicò a voce altrettanto bassa. «Mi ha colto di sorpresa», proseguì Mallenia. «La prossima volta, lo stendo.» La curiosità di Coïra riguardo alla questione si era risvegliata, nonostante le circostanze. «Mi stupisce che ci sia riuscito. Che cos'è successo? Eravate distratta da qualcosa?» «Mi ha fatto cadere in un tranello», ammise Mallenia. «Quel debole uomo è riuscito a ingannarmi!» Un leggero cigolio le indusse a tacere: la maniglia della porta, nel cui meccanismo avevano messo sabbia e sale, si stava lentamente abbassando. Sotto la fessura della porta non si vedeva nessuna luce, quindi non si trattava di uno dei servitori che voleva controllare se tutto fosse in ordine: avevano ricevuto la rigida direttiva di portare sempre una lanterna.
La maniglia si fermò, poi tornò lentamente nella sua posizione di partenza. «Che facciamo?» chiese Coïra sottovoce. «Aspettiamo», sussurrò Mallenia. Secondo lei, era possibile che dall'altra parte ci fosse Rodario. Che si volesse scusare? Che volesse infastidirle? Sospirò piano. Quell'uomo le faceva perdere il senno; come se sapesse che lei aveva un debole per gli uomini indifesi e impacciati. Il tempo scorreva in modo dolorosamente lento, ma il silenzio persisteva. Chiunque avesse pensato di entrare nella stanza, aveva cambiato idea. Improvvisamente si sentì un grido. «Viene dalla stanza di mia madre!» Coïra uscì dalla nicchia, corse alla porta e la aprì. Davanti a lei trovò Sisaroth, in attesa, con la spada a due mani levata per colpire. La maga non ci pensò un attimo e scagliò contro l'albo una sfera di energia distruttiva, ma lui la evitò, come Rodario aveva malauguratamente predetto. La sfera magica sfrecciò attraverso il corridoio e raggiunse la porta della stanza di fronte, che proprio in quel momento si spalancò: sulla soglia c'era la regina Wey.
Coïra riuscì a scorgere la paura sul volto della madre. Piena di terrore, dovette vedere le labbra della regina muoversi per formulare un controincantesimo nel tempo di un battito di ciglia. Wey levò il braccio, a difesa, ma Coïra non sentì altro che impotenza. E paura per la vita della madre. Terra Nascosta, nord dei Monti Grigi,regno dei Quinti, 6491°/6492° ciclo solare, tardo inverno «Ci troviamo nel territorio in cui il Kordrion ha soggiornato negli ultimi cicli.» Balyndar continuava a guardare i ripidi pendii sovrastanti, cercando una traccia che tradisse la presenza del mostro. «Può darsi che stia volando sopra la regione in cerca di preda. Se dovesse comparire il mostro, schiacciatevi il più possibile contro le rocce, in modo che non vi veda.» Il gruppo di nani s'inoltrò lungo la stretta gola, in cui riuscivano a passare solo due per volta. Le pareti rocciose grigio scuro erano ruvide come una mola, e il Rabbioso approfittò dell'occasione per affilare lo spuntone dell'azza, mentre gli altri facevano scrupolosamente attenzione a non urtare contro la pietra.
Oltre a Balyndar, Tungdil, Slin e Boïndil, c'erano tre nani dei Quinti scelti personalmente da Balyndis, tutti guerrieri eccezionali, come ci si poteva augurare per una missione del genere; trainavano l'equipaggiamento su slitte che più tardi sarebbero state usate per trasportare la covata del mostro. Tungdil si fermò in mezzo al passaggio e drizzò la testa; fiutava l'aria gelida e purissima. «Le uova si trovano sul versante meridionale della Lingua di Drago», spiegò Balyndar. «Cova sempre sul versante meridionale e il buco che scava orizzontalmente nella roccia è riconoscibile già da lontano. Quando avremo lasciato questa gola, ci vorrà ancora una mezza giornata per arrivarci sotto. Per l'ascesa avremo bisogno di un'altra mezza giornata.» «Che fai, Sapientone?» domandò Boïndil. «Annuso», fu la laconica risposta. «Ci dobbiamo sbrigare.» Tungdil si lanciò in una corsa leggera, puntando verso l'uscita della stretta gola. Il Rabbioso scrollò le spalle. «Non ho niente contro le corsette, ma mi piacerebbe sapere perché le faccio.»
«Le uova sono già molto mature», gridò Tungdil. Il Rabbioso raggiunse l'amico e annusò in modo intenzionalmente forte. «Io non sento niente.» «Perché non sai a che cosa prestare attenzione. Non hai notato l'odore di muschio?» «Per Vraccas! Non ci avevo pensato, e invece avrei dovuto notare che intorno a noi tutta la vegetazione è seppellita da uno spesso strato di neve e che tutto ciò che contiene acqua è congelato. Anche il muschio dovrebbe esserlo.» «Vedi: quando ti si dà un piccolo suggerimento, arrivi da solo alla soluzione.» Tungdil uscì dalla gola e si ritrovò alla piena luce del sole. Il calore generava cortine di foschia. «Eccellente copertura per la nostra ascesa!» si compiacque, facendo segno al gruppo di muoversi in fretta. «Questa notte potremmo essere sopra.» «Non credo. È troppo stancante», lo contraddisse Balyndar. «Il tragitto che ci attende è noto per le nevi alte. E poi dovremmo preservare le forze. Abbiamo davanti una fuga faticosa, col Kordrion alle costole.»
Tungdil non aveva limitato la velocità, e la distanza tra lui e i suoi accompagnatori aumentava. Il Rabbioso suppose che quello fosse il suo modo di mostrare che non intendeva discutere gli ordini. In questa missione se ne vedranno di sicuro delle belle. «Ci farà uccidere tutti!» Balyndar imprecò, mettendosi a correre. «Ah, questo lo abbiamo pensato spesso anche in passato, ma il Sapientone ha sempre trovato una via d'uscita», cercò di tranquillizzarlo Boïndil. «E poi lui è l'imperatore. Può farlo.» Sogghignò, rendendo manifesto che stava scherzando. «Magnifico!» mormorò Slin, ansimando sotto il peso della balestra. «Vraccas, fa' sì che io appartenga a quelli che tornano a casa. Tutto intero.» Mentre correva, bevve un sorso dalla sua borraccia. «Ma il Kordrion come passa il tempo? È un regno noioso e solitario, quello su cui domina.» «Non domina su un bel niente», gracchiò Balyndar, che si sentiva chiamato in causa. «Si è soltanto annidato come un parassita.» Indicò il sud, verso la Terra Nascosta. «Da quello che
abbiamo sentito, vola fino ai villaggi dei Lunghi. Dopo che ne ha attaccato e distrutto qualcuno, gli abitanti della regione gli portano offerte spontanee per placarlo. Il Kordrion attacca sia le regioni di quello che un tempo era il Gauragar sia le regioni dell'Urgon e del Tabaîn. Colpisce anche il drago Lohasbrand e gli albi coi loro vassalli umani, ma nessuno di loro osa attraversare le montagne e raggiungere il suo nido.» Slin alzò il naso. «Veri eroi, a quanto sembra.» «Per loro è più facile aspettare», disse Boïndil. «In realtà per questo dovrei essere ancora più in collera nei loro confronti ma, visto che la loro vigliaccheria adesso può rivelarsi utile per noi, mi è quasi sbollita la rabbia.» Il balestriere si guardò intorno, ma la bestia non si vedeva da nessuna parte. «Lohasbrand può essersi alleato col Kordrion?» «No», rispose Tungdil. «Un Kordrion mira al dominio solitario, come un drago, anche se con minore intelligenza. Le sue dimensioni gli portano poco vantaggio contro un drago, perché gli Squamosi sono più scaltri. Il Kordrion ha creato il suo regno e ci si sente a suo agio,
altrimenti non deporrebbe uova in continuazione. È felice di poter mangiare senza dover cacciare. Lohasbrand invece si comporta esattamente come un drago: vuole regnare a immagine di un re, con sudditi, tasse e cose del genere.» «Che bellezza! Davvero magnifico», commentò Slin. «Ma perché tutti i mostri devono venire proprio da noi per sistemarsi?» Il Rabbioso rise. «Guarderò con gioia la loro caduta e canterò una vecchia canzone che Bavragor, il vecchio beone, mi ha insegnato.» «Bavragor?» chiese Balyndar. «Il nome mi dice qualcosa.» «Uno di quelli che nei cicli passati mi hanno accompagnato e non sono tornati a casa», disse Tungdil, cupo. «Ti basta come risposta?» Il Quinto annuì, sorpreso. Tungdil spronava il gruppo coi suoi sguardi. Parlava pochissimo e, quando lo faceva, si trattava di brevi avvertimenti sulle cose cui dovevano prestare attenzione. Protetti dalle coltri di nebbia, i nani cominciarono a salire verso la caverna del Kordrion. E al calare della notte ce l'avevano
fatta davvero: davanti a loro si apriva nella roccia una cavità larga dieci passi, e l'odore di muschio fresco e umido era forte e penetrante. Il Rabbioso teneva l'azza nella destra, guardando l'ingresso. «Sei sicuro che la bestia non sia qui, Sapientone?» «In caso contrario, non avrei insistito tanto perché ci affrettassimo. Anche se forse Balyndar mi ritiene capace di farlo, non mi verrebbe mai in mente di gettare me stesso e voi in pasto a quella bestia.» Guardò in avanti, mentre sulla benda d'oro si rifletteva debolmente la luce delle stelle. «Ah, io ti ho visto combattere contro un Kordrion!» replicò Boïndil. «Se tu avessi continuato, lo avresti battuto!» Tungdil fece un profondo respiro. «Questo Kordrion è diverso, lo capisco dal modo in cui ha costruito la sua tana. Di solito si sbarazzano semplicemente delle uova lasciando i rampolli al loro destino. I nidi sono insoliti e rari da trovare. Per quanto riguarda la mia piccola vittoria, questo non posso coglierlo di sorpresa: non si fida di me, e vive già da troppo tempo in libertà. Ci sarebbe bisogno di una dozzina di guerrieri come me per vincerlo.»
«Una dozzina di Sapientoni? Questo spiega perché Balyndis non sia riuscita ad avere la meglio su di lui.» Il Rabbioso abbassò l'arma e aiutò gli altri a issare l'equipaggiamento. Slitte, corde aggiuntive, ganci e provviste erano appesi a funi assicurate alla parete rocciosa con rivetti, uno ogni due passi. «Non potevamo trovare un nemico migliore per Lot-Ionan», osservò Tungdil. Attese finché anche gli altri nani non ebbero issato il loro equipaggiamento e lo ebbero legato, poi disse: «Mangiate e dormite finché non vi sveglio. Potrete riposare di nuovo solo quando avremo ottenuto un certo vantaggio sul mostro. E un Kordrion infuriato vola molto velocemente». L'imperatore estrasse la Sanguinaria. «Io veglierà su di voi.» I nani si guardarono e raggiunsero le slitte per riposare un poco sopra di esse; coperti da calde pellicce e coi volti barbuti protetti da sciarpe, si sdraiarono. Si fidavano del loro imperatore. Il Rabbioso era indeciso. Certo, le gambe indolenzite gli pesavano più di dieci sacchi di piombo, ma non voleva delegare per intero quel compito all'amico, che aveva compiuto
l'estenuante arrampicata rinchiuso dentro la strana armatura. Gli occhi stanchi gli bruciavano, e sentiva la pancia brontolare. «Prima un po' di ristoro, per Vraccas, altrimenti le mie viscere tuoneranno più forte delle nubi in tempesta.» Raggiunse la slitta su cui erano caricate le provviste. «Poi ancora una pipatina digestiva, e il mondo già mi sembrerà un posto molto migliore», borbottò. Quando scostò il primo strato di pelle per raggiungere il pane, gli cadde lo sguardo su un gancio infilato sul bordo della roccia sopra cui si erano accampati. Lo stupì che sopra il metallo, visibilmente nuovo e privo di ruggine, ci fosse un sottile strato di neve. «E questo che può voler dire?» Boïndil si chinò in avanti e scostò la neve. Gli bastò un attimo per capire che non era uno dei loro ganci di sicurezza. «Qualcuno ci ha martellato sopra!» esclamò, affrettandosi a raggiungere Tungdil per raccontargli la sua scoperta. L'imperatore non volle controllare di persona il pezzetto di metallo. Girò invece sui tacchi e si precipitò nell'ingresso del nido. Il Rabbioso lo seguì.
L'odore di muschio si faceva più forte, si addensava diventando tanto pesante che respirare diventava per loro difficile. Boïndil accese una torcia, in modo da poter vedere nei dettagli ciò che li circondava. Quello che vide destò in lui grande preoccupazione. Le uova del Kordrion erano state dei pallidi bozzoli grandi come esseri umani... prima che qualcuno le avesse distrutte. Sudici liquidi striati coprivano il pavimento fino all'altezza delle caviglie; al centro della caverna giaceva la covata, fatta a pezzi. «Ecco che fine ha fatto il nostro bel piano...» Il Rabbioso si accovacciò per osservare i resti. Per la forma, i piccoli del Kordrion gli ricordavano un po' pesci di fiume, solo che possedevano più occhi ed erano molto più grandi. «Chi può essere stato?» «Dei pazzi o dei disperati, esattamente come noi.» Tungdil attraversò la stanza, smuovendo di tanto in tanto i resti. «Erano circa dieci individui, con armi molto affilate, per quanto posso giudicare dai tagli. Le suole mi dicono che sono nani.» «Se avesse già mandato una spedizione, Balyndis non ce lo avrebbe mai taciuto.» Boïndil
avanzava a passi pesanti in mezzo al lordume. «Nonostante l'aspetto ripugnante, l'odore continua a essere di muschio. Poteva essere peggio e chi, come me, nella vita si è trovato più volte coperto dalle puzzolenti interiora di un Muso di porco, sa cosa intendo.» Mentre camminava verso l'amico, si guardava a destra e a sinistra. Tungdil si girò verso di lui. «No!» gridò. «Che c'è?» «Troppo tardi. Ci sei già finito sopra.» «Oh, ma non è niente di grave.» Il Rabbioso fecce un cenno di noncuranza. «Odore di muschio. Forse mi aiuterà a impressionare Goda.» «E non solo lei. L'odore ti rimarrà attaccato ai vestiti, e al corpo. Il Kordrion ti riterrà responsabile della morte della sua prole», spiegò Tungdil. Boïndil lo fissava, attonito. «Solo me? E tu, Sapientone?» «Io non sono entrato in contatto col liquame, e poi l'odore non rimane attaccato al tionio. Posso lavarlo via con l'acqua», rispose Tungdil; intanto osservava con attenzione un punto del pavimento della caverna. «Qui c'era un altro
uovo. Gli sconosciuti se lo sono portato via.» Si fregò il naso. «Perché l'hanno fatto?» Boïndil scoppiò a ridere. «Magari per il nostro stesso motivo, eh?» «Dobbiamo trovarli e chiederglielo prima che combinino qualche stupidaggine.» Tungdil indicò l'uscita. «Sveglia i nostri e informali dell'accaduto. Io cerco tracce nei dintorni.» Tirò un calcio contro i resti di un piccolo di Kordrion. «Le uova pesano più o meno il doppio di un guerriero umano in armatura. Se i ladri non hanno preso il volo, e non lo penso, li troveremo e li affronteremo.» Insieme lasciarono la caverna, Tungdil andando verso destra, il Rabbioso verso sinistra. Boïndil svegliò il gruppo e riportò loro quanto avevano scoperto. Verso la fine della sua sintetica descrizione, ricomparve Tungdil. «Ho scoperto le loro tracce. Sono scesi dall'altro versante della montagna», li informò. «Li inseguiremo e prenderemo loro l'ultimo uovo. Possono cederlo spontaneamente, oppure li costringeremo a farlo. Questo uovo è la nostra unica possibilità. Il Kordrion ha bisogno di almeno tre cicli per deporre di nuovo.» Guardò i presenti. «Per noi è importante che nulla
danneggi il guscio, perché questo significherebbe la morte della prole. Il Kordrion lo capirebbe subito dall'odore e a quel punto non avrebbe più motivo d'inseguirci.» A meno che non voglia uccidere il presunto assassino della sua covata, pensò il Rabbioso. Slin storse la bocca. «Hai idea di chi ci abbia preceduti? È come se qualcuno avesse scoperto il nostro piano e avesse voluto metterne in pratica uno analogo. Ma chi c'è dietro, e che cos'ha in mente di fare con l'uovo?» «Nella caverna c'erano impronte di nani», disse il Rabbioso. «Figli del Fabbro?» Balyndar scosse la testa. «O forse erano umani molto piccoli? O gnomi e coboldi, che ci vogliono fare uno scherzo usando calzature rubate?» «Coboldi così coraggiosi?» Boïndil fece un gesto sprezzante. «Non si avvicinerebbero nemmeno a dieci miglia da un Kordrion.» «Scopriremo presto a chi dobbiamo tutta questa confusione.» Tungdil diede il segnale di partenza, e il gruppo raccolse rapidamente l'equipaggiamento. «Boïndil, da ora tu rimani vicino a me.»
«Non ho bisogno di una balia, grazie tante.» «Hai bisogno di essere protetto dal Kordrion. Anche se è più forte di me, posso resistere abbastanza a lungo contro di lui per proteggerti da un primo attacco e permetterti la fuga», replicò Tungdil. «Per questa impresa ho bisogno di te.» Serio e sinceramente preoccupato, l'occhio scuro si posò sul Rabbioso. «È la prima di molte. Ma ci devono riuscire tutte, per liberare la Terra Nascosta e per salvarla da ciò che nella Forra Oscura sta raccogliendo il suo esercito.» Il Rabbioso deglutì. Il coro di dubbi era scomparso; non una sola voce si alzò per cantare contro i profondi sentimenti della fiducia. Fece un cenno col capo e seguì l'amico dall'altra parte della tana, dov'era evidente sulla neve la larga scia di trascinamento. Conduceva direttamente al ripido pendio. Tungdil seguì la traccia con lo sguardo. «Dove va, secondo te?» «Non vedo tracce di pattini. Quindi hanno usato gli scudi per scendere rapidamente dal pendio.» Boïndil alzò le sopracciglia. «È una follia! Non si sono calati, si sono semplicemente buttati giù per il declivio!» Pensò al Terzo che aveva visto sfrecciare via sul suo scudo, nella
Terra Nascosta. Che dietro questa storia si nascondano i Gonnaioli? Tungdil guardò i nani che si erano rinserrati intorno a lui. Volti barbuti, su cui cristalli di ghiaccio scintillavano sotto il naso e intorno alla bocca, e occhi scintillanti per la voglia di compiere grandi imprese. «Pensate di essere abbastanza valorosi da imitare i ladri e seguirli con lo stesso sistema?» chiese. Ancora una volta mostrò loro che le sue non erano davvero domande, ma ordini. Prese una slitta, la appoggiò sul bordo e con un salto energico vi si gettò sopra. La slitta si fiondò verso la valle. «Ma quanti sopravvivono alle sue imprese?» farfugliò Slin. Poi fissò meglio la fascia di cuoio della balestra e spinse la sua slitta. Boïndil lo precedette e osò quella selvaggia cavalcata per secondo, gridando: «Vraccas!» Dopo pochi passi, coi quali acquisì velocità sempre crescente, mentre il freddissimo vento impetuoso gli strappava lacrime dagli occhi e ogni singolo osso veniva scosso, lo capì al di là di ogni dubbio: viaggiare sui vagoncini, nei
tunnel dei nani, era sciocchezza da gnomi.
al
confronto
una
XII Terra Nascosta, nord dei Monti Grigi, regno dei Quinti, °/6492° ciclo solare, tardo inverno Tungdil era perplesso. La traccia di chi aveva rubato la covata del Kordrion finiva proprio davanti alle punte dei suoi stivali. Le orme scomparivano improvvisamente accanto a un precipizio verticale. «Devono essere scesi lungo la parete, in arrampicata.» Si chinò oltre il bordo e guardò giù nel precipizio. Non se ne vedeva il fondo. «È profondo almeno trecento passi. Ci vuole un bel coraggio...» «Oppure sanno anche volare», disse Balyndar, guardando verso l'alto. «Non vedo nulla neanche sui pendii sopra di noi.» Boïndil scavò nella neve fino a trovare la dura roccia. «E qui non c'è nessun passaggio segreto. Lo sentirei.» Notò gli sguardi che gli altri due nani gli rivolgevano. «Ma che avete? Volevo solo andare sul sicuro.» Tungdil fece qualche passo di lato, in direzione del punto della pianura privo di tracce.
«Non hai pensato una cosa tanto sbagliata.» Si chinò e passò la mano sul sottile strato superiore di neve. Sotto, comparvero delle nitide tracce di slitta, che si erano impresse con maggior profondità nei cristalli di neve più vecchi. Annuì in segno di approvazione. «Sono furbi. Hanno caricato neve su una delle slitte e l'hanno sparsa per coprire le tracce a mano a mano che avanzavano, per farci credere di essersi calati con la fune. In realtà sono scesi lungo la pianura.» Sogghignando, comandò di riprendere la marcia. «Meno male che qui ci sono anch'io», ridacchiò il Rabbioso. «Senza di me e la mia osservazione, vi sareste sicuramente calati nel burrone. Anch'io sono furbo.» Balyndar lo ignorò. «Si dirigono verso est.» Sul mantello gli si era formato un sottile strato di ghiaccio che, scricchiolando, seguiva i movimenti dell'indumento. «Se continueranno in quella direzione, arriveranno a un sentiero che li condurrà nei Monti Rossi. Come tutti i vecchi collegamenti, quel sentiero è stato tracciato nei cicli in cui i tunnel erano dimenticati. È molto tempo che le stirpi non si occupano di queste
vie, e di certo sono difficili da percorrere. Sarà piuttosto un'arrampicata.» A Boïndil venne in mente una nuova idea. «Se stanno portando l'uovo da Lohasbrand, allora... abbiamo forse a che fare con Musi di porco poco cresciuti? Il drago li ha fatti creare appositamente perché potessero combattere meglio in montagna e nelle nostre caverne. I Lunghi allevano cani di piccola taglia per sguinzagliarli nelle tane delle volpi, no? Perché non dovrebbe riuscire la stessa cosa anche coi mezz'orchi?» «Il drago? Che cosa se ne farebbe dell'uovo?» replicò Balyndar, scrutando la pianura. «Che ne so? Lo userebbe per sottomettere il Kordrion e assicurarsi la sua lealtà?» Il Quinto fece schioccare la lingua. Non diede altra risposta. «Attraversiamo la pianura, senza curarci di essere visti dai nostri nemici, o camminiamo stretti alla parete?» «Non abbiamo un solo istante da perdere. Attraverso la pianura», ordinò Tungdil, mettendosi a trottare. Il Rabbioso lo seguì subito. «Che ne dici della mia spiegazione, Sapientone?» lo incalzò,
curioso come un bambino. «A me sembra molto convìncente.» «È possibile, ma non probabile», rispose Tungdil. «Forse i Primi sono arrivati alla stessa idea e hanno mandato un gruppo.» «Mettere i mostri l'uno contro l'altro per liberarsi del drago e annientare il Kordrion, sicuramente indebolito dal combattimento?» Boïndil rifletté. «Potrebbe essere. Ma mi sembra molto strano che siano arrivati a questo proposito proprio adesso.» Più ci pensava, più rifiutava la proposta. «Non ha senso. Si sarebbero presentati a Balyndis e avrebbero chiesto il consenso per l'impresa, come si addice a persone che sono ospiti a casa di un amico.» Tungdil si fermò all'improvviso. «Tu, Balyndar e Slin, con me», ordinò. «Gli altri corrano dall'altra parte della pianura e aspettino il nostro segnale.» Chinato, si allontanò di corsa puntando verso un crepaccio che al Rabbioso e agli altri era sfuggito. «È incredibile il modo in cui nota le cose», disse Slin. «Io non l'avrei notato finché non ci fossimo finiti davanti.» «Vraccas ama il Sapientone.» Boïndil rise. «È sempre stato così, da quando ci conosciamo.»
La piccola squadra entrò cautamente nel crepaccio, in cui era buio; l'aria era fresca e per niente stantia. «Un cunicolo», mormorò il Rabbioso. «Di certo non l'hanno scoperto per caso. Chiunque abbia distrutto la covata e rubato l'uovo, sta seguendo un piano preparato da tempo.» Tungdil li guidò, e il cunicolo raggiunse una notevole pendenza, finché i nani non si trovarono davanti ad alcuni gradini rozzamente intagliati, che portavano ancora più in basso. Da sotto risuonarono voci attutite. «Li abbiamo raggiunti», sussurrò il Rabbioso, pregustando il combattimento. «Oh, ti prego, lasciami andare per primo, Sapientone! Li ammazzo tutti! In un cunicolo stretto non me ne sfuggirà neanche uno, e...» «Controllati!» sibilò Tungdil. «Permettiglielo», sussurrò Slin. «Per conto mio, può tranquillamente...» In quel momento, da fuori, risuonò il grido del Kordrion! Vento s'insinuò nel cunicolo, neve turbinò dentro, paralizzandoli in mezzo alla bufera. Boïndil rabbrividì e per qualche istante rimase immobile, prima di poter riprendere a
pensare. E pensò subito agli altri membri del gruppo, che si trovavano sulla pianura, davanti al mostro. «Che Vraccas li aiuti e faccia trovare loro un riparo!» pregò. «Abbiamo bisogno di ogni guerriero, se vogliamo liberare il nostro popolo.» Prese i tappi di cera e fece per infilarseli nelle orecchie per raggiungere i compagni e aiutarli, ma Tungdil stava già scendendo la scala. Non c'era tempo per prendere precauzioni od offrire aiuto. L'uovo aveva la precedenza. I gradini erano vecchi; di tanto in tanto pezzetti di pietra si staccavano sotto le loro suole. Slin perse l'equilibrio e venne tempestivamente sostenuto da Balyndar. «Non dovremmo tornare indietro e aiutare gli altri?» chiese il Quinto. «Moriranno...» «E noi con loro, se usciamo allo scoperto senza uovo», lo interruppe Tungdil. «E poi, per il Kordrion, il Rabbioso ha l'odore dell'assassino della sua prole. Non sarà utile a nessuno se cadremo in battaglia, tranne che ai nemici dei nani. I nostri guerrieri devono salvarsi da soli.» Alla fine raggiunsero il fondo, dove il corridoio si allargava. Tungdil e il Rabbioso si disposero in prima fila, Balyndar e Slin in seconda.
«Porta dritto a est», osservò Boïndil. «Di certo i nostri antenati l'hanno scavato perché sapevano che le strade di superficie non sono sempre percorribili.» Tungdil si fermò di colpo, e Slin gli urtò contro la schiena. Una forte risata scrosciò attraverso il corridoio. «Ecco che i migliori dei loro eroi ci stanno addosso, come se ne avessero ancora dozzine a casa a custodire le stanze del tesoro», disse una voce nell'oscurità. «Questa perdita colpirà molto il mondo dei nani. Che cosa faranno le cinque stirpi senza i loro eroi? Andranno volontariamente in esilio? Si uccideranno da sole?» Slin si chinò e accese rapidamente due torce, che trasse dallo zaino; una la tenne lui, l'altra la passò a Balyndar. «Esci dall'oscurità, e batterò te e la tua bocca larga sino a farvi diventare teneri e morbidi come burro caldo», gridò Boïndil, furente. «Sei un vigliacco?» «No. Sono qualcuno che apprezza l'oscurità e la considera un'alleata», rispose la voce. «Perché dovrei venire io alla luce? Vieni piuttosto tu da me!»
«Perché parli con la voce di una femmina?» gridò il Rabbioso. Cercava di provocare lo sconosciuto. «Un gugul ti ha strappato a morsi la virilità?» Un oltraggio del genere sarebbe bastato a indurre lui a combattere. «Perché ci seguite? I nani sono diventati adoratori del Kordrion e vogliono riportargli la prole?» «Vogliamo l'uovo che avete rubato», replicò Tungdil, zittendo il Rabbioso, che stava per lanciare un altro insulto. Eppure me n'era appena venuto in mente uno così bello, pensò Boïndil, seccato. Troverò un'altra occasione per usarlo. «Troppo tardi!» disse la voce nell'oscurità. «Abbiamo bisogno dell'uovo. Non lo daremo via.» «E allora verremo a prendercelo!» Tungdil estrasse la Sanguinaria. «Siete soltanto dieci guerrieri. E anche se le vostre orme appartengono al nostro popolo, non per questo vi risparmieremo.» Ci fu silenzio. «Noi non siamo nani», disse un'altra voce, profonda come una tomba. «Non più.»
Perché non li vedo? Boïndil guardò fisso nel nero finché non credette di scorgere una sagoma. Come dal nulla, comparve davanti a loro un guerriero grande come un nano che indossava la stessa armatura del Terzo che si era contrapposto loro nei monti della Terra dell'Aldilà. Sembrò davvero che a partorirlo fosse stata l'oscurità; l'elmo era chiuso, nella mano teneva una lancia di tionio dalla punta lunga e sottile. «Un'arma albica!» esclamò il Rabbioso, spingendosi davanti a Slin. «Si adatta alle rune sulla tua armatura, traditore! I Terzi si sono spinti troppo in là pur di poter dominare.» Il nano con la lancia di tionio si fermò a due passi di distanza da loro. Slin aveva la balestra puntata su di lui, Balyndar teneva sotto controllo il corridoio alle loro spalle. Tungdil teneva la Sanguinaria appoggiata alla spalla: nulla in lui faceva pensare che provasse timore. «Non mi sei stato a sentire, Boïndil Duelame», disse lo sconosciuto, sollevando la visiera. «Noi non siamo più nani.» Il Rabbioso trasalì. In un primo momento credette che lo sconosciuto non possedesse un
volto, ma poi comprese che si era dipinto di nero la faccia e la barba. «A me sembri ancora un nano», replicò, arcigno. «E dunque? Ci date l'uovo adesso?» Lo sconosciuto scoppiò a ridere in modo piacevole e amichevole. «Io sono entrato nella vostra luce, quindi vi propongo di ricambiare la cortesia entrando nella tenebra.» Sollevò lentamente la mano sinistra, stringendola a pugno. La luce delle torce si spense immediatamente; non rimase nulla più di un leggero bagliore rosso. «Arti degli albi!» sbottò Boïndil, sorpreso. «Vraccas, abbattili col tuo martello: i Gonnaioli hanno tradito te e la tua creazione!» Si sentì un forte scatto: Slin aveva tirato con la balestra. Il rumore di legno in frantumi indicò loro che il dardo aveva mancato il bersaglio. «Noi vi vediamo come se foste alla piena luce del sole», disse il nano sconosciuto. «Quando le vostre torce avvamperanno di nuovo, non muovetevi, o morirete.» Le braci avvamparono. Boïndil imprecò. Era affiancato da due nani in armatura nera; la lama di un pugnale curvo
gli poggiava sulla gola, un'altra lama incombeva sul suo occhio destro. Non aveva sentito gli aggressori, né aveva avvertito l'alito di vento prodotto dal loro movimento. «Che Vraccas vi getti nella forgia e riduca in cenere le vostre indegne anime di traditori», sibilò con disprezzo al nemico che gli stava più vicino. Che effetto facessero le sue parole, non lo sapeva. La visiera non gli permetteva di guardare in faccia gli sconosciuti. Intorno a Tungdil c'erano tre nani in armatura che gli puntavano contro le lance. Nessuno voleva stargli troppo vicino. «Lo chiedo un'altra volta: a che vi serve l'uovo del Kordrion?» disse il capo dei nani in armatura nera. «A infilartelo nel didietro», rispose Boïndil, furioso. «Lasciami un po' di posto per l'azza, e ti farò un buco ancora più grande!» «Sarebbe opportuno dirci come stanno le cose», disse Tungdil, con grande sorpresa dell'amico. «Infatti nutro la speranza che possiamo giungere a un accordo pacifico. Incontrare nani... creature come voi, in un posto del genere, con questo bottino, che doveva essere nostro, mi rende fiducioso del fatto che
tutto ciò è stato disposto dagli dei.» Guardò le lance che gli venivano puntate contro il volto, la gola e l'inguine. «Volevamo rubare la covata al Kordrion per portarla da Lot-Ionan e aizzare il mostro contro il mago. Poi sarebbe partita una spedizione di nani per abbattere il mago indebolito.» Squadrò il comandante dei nemici. «Voi state andando a est. Dal momento che non vedo nessuna scaglia di drago, non obbedite a Lohasbrand. Quindi suppongo che aveste un piano simile al nostro: volevate spingere il Kordrion contro il drago per poi attaccare il vincitore.» Esibì un sorriso di superiorità. «Ho ragione?» Il comandante storse la bocca, in un gesto di encomio, e annuì. «Hai ragione, Tungdil Manodoro.» «Per ordine di chi lo state facendo? Degli albi? Vogliono annettere anche l'ovest e il nord della Terra Nascosta come hanno fatto con l'est?» Tungdil rimaneva tranquillo e solido come una roccia, come se fosse lui in posizione di vantaggio. «Questo non ti riguarda. Ma avrei una proposta da sottoporti.»
«Tienila per te!» sbottò il Rabbioso, mentre stava già studiando in che sequenza attaccare i guerrieri che lo controllavano. Stava architettando un'iniziativa che l'avrebbe liberato. Per Vraccas! Voi traditori state per vedere di cos'è capace un guerriero come me. «Coraggio, allora. M'interessa tutto ciò che può evitare uno spargimento di sangue», disse Tungdil. Stupito e quasi indignato, Boïndil si oppose. «Sono i nostri peggiori nemici! Assassini e traditori delle nostre stirpi, perché si sono alleati con...» Lo sguardo di Tungdil lo indusse a tacere. Boïndil si guardò intorno, ma Slin scalpicciava coi piedi, e Balyndar si grattava la barba. Nessuno andò in suo sostegno. Le lance vennero scostate, e Tungdil avanzò lungo il corridoio di qualche passo, insieme col comandante, per poter discutere. Lontano dagli altri. Il Rabbioso riuscì a cogliere le prime frasi scambiate dai due, ma non ne comprese il significato. Quel suono gli era familiare, anche se ci volle tempo prima che la sua mente gli
dicesse quello che il suo cuore rifiutava di ammettere: era la lingua degli albi. «Magnifico!» esclamò Slin. «Ecco che il nostro imperatore se la intende con nani che non vogliono più esserlo e che, a quanto pare, si ritengono albi poco cresciuti.» Girò la testa verso gli sconosciuti che lo sorvegliavano. «È lecito sapere come chiamate voi stessi?» Non ricevette nessuna risposta. «Che cosa facciamo adesso, Boïndil?» chiese Balyndar. «E come faccio a saperlo? Io sono un guerriero, non un pensatore.» Il Rabbioso tese i muscoli in modo a malapena percettibile, ma subito la lama del pugnale gli si poggiò con più forza sulla gola. «Sì, sì, va bene. Non mi muovo più», si calmò. Stette a guardare Tungdil e il nano sconosciuto che parlavano. Dopo un breve lasso di tempo, che a Boïndil parve interminabile, i due tornarono indietro. A un ordine del loro comandante, le sentinelle abbassarono le armi e si raccolsero alle sue spalle. Tungdil affiancò il Rabbioso. «Abbiamo nuovi alleati», annunciò, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. «Vorresti presentarti ai miei?»
chiese allo sconosciuto, riponendo la Sanguinaria. Il nano rivolse loro un cenno di capo. «Io sono Barskalin, il sytràp degli Zhadár. Zhadár è una parola albica e significa 'gli Invisibili'. Sytràp non significa altro che 'comandante'.» Col braccio sinistro descrisse un semicerchio. «Questi sono i miei dieci migliori Zhadár, il resto attende il nostro ritorno in un posto segreto. Per farvi capire perché siamo qui, dovrò partire da lontano.» «Non c'è tempo!» obiettò il Rabbioso. «Cosa capiterà ai nostri accompagnatori, là fuori sulla piana? Dobbiamo aiutarli contro il Kordrion!» Con uno sguardo cattivo rivolto a Tungdil, aggiunse: «Così i nostri nuovi alleati potranno dimostrarci quanto valgono». Barskalin scosse la testa. «Sono morti, Boïndil. Il Kordrion li ha annientati. Uno dei miei Zhadár, che ho appostato accanto all'ingresso senza che lo vedeste, me lo ha annunciato prima che mi mostrassi a voi. È stato saggio seguirci nel tunnel.» Balyndar sussultò. «Morti?» «Il Kordrion li ha affrontati sulla pianura. Come sarebbero potuti scampare al suo fuoco
bianco?» Barskalin alzò un braccio a indicare il tunnel. «Sarebbe meglio parlare più tardi, dopo aver messo qualche miglio tra noi e la bestia. Comunque seguirà la traccia olfattiva.» Il Rabbioso guardò Slin e Balyndar, poi Tungdil. «E dove andiamo adesso?» Si aspettava una risposta dal Sapientone, ma fu il sytràp a rispondere: «Verso sud, verso i Monti Rossi». Come ci sei riuscito, Sapientone? Bo'ïndil non ci aveva contato, al pari di Slin e Balyndar. Eppure, non riusciva a provare davvero sollievo. Nemmeno quando vide l'uovo che gli Zhadár avevano nascosto sotto uno spesso strato di pelliccia e che trascinavano su uno scudo provvisto di rulli. Terra Nascosta, nord dei Monti Grigi, regno dei Quinti, 6491°/6492° ciclo solare, tardo inverno «Come hai fatto a convincerli a collaborare con noi, Sapientone?» chiese Boïndil, strada facendo. «E che cos'hanno chiesto in cambio?» volle sapere Balyndar. Slin si guardò intorno. «Non riuscirò a dormire, questo già lo so. Nessuno di loro ci ha mostrato il suo volto, a parte il comandante.»
«Saprete tutto alla prossima sosta. È meglio che lo sentiate dalla bocca di Barskalin», anticipò loro Tungdil, poi aumentò il passo per affiancare il sytràp. «Parlano di nuovo tra loro. Come vecchi amici.» Slin diede uno spintone a Balyndar, per richiamarne l'attenzione, e indicò furtivo la schiena di Tungdil, e precisamente una runa. «Gli Zhadár ne hanno una uguale sull'armatura», sussurrò. «Non credo sia una coincidenza il fatto di averli incontrati qui. L'idea di rubare la covata l'ha avuta Tungdil... Forse questi qui sono i suoi guerrieri e fingono di essere... Zhadár?» Balyndar annuì. «Può essere.» «Smettetela con queste assurdità», ordinò loro il Rabbioso, ben sapendo di non poterglielo imporre. Il figlio di Balyndis lo guardò con disapprovazione. «Tu cambi continuamente opinione, Boïndil Duelame. Una volta sei dalla sua parte, poi cambi idea, poi la cambi di nuovo...» Si portò una mano al cinturone. «Forse dovresti deciderti. Prima che sia tutto finito.» «Abbiamo una missione, e la porteremo a termine. Non m'importa di chi ci aiuterà a farlo,
se è d'aiuto alla Terra Nascosta», disse il Rabbioso. «Ci sono state già parecchie perdite. Adesso abbiamo nuovi guerrieri e l'uovo.» Slin annuì. «Meglio così che morti e ridotti in mucchietti di cenere sulla pianura, o a fare da pasto al Kordrion.» Balyndar fece una smorfia. «Chi ci dice che non sia stato Tion a mandarci questi Zhadár?» Poi non disse più una parola. Quando raggiunsero una caverna in cui si trovava una sorgente, Tungdil ordinò una pausa, e Barskalin convenne. «La gerarchia tra i due sembra essere chiara», commentò il Rabbioso, che stava per scoppiare dall'impazienza. Lui, Slin e Balyndar si sedettero intenzionalmente un po' lontano dagli Zhadár e mangiarono. Vorrei finalmente sapere che cosa significano questi Invisibili. Vraccas non può proprio benedire una cosa del genere. Non può benedire nani che padroneggiano le arti degli albi. Guardò in direzione dell'amico, che stava di nuovo parlando col sytràp. I due avevano disteso una carta davanti a loro e passavano le dita su linee e punti. Dopo un po' trassero le loro conclusioni e si avvicinarono al gruppo di Boïndil.
Barskalin si sedette su una pietra. «Vi devo ancora una spiegazione su di me e sugli Zhadár», esordì. Si slacciò l'elmo e mostrò il cranio calvo; anch'esso era colorato di nero. «Un tempo eravamo Terzi. Ognuno di noi ha almeno quattrocento cicli ed è un guerriero eccezionale. Quando Aiphatòn e i suoi albi del sud si misero in marcia contro di noi e dimostrarono che nessuno avrebbe potuto fermarli, il nostro re propose loro un patto. Con nostro stupore, loro accettarono.» Il suo sguardo vagava sui volti dei nani. «Dopo circa venti cicli, gli Dsôn Aklàn ci fecero una proposta: cercavano volontari da prendere come apprendisti per insegnare loro particolari arti. In cambio, questa speciale unità avrebbe dovuto sterminare tutte le stirpi di nani presenti nella Terra Nascosta.» «Che Vraccas infili agli Occhineri un martello incandescente attraverso le stupide orecchie!» Il Rabbioso bevve un sorso dalla sua borraccia. «La Terra Nascosta doveva rimanere senza i suoi difensori.» A Balyndar s'incupì il volto. «Avrebbe significato la sua fine!» «Gli albi del sud sono diversi da quelli di cui si parla nelle leggende?» chiese Slin.
Barskalin confermò con un cenno di capo. «Sono ancora più feroci, più crudeli...» Boïndil scoppiò a ridere. «Non devo aver sentito bene: più crudeli? E come sarebbe possibile una cosa del genere?» «È possibile, Boïndil», disse Tungdil, con voce bassa e cupa. «E non sono gli unici. Qualche centinaio di albi, dal nord, sono riusciti in qualche modo ad arrivare nella Terra Nascosta. Senza l'aiuto di Aiphatòn, che viene onorato dagli albi del sud come imperatore», aggiunse Barskalin. «Ad aiutarli sono stati gli Dsôn Aklàn.» Boïndil guardò Balyndar e gli chiese: «Come hanno fatto a evitarvi?» «Non l'hanno fatto!» rispose il Quinto. «Noi teniamo la Porta di Pietra, e non abbiamo lasciato passare niente di malvagio. Questo non ha senso!» Barskalin gli gettò uno sguardo di biasimo. «E invece sono arrivati nella Terra Nascosta, senza che voi lo sapeste. Non potevate farci nulla. Gli albi hanno scoperto un vecchio passaggio attraverso il quale, molti cicli fa, fecero irruzione nel regno elfico del Lesinteïl.»
«Per Vraccas! Allora dobbiamo immediatamente sigillare questo accesso», disse Slin. «Altrimenti non ha nessun senso da parte nostra tenere le fortezze.» «Quell'accesso non esiste più. È crollato e si è riempito d'acqua.» Il sytràp congiunse le mani. «In ogni caso, tra gli albi cova un conflitto. Gli Dsôn Aklàn, insieme coi loro seguaci, si considerano i legittimi successori degli Eterni e si ritengono più civili dei loro parenti del sud, se non addirittura superiori. È con loro che abbiamo preso i nostri accordi.» Barskalin fece un sorriso cattivo. «Più avanti ci avrebbero sicuramente spediti a combattere contro gli Occhineri del sud, ci scommetto tutto quello che ho.» «Ma guarda un po'...» Il Rabbioso si grattò la barba. «Buono a sapersi, comunque. Gli Occhineri non si sopportano tra loro.» «Gli albi del sud sono la larga maggioranza e si sono appropriati di quello che un tempo era il regno elfico dell'Alandur e dello Dsôn Balsur, mentre gli Aklàn stanno facendo ricostruire la città di Dsôn dentro un cratere artificiale. E certo nell'antico regno elfico del Lesinteïl, che ora chiamano Dsôn Bharà, la vera Dsôn. Continuano
a pronunciare il tuo nome con immenso odio, Tungdil Manodoro. Non hanno dimenticato che sei stato tu a dare alle fiamme la città degli Eterni.» Barskalin guardò i presenti. «Noi diventammo loro apprendisti, e abbiamo appreso le arti della loro gente.» «E come può essere successo? Nani e magia? E per di più, magia che scaturisce dai nostri nemici più antichi e spaventosi.» Balyndar si tagliò un pezzo di prosciutto. «È un procedimento lungo e doloroso, accompagnato da molti terribili rituali», spiegò Barskalin. «Ci si sente come se strappassero e incenerissero l'anima che Vraccas conferisce ai suoi figli. Ciò che vedete è solo un involucro esteriore, riempito con qualcosa che vi farebbe rabbrividire, se doveste scorgerlo.» Boïndil guardò brevemente Tungdil e si ricordò del suo torso pieno di cicatrici. Che avesse attraversato anche lui quella trasformazione? Era quello il motivo per cui sul suo volto aveva visto apparire sottili linee nere, come accadeva agli albi? Barskalin si schiarì la voce, che gli veniva meno; dovette bere qualcosa prima di riprendere il racconto. «Gli Dsôn Aklàn, dopo
cento cicli passati al loro servizio, ci considerano fedeli e a loro devoti.» Guardò Slin. «Abbiamo esplorato le vostre fortezze e ucciso chiunque s'imbattesse casualmente in noi. Saprei muovermi a occhi chiusi nella Rocca d'Oro e nella Rocca d'Argento. Non c'è nessun segreto.» Abbassò la voce. «Se volessimo, potremmo guidare in qualunque momento gli albi o i Terzi nel regno dei Quarti. Voi non potreste impedirlo.» Balyndir deglutì. «Questo è... impossibile.» Barskalin indicò Tungdil e Boïndil. «Chiedi a loro. Hanno incontrato uno dei miei Zhadár nella Terra dell'Aldilà. Ha attraversato i Monti Marroni, passando per il vostro regno. Era un'altra missione esplorativa. Poi doveva visitare Digadel-male e verificare le voci relative al ritorno del più grande eroe dei nani.» Rise. «Mi riferì che quelle voci erano vere. È riuscito a sfuggirvi solo a stento.» Il Rabbioso sputò l'acqua che stava bevendo. «È sopravvissuto alla Morte Bianca?» «Siamo coriacei.» Barskalin sorrise in modo misterioso.
«E avete rubato l'uovo su ordine degli albi.» Balyndar non aveva distolto un istante lo sguardo dal sytràp. «Sì. Gli albi... gli Dsôn Aklàn volevano tramare una guerra nell'ovest per poter favorire i loro piani. Si tratta di un diversivo, nulla più. Questa, ovviamente, è solo una mia supposizione.» Barskalin guardò il Rabbioso. «L'imperatore Aiphatòn si sta preparando per una campagna contro Lot-Ionan. Vuole marciare nel sud, per schiacciare definitivamente il mago e i suoi apprendisti e aprire la Porta Alta ad altri albi.» «Ma questo risponde ai nostri piani!» Slin si stava caricando una pipa. «A questo punto, non dobbiamo più aizzare nessuno! Se gli albi e il mago si fanno guerra, noi possiamo aspettare e vedere chi resta in piedi. Distruggiamo l'uovo e attendiamo gli eventi.» Balyndar intrecciò le dita e prese a far ruotare i pollici. «Io trovavo che il nostro piano fosse... migliore.» Osservò Barskalin. «Mi piacerebbe molto sapere perché sediamo pacificamente gli uni accanto agli altri anziché batterci. Voi siete al servizio dei nostri nemici e
volete però aiutarci a portare l'uovo da LotIonan?» «Tradimento.» Tungdil pronunciò la parola con indifferenza. «Gli Zhadár non hanno mai obbedito col cuore, ma soltanto atteso l'occasione giusta per cambiare parte.» «È così.» Barskalin chinò il capo davanti a lui. «Tungdil Manodoro è un Terzo, uno di noi. Qualcosa nel modo di pensare dei Terzi è cambiato, e il nano tanto schernito è diventato nei cicli passati il nostro più grande eroe, che si è contrapposto a nemici potenti. Inoltre è diventato imperatore di tutte le stirpi dei nani: chi altri dovremmo seguire con la mente e col cuore? Abbiamo aspettato così tanti cicli per distruggere gli albi colpendoli con le loro stesse armi e le loro stesse arti.» «Questa era la vostra intenzione, quando vi siete presentati volontariamente?» Boïndil fissava il sytràp. «Niente di più e niente di meno.» Il Rabbioso non riusciva neppure a comprendere il fardello di cui si erano fatti carico. «Per Vraccas, che sacrificio!»
«Sempre se quello che ci sta raccontando è vero.» Balyndar non sembrava per niente persuaso. «Io gli credo.» Slin annuì e si accese la pipa. Barskalin sorrise, e i denti brillarono in mezzo al nero. «Noi seguiremo Tungdil Manodoro e contribuiremo a liberare la Terra Nascosta. Questo abbiamo sempre avuto intenzione di fare, e questo faremo adesso, visto che se ne presenta l'opportunità.» Indicò i suoi nove accompagnatori. «In tutto siamo ventitré...» Balyndar scoppiò a ridere, sprezzante. «Così metteremo di certo in fuga gli albi...» Il sytràp parve indignarsi. «Ognuno di noi può eliminare venti nemici senza stancarsi. In un combattimento convenzionale. Se però ricorriamo a tutte le nostre capacità, possiamo affrontare un piccolo esercito, Balyndar Ditadiferro del clan dei Ditadiferro! Se hai pensato che l'unica cosa che siamo capaci di fare è spegnere luci, ti sei ingannato sul nostro conto e sul potere degli albi.» Strinse gli occhi. «E nel corso della tua vita ti sono passato accanto già cinque dozzine di volte, senza che tu mi notassi. Sono stato accanto alla tua culla,
accanto al tuo letto, mentre dormivi. Nemmeno i Monti Grigi hanno segreti per me e per i miei Zhadár.» Posò la mano sull'elsa del pugnale ricurvo. «Dovresti essere riconoscente che io non abbia condotto i Terzi già da molto tempo nel regno di tua madre. Anche quelle fortezze sarebbero cadute.» Si alzò, si avvicinò al Quinto e si chinò sul suo orecchio. «Conosco tutti i tuoi segreti, futuro re dei Quinti», sussurrò, poi si alzò. «Quindi siete nelle migliori mani, perché per noi è un onore seguire l'imperatore.» Balyndar era impallidito ed era rigido come se fosse stato colpito dal martello di Vraccas. Tungdil porse la mano a Barskalin, che tornò dai suoi Zhadár. Subito dopo, ben separati, i due gruppi si misero a riposare. Il Rabbioso si meravigliò dell'improvvisa laconicità di Balyndar, ma era troppo occupato a rimuginare su quanto raccontato dal sytràp per riuscire a intavolare una discussione col Quinto. «Vraccas, adesso sono sicuro che è stata opera tua farci incontrare gli Zhadár sulle montagne. Ti ringrazio per questo», pregò a bassa voce. «Fa' ora in modo che noi e gli Invisibili abbiamo successo. Io darò qualunque cosa per veder
tornare la pace e la serenità nella Terra Nascosta.» «Daresti anche la vita?» gli chiese Slin, che aveva sentito la preghiera. Si girò sulla schiena e incrociò le braccia sotto la nuca, con la pipa infilata nell'angolo della bocca. «Io sì. Ma solo se uno di noi tornasse indietro vivo a raccontare le nostre gesta eroiche. Altrimenti, la più gloriosa delle morti non porta a nulla.» Il Rabbioso fece per replicare, ma aveva la gola asciutta. Forse era meglio che non riuscisse a proferire parola: sarebbe potuta essere quella sbagliata. Terra Nascosta, protettorato del Cauragar, venti miglia a sud dell'ingresso ai Monti Grigi, 6491°/6492° ciclo solare, tardo inverno Il Rabbioso non stava più nei suoi panni, letteralmente. Avevano preso la sua cotta di maglia e gli abiti che erano entrati in contatto con la covata e li avevano legati a un cavallo comprato in tutta fretta; volevano così ripartire tra due direzioni l'usta rivelatrice. Il Kordrion avrebbe scoperto che doveva seguire l'altro odore dopo aver trovato il cavallo e averlo mangiato con cotta di maglia, camicia e pantaloni; al loro
posto Boïndil indossava pezzi di vestiario presi dagli altri viaggiatori. «Così si deve sentire un cenciaiolo», disse, afflitto. «Hai qualcosa contro i miei pantaloni?» chiese Slin, sogghignando. «Se me li fai scoppiare col tuo grasso sedere, me ne compri un paio nuovo.» «Muscoloso, non grasso. Voi Quarti non ne avete tanti, di muscoli. I vostri pantaloni starebbero bene ai nostri bambini.» Balyndar teneva di nuovo in mano il pugnale albico, preso da uno degli arcieri morti. Si rigirava l'arma tra le mani, ne saggiava il filo passandoci il dito sopra, finché non la batté con una certa angolazione contro il bracciale dell'armatura. Non era stato un colpo particolarmente forte... eppure spezzò la lama due dita sopra l'impugnatura, con un rumore tintinnante. «Come immaginavo...» borbottò il Quinto, soddisfatto, e gettò l'inutile impugnatura nella neve. «Che c'è?» domandò il Rabbioso. «Il pugnale era stato fatto in maniera difettosa?»
«Sì. Avevo notato che c'era qualcosa che non andava, anche se non sapevo dire con precisione cosa mi disturbasse.» Sembrò che stesse meditando su come spiegarsi. «Noi discendenti dei Primi abbiamo un buon occhio per l'arte della forgia. Avevo visto subito che l'arma era stata forgiata da un nano, ma c'era qualcosa che non mi quadrava. Il fabbro aveva inserito un sottile strato intermedio di metallo sensibilmente più rigido e fragile; questo non ha legato correttamente col resto dell'acciaio e, in caso di pressione particolarmente forte, come durante un combattimento, la lama si sarebbe spezzata.» Balyndar guardò il Rabbioso. «L'hanno prodotto così intenzionalmente. Non è stata una svista.» «Quindi i Terzi stanno tradendo gli albi, esattamente come gli Zhadár», concluse Boïndil, soddisfatto. «Non so, non mi spingerei ad affermarlo. Può darsi che sia stato un singolo nano a forgiare un'arma difettosa per gli Occhineri», replicò il Quinto per raffreddare l'entusiasmo dell'altro. «Prima o poi, un imbroglio di massa sarebbe saltato agli occhi degli albi, e avrebbe avuto per i Terzi conseguenze di vasta portata.
Conseguenze fatali.» Guardò Tungdil, che, accanto a Barskalin, saliva su un dosso alla testa del reparto. «I Terzi possono essere buoni guerrieri, migliori di tutti noi. Ma contro gli albi sono destinati a soccombere. Se non altro perché gli albi sono superiori numericamente.» «È sicuramente prematuro vedere nei Terzi degli alleati per via di un pugnale malfatto», concordò Boïndil, dopo averci riflettuto un istante. Alzò gli occhi al cielo e si stupì delle nuvole che si avvicinavano. Slin seguì il suo sguardo e alzò un braccio, indicando il cielo. «Kordrion! Da nord!» Il Rabbioso se la prese con se stesso, e con la sua durezza di comprendonio. «Penso di stare invecchiando.» Cercarono copertura tra le rocce, mentre il Rabbioso correva da Tungdil. «Che facciamo, Sapientone?» L'imperatore stava ritto e impavido, con la mano destra posata sulla fronte a proteggere l'occhio dal riverbero, e guardava il cielo. «Ci si è avvicinato più di quanto ci piacerebbe. Il nostro diversivo ha perso efficacia.» «Ho mollato armatura e vestiti per niente?» replicò Boïndil, seccato.
«Finora questo ci ha procurato un rispettabile vantaggio. Ma ormai sembra essere finito.» Tungdil vedeva il Kordrion come piccola ombra indistinta tra le nuvole. «Ci sta cercando. Non avrà bisogno di molto tempo per scovarci.» «Non ce la faremo mai ad arrivare da LotIonan. Dico bene, Sapientone?» «Esattamente.» Tungdil si guardò indietro. «Ma porteremo il nostro regalo a qualcun altro. Dobbiamo sfruttare l'opportunità per danneggiare il più possibile i nostri nemici.» Il Rabbioso capì in che direzione avrebbe portato la loro marcia. «Dsôn Bharà.» «Per noi sarebbe il percorso più sicuro. È molto in discesa, e sulle nostre slitte avanzeremmo molto rapidamente. Ci sarebbero anche caverne in cui nasconderci se il Kordrion si avvicinasse troppo.» Tungdil guardò verso Barskalin, che fece un segno di assenso. «Sarà divertente: per una volta saremo noi a insinuarci furtivamente tra gli Occhineri. Che sfida!» Il Rabbioso fece segno a Balyndar e Slin di avvicinarsi; anche gli Zhadár lasciarono i loro nascondigli e iniziarono a spingere le slitte su per la collina.
«Non ho intenzione di avvicinarmi di soppiatto. Non ci riusciremmo.» Tungdil indicò il gruppo. «Andremo da loro apertamente. Io mi presenterò loro come un Tungdil trasformato, la cui massima aspirazione è distruggere le stirpi dei nani. Offrirò agli albi il mio aiuto. Nel frattempo piazzeremo l'uovo di Kordrion e aspetteremo gli eventi. Dopo, escogiteremo un nuovo piano.» Guardò gli amici. «Tu, Slin e Balyndar dovrete infilarvi in un'armatura da Zhadár.» «Davvero magnifico...» borbottò il Quarto. «Non temere. Hanno anche qualcosa della tua misura», lo canzonò l'imperatore, sogghignando. «Le armature che portano le loro femmine.» Balyndar si mise le mani sui fianchi. «Questo piano non mi piace.» «Non è necessario che ti piaccia. Sono il tuo imperatore, quindi farai ciò che ti dico.» Era sbalorditivo come Tungdil riuscisse a sembrare calmo e severo allo stesso tempo. «Il Kordrion è troppo veloce per noi, e su questo non puoi discutere. Se c'è un'opportunità di usare l'uovo contro i nostri nemici, la useremo.» Si gettò su una slitta. «Fra tre rotazioni saremo a Dsôn
Bharà. Seguitemi!» Si diede slancio e si lanciò giù lungo il pendio. Gli Zhadár lo seguirono, l'uno dopo l'altro. Poi anche Slin e il Rabbioso si accinsero a sfrecciare giù per la collina. Balyndar era fermo accanto alla sua slitta, e guardava il Sapientone allontanarsi. «Non so se è giusto quello che stiamo facendo, Boïndil Duelame.» «Questo lo dirà chi scriverà delle nostre gesta, Balyndar», replicò il Rabbioso. «Non lo so neppure io, e sono sicuro che in questo momento non lo sa nemmeno il Sapientone. Il piano originale è ormai compromesso. Dobbiamo giocare con le carte che abbiamo in mano. Col sostegno di Vraccas, forse otterremo più di quanto avessimo pensato.» Gli diede una pacca sulla spalla. «Abbi fiducia in tuo padre.» Boïndil si rese conto di quello che aveva detto solo dopo che le parole gli erano già uscite di bocca. Balyndar girò lentamente la testa verso di lui. «Ma che idiozie vai dicendo?» Boïndil scoppiò a ridere. «Era solo una battuta, per rallegrare l'umore.»
«Allora non ti è riuscito. Non con questa battuta.» Il Quinto si avvicinò alla sua slitta e la spinse in avanti. «Non sai fare niente di meglio?» «Che ne diresti della storia del mezz'orco che chiede la strada a un nano?» Balyndar fece cenno di lasciar perdere. «È vecchia. La conoscono anche le pietre.» «Ma non la mia versione», ribatté l'altro con orgoglio, drizzando la schiena. «Un mezz'orco cammina lungo un sentiero, vede un nano, e gli vuole...» «Cavalieri!» gridò Slin concitato. «Là sotto," a destra delle slitte, in quella piccola valle. Stanno proprio per tagliare la strada agli Zhadár!» Perché avvista sempre i pericoli prima di me? Il Rabbioso guardò nella direzione indicata. Balyndar valutò il numero dei cavalieri che si avvicinavano in sella a pony. «Lo Squadrone Nero», disse allarmato, gettandosi pancia in giù sulla slitta. «Svelti, dobbiamo raggiungere gli altri e avvertirli!» Partì. Slin non se lo fece dire due volte e lo seguì giù per il pendio, assumendo la stessa ardita postura.
«Ehi, aspettatemi!» Boïndil spinse la sua slitta, scese per qualche passo la collina stando accanto al veicolo e poi ci saltò sopra. «Per Vraccas! Non riesco mai a raccontare una bella storiella!»
XIII Terra dell'Aldilà, Forra Oscura, fortezza di Diga-del-male, 6491°/6492° ciclo solare, tardo inverno Goda osservava il tremolante schermo rosso, ì cui margini turbinanti premevano contro le mura di Diga-del-male. Le ricordavano un po' le onde di un lago, o del mare; e, come nel caso del mare, sotto la superficie stavano in agguato mostri spaventosi. Era per quello che il suo popolo non amava le acque profonde. La nana si strinse il mantello intorno alle spalle, preoccupata. Non era un bene che l'energia rossa si fosse dilatata fino alla roccia; eppure, lei non era in grado d'impedirlo. Kiras, con corazza, bracciali e schinieri sopra lo spesso vestito, stava in piedi accanto alla maga. Attraverso un cannocchiale, osservava la barriera che il nemico aveva eretto a propria protezione. «Le mura non hanno patito danni. Non vedo crepe né deformazioni. A quanto pare, questa luce non fa loro nulla. Quello che
pensavano i guerrieri era sbagliato: non può danneggiare Diga-del-male.» «Ma i mostri possono avvicinarsi fino alle mura. Non va bene. Devo pensare a qualcosa" per annullare la dilatazione della sfera.» Goda infilò la destra nel borsello con le schegge di diamante, e ci giocherellò. Ma a cosa? «Li ha uccisi lui», disse Kiras. Goda sapeva di chi stesse parlando la Sotterranea. «Lo so. Anche Boïndil ha notato le ferite degli ubari.» Quando le due nane erano l'una accanto all'altra, si vedevano molto chiaramente le differenze tra le loro due stirpi. Kiras, con la sua statura più alta e la corporatura più snella, poteva essere scambiata per un'umana poco cresciuta; Goda, per contro, era un'autentica nana della Terra Nascosta: tarchiata, col viso tondo e sulle guance una peluria scura che alla Sotterranea mancava del tutto. «Ma non ha detto niente.» Kiras osservava i mostri sotto la rossa copertura magica. Andavano avanti e indietro per la piana intorno alla Forra Oscura e contrassegnavano punti del suolo roccioso con delle bandierine.
«No. E non lo farà mai. A meno che non confessi di sua spontanea volontà l'imbroglio.» Il tentativo di costringere Tungdil a scoprirsi era fallito. Goda guardò a destra e a sinistra, lungo i camminamenti; erano presidiati ogni istante, le squadre delle catapulte sempre accanto alle macchine, in modo da fronteggiare con prontezza un attacco dei mostri. «I cadaveri che abbiamo trovato provano che persegue i suoi obiettivi con ogni mezzo.» La Sotterranea abbassò il cannocchiale. Uno scintillio le saltò agli occhi e, quando guardò in quella direzione, vide che aveva origine dal camminamento a est. Una delle sentinelle aveva lucidato il proprio scudo così tanto da farlo splendere. «È vero che lo hanno eletto imperatore?» La maga annuì. «E ringrazio Vraccas di essere qui a Diga-del-male! Così non devo obbedire ai suoi ordini.» La Sotterranea si appoggiò a un merlo. «Mi chiedo cosa sia successo al vero Tungdil: sarà morto, sarà stato catturato? O sarà diventato qualcosa di ancora più spaventoso di quello che si è presentato a noi?»
Goda sospirò. «A questa domanda non c'è risposta.» Kiras improvvisamente sembrò più allegra e guardò lo schermo oltre le mura. «E se catturassimo uno dei mostri e lo interrogassimo? Puoi creare un varco grosso abbastanza per me e qualche ubari?» Goda soppesò la proposta. «Bella idea! Avrei dovuto pensarci io...» «Tu devi già pensare a tante cose in quanto comandante della fortezza, e maga che deve tenersi sempre pronta a respingere un altro attacco magico», la rassicurò Kiras, stringendo le mani di Goda. «Te lo dico davvero troppo di rado: tu per me sei come una madre. Non potrò mai ringraziarti abbastanza per quello che mi hai dato.» «Per questo non mi riesce facile mandarti dall'altra parte dello schermo. E non solo perché là brulica di mostri: vi si aggira anche un mago. E chissà se sarei in grado di tenere il varco aperto abbastanza a lungo.» I dubbi di Goda aumentavano. «No, è meglio lasciar perdere.» Risuonò un suono di fanfare, attirando l'attenzione sull'avvallamento. Le due nane presero i cannocchiali.
Simili a formiche, le creature più disparate correvano qua e là, trascinando pietre nei punti in cui si alzavano le bandierine, e costruivano pezzo dopo pezzo piccoli muretti di protezione. Lavoravano di gran fretta, come se l'opera dovesse essere finita prima del calar del sole. In altri punti comparivano creature grandi e grasse, che scavavano buchi nel suolo coi grandi artigli o le larghe zampe. Non appena raggiungevano una certa profondità, accorrevano altri mostri con piccoli tini pieni di metallo liquido con cui colmavano gli incavi, per poi infilarvi subito dopo lunghe barre di ferro a diverse angolature. «Quelle cose sembrano ancoraggi. Che preparino macchine da assedio?» Kiras puntava il cannocchiale qua e là sulla piana. «Catapulte, probabilmente. Come quella che stava nella Forra e che ho distrutto.» Goda chiamò a sé uno degli ubari e gli chiese la sua opinione. Il guerriero confermò la valutazione. Mentre ancora stavano parlando, altre bestie corsero in avanti. In molte dozzine, trascinavano possenti travi di legno. Uno dei mostri si fece carico di dirigere il montaggio secondo schemi ordinati; pezzo dopo pezzo, da
quel groviglio di legna si alzava una specie di torre d'assedio. «Avevi ragione tu. Stanno montando un sostegno mobile per un ariete», disse la maga a Kiras. Fece chiamare Sanda e Bandaál, i due figli che stavano seguendo presso di lei l'apprendistato da maghi. «Non possiamo continuare ad aspettare. Lo scudo magico dev'essere riportato a distanza, altrimenti le macchine d'assedio raggiungeranno le mura.» Kiras guardò in basso. «E adesso che cosa stanno facendo?» I mostri avevano eretto per metà le prime quattro torri d'assedio, quando passarono a trascinare nuovi conci di pietra e a posarli sulla piattaforma delle costruzioni; altri portavano lunghi rotoli di corda, di cui un'estremità raggiungeva la Forra Oscura. «Contrappesi», disse Goda. «A che cosa servano, non lo so ancora, ma sembrano contrappesi.» «Costruiranno una catapulta ancora più grande nella Forra», ipotizzò l'ubari, stringendo gli occhi rosa. «Una delle bestie ha una bandiera bianca in mano. Si dirige verso la nostra porta.»
A Goda sembrava un negoziatore. Se non ci fossero stati la barriera e il mago nemico, avrebbe fatto inchiodare l'orribile creatura a terra a suon di frecce, e l'avrebbe fatta seppellire sotto un masso grande come una casa, in modo che la genia di Tion sapesse che cosa i nani le riservavano. Ma nella situazione presente, una mossa del genere sarebbe stata tutt'altro che intelligente. Le trattative, anche se Goda non ne avrebbe mai applicato i risultati, portavano tempo. E di tempo ne avevano tanto bisogno, fino a che Boïndil non fosse tornato con sufficienti alleati per fronteggiare il mago nemico. La missione di Boïndil e del presuntoTungdil non era facile; lo sapevano tutti. E, contrariamente alla guarnigione di Diga-delmale, Goda non nutriva molte speranze sul fatto che si potesse mettere in ginocchio Lot-Ionan. Il passo della creatura rallentava a mano a mano che si avvicinava alla porta, fino a che non si fermò a tre passi da essa e gridò qualcosa con voce tremula. Le sentinelle riferirono ciò che aveva detto.
«Quella bestia vuole consegnare un elenco di richieste?» Goda guardava alternativamente l'ubari e Kiras. «Adesso sono proprio curiosa.» Si affrettarono a scendere. Attraversarono corridoi, superarono camminamenti e catapulte, raggiunsero il montacarichi. Quando, dopo un breve viaggio, la cabina aperta si fermò e il gruppo raggiunse le porte, andò loro incontro un soldato che teneva in mano un rotolo di pergamena. «L'ha gettata nello spioncino, attraverso la barriera», spiegò. «Posala. Con cautela», ordinò Goda. La sentinella sembrava stupita. «È soltanto una pergamena.» «Fallo!» sbottò Kiras. «Chissà quali incantesimi possono avervi pronunciato sopra. Potrebbe essere un tranello.» Il nano fece come gli era stato ordinato. Goda si avvicinò al rotolo e v'intessé sopra un incantesimo rivelatore, per capire se il mago nemico avesse provvisto la pergamena di un incantesimo che si attivasse con l'apertura. Si rilassò quando gli scintillìi verdi non trascolorarono, segno certo del fatto che era tutto a posto.
Raccolse la pergamena, la srotolò e lesse: Difensori, io, Portatore di molti nomi, da questa e da quella parte della Forra, esigo da voi l'immediata consegna della fortezza. Ritiratevi dopo aver aperto le porte! Esigo inoltre l'immediata sottomissione al mio dominio della regione circostante. Se questo dovesse accadere rapidamente, sarò indotto a clemenza. Altrimenti, non riserverò nessuna pietà a soldati e civili e ordinerò ai miei combattenti di distruggere tutto ciò che incontreranno. Io, Portatore di molti nomi, dispongo di un potere di cui la vostra maga non è all'altezza. Dovrà consegnarsi a me volontariamente. Dovessi essere costretto a spazzarla via coi miei poteri, farò imperversare ancora di più le mie truppe nella regione. La risposta a questo scritto deve giungere entro sette rotazioni, e non una di più. Se non avrò replica, considererò le mie richieste respinte e saprò come procedere per far valere le mie legittime rivendicazioni.
Niente e nessuno vi salverà dalla mia collera, se mi sfiderete. Goda passò lo scritto a Kiras. «Questo mucchio di scarabocchi vanagloriosi è a dire poco sfacciato.» «Arrogante e borioso», sentenziò la Sotterranea, dopo aver dato una scorsa al testo. «Ecco qualcuno che si crede più importante di quanto non sia.» La maga raggiunse la porta e fece aprire lo spioncino. Proprio davanti a lei tremolava il rosso della barriera di energia che la parte avversa aveva creato per proteggere i suoi preparativi, in vista dell'attacco alla fortezza. Chi lanciava un incantesimo del genere possedeva potere, su quello non si poteva obiettare. «Può darsi che lo sia davvero», mormorò Goda. Strinse in mano una scheggia di diamante e la usò per formulare un incantesimo da scagliare contro lo scudo. Un piccolo lampo passò attraverso l'apertura e cozzò contro la barriera. Si sentì un ronzio profondo, come quello di un tranquillo alveare, e il punto colpito divenne più scuro; poi si fece sempre più chiaro, e il ronzio più forte e acuto. Il
rosso si trasformò in arancione e, gradualmente, in un giallo incandescente. «Chiudete!» ordinò Goda, allontanandosi dalla porta. Non vedevano più cosa stava succedendo dall'altra parte, ma sentivano chiaramente che si stava scatenando una scarica tonante. La porta, rinforzata da lastre di metallo, borchie e catenacci, tremò sotto la forza del colpo; i cardini gemettero e sollevarono ruggine in forma di nuvolette rossastre. La forza era così brutale che nell'ingresso si aprì una crepa; qualche staffa e alcuni fissaggi della porta andarono in pezzi e le schegge volarono intorno alle orecchie dei difensori. L'ubari accanto a Goda finì a terra, gemente. Kiras si mise a urlare, tenendosi la testa: un frammento l'aveva colpita all'orecchio, strappandone metà. Mentre, col volto impietrito, si occupava dei feriti, Goda decise di non tentare più simili esperimenti. Non oso pensare che cosa sarebbe successo se avessi lanciato contro lo scudo un incantesimo potente!
Ormai sapeva che la barriera avrebbe risposto a ogni attacco, con forza dieci volte superiore. Terra Nascosta, protettorato del Gauragar, venti miglia a sud dell'ingresso ai Monti Grigi, 6491°/6492° ciclo solare, tardo inverno Boïndil osservava l'avanguardia dello Squadrone Nero percorrere al galoppo la curva della piccola valle ed entrare nell'avvallamento a dieci passi da Tungdil. Si stupì di quanto i nani in armatura scura fossero simili agli Invisibili. Non appena lo squadrone notò le slitte, si aprì a ventaglio e si allargò per tutta l'ampiezza del bacino. Tungdil fermò la sua slitta, mentre, l'uno dopo l'altro, gli Zhadàr rallentavano la velocità, poi smontavano e formavano un cerchio mettendo davanti a loro gli scudi che usavano come slitte; formarono così una piccola fortezza, al cui centro si trovavano Barskalin e Tungdil. Slin e Balyndar si unirono a loro solo a quel punto. Maledizione! Non li raggiungerò in tempo. Mi aprirò una breccia, allora. «Di questo piano non funziona niente. Nemmeno quando non abbiamo un piano.» Con una manovra
spericolata, Boïndil s'infilò di volata tra le zampe dei pony, riuscì a centrare l'ultima falla tra le file dello squadrone e si abbatté poi con la slitta su uno degli scudi degli Zhadár. Volò in aria, sbatté contro la protezione e rotolò sulla neve; ma saltò subito in piedi, con l'azza levata pronta alla difesa. «Indietro!» gridò al cavaliere che aveva davanti. «Giuro che ti meno l'azza dove fa molto male!» Subito risuonarono molte tonanti risate. «Non sono molti i figli del Fabbro che maneggiano un'arma del genere e sembrano anziani come te», disse il cavaliere in tono canzonatorio, ma con un accenno di rispetto nella voce. Poi smontò di sella, facendo tintinnare la maglia di ferro. Boïndil si terse rapidamente il volto, rischiarandosi la vista: davanti a lui vide la sagoma di un guerriero nano che impugnava una scure dal manico lungo; uno spesso mantello giaceva sulla cotta di maglia rinforzata da piastre di ferro, nella barba rosso chiaro c'erano delle ciocche dipinte di nero. Gli occhi verdi squadravano il Rabbioso; il corpo era teso e in guardia, a fronteggiare un eventuale attacco disperato. «Sarebbe per me
un piacere misurarmi con te, Boïndil Duelame», disse lo sconosciuto. Poi rivolse lo sguardo agli Zhadár. «Che cosa succede, Barskalin? Da quando temi me e i miei guerrieri?» «Non temo né te né loro. Ma non ero sicuro che il loro comandante fossi ancora tu, Hargorin Seminamorte.» A un suo comando, gli scudi vennero abbassati e Barskalin comparve davanti all'amico. «Non immaginavo d'incontrare te e i tuoi Bramanti.» Il Rabbioso era sbalordito. «Per il Fabbro! Che succede adesso?» Guardò le armature nere dei cavalieri. «Bramanti?» «Raccolgono le decime presso gli umani dell'antico Idoslân per conto degli albi», spiegò Balyndar, sprezzante. «Predoni e assassini, non sono niente di più.» «Non essere così precipitoso.» Barskalin porse la mano a Hargorin e presentò Slin, Balyndar e il Rabbioso. «Ora piegate il ginocchio davanti al nuovo imperatore delle stirpi dei nani della Terra Nascosta», annunciò con fare teatrale. «Infatti egli è uno di voi, un Terzo: Tungdil Manodoro!» Per la sorpresa, Hargorin fece un passo indietro e fissò il nano che aveva un occhio solo,
il quale si fece largo tra gli Zhadár; poi lo sguardo del Bramante si posò sull'armatura, sulla Sanguinaria e di nuovo sul volto duro e inavvicinabile. Aveva visto le insegne da imperatore. «Io...» La voce gli mancò per l'emozione. Poi il comandante dei Bramanti si lasciò cadere su un ginocchio e chinò il capo, porgendo la scure in direzione di Tungdil. Lo Squadrone Nero smontò; centocinquanta guerrieri resero omaggio al sovrano di tutti i nani. Il Rabbioso si guardava intorno, sogghignando. «Se ci capita la stessa cosa ogni dieci miglia, prima di raggiungere Dsôn Bharà avremo raccolto un esercito che scaccerà in un baleno gli albi dalla Terra Nascosta», commentò. «Sapientone, guarda un po'! I Terzi hanno timore di te.» Tungdil ordinò a Hargorin e allo squadrone di alzarsi. «Dalle parole di Barskalin e dalle tue devo dedurre che condividiate la stessa opinione riguardo agli albi?» Hargorin rivolse un breve sguardo al sytràp, che con gli occhi lo autorizzò a parlare liberamente. «Signore, molti di noi hanno aspettato che tu tornassi e conducessi la tua
stirpe alla vittoria su tutti i suoi nemici», disse, e sembrava quasi illuminato dalla gioia. «Tu non lo sai, ma presso di noi circolano leggende su di te.» Tungdil guardò Barskalin, che alzò le spalle in segno di scuse. «Non c'è stato tempo di parlarne.» Ci saranno delle belle chiacchierate intorno al fuoco. Boïndil fece un largo sorriso. «Il mio Sapientone... Adesso tra i Terzi è diventato un personaggio leggendario.» «Se presso i Terzi le cose stanno così, allora ci si aprono davvero possibilità completamente nuove», intervenne Slin. «Non la pensiamo tutti così», precisò Hargorin. «Ma siamo molti, davvero molti a farlo.» Sorrise a Tungdil. «Una di queste leggende descrive te e le tue gesta eroiche al di là della Forra Oscura. Mentre ti osservo e ti vedo addosso questa armatura, la posso tranquillamente considerare una profezia. Vieni descritto quasi così come sei adesso davanti a me.» Barskalìn diede a due Zhadár l'ordine di scrutare il cielo per avvisarli della possibile apparizione del Kordrion. «Dovremmo cercarci
un posto sicuro per discutere della questione», propose. «Hai una residenza qui nei paraggi, vecchio amico?» Hargorin annuì. «A mezza rotazione da qui c'è una delle mie fortezze. Possiamo legare le slitte ai pony e trainarvi fin lì.» «Questa fortezza può resistere a un Kordrion?» domandò il Rabbioso. Hargorin non batté ciglio. «Sicuramente per un po'. E se il mastio dovesse crollare, possiamo metterci al sicuro attraverso un cunicolo.» Guardò Barskalin. «Che cosa avete fatto per ritrovarvi quella bestia alle calcagna?» Il sytràp rise. «Più tardi. Conduci l'imperatore nella tua dimora e ospitaci in modo conveniente. Poi ci sarà tempo per fare conversazione.» Tornò improvvisamente serio. «Dovrai deciderti.» «Questo l'ho già fatto moltissimi cicli fa.» Il Terzo s'inchinò davanti a Tungdil. «Qualunque cosa ti conduca nella terra degli albi, da ora lo Squadrone Nero e io obbediamo solo e unicamente a te, imperatore. Tu ci porterai tempi pieni di gloria, così come raccontano le leggende.» Balyndar alzò gli occhi al cielo.
Slin invece sembrava contento. «Davvero meraviglioso, ecco come la penso.» «Meraviglioso suona... da femmine. Ma, in via del tutto eccezionale, la penso anch'io così.» Boïndil era contento che un temuto combattimento si fosse trasformato in un'insperata fratellanza d'armi. Ma allo stesso tempo lo inquietava il fatto che lo Squadrone Nero si stesse a mano a mano raccogliendo intorno a loro. Gli ricordava un fronte temporalesco che cresca senza sosta, fino a diventare una spaventosa tempesta; il centro di quella tempesta era il suo amico. «Ci stanno assorbendo in mezzo a loro», mormorò, perché gli era tornato in mente che presto, per camuffarsi, si sarebbe dovuto infilare in una nera armatura da Zhadár. «Vraccas, non permettere che io diventi come loro soltanto perché ne condivido l'armatura.» Fu di nuovo Slin a udirne le parole; possedeva un udito finissimo. «Hai paura di diventare uno di loro? Boïndil, quello in cui c'infileremo è solo metallo nero.» Si picchiettò prima sul petto, poi sulla testa. «Cuore e mente continuano ad appartenere a noi. Vedilo come un innocuo travestimento.» Gettò a un cavaliere
una corda, di cui aveva annodato un'estremità alla sua slitta. «Se desideri, baderò io a te, povero piccolo nano.» Il Rabbioso sorrise. «Hai ragione tu. Prendimi pure in giro per i miei pensieri infantili.» Preparò il suo mezzo allo stesso modo. Poco dopo venivano trainati dai pony, a velocità sostenuta. Scoprirono presto lo svantaggio di quel sistema di trasporto: gli zoccoli dei piccoli cavalli sollevavano la neve, creando turbinii attraverso i quali sfrecciavano le slitte. I passeggeri finirono per somigliare a barbuti e immusoniti pupazzi di neve. Attraverso la neve mulinante, Boïndil vide davanti a sé il mastio della fortezza, alto più di venti passi. E vide altrettanto bene gli oltraggi che vi erano incisi, e che facevano accelerare per l'indignazione il battito del cuore di qualunque nano probo. Non vi si leggeva nulla che non fosse odio a Vraccas. Le scritte promettevano a tutte le stirpi l'annientamento fin dalla culla, e sulle pareti formate da spessi conci di pietra appena sgrossati proseguivano gli oltraggi e le offese: Vraccas il Deforme, Vraccas il Dio impotente,
Vraccas il Dio evirato... Il Rabbioso non era l'unico a essersene accorto. «Io non metterò neanche un piede là dentro», disse Slin, e anche Balyndar annuì. «Questo non è giusto. Vraccas si adirerebbe con noi, se accettassimo l'ospitalità di Hargorin Seminamorte. E non posso smettere di pensare che nelle rotazioni a venire avremo un gran bisogno della magnanimità del nostro creatore.» Boïndil concordava. «Cercheremo una sistemazione in una delle case intorno alla fortezza.» La colonna attraversò l'insediamento, puntando dritta verso il portale di Affronto-aVraccas. Poiché lo squadrone non si fermava, nonostante i loro richiami, i tre nani tagliarono senza esitare le corde e smontarono dalla slitta. Solo a quel punto, Hargorin e Barskalin si voltarono. «Che significa questo, Rabbioso?» Tungdil lo guardava stupito. «Perché non vuoi metterti al riparo di mura sicure?» «A te forse non importa nulla, Sapientone.» Indicò le scritte. «Ma a me sì! Io prego Vraccas, e per questo non posso entrare in quella fortezza, che diffama il suo nome e infanga la
sua parola.» Boïndil stava accanto alla sua slitta, scrollandosi di dosso lo strato di neve dal mantello e dal volto. «Troveremo qualcuno che ci ospiti, nel villaggio.» «Tu sai che il Kordrion può comparire da un momento all'altro e attraverso l'odore riconoscerti come presunto assassino della sua prole?» gli ricordò Tungdil. «In una piccola capanna non ti accorgeresti nemmeno di morire, se dovesse investirti col suo fuoco bianco.» Boïndil indicò gli Invisibili. «Anche gli Zhadár hanno camminato nel sangue e nelle interiora.» «Le nostre armature sono di tionio», obiettò Barskalin. «Per la maledetta lordura dei mezz'orchi! Anche questa capita soltanto a me!» Boïndil scalciò la neve. «Non m'importa. Io non metterò piede lì dentro, e per questo Vraccas mi proteggerà», aggiunse, indicando la porta della fortezza. «In nessun caso.» Slin e Balyndar si misero alla sua destra e alla sua sinistra. Boïndil si rese conto che si erano formati due fronti. Da una parte c'erano lo Squadrone Nero e gli Zhadár, con Barskalin, Hargorin Seminamorte e l'imperatore Tungdil; dall'altra lui
e due nani che non conosceva particolarmente bene e di cui almeno uno non gli era particolarmente simpatico. E di nuovo gli sembrò che Tungdil stesse meglio dalla parte dei nani oscuri che non dalla sua. Col permesso di Tungdil, Hargorin fece cenno ai suoi uomini di entrare nella fortezza, e gli Zhadár li seguirono. Lui invece si avvicinò lentamente al trio di oppositori. «Ti capisco perfettamente, Boïndil. Ma credimi se ti dico che l'apparenza della mia dimora inganna.» Trasse un pendaglio da sotto la cotta di maglia: era un piccolo martello di vraccasio con inciso il simbolo del Fabbro. «Io gli appartengo. L'intero squadrone gli appartiene», sussurrò Hargorin. «Ma abbiamo dovuto proteggerci dalla diffidenza degli albi; questo ci ha permesso di muoverci liberamente per tutta la regione. Sappiamo molto dell'Idoslân e della resistenza all'occupazione. Anche se gli umani ci considerano creature terribili, noi siamo dalla loro parte. Verrà il momento in cui ci sarà bisogno di noi per spezzare il dominio del male.» Hargorin sorrise. «Credimi, Boïndil. Per ogni pietra su cui schernisco Vraccas, io ho pregato il Creatore di perdonarmi; e so che, quando
entrerò nella Fucina Eterna, dovrò sperare nella sua indulgenza. L'inganno era l'unica possibilità. Non erano tempi per la lotta aperta.» Guardò verso Tungdil. «Ma, col suo ritorno, quei tempi sono cominciati.» Il Rabbioso guardò Balyndar, poi Slin. Non sembrava che volessero farsi convincere. «Rimarrò fuori», ripetè, anche se in tono meno aggressivo. «Un'ingiuria rimane un'ingiuria. Puoi consigliarci un posto dove soggiornare?» «Magari uno non troppo costoso. La nostra cassa di guerra è alquanto misera», aggiunse Slin. «Dite che vi mando io, e nessuno vi chiederà di pagare.» Hargorin preferì non insistere. «Per discutere del proseguo del nostro viaggio, c'incontreremo nella casa in cui dormirete. Fatemi sapere quale avete scelto.» Si girò e scambiò qualche battuta con Tungdil e Barskalin. L'imperatore alzò la mano in un cenno di saluto. «Noi siamo qui, se il Kordrion dovesse cercare di ucciderti»> gridò. «Dormite bene.» Poi scomparve nella fortezza, insieme con gli altri due. «Tre contro tre», osservò Slin.
«Cosa?» Balyndar socchiuse gli occhi, interessato. Il Quarto indicò la fessura attraverso cui potevano ancora gettare un ultimo sguardo sull'armatura di fiordo. «Noi tre contro loro tre. Io mi prendo Hargorin: è un buon bersaglio per la mia balestra. Il Rabbioso può ben battersi contro Tungdil, e tu ti prendi quel Barskalin.» «Io vorrei battermi contro Tungdil», replicò il Quinto. «Ma che idiozie state dicendo? Mi fate cascare i peli dalla barba!» tuonò il Rabbioso. «Nessuno di noi combatterà contro altri nani.» «Era solo un pensiero che mi era balenato per la testa. Perdona le mie ciance.» Slin si guardava la punta degli stivali, e sembrava davvero imbarazzato. «Non accadrà più, Boïndil.» Dal tono di voce di Balyndar, al Rabbioso era parso di capire che pure il Quinto aveva accarezzato pensieri del genere. E lo aveva fatto seriamente. «Cerchiamoci una sistemazione. Preferenze?» Slin giro sui tacchi e osservò le piccole case con pareti di legno e di pietra che circondavano le possenti mura di Affronto-a-Vraccas. «A
vederle, sembrano tutte uguali. Non saprei decidere.» «Allora scegliamo quella più lontana dalle offese contro il nostro dio.» Balyndar si avviò, trascinandosi dietro la slitta, e ripercorse a ritroso la strada da cui erano arrivati. Raggiunsero una fattoria con un grande fienile e bussarono alla porta. Non ci volle molto perché venisse loro aperto. Una giovane donna stava sulla soglia e li squadrava da testa a piedi. «Voi non siete guerrieri di Seminamorte?» chiese, meravigliata. Si piegò in avanti e gettò uno sguardo verso la fortezza. «Svelti, entrate, prima che vi vedano! Se vi notano, vi uccideranno!» Il Rabbioso trovò commovente che la donna si preoccupasse della sorte di nani a lei completamente sconosciuti. «Brava donna, non preoccuparti per noi perché...» Balyndar entrò in casa, passandogli davanti. «Vraccas vi benedica! Grazie per l'avvertimento.» Strizzò l'occhio a Boïndil, di nascosto. Aveva intenzione di fingere di essere straniero e di non avere nulla a che fare coi Terzi. Presentò i due compagni. «Abbiamo pensato che fosse una fortezza che si
opponesse agli albi ma, quando abbiamo visto le rune, abbiamo capito di esserci ingannati. Siamo troppo stanchi per continuare il viaggio senza fare una sosta.» Slin aveva compreso e finse di rabbrividire. «Maledetti Terzi...» Il Rabbioso era ancora immobile davanti all'ingresso; non gli piaceva l'idea di mentire agli umani. D'altra parte, in quel modo avrebbero potuto apprendere qualcosa di più sul conto di Seminamorte. «Ti ringrazio ancora», disse, entrando. «Che Vraccas ricompensi il tuo coraggio e la tua magnanimità tenendo sempre acceso il tuo focolare, donna.» La donna condusse i tre nani nella grossa cucina, dove sedeva il resto della famiglia: undici teste, da vegliardo a neonato, raccolte intorno alla pentola con la cena. Nell'aria, odore di cereali cotti e lardo fritto. «Grolf, Lirf! Svelti, uscite e tirate le slitte nel fienile. Poi cancellate le tracce», ordinò la donna. «Abbiamo ospiti», aggiunse, presentando i nani. «Veri figli del Fabbro, non Terzi.» «Per Palandiell, allora vi siete cercati il posto più schifoso di tutto il Gauragar per fare una
sosta», disse l'uomo anziano, che rise, mostrando la bocca priva di denti. «Trascorreranno la notte qui. Intanto penseremo come portarli via da qui domani, allo spuntare del sole, senza che nessuno li veda. Il signore non li lascerà in vita, se li troverà.» La giovane donna si portò una mano alla fronte. «Oh, dei! Ho dimenticato di presentarmi. Io sono Rilde.» Poi presentò tutte le persone sedute intorno al tavolo. «Boïndil Duelame?» Una donna anziana, che Rilde aveva presentato loro come Mila, guardò il Rabbioso. «Quel Boïndil che tante battaglie ha combattuto per la Terra Nascosta?» Per l'orgoglio, il Rabbioso ebbe la sensazione di crescere di parecchie spanne. «Allora è venuto per uccidere Hargorin!» esultò la ragazza di nome Xara. «Sta' buona!» la apostrofò Lombrecht, il vegliardo sdentato e decano della casa. «Tutto sommato, Hargorin è un signore buono. Chissà chi verrà dopo di lui.» Il Rabbioso vide che Lombrecht portava al collo un medaglione col simbolo di Sitalia. «Un essere umano che venera la dea degli elfi», disse rivolto all'uomo, mentre una panca veniva
scostata dal forno e avvicinata al tavolo, e i nani vi prendevano posto. «Questo è strano!» «E molto coraggioso.» Slin fece un cenno di capo verso la finestra, per indicare che i Terzi amavano gli elfi ancora meno delle altre stirpi. «Qualcuno deve conservare il loro ricordo», si giustificò il vecchio, mentre Rilde riempiva le ciotole di legno. «Erano una parte della Terra Nascosta, e non dovrebbero finire nell'oblio.» I tre nani si guardarono stupiti. «Ma, a quanto ne so io, gli elfi sono fuggiti in un posto segreto», replicò Boïndil. Poi tuffò il cucchiaio nella ciotola. Trovò che il cibo non avesse un sapore cattivo, pur non essendo paragonabile allo stufato di gugul preparato da Goda. «Se ne stanno tranquilli in un boschetto e aspettano che noi figli del Fabbro togliamo un'altra volta i diamanti dalla forgia prima che brucino. Dico male?» Rilde si sedette accanto ai nani. «Sarebbe bello, se le cose stessero così. Ma le leggende del mio popolo raccontano che la situazione è diversa.» Xara portò tre coppe e una caraffa di birra chiara.
«Credo che dovrei venire a trovare più spesso i Lunghi», sussurrò Slin a Balyndar, mentre questi si abbuffava. «È qui che si vengono a sapere le vere novità.» Il Rabbioso guardò Rilde. «Sentiamo che cosa sapete voi. Dove sono finiti gli ultimi elfi?» «Vi racconterò io la storia di come gli albi sono tornati nella Terra Nascosta e di come hanno annientato gli ultimi elfi.» Lombrecht si schiarì la voce. «Accadde circa duecento cicli fa, quando una coppia di amanti elfi s'incontrarono presso un laghetto, il Lago della Luna, che stava dove un tempo si trovava il regno elfico del Lesinteïl. Si chiamavano Fanaril e Alysante...» I bambini ascoltavano con gli occhi spalancati. E anche i nani bevevano le parole del vecchio, che in un istante li ammaliò tanto da far dimenticare loro dove si trovavano, e da mostrare loro la storia davanti agli occhi della mente. «La mia vita sarà la tua vita. Da ora e per sempre», sussurrò l'elfa, chinando il capo per baciare il suo amato. L'acqua correva dai suoi chiari capelli bagnati, cadeva sul petto scoperto di lui, gli scorreva sul ventre e finiva sull'erba morbida.
Fanaril rise, corrispondendo il gesto affettuoso. «Si potrebbe pensare che sei un'ondina, non un'elfa», la lusingò, drizzandosi. Nuda, Alysante era seduta davanti a lui. L'ultima luce del sole cadeva morbida attraverso le foglie degli alberi, prestando al suo volto un bagliore che ne aumentava la bellezza. L'elfo le prese la mano e la baciò dolcemente, prima il dorso, poi il palmo. «La mia vita per la tua vita», disse, serio. «Senza te non esisterei più.» Alysante lo abbracciò dolcemente. Sentivano il calore dei loro giovani corpi, e la passione si risvegliò; si amarono sulla riva di quel laghetto idilliaco. Poi camminarono mano nella mano fino all'acqua freddissima, per rinfrescarsi. Il loro allegro nuotare sollevava onde, e le ninfee azzurre e bianche oscillavano sulla superficie smossa dell'acqua; il laghetto sciabordava sulla piatta riva, raggiungendo l'erba verde. «Guarda, Fanaril, guarda come danzano!» rise la ragazza, nuotando fino al suo amato per abbracciarlo e baciarlo. «Danzano per noi.»
«Ma fioriscono solo per te», replicò lui, accarezzandole il volto. «Te ne porto un mazzo.» Fanaril si allontanò nuotando. «No!» cercò di fermarlo Alysante. «Là c'è un mulinello! Fa' attenzione, altrimenti ti tirerà in basso.» L'elfa rimase a galleggiare sul posto per non perdere di vista il suo compagno, ma il sole si rifletteva sulle onde in modo a lei sfavorevole; il bagliore rossastro l'accecava, e lei dovette distogliere lo sguardo. Sentì il lieve rumore, quando le braccia del giovane elfo s'immersero in acqua, e quello provocato dai piedi... Improvvisamente quei rumori tanto regolari ammutolirono. «Fanarìl?» chiamò l'elfa, piena di preoccupazione, e la sua voce riecheggiò sul laghetto senza ottenere risposta. Alysante nuotò rapida fino a terra e salì su un masso per avere una vista migliore. Mancavano tre ninfee, ma non vedeva l'elfo. La preoccupazione aumentò. L'acqua limpida del Lago della Luna, che gli altri elfi del loro piccolo insediamento evitavano, era diventata improvvisamente scura come inchiostro. La bellezza del luogo tramontava col
sole, le ombre conferivano ai dintorni un'aria irreale e tetra. Dai flutti, in cui poco prima avevano fatto un bagno spensierato, sarebbe potuto anche emergere un mostro. Il padre aveva continuamente messo in guardia Alysante sul fatto che, al calare della notte, il lago diventava malvagio; a quel punto, avrebbero pagato il prezzo per la loro disattenzione e per la loro ingenuità. Le si rizzarono sulla nuca i capelli chiari. L'elfa non osava più avvicinarsi alla riva, corse invece nel punto in cui si trovavano i suoi vestiti e li indossò. Guardò ancora una volta la superficie del lago e fece per girarsi e tornare all'insediamento per chiedere aiuto, quando qualcosa emerse ruggendo dalla superficie dell'acqua, a tre passi da lei, e le si avventò contro. Alysante indietreggiò, gridando e portando la mano al pugnale. Fece un affondo e colpì il mostro che voleva privarla della vita. «No! Smettila!» implorò il mostro, porgendole tre ninfee. «Sono io, Fanaril!» Il terrore scemò e lo sguardo della giovane, trasfigurato dalla paura, riconobbe l'amato, che sanguinava da un taglio al petto.
«Per Sitalia! Perdonami!» esclamò Alysante, spaventata. «Pensavo...» Fanaril osservò la ferita superficiale. «È soltanto un graffio», la tranquillizzò, dandole i fiori. «È colpa mia, non avrei dovuto spaventarti.» Sollevata, Alysante gli diede un bacio sulle labbra, prima di passargli i vestiti in cambio del regalo. «Non farlo mai più», lo pregò. «Tu sai che cosa si dice di questo lago, sebbene sia bello.» Rabbrividì, mentre riponeva il pugnale. «Pensavo che sott'acqua una bestia ti avesse teso un agguato e che ora volesse mangiare anche me.» Fanaril rise forte. «È soltanto un piccolo lago su cui gli anziani raccontano storie non vere, nulla più.» D'un tratto fissava le onde, con gli occhi spalancati. «Là!» gridò, agitato. «Guarda! Là c'è qualcosa!» L'elfa si girò di scatto. «Dove?» L'amato la spinse in acqua. «C'è un'ondina!» rise di nuovo Fanarìl, mentre lei sprofondava nei neri flutti. Le ninfee galleggiavano sulla superficie dell'acqua. Alysante non ricompariva.
«So che cos'hai in mente», disse l'elfo, sorridendo. «Ma non riuscirai a farmi paura.» Si avvicinò alla riva e scrutò l'acqua scura in cerca della ragazza. In effetti riuscì a scorgere un volto sottile e dalla pelle chiara. Un volto che gli si avvicinava rapidamente. «Ti vedo!» Fanarìl si tenne pronto ad afferrare l'amata per le spalle e a spingerla di nuovo sotto. Dall'acqua si levarono spruzzi, mentre la figura attraversava la superficie ed emergeva dai flutti. Ridendo, l'elfo l'abbracciò, in modo che la fanciulla capisse subito che il suo tentativo di spaventarlo non era riuscito. Ma le mani non incontrarono spalle nude; toccavano duro cuoio. Per un istante Fanarìl fissò il volto, bello ma freddo, di un'elfa sconosciuta; poi un lampo gelato gli attraversò il ventre, e il calore sgorgò da lui. Fanarìl guardò la lunga spada che l'elfa gli aveva conficcato nel corpo e crollò a terra, ferito mortalmente. Lei si levò dal Lago della Luna e con la sinistra si scostò dal volto le lunghe ciocche di capelli neri; guardò la riva e, senza emettere un suono, scomparve nella vicina foresta.
