A quelli che non si arrendono
Orlando Catalano • Alfredo Siani Co-Autori Pietro Marone • Mauro Mattace Raso • Antonio...
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A quelli che non si arrendono
Orlando Catalano • Alfredo Siani Co-Autori Pietro Marone • Mauro Mattace Raso • Antonio Nunziata • Fabio Sandomenico • Paolo Vallone
Ecografia in oncologia Testo-Atlante di ultrasonologia diagnostica e interventistica dei tumori
AUTORI
CO-AUTORI
ORLANDO CATALANO Unità Operativa Complessa di Radiodiagnostica IRCCS Istituto Nazionale Tumori “Fondazione G. Pascale”, Napoli
PIETRO MARONE Diagnostica e Terapia Endoscopica Istituto Nazionale Tumori “Fondazione G. Pascale”, Napoli
ALFREDO SIANI Unità Operativa Complessa di Radiodiagnostica IRCCS Istituto Nazionale Tumori “Fondazione G. Pascale”, Napoli
MAURO MATTACE RASO Radiodiagnostica Istituto Nazionale Tumori “Fondazione G. Pascale”, Napoli ANTONIO NUNZIATA Diagnostica per Immagini Presidio “S. Bellone” ASL NA1, Napoli FABIO SANDOMENICO Radiodiagnostica Istituto Nazionale Tumori “Fondazione G. Pascale”, Napoli PAOLO VALLONE Radiodiagnostica Istituto Nazionale Tumori “Fondazione G. Pascale”, Napoli
COLLABORATORI PAOLO DELRIO, Chirurgia Oncologica “C”, INT, Napoli - ELISABETTA DE LUTIO DI CASTELGUIDONE, Radiodiagnostica, INT, Napoli - FLAVIO FAZIOLI, Chirurgia Oncologica “D”, Napoli - GAETANO MASSIMO FIERRO, Medicina Futura, Acerra - ADOLFO GALLIPOLI D’ERRICO, Radiodiagnostica, INT, Napoli - LUIGI ILLIANO, Radiodiagnostica, INT, Napoli - FRANCESCO IZZO, Chirurgia Oncologica “D”, Napoli - ALFONSO MARIA TEMPESTA, Diagnostica e Terapia Endoscopica, INT, Napoli - SERGIO VENANZIO SETOLA, Radiodiagnostica, INT, Napoli - CLAUDIO SIANI, Clinica Sanatrix, Napoli Disegni a cura di ANTONIO NUNZIATA (Napoli)
ISBN 978-88-470-0689-8 e-ISBN 978-88-470-0690-4 Springer fa parte di Springer Science+Business Media springer.com © Springer-Verlag Italia 2007 Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore. Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla ristampa, all’utilizzo di illustrazioni e tabelle, alla citazione orale, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla registrazione su microfilm o in database, o alla riproduzione in qualsiasi altra forma (stampata o elettronica) rimangono riservati anche nel caso di utilizzo parziale. La riproduzione di quest’opera, anche se parziale, è ammessa solo ed esclusivamente nei limiti stabiliti dalla legge sul diritto d’autore ed è soggetta all’autorizzazione dell’editore. La violazione delle norme comporta le sanzioni previste dalla legge. L’utilizzo in questa pubblicazione di denominazioni generiche, nomi commerciali, marchi registrati, ecc. anche se non specificamente identificati, non implica che tali denominazioni o marchi non siano protetti dalle relative leggi e regolamenti. Layout di copertina: Simona Colombo, Milano Impaginazione: Compostudio, Cernusco s/N (MI) Stampa: Arti Grafiche Nidasio, Assago (Milano) Stampato in Italia Springer-Verlag Italia S.r.l., Via Decembrio 28, I-20137 Milano
Presentazione a cura di Roberto Lagalla
L’ecografia si trova dinanzi ad un bivio. Da un lato, essa si diffonde in maniera sempre più capillare, divenendo uno strumento insostituibile nella pratica diagnostica quotidiana non solo del radiologo ma anche di tanti colleghi che sfruttano le caratteristiche di semplicità e duttilità della metodica nei diversi ambiti applicativi: si è variamente parlato di “stetoscopio del 2000” o di “prolungamento della mano del clinico” proprio ad indicare come gli ultrasuoni si prestino benissimo ad un impiego diagnostico di primo livello, del quale ben presto non si potrà più fare a meno. D’altro canto, tuttavia, la tecnologia ci porta verso applicazioni sempre più sofisticate, ed al momento solo in parte intelligibili, della metodica ecografica, tali da richiedere quasi una superspecializzazione: vi sono metodologie, cui in quest’opera si è potuto accennare solo marginalmente, come l’elastografia, l’US intraoperatoria e l’US con sonde intracavitarie dedicate (laparoscopica ma anche nelle vie biliari, urinarie, respiratorie ecc.), la cui applicazione aumenterà sempre più; l’ecografia con mezzo di contrasto, con l’affinarsi delle tecnologie e lo sviluppo di nuove generazioni di mezzo di contrasto, potrebbe entrare sempre più profondamente nella pratica clinica; le microbolle di mezzo di contrasto, utilizzate sinora a scopo diagnostico, potrebbero essere opportunamente modificate a fini terapeutici, con targeted microbubbles che, introdotte per via sistemica, veicolerebbero geni terapeutici o farmaci antitumorali; in alternativa diviene possibile rendere le microbolle specifiche per determinati bersagli, ad esempio tramite l’incorporazione di ligandi di superficie, di modo che microbolle contenenti il farmaco si vadano a depositare solo dove trova il bersaglio recettoriale specifico; infine, gli ultrasuoni focalizzati ad alta intensità costituiscono una nuova e promettente modalità ablativa, assolutamente ininvasiva, in cui è lo stesso fascio ultrasonoro ad essere impiegato per distruggere un determinato volume tissutale, attraverso un rapido surriscaldamento. Personalmente crediamo che i due aspetti cui si è accennato siano solo apparentemente antitetici ed anzi è importante riuscire a coniugare le caratteristiche di semplicità e diffusione della metodica con quelle di una sempre maggiore sofisticazione tecnologica. In questo volume, ad esempio, coesistono entrambi i livelli: un’ecografia accessibile a tutti, della quale vengono forniti gli elementi basilari di impiego, i vantaggi, i limiti, i “trucchi” del mestiere ed i trabocchetti interpretativi principali, viene presentata insieme ad un’ecografia, avanzata, che viene puntualmente illustrata alla luce delle più recenti voci bibliografiche e dei progressi tecnologici e scientifici maggiori. Sicuramente la diagnostica oncologica nel suo insieme diviene sempre più sofisticata e l’imaging, ecografico e non, si dovrà in futuro combinare e confrontare sempre più con i progressi nel campo dei biomarcatori tumorali (sviluppo di anticorpi monoclonali per gli antigeni associati ai tumori), dell’immunoistochimica (sviluppo di anticorpi contro i determinanti antigenici tumorali), dei marcatori molecolari (analisi delle anomalie cromosomiali e cariotipiche) e della genetica molecolare (analisi delle sequenze nucleotidi-
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Presentazione
che all’interno dell’RNA e soprattutto del DNA tumorale). Nel volume di Orlando Catalano ed Alfredo Siani si è appunto cercato di compenetrare gli aspetti metodologici e semeiologici in quelle che sono le effettive necessità di una diagnostica e terapia oncologica allo “stato dell’arte”. È infatti fondamentale che, con questo tipo di strumento, chi si occupa di ecografia acquisisca sempre maggiore competenza “oncologica”, compenetrandosi appieno in quelle che sono le necessità diagnostiche e terapeutiche del paziente affetto da neoplasia. E ciò ricordando che, per quanto l’imaging divenga sempre più elaborato ed “affascinante”, sono le necessità reali del paziente che dobbiamo sempre avere come riferimento centrale della nostra attività quotidiana. Palermo, maggio 2007
Prof. Roberto Lagalla Presidente Società Italiana di Radiologia Medica (SIRM)
Presentazione a cura di Carlo Filice
L’applicazione degli ultrasuoni alla diagnostica dei tumori è ormai pluridecennale. Nel lontano 1950, John Wild segnalò su Surgery come fosse possibile ottenere, con la pulse echo ultrasound, dei segnali di risposta dai tessuti biologici e dal cancro. Nel 1978 venne pubblicato Ultrasound in tumour diagnosis, di Hill, McCready e Cosgrove, un testo sicuramente pionieristico. Già nel 1988 Caremani, Magnolfi e Angioli pubblicarono Ultrasuoni e Tumori, volume estremamente completo ed aggiornato per l’epoca. Qual è allora il possibile interesse attuale dell’argomento “Ultrasuoni in Oncologia”? È molteplice: il progresso delle apparecchiature e delle tecniche, la comparsa di nuovi ambiti applicativi, l’evoluzione degli algoritmi diagnostici, la necessità di affinare la competenza oncologica degli ecografisti, ed infine l’assenza di un testo recente di questo tipo. Tuttavia, la motivazione principale per ribadire le possibilità, ed anche i limiti, dell’ecografia in oncologia, e quindi per scrivere questo libro deriva, paradossalmente, dagli enormi progressi ottenuti negli ultimi anni dalle “macchine pesanti”. Le notevoli prestazioni di queste apparecchiature, sia morfologiche (RM e soprattutto TC multistrato) che funzionali (fondamentalmente la PET) che di fusione (in particolare la PET-TC), rischiano di oscurare le tecniche ecografiche e come queste siano già sufficienti, in molti casi, per rispondere ai quesiti dell’oncologo medico e del chirurgo oncologico, in maniera spesso immediata e soprattutto molto meno costosa ed invasiva. Sarebbe sicuramente un peccato che una “ubriacatura” di immagini di altro tipo, ancorché spesso avveniristiche, possa far “perdere di vista” la semplicità e l’efficacia delle informazioni ottenibili con l’ecografia. Sicuramente, non solo l’imaging morfologico e funzionale con “macchine pesanti” ma anche quello ecografico ha un ruolo sempre più determinante nello studio dei tumori, in tutte le fasi, dallo screening alla detezione, dalla caratterizzazione alla pianificazione terapeutica, dalla valutazione dei risultati del trattamento al follow-up a lungo termine sino all’identificazione della recidiva. Tuttavia, lo spazio riservato all’ecografia ed alle tecniche ad essa correlate è spesso eccessivamente limitato, in particolare nei grandi trattati di imaging oncologico, come in Oncologic Imaging, di Bragg, Rubin e Hricak nel 2002, od in Imaging in Oncology, di Husband e Reznek nel 2004: anche nelle aree anatomiche in cui l’US può avere ampio spazio applicativo, questa metodica è invece gestita in modo piuttosto lacunoso. A puro titolo esemplificativo, segnaliamo come nel trattato peraltro splendido di Janet Husband e Rodney Reznek l’US sia assente o quasi dal capitolo sui tumori del testicolo, tutto incentrato invece sul problema della stadiazione e della gestione terapeutica di queste neoplasie: prima di identificare i linfonodi lomboaortici è tuttavia necessario che, in qualche modo, un seminoma venga diagnosticato! Sia sul piano scientifico che su quello della pratica clinica, esiste a nostro giudizio un problema di sottovalutazione delle possibilità applicative della metodica ecografica, almeno in ambito “addominale”, mentre essa può porsi come opzione semplice e rapida per ottenere
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Presentazione
molte risposte della diagnostica oncologica. Basti riflettere su quante richieste oncologiche di “biopsia TC-guidata” potrebbero essere tranquillamente convertite in procedura a guida ecografica, con il vantaggio della minore invasività e macchinosità. Molti oncologi hanno, non di rado, un atteggiamento pregiudiziale verso l’ecografia. Nell’ambito dei RECIST, il più diffuso sistema attuale di valutazione della risposta terapeutica, le possibilità dell’US vengono sminuite in maniera eccessiva e discutibile: qualora lo scopo primario sia la valutazione obiettiva dell’efficacia terapeutica, infatti, si ritiene che l’US non debba essere utilizzata se non per le lesioni particolarmente superficiali (espressamente, linfonodi, lesioni sottocutanee e noduli tiroidei) e quindi passibili di conferma clinica. La metodica ecografica deve essere invece considerata, a nostro giudizio, per quello che può dare, considerandone le possibilità e chiaramente anche i limiti, senza “barricarsi” dietro la generica e solo parzialmente fondata accusa di operatore-dipendenza. Chiaramente, al tempo stesso, gli ecografisti, a prescindere dalla loro estrazione radiologica o meno, devono essere all’altezza della “sfida” e saper fornire tutte le informazioni diagnostiche che le tecniche ecografiche consentono loro di ottenere. Chiunque si occupi di diagnostica ecografica (e per immagini in generale) si trova ad aver a che fare, quotidianamente, con pazienti con neoplasia, in atto o pregressa, ed è pertanto importante che egli sia quanto più esperto possibile nella valutazione di questi complessi pazienti: ogni individuo che noi esaminiamo è potenzialmente portatore di un processo tumorale e quindi nessun ecografista può sottrarsi a questa lotta impegnativa, umana e professionale. Al tempo stesso, la diagnostica ecografica (e per immagini in generale), applicata all’oncologia, costituisce una branca specialistica poiché richiede non solo un particolare inserimento in quella che è la gestione diagnostica e terapeutica del paziente oncologico ma anche una particolare confidenza con la storia naturale delle neoplasie, con le loro modalità di presentazione clinica, con i loro fattori di rischio, con i loro pattern di diffusione, con i loro aspetti prognostici, con le complicanze della malattia tumorale o dei relativi trattamenti. Volendo fare degli esempi pratici, l’ecografista deve avere ad esempio un’idea concreta delle “ricadute” dei propri referti: descrivere una lesione epatica come parenchimale o come glissoniana, in una paziente affetta da carcinoma ovarico, può apparire a primo acchito di scarso rilievo ma invece fa passare la malattia da un T3 ad un M1! Ancora, l’identificazione di metastasi linfonodali come omo- o controlaterali alla neoplasia può apparire di interesse limitato, ma può invece influenzare sensibilmente la definizione del parametro N di stadiazione e quindi le decisioni terapeutiche per alcune neoplasie quali quella mammaria o quelle del capo e del collo; per molte altre neoplasie, come quelle pelviche, la lateralità non influenza invece in alcun modo il parametro N. Tutto ciò in modo da poter incidere in maniera quanto più efficace possibile su quella che è la realtà della malattia. Questo volume degli amici Orlando Catalano e Alfredo Siani, concepito in maniera così razionale ed aggiornata, può contribuire a dare piena dignità all’ecografia nell’ambito della diagnostica per immagini oncologica ed a favorire la sempre maggiore integrazione tra questa e le altre modalità.
Pavia, maggio 2007
Prof. Carlo Filice Presidente Società Italiana di Ultrasonologia in Medicina e Biologia (SIUMB)
Prefazione
A differenza di altri volumi di imaging oncologico, il nostro non vuole essere un trattato. Non si analizzano organo per organo le neoplasie che vi si sviluppano, con una descrizione sistematica degli aspetti etiopatogenetici, epidemiologici, clinici, diagnostici e terapeutici. Non si parte cioè da una diagnosi “già fatta” bensì dalla problematica clinica che può condurvi, poiché nella pratica quotidiana è questa che bisogna affrontare. Il volume è strutturato in quattro macrocapitoli, dei quali diamo di seguito una sommaria descrizione: Capitolo 1. In questa sezione vengono analizzati i rapporti generali tra le metodiche di diagnostica per immagini, con particolare riferimento all’ecografia, e gli ambiti oncologici maggiori. Innanzitutto, si discutono le possibilità e le limitazioni dell’US, la cui conoscenza adeguata è necessaria per ogni applicazione clinica della metodica e quindi anche per lo studio dei tumori. In seguito, sono considerati i diversi momenti dell’interazione tra US e malattia oncologica: la prevenzione secondaria, le caratteristiche intrinseche del cancro (con particolare riferimento alla neoangiogenesi), la stadiazione della malattia neoplastica, la valutazione della risposta ai diversi tipi di trattamento antitumorale, il monitoraggio a breve ed a lungo termine, l’individuazione della ripresa di malattia. Solo da un’adeguata conoscenza di questi ambiti della malattia tumorale può derivare un apporto realmente efficace del diagnosta per immagini. Capitolo 2. Vengono qui considerati gli aspetti metodologici dell’US, del Doppler spettrale, dell’ecocolor-Doppler, del power-Doppler e dell’ecocontrastografia (CEUS), con particolare riferimento allo studio delle malattie neoplastiche nelle loro localizzazioni superficiali e profonde. La trattazione è focalizzata soprattutto sulle possibilità attuali di ottimizzare l’apparecchiatura e la tecnica d’esplorazione ecografica al fine di massimizzare la detezione e l’analisi morfofunzionale delle lesioni neoplastiche. I paragrafi concernenti la tecnica d’esame si alternano con quelli di semeiotica generale: pur nelle diverse caratteristiche dei tumori che insorgano in organi differenti si cerca in questa sede di discutere gli elementi semeiologici comuni, da applicare poi di volta in volta nei vari distretti anatomici e problematiche cliniche. Capitolo 3. Le problematiche cliniche connesse, direttamente o indirettamente, con le malattie tumorali sono svariate e solo in parte compendiabili in un unico volume. In luogo di un’impostazione trattatistica, che discuta sistematicamente gli aspetti epidemiologici, clinici, diagnostici e semeiologici delle varie neoplasie dei vari distretti corporei, si è preferito partire dal problema clinico di base, che è quello che si presenta al diagnosta per immagini, illustrandone prima gli aspetti generali e poi quelli semeiologici, US innanzitutto ma anche ECD, spettrali e CEUS. Capitolo 4. Le possibilità attuali dell’interventistica extravascolare sono estremamente ampie, e lo spettro delle applicazioni si allarga sempre più. In questa sede vengono descritte in particolare le procedure ecoguidate di interesse maggiore per il paziente onco-
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Prefazione
logico: prelievi a scopo diagnostico di lesioni superficiali e profonde (di tipo citologico, FNAC, e di tipo istologico, core biopsy), biopsia vacuum assisted delle lesioni mammarie, posizionamento di reperi per fini chirurgici, drenaggio di raccolte, cisti e masse colliquate, ablazione percutanea (con particolare riferimento all’alcolizzazione ed alla termoablazione con RF, ed in relazione soprattutto alle lesioni focali epatiche). È bene tuttavia ricordare che le possibilità interventistiche ecoguidate sono molto più numerose, dai drenaggi biliari alle nefrostomie, dai blocchi nervosi per anestesia o terapia del dolore ai cateterismi venosi. La guida ecografica, da sola o in combinazione con altre metodiche, permette di eseguire tutte queste procedure in maniera più efficace e con una maggiore sicurezza per il paziente rispetto ad un approccio “alla cieca”. È ragionevole prevederne quindi una diffusione sempre più capillare. In questo testo il termine “ecocolor-Doppler”, con il suo acronimo ECD, deve essere inteso, salvo diversa indicazione, come riferito in generale alle tecniche Doppler e quindi comprensivo anche del power-Doppler. Ogniqualvolta le affermazioni sono riferite specificamente al power-Doppler quest’ultimo termine viene utilizzato espressamente nel testo. Con il termine “ecocontrastografia” poi ci si è sempre riferiti specificamente allo studio in scala dei grigi previa somministrazione di mdc ecografico: quando si vuole invece indicare l’ECD con mdc ecoamplificatore ciò è sempre indicato espressamente e non rientra in nessun caso nell’idea di ecocontrastografia. In tutto il volume, il termine “ecoguidata” si riferisce genericamente a tutte le procedure eseguite con la guida dell’US, a prescindere dal tipo di sonda utilizzata, se dedicata all’interventistica o meno. Il significato specifico attribuito ai termini “mano libera”, “ecoassistita” ed “ecoguidata” è peraltro discusso all’inizio della del Capitolo 4. Infine, in tutto il testo, viene impiegato il termine “biopsia” per indicare genericamente il prelievo diagnostico, sia di tipo citologico che microistologico (ove non indicato specificamente). La differenza tra il primo tipo di prelievo (aspirato con ago sottile, acronimo FNAC) e la biopsia vera e propria (indicata come core biopsy) è peraltro ampiamente illustrata nel Capitlo 4. Abbiamo preferito non utilizzare mai il noto acronimo FNAB, per non creare confusione terminologica. Abbiamo ritenuto utile aggiungere un CD-Rom con video di esami ecografici, condotti con varie tecniche. Ciò ci è sembrato opportuno soprattutto per la difficoltà nel racchiudere in un’iconografia “fissa” delle immagini apprezzabili pienamente solo in real time, come avviene in particolare per gli studi ecocontrastografici e le procedure interventistiche. Ringraziamo il personale dell’U.O.C. di Radiodiagnostica dell’Istituto Tumori di Napoli, dal cui lavoro quotidiano deriva inevitabilmente gran parte della nostra casistica. Siamo inoltre riconoscenti ad Antonella Cerri ed a tutto lo staff della Springer-Verlag Italia, per avere creduto “a scatola chiusa” in questa opera e per averla affinata con elevata professionalità e competenza. Napoli, maggio 2007
Dr. Orlando Catalano Prof. Alfredo Siani
Indice
Abbreviazioni e acronimi
XIV
Capitolo 1 Ecografia e oncologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
1
I vantaggi dell’ecografia in campo oncologico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . I limiti dell’ecografia in campo oncologico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ecografia e screening oncologico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ecografia e neoangiogenesi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La stadiazione dei tumori maligni. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ecografia e valutazione della risposta terapeutica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ecografia e follow-up oncologico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Residuo e recidiva tumorale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
1 2 6 12 15 17 22 22 23
Capitolo 2 Metodologia d’esame e semeiotica elementare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
27
Ecografia in scala dei grigi. Metodologia d’esame . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ecografia in scala dei grigi. Semeiotica elementare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Doppler spettrale. Metodologia d’esame. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Doppler spettrale. Semeiotica elementare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ecocolor-Doppler. Metodologia d’esame . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Power-Doppler. Metodologia d’esame. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ecocolor-Doppler e power-Doppler. Semeiotica elementare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ecocontrastografia. Metodologia d’esame . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ecocontrastografia. Semeiotica elementare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
27 36 42 43 44 46 48 51 54 59
1.1 1.2 1.3 1.4 1.5 1.6 1.7 1.8
2.1 2.2 2.3 2.4 2.5 2.6 2.7 2.8 2.9
XII
Indice
Capitolo 3 Le problematiche cliniche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.1 I tumori cutanei: la valutazione preoperatoria, le metastasi in transito, le metastasi satelliti 3.2 La linfadenopatia superficiale: le cause, il linfonodo normale, il linfonodo patologico,
la diagnostica differenziale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.3 Il linfonodo “sentinella” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.4 La tumefazione superficiale palpabile: le cause, la diagnostica differenziale, gli elementi 3.5 3.6 3.7 3.8 3.9 3.10 3.11 3.12 3.13 3.14 3.15
3.16 3.17 3.18 3.19 3.20 3.21 3.22 3.23 3.24 3.25 3.26 3.27 3.28 3.29 3.30 3.31 3.32
di sospetto per malignità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Le tumefazioni ascellari: le cause, la diagnostica differenziale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Le tumefazioni inguino-crurali: le cause, la diagnostica differenziale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Le tumefazioni del cavo popliteo: le cause, la diagnostica differenziale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La recidiva dei tumori dei tessuti molli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La massa cervicale: le cause, la valutazione, gli elementi di sospetto per malignità . . . . . . . . . . . I tumori delle ghiandole salivari: la tumefazione delle ghiandole salivari, la caratterizzazione dei tumori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il nodulo tiroideo: la caratterizzazione, gli elementi per il sospetto di malignità, le indicazioni alla biopsia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La diffusione locoregionale del carcinoma tiroideo e il follow-up dopo tiroidectomia . . . . . . . . Il nodulo mammario: l’identificazione, la caratterizzazione, gli elementi di sospetto per malignità, le indicazioni alla biopsia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Carcinoma infiammatorio, carcinoma mammario localmente avanzato e controllo dopo terapia neoadiuvante, metastasi linfonodali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La ripresa loco-regionale del tumore mammario: il follow-up, le caratteristiche della recidiva, la mammella operata, la differenziazione cicatrice vs. recidiva dopo chirurgia conservativa, la ripresa linfonodale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Le tumefazioni della parete toracica e addominale: gli espansi benigni, le metastasi, il seeding tumorale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La massa addominale palpabile: cause, identificazione e diagnostica differenziale. . . . . . . . . . . . La massa addominale complicata . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Identificazione e caratterizzazione delle lesioni focali epatiche: il soggetto non epatopatico Identificazione e caratterizzazione delle lesioni focali epatiche: il soggetto epatopatico . . . . . Le metastasi epatiche: valutazione dopo chemioterapia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Le alterazioni della parete colecistica: adenomioma, polipo, carcinoma, metastasi . . . . . . . . . . . . L’ittero ostruttivo maligno: valutazione ecografica e diagnosi etiologica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . I tumori del pancreas: i segni del carcinoma, la differenziazione tumore-pancreatite produttiva, la stadiazione del carcinoma, i tumori cistici, i tumori endocrini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Detezione e caratterizzazione delle lesioni focali spleniche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La linfadenopatia addominale: detezione e diagnostica differenziale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La tumefazione surrenale: detezione e caratterizzazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il piccolo tumore renale: riconoscimento degli pseudotumori, caratterizzazione, differenziazione carcinoma-angiomiolipoma . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La massa renale: cause, identificazione e diagnostica differenziale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La cisti renale atipica: caratterizzazione, follow-up . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . I processi espansivi dell’ovaio: diagnostica-differenziale, gli elementi di sospetto per malignità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L’ispessimento endometriale: detezione, valutazione, indicazioni per l’approfondimento diagnostico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
61 61 64 72 74 86 88 92 93 95 105 110 118 125 145 152 157 165 172 175 195 204 206 212 216 225 231 236 242 248 256 258 269
Indice
3.33 Le alterazioni della parete vescicale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 274 3.34 Il nodulo prostatico: la caratterizzazione, gli elementi di sospetto per malignità, le indicazioni alla biopsia, la detezione della recidiva . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 279 3.35 I tumori testicolari: la tumefazione scrotale palpabile, la caratterizzazione dei tumori testicolari, gli elementi di sospetto per malignità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 284 3.36 La carcinosi peritoneale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 292 3.37 I tumori del tratto gastrointestinale: aspetti US transaddominali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 296 3.38 Ecoendoscopia: i tumori del tratto gastrointestinale, le altre applicazioni addominali, le applicazioni toraciche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 302 3.39 I tumori del retto: stadiazione con US endorettale, valutazione dopo radio-chemioterapia neoadiuvante, identificazione della recidiva . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 313 3.40 Il melanoma metastatico: localizzazioni superficiali, localizzazioni addominali . . . . . . . . . . . . . . . . 318 3.41 I linfomi: localizzazioni superficiali, localizzazioni addominali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 323 3.42 La CUP syndrome . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 330 3.43 Le urgenze nel paziente oncologico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 332 Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 340
Capitolo 4 Interventistica oncologica ecoguidata . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
355
L’ecografia come guida alle procedure interventistiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ago-aspirato. Strutture superficiali. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ago-aspirato. Strutture profonde . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Core Biopsy. Strutture superficiali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Core Biopsy. Strutture profonde . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Biopsia vacuum assisted . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Posizionamento di reperi prechirurgici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Drenaggio di raccolte, cisti, masse colliquate, versamenti peritoneali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Iniezione percutanea di etanolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Termoablazione con radiofrequenze, altre terapie ablative percutanee, trattamenti combinati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.11 L’aspetto della lesione trattata per via percutanea e la valutazione della risposta dopo terapie ablative . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
355 360 363 365 367 369 371 372 377
Indice analitico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
395
4.1 4.2 4.3 4.4 4.5 4.6 4.7 4.8 4.9 4.10
379 385 391
XIII
Abbreviazioni e acronimi
3D, Tridimensionale βHCG , Gonadotropina corionica umana μg, Microgrammo μm, Micrometro ABBI, Strumentazione avanzata per la biopsia mammaria ACR, American College of Radiology ACS, American Cancer Society ACTH, Ormone adrenocorticotropo AFP, α-fetoproteina AIDS, Sindrome da immunodeficienza acquisita AMS, Arteria mesenterica superiore BCLC, Barcelona clinic liver cancer BI-RADS, Breast imaging reporting and data system CA, Cancer antigen cc, Centimetri cubici CEA, Antigene carcinoembrionario CEUS, Ecocontrastografia cm, Centimetro CUP , Cancro da (tumore) primitivo sconosciuto CVC, Catetere venoso centrale Db, Decibel d.d., Diagnosi differenziale DEA, Dipartimento di emergenza e accettazione DPI, Indice di perfusione Doppler ECD, Ecocolor-Doppler EFOV, FOV esteso es., Esempio EUS, Ecoendoscopia e.v., Endovena F, French FDG, Fluorodeossiglucosio FIGO, Federazione internazionale di ginecologia e ostetricia F/M, Femmine/maschi FNAB, Biopsia aspirativa con ago sottile FNAC, Citologia aspirativa con ago sottile FNH, Iperplasia nodulare focale FOV, Campo di vista G, Gauge
GIST, Tumore stromale gastrointestinale HBV, Virus dell’epatite B HCC, Epatocarcinoma HCV, Virus dell’epatite C HIAA, Acido idrossi-indolacetico IA, Indice di accelerazione ILP, Fotocoagulazione interstiziale con laser IM, Indice meccanico IOUS, Ecografia intraoperatoria IP, Indice di pulsatilità IR, Indice resistivo Kg, Chilogrammo kHz, ChiloHertz L, Litro LABC, Carcinoma mammario localmente avanzato LDH, Latticodeidrogenasi M/F, Maschi/femmine MALToma, Tumore derivante dal tessuto linfoide associato alle mucose mdc, Mezzo di contrasto MEN, Malattia endocrina multipla mg, Milligrammo MHz, MegaHertz MIBI, metossi-iso-butil-isonitrile ml, Millilitro mm, Millimetro mmHg, Millimetro di mercurio mPa, MilliPascal MRCP, colangiopancreato-RM MSCT, TC multistrato MVD, Densità microvasale Ng, Nanogrammi NHL, Linfoma non Hodgkin NPL, Lesione non palpabile PACS, Sistema di comunicazione e archiviazione delle immagini PAT, Terapia ablativa percutanea PC, Personal computer PD, Power-Doppler PEI, Iniezione percutanea di etanolo PET, Tomografia a emissione di positroni PET-TC, Fusione PET e TC PIN, Neoplasia prostatica intraepiteliale PLAP, Fosfatasi alcalina placentare
Abbreviazioni e acronimi
PRF, Frequenza di ripetizione dell’impulso PSA, Antigene prostatico specifico PSAD, Densità del PSA PT, Tempo di protrombina o di Quick PTT, Tempo di tromboplastina parziale QU.A.RT, Quadrantectomia, dissezione ascellare, radioterapia RCC, Carcinoma a cellule renali RECIST, Criteri di valutazione della risposta nei tumori solidi RF, Radiofrequenze RFTA, Termoablazione con RF RIS, Sistema radiologico di informazione RM, Risonanza magnetica ROI, Regione di interesse ROLL, Localizzazione radioguidata delle lesioni occulte s, Secondo SD, Deviazione standard SF6, Esafluoruro di zolfo SPECT, Tomografia computerizzata ad emissione di fotone singolo SUV, Valore standardizzato di captazione
TACE, Chemioembolizzazione arteriosa transcatetere TC, Tomografia computerizzata Tc, Tecnezio Tis, Tumore in situ TNM, Tumore. linfonodi. metastasi TRUS, Ecografia transrettale TSH, Ormone stimolante la tiroide TUR, Resezione transuretrale TVUS, Ecografia transvaginale UI, Unità internazionali US, Ecografia VB, Biopsia con “vuoto” VCI, Vena cava inferiore VCS, Vena cava superiore VEGF, Fattore di crescita dell’endotelio vascolare Vmax, Velocità massima Vm, Velocità media Vmin, Velocità minima vs., Versus WF, Filtro di parete WHO, Organizzazione mondiale della sanità
XV
Ecografia e oncologia
1.1. I vantaggi dell’ecografia in campo oncologico L’US possiede una serie di caratteristiche che la rendono molto utile sia nella diagnostica generale sia in quella oncologica in particolare. Innanzitutto, l’US è una metodica semplice. Questa semplicità, talora erroneamente confusa con facilità, è legata all’esecuzione, che non richiede analisi preliminari o preparazioni particolari e che è sempre immediatamente eseguibile, anche nel senso di una maggior facilità di accesso in qualsiasi ambiente ospedaliero a confronto delle macchine “pesanti” di TC e RM, ma anche all’immediatezza dell’immagine, nella quale il quadro clinico si chiarisce talvolta al momento stesso in cui si applica la sonda ecografica sulla superficie cutanea dell’area anatomica in questione. Peraltro è chiaro che la rapidità di esecuzione è una caratteristica importante soprattutto in altri ambiti, come nelle urgenze. In oncologia è invece raccomandabile uno studio attento ed approfondito, che esplori lentamente e ripetutamente tutte le aree anatomiche coinvolte nell’esame in questione. Ciò specie nel paziente “positivo”: il riscontro di un reperto patologico di tipo oncologico in un determinato organo deve aumentare il livello di attenzione dell’ecografista, per l’elevata probabilità che vi siano altri reperti associati. Particolare attenzione quindi a quella che gli anglosassoni definiscono come satisfaction for discovery e cioè una sorta di appagamento del diagnosta, nel momento in cui egli ha identificato un determinato reperto patologico. La possibilità di studiare le formazioni normali e patologiche in tempo reale costituisce una prerogativa della metodica ecografica, unica fra le metodiche di imaging. La “ecoscopia” permette l’osservazione delle strutture anatomiche e delle loro alterazioni patologiche realmente “in vivo”, con possibilità di rilievo funzionale rispetto ad esempio a peristalsi intestinale, motilità del diaframma, contrazione di strutture muscolo-tendinee, cinetica cardiaca, ecc. Ciò per non parlare delle applicazioni interventistiche (cfr. Cap. 4), in cui la guida in tempo reale è in termini generali
1 preferibile, ovunque possibile, a quella con metodiche in linea di massima a scansione discontinua come TC e RM. La multiplanarietà e cioè la possibilità di ottenere qualsiasi piano di scansione semplicemente ruotando la sonda è una caratteristica solo in parte condivisa dalle altre metodiche di imaging tomografico: solo con gli apparecchi multistrato la TC è arrivata ad una vera visione multiplanare, seppur sempre in forma di ricostruzione elettronica, laddove la RM è da sempre multiplanare già in acquisizione ma chiaramente con la necessità di ottenere di volta in volta le immagini secondo il piano di scansione determinato. L’elevata risoluzione spaziale che si ottiene con i trasduttori ad alta frequenza non ha comparazioni con le altre metodiche di imaging. La possibilità di riconoscimento e di caratterizzazione morfostrutturale e angioarchitettonica di piccole lesioni cutaneo-sottocutanee, tiroidee, linfonodali o di altre strutture superficiali è sicuramente molto più elevata rispetto a quanto ottenibile con TC o RM. Ad esempio, nell’identificazione e valutazione preoperatoria di satellitosi superficiali da melanoma l’US riesce ad identificare un numero di noduli superiore rispetto a quelli rilevati con le altre metodiche di imaging. Mentre su strutture quali i linfonodi superficiali TC e RM possono riferirsi soprattutto a criteri dimensionali, l’US consente uno studio più dettagliato, rilevando anche linfonodi metastatici di 3-4 mm oppure identificando foci metastatici millimetrici all’interno di linfonodi di aspetto per il resto conservato. L’US è trasportabile, ed eseguibile quindi anche a letto del paziente o in sala operatoria, cosa che agevola notevolmente lo studio di pazienti defedati, nella fase avanzata della neoplasia ma anche ad esempio nel post-operatorio precoce, nonché ancora la guida a procedure diagnostiche e terapeutiche attuate al tavolo chirurgico (per non parlare della vera e propria IOUS). L’US è poi altamente ripetibile, risultando particolarmente idonea negli studi seriati come il monitoraggio nel tempo di reperti noti o negli esami di follow-up, come anche di screening. La ripetitibilità è
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Ecografia in oncologia
conseguenza delle caratteristiche di basso costo, semplicità e bassa invasività, quest’ultima legata soprattutto all’impiego di radiazioni non ionizzanti ed all’esecuzione generalmente senza mdc e.v. La possibilità di interazione medico-paziente è superiore alle altre metodiche, con un’anamnesi “in divenire”, che si orienta man mano che i reperti vengono visualizzati sul monitor dell’ecografo. L’US ha un’elevatissima diffusione, sia sul territorio, ove è ormai capillare, che in ambito nosocomiale, ove sono ormai presenti numerosi apparecchi in diversi reparti. I costi sono inferiori a quelli delle altre metodiche di imaging, e quindi la metodica si presta particolarmente, da questo punto di vista, alle applicazioni su larga scala o ripetute nel tempo. Sicuramente, almeno da alcuni punti di vista, l’US è sottoutilizzata in oncologia, ove vi è una maggior tendenza verso metodiche più sofisticate quali TC, RM, PET e imaging di fusione. In realtà molti quesiti clinici, più o meno semplici, possono essere risolti dall’US (eventualmente anche come CEUS); ad esempio è utilizzabile in maniera spesso efficace come problem solver, dinanzi a discrepanze tra reperti di diverse metodiche di imaging o tra i dati clinico-laboratoristici e quelli radiologici o strumentali. Un accurato studio ecografico iniziale può evitare, ad esempio nel paziente che si dimostri di avere una forma tumorale avanzata e non operabile, ulteriori accertamenti più invasivi e costosi. In generale, nell’ipotizzare un accertamento per chiarire un determinato problema clinico, è bene pensare se questo possa essere risolto con l’US o se invece è necessario ricorrere a metodiche più complesse.
feriore, se teoricamente può essere esplorata panoramicamente in tutte le sue parti molli con l’US, di fatto viene meglio definita con la TC multistrato o la RM. In un paziente operato con ampia escissione compartimentale per una neoplasia dell’arto inferiore, ad esempio, appare quindi, almeno in molti casi, più razionale una valutazione TC e RM con eventuale approfondimento mirato di aree sospette con US che viceversa. In casi particolari, l’US consente la dimostrazione di lesioni tumorali di molteplici distretti anatomici, anche in maniera singola e su di una sola immagine ed anche in sedi anatomiche del tutto particolari che normalmente vengono considerate di scarsa o nulla possibilità applicativa della metodica (Figg. 1.11.7, Video 1.1) ma, chiaramente, essa non raggiunge le possibilità di studio multidistrettuale TC e RM. Infine, il campo visivo dell’US è limitato e quindi, sia a scopi diagnostici che a scopi interventistici, la possibilità di visualizzazione delle strutture anatomiche dell’area in questione appare comunque parziale rispetto a quanto non sia nelle scansioni TC e RM. Lesioni superficiali particolarmente voluminose possono essere difficili da includere nel campo di vista e venir misurate su un’unica immagine, anche quando si ricorra a sonde ad altra frequenza dotate di ampio campo (es. 5 cm) oppure con la possibilità di allargare elettronicamente l’area visualizzata con un campo di vista trapezoidale. In alternativa si possono impiegare cuscinetti distanziatori oppure sonde di tipo internistico, che tuttavia, avendo una risoluzione minore, possono talora rendere difficoltosa la visualizzazione dei limiti della massa e pertanto ostacolare da un altro punto di vista la sua corretta misurazione.
1.2. I limiti dell’ecografia in campo oncologico Anche l’esistenza di varie limitazioni deve essere ben nota non solo al clinico prescrivente ma allo stesso ecografista, naturalmente portato a “sopravvalutare” la “propria” metodica, con la quale ha chiaramente la massima confidenza. La limitata panoramicità costituisce sicuramente il limite applicativo maggiore della metodica US. Questo limite deve essere inteso in vario modo. Innanzitutto, le strutture anatomiche dense quali osso o aria non consentono una valutazione di ciò che è contenuto profondamente ad esse e quindi le strutture cranio-encefaliche, quelle polmonari-mediastiniche e quelle scheletriche sono di scarso o nullo accesso ecografico, quantomeno nell’adulto: pertanto non è materialmente possibile eseguire un’US total-body così come si può effettuare una TC o una RM. Inoltre, la metodica “vede” solo ciò su cui viene posizionata la sonda e quindi, anche una struttura come un arto in-
Fig. 1.1. Metastasi epatiche da carcinoma polmonare, associate a versamento pleurico e pericardico. Dimostrazione panoramica, in una singola scansione US, delle lesioni epatiche, della falda liquida pericardica e del discreto versamento pleurico con atelettasia parenchimale consensuale. In generale tuttavia l’US non è una metodica molto panoramica
Capitolo 1 Ecografia e oncologia
a Fig. 1.3. Versamento pleurico identificato in corso di ecografia della parete toracica. Lo studio US della parete toracica dopo mastectomia radicale consente di rilevare un insospettato versamento pleurico sottostante (frecce)
b
c Fig. 1.2a–c. Recidiva di carcinoma della cervice uterina. Lo studio US (a) dimostra in fossa iliaca sinistra una nodulazione ipoecogena disomogenea (freccia lunga), contigua al colon discendente (freccia breve), confermata dalla TC (b), come anche dalla PET e dalla biopsia ecoguidata. Il riscontro di questa lesione, unica ed in sede insolita, è stato possibile grazie ad un paziente studio US addomino-pelvico, mentre costituisce con la TC un reperto riconoscibile con immediatezza. Conferma con FNAC (c, freccia)
Anche la risoluzione spaziale è inferiore a quella delle macchine pesanti per quanto riguarda le strutture profonde, che comportano l’impiego di sonde a bassa frequenza. L’US è molto accurata nel discriminare tra strutture a contenuto liquido ed a contenuto solido: laddove il reperto TC è spesso aspecifico, dimostrando ad esempio un aspetto quasi liquido (visivamente o mediante misurazione dei coefficienti di attenuazione), l’US spesso documenta una formazione di tipo solido. Inoltre, fini alterazioni intralesionali possono essere misconosciute dalla TC, soprattutto a causa dell’effetto di volume parziale, come nel caso di formazioni cistiche complex, che possono apparire omogeneamente liquide in TC ma con fini sepimentazioni o corpuscolazioni interne all’US. Ciò premesso, tuttavia, è bene sottolineare come l’US abbia una bassa risoluzione di contrasto e quindi, indirettamente, una capacità di caratterizzazione tissutale inferiore a TC e RM. Perciò discriminare tra diverse strutture di tipo solido o di tipo liquido, riconoscere fenomeni necrotici, evidenziare una fine vascolarizzazione, sono tutti aspetti che risultano più difficili, se non impossibili, con l’US. L’immagine US è di lettura poco immediata per il clinico, a meno che questi non si occupi personalmente anche di ecografia: in generale colui che non si occupa di diagnostica per immagini ha una maggior confidenza con le immagini radiologiche, TC o, un po’ meno, RM, che non con quelle ecografiche. Né più né meno delle altre metodiche di imaging, l’US ha la necessità di un’adeguata informazione sul contesto clinico del singolo paziente, di modo che l’esame possa essere focalizzato in maniera corretta e la sua sensibilità venirne massimizzata. Sapere che la
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Ecografia in oncologia
Fig. 1.4. Tumore del sacco vitellino primitivo del mediastino. Massa ecogena disomogenea, con aree ipo-anecogene, a livello del mediastino anteriore
Fig. 1.6. Frattura patologica dell’omero per metastasi da carcinoma mammario. L’esame, eseguito per tumefazione dolente del braccio, dimostra un’insospettata discontinuità della corticale omerale, con disomogeneità dei tessuti molli contigui
Fig. 1.5. Metastasi laringea da melanoma. Lo studio US mirato del collo, in paziente con captazione segnalata alla PET, dimostra una nodulazione discretamente ipoecogena, disomogenea, subito dorsalmente all’emiscudo tiroideo di sinistra (freccia). Probabilmente, questa localizzazione non sarebbe stata identificata dall’US senza la guida del riscontro PET
Fig. 1.7. Granuloma eosinofilo del parietale, in soggetto pediatrico con riferita tumefazione palpabile del capo. Soluzione di continuo della teca cranica per presenza di una formazione ecogena delimitata in profondità dalle meningi (frecce)
TC ha identificato un’area sospetta in un determinato segmento epatico o che la PET abbia dato una certa captazione in una determinata area anatomica è ben diverso che agire all’oscuro da questi dati. La disponibilità dei RIS e PACS, con possibilità di analizzare i referti precedenti e le immagini relative alle diverse indagini praticate, consente solo in parte di sopperire alla notoriamente deficitaria comunicazione tra medico richiedente e diagnosta per immagini. Uno dei rischi principali nella diagnostica oncologica, non solo ecografica, è quello di farsi influenza-
re dal contesto clinico, ad esempio considerando come sicuramente o probabilmente tumorale un reperto solo perchè riscontrato in un soggetto con anamnesi positiva per pregressa o attuale neoplasia maligna. A complicare il problema interviene la stessa natura della malattia cancerosa, caratterizzata spesso da comportamenti poco prevedibili, ad esempio nella distribuzione (es. localizzazioni insolite o “salto” di determinate stazioni linfonodali o di determinati parenchimi - come nel caso di metastasi polmonari da tumori gastrointestinali in assenza di metastasi
Capitolo 1 Ecografia e oncologia epatiche dimostrabili) o nella tempistica (es. metastasi 10 e 20 anni dopo il trattamento del tumore primitivo). A complicare il quadro vi è anche l’esistenza delle seconde neoplasie (o anche di terze, quarte, ecc. in soggetti particolarmente predisposti). I secondi tumori si sviluppano in pazienti già trattati per una neoplasia maligna, spesso nell’età pediatrica, non hanno relazione con la localizzazione precedentemente trattata e sono almeno in parte da attribuire alla stessa maggiore sopravvivenza attuale di molti pazienti oncologici e quindi dalla maggiore possibilità nel tempo di andare incontro a nuove malattie. I soggetti che più facilmente sviluppano seconde neoplasie sono quelli con linfomi, leucemie, carcinoma mammario, sarcoma dei tessuti molli, retinoblastoma e i tumori ossei. L’US è meno obiettivabile delle altre metodiche di imaging. L’iconografia allegata al referto, per quanto abbondante e dettagliata, con scritte e disegni sulle immagini indicativi dell’area anatomica e dei reperti identificati, non può certamente esprimere quella che è stata l’osservazione in tempo reale. Dinanzi ad una piccola lesione identificata con la TC è possibile andare a rivedere l’esame TC precedente per capire se e quanto tale lesione fosse già presente mentre la stessa cosa risulta del tutto impossibile con l’US. Anche ricorrendo a videoregistrazioni delle indagini praticate, l’esame US resta in sé non del tutto obiettivabile e ciò crea problemi soprattutto per i trial e le valutazioni off-site. Tutto ciò tuttavia non deve indurre a ritenere che la metodica US sia soggettiva o, come si suole dire, operatore dipendente. La resa di qualsiasi indagine diagnostica è infatti (fortunatamente!) dipendente dall’esperienza e dalla dedizione dell’operatore: una tempistica erronea delle diverse fasi contrastografiche epatiche in TC o la mancata esecuzione di una determinata sequenza in RM possono essere dipendenti dall’operatore né più e né meno del mancato riscontro di un reperto in US. La differenza, in termini di affidabilità, è che di un esame TC o RM tecnicamente subottimale è possibile accorgersene anche grazie ad una valutazione retrospettiva dell’iconografia, cosa che in US può avvenire in misura molto minore. Non è dimostrato che l’US comporti una minor riproducibilità intraosservatore ed interosservatore delle misure eseguite ed in generale dei risultati diagnostici ottenuti, rispetto a quanto non avvenga con le altre metodiche di imaging. Il problema della variabilità delle misurazioni in oncologia, sicuramente significativo sia nell’ambito dei trial clinici che della pratica diagnostica, coinvolge ad esempio tutte le metodiche di imaging e non in maniera particolare l’US [Belton et al. 2003]. È chiaro che tutte le indagini possono essere svolte ed interpretate a “diverso livello”: l’US, essendo più diffusa, può più facilmente essere
svolta da operatori non particolarmente esperti, che ad esempio dedichino solo parte del proprio tempo alla diagnostica ecografica. Bisogna anche sottolineare che la qualità dello studio US eseguibile dipende anche dalla qualità dell’apparecchiatura disponibile, per fascia e per stato di manutenzione, ma anche questo è un aspetto assolutamente condiviso da tutte le metodiche di imaging. Un problema maggiore rispetto alla presunta operatore-dipendenza, e troppo spesso sottovalutato, è quello della dipendenza dal paziente, sicuramente superiore a quanto non avvenga per le altre metodiche di imaging. Anche con le apparecchiature attuali, pazienti fortemente obesi, con sbarramenti gassosi (polmone aerato, meteorismo, pneumoperitoneo, enfisema sottocutaneo, ecc.), con strutture scheletriche sovrapposte, con particolari conformazioni della gabbia toracica, costituiscono una limitazione significativa dell’US. Se in soggetti magri è possibile cogliere un dettaglio anatomico eccezionale, utilizzando ad esempio sonde ad alta frequenza per l’esplorazione dell’addome, in individui di ampia corporatura lo studio delle strutture interne, specie se profonde è alquanto grossolano. Irregolarità e indurimenti della superficie cutanea, legati a pregressi interventi chirurgici, a radioterapia, ad edema (venoso o linfatico) e/o ad infiltrazione tumorale, rendono più difficoltoso il posizionamento della sonda, specie di quelle più ampie, e possono pertanto ostacolare un’ottimale esplorazione ecografica. Il prescrivente nell’atto di richiedere un esame US, ed il diagnosta nel momento di redarne il referto, dovrebbero sempre domandarsi se quel soggetto e quello specifico problema sono effettivamente accessibili all’US: individui con una notevole massa corporea dovrebbero, in generale, essere dirottati direttamente verso altre metodiche di imaging. Un discorso a parte meritano le tecniche Doppler. Un primo grosso problema in quest’ambito è quello della dipendenza dalla qualità dell’apparecchiatura, che influenza notevolmente la sensibilità per i flussi lenti endolesionali: un nodulo può apparire avascolare con un apparecchio di bassa fascia ed ipervascolare con uno di alta fascia. Inoltre, la sensibilità dipende dal settaggio dell’apparecchiatura e dall’esperienza dell’operatore, che diviene un parametro ancor più significativo di quanto non lo sia già per l’US in scala dei grigi. Con una PRF troppo alta oppure con un’eccessiva compressione con la sonda sulla cute, si può infatti totalmente annullare il flusso anche in una lesione riccamente vascolarizzata. Un limite intrinseco delle tecniche Doppler, come discusso nel Capitolo 2, è poi dato dall’impossibilità di dimostrare i flussi lenti della rete capillare parenchimale e neoangiogenetica lesionale, limiti che vengono in buona parte superati dalla CEUS.