In quello stesso momento, Alysante balzò fuori dal laghetto. Il suo miserabile tentativo d'imitare il grido spaventoso di una bestia feroce terminò in una risata. «Non ci riesco», sbuffò, togliendosi l'acqua dagli occhi. «Che il mio amato si sia spaventato a morte?» chiese ridacchiando, quando vide Fanarìl sdraiato a terra. Solo quando vide il sangue e il taglio sugli abiti, Alysante capì che l'indifferenza dell'elfo non era simulata. S'inginocchiò accanto a lui e ne esaminò la ferita, guardandosi continuamente intorno per vedere se l'aggressore fosse nei dintorni. «Sitalia, salvalo! Fanarìl, apri gli occhi! Devi rimanere sveglio...» Lo scrosciare d'acqua alle sue spalle mise l'elfa in guardia, poi una grande ombra si proiettò su di lei, e un cavallo sbuffò. Alysante si guardò alle spalle e, per la seconda volta quella sera, trasalì. Dietro di lei c'erano due possenti stalloni neri dai finimenti scuri; gli occhi illuminati di rosso la fissavano pieni d'odio. In mezzo alla fronte, l'elfa vedeva il moncone di un corno segato, mentre i destrieri della notte uscivano dall'acqua, con lampi sotto
gli zoccoli che illuminavano il laghetto. Alysante sapeva chi aveva davanti. Sul dorso dei destrieri della notte c'erano due gemelli albi dai capelli neri, in cupe e sontuose armature. Uno dei due impugnava una lunga spada che puntò al cuore dell'elfa, tanto rapidamente che lei non riuscì a seguirne il movimento. L'acqua scorreva lungo la lama, finendo contro il sottile corpo bagnato di Alysante, che sentì freddo per la paura. «Dimmi chi sei, elfa», ingiunse l'albo. Lei gli disse il proprio nome, tremando. «Il tuo insediamento è lontano da qui?» Alysante non rispose e sentì subito la spada che pungeva dolorosamente tra le costole. Sangue caldo sgorgò dalla piccola ferita, colorando di rosso il tessuto dell'abito. «Rispondi!» L'elfa fece un passo indietro, allontanandosi dalla spada, si voltò e prese a correre verso la vicina foresta. Devo avvisare i miei amici! Tra lacrime di disperazione e di paura, corse attraverso il folto della boscaglia. I pensieri turbinavano nella sua mente. Vedeva Fanaril, morto; ne avvertiva il sangue appiccicoso sulle dita e non riusciva a spiegarsi da dove
arrivassero gli albi. Avevano dormito sul fondo del Lago della Luna? Tion li aveva scagliati al di sopra delle montagne e al di là dei nani? Alysante ansimava forte, tra molti pensieri confusi, fino a che non si rese conto che stava portando i cavalieri dritto verso gli ultimi superstiti del suo popolo. Allora si arrampicò sul primo albero, per proseguire la sua fuga tra i rami e il fogliame senza lasciare tracce sul suolo, e prese a saltare di albero in albero. Alla fine, completamente senza fiato e con le braccia dolenti, raggiunse il bordo dell'insediamento. Vide la luce delle lanterne, che le prometteva salvezza e che immergeva in un chiarore caldo le case lavorate in filigrana e gli antichissimi faggi di Palandiell. Sollevata, scese dall'albero e fece per avvicinarsi agli edifici. Una forte mano l'afferrò per il collo e la scagliò con violenza a terra; uno stivale le si piantò sulla nuca, premendola senza pietà contro il suolo. «Prima Tirîgon ti ha chiesto se il tuo insediamento fosse lontano dal laghetto», le sussurrò l'aggressore. «Gli riferirò la tua risposta, elfa.» Silenzioso, un pugnale a doppia
lama sortì dalla guaina. «Ora ti mando dal tuo amato. Sta' certa che il resto dei tuoi simili ti seguirà presto.» Alysante cercò di emettere un ultimo grido per dare l'allarme al villaggio, ma il pugnale saettò verso il basso e la condusse nella terra in cui Fanaril l'attendeva tra lacrime di disperazione... Nella cucina c'era un profondo silenzio. Il Rabbioso si meravigliò delle ottime doti di narratore di Lombrecht, pur privo di denti. «In questo modo gli albi sono riusciti a raggiungere di nuovo la Terra Nascosta», concluse il vecchio; in tono grave. «Non sono giunti dal sud guidati dall'imperatore Aiphatòn?» obiettò Slin, facendo capire con uno sguardo agli altri due nani che voleva vedere quanto quelle persone sapessero degli albi. Il Rabbioso aveva un'idea del significato del racconto. Barskalin aveva accennato al fatto che gli albi erano giunti da nord, e Lombrecht aveva raccontato quella leggenda sul loro ritorno. C'era un nocciolo di verità.
Lombrecht sospirò. «Si sostiene che vengano dal sud. Ma io conosco questa leggenda, e a me piace. Aiphatòn ha sicuramente inventato altre storie per accrescere la propria fama. Ma noi tutti sappiamo che non è possibile battere il mago.» «La leggenda spiega anche come hanno fatto gli Occhineri a uscire semplicemente dall'acqua? Respiravano come pesciolini?» Il solo pensare a un lago nero provocava a Boïndil sensazioni spiacevoli. «Mio nonno mi raccontava che nel Lago della Luna sfociava un fiume sotterraneo che sorgeva da una caverna nella Terra Nascosta. Gettava malvagità sulle sue rive e faceva rabbrividire la maggior parte delle persone che volevano bagnarsi in esso. Questo per me spiega l'aura negativa e le molte leggende cupe intorno a quel laghetto.» Lombrecht usò il cucchiaio per grattare il tavolo e tracciare linee con cui spiegarsi meglio. «Gli albi hanno seguito il corso del fiume, hanno superato da sotto i Monti Grigi e sono riemersi da quelle acque. Più tardi hanno fondato di nuovo Dsôn Bharà e hanno preso il nome di Dsôn Aklàn.»
Boïndil allontanò da sé il piatto vuoto. «Ma la Terra Nascosta a quest'ora dovrebbe traboccare di albi. Il passaggio sarà sicuramente ancora aperto.» «No, è crollato. Lo intuiamo dal fatto che il Lago della Luna è prosciugato per sempre. Là dove si trovava un tempo, non c'è null'altro che una profonda piana rocciosa in cui non riesce a crescere nulla. Gli albi vi hanno costruito dentro la loro città, ma non c'è più il tunnel, a quanto si dice», spiegò Rilde, sollevata. «Ci sono già così tanti di loro.» Lombrecht si fece portare da Xara un boccale di birra e lo vuotò quasi d'un fiato. Poi ruttò molto forte. Slin approvò con un applauso. «Ben detto, vecchio! Adesso ho capito come ha perso i denti», aggiunse, rivolto al Rabbioso. «Potremmo quasi conferirgli il titolo di nano onorario.» Balyndar scosse la testa. «Faremmo meglio a coricarci. Chissà che cosa ci toccherà domani.» Si alzò. Rilde lo imitò. «Ma certo. Potete dormire nel fienile. O nella piccola stanzetta sopra la stalla, dove teniamo il cibo per gli animali; là è sicuramente più caldo.»
«Sopra la stalla», approvò il Quinto. «Preferisco stare al caldo e sentire odore di stalla.» Grolf e Lirf portarono agli ospiti un vaso da notte e un altro boccale di birra, più una pila di vecchie coperte per combattere il freddo. L'odore di mucca e il calore raggiungevano i nani attraverso le tavole, e molto presto il Rabbioso si addormentò, sazio e sfinito. L'ultima cosa cui pensò fu che avevano dimenticato di dire a Hargorin dove si erano sistemati. Ciò significava che dovevano alzarsi presto e bussare alle porte della fortezza. Voleva che Rilde e la sua famiglia non lo venissero a sapere: non dovevano fare un sol fascio degli onesti nani della Terra Nascosta da una parte e dello Squadrone Nero e gli Zhadár dall'altra. La mattina, Boïndil, Slin e Balyndar riuscirono a raccogliere le loro cose e ad abbandonare l'aia senza essere visti dalla famiglia di agricoltori. Camminarono ai margini dell'insediamento e si avvicinarono alla porta secondaria della fortezza, dove bussarono. Benché le guardie li avessero subito riconosciuti e li avessero invitati
a entrare per ordine di Hargorin Seminamorte, i tre non misero piede nel cortile interno. Le guardie mandarono dunque un servitore ad avvisare il Terzo del loro arrivo. Ci volle parecchio prima che tornasse, seguito da altri tre servitori che portavano un tavolo già apparecchiato e una panca. «Potete fare colazione qui davanti, se volete», disse. «Ma dovete sbrigarvi. La colonna sta partendo per Dsôn Bharà.» I tre nani si guardarono e si misero a mangiare in silenzio davanti alle porte della fortezza; con quello, l'intenzione di tener nascosta la loro presenza là, come avrebbe voluto il Rabbioso, era vanificata. Il sole non si era ancora alzato del tutto, ma non ci sarebbe voluto molto perché la voce facesse il giro del villaggio. «Avremmo dovuto presentarci con dei nomi falsi», disse Balyndar, bevendo un sorso di tè caldo. «Adesso saremo messi in relazione con quei nani disonorevoli.» «Questo non gioverà di certo alle canzoni che scriveranno su di noi.» Slin sospirò, facendo un cenno del capo verso il cortile interno, in cui i servitori stavano portando sostegni occupati da
armature nere. «Quelle sono sicuramente per noi.» «Di certo non m'infilerò in quel guscio sotto gli occhi di tutti.» Boïndil cercava disperatamente un'opportunità di appartarsi. Non avrebbe messo piede in Affronto-a-Vraccas. Se la cavarono sorreggendo a turno in due un mantello, come fosse un paravento, mentre il terzo si armava. Il Rabbioso trovò che in quell'armatura Balyndar fosse ancora più simile al padre: era del tutto evidente di chi in realtà fosse figlio. Slin invece non stava affatto bene nel suo travestimento: qualche elemento dell'armatura stava largo sul corpo del balestriere che, infelice, ci si mosse dentro; il metallo cigolò leggermente. «Almeno voi due sembrate guerrieri.» «Tu invece potresti essere scambiato per uno gnomo travestito», lo canzonò Boïndil. Nel cortile comparve lo Squadrone Nero; davanti cavalcavano Tungdil, Hargorin e Barskalin, che indossava un'armatura della cavalleria. Era un'immagine impressionante, che incuteva timore. Dei servi si affrettarono a condurre altri tre pony per i nani alla porta.
«Buongiorno», li salutò Tungdil. «Abbiamo patito la vostra mancanza.» «C'era un motivo per non farci sapere dove avete trascorso la notte?» La domanda, uscita dalla bocca di Hargorin, sembrava innocua, eppure il Rabbioso pensò che ci fosse una punta di sospetto. «Non abbiamo fatto caso ai nomi», disse Slin, prima che l'altro accennasse una risposta. Il signore della fortezza non si accontentò. «Che casa era, allora?» Io non li tradisco. Il Rabbioso montò in sella e si fece strada fino ad affiancare Tungdil, e Hargorin dovette fargli posto. «Non ne ho idea. Una in cui i mobili erano tutti troppo grossi per me.» Sogghignò con aria innocente. Slin rise forte e Balyndar si unì a lui. Montarono in sella e la colonna si mise in movimento. Boïndil guardò i cavalieri, il cui numero superava i centocinquanta. «Devo supporre che gli Zhadár si siano mescolati allo Squadrone Nero?» «Giusta osservazione, Rabbioso!» Tungdil non sembrava schernirlo. «Vogliamo dare agli Dsôn Aklàn l'impressione che gli Zhadár siano
ancora impegnati a rubare la covata del Kordrion.» «E che ne è stato della discussione, Sapientone?» chiese Bo'indil, abbassando la visiera dell'elmo. «Dove sistemiamo l'uovo?» «Ne abbiamo già parlato. Abbiamo anticipato la decisione.» Tungdil lo guardava con un misto di amicizia e disapprovazione. «Non sapevamo dove mandare il messaggero per invitarvi a partecipare.» Il Rabbioso annuì. «Allora dimmi un po' come procederemo.» L'imperatore dei nani puntò lo sguardo in avanti e alzò un braccio. Dietro di lui si levò uno stendardo che esibiva una runa sconosciuta, una commistione di rune naniche e albiche. Tungdil inclinò leggermente la testa. «Che cosa dici del mio blasone, Rabbioso? Non è forse bello?» Boïndil annuì. Ma non pensava affatto che lo stendardo fosse bello.
XIV Terra Nascosta, ex regno del Weyurn, Seenstolz, 6491°/6492° ciclo solare, inverno La bocca della regina si mosse rapidamente, le mani guizzarono, tracciando segni per stornare la sventura che incombeva su di lei, ma l'incantesimo di Coïra la raggiunse troppo in fretta. Wey chiuse gli occhi e trattenne il respiro. «Madre!» gridò la principessa, vedendola circondata da fiamme abbaglianti. Sisaroth l'aveva indotta a lanciare il suo incantesimo in modo troppo istintivo, provocando così una catastrofe. Il fuoco magico bruciava come carbone ardente. Coïra avrebbe voluto adoperare un controincantesimo, ma non riusciva a fare altro che fissare tremante le fiamme in cui era imprigionata sua madre. L'albo era ancora lì: si era chinato per schivare la sfera di magia, accovacciato a terra. Da quella posizione colpì con la spada a due
mani; la punta dell'arma balenò verso la gola di Coïra. «Attenta!» Con uno strattone, Mallenia tirò indietro la maga, e la lama andò fuori misura. Sisaroth la incalzò subito, ma venne fermato dalle spade dell'eroina. «Questa volta non scapperai.» Sorrise con cattiveria, provando un altro affondo. Mallenia indietreggiò. «Coïra, fate qualcosa!» gridò, vedendo che l'albo balzava su di lei. Ammirò l'eleganza inimmaginabile insita in ogni movimento dell'avversario. L'ammirazione però non la trattenne dal parare o schivare gli attacchi successivi. «Maledizione, Coïra!» La luce tremolante nel corridoio si spense, e si udì il tonfo di un corpo che cadeva. La regina Wey XI giaceva sul pavimento come una specie di fagotto carbonizzato; gli occhi erano spalancati e costituivano l'unico elemento bianco in un volto altrimenti nero. La pelle penzolava, profondamente piagata, i capelli erano stati consumati dalle fiamme. Mallenia guardò con maggiore attenzione e scorse un movimento degli occhi. «Coïra, vostra madre è ancora viva!»
L'albo rise. «La morte non l'ha dimenticata. Non rallegrarti troppo in fretta.» A sorpresa scagliò la spada contro la donna, colpendola proprio nel punto in cui era stata morsa dal destriero della notte. La lama perforò la carne come se fosse morbido burro, attraversò l'osso e inchiodò Mallenia all'armadio. Gemendo, la donna lasciò cadere una delle sue spade, ma tenne l'altra puntata davanti a sé. «Per gli dei, principessa: fate qualcosa, o è la fine!» Coïra fece due passi e si aggrappò allo stipite della porta, guardandosi intorno come se cercasse qualcosa. Non aveva ancora superato il trauma. Sisaroth squadrò la maga, poi si rivolse con tutta calma a Mallenia. Sedette sul letto, davanti a lei. «L'ultima della stirpe di Mallen von Ido... Ci hai tenuti impegnati a lungo, e a lungo ci hai divertiti con questa caccia. Ma c'è pur sempre una fine.» Guardò brevemente nel corridoio e fece un segno a qualcuno che la donna non riusciva a vedere. «Morirai nella tua terra, davanti agli occhi di tutti, su un ceppo per le esecuzioni. I tuoi biondi capelli cadranno nel
sangue. Questa è la pena per sedizione, cospirazione e molteplici omicidi.» «Conosco i vostri piani», replicò Mallenia, nella lingua degli albi. «Non m'inganni.» Sisaroth fece una smorfia, come se lo stessero torturando. «Che pronuncia orrenda! Chi ti ha insegnato? Dimmi il suo nome, perché lo possa uccidere.» Mallenia rise. «Ho trovato un supplizio adatto a voi?» L'albo si mosse a malapena, soltanto un fremito, e in un istante colpì la donna in faccia con un pugno che le fece cedere le ginocchia. Non appena lei iniziò ad accasciarsi, la lama che la inchiodava si fece ancora più spazio tra la sua carne, facendole battere i piedi per il dolore. Senza neppure accorgersene, Mallenia lasciò cadere anche la seconda spada. «Non parlare mai più in albico, o ti strapperò la lingua», minacciò Sisaroth. Da uno specchio sull'anta dell'armadio, Mallenia riuscì a vedere cosa stava accadendo nel corridoio: l'alba era china sulla regina Wey e le stava piazzando la punta della spada a due mani sulla schiena.
«La sua morte si chiama Firûsha», sibilò Sisaroth, cupo. «Non potete pensare davvero di farlo», pregò Mallenia, disperata. «Uccidete me, ma lasciate lei in vita. Non avete nulla da guadagnare dalla sua morte.» «Sì, invece! Guadagneremo la gratitudine del drago. Faremo noi al suo posto quello che lui non ha il coraggio di fare.» Sisaroth alzò la mano, la sorella annuì. «Ha mandato un messaggio a Lohasbrand», disse Mallenia. «Il drago supporrà che voi abbiate ucciso non solo lei, ma anche i mezz'orchi e il governatore. Porterà guerra all'Idoslân e ai regni degli albi. Tutti! Così i vostri piani verranno frustrati.» Guardò la sovrana, che gemeva piano. «Solo Wey può mettervi al riparo da tutto ciò.» Il volto di Sisaroth perse la sua aria di superiorità. Firûsha guardò il fratello. «Se sta dicendo la verità, faremmo meglio a lasciarla in vita.» «E a che scopo? Perché possa raccontare altre menzogne a Lohasbrand? O perché possa trarre nuovo potere dalla sorgente e chiederci conto della nostra incursione?» Sisaroth
sembrava aver preso la sua decisione. «È stata la volontà di Samusin e di Tion a portarci qui a Seenstolz. È giunta l'ora di smuovere la struttura del potere nella Terra Nascosta. Perché non cominciare dal Weyurn a sferrare il primo colpo?» «Sei sicuro che sia la scelta giusta?» replicò Firûsha. «Sì.» L'albo si alzò dal letto e uscì nel corridoio. «Sono terribilmente rammaricato di non poter portare via le ossa. Un vero spreco.» S'inginocchiò e colpì la maga sotto la nuca, col pugnale. Rapidamente le staccò la testa, gettandola con noncuranza di lato, per accertarsi che nessun incantesimo curativo potesse salvarla. Poi alzò gli occhi e guardò Coïra. «La figlia deve seguire la madre. Sii la sua morte, sorella.» Mallenia strinse i denti e si lasciò cadere, sopportando coraggiosamente che la lama le tagliasse la carne e le ossa. Ma ormai era libera. Strinse le dita intorno all'elsa della spada, la raccolse e si gettò verso la maga inerme, per difenderla da Sisaroth. Un ultimo gesto di resistenza.
Firûsha le sbarrò il passo, vibrando un colpo che le spezzò la lama della spada. «Le armi degli umani non valgono niente.» Rise e afferrò Mallenia nel punto in cui il braccio era straziato; strinse e la scagliò sul letto. «Quanto bel sangue», disse al fratello. «Dovremmo raccoglierlo. Chissà che cosa se ne può fare.» Poi guardò Coïra. «Dolce sangue di maga. Darebbe a qualunque opera d'arte un tocco particolare.» Poi sospirò, dispiaciuta. «E noi non abbiamo nulla con cui conservarlo.» Dal corridoio giunsero voci smorzate; le guardie sembravano avvicinarsi. «Qui!» gridò Mallenia. «Siamo sotto attacco!» Firûsha e Sisaroth scoppiarono a ridere contemporaneamente, mostrando in modo lampante che non si sarebbero lasciati mettere in fuga dall'assalto dei soldati. Presto nel palazzo ci sarebbero stati da piangere anche altri morti. L'albo si avvicinò a Coïra, stringendo nella sinistra il pugnale ancora insanguinato. Teneva gli occhi fissi sul volto della ragazza sconvolta, per poterne osservare con cura l'agonia, e calò il colpo.
In quell'istante un elmo lo colpì sulla nuca, e Sisaroth mancò il bersaglio. La lama si conficcò nel legno e si ruppe sopra l'impugnatura. L'albo volteggiò su se stesso, estraendo il secondo pugnale; poi si ritrovò avvolto da una nube di fuoco. «Vile assassino!» esclamò qualcuno, furente. «Non si uccide così facilmente un discendente dell'Incredibile Rodario!» Una seconda vampata partì sbuffando, ma Sisaroth riuscì a evitarla. Mallenia aveva riconosciuto la voce di Rodario. «Aiutateci!» gridò, rivolgendosi alle guardie. Non credeva che l'attore avrebbe resistito a lungo contro gli albi. Firûsha la colpì in testa col piatto della sua arma; la donna cadde tra i cuscini, mezza stordita. L'alba fece per accorrere in aiuto del fratello, ma improvvisamente venne colpita al petto da un raggio giallo vivo che scavò un foro largo un braccio, sbalzandola attraverso la stanza, contro la finestra chiusa. I vetri si frantumarono per l'impatto dell'energia, sciogliendosi in gocce incandescenti. Firûsha riuscì a emettere solo un singulto stupito.
Mallenia rotolò su se stessa e vide Coïra con le braccia distese e gli occhi lucidi, in piedi. «Grazie agli dei...» gemette. «Per cosa? Per la morte di mia madre?» replicò amaramente la maga, affrettandosi a uscire dalla stanza. Mallenia era troppo debole per alzarsi. A giudicare dai rumori, dalle grida, dal tintinnio di armi e dalle luci che di nuovo tremolavano, seguite dal crepitio e dagli sbuffi di un grande fuoco, pensò che la lotta contro l'ultimo dei tre gemelli fosse pienamente divampata. Ma avvertì pure che la sua scintilla vitale si stava spegnendo. La perdita di sangue era eccessiva. Le palpebre palpitavano, le sembravano più pesanti di un'incudine, e lei non sentiva più dolore. Lottò contro la spossatezza, ma l'unica cosa che desiderava era chiudere gli occhi e dormire, dormire, dormire... Terra Nascosta, antico regno elfico del Lesinteïl, Dsôn Bharà, 6491°/6492° ciclo solare, tardo inverno L'inverno aveva già perso forza e su colline e prati si scioglieva la neve. Si sentiva ovunque
gorgogliare e scrosciare; piccoli ruscelli si gonfiavano diventando torrenti impetuosi. L'assortita compagnia di nani cavalcava attraverso profondi pantani; cortine di pioggia inzuppavano i vestiti e coprivano le armature. E tuttavia si avvicinavano inarrestabilmente alla prima meta del loro viaggio: Dsôn, la seconda città a portare quel nome, dimora degli albi del nord. Considerate le circostanze, era stato un viaggio rapido. Dovevano a Hargorin Seminamorte il fatto di potersi avvicinare alla capitale del regno degli albi senza essere fermati da una pattuglia; tutti conoscevano lo Squadrone Nero e il suo comandante. «Il Kordrion non si fa più vedere», disse il Rabbioso. «Che abbia perso la voglia d'inseguirci?» «Finché l'uovo è vivo, il mostro lo cercherà», lo rassicurò Tungdil. Il Rabbioso notò un gruppo in avvicinamento: albi che cavalcavano su tori di fuoco, brandendo lunghe lance. Mi sono rallegrato troppo in fretta. Sogghignò. Vediamo un po' se trovo qualcosa da fare.
Tungdil guardò Hargorin. «Lascia parlare me. Ci chiederanno sicuramente il significato dello stendardo.» Gli albi tirarono le redini dei tori; il comandante diede un breve ordine, e i guerrieri abbassarono le lance. L'albo fece avanzare di altri tre passi il suo toro, che sbuffò forte. «Pensavamo che cavalcassi da solo, Hargorin Seminamorte. Ma ci è stato detto che tra la tua gente si trova un nano con un insolito blasone.» Mentre parlava, guardava Tungdil; gli occhi chiari coglievano ogni minimo dettaglio, ogni runa sull'armatura. Boïndil osservava l'albo, i cui lunghi capelli biondi sporgevano dall'elmo in tionio; sembravano formare un colletto intorno a collo e spalle. Il volto era simile a quello di tutti gli altri: bello, crudele e dalle orbite nere. Prima o poi mi piacerebbe vedere un albo grasso. Un albo grasso e goffo, più brutto di una femmina di mezz'orco e coi denti storti. Il nano ghignò dietro la visiera chiusa, confondendosi nella massa dello Squadrone Nero, esattamente come Slin, Balyndar e i ventitré Invisibili. Il camuffamento doveva assolutamente reggere;
da esso dipendeva il successo della loro impresa. «Ti saluto, Ùtsintas», disse Tungdil con una voce incredibilmente bassa, capace d'incutere rispetto. Hargorin gli aveva detto in anticipo il nome dell'albo. «Sono Tungdil Manodoro, imperatore delle stirpi dei nani della Terra Nascosta e membro del clan dei Terzi.» Ùtsintas aprì la bocca. «Che cosa...?» Tungdil continuò a parlare, con gran disinvoltura. «Portami dagli Dsôn Aklàn. Devo negoziare con loro. Subito.» Ùtsintas richiuse la bocca. Boïndil sorrise. All'Occhineri non deve capitare spesso di essere trattato così. Tungdil si piegò un po' in avanti sulla sella. «Hai capito quello che ho detto, Ùtsintas? O il mio nome non ti è familiare? Sei così giovane che nessuno ti ha raccontato del nano che ha ridotto in cenere la vecchia Dsôn?» «Certo che conosco questo nome...» L'albo era incerto; guardava lo stendardo. «Che cosa significa? Non è né albico né nanico, ma una commistione di entrambe le lingue...»
«Significa che io sono allo stesso tempo condottiero e sovrano, nella terra al di là della Forra Oscura.» Tungdil fece avanzare il suo pony fino a trovarsi davanti al toro di fuoco. Col nano in groppa, il piccolo cavallo sembrava superiore perfino rispetto al possente animale, e non mostrava nessuna paura del corpo massiccio e delle corna. «Sei davvero Tungdil Manodoro? E sei davvero tornato da là?» Ùtsintas stava progressivamente riassumendo il controllo di sé. «La barriera è caduta per qualche istante, e così sono riuscito a tornare.» Il volto di Tungdil s'incupì. «Ora devo parlare con gli Dsôn Aklàn. Vuoi che passiamo oltre o intendi accompagnare me e Hargorin Seminamorte?» Boïndil avrebbe voluto ridere forte. Il mio Sapientone tratta l'albo alla stregua di un fattorino. «Non è consentito che altre creature pongano piede nel sacro cratere.» «Io sono stato molto prima di te nella vera Dsôn», replicò Tungdil, sprezzante. Lo Squadrone Nero si fece prendere dall'ilarità, umiliando ulteriormente l'albo. «Sii quello che coronerà il patto tra i Terzi e il tuo popolo.» Posò
come per caso la mano sull'impugnatura della Sanguinaria. «Io vado a Dsôn. Puoi scegliere se accompagnarmi o...» Ùtsintas annuì. «Ti guiderò.» Guardò Hargorin. «Lui e la sua gente ti aspetteranno qui.» «No. Mi spetta una guardia del corpo», ribatté Tungdil. «Trenta guerrieri sono il minimo. E non osare contraddirmi ancora!» L'albo dovette riflettere a lungo. «Trenta. Non di più.» Tungdil fece segno agli Zhadár, al Rabbioso, a Slin e a Balyndar di uscire dalla formazione. «Questi sono i migliori che Hargorin abbia. Mi hanno giurato subito fedeltà e devono avere l'onore di vedere Dsôn.» Ùtsintas rivolse loro uno sguardo ammonitore. «Mi seguirete e non cambierete strada. Chi devierà verrà punito con la morte. Questo vale anche per te, Tungdil Manodoro.» Ordinò al toro di fuoco di girarsi e si diresse lentamente verso la città. «Tu non riusciresti a uccidermi», mormorò Tungdil. I nani che l'imperatore aveva scelto lo seguirono. Hargorin rimase indietro: li avrebbe aspettati in quel punto.
Boïndil dovette dominarsi molto per non cedere al desiderio di parlare con Slin. Riteneva che Tungdil recitasse in modo meraviglioso. In silenzio percorsero le ultime miglia di pianura che li separavano dal cratere in cui sorgeva la seconda Dsôn. Intorno a loro si levavano monumenti belli quanto spaventosi, formati da ossa legate insieme con fili d'oro, di tionio e altri metalli nobili; agli alberi morti erano stati appesi crani, mentre altrove si agitavano al vento cose che al Rabbioso ricordavano pale di mulini a vento, ma erano significativamente più grandi. Dalla tensione giudicava che fossero di pelle; preferiva non sapere di che tipo di pelle. Più si avvicinavano al profondo cratere, più le opere d'arte si succedevano sempre più ravvicinate, spuntando dalla terra come escrescenze di un incubo. Gli albi si erano molto divertiti a imitare la transitorietà della natura e renderla ancor più cupa nella morte. Il Rabbioso faticava sempre più a tacere. Il terrore che lo circondava invitava la sua lingua a parlare. Voleva discutere, parlarne col Sapientone e sentire che cosa avevano da dire
Balyndar e Slin al riguardo; avevano però deciso di mantenere un assoluto silenzio. Gli Zhadár avevano ricevuto i loro ordini: senza farsi notare, strada facendo avrebbero lasciato in città, ben nascosta, la slitta con l'uovo; perfino nel palazzo degli Dsôn Aklàn, se ci fossero riusciti. Che i sovrani degli albi abbiano eretto un'altra torre d'ossa? si chiese Boïndil. La vecchia torre a Dsôn Balsur era stata edificata con le ossa dei nemici uccisi: duecento cicli potevano essere bastati per accumularne una simile quantità? Il guerriero si alzò sulla sella, ma non riuscì a scorgere nessun edificio che spuntasse oltre il bordo del cratere. Trovandosi a guardare una vistosa opera d'arte, dovette trattenersi per non brandire l'azza contro Ùtsintas e la sua scorta, e sentì un gemito inorridito provenire anche da sotto l'elmo di Slin. Su un muro appositamente eretto erano stati praticati dei rilievi. Si vedevano sempre albi che combattevano contro i loro nemici, sconfiggendoli. Ma, mentre gli albi erano stati rappresentati a grandezza naturale in tionio e argento, per rappresentare i nemici gli artisti avevano usato dei cadaveri. Il Rabbioso si
trovava a fissare corpi di nani in decomposizione. «Devono essere un centinaio!» esclamò Balyndar, che lottava visibilmente per non perdere il controllo. «Una fine del genere non è degna di un figlio del Fabbro», proseguì a voce più bassa. «Ammuffire per il divertimento degli Occhineri... Questo non lo possiamo accettare. Quei poveri resti hanno bisogno di degna sepoltura. «Silenzio!» ordinò Tungdil, con voce a malapena percettibile. «State calmi, o rovinerete un piano di portata ben più ampia.» Ùtsintas si girò. «Un centinaio?» ripetè, divertito. Non dava l'impressione di aver percepito il resto dello scambio di battute sussurrate. «A ogni stagione, l'artista ha bisogno di nuovi cadaveri per sostituire quelli vecchi. In inverno ha meno difficoltà, perché il gelo conserva la carne. E gli umani non sono un problema, di loro ce n'è più che a sufficienza. Ma le stirpi dei nani sono più difficili da avvicinare. Li mietiamo soprattutto tra i Quarti. Sono più facili da prendere.» «Mietiamo?» sbottò il Rabbioso.
Ùtsintas sogghignò, aveva sentito quell'esclamazione. «Mi meraviglia che un Bramante si comporti come una persona d'animo sensibile. In fin dei conti, ci portate materiale in continuazione.» «Si è alzato col piede sbagliato», intervenne Tungdil. «È tutta la rotazione che devo lottare col suo malumore.» «Se desideri liberarti di lui...» L'albo indicò il rilievo cui stavano passando accanto. «Ehi, io posso sistemare te! Ci staresti bene dentro, Occhineri!» ribatté Boïndil. Aveva parecchia voglia di far passare la boria a quell'albo. «Basta così!» lo rederguì Tungdil. «Altrimenti accetterò la proposta di Ùtsintas.» Il Rabbioso notò, confuso, che quella frase era sembrata molto seria e nient'affatto recitata. Dopo non molto, raggiunsero la strada sinuosa che conduceva giù nel cratere. Boïndil emise un verso di stupore quando vide ciò che si estendeva sotto di lui. Le pareti della voragine erano ripide, verticali, con un diametro di circa dodici miglia; in basso scendeva sicuramente di tre miglia, se non perfino di più.
Sul fondo del cratere dominava l'oscurità. Circa duecento case dalle forme più disparate si ergevano seguendo uno schema molto preciso intorno a una montagna posta al centro. Per costruire gli edifici era stato impiegato legno nero e bianco, e si era giocato col forte contrasto tra i due colori. A volte i tetti convergevano a punta; in altri punti sembravano formare un solo grande piano inclinato in cui erano incassati i balconi. Alcune case ricordavano torri esagonali; altre invece sembravano possedere un'infinità di angoli. Darei volentieri uno sguardo, pensò il Rabbioso. Come hanno intagliato sedie, tavoli e armadi? Gli Occhineri che vivono in case del genere passano sicuramente tutto il tempo a fare attenzione a non sbattere contro gli angoli appuntiti. Là dove non c'erano case, gli albi avevano collocato altre sculture. Boïndil stimò che la montagna fosse alta un miglio e larga due. Sopra vi poggiava un'oblunga costruzione rettangolare, al cui centro si alzava una cupola di scintillante vetro nero.
Sul bordo posteriore della montagna si alzava una massiccia torre, dalla base di almeno venti passi per venti e alta cento. Dalla sua cima partivano numerosi cavi metallici che si tendevano sopra la città fino a raggiungere i bordi del cratere. E che se ne fanno di quelli? si chiese il Rabbioso. Per scorgere i dettagli occorreva avvicinarsi di più. «Non somiglia alla Dsôn che conoscevo. L'avete cambiata molto», disse Tungdil a Ùtsintas. «Le case sembrano solitarie e perdute nel cratere.» L'albo annuì. «È un inizio. Torneremo a essere numerosi quando i Quinti saranno finalmente battuti.» «Anche allora il Kordrion continuerebbe a stare nei Monti Grigi. E lui mangia tutto ciò che trova», obiettò Tungdil. «Lo sistemeremo in fretta. Prima però aspetteremo che ci tolga dai piedi gli scavaroccia. Così ci risparmia la fatica.» L'albo indicò l'edificio. «Là governano gli Dsôn Aklàn.» «Nella vecchia città il monte era più alto, e anche il cratere è cambiato. Perché?»
«Questo dovrai chiederlo allo Dsôn Aklàn. Deciderà lui se questo ti riguarda oppure no.» L'albo guidò il toro di fuoco verso l'ampia strada che scendeva lungo le pareti del cratere. Il Rabbioso notò che, a ogni piega della tortuosa strada, la luce scemava sempre più; quell'oscurità, emanata dalla città, penetrava sino in fondo all'anima. Il fatto che il fondo fosse nero derivava da molti piccoli sassolini che servivano da rivestimento. Boïndil suppose che derivassero dall'erosione della montagna centrale; ciò avrebbe risparmiato agli albi il faticoso trasporto sulla strada a serpentina. Il loro percorso li condusse su un'ampia strada che puntava dritta verso la montagna e il palazzo sulla sua sommità. Il Rabbioso era curioso di sapere in che modo gli Zhadár sarebbero riusciti a nascondere l'uovo: gli albi li sorvegliavano con attenzione. Quella cupa atmosfera minacciava di privarlo del coraggio e della fiducia. Alzò la testa e guardò in direzione del cielo, che gli sembrava infinitamente lontano. Vraccas, tu sai bene che non mi disturba vivere sottoterra, ma questa oscurità mi mette così a disagio che vorrei stare alla luce del sole.
Cavalcarono accanto alle opere d'arte che erano state erette in onore di Tion, degli Eterni e degli antichi abitanti della città, annientati dalla Stella del Giudizio. Còme in risposta a un comando silenzioso, Ùtsintas e i suoi chinarono davanti a esse la testa. «Mostrate rispetto. Chinate il capo», ordinò l'albo ai nani. «Davanti ad albi morti?» replicò Tungdil. «Davanti agli spettri», disse Ùtsintas. «Sono rimasti qui per preservare il Lago della Luna dagli elfi. Quando gli Dsôn Aklàn ritornarono, gli spettri si mostrarono loro e pretesero ciò che vedete, come ricompensa per i loro servigi.» Con grande sorpresa del Rabbioso, Tungdil fece quanto richiesto, e al suo seguito non rimase altro che simulare rispetto. «Mi ricordo che, quando venni nella vecchia Dsôn per bruciare la città, sentii di non essere mai davvero solo», disse Tungdil all'albo. «Ritenevo che i rumori fossero opera del vento.» «Erano gli spettri», ripetè Ùtsintas, spronando il toro di fuoco. «Sbrighiamoci. Dopo il tramonto, di norma, lo Dsôn Aklàn non riceve più nessuno.»
Cavalcarono fino ai piedi della montagna. Un'immensa scala in marmo grigio portava in alto; a destra e a sinistra scorrevano rivoli rossi, ogni trenta passi c'era un pianerottolo in cui si trovava una fontana. Anch'esse erano di marmo grigio e vi zampillava del liquido rosso. I tori di fuoco e i pony salirono una rampa dopo l'altra, fino a che non si furono lasciati alle spalle i due terzi del percorso; poi la colonna dovette smontare e proseguire a piedi. Il Rabbioso trovò la scalinata molto stancante, perché la distanza tra i gradini era stata pensata per gli albi e non per nani dalle corte gambe. Non potè fare a meno di notare che il lavoro d'intaglio della roccia era stato svolto in maniera eccellente. Era perfetto, come ci si poteva aspettare dagli albi. Per conferire ancora maggior splendore alla scala, un gradino ogni due era stato lucidato e incastonato di pietre preziose. I gradini in quel punto erano interamente fatti di cristallo trasparente, e attraverso di essi si vedeva il liquido rosso. «È stato fatto un gran lavoro», disse Tungdil. «Anche se mi manca la vecchia torre d'ossa.»
«Gli Dsôn Aklàn non volevano essere tanto temerari da paragonarsi agli Eterni. Questo spetta solo all'imperatore Aiphatòn, che vive in un altro luogo.» Ùtsintas salì l'ultima rampa e raggiunse la piana antistante il palazzo. Tungdil lo seguiva, poi venivano il Rabbioso e il resto del gruppo. Si trovavano a quaranta passi dalla gigantesca facciata in marmo dell'edificio. Boïndil dubitava che con una balestra si potesse tirare tanto in alto da raggiungere il tetto, su cui luccicava la scura cupola. «Com'è il palazzo dell'imperatore?» chiese Tungdil. «Non lo so. A me non è permesso fare visita all'imperatore.» Utsintas li guidò al portale, che si trovava all'estremità di un lungo colonnato. Il Rabbioso tornò a sogghignare. Non ci puoi andare perché gli Occhineri del sud non te lo permettono, pensò. Improvvisamente gli balenò in mente l'idea che le pattuglie non cavalcassero attraverso Dsôn Bharà per contrastare la resistenza del Gauragar, bensì per tenere a distanza gli indesiderati parenti. Scommetto che
non un solo albo del sud ha messo piede nel cratere. Gli albi non avevano affatto perso la loro inclinazione per l'impiego di ossa di ogni genere. I nani videro che le ossa più disparate erano state fissate alle pareti per creare un motivo a suo modo affascinante. Le borchie del portale, alto sette passi e largo quattro, consistevano in femori disposti in modo meticoloso; dalle aperture sporgevano teschi di tutte le razze della Terra Nascosta, a parte gli albi. Quattro guardie aprirono il portale. Dietro si estendeva uno scuro corridoio, le cui pareti erano rivestite di drappi rosso carminio. Non c'erano immagini crudeli, né ossa, nulla che facesse venire i brividi. È diverso da come mi aspettavo. Piuttosto sorpreso, il Rabbioso camminò dietro Tungdil e Utsintas che, dopo molte curve del corridoio, ordinò loro di fermarsi davanti a una porta nera. «Ti annuncio allo Dsôn Aklàn.» Utsintas bussò. Immediatamente un albo in lunghe vesti gli aprì, e Utsintas scomparve nella stanza. Boïndil non poteva più resistere in silenzio. Sollevò la visiera. «Non riesco a crederci!» disse con voce smorzata, asciugandosi il sudore dal
volto. La salita lo aveva accalorato. «Sono nel mezzo del regno degli Occhineri!» Con un rapido movimento, Tungdil gli riabbassò la visiera. «Non una parola. Potrebbero osservarci.» Il Rabbioso la tirò di nuovo su. «Ma mi va a fuoco la lingua, se non...» «Vuoi tacere una buona volta?» sbottò Balyndar, dandogli una manata. La visiera di Boïndil si richiuse. «Ci manderai tutti in rovina perché hai bisogno di cianciare!» «Spingimi un'altra volta, Quinto, e...» Utsintas riapparve e li condusse attraverso una seconda porta. Là vennero accolti da sette albi in lunghe vesti nere. Che si trovassero in minoranza, qualora si fosse giunti a combattere, non sembrava disturbarli. Lasciarono che Tungdil si presentasse al sovrano di Dsôn. La sala aveva pareti completamente nere. Sui bracieri ardevano fiammelle bluastre; dal soffitto pendevano drappi, e c'era odore di spezie bruciate. I nani si diressero verso un trono sopraelevato su cui era disteso un drappo di velluto bianco. Un albo dall'armatura e dai capelli neri vi era seduto sopra. Teneva nella
destra un ventaglio bianco, con cui proteggeva dagli sguardi la parte inferiore del volto. Dovrei numerarli, per non confonderli tra loro, pensò Boïndil, sogghignando dietro la sua visiera. Tungdil si fermò e accennò un inchino. «Io sono...» «So chi sei», lo interruppe l'albo sul trono. «Anche se allora portavi un altro nome.» Il Rabbioso deglutì. Una sensazione sgradevole gli fece venire la pelle d'oca sulle braccia. Sbirciò verso l'uscita, stringendo con più forza l'impugnatura dell'azza. L'albo si alzò agilmente e scese i quattro gradini che circondavano il trono. «Non credevo che ti avrei mai rivisto.» Gli occhi di Tungdil si strinsero. Boïndil notò che cercava di ricordare. «Quanto tempo è passato? Duecento cicli?» L'albo abbassò il ventaglio, sorridendo in modo amichevole al nano da un occhio solo. Al collo si vedeva una ferita di piccole dimensioni, come quella prodotta da un dardo; sulla guancia c'era una cicatrice.
«Tirîgon!» A Tungdil s'illuminò il viso. Spalancò le braccia. Poi, dal punto di vista del Rabbioso, accadde qualcosa di abominevole: l'albo si chinò e abbracciò il Sapientone, come se fossero vecchi amici, ed entrambi risero. «Devo chiamarti Balodil, o va bene Tungdil?» Il nano alle spalle del Rabbioso singhiozzò forte, e Boïndil si girò, stupito. A mostrare quel comportamento strano e inopportunamente emotivo era stato uno degli Zhadar. «Fa' la cortesia di restare in silenzio», sussurrò, sollevando leggermente la visiera. «Il Sapientone sta recitando.» E mentre ancora le parole gli stavano uscendo di bocca, divenne insicuro. La confidenza con cui Tungdil e l'albo si trattavano, il modo in cui quelle due cupe figure s'inserivano nel mondo del male... tutto ciò risvegliava bruscamente i dubbi che aveva seppellito. Lo Zhadár emise un rumore gorgogliante, poi annuì. Boïndil tornò a guardare in avanti e vide che Tungdil e l'albo si porgevano un'altra volta le mani e sembravano già immersi in
conversazione. A quanto pareva, si conoscevano dai tempi della Forra Oscura. Il Rabbioso si chiese come l'Occhineri fosse riuscito a superare la barriera prima di Tungdil, poi rabbrividì. D'un tratto si era ricordato di quando aveva sentito per la prima volta il nome di Tirîgon: si trovavano in compagnia di un albo leggendario quanto corrotto, quello che aveva annientato gli ultimi elfi della Terra Nascosta.
XV Terra Nascosta, antico regno elfico del Lesimeli, Dsôn Bharà, 6491°/6492° ciclo solare, tardo inverno «Chi avrebbe mai detto che ci saremmo reincontrati proprio a Dsôn Bharà?» Tirîgon guardava Tungdil con grande gioia. Quell'atteggiamento dimostrava al Rabbioso che si trattava di più di una semplice conoscenza: il suo Sapientone era amico di uno dei peggiori albi degli ultimi duecento cicli, il distruttore degli ultimi elfi della Terra Nascosta. Turbato, Boïndil si sarebbe volentieri intromesso nella conversazione, ma non poteva. Tungdil fece una cupa risata. «Tu sai che i nani odiano l'acqua come voi odiate gli elfi. Io non sarei mai potuto giungere qui con voi attraverso il Lago della Luna. La maledizione di Elria mi avrebbe annegato.» «E per questo hai dovuto aspettare molto a lungo per tornare.» L'albo osservò la guardia
d'onore dell'imperatore dei nani. «Ci hai portato via anche i nostri Bramanti.» «Mi seguono perché io sono l'imperatore.» Tungdil sorrise. «Non hai nulla da temere da parte mia, Tirîgon. Sono qui per sottoporre a te e agli Dsôn Aklàn una proposta.» «L'ascolterò volentieri. Peccato che i miei fratelli non siano qui. Sono nel Gauragar, a caccia della donna che mi ha fatto questo», disse, indicandosi il volto. «Rinunci a vendicarti da te?» «Ho lottato tra la vita e la morte, Balo... Tungdil. È stata Mallenia von Ido a colpirmi vigliaccamente con un dardo, dopo che il nostro piccolo duello era stato già deciso.» Boïndil notò che l'albo aveva sorvolato su chi avesse vinto il duello. Certo non tu, Faccia sfregiata. Tirîgon fece un cenno agli albi presenti nella stanza, e vennero portati sedie e un tavolo con bevande e cibo. «Ti è piaciuta la città?» «È diversa rispetto alla vera Dsôn.» Tungdil corrugò la fronte. «Ci è stato detto che il mio nome qui viene pronunciato con odio.» «Solo da coloro che non ti conoscono dai tempi in cui eravamo dall'altra parte. Non ti
preoccupare.» Tirîgon fece un cenno, e una schiava umana si affrettò a servire. Cominciò con l'albo e alla fine arrivò anche da Boïndil. Il Rabbioso suppose che per i parametri umani la schiava dovesse essere incantevole, ma lui preferiva le femmine più robuste, come la sua Goda. La ragazza somigliava a un albo: magra, col volto allungato e movimenti aggraziati che parevano una danza. «Poiché ti vedo seduto qui davanti a me, posso presumere che tu continui a essere bendisposto nei nostri confronti.» Tirìgon sembrava curioso. «Un tempo lavoravamo fianco a fianco, con grandi risultati.» «E così devono restare le cose.» Tungdil bevette del vino. «I nani mi hanno eletto imperatore, e la stirpe dei Terzi quindi mi riconoscerà come suo sovrano supremo. Qualcosa è cambiato nel modo in cui mi considerano i Terzi, a quanto mi ha raccontato Hargorin.» «Una potente, considerevole base di potere.» L'albo aveva compreso il messaggio nascosto. «Quindi d'ora in poi dovremo trattare con te, se vogliamo contare sull'appoggio dei
Terzi per sorvegliare i tre regni. Mi sta bene.» Tirîgon brindò col nano. «Ai vecchi tempi!» «Già, ai vecchi tempi, proprio quelli!» Tungdil accettò il brindisi toccando la coppa dell'albo con la propria. «Ovviamente sono dalla tua parte. E ho sentito di certi disaccordi coi membri del tuo popolo, quelli che vengono da sud.» Il Rabbioso aveva inteso il brindisi dell'amico come un messaggio diretto a lui: ai vecchi tempi, proprio quelli. Cioè quelli buoni. Il buon umore di Tirîgon scomparve. L'albo vuotò la sua coppa e chiese altro vino. «Non è dimostrato che siano nostri parenti», disse con asprezza. «In ogni caso è vero: a noi, loro non piacciono. E noi non piacciamo a loro.» Tungdil leccò una goccia di vino dal bordo della coppa. «Ma sono in forte maggioranza.» «Accetteremo volentieri il tuo aiuto. I miei fratelli se ne rallegreranno.» Tirîgon accennò ad alzare la coppa. «Ma poiché so che tu non fai nulla senza un motivo o un secondo fine, mi piacerebbe sapere che cosa desideri in cambio.» «Tutti i regni dei nani», fu la risposta, come sparata da una balestra.
Tirîgon abbassò la testa. «Tungdil, questo te lo concederei, ma non è in mio potere farlo.» «Quando avremo finito la nostra comune campagna, lo sarà.» Il Rabbioso lesse negli occhi dell'albo stupore crescente, ma non dubbio. Deve ritenere Tungdil capace di molto. «Ho un piano...» Tirîgon scoppiò a ridere. «Scaltra testa di nano! Anche dall'altra parte avevi sempre un piano. E andavano tutti troppo bene perché proprio adesso io cominci a mettere in dubbio le tue capacità.» Si riappoggiò sullo schienale della poltrona, rilassato. «Parlamene.» A grandi linee, Tungdil spiegò l'idea di mettere il drago contro Lot-Ionan. «Abbiamo già il controllo delle strade. Tu e i tuoi tenetevi pronti a marciare contro gli albi del sud...» Tirîgon alzò una mano. «No. Loro combatteranno contro Lot-Ionan sotto il comando dell'imperatore Aiphatòn, quel pazzo. Marceranno verso i Monti Blu.» «Tanto meglio per noi!» Tungdil finse di non sapere nulla del progettato attacco. «Allora il drago potrà gettarsi su chi sarà uscito vincitore da quella guerra. Dopo, vi metterete in marcia in
gran segreto e noi ci uniremo a voi non appena avremo annientato il Kordrion e i Quinti. A quel punto, la Terra Nascosta apparterrà a voi.» Si piegò in avanti. «Se in cambio mi cederete i regni dei nani.» «Sono in procinto di allearmi con un nano contro il mio imperatore, l'ultimo discendente degli Eterni», mormorò Tirîgon, cogitabondo, guardando la sua coppa. «È un piano così assurdo che riuscirà. Mi fido di te e della tua mente superiore, Balodil.» Fece una smorfia stizzita. «Volevo dire: Tungdil.» Per Vraccas! Presso i mostri ha usato il nome di suo figlio! Nel Rabbioso si rafforzò nuovamente la convinzione, sfibrata dai dubbi, che si trattasse davvero del suo amico e non di un sosia. Altrimenti come avrebbe fatto a conoscere quel nome? Trovava che Tungdil si comportasse abilmente, e che gli dei si stessero mostrando molto disponibili nei suoi confronti. «I tuoi fratelli ti seguiranno o dovrò lottare anche contro te e loro quando avrò finito le conquiste a nord e a sud?» La domanda di Tungdil aveva una punta di allegria, ma nascondeva la verità.
Tirîgon prese del cibo, ne tagliò un piccolo boccone e lo portò lentamente alla bocca. «Approveranno il nostro patto.» Chiuse gli occhi, godendosi il cibo. «Questo non mi era concesso da parecchio tempo. La ferita alla guancia mi menomava.» Incoraggiò i suoi ospiti a servirsi. «Ti faremo sapere quando Aiphatòn e i suoi falsi seguaci si metteranno in marcia contro LotIonan. Dove dobbiamo mandare i messaggeri?» «Alla corte di Hargorin, a nord. È il posto in cui sarà più probabile trovarmi, finché saranno in corso i preparativi per la campagna militare. Se non sarò lì, ci sarà qualcuno che saprà dove mi trovo.» Tungdil assaggiò la carne. Vraccas, fa' che sia un animale e non qualcos'altro che non potevano più usare per le loro opere d'arte, pregò il Rabbioso. L'arrosto gli aveva messo appetito. Aveva un ottimo profumo, anche se lui non avrebbe mai voluto mettere sotto i denti una cosa di cui si cibavano gli Occhineri. «È meglio che vada subito a fare una visita ad Aiphatòn», spiegò Tungdil, bevendo altro vino. «L'imperatore non deve pensare che sono contro di lui. Il mio ultimo incontro con lui fu
amichevole e vorrei fargli credere che le cose possono restare così.» «Proporrai anche a lui un patto?» «Sì. Ma contro Lot-Ionan, il mio ignobile padre adottivo.» Tungdil sogghignò. «Poi mi ritirerò, promettendo di tornare con un immenso esercito.» «Ciò che si abbatterà su di lui lo coglierà di sorpresa.» Tirîgon mise da parte le posate. «Questo significa che non ti posso allettare con la mia ospitalità?» Per la Fucina Eterna! Non una sola notte qui a Dsôn! Il Rabbioso sperò intensamente che il Sapientone rifiutasse. «Purtroppo no, mio caro amico. Dobbiamo proseguire subito, se vogliamo riuscire a incontrare ancora l'imperatore, credo.» «Hai ragione. Lo troverai in quello che un tempo era l'Àlandur. L'ha donato ai suoi amici del sud.» L'albo parlava con malcelata avversione. «E che ne è di Dsôn Balsur? È stata ricostruita?» Tirîgon scrollò le spalle. «Mi è indifferente, finché ci abitano quelli. Occorrerà molto tempo per liberare ogni cosa dal loro terribile influsso.
Non hanno idea di che cosa siano l'arte, la bellezza, la poesia, la pittura.» Scosse la testa. «Tion non può averli creati.» «A meno che non fosse sbronzo», soggiunse Boïndil, in modo avventato. Tirîgon e Tungdil voltarono la testa nella sua direzione. «A quanto sento, nel tuo seguito c'è gente che sa apprezzare un bello scherzo», disse l'albo, divertito. «È uno. di quelli che di norma non dicono mai niente di divertente.» Tungdil scosse la testa con disapprovazione. «Forse ha avuto un momento di lucidità.» «Farebbe meglio a non ripeterlo davanti all'imperatore Aiphatòn. Potrebbe essere la sua ultima battuta.» Tirîgon si alzò. «Non voglio trattenerti ulteriormente, Tungdil Manodoro.» I due si abbracciarono di nuovo. «Il nostro patto è siglato. Tu riceverai i regni dei nani, noi la Terra Nascosta.» Fece una fredda risata. «La nostra arte ne ha urgente bisogno. Sarà per me un piacere cambiare gli allestimenti.» «Già duecento cicli fa eri un artista eccezionale. Sono ansioso di vedere cosa sei in grado di fare oggi.» Tungdil teneva stretta la
mano destra dell'albo, continuando a sorridergli. «Al massimo entro tre cicli saremo noi i sovrani, e nessun altro! Porta i miei saluti ai tuoi fratelli.» Si girò e si diresse verso l'uscita. Gli Zhadár lo circondarono, il Rabbioso camminava immediatamente dietro di lui. «Tungdil», lo chiamò Tirîgon quando ebbero raggiunto la porta. Il gruppo si fermò. Il nano monocolo guardò verso l'albo. «Che ne è della barriera? Ha ripreso a funzionare?» «Sì», mentì Tungdil, freddo come il ghiaccio. «Questo è un bene. Sarebbe un peccato se il tuo maestro spuntasse qui da noi per riprendersi l'armatura che porti addosso.» Tirîgon lasciò pendere le braccia ai fianchi. «O forse, alla fine, l'hai ucciso?» «Ci ho provato, ma non ci sono riuscito. Per questo voglio avere i regni dei nani: nessuno dovrà passare attraverso le porte.» Tungdil tornò a guardare avanti e a camminare. «Tion è con noi, Tirîgon. Non preoccuparti.» Lasciarono l'aula e, guidati dai sette albi silenziosi, attraversarono il palazzo e tornarono all'aperto.
«Finalmente», sospirò Boïndil, alzando la visiera. «Non avrei resistito un istante di più. Non so che cos'ho mangiato, ma alla lunga non ha un buon odore se lo devo respirare in continuazione.» Slin rise e sollevò anche lui la protezione per gli occhi. «Cipolle e composta di gugul? Ho visto che ne hai un barattolo tra le tue cose. Una piccola scorta da parte di Goda?» «E non ce ne hai dato neanche un po'!» Tungdil lo guardò con disapprovazione. «Come hai potuto fare una cosa del genere?» Poi sorrise. Era contento di essere riuscito a entrare e a uscire incolume dal palazzo di Tirîgon. E soprattutto di esserci riuscito con un tale successo. «Rabbioso, fa' più attenzione a quello che dici. Siamo stati fortunati ché Tirîgon abbia trovato buffo quello che hai detto.» Dopo un breve silenzio, aggiunse: «Come me, d'altronde». Si era fatto buio. Ma quando il Rabbioso alzò lo sguardo per guardare le stelle, non vide niente. «Per Vraccas!» esclamò, inorridito. «Che hanno fatto gli albi?» Tutti i nani alzarono lo sguardo e fissarono il cielo sopra di loro.
«Gli astri sono scomparsi», sussurrò Balyndar, con paura. «Forse rifiutano di splendere sopra una città degli albi», ipotizzò Slin. Boïndil dominò la sua incredulità e si girò verso la torre, dalla cui cima partivano numerose funi in tutte le direzioni. «La torre c'entra qualcosa.» «Proseguiamo, altrimenti daremo nell'occhio», tagliò corto Tungdil. «E abbassate le visiere, nel caso dovessimo incontrare qualcuno.» Scesero gli scalini e raggiunsero i pony. Strada facendo, avevano sentito dei deboli fruscii molto sopra le loro teste. «Non ci credo», mormorò Slin, che per primo era tornato a guardare il cielo. Sopra di loro era apparso un cielo stellato, ma non quello che i nani conoscevano. C'erano altre costellazioni, grandi e piccole, e nel mezzo brillavano lune tre o quattro volte più splendenti del vero astro notturno della Terra Nascosta. «Non so come abbiano fatto, ma la città dev'essersi spostata da un'altra parte.» Boïndil non riusciva a saziarsi di quella vista.
Balyndar sbuffò. «Forse tiri fuori la testa dalle caverne di rado, ma io ho viaggiato molto per la Terra Nascosta. Non importa dove mi trovassi...» Indicò in alto. «Le stelle erano sempre uguali.» «Che acuta osservazione», disse Slin. «Ma qui non è così, anche se ci troviamo pur sempre nella Terra Nascosta.» «Appunto. Proprio per questo concludo che ci siamo spostati fuori della Terra Nascosta, sebbene possa sembrare inverosimile.» «E come facciamo a tornare indietro?» Slin montò in sella e guardò la strada sinuosa che conduceva fuori del cratere. «Chissà dove sbucheremo...» «Sapientone, tu che cosa ne dici?» Tungdil montò a sua volta. «Teli.» «Teli.» Dapprima Boïndil non comprese. «Ah, come fossero tende ma... in orizzontale?» Tornò a guardare in alto. «Li tendono coi cavi sopra il cratere e danno agli albi che vivono qui un cielo notturno artificiale da ammirare. È questo che intendi?» «Proprio così, Rabbioso. Probabilmente in giornate particolarmente calde e luminose Dsôn rimane nascosta sotto quei teli, che le fanno da
schermo.» Tungdil prese a cavalcare. Gli altri lo seguirono. Nessuno li accompagnava, notò Boïndil con soddisfazione. A quanto pareva, Tirîgon aveva così tanta fiducia nel suo amico nano da lasciarlo cavalcare per le strade senza scorta. Fiducia e Occhineri, due cose che non vanno d'accordo. Questo Tirîgon ha di certo in mente qualcosa. Davanti alla tortuosa serpentina, credette di scorgere Ùtsintas e gli albi in groppa ai tori di fuoco. Non mi farò certo attirare in una trappola. «Questa è l'occasione per sbarazzarsi dell'uovo di Kordrion», sussurrò a Tungdil. «Già fatto», disse uno degli Zhadár. «Lo abbiamo lasciato sulla scala davanti al palazzo, al bordo esterno di una colonna. Nessuno troverà l'uovo. A meno di non possedere il naso di un Kordrion...» Boïndil era impressionato. «E adesso?» «Andiamo dal drago seguendo la strada più veloce e saccheggiamo il suo tesoro», spiegò Tungdil. «Là davanti, accanto a Ùtsintas, c'è un messo. Vedo bene?» «Se lo dici tu... Io scorgo solo magri Occhineri e grasse vacche da combattimento.» Il
Rabbioso aveva perso l'abitudine di meravigliarsi della vista acuta del Sapientone. Tungdil non si era sbagliato. Quando ebbero raggiunto l'albo e la sua scorta, li stava aspettando un messo imperiale che portò loro un invito a recarsi nell'Alandur, ormai chiamato Phòseon Dwhamant. L'invito era dell'imperatore Aiphatòn in persona. Non potevano rifiutarlo. E così una menzogna divenne la verità. Tirîgon sedeva di nuovo sul suo trono e osservava la schiava sparecchiare la tavola. Gli ci era voluto molto tempo per trovare una schiava più o meno accettabile per il palazzo. La femmina umana eseguiva bene i suoi compiti, e non era tanto brutta da fare male agli occhi. «Perché la maggior parte di voi è così repellente?» chiese cogitabondo, sorbendo un sorso di vino. La schiava lo guardò, spaventata; l'albo aveva parlato nella sua lingua, e ora la ragazza temeva di non aver compreso un ordine. Che cosa ciò significasse, lo sapeva chiunque fosse a servizio di un albo.
«Non fa niente», la tranquillizzò Tirîgon, nel linguaggio del Gauragar. «Fa' il tuo lavoro.» Un albo in abito lungo lo raggiunse. «Dsôn Aklàn, è come avete pensato.» S'inginocchiò davanti al trono. «Avevano con loro l'uovo del Kordrion.» «Miserabili Zhadár! Pensavano forse che io non li riconoscessi sotto le armature dei Bramanti? Nessuno può ingannarmi! Loro sono le nostre creature, noi i loro padroni! Noi li abbiamo creati!» Furente, scagliò il bicchiere lontano. «Disertori, come Hargorin Seminamorte. Moriranno per quello che hanno fatto!» Fece un profondo respiro. «Avete l'uovo?» «Abbiamo dovuto cercare a lungo, ma lo abbiamo trovato.» «Allora avviluppatelo bene, camuffatelo da vettovaglie e mandatelo col messo e Manodoro a Phòseon Dwhamant. È il regalo giusto per l'imperatore», ordinò. «Il Kordrion è stato nuovamente avvistato?» «Sì, Dsôn Aklàn. A nemmeno quattro miglia da qui. Ha di nuovo avvertito la traccia della sua covata.»
Tirîgon annuì, soddisfatto. «Bene. Manodoro si è insospettito?» «No. Lo ritiene un vero messo. Stanno viaggiando verso sud-ovest.» «Allora fa' in modo che ricevano presto le mie vettovaglie.» Tirîgon fece cenno alla schiava di avvicinarsi e chiese del vino. «E ordina alle pattuglie di uccidere immediatamente qualunque Zhadár si aggiri intorno a Dsôn Bharà, qualora qualcuno di loro sopravvivesse all'imminente attacco del Kordrion.» Si sedette di nuovo. Tutto procedeva secondo i suoi piani. «Sì, Dsôn Aklàn.» L'albo in abito lungo uscì dalla sala. Tirîgon sospirò, compiaciuto. In quel modo si sarebbe liberato di Aiphatòn, di gran parte dei suoi seguaci e di Tungdil, con quei traditori degli Zhadár. Li aveva riconosciuti al primo sguardo, per via del portamento; e poi non conosceva nessun Bramante che usasse l'azza come arma. «Il bello è che tutti crederanno che si sia trattato di una trappola di Tungdil Manodoro, che voleva eliminare l'imperatore degli albi», disse alla schiava, che di nuovo non capì una sola parola. Lei lo guardò con aria interrogativa, accennando alla caraffa di vino e alla coppa.
Tirîgon le fece segno di avvicinarsi. «Se anche Aiphatòn sopravvivesse e volesse vendetta, rivolgerà la sua collera contro i Terzi. Dovesse morire, gli succederò volentieri.» Percorse con lo sguardo il braccio nudo della ragazza, poi si soffermò sul gomito. «Hai delle ossa molto belle, mia cara. Lo sai?» Distese una mano e le sfiorò dolcemente l'avambraccio. «Ossa incredibilmente belle, per un essere umano.» Le sorrise. «A quanto pare, mi dovrò trovare un'altra schiava. Tu sei adatta a compiti più nobili. L'arte ti eleverà.» La ragazza trasalì, rispondendo timidamente al suo sorriso. Terra Nascosta, ex regno elfico dell'Àlandur, Phôseon Dwhamant, 6491°/6492° ciclo solare, tardo inverno «Avremmo potuto tranquillamente ammazzare il messo e proseguire verso i Monti Rossi», mormorò Slin. «Come se fossimo stati attaccati strada facendo, dalla resistenza.» «Ma che razza di folli penserebbero mai di attaccare lo Squadrone Nero, per di più accompagnato da un reparto di albi?» replicò Balyndar. «Non ti credevo capace di tanta stupidità.»
Il Rabbioso ascoltava il diverbio che, tra alti e bassi, contrapponeva i due nani dalla visita a Dsôn. Il Quarto faceva proposte per evitare di recarsi da Aiphatòn, e il Quinto gliele stroncava l'una dopo l'altra. «Chiudete il becco, tutti e due! Ringraziate di cavalcare nel mezzo, così il suono degli zoccoli copre i vostri litigi. Se gli albi vi sentissero...» Sperò che l'allusione li impressionasse. Se avesse detto che viaggiare da un regno degli albi a un altro era per lui un pensiero confortante, avrebbe mentito. Anche perché non sapeva cosa pensare degli albi del sud. E non capiva cosa Aiphatòn volesse da loro. Da una parte, Boïndil si gustava il fatto di essere in viaggio, sentire dentro di sé la vecchia sensazione dell'avventura, come quand'era ancora un giovane nano. Dall'altra parte, sarebbe voluto tornare dai suoi figli e da Goda; era preoccupato per la loro sicurezza. Ed era preoccupato per la fortezza: il mago nemico sembrava essere potente, se aveva capito bene le allusioni di Tìrîgon. Cavalcavano attraverso il Phòseon Dwhamant, che un tempo si chiamava Àlandur,
prima che gli albi lo conquistassero. E chi avrebbe potuto fermarli? Gli albi del sud condividevano l'amore per il cupo e l'effimero. I boschi degli elfi erano stati bruciati, come il Rabbioso capì guardando la piana che stavano attraversando. A quanto pareva, ci si assicurava con regolarità che nel Phòseon Dwhamant non crescesse nessun albero. Ovunque guardasse, il nano scorgeva colline brulle su cui si scioglieva la neve; non c'era nemmeno un cespuglio. «Chi ha la vista buona può vedere da un'estremità all'altra di questo dominio degli albi», disse Slin. Buon terreno per me e la mia balestra. «Là davanti però c'è qualcosa!» esclamò Balyndar. «Sembra un enorme ceppo di legno caduto dal cielo.» Tutti guardarono in avanti. La prima cosa che venne in mente a Boïndil fu un alveare, quadrato invece che ovale. Ne stimò le misure in novecento passi di larghezza e trecento di altezza; quanto la struttura si estendesse per lungo, non avrebbe saputo dirlo. Ai lati si alzavano torrette, come comignoli, e sopra il ceppo sventolavano bandiere attaccate
a lunghe barre. Il Rabbioso contò trenta piani di altezze diverse. In qualche caso si trattava di pareti cieche, altre erano invece logge aperte con affreschi variopinti sui soffitti; il fronte del piano più vicino constava invece di molte piccole finestre che brillavano al sole come specchi. «Che cos'è?» «Una città», rispose Balyndar. «Una montagna artificiale con all'interno una città artificiale.» «Questa è Phòseon», disse Ùtsintas, che cavalcava accanto a Tungdil in cima alla colonna. «Qui vivono diecimila di loro. Gli albi del sud amano questo tipo di comunità.» Tungdil osservava il ceppo. «Che aspetto ha all'interno?» «Non è facile da descrivere. Lo conosco solo dai racconti, perché non mi hanno mai fatto entrare.» L'albo non ne sembrava dispiaciuto. «Ci devono essere pozzi profondi e molto lunghi, ma anche giardini pensili che si raggiungono attraverso ponti. Presumo che oscillino al vento che spira attraverso gole artificiali.» «Sembra un po' un regno dei nani», sussurrò Slin al Rabbioso.
«Ti sei dato in testa da solo la corda della balestra mentre cercavi di tenderla?» replicò Boïndil. «Là non c'è nulla di nanico. Per caso, voi avete giardini pensili? Le nostre verdure vengono dalla terra, e le cose devono continuare a stare così.» Erano a un miglio dall'ingresso, quando la gigantesca porta si aprì sputando fuori un gruppo di cavalieri. Il messo scambiò un paio di rapide parole con Ùtsintas, poi andò incontro agli albi. S'incontrarono a metà strada e discussero; poi il messo fece loro un cenno. Ùtsintas si volse verso Tungdil. «Ora proseguirete da soli. La mia missione finisce qui.» Diede alla sua gente un ordine e girò il toro di fuoco; un istante dopo, gli albi galoppavano verso Dsôn Bharà. Tungdil osservava la facciata. «Quella che stiamo per fare all'imperatore sarà una visita molto istruttiva», disse al Rabbioso. «Cavalchiamo compatti. Nessuno prenda le armi, né Zhadár né Bramanti», ordinò ad alta voce. «Siamo ospiti dell'imperatore Aiphatòn, e ci comporteremo di conseguenza.» Partì al trotto, e la colonna lo seguì.
Boïndil cercò di scorgere qualche peculiarità nel gruppo di albi che era uscito da Phôseon in sella ai destrieri della notte. Come prevedevo. Sembrano come tutti gli altri. Portavano perfino le nere armature di tionio, anche se le rune gli sembrarono un po' diverse. Ma, non essendo un sapientone, suppose di potersi sbagliare. Il messo parlò con Tungdil. «Possiamo entrare. Mi è stato detto che l'imperatore ci sta aspettando», tradusse il Sapientone per gli altri nani. «Pensate a ciò che vi ho ordinato.» Poi fece trottare il suo pony dietro l'albo. Il Rabbioso non poteva negare di trovare emozionante visitare quell'edificio, o città, o fortezza o comunque si volesse chiamare il ceppo. Non avrebbe mai voluto viverci dentro, ma era curioso: il sangue della sua stirpe pretendeva maggiori informazioni. Era uno dei Secondi, particolarmente dotati come scalpellini. Le pareti erano state intonacate, sicché Boïndil non riusciva a capire quale materiale vi si nascondesse sotto. Si chiese come avessero trovato un suolo così duro da reggere un simile
peso senza che l'edificio s'infossasse o andasse in pezzi. L'arco sotto il quale transitarono era alto non meno di sette passi e largo cinque. Sopra i nani si libravano tre grate, che potevano essere abbassate in qualunque momento, per difesa; la parte inferiore delle grate era affilata. «Attribuiscono molta meno importanza a lusso e gingilli», sussurrò Slin. «È tutto... sobrio e disadorno. A parte qualche decorazione inserita nelle pareti.» «Incisa nell'intonaco», precisò Boïndil. «Ma sono incredibilmente varie e ricche di temi. Realizzarle richiede una mano molto ferma.» Raggiunsero un grande cortile interno. Le pareti erano perpendicolari al pavimento, e di nuovo i nani si trovarono a guardare camminamenti aperti, finestre e opere in muratura, da cui albi curiosi osservavano nella loro direzione, chiacchieravano o mangiavano qualcosa. Qua e là correvano scale esterne; in altri punti salivano e scendevano montacarichi, usati per collegare i vari piani. In alto passavano le nuvole, che i nani vedevano come attraverso una finestra.
«Devo ammettere che sono molto impressionato dagli Occhineri.» Il Rabbioso accarezzò il pony e si guardò alle spalle, dove le grate venivano abbassate l'una dopo l'altra e veniva chiusa la porta. «Non ho mai visto nulla di simile.» «Non amano particolarmente la natura. A meno di non poterla controllare, come nei loro giardini», ipotizzò Slin. «L'avete notato anche voi? Del regno degli elfi hanno praticamente fatto un deserto. Solo terra piatta.» «Così si vedono più facilmente arrivare i nemici, non si dà loro nessun materiale per costruire macchinari d'assedio e non si concede loro la minima protezione da frecce e proiettili», disse Balyndar. «Ha senso, visto che in questa... città sembra che si viva bene.» «L'imperatore attende Tungdil Manodoro nella sala delle udienze», li informò il messo. «Non più di cinque guardie. Il resto aspetterà nel cortile e non si muoverà di lì.» Tungdil prese con sé Slin, il Rabbioso, Balyndar e due Zhadàr. «Qualunque cosa accada, non ucciderete un solo albo», ordinò a Barskalin e Hargorin.
Un altro albo si fece carico di guidarli, mentre il messo rimaneva presso il gruppo di nani più numeroso. Raggiunsero un montacarichi e salirono; veniva manovrato attraverso una leva che poteva essere abbassata o alzata. Merda di Kordrion! Somigliano davvero ai nostri congegni, pensò il Rabbioso. Salirono molto, prima che il montacarichi si fermasse. Si trovavano in una sala puntellata da colonne, la cui altezza Boïndil stimò di almeno dieci passi. Le pareti erano dipinte di bianco ed erano ornate da affreschi: battaglie, fondazioni di città, scene d'amore. Per quanto si guardasse intorno mentre camminavano verso il trono, Boïndil non scoprì traccia dell'arte morbosa tanto celebrata dagli albi del nord. Sul trono sedeva Aiphatòn. Non è invecchiato! Il Rabbioso riconobbe subito il figlio degli Eterni: petto, ventre, basso ventre, spalle e braccia erano coperti da un'armatura che faceva tutt'uno con la pelle dal colorito eburneo. La testa era calva, cosa che faceva risaltare ancora di più le lunghe orecchie a punta; pesanti manopole proteggevano le mani. La parte inferiore del corpo era avvolta da
una specie di gonna nera da cui, in basso, spuntavano le dita dei piedi. Nella destra, l'albo teneva una sottile lancia, le cui rune brillavano di luce verde. «Tungdil Manodoro è l'imperatore delle stirpi dei nani!» esclamò Aiphatòn, guardandoli con orbite colme di un nero impenetrabile. «E così siamo entrambi diventati i signori supremi dei nostri popoli.» Attese che i nani si trovassero davanti a lui, poi fece un cenno col capo. «Benvenuti a Phôseon.» «Ti ringrazio, imperatore.» Tungdil accennò un inchino. «Ho pensato spesso alla nostra conversazione a bordo di quella nave. Ti spiegai perché mi ero scelto un nome.» «Quello della stella più amata dagli elfi», ricordò Tungdil. «Se ho osservato bene il cielo notturno, quella stella è scomparsa.» «Sì. Gli Dsôn Aklàn, col loro ritorno, hanno concluso il lavoro.» «E questo non mi stupisce.» Tungdil teneva lo sguardo fisso sull'albo. «Ma quando ho sentito quale strada hai scelto tu, sono rimasto invece molto sorpreso. Un tempo volevi andare dagli elfi per vivere con loro. Sulla nave, mi dicesti
che non volevi essere un albo come i tuoi genitori.» Il nano alzò il braccio, indicò i muri. «E ora ti trovo qui, in questa città, come imperatore degli albi e signore di un potente impero!» «E tu mi consigliasti di nascondermi dagli umani, dagli elfi e dai nani. Perché nessuno di loro mi avrebbe trattato senza timore e odio.» Aiphatòn sorrise. «Non da ultimo, mi dicesti che dovevo lasciare la Terra Nascosta. Le tue parole precise furono: 'Cerca i tuoi simili'.» Si passò la mano sinistra sulle piastre di metallo. «Ci ho riflettuto a lungo. Non sapevo dove avrei potuto trovare gente simile a me. Ma seguii i tuoi consigli e lasciai la Terra Nascosta, dirigendomi a sud. Nutrivo la speranza di scovare altri albi che per natura fossero più vicini agli elfi. Ero una creatura che non trovava posto dove stare e aveva solo nemici.» Boïndil era sbalordito. Dunque è per via dei consigli del Sapientone che Aiphatòn è tornato dagli albi! «Accomiatandoti, dicesti che ti saresti creato da solo un luogo dove stare.» Tungdil inclinò leggermente il capo. «Questo è stato il risultato delle tue riflessioni? La violenta conquista della Terra Nascosta?»
Al Rabbioso, Aiphatòn sembrava stanco e abbattuto, come se portasse un peso sull'anima. Attraverso le sue nere orbite era impossibile decidere del suo stato d'animo, ma le linee sul suo volto dicevano di più. Boïndil ripensò a quando il Sapientone era appena tornato dalla Forra Oscura. «Che cosa ti porta da me, Tungdil Manodoro?» chiese l'albo, e un fremito gli attraversò il corpo. Sedeva dritto e orgoglioso sul suo trono, senza più traccia di avvilimento. «Che cosa potrebbe propormi l'imperatore dei figli del Fabbro? Vuoi forse minacciarmi, chiedermi una grazia o stringere un'alleanza?» Tungdil corrugò la fronte. «Siamo venuti qui a Phòseon su tuo invito.» Aiphatòn scosse la testa, perplesso. «No. Fino a poco prima del vostro arrivo non sapevo neppure che ti trovassi di nuovo nella Terra Nascosta. Mi è stato detto che volevi parlare e trattare con me.» «Siamo stati portati qui da un tuo messo», ribatté Tungdil. Aiphatòn storse la bocca. «Poiché io non ti ho mandato nessuno, dovremmo interrogare la persona cui devo il piacere della vostra
presenza.» Chiamò a sé una guardia e diede degli ordini. «Dove avete incontrato quell'albo?» «È giunto a Dsôn Bharà quando ci siamo presentati al palazzo degli Dsôn Aklàn. Pensavamo che ti avremmo incontrato là», rispose Tungdil, ricorrendo a una mezza verità. «Magnifico», mormorò Slin. «Davvero magnifico! Siamo stati imbrogliati.» «Maledetto Tirîgon!» sibilò il Rabbioso. Risuonò un forte tintinnio melodico, che venne ripetuto in rapida successione. «Un allarme?» Boïndil si guardò subito a destra e a sinistra, in direzione delle guardie albe. «Tenetevi pronti», comunicò ai compagni. «Se l'Occhineri muove un muscolo, lo falciamo.» Aiphatòn si alzò dal trono e guardò una finestra. «Siamo attaccati», annunciò, incredulo, guardando Tungdil con aria inquisitoria. «Qualcuno è abbastanza stupido da attaccarci, dopo quasi duecento cicli!» «Non ho nulla a che spartire con tutto ciò», disse l'imperatore dei nani. «Forse...» D'un tratto si sentì un grido acuto, e per un istante una grande ombra si proiettò sulla finestra.
Il Rabbioso deglutì e si passò inconsciamente la mano sull'armatura, come se potesse così togliersi di dosso l'odore della covata, per lui impercettibile. Il Kordion ha seguito me, non l'uovo!
XVI Terra Nascosta, ex regno elfico dell'Àlandur, Phôseon Dwhamant, 6491°/6492° ciclo solare, inverno I1 grido spaventoso del Kordrion risuonò nuovamente, ma a quel punto i nani si erano già da tempo messi i tappi di cera nelle orecchie. In quel modo, la voce paralizzante del mostro diventava null'altro che rumore. Tungdil estrasse la Sanguinaria. «Siamo diventati entrambi vittime della perfidia di Tirîgon, Aiphaton. Solo lui può averci messo alle calcagna il Kordrion. Che cosa sperasse di ottenere così, glielo chiederemo insieme dopo», disse con voce truce. «Noi nani siamo al tuo fianco, a dimostrarti che non siamo colpevoli.» Di nuovo un astuto slancio del Sapientone, pensò Boïndil. L'imperatore aveva afferrato la sua lancia e la teneva parzialmente sollevata, con la punta diretta verso il corpo di Tungdil. «Capisco dalla tua armatura che negli ultimi cicli devi essere
stato molto vicino agli albi. Più vicino di quanto ti potesse essere gradito», replicò Aiphaton. «Chi mi garantisce che tu non sia in combutta con Tirîgon? Potresti voler approfittare della confusione per uccidermi.» Aiphaton non perdeva di vista nessuno dei nani. «Ricordati della conversazione sulla nave. Non è per te una prova sufficiente del fatto che ti parlo con onestà?» Le porte si spalancarono, e albi armati fecero irruzione nella stanza. Tenevano in mano le tradizionali lance dalla lunga asta, puntate contro i nani. Aiphaton era immobile come una statua. «Siamo entrambi cambiati, Tungdil Manodoro.» «Non tanto quanto sembra.» Tungdil usò la Sanguinaria per indicare la finestra. «Concedimi di accompagnarti in battaglia. Capirai qual è la verità.» L'albo abbassò la lancia, e Boïndil tirò il fiato. «Te lo concedo.» Aiphatòn corse fuori, Tungdil lo seguì, senza preoccuparsi dei nani. Il Rabbioso, Slin e Balyndar, insieme coi due Zhadár, si ritrovarono completamente soli nella sala del trono.
«Per Vraccas, che facciamo adesso?» Slin prese la balestra, che teneva sulla schiena, e la caricò. «Possiamo anche evitare di aiutare quei due», disse Balyndar, andando alla finestra per cercare il Kordrion. L'ombra del mostro di tanto in tanto guizzava sopra Phôseon. Poi davanti alla finestra sfrecciò verso il basso una larga vampata bianca. Si sentirono urla, e salì fumo fetido. «Ha incenerito gli Occhineri due piani sotto di noi», annunciò il Quinto, senza voltarsi. «Posso immaginare che non abbiano nessuna difesa contro un mostro del genere.» Slin accarezzò la balestra. «Con questa in mano mi sento subito meglio.» Il Rabbioso borbottò finché non ebbe preso una decisione. «Forza, tutti al montacarichi. Voglio salire sul tetto di questa strana città. La vista limitata che abbiamo da qui non mi piace.» «Magnifico! Così potrò mirare meglio al Kordrion», disse Slin. Giunsero rapidissimi in alto, e si trovarono sul tetto leggermente inclinato della città. Osservato da là, sembrava una liscia distesa di roccia attraversata da gole innaturalmente
dritte e simmetriche. Nel mezzo, si alzavano a distanze irregolari delle torrette quadrangolari con fenditure verticali. Il vento spirava attraverso quelle fessure, producendo un leggero mormorio. Camini? In qualche punto si tendevano vele di lino nere, e sopra c'erano alimenti posti a essiccare; altrove gli albi avevano collocato sacchi di pelle nera d'imponenti dimensioni. Boïndil suppose che fossero pieni d'acqua, che così veniva scaldata dal sole. Gli mancò il fiato quando si rese conto di quanto Phôseon si estendesse in lunghezza. «Saranno almeno... due miglia!» Slin fece notare le torri difensive collocate su rampe mobili, che potevano così essere posizionate in ogni angolo del tetto. Ma i costruttori non avevano fatto i conti con la prontezza e la velocità di un Kordrion: tre delle cupole girevoli era già occupate dalle relative squadre e scagliavano frecce e lance contro il mostro, ma troppo lentamente. Contro un esercito a terra sarebbero state devastanti, già solo per il fatto che i proiettili volavano per molte centinaia di passi, prima dì cadere. Ma contro un nemico come il Kordrion, se si
escludevano possibili centri casuali, non potevano concludere praticamente niente. Slin guardò la sua balestra e sospirò. «Credo che i miei dardi siano un po' troppo piccoli.» «Di certo ve lo sentirete dire in continuazione dalle vostre donne», commentò uno degli Zhadár. Slin si girò, irritato, con la balestra quasi spianata. «Per te basterà, malalingua!» «Ma che hai capito?» replicò lo Zhadár, in tono scherzoso. «Tienitelo pure. Io non voglio il tuo dardo.» «Calma, cervelli da gnomi! Come fate a prendervi in giro proprio adesso?» domandò Boïndil, stizzito, mentre si sistemava l'elmo stringendo la cinghia. «Il Kordrion mi vuole? Allora dovrà giocarsi la vita: lo attirerò davanti alle torri difensive.» Ordinò agli Zhadár d'informare delle sue intenzioni gli albi addetti alle torri. «Coraggioso», si limitò a dire Slin. «Ma molto pericoloso.» «Oh, be', non m'importa! Mi piacciono le sfide», minimizzò il Rabbioso. Afferrò l'azza, poi scoprì i denti. «Fatti avanti, sporco bestione! Qui c'è quello che ti ha ucciso la covata!»
Gli Zhadár corsero di torre in torre. Quando ne ebbero informate sette di ciò che si proponeva di fare il Rabbioso, il loro compito fu eseguito. «Sta tornando indietro», gridò Balyndar. «Punta verso di noi!» «E così dev'essere!» Boïndil si mise a correre, dirigendosi verso un punto dell'ampio tetto su cui potessero tirare contemporaneamente tutte e sette le torri. Le ali del Kordrion producevano un cupo stormire, quasi un fischio, che mostrava al Rabbioso quanto il mostro stesse volando veloce... ma non verso di lui. Boïndil si fermò, ansimante, e si girò. «Ehi, tu! Orrendo aborto con gli occhi bovini!» Agitò l'azza per farsi notare dalla creatura. «Ehi! Il distruttore della tua discendenza è qui! Sei cieco?» Incredulo, vide il Kordrion dalla pelle grigia posarsi sul tetto e scivolare giù in un pozzo. Il grande corpo aveva quattro zampe simili a quelle dei cani: le due anteriori ricordavano di più delle braccia, le zampe artigliate erano potenti e molto mobili. Il tiro delle baliste lo lasciava indifferente; le lance e le frecce non
costituivano per lui ferite mortali. Gli artigli s'impiantavano nei muri, lasciandosi dietro profondi buchi. «No, no!» gridò il Rabbioso. «Torna indietro!» Maledettissima bestiaccia! Balyndar e Slin raggiunsero il compagno. «Ma che sta facendo adesso?» gemette il Quarto. La coda del Kordrion stava scomparendo proprio in quel momento nel pozzo. Balyndar si teneva un fianco, ansimando. «Ci è strisciato dentro come un orso in un gigantesco alveare.» Slin guardò il Rabbioso quasi con biasimo. «Non si doveva gettare su di te?» «Sì. In teoria.» Boïndil si prese la treccia e la usò per tergersi il sudore dal volto. «A Phôseon dev'esserci qualcosa che gli interessa più di quanto non gli interessi io.» Poi rise. «Forza, che lo acchiappiamo. Se Vraccas è con noi, la bestia rimarrà incastrata e noi potremo farla a fettine in tutta calma!» Corse fino al pozzo e vide che proprio in quel momento il Kordrion si spingeva oltre un giardino pensile e cercava d'infilarsi tra le pareti di un passaggio orizzontale, abbastanza
grande per il suo massiccio corpo. «Seguitemi!» Il Rabbioso saltò. Il volo fu breve. Boïndil atterrò in una siepe fiorita, che lo ricoprì subito da testa a piedi di bianco polline. Adesso somiglio a una fata, pensò, costretto a sorridere. Una graziosa, barbuta fata. Starnutendo, si scrollò di dosso il polline, poi corse verso il ponte che conduceva al Kordrion. Per Tion, che cosa...? Balyndar e Slin si abbatterono alla sua destra e alla sua sinistra, su piccoli alberi che, col loro nero e morbido fogliame, agirono da materassi, ammortizzando la caduta. I due nani strisciarono fuori dei rami spezzati, imprecando; qualche foglia era rimasta impigliata tra gli elementi dell'armatura, ma non avevano tempo di scrollarla, e svelti seguirono il Rabbioso, che aveva quasi raggiunto il Kordrion. Il mostro teneva le ali ben strette al largo corpo muscoloso, perché, infilato nel condotto, non poteva aprirle; una era leggermente più corta dell'altra, come se fosse ricresciuta. Usava i lunghi artigli per trascinare attraverso Phôseon il corpo coperto da grigia pelle rugosa, alto venti passi e lungo sessanta.
Nell'avanzare, il mostro si appiattiva ventre a terra; ciononostante, la schiena raschiava contro il soffitto del corridoio a volta, da cui si staccavano pezzi. Tra gli scricchiolii si formavano crepe, e il pavimento gemeva sotto quel peso per cui non era stato concepito. Il Rabbioso aveva raggiunto la punta della coda ed era indeciso su come procedere. Devo superarlo e attaccarlo da sotto? Colpirlo in fondo e attaccarlo mentre cerca di girarsi? Prima che potesse decidersi, improvvisamente il Kordrion scivolò nel successivo pozzo verticale e scomparve alla sua vista. «Che cosa stai cercando, Occhi bovini?» Raggiunto il bordo del pozzo, Boïndil vide il mostro infilarsi qualche piano più sotto. «Stai di sicuro cercando qualcosa.» Il nano si girò e scoprì una lunga bandiera che pendeva da una parete. Senza esitazione la strappò dal suo sostegno, la legò a una colonna e, tenendosi a essa, si lasciò cadere fino al piano in cui era strisciato il Kordrion. Atterrò ed estrasse di nuovo l'azza. «Non ti libererai di me così facilmente.»
Slin e Balyndar lo imitarono e atterrarono dietro di lui. La fatica impediva loro di parlare; si lanciarono di nuovo all'inseguimento del Kordrion. Al mostro veniva opposta ben scarsa resistenza. Gli albi non avevano mai pensato che una creatura del genere potesse irrompere nella loro città. I nani superarono arti mozzati, pozze di sangue e corpi mutilati o maciullati di semplici abitanti, come si capiva dai vestiti: non portavano né armi né armature. «È andato a destra!» gridò Balyndar. «Là davanti, in quel grosso corridoio.» «Questo lo vedo da me», brontolò Boïndil, cui quella corsa pesava. Voleva combattere, non migliorare la sua resistenza. Girarono l'angolo e si trovarono di fronte a un largo corridoio che conduceva alla porta che avevano attraversato in sella ai pony. Il Kordrion puntava proprio in quella direzione, sempre premuto contro il pavimento. La schiena toccò qualche giardino pensile, che oscillò e si staccò dagli ancoraggi; terra e piante piovvero dal cielo. Gli artigli del mostro scagliavano di lato gli albi che non riuscivano a mettersi al riparo in tempo. Altri albi venivano
mangiati con noncuranza: il Kordrion li masticava per berne il sangue e poi ne sputava i resti. «Ehi!» gridò Boïndil, continuando la sua corsa, veloce quanto le gambe gli permettevano. «Ehi, tu, con la faccia orribile! Fermati una buona volta!» «Che vuole fare vicino alla porta?» Balyndar non sembrava particolarmente affaticato dalla corsa. «A quanto pare non ha seguito te, Duelame.» Slin aveva perso terreno. «Correte», ansimò. «Io vi seguo. L'armatura pesa troppo per me...» Il Rabbioso lo prese per un bracciale dell'armatura. «Tu sei un figlio del Fabbro! Impegnati, e assicurati la gloria per la morte del Kordrion. Quando ricapiterà che un Quarto possa meritarsi qualcosa del genere?» Intanto si chiedeva dove fossero finiti Tungdil e Aiphatòn. Superarono le macerie e i mucchi di terra piovuti dai giardini pensili; dovevano evitare in continuazione blocchi di muratura che si staccavano dalle facciate. Le scosse causate dal Kordrion e i colpi della sua enorme coda sferzante stavano devastando Phôseon.
«Ha... raggiunto... la porta...» Slin ormai farfugliava in modo quasi incomprensibile, tanto era a corto di fiato. La loro meta distava ancora cento passi. «Non... ce la faccio.» Si fermò e appoggiò la balestra a un tronco d'albero. «Vi... copro... da qui.» Boïndil e Balyndar si affrettarono. «Hai un piano?» chiese il figlio di Balyndis. «Sì. Ammazzarlo», rispose il Rabbioso. «I piani semplici sono i migliori.» Alla fine raggiunsero la piazza antistante la porta. Il Kordrion si girava e rigirava come un ossesso, mentre i suoi artigli si abbattevano sui pony dello Squadrone Nero, squartandoli. Le bestie nitrivano forte, scalpitavano, correvano, ma non riuscivano a scampare al mostro. Era una mattanza, c'era puzza di sangue, schizzi rossi sulle pareti, e il suolo sabbioso era imbevuto del liquido vitale. I nani si erano ritirati nei corridoi porticati e da quella copertura tiravano sul mostro. Erano aiutati dai soldati albi che, da diversi piani, scagliavano contro il Kordrion frecce, lance e giavellotti.
«Non gli piacciono i cavallini?» mormorò Boïndil, stupito. «Sarebbe questo il motivo per cui ignora l'assassino della...» Balyndar si era guardato intorno e aveva scorto un cavallo da soma su cui anche il Kordrion aveva appena puntato l'attenzione. «Guarda là: quello non lo colpisce.» «Forse preferisce i pony?» tentò di scherzare il Rabbioso, poi tornò subito serio. «So cosa intendi. Quello ce l'ha dato Tirîgon. Con le provviste.» Attraversò di corsa la piazza, puntando verso il cavallo. «Che l'albo abbia scambiato le nostre provviste con pappa per Kordrion? Andiamo a vedere che cosa trasportava davvero quel cavallo.» Nel frattempo, tre delle torri difensive poste sul tetto erano state spostate fino al bordo anteriore della città. I proiettili si fecero pericolosi anche per quell'essere potente; sempre più albi si erano raccolti sui piani costruiti intorno al cortile, e il Kordrion cominciava a perdere sangue da innumerevoli, profonde ferite. Muggiva, in collera, e mulinava intorno a sé con la coda, provocando altra distruzione.
Ma non scappa, anche se sicuramente ha capito che indugiare ancora significherà la sua morte. Il Rabbioso era già molto vicino al cavallo da soma. Una delle zampe artigliate afferrò il cavallo, ma con molta cautela. Con un colpo potente, Boïndil piantò lo spuntone dell'azza in quella specie di dito. «Non toccarlo!» gridò, strattonando l'impugnatura dell'arma. Con un rumore lacerante, la punta di ferro squarciò la pelle grigia. «È il nostro cavallo!» Balyndar balzò al suo fianco, col mazzafrusto frantumò un artiglio, e fece sgorgare ancora più sangue. Strillando, il Kordrion inclinò il corpo in avanti e cercò di spiegare le ali, ma le mura tutt'irttorno glielo impedirono. Il solo tentativo bastò a provocare danni devastanti. «Attento!» Il Rabbioso spinse Balyndar di lato. Subito dopo, un grosso pezzo d'intonaco si schiantò nel punto in cui il Quinto si trovava un istante prima. «Neanche il tuo bell'elmo sarebbe servito a qualcosa.» Il Kordrion tentò di azzannare i nani, che si chinarono sotto il brutto muso, schivandolo.
Boïndil ne approfittò per menare un altro colpo e centrò uno degli occhi inferiori, che esplose immediatamente; risuonò un altro tonante grido di dolore. Il mostro alzò la testa. Il Rabbioso non aveva lasciato l'impugnatura dell'azza e venne così tirato in aria, insieme con l'arma agganciata a un osso del Kordrion. «Non mi scrolli via così facilmente!» gridò Boïndil, nonostante le vertigini e la nausea. «È tutto quello che sei capace di fare? Ancora un poco più su, ripugnante mostruosità! Questo non mi spaventa! Reggo bene l'aria di alta montagna, io!» Improvvisamente una freccia lo colpì nello stivale destro. «Maledetti Occhineri!» ruggì. Le braccia gli stavano diventando gradualmente pesanti; il suo peso e quello dell'armatura lo trascinavano in basso. Mollare la presa, però, significava morire. D'un tratto, Aiphatòn balzò sulla schiena del Kordrion da un piano sette passi più in alto, tenendo con entrambe le mani la lancia puntata verso il basso, pronta al colpo. La punta dell'arma era rivolta verso la nuca del mostro. «Con quella?» gridò Boïndil, incredulo. «Oh, Vraccas! Con uno spillo se ne arriva volando!»
Il Kordrion si piegò e scosse la testa. L'azza si liberò, e il Rabbioso volò come un proiettile verso destra, sul suolo quattro passi più sotto, prima di abbattersi sui pony dilaniati, che ne attutirono l'atterraggio. Furente, Boïndil si fece largo tra le fetide interiora, spezzò la freccia infilata nello stivale e si alzò. «Adesso sì che sono davvero arrabbiato!» Il velo rosso della follia gli coprì lo sguardo; solo il Kordrion rimaneva inalterato ai suoi occhi. «Ti do una botta che ti farà a pezzi!» Aiphatòn era atterrato sulla schiena del mostro e lo colpiva con la lancia, infilandola tra le immense vertebre che si delineavano sotto la pelle. Il Kordrion s'impennò strillando, ed ecco che Tungdil balzò su di lui da un piano posto più in alto, conficcandogli la Sanguinaria in un altro punto della spina dorsale, intorpidendogli così la zampa destra. Il mostro cadde sul ginocchio, sbattendo contro la facciata orientale e sfondandone il muro. Le strutture sovrastanti crollarono anch'esse, sottoponendo il Kordrion a una gragnola di pietre e intonaco. Aiphatòn e Tungdil si erano messi al riparo per tempo, ed erano fermi, l'uno accanto all'altro su una galleria del lato occidentale.
Ma il mostro alato non aveva esaurito le proprie forze. Colpì con la coda intorno a sé, distruggendo la porta e il muro sovrastante e uccidendo decine d'individui. Molti albi precipitarono a terra insieme con le macerie e vennero stritolati dai conci di pietra; altri venivano colpiti dalla coda del mostro e scagliati lontano come pupazzi, per poi sfracellarsi a terra. Ruggendo, il Kordrion si risollevò tra i detriti, vacillò e si abbatté con la testa in avanti contro un'altra parete. Il Rabbioso lo aveva raggiunto di nuovo. «Tra un attimo starai buono!» Levò le braccia e colpì con l'azza vicino a quelli che riteneva i genitali. La pelle si lacerò subito, e il mostro levò un urlo di dolore. «Ah! Questo mi piace sentire!» tuonò Boïndil, gioioso. «Fammelo sentire di nuovo!» Colpì ancora. «Mi piace questa canzone!» Le zampe e gli artigli del Kordrion guizzavano, le ali si tendevano e si ripiegavano di nuovo, e sempre più parti di Phôseon crollavano. «Vuoi smetterla?» Il Rabbioso si arrampicò sul collo della creatura, poi sulla testa, e con lo
spuntone colpì in perfetta verticale la calotta cranica. «Sta' buono, sporco bestione!» E davvero il corpo del Kordrion si afflosciò. Con un ultimo gemito, il mostro sollevò ancora una volta la coda, poi la lasciò ricadere, provocando altre distruzioni. Nubi di polvere turbinavano. Boïndil usò la treccia per tergersi il sudore e gli umori che aveva appiccicati su volto e barba, ma concluse che i capelli non gli sarebbero bastati; avrebbe dovuto farsi un bagno, con poca acqua. «Vraccas, questo sì che è un lavoro ben fatto!» esclamò alzando l'azza, da cui colava il sangue del Kordrion. Vide Tungdil rivolgergli un cenno di capo. Aiphatòn aveva raggiunto il suolo e osservava il Kordrion che si ergeva immobile davanti a lui. Tutt'intorno altri pezzi di mura si staccavano, abbattendosi al suolo; a tali rumori si mischiava il nitrire dei pony morenti e il gemito degli albi feriti. Poi risuonò un grido di esultanza, cui si unirono sempre più albi, fino a che non diventò un frastuono assordante. Il Rabbioso scese lungo il collo dell'animale, raggiungendone il terreno e unendosi a Tungdil.
«Non capisco che cosa dicono, ma ho l'impressione che ci trovino simpatici», disse, allegro. Abbassò l'azza e appoggiò entrambe le mani sull'impugnatura; sembrava molto soddisfatto. «Finalmente un avversario di mio gusto. Tra i nani ci saranno pochi guerrieri che potranno superarmi in questo.» Si guardò intorno e, attraverso la cortina di polvere che si diradava, scorse albi esultanti. Tungdil gli diede una pacca sulla spalla. «Ben fatto, Rabbioso. Stanno gridando...» «Preferisco che tu non mi dica che cosa stanno gridando, Sapientone», lo interruppe Boïndil. «Così posso immaginare che, per la prima volta, gli Occhineri mi stiano acclamando, invece che volermi ammazzare.» Si guardò il piede dolorante, l'asta dall'impennatura nera spuntava ancora dallo stivale. «Anche oggi, però, ci hanno provato.» Tungdil rise. «Vieni. Voglio sapere che cosa ne pensa Aiphatòn del nostro aiuto.» Tungdil, Boïndil, Slin, Balyndar, Hargorin e Barskalin - ai quali Aiphatòn aveva assegnato delle stanze in cui si erano ripresi dal combattimento - si presentarono quella sera
nella sala del trono dell'imperatore; cinque Zhadár li accompagnavano. Vennero fatti accomodare a un tavolo su cui c'erano coppe e anfore; non era stato ancora servito niente. I dipinti alle pareti erano cambiati. I motivi in bianco e nero si erano trasformati in dipinti dagli svariati colori che raggiungevano l'alto soffitto. Mostravano paesaggi d'inconcepibile bellezza e, quando li si guardava con maggiore attenzione, si vedeva che non erano alberi o altre decorazioni floreali, ma cadaveri disegnati in scala ridotta, come dimostravano le gole tagliate e le ferite presenti sui corpi. «Allora sono anche loro pazzi come i loro parenti», disse Boïndil, disgustato. «Ma le loro pomate sono buone. Non sento quasi più il buco nel piede.» «Chissà cosa c'è in quella pomata», brontolò Slin. «Ma non mi voglio lamentare. Mi hanno trattato come un re.» «Però hanno esagerato col bagno», mormorò il Rabbioso. «Ho fatto togliere una parte dell'acqua. Arrivava quasi fino alle ginocchia!»