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Ecografia in oncologia
1.3. Ecografia e screening oncologico Per screening oncologico si indica l’insieme delle procedure diagnostiche utilizzate per lo studio di soggetti asintomatici, più o meno selezionati, al fine dell’identificazione precoce di un’eventuale neoplasia. Ciò nell’idea che l’anticipazione diagnostica e terapeutica possa modificare positivamente la storia naturale della malattia tumorale nel singolo paziente. Diverso è il concetto di sorveglianza, che riguarda individui ancora asintomatici, ma ad alto rischio per lo sviluppo di una neoplasia e quindi sottoposti ad una valutazione più serrata [Catalano et al. 2004a, 2004b]. L’obiettivo della prevenzione secondaria oncologica, sia come screening che come sorveglianza, è quindi la ricerca sistematica di una neoplasia in fase preclinica, e cioè in individui asintomatici, al fine di prevenire/ritardare, a costi globali ragionevoli e attraverso diagnosi e trattamento precoci, la fase avanzata della malattia tumorale stessa, riducendo così morbilità e mortalità [Black et al. 1997, Herman et al. 2002, Stanley 2001]. Il concetto di storia naturale risulta fondamentale: qualora un soggetto sviluppi una neoplasia nel corso della propria vita, questa avrà prima una fase preclinica, a partire dal momento dello sviluppo biologico della malattia stessa, e poi una fase clinica, che inizia con la comparsa dei sintomi e termina con il decesso (per la malattia stessa o per altre cause) [Obuchowski et al. 2001]. Come fase preclinica di riconoscibilità si definisce il tempo tra quando un test diagnostico è in grado di riconoscere la malattia e quando compaiono i sintomi; in questo periodo la malattia può essere identificata solo mediante prevenzione secondaria (o riscontro incidentale). Il punto critico è quel momento della storia naturale in cui il trattamento della malattia diviene meno efficace che in precedenza: lo screening mira a identificare la malattia prima e non dopo che essa giunga a questo punto di viraggio. Perchè lo screening sia potenzialmente efficace, il punto critico deve avvenire durante la fase di riconoscibilità preclinica da parte del test e la diagnosi deve verificarsi prima del suddetto punto, oltre il quale i trattamenti divengono relativamente inefficaci [Black et al. 1997, Herman et al. 2002, Obuchowski et al. 2001]. I fattori che maggiormente influenzano il rapporto costo-efficacia di un test di screening sono: costo, accuratezza diagnostica, prevalenza della patologia nel campione, percentuale “localizzata” dei tumori identificati. Il costo viene inteso come rapporto tra effetti negativi e beneficio ottenuto: gli effetti negativi comprendono i possibili danni indotti dal test, quelli indotti da eventuali accertamenti successivi e quelli provocati da provvedimenti terapeutici, mentre il beneficio viene abitualmente stimato in termini di nu-
mero di anni vita guadagnati (corretto in base alla qualità di vita ottenuta). Ai costi immediati della metodica di screening vanno aggiunti quelli dei successivi accertamenti e trattamenti. Sul piano economico l’efficacia del test viene espressa come incremento di costo per anno di vita guadagnato, indicando in questo modo la riduzione di mortalità malattia-specifica. Il costo dipende anche dall’incidenza della malattia che si va a studiare, aumentando con il diminuire della prevalenza di questa nella popolazione [Baker 2003, Stanley 2001]. Si può progettare un programma di screening solo se diverse condizioni sono rispettate o quantomeno non disattese [Baker 2003, Black et al. 1997, Herman et al. 2002, Obuchowski et al. 2001]. Per quanto riguarda il test, esso deve essere moralmente e psicologicamente accettabile, di modo che il massimo numero di persone risponda all’arruolamento. Deve essere semplice ed accessibile a tutti ed in particolare alla popolazione cui è mirato. Il test deve inoltre avere chiaramente la massima sensibilità: poiché per la maggior parte delle malattie di cui si propone lo screening la prevalenza è <5%, sarebbe necessaria una sensibilità almeno >95% (se la specificità è <95%, e viceversa), altrimenti i veri positivi sarebbe inferiori ai falsi positivi. Rispetto alla sensibilità esiste tuttavia la questione collaterale della sovradiagnosi o pseudomalattia: il test identifica la malattia ma ciò determina un’efficacia solo apparente perché la malattia è lenta ed indolente e, correlata all’età del soggetto, difficilmente ne avrebbe causato la morte. Nella pseudomalattia tipo I, la malattia non sarebbe progredita ed anzi, eventualmente, sarebbe involuta; in quella tipo II la malattia sarebbe evoluta ma con lentezza tale da non pregiudicare la sopravvivenza. Dal punto di vista probabilistico i programmi di screening aumentano sensibilmente la detezione soprattutto dei tumori più indolenti, a lenta crescita, mentre è poco probabile che essi intercettino le forme più aggressive, ad alta malignità. Il tumore quindi non è realmente pericoloso e non sarebbe stato in grado di produrre sintomi prima della morte dell’individuo per altre cause, ma non vi è modo di distinguerlo da uno mortale: alcuni adenocarcinomi e carcinomi bronchioloalveolari per quanto riguarda il nodulo polmonare, alcuni carcinomi duttali (non tutti progrediscono verso un carcinoma invasivo!) per ciò che concerne la mammella, alcuni piccoli polipi adenomatosi (non tutti progrediscono verso un carcinoma invasivo!) per il colon o, soprattutto, i carcinomi renali e prostatici. Una possibile fonte posttest di sovradiagnosi è poi l’anatomia patologica: l’erronea classificazione di lesioni benigne (adenomi, iperplasie, ecc.) come tumori (es. ben differenziati) modifica solo in apparenza la sopravvivenza, falsando l’efficacia dello screening. Il test deve avere inoltre
Capitolo 1 Ecografia e oncologia massima specificità: l’incidenza di false diagnosi della malattia ricercata, con le conseguenze che ne derivano (ulteriori accertamenti, eventualmente più invasivi, alti costi, effetti psicologici, ecc.), deve essere più bassa possibile. Il problema specificità riguarda anche i reperti accessori: il test ideale deve identificare la malattia ricercata e solo quella. L’identificazione di altri reperti asintomatici, spesso banali quali cisti renali, cisti epatiche, calcoli colecistici, calcoli renali, costituisce un effetto negativo (ulteriori accertamenti, eventualmente più invasivi, altri costi, effetti psicologici, ecc.). Il test deve essere selettivo in prima istanza, con un limitato numero di soggetti, presumibilmente tutti veri positivi, che accedano al secondo livello; perché ciò avvenga deve essere minimizzato il numero di risultati indeterminati. Il test deve avere bassa invasività, con la minore mortalità e morbilità possibile: al momento della prevenzione, i soggetti esaminati hanno un rischio di morte o di sintomi gravi derivanti dalla malattia ricercata relativamente basso e quindi la loro incolumità deve essere particolarmente tutelata. Da questo punto di vista l’US è favorita rispetto a metodiche quali la TC che impiegano radiazioni ionizzanti. Il test deve essere di esecuzione e interpretazione relativamente semplici: un test che richiede un’elaborata preparazione/esecuzione o che può essere letto solo da pochi superspecialisti si presta poco ad un’ampia applicazione. Anche il dispendio temporale e l’impiego di personale sanitario deve essere il più limitato possibile. Il test deve comportare infine il minor dispendio economico possibile. La malattia deve avere una storia naturale nota: bisogna sapere quando si verifica il punto critico poiché il test può essere efficace solo se questo si colloca nella fase di riconoscibilità preclinica; si potrà così stabilire anche l’intervallo ottimale con cui praticare il test. La malattia deve essere grave, per giustificare moralmente ed economicamente i costi ed i rischi dello screening: la sua mancata individuazione deve avere serie conseguenze e questo appare applicabile in generale alla categoria dei tumori, sebbene con differenze da caso a caso. La malattia non deve essere eccessivamente rara poiché altrimenti la probabilità pre-test e post-test risulta inevitabilmente bassa. La malattia non deve essere agevolmente curabile durante la fase clinica, poiché in questo caso non vi è necessità di individuazione preclinica, e deve esistere un trattamento efficace per la malattia, se questa viene identificata prima del punto critico, altrimenti una diagnosi precoce si traduce solo nell’“ammalarsi prima del tempo”. Infine, la terapia disponibile non deve essere eccessivamente rischiosa o nociva, considerando che una parte dei casi selezionati sono falsi positivi o pseudodiagnosi. Il paziente deve avere un’aspettativa di vita adeguata: se “salvato” da una neoplasia con lo screening egli
non deve essere perso poco dopo perché ad alto rischio di altre malattie (es. cardiovascolari). Non devono essere presenti altre malattie oncologiche, anche perché possono creare problemi di differenziazione tra lesione ricercata ed eventuale metastasi. Infine il paziente deve avere caratteristiche generali di salute per cui, in caso di reperto positivo, può essere eleggibile per il trattamento. Il paziente deve essere adeguatamente motivato, per limitare al massimo i casi persi al follow-up: in genere i soggetti più disposti verso la prevenzione sono anche quelli più ansiosi e quindi quelli meno affidabili per un’ottimale riuscita tecnica dell’esame e per un adeguato follow-up [Catalano et al. 2004a, 2004b]. La diagnosi precoce del carcinoma della mammella consente una riduzione della mortalità del 25-30% rispetto ai casi diagnosticati al momento della presentazione clinica, con identificazione di lesioni più piccole e più raramente associate ad impegno linfonodale. Peraltro sono oggetto di discussione l’età di inizio e di fine dello screening nonché l’intervallo appropriato. L’ACS raccomanda l’esecuzione annuale della mammografia, a partire dai 40 anni e sino ad un’età da definire in base alle stime di rischio individuale. Per le donne più giovani viene raccomandata una valutazione clinica ogni 3 anni tra i 20 ed i 30 anni ed una annuale tra i 30 ed i 40. Per le donne a rischio aumentato (familiarità, storia pregressa di carcinoma mammario, pregresso morbo di Hodgkin trattato con radioterapia) si consiglia una definizione individuale per un inizio più precoce della mammografia, per un’integrazione US e per controlli più ravvicinati. Infine, per le donne con positività genetica (portatrici della mutazione genica BRCA1 e BRCA2) si tende attualmente ad una sorveglianza basata soprattutto sulla RM. L’associazione dell’US alla mammografia ha significativamente aumentato la percentuale di detezione dei cancri mammari, specie nelle donne giovani con seno più denso; la sensibilità combinata delle due metodiche, nelle diverse casistiche, è dell’83-91% [Zonderland et al. 1999]. Le evidenze sembrano pertanto a supporto di un impiego addizionale dell’US nello screening delle donne (fascia 30-40 anni?) con seno denso o eterogeneo [Berg 2004]. La palpazione non consente di riconoscere la maggioranza dei noduli della tiroide di diametro <15 mm e pertanto non è generalmente considerata proponibile per uno screening [Eden et al. 2001]. Peraltro, uno studio giapponese su 88160 individui sottoposti a screening in un periodo di 16 anni ritiene che la visita sia sufficiente per selezionare i casi sospetti, da sottoporre ad US: venivano riscontrate lesioni maligne in 204 individui (62 maschi e 142 femmine), con una percentuale di detezione in linea con la letteratura [Suehiro 2006]. Sicuramente l’US ad alta risoluzione
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Ecografia in oncologia
consente di identificare un numero elevato di noduli tiroidei, e potrebbe essere prospettata ad esempio anche in combinazione con lo screening US della mammella, anche perché è stata ipotizzata una certa correlazione tra le due neoplasie, seppur senza un meccanismo ben chiaro [Park et al. 2006]. Tuttavia vi sono molte limitazioni pratiche: l’incidenza di noduli benigni nella popolazione è molto elevata (noduli subcentimetrici rilevati dall’US fino nel 70% delle tiroidi normali); a fronte dei riscontri autoptici, l’incidenza del carcinoma è molto bassa, almeno quella delle forme clinicamente apparenti (1,4-6,1/100.000), rispetto a quella, significativamente più elevata, dei tumori evidentemente silenti (5-35% degli individui); esiste una sovrapposizione semeiologica tra noduli benigni e maligni e, teoricamente, tutti i noduli >8-10 mm identificati dovrebbero essere sottoposti ad una FNAC (l’esecuzione di una FNAC solo nei noduli sospetti sottrarrebbe allo screening una quota di carcinomi con aspetto US “benigno”); infine, il 90% dei carcinomi tiroidei è costituito da forme papillari (specie “microcarcinomi”, cioè noduli <10 mm di diametro massimo) e follicolari, caratterizzate da un comportamento spesso indolente, mentre è alquanto improbabile che uno screening periodico riesca ad identificare precocemente le forme aggressive ed in particolare il temibilissimo carcinoma anaplastico [Kane et al. 2003, Mihmanli et al. 2006, Miki et al. 1998, Park et al. 2006]. In pratica, il rischio di uno screening US tiroideo è quello di aprire un ambito di sovradiagnosi di considerevoli dimensioni, con un rapporto costo-utilità molto elevato e con una assai dubbia ricaduta prognostica [Miki et al. 1998]. La selezione di individui a rischio elevato (soggetti con familiarità, soggetti sottoposti in età pediatrica a radioterapia del collo o esposti a radiazioni ambientali, pazienti con MEN, ecc.) potrebbe restringere l’ambito applicativo [Eden et al. 2001]. Il cancro della prostata (cfr. paragrafo 3.34) ha di per sé una bassa mortalità ma, avendo un’elevata prevalenza nella popolazione, risulta comunque la seconda causa di morte per neoplasia [Clements 2001]. La ACS suggerisce uno screening dai 50 anni (45 anni se parenti di primo grado con storia di carcinoma prostatico diagnosticato in età relativamente giovane), mediante esplorazione digitale del retto e dosaggio del PSA (proteasi prodotta dal tessuto ghiandolare normale, da quello adenomiomatoso ma soprattutto da quello neoplastico), compatibilmente con un’adeguata informazione sui benefici e limiti di una diagnosi e trattamento precoci. Infatti, se è vero che il test del PSA consente un anticipo diagnostico medio di almeno 10 anni, è anche vero che esso non aumenta in maniera dimostrata la sopravvivenza, a causa soprattutto dei carcinomi silenti (>30% dei casi), che non andrebbero in effettiva progressione e
che quindi vengono sovradiagnosticati a causa dello screening e, conseguentemente, sovratrattati. Inoltre, il PSA non è specifico ed il suo impiego diffuso comporta il rischio di sottoporre a biopsia un numero consistente di pazienti che in realtà non hanno una neoplasia. In Europa molti sconsigliano al momento il dosaggio del PSA in pazienti asintomatici e senza indicazione clinica, a causa non solo del problema della sovradiagnosi ma anche della percentuale significativa di falsi positivi, dell’effetto non dimostrato sulla durata di vita e delle complicanze della prostatectomia (incontinenza, impotenza, ecc.) [Clements 2001, Zappa et al. 1998]. Anche l’impiego della TRUS nel paziente asintomatico appare di per sé poco convincente, essendo questa tecnica caratterizzata da un valore predittivo positivo piuttosto basso (18-52%): esiste il problema dei tumori isoecogeni, non riconoscibili, dei noduli ipoecogeni benigni, fonte di false positività, e della frequente multifocalità della neoplasia [Clements 2001]. Allo stato attuale lo screening può essere ipotizzato in forma volontaria, mediante visita e dosaggio del PSA periodici e successiva valutazione con TRUS e/o biopsia dei casi sospetti. Lo screening generale del cancro dell’ovaio (cfr. paragrafo 3.31) non è attualmente raccomandato ma sicuramente sarebbe auspicabile per il futuro, qualora si disponga di sistemi costo-efficaci [Sharma et al. 2006]. Una diagnosi precoce comporta un’elevata sopravvivenza (>80% per gli stadi I e II), tuttavia la prevalenza relativamente bassa di questa neoplasia, combinata alla specificità non elevatissima delle opzioni diagnostiche attuali, scoraggia attualmente uno screening di massa [Ascher et al. 2002, Hensley et al. 2004, Sharma et al. 2006]. Vi sono tuttavia categorie a rischio aumentato, come le donne con storia familiare, che richiederebbero un monitoraggio. La visita ginecologica annuale con esplorazione retto-vaginale bimanuale ha un’efficacia limitata, poiché identifica solo il 30% delle masse rilevabili con la TVUS [De Priest et al. 1992]. Lo screening può essere invece basato sul CA-125 e/o sull’US, condotta per via sovrapubica ma preferibilmente per via transvaginale: la TVUS è attualmente la metodica di imaging dotata della maggiore sensibilità per i piccoli tumori ovarici. Bisogna comunque ricordare che, se è vero che >80% delle donne con carcinoma ovarico ha valori di CA125 aumentati (>35 UI/ml), è anche vero che tale percentuale scende al 50% circa per i casi con malattia allo stadio I e II [Hensley et al. 2004]. In studi prospettici il CA-125 ha dimostrato una sensibilità subottimale, del 75-80%, non risultando sufficiente come unico test preventivo. Questo marcatore, pur avendo nel complesso un’elevata specificità, si può prestare infatti anche a false positività: donne sane (1%), soggetti con cirrosi, pancreatite, gravidanza al I trimestre,
Capitolo 1 Ecografia e oncologia malattia infiammatoria pelvica, endometriosi, pazienti con neoplasie addominali non ovariche in fase avanzata (40%) [Jeong et al. 2000, Sharma et al. 2006]. Uno studio su 22.000 donne ha dato risultati scoraggianti: sono state individuate 11 neoplasie (0,05%), di cui 7 già in stadio III-IV; 7 donne inoltre, con livelli normali di CA-125, sviluppavano successivamente un tumore ovarico [Jacobs et al. 1993]. È auspicabile l’impiego di altri marcatori bioumorali più sensibili, eventualmente in maniera combinata [Hensley et al. 2004]. Per quanto riguarda la TVUS, studi prospettici indicano un’elevata sensibilità (85-95%) ma con un 2-5% di falsi positivi [Ascher et al. 2002]. L’uso sequenziale del dosaggio annuale del CA-125 e della TVUS nei casi con valori patologici del marcatore appare attualmente il più razionale, seppur non ancora ottimale (in attesa dei risultati definitivi dei trial britannici e statunitensi in corso), poiché esso può consentire di ridurre il numero di diagnosi falsamente positive, con livelli di sensibilità del 79-100% [Ascher et al. 2002]. Nelle donne con carcinoma ovarico familiare è indicata una valutazione multimodale, clinica, US e laboratoristica, al fine di una diagnosi precoce. Sicuramente vi è la necessità di sottoporre a sorveglianza le donne a rischio marcatamente elevato (anche del 40%) e cioè quelle (0,05% della popolazione) con sindrome di Lynch II (cancro colorettale ereditario non poliposico), sindrome del cancro mammario-ovarico, sindrome del cancro ovarico sito-specifico; peraltro in questi casi si tende a consigliare l’ovariectomia profilattica. Nelle donne con familiarità meno marcata, ad esempio con una sola parente di primo grado con storia pregressa di cancro ovarico, in cui il rischio stimato è di circa il 7%, l’intervento chirurgico appare eccessivo e si opta generalmente per uno screening periodico, da iniziare all’età di 25-30 anni. Peraltro tutte queste donne sviluppano l’eventuale carcinoma ovarico in un’età, quella premenopausale, in cui sia il dosaggio del CA-125 che la TVUS danno più facilmente false positività. È raccomandabile un opportuno counseling delle donne a rischio, riguardante anche i limiti preventivi attuali. Il razionale per lo screening del carcinoma dell’endometrio è dato dallo stadio talora avanzato della malattia al momento in cui diviene sintomatica ed, all’opposto, dalla buona prognosi per i casi identificati precocemente (stadio IA) con sopravvivenza del 90% a 5 anni dal trattamento (cfr. paragrafo 3.32) [Valenzano et al. 2001]. L’identificazione delle lesioni precancerose (iperplasia endometriale e polipi) e del carcinoma endometriale potrebbe avvalersi della TVUS, anche con ECD. Uno spessore <5 mm virtualmente esclude una neoplasia. In uno screening su 1074 donne asintomatiche tra i 57 ed i 61 anni, ponendo come valore soglia uno spessore endometriale >4 mm ed un IP <1, si è rilevata una sensibilità per il
carcinoma del 94% ma una specificità solo del 48% [Vuento et al. 1999]. Probabilmente è necessario poter selezionare donne a rischio più elevato della media, per impostare un programma di screening razionale, eventualmente in maniera combinata con la ricerca del carcinoma ovarico (che peraltro ha un picco d’incidenza in un’età leggermente più giovane) [Fleischer 1997]. Allo stato attuale lo screening del carcinoma endometriale non viene considerato comunque sufficientemente benefico o giustificabile, se non in donne ad elevato rischio (es. quelle con sindrome del cancro colorettale ereditario non poliposico), sottoposte a misurazione annuale dello spessore endometriale alla TVUS [Sharma et al. 2006]. Per quanto concerne il testicolo, vi sono condizioni che, come è noto, costituiscono dei fattori di rischio per lo sviluppo di tumori, quali soprattutto il criptorchidismo (presente nell’anamnesi del 3,514,5% dei pazienti con diagnosi di carcinoma testicolare, specie di seminoma) e la microlitiasi. L’US è chiaramente da considerare la metodica di scelta per la sorveglianza (più che per lo screening) di questi individui, premesso che comunque il criptorchidismo è una diagnosi clinica mentre la microlitiasi, definita come la presenza di almeno 5 foci calcifici nel didimo, può costituire solo un reperto US accidentale [Kim et al. 2003]. Poiché l’orchipessia previene il danno sulla fertilità ma non il rischio cancerogeno (4-10 volte maggiore rispetto a quello degli individui con gonadi normodiscese) è indicata una sorveglianza ecografica periodica dei pazienti operati per criptorchidismo [de Leval et al. 1993]. In alternativa, si può eseguire una biopsia testicolare all’età di 18-20 anni: se questa è positiva per un tumore intratubulare a cellule germinali (carcinoma in situ), vi è il 50% delle probabilità di sviluppare un carcinoma invasivo mentre se la biopsia è negativa il paziente ha un rischio oncologico simile a quello dei coetanei e non richiede sorveglianza [Giwercman et al. 1989]. Per quanto riguarda la microlitiasi, dovuta a depositi di calcio nei tubuli seminiferi e che ha una prevalenza dello 0,05-0,6% (in forma focale o diffusa, uni- o bilaterale), il suo reale peso come fattore di rischio è discusso: è stata infatti ipotizzata un’associazione con i tumori testicolari ed in particolare con quello a cellule germinali ma questo dato non è stato confermato da tutti gli studi (Fig. 1.8). Al momento è comunque prudente suggerire ai pazienti con riscontro US incidentale di microlitiasi (e probabilmente anche di calcificazioni testicolari non microlitasiche) di sottoporsi ad un controllo ecografico annuale, oltre che ad un’autopalpazione, o quantomeno prospettargli l’esistenza della problematica; non risulta invece ragionevole in questi pazienti un impiego routinario di marcatori tumorali, indagini TC o biopsia testicolare [Kim et al. 2003, Miller et al. 2007, Rashid et al. 2004]. Al di fuori di
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Fig. 1.8. Seminoma testicolare associato a microlitiasi. Lo studio US e PD dimostra un nodulo ipoecogeno, relativamente omogeneo e delimitato, discretamente vascolarizzato, all’interno del didimo. Numerose fini calcificazioni intorno alla lesione e in tutto il resto del testicolo
queste circostanze, l’incidenza piuttosto bassa dei tumori testicolari ne sconsiglia lo screening di massa, se non riservato ad una stretta fascia di età. Per quanto riguarda l’epatocarcinoma (HCC), questo tumore può sicuramente essere gestito in maniera più efficace se identificato precocemente, anche perché il miglioramento ottenuto negli ultimi anni nel trattamento sia della cirrosi che dell’HCC stesso permette di conseguire un aumento di sopravvivenza di questi pazienti con tumore identificato mediante screening [Bruix et al. 2005, Colombo 2005, Rockall et al. 2004, Sangiovanni et al. 2004]. È tuttavia necessario acquisire maggiori conoscenze sulla storia naturale della malattia, che ha un tempo di raddoppio molto variabile (da 1 a 20 mesi per i piccoli HCC), con incostanti velocità di crescita e con andamento comunque diverso nei soggetti di razza diversa e nei soggetti con diversi fattori etiologici dell’epatite [Colombo 2005]. Lo screening è proponibile nei paesi che abbiano elevata incidenza ed al tempo stesso adeguata organizzazione sanitaria. Bisogna selezionare adeguatamente i soggetti ad elevato rischio, in particolare alcuni di quelli HBV+ (maschi >40 anni, femmine >50 anni, familiarità per HCC, soggetti in cirrosi), quelli HCV+ (eventualmente se >40 anni), con cirrosi alcolica, con emocromatosi genetica, con cirrosi biliare primitiva, ricordando che l’epatite C comporta un rischio maggiore di quella B ed ancor di più di quella non B non C; in particolare devono avere un’adeguata sorveglianza i soggetti in lista d’attesa per il trapianto [Bruix et al. 2005, Ren et al. 2006]. La modalità di screening è stata ampiamente dibattuta nel passato. È possibile impiegare il dosaggio dell’α-fetopro-
teina sierica (AFP) e/o l’US ma, negli Stati Uniti, è stato proposto [Arguedas et al. 2003, Peterson et al. 2000] l’impiego di TC o RM, metodiche sicuramente più accurate. Tuttavia, dovendosi trattare di esami seriati, la cosa sarebbe difficilmente attuabile, quantomeno in Italia: TC e RM sono sicuramente più sensibili e specifiche dell’US ma comportano maggiori costi, maggiore invasività e sono poco proponibili per necessità di screening periodico. In studi simulati sono state confrontate diverse strategie, quali dosaggio dell’AFP, US e TC (associate o meno al dosaggio dell’AFP): la TC si associava al maggior incremento nell’aspettativa di vita ma anche ai costi maggiori e si concludeva che gli aspetti economici rappresentavano la determinante maggiore nella scelta della modalità preventiva. In un lavoro simulato su pazienti di 50 anni con cirrosi HCV+ [Arguedas et al. 2003] lo screening dell’epatocarcinoma mediante dosaggio dell’AFP ed US comportava, rispetto all’opzione non screening, un aumento del rapporto costo-utilità di 26.689$/anno vita qualità-corretto, quello mediante dosaggio dell’AFP e TC di 25.232$ e quello mediante dosaggio dell’AFP e RM di 118.000$. Peraltro, nessun contributo randomizzato controllato ha dimostrato una riduzione della mortalità malattia-specifica legata allo screening dell’HCC e non è stato definito con chiarezza quale sia il test più costo-efficace, quali i pazienti da includere e quale l’intervallo da adottare [Federle 2002]. A proposito di quest’ultimo viene indicata [Federle 2002] l’esecuzione di una TC multifasica almeno ogni 12 mesi, con intervalli minori per soggetti ad alto rischio, sebbene studi TC sulla velocità di crescita del piccolo HCC [Kubota et al. 2003] abbiano indicato la necessità di controlli trimestrali, cosa che in Italia sarebbe assolutamente irrealizzabile sul piano logistico, dato il rapporto tra numero di apparecchi TC sul territorio e numero di soggetti Bo C-positivi nella popolazione. Lo screening US annuale ha rilevato lesioni singole nel 60% dei casi e multiple nel 40%; solo nel 30% dei casi tuttavia, la lesione singola è <3 cm e solo nel 23% <2 cm e quindi ideale per la resezione chirurgica. Ne deriva la necessità di controlli US più frequenti (2, 3 o anche 4 volte/anno), poiché il tempo di raddoppiamento dell’HCC è ritenuto essere di 2-4 mesi; peraltro non vi sono studi randomizzati controllati che dimostrano la superiorità dell’intervallo semestrale rispetto a quello annuale [Bruix et al. 2005, Majima 1984]. Le dimensioni medie dei noduli identificati con screening semestrale sono minori di quelle degli HCC rilevati con intervalli maggiori [Ren et al. 2006]. Nel nostro paese, così come in quelli asiatici ove l’HCC è particolarmente diffuso, ci si basa quindi soprattutto sull’US tri- o semestrale, possibilmente associata al dosaggio dell’AFP. L’AFP, il cui valore non si correla con le dimensioni lesionali ma che costituisce co-
Capitolo 1 Ecografia e oncologia munque un indice prognostico importante, risulta assolutamente normale (<20 ng/ml) nel 31% dei casi di HCC identificati ecograficamente nello screening e nettamente aumentata (>400 ng/ml) solo nel 2229% di questi; la sensibilità è del 60% con valori soglia 20 ng/ml ma scende al 22% per una soglia 200 ng/ml e quindi questo marcatore non può essere utilizzato come unico test preventivo [Bruix et al. 2005, Ren et al. 2006]. Il dosaggio dell’AFP può ridurre il numero di falsi negativi ecografici, fornendo valori patologici in alcuni di questi soggetti, pur potendo all’opposto determinare un certo aumento dei falsi positivi [Hirata et al. 1997]. La rivalutazione dei soggetti con US negativa e AFP aumentata non di rado dimostra lesioni piccole, iso-ipoecogene, particolarmente profonde o superficiali, misconosciute al primo studio ecografico. L’US di screening ha dimostrato una sensibilità molto variabile, dal 33 al 96% nelle diverse casistiche, in relazione a vari fattori [Bennett et al. 2002, Bruix et al. 2005]. Alcuni studi, prospettici o retrospettivi, di comparazione tra US pretrapianto e reperti su fegato espiantato hanno dimostrato una sensibilità alquanto bassa, del 30-50% per paziente e del 20-45% per lesione, mettendo in seri dubbi le possibilità applicative dello screening US [Bennett et al. 2002, Dodd et al. 1992, Liu et al. 2003]. Secondo questi lavori la sensibilità non dipende dal livello di eterogeneità del parenchima, dal volume epatico o dalla sede del nodulo mentre si correla strettamente con le dimensioni di quest’ultimo. Si può concludere che la combinazione US + AFP con cadenza semestrale, pur non essendo particolarmente sensibile ed incrementando i costi rispetto ai due test presi singolarmente, trova comunque un razionale nella sorveglianza dei pazienti a rischio, stante anche la condotta relativamente poco aggressiva dell’HCC nella maggioranza dei pazienti; protocolli che alternano AFP e US non hanno invece un adeguato razionale [Bruix et al. 2001, 2005]. Essendo le lesioni subcentimetriche raramente espressione di un HCC si tende a non approfondire reperti US <10 mm, a meno che non siano associati ad un aumento dell’AFP, ed a sottoporli a semplice monitoraggio; noduli >10 mm hanno buone probabilità di essere maligni e pertanto entrano nel work-up descritto nel paragrafo 3.20 [Bruix et al. 2001, 2005]. Tra le lesioni singole <3 cm identificate dallo screening, il 60% è ipoecogena, il 24% isoecogena ed il 16% iperecogena; inoltre il 48% mostra un aspetto a mosaico ed il 36% un alone ipoecogeno periferico [Hirata et al. 1997]. Per quanto riguarda la sede, definita per pazienti con lesioni singole <5 cm, si è visto che queste si localizzano in un segmento posteriore nel 50% dei casi, in uno anteriore nel 34%, in uno laterale nell’11% ed in uno mediale nel 4,5% [Hirata et al. 1997]. Per la detezione US dell’HCC cfr. anche il paragrafo 3.20.
Il carcinoma del rene è relativamente poco frequente e relativamente poco aggressivo per giustificare una qualche forma di screening; in particolare i piccoli tumori renali, quelli che più verosimilmente sarebbero rilevati da uno screening, sono, da un lato, mediamente a minore grado ed estensione di quelli sintomatici, e, dall’altro, creano maggiori problemi di diagnostica differenziale (cfr. paragrafo 3.28). I tumori renali ≤35 mm identificati incidentalmente, specie se ben delimitati, hanno in realtà una crescita piuttosto lenta (in media, 3.6 mm/anno): considerando anche che durante il follow-up di queste lesioni è raro il riscontro di metastasi, è stata suggerita nei soggetti anziani, defedati o ad elevato rischio chirurgico, una condotta attendistica in luogo di un approccio chirurgico aggressivo (sebbene sarebbe alquanto difficile convincere un soggetto anziano con una neodiagnosi di piccolo tumore renale a non operarsi!) [Bosniak et al. 1995]. È bene anche ricordare, d’altro canto, che alcuni studi hanno dimostrato una sensibilità e specificità tutt’altro che ottimale dell’US per l’identificazione di piccole lesioni renali [Jamis-Dow et al. 1996]. In Giappone è stata comunque riportata un’esperienza di screening US effettuata su più di 200.000 persone per 13 anni: un carcinoma renale veniva riscontrato nello 0,09% dei casi, con una quota di T1 del 38%, con una costante assenza di metastasi linfonodali ed a distanza in tutti i casi identificati, e con l’esecuzione di una resezione efficace nel 98% dei casi (sopravvivenza cumulativa a 10 anni del 95%) [Mihara et al. 1998, 1999]. Per aumentare il rapporto benefici/costi questi Autori sottolineano anche l’importanza di esplorare non solo i reni ma l’intero addome. Ipoteticamente, uno screening US del carcinoma renale potrebbe essere combinato con quello degli aneurismi dell’aorta addominale, sempre più incoraggiato adesso che sono disponibili le endoprotesi e praticabile in una fascia di età similare, eventualmente selezionando i soggetti maschi. Per concludere, bisogna domandarsi se un esame ecografico addominale in soggetti asintomatici possa avere un razionale ai fini dello screening oncologico generale e della ricerca di “patologie” in senso lato. Con sempre maggior frequenza si riscontrano individui che di fatto si “autoprescrivono” controlli periodici (di solito annuali) con ecografia addomino-pelvica e spesso anche tiroidea, sulla base di una spesso generica “familiarità”. Al riguardo non esistono argomentazioni scientifiche a sostegno e pertanto una simile condotta non appare sostenibile. In Giappone, ove comunque è bene ricordare che la corporatura media degli individui è inferiore a quella degli europei ed ancor più a quella degli americani, sono state riportate alcune esperienze di screening ecografico addominale generale. In uno studio su 8 anni eseguito in più di 200.000 persone è stata riportata una pos-
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sibilità di identificazione di neoplasie dello 0,31%, generalmente resecabili, ed in particolare 201 HCC, 81 carcinomi colecistici, 57 carcinomi pancreatici e 169 RCC; la sopravvivenza cumulativa a 5 anni era del 79,5% [Mihara et al. 1998]. In realtà, un esame ecografico eseguito su individui asintomatici e non selezionati, ha probabilità molto maggiori di individuare evenienze poco rilevanti (cisti epatiche, cisti renali, colelitiasi, nefrolitiasi, ecc.) che di identificare neoplasie in fase precoce. La maggior parte dei tumori identificabili dall’US transaddominale, con l’eccezione dell’HCC (che però insorge generalmente in precise categorie di individui), dell’RCC e dei tumori vescicali, viene infatti identificato in fase piuttosto avanzata, spesso oltre il punto critico: colecisti, pancreas, tratto gastrointestinale, sfera genitale femminile, prostata. Ai falsi negativi legati ai tumori presenti ma non ancora riconoscibili con l’US vanno poi aggiunti i falsi positivi, fonte di ulteriori costi e spesso di altre procedure diagnostico-terapeutiche non necessarie. Sono le stesse considerazioni che si rivolgono alla TC di screening [Baker 2003, Catalano et al. 2004a, 2004b], che ha l’aggravante dei maggiori costi e della maggior invasività radiobiologia ma che almeno ha l’attenuante di una maggiore panoramicità e, se eseguita con mdc e.v., anche di una superiore accuratezza diagnostica.
1.4. Ecografia e neoangiogenesi Le proprietà acquisite del cancro comprendono: autosufficienza nei segnali di crescita (e insensibilità ai segnali di anticrescita), immortalizzazione cellulare (apoptosi), proliferazione (potenziale replicativo illimitato), invasione, metastatizzazione e neoangiogenesi (formazione sostenuta di vasi) [Jeswani et al. 2005]. La neoangiogenesi costituisce il presupposto alla crescita tumorale, che è appunto angiogenesi-dipendente, ed alla metastatizzazione [Nishida 2005]. La crescita tumorale oltre 1-3 mm richiede infatti una rete funzionante di vasi sanguigni che ne sostenga l’attività anabolica e catabolica [Kelland 2005]. Nuovi vasi distruggono i tessuti sani, nutrono le cellule tumorali e consentono loro la metastatizzazione ematogena [Rehman et al. 2005]. La neoangiogenesi è un meccanismo a catena, caratterizzato da un aumentato numero di piccoli vasi, il microcircolo, sviluppatosi all’interno del tumore per opera di cellule endoteliali ospiti, opportunamente attivate e stimolate da fattori di crescita tumorale [Cuenod et al. 2006, Jeswani et al. 2005] (Fig. 1.9). La vascolarizzazione tumorale è tipicamente caratterizzata da un’architettura irregolare e caotica senza una precisa “gerarchia” tra le diverse strutture vasali, pre-
Fig. 1.9. Meccanismo alla base della neoangiogenesi. La neoplasia, ancora di piccole dimensioni, produce il fattore di crescita dell’endotelio vascolare (VEGF) e quest’ultimo determina lo sviluppo di nuove arteriole, responsabili dell’ulteriore accrescimento tumorale
Capitolo 1 Ecografia e oncologia valenza di capillari tortuosi e dilatati con poche arterie e vene complete, variabile ramificazione vasale con possibilità di rami collaterali a fondo cieco, assenza di controllo vasomotorio, vasi immaturi, fragili e permeabili alle macromolecole, variabile pressione interstiziale (incrementi transitori su una pressione già elevata), fistole arterovenose (specie alla periferia della massa), flusso intermittente o instabile con collassi vasali acuti ed emorragie [Jeswani et al. 2005, Rehman et al. 2005]. Le basse resistenze al flusso, dovute all’assenza di controllo vasomotorio ed alle fistole arterovenose, sono controbilanciate dall’elevata pressione interstiziale, provocata dall’aumentata permeabilità vasale e dalla conseguente diffusione di sostanze osmotiche; ne deriva la coesistenza di aree a diversa resistenza al flusso [Cosgrove 2003]. La distribuzione vasale è eterogenea, con aree coesistenti a bassa ed alta densità vasale, quest’ultime rappresentate soprattutto perifericamente. In parte si tratta di una rete inefficiente dal punto di vista dell’apporto di ossigeno, il che spiega la tendenza ai fenomeni necrotici, specie centrali [Anderson et al. 2001]. La densità microvasale (MVD) è inversamente proporzionale al volume tumorale [Forsberg et al. 2002]. Lo studio della vascolarizzazione tumorale è importante per diversi motivi: per confermare l’effettiva presenza di una lesione (aumentandone il contrasto, in positivo o in negativo, con il contesto tissutale), perché l’entità della vascolarizzazione si correla con la probabilità di natura maligna di una lesione (pur con notevoli eccezioni, si pensi all’intensa vascolarizzazione dell’iperplasia nodulare focale epatica), perché l’entità della vascolarizzazione si correla con il grado di attività e la propensione a metastatizzare della lesione e quindi con la prognosi (sebbene possa al tempo stesso indicare una maggiore responsività alle terapia), per definire i rapporti anatomici di una lesione con le strutture viciniori e specie con i vasi (stadiazione, operabilità, ecc.). L’entità della microvascolarizzazione può essere analizzata con sistemi diretti o indiretti. La stima della densità microvasale intratumorale costituisce il principale metodo diretto per la valutazione dell’angiogenesi e viene effettuata con tecniche immunoistochimiche con anticorpi leganti marcatori delle cellule endoteliali [Anderson et al. 2001, Cuenod et al. 2006]. L’entità dell’MVD costituisce una variabile prognostica indipendente delle neoplasie e si correla con la probabilità di metastatizzazione e con la sopravvivenza, anche se non è necessariamente in rapporto alla velocità della crescita tumorale; negli animali trattati con farmaci antiangiogenetici se ne rileva una diminuzione [Nishida 2005]. I vasi del microcircolo hanno un diametro molto piccolo (2-5 μm) e sono accessibili solo alle metodiche microscopiche: microscopia confocale (risoluzione ~100 nm), micro-
scopia multifotonica (~100 nm), microscopia elettronica (pochi nm) [Rehman et al. 2005]. Questi metodi sono ottimali per la valutazione dei vasi neoangiogenetici ad alta risoluzione, consentendo il computo della densità microvasale, ma richiedono un tessuto tumorale e quindi una biopsia; inoltre essi indicano solo l’MVD in un dato punto e quindi, nell’ambito di un tumore, sarebbero necessari numerosi prelievi centrali e periferici per definire in maniera affidabile lo stato del microcircolo. La stima dell’MVD è inoltre un dato morfologico e non consente un’analisi funzionale dinamica [Jeswani et al. 2005]. I test per determinare indirettamente lo stato del microcircolo si distinguono in due gruppi: (1) dosaggio dei livelli ematici di fattori angiogenetici, (2) valutazione del volume ematico e della perfusione tumorale con tecniche di immagine. Queste ultime, alcune delle quali peraltro ancora sperimentali e/o applicabili solo in vitro, possono essere distinte in due grandi categorie, quelle che studiano l’angiogenesi in maniera indiretta (RM perfusionale, TC perfusionale, PET con O15, SPECT, Doppler spettrale e colore, CEUS, imaging fotoacustico) e quelle che consentono un approccio diretto, ad esempio con mdc in grado di legarsi alle cellule endoteliali (US con microbolle specifiche, RM con nanoparticelle paramagnetiche specifiche, PET con traccianti legati ad anticorpi diretti contro fattori associati al neocircolo, micro-TC, imaging ottico a bioluminescenza o a fluorescenza) [Miller et al. 2005, Provenzale 2007]. Per quanto riguarda le metodiche di imaging di uso comune, comunque, esse hanno una risoluzione spaziale inferiore alle tecniche microscopiche illustrate in precedenza: TC 100-500 μm, RM 100-500 μm, CEUS 50-100 μm, PET ~4 mm (fino a 1,5 mm in futuro), US pochi mm [Ferrara et al. 2000, Kelland 2005, Miller et al. 2005]. L’ECD può riconoscere vasi sino ad un calibro di 40 μm, specie per le strutture superficiali e con modalità power. Le metodiche di imaging non sono quindi in grado di risolvere il microcircolo ma forniscono in maniera non invasiva importanti informazioni morfofunzionali in vivo. Esse si basano sull’equivalenza perfusione tumorale e volume ematico = densità microvasale (la perfusione è il flusso ematico totale ad un tessuto, compreso il flusso capillare). Chiaramente, presumere una corrispondenza diretta tra macrocircolo e microcircolo, o meglio, tra circolo tumorale globale e microcircolo, è un processo che può rivelarsi non sempre corretto [Cosgrove 2003]. Esistono inoltre altre considerazioni da fare sullo stato delle tecniche perfusionali: le acquisizioni single-slice, come quelle utilizzate solitamente in TC, mirate sulla sezione più ampia del tumore, sono state sinora prevalenti e consentono uno studio incompleto della lesione che inoltre mal si adatta alle esigenze
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di un’esplorazione panoramica ai fini del TNM; nei tumori eterogenei (es. ampia necrosi centrale) la scelta del diverso posizionamento di una regione d’interesse (ROI) influenza il risultato mentre una ROI che includa tutta la massa rileverà un segnale intermedio delle diverse componenti non sempre indicatore; nei tumori infiltranti, a margini irregolari, è necessario escludere la periferia lesionale per non includere nella/e ROI tessuto non neoplastico; i dati perfusionali quantitativi rilevati si correlano poco con le impressioni visive macroscopiche della vascolarizzazione lesionale e sono mal deducibili da queste; nei tumori molto aggressivi ed indifferenziati vi può essere una minore possibilità neoangiogenetica, non adeguata alla velocità di crescita, e quindi una paradossale ipovascolarità; tumori voluminosi possono comprimere i vasi afferenti, determinando un’ipoperfusione indiretta. I tumori più perfusi, in apparenza più attivi, possono ricevere più chemioterapico di quelli meno perfusi, in apparenza meno attivi, e quindi avere alla fine una risposta terapeutica migliore; in alcuni organi (fegato) vi è il problema della doppia circolazione a complicare l’analisi perfusionale; i mdc, una volta passata la regione di interesse in parte ricircolano (specie quelli ecografici) ed in parte diffondono nell’interstizio (specie quelli uroangiografici e paramagnetici) rendendo più complessa l’analisi funzionale che deve essere quindi basata soprattutto sul “primo passaggio” del mdc [Rehman et al. 2005]. Le diverse metodiche di imaging utilizzabili per lo studio della vascolarizzazione tumorale, TC, RM (dinamica o con altre modalità di acquisizione funzionale), PET (con diverse sostanze marcate), eco-Doppler e CEUS presentano ciascuna vantaggi e limitazioni, la cui discussione esula dalle possibilità di questo testo. Quale o quali di queste costituiranno in futuro le metodiche per la valutazione perfusionale dei tumori non è al momento prospettabile con sicurezza ma certamente le tecniche US non sono inferiori in questo senso a quelle TC, RM o medico-nucleari [Delorme et al. 2006, Kruskal et al. 2006]. Con la metodica Doppler è possibile rilevare un segnale colorimetrico in corrispondenza di piccoli vasi intraparenchimali o intralesionali non visibili come tali al B-mode. Le tecniche Doppler, in basale e con mdc, consentono infatti una buona rappresentazione architettonica della macrovascolarizzazione tumorale, quantomeno per le strutture superficiali e soprattutto con trasduttori ad alta frequenza [Cosgrove 2003, Ferrara et al. 2000]. Il power-Doppler, dotato di maggiore sensibilità al flusso lento ed al dettaglio morfologico rispetto al color, è più suscettibile agli artefatti e non ha comportato sostanziali miglioramenti dal punto di vista dello studio della vascolarizzazione tumorale [Anderson et al. 2001, Ferrara et al. 2000]. Lo stato dei vasi di grosso e medio calibro
identificati con il Doppler, tendenzialmente (ma non necessariamente!), si correla con quello del microcircolo [Blomley et al. 2002, Cosgrove 2003]. Il flusso nei piccoli vasi (<200 μm) è simile al movimento tissutale (<1 cm/s) e pertanto non discriminabile con le tecniche Doppler [Ferrara et al. 2000]. Per essere rilevato dal Doppler un segnale vascolare deve avere una sufficiente intensità e velocità: con i mdc è possibile incrementare la prima (pena peraltro l’aumento degli artefatti) ma non si può incidere sulla seconda. Sperimentalmente, è stata dimostrata la correlazione tra densità del segnale colore e grado istologico della vascolarizzazione tumorale [Donnelly et al. 2001, Schroeder et al. 2001]. I parametri di volta in volta proposti comprendono indice di pulsatilità, indice di resistenza, indice di accelerazione, velocità di picco sistolico, densità di colore (quantificazione del numero di pixel colorati rispetto al totale dei pixel della lesione) ed altri indici calcolati a partire dalle mappe colorimetriche; questi parametri spesso, ma non sempre, si correlano con l’entità della vascolarizzazione tumorale misurata invasivamente come densità microvasale [Anderson et al. 2001, Blomley et al. 2002, Donnelly et al. 2001, Lassau et al. 2006]. L’eterogeneità delle masse tumorali, dal punto di vista della densità microvasale, spiega peraltro la frequente coesistenza di spettri Doppler differenti, per profilo, velocità sistolica e, soprattutto, indice resistivo, nell’ambito della stessa lesione o in tumori diversi ma dello stesso istotipo e grado [Anderson et al. 2001]. Da ciò derivano i dati eterogenei presenti in letteratura. La riproducibilità intraosservatore e interosservatore è inoltre limitata e vi è il problema dell’attenuazione in profondità. Per quanto riguarda la CEUS, questa è più sensibile delle tecniche Doppler, potendo identificare la distribuzione del mdc anche in condizioni di flusso ultralento, ed è meno suscettibile di queste agli artefatti da movimento [Cosgrove 2003, Lucidarme et al. 2004]. I mdc ecografici sono da alcuni punti di vista ideali per questo tipo di analisi, essendo intravascolari e consentendo lo studio perfusionale alla massima risoluzione temporale, cioè in tempo reale. La risoluzione è inoltre superiore alle tecniche Doppler, con possibilità di dimostrazione diretta di vasi di 20-40 μm (corrispondenti al livello precapillare) [Blomley et al. 2002, Cosgrove 2003]. La CEUS offre una stima riproducibile della perfusione e l’intensità del segnale (ecogenicità) è proporzionale alla concentrazione di microbolle nell’area di interesse. La curva perfusionale che si ottiene dopo iniezione a bolo del mdc è caratterizzata da un iniziale incremento del segnale rapido e intenso, da un breve massimo e da una più o meno rapida diminuzione nel tempo [Delorme et al. 2006] (Fig. 1.10). La tecnica più diffusa per quantificare i parametri perfusionali assoluti od i parametri
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Fig. 1.10. Curva intensità-tempo. Curve perfusionali ottenute posizionando una ROI gialla su di una lesione epatica ipervascolare ed una ROI azzurra su parenchima epatico normale contiguo
proporzionali al flusso ematico in quella determinata area è quella di distruzione-riperfusione: quando tutte le microbolle in una determinata sezione vengono distrutte da impulsi di elevato IM, il successivo riempimento dipende dalle nuove microbolle che entrano nella sezione dai tessuti adiacenti e può essere rilevato in maniera non distruttiva (basso indice meccanico). Mantenendo la sonda ecografica in sede fissa per tutto il tempo, si invia una sequenza di impulsi ultrasonori predefinita, con uno iniziale ad alta potenza ed altri meno intensi finalizzati alla stimolazione armonica delle nuove microbolle in ingresso [Cosgrove 2003, Delorme et al. 2006, Pollard et al. 2002]. L’inclinazione in ascesa della curva di riempimento ottenuta dipende dalla velocità media del flusso ematico nei vasi regionali. La percentuale di riempimento, sia con somministrazione infusiva del mdc che dopo bolo (ma in quest’ultimo caso è necessaria una prima iniezione di taratura), segue una curva il cui incremento iniziale dipende dalla velocità media di flusso nella ROI ed il cui picco massimo indica la frazione di volume vascolare: il prodotto di queste grandezze è una misura proporzionale alla vera perfusione tissutale [Cosgrove 2003, Delorme et al. 2006, Forsberg et al. 2002, Pollard et al. 2002]. Molti apparecchi ecografici dispongono di software interni per la quantificazione automatica dell’enhancement quale stima obiettiva della perfusione; in alternativa le immagini possono essere inviate a sistemi off-line. I parametri perfusivi calcolati a partire dalle curve intensità/tempo sono numerosi: intensità del picco di segnale, tempo per il massimo enhancement (tempo di picco), tempo per l’enhancement, area sotto la curva, gradiente positivo, durata dell’enhancement [Cosgrove 2003, Li et al. 2005, Rehman et al. 2005]. È anche possibile somma-
re, in maniera automatica, in un’unica mappa vascolare, l’enhancement rilevato con la scansione in tempo reale per un dato periodo di tempo [Rubaltelli et al. 2007]. Per gli studi quantitativi, comunque, è necessario che il settaggio dell’apparecchio sia standard, e non venga modificato nel tempo, così come il protocollo di iniezione e la finestra di insonazione; inoltre i parametri di emissione dovrebbero essere correlati alla concentrazione di mdc nel tessuto [Delorme et al. 2006]. I reperti CEUS si correlano sperimentalmente con i dati ottenuti con marcatori immunoistochimici dell’angiogenesi ed anche con quelli ottenuti con RM dinamica [Yankeelov et al. 2006]. In un lavoro sul neuroblastoma murino la CEUS, a differenza del PD, consentiva di distinguere tra tumori sperimentali e tumori di controllo basandosi sulle diverse caratteristiche dell’intensità del segnale al momento dell’arrivo del mdc [McCarville et al. 2006]. Su animale si è anche rilevata, dopo terapia antiangiogenetica, la modifica delle curve rottura-riperfusione con riduzione della durata e intensità dell’enhancement e aumento del tempo necessario per la riperfusione; la regressione dei parametri vascolari funzionali precede la riduzione dimensionale tumorale [Krix et al. 2003]. Peraltro in un contributo sperimentale si rilevava una parziale mancanza di correlazione tra CEUS e RM, con rischio per la prima di sottostimare la vascolarizzazione di tumori con vasi piccoli e collassati, proprio per la maggiore resistenza offerta alle microbolle che non al mdc per RM [Galiè et al. 2005]. I limiti maggiori dello studio dell’angiogenesi con CEUS sono legati all’acquisizione in strato singolo, alla ricircolazione del mdc, all’attenuazione in profondità, alla dipendenza dall’habitus del paziente e dall’esperienza dell’operatore. A livello addominale è necessario che il paziente sia in grado di mantenere l’apnea per tutto il tempo necessario e i parametri di acquisizione vengano tenuti costanti. Una prospettiva per il futuro è data dal targeted imaging, con microbolle specifiche per i tumori (es. con peptidi tumore-specifici sulla superficie delle microbolle) o per i loro vasi (es. con anticorpi monoclonali anti-endotelio sulla superficie delle microbolle) [Kruskal et al. 2006, Lindner 2004].
1.5. La stadiazione dei tumori maligni Oltre allo screening, che costituisce un argomento a sé, bisogna considerare diverse fasi in cui l’imaging e nel nostro caso l’US, interviene nella diagnostica del paziente con neoplasia: la diagnosi o “prima” diagnosi (identificazione della lesione e quindi sua localizzazione topografica, caratterizzazione o diagnostica differenziale della lesione, sia nel senso di non tumorale vs. tumorale, che di benigno vs. maligno, che in-
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fine di primitivo vs. metastatico), la stadiazione (bilancio d’estensione della malattia, sia ai fini del completamento diagnostico, che del trattamento che infine della prognosi), la pianificazione del trattamento (compreso il giudizio di operabilità), la valutazione della risposta durante e dopo il trattamento (sia a breve termine per il giudizio di radicalità, l’identificazione di un residuo tumorale e l’esclusione di complicanze, sia a lungo termine, per il follow-up), l’identificazione della recidiva, la ristadiazione prima del ritrattamento. Per quanto riguarda lo staging, questo è fondamentale perché influenza il trattamento e soprattutto la prognosi che, in generale, peggiora in termini di sopravvivenza a 5 anni con l’aumentare dello stadio. Una stadiazione accurata risulta fondamentale nel paziente candidato al trattamento chirurgico: nella larga maggioranza dei casi, il trattamento di scelta per i tumori allo stadio iniziale è dato infatti dalla chirurgia resettiva con intenti radicali o curativi. Questa può essere praticata, a secondo dei protocolli, con intenti più demolitivi o con intenti più conservativi rispetto alle parti anatomiche che circondano il tumore. La chirurgia radicale può, in alcuni casi, essere praticata anche per riprese locali, per localizzazioni linfonodali o per asportazione di metastasi; per essere candidabile alla metastasectomia, un paziente deve avere una neoplasia con istotipo non particolarmente aggressivo, avere metastasi confinate ad un solo organo, di numero e dimensioni limitate, avere una buona funzionalità potenziale del parenchima residuo ed essere in grado di sottoporsi ad un intervento chirurgico. In ogni caso è fondamentale che, alla valutazione anatomo-patologica, vi sia un adeguato margine di tessuto indenne intorno alla massa escissa. In altri casi, con tumori localmente avanzati, può essere praticata una chirurgia palliativa e/o una chirurgia citoriduttiva: il debulking tumorale, con rimozione di parti più o meno ampie della massa tumorale, consente di migliorare in questo caso gli effetti della terapia sistemica o radiante. Vengono considerati in generale non operabili i tumori con un’estensione locale eccessiva, che non consentirebbe una radicalità chirurgica (resezione en bloc) se non al prezzo di un persistente danno funzionale, i tumori con estensione locoregionale talmente ampia da far ritenere molto elevata la probabilità di metastasi a distanza, ancorché occulte, ed i tumori associati a metastasi a distanza, con l’eccezione di quelli altamente chemiosensibili come le neoplasie testicolari. Una maniera per migliorare le possibilità di esecuzione e l’efficacia di una chirurgia “curativa” è costituita dall’impiego di un trattamento chemioterapico e/o radioterapico preoperatorio (neoadiuvante o riduttivo o primario) o postoperatorio (adiuvante): in questo modo può essere ad esempio ottenuto con una chirurgia conservativa
un risultato similare a quella più demolitiva ma non coadiuvata da altre modalità, si può ottenere un’eradicazione delle micrometastasi (potenziali) dopo la resezione chirurgica oppure si può far rientrare nell’ambito dell’operabilità radicale una lesione che inizialmente non lo era (debulking): di fatto, quello cui mira un trattamento neoadiuvante è di ottenere un down staging e cioè la diminuzione dello stadio della malattia con possibilità, in caso di risposta affermativa, di intervenire poi chirurgicamente. Bisogna infine ricordare la chemioterapia induttiva, come scelta palliativa iniziale nel caso di malattia avanzata, in fase di prima diagnosi o di recidiva: la maggior parte dei pazienti in fase metastatica viene trattata con chemioterapia al fine di palliare i sintomi e prolungare la durata della vita. Anche nel paziente non candidato almeno in prima istanza ad una chirurgia radicale risulta importante definire lo stadio della malattia, poiché la valutazione della risposta terapeutica verterà soprattutto sul confronto tra l’estensione della malattia prima e dopo il trattamento [Neal 2004, Rockall et al. 2004]. La diffusione tumorale avviene secondo varie modalità: per continuità, in relazione allo stesso accrescimento della massa; per contiguità, lungo legamenti, mesi, vasi, nervi o altre strutture adiacenti alla massa; per via linfatica, con coinvolgimento dei collettori linfatici e dei linfonodi drenanti il territorio anatomico della massa; per via ematogena, da embolizzazione di cellule tumorali in organi distanti; per diffusione cavitaria, mediante veicolazione di cellule tumorali nei liquidi delle cavità sierose, per impianto iatrogeno, come conseguenza del seeding di cellule tumorali in occasione di atti medici (chirurgia, biopsia, ablazione percutanea, ecc.). Il sistema TNM di stadiazione dei tumori solidi costituisce una modalità standardizzata per definire, obiettivamente e sinteticamente, l’estensione anatomica della malattia tumorale in un dato momento e per poterne verificare le modifiche nel tempo. Ne esistono quattro modalità di definizione, caratterizzate da un’accuratezza, almeno in linea teorica, progressivamente crescente: stadiazione clinico-radiologica (cTNM), chirurgica (sTNM), post-chirugico-anatomo-patologica (pTNM) e autoptica (aTNM). In questo sistema vengono combinate, in una serie di categorie dette stadi, le informazioni relative alla grandezza e/o alla profondità del tumore primitivo (parametro T - locale), con quelle concernenti la diffusione ai linfonodi (parametro N - regionale) e con quelle relative alle metastasi (parametro M - a distanza); l’aggiunta dei numeri ai componenti T e N indica gradi ascendenti di estensione del tumore (T0 - nessuna evidenza del tumore primitivo - T1, T2, T3, T4 estensione locale ingravescente; N0 - nessuna evidenza di impegno nodale - N1, N2, N3 - interessamento
Capitolo 1 Ecografia e oncologia nodale ingravescente) mentre per il parametro M vi è solo l’alternativa assenza (M0) o presenza (M1, eventualmente distinguendo tra sedi diverse). La definizione del parametro T è generalmente basata sulle dimensioni del tumore primitivo e/o sulla sua topografia e/o sulla sua estensione in profondità (parete degli organi cavi) o invasione di strutture viciniori. Il parametro N viene di solito definito in base alla sede dei linfonodi coinvolti rispetto al tumore, nonché al loro numero, dimensioni e/o mobilità; bisogna considerare che nell’N rientrano solo le stazioni linfonodali considerate come “regionali” rispetto al tumore in questione mentre le metastasi ai linfonodi “extraregionali” rientrano già nella diffusione a distanza. Il parametro M, infine, considera gli organi e le strutture coinvolti secondariamente dalla metastatizzazione a distanza. Questi tre parametri possono essere dedotti in base alle evidenze clinico-strumentali oppure in base a quelle anatomo-patologiche. In quest’ultimo caso, come detto, la lettera “p” precede il parametro di stadiazione. Per la maggioranza dei tumori, le due tipologie di ogni parametro, cioè T e pT, N e pN, M e pM, coincidono ma vi sono alcune eccezioni classificative [Wittekind et al. 2005]. In generale, lo stadio 0 corrisponde alla forma più iniziale con prognosi più favorevole (es. carcinoma in situ), lo stadio I al carcinoma localizzato, lo stadio II alla diffusione locale e/o regionale limitata, lo stadio III al carcinoma loco-regionalmente avanzato e lo stadio IV, con la prognosi più infausta, alla metastatizzazione generalizzata. Può essere anche quantificato il livello di confidenza (il Fattore-C) nella definizione di un parametro: C1, segni rilevati con mezzi diagnostici standard (esame obiettivo, esame radiografico, ecc.), C2, segni rilevati con mezzi diagnostici speciali (compresi US, TC e RM ma anche citologia e biopsia), C3, segni rilevati con esplorazione chirurgica, C4, segni rilevati dopo intervento chirurgico definitivo ed esame del pezzo operatorio, C5, informazioni da riscontro diagnostico autoptico [Wittekind et al. 2005]. Il sistema TNM viene utilizzato per la formulazione delle decisioni terapeutiche, per la definizione della prognosi, per la stratificazione dei pazienti negli studi clinici e per il confronto delle casistiche e dei risultati dei diversi Centri. Il TNM viene applicato alla larga maggioranza delle neoplasie solide; eccezioni sono rappresentate, ad esempio, dai melanomi (livelli di Clark per il “T”), dai tumori ginecologici (stadiazione FIGO) e dai linfomi (classificazione di Cotswold del morbo di Hodgkin, estesa anche ai linfomi nonHodgkin) [Neal 2004]. Chiaramente, ogni livello di stadiazione, sia clinico-radiologico che chirurgicopatologico, può sovra- o sottostadiare la diffusione della malattia, assegnandole uno stadio rispettivamente superiore o inferiore a quello reale. Nel paziente candidato alla chirurgia, quindi, è necessario
ottenere un ampio spettro di informazioni: tipo della neoplasia, dimensioni, grado istologico, presenza di permeazione linfatica o vascolare, presenza di carcinoma in situ associato, grado di invasione locale, completezza dell’escissione, stato dei linfonodi regionali [Neal 2004]. Bisogna infatti segnalare come l’estensione anatomica della malattia, così come definita dal TNM o da sistemi analoghi, non costituisca l’unico parametro per la gestione terapeutica e la prognosi, poiché anche altri fattori, quali il grado di differenziazione delle cellule tumorali, e cioè il grading, e la presenza o assenza di determinati biomarcatori (interni al tessuto tumorale e/o circolanti) risultano importanti. I marcatori tumorali hanno un valore, più o meno importante e specifico, nella diagnosi, nella stadiazione, nella valutazione terapeutica e nella prognosi di molte neoplasie. I principali marcatori sierici sono: AFP (epatoblastoma, HCC e tumori non seminomatosi del testicolo ma anche seminomi e tumori a cellule germinali dell’ovaio), βHCG (tumori testicolari non seminomatosi, corioncarcinoma ovarico), PSA (carcinoma prostatico), PLAP (seminoma), LDH (melanoma, morbo di Hodgkin, tumori testicolari a cellule germinali), CEA (carcinomi gastrointestinali ma anche cistoadenocarcinomi mucinosi ovarici), CA15-3 (carcinoma mammario), CA125 (carcinoma ovarico - mesotelioma peritoneale tumori addominali avanzati), CA19.9 (carcinomi gastrointestinali, specie del pancreas), calcitonina (carcinoma midollare della tiroide), tireoglobulina (carcinomi tiroidei differenziati), immunoglobuline o loro frammenti (mieloma, plasmocitoma solitario). I marcatori urinari più importanti sono: 5-HIAA (carcinoide), acido vanilmandelico (feocromocitoma), catecolamine (neuroblastoma), catene κ e λ (mieloma) [Neal 2004].