«Per via della maledizione di Elria?» Slin aveva un grande sorriso sul volto. «Non ho mai sentito parlare di un nano che sia affogato nella vasca.» «E io non voglio essere il primo!» esclamò Boïndil. Distanziò di poco pollice e indice. «Questa è l'altezza giusta per fare un bagno in sicurezza!» Slin scoppiò in una risata. «Quella basta a malapena per mettere a mollo la virilità.» «I Quarti sono più deboli e piccoli delle altre stirpi in molti campi», intervenne Balyndar, asciutto. «Ma il mio dardo centra sempre il bersaglio», ribatté Slin e indicò il mazzafrusto. «Tu invece sarai come la tua arma: decisamente troppa forza nelle palle e una misera, corta asta.» Il Rabbioso rise fragorosamente. Aiphatòn entrò nella sala, mettendo fine alla discussione tra i nani. Salutò tutti, poi si sedette a capotavola. A quel punto, giunsero due albi a servire il vino. L'imperatore osservava con attenzione i suoi ospiti; le sue orbite erano nere come la notte. «Tu e i tuoi amici avete dimostrato di non essere tra i nemici di
Phôseon», disse con voce calma, alzando il calice verso Tungdil. «Per questo e per il vostro aiuto, vi ringrazio.» Brindò a tutti loro, poi bevve. «L'uovo di Kordrion che abbiamo trovato nelle vettovaglie era stato messo di nascosto», dichiarò Tungdil. «Non può essere stato che Tirîgon. E ciò significa che almeno uno degli Dsôn Aklàn è contro di te.» Aiphatòn riposò lentamente il calice. «Il modo in cui parli indica che tu sai dell'altro, Tungdil.» Ordinò agli albi di lasciare la stanza, poi fece correre il suo sguardo sui volti dei nani. «Prima che proseguiamo, desidero che nella stanza rimangano soltanto quelli che possono sentire qualunque verità.» Tungdil annuì. «Non inviterò nessuno a uscire, dal momento che qualcuno continua a non fidarsi di me perché sono tornato dal mio esilio non volontario dopo duecentocinquanta cicli. Tutti devono sentire che cos'hanno da discutere l'imperatore degli albi e quello dei nani.» Il Rabbioso fece un intimo sospiro di sollievo. Aveva pensato che soltanto lui sarebbe potuto
rimanere durante i colloqui. Questo avrebbe portato altro cattivo sangue. «Il nostro piano prevedeva un esito molto diverso», cominciò a spiegare Tungdil dopo un sorso di vino, ed espose all'albo che cosa avessero avuto in mente di fare con l'uovo, che cosa si annidava nella Forra Oscura. Disse che intendevano sconfiggere Lot-Ionan e raccontò quello che volevano fare col drago e il suo tesoro: portarlo dal mago per provocare un attacco. Aiphatòn ascoltò impassibile. «Molte cose sono andate diversamente da come intendevamo», concluse Tungdil. «Ed è un bene che le cose siano andate così, perché penso che sia meglio avere come alleati gli albi del sud, per marciare contro Lot-Ionan. Avevate comunque in mente di farlo.» «Una spedizione contro il mago è un suicidio», replicò Aiphatòn, calmo. «Questo elemento è stato decisivo per farmi cedere alle pressioni dei miei sudditi del sud.» Si versò dell'altro vino e sorrise. «Sbaglio o siete stupiti?» Boïndil si guardò a destra e a sinistra. Dal momento che nessuno diceva nulla, parlò lui. «A
me sembra di aver inteso le tue parole più o meno così: vuoi andare intenzionalmente incontro alla morte.» Aiphatòn si piegò in avanti, posando il mento su una mano. «Non volevo diventare come i miei creatori. Eppure lo sono diventato. Sarebbe troppo facile inventare scuse per le mie azioni, e quindi mi assumo la responsabilità di quello che ho fatto alla Terra Nascosta. Per questo guiderò gli albi a morire contro LotIonan.» «Questo è lo spirito giusto!» esclamò il Rabbioso in tono involontariamente alto, per poi schiarirsi la voce imbarazzato dal suo entusiasmo. «Ho vissuto troppi cicli accecato, inebriato dal mio potere. Ho sottomesso terre, preso vite e spezzato la volontà degli esseri umani. Non perché fosse necessario, ma perché potevo. Perché ero superiore a loro», spiegò l'imperatore, meditabondo. «Quella spaventosa ebbrezza si è dileguata, ma rimane il ricordo delle mie mancanze. Ogni rotazione vedo la sofferenza che ho portato all'Idoslân, all'Urgon e al Gauragar. Tutto ciò deve finire. E lo farò finire io.»
«Gli Dsôn Aklàn e gli albi del nord non ti seguiranno», disse Tungdil. «Per questo tornerò, solo, dai Monti Blu e distruggerò con le mie mani Dsôn Bharà. Quelli che sono riusciti a intrufolarsi nella Terra Nascosta attraverso il Lago della Luna sono soltanto qualche centinaio. Con loro chiuderò la questione per conto mio.» Come a provare la verità di quanto Aiphatòn stava dicendo, le rune sulla sua armatura s'illuminarono. «La tua comparsa e il tuo piano mi hanno rafforzato nei miei propositi. Quando sarà morto anche il drago, nulla si frapporrà tra la Terra Nascosta e la sua libertà.» L'albo chiuse gli occhi, e una lacrima rossa scese dalla palpebra destra, tracciando una scia lungo la guancia pallida. «Non volevo essere come gli Eterni. Alle mie parole seguiranno, finalmente, i fatti.» Boïndil cercò lo sguardo di Tungdil, e il Sapientone gli strizzò l'occhio. «Saresti pronto ad aiutarci contro i nemici della Forra Oscura?» chiese Tungdil. «Un combattente come te...» Aiphatòn scosse la testa calva. «Una volta che avrò sterminato il mio stesso popolo, avrò compensato la mia colpa nei confronti della
Terra Nascosta. Io ho introdotto qui gli albi, io libererò di nuovi gli umani dalla loro presenza. Non più oppressi da noi, gli umani saranno pronti a seguire te e i nani nella Terra Nascosta e a difendere la libertà appena ottenuta.» Riaprì gli occhi. «Propongo di annunciare agli albi che abbiamo stipulato un trattato di pace con tutte le stirpi dei nani, non solo coi Terzi. Voi dovete giurare di non riferire ad altri ciò che vi ho detto.» «Lo faremo, anche solo per nostra garanzia», promise il Rabbioso a nome di tutti, senza che gli fosse stato richiesto. «Se gli Occhineri avessero sentore di quello che intendi fare e preferissero restare qui invece che muovere contro il mago, faticheremmo molto di più ad annientarli.» Sogghignò e ringraziò Vraccas. Le cose andavano meglio di quanto avrebbe mai immaginato all'inizio del viaggio. Balyndar guardò Aiphatòn. «Che ne sarà di te? Quando tutti gli albi saranno morti, che cosa farai tu?» L'imperatore fece un profondo respiro. «Me ne andrò verso est, e vedrò che cosa troverò. Giuro che non tornerò mai più nella Terra Nascosta. A meno di non essere invitato.»
Sorrise a Tungdil. «Ma se un qualunque dio volesse accordare a me e a voi il suo aiuto, io e gli ultimi albi del nord moriremo insieme», aggiunse, alzando di nuovo il calice. Tungdil fece un inchino. «Il tuo coraggio merita la mia massima stima, Aiphatòn. Vedo che non mi ero ingannato sul tuo conto.» Si alzò. «Col tuo permesso, noi ci ritiriamo. Partiremo domani in direzione dei Monti Rossi, per vedere cosa fa il drago. Lasceremo per lui e per i suoi mezz'orchi una traccia impossibile da ignorare.» «Quando il drago andrà da Lot-Ionan, il mio esercito e io dovremo già essere nei Monti Grigi. Il mago e i suoi apprendisti non avranno gioco facile contro le mie truppe, ma le vinceranno. A quel punto, il drago e i suoi mezz'orchi arriveranno al momento opportuno.» Si alzò anche Aiphatòn. «Ma fate attenzione che Lohasbrand non trasformi Lot-Ionan in una torcia umana, perché lo Squamoso è potente; ha pur sempre sconfitto la regina Wey XI, e lei aveva fama di essere una maga straordinaria. Altrimenti vi troverete nella difficile situazione di chi deve ripulire la Forra Oscura con le sue sole forze.» Tungdil strinse gli occhi. «È ancora viva?»
«La regina Wey? Sì, a quanto ne so. E ha una figlia cui si attribuisce lo stesso dono.» L'albo aveva compreso i sottintesi della domanda. «Sarebbero delle valide alleate, una volta sconfitto il drago. Se Lot-Ionan dovesse morire, punterei su di loro, dovendo muovere contro i mostri nella Terra dell'Aldilà.» Aiphatòn tese di nuovo la mano all'imperatore dei nani. «Che Vraccas vi assista! Se così vuole il destino, ci vedremo ancora un'altra volta.» Ciò detto, lasciò la sala del trono. Le cose migliorano! Vraccas, stiamo compiendo grandi gesta! Il Rabbioso si versò da bere e ruttò, battendosi una mano sulla pancia. «E ora tutti a letto, eh? Partiamo domattina per alleggerire un drago del suo tesoro. E dobbiamo anche fare una visita di cortesia a una maga. Dico bene?» Tungdil sorrise. «Tutti a letto.» Terra Nascosta, ex regno del Weyurn, Seenstolz, 6491°/6492° ciclo solare, inverno Coïra sedeva nello studio della madre, davanti alla grande finestra rotonda, e fissava il lago.
Il bianco velo del lutto sui capelli e il nero del vestito accollato che indossava la rendevano più matura, pensò Rodario. Mallenia andava su e giù per la stanza, con le mani dietro la schiena. Il tappeto attutiva il rumore degli stivali, ma il regolare scalpiccio restava chiaramente udibile. Rodario cercò di guardare la giovane maga negli occhi, in cui stavano di nuovo spuntando lacrime. L'uomo portava una sottile fasciatura intorno al collo, sembrava un ornamento e un ricordo della ferita riportata contro Sisaroth. La lama era scivolata sul ciondolo su cui era raffigurato il suo avo e aveva intercettato il colpo. «Altezza, non è stata colpa vostra. Gli albi vi hanno attirata in una trappola», disse, cauto. «Se foste stata una guerriera, sarebbe successo qualcosa di simile con una spada o un pugnale. Gli albi sanno come tendere gli agguati. Non avevate modo d'impedirlo.» «Questo è il vostro quinto tentativo di convincermi che mia madre non è morta a causa della mia incapacità», replicò la ragazza, con voce strozzata. «E continuate a non riuscire a farmi cambiare opinione.» Alzò le braccia e si guardò le mani. «Con queste l'ho uccisa. Con
queste e con la maledetta magia che lei stessa mi aveva insegnato.» «Voi volevate distruggere l'albo...» «Ma chi giace ora nella cripta della mia famiglia, accanto a mio padre? Forse quell'Occhineri?» gridò Coïra, disperata. «Non potrò mai più usare la magia.» «Con la magia avete salvato la vita di Mallenia», disse l'attore, cercando un'altra strada. «E chi difenderà i vostri sudditi contro il drago, qualora dovesse apparire? Non rinnegate la magia, Altezza!» «E invece sì, è quello che devo fare», sussurrò la ragazza, senza più rabbia. Poi tornò a guardare fuori della finestra. «Per andare sul sicuro, dovrei rendere la sorgente inaccessibile. Prima che gli albi o Lot-Ionan possano utilizzarla.» «Far crollare il pozzo?» Mallenia si era fermata, con gli occhi che luccicavano. «So che siete addolorata. Ma anch'io ho perso molti parenti, e non ho mai usato questo fatto come un'alibi per rintanarmi in un angolo e lamentarmi contro gli dei.» Coïra non la guardò neppure. «Tornate nell'Idoslân, Mallenia», le disse seccamente.
«Tutte le sventure sono cominciate col vostro arrivo a Seenstolz. Se io non avessi dato ascolto a questo attore di terza categoria, gli albi vi avrebbero presa e vi avrebbero uccisa. E tutto sarebbe andato diversamente.» «È inutile stare a pensarci», intervenite Rodario, gettando uno sguardo accondiscendente a Mallenia, che era sul punto di replicare in modo energico. «Voi siete la nuova regina del Weyum...» «Il sovrano è Lohasbrand, nel caso l'aveste dimenticato», lo interruppe Coïra, in tono freddo. «Io sono soltanto una pessima maga su una roccia in un lago quasi prosciugato, che ha tolto la vita alla sua stessa madre.» Rodario sospirò. «È stato l'albo a decapitarla.» «Ma sono stata io a ferirla così gravemente che lei non ha potuto fare nulla per opporsi. Lo volete capire?» «Che ne è degli albi? Ci sono tracce?» Mallenia guardò l'uomo. «Voi sapete che oggi è soltanto la seconda rotazione che io riesco a stare in piedi sulle mie gambe. La guarigione ha richiesto tempo.»
«Sisaroth ha abbandonato l'isola. Quantomeno non è più apparso per ucciderci. Dove sia finita sua sorella, lo sanno solo le onde.» Rodarlo sembrava irritato. Voleva rimettere in piedi Coïra e liberarla dai rimproveri che faceva a se stessa. La ragazza era l'ultima maga della Terra Nascosta, e una simile responsabilità non poteva essere ignorata. Ma in quella fase del lutto non poteva dirglielo tanto bruscamente, altrimenti c'era il rischio che lei non lo stesse mai più a sentire. Da quand'era morta la madre, Coïra non era più scesa nella sorgente, e la sua riserva interiore di potere doveva essersi quasi completamente esaurita. Rodario osò avvicinarsi alla ragazza. «Altezza, come pensate che mi senta?» «Anche voi avete ammazzato vostra madre per stupidità?» «No...» «Allora non avete idea di quello che sto passando», mormorò la ragazza, con voce tremante. «Sento le sue grida, non appena c'è silenzio intorno a me. E, quando guardo nello specchio, vedo il suo volto arso. Quando qualcuno accende un fuoco e ne osservo il fumo, devo vomitare.» Chiuse gli occhi, tenendosi le
mani davanti al volto. «L'albo avrebbe dovuto uccidere me, non lei», disse tra le lacrime. Rodario se ne infischiò della differenza di ceto e dei titoli: la abbracciò, la trasse a sé e le premette la testa contro il petto. Coïra rispose all'abbraccio e singhiozzò senza ritegno. Mallenia si sedette su una poltrona accanto alla porta, in silenzio. Sapeva quanto facesse bene essere consolati in quel modo e, con sua sorpresa, provò un po' di gelosia. Per qualche motivo il suo cuore aveva scelto quel molle attore. Presumibilmente perché era decisamente poco virile e molto diverso dagli uomini che aveva conosciuto fino a quel momento. Il bacio che le aveva rubato le confermava solo ciò che dentro di lei sapeva già da tempo. Non glielo potrò mai dire. Riderebbe di me. Tutti riderebbero di noi, pensò, infelice. Guardate, ecco che arrivano la guerriera e il suo poetico cagnolino da compagnia. Ciò che le spade di lei non vincono, l'uccide la bocca di lui a forza di chiacchiere. Nonostante tutto, dovette sorridere a quell'immagine. Cercò di deviare i suoi pensieri sugli albi gemelli. Aveva visto coi suoi occhi il cadavere
dell'alba; l'aveva visto andare alla deriva sulla superficie del lago, ma era affondato prima che fossero riusciti a raggiungerlo. L'addome e il petto di Firûsha erano esplosi. Se mai era sopravvissuta all'attacco della maga, la caduta l'aveva sicuramente uccisa. Presumibilmente Sisaroth si era messo alla ricerca della sorella, o del suo cadavere. Forse glielo imponeva una qualche tradizione degli albi, cosa che garantiva agli umani una proroga dall'attacco successivo. E a Mallenia continuava a non essere chiaro come avrebbe reagito il drago. Si sentì bussare e, senza attendere un invito, il visitatore aprì la porta. Loytan fece un passo nella stanza e rimase impietrito quando vide Rodario e Coïra abbracciati. «Come osate, attore?» sbottò, indignato. «Staccatevi all'istante dalla regina! Se siete un uomo, venite con me nel corridoio, in modo che io possa insegnarvi a bastonate come vi dovete comportare.» Mallenia si schiarì la voce. «Questo non è il momento di mostrare orgoglio di casta, conte Loytan.» Guardò la lettera che teneva in mano. «È da parte di Lohasbrand?»
«La cosa vi riguarda?» Pieghe di rabbia si formarono sulla fronte di Mallenia. «Forse dimenticate che io discendo dal lignaggio regale degli Ido, conte», ribatté. «A me spetterebbe il titolo di sovrana dell'Idoslân. Se insistete tanto sull'etichetta, ogni volta che mi vedrete in futuro dovrete fare un profondo inchino e rivolgervi a me chiamandomi 'Altezza'.» Osservò il volto dell'uomo, sempre più rosso. «È questo che volete, conte?» Loytan digrignò i denti. «Non ho aperto la lettera. Ma è davvero da parte di Lohasbrand.» Andò alla scrivania e la posò. Coïra si staccò da Rodario e si asciugò le lacrime dal volto. «Grazie», mormorò, e aprì la busta. Il suo sguardo corse tra le righe, poi il frammento di una scaglia di drago cadde sulla scrivania. «Dunque?» chiese Rodario. Loytan gli lanciava sguardi carichi di odio, con la destra che si stringeva a pugno in una maniera che non prometteva nulla di buono. «Lohasbrand m'incarica di cercare l'albo e prenderlo prigioniero. A questo scopo mi manderà cento mezz'orchi, che saranno a mia disposizione», riferì la giovane regina,
riassumendo la missiva. «E pretende un giuramento di fedeltà.» «Ciò significa che dovrete portare l'anello intorno al collo, lo stesso che portava vostra madre», disse Rodario, inorridito. «Circondata da quattro guardie? Rinnegando la magia?» «Mi è indifferente. Così non cadrò mai nella tentazione d'immergermi sul fondo del lago per usare la sorgente», replicò Coïra, con voce stanca. «Regina, non potete farlo!» esclamò Mallenia. «Voi siete l'ultima maga...» A Coïra gelò il volto. «Sì, e con questo?» Rodario imprecò sottovoce. Mallenia aveva fatto ciò che lui aveva intenzionalmente evitato di fare, e capì subito che non era un argomento capace di convertire la regina. «È stata una rotazione di grande scompiglio, e gli animi sono molto accesi. Sarebbe meglio andarcene a letto e discutere domani, con tutta calma.» «Ma come osate rivolgervi in questo modo alla regina?» sbottò Loytan. «Voi non avrete proprio niente da discutere con lei.» Subito dopo guardò in direzione di Mallenia, perché temeva di esserne ripreso.
«Rodario ha ragione.» Coïra si asciugò le nuove lacrime «Sono esausta e vorrei dormire. Ci troveremo di nuovo domani e discuteremo di ciò che porta il futuro. Tutti quanti», aggiunse, passando molto vicino all'attore. Rodario sentì molto bene che la ragazza gli sussurrava un: «Grazie», mentre usciva dallo studio. Subito dopo, uscì anche Loytan. Rodario guardò ancora per un po' fuori della finestra. Poi decise di fare una passeggiata sopra gli spalti. Amava il fresco odore dell'acqua. Non avrebbe mai creduto di riuscire a usare i semi di erba strega incendiari per poter mettere in fuga l'albo. Riteneva probabile che l'Occhineri si fosse ritirato perché preoccupato per la sorella; Sisaroth aveva ucciso diciotto uomini prima di andarsene. Che Firûsha imputridisca sul fondo del lago. Immerso nei suoi pensieri, Rodario non aveva notato l'uomo che era uscito dall'ombra di una torretta. Solo quando questi tossicchiò intenzionalmente, l'attore diresse l'attenzione su di lui. «Loytan. Non pensavo proprio d'incontrarvi», disse, allegro. «Adesso arrivano le botte?»
Il conte gli si avvicinò. «Quando ti ho buttato giù dalla palancolata, avrei dovuto legarti delle zavorre ai piedi, vergogna dei palcoscenici!» Indicò a destra, oltre il bordo del muro. «Oggi non sarà necessario. Ottanta passi di caduta dovrebbero bastare a romperti il collo. Poi, giù il sipario! Nessuno ti piangerà.» «In quell'occasione il vostro attacco mi ha colto di sorpresa, conte. Pensate che oggi vi riuscirà?» Loytan lo derise. «Senza i tuoi trucchetti e i dispositivi con cui simuli gli incantesimi, sei indifeso.» S'infilò pesanti pugni di ferro. Rodario sogghignò. «Direi che, a quanto sembra, non vi affidate soltanto alla durezza delle vostre ossa. Pensate che il mio mento sia così resistente?» «Preferisco non sporcare le mani con gente come te.» «Ma cos'ho fatto di preciso per guadagnare tanta invidia da parte vostra? Ho solo dato un po' di conforto a Coïra. La vostra consorte non sa nulla delle voglie che nutrite per la nuova regina?» Rodario gettava volentieri olio sul fuoco. Gli avversari infuriati erano più facili da colpire. «Glielo dirò io, molto volentieri.»
«Di te non rimarrà nulla che sia in grado di articolare una frase!» Loytan accelerò il passo, ma l'attore indietreggiava. «Fermati!» «Va bene. Se è quello che volete.» Rodario sospirò. «Ma vi avverto: se ora voi mi attaccate, non vedrete mai più nessuno. Nemmeno vostra moglie.» «Ti piacerebbe, eh, imbecille! E comunque, lei mi odia.» Loytan sferrò un pugno... e colpì il vuoto. «Sul palco è importante essere svelti e agili.» Rodario aveva fatto una capriola in avanti, tra le gambe del conte, e si era rialzato alle sue spalle. Gli diede un calcio nel sedere, facendolo incespicare in avanti. «Che accade? Non sapete fare di meglio?» Loytan attaccò di nuovo. «Troppo prevedibile.» Rodario bloccò il colpo senza che il braccio nemmeno gli tremasse e diede a Loytan una gomitata in faccia. Afferrò l'avversario per i capelli e gli abbassò bruscamente la testa; contemporaneamente alzò fulmineo il ginocchio e colpì il conte al naso, rompendoglielo. Poi lasciò la presa e gli sferrò un calcio nello stomaco.
Loytan cadde sulle ginocchia. «Morirai per questo», mormorò, con voce strozzata. «Non era quello che intendevate comunque fare?» Rodario finse di essere stupito. «E poi sono io a dovere il prossimo tentativo di omicidio a voi, non il contrario. Per quella storia del pozzo.» Intanto Loytan aveva gettato via i pugni di ferro ed estratto un pugnale. Rodario evitò due attacchi, poi si sottrasse al terzo e colpì il conte con una gragnola di pugni. Ansimante e sanguinante, Loytan si accasciò sul camminamento. «Per fare l'attore occorrono numerosi talenti», spiegò Rodario. «Per riuscire a interpretare un guerriero, non basta portare un'armatura; bisogna anche essere un po' come lui, combattere come lui, capite? E non posso certo negare che questo mi sia stato utile.» Loytan tossì e si tirò su, sorreggendosi al muro. «Questo non s'impara in poche ore», farfugliò, con tre denti che gli giacevano davanti alle scarpe. Rodario fece un inchino. «Molte grazie per il complimento. Dovreste vedermi tirare di scherma. In quello sono un maestro.» Rise.
«Un'altra volta, forse? Quando avrete di nuovo voglia di un duello e le vostre ferite saranno guarite.» Rifletté. «Che cosa volevate chiedermi, in realtà?» Loytan portò una mano a una tasca e gettò a terra un pugno di ovatta. «Ho trovato questo nella vostra stanza.» «Ah, i miei accessori di scena. Che grande scoperta!» «T'imbottisci sempre le guance, ho ragione? E i peli sul mento e sotto il naso sono incollati», proseguì Loytan, sputando sangue. «Chi sei in realtà? Per quale motivo porti avanti questa mascherata, rotazione dopo rotazione?» Lo sguardo di Rodario cambiò, diventò deciso, senza più traccia di divertimento. «La curiosità è costata la vita già a molti uomini.» Fece un improvviso passo verso il conte, con una mano lo afferrò per la cintura, con l'altra per il bavero. «Quindi siete in buona compagnia.» Sollevò Loytan, che non era leggero, e lo spinse con forza oltre il muro. Non si sentì nessun grido. Non l'ho gettato abbastanza lontano? Rodario si piegò oltre il parapetto e vide il conte quattro passi più sotto, appeso con una mano a
una grondaia di argilla. «Con la vostra presenza di spirito non andrete lontano. Solo a fondo.» Guardò a destra e a sinistra dell'ambulacro e scorse un braciere, in cui le fiamme erano spente. Si affrettò a raggiungerlo, lo prese e lo trascinò fino al muro. Loytan cercava di tirarsi su. «Aspettate! Vi lancio qualcosa cui attaccarvi.» Sogghignando, l'attore fece rotolare oltre il parapetto l'oggetto di ferro battuto. «Prendete! Vi porterà di certo giù, e alla svelta!» Rodario vide il braciere fare a pezzi la grondaia. Loytan cadde nel lago, schiantandosi sulla superficie dell'acqua dopo un lungo volo; il braciere lo seguì affondando nello stesso punto. «Porta tanti saluti a Firûsha», gridò Rodario, raddrizzandosi. Si assicurò che nessuno lo avesse visto in azione: le finestre da cui si poteva vedere quella parte del camminamento erano buie. Si concesse un altro largo ghigno mentre prendeva la palla di ovatta e se la infilava sotto il mantello. Gli piaceva essere sottovalutato. Fece per proseguire il suo giro, quando nel cielo serale vide una sagoma. Mentre l'ombra si avvicinava, diventando sempre più grande e
dirigendosi verso il pozzo che portava alla sorgente della magia, Rodario capì che non si trattava di un innocuo uccello. «Lohasbrand!» gridò, mettendosi a correre. «Alle armi! Il drago sta arrivando!»
XVII Terra Nascosta, ex regno dei Weyurn, otto miglia da Seenstolz, 6491°/6492° ciclo solare, inverno In seguito all'attacco del Kordrion, il gruppo di Tungdil aveva perso ventuno nani dello Squadrone Nero e tre Zhadár. Bruciarono i guerrieri morti e raccolsero le ceneri, per portarle nei Monti Rossi; là sarebbero state seppellite con tutti gli onori. Le spoglie dei nani appartenevano alle montagne, non alle pianure, né di certo ai reami degli albi. Era morta anche la maggioranza dei pony; quindi non era rimasta ai nani altra possibilità che percorrere a piedi un lungo tratto di strada, fino al confine nordoccidentale di Phôseon Dwhamant, prima di comprare nuove cavalcature presso gli agricoltori di quello che un tempo era il regno del Tabaîn. Naturalmente un esercito del genere suscitava grande scalpore, e Tungdil spronava i suoi a fare ancora più in fretta. Rotazione dopo
rotazione attraversavano fondali di laghi prosciugati coperti da brina e ghiaccio che scricchiolavano sotto gli zoccoli dei pony. Superarono isole svettanti, che al Rabbioso ricordavano giganteschi funghi di pietra. C'erano però anche molte isole il cui zoccolo, senza acqua intorno, non aveva retto; erano crollate e si erano frantumate a terra. Sembra irreale. Come se gli dei volessero plasmare di nuovo la regione. Boïndil trovava particolarmente affascinanti i punti in cui un tempo si erano trovate le scogliere. Si alzavano come montagne rotonde e levigate, alcune alte più di cento passi. I nani s'imbatterono nei resti di navi arenate e negli scheletri di grandissimi pesci. Dirigevano i pony verso le lische e vi cavalcavano attraverso senza dover abbassare le teste, tanto immense erano le ossa. Adesso so perché non mi piacciono le acque profonde. Il Rabbioso osservava gli scheletri e le grosse teste piene di zanne che spuntavano perfino lungo il palato, nella parte interna delle fauci. Da una bocca del genere non poteva scappare nessuna preda.
«Si potrebbe pensare che il nostro imperatore voglia evitare qualunque scontro coi Lohasbrander e coi loro contingenti di mezz'orchi», osservò Slin. «Questo però non dipende dal fatto che lui o qualcun altro tra noi abbia paura di combattere», rimarcò Boïndil. «È solo una questione di tempo. La nostra priorità è raggiungere il più in fretta possibile i Monti Rossi e il covo del drago, per alleggerirlo di un tesoro di gran valore e aizzarlo così contro Lot-Ionan.» «E perché allora cavalchiamo per vie traverse e puntiamo verso Seenstolz e la regina Wey XI?» «Forse non hai ascoltato bene? Facciamo così perché il Sapientone vuole proporre alla regina di muovere con noi contro Lot-Ionan, non appena il drago e i suoi mezz'orchi saranno partiti per il sud», rispose il Rabbioso. «Durante il viaggio di ritorno, quando saremo carichi di oggetti preziosi sottratti al tesoro del drago, lei ci darà la sua risposta.» Guardò i dintorni. «Così ne approfitto per godermi i laghi», aggiunse, compiaciuto. «A casa rimarranno tutti a bocca aperta, quando glielo racconterò: me ne vado in
giro per i fondali, e la maledizione di Elria non può farmi niente!» «A meno che non piova forte», obiettò Slin. Boïndil gli lanciò uno sguardo diffidente. «L'acqua si raccoglierebbe subito sul fondo, che è duro e asciutto. Come in una scodella. Se ci trovassimo nel punto più profondo di una scodella, dovremmo nuotare.» Slin si divertiva a evocare lo scenario peggiore. «E noi sappiamo che il nostro popolo non è affatto bravo in questo.» Il Rabbioso guardò il cielo, che diventava sempre più cupo. «Vraccas, fa' piovere tizzoni ardenti piuttosto che permettere a Elria di annaffiarci come piante di piselli!» Tungdil indicò qualcosa davanti a loro. «Dobbiamo tornare sulla riva e puntare verso sud. Dobbiamo arrivare precisamente davanti a Seenstolz. Da là, per arrivare sull'isola della maga c'è soltanto un breve tragitto sull'acqua.» Il buon umore di Boïndil scomparve repentinamente. «Maledizione! Allora dovrò davvero mettere piede su una barca.» «Ma finora è andata bene», lo incoraggiò Slin. «E se dovessimo cadere in acqua, che sarà mai? Io mi faccio volentieri un bagno.»
«Ma tu sei un Quarto rammollito», disse qualcuno in tono di scherno. Qualche Zhadár rise. Il Rabbioso si ricordò di quella voce roca: era lo stesso guerriero che, sul tetto di Phôseon, aveva litigato con Slin riguardo la lunghezza del dardo. Fece rallentare il pony fino a che non ebbe raggiunto il combattente. «Eri tu?» «E chi dovrei essere?» Boïndil scosse la testa. «No, non eri tu. Ma tu sai di chi sto parlando: dell'Attaccabrighe.» Il Rabbioso sollevò la visiera del nano per vederlo in volto. Un volto dipinto di nero con una corta barba. Perfino a lui, un nano, quell'abitudine rendeva difficile distinguere gli Invisibili l'uno dall'altro. Attraverso quella tinta assumevano un aspetto quasi identico, che costituì- , va anch'esso una forma di protezione: nessuno avrebbe saputo descrivere con precisione l'aspetto del nemico. «Tieni a freno la lingua, in qualunque elmo ti trovi», disse Boïndil a voce alta. «Non sopporto le tue stupidaggini.» Tungdil aveva già modificato la direzione e cavalcava in testa, accanto a Barskalin, verso qualche duna, dietro cui presumibilmente si estendeva una parte del lago.
Anche il Rabbioso spinse il suo pony sopra l'altura; gli zoccoli sprofondavano abbondantemente nella sabbia molle. Raggiunse la cima della duna e guardò le propaggini del lago. A meno di quattro miglia da loro, un'isola poggiava su un pilastro di roccia di basalto; alla sua sinistra si vedevano pareti di ferro spuntare dall'acqua. «Quella davanti a noi è Seenstolz.» Tungdil era soddisfatto. «Siamo sbucati dove volevamo.» Indicò la costruzione in mezzo all'acqua. «Dal momento che la sorgente della magia sta in fondo al lago, suppongo che abbiano costruito una specie di pozzo.» «Sì», confermò Balyndar. «Mia madre inviò dei Quinti perché facessero questo favore a una delle regine del Weyurn.» «Un capolavoro!» lo lodò Boïndil, con entusiasmo. «La pressione dell'acqua sulle pareti dev'essere indescrivibile.» Balyndar non nascondeva il suo orgoglio per quell'opera. «I nostri ingegneri hanno dovuto mettere molti supporti perché il pozzo potesse reggere la pressione dell'acqua. In un mare con maree e correnti come quelle che si conoscono
nella Terra dell'Aldilà, di certo non sarebbe stato possibile.» «Questo è il vantaggio dei Quinti. Hanno preso i migliori da tutte le stirpi, e così sono molto avanzati in tutti i campi dell'artigianato dei nani.» Slin lo disse senza risentimento. «Darei volentieri un'occhiata al pozzo.» Barskalin fece notare un villaggio che distava da loro appena mezzo miglio. Le barche capovolte sulla spiaggia e le reti da pesca sembravano incoraggianti. «Là ci daranno la piccola flotta di cui abbiamo bisogno per raggiungere l'isola.» «Basterà una sola imbarcazione che porti sull'isola dieci di noi. Non ho intenzione di sbarcare in forze con l'intero Squadrone Nero. Gli altri troveranno una sistemazione nel villaggio. Non rimarremo a lungo dalla regina.» Galopparono verso il villaggio. Qualcuno fece suonare una campana di allarme, che li salutò con una nota fievole, come se avesse anch'essa paura di loro. «Non è come le fanfare gioiose cui siamo abituati, vero, Sapientone?» disse Boïndil, osservando ciò che gli umani stavano facendo. «Corrono verso la riva?»
«E mettono in acqua le barche.» Slin indicò le persone in fuga. «Scommetto che ci ritengono invasori, mandati dagli albi.» Balyndar picchiettò con un dito la sua armatura nera. «Non abbiamo affatto l'aspetto di amichevoli visitatori. Gli ultimi nani devono essere stati qui al tempo della costruzione del pozzo.» Hargorin rise. «Sembra che il mio Squadrone Nero sia famoso anche qui.» «Manda avanti due dei tuoi a dire che non abbiamo cattive intenzioni», ordinò Tungdil. «Avrei dovuto pensarci prima. Seminiamo paura e terrore anche quando non vogliamo. Nel luogo in cui ho vissuto tanto a lungo sarebbe un bene. Qui non è una bella cosa.» Due membri dello Squadrone scattarono in avanti, attirando con forti grida l'attenzione degli umani. Boïndil rivolse all'amico uno sguardo d'incoraggiamento. Poi alzò la testa per osservare un'ultima volta il rosso del cielo al tramonto, prima che sprofondasse nel crepuscolo, e scorse la sagoma di un mostro volante che, da est, puntava verso Seenstolz. Non sapeva dire che cosa fosse di preciso, ma si
muoveva molto rapidamente: sembrava determinato riguardo la sua meta. Con un grido, il Rabbioso richiamò l'attenzione di Tungdil sulla sua scoperta. «Di mostri te ne intendi certo più di noi: che cos'è quello?» I nani osservarono la creatura avvicinarsi all'isola e al palazzo della regina. «Non lo so», ammise Tungdil. «Ma penso che non prometta nulla di buono per la regina.» «Allora arriviamo proprio al momento giusto, come se ci avessero chiamati», concluse Slin, di buon umore. «Aiutiamo la regina, e lei sarà in debito con noi! Non dovremo più pregarla di accompagnarci; lo farà perché lo esige il decoro.» «Anch'io la vedo così.» Tungdil fece fare allo Squadrone Nero una conversione verso la riva, dove le donne e gli uomini, tra le barche, stavano ascoltando con diffidenza i due nani mandati in avanti. «Saliamo a bordo.» Il Rabbioso osservò rabbrividendo le onde che s'infrangevano sulla riva. «Spero che prima Elria non mi abbia sentito», mormorò. «E che tutti i pesci più grossi del mio mignolo siano morti!»
Rodario tornò di corsa al palazzo e si rese conto, con sollievo, che il suo allarme era stato sentito: ovunque risuonavano grida e venivano percossi gong, mentre sui camminamenti risuonava lo scalpiccio di pesanti stivali. Non si preparavano a fronteggiare un possibile attacco soltanto sulle fortificazioni del pozzo; venivano occupate anche le installazioni difensive del palazzo. Raggiunse la stanza di Mallenia, che, già in armatura, stava stringendo le ultime cinghie di cuoio della corazza davanti alla porta. «Voi sapete cosa sta succedendo?» chiese la donna. «L'allarme suona per causa mia», rispose l'attore, pavoneggiandosi. «Voi? Voi non siete affatto pericoloso.» Mallenia estrasse una spada e sorrise. «Seriamente: sapete a chi dobbiamo tanto trambusto?» «Ho visto una creatura volante che si dirigeva verso il pozzo. Ho ritenuto opportuno avvisare la gente qui a palazzo, in modo che potesse convenientemente...» Si zittì, perché aveva notato che la donna lo ascoltava distrattamente e guardava lungo il corridoio.
Mallenia alzò un braccio. «Regina Coïra! State cercando noi?» Rodario si girò e vide la giovane maga circondata da guardie affrettarsi verso di loro. Portava un abito nero con ricami bianchi, i capelli raccolti sotto un velo bianco. «È il drago», disse Coïra. «È arrivato!» «Per attaccarci? Oppure per discutere con voi di quanto gli avete scritto?» Mallenia accennò un inchino. «Non lo so. Non voleva mandarmi cento mezz'orchi per catturare gli albi?» Coïra riprese a camminare velocemente; con un cenno fece intendere ai due che dovevano seguirla. «Dove stiamo andando?» chiese Rodario. «Nell'interno del basamento dell'isola non c'è uno spazio ben riparato in cui potete aspettare gli eventi?» «Desidero raggiungere la sorgente.» «Non commettete l'errore di far crollare...» «Sciocchezze. Non desidero far crollare il pozzo», lo interruppe la maga. «Il punto è che la magia che porto in me non è sufficiente a difenderci dallo Squamoso, qualora fosse necessario.»
Rodario e Mallenia si scambiarono sguardi sollevati. «Ci fa molto piacere che vi siate decisa in questo senso», disse l'attore. «Ed è merito di voi due se mi comporto in questo modo. Ho riflettuto molto sulle vostre parole e sono giunta alla conclusione che devo assumermi questa responsabilità. Mia madre non può avermi addestrata inutilmente.» Fece un debole sorriso. «Anche se non sarà facile. In me non batte il cuore di un grande guerriero.» Raggiunsero la piattaforma da cui partivano le cabine che collegavano l'isola al pozzo. Coïra fece per salire, ma Rodario la trattenne per una spalla. «Non sarebbe meglio prendere la scala? Così le nostre vite non sarebbero appese a funi e cavi.» «Ci sosterranno.» La regina entrò nella cabina. «Abbiate fiducia.» «La struttura non reggerebbe agli attacchi del drago che sta volando intorno all'isola.» Con lo sguardo, Rodario scrutò a ovest, ma senza scorgere la creatura. «Dove sarà finito?» «Sotto l'isola», gridò Mallenia, raggiungendoli. «Preghiamo Elria e Palandiell di raggiungere il pozzo illesi.»
«Il conte Loytan ci coprirà con le sue catapulte.» Coïra fece segno a quattro guardie di accompagnarli. La ripida discesa cominciò. «Il conte Loytan non è nella fortezza», disse uno degli uomini. «Lo abbiamo incontrato prima, mentre camminava verso gli spalti del palazzo. Da allora non lo ha più visto nessuno.» Rodario aveva rivolto altrove lo sguardo, così nessuno avrebbe potuto capire qualcosa dalla sua espressione. Si riteneva un attore sufficientemente capace da nascondere efficacemente il suo ghigno, ma la prudenza non era mai troppa. La cabina oscillava leggermente al fresco vento serale, facendo impallidire Mallenia. Quel dondolio non aveva però brutte conseguenze, perché i supporti erano ben saldi. Coïra ritenne che stessero andando fin troppo lentamente e fece segno alla guardia che azionava il meccanismo di mollare un po' di più il freno. «Altezza, così entreremo troppo velocemente nella stazione di arrivo. Scendere più velocemente di così può essere pericoloso.»
Quando la cabina si trovò abbastanza lontana dall'isola, Rodario vide di nuovo la creatura. «Là! È davvero attaccata alla roccia!» Il mostro sembrava una lucertola cui Tion avesse dato le ali di una locusta. Il corpo squamoso era lungo dieci passi, le fauci potevano sicuramente ingoiare una mucca, e la pelle nera scintillava umida alla luce del sole morente. Al collo portava una catena di metallo cui era fissata un'onice nera grande come una carriola. «Perché le baliste sul bordo del pozzo non tirano?» chiese Rodario, preoccupato. Mallenia abbassò gli occhi sulle baliste, apparentemente puntate su di loro. «A causa nostra. Siamo sulla loro traiettoria e, senza volerlo, stiamo coprendo la bestiaccia.» «Non è un drago. In ogni caso, non Lohasbrand», stabilì Coïra. «Forse un suo piccolo amico? Che l'abbia mandato in avanscoperta?» Rodario non ricordava di aver mai sentito descrivere nulla di simile in nessuna vecchia saga. «Mi sta fissando», disse, allontanandosi dal finestrino.. «Come se avesse voglia di mangiare un attore.»
«Tranquillo, di sicuro mangia solo quelli bravi», lo stuzzicò Mallenia, rendendosi istantaneamente conto di comportarsi come una ragazzina innamorata. E in un momento assai poco adatto. «Sta guardando tutti noi», disse Coïra. «In tutta franchezza, questo non mi consola affatto.» L'attore si rivolse alla regina. «Su, folgorategli quell'orribile cranio!» Coïra scosse la testa. «Non sappiamo che cosa vuole da noi. In fin dei conti, si sta comportando come una creatura pacifica.» «Nella Terra Nascosta? Con un aspetto del genere?» Scuotendo le spalle, Rodario guardò la creatura, che stava facendo guizzare una lingua bluastra. «Guardate! Guardate se non ha appetito!» La cabina si era lasciata alle spalle due terzi del tragitto. La creatura si lasciò cadere, girò su se stessa e spiegò le ali da insetto, con cui planò diretta verso la cabina. Spalancò le fauci e mostrò una fila di zanne molto aguzze. «Dal mio punto di vista, è chiaro cosa vuole.» L'attore si gettò in ginocchio davanti a Coïra. «Salvateci!»
La regina raccolse ciò che restava dei suoi poteri magici e lanciò un fulmine rosso attraverso il finestrino, verso il mostro in rapido avvicinamento. L'attacco andò a segno. L'energia straziò il muso e parte del collo della creatura, e il volo si trasformò in un avvitamento incontrollato che terminò tra le funi della cabinovia. A quel punto, anche le armi a distanza disposte sul pozzo poterono cominciare a tirare. La cabina venne sollevata bruscamente Sopra le teste dei passeggeri si sentì un tintinnio, poi il rumore di qualcosa che si lacerava, e improvvisamente precipitarono verso la superficie del lago. «Fermatela!» gridò Rodario, cercando di reggersi a una barra. «Coïra, fate qualcosa! Rallentate la caduta!» La cabina s'inclinò, e i passeggeri videro che la creatura ferita li seguiva con gli artigli protesi. «Dimenticate quello che ho detto: più veloce, più veloce!» gridò Rodario. «La bestia ci ha quasi raggiunto!»
Tungdil si trovava con Slin, Balyndar, il Rabbioso e dieci Zhadár sulla prima barca da pesca che andava a vele spiegate in direzione di Seenstolz. Vedevano con precisione quello che stava succedendo a circa quattro miglia di distanza. Slin guardò indietro, in direzione della piccola flotta su cui erano imbarcati lo Squadrone Nero e gli Zhadár. Dopo avere sentito i nomi di Tungdil e Boïndil, gli abitanti del piccolo villaggio si erano dichiarati disposti a traghettare i nani; quand'era comparso il mostro, si erano affrettati ancora di più. «Coïra dev'essere una maga inesperta.» «Sono contento che potremo comunque parlare con una maga», replicò Balyndar. «Mi sono molto preoccupato quando questa gente ci ha parlato della morte della regina.» Boïndil saltellava impaziente da un piede all'altro. Si sentiva inquieto per diversi motivi: si trovava su un lago di cui non voleva conoscere la profondità, e sotto di sé aveva soltanto le sottili tavole di quel guscio di noce; voleva combattere contro quella creatura, ma non sapeva come avrebbe potuto farlo stando su quel barcone; e non aveva la più pallida idea di
cosa fosse la creatura che stava attaccando la cabina. «Quello non è certo un drago», disse rivolto a Tungdil. «Mi sto chiedendo se sia un bene o un male.» L'imperatore dei nani teneva lo sguardo puntato in avanti e vide un fulmine rosso balenare contro il mostro. «Non può averlo mandato Lohasbrand. I draghi non sopportano la presenza di altri mostri; lo Squamoso avrebbe ucciso una creatura del genere da molto tempo, se si fosse presentata nei Monti Rossi.» Boïndil imprecò forte, quando la fune della cabina si spezzò e quella precipitò verso le acque. «E adesso siamo anche senza questa maga. C'è di che scoraggiarsi!» Vedevano le frecce e le lance che venivano scagliate dal pozzo; da quella distanza sembravano piccole nubi nere e sottili strisce scure. Tungdil sembrava seguire la scena con grande distacco. «Riuscirà sicuramente a salvarsi. Se non ci riesce, non sarebbe di nessun aiuto contro Lot-Ionan.» La bestia alata strappò le funi da entrambi gli ancoraggi, sbattendo parecchie, volte le ali contro di esse, disperatamente, e tagliandosi così la pelle sottile. Strillando, cadde
volteggiando sulla scia della cabina, come se volesse raggiungerla e farla a pezzi. «Ma la regina non dovrebbe fare qualcosa, a questo punto?» osservò Boïndil, un po' scettico. «Stanno per schiantarsi.» Improvvisamente il mostro compì un'ultima giravolta e scomparve a capofitto nel pozzo, lasciando dietro di sé una scia di sangue. Il liquido rosso schizzò contro le palancolate. «Questa è una sfortunata coincidenza.» Il Rabbioso vide la cabina terminare la sua caduta verticale e oscillare come un pendolo verso destra, contro lo stelo di roccia che sorreggeva l'isola. «Ehi! Una delle funi ha tenuto.» Tungdil fece una smorfia. «Avrei preferito che fosse la maga a fare qualcosa. Non sono convinto delle sue capacità.» Poi ci fu una potente esplosione. Dalla cavità salì una colonna di fuoco verde vivo, alta parecchi passi, che proiettò in cielo le sovrastrutture interne del pozzo. I nani riconobbero le figure quasi indistinte di uomini, frammenti di baliste, pezzi di tetto, travi di legno e molti altri elementi che volavano in aria per effetto dell'esplosione. Lo spettacolo si accompagnò a un fischio acuto; le palancolate
diventarono prima rosse, poi bianche per il calore. L'acqua intorno cominciò a bollire, e il vapore si levò alto. Si sentì un nuovo schianto. Le fiamme si sgonfiarono, raccogliendosi in una palla di fuoco che si espanse immediatamente sopra il pozzo. Molto in profondità, sul fondo del lago, ci fu un balenio argenteo: un lucore di forma circolare correva sul fondale. Là dove sfrecciava, i nani potevano guardare sino sul fondo. Il Rabbioso credette di avvertire un leggero formicolio sgusciare sotto la barca, e le rune sull'armatura di Tungdil brillarono. Subito dopo, si sentì il brontolio di un vulcano. La superficie dell'acqua andò in ebollizione, le onde sciabordavano con forza contro la chiglia della barca, facendola oscillare violentemente. Una terza esplosione dilaniò le palancolate, staccando le une dalle altre come se fossero di fragile vetro, e non dell'acciaio più duro. Il lago rifluì, avido, creando un risucchio che catturò le barche da pesca, trascinandole verso l'isola. Tra i gorgoglìi e il mugghiare delle acque, il vuoto lasciato dal pozzo si riempì; poi una colonna d'acqua si levò sbuffando,
raggiungendo l'altezza della cima del palazzo prima di ricadere su di sé. «Tenetevi forte», fu l'unica cosa che Tungdil disse prima che l'immensa ondata di riflusso si avventasse contro di loro. Lui stesso si aggrappò con una mano al piccolo albero e incassò la testa. «Odio Elria!» sbottò il Rabbioso, trovando una fune cui aggrapparsi. «Durante i miei viaggi, trova sempre un modo per mettermi alla prova.» Lo scafo della barca si sollevò, e l'onda investì i nani con acqua gelata. L'imbarcazione rollò e beccheggiò, ma resistette alle sollecitazioni e non si capovolse. Slin si guardò indietro. Non tutti avevano avuto la stessa fortuna: due delle piccole barche si erano ribaltate. «Che Vraccas vi protegga dalla malvagità di Elria», pregò, brevemente, prima di tornare a guardare in avanti. Nel punto del lago in cui prima si erano trovate le pareti d'acciaio, continuava a schizzare vapore. Un frastuono riempì l'aria. La base su cui poggiavano l'isola e il palazzo reale si sgretolò nell'estremità inferiore. Il basalto si crepò. L'isola si piegò lentamente a sinistra; poi il sostegno si spezzò completamente, e
Seenstolz s'immerse in acqua. Una seconda onda, grande quanto la precedente, si dirigeva verso le barche. Tungdil stava calmo accanto all'albero, perlustrando con l'unico occhio il lago mosso e spumeggiante. «E dunque, Sapientone?» gridò Boïndil. Si piantò sulle assi, sporgendosi in avanti per bilanciare il movimento della barca. «Speri che qualcuno sia sopravvissuto in quei flutti?» «Sono possibili molte cose», replicò Tungdil, sorridendo. La seconda ondata fu sensibilmente più violenta, il Rabbioso lo percepì da quanto salivano, e quanto a lungo. Mai, mai, mai più un viaggio sull'acqua! Temette per la discesa. Improvvisamente beccheggiarono tanto da raggiungere una posizione verticale, prima che la prua s'inclinasse in avanti e scendesse lungo il versante dell'onda. Non erano più molto lontani dal punto in cui, fino a poco prima, stavano il pozzo e l'isola. «Nano in mare!» si sentì gridare alle loro spalle. Balyndar stava al parapetto e indicava qualcosa a poppa. «Slin è stato preso dall'onda e trascinato via!»
Tungdil non si girò nemmeno. «Dobbiamo cercare la maga», disse. «Di nani ne abbiamo a sufficienza. Di maga ce n'è una sola.» Boïndil fissò l'amico, stupito da quella spietata freddezza. Una ricaduta in quel Tungdil che nella Terra dell'Aldilà è diventato famoso per le sue efferatezze. Scorse in coperta dei gavitelli, di quelli che i pescatori lasciano in acqua per marcare la posizione delle proprie reti. Erano vesciche di maiale gonfie d'aria, tronchi di sughero o sfere di vetro cave intorno alle quali era avvolta molta corda. Prese quattro di quelle boe e corse verso Balyndar. «Dov'è?» Guardarono tra le onde insieme, finché il Quinto non ritrovò il disperso. «Là. Lancia!» Il Rabbioso scagliò i gavitelli, mettendoci tutta la sua forza; le boe volarono lontano. Slin, che sbuffava e si dimenava, riuscì ad afferrare la corda cui era attaccata una vescica e la tirò a sé. Tuttavia, a causa del grande peso dell'armatura, continuava a sprofondare, e ai due nani sulla barca era chiaro che stava lottando con la morte. Solo quando riuscì a trarre a sé le altre boe potè stare a galla quanto gli bastava per respirare.
Sollevato, Boïndil tornò a prua da Tungdil. «Lo abbiamo salvato. Sarà raccolto da una delle altre barche.» «Molto bene.» L'imperatore si sporse in avanti, come se avesse scorto qualcosa tra le bianche creste delle onde. «Avresti tranquillamente potuto dirmi 'chi se ne importa', Sapientone», replicò Boïndil. «A giudicare dal tono, non era facile capire la differenza.» Tungdil si girò di scatto e, per un istante, sembrò voler colpire l'amico. Il volto era furente. «Se mi manca un balestriere, me ne cerco uno nuovo. Ma se mi manca una maga, cosa faccio?» ribatté. «È un bene che Slin sia sopravvissuto, niente di più. Senza Coïra, le nostre possibilità contro Lot-Ionan sprofondano. Che si abbia con noi Slin, è irrilevante. Non credo che possieda dardi capaci di abbattere un mago in un solo colpo.» Guardò il pescatore che conduceva la barca. «Tutta a babordo!» ordinò. Il Rabbioso fremette, in silenzio. Una grave ricaduta. L'imbarcazione virò, dirigendosi verso un gruppo di relitti. Il beccheggio era ancora molto forte, il lago era ben lungi dall'essere calmo. Il
pescatore manovrò la vela per diminuire la velocità ed evitare così un buco nello scafo causato dai tanti rottami alla deriva. Tungdil aveva preso un bastone uncinato. «Guardate se ci sono superstiti. Chi scopre corpi di donna, lo annunci subito. Degli uomini si occuperanno le altre barche.» Boïndil raccolse una rete e guardò le onde. «Ho visto una donna!» gridò, indicando una figura dai capelli biondi, in un'armatura di cuoio, che galleggiava accanto a una botte vuota. Tungdil l'avvicinò delicatamente con l'uncino, e gli Zhadár la issarono a bordo. «È la maga?» chiese al pescatore. «No, signore. La regina ha i capelli neri.» Il Rabbioso sistemò la donna accanto all'albero e le gettò addosso una coperta, prima che a Tungdil venisse in mente di scaraventarla di nuovo fuori bordo. «Sta' tranquilla. Sei viva», le disse con voce tranquillizzante, quando si accorse che le labbra bluastre tremavano. Gli sembrò molto alta e forte per essere una donna umana. Dev'essere una guerriera. Uno Zhadár fece un fischio e indicò a dritta. Fecero rotta verso il suo avvistamento, e Tungdil pescò dalle acque un'altra donna. Anche
lei era priva di sensi; portava un abito nero e aveva lunghi capelli dello stesso colore. «È lei», sussurrò il pescatore, spaventato. «È la regina! Elria, abbi pietà di lei!» «Elria? A Elria gliela farò vedere io!» Boïndil girò la ragazza a pancia in giù e la colpì sulla schiena più volte con lo stivale, violentemente, finché Coïra non iniziò a tossire, sputando acqua. «Sono un guaritore nato!» Aiutò la maga a girarsi, mentre il pescatore gli passava un'altra coperta. «Devi la vita a Vraccas», le disse gentilmente. «Sembrava piuttosto la suola di uno stivale», gemette la ragazza. Tungdil si presentò davanti a lei, guardandola dall'alto. «Benvenuta tra i vivi, Coïra Weytana, regina del Weyurn.» Lei tossì di nuovo, rivolgendogli uno sguardo di gratitudine. «Questi è l'imperatore Tungdil Manodoro», annunciò il Rabbioso. Poi presentò se stesso e gli altri. «Siamo comparsi al momento giusto.» Si sentì un ciangottio accanto alla barca, e una mano virile si aggrappò al parapetto; subito dopo comparve una seconda mano, poi il torso si tirò su, oltre il parapetto. I capelli castani
erano appiccicati alla testa. «Posso salire a bordo?» L'uomo guardò gli astanti, stupito. «Non riesco a crederci: una barca piena di nani!» «Per gli spiriti dei morti!» Boïndil alzò le sopracciglia, meravigliato, perché credeva di guardare il fantasma di un uomo morto da molto tempo. «Rodario?»
XVIII Terra Nascosta, ex regno del Weyurn, Seedorfen 6491°/6492° ciclo solare, tardo inverno Che gli abitanti del piccolo villaggio di Seedorfen avrebbero mai avuto il privilegio di ospitare la regina, di vedere famosi eroi dei cicli andati come Tungdil Manodoro e Boïndil Duelame e di avere tra loro anche la nota Mallenia von Ido e un discendente dell'Incredibile Rodario, questo nessuno se lo sarebbe mai aspettato. Neppure il più dotato cantastorie. Le celebrità sedevano insieme nella sala della piccola osteria, bevendo tè caldo, vino o birra speziati. Gli abitanti del luogo si tenevano timorosamente in disparte, osservando stupiti i visitatori attraverso le finestre e la porta aperta; spingevano e sgomitavano, mentre si mandavano persone scelte a riportare i migliori auguri o a offrire doni. Tuttavia non osavano avvicinarsi a meno di quattro passi, sempreché i nani o gli uomini facessero loro un cenno.
«Siete certa che la sorgente della magia sia stata distrutta?» Tungdil guardò Coïra, che aveva indossato il semplice abito di una pescatrice e stava avvolta in una coperta. «L'ho avvertito subito», rispose lei, afflitta. «L'energia che conteneva è stata rilasciata e sono riuscita a raccoglierne una parte, ma è... morta. Nel punto un cui un tempo si trovava la sorgente, non c'è più nulla.» Boïndil ripensò al formicolio e ai bagliori sull'armatura di Tungdil; la causa doveva essere stata la magia libera. Avrebbe fatto volentieri a meno di un'esperienza del genere, soprattutto perché la perdita della sorgente di magia costituiva un danno di dimensioni smisurate. Coïra sorrise ai suoi sudditi, anche se le riusciva difficile. Non voleva deluderli. Fece cenno di avvicinarsi alla bambina col cesto di doni, lo accettò e le accarezzò i capelli biondi. «Grazie.» La bambina fece un inchino e si affrettò a tornare nell'assembramento di persone. «Non riesco a capire che creatura fosse quella che ha causato la caduta di Seenstolz e la perdita della sorgènte magica», disse Tungdil.
La maga scosse la testa e osservò il dono che le era stato appena portato: sembrava un fermaglio di osso di balena in cui fosse stata incisa l'isola. Sospirando, vi strinse intorno le dita. «Penso che sia stato Lot-Ionan.» Rodario Settimo guardò i presentì. «Il mago ha creato quella creatura e l'ha mandata da noi per uccidere la regina, o per distruggere la sorgente. Capendo di stare per morire, la creatura si è gettata nel pozzo e ha compiuto la sua missione.» Si passò la mano sul collo. «Ho visto chiaramente che portava una specie di collana, con una pietra. Un'onice, credo. Può essere stata quella a scatenare l'esplosione?» «È possibile.» Coïra annuì, esitante. «Può essere stato lanciato un incantesimo sulla pietra. Doveva essere un incantesimo potente per provocare un effetto del genere.» «E così arriviamo a una domanda importante: siete in grado di aiutarci contro il mago?» chiese Tungdil, in tono inquisitorio. «Anzi, siete in condizione di farlo?» «Voi volete prima andare dal drago e poi a sud», riassunse Coïra. «Ma seguiamo la supposizione di Rodario: Lot-Ionan non ha
attentato alla mia vita e alla fonte senza una ragione. Prima o poi si appresterà alla conquista della Terra Nascosta; questa azione era preliminare a un attacco al Weyurn, suppongo. Lui sa che, in quanto maga, necessito di una fonte per riuscire a resistere a lungo.» «Quanta magia potete conservare dentro di voi?» chiese Tungdil. «Per ora, una quantità sufficiente. Per muovere contro Lot-Ionan, avrò bisogno di altre energie.» «A essere franchi, dubito che siate in grado di combinare qualcosa contro di lui.» Boïndil intuiva che l'amico voleva intenzionalmente provocare la maga. Adesso la sua armatura si beccherà qualcosa! Coïra rispose con un sorriso amichevole. «So che cosa pensate di me: una ragazzina, a malapena addestrata, e che in più ha commesso il fatale errore che alla fine è costato la vita a sua madre. Ma vi assicuro che per me è stato uno sprone. Forse anch'io scoprirò di avere un cuore da guerriero.» Tacque per un istante. «Vi accompagnerò nei Monti Rossi.» «Regina!» si oppose Rodario. «Muovere contro un drago è...»
«Una buona decisione», intervenne Tungdil. «So perché volete venire con noi: ho sentito le voci che parlano di una sorgente magica nel regno dei Primi.» Era venuto in mente anche al Rabbioso. Di tanto in tanto, Goda gli aveva parlato di mercanti dell'ovest che commerciavano coi Quarti e che raccontavano di misteriose luci sui Monti Rossi; la nana aveva supposto che si trattasse di scariche di energia magica. Erano comunque solo voci e congetture. «Proprio così. Vi accompagnerò, raccoglierò quanta più energia magica possibile e poi vi aiuterò contro il mago.» Rodario alzò la mano. «Con permesso: chi ci dice che Lot-Ionan non abbia mandato queste bestiacce anche nei Monti Rossi e dagli albi?» «Nessuno. Ma Lohasbrand eliminerebbe una creatura del genere con grande facilità», replicò Tungdil. «Degli albi non sono altrettanto sicuro, se Aiphatòn non fosse nei paraggi.» Mallenia aveva taciuto per tutto il tempo, limitandosi a fissare con sguardo furente Hargorin Seminamorte. Ma, per amore di pace, si teneva in disparte. «A me non piace che abbiamo stretto un patto con gli Occhineri.
Hanno oppresso il mio popolo per così tanti cicli, e all'improvviso Aiphatòn afferma di essere cambiato e di voler condurre di sua spontanea volontà gli albi alla rovina e di cancellarne i regni? Io non ci credo.» «E chi ci dice che i Terzi si uniranno a noi?» aggiunse Rodario. «Sì, uno della loro stirpe è diventato imperatore dei nani... Ma non continuano a disprezzare le altre stirpi?» Guardò Hargorin e Barskalin. «Che cosa mi rispondete?» «Rispondere? A te?» chiese Hargorin, stupefatto, e scoppiò a ridere. «Tu sei un attore. Siedi a questo tavolo perché ti sei invitato da solo. Non avrai nulla a che fare col destino della Terra Nascosta. Non sai nemmeno combattere. Ma potremmo senz'altro aver bisogno di un giullare.» Barskalin si unì alla sua risata. Sul volto dell'attore comparve un sorriso minaccioso, che faceva dura concorrenza a quello di Tungdil. «Provate a colpirmi, e resterete meravigliati.» Coïra si piegò verso Mallenia. «Sbaglio o il volto gli è diventato più sottile?» «Sì. E l'acqua del lago gli ha strappato i pochi peli che aveva sul volto.» Mallenia guardò
con più attenzione e le sembrò di vedere su mento, collo e guance una netta ombra scura. «Ma la barba sta ricrescendo più folta. Almeno, a me sembra più folta di prima.» Le due donne si guardarono, leggendo il dubbio l'una negli occhi dell'altra. «Non ti rendi conto di cosa ti attenderebbe, se ti colpissi», sibilò Hargorin, resistendo all'impulso di aggredire l'attore. «Sì, invece», replicò Rodario. «Ma in presenza delle signore non sarebbe bello spargere il vostro sangue e decorare le pareti con le vostre interiora. Inoltre abbiamo di meglio da fare che picchiarci tra noi.» «Basta così. Tutti e due», ordinò Tungdil, seccato. «Io non vengo preso sul serio soltanto perché sono un attore, e su questo non posso lasciar correre. Non ho fatto una domanda sciocca: ho chiesto se i Terzi saranno leali», ribatté Rodario. «Che cosa accadrebbe se decidessero di aiutare gli albi, gli stessi padroni che hanno servito per duecento cicli? Avrebbero molto da perdere con un cambiamento dei rapporti di forza, per non parlare della collera degli uomini dell'Urgon, dell'Idoslân e del
Gauragar, che potrebbe riversarsi su di loro. Starebbero meglio se la situazione non mutasse.» «Non ha tutti i torti», concordò Mallenia. Rodario la ricompensò con un lungo sguardo pieno di simpatia; poi appoggiò le mani sul tavolo. «Cercate di comprendere le mie riserve: che cosa accadrebbe se i Terzi attaccassero i Quarti e i Quinti durante la loro marcia verso sud? Questo renderebbe di fatto impossibile attaccare Lot-Ionan.» «Noi seguiamo Tungdil Manodoro», ruggì Hargorin. «Noi... Che cosa intendete? Tutti i Terzi o una netta maggioranza?» incalzò Rodario. «Sarebbe interessante sapere cosa farà la minoranza! E che ne è dei Liberi? Dove sono?» Barskalin prese la parola. «Si sono rintanati nella loro ultima città e si difendono contro i Terzi che...» «Lo vedete? I Terzi non hanno smesso di assillare le altri stirpi dei nani.» Rodario incrociò le braccia davanti al petto. «Con tutto il rispetto, non vedo ancora nessun cambiamento nella loro condotta.»
«Il motivo è che io non ho ancora dato nuovi ordini.» Tutte le teste si voltarono verso Tungdil. «Se i Terzi all'improvviso non si comportassero come di consueto, troppi albi s'insospettirebbero, ponendo in pericolo il progetto di Aiphatòn e mettendo in allarme anche gli albi del nord. Per questo non ho ordinato di sospendere gli attacchi. Potrò farlo solo dopo che Aiphatòn si sarà messo in marcia. Fino ad allora, i Liberi dovranno tener duro.» Nessuno osò ribattere. Alla fine, il Rabbioso tossicchiò. «Allora domani riprenderemo il viaggio verso Lohasbrand, ruberemo l'oggetto più prezioso del suo tesoro e ci affretteremo a portarlo dal mago. Non appena avremo notizie dall'imperatore degli Occhineri, manderemo dei messaggeri a cavallo che ordinino ai Terzi e alle altre stirpi dei nani di convergere verso sud per catturare Lot-Ionan, ormai indebolito.» Guardò la regina. «Col vostro aiuto.» «Un buon riassunto», disse Rodario. «Ci sarò anch'io.» «E io pure», dichiarò Mallenia. «L'Idoslân farà la sua parte nella liberazione della Terra Nascosta, come già fece sotto la guida del mio
antenato. Dal momento che non possiamo intervenire con un esercito, metto a disposizione la mia abilità nel combattimento. I miei compagni della resistenza si occuperanno dei singoli albi che si aggireranno isolati per il Paese. Scrivo subito le lettere. Attenderanno il momento opportuno.» «Bene.» Tungdil sembrava soddisfatto. Rodario alzò di nuovo la mano. «Che ne direste se annunciassimo l'imminente liberazione della Terra Nascosta al popolo, e non solo alla resistenza? Nulla fermerà più le persone che sentono spirare il vento della libertà e che si ribellano ai vassalli degli albi e ai Lohasbrander rimasti.» «La Terra Nascosta è troppo vasta per fare una cosa del genere», obiettò Tungdil. «Qualcuno tappi la bocca dell'attore. Meglio se con qualcosa che fa male», mormorò Hargorin. Rodario gli indicò il collo con un dito. «Se io portassi una barba orribile come la vostra, ci penserei due volte prima di offendere qualcuno.» Boïndil fece una smorfia. Ai nani piacevano le battute, anche quelle piuttosto grossolane e
scortesi, ma la barba era qualcosa di particolare: scherno e fuoco erano i suoi peggiori nemici. «Se vuoi conservare la vita e il tuo volto aristocratico, faresti meglio a tacere», consigliò all'attore, a bassa voce. «Scusati con lui e...» Hargorin si era alzato già da un po', e si stava avvicinando a Rodario. «Tu vuoi proprio un sacco di botte, o sbaglio?» sbottò, stringendo a pugno le grosse mani da guerriero. «Perdonatemi», disse in tono amabile l'attore alle due donne. Poi la sua mano destra schizzò in alto, pescò una delle ciocche della barba di Hargorin, lunghe un braccio, la strinse e la tirò bruscamente verso di sé. Il braccio sinistro si alzò e il gomito si abbatté sulla fronte del nano, facendolo sussultare. Rodario sgusciò fuori del tavolo, sempre senza lasciare la ciocca della barba, e trascinò con sé Hargorin. Gli piantò i piedi contro il ventre e lo fece volare sopra di sé; il nano atterrò di schiena sul pavimento in legno. L'attore fece una capriola all'indietro e finì seduto sul petto dell'avversario, continuando a tenere ben stretta la ciocca di barba e tirandola in alto, di lato. Quando ci mise il piede sopra, Hargorin non riuscì più a muovere la testa.
Boïndil era stupito, come tutti gli altri nella stanza. Rodario aveva estratto un pugnale e lo teneva sul collo scoperto di Hargorin. «Trovo molto spiacevole che tante persone pensino che qualcuno sia un vero uomo solo se dimostra di saper combattere o se ha posseduto molte donne», mormorò, mantenendo uno sguardo duro e attento al minimo movimento dell'avversario. «Penso di avervi dimostrato la mia virilità, Hargorin Seminamorte. Dico bene?» L'immagine che Mallenia aveva di un uomo indifeso e inutile andò in frantumi, e Coïra vide l'attore in una luce completamente diversa. Entrambe lo fissavano e non riuscivano a capacitarsi di un cambiamento tanto repentino. Un cambiamento che si pòteva spiegare solo pensando che, prima, Rodario avesse dissimulato la sua vera natura. Imperturbabile, l'attore lasciò la presa sulla ciocca; poi porse la mano al nano. Hargorin si alzò senza ricorrere all'aiuto che gli veniva offerto. L'umiliazione subita era troppo profonda, e aveva anche perso qualche pelo della barba.
Il Rabbioso sentiva che il comandante dello Squadrone Nero non avrebbe mai perdonato Rodario. Questo costerà del sangue. «Magnifica esibizione!» commentò Slin, rallegrandosi dell'accaduto. «Spiegateci dove un attore ha imparato a battersi così bene», disse Tungdil. «E perché vi siete dato tanta pena di non somigliare al vostro antenato», aggiunse Coïra. «Se v'immagino con un pizzetto, gli somigliate tanto da sembrare la stessa persona.» «L'avevo detto io», borbottò il Rabbioso. «Non appena l'ho visto arrampicarsi a bordo.» Rodario tornò al suo posto e fece un inchino in direzione delle donne. «Mi devo scusare con entrambe, perché con voi ho un po' recitato. Ma ora è giunto il momento di svelare il segreto del poeta misterioso.» «Voi? Dite di essere voi?» sbottò Coïra, incredula. «Non riuscirete a darmi a intendere una cosa del genere.» «Non è possibile», mormorò Mallenia. «Voi...» Tacque, confusa. L'attore fece un inchino, come se si trovasse davanti ai suoi spettatori. «E invece sì, io sono il 'poeta misterioso'. Nessuno avrebbe mai
pensato di vedere proprio in me, il discendente dell'Incredibile Rodario che meno gli si avvicinava, il difensore della libertà e il sobillatore del popolo, l'uccisore di Lohasbrander e di mezz'orchi. L'inganno è stato la mia migliore protezione.» A quelle parole, Boïndil si girò verso Tungdil e notò che le labbra dell'amico si piegavano in un sorriso. Speriamo che sia solo un caso. Rodario si accarezzò il mento. «Ho notato presto di somigliare al mio famoso antenato come si somigliano due gocce d'acqua. Quando rappresentavo i miei pezzi sui palcoscenici dell'Idoslàn, del Tabaîn e del Gauragar, non portavo mai trucco; fuori dal palco, invece lo facevo sempre», spiegò sorridendo, e si sedette di nuovo. «Facevo lo stupido, perdevo le gare intenzionalmente e volevo che tutti mi ritenessero un incapace.» Coïra ripensò alla notte in cui si era imbattuta in lui nella torre. «Io vi ho davvero preso per un fallito e un imbranato», disse, imbarazzata. «Di certo saprete anche cavalcare!» «In verità molto bene, altezza.» Rodario annuì. «Stavo soltanto recitando una parte. E
naturalmente so nuotare, altrimenti non sarei sopravvissuto alla caduta dalla palancolata.» «Un vero eroe», disse Mallenia, sogghignando. «Io credevo che aveste bisogno di essere protetto da forti braccia, invece siete un buon guerriero. Un ottimo guerriero, come ho appena avuto modo di vedere.» Rodario le strizzò un occhio. «Ma questa è soltanto una parte della verità. Poiché non esiste un poeta misterioso.» Il Rabbioso strinse gli occhi. «Se hai appena detto...» «Non ne esiste uno soltanto.» Sorridendo, Rodario alzò l'indice. «La gara a Mifurdania era un altro depistaggio. Da quando il drago ha conquistato il Weyurn, i discendenti dell'Incredibile si sono votati alla libertà. Maschi e femmine, ci opponiamo agli occupanti ovunque si trovino i nostri teatri itineranti. Attacchiamo le nostre poesie alle porte e teniamo in auge l'idea di autodeterminazione. Siamo sparsi per la terra che Lohasbrand ha conquistato, e lo contrastiamo coi nostri mezzi.» Bevve un sorso di vino. «La gara ci serve per scambiarci le ultime novità, scrivere nuovi versi e preparare nuovi piani. Siamo pronti a guidare
gli uomini contro i vassalli dello Squamoso, non appena gli dei ci offriranno un'occasione propizia. Conosciamo i loro punti deboli, le loro abitudini e i loro campi segreti... tutto!» L'attore alzò il bicchiere e brindò in direzione dell'imperatore dei nani. «Grazie a voi, Tungdil Manodoro, questa opportunità è giunta: a mandarvi sono stati gli dei.» Bevette alla sua salute, e i presenti si unirono al brindisi. Coïra non smetteva di fissare Rodario, e dal suo sguardo si capiva quanto desiderasse saperne di più. «Che cos'è successo esattamente quella sera, nella torre?» L'attore rise. «Avevamo liberato l'Irraggiungibile, ma anche dimenticato di prendere alcuni suoi scritti, così mi arrischiai a tornare indietro. Avevo già preso tutto, quando vi siete imbattuta in me. E passai gli oggetti all'Irraggiungibile senza che voi nel vicolo notaste nulla, dico bene?» La guardò, raggiante. «Uguale all'Incredibile...» riconobbe Boïndil. «Se avesse la barbetta, direi che è sopravvissuto a questi ultimi duecentocinquanta cicli, come me.» La regina annuiva, sbalordita.
«La morte del nostro amico mi aveva molto colpito, come fortunatamente voi non avete notato», riprese Rodario. «Ma io sapevo che la nostra opera sarebbe andata avanti. Adesso vedo con chiarezza che la nostra lotta aveva il suo valore.» «E perché avete accompagnato Coïra nella sua fuga?» domandò Mallenia. «Be', si era presentata l'opportunità, imprevista e discreta, di conoscere meglio la maga e verificare se la si potesse conquistare alla nostra causa. Se mi avesse dato l'impressione di una donna meschina e servile, mi sarei defilato molto in fretta.» Rodario fece un altro inchino. «Invece mi sono subito accorto che eravate di tutt'altra pasta, quindi sono rimasto a osservare voi e le vostre azioni.» Guardò l'altra donna. «Quando siete comparsa voi con gli albi, Mallenia, fu come se mi fosse caduta la benda dagli occhi: la Terra Nascosta correva incontro alla libertà. O al suo tramonto. Volevo contribuire alla prima cosa, e ostacolare la seconda.» «Io vedo la libertà all'orizzonte», replicò Coïra, rivolgendo all'uomo uno sguardo
appassionato. «Chi potrebbe opporsi a questo patto tra audaci?» Rodario le sorrise. Il Rabbioso si sfregò le mani. «Eccellente! Ecco che abbiamo proprio tutto ciò che ci serve. Se Rodario e Mallenia informano i loro amici, scoppierà un'altra tempesta. Quindi possiamo concentrarci completamente sul sud, non è vero, Sapientone?» Tungdil si passò la mano sulla fronte e si toccò la cicatrice, con l'occhio bruno perso nel vuoto. Sembrava non aver ascoltato. Boïndil fece per ripetere, ma venne interrotto. «E Sisaroth?» Era stato Barskalin a porre la domanda. «Io lo conosco, partecipava all'addestramento degli Zhadár. Non mollerà finché non avrà vendicato la morte della sorella. Se verrà a sapere che Mallenia e la regina sono ancora in vita, ci trascineremo dietro per tutto il viaggio un albo pericoloso, che può distruggerci l'uno dopo l'altro.» «Prima si ritirerà, in attesa dell'attacco del drago», lo contraddisse Hargorin. «Conosco gli Dsôn Aklàn da molto tempo. Faranno qualunque cosa per evitare danni alla loro città di Dsôn
Bharà. A quanto abbiamo sentito, vogliono fondare là un nuovo regno degli albi. Sisaroth deve partire dal presupposto che Lohasbrand manderà almeno una spedizione di ricognizione nel regno degli albi, per fare chiarezza su quanto è successo nel suo dominio.» Barskalin fece oscillare la testa, dubbioso. «Può anche essere.» «E se Elria volesse fare finalmente qualcosa di buono, basterebbe che facesse affogare quell'Occhineri nelle masse d'acqua che si sono sollevate poco fa», disse Boïndil, di buon umore. «Giusto nel caso si trovasse ancora qui nei dintorni.» All'improvviso un violento sussulto attraversò il corpo di Tungdil. Con un gemito, l'imperatore si piegò sul tavolo, tenendosi la testa; tra le dita sgorgava sangue. I nani saltarono in piedi, afferrando le armi, perché credevano a un attacco; ma Boïndil vide che si era riaperta la cicatrice sulla fronte dell'amico. «Forza, aiutatemi a portarlo nella sua stanza», ordinò a Barskalin e Hargorin. «Posso aiutarvi?» Coïra si era alzata. «Un incantesimo curativo...»
«No, niente magia!» replicò il Rabbioso, timoroso di come avrebbe potuto reagire l'armatura. «È una vecchia ferita. Prima, sulla nave, ha battuto la testa e così la cicatrice si è riaperta. La ricucirò in un attimo. Domattina, partiremo non appena si alzerà il sole.» Lasciò la riunione e, con gli altri due nani, trascinò il Sapientone attraverso la sala della taverna, fino alla camera per gli ospiti, dove lo misero a letto. «Grazie.» Boïndil mandò gli altri fuori e attese finché non furono usciti. La porta si chiuse giusto in tempo. Tungdil alzò la palpebra, e l'amico vide di nuovo i misteriosi turbinii di colore intorno al nero della pupilla. Con un debole schiocco, la cicatrice sanguinante si richiuse; contemporaneamente, le ossa del volto si spostarono, scricchiolando, dando al nano un aspetto emaciato che al Rabbioso ricordò i tratti di un albo. «Per Vraccas!» balbettò Boïndil, indietreggiando e allungando la mano verso l'impugnatura dell'azza. Sembrava proprio che il suo amico si stesse in qualche modo deformando.
Sottili linee nere, simili a raggi, guizzarono da sotto la benda d'oro, come tagliando il volto di Tungdil; gocce di sangue ne sgorgarono. Poi tutte le rune sull'armatura s'illuminarono contemporaneamente, costringendo il Rabbioso a chiudere gli occhi. Quando Boïndil riuscì a scorgere di nuovo qualcosa, l'aspetto dell'amico era quello che aveva prima di perdere i sensi: nessuna ferita, la cicatrice guarita; aveva di nuovo il suo volto familiare, e le linee nere erano scomparse. Con cautela, il Rabbioso si accostò al giaciglio di Tungdil. «Che devo fare con te, Sapientone?» sussurrò. «Tutte le volte che penso di potermi fidare di te, capita qualcosa che riattizza i miei dubbi.» Prese uno sgabello e decise che era meglio passare la notte montando la guardia. Mentre lo faceva, non avrebbe nemmeno saputo dire con certezza se stava proteggendo Tungdil da qualcosa, o i suoi compagni da Tungdil. Terra Nascosta, ex regno del Weyurn, ingresso ai Monti Rossi, 6492° ciclo solare, primavera
Boïndil cavalcava dietro Tungdil e osservava i pendii dei Monti Rossi. Anche se dava l'impressione di sorvegliare i dintorni, il Rabbioso continuava a ripensare alla notte in cui Tungdil, per breve tempo, aveva cambiato aspetto. E in modo spaventoso... Non ne avevano parlato, e il gruppo aveva creduto alla fandonia dell'attacco di debolezza. Da allora, il coro degli scettici, dentro di lui, aveva ripreso a cantare a voce alta. Che cosa lo tormenta? Un demone? Una maledizione? Per ordine di Tungdil, avevano preso il sentiero che li avrebbe condotti alla stretta valle che serpeggiava sulle montagne rosso scuro. Vecchi ricordi tornavano alla mente di Boïndil mentre cavalcavano. La valle descriveva sei anse, all'altezza delle quali i Primi avevano in passato eretto delle fortificazioni, spesse mura attraversate da porte su cui erano incise rune di protezione. Là un tempo erano fuggiti davanti agli albi Sinthoras e Caphalor, quand'erano andati a cercare un fabbro tra i Primi, e l'avevano trovato in una nana: Balyndis Ditadiferro, poi diventata regina dei Quinti. Le costruzioni di allora erano scomparse. Ormai al posto delle mura c'erano palizzate di
legno, dietro le cui punte di tanto in tanto si vedeva scintillare il metallo di elmi e di lance; dalle dimensioni, potevano appartenere a mezz'orchi. Tungdil indicò un punto dei Monti Rossi. «Lassù. L'ingresso un tempo si trovava là.» «Non è più così. È scomparso, insieme con la fortezza costruita dai nani. Il drago ha fatto a pezzi tutto ciò che poteva ricordare i Primi.» Rodario indicò a lato. «Abbiamo scoperto che dietro quel cumulo di pietre c'è ora un'immensa caverna. L'ha creata un crollo provocato dallo Squamoso; i Lohasbrander la usano per raggiungere il complesso di caverne dei nani.» «Era di sicuro la vecchia porta che serviva per le sortite», disse il Rabbioso. Cercò di contare gli elmi che vedeva. «Io conto soltanto venti sentinelle. Musi di porco.» «E perché mai metterle di guardia?» Slin non smetteva di scrutare il cielo. «Chi si presenterebbe nella tana di un drago?» «Nani», fu l'immediata risposta di Boïndil. «I nostri antenati li hanno scacciati, un tempo, e noi lo faremo dì nuovo.» Guardò Tungdil. «Vuoi cavalcare nella valle alla luce del sole?»
«No. Gli Zhadár devono dimostrare che hanno imparato qualcosa dagli albi», disse, rivolgendo lo sguardo verso Barskalfn. «Conquisterete le porte l'una dopo l'altra e le aprirete quando tutte le sentinelle saranno morte. Scoprite come possiamo raggiungere l'ingresso senza che il drago ci noti.» «Ma se vogliamo rubare il suo tesoro, non sarebbe più furbo introdursi di soppiatto invece che uccidere i mezz'orchi e attirare così l'attenzione su di noi?» obiettò Rodario. «Lohasbrand attaccherebbe prima di quanto ci piacerebbe.» «I mezz'orchi saranno uccisi in silenzio. Ci vorrà del tempo prima che ne venga notata la morte.» Tungdil indicò Hargorin. «Abbiamo discusso, strada facendo, e siamo arrivati alla conclusione che è meglio dividerci non appena avremo saccheggiato il tesoro. Da una parte noi e gli Zhadár, dall'altra Hargorin e lo Squadrone Nero. Alcuni di loro andranno nei regni dei nani per radunare i guerrieri con cui marceremo contro Lot-Ionan; altri andranno da Aiphatòn.» Con una mano indicò Rodario. «Consegneranno le lettere ai discendenti dell'Incredibile.»
Meno male che li abbiamo incontrati. Non avremmo trovato tanto in fretta un numero simile di messaggeri. Di sicuro saranno fidati. Al Rabbioso non dispiaceva separarsi dai Bramanti. «Li incontreremo in una rotazione stabilita, ai piedi dei Monti Blu.» «A metà primavera i preparativi dovranno essere terminati. I nostri come quelli dell'imperatore degli albi. Poi si potrà cominciare.» Tungdil guardò gli imponenti pendii, che brillavano leggermente di rosso. «Ancora non ho ben capito come sfuggiremo a Lohasbrand se dovesse sentire subito il nostro odore», insistette Rodario, deciso a non mollare. «E non vorrei sentirmi dire che sono solo un attore che non sa nulla dell'arte della guerra.» Mallenia e Coïra gli diedero ragione con lo sguardo. «Ma è così», sibilò Hargorin con disprezzo. «Il drago in un primo momento non saprà cos'è successo. Ci riterrà dei ribelli e affiderà la questione ai mezz'orchi. Finché non capirà che cosa gli è stato sottratto», spiegò Tungdil. «In quel momento, noi dovremo esserci messi alle spalle almeno metà del tragitto da qui a LotIonan. Cavalcheremo dalla mattina alla sera e
cambieremo i cavalli ogni volta che saranno stanchi. Senza un simile vantaggio, non ce la potremo fare. Se ci dovesse raggiungere, allora dovremo distruggere Lohasbrand.» Rivolse a Coïra un breve sguardo. «Così, però, ci verrà a mancare un elemento importante di cui abbiamo bisogno per indebolire Lot-Ionan. Se ci si dovesse avvicinare troppo, dovremo cercare di metterlo in fuga.» «Mi attribuite un grande potere», disse la regina. «Sì. Non ho alternative. Un cuore da guerriero lo si matura nelle battaglie, non ascoltando racconti di guerra.» Puntò l'occhio su di lei. «Se avete troppa paura, è meglio che lo diciate subito, in modo che io abbia la possibilità di cambiare piano.» Coïra si sentì offesa nel suo orgoglio. «Riusciremo sicuramente a far cadere sia il drago sia Lot-Ionan. Il mago al nostro arrivo sarà abbastanza sfinito, e anch'io sono convinta che il nostro piano riuscirà.» Il sole scomparve dietro le nuvole che si avvicinavano; le prime gocce di pioggia caddero sul gruppo di armati, e il rumore di un metallico stillicidio riempì l'aria.
Tungdil girò il pony e si allontanò dall'ingresso della valle. «Lassù ci sono delle caverne. Possiamo montare il nostro campo là dentro, fino a che gli Zhadár non saranno di ritorno e non ci riferiranno com'è andata la loro missione.» Trovarono rifugio prima che la pioggia diventasse più forte e cadesse davanti all'ingresso delle caverne, spessa come fili di spago. L'acqua lavò via anche quel poco di neve che era rimasto e cancellò le tracce della colonna. Nani e umani si ripartirono nelle lunghe caverne per riposarsi in vista dell'attacco ai Lohasbrander e ai mezz'orchi. Boïndil accudì il suo pony, gironzolò un po' e guardò cosa facevano i Bramanti: Hargorin stava scegliendo i primi messaggeri che l'indomani si sarebbero messi in viaggio per portare le loro ambasciate ad Aiphatòn, alla resistenza e alle stirpi dei nani. A questo punto, non si può più tornare indietro, pensò il Rabbioso. Poi andò dagli Invisibili, per vedere come si preparavano alla loro missione notturna.
Sedevano insieme con Barskalìn e parlavano a bassa voce tra loro. Corte barbe, neri da testa a piedi e pesantemente armati. Non riesco davvero a distinguerli l'uno dall'altro, constatò di nuovo il Rabbioso. Potrei provare a parlare con loro? Chissà quanti di loro torneranno? Quella riflessione derivava dal suo scetticismo nei confronti di Tungdil. Chi conosceva un gesto capace di bloccare l'armatura del Sapientone avrebbe potuto di certo raccontare qualcosa di più su quelle rune. Era una questione importante. Boïndil aspettò che la conversazione tra gli Zhadár fosse conclusa, poi si avvicinò. Badò che Barskalfn stesse guardando in un'altra direzione, perché di sicuro non voleva che il Secondo «conversasse» con la sua gente. «Posso guardare meglio quelle armi?» chiese al guerriero più vicino, che affilava il pugnale stando seduto per terra. Il Rabbioso sorrise in modo non particolarmente amabile, e intanto si accovacciò sui talloni per non dare troppo nell'occhio. Lo Zhadár si voltò e lo guardò, stupito. «Fa' pure», disse, porgendogli il pugnale.
«Conoscete anche voi storielle? Io trovo fantastica quella del nano e del mezz'orco.» «Davvero? Io non l'ho mai capita», replicò l'Invisibile. «Perché un mezz'orco dovrebbe chiedere la strada proprio a uno di noi?» Il Rabbioso si stupì. «Ma è proprio questa una delle cose divertenti.» «Divertente? Io la trovo inverosimile.» L'Invisibile parlava con franchezza. «Qualunque Pelleverde sa che un nano gli taglierebbe la testa.» Rise. «E poi il finale della storiella! Quello che il nano fa e dice... È molto strano. Ma non è divertente.» Boïndil era disorientato. «Non tutti i gusti sono uguali.» Decise di cambiare tattica, lasciando perdere le storielle; così si rigirò il pugnale tra le mani e si complimentò ad alta voce per la buona qualità della lama, per lusingare lo Zhadár. «Ma che cosa significano questi segni?» Con pazienza, l'altro gli spiegò che promettevano la morte all'avversario. «Come da noi», disse Boïndil, un poco impacciato. «Voglio dire... Voi una volta eravate quelli...» Tacque e restituì il pugnale all'altro.
Lo Zhadár sogghignò. «Che cosa desideri sapere, Duelame?» «È così evidente?» «Sì. Sei un guerriero eccezionale, ma non sei affatto una buona spia.» «Non mi si addice. Io affronto le cose in modo diretto.» Il Rabbioso rise e si sedette; sentì e avvertì che la sua borraccia si staccava dalla cintura e scivolava sul pavimento della caverna. Con l'indice tracciò per terra un segno che somigliava alla runa che Tungdil portava sul pettorale dell'armatura. «L'hai vista sulla corazza dell'imperatore, vero?» disse lo Zhadár. «Frak ci ha detto di aver fatto prendere un bello spavento a Manodoro.» «Frak?» «Lo Zhadár che avete incontrato nella Terra dell'Aldilà.» «Quindi conoscete il segreto di quell'armatura?» «Dici che ha un segreto? Perché è di natura magica?» Boïndil annuì. «Questo non è un segreto. Qualunque mago, qualunque maga e qualunque creatura che abbia una conoscenza rudimentale della magia
lo capirebbe, guardando l'imperatore. O era un tipo particolare di magia?» Lo Zhadár riprese a molare il pugnale. «Non posso parlare di queste cose», aggiunse in tono indifferente. «Io devo saperlo! Se un albo lancia contro Tungdil un incantesimo e lo blocca un'altra volta dentro l'armatura, devo poterlo liberare senza prenderlo a colpi d'azza.» Le orbite nere e quasi vuote del suo interlocutore continuavano a metterlo a disagio. Era molto difficile discorrere con un nano senza poter capire dallo sguardo il modo in cui diceva certe cose. «È così che hai sciolto la paralisi?» Lo Zhadár scoppiò a ridere. «È un miracolo che non ti siano scoppiate le mani.» «Sono stato attento.» L'impazienza del Rabbioso aumentava. Era a un passo dal risolvere quell'enigma. Guardò rapidamente prima Barskalìn, poi Tungdil. Erano entrambi indaffarati, e non lo stavano osservando. «Dimmelo, per favore! La vita dell'imperatore potrebbe dipendere da questo.» «Assolutamente vero.» Lo Zhadár posò la mola. «Allora ricordati queste parole.» Dalla sua bocca uscirono suoni impossibili da ripetere per Boïndil.
Il Rabbioso lo fissò, stupefatto. Nel frattempo si era convinto di avere davanti l'Attaccabrighe; la voce era la sua. «Non ci riesco.» «Allora esercitati. Per l'imperatore.» Improvvisamente lo Zhadár si mise a ridacchiare, poi tacque e gli scappò un'imprecazione, mentre il volto gli si contorceva in una smorfia. Il tutto durò solo un istante, ma bastò perché il Rabbioso si spaventasse e cercasse con la mano il manico dell'azza. Dopo quell'attacco, però, lo Zhadár sembrò di nuovo rilassato. «Che altro?» «Sono davvero rune albiche?» «Sì. Le rune sulle nostre armature sono tutte albiche; su quella dell'imperatore, però, ce ne sono molte che non riesco a interpretare», confessò lo Zhadar. «Hanno qualcosa di albico, e di nanico.» Guardò Barskalìn, che si era voltato nella loro direzione, e abbassò gli occhi. «Ora ho da fare», disse, allontanandosi. «No, aspetta! Questo la sapevo già da me. Spiegami cosa significano.» Boïndil era deluso, ma capiva che non sarebbe riuscito a carpire allo Zhadar nessun altro segreto. Perlomeno conosceva la formula con cui sciogliere
l'immobilità dell'armatura. Si chiese quanti fossero gli incantesimi capaci di agire negativamente sull'armatura dell'amico. Quando attaccheremo Lot-Ionan dovrebbe davvero togliersela. Cercherò di convincerlo, decise. Allungò la mano verso la borraccia e l'aprì senza guardare, mentre continuava a osservare gli Zhadar. Lavoravano in silenzio, affilando pugnali e cambiando le armature: si toglievano quelle dello Squadrone Nero e indossavano le loro. Interrompevano di frequente le loro attività, chiudendo gli occhi e mormorando qualcosa, come se stessero pregando. Bòïndil si portò la borraccia alla bocca e bevve un sorso. Solo a quel punto notò un sapore orrendo, per nulla simile a quello della tisana con cui l'aveva riempita. Sputò il secondo sorso sul pavimento sabbioso della caverna: era un liquido torbido, rosso scuro, viscoso e che impiegava molto a filtrare nel terreno. «E questo cos'è?» Il Rabbioso osservò la borraccia. Non è affatto la mia! La sua era ancora là dove gli era cascata. Disgustato, sputò un'altra volta, poi raccolse la sua borraccia e si sciacquò la bocca. Ma quel
sapore metallico, che gli ricordava sangue misto a liquore molto forte, gli rimase appiccicato alla lingua come se fosse pece. «Di chi è questa?» chiese a voce alta, alzando bene in alto la borraccia sconosciuta, dopo averla richiusa. Lo Zhadar con cui aveva parlato tornò di corsa. «È mia.» La strappò di mano a Boïndil, come se contenesse il miglior vino nella Terra Nascosta. «Ma che c'è dentro?» L'Invisibile sembrò allarmato. «Perché me lo chiedi? Hai bevuto?» Qualcosa, in quella voce, consigliò al Rabbioso di rispondere negativamente. Invece indicò la macchia sulla sabbia. «Non era ben chiusa e ne è uscita della roba che ha un aspetto molto strano e un odore ancora più insolito», mentì, sperando che Vraccas non punisse quell'inganno facendolo arrossire. «È una specie di liquore alle erbe?» Sogghignò. «E da lì che traete i vostri misteriosi poteri! È una pozione magica?» «È sangue elfico distillato», sussurrò lo Zhadár. «Trasformato grazie a spaventosi incantesimi degli albi, fatto evaporare e diluito con dell'acquavite.»
Il Rabbioso sentì che la gola gli si chiudeva. «Sangue elfico», ripetè, disgustato. «E a cosa serve?» «Alla nostra magia», si limitò a dire lo Zhadár, con voce suadente. Poi tornò dalla sua gente. «Oh, Vraccas! Che cos'ho mai combinato perché tu mi faccia cose del genere?» si lamentò il Rabbioso, appoggiandosi una mano sulla pancia. «Chissà cosa mi farà questa roba...» Finché non avesse notato il minimo cambiamento, avrebbe tenuto per sé la sua disavventura. Era anche possibile che quel matto di Zhadár lo avesse preso in giro e che il liquido fosse solo un liquore.
XIX Terra Nascosta, ex regno del Weyurn, ingresso ai Monti Rossi, 6492° ciclo solare, primavera Al calar delle tenebre, gli Zhadár s'infilarono sotto la pioggia torrenziale e, già dopo pochi passi fuori della caverna, scomparirono alla vista. Scivolarono dentro la notte e sembrarono fondersi con essa. «Inquietanti compagni.» Rodario fece un cenno di capo alle donne. «Scoprirò di cos'ha parlato Boïndil con lo Zhadár.» Si diresse verso il Rabbioso. A Coïra non era sfuggito il totale cambiamento dell'attore. L'uomo portava una cotta di maglia e una spada al fianco. Non si era più rasato da quando c'era stata la sua clamorosa rivelazione, così una corta barba gli copriva il volto spigoloso e virile. Considerando anche il cambiamento di contegno, non aveva più assolutamente nulla in comune con l'eterno perdente alla gara di Mifurdania.
Mallenia osservava a sua volta la maga, persa nelle sue fantasticherie, e la vedeva come una rivale. Allo stesso tempo si rimproverava di essersi innamorata di un uomo che non era mai esistito. Il suo cuore si era abbandonato a un attore solo apparentemente indifeso e maldestro, che all'improvviso si era dimostrato forte e valoroso. Per Mallenia era un miglioramento solo apparente, perché in realtà preferiva essere lei a proteggere. Tuttavia... Coïra sospirò. «Chi l'avrebbe detto?» «Che è un vero uomo?» Mallenia sorrise amaramente e si tagliò del pane per condirlo con un po' di olio di semi di zucca. «Sono sorpresa quanto voi.» La maga prese la propria borraccia e bevve un sorso d'acqua. Poi chiese: «Come bacia?» A Mallenia andò il boccone di traverso. Coïra era agitata e si abbracciò le ginocchia. Le brillavano gli occhi. «È riuscito a rubarvi un bacio, no? Com'è stato? Raccontatemelo, per favore!» «Siete innamorata di lui?» «Può darsi. Se lo scopre, mi riterrà una ragazzina sognatrice. Ma non m'interessa.»
«Non è un po' troppo maturo per voi? Ha più o meno la mia età, sui trenta cicli, e voi ne avrete al massimo venti.» Mallenia si accorse di aver parlato con invidia. Anche Coïra lo notò, e la guardò con stupore. «Sto forse sentendo un po' di gelosia?» «No», ringhiò la donna, arrabbiandosi subito dopo per averlo fatto. Era praticamente una confessione. Nelle questioni d'amore era molto inesperta; la lotta per la libertà della sua terra le aveva lasciato poco spazio per sentimenti del genere. A parte due brevi escursioni nel regno della passione fisica, non c'era stato nulla. «A me pare che il suo bacio abbia avuto un effetto maggiore di quanto ammettiate», osservò la maga. Si tirò indietro i capelli neri e li legò sulla nuca con una striscia di pelle. «Ecco che, nel bel mezzo di una pericolosa missione, in procinto di attaccare un drago, ce ne stiamo qua e concludiamo che ci piace lo stesso uomo. Gli dei hanno un senso dell'umorismo davvero bizzarro.» Mallenia stava per negare, ma poi respinse quel pensiero. Perché non ammettere i propri sentimenti? «Per me è ben più difficile che per
voi, Coïra. Io preferivo lo sbadato Rodario Settimo.» «Siate contenta di non averlo visto in certe situazioni, come l'ho visto io. Lo avreste ammazzato! Potremmo chiedergli se gli andrebbe di essere una rotazione il vostro grazioso babbeo e l'altra il mio audace eroe.» La regina passò la borraccia alla guerriera. «Giuriamo di non dividerci a causa sua.» «Dividerci?» Mallenia cercò di ricordare quando lei e la sovrana del Weyurn si fossero alleate. Guardava perplessa la borraccia. «Vedete: presto voi siederete sul trono dell'Idoslân, e io raccoglierò l'eredità di mia madre. Sarebbe bello se due sovrane si capissero tra loro e non si lasciassero fuorviare dall'odio e dal disaccordo perché amano lo stesso uomo. Alla fine, da una cosa del genere potrebbe scaturire una guerra tra i nostri Paesi.» Anche se dal sorriso s'intuiva che Coïra non stava parlando sul serio, il discorso nascondeva comunque un nocciolo di verità. Mallenia prese la borraccia, svitò il tappo e bevve in onore del loro patto. «Bacia in modo molto virile», disse poi. «Questo mi aveva stupito, ma i miei sospetti si sono lasciati
assopire dal suo talento di attore.» Riprese a mangiare. «Vi dichiarerete?» «Dichiarare il mio amore?» La maga fece un profondo respiro. «Non lo so. Mi sentirei sciocca e avvilita se gli confessassi i miei sentimenti e lui mi deridesse. O se mi rifiutasse per un'altra.» Guardò Mallenia negli occhi. «Ha rubato un bacio a voi, non a me. Quindi la mia gelosia nei vostri confronti dovrebbe essere più grande della vostra nei miei.» «Penso che lo ritenesse più un gioco che non una faccenda seria. Non ha la minima idea di quello che sento per lui.» Si sorrisero a vicenda, guardando contemporaneamente in direzione di Rodario, dall'altra parte della caverna; l'attore sembrò avvertire lo sguardo delle donne su di sé e si girò brevemente verso di loro. Alzò la mano, in segno di saluto, e tornò a parlare col Rabbioso. «Uomini...» Mallenia estrasse la spada e prese ad affilarne la lama. Coïra tagliò una fetta di prosciutto. «A voi va meglio che a me.» «Perché?» «Sapete cavarvela con le armi. Io invece ho bisogno della mia magia per difendermi. E,
senza una sorgente della magia, le mie scorte interiori si esauriscono in fretta.» La maga masticava la carne aromatizzata. «In fatto di coraggio, poi, non vado lontano. Non ne ho mai avuto bisogno.» «State scherzando... Avete affrontato quegli albi!» «Ma ero piena di magia. Non c'era bisogno di nessun coraggio per farlo.» «Ma avete detto che la distruzione della sorgente a Seenstolz aveva liberato abbastanza energia da permettervi di cominciare l'impresa.» Mallenia alzò la testa. «Avete sufficiente energia per lanciare incantesimi, vero?» «Certo che ce l'ho. Ma non è affatto quanta ne avrei raccolta facendo una lunga sosta alla sorgente.» Coïra parlava con una certa titubanza. «Ripongo le mie speranze nella sorgente che troveremo nei Monti Rossi.» Mallenia prese di nuovo la borraccia. «Se questa fosse la vostra riserva quand'è al massimo, quanta ne avreste adesso?» Coïra svitò il tappo e rovesciò il contenuto in un rivolo sottile, finché dentro non ne fu rimasto che un terzo. Senza ulteriori spiegazioni, richiuse la borraccia e la ripassò a Mallenia.