1.6. Ecografia e valutazione della risposta terapeutica Per valutazione della risposta terapeutica si intendono le procedure diagnostiche utilizzate per lo studio dei pazienti che sono in corso di trattamento per una neoplasia maligna, al fine soprattutto di verificare l’efficacia o meno di tale trattamento nonché gli eventuali danni correlati. Questa rivalutazione fa parte in generale del restaging della malattia. A seconda dello schema terapeutico, la ristadiazione viene eseguita nel corso o al termine del trattamento e, in base ai risultati, il paziente completa il protocollo di base oppure viene inviato a trattamenti più aggressivi. La dimostrazione del tipo di risposta, positiva o negativa, di un paziente con neoplasia maligna alla terapia locale, regionale o sistemica costituisce un momento fondamentale dell’oncologia e, quindi, del-
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l’imaging oncologico. È infatti fondamentale poter personalizzare il protocollo terapeutico, evitando sia l’ipotrattamento, con persistenza o aggravamento della malattia, sia l’ipertrattamento, con tossicità da farmaci o radiazioni non necessaria. La risposta determina le successive scelte terapeutiche: è regola generale che, in caso di riposta completa, si consolidi ma poi si sospenda il trattamento, che nella risposta parziale o stazionaria si continui con la medesima opzione terapeutica, e che dinanzi ad una progressione si offra al paziente un trattamento di seconda linea. Innanzitutto, è importante avere confidenza con i cambiamenti morfostrutturali indotti dai trattamenti antitumorali, pur ricordando che questi sono spesso aspecifici e che anche i tumori non trattati subiscono delle variazioni nel tempo del loro aspetto ecografico. In generale le lesioni ipoecogene tendono a divenire iperecogene in seguito al trattamento, soprattutto per fenomeni di fibrosi, cosa che può essere colta in particolare nel caso di linfomi e sarcomi. Quelle già iperecogene tendono a divenire disomogenee, con comparsa di aree ipo-anecogene di tipo necrotico-colliquativo. I diversi tipi di terapie (polichemioterapia convenzionale, ormonoterapia, farmaci antiangiogenetici, radioterapia) producono degli effetti che, nella loro diversità, sono comunque la conseguenza da un lato dei fenomeni distruttivi e dall’altro di quelli riparativi indotti e tutto ciò è da molti punti di vista determinabile con le metodiche di imaging, compresa l’US. La riduzione della vascolarizzazione è sicuramente uno dei più importanti, anche alla luce di quando descritto precedentemente a proposito della neoangiogenesi, e tale aspetto verrà trattato più diffusamente in seguito. Un fenomeno riparativo tipico è la calcificazione: la necrosi tissutale provoca infatti una riduzione del pH ed un rilascio di fosfolipidi e glicoproteine, creando le condizioni favorevoli alla precipitazione di sali di calcio insolubili. Ciò è caratteristico soprattutto dei tumori di tipo mucoide o papillare: si pensi solo alla calcificazione delle metastasi peritoneali dei carcinomi ovarici sierosi papilliferi nei casi responsivi alla chemioterapia oppure alla calcificazione delle localizzazioni del morbo di Hodgkin dopo radioterapia. La fibrosi, in forma di attivazione fibroblastica e conseguente formazione di tessuto cicatriziale, è tipica soprattutto dei tumori ricchi di componente stromale connettivale, ad esempio del morbo di Hodgkin ed in particolare nella sua tipologia sclerosante nodulare: in questi casi, proprio a causa della fibrosi, la massa residua può essere cospicua, sia per dimensioni che per persistenza nel tempo, e questo anche quando la componente tumorale è tutta inattivata. La necrosi può essere colliquativa o coagulativa e verificarsi, a seconda della modalità terapeutica impiegata, in maniera rapida o progressiva; in ogni caso le modifiche US sono parziali ed aspeci-
fiche; ad esempio, risulta difficoltoso rilevare dal punto di vista ecostrutturale la necrosi di un linfonodo trattato con radioterapia o di un nodulo epatico sottoposto a PEI. In alcune neoplasie, ad esempio nei sarcomi delle parti molli, è possibile che una risposta positiva al trattamento neoadiuvante si esprima con la formazione di una pseudocapsula fibrosa periferica, che circoscrive meglio la massa e che tra l’altro ne agevola l’asportazione chirurgica. Un fenomeno che può saltuariamente verificarsi nelle lesioni trattate è la differenziazione, come nel caso dei tumori a cellule germinali: a causa della differenziazione del tessuto tumorale si verifica una serie di cambiamenti, rappresentati da riduzione dimensionale, maggiore marginazione, aumento della quota cistica, adiposa e/o calcifica e diminuzione della vascolarizzazione [Ferrozzi et al. 2002, Husband 1996, Lagalla et al. 1998, MacVicar et al. 1997]. Anche segni indiretti, come la detenzione delle vie biliari o urinarie, possono indicare una risposta al trattamento di una lesione che, coartandosi, ha ridotto la sua azione ostruente sulle strutture anatomiche a monte. I criteri dimensionali sono in realtà gli unici realmente consolidati, e sicuramente i più affidabili nella pratica clinica. Sarebbe opportuno che le misurazioni seriate delle lesioni venissero eseguite sempre dallo stesso operatore e che questi utilizzasse piani di scansione riproducibili, che includano ad esempio determinate strutture anatomiche di riferimento; ciò al fine di minimizzare i rischi di introdurre elementi spuri nel calcolo delle misure. I primi criteri standard di valutazione della risposta utilizzati ubiquitariamente sono stati quelli elaborati dalla WHO [Miller et al. 1981]. In questo sistema la misurazione delle lesioni è bidimensionale ed è basata sul prodotto tra il diametro massimo ed il massimo diametro ad esso perpendicolare. I criteri WHO considerano le seguenti categorie: • risposta completa: scomparsa di tutte le lesioni note, confermata a distanza di altre 4 settimane o più; • risposta parziale: riduzione ≥50% della somma dei prodotti di tutte le lesioni misurabili note, in assenza di nuove lesioni, confermata a distanza di altre 4 settimane o più; • malattia in progressione: incremento ≥25% della somma dei prodotti di tutte le lesioni misurabili note, o insorgenza di nuove lesioni; • malattia stabile: modificazioni dimensionali non classificabili nelle altre categorie (quindi riduzione <50% o incremento <25%), in assenza di nuove lesioni. Esistono anche le lesioni definite come “non misurabili” dal sistema WHO, e cioè quelle che possono essere rilevate ma le cui dimensioni esatte non possono essere determinate. Una stima semplificata, unidimensionale, è stata
Capitolo 1 Ecografia e oncologia elaborata negli anni ’90 da un comitato canadese-statunitense ed ha avuto ampia ed immediata applicazione sia nei trial clinici, sia nella pratica [Therasse et al. 2000, 2006]. In questo caso si misura il solo diametro maggiore delle lesioni misurabili, fino a 5 lesioni per organo e fino ad un totale di 10 lesioni tra i diversi organi; queste lesioni, definite come lesioni target, saranno poi la base per la classificazione della risposta, mentre per tutte le altre lesioni, definite come non target si andrà a valutare solo la presenza/assenza. Questo sistema RECIST considera categorie leggermente diverse da quelle del WHO: • risposta completa: scomparsa di tutte le lesioni note, target e non, e normalizzazione dei livelli sierici dei marcatori tumorali, confermata a distanza di altre 4 settimane o più • risposta parziale: riduzione ≥30% della somma dei diametri maggiori delle lesioni target e/o persistenza di almeno una lesione non target e/o persistenza di livelli sierici elevati dei marcatori tumorali, confermata a distanza di altre 4 settimane o più • malattia in progressione: incremento ≥20% della somma dei diametri maggiori di tutte le lesioni target e/o progressione inequivocabile delle lesioni non target note e/o comparsa di nuove lesioni • malattia stabile: modificazioni dimensionali non classificabili nelle altre categorie (quindi riduzione <30% o incremento <20%), in assenza di nuove lesioni. Come si vede, si tratta di definizioni piuttosto complesse, che dovrebbero essere riservate all’oncologo e non formulate dal diagnosta per immagini, ad esempio al momento della stesura del referto. Salvo casi particolari, l’ecografista si dovrebbe limitare a riportare le misure delle lesioni individuate ed a segnalare quindi un eventuale “peggioramento” rispetto al quadro precedente, ma derivare da ciò una definizione di “progressione” potrebbe rilevarsi non corretto (ad esempio perché in seguito non si realizza un effettivo incremento ≥20% della somma dei diametri delle lesioni target). La definizione di lesioni non target è particolarmente importante. Esse possono essere definite in questo modo perché misurabili ma piccole (<20 mm se valutate con metodiche radiologiche tradizionali <10 mm se valutate con TC spirale o RM) o perché non misurabili (lesioni ossee o cistiche, versamenti pleurici, pericardici o peritoneali maligni, mastite carcinomatosa, linfangite carcinomatosa polmonare o cutanea, diffusione leptomeningea [Therasse et al. 2000]. Nonostante la misura unidimensionale dei RECIST sia oggi quella più utilizzata dagli oncologi, è comunque opportuno che l’ecografista continui a indicare entrambi i diametri maggiori in sede di refertazione. Inoltre, è assolutamente necessario che egli, dinanzi a casi di plurimetastatizzazione, misuri alme-
no le 5 lesioni maggiori in ogni organo e non si limiti ad una generica descrizione di “molteplicità”. L’ecografista può non essere al corrente di quali lesioni siano state inquadrate come target e quali come non target e quindi è meglio che egli ecceda, anziché difettare, in misurazioni. L’imaging attuale è dotato di una visione multiplanare, intrinseca ad US e RM e adottata anche dalla TC multistrato. È possibile quindi definire con accuratezza le tre dimensioni maggiori delle lesioni sui tre piani ortogonali o anche calcolare il volume vero e proprio della lesione, mediante acquisizioni 3D. Si tratta in parte di un’astrazione, poiché il volume può essere definito solo nelle lesioni che hanno forma regolare o quantomeno margini netti e regolari; inoltre, fattori come la profondità di focalizzazione del fascio possono influenzare la misura (sarebbe quindi necessario mantenere inalterate profondità e focalizzazione nei controlli seriati di un tumore!) [Park et al. 2004]. Tuttavia è piuttosto singolare, e forse discutibile, che dinanzi a queste possibilità di misurazione sofisticata i criteri WHO utilizzino una valutazione bidimensionale ed i RECIST una valutazione monodimensionale. Bisogna anche segnalare come i RECIST, mirati in prima istanza a rendere confrontabili gli studi di fase II sui trattamenti antitumorali e solo secondariamente sull’applicazione nella pratica clinica, abbiano una posizione molto radicale rispetto all’US: qualora lo scopo primario sia la valutazione obiettiva dell’efficacia terapeutica, infatti, si ritiene che l’US non dovrebbe essere utilizzata, se non per le lesioni particolarmente superficiali (espressamente, linfonodi, lesioni sottocutanee e noduli tiroidei) e quindi passibili di conferma clinica [Therasse et al. 2000]. Si tratta di una posizione piuttosto estrema, legata alla scarsa diffusione della diagnostica ecografica internistica nel Nord America e ad un atteggiamento di diffidenza preconcetta di molti oncologi, riconducibile alla minore obiettivabilità della metodica US, definita come “necessariamente soggettiva” [Therasse et al. 2000]. In realtà, l’applicabilità della metodica US allo studio del paziente oncologico deve essere definita caso per caso e, quando le circostanze sono tali per cui una valutazione ecografica risulta sufficientemente informativa, non esiste ragione per ricorrere a metodiche più complesse. Di fatto, sebbene la valutazione finale del trattamento antitumorale in pazienti con lesioni tumorali sia affidata eminentemente alle “macchine pesanti” di PET, TC e RM, l’ecografia viene spesso utilizzata, soprattutto nella valutazione “in itinere”, tra i vari cicli terapeutici. Nella valutazione della risposta terapeutica con imaging vi sono due regole fondamentali: (1) che si disponga di un esame “basale”, vale a dire un riferimento di imaging effettuato all’inizio della terapia o, ad esempio, subito dopo l’intervento chirurgico per il
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tumore primitivo; (2) che la stessa metodica o combinazione di metodiche utilizzate in basale siano poi impiegate nelle fasi successive di valutazione tra i cicli terapeutici e di ristadiazione a fine trattamento. Sarebbe anche auspicabile che gli esami basali e di follow-up siano effettuati sempre con la stessa apparecchiatura, metodologia d’esame (compresa l’impostazione dell’ecografo) e lo stesso operatore ma, chiaramente, ciò è ottenibile con difficoltà nella pratica clinica. Nei soggetti che vengono operati, l’esame base per il monitoraggio è chiaramente il primo preoperatorio, non potendosi più utilizzare quello di stadiazione iniziale. All’inizio l’oncologo, idealmente anche in accordo con il radiologo, dovrebbe definire un piano di monitoraggio preciso, seppur passibile di modifiche al mutare dei reperti, che consideri le metodiche da utilizzare, il volume corporeo da includere, le lesioni target e non target e la cadenza dei controlli. Il timing dipende da vari fattori come il “tempo alla progressione” [Bellomi et al. 2004]; quantomeno per gli studi di fase II, viene raccomandata una valutazione dopo ogni ciclo e cioè ogni 6-8 settimane [Therasse et al. 2000]. Nei soggetti trattati con chemioterapia la valutazione avviene subito dopo il trattamento mentre in quelli sottoposti a radioterapia o chirurgia si attendono generalmente circa 3 mesi per consentire una stabilizzazione delle modifiche locali. Il fine ultimo della terapia oncologica è quello di aumentare la sopravvivenza del paziente. Nella valutazione della risposta non è tuttavia possibile attendere tale incremento e, pertanto, si utilizzano dei surrogati [Bellomi et al. 2004, Ollivier et al. 2002]. Quello tradizionale è dato dalla progressiva riduzione dimensionale e dalla successiva scomparsa del tumore. I diversi sistemi di valutazione, quello della WHO ed il RECIST, pur nelle loro differenze, sono basati sulla dimostrazione obiettiva di una riduzione misurabile della massa tumorale. Anche la coartazione lesionale, prescindendo dalle problematiche intrinseche alle misurazioni dimensionali (accuratezza, forma e margini del tumore, ecc.), è tuttavia un indice relativamente tardivo, che spesso richiede dei mesi per essere verificato e che non esprime di per sé la presenza o meno di tessuto tumorale vitale residuo [Prasad et al. 2003, Therasse et al. 2006]. Ciò è particolarmente vero per alcuni tipi di trattamento oncologico, di più o meno recente introduzione: terapia con farmaci di nuova generazione (antiangiogenetici e antivascolari), terapie ablative percutanee, terapie transcatetere (embolizzazione, radioembolizzazione, chemioterapia e chemioembolizzazione), radioterapia (convenzionale o stereotassica) [Catalano et al. 1999, Kelland 2005, Therasse et al. 2006] (Fig. 1.11). In tutti questi casi, distinguere tra responders e nonresponders sulla sola scorta dei dati dimensionali è spesso problematico. Uno degli ostacoli allo sviluppo dei farmaci an-
tiangiogenetici è proprio dato dalla mancanza di efficaci sistemi di verifica degli effetti. Con questi farmaci si ottiene infatti una stabilizzazione della malattia, con possibile trasformazione “cistica” e poi, dopo molto tempo, l’eventuale riduzione dimensionale; quindi, per valutarne gli effetti ed anche per modularne il dosaggio è necessario disporre di altri tipi di informazione [Gee et al. 2001, Miller et al. 2005]. Con l’ablazione percutanea è necessario includere nell’area trattata un margine di sicurezza perilesionale e quindi, subito dopo la terapia, le dimensioni lesionali risultano addirittura aumentate. Vi sono poi alcune malattie neoplastiche, come i linfomi, che mal si prestano ad una valutazione esclusivamente dimensionale. Inoltre, come già detto, parecchie evenienze sono difficili o impossibili da misurare: lesioni con ampie componenti calcifiche, necrotiche o cistiche, versamenti maligni, localizzazioni meningee, pleuriche o peritoneali, mastite carcinomatosa, linfangite carcinomatosa polmonare, lesioni cutanee diffuse, lesioni ossee (specie se diffuse), micronoduli (<10 mm o talora addirittura <20 mm secondo i RECIST), macronoduli molteplici (>10 secondo i RECIST), ecc. [Therasse et al. 2000]. Infine, bisogna anche considerare che le diverse porzioni della massa tumorale non rispondono allo stesso modo al trattamento e che piccoli residui di tessuto tumorale attivo possono albergare all’interno di aree necrotiche, colliquate o calcifiche. Sebbene per gli studi di fase II sia oggi possibile basarsi solo su criteri dimensionali [Therasse et al. 2000] e sebbene non si disponga allo stato attuale di validi sistemi alternativi di tipo funzionale, diviene sempre più pressante la necessità di disporre di parametri differenti, da affiancare a quello dimensionale, in grado di offrire informazioni appunto funzionali sullo stato di attività del tumore, valutandone vascolarizzazione, permeabilità vasale, metabolismo, ossigenazione, ecc. Ottenere informazioni funzionali precoci, può consentire di discriminare anticipatamente i soggetti rispondenti da quelli non rispondenti al trattamento e di poter modificare il protocollo, in caso di scarsa o mancata risposta, senza dover attendere la dimostrazione di una scarsa o mancata diminuzione dimensionale a fine trattamento. È difficile indicare quale metodica tra quelle discusse nei paragrafi precedenti sia oggi più adatta a svolgere questo compito e probabilmente diverse localizzazioni tumorali primitive e secondarie richiedono differenti metodiche. Sicuramente informazioni funzionali possono essere ottenute con la PET (con FDG ma anche con altri radiofarmaci, ed ottenendo dati qualitativi ma anche quantitativi mediante calcolo del SUV), con la TC perfusionale o con le diverse tecniche di RM; l’imaging di fusione (es. PET-TC) permette inoltre l’acquisizione contemporanea dei dati dimensionali e di quelli funzionali.
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Fig. 1.11a–d. Linfoma renale e retroperitoneale prima e dopo chemioterapia. L’US pretrattamento (a) dimostra una nodulazione mesorenale ecogena disomogenea. L’US dopo due cicli chemioterapici (b) evidenzia un lieve aumento delle dimensioni della lesione, che ha anche sviluppato un’ipoecogenicità centrale. Anche il confronto tra la TC pretrattamento (c) e quella post-trattamento (d) conferma la valida risposta della lesione renale destra, che sviluppa un’ipodensità necroticocolliquativa. L’aumento volumetrico paradosso della lesione sarebbe stato interpretato come una progressione secondo i criteri dimensionali
L’US e le tecniche ad essa collegate, sebbene sinora escluse dalla valutazione della risposta secondo i RECIST se non limitatamente a lesioni superficiali e obiettivabili [Therasse et al. 2000], sono verosimilmente destinate a guadagnare nuovi spazi, specie come analisi contrastografica perfusionale in tempo reale. Le tecniche Doppler sono state largamente proposte per valutare le variazioni del grado di vascolarizzazione tumorale. I criteri suggeriti per la valutazione della risposta terapeutica sono numerosi e nessuno sinora ha ricevuto una sufficiente standardizzazione ed un impiego ubiquitario: i segnali Doppler, le velocità di flusso, l’effetto Doppler, gli effetti acustici registrabili con il PD, gli indici semiquantitativi e specie l’IR. L’analisi spettrale risulta essere una modalità precisa di misurazione del flusso ma è limitata ad alcuni vasi, arbitrariamente scelti dall’ecografista; il PD può indicare il volume vascolare relativo del flusso
ematico mentre può essere più accurato nell’esprimere il grado di perfusione [Ascher et al. 2002]. Le tecniche Doppler permettono di valutare la risposta sia alla chemioterapia convenzionale, che ai farmaci antiangiogenetici, che alle terapie percutanee o intrarteriose transcatetere; le modifiche rilevate a carico della vascolarizzazione tumorale si correlano con quelle istologiche [Catalano et al. 1999, Gee et al. 2001, Ho et al. 2000, Krix et al. 2003]. In uno studio sulle modifiche seriate dei linfonodi superficiali nei pazienti affetti da NHL si rilevava, nei soggetti responsivi, una progressiva diminuzione della vascolarizzazione all’ECD, mentre l’IR e l’IP non mostravano variazioni significative [Ho et al. 2000]. In un recente lavoro, una tecnica Doppler (il dynamic flow) con mdc si dimostrava in grado di predire la riposta al trattamento specifico delle metastasi epatiche da GIST già al primo giorno dopo la terapia, con una forte correlazione
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Ecografia in oncologia
tra la riduzione della vascolarizzazione al 7° e 14° giorno e la risposta tumorale [Lassau et al. 2006]. Le esperienze cliniche con CEUS sono ancora limitate. In pazienti con metastasi epatiche da GIST è stata dimostrata l’efficacia della CEUS, seppur condotta solo qualitativamente, nel monitoraggio della risposta alla terapia mirata con Imatinib [De Giorgi et al. 2005]. Nelle metastasi epatiche trattate con radioterapia stereotassica sono state dimostrate una riduzione del picco di intensità del segnale lesionale e una riduzione del rapporto intensità lesionale/intensità parenchimale in fase arteriosa; entrambi i parametri erano meglio dimostrati rispetto alla TC [Krix 2005]. Nelle metastasi epatiche trattate con chemioterapia si è visto che il contrast enhancement arterioso pre-trattamento è maggiore nei responders tardivi che in nei non responders, mentre durante il trattamento esso diminuisce solo nei responders [Delorme et al. 2006].
up, e considerando l’invasività strumentale, farmacologica e/o radiobiologica di alcune metodiche utilizzate per questo scopo, diviene sempre più importante selezionare i soggetti che effettivamente possono giovarsi di un monitoraggio, nei quali vi sia un’adeguata probabilità di recidiva. Bisogna inoltre determinare i tempi (tempo tra un controllo e l’altro, momento in cui interrompere i controlli) ed i modi (quali test diagnostici impiegare) più idonei del follow-up. La metodica impiegata per la diagnosi di ripresa neoplastica deve offrire un’elevata sensibilità per l’identificazione precoce della recidiva, deve ridurre quanto più possibile le false positività (con il corollario di approfondimenti e/o trattamenti non necessari, di costi e di stress per il paziente) e deve consentire la definizione di un preciso bilancio dello stato di malattia ai fini della corretta pianificazione terapeutica. Ciò con la minore invasività ed i minori costi possibili.
1.7. Ecografia e follow-up oncologico
1.8. Residuo e recidiva tumorale
Per follow-up oncologico si indica l’insieme delle procedure diagnostiche utilizzate per lo studio dei pazienti che sono stati trattati per una neoplasia maligna ma che sono, sino a prova contraria, liberi da malattia al momento in cui vengono valutati. Si tratta quindi di un’evenienza diversa dalla valutazione della risposta terapeutica, discussa in precedenza. Gli scopi del follow-up nel tempo sono molteplici: identificazione e trattamento precoce delle recidive loco-regionali o delle localizzazioni metastatiche, identificazione di forme metacrone (es. tumori uroteliali, carcinomi della mammella controlaterale, ecc.), accrescimento delle conoscenze sulla storia naturale delle neoplasie, sostegno psicologico ai pazienti [Molino et al. 1996]. Nei soggetti arruolati in trial clinici è necessario un monitoraggio particolarmente ravvicinato e scrupoloso. Nei casi rimanenti, che sono la maggioranza, è invece importante valutare caso per caso l’effettiva utilità di un follow-up più o meno “aggressivo”, nell’ipotesi che una diagnosi precoce di ripresa tumorale sia poi effettivamente apportatrice di un trattamento efficace e di una ricaduta quindi sulla morbilità e mortalità (sopravvivenza). L’anticipazione diagnostica della ripresa tumorale deve infatti poter modificare positivamente la storia naturale della malattia nel singolo paziente. In molti casi, come per quanto riguarda i soggetti operati per carcinoma colico o polmonare, l’applicazione dei principi della “medicina basata sulle evidenze” ha dato risultati deludenti, non avendo dimostrato un impatto clinico e statistico significativo del follow-up sulla sopravvivenza (qualità-correlata) [Giovagnoni et al. 2005, Liberati et al. 1997]. Soprattutto valutando i costi globali del follow-
Per recidiva o ripresa tumorale si intende la ricomparsa della malattia, sul piano clinico e/o strumentale, dopo un lasso di tempo variabile da uno stato di trattamento radicale chirurgico o di risposta completa al trattamento sistemico. Si tratta quindi di un’evenienza diversa dal residuo tumorale, ove vi è fin dall’inizio una componente neoplastica che ha resistito al trattamento e che poi può ulteriormente evolversi ed estendersi. Il sistema TNM descrive l’estensione della malattia senza considerare il trattamento. L’eventuale residuo dopo trattamento viene qualificato con il simbolo “R”, sia a livello locoregionale che a distanza, e viene definito come R0 se assente (tumore asportato e con margini di resezione liberi da malattia), R1 nel caso di residui microscopici (tumore asportato ma con tessuto tumorale sui margini di resezione) e R2 nel caso di residui macroscopici (asportazione incompleta del tumore primitivo o asportazione del tumore primitivo ma con residuo di metastasi a distanza) [Wittekind et al. 2005]. La recidiva neoplastica può essere a vario livello, e ciò ne condiziona la diagnostica, il trattamento e la prognosi. La ripresa può essere locale, regionale o sistemica, a seconda che coinvolga il parametro di diffusione T, N oppure M, e nel sistema TNM viene etichettata con il simbolo “r”. Il pattern del “fallimento terapeutico” indica la prima sede identificata di recidiva tumorale e può essere a sette livelli: in corrispondenza del T, dell’N o dell’M o anche combinato (TN, NM, TM o TNM). La ripresa del T è chiaramente dovuta alla presenza di tessuto tumorale residuo, ancorché microscopico, che dopo un tempo variabile si è accresciuto e si è reso riconoscibile; concettualmente si tratta quindi di un residuo di malattia, sep-
Capitolo 1 Ecografia e oncologia pur non riconoscibile con le attuali metodiche di diagnostica per immagini. Nel caso di una recidiva a livello dei linfonodi regionali oppure di organi e struttura a distanza, si tratta evidentemente di cellule tumorali che erano migrate dal tumore primitivo prima del suo trattamento radicale, e che in seguito si sono manifestate macroscopicamente.
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Metodologia d’esame e semeiotica elementare
2.1. Ecografia in scala dei grigi. Metodologia d’esame Le apparecchiature attuali dispongono di due, se non più, sonde multifrequenza. Le sonde ad alta frequenza (7-15 MHz) consentono una valutazione dettagliata delle strutture superficiali ma hanno un campo di vista piuttosto stretto (in genere, 4 cm) ed un limitato potere di penetrazione; in ogni caso in cui è necessario studiare strutture più profonde oppure definire l’effettiva ampiezza di lesioni superficiali ma voluminose, è necessario ricorrere a sonde di frequenza più bassa (2-7 MHz), pur con la conseguente perdita di risoluzione [Torzilli et al. 1997]. È importante sfruttare le diverse frequenze disponibili, e modificarle nel corso dell’esame unitamente alla variazione del posizionamento del/i fuochi. In particolare a livello mammario, per la sonda small parts, ed in sede epatica, per la sonda internistica, una variazione di frequenza e focalizzazione permette di adattare le caratteristiche dell’insonazione all’habitus del singolo soggetto, ed al tempo stesso di esplorare in maniera ottimale tutte le porzioni, superficiali e profonde, dell’organo in esame.
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Le sonde small parts offrono una superiore risoluzione superficiale, come conseguenza della loro elevata frequenza di emissione ultrasonora. I trasduttori attuali presentano cristalli numerosi ed eventualmente disposti su più piani, con ottimizzazione sia in emissione che in ricezione. Inoltre, la larga banda consente di raggiungere un’ampia gamma di frequenze. Anche se attualmente si dispone di trasduttori con frequenza molto elevata, può talora risultare utile, per lo studio delle lesioni più superficiali, sia con B-mode che con ECD, l’impiego di cuscinetti distanziatori (Figg. 2.1, 2.2). Questi sono particolarmente utili per le nodulazioni che alterano il profilo cutaneo, ad esempio creando una zona di convessità, perché permettono l’adattamento dell’insonazione e quindi un’ottimale valutazione della formazione in questione. In mancanza, si può sfruttare l’effetto distanziatore di uno spesso strato di gel. Lo studio dell’area di interesse deve essere condotto, per quanto possibile, secondo approcci differenti e combinati, mediante piani di scansioni eseguiti da diverse angolazioni (Fig. 2.3). È importante cercare di utilizzare, all’occorrenza, entrambe le sonde disponibili, quella “superficiale” e
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Fig. 2.1a, b. Adenosi mammaria, valore del distanziatore. A parità di frequenza Doppler (7,1 MHz) e di focalizzazione, la scansione senza cuscinetto (a) non riesce a cogliere i segnali colore visibili invece con il distanziatore (b). Paziente portatrice di protesi
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Ecografia in oncologia
Fig. 2.2. Recidiva di carcinoma mammario dopo mastectomia radicale, valore del distanziatore. A parità di frequenza Doppler (7,1 MHz) e con focalizzazione immodificata in proporzione, l’impiego del cuscinetto distanziatore (destra) consente di cogliere i segnali di flusso, non riconoscibili a contatto diretto (sinistra)
Fig. 2.3. Angioma epatico, valore dell’esplorazione intercostale. La scansione sottocostale (sinistra) riconosce una lesione tenuemente ecogena sottocapsulare posteriore (freccia), laddove quella intercostale (destra) ben evidenzia l’iperecogenicità lesionale
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Fig. 2.4a–d. Multiple linfadenopatie ascellari da NHL, valore della sonda internistica. Lo studio ad alta risoluzione (a, b) documenta multiple grossolane adenopatie ascellari, ma solo quello con trasduttore “addominale” (c, d) permette la visione d’insieme delle adenomegalie non confluenti e la misurazione di quelle più voluminose
Capitolo 2 Metodologia d’esame e semeiotica elementare
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c Fig. 2.5a–c. Teratoma del mediastino superiore in paziente con tumefazione basicervicale palpabile. Lo studio US (a) ed ECD (b) ad alta frequenza dimostra una formazione prevalentemente liquida, ad ecostruttura complex, con setti interni e segnali vascolari intrasettali. Solo la valutazione con sonda addominale (c), tuttavia, riesce a definire il limite caudale della massa
quella “addominale”. L’impiego della sonda internistica nell’esplorazione delle strutture superficiali può risultare utile in alcune circostanze, ad esempio per definire l’esatta volumetria di una massa voluminosa i cui diametri e la cui estensione in profondità siano valutabili con difficoltà con la sonda superficiale. Ancora, la sonda addominale può essere impiegata per esplorare quelle formazioni che s’insinuino o che emergano dalla profondità, al di sotto di strutture scheletriche o comunque ostacolanti la visualizzazione diretta con la sonda superficiale: è questo il caso della valutazione delle masse che dal giugulo sconfinano nel mediastino superiore o di quelle che dall’inguine penetrano in sede pelvica (Figg. 2.4, 2.5). La sonda superficiale a livello addominale può essere particolarmente utile, soprattutto negli individui più accessibili allo studio quali i bambini e i soggetti magri, in molte applicazioni, come ad esempio lo studio delle lesioni epatiche periferiche o glissoniane, delle lesioni spleniche superficiali, delle infiltrazioni tumorali a livello del grande omento o del peritoneo parietale anteriore, dei tumori digestivi, della parete addominale stessa (Figg. 2.6-2.11, Video 2.1). In particolare per lo studio dei tumori digestivi è importante la tecnica della compressione dosata. Elaborata inizialmente per le patologie acute ed in particolare per l’appendicite [Puylaert 1986], questa tecnica consiste nella progressiva compressione dell’area patologica con la sonda ad alta risoluzione ed ha fondamentalmente lo scopo di ridurre la distanza tra la sonda e l’area di interesse (risoluzione!) e di dislocare il meteorismo intestinale sovrastante l’area stessa e l’ecogenicità dovuta al gas nel lume dell’ansa patologica oggetto dell’esame. In generale, la compressione dosata permette di studiare con la sonda a frequenza più elevata delle strutture che non sono propriamente superficiali, come quelle nella profondità del collo o di un arto. Un ruolo importante per la valutazione “ravvicinata” delle lesioni neoplastiche è affidata alle sonde con approccio diverso da quello transcutaneo: transrettale, transvaginale, transuretrale, intravascolare, perendoscopico (cfr. paragrafo 3.38), ecc. L’US transvaginale (TVUS) viene attualmente eseguita con sonde microconvex, ad elevata risoluzione (5 MHz ma meglio da 6,5 o 7,5 MHz), dotate di funzione color- e power-Doppler, possibilmente in modalità triplex, e adesso anche di software per CEUS [Testa et al. 2005]. L’US transrettale (TRUS) viene praticata con sonde lineari o convex o combinate, in grado cioè di fornire, anche simultaneamente, una visione sia longitudinale che trasversale; le sonde attuali consentono, oltre che una valutazione ECD e PD, anche un’analisi ecocontrastografica. Si utilizzano frequenze piuttosto elevate - superiori a 5 MHz, possibilmente 7,5 MHz - e l’esame viene condotto con paziente nel decubito laterale sinistro o in posizione genu-pettorale; quest’ul-
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Ecografia in oncologia
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Fig. 2.6a–d. HCC, valore della sonda superficiale. Lo studio US (a) ed ECD (b) con sonda addominale rileva con difficoltà la lesione nodulare ipoecogena disomogenea, con scarsi segnali vascolari, localizzata anteriormente a livello del V segmento epatico (frecce). La valutazione US (c) ed ECD (d) con sonda ad alta frequenza ben definisce, invece, il nodulo ecogeno con alone ipoecogeno periferico e multipli vasi arteriosi interni
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Fig. 2.7a, b. Metastasi epatica da melanoma, valore della sonda superficiale. Lo studio con trasduttore addominale (a) dimostra nei primi piani una lesione epatica ipo-isoecogena disomogenea (frecce). L’impiego della sonda ad alta frequenza (b) permette di definire molto meglio la struttura interna della lesione, caratterizzata da alone ipoecogeno e parziale necrosi interna
Capitolo 2 Metodologia d’esame e semeiotica elementare
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Fig. 2.8a, b. Carcinoma polmonare, valore della sonda superficiale. La valutazione con sonda internistica (a) della massa polmonare adesa alla parete toracica è notevolmente ostacolata dagli artefatti prodotti dalla pulsatilità cardiaca, per attenuare i quali non è possibile ottimizzare la sensibilità per i flussi lenti. L’impiego della sonda ad alta frequenza (b) permette di ben definire la discreta vascolarizzazione all’interno della porzione più superficiale della massa
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Fig. 2.9a–d. Carcinosi peritoneale da carcinoma ovarico, valore della sonda superficiale. Lo studio addominale dimostra un grossolano ispessimento omentale (a, frecce), associato a versamento peritoneale e dilatazione di un’ansa intestinale profonda, ed una lesione mal definita della superficie epatica anteriore (b). La valutazione con trasduttore ad alta frequenza consente di meglio definire la struttura ipoecogena disomogenea, eteroplasica, sia dell’impegno omentale (c) che della lesione glissoniana epatica anteriore (d)
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Ecografia in oncologia
Fig. 2.10. Cisti ovarica benigna. Lo studio transaddominale con sonda superficiale permette una valida dimostrazione della struttura settata interna alla cisti, paragonabile a quella ottenibile con sonda transvaginale. Ciò grazie alla magrezza della paziente ed alla posizione superficiale della cisti
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b Fig. 2.11a, b. Linfadenopatia inguinale da NHL. Lo studio a frequenza più bassa (a) non riesce a definire sostanziali segnali colore all’interno della voluminosa formazione linfomatosa superficiale, mentre quello ad alta frequenza (b) ben evidenzia la ricca angioarchitettura lesionale
tima è quella necessaria per la biopsia. L’esame dovrebbe essere preceduto da un’esplorazione digitale, sia per escludere lesioni vegetanti nel retto che soprattutto per definire quale parte della ghiandola, nel caso di uno studio prostatico, abbia caratteristiche di maggiore consistenza e quindi di maggiore sospetto; in alternativa dovrebbe essere noto in dettaglio il reperto della visita urologica. È anche utile praticare in precedenza un clistere di pulizia, per evitare artefatti. È importante in generale regolare il guadagno dei grigi e la profondità di focalizzazione. Un guadagno eccessivamente basso può, ad esempio, cancellare gli echi di debole intensità all’interno di formazioni cistiche oppure far apparire come anecogene delle lesioni che in realtà sono fortemente ipoecogene; all’opposto un gain eccessivo può creare delle immagini ecogene artefattuali all’interno di una cisti semplice. Attualmente esistono sistemi di regolazione automatica del guadagno dei grigi [Harvey et al. 2002]. L’esplorazione sia delle strutture superficiali, soprattutto la mammella, che degli organi addominali, specie il fegato, deve essere concepita in maniera dinamica, con una variazione ripetuta della frequenza d’emissione della sonda, dei guadagni e della profondità di focalizzazione, in modo da essere sicuri di aver esplorato le diverse porzioni della struttura in esame con il settaggio più idoneo. In generale, il/i fuochi devono essere posti a livello o meglio subito al di sotto dell’area di interesse: il segnale proveniente dai tessuti situati a livello della zona focale del trasduttore, infatti, risulta più intenso rispetto a quello dei tessuti più superficiali o più profondi ad essa [Madrazo et al. 2000]. Piccole formazioni cistiche o calcificazioni possono essere pertanto misconosciute se non vengono a cadere a livello della zona focale, ove lo spessore della scansione è più sottile. La possibilità di variare la posizione del fuoco o la disponibilità di fuochi multipli e di sonde ad ampio spettro di frequenza permette di esplorare in maniera ottimale tutto il campo di vista, con una superiore risoluzione laterale. Peraltro, a volte i fuochi multipli non riescono a creare una transizione effettivamente uniforme tra i diversi livelli di profondità. L’armonica tissutale o nativa (per la risposta armonica generata dai mdc, cfr. paragrafo 2.8) è stata largamente impiegata prima a livello addominale ed in seguito anche in corrispondenza delle strutture superficiali [Lencioni et al. 2002, Szopinski et al. 2003]. Questa opzione si basa sull’impiego non della prima eco di ritorno da un tessuto insonato (fondamentale) ma di quelli successivi, armonici al primo, ed in particolare del secondo (seconda armonica); gli echi non lineari ad elevata frequenza generati dalla propagazione degli ultrasuoni nei tessuti corporei vengono sfruttati per creare l’imaging armonico. Ciò offre una superiore risoluzione spaziale e di contrasto, con una maggiore
Capitolo 2 Metodologia d’esame e semeiotica elementare nitidezza dei reperti, non disgiunta però da una certa difficoltà di studio dei tessuti particolarmente densi e riflettenti [Cha et al. 2007, Desser et al. 2000, Harvey et al. 2002]. Un’alternativa tecnologica allo sfruttamento della seconda armonica convenzionale è dato dall’armonica a larga banda, ottenuta con modalità di pulse o phase inversion, che sfrutta due impulsi accoppiati, di cui il secondo identico al primo ma invertito di fase [Rosenthal et al. 2001]. Rispetto all’US in fondamentale, questa opzione aumenta il rapporto segnale-rumore, migliora la risoluzione laterale e la risoluzione di piccole differenze di contrasto nei tessuti, attenuando gli artefatti da lobi laterali. In particolare nella modalità di pulse inversion armonico si ottiene anche una superiore risoluzione spaziale e di contrasto [Szopinski et al. 2003]. A livello addominale ciò risulta particolarmente utile nello studio dei soggetti obesi o nell’esplorazione di aree quali il retroperitoneo e la pelvi. Sia in sede superficiale che addominale l’armonica tissutale è particolarmente utile nel definire la natura cistica di una formazione ipo-anecogena, dimostrandone in maniera più netta il contenuto liquido. Anche l’identificazione dei piccoli noduli, ad esempio a livello epatico, può essere incrementata [Harvey et al. 2002]. In uno studio condotto sia a livello superficiale che profondo, l’imaging armonico tissutale aumentava la visualizzazione delle strutture sia normali (49% dei casi) che patologiche (73% dei casi), risultando utile ai fini diagnostici nel 43% dei casi ed essenziale nel 6% [Rosenthal et al. 2001]. La tecnica del compound imaging spaziale è, così come l’imaging armonico, una modalità alternativa per l’emissione e la ricezione degli ultrasuoni. Essa offre un superiore contrasto ed una maggiore nitidezza delle strutture superficiali, mediante scansioni che inclinano il fascio di ultrasuoni, con il risultato che i diversi punti del FOV vengono valutati con incidenze diverse: è cioè possibile angolare elettronicamente (steering) in real time il fascio in emissione, al fine di effettuare multiple scansioni parzialmente sovrapposte dell’oggetto, da differenti angoli di vista, e di ottenere poi un’immagine sommatoria media di superiore risoluzione spaziale. Il rumore di fondo viene ridotto, così come gli echi spuri ed altri artefatti, ottenendo immagini più contrastate, con una maggiore cospicuità delle lesioni e con una migliore definizione dell’architettura interna e della distorsione circostante le lesioni stesse [Entrekin et al. 2001, Harvey et al. 2002]. Le applicazioni maggiori sono a livello delle strutture superficiali (Video 2.2). Il compound può essere combinato con l’imaging armonico; in questo caso è stata dimostrata, almeno a livello addominale, una superiore resa iconografica dell’immagine ottenuta con compound e armonica associati: questa era superiore rispetto all’immagine con il solo compound, a sua volta migliore di quella con la sola ar-
monica tissutale (quest’ultima superiore a quella US in fondamentale) [Oktar et al. 2003]. Bisogna comunque segnalare come la riduzione di artefatti quali l’ombra acustica posteriore non sia sempre un vantaggio: basti pensare al valore semeiologico dell’attenuazione posteriore nello studio del nodulo mammario [Mehta 2003] (Fig. 2.12). Il compound imaging può essere combinato anche con l’acquisizione a FOV esteso o con quella in 3D. La modalità di ricostruzione panoramica, tipo panoramic view o US con FOV esteso (EFOV), può in parte sopperire ai noti limiti di panoramicità dell’US rispetto a TC e RM, fornendo immagini 2D e 3D di maggiore comprensibilità per il clinico e potendo essere utilmente impiegata sia a livello addominale che superficiale, in base chiaramente al tipo di sonda utilizzata [Harvey et al. 2002, Kim et al. 2003] (Figg. 2.13, 2.14). Le immagini, estese anche diverse decine di centimetri, vengono ottenute interattivamente attraverso un movimento manuale di traslazione della sonda sulla superficie cutanea del paziente, con continua comparazione posizionale e senza perdita di risoluzione spaziale. Vi sono anche sistemi con sonde dedicate, dotate di sensori posizionali. Le immagini ottenibili possono anche essere basate sull’imaging armonico, sul color- e power-Doppler o sulla CEUS e possono anche essere ottenute con sonde particolari quali quelle transvaginali [Henrich et al. 2002]. I vantaggi maggiori rispetto all’acquisizione US standard sono di fornire una migliore definizione dei rapporti topografici tra le masse e le strutture viciniori, una più accurata stima delle dimensioni e del volume delle lesioni, specie se ampie, ed una migliore rappre-
Fig. 2.12. Riduzione dell’attenuazione posteriore con sistemi compound. Con l’acquisizione convenzionale si ha un’intensa attenuazione mentre con lo spatial compound l’ombra posteriore è di forma triangolare ed anche meno marcata e meno estesa in profondità. Modificato da [Oktar et al. 2003]
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Fig. 2.13. Recidiva di melanoma del derma, US a FOV esteso. Lo studio panoramico dimostra in una singola immagine i numerosi noduli sottocutanei ipoecogeni disomogenei
Fig. 2.15. Tumore filloide della mammella, US tridimensionale. Rappresentazione multiplanare e 3D del voluminoso nodulo ipoecogeno disomogeneo
a Fig. 2.16. Carcinoma mammario, US tridimensionale. Rappresentazione multiplanare e 3D del nodulo ipoecogeno con attenuazione del fascio
b Fig. 2.14a, b. Osteosarcoma del radio. La scansione US a FOV esteso (a) offre una valida rappresentazione dell’irregolare superficie ossea e dell’azione della massa sul comparto muscolare sovrastante. (b) Correlazione con la ricostruzione tridimensionale di superficie della TC multistrato
sentazione di strutture tubulari estese come i vasi, le vie biliari e le vie urinarie, ma anche i segmenti intestinali. È anche possibile riconoscere lesioni o alterazioni molto periferiche rispetto all’area di interesse e misurare con precisione la distanza tra due strutture, normali o patologiche, non includibili contemporaneamente in un unico campo di vista ecografico. Le possibilità comparative nei controlli successivi di un determinato reperto US vengono aumentate dalle EFOV, la cui immagine è più immediata e più comprensibile per il clinico rispetto a quella standard. L’US tridimensionale può offrire una rappresentazione plastica e volumetrica delle strutture in questione (Figg. 2.15-2.17). Essa acquisisce una serie di fette della regione di interesse con orientamenti leggermente diversi, ottenendo così un insieme di dati volumetrici da elaborare che vengono poi rappresentati come immagini di superficie, di volume o bidi-
Capitolo 2 Metodologia d’esame e semeiotica elementare
Fig. 2.17. Recidiva di melanoma del derma, US tridimensionale. Rappresentazione multiplanare e 3D di voluminoso nodulo ipoecogeno disomogeneo
mensionali sui diversi piani (immagini multiplanari, comprese quelle secondo un piano parallelo alla superficie cutanea) [Ying et al. 2003]. Inizialmente, per produrre immagini tridimensionali veniva utilizzato un movimento meccanico della sonda, ma i sistemi attuali si basano su un’acquisizione a mano libera mediante sonde apposite e sistemi in grado di registrare la posizione e l’orientamento della sonda nello spazio insieme alle corrispondenti immagini US [Bega et al. 2003, Lyshchik et al. 2004]. Per US 4D si intende una modalità tridimensionale ad elevato frame rate in cui le immagini, essendo quasi in real time, hanno anche la dimensione tempo [Harvey et al. 2002]. L’US 3D può anche essere abbinata all’imaging armonico, con superiore precisione e pulizia della rappresentazione, al color- e power-Doppler, separando eventualmente flussi arteriosi e venosi, ed alla CEUS. Le procedure interventistiche possono essere agevolate dalla visione multiplanare, specie per quanto riguarda il riconoscimento dell’ago. L’elastografia, utilizzata soprattutto per le strutture superficiali ed in particolare per la mammella, misura le proprietà elastiche dei tessuti normali e patologici, distinguendo tra lesioni ipo-anelastiche (maligne) e lesioni iperelastiche (benigne), sebbene con possibilità di sovrapposizione tra i due estremi. In pratica, si valuta la risposta distorsiva dei tessuti alla compressione meccanica graduale con la sonda, ottenendo un elastogramma ad alto contrasto, sovrapposto all’immagine B-mode, in cui i tessuti soffici sono codificati in rosso, quelli anelastici in blu e quelli intermedi in verde [Giuseppetti et al. 2005]. Il B-flow costituisce una modalità di rappresentazione vascolare non Doppler, introdotta prima per le sonde ad alta frequenza e poi per quelle ad uso internistico. Esso è scevro dagli artefatti che in molti casi ostacolano l’esporazione color- e power-Doppler, es-
Fig. 2.18. Ecografia intraoperatoria, trombosi venosa intraepatica. Difetto centroluminale ecogeno trombotico a livello della vena sovraepatica media e della vena cava inferiore
Fig. 2.19. Cisti broncoalveolare. EUS a scansione radiale con sonda (s) multifrequenza (5-20 MHz): area ipoecogena irregolare del mediastino in rapporto con i bronchi (freccia). P, palloncino; a, aorta
sendo anche indipendente dall’angolo di insonazione; rispetto a queste tecniche il B-flow offre anche una risoluzione spaziale superiore, ad un frame rate più elevato e senza necessità di essere circoscritto ad un’area precisa (come il box dell’ECD) [Wachsberg 2003] (Video 2.3). L’US intravascolare può essere particolarmente utile in oncologia, preliminarmente ad un intervento chirurgico o nel corso di questo, per dimostrare un coinvolgimento neoplastico di un vaso, specie quando questo influenza la fattibilità e la condotta dell’intervento stesso. L’US intraoperatoria, endoscopica e laparoscopica ha sempre maggiori applicazioni, con trasduttori di frequenza sempre più elevata e multiuso, in grado di ottenere immagini ECD, CEUS e 3D, nonché di effettuare procedure interventistiche (Figg. 2.18, 2.19).
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2.2. Ecografia in scala dei grigi. Semeiotica elementare Le lesioni focali possono essere caratterizzate all’US da una struttura solida o liquida. Le lesioni solide sono caratterizzate da echi disseminati di diversa intensità (livello) e possono essere distinte in: solide omogenee (echi simili per intensità e dimensioni, generalmente fini ed uniformemente distribuiti), solide disomogenee (echi diversi per intensità e grandezza, variamente distribuiti), solide con ombra acustica posteriore (omogenee o disomogenee ma con attenuazione del fascio) e complesse prevalentemente solide (complex in cui lo sfondo solido prevalente, di solito disomogeneo, si associa a porzioni liquide minoritarie, dovute a quote cistiche oppure a fenomeni necrotico-emorragici) [Campisi et al. 2002, De Albertis et al. 1990] (Figg. 2.20-2.22). In base all’intensità degli echi, poi, sia le strutture solide con ecotessitura omogenea che quelle con ecotessitura disomogenea possono avere un’ecostruttura iperecogena, isoecogena o ipoecogena. In termini generali le lesioni ipoecogene sono quelle con elevata quota “acquosa”, laddove quelle iperecogene sono caratterizzate da una ricca rete capillare o da una notevole quota stromale. Questa maggiore o minore ecogenicità andrebbe definita, per quanto possibile, in relazione al parenchima adiacente, che costituisce lo sfondo di echi, tuttavia è chiaro che anche una massa che non si sviluppa all’interno di un parenchima può essere facilmente definita come ipoecogena o iperecogena in senso assoluto. È altresì evidente che le caratteristiche dello “sfondo” parenchimale possono mutare: lesioni che potrebbero risultare iperecogene in un fegato normale sono invece di aspetto ipoecogeno nel contesto di una steatosi. Per la mammella lo sfondo può essere prevalentemente ecogeno, se ghiandolare, o prevalentemente ipoecogeno, se ad involuzione adiposa; in generale si tende pertanto a definire la maggiore o minore ecogenicità in relazione al grasso sottocutaneo della mammella [You et al. 2005]. È chiaro che la lesione isoecogena, determinando la stessa riflessione degli echi del parenchima circostante, non è riconoscibile come tale ma solo nel momento in cui determina segni indiretti quali la bozzatura di un organo o la dislocazione delle strutture circostanti. In generale le lesioni tumorali, specie quelle epiteliali, sono ipoecogene, essendo caratterizzate da un’elevata cellularità e da uno scarso stroma e quindi da poche interfacce che riflettano gli ultrasuoni: si pensi ai carcinomi tiroidei, ai carcinomi mammari, ai linfonodi tumorali (metastastici o linfomatosi), ai noduli epatici o a quelli splenici. Nelle lesioni da melanoma si rileva in generale una netta ipoecogenicità dovuta allo scarsissimo assorbimento acustico della melanina. Peraltro, anche lesioni benigne come gli adenomi delle
Fig. 2.20. Nodulo tiroideo benigno. Formazione nodulare iperecogena omogenea, con sottile alone ipoecogeno periferico
Fig. 2.21. Linfadenopatia metastastica inguinale da carcinoma ovarico. Grossolana linfadenopatia ipoecogena disomogenea, con iniziale necrosi centrale e lieve iperecogenicità edemigena perifocale
Fig. 2.22. Carcinoma ovarico. Massa complex, con quote solide, quote liquide e quote a struttura microcistica
Capitolo 2 Metodologia d’esame e semeiotica elementare paratiroidi sono spesso alquanto ipoecogene, come conseguenza della loro uniforme ipercellularità. La trasmissione del segnale acustico attraverso una lesione e posteriormente a questa, e quindi l’ecogenicità posteriore, può essere aumentata (lesione ecopriva, vedi dopo), normale o ridotta (lesione ecoassorbente). L’attenuazione del fascio (ombra acustica posteriore) è espressione della presenza di intensi riflessori del fascio ultrasonoro quali calcificazioni, ialinosi, fibrosi (compreso lo stroma tumorale). Anche una componente gassosa può creare un effetto simile, come unica immagine ecogena curvilinea con attenuazione posteriore o come singoli nuclei attenuanti. L’ombra posteriore può essere solo accennata o tanto marcata da impedire la visualizzazione dei tessuti immediatamente distali alla lesione o talora anche la porzione profonda della lesione stessa (Fig. 2.23). Quando invece è l’interfaccia superficiale della lesione a creare l’artefatto, si ha un mascheramento della lesione stessa, specie nella sua parte anteriore, come nel caso di noduli con guscio calcifico o del segno della “punta dell’iceberg” nei teratomi ovarici con calcificazioni. Un’attenuazione del fascio, tale addirittura da poter determinare un’ombra acustica posteriore che maschera la parte più profonda di una lesione (non calcifica) e/o i tessuti molli normali posti subito dorsalmente a questa, può orientare in prima istanza verso una malignità; quest’attenuazione posteriore è stata indagata soprattutto a livello mammario ed è da correlare, secondo alcuni, all’ipercellularità, o secondo altri, al tipo di organizzazione tissutale all’interno del tumore [Mehta 2003]. Per quanto riguarda le lesioni a struttura liquida, questa può essere: liquida semplice (ecopriva, cioè anecogena omogenea, non riflettente), liquida corpuscolata riflettente (echi interni più o meno densi, talora mobili al variare del decubito, riconoscibili anche con un guadagno dei grigi ottimizzato), liquida settata, liquida con vegetazioni parietali (gettoni parietali solidi, sessili o peduncolati, a sviluppo endoluminale), complex a prevalenza liquida (generalmente del tipo corpuscolato, con possibili setti e gettoni, specie se irregolari come spessore e distribuzione, o con quote solide minoritarie) [Campisi et al. 2002, De Albertis et al. 1990, Vedovelli et al. 2006] (Figg. 2.242.30). Per ciò che concerne in particolare le lesioni settate, queste presentano un numero variabile di setti interni, che possono essere parziali o completi (in quest’ultimo caso, la formazione può essere definita come multiloculata) e che risultano essere sottili e regolari oppure spessi ed irregolari. Tutte le lesioni liquide patologiche (cistiche) presentano alcuni artefatti caratteristici, più o meno evidenti: il rinforzo di parete posteriore, cioè un aumento di ecogenicità relativa delle strutture profonde alla cisti stessa rispetto a quelle poste più lateralmente alla stessa profondità;
Fig. 2.23. Carcinoma mammario. Nodulo ipoecogeno disomogeneo, a margini irregolari, con attenuazione del fascio tale da mascherare anche la parte profonda della lesione stessa
Fig. 2.24. Cisti del didimo. Formazione anecogena, rotondeggiante, uniloculata ed omogenea, del didimo
Fig. 2.25. Cisti dell’epididimo. Formazione cistica, lobulata, multiloculata per presenza di qualche sottile setto interno e qualche segnale vascolare al PD direzionale
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Fig. 2.26. Cisti ovarica semplice. Voluminosa formazione anecogena omogenea, priva di setti interni e con pareti sottili. U, utero; V, vescica
Fig. 2.29. Nodulo tiroideo parzialmente cistico-colloidale. Formazione ipo-isoecogena, con area anecogena centrale ed altre areole anecogene periferiche. Si osserva anche qualche piccolo nucleo calcifico periferico
Fig. 2.27. Cisti emorragica della tiroide. Nel contesto del lobo tiroideo destro si rileva una formazione cistica complex, con setti ecogeni e contenuto luminale leggermente corpuscolato, senza segnali vascolari all’ECD
Fig. 2.30. Cisti endometriosica ovarica. Formazione ipoecogena multicistica dell’annesso destro
Fig. 2.28. Nodulo tiroideo prevalentemente cistico-colloidale. Formazione nodulare con ampia componente anecogena interna e bordo ipoecogeno di variabile spessore
le ombre acustiche laterali, cioè due bande ipoecogene tangenti ai due lati della cisti e tese da queste verso la profondità; il riverbero, cioè alcune strie ecogene a decorso orizzontale sul versante superficiale della cisti stessa. In generale una buona trasmissione degli ultrasuoni attraverso una lesione focale, tale addirittura da poter creare un rinforzo posteriore, orienta verso la benignità e ciò soprattutto per le strutture superficiali, sebbene con alcune notevoli eccezioni (Fig. 2.31); a livello epatico sono soprattutto gli angiomi e gli HCC ad esprimere un eventuale rinforzo posteriore che invece manca nelle metastasi (a meno che non vi sia uno sfondo steatosico) [Konno et al. 2001]. Le ombre acustiche laterali possono essere quindi presenti, come avviene soprattutto nelle lesioni a contenuto liquido, o assenti, in particolare per le lesioni solide [Campisi et al. 2002].
Capitolo 2 Metodologia d’esame e semeiotica elementare
a
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Fig. 2.31. Carcinoma midollare della mammella. Nodulo ovalare, ipoecogeno, relativamente omogeneo e delimitato, con rinforzo posteriore (a). L’analisi flussimetrica identifica uno spettro a resistenza relativamente elevata (b)
Le caratteristiche delle lesioni focali da considerare, sia per la definizione del quadro rilevato che ai fini della redazione del referto diagnostico, sono varie: forma, ecostruttura, contorni, dimensioni, numero, sede e rapporti con le strutture circostanti. Ciò considerando anche che nelle lesioni di piccole dimensioni molti aspetti morfologici sono poco definibili, e con più facile sovrapposizione tra benignità e malignità di quando non sia per le lesioni più voluminose. La forma può essere regolare oppure irregolare. Nel primo caso essa può essere rotonda (rapporto tra i due diametri massimi ortogonali <1,5), ovalare (rapporto tra 1,5 e 2), allungata (rapporto >2) oppure lobulata (multiple lobulazioni, da confluenza di più lesioni oppure da crescita asimmetrica verso le diverse direzioni, con aspetto policiclico dei margini). Una forma irregolare è invece particolarmente asimmetrica, non ascrivibile pertanto a nessuna delle tipologie elencate e si presta con difficoltà ad una corretta definizione dimensionale. Maggiore l’irregolarità della forma, maggiori sono le probabilità di una natura maligna della lesione, ma è chiaro che questa è solo una considerazione di massima. La tessitura può essere omogenea oppure disomogenea. Quest’ultima, definita anche come “mista”, può essere conseguenza di quote di diverso grado di anaplasia, di componenti istologiche diverse, di irregolare ripartizione del trofismo vascolare, di fenomeni regressivi (spontanei o indotti dai trattamenti), di eventuale superinfezione. L’ecostruttura complessa, o complex, illustrata in precedenza, costituisce la massima espressione di disomogeneità della tessitura della lesione, che non è riconducibile ad una definita tipologia, ipoecogena, isoecogena o iperecogena [Vedovelli et al. 2006]. In termini assolutamente generali, maggiore è la disomogeneità ecostrutturale e maggiori sono le probabilità di una natura maligna della lesione; è
evidente, tuttavia, che il reperto deve essere valutato caso per caso. I fenomeni necrotici tendono ad essere ipoecogeni o anche anecogeni, simulando le quote propriamente cistiche. L’emorragia può esprimersi con una diversa ecogenicità a seconda dell’epoca dei sanguinamenti. Le quote adipose sono di solito iperecogene. Le aree cistiche risultano anecogene, con contenuto omogeneo o più o meno denso e corpuscolato. Le calcificazioni, in particolare, vanno distinte in microcalcificazioni (nuclei ecogeni puntiformi, <1-2 mm, senza ombra acustica posteriore) e macrocalcificazioni (nuclei ecogeni grossolani, >1-2 mm, con ombra acustica posteriore). Se ne deve inoltre definire il numero, se sporadiche o plurime (anche “a pioggia”), e la sede, se intralesionale, periferica o francamente “a guscio” (completo o parziale). Calcificazioni grossolane centrali o eccentriche possono riscontrarsi in masse neoplastiche primitive o secondarie ma, chiaramente, anche in lesioni benigne. Calcificazioni marginali “a guscio” si riscontrano soprattutto nelle lesioni benigne, ad esempio a livello tiroideo (Fig. 2.32). Microcalcificazioni sono riconoscibili tipicamente nei carcinomi papilliferi della tiroide e, chiaramente, nei carcinomi mammari; esse costituiscono inoltre un rilievo importante a livello testicolare. In alcuni casi la soffusione calcica è talmente tenue da essere scarsamente o affatto percepibile con l’US, che dimostra una lieve e disomogenea iperecogenicità (es. nelle metastasi epatiche da carcinoma del colon, ove invece la TC ben dimostra nelle scansioni dirette la tenue quota di densità calcica) [Vedovelli et al. 2006]. I contorni (margini) possono essere netti e regolari, indefiniti (sfumati), lobulati (sia micro- che macrolobulati), angolati (brusche variazioni del profilo), spiculati (fini bande irradiate intorno alla lesione). Le dimensioni delle lesioni vengono determinate con i calibri elettronici dell’apparecchio, ricercando il
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Fig. 2.32. Nodulo tiroideo benigno. Formazione ipoecogena con ampio guscio calcifico, sottile e uniforme. Ne deriva un’attenuazione posteriore del fascio
Fig. 2.33. Tumore sincrono, vescicale e rettale. Grossolana lesione ipoecogena che ispessisce e deforma la parete anteriore della vescica (freccia breve). Si associa un ispessimento ipoecogeno circonferenziale delle pareti rettali (freccia lunga)
piano di scansione ove la lesione appare più ampia e misurando su quest’immagine il diametro massimo ed il massimo diametro ad esso perpendicolare. Il volume lesionale può essere poi calcolato misurando altezza, larghezza e lunghezza massima di una lesione su due scansioni ottenute su piani ortogonali tra loro ed applicando poi la formula dell’ellissoide, in cui le misure vengono moltiplicate per 0,524 (operazione peraltro eseguita automaticamente dal software dell’ecografo). In alternativa ci si può basare sulla misurazione del perimetro. Si tratta peraltro, almeno in parte, di astrazioni, poiché le misure sono influenzate da vari fattori, come ad esempio da una forma irregolare, oppure dai margini mal definiti o infiltranti. Le misurazioni volumetriche in 3D sono più accurate di quelle in 2D, con una minore variabilità interosservatore ed una maggiore ripetitibilità: le misure ottenute sono meno dipendenti dalle dimensioni e dalla morfologia lesionali, nonché dalle sue caratteristiche ecostrutturali [Lyshchik et al. 2004, Riccabona et al. 1995]. Il numero delle lesioni è importante. Bisogna distinguere tra lesioni singole e lesioni multiple, poiché, in termini molto generali, la seconda evenienza orienta molto più per una natura maligna e particolarmente secondaria di lesioni non cistiche, pur non potendosi scartare a priori l’evenienza di lesioni benigne multiple oppure di tumori primitivi multifocali. La natura singola è invece più aperta a tutte le possibili eziologie. Esiste anche la possibilità di lesioni multiple in organi diversi, che suggerisce anch’essa in prima istanza la natura metastatica di lesioni non cistiche, pur potendo esservi il caso di tumori sincroni e soprattutto di coesistenza tra lesioni di diverso tipo, non solo benigne e maligne ma anche tumorali e non tumorali (Fig. 2.33).
La sede delle lesioni parenchimali rappresenta un altro aspetto significativo: bisogna distinguere tra lesioni intraparenchimali, periferiche (o sottocapsulari) e capsulari (eventualmente anche esofitiche o peduncolate), valutando anche una posizione particolare, ad esempio contigua ad un vaso, ad un dotto oppure all’ilo di un organo. Per il fegato viene seguita chiaramente l’anatomia segmentaria ma è importante, in fase di refertazione, riportare anche qualche riferimento di tipo anatomico. Nel caso di lesioni particolarmente voluminose risulta talora problematico identificare la sede di origine, a causa del coinvolgimento di più strutture e della difficoltà conseguente nel definire quella di partenza (es. tumori colecistici infiltranti il parenchima adiacente vs. tumori epatici infiltranti la colecisti). Deve essere considerato l’orientamento della lesione rispetto alla superficie cutanea, e quindi al trasduttore: sia nei tumori mammari, che in quelli tiroidei, che in quelli dei tessuti molli si è infatti notato che le forme benigne tendono ad avere il loro asse maggiore parallelo al piano cutaneo, e quindi al piano di appoggio della sonda, mentre le lesioni maligne hanno un diametro maggiore perpendicolare alla cute (orientamento antiparallelo). È anche importante determinare la deformabilità o meno delle lesioni superficiali con la compressione attuata dalla sonda: una comprimibilità può infatti orientare per una lesione benigna mentre le lesioni maligne sono meno comprimibili (come è noto, sono infatti dure ed anelastiche anche alla palpazione); una mobilità rispetto alle strutture anatomiche circostanti può suggerirne l’assenza di infiltrazione. Talora variazioni di compressione possono permettere l’identificazione di lesioni superficiali isoecogene, che vengono
Capitolo 2 Metodologia d’esame e semeiotica elementare riconosciute perché diversamente comprimibili rispetto ai tessuti circostanti (Fig. 2.34); lo stesso risultato può essere ottenuto testando con l’elastografia un’area con una lesione focale di dubbia presenza. La compressione con la sonda consente di definire, almeno per le formazioni superficiali, la consistenza più o meno dura ed anche la dolorabilità, elementi talora utili ai fini diagnostico-differenziali; nel caso delle lesioni tumorali, il dolore può essere dovuto alla crescita rapida, all’infiltrazione di strutture anatomiche sensibili al dolore e/o alla compressione di strutture contigue. Lo scorrimento della sonda sulla cute può inoltre consentire di percepire una maggiore consistenza o un vero e proprio “scatto”, utili talora per identificare formazioni di non immediato riconoscimento. La transizione rispetto al parenchima sano circostante può essere netta oppure mediata da un alone, ipoecogeno (es. fegato) o iperecogeno (es. mammella), più o meno sottile, che appunto si interpone tra la lesione ed il parenchima e che può avere diverso significato: capsula lesionale, parenchima adiacente compresso dalla crescita espansiva, reazione desmoplastica o flogistica tissutale. Un alone ipoecogeno periferico può essere espressione di edema compressivo perifocale, vasi perilesionali, quota tumorale a crescita attiva [Vedovelli et al. 2006]. In sede tiroidea esso è riconoscibile sia nelle lesioni maligne che in quelle benigne ma viene riscontrato soprattutto in queste ultime ed anzi, una sua integrità, con aspetto continuo ed uniforme, è considerata un elemento rassicurante (alone “di sicurezza”) (Fig. 2.35). A livello epatico, invece, un alone ipoecogeno periferico a lesioni iso- o iperecogene è stato inizialmente considerato un segno di malignità ed anche di particolare aggressività, come conseguenza dell’atrofia compressiva degli epatociti
Fig. 2.35. Nodulo tiroideo benigno. Formazione iso-iperecogena, omogenea, delimitata da alone ipoecogeno periferico, circonferenziale e uniforme. Discreta vascolarizzazione, specie perinodulare ed intranodulare periferica, al PD direzionale
Fig. 2.34. Carcinoma duttale infiltrante, valore della compressione. L’applicazione mirata con il trasduttore consente di meglio cogliere l’aspetto nodulare dell’area ipoecogena mal delimitata
Fig. 2.36. Metastasi epatiche da carcinoma polmonare. Lesioni sostanzialmente isoecogene, riconoscibili soprattutto grazie alla presenza di un sottile alone ipoecogeno periferico (frecce)
normali adiacenti alla lesione con persistenza dei soli sinusoidi responsabili dell’ipoecogenicità. In realtà questo reperto può essere rilevato nell’HCC, nelle metastasi e nel colangiocarcinoma ma talora anche in lesioni benigne quali angiomi, adenomi, FNH, foci di ematopoiesi extramidollare intraepatica e microascessi fungini. Probabilmente quest’alone è dovuto sia all’edema compressivo che alla stessa crescita tumorale; in ogni caso esso deve essere incluso nella misurazione delle dimensioni lesionali (Fig. 2.36). Un orletto iperecogeno è invece spesso indicatore di benignità: esso viene riscontrato a livello epatico in caso di angiomi atipici ma anche di FNH, granulomi o splenosi
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[Moody et al. 1993] (Fig. 2.37). Esso viene anche rilevato nei noduli iperplasici ed adenomatosi delle paratiroidi e nei fibroadenomi mammari. Il tipo di crescita delle lesioni tumorali può essere espansivo, con una formazione ben riconoscibile e misurabile, di forma nel complesso regolare, che determina un effetto massa sulle strutture viciniori. In questo caso si rilevano segni indiretti quali la dislocazione/compressione di vasi, dotti o altre strutture anatomiche oppure la deformità focale del profilo in un organo, il quale mostra di conseguenza una bozzatura della sua superficie o una lesione che protrude francamente, sviluppandosi in maniera esofitica (es. HCC) e talora anche peduncolata (es. FNH epatica). In alternativa la crescita può essere infiltrativa, con un tessuto eteroplasico mal delimitato, che tende a conglobare più che a dislocare le strutture circostanti, quali ad esempio i vasi, e che deforma l’organo in maniera più ampia, senza una bozzatura focale ma talora con un ingrandimento diffuso (es. linfoma renale). Il diffuso sovvertimento strutturale dell’organo, se di lieve entità, può essere misconosciuto. All’opposto di quanto avviene per le lesioni espansive, quelle infiltranti possono comportare una retrazione della superficie dell’organo. Ad esempio la retrazione capsulare epatica, con un suo aspetto concavo o francamente “ombelicato”, si può verificare in una serie di circostanze, su base atrofica, fibrotica o cicatriziale (metastasi, HCC, colangiocarcinoma, emangioendotelioma epitelioide, grossi angiomi cavernosi, esito ablativo percutaneo, fibrosi epatica confluente, esiti traumatici o ischemici, ostruzione biliare cronica segmentaria, ecc.), ma si riscontra soprattutto nel caso di lesioni maligne, con relativa specificità [Blachar et al. 2002] (Fig. 2.38). Le modifiche sui tessuti circostanti sono varie: compressione, distorsione, ischemia (anche da infiltrazione o compressione dei vasi afferenti), dilatazione di dotti (come quelli galattofori o quelli biliari). Le lesioni che tendono a crescere senza sviluppare setti fibrosi, come quelle linfomatose, conglobano i vasi adiacenti anziché infiltrarli, come fanno invece le lesioni con ampia componente stromale. La presenza di vasi normali intralesionali, che attraversano l’area in questione suggerisce una natura benigna oppure maligna con crescita infiltrativa particolarmente rapida; in quest’ultimo caso tuttavia è più facile che il vaso mostri segni di stenosi o trombosi luminale. Caratteristica dei tumori maligni o dell’infiltrazione di strutture contigue da parte di questi è la fissità rispetto a strutture che normalmente mostrano dei movimenti: si pensi alla solidarizzazione negli atti respiratori dei tumori polmonari rispetto alla parete toracica infiltrata o all’assenza di movimento dei tumori cervicali infiltranti rispetto agli atti deglutitori.
Fig. 2.37. Metastasi epatiche da melanoma. Evidenza di tre noduli ipoecogeni, vagamente a bersaglio per maggiore ecogenicità centrale, delimitati da un accennato orletto iperecogeno
Fig. 2.38. Metastasi epatica da carcinoma mammario, retrazione capsulare. Lesione ipoecogena disomogenea, determinante un aspetto localmente concavo e retratto della superficie posteriore del lobo epatico destro
2.3. Doppler spettrale. Metodologia d’esame Il duplex Doppler è basato sulla combinazione di immagini B-mode di guida, sulle quali è possibile posizionare un cursore e ottenere un tracciato velocimetrico pulsato. Dalla variazione del segnale Doppler (Doppler shift) è possibile dedurre la velocità e la direzione del segnale in movimento e segnatamente del sangue nei vasi [Middleton 1998]. Lo spettro Doppler descrive graficamente le velocità del flusso (in termini di frequenza e distribuzione), in un dato punto (volume campione) ed in un determinato momento, riportandole su di un sistema cartesiano ove la velocità è posta sulle ordinate ed il
Capitolo 2 Metodologia d’esame e semeiotica elementare tempo sulle ascisse. Per convenzione, i valori di flusso negativi, in allontanamento, vengono posti al di sotto di una linea, detta linea base, e quelli positivi, in avvicinamento, al di sopra di questa; peraltro questa rappresentazione può essere invertita dall’operatore. La posizione della linea base può essere modificata, generalmente spostandola verso la parte bassa del riquadro a disposizione e riducendo la PRF sino a dare allo spettro flussimetrico il massimo spazio disponibile (senza chiaramente arrivare all’artefatto di aliasing, per il quale le velocità massime e cioè i picchi sistolici, vengono “mozzati” e riportati nella parte bassa del riquadro, al di sotto della linea base). Il volume campione ha un’ampiezza modificabile, di solito adattata ad occupare il 50-75% del diametro vasale a disposizione, ricordando che un campionamento troppo ampio può risentire degli effetti di pulsatilità parietale (arterie) e che un campionamento troppo centrale può registrare soprattutto le velocità più elevate, a discapito del generale profilo di flusso del vaso in questione. La linea utilizzata per il posizionamento del volume campione ha anche la possibilità di modificare l’angolo di campionamento tra fascio incidente e direzione del flusso (angolo θ), che deve essere selezionato tra 30° e 60°, compatibilmente con la necessità di posizionamento, orientato approssimativamente secondo l’asse longitudinale del vaso [Siani et al. 1999]. Il cine loop permette di rivedere tutti i cicli sisto-diastolici acquisiti a partire dall’ultimo “scongelamento” dell’immagine e di quantificare i dati di flusso su quelli più “puliti”. È chiaro, in ogni modo, che per i piccoli vasi longitudinali le accortezze dianzi illustrate sono solo in parte applicabili, pur dovendosi sempre tendere a raggiungerle: l’ampiezza del volume campione verrà ridotta al minimo possibile (di solito, 1 mm), il guadagno verrà aumentato sino anche a raggiungere la soglia degli artefatti (di modo da non perdere i flussi minori), la PRF verrà ridotta sin quanto possibile e l’angolo θ verrà posto al di sotto di 60° [Siani et al. 1999, Ying et al. 2003].
2.4. Doppler spettrale. Semeiotica elementare Dallo spettro del Doppler pulsato è possibile ottenere una serie di informazioni. Innanzitutto, un’assenza di segnale indica, se il campionamento è stato eseguito in maniera corretta, un’assenza di flusso. In presenza di flusso, poi, l’apparecchio è in grado di indicare automaticamente il valore della massima velocità registrata (velocità di picco sistolico, Vmax) la velocità media (Vm, indicata, a secondo della macchina, come media delle velocità massime o come effettivo valore medio tra tutte le velocità riscontrate) e la velocità diastolica (o telediastolica, che definisce il
valore minimo di un flusso, Vmin). Inoltre, è possibile ottenere automaticamente il valore di due indici semiquantitativi, l’indice di resistenza (IR, dato da Vmax - Vmin: Vmax, e che può oscillare tra 0 e 1) e l’indice di pulsatilità (IP, dato da Vmax - Vmin: Vm, e che può variare da 1 a 2), che sono degli indicatori di massima dell’impedenza al flusso a valle del punto di campionamento [Garagnani et al. 2003, Siani et al. 1999]. In condizioni normali il tono vasomotorio della muscolatura arteriolare è il maggior responsabile dell’impedenza al flusso mentre, nelle neoplasie, la scarsità di muscolatura vasale determina di solito dei flussi a bassa impedenza, sebbene il solo impiego degli indici semiquantitativi riesce a discriminare piuttosto di rado, e per valori estremi, il tessuto benigno e quello maligno, come sarà discusso più avanti [Taylor 1995]. È bene inoltre considerare come gli indici semiquantitativi siano influenzati da diversi fattori: pressione intravascolare, resistenze vascolari periferiche, compliance della parete vasale, area di sezione trasversa del vaso. Valori bassi di questi indici suggeriscono un flusso a bassa impedenza, laddove valori elevati indicano un’alta impedenza, anche se l’assunto che l’IR rifletta effettivamente le variazioni della resistenza nel letto vascolare a valle del punto di campionamento è controversa [Grenier et al. 2001, Hata et al. 2002]. Sicuramente ottenere un buon tracciato flussimetrico, pulito e con valida rappresentazione di almeno tre cicli sisto-diastolici (tra i quali fare una media), può risultare difficoltoso per piccoli vasi quali quelli all’interno di una lesione, ad esempio tiroidea, mammaria o linfonodale (sebbene i valori di IR e IP prescindano dall’angolo di incidenza del fascio ultrasonoro, rispetto al quale, chiaramente, un piccolo vaso intralesionale ha una disposizione molto variabile) [Ying et al. 2003]. In particolare, per flussi particolarmente lenti, con velocità sistoliche <10 cm/s, risulta alquanto difficoltoso ottenere degli indici semiquantitativi affidabili. I parametri di flusso Doppler vanno inoltre misurati su più vasi lesionali (scelti arbitrariamente dall’operatore, anche se è chiaro che questi tenderà a campionare i vasi che offrono un segnale ECD particolarmente “brillante”, più prominente rispetto agli altri), facendo poi la media dei valori ottenuti, anche se per alcune sedi, quali l’ovaio, si preferisce affidarsi per la diagnosi ad uno solo dei campionamenti registrati, in particolare quello che ha dimostrato i valori più “maligni” [Kaushik et al. 2003]. Anche sulla mammella, alcuni Autori [del Cura et al. 2005, Özdemir et al. 2001] considerano, in campionamenti multipli su più vasi, quello che ha dato i valori massimi di IR e IP. Nei tumori muscolo-scheletrici è stato utilizzato il rapporto tra il massimo ed il minimo valore di IR registrato, su almeno 5 vasi diversi [Bodner et al. 2002]. Alcuni lavori si sono soffermati
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sulla sola velocità di piccolo sistolico che, con soglia di 25 cm/s, offre una sensibilità del 72% e una specificità dell’88% nella diagnosi di malignità dei noduli parotidei [Schick et al. 1998] e, con soglia di 16 cm/s, una sensibilità dell’83% e una specificità del 92% nella diagnosi di malignità delle masse annessiali con TVUS [Hata et al. 1995]. Infine, esiste anche la possibilità di basarsi sulla Vmin ai fini diagnostico-differenziali: in uno studio si otteneva ad esempio un valore predittivo positivo per metastasi del 100% con velocità telediastoliche <1 cm/s a livello dei linfonodi cervicali [Brniç et al. 2003]. Dopo i primi entusiasmi, i reperti offerti dai dati quantitativi spettrali e dagli indici semiquantitativi hanno fornito risultati controversi. Da un lato, si è riscontrata, nei diversi organi e strutture, la presenza di tumori maligni con diversi tipi di impedenza acustica: sia a basso IR, probabilmente in relazione allo scarso controllo vasomotorio del neocircolo ed alla presenza in esso di microfistole artero-venose, che ad alto IR, espressione verosimilmente dell’elevata pressione interstiziale, a sua volta dipendente dall’elevata permeabilità dei vasi neoformati. Inoltre, esiste il problema di stabilire dei valori soglia per discriminare benignità e malignità: un cut-off troppo rigido, tuttavia, aumenta la specificità ma a danno della sensibilità, laddove un cut-off meno rigoroso ha l’effetto opposto, riducendo la specificità della diagnosi differenziale. Suggeriscono la malignità la presenza di flussi sia arteriosi sia venosi, di flussi arteriosi ad elevata velocità di picco sistolico (seppur sempre nell’ambito dei flussi lenti!), di vasi con spettri di flusso significativamente diversi tra loro, di flussi turbolenti, di flussi poco modulati (subcontinui), l’obliterazione della finestra sistolica. In alcune sedi, come quella ovarica, valori elevati della velocità massima sembrano indicare non solo la malignità ma anche le forme di grado più elevato, correlandosi con la prognosi [Hata et al. 1995]. L’IR e l’IP possono essere modificati nel senso di un aumento o di una diminuzione, secondo soprattutto l’organo. Nei tumori dei tessuti molli vi è un’ampia sovrapposizione tra lesioni benigne e maligne, con IR appena più basso in queste ultime (0,62 in media, vs. 0,72 di quelle benigne) [Kaushik et al. 2003]. Analoghi risultati sono stati riportati da alcuni studi sui noduli mammari, con IR pari a 0,62 in media nelle lesioni benigne ed a 0,66 in quelle maligne [Özdemir et al. 2001]. In altre casistiche sono stati ottenuti risultati diversi, con valori di IR >0,99 e di IP >4 molto specifici per i carcinomi mammari [del Cura et al. 2005] (Fig. 2.39).
Fig. 2.39. Carcinoma ovarico, valutazione spettrale. La registrazione transaddominale del tracciato flussimetrico del vaso arterioso più evidente all’interno della quota solida della massa annessiale complex dimostra una Vmax di 18 cm/s, un IR di 0,71 e un IP di 1,74. L’angolo θ è orientato correttamente
2.5. Ecocolor-Doppler. Metodologia d’esame L’ecocolor-Doppler è costituito da mappe di colore (bicromatiche), sovrapposte alle immagini B-mode, nei punti in cui si registra un movimento e quindi, segnatamente, in corrispondenza del flusso vasale. L’intensità del colore rispetto alla scala di fondo identifica la velocità del flusso in ogni punto mentre la codifica di colore ne qualifica la direzione. Per convenzione, ai flussi in allontanamento dal trasduttore viene assegnato il colore blu ed a quelli in avvicinamento al trasduttore il colore rosso. Per triplex Doppler si intende il campionamento di un tracciato flussimetrico su di un’immagine ECD [Garagnani et al. 2003, Siani et al. 1999, Torzilli et al. 1997]. Uno dei limiti maggiori dell’eco-Doppler è quello della limitata sensibilità per i flussi lenti, fatto questo che contribuisce a limitare l’impiego delle tecniche Doppler nello studio dei parenchimi e delle loro focalità. Sebbene gli apparecchi attuali abbiamo ormai una buona sensibilità, è comunque particolarmente importante massimizzare la capacità del sistema nel rilevare i flussi parenchimali. A tale scopo è necessario agire su molteplici parametri [Middleton 1998]. Innanzitutto, è spesso preferibile utilizzare il powerDoppler (vedi dopo) in luogo del color-Doppler. Il primo, infatti, è più sensibile ai flussi lenti, ma bisogna ricordare che esso è anche più sensibile agli artefatti
Capitolo 2 Metodologia d’esame e semeiotica elementare
Fig. 2.40. Angioma cutaneo, valore della compressione. Formazione sottocutanea dell’avambraccio, ipoecogena, con flussi periferici venosi. Durante la compressione, la lesione si deforma ed i flussi si annullano
Fig. 2.41. Adenoma pleomorfo parotideo, valore della compressione. Immagine PD direzionale prima e dopo l’applicazione di pressione con la sonda, che annulla il flusso intranodulare
da movimento e che non offre informazioni sulla direzione del flusso (sebbene esista su alcuni apparecchi la possibilità di un power-Doppler direzionale). È necessario inoltre utilizzare la frequenza di ripetizione degli impulsi (PRF) più bassa possibile. La PRF indica il numero di impulsi sonori nell’unità di tempo e cioè con quale frequenza il nostro sistema interroga l’oggetto: per oggetti “lenti” è chiaro che le “domande” debbano essere altrettanto lente. Per i tessuti superficiali si utilizza una PRF di circa 750 Hz. Nell’addome, anche a causa degli artefatti da movimento, si impiegano valori della PRF di circa 1000-1300 Hz. La frequenza di emissione della sonda, indipendente da quella del B-mode e generalmente di valore inferiore a questa, dovrebbe essere adeguatamente ridotta per le strutture profonde ed adeguatamente aumentata per quelle superficiali. Il guadagno del colore (color gain), parametro indipendente dal guadagno del B-mode, viene incrementato sino alla comparsa di artefatti, con le tipiche immagini “a tempesta di neve colorata”, e poi ridotto subito al di sotto di tale soglia, al fine di massimizzare la sensibilità del colore ma di sopprimere al tempo stesso i segnali parassitari; generalmente ciò corrisponde ad una sensibilità in ricezione del 60% circa. Il filtro di parete o taglia-basso deve essere portato al minimo possibile e quindi alla massima sensibilità. Per i tessuti superficiali si utilizza il filtro più basso presente nell’apparecchio, in genere 50 Hz, mentre per i parenchimi addominali è in ogni caso ne-
cessaria una seppur minima filtrazione (circa 100 Hz), al fine di evitare eccessivi artefatti da movimento. Il box del colore viene ristretto a livello dell’area di interesse, senza escludere porzioni di questa ma soprattutto senza includere eccessivo sfondo tissutale, che può essere fonte di artefatti; inoltre un box eccessivamente ampio riduce la resa qualitativa in real time del sistema. La compressione attuata con la sonda applicata sulla cute deve essere ottimale, specie per le strutture superficiali: una compressione eccessiva può attenuare o anche eliminare i segnali vascolari, specie nelle lesioni benigne, e falsare quindi l’interpretazione delle immagini [Middleton 1998, Siani et al. 1999] (Figg. 2.40, 2.41). Analogamente all’analisi spettrale, la funzione di cine loop permette di rivedere tutti i frame acquisiti dall’ultimo “scongelamento” dell’immagine e di documentare quelli più espressivi della realtà vascolare in atto e meno degradati da artefatti. Una volta ottenuta una mappa angioarchitettonica dell’area in esame, con questi parametri ottimizzati per massimizzare la sensibilità del sistema ai flussi lenti, è poi possibile impiegare la guida del colore per ottenere degli spettri flussimetrici e quindi dei dati quantitativi e semiquantitativi dello spettro. È chiaro che per fare ciò il setting dell’apparecchio viene modificato, soprattutto mediante un aumento della PRF, poiché vengono ricercati i vasi a flussi maggiori, sui quali posizionare il cursore del volume campione per il Doppler spettrale.
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2.6. Power-Doppler. Metodologia d’esame La modalità power-Doppler (PD) o color-Doppler energy è costituita da mappe monocromatiche, sovrapposte alle immagini B-mode, nei punti in cui si registra un movimento e quindi, segnatamente, in corrispondenza del flusso vasale. La visualizzazione del flusso si basa sulla radice dell’ampiezza (il power appunto) del segnale Doppler. A differenza del colorDoppler, quindi, il power-Doppler non si basa sulla velocità del flusso ma solo sulla sua intensità (ampiezza del segnale di Doppler shift), quale indicatore del numero di globuli rossi che scorrono in un vaso, e risulta più indipendente dall’angolo d’incidenza tra fascio e vaso e più sensibile ai flussi lenti. L’intensità del colore rispetto alla scala di fondo identifica l’intensità del flusso, senza informazioni sulla velocità del flusso stesso e senza la codifica di direzione che caratterizza il color-Doppler (anche se esistono modalità di PD direzionale) [Garagnani et al. 2003, Siani et al. 1999]. Non vi è il fenomeno dell’aliasing e vi è una minore dipendenza dall’angolo d’incidenza degli ultrasuoni rispetto al color-Doppler [Kubota et al. 2000]. Inoltre il guadagno può essere aumentato senza il “rumore” che riempie invece l’immagine color-Doppler ottenuta con un gain troppo elevato. La macroangioarchitettura tumorale viene validamente dimostrata con il power-Doppler in 3D, che consente di cogliere in maniera ottimale la distribuzione vasale, le variazioni del calibro vasale, le tortuosità e le modalità di suddivisione dei vasi stessi. Il PD è quindi caratterizzato da una maggiore sensibilità ai flussi vascolari, specie se lenti. Tuttavia ci sono alcune importanti limitazioni. Come prima cosa, la suscettibilità agli artefatti da movimento (battito cardiaco, pulsatilità vascolare, peristalsi intestinale, movimenti respiratori del paziente, movimento tissutale) è maggiore che nell’ECD e ciò limita soprattutto le applicazioni addominali, per la presenza di flash di colore parassitario che ostacola la definizione dei flussi reali, come ad esempio nelle lesioni del lobo epatico sinistro [Kubota et al. 2000]. Inoltre, la capacità di rilevare segnale in profondità, che già nell’ECD è minore che nel B-mode, risulta ancora inferiore per il PD. Nel fegato, ad esempio, il PD risulta più sensibile dell’ECD nel riconoscere segnali intralesionali provenienti da noduli superficiali o intermedi ma non per segnali da lesioni profonde e ciò risulta particolarmente evidente nel caso di condizioni, quali la steatosi o la cirrosi, che aumentano l’attenuazione del fascio [Kubota et al. 2000] (Fig. 2.42). Bisogna anche ricordare che il PD comporta una minor risoluzione temporale rispetto all’ECD e che quindi visualizza con minor immediatezza la pulsatilità vasale; inoltre,
Fig. 2.42. Epatocarcinoma. Voluminosa lesione ecogena disomogenea del lobo epatico destro, con modici segnali vascolari periferici al PD direzionale nella sua porzione più superficiale. Gli scarsi segnali di flusso provenienti dalla parte profonda della massa sono da imputare alla mancata penetrazione del segnale
non dimostrando l’artefatto di aliasing, può talora fungere meno bene per la ricerca dei flussi da campionare per l’analisi spettrale [Schroeder et al. 2003]. Una delle possibilità per attenuare alcuni dei limiti di sensibilità dell’ECD e del PD è dato dall’impiego dei mdc ecografici, che aumentano l’intensità del segnale e risultano particolarmente utili per l’identificazione dei flussi lenti (Figg. 2.43, 2.44). Tuttavia, i mdc aumentano anche gli artefatti collegati alle tecniche Doppler ed in particolare quelli da sovramplificazione. Per evitare questo artefatto di blooming è necessaria una lenta somministrazione del mdc, rinunziando così ad uno studio dinamico del momento più importante e cioè di quello dell’arrivo del mdc stesso. Comunque, anche se attualmente l’impiego dei mdc è legato soprattutto alla CEUS, può essere spesso utile eseguire in fase tardiva, allorquando l’effetto sovramplificante del mdc si è attenuato, uno studio Doppler dell’area interesse. Dal punto di vista ECD si ha con l’impiego di un mdc la possibilità di utilizzare un frame rate più alto, poiché sono sufficienti, a parità di sensibilità, un minor numero di impulsi per linea di scansione rispetto a quanto non avvenga in basale. In alternativa si può sfruttare una frequenza di emissione del trasduttore più elevata, aumentando quindi la risoluzione tra esame con mdc ed esame basale. Ancora oggi quindi, i mdc possono essere impiegati per “salvare” un esame color-Doppler non diagnostico, ma quest’indicazione diviene sempre più limitata rispetto a quella di enhancement in scala dei grigi [Quaia 2005].
Capitolo 2 Metodologia d’esame e semeiotica elementare
a
b
Fig. 2.43a, b. Epatocarcinoma, prima (a) e dopo (b) iniezione di mdc. Lo studio ECD basale non dimostra segnali di flusso, laddove quello con mdc riesce ad evidenziare un’arteriola afferente ed alcuni vasi arteriosi intranodulari
a
c
b
Fig. 2.44a–c. Adenoma pleomorfo parotideo. Nodulo ipoecogeno relativamente omogeneo, ben delimitato (a). Lo studio ECD con mdc e.v. (b, c) dimostra un’intensa vascolarizzazione intranodulare, arteriosa, pulsante (differenza tra sistole e diastole)
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2.7. Ecocolor-Doppler e power-Doppler. Semeiotica elementare Le tecniche Doppler consentono di ottenere, entro alcuni limiti, una valida rappresentazione angioarchitettonica dei tessuti e delle loro alterazioni (Video 2.4). La vascolarizzazione di una lesione può essere assente (avascolarità, quantomeno nei limiti risolutivi della metodica) o presente ed in quest’ultimo caso può essere arteriosa, venosa o mista (eventualmente con prevalenza arteriosa o venosa). I vasi arteriosi e venosi possono già essere discriminati alla valutazione colore, essendo i primi pulsanti ed i secondi continui, cosa che viene colta con particolare immediatezza dall’ECD rispetto al PD, ma è chiaro che la conferma viene dall’analisi flussimetrica spettrale (ricordando peraltro che flussi arteriosi a bassissima resistenza possono simulare un flusso venoso). Essa può distribuirsi prevalentemente a livello perilesionale o intralesionale ed in quest’ultimo caso può risultare periferica, centrale o diffusa; in generale la presenza di segnali intralesionali, specie se centrali o diffusi, può suggerire una malignità, mentre vasi prevalentemente perilesionali o intralesionali periferici sono più tipici delle lesioni benigne. La presenza di vasi perinodulari può permettere di meglio evidenziare una lesione di per sé poco riconoscibile, ad esempio perché isoecogena (Fig. 2.45). L’afferenza può essere di tipo peduncolare, con un polo vascolare dal quale poi emergono progressivamente i vari rami intralesionali, oppure di tipo periferico (capsulare), con multipli piccoli rami che penetrano in più punti all’interno del nodulo: se in un nodulo di una ghiandola salivare una
Fig. 2.45. Nodulo tiroideo benigno, valore dell’ECD per l’identificazione. Lo studio US permette di cogliere con difficoltà la nodulazione tenuemente iperecogena, che viene invece messa bene in evidenza dal flusso perinodulare ed intranodulare periferico dimostrato con il PD direzionale
vascolarizzazione periferica orienta verso la benignità, in una linfadenopatia metastatica è caratteristica la presenza di multiple afferenze vascolari a penetrazione dalla capsula. I poli vascolari possono anche essere multipli, specie nelle lesioni maligne. I vasi interni alla lesione, quando adeguatamente riconoscibili, possono avere una distribuzione omogenea oppure irregolare ed anarchica, con aree di maggiore ed aree di minore vascolarizzazione. In alcuni casi i vasi attraversano indisturbati, cioè senza segni di “effetto massa”, una determinata area di alterata ecogenicità e ciò, insieme all’assenza di un’ipervascolarizzazione lesionale, suggerisce la benignità del reperto, come avviene ad esempio nelle aree di steatosi focale o nelle aree indenni da infiltrazione grassa del fegato [Taylor 1995]. In genere, maggiore è la vascolarizzazione di una lesione e più alte sono le probabilità che questa sia maligna (anche se esistono eccezioni ben note, come ad esempio l’iperplasia nodulare focale epatica o le linfadeniti superficiali) (Figg. 2.46, 2.47). Da questo punto di vista, le tecniche Doppler hanno avuto un’evoluzione applicativa assolutamente particolare: con le prime generazioni di ecografi dotati di funzioni ECD, il riscontro di flussi intralesionali non era frequentissimo e pertanto poteva essere considerato di per sé sospetto di malignità o comunque tale da imporre un ulteriore approfondimento: poteva essere cioè importante per suggerire la malignità di un nodulo tiroideo o mammario, oppure per sospettare la natura metastatica di una linfadenopatia superficiale. In realtà, con gli apparecchi attuali, la sensibilità per i flussi lenti è notevolmente aumentata e quindi la maggior parte delle lesioni solide dimostra dei segnali co-
Fig. 2.46. Nodulo adenomatoso della tiroide. Intensa e diffusa ipervascolarizzazione del nodulo al PD direzionale, in confronto con il parenchima circostante
Capitolo 2 Metodologia d’esame e semeiotica elementare
Fig. 2.47. Carcinoma duttale infiltrante ipovascolare. Lesione francamente tumorale, ipoecogena disomogenea, lobulata, a margini irregolari, con disposizione antiparallela ed attenuazione posteriore. Il nodulo tuttavia appare sostanzialmente privo di segnali vascolari
lore (come è giusto che sia!). Il discorso è quindi divenuto più complesso, essendosi spostato da una situazione “presente-assente” ad una situazione di analisi qualitativa e, possibilmente, quantitativa, più complessa. L’entità della vascolarizzazione lesionale deve essere riferita al contesto parenchimale: una lesione può essere iper-, iso- o ipovascolare, in relazione al parenchima adiacente e non in senso assoluto, e ciò anche quando esso sia alquanto vascolarizzato come ad esempio il parenchima tiroideo di un soggetto giovane. Una lesione, quindi, non è ipervascolare quando dimostra un discreto numero di segnali di flusso ma quando questi sono superiori per densità rispetto a quelli del normale tessuto perilesionale. In alternativa, una lesione può essere avascolare, quando risulta priva di qualsiasi minimo segnale di flusso. Il problema “storico” di questo tipo di valutazioni, tuttavia, è la soggettività diagnostica, per cui anche in ambito scientifico ci si basa spesso su scale di graduazione del reperto di limitata affidabilità pratica. Sistemi più quantitativi possono essere quelli, interni all’ecografo o su PC, che si basano sul conteggio dei pixel colorati. Ad esempio, è possibile definire con software commerciali un indice di vascolarità, ottenuto dalla differenza tra il numero totale di pixel ed il numero di pixel contenenti colore, diviso per il numero totale di pixel e moltiplicato per 100 [Wilson et al. 2006]. In alternativa, si può eliminare con tecniche di postprocessing lo sfondo in scala dei grigi di modo da isolare e quantificare il segnale colore [Epstein et al. 2002]. Un’altra possibilità è quella di creare delle curve di wash in e wash out, cioè delle curve costruite, nell’ambito di un’area campionata da una ROI, rappor-
tando l’andamento del segnale colore dopo iniezione di un mdc ecografico rispetto al tempo preso in considerazione [De Marchi et al. 2002]. Oltre all’ipervascolarità in sé, quale possibile espressione di neoangiogenesi, esistono altri aspetti dell’angioarchitettura nodulare da valutare, che possono orientare per la malignità: la presenza di vasi non solo perifocali ma anche intrafocali, la presenza di vasi centrali (riconoscibili solo al centro oppure penetranti, con decorso dalla periferia al centro), la presenza di multipli poli vascolari lontani tra loro, la presenza sia di vasi afferenti (arteriosi) che di vasi efferenti (venosi), la distribuzione irregolare dei vasi con zone poco vascolarizzate e zone molto vascolarizzate e caotiche, la coesistenza di vasi di calibro diverso tra loro (senza la suddivisione gerarchica dei vasi in rami sempre più piccoli), l’esistenza di vasi ampi (laghi vasali, generalmente venosi), le stenosi (aliasing!) e le brusche variazioni di calibro (“salti”), il decorso tortuoso ed angolato dei vasi (anziché delicatamente curvo e regolare), la presenza di vasi che sui due piani si vedono autoconnettersi circolarmente (auto loop), la presenza di vasi a fondo cieco e di aneurismi, la triforcazione (presenza di tre rami di divisione contemporanea da un unico vaso a monte), la diffusione dei vasi non dal polo vascolare al centro e poi ramificatamente alla periferia bensì dall’esterno alla periferia e poi al centro attraverso molteplici vasi afferenti, la presenza di un flusso bidirezionale o comunque variabile nel medesimo vaso con aspetto a mosaico (fistole artero-venose) [Bodner et al. 2002, Numata et al. 1997, Özdemir et al. 2001]. Sicuramente, molte delle caratteristiche appena descritte sono riconoscibili nelle lesioni di adeguate dimensioni, >10-15 mm, laddove esistono magari anche altri criteri morfostrutturali che possono far sospettare la malignità; per le lesioni subcentimetriche, la possibilità di riconoscere elementi ECD di sospetto è minore. Anche nelle lesioni totalmente o prevalentemente necrotiche, pur se maligne, l’ECD non può fornire significative informazioni addizionali e può anche risultare fuorviante. Bisogna inoltre segnalare che le tecniche Doppler, anche quando combinate all’imaging armonico, non sono in grado di cogliere presenza e caratteristiche del vero e proprio microcircolo lesionale e che la loro semeiotica si ferma all’analisi macroangioarchitettonica. Il ruolo maggiore del color-Doppler è di fornire ulteriori informazioni per la caratterizzazione ecografica delle lesioni focali. Tuttavia, esso può in qualche modo essere di ausilio anche nella fase di identificazione delle lesioni, e specie di quelle ipoecogene o anecogene: la contiguità con i vasi “opacizzati” dal segnale colore ne può agevolare infatti l’identificazione e la distinzione dalle immagini vascolari stesse. Inoltre, lesioni che abbiano una vascolarizzazione significa-
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tivamente maggiore o minore del parenchima circostante possono essere messe in evidenza proprio per il contrasto con il segnale colore del parenchima circostante [Jeffrey et al. 1995]. Ciò è valido chiaramente per il fegato, ma anche per altri parenchimi come la tiroide: a volte una formazione nodulare isoecogena o comunque poco distinguibile dallo sfondo parenchimale (eventualmente disomogeneo) può essere confermata proprio mediante il color-Doppler, che dimostra i vasi perinodulari ed intranodulari periferici rendendo così più evidente la lesione stessa. L’ipervascolarizzazione può inoltre avere un significato prognostico per la neoplasia, predicendone un grado più alto o una maggiore probabilità di impegno linfonodale e metastatico, sebbene non tutti gli studi confermino quest’aspetto. In uno studio, ad esempio, si è registrata una sopravvivenza nettamente superiore per le donne con carcinoma mammario con Vmax di flusso interna <25 cm/s all’analisi spettrale, rispetto a quelle con più elevate velocità di flusso intralesionale [Peters-Engl et al. 1999]. Un’evidente disorganizzazione angioarchitettonica si correla con un elevato grado di anaplasia lesionale [Schroeder et al. 2003, Taylor 1995]. In alcuni casi il tipo di vascolarizzazione può essere sfruttato non solo per la distinzione benigno-maligno ma anche per la caratterizzazione dei diversi tipi di lesione. A livello epatico, in particolare, sono stati descritti alcuni pattern che, pur non essendo specifici per nessuna lesione, possono comunque costituire un elemento addizionale di analisi (cfr. anche paragrafi 3.19 e 3.20): il pattern di dislocazione (detouring), rilevato soprattutto nelle metastasi, è caratterizzato dalla dislocazione di un vaso da parte della crescita lesionale per cui questo mostra un decorso semilunare; la disposizione a ruota di carro è tipica soprattutto della FNH e si caratterizza per la presenza di un’arteria centrale dalla quale si irradiano dei rami arteriosi diretti alla periferica; il pattern “a canestro”, riscontrato soprattutto nell’HCC, è contraddistinto da un vaso afferente ipertrofico che poi, giunto ad un polo del nodulo, si sfiocca in una serie di rami peried intralesionali; la presenza di rami arteriosi all’interno della lesione (pattern di “vasi intratumorali”), sottoforma appunto di segnali puntiformi o brevilinei, è aspecifico ma rilevato soprattutto negli HCC [Tanaka et al. 1990] (Fig. 2.48). In definitiva, la valutazione ECD può costituire un utile strumento di caratterizzazione per l’ecografista, raramente discriminativa di per sé ma in grado di aumentare la confidenza diagnostica sia nella diagnosi di benignità che di malignità: dinanzi ad un aspetto “benigno” di un nodulo, ad esempio, la presenza di una vascolarizzazione anomala deve indurre ad ulteriori approfondimenti.
Fig. 2.48. Principali pattern ECD delle lesioni focali epatiche. È possibile riconoscere dei vasi prevalentemente periferici (metastasi ma anche HCC ed eventualmente angiomi), una dislocazione vasale (metastasi ma anche lesioni benigne a crescita espansiva), dei vasi intratumorali (HCC e metastasi - FNH se con disposizione centrale e ramificata a ruota di carro), degli spot isolati di flusso (HCC e metastasi), una vascolarizzazione a canestro, uni- o bipolare (HCC)
Capitolo 2 Metodologia d’esame e semeiotica elementare
Fig. 2.49. Fibroadenoma mammario, artefatto da luccichio. La piccola calcificazione intranodulare produce un segnale colore che simula la presenza di flusso all’ECD
False immagini di flusso possono essere dovute a diverse cause, sia inerenti il settaggio dell’apparecchio sia la possibile presenza di artefatti intrinseci alla metodica Doppler, pur se in qualche modo attenuabili con un’adeguata regolazione dell’ecografo stesso. Pseudoflussi possono essere riscontrati come conseguenza di una sovramplificazione del segnale Doppler, di strutture contigue in movimento (pulsatilità cardiovascolare, cinetica respiratoria, peristalsi intestinale), di una priorità del colore codificata ad un livello eccessivamente basso (comparsa di segnali all’interno di versamenti o formazioni cistiche), di fenomeni di vibrazione (tessuti circostanti stenosi o fistole arterovenose), di un artefatto a specchio (a livello di vasi, come le arterie intercostali o succlavie, contigui ad interfacce fortemente riflettenti come il polmone areato o anche quando il fascio incide il vaso in questione ortogonalmente), di un artefatto a coda di cometa o da luccichio (a livello di calcificazioni) [Madrazo et al. 2000] (Fig. 2.49).
2.8. Ecocontrastografia. Metodologia d’esame I mdc per US sono sostanze in grado di modificare l’impedenza acustica dei tessuti corporei in cui vengono a trovarsi e quindi di determinare un cambiamento della loro modalità di riflessione dell’impulso ultrasonoro, che è incrementata di 20-30 dB; poiché la riflessività ultrasonora dei globuli rossi del sangue circolante è molto bassa, sono sufficienti piccoli volumi di microbolle (pochi ml) per aumentare notevolmente il segnale proveniente dai tessuti. L’aspetto singolare dei mdc ecografici è che essi vengono modificati dal processo - gli ultrasuoni - utilizzato proprio per studiarli. Inoltre, i differenti mdc, già diversi sul piano chimico, presentano una differente farmacocinetica
ed un diverso comportamento rispetto agli ultrasuoni (in termini di ecogenicità, durata dell’effetto e così via). Essi hanno differenti soglie di risonanza e di distruzione delle microbolle per i differenti valori di Indice Meccanico (IM). I mdc US sono quindi ben più diversi tra loro rispetto a quanto non avvenga per i mdc iodati radiologici, ed è quindi verosimile che possano avere una resa differente in caso di accoppiamento a questo o a quel sistema ecocontrastografico o nei diversi ambiti applicativi. In generale, una microbolla, data la sua elevata compliance, si contrae quando la pressione esterna aumenta (per effetto del fascio ultrasonoro) e si espande quando questa poi diminuisce. Nel far ciò, tuttavia, la microbolla emette una eco sonora. È appunto sulla discriminazione di questa eco rispetto a quelle tissutali ordinarie che si basa la CEUS [Bartolozzi et al. 2001, Harvey et al. 2001]. Il primo mdc commercializzato in Italia è stato il Levovist, utilizzato soprattutto come intensificatore del segnale color e power-Doppler. Tuttavia, anche a causa del rapido aumento della sensibilità dei sistemi Doppler, questa strada si è rapidamente esaurita. I mdc come il Levovist vengono definiti di I generazione, essendo caratterizzati da un contenuto aereo delle microbolle. Essi pertanto hanno una significativa fragilità ed il loro effetto contrastografico può essere sfruttato solo per un numero limitato di acquisizioni. I primi sistemi per CEUS in scala dei grigi ad essere sviluppati, infatti, sono stati quelli intermittenti, ad elevata intensità del fascio ultrasonoro (IM >0,2). Con questi sistemi, detti anche “distruttivi” o “statici”, il fascio ultrasonoro determina appunto la rottura delle microbolle e ne rileva, in vario modo, il segnale emesso. Le microbolle di mdc hanno una debole risposta armonica e quindi per ottenere un segnale contrastografico è necessario il “sacrificio” delle microbolle stesse. Con l’avvento dei mdc di II generazione come il SonoVue, contenenti gas diversi dall’aria (bassa solubilità ed elevata stabilità), è stato possibile impiegare sistemi CEUS continui, in cui cioè l’acquisizione avviene in real time. Con questi sistemi a basso indice meccanico (IM <0,2) i mdc di I generazione non subiscono effetti sostanziali mentre quelli di II generazione “risuonano”, emettendo una risposta non lineare, senza andare incontro a rottura (sistemi conservativi) e quindi senza essere “consumati” dall’azione del fascio ultrasonoro indagante. Nella risposta non lineare l’espansione della microbolla insonata è molto maggiore della contrazione e quindi, quando il segnale riflesso viene analizzato nel dominio delle frequenze, esso contiene, oltre alla componente della frequenza trasmessa (fondamentale), anche delle componenti di frequenza multipla (armoniche). Esiste la fortunata coincidenza che la frequenza di risonanza delle microbolle è nell’ambito delle frequenze utilizzate nella pratica clinica (2-13 MHz); in particolare il SonoVue ri-
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suona a 2-3 MHz, cosa che ne consente l’impiego diagnostico, specie a livello addominale (frequenze di studio di 3,5-5 MHz). L’effetto massimale delle microbolle è al primo passaggio nella grande circolazione, ma esse sono comunque in grado di ricircolare, con un effetto di opacizzazione utile ai fini diagnostici e che dura per vari minuti [Bokor et al. 2006]. Il SonoVue è costituito da microbolle contenenti un gas idrofobico, stabile e inerte, l’esafluoruro di zolfo (SF6). Queste sono stabilizzate da un sottile guscio fosfolipidico, costituito da un singolo strato con la parte idrofilica rivolta verso il sangue e quella idrofobica verso l’SF6. Il guscio è elastico ma flessibile, tale da consentire alla microbolla cambiamenti di forma e dimensioni sotto l’effetto degli ultrasuoni oppure nel passaggio attraverso i capillari (comportamento analogo a quello dei globuli rossi). Reazioni avverse possono essere chiaramente legate a uno qualsiasi dei componenti del prodotto, sebbene i mdc ecografici abbiano un ottimo profilo di tolleranza, senza tossicità epatica, renale o cerebrale [Correas et al. 2001]. In uno studio su 28 centri non si rilevavano casi di decesso correlato al SonoVue e venivano individuate reazioni avverse in 29 casi su 23.188, di cui solo 4 tali da richiedere un trattamento e solo 2 di queste classificate come gravi (0,0086%) [Piscaglia et al. 2006]. Il SonoVue non andrebbe somministrato a bambini, donne in gravidanza o allattamento, e soggetti con allergia specifica. Controindicazioni mediche sono: shunt cardiaco destrosinistro, notevole aumento della pressione arteriosa polmonare, ipertensione non controllata, sindrome da distress respiratorio dell’adulto, infarto miocardico recente, gravi tachiaritmie non controllate. SonoVue si presenta come un liofilizzato biancastro, conservabile a temperatura ambiente, che viene ricostituito rapidamente con l’introduzione nel flacone di 5 ml di soluzione fisiologica. La soluzione che ne deriva, agitata manualmente per circa 20 s, è di 4,8 ml: questa è la dose per due o più iniezioni, anche se spesso è utilizzata in un unico volume. In caso di iniezione ripetuta è consigliabile attendere qualche minuto per evitare che gli effetti dell’iniezione precedente falsino quelli della successiva (certamente meno ortodossa sul piano protezionistico è la pratica di portarsi, con la sonda ad IM massimo, sulle camere cardiache o sull’aorta addominale, con il fine di provocare la rottura del maggior numero possibile di microbolle) [Bokor et al. 2006]. Una volta ricostituito, il SonoVue è stabile per almeno 6 ore a temperatura ambiente, all’interno del suo flacone, cosa che ne consente spesso la preparazione in anticipo rispetto all’impiego ed eventualmente il frazionamento del volume per più iniezioni nel singolo paziente o tra più pazienti; l’unica precauzione è quella di agitare il flacone subito prima dell’uso [Correas et al. 2001]. Per l’esecuzione dell’esame ecocontrastografico si procede all’incannulamento di una vena periferica
con agocannula da almeno 20 G. A questa viene applicato un rubinetto a tre vie, cui vengono a loro volta raccordati sia la siringa con il mdc che quella con una soluzione fisiologica. Quest’ultima, nel volume di 510 ml, viene utilizzata sia per evitare che parte del piccolo volume della soluzione di mdc resti all’interno dell’apparato iniettore sia per ottenere un flush che sospinga più rapidamente il mdc nel sistema venoso. Normalmente lo studio viene eseguito a bolo rapido, con iniezione dei pochi ml di mdc in 1-2 s, seguiti da un’immediata iniezione della soluzione fisiologica. Il 90% delle microbolle di SonoVue è di diametro <8 μm (media 2,5); ciò consente la diffusione sia transpolmonare, con passaggio nella grande circolazione, sia transinusoidale, con passaggio attraverso il fegato e ricircolo [Correas et al. 2001]. Essendo il volume molto piccolo, la circolazione è rapida, con la possibilità di cogliere adeguatamente reperti di perfusione arteriosa molto veloci (elevata risoluzione temporale). Dopo somministrazione a bolo la durata dell’effetto è di 5-7 minuti, mentre risulta più prolungato in caso di infusione lenta (ottenendosi un enhancement stabile con velocità di infusione >30 ml/h). L’SF6 diffonde lentamente al di fuori delle microbolle e viene eliminato per via respiratoria nei minuti seguenti l’esame, senza accumularsi nel corpo o interferire con i processi metabolici [Bokor et al. 2006]. La frequenza di risonanza media del SonoVue, che dipende come per tutti i mdc soprattutto dal diametro delle microbolle, è di 1,5-3 MHz, con seconda armonica media quindi tra 3,0 e 6,0 MHz. SonoVue è particolarmente maneggevole ed è anche meno sensibile dei mdc di I generazione al posizionamento della focalizzazione. Esso ha un’intensa risposta armonica, per una discreta gamma di pressioni acustiche e in maniera costante tra le varie frequenze ultrasonore, tale da consentire un significativo enhancement anche lavorando con pressione acustica bassa o ultrabassa. SonoVue sembra mancare tuttavia di una vera e propria fase tardiva post-vascolare. La maggioranza dei mdc sperimentati sinora è, totalmente o per buona parte, di tipo intravascolare (blood pool), cioè in grado di persistere nel sistema vascolare, ricircolando, senza diffondere nell’interstizio (a differenza dei mdc per TC e RM). Si è tuttavia visto che, tardivamente, sia il SonoVue che, soprattutto, il Levovist, hanno una fase parenchimale postvascolare, utile ai fini diagnostici. Sono inoltre allo studio mdc tessuto-specifici (epato-spleno-specifici), la cui eventuale commercializzazione potrebbe fornire ulteriori indicazioni alla CEUS [Forsberg et al. 1999]. A differenza dei tessuti, i mdc rispondono al fascio ultrasonoro in maniera dipendente dall’ampiezza dell’onda di pressione acustica. Con l’aumentare dell’energia degli ultrasuoni, e cioè del loro indice meccanico (IM), si ha, prima (<30 kPa, cioè IM <0,05), una risposta di riflessione lineare (fondamen-
Capitolo 2 Metodologia d’esame e semeiotica elementare tale), proporzionale a quella della frequenza incidente, con possibilità di immagini US convenzionali o, nel caso del color-Doppler, di immagini di segnale colore amplificate. Per energie maggiori (40-100 kPa, cioè IM di 0,06-0,2) si ha, se la frequenza degli ultrasuoni è analoga a quella di risonanza delle microbolle di mdc, l’effetto di risonanza su queste ultime (oscillazione non lineare o asimmetrica), che riflettono al trasduttore una serie di riflessioni armoniche (ed in particolare viene privilegiata la “seconda armonica”, cioè quella con frequenza doppia rispetto alla frequenza ultrasonora in emissione). Per energie ancora superiori (>500 kPa, cioè IM >0,5) si determina un’oscillazione delle microbolle tale, da determinarne la rottura e vi è quindi la possibilità di rilevare un segnale, transitorio ma molto ampio, che sia appunto effetto di questa rottura (ma anche del loro “consumo”!). In definitiva, maggiore è l’ampiezza degli ultrasuoni e maggiore sarà la non linearità della risposta [Catalano et al. 2007, Quaia 2005]. I sistemi CEUS in real time sfruttano, quasi tutti, l’imaging armonico [Bauer et al. 2002, Lencioni et al. 2002]. In questo caso, come detto, il sistema trasmette normalmente ad una data frequenza (es. 3,5 MHz) ma viene programmato per ricevere gli echi riflessi preferenzialmente ad una frequenza multipla (generalmente doppia, es. 7 MHz, “seconda armonica”). Esistono un’armonica tissutale, in cui si ottengono immagini più nitide e contrastate dagli echi tissutali (anche con minori artefatti), ed un’armonica contrastografica, in cui si sfrutta il segnale armonico delle microbolle. Con sistemi ad alto IM si rilevano i segnali armonici sia dei tessuti che del mdc, sebbene i primi siano continui ed i secondi presenti solo al momento della rottura delle microbolle. Con i sistemi a basso IM il segnale armonico tissutale sarà invece costantemente minimizzato, a favore di quello contrastografico. Chiaramente, essendo la gamma delle frequenze molto ampia, si utilizzano in CEUS trasduttori ben diversi da quelli impiegati sempre più in US convenzionale (fondamentale) e cioè trasduttori a banda larga. Tuttavia, il fatto che sia necessario restringere la banda di frequenza in ricezione intorno a quella della seconda armonica, comporta inevitabilmente una certa degradazione della qualità delle immagini ottenute in CEUS, e cioè una perdita di risoluzione spaziale (a fronte di un netto aumento della risoluzione di contrasto). Poiché con i sistemi in real time si utilizza un IM più basso e quindi una stimolazione meno forte delle microbolle, si avrà anche un minore contrasto (a parità della concentrazione di microbolle) rispetto ai sistemi distruttivi, sebbene ciò sia ampiamente bilanciato dalla possibilità dell’acquisizione continua delle immagini. Per lo studio CEUS in real time, ormai di gran lunga il più diffuso nella pratica clinica, si utilizzano sia
sonde addominali che sonde superficiali, in ambo i casi con una bassa potenza del fascio US. La focalizzazione viene generalmente posta a 2/3 della profondità. Quando l’area focale di interesse è tuttavia già definibile, il fuoco viene posto immediatamente in profondità alla suddetta area. Peraltro la zona focale può essere spostata nel corso dell’esame verso le diverse aree in analisi [Bauer et al. 2002, Lencioni et al. 2002]. Il guadagno generale impiegato è medio-basso ed anche la porzione più superficiale della curva di compensazione guadagno-tempo viene posizionata al minimo (ma solo con le sonde addominali): l’amplificazione viene minimizzata in modo da visualizzare appena, prima dell’arrivo del mdc, le interfacce più ecogene quali il diaframma, le pareti vasali e le pareti dei visceri cavi come la colecisti. Subito dopo l’iniezione si procede all’esplorazione US per alcuni minuti, sino all’estinzione progressiva dell’enhancement. Al momento dell’arrivo del mdc nel parenchima, attraverso i vasi arteriosi, il segnale proveniente dai tessuti è praticamente assente. La sonda viene quindi posizionata nella sede desiderata in attesa dell’arrivo del mdc, che opacizzerà prima le arterie maggiori, poi quelle minori ed infine il parenchima con le strutture venose. Mentre con i sistemi intermittenti è necessaria un’esplorazione regolare delle varie porzioni dell’organo di interesse, come ad esempio il fegato, con un graduale spostamento della sonda, e non è possibile tornare su un’area appena esaminata perché sarà priva di enhancement, con i sistemi in acquisizione continua è possibile invece una scansione libera dell’intero parenchima, valutando le diverse aree dai differenti approcci possibili (sottocostale ascendente, epigastrico, intercostale, ecc.) e con il modo e tempo desiderato; è consigliabile comunque eseguire le scansioni spostando lentamente la sonda sulla cute del paziente, esplorando in maniera sistematica tutto l’organo di interesse. Nel corso dell’esame può essere necessaria l’apnea inspiratoria oppure la respirazione superficiale tranquilla; è chiaro che quest’ultima è preferibile quando consente un’adeguata esplorazione ma per le localizzazioni profonde è necessaria l’inspirazione. In questo caso si possono utilizzare le pause dell’acquisizione, per esempio tra un videoclip e l’altro, per lasciare respirare il paziente. Nella fase arteriosa è bene far svolgere un’iperventilazione nei primi secondi dopo l’iniezione, e poi fare praticare un’inspirazione profonda e prolungata quanto più possibile, a partire da circa 10 s dall’iniezione del mdc. Di solito l’impiego del mdc avviene in maniera mirata a livello di una struttura anatomica definita. Qualora sia necessario uno studio più panoramico, come in certi casi di alcune patologie oncologiche (es. soggetti con linfoma), è necessario considerare come i reni abbiano l’impregnazione più intensa ma anche più transitoria (così come transitoria è anche quella
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pancreatica); il fegato, che è nutrito in ampia parte dal ritorno venoso portale, un enhancement più tardivo e persistente; la milza, un enhancement inizialmente disomogeneo (tale da simulare focalità) ma poi molto intenso, omogeneo e persistente. In questi casi sarà quindi consigliabile utilizzare la sequenza reni-fegato-milza con un’unica iniezione oppure frazionare il volume di mdc o ancora passare ripetutamente ed alternativamente da un organo all’altro (es. dal fegato alla milza e viceversa in un paziente con linfoma) [Bokor et al. 2006]. Periodicamente è possibile, senza interrompere la videoarchiviazione delle immagini, eseguire dei flash a maggior indice meccanico, per attenuare per pochi secondi l’enhancement di un’area e valutarne la riperfusione ad opera di nuovo sangue opacizzato che vi arriva. Subito dopo avere attivato questo flash, l’operatore non deve spostare la sonda dall’area di interesse. I flash modificano la curva di enhancement tissutale, determinando un certo numero di picchi addizionali ma determinando una caduta della curva stessa leggermente più rapida, legata al consumo di una frazione di microbolle. L’utilità è soprattutto nel rivalutare un’area poco indagata al primo passaggio di mdc: ad esempio, quando nell’US basale si riscontra un nodulo nel lobo epatico destro ed uno in quello sinistro, l’operatore può studiarne uno al passaggio iniziale, poi portare la sonda sul secondo nodulo, eseguire il flash e analizzare le caratteristiche di enhancement di quest’ultimo. Saltuariamente, inoltre, è possibile uscire dal modulo di contrasto-specifico per tornare a quello nella modalità fondamentale e ripuntare l’area di interesse [Catalano et al. 2007]. Analogamente a quanto avviene per le tecniche Doppler, nello studio delle strutture superficiali risulta fondamentale non comprimere eccessivamente con la sonda il piano cutaneo: ciò può infatti attenuare sensibilmente l’enhancement lesionale e quindi essere fonte di misinterpretazione diagnostica. L’acquisizione in real time appare particolarmente vantaggiosa, rispetto a quella intermittente, nei pazienti che non sono in grado di sostenere apnee prolungate ed in quelli in cui la sede della lesione non è già nota sulla scorta dello studio basale. Tuttavia dobbiamo ricordare come, con molti sistemi, l’esplorazione delle strutture profonde sia piuttosto difficoltosa (per ovviare a ciò si può comunque aumentare l’IM sul finire dell’esame, una volta che le porzioni parenchimali medie e superficiali siano state già adeguatamente esplorate).