«Non di più?» La maga scosse la testa. «Non di più. Ma è sufficiente per sistemare i mezz'orchi. La sorgente mi ridarà presto tutte le mie energie.» «Sarà difficile trovare la sorgente?» Coïra scosse la testa. «Sono in grado di rintracciarla. Esiste un incantesimo capace di scoprire la magia, e mi sarà utile.» Mallenia si occupò della seconda spada. «Avevate ragione. Preferisco l'acciaio, per difendermi.» Rodario tornò da loro. «Ecco qua le donne più incantevoli della Terra Nascosta», disse, allegro. «E, come se non bastasse, le più potenti.» «Esagerate davvero», replicò Mallenia. «E poi 'incantevole' si addice solo a Coïra.» Levò la spada e, come per caso, la puntò verso l'inguine dell'uomo. «Io/più che incantare, colpisco, Rodario Settimo.» Gli sorrise con cattiveria, mentre la maga ridacchiava, coprendosi velocemente la bocca con la mano. Stupito, Rodario guardò alternativamente le donne. «Ho l'impressione che, durante la mia assenza, qui sia accaduto qualcosa che mi ha
posto al centro di una congiura rivolta contro la mia persona.» «No. State tranquillo: noi non ci occupiamo di quisquilie», ribatté la maga, strizzando l'occhio e tagliandosi un altro po' di prosciutto. Uno Zhadár tornò poco dopo e riportò a Tungdil la notizia che le cinque porte erano state aperte; subito si misero in movimento col decimato Squadrone Nero. «Non sono stati via a lungo», disse Slin a Balyndar, caricando la balestra mentre camminava. Insieme lasciarono la caverna e, sotto la pioggia, si diressero di corsa verso la valle. «Ci sarei andato volentieri anch'io, ma non me lo hanno permesso.» Boïndil era curioso di saperne di più sulle arti degli Invisibili. «Meglio così.» Tungdil aveva estratto la Sanguinaria. «Non è il tuo modo di combattere, Rabbioso. Non è molto furtivo gettarsi di corsa contro i mezz'orchi con l'azza levata, invocando ad alta voce Vraccas, e poi farli a pezzi tra lo sferragliare delle armature.» Si avvicinarono alla prima porta di legno, davanti alla quale li attendeva uno Zhadár.
Mentre passavano, videro dall'altra parte dozzine di mezz'orchi riversi nella fanghiglia. Alcuni avevano le gole tagliate, a qualcuno mancava completamente la testa. Quello spettacolo si ripetè: davanti alle altre quattro porte li attendeva sempre uno Zhadár e dietro, nel fango, giacevano le sentinelle. Il Rabbioso era molto impressionato da quell'impresa. «Per questo varrebbe la pena bere sangue di elfo», mormorò. Alla fine raggiunsero l'ingresso ai Monti Rossi. Davanti a una caverna, i mezz'orchi avevano eretto un'ulteriore palizzata. Fu Barskalìn ad accoglierli. «Abbiamo sopraffatto le guardie, come ci hai ordinato», disse a Tungdil. «Nessuno ha dato l'allarme, e anche il presidio all'ingresso è caduto sotto le nostre lame.» «Non mi aspettavo niente di meno da te, e tuttavia ne sono più che contento», lo elogiò Tungdil. «Quanti mezz'orchi, finora?» «Abbiamo ucciso centoquattordici mezz'orchi e due Lohasbrander, che facevano da ufficiali. Ne abbiamo catturato un terzo, in modo che tu lo potessi interrogare.»
«Molto bene.» Tungdil seguì Barskalìn all'interno della caverna, mentre il Rabbioso e gli altri si accodavano. La caverna era alta e disadorna. I mezz'orchi e i Lohasbrander avevano rinunciato a renderla confortevole. A un esame più attento, scoprirono i resti di rune e lavori d'intaglio dei nani, approssimativamente rimossi. Nella zona anteriore, immediatamente a ridosso della palizzata, c'erano due baracche di legno, in cui erano stati acquartierati i mezz'orchi; vi erano annessi due capanni più piccoli. Barskalìn spiegò che si trattava di una dispensa e di una prigione. I due mezz'orchi che prima vi facevano la guardia erano stati anche loro uccisi. Il Rabbioso ascoltava e guardava attentamente. Gli Zhadár sono pericolosi come gli Occhineri! Hargorin ordinò ai suoi guerrieri di presidiare la caverna e di dividersi tra i quattro corridoi che se ne dipartivano. Nessuno di quei cunicoli era abbastanza grande per fare spazio a un drago adulto, cosa che tutti trovarono abbastanza tranquillizzante. Là dentro, Lohasbrand non avrebbe potuto attaccarli.
Mentre camminavano verso la prima baracca, in cui gli Zhadár tenevano prigioniero il Lohasbrander, Boïndil osservava i cadaveri. «Per me è un mistero come gli Invisibili siano riusciti a farcela senza che nessuno dei Musi di porco si sia difeso», disse a Slin. «Evidentemente hanno imparato dagli albi», replicò il balestriere. «E conoscono a menadito la mia patria. Sarebbe stato per loro facilissimo fare la stessa cosa alla mia gente, sui Monti Marroni.» Guardò Balyndar. «O da voi Quinti. O dai Liberi. Immaginate se gli albi, per l'arruolamento degli Zhadár, avessero trovato Terzi che volevano ucciderci a tutti i costi! Non esisteremmo più da tempo.» «Non ci sarebbero riusciti così facilmente», obiettò Balyndar, osservando uno dei mezz'orchi morti, cui un taglio aveva aperto la gola: la ferita era molto larga. «Ma le perdite sarebbero state tremende», ribatté il Rabbioso, entrando nel capanno. Tungdil stava con Barskalìn davanti al Lohasbrander, costretto sulle ginocchia e incatenato a una trave. L'uomo indossava una pesante armatura a piastre; i capelli biondi scendevano ai lati della testa. Era grasso ma
vigoroso; la barba chiara si era macchiata del sangue che scorreva dalle tumefazioni sul lato sinistro del volto. «È Wielgar!» esclamò Coïra. «Fino a poco tempo fa, stava a Mifurdania. Ha fatto giustiziare l'Irraggiungibile Rodario.» «Ma guarda un po', la piccola maga», gemette il Lohasbrander. «Questo tentativo di rivolta vi costerà molto caro. Il drago ridurrà il regno in un cumulo di macerie!» «Abbiamo altri progetti per Lohasbrand. Non avrà tempo per fare stupidaggini del genere.» Tungdil si parò davanti all'uomo. «Dove si trovano la sorgente della magia e il tesoro del drago?» Davanti al silenzio di Wielgar, aggiunse: «Pensaci bene. Sono un maestro nell'infliggere dolore». Si fece portare un poggiapiedi, sciolse una delle catene e liberò il braccio destro dell'uomo. Ne distese la mano sul legno. «Cominceremo con le dita, falange dopo falange. Le trasformerò in una massa informe.» Con la catena, Tungdil strinse il braccio dell'uomo, in modo che la perdita di sangue non fosse troppo grave. «Poi ti tagliuzzerò un po' alla volta, e così potrai vedere davanti a te le fette del tuo braccio, prima che te le cacci in bocca a
una a una. Rimarrai cosciente tutto il tempo. Poi passeremo al secondo braccio.» Il Lohasbrander sembrava incerto. «Io sono un adoratore del drago, e uno dei suoi più fedeli seguaci...» «Non m'importa.» La Sanguinaria si abbatté, di piatto, sulla mano. Il polpastrello del mignolo di Wielgar si trasformò in una cosa piatta e poltigliosa; l'unghia cadde sul pavimento di legno. Il sangue prese a sgorgare. L'uomo gridò per il dolore. «Morirete tutti! Arrendetevi, è meglio.» «Conosci le mie domande. Hai delle risposte?» «Non c'è nessuna sorgente magica», gemette Wielgar e, quando la spada si alzò si nuovo, strillò: «Non c'è nessuna sorgente, credimi! Eravamo a conoscenza delle voci al riguardo, ma non l'abbiamo mai trovata». «E come avreste potuto trovarla? Non siete maghi», osservò Coïra. «Ce lo ha detto il drago», ribatté il Lohasbrander, guardando di sottecchi la Sanguinaria, che pendeva sopra la sua mano.
«Lo giuro su Samusin: nei Monti Rossi non c'è nulla che contenga magia. A parte la maga.» Coïra guardò Mallenia e, con uno sguardo silenzioso, la pregò di reggerle il gioco. «Poco male, coi miei poteri potrei sconfiggere dieci draghi», disse, simulando indifferenza. «Tuttavia lancerò un incantesimo per vedere se il Lohasbrander dice la verità: se mentirà alla prossima domanda, gli esploderà la testa.» Mosse le dita, chiuse gli occhi e gli toccò la fronte con l'indice sinistro. «C'è una sorgente della magia?» «No!» gridò Wielgar, fuori di sé. «No, per...» «E il tesoro?» domandò Tungdil, prendendo le misure per un altro colpo. «Lontano da qui, a settanta miglia in direzione ovest», rispose Wielgar. «Lohasbrand ha fatto portare là tutto quello che abbiamo raccolto sotto forma di tributi, in suo nome.» Il Rabbioso non riusciva più a controllarsi. «Quanti mezz'orchi sono al suo comando?» Wielgar fece spallucce. «Migliaia.» «Migliaia...» Tungdil abbassò la Sanguinaria e spappolò completamente il mignolo dell'uomo. «Prova di nuovo. O la maga deve lanciare un altro incantesimo che ti faccia...»
«Non più di settemila!» gridò Wielgar. «Vivono in caverne, e noi ne convochiamo quanti ce ne servono di volta in volta. Oltre a loro ce ne sono circa altri mille che viaggiano nel Weyurn coi nostri governatori.» Guardò Tungdil, furente. «Presto saranno qui e vi distruggeranno. Il vostro attacco non è passato inosservato.» «Ti sbagli di grosso», lo contraddisse Barskalìn. «Non abbiamo lasciato nessun superstite, a parte te. Non ci è scappato nessuno.» «Ma uno non l'avete visto.» Wielgar sogghignò con cattiveria. «Una vedetta sopra l'ingresso della caverna, tra le rocce. Sarà già per strada.» «Dobbiamo andarcene», disse Coïra, preoccupata. «Senza aver rubato nemmeno un pezzo del tesoro? Che motivo avrebbe Lohasbrand di seguirci?» Tungdil la guardò. «Abbiamo bisogno di qualcosa perché il drago ci dia la caccia.» «Che ne direste di lui?» propose Rodarlo, indicando Wielgar. «Se occupa un posto così alto all'interno della gerarchia...»
Il Lohasbrander lo derise. «Un altro di quegli attori. Sono ovunque! Ma lui si addice alla commedia che sta andando in scena intorno a me.» «Il drago ne ha abbastanza di gente della sua risma», disse Tungdil. «Il rischio di perderlo non lo indurrà a seguirci.» Nella caverna risuonò un forte rumore, simile allo sbuffo di una fiamma. Passi pesanti si avvicinavano alla baracca. «Lohasbrand!» Mallenia guardò gli altri. «Ci ha scoperti!» «Non può essere arrivato qui attraverso i cunicoli. Siamo al sicuro.» Il Rabbioso guardò verso la porta, attraverso la quale scorgeva un membro dello Squadrone Nero che si avvicinava di corsa. «Sta arrivando il drago, signore», annunciò il guerriero a Tungdil. «Abbiamo sentito il suo verso attraverso il secondo corridoio. Hargorin mi manda a chiedere quali sono gli ordini.» Wielgar rise, sicuro della vittoria. «Se volete la mia opinione, scappate e cercate di salvarvi la vita. Forse là fuori riuscirete a trovare un buco in cui strisciare.»
Tungdil squadrò il Lohasbrander a lungo, e la fiduciosa ilarità dell'uomo scomparve. «Attacchiamo», annunciò l'imperatore dei nani. «Poi tornerò qui e ti mozzerò il capo.» Corse fuori. «Si attacca un drago!» Il Rabbioso alzò l'azza. «Questo mancava alla mia lista di mostri.» Seguì l'amico. Slin guardò la sua balestra e sospirò. «Di nuovo l'arma sbagliata. Che cosa posso fare contro le scaglie di un drago?» «Mirare agli occhi?» gli consigliò Rodario. «A me, se non altro, darebbe molto fastidio, se fossi un drago.» Guardò le donne. «Sarà un duro combattimento, ma abbiamo con noi una maga eccezionale. Io vi aprirò la strada, ma ,Lohasbrand dovrete abbatterlo voi per me.» Coïra cercò di sorridere; Mallenia, da dietro, le appoggiò una mano sulla spalla, per incoraggiarla. Insieme corsero dietro i nani, che già confluivano, come una marea nera, nel secondo corridoio. Di nuovo risuonò il verso tonante del drago; caldo vapore fetido aleggiava lungo il corridoio. Era il principio di qualcosa di terribile.
Il Rabbioso non si scostò dal fianco di Tungdil e, seguendo il corridoio, arrivò a un'altra caverna. Improvvisamente, dall'alto, una vampata di fuoco si abbatté su di loro. Gli Zhadár e lo Squadrone Nero sollevarono gli scudi, facendovi scivolare sopra le fiamme. Boïndil avvertì il calore che regnava sopra di loro, ma la protezione risparmiò loro gravi ustioni. Non è un po' innocuo per essere soffio di drago? Avrebbe dovuto incenerirci! «Sopra di noi», disse. «Dev'essersi aggrappato al soffitto, il vigliacco!» Ma, per quanto guardasse, sul soffitto non c'era nessun drago. Quando gettò uno sguardo sugli scudi dei guerrieri, vide che erano a malapena coperti di fuliggine. La fucina dei Quinti, rinomata per il suo calore, era stata accesa col soffio di un drago. Lohasbrand invece non sembrava disporre di fiamme pericolose. In compenso tuonò la voce dello Squamoso, dal fondo della caverna. E comparve la testa verde scuro, posta in cima a un lungo collo. Il cranio allungato spuntava da dietro un macigno, e dalle narici saliva del fumo ammonitore.
Il Rabbioso strinse con più forza la sua arma. «Come ha fatto ad arrivare così in fretta?» Dietro la roccia comparvero degli uomini, che si schierarono. Boïndil stimò che fossero circa ottanta guerrieri; portavano tutti armatura a piastre e sopravvesti verde smeraldo. Sulle teste avevano i famigerati elmi a foggia di drago; nelle mani, lance e scudi. «Il potente drago Lohasbrand vi ordina di andare via», gridò qualcuno tra le file. «O ucciderà voi e tutti i vostri parenti, come spesso ha già fatto in passato.» «Siamo qui proprio per questo motivo», replicò Coïra, facendo un passo in avanti. «Per mettere fine a tutto ciò. Troppo a lungo abbiamo tollerato lui e voi.» Confidava nel sostegno di Tungdil Manodoro e dei nani. Un cuore da guerriero può battere così forte in gola? «Il Weyurn rivuole indietro la sua libertà!» Uno del Lohasbrander abbassò la lancia, puntandola verso di lei. «Il drago ride del vostro folle tentativo di spezzare il suo dominio. Sparite, e dimenticherà i vostri propositi.» Al Rabbioso, il comportamento di quell'uomo e soprattutto quello del drago sembravano sorprendenti. Per un mostro del genere doveva
essere facilissimo metterli a mal partito già solo con la sua forza e le sue dimensioni. Si dice che sia lungo cinquanta passi e largo dieci. Uno sguardo a Tungdil gli bastò per capire che l'amico stava pensando la stessa cosa... O forse già immaginava che c'era qualcosa di strano? Boïndil osservò il blocco di roccia da cui spuntava la testa del drago. «È impossibile che quel piccolo masso possa coprire Lohasbrand», mormorò. Poi fece cenno a Slin di avvicinarsi. «Tira nell'occhio del drago.» «Tungdil ne è informato?» «No. E non lo deve essere.» «Davvero magnifico...» Il Rabbioso diede una manata al balestriere. «Su! Fallo!» Slin esitò. «Vuoi costringerlo ad attaccarci?» «Fallo e basta!» brontolò il Rabbioso. «Non accadrà nulla.» Si mise in modo che il tiratore potesse puntare di nascosto al drago, senza essere notato dai Lohasbrander. Slin fece un profondo respiro, poi tirò. Il dardo fischiò attraverso l'aria e colpì la pupilla a fessura del mostro. «Lo hai mancato?» chiese Boïndil in tono accusatorio.
«No, non l'ho mancato!» Slin era offeso. «Un bersaglio del genere non lo mancherei nemmeno dopo un boccale di acquavite e un barile di birra scura!» A riprova, ricaricò e alzò di nuovo l'arma. Un nuovo dardo sibilò contro il drago, infilandosi nell'occhio, proprio accanto al primo. «È incredibile: non prova dolore!» Quello che avevano fatto era rimasto inosservato. Improvvisamente, unendo quella bizzarria alle sue impressioni iniziali, il Rabbioso trovò una spiegazione a quanto stava accadendo. «Non è possibile che lo infarciamo di dardi senza che lui se ne accorga.» «Questo è vero.» Slin rabbrividì. «Un drago immortale? Per Vraccas...» «No.» Boïndil rise forte. «Ecco perché! È per questo che non esce allo scoperto.» «Cosa?» esclamò Slin. «Perché non lo fa?» Il Rabbioso ignorò la domanda, andò da Tungdil e gli sussurrò quanto aveva scoperto. Il Sapientone gli sorrise e gli diede una vigorosa pacca sulla spalla. «Se continui così, la Terra Nascosta presto non avrà più bisogno della mia mente. Ben fatto, Rabbioso! Sentivo che c'era qualcosa che non andava.» Alzò la
Sanguinaria, guardando a destra e a sinistra le file dei nani. Tutti aspettavano i suoi ordini. «Maga Coïra, voi starete dietro le nostre file, con Mallenia e Rodano. Interverrete se il drago dovesse attaccare», le ordinò. «Noi ci occupiamo del resto.» Poi abbassò la spada e si lanciò all'attacco. Gli Zhadár e lo Squadrone Nero si affrettarono dietro di lui, lanciando alte grida e agitando le armi. Anche se sembrava una folla selvaggia e caotica, i guerrieri rispettavano una precisa formazione: lo Squadrone di Hargorin formava la prima ondata, che doveva creare brecce tra le file dei nemici; in quei varchi si sarebbero infiltrati gli Zhadár, per scivolare come ombre alle spalle degli armigeri e disorientarli. Il Rabbioso si gettò con passione contro i Lohasbrander. «Ohilà! Via gli scudi!» gridò, entusiasta, frantumandone il primo con la parte piatta dell'azza. Si chinò sotto la punta di lancia che si avventava contro di lui, fece un passo a sinistra e piantò lo spuntone di metallo nelle costole dell'avversario, che cadde a terra gridando. Boïndil balzò nel varco che aveva appena creato, respingendo lo Zhadár che
voleva seguirlo. «Via! Ci sono io qui», lo rimbrottò, estraendo dal corpo della sua prima vittima l'azza, per vibrarla subito contro l'avversario successivo, che era stato abbastanza disattento da trascurare la propria copertura. L'uncino d'acciaio strappò l'armatura, lacerando la carne sottostante. Il Lohasbrander si accasciò, gemendo. «Un altro in meno!» esultò il Rabbioso, dando a un terzo nemico un calcio sullo scudo e facendolo cadere all'indietro. Subito Boïndil saltò sullo scudo e lo premette contro l'uomo. «Ora diventerà buio per sempre, amico del drago», tuonò, e colpì con la parte piatta dell'azza. Dietro il masso, il drago sembrava spaventosamente infuriato. Ma non si muoveva. Boïndil si era fatto strada tra le file degli umani, lasciando dietro di sé un sentiero attraverso cui filtrarono molti Invisibili. Corse a perdifiato verso la roccia per gettarsi contro Lohasbrand, inneggiando a Vraccas. Poi si fermò, abbassando l'azza per la sorpresa. Davanti a lui c'era una ventina di uomini e donne che tenevano in mano lunghi pali infilati nella testa e in parte del collo del
drago. Alzavano e abbassavano le aste per muovere la testa, mentre altri facevano aprire e chiudere le fauci; altre cinque persone erano indaffarate a far risuonare i versi del drago usando tamburi e fasce di metallo. Una specie d'imbuto amplificava il suono, rendendolo più pieno. «Burattinai! Guardate: è come pensavo!» Il Rabbioso sogghignò. «I nani non si lasciano prendere per il naso da voi, vigliacchi!» Ridendo, balzò in mezzo a loro, facendo roteare l'azza. Gli Zhadár e Tungdil lo seguirono. I pali di legno che venivano diretti contro di loro, a difesa, caddero sul pavimento di pietra, frantumati da colpi potenti, mentre la follia guerriera afferrava il Rabbioso, gettandogli sugli occhi una maschera rossa. Esaltato, menava colpi sui corpi che aveva davanti; avvertì il sangue, sentì le grida dei morenti e dei feriti, finché non lo raggiunse la voce dell'amico. A fatica, Boïndil si contrappose alla febbre calda, a quell'ardore nelle vene, respingendo di nuovo la brama di morte. Si passò la mano sugli occhi e osservò l'esito della strage.
Gli umani giacevano a terra, morti. La loro resistenza era stata molto scarsa, e deludente per il Rabbioso. Respirando forte, Boïndil diede un calcio alla testa impagliata del drago. Sudore gli scorreva lungo la schiena. «Morto!» Di cattivo umore, ripulì l'arma. «Che porcheria! Non posso aggiungere uno Squamoso alla mia lista.» Hargorin girò intorno alla roccia con un gruppo di guerrieri per aiutarli contro il drago. Si fermò e osservò le spoglie dei nemici e del mostro. «Wielgar dovrà spiegarci qualcosa», fu il suo unico commento. Anche Coïra, Mallenia e Rodario raggiunsero la scena dell'azione e fissarono increduli il bagno di sangue e il finto drago. Boïndil guardò Tungdil. «Il drago è morto chissà quando, e i Lohasbrander hanno tenuto segreta la sua morte, in modo che gli abitanti del Weyurn continuassero a obbedire. E così i Musi di porco, presumo.» La maga strinse i pugni. «Questi bastardi si sono meritati tre volte la morte! Chissà per quanto tempo ci hanno presi in giro...» Quasi non voleva saperlo, per non doversi rimproverare di non aver capito la verità.
Senza il timore delle rappresaglie del drago, avrebbero potuto scacciare già da tempo gli occupanti dall'antico regno lacustre, e di certo la regina Wey si sarebbe liberata molto prima dalle catene. Sarebbe stata ancora viva, perché non sarebbe caduta contro gli albi... Un odio prima di allora sconosciuto avvampò dentro la ragazza, che voleva far sentire all'ultimo della banda quali sentimenti dominavano il suo cuore. Coïra girò sui tacchi e tornò di corsa alla baracca, per affrontare Wielgar. «Seguiamola.» Tungdil le corse dietro, lasciando a Hargorin e a Barskalìn il compito di uccidere i nemici feriti e di presidiare la caverna. Raggiunsero la costruzione appena in tempo per vedere la maga tagliare le orecchie a Wielgar, che strillava e si dimenava, e gettargliele addosso. Coïra alzò il braccio, per colpire al cuore, quando Tungdil piombò su di lei, trattenendola con facilità. «No, regina. Prima deve rispondere ancora a qualche domanda. Poi lo lascerò a voi e alla vostra vendetta», disse l'imperatore dei nani, in tono tranquillizzante.
Rodario e Mallenia trattennero Coïra, che continuava ad agitare il coltello contro il prigioniero. Tungdil era davanti a Wielgar, cui scorreva il sangue a fiotti sulle spalle, a destra e a sinistra. «Abbiamo sconfitto i tuoi amici, Lohasbrander. Da quanto tempo portate avanti questa farsa con gli abitanti del Weyurn?» «Tutto è perduto... Tutto.» L'uomo singhiozzava, lasciandosi pendere dalle catene. Boïndil gli gettò dell'acqua addosso. «Parla, Lungo. Altrimenti cerco del sale e te lo strofino sulle ferite.» «Da quaranta cicli», piagnucolò l'uomo. «Quaranta?» gridò Coïra, fuori di sé. «E voi, per quaranta cicli, avete fatto vivere la gente nella paura per poter essere trattati come divinità?» Si gettò di nuovo in avanti. Se non ci fossero stati Mallenia e Rodario, avrebbe accoltellato l'uomo. «Io ti maledico, Wielgar! Maledico te e la tua banda!» Il Lohasbrander singhiozzò. «Una mattina trovammo il drago morto in una forra e capimmo che il nostro dominio sarebbe finito non appena si fosse saputo in giro. Quindi lo abbiamo nascosto e lo abbiamo in parte
impagliato, per ingannare i mezz'orchi e mantenerli sottomessi.» «Proprio come avevo detto io!» esclamò Boïndil, soddisfatto, incrociando le braccia sull'ampio petto. «Tu sei un furbone», gli disse Slin. «Una volta tanto», aggiunse Balyndar, sorridendo. Tungdil diede a Wielgar un calcio. «Quanti mezz'orchi avete?» «Quelli che avete ucciso, e mille sparsi per il Weyurn. Non ne sono rimasti altri», gemette l'uomo. «I nani hanno bloccato i passaggi che portano a ovest, e non lasciano entrare altri mezz'orchi.» Boïndil drizzò la schiena, fiero. «Questo farà piacere a Balyndis. La sua stirpe ha fatto un gran lavoro; Vraccas li ha benedetti donando loro una volontà d'acciaio.» Rivolto al Lohasbrander, chiese: «Dove sono andati a finire i vostri tesori?» Wielgar tirò su col naso e sputò; muco e saliva gli scorrevano sul volto. «Abbiamo da tempo speso tutto. Non è rimasto nulla. Per questo abbiamo aumentato le tasse, volevamo tornare ricchi.»
Coïra gli sputò addosso. «Siete peggio dei mezz'orchi, peggio della feccia più schifosa!» sibilò. «Asservire e ingannare il vostro stesso popolo, e per avidità!» Wielgar abbassò la testa e riprese a piagnucolare. Tungdil si avvicinò alla maga. «Altezza, il vostro regno ha conquistato la sua libertà più in fretta di quanto potessimo immaginare. I messaggeri dello Squadrone diffonderanno la notizia e daremo loro pezzi della testa del drago per provare che ciò che dicono è vero.» La guardò severamente. «Tuttavia voi mi accompagnerete a sud, per affrontare LotIonan.» «Io...» «Ora il vostro aiuto è più urgente che mai. Dal momento che Lohasbrand non può più fungere da avversario di Lot-Ionan, le vostre arti sono necessarie per la sopravvivenza della Terra Nascosta.» L'occhio di Tungdil sembrò incupirsi. «Se non riusciremo a battere il mago, la sventura si riverserà dalla Forra Oscura. Nemmeno l'Eoîl e gli avatar erano potenti e pericolosi come ciò che si abbatterà su di noi.»
Coïra deglutì e guardò Mallenia. «Sì, vi seguirò, imperatore», disse. «Senza la vostra determinazione non avrei mai ritenuto possibile venire qui sui Monti Rossi e liberare i miei sudditi. Sono in debito verso di voi. La mia terra è in debito verso di voi.» Tungdil le fece un cenno di capo e sorrise. Come il vecchio Sapientone, pensò Boïndil. «Vi ringrazio. Riposeremo una rotazione, poi partiremo subito per i Monti Blu. Lasceremo qui dei messaggi per i Primi; li troveranno, prima o poi. Non abbiamo tempo per mandare una spedizione a ovest per cercarli.» Tungdil uscì dalla baracca per informare Hargorin e Barskalìn. «Per favore, uscite tutti», disse Coïra con voce roca, mentre alzava il braccio che reggeva il coltello. «Voglio restare sola con questa feccia.» Lacrime di rabbia le sgorgavano dagli occhi. Mallenia e Rodario lasciarono la stanza. Quando Boïndil si tirò dietro la porta, risuonò il primo grido del Lohasbrander. «Non la ritenevo capace di questo», disse Rodario. «Sembra così dolce. Così amichevole.»
«Pensate a che cosa le hanno fatto i Lohasbrander.» Mallenia riusciva a mettersi molto bene nei panni della regina. Si augurava di trovarsi tra le mani ogni singolo albo, e di fargli provare lo stesso terrore che avevano diffuso per cicli. Wielgar gridò di nuovo, in modo forte e acuto. «Coi vassalli degli Occhineri procederete in modo simile?» chiese Rodario. «Ci saranno dei processi. Li cattureremo, li giudicheremo e li condanneremo a pene proporzionate alla gravità dei loro reati.» Mallenia guardò in direzione di Hargorin. «Lui è l'esempio migliore di quanto ci si possa ingannare.» Rodario annuì. «Lo potrei far entrare nella gilda degli attori. Ha ingannato a lungo gli albi per essere pronto alla rotazione in cui si sarebbe messo contro di loro. Dichiararsi subito nemico di quelle creature non sarebbe servito a nulla.» Raggiunsero l'edificio adiacente, in cui si trovavano gli alloggi dei mezz'orchi. Si sedettero su una panca vicina alla finestra da cui si vedeva la caverna e quello che vi succedeva.
«Che cosa farete dei Terzi che hanno amministrato intere regioni stando al servizio degli albi?» chiese Rodario. «Sarà difficile spiegare alla gente dell'Urgon, dell'Idoslân e del Gauragar che i Terzi hanno solo recitato una parte. Discuterò con l'imperatore su come convenga procedere. Se i Terzi si ritireranno sulle montagne, nessuno leverà le armi contro di loro.» Mallenia stava riflettendo su quanto poteva rivelare a Rodario riguardo Coïra e la condizione dei suoi poteri magici. Lo guardò negli occhi, col cuore che le batteva più in fretta. Neppure a quel punto, dopo che si era sfilato i panni dell'attore goffo, poteva lasciarlo perdere. Come andrà a finire? «Nelle rotazioni a venire, il nostro viaggio ci condurrà attraverso il Ràn Ribastur e il Sagreìn», disse, per distrarsi. «Cosa sapete di quei regni?» Rodario ricambiò lo sguardo, e scrutò nei suoi occhi fino a costringerla a distoglierli. «Be', il Ràn Ribastur è pieno di alberi e il Sagreìn è pieno di sabbia», rispose, divertito dalla reazione della donna. «Non intendevo questo.» Mallenia si arrabbiò perché era arrossita, facendo trapelare
i sentimenti che nutriva. «È il territorio di LotIonan.» «Ah, volevate sapere che cosa ci attende là?» Rodario sorrise. Quando arrossisce, è davvero adorabile! «Stando alle voci, il mago ha diviso i regni tra i suoi apprendisti, che si dedicano alle loro ricerche magiche vessando duramente la popolazione. Lot-Ionan custodisce con diffidenza la sorgente della magia e permette l'accesso agli apprendisti solo di tanto in tanto e per brevi periodi, in modo da poterli tenere sotto costante controllo. Sospetta di tutto e di tutti. Non deve avere una grande stabilità mentale.» «Le voci dicono anche quanti sono i suoi apprendisti? Lo chiedo per via della regina Coïra. Sarà lei a doverli mettere fuori combattimento.» Mallenia portò la mano all'elsa della spada destra. «Con questa non si riesce sempre a gestire un avversario dotato di poteri magici.» «Sono d'accordo con voi.» L'attore fece una smorfia. «A questo riguardo, il popolo dà indicazioni molto differenti. Qualcuno dice che Lot-Ionan abbia soltanto due apprendisti, che si odiano a vicenda; altri sostengono che ne abbia dieci.» Il volto dell'uomo assunse un'espressione
cospiratoria. «Ma anche loro presumibilmente si fanno la guerra tra loro, perché ognuno vorrebbe il favore del mago solo per sé e aspira a diventarne l'erede. Chi riuscisse ad assicurarsi l'accesso alla sorgente avrebbe potere su tutti gli altri. Hanno creato creature magiche, e le aizzano l'una contro l'altra. Soprattutto nel Ràn Ribastur, dobbiamo aspettarci di essere continuamente attaccati da creature che devono la propria origine alla magia. Ma per fortuna abbiamo la maga con noi.» Mallenia rabbrividì. Pensava a quanto poca fosse l'energia che Coïra conservava in sé. Non c'era tempo per condurla nel regno degli albi e farla immergere nella sorgente. Tungdil Manodoro doveva sapere la verità, altrimenti la missione sarebbe fallita. Rodario aveva appoggiato il mento sulle mani e cercava di leggere l'espressione assente della donna e di capire a cosa stesse pensando. «Ho sentito parlare delpiù spaventoso dei mostri. Volete conoscere il suo nome?» Mallenia annuì distrattamente. «Xolototh», disse l'uomo, con voce terribilmente cupa. «Dà la caccia agli esseri
umani, soprattutto alle belle fanciulle dai capelli biondi, calandosi dalla cima degli alberi.» «E poi? Le mangia?» «Oh, no. Fa questo!» Rodario si protese fulmineamente in avanti e le diede un rapido bacio. Ma, mentre ritraeva la testa, sentì una mano sulla nuca che, in modo inflessibile, lo tirava di nuovo in avanti. Le sue labbra premettero ancora contro quelle di Mallenia, che gli sorrise, chiudendo gli occhi per dedicarsi al bacio. In quel caso, l'attacco si era dimostrato la migliore e più dolce difesa.
XX Terra dell'Aldilà, Forra Oscura, fortezza di Diga-del-male, 6492° ciclo solare, primavera L' inverno se n'era andato e aveva portato via con sé il ghiaccio e la neve che avevano circondato la fortezza. Il rosso schermo magico invece era rimasto. Goda lo osservava all'inizio di una rotazione, nel mezzo di una rotazione, alla fine di una rotazione e, più tardi, durante la notte, come se i suoi sguardi potessero far crollare lo schermo e dare alle catapulte l'opportunità di scagliare i proiettili contro i nemici e le loro costruzioni. Ma la barriera rilucente di rosso, non diversa da una sottile cortina di tessuto, resisteva ai desideri, alle preghiere e agli incantesimi di Goda. Kiras la raggiunse di prima mattina, per portarle una tazza di tè. Insieme osservarono l'avvallamento intorno alla Forra, che si era trasformato in un immenso accampamento. «Sai cosa significano quei segni?» chiese la Sotterranea.
I mostri avevano posto degli strani contrassegni sul suolo roccioso; visti dalla fortezza, sembravano seguire uno schema. Intorno alla Forra si era accampato un gran numero di mostri, ma non c'era ancora nulla che facesse presagire un attacco imminente. Circondati dai loro apparati militari, attendevano. In tutta calma. «Potrebbero essere rune, ma non sono in grado di leggerle», confessò Goda. «Allora mi preoccupano ancora di più.» Kiras si appoggiò agli spalti. «Ho chiesto in giro, e nessuno ha saputo spiegarmi quei segni.» «I nostri assedianti provengono da una terra straniera. Anche loro troveranno incomprensibili la nostra lingua e la nostra scrittura.» «La creatura che si spaccia per Tungdil potrebbe tradurre quei segni.» «Non è qui. Dobbiamo cercare di venirne a capo senza di lui. E poi, ci mentirebbe.» Goda prese un foglio su cui aveva riprodotto con precisione i segni e ne verificò l'esattezza. «Hanno di nuovo cambiato qualcosa.» Appoggiò il foglio sul parapetto e cercò inchiostro e penna nella borsa. Riportò accuratamente i nuovi
simboli e cercò di scorgere nello schema qualcosa di familiare. Inutilmente. «A cosa servono quelle esercitazioni che fai fare ai guerrieri con gli specchi?» domandò Kiras. «Non appena il sole brilla più forte, li metti all'opera.» «È solo un'idea che mi è venuta. Volevo esaminare meglio una questione.» Un ubari portò loro notizie fresche, accompagnato da un nano in armatura nera. «Signora, dice di essere stato inviato da Tungdil Manodoro», disse il soldato. Il nano fece un inchino. «Sono Jarkalin Pugnonero, cavaliere dello Squadrone Nero che marcia verso sud per uccidere Lot-Ionan.» «Dunque tutti quelli che accompagnano Manodoro ultimamente vestono di nero?» disse Kiras. «È un colore che si addice bene al male.» «Racconta come vi siete imbattuti in lui», replicò Goda, facendosi passare i messaggi. Jarkalìn le diede due rotoli di pelle, e l'ubari una tela cerata sigillata in cui era avvolto uno scritto; l'emblema su un rotolo di cuoio le era ignoto. «Da chi viene questo?» Jarkalin fece un inchino. «Da Aiphatòn, imperatore degli albi.»
Kiras e Goda lo fissarono come si fosse trasformato in un coniglio con le zanne. Jarkalin fece un breve resoconto degli eventi. «... e poi la colonna, con l'imperatore Tungdil Manodoro in testa, si è messa in movimento, in direzione sud. Venti altri e io siamo stati inviati come messaggeri per mettere tutti i regni della Terra Nascosta a conoscenza di questi fatti», disse. «Mentre viaggiavo verso la fortezza, ho ricevuto da Aiphatòn un messaggio per voi.» Fece un inchino. «Attenderò il messaggio che vorrete far pervenire all'imperatore.» Jarkalin fece tre passi indietro, in modo che la maga potesse leggere. «Aiphatòn è diventato un alleato inaspettato.» Goda era stupita dallo sviluppo degli eventi. «A quanto pare, Vraccas è davvero con Tungdil.» «O lo è un altro dio, per ingannarci.» Il volto di Kiras era tetro. Goda aprì prima il messaggio di Boïndil, in cui era scritto in poche parole quello che Jarkalin le aveva appena raccontato. Aiphatòn le scriveva che gli albi si erano messi in marcia e avevano cominciato la campagna militare contro Lot-Ionan. «L'imperatore degli albi non si
aspetta che la guerra termini prima della fine dell'estate. In ogni caso, comunque, la Forra non dovrà essere tenuta tanto a lungo», disse Goda a Kiras, lasciando scorrere lo sguardo sulla barriera magica. «Dentro di me, qualcosa mi dice che i nostri nemici non aspetteranno ancora molto. Quella cui assistiamo è una calma apparente che ci viene propinata intenzionalmente.» Le saltò agli occhi quanto fossero diverse la grafia dell'albo e quella del Rabbioso: l'una era svolazzante, esile eppure non troppo frivola; l'altra presentava linee dritte, una pressione salda sulla punta della penna e qualche macchia nera sulla carta, laddove il nano non aveva fatto troppa attenzione. «Una sortita?» propose Kiras. Goda sospirò; aveva più volte accarezzato quel pensiero. Sarebbe bastato distruggere le attrezzature militari. I mostri avevano impiegato molto tempo per costruirle, e sarebbe costata loro una quantità di tempo immensa erigerle di nuovo. «Per farlo dovrei aprire la barriera. Mi costerà molte forze, e non so dirti per quanto tempo potrei tenere aperta la breccia.» Aprì la lettera successiva: i Liberi la informavano del fatto che pure loro avevano mandato a Tungdil
un contingente. L'assedio da parte degli albi e dei Terzi era terminato, grazie agli ordini dell'imperatore dei nani. «Sono felici che l'eroe sia tornato per guidare le stirpi dei nani come un'unica forza», lesse a Kiras, il cui volto era distorto in una smorfia piena di disgusto. «Vedono già Tungdil Manodoro come il più grande di tutti i sovrani dei nani, quello che ha unito le stirpi e che, dopo la vittoria su LotIonan, porterà una pace duratura.» «Perché mi sento così stupita e arrabbiata?» sbottò la Sotterranea, avvilita. «Sentendo così tante buone notizie, non dovrei essere felice?» Goda l'abbracciò. «Anch'io mi sento allo stesso modo. Noi siamo le uniche a credere che il nano tornato dalla Forra sia una creatura delle tenebre.» «Sta unendo i malvagi sotto il suo stendardo, senza che gli altri nemmeno se ne accorgano.» Kiras scosse il capo. «Il patto tra Tungdil e Aiphatòn è di tutt'altra natura.» Le scintillavano gli occhi. «Sta andando tutto al contrario!» «Spiegami», le disse Goda, confusa. La Sotterranea indicò lo barriera magica. «Tungdil sta raccogliendo tutti i peggiori orrori in
un solo esercito: Aiphatòn, Lot-Ionan, lui stesso e le bestie della Forra Oscura col mago che li guida. Non intende distruggerli, ma unirli. In un unico grande esercito che nessuno potrà più fermare.» Si passò una mano sul volto. «Per Ubar! Fa' che le mie spaventose previsioni non si trasformino in certezza.» Goda aprì un'altra lettera. «È di Rognor Colpodimorte, il re dei Terzi. Scrive che sta ritirando le sue truppe dai Monti Marroni e dalle caverne dei Liberi per rivolgerle contro LotIonan.» Vuotò la sua tazza. «Mi sembri incredula, Kiras. Incredula fino al midollo!» «Tutti i demoni e gli spiriti maligni assistono l'impresa di Manodoro», replicò la Sotterranea. «Deve aver lanciato su Colpodimorte un incantesimo che gli ha rammollito il cervello, in modo da dominarne la volontà.» «Non esiste un incantesimo del genere.» «Non uno che tu conosca, forse.» Kiras era sul punto di piangere per la rabbia. «Nessuno vede ciò che vediamo noi. Gli corrono dietro, verso la rovina.» Si nascose la testa tra le mani. «Questo porterà Tungdil: rovina.» Goda rilesse tutte le lettere, poi ordinò all'ubari di chiamare a raccolta gli ufficiali. «Che
si trovino nella stanza del consiglio. Dobbiamo intraprendere una sortita.» Kiras si raddrizzò e si asciugò furtivamente una lacrima dalla guancia. «Vi prenderò parte anch'io. Voglio vedere coi miei occhi cosa sta succedendo.» Goda le rivolse uno sguardo preoccupato. Tra gli scricchiolii e il fracasso, si mise in funzione il meccanismo di apertura della grande porta meridionale, davanti alla quale si era schierato un reparto di cinquecento soldati. La testa era costituita da cento nani, cui seguivano duecento ubari e cento Sotterranei; chiudevano cento umani, arcieri e balestrieri, che dovevano fornire copertura ai guerrieri e soffocare sul nascere gli attacchi nemici. Goda guardava la figlia Sanda e il figlio Bandaál, che stavano in testa, tra i nani, accanto a Kiras. Erano entrambi predisposti per la magia e avevano dimestichezza con gli incantesimi e le formule magiche. Li aveva mandati con gli altri perché, in caso di bisogno, li proteggessero dagli attacchi magici del nemico. La inquietava mandare la sua carne e il suo sangue dall'altra parte, ma non c'era alternativa, poiché lei stessa avrebbe avuto
abbastanza da fare per tenere aperta la breccia nella barriera; una cosa del genere non sarebbe riuscita ai suoi figli. Tra quei valorosi si trovava un altro dei suoi figli, cui nulla avrebbe potuto impedire di assumere il comando del reparto: Boëndalin Colpopotente, il maggiore, guerriero eccezionale come suo padre. Se ne stava fiero nella prima fila, brandendo lo scudo e l'ascia bipenne. Salutò la madre con un cenno del capo, sicuro di sé e con gli occhi che gli brillavano per la voglia di combattere. Sapeva controllare il suo sangue caldo meglio del Rabbioso, e per questo Goda si era fidata ad assegnargli il comando dell'operazione. Tra i battenti della porta comparve un'apertura, attraverso cui brillava la barriera rossa. «Che Vraccas sia con voi!» gridò Goda. «Avete i vostri ordini: andate e distruggete tutto quello che riuscite e tornate subito indietro non appena la reazione si fa troppo violenta. Di guerrieri capaci di sacrificarsi avremo bisogno in un'altra rotazione.» Kiras alzò la mano. Aveva indossato un'armatura di cuoio e stringeva un'arma che i
Sotterranei avevano scoperto negli ultimi ottanta cicli. Da un lato spuntava una lama, sull'estremità invece c'era una sottile testa di scure, da usarsi soprattutto contro scudi ed elmi. Sanda e Bandaál portavano, secondo i buoni vecchi costumi dei nani, cotta di maglia, elmo e scudo; tenevano le asce alla cintura. Il loro compito era in primo luogo occuparsi di magia, e per farlo Goda aveva affidato loro dieci schegge di diamante ciascuno. Dovevano estinguere le energie esterne, prima di attingere alle loro riserve interiori. La maga alzò le braccia e si concentrò. Non commise di nuovo l'errore di voler infrangere la barriera con la violenza. Voleva invece raschiarla dolcemente, smerigliarla e lacerarla col suo incantesimo, fino a far comparire una breccia adatta a far passare così tanti guerrieri. Mosse le labbra, tentando con una prima combinazione di formule. Non sapeva con precisione come procedere, ma aveva un'idea da verificare. Magia che pulsava di bianco partì dalle sue dita e serpeggiò verso la barriera, stringendosi a essa e premendovisi contro, come un gatto intorno alle gambe di una persona.
La violenta reazione non giunse. Con un sospiro di sollievo, Goda rafforzò il suo dolce attacco e lo allargò, rendendolo abbastanza alto da far sì che gli ubari potessero passare attraverso la breccia stando dritti. Sprizzarono scintille, lo schermo in qualche punto divenne di colore più chiaro, poi rosa pallido, fino a scomparire del tutto lasciando visibile solo il bianco della magia di Goda. « Andate », ordinò la nana mantenendo l'incantesimo, a fare da puntello al resto della barriera. Là dove rosso e bianco s'incontravano, c'erano sibili e crepitìi; di tanto in tanto partivano scintille che, se colpivano qualcosa, lasciavano una bruciatura nera. Senza gridare, il reparto corse dall'altra parte aprendosi in una lunga linea, mentre i tiratori rimanevano alle loro spalle, pronti a tirare le loro frecce e i loro dardi. L'attacco cominciò. Le prime costruzioni caddero sotto i colpi dei guerrieri, senza conseguenze. Solo quando le fiamme cominciarono ad alzarsi e a balzare da una tela all'altra, per poi propagarsi attraverso tutto l'accampamento, risuonò il forte grido dei
mostri. Vennero suonate grandi trombe, e i tamburi chiamarono alle armi. Goda teneva le braccia distese e alimentava l'incantesimo con la sua magia, per mantenerlo attivo. Temeva che, se avesse interrotto il raggio, non sarebbe più riuscita a riaprire il varco. « Vraccas sia con voi», ripetè a bassa voce. E soprattutto coi miei figli! Kiras stava alle calcagna di Boëndalin. Correvano in avanti, superando il varco nella barriera. In quel fugace istante, alla Sotterranea sembrò di avvertire un dolore fisico. «Prima le grandi macchine vicino alle mura», ordinò Boëndalin, facendo preparare le frecce incendiarie agli arcieri. Mentre l'unità si affrettava verso destra, i proiettili infiammati volavano nella direzione opposta, per impegnare col fuoco una parte dei mostri. Poi i guerrieri s'imbatterono nei primi nemici. A Kiras balzò agli occhi quanto fosse facile imperversare tra le bestie. Li avevano colti durante il pranzo e completamente impreparati... Come avrebbero potuto immaginare che Goda sarebbe riuscita ad aprire un varco nella barriera?
Nel mezzo della confusione scatenata dall'attacco, presto vennero appiccati altri incendi non dovuti all'intervento degli aggressori. Mostri disattenti rovesciarono molti fuochi da campo, e le fiamme si diffusero anche in punti lontani dall'attacco. Dopo poco, vicino al varco non ci furono più macchine da assedio; le più grandi si trovavano a meno di trecento passi di distanza. Ma da quel punto correva verso i nani e i loro alleati un'impressionante ondata di mostri. «Arcieri, tirare!» Boëndalin fece continuare a correre il resto del reparto direttamente verso la formazione poco compatta dei nemici. Frecce sibilarono sopra di loro, trafiggendo i mostri; parecchie creature caddero a terra, ferite o morte. «E adesso trucidateli! Là, alla catapulta!» gridò il figlio del Rabbioso e colpì al collo un nemico, col bordo affilato dello scudo. Il metallo spigoloso lacerò la protezione di cuoio e tagliò la gola del mostro, arrivando fino alla colonna vertebrale. Quasi decapitata, la bestia cadde a terra in piena corsa. Il reparto si fece breccia tra le file in contrattacco. Kiras uccise parecchi nemici; con ammirazione, dovette ammettere che Boéndalin
faceva egregiamente il suo lavoro: era abile sia nel comandare sia nel combattere. Lo avrebbe apprezzato al suo fianco, come compagno, ma la consapevolezza delle vicende passate le impediva di avvicinarsi a lui. Alla lunga, Sotterranei e nani non si addicevano gli uni agli altri. Avevano raggiunto il mangano, alto come una torre. Mentre due terzi del gruppo coprivano i compagni restanti, quelli tagliarono le funi di sostegno, spezzarono i supporti e danneggiarono la macchina così tanto che si sentì un forte schianto e una vibrazione attraversò la costruzione. «Via!» ordinò Boëndalin. Vide che i mostri si disponevano in formazione e organizzavano il contrattacco. «Ritiriamoci verso il varco. Abbiamo fatto un buon lavoro.» Kiras guardò verso uno dei sostegni che, apparentemente senza senso, si alzava sulla piana e da cui partiva una catena che correva fino alla Forra Oscura. Era lontano solo altri duecento passi. «E che ne facciamo di quello, Boëndalin?» gli gridò. «Non dovremmo distruggere anche quello?» Il successo la stava rendendo ebbra. «Ce la possiamo fare!»
Il nano guardò verso le bestie; dietro la fronte corrugata, il cervello lavorava febbrilmente. Fino a quel momento non avevano ancora scoperto a che cosa servissero quei supporti, di cui più di quaranta erano disposti davanti all'uscita dalla Forra Oscura. «Non siamo lontani», disse Kiras, allettando il nano. «A qualunque cosa servano, possiamo distruggerli una volta per tutte. E, per ora, non ho visto traccia del loro mago.» Boëndalin guardò il fratello e la sorella; con un cenno del capo, gli fecero capire che approvavano la proposta. Uno degli ubari invece protestò, perché temeva la lunga ritirata e l'eventualità che gli venisse tagliata la via di fuga. Dopo un lungo combattimento e una corsa ininterrotta, le armature non diventavano più leggere, per nessuno di loro. «Attacchiamoli», decise Boëndalin, mettendosi a correre. «I tiratori colpiscano a destra e a sinistra, i Sotterranei in retroguardia.» Con quella formazione, raggiunsero la prima di quelle misteriose barre di ferro. Fungeva da fondamenta una colata di metallo fuso che non si sarebbe potuta strappare da terra.
«Gli ubari devono piegare il supporto. Spingete in direzione della Forra», ordinò Boëndalin, ridisponendo i suoi soldati. Con la coda dell'occhio, Kiras vedeva i possenti guerrieri raccogliersi intorno al supporto, spingendo da una parte e tirando dall'altra. Con uno scricchiolio metallico il supporto si piegò, la catena spessa come un tronco d'albero si afflosciò fino a perdere improvvisamente tensione e a cadere a terra. Due degli ubari non riuscirono a mettersi al sicuro in tempo e gli anelli della catena li spappolarono come insetti. «Avanti! Ancora un'altra!» gridò Boëndalin, indicando verso destra. L'ubari espresse con forza la sua opposizione. «Vostra madre ha detto che non dobbiamo inoltrarci più in là dei contrassegni, che già sono trecento passi dietro di noi, signore!» Gli occhi rosa guardavano il nano con rimprovero. «Dovremmo piegare quaranta di questi pali. Non ce la faremo mai.» Indicò a sinistra, dove una parete di bestie accorreva nella loro direzione. Portavano scudi per proteggersi dai dardi e dalle frecce, marciavano in formazione ed erano pesantemente armati, a
differenza dei reparti che fino a quel momento erano caduti vittima degli assalti. Erano ancora lontani trecento passi. «Bisogna ripiegare, signore!» Boëndalin scambiò uno sguardo con Sanda e Bandaál. «Teneteli alla larga», disse. «Facciamo crollare ancora una dozzina di supporti.» Guardò l'ubari con biasimo. «Sarò io a dire che dobbiamo ripiegare. Nessun altro!» Gli apprendisti maghi si misero in posizione, alzando le mani. Con le dita tracciarono rune nell'aria; le schegge di diamante nelle loro mani scintillavano, emanando le loro forze residue e trasformando le formule in vera magia. Dal palmo della mano di Sanda partì un raggio blu scuro che spazzò via in blocco i mostri dalla prima all'ultima fila, su un fronte largo tre passi, creando una breccia tra gli aggressori. Tutto ciò che il raggio toccava evaporava in una fetida nube nera; armi e armature si trasformavano in ammassi semiliquidi. «Che ne dici, fratellino?» disse la nana respirando forte e guardando il fratello, con aria di sfida.
Bandaál formò con le mani una coppa, con la parte aperta rivolta verso i mostri; soffiò tra le dita, e il suo respiro spirò come una vera tempesta contro le bestie. Metà delle creature venne alzata da terra; gli stendardi volarono via, turbinando, e perfino creature delle dimensioni di un ubari vennero scagliate all'indietro come pupazzi di paglia. Le frecce che fino a un istante prima volavano contro i nani sibilarono all'indietro, portando morte tra le file dei mostri. Bandaál abbassò le braccia e sogghignò, rivolto alla sorella. «Penso di essere decisamente più bravo.» «Questo non è un gioco!» Kiras, che era rimasta a osservarli, fece loro segno di rinserrarsi al reparto, che si stava già dirigendo verso il supporto successivo. «Venite! Dobbiamo rimanere uniti.» Guardò verso la porta meridionale, che d'un tratto le parve essere molto lontana. Il bagliore bianco attraverso il quale erano passati le sembrava leggermente rosa. La Sotterranea rabbrividì. «Sembra che Goda faccia fatica a mantenere il varco nella barriera!»
Anche i due apprendisti guardarono verso il passaggio, e così non si accorsero che la massa dei mostri superstiti si apriva, e un guerriero di bassa statura si faceva avanti. Kiras prese il cannocchiale dalla cintura e osservò con più precisione il nemico appena comparso. Un nano dalla sontuosa armatura di vraccasio giallo-rossiccio, con intarsi in nero tionio, camminava a passi larghi verso i due figli di Goda; tra le mani teneva martelli da guerra le cui teste scintillavano di argento e oro tempestati di pietre preziose. Sembrava molto meno pericoloso e minaccioso di Tungdil Manodoro, già solo per il metallo della sua armatura. La visiera dell'elmo era sollevata, e la Sotterranea rabbrividì: a quel nano mancava la mandibola! Attraverso il cannocchiale, vedeva perfettamente la ferita spaventosa, rimarginata già da molto tempo. Un colpo doveva avergli portato via osso e denti; il guaritore aveva ricucito la carne staccata e l'aveva tesa all'indietro, in modo che il nano potesse assumere nutrimento e continuare a vivere, e
aveva lasciato sotto la mascella una fessura attraverso cui veniva spinto il cibo. Kiras supponeva che non potesse né parlare né masticare... Come avrebbe potuto? Due lunghe basette nere scendevano fino al petto, mentre sulla carne cicatrizzata non cresceva nessun pelo. Gli mancava anche un pezzo di naso; la parte cartilaginea era saltata, e il buco che ne risultava era protetto da una piastra d'argento intarsiata. Due fessure verticali gli permettevano di respirare. Già solo quella vista, simile a un teschio nudo, bastava a incutere profondo timore agli avversari. Gli occhi marroni scintillavano di odio e dolore. Kiras abbassò svelta il cannocchiale, mentre un altro brivido gelido le attraversava il corpo. Che sia il maestro di Tungdil? Fece notare agli apprendisti maghi il nuovo pericolo. Boëndalin e i soldati non avevano ancora notato nulla, si stavano dedicando a un nuovo supporto. «Lascia che me ne occupi io», ordinò Bandaál alla sorella. «Sono il maggiore.» Preparò un incantesimo, mentre la mano destra prendeva un'altra scheggia di diamante e la
teneva stretta per sfruttarne il potere. Mormorò un sortilegio, e davanti a lui apparve una colonna di vivida luce. Con l'ultima parola che uscì dalla bocca di Bandaál, la colonna si mosse in linea retta verso il guerriero nemico, deformandosi visibilmente. Cresceva in larghezza, e spine lunghe un dito spuntavano e si ritraevano su di essa. Per Kiras era chiaro che nulla poteva sopravvivere, se fosse stato colpito dalla colonna. Il nano senza mandibola si fermò, fece mulinare i martelli e ne incrociò bruscamente i manici. Si sentì un forte rumore metallico, e comparve una seconda colonna alta come un mangano. La creazione magica si dilatò fino a diventare un vero e proprio muro di luce, su cui apparvero spuntoni lunghi come lance. Le due creazioni si scontrarono esattamente a metà strada tra gli schieramenti. L'abborracciata creazione evocata da Bandaál scomparve tra i crepitìi, mentre il letale muro di luce creato dal nemico proseguiva la sua corsa. A quel punto, anche Boëndalin si era voltato e aveva visto cosa stava accadendo. Urlò i suoi ordini, esigendo l'immediata ritirata. La
disciplina tra i suoi soldati era enorme: nessuno ruppe le righe o cominciò a gridare per la paura. Correvano però tutti a perdifiato, cercando di lasciare vivi il campo di battaglia. «Per Vraccas!» Sanda scagliò contro il muro magico in avvicinamento un fulmine verde, che s'infranse senza sortire nessun effetto. «Ci sta per raggiungere!» Kiras guardò verso Boëndalin, che faceva cenni nella loro direzione. Era impossibile per loro scampare all'incantesimo, perché si muoveva troppo in fretta. Sanda prese le otto schegge di diamante che le erano rimaste e fece segno al fratello di fare altrettanto. «Svelto, una sfera», disse affannata, afferrandogli la mano. Si misero entrambi sulle ginocchia. «Sta' giù», disse Bandaál alla Sotterranea. «Altrimenti ti decapiterà.» Kiras si gettò a terra alle spalle dei due fratelli, mentre si sentiva un ronzio. Una semisfera lattiginosa si chiuse intorno a loro, e dopo un istante il muro di luce si scontrò con essa. Sull'involucro protettivo si frantumarono le punte del muro magico, mentre lampi
balenavano qua e là, senza che ai tre accadesse nulla. Kiras aveva la sensazione che ogni pezzetto di metallo, fino al più piccolo rivetto che portava addosso, si scaldasse e si caricasse di energia, e sentì un pizzicore su tutto il corpo. Poi l'attacco passò. «L'abbiamo distrutto», ansimò Sanda, sollevata. La sfera si dissolse e percepirono il forte vento alzato dal muro di luce. Polvere volava loro addosso, ricoprendoli. La Sotterranea girò il capo. «No!» gemette. Prima che la polvere mulinante le impedisse la vista, scorse il muro di luce puntare direttamente contro Boëndalin e il suo reparto. Poi il polverone si fece troppo spesso perché si potesse distinguere ancora qualcosa. Bandaál e Sanda si alzarono. Presero ad avanzare a passi pesanti, mano nella mano, per tornare alla porta meridionale e al varco che avrebbe garantito loro la salvezza. Improvvisamente il vento cambiò, allontanando la polvere. Davanti a loro, a meno di dieci passi di distanza, sgusciò dalla sporcizia la sagoma del nano sconosciuto. Teneva i martelli a destra e a sinistra, leggermente
scostati dal corpo, con le teste rivolte verso terra. Vedendolo, Sanda gridò e si portò una mano alla bocca, Bandaàl trasalì. Kiras invece guardò oltre il nemico, là dove poco prima c'era l'unità di Boëndalin: i corpi giacevano riversi per terra. La Sotterranea cercò inutilmente con lo sguardo un movimento in quel tappeto di membra. Dentro di lei si faceva strada il senso di colpa: se non avesse richiamato l'attenzione di Boëndalin sui supporti, sarebbero già stati tutti al sicuro tra le mura di Diga-del-male. Il nano senza mandibola teneva la testa leggermente abbassata. Una ciocca di capelli neri gli si era attaccata alla fronte e danzava al vento lieve. Senza che dicesse una parola, intorno alle teste dei martelli avvamparono fiamme nere. Kiras si spinse davanti ai due fratelli, alzando la sua arma. «Cercate di raggiungere la porta», disse. Ma Bandaál e Sanda non volevano lasciarla indietro. «Fate come vi dico!» gridò la Sotterranea. «Voi valete più di me.» I due fratelli si misero a correre, e il terribile nano li lasciò fare. Teneva gli occhi puntati su
Kiras. Il suo volto martoriato era inespressivo, si scorgeva del movimento soltanto sulle guance. Era forse un sorriso? Kiras mandò giù della saliva, che scese densa come sciroppo lungo la gola. Aveva paura come non ne aveva mai avuta in vita sua. «Attacca, se mi vuoi vedere morta!» gridò, rivolgendo la punta dell'arma contro il nano. «Ti stupirai di...» Non potè dire altro. Il nano si mosse così velocemente che la Sotterranea non riuscì a seguire ciò che faceva. Col martello infuocato, la colpì sul petto. In quel punto, l'armatura di Kiras prese immediatamente fuoco, anche se non era fatta di nessun materiale che potesse incendiarsi. Il secondo martello la colpì alla nuca, e lei si accasciò quasi priva di sensi. Sentiva il crepitio delle fiamme molto vicino all'orecchio, pur sapendo che il metallo dell'elmo in realtà non poteva bruciare. Qualunque cosa venisse colpita dalle armi del nano, avvampava. Mentre cadeva, Kiras si sfilò l'elmo e rotolò sulla pancia, per spegnere le fiamme sul petto. Un piede la girò sulla schiena, e il volto spaventoso del suo nemico fu immediatamente
sopra di lei. Un martello fluttuò davanti a lei. Il fuoco nero che prima lo circondava si era spento, ma il calore che emanava era ancora chiaramente percepibile. Il nano premette la testa dell'arma contro la fronte della Sotterranea. Sfrigolando, il metallo le bruciò la carne. Kiras urlò e perse i sensi. Goda vedeva il muro di luce dirigersi verso il reparto in fuga e dimenticò tutto ciò che si era ripromessa. Tre dei suoi figli erano in procinto di perdere la vita; Boïndil non le avrebbero mai potuto perdonare l'inazione, né l'avrebbe potuto fare lei stessa. Balzò attraverso il varco e lasciò cadere l'incantesimo che aveva creato il varco, per correre incontro a Boëndalin e difendere dall'attacco magico i suoi soldati. Pensava febbrilmente a quale incantesimo contrapporre al potente mago nemico. Il muro di luce sfrecciava verso i soldati, che a un comando si voltarono e tentarono di difendersi proteggendosi dietro gli scudi. Goda capì che non le sarebbe stato possibile proteggere tutti i guerrieri dall'attacco. Nella mano sinistra teneva due dozzine di schegge di
diamante; non sarebbero bastate. «Vraccas, accoglili pietoso nella tua Fucina Eterna», pregò, tessendo un incantesimo di protezione che pose intorno al solo Boëndalin. Poi il muro di luce si abbatté sul reparto. Le faceva male dover assistere alla fine di tante anime valorose. Le punte perforavano scudi, armature e corpi, spingendo i morti addosso ai vivi. Quando il muro magico si dissolse, i cadaveri rotolarono gli uni lontani dagli altri, spargendosi a terra per via dello slancio residuo impresso dal movimento del muro. «Boëndalin!» gridò Goda, continuando a correre. Lo vide, in piedi davanti ai morti, circondato dallo scintillio: il guerriero non riusciva a comprendere come mai era stato risparmiato, mentre i suoi soldati erano morti. «Vieni qua!» gridò la nana, mentre le schegge di diamante le si dissolvevano tra le dita, disperdendosi nel vento. Dense cortine di polvere spirarono su di lei, privandola della vista. Per timore di un altro attacco, mise di nuovo la mano nella borsa. Fece una stima approssimativa del numero di schegge rimaste e concluse che la metà della
scorta era esaurita. Chiamò di nuovo il nome del figlio. «Sono qua, madre», ansimò Boëndalin, andandole incontro attraverso la nube di polveri. Si teneva un braccio davanti a bocca e naso, e stringeva gli occhi. «Che cos'è successo?» «Il mago ha...» Goda guardò attraverso le nubi che si diradavano e vide Bandaál, Sanda e Kiras davanti a un nano in armatura giallorossiccia che le volgeva le spalle, come se non dovesse temerla. O forse non l'aveva notata? «È lui?» Boëndalin guardò i suoi fratelli, poi i cadaveri dei soldati. «Perché non ci hai salvato tutti?» Le teste dei martelli del mago nemico furono improvvisamente circondate da vampe nere. «Li sta attaccando!» Al colmo della preoccupazione, Goda preparò un incantesimo. Bandaál e Sanda corsero a destra e a sinistra dello sconosciuto, superandolo, mentre la Sotterranea si apprestava ad affrontarlo. Boëndalin fece per correre da Kiras, ma Goda lo trattenne. «Tu non puoi aiutarla contro un nemico del genere. Solo la mia magia ha una possibilità.» Aveva optato per un altro
incantesimo di attacco, che avrebbe dovuto colpire l'avversario con fulmini multipli. Il mago abbatté Kiras con due colpi, poi le premette il martello sul volto. La Sotterranea non si mosse più. Goda diede libero sfogo all'energia. Da tutte e dieci le dita guizzarono fulmini in direzione del mago, che alzò la testa, incrociò i manici dei martelli e li sporse in avanti distendendo le braccia. I raggi splendenti superarono la distanza tra i due seguendo linee spezzate; si superavano a vicenda o perdevano terreno, come se avessero organizzato una gara per vedere chi avrebbe raggiunto per primo il bersaglio. Il primo fulmine si abbatté su una testa di martello e scaricò la sua potenza; i simboli incisi sul metallo s'illuminarono ancora più dell'energia stessa. Il mago venne spinto all'indietro dalla forza dell'incantesimo, con le suole che scavavano profondi solchi nella terra smossa. Ma i fulmini non lo incenerirono né lo fecero cadere. Dopo che l'ultimo lampo si fu abbattuto su di lui, il nano deturpato abbassò lentamente le braccia, girò leggermente il torso e scostò un po' le braccia dal tronco, in una posa
di assoluta superiorità. Poi, in tutta semplicità, si girò e s'mcarnminò in direzione delle sue bestie, lasciando Kiras per terra senza degnarla di uno sguardo. Improvvisamente girò su se stesso, coi martelli puntati verso Goda. Due rune sull'armatura brillarono e sembravano alimentare col loro bagliore una pietra preziosa incastonata all'altezza del plesso solare. La gemma risplendette, e un raggio spesso come un braccio, color ocra, partì dalla pietra. Le teste delle armi servivano a delimitare l'ampiezza del raggio e sembrava che il nano le usasse per dirigerlo. Con un profondo e minaccioso brontolio, il raggio volò verso la maga e i suoi figli; la terra che si trovava sotto la sua traiettoria bruciava, colorandosi di nero. Goda mise di nuovo la mano nella borsa e pronunciò un rapido incantesimo difensivo, contro il quale la magia del nemico s'infranse in un rombo potente. Il calore con cui li investì, tolse loro il fiato e bruciacchiò barbe, sopracciglia e ciocche di capelli. I nani dovettero abbassare la testa e chiudere gli occhi per impedire che si disseccassero. Quando
rialzarono lo sguardo, il mago era scomparso. I mostri stavano in attesa a quattrocento passi di distanza, all'ingresso della Forra, e guardavano nella loro direzione. «Prendete Kiras», ordinò Goda con voce roca, guardandosi intorno. Il mago non era visibile in nessuna direzione. Boëndalin raggiunse correndo la Sotterranea, se la gettò sulle spalle e tornò indietro. Improvvisamente i mostri si misero a urlare e a correre verso i nemici. I nani raggiunsero la barriera appena in tempo; dietro di essa c'era la porta meridionale, che li avrebbe salvati. Goda raccolse gli ultimi residui della sua concentrazione e con enorme fatica costrinse un'altra volta lo schermo rosso ad aprirsi. Per ultima rientrò nella fortezza, ma neanche quando la porta fu richiusa alle sue spalle si sentì sicura. Il potere del mago nemico superava di molto le sue previsioni peggiori. Boëndalin posò Kiras su una barella. «Guarda come sta, madre», la pregò, mentre bagnava il volto della Sotterranea.
I soldati sugli spalti salutarono il loro ritorno con sguardi compassionevoli; qualcuno portava dipinto sul volto il biasimo per il cattivo esito della sortita, e per la morte di così tanti compagni d'arme. Goda controllò il battito cardiaco della Sotterranea. «È tutto a posto», disse, tranquillizzando i figli. «A parte l'ustione sul volto, non ha riportato ferite.» Non conosceva il segno con cui il mago nemico aveva marchiato la fronte di Kiras. Doveva servire a scoraggiarli? E perché la Sotterranea era stata risparmiata? «È colpa mia», disse Boëndalin, avvilito. «Avremmo dovuto ritirarci dopo aver distrutto le catapulte. I miei compagni sono morti solo perché ho voluto a tutti i costi condurre le truppe contro quei supporti.» Alzò la testa. «È colpa mia», gridò rivolto ai guerrieri che stavano in silenzio sulle mura. «Sciocchezze. È la guerra, e in guerra muoiono uomini, nani, ubari e Sotterranei», replicò Goda. «Ognuno di loro sapeva che era un'impresa estremamente pericolosa. Si sono offerti volontariamente di accompagnarti.»
Boëndalin non si lasciò consolare dalla madre. «Io dovrei giacere là fuori, con loro.» Abbassò la voce. «Devo alla tua arte il fatto di essere vivo, non alla forza delle mie braccia o alla mia abilità come comandante. Oggi ho fallito. Non dimenticherò mai questa rotazione, mai in tutta la mia vita. Il nome di ogni singolo morto mi ricorderà che devo essere un condottiero migliore.» Fece per andarsene. Goda gli appoggiò una mano sulla spalla. «Tuttavia è stato un successo. L'accampamento è stato bruciato, le macchine d'assedio distrutte. I nostri guerrieri non hanno dato la loro vita invano.» «Sarebbero ancora vivi, se non avessi dato quegli ordini.» Boëndalin si allontanò bruscamente dalla madre e tornò al suo alloggio. Sanda e Bandaál si avvicinarono a Goda e la ringraziarono, con lunghi e lacrimosi abbracci, per averli salvati. La nana li mandò a riposare. Poi salì sul montacarichi per avere, dalla torre, una visione d'insieme del campo di battaglia. Non aveva mentito, perché la sortita aveva fatto guadagnare loro tempo prezioso, e le aveva
fatto capire che da sola non sarebbe mai riuscita a sconfiggere il mago nemico. Il suo sguardo scivolò sulla barriera, sotto la quale aleggiavano spesse nubi di fumo. Nonostante tutte le perdite, rimaneva della sua opinione: avevano conseguito un successo contro i mostri. Un successo a doppio taglio. Dobbiamo resistere fino a quest'estate, Vraccas, pregò in silenzio. Immerse la mano nella borsa e vi trovò, a parte molta polvere, solo quattro schegge di diamante. Le ultime quattro.
XXI Terra Nascosta, ex regno del Rân Ribastur, confine nordoccidentale, 6492° ciclo solare, primavera L' aria era frizzante, limpida, ma il sole faceva del suo meglio perché i viaggiatori non avessero troppo freddo. I dolci raggi dorati risplendevano attraverso il fitto fogliame sopra di loro. C'era odore di risveglio, di natura rigogliosa e di primi fiori. Cavalcavano non troppo in fretta, per non rischiare di raggiungere i Monti Blu prima di Aiphatòn e dei suoi albi. In testa c'erano Tungdil e il Rabbioso, poi seguivano qualche Zhadar e Barskalìn, nel mezzo cavalcavano gli esseri umani insieme con Slin e Balyndar, la coda era costituita dagli altri Invisibili. «I nostri messaggi sono stati sicuramente già tutti consegnati.» Il Rabbioso socchiudeva gli occhi per via della luce del sole. «Chissà cosa avrà detto Goda riguardo ai successi che siamo riusciti a conseguire.»
«Te lo chiedi perché lei non ha smesso di dubitare di me? A differenza di te», congetturò Tungdil. «Non cambierà idea. Se io fossi al suo posto, potrei addirittura interpretare i nostri successi come una conferma della mia cattiveria», aggiunse, divertito. «Io, gli albi, lo Squadrone Nero e gli Zhadar alleati insieme... Questa sì che è una riunione di cattivi ragazzi.» Rise, e sembrava il vecchio Sapientone. Se tu sapessi a cosa ho pensato io... Boïndil sperò che l'amico non capisse i suoi dubbi, causati dalle linee nere sul volto e dall'inspiegabile comportamento dell'occhio. Si sforzò di ridere anche lui. «Già, sarebbe stato l'esercito dei sogni di Nôd'onn.» «È passato molto tempo.» Tungdil scosse il capo. «Tutto va alla perfezione, anche se qualcosa ci è piovuto dall'alto.» «Sono ansioso di sapere se i Primi si faranno vedere. Che Vraccas faccia trovare loro in fretta i nostri messaggi.» Il Rabbioso lasciò strascicare le redini del suo pony, che si muoveva tranquillo lungo la strada. «Preferirei viaggiare in uno dei vecchi tunnel.» «Se sai respirare sott'acqua, accomodati pure.»
«Elria non avrebbe potuto vendicarsi in modo peggiore sui nani. Riversare quasi tutta l'acqua dei laghi del Weyurn nei tunnel...» Boïndil guardò in avanti, dove, a circa un miglio di distanza, la strada usciva dalla foresta e passava dritta attraverso i prati. «Non abbiamo incontrato un solo umano. Né qualcos'altro.» «Hai sentito anche tu le storie che Rodario ha raccontato sul Ràn Ribastur?» Tungdil sogghignò. Come sempre in quei momenti, al Rabbioso parve di essere tornato ai vecchi tempi. Quel sentimento gli trasmetteva sicurezza e fiducia. «Terre incantate in cui la natura conduce alla rovina i viaggiatori. Bestie magiche create dagli apprendisti per combattersi l'un l'altro...» Il Sapientone si picchiettò l'armatura. «Finché porto addosso questa, io sono al sicuro.» Se l'è mai tolta, da quando siamo partiti? Boïndil cercò di ricordarsi quando aveva visto l'ultima volta Tungdil senza armatura. Non era più accaduto, da quand'erano partiti in direzione della dimora di Lot-Ionan, e tuttavia non puzzava, né si lamentava. Ma dorme, almeno? All'improvviso Mallenia comparve al fianco di Tungdil. «Perdonate se m'intrometto, ma non
posso continuare a tacere», disse senza preamboli. «Devo parlare con voi, Manodoro.» «Quello che sento io, lo può sentire anche il Rabbioso», replicò l'imperatore. Boïndil la considerò un'altra conferma del fatto che aveva a che fare col vero Tungdil. Mallenia annuì. «Si tratta della regina. Dovreste sapere che ormai ha ben poca magia in sé.» Ah, ecco. Mi sembrava troppo bello... Il Rabbioso aggrottò la fronte, ma rimase in silenzio. «Voi come fate a saperlo?» domandò Tungdil. «Me l'ha confidato lei stessa.» Mallenia posò una mano sull'elsa della spada. «Per me era importante che lo sapeste.» «Perché non l'ha detto lei stessa?» scappò a Boïndil. «Cosa succede se noi la riteniamo un'avversaria all'altezza di Lot-Ionan e, al primo incontro, al posto di una gigantesca vampata di fiamme dalle dita non le esce altro che una povera fiammella?» «Non so dirvelo. Aveva sperato che nei Monti Rossi si trovasse una sorgente, ma non è stato così.» Lo sguardo di Mallenia era
dispiaciuto. «Avrei preferito riferirvi novità più piacevoli.» «Per il Sacro Martello!» Il Rabbioso imprecò ancora per un po', prima di brontolare: «E adesso?» Tungdil si grattò la corta barba. «Dobbiamo fare in modo che la regina non debba impiegare neppure una volta la magia per la sua o la nostra difesa, e che risparmi le energie rimaste finché non l'avremo portata da Lot-Ionan. Là cercheremo di condurla alla sorgente del mago e di farle attingere nuove energie.» Non sembrava particolarmente preoccupato del fatto che la loro arma più importante possedesse molto meno potere del previsto. «Però non informeremo gli altri. Devono credere che la maga abbia con sé tutte le sue forze. Con lei parlerò io, quando se ne presenterà l'occasione.» Ordinò alla colonna di fermarsi a riposare immediatamente prima dell'uscita dalla foresta. «Rimarrà un segreto tra noi. Per il momento lasciamo agli altri l'illusione.» «E come pensi...?» Il Rabbioso non potè continuare a parlare, perché Tungdil aveva girato il pony e si era drizzato sulla sella.
«Ascoltate», gridò l'imperatore dei nani. «Ci troviamo sul suolo del Rân Ribastur, e qualcuno di noi sa dei possibili pericoli che qui ci attendono.» Indicò Coïra. «Tuttavia la regina non userà la sua magia. Ci accompagna nella nostra spedizione contro Lot-Ionan non per proteggerci da briganti, creature fantastiche o cose del genere. Siamo nani, e sappiamo difenderci da soli!» Gli altri annuirono. «Di conseguenza, non fate affidamento sulla magia della regina Coïra. Non vi farà ricorso, nemmeno se uno di noi dovesse trovarsi in pericolo. Al contrario, faremo in modo, a costo della vita, che lei raggiunga i Monti Blu senza aver pronunciato un solo incantesimo. Siate sempre allerta e segnalate anche il minimo movimento nel sottobosco.» Levò la Sanguinaria. «Il nostro acciaio vincerà su tutto!» Per rinnovare il loro assenso, i nani si batterono sulle armature, poi smontarono e prepararono l'accampamento. Il Rabbioso sorrise all'amico. Scaltro come un tempo! Rodano, che nel frattempo si era fatto crescere pizzo e sottili baffi a immagine del suo antenato e ormai gli somigliava tanto da poter essere scambiato per lui, sistemò la
coperta sotto il telo che doveva servire da riparo contro il sole e la pioggia. Si era scelto un albero i cui forti rami offrivano sufficiente sostegno al telo. Quando guardò in direzione di Coïra, notò che aveva difficoltà a prepararsi il giaciglio. «Lasciate che vi aiuti, altezza.» «Non dovete», disse lei, sorridendo con gratitudine. «Vi aiuto volentieri.» «Intendevo il chiamarmi 'altezza'. Pensavo di avervelo già detto. Ne abbiamo viste così tante insieme, e vi concedo questo privilegio.» Rodario ricambiò la gentilezza e spianò la coperta, arrotolò l'abito di ricambio della ragazza e ne fece un cuscino. «Il vostro letto a baldacchino è pronto.» Lei si sdraiò, ridendo. «Non è come a casa, ma di sicuro dormirò bene. Anche se mi manca il verso dei gabbiani.» «Ah, vedrete... stuccheremo il fondo dei laghi e faremo di nuovo riempire fino al bordo la vasca, come io sono solito chiamare il vostro regno.» L'attore ammiccò. «Non molto lontano dal nostro campo c'è un piccolo torrente con una cascata.» Si tolse l'armatura e parecchi strati di abiti, fino a rimanere in sottoveste. «Non so
come ve la passiate voi, ma io ho una gran voglia di fare un bagno... o quantomeno di avere meno sporcizia sulla pelle di quanta ne porti adesso.» Le porse la mano. «Avete voglia di venire con me?» Coïra sorrise. «Tenterete di sedurrni?» «No di certo! Farò la guardia sulla riva mentre vi lavate, e dopo faremo il contrario.» Coïra si fece seria. «No. Preferisco rimanere sotto la protezione dei nani. Avete raccontato della creatura che tende agguati ai viaggiatori e, anche se non sono bionda...» «Mallenia vi ha raccontato dello Xolototh?» Rodario guardò verso la donna dai capelli biondi, che stava sistemando il suo giaciglio non lontano e gettava sguardi nella loro direzione. «E che questo ha portato a un nuovo bacio, sì. Ma, a quanto pare, questa volta è lei che ha stupito voi», disse Coïra, con un sogghigno malizioso. «Forse non ho motivo di temere lo Xolototh, mantengo però sempre abbastanza timore per le molte altre creature e piante incantate del Ràn Ribastur.» Si sedette sulla coperta. «Andate, ora, Rodario.» L'uomo annuì, deluso, poi scomparve tra i cespugli.
Coïra sospirò. Non era stata sicura di aver celato sufficientemente bene i propri sentimenti. Un bravo attore come Rodario avrebbe notato quando qualcuno voleva far credere qualcosa di falso. Ciò che l'uomo non poteva intuire era che lei lo avrebbe accompagnato volentieri, e che si sarebbe anche immersa nell'acqua con lui. La ragazza guardò verso Mallenia, che per carattere e aspetto rappresentava il suo perfetto contrario. E tuttavia condividevano l'amore per Rodario Settimo. Dove ci può portare tutto ciò? si chiese, una volta di più. Si sdraiò e chiuse gli occhi, ma non riusciva a prendere sonno: pensava all'attore. Sospirando, si alzò e si guardò brevemente intorno; nel campo era scesa la calma. Nessuno si preoccupava di lei, quindi si fece strada di soppiatto per il sottobosco, seguendo il lieve gorgoglio del torrente. Il gorgoglio divenne un mormorio e un mugghio; una fine cortina di acquerugiola copriva di gocce le foglie. Coïra guardò attraverso il fogliame e scorse una piccola cascata, non più alta di sette passi, e un bacino di forse otto passi davanti a una
parete di roccia liscia e scura. Rampicanti crescevano sulla pietra, fiori venivano colpiti dagli spruzzi e dondolavano incessantemente. I vestiti dell'attore stavano sulla riva in un punto in cui non potevano essere bagnati dalla spuma. Rodario era in piedi, nudo, con le spalle rivolte verso di lei; stava in posizione teatrale davanti alla cascata e muoveva le braccia. Apriva e chiudeva la bocca; a quanto pareva, stava provando una parte. Coïra sogghignò. Permise al proprio sguardo di correre lungo il corpo dell'uomo. «E dunque? Com'è?» La regina sussultò, sentendo la voce femminile alle sue spalle. Guardò e vide Mallenia. «Mi ero preoccupata...» disse, abbozzando una scusa. «Ovviamente, altezza. Esattamente come me. Gli Zhadár disposti intorno al nostro campo di certo non sono in grado di proteggerci», disse Mallenia, sogghignando. «Se qualcuno mi avesse profetizzato che mi sarei trovata in un cespuglio accanto alla sovrana del Weyurn a spiare un uomo nudo mentre si lava, credo che lo avrei ucciso seduta stante.» Piegò i rami di lato per riuscire a scorgere qualcosa. «Ma
guarda un po'... Ha una linea molto attraente. I vestiti mal cuciti finora l'avevano nascosto a dovere.» Notò che Coïra non guardava. «Non vi piace? Pensavo che prediligeste gli eroi.» «Io... non voglio vedere tutto», mormorò la ragazza. Mallenia tornò a guardare l'attore. «Io sì. Volete che vi descriva il suo piccolo Rodario? Innanzitutto, devo dire che non lo definirei tanto piccolo...» «Basta così!» la interruppe Coïra. «Lasciategli la sua dignità.» Mallenia rise piano. «Che cosa facciamo, altezza? Ce lo dividiamo o dobbiamo cercare di conquistare il suo affetto ognuna per sé? O per causa sua ci daremo battaglia e precipiteremo in un'inimicizia senza fine che porterà alla guerra il Weyurn e l'Idoslàn?» «Potremmo anche ucciderlo. Sarebbe la cosa più semplice.» Coïra sospirò. Gli occhi di Mallenia scintillarono, divertiti. «Ecco che dite qualcosa di vero. Ma non mi spingerei tanto in là. Non è colpa sua se ci siamo innamorate entrambe di lui.» «Avrebbe potuto fare la corte a una sola di noi», obiettò la regina. «E adesso che ci penso,
voi siete in vantaggio su di me. Avete già due baci.» «Il primo non lo conto.» Mallenia le posò la mano sulla spalla. «Dovremmo evitare che la nostra amicizia si guasti per causa sua. Vi devo la vita, e questo non lo dimenticherò mai.» Era diventata seria. «Volete che non m'interessi più a lui? In questo caso ditelo, e mi piegherò al vostro desiderio.» Coïra scosse la testa. «Sarebbe sleale.» Mallenia sorrise. «Così vi siete conquistata ancora maggior rispetto da parte mia.» Indicò il laghetto. «Andate e aiutatelo col suo bagno, altezza.» «No!» ribatté Coïra, turbata. «Non posso farlo.» «Solo così capirete che cosa desidera da voi e quali sono i sentimenti che nutre nei vostri confronti. Non esitate. Io l'ho fatto troppo a lungo.» Mallenia le diede un improvviso spintone, facendola uscire dai cespugli. Coïra incespicò tra i rami e fece qualche passo verso il torrente. Prima che potesse tornare al coperto, Rodario la notò e le gridò qualcosa, ma la ragazza non riusciva a capire cosa dicesse.
Da dietro i cespugli, Mallenia le fece cenno di andare verso la cascata; poi il volto della guerriera scomparve. Coraggio... si disse Coïra. Avanzò verso la cascata, che la investì di acquerugiola, bagnandole volto, capelli e sopravveste. «Ho pensato di accettare la vostra offerta», gridò per sovrastare il forte scrosciare dell'acqua, cercando di guardare Rodario dritto negli occhi. «Molto gentile», replicò l'attore, altrettanto forte. La superò, passandole accanto, e si chinò, mostrandole la schiena e il sedere. «Io ho finito. Ma ora veglierà su di voi.» Rodario s'infilò la lunga sottoveste, coprendosi così le nudità. «Posso aiutarvi a svestirvi? In quanto principessa, sarete abituata così.» «Sono abituata a farmi aiutare dalle mie cameriere personali, non da un estraneo.» Lo fece voltare, mentre lei sgusciava strato dopo strato fuori dai vestiti. L'aria era fredda, e Coïra rabbrividì. Entrò rapidamente nell'acqua, che era sbalorditivamente calda. «Ora potete girarvi.» Rodario si accovacciò sul bordo e la osservò con un sorriso impenetrabile. «Avete strane
abitudini», disse indicando i guanti. «Per quale motivo li portate?» «Sono permeati da un incantesimo. Non li tolgo mai.» «Da un incantesimo?» L'attore prese a dondolare le gambe nell'acqua. «E che incantesimo sarà? Le vostre dita sono così brutte che le dovete nascondere? O forse, a causa di un esperimento alchemico, avete della sporcizia sotto le unghie che non va più via?» Coïra lo spruzzò con dell'acqua, facendo attenzione a rimanere sotto la superficie fino al collo. Continuava a chiedersi che cosa volesse da Rodario. Che cosa si aspettava da lui? Che fosse abbastanza sfacciato da entrare in acqua e raggiungerla? Che si comportasse come un gentiluomo? Come si comportavano gli eroi quando non combattevano ingiustizie e oppressione? «Voi mi deridete.» «Giammai!» Improvvisamente lo sguardo dell'attore la superò, contemplando il laghetto. «Conoscete la storia del Lago della Luna? Il lago attraverso il quale gli albi sono tornati nella Terra Nascosta? Me l'ha raccontata il buon Boïndil... be', non è un esperto, quando si tratta di narrare storie d'amore, ma con le scene di
morte ci prende gusto. Io pongo l'accento su cose diverse.» Le raccontò la storia dei due elfi innamorati; poi le chiese: «Che cosa ne pensate? Credete che ci siano altri accessi del genere?» Coïra sorrise. «Adesso ho capito: volete mettermi paura!» «No. Ma qui ci troviamo nel Rân Ribastur, la terra incantata. Non deve per forza essere un albo che esce a cavallo dalle acque, ma certo ci può essere qualcosa in agguato sotto di voi», disse l'attore con fare indifferente, continuando ad agitare i piedi in acqua. «Una donna così bella non la si vede tanto spesso.» Lei voleva rispondergli qualcosa, ma improvvisamente avvertì un movimento accanto al suo piede destro. Non riuscì a trattenere uno strillo. «C'era qualcosa!» Rodario smise di dondolare i piedi. «Adesso siete voi a volermi prendere in giro», replicò con un sorriso furbesco. «No, io...» Coïra guardò in basso. Qualcosa di sottile le si era avvolto intorno al polpaccio destro, serrandosi; poi la trazione verso il basso si fece più forte. La ragazza sporse le braccia
verso Rodario. «Tiratemi fuori!» gridò, spaventata. L'attore le lesse in volto che non si trattava di uno scherzo; le afferrò subito le dita e tirò. La resistenza che incontrava lo portò ad ansimare. «Aspettate!» Piantò bene le gambe contro il suolo roccioso, e solo a quel punto gli riuscì d'issare Coïra fuori del laghetto. In quel momento Rodario non aveva occhi per il seno della ragazza e per il suo corpo slanciato. Attaccato alla parte inferiore della gamba vide una cosa che somigliava a un tentacolo biancastro, che mollò immediatamente la presa sulla vittima. La forza con cui l'attore la tirava fece volare Coïra fuori dell'acqua. Rodario si rovesciò all'indietro, e la ragazza atterrò lunga distesa su di lui. Entrambi rimasero immobili. «Mi ha lasciata», mormorò Coïra, guardandosi alle spalle. Contorte strisce rosse le coprivano la gamba, ma non c'erano ferite. Infuriata, la ragazza guardò Rodario con aria di rimprovero. «È colpa vostra! Siete voi che avete fatto sì che quella cosa mi afferrasse!»
«Era solo uno scherzo», replicò l'attore. «Come potevo immaginare che pure il laghetto avesse voglia di scherzare?» «Ma avete detto voi che questa terra è incantata! Avreste dovuto pensarci!» La rabbia di Coïra era, in una certa misura, solo simulata. Dal momento che era nuda, rimase di necessità coricata, per evitare che l'attore vedesse di più. Almeno per il momento. «E se saltasse fuori dell'acqua?» «Voi dovreste riconoscere la magia, o sbaglio?» Coïra aprì la bocca per dare una risposta maligna. Ma i loro sguardi s'incrociarono, sciogliendosi l'uno nell'altro. I corpi si scambiavano calore, accendendo quel fuoco interiore che poeti e bardi cantavano così spesso. Nessuno dei due poteva difendersi da quella emozione, mentre le loro labbra si muovevano le une verso le altre, baciandosi dolcemente. Di nuovo. E di nuovo. «Il vostro guanto, regina», mormorò Rodario con voce roca, reso quasi ebbro dalle sensazioni.
Le porse l'oggetto di pelle. «Vi è scivolato dal braccio quando vi ho tirata fuori dell'acqua.» Senza riflettere, la ragazza tese il braccio per prenderlo. L'espressione beata scomparve dal volto di Rodario, come scacciata da un pugno: dal gomito in giù, il braccio di Coïra era vitreo e traslucido in qualche punto, mentre in altri si scorgevano carne scoperta e sanguinolenta, muscoli e tendini, coperti da uno strato di materiale trasparente. «Oh, per gli dei!» balbettò l'attore. «Che mostruosità...» Con un singhiozzo, Coïra balzò in piedi, afferrò i vestiti e corse via. Il Rabbioso sedeva accanto a Tungdil, intorno al piccolo fuoco su cui stavano arrostendo carne, verdura e pane. «Ah, peccato che il formaggio sia finito!» «Quella puzza me la ricordo ancora. E molto bene!» Tungdil si era tolto elmo, manopole e schinieri, e assaporava con gusto la carne. «Preferisco questo.» Boïndil stava osservando con aria critica la propria porzione.
Tungdil masticò e deglutì. «Che c'è? La lepre non puzza abbastanza per i tuoi gusti?» Il Rabbioso rigirò lo spiedo, come se cercasse un difetto in quel pezzo di carne. «Pensi che abbia assorbito della magia?» «Ma di che magia parli?» «E che ne so io?» ribatté Boïndil, preoccupato. «Se ha... mangiato un fiore che è stato trasformato da uno degli apprendisti?» «Adesso credi anche tu alle storie che racconti? O sono le perle di saggezza del nostro rampollo di Rodario a farti questo effetto?» «È quello che si racconta.» Il Rabbioso si guardò intorno. «A proposito, dov'è finito l'attore?» «Dove dovrebbe essere anche Coïra.» Tungdil indicò i cespugli «Ah!» fece Boïndil, sogghignando senza commentare. «Fanno il bagno, non l'amore», lo corresse l'amico. «Gli Zhadàr li tengono d'occhio, a quanto mi riferisce Barskalìn. Sono protetti da eventuali attacchi.» Il Rabbioso rimise a posto la lepre arrostita. «Allora è vero!» Tungdil sospirò. «Vero, cosa?»
«La magia!» «Per gli Empi! Non c'è nessuna magia!» esclamò Tungdil. «Ho parlato di attacchi! Da parte di chissà quali fiere o gente ostile.» Toccò il suolo con una mano. «Qui non c'è nessuna magia. E qui non c'è mai stato nessun apprendista. La terra è sicura e le lepri non hanno niente che non vada.» «Ma non sono state al sicuro da noi.» Boïndil guardò con un sorriso sciocco le rune sull'armatura di Tungdil, poi ritornò serio. «Brillerebbero, se il cibo ti danneggiasse in qualche modo?» Tungdil abbassò il suo pezzo di carne. «Sì, lo farebbero.» Era sul punto di esplodere. «Dammi la tua porzione! Io la mangio molto volentieri.» «Va bene, Sapientone.» Il Rabbioso passò davvero la sua porzione di carne all'amico. «Ma un solo morso, per favore. Voglio vedere se la mia lepre è sicura come la tua.» Boïndil indicò i simboli. «Se scintillano, io non la tocco.» Incrociò le braccia sul petto. «Su, avanti. Ho fame!» Tungdil lo guardò incredulo, poi scoppiò a ridere forte. «Tutto ciò mi è mancato molto dall'altra parte, Rabbioso. Là non c'era nessuno come te.» Morse la lepre e, visto che
sull'armatura non succedeva niente, porse di nuovo la carne all'amico. «Dopo questa battaglia, sarò felice di poter vivere in pace.» Tolse le verdure dal fuoco. «Spero di abituarmici.» Bóindil addentò la lepre. «A me è riuscito. Be', certo, a Diga-del-male c'era sempre qualcosa da fare e parlavamo spesso di possibili battaglie, ma non eravamo coinvolti in una guerra continua come te. Metterla in conto e viverci dentro sono due cose molto diverse.» Indicò Slin e Balyndar con lo spiedo. «Se tu volessi continuare a combattere, potresti comunque tornare tra i Quinti. Ho sentito che alla Porta di Pietra c'è sempre qualcosa da fare. E, visto che il Kordrion è sparito, i primi mostri si metteranno presto in marcia.» «Con mio figlio? No.» Il Rabbioso tossì, guardando Tungdil che mangiava impassibile le sue verdure dopo averle condite con sale e spezie. «Lo sai?» «Certo.» «E come?» «Parli nel sonno, Rabbioso.» Tungdil ridacchiò. «Mi stai prendendo in giro.»
«Certo.» Tungdil gettò uno spiedino nel fuoco. «Un occhio mi è rimasto, e quindi non sono cieco. Se tutti lo vedono, perché mai non dovrei vederlo io? Mi somiglia molto. A Tion, se Balyndar non è la mia carne e il mio sangue! Ma, dal momento che lui non affronta la questione, me ne sto zitto. Posso capirlo, il suo rifiuto ha senso.» Si appoggiò contro il tronco e prese la sua borraccia. «Per lui è più facile considerare suo padre il re Glaïmbar. A seconda di come finirà questa avventura, sarà addirittura meglio che i nostri nomi non vengano mai pronunciati insieme.» Tungdil svitò il tappo e bevve. «Preferirei che tu sembrassi più fiducioso, mio erudito comandante e imperatore», brontolò il Rabbioso. Osservò triste le ossa della lepre. «Qui non c'è niente sopra. Una montagna di ossicini e carne che decisamente non sazia. Che cosa non darei per un gugul adulto!» Squadrò l'amico. «E allora? Che sentimenti provi sapendo di avere un figlio con Balyndis?» Tungdil fissava il fuoco. «Nessuno. Per me è un nano come tutti gli altri.» Boïndil prese un tubero e lo condì. «Questo è molto triste, Sapientone. Goda e io amiamo i
nostri figli, e non penso esista un sentimento più bello. Ci si arrabbia con loro, ma ne siamo anche molto fieri.» Fece un cenno di capo verso Balyndar. «Dovresti essere orgoglioso di lui. Ha un bell'aspetto, è un guerriero molto valido e in futuro sarà un re eccezionale per i Quinti. Balyndis lo ha allevato e preparato bene.» «Farò in modo che torni sano e salvo da sua madre», promise Tungdil, chiudendo gli occhi. «Il primo turno di guardia è tuo, Rabbioso. Svegliami quando sei troppo stanco.» Boïndil addentò il tubero, che crocchiò incredibilmente forte tra i suoi denti, non diversamente da come avrebbe fatto una mela. «Prima che tu possa farla franca rifugiandoti nel sonno, dimmi un po': che cosa sono gli Empi, Sapientone?» «Divinità della terra al di là della Forra Oscura.» Tungdil non si diede la briga di alzare la palpebra. «Che tipo di divinità?» «Crudeli, Rabbioso. Lasciami riposare.» «Non puoi aspettare ancora un po'?» Boïndil gettò lo spiedo ormai rosicchiato verso Tungdil... e gli venne in mente troppo tardi che cosa sarebbe successo. Per precauzione socchiuse gli
occhi e si mise una mano davanti, per proteggerli dalla luce. Con un leggero rumore, il pezzo di legno sbatté contro l'armatura e cadde a terra. Non ci furono lampi, né scariche di energia magica. Tungdil non sembrava aver notato nulla. Chissà a che cosa potrebbe servire fare domande, gli sussurrò una voce lieve, pregandolo con insistenza di non parlare. E invece Boïndil disse: «Questi Empi, allora? Sai che mi piace ascoltare storie, Sapientone». «Gli Empi sono creature simili a spiriti», raccontò Tungdil, con voce profonda. «Si mostrano nel sangue delle vittime offerte in loro onore, dando una forma alla linfa vitale. Una forma spaventosa che solo i sacerdoti possono guardare senza perdere il senno.» «E tu eri uno di questi sacerdoti?» «No. Ma riuscivo a osservarli senza diventare folle.» «Che le lacune nella tua mente dipendano da questo?» «Non è la mia mente ad avere lacune, ma solo i miei ricordi, che sono incompleti. E adesso basta con queste storielle dell'orrore.»
Il Rabbioso tirò a sé le gambe e batté i piedi. «Quanti Empi ci sono? Cosa fanno perché la gente li preghi? Aiutano in combattimento?» Guardò Tungdil, apparentemente addormentato. «Ehi, Sapientone, da' anche a me l'opportunità d'imparare qualcosa!» Si chiese se fosse il caso di gettargli addosso un altro pezzo di legno. «E perché poi conoscevi così bene Tirîgon? Voglio dire, cosa avete fatto insieme da quella parte? Perché ti facevi chiamare proprio col nome di tuo...» «Basta!» La palpebra si alzò, e Boïndil si beccò uno sguardo che gli causò quasi dolore fisico. L'iride marrone, penetrante come una freccia, scomparve trasformandosi in un pulsare verde brillante, che subito dopo sbiadì in un azzurro chiaro. Un ultimo tremolio della palpebra, e l'occhio tornò marrone. «Voglio dormire, Rabbioso. Cavalcheremo ancora parecchie rotazioni prima di arrivare ai Monti Blu, e a ogni sosta ti racconterò qualcosa di più. Ma non adesso!» Tungdil aveva parlato con molta fermezza nella voce, tagliente e maestosa, annientando qualunque obiezione. L'occhio si richiuse.
Boïndil dette un calcio nella polvere. Era di nuovo il Tungdil sbagliato! Senza riflettere, raccolse un bastoncino lungo un palmo e lo usò per grattare la terra. «Allora canterò una canzone, per vincere la noia.» Si cimentò in un pezzo che gli aveva insegnato Bavragor, e prese a battere il tempo sugli schinieri. Tungdil non si lasciò provocare. Improvvisamente, Rodario sbucò di corsa dai cespugli, con gli abiti scompigliati, come se si fosse vestito di gran fretta. «La regina è sparita!» gridò. «Sparita del tipo 'ingoiata dalla terra' o sparita del tipo 'scappata da un molestatore'?» Il Rabbioso sghignazzò. «Facevate il bagno, mi hanno detto. Cos'è successo?» «Si è... spaventata ed è corsa via.» «Per via del serpente monocolo che ti si annida nei pantaloni, presumo.» «Ascoltami!» Rodario afferrò Boïndil per le larghe spalle. «È scappata via! Nel sottobosco.» «Continui a non dirmi perché lo ha fatto, ma tant'è...» Il Rabbioso chiamò Barskalìn e gli chiese dove fosse corsa la regina.