2.9. Ecocontrastografia. Semeiotica elementare Come già detto, il primo utilizzo dei mdc ecografici è stato quello finalizzato ad aumentare la sensibilità del-
la macchina per i flussi lenti. I sistemi dell’epoca avevano infatti una limitata sensibilità nello studio dei vasi dei parenchimi e delle loro focalità e l’utilizzo dei mdc ha effettivamente incrementato tale sensibilità. Anche con mdc, tuttavia, l’ECD ha alcune evidenti limitazioni, quali soprattutto la possibilità di studiare solo vasi di sufficiente diametro e la presenza di artefatti che ostacolano l’esplorazione. I mdc infatti aumentano la sensibilità per i flussi di interesse diagnostico ma anche per quelli che disturbano l’osservatore, come ad esempio quelli provenienti dalle camere cardiache nel corso di uno studio epatico. Inoltre, quando iniettati a bolo, i mdc ecografici producono l’artefatto di infiorescenza (blooming), caratterizzato da un’abbondanza di segnale colore extravasale che maschera gli aspetti di interesse. Ciò costringe ad una somministrazione più lenta del mdc, rinunziando però alla fase arteriosa che è invece un momento estremamente importante ai fini diagnostici [Forsberg et al. 1994]. Sul piano dell’analisi spettrale l’effetto dei mdc si traduce in un’intensificazione della scala dei grigi dello spettro, che però assume sul piano acustico un suono “graffiato” e che mostra sul piano grafico delle ampie linee artefattuali, gli spikes, del tracciato (Fig. 2.50). Ciò è dovuto alla rottura delle microbolle oppure a macroaggregati delle bolle stesse. Pertanto, al fine di evitare una distorsione dell’informazione spettrale, è consigliabile eseguire la flussimetria di un vaso di interesse prima della somministrazione del mdc e non dopo [Forsberg et al. 1994]. Sebbene il color-Doppler sia in grado di riconoscere, appunto come un segnale di colore, vasi che non siano di per sé identificabili ecograficamente, esiste un limite oltre il quale questa metodica non riesce ad identificare strutture vasali. Dove si colloca questo limite dipende da due fattori, la frequenza del Doppler
Fig. 2.50. Epatocarcinoma, artefatti spettrali da microbolle. La presenza di mdc in circolo determina un aspetto “sporco” del tracciato flussimetrico, caratterizzato soprattutto da sottili bande verticali (spikes)
Capitolo 2 Metodologia d’esame e semeiotica elementare shift e l’intensità dell’eco. Per poter essere rilevato con l’eco-Doppler (cioè perché venga percepito un Doppler shift superiore a quello del movimento tissutale), infatti, un flusso deve avere sufficiente intensità e sufficiente velocità: i mdc ecografici possono potenziare, anche fino a 100 volte, il primo aspetto (in pratica con un aumento del rapporto segnale/rumore) ma non risolvono il secondo. A livello parenchimale, infatti, i tessuti si muovono alla stessa velocità del sangue contenuto nei piccoli vasi che li perfondono e, quindi, si associano ad un Doppler shift similare a questo. Sarebbe necessario disporre di frequenze elevate, ma queste non sono impiegabili per i parenchimi profondi. Inoltre, l’ampiezza basale dell’eco tissutale è superiore di più di 10.000 volte a quella dell’eco ematica. Si è quindi presto compreso come fosse necessario “tornare” all’US in scala dei grigi (CEUS), con sistemi distruttivi o non distruttivi. Nei primi, ad alto IM, la microbolla scompare come riflessore acustico ed emette un’eco non lineare intensa ma breve. I sistemi non distruttivi, a basso IM, sono detti anche di ecografia perfusionale poiché consentono una valutazione in tempo reale della circolazione delle microbolle [Bauer et al. 2002, Lencioni et al. 2002]. La CEUS in real time permette un’analisi morfologica ma anche perfusionale degli organi e delle loro lesioni focali. Essa ha ormai guadagnato un ruolo di primo piano nella detezione delle metastasi epatiche, nella caratterizzazione delle lesioni focali epatiche riscontrate incidentalmente o nel corso di staging e follow-up oncologico e nella valutazione delle lesioni epatiche trattate con procedure intervenzionistiche [Albrecht T et al. 2004, Catalano et al. 2005, Isozaki et al. 2003, Minami et al. 2004, Solbiati et al. 2003]. A
livello del fegato, caratterizzato da una doppia circolazione proveniente per circa il 25% dall’arteria epatica e per circa il 75% dalla vena porta, si hanno diverse fasi di diffusione del mdc, peraltro con una certa sovrapposizione, legata sia al ricircolo del mdc che agli eventuali flash messi in atto dall’operatore. Si ha una prima fase di impregnazione arterioso-dipendente, che inizia circa 15 s dopo l’iniezione periferica del mdc e termina dopo circa 40 s; da questo momento avviene l’afflusso di mdc dal sistema portale, con un’impregnazione significativa dell’organo (fase portale-sinusoidale) per circa 4-5 minuti. La possibilità di identificare le lesioni epatiche dipende chiaramente dal gradiente di contrasto rispetto allo sfondo parenchimale: le lesioni ipervascolari saranno riconoscibili soprattutto nella fase arteriosa, allorquando risultano iperecogene rispetto allo sfondo parenchimale ancora poco ecogeno (Fig. 2.51) mentre quelle ipovascolari verranno identificare soprattutto nella fase parenchimale, allorquando risultano ben evidenti come difetti ipoecogeni nel contesto del parenchima ecogeno; a questo proposito è importante segnalare che la semeiotica lesionale non è influenzata in maniera significativa dall’ecogenicità dello sfondo parenchimale quale si presenta in basale e quindi, ad esempio nel contesto di un fegato steatosico, l’aspetto delle lesioni è uguale a quello che si osserva in un fegato normale. La conoscenza dei modelli vascolari delle lesioni focali epatiche, mutuata anche dagli studi multifasici di TC e RM, ne consente un’efficace caratterizzazione, considerando anche il real time e quindi la possibilità di osservare in vivo ed in maniera veramente dinamica, l’andamento dell’enhancement lesionale (Fig. 2.52).
Fig. 2.51. Confronto tra le curve di enhancement di una lesione epatica (HCC) e del parenchima epatico sano. La riconoscibilità della lesione è massima nella fase arteriosa, quando si ha il massimo gradiente di enhancement e quindi di ecogenicità. Modificato da [Catalano et al. 2005]
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Ecografia in oncologia
Fig. 2.52. Ecogenicità delle lesioni epatiche nelle diverse fasi della CEUS. Variazione tendenziale dell’ecogenicità delle principali lesioni focali epatiche: quelle benigne tendono ad essere iso-iperecogene in fase parenchimale mentre quelle maligne tendono ad essere ipoecogene
Capitolo 2 Metodologia d’esame e semeiotica elementare I pattern CEUS principali (cfr. anche paragrafi 3.19 e 3.20) sono: impregnazione anulare (anello più o meno spesso e regolare ma comunque continuo, di enhancement arterioso periferico), impregnazione globulare (gettoni periferici iperecogeni, a crescita centripeta con il passare dei secondi), impregnazione diffusa (omogenea o disomogenea), impregnazione a ruota di carro (rapidissimo enhancement di un’arteria centrale che ramifica verso la periferia) [Catalano et al. 2007] (Figg. 2.53, 2.54, Video 2.5). Nella fase portale-sinusoidale, in termini assolutamente generali, le lesioni benigne tendono a divenire (o a rimanere) iso- o iperecogene laddove un’ipoecogenicità in questa fase è suggestiva di malignità: una lesione epatica ipoecogena in fase portalesinuoidale deve essere considerata maligna sino a prova contraria, laddove una iper- o isoecogena in tale periodo di circolazione del mdc ecografico ha elevate probabilità di essere benigna, o quantomeno non metastatica (più complesso è infatti il problema dell’HCC) [Catalano et al. 2005]. La correlazione con TC e RM è notevole per la fase arteriosa mentre, stante la natura intravascolare dei mdc ecografici, si diversifica per la fase portale, assumendo caratteristiche semeiologiche peculiari [Burns et al. 2007]. È chiaro comunque che la CEUS risolve solo alcuni problemi dell’US convenzionale: lesioni che per la profondità o per presenza di strutture sovrastanti che causino artefatti (es. meteorismo) siano poco o nulla accessibili allo studio US lo sono anche in quello CEUS. Meno codificate sinora sono le applicazioni extraepatiche della CEUS, che peraltro può fornire ulteriori informazioni nello studio del rene, del pancreas, della milza e di altre strutture addominali. Ancor meno definite sono le applicazioni superficiali, per le quali esistono anche limiti tecnici che inficiano la qualità delle immagini ottenute: mentre lo studio di queste strutture avviene normalmente con sonde ad alta frequenza, che offrono un’ottima risoluzione spaziale, quello con softwares ecocontrastografici deve essere condotto a frequenze più basse, più vicine alla frequenza di risonanza tipica dei mdc ecografici attualmente disponibili [Catalano O et al. 2006, Quaia 2005, Thorelius 2003] (Video 2.6). Comunque, in generale, la CEUS è in grado di cogliere forme di vascolarizzazione anche molto modesta, all’interno di quote solide di lesioni oppure di setti o pareti lesionali, con una sensibilità superiore ai sistemi Doppler, come il PD con mdc [Robbin et al. 2003, Testa et al. 2005]. In particolare, un significativo indicatore di malignità è dato dalla presenza di una rilevante vascolarizzazione in fase venosa per cui la lesione, ancorché ipoecogena rispetto al parenchima circostante, mostra un intenso pullulare di echi all’interno, osservabile soprattutto in real time,
Fig. 2.53. Principali pattern CEUS delle lesioni epatiche. L’enhancement può essere assente (es. cisti e noduli displasici), diffuso omogeneo (es. adenoma e HCC), diffuso disomogeneo (es. HCC e metastasi), anulare (es. metastasi), globulare (angiomi), a ruota di carro (FNH). Modificato da [Catalano et al. 2005]
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a
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c
c
Fig. 2.54a–c. Associazione di FNH ed angioma epatico. Chiazza angiomatosa iperecogena (a, freccia lunga) ed area di sostanziale isoecogenicità (frecce brevi). Lo studio PD direzionale dimostra l’ipervascolarizzazione arteriosa centrale del FNH (b, freccia breve), con accanto l’angioma (freccia lunga). La scansione CEUS in fase arteriosa (c) documenta la vascolarizzazione sia dell’angioma (freccia lunga) che della FNH (frecce brevi), quest’ultima con aspetto pseudocapsulato e vasi arteriosi interni
Fig. 2.55a–c. Linfadenopatia cervicale da linfoma centrofollicolare. Grossolana linfadenomegalia, con ilo ancora visibile ma con marcato ispessimento corticale (a). Il PD dimostra una vascolarizzazione centrale, relativamente simmetrica (b). La CEUS evidenzia un tipico aspetto “sale e pepe”, con nuclei ecogeni interni espressione del “microcircolo” linfonodale (c)
Capitolo 2 Metodologia d’esame e semeiotica elementare con aspetto complessivo “a sale e pepe” [Bokor et al. 2006] (Fig. 2.55).
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Le problematiche cliniche
3.1. I tumori cutanei: la valutazione preoperatoria, le metastasi in transito, le metastasi satelliti Lo studio delle lesioni cutanee primitive e secondarie richiede sonde di alta o altissima frequenza (>13 MHz, meglio se >16 MHz), possibilmente a multifrequenza, nonché l’eventuale impiego di distanziatori; anche la disponibilità di sonde a matrice può essere di notevole ausilio. Nello studio ad alta risoluzione è possibile distinguere i diversi strati della cute: l’epidermide, iperecogena (0,3-0,6 mm di spessore), il derma, ecogeno seppur meno dell’epidermide, con areole ipo-anecogene nella sua parte più profonda (14 mm di spessore), il sottocutaneo, con lobuli adiposi ipoecogeni e con sottili (5-20 mm) tralci fibrosi ecogeni interposti, la fascia superficiale, ecogena, che separa i tessuti cutanei dal piano muscolare sottostante [Bossi et al. 2001, Cammarota et al. 2006]. Sebbene l’US, anche ad alta risoluzione, non sia in grado di distinguere con certezza tra lesioni cutanee benigne e maligne, essa è importante per la definizione non invasiva dello spessore lesionale, che costituisce un elemento importante per la pianificazione terapeutica in particolare dei melanomi, oltre che il singolo fattore prognostico più rilevante. Le lesioni vengono esaminate secondo multipli piani di scansione, evitando di esercitare una compressione eccessiva con il trasduttore. I tumori cutanei maligni presentano generalmente margini irregolari, ecostruttura disomogenea con possibili aree ipo-anecogene necrotiche e con eventuale identificazione di segnali vascolari intralesionali quali indicatori di neoangiogenesi (oltre che di adeguato spessore lesionale) [Cammarota et al. 2006]. L’US ad alta risoluzione ha dimostrato una sensibilità e specificità del 100% nel distinguere tra melanomi/nevi ed altre lesioni, ed una sensibilità del 100%, ma con specificità del 32%, nella distinzione tra melanoma e lesioni non melanomatose [Bessoud et al. 2003]. Gli epiteliomi mostrano una struttura ipoecogena disomogenea, talora con componenti ecogene fibrosclerotiche o areole ipo-anecogene. Nella forma spi-
3 nocellulare, in particolare, il versante lesionale profondo può essere irregolare per fenomeni infiltrativi. All’ECD il basalioma mostra al massimo qualche segnale vascolare periferico mentre lo spinalioma presenta di solito flussi misti, sia periferici che centrali, che costituiscono un significativo indicatore di malignità delle lesioni cutanee non melanomatose; in generale, la presenza di segnali vascolari si correla con il comportamento maligno delle lesioni non melanomatose (sensibilità 88%, specificità 63%), nonché con il loro spessore ed estensione subdermica [Cammarota et al. 2006, Karaman et al. 2001]. Il melanoma maligno è un’affezione tumorale relativamente frequente e la cui incidenza, sebbene subordinata alle diverse aree geografiche, è comunque in generale rapido aumento negli ultimi decenni (vedi anche paragrafo 3.40). Ecograficamente si osservano lesioni ovalari o allungate, alquanto ipoecogene, con superficie ecogena epidermica conservata nella sua continuità (tranne che nelle forme ulcerate o verrucose) [Bossi et al. 2001, Cammarota et al. 2006] (Fig. 3.1). Il margine profondo del melanoma è generalmente netto, talora con un accennato rinforzo posteriore. A questo livello vi può essere un infiltrato flogisticoreattivo, anch’esso ipoecogeno e pertanto non discri-
Fig. 3.1. Melanoma del naso. Lesione ipoecogena a superficie ulcerata (freccia) in corrispondenza dell’ala nasale
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Ecografia in oncologia
minabile rispetto alla neoplasia, anche quando si va a misurare lo spessore lesionale; analoghe sovrastime delle dimensioni possono essere indotte da follicoli piliferi, ipoecogeni [Cammarota et al. 2006]. La misurazione dello spessore del melanoma costituisce in realtà un parametro di estrema importanza nella gestione e nella formulazione prognostica della malattia: lo spessore misurato istologicamente (indice di Breslow, che comprende quattro classi) si correla con la probabilità di metastasi linfonodali (2-5% per lesioni <0,76 mm di spessore ma 62% per quelle >4 mm), nonché con il rischio di metastasi a distanza (2-5% per lesioni <0,76 mm ma 72% per lesioni >4 mm) [Cammarota et al. 2006]. Lo spessore del melanoma misurato ecograficamente non corrisponde direttamente a quello istologico, a causa della perdita di tensione e della disidratazione che il materiale escisso subisce ed anche della possibilità istologica di discriminare tra tessuto tumorale e tessuto reattivo. Ciononostante lo spessore verticale US si correla con l’indice di Breslow (coefficiente di correlazione sino al 96%) e può avere quindi un notevole impatto pratico: normalmente la lesione sospetta per melanoma viene escissa, ne viene misurato lo spessore, quindi si procede all’eventuale ampliamento dell’area cutanea asportata nonché all’eventuale indagine del “linfonodo sentinella” (Fig. 3.2). La misurazione preoperatoria dello spessore tumorale, ottenibile ecograficamente, può consentire invece una gestione chirurgica in un singolo tempo, con ovvi guadagni in termini di organizzazione e di costi [Bessoud et al. 2003, Cammarota et al. 2006, Lassau et al. 2006]. Anche il riconoscimento di segnali colore intralesionali all’ecocolor-Doppler, possibile soprattutto per lesioni >2 mm di spessore, può avere un notevole rilievo, correlandosi con l’indice di Breslow e quindi con la sopravvivenza: in uno studio sulle percentuali di recidive a 5 anni, gli indicatori maggiori risultavano l’indice di Breslow, la presenza di ulcerazione tumorale, lo stato linfonodale, lo spessore ecografico e la presenza di neovascolarizzazione all’ECD [Bossi MC et al. 2001, Lassau et al. 2006]. I flussi vengono identificati soprattutto nelle lesioni con vasi più ampi e con maggiore densità microvascolare e possono essere reperiti soprattutto alla base della lesione [Cammarota et al. 2006]. La detezione di segnale all’ECD ha una sensibilità del 34%, ma una specificità del 100%, nella distinzione tra i melanomi e gli altri tumori pigmentati nella cute [Bessoud et al. 2003] (Fig. 3.3). Il melanoma è il terzo tumore in ordine di frequenza a dare metastasi cutanee, con un’incidenza del 2432%; non rare sono anche le metastasi da carcinoma polmonare, da carcinoma mammario o da altre neoplasie interne. Metastasi vengono riscontrate sino nel 10% dei soggetti con melanoma sottoposti a followup e, stante la predilezione dei melanomi per gli arti inferiori, anche queste metastasi cutanee vengono
Fig. 3.2. Melanoma cutaneo della pianta del piede. Lesione ipoecogena dello spessore di 3,4 mm, con attenuazione posteriore del fascio, studiata con impiego di distanziatore e visualizzata in sezione trasversale e longitudinale
a
b Fig. 3.3a, b. Melanoma su nevo congenito del piede. Grossolano ispessimento ipoecogeno ovalare (a), che al PD direzionale appare caratterizzato da una diffusa ed intensa ipervascolarizzazione (b)
Capitolo 3 Le problematiche cliniche identificate soprattutto in questa sede [Fanelli et al. 2004, Solivetti et al. 2006]. Più precisamente, si parla di metastasi satelliti quando la lesione si trova entro 2-3 cm dal tumore primitivo (o dalla cicatrice di questo, se già escisso), e di metastasi in transito se la lesione è localizzata a >2-3 cm dal tumore, lungo il percorso dei dotti linfatici tra quest’ultimo ed il bacino linfonodale di riferimento [Cammarota et al. 2006, Solivetti et al. 2006]. L’US è superiore alla palpazione nell’identificazione di queste lesioni [Blum et al. 2000] (Figg. 3.4-3.6). Sia le lesioni satelliti che quelle in transito appaiono all’US come noduli sottocutanei ipoecogeni, spesso con echi particolarmente bassi e quasi assenti (d.d. con cisti sebacee, granulomi di varia etiologia, fibromi, neurofibromi, linfomi a cellule B e piccole raccolte postoperatorie incistate), a margini piuttosto irregolari o francamente policiclici, con dimensioni generalmente <20 mm e con possibile rinforzo posteriore (70% dei casi); solo il 6% delle lesioni risulta invece iperecogena [Burkill et al. 2004, Fanelli et al. 2004, Voit et al. 2006]. La struttura interna è omogenea o talora, per fenomeni di necrosi, con presenza di piccole componenti liquide nei noduli maggiori (peraltro possibili anche nelle lesioni benigne); generalmente non si riscontrano invece calcificazioni (suggestive quindi di benignità). Queste lesioni possono essere uniche o anche multiple (massimo 4/paziente in una recente ampia casistica) [Solivetti et al. 2006]; in quest’ultimo caso sono tipicamente disposte in linea lungo la stessa direttrice linfatica, con la lesione maggiore posta più vicino delle altre alla cicatrice cutanea. La localizzazione lungo un linfatico può essere talora dedotta anche da due sottili bande ipoecogene visibili su due lati opposti del nodulo sottocutaneo, espressione appunto del collettore ripieno di linfa e/o cellule tumorali. Segnali vascolari al colorDoppler vengono riscontrati nel 70% delle lesioni metastatiche, specie in quelle più grandi (100% di quelle >11 mm) [Fanelli et al. 2004, Nazarian et al. 1998]. A volte si tratta di segnali di scarsa entità, sottoforma di singolo polo vascolare, altre volte si rileva una vascolarizzazione cospicua con multipli poli vascolari e vari vasi intranodulari, ma in ogni caso la vascolarizzazione è molto utile ai fini diagnostico-differenziali, essendo le lesioni sottocutanee benigne generalmente prive di segnali colore. Per la conferma può essere utilmente impiegata la FNAC con aghi da 23 G, eseguendo due prelievi successivi per ciascun nodulo [Fornage et al. 1989, Solivetti et al. 2006]. Nel follow-up US periodico, semestrale o annuale (ma anche trimestrale per i primi anni nei pazienti a rischio), dei pazienti operati per melanoma maligno dovrebbe essere inclusa l’area cutanea sede d’escissione (per un’ampiezza di una decina di cm intorno, in particolare in direzione della/delle stazioni linfonodali di riferimento), al fine di identificare sia le re-
Fig. 3.4. Metastasi sottocutanee della coscia da melanoma. Due noduli sottocutanei ipoecogeni
Fig. 3.5. Metastasi sottocutanea “in transito” da melanoma a livello del gomito, in paziente operata più volte di melanoma della mano. Nodulo di piccole dimensioni, nettamente ipoecogeno, con segnali colore al PD direzionale
Fig. 3.6. Metastasi “in transito” del polpaccio da melanoma della caviglia. Lesione sottocutanea, ipoecogena, con sottili propaggini marginali (frecce) espressione del dotto linfatico sede del processo di propagazione tumorale
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cidive cicatriziali che i noduli satelliti ed i noduli in transito. Come già detto, il riscontro di nodulazioni ipoecogene con segnali vascolari è altamente sospetto di ripresa tumorale; l’ECD risulta di particolare ausilio per distinguere la recidiva paracicatriziale da fenomeni cicatriziali esuberanti, avascolari. Nel follow-up vanno inoltre sempre esplorate le stazioni linfonodali di riferimento. Per quanto riguarda queste ultime si considerano solitamente le regioni inguinali dei due lati per i melanomi degli arti inferiori, quelle ascellari per i melanomi degli arti superiori, quelle ascellari, sovraclaveari e cervicali per i melanomi del capo e collo e quelle ascellari e inguinali (eventualmente anche sovraclaveari e cervicali) per i melanomi del tronco. Sicuramente il monitoraggio US è superiore a quello clinico, con una sensibilità dell’89% ed una specificità del 100% per l’identificazione di metastasi linfonodali, rispetto al 71 e 100%, rispettivamente, della palpazione; in particolare si è visto che le stazioni sovraclaveare, sottoclaveare ed ascellare sono quelle che più facilmente danno falsi negativi all’esame fisico [Blum et al. 2000]. Nei pazienti già sottoposti ad escissione del linfonodo sentinella oppure a dissezione del comparto linfatico la valutazione fisica può essere particolarmente limitata; in questi casi è importante ricordare che all’esplorazione ecografica le linfadenopatie metastatiche possono anche essere in sede insolita, al di fuori del bacino linfonodale atteso [Blum et al. 2006]. Per le metastasi a distanza da melanoma si rimanda al paragrafo 3.40. Altre lesioni cutanee tumorali, pseudotumorali o comunque da porre in d.d., comprendono cisti sebacee, pilomatricomi, nevi, angiomi, anomalie vascolari, linfomi, granulomi da corpo estraneo, sarcoma di Kaposi, cicatrici [Bossi et al. 2001] (Fig. 3.4).
3.2. La linfadenopatia superficiale: le cause, il linfonodo normale, il linfonodo patologico, la diagnostica differenziale L’esame fisico è tuttora di notevole importanza nell’identificazione delle linfadenopatie superficiali. Spesso, tuttavia, le linfadenomegalie, anche se superficiali, risultano clinicamente non palpabili. Ciò si verifica sino nel 20-50% dei casi a livello cervicale e nell’1-8% in sede ascellare, soprattutto nelle forme linfomatose, tendenzialmente meno “dure” di quelle metastatiche. Esiste inoltre un problema di specificità dell’esame obiettivo: mentre in alcune sedi, come quella sovraclaveare, la semplice palpabilità di un linfonodo è altamente sospetta per una sua natura patologica, nella maggioranza delle altre stazioni linfonodali i linfonodi normali sono spesso palpabili. Nella diagnostica differenziale US rientrano i linfonodi “normali”, i linfonodi “normali” in involuzione
fibroadiposa, i linfonodi reattivi, le linfadeniti (acute, subacute e croniche), le linfadenopatie linfomatose e le linfadenopatie metastatiche. I parametri US da valutare per la caratterizzazione linfonodale, in aggiunta ai fondamentali dati clinico-anamnestici, sono costituiti da: dimensioni, forma, ecostruttura, margini ed aspetto dell’ambiente perilinfonodale; la conoscenza di questi aspetti non è importante solo ai fini diagnostici ma anche per guidare l’eventuale FNAC o biopsia, generalmente condotte a livello del linfonodo di aspetto più alterato tra quelli rilevati nella stazione linfatica in questione. In realtà non esistono criteri assoluti di normalità del linfonodo. La sola identificazione linfonodale non ha praticamente valore: nel passato si riteneva che un linfonodo superficiale, per il solo fatto di essere stato visualizzato ecograficamente, fosse da considerare patologico. In realtà con le attuali apparecchiature e sonde small parts ciò non risulta assolutamente vero: nel collo, linfonodi “normali” vengono riscontrati ad esempio nel 19-23% dei soggetti a livello sottomandibolare, nel 15-16% in sede parotidea (specie preauricolare), nel 18-19% in sede laterocervicale alta e nel 35-37% a livello del triangolo posteriore [Ying et al. 2000, 2003]. Anche a livello ascellare ed inguinale è possibile riconoscere linfonodi normali nella maggioranza dei soggetti; l’unica sede ove sono riconoscibili solo i linfonodi patologici è data probabilmente dalle fosse sovraclaveari. Il numero di linfonodi normali visualizzabili, almeno a livello cervicale, risulta particolarmente elevato nei giovani rispetto agli anziani e quindi la visualizzazione di numerose linfoghiandole in un anziano può costituire un elemento di sospetto, a prescindere dagli altri elementi morfodimensionali [Ying et al. 2002]. Analoghe considerazioni valgono per le dimensioni: si riteneva che linfonodi con diametro massimo maggiore di 5, di 8 o di 10 mm fossero patologici, ma questo solo perché la risoluzione degli apparecchi dell’epoca non permetteva di riconoscere i linfonodi in metaplasia adiposa, spesso di dimensioni maggiori di 3-4 cm [Rubaltelli et al. 2004a]! Non è possibile in realtà definire una soglia dimensionale precisa, poiché in alcune sedi, come a livello sovraioideo e segnatamente in sede sottomandibolare, i linfonodi “normali” possono raggiungere dimensioni anche di 20 mm, quale risposta a fenomeni irritativi cronici (carie, faringiti, ecc.) che li rendono assimilabili ai linfonodi reattivi. Inoltre nel bambino e nel giovane è frequente un aspetto iperplastico, laddove nell’anziano l’evoluzione fibrotica del linfonodo stesso fa sì che le dimensioni siano generalmente più contenute. Un linfonodo quindi può essere ingrandito ma senza coinvolgimento tumorale o, all’opposto, di dimensioni ridotte ma con foci tumorali non macroscopici al suo interno. In generale, comunque, si può dire che un diametro maggiore di 20-25 mm e soprattutto un diametro mi-
Capitolo 3 Le problematiche cliniche nore (trasverso) di 10 mm, sicuramente più affidabile di quello longitudinale, sono oggi considerati quali limiti superiori della “norma”, sebbene a livello cervicale si considerino anche valori soglia di 8 o addirittura di 5 mm per il diametro traverso massimo [Rubaltelli et al. 2006, Ying et al. 2003]. Più che il diametro in assoluto, è stato da tempo posto l’accento sul rapporto tra diametro longitudinale e diametro trasversale (“indice di rotondità”), e cioè sulla forma: un rapporto >2, vale a dire una forma ovalare o francamente allungata, è generalmente indicativo di normalità o quantomeno di benignità, laddove un rapporto <1,5, e cioè una forma rotondeggiante, risulta sospetto per natura maligna ed in particolare per quella metastatica [Sakai et al. 1988]. Esistono peraltro eccezioni: i linfonodi sottomandibolari normali e i linfonodi del bambino con flogosi in atto sono ad esempio molto spesso rotondeggianti [Rubaltelli et al. 2004a]. La confluenza dei diversi linfonodi ingranditi è chiaramente indicativa della natura patologica, ma senza particolare specificità; spesso i linfonodi in involuzione adiposa presentano un aspetto bilobato, che chiaramente non deve essere confuso con la fusione di due linfonodi contigui. Anche dal punto di vista ecostrutturale non esistono criteri assoluti (Fig. 3.7), poiché non sempre il linfonodo normale mostra la struttura interna ecogena definita come “ilo” centrale, in comunicazione con il grasso perilinfonodale. Questa struttura ecogena è determinata dai seni linfatici e cioè dalla parte più interna della midollare del linfonodo, ove tali seni ripieni di linfa creano multiple interfacce [Ahuja et al. 2001, Rubaltelli et al. 2004a]. L’ampiezza è variabile, da un’esile stria ecogena centrale ad un’area ecogena molto ampia che lascia alla periferia solo un sottile guscio di corticale. La posizione è centrale oppure eccentrica, verso l’ilo anatomico e cioè verso il punto d’ingresso del peduncolo vascolare (all’ECD). L’ilo ecogeno può essere normale, aumentato, dislocato, ridotto o assente [Rubaltelli et al. 2006]. La conservazione dell’ilo centrale è suggestivo di benignità, specie se circondato da uno strato di corticale simmetrico. La sua perdita, all’opposto, è sospetta per una natura tumorale, specie metastatica. Non si tratta peraltro di criteri assoluti, visto che l’ilo ecogeno è rilevabile nel 5-28% dei linfonodi maligni e può essere assente in quelli normali, specie se <5 mm ove le interfacce della midollare non sono evidenziabili; si è inoltre visto che l’incidenza della visualizzazione dell’ilo, almeno a livello cervicale, aumenta con l’età e quindi soprattutto nel giovane la sua assenza non può costituire un criterio assoluto di patologia [Ahuja et al. 2001, Rubaltelli et al. 2004a, Ying et al. 2002]. Tra i due estremi, dell’ilo assente e dell’ilo esteso a quasi tutto il linfonodo, come nel caso di una metaplasia adiposa, vi sono i gradi intermedi, con ilo dislocato, interrotto, assottigliato, ecc. Una netta
Fig. 3.7a–g. Alterazioni morfostrutturali linfonodali superficiali. a, Ispessimento corticale eccentrico con ampio ilo ecogeno e forma ovalare; b, ispessimento corticale eccentrico asimmetrico con ampio ilo ecogeno e forma ovalare; c ispessimento corticale eccentrico con gettoni ipoecogeni nell’ampio ilo ecogeno e forma ovalare; d, ispessimento corticale concentrico con riduzione di ampiezza dell’ilo ecogeno e forma ovalare; e, ispessimento corticale concentrico con riduzione di ampiezza dell’ilo ecogeno, infiltrazione perilinfonodale e forma ovalare; f, netta riduzione e dislocazione dell’ilo ecogeno e forma rotonda; g, assenza dell’ilo ecogeno e forma rotonda
asimmetria con dislocazione dell’ilo centrale è invece patologica, in quanto espressione di un diffuso ispessimento della corticale oppure dell’infiltrazione del tessuto nodale nella metà del linfonodo non occupato dall’ilo centrale. L’ispessimento corticale linfonodale è significativo quando asimmetrico, focale o comunque marcato (più del doppio) [Rubaltelli et al. 2004a]. Bisogna valutare l’eventuale presenza, a livello della corticale, di calcificazioni, aree necrotico-colliquate, o aree francamente cistiche. Le calcificazioni caratterizzano le linfadeniti granulomatose, quelle metastatiche da carcinoma midollare e da carcinoma papillare della tiroide, ed in generale quelle linfomatose e metastatiche dopo trattamento con radio- o chemio-
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terapia. Le aree colliquative si rilevano soprattutto nelle linfadenopatie flogistiche, mentre sono infrequenti nelle forme metastatiche, con l’eccezione delle forme secondarie a tumori squamosi (capo e collo!) e nelle forme trattate con radioterapia ove sono invece frequenti; peraltro la necrosi nodale viene dimostrata molto meglio con TC che con US. Le alterazioni pseudocistiche si rilevano talora nei linfomi ma soprattutto, tipicamente, nelle metastasi da carcinoma papillare della tiroide [Rubaltelli et al. 2004a]. I margini linfonodali tendono ad essere sfumati nelle adenopatie benigne e più netti in quelle metastatiche o linfomatose, probabilmente perché la sostituzione del normale tessuto linfoide ad opera di quello tumorale determina una più netta variazione di impedenza acustica rispetto ai tessuti viciniori [Ahuja et al. 2003]. L’individuazione di una diffusione extralinfonodale del processo tumorale è spesso difficoltosa, a meno che non esistano segni di adesione o infiltrazione di strutture contigue quali muscoli, vene o arterie. Si tratta peraltro di un parametro importante, perché influenza considerevolmente la prognosi [Chong 2004]. Irregolarità dei margini e presenza di areole o bande ipoecogene nel tessuto adiposo perilinfonodale possono essere un segno di diffusione; peraltro questi reperti sono riconoscibili solo in alcuni casi, quando il grasso circostante risulta particolarmente ecogeno. Un aspetto francamente addensato del cellulare adiposo, associato ad una ridotta comprimibilità con la sonda, è tipico delle linfadeniti acute. Lo studio seriato può dimostrare, nel caso di un linfonodo patologico, la sua crescita progressiva, sebbene sia chiaro che una condotta attendistica è consigliabile solo in casi selezionati, in cui il sospetto di coinvolgimento tumorale sia particolarmente basso oppure vi sia stata una negatività della FNAC. È chiaro anche come la riduzione progressiva delle dimensioni linfonodali costituisca un importante aspetto della risposta al trattamento [Ahuja et al. 2003]. L’aspetto color- e power-Doppler dei linfonodi normali è stato descritto soprattutto a livello cervicale [Ying et al. 2000]. I linfonodi normali, con l’eccezione di quelli <5 mm che possono apparire avascolari (specie nell’anziano e specie nel collo, soprattutto a livello del triangolo cervicale posteriore), mostrano una vascolarizzazione esclusivamente centrale, cioè localizzata al centro del linfonodo quando questo non ha un’iperecogenicità centrale oppure localizzata centralmente o eccentricamente ma comunque all’interno della banda ecogena “ilare”; mancano vasi periferici, a livello del contorno capsulare [Rubaltelli et al. 2004a]. Il concetto di “ilo” al B-mode e all’ECD, infatti, non corrispondono necessariamente, ed il secondo può riconoscersi in assenza del primo [Ahuja et al. 2001, Ying et al. 2003]. Tipicamente, si osserva un vaso che penetra dall’ilo linfonodale e si dispone centralmente
al linfonodo, seguendo l’asse maggiore di questo ed eventualmente dimostrando ramificazioni laterali, di solito disposte simmetricamente, ai lati del vaso maggiore. In generale, i linfonodi patologici tendono ad essere più vascolarizzati di quelli normali, con presenza in particolare di vasi extrailari, cioè di segnali colore non corrispondenti a quello del vaso centrale (presente o meno) (Fig. 3.8). Ciò risulta vero a prescindere dalle dimensioni del linfonodo (e quindi anche per linfonodi di dimensioni normali) e soprattutto per i
Fig. 3.8a–h. Principali pattern ECD delle linfadenopatie superficiali. Nelle forme benigne prevale un vaso singolo centrale, rettilineo (a), angolato (b) e/o con qualche ramo (c). Nelle forme maligne si riscontra un vaso eccentrico ramificato (d), un vaso centrale diffusamente ramificato (e) ma soprattutto una ramificazione che non raggiunge una porzione nodale (f), oppure singoli spots interni (g) o multipli vasi periferici capsulari (h). Modificato da [Tschammler et al. 1998]
Capitolo 3 Le problematiche cliniche linfonodi metastatici, meno per quelli linfomatosi ed ancor meno per le linfadenopatie benigne [Shirakawa et al. 2001]. In generale sono stati distinti quattro pattern ECD linfonodali: ilare, punteggiato (singoli spots o segmenti sparsi), periferico (capsulare) e misto (combinazione di due dei precedenti) [Steinkamp et al. 2002]. È possibile poi riconoscere delle varianti, in base al numero di vasi riconoscibili ed alla loro distribuzione, sino a considerare otto sottotipologie, di cui le prime quattro suggestive di benignità e le ultime quattro di malignità: (1) vaso ilare che supera il margine linfonodale; (2) vaso longitudinale parallelo all’asse nodale o alla cute; (3) rami periferici originanti da quello longitudinale; (4) segnali puntiformi centrali; (5) decorso curvo dei vasi per dislocazione; (6) uno o più vasi centrali con angolo >30% rispetto alla cute o all’asse longitudinale nodale; (7) area avascolare nel contesto di un linfonodo ipervascolarizzato; (8) due o più vasi periferici che non originano dai vasi ilari o longitudinali [Tschammler et al. 2002]. Una vascolarizzazione particolamente anomala è quella periferica, laddove i segnali di colore sono rilevabili intorno all’ilo ecogeno e soprattutto alla periferia: nelle forme tipiche si osservano multipli poli vascolari che penetrano nel linfonodo dai suoi margini e si distribuiscono asimmetricamente all’interno [Ying et al. 2000]. La vascolarizzazione di tipo periferico dei linfonodi metastatici si spiega con la modalità di diffusione delle cellule tumorali, che giungono al linfonodo mediante i linfatici afferenti, i quali perforano la capsula nodale proprio dal lato convesso [Rubaltelli et al. 2004a, 2006]. Nei linfomi, ove la diffusione cellulare avviene dall’interno del linfonodo verso la corticale, si osservano soprattutto grossi vasi ilari ipertrofici, mentre le arterie periferiche sono possibili, specie nelle forme ad alto grado, ma con frequenza molto minore rispetto alle metastasi [Giovagnorio et al. 2002, Rubaltelli et al. 2004a]. Nel linfonodo maligno la vascolarizzazione centrale può persistere, ma con un’evidente dislocazione del vaso principale o dei suoi rami, o con un difetto di vascolarizzazione in una parte del linfonodo, oppure può essere sostituita da multipli poli vascolari che raggiungono la periferia del linfonodo dalla capsula; utilizzando questi pattern ECD si è ottenuta una sensibilità del 96% ed una specificità del 77% nella distinzione reattivo-maligno, con un’elevata riproducibilità interosservatore [Hugosson et al. 1999]. Il PD si è dimostrato più sensibile dell’ECD nel riconoscere i vasi intralesionali e nel classificarne la tipologia ma il suo impiego ha anche comportato una maggiore incidenza di risultati falsamente positivi, senza un impatto diagnostico complessivo superiore a quello dell’ECD [Tschammler et al. 2002]. I mdc ecografici consentono di migliorare la dimostrazione dell’angioarchitettura linfonodale superficiale, mettendo in evidenza anche i rami di divisione e le fini arteriole, e quindi di ricono-
scere più agevolmente i pattern dianzi descritti; in particolare i maggiori incrementi di segnale tra ECD basale e ECD con mdc si osservano nelle linfadeniti acute e nei piccoli linfonodi sede di flogosi cronica [Rickert et al. 2000, Schmid-Wendtner et al. 2002]. Dal punto di vista della flussimetria Doppler i reperti possono leggermente variare in base alla stazione linfonodale in questione. Nel collo, che è stato maggiormente studiato in questo senso, i linfonodi sottomentonieri e sottomandibolari sono generalmente quelli più vascolarizzati, con i primi che mostrano un IR maggiore di quello delle altre stazioni ed i secondi che presentano un IR al di sotto della media; non sono state riscontrate differenze nell’entità della vascolarizzazione e nei valori dell’IR tra i due sessi, mentre si è rilevato un aumento delle resistenze con l’età [Ying et al. 2000]. I linfonodi metastatici dimostrano valori degli indici semiquantitativi più elevati di quelli benigni, a prescindere dalle dimensioni del linfonodo, mentre quelli linfomatosi hanno di solito caratteristiche intermedie, con frequente sovrapposizione rispetto al reperto dei linfonodi non tumorali (per cui il contributo dell’analisi spettrale è sicuramente inferiore a quello dell’ECD, a meno che non si considerino dei cut-off “estremi”, caratterizzati chiaramente da una bassa sensibilità). Non esiste inoltre accordo sui valori soglia da considerare [Rubaltelli et al. 2004a, 2006]. Un IP >1,3-1,6 ed un IR >0,72-0,8, in qualsiasi vaso intranodale, suggeriscono comunque la natura metastatica, o quantomeno maligna del linfonodo (con specificità del 100% se IP >1,8 e IR >0,8) [Brniç et al. 2003, Shirakawa et al. 2001, Steinkamp et al. 2002]. Nei linfonodi cervicali benigni (normali, reattivi o tubercolari), infatti, l’IR è <0,8 e l’IP <1,6. Altra caratteristica dei linfonodi metastatici è di poter mostrare tracciati eterogenei in vasi diversi, alcuni a bassa ed altri ad alta resistenza [Steinkamp et al. 2002]. Bisogna peraltro sempre ricordare la difficoltà nel campionare un buon tracciato flussimetrico in vasi di calibro così piccolo. I dati preliminari con CEUS riportano, nei linfonodi superficiali reattivi, un enhancement intenso e costante nei linfonodi linfomatosi, un enhancement intenso ma disomogeneo, specie in fase arteriosa ove assume un aspetto punteggiato, nei linfonodi metastatici non necrotici e flogistici dei chiari difetti perfusivi, e un’ipo-aperfusione globale nei linfonodi metastatici necrotici [Rubaltelli et al. 2004b, 2006 (cfr. Fig. 2.55)]. I linfonodi in metaplasia adiposa, con deposizione di grasso nella midollare, possono raggiungere dimensioni cospicue, anche di 4-5 cm e sono caratterizzati da un “ilo centrale” molto ampio, che lascia solo un esile guscio corticale ipoecogeno. Sono frequenti a livello inguinale, specie negli anziani o nei soggetti con problematiche venose, ma si rilevano spesso anche in sede ascellare. Talora vengono etichettati come “reattivi”
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ma le due entità non andrebbero sovrapposte, poiché mentre il linfonodo reattivo deve essere segnalato per presenza e dimensioni in sede di refertazione, lo stesso non vale per quello in involuzione adiposa (Fig. 3.9). I linfonodi reattivi, o iperplastici, non vanno confusi con i precedenti, ma neanche con le forme flogistiche descritte di seguito (Figg. 3.10-12). Essi hanno margini netti e struttura omogenea, senza calcificazioni o aree necrotiche. Nel collo può essere utile il raffronto con il parenchima tiroideo, più ecogeno del tessuto nodale. All’ECD la vascolarizzazione è tipicamente sostenuta, talora molto intensa come nel caso delle linfadenopatie reattive riscontrate in corso di AIDS, ma centrale [Steinkamp et al. 1998]. Le linfadeniti acute comportano una notevole tumefazione dei linfonodi, che divengono confluenti ed ipoecogeni ma che tendono a non perdere la loro morfologia ovalare. Inoltre la presentazione clinica è caratteristica, l’ECD dimostra un’intensa iperemica con conservata angioarchitettura intranodale e si osserva anche, spesso, un tenue addensamento edematoso del grasso perilinfonodale. L’analisi spettrale delle linfadeniti cervicali ha un valore predittivo positivo del 100% per IR <0,5 e IP <0,6 [Brniç et al. 2003] (Figg. 3.13, 3.14). Nella linfadenite tubercolare si osservano multipli spots ecogeni dovuti a calcificazioni distrofiche o ialinosi, aree iperecogene di metaplasia adiposa e zone ipo-anecogene di necrosi centrale. Subito al di sotto della capsula si rileva un caratteristico strato ecogeno periferico, sottile [Asai et al. 2001]. I linfonodi tendono alla fusione, formando ammassi ipoecogeni con rinforzo posteriore. Nei linfomi (cfr. paragrafo 3.41) i linfonodi superficiali presentano un’ipoecogenicità piuttosto netta, tendenzialmente maggiore di quella delle forme iper-
Fig. 3.9. Linfonodo involutivo-adiposo inguinale superficiale. Linfonodo oblungo, ampiamente ecogeno con sottile guscio residuo di corticale alla periferia
Fig. 3.10. Linfonodo reattivo. Formazione linfonodale, di forma allungata ma priva di ilo centrale e con multipli vasi periferici al PD direzionale
Fig. 3.11. Linfonodi laterocervicali reattivi. Linfonodi ovalari, con sottile “ilo ecogeno”
Fig. 3.12. Linfonodi laterocervicali reattivi. Multipli linfonodi ovalari/allungati, senza “ilo ecogeno” (omogenea ipoecogenicità)
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.13. Linfadenite sottomentale. Linfonodo con sottile “ilo ecogeno” e con conservata angioarchitettura al PD direzionale
a
b Fig. 3.14a, b. Linfadenite acuta pediatrica della regione inguino-crurale. Grossolana linfadenopatia ipoecogena, relativamente omogenea e delimitata, con addensamento edematoso del cellulare adiposo circostante (a). Angioarchitettura iperemica ma con regolare e simmetrica distribuzione vasale al PD (b)
plastiche, talora francamente pseudocistica. Nel corso di terapia radiante o sistemica l’ecogenicità nodale tende ad aumentare, quale segno dell’evoluzione fibrotica. All’ECD si rileva di solito una discreta o anche intensa vascolarizzazione, con segnali colore sia al centro che alla periferia; quest’ultima è comunque rara e riconoscibile solo nei linfomi di alto grado, essendo invece tipica delle metastasi. La presenza di una vascolarizzazione fondamentalmente “ilare”, crea comunque maggiori difficoltà diagnostico-differenziali rispetto a quanto non sia per le linfadenopatie metastatiche [Giovagnorio et al. 2002, Steinkamp et al. 1998]. In generale l’aspetto US ed ECD del linfonodo linfomatoso, tranne che nelle forme di altro grado, risulta diverso rispetto a quello metastatico ma meno rispetto a quello flogistico-reattivo, da differenziare sulla base dei dati clinici ed eventualmente bioptici [Giovagnorio et al. 2002, Rubaltelli et al. 2006] (Figg. 3.15, 3.16, cfr. anche Fig. 2.55).
a
b Fig. 3.15a, b. Linfadenopatie cervicali e sovraclaveari da NHL. Grossolane linfadenomegalie, con multipli depositi calcifici
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Fig. 3.16. Linfadenopatia inguinale da Morbo di Hodgkin. Linfonodo ovalare, ipoecogeno, senza ilo ecogeno centrale, con vascolarizzazione intensa ma simmetrica al PD direzionale
Nei linfonodi metastatici l’aspetto ipoecogeno è piuttosto netto, in maniera più marcata che nelle forme iperplastiche. Fenomeni colliquativi interni, con ampie aree ipovascolari all’ECD, si osservano nelle linfadenopatie da carcinomi squamosi, mentre in quelle da carcinomi papillari della tiroide si rilevano spesso aree interne francamente cistiche, avascolari al color-Doppler (cfr. Figg. 3.164 e 3.165). In generale, è raro che il linfonodo metastatico risulti privo di segnali vascolari e di solito mostra una sua vascolarizzazione, più o meno intensa [Steinkamp et al. 1998]. Microcalcificazioni (<2 mm) si rilevano nelle metastasi da carcinoma papillare e da carcinoma midollare della tiroide, o nelle altre metastasi dopo trattamento (Figg. 3.17-3.25, Video 3.1 e 3.2).
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Fig. 3.17a, b. Linfadenopatie cervicali da carcinoma parotideo. Linfonodi di piccole dimensioni ma altamente sospetti per avere una forma rotondeggiante ed una struttura ipoecogena disomogenea priva di ilo centrale, in sede sottomentale (a) e laterocervicale (b)
Fig. 3.18a, b. Metastasi sovraclaveari da carcinoma polmonare. Due nodulazioni linfonodali, la più piccola priva di segnali vascolari (a) e una più grande con diffusa ed irregolare ipervascolarizzazione, specie capsulare (b), al PD direzionale
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.19. Linfadenopatie metastatiche laterocervicali da carcinoma mammario. Due linfonodi contigui, rotondeggianti, ipoecogeni relativamente omogenei, con multipli vasi afferenti dalla periferia, all’ECD
Fig. 3.21. Linfadenopatie metastatiche laterocervicali da carcinoma mammario. Due linfonodi contigui, rotondeggianti, ipoecogeni relativamente omogenei, con multipli vasi ilari ma anche capsulari al PD direzionale
a
a
b
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Fig. 3.20a, b. Linfadenopatie metastatiche sovraclaveari (a) e laterocervicali (b) da carcinoma polmonare. Linfonodi rotondeggianti, ipoecogeni relativamente omogenei
Fig. 3.22a, b. Linfadenopatia metastatica inguinale superficiale da sarcoma della gamba. Linfonodo con corticale alquanto ispessita ed asimmetrica, all’US (a) ed alla TC (b, freccia)
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3.3. Il linfonodo “sentinella”
Fig. 3.23. Metastasi linfonodale parziale da melanoma. Asimmetrico ispessimento corticale, che appare come un’area linfonodale di relativa ipovascolarizzazione al PD direzionale
Fig. 3.24. Linfadenopatia metastatica parziale, ascellare, da carcinoma mammario. Il linfonodo di aspetto reattivo dimostra una grossolana nodulazione ipoecogena interna, eccentrica
Fig. 3.25. Linfadenopatia metastatica parziale, ascellare, da carcinoma mammario. Il linfonodo, di aspetto reattivo (frecce), dimostra una nodulazione interna nettamente ipoecogena, eccentrica, che al PD direzionale corrisponde ad un difetto di vascolarizzazione linfonodale
Il linfonodo sentinella è quel linfonodo dove il tumore primitivo drena direttamente e che può sia essere già sede di colonizzazione neoplastica, sia ancora indenne [Morton et al. 1992]. Bisogna quindi distinguere due problematiche successive: innanzitutto, l’identificazione della sede del linfonodo sentinella, e poi la determinazione del suo stato, normale o patologico, fondamentale ai fini della stadiazione. Come regola generale, infatti, solo in caso di positività si procede alla dissezione della stazione linfonodale regionale che ospita il linfonodo sentinella: una procedura del linfonodo sentinella che dà risultati negativi consente di evitare una dissezione linfonodale (probabilmente) non necessaria (valore predittivo negativo per una diffusione linfatica del carcinoma mammario del 98%). Ciò permette di evitare un sovratrattamento di questi pazienti, considerando anche la morbilità della linfadenectomia e le complicanze precoci e tardive soprattutto per l’arto afferente a quel determinato bacino linfonodale: ad esempio, nelle donne con carcinoma mammario, il 60-70% dei casi (80% dei T1 e 65% dei T2) non ha coinvolgimento linfonodale ascellare al momento della diagnosi e quindi non richiede la dissezione ascellare [Mehta 2003, Nori et al. 2005]. Dallo stato del linfonodo sentinella è anche possibile porre l’indicazione ad un trattamento adiuvante [Roozendaal et al. 2001]. Per i carcinomi mammari, questa procedura viene riservata ai casi con T1 e T2, poiché le forme localmente più avanzate hanno una probabilità elevata di metastasi ascellari, tale da suggerire direttamente la dissezione linfonodale chirurgica. Inoltre, bisogna considerare come la letteratura non sia concorde sull’effetto sulla sopravvivenza di un vuotamento ascellare “negativo” e pertanto sarebbe importante dimostrare l’effettivo coinvolgimento linfonodale preoperatoriamente [Alvarez et al. 2006]. L’impiego della tecnica del “linfonodo sentinella” nello studio delle linfoghiandole ascellari è peraltro ancora oggetto di controversie (cfr. anche paragrafo 3.14). Bisogna considerare che l’1-15% dei casi con “linfonodo sentinella” negativo all’analisi postescissionale presenta invece un impegno linfonodale metastatico dell’ascella [Alvarez S et al. 2006]. Nei melanomi, specie del tronco, la sede del linfonodo sentinella è difficilmente predicibile in base alle sole conoscenze anatomiche, e esso può anche indovarsi, seppur raramente, in sedi profonde come la catena mammaria interna, il mediastino o il retroperitoneo. Inoltre, talora (5% dei casi), il linfonodo sentinella può essere aberrante, e cioè si può trovare al di fuori di un bacino linfonodale, ad esempio in sede epitrocleare, poplitea o retroareolare [Roozendaal et al. 2001].
Capitolo 3 Le problematiche cliniche La ricerca del linfonodo sentinella è stata inizialmente praticata con inchiostro blu [Morton et al. 1992], che consente la visualizzazione anche dei collettori linfatici afferenti al bacino linfonodale, e che si basa sull’identificazione intraoperatoria del linfonodo evidenziato dall’inchiostro. Attualmente la ricerca può essere effettuata con la linfoscintigrafia (generalmente, iniezione perilesionale di albumina umana sierica marcata con Tc99m), preoperatoriamente (gammacamera) o intraoperatoriamente (sonde γsensibili o contatori Geiger), che aumenta sensibilmente l’accuratezza della procedura anche se la complica dal punto di vista organizzativo e dei costi. Più di recente sono state condotte anche alcune esperienze, sia su animale che cliniche, con impiego di mdc ecografici (l’albumina al 25% o il mdc tessuto-specifico Sonazoid) quali traccianti linfatici (linfoecografia); i risultati preliminari nell’identificazione dei linfonodi sentinella e dei dotti linfatici ad essi afferenti sono buoni ma da verificare [Goldberg et al. 2004, 2005, Omoto et al. 2006]. In tutti i casi si inietta l’inchiostro o il radiofarmaco o il mdc ecografico intorno al tumore (di solito ai quattro lati), si massaggia la parte e si va poi a ricercare la diffusione attraverso un canale linfatico sino ad un linfonodo. Sempre più diffusa, come detto, per i carcinomi mammari e soprattutto per i melanomi di stadio clinico II, la tecnica del linfonodo sentinella è stata proposta anche per altri distretti accessibili all’US, come per i tumori squamosi del capo e del collo, i carcinomi della tiroide ed i carcinomi del pene e della vulva [Carrington 2004]. La valutazione US del bacino linfonodale sede del linfonodo sentinella non è di solito sufficiente per definire e soprattutto per escludere con certezza il coinvolgimento nella malattia metastatica, avendo dimostrato, ad esempio nel caso delle metastasi da melanoma, una sensibilità del 79% ed una specificità del 72% sulla base dei dati morfologici e rispettivamente dell’82 e del 72% se combinata con i dati ECD [Voit et al. 2006] (Figg. 3.26, 3.27). Se un linfonodo con l’aspetto US ed ECD della metastasi è quasi sempre confermato come maligno dopo l’asportazione, lo stesso non può dirsi per i linfonodi di aspetto normale: depositi tumorali <5 mm sono identificati ad esempio nel 79% dei linfonodi con metastasi da melanoma confermate ma con US linfonodale negativa [Starritt et al. 2005]. Un’alternativa è data dall’impiego della FNAC o della core biopsy per la valutazione dei linfonodi sospetti allo studio US; l’eventuale positività citologica o istologica consente, infatti, di evitare la procedura del linfonodo sentinella e di procedere direttamente alla dissezione linfonodale del bacino in questione [Brancato et al. 2004, Nori et al. 2005]. La procedura diagnostica del linfonodo sentinella, infatti, ha i suoi costi, nonché le sue problematiche organizzative, legate anche alla sua natura multidiscipli-
Fig. 3.26. Linfadenopatia metastatica parziale, ascellare, da carcinoma mammario. Il linfonodo, di aspetto reattivo, dimostra una nodulazione interna eccentrica, ipoecogena, con multipli vasi di origine sia ilare che capsulare, al PD direzionale
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b Fig. 3.27a, b. Linfadenopatia metastatica parziale, inguinale, da melanoma. Il linfonodo di aspetto reattivo dimostra una grossolana nodulazione ipoecogena interna, eccentrica (a), con aspetto ipervascolare al PD direzionale
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nare. È quindi importante un’adeguata selezione dei pazienti candidati alla tecnica del linfonodo sentinella: nei casi con franca positività clinica, ecografica, citologica o bioptica, infatti, la necessità del linfonodo sentinella viene meno e si può direttamente procedere alla dissezione chirurgica di tale stazione linfonodale [Brancato et al. 2004]. Da parte dell’ecografista è necessaria una paziente ed attenta esplorazione della o delle stazioni linfonodali del caso, per identificare i linfonodi francamente maligni o per rilevare quelli sospetti, indeterminati o semplicemente aspecifici, verso i quali guidare una FNAC o una core biopsy mirate. Concettualmente è possibile inviare alla procedura del linfonodo sentinella i casi selezionati in questo modo che risultino ancora negativi (poiché la negatività dell’US e della FNAC non esclude virtualmente un impegno micrometastatico) [Voit et al. 2006]. Per quelli positivi per un coinvolgimento metastatico si può già programmare, come detto, la dissezione del bacino linfonodale in questione, evitando procedure del linfonodo sentinella non necessarie (sino al 16% dei casi in uno studio sul melanoma) [Voit et al. 2006].
3.4. La tumefazione superficiale palpabile: le cause, la diagnostica differenziale, gli elementi di sospetto per malignità I tumori maligni dei tessuti molli superficiali costituiscono l’1% dei tumori dell’adulto ed il 6% di quelli pediatrici, risultando circa quattro volte più frequenti dei corrispettivi scheletrici [Moskovic 2004]. In realtà, tuttavia, solo l’1% dei tumori dei tessuti molli è maligna e quindi, dinanzi ad una tumefazione palpabile o anche ad una documentata formazione solida, bisogna partire dall’idea che quasi sempre si tratta di una lesione benigna. Ciò considerando tuttavia che il primo problema con i sarcomi è proprio quello di un’iniziale sottovalutazione e quindi di una possibile diagnosi tardiva. Tutte le lesioni sintomatiche, accresciutesi rapidamente e/o di dimensioni >5 cm devono essere investigate. Tuttavia, bisogna ricordare come molto spesso le diverse metodiche di imaging non riescano a caratterizzare definitivamente queste lesioni e che quindi, in molti casi, è necessario ricorrere alla FNAC, peraltro spesso insufficiente, e soprattutto alla core biopsy o alla biopsia incisionale; un’incisione bioptica in sede inappropriata può, in effetti, compromettere il successivo approccio chirurgico e pertanto, quando possibile, si preferisce ricorrere alla core biopsy, ad esempio con aghi da 14 G. La definizione accurata del quadro istologico (tipo e grado) è fondamentale per la programmazione terapeutica. Un’inquadramento preoperatorio inaccurato fa sì che anche i casi operati lo siano spesso in maniera
non idonea, spesso con necessità di dover reintervenire in un secondo momento; un’accurata stadiazione pretrattamento è invece fondamentale: i fattori prognostici maggiori sono infatti grado istologico e resecabilità [Moskovic 2004, Vanel et al. 2002]. I sarcomi delle parti molli superficiali prediligono le estremità (20% dei casi di sarcoma in quelle superiori e 40% in quelle inferiori) e possono originare da qualsiasi struttura: tendini, cartilagine, tessuto fibroso, tessuto adiposo, tessuto nervoso, tessuto vascolare. Sono rappresentati soprattutto da liposarcoma (14% dei casi), leiomiosarcoma (8%) e istiocitoma fibroso maligno (24%). Essi hanno una crescita centrifuga a partire da un singolo punto, con sviluppo di una sorta di pseudocapsula periferica, dovuta sul versante interno a tessuto normale compresso e su quello esterno a tessuto granulativo e reattivo neovascolarizzato; nei sarcomi di alto grado questa pseudocapsula viene rapidamente superata, con infiltrazione dei tessuti circostanti, sia per contiguità che sottoforma di piccole lesioni satelliti. La stadiazione di queste neoplasie è illustrata nella Figura 3.28. Il tumore è intracompartimentale sino a quando persiste all’interno di un unico gruppo muscolare mentre diviene extracompartimentale quando deborda dal gruppo muscolare infiltrando le strutture vascolari, nervose o ossee contigue. La metastatizzazione è soprattutto ematogena (polmoni), mentre le linfadenopatie sono rare [Monetti et al. 2006, Moskovic 2004, Vanel et al. 2002]. L’imaging moderno dei tumori dei tessuti molli si basa sul largo impiego della TC e soprattutto della RM, in grado di fornire tutte le informazioni necessarie per la caratterizzazione (pur con le necessità bioptiche eventuali) ed il bilancio di estensione (diffusione extracompartimentale, coinvolgimento del fascio neurovascolare, interessamento osseo, ecc.) ai fini della pianificazione terapeutica (operabilità radicale o meno, conservazione vs. amputazione, eventuale radioterapia o chemioterapia neoadiuvante e/o adiuvante, ecc.); il grado di malignità non è invece definibile con metodiche di imaging, sebbene le forme meno differenziate tendano ad avere una struttura più disomogenea di quelle ben differenziate [Hughes et al. 2000]. Se tuttavia ciò è sicuramente vero se si considera l’argomento “sarcomi”, lo è di meno se si valuta il paziente con potenziale sarcoma alla luce della presentazione clinica, e cioè dell’ampio e complesso argomento “tumefazione superficiale palpabile”. In questo caso, infatti, alla riferita tumefazione può non corrispondere alcuna lesione focale oppure può corrispondere una lesione assolutamente benigna. Da questo punto di vista, la metodica di prima istanza, e spesso conclusiva nei casi che non richiedono un secondo livello, è data dall’US ad alta risoluzione, in grado di ben definire l’ampio spettro di lesioni, tu-
Capitolo 3 Le problematiche cliniche Fig. 3.28. Stadiazione dei tumori dei tessuti molli. T1a, tumore superficiale (sovrastante la fascia superficiale e senza invasione di questa) ≤5 cm; T1b, tumore profondo (sovrastante la fascia superficiale con invasione di questa o sottostante la fascia) ≤5 cm; T2a, tumore superficiale >5 cm; T2b, tumore profondo >5 cm
morali e non, che possono essere responsabili di una “tumefazione palpabile” (Figg. 3.29-3.34). Bisogna comunque segnalare come l’US abbia una limitata possibilità di caratterizzazione di queste lesioni e che essa non dovrebbe essere utilizzata da sola per la diagnosi definitiva [Manaster 2002, Sintzoff et al. 1992]. Tendenzialmente questi tumori, sia benigni che maligni, risultano ipoecogeni. L’ecotessitura
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tuttavia, iperecogena o ipoecogena rispetto ai muscoli adiacenti, non appare una discriminante maggiore tra tumori muscoloscheletrici benigni e maligni, con una sensibilità dell’82% e una specificità del 38%; analoghe considerazioni valgono per l’omogeneità strutturale, con sensibilità dell’85% e specificità del 40% per la diagnosi di malignità [Bodner et al. 2002]. Non di rado, infatti, un tumore maligno delle parti
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Fig. 3.29a, b. Miosite ossificante della coscia. Voluminosa zolla calcifica profonda nel comparto anteriore della coscia (tra i calibri), subito al di sopra del femore (freccia)
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Fig. 3.30. Granuloma da corpo estraneo della gamba. Formazione sottocutanea ipoecogena, a margini irregolari. L’ECD permette di riconoscere il corpo estraneo (scheggia metallica) grazie ad un evidente artefatto da luccichio
Fig. 3.33. Esostosi osteocartilaginea della gamba. A livello della superficie tibiale si osserva uno sperone osseo con sottile rivestimento ipoecogeno superficiale ed ombra acustica posteriore
Fig. 3.31. Cicatrice muscolare post-traumatica a livello della coscia. Grossolana cicatrice ecogena in rapporto con il vasto laterale
Fig. 3.34. Cisti sottocutanea della fronte in bambino. Formazione ipoecogena omogenea a livello sovraorbitario
Fig. 3.32. Recidiva di melanoma del derma. Nodulo sottocutaneo, lobulato, ipoecogeno, con segnali vascolari all’ECD
molli si presenta con struttura interna omogenea e con margini ben delimitati [Sintzoff et al. 1992]. Il Doppler spettrale e colore può fornire qualche informazione addizionale: in due studi sui tumori molli degli arti, l’US aveva da sola una sensibilità del 60-75% ed una specificità del 50-55%, che salivano rispettivamente all’85-90 ed al 90-91% se combinate con i dati ECD [Belli et al. 2000, Lagalla et al. 1998]. Le lesioni benigne (eccetto chiaramente gli angiomi) hanno vascolarizzazione scarsa o talora assente, con vasi di aspetto regolare, dislocati ma non infiltrati, senza particolari modifiche della vascolarizzazione perilesionale [Bottinelli et al. 2006]. I segni di malignità più indicativi sono la presenza di poli vascolari multipli (>2) e la visibilità di vasi intralesionali tortuosi ed irregolari [Lagalla et al. 1998]. In uno studio [Bodner et al. 2002], che peraltro comprendeva lesio-
Capitolo 3 Le problematiche cliniche ni sia ossee che dei tessuti molli, sono stati identificati alcuni criteri Doppler maggiori, spettrali e colore, per la diagnosi di malignità: stenosi (aliasing al Doppler colore e aumento della Vmax >100% che a valle), ostruzione (flusso monofasico in un vaso, indicativo di un flusso assente a valle), triforcazione (suddivisione di un vaso in tre rami contemporanei) e pattern vascolare di tipo anarchico. Venivano definiti anche tre criteri minori: shunt arterovenosi (segnalati da IR <0,5), auto loop (vaso che si connette circolarmente a sé stesso), e rapporto tra IR minimo e massimo su 5 vasi <0,67; in particolare l’IR medio di tutti i tumori muscoloscheletrici maligni era di 0,5 e quello dei corrispettivi benigni di 0,79. La combinazione di due qualsiasi dei criteri maggiori forniva i risultati migliori, con una sensibilità del 94% ed una specificità del 93%. In altri contributi, tuttavia, l’analisi spettrale non è risultata utile ai fini diagnostico-differenziali, soprattutto per l’ampia variabilità e sovrapposizione dei reperti: l’IR delle lesioni benigne è risultato in media di 0,72 (ma con SD di ±0,42) e quello delle lesioni maligne di 0,62 (ma con SD di ±0,36) [Kaushik et al. 2003]. In particolare, le velocità venose e la velocità diastolica non sembrano utili mentre qualche dato discriminante può essere basato sulla velocità sistolica, in media di 27 cm/s nelle lesioni benigne e di 55 cm/s in quelle maligne [Belli et al. 2000]. Con la compressione del trasduttore è possibile valutare la deformabilità o meno della lesione superficiale, con suggestione di benignità nel primo caso e di malignità del secondo. Allo stesso modo, all’ECD, è possibile sopprimere il flusso arterioso afferente ed i segnali colore interni alle lesioni benigne, molto meno in quelle maligne. Qualche informazione preliminare è stata ottenuta dall’analisi delle curve intensità/tempo ottenute con ECD e mdc, che ha dimostrato, pur nella variabilità delle curve stesse, un picco rapido e irregolare nella fase di wash-in delle lesioni maligne e, soprattutto, un andamento caratteristico della fase di wash-out, con una lenta discesa dei valori con picchi più piccoli e ravvicinati, oppure con una discesa più rapida seguita da picchi più piccoli e diradati o infine con un plateau a picchi irregolari seguito dalla discesa anch’essa con picchi irregolari [Bottinelli et al. 2006, De Marchi et al. 2002]. I lipomi hanno un aspetto ovalare o francamente allungato (discoide), con il diametro maggiore parallelo alla cute (rapporto larghezza/profondità di circa 3:1). Prediligono la metà superiore del corpo e si localizzano nello strato sottocutaneo o, talora, a livello intramuscolare (sede sovrafasciale nel 70% dei casi). L’ecotessitura dei lipomi è omogenea in circa 2/3 dei casi e disomogenea in 1/3; spesso si rilevano strie interne iperecogene, orientate secondo l’asse maggiore del nodulo. I margini sono ben definiti nel 60% delle lesioni, specie le più superficiali, e mal definiti nei ri-
manenti, generalmente profondi. Rispetto alle strutture viciniori, i lipomi sono iperecogeni nel 29% dei casi, ipoecogeni nel 29%, isoecogeni nel 20% e misti nel 20%. L’ECD può dimostrare qualche sporadico segnale colore periferico, in forma generalmente di singolo vaso a decorso regolare, mentre la CEUS non dimostra variazioni nelle diverse fasi di circolazione del mdc; qualora si rilevino segnali colore significativi o dei fenomeni di contrast enhancement è necessario un approfondimento bioptico, possibilmente mirato sull’area vascolarizzata, per escludere un liposarcoma ben differenziato [Bacaro et al. 2004, Fornage 2000a] (Figg. 3.35-3.38). Gli angiomi, lobulati, possono essere marcatamente ipoecogeni, debolmente ipoecogeni e talora iperecogeni; inoltre possono apparire omogenei, disomogenei o multiloculati. I margini possono essere netti o anche
Fig. 3.35. Lipoma della parete toracica. Al di sopra del piano muscolare e costale si osserva una formazione allungata, isoecogena rispetto al grasso sottocutaneo
Fig. 3.36. Lipoma sovracromiale. Lesione allungata (frecce), ecogena, posta superficialmente all’articolazione acromioclaveare, dissociabile da questa
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Fig. 3.37. Fibrolipoma del gluteo. Formazione sottocutanea tenuemente iperecogena, appena disomogenea, con qualche sporadico segnale vascolare al PD direzionale
Fig. 3.39. Angioma del piede. Neoformazione ipoecogena disomogenea, poco vascolarizzata al PD direzionale
a Fig. 3.38. Fibrolipoma della guancia. Formazione ipoecogena, leggermente disomogenea, ben delimitata, con qualche segnale vascolare al PD direzionale
infiltranti; in quest’ultimo caso, la lesione può essere di difficoltosa identificazione, specie se intramuscolare. Caratteristici sono i fleboliti, grossolanamente ecogeni e con ombra posteriore. La compressione con la sonda riduce notevolmente le dimensioni lesionali e fa scomparire in particolare le lacune anecogene, corrispondenti agli spazi vascolari (cfr. Fig. 2.40). Il segnale all’ECD è variabile, da forme ipovascolari a forme ipervascolari, e la compressione riduce sensibilmente il flusso [Fornage 2000a] (Figg. 3.39-3.43). I linfangiomi, poco frequenti, si riscontrano soprattutto in bambini (specie <2 anni) e si localizzano soprattutto nel capo, nel collo o nella porzione superiore del torace, specie in sede ascellare. Ecograficamente appaiono come formazioni ipoecogene, a margini più o meno definiti, di solito multiloculate con
b Fig. 3.40a, b. Angioma del gomito. Formazione ipoecogena disomogenea, mal delimitata (a), con diffusi laghi vascolari al PD (b)
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
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Fig. 3.41a, b. Angioma della coscia. Neoformazione ipoecogena all’interno del muscolo vasto mediale (a). Diffusa vascolarizzazione, specie periferica, al PD direzionale (b)
Fig. 3.42. Angioma sottocutaneo della gamba, valore della compressione. Formazione ovalare ipoecogena, con alcuni vasi interni all’ECD che vengono completamente annullati dalla pressione con la sonda
Fig. 3.43a, b. Angioma venoso della gamba. Formazione ipoecogena ben delimitata, con qualche segnale di flusso al PD direzionale (a) e con flusso di tipo venoso a livello paranodulare (b)
setti di variabile spessore, ma generalmente sottili, e con possibili componenti solide [An et al. 2005, Reading 1996]. Le borsiti si localizzano chiaramente nelle sedi anatomiche paraarticolari ove sono presenti delle borse sinoviali. Si rilevano delle formazioni di aspetto cistico, a parete spessa e ben evidente e con contenuto interno omogeneo oppure caratterizzato da setti e proiezioni similpapillari (cfr. Fig. 3.82). L’ECD può dimostrare segnali vascolari sia nella parete, che nei setti, che nelle immagini papillari, senza che questo indichi in alcun modo la malignità della formazione. È piuttosto improbabile che le raccolte liquide, come ascessi ed ematomi, dimostrino proiezioni papillari e segnali vascolari interni, mentre i sarcomi dei tessuti molli non hanno mai un aspetto francamente cistico
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ed esibiscono sempre una qualche area solida [Huang et al. 2005 (Figg. 3.44, 3.45). I mixomi, generalmente intramuscolari (82% dei casi), sono rari tumori benigni, talora dolorosi, che prediligono il sesso femminile (59%), l’età medioavanzata e la sede della coscia. Essi risultano ovalari, ben delimitati, parzialmente comprimibili, ipoecogeni disomogenei, con possibili lacune cistiche e spesso con rinforzo posteriore. Frequente è la presenza, per effetto di accumuli adiposi perilesionali, di un alone perilesionale ecogeno più o meno completo e di un’area ecogena triangolare ad uno o entrambi i poli; questi ultimi reperti possono creare problemi diagnostico-differenziali con i tumori neurogeni (vedi dopo) ma a differenza di questi sono ipo-avascolari e non risultano in continuazione con un nervo [Fornage 2000a, Girish et al. 2006] (Fig. 3.46). I desmoidi, lesioni fibromatose che si sviluppano a partire dalle aponeurosi muscolari, appaiono generalmente come formazioni ipoecogene, mal delimitate, con possibile ombra posteriore e discreta vascolarizzazione all’ECD. La fascite nodulare o fibromatosi pseudosarcomatosa è un processo reattivo, autolimitantesi, composto da fibroblasti proliferanti e stroma mixoide. Si riscontra soprattutto nel terzo e quarto decennio di vita come una tumefazione a crescita rapida e talora dolente, localizzata in prevalenza alle estremità superiori (versante volare degli avambracci), nel contesto del sottocute, di un muscolo o della fascia superficiale. Si rileva un nodulo ovalare o lobulato, di 2-3 cm, isoecogeno o ipoecogeno, con eventuali segnali vascolari arteriosi, sia periferici che centrali, all’ECD e talora anche con microcalcificazioni [Nikolaidis et al. 2006]. I “tumori” neurogeni comprendono neurinomi, neurofibromi (schwannomi, benigni e maligni), gangli intraneurali, neuroma di Morton (pianta del piede) e neuromi post-traumatici (compresi quelli da amputazione dopo resezione chirurgica di un nervo) (Fig. 3.47); la forma maligna è costituita dal tumore maligno delle guaine nervose periferiche [Thain et al. 2002]. Vi sono sintomi neurologici periferici ed anche ipotrofia dei muscoli dipendenti da quel nervo. Ecograficamente la lesione si dispone secondo l’asse maggiore del nervo e può apparire prolungarsi, prossimamente e distalmente, in una banda ecogena fibrillare corrispondente al nervo stesso; inoltre la lesione disloca il grasso ecogeno circostante con la creazione di un’immagine pseudocapsulare. Gli schwannomi, i più importanti, prediligono capo, tronco ed estremità, sono spesso eccentrici rispetto al nervo e si presentano come formazioni ovalari, ben definite, ipoecogene omogenee, con rinforzo posteriore; la struttura interna può essere grossolana, con aree iperecogene o similcistiche [Beggs 1999]. I neurofibromi sono meno ben delimitati degli schwannomi, lobulati e spesso fu-
Fig. 3.44. Ascesso sottocutaneo dell’avambraccio in tossicodipendente. Formazione ipoecogena disomogenea, colliquata, mal delimitata, con fenomeni di iperemia marginale al PD direzionale
Fig. 3.45. Ascesso della gamba in paziente diabetico con NHL. Formazione intramuscolare, ipo-anecogena, con quote corpuscolate. Avascolarità delle componenti colliquate ed iperemia di quelle non colliquate al PD direzionale
Fig. 3.46. Mixoma della coscia. Formazione ipoecogena, con guscio ecogeno oblungo, in corrispondenza del ventre del muscolo vasto mediale
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.47. Neuroma da amputazione. Formazione bulbosa ipoecogena all’estremo distale di un nervo della coscia in un paziente operato per sarcoma
siformi, essendo allungati lungo l’asse longitudinale del nervo. Talora si rileva un alone iperecogeno interno, praticamente patognomonico [Beggs 1998] (Figg. 3.48, 3.49). Le lesioni possono essere multiple (neurofibromatosi). Nelle manovre flesso-estensorie, attive o passive, si dimostra la scarsa mobilità del tumore neurogeno rispetto alle strutture muscolo-tendinee circostanti [Fornage 2000a]. Il color-Doppler evidenzia l’ipervascolarità interna, più marcata negli schwannomi, e la vicinanza di un fascio neurovascolare [Thain et al. 2002]. Nelle forme maligne le dimensioni sono di solito significative (>5 cm), i margini irregolari ed infiltranti, la struttura interna disomogenea con aree ipo-anecogene di tipo necrotico (Figg. 3.50, 3.51, Video 3.3). In caso di FNAC o biopsia il paziente avverte una scossa dolorosa, che costituisce un’ulteriore conferma diagnostica.
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Fig. 3.48a, b. Schwannoma ascellare (nervo mediano). Nodulo ovalare, macrolobulato, ipoecogeno disomogeneo, con maggiore ecogenicità interna (a). La flussimetria Doppler dimostra basse velocità (Vmax 13 cm/s) con inversione del flusso durante la diastole (b)
Fig. 3.49a, b. Neurinoma della gamba. Al terzo prossimale della gamba si osserva una formazione lobulata, ipoecogena, relativamente omogenea, discretamente vascolarizzata al PD direzionale (a). La ricostruzione TC in 3D dimostra la dislocazione delle strutture vascolari contigue alla neoformazione (b)
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Fig. 3.50. Schwannoma maligno della gamba. Voluminosa formazione ipoecogena disomogenea, con ampie lacune anecogene necrotico-emorragiche
Fig. 3.51. Schwannoma maligno dell’avambraccio. Voluminosa formazione ipoecogena disomogenea con multiple lacune anecogene nel suo contesto
Le metastasi cutanee e sottocutanee ematogene sono piuttosto rare, escludendo quelle da melanoma (cfr. paragrafo 3.1), e derivano soprattutto da tumori polmonari, renali e digestivi (Fig. 3.52). Quando di piccole dimensioni tendono ad essere rotondeggianti, per assumere poi progressivamente una forma irregolare. Talora si rilevano calcificazioni, specie nelle lesioni da tumori gastrointestinali. Nei linfomi le lesioni sono spesso ipervascolari, sebbene con un’angioarchitettura relativamente armonica [Fornage 2000a]. Nei sarcomi dei tessuti molli bisogna cercare di definire con accuratezza la sede, le dimensioni, l’estensione, i rapporti con le strutture contigue (ossa, vasi, nervi), anche se ciò viene svolto con più efficacia da TC e RM [Hughes et al. 2000]. L’aspetto è di solito relativamente delimitato, lobulato e ipoecogeno, an-
Fig. 3.52. Metastasi sottocutanea della parete addominale, da carcinoma polmonare. Grossolana nodulazione ipoecogena, con vascolarizzazione discreta ed irregolare al PD direzionale
che se alcuni liposarcomi possono apparire iperecogeni. Possono essere presenti calcificazioni, specie nei sarcomi sinoviali, ed aree necrotiche. La maggioranza delle lesioni è ipervascolare, con vasi distribuiti caoticamente ed eterogenei per densità e morfologia; esistono peraltro anche forme nettamente ipovascolarizzate [Fornage 2000a]. Le metastasi linfonodali sono più rare di quelle ematogene, ma comunque possibili, e pertanto è necessaria un’esplorazione della stazione linfatica di riferimento (Figg. 3.53-3.56). La differenziazione tra i diversi tipi di sarcoma è alquanto difficoltosa per l’ecografista, sebbene anche per TC e RM vi sia una discreta variabilità e sovrapposizione dei differenti istotipi, e quindi sia per questo tipo di caratterizzazione che per la definizione di grado bisogna attendere i dati istologici [Hughes et al. 2000]. Fino al 60% dei liposarcomi non presenta quote adipose macroscopiche e, comunque, queste sono più difficili da riconoscere con US che con TC o RM [Manaster 2002]. Nei liposarcomi mixoidi e nei sarcomi sinoviali può prevalere la componente liquida, con aspetto cistico e ipovascolare. I liposarcomi ben differenziati possono avere un aspetto molto simile a quello dei frequentissimi lipomi semplici superficiali (liposarcomi lipoma-like), risultando a crescita lenta, di aspetto adiposo, omogenei e ben delimitati (Figg. 3.57, 3.58). In questi casi, soprattutto se la formazione non è sottocutanea, bisogna attentamente ricercare eventuali aree di disomogeneità ecotessiturale oppure aree con segnali vascolari al colorDoppler e guidarvi la biopsia. In alternativa, è importante l’accurata definizione dimensionale ed il monitoraggio nel tempo. I sarcomi sinoviali costituiscono l’8-10% dei sarcomi dei tessuti molli e sono caratterizzati da una ten-
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
a Fig. 3.54. Sarcoma della coscia. A livello della regione crurale si osserva una voluminosa massa ipoecogena disomogenea, con qualche segnale vascolare periferico al PD direzionale
b
c Fig. 3.53a–c. Sarcoma dell’avambraccio. Formazione ipoecogena disomogenea, con lacune anecogene all’US (a). Aspetto nell’immagine RM assiale, con enhancement periferico irregolare (b). Esposizione chirurgica (c)
denza alla diffusione extracompartimentale precoce e da una localizzazione tipicamente paraarticolare o, talora (5-10%), intrarticolare. La sede più frequente è data dagli arti inferiori, specie a livello del ginocchio.
L’US mostra formazioni ipoecogene aspecifiche. Nel 20-30% dei casi sono presenti calcificazioni intralesionali, che possono suggerire la diagnosi corretta, così come i segni di infiltrazione delle strutture ossee contigue [Manaster 2002, Marzano et al. 2004]. Per quanto riguarda le tumefazioni dei tessuti molli delle diverse regioni anatomiche, gli aspetti clinici e semeiologici di queste sono trattati specificamente per ciò che concerne la regione ascellare (paragrafo 3.5), la regione inguinale e crurale (paragrafo 3.6), il cavo popliteo (paragrafo 3.7), il collo con le fosse sovraclaveari (paragrafo 3.9), la parete toracica e addominale (compresa la mammella maschile, paragrafo 3.16). Nel polso e nella mano le lesioni espansive sono soprattutto di tipo distrofico ed amartomatoso piuttosto che di tipo tumorale ma queste ultime si localizzano nei tessuti molli nel 70% dei casi. Si riscontrano in tutti i gruppi di età, senza particolare predilezione di sesso: muscoli accessori, miosite ossificante circoscritta, gangli, tumori gigantocellulari delle guaine tendinee, angiomi, lipomi, fibromatosi palmare di Dupuytren, fibrolipoma del nervo mediano, leiomiomi, neurofibromi, schwannomi, sarcomi sinoviali [Garcia et al. 2001]. Le cisti gangliari prediligono il dorso del polso e della mano (59% delle tumefazioni dei tessuti molli della mano) e sono strutture a contenuto mucoso, adiacenti alle guaine dei tendini (laddove le cisti sinoviali sono invece estroflessioni della membrana sinoviale attraverso la capsula e quindi risultano comunicanti); appaiono come formazioni rotondeggianti o ovalari, ipoecogene, ben delimitate, anecogene o marcatamente ipoecogene, con rinforzo posteriore (Fig. 3.59). Nel piede si possono segnalare altre forme più peculiari, quali il già menzionato neuroma di Morton e la fibromatosi plantare di Lederho-
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Fig. 3.55a–d. Liposarcoma della coscia. Formazione ipoecogena disomogenea, con porzione necrotica eccentrica, all’US (a). Immagine RM assiale (b). Esposizione chirurgica (c). Pezzo operatorio (d)
Fig. 3.56. Liposarcoma del collo. Massa ipoecogena disomogenea, con modica vascolarizzazione allo studio con modalità dynamic flow
Fig. 3.57. Liposarcoma lipoma-like della coscia. Formazione sottocutanea ecogena disomogenea
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
a
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Fig. 3.58a, b. Liposarcoma lipoma-like del braccio. Formazione ipoecogena relativamente omogenea e delimitata all’US (a), con aspetto omogeneamente iperintenso nell’immagine RM assiale (b)
Fig. 3.59. Cisti sinoviale del polso. Formazione anecogena lobulata a livello del comparto flessorio
Fig. 3.60. Granulomi glutei. In sede glutea si osservano due elaiomi, uno più recente di aspetto ipoecogeno e con rinforzo posteriore (destra) e l’altro meno recente con ampio guscio calcifico ed ombra posteriore (sinistra)
se, sottoforma di nodulazioni ipoecogene ovalari dell’aponeurosi plantare [Monetti et al. 2006]. Tra le tumefazioni delle dita si ricordano: gangli e cisti sinoviali, cisti da inclusione epidermica (letto ungueale), tumori gigantocellulari della guaina tendinea, fibromi della guaina tendinea, condromi extrascheletrici, neurofibromi, lipomi, angiomi, tumori glomici (letto ungueale, con erosione ossea) [Horcajadas et al. 2003]. I tumori gigantocellulari localizzati delle guaine tendinee prediligono appunto le dita ed appaiono come formazioni ipoecogene adiacenti ai tendini, di normale aspetto; possono erodere la corticale ossea e dislocare le arterie digitali. Le tumefazione dei tessuti molli della regione scapolare comprendono: borsite sottoacromion-deltoidea, cisti acromio-claveari, raccolte liquide (ematomi, ascessi, raccolte postoperatorie, ecc.), osteocondromatosi sinoviale, miosite ossificante, lipomi, istiocitomi fibrosi, fascite nodula-
re, fibromatosi, tumori delle guaine nervose, elastofibromi del dorso, sarcomi, formazioni di origine ossea e cartilaginea [Harish et al. 2007]. A livello gluteo le masse, specie se profonde, possono raggiungere dimensioni cospicue prima di venire identificate e la sintomatologia è legata alla compressione del nervo ischiatico oppure, appunto, alla tumefazione della regione glutea. I processi patologici riscontrabili, uni- o talora anche bilaterali, comprendono: borsite ischiatica (superficialmente alla tuberosità), neoformazioni originanti dalle strutture ossee o cartilaginee posteriori del bacino, tumori neurogeni (nervo ischiatico), metastasi muscolari, cisti epidermoidi da inclusione, cisti da duplicazione rettale, aneurisma dell’arteria ischiatica, meningocele sacrale laterale, amiloidomi (emodialisi cronica), sequele postiniettive (necrosi tissutali, ascessi, granulomi - elaiomi) [Yoshikawa et al. 1999] (Fig. 3.60).
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3.5. Le tumefazioni ascellari: le cause, la diagnostica differenziale L’ascella è uno spazio adiposo piramidale contenente l’arteria e la vena ascellari ed il plesso brachiale; è delimitata, anteriormente, dal grande e piccolo pettorale, dal succlavio e dal legamento sospensore dell’ascella; posteriormente, dai muscoli sottoscapolare, grande rotondo e latissimo del dorso; medialmente, dal serrato anteriore e dalle prime cinque coste; lateralmente, dal coraco-brachiale, dal tendine del bicipite e dal solco omerale intertubercolare [An et al. 2005]. I linfonodi ascellari drenano l’arto superiore, la parete toraco-addominale sino all’ombelico e la mammella. Con i moderni apparecchi è possibile riconoscere i linfonodi ascellari, o parte di essi, nella maggioranza dei pazienti; relativamente frequente è anche il riscontro di linfonodi in involuzione adiposa, anche di discrete dimensioni [Lernevall 2000]. Le tumefazioni ascellari sono costituite da linfadenopatie, da alterazioni cutanee (cisti sebacee, idrosadenite suppurativa, ecc.), da tumori derivanti dai tessuti mesenchimali di questa sede (soprattutto lipomi, ma anche linfangiomi, neurinomi, ecc.), da tessuto mammario accessorio o da alterazioni di quest’ultimo, da anomalie vascolari (aneurismi, ecc.), da raccolte liquide postoperatorie [An et al. 2005] (Fig. 3.61). Una “mammella accessoria” si riscontra, in modo più o meno evidente, nel 5-6% delle donne e, quando priva di capezzolo o areola, risulta di difficoltosa diagnosi clinica, confondendosi con altri espansi ascellari. Questo tessuto mammario ectopico può sviluppare, sebbene piuttosto raramente, lesioni a loro volta responsabili di tumefazione palpabile: alterazioni fibrocistiche, galattoceli, fibroadenomi, tumori filloidi, carcinomi [An et al. 2005, Vignal 2005] (Figg. 3.62, 3.63). Le cause più importanti di linfadenopatie ascellari sono costituite dai linfomi e dalla metastasi da carcinoma mammario (talora occulto, cfr. paragrafo 3.42 sulla CUP syndrome) o da altri tumori come il melanoma (Figg. 3.64-3.68). Vi sono comunque anche forme benigne, come nelle flogosi acute e croniche, nelle granulomatosi, nelle connettiviti o nelle immunodeficienze; una forma particolare è rappresentata dalle linfadenopatie da silicone [An et al. 2005, Lernevall 2000] (Fig. 3.69). Il riscontro di linfonodi ingranditi a livello ascellare e sottoascellare nel corso di esami mammografici è relativamente frequente. Se ciò avviene in assenza di alterazioni mammarie visibili e specie nel contesto di un “seno chiaro” può non essere necessaria una valutazione ecografica del cavo ascellare, specie se sul piano clinico detti linfonodi non destano sospetto o non vengono neanche percepiti e sul piano mammografico essi hanno un aspetto adiposo. Se tuttavia la mammella non è perfettamente esplorabile con la mammografia, per presenza di
Fig. 3.61. Linfocele ascellare dopo vuotamento linfonodale per carcinoma mammario. Raccolta liquida pluriloculata anecogena
Fig. 3.62. Mammella ectopica. Tessuto ghiandolare mammario soprannumerario in sede ascellare (frecce)
Fig. 3.63. Fibroadenoma mammario ectopico. Nodulo ipoecogeno, omogeneo e ben delimitato, con minimi segnali colore al PD direzionale, insorto in sede ascellare su tessuto ectopico
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
a Fig. 3.64. Linfadenopatia metastatica ascellare da carcinoma mammario. Linfonodo di discrete dimensioni (25 mm), ovalare e con seno conservato, ma con marcato ed asimmetrico ispessimento corticale
b Fig. 3.66a, b. Linfadenopatie metastatiche ascellari da melanoma. Voluminosa linfadenomegalia ipoecogena disomogenea (a). Si associano altri due linfonodi metastatici, il più piccolo ancora con parziale conservazione dell’ilo ecogeno centrale (b) Fig. 3.65. Linfadenopatia metastatica ascellare da carcinoma polmonare. Linfonodo a tendenza rotondeggiante, ipoecogeno disomogeneo con sovvertimento strutturale, rinforzo posteriore e cospicua asimmetrica ipervascolarizzazione multipolare al PD direzionale
quote ghiandolari o fibroghiandolari preponderanti, ed i linfonodi hanno un aspetto denso, può essere opportuna una correlazione US. In uno studio [Shetty et al. 2004] su 30 pazienti consecutive con reperto mammografico di linfadenomegalie ascellari isolate, l’US dimostrava linfonodi patologici in ben 20 casi e la diagnosi finale era di tipo tumorale (carcinoma mammario, linfoma o altra neoplasia) in 10. In altri due studi l’incidenza di malignità dei linfonodi riscontrati incidentalmente nel corso di mammografie di screening o di routine era del 52% [Given-Wilson et al. 1997] e del 45% [Bergvist et al. 1996]. Probabilmente questi valori così elevati dipendono dai criteri di inclusione e soprattutto da cosa si intendeva per
Fig. 3.67. Linfadenopatia metastatica ascellare da melanoma. Linfonodo disomogeneo, con porzione superficiale ipoecogena ed ipervascolarizzata al PD direzionale e porzione profonda più ecogena e meno vascolarizzata
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“linfonodi anormali alla mammografia”. L’esperienza personale è differente: nella larghissima maggioranza dei casi si riscontrano solo grosse linfadenomegalie di aspetto involutivo-adiposo o, all’opposto, non si riesce a rilevare alcun linfonodo ingrandito neanche dopo un accurato studio US ad alta risoluzione. In ogni caso, l’US è efficace nella valutazione di detto reperto mammografico, identificando efficacemente i casi con effettiva presenza di linfonodi anomali, caratterizzandone la natura e guidandone l’ago-aspirazione [Shetty et al. 2004]. Una falsa immagine di nodulazione ascellare, in grado di simulare in particolare un linfonodo ipoecogeno, è data da anomalie vascolari venose ed in particolare dai piccoli aneurismi sacciformi o dalle varicosità della vena succlavia; la conoscenza di quest’evenienza e la sua dimostrazione con ECD sono importanti, anche al fine di evitare l’eventuale biopsia del reperto pseudonodulare [Fornage 2000b].
3.6. Le tumefazioni inguino-crurali: le cause, la diagnostica differenziale
b Fig. 3.68a, b. Linfadenopatie metastatiche ascellari da melanoma. Due grossolane adenomegalie ipoecogene disomogenee, confluenti (a). La studio con sonda internistica (b) ne permette la visione d’insieme e la misurazione
Fig. 3.69. Linfadenite ascellare. Grossolana linfadenomegalia ipoecogena (tra i calibri), con modica vascolarizzazione ilare all’ECD
Nella regione inguino-crurale bisogna distinguere due diverse aree anatomiche contigue: il canale inguinale ed il triangolo femorale di Scarpa. Il canale inguinale comprende il canale propriamente detto, creato dal decorso del legamento inguinale (che ha una conformazione ad “U” in sezione trasversa) e che contiene il funicolo spermatico nel maschio ed il legamento rotondo nella donna, ed i rivestimenti del funicolo (fascia spermatica esterna, fascia e muscolo cremasterico, fascia spermatica interna). A sua volta il funicolo contiene i deferenti, l’arteria deferenziale, l’arteria testicolare, il plesso pampiniforme, vasi linfatici e fibre nervose. Il triangolo di Scarpa è delimitato dal legamento inguinale superiormente, dal margine mediale del muscolo adduttore lungo medialmente e dal margine mediale del muscolo sartorio lateralmente mentre i muscoli ileopsoas, pettineo e adduttore lungo ne formano il pavimento. Nel triangolo femorale alloggiano la guaina femorale, con all’interno la vena femorale, l’arteria femorale ed il canale femorale (contenente il linfonodo di Cloquet), e poi anche il nervo femorale, la crosse della grande safena con la giunzione safeno-femorale, i linfonodi inguinali superficiali, la borsa ileo-pettinea [Shadbolt et al. 2001, van den Berg et al. 2000]. Le tumefazioni inguinali possono essere di varia origine: ernie, linfadenopatie (linfomi, metastasi, flogosi, ecc.), leiomiomi uterini, endometriosi, desmoidi, tumori dei tessuti molli o del funicolo, raccolte liquide, formazioni di origine vascolare, borsiti, testicolo ritenuto, formazioni di origine ossea [Sarna et al. 2005, Shadbolt et al. 2001] (Figg. 3.70-3.74).
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
a Fig. 3.70. Linfadenite inguino-crurale acuta. Due voluminosi linfonodi ipoecogeni, con sottile residuo ilare ecogeno centrale ed addensamento edematoso del grasso circostante
b
Fig. 3.71. Linfocele inguinale dopo vuotamento per linfonodo sentinella positivo. Grossolana raccolta liquida disomogenea
Fig. 3.72. Linfocele inguinale postescissionale. L’ECD evidenzia una raccolta liquida leggermente disomogenea, adiacente alla vena grande safena e ad una linfadenopatia linfomatosa
Fig. 3.73a, b. Metastasi della branca ileo-pubica da carcinoma polmonare. Lo studio ecografico di un paziente con nuova diagnosi di carcinoma polmonare e dolenzia inguinale evidenzia una formazione ipoecogena conglobante le strutture ossee, interrotte (a). La TC conferma la massa protrudente nei tessuti molli profondi dell’inguine (b, freccia)
Le tumefazioni dei linfonodi inguinali superficiali e profondi, o anche di quelli crurali e del triangolo di Scarpa, sono legate, in ambito oncologico, a linfomi (cfr. Fig. 2.11)oppure a metastasi; queste ultime possono essere dovute a melanomi ed epiteliomi cutanei degli arti inferiori (ma anche del tronco), a tumori d’altro tipo degli arti inferiori e bacino, a neoplasie dei genitali esterni (vagina, vulva, pene) o del terzo inferiore del retto e dell’ano, o a tumori addominopelvici profondi (colon, retto, cervice, endometrio, ovaio, ecc.), che possono avere la linfadenopatia metastatica talora anche quale primo segno di presentazione di una malattia occulta o di una recidiva [Sarna et al. 2005, Shadbolt et al. 2001, van den Berg et al.
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a Fig. 3.75. Linfadenopatia metastastica inguinale da melanoma. Grossolana linfadenopatia ipoecogena disomogenea, con iniziale necrosi anecogena centrale
b Fig. 3.74a, b. Condrosarcoma pubico. Grossolana formazione con centro necrotico a livello pubico (a). La ricostruzione TC in coronale senza mdc e.v. (b, frecce) documenta meglio l’osteolisi e la conformazione bilobata, endo- ed esofitica, della neoformazione ma ne definisce meno bene la struttura interna, apparentemente omogenea
1998] (Figg. 3.75-3.79, cfr. anche Fig. 2.11). L’US può essere impiegata in via preliminare per esaminare i linfonodi preliminari nei soggetti candidati alla dissezione inguino-femorale uni- o anche bilaterale, procedura che comporta sicuramente problematiche notevoli per il paziente, con possibilità di linfedema e di conseguenza anche sul distretto venoso dell’arto. Pertanto, un accurato studio US di questi linfonodi può aiutare a selezionare i pazienti effettivamente candidati al vuotamento inguinale: in uno studio su pazienti con carcinoma squamoso della vulva, ad esempio, l’US aveva una concordanza con l’istologia linfonodale postoperatoria del 92% e la FNAC condotta sul linfonodo più voluminoso o più anormale del 90%; i due test insieme permettevano di classificare correttamente il 95% degli “inguini” esaminati [Hall et al. 2003].
Fig. 3.76. Linfadenopatia metastatica inguinale quale presentazione clinica di un carcinoide del cieco. Voluminosa (29 mm) linfadenopatia ipoecogena disomogenea
Fig. 3.77. Linfadenopatia metastatica inguinale da carcinoma della cervice uterina. Linfadenopatia ipoecogena disomogenea, con tendenza alla colliquazione centrale ed asimmetrica ecovascolarità al PD direzionale
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.78. Linfadenopatia metastastica inguinale da carcinoma squamoso penieno. Impegno linfonodale parziale con ampia zolla ipoecogena eccentrica (frecce)
Fig. 3.80. Ernia inguinale a contenuto ileale. Formazione con la caratteristica stratificazione della parete digestiva e presenza endolume di materiale liquido e nuclei gassosi
Fig. 3.79. Linfadenopatia metastastica inguinale da melanoma della gamba. Grossolana linfadenopatia ipoecogena disomogenea. Lieve iperecogenicità perinodulare da edema
Fig. 3.81. Borsite ileo-pettinea in paziente con artrite reumatoide. Formazione anecogena ben delimitata subito anteriormente all’articolazione coxo-femorale (frecce)
Le ernie inguinali (dirette ed indirette) o più raramente femorali, congenite o acquisite, costituiscono la causa più frequente di tumefazione inguinale palpabile e vengono agevolmente identificate e classificate dall’US; a prescindere dall’eventuale identificazione di segmenti intestinali (Fig. 3.80), già l’escursione con le manovre funzionali è sufficiente ai fini diagnostici (cfr. paragrafo 3.13) [Gokdale et al. 2006]. Il liquido presente nelle ernie congenite può anche restare intrappolato, perdendo la sua comunicazione con la cavità peritoneale, e creare così una formazione similcistica [Shadbolt et al. 2001]. I testicoli ritenuti si possono arrestare in un punto qualsiasi del canale inguinale ma sono generalmente localizzati nel terzo mediale; generalmente di dimensioni ridotte, risultano di aspetto ovalare, con struttura ipoecogena omogenea ma senza evidenza di un ilo
(a differenza dei linfonodi). Il testicolo retrattile o “ballerino” può risalire transitoriamente nella parte mediale del canale [Shadbolt et al. 2001]. Processi flogistici possono derivare dai tessuti molli superficiali o dall’articolazione dell’anca e svilupparsi come celluliti diffuse, come raccolte ascessuali delimitate o come proliferazioni sinoviali (es. da osteocondromatosi) [Gitschlag et al. 1982]. Una formazione ben delimitata, a contenuto liquido più o meno denso, può essere espressione di una borsite ileo-pettinea, associata ad esempio a patologie reumatiche [Shadbolt et al. 2001] (Fig. 3.81). Gli ematomi si formano soprattutto come conseguenza di procedure interventistiche vascolari o di traumi penetranti. Dopo cateterismi dell’arteria femorale non è rara poi la formazione di fistole arterovenose o di pseudoaneurismi, che si manifestano cli-
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nicamente come masse pulsanti e che vengono agevolmente inquadrati dall’ECD, che ne consente la distinzione dal semplice ematoma e fornisce una guida per il trattamento. La formazione, ben delimitata, a contenuto liquido, può apparire pulsante e mostrare un movimento di fini corpuscoli luminali. L’ECD documenta il flusso vorticoso o turbolento e l’eventuale quota di apposizione trombotica parietale [Gokdale et al. 2006]. L’aspetto degli aneurismi veri, molto più rari in questa sede, è simile. Lo stesso varicocele può estendersi nel canale inguinale, dimostrando multipli collettori con flusso venoso che si accentuano durante manovra di Valsalva; aspetto simile possono avere a questo livello le varici della vena grande safena [Gokdale et al. 2006, Shadbolt et al. 2001]. Tumori connettivali di ogni tipo possono originare in quest’area anatomica ma i lipomi del funicolo spermatico e del canale inguinale costituiscono la lesione tumorale extranodale più frequente; risultano fusiformi, ben delimitati e discretamente ecogeni. I tumori del deferente sono molto rari [Gokdale et al. 2006, van den Berg et al. 1998, 2000].
3.7. Le tumefazioni del cavo popliteo: le cause, la diagnostica differenziale Le masse del cavo popliteo sono generalmente palpabili, almeno al di sopra di determinate dimensioni, e costituiscono un riscontro non raro nella pratica clinica. La causa più frequente è rappresentata dalla cisti poplitea o di Baker e cioè, più propriamente, dalla distensione cistica della borsa del gastrocnemio-semimembranoso, frequente soprattutto nelle donne di età medio-avanzata con problemi degenerativi del ginocchio o nei soggetti con artrite reumatoide. La cisti appare come una formazione ovalare o più spesso allungata “a bisaccia” in senso longitudinale, posta sul versante mediale del poplite (origine del gemello mediale), con un’estroflessione all’estremo craniale che la pone in comunicazione con l’articolazione del ginocchio; le pareti sono sottili ma riconoscibili ed il contenuto può essere anecogeno, finemente corpuscolato o grossolanamente corpuscolato in caso di suppurazione. Possono anche riscontrarsi nuclei calcifici endoluminali mentre, nei soggetti con artrite reumatoide, il panno sinoviale può obliterare il lume cistico e simulare così una lesione solida. In caso di rottura della borsa il liquido diffonde nei tessuti molli del polpaccio e la cisti appare come un’area ipoecogena mal definita [Fornage 2000a, Pathria et al. 1988] (Fig. 3.82). Le cause alternative di espanso popliteo sono costituite da: aneurisma dell’arteria o più di rado della vena poplitea, cisti avventiziale dell’arteria poplitea,
Fig. 3.82. Cisti di Baker. Distensione cistica della borsa del gastrocnemio-semimembranoso, che appare come una formazione anecogena relativamente omogenea, ben delimitata, con colletto di connessione (freccia) allo spazio articolare
pseudoaneurismi dell’arteria poplitea o dei suoi rami, ascesso, ematoma, rottura muscolare, lipoma, sarcoma sinoviale [Marzano et al. 2004, Pathria et al. 1988, Toolanen et al. 1988] (Figg. 3.83-3.86). In particolare il sarcoma sinoviale trova nel ginocchio la sua localizzazione più tipica, specie posteriormente, e si presenta come una formazione ipoecogena disomogenea, con possibili calcificazioni interne. Una massa tumorale deve essere sospettata soprattutto in caso di struttura mista, cistica e solida, o comunque dinanzi ad una formazione solida disomogenea; l’ECD deve anche ricercare attentamente i rapporti con la vena poplitea, relativamente superficiale, e con l’arteria poplitea, posta più in profondità. Oltre che con la cisti di Baker complicata, la diagnosi differenziale delle neoplasie deve essere posta soprattutto con le patologie di origine va-
Fig. 3.83. Ernia sottocutanea del poplite. Piccola estroflessione adiposa a livello di una soluzione di continuo della fascia superficiale (frecce)
Capitolo 3 Le problematiche cliniche scolare, allorquando il lume del vaso stesso sia compresso o obliterato e quindi non più riconoscibile.