Il comandante degli Invisibili non lo sapeva. «I miei uomini la stanno seguendo. Noi controllavamo i dintorni, non lei e l'attore.» «Ci stavate osservando?» chiese Rodario, stupito. «No, altrimenti non sarebbe successo questo pasticcio», rispose Boïndil. «Sapientone, sveglia. Dobbiamo riprendere la maga. La timida cavallina si è fatta spaventare dal serpente ed è sparita.» Un Tungdil molto stanco aprì l'occhio, quasi fosse una tortura. Lo sguardo che gettò a Rodario prometteva all'attore una morte lunga e piena di dolore. Correvano attraverso la boscaglia, scendendo a valle del ruscello in una lunga linea. Non potevano prendere i pony, quindi nani e Zhadar dovettero seguire a piedi le tracce della regina scomparsa. Gli Invisibili trovavano le orme con facilità, ma la ragazza aveva un vantaggio considerevole. Le corte gambe li mettevano in svantaggio, e Rodario e Mallenia non osavano correre per conto loro: sul duro terreno della
foresta non avrebbero riconosciuto le orme della fuggiasca. La parte del bosco in cui stavano entrando era tutt'altro che amena. Meno di un quarto di ciclo prima doveva essere divampato tra i tronchi un fuoco, che aveva lasciato dietro di sé parecchi alberi morti. Sul suolo nero stavano i resti di piante un tempo grandi. I nani e gli umani camminavano attraverso la cenere che si alzava a ogni passo cercando una via per entrare nelle bocche e nei nasi e facendo lacrimare gli occhi. Rami parzialmente carbonizzati si frantumavano sotto i loro piedi; scarpe e pantaloni si tingevano di nero carbone. Passarono accanto a ruderi di edifici; un insediamento boschivo non aveva resistito al calore delle fiamme. Il Rabbioso riconobbe, tra i resti, degli scheletri. Per qualche motivo, gli umani non sono scappati davanti alle fiamme. O non potevano farlo? Subito pensò alla magia... «Là davanti!» gridò Tungdil, indicando verso destra. «Vedo qualcuno correre.» Boïndil non vedeva nulla. «Sì», concordò Barskalìn. «È un essere umano.»
Mallenia fece un cenno a Rodario, e i due aumentarono la velocità. «Noi la raggiungiamo, voi seguiteci», disse l'attore ai nani. In lui si agitavano strani sentimenti. Si rimproverava per l'accaduto, anche se Coïra era scappata perché aveva frainteso la sua esclamazione. Mallenia gli era già qualche passo davanti, ma Rodario non si lasciò seminare, mentre il gruppo di nani spariva alle loro spalle. La foresta cambiò di nuovo. I tronchi sembravano essere stati plasmati dal calore e avere così assunto forme bizzarre. Nel buio, quella vista era spaventosa e il silenzio mortale non tranquillizzava Rodario. Si compiacque di avere con sé una spada, e Mallenia, che era una guerriera di gran lunga migliore di lui. «Coïra, fermatevi!» gridò alla figura che appariva e spariva tra gli alberi con grande agilità. «Siamo preoccupati per voi!» Ma la fuggiasca non gli dava ascolto. «Più veloce, eroe», lo incitò Mallenia. «Stare in mezzo a questo legno morto non mi piace. Questa foresta è orribile» Rodario approvò in silenzio. Eppure non c'era più nulla che potesse fare loro del male; il
fuoco aveva divorato ogni cosa, trasformandola in cenere. La figura tra gli alberi cambiò direzione, curvando improvvisamente verso destra. Attraverso i tronchi carbonizzati, i due scorsero i contorni di un granaio fortificato. A giudicare dalle bruciature, le fiamme erano nate là e si erano diffuse per la foresta. La fuggiasca attraversò di corsa la piccola porta e scomparve tra le rovine. «Che va a fare là dentro?» si chiese Rodarlo, ansimando. «Si nasconde da noi?» «Un comportamento infantile e sciocco.» Mallenia puntò verso l'ingresso della costruzione. «Regina Coïra! Uscite, prima di cadere dentro una buca o di venire sepolta dal crollo di un muro!» Entrarono nel cortile interno e si fermarono a osservare i telai delle finestre rotte, che sembravano fissarli come orbite vuote. «Coïra?» gridò Rodario, preoccupato. «Prima, al lago, non mi avete capito bene. Venite fuori, e vi spiegherò le mie parole!» «Allora è davvero colpa vostra.» Mallenia lo disse piena di soddisfazione. «Avrete scelto il complimento sbagliato, presumo.»
Rodario aveva deciso di non far parola della sua terribile scoperta. Prima voleva parlarne con Coïra. «Qualcosa del genere.» Quando vide una testa dietro una finestra al pianterreno, si lanciò di corsa. «Coïra, aspettate!» Si tenne all'intelaiatura pericolante e sbirciò dentro la stanza. Guardò in un paio di occhi chiari, che restituivano timorosi lo sguardo. Gli occhi di un uomo!
XXII Terra Nascosta, ex regno del Rân Rtbastur, 6492° ciclo solare, primavera Rodario fece un balzo indietro e guardò Mallenia. «Là dentro c'è un uomo!» «Ne siete sicuro?» L'attore si piegò sull'intelaiatura di legno, sporgendosi ancor di più, e squadrò il volto sconosciuto. «Sicurissimo. I ciuffi di barba lo rendono molto chiaro.» «Allora non sarà certo la regina. A meno che non abbia cambiato aspetto con l'aiuto della magia.» Mallenia raggiunse la finestra. Stimò che l'uomo fosse vicino ai quarant'anni; ciò che avvolgeva il corpo doveva essere stata un tempo una costosa veste color malachite, ma era ormai logora e lacera. La chioma biondo scuro dello sconosciuto era coperta con un cappuccio di cuoio logoro e unto. «Come vi chiamate?» gli chiese. L'uomo trasalì e strisciò più in profondità nella stanza.
Rodario scorse alle mani quattro anelli che dovevano essere molto costosi. «Non è un poveraccio, questo è sicuro.» «Forse è il padrone di casa, scampato alle fiamme, che ha perso il senno per la tragedia?» Mallenia diede un calcio alla parete. «Ma dov'è finita la regina?» Guardò verso la porta, attraverso cui stava giungendo di corsa Tungdil alla testa dei nani; gli raccontò rapidamente che cosa era successo. Rodario nel frattempo entrò nella stanza e si avvicinò lentamente all'uomo. «Come vi chiamate?» chiese in tono amichevole. «Non abbiate paura. Non vi faremo nulla.» «E chi lo dice?» intervenne il Rabbioso, che aveva sporto la testa dalla finestra. «Se è un mascalzone...» «Ma voi non siete un mascalzone, non è vero?» Rodario si accovacciò davanti allo sconosciuto. «Siete un uomo ricco che si è perso? Dei banditi vi hanno teso un'imboscata? Siete caduto vittima di piante magiche? Strada facendo, avete forse visto una donna con lunghi capelli neri e un abito blu?» Si sentì un tonfo e del tintinnio metallico: Tungdil era balzato nella stanza e aveva
affiancato Rodario. Lo sconosciuto indietreggiò, piagnucolando, e si mise le braccia davanti alla testa, a proteggerla. Tungdil gli afferrò la mano destra e la tirò rudemente verso di sé, poi strofinò la manica sozza liberandola da uno strato di sporcizia, portando alla luce il simbolo che vi era ricamato sopra. Il sopracciglio si abbassò e il volto del nano si fece scuro. «Tu sei un seguace di Nudin», disse allo sconosciuto, afferrandolo per il collo. «Ti permetti d'imitare il suo stile e perfino di portare anelli come lui!» Rodario si alzò e portò una mano sull'elsa della spada. «Un apprendista di Lot-Ionan?» «Ah!» fece Boïndil, sprezzante. «Per fortuna non gli ho detto che non gli avremmo fatto nulla.» «Ne ha l'aspetto.» Tungdil trascinò l'uomo dietro di sé sino alla finestra e lo gettò violentemente fuori, nel cortile. «Scopriremo cosa ci fa qui. E quanta magia ha ancora dentro di sé.» Diede ordine agli Zhadár di stare ancora più attenti e uscì, scavalcando la finestra. «Ha già detto come si chiama?» «No.» Rodario seguì i due, affiancando Mallenia. «Volevo prima provare in modo
amichevole. Sembra molto turbato, e ho pensato che non sarebbe stata una buona idea procedere urlando e trattandolo malamente.» Tungdil estrasse la Sanguinaria e ne posò la punta sul collo dell'uomo. «Parla!» «Franek», balbettò l'uomo. «Sono Franek.» Il Rabbioso sogghignò. A volte non si poteva davvero obiettare nulla alla maniera in cui i nani conducevano gli interrogatori. «Cosa ti ha spinto in questo luogo? Perché ti vesti come Nudin?» Tungdil gli diede un calcio che lo gettò a terra. «Non ho molto tempo. Stiamo cercando una donna...» «L'ho vista!» gridò Franek, alzando le mani. «Per favore, no! L'ho vista! So dov'è andata.» Boïndil teneva la sua azza pronta a colpire. «Potrebbe essere stato mandato da Lot-Ionan per attirarci in una trappola.» «Come poteva sapere che stiamo arrivando?» Rodario osservava Franek. «Non dovremmo prima sentire la sua storia?» «La regina per me è più importante», intervenne Mallenia. «E dovrebbe esserlo per tutti noi.» Guardò il presunto apprendista mago. «Parla! Dov'è andata?»
L'uomo alzò lentamente il braccio, indicando verso est. «Verso i Votons. Di sicuro non sarà più in vita.» «Chi sono i Votons?» Tungdil non aveva mosso la Sanguinaria dalla gola dell'uomo. «Mostruosità, chimere nate dagli esperimenti di Vot, un apprendista di Lot-Ionan», spiegò l'uomo, privo di fiato per via della paura. «Un tempo erano esseri umani, che Vot ha fornito di arti animali. Si sono liberati dal suo laboratorio e sono fuggiti in questa zona.» Tungdil diede un ordine a Barskalìn, e gli Zhadár corsero via; poi guardò Rodario. «Voi rimanete qui e sorvegliate il nostro nuovo amico. Rimarrà con noi e risponderà a qualche domanda quando torneremo con la regina.» Il Rabbioso scosse la testa. «Un attore contro un apprendista mago?» «Se a quest'ora potesse ancora fare incantesimi, avrebbe l'aspetto di un cane bastonato?» Come ulteriore spiegazione, Tungdil indicò le rune dell'armatura, che non si erano illuminate, e si girò. «Slin vi terrà compagnia. Gli altri vengono con me.» Corse dietro agli Invisibili.
Slin chiuse il portone e accese un fuoco. Rodario passò a Franek qualcosa da bere e cercò un paio di panche su cui potessero sedersi intorno al fuoco. Il Quarto si posò sulle ginocchia la balestra carica, tenendo gli altri dardi a portata di mano. Il suo sguardo scivolava sui dintorni: faceva la guardia. «Allora, Franek. Per passare il tempo, mi volete raccontare che cosa vi ha spinto a desiderare di portare avanti l'eredità di Nudin?» Rodario tagliò del pane e del prosciutto. Ne passò un po' a Slin, il resto lo diede all'apprendista. «Imparavate da Lot-Ionan.» Franek guardò attentamente l'attore. «Un gruppo di nani in armature nere, un attore e una donna bionda che cercano una regina... Tutto ciò mi sembra molto strano.» «Non cercate di passare al contrattacco, amico mio. Prima parlerete voi», replicò Rodario. «Altrimenti mi riprendo il cibo.» «Glielo sparo io in bocca!» si offrì Slin, alzando la balestra. «Il boccone gli uscirà dalla nuca insieme col dardo.» Franek accostò le mani alle fiamme. Senza il sole faceva rapidamente freddo, la primavera
non aveva ancora il sopravvento sul rigore delle notti. «Sì, vi dirò tutto.» Fece un profondo respiro. «Mi accorgo quando mi si mente», lo avvertì Slin. «Allora mi fremono le dita, e quello che ti fa il dardo al collo te l'ho già detto.» Franek annuì e cominciò a raccontare. «Che ingratitudine ho ricevuto dal mago... Io e un'amica lo togliemmo dalla cantina del palazzo di Porista quand'era ancora sotto forma di statua, e fuggimmo dalle guardie. Ma la statua ci venne rubata da altri apprendisti. A me è costata quasi la vita. Dopo essere guarito, mi presentai per entrare a servizio di Lot-Ionan. Volevo diventare un mago, ed è stata la magia a procurarmi la longevità.» Chiese un po' d'acqua, e gli venne porta. «Ci sono sempre stato, quando Lot-Ionan ha avuto bisogno di me. Abbiamo conquistato insieme i Monti Blu, distruggendo i nani...» «Magnifico. Racconta qualcos'altro», ringhiò Slin, agitando la canna. «Il mio dito freme, se mi tocca sentire cose del genere.» Franek rabbrividì. «Chiudemmo la porta a sud. Io gli ero accanto quand'è stato quasi
ucciso dal signore degli Occhineri. E come mi ringrazia, lui? Mi ha scacciato!» «Per quale motivo?» Rodario ascoltava con attenzione, cercando di scoprire eventuali menzogne. Non aveva ancora notato nulla di strano. «Un motivo da niente.» «Quale motivo?» Il dito di Slin accarezzava il grilletto della balestra. «Voglio saperlo.» Franek sospirò. «La sorgente della magia. Nessuno può avvicinarsi e trarne nuove forze senza il suo permesso.» Rodario annuì. «Ma voi avete ignorato il divieto.» «Che altro potevo fare? Il mago dormiva e io dovevo ancora...» Franek s'interruppe. «Non importa. Un altro apprendista ha svegliato LotIonan e mi ha tradito. Allora il mago mi ha scacciato dalle caverne e dalla fortezza e ha permesso agli altri suoi apprendisti di darmi la caccia e uccidermi. Doveva punire il tradimento.» «Su questo ha ragione», borbottò Slin, sogghignando. «Se non fosse per me, sarebbe ancora una statua a Porista, quel vecchio pazzo!» disse
Franek, senza badare all'osservazione del nano. «Ho cercato rifugio attraversando il deserto del Sangreìn. L'ultimo dei suoi sgherri me lo sono scrollato di dosso vicino ai Votons.» Guardò Rodario. «Vi avevo scambiato per lui, per questo sono corso via.» «Dobbiamo preoccuparci degli allievi di LotIonan?» Franek annuì. «Vot e Bumina sono potenti, quasi quanto me.» Slin guardò Rodario. «Ha appena detto che ha seminato un apprendista vicino ai Votons?» L'attore era stato così concentrato ad ascoltare e a osservare il volto di Franek che aveva trascurato quell'importante dettaglio. «Per Palandiell! Dobbiamo avvertire gli altri!» Slin lo guardò, incredulo. «Credi di riuscire a trovarli, al buio? Io vedo certo meglio di te, ma non sono svelto abbastanza.» Senza preavviso tirò un dardo contro la gamba di Franek. L'uomo si accasciò, gridando. «Questo avevi in mente, perfido Lungo! Per ogni nostro ferito ti beccherai un dardo, e tre per ogni morto.» Ricaricò. «No, Slin!» esclamò Rodario, anche se capiva bene l'astio del nano. Franek li aveva tenuti all'oscuro intenzionalmente. Aiutò
l'apprendista mago a estrarre il dardo dalla carne, e fasciò la ferita con una striscia di tessuto che ricavarono dall'abito. «Mi era sfuggito di mente», gemette Franek, tenendosi la parte ferita. La fasciatura si stava già tingendo di rosso. «Giuro su Samusin che non li ho mandati di proposito contro Droman senza avvertirli!» «Dal dolore s'impara», replicò Slin. Non era dispiaciuto di aver colpito l'uomo. Rodario si alzò e raggiunse il portone, lo aprì di uno spiraglio e guardò verso gli alberi storpiati. Si ergevano intorno al granaio, svettando fino a cento passi nel cielo che si rabbuiava. Tra i tronchi vi era calma. Non vide né sentì nulla che tradisse la presenza dei nani o di Mallenia. «Droman è potente?» chiese. «Contro di me uscirebbe sconfitto, se possedessi ancora dell'energia magica», gemette Franek, strappandosi un altro brandello di abito per fermare la perdita di sangue. «Ma, dal momento che non c'è più potere in me e non riesco nemmeno più a curarmi, ne sarei vittima esattamente come voi.»
Rodario vide nella foresta un'ombra che avanzava da albero ad albero, stando china, e che puntava verso il granaio fortificato. «Brutta cosa», mormorò. Le ombre che credeva di scorgere si stavano moltiplicando, e avevano poco di umano. Chiuse il portone, tornò al fuoco e vi gettò sopra altra legna. «Votons», spiegò. «Spero davvero che odino il fuoco. E sarebbe una buona occasione per mostrare la vostra arte, Slin.» «Davvero magnifico!» Il nano prese i suoi dardi e si alzò. «Se non sono più di cinquanta, che vengano pure. Poi la mia scorta si esaurisce.» Rodario evitò di replicare. Ne aveva contati di più. Correvano attraverso la penombra del crepuscolo, due Zhadár costituivano l'avanguardia e avevano scorto delle nuove tracce; a giudicare dalle dimensioni, potevano essere quelle lasciate da Coïra. Tuttavia avevano trovato anche altre impronte. Se non avessero saputo dei Votons, avrebbero creduto in un gregge di bestie al pascolo, ma le parole dell'apprendista li avevano
messi in guardia. Le creature che potevano incontrare possedevano sia gambe umane sia zampe di animali. Barskalìn individuò in primo luogo impronte di erbivori, ma c'era anche qualche traccia che il sytràp riconobbe come appartenente a orsi o altre fiere. «So bene perché non amo nessuna magia», disse Boïndil, truce. «Robaccia contro natura! E anche se hanno le zampe da mucca, non li metterei su uno spiedo per mangiarli!» «Tua moglie non è una maga? E non lo sono due dei tuoi figli?» Tungdil saltò sopra un tronco caduto, come se l'armatura non pesasse nulla. Il Rabbioso ci mise un po' di più per superare l'ostacolo. «Quella è una magia tutta diversa», obiettò. «Quella è magia dei nani, non mi ha mai fatto male, non una sola volta in duecentocinquanta cicli. Né a me né ad altri.» «Ma se Goda fosse rimasta presso Lot-Ionan, contro chi marceremmo ora?» La voce di Tungdil sembrava quella di un negoziatore in cerca di un punto debole nelle argomentazioni della controparte. «E tu forse porteresti un'armatura simile alla mia.»
«Giammai», replicò Boïndil. «Voglio dire, Goda non si sarebbe mai messa dalla parte...» «Va bene, come vuoi. Erano solo speculazioni.» Tungdil si girò verso sinistra, come gli suggerivano gli Zhadár. Trovarono la regina, a pancia in giù sulla terra bruciata. «Vraccas, fa' che non sia morta», pregò il Rabbioso, balzando in avanti e brandendo minacciosamente l'azza. «Ehi, creature di un mago folle! Restate nei vostri nascondigli!» Incassò la testa. «O, meglio ancora: uscite e lasciate che vi rimetta i pezzi al loro posto!» Tungdil s'inginocchiò accanto alla ragazza e la girò sulla schiena, mentre gli Zhadár li circondavano senza perdere di vista i dintorni. «Respira ancora», disse. «Non vedo nessuna ferita. Probabilmente è stato lo sfinimento a sopraffarla.» Le palpebre di Coïra tremolarono. «Attenti...» mormorò debolmente. «È una trappola. Un apprendista...» Un vivido raggio di magia sfrecciò da dietro un albero, colpendo uno Zhadár in pieno volto. La testa si dissolse nel nulla, e il torso cadde a terra fremendo, come se cercasse di compiere la
schivata che aveva fatto solo in tempo a pensare. Il sangue sprizzò con violenza dal collo, innaffiando le persone circostanti. «Al riparo!» Tungdil fece un balzo in avanti e cercò di scorgere il mago tra le ombre. Il Rabbioso non pensò affatto a cercare una copertura. «Il tipetto è mio!» Fece qualche passo di corsa e affiancò Tungdil, per contrapporsi al perfido aggressore. «Ti renderò sottile come una foglia a suon di botte, Franek!» promise. Era convinto che le cose non potessero stare altrimenti: Franek aveva sicuramente sopraffatto l'attore e Slin, e poi aveva seguito i nani per attaccarli alle spalle. «Con me non ti riuscirà.» Poco lontano, apparve un uomo avvolto in un saio grigio chiaro che gli arrivava alle cosce; gli stivali gli salivano alle ginocchia, e ai fianchi portava un cinturone cui era appesa una spada dalla lama larga. Le mani erano infilate in guanti marrone chiaro, e aveva le braccia parzialmente levate. A quanto pareva, lo sconosciuto stava intessendo un altro incantesimo. «Quanti altri di voi ci sono in questa maledetta foresta?» inveì Boïndil, attaccandolo. «Siete peggio dei funghi!» Poi comprese di aver
sottostimato la distanza che lo separava dal nemico. Dalle dita dell'apprendista partirono raggi viola che si fusero in uno solo, più spesso, e puntarono sul nano. Poco prima che lo raggiungessero, davanti a Boïndil comparve una parete nera; poi il Rabbioso vide davanti a sé molte rune diverse che all'improvviso avvamparono di luce abbagliante, e un'ondata di calore lo investì e superò. Quel chiarore sovraffaticò gli occhi del Rabbioso. Non importa dove girasse la testa, vedeva soltanto copie rilucenti di quelle rune. Ciò gli rendeva assai difficile attaccare l'apprendista. «Sapientone?» gridò. Davanti a lui ci fu un sibilo, poi di nuovo divampò una luce fortissima. «Maledizione, stava giusto ricominciando a vedere!» si lamentò Boïndil. Sentì il tintinnio del metallo contro il metallo, poi degli sbuffi, come di fuoco, mentre chiarore e tenebra si susseguivano rapidamente. Alla fine si udì un grido di dolore, e un corpo cadde sulla terra cosparsa di cenere. «Tungdil?» Il Rabbioso riconobbe l'amico nella forma nera e tarchiata davanti a sé; più
oltre, giaceva disteso il corpo di un essere umano. «Grazie a Vraccas», disse Boïndil, sollevato e deluso al tempo stesso. Gli sarebbe piaciuto abbattere lui il nemico. «Tutta questa magia mi dà abbastanza sui nervi. E questo da dove arriva?» Si passò la mano sugli occhi; ormai vedeva quasi di nuovo perfettamente. Tungdil aveva ucciso l'apprendista mago con un colpo sul torace. «Sono i segni personali di Lot-Ionan, questi che adornano il saio», mormorò, pensieroso. «Lui e Franek ci hanno teso una trappola insieme oppure è un caso che fosse qui?» Boïndil affiancò l'amico. Tungdil piantò la Sanguinaria a terra e perquisì il cadavere e lo zaino. A parte un borsello con delle monete, trovò due chiavi, un po' di provviste e due mappe, una del Rân Ribastur e l'altra del Sangreîn. «Non è molto.» «No. Non è molto.» Il Rabbioso si appoggiò alla sua arma. «Torniamo al granaio. Franek ci saprà spiegare con chi abbiamo avuto a che fare.» Tungdil ordinò a due Zhadár di prendere il cadavere dell'apprendista, mentre Mallenia sorreggeva Coïra. La regina era ancora stordita,
ma riuscì a raccontare di essere stata colta di sorpresa dall'apprendista e messa a terra da un incantesimo. «Ah, per la povera fucina della mia vita», mormorò il Rabbioso, accarezzandosi la barba. «Non riesce a tener testa a un apprendista... Come andrà a finire contro Lot-Ionan?» «Con una vittoria», replicò Balyndar. «Io non dubito di lei. Se ti beccassi una freccia nella schiena, a che servirebbero la tua azza e il tuo valore?» Boïndil non potè fare altro che annuire, anche se gli costava dargli ragione. Slin si era arrampicato sul granaio e aveva aperto il portello di carico che stava sopra la porta. Era sdraiato sulla pancia, con la balestra davanti a sé e i dardi accanto. Davanti a lui si estendeva la foresta bruciata, in cui parecchie figure si muovevano in direzione delle rovine. I suoi occhi gli permettevano di scorgere bene i nemici nella penombra. A prescindere da come l'apprendista Vot fosse riuscito a unire corpi umani e animali, di certo erano nate delle vere mostruosità. C'era
un massiccio corpo umano che sul torso portava una testa di toro. A qualche creatura, le braccia erano state scambiate con zampe di orso; altre camminavano sulle zampe posteriori di un cavallo, altre ancora avevano tentacoli al posto delle braccia. Slin vide esperimenti ancora peggiori. Vot aveva dato ad animali arti umani, soprattutto teste, e in tre casi, quelle chimere possedevano più di una testa. Gli abiti di quelli che un tempo erano esseri umani pendevano a brandelli; qualche creatura era del tutto nuda, altre invece portavano lunghe vesti lorde di sangue. Al nano, la vista di quei corpi maltrattati e violentati faceva più effetto di quella dei peggiori mostri di Tion. Sapere che un tempo erano state persone vere, e non creature intrinsecamente malvagie, lo avviliva. Mentre mirava al cuore del primo nemico, la sua coscienza gli disse che doveva risparmiarli e cercare un modo per guarire quegli esseri. Coïra forse potrebbe fare qualcosa, fu il suo primo pensiero. Ma non era possibile: la ragazza doveva conservare la sua magia per resistere contro Lot-Ionan. «Vraccas, tu sai che non c'è altro modo.» Slin premette il grilletto.
La punta del dardo penetrò nel petto nudo dell'uomo dalla testa di toro, che cadde alzando nuvolette di cenere. Slin ricaricò. Trecento passi lo separavano dalle orribili creature. È impossibile abbatterle tutte. Non mi basterebbero né le munizioni né il tempo. «Cercatevi un nascondiglio e tenete le armi pronte», gridò nel cortile, rivolto a Rodario e Franek, mentre ricaricava. «Non riuscirò a fermarle tutte.» Uccise una donna con le zampe posteriori di un cavallo, che si stava avvicinando più in fretta degli altri. Strillando, la creatura cadde, perdendo la spada. Due lupi con la testa umana correvano tra gli alberi. Slin ne colpì uno, ma il secondo aveva già raggiunto il portone. «Attenti! Uno sta davanti al portone!» avvertì i compagni, mentre prendeva il corno. Contro quelle creature aveva urgente bisogno dell'aiuto degli Zhadár, altrimenti il suo cammino verso la gloria e le avventure sarebbe finito nelle carbonizzate foreste del Rân Ribastur. Suonò forte il corno e, a quel rumore tonante, qualche creatura si mise a ululare. Slin passò a tirare sulle creature più grosse e
dall'aspetto più pericoloso. In qualche caso le colpiva al cuore, ma cadevano soltanto dopo che altri dardi le avevano colpite in testa. La magia le aveva rese più tenaci. O forse non hanno il cuore al posto giusto, pensò il nano. La sua scelta fece sì che qualche creatura più piccola raggiungesse il portone e vi si raccogliesse davanti. Gridavano e gemevano, abbaiavano ed emettevano rumori spaventosi che facevano correre brividi lungo la schiena di chi le stava ascoltando. Poi si sentì uno schianto e improvvisamente le voci animalesche risuonarono nel cortile. E adesso come faccio? Imprecando, Slin si girò dall'altra parte e mirò alla prima creatura che vide. Rodario e Franek non si erano nascosti. In mezzo allo spiazzo ardeva invece un immenso fuoco, e gli uomini si erano armati di tizzoni infuocati. «Magnifico. I Lunghi vogliono fare gli eroi», mormorò Slin, tirando su una strana bestia in procinto di balzare addosso all'attore. A differenza dei normali animali, quelle creature non si facevano trattenere dalla vista e dal calore delle fiamme.
Dietro il balestriere, qualcosa sferzò attraverso l'aria; una specie di cappio gli si strinse intorno alla gamba. Il nano si girò, mentre posizionava un nuovo dardo. Una creatura dotata di tentacoli si era arrampicata lungo la parete; aveva avvolto un tentacolo intorno alla gamba di Slin, mentre con un altro si teneva aggrappata a una trave di sostegno. «Vieni a me, nano!» ringhiò, e il tentacolo si strinse di più. «Preferisco mandarti qualcosa di mio!» Slin premette il grilletto, ma sbagliò il colpo. Il dardo non trapassò il cuore della creatura, ma le s'impiantò nella spalla. La bestia urlò, trascinando il nano verso di sé. Il secondo tentacolo spezzò in due una trave di legno e ne strappò un pezzo, brandendolo come un bastone. Slin teneva la balestra stretta con entrambe le mani e la brandiva come un piccone contro il tentacolo, ma gli sforzi non bastavano a reciderlo. La creatura piantò un piede sul volto di Slin; il tentacolo intorno alla gamba si sciolse e si strinse intorno al collo del nano.
Il balestriere azionò un secondo meccanismo e sotto la canna della balestra scattò fuori la lama di un pugnale nascosto. Quando la usò per tagliare il muscoloso tentacolo, la creatura indietreggiò. «Non ho bisogno di dardi!» gridò Slin, balzando in piedi e colpendo un'altra volta col pugnale. Ma l'avversario era stato attento. Schivò, e col tentacolo mutilato fece da parte la balestra, mentre l'altro tentacolo sibilava verso la testa del nano. Slin lo scansò, piegandosi, ed estrasse dal cinturone la scure; zoppicò verso destra, per mettere una trave tra sé e la creatura. Sentiva che la gamba per la quale era stato acciuffato era gonfia, quindi non sarebbe riuscito a schivare gli attacchi. Intanto stavano entrando nel granaio altre due creature, anch'esse dotate di tentacoli; a una donna, Vot aveva fornito in aggiunta una testa di cinghiale; l'uomo portava sulle spalle la testa di un orso. In tre si misero a incalzare Slin, spingendolo coi loro tentacoli sferzanti sempre più contro la parete, per privarlo di ogni possibile via di fuga.
Il nano non sapeva più che cosa fare. «Ve la siete cercata», disse, alzando su di loro la scure. «Vi distruggerò!» Con un grido di guerra si gettò contro le creature. Un secondo tentacolo cadde a terra, dimenandosi in una macabra danza. Ma poi quattro tentacoli sfrecciarono verso il nano, avvolgendone torso, gambe e collo. Slin venne sollevato, e subito la spiacevole pressione al corpo si trasformò in un dolore che gli fece venire le vertigini. Voleva gridare, ma la stretta intorno al collo non gli permetteva di emettere neppure il più debole suono. Rodario evitò una zampa d'orso che piombava su di lui e colpì con un tizzone ardente la testa della creatura. Scintille volarono da tutte le parti; il cranio girò di scatto e il collo si spezzò con uno schiocco. La creatura cadde, morta. «Accanto a voi, Franek!» gridò. L'apprendista mago evitò il morso di una testa di lupo e colpì contemporaneamente con due assi, frantumando le ossa che vi finirono in mezzo. Rodario guardò l'ingresso e il portone aperto, attraverso il quale irrompevano altre creature. Slin aveva già chiesto aiuto col corno
ma, se Tungdil e gli Zhadár non si fossero sbrigati, sarebbero giunti troppo tardi. «Ma perché non tira più con la balestra?» «Che fa quel Barbuto, là sopra?» Franek si difendeva con le assi, ma gli aggressori continuavano a farsi avanti. La brama di carne li incalzava, facendo dimenticare loro la paura. Rodario sguainò la spada; dal momento che il fuoco non era di particolare aiuto, ci avrebbe pensato l'acciaio. «E tutto questo soltanto perché la regina mi ha frainteso», mormorò, trafiggendo il ventre di una donna con la testa di cavallo. «A quest'ora potrei essere con lei in riva al laghetto, impegnato in cose piacevoli.» «Laghetto?» Franek trafisse una creatura che era un misto di cane e uomo. «Non quello con la cascata?» «Sì, invece.» «Avete avuto fortuna. In fondo a quel lago vive un altro mostro creato da Vot.» Franek dovette fare un balzo per schivare il colpo di un uomo che, al posto delle mani, aveva delle chele. «Di tanto in tanto esce e si mangia tutto quello che gli finisce fra i tentacoli.»
Rodario gemette. Avrei avuto Coita sulla coscienza. «Vivete in questa regione da parecchio, mi sembra.» «Che altra scelta avevo?» Franek balzò attraverso le fiamme sull'altro lato del falò, per scuotersi di dosso l'avversario, che si rivolse prontamente verso Rodario. L'attore menò un colpo, ma la chela del mostro intercettò la lama e la spezzò con un orribile scricchiolio. «Oh, Samusin e Palandiell! Uno di voi due dovrebbe gentilmente venirmi in aiuto!» Scagliò l'arma distrutta, ferendo l'avversario alla testa. La creatura balzò in avanti con le chele spalancate. Improvvisamente il Rabbioso spuntò davanti a Rodario e sferrò un colpo con l'azza. La parte smussata frantumò la corazza e le chele. «Ah, un uomo-pesce!» Boïndil gli piantò lo spuntone nel collo e strattonò la creatura verso il fuoco. «Che buon profumino! Un po' di condimento sulle chele e abbiamo da mangiare!» Rodario vide gli Zhadár attaccare implacabilmente i nemici. Le creature non riuscirono neanche a capire cosa stesse
piombando su di loro; morirono tutte nell'arco di pochi istanti. «Slin è là sopra!» esclamò l'attore, indicando il granaio. «E non è solo.» «Ce la farà di certo», disse Boïndil, tranquillo. «A incalzarlo là sopra sono bestie gigantesche, più grosse di quelle che c'erano qui», gridò Rodario. Allora il Rabbioso si girò a guardare verso il granaio. «Vado a controllare. I Quarti non sono famosi per essere forti guerrieri.» Sogghignando si affrettò verso la scala d'accesso, abbattendo mentre passava una donna-lince su cui era in procinto di avventarsi Barskalìn. «Ah! Primo!» Rodario era impressionato dalla precisione e dalla velocità degli Invisibili. Il combattimento nel cortile era terminato prima ancora che i mostri se ne rendessero conto. L'improvviso silenzio gli balzò alle orecchie e, mentre si guardava intorno, le creature che, ancora un istante prima, sembravano essere ovunque e dominare il campo, giacevano morte intorno a lui. Tungdil non aveva preso parte al massacro. Stava accanto a Mallenia, che sosteneva Coïra,
e parlava a bassa voce con lei. Franek era sorvegliato da Balyndar. «Altezza!» Rodario corse dalla ragazza, che sembrava sfinita. Coïra alzò gli occhi e lo guardò, incerta; involontariamente si strinse il braccio sinistro più vicino al corpo. «Sto bene. L'attacco dell'apprendista non era mortale.» «Franek ce ne ha parlato troppo tardi. O forse lo ha volontariamente omesso.» Rodario guardò l'apprendista mago, poi Tungdil. «Vi consiglio di parlare con lui. Con voi sembra più ciarliero, e nel frattempo è possibile che la memoria gli sia ulteriormente migliorata.» Una forte risata di nano risuonò dal granaio. Poi si sentirono l'acciaio che colpiva un corpo e un forte grido. «Che succede là?» domandò Tungdil. «Ho mandato Boïndil a fare pulizie», spiegò Rodario. «Credo che Slin si trovasse in difficoltà e il vostro amico sembra proprio essere molto felice di salvarlo.» Di nuovo risuonò la risata del Rabbioso, poi grida furiose e lo schianto di un'azza che colpiva.
Barskalìn diede un ordine agli Zhadár, ma Tungdil lo annullò con un gesto. «No, lasciate che faccia da solo. Deve avere la sua parte di divertimento.» A passi larghi, si avvicinò all'ex allievo di Lot-Ionan. Rodario pregò Mallenia di lasciarlo solo con Coïra. Dopo un rapido scambio di sguardi con la regina, la guerriera seguì Tungdil. Coïra guardò l'attore, intimidita. «Avete...?» «No, non ho detto a nessuno quello che ho visto. E neppure lo farò.» Rodario le prese la mano sinistra. «E al laghetto mi avete frainteso.» «Che c'era da fraintendere?» replicò la ragazza. «Mi avete chiamato 'mostruosità'!» La sua rabbia si dissolse, e le cascarono le spalle. «Ma avete ragione. Lasciate che vi spieghi che cosa avete visto.» «Prima però vorrei che sappiate che cosa volevo dire davvero, prima che correste via», insistette Rodario. «'Che mostruosità vi ha fatto questo, Coïra?' Questo mi sarebbe uscito dalle labbra.» «Nient'altro?» La ragazza cercò il suo sguardo.
«Nient'altro. Voi siete troppo bella, gentile e amabile perché si possa dire qualcosa di diverso sul vostro conto. Avrete modo di sentire quali sentimenti nutro per voi.» Rodario le sorrise e le prese la mano sinistra. «Adesso volete spiegarmi?» Si sentì un grido soffocato, e una bestia volò giù dal granaio, schiantandosi davanti a due Zhadár. Il sangue gli sgorgava dal petto, che era stato perforato più volte. Per un breve istante, il Rabbioso fece capolino per salutare con un cenno e fare così capire che le cose stavano andando bene, poi alzò l'arma e, gridando, fece un balzo verso destra. «Vive per combattere», osservò Coïra. «Il combattimento lo inebria. Ha il sangue caldo. Così è sempre stato raccontato sul suo conto, ed è vero», disse l'attore, sogghignando. Dal granaio si sentì uno schianto, e la voce del Rabbioso che strepitava. «Si diverte a dare la caccia ai mostri.» Coïra prese l'attore a braccetto. «Grazie», sussurrò. «Grazie di aver taciuto e grazie di non deridermi per via del mio braccio.» Sembrava che le riuscisse difficile parlare di quel difetto. «È accaduto praticando la magia. Un
incantesimo mi è come esploso nella mano, deturpandola gravemente. Voi non capireste una spiegazione più precisa, perché non siete un mago, quindi credetemi se vi dico che il residuo dell'incantesimo si è unito con la magia che porto in me e con la mia carne. Per questo motivo non posso curare in modo definitivo la ferita. Minore è la quantità di magia di cui dispongo, più la ferita si riapre. Un incantesimo durevole copre le parti sensibili con una protezione simile al vetro, come avete visto. Porto questi guanti perché nessuno se ne accorga.» Rodario provava profonda compassione per la ragazza. «E se la magia in voi si esaurisse del tutto? Che cosa accadrebbe?» «Il mio braccio sarebbe distrutto.» Coïra fece un eroico sorriso. «Lo perderei per sempre.» «A giudicare dalle condizioni del vostro braccio, credo di poter dire che non possedete più molte energie magiche. Sbaglio?» Rodario guardò rapidamente verso i nani per vedere se erano abbastanza vicini da ascoltare quella conversazione. Una seconda creatura volò giù dal granaio, finendo accanto alla prima. Il cranio era stato
frantumato, e sul fianco destro c'era un lungo squarcio. «Ancora uno!» gridò il Rabbioso, entusiasta. «Ancora uno e ho finito! Ah, che bello... Questi resistono più a lungo dei Musi di porco!» Gli Zhadár scoppiarono a ridere. Coïra fece un profondo respiro. «È vero. La magia in me si è quasi esaurita. Per questo avevo riposto tutte le mie speranze nella sorgente dei Monti Rossi.» Rodario impallidì. «Ma siete in condizione di resistere contro Lot-Ionan?» «Adesso l'ho preso!» gridò Boïndil, e la terza creatura cadde a terra, morta, volando dal granaio. Subito dopo comparve il nano, vittorioso; sorreggeva Slin e aveva un largo ghigno sulla faccia. «Questo era di mio gusto!» esclamò. «Vittorie, mostri e salvare la vita a un compagno d'armi: che cosa si può volere di più da una rotazione?» Strinse Slin, che gemette. «Ehi, Quarto! Scopri i denti e ridi! Sei ancora vivo!» Indicò orgoglioso le tre creature dotate di tentacoli, ormai morte. «Quelle là non lo sono più.» Accompagnò il balestriere accanto al fuoco e lo lasciò cadere vicino a Balyndar e Franek. «Adesso potrei bermi un intero barile di birra.»
Rodario applaudì, simulando allegria. Poi si girò di nuovo verso Coïra. «Vi prego, siate onesta con me. Pensate di poter sconfiggere Lot-Ionan?»
XXIII Terra dell'Aldilà, Forra Oscura, fortezza di Diga-del-male, 6492° ciclo solare, primavera Goda si svegliò di soprassalto. Stanno suonando i corni dell'allarme? Subito venne spalancata la porta e Boëndalin la chiamò ai merli. «La barriera è scomparsa! Le bestie tentano l'assalto alla porta settentrionale!» La maga balzò fuori del letto, si gettò l'abito sopra la camicia da notte, s'infilò gli stivali e seguì il figlio. Doveva essere all'incirca mezzanotte, si era sdraiata da poco. Prese con sé anche il mantello e la borsa con le ultime quattro schegge di diamante. Non aveva rivelato a nessuno le condizioni in cui versavano le loro difese magiche, neppure ai suoi figli. Nonostante le perdite elevate, la sortita era stata festeggiata come una vittoria, anche per rendere debitamente onore ai guerrieri morti. Certo, le creature della Forra Oscura avevano cominciato a ricostruire le macchine da guerra, ma lavoravano più lentamente di prima. Davano
l'impressione di essere sfinite. E ciò aveva dato nuove speranze ai difensori. L'apparenza ha ingannato, pensò Goda, salendo col nano sul montacarichi che li avrebbe portati in cima alla torre. Ci hanno ingannato, facendoci abbassare la guardia. Vide gli spalti e la grande torre sovrastante il portone illuminati a giorno. Erano state accese molte torce; dalle feritoie nelle mura si riversavano fiotti di pece bollente e scorie metalliche fuse sulle bestie assedianri. Frecce, giavellotti e conci di pietra venivano scagliati dalle catapulte e dalle baliste, ma Goda poteva solo immaginarli; si trovava troppo lontano per scorgerli. Sacchi infuocati, pieni di petrolio, precipitavano in basso e si disfacevano tra i mostri trasformandoli in fiaccole viventi. Frecce incendiarie sibilavano qua e là tra aggressori e difensori, facendosi strada attraverso le nubi di fumo nero scuro. Era una scena impressionante. Ma i mostri non si lasciavano scoraggiare da quel bombardamento. In diversi settori erano stati già posizionati piccoli arieti mobili; producevano un rumore che, per via della distanza, alle orecchie di Goda sembrava un leggero bussare. Anche le grida dei mostri
diventavano un monotono rumore di sottofondo che le ricordava il mormorio di un torrente. La barriera magica era scomparsa, ma sulla pianura non c'erano più bestie. Correvano tutte verso la porta settentrionale, perfino con torri d'assedio pronte solo per metà. Perché proprio la porta settentrionale? si chiese Goda. Per distoglierci dalla porta meridionale? Si piegò in avanti, guardando in basso. «All'inizio pensavamo a un tranello», disse Boëndalin. «Ma le altre torri non hanno annunciato nessun attacco. Le bestie si stanno gettando a nord come se fossero impazzite e stanno mettendo in difficoltà le truppe. Ho ordinato di spostare là guerrieri e munizioni.» «Voglio vedere da vicino.» Goda osservava la Forra Oscura, mentre col figlio correva sul camminamento, prima verso gli spalti occidentali e di là verso quelli settentrionali. Il tragitto era molto lungo. Nella spaccatura rocciosa che costituiva la Forra Oscura era buio, deserti i sentieri che ne uscivano. Tutti i mostri si erano già raccolti a nord.
«O i rincalzi attendono di vedere che cosa accade stando al coperto, oppure non hanno altri guerrieri», le disse Boëndalin, dopo aver visto in che direzione guardava la madre. «La porta settentrionale comunque non è una cattiva scelta da parte loro, perché era il punto in cui meno ci attendevamo un assalto.» «Ma loro sanno che sui camrninamenti e attraverso i corridoi ricavati all'interno dei muri riusciamo a spostare rapidamente i rinforzi», obiettò la madre. «È un diversivo.» Osservò il combattimento, che era aumentato in violenza. Se non fosse stata profondamente convinta del fatto che si trattava di una finta, avrebbe anche creduto a quello che vedeva. «Dov'è il loro mago?» «Non lo abbiamo scorto», rispose Boëndalin, teso. «Pensi che...?» «Il diversivo è per lui», affermò Goda. «Ha in mente qualcosa. Vuole impegnare le nostre forze su un lato.» Guardò verso la porta meridionale e si fermò. «Io torno indietro. Tu va' alla porta settentrionale e comanda le truppe. Avvertimi, se dovessi avvistare il mago.» Gli diede un breve abbraccio e corse via. Boëndalin si lanciò nella direzione opposta.
Bandaál si allacciò gli stivali e si gettò addosso la cotta di maglia; poi afferrò l'ascia e corse fuori nel corridoio. Anche se nessuno lo aveva chiamato a partecipare alla difesa, l'apprendista voleva esserci. Forse presto ci sarebbe stato bisogno di ogni braccio. «Aspetta!» La porta delle stanze di Sanda era aperta, e ne uscì la nana. Anche lei portava armatura e scure. Erano dotati per la magia, ma ciò non impediva loro di lasciar parlare anche le lame. Ancora non erano bravi come la madre, da permettersi di confidare nella sola magia. «Non hanno svegliato nemmeno te?» Bandaál le aggiustò l'elmo. Sanda ricambiò correggendo l'allacciatura della cotta di maglia del fratello. «No. Mamma voleva lasciarci dormire.» Lui la guardò. «O è per il fallimento della sortita?» «Non è stato un fallimento», replicò la nana, con orgoglio. «Abbiamo distrutto numerose bestie e i loro apparati.» Bandaál sospirò. «Tu sai cosa intendo.» Si mise a correre.
«Tu pensi che preferisca Boëndalin e i nostri fratelli guerrieri. È possibile.» Sanda prese in mano la scure, perché infilata nel cinturone le disturbava la corsa. «Per questo trovo importante che ci facciamo vedere.» Si affrettarono lungo il corridoio in cui si trovavano le porte che conducevano alle stanze dei membri della loro famiglia. In fin dei conti, Diga-del-male non era altro che una montagna artificiale costruita in modo simmetrico e dotata di un sistema di cunicoli e stanze. Corsero attraverso la grande sala adibita a soggiorno, in cui spesso si riunivano per discutere gli eventi della rotazione; più avanti, passarono attraverso la cucina, e alla fine raggiunsero il montacarichi, il cui pozzo partiva dal livello del suolo e raggiungeva i merli più alti. Bandaál azionò la leva che metteva in moto i contrappesi e chiamava il montacarichi al loro piano. «Che cosa avranno escogitato i mostri?» «Dev'essere qualcosa di grave, se hanno dato l'allarme a tutta la fortezza», disse Sanda, pensierosa. «Tranne che a noi.» Bandaál decise che, dopo l'attacco, avrebbe scambiato qualche parola con la madre. Anche quando Goda non
voleva nessuno dei suoi apprendisti nei paraggi, lui e sua sorella dovevano essere informati degli attacchi. Cosa avrebbero pensato i soldati se, mentre i figli del grande Boïndil Duelame dormivano nel loro letto, veniva versato il sangue dei difensori? La cabina comparve davanti a loro, che spinsero da parte la grata di chiusura ed entrarono. Ma, con sorpresa di entrambi, il montacarichi scendeva, anziché salire come Bandaál aveva comandato regolando le leve. «Che sia guasto?» Il nano mosse le leve più volte, e la corsa si fece sempre più lenta. «Forse qualcuno vuole salire con noi?» Sanda contava i contrassegni che sfilavano sulla parete del pozzo; avevano raggiunto il piano terra. Tra gli scossoni, il montacarichi si fermò, ma nel corridoio non c'era nessuno. «Dove siamo?» «All'uscita.» Sanda sbirciò in avanti. «Ehilà? Qualcuno vuole salire con noi?» Improvvisamente la cabina fu attraversata da una forte scossa. Una delle spesse catene di trasporto si era spezzata e si stava ammucchiando sul tetto del montacarichi. La
struttura a forma di gabbia gemette e si piegò sotto il peso crescente. «Fuori!» ordinò Bandaál, dando uno spintone alla sorella. Prima che lui potesse seguirla, la seconda catena si spezzò, e il montacarichi precipitò nell'oscurità. Sanda barcollò per un paio di passi nel corridoio, sentì lo schianto infernale alle sue spalle e si girò. Vide la seconda catena cadere e percepì il rumore dell'urto; il tamburo dell'argano continuava a svolgere la catena, seppellendo il montacarichi che era caduto giù sino alle fondamenta della fortezza. «Bandaál!» gridò la nana, terrorizzata, affacciandosi al pozzo. Un ultimo sferragliare, e poi ci fu silenzio. Molto più sotto, Sanda scorse lo scintillio della cabina distrutta e degli anelli della catena. «Bandaál!» La nana si girò e fece per correre verso la scala, quando qualcuno chiamò il suo nome. Veniva dal pozzo. Lei si girò, svelta, si sporse nel pozzo e mise le mani a imbuto intorno alla bocca. «Bandaál! Resisti!»
Un chiarore color ocra che cadeva su di lei dall'alto le fece alzare la testa. Raggelata dalla paura, non riuscì più a distogliere gli occhi. Cinque passi sopra di lei, in aria, stava sospeso il comandante dei mostri. Innumerevoli dita di luce danzanti prorompevano dalla sua armatura di vraccasio, colpendo le pareti del pozzo, mentre il mago proseguiva lentamente la sua discesa. Aveva i martelli infilati nel cinturone; la manopola destra brillava e stringeva un anello d'acciaio incandescente, spezzato. La caduta del montacarichi non era stata un incidente. I raggi lo tennero sospeso sino a farlo scendere all'altezza di Sanda. Poi il mago si mosse verso la giovane nana. Una mano afferrò il mento di Sanda, costringendola a fissare la faccia deforme del suo avversario. La nana notò che, nel lato interno del guanto corazzato, era incastonato un diamante color turchese, torbido come fumo. Sul volto di Sanda c'era il terrore, ma la sua gola non riusciva a emettere nessun suono. Il volto del mago si mosse; le pieghe intorno agli occhi sembravano indicare un sorriso, anche se la sua mutilazione gli rendeva impossibile
mostrare o esprimere emozioni. Il nano accarezzò i capelli castani di Sanda, poi il collo e il petto fino a giungere alla vita. Quindi si alzò, senza lasciare la presa sul mento, e la tirò in piedi. Sanda non riusciva a difendersi. Quella vista, il tanfo di sudore e di ferite suppuranti, e la leggera pulsazione che l'attraversava da quando il mago l'aveva toccata, la paralizzavano. In modo inconscio, la nana registrò che i poteri magici dell'avversario superavano tutto ciò che fino ad allora aveva avuto modo di sentire. Nemmeno l'artefatto lo superava. Il nano deforme emise una specie di gemito, poi guardò dentro il pozzo e distese la mano libera. Dal diamante di fumo partì un raggio rosso che distrusse completamente quello che restava del montacarichi. L'attacco magico disciolse il metallo, lo piegò e lo fece cadere a terra in gocce incandescenti. «No!» gridò Sanda, sconvolta. Il mago le lasciò il mento e la colpì con forza alla guancia destra, facendola sbattere contro la parete e di là scivolare a terra. Contemporaneamente alzò l'altro braccio, senza
interrompere il flusso del raggio rossiccio, e fece crollare parti del pozzo, finché un tremito ammonitore non corse lungo le pareti circostanti. Afferrò Sanda per la nuca e la tirò in piedi, spingendola davanti a sé. Non appena lei accennò una resistenza, le impartì un colpo magico che le riempì di dolore ogni singolo organo. La nana prese a singhiozzare; il sangue le scorreva dalla tumefazione al mento, gocciolando a terra. Si domandò che cosa il mago avesse in mente per lei e perché non l'avesse già uccisa. Quando lui la spinse in un corridoio laterale e si mise a trafficare coi suoi abiti, i peggiori timori di Sanda divennero realtà. Goda aveva raggiunto la porta meridionale, quando le mura sotto i suoi piedi ebbero un tremito. «Me lo sentivo!» Corse al montacarichi e si trovò davanti un pozzo vuoto. Sebbene trafficasse con le leve, non accadeva nulla. Quando guardò i cilindri di pietra intorno ai quali si avvolgevano le catene, vide soltanto nuda pietra.
Un nano giunse di corsa su per le scale. «Signora, il montacarichi è crollato!» disse, trafelato. «Si sono spezzate entrambe le catene.» «Questo non è possibile! Sono in grado di reggere un peso superiore a quello che si potrebbe caricare nello spazio della cabina.» La maga prese una delle schegge di diamante. «Chiama le guardie. Devono perquisire tutti i piani. Io comincio dalle fondamenta.» «Cosa devono cercare?» «Intrusi.» «La porta è chiusa, e nessuno...» «Fallo!» ordinò Goda, poi si precipitò giù per le scale. Avrebbe impiegato parecchio tempo per arrivare sotto il livello delle mura. Sarebbe stato imperdonabile costruire la fortezza semplicemente sulla sabbia o sulla terra, perché sarebbe potuta affondare o slittare per via del peso, e ciò avrebbe messo in pericolo l'intera costruzione. Per tale motivo, Diga-delmale disponeva di fondamenta in conci di pietra che erano stati posati sul luogo con l'ausilio di molta tecnica e forza muscolare. Sul lato della Forra Oscura, le fondamenta erano state ulteriormente rinforzate e messe al sicuro da
possibili infiltrazioni sotterranee con delle trappole: bottìglie contenenti veleno, acidi o gas; muri apparenti che crollavano e altri meccanismi attendevano gli scavatori e avrebbero portato loro la morte. Nessuno poteva minare una fortezza di nani. Goda arrivò di corsa al pianterreno, scivolando malamente sull'ultimo gradino; stava quasi per non accorgersi di una leggera macchia di sangue sul pavimento. Si fermò e tese le orecchie in direzione del corridoio. Sentì un debole piagnucolio: la voce di Sanda! La maga si mosse di soppiatto lungo il corridoio, mentre il pianto si faceva più forte e sembrava provenire da un corridoio in discesa. Con prudenza, si protese oltre l'angolo e vide il mago nemico che cercava di spogliare Sanda. Goda deglutì e strinse una scheggia di diamante così forte da forarsi la pelle. Non poteva permettere che la paura prendesse il sopravvento. La posta in gioco era troppo alta. Vraccas, il mio destino e quello di mia figlia sono nelle tue mani! Balzò oltre l'angolo e scagliò un incantesimo contro il mago. Lui la notò troppo tardi per poter lanciare un controincantesimo. Invece buttò Sanda nel
corridoio, tirò indietro le braccia e offrì il petto corazzato al raggio rosso. L'energia lo colpì, e l'armatura del nano divenne incandescente. Il vraccasio cambiò colore e assorbì la magia, mentre le rune diventavano nere come la notte. «Uccidilo, Sanda!» tuonò Goda, cui restava solo polvere tra le dita. Rapida, prese un'altra scheggia, per incalzare il nemico o affrontarne il contrattacco. Ma ciò che aveva appena visto affievoliva le sue speranze di poter sconfiggere il nano. Il bagliore si spense e Goda vide Sanda dietro il nemico, con la scure levata, pronta a colpire. Il colpo passò attraverso la sottilissima fessura tra la piega del collo e l'attaccatura dell'elmo, poi la lama sbatté contro la cotta di maglia. Il mago piegò leggermente le ginocchia, con un gemito di dolore. «Salva Bandaál!» gridò Sanda, alzando il braccio per colpire di nuovo. «È nel pozzo...» Il mago colpì all'indietro, sbattendo la manopola contro la tempia destra di Sanda, che crollò a terra. Goda non esitò. A quel punto, con la figlia che non si trovava in immediato pericolo, lanciò uno dei suoi incantesimi più potenti. Era quello
con cui aveva fatto crollare la montagna sopra la Forra, e sperava che bastasse contro il nano. Deve bastare! Il mago rimase rannicchiato e distese il braccio verso Goda, come se implorasse pietà. Ma l'energia confluiva nel diamante di fumo incastonato nella manopola, e lo trasformava in una scintillante pietra verde-blu. Il metallo si scaldò; si sentì odore di carne bruciata, e il nano gemette come Goda non aveva mai sentito gemere una creatura vivente. Di nuovo, un frammento di diamante si trasformò in nera polvere tra le dita della nana, e il raggio magico s'interruppe. «Non ti lascerò uscire vivo da Diga-del-male», gridò Goda, portando la mano alla borsa. Le dita frugarono senza trovare nulla. A parte uno strappo. «No!» Il mago si lamentava orribilmente mentre fumo denso usciva dalle giunture della manopola, ma era sopravvissuto al colpo. Ormai Goda disponeva soltanto della personale riserva di magia cui attingere. «Ti schiaccerò!» ringhiò, alzando le braccia. «Non abbiamo bisogno né del falso Tungdil né di LotIonan per...»
Il nano appoggiò la mano fumante sul petto di Sanda, tenendo lo sguardo colmo d'odio puntato sulla maga. Con la sinistra si toccò una runa sull'armatura, e una trasparente sfera gialla circondò entrambi. L'istante successivo, i due erano scomparsi insieme con la sfera. «Vraccas, no!» sussurrò Goda, terrorizzata, correndo nel punto in cui il mago si trovava un istante prima. A parte il sangue della figlia, la scure, un brandello della sottoveste e frammenti carbonizzati, non c'era più nulla. «Come ha fatto?» S'inoltrò di corsa nel corridoio, tornando al ramo principale, guardò nel pozzo... Niente. Risuonarono passi, mentre un reparto di guerrieri nani scendeva dalle scale. «Signora, che cos'è successo?» «Cercate mia figlia», ordinò Goda, balbettando. Poi si ricordò di cosa le aveva detto Sanda. «No! Correte alle fondamenta e cercate Bandaál, nel pozzo. Forza!» gridò fuori di sé, gettandosi di corsa su per le scale. Si mise a cercare nel punto in cui era scivolata e trovò una delle schegge. Se fosse stato necessario, avrebbe fatto setacciare la zona da un'intera unità di soldati.
Col frammento di diamante che aveva trovato, corse giù sino in fondo alle scale, dove i guerrieri rovistavano tra i rottami. Le pareti della cabina si erano fuse con le catene; un calore spaventoso aveva saldato insieme i diversi elementi di acciaio, e sopra vi gravavano enormi pezzi che si erano staccati dalle pareti del pozzo. «Lasciatemi passare!» Resa folle dalla preoccupazione, Goda prese a frugare tra le macerie, bruciandosi le dita sul metallo caldo, senza però mollare finché non scorse una mano lorda di sangue. «Bandaál!» Cominciò a tirare via i pesanti rottami che lo seppellivano. Il metallo fuso lo aveva mancato per una fortunata coincidenza. Sempre più nani e ubari si raccoglievano intorno alla maga, con funi e attrezzi di scavo. Insieme, riuscirono a creare nella massa di metallo e pietra una nicchia attraverso cui Goda spinse una candela. «È ancora vivo!» annunciò la nana, piangendo per il sollievo. «Vedo che respira!» Si sentì un forte schianto, sopra di loro; piovve della polvere, seguita da piccole pietre. Il
pozzo, duramente provato, minacciava di crollare. «Dobbiamo andarcene di qui, signora!» Un ubari l'afferrò per una spalla. La nana lo fulminò con lo sguardo. «Non mi toccare! Prima dobbiamo liberare mio figlio.» «Attenti, là sotto!» gridò qualcuno dalla sommità del pozzo. «I puntelli non reggono più!» Goda guardò la scheggia di diamante. Non ho scelta. È quasi un mago. Ed è mio figlio. Chiuse gli occhi e pronunciò un incantesimo. Come mosse da una mano spettrale, le macerie si sollevarono, frammenti piccoli e grandi, pesanti e leggeri, fino a che il corpo di Bandaál non fu dissotterrato. Tre nani tirarono fuori dal pozzo l'apprendista gravemente ferito e lo portarono in fretta su una barella, al sicuro. Anche Goda indietreggiò, prima di lasciar cadere l'incantesimo. Sopra di loro si udì un brontolio, poi altri conci di pietra piombarono a terra. Una grigia nube seguì il crollo della parete del pozzo e s'infilò nel corridoio. I soldati e la maga vennero coperti dalla testa ai piedi da una densa cortina di polvere.
Goda aprì la mano e lasciò che i resti della scheggia di diamante si mescolassero con la polvere. Poi corse dietro la barella, chiedendosi se dovesse preoccuparsi più per Bandaál o per Sanda. Terra Nascosta, ex regno del Rân Ribastur, 6492° ciclo solare, primavera Coïra abbassò lo sguardo. «Se Lot-Ionan non sarà terribilmente indebolito da Aiphatòn e dagli albi, non ho speranze di batterlo», sussurrò. «Ho pregato gli dei di farci trovare una selvaggia sorgente della magia non ancora scoperta! Forse saranno comprensivi e faranno accadere un miracolo.» Rodario indicò di nascosto Franek, che era circondato dai nani e parlava con Tungdil e Boïndil: sembrava intimorito e si difendeva tenendo le mani alzate contro gesti ostili. «Potrebbe essere lui questo miracolo.» Le riferì che cosa gli aveva raccontato l'apprendista ripudiato. «Mi sono appena imbattuta in quel Droman», disse la ragazza, appoggiandosi a Rodario, contenta che il malinteso tra loro si fosse chiarito. «Mi ha lanciato alle spalle un incantesimo stordente e, quando ha capito che
non ero sola, mi ha trascinato nella radura. Ma lo hanno sconfitto.» «Sì, ho saputo che gli è andata male.» L'attore le appoggiò una mano sulla spalla, per consolarla. Coïra annuì. «È così.» Si godeva la vicinanza dell'uomo, ma cercava con lo sguardo Mallenia, che stava raggiungendo i nani. Era un po' a disagio, perché conosceva i sentimenti dell'amica. Decise di raccontare la verità all'attore. «Rodario, voglio dirvi una cosa», cominciò, ma in quel momento Tungdil si voltò e fece un cenno nella loro direzione. «Non dimenticatevi quello che dovete dirmi», disse Rodario. «Però adesso siamo attesi dal nostro comandante.» Aiutò la ragazza ad alzarsi, e insieme superarono il falò e raggiunsero i nani. Tungdil fece loro posto. «Franek è molto dispiaciuto di essersi dimenticato di dirci dell'apprendista che lo aveva inseguito.» «Gli dispiace così tanto che vorrebbe farci da guida», aggiunse Boïndil. «Non ci fidiamo del piccolo stregone principiante qui presente, ma, se ci attirerà in una trappola, morirà.» Diede una
pacca sulla schiena di Franek. «A te va bene, no?» «Sì», rispose l'apprendista, tossendo. «Farò qualunque cosa per far pagare a Lot-Ionan il suo tradimento e la sua ingratitudine nei miei confronti.» Guardò i presenti. «Visto che voi non credereste a nessuno dei miei giuramenti, non giurerò affatto. Ma vi dico: l'odio che proviamo per lui ci unisce. Questo è più forte di qualunque altra cosa.» «Odio?» Rodario fece una faccia stupita. «Il nostro progetto era...» «Di farla pagare al mio padre adottivo, che è diventato un uomo tanto malvagio e ha potuto fare una cosa del genere alla mia patria», disse Tungdil. «Ho giurato di ucciderlo, ricordati, attore. Contro la vostra volontà.» Rodario si diede subito un buffetto sulla fronte, perché aveva capito che veniva recitata una commedia a beneficio dell'apprendista. «Mi passa continuamente di mente che voi lo volete a tutti i costi uccidere!» esclamò. «E avete tutte le ragioni per farlo.» Franek si lasciò ingannare, o almeno non mostrò apertamente di nutrire dubbi. «E
rimaniamo intesi che avrò accesso alla sorgente?» «Solo dopo Coïra, maghetto», sottolineò Boïndil, minaccioso. «Dovrai aspettare finché non sarà il tuo turno.» «Questo non m'importa. La sorgente possiede energia sufficiente per migliaia di maghi.» Franek si grattò il mento irsuto. «Sarà una bella sensazione. Dopo così tanto tempo.» «Mettiti a dormire. Partiamo domattina presto.» Tungdil mise uno Zhadár di guardia. Poi si allontanò dall'apprendista e chiamò a raccolta Boïndil, Rodario, Barskalìn, Mallenia e Coïra. «Lo ha mandato il destino.» Mallenia congiunse le mani e cercò un masso su cui sedere; l'uno dopo l'altro si lasciarono cadere tutti. «Non pensate che sia una raffinata trappola del mago?» «No. Lot-Ionan non sa che stiamo arrivando», obiettò Tungdil. «Se lo sapesse, ci avrebbe messo alle calcagna tutti i suoi apprendisti, non uno soltanto.» «Droman. È così che si chiamava?» Coïra si appoggiò una mano sulla schiena, nel punto in cui l'incantesimo l'aveva colpita. «Non era malaccio.»
«Ma nemmeno bravo abbastanza», disse Boïndil, sogghignando. «Il Sapientone l'ha stracciato.» Poi si accorse di non avere davvero visto la fine dell'apprendista, perché era rimasto abbagliato. «Ho parlato con Franek, e la sua storia sembra credibile», continuò a spiegare Tungdil. «È uno di quelli che recuperarono la statua di Lot-Ionan dalle rovine del palazzo di Porista. Tuttavia non ci siamo mai conosciuti. All'epoca avemmo a che fare con altri tre apprendisti: Risava, Dergard e Lomostin.» Il Rabbioso era stupito di come Tungdil ricordasse bene quegli eventi fin nei dettagli. Sebbene anche lui ricordasse ancora perfettamente la caccia alla statua e la comparsa di Ranocchietto per rubarla, nemmeno per tutto l'oro della Terra Nascosta sarebbe riuscito a ricordare i nomi degli apprendisti. Tungdil si guardava la punta delle dita. «Ho chiesto a Franek di darmi una spiegazione del cambiamento di Lot-Ionan. Mentre mi descriveva come il mago si vestiva, come si comportava e come parlava, ho dovuto pensare a Nôd'onn.»
«Un'altra volta, no! Abbiamo già sconfitto quel male. È impossibile che quel demone sia ritornato.» Boïndil finse d'impugnare l'azza. «Tu hai preso la Lama di Fuoco e hai spaccato la nebbia... cioè, la creatura che sembrava una nube di fumo.» «Ti ricordi che all'epoca ci siamo tutti chiesti chi mai poteva aver praticato un foro nella statua di Lot-Ionan?» «Qualcuno che aveva cercato di ucciderlo? Di spillargli la magia?» Il Rabbioso alzò le spalle, ma poi spalancò gli occhi. «No, gli hanno infilato dentro qualcosa! Per Vraccas! Gli hanno piantato dentro il seme del male mentre non si poteva difendere e, quando noi lo abbiamo svegliato, il seme dentro di lui è germogliato.» Tungdil annuì. «Franek dice che Risava era stata sul punto di ucciderlo quando lui si era opposto al suo piano. Lei voleva che Lot-Ionan, dopo la liberazione, diventasse malvagio.» Il viso di Boïndil si fece pensoso. «Sto cercando d'immaginarmi che cosa si deve mettere in un uomo perché diventi malvagio. Come può essere successa una cosa del genere?»
Coïra annuì. «Neanch'io riesco a immaginarlo.» «Non rompetevi la testa. Non potete saperlo.» Tungdil raccolse da terra un sassolino. «Risava aveva trovato a Porista una scheggia del cristallo di malachite che un tempo era appartenuto a Nôd'onn. Quando Franek le portò Lot-Ionan pietrificato, Risava fece un buco nella statua e vi mise dentro le ultime vestigia del male. Lot-Ionan non ebbe mai un'occasione di difendersi.» Il Rabbioso raspò col piede sopra la terra coperta di cenere. «Questo significherebbe che Lot-Ionan in realtà è innocente. Agisce così perché è posseduto.» Che seccatura! Allora non possiamo dargli addosso liberamente... «Questo avremmo potuto pensarlo anche di Nudin, quand'è stato trasformato in Nôd'onn», ribatté Mallenia. «Non ci esonera dal contrastarlo.» «Abbiamo bisogno di lui contro Vraccas», dichiarò Tungdil. «Contro il tuo maestro, Sapientone. Non Vraccas. Vraccas è il mio creatore, ma il nano che vogliamo uccidere non ha nulla di divino.» Boïndil guardò l'amico. «Non possiamo
strappare questa scheggia a Lot-Ionan? In modo che ritorni buono?» Tungdil scosse la testa. «Anch'io preferirei che fosse possibile liberarlo prima dalla maledizione. Ma abbiamo bisogno di un mago malvagio per battere il mio maestro Vraccas.» Coïra si pulì il naso con un fazzoletto. «Spero che prima o poi ci riesca di liberarlo dalla scheggia.» «Io so dove si trova. Per Lot-Ionan sarà doloroso, ma sopravvivrà. Con Goda e voi, regina, avremo due maghe sul posto coi loro incantesimi curativi, qualora dopo l'intervento le cose si dovessero mettere male.» Tungdil guardò i suoi compagni. «Non dobbiamo dire nulla a Franek delle nostre vere intenzioni. Deve pensare che vogliamo uccidere Lot-Ionan per liberare la Terra Nascosta. Se dovessimo togliergli questa prospettiva, potrebbe decidere di non appoggiarci più.» Il Rabbioso corrugò la fronte. «Va bene, ma non dovremo lasciare che s'immerga nella sorgente, Sapientone! Chissà quali bassezze si nascondono in lui... Potrebbe anche essere stato lui a spingere la scheggia di malachite dentro il mago. Non mi fido della parola di un traditore.»
«Anch'io sono contrario», disse Rodario, raccogliendo il consenso di Mallenia. «Dovremmo piegarlo e incatenarlo non appena raggiunta la destinazione. Poi dovrebbero essere i Secondi a giudicarlo: ha partecipato alla distruzione della loro patria e se n'è reso colpevole.» Guardò verso Boïndil. «Non penso che vogliate lasciare una cosa del genere impunita.» «No di certo!» Il Rabbioso batté la mano sull'azza. «Occhio per occhio.» Tungdil squadrò l'amico. «Tu lo sorveglerai, Rabbioso. Franek ha poca fiducia in noi, esattamente come noi l'abbiamo in lui. E di certo potrebbe rompere questa comunione d'intenti prima di quanto vorremmo. Se dovesse cercare di scappare, sai quello che devi fare.» Guardò Coïra. «Per voi vale la stessa regola di prima: non impiegate la vostra magia. Avete visto che riusciamo a tenere alla larga i nemici anche senza di voi.» La ragazza annuì. Non aveva intenzione di rivelare il proprio segreto, e strinse forte la mano di Rodario affinché non lo facesse neppure lui. L'attore la guardò stupito, ma non disse niente.
Tungdil indicò la casa dietro di loro, mentre chiamava a sé uno Zhadár e si faceva portare lo zaino dell'apprendista morto. «Riposate. Domattina proseguiremo il viaggio. Purtroppo l'incontro con Droman ci costringe a procedere più in fretta. Lot-Ionan si chiederà sicuramente dove sia finito il suo apprendista e manderà qualcuno a cercarlo. Sicuramente ha ai suoi comandi qualche creatura che può metterci tutti in difficoltà: lo sappiamo da quand'è caduta Seenstolz.» L'imperatore srotolò alcune mappe sulle ginocchia e fece segno a Barskalìn di affiancarlo. «Noi cerchiamo il tragitto più breve.» Mallenia si alzò. «E se dovessimo arrivare prima degli albi?» Tungdil stava già scorrendo le carte. «Andiamo comunque nel regno di Lot-Ionan. Non abbiamo più tempo da perdere.» «Così all'improvviso?» si stupì Rodario. «Così all'improvviso.» Tungdil non disse di più, sprofondando nell'esame delle carte. Perplesso, il gruppo si ritirò nella casa, Coïra andò da Mallenia, che si era trovata un angolo nel granaio e stava stendendo la sua
coperta. «Volevo ringraziarvi per essere venuta a cercarmi.» «Voi avreste fatto lo stesso per me.» Mallenia si sdraiò e cercò una posizione comoda, poi si coprì col mantello. Osservò a lungo la maga. «Non penserete che vi avrei piantato in asso per via della nostra rivalità in amore?» Coïra abbozzò un sorriso. «Avete un vantaggio, per quanto riguarda la conquista. Ho visto che prima gli avete preso la mano e che lui non l'ha rifiutata.» Mallenia si appoggiò sui gomiti. «Quando al laghetto ho detto che potevamo dividerlo, parlavo seriamente. Dipende da voi.» «E da Rodario», obiettò Coïra. «È un uomo. Gli piacerà avere due donne», ribatté Mallenia, lasciandosi sprofondare nel duro giaciglio. «Di lui mi preoccupo di meno.» Incrociò le braccia dietro la testa. «Nel Tabaîn ci sono delle regioni in cui è assolutamente consueto che un uomo abbia il numero di mogli che desidera, a patto che riesca a mantenerle e a provvedere per loro. Nel pensiero in sé non vi è nulla di disonesto. O voi la vedete diversamente? Non siamo costrette a farlo.»
Coïra non sapeva cosa dire. Com'era naturale, nel Weyurn si conoscevamo le usanze del vicino Tabain, ma lei aveva sempre ritenuto difficile quel tipo di convivenze. Inoltre lei stessa non vedeva chiaro riguardo ai suoi sentimenti verso Rodario. Era una cotta o qualcosa di più? Sarebbe stata pronta a dividere con un'altra il grande amore? E, in fondo, perché avrebbe dovuto farlo? «Non ho avuto l'impressione che Rodario vi trovi attraente. Non tanto da rimanere con voi», disse, risultando sfacciata, con sua stessa sorpresa. Era la gelosia a parlare. Mallenia, che fino a quel momento era sembrata amichevole, fece una smorfia. «Capisco. Volete fare un esperimento e vedere se si sente attratto più dall'una o dall'altra.» Coïra sospirò. «Che facciamo se non volesse nessuna di noi due?» «Nessun uomo rifiuterebbe come amante una principessa o una regina. Ce lo divideremo. A lui lasceremo credere che riesce a far fare quello che vuole a tutte e due.» Mallenia guardò Rodario, che chiacchierava con Slin. «Dunque, mi vorrete male se cercherò di baciarlo un'altra volta?»
«Se lui vi dicesse che ama solo me, smettereste di stargli addosso?» replicò Coïra. «Se di propria iniziativa me lo dicesse e lo giurasse, lo lascerei tutto per voi.» Mallenia tese la mano. «Siamo d'accordo?» La maga esitò. «Non ci saranno rancori tra noi se una delle due dovesse lasciare il campo da sconfitta?» «No.» «E non ci divideremo nemmeno per questo?» «No, regina del Weyurn», rispose Mallenia, sorridendo. «Porteremo a termine con successo la nostra missione, e poi i nostri regni saranno in contatti più stretti che mai. Questo giuro sul mio antenato, il principe Mallen von Ido.» Le porse la mano un'altra volta. «E Rodario non verrà a sapere mai nulla dei nostri accordi?» Mallenia rise. «No, per gli dei! Altrimenti si sentirà ferito nella sua virilità.» Alla fine, Coïra le strinse la mano. «Allora, così sia.» Le due donne si abbracciarono e si scambiarono la buonanotte.
Rodario gettò uno sguardo nella loro direzione. «Ma che succede là?» si chiese. Slin tese la sua balestra e l'appoggiò contro la parete, accanto al portello, in modo da poterla afferrare in qualunque momento. «Femmine. Tramano sempre qualcosa. E noi maschi subiamo.» Sogghignò e porse all'uomo la borraccia con la grappa. «Voi siete un nano saggio, Slin», replicò Rodario. Poi prese la borraccia e bevve.
XXIV Terra dell'Aldilà, Forra Oscura, fortezza di Diga-del-male, 6492° ciclo solare, primavera Goda pregò Vraccas più a lungo del solito. Non appena si alzò il sole, trascorse molto tempo davanti al piccolo reliquiario e implorò in ginocchio il suo creatore affinché aiutasse Sanda, che supponeva essere tra le bestie, prigioniera del terribile mago. «Distruggilo!» pregò in un sussurro, con le lacrime che le scorrevano sulle guance, attraverso la fine peluria. «Distruggilo col tuo martello, gettalo nella brace e bruciane l'anima fino a ridurla a nulla. Ti ha ripudiato e trama il peggio.» La nana si alzò. «Tu sai che noi difendiamo gli umani e tutti gli altri popoli in tuo nome. Non permettere che Boïndil e io veniamo ripagati in questa maniera.» S'inchinò davanti alla statuetta di Vraccas, fatta di puro vraccasio, e lasciò la stanza.
Nel corridoio, le corse incontro un messaggero. «Signora, hanno mandato un negoziatore. Sta davanti alla porta meridionale.» Goda cominciò a correre. Poco dopo uscì dalla porta semiaperta e raggiunse il bordo della barriera rossa. Il cuore le batteva forte nel petto. Dall'altra parte, c'era un mostro dall'aspetto simile a un essere umano, ma che superava un uomo adulto di due teste ed era due volte più muscoloso. Aveva tre braccia - una a destra, una a sinistra e una nel petto - e nelle mani teneva due scudi a torre e una lunga lancia. Alla bestia non era stata concessa un'armatura: ad avvolgere il corpo erano solo più strati di abiti di pelle, e l'odore era disgustoso. «Colui che ha molti nomi ed è il nostro signore ti manda a dire, incantatrice, che devi consegnare immediatamente la fortezza», disse con voce roca, mostrando, mentre parlava, gli acuminati denti spessi come dita. «Altrimenti, Colui che ha molti nomi ed è il nostro signore ucciderà la tua carne e il tuo sangue. Dopo che più volte l'avrà presa contro la sua volontà, ti farà avere il suo corpo a piccoli pezzi, rotazione dopo rotazione. Prima le dita, poi gli avambracci
e avanti così, mentre la sua magia provvederà che lei viva sino alla fine e che il dolore...» Goda alzò la mano. «Basta così. Torna da lui e riferisci che io non posso fare quello che chiede. Se però dovesse fare del male a mia figlia, io lo ucciderò con le mie mani. Anche i miei poteri magici sono grandi. Non ho paura di lui.» Le si strozzò la voce e dovette controllarsi per non mostrare la paura. «Se i tuoi poteri fossero così grandi, la barriera sarebbe distrutta e il vostro attacco sarebbe cominciato da molto», replicò il mostro. «Colui che ha molti nomi ed è il nostro signore si aspettava una risposta del genere e ti propone uno scambio che sarai disposta ad accettare.» «Non tratto con lui.» Goda si girò. «Non importa su cosa.» «La vita di tua figlia per quella di Balodil.» «Non conosco nessun Balodil.» La nana si fermò, rabbrividendo. «Colui che ha molti nomi ed è il nostro signore ha detto che tu sai di chi parlo.» Il mostro emanava molti altri strani suoni, che ricordavano ringhi e brontolìi. «Ha portato tua figlia in un posto che non raggiungerai mai. Se anche si giungesse alla battaglia e voi doveste
farvi strada sino alla Forra, tua figlia non sarebbe là. La otterrai di nuovo solo quando Colui che ha molti nomi ed è il nostro signore avrà avuto il cadavere di Balodil e l'armatura che gli è stata rubata.» Goda si girò verso il negoziatore, che si era stretto ancora di più dietro i suoi scudi. «Io sono una nana e non tradisco i miei simili», disse, fremente di rabbia. «Di' al tuo signore che non si deve aspettare nulla da me. A parte una morte dolorosa, se dovesse fare qualcosa a mia figlia.» Si allontanò e fece segno alle guardie di chiudere la porta. «Colui che ha molti nomi ed è il nostro signore ti dà tre rotazioni per riflettere. Poi riceverai le dita della mano destra di tua figlia», disse il mostro. Poi i battenti del portone si richiusero con fracasso. Sebbene Goda si opponesse al fatto di dedicare un solo altro pensiero all'offerta che le era stata fatta, non riuscì a farne a meno. Che male ci sarebbe se uccidessi quell'imbroglione? si chiese, mentre rientrava nella sua stanza. S'inginocchiò davanti al reliquiario e pregò Vraccas. «Tu sai che non è il vero Tungdil.
Scambiare la sua vita per quella di Sanda non sarebbe un mirtine, bensì una cosa due volte ben fatta.» La nana chiuse gli occhi e vide nella propria mente il volto di sua figlia. Di nuovo scoppiò a piangere. Terra Nascosta, ex regno del Rân Ribastur, 6492° ciclo solare, primavera Tungdil aveva deciso di non prendere la via più diretta, per evitare una lunga marcia attraverso i deserti del Sangreîn; la colonna era quindi partita verso il sud del Rân Ribastur, e solo allora avrebbe fatto una conversione verso est, per puntare in linea retta verso i Monti Blu. Di esseri umani ne avevano visti pochi. Basandosi sulle carte, Tungdil li guidava in mezzo alle foreste, che crescevano talvolta così fitte da obbligarli a procedere incolonnati, e il primo della fila doveva aprire un sentiero nel sottobosco. Per tale motivo, avevano dovuto abbandonare i pony. Compravano le provviste in piccole fattorie, dove mandavano sempre Mallenia e Rodario; nessuno doveva vedere i nani. Non vennero attaccati né da ammali selvatici né dalle leggendarie bestie e piante magiche.
Riposarono per l'ultima notte sul suolo dell'antico regno, all'ombra di alberi alti come torri, le cui grandi corone non lasciavano quasi passare i raggi del sole; contemporaneamente li proteggevano dal calore che poche miglia a est li attendeva nella luce della fine della rotazione. Slin alzò il cannocchiale e osservò le dune che si vedevano a neanche quattro miglia di distanza dal loro campo. «L'aria tremola su di loro, come fosse acqua.» «Sono molto contento che invece non lo sia», disse il Rabbioso, seduto a terra, con la schiena appoggiata contro un tronco. «Certo sarò felice quando saremo fuori da tutte queste piante, ma non mi rallegro neanche particolarmente delle sabbie incandescenti che ci attendono.» «O delle notti gelide.» Balyndar riempiva la sua borraccia con acqua fresca a una piccola sorgente. «I nani appartengono alle montagne, dove anche il freddo è più amichevole.» «Parole sante, Quinto.» Slin annuì orientando il cannocchiale. «In lungo e in largo non si vede nulla. Niente Lunghi, niente alberi, niente ombra.» Lo abbassò. «Sarà la mia prima volta nel deserto.»
«Ci saranno anche lati positivi», disse Rodario, cercando di trovare qualcosa di buono nella loro prossima meta. «Il deserto non è fatto solo di sabbia, ma anche di molte rupi alla cui vista, amico Slin, il vostro cuore certo saltellerà di gioia.» Cambiò la voce, assumendo il tono di un cantastorie. «Un tempo l'intero regno era una catena di montagne, una cima più alta dell'altra. Si dice che il vento del Sangreîn soffi così forte che sia stato lui, nell'arco di sette volte sette cicli, a sbriciolare e ridurre in polvere tutte le montagne. Oggi ne esistono soltanto i resti.» «Questa la puoi raccontare a tua nonna!» mugugnò Boïndil. Rodario fece un largo sorriso. «L'ho fatto. Lei mi ha creduto.» «Sciocchezze! Noi nani abbiamo le uniche montagne della Terra Nascosta. Le uniche vere montagne.» «Non è sbalorditivo su quali argomenti si riesca a litigare?» disse Coïra a Mallenia mentre le passava un salame. «Sulle montagne.» «Conosco uomini che litigano perfino sulla lunghezza del loro piccolo omino», ribatté Mallenia, tagliando un pezzo di salame. Le due donne scoppiarono a ridere.
«Vedi? Stanno congiurando contro di noi», disse Slin a Rodario. «Da quella notte in cui eravamo nel cortile.» L'attore si sfregò il pizzetto. «Sì, avete ragione. Le nostre graziose dame amano prenderci in giro.» Strizzò l'occhio a Coïra, che gli sorrise e gettò un breve sguardo in direzione dell'amica. Mallenia le fece un cenno di capo in risposta, che stupì Rodario. Era sicuro di essersi perso qualcosa. «Che altro sai del deserto?» lo incalzò Balyndar. «Niente storie, solo la verità.» «Lo dovresti chiedere al Sapientone», intervenne Boïndil. «Ma abbiamo Franek.» Coïra fece cenno all'apprendista di unirsi a loro. «Stavamo giusto parlando del deserto: che cosa ci aspetta, a parte le tempeste di sabbia e la calura?» gli chiese. «Fuggendo da Lot-Ionan, voi l'avete attraversato.» L'uomo si sedette sul muschio e attinse acqua dalla fonte; bevve e si passò le dita umide tra i capelli. «Che Samusin sia con noi...» «Che Vraccas sia con noi, e lo è», lo corresse Boïndil. «Non voglio avere nulla a che fare con quell'altro dio, e certo non voglio dovergli un
favore.» Slin e Balyndar approvarono. Il Rabbioso si riempì la pipa. «Chiunque ci protegga, avremo particolarmente bisogno del suo aiuto durante le ultime miglia prima dei Monti Blu», disse Franek. «Nel deserto si è scatenata Bumina. La sua meta fissa è sempre stata conferire a cose morte una vita durevole.» «Ah, morti viventi! Con quelli abbiamo una certa esperienza, dico bene?» gridò Boïndil in direzione di Tungdil, che sedeva accanto a Barskalìn; l'amico gli rispose con un cenno del capo. «Di loro non ho paura. Quando ancora esisteva la Terra Estinta, li abbiamo falcidiati a mucchi!» Mentre parlava, mimava i colpi di azza, e una parte del tabacco nevicò a terra. «Hai capito male...» obiettò Franek. «No, vuol dire che tu ti sei espresso male», lo interruppe Slin, sogghignando. Gli piaceva estrinsecare pienamente la sua avversione per l'apprendista. Franek bevve un altro sorso e non si lasciò provocare, cosa che Rodario trovò ammirevole. «Bumina ha cercato dei luoghi nel deserto in cui liberare la magia e trattenerla attraverso degli sbarramenti», spiegò. «Voleva che la magia
cercasse qualcosa in cui introdursi per animarsi. Da principio, a Bumina non riuscì, e il potere si limitava a disperdersi; col tempo, però, trovò una formula per fissare la magia con l'aiuto di rune. La magia si trattiene all'interno finché una data circostanza non la costringe...» Il Rabbioso batté per terra con l'azza. «Così non va, piccolo stregone. Spiegati diversamente.» Gli umani e i nani scoppiarono a ridere. «Non sei piccolo solo di statura, ma anche di cervello», replicò Franek, offeso. I muscoli sul petto e nelle braccia di Boïndil guizzarono pericolosamente. «Fa' attenzione, maghetto. Altrimenti mi scivolano le mani, e non sono sicuro che il mio piccolo cervello riuscirà a trattenermi.» Indicò Coïra. «Abbiamo una maga e, all'occorrenza, possiamo trovare la strada anche senza di te.» Franek gli fece un gesto osceno con una mano. In un attimo il Rabbioso fu accanto all'apprendista, gli afferrò il mignolo e gli ruppe la prima articolazione; ci fu un leggero schiocco, e l'uomo gridò.
«È colpa del mio piccolo cervello», disse Boïndil con voce bassa e pericolosa. «Se io fossi più intelligente, di sicuro non l'avrei fatto. E immagina un po' tutto quello che ancora potrei fare nella mia stupidità, senza neanche accorgermene...» Accarezzò l'azza. «Un buco in un piede fa sicuramente molto male, durante la marcia, apprendista stregone.» «Basta così!» gli ordinò Tungdil, alzando gli occhi dalla cartina. «Lascialo in pace. È un nostro alleato.» «Ma mi ha insultato!» sbottò Boïndil. «Ha cominciato lui!» «E ormai l'hai rimesso al suo posto. Ora lasciami lavorare in pace.» Tungdil si piegò di nuovo sulla sua cartina. Franek si teneva il dito ferito, fulminando Boïndil con uno sguardo pieno d'odio. Il Rabbioso si sedette di nuovo accanto a Slin. «Così almeno non può più fare incantesimi, nemmeno quando sarà nella sorgente», sussurrò al balestriere, che fece una sonora risata. «Mi rallegrerò quando le creature di sabbia ti mangeranno», sibilò l'apprendista. «Ah, ecco. Allora è questo ciò che fa la magia», notò Balyndar. «Creature di sabbia.»
«Creature di sabbia, esseri di pietra... Assume vita tutto ciò che è morto e si trovi nel posto in cui c'è la magia», riassunse Franek, guardandosi il dito piegato. Non osava raddrizzare la frattura e steccarla. «Che cosa possiamo fare contro di loro?» A Rodario non piaceva il pensiero di doversi schierare contro una parete di sabbia o detriti. «Noi? Niente.» Franek indicò Coïra. «Questa è la sua prova. Solo un controincantesimo può distruggere questi nemici. Le armi convenzionali non servono a nulla.» «Questo lo vedremo.» Il Rabbioso saggiò l'acutezza dello spuntone dell'azza. Né lui, né Slin, né Balyndar o Franek avevano notato che Coïra era impallidita. Tungdil gridò gli ordini per la partenza. «Il sole si è abbassato a sufficienza, possiamo metterci in viaggio. È meglio che ci abituiamo progressivamente alla temperatura.» Fece mettere agli Zhadár la loro bianca sopravveste di stoffa sopra le armature nere; avrebbe aiutato contro i raggi cocenti del sole e preservato i nani da eventuali colpi di sole. Anche lui e il resto del gruppo si gettarono addosso la protezione, che ricordava un'uniforme troppo larga.
«Sembro un ghiacciolo», scherzò Slin. «Un ghiacciolo con la barba?» Rodario ridacchiò. «Dev'essere congelato qualcosa di peloso.» Barskalìn e Tungdil si misero in testa. Li seguivano diversi Invisibili, poi i nani e gli umani; i rimanenti Zhadár costituivano la retroguardia. Già solo le quattro miglia di marcia fuori dell'ombra degli alberi fino al limitare delle dune bastarono a farli sudare, sebbene fosse primavera e il sole fosse basso. Mentre camminavano sulla sabbia, inerpicandosi verso la cima di una duna, il viaggio si fece ancora più stancante. Le pesanti armature, pur offrendo protezione a chi le indossava, presto portarono i nani ad ansimare. Solo Tungdil camminava a passi larghi, come se fosse una macchina e non un essere di carne e sangue. Né il Rabbioso né gli altri nani volevano esporsi e chiedere una pausa. Solo quando le stelle furono ben alte e l'aria diventò sensibilmente più fredda, Tungdil li fece fermare in vista di una formazione rocciosa. Ma non a lungo, come dovettero constatare.
Slin affondò nella sabbia e si tolse l'elmo; era allo stremo. «Abbiamo attraversato la prima serie di dune», annunciò Tungdil. «Monteremo il campo presso quelle rupi. Ci daranno una protezione sufficiente, qualora dovesse alzarsi una tempesta di sabbia.» «Sono tre miglia», stimò Slin, e si sentiva chiaramente che non aveva intenzione di mettere un piede davanti all'altro. «Anche qui va bene.» «Noi camminiamo fin là», replicò Tungdil, senza neanche voltarsi a guardarlo. «Se a te non sta bene, mettiti comodo e aspetta l'alba. Ti veniamo a prendere quando l'orizzonte si farà azzurro.» E si rimise in cammino. «Su, alzati, Quarto», disse Balyndar. «Mostra al nostro imperatore che ce la fai.» «La mia balestra è così pesante», si lamentò Slin. «Il suo peso mi ha stancato le gambe.» «Dalla a me.» Balyndar prese l'arma. «E adesso proseguiamo.» Tese una mano al balestriere e lo tirò su. «Tre miglia non sono niente.» Slin guardò il Quinto. «Come mai mi merito la tua compassione?»
«Siamo un gruppo, Slin, che mi piaccia o no. Tu sai cavartela bene con la balestra, lo abbiamo visto tutti. Non possiamo fare a meno di te.» Balyndar si mise in spalla l'arma da tiro. «Ed è vero: pesa.» «Con quella in spalla, sarà difficile resistere quanto hai resistito tu, Quarto», aggiunse Boïndil e ammiccò. «Mi state prendendo in giro!» disse Slin. «No, non lo stiamo facendo, lo giuro su Vraccas.» «È solo che è tardi, e mi voglio riposare. E tu me lo impedisci, se ti lasciamo indietro», disse Balyndar, serio. Slin si voltò verso Rodario. «Hanno preso tutti e due troppo sole. Non posso spiegarmelo diversamente.» L'attore simulò un'espressione molto addolorata. «Sì, capita spesso. Il liquido in cui galleggia il cervello evapora e... puff, si diventa una persona migliore, anche se non lo si vuole affatto.» «Dobbiamo mettere Lot-Ionan al sole, è questa la proposta?» intervenne Coïra, ridendo. «Sembra semplice.»
«Eppure con questi due nani brontoloni e caparbi ha funzionato», replicò Rodario, chiedendo venia con un inchino al Rabbioso e a Balyndar per la punzecchiatura. Continuando a scherzare in quel modo, raggiunsero infine le rupi, che si ergevano di venti passi sulle sabbie; la loro base si stendeva per otto passi in entrambe le direzioni. Tungdil scelse di montare il campo sul lato orientale e disse alle sentinelle di svegliarlo non appena il cielo avesse cominciato a farsi azzurro. Erano troppo stanchi per cucinarsi un pasto, e l'uno dopo l'altro sprofondarono nel sonno. Neppure la fame, quella notte, potè distogliere uomini e nani dal piombare nel regno dei sogni. Il Rabbioso gettò uno sguardo verso Tungdil, che stava seduto e si era messo a riposare con le spalle appoggiate contro la rupe. Alla luce delle stelle, il volto barbuto dell'imperatore sembrava ancora più anziano; l'occhio era aperto e puntato verso il cielo scuro. Le labbra si muovevano e, subito dopo, le rune sull'armatura di tionio brillarono. Solo a quel punto Tungdil chiuse l'occhio. Poi si addormentò anche Boïndil. Terra dell'Aldilà, Forra Oscura, fortezza di Diga-del-male,
6492° ciclo solare, primavera Goda fissava il pacchetto avvolto in carta cerata e chiuso da uno spago. Qualcuno l'aveva posato all'alba davanti alla porta occidentale, ed era stato raccolto da una delle guardie. Era la rotazione in cui era finito il tempo lasciatole per decidere. Anche se le era stato annunciato che cosa le avrebbe recapitato il comandante dei mostri, non voleva vedere le dita mozzate di Sanda. Le sue mani, però, si muovevano da sole; sciolsero lo spago, distesero la carta e alzarono il coperchio della scatola disadorna. Ne usciva odore di sangue. Lentamente Goda si piegò in avanti; perfino gli occhi sembravano aver paura dello spettacolo che attendeva in quel recipiente. Erano le dita di Sanda, dal pollice fino al mignolo, penosamente ordinate secondo la giusta disposizione, e con ancora gli anelli. «Vraccas...» gemette la maga, disperata. La paura per quanto sarebbe accaduto l'indomani crebbe dentro di lei. Nel pacco successivo avrebbe trovato l'avambraccio di Sanda, quello destro; poi il resto del braccio, poi le dita dell'altra mano, pezzo dopo pezzo.
La sua crudele immaginazione le mostrò la figlia mutilata, di cui, in poco tempo, non sarebbe rimasto che un torso insanguinato con una testa all'estremità superiore. Goda la sentì gridare, piangere, gemere, mentre sua madre si rifiutava di uccidere un nano che non riteneva nemmeno essere il vero Tungdil. «Non posso farlo», singhiozzò la maga, gettandosi davanti al reliquiario. «Non posso lasciare mia figlia al suo destino. Non per un impostore da cui tutti si sono fatti ingannare.» Guardò la statuetta del dio. «Devo accettare la proposta del nemico, Vraccas! Non ho altra scelta, devo...» Qualcuno bussò forte alla porta. «Signora! È accaduto un miracolo!» disse la voce di un soldato. Goda si asciugò le lacrime dal volto e aprì. «Signora, vostra figlia! È di nuovo qua, alla porta!» gridò il soldato, entusiasta. «Mia... figlia?» La nana guardò il tavolo, dov'era appoggiata la piccola scatola con le dita, poi si mise a correre. Nella sua mente i pensieri sfrecciavano, turbinavano, venivano sopraffatti in continuazione da una gioia incontenibile e
dall'immensa sorpresa. E, quando alla fine arrivò alla porta meridionale, Sanda era lì! Portava ancora la cotta di maglia, ma pendeva allentata e allacciata alla bell'e meglio; il volto era segnato dalle botte, la manica destra della sottoveste grondava sangue, i capelli castani erano sporchi e unti. Ma Sanda sorrideva. «Figlia!» Goda la prese tra le braccia e la strinse a sé. Rimasero ferme così per parecchio, prima di separarsi. «Che ti ha fatto?» Sanda evitò lo sguardo della madre; le pupille le tremarono. «Mi ha picchiata e umiliata. In un luogo come quello descritto da Tungdil quando parlava del mondo al di là della Forra Oscura», sussurrò, sconvolta, e cominciò a tremare. Si strinse tra le braccia materne. «Non voglio più tornarci», disse ad alta voce, guardando la madre. «Piuttosto muoio.» Goda voleva dire qualcosa, poi puntò gli occhi sul braccio destro, per vedere la ferita e vide una mano sana con tutt'e cinque le dita. Dimenticò che cosa stava per chiederle e afferrò la mano. «Com'è possibile, Sanda?» Le dita erano rosa e tenere come quelle di un neonato.
«Colui che ha molti nomi me le ha tagliate», raccontò la giovane nana, con voce rotta. «Poi me ne ha fatte crescere di nuove. Faceva terribilmente male, ma non così male come le altre cose che ho subito.» Sanda si guardò la mano. «Le altre cose che ho subito...» ripetè a bassa voce e vacillò. Goda la sostenne. «Perché ti ha lasciato andare?» «Non mi ha lasciato andare. Sono scappata», disse Sanda, cui tremavano le ginocchia. Goda la mise a sedere su una panca e fece portare dell'acqua. «Sono scappata e ho corso, madre. Ho corso, senza sapere dove, eppure sono qui.» Si guardò di nuovo la mano. «Dammi un coltello, subito!» gridò all'improvviso, tenendo il braccio molto lontano dal corpo. «Non sono le mie dita! Sono suel Lui me le ha fatte ricrescere! Di certo obbediscono alla sua volontà!» «Calmati, figlia!» Goda la prese tra le braccia e la cullò, come aveva fatto quand'era neonata. «Sei di nuovo tra noi.» Sanda tossì. «Sono le sue dita. Le ho usate per toccare la barriera, ed essa si è aperta per
me», disse. «Altrimenti, perché lo schermo avrebbe dovuto farlo?» Poi emise un lungo grido acuto. «Il male è una parte di me!» Con una forza inaspettata si staccò dalla madre, sfilò la scure dal cinturone di una guardia esterrefatta e si troncò le dita prima che qualcuno riuscisse a fermarle il braccio. «Così va meglio!» esultò Sanda, calpestando le dita mentre il sangue schizzava dai monconi. «Vraccas, restituiscile il senno!» gridò Goda, inorridita. Tenne ferma la figlia mentre le guardie l'aiutavano; fasciarono la mano, perché Sanda non morisse per la perdita di sangue. Nel frattempo la giovane nana aveva perso i sensi, così la portarono nella sua stanza. Lì la madre si occupò di lei, la svestì e la lavò. Il corpo di Sanda mostrava molti segni di tortura che fecero piangere a Goda lacrime di collera e odio. «Per questo, lui morirà», promise. «Quello che dà agli altri lo riceverà anche lui.» Mentre asciugava le braccia della figlia addormentata, la maga esitò. Non aveva mai notato la voglia che Sanda aveva sul lato interno del braccio destro: era grande come un'unghia, rossastra, e non era frutto di una tortura; sembrava spuntata dal nulla.
Involontariamente Goda osservò con altri occhi la nana che aveva davanti. Montò in lei il primo sospetto che non si trattasse di sua figlia: il nemico le aveva forse mandato una copia, come aveva fatto con Tungdil? «Vraccas, toglimi il sospetto», pregò. «Ha sempre avuto questa voglia, e io ti prego di farmene ricordare.» Poggiò le mani in grembo, tenendo l'asciugamano tra le dita, e fece scorrere lo sguardo sulla figlia. Scoprì altre discrepanze: il mento era sempre stato così tondo? Gli zigomi non erano più alti? E il naso? Perfino l'arcata delle sopracciglia a Goda sembrava non corrispondere. «No», gemette. «No, questa è mia figlia! È lei!» Goda asciugò le spalle di Sanda e la coprì con un lenzuolo. «È lei! Non cadrò nella trappola del nemico. Attizza i sospetti e semina discordia.» Fece un profondo respiro. «È lei.» Un ultimo sguardo alle fasciature, e si alzò per andare dalle guardie e farsi raccontare che cosa stava accadendo nella piana intorno alla Forra Oscura. Il bacio di commiato sulla fronte di Sanda le costò un grosso sforzo. Terra Nascosta, ex regno del Sangreîn,
6492° ciclo solare, primavera Boïndil si svegliò e aprì gli occhi. Sopra di lui brillavano le stelle; sentiva il leggero russare intorno a sé, e lo scricchiolio della sabbia. A causarlo erano gli stivali di Slin, poiché il Quarto era di guardia; i due Invisibili che lo aiutavano a sorvegliare il campo non provocavano nessun rumore quando si muovevano. Per il resto, l'accampamento era tranquillo. Perché mi sono svegliato? Il Rabbioso se ne meravigliò. Mentre rifletteva, pensò che le stelle stessero diventando sempre più chiare. Simili al sole, brillavano sopra di lui, senza scaldare. Ma che cosa...? Si alzò. Sembrava essere diventato giorno. Intorno a lui era tutto chiaro e luminoso. Vide perfino Slin spandere acqua accanto a una roccia; mentre lo faceva, scriveva il suo nome sulla sabbia. Coi nomi brevi era facile, ma già con «Rabbioso» la cosa si complicava un po', per non parlare poi del nome completo. Per farlo bisognava bere parecchio. Boïndil si sfregò gli occhi, ma continuava a essere chiaro, benché il sole non fosse sceso dal suo letto. Quando si osservò le dita, vide
sull'indice un liquido nero! Gli usciva... dagli occhi? La paura montò in lui. Che sta succedendo? Siamo in un luogo maledetto! Si alzò, e Slin guardò subito nella sua direzione. Boïndil lo salutò con un cenno di mano e gli si avvicinò per chiedergli se avesse notato qualcosa di strano. Vedeva il Quarto molto chiaramente, come vedeva ogni onda sul terreno morbido sotto di lui, e sentiva i rumori più tenui, perfino lo scorrere della sabbia sollevata dalla debole brezza. Eppure sapeva perfettamente che il suo udito non era dei migliori; il frastuono d'innumerevoli battaglie aveva imposto il suo tributo, e il Rabbioso ormai non percepiva quasi più i toni alti. Ma non quella notte. Dopo due passi, Boïndil fu assalito da una sete tremenda, irresistìbile. Quindi cambiò direzione e tornò in tutta fretta al suo giaciglio, dove teneva la borraccia. Bevve a lungo, senza che la sete si lasciasse spegnere. Al contrario, l'acqua la faceva aumentare! Senza fiato per la precipitosa bevuta, Boïndil gettò la borraccia vuota e prese quella di
Balyndar. La squarciò e s'inondò di acqua, che però era bollente. In collera, gettò via la borraccia distrutta. Vraccas, cosa mi sta succedendo? Già allungava le mani verso la borraccia successiva, che non gli apparteneva. La raccolse e sentì una dolorosa puntura al polso. Uno scorpione si era nascosto sotto la borraccia e si era difeso col suo pungiglione. Il Rabbioso schiacciò la creatura ed estrasse il pugnale per aprire la ferita e succhiare via il veleno. Ma vide la ferita splendere di giallo! Un calore intenso percorse il braccio del nano, poi quello spettacolo scomparve. Boïndil si sedette per terra. Mi sono guarito da solo dal veleno? O è stato un miracolo mandatomi da Vraccas! Di nuovo riesplose la sete a bruciargli la gola. Si strinse il collo con entrambe le mani, come se così potesse migliorare le cose, poi s'infilò in bocca della sabbia, per spegnere l'arsura. Inutilmente. Gli girava la testa, e si distese su un fianco; le stelle giravano sopra di lui. Poi vennero i dolori.
Boïndil conosceva i tormenti provocati da ustioni, colpi di spada, frecce, ossa rotte, arti slogati, mal di testa e mal di denti. Neanche prendendoli tutti insieme e moltiplicandoli per dieci il dolore avrebbe raggiunto quello che stava patendo in quel momento. Non riusciva più a muoversi. Il respiro gli si bloccò; la sua anima sembrava volersi innalzare fino alle stelle. Boïndil aveva la sensazione di librarsi per aria come un frammento di foglia d'oro nel calore della forgia. Finché, all'improvviso, non sentì in bocca il gusto del sangue, e di nuovo si fece bruscamente buio intorno a lui. Strizzò gli occhi e guardò le stelle pendere come punti minuscoli nel firmamento; accanto a lui sedeva uno Zhadár, che richiudeva la propria borraccia e gli sorrideva. Quel folle dell'Attaccabrighe! «Proprio tu», mormorò il Rabbioso, sputando. Riconobbe subito quel sapore. Si trattava del distillato di sangue d'elfo. «Mi hai dato quella roba di Tion?» L'altro annuì con vigore. «È l'unica cosa che funzioni contro la sete», mormorò con la voce di un cantante senza virilità. «L'unica! Una piccola goccia, e il fuoco dentro di te si spegne.» Rise a
singhiozzo, poi si posò l'indice sulle labbra dipinte di nero. «Non dobbiamo dire a nessuno che te ne ho dato. Barskalìn andrebbe molto in collera con me. Non ne abbiamo più molto, ed è la cosa più preziosa che possediamo.» Boïndil rimase in attesa, ma la sete era davvero scomparsa. Sentiva di avere sabbia tra i denti, ma non aveva più acqua con cui sciacquarsi dai granellini. «Durerà qualche rotazione, poi la sete tornerà», sussurrò lo Zhadár, ridacchiando. «Hai notato com'è bella la vita, bevendo la pozione? I segreti più nascosti si aprono, e si diventa forti come un gigante!» Si alzò e fece un inchino esagerato. «Rabbioso, Rabbioso... Presto sarai uno di noi. Almeno un po'. La tua anima si è già colorata ed è in procinto di diventare nera come la nostra», disse, simulando la voce di un castrato, per poi aggiungere come il basso più profondo: «Presto!» Ridendo piano, indietreggiò fino a raggiungere gli altri Invisibili e si sdraiò sulla sua coperta. Il Rabbioso non riuscì a riaddormentarsi. Gli era stato dimostrato con chiarezza che quel liquido non era semplicemente un liquore alle erbe, come aveva sperato. Fino al verificarsi di
quell'incidente, aveva completamente dimenticato di essersi servito per errore dalla borraccia sbagliata. Ma che cosa significava e perché, per Vraccas, ne sentiva gli effetti solo in quel momento? Il rigirarsi da una parte e dall'altra non serviva a nulla, quindi si alzò e raggiunse lo Zhadár. «Ehi, tu», disse, scuotendolo per una spalla. «Mi fai il favore di spiegarmi cosa mi sta succedendo?» Le palpebre dell'Invisibile si alzarono; gli apparve un ghigno sul volto. «Vieni con me.» Si alzò di scatto dal giaciglio, afferrò Boïndil per una manica e lo trascinò in mezzo alle rocce dove il gruppo aveva cercato protezione. «Nessuno può vederci», sussurrò. «Infatti ci è proibito raccontare i nostri segreti.» Si accovacciò e tirò il Rabbioso verso il basso. «Sangue di elfo, distillato e...» «Tutto questo me l'hai già detto», lo interruppe Boïndil, irritato. «Cosa mi sta facendo, e perché mi colora l'anima? Andrò ancora nella Fucina Eterna di Vraccas dopo la morte?» «Non con tutta la tua anima, presumo», rispose lo Zhadár, rammaricato. «Di certo
Vraccas brucerà la parte malata e lascerà entrare il resto. Se ha buone intenzioni con te.» «Ascolta... Hai un nome?» «Balodil», disse lo Zhadár, sparando la risposta come una freccia dall'arco. «Assurdo! Il Sapientone si è fatto chiamare così, quando stava tra i mostri, nel regno del terrore senza fine.» «Io portavo quel nome, da prima», fu la replica, risentita, dell'Invisibile. Il Rabbioso strinse gli occhi. «Ah, sì? Allora raccontami un po' chi te lo ha dato!» Balodil tacque, lo guardò con aria seria, è indicò Tungdil, che dormiva. «Vraccas, che altro capita, adesso?» borbottò Boïndil. «Uno Zhadár pazzo che crede di essere il figlio del Sapientone?» «Mi ha lasciato cadere in acqua mentre attraversavamo il fiume», disse Balodil, offeso. «Mi ricordo che la corrente mi spinse sotto, e io non potevo respirare altro che acqua. A un certo punto, mi svegliai, presso degli umani. Mi nutrirono e mi misero a lavorare, poi mi vendettero. Fuggii all'arrivo degli albi.» Parlava svelto e senza interruzioni. «Mi rifugiai nelle caverne del Toboribor. Là ho vissuto molti cicli.
Saccheggiavo e rapinavo le fattorie dei dintorni. Finché Barskalìn non mi ha trovato, portandomi via per fare di me uno Zhadár.» Sogghignò, alzò le braccia e gonfiò i muscoli. «Sono il più forte di loro.» Balodil indicò di nuovo Tungdil. «Mi ha lasciato cadere in acqua. Anche se allora aveva un aspetto diverso, io l'ho riconosciuto subito.» Boïndil, per lo stupore, non riusciva più a parlare. Era una storia orripilante, così strana che avrebbe anche potuto essere vera. Che Tungdil gli abbia raccontato di suo figlio? Scosse la testa. Pochissime persone conoscevano il destino del primo figlio di Tungdil e Balyndis, per la cui morte il Sapientone si era quasi ucciso a forza di bere. Di certo ben pochi erano rimasti a conoscere i fatti, dopo tutti quei cicli. Il Rabbioso guardò Balodil e cercò di scorgere qualche somiglianza con Tungdil o Balyndis. Non scoprì nulla e se la prese con se stesso per aver dato credito alle parole di uno Zhadár palesemente folle. «Sia come sia... Balodil, dimmi cosa posso fare.» Lo Zhadár si guardò intorno. «Ti sei addossato la maledizione degli elfi.»
«Vuoi davvero farmi credere che questa pozione è stata ricavata dal sangue degli Orecchi appuntiti?» «Certo. Abbiamo trovato gli ultimi elfi e...» «Pensavo che fossero stati gli albi a uccidere gli ultimi elfi!» «No, non sono stati loro. Noi abbiamo portato a termine il loro lavoro. Tranne due, non ce n'è scappato nessuno. E quei due hanno maledetto noi e tutti quelli che bevono la nostra bevanda. Se qualcuno ti può salvare e lavare questa macchia dalla tua anima, allora è uno di quei due elfi.» Balodil si mise in ascolto. «Devo tornare indietro. Barskalìn si è svegliato. Se sto lontano troppo tempo, capirà che c'è qualcosa che non va.» Posò le mani sulle spalle di Boïndil. «Giura che non mi tradirai. Nessuno deve sapere che abbiamo risparmiato due elfi, almeno finché non sarà certo che gli albi sono stati distrutti.» «Lo giuro, maledizione!» Balodil lo lasciò e scomparve tra le ombre. «Che faccio, se mi viene di nuovo sete?» chiese il Rabbioso. La risposta giunse dalle tenebre. «Ci sarò io a spegnerla.»
Boïndil sospirò. «Vraccas, quando penso che non può giungere nulla di peggio, hai sempre una sorpresa in serbo per me», brontolò. «Un'anima macchiata, una maledizione elfica e Orecchi appuntiti che mi devono dispensare... Ma nessuno sa dove si trovano e neppure che esistono ancora.» Armeggiò coi pantaloni per dare al deserto acqua di nano. «Ah, già, dimenticavo i mostri nella Forra Oscura e LotIonan, che dobbiamo sconfiggere senza poterlo uccidere. Niente di speciale per un eroe come me. Si potrebbe pensare che un narratore di storie escogiti queste cose per te, o che te le suggerisca, Vraccas.» Scrisse la prima sillaba del suo nome sulla sabbia. Non lo stupì che sgorgasse da lui nera come inchiostro, seccandosi tra i granelli.
XXV Terra Nascosta, ex regno del Sangreîn, 6492° ciclo solare, primavera Si erano lasciati alle spalle la cintura di pura sabbia, avevano viaggiato per pietraie e percorso valli e burroni in cui, infiniti cicli prima, scorrevano fiumi. Ormai non contenevano altro che sabbia, polvere e, di tanto in tanto, ossa di animali sbiancate. Boïndil trovava che quella regione del deserto del Sangreìn fosse la più affascinante, perché gli ricordava un pezzo di patria: rupi svettanti, forre, echi, e tanti passaggi attraverso la roccia, che di certo erano stati scavati dall'acqua ma che comunque incontravano i suoi gusti. Mi potrebbe quasi piacere, se non fosse più ardente di una fucina. Quella rotazione, camminavano in un labirinto di passaggi scavati nella roccia in cui Franek, che procedeva davanti agli altri con Tungdil e Barskalìn, si perdeva in continuazione. Alla fine, uno degli Zhadár si arrampicò sulla
parete scoscesa e dall'alto li guidò verso l'uscita, a est. «Dobbiamo rifornirci di acqua. Saremmo dovuti arrivare già da tre rotazioni nel villaggio di cui ci hai parlato», disse Tungdil. «Se non lo raggiungiamo entro domani, tu morirai, apprendista. Potrei pensare che ci guidi in tondo intenzionalmente, per farci morire di sete.» L'uomo ansimò. «E io con voi? Non sarebbe un piano intelligente.» «Chi ci dice che tu non abbia nei paraggi una riserva d'acqua?» intervenne il Rabbioso. «Che villaggio dovremmo incontrare?» «Una piccola città del deserto, in cui si commerciava molto. Prima vi si scambiavano merci prodotte dai nani, soprattutto armi. Ancora oggi si trovano dei pezzi molto particolari.» Franek si guardò i vestiti, su cui il sudore aveva lasciato tracce di sale. «Là mi conoscono.» «E questo è un bene o un male?» Boïndil rise. «Preferirei essere pronto qualora ci volessero trafiggere soltanto perché siamo in tua compagnia.»
«Siamo al sicuro. La città è sotto il mio controllo.» Franek scosse la testa. «Be', lo era... prima che Lot-Ionan mi scacciasse.» «Su che cos'hai detto che facevi ricerche? Non me lo ricordo più... O forse non ne hai parlato?» Il Rabbioso guardò Balyndar, alla cui cintura pendeva la borraccia squarciata. Gli aveva detto che l'aveva distrutta per errore: nel sonno l'aveva presa per la testa di un mezz'orco che era balzato fuori dalla sabbia e lo aveva attaccato. Da allora, nessuno gli dormiva più vicino. Dietro Balyndar, camminava lo Zhadár che si era presentato come Balodil. Il Rabbioso non credeva più da un pezzo che si trattasse del figlio del Sapientone, tanto più che nemmeno l'età corrispondeva. Barskalìn aveva detto loro che solo un nano anziano poteva diventare uno Zhadár. Il vero Balodil non sarebbe stato sicuramente tanto vecchio. «L'ingrandimento di cose ed esseri viventi», rispose Franek. Boïndil sogghignò. «Questo ti ha reso sicuramente molto popolare tra le donne, dico bene?»
«Non è come pensi tu, Barbuto», replicò l'apprendista. «A te, un paio di palmi in più farebbero bene. Così potresti respirare la stessa aria che respiro io.» «Io posso farti diventare più basso, Lungo! Ho un incantesimo d'acciaio qui con me che mi basta far roteare giusto una volta.» Il Rabbioso alzò l'azza. Poi, vedendo Io sguardo di Tungdil, la riabbassò. «Aspetta e vedrai», borbottò. «Avevi successo con la ricerca?» domandò l'imperatore dei nani. «Mi riuscivano soprattutto gli esperimenti con le piante e con gli animali piccoli. Gli insetti erano molto adatti.» «Eh! Un gugul gigante!» sbraitò il Rabbioso. «Prima un magnifico combattimento con l'animale, poi un imponente banchetto.» Diede una manata a Franek. «Quanto li facevi crescere?» «Il corpo dello scorpione più grande che ho trasformato misurava circa sette passi», disse Franek. «I miei tentativi puntavano a far diventare le cavallette abbastanza grandi da poter essere cavalcate. Sarebbero state delle eccellenti cavalcature per il deserto. Purtroppo morivano troppo in fretta.»
«Siamo abbastanza lontani dal posto in cui provavi le tue formule? Non mi piacciono gli scorpioni. Soprattutto se sono così grossi.» Il Rabbioso pensava al suo incontro con quel piccolo esemplare nel bel mezzo della notte. Le pinze di uno scorpione tanto grande avrebbero sicuramente tagliato come carta un guerriero e la sua armatura, e il pungiglione avrebbe trafitto le vittime, anziché avvelenarle. «Ci troviamo esattamente dove intraprendevo i miei esperimenti.» Franek rise. «Ma non ne è rimasto nulla; non volevo che annientassero la città. A meno che non mi sia lasciato sfuggire uno dei cuccioli.» «Magnifico», borbottò Slin, imbracciando la balestra. Lo Zhadár che sorvegliava il loro cammino dall'alto, saltando di pietra in pietra come una scimmia, annunciò la presenza di un insediamento, in direzione del quale conduceva l'uscita. Tornò tra loro, a terra, e il drappello, dopo un'ultima curva, lasciò il labirinto di rocce. Davanti a loro giaceva una città, in parte seppellita da un'immensa duna. Le piatte case dipinte di bianco sembravano tutte integre, ma per le strade non c'era segno di vita.
Franek guardò Tungdil, attonito. «Neanche quaranta rotazioni fa, qui vivevano quattromila persone. Ve lo giuro!» «Lot-Ionan non vuole togliere la vita soltanto a te, ma anche a tutti coloro che ti obbedivano», mugugnò Boïndil. «Vecchio rancoroso...» «Che folle!» gridò Franek, e la sua collera non sembrava simulata. «Quella gente non c'entrava nulla.» «La città ha una fontana?» chiese Tungdil. «Sì...» «Allora andiamoci. Fai strada.» L'imperatore s'mcamminò, e il gruppo lo seguì. «Siate pronti a tutto. Lot-Ionan, o chiunque abbia fatto ciò, avrà sicuramente potuto pensare che prima o poi Franek sarebbe di nuovo comparso qui.» Mentre camminava estrasse la Sanguinaria; le labbra gli si muovevano in una silenziosa preghiera. Boïndil fu colto da una gradita tensione. Si guardava intorno, tenendo l'azza nella sinistra. Per favore, niente scorpioni giganti. Si muoveva con gli umani al bordo della strada, mentre gli Zhadár sgusciavano a destra e a sinistra, sopra i tetti e nei vicoli laterali, per prevenire eventuali agguati.
Franek li condusse attraverso i vicoli in una piccola piazza del mercato, che misurava dieci passi per dieci; le case intorno erano basse e quadrangolari. Bancarelle distrutte giacevano sulle lastre di pietra del selciato, di cui qualcuna era saltata o frantumata, mentre altre mostravano lunghe e profonde scanalature. Qualcosa vi si è abbattuto sopra con molta violenza, ipotizzò il Rabbioso. Slin si chinò, raccolse un bracciale d'oro. «Guardate un po'», disse al gruppo. «Questo era per terra!» Esaminò l'ornamento con occhio esperto. «Un oggetto prezioso come questo varrà almeno quattrocento monete, secondo me.» «Qui si commerciavano gioielli», disse Franek, raggiungendo la piccola fontana che si trovava in mezzo. Assaggiò l'acqua che, sgorgando da una colonna, gorgogliava in un bacino. «È pulita. Questa sorgente non si può avvelenare facilmente. L'acqua viene da molto in profondità.» «Neanche con la magia?» Boïndil teneva sott'occhio le finestre delle case. L'uomo si riempì la borraccia. «No. L'avrei notato.»
«E come, furbone?» Il Rabbioso non si lasciava convincere così in fretta. «In quanto mago, ho un certo fiuto.» Indicò Coïra. «Fa' controllare a lei, se non mi credi.» La maga, che come Rodarlo e Mallenia soffriva di una brutta scottatura, si avvicinò e finse di pronunciare un incantesimo. Confidò nella valutazione dell'apprendista. Per inezie del genere non poteva consumare la magia che le restava. Le energie si consumavano già da sole, come acqua al sole, e sarebbe stata felice quando finalmente avrebbe potuto immergersi nella sorgente dei Monti Blu, prima che la mano le imputridisse. «Non c'è nessuna contaminazione magica.» Rodario la guardò e capì che stava fingendo. Franek fece una faccia altezzosa, Boïndil scosse la testa, e cominciarono a rifornirsi. Tungdil ordinò a Slin di rimettere a posto il bracciale. «Non ti appartiene. È possibile che gli abitanti della città ritornino, e allora ti potrebbero considerare un ladro.» Uno Zhadár disse qualcosa da un tetto. Barskalìn guardò l'imperatore e tradusse le parole, pronunciate in una lingua sconosciuta. «Hanno trovato dei cadaveri sulla strada. Dice
che sembrano tagliati da un macellaio. La carne è stata raschiata dalle ossa e le ossa sono state spezzate. Dalle condizioni dei cadaveri, stimano che sia successo circa dieci rotazioni fa.» Franek si sedette all'ombra, dov'erano gli altri umani. «Lot-Ionan non possiede un esercito. Certo, è possibile che sia stato un attacco di banditi del deserto, ma ritengo molto più probabile che lui o Bumina abbiano mandato qualcosa di magico per portare loro la morte e scacciarli.» Guardò Coïra. «Dovete fare maggiore attenzione. Pronunciate un incantesimo rivelatore, in modo da poter essere tranquilli.» «Fatelo», disse Tungdil, appoggiando la proposta. «Non voglio diventare vittima di un agguato poco prima di avere raggiunto la nostra meta. Con un incantesimo vedrete più di quanto non vedano gli Zhadár.» Lo stupore di Coïra era forte. Tungdil sapeva molto bene che non possedeva quasi più energie... Perché le chiedeva una cosa del genere? Non immaginava quanto fosse stancante un incantesimo del genere? «Lo pronuncerò stando in alto», disse, pregando con
un cenno Rodario di accompagnarla alla casa più vicina, che era un poco più alta. Salirono gli scalini, attraversarono due piani e si trovarono in piedi sul tetto intonacato di bianco dell'edificio, da cui si vedeva l'insediamento. «Volete farlo davvero?» le chiese l'attore. «Sì», mentì Coïra. «È per la sicurezza di tutti noi.» Agitò le braccia, chiuse gli occhi e li riaprì, girando una volta su di sé. «Non riesco a scorgere nulla. Siamo al sicuro, ma faremmo bene ad andarcene in fretta. Non ho un buon presentimento. Lo dirò a Tungdil, prima che scelga la città come luogo di sosta.» Rodario le prese la mano. «Sono felice di vedere che la mano è ancora al suo posto.» «Resisterà ancora un po'. Ma non potrò fare molto di più.» Gli sorrise, e insieme tornarono nella piazza, dove la maga fece rapporto all'imperatore, senza tacere il suo disagio. «Non ci sono avvoltoi. Questo non è mai un buon segno. Scendono solo dove possono mangiare tranquilli e indisturbati», aggiunse, per motivare il suo impulso a partire presto. «Può essere. Ma proprio voi avete urgente bisogno di riposo.» Tungdil, che era accanto alla
fontana, ordinò agli Zhadár di controllare una delle case vicine. «Fa troppo caldo per continuare a marciare, e poi siamo già arrivati nei pressi dei Monti Blu. Ho concordato con Barskalìn che è meglio camminare di notte e per il resto riposare, così eviteremo il rischio di essere notati troppo presto.» Il nano si fece scorrere acqua sulle mani e se la passò sul volto; una goccia rimase sulla benda e scintillò d'oro. «Dal momento che non ci sono trappole di natura magica, non c'è nulla che si opponga a una pausa più lunga. Vero?» Coïra esitò, poi annuì. A disagio, entrò in casa con Rodario. L'avambraccio destro le doleva e le bruciava. Non era un buon segno. La curiosità aveva infine vinto la prudenza di Slin, di Balyndar e del Rabbioso. Gironzolavano per le strade, pronti a combattere, e osservavano le dimore abbandonate per cercare tracce di ciò che era accaduto. Gli Zhadár sorvegliavano il gruppo nella piazza dei commercianti di gioielli, e i tre nani si sentivano abbastanza forti da poter affrontare animali selvatici o briganti.
Slin teneva la balestra pronta a colpire. «Dovremmo fare meno rumore.» Balyndar lo derise. «Questo lo dici tu, perché tra noi sei quello con l'arma che dev'essere ricaricata.» Boïndil ghignò. «Venite, cerchiamo delle botteghe in cui si commerciavano oggetti prodotti dai nani.» Svoltò a destra, in un vicolo laterale, dove aveva visto un'insegna con due martelli incrociati. Ai suoi occhi, quella era un'indicazione promettente riguardo a merci dei nani, o almeno riguardo a una fucina in cui sentirsi un po' come a casa. Si terse il sudore dalla fronte. «Speriamo che ci sia dell'olio per la cotta di maglia. La mia scorta è finita da un pezzo.» «Cosa facciamo se troviamo cose che sono state prodotte dal nostro popolo?» domandò Slin. «Le prendiamo?» «Avevo in mente qualcosa del genere. Rispetto i beni dei Lunghi, certo, ma se la città continua a sprofondare nella polvere, vorrei almeno portare al sicuro le opere della nostra gente.» Il Rabbioso entrò nella bottega, in cui c'erano attrezzi di ogni tipo, da piccole tenaglie a grandi trapani.
Erano sempre in due a rovistare, mentre il terzo faceva la guardia. Così procedettero di bottega in bottega, fino a che non arrivarono al bordo esterno dell'immensa duna. Là sotto c'erano una serie di botteghe per metà sepolte dalla sabbia, che sembravano vendere esclusivamente merce nanesca, almeno a giudicare dalle insegne. Indeciso, il trio osservava gli edifici, sulle cui facciate c'erano delle crepe. Anche la sabbia, quando si ammassava così fitta, aveva un peso enorme. «Sembra pericoloso», disse Slin. «Però potrebbe valerne la pena.» Balyndar indicò con l'impugnatura della stella del mattino uno scudo su cui stava scritto: armi dei figli di vraccas. La porta era già sfondata, e per terra s'intravedevano spade, lance e asce. «Là qualcuno ha già fatto compere, senza prima chiedere al venditore.» Il Rabbioso si sfregò le guance, si gettò all'indietro la treccia e si avviò a grandi passi. Era chiaro che aveva preso la sua decisione. «Slin, tu fai la guardia davanti alla porta», ordinò. «Se il tetto crolla mentre noi siamo dentro, almeno tu ne uscirai vivo.»
«Queste sono parole che mi piace sentire», replicò il balestriere, posizionandosi sotto la tettoia. Boïndil e Balyndar entrarono nel locale e si accorsero subito che era già stato saccheggiato. Vetrinette e cassapanche erano vuote, coi vetri a pezzi. Negli scaffali e appese alle pareti c'erano solo le armi comuni, per quanto di buona qualità. «Che peccato», mormorò Balyndar, carnminando sopra i rottami. «Quello che c'è per terra non è stato fatto dai nani», disse Boïndil, accovacciandosi. «A quanto pare, i saccheggiatori sapevano distinguere molto bene tra pezzi magistrali e imitazioni.» «Per Vraccas!» esclamò Balyndar. «Leggi anche tu quello che leggo io?» Il Rabbioso si affrettò a raggiungerlo e vide una vetrinetta infranta in cui stava un cuscino di seta. Sotto, su un pezzo di pergamena, c'era scritto nella lingua degli umani, e in bella grafia: La leggendaria Lama di Fuoco: l'originale. Accanto c'erano un libretto e un certificato in cui il gestore della bottega, un certo Esuo Wopkat, s'impegnava a ridare indietro la somma
occorrente per l'acquisto qualora l'arma si fosse dimostrata un falso. Il Rabbioso rise fragorosamente. «Un'altra di quelle.» «So che erano molto amate dai commercianti di souvenir», commentò Balyndar, pescando nella vetrinetta per tirare fuori il libretto. «Ah, qui c'è la storia del ritrovamento.» «Non dirmi niente», disse Boïndil, con entusiasmo infantile. «Questa volta l'hanno trovata sulla cima della Lingua di Drago! Oppure, no, nelle caverne del Toboribor? Aspetta... nella vecchia galleria di Lot-Ionan!» «Niente di tutto ciò.» Balyndar si schiarì la voce e lesse: Spettabile compratore, collezionista ed erudito, l'ascia che tenete in mano è dell'acciaio più puro e resistente, gli uncini all'estremità sono di pietra, il manico di sigurdazia, gli intarsi e le rune di tutti i metalli nobili che si trovano nelle montagne; ma la lama è incastonata di diamanti.
Venne forgiata nella brace più calda che possa accendere una forgia. Il suo nome è Lama di Fuoco. Dimenticate i racconti dei ciarlatani. Questa è l'unica vera arma, trovata sul fondo prosciugato del Weyurn e fatta uscire di nascosto dal Paese. Il luogo di ritrovamento è nei pressi della cavità da cui è giunto Lohasbrand, e io purtroppo non so dirvi come questo sia accaduto. Il figlio di un pescatore mi portò l'ascia, dopo che suo cugino l'ebbe trovata. L'aveva mostrata a un nano, che ne aveva riconosciuto il vero valore e lo aveva ucciso. Tuttavia il nano morì affogato durante la fuga: mentre attraversava un fiume, prevalsero su di lui la maledizione di Elria e la giustizia. Il pescatore non voleva avere nulla a che fare con l'ascia, perché temeva gli abusi dei nani; quindi mandò suo figlio da me. Io gli feci una proposta molto buona e ottenni la Lama di Fuoco. Questa è la leggendaria ascia con cui Tungdil Manodoro tanto bene ha fatto alla Terra Nascosta. La volevo custodire per lui, ma l'arma,
senza di lui, è priva di valore, quindi me ne separo. In cambio di denaro. Se mai Tungdil Manodoro dovesse tornare una rotazione, ridategliela. Sono sicuro che vi risarcirà in modo dovuto. Esuo Wopkat Boïndil fece un debole fischio. «Questa è di gran lunga la storia migliore!» «Perché?» «Perché sembra autentica. Se ricordo bene, la Lama di Fuoco era stata presa dall'ultimo Eterno, che l'aveva gettata strada facendo.» Il volto del Rabbioso s'illuminò. «Contro i nani, la cosa migliore è sempre un lago. Questo deve aver pensato mentre noi lo seguivamo. Quindi l'avrà scagliata nel lago, prima di calarsi nel pozzo.» «Tu non ci credi, vero?» Balyndar chiuse di botto il libretto e lo gettò dentro la vetrinetta. «In ogni caso, è stata rubata. Ormai può essere ovunque.» «Ehi!» li chiamò Slin dall'ingresso della bottega, tenendo un'ascia polverosa in mano. «Guardate un po' cos'ho trovato nella sporcizia, proprio davanti alla punta dei miei stivali.»
Boïndil e Balyndar si guardarono. Il balestriere soffiò sopra l'ascia e osservò la lama. «Ha dei diamanti incastonati.» Notò che gli altri due nani tacevano, poi ammutolì anche lui e deglutì. «Per Vraccas!» gracchiò. S'inginocchiò, posò l'ascia a terra e la osservò, timoroso. «Per Vraccas!» gli fecero eco Balyndar e il Rabbioso, raggiungendo l'ingresso. Si accovacciarono e osservarono anche loro l'arma. Boïndil prese dal cinturone la borraccia dell'acqua e ne versò il contenuto sulla testa dell'ascia, per ripulirne i dettagli. «Io...» Gli mancò la voce. «Magnifico!» esclamò Balyndar. Slin sentì un leggero tintinnio alle spalle e alzò la balestra. Vide un pugnale scivolare da uno scaffale e sbattere sul bancone. Stava per tirare un sospiro di sollievo, quando notò che una spada si staccava dal suo sostegno e raggiungeva il bancone, volando. «Qui sta succedendo qualcosa di strano», disse ai compagni, indaffarati a ripulire gli intarsi e le rune dell'ascia. «Dovremmo avvertire gli altri.» «Spara al topo, se ti fa paura», replicò Balyndar.
«Prima che gli incantesimi di Franek lo facciano diventare grosso come un manzo», aggiunse Boïndil, mentre puliva con le mani la testa dell'ascia. «Sto diventando matto!» Slin era balzato in piedi e non riusciva a credere a quello che vedeva: scudi, lance, pugnali, spade e altri armi volavano da ogni angolo della bottega, andando a comporre un mostro di forma umanoide. Arrivava fino al soffitto e là, dove stavano le mani, spuntavano lance e spade. Era una creazione mortale, nata dalla magia. «Davvero magnifico! Credo che la maga non abbia impiegato il giusto incantesimo scopritore», disse il balestriere. «Allora è davvero un topo gigante?» lo canzonò Balyndar. «Giratevi, idioti!» inveì Slin, puntando la balestra contro la creatura benché sapesse che non sarebbe servito a nulla. Franek aveva detto che solo la magia poteva sconfiggere creature del genere. «Sta' attento, levigatore di gemme», lo ammonì Balyndar. «Solo perché viaggiamo insieme non significa che tu mi piaccia o che ti permetta d'insultarmi così!»
Il Rabbioso fece per distogliere lo sguardo dall'ascia, e quella si alzò e volò via; subito dopo, una forza invisibile gli strappò di mano l'azza, e Balyndar perse la sua stella del mattino. «Che cosa...?» A quel punto si girarono e videro il nemico cui stavano davanti, disarmati. La creatura aveva formato con pugnali e coltelli una mano gigantesca con cui impugnava la Lama di Fuoco verso l'alto e l'azza di Boïndil verso il basso. Tintinnando e cigolando, fece un passo verso il terzetto. Il Rabbioso capì da dove venivano le orme che aveva visto sul selciato del mercato dei gioielli e chi aveva disossato i cadaveri. Cominciarono a indietreggiare lentamente. «Perché non ci hai avvisati, Quarto?» ringhiò Balyndar. Slin fece una risata amara. «Molto divertente. Avevate tutti e due occhi solo per quell'ascia.» Con la balestra, indicò la creatura. «Ora è là, se la volete.» «Io la voglio!» Il Rabbioso annuì, incassando la testa con decisione, e corrugando la fronte. «Le lame non mi spaventano. Nessuno mi minaccia con la mia stessa arma!» Sollevò
un'asse di legno, un tempo appartenuta a una cassapanca, e menò un colpo contro l'aggressore. Si sentì uno scatto, e il braccio fatto di lance e spade si mise a girare forte, come la testa di una trivella, poi si abbatté contro il legno. Boïndil venne ricoperto da trucioli. Tra le mani gli rimase soltanto un frammento inutile. «Maledetto...» Guardò sgomento i resti dell'asse. «Via!» gridò. Si girò e si mise a correre. Slin e Balyndar lo imitarono. «Dove andiamo?» chiese il Quinto, voltandosi per vedere che cosa stesse facendo il mostro metallico: usciva dalla bottega, chinandosi, e si orientava verso di loro. Le armi che stavano sparse davanti all'ingresso sfrecciarono verso la creatura, unendosi a quelle già presenti. Tra scatti e raschi, la creatura d'acciaio e magia cambiò forma: si diede tre paia di gambe aggiuntive, assottigliò il corpo e imitò la forma di un ragno. Poi si gettò all'inseguimento. «Riportiamo a Tungdil la Lama di Fuoco. Se la riprenderà da sé», disse il Rabbioso, ansimando. «La cosa che mi fa più arrabbiare è dover scappare davanti alla mia stessa arma.»
Girarono l'angolo e scelsero uno stretto vicolo, attraverso cui il ragno d'acciaio non sarebbe riuscito a passare. Quando però sentirono uno sferragliare metallico dietro di loro, nessuno ebbe bisogno di girarsi per sapere che il nemico si era fatto più piccolo e correva attraverso le anguste fessure come fanno i gugul. Rodario sedeva all'ombra, davanti alla casa, e rifletteva; teneva qualche foglio di carta disteso davanti a sé e annotava i suoi pensieri con una penna. Fino a quel momento, erano scaturiti versi sulla libertà e sull'avventura. Mallenia gli porse una ciotola d'acqua. Casualmente le loro dita si toccarono, e i due si guardarono. «Come sta Coïra?» s'informò l'attore, puntando gli occhi sul foglio. «È un po' debole per via della marcia serrata. Quando si cresce in un regno in cui l'acqua è l'elemento dominante, nel deserto si soffre di più.» Mallenia abbassò la voce. «Voi sapete che ormai ha poca magia.» Rodario la guardò, stupito. «Come...?»
«Me lo ha detto lei. A quanto pare, possiede ancora un terzo delle sue energie magiche. E diminuiscono un po' a ogni rotazione. Dopo l'incantesimo scopritore che ha pronunciato oggi, saranno divenute ancora meno. Dobbiamo portarla più in fretta possibile alla sorgente.» Bevette dell'acqua. «Gli dei ci proteggano da attacchi magici.» Continuando a scrivere, l'attore chiese: «Che altro vi ha confidato?» «C'è dell'altro?» Il tono di voce di Mallenia era attento. «No», minimizzò lui. «Voglio dire: non lo so. Ma voi sembrate scambiarvi confidenze femminili, per questo ho pensato che aveste saputo qualcosa di più. Chi altri è a conoscenza delle sue difficoltà?» «Tungdil e Boïndil. Nessun altro. Ed è meglio che le cose restino così.» Mallenia gettò uno sguardo agli appunti. «Cosa state facendo?» «Scrivo. Per il futuro.» «Che non sarà il combattimento contro LotIonan.» «No. Quello che seguirà. Sono idee. Verranno portate dai discendenti dell'Incredibile tra la gente della Terra Nascosta non appena la
battaglia per il futuro sarà stata combattuta. Certo, non serve più la figura del poeta misterioso come oppositore dell'occupazione, ma non per questo il lavoro di noi attori è finito.» Sembrava insolitamente serio. «L'ordine dev'essere stabilito rapidamente, prima che sorgano nuovi avidi potenti che si approprino di diritti che non gli spettano.» Rodario le offrì posto accanto a sé. «Vorrei vedere voi sul trono dell'Idoslân, non qualcun altro.» «Questo è molto carino da parte vostra.» Mallenia gli si sedette accanto. «Ve la siete presa a male per il mio bacio?» «No.» L'uomo abbassò la penna. «Ma ho avuto l'impressione che, da allora, voi siate poco interessato a me.» Mallenia centellinò l'acqua, poi girò la testa. «Stupidamente, voi mi piacete come prima, anche se non posso più aspettarmi il timido Rodario.» «È sempre qui, nel profondo del mio essere», replicò l'attore, sorridendo. Poi fece un profondo respiro. «Le donne non apprezzano il fatto di dividere il loro uomo con altre donne. Quindi suppongo che sarebbe soltanto onesto
nei vostri confronti lasciarvi libera e rivolgere la mia attenzione solo su Coïra.» «Forse riderete, ma la maga e io abbiamo già parlato di noi e di voi.» Mallenia sorrise. «Stando così le cose, non c'importa di dovervi dividere tra noi.» «Cosa avete fatto?» domandò Rodario, sbalordito. «Abbiamo fatto quello che gli uomini si augurano spesso: ci siamo messe d'accordo», rispose Mallenia, alzando una mano e accarezzandogli una guancia. «Non dovete scegliere, Rodario, e noi non ci caveremo gli occhi per causa vostra, né ci dichiareremo guerra.» Sorrise e si rallegrò del profondo stupore dell'uomo. In quel momento, aveva di nuovo qualcosa di goffo e indifeso, e lei lo trovò incredibilmente attraente. «Una condizione però c'è: non condividerete mai il giaciglio con entrambe contemporaneamente.» «Non riesco a credere a quello che sento!» esclamò l'attore. «E non so neppure...» Si alzò e fece qualche passo avanti e indietro sulla piazza. «Francamente, non so se questa cosa mi piace.»
«Va contro la vostra anima virile il fatto che le donne possano accordarsi tra loro?» «No», disse subito Rodario. «O sì?» Si grattò la testa, poi la barba. «Questo, in vita mia, non mi era mai successo», mormorò. Alla fine si fermò e si appoggiò le mani sui fianchi, guardando la bionda combattente. «Ma che cosa vi dà il diritto di farlo?» sbottò poi, sdegnato. «A me?» «No, a tutte e due! Allearvi, rendermi il vostro... schiavo, senza...» Rodario alzò l'indice. «Senza neanche lasciami intendere cosa stesse succedendo dietro le quinte!» Pestò un piede per terra. «Mi sento... sfruttato e ignorato!» Mallenia era quasi senza parole. «Io vi rivelo che due donne hanno perso la testa per voi, e che potete averle entrambe, e voi vi comportate come un bambino?» Tirò indietro la testa e rise forte. «Come siete dolce e grazioso! Questo è l'altro Rodario che state tirando fuori soltanto per me, ho ragione?» «Cosa?» L'attore alzò le braccia al cielo. «Oh, dei! Il mondo questo non l'aveva ancora visto!» Mallenia si alzò, sorridendo, e gli si avvicinò.
«Ferma!» gridò Rodario. «Restate dove siete! Mi volete baciare, perché mi trovate grazioso e...» «È vero.» «... dolce.» «Anche questo è vero.» Lo aveva quasi raggiunto, quando lui la scansò e sbatté con un fianco contro il bacino della fontana. «Cosa dobbiamo fare perché dimentichiate il vostro astio? Fingere che siate voi il conquistatore e noi le prede?» Mallenia parlava in tono di scherno e si compiacque moltissimo del fatto che l'attore arrossisse. Non poteva credere che quell'uomo agitato e il tranquillo Rodario, che scriveva frasi sul futuro della Terra Nascosta, fossero la stessa persona. Tuttavia era contenta di aver scoperto come far comparire il suo Rodario. L'attore alzò le mani, come a difendersi. «Non vi avvicinate. Prima di baciare una di voi due, adesso devo riflettere.» «Fate pure», replicò Mallenia e si girò. «Mi trovate da Coïra.»
Rodario si sedette sul bordo della fontana, mise le mani sotto l'acqua e s'inumidì la fronte. «Donne...» mormorò. «Dividersi me!» Le gocce gli correvano sul naso, sulle guance e sulla bocca, gli finivano nel pizzo e rinfrescavano i sentimenti, così come rinfrescavano la pelle. Di certo provava qualcosa per Mallenia, e il pensiero di poter avere due donne non era così male; ma si sentiva davvero ferito nel suo orgoglio maschile. Un discendente dell'Incredibile doveva conquistare le donne, non farsi trattare come un sacco di farina. «Mettersi d'accordo... che sfacciataggine!» mormorò, sentendo la fresca umidità che gocciolava sulle spalle, attraversando i vestiti. Il gorgoglio della fontana, nel frattempo, si era fatto più forte. Vista la calura, non era sgradevole, ma Rodario non sapeva spiegarsi perché il getto d'acqua avesse dovuto cambiare direzione. Girò la testa, e s'imrnobilizzò: dietro di lui si era formata una creatura umanoide fatta di acqua, alta più di quattro passi. Aveva una grande testa con un muso simile a quello di un animale, in cui
si vedevano lunghe zanne. Zanne di acqua solida. Rodario tornò a guardare davanti a sé e fece come se non avesse notato nulla; si staccò dal bordo della fontana e camminò piano verso l'ingresso della casa. Doveva chiamare Coïra perché osservasse la creatura e gli desse una sua valutazione. Si udì un forte scroscio. Poi uno Zhadár, sui tetti, gridò. Un'ondata circondò le gambe dell'attore e lo fece cadere. Rodario scomparve nell'acqua, tra gli spruzzi. Coïra aprì gli occhi perché aveva sentito qualcosa di freddo sulla fronte. Mallenia era seduta accanto a lei e le tergeva il viso con un panno umido. «Questa volta siete voi a occuparvi di me», mormorò la regina. «Vi siete presa un colpo di sole. Rodario avrebbe dovuto prendersi meglio cura di voi.» «Avete parlato con lui?» Mallenia le porse qualcosa da bere. «Gli ho detto del nostro accordo. Che ce lo divideremo.»
La maga sentì una vertigine. «Ma lui non doveva saperne niente!» protestò. «Avete rotto il nostro accordo, e deliberatamente!» «Perché qualunque altra cosa non aveva senso. Si sarebbe di certo stupito e sarebbe arrivato da solo alla conclusione che eravamo d'accordo», ribatté la guerriera. «Al massimo, può essere arrabbiato con me. Voi non avete nessuna colpa.» Coïra sospirò. «Allora è per questo che l'ho sentito alzare la voce.» «Era così grazioso», disse Mallenia. «Di nuovo indifeso come un bambino. In quel momento me lo avreste regalato su due piedi.» Con la coda dell'occhio, Mallenia scorse un movimento nell'angolo della stanza in cui stava qualche mattone inutilizzato. Si erano spostati, formando una piccola torre? Corrugò la fronte. «Maledetto caldo. Sta sfinendo anche me.» «Cos'ha detto Rodario?» «Che deve pensarci.» «Lo sapevo! Adesso respingerà entrambe!» Coïra si alzò dal suo giaciglio. «Non è stata una decisione intelligente.» «Calmatevi», la pregò Mallenia, afferrandole le mani. «Rodario è intelligente, apprezzerà il
regalo che gli abbiamo fatto. Se dovesse gettarlo via, si dimostrerebbe così stupido che sarebbe un bene per noi non averlo come compagno.» Coïra rifletté, poi fece un sorriso titubante. «Può essere. A me non piacciono gli uomini stupidi.» Mallenia vide di nuovo un movimento nello stesso angolo. Osservò più a lungo. I mattoni si stavano davvero sistemando l'uno sull'altro e, mentre lo facevano, acquistavano velocità. Si riusciva già a distinguere una gamba e, dato che non c'erano altre pietre libere, i mattoni si staccarono dal muro, come obbedendo a un ordine segreto. Anche Coïra guardò l'angolo in cui si stava formando la creatura di mattoni mentre le mura intorno, per via del buco sempre più grande, perdevano il loro appiglio e cominciavano a cedere. Da fuori si levarono le grida degli Zhadár. Mallenia fece alzare la maga, mentre crepe si aprivano sul soffitto. «Usciamo! La casa crolla!» Le donne corsero fuori della stanza, in direzione dell'ingresso. Videro una parete
d'acqua, nel cui centro nuotava Rodario, prigioniero. Con uno schianto, la parte posteriore dell'edificio crollò. «Usciamo dalla finestra», decise Mallenia, trascinando con sé Coïra. «Non dicevate che non c'era magia, qui?» La maga rimase in silenzio. Troppo grandi erano il terrore e la consapevolezza di aver condotto, per una sua mancanza, il gruppo in una trappola mortale.
XXVI Terra Nascosta, ex regno del Sangreîn, 6492° ciclo solare, primavera «È sempre dietro di noi?» Il Rabbioso girò a destra e si trovò in un altro vicolo che gli sembrava sconosciuto. A quanto pareva, mentre fuggivano si erano persi. «Maledetta città!» «Non lo vedo più», disse Slin, che chiudeva la fila. «Io so perché», mugugnò Balyndar, fermandosi e prendendo Boïndil per il bavero. «È davanti a noi!» La creatura fatta di scudi, lance, pugnali, coltelli, spade e innumerevoli altre armi spuntò da dietro l'angolo. Aveva all'incirca la forma di uno scorpione, dotato però di sei chele che si aprivano e chiudevano in continuazione. «Magnifico!» esclamò Slin. Poi indicò a destra. «Lì dentro. Il vicolo è troppo stretto.» «Allora si trasformerà in un serpente o qualcosa di simile», replicò Boïndil. «Può seguirci ovunque. Scappare non serve a nulla.»
«Sì, invece.» Slin ansimava per lo sforzo. «Conserviamo la vita finché non ci viene in mente cosa possiamo fare contro il mostro.» Il Rabbioso rifletteva febbrilmente. Contro quell'avversario serviva solo la magia, ma finché non trovavano la strada per raggiungere Coïra, tutto quel correre era inutile. Toglieva loro le forze, e la creatura d'acciaio prima o poi li avrebbe presi e avrebbe raschiato loro la carne dalle ossa. Boïndil guardò la sua azza, che stava all'estremità del pungiglione; anche la stella del mattino di Balyndar penzolava lì attaccata. «Che cosa si può usare contro il ferro?» si chiedeva, perplesso. «Ruggine?» suggerì Balyndar, beffardo. «Un potente magnete!» esclamò Slin. «Che proposta! Dove dovremmo prendere un magnete così grande da attrarre una simile montagna di metallo?» obiettò Balyndar. «E da dove dovrebbe piovere la tua ruggine?» ribatté il balestriere. Visto che la creatura si stava avvicinando, si rimisero a correre. Il Rabbioso trovava che l'idea dei magneti non fosse male. Ma per fermare questo nemico occorrerebbe una montagna di magneti. È una
perdita di tempo sperare in un miracolo del genere. E di tempo davvero non ne abbiamo! «Separiamoci», ordinò. «Non si dividerà anche lui?» chiese Slin. «Di noi tre, tu sei pur sempre l'unico nano con un'arma. Noi possiamo al massimo gettargli addosso delle pietre.» Balyndar sembrava infuriato. Improvvisamente Slin si fermò, si mise su un ginocchio e alzò la balestra. «Qualcuno sa dove uno scorpione ha il cuore?» Mirò alla creatura che correva verso i nani facendo mulinare le armi. Le gambe fatte di spade raschiavano sul pavimento della città, parzialmente ricoperto da lastre di pietra. «Lascia perdere le stupidaggini e vieni.» Il Rabbioso fece per afferrarlo, ma il Quarto si divincolò. «Dimmi solo dove sta il cuore.» Balyndar raccolse una pietra e la scagliò contro il mostro. «È una creatura di magia e metallo! Non puoi abbatterla così!» Videro che la pietra, poco prima di sbattere contro il corpo formato da scudi, veniva colpita dal pungiglione che, abbassatosi di scatto, la frantumò.
«Ehi, quella era la mia azza! Con quella non si colpisce la pietra!» gridò Boïndil. Slin aveva deciso da sé un punto dove mirare. Abbassò un poco la balestra, si concentrò e azionò il grilletto. Il dardo sibilò. Era troppo veloce perfino per i riflessi dell'avversario. Ronzò tra i bordi di due scudi, finendo nel corpo della creatura. Ci fu un tintinnio e, in mezzo alla corsa, la struttura si divise nelle sue parti singole. Ma le spade, i pugnali, le lance e le altre lame non avevano perso il loro slancio. Un arsenale di armi volava e mulinava in direzione dei nani, e la sua massa sarebbe bastata a ucciderli già solo grazie al peso. «Scansatevi!» tuonò il Rabbioso, gettandosi sulla porta chiusa di una casa. L'urto la mandò in frantumi, e il nano cadde sul pavimento, circondato da schegge di legno. Avvertì un leggero contatto al piede, ma il dolore non arrivò. Rapido si girò sulla schiena per vedere che ne fosse stato dei compagni. Sospirò di sollievo quando li vide dall'altra parte del vicolo, sotto l'arco di una porta. La strada su cui erano un
istante prima era stracolma di armi, alcune infilate nella sabbia o nelle lastre frantumate. «Non dirò mai più nulla contro una balestra. O contro Slin», mormorò Boïndil, alzandosi e scrollandosi di dosso la sporcizia, per poi tornare all'aperto. «Continuo a non crederci», disse Balyndar, guardando Slin che ricaricava l'arma, sogghignando. «Di che cosa sono fatti quei dardi? Ne avremo bisogno contro Lot-Ionan.» Improvvisamente nel vicolo apparvero Coïra e Mallenia. Fu chiaro, così, a chi i nani dovessero in realtà la salvezza. Slin fece una smorfia, e il Quinto scoppiò a ridere. Presero le loro armi da quella confusione, senza dimenticarsi la Lama di Fuoco, e corsero dalle due donne. «Siamo arrivate giusto in tempo», disse Mallenia, con uno sguardo al vicolo coperto di armi. «Abbiamo scoperto creature simili anche al campo.» Vraccas, questo arriva giusto a proposito! Il Rabbioso si piantò davanti alla maga. «Non avevate detto che qui non c'era magia? A quanto pare, non conoscete così bene il vostro
lavoro», cominciò a inveire, ma venne interrotto da Mallenia. «Non adesso. Dobbiamo tornare indietro per aiutare gli altri contro la creatura fatta d'acqua. Noi eravamo seguite da una creatura fatta di mattoni, che Coïra ha distrutto.» Mallenia sorreggeva l'amica, la cui pelle era pallida nonostante le scottature dovute al sole. «Seguiteci.» I nani assicuravano la retroguardia, e così, in cinque, si diressero verso il mercato dei gioiellieri. «Avete abbastanza energie per un altro incantesimo?» sussurrò Mallenia a Coïra. «Sì. Posso pronunciare solo incantesimi deboli, per risparmiarmi. Ciò basta per distruggere una creatura formata dalla magia, ma non in modo duraturo. Dobbiamo lasciare la città», disse la ragazza, senza fiato. «I campi magici sono legati a questo posto. Nel deserto saremo al sicuro.» Raggiunsero la piazza allagata. Per terra c'era Rodario, che tossiva, raccoglieva i suoi fogli e poi li gettava via imprecando. Accanto a lui, c'era Tungdil con la Sanguinaria in mano; dall'armatura saliva della nebbia e i capelli gli
pendevano bagnati dalla testa, come se si fosse appena fatto un bagno. «Cos'è successo, Sapientone?» Il Rabbioso aiutò Rodario ad alzarsi. «La magia non riesce a sopportare la mia armatura. La creatura d'acqua si è dissolta mentre cercava di cingermi», spiegò Tungdil, torvo, guardando Coïra. «Che cosa consigliate?» «Di andare via di qua. Non possiamo distruggere la magia, continuerà a trattenersi in questo posto», disse la maga, tenendosi il fianco. Si sentiva come se l'avambraccio destro fosse fatto di carne scoperta: poteva anche essere vero, se la magia non lo teneva più insieme. Non ci sarebbe voluto molto prima di perdere l'arto. «Allora facciamo così, prima che la prossima...» Lo sguardo di Tungdil si fermò sull'ascia che il Rabbioso teneva nella sinistra: la testa dell'arma ardeva, gli intarsi brillavano, e i diamanti scintillavano come stelle. «Per gli Empi, che cos'è?» Boïndil notò il comportamento della Lama di Fuoco. «Questo prima non lo faceva», affermò. Poi scorse Barskalìn che usciva da una casa. «Ah, così si spiega. Evidentemente l'ascia non
sopporta gli Zhadár.» La alzò e la osservò, meravigliato. «Per Vraccas! Questa è la vera Lama di Fuoco!» esclamò, mentre comprendeva quello che stava vedendo. «Sapientone, la tua vecchia arma è tornata da te!» Raggiunse Tungdil e gliela porse. «Prendila. Ha ritrovato il suo legittimo signore. Ben si addice a un imperatore!» Tungdil osservò l'arma, e il Rabbioso pensò di scorgere della paura nello sguardo dell'amico. «Dalla a Balyndar», gli ordinò con voce strascicata. «La mia arma è la Sanguinaria.» «Sapientone!» esclamò Boïndil, sgomento. «La Sanguinaria mi conosce da centinaia di cicli, e io conosco lei. Siamo abituati l'uno all'altra.» Tungdil indicò il Quinto. «Qui c'è il figlio della nana che ha preso parte alla nascita della Lama di Fuoco. L'ascia lo percepirà e gli renderà buoni servizi, come un tempo li rese a me.» Chiamò a sé Barskalìn e diede ordine di partire subito. Boïndil mise l'ascia in mano a Balyndar. La testa dell'arma continuava a splendere, e presumibilmente avrebbe continuato a farlo finché gli Zhadár fossero rimasti nei paraggi. O finché Tungdil sarà nei paraggi, aggiunse una
piccola voce sospettosa. «Fa' attenzione», fu tutto quello che il Rabbioso disse mentre consegnava al Quinto la preziosa arma. Erano palesi la commozione e il timore reverenziale con cui Balyndar prese in consegna l'ascia. «Vraccas, ti giuro di distruggere i tuoi nemici e quelli del tuo popolo ogni volta che sarà necessario», dichiarò solennemente, gettando a terra la sua stella del mattino. Non degnò Tungdil di uno sguardo e non sprecò una parola di ringraziamento per quel gesto. Il gruppo si affrettò verso est, per scappare dalla città e dalle sue insidie magiche. Era la via più breve per uscire. Davanti a Coïra, il suolo girava e oscillava. La ragazza si tenne stretta a Rodario e fece per dire qualcosa, poi le mancarono le forze; l'uomo la caricò su una spalla e continuò a correre. Davanti a loro comparve il deserto, non c'erano più di quaranta passi tra loro e l'uscita dall'insediamento. «Ce l'abbiamo quasi fatta», si rallegrò Boïndil. «Adesso la nostra maga può continuare tranquillamente a dormire! Eh, piacerebbe anche a me...»
Un vecchio conoscente in nuove sembianze si parò sulla loro strada. Coltelli, scudi, spade e lance avevano formato una figura alta quattro passi che correva su tre gambe e possedeva un corpo massiccio. Le quattro braccia si protendevano in direzione del gruppo per diversi passi, e alle loro estremità giravano lame così velocemente da non sembrare altro che uno scintillio metallico. Fischiavano e ronzavano forte, e il vento che provocavano sollevava la polvere dalla strada. «Non c'è tempo di svegliare la maga!» disse Tungdil, indicando il vicolo più vicino. «Dividetevi. Dobbiamo superare quella bestia. Non appena arriveremo nel deserto, non ci succederà più nulla.» «Attenti alle vostre armi», avvisò il Rabbioso, mentre stringeva più forte che poteva l'azza tra le mani. «Tu non mi scappi più. E, se lo fai, mi porti con te, e smontiamo insieme questo mostro magico.» La fuga cominciò. Il gruppo si divise, ognuno cercò un modo per superare il nemico. Boïndil, Slin e Balyndar avevano deciso di accompagnare Rodario. Sebbene l'attore fosse eroico, non lo ritenevano
capace di trasportare anche il peso della regina svenuta, almeno non abbastanza in fretta da riuscire a superare indenne la creatura metallica. Il Rabbioso guardò il nemico, che si era cercato le prede più facili. Le lame rotanti massacrarono due Zhadàr. Così facendo, molte lame si frantumarono e le aste si ruppero contro le armature, ma la cosa non disturbava molto la creatura artificiale; le parti rotte vennero espulse e sostituite con altre armi prese dall'arsenale. Le interiora e i pezzi di carne dei morti volarono nei dintorni per parecchi passi. «Vedete di non farvi acciuffare dal mostriciattolo», disse Boïndil ai compagni. Raggiunsero il deserto della salvezza. Rodario si fermò solo quando ebbe fatto venti passi nella profonda sabbia, esaurendo le forze. Cadde sulle ginocchia e lasciò scivolare Coïra a terra, poi si girò verso la città. Guardò impotente il mostro di lame cambiare forma per infilarsi nelle stradine più piccole e prendere uno Zhadar dopo l'altro. Gli Invisibili sembravano essere le sue vittime preferite. Mentre Tungdil, Franek e Mallenia, da vicoli diversi, giungevano di corsa, unendosi a loro,
aspettarono inutilmente Barskalìn e i suoi soldati. Come se non fosse bastata la creatura di metallo, sulla strada principale era apparsa anche una creatura fatta di sabbia, grande come una casa. «L'Attaccabrighe!» gridò il Rabbioso e indicò a sinistra, dove tre Zhadar uscivano di corsa da un cortile e raggiungevano il deserto. Dopo di loro, non arrivò più nessun altro. Terra dell'Aldilà, Forra Oscura, fortezza di Diga-del-male, 6492° ciclo solare, tarda primavera Goda sedeva nella sua camera e rifletteva sulle ultime notizie che aveva ottenuto dalla Terra Nascosta. Se avesse dovuto riassumerne il contenuto in parole povere, avrebbe detto: ovunque, andava meglio che da loro. Ribellioni erano scoppiate contro i Lohasbrander nel Weyurn e nel Tabaîn, e gli uomini avevano notato che non si mostravano né il drago né ulteriori mezz'orchi di rinforzo. Nessuno riusciva più a contenere l'assalto scatenato dai discendenti di Rodario. C'erano morti e feriti, ma gli uomini delle regioni sottomesse avevano respinto i Musi di porco sui Monti Rossi. I Lohasbrander e i loro vassalli venivano per lo più giustiziati dopo brevi
processi. Goda trovava sbalorditivo che gli insorti, dopo duecento cicli di oppressione, si prendessero ancora la briga di convocare dei tribunali. I Monti Rossi si trovavano di nuovo in mano ai figli del Fabbro. Lo comunicava un messaggio di Xamtor, che si presentava come re dei Primi e faceva sapere che i mezz'orchi fuggiti dagli umani nel Weyurn e nel Tabaîn erano stati distrutti. Goda prese la mappa della Terra Nascosta e ne sfiorò la parte occidentale. Le catene montuose, là, erano chiuse. «Vraccas, non toglierci adesso la tua protezione», pregò. Poi sentì bussare alla porta. «Avanti!» Entrò Kiras. Portava una fascia sui capelli per nascondere l'ustione della pelle. «Mi hai fatto cercare?» «Sì.» Goda spinse una sedia verso la Sotterranea. «Come stanno i miei figli feriti?» Kiras sedette e poggiò una mano su quella della maga. «Tuo figlio sta già meglio, e il senno di Sanda continua a riprendersi dalle crudeltà che le sono state fatte. Presto tornerà a essere quella di un tempo. A parte le dita che si è tagliata nel suo ottenebramento iniziale.»
Ma entrambe sapevano che Sanda non sarebbe mai più stata la stessa. «Ci sono notizie. Buone notizie.» Goda le passò le lettere e ne aprì un'altra; scorse rapidamente le righe. «Oh, bene. La fiamma della libertà ha varcato i confini e raggiunto il Gauragar. I Terzi hanno abbandonato le loro guarnigioni e si sono ritirati nei Monti Neri, per non dover combattere con gli uomini.» Passò anche quella lettera a Kiras. «Stando ai resoconti, gli albi del sud sono quasi davanti alla fortezza di Orcomorto.» «Ciò che ci manca è una lettera del Rabbioso.» «Sì. E questo mi preoccupa molto.» Goda stette in ascolto di se stessa, per sentire se il suo compagno fosse morto o vivo. Poiché non sentiva traccia di qualcosa di negativo, concluse che Boïndil e il gruppo avanzavano dritti verso la loro meta: Lot-Ionan. «Ma so che vinceranno.» «Allora va tutto bene. Abbiamo bisogno dell'aiuto di un mago...» Kiras s'interruppe e abbassò il capo, imbarazzata. Goda tentò di sorridere. «So cosa intendevi dire.»
La Sotterranea rispose al sorriso. «Le guardie c'informano che dietro la barriera tutto è rimasto tranquillo. I mostri non hanno cercato di montare nuovi campi. A quanto pare, durante l'attacco alla porta settentrionale si sono rotti il muso, tanto da decidere di ritirarsi per leccarsi le ferite.» Goda era sollevata. Ormai era rimasta soltanto una scheggia di diamante, quella che aveva perduto sulle scale. Ma non la trovava più, nonostante la schiera di soldati che erano strisciati in lungo e in largo per cercarla. «Mi chiedo quanto gravemente io sia riuscita a ferire quel nano. Può essere il motivo per cui evitano di attaccare?» «Ha visto di che potere disponi. Deve aver pensato di trovare gioco facile con le nostre difese, ma adesso ha le idee più chiare.» Kiras armeggiò con la fascia finché non stette come voleva lei. Goda guardò la testa calva della Sotterranea. «Fa male?» «No. Solo una sensazione di calore e una pressione che proviene dalla ferita», minimizzò Kiras. «Quello che mi pesa è pensare che con me porto in giro un simbolo di cui non conosco il
significato. Per questo più tardi andrò dal guaritore e me lo farò raschiare via. Credo che quel nano mi abbia imposto un marchio con cui può rivendicare il possesso su di me. E questo non lo posso permettere.» «Non penso affatto che sia qualcosa di magico, ma capisco la tua cautela», disse Goda. «Riferirai queste notizie durante la riunione con gli ufficiali. Per questo ti ho fatto chiamare.» «Tu non parteciperai? Che cosa devo dire, se chiedono di te?» «Devo andare a fondo di una questione. E non so dirti quanto tempo ci vorrà.» Goda si alzò e accompagnò Kiras alla porta. Si vedeva che la Sotterranea avrebbe avuto piacere di sapere cosa si nascondeva dietro quegli accenni, ma la maga non voleva parlarne oltre. Quando fu da sola, Goda si fasciò le ginocchia con spessi strati di stoffa, e fece lo stesso con le mani, lasciando però libere le dita. Poi raggiunse la tromba delle scale, per cercare il frammento di diamante. Era più che mai consapevole della potenza di quella scheggia, e non poteva accettare che andasse perduta; nella battaglia successiva, proprio quella scheggia poteva risultare
decisiva. Era assolutamente determinata a trovare quel minuscolo frammento, anche se le fosse costato molte rotazioni. Ma, mentre attraversava le sue stanze, le venne in mente un pensiero spiacevole: uno dei suoi poteva aver già trovato la scheggia e averla presa. E subito un altro pensiero, ancora più spiacevole. Sanda dev'essere stata nella tromba delle scale. Terra Nascosta, ex regno del SangreTn, 6492° ciclo solare, tarda primavera I Monti Blu non erano più una scura striscia all'orizzonte e una promessa quasi invisibile del fatto che ancora ne esistevano le vette; erano diventati ormai una piccola ma riconoscibile catena montuosa che si ergeva alla fine del deserto. Come un'isola che prometta salvezza in un mare di sabbia. «Che cosa ne pensi, Sapientone? Mancano ottanta miglia alla fortezza?» Il Rabbioso sentiva che la cotta di maglia era più larga. Avevano tutti perso peso; il cibo che avevano assunto durante il viaggio era leggero, e lo sforzo grave. «All'incirca. Ma non andremo a Orcomorto.» Tungdil fece cenno a Franek di avvicinarsi.
«Dicevi che dovremmo scegliere un altro percorso?» L'apprendista mago annuì. «Bumina prendeva un certo sentiero quando voleva lasciare le caverne senza essere vista da LotIonan e dedicarsi ai suoi esperimenti.» Boïndil fece una smorfia. «La stessa Bumina che ha messo quelle trappole magiche nella cittadina del deserto perché sapeva che tu ci saresti tornato?» «Ignorava che io fossi a conoscenza di questo suo segreto», replicò Franek. «Non è pericoloso.» «In questo Paese non c'è nulla che non sia pericoloso!» tuonò il Rabbioso, dando un calcio nella sabbia. «Perfino questi granelli potrebbero ammazzare qualcuno.» «Ma verranno di nuovo tempi in cui sarà pacifico.» Tungdil si mise in movimento e fece andare avanti l'apprendista. Il gruppo si era fortemente assottigliato, ed era scomparsa anche una parte dell'ottimismo. Così almeno pareva a Boïndil. L'unico che non nutriva dubbi sul successo della loro missione era proprio chi in un primo momento non voleva prendervi parte: Tungdil Manodoro.
Soltanto tre Zhadár erano scampati alla cittadina incantata; Boïndil li aveva soprannominati Attaccabrighe, Ansimo e Ringhio. Ansimo però lo avevano trovato morto accanto al fuoco, una mattina; con le mani teneva stretta una borraccia. Tungdil aveva supposto che l'Invisibile fosse morto di sete, ma il Rabbioso sapeva come stavano in realtà le cose. Temeva anche per sé un destino simile, ma quella sete crudele non si era più fatta sentire. Per il momento. «Che schiera di eroi!» mormorò Boïndil, sfiduciato. Coïra, sfinita, doveva essere trasportata più di quanto potesse camminare con le proprie forze; presumibilmente più avanti l'avrebbero dovuta trascinare verso la sorgente. Speriamo di non incontrare prima Bumina o Vot, si augurò il Rabbioso. Proseguirono la marcia e, col calar della notte, girarono verso sud in modo da poter costeggiare da vicino, nelle rotazioni successive, i contrafforti delle montagne; alla fine videro la fortezza di Orcomorto a meno di dieci miglia di distanza. Era assediata.
Con una marcia lampo, Aiphatòn aveva condotto a sud le sue truppe. Il Rabbioso e Tungdil osservavano l'accampamento dell'esercito, che era stato eretto a grande distanza dalla fortezza. Anche sui pendii a destra e a sinistra delle mura scorgevano le tende degli albi. «Non hanno con loro macchine da assedio», disse Boïndil, stupito. «Pensano che Lot-Ionan aprirà le porte spontaneamente?» «Aiphatòn ha già battuto una volta il mago. Quindi Lot-Ionan non si mostrerà in campo aperto; lascerà entrare gli albi nelle caverne, per attaccarli lì», valutò Tungdil. «Gli apprendisti di Lot-Ionan faranno da sentinelle alle porte, mentre lui potrà aspettare con tutta calma gli eventi.» «Quanti Occhineri saranno?» Balyndar strinse il cappio con cui aveva fissato un sacco intorno alla testa della Lama di Fuoco perché non risultasse, nell'oscurità, vistosa come una lanterna. L'arma brillava da mattina a sera, come disturbata dalla presenza degli Zhadár. «Difficile a dirsi. Almeno cinquantamila, credo.» Il Rabbioso passò il cannocchiale a Balyndar. «Non possono aspettare a lungo prima
di attaccare. A una simile massa di guerrieri, acqua e provviste, qui nel deserto, mancheranno in fretta.» «Un vantaggio per Lot-Ionan, che può aspettare», commentò Mallenia. «E per Aiphatòn, tanto meglio. Se davvero vuole solo liberarsi degli albi del sud, può avvelenare le scorte.» Boïndil rise. «Tu sei pericolosa, principessa.» «Ho combattuto per la resistenza. Abbiamo fatto molto per uccidere i nemici. Non importava come o dove.» Franek suggerì a Tungdil in che direzione guardare per scorgere il sentiero. «Lo raggiungeremo in giornata. Dopo qualche passo, si apre in una piccola caverna. Là riposeremo senza che osservatori casuali ci possano vedere.» Proseguirono, in fila l'uno dietro l'altro, per non lasciarsi alle spalle tracce vistose. Gli albi mandavano sicuramente le loro spie parecchio lontano. Slin canticchiava un'aria dei nani. Era la melodia che per tutto il tempo aveva sentito cantare al Rabbioso. «Solo l'intervento di Tion potrebbe impedirci di raggiungere il nostro
obiettivo», disse improvvisamente. «Eroi, armi come non esistono da nessuna altra parte, e l'aiuto di Vraccas...» Boïndil capiva che il balestriere lo diceva per fare coraggio a se stesso e agli altri. Le numerose perdite avrebbero sicuramente fatto tornare indietro, scoraggiato, qualunque altro gruppo. «Hai ragione. Ma adesso facciamo silenzio. Gli Orecchi appuntiti hanno un buon udito, e il vento è a loro favore.» Senza un'altra parola, si aggirarono alla luce della luna attraverso la regione pietrosa e, guidati da Franek, trovarono il sentiero. Dopo una marcia non troppo lunga, l'apprendista svoltò in un piccolo passaggio e indicò loro un posto in cui sostare per la notte. La caverna era quasi rotonda, misurava sette passi di diametro ed era alta appena perché l'apprendista potesse starci dentro in piedi. «Magnifico! Sembra fatta apposta per noi», disse Slin, toccando le pareti della caverna. «È bello caldo qui dentro. Di certo non congeleremo.» Si prepararono per il riposo notturno e accesero due torce.
Tungdil assegnò agli Zhadár, al Rabbioso e a se stesso i turni di guardia; gli umani, sfiniti, dovevano riposare per raccogliere forze sufficienti al viaggio attraverso le montagne. Cartina alla mano, discusse con Franek del tragitto, una linea dritta che portava nel cuore dei Monti Blu. Boïndil si unì a loro e guardò la mappa. «Questo percorso non lo conosco», ammise. «Dev'essere stato costruito dopo che sono andato nella Terra dell'Aldilà per erigere Digadel-male.» Indicò il punto in cui si trovava l'ingresso del complesso di caverne. «Il nostro popolo non avrebbe mai programmato un simile punto debole nel sistema difensivo. Si capisce subito che ai Lunghi manca completamente la cognizione riguardo a questioni del genere.» «Non l'ha costruito Bumina», lo contraddisse Franek. «Fu Lot-Ionan a notarlo, quando vennero realizzati dei lavori.» «Allora è stato Aiphatòn, quando ha colto di sorpresa il mago.» Boïndil si rifiutava categoricamente di accettare che alla base del sentiero ci fosse un'origine nanica. «Lo dico ancora una volta: i nani non avrebbero mai creato un cammino del genere, che porta non
dico al cuore, ma comunque al corpo del regno. Mai!» Incrociò le braccia sul petto, con le sopracciglia tirate sopra la radice del naso. «La questione è di scarso interesse», tagliò corto Tungdil. «C'è, possiamo usarlo, e lo faremo. Domani.» Mandò gli Zhadár fuori perché cominciassero il turno di guardia. Poi guardò gli umani, che si erano coricati insieme in un angolo: Rodario giaceva nel mezzo, Mallenia a destra e Coïra a sinistra. «Abbiamo la Lama di Fuoco», disse l'imperatore. «Se avessimo saputo prima la fortuna che ci sarebbe toccata, non avremmo dovuto mettere in pericolo la regina. Balyndar porta la migliore arma possibile contro Lot-Ionan.» «Ma è brandita dalla persona sbagliata», si lasciò sfuggire il Rabbioso. «Questo te l'ho già spiegato.» Tungdil si alzò. «E rimango della mia idea. La Lama di Fuoco sta bene nelle sue mani.» Raggiunse la parete di fronte, si sedette sulla sua coperta e chiuse la palpebra. Era il suo modo d'indicare che voleva stare solo. Le cose non stanno prendendo una buona piega. La tua arma è la Lama di Fuoco, non
quella cosa da albi che tieni tra le mani. Boïndil scosse il capo e tornò da Slin e Balyndar. «Ora che gli Zhadár sono via, voglio darci un'occhiata senza rimanerne accecato», disse il Quinto, rimuovendo il sacco che ricopriva la testa dell'ascia. Gli intarsi continuavano a scintillare. I tre guardarono in direzione di Tungdil, che dormiva. Slin disse ciò che pensava. «Forse ci vuole mettere in guardia contro di lui?» La fronte del balestriere era corrugata. «Come può l'imperatore essere un nemico del nostro popolo?» «Io lo sapevo», brontolò Balyndar, coprendo di nuovo l'ascia. «Fin da principio non mi sono fidato di questo nano che si spaccia per Manodoro...» «Fermi, cervelli di gnomo!» esclamò il Rabbioso. «La Lama può anche volerci indicare l'apprendista.» Oppure me, aggiunse mentalmente. Non voleva che il sospetto cadesse su di lui o sull'amico. «Di lui mi fido meno che del mio Sapientone.» Mangiarono qualcosa, dividendosi l'acqua, ognuno assorto nei propri pensieri.
Mentre masticava, Boïndil osservava Tungdil: il volto, le rughe profonde, la benda d'oro e i lunghi capelli castani. Non perderò adesso la mia fiducia in te. La Lama di Fuoco ci sta sicuramente mettendo in guardia da qualcos'altro... Una snella sagoma umanoide comparve all'ingresso ed entrò nella caverna, chinando la testa; nella sinistra teneva una corta lancia. «Occhineri!» ruggì il Rabbioso, balzando in piedi e alzando l'azza. «Ciechi Zhadár! Non sono neanche capaci...» «Calmo, Boïndil Duelame», disse l'albo, avvicinandosi alla luce dei fuochi. La sua armatura era inconfondibile: Aiphatòn. «Non sono qui per farvi del male, ma per spiegarvi che cosa accadrà.» Tungdil sembrava molto tranquillo. «Aspettavo che arrivassi, imperatore.» «Ah, sì? Te lo aspettavi? Io no», brontolò Boïndil, riponendo l'azza. «Come ci hai trovato?» Aiphatòn indicò l'uscita. «Le mie spie mi hanno comunicato che un piccolo gruppo si stava avvicinando ai Monti Blu da ovest. Ho pensato che foste voi, ho seguito le tracce e vi
ho trovato.» Fece scorrere lo sguardo. «Siete tutti qui?» «Abbiamo perso molti Zhadár in un combattimento, e non ci siamo imbattuti nello Squadrone Nero», spiegò Tungdil. «Hai sentito qualcosa riguardo a Hargorin Seminamorte?» «No. Non è venuto da noi.» Il volto sottile di Aiphatòn si rivolse a Tungdil. «Comincerò l'attacco domani. Si è sparsa la voce che le sollevazioni nell'ovest della Terra Nascosta si sono propagate nel Gauragar e nei miei altri territori. E i Terzi hanno abbandonato le loro postazioni e si sono ritirati nelle loro fortezze sui Monti Neri. Gli albi vogliono quindi aprire le porte in fretta per ottenere guerrieri di rinforzo e assumere il controllo della posizione prima che per soffocare le rivolte diventi necessaria una guerra lunga e complicata.» Aiphatòn si sedette. «È vero che Lohasbrand è morto?» «Sì. E già da parecchio tempo.» Tungdil raccontò brevemente all'albo che cosa era successo al loro gruppo nelle ultime rotazioni; non gli nascose che avevano ucciso uno degli Dsôn Aklàn. L'albo guardò Mallenia. «Tirîgon è sopravvissuto al vostro colpo e si è rimesso dalle
ferite a Dsôn Bharà. Lo ucciderò io per voi, principessa», disse gentilmente. «Ma di Firûsha non ho sentito più nulla. A quanto pare, giace davvero sul fondo del lago.» «Elria la faccia sprofondare ancora più della pietra più pesante, e la faccia mangiare dai pesci», mormorò il Rabbioso. «E le faccia anche crollare addosso Seenstolz.» Aiphatòn illustrò il suo piano di attacco, che sembrava terribilmente semplice: assaltare da tre lati, contemporaneamente. «Gli apprendisti di Lot-Ionan vi sommergeranno d'incantesimi.» Tungdil si sedette di fronte all'albo. «Hai cinquantamila guerrieri con te?» Aiphatòn annuì. «E se solo diecimila di loro arriveranno alle caverne, non me ne rattristerò. Io guiderò l'attacco.» Batté con la mano sull'armatura. «Gli incantesimi che lanceranno contro di me saranno bloccati e rispediti al mittente, come ho fatto a suo tempo con LotIonan.» «Rivolgeranno la loro magia contro i tuoi guerrieri», disse Tungdil.
«Ho detto loro che dobbiamo essere veloci per scampare alla morte. Noi albi siamo veloci», replicò Aiphatòn, tranquillo. «Non c'è da stupirsi, con le gambe lunghe che avete», intervenne Boïndil. «Ma nei tunnel vi fanno battere la testa contro il soffitto!» L'imperatore degli albi sorrise. Tungdil non si lasciò deconcentrare dalla battuta. «I tuoi guerrieri sono abbastanza spronati per arrivare alle caverne. Ma poi non avrai più nessun controllo su di loro. Che cosa accadrà se troveranno Lot-Ionan e lo uccideranno? Tu sai che abbiamo bisogno del mago, vivo.» «Ho detto loro che abbiamo bisogno di prenderlo vivo.» Il Rabbioso si schiarì la voce. «E poi? Dovremo liberare il mago dalle grinfie di diecimila albi?» Accarezzò l'azza. «Ehi, non ritenermi un codardo, imperatore degli Occhineri. A me piacciono le sfide, e mi piace anche affrontare molti nemici. Ma proprio così tanti?» «Ci stavo giusto pensando anch'io», ammise Tungdil, che si stava picchiettando la benda con l'indice sinistro.
«Ho preso delle precauzioni affinché la maggior parte di loro non sopravviva alla lotta. Esistono sostanze velenose di cui una goccia in un lago basta per uccidere chiunque ne beva.» L'albo guardò Tungdil. «Le riserve d'acqua dei miei guerrieri sono mescolate con una sostanza del genere. Tra due rotazioni moriranno, e così giaceranno nel deserto o nei Monti Blu. Quello sarà il momento in cui potrete prendere in consegna il mago.» «Questo sì che è parlare!» esclamò Boïndil, sollevato. Aiphatòn aveva avuto la stessa idea di Mallenia. «E poi tu andrai davvero da solo a Dsôn Bharà, a sterminare gli albi del nord per poi scomparire per sempre?» Si vedeva chiaramente che Aiphatòn trovava divertente la schiettezza del Rabbioso. «Così farò, Boïndil Duelame. Ripulirò la Terra Nascosta dagli albi.» «Ci aspettano eventi emozionanti», commentò il Rabbioso, fregandosi le mani. L'albo si alzò e rivolse loro un cenno del capo. «Ora torno indietro. Dirò alla mia gente di aver trovato dei mercanti e di averli uccisi.» Si accomiatò con un gesto della mano e lasciò la caverna.
«Con la sua supposizione relativa al veleno, Mallenia ha fatto centro.» Boïndil era contento che l'albo fosse scomparso. «Prima o poi avremo Lot-Ionan, Sapientone.» Tungdil annuì e appoggiò la mano sulla spalla del Rabbioso. «Riposati, amico mio. Hai urgente bisogno di dormire, esattamente come Rodario e le sue due donne.» Sembra proprio il mio vecchio Tungdil. Boïndil represse uno sbadiglio. «Lo farò. Ma non dimenticare di svegliarmi. Non mi va che gli Zhadár facciano la guardia da soli. Abbiamo ben visto che lasciano passeggiare nel nostro campo il più pericoloso Occhineri della Terra Nascosta, senza neanche un ammonimento», Gesticolò in modo esagerato. «I famosi Zhadár! Ah! Ne abbiamo ancora due, e contro chi sono caduti gli altri? Contro creature magiche.» «Le uniche che potessero ottenere una vittoria del genere contro gli Invisibili», replicò Tungdil. «Risparmieremo in battaglia i nostri ultimi due.» «Stai scherzando, Sapientone?» «L'Attaccabrighe e Ringhio, come li chiami tu, conoscono tutti i segreti degli Dsôn Aklàn», spiegò Tungdil, con fermezza. «Se Aiphatòn
dovesse fallire, dovremo fare affidamento sul loro sapere per levarci di dosso gli Occhineri. Solo allora la Terra Nascosta troverà pace.» Boïndil era sbalordito. «Significa che io devo fare attenzione all'Attaccabrighe e a Ringhio, e non il contrario?» Tungdil accennò un applauso e scivolò di nuovo nel suo giaciglio. «Se va avanti così, berrò volontariamente dalla borraccia di un albo.» Il Rabbioso scosse la testa e a passi pesanti raggiunse Slin e Balyndar, per annunciargli le ultime decisioni.
XXVII Terra Nascosta, Monti Blu, regno dei Secondi, 6492° ciclo solare, tarda primavera Il Rabbioso venne sopraffatto dalle emozioni. Si trovava nella sua patria, che da tanto tempo aveva abbandonato e che, a causa di Lot-Ionan, non era potuto nemmeno tornare a visitare! Inspirò profondamente e riconobbe subito l'odore caratteristico dei Monti Blu. Gli faceva male la decadenza che scopriva ovunque. Gallerie, cunicoli, tunnel, caverne, sale, aule, stanze grandi e piccole richiedevano cure, perché le montagne non erano qualcosa di morto, come gli esseri umani pensavano. Si muovevano, si spostavano, vacillavano e tremavano, crescevano e morivano in certi punti, e nane e nani si comportavano di conseguenza. Si puntellava, intonacava o scavava con amore... Ma, da quando dominava Lot-Ionan, la manutenzione ne aveva sofferto. «Crepe, crolli, infiltrazioni d'acqua», enumerò Boïndil, afflitto. «È una vergogna! Già
solo per questo, il vecchio mago si è meritato un sacco di botte.» «Per non parlare delle distruzioni che sono state provocate intenzionalmente», aggiunse Slin. «Dipendono dagli esperimenti che Lot-Ionan e gli apprendisti hanno intrapreso», spiegò Franek, che si trovava con Tungdil in testa al gruppo. «Allora ti meriti anche tu un sacco di botte», ringhiò Boïndil, dandogli una manata. «Le montagne portano rancore. Spero che non ci facciano sentire la loro collera quando la mia stirpe farà il suo ingresso.» «Se ne rallegreranno di certo», disse Slin. «Non credo possano più sopportare la magia.» Dietro i nani, camminavano gli umani, e gli Zhadár formavano la coda. Tutti avevano riacquistato le forze; avevano trovato una sorgente d'acqua e a ogni sorso vi avevano attinto coraggio fresco. Ormai erano in viaggio verso una seconda sorgente molto importante. Franek non dava l'impressione di aver dimenticato quale tunnel portasse là. Il Rabbioso si muoveva però con attenzione ancora maggiore. Non appena il mughetto darà
anche la minima impressione di volerci ingannare, il mio lungo spuntone gli aprirà la testa e gli farà prendere aria al cervello. «L'attacco degli albi dev'essere già cominciato da un po'», disse Rodario a Mallenia. Avevano preso Coïra in mezzo, per sostenerla. «Nessuno dovrebbe sbarrarci la strada.» «A parte Lot-Ionan», obiettò Mallenia. L'attore scosse il capo. «Quante possibilità ci sono d'imbattersi nel mago in questo immenso regno sotterraneo?» «Potrebbe sorvegliare la sorgente. E allora le cose si metterebbero male.» Mallenia parlava a bassa voce, in modo che né i nani né gli Zhadár potessero sentirla. «È là davanti», disse Franek. Il suo indice puntava su una porta ovale; intorno all'arco di palandio erano state scolpite delle rune. «Là dietro è nascosta la sorgente.» «Che cosa significano quei simboli?» domandò Tungdil, dirigendosi verso l'ingresso. «È la formula che dev'essere pronunciata per aprire la porta. Così Lot-Ionan viene avvisato che qualcuno è riuscito a entrare; possiede un bracciale che comincia a brillare quando viene pronunciato l'incantesimo.»
Tungdil guardò l'ingresso. «Tu come hai fatto a raggiungere la sorgente?» «Avevo cercato un controincantesimo e lo ritenevo sicuro.» Franek guardò a terra, contrito. «Quell'errore mi è costato caro.» «Possiamo semplicemente spaccare tutto, Sapientone.» Il Rabbioso guardò Balyndar. «La Lama di Fuoco può aprire un bel buco e distruggere, col suo potere, tutti gli incantesimi di protezione.» «Ciò non toglie che Lot-Ionan ne sarebbe informato», ammonì Franek. «Può comparire molto in fretta, prima che la regina e io abbiamo ricevuto abbastanza magia per contrastarlo. Ancora non sarà indebolito.» «Siamo davanti alla nostra prima meta e non possiamo entrare», disse Balyndar, contrariato. «Se il mago ci scopre adesso, abbiamo ancora meno possibilità di batterlo.» «Tu e Tungdil sareste gli unici a sopravvivere», stimò Bomdil. «Siete protetti contro gli attacchi magici.» Tungdil arricciò le labbra e alzò la Sanguinaria. «D'accordo. Entreremo e lasceremo scendere la regina Coïra nella sorgente, mentre Balyndar e io faremo attenzione affinché Lot-
Ionan non ci colga di sorpresa.» Guardò la maga. «Di quanto tempo avete bisogno per recepire energia sufficiente?» «Dipende dalla sorgente», rispose Coïra, incerta. «Questa è molto forte», osservò Franek. «A me non serve più che qualche istante per ricaricarmi.» «Riusciremo a resistere contro il mago per il tempo sufficiente», affermò il Quinto con decisione, facendo un cenno del capo verso Tungdil. L'imperatore si gettò di spalla contro la porta. Si sentì un forte sibilo, mentre tutte le rune intorno all'ingresso divampavano e coprivano Tungdil con una pioggia di fulmini; ma l'armatura di tionio assorbì l'incantesimo come se si trattasse d'innocui raggi di luce. Il legno andò in pezzi, la porta fu parzialmente divelta dai cardini e si spalancò. Tungdil stava con l'arma alzata e controllava in tutte le direzioni. «Qui non c'è nessuno», gridò. Lo raggiunsero in fretta; Balyndar si fermò al passaggio, con lo sguardo rivolto al corridoio da
cui erano venuti, impugnando la Lama di Fuoco con entrambe le mani. Gli altri entrarono nella piccola stanza, che ricordava un bagno a vapore. Gradini scendevano in un pozzo verticale chiuso da una grata; le pareti erano adornate da mosaici che mostravano il volto di Lot-Ionan. Il mago è cambiato davvero, pensò Boïndil. La persona raffigurata nei mosaici aveva la testa calva e tre ciocche di barba argenteo-rossicce al mento; anche le sopracciglia erano cespugliose e lunghe. Il volto sembrava demoniaco e crudele, come se le ossa si fossero deformate e disposte in modo diverso. Ma non c'erano dubbi che fosse davvero il padre adottivo del Sapientone. «La maga deve entrare nel pozzo», spiegò Franek. «Il pavimento a grata scenderà di cinque passi per via del suo peso, portandola proprio nel campo magico. La regina dovrà poi levitare su con l'aiuto di un incantesimo.» Slin si era fermato accanto alla porta, vicino a Balyndar. «Perché non hanno condotto gli scalini sino alla fonte?» «Lot-Ionan voleva. Non so perché.» Notando il volto diffidente di Boïndil, l'apprendista
aggiunse: «Lasciate andare prima me, se temete una trappola». «Ti piacerebbe, eh?» Il Rabbioso rise. «Sapientone, che cosa facciamo?» Tungdil fece cenno a Coïra di avvicinarsi al pozzo. «Se le accade qualcosa, uccidi Franek», ordinò a Boïndil. «Con piacere!» La regina venne portata da Rodario e Mallenia giù per la scala fino alla grata. Quando Coïra scostò le mani dei suoi accompagnatori, il pavimento si abbassò con uno scatto. «Oggi rinuncio a svestirmi», disse a Rodario, accomiatandosi. «Ci saranno per voi altre occasioni per ammirarmi senza vestiti.» «Sembra che venga teso qualcosa», disse Slin, che ascoltava con attenzione i rumori meccanici. «Badate a voi!» gridò Rodario preoccupato, poi guardò Mallenia. «Non mi piace che non abbiamo nulla per tirarla fuori in caso di emergenza.» La guerriera si tolse il cinturone e chiese quello dell'attore. Li legò l'uno all'altro e controllò che il nodo fosse robusto. «Saltando, Coïra raggiungerà la cintura e noi potremo
tirarla su.» S'inginocchiò accanto al foro e guardò in basso. «È buio come una tomba.» «Non è un bel paragone.» Rodario s'inginocchiò accanto a lei. Continuavano a sentirsi scatti: la discesa della grata non era finita. Un pallido bagliore intorno alla maga rivelava che la sorgente le stava dando il suo potere. Attesero in silenzio. La tensione all'interno della stanza portava tutti a sudare; solo Tungdil sembrava tranquillo, come se fosse assolutamente certo di uscire vivo dai Monti Blu, portando via Lot-Ionan come suo prigioniero. Boïndil guardava alternativamente gli umani e la porta. «Quanto odio questa situazione. Preferirei combattere un esercito di Musi di porco.» Il corridoio che portava alla sorgente rimaneva silenzioso. Non c'erano voci né rumori di altro genere. «Come faremo a trovare Lot-Ionan?» chiese Tungdil a Franek.
L'apprendista alzò le spalle. «Può essere ovunque, ma penso che non sia lontano da noi. Mi stupisce che non compaia per controllare...» «Silenzio!» ordinò Balyndar. «Arriva qualcuno!» Rodario vedeva che Coïra si contorceva nel bagliore della sorgente, come in preda a tremendi dolori: si piegava in due, si teneva alle pareti, vacillava e gemeva piano. L'attore non ricordava così il procedimento di Seenstolz. «Coïra, che succede?» La regina non rispose. «Tiriamola fuori», decise, facendo pendere la lunga striscia di cuoio annodata. «Afferratela!» Il Rabbioso si mise dietro Tungdil e Balyndar, facendo attenzione a non toccare direttamente le loro armature. Vide una giovane donna in un aderente abito blu scuro affrettarsi verso di loro. Si guardava spaventata alle spalle e non aveva ancora notato i nani che stavano all'ingresso; dalla spalla destra le spuntava una freccia nera: il saluto di un arciere albo. «La piccola incantatrice è ferita. Bene!» mormorò Boïndil. «La lasciate a me?» chiese a Tungdil e Balyndar.
Solo allora Bumina li vide. «Nani? Per Samusin, come avete fatto a entrare?» Franek si mise alle spalle dei nani, in modo che l'apprendista potesse scorgerlo. «Non te lo aspettavi», disse, con un sorriso cattivo. «Oh, gli albi ti hanno fatto male?» Estrasse il pugnale. «Non è niente rispetto a quello che ti farò io! Hai distrutto la mia città! Le trappole portavano la tua firma.» «L'ho fatto su ordine di Lot-Ionan.» Bumina squadrò i nani, cercando di valutare che cosa l'aspettasse. Alzò le braccia. «Fatevi da parte e lasciatemi entrare nella sorgente!» Tungdil e Balyndar alzarono contemporaneamente le armi. Rodario lanciò di nuovo un richiamo dentro il pozzo, ma Coïra non rispondeva. Con un'imprecazione, l'attore balzò dentro lo stretto condotto, cercando di attutire il meglio possibile la sua caduta, e finì accanto alla maga rannicchiata; anche lui venne circondato dal bagliore biancastro, ma non sentì nulla. «Che succede?» disse, aiutando Coïra ad alzarsi. «È incredibilmente... potente», gemette la regina. «Non ci sono abituata e... fa male! Pompa la forza dentro di me in un modo che non
conosco.» La sua frase successiva soffocò in un gemito. Le sue dita si attaccarono al bavero di Rodario e lo strinsero forte. «Non riesco a concentrarmi su un incantesimo che mi faccia uscire», balbettò. «Aiutatemi...» Il corpo della ragazza s'irrigidì e si piegò in modo innaturale per via dei crampi che la scuotevano senza sosta. L'attore si fece gettare la fune improvvisata. Rapidamente vi legò Coïra e gettò l'altra estremità di nuovo fuori del pozzo. «Tiratela su!» gridò, accovacciandosi per reggere la maga sulle spalle. «Io la tengo da sotto!» La fune si tese, e la regina venne issata un po' alla volta fuori del pozzo, lontano dalla zona di efficacia della magia. Improvvisamente la grata si scostò di lato, sparendo da sotto i piedi di Rodario. I nani all'ingresso non notarono nulla. Franek continuava a deridere Bumina. «Se davvero tu avessi ancora della magia, avresti lanciato un incantesimo contro di me già da un po'.» «Dal momento che neanche tu l'hai fatto, presumo che la tua riserva sia vuota quanto la mia», ribatté lei.
Il Rabbioso si girò e vide che Coïra veniva issata fuori del pozzo e posata a terra da Mallenia. La regina ringraziò, respirando a fatica, e si alzò; non sembrava affatto esausta e aveva negli occhi un debole scintillio. «Adesso noi abbiamo una maga che può appendere al muro entrambi», annunciò il Rabbioso. Tungdil si girò un istante e fece un cenno di capo a Franek, che era impaziente di entrare nella sorgente. «Adesso vai.» Senza preavviso, gli trafisse il ventre con la Sanguinaria. «Vai da Samusin, o dal dio che ti pare.» Rantolando, l'apprendista si accasciò sulle lastre di pietra; muoveva le labbra, ma ne uscirono solo suoni incomprensibili, mentre con le unghie raschiava gli schinieri dell'armatura di fiordo. Quando finalmente la testa toccò il suolo, l'uomo era morto. Boïndil non era sconvolto, però era molto stupito. Un altro gesto che non si addice al vecchio Sapientone... «Ci ha rivelato il tuo sentiero», disse, gelido, Tungdil a Bumina, camminando deciso verso di lei. «Così siamo arrivati nelle caverne.» Levò la
Sanguinaria, da cui colava il sangue. «Dov'è LotIonan? E non provare a fuggire.» Bumina indietreggiava davanti al nano. Fece per girarsi e correre via, ma con un grido furioso Tungdil scagliò l'arma verso di lei. Là giovane apprendista venne colpita alle spalle, esattamente nella ferita da cui spuntava la freccia albica; strillando cadde a terra, abbattuta dalla forza del lancio. Tungdil fu subito accanto a lei, le strappò brutalmente la Sanguinaria dal corpo e le sferrò un calcio, facendola girare sulla schiena. La lama le puntava verso il collo. «Conto fino a tre... Se non mi dici dov'è Lot-Ionan, morirai. La sua voce profonda tuonò, facendo rabbrividire perfino il Rabbioso. «Uno!» «Muori, e che la tua anima si perda!» piagnucolò Bumina. «Smettila di proteggere il tuo maestro. Così danneggi soltanto te... Due!» Tungdil rafforzò la pressione, e la lama tagliò la pelle. «Non è qui! Non è qui!» «Tre!» Impassibile, Tungdil spinse la Sanguinaria attraverso la gola dell'apprendista. Tossendo e gorgogliando, la donna cercò di respirare, le dita si posarono intorno all'arma,
cercando di smuoverla, ma il braccio del nano sembrava diventato d'acciaio. Bumina lottò contro la morte, e perse. Lo sguardo le si offuscò, la vita si allontanò. «Lo cercheremo per conto nostro», affermò Tungdil. «Non può essere lontano.» «E nemmeno gli Occhineri», disse Boïndil, che non riusciva a credere a quello che l'amico aveva fatto. Non provava pietà per quegli umani, si erano meritati la morte; ma il modo in cui Tungdil li aveva uccisi lo meravigliava profondamente. «Aiuto!» sentì dire a Mallenia. «C'è bisogno di braccia forti!» Il Rabbioso fece per girarsi e aiutare la guerriera, ma diversi albi sbucarono fuori del corridoio. Il nano stimò che fossero almeno diciassette, e tutti portavano armature di cuoio tinte di nero con rinforzi in metallo sul petto. Le armi erano molto diverse tra loro, ma simili a spade. Lo spirito combattivo del Rabbioso si risvegliò. «Arrivo subito!» gridò a Mallenia. «Prima ho qualche Occhineri da ridurre in poltiglia!» Levò alta l'azza e si gettò contro di loro, gridando forte il nome di Vraccas. Un'ombra nera lo superò.
«Ehi, no! Sapientone, non puoi guastarmi tutto il divertimento», si lamentò Boïndil, deluso. «Va' tu ad aiutare Mallenia! Lasciali a...» Già la Sanguinaria si abbatteva orizzontalmente sul fianco del primo albo, tagliandolo in due come se fosse stato di cera. Mentre il primo avversario ancora cadeva, Tungdil menò un colpo verso l'albo successivo, trafiggendogli il petto; estrasse rapido la lama e tagliò il collo di un terzo albo. Gocce di sangue schizzavano dalla spada, spargendosi intorno. Il Rabbioso si fermò, guardando incantato l'amico, che prima di allora non aveva mai visto imperversare in quel modo. La velocità dei movimenti di Tungdil era superiore a quella degli Occhineri; gli albi non capivano cosa stesse succedendo. Il sangue scorreva sul pavimento, arti cadevano a terra, armi e armature si spezzavano a ogni colpo della Sanguinaria. Mentre attaccava, Tungdil gridava come un folle. Si aprì im sentiero falciando albi, e i corpi che cadevano coprirono la vista al Rabbioso. Quando l'ultimo nemico si fu accasciato, Boïndil vide Tungdil immobile, con le spalle rivolte verso di lui, all'altra estremità del corridoio. Il sangue lo aveva coperto dalla testa ai piedi.
«Che Vraccas ci aiuti!» mormorò Balyndar. Boïndil si girò e vide alla sua destra il Quinto, pallido. Non era stato neanche un combattimento, ma un massacro. Contro Tungdil, gli albi sono sembrati inoffensivi come mezz'orchi ubriachi. Boïndil sapeva che neppure lui stesso sarebbe mai riuscito ad arrivare dall'altra parte del corridoio, in così poco tempo e illeso. Coïra non aveva gettato nemmeno uno sguardo fuori della stanza. Guardava nell'oscurità del pozzo in cui si trovava Rodano; per poterlo aiutare con un incantesimo, doveva vederlo. Alzò la mano, e subito una torcia volò dal suo sostegno, andando verso di lei. Diresse la luce nel pozzo e la fece scendere finché non scorse l'attore, che si teneva aggrappato alla grata con entrambe le mani, mentre le gambe penzolavano sopra l'abisso. La grata riprese ad alzarsi. Avrebbe schiacciato le dita di Rodano, facendolo cadere. La maga formulò un incantesimo di levitazione. Fuori della sorgente non si sentiva più tramortita ed era inondata di una felicità che le impediva qualunque pensiero chiaro.