3.8. La recidiva dei tumori dei tessuti molli
Fig. 3.84. Aneurisma dell’arteria poplitea. Dilatazione fusiforme focale dell’arteria con trombosi luminale eccentrica
Fig. 3.85. Fibrolipoma del cavo popliteo. Voluminosa formazione ovalare, ecogena relativamente omogenea
Fig. 3.86. Recidiva di sarcoma popliteo. Nodulazione ipoecogena disomogenea, con qualche segnale marginale al PD direzionale, a livello del letto chirurgico
La recidiva locale dei tumori maligni dei tessuti molli è relativamente frequente, anche quando l’analisi del pezzo operatorio dimostra una radicalità chirurgica con adeguato margine di sicurezza peritumorale. Essa si verifica in >50% dei casi (16-51% nell’istiocitoma fibroso maligno e 66% nel liposarcoma), generalmente nei primi due anni dall’asportazione [Manaster 2002]. La chirurgia, generalmente con chemioterapia adiuvante (specie efficace nell’età pediatrica), costituisce l’opzione di scelta per il trattamento di questi tumori e deve sempre mirare all’escissione dell’intero comparto muscolare coinvolto. La chirurgia può riuscire ad ottenere livelli diversi di radicalità: resezione intracapsulare (vi sono residui tumorali ai margini chirurgici), resezione marginale (la massa è totalmente asportata ed il piano chirurgico passa attraverso una zona di tessuto reattivo), resezione ampia (massa e tessuto reattivo vengono totalmente asportati ed il piano chirurgico passa attraverso una zona di tessuto normale), resezione radicale (l’intero comparto viene asportato, spesso mediante disarticolazione) [Manaster 2002]. La probabilità di recidiva dipende dalle dimensioni e dal grado del tumore asportato. Anche la sede della lesione originaria è importante poiché nelle estremità, ove la radicalità massima è più facile da ottenere, le recidive sono del 10-20% ma nel capo e collo, ove è più difficile una pulizia ottimale della sede chirurgica, esse sono del 50% [Moskovic 2004]. Il trattamento della recidiva dipende dall’estensione di questa ma, anche se resa più difficoltosa dalle pregresse modifiche indotte da chirurgia e radioterapia, l’asportazione con preservazione dell’arto è ancora possibile nella maggioranza dei casi; il 50% dei pazienti con recidiva è ancora in vita a 5 anni dal nuovo intervento [Moskovic 2004]. La diagnosi precoce di recidiva locale è difficoltosa, specie nei casi sottoposti a chirurgia e radioterapia [Arya et al. 2000]. La valutazione clinica, pur importante, può essere ostacolata dalla profondità della recidiva oppure dalla presenza di modifiche legate alla chirurgia ed alla radioterapia: fino ad 1/3 circa delle recidive identificate ecograficamente risulta non palpabile [Alexander et al. 1997]. L’ecografia si è dimostrata efficace (sensibilità 92%, specificità 94%) nel follow-up e nell’identificazione precoce delle recidive [Arya et al. 2000] (Fig. 3.87). Essa è paragonabile alla RM (sensibilità rispettivamente 100 e 83%, specificità rispettivamente 93 e 79%) nella detezione delle recidive dei sarcomi dei tessuti molli, poiché rispetto a
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Fig. 3.87. Sede di escissione di sarcoma. Lungo la cicatrice chirurgica si osservano alcune piccole raccolte liquide ma non si rilevano nodulazioni solide o aree di ipervascolarizzazione all’ECD
a
c
questa perde sulla panoramicità ma guadagna sull’analisi ad alta risoluzione dei reperti [Choi et al. 1991]. Le recidive sono localizzate di solito nelle adiacenze della cicatrice ed appaiono come piccole nodulazioni ipoecogene disomogenee, più o meno delimitate, rotondeggianti o ovalari, spesso multiple. L’ecocolorDoppler dimostra segnali vascolari intralesionali, permettendo così la distinzione da piccole raccolte postoperatorie incistate; tuttavia bisogna ricordare come le cicatrici degli arti siano spesso molto vascolarizzate, soprattutto perifericamente, e pertanto la sola vascolarizzazione non può costituire una discriminante [Fornage 2000a] (Figg. 3.88-3.90, Video 3.4). L’US può incontrare difficoltà soprattutto nei primi 3-4 mesi, per la difficoltà nel differenziare tra modifiche postoperatorie recenti e ripresa lesionale [Choi et al. 1991, Manaster 2002]. Bisogna inoltre poter distinguere tra raccolte postoperatorie e recidive, cosa non sempre agevole soprattutto nei tumori con ampia
b
Fig. 3.88a–c. Recidiva multicentrica di fibromatosi aggressiva. Nodulo ipoecogeno disomogeneo a livello dell’estremo cicatriziale prossimale (a), dell’estremo distale (b) e del tratto intermedio (c). In quest’ultima sede l’ECD permette di definire l’adesione ai vasi poplitei e la presenza di qualche segnale vascolare intralesionale
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
a Fig. 3.91. Ematoma dopo escissione del comparto gluteo per sarcoma. Voluminosa “massa” ecogena disomogenea, con ampie aree ipo-anecogene, cinque giorni dopo l’intervento
componente liquida come il liposarcoma mixoide ed il sarcoma sinoviale [Moskovic 2004] (Fig. 3.91, cfr. anche Fig. 3.265). A differenza della prima diagnosi del sarcoma, per la conferma diagnostica è generalmente sufficiente la FNAC; l’accuratezza riportata è dell’88% [Alexander et al. 1997, Arya et al. 2000].
b Fig. 3.89a, b. Recidiva di istiocitoma maligno della coscia. A livello paracicatriziale si osserva una formazione ipoecogena, con centro colliquato, ben delimitata, posta tra sottocute e comparto muscolare (a). Correlazione con RM assiale (b) ove si rileva sia il nodulo (freccia lunga) che la cicatrice (freccia breve)
Fig. 3.90. Recidiva di liposarcoma della coscia. Tra sottocute e comparto profondo si osserva una nodulazione lobulata, ipoecogena, relativamente omogenea e delimitata
3.9. La massa cervicale: le cause, la valutazione, gli elementi di sospetto per malignità Topograficamente è possibile identificare nel collo alcuni triangoli anatomici, la cui conoscenza è importante per la definizione della sede, e quindi della possibile pertinenza, delle lesioni espansive. Il muscolo sternocleidomastoideo, con il suo decorso obliquo verso l’alto e posteriormente, separa un triangolo anteriore ed uno posteriore. Il triangolo anteriore di ciascun lato è delimitato dal bordo anteriore dello sternocleidomastoideo, dal margine inferiore della mandibola e dalla linea mediana (dal manubrio sternale alla sinfisi mentoniera) ed è a sua volta suddiviso in quattro triangoli più piccoli, quelli sottomentale, sottomandibolare, carotideo e muscolare. Il triangolo posteriore è delimitato, oltre che dal muscolo sternocleidomastoideo anteriormente, dal muscolo trapezio e dal corpo claveare; esso si suddivide nel triangolo succlavio e nel triangolo occipitale [Reading 1996]. I linfonodi regionali corrispondenti ai tumori di capo e collo (eccetto che per i tumori primitivi del rinofaringe e tiroide) vengono distinti in: sottomentonieri, sottomandibolari, giugulari o cervicali profondi (superiori, medi e inferiori), cervicali dorsali lungo il nervo accessorio, sovraclaveari, prelaringei, pre-paratracheali, retrofaringei, parotidei, buccali, retroauri-
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Ecografia in oncologia
Fig. 3.92. Parametro N per i tumori primitivi di capo e collo (eccetto rinofaringe e tiroide). I linfonodi regionali sono considerati N1 se singoli, omolaterali al tumore e ≤3 cm di diametro max, N2a se singoli, omolaterali e di 3-6 cm, N2b se multipli tutti omolaterali e ≤6 cm, N2c se multipli, bilaterali o controlaterali, tutti ≤6 cm, N3 se almeno un linfonodo, omo- o controlaterale, >6 cm. I linfonodi della linea mediana sono considerati omolaterali. I linfonodi mediastinici sono già M1. Modificato da [Wittekind et al. 2005]
colari, occipitali [Wittekind et al. 2005]. Tuttavia, ai fini chirurgici, i linfonodi cervicali vengono generalmente classificati nei seguenti gruppi [Som et al. 1999]: IA (sottomentali, tra i ventri anteriori dei muscoli digastrici); IB (sottomandibolari, intorno alla ghiandola omonima); II (giugulari interni, dalla base cranica all’osso ioide); III (giugulari interni, dall’osso ioide alla cartilagine cricoide); IV (giugulari interni, dalla cartilagine cricoide alla fossa sovraclaveare); V (spinali accessori o del triangolo posteriore, posteriormente al margine del muscolo sternocleidomastoideo); VI (centrali, dall’osso ioide al bordo sternale, anteriormente alle carotidi); VII (dal bordo sternale al mediastino superiore). I linfonodi facciali, parotidei, mastoidei e retrofaringei non vengono generalmente rimossi nel corso di una dissezione nodale del collo e pertanto non sono inclusi in questa classificazione, eminentemente pratica; inoltre, non tutte le sedi elencate sono accessibili all’US. In termini generali, vengono considerati patologici i linfonodi cervicali con diametro maggiore che supera i 10 mm, sebbene il 20% almeno dei linfonodi >10 mm sono in realtà iperplastici; bisogna anche considerare che fino al 50% dei
linfonodi cervicali metastatici risulta di dimensioni <5 mm [Chong 2004, Ying et al. 2003]. La stadiazione linfonodale per i tumori del capo e del collo, con eccezione di quelli rinofaringei e tiroidei che hanno alcune peculiarità, è illustrata nella Figura 3.92. L’US costituisce l’opzione di scelta nello studio della tumefazione cervicale palpabile. La localizzazione al collo di sarcomi è rara, costituendo ad esempio la localizzazione di <5% dei liposarcomi [Morse et al. 2000]. Gli espansi delle ghiandole salivari (cfr. paragrafo 3.10), della tiroide (cfr. paragrafo 3.11), delle paratiroidi e dei linfonodi (cfr. anche paragrafo 3.2) vengono inquadrati adeguatamente da US ed ECD. Anche molte formazioni isolate del collo, quali cisti laterali, cisti del dotto tireoglosso, cisti dermoidi, tumori del glomo carotideo, lipomi (specie nel triangolo posteriore), tumori neurogeni, angiomi (generalmente neonatali) linfangiomi (il collo è una delle loro localizzazioni preferenziali), ematomi ed ascessi, hanno un aspetto relativamente caratteristico per sede e quadro ecografico, e possono essere quindi definitivamente inquadrate con l’US [Gritzmann et al. 2002, Reading 1996] (Fig. 3.93-3.105). L’US inoltre
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.93. Linfangioma macrocistico del collo. Formazione cistica anecogena, settata
a
Fig. 3.94. Tiroide sublinguale. Nodulazione ipoecogena disomogenea, a margini sfumati, con qualche segnale vascolare al PD
b
Fig. 3.95a, b. Fibroma muscolare. Formazione ecogena fusata all’interno dei muscoli pretiroidei
Fig. 3.96. Miosite del collo. Alterazione disomogenea del tratto intermedio del muscolo sternocleidomastoideo, regredita dopo terapia medica, nelle due scansioni ortogonali
Fig. 3.97. Artrite sterno-claveare. Panno articolare esuberante ipoecogeno, che protrude a livello giugulare
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Ecografia in oncologia
Fig. 3.98. Linfadenopatie basicervicali bilaterali da sarcoidosi. A livello sovraclaveare sinistro si rilevano alcuni linfonodi ipoecogeni, con parziale conservazione dell’ilo ecogeno centrale
Fig. 3.99. Linfadenite sottomentale. Linfonodo ipoecogeno, allungato, con ilo centrale ridotto ma ancora riconoscibile, caratterizzato da una vascolarizzazione intensa, ma ilare e regolarmente distribuita, al PD direzionale
Fig. 3.100. Linfadenopatia linfomatosa cervicale. Formazione allungata, ipoecogena disomogenea, con qualche segnale vascolare periferico al PD direzionale
Fig. 3.101. Neurinoma del nervo vago. Grossolana nodulazione ovalare, ipoecogena relativamente omogenea e delimitata, con qualche segnale vascolare periferico all’ECD
consente, generalmente, una valida definizione dei rapporti tra la lesione espansiva e le strutture anatomiche viciniori, quali i vasi, a meno che la lesione stessa non sia eccessivamente voluminosa e/o profonda (Fig. 3.106, cfr anche Fig. 2.5). I tumori del glomo carotideo o chemodectomi, masse indolenti ed a lento accrescimento, vengono riscontrate tra il 3° ed il 6° decennio di vita, talora con familiarità, e si localizzano tipicamente nel triangolo carotideo, in intimo rapporto con la biforcazione arteriosa, rispetto alla quale sono indissociabili. Appaiono come formazioni ipoecogene disomogenee, talora multiple, relativamente delimitate, con vascolarizzazione intensa ed a elevato flusso, anche >100 cm/s; nella carotide esterna si osserva in questi pazienti una componente diastolica insolitamente elevata [Reading 1996]. La cisti del dotto tireoglosso rappresenta il 70% delle cisti cervicali congenite e si localizza tipicamente nella porzione superiore del triangolo muscolare del collo, all’altezza del margine inferiore dell’osso ioide, ma ha comunque una sede variabile, sempre sulla linea mediana, dalla base della lingua al lobo piramidale della tiroide. Appare come una formazione cistica con eventuali echi interni, quote solide e pareti spesse, elementi tutti che non si correlano direttamente con un’eventuale sovrainfezione della cisti (Fig. 3.107). La degenerazione neoplastica è molto rara ma possibile [Reading 1996]. Le cisti branchiali o laterali del collo originano nel 95% dei casi dal secondo arco branchiale e sono di solito localizzate nel triangolo anteriore del collo, al davanti del muscolo sternocleidomastoideo o lungo il bordo di questo, generalmente in contiguità con l’angolo mandibolare. Queste formazioni, riscontrate di solito tra i 10 ed i 49 anni, si presentano come forma-
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
a Fig. 3.103. Recidiva controlaterale postoperatoria, unica, di carcinoma orofaringeo alla base del collo. Nodulazione ecogena disomogenea al di sotto del muscolo sternocleidomastoideo
b
Fig. 3.104. Metastasi muscolare da carcinoma polmonare. Formazione ipoecogena che slarga localmente il muscolo sternocleidomastoideo
c Fig. 3.102a–c. Neurinoma del nervo vago. Nodulazione fusata ipoecogena disomogenea, ben delimitata (a). Multipli segnali colore soprattutto centralmente al PD direzionale (b). Scansione RM coronale in T2 con dimostrazione di una formazione iperintensa disomogenea (c, frecce)
zioni cistiche ovalari o rotondeggianti, ipo-anecogene omogenee, che dislocano il muscolo sternocleidomastoideo dorsalmente o dorso-lateralmente, i vasi del collo medialmente o postero-medialmente e la ghian-
Fig. 3.105. Liposarcoma lipoma-like della regione sottomandibolare. Formazione ecogena, relativamente omogenea, con qualche segnale vascolare al PD direzionale
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Fig. 3.106. Infiltrazione della vena giugulare interna. Tessuto linfonodale metastatico che congloba la vena giugulare, non riconoscibile distalmente
Fig. 3.107. Cisti del dotto tireoglosso. Formazione cistica mediana del collo, a contenuto ecogeno, scansionata nei due piani ortogonali
dola sottomandibolare anteriormente. Quando sono voluminose le cisti branchiali possono accrescersi al di sotto del muscolo sternocleidomastoideo [Reading 1996] (Fig. 3.108). La ricerca delle metastasi linfonodali cervicali nei tumori del capo e collo (per i tumori della tiroide cfr. anche il paragrafo 3.12) è molto importante ai fini della stadiazione, della pianificazione terapeutica e della formulazione prognostica: nei tumori squamosi di capo e collo le metastasi nodali costituiscono il singolo parametro prognostico più importante, con una sopravvivenza a 5 anni del 50% in presenza di un linfonodo metastatico (a prescindere dalla sede del tumore primitivo del capo e collo) e del 25% in caso di metastasi ad un altro linfonodo controlaterale [Ahuja et al. 2003, Chong 2004]. Bisogna anche ricordare che spesso il tumore primitivo è occulto, almeno fino al
Fig. 3.108. Cisti branchiale del collo. Formazione cistica uniloculata, ovalare, con qualche disomogeneità corpuscolata interna
momento della comparsa di linfadenopatie cervicali palpabili (41% dei tumori del cavo orale, 36% di quelli orofaringei, 36% di quelli ipofaringei, 29% di quelli sovraglottici) [Chong 2004]. Inoltre, le metastasi linfonodali cervicali non derivano solo dai tumori del capo e del collo ma anche da neoplasie di altre strutture, quali mammella, polmone, esofago, nonché da melanomi cutanei; in particolare in pazienti con carcinoma esofageo, lo studio sistematico del collo con US ha consentito di identificare localizzazioni linfonodali non palpabili nel 28% dei casi esaminati, anche quando la neoplasia era localizzata nell’esofago toracico [Griffith et al. 2000]. La palpazione è inferiore alle metodiche di imaging, e la modalità preoperatoria più accurata nell’identificazione della metastasi da tumori di capo e collo è rappresentata dalla FNAC ecoguidata, seppur non eseguibile routinariamente e di solito riservata ai linfonodi sospetti: nella maggioranza dei casi ci si basa quindi sulla palpazione, sull’US e sull’addizione selettiva della TC o della RM [Nilssen et al. 1999]. I criteri utili per riconoscere i linfonodi metastatici sono descritti nel paragrafo 3.2. Nel collo la morfologia linfonodale costituisce comunque un elemento di particolare rilievo, altamente sospetto quando rotondeggiante anche a prescindere dalle dimensioni; ciò è probabilmente dovuto al fatto che questi linfonodi, a differenza ad esempio di quelli ascellari, sono immersi in un cellulare piuttosto denso e quindi non hanno normalmente un aspetto rotondeggiante, acquisendolo solo in condizioni patologiche [Reading 1996]. Spesso le metastasi linfonodali da carcinomi squamosi, almeno quelle di maggiori dimensioni, presentano una struttura prevalentemente necrotica, cosa peraltro molto più apprezzabile con la TC che con l’US (Figg. 3.109-3.113).
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
a
b
Fig. 3.109a, b. Linfadenopatia metastatica del collo da melanoma. Grossolano linfonodo ipoecogeno disomogeneo (a), con discreta ed irregolare vascolarizzazione, periferica e centrale, al PD direzionale (b)
a
b
Fig. 3.110a, b. Linfadenopatia cervicale metastatica da carcinoma orofaringeo. Grossolana massa linfonodale dislocante anteriormente il muscolo sternocleidomastoideo (a). Discreta vascolarizzazione capsulare irregolarmente distribuita al PD direzionale (b). La scarsità di segnale vascolare sul versante profondo è legata alla limitata campionabilità del segnale Doppler con la frequenza di emissione utilizzata dalla sonda superficiale
Fig. 3.111. Metastasi linfonodale da carcinoma anaplastico della tiroide. Il color-Doppler aiuta nel definire i rapporti di contiguità con l’arteria carotide comune e la mancata dimostrazione della vena giugulare interna, infiltrata e non più riconoscibile
Fig. 3.112. Metastasi linfonodale da carcinoma del padiglione auricolare. Linfadenopatia ipoecogena disomogenea a livello laterocervicale alto
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Fig. 3.113. Linfadenopatia metastatica del collo da carcinoma midollare della tiroide. Linfonodo ipoecogeno con microcalcificazioni sparse
Le linfadeniti tubercolari non sono rare, rilevandosi sempre più anche nei paesi occidentali, in particolare nei pazienti con AIDS, e rappresentando una delle localizzazioni extrapolmonari più frequenti della tubercolosi (cfr. paragrafo 3.2). Le tumefazioni delle paratiroidi sono determinate da iperplasia (generalmente interessante tutte le ghiandole, presente nel 10-20% dei soggetti con iperparatiroidismo primitivo), adenoma (di solito singolo, 80-90% degli iperparatiroidismi primitivi) e carcinoma (singolo, 0,5-4% degli iperparatiroidismi primitivi) [Khati et al. 2003, Solbiati et al. 2001]. Possono costituire un riscontro occasionale, ad esempio nel corso di un’US tiroidea, riconoscersi talora come tumefazione palpabile o infine essere frutto di una ricerca sistematica in soggetti con iperparatiroidismo (primitivo, oppure secondario ad evenienze quali l’ipercalcemia da insufficienza renale cronica) [Calliada et al. 2006]. L’iperparatirodismo primitivo è una condizione molto meno rara di quanto ritenuto in passato, che predilige le donne (F/M 2-3:1) e l’età postmenopausale [Reading 1996]. Nei soggetti con alterazione endocrina (elevati livelli ematici di paratormone e calcio) il primo problema dell’imaging è quello di identificare la sede di un’eventuale lesione paratiroidea, che può essere spesso insolita (Fig. 3.114). Una precisa definizione topografica permette di adottare, nel caso di un paziente con iperparatiroidismo primitivo ed adenoma solitario, un approccio mininvasivo, con un’incisione chirurgica <2 cm, in luogo di esplorazione convenzionale del collo, caratterizzata chiaramente da una maggiore morbilità. L’US identifica agevolmente le lesioni paratiroidee in sede usuale nel triangolo muscolare del collo (generalmente quelle superiori si trovano dorsalmente al terzo medio del lobo tiroideo laterale, lungo il decorso dell’arteria tiroidea inferiore, mentre quelle inferiori, a sede
a
b
Fig. 3.114a,b. Localizzazione statistica delle ghiandole paratiroidi, inferiori (a) e superiori (b). È indicata la percentuale di localizzazione delle parotiroide rispetto alle strutture circostanti ed in particolare in relazione alla tiroide. Modificato da [Calliada et al. 2006]
Capitolo 3 Le problematiche cliniche peraltro più variabile, si localizzano infero-dorsalmente alla base del lobo tiroideo) ma non quelle francamente ectopiche (1-3%) per le quali è indicato piuttosto uno studio TC o RM o meglio ancora uno scintigrafico (Tc99m sestamibi) [Calliada et al. 2006, Reading 1996]. Queste lesioni appaiono di solito solidali con la tiroide alla deglituzione ed all’inspirazione profonda, e non mostrano l’ilo centrale tipico dei linfonodi. Globalmente l’US ha dimostrato una sensibilità per l’identificazione dell’adenoma paratiroideo del 24-92% (70-80% nella maggior parte delle casistiche), ed una specificità del 92-97% [Khati et al. 2003, Solbiati et al. 2001]. Sul piano ecografico vi possono essere inoltre difficoltà nel distinguere tra lesioni paratiroidee e noduli tiroidei basali, specie quando le prime sono particolarmente aderenti alla tiroide o i secondi sono esofitici (cfr. paragrafo 3.11). I noduli paratiroidei appaiono come formazioni di piccole di-
mensioni (di solito <15-20 mm), rotondeggianti o più spesso ovalari o allungate, ipoecogene, relativamente omogenee, ben delimitate, spesso con un sottile orletto ecogeno pseudocapsulare [Khati et al. 2003, Solbiati et al. 2001]. L’ecogenicità può essere simile o più spesso inferiore rispetto a quella del tessuto tiroideo normale adiacente, con talora una netta ipoecogenicità; disomogeneità interne possono essere legate a fenomeni emorragici, lacune cistiche degenerative (24% dei casi, mentre l’aspetto francamente cistico è raro) oppure calcificazioni interne o capsulari (2-5%, specie nelle iperplasie secondarie di vecchia data e nei carcinomi) [Calliada et al. 2006, Solbiati et al. 2001] (Figg. 3.115-3.118). L’ECD dimostra di solito una discreta ipervascolarizzazione, omogenea o irregolarmente distribuita, centrale o diffusa ma generalmente non di tipo marginale (come in molti noduli tiroidei); l’avascolarità è veramente infrequente. Spesso si
Fig. 3.115. Adenoma paratiroideo. Nodulazione ipoecogena ipervascolarizzata alla base del collo
Fig. 3.116. Adenoma paratiroideo. Formazione ipoecogena, relativamente omogenea e delimitata, dorsalmente alla base tiroidea
a
b
Fig. 3.117a, b. Adenoma paratiroideo. Nodulo retrotiroideo ipoecogeno, omogeneo e ben delimitato (a), con discreta vascolarizzazione al PD direzionale (b)
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a
b Fig. 3.118a, b. Adenoma paratiroideo. Al passaggio cervicomediastinico destro, subito dorsalmente all’arteria succlavia, si riconosce (grazie anche all’impiego della sonda internistica) una nodulazione ipoecogena disomogenea (a, freccia). La ricostruzione TC in sagittale conferma la formazione ipodensa disomogenea (b, freccia), posta in profondità rispetto alla base del lobo tiroideo destro e alla succlavia
osserva un ramo dell’arteria tiroidea inferiore che si porta a nutrire la nodulazione; le velocità interne sono di 20-30 cm/s e quindi simili a quelle intratiroidee ed hanno ampie componenti diastoliche con bassi valori di IR [Calliada et al. 2006, Solbiati et al. 2001]. Un carcinoma può essere sospettato quando la lesione ha dimensioni cospicue, >15 mm, risulta fisso con gli atti deglutitori e presenta ecotessitura disomogenea con calcificazioni interne e segni di infiltrazione delle strutture viciniori, muscolari o vasali; la distinzione tra iperplasia ed adenoma non è possibile sul piano ecografico (e spesso neanche su quello anatomo-patologico) [Solbiati et al. 2001]. Oltre che dai noduli tiroidei (specie nei gozzi multinodulari), le lesioni paratiroidee (e le paratiroidi normali) vanno distinte soprattutto da formazioni vascolari normali (in particolare da un ramo della vena tiroidea inferiore che
spesso si pone profondamente alla base tiroidea), altri tumori cervicali quali soprattutto chemodectomi (che però hanno sede caratteristica e flussi di velocità più elevata) e formazioni linfonodali (non tanto quelle normali o iperplasiche quanto soprattutto quelle metastatiche, ma in questo caso la vascolarizzazione è differente, di tipo capsulare, e non vi è solidarietà con la tiroide agli atti deglutitori) [Calliada et al. 2006, Khati et al. 2003]. Le tumefazioni sovraclaveari palpabili possono essere di pertinenza linfonodale o extralinfonodale. Le linfadenopatie metastatiche sovraclaveari vanno ricercate con esplorazione ecografica attenta, con valutazione anche dell’area subito profonda all’estremo claveare mediale e possibilmente anche con paziente assiso. Queste linfadenopatie possono avere un ampio spettro di origine, specie dal lato sinistro ove la confluenza venosa del dotto toracico convoglia la linfa della porzione inferiore del corpo. L’origine può essere quindi discendente dai tumori di capo e collo, tiroidea, mammaria omolaterale ma talora anche controlaterale, polmonare omolaterale ma talora anche controlaterale, ascendente a partire da neoplasie toraco-addominali (timo, polmone, esofago, stomaco, rene, colon, ovaio, testicolo, ecc. - il vecchio segno clinico di Troisier a sinistra) (Fig. 3.119). Generalmente in questa sede non si osservano linfonodi normali e quindi questa è una delle poche stazioni linfonodali superficiali ove già la visualizzazione di un’immagine linfonodale è di per sé sospetta; linfonodi sovraclaveari molto piccoli (anche di 3-4 mm) ma rotondeggianti ed ipoecogeni, sono già altamente sospetti per una colonizzazione metastatica. Nei carcinomi polmonari, ove l’incidenza di linfadenopatie sovraclaveari è tutt’altro che trascurabile, si è visto co-
Fig. 3.119. Metastasi di aspetto cistico, quale presentazione clinica di un cistoadenocarcinoma del pancreas (cfr. Fig. 3.346). Multipli linfonodi ipo-anecogeni a livello sovraclaveare sinistro (frecce)
Capitolo 3 Le problematiche cliniche me la palpazione abbia una bassa sensibilità (33%), consentendo il riconoscimento solo delle linfadenopatie più voluminose, mentre l’US ha un’elevata sensibilità (100%), anche superiore a quella della TC (83%), e la positività ecografica può essere eventualmente confermata con una FNAC ecoguidata [Fultz et al. 2002, van Overhagen et al. 2004]. Cause non linfonodali di tumefazione sovraclaveare sono costituite da lipomi e lipomatosi (frequentemente responsabile di asimmetria regionale e di “tumefazione”), enfisema sottocutaneo, raccolte liquide, aneurismi dell’arteria anonima o succlavia, trombosi della vena giugulare, linfangectasia, cisti (linfoceli) del dotto toracico (rare e possibili solo a sinistra), espansi paratiroidei ectopici, fascite nodulare, neurinomi del plesso brachiale, tumori glomici (nervo vago), sarcomi dei tessuti molli (molto raramente), lesioni di origine ossea (clavicola), cartilaginea (I costa) o articolare (articolazione sternoclaveare) [Graif et al. 2004, Mamede et al. 2004, Morse et al. 2000].
Fig. 3.120. Scialolitiasi sottomandibolare. Tumefazione della ghiandola sottomandibolare come conseguenza di un voluminoso calcolo duttale ostruente
3.10. I tumori delle ghiandole salivari: la tumefazione delle ghiandole salivari, la caratterizzazione dei tumori L’US costituisce la metodica di scelta, ed in molti casi conclusiva, nel paziente con sospetta tumefazione delle ghiandole salivari maggiori (Figg. 3.120-3.122). I limiti sono dati dall’esplorabilità insufficiente di alcune regioni profonde (porzione della ghiandola sottomandibolare al di sotto dell’osso mandibolare e porzione profonda della parotide), dalle problematiche diagnostico-differenziali (parziale sovrapposizione tra lesioni solide benigne e maligne) e dal difficoltoso bilancio di estensione delle lesioni espansive [Candiani 2006a]. Per quest’ultimo aspetto è indicato uno studio panoramico TC o meglio ancora RM, mentre per la caratterizzazione si impiega la biopsia, eventualmente US-guidata; scialografia e scialo-TC non hanno più indicazione nella patologia tumorale. I tumori delle ghiandole salivari costituiscono il 5% delle neoplasie di capo e collo e si localizzano a livello parotideo nell’80% dei casi, sottomandibolare nel 15% e sottolinguale o delle ghiandole salivari minori nel 5%. I tumori maligni costituiscono circa il 30-40% dei casi: in particolare a livello parotideo l’80% delle lesioni è benigna, mentre questa quota scende a circa il 50% per la ghiandola sottomandibolare ed al 50-20% per la sottolinguale e le ghiandole minori [Gritzmann et al. 2003b, Salaffi et al. 2006]. L’ecografia deve rilevare l’effettiva presenza di una lesione, la sua esatta sede e topografia, il numero (spesso i noduli sono multipli o bilaterali) e, per quanto possibile, la natura. La malignità può talora essere sospettata sul piano clinico (fino al 30% dei ca-
Fig. 3.121. Parotite granulomatosa. Tumefazione ghiandolare ipoecogena, con bande ecogene interposte
Fig. 3.122. Cisti parotidea. Formazione liquida con qualche setto interno e qualche segnale colore intrasettale e marginale al PD
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si di carcinoma parotideo alla presentazione), in presenza specie se combinata di linfadenopatie palpabili (14-29% dei casi di carcinoma parotideo), paralisi periferica del nervo facciale (14% dei casi di carcinoma parotideo), crescita rapida, fissazione in profondità [Salaffi et al. 2006, Wong 2001]. Sul piano ecografico, tendenzialmente, le lesioni benigne sono quelle che hanno: aspetto francamente liquido, forma rotondeggiante, margini regolari, ecostruttura omogenea, dissociabilità dalle strutture viciniori e assenza di adenopatie. I tumori maligni hanno un aspetto nodulare, con margini irregolari o francamente infiltranti (“stellari”), ed ecostruttura ipoecogena disomogenea per presenza anche di calcificazioni (sospette soprattutto se puntiformi) e di lacune ipo-anecogene necrotico-emorragiche (a margini sfrangiati e disposte disordinatamente); i segni di invasività locale, infiltrazione vascolare o metastatizzazione linfonodale chiariscono definitivamente il quadro [Candiani 2006a]. Peraltro non si tratta di criteri assoluti, poiché vi possono essere lesioni benigne con disomogeneità interne e margini non ben definiti, e lesioni maligne, come in particolare il carcinoma a cellule aciniche, di aspetto nodulare, omogeneo e ben delimitato; l’accuratezza globale di questi segni morfologici nell’identificazione della malignità è dell’80-82% [Candiani 2006a]. Importante è, come detto, anche l’attenta ricerca di linfonodi patologici, che aumentano notevolmente il sospetto di malignità della lesione salivare, nonché dei segni di infiltrazione delle strutture viciniori [Salaffi et al. 2006]. Specie a livello parotideo i noduli tumorali hanno spesso un aspetto esofitico e per questo può essere difficoltoso definirne la precisa origine, rispetto alla ghiandola sottomandibolare, ed anche la natura esatta, rispetto soprattutto ai linfonodi periparotidei; l’assenza di un clivaggio rispetto alla parotide e la presenza di un’afferenza vascolare in rapporto con tale ghiandola consentono comunque di definirne correttamente la pertinenza. All’ecocolor-Doppler la maggior parte dei tumori delle ghiandole salivari risulta, a prescindere dalla natura, più vascolarizzata rispetto al parenchima circostante. In almeno metà delle lesioni maligne la vascolarizzazione valutata soggettivamente è particolarmente accentuata, con multipli vasi venosi e soprattutto arteriosi, afferenti da più poli e intrecciati all’interno del nodulo con disposizione irregolare e con velocità di flusso relativamente elevate (la soglia di 25 cm/s ha sensibilità del 72% e specificità dell’88%); in un’altra metà circa dei tumori maligni la vascolarizzazione non è marcata ma comunque si rilevano alcuni vasi intralesionali mentre manca, generalmente, una vascolarizzazione periferica di tipo capsulare, caratteristica delle lesioni benigne (ove inoltre vi è una prevalenza di flussi venosi). I mdc ecografici incrementano, specie negli adenomi pleomorfi, la dimo-
strazione della vascolarizzazione nodulare, anche nei casi con risultati basali insoddisfacenti, e quindi aumentano le possibilità caratterizzative della metodica [Gallipoli et al. 2005, Steinhart et al. 2003]. Un utile elemento semeiologico è dato poi dalla compressione con la sonda: nei noduli adenomatosi, che sono a prevalente flusso venoso, i segnali colore intranodulari scompaiono nel 58% dei casi e si attenuano nel 29% laddove nei carcinomi la vascolarizzazione, che è in maggioranza di tipo arterioso, si accentua nell’1% dei casi, rimane inalterata nel 75% e si affievolisce nel 24%, senza quindi annullarsi mai del tutto [Candiani 2006a (cfr. Fig. 2.41)]. Talora è possibile rilevare dei vasi in comune tra lesione e parenchima circostante, quale segno di sconfinamento [Salaffi et al. 2006, Schick et al. 1998]. In base ai pattern ecovascolari ed alla risposta al test di compressione l’accuratezza della metodica raggiunge l’87-88% [Candiani 2006a]. L’ECD può essere anche utile nel riconoscere la vena retromandibolare, riconoscibile in circa il 70% dei casi (eventualmente, manovra di Valsalva), i cui rapporti con i tumori parotidei andrebbero definiti preoperatoriamente [Gritzmann et al. 2003b]. L’adenoma pleomorfo rappresenta il 24-71% dei tumori salivari ed in particolare il 75-80% dei tumori benigni della parotide, con localizzazione nella parte superficiale di questa ghiandola nell’80% dei casi e nel 10% in quella profonda, con possibile protrusione nello spazio parafaringeo [Gritzmann et al. 2003b]. Predilige il sesso femminile con picco tra i 35 ed i 50 anni; può essere bilaterale e multifocale, e nel 4-5% dei casi può anche degenerare o essere localmente invasivo e recidivante. Si tratta generalmente di noduli a crescita lenta, di 2-4 cm, lobulati, ipoecogeni relativamente omogenei (98% dei casi), ben delimitati da una capsula; solo le forme più voluminose possono mostrare qualche area interna disomogenea o dei margini meno definiti [Gritzmann et al. 2003b]. Le calcificazioni sono frequenti e, a livello parotideo, sono relativamente specifiche per l’adenoma pleomorfo. All’ECD si rileva generalmente (80% dei casi) una discreta vascolarizzazione, con rami capsulari completi o incompleti, più o meno rappresentati, ed un singolo polo vascolare interno, generalmente di tipo venoso; le velocità registrate sono <25 cm/s [Gritzmann et al. 2003b, Salaffi et al. 2006] (Figg. 3.123-3.127, cfr. anche Fig. 2.44). L’adenolinfoma (tumore di Warthin) costituisce il 10-20% dei tumori parotidei, con predilezione per il polo inferiore, ed interessa soprattutto i maschi, con un picco ai 40 anni. Nel 30% dei casi questo tumore è multicentrico e nel 7% bilaterale; la localizzazione sottomandibolare è rara [Gritzmann et al. 2003b]. È ovalare e ben delimitato e la struttura interna è resa tipicamente disomogenea da lacune ipo-anecogene di variabili dimensioni, distribuite a ventaglio: il riscontro di quote cistiche in una lesione parotidea è prati-
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.123. Recidiva di adenoma pleomorfo parotideo in paziente già operata sette anni prima. Voluminoso nodulo ipoecogeno, relativamente omogeneo e delimitato
Fig. 3.124. Adenoma pleomorfo sottomandibolare. Nodulo ipoecogeno, omogeneo e ben delimitato, con qualche segnale vascolare periferico e centrale al PD
Fig. 3.126. Adenomi pleomorfi parotidei, valore della compressione. Due noduli ipoecogeni, omogenei e ben delimitati, con qualche segnale vascolare sia peri- che intranodulare al PD direzionale. La compressione con la sonda attenua sensibilmente entrambi i flussi
a
b
Fig. 3.125. Adenoma pleomorfo parotideo. Nodulo ipoecogeno, omogeneo e ben delimitato, con vascolarizzazione di cospicua entità ma centrale ed omogeneamente distribuita
Fig. 3.127a, b. Adenoma pleomorfo parotideo. Nodulo lobulato, ipoecogeno, relativamente omogeneo e delimitato, con qualche segnale vascolare all’ECD (a). La flussimetria Doppler (b) dimostra un flusso lento (Vmax 18 cm/s) con un indice resistivo elevato (0,81)
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camente diagnostica per un adenolinfoma. All’ECD si rileva la discreta vascolarizzazione delle quote solide, mentre è rara una distribuzione vasale di tipo capsulare [Salaffi et al. 2006] (Fig. 3.128, Video 3.5 e 3.6). I tumori maligni più importanti comprendono il carcinoma mucoepidermoide (il più frequente, specie in età pediatrica), il carcinoma adenoido-cistico (20% dei tumori sottomandibolari con picco ai 50-60 anni), l’adenoma a cellule aciniche (2-4% dei tumori parotidei), l’adenocarcinoma (27% dei tumori salivari maligni) ed il carcinoma indifferenziato (35% dei tumori salivari maligni). Queste lesioni hanno velocità di crescita variabile e possono anche raggiungere notevoli dimensioni. Appaiono generalmente come lesioni ipoecogene, omogenee se <2 cm e disomogenee se >2 cm, con aree necrotiche o pseudocistiche interne, microcalcificazioni, vascolarizzazione intensa, anarchica e multipolare, margini poco definiti o francamente infiltranti (talora chiaramente interrotti), specie nelle lesioni più voluminose. Le lesioni di
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piccole dimensioni, specie se a bassa malignità, possono apparire omogenee e ben delimitate, simulando pertanto forme benigne; la presenza di un’eventuale ipervascolarizzazione o di elevate velocità di flusso (>25 cm/s) dovrebbero comunque rendere sospette queste lesioni. Il carcinoma adenoido-cistico si caratterizza per la tendenza a diffondere lungo i nervi, più che a livello linfonodale, cosa peraltro difficilmente riconoscibile con l’US; esso si caratterizza inoltre per la presenza all’interno di formazioni pseudocistiche [Gritzmann et al. 2003b, Salaffi et al. 2006] (Figg. 3.129, 3.130). I linfomi possono essere primitivi (2-5% dei tumori delle ghiandole salivari, comprendenti soprattutto linfomi di tipo B) o secondari (soprattutto non Hodgkin - 0,7% di tutti i linfomi) e si associano spesso alla sindrome di Sjögren. In questi casi le ghiandole risultano ingrandite, con aree ipoecogene disomogenee più o meno definite, talora di aspetto anecogeno quasi pseudocistico [Salaffi et al. 2006]. Altri tumori delle ghiandole salivari comprendono lipomi, angiomi (tipici del bambino), oncocitomi, metastasi; queste ultime possono essere sia a livello di linfonodi intraghiandolari che direttamente nel parenchima salivare (Figg. 3.131, 3.132). In alcuni casi vi può essere difficoltà nell’attribuire ad una ghiandola salivare una lesione espansiva, sia perché i margini di queste ghiandole sono spesso poco definiti, specie nell’anziano, sia perché gli espansi salivari sono spesso esofitici. Si può quindi porre il problema diagnostico-differenziale con lesioni contigue, come quelle di origine linfonodale. Nel contesto soprattutto della ghiandola parotide sono spesso presenti piccoli linfonodi, sottocapsulari o intraparenchimali, che non vanno confusi con noduli e che possono anche andare incontro ad una propria patologia, iperplastica, flogistica o neoplastica. La presenza di lesioni
b Fig. 3.128a, b. Cistoadenolinfoma parotideo. Formazione allungata, ipoecogena, relativamente omogenea e delimitata (a), con modica vascolarizzazione sia centrale che periferica al PD direzionale (b). Aree ricche di vasi si alternano ad altre ipovascolari
Fig. 3.129. Carcinoma sottolinguale. Formazione ipoecogena, disomogenea e mal delimitata
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
a Fig. 3.131. Linfadenopatia metastatica intraparotidea da carcinoma del volto. Linfonodo ingrandito, con ilo ecogeno residuo eccentrico, sede di qualche segnale vascolare al PD direzionale
b
Fig. 3.132. Metastasi sottomandibolare da carcinoma polmonare. L’US, eseguita sulla scorta di un reperto di captazione PET, evidenzia una lesione ipoecogena disomogenea della ghiandola salivare
c Fig. 3.130a–c. Carcinoma sottomandibolare con impegno linfonodale associato ad un adenoma pleomorfo parotideo. Formazione ipoecogena disomogenea, con fenomeni necrotici centrali e vascolarizzazione capsulare al PD direzionale in sede sottomandibolare (a). Nodulo ipoecogeno, relativamente omogeneo e delimitato, a carico della parotide omolaterale (b). Linfadenopatia metastatica a morfologia ovalare, ma senza struttura ecogena centrale, in sede laterocervicale alta (c)
multiple all’interno di una ghiandola salivare può essere espressione di linfonodi reattivi o flogistici ma anche di lesioni tumorali, in particolare di adenolinfomi o, meno frequentemente, di tumori a cellule acinari o di adenomi pleomorfi (specie nelle forme recidivate). Altra problematica che può porsi è quella dell’origine del nodulo dalla porzione anteriore della parte superficiale della parotide o dalla ghiandola sottomandibolare; in questo caso la provenienza del peduncolo vascolare può essere di ausilio [Gritzmann et al. 2003b].
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3.11. Il nodulo tiroideo: la caratterizzazione, gli elementi per il sospetto di malignità, le indicazioni alla biopsia I noduli tiroidei, palpabili o identificati più o meno incidentalmente con le metodiche di imaging e specie con l’US, costituiscono una problematica quotidiana, quasi “epidemica”: un nodulo tiroideo palpabile viene identificato fino nel 5% degli individui, soprattutto nelle donne di età medio-avanzata, mentre noduli subcentimetrici vengono rilevati dall’US fino nel 70% delle tiroidi normali, generalmente nel contesto di un quadro multinodulare [Chan et al. 2003, Khati et al. 2003, Wong et al. 2005] (Figg. 3.133-3.138, Video 3.7). Il progresso delle apparecchiature ecografiche, con le possibilità di valutazione ad alta risoluzione ed in modalità compound, ha incrementato negli ultimi anni l’identificazione di piccole areole di disomogeneità strutturale tiroidea, con i conseguenti problemi di gestione pratica dei pazienti (sebbene il termine nodulo dovrebbe essere riservato a focalità >6 mm) [Bartolotta et al. 2006a]. In una casistica di pazienti con noduli non palpabili di dimensioni tra 8 e 15 mm, il 9% dei noduli solitari ed il 6% dei noduli su gozzo multinodulare erano maligni, senza una particolare correlazione con le dimensioni del nodulo stesso [Papini et al. 2002]. Tuttavia il carcinoma tiroideo è in generale poco frequente, costituendo circa lo 0,5% di tutti i decessi per tumori. La probabilità che, in un soggetto eutiroideo, un nodulo solitario sia maligno è del 510%; i carcinomi costituiscono <5% dei noduli tiroidei mentre il 15-20% è rappresentato dagli adenomi ed il restante 75-85% da noduli non neoplastici (iperplastici o colloidocistici) [Rago et al. 1998, Spiezia et al. 2006, Wong et al. 2005]. I tumori tiroidei prediligono in generale il sesso femminile (rapporto F/M 1,5-4:1) e comprendono forme lente, più comuni, e forme altamente aggressive, rare. I carcinomi papillari o papilliferi, la cui incidenza è in aumento, costituiscono circa il 60-80% dei casi, con predilezione per il 3-4° decennio di vita. Multicentrici nel 10-20% dei casi, poco aggressivi, tendono tuttavia a diffondere precocemente a livello linfonodale (fino nel 15% dei casi, primo segno di presentazione della neoplasia); le forme con diametro massimo ≤10 mm, di riscontro incidentale sempre più frequente, vengono definite come “microcarcinomi” [Khati et al. 2003]. Le forme follicolari vanno considerate nel loro insieme perché la distinzione adenoma/carcinoma è generalmente possibile solo dopo l’intervento chirurgico; comunque, il carcinoma follicolare costituisce solo il 10-25% dei cancri tiroidei e si riscontra soprattutto nelle aree geografiche di iodocarenza, con età di presentazione >40 anni (media 50 anni) ed una propensione più alla diffu-
Fig. 3.133. Nodulo tiroideo benigno. Voluminosa formazione ovalare, ecogena, relativamente omogenea
Fig. 3.134. Nodulo tiroideo benigno. Voluminosa formazione ovalare, ipoecogena, relativamente omogenea
Fig. 3.135. Nodulo tiroideo benigno. Voluminosa formazione rotondeggiante, ipoecogena relativamente omogenea, che mostra una discreta vascolarizzazione prevalentemente periferica, irregolarmente distribuita, al PD direzionale
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.136. Nodulo tiroideo benigno. Formazione con ampio e regolare guscio calcifico
Fig. 3.137. Nodulo tiroideo benigno. Voluminosa formazione ovalare, ecogena omogenea, con sottile ed uniforme alone ipoecogeno periferico “di sicurezza”
Fig. 3.138. Nodulo tiroideo benigno. Voluminosa formazione rotondeggiante, isoecogena relativamente omogenea, con alone ipoecogeno periferico
sione ematogena a distanza che al coinvolgimento linfonodale. Il carcinoma midollare della tiroide, poco frequente (5-10% dei cancri tiroidei, talora nel contesto di una MEN di tipo II nella quale si ricorda la presenza anche di noduli paratiroidei, evidentemente contigui a quelli tiroidei), deriva dalle cellule parafollicolari C, si sviluppa soprattutto nel 4-5° decennio di vita (anche prima nei soggetti con MEN), senza particolari predilezioni di sesso; questo tumore presenta metastasi linfonodali al momento della diagnosi nel 50% dei casi e metastasi a distanza (polmone, fegato e ossa) nel 15-25%, ed ha una discreta tendenza alla recidiva cervicale o mediastinica. Il carcinoma anaplastico costituisce il 10-15% dei tumori tiroidei, con presentazione dopo i 50 anni, ed è estremamente virulento [Lagalla et al. 2006, Spiezia et al. 2006]. Il riscontro di un carcinoma può essere incidentale, nel corso di esami US eseguiti per svariati motivi, oppure legato al riscontro di una nodulazione palpabile o comunque di sintomi legati alla crescita locale o alla diffusione linfonodale laterocervicale, con compressione/infiltrazione di strutture viciniori quali trachea, esofago, vasi laterali del collo, nervo ricorrente; talora si manifestano i sintomi endocrini di un carcinoma midollare (diarrea, squilibrio idroelettrolitico, improvvisi arrossamenti del volto, ecc.) [Spiezia et al. 2006]. I soggetti con carcinoma tiroideo sono generalmente eutiroidei, quindi con un normale quadro laboratoristico, ed anzi è raro che un nodulo iperfunzionante, con soppressione del TSH, sia maligno (sebbene vi siano carcinomi in grado di produrre sufficienti ormoni da determinare un ipertiroidismo). Gli anticorpi antitireoglobulina possono essere aumentati. Nel carcinoma midollare si può rilevare ipercalcemia ed aumentati livelli sierici di calcitonina. Sul piano scintigrafico questi noduli sono generalmente “freddi” alla scansione con Tc99m [Spiezia et al. 2006]. L’US costituisce la prima e fondamentale metodica di studio del paziente con nodulo tiroideo, specie con TSH normale o aumentato, considerando anche che essa è il supporto principale alla tappa successiva, cioè alla FNAC; nel soggetto con nodulo palpabile e livelli ematici di TSH inferiori alla norma l’approccio iniziale è invece scintigrafico, al fine di identificare i noduli iperfunzionanti, “caldi” [Solbiati et al. 2001]. L’US è importante, oltre che nella detezione e caratterizzazione lesionale, anche nella pianificazione dell’intervento, dimostrando precocemente i segni dell’infiltrazione locale e della diffusione linfonodale. Ciò è oggi particolarmente significativo, poiché non tutti i soggetti vengono trattati con una tiroidectomia radicale e, dinanzi ad un lobo controlaterale perfettamente omogeneo, può essere prospettabile una resezione lobare. Chiaramente, l’US ha poi un ruolo an-
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che nell’identificazione della recidiva locoregionale (cfr. paragrafo successivo). La caratterizzazione nodulare è importante. Se è vero che un ruolo centrale in questo senso spetta alla FNAC, indicata in generale in tutti i nuovi noduli non palpabili >10 mm, è anche vero che l’US, a differenza della scintigrafia, può suggerire una probabile benignità o una probabile malignità del nodulo e quindi influenzare significativamente la gestione del paziente. In presenza di noduli multipli l’US può suggerire quale andare ad aspirare, che non è necessariamente quello più voluminoso ma può essere quello con caratteristiche ecostrutturali ed ecovascolari di maggior sospetto, ed inoltre consente di guidare il prelievo verso l’area più anomala o vascolarizzata di un nodulo. La FNAC ha una sensibilità del 65-98% ed una specificità del 72-100% nella diagnosi di malignità [Solbiati et al. 2001]. La percentuale di FNAC con materiale insufficiente o comunque non diagnostico è peraltro di circa il 20% ed in questi casi si tende spesso a ripetere il prelievo; in particolare, le formazioni con ampia componente cistica hanno un’elevata probabilità che la prima valutazione citologica sia negativa e pertanto richiederebbero una ripetizione routinaria della procedura; è anche importante la centrifugazione del liquido aspirato [Alexander et al. 2002]. Sono poi importanti i controlli seriati nel tempo poiché, dinanzi ad un nodulo con precedente FNAC negativa per cellule maligne ma con caratteri sospetti, come ad esempio un progressivo aumento di dimensioni, vi può essere l’indicazione alla ripetizione dell’aspirato (sebbene anche molti noduli benigni mostrino una crescita nel tempo, anche >15% delle dimensioni nell’arco di 5 anni; quindi la crescita, a meno che non sia rapida, non è di per sé un criterio significativo di sospetto) [Kane et al. 2003]. Bisogna comunque segnalare una discreta sovrapposizione degli elementi semeiologici discussi di seguito: almeno un segno potenzialmente indicatore di malignità viene rilevato nel 69% delle lesioni benigne e solo la presenza combinata di multipli segni può indicare una malignità lesionale, a discapito tuttavia della sensibilità [Wienke et al. 2003]. Il sospetto di malignità aumenta in presenza di varie condizioni: sesso maschile, età <20 anni o >70 anni, familiarità, pregresso carcinoma mammario, irradiazione cervicale nell’età infantile, monofocalità, crescita rapida, presenza di adenomegalie, aspetto “freddo” alla scintigrafia [Spiezia et al. 2006]. Il nodulo solitario è più spesso sospetto per neoplasia di quello riscontrato nel contesto di una multinodularità, specie nel maschio. Tuttavia circa il 10-20% dei carcinomi papillari può essere multicentrico e quindi bisogna valutare con attenzione ciascun nodulo nel contesto di una tireopatia multinodulare: il rischio è infatti quello di sottostimare il reperto solo perché inserito in un contesto multinodulare. Le dimensioni nodulari non
costituiscono un criterio diagnostico-differenziale [Khati et al. 2003]. Dal punto di vista ecostrutturale vi sono alcuni elementi suggestivi di possibile malignità, il cui peso singolo è tuttavia piuttosto limitato e solo dinanzi alla combinazione di più segni è possibile ipotizzare ecograficamente la natura carcinomatosa (l’aumento di specificità viene così pagato in termini di riduzione di sensibilità) [Iannuccilli et al. 2004, Lyschchik et al. 2005, Rago et al. 1998]. I carcinomi tiroidei sono più spesso ipoecogeni: l’incidenza di malignità è del 26% in caso di ipoecogenicità e del 4% in caso di iperecogenicità. Peraltro, come indicatore di malignità, l’aspetto ipoecogeno ha una specificità bassa (49-83%), così come un basso valore predittivo positivo (40%). La disposizione dei noduli tiroidei maligni tende ad essere più facilmente longitudinale rispetto a quella dei noduli benigni, seguendo in pratica l’asse maggiore dei lobi tiroidei. I margini nodulari tendono ad essere mal definiti. L’alone ipoecogeno perinodulare, dovuto alla capsula, al parenchima compresso e/o ai vasi perinodulari, tende a riconoscersi più nei noduli benigni che in quelli maligni: la sua assenza ha una sensibilità del 56-67% ed una specificità del 77-80% per malignità ed in particolare nei carcinomi papilliferi <10% dei casi si dimostra un alone parziale o completo [Chan et al. 2003, Rago et al. 1998]. I noduli con ampie componenti liquide sono generalmente benigni, per fenomeni di degenerazione cistica o di emorragia, ed il riscontro di immagini puntiformi con riverbero posteriore all’interno del liquido (segno della coda di cometa) ne indica la natura colloidale e quindi benigna; tuttavia bisogna ricordare come vi siano carcinomi, specie papilliferi, che possono avere componenti cistiche (vi saranno altri segni indicativi, comunque, come le calcificazioni puntiformi nelle parti solide) [Wong et al. 2005]. Mentre le calcificazioni grossolane con ombra acustica posteriore, specie se periferiche o disposte “a guscio” ai margini del nodulo, sono indicative di benignità, le calcificazioni fini, puntiformi, specie se prive di ombra acustica (corpi psammomatosi calcificati) si riscontrano con relativa frequenza nelle lesioni maligne (sino nel 29% dei carcinomi <15 mm non palpabili), specie nel carcinoma papillifero (25-42% dei casi), ed hanno una specificità del 93% ed un valore predittivo positivo del 70% per la diagnosi malignità (ma con una sensibilità appena del 36-59%) [Chan et al. 2003, Papini et al. 2002, Takashima et al. 1995]. Dinanzi ad un soggetto con nodulo ipoecogeno, a margini sfumati, con microcalcificazioni e ipervascolare al color-Doppler, si impone la FNAC anche quando le dimensioni lesionali sono subcentimetriche [Iannuccilli et al. 2004, Papini et al. 2002]. In assenza di questi indicatori di rischio può essere proponibile il solo monitoraggio clinico, considerando tuttavia il rischio di misconoscere i carcinomi follicolari, talora
Capitolo 3 Le problematiche cliniche con aspetto benigno. Gli elementi che maggiormente orientano verso la benignità di un nodulo tiroideo, pur con possibili eccezioni, sono la netta prevalenza di contenuto liquido, l’aspetto iperecogeno, la presenza di calcificazioni “a guscio”, l’avascolarità [Reading 1996]. Dal punto di vista della valutazione ecocolorDoppler, i noduli maligni sono più spesso ipervascolari rispetto al parenchima adiacente di quelli benigni, e ciò comporta soprattutto una buona predittività positiva, mentre l’ipovascolarità di un nodulo non ne esclude la malignità. Esistono infatti le eccezioni, con noduli benigni ipervascolari e noduli maligni ipovascolari (cfr. Fig. 2.46). Inoltre, stante la notevole sensibilità ai flussi lenti delle apparecchiature attuali, una qualche forma di vascolarizzazione è presente in praticamente tutti i noduli tiroidei solidi e pertanto il suo riscontro è meno dirimente di quanto era ritenuto nel passato. Classicamente, i flussi lesionali vengono distinti in: tipo I, assenza di segnale colore dimostrabile; tipo II, segnali marginali (perinodulari e/o intranodulari periferici); tipo III, presenza di flussi francamente intranodulari, isolati (IIIa) o associati a flussi marginali (IIIb); tipo IV multipli poli vascolari con diffusi flussi intranodulari, irregolarmente distribuiti. Questa catalogazione ha perso parte del suo valore, sebbene un pattern tipo I, ormai raro, o anche II sia comunque suggestivo di benignità [Chammas et al. 2005, Lagalla et al. 1992, 2006]. Morfologicamente può essere importante riconoscere la distribuzione di questi vasi, se perinodulare (cosiddetto “alone di colore”), intranodulare periferica o intranodulare anche centrale: un flusso prevalentemente perinodulare è ad esempio presente nel 22% dei carcinomi papillari mentre nel 69% dei casi si rileva un’ipervascolarità lesionale [Chan et al. 2003]. Una classificazione dei pattern di distribuzione nodulare considera tre tipologie: A o ring sign con circolo perinodulare, riconoscibile soprattutto nelle lesioni benigne; B o complex ring sign, caratterizzata da vasi peri- ed intranodulare, che possono essere sottili e regolarmente distribuiti nelle forme iperplastiche e numerosi, grossolani e irregolari negli adenomi e carcinomi; C o delta sign con circolo peri- e intranodulare nutrito da un singolo vaso arterioso, poco comune ma alquanto specifica per il carcinoma [Spiezia et al. 1997]. Le curve di wash-in e wash-out dopo iniezione di mdc ecografico, in base alle prime casistiche, sembrerebbero essere differenti nelle lesioni iperplastiche, adenomatose e carcinomatose, con queste ultime che mostrano un rapidissimo tempo di picco e da una dismissione lenta e graduale [Spiezia et al. 2001]. Dati preliminari con CEUS segnalano una sovrapposizione tra il comportamento dei diversi tipi di lesioni, con un enhancement nodulare diffuso, omogeneo o disomogeneo, nei noduli benigni ed un enhancement diffuso, punteggiato oppure assente in quelli maligni [Bartolotta et al. 2006b].