Forze invisibili afferrarono l'attore e lo sollevarono, facendolo passare attraverso la fessura sempre più stretta tra parete e grata e facendolo levitare fuori del pozzo. Coïra si gettò tra le sue braccia, stringendosi a lui, per poi lasciarlo subito dopo. «Devo andare a vedere cosa succede là fuori, nel corridoio», si scusò, correndo verso l'uscita. «Un vero eroe», disse Mallenia, dandogli un bacio sulla guancia. «Eppure bisognoso di aiuto. Questo mi piace di voi.» Gli sorrise e seguì la maga. Rodario si sfregò le mani doloranti, al cui interno si delineavano delle escoriazioni. «Samusin, dio dell'equilibrio, ti ringrazio.» Poi notò il cadavere di Franek e il sangue nero che fluiva dall'ingresso. Dal pozzo si sentì uno scatto chiaramente percepibile, e la grata tornò nella sua posizione. «Sia lode a Vraccas: stanno arrivando altri Occhineri!» sentì gridare dalla voce felice di Boïndil. «Sapientone, questa volta sono miei, intesi? Non posso lasciarti l'intero... no, Sapientone!» Subito dopo si sentirono forti grida e il cozzare di armi. «Ecco che l'ha fatto di nuovo!»
Rodario si piantò le mani sui fianchi, prese fiato ed estrasse la spada. Sembrava ormai chiaro che non era un eroe. Stupidamente, però, si considerava tale, e gli eroi dovevano superare combattimenti. Lo seguivano gli Zhadár, davanti a lui correvano Mallenia, Coïra e Slin, e in testa lungo il corridoio c'erano Balyndar e il Rabbioso. Non vedeva Tungdil da nessuna parte, ma sentiva rumore di scontri e grida da un altro corridoio. «Perché nessuno mi spiega cosa sta succedendo?» si lamentò platealmente, affrettandosi per non perdere di vista i suoi compagni. Correvano al trotto leggero lungo i corridoi del regno dei nani, sempre stando in guardia per eventuali incontri con Lot-Ionan, con Vot o con gli albi. Secondo la stima di Tungdil, lo facevano da almeno tre rotazioni. Non avevano incontrato niente e nessuno. Gli albi che Tungdil aveva abbattuto non facevano parte dell'armata principale; erano soltanto un reparto in ricognizione che era riuscito a superare la sorveglianza di Vot e Bumina.
Volevano sicuramente uccidere Bumina prima che riuscisse ad attingere a nuove forze, e così facendo sono finiti in braccio a noi. Il Rabbioso sogghignò. Tanto meglio! Tuttavia continuava a essere in collera con Tungdil, che aveva ucciso non meno di venticinque albi da solo e con la rapidità del vento. Sembrava che quegli scontri non gli procurassero la minima fatica, e anche la limitazione dovuta alla perdita dell'occhio sembrava non contare. Boïndil doveva ammettere che ormai Tungdil gli era molto superiore in combattimento, per destrezza, tecnica e velocità. «A destra», ordinò Tungdil, guidando il gruppo in quella che un tempo era la sala del trono. La sontuosità e la dignità erano scomparse; gli apprendisti avevano condotto qualche esperimento contro le pareti della caverna, facendo crollare parecchie delle colonne che un tempo raggiungevano altezze vertiginose. Le scene di battaglia scolpite nelle pareti di pietra, tratte dalla storia del popolo dei nani, mostravano buchi e bruciature; lampade e bracieri giacevano rovesciati a terra.
Anche l'imponente tavolo dove sedevano i re delle stirpi e le tribune di pietra artisticamente intagliate, riservate ai capiclan, erano stati frantumati; l'impressionante trono di marmo, su cui un tempo sedeva Gundrabur Testabianca, era andato in pezzi per effetto di un incantesimo: l'emblema del potere perduto delle stirpi dei nani. Il Rabbioso aveva sperato che Lot-Ionan avesse posto lì il suo rifugio. «Così non va», disse Rodario, che aveva notato l'avvilimento del nano. «Potremmo perlustrare per cicli le montagne senza vedere nemmeno una volta il mago.» «Che altro ci resta da fare?» replicò Slin, guardando Coïra. «Non dicevate di conoscere un incantesimo?» «Per trovarlo?» La ragazza scosse la testa. Mallenia si sedette sul moncone di una colonna. Non faceva mistero della sua insoddisfazione. «Dobbiamo formulare subito un nuovo piano. Chissà cosa sta succedendo nella mia terra o presso la Forra Oscura...» «Degli albi non dovete in nessun modo preoccuparvi. Il veleno ormai deve aver fatto effetto. Devono esserne rimasti in vita solo
pochi», la tranquillizzò Tungdil. «I sopravvissuti non costituiscono un pericolo e saranno presto annientati da Aiphatòn.» «Saremmo dovuti restare alla sorgente», mormorò Balyndar. «Prima o poi Lot-Ionan sarebbe andato lì.» «Niente c'impedisce di tornarvi.» Boïndil distese la schiena e sentì le vertebre schioccare. «Sto invecchiando», mugugnò. «Si direbbe che ho del legno dentro di me, non delle ossa.» «Torniamo alla sorgente», ordinò Tungdil. «Strada facendo, cerchiamo delle provviste. A qualcuno la pancia borbotta così forte che non potremmo entrare di soppiatto da nessuna parte.» Non appena ebbero lasciato la sala del trono, sentirono dei passi alle loro spalle. Un uomo, di trenta cicli al massimo, entrò nella sala e vide gli Zhadár, che chiudevano la fila. Alzò di scatto un braccio e lanciò un incantesimo contro di loro. L'Attaccabrighe e Ringhio dimostrarono abbastanza presenza di spirito da mettersi al riparo, balzando dietro le colonne. «Grazie, Vraccas!» esultò il Rabbioso, girando sui tacchi. «Abbiamo trovato Vot!»
«Oh, magnifico! Ma è lui che ha trovato noi», precisò Slin, lasciandosi cadere sulle ginocchia e alzando contemporaneamente la balestra con un movimento fluido. Prima che qualcuno lo potesse fermare, spedì un dardo contro l'apprendista. «Questa è la mia magia!» Vot alzò le braccia per formulare un altro incantesimo; poi si guardò il petto, vacillò e cadde a terra. Non si era aspettato un semplice dardo. «Svelti!» ordinò Tungdil, mettendosi a correre. «Forse riusciamo ancora a interrogarlo. » Chiamò a sé Coïra, in modo da poter salvare l'apprendista in caso di necessità. Vot giaceva nel sangue, perché si era estratto il dardo dalla ferita. Era stato colpito al cuore, ma il bagliore intorno al foro diceva ai presenti che l'apprendista era in procinto di guarirsi con le sue facoltà magiche. Tungdil puntò su di lui la Sanguinaria, mentre Coïra lo fermava con un lucente incantesimo imprigionante intorno alle mani e sugli occhi. Così era praticamente innocuo, visto che non poteva riconoscere i bersagli né lanciare incantesimi.
« Stiamo cercando il tuo maestro: Lot-Ionan », disse Tungdil. « Abbiamo già chiesto di lui a Bumina qualche rotazione fa, ma, visto che non ce lo voleva dire, ora sta imputridendo davanti all'ingresso della sorgente. Il tuo destino dipende dalla scelta che farai. » Vot non aveva ancora perso la sua presunzione. «Chi siete voi che osate...?» Tungdil gli fece con la lama un leggero taglio sul collo. Non era una ferita mortale, ma sanguinò copiosamente. « Il secondo colpo sarà forte. » « Lot-Ionan non è più qui », mormorò Vot. Il Rabbioso gli diede una pedata sulla tibia. « Se menti un'altra volta, giovanotto, andrai a incontrare la morte! » « Sto dicendo la verità », replicò l'apprendista, spaventato. « Il mago è davvero andato via. » Tungdil abbassò la lama verso il petto del prigioniero. « Dove? Parla, o scoprirò quanto in fretta sei capace di curare le tue ferite. » Vot non osava muoversi. « A nord », disse a bassa voce. « È voluto andare a nord per punire gli albi del loro attacco. Era a conoscenza dei loro piani e ha affidato a noi la difesa della
sorgente. Quando torneranno nei loro regni, gli albi non troveranno altro che rovine. » «Stai mentendo!» gridò Boïndil. «Franek ci ha detto che il mago non permette mai ai suoi apprendisti di accedere alla sorgente senza la sua sorveglianza. » Vot sospirò. « La situazione l'ha costretto. » « Non ti credo. » Tungdil spostò più in basso la punta della lama. «È la verità! Ha fatto in modo che, dopo la terza visita, entrare nella sorgente scatenerà un incantesimo distruttivo», spiegò Vot, concitato. «Che cosa vuole fare di preciso, a nord?» «Ridurre in cenere i regni degli albi per punirli dell'attacco. Che altro?» «Già, che altro?» disse il Rabbioso, imitando l'apprendista. «Lo faccio anch'io tutte le rotazioni: mi alzo, spiano la Forra Oscura a mani nude e porto un poco di distruzione.» Vot sbuffò con disprezzo. «Lot-Ionan dispone di potere sufficiente a devastare intere regioni fin dove l'occhio può guardare. Ha imparato a contenere dentro di sé una quantità enorme di magia. Presto gli albi se ne accorgeranno.» «Là si trova un'altra sorgente della magia», disse il Rabbioso a Tungdil. «Sembra che Lot-
Ionan voglia imperversare anche dall'altra parte della Terra Nascosta.» «Si accorgerà che non ci sono più né il drago né il Kordrion. Gli albi sono ormai distrutti, e lui può diventare il signore incontrastato della Terra Nascosta», concluse Tungdil. «Saremmo potuti restare ad aspettarlo comodamente da Aiphatòn», disse Slin, sospirando. «Sarebbe venuto lui da noi.» «Così non avremmo trovato lei!» Balyndar alzò la scintillante Lama di Fuoco. «Ci sarà di grande aiuto.» «A nord, dunque.» Rodario si guardò i logori stivali. «Questa volta prendiamo dei cavalli o qualcosa che ci possa portare, in modo da non dover camminare.» L'Attaccabrighe emise un suono d'allarme ed estrasse l'arma. Subito il gruppo si allontanò dalla porta, lasciando con noncuranza Vot nella sua pozza di sangue. «Maledizione!» Boïndil vide un'orda di albi entrare nella sala del trono dal lato in cui loro stavano tentando di ritirarsi. Dal naso e dalla bocca degli albi scorreva sangue nero, mezzo coagulato; non pochi di loro camminavano in
modo vacillante e, mentre levavano le armi per combattere contro i nani e gli umani, sembravano privi di forza. Il veleno non li aveva ancora battuti del tutto, ma li rendeva sempre più deboli. Anche dal secondo corridoio entrarono degli albi, e alla loro testa c'era Aiphatòn. Mentre passava, trafisse Vot col suo giavellotto e ne alzò il cadavere in modo che fosse visibile a tutti, poi cominciò a parlare. «Dice che ha ucciso l'incantatore che ha lanciato su di loro la maledizione, e che il loro dolore presto diminuirà», tradusse Mallenia. «Per liberarsene del tutto devono però trovare Lot-Ionan. I...» Cercò la parola giusta. «I nani insomma, voi - non meritano nessuna sosta e nessuno sforzo da parte loro. Devono trovare il mago. Quello ha la precedenza su tutto.» Un albo fece un passo in avanti e si rivolse ad Aiphatòn. «È dell'opinione che ci debbano uccidere. Ha riconosciuto la Lama di Fuoco e teme che possiamo procurare dei fastidi. Inoltre sappiamo sicuramente come far scattare le trappole nascoste che furono poste al tempo dei nani per trattenere i conquistatori.» Mallenia rimase in
ascolto. «Se ho capito bene, quelli che vediamo qui sono gli ultimi albi sopravvissuti dell'intero esercito.» Non sarà facile. Il Rabbioso aveva già cominciato a fare un calcolo approssimativo e giunse a stimare trecento nemici. In normali circostanze, difficilmente avrebbe creduto in una vittoria. Ma con la maga percorsa da nuove forze, Tungdil pericolosissimo e Balyndar con la Lama di Fuoco, il combattimento sarebbe stato una gara a chi ne abbatteva di più. Lui era quello con le minori probabilità di vittoria. «Io mi prendo Aiphatòn», sussurrò a Tungdil. «Tu aspetterai di vedere cosa succede.» Tungdil ordinò a Coïra di tenere pronto un incantesimo di protezione per fermare un'eventuale nube di frecce. Mallenia riprese a tradurre. «Aiphatòn respinge la proposta. Dice che se ne potranno occupare dopo avere aperto le porte. Prima dev'essere conclusa la ricerca del mago.» «Sta chiaramente cercando di difenderci», disse Rodario, sollevato. Aveva estratto la spada, come Mallenia. «Non penso che ci riuscirà. E non ha nemmeno bisogno di riuscirci.» Tungdil salì la
breve scala che conduceva ai frammenti del trono, alzò la Sanguinaria e gridò qualcosa. «Voglio davvero sapere che cosa sta dicendo?» sospirò Rodario. «Io sì.» Boïndil sogghignava, gioendo dell'attesa. «Si fa piazza pulita degli Occhineri! Verranno annientati sulle montagne, com'è giusto. Da noi nani!» Sorrise truce. «Vraccas, che magnifica rotazione!» «Dice di essere stato lui a portare la maledizione sugli albi e che devono portare via la sua vita se vogliono rompere l'incantesimo», tradusse Mallenia. Un forte mormorio percorse la folla di albi, poi i primi corsero verso la scala per gettarsi contro Tungdil. L'imperatore dei nani puntò la Sanguinaria davanti a sé; rivolse la testa verso l'alto e sembrò pregare. L'una dopo l'altra, le rune si accesero sul nero tionio. «Ho l'impressione di essere di nuovo in svantaggio», mormorò il Rabbioso. Mentre l'ondata di albi sciabordava contro la scala, Tungdil saltò sopra le loro teste, finendo in mezzo a loro e scomparendo dalla vista dell'amico e del resto del gruppo. Ma il rumore
di metallo che cozzava contro i corpi, le grida acute dei nemici e il sangue che schizzava alto, spirando su di loro come spuma, bagnandoli, diceva più di qualunque vista. «Ci lasciano davvero in pace», commentò Rodarlo, che teneva la spada di traverso davanti al corpo e stava in piedi accanto a Mallenia. «Si gettano contro Tungdil come se fossero fuori di senno!» «Questo non lo posso in nessun modo permettere! Voglio avere la mia parte!» Boïndil cominciò il suo attacco contro gli albi. Balyndar lo seguiva con la Lama di Fuoco, i cui intarsi e diamanti ardevano. A ogni colpo, la testa dell'ascia lasciava dietro di sé una scia infuocata, e ciò che la lama incontrava, veniva tagliato. Infuriarono in mezzo agli albi, che dapprima non prestarono loro nessuna attenzione, per poi schierarsi a difesa anche contro i due nani. «Portatemi la vostra vita, lunghe piaghe!» gridava Boïndil, entusiasta, mulinando l'azza intorno a sé. «Vi pentirete di avere messo piede nella mia patria!» Passò da un combattimento a un altro, incassando parecchi tagli e ferite di punta, che però non lo fermarono. Si trovò
immerso nella sua ebbrezza, che aveva tinto il mondo di rosso scuro, facendogli scorrere il sangue sempre più rapido, più caldo e più vivo; che avesse perso di vista Balyndar, non lo disturbò. Nella sua furia spietata, dimenticò perfino il passare del tempo. Gradualmente, le file dei nemici si diradarono e, con le braccia divenute pesanti, il Rabbioso abbatté un albo usando lo spuntone dell'azza per strattonarlo dal piede destro, facendolo così cadere, e frantumandogli la testa col lato piatto, mentre cadeva. Era stato l'ultimo nemico nella sala del trono. «Ehi, già finito?» sbottò Boïndil, guardandosi intorno. Tungdil sedeva sui gradini, con la Sanguinaria appoggiata sulle ginocchia, e guardava nel vuoto. Rodario e Mallenia stavano accanto a Coïra e non sembrava che avessero dovuto impiegare le loro spade; gli albi davanti a loro erano ustionati fino a essere irriconoscibili. Potenza della magia. Slin si aggirava tra i cadaveri e raccoglieva i dardi che aveva utilizzato, mentre Balyndar stava in ginocchio davanti a una statua di pietra, con le mani sul manico della Lama di Fuoco e gli
occhi chiusi; pregava Vraccas per ringraziarlo della vittoria. Tutt'intorno a loro giacevano i cadaveri degli albi, il cui sangue si raccoglieva in un mare nero e copriva le lastre di pietra come fosse inchiostro. I Monti Blu si rifiutavano di assorbire quel liquido. «Sapientone?» «È immerso nei suoi ricordi», disse dolcemente una voce alle spalle del Rabbioso. Non ancora abbandonato del tutto dall'ebbrezza del combattimento, Boïndil si girò di scatto e sferrò un colpo. L'azza sbatté contro un sottile giavellotto. Dietro l'arma, c'era Aiphatòn. «Sei stato fortunato», sbuffò il nano. «Sei stato troppo lento», lo corresse l'imperatore degli albi, con un sorriso. «Questo dipenderà sicuramente dall'affaticamento delle tue braccia. Altrimenti mi avresti colpito e ucciso, come tutti gli altri, Boïndil Duelame.» Il nano strinse gli occhi, riducendoli a una fessura. «Mi accorgo se qualcuno mi prende in giro.» «Non era nelle mie intenzioni.» «Che io me ne accorgessi o il fatto di prendermi in giro?»
«Prenderti in giro.» Aiphatòn fece un cenno col capo. «Perdonami.» Boïndil indicò che non importava, un po' imbarazzato da quello scambio di battute. Notò che l'armatura dell'albo non mostrava tracce di sangue. «Non hai partecipato?» «Sono le vostre montagne. Ho ritenuto opportuno lasciare a voi l'epurazione», rispose Aiphatòn. «La mia parte consisteva nell'avvelenarli; questo vi ha reso possibile vincerli. Diversamente, forse sarei intervenuto in vostro favore.» Il suo sguardo scivolò sui cadaveri. «Non sono mai stato uno di loro, anche se per qualche ciclo l'ho creduto. È stato un errore cui ho posto rimedio.» L'albo fece un cenno col braccio. «La porta, a sud, non è stata toccata, e quelli che sono scampati a Vot e Bumina sono morti nei corridoi. Gli ultimi superstiti li avete uccisi voi.» Aiphatòn indicò Tungdil. «Deve togliersi l'armatura. Altrimenti ne diventerà ancora più schiavo.» «Schiavo?» «Non lo sapevi?» Boïndil prese la sua borraccia e si sciacquò la gola secca. «Lo avevo intuito. Tu sai cosa vogliono dire quei simboli sull'armatura?»
«È un giuramento che impegna in egual misura armatura e proprietario a proteggersi vicendevolmente e a non abbandonarsi mai. Prima o poi, giungerà il momento in cui il proprietario non vorrà più togliersela. Né per dormire né per mangiare né per fare i suoi bisogni. La sua carne si piagherà, la cancrena lo coglierà; Tungdil andrà in rovina nelle sue stesse secrezioni.» Aiphatòn vide il terrore sul volto di Boïndil. «Convincilo a togliersela.» Gli camminò accanto, diretto verso l'uscita. «Io vado a Dsôn Bharà, a compiere il mio dovere.» «Questo forse non sarà necessario.» Il Rabbioso gli spiegò che cosa avevano appreso da Vot. «Allora andrò a vedere cos'ha lasciato il mago. Se c'incontreremo, avrò la meglio su di lui e lo lascerò ben legato per voi.» L'albo ammiccò a Boïndil. «Fa' attenzione al tuo amico, se ti è cara la sua vita.» Il Rabbioso lo guardò allontanarsi, poi guardò Tungdil, che continuava a sedere sul trono distrutto fissando la parete. Con la mano sinistra, l'imperatore dei nani accarezzava assorto il pezzo di armatura a protezione della coscia.
XXVIII Terra Nascosta, ex regno del Sangretn, confine col Gauragar, 6492° ciclo solare, tarda primavera Avevano lasciato con successo il deserto alle loro spalle, anche grazie ai cavalli comprati in un'oasi. Mangiavano mentre cavalcavano. Se avessero continuato ad avanzare con quella velocità, presto sarebbero giunti da Lot-Ionan. In una delle pause serali, Rodario si sedette di fronte alle due donne. Il suo volto rivelava che voleva annunciare qualcosa d'importante. «Ci sto», disse laconicamente. Coïra e Mallenia si guardarono. «Mi riferisco all'accordo, per cui non condividerò mai con entrambe il giaciglio contemporaneamente. Ci sto», ripetè. «Non voglio rinunciare né all'una né all'altra. Visto che due donne così attraenti mi hanno fatto un'offerta del genere, sarei stupido a rifiutarla.» Coïra si piegò in avanti e, raggiante, gli diede un bacio sulla guancia sinistra, mentre Mallenia gliene dava uno sulla destra. Un gesto
premuroso e poco appariscente per una grande e insolita questione di cuori. Il Rabbioso guardò i tre e scosse la testa. «Non capirò mai gli umani», disse a Tungdil. «Guarda un po' che situazione si è creata qui.» «Se si amano e riescono a vivere in pace così, che c'è di sbagliato?» L'imperatore gettò uno spesso ramo nel fuoco, su cui arrostivano quattro conigli che Slin aveva abbattuto. «Io sono l'ultimo che li accuserà per questo.» «Devo aiutarti a togliere l'armatura? Di sicuro ti pesa.» Il Rabbioso allungò la mano per aprire le fibbie, ma l'amico si scostò. • «Siamo impegnati in una missione rischiosa, in cui possiamo imbatterci in un pericolo da un momento all'altro. Non vorrei sprecare momenti preziosi a indossare l'armatura o a farmi ferire perché indossavo solo la mia comoda sopravveste.» «Quando te la sei tolta l'ultima volta?» «Non molto tempo fa.» «Invece sì, Sapientone.» Boïndil gli passò una coscia di coniglio. La carne era fumante e aveva un ottimo profumo. «Prendi, così da rimanere in forze e poter compiere imprese come quelle che ho potuto ammirare sui Monti
Blu.» Si prese l'altra coscia. «Non so dove prendi tanta forza e tanta irruenza. Io non ce l'ho neppure nella più selvaggia ebbrezza del combattimento.» «Sono più allenato di te, amico mio», replicò Tungdil, masticando con scarso appetito la carne. Il Rabbioso finse di aver notato qualcosa sulla schiena dell'armatura di fiondo. «Maledizione! Credo che si sia sporcata cavalcando. E c'è anche un'ammaccatura. Come sarà successo? Dobbiamo pulirla e averne cura. Altrimenti potrebbe offendersi e tornare dura come una sbarra di ferro, e io sarei costretto a suonarla come una campana perché tu ti possa muovere di nuovo», disse, cercando di buttarla sullo scherzo. Tungdil lo squadrò con sospetto. «Perché vuoi tanto che me la tolga?» «Io?» «Non sai mentire, Rabbioso. Non hai mai saputo farlo. Che hai contro l'armatura?» Boïndil non sapeva come evitare la domanda. «So di... storie riguardo ad armature del genere, che hanno preso possesso di chi le indossava. Quei poveracci andavano
miseramente in rovina nei loro vestiti di ferro, e io ho paura che capiti anche a te.» Puntò la coscia di coniglio verso l'amico. «Sono già trenta rotazioni che non ne esci fuori e che ti accarezzi gli schinieri come se fossero la morbida pelle di una nana!» Tungdil fece per ribattere qualcosa, poi scrollò il capo. «Hai ragione», mormorò, gettando l'osso nel fuoco. «Mi riesce difficile separarmi da lei. Molto difficile.» «Allora toglila. Almeno per questa notte. Farò la guardia due volte meglio del solito», propose il Rabbioso. «No. Ho un brutto presentimento.» Le rune brillarono debolmente. «Allora dimmi quando pensi di togliertela!» «Quando sarà finita», replicò Tungdil. «Non litighiamo, Rabbioso. Giuro che me la sfilerò quando la Forra Oscura sarà chiusa e il mio antico maestro sconfitto.» Tese la mano al nano. «Va bene così?» «Sì, Sapientone!» Boïndil gli strinse la mano, poi tornò a dedicarsi al coniglio. «Mangiare!» gridò, facendo trasalire umani e nani per poi tranquillizzarli con una risata.
«Che cosa pensi di me, adesso?» Tungdil prese la borraccia riempita con liquore di palma. La stappò e bevve un sorso. Si asciugò dalla barba un po' del liquido, che aveva un forte odore di frutta dolce. «Ai tuoi occhi sono il vero Tungdil?» Il Rabbioso sorrise. «Lo sei già da molto tempo. Certo, dentro di me c'è qualche gnomo che mi fa scoprire in te delle cosette che prima non c'erano. Ma cambiamo tutti, non è vero? Io sono del tutto sicuro che tu sei Tungdil, Sapientone, e non un sosia o un'allucinazione o qualcos'altro mandato a noi dalle forze della Forra Oscura.» Tungdil attese finché tutti non si furono avvicinati a prendere la propria parte e non si furono di nuovo allontanati. Slin aveva disposto degli attrezzi intorno alla sua balestra e se ne prendeva cura, Balyndar osservava la Lama di Fuoco, che continuava a brillare intensamente. «Io sono stato eletto imperatore da una minoranza», disse Tungdil, cauto. «Solo dai Quarti e dai Quinti. Ma se ora i Primi e i Secondi che vivono presso i Liberi si esprimessero contro di me... Che cosa accadrebbe?» «I Terzi sono con te.»
«Purtroppo i Terzi non contano. Non in questa questione.» Tungdil guardò la Lama di Fuoco. «Lui sarebbe un imperatore molto migliore di me; o sua madre, come imperatrice, in modo che le altre tre stirpi possano vivere meglio.» Il Rabbioso si fece passare il liquore, lo assaggiò e represse un colpo di tosse. «Sono abituato all'alcol, ma questa è roba che acceca! E tu sei già orbo!» gracchiò, facendo ridere l'amico. «Sembra che tu non voglia più il titolo con cui ti ho adescato, Sapientone.» «Lo volevo soltanto per indurre i nani a seguire i miei ordìni», confessò Tungdil. «La parola dell'imperatore ha più peso di quella di Tungdil Manodoro, di cui qualcuno mette in dubbio anche l'identità. Capisci?» Sorrise debolmente. «Rimarranno tutti stupiti quando restituirò volontariamente il titolo, una volta che il nostro compito sarò terminato.» «Ehi, così può parlare solo l'unico vero Sapientone! Un sosia si sarebbe compiaciuto del potere e ne avrebbe fatto un cattivo uso.» Boïndil si batté una mano sulla coscia. «Sì, qualcuno rimarrà stupito.» Fece un cenno di capo verso Balyndar. «Diglielo subito.»
«Perché?» «Così cambierà atteggiamento nei tuoi confronti.» Tungdil bevve un altro sorso. «Non deve farlo. È meglio che le cose restino così. Se mai diventerà re dei Quinti, è meglio che non porti nessuna ombra relativa al lignaggio e che non venga attribuito a un altro padre. Il suo segreto rimane preservato.» «Se non fosse per la somiglianza...» «Niente più che una combinazione. Non lo chiamerò mai 'figlio'. E tu guardati bene dal dire qualcosa al riguardo.» «Non preoccuparti, Sapientone. Questa è una cosa tra te, Balyndar e Balyndis.» Il Rabbioso sentiva la gola secca, benché avesse bevuto abbastanza. Intuiva di cosa fosse segno, e non gli piaceva per niente. Riuscirò a resistere a questa sete? «Sai già chi vorresti proporre come imperatore?» «No, mi terrò fuori dei giochi di potere. Mi cercherò un posto nella Terra Nascosta in cui non avrò più nulla a che fare col nostro popolo. Questa è la mia ferma decisione.» Tungdil annuì. «Chi vorrà venirmi a trovare, sarà il benvenuto. Ma non desidero più vivere tra i nani.»
«Durante il tuo esilio hai maturato avversione verso il tuo stesso popolo?» «No. Il mio popolo ha maturato avversione verso di me. Qualcuno mi osanna, ma altri non mi comprendono più. I cambiamenti intercorsi in duecentocinquanta cicli di guerra e violenza non possono essere annullati. Preferisco vivere da solo e in pace invece che tra molti e segretamente osteggiato. Così farò in modo che vengano a me solo quelli che si fidano di me.» L'occhio marrone si puntò amichevole e caldo sul Rabbioso. «Sarei felice se tu fossi tra quelli che mi verranno a trovare.» Boïndil era commosso. «Ti ho mai piantato in asso, Sapientone?» La voce gli stridette. La sete gli sembrava bruciare attraverso la carne; non si sarebbe stupito di vedere nuvolette di fumo nero uscirgli dalla bocca. Si alzò. «Devo sgranchirmi le gambe e fare un po' di acqua di nano. Vediamo che cosa riferiscono l'Attaccabrighe e Ringhio.» Boïndil si allontanò svelto dal focolare, superando in fretta gli umani nella penombra. Camminava ansimando nel piccolo boschetto. «Attaccabrighe?» Tese le orecchie e si sentì strozzare, perché la gola gli prudeva e gli sembrava coprirsi internamente di
vesciche; il collo gli diventò caldo e stretto. Quando inspirava, fischiava; infine prese a vacillare come dopo dieci grossi boccali di birra scura. «Attaccabrighe!» tossì, cadendo sulle ginocchia. Ansimava, e si chiedeva se dovesse spingersi un pugnale in gola per allargarsi l'esofago. Una mano nera si mosse nel suo campo visivo e gli porse una borraccia. Boïndil afferrò avido la borraccia e bevve due sorsi, prima che gli venisse strappata dalle mani. L'arsura terminò bruscamente, e il nano riuscì di nuovo a respirare normalmente. Solo a quel punto girò la testa e vide davanti a sé lo Zhadár, che gli camminava lentamente intorno per poi accovacciarsi davanti a lui. «Grazie», mormorò il Rabbioso. Balodil gli gettò la borraccia. «Prendila. Apparteneva allo Zhadár che abbiamo perso nel deserto. È quasi vuota, ma a te basterà. Se io dovessi morire, devi prendere la mia borraccia.» «Mi sto trasformando in un... mezzo Zhadár!» disse Boïndil, avvilito, con ancora il gusto di sangue in bocca. Balodil si sedette e appoggiò la schiena a un albero. «Per te c'è un modo di scampare al
destino e purificare la tua anima, come ti ho già accennato.» Ridacchiò stupidamente, accennò le prime note di una canzone e poi starnutì. «Barskalìn era fermamente convinto che uno degli elfi che abbiamo risparmiato avesse il potere di liberarci dalla maledizione che noi abbiamo volontariamente assunto su di noi.» Boïndil sospirò. «E come faccio a raggiungere l'Orecchi appuntiti?» «Non lo so. Questo dipende da te. Ma l'elfo sarà in condizione di toglierti l'incantesimo, perché tu non volevi affatto diventare uno di noi», mormorò lo Zhadár, dondolando il busto al ritmo di una melodia che soltanto lui poteva sentire. «Trova l'elfo e chiedigli di aiutarti», aggiunse, cantando. «Non avrai molto tempo, prima di essere immutabilmente cambiato.» «Ma io non sono ancora cambiato!» replicò il Rabbioso. «Sì, invece. Lo sento dall'odore.» Balodil rise. «Non so come l'elfo possa farlo, ma già solo per il fatto che il tuo nome appartiene a quelli che annoverano tra i buoni e che un tempo si sono dati pensiero anche per gli elfi, penso che gli Orecchi appuntiti non ti lasceranno morire.» «Morire?»
Balodil emise un specie di cinguettio. «Sì. Morire. Quando non avrai più nessun mezzo per placare la sete, morirai.» Imitando il verso delle galline, si alzò e tornò al suo giaciglio. «Meglio che diventare matto come te», mormorò Boïndil, e si rimise in piedi. Sistemò la borraccia quasi vuota sotto la cotta di maglia. «Sperare nella pietà di un Orecchi appuntiti. Questa è bella.» Tirò un calcio a una pietra, «Ma prima devo trovarlo. E come?» brontolò, mentre seguiva Balodil. Immaginò una trappola per elfi fatta da una gabbia con dentro una ciotola d'insalata, e non potè fare a meno di sogghignare. Terra Nascosta, ex regno del Gauragar, Dsôn Balsur, 6492° ciclo solare, tarda primavera Ovunque il drappello di eroi facesse sosta, era stato preceduto dagli uomini che si erano ribellati agli oppressori. Castelli e residenze signorili bruciavano. Cadaveri di uomini impiccati pendevano agli incroci o lungo le strade. Erano stati spogliati e torturati, prima di essere affidati alla dolorosa morte per soffocamento; alcuni avevano, ai piedi, scudi su cui erano elencati i loro crimini.
«I tribunali della gente semplice lavorano in fretta nel Gauragar», osservò Rodario. «È comprensibile», replicò Mallenia. «Le cose non andranno così solo qui», intervenne Coïra. «Questo fuoco della furia popolare arderà anche nell'Idoslân e nel mio regno.» Tungdil non degnava i cadaveri di uno sguardo. «Il fuoco è purificatore, ma non deve finire fuori controllo e trasformarsi in caos. Dev'essere presto ristabilito il sistema di potere.» «Siamo già a questo punto!» esclamò il Rabbioso, ridendo. «Cattureremo Lot-Ionan, spianeremo la Forra Oscura, e sarà finita. Vedrete, in sessanta rotazioni ne saremo fuori.» Slin e Balyndar sogghignavano, gli umani ridevano; gli Zhadàr erano silenziosi, come sempre. Pur non essendo elegante il modo in cui i nani ballonzolavano sulla sella, avanzavano più rapidamente di quanto avrebbero fatto coi pony. Tuttavia giurarono tutti, tranne Tungdil, che non avrebbero mai più cavalcato quegli animali non appena la loro missione si fosse conclusa.
Arrivarono già nello Dsôn Balsur, il più antico regno degli albi. Da lì erano partiti una parte degli albi andati a sud. Superarono disgustose sculture di ossa e altri oggetti la cui vista esercitava un certo fascino, ma la cui morbosità intimoriva nani e umani. Fu Tungdil a scorgere per primo, davanti a loro, le nubi di fumo. «Dsôn brucia», annunciò, indicando verso nord. «Pensavo fosse una nube temporalesca», disse Rodario. «Lot-Ionan è diligente nella distruzione.» Il Rabbioso guardava da lontano il cratere in cui giaceva Dsôn. «Quanti Occhineri avrà già annientato?» «Speriamo tutti.» Rodario sentiva la paura crescere dentro di sé. Nessuno sapeva con precisione come, da lì a poco, avrebbero affrontato il mago. Non c'era un piano, solo un'idea: Tungdil e Balyndar lo avrebbero impegnato, Coïra l'avrebbe sconfitto. Il resto del gruppo doveva tenersi pronto a intervenire. Gli Zhadár erano sottoposti a Tungdil e gli obbedivano, presumibilmente
avrebbero addirittura attaccato il mago. Non temevano la morte. « Che cosa pensi che potremmo fare? » chiese l'attore a Mallenia, che sembrava altrettanto pensierosa. « Dipende da quanto Samusin e Vraccas sono con noi », replicò lei. Il vento le soffiava tra i capelli, anche se li aveva legati con un nastro. « Il nostro comandante ci ha condannati all'inazione e, anche se mi pesa dargli ragione, devo farlo: noi due, Rodario, siamo inadatti a un combattimento contro un mago della classe di Lot-Ionan come un bastoncino lo è contro una spada a due mani.» L'attore fece una smorfia. « Non sembra che Aiphatòn lo abbia sconfitto. » Mallenia guardò il bordo del cratere, che si trovava a un miglio e mezzo di distanza. Nessuno li fermava, non si vedevano albi. « Pare proprio di no. Forse è caduto contro il mago. » Tungdil indicò in avanti. « Cavalchiamo fino al bordo del cratere e vediamo cosa sta succedendo a Dsôn », gridò al resto del gruppo. Passarono a un trotto leggero e fermarono i cavalli accanto al bordo, che scendeva in verticale.
La struttura di Dsôn Balsur si scostava chiaramente da quella della città posta più a nord. La torre di ossa, che un tempo si era levata sulla collina, era stata sostituita da una torre di cupo basalto. Su di essa, qualcosa scintillava e brillava: linee d'oro, argento e altri metalli nobili nella pietra davano l'impressione di pompare malvagità dal suolo ombroso per alimentare l'edificio. Ed era l'unica costruzione che ancora si reggesse in mezzo al cratere. «Per Vraccas! Qualcuno ha fatto tutto il lavoro!» Boihdil guardava stupito le case in fiamme. Prese il suo cannocchiale per vedere più da vicino quell'inferno. « Non è possibile metterci piede. Le fiamme sono alte molti passi, il suolo è coperto da metallo fuso. Ci vorranno rotazioni prima che si possa scendere senza venire cotti alla griglia come polli. » Il vento girò e portò loro le nubi di fumo; ma, prima che le nuvole rubassero completamente la vista, il Rabbioso riconobbe sullo spiazzo davanti alla torre una figura in abito bianco e nero che reggava un bastone con in cima un'onice incastonata. « Lot-Ionan! » esclamò, indicando lo spiazzo.
Vide il mago far partire dalla pietra preziosa un fulmine nero e dirigerlo su un albo che, uscito dalla torre, gli si stava avventando contro. Il fulmine colpì l'albo al collo, che esplose letteralmente, facendo volare in alto la testa. Il torso si accasciò. «Hai visto, Sapientone?» chiese il Rabbioso, a disagio. «Che succede?» s'informò Rodarlo, preoccupato. «Lot-Ionan ha staccato la testa a un albo con un incantesimo», disse Tungdil, tranquillo. Boïndil guardò di nuovo le fiamme. «Il mago forse potrà anche volare e sottrarsi alle fiamme, ma noi come facciamo a mettere le mani su di lui?» Tungdil guardò Coïra, che annuì di rimando. «Balyndar viene con noi. Voi aspettate qui», ordinò. «La magia ha creato queste fiamme, la magia può domarle.» Diresse il cavallo verso la strada a serpentina che scendeva nel cratere, seguito dalla maga e dal Quinto. Tutti sapevano che non c'era altra possibilità. Guardarono i tre attraversare le nubi di fumo, mentre scendevano per raggiungere il fondo della conca e cavalcare verso la torre.
«Non mi piace», mormorò Slin. «Neanche a me», disse Rodario. «Che facciamo durante l'attesa? Qualche proposta?» Mallenia sorrise, aprì la bocca per proporre qualcosa e... sputò un fiotto di sangue. Cadde rigidamente di sella, sbattendo forte a terra; dalla schiena le spuntava la nera asta di una freccia albica. «Giù!» gridò il Rabbioso, smontando di sella. Il cavallo di Rodario fu colpito da una freccia e, nitrendo di dolore, fece un balzo oltre il bordo del cratere, nell'abisso. Per proteggersi dal fumo, Balyndar si coprì bocca e naso col fazzoletto che già nel deserto gli aveva reso un buon servizio contro la sabbia. Il cavallo sbuffava e recalcitrava, quindi lo fermò prima di essere sbalzato di sella. «Aspettate! Ha paura del fuoco», gridò. «È meglio se li lasciamo qui.» Anche Coïra smontò. Tungdil seguì il loro esempio. «Dobbiamo raggiungere la torre. Gli ultimi abitanti di Dsôn si sono sicuramente rintanati lì per difendersi da Lot-Ionan.» Fissò la parete di fiamme guizzanti, poi chiese: «Cosa proponete voi, maga?»
Coïra chiuse gli occhi e mormorò un semplice incantesimo per esaminare la natura delle fiamme che infuriavano alte come case. «Vorrei sprecare poche forze e conservarle il più possibile per Lot-Ionan», spiegò. «Non potremo volare.» Sentiva che il fuoco veniva ancora alimentato dalla magia e che non si sarebbe spento facilmente. Balyndar osservò la sua ascia. «La Lama di Fuoco non mi proteggerebbe dalla magia?» «Ma non dal metallo fuso in cui brucerebbero i tuoi piedi», replicò Tungdil. Coïra aveva scorto intorno a loro dei grossi ciottoli, delle dimensioni di un pugno, e subito le comparve un sorriso sul volto. «Mi è venuto in mente qualcosa», disse, intessendo un poco dispendioso incantesimo di levitazione. I sassi si alzarono, formando sul suolo un ponticello che li conduceva in sicurezza sopra il metallo e in mezzo al calore delle fiamme. Balyndar non esitò e raggiunse il sentiero. La testa dell'ascia scintillava creando una sfera protettiva in cui potevano stare anche Coïra e Tungdil. La maga dovette abbassare la testa e camminare in una posizione molto scomoda, ma
almeno evitò di sprecare altra energia magica. A mano a mano che avanzavano, facevano spostare i ciottoli che avevano alle spalle, portandoli in avanti e facendoli posare di nuovo. Il calore la estenuava, mentre Balyndar ogni tanto si tergeva il sudore dalla fronte; in quanto nano, era abituato alla temperatura della forgia. Tungdil rimaneva impassibile Si mossero lungo la larga strada che portava alla montagna. Non avevano tempo per ammirare quella bellezza che svaniva; d'altra parte, non era rimasto quasi niente che ricordasse il fascino di Dsôn. Raggiunsero la scala che saliva lungo la montagna, conducendo alla torre di basalto. Sapevano che sarebbe stato molto stancante salire gradino per gradino, ma non c'era altro modo. La distanza tra i gradini era commisurata al passo degli albi, non alle corte gambe dei figli del Fabbro. Il bordo del cratere, dove il Rabbioso e gli altri li aspettavano, era avvolto dal fumo e non era visibile; anche la punta della torre spariva nelle nubi acri. In quel modo, erano difficili da distinguere dall'alto. Ansimando raggiunsero, dopo molto tempo, lo spiazzo su cui prima avevano visto Lot-Ionan.
Il cadavere dell'albo senza testa era ancora davanti alla torre, immerso in una pozza di sangue nero. «Useranno anche il loro sangue per dipingere?» scherzò Balyndar. «Non ci sarà più nessuno che possa provarci», replicò Tungdil, affrettandosi a raggiungere la porta che conduceva all'interno dell'edificio. Dentro era fresco e silenzioso. Coïra chiuse la porta alle loro spalle e la serrò; il cupo fracasso del chiavistello rimbombò forte. Il crepitio del fuoco e il rumore delle mura che crollavano rimasero dall'altra parte. Si poteva quasi pensare che la torre si trovasse su una montagna solitaria e pacifica. Balyndar annusò l'aria, in cui erano frammisti l'odore d'incenso ormai freddo e altri forti aromi. «Alla scala!» Tungdil afferrò la Sanguinaria con entrambe le mani e cominciò a salire i gradini che si avvitavano verso l'alto. Fu Balyndar, e non Coïra, a implorare una pausa dopo innumerevoli spirali. «Non sento più i piedi. Non so come tu ce la faccia in armatura pesante, Manodoro, ma io non ne posso più.»
«Non ne puoi più?» Tungdil scese due gradini verso di lui e lo afferrò per il collo. «Non si tratta di una piccola discussione senza importanza tra gli albi e il mago. Ne va del destino della Terra Nascosta, e del destino dei nani!» Lo spinse in avanti, colpendolo con l'impugnatura della Sanguinaria. «Va' avanti! Se rallenti, ti trafiggo.» Coïra non sapeva davvero come interpretare quella reazione, ma la minaccia bastò a far dimenticare a Balyndar reclami e lamentele. La maga represse la sua stanchezza fisica; la mente invece era molto vigile: si aspettava in qualunque momento la comparsa di un albo o di Lot-Ionan. La luce nel pozzo delle scale era procurata da piccoli cristalli luminosi, che brillavano alternativamente di rosso e blu; la torre, almeno in quel punto, non aveva finestre. Dopo cento gradini, raggiunsero un ampio atrio in cui giacevano i cadaveri di quattro albi. I loro busti erano tagliati a metà; le armature di cuoio bollito non avevano resistito agli attacchi magici. «Ci stiamo avvicinando», sussurrò Balyndar, stringendo più forte la Lama di Fuoco.
Tungdil attraversò l'atrio e passò dall'altra parte del portone. Avevano trovato la sala del trono. Era un locale buio dal soffitto alto dieci passi, con colonne di metallo in filigrana che sembravano troppo sottili per reggere il peso del piano sovrastante. Tra le colonne erano tese corde da cui pendevano fino a terra tendaggi che indirizzavano lo sguardo dei visitatori verso lo scranno al centro di un piedistallo. Sette gradini salivano verso lo scranno di tionio e palandio, i metalli del bene e del male. Per terra giacevano sette albi, che mostravano sui corpi numerosi segni di bruciature; le armi erano state fuse o distrutte da poteri magici. Improvvisamente si sentì un crepitio, e una luce penetrante divenne visibile attraverso le molte tende. Risuonò un forte grido, seguito dalla risata di una seconda voce. Ci fu un tintinnio, come se un'arma fosse caduta a terra. Tungdil digrignò i denti. «Sapete cosa significa», sussurrò alla maga e al Quinto. «Noi lo distraiamo, mentre voi, Coïra, dovete vincerlo
quando si sarà sufficientemente sfogato su di noi.» Il suo occhio marrone la fissava. «Non uccidetelo!» le raccomandò. «Reprimete i vostri sentimenti e il vostro desiderio di vendetta; consideratelo l'ultima risorsa contro una minaccia che colpirebbe il vostro regno più duramente di dieci draghi insieme.» Fece segno a Balyndar di avanzare. La maga attese finché i due non furono scomparsi dietro il primo tendaggio, poi li seguì. Teneva le braccia parzialmente sollevate, in modo da poter compiere immediatamente i gesti necessari per un incantesimo. Sentiva il cuore batterle più in fretta, il sudore che le scorreva lungo la schiena, e aveva paura. La vita da principessa non l'aveva preparata a simili compiti. Fin dalle sue prime ore di lezione di magia aveva bramato di uccidere Lohasbrand, polverizzare il suo esercito di mezz'orchi e punire con potenti maledizioni i suoi vassalli più fedeli, ma andare in guerra contro un grande mago aveva per lei un significato del tutto diverso. Non aveva mai avuto l'occasione di mettere alla prova il suo potere contro quello di
un altro mago. Sua madre non aveva potuto insegnarle; Coïra aveva attinto molto dai vecchi appunti di Wey e, tutte le volte che aveva avuto delle domande, aveva dovuto camuffare le sue richieste di spiegazioni alla madre formulandole in modo macchinoso, affinché le guardie non si accorgessero di nulla. Tutti i dubbi, oltre ai ricordi degli eventi pericolosi occorsi durante il viaggio, le balenavano attraverso la mente, e non l'aiutavano a sentirsi più preparata per il suo battesimo di fuoco. Poi la ragazza sentì Balyndar chiamare, e subito dopo ci furono un sibilo e un'esplosione accompagnata da un fulmine. L'onda d'urto sollevò le tende, e Coïra potè vedere che i nani stavano affrontando il temuto nemico. Un raggio continuo partiva dalla mano destra di Lot-Ionan e attaccava la sfera di protezione di Balyndar; allo stesso tempo, fulmini guizzavano dall'onice incastonata nel bastone del mago, sommergendo Tungdil. Poi il vento cessò e le tende si abbassarono di nuovo. Coïra aveva paura. Lanciare due incantesimi contemporaneamente e mantenerli entrambi era una cosa praticamente impossibile; il potere
di Lot-Ionan doveva essere davvero enorme. «Non posso lasciarli soli», si disse, e scattò in avanti per raggiungere i nani. Lot-Ionan non sapeva ancora che c'era una maga che poteva diventare pericolosa per lui; era il vantaggio di Coïra, probabilmente decisivo. «Aiutami, madre», pregò piano, scostando il primo tendaggio. Poiché era molto concentrata sul mago, notò troppo tardi l'albo. Era Sisaroth. Sanguinava da ferite al collo, alla spalla, al braccio sinistro e sopra la clavicola; la parte inferiore della gamba destra sembrava nulla più che un pezzo di carne carbonizzato circondato da brandelli di armatura. Tuttavia l'albo non esitò. Colpì immediatamente la ragazza, spingendole l'acciaio nel ventre. Il dolore interruppe l'incantesimo sulle labbra di Coïra. Sisaroth girò la spada e la strattonò verso l'alto. La lama scavò una ferita spaventosa nel delicato corpo della ragazza; sangue e altri umori se ne riversarono fuori. La maga cadde a terra. «Che sorpresa! Un divertimento inaspettato!» disse l'albo. «Il mio cuore gioisce nel poter finalmente vendicare la morte di mia
sorella!» S'inginocchiò accanto alla ragazza ed estrasse il pugnale a doppia lama. «La tua morte si chiama Sisaroth», le sussurrò, appoggiandole la punta delle lame sul collo. «La tua anima è persa per sempre, incantatrice.» Spinse l'arma molto lentamente e con gusto attraverso la pelle, nella carne, e si nutrì del terrore negli occhi della donna, che piangeva e gemeva. «Rimarrei volentieri per assistere alla dipartita del tuo spirito», sussurrò dolce come un amante, estraendo il pugnale con altrettanta delicatezza. Poi si alzò e zoppicò verso l'uscita dalla sala del trono. Coïra giaceva sulle nere piastre di basalto e si meravigliava di quanto poco dolore stesse avvertendo. Cercò di lanciare un incantesimo curativo, ma i polmoni feriti non le permisero di dire una sola parola. Il Rabbioso si gettò nella polvere e guardò Mallenia, che lo fissava con grandi occhi meravigliati mentre cercava di tirarsi su e di estrarre la freccia. «Giù!» le gridò. La donna non raccolse l'avvertimento. Si tirò a sedere e girò la testa per vedere la freccia che le spuntava dalla schiena. Le dita fecero per
stringersi intorno all'asta e spezzarla, ma improvvisamente un'altra freccia colpì Mallenia, al collo. Con un gorgoglio, la donna cadde a terra. Subito dopo si sentì sferragliare, e uno Zhadár lanciò un grido acuto. «Slin!» gridò Boïndil, furioso. Non siamo arrivati fin qui, superando tanti pericoli, per venire uccisi a tradimento da un albo vigliacco. «Che aspetti ad ammazzare l'Occhineri?» «Non lo vedo! Si è nascosto nell'erba.» «Maledizione! Io sputo sopra Tion e tutte le sue creature!» tuonò il Rabbioso, sentendo che l'ebbrezza del combattimento cercava d'impadronirsi di lui. Ma la cosa più stupida che si potesse fare contro un arciere era saltare su e corrergli incontro. Con un tintinnio metallico, qualcosa gli colpì la punta dell'elmo, strappandoglielo dalla testa. «Slin!» «Non lo vedo! Non lo vedo, maledizione!» Boïndil si guardò alle spalle, verso il bordo del cratere. Sperava che un caso fortunato avesse permesso a Rodarlo di salvarsi, ma dell'attore non c'era traccia. Che morte stupida!
La collera si fece più feroce. «Ehi, Occhineri! Che ne dici di un duello? Tu contro di me?» «Ancora un po' di pazienza», replicò l'albo. «Sto facendo in modo che nessuno ti possa più aiutare.» Slin gridò. Poi uno Zhadár emise un gemito soffocato. «Così doveva essere», disse l'albo. Il Rabbioso lo vide trenta passi più in là, in mezzo all'erba alta fino ai fianchi. Era Tirîgon, che teneva la spada a due mani disinvoltamente appoggiata sulla spalla. «Sei pronto, nano?» «Eccome!» ringhiò Boïndil, alzandosi. Si gettò la treccia nera dietro le spalle e alzò l'azza. Con un rapido sguardo, comprese di essere l'unico nel cui corpo non erano infilate frecce. Avanzò verso l'albo. Tirîgon non si mosse, cosa che sul Rabbioso ebbe un effetto ancora più irritante. «Avevo sperato che il Kordrion si mangiasse voi e l'imperatore», disse l'albo. «Sembra invece che dovrò metterci mano io stesso. Ti farò toccare dalla morte.» «Non ci riuscirai.» Boïndil permise alla follia d'impossessarsi di lui. Il mondo si tinse di rosso;
la testa gli divenne calda e i muscoli quasi gli esplosero per il desiderio di piantare lo spuntone dell'azza in faccia al nemico. Tuttavia riuscì a trattenere ancora la sua irruenza. Doveva ancora conservare un poco di senno, perché l'albo, con le sue lunghe braccia e la spada a due mani, aveva un duplice vantaggio. La forza andava bene, la collera ancora meglio, ma solo quando i due vantaggi del nemico fossero stati superati. L'avrebbe ottenuto solo attraverso gravi ferite. Boïndil era arrivato a dieci passi di distanza. «Tra un attimo ti caverò quel ghigno dal volto con la mia amata azza!» Tirîgon continuava a sorridere impassibile, la lunga spada rimaneva appoggiata sulla spalla. «Di' un po', feccia dalle corte gambe: come fai a essere sicuro che fossi io a tirare con l'arco?» Niente faretra, niente frecce, niente arco. Il Rabbioso si maledisse per la propria avventatezza.
XXIX Terra Nascosta, regno albico dello Dsôn Balsur, 6492° ciclo solare, tarda primavera Balyndar adocchiò Lot-Ionan attraverso la sfera protettiva; gli parve che il mago somigliasse ai dipinti che aveva visto di lui. Al robusto nano occorse molta forza per tenere l'impugnatura della Lama di Fuoco e opporsi alla pressione scaturita dall'attacco magico. Per quanto riusciva a capire, l'armatura di Tungdil sembrava fare il suo lavoro e proteggere il suo portatore dai lampi che Lot-Ionan gli scagliava contro. «Coïra!» gridò, pur sapendo che ciò li avrebbe privati dell'effetto sorpresa. Non sapeva per quanto ancora la Lama di Fuoco avrebbe fatto il suo effetto. Ma la maga non compariva. Poi l'attacco magico diretto contro Balyndar terminò e la barriera che lo circondava scomparve.
«Vraccas!» gridò il Quinto per farsi animo e corse con l'arma levata verso Lot-Ionan. Il mago fissò l'ascia, poi guardò Tungdil ed eseguì un rapido movimento. Il sostegno e il tendaggio tra le colonne si staccarono e piovvero su Tungdil. Balyndar capì che Lot-Ionan voleva attaccare i nemici uno alla volta. Lo aveva quasi raggiunto e s'impegnò ancor di più per giungergli vicinissimo. Il mago distese il bastone con l'onice; ne scaturì un raggio arancione, che avvolse le lastre di pietra intorno al nano e le strappò dai loro ancoraggi. Lot-Ionan le sollevò a dieci passi dal pavimento, fino al soffitto, e le fece ricadere con forza; aveva capito di non poter ferire i suoi nemici con la magia diretta. Balyndar colpì intorno a sé con la Lama di Fuoco e colse una delle traverse cui era appeso un tendaggio. La testa dell'ascia si agganciò solidamente, e il nano si trovò a penzolare come attaccato a una fune. Il pavimento stava circa sette passi sotto di lui; a una caduta da quella altezza sarebbe sopravvissuto solo con gravi ferite.
Dall'alto, Balyndar scorse Coïra e raggelò: le ferite che le vide sul corpo dovevano essere mortali. Si chiese chi gliele avesse inferte; poi ricordò che Lot-Ionan, prima del loro ingresso, stava combattendo contro un albo, che doveva aver sfruttato il momento favorevole per trafiggere la maga e poi fuggire. Sebbene gli dispiacesse per Coïra, Balyndar decise di agire. Afferrò la stoffa, ci si avvolse il braccio e usò il drappo per raggiungere il suolo in sicurezza. Così vide che Tungdil e Lot-Ionan stavano parlando. Non capiva cosa dicessero, perché si trovava troppo lontano, ma certo stavano l'uno davanti all'altro senza attaccarsi. Cosa significava? Improvvisamente Tungdil fece un balzo in avanti e menò con la Sanguinaria un colpo contro il mago, che ridendo compì un gesto e avvolse il nano con uno dei tendaggi sparsi intorno; poi alzò il braccio e lo colpì col bastone. Non appena l'onice toccò la stoffa colorata e ricamata, quella si trasformò in un gigantesco serpente che si avvolse stretto intorno a Tungdil. L'armatura scricchiolò forte; il nano non riusciva più a muoversi.
Balyndar attaccò di lato Lot-Ionan, tenendo la Lama di Fuoco davanti a sé. I diamanti e gli intarsi brillarono pieni del loro fuoco interiore, e il calore era quello di una fucina. Il mago lo notò e si girò verso di lui. «Da quando i figli del Fabbro vengono ad aiutare gli albi?» Il suo volto scarno era sinistro. «Non siamo qui per loro.» Balyndar balzò verso il mago e vibrò la Lama di Fuoco in un colpo che sembrava letale, sebbene l'intenzione fosse quella di colpire di piatto. Lot-Ionan schivò con sbalorditiva agilità, e a sua volta menò un colpo col bastone. Lama di Fuoco e onice cozzarono l'una contro l'altra. L'esplosione che ne seguì scatenò un bagliore così intenso che Balyndar non riuscì a vedere più nulla. Sentì una specie di scroscio, come se qualcuno lasciasse cadere molti piccoli sassolini. Cieco, urtò contro qualcosa; non riuscì a frenare il proprio slanciò e andò a sbattere contro una colonna. Si piegò e girò, tenendo la Lama di Fuoco davanti a sé, per proteggersi. Lentamente riprese a vedere. Tungdil continuava a essere prigioniero dell'abbraccio del gigantesco serpente.
Lot-Ionan puntava con fare accusatorio quanto rimaneva del bastone verso Balyndar. L'estremità superiore era rotta, l'onice in massima parte distrutta; i frammenti giacevano davanti al trono. «Per Samusin!» gridò il mago, scagliando i resti del bastone contro il Quinto. «Per Samusin!» gridò di nuovo, fuori di sé, alzando le braccia. «Saresti dovuto diventare una macchia sul pavimento, come volevo io!» Il mago doveva emanare forze invisibili, perché le colonne e le lastre del pavimento cominciarono a tremare e a serrarsi intorno a Balyndar. «Ti spremerò come un frutto, nano! Le tue ossa verranno ridotte in polvere e cadranno nell'eterno oblio, come questa torre!» Con un profondo ruggito, Tungdil spezzò in due il serpente. Non lo aveva tagliato con la Sanguinaria, l'aveva strappato con le sue mani. Con un piede alzò l'arma, la impugnò con un gesto svelto e attaccò Lot-Ionan. Il tremito intorno a Balyndar cessò. Il Quinto trasse un sospiro di sollievo e si gettò anche lui contro il mago. «Per la Terra Nascosta!» Tungdil però corse oltre Lot-Ionan e puntò dritto verso Balyndar.
Il Rabbioso non si fermò. Furioso e caparbio, corse verso l'albo senza sprecare un pensiero sul fatto che in un attimo la freccia di un altro Occhineri l'avrebbe colpito. «Para questo!» gridò, vibrando un colpo con l'azza. Lo spuntone mirò al fianco sinistro dell'albo. Tirîgon fece guizzare la spada verso il basso, affondò la punta in profondità nella terra e parò così il colpo; poi si appoggiò alla lunghissima guardia, caricò un salto e diede un calcio a piedi uniti contro il volto di Boïndil. Il nano barcollò all'indietro, sputando sangue. Aveva il naso rotto, che già si gonfiava, e vedeva l'osso spuntare dal punto in cui si era rotto. Sentiva anche due denti ballare. «Adesso per colpa tua mi sono anche morso la lingua», mugugnò. «Questa non sarà la tua ultima ferita.» Tirîgon si appoggiò con un braccio all'elsa e osservò le fiamme della città. «Non è opera tua, vero?» «Vorrei che lo fosse.» Il Rabbioso raggiunse il nemico e fintò un colpo alla testa, ma cambiò la traiettoria e abbatté la parte piatta dell'azza contro la coscia destra.
Tirîgon compì un movimento elusivo. Di nuovo l'arma del nano cozzò contro l'acciaio. E di nuovo l'albo sferrò un calcio, stavolta sulla nuca. Imprecando, Boïndil cadde in avanti e finì in ginocchio nella polvere. «Questo non è un combattimento!» gridò furente, rialzandosi. «Comportati come un vero guerriero!» «Visto che non combatto contro un vero guerriero, non devo farlo», lo derise l'albo. «E pensare che avevo ritenuto il famoso Rabbioso un combattente eccezionale, solo per scoprire che è più goffo di un mezz'orco.» Inclinò la testa di lato e ammiccò. «Ti concedo un desiderio: come preferisci morire?» Boïndil fece turbinare l'azza. «Bevendo una birra, Occhineri!» Corse in avanti. «Visto che non ne hai, non sei un pericolo per me.» Menò il colpo dall'alto in basso, diagonalmente. Tirîgon si chinò e si appoggiò con entrambe le mani alla spada, usandola di nuovo per parare. Ma, nella sua presunzione, aveva sottovalutato la forza del nano furibondo. Il colpo scagliò l'albo all'indietro, per terra e, anche se l'azza non lo colpì, l'estremità affilata
della sua stessa spada si fece strada nella spalla, vicino al collo. Ti ho preso! Il Rabbioso lo incalzò rapido, sferrò un colpo e mancò la testa di un soffio. L'albo fece una capriola all'indietro e tentò di afferrare la sua spada, ma il nano vi piantò sopra il piede, ghignando. Tirîgon gli restituì il ghigno con presunzione ed estrasse fulmineamente i suoi due pugnali a doppia lama. Boïndil vide le due braccia saettare verso di lui e quattro lame risplendere. Dovette decidere quale fermare. Parò il colpo del braccio puntato più in alto col manico dell'azza, e la lama passò a pochissima distanza dal volto. Lo colpì invece il secondo pugnale. La doppia lama non riuscì a penetrare la cotta di maglia, ma il colpo allo stomaco gli mozzò il fiato. Già si abbatteva su di lui il secondo attacco, e il Rabbioso cercò di staccarsi dall'albo facendo un paio di passi all'indietro. Tirîgon non si lasciò distanziare e incalzò l'avversario. Continuava ad avere il sorriso stampato sul volto e non sembrava nemmeno sforzarsi in quella serie di attacchi.
Boïndil ricevette tagli alle mani, al volto e in ogni punto del corpo che non fosse protetto dalla cotta di maglia. «Come avrai notato, mi sto divertendo a provocarti senza ucciderti», spiegò l'albo e scoppiò a ridere. «Ti senti sfinito, nano? Quando crollerai ed esalerai la tua vita davanti ai miei occhi, m'imprimerò bene nella memoria il momento per fame un dipinto.» «Mi provochi soltanto perché non sei abbastanza veloce da prendermi, Occhineri!» Il Rabbioso aveva riconosciuto uno schema in quegli attacchi. Conosco la tua prossima mossa. «E inoltre...» Aggirò l'albo, schivò la pugnalata e, con un colpo robusto piantò lo spuntone dell'azza precisamente nel torace del nemico. «Tu non dipingerai mai più.» Gettò sulla schiena Tirîgon e strattonò l'azza verso il basso, in modo da allargare la ferita. «Al limite con le dita, sulla polvere!» Estrasse l'arma facendo leva sul manico, lacerando così le interiora. Soddisfatto, osservò il sangue sulla punta. «Non siete niente di speciale. Solo alti.» Il Rabbioso gli diede un calcio pieno di rabbia sul volto, sentì le ossa rompersi, e gli sputò addosso. «Questo è per il mio naso.» Poi si voltò. Incredulo, fissò Slin, che
si era raddrizzato e puntava verso di lui la balestra carica; evidentemente aveva solo finto di essere stato ferito! «Che cosa...?» «Avrei dovuto farlo da un pezzo», tuonò il Quarto, e tirò. La Lama di Fuoco e la Sanguinaria cozzarono l'una contro l'altra. Scintille attraversarono l'aria, rovesciandosi sui nani e sul pavimento. L'arma di Tungdil non poteva rinnegare la sua origine: era stata, un tempo, la spada di uno degli Eterni. Qualunque altra arma sarebbe andata in pezzi contro il potere della Lama di Fuoco, ma la Sanguinaria si opponeva alla sua forza. Il bagliore dei diamanti sulla testa dell'ascia aumentò d'intensità, come se il non riuscire a distruggere la Sanguinaria la facesse infuriare. Balyndar avvertì che Tungdil, in fatto di forza fisica, gli era molto superiore. Senza sforzo, lo spinse all'indietro, contro una colonna. «Traditore!» gridò il Quinto, tentando una ginocchiata. «Immaginavo che tu fossi più vicino a chi ti adottò che non al tuo popolo!»
Tungdil lo colpì con una violenta testata, stordendolo. «Calmati», gli disse. «Lot-Ionan è disposto ad aiutarci.» Balyndar scosse la testa, intontito. «Aiutarci?» Il suo sguardo passava dal mago a Tungdil. «Lot-Ionan, che da cicli opprime il sud della Tèrra Nascosta e i cui apprendisti hanno spopolato intere regioni, ci aiuta? E volontariamente, pure?» «Sa di non poterci superare tutti e due.» Tungdil abbassò la Sanguinaria. «Ha accettato la mia proposta per risparmiarsi sofferenze e umiliazioni.» Balyndar deglutì. «Sembri il suo araldo, non il suo nemico.» Faceva fatica a credere a quelle parole. Dietro Lot-Ionan, vide comparire improvvisamente un'esile figura. «No!» gridò. Tungdil e il mago si girarono. Coïra era dietro di loro, le mani sollevate a metà nel mezzo della preparazione di un incantesimo. Sul petto e sul ventre, l'abito era lacero e imbevuto di sangue; la pelle nuda, sotto di esso, sembrava in qualche punto più chiara che in altri. Anche se non era rimasto nulla della ferita spaventosa, Balyndar lesse negli occhi
spalancati di Coïra che la ragazza non si era ancora scrollata di dosso il trauma della ferita. Il Quinto ebbe la netta impressione che lei volesse punire il mago per quanto le era successo. Aveva dimenticato che avevano bisogno di lui? Abbiamo davvero bisogno di lui? Quel dubbio si annidò in Balyndar. Osservò la Lama di Fuoco, che funzionava contro i maghi come contro i mostri di ogni specie. Perché non dovrebbe funzionare contro il maestro di Tungdil Manodoro? Tungdil guardò la ragazza. «Maga, lasciate perdere i vostri propositi! Non abbiamo più bisogno di sconfiggerlo. Ci accompagnerà nella Forra Oscura.» Le labbra di Coïra si mossero. Le palme delle mani s'illuminarono di rosso e ne partì un raggio spesso tre dita. Lot-Ionan distese un braccio tenendo la mano in verticale; il raggio lo colpì e scomparve, mentre minuscole scariche si ripartivano in tutte le direzioni. Così terminò il duello. Voleva sopraffarlo con quello? Considerata la scarsa prestazione della maga, Balyndar era ben contento di non essere dipeso dal supporto di Coïra.
Tungdil si mise tra lei e Lot-Ionan. Balyndar la raggiunse. «Mi sentite, regina?» chiese cauto, tenendo la Lama di Fuoco in modo da poterla sollevare, in caso di bisogno, per proteggersi da un incantesimo. La ragazza chinò la testa fino a guardarlo dritto negli occhi. «Ero quasi morta», mormorò, e il nano vide il sangue umido e lucido sulle sue labbra. «Stavo per morire, ma...» Si guardò le scarpe. «Non sono più vestita in modo decoroso. L'albo mi ha svestita e...» Coïra singhiozzò. «Ho fallito contro Lot-Ionan perché ho usato la magia per guarirmi.» Si mise le mani davanti al viso e continuò a parlare in modo incomprensibile. Il nome di Sisaroth continuava a tornare. Balyndar guardò Tungdil, perplesso. «Che cos'ha?» «Cosa vuoi che abbia? Ha provato dolori che avrebbero potuto far impazzire anche un guerriero esperto. La morte l'ha tenuta in pugno.» Tungdil rimise a posto la Sanguinaria. «Forse ci vorrà molto tempo perché la sua mente si riprenda.» «O non lo farà mai?» Balyndar la guardò con compassione. Non spettava a lui prenderla tra le
braccia e consolarla. Non solo per via della differenza di altezza. «Allora sarà ancora più importante avere con noi Lot-Ionan.» Tungdil si chinò e raccolse una scheggia di onice. «Hai rotto il suo bastone. Questo di certo lo indebolisce, come mi ha detto, ma è comunque in condizione di formulare potenti incantesimi.» Balyndar scrutò il mago, che sembrava ignorarlo. «Non può parlare da sé?» «Non con te o con un'altra creatura. Non vi considera al suo livello.» «E tu?» replicò Balyndar, con voce sprezzante. «Io sono suo figlio adottivo.» «Se vogliamo qualcosa da lui, dobbiamo parlargli attraverso di te?» Balyndar scosse la testa. Tungdil aveva trovato un altro modo per rendere dipendenti da lui i nani e anche gli abitanti della Terra Nascosta. L'imperatore annuì. «Proprio così. Anche a me non piace, ma lui vuole così.» «Lui vuole?» Balyndar scoppiò a ridere. «Lui non può volere nulla! È nostro prigioniero!» «Si è consegnato spontaneamente. C'è una bella differenza.»
«Allora rendiamolo nostro prigioniero.» Il Quinto brandì la Lama del Fuoco. «Io posso batterlo. Quest'arma me ne dà la possibilità.» Tungdil fece una smorfia. «Sai che non è così. Lot-Ionan può seppellirti sotto il soffitto della torre, e la Lama di Fuoco non potrebbe impedirlo.» «Ma...» «Calmati, Balyndar Ditadiferro! Sei un guerriero eccellente con un'arma leggendaria, ma io sono il tuo imperatore! Ascolta quello che ti dico, o t'insegnerò il rispetto. Per gli Empi, lo farò!» Guardò verso l'uscita. «Non abbiamo ancora finito qui. L'albo di nome Sisaroth ci è sfuggito. Stava per portarci via la maga.» Andò da Coïra e le toccò il braccio. «Perdonate, regina, ma stiamo andando.» Lei si passò la manica sul volto, asciugandosi le lacrime. Poi cercò di sorridere e seguì gli altri, facendo guizzare tutt'intorno lo sguardo, controllando angoli bui e nicchie. Balyndar notò che lei gli stava molto vicina. A quanto pareva, aveva un'immensa paura dell'albo superstite. Restando molto vigili, lasciarono la sala del trono, in cui non molto tempo prima sedava
Aiphatòn. Ormai l'albo era il passato. Come il Kordrion. Come il drago Lohasbrand e i suoi sgherri. Balyndar pensava che pure Lot-Ionan sarebbe stato molto bene nell'elenco dei nemici eliminati. Mentre scendeva le scale in coda al piccolo gruppo, posò la destra sul manico della Lama di Fuoco. Avrebbe fatto in modo che il mago non tornasse nella Terra Nascosta dopo essere stato in quella dell'Aldilà. Circolavano molte storie su Lot-Ionan. Il mago gentile era diventato sovrano di un regno del terrore, la cui crudeltà e indifferenza verso la vita degli altri erano famigerate. E aveva spazzato via quasi per intero i nani della stirpe dei Secondi. Quel pensiero faceva ribollire la rabbia di Balyndar sino a farla traboccare, ardeva dentro di lui, più calda di ferro fuso, facendolo fremere. Non credeva, né lo avrebbe fatto in cento cicli, che Lot-Ionan si fosse unito a loro senza un secondo fine. Lui e Tungdil hanno escogitato qualcosa. Si erano forse spartiti la Terra Nascosta? Che cosa non avrebbe dato per essere riuscito ad ascoltare la conversazione tra i due.
Mentre era totalmente immerso in quelle riflessioni, la Lama di Fuoco lo avvertì di un agguato. Gli intarsi s'illuminarono con maggior forza, e Balyndar si girò di scatto, con l'ascia pronta a colpire, per spaccare l'albo che gli si era avvicinato di soppiatto. «A Tion!» Ma dietro di lui non c'era nessuno. Un dolore bruciante lo colpì invece alla spalla, dall'alto. Balyndar si lasciò cadere e rotolò sulla schiena. Fece appena in tempo a veder arrivare un secondo affondo e deviarlo con un rapido colpo; la punta della lama, tintinnando, lasciò una tacca sul basalto. Sisaroth si era appeso con le gambe alle grate nel soffitto a volta della scala, e li aveva attesi in agguato. A quel punto, saltò giù e atterrò dietro Balyndar, colpì la schiena della maga e strattonò la lunga spada verso il basso. Coïra cadde. Il Quinto divaricò svelto le gambe, evitando così la lama; tuttavia la guardia della spada gli si conficcò dolorosamente nella clavicola. Ringhiando, Balyndar sferrò un colpo con la Lama di Fuoco, verso l'alto, ma Sisaroth schivò la lama e gli diede un calcio sulle mani. Il nano
perse la presa sul manico. Si era udito uno schiocco, qualche osso si era rotto, ma il Quinto non sentiva nulla. La ferita alla spalla doleva molto di più. Nonostante le molte ferite è ancora letale e veloce. Maledetta creatura! L'albo fece due passi lesti, saltò contro la parete, ci corse sopra fino al soffitto e attaccò Lot-Ionan. Il mago e Tungdil si erano accorti della presenza di Sisaroth per via dei rumori di combattimento e del grido della maga, che si stava accasciando sui gradini. Coïra cadde contro Lot-Ionan e gli fece perdere l'equilibrio. In quel modo andò a vuoto l'attacco dell'albo, che altrimenti avrebbe inevitabilmente tagliato la testa al mago. Tungdil parò con un rapido movimento il primo colpo rivolto verso di lui. Poi Sisaroth gli atterrò davanti e menò un secondo fendente con entrambe le mani. Tungdil intercettò il colpo poco sopra la sua testa, tenne ancora l'arma in alto e si avvicinò all'albo. Il rumore di mola provocato dalle due lame che sfregavano l'una contro l'altra fece rabbrividire Balyndar. Sisaroth evitò Tungdil e fece per ritirarsi verso il soffitto, ma con un inaspettato affondo
l'imperatore gli infilzò la gamba già ferita. Il sangue sgorgò dal taglio aperto, in cui si scorgeva l'osso. Gridando, Sisaroth cadde sui gradini di basalto e perse la spada, che il nano fece volare giù dalle scale con un calcio. L'albo però non si era affatto arreso. Scagliò il suo primo pugnale a doppia lama contro Tungdil, ma gli ornamenti sull'armatura s'illuminarono e, poco prima di riuscire a colpire il tionio, l'arma venne fermata in volo e cadde innocua a terra. Sisaroth aveva già estratto il secondo pugnale, ma esitò. La vista dell'armatura sembrava distrarlo o fargli capire che non avrebbe potuto vincere contro un nemico del genere. Tuttavia rise e improvvisamente disse qualcosa in albico. Le rune splendettero e Tungdil, che, col braccio pronto a colpire, si stava avvicinando all'albo, si bloccò come una statua nel bel mezzo del movimento e cadde. Rotolò giù dalle scale senza staccare le mani dalla Sanguinaria, e non potè fare niente per frenare la caduta. Sisaroth continuava a ridere e si girò, pugnale in mano, verso Lot-Ionan. «Chi avrebbe pensato che il vento sarebbe cambiato?»
Il mago sanguinava da una ferita alla fronte, che si era procurato sbattendo contro la parete dopo che Coïra gli era caduta addosso. La cortina di sangue sembrava confonderlo. Balyndar strinse i denti e concentrò le forze residue in un lancio. La Lama di Fuoco volò verso l'albo. Incredulo, Boïndil vide la balestra scagliare il dardo; non poteva fare nulla per difendersi dall'impatto. Ma il proiettile gli mancò l'orbita destra per un palmo. Il nano sentì un sibilo mentre il dardo lo superava e ne avvertì lo spostamento d'aria. Subito dopo si sentì un gemito. Il Rabbioso sapeva cosa significava. Subito si chinò, ruotando su se stesso e menando l'azza ad altezza della testa. Vide il braccio che reggeva il pugnale a doppia lama guizzare lontano, e lo spuntone della sua arma entrare nel fianco sinistro di Tirîgon. «Vuoi farmi il piacere d'imparare quando devi restare morto, Occhineri?» gridò all'albo, dal cui cuore spuntava il dardo. Tirîgon finì sulle ginocchia e cadde di lato. «Questa volta non ti credo», ringhiò il Rabbioso, e usò il lato piatto dell'azza per
frantumare il cranio dell'albo. Poi ne trascinò il cadavere fino al bordo del cratere e lo gettò giù. «Buon volo!» Vide l'albo cadere nell'abisso, sbattendo più volte contro la parete rocciosa e impattando, alla fine, al suolo. Poi si sentì una voce mormorare: «Finalmente c'è qualcuno». Era la voce di Rodario. L'attore era appeso all'elsa della sua spada, completamente infilata nella parete di roccia; durante la caduta, aveva impiantato la lama in una fessura orizzontale, e questo aveva salvato l'uomo da un lungo capitombolo. «Ehi, dov'è il tuo cavallo?» chiese Boïndil, sorridendo nonostante tutto. «Avresti potuto tenerlo stretto tra le tue lunghe gambe, no?» «Rabbioso, ho bisogno di te!» lo chiamò Slin. «Mallenia è messa male. Dobbiamo medicarla.» Il nano gettò uno sguardo nell'abisso, verso Rodario. «La spada reggerà ancora un poco. Devo occuparmi del tuo amorino», disse, affrettandosi a raggiungere il Quarto, che era in ginocchio accanto alla donna e ne osservava le ferite. Boïndil vide che Mallenia respirava ancora. Il colpo al collo aveva preso solo la carne e forse
qualche tendine; a giudicare dalla perdita di sangue, non era stata recisa nessuna vena. Lo preoccupava maggiormente la freccia nella schiena. «Non possiamo fare niente, tranne mantenerla in vita finché Coïra non torna e non la cura con la magia», disse, aiutando Slin a fasciare le ferite. «Parlale e tienile la mente sveglia. Io mi occupo dell'attore, prima che segua l'Occhineri nel cratere.» Appoggiò una mano sulla spalla del Quarto. «Grazie. Ti sono debitore.» «No. Non lo sei», si schermì Slin. «Siamo un gruppo in cui ognuno bada all'altro. O, quantomeno, noi figli del Fabbro dovremmo farlo.» «Hai proprio ragione.» Boïndil si alzò e levò le briglie ai cavalli per annodarle in una lunga corda. Balodil gli si avvicinò. Si era fasciato da solo la ferita al braccio e gli gettò una borraccia. «Quello cui apparteneva non se ne fa più nulla», disse. «Tu invece ne avrai bisogno.» Poi si sedette e lo aiutò ad annodare la fune. Insieme raggiunsero il bordo e calarono la fune verso Rodano, che penzolava in balia del
vento. «Ce n'è voluto di tempo», mugugnò l'attore. «Non posso resistere a lungo.» «Col cavallo in mezzo alle gambe sarebbe stato ancora più difficile», replicò il Rabbioso. «Afferrala! Ti tiriamo su.» Balodil e Boïndil riuscirono a issare l'uomo, che aveva anche estratto la spada dalla fessura nella parete di roccia. La lama era piegata. «Che ne vuoi fare di quella?» domandò il Rabbioso. «Colpire la gente da dietro gli angoli?» «Voglio tenerla per ricordo.» Rodario impallidì quando vide Mallenia sdraiata per terra. Corse da lei. «Dobbiamo fare qualcosa...» mormorò, disperato. «Più che aspettare, non possiamo», replicò Boïndil. «I colpi sono troppo gravi e, visto che nessuno di noi è un guaritore, abbiamo bisogno che la maga chiuda le ferite.» Rodario annuì. Il vento girò di nuovo, e le fiamme a Dsôn si spensero. Boïndil guardò in direzione della torre in cui i suoi compagni erano andati per sconfiggere LotIonan. «Vraccas, fa' che ci riescano», pregò, guardando Balodil che sedeva accanto al corpo del suo compagno morto e pregava con gli occhi
chiusi. Se aveva sentito giusto, anche lo Zhadár stava parlando con Vraccas. La Lama di Fuoco colpì Sisaroth alla spalla destra. L'albo scivolò giù per diversi gradini fino a che non rimase coricato. Ansimando, Balyndar corse da Sisaroth per dargli il colpo di grazia. Mentre correva, raccolse la lunga spada a due mani dell'albo, che si stava rialzando. La Lama di Fuoco era ancora infilata nella spalla, il sangue usciva a fiotti dalla ferita e scorreva sull'armatura. Balyndar aprì la bocca in un grido e si tuffò in avanti. Sisaroth cercò di schivare, ma la sua stessa arma lo colpì nel ventre. Scricchiolando attraversò l'armatura, e l'albo gridò forte. Balyndar rise e afferrò la Lama di Fuoco. «Questo mi piace sentire!» Tirò a sé l'ascia e, mentre Sisaroth si accingeva a un ultimo colpo verso la sua gola, il nano gli spiccò la testa dalle spalle sferrando un colpo con una mano sola. Una fontana di sangue schizzò fino al soffitto a volta. Poi l'albo decapitato cadde all'indietro sugli scalini. Ansimante, Balyndar dovette sedersi; un attacco di debolezza lo colpì, rendendogli le braccia e le gambe pesanti come piombo. Non
riusciva quasi più a muoversi, la Lama di Fuoco pesava come quattro sacchi d'oro. Un'ombra cadde su di lui; Lot-Ionan gli stava davanti. Squadrava il nano, mentre sulle labbra si formava un sorriso malvagio. Balyndar pensò, disperato, che non c'era nessuna possibilità di fermare il mago, se voleva minacciare la loro vita. Si sentiva spossato, Tungdil non si vedeva da nessuna parte e Coïra non costituiva un pericolo per quell'uomo. «Non pensarci neanche», riuscì a dire, cercando di apparire minaccioso. Lot-Ionan mosse le dita, e una luce blu strisciò verso Balyndar entrandogli nel naso e nella bocca. Una sensazione di tepore attraversò il nano, come se gli venissero donati amore, gioia e sicurezza. Il corpo otteneva nuove forze, e le ferite prudevano e pizzicavano. Quando quelle sensazioni scemarono, Balyndar si guardò le ferite e vide pelle immacolata, come se non fosse mai stata colpita. Lot-Ionan si limitò a superarlo e a scendere altri gradini. Coïra si tirò su, gemendo. Vide il cadavere dell'albo, poi Balyndar, e seguì con lo sguardo il
mago finché non fu sparito oltre la curva delle scale. «Cos'è successo?» «Molte cose», rispose il nano, alzandosi. Si sentiva come se avesse dormito un'intera rotazione e si fosse perfettamente ristorato. LotIonan si era attenuto agli accordi e lo aveva guarito. «È un piccolo miracolo. Ora andiamo, dobbiamo cercare Manodoro!» Insieme scesero svelti le scale della torre. Nella sua armatura irrigidita, Tungdil giaceva accanto a Mallenia, vicino al fuoco che era stato acceso un miglio a nord dal bordo del cratere. Lot-Ionan aveva portato fuori da Dsôn il nano incapace di muoversi, con un incantesimo di levitazione, mentre Coïra aveva accudito i feriti del gruppo col resto delle sue energie magiche. Non era però riuscita a compensare la perdita di sangue di Mallenia, e così la guerriera era ancora molto debole. Rodario si occupava amorevolmente di lei, ma tutti sapevano che Mallenia non avrebbe potuto continuare ad accompagnarli. Per la loro missione la velocità era essenziale, e in quelle condizioni lei non avrebbe potuto mantenerla. Il loro proposito era lasciarla alla prima fattoria; li
avrebbe poi seguiti non appena si fosse sentita forte abbastanza. Il Rabbioso era accanto a Tungdil e gli aveva alzato la visiera. Si grattò la barba. «È successo di nuovo, Sapientone», sospirò. «Questa volta è stato l'albo?» «Sì. Ha pronunciato una formula.» Tungdil cercò di alzare il braccio. «Niente.» Balodil stava dalla parte opposta e pronunciava strane, cupe parole. Sull'armatura non brillò neppure una runa. L'Invisibile scrollò le spalle, dispiaciuto, e tornò accanto al fuoco. Boïndil sogghignò e alzò l'azza. «Tu sai cosa significa?» «Sì», rispose l'amico, brusco. «E non mi piace.» «Aspetta!» fece Coïra. «Sappiamo che formula era?» Il Rabbioso le spiegò brevemente la situazione. La ragazza assunse un'espressione pensierosa. «Ma se lo Zhadár questa volta non è riuscito a concludere nulla, non dev'essere stata la stessa formula.» Si piegò in avanti per poter guardare Tungdil in volto. «Potete continuare ad aiutarci?»
A Boïndil venne il sospetto che Tungdil, nel suo racconto riguardo all'origine e alle proprietà dell'armatura, potesse forse avergli taciuto qualcosa. Intenzionalmente, canticchiò la vocina scettica dentro di lui. Voleva tener nascosto il suo punto debole, ed ecco cos'ha guadagnato. «Me ne potrebbe parlare adesso», disse il Rabbioso, rispondendo ad alta voce, senza volere. Poi si accorse che Coïra lo stava guardando. «Niente d'importante. Parlo con me stesso», borbottò, facendole segno di farsi un po' più in là. «Ohilà, attenzione!» gridò perché tutti lo sentissero. «Tra poco ci sarà un forte bagliore, quindi tenete gli occhi chiusi o guardate da un'altra parte.» Si posizionò a gambe larghe sopra l'amico, alzò l'azza e lo martellò con la parte piatta, come aveva già fatto una volta nella Terra dell'Aldilà. Ci fu un sordo tonfo, e Tungdil gemette. Nonostante la sua durezza, il tionio era stato compresso e una profonda ammaccatura si era creata sul petto. «Per Vraccas, ma che succede?» Boïndil levò con slancio l'arma ben alta sopra la sua testa e tese i muscoli del torace per imprimere ancora
più forza al colpo. «Devi fare come ti dico io, quando ti accarezzerò la prossima volta!» Ci fu un nuovo tonfo, e il metallo si deformò ancora di più; ma non ci furono lampi, né l'armatura tornò mobile. Tungdil gemette, col fiato mozzo. «Magnifico. Questo era un colpo niente male», commentò Slin. «Lo so», mugugnò il Rabbioso. «Fa male, Sapientone?» «Solo quando respiro», ansimò il nano. «Non colpire di nuovo, Rabbioso. Se proprio devi, almeno fallo da un'altra parte, altrimenti soffoco.» «Credo che l'albo abbia come... spento la magia.» Boïndil passò le dita sull'armatura ammaccata. «Il martellare qua e là non serve proprio a niente.» «Ci dobbiamo procurare un carro», suggerì Rodario. «A questo punto, possiamo portare con noi anche Mallenia.» «No», protestò Tungdil. «Troveremo un modo di risvegliare l'armatura, entro stanotte.» «Be', davvero magnifico», mormorò Slin. «Perché Balyndar non prova a colpirlo con la Lama di Fuoco?»
«Ma che ti salta in testa? Già che ci siamo, perché non gli tiri un dardo nell'occhio?» ribatté il Rabbioso. «Slin ha ragione», intervenne Balyndar. «La Lama di Fuoco non gli farà niente. Lui non è un nemico del nostro popolo, no?» Si alzò dal fuoco, gettò via le ossa di coniglio e alzò l'ascia. Come sempre, gli intarsi e i diamanti scintillavano dolcemente. «Vediamo un po' che succede. Qualcuno ha delle obiezioni?» Slin e il Rabbioso si guardarono. Perfino Tungdil taceva.
XXX Terra deli'Aldilà, Forra Oscura, fortezza di Diga-del-male, 6492° ciclo solare, inizio estate Cavalcavano verso la fortezza di Diga-delmale, su cui sventolavano stendardi e bandiere. Ma vedevano pure che le mura avevano subito grossi danni. Boïndil guardò verso Tungdil che, grazie all'aiuto di Lot-Ionan, riusciva di nuovo a muoversi dentro la sua armatura. «Che cosa può essere successo?» Il mago li aveva lasciati per tutta la notte a lambiccarsi il cervello prima di alzarsi, fare due rapidi gesti e gettare sul tionio un velo viola. L'armatura - che non aveva reagito nemmeno al tocco della Lama di Fuoco - aveva subito perso la sua rigidità e sistemato le ammaccature davanti agli occhi di tutti. Lot-Ionan non aveva spiegato a nessuno cosa avesse fatto, nemmeno a Tungdil. Poi tutto era accaduto in fretta.
Avevano lasciato davvero Mallenia e Rodario in una fattoria e avevano cavalcato in un'incredibile galoppata fino ai Monti Marroni e da lì senza sosta attraverso la Terra Nascosta. Il Rabbioso lanciò uno sguardo in direzione del mago. Ci darà ancora grossi problemi. Anche Tungdil aveva visto le crepe sulle mura della fortezza. «Finché Diga-del-male è in piedi, non abbiamo perso», disse. «La cosa più importante è che non siamo arrivati troppo tardi.» Suonarono corni che annunciarono il loro arrivo. Un reparto di nani e ubari marciò loro incontro per accompagnarli come si conveniva, e li condusse tra le grida di giubilo della guarnigione verso la torre che era stata provvista di lunghi pali e pilastri aggiuntivi. Al Rabbioso sembrò di contare sugli spalti un numero eccessivamente alto di figli del Fabbro. «Mi sto ingannando?» volle sapere da Slin, dopo averglielo fatto notare. Il Quarto scosse il capo. «No, non t'inganni. E c'è qualche vessillo che non conosco.» «O che non avresti mai voluto vedere», intervenne Balyndar, indicando verso destra. «Quelli sono clan dei Terzi.»
«Per Vraccas!» esclamò Boïndil, stupito. «Allora sono venuti per aiutarci!» Guardò Tungdil. «La tua stirpe è venuta a offrire le sue braccia e le sue armi all'imperatore.» Scoppiò a ridere, sollevato. «È stato un bello stratagemma eleggere imperatore il monocolo», mormorò Balyndar. «Non è stato uno stratagemma», replicò il Rabbioso. «È stato...» «Vuoi salutare la tua compagna, generale, o devo farlo io per te?» lo interruppe Slin. Boïndil frenò il suo pony, smontò e corse dalla moglie; la strinse tra le braccia, e per farlo mollò perfino l'azza. «Sto abbracciando tutta la fortuna di tutti i mondi», le sussurrò nell'orecchio, sentendosi stringere la gola. «Mi sei mancata, Goda!» Le nascose il volto sul collo e la strinse forte. «Finalmente!» sussurrò la nana. «Sono quasi morta dalla preoccupazione.» Guardò verso Tungdil, che continuava a sedere dritto sul suo cavallo, accanto a Lot-Ionan. «Ce l'avete fatta!» «È stato più facile di quanto pensassimo», le disse Boïndil. «Discutiamone dentro. C'è molto da raccontare.»
«Anche qui sono successe molte cose.» Goda lo guardò dritto negli occhi. «Purtroppo niente di buono, marito mio.» Quelle parole resero nervoso Boïndil, che insistette per entrare il più in fretta possibile nella sala del consiglio. Ovunque passassero, i nani s'inginocchiavano davanti a Tungdil, porgendogli le armi in segno della loro incondizionata obbedienza. Il Rabbioso si accorse che Goda non l'aveva fatto. L'esultanza, a Diga-del-male, sembrava non dover finire mai. Suonarono anche i corni delle altre tre porte, e li raggiunsero le grida e il fragore delle asce battute contro gli scudi e le armature. Scese su di loro una tempesta di euforia che aveva colpito allo stesso modo nani, umani, ubari e Sotterranei. Boïndil avanzava orgoglioso, con l'azza sulla spalla; camminava a gambe larghe e salutava con la mano, col sorriso stampato sul volto. Anche Balyndar e Slin si gustavano il fatto di essere considerati eroi. Il portone che conduceva alla sala del consiglio venne aperto dalle guardie ubari.
Boïndil rimase a bocca aperta per lo stupore: al tavolo sedevano diverse dozzine di nani, tutti capiclan, e gli stendardi fissati alle loro spalle spiegavano quali delegazioni comandassero. «Per Vraccas!» esclamò, col cuore che batteva forte, pieno di gioia. «Sapientone, lo vedi?» Avrebbe voluto afferrarlo per le spalle e scuoterlo con irruenza, per dare libero sfogo alla sua gioia, ma rinunciò a farlo. «Rimanete al mio fianco», disse Tungdil ai compagni. «Devono imprimersi nella memoria i volti dei loro più grandi eroi, per non dimenticarli mai.» Entrò nella sala con passo misurato e grave. I nani chinavano il capo davanti al loro imperatore, cadevano su un ginocchio e alzavano le loro armi nell'antico gesto con cui gli prestavano il loro giuramento di fedeltà. Erano giunte tutte le stirpi; perfino i Terzi e i Liberi s'inchinavano davanti a Tungdil, riunendosi al suo comando. Nessuno parlò in quel solenne momento, il più importante della storia dei figli del Fabbro. L'emozione sopraffece il Rabbioso, commuovendolo fino alle lacrime. Il suo Sapientone era riuscito a fare ciò che nessun
imperatore prima di lui èra riuscito a fare. Non si vergognò delle lacrime salate che gli scorrevano nella barba, e vide la stessa commozione su molti altri volti. «Lunga vita all'imperatore Tungdil Manodoro!» gridò, alzando l'azza, prima d'inchinarsi. Slin e Balyndar subito lo imitarono. Goda fu l'ultima a inginocchiarsi davanti al nano monocolo. «Avete risposto alla mia chiamata», esordì Tungdil, levando la sua voce profonda. «Per questo vi ringrazio. La battaglia decisiva per la Terra Nascosta verrà combattuta nella Forra Oscura, poiché la guerra che è cominciata duecentocinquanta cicli fa non è ancora finita.» Fece scorrere lo sguardo sui presenti. «Per questo sono tornato: per aiutare il mio popolo.» «Questa è una menzogna», sibilò Goda. Solo Boïndil la sentì, e la fulminò con lo sguardo. La nana si morse le labbra. «Voi vedete che sono cambiato, ma nel mio cuore sono rimasto un figlio del Fabbro.» Tungdil indicò i nani alle sue spalle. «Senza i miei amici, non sarei mai riuscito a compiere il mio primo compito. E sempre insieme supereremo la
seconda sfida che ci attende.» Fece segno ai compagni di alzarsi. «Porto il titolo d'imperatore in quanto eletto dai Quarti e dai Quinti. Qualcuno potrebbe ritenere una macchia il fatto di non essere stato incoronato da tutte le stirpi.» Tungdil alzò le braccia. «Per questo motivo, chiedo a voi, ciascuno di voi, ciascun capoclan e ciascun re: volete che io vi guidi?» Le grida di assenso fecero tremare la stanza. Al Rabbioso corse un brivido lungo la schiena. Una simile unità! Tungdil s'inchinò davanti ai nani. «Giuro di servire il mio popolo. Non rimpiangerete mai di avermi scelto.» Poi puntò l'occhio verso i Terzi. «Fatti avanti, re dei Terzi, e annuncia ciò di cui abbiamo discusso.» Con stupore del Rabbioso, Rognor Colpodimorte fece un passo indietro, lasciando spazio a un volto a lui noto. «Hargorin Seminamorte!» si lasciò sfuggire Boïndil, stupito. L'imponente nano si appoggiò le grandi mani sul cinturone. «Sono stato temuto in quanto comandante dello Squadrone Nero, ma le mie azioni avevano un unico scopo: assicurare la sopravvivenza della mia stirpe, in modo da poter prima o poi sedere a un tavolo
coi nostri fratelli e con le nostre sorelle. E lottare contro il male», spiegò, grave. «Rognor era il mio cancelliere; riceveva da me gli ordini e li eseguiva. Sarebbe morto per me, se gli albi avessero progettato un tranello per uccidere il re dei Terzi.» Indicò Balodil. «E fu sempre su mio comando che guerrieri valorosi accettarono di trasformarsi in Zhadár, per esaminare altri segreti degli albi e batterli coi loro stessi stratagemmi.» Il primo Terzo onorevole. A parte il Sapientone. Come tutti gli altri all'interno dell'aula, Boïndil ascoltava come rapito. «Abbiamo fatto i nostri preparativi. E ci dispiace», continuò Hargorin. «Ci dispiace di aver combattuto contro i nostri fratelli e contro le nostre sorelle. Ci sarebbe stato facile annientare le stirpi rimaste, perché siamo in maggioranza, e grazie agli Zhadár conosciamo perfettamente tutte le fortezze, ma non vi attaccheremo. Ci basta sapere di potervi sconfiggere.» Il re dei Terzi fece un profondo respiro. «Io, Hargorin Seminamorte del clan dei Seminamorte, dichiaro che la faida tra noi e gli altri nani della Terra Nascosta, che appartengano a una stirpe o che si dichiarino
Liberi, è finita! Nessuna nana e nessun nano deve più temere per la propria vita qualora metta piede nei Monti Neri o incontri uno della mia stirpe.» Batté la mano sulla sua arma. «Non assaggerà mai più sangue di nano. Lo giuro su Vraccas! Noi siamo un solo popolo, i figli del Fabbro!» Il Rabbioso rimase come fulminato. Guardò Tungdil, poi Goda e infine Hargorin. «Pace?» disse a voce alta, senza volerlo. «I Terzi vogliono la pace con noi?» Hargorin gli sorrise. «Pace», ripetè. Se in quel momento qualcuno avesse fatto cadere a terra una minuscola piuma di passero, tutti l'avrebbero sentita. Gli altri re e i capiclan fissavano Hargorin e la sua delegazione. Stentavano a credere alle parole del Terzo. Boïndil poteva capirli. A centinaia, anzi, migliaia di cicli di cacce e persecuzioni, di guerre e di odio, era stata posta fine con poche frasi, senza che vi fossero state lunghe trattative! Tutto ciò era stato reso possibile da un unico nano: Tungdil Manodoro. Questa è la sua più grande impresa, pensò il Rabbioso. Non ci sarà mai dopo di lui un
imperatore che possa superarlo. Verrà ricordato per sempre come il portatore dell'unità. Nonostante i dubbi di molti, è diventato un guerriero ineguagliato e l'imperatore di tutte le stirpi. Per l'eccitazione, il Rabbioso respirava sempre più in fretta e, poiché nessuno ancora aveva fatto trapelare una parola, gridò: «Per il martello di Vraccas: possibile che nessuno esulti?» Eruppe un uragano di assensi, che mise in ombra la tempesta verificatasi al loro ingresso e mise a dura prova le orecchie di tutti. Le nane e i nani gridarono il loro sollievo e la loro gioia straripante, agitarono le armi e corsero dai Terzi. Non per attaccarli, bensì per stringere loro le mani. Tungdil stava ancora al suo posto, tenendo una. mano appoggiata al fianco e stringendo con l'altra la Sanguinaria, e osservava con un sorriso la scena. Il Rabbioso non riuscì più a controllarsi: abbracciò l'amico, ridendo, e gli diede più pacche sulla schiena. «È stato magnifico, Sapientone!» «Senza di te, vecchio amico, non ci sarei mai riuscito», replicò Tungdil, porgendogli la
mano. Poi si girò verso Slin, Balodil e Balyndar. «Senza nessuno di voi ci sarei mai riuscito. Avete la vostra parte di merito.» Alla fine si rivolse all'assemblea. «Potremo festeggiare più tardi», disse, ottenendo ascolto con la voce tonante. «Ora ricordiamo i morti che hanno perso la vita durante la nostra missione e che Vraccas ha già accolto nella sua Fucina.» Per lo sbalordimento del Rabbioso, Tungdil citò il nome di ogni singolo caduto, dai nani agli Zhadár. «E ora vorrei sapere che cos'è accaduto durante la nostra assenza», disse l'imperatore, guardando Goda. La maga riferì tutto quello che era accaduto intorno alla Forra Oscura. Raccontò della sortita contro i mostri, del loro contrattacco, della comparsa del mago nemico, del rapimento di Sanda e del ferimento di Bandaál. L'esaltazione di Boïndil scomparve in un attimo, e la preoccupazione per i figli lo fece tremare. Con uno sguardo, però, Goda lo trattenne dall'abbandonare l'assemblea. «Stanno entrambi bene. Va' a trovarli quando la discussione sarà finita», lo pregò. Poi tornò a
parlare all'assemblea. «Dalla fuga di mia figlia, non è accaduto più nulla. I mostri hanno ricostruito le loro torri e le hanno rese più potenti di prima. L'accampamento è tornato ad avere le dimensioni che aveva prima della nostra sortita», disse, chiudendo il racconto. «Il mago, però, non si è fatto più vedere.» Tungdil annuì. «Avete sentito perché avevamo bisogno di Lot-Ionan per accogliere questo nano che si fa chiamare Vraccas. È un avversario temibile e la sua brama di potere è insaziabile.» Fece portare il modellino della Forra Oscura, su cui erano stati inseriti dei piccoli contrassegni che indicavano le tende e le torri. «Il mago è il nostro obiettivo principale, perché, una volta morto, le bestie perderanno coraggio. A quel punto avremo gioco facile e finalmente faremo crollare sopra di loro la Forra, in modo che non ne possa risalire più nulla di malvagio!» «Quando attaccheremo?» Con la fronte corrugata, Hargorin osservava il modello. «Tra due rotazioni. Nel frattempo vorrei riposarmi dal viaggio.» Tungdil picchiettò con l'indice sulla campana di vetro che rappresentava la barriera magica, mandandola in frantumi. «Questo farà Lot-Ionan per noi, per
poi cavalcare al mio fianco nella Forra Oscura; faremo piazza pulita dei mostri. Non appena il mago nemico vedrà profilarsi la minaccia della sconfitta, si mostrerà.» Guardò con urgenza i re, l'uno dopo l'altro. «Nessuno gli sbarri la strada! Appartiene solo a me e a Lot-Ionan, perché nessun altro può fermarlo. Goda ve lo ha raccontato. Morireste.» «Tutti tranne me», lo interruppe Balyndar. Trasse la Lama di Fuoco dalla sua custodia e la mostrò all'assemblea. Ne seguì un forte mormorio. «L'arma che un tempo sconfisse il demone di Nôd'onn e molti nemici della Terra Nascosta è tornata dal suo popolo.» «Ma i diamanti brillano!» esclamò uno dei presenti. «Che cosa c'è tra noi che li fa scintillare, e da cui l'arma vuole metterci in guardia?» Lo Zhadár fece un passo avanti. «Io», ridacchiò. «Posso anche sembrare un nano, ma mi sono trasformato da tempo. Gli albi mi diedero da assaggiare il germoglio del male, ma io lo uso per fare il bene», spiegò. «Per questo scintilla in modo così bello», aggiunse, indicando la Lama di Fuoco. «Mi fiuta.»
Goda guardò Tungdil e fece per dire qualcosa, ma il Rabbioso glielo proibì con un chiaro gesto della bocca. Intuiva che la moglie avrebbe voluto riattizzare i dubbi riguardo all'identità dell'imperatore. Non adesso, formulò silenziosamente. «È l'ultimo della sua specie», disse Tungdil. «I suoi amici e compagni di lotta sono caduti strada facendo e si sono sacrificati per la causa del bene e per la liberazione della Terra Nascosta. Col suo aiuto rintracceremo anche il più nascosto degli albi e lo distruggeremo, non appena avremo raccolto la nostra vittoria qui nella Terra dell'Aldilà.» Le nane e i nani applaudirono o tambureggiarono con le loro armi. «Andate dunque dalle vostre guerriere e dai vostri guerrieri. Annunciate loro che cosa accadrà tra due rotazioni. E riposatevi.» L'imperatore s'inchinò di nuovo davanti all'assemblea. «Vraccas sarà con voi.» Si girò, fece un cenno di capo al Rabbioso e lasciò la sala. Goda raggiunse il marito. «Lo hai sentito anche tu.» «Che cosa?»
«Ha detto: 'Vraccas sarà con voi'.» Goda scosse il capo. «Con noi\ Ma chi sarà con lui?» «Ah, Goda.» Boïndil sospirò. Poi si voltò e andò a cercare i suoi figli. Una rotazione dopo, il Rabbioso si era appena gettato sul letto per riposarsi un po', quando qualcuno bussò alla porta. Un messaggero lo pregò di seguirlo alla sala del consiglio, dov'era atteso dall'imperatore. Boïndil si alzò per affrettarsi a partecipare all'incontro; intanto pensava alla rotazione successiva e alla battaglia imminente. In tutta Diga-del-male risuonavano il rumore delle mole e il tintinnio dei martelli da fabbro: si facevano gli ultimi preparativi. La tattica era stata stabilita. Nulla poteva essere più cambiato al riguardo. Il Rabbioso si preoccupava poco di sé e della sua sopravvivenza; si preoccupava invece soprattutto per Sanda. Darei così tanto perché si riprendesse. Mentre il figlio ferito guariva, dagli occhi di Sanda si capiva che la nana era ben lontana dall'essersi lasciata alle spalle l'esperienza della cattura.
Boïndil notava un'espressione simile in Coïra, che non si era ripresa dallo scontro con Sisaroth. Per quel motivo, le aveva fatte incontrare e sperava che potessero aiutarsi a vicenda. Anche Balyndar destava in lui preoccupazione. Il Rabbioso temeva che il Quinto potesse usare la Lama di Fuoco per fare qualcosa d'inconsulto, che facesse volgere al peggio per i nani l'esito della battaglia; lo sguardo che Balyndar e Goda si erano gettati era quello di due congiurati. Boïndil aveva provato a parlare con la maga, ma per lei i servizi resi da Tungdil non contavano nulla. «Vraccas, perché hai dato una mente così testarda ai tuoi figli?» si lamentò il Rabbioso, prima di girare nel corridoio che portava alla sala delle riunioni. Vide che pure Coïra si stava recando là, e alzò la mano per salutarla. La maga rallentò il passo. Portava un abito blu scuro dalle maniche lunghe e una cuffia nera. Boïndil riconobbe lo stemma del Weyurn ricamato sul risvolto delle maniche. «Come state, altezza?»
«Bene, grazie.» La ragazza sorrise. «Desiderate sapere se ho parlato con vostra figlia?» Il Rabbioso scosse la testa, la treccia scivolò in avanti. «Mi preoccupa tanto vederla così sfinita e confusa. Sembra così 'diversa'.» Coïra corrugò la fronte. «Siete stato contagiato dai dubbi di vostra moglie?» «Che dubbi?» «Che non sia vostra figlia, quella che è tornata.» Boïndil alzò le mani al cielo. «Ah, è successo di nuovo! Prima il Sapientone, adesso perfino sua figlia! Goda vede inganni e tradimenti ovunque!» «È quello che penso anch'io», disse dolcemente Coïra, per tranquillizzare il nano. «Non c'è dubbio che si tratti di vostra figlia. Mi ha raccontato molte cose personali.» Si fermò davanti alla porta. «Le è capitato il peggio che può capitare a una femmina che finisca prigioniera. Probabilmente il mago che l'ha rapita ha fatto cadere la colpa di quanto accaduto su Goda, dicendo che era successo perché la madre non aveva accettato le sue condizioni. Così, una parte della mente di vostra
figlia è andata in frantumi.» Gli appoggiò una mano sulla spalla. «Non posso fare nulla per lei, Boïndil Duelame. Al confronto, quello che ho vissuto io è nulla.» Il Rabbioso non potè rispondere nulla, troppo grande era l'odio scatenatosi dentro di lui. Odio verso il nemico nell'armatura di vraccasio, contro il quale tutta l'abilità nel combattimento era inutile. Infierirò sul suo cadavere. Furioso, entrò nella sala, e dovette fermarsi per la sorpresa: oltre a Tungdil, Slin, Balyndar e Balodil c'erano due elfi in abiti bianchi, sotto i quali scintillavano armature di chiaro vraccasio. Portavano sulla spalla scudi e spade, e due lunghi pugnali alle cinture. Il maschio aveva i capelli castani, l'elfa quasi bianchi. Per i gusti del Rabbioso, erano troppo alti, troppo magri e troppo belli. Come tra gli albi: non ce ne sono di brutti o di grassi. Tungdil pregò Boïndil e Coïra di entrare e presentò gli elfi. «Questi sono gli ultimi due eroi cui dovete la distruzione degli albi nella Terra Nascosta. Hanno partecipato quanto me.» Indicò gli elfi. «Sono Ilahin e la sua sposa, Fiéa. Quando sono cominciate le sommosse nei territori degli
albi, hanno abbandonato i loro nascondigli e hanno guidato gli umani contro gli Occhineri.» «Ma non saremmo mai stati in grado di farlo, se voi non aveste svolto il lavoro preparatorio», disse Fiéa col caratteristico canto degli elfi nella voce, che a nessun nano piaceva davvero e che gli uomini tanto ammiravano. «È giunto anche alle vostre orecchie?» disse il Rabbioso, sogghignando. Ilahin rise di cuore. «Mi sono mancate le battute dei nani.» Boïndil si stupì. «Vi piace essere preso in giro?» «Lui è un'eccezione», intervenne Fiëa, e non sembrava affatto amichevole come prima. «A me invece non piace.» «Vacci piano, amico mio», disse Tungdil. «Sono venuti per ringraziarci e portare notizie dalla Terra Nascosta.» Ilahin attese che tutti si fossero seduti. «Le azioni di Aiphatòn e il vostro intervento ci hanno permesso di ricomparire, in modo che pure gli elfi dessero un contributo alla liberazione della Terra Nascosta. Dal momento che non possiamo né vogliamo ringraziare il figlio degli Eterni, perché la sua origine ce lo proibisce,
desideriamo farlo a maggior ragione con voi.» Prese da terra uno scrigno e lo aprì. Dentro c'erano lunghi pugnali di metallo bianco. «Sono di puro palandio, e tagliano ogni cosa. Il potere della dea vi è raccolto e vi dovrà armare nella battaglia imminente.» Fiéa passò a ciascuno di loro una di quelle lame. Boïndil dovette ammettere che erano un buon lavoro, ma non c'era paragone con le armi dei nani. Gli elfi avevano altri modi per temprare e forgiare, il nano lo capiva dalla superficie delle armi. Sembrano giocattoli. Poiché non voleva offenderli, li ringraziò educatamente per il dono e infilò il pugnale nel cinturone. Era una cosa curiosa che un'arma elfica fosse riuscita ad arrivare tanto vicino a un nano. «Abbiamo distrutto gran parte di Dsôn Bharà, restituito al Phôseon Dwhamant il suo vecchio nome di Alandur. Gli umani faranno in modo che non vi resti nulla che ricordi l'esistenza degli albi.» Ilahin indicò la sua sposa. «Fiéa e io torneremo nella Pianura d'Oro e costruiremo un insediamento. Siamo sicuri che gli elfi torneranno nella Terra Nascosta, quando la notizia della vittoria si sarà sparsa nella Terra
dell'Aldilà. Al loro arrivo, devono trovare una patria, non degli estranei.» L'elfo sorrise. «Davvero magnifico. Ma voi siete soltanto in due», osservò Slin. «Viviamo abbastanza a lungo per fare molte cose», replicò Ilahin. «E non moriremo prima che gli elfi siano arrivati», aggiunse Fiëa. «I pugnali non sono l'unico dono. Vogliono aiutarci contro i mostri nella battaglia imminente», rivelò Tungdil. «Non volevate creare una patria per i vostri simili?» disse Slin. Poi si accorse che le sue parole potevano essere interpretate come insulti. «Io... non metto in dubbio la vostra abilità nel combattere, Fiéa e Ilahin, ma... sarà un'immensa battaglia, che non vedrà soltanto feriti. Di certo non ci saranno paragoni con la caccia agli albi che avete condotto nella Terra Nascosta.» «La vostra preoccupazione è commovente, ma sappiamo combattere.» Fiéa fece un inchino. «Permettete che ora andiamo a distenderci. I nostri corpi devono essere riposati in vista della prossima rotazione.» I due elfi uscirono dalla sala.
«Che ne dite?» Balyndar aveva posato il pugnale sul tavolo, davanti a sé. «Gli elfi sono strisciati fuori del loro nascondiglio boschivo.» Slin e Balodil risero piano. «Sanno quando uno scontro è privo di prospettive e quando il successo è possibile.» Tungdil lo guardò con riprovazione e si fissò bene il pugnale al cinturone. «Non è stato così anche per i Quinti e i Primi? Nei cicli passati hanno usato strategie simili. In questo c'è una differenza rispetto alla viltà, come tu hai insinuato.» L'imperatore raggiunse la porta. «Ci vediamo domani. Desidero non essere disturbato finché il sole non si sia alzato.» Anche il Rabbioso si accomiatò e uscì dalla sala. Slin osservava il modello della Forra Oscura e della fortezza. «Ah... Domani è la grande rotazione.» Gettò a Coïra un breve sguardo. «Ce la farete, altezza?» «Con l'aiuto di Lot-Ionan e Goda, credo di sì», rispose la ragazza. «Da sola non mi sarebbe mai riuscito, ma in tre non prevedo problemi.» «Ma se doveste impegnare molte energie durante la battaglia?» Balyndar fece volare via una statuina dal campo dei nemici.
«Non penso che accadrà. È Lot-Ionan quello che lancerà la maggior parte degli incantesimi. La sua riserva è ineguagliata, non so come faccia. Anche se Balyndar ha rotto il suo bastone d'onice.» La maga represse uno sbadiglio. «Attaccheremo e distruggeremo l'esercito delle tenebre. Quando avremo esaurito i proiettili delle catapulte, entrerete in gioco voi. Insieme con gli ubari, i Sotterranei e gli esseri umani non dovrebbe essere più facile di così.» Fece volare anche lei una delle figurine. Quindi si accomiatò e lasciò la sala. Lo Zhadár se ne andò senza salutare. Slin guardò Balyndar, poi puntò lo sguardo verso la Lama di Fuoco. «Non usarla per fare stupidaggini», lo ammonì, alzandosi. Mentre lo faceva, tenne brevemente la sua balestra in modo che potesse essere interpretata come una minaccia. «Sul campo di battaglia non ti perderò di vista e, se dovessi vedere che intendi compiere tradimento ai danni dell'imperatore...» Lasciò la frase incompiuta e uscì con la balestra sulla spalla. Balyndar rimase ancora un poco seduto. Aveva gli occhi incollati alla riproduzione della Forra Oscura e la mano destra appoggiata sul
manico della Lama di Fuoco. «Farò quello che riterrò giusto», disse, piegandosi in avanti. Aveva scoperto una figurina che poteva raffigurare Tungdil. La gettò in aria e, mentre quella ricadeva, la tagliò con la Lama di Fuoco, precisamente al centro. Il Rabbioso si accertò di non essere visto, poi bussò alla porta. Ilahin aprì e lo guardò, stupito. «Guarda un po', Boïndil Duelame! Che cosa posso...?» Il nano superò l'elfo e s'infilò nella stanza. «Perdonate la mia intrusione, ma c'è una... faccenda molto spiacevole riguardo alla quale devo chiedervi consiglio.» Si sedette e curvò le spalle. «Aiutatemi, Ilahin.» L'elfo chiuse la porta, accostò una sedia e si sistemò proprio di fronte al nano. «Amico nano, voi sapete che vi aiuterò volentieri. Cosa vi pesa sul cuore?» Boïndil trasse la borraccia che Balodil gli aveva dato. «Annusate, e forse capirete da voi. Un tempo apparteneva a uno Zhadar, e io ne ho bevuto senza volere.» Ilahin prese il contenitore, lo aprì e ne annusò l'odore. Tutta la gentilezza gli scomparve dal volto. «Questo è sangue elfico!»
«E il motivo per cui gli albi vi hanno dato la caccia. Ne avevano bisogno per distillare la bevanda che trasformava i guerrieri scelti dei Terzi in Zhadar», spiegò Boïndil. «Non l'ho fatto apposta!» dichiarò di nuovo. «Uno degli Zhadar mi ha detto che solo gli elfi possono liberarmi dalla maledizione che ho chiamato su di me.» Si sfregò il naso. Ilahin non disse nulla. Chiamò invece Fiéa e le indicò il Rabbioso. Si aprì una lunga discussione, che divenne sempre più accalorata. Boïndil aveva l'impressione che la coppia avesse opinioni diverse. Ma quali sono? «Scusate se v'interrompo», intervenne dopo una lunga attesa che gli stava logorando i nervi. «C'è un modo per sconfiggere questa sete oppure no?» Gli elfi lo fissarono. Ilahin fece un profondo respiro. «Boïndil Duelame, purtroppo non lo sappiamo», ammise. «La colpa che vi siete tirato addosso è molto grave.» «Ah, maledizione! Io non lo sapevo!» «Questo è irrilevante», disse Fiéa, irritata. «Se uccideste un essere umano senza sapere che è proibito distruggerne la vita, verreste
comunque perseguitato dagli altri esseri umani e portato davanti a un tribunale. Non è forse così?» Il Rabbioso dovette annuire. «Voi avete compiuto un sacrilegio, e il fatto di non averlo saputo non vi ha salvaguardato. Questo purtroppo è un fatto», disse Ilahin in tono più conciliante. «Tuttavia voi siete un benefattore del nostro popolo, e questo forse mitigherà il peso della vostra colpa agli occhi della dea e troverete così redenzione grazie a lei.» «Non comprendo: come dovrebbe avere luogo la redenzione? Cosa devo fare?» Fiëa prese la borraccia e la squarciò. Il nero e viscoso liquido si versò sul pavimento, formando una macchia grossa come una moneta. «Dovrete pregare Sitalia, Boïndil Duelame, e implorarla di salvarvi e di rimuovere la maledizione.» «Ma...» Il nano osservava la macchia allargarsi sempre più, finché l'elfa non vi gettò sopra un panno che s'imbevette del liquido. Poi il panno fu gettato nel fuoco. Si sentì fischiare, e per qualche istante si levarono fiamme nere.
«Io ho bisogno...» «No, Boïndil Duelame. Ogni nuovo sorso vi avvicina sempre più alla dannazione», lo interruppe Ilahin. Il Rabbioso si strappò i capelli neroargentati. «Non posso spegnere la sete in modo diverso! Non avete idea di quanto bruci!» I due elfi si guardarono, poi Fiëa si sciolse un sacchetto dalla cintura. «Qui ci sono delle erbe che vi aiuteranno a tenerle testa, Boïndil Duelame; la sete scomparirà solo quando Sitalia vi avrà perdonato. Pregatela con fervore e umiltà, questo è il nostro consiglio.» «Ma io non ho fatto nulla!» ripetè Boïndil. Non sapeva che altro fare. «Ditelo a Sitalia!» esclamò Fiëa. «Noi vi crediamo, perché le vostre gesta parlano per voi.» Ilahin toccò la fronte del nano disperato. «Convincete la dea. Vi si mostrerà quando lo riterrà giusto.» «Altrimenti?» chiese Boïndil, confuso. «Altrimenti le erbe non vi aiuteranno in eterno e voi...» Fiëa fece una smorfia. «Voi sapete che cosa vi accadrà, amico nano.»
I due gli rivolsero uno sguardo incoraggiante. Boïndil si alzò, raggiunse la porta e uscì. «Grazie», disse sulla soglia. Si avviò lungo il corridoio. «Pregare Sitalia», borbottò. «Implorare la dea degli Orecchi appuntiti, a questo siamo arrivati! Io sono innocentel» Dall'avvilimento scaturì la naturale ostinazione del Rabbioso. «Allora preferisco morire domani, da eroe!» Deciso, camminò lungo il corridoio, in direzione delle sue stanze. Vraccas mi aiuterà!
XXXI Terra deìl'Aldilà, Forra Oscura, fortezza di Diga-del-male, 6492° ciclo solare, inizio estate Pioveva a dirotto. Durante la notte era scoppiato un violento temporale, che investiva la fortezza e la Forra Oscura con precipitazioni così intense che sembrava voler trascinare i difensori giù dagli spalti e inondare la spaccatura del terreno. Al sorgere del sole, lampi e fulmini erano terminati, ma la pioggia continuava. L'attacco avrebbe avuto luogo comunque; Tungdil era stato irremovibile. Dietro le quattro porte erano disposte le unità, scrupolosamente ripartite: dalla porta orientale sarebbero sortiti gli esseri umani, da quella occidentale gli ubari, da quella nord i Sotterranei e da quella meridionale i nani. Tale manovra avrebbe dovuto confondere i comandanti dei mostri e ingannarli riguardo al bersaglio principale dell'assalto.
Il colpo più potente, sarebbe arrivato da sud, con Tungdil, Balyndar, il Rabbioso, Goda, Coïra, Lot-Ionan e il contingente dei nani. Gli esseri umani avrebbero fatto una conversione e condotto un attacco diversivo coi Sotterranei da nord, mentre gli ubari sarebbero dovuti giungere in aiuto dei nani attaccando di fianco. Boïndil si drizzò sulle staffe per sorvolare con lo sguardo la massa di guerrieri e guerriere in attesa. Stendardi e vessilli si stagliavano contro il cielo grigio, annunciando pieni di orgoglio la nuova armonia tra i figli del Fabbro; una vittoria comune avrebbe forgiato una maggiore coesione. «Ti ringrazio, Vraccas», mormorò, voltandosi di nuovo verso la porta. Anche se oggi dovessi trovare la morte. Intorno al Rabbioso c'erano gli eroi della prima missione, più Goda e Lot-Ionan. La nana non guardava il mago e ne aveva sempre evitato la vicinanza; non aveva scambiato una sola parola col suo antico maestro, anche se lui l'avrebbe voluto. Boïndil capiva dagli occhi di Goda che lei avrebbe preferito volgersi contro il mago piuttosto che contro i mostri della Forra Oscura. E di nuovo il Rabbioso colse un suo rapido
sguardo in direzione di Balyndar. Il Quinto guardava invece Slin, che teneva gli occhi fissi su di lui, accarezzando come per caso il fusto della balestra. Boïndil si grattò la barba nera striata d'argento. Che sta succedendo? Era del tutto palese che gli era sfuggito qualcosa, e ciò lo preoccupò. Nel bel mezzo del massacro non poteva mettersi a fare da balia ai nani e impedirgli di fare qualche stupidaggine. Fece per dirigere il suo pony verso Tungdil, ma l'imperatore diede il segnale di attacco. I battenti dell'immenso portone della fortezza si spalancarono, insieme con gli altri tre passaggi, per mettere in cammino gli eserciti. Se la stima del Rabbioso non era sbagliata, c'erano almeno mille guerrieri umani sotto il comando degli elfi, quattromila Sotterranei, ben diecimila ubati e altri diecimila nani; tra i figli del Fabbro erano i Terzi, con seimila guerrieri, ad apportare il contributo maggiore. Ma, prima ancora che un solo guerriero potesse mettere piede sulla pianura, doveva riuscire un primo colpo. Lot-Ionan fece un passo avanti e osservò le propaggini rosso scuro della barriera. Poi vi posò
sopra la mano sinistra e pronunciò una breve frase, alla cui fine gridò in modo improvviso, tendendo il corpo. Lampi bianchi corsero come crepe attraverso lo scudo, costringendolo a dissolversi. Con un rumore acuto la barriera scomparve. «Per la Terra Nascosta!» gridò Tungdil e suonò il corno. Il suo pony si mise al trotto, e tutti e quattro gli eserciti cominciarono la loro avanzata, mentre le catapulte della fortezza portavano la distruzione tra i mostri. Con gran fracasso, le macchine scagliavano sull'accampamento nemico pietre, frecce, giavellotti, sfere incendiarie e grumi di ferro incandescente. Colpivano tende, torri d'assedio, arieti, scale d'assalto e tutti i mostri che stavano all'aperto. Il fuoco avvampò, il forte scricchiolare del legno che si spaccava si mischiava alle grida delle creature. Poi si aprì lo strato di nubi e la pioggia cessò, come se gli dei stessero mandando loro un segnale propizio. Ma improvvisamente comparve una nuova barriera, contro la quale sbatterono i proiettili. «Scudi!» gridò il Rabbioso, alzando il suo.
Le prime pietre deviate piovvero sui nani, che levarono gli scudi e vi si nascosero dietro finché non terminò il mortale rovescio. Ovviamente sugli spalti, le squadre alle catapulte avevano reagito prontamente, cessando il tiro, ma in aria si trovavano già abbastanza proiettili da causare sventura tra le loro stesse fila. Boïndil avvertì prima un leggero impatto, poi uno violento, che lo buttò giù di sella. Si rigirò in modo da rimanere dietro lo scudo. Fu la sua fortuna, poiché vi sbatté contro qualcosa di morbido e una nube di fuoco si levò. Svelto, il nano gettò lontano da sé la protezione, ormai in fiamme. Se il sacco pieno di petrolio l'avesse colpito in pieno, sarebbe morto tra le fiamme. Il Rabbioso osservò Goda, che guardava felice il sole e si portò il corno alla bocca: suonò una rapida successione di note di cui il marito non comprendeva il senso. Sui merli di Diga-del-male, qualcosa scintillò forte. I soldati avevano drizzato specchi di metallo battuto di due passi di diametro. Centinaia di riflessi del sole brillavano sul suolo, concentrandosi sulla più grande delle torri d'assedio nemiche, su cui i mostri si
preparavano ad azionare le loro catapulte. La luce non sembrava ostacolata dalla barriera magica. I mostri chiusero gli occhi, confusi; cominciarono a dimenare le braccia, poi il primo di loro prese fuoco. Il Rabbioso si meravigliò. Gli specchi catturano il potere del sole e lo moltiplicano! Anche dal legno umido cominciavano ad arricciarsi le prime volute di fumo, finché il petrolio pronto per le frecce incendiarie non prese fuoco ed esplose in potenti fiammate. La torre d'assedio sparì tra le vampate. Goda esultò e Kiras l'abbracciò. Boïndil era orgoglioso del fatto che sua moglie avesse escogitato uno stratagemma del genere. Un'altra piccola Sapientona. Non solo una maga, pensò mentre si affrettava a ricongiungersi con Tungdil e Balyndar. Gli specchi vennero puntati di nuovo, posando la morte luminosa sulla torre successiva. La luce da sola bastava a far scendere o saltare giù le bestie. Poco dopo, la costruzione divenne una gigantesca torcia, mentre la prima torre già crollava, seppellendo
sotto le sue macerie infuocate innumerevoli nemici. La speranza che il Rabbioso nutriva di vincere quella battaglia si trasformò in convinzione, ma non ancora in sicurezza incrollabile. Lot-Ionan era presso la barriera e la fece crollare un'altra volta; le catapulte però continuarono a tacere per timore che improvvisamente comparisse un altro scudo e che la gente di Diga-del-male venisse così ferita dai colpi di sbieco. Boïndil si preoccupò dei feriti e calcolò approssimativamente le perdite tra i nani. Qualcuno giaceva a terra, altri sanguinavano, altri ancora avevano gli elmi, le armature e gli scudi ammaccati, ma rimanevano valorosamente piantati sulle gambe. «Avanti!» tuonò Tungdil, agitando la Sanguinaria. «Trucidateli!» Poi si lanciò in avanti, afferrando l'impugnatura dell'arma con entrambe le mani. L'esercito dei nani lo seguì con un comune grido di guerra che riecheggiò sulle mura della fortezza.
Le bestie erano occupate a mettersi in formazione da combattimento, ma la confusione tra le loro file era grande, nonostante i rinforzi che affluivano dalla Forra Oscura. I mostri venivano contagiati dall'agitazione dei loro simili, e i comandanti, furiosi, non facevano altro che menare colpi intorno con le lunghe fruste, sulle loro stesse truppe, come se fossero loro i nemici. I nani si trovavano ormai a meno di cento passi dalla prima fila di nemici, quando dalla Forra Oscura spuntò l'orribile testa del Kordrion. Il Rabbioso riconobbe subito l'esemplare che Tungdil, al suo ritorno, aveva attaccato; la cicatrice e l'occhio perduto ne erano chiare prove. Prese rapidamente i tappi di cera e se li mise nelle orecchie. Non fu l'unico a farlo. L'istante successivo sentì attutiti i rumori intorno a sé, come se giungessero attraverso le nubi, da molto lontano. Il Kordrion aprì le fauci in un grido e continuò a uscire dalla Forra Oscura. Boïndil sogghignò. Nessun nano e nessuna nana si fermò; il grido non aveva effetto su di loro: era spaventoso, ma non li paralizzava.
Lot-Ionan scagliò due fulmini azzurrini contro il Kordrion, colpendolo al collo. Divamparono piccole fiamme, la pelle grigia del mostro si riempì di vesciche e annerì, ustionata; alla fine si spaccò e il sangue ne eruppe a fiotti. Strillando, il Kordrion corse fuori della Forra Oscura, calpestando i mostri sotto le sue zampe. Caricò un balzo e spiegò le ali, quando un altro attacco magico, di Goda, lo colpì. Un crepitante fulmine giallo gli si piantò nel fianco, lasciandovi un buco grosso quanto una piccola ruota di mulino. Il Kordrion balzò in aria e con potenti colpi d'ala si alzò in cielo, mentre il sangue gli si riversava fuori della ferita. Il mostro non pensò neanche d'investire i maghi col suo fuoco bianco; il terrore e il dolore erano stati troppo improvvisi. Non conosceva attacchi del genere. Grandi grida di giubilo risuonarono, mentre i nani vedevano fuggire il Kordrion. Ma chi aveva sperato che ciò causasse scoraggiamento tra le bestie, rimase deluso. I nemici avevano vinto la loro confusione iniziale e ricompattato le file. Di nuovo Lot-Ionan dimostrò che era temuto a ragione dagli abitanti della Terra Nascosta. Spalancò lentamente le braccia e fece partire un vento spaventoso, che turbinò verso la falange
nemica. Per una lunghezza di quaranta passi, i mostri vennero colti dalle violente raffiche di vento e scagliati in aria. Il mago lasciò sopire le forze distruttrici solo dopo avere creato una breccia di trenta passi. Tungdil condusse proprio là l'esercito dei nani. «Rabbioso, tu comandi il fianco destro», gridò. «Io prendo il sinistro.» E se ne andò in quella direzione, facendo imperversare la Sanguinaria tra le bestie. Boïndil sogghignò. «Seguitemi!» gridò, mentre frantumava la testa a un mostro che ricordava un gugul su due gambe. Materia simile a gelatina schizzò intorno, e il mostro si rovesciò a terra. «Per la Terra Nascosta!» La forza militare si divise in due parti, facendo indietreggiare l'esercito dei mostri. Le asce si facevano strada attraverso scudi, armature e corpi, spaccavano armi e ossa, abbattendo i nemici. I figli del Fabbro non si fermavano davanti a nulla, camminavano sopra i cadaveri e facevano a pezzi tutto ciò che gli si contrapponeva. Il Rabbioso aveva al suo fianco Goda, che spargeva ulteriore confusione tra i nemici lanciando piccoli incantesimi. Coïra e Lot-Ionan
marciavano con Tungdil, nei cui pressi si trovava anche Balyndar. Boïndil supponeva che Slin si trovasse da qualche parte nelle file posteriori, da cui poteva spargere la morte coi suoi dardi. Si abbandonò alla sua follia guerriera; gridava e rideva come un ossesso e menava l'azza con forza irresistibile. Lo spuntone forava ogni tipo di armatura, scudo od ossa; il pesante lato piatto frantumava elmi e volti, rotule e costole. Alla fine, il sangue dei nemici, che gli scorreva abbondante sugli occhi, ostacolò la furia del Rabbioso, e il nano dovette fermarsi per tergerselo con la barba. Allora notò che la sua parte di esercito era arrivata fino all'ultima fila dei nemici: non c'era più resistenza da fronteggiare. Boïndil levò l'arma in alto e gridò un indomito: «Vraccas!» Gli fecero eco tutti i compagni che erano nelle vicinanze. In quel momento, uscì dalla Forra Scura un singolo nano, e alla luce del sole la sua armatura scintillava di rosso e oro. La sua comparsa parve rallentare tutti e far marcire la gioia di quella prima vittoria. Il Rabbioso lo guardò e dimenticò gli ordini che aveva avuto intenzione di dare. Capitò la
stessa cosa a tutti quelli che gettarono uno sguardo sulla singolare apparizione. Era imponente, nonostante la sua statura ridotta a paragone delle bestie. Un'aura di oscuro potere lo circondava e l'armatura chiara non cambiava nulla al riguardo. Il nano nemico alzò il braccio destro e dietro di lui marciarono fuori della Forra Oscura mostri che superavano di una testa gli imponenti ubari. Portavano pesanti armature di un metallo grigio, su cui avevano gettato pelli scure; nelle mani tenevano grandi spade e asce. I loro elmi erano provvisti di diversi corni e spuntoni, a mo' di ornamento; i volti erano nascosti da visiere in forme mostruose. Scudi a torre fornivano ulteriore protezione contro frecce e altri attacchi. Boïndil ne contò cento. Cento sfide particolarmente grandi. Si fermarono dietro il loro comandante e a un suo ordine tonante piantarono gli scudi a terra creando un frastuono minaccioso. E già dalla Forra Oscura usciva un altro reparto equipaggiato con armature simili, che si fermò dietro la prima linea, molto vicino. Quelle bestie tenevano in mano armi che ricordavano falci; le
aste erano lunghe, rinforzate da fasce metalliche e, nella metà superiore, cosparse da punte lunghe come dita. Il nano in armatura di vraccasio attese fino a che non si fu spento l'ultimo tintinnio di armatura, poi estrasse i suoi due martelli e li batté l'uno contro l'altro. Il forte suono metallico che ne sortì fece trasalire il Rabbioso; i tappi di cera non servivano a nulla contro di esso. Boïndil guardò Tungdil, che aveva anch'egli condotto i suoi guerrieri alla vittoria. Dunque c'erano ancora circa ottomila figli del Fabbro contro duecento nemici: sarebbe stato un macello. L'altezza di un avversario non dice nulla riguardo alle sue capacità. Uno dei giganteschi guerrieri fece un passo in avanti. La sua voce riecheggiò sul campo di battaglia. «Colui che ha molti nomi esige di sapere dov'è il ladro che ha rubato la sua armatura, che lo ha tradito, che ha vilmente cercato di ucciderlo.» Improvvisamente Goda si portò il corno alla bocca e diede un nuovo ordine ai guerrieri sugli spalti. Subito quelli puntarono il riflesso della luce solare sul comandante dell'esercito nemico, per cuocerlo dentro la sua armatura.
Balyndar aveva lottato accanto a Tungdil, facendosi strada tra le file dei nemici. Non si riteneva un guerriero lento e impacciato, ma accanto all'imperatore sembrava esserlo. Quando il Quinto, dopo aver sferrato un colpo, era ancora indaffarato a estrarre la Lama di Fuoco dal corpo del nemico, Tungdil aveva già fatto a pezzi due avversari e si era gettato tra i due successivi. La Sanguinaria era un'arma spaventosa, che faceva onore al proprio nome. Balyndar si era impegnato con tutte le sue forze, ma aveva fatto fatica a non restare indietro. Coïra e Lot-Ionan avevano risparmiato energia, affidando alle lame dei nani il compito di sconfiggere i nemici, cosa che il Quinto trovava assennata. La loro vittoria era stata incredibilmente facile, e si erano concessi qualche istante di riposo prima di marciare verso la Forra Oscura. Balyndar cercò con lo sguardo Slin, ma non lo vide da nessuna parte. La minaccia non lo avrebbe comunque trattenuto dal fare ciò che aveva concordato con Goda. Per i successivi mille cicli la Terra Nascosta doveva essere
sicura, e ciò sarebbe avvenuto solo se fosse stata prosciugata qualunque possibile fonte di pericolo. Qualunque! Il Quinto notò che intorno a lui tutto era diventato più silenzioso; poi un rumore doloroso gli penetrò nelle orecchie, facendolo sussultare. Balyndar si girò in avanti e vide il nano nell'armatura rossa e oro. Subito si mise accanto a Tungdil, e si fecero avanti anche Coïra e LotIonan. Era chiaro che la giovane regina aveva paura. Non aveva nessuna esperienza di guerre come quella che stava infuriando là, e l'incontro con Sisaroth aveva lasciato profonde ferite nella sua anima, ferite che erano ben lungi dall'essere guarite. Il sangue, il fetore di visceri e feci e tutte quelle grida avevano messo a dura prova il suo spirito. Balyndar si aspettava quasi che da un momento all'altro la ragazza si girasse e tornasse al sicuro, nella fortezza. Per quel motivo, le sfiorò delicatamente il gomito e le rivolse un sorriso d'incoraggiamento. Gli venne in mente troppo tardi che il suo volto imbrattato e la Lama di Fuoco grondante sangue non erano affatto il migliore incoraggiamento possibile.
Il sorriso di Coïra sembrò una smorfia, e il nano notò tracce di vomito sull'armatura di cuoio della donna. Dall'altra parte del campo c'era movimento. Uno dei giganteschi guerrieri affiancò il nano rivestito di vraccasio. «Colui che ha molti nomi esige di sapere dov'è il ladro che ha rubato la sua armatura, che lo ha tradito, che ha vilmente cercato di ucciderlo.» La voce riecheggiò sul campo di battaglia. Tungdil alzò la visiera e aprì la bocca, ma un corno suonò. Gli specchi concentrarono i raggi solari sul mago nemico, la cui armatura splendette. «Eccellente!» esultò Balyndar. Non c'era nessuna magia che potesse contrapporsi al sole, come avevano già avuto modo di provare sulla loro pelle i mostri che si sentivano al sicuro dietro la barriera. «Verrà lessato come in una pentola!» «È una stupidaggine!» ribatté Tungdil, per poi gridare i suoi ordini: i nani dovevano rapidamente formare un solo esercito, mentre lui, Lot-Ionan, Coïra e Balyndar stavano in testa.
«Perché? Perché l'idea non è venuta a te?» Balyndar era orgoglioso del fatto che Goda avesse escogitato lo stratagemma degli specchi. «Avrebbe dovuto discuterne con me», replicò Tungdil, ringhiando, e sembrò pericoloso come una belva. «Sta accadendo quello che volevo evitare.» Indicò il nano in armatura di vraccasio. «Adesso impiegherà tutto il suo potere per farcela pagare.» «Tu hai solo ordinato che nessuno gli sbarrasse la strada», disse Balyndar, cercando di difendere Goda. L'occhio di Tungdil lo fulminò, furioso, e il Quinto vide che cambiava colore. Sinistre nuvolette e spirali verdi mulinavano al suo interno, e da sotto la benda d'oro si dipartirono linee nere che attraversarono il volto dell'imperatore. «Se qualcuno cerca di ucciderlo, cosa diresti che sta facendo?» Tungdil abbassò bruscamente la visiera. «Per me - e per lui - è sbarrare la stradai» Balyndar era sbalordito. Quelle linee scure le conosceva negli albi, non certo nei figli del Fabbro. Ora ne sono certo, si disse, guardando i
diamanti scintillanti della Lama di Fuoco. La mia coscienza sarà a posto. Il mago nemico batté l'uno contro l'altro i martelli. Non appena risuonò il tintinnio, gli scudi ustori sugli spalti si ruppero in migliaia di piccoli pezzi. I soldati che li avevano tenuti e orientati vennero investiti dalle schegge e caddero a terra. Forti grida piene di paura e dolore scesero sui nani. «Questo era solo l'inizio», disse cupo Tungdil a Balyndar. «Il lontano bagliore di un lampo prima della tempesta.» Fece un cenno di capo in direzione di Lot-Ionan e avanzò. Le due parti dell'esercito dei nani si avvicinavano l'una all'aitra, mentre l'imperatore e il mago si allontanavano, puntando verso il nemico. Balyndar li seguì, trascinando dietro di sé Coïra per una manica; dall'altra parte vide avvicinarsi Goda e il Rabbioso. Di Slin non c'era traccia. Il guerriero che serviva da araldo al comandante dell'esercito dei mostri levò di nuovo la voce. «Colui che ha molti nomi ride del vostro tentativo di danneggiarlo. Ancora rinuncia a una punizione più severa. Vi perdonerà, se gli
consegnerete il ladro, la fortezza e tutta la terra al di qua e al di là delle...» «Risparmia il fiato», lo interruppe Tungdil. Poi si rivolse direttamente al nano in armatura di vraccasio. «Tu non perdonerai né rinuncerai a punire nessuno. Tu sei qui per uccidere.» Gli mostrò la Sanguinaria. «Una volta ti ha lasciato in vita. Non accadrà una seconda volta.» Il Rabbioso osservò i duecento guerrieri in fila. Devono avere qualcosa di speciale, altrimenti non si contrapporrebbero a forze tanto superiori. Oppure sono semplicemente tanto stupidi da farlo. «Che cosa sono quelli?» sussurrò a Tungdil. «Non lo so», rispose l'amico, senza voltarsi. «Ma sono pericolosi anche in numero molto ridotto. Altrimenti non li avrebbe portati con sé.» «Colui che ha molti nomi vi sottopone la sua offerta ancora una volta. Tutto ciò che accadrà dopo sarà solo colpa vostra», gridò l'araldo, mentre il suo signore restava immobile. I Sotterranei raggiunsero i nani e videro che erano arrivati troppo tardi per la prima battaglia. Li guidava Kiras, che li fece fermare. Altre migliaia di nemici per i mostri.
Il Rabbioso continuava ad aspettarsi una nuova marea di creature di Tion, un altro Kordrion, un drago o qualcosa del genere, che aiutasse in battaglia il mago rivestito di vraccasio e i suoi duecento guerrieri. «Cominciamo, finalmente?» sussurrò. «Sapientone, quanto a lungo dobbiamo ancora aspettare?» Tungdil fece due passi in avanti. «Qui c'è un apprendista che sfida il suo maestro!» gridò forte. «Scopriamo chi è il più forte in combattimento. Poi possiamo far combattere gli eserciti l'uno contro l'altro, se ne avranno ancora intenzione.» Con gran fracasso, sulla strada che portava fuori della Forra Oscura, comparve il contingente degli uomini, e gli ubari arrivarono scavalcando le pareti rocciose. Anche loro si misero in formazione. A quel punto, l'accerchiamento dei duecento nemici era completo. La tensione del Rabbioso crebbe fino a diventare smisurata. «Come fa a restare così calmo?» «Intendi Manodoro o quell'altro?» replicò Balyndar.
«Quell'altro.» Boïndil fece scorrere lo sguardo sui volti di umani, ubari, Sotterranei e nani. «Perfino io, al suo posto, sarei un po' nervoso.» «Non se sapessi di avere un accordo col tuo presunto nemico», osservò Balyndar, guardando verso Goda. «Potremmo essere caduti nel tradimento più meschino della storia della Terra Nascosta.» «Sciocchezze», brontolò Boïndil. «Il Sapientone non farebbe mai una cosa del genere.» Le dita si strinsero intorno all'impugnatura dell'azza. «Vraccas mi sia testimone: se quei due non cominciano subito, lo faccio io!» Tungdil riprese a camminare verso il nano rivestito di vraccasio, facendogli cenno di farsi avanti. Il mago emise una specie di brontolio e cominciò anche lui a camminare, alzando le braccia e facendo roteare i martelli come per gioco. Gli eserciti seguivano ciò che facevano i comandanti; aspettavano, tesi, il duello tra apprendista e maestro. Il Rabbioso guardò casualmente verso LotIonan, che stava muovendo le dita in maniera
poco vistosa mentre le sue labbra formulavano un silenzioso incantesimo. Che cosa sta facendo? Il nano rivestito di vraccasio puntò un martello verso Tungdil. Questi fece un rapido balzo in direzione del suo maestro e con la Sanguinaria vibrò un colpo verso la sua testa. Ci volle un po' perché il Rabbioso comprendesse quello che era successo: il nano nemico aveva cercato di attivare il blocco magico dell'armatura di tionio, e non era accaduto nulla. Boïndil si voltò a guardare LotIonan, che aveva un volto molto soddisfatto. È stato lui a reprimere l'incantesimo? Si chiese se fosse una cosa concordata col Sapientone... o se stesse per iniziare il tradimento. Il maestro intercettò il colpo di Tungdil tra i manici incrociati dei martelli e lo spinse all'indietro; Tungdil girò subito su se stesso e puntò con la lama verso il collo dell'avversario. Di nuovo i martelli formarono una sorta di croce; poi il maestro li girò e agganciò tra loro le teste, in modo che Tungdil non potesse più tirare via la Sanguinaria, e lui potesse strappargli di mano la lama.
La manovra riuscì, e l'esercito dei mostri gridò il suo entusiasmo. La Sanguinaria volò via e rimase piantata nel pantano, a dieci passi da Tungdil. Una cupa risata risuonò sotto l'elmo del maestro, che alzò la visiera. La vista di quel volto deturpato fece sorgere nel Rabbioso profondo ribrezzo. Improvvisamente si sentì un sibilo, e dalla moltitudine dei nani partì un dardo che finì in mezzo al volto del signore dei mostri. Era chiaro che Slin aveva voluto cogliere la sua occasione. Il ferito vacillò e fece due passi di lato, mentre uno dei suoi guerrieri si affrettava a sorreggerlo; emise un forte gemito, agitando in maniera apparentemente priva di senso i martelli. Tungdil intanto si mise a correre per riprendere la Sanguinaria, mentre Lot-Ionan alzava le braccia e plasmava un incantesimo. «Per Vraccas, adesso sì che si comincia!» disse Boïndil. Terra Nascosta, regno deil'Urgon, Passenstadt, trentuno miglia dall'ingresso del regno dei Quarti, 6492° ciclo solare, inizio estate
Rodario aveva intenzione di fare una predica a Mallenia, perché si era alzata; ma poi tacque, si sedette lentamente sul bordo del letto e la osservò. La donna stava alla finestra, in camicia da notte, e guardava fuori, verso le alte colline deil'Urgon e là dove un tempo era esistito il reame dei troll, nel Borwôl. La luce rendeva trasparente il tessuto, mostrando all'attore la sagoma attraente della donna che, nonostante i muscoli, non aveva perso le sue forme femminili. E tuttavia tra le sue braccia Mallenia era molto diversa da Coïra. All'improvviso Rodario divenne più consapevole di quanta fortuna avesse. «Sono meravigliata», disse Mallenia. «Ah, sì? E di cosa?» «Di come sei sopravvissuto. Tu non sai essere furtivo, Rodario.» «E invece sì, ma non lo volevo affatto», spiegò l'uomo, sorridendo. «Per non spaventarti.» Poi si sforzò di assumere un'espressione di biasimo. «Dovresti rimanere coricata. Il viaggio ti ha stancata.» «E così doveva essere. Non vorrei perdermi la battaglia all'uscita della Forra Oscura. Tutta la
Terra Nascosta non parla d'altro.» Mallenia si chinò in avanti, a guardare il vicolo sotto la finestra della loro locanda. «Ecco degli altri che si arruolano volontariamente per aiutare i guerrieri.» Rodario si alzò e si mise dietro di lei, abbracciandola. «Gli esseri umani sono come ubriacati dai loro successi e dalla loro libertà! Questo è un bene. Ma è ancora meglio se arrivano troppo tardi.» Seguì lo sguardo della donna e vide una schiera di giovani in armatura andare alla morte; portavano una bandiera su cui sventolava il vessillo della città. «Contro i mostri perderebbero.» Mallenia si girò nelle sue braccia. «È per questo che siamo così lenti? Perché mi vuoi proteggere?» Incantò gli occhi marroni di lui coi suoi. «Di' la verità, attore!» «Siamo così lenti perché la carrozza non va più veloce», affermò Rodario. «Anch'io vorrei assicurarmi che Coïra stia bene e non lasciarla sola più a lungo.» Mallenia annuì. «Già. Era quello che stavo per dire. Lei ha bisogno della tua protezione più di quanto non ne abbia io.»
«Quand'è partita con gli altri, le cose stavano diversamente. Tu eri troppo debole perfino per tenere in mano un coltello.» «Non è più così», replicò Mallenia, sorridendo. Per scherzo gli somministrò un colpo che lo costrinse a fare un passo di lato. «Lo vedo», disse lui, ridendo. Le baciò la mano. «Allora possiamo partire.» Rodario cominciò a raccogliere le loro cose, mentre Mallenia, senza nessuna vergogna, si cambiava, sostituendo la camicia da notte con armatura e spade. Si muoveva ancora con una certa pesantezza e le ci volle più tempo del solito a chiudere tutte le fibbie, ma le riuscì. Le sacche erano già pronte, e Rodario chiamò l'aiutante dell'oste perché desse loro una mano a portarle. Caricarono la carrozza, che avevano affittato insieme con cavalli e cocchiere, poi incrementarono le loro provviste senza dimenticare una piccola scorta di avena per i cavalli. L'attore aiutò Mallenia a salire. «Aspettate, signori!» li chiamò l'oste. «Questo buono a nulla deve confessarvi una cosa.» Teneva rudemente il garzone per l'orecchio destro.
«Devo proprio?» gemette il ragazzo. Si beccò subito un forte ceffone. «Ti si dovrebbe tagliare la mano destra! E lo farò anche, se i signori insisteranno perché tu sia punito!» gridò l'oste. «Tu sei la vergogna di questa locanda!» Rodario si stava tastando addosso, cercando di capire se gli fosse stato rubato qualcosa. Non mancava nulla, e anche Mallenia scuoteva la testa. «Buon uomo, che cosa avete trovato?» L'oste lasciò l'orecchio del garzone e gli diede una manata sulla nuca. Con l'altra mano, frugò nel grembiule di cuoio e passò all'attore un oggetto avvolto in un panno. Rodario riconobbe subito il panno come sua proprietà; vi erano anche ricamate sopra le sue iniziali. Ma non riusciva a ricordare di avervi avvolto dentro qualcosa. Prese l'involto e lo dispiegò con cautela. «Ha detto di averlo trovato per terra, nella vostra stanza. Sotto il letto in cui dormiva la signora», disse l'oste. «Ma non m'inganna, questo sfacciato! Da quand'è al mio servizio, spariscono in continuazione cose.» Di nuovo tirò al ragazzo uno schiaffo. «Te lo giuro sugli dei: ti
taglierò io stesso la mano, se i signori insistono. Sarà un piacere!» Il garzone piagnucolava, mormorando parole di scusa. Rodario svolse l'ultimo lembo di stoffa e si ritrovò a guardare una pietra. «Non è mia», sussurrò a Mallenia, che sembrava altrettanto stupefatta. «Un diamante di fumo color turchese. Sai quanto può valere?» chiese la donna. L'oste e il garzone non avevano ancora notato nulla, e Rodarlo riawolse l'oggetto nella stoffa. «Vi ringrazio per la vostra onestà», disse, pescando qualche moneta dalla tasca. «Eccovi una ricompensa.» Indicò il ragazzo. «Lasciatelo andare. Gli servirà da lezione.» Fece un sorriso cattivo. «In caso contrario, tagliategli i piedi. Così potrà continuare a lavorare in cucina per voi.» Il volto dell'oste s'illuminò. «Grazie mille, grande signore! Voi siete magnanimo e assennato!» Con un calcio nel sedere spinse il ragazzo dentro la locanda.
Rodario aprì di nuovo l'involto. «Un diamante di fumo», mormorò, rapito. «Ma com'è finito nel mio fazzoletto?» Mallenia prese il diamante e se lo rigirò in mano. Dei pezzetti di metallo scuro si staccarono dal panno e finirono a terra. L'attore li raccolse. «E questi cosa sono?» «Resti del castone, forse?» Mallenia esaminò i frammenti. «Questo è tionio.» «Questa pietra non mi appartiene, e comunque non ho pendenti di tionio in cui poteva essere incastonata.» Rodario si accarezzò il pizzo, poi i baffi sottili. «Certo che a volte sei lento di comprendonio», lo canzonò Mallenia. Lui incrociò le braccia sul petto. «Ah, sì?» La donna gli tenne il diamante di fumo davanti agli occhi. «Tionio?» Rodario scosse il capo. «Mi viene in mente solo l'armatura di Tungdil...» Tentennò. «Vuoi dire che viene dalla sua armatura?» «Chi l'ha staccato e te lo ha messo addosso? E a che scopo?» «Voleva incolparmi del furto, questo è certo.» Rodario si appoggiò alla carrozza, gettando ripetutamente il diamante in aria per
poi riprenderlo.«Ma non ha senso. Tutti sanno che non avevo bisogno di rubarlo.» «Si trattava semplicemente di distogliere l'attenzione dai veri colpevoli.» «Allora il ladro avrebbe potuto gettare via la pietra.» Gli occhi dell'attore seguivano il volo del diamante torbido. «Si trattava di creare disaccordo nello svolgimento della missione.» «Ma non poteva pensare che il gruppo si sarebbe diviso», proseguì Mallenia. «Così ha raggiunto i suoi obiettivi solo in parte.» Rodarlo infilò la gemma in un guanto e vi avvolse intorno un cordino, in modo che non cadesse. «Supponendo che provenga dall'armatura di Tungdil, a cosa serviva? Non riesco a ricordarmene.» «Era nascosto da una guarnizione... oppure incastonato nella parte interna.» «È importante che Tungdil riceva il suo diamante.» Rodario fece per saltare in carrozza. La donna lo fermò. «Con quella siamo troppo lenti. Dobbiamo cavalcare.» «Dobbiamo?» Rodario le diede un bacio sulla fronte. «Io cavalcherò, Mallenia. Tu rimani qui oppure mi vieni dietro con la carrozza.»
Mallenia corrugò la fronte. «Non vorrai farti stendere da una donna davanti agli occhi dei cittadini, vero, mio amato?» L'attore sbuffò per mostrare il suo malumore. «Approfittare dell'inferiorità fisica del proprio compagno non è una buona base per un rapporto, tesoro mio.» «Infatti non ho intenzione di farlo. Era solo una domanda, niente di più.» Mallenia ridacchiò e chiamò l'oste, affinché procurasse loro due buoni cavalli. Aspettarono impazienti nella sala comune tra acqua, pane e diversi tipi di prosciutto. Rodario se ne infilò una spessa fetta in bocca. «Pensi che saremo responsabili della fine della Forra Oscura?» Sospirò. «Questo sarebbe adattissimo per uno spettacolo teatrale. Il mio antenato sarebbe fiero di me! A quanto sembra, sto seguendo le sue orme.» Masticò e si prese una seconda fetta. «E poi c'è il mio impegno in quanto poeta della libertà.» Si dondolò sulla sedia e guardò il soffitto. «Potrei perfino essermi meritato un posto da re!» «Vorresti regnare sull'Idoslân?» lo stuzzicò Mallenia. «Allora dovresti battermi, e non puoi
farcela.» Picchiettò la mano sul tavolo. «Ma il trono dell'Urgon è vacante. Candidati.» Rodario rise. «Questa sì che sarebbe un'ascesa! Sarebbe così incredibile...» «E tu da quel momento in avanti saresti il nuovo Incredibile Rodario», disse Mallerùa, alzandosi. «Ci crederò solo quando lo vedrò.» L'oste fece loro cenno di avvicinarsi. Uscirono, lo pagarono e montarono in sella a due cavalli bai. Con una breve pressione, Rodario controllò che il diamante fosse ben stabile al suo polso. «Sai quale sarebbe la mia prima azione in quanto re dell'Urgon?» «No.» «Sottomettere l'Idoslân e renderti la mia schiava personale.» L'attore scoppiò a ridere. «Uomini!» Mallenia si unì alla risata e spronò i fianchi del cavallo.
XXXII Terra dell'Aldilà, Forra Oscura, 6492° ciclo solare, inizio estate Il Rabbioso avrebbe volentieri comandato l'attacco, ma non spettava a lui farlo, anche se considerava finito il duello tra apprendista e maestro. L'intervento di Slin l'aveva deciso contro le regole, ma non ce l'aveva col Quarto per quello. Tungdil aveva raggiunto la Sanguinaria e l'aveva estratta dal pantano con entrambe le mani, ma, improvvisamente, i guerrieri nemici diventarono invisibili. «Eserciti, attaccate», ordinò l'imperatore. «Attaccate e uccideteli!» L'esercito dei nani si gettò in avanti, correndo verso il punto in cui un istante prima si trovavano i nemici. Tutti lo facevano con una sensazione di disagio, perché potevano essere colpiti in ogni momento da lame invisibili. Anche gli ubari, gli umani e i Sotterranei si lanciarono all'attacco.
Lot-Ionan mandò contro il maestro di Tungdil bianchi fulmini di energia, facendoli scaturire dalle dita, ma il nano, pur gravemente ferito, alzò la mano destra e li intercettò con un diamante di fumo incastonato nel guanto; la gemma scintillò vividamente, ma non accadde di più. Boïndil notò che Lot-Ionan era diventato visibilmente più pallido e che gridava qualcosa a Coïra. Maledizione, è troppo potente anche per lui? La ragazza annuì, esitante, e puntò il braccio sinistro sul nemico, mentre Lot-Ionan faceva lo stesso. A quanto pare vogliono unire le forze. I nemici invisibili avevano raggiunto le prime file degli eserciti, come si deduceva dagli effetti del loro attacco. A quel punto, era chiaro quanto fossero spaventose le armi simili a falci che il Rabbioso aveva visto brandire dai giganteschi guerrieri: si aprivano la strada falciando i soldati; le lame tagliavano tutto ciò che incontravano creando semicerchi di morte. Come mietitori, i nemici marciavano attraverso le linee, e i guerrieri della Terra Nascosta erano spighe di grano. Chi non era colpito dalle lame,
ma solo dalle aste coperte di punte, restava ferito gravemente e veniva scagliato a diversi passi di distanza, prima di abbattersi sulle file dei suoi compagni. Ciò non mancò di avere un effetto sugli eserciti. Su tutti e quattro i lati, l'avanzata si fermò e, per la paura, non pochi soldati si voltarono, cercando di fuggire al sibilo che annunciava l'approssimarsi delle falci. Gli altri cento temibili guerrieri, armati di asce e spade, a giudicare dalle apparenze si erano gettati in piccoli gruppi contro gli avversari e si scatenavano tra le loro file. Anche loro creavano brecce, e nessuna delle vittime dei loro colpi sopravviveva. Come si può combattere contro avversari di questo genere? Boïndil vide che improvvisamente i soldati nelle vicinanze di Coïra venivano scaraventati in aria. Per la Sacra Fucina! Uno dei guerrieri invisibili si è fatto strada fino alla maga! Lot-Ionan era immerso in un incantesimo, mentre la ragazza, con un grido, ne interruppe la preparazione e indietreggiò. Il Rabbioso corse verso Coïra, meditando su come rendere visibile l'avversario.
La battaglia infuriava intorno a lui. Gli eserciti alleati cominciavano a opporre resistenza a quegli insidiosi nemici e ne uccisero anche qualcuno. Ma gli avversari erano difficili da individuare e ancora più difficili da battere. Sopportavano un numero incredibile di colpi prima di accasciarsi; inoltre avevano pesanti armature e scudi a fornire una protezione aggiuntiva. Boïndil aveva perso di vista Tungdil, perché voleva salvare la maga. Coïra era certo in grado di difendersi, ma non faceva altro che arretrare e gridare per la tremenda paura di morire. Non aveva l'animo di una guerriera. Lot-Ionan aveva nel frattempo lanciato il suo attacco magico, e i raggi cozzarono contro una nuova barriera. Lambirono la campana rosso chiaro e l'avvolsero completamente, per poi estinguersi. «Maledetta pazza! Guardate cosa avete combinato col vostro tentennare!» Lot-Ionan imprecava guardando Coïra, che s'impigliò col piede sull'orlo dell'abito e cadde all'indietro nel pantano. Così sembrò essere scampata casualmente agli attacchi delle lunghissime falci, perché
intorno a lei cadevano a terra nani feriti e mutilati. Il Rabbioso aveva quasi raggiunto i due maghi e non voleva credere ai propri occhi. LotIonan si era semplicemente voltato, invece di aiutare la ragazza; puntò invece verso lo scudo magico, dietro il quale il nano rivestito di vraccasio si stava estraendo il dardo dalla faccia. La ferita si chiuse non appena la punta uscì dalla carne, e il nano si piazzò di nuovo sulle gambe come se non fosse successo nulla; non lo si poteva sconfiggere con armi ordinarie. «Vraccas, abbiamo bisogno del tuo aiuto!» Boïndil vide altri nani sprofondare, fatti a pezzi, nel pantano, tra schizzi di sangue e fango. Guardò il suolo, per individuare le impronte dei guerrieri invisibili e vide che erano davvero immense. «Beccato!» tuonò, prendendo la rincorsa per un salto potente che avrebbe dovuto portare il suo colpo all'incirca sulla schiena o sulla nuca del nemico. Il Rabbioso librò l'azza sopra la testa e sferrò il colpo. Lo spuntone colpì qualcosa, e si sentì un forte grido. Poi Boïndil sbatté contro un'armatura e si tenne con tutte le sue forze aggrappato al
manico dell'arma, mentre l'avversario cercava di scuoterselo di dosso. Ma il Rabbioso non voleva mollare la presa. Pendeva coi piedi a un passo e mezzo dal suolo, penzolando qua e là e ridendo selvaggiamente. «Smettila di fare le bizze! Non serve a niente!» Estrasse un pugnale e se lo ficcò tra i denti, poi usando entrambe le mani risalì lungo il manico dell'azza, finché non ebbe raggiunto la testa dell'arma; a quel punto, infilò la lama del pugnale nella ferita, da cui sgorgava sangue. «Ti piace, spilungone?» gridò, rigirando la lama finché, in mezzo alla carne, non scoprì un osso. Con un forte colpo vi piantò il pugnale dentro, in modo che vi rimanesse ben fisso. «Va' a Tion!» Boïndil usò il pugnale come sostegno, estrasse l'azza e colpì più in alto. Lo spuntone perforò il metallo, e la creatura smise di muoversi. Quando il guerriero invisibile si abbatté davanti a Coïra, Boïndil era in piedi sulla schiena del nemico, con le mani chiuse intorno al manico dell'azza. «Eh, non è stato facile!» gridò. Estrasse l'azza dal corpo del nemico, che con la morte riprendeva il suo contorno, presentandosi in tutte le sue spaventose dimensioni. Il
Rabbioso gli camminò sulla testa e balzò a terra davanti alla maga. «La Terra Nascosta ha bisogno di voi!» la pregò con urgenza, porgendole la mano, chiusa in una manopola imbrattata di sangue. «Vincete la vostra paura e ricordatevi dei vostri poteri, altrimenti finirà male.» Indicò la barriera. «Aiutate Lot-Ionan!» Coïra era in preda a una paura incontenibile e non osava nemmeno afferrare la mano del nano. «Non ci riesco», sussurrò. «Ho troppa paura.» Si sentì un forte sibilo, e il pantano cominciò a ribollire. Su tutto il campo di battaglia improvvisamente esplosero grandi getti di fango che si alzavano per venti passi piovendo poi sull'esercito. La molle fanghiglia coprì elmi e armature, rendendo finalmente visibili i giganteschi guerrieri. Questa è stata opera di Goda! pensò Boïndil, orgoglioso. Dal momento che Coïra non si muoveva, il nano si voltò e corse verso la barriera. Femmine umane! Con la coda dell'occhio vide Balyndar correre nella stessa direzione, e anche Tungdil si avvicinava, come pure Lot-Ionan. Il Rabbioso ghignò; il mago nemico non sarebbe riuscito a fermare un simile quartetto. «Tra poco sarai il passato», mormorò.
L'uno dopo l'altro raggiunsero lo schermo, dietro il quale vedevano il nano rivestito di vraccasio e il suo araldo. «Su!» disse il Rabbioso a Lot-Ionan. «Fallo cadere, così possiamo prendercelo!» Il vegliardo non lo degnò di uno sguardo; le sue dita tracciavano segni nell'aria. Tungdil si accostò alla barriera e la colpì con la Sanguinaria; il rumore che ne risultò era cristallino. «Il nostro duello non è finito. I tuoi guerrieri sono stati sconfitti, come vedi. Non sarebbe per te uno stimolo vedermi morto, anche se hai perduto tutto?» «Colui che ha molti nomi annuncia che la battaglia non è ancora finita», disse l'araldo. «Ma, prima di allora, combatterà con te e ti punirà.» La barriera improvvisamente si aprì leggermente, passò sopra Tungdil e lo inglobò al suo interno. Poi l'araldo prese il corno e vi soffiò dentro. I fori che vi erano praticati gli permettevano di suonare melodie diverse, come fosse un flauto. «No!» gridò il Rabbioso, colpendo lo schermo con l'azza. Si sentì un ronzio, ma la barriera non scomparve. «Lasciami entrare!»
Balyndar lo afferrò per una spalla, cercando di costringerlo a guardare verso la Forra Oscura. «E adesso che facciamo?» Boïndil si liberò dalla sua stretta. «Non toccarmi...» S'interruppe quando vide cosa stavano fissando gli altri intorno a lui. Nella fessura era comparso un altro Kordrion, la cui testa era notevolmente più piccola di quella di un esemplare adulto; poi, dalla Forra, spuntò un altro cranio, e un altro e un altro ancora. La bestia venne alla luce mostrandosi all'esercito dei difensori della Terra Nascosta. «Un Kordrion con quattro teste», gemette Boïndil. Tungdil aveva accettato di riprendere a combattere contro il suo maestro, mentre la scintillante campana protettiva si dilatava ulteriormente, raggiungendo i dieci passi di diametro. I nani e Lot-Ionan dovettero indietreggiare. Il Rabbioso imprecò e guardò Lot-Ionan, che continuava a lanciare il suo incantesimo; a quanto pareva, senza aiuto non riusciva ad avere la meglio sullo schermo. «Goda!» gridò Bo'indil. «Goda, abbiamo bisogno di te.»
«Sparisci!» Balyndar sferrò un colpo contro la barriera, ma neanche la Lama di Fuoco potè distruggerla. L'arma rimbalzò violentemente e per poco non ferì Balyndar con l'uncino posteriore. L'araldo fece emettere al corno strani suoni, e il Kordrion si gettò in avanti sbuffando e sibilando, verso le truppe che gli erano più vicine. Si trattava degli ubari, che vennero investiti dal fuoco bianco; le teste sputavano le fiamme in quattro diverse direzioni, massacrando i soldati. A un secondo segnale, il mostro spiegò le ali, si alzò in volo e atterrò nel cuore dell'esercito ubari, maciullando i possenti soldati; due teste azzannavano i nemici più vicini, mentre le altre due soffiavano nuove fiammate. «Sbrigati, incantatore!» gridò il Rabbioso contro Lot-Ionan. «Dobbiamo fermare quella trombetta!» Il combattimento tra Tungdil e il suo maestro, nel frattempo, si svolgeva in modo equilibrato. Nessuno dei due prendeva il sopravvento; si procuravano a vicenda leggeri tagli e danni alle armature. Le rune sul metallo tacevano.
Goda comparve, col fiatone. «Ho energia per un solo incantesimo», confessò. «Giusto di quello ho bisogno», disse LotIonan, senza guardarla. «Conosci l'incantesimo Sarifania?» «Sai di avermelo insegnato poco prima che io mi staccassi da te», rispose la nana. «Non è un incantesimo buono.» «Questo non importa», la sgridò il Rabbioso. «Non è il momento, Goda! Aiutalo a infrangere la barriera, o il Kordrion distruggerà tutti i nostri eserciti!» Controvoglia, la nana affiancò il suo antico insegnante e mise la mano sinistra nella sua destra. Entrambi puntarono l'indice della mano libera verso la barriera, poi chiusero gli occhi. Improvvisamente Tungdil fu colpito in testa e venne scaraventato a due palmi di distanza dal Rabbioso, contro la barriera. L'elmo gli volò via mentre il sangue scorreva dalla ferita sulla fronte. Con gli occhi spalancati per lo spavento, Boïndil guardò il volto dell'amico: era pieno di linee nere, proprio come quello di un albo incollerito. Il Rabbioso credette che da un
momento all'altro il volto del Sapientone sarebbe andato in pezzi come una ciotola rotta. Tungdil si scosse e parò l'attacco successivo; vibrò un colpo e centrò il maestro al volto, col lato della Sanguinaria coperto di rebbi. Le punte trafissero la pelle e si bloccarono tra le ossa. Il nano rivestito di vraccasio iniziò a menare colpi alla cieca intorno a sé. Tungdil gli afferrò la mano, gli spezzò il polso e prese il martello, per poi spostarsi subito di lato. Menò una potente martellata contro la lama della Sanguinaria, spingendo così in profondità nel volto dell'avversario le affilate punte di ferro. Il mago cadde supino e cercò di strisciare lontano da Tungdil, mentre il sangue che sgorgava dalle ferite gli scorreva lungo il collo e stillava a terra. L'araldo suonò col corno un altro segnale. Il Kordrion lasciò perdere gli ubari, che nel frattempo aveva quasi interamente annientato, per gettarsi sugli umani. I guerrieri non cercarono neanche di opporre resistenza, ma si misero a correre per salvarsi la vita. I soldati sugli spalti di Diga-del-male azionarono le catapulte e le baliste contro il
mostro, anche se le perdite tra i loro compagni, causate dai colpi che mancavano il bersaglio, erano pesanti. Nubi di giavellotti e lance oscurarono il campo di battaglia. Il Rabbioso seguiva a malapena quello scontro. Voleva raggiungere Tungdil. Devo farcela! L'araldo intanto aveva deciso d'intervenire nel duello ed estrasse la spada. Tungdil non si lasciò distrarre e levò il martello. Colpì la lama della Sanguinaria con tutte le sue forze, una volta, due volte, tre. Così facendo, l'arma attraversò il cranio del nemico fino a spezzarlo in due. I movimenti violenti di braccia e gambe si placarono; gli arti si afflosciarono, esanimi, e non si mossero più. L'apprendista aveva preso la vita del maestro. «Bravo!» gridò Boïndil, felice. «Ce l'hai fatta!» Con un truce sorriso, Tungdil estrasse la Sanguinaria dalle spoglie del maestro e ne orientò la punta verso l'ultimo nemico, i cui passi rallentarono. D'un tratto si sentì un rumore acuto, come se una potente tempesta si fosse scatenata
attraverso montagne piene di crepacci, e la barriera scomparve. «Sapientone, lasciami lo spilungone!» ruggì Boïndil, scattando con l'arma levata verso l'araldo, che non era riuscito a impedire la fine del suo signore. Il Rabbioso vide che il nemico portava il corno alla bocca e fece quello che si dovrebbe fare solo quando si ha con sé una seconda arma: scagliò l'azza. L'arma volò ronzando verso il gigantesco guerriero. Lo spuntone sfondò l'elmo, piantandosi nella fronte e distruggendogli il cervello. L'araldo cadde; il corno finì a terra e si frantumò. «Ah!» Il Rabbioso alzò in aria i pugni e si girò verso gli amici. «Avete visto che cosa...» La bocca gli rimase spalancata. Goda era in ginocchio davanti a Lot-Ionan, mentre i due continuavano a tenersi per mano. La nana si contorceva in preda al dolore; aveva il volto distorto e respirava affannosamente. L'altro braccio di Lot-Ionan era puntato in avanti; sopra il palmo della mano levitava una sfera di energia, da cui piccoli raggi si dipartivano per poi ritirarsi di nuovo.
«Sapevo che i nani potevano farcela anche senza i miei poteri», disse il mago, ridendo. «Li ho risparmiati per questo momento!» Balyndar fece per gettarsi addosso al mago, ma dal fango davanti a lui improvvisamente si levarono le armi rimaste senza padrone, e gli si puntarono contro. «Nessuno mi si avvicini, se io non lo permetto.» Lot-Ionan guardò in direzione del Kordrion. «Bell'animale. Tiene impegnato l'esercito per me, in modo che dopo dovrò fare poco lavoro di distruzione prima di tornare nella Terra Nascosta. Il mio sogno, quello di regnare da solo, diverrà realtà.» Accennò un inchino verso Tungdil. «Grazie a te, mio figlio adottivo. Senza di te non ce l'avrei mai fatta.» «Ecco, vedete?» gridò Balyndar. «È un traditore!» «No. Tutto il contrario.» Un fulmine partì dalla sfera e colpì l'armatura di Tungdil. Nessuna runa scintillò in sua difesa; l'energia lo colpì al petto e lo scagliò all'indietro, dove cadde accanto al cadavere del suo maestro. «Le intenzioni di Tungdil erano oneste, ma io non ho nessuna considerazione di accordi fatti con creature che mi sono molto inferiori. Tuttavia
questo mi ha dato l'opportunità di esaminare più da vicino gli incantesimi protettivi posti sull'armatura.» Lot-Ionan rise sotto i baffi. «E con successo.» «Adesso ti sistemo per le feste!» Il Rabbioso fece un passo in avanti. «Un altro passo, e la tua compagna verrà distribuita per il Paese con un grosso scoppio», lo ammonì Lot-Ionan. Boïndil si fermò. «Cosa stai aspettando? Perché non ci uccidi subito?» «Non sono ancora sicuro di non avere più bisogno di voi.» Lot-Ionan osservò il Kordrion imperversare tra le file dei Sotterranei. Le spade che levitavano davanti a Balyndar scattarono. Il nano riuscì a schivare tre lame, le altre lo trapassarono al torso, alle braccia e alle gambe; furono risparmiati solo la testa e il collo. Gemendo, il Quinto cadde nel pantano, perdendo i sensi. «Basta così!» risuonò una voce limpida. «Io ti fermerò, Lot-Ionan. I tuoi tempi da mago criminale sono finiti!» Boïndil si stupì non poco di vedere Rodario sul campo di battaglia. Nella mano destra teneva un diamante di fumo.
«Questo artefatto suggella la tua rovina!» L'attore parlava in modo molto impostato, come si addiceva a un simile ingresso in scena, e si avvicinò lentamente al gruppo. «So del suo potere e lo impiegherò senza nessun riguardo verso di te e i servigi che anticamente hai reso.» Teneva la pietra davanti a sé, quasi fosse uno scudo. Lot-Ionan alzò un sopracciglio, poi scoppiò a ridere forte. «Un attore, dico bene? Somiglia a Rodario e parla come lui. Spettacolo ben riuscito, ma inutile.» Lanciò un raggio che colpì con precisione la pietra. Il diamante s'illuminò e, tra le dita dell'attore, si dissolse in nera polvere di carbone. «Per Samusin! Avrei potuto giurare che si trattava di qualcosa di speciale», disse Rodario, deluso. «No, non lo era», lo derise il mago. «Facciamola finita, prima che...» Tra i crepitìi, una mezza dozzina di fulmini rossi colpì il mago alla schiena. Lot-Ionan venne proiettato in avanti e cadde sopra Goda, che si staccò da lui ed estrasse un pugnale per cacciarglielo in gola.
Ma la sfera di energia di Lot-Ionan la fermò con una scarica sulla fronte. La nana si accasciò senza emettere suono. «Goda!» Il Rabbioso si mise a correre, dimenticandosi che la sua azza era ancora impiantata nel cranio del nemico. A dieci passi di distanza da loro stava Coïra, coperta di sudiciume, e muoveva le mani preparando un altro incantesimo. Aveva vinto la sua paura al momento giusto. Lot-Ionan restava in ginocchio, formulando anche lui un incantesimo. Si sentì un sibilo, e un dardo di balestra si piantò nella schiena del mago, all'altezza del cuore. Slin aveva colpito ancora, ma Lot-Ionan non era morto. C'era il pericolo che compisse un ultimo attacco magico. Mentre correva, Boïndil afferrò gridando la Lama di Fuoco, la fece roteare una volta sopra la testa e si girò menando un colpo orizzontale, diretto al collo di Lot-Ionan. Una scia incandescente si formò dalla testa dell'ascia e i diamanti affilati staccarono la testa. Il cadavere del mago cadde accanto al corpo di Goda.
«Vraccas!» gridò il Rabbioso, ansimando. Fissò il volto del mago, e vide chiaramente che le labbra continuavano a muoversi in un sorriso; poi gli occhi si girarono all'insù e persero la scintilla della vita. Improvvisamente Tungdil fu accanto a Boïndil. Nulla sul suo volto ricordava le linee nere. «Aprilo!» ordinò l'imperatore, con voce rotta. «Non senti?» Poiché l'amico, ancora stupito, non faceva nulla, Tungdil afferrò il pugnale, si abbassò e squarciò brutalmente il cadavere del mago. All'interno del corpo c'era una luce verde, che cresceva d'intensità. Si levò del fumo e si sentì puzza di bruciato. «Per gli Empi!» Tungdil si mise a frugare tra i tessuti molli; il sangue gli arrivava fino al gomito. Poi chiuse il pugno e lo tirò fuori con violenza. Il Rabbioso sentiva qualcosa sfrigolare all'interno della manopola, come acqua su una piastra incandescente. «Per Vraccas, che cos'è?» «La scheggia di malachite», rispose Tungdil, rialzandosi. «Correte alla fortezza», ordinò, dirigendosi rapidamente verso la Forra Oscura.
«Cosa? Perché, Sapientone?» «Correte più in fretta e più lontano possibile! Muovetevi!» gridò Tungdil, affrettandosi lungo la strada che portava alla Forra Oscura, finché le ombre non lo inghiottirono. Il Rabbioso cercò di aiutare Goda ad alzarsi; ma la nana non si muoveva, così se la caricò sulle spalle. «Ehi, attore! Occupati di Balyndar!» Boïndil prese dal cinturone il corno e diede il segnale della ritirata. Coïra guardava incredula nella Forra Oscura. «Ci ha presi in giro!» «Cosa?» Il Rabbioso guardò il Kordrion, che era pesantemente segnato dalle frecce e dai giavellotti. Il mostro spiegò le ali e si arrampicò sulle rupi della Forra Oscura, per poi librarsi nell'abisso. «Si è preso il potere del mago!» La ragazza deglutì. «In quella scheggia di cristallo si trova un potere immenso. Era così che Lot-Ionan lo conservava!» Rodario sollevò Balyndar e lo issò a fatica sulla schiena. «Voi e le vostre armature», mormorò, mettendosi a correre. «Servono solo a rendervi più pesanti.»
L'esercito dei nani obbediva al richiamo del corno del Rabbioso; i soldati superstiti iniziarono a ritirarsi. «E che cosa se ne farebbe?» chiese Boïndil. «Ha dimostrato che per noi...» Ci fu nella Forra Oscura uno schianto, seguito da un terremoto che fece cadere a terra tutti quelli che si trovavano sul campo di battaglia. Poi si percepì una forte esplosione. Il Rabbioso rotolò su di sé e vide che cosa stava accadendo. Parte delle mura della fortezza crollarono. Interi pezzi si staccavano, facendo precipitare i soldati che ci stavano sopra. La Forra Oscura era colma di una spettrale luce verde. Un largo raggio salì verticalmente, dritto nel cielo; poi risuonò una seconda detonazione, che alzò le rupi intorno alla Forra. Alla fine il suolo implose e trascinò con sé la pietra. Accadde così in fretta che il Kordrion non riuscì a mettersi al sicuro. Venne colpito da numerosi macigni, che lo schiacciarono verso terra. Strillando, sparì nella Forra Oscura e, quando entrò in contatto con la luce, si polverizzò.
Una terza esplosione scagliò in aria, in cinque punti diversi, pietra liquida, che volò fin sugli eserciti mietendo altre vittime. Fumo, vapore e polvere si alzarono, coprendo infine la vista. Poi sul campo di battaglia tornò il silenzio. No! Il Rabbioso aveva lo sguardo fisso sulla cortina di polvere. «Coïra, potete soffiarla via? Devo sapere che cos'è successo.» Gemendo, Boïndil si alzò, adagiando Goda a terra. Visto che la nana respirava, la preoccupazione per lei era inferiore rispetto a quella per il destino di Tungdil. Coïra evocò una leggera brezza che schiarì la visuale, anche se continuavano a esserci nubi di fumo denso che giravano per il campo. La Forra Oscura non esisteva più; al suo posto ribolliva pietra liquida, il nero sangue delle montagne, che aveva sigillato il passaggio. Diga-del-male era crollata per un buon terzo e, per quello che Boïndil riusciva a vedere attraverso le cortine turbinanti, degli eserciti di ubari e di umani erano rimasti in vita solo pochi guerrieri. I nani avevano subito le perdite minori, perché non erano stati raggiunti dal Kordrion.
«Si è sacrificato», mormorò il Rabbioso, con voce strozzata. «Il Sapientone sapeva che cosa sarebbe successo, e si è sacrificato per noi!» Le lacrime gli riempirono gli occhi. «Vraccas, oggi tu hai accolto il tuo più grande eroe nella Fucina Eterna.» «Là!» gridò Rodarlo, ridendo. «Vedete quello che vedo io?» Boïndil guardò a sinistra e lanciò un grido di gioia: attraverso il fumo e la cenere barcollava verso di loro un nano in una malconcia armatura di tionio, usando la Sanguinaria come sostegno. Quando vide gli amici, Tungdil alzò la mano in segno di saluto e prese a zoppicare verso di loro. «Sapientone!» esultò il Rabbioso. «Oh, Vraccas, dovessi mai diventare ricco, ti offrirò tutto subito! Questo è quello che conta per me! Mille volte di più!» Anche gli eserciti e i soldati sulle mura della fortezza avevano notato Tungdil. Il coro di voci che iniziò a quel punto a giubilare superava tutte le espressioni di gioia che il Rabbioso aveva sentito nella sua lunga vita. Pianse per la commozione.
Tungdil aveva riportato delle ustioni, e dal foro sul fianco perdeva sangue. Tuttavia usciva con un sorriso da quell'inferno, e faceva cenni a chi era sopravvissuto. «È lui: il mio Sapientone», singhiozzò Boïndil, commosso. «Sapevo che ce l'avremmo fatta», disse Slin, che era arrivato improvvisamente accanto a lui e gli porgeva la mano. «Abbiamo fatto bene a non dubitare di lui.» Tutti i nani, anche quelli feriti, s'inginocchiarono davanti all'imperatore; anche Boïndil e Slin, che aveva ancora un dardo sul fusto della balestra, dimostrarono il loro rispetto. E quell'onda si diffuse. Al suono dei corni, esseri umani, ubari e Sotterranei - e anche i due elfi - s'inchinarono davanti a Tungdil Manodoro, che continuava a camminare per raggiungere l'amico. Lo sapevo! Boïndil si alzò, primo tra tutti i figli del Fabbro, e spalancò le braccia per cingere con entusiasmo Tungdil. Improvvisamente Kiras balzò oltre il Rabbioso, che sentì uno strattone alla mano, e puntò verso il Sapientone. Troppo tardi Boïndil si
accorse che la Sotterranea gli aveva strappato di mano la Lama di Fuoco. «Questo non è Tungdil Manodoro! Quest'arma non si lascia ingannare come voi», gridò Kiras, impugnando l'ascia leggendaria con entrambe le mani. «Vedete, i diamanti brillano! Esiste prova migliore?» Vibrò un colpo. Slin imprecò e con un movimento fluido alzò la balestra, mirò e tirò. Il dardo colpì Kiras al cuore, ma in quello stesso momento la Lama di Fuoco passava attraverso l'armatura di tionio di Tungdil, attraverso le sue costole e attraverso il suo cuore. Morenti, i due caddero l'uno nelle braccia dell'altra, finendo nel pantano. I corni ammutolirono all'istante, e un grido di sgomento risuonò da ogni parte. «No!» Boïndil tirò via la Sotterranea, estrasse la Lama di Fuoco e osservò la terribile ferita da cui scorreva il sangue. Un comune guaritore non avrebbe più potuto fare nulla per il suo amico. «Coïra!» gridò, come fuori di senno. «Venite, maga, e salvatelo!» La ragazza lo affiancò, lentamente, e scosse la testa con rammarico. «Non posso, Boïndil. Non ho più energie», mormorò Coïra, con la
voce soffocata dalle lacrime. «Le ho usate per il vento che mi avete chiesto...» Il Rabbioso sollevò la testa dell'amico e con l'acqua della sua borraccia gli pulì il volto dal fango. «Non può essere, dei!» gridò. «Non potete lasciar morire l'eroe della Terra dell'Aldilà e della Terra Nascosta!» «Non... era... Tungdil», sussurrò Kiras, contorcendosi e gemendo. «Le gemme sull'ascia... Ho dovuto...» Il suo sguardo si fece vitreo. «Era lui!» gridò il Rabbioso, guardando la Lama di Fuoco. I diamanti ardevano, ma ormai Boïndil sapeva che lo facevano per causa sua. A causa della maledizione degli elfi. «Era lui», disse a voce più bassa, piangendo la morte dell'amico. Goda aprì gli occhi. Aveva seguito quello che era successo fingendo di essere priva di sensi, in modo che il marito non la pregasse di salvare la vita a Tungdil. Mentre si drizzava, la nana notò uno scintillio nel risvolto di una manica. Vi mise la
mano dentro e ne trasse l'ultima scheggia del diamante. Era stata lì tutto il tempo! Goda guardò Boïndil chinato sul cadavere dell'imperatore. Con quel frammento, sarebbe stato facile salvarlo dalla morte...
EPILOGO Terra dell'Aldilà, Forra Oscura, fortezza di Diga-del-male, 6492° ciclo solare, inizio estate Hargorin Seminamorte guardò sul tavolo l'ultima delle sei cassette di vraccasio, su cui era punzonato il simbolo dei Terzi. Dentro si trovavano le ceneri di Tungdil Manodoro, il cui cadavere era stato cremato in una cerimonia commovente. Ogni stirpe e anche i Liberi, contro la tradizione del popolo dei nani, avrebbero preso una parte del più potente ed eroico imperatore che avessero mai avuto e l'avrebbero conservata dentro un monumento alla sua memoria. Così avevano concordato la regina e i re. Il Rabbioso spinse verso Hargorin la cassetta, poi distribuì le altre tra Xamtor, Balyndis, che era guarita dalla febbre, Frandibar e Gordislan, della città dei Liberi. L'ultima cassetta, su cui c'era il simbolo dei Secondi, non la toccò.
Si erano incontrati nella sala delle riunioni della fortezza, intorno a un tavolo più piccolo per discutere di ciò che era successo e di cosa avrebbero fatto i figli del Fabbro. La morte del loro eroe aveva colpito tutti, l'atmosfera era cupa. Hargorin guardò i presenti e spinse la cassetta col simbolo dei Secondi verso Boïndil. «Hanno scelto te come loro re. Spetta a te. Portala sui Monti Blu ed erigi un monumento in onore del tuo amico, come gli è dovuto.» Il Rabbioso osservò la cassetta. Una parte di lui continuava a rifiutare la morte del Sapientone, un'altra parte si attaccava disperatamente all'idea che si fosse trattato di un sosia di Tungdil; ma una terza parte di lui sapeva chi avevano consegnato al fuoco tra le preghiere a Vraccas e al suono del canto commosso dei cori di nani. Balyndis glielo aveva detto allora: era Tungdil. Anche il suo cuore lo aveva sentito. Avrei dovuto ascoltarlo fin da principio. Persone accecate dal dubbio come Goda e Kiras lo avevano influenzato troppo a lungo. E ancora continuavano a esserci tra le stirpi gli increduli che in segreto attendevano il ritorno del vero
Tungdil Manodoro. Io so come stanno le cose. Lentamente, allungò la mano e posò le dita sul metallo rosso-oro. «Lo farò, Hargorin.» Trasse un profondo respiro. «Partirò presto per controllare se è tutto a posto e ripulire i corridoi dai cadaveri degli Occhineri, con l'aiuto di quelli della mia stirpe che si sono rifugiati tra i Liberi.» Balyndis gli rivolse un sorriso d'incoraggiamento. «Riuscirai a vincere questa sfida, Boïndil. Questo lo so da molto tempo: tu ami le grandi sfide.» Il Rabbioso fece un debole sorriso. «Lo voglia Vraccas, regina Balyndis.» «Resta la questione relativa al prossimo imperatore», disse Frandibar, meditabondo. «Deve rimanere aperta. Almeno per i prossimi venti cicli», propose Xamtor. «Troverei sconveniente scegliere subito qualcuno che sostituisca Tungdil Manodoro. Il trono deve rimanere vacante. Nel frattempo, vedremo chi si distinguerà come capo di tutte le stirpi dei nani.» «Dipendesse da me, sarebbe lui», disse Hargorin, indicando Boïndil. Il Rabbioso alzò la mano in segno di rifiuto. «Ti ringrazio per il sostegno, ma io non voglio
quel titolo.» Fece un cenno verso Xamtor. «La sua proposta è la migliore. Incontriamoci una volta ogni ciclo e raccontiamoci cosa succede nei regni; tra venti cicli, convocheremo i capiclan di tutte le stirpi: dovranno decidere loro.» Si guadagnò l'approvazione di tutti. Frandibar guardò il modello in scala della Forra Oscura, su cui ancora si vedevano le rupi e la fortezza. «Affideremo Diga-del-male agli ubari e ai Sotterranei, Boïndil.» «Sì. Non c'è nessun motivo di sistemare la fortezza. Lasceranno cadere in rovina Diga-delmale, o ne useranno le pietre per costruire qualcosa di nuovo. Ho sentito parlare di una statua in onore di Tungdil.» Guardò i volti segnati. «C'è altro di cui discutere?» Poiché nessuno aveva altro da sottoporre, l'incontro venne sciolto e i sovrani si accomiatarono per cominciare il viaggio di ritorno alle loro patrie: quello più breve attendeva Frandibar; quello più lungo, Xamtor. Con la cassetta in mano e perso nei propri pensieri, Boïndil camminava lento attraverso la fortezza, sulle cui pareti erano comparse ovunque piccole crepe. Era tempo che quanto restava della guarnigione abbandonasse Diga-
del-male, prima che, nonostante le puntellature, altre parti franassero. Come sputato dalle tenebre, l'ultimo Zhadár apparve, sogghignando in modo demoniaco. «Torni a casa?» Il Rabbioso osservò l'armatura nera che il nano che diceva di chiamarsi Balodil non si era tolto. «Sì. E tu, no? Sei un Terzo...» L'altro scosse la testa. «Io sono uno Zhadár, creato dagli albi. E proprio a loro darò la caccia, fino a che non ne avrò snidato l'ultimo.» «Voleva occuparsene Aiphatòn. E in realtà, per raggiungere questo obiettivo, dovresti portarti dietro una schiera del vecchio Squadrone Nero.» «Aiphatòn non li troverà mai tutti. Io conosco i loro segreti, lui no. Hanno ingannato il loro stesso imperatore, e lui l'ha dimenticato. Mi muoverò da solo. I Terzi sono buoni guerrieri, ma non il mezzo giusto contro gli albi che perseguiterò.» Balodil si tolse la borraccia dal cinturone. «Questa è per te.» Boïndil si guardò intorno, per assicurarsi che nessuno li stesse osservando. «Ma... anche tu ne avrai bisogno, no?»
Lo Zhadár ridacchiò. «Mi distillerò da solo la mia bevanda.» Si piegò in avanti. «Con sangue albico», aggiunse con voce profonda come un pozzo. «Li spremerò come frutti.» Si leccò le labbra, mentre gli occhi gli scintillavano. Il Rabbioso non poteva negare di trovarlo sinistro. «Che cosa farai, quando li avrai presi tutti?» L'Invisibile scosse le spalle e sbuffò; sembrava un nano piccolo che si fosse appena preso un rimbrotto dalla madre. «Un po' di questo e un po' di quello. Forse andrò tra i Liberi, forse lascerò la Terra Nascosta, forse mi butterò in un burrone.» Rise a singhiozzo e si grattò la corta barba. «O andrò nella Terra dell'Aldilà e mi cercherò un esercito per assaltare la Terra Nascosta.» Guardò negli occhi Boïndil, ghignando. «Che ne dici?» «Questo non lo farai.» Il Rabbioso lo fissò a lungo. «Sai che ci sono molti eroi che ti potrebbero fermare.» A quel punto, fu lui a chinarsi in avanti. «E io conosco il tuo punto debole: il figlio di Tungdil non distruggerebbe mai l'eredità di suo padre.» Balodil indietreggiò e rise con cattiveria. «No, io non sono suo figlio. Avevo soltanto
quella storia e quel nome, e trovavo divertente fare lo stupido.» Ridacchiò di nuovo. «Ci eri cascato, non è vero?» «Quasi», ammise Boïndil, sollevato. «Ti auguro di avere fortuna in quello che farai.» Lo Zhadár gli fece il saluto militare. «Se mai tu dovessi avere bisogno di me, Rabbioso, allora grida il mio nome al vento dell'est. Mi è amico e mi farà pervenire il tuo messaggio», disse serio, facendo un passo indietro in un corridoio laterale, in cui improvvisamente le torce si spensero. «A te auguro l'aiuto del tuo dio.» Scomparve nell'oscurità. «Dove avevi sentito la storia di Balodil?» chiese il Rabbioso. «Me la raccontò un amico.» La risposta era giunta dall'oscurità. «Sosteneva di essere il figlio di Tungdil. Era quello che tu chiamavi Ringhio.» Boïndil rabbrividì. «Cosa?» Seguì lo Zhadár nell'oscurità. «È vero?» Non ottenne risposta. Sospirando, ancora più carico di pensieri, Boïndil tornò nel suo alloggio, da cui gli venivano incontro nani con bauli e cassapanche.
Il trasloco era già cominciato, le cose venivano stipate e parecchie rotazioni dopo sarebbero arrivate nella sua vera casa. Il Rabbioso avvertiva un po' di malinconia mentre accarezzava la parete di granito. Costruita secondo i suoi piani, per centinaia di cicli era stata la sua patria; là erano cresciuti i suoi figli. Tornerò spesso in questo luogo, anche se solo col pensiero. Entrò nella stanza in cui sedeva la sua famiglia in compagnia di Coïra, Mallenia e Rodario. Goda conversava con la maga e fece un cenno al marito quando lo notò. Boïndil sapeva che aveva partecipato alla sepoltura di Kiras, che i Sotterranei avevano eseguito in fretta e senza cerimonie. Lui stesso se n'era tenuto lontano. L'assassina del suo amico non doveva aspettarsi compassione né attestazioni di rispetto. «Ehi! Le maghe della Terra Nascosta si sono spartite i regni?» disse il Rabbioso per scherzare, posando sul tavolo la cassetta e la borraccia. «No. Vivremo in pace e in armonia», replicò Coïra. «Abbiamo concordato che io userò la sorgente in quello che un tempo era il regno
degli albi, e la sorveglierò coi due elfi. Sebbene mi dispiaccia, dovrò governare il Weyurn da lì. Goda proteggerà la sorgente sui Monti Blu.» «Questo però non renderà felice il futuro re del Gauragar.» «Invece sì», disse Mallenia. «In realtà, sarà una regina.» «Voi?» Il Rabbioso accennò un inchino. «A quanto pare, è valsa proprio la pena combattere tanti cicli per la resistenza. Be', vi faccio le mie congratulazioni, regina Mallenia. Forse l'attore prenderà l'Idoslân sotto la sua ala?» Strizzò l'occhio. «No, li lascerò entrambi a Mallenia. Io mi sono candidato per l'Urgon», disse Rodarlo, sorridendo. «Durante il viaggio di ritorno, parlerò davanti all'assemblea che dovrà esaminare i candidati. Con le mie eroiche gesta e i miei leggendari spettacoli, mi sarà facile ricevere il trono.» Mallenia e Coïra scoppiarono a ridere contemporaneamente. «Ci crede davvero, il poveretto», lo punzecchiò Mallenia. «Certo! Vedrai che diventerò sovrano!» «Nella tua prossima vita», scherzò Coïra. «Dovrai accontentarti di fare avanti e indietro
tra due donne. Non avrai tempo per un incarico così importante.» La ragazza fece il broncio. «O vuoi forse dire che per te siamo meno importanti di quel trono?» Rodario rise. «Se mai tu non dovessi avere più voglia di fare la regina e la maga, ti prenderò volentieri nel mio teatro.» Mallenia si limitò a sogghignare, con una mano sull'elsa della spada. «Andiamo. Goda e Boïndil hanno sicuramente cose di cui discutere.» Nani e umani si salutarono; poi le due donne e l'uomo lasciarono l'alloggio. «I Lunghi sono proprio strani», commentò il Rabbioso, dando a Goda un bacio sulla fronte. «A volte tu da sola sei già troppo per me, e l'attore si prende due femmine.» Goda sorrise e mandò fuori i figli per aiutare col trasloco. «Sarai un buon re. I tuoi figli ti aiuteranno.» Lo baciò. «Come farò io.» «Davvero?» La nana stava per replicare a tono, poi gli accarezzò i capelli brizzolati. «Questa è l'unica cosa su cui non saremo mai della stessa opinione, amato consorte: Kiras ha agito bene.»
«Tu sai che la vedo diversamente. E d'ora in avanti non ne parlerò mai più con te.» Boïndil si voltò e si morse la lingua per non dire altre cose che la potessero ferire. L'amava troppo per farlo. Goda fece un profondo sospiro e uscì dalla stanza. Sollevato di essere di nuovo solo coi suoi pensieri, il Rabbioso si rivolse al tavolo in cui continuavano ad attenderlo due cose: la cassetta e la borraccia. Toccò prima il freddo vraccasio, poi afferrò la sacca di pelle e prese anche la sua borraccia da sotto la cotta di maglia. Pieno di disgusto, sentì gorgogliare la nera sostanza. Questa roba è responsabile della morte di Tungdil, insieme con la maledizione di cui sono rimasto vittima in modo immeritato. Boïndil prese l'azza e si avvicinò al camino. Accese il fuoco, con calma, attizzandolo e mettendovi un ciocco dopo l'altro, finché le fiamme non bruciarono alte. Intanto i suoi pensieri continuavano a girare intorno alle rotazioni precedenti. Così tante domande che avrebbe voluto porre a Tungdil sarebbero rimaste senza risposta. Ci vedremo nella Fucina Eterna. Allora avremo molto tempo per raccontare.
«Non ho bisogno della pietà di una dea degli elfi», disse a bassa voce, gettando una borraccia tra le fiamme. Il calore bruciò la pelle, e il liquido nero ne uscì ribollendo e trasformandosi in fumo scuro. «Io sono Boïndil Duelame del clan dei Branditori d'ascia; un figlio del Fabbro e re della stirpe dei Secondi.» Con slancio, gettò la seconda borraccia nel camino. «Vraccas ci ha scolpiti nella roccia e ci ha dato la vita. Io vincerò da solo questa maledizione, com'è vero che sono qui adesso.» Osservò rapito la seconda borraccia che bruciava, appoggiò le mani sulla testa dell'azza, drizzò fiero la testa e inarcò la schiena. Maestoso, stava davanti alle fiamme. Poi si girò e tornò al tavolo. Commosso, guardò la cassetta di vraccasio che scintillava alla luce del fuoco come se una forza dall'interno le desse potere. Il Rabbioso vi posò una mano sopra e sentì calore. «Mi mancherai, Sapientone», sussurrò. Prese la cassetta e uscì dalla stanza, senza nemmeno guardarsi intorno. I Monti Blu aspettavano il loro re.
POSTFAZIONE Dopo il terzo volume ero fermamente convinto di aver concluso la storia di Tungdil Manodoro. Come potevo immaginare che il mio presunto finale avrebbe sollevato così tanta curiosità e desiderio di un prosieguo? Sono rimasto stupito: in un anno e mezzo, ho ricevuto innumerevoli e-mail sempre sullo stesso argomento; in tutti gli incontri coi lettori, qualcuno mi chiedeva del terzo libro e della barzelletta del mezz'orco che chiede la strada al nano (che mai è stata spiegata e mai lo sarà. Ci sono misteri che dovrebbero rimanere tali. È la vendetta dell'autore). È stato molto divertente escogitare nuove avventure e mandare in battaglia i miei vecchi compagni. Per l'ultima volta. Non sono un amante del «lieto fine», e questo finale è univoco, almeno dal mio punto di vista. I nani hanno superato la loro ultima prova e si sono meritati la pace.
Per prevenire domande e tonnellate di email su un possibile quinto volume, lo scrivo molto chiaramente: non c'è niente di prestabilito! E poi le tetralogie sono qualcosa d'insolito. Un altro buon motivo per finirla qui. Che cosa viene ora? Il fantasy non si libererà di me: ora è il turno degli albi! Il male rivendica il suo diritto di esporre il proprio punto di vista, e ha qualcosa da raccontare. Quando di preciso si potrà leggere, in questo momento non so dirlo, ma gli albi non si faranno aspettare a lungo. Anche se, lo ammetto, sarebbe in qualche modo stimolante una serie su un grasso e goffo elfo che emette in continuazione gas... I miei ringraziamenti vanno innanzitutto ai molti, molti fan dei nani, la cui fedeltà ed entusiasmo non smettono mai di affascinarmi! È stato per me un grande piacere intrattenerli. Grazie alla schiera di «lettori di prova», a Michael «Ludo-Creatix» Palm e Barbara Beckmann, alla Piper Verlag e alla mia editor, Angela Kuepper, e a Carsten Polzin, che mi
lascia fare quello che voglio. Che rimanga così! Da non dimenticare l'Al-ten Bahnhof, locale in cui le serate sono sempre creative, ispiratrici e divertenti. Per gli amanti della statistica: durante la stesura e la revisione di questo libro sono state bruciate dall'autore 223 candele; bevuti 359 litri di tè nero - alternando Assam Hazelbank, Assam Mokal-bari, miscela delle Frisone orientali, tè speziato, English Breakfast - e una quantità doppia di acqua del rubinetto; accesi 91 bastoncini d'incenso (di diversi tipi) e consumata nessuna droga (legale o illegale). Il tè sopra citato non è uno stupefacente! Nessun animale ha subito danni. A meno che non si sia (a mia insaputa) avvicinato troppo a candele, tè bollente, acqua o bastoncini d'incenso. Markus Heitz, ottobre 2007