Per quanto riguarda le caratteristiche morfostrutturali dei diversi istotipi tumorali, bisogna segnalare come il carcinoma papillare sia generalmente solido (70% dei casi), ipoecogeno (77-90% dei casi), con margini irregolari, calcificazioni puntiformi (25-90% dei casi), vascolarizzazione interna intensa e caotica (69% dei casi), e linfadenopatie cervicali; peraltro le forme atipiche non sono rare, di aspetto francamente cistico (6%, ma sempre con segnali vascolari nelle pur modeste quote solide), calcificazioni grossolane o periferiche, margini regolari (47%), ipovascolarità (ma mai avascolarità) [Chan et al. 2003, Wong et al. 2005] (Figg. 3.139-3.146, Video 3.8). Nelle forme follicolari si osserva un’ecostruttura ipoecogena ma anche iso- o iperecogena, con aspetto spesso omogeneo (70% dei casi) ed alone periferico ben rappresentato (80% dei casi); le forme follicolari carcinomatose tendono a essere più vascolarizzate di quelle follicolari adenomatose, con flussi generalmente periferici per le forme be-
Fig. 3.139. Carcinoma papillare della tiroide. Formazione parzialmente cistica, con grossolane proiezioni solide interne e qualche piccolo nucleo calcifico
Fig. 3.140. Carcinoma papillifero bifocale della tiroide. Due piccoli noduli ipoecogeni disomogenei, mal delimitati, con qualche microcalcificazione
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Ecografia in oncologia
Fig. 3.141. Carcinoma papillifero della tiroide. Nodulo ipoecogeno, specie alla periferia, e relativamente delimitato
Fig. 3.143. Carcinoma papillifero della tiroide. Nodulo tenuemente ipoecogeno, disomogeneo, con multiple microcalcificazioni
a Fig. 3.144. Carcinoma papillifero tiroideo. Nodulo ipoecogeno disomogeneo, a margini sfumati, con qualche microcalcificazione. Scarsa vascolarizzazione al PD direzionale
b Fig. 3.142a, b. Carcinoma papillifero della tiroide. Nodulo ipoecogeno disomogeneo, a margini sfumati, con qualche microcalcificazione (a). Discreta ed irregolare vascolarizzazione al PD direzionale (b)
Fig. 3.145. Carcinoma papillare tiroideo. Nodulo ipoecogeno disomogeneo, molto sfumato, con discreta vascolarizzazione all’ECD ma comunque ipovascolare rispetto al contesto ghiandolare
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.146. Carcinoma papillifero tiroideo. Ampio nodulo ipoecogeno disomogeneo
Fig. 3.148. Carcinoma midollare tiroideo. Nodulo ipoecogeno disomogeneo con microcalcificazioni
nigne e diffusi per quelle maligne e con cut-off flussimetrici per malignità di un IP >1,35, un IR >0,78 e un rapporto Vmax/Vmin >0,89 [De Nicola et al. 2005, Miyakawa et al. 2005] (Fig. 3.147). Peraltro anche nei carcinomi follicolari l’aspetto ECD può essere piuttosto ingannevole, dimostrando non di rado una vascolarizzazione scarsa e prevalentemente perilesionale o intralesionale periferica [Lagalla et al. 2006]. Stante l’aspetto US spesso “benigno” di queste lesioni, la corretta diagnosi ecografica preoperatoria risulta spesso difficoltosa (sensibilità del 18% rispetto all’86,5% delle forme non follicolari e specificità dell’89% rispetto al 92% delle forme non follicolari) [Hoike et al. 2001]. I noduli del carcinoma midollare sono generalmente solidi, ipoecogeni, con foci ecogeni nell’80-90% dei casi (depositi amiloidei calcificati) e vasi evidenti ed irregolarmente distribuiti al color-Doppler [Khati et al. 2003] (Figg. 3.148-3.151). Il carcinoma anaplastico ap-
Fig. 3.149. Carcinoma midollare della tiroide. Nodulo ipoecogeno disomogeneo, con discreta vascolarizzazione al PD direzionale ma comunque ipovascolare rispetto al contesto ghiandolare
Fig. 3.147. Carcinoma follicolare tiroideo. Nodulo ipoecogeno, relativamente omogeneo e delimitato, con cospicua ipervascolarizzazione al PD direzionale, periferica ma anche centrale
Fig. 3.150. Carcinoma midollare bifocale della tiroide. Due piccoli noduli ipoecogeni disomogenei, con qualche microcalcificazione
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Ecografia in oncologia
Fig. 3.151. Carcinoma midollare tiroideo. Ampio nodulo ipoecogeno disomogeneo, con qualche microcalcificazione
pare spesso come noduli a crescita rapida, grossi sino anche ad interessare un intero lobo, mal delimitati, ipoecogeni disomogenei per aree necrotiche (78% dei casi), ipervascolari con numerosi piccoli vasi interni ma anche con aree ipo-avascolari, con segni di diffusione extratiroidea e con linfonodi cervicali ingranditi e spesso necrotici (50% dei casi) [Khati et al. 2003, Wong et al. 2005] (Figg. 3.152-3.154). I linfomi tiroidei (1-10% dei tumori tiroidei) sono generalmente del tipo non Hodgkin e spesso insorgono su di uno sfondo di tiroidite cronica di Hashimoto, il cui tipico quadro con areole ipoecogene e strie ecogene interposte sarà riconoscibile nel restante parenchima; bisogna peraltro ricordare che nella tiroidite di Hashimoto non sono rare le aree nodulari, o più propriamente pseudonodulari, che tuttavia sono di tipo ecogeno omogeneo (Fig. 3.155). L’aspetto dei linfomi tiroidei è di noduli disomogenei o francamente pseudocistici, ben delimitati, associati a linfa-
Fig. 3.152. Carcinoma anaplastico tiroideo. Voluminoso nodulo ipoecogeno, disomogeneo ed infiltrante
Fig. 3.153. Carcinoma anaplastico della tiroide. Diffuso rimaneggiamento, quasi similtiroiditico, della ghiandola, con aree ipoecogene sparse e qualche microcalcificazione
Fig. 3.154. Carcinoma anaplastico tiroideo. Diffuso rimaneggiamento ghiandolare, con aree ipoecogene mal delimitate e multipli foci microcalcifici
Fig. 3.155. Nodulo ecogeno su tiroidite cronica di Hashimoto. Formazione iperecogena, relativamente omogenea e delimitata, su sfondo tiroiditico con areole ipoecogene di infiltrazione linfocitaria e bande iperecogene
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
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denopatie cervicali [Takashima et al. 1988]. Peraltro vi sono anche forme diffuse, con diffusione extraghiandolare ed infiltrazione vascolare. Le metastasi tiroidee (2-17% dei pazienti con un tumore primitivo noto, 1-2% dei tumori tiroidei) sono generalmente ematogene e si correlano soprattutto con melanomi e carcinomi mammari, polmonari, renali e colici; rare le infiltrazioni per contiguità [Wong et al. 2005]. Generalmente si presentano come lesioni ipoecogene omogenee, ben delimitate, con predilezione per il lobo inferiore, ma possono anche risultare multiple ed eterogenee e sovvertire il parenchima tiroideo [Ahuja et al. 1994]. Gli adenomi (follicolari e non), hanno caratteristiche morfologiche ed ecovascolari, come detto, singolarmente non differibili dalle lesioni maligne, ed in particolare l’adenoma tossico di Plummer, iperfunzionante, può apparire alquanto vascolarizzato all’ECD, con velocità in media di circa 70 cm/s e quindi ben più elevate che nel tessuto tiroideo normale o nelle neoplasie maligne; la distinzione è legata alla FNAC e soprattutto alla scintigrafia (nodulo “caldo”) [Calliada et al. 2006, Lagalla et al. 2006] (Figg. 3.156, 3.157).
b
Fig. 3.156a–c. Adenoma follicolare della tiroide. Nodulo isoecogeno leggermente disomogeneo, con alone ipoecogeno periferico (a) e con modica vascolarizzazione specie periferica al PD direzionale (b). La flussimetria Doppler identifica un flusso a bassa velocità e bassa impedenza (c)
Fig. 3.157. Nodulo tiroideo benigno, “caldo” alla scintigrafia. Nodulo ovalare, tenuemente ipoecogeno, relativamente omogeneo (piccola area colloidale), discretamente vascolarizzato al PD direzionale, alla periferia ma anche al centro
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Fig. 3.158. Stadiazione dei carcinomi tiroidei differenziati. T1, tumore ≤2 cm e limitato alla ghiandola; T2, tumore 2-4 cm e limitato alla ghiandola; T3, tumore >4 cm limitato alla ghiandola oppure tumore di qualsiasi dimensioni ma con iniziale diffusione extraghiandolare (es. infiltrazione ai tessuti molli pretiroidei o al muscolo sternocleidomastoideo); T4a, tumore di qualsiasi dimensione con invasione di sottocute, laringe, trachea, esofago o nervo laringeo inferiore; T4b, tumore di qualsiasi dimensione con invasione di fascia prevertebrale, carotide o vasi mediastinici. Il carcinoma anaplastico viene classificato a parte ed è per definizione un T4. Modificato da [Wittekind et al. 2005]
3.12. La diffusione locoregionale del carcinoma tiroideo e il follow-up dopo tiroidectomia Tra i compiti dell’US nello studio dei noduli tiroidei vi è anche quello di fornire elementi per la stadiazione (Figg. 3.158, 3.159). Bisogna quindi ricercare le irregolarità del profilo tiroideo a livello del nodulo in questione ed i segni chiari di diffusione extratiroidea. La crescita extracapsulare va ricercata attentamente, considerando che essa non è subordinata alla presenza di lesioni di ampie dimensioni ma che può anche essere presente in carcinomi subcentimetrici [Papini et al. 2002]. L’invasione delle strutture adiacenti, quali i muscoli pretiroidei, deve essere attentamente ricercata. Il coinvolgimento del fascio vascolare del collo, e specie della vena, si verifica nelle forme avanzate ma deve essere attentamente ricercato ai fini della programmazione terapeutica [Gross et al. 2004]. Ecograficamente si può rilevare sia l’adesione alle pareti
vasali, che l’obliterazione trombotica luminale o ancora, nel caso della vena, la sua mancata visualizzazione per un determinato tratto, associata alla presenza di multiple venule di collateralizzazione. L’EUS può identificare un’infiltrazione esofagea. In un lavoro sulla stadiazione del carcinoma papillare, l’US risultava superiore alla RM nell’identificare il tumore primitivo, anche nelle sue eventuali forme plurifocali, ed inferiore nel riconoscere la diffusione extracapsulare e l’infiltrazione tracheale o esofagea, mentre le due metodiche erano confrontabili nell’identificazione delle linfadenopatie, con difficoltà soprattutto per quelle centrali; si concludeva sull’utilità dell’US quale prima opzione e sulla necessità di un’integrazione RM nei casi in cui il carcinoma non è del tutto circondato da tessuto tiroideo normale [King et al. 2000]. Lo studio dei linfonodi del collo è parte integrante di ogni esame US tiroideo, ancor più chiaramente quando questo identifichi dei noduli e quando questi abbiano un aspetto non propriamente benigno. Non
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.159. Parametro N per carcinomi tiroidei. Sono considerati regionali i linfonodi cervicali e quelli mediastinici superiori. L’N1a considera le metastasi ai linfonodi del VI livello (pretracheali e paratracheali, inclusi i prelaringei) mentre l’N1b riguarda le metastasi agli altri linfonodi cervicali (omo- o controlaterali indifferentemente) e mediastinici superiori. Modificato da [Wittekind et al. 2005]
di rado linfadenopatie cervicali, anche in forma di grossolani pacchetti, vengono rilevate in soggetti con modeste alterazioni tiroidee, quasi inapparenti all’esplorazione US: in una casistica su lesioni non palpabili <15 mm, non c’era differenza nell’incidenza di localizzazioni linfonodali tra i casi con nodulo <10 mm e quelli con nodulo >10 mm [Papini et al. 2002]. Talora è proprio l’identificazione di linfonodi cervicali ingranditi, specie se con le caratteristiche morfostrutturali descritte più oltre, a spingere verso una più attenta esplorazione della tiroide ed alla rivalutazione di un nodulo inizialmente sottostimato o anche alla ripetizione di una FNAC inizialmente negativa. Le metastasi linfonodali da cancro tiroideo sono spesso di difficoltoso rilievo palpatorio, specie se piccole o localizzate profondamente al muscolo sternocleidomastoideo, alla vena giugulare o all’arteria carotide; sicuramente l’US ha una sensibilità superiore [Kusasic Kuna et al. 2006]. Dal punto di vista ecografico, le metastasi linfonodali costituiscono un riscontro, in proporzione, piuttosto frequente nel soggetto con carcinoma tiroideo (15-20% dei casi), specie nel caso di forme papillifere o midollari. In generale, i criteri più rilevanti ai fini della differenziazione tra
linfonodi benigni e maligni nei pazienti con carcinoma tiroideo sono: le dimensioni del linfonodo (diametro trasverso >7 mm per i linfonodi della catena giugulare interna superiore - livello II - e >6 mm per gli altri), la forma rotondeggiante (nell’80% delle metastasi da carcinoma papillifero ma anche nel 29,5% dei linfonodi normali), l’assenza dell’ilo ecogeno, la presenza di lacune similcistiche (poco frequenti ma altamente specifiche), l’ecogenicità linfonodale complessiva superiore a quella dei muscoli regionali (almeno nel carcinoma papillifero), la presenza di calcificazioni (poco frequenti ma altamente specifiche) [Kusasic Kuna et al. 2006, Weslley Souza Rosário et al. 2005] (cfr. Fig. 3.113). All’ecocolor-Doppler i linfonodi metastatici sono spesso ipervascolarizzati, con multipli rami vascolari ad ingresso periferico e presenza di spettri eterogenei tra loro per velocità di picco ed IR [Lagalla et al. 2006]. La bilateralità, in generale, deve costituire un criterio di sospetto; anche la sede del linfonodo è importante, perché i linfonodi metastatici si localizzano nella maggioranza dei casi (67%) nel terzo inferiore del collo, nel 20% nel terzo medio e solo nel 13% nel terzo superiore, laddove quelli reattivi seguono una distribuzione del tutto op-
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posta [Kusasic Kuna et al. 2006]. Esiste in effetti una sovrapposizione semeiologica tra linfonodi metastatici e reattivi ma quantomeno l’US risulta efficace nel selezionare le linfoghiandole sospette, da sottoporre alla FNAC ecoguidata, la quale si è dimostrata molto utile ai fini della caratterizzazione definitiva [Kusasic Kuna et al. 2006]. Nel carcinoma papillare i linfonodi patologici si localizzano soprattutto in sede pretracheale, paratracheale e laterocervicale e mostrano fenomeni cistico-necrotici interni nel 25% dei casi e calcificazioni puntiformi nel 50%; l’aspetto viene quindi ad essere piuttosto simile a quello del tumore di origine descritto nel paragrafo precedente. Anche nel carcinoma midollare i linfonodi mostrano spesso (50-60% dei casi) calcificazioni interne, mentre nel carcinoma anaplastico sono tipici soprattutto i fenomeni necrotici (50% dei casi) (Figg. 3.160-3.169).
Fig. 3.161. Linfadenopatia laterocervicale metastatica da carcinoma papillifero tiroideo. Linfonodo ingrandito, con vascolarizzazione capsulare e centrale al PD direzionale
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Fig. 3.160a, b. Carcinoma papillifero tiroideo con metastasi linfonodali. Rimaneggiamento del lobo sinistro della tiroide con calcificazioni amorfe, associato a due linfadenopatie ovalari relativamente omogenee (frecce). Scarsa vascolarizzazione sia del tumore che dei linfonodi al PD direzionale
Fig. 3.162a, b. Carcinoma papillifero tiroideo con metastasi linfonodale. Formazione ipoecogena disomogenea, con calcificazioni amorfe e discreta, irregolare vascolarizzazione al PD direzionale nel lobo tiroideo sinistro (a). Grossolana adenopatia, con caratteristiche ecostrutturali ed ecovascolari molto simili al tumore (b)
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Fig. 3.163a, b. Carcinoma papillifero tiroideo con metastasi linfonodale. Formazione ipo-anecogena disomogenea, plurinodulare, con qualche calcificazione amorfa, discretamente vascolarizzata (a). Adenopatia ipoecogena, relativamente omogenea, ipovascolare (b, freccia)
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Fig. 3.164. Metastasi linfonodale da carcinoma papillifero della tiroide. Voluminosa formazione di aspetto cistico multiloculato, con segnali vascolari settali all’ECD
Fig. 3.165a–c. Carcinoma papillifero tiroideo con metastasi linfonodali. Lesione mal delimitata, con qualche microcalcificazione e con modica, anarchica vascolarizzazione al PD direzionale in corrispondenza del lobo tiroideo destro (a). Voluminosa adenopatia cistica, con alcune proiezioni papillari vascolarizzate (b). Altre due adenomegalie a prevalente struttura solida (c)
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Fig. 3.166a–d. Carcinoma papillifero della tiroide con metastasi linfonodali. Lesione discretamente ipoecogena, disomogenea, mal delimitata, con qualche piccola calcificazione (a). Al PD direzionale il nodulo mostra segnali vascolari ma meno evidenti rispetto al parenchima adiacente (b). Linfadenopatia metastatica con disomogeneità e microcalcificazioni interne ma ipovascolare (c). Altre due adenopatie a struttura più marcatamente ipoecogena e con angioarchitettura più accentuata ed irregolare (d)
Il monitoraggio dei soggetti operati per carcinoma tiroideo è affidato al dosaggio della tireoglobulina e della calcitonina (carcinoma midollare). Un ruolo importante nell’identificazione di residuo o di ripresa loco-regionale spetta anche alla scintigrafia, soprattutto mediante le scansioni total-body con I-131 (considerando anche il ruolo della terapia metabolica nel trattamento di queste evenienze), alla PET-FDG e alla PET con octreotide (per il carcinoma midollare). Comunque anche l’US ha compiti importanti, come la valutazione del letto chirurgico, della fibrosi, dell’eventuale parenchima residuo e delle stazioni linfonodali cervicali, considerando anche che circa 2/3 delle recidive dei carcinomi tiroidei, almeno di quelli differenziati, si verifica nel collo ed in particolare a livello linfonodale [Gorges et al. 2003, Weslley Souza Rosá-
rio et al. 2005] (Figg. 3.170, 3.171). L’apporto addizionale dell’ECD è discusso, poiché molto dipendente dalle dimensioni dell’area sospetta; si segnala in tale senso che il tessuto fibrotico-cicatriziale giovane, nei primi sei mesi dall’intervento, è spesso alquanto vascolarizzato [Lagalla et al. 2006]. Bisogna porre attenzione a non confondere i granulomi da sutura, ipoecogeni e con calcificazioni amorfe, con dei noduli veri e propri dovuti a residuo o ripresa tumorale (specie di un carcinoma papillare!) [Wong et al. 2005]. La conoscenza di quest’eventualità e l’aspetto avascolare al color-Doppler sono generalmente sufficienti per una corretta differenziazione. Nei pazienti con sospetta ripresa locale o regionale la FNAC ecoguidata costituisce di solito il momento diagnostico successivo (Figg. 3.172-3.174).
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
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Fig. 3.167a–d. Microcarcinoma papillifero tiroideo con metastasi linfonodali. Piccolo nodulo ipoecogeno disomogeneo, mal delimitato, con microcalcificazioni (a). Disomogenea ipervascolarizzazione lesionale al PD direzionale (b). Voluminosa adenopatia laterocervicale omolaterale, con quote anecogene e discreta irregolare ipervascolarizzazione al PD direzionale (c). Altro linfonodo, più piccolo e meno vascolarizzato del precedente all’ECD, paracarotideo, caudalmente alla base tiroidea (d)
Fig. 3.168. Carcinoma anaplastico della tiroide con metastasi linfonodali. Totale sovvertimento strutturale ipoecogeno del lobo tiroideo destro, slargato, con pacchetto linfonodale laterocervicale omolaterale (frecce)
Fig. 3.169. Carcinoma follicolare tiroideo con metastasi linfonodale. Nodulo ipoecogeno, relativamente omogeneo e delimitato, a livello del lobo tiroideo destro. Si associa adenopatia ipo-anecogena (freccia)
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Fig. 3.170. Recidiva di carcinoma midollare dopo tiroidectomia totale. Piccolo nodulo ipoecogeno superficiale (freccia)
Fig. 3.172. Granuloma dopo emiresezione del lobo tiroideo destro e dell’istmo. A livello paraistmico si osserva un’areola ipoecogena disomogenea con piccole calcificazioni
a Fig. 3.173. Granulomi dopo tiroidectomia. In un paziente con pregressa tiroidectomia radicale per carcinoma papillifero si osservano due piccole nodulazioni ipoecogene (frecce), in sede pretracheale, dovute a granulomi
b Fig. 3.171a, b. Recidiva linfonodale dopo tiroidectomia per carcinoma follicolare. Multiple adenomegalie ovalari, ipoecogene, relativamente omogenee e delimitate, non confluenti
Fig. 3.174. Falsa immagine di recidiva di carcinoma tiroideo dopo tiroidectomia totale. L’esofago cervicale si viene a trovare in sede paratracheale sinistra (freccia), simulando una recidiva locale. La scansione longitudinale consente di riconoscere la struttura digestiva (destra)
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
3.13. Il nodulo mammario: l’identificazione, la caratterizzazione, gli elementi di sospetto per malignità, le indicazioni alla biopsia Il cancro mammario è la neoplasia femminile più frequente (31% dei tumori della donna) e la seconda causa di morte nella donna dopo quello polmonare. Il 25% dei casi riguarda soggetti con aumentato rischio: familiarità (parentela di 1° grado), positività genetica (portatrici delle mutazioni BRCA1 e BRCA2), pregresso carcinoma mammario, pregressa diagnosi bioptica di precancerosi (iperplasia duttale atipica e carcinoma lobulare in situ), menarca precoce e/o menopausa tardiva, nulliparità, primiparità attempata, esposizione a radiazioni [Griff et al. 2002]. Nel 90% dei casi circa si tratta di tumori epiteliali derivanti dall’unità terminale duttulo-lobulare: i carcinomi duttali (80% dei casi totali) comprendono quello in situ e quello infiltrante; il carcinoma lobulare (10%) è invasivo per definizione. Nel restante 10% dei casi si riconoscono invece altri istotipi, in ordine di frequenza quello midollare, colloide (mucinoso), papillare e tubulare [Griff et al. 2002]. Si distinguono poi tre gradi istologici: basso, medio e alto. I maggiori indicatori prognostici sono: dimensioni e grado istologico della lesione, presenza e numero di linfadenopatie ascellari. Quella del nodulo mammario (per il contributo US allo screening cfr. paragrafo 1.3) è una problematica quotidiana in ambito ecografico, sebbene nella maggioranza dei casi questo sia da imputare a cisti, fibroadenomi o zolle adenosiche. Un carcinoma è presente, ad esempio, solo nel 4% delle donne sintomatiche, poiché nella larga maggioranza delle donne che riferiscono una sensazione di lesione autopalpabile non vi è un’effettiva focalità corrispondente oppure questa è di tipo benigno. Anche la maggioranza delle lesioni palpabili sottoposte a prelievo citologico è in realtà di natura benigna [Shetty 2003]. Non sempre quindi ad una lesione palpabile corrisponde un’effettiva focalità all’US, confermata ad esempio solo nel 34% delle adolescenti con positività obiettiva [Kronemer et al. 2001]. Bisogna anche considerare che almeno il 10-15% dei carcinomi mammari che vengono operati è attualmente non palpabile, nel senso che anche un senologo esperto non è in grado di obiettivarli neanche dopo aver preso visione dei reperti mammografici e US. In uno studio prospettico [Kalappa Shetty et al. 2002] si è visto che la predittività negativa della combinazione mammografia-US era del 100%: nessuna delle donne con tumefazione palpabile considerate negative aveva poi sviluppato un carcinoma in quella sede dopo un follow-up medio di 29 mesi. La valutazione dei noduli mammari, palpabili o
meno, è fondata sul ruolo centrale della mammografia, pur con i noti limiti nell’età giovanile, e da quello addizionale dell’US, della FNAC e della RM con mdc; quest’ultima ha assunto un ruolo sempre più importante negli ultimi anni: nella sorveglianza delle donne ad alto rischio per cancro ereditario la RM si è ad esempio dimostrata superiore alla mammografia ed all’US ed è attualmente considerata l’opzione di scelta [Warner 2001]. Per l’ecografista è fondamentale la valutazione clinica della mammella ed anche la combinazione dei reperti US con il quadro mammografico, che dovrebbe tendenzialmente precedere l’US anche quando i due esami vengono eseguiti nella stessa giornata [Shetty 2003]. L’US, da intendere di regola come studio panoramico e bilaterale (whole breast), risulta particolarmente utile nel caso del seno denso, problema tra l’altro aumentato dalla sempre maggiore diffusione della terapia ormonale sostitutiva: le evidenze sembrano a supporto di un impiego addizionale dell’US nello screening delle donne con seno denso o eterogeneo [Berg 2004]: in uno studio la sensibilità di mammografia ed US per i carcinomi non palpabili risultava rispettivamente dell’80 e 88% per i gradi di densità mammaria BI-RADS D1 e D2 ma rispettivamente del 56 e 88% per i gradi D3 e D4 (escludendo le donne con mammelle totalmente adipose ed esame obiettivo negativo) [Leconte et al. 2003]; in un altro lavoro su donne <36 anni l’US risultava più sensibile della mammografia nei casi studiati con entrambe le metodiche, seppur in maniera non significativa (79% vs. 74%) [Ciatto et al. 2005]. Nelle donne giovani la diagnosi sia clinica che mammografica del carcinoma mammario è più difficoltosa, forse anche per la maggior tendenza a sottovalutare i segni minimi, e bisogna integrare le diverse opzioni diagnostiche: per donne al di sotto dei 36 anni si è rilevata una sensibilità dell’esame clinico del 70%, della mammografia del 76%, dell’US del 69% e della FNAC dell’81% [Ciatto et al. 2005]. In uno studio su donne sintomatiche <55 anni [Houssani et al. 2002] la valutazione combinata mammo-ecografica aumentava la sensibilità dell’11,6% rispetto all’impiego della sola US e del 17,5% rispetto alla sola mammografia; ciò veniva peraltro pagato in termini di una lieve riduzione della specificità, statisticamente non significativa. Almeno in termini generali, comunque, l’US della mammella non dovrebbe essere praticata in assenza di un adeguato supporto mammografico per studiare donne di età medio-avanzata: nello sfondo di un seno a prevalenza o totalità adiposa possono infatti nascondersi carcinomi di scarsa o nulla obiettivabilità ecografica. Comunque, l’US ha dimostrato una buona accuratezza nella caratterizzazione nodulare, con valore predittivo negativo per malignità del 98% [Bonifacino et al. 2005]. L’associazione mammografia-ecografia ha
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significativamente aumentato la percentuale di detezione dei cancri mammari, con una sensibilità combinata nelle diverse casistiche dell’83-91% [Zonderland et al. 1999]; fra quattro ampi studi retrospettivi, i cancri palpabili risultati occulti sia alla mammografia che all’US erano complessivamente lo 0,2% [Kalappa Shetty et al. 2002]. L’impiego dell’imaging armonico aumenta in linea teorica il contrasto lesione-parenchima, specie nei seni adiposi e adiposo-ghiandolari (con qualche difficoltà invece nei seni densi, per gli intensi fenomeni di riflessione), con una superiore risoluzione spaziale e di contrasto e con una maggiore nitidezza dei margini lesionali, del contenuto interno e dell’eventuale ombra acustica posteriore (compresa tuttavia quella, indesiderabile, determinata dai legamenti di Cooper) [Leconte et al. 2003, Steyaert 2001, Szopinski et al. 2003]; peraltro, in uno studio comparativo recente, l’imaging armonico tissutale non mostrava un’accuratezza significativamente superiore rispetto a quello in fondamentale nella distinzione benigno vs. maligno e l’utilità maggiore può forse essere il riconoscimento delle lesioni di dubbia presenza, come quelle isoecogene [Cha et al. 2007]. Anche l’imaging compound aumenta i contrasti e la cospicuità tra la lesione ed il parenchima adiacente, sebbene riduca l’attenuazione posteriore che costituisce invece un reperto importante [Mehta 2003]. L’impiego addizionale delle tecniche Doppler, con analisi qualitativa e semiquantitativa, aumenta l’accuratezza (in particolare, riduce i falsi positivi): in uno studio la sensibilità di mammografia + ecografia con Doppler colore e spettrale era del 99% e la specificità del 76%; l’addizione delle tecniche Doppler incrementa la specificità sia per i noduli ≤10 mm (da 89 a 100%) che per quelli >10 mm (da 70 a 97%) [Özdemir et al. 2001]. Il PD con fremito vocale, cioè con valutazione degli artefatti Doppler da vibrazione indotta dall’oscillazione della parete toracica della paziente durante fonazione non sembra di ausilio nella distinzione benigno vs. maligno, come inizialmente ipotizzato, ma piuttosto in quella tessuto normale (presenza di artefatti) vs. tessuto patologico (assenza di artefatti nell’area patologica); quest’artifizio può essere impiegato per riconoscere i noduli isoecogeni (distinzione da zolle ghiandolari o da lobuli adiposi) e per dimostrare l’adesione alla parete cistica di eventuali echi luminali [Kim et al. 2006a]. Per la descrizione e la classificazione delle lesioni mammarie possono essere utilmente sfruttati il lessico e la categorizzazione finale del BI-RADS ecografico, elaborato dall’ACR e che delle lesioni considera forma, orientamento, margini, contorni, ecostruttura, attenuazione o rinforzo posteriore, alterazione dei tessuti circostanti. Si distinguono sei categorie: 1, reperto negativo; 2, reperto benigno; 3, reperto probabilmente benigno con indicazione di follow-up
a breve termine; 4, lesione suggestiva, da considerare per la biopsia; 5, lesione altamente suggestiva per malignità, da trattare appropriatamente; 6, malignità dimostrata biopticamente [American College of Radiology 2003]. L’impiego del lessico BI-RADS nella differenziazione tra lesioni mammarie benigne e maligne ha dimostrato una sensibilità del 98%, una specificità del 33% ed un’accuratezza del 71% [Costantini et al. 2006]. Le lesioni maligne presentano di solito forma irregolare, tendenzialmente rotondeggiante o appena ovalare ma non francamente allungata, con margini spiculati o angolati e contorni lobulati (specie se microlobulati), aspetto ipoecogeno disomogeneo, e crescita prevalentemente in altezza (orientamento perpendicolare del nodulo rispetto al profilo cutaneo o disposizione antiparallela) [Costantini et al. 2006, Stavros et al. 1995] (Figg. 3.175-3.180, Video 9-12). I segni predittivi di malignità, peraltro, sono dipendenti dalle dimensioni lesionali: tranne i margini irregolari e la marcata ipoecogenicità, infatti, gli altri segni sono riconoscibili soprattutto nelle lesioni >7 mm e quindi la caratterizzazione di quelle al di sotto di tale soglia è più difficoltosa [Del Frate et al. 2006]. Nel carcinoma si rileva inoltre una più o meno intensa attenuazione posteriore del fascio ultrasonoro (“ombra posteriore”), con difficoltosa visualizzazione della parte più profonda della lesione e del parenchima sano posto subito dorsalmente a questa; l’entità dell’ombra posteriore si correla con l’entità e l’estensione spaziale dei fenomeni desmoplastici collegati alla neoplasia, i quali possono anche essere distribuiti irregolarmente [Costantini et al. 2006, Stavros et al. 1995]
Fig. 3.175. Carcinoma mammario. Nodulo ipoecogeno lobulato, a disposizione parallela, con ecostruttura nel complesso omogenea, lieve rinforzo posteriore e modici segnali vascolari al PD direzionale. Si visualizza in particolare un’arteria afferente
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
a Fig. 3.178. Carcinoma mammario. Lesione ipoecogena disomogenea, con microcalcificazioni, margini irregolari, con evidente bordo ecogeno. In profondità si associano fenomeni sia di attenuazione che di rinforzo
b Fig. 3.176a, b. Carcinoma mammario. Nodulo ipoecogeno disomogeneo, a disposizione antiparallela, con margini irregolari, microcalcificazione ed attenuazione del fascio (a). L’ECD evidenza qualche segnale vascolare periferico (b). Il nodulo è piuttosto profondo e giunge ad aderire al piano fasciale
Fig. 3.177. Carcinoma mammario. Lesione ipoecogena, a margini microlobulati, con orletto ecogeno riconoscibile superficialmente e fenomeni di attenuazione rilevabili profondamente
Fig. 3.179. Carcinoma mammario. Voluminosa formazione ipoecogena, ad orientamento parallelo e con lieve rinforzo posteriore
Fig. 3.180. Carcinoma e fibroadenoma contigui. Nodulo tumorale ipoecogeno, a margini irregolari e con evidente attenuazione posteriore (freccia); contiguamente si rileva anche un nodulo più omogeneo e delimitato, con lieve rinforzo posteriore e orientamento parallelo, da fibroadenoma
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(Figg. 3.181, 3.182). Bisogna anche ricordare che l’attenuazione del fascio è incostante, essendo presente in forma parziale o completa solo nel 35% dei carcinomi (specie se tubulari, tubulo-lobulari o lobulari invasivi), e che nel 28% circa dei casi vi può essere addirittura un rinforzo posteriore (specie per carcinomi midollari o colloidali) [Stavros 2004]. L’attenuazione in profondità del fascio può inoltre essere riscontrata anche in lesioni benigne, a prescindere dalla presenza di calcificazioni lesionali: fino al 30% dei fibroadenomi non calcifici (fenomeni di ialinizzazione), la maggioranza dei (rari) tumori a cellule granulari, alcuni tumori filloidi (16%), la maggioranza delle cicatrici radiali e molte cicatrici postoperatorie, molte fibrosi focali ed adenosi sclerosanti, la maggioranza delle zolle di mastopatia diabetica, la maggioranza delle aree di steatonecrosi [Chao et al. 2002]. Tuttavia esistono degli elementi diagnostico-differenziali: nel fibroadenoma ialinizzato, ad esempio, l’atte-
Fig. 3.181. Carcinoma mammario. Lesione di forma irregolare, vagamente rotondeggiante, con evidente ombra posteriore
Fig. 3.182. Carcinoma mammario. Lesione ipoecogena disomogenea, a margini infiltranti e con intensa attenuazione del fascio
nuazione parte dalla parete profonda del nodulo, che come tale è spesso riconoscibile, mentre nel carcinoma essa maschera completamente la parte posteriore della lesione rendendola irriconoscibile. Inoltre, molte delle lesioni descritte in precedenza, come l’adenosi sclerosante, la fibrosi focale e la mastopatia diabetica, hanno generalmente più l’aspetto di un’area di disomogenea e mal definita ipoecogenicità determinante attenuazione posteriore che di un vero e proprio nodulo con ombra acustica; la vascolarizzazione al color-Doppler di tali aree pseudonodulari non è inoltre patologica. Il carcinoma non mostra immagini riferibili ad una pseudocapsula mentre strie e bande ipo-anecogene ai margini della lesione, stirate e talora ramificate, possono suggerire un’estensione intraduttale (d.d. con dottuli dilatati) [Satake et al. 2000]. In molti casi, inoltre, è possibile riconoscere alla periferia del nodulo un alone ecogeno, determinato dall’infiltrazione e/o dalla reazione desmoplastica dei tessuti circostanti. L’US 3D può consentire di cogliere meglio gli effetti sul parenchima adiacente: un pattern “convergente”, con bande ecogene convergenti radialmente verso l’alone ecogeno perifocale, suggerisce la malignità mentre un pattern “compressivo”, con bande ecogene dislocate dall’immagine centrale, orienta verso la benignità [Rotten et al. 1999]. La neoplasia tende ad essere delimitata dalla fascia mammaria anteriore, che la separa dal sottocute, e a farsi strada soprattutto nei punti ove i legamenti di Cooper si inseriscono sulla fascia stessa [Stavros 2004]. I margini mal definiti, l’incomprimibilità e la distorsione delle strutture viciniori (in particolare, la discontinuità dei legamenti di Cooper) sono risultati in uno studio gli elementi semeiologici più indicativi di malignità [Ohlinger et al. 2003]. Talora la cute sovrastante può essere localmente ispessita e ipoecogena. Le microcalcificazioni (calcificazioni <5 mm) sono rilevabili all’US solo in alcuni casi, presentandosi come piccoli spots ecogeni, senza ombra acustica posteriore, riconoscibili soprattutto se all’interno di aree nodulari ipoecogene o di strutture duttali anecogene [Soo et al. 2003, Yang et al. 1997]. La diagnosi differenziale si pone con le strie ecogene parenchimali, che tuttavia assumono un aspetto lineare se si ruota la sonda, e con echi artefattuali di speckle, che però non si confermano se si insona la stessa area da diverse angolazioni. Specie nei carcinomi duttali in situ, l’US si è dimostrata sensibile nel riconoscimento di microcalcificazioni [Hashimoto et al. 2001]. Il riscontro di microcalcificazioni in un nodulo mammario ne aumenta il sospetto di malignità. Se guidata dalle immagini mammografiche, l’US con sonde ad alta frequenza (10-13 MHz) può identificare, sino nel 23% dei casi, dei grappoli di microcalcificazioni non associati a noduli definiti alla mammografia, e guidarne
Capitolo 3 Le problematiche cliniche così la biopsia [Hashimoto et al. 2001, Stavros 2004] (Fig. 3.183). I carcinomi duttali infiltranti, l’istotipo più comune, appaiono come i tipici noduli ipoecogeni, di forma irregolare, con distorsione del parenchima circostante e attenuazione del fascio; peraltro, quest’aspetto viene riscontrato soprattutto nelle lesioni di grado più basso mentre, paradossalmente, quelle di alto grado hanno spesso un aspetto US più “benigno”, talora anche con margini definiti o rinforzo posteriore [Lamb et al. 2000]. Talora poi la presentazione è sottoforma di una dilatazione duttale interessante un singolo segmento, ed in questo caso i dotti coinvolti mostrano pareti spesse e irregolari ed echi luminali, fini o papillari [Dogan et al. 2005]. I carcinomi lobulari infiltranti (7-10% dei cancri mammari) causano invece una scarsa reazione desmoplastica ed una leggera distorsione dei tessuti adiacenti, risultando pertanto di più difficoltosa detezione; talora si osserva solo un’area sfumata di attenuazione del fascio senza chiaro aspetto massiforme o, all’opposto, una nodulazione priva di assorbimento acustico [Abbattista et al. 2006, Mehta 2003]. I carcinomi duttali in situ, rilevabili alla mammografia soprattutto per l’elevata frequenza di microcalcificazioni a grappolo, possono essere identificati all’US come lesioni nodulari o dilatazioni focali dei dotti (soprattutto nelle forme di grado più alto) oppure come clusters di microcalcificazioni non associati a massa o ad ectasia duttale ma al limite contornate da un alone di ipoecogenicità edemigena (specie nelle forme di basso grado); eccezionale la presentazione come massa intracistica [Hashimoto et al. 2001]. I carcinomi midollari (5% dei tumori mammari), rilevati in donne giovani e caratterizzati da una prognosi migliore degli altri istotipi, possono avere un aspetto ingannevole, presentandosi come lesioni ben delimitate, omogenee e talora anche con rinforzo posteriore, sebbene in alcuni casi sia comunque possibile rilevare una parziale irregolarità marginale oppure una seppur parziale attenuazione del fascio; le metastasi linfonodali possono essere isoecogene e, quindi, essere misconosciute [Mehta 2003, Yilmaz et al. 2002]. Nei carcinomi tubulari si rileva essenzialmente una distorsione parenchimale aspecifica [Abbattista et al. 2006]. I carcinomi colloidali, infine, hanno generalmente un aspetto nodulare, lobulato e relativamente ecogeno [Steyaert 2001]. La possibilità di riconoscere segnali vascolari con le tecniche Doppler dipende da vari fattori. La capacità di rilevare i flussi con i primi apparecchi Doppler era molto bassa, e pertanto si erano riportate una sensibilità ed una specificità del 100% per la diagnosi di malignità; in realtà, con apparecchiature più moderne, si è riusciti a rilevare segnali di flusso nel 14-86% dei fibroadenomi e nel 65-98% dei carcinomi [Mehta 2003, Özdemir et al. 2001] (Fig. 3.184).
Fig. 3.183. Iperplasia lobulare sclerosante e grappolo di microcalcificazioni. Nodulo ipoecogeno superficiale con sottile setto ecogeno periferico. Più in profondità si rileva un’areola ipoecogena, con multiple immagini ecogene puntiformi (freccia)
Fig. 3.184. Principali pattern ECD delle lesioni focali mammarie. a, avascolarità (pattern 1); b, multipli spots di colore intranodulari (pattern 2a); c, dislocazione vasale (pattern 2b); d, multipli vasi intranodulari prevalentemente periferici (pattern 3a); e, multipli poli vascolari con ramificazione intranodulare (pattern 3b)
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Prescindendo dalla sensibilità dei diversi apparecchi e dal loro adeguato settaggio, cosa non da poco, aumentano la possibilità di riconoscere segnali di flusso l’impiego del power-Doppler in luogo del color-Doppler, la sede superficiale del nodulo, le dimensioni significative del nodulo. L’utilizzo dei mdc aumenta chiaramente la sensibilità dell’ECD, anche se il costobeneficio, rispetto ad esempio ad una FNAC, non è stato dimostrato; i mdc aumentano il numero di vasi riconoscibili ed inoltre permettono di cogliere un enhancement precoce e intenso nei carcinomi ed un enhancement più lento e persistente nei fibroadenomi. Peraltro, il numero dei vasi ed il tempo di picco sembrerebbero essere dei parametri meno significativi rispetto alla morfologia ed al decorso dei vasi (vedi dopo). L’impiego dei mdc ecografici potrebbe in particolare ridurre il numero di biopsie praticate [Huber et al. 1998, Reinikainen et al. 2001, Schroeder et al. 2003]. All’ecocolor-Doppler si rileva, in caso di malignità, una vascolarizzazione intensa, multipolare, con un numero di vasi superiore rispetto a quelli identificabili nelle lesioni benigne e distribuiti anarchicamente sia al centro che alla periferia (Figg. 3.185-3.188). In particolare sono sospetti i vasi riconoscibili solo al centro oppure quelli “penetranti”, cioè le arteriole terminali che sopraggiungono dall’esterno, penetrano nella periferia con un angolo retto o quasi e infine raggiungono il centro anastomizzandosi in una rete vasale intranodulare più o meno evidente. I flussi più evidenti e veloci sono periferici mentre al centro i segnali sono in generale meno evidenti e comunque a flusso più lento. Detti vasi hanno inoltre un calibro e una direzione variabili, un andamento tortuoso e possono presentare all’interno dei flussi bidirezionali dovuti a fistole oppure segnali “a mosaico” quali indicatori di velocità di flusso variabile, con un insieme angioarchitettonico globale caotico ed eterogeneo (“policromatico”) [Özdemir et al. 2001, Rizzatto et al. 2006]. Esiste comunque una certa sovrapposizione dei reperti ECD tra noduli benigni e maligni ed inoltre si è visto come i parametri semiquantitativi misurati con l’ECD, oltre che soggetti ad una variabilità intra- ed interosservatore legata al campionamento, sono anche influenzati da aspetti come lo stato menopausale o la terapia estroprogestinica, e questo sia nei noduli benigni che maligni. Bisogna anche ricordare come alcuni carcinomi, in particolare i lobulari puri, possono essere ipovascolari e come alcune lesioni benigne, quali le infiammazioni oppure i fibroadenomi giovanili, possono essere alquanto vascolarizzate [Germer 2002, Mehta 2003] (Figg. 3.189, 3.190). La sola presenza di vasi all’interno del nodulo ha una sensibilità del 68% e una specificità del 64% [del Cura et al. 2005].
Fig. 3.185. Carcinoma mammario. Lesione lobulata, ipoecogena, con microcalcificazioni interne e modica, irregolare ecovascolarità al PD direzionale
a
b Fig. 3.186a, b. Carcinoma mammario. Nodulo ipoecogeno disomogeneo, con qualche microcalcificazione, mal definito rispetto al parenchima adiacente (a). Il PD direzionale identifica una discreta vascolarizzazione diffusa e permette quindi di meglio evidenziare la lesione (b)
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
a Fig. 3.189. Carcinoma midollare della mammella. Formazione di aspetto relativamente “benigno”, con forma ovalare, struttura ipoecogena relativamente omogenea, disposizione parallela ed ipovascolarità Doppler
b Fig. 3.187a, b. Carcinoma mammario. Formazione ovalare, ipoecogena, relativamente omogenea e delimitata, a disposizione obliqua e con lieve attenuazione posteriore (a). Modica vascolarizzazione multipolare al PD direzionale (b) Fig. 3.190. Carcinoma mammario. Nodulo ipoecogeno disomogeneo, a margini irregolari, con attenuazione del fascio. L’ECD non dimostra segnali vascolari
Fig. 3.188. Carcinoma mammario. Lesione ovalare, ben delimitata, con calcificazioni interne e qualche lacuna anecogena. Modica vascolarizzazione anche centrale al PD direzionale
Per quanto riguarda l’analisi spettrale semiquantitativa, la letteratura non ha fornito risultati univoci, anche perché gli indici, ed in particolare l’IR, sono influenzati da fattori quali lo stato pre- o post-menopausale della donna. In un lavoro risultavano maligni tutti i noduli (tranne uno) con IR >0,99 (cioè con flusso diastolico assente o invertito) o con un IP >4 [del Cura et al. 2005]. Altri considerano suggestivo di malignità, purché in associazione con reperti morfologici adeguati, un IR >0,7 o >0,8 [Schroeder et al. 2003]. In un altro studio [Özdemir et al. 2001] non si rilevavano invece differenze significative tra lesioni benigne e maligne: l’IR era pari a 0,64±0,12 nelle lesioni benigne ed a 0,66±0,09 nelle lesioni maligne; l’IP a 1,07±0,3 nelle lesioni benigne ed a 1,1±0,25 nelle lesioni maligne; l’IA a 5,63±2,84 nelle lesioni benigne
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ed a 6,97±2,79 in quelle maligne. In generale si può dire che IR e IP tendono ad essere più elevati nelle lesioni maligne, anche se non sembrano correlarsi con la MVD, mentre la velocità sistolica è di per sé poco discriminante ma si correla meglio con la MVD e, in termini negativi, con la prognosi [Rizzatto et al. 2006]. In uno studio la sopravvivenza a 5 anni era dell’82% per le donne con carcinomi con Vmax <0,25 cm/s e del 37% per quelli con Vmax >0,25 cm/s e quindi questo parametro costituiva un importante fattore prognostico indipendente [Peters-Engl et al. 1999]. Le esperienze con la CEUS sono ancora limitate. La possibilità di evidenziare l’enhancement nodulare quale indicatore del microcircolo è comunque interessante, soprattutto disponendo di sistemi efficaci di quantificazione. Sicuramente, la presenza o l’assenza di contrast enhancement aumenta la confidenza della diagnosi rispettivamente di malignità e benignità ma le possibilità applicative pratiche non sono ancora definite [Rizzatto et al. 2006]. Oltre che un’attenta analisi morfostrutturale del nodulo mammario, lo studio con US deve valutarne, e descriverne al momento della refertazione, sede (singolo quadrante o unione tra due quadranti adiacenti), distanza dall’areola, profondità, rapporti con le strutture viciniori (fascia pettorale, cute, ecc.) (Fig. 3.191). Le dimensioni nodulari, parametro importante, non vengono definite sempre in maniera accurata dall’US, che tende a sottodimensionare leggermente i tumori mammari (laddove la mammografia tende al sovradimensionamento) (Fig. 3.192). Il grado della lesione non può essere definito, sebbene le forme di alto grado tendano ad avere dimensioni maggiori al momento della diagnosi e a mostrare più facilmente un’attenuazione posteriore rispetto alle forme di grado medio-basso. È stato osservato che i noduli con ipervascolarità Doppler hanno maggiore probabilità di associarsi a linfadenopatie ascellari secondarie rispetto a quelli ipovascolari, ma anche questo dato non è concorde nelle diverse casistiche [del Cura et al. 2005, Mehta 2003]. In tutte le donne con nuova diagnosi di carcinoma mammario è necessario un accurato studio degli altri quadranti del lato patologico nonché della mammella controlaterale e di entrambi i cavi ascellari: l’US si è infatti dimostrata in grado di rilevare uno o più noduli addizionali nel 14% delle donne con cancro mammario [Mehta 2003]. Più propriamente, viene definito come cancro mammario multifocale la presenza di >2 nodulazioni sincrone, poste ad una distanza <4-5 cm tra loro e generalmente localizzate nello stesso quadrante o lungo la stessa unità duttale; viene invece indicato come cancro multicentrico la forma con >2 nodulazioni sincrone, distanti tra loro >4-5 cm e poste tipicamente in quadranti diversi (Figg. 3.193-3.195).
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Fig. 3.191. Diffusione del carcinoma mammario. A causa della relativa resistenza della fascia mammaria anteriore il nodulo tende inizialmente ad accrescersi in senso trasversale. Con la crescita ulteriore il nodulo si infiltra lungo le inserzioni dei legamenti di Cooper, ove la resistenza è minore, distorcendo le strutture adiacenti. Modificato da [Stavros 2004]
La diagnosi differenziale del carcinoma mammario si pone con diverse patologie, più o meno frequenti. Il fibroadenoma, molto frequente, deriva dall’unità duttulo-lobulare terminale ed è dovuto alla coesistenza di proliferazione stromale e di dottuli non neoplastici. I fibroadenomi insorgono spesso nell’età adolescenziale (rappresentando il 50-75% delle lesioni mammarie palpabili al di sotto dei 19 anni e comunque la lesione palpabile più comune nelle donne <35 anni), con una crescita più o meno rapida e poi, senza superare generalmente i 20 mm, si stabilizzano
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.192. Stadiazione del carcinoma mammario. T1a, nodulo ≤5 mm; T1b, nodulo di 5-10 mm; T1c, nodulo di 1-2 cm; T2, nodulo di 2-5 cm; T3, nodulo >5 cm; T4a, tumore di qualsiasi dimensioni infiltrante la parete toracica (coste, muscoli intercostali, muscolo dentato anteriore ma non muscolo pettorale); T4b, edema tipo pelle “a buccia d’arancia”, ulcerazione cutanea, o ancora noduli satelliti nella medesima mammella; T4c, combinazione dei criteri che qualificano il 4a ed il 4b. Il carcinoma infiammatorio è catalogato come T4d. Modificazioni cutanee diverse da quelle menzionate, compresi retrazione del capezzolo ed avvallamento cutaneo, non modificano lo stadio. Modificato da [Wittekind et al. 2005]
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Fig. 3.193a, b. Carcinoma mammario multifocale. Due noduli tumorali nello stesso quadrante, uno più vascolarizzato al PD direzionale e l’altro meno
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Ecografia in oncologia
Fig. 3.194. Carcinoma mammario multifocale. Due noduli ipoecogeni nello stesso quadrante, di dimensioni peraltro ben diverse tra loro
o si involvono con l’età, con fenomeni di atrofia, ialinizzazione e calcificazione; fibroadenomi >40 mm vengono indicati come giganti [Kronemer et al. 2001, Steyaert 2001]. I sintomi sono minimi, se non in caso di crescita molto rapida o di infarto. L’aspetto tipico è quello di noduli ben delimitati (compressione del parenchima adiacente), a contorni macrolobulati, con una sottile capsula ecogena, di forma ovalare o francamente allungata (asse maggiore generalmente disposto parallelo alla superficie cutanea), più o meno ipoecogeni (spesso isoecogeni rispetto al grasso intrammammario), a struttura interna più o meno omogenea (Figg. 3.196-3.205, Video 3.13). Peraltro, questo quadro caratteristico viene pienamente riscontrato solo nel 15-55% dei casi, mentre nei rimanenti si rileva una qualche variante semeiologica. Possono essere presenti aree interne pseudocistiche e
a Fig. 3.196. Fibroadenoma. Nodulo ipoecogeno ovalare, a disposizione parallela, con ecostruttura nel complesso omogenea e senza segnali colore interni all’ECD
b Fig. 3.195a, b. Carcinoma mammario multicentrico. Due lesioni tumorali in quadranti differenti della stessa mammella
Fig. 3.197. Fibroadenoma. Nodulo macrolobulato, ipoecogeno, senza segnali colore al PD direzionale
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.198. Fibroadenoma. Nodulo superficiale, macrolobulato, ipoecogeno, con qualche piccola calcificazione e con flussi prevalentemente marginali al PD direzionale
Fig. 3.201. Fibroadenomi. Due noduli adiacenti, relativamente omogenei e delimitati, con fenomeni di rinforzo posteriore
Fig. 3.199. Fibroadenoma. Piccolo nodulo ovalare, ipoecogeno omogeneo, ben delimitato, con qualche segnale vascolare periferico al PD direzionale
Fig. 3.202. Fibroadenoma. Voluminoso nodulo ovalare, omogeneo, a disposizione parallela (frecce). L’ecostruttura è sostanzialmente isoecogena rispetto al parenchima circostante, rendendo la lesione poco riconoscibile nonostante le dimensioni
Fig. 3.200. Fibroadenoma. Formazione ovalare, ipoecogena, ben delimitata, ad orientamento parallelo
Fig. 3.203. Fibroadenoma. Il PD direzionale e lo spettro Doppler identificano un flusso venoso continuo a livello intranodulare
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Ecografia in oncologia
Fig. 3.204. Fibroadenoma. Nodulo bilobato, con qualche segnale vascolare interno all’ECD e spettro a bassa resistenza all’analisi spettrale
Fig. 3.206. Fibroadenoma mammario con macrocalcificazioni. Nodulo ipoecogeno ovalare con grossolani nuclei calcifici interni, caratterizzati da evidenti ombre posteriori
Fig. 3.205. Fibroadenoma recidivo, in paziente di 15 anni. Nella sede retroareolare, già operata in passato, si rileva una voluminosa formazione macrolobulata, ipoecogena, a disposizione parallela, relativamente omogenea, ben delimitata, con qualche segnale vascolare al PD direzionale
Fig. 3.207. Fibroadenoma calcifico. Nodulo ipoecogeno, ben delimitato, con macrocalcificazioni interne (freccia)
macrocalcificazioni (talora responsabili di apparente disomogeneità strutturale e di fenomeni di attenuazione del fascio); nel 30% dei casi si riscontra un’attenuazione posteriore del fascio, peraltro poco marcata in assenza di calcificazioni e che non maschera completamente il profilo profondo del nodulo (Figg. 3.206, 3.207). La vascolarizzazione Doppler è maggiore nelle forme giovanili, a prevalenza adenomatosa, che in quelle inveterate, in gran parte sclerotiche; anche le dimensioni influenzano la possibilità di riconoscere segnali di flusso, presenti soprattutto nei noduli di medie e grandi dimensioni (Figg. 3.208-3.210). Quando riconoscibili, i segnali vascolari hanno una vascolarizzazione prevalentemente periferica, regolarmente disposta, con talora un aspetto complessivo “a canestro”, come dimostrabile soprattutto con il PD
Fig. 3.208. Fibroadenoma simulante una cisti “sporca”. Piccola formazione rotondeggiante, ipoecogena, ben delimitata e con rinforzo posteriore. Il PD direzionale dimostra tuttavia dei segnali di flusso intralesionali
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.209. Fibroadenoma giovanile. Voluminoso nodulo macrolobulato, a disposizione parallela, ben delimitato, con discreta vascolarizzazione periferica al PD direzionale
Fig. 3.211. Tumore filloide. Voluminoso nodulo ovalare, a disposizione parallela, ben delimitato, finemente disomogeneo
Fig. 3.210. Fibroadenoma giovanile. Nodulo ipoecogeno disomogeneo, con cospicua vascolarizzazione multipolare all’ECD
Fig. 3.212. Tumore filloide. Voluminoso nodulo macrolobulato, a disposizione parallela, leggermente disomogeneo, con attenuazione del fascio. Sul versante anteriore si riesce ad apprezzare una sottile immagine ecogena pseudocapsulare, non riconoscibile invece in profondità
in 3D; detti vasi sono comunque piuttosto uniformi per velocità e calibro e pertanto l’insieme è piuttosto “monocromatico” [Rizzatto et al. 2006]. Vasi centrali si osservano solo nei fibroadenomi giovanili, cioè nelle forme ampiamente adenomatose e vascolarizzate che si riscontrano talora nelle adolescenti, oppure in corso di stimolazione ormonale o gravidanza; quando la vascolarizzazione è cospicua bisogna sempre ipotizzare l’alternativa di un tumore filloide o, chiaramente, di un carcinoma, e ciò anche quando l’aspetto in B-mode è di tipo benigno. Una corretta diagnosi di fibroadenoma può consentire di evitare un intervento non necessario, di solito riservato alle lesioni >20 mm, sintomatiche, a rapida crescita e/o ipervascolarizzate all’ECD. Il tumore filloide (0,3-1% di tutti i tumori mammari) è una rara neoplasia fibroepiteliale che predili-
ge le donne tra 35 e 55 anni, pur potendosi rilevare ad ogni età. Può essere distinto in benigno, borderline e maligno, per tendenza a recidivare localmente ma in rari casi anche a metastatizzare. L’aspetto è di nodulazioni lobulate, di discrete dimensioni (mediana di 46 mm), ben delimitate, ad ecostruttura tenuemente ipoecogena e disomogenea, con possibile tendenza all’attenuazione posteriore; rare le calcificazioni, generalmente macroscopiche (Figg. 3.211-3.213, Video 3.14). Segnali vascolari vengono rilevati nel 97% dei casi, con IR >0,7 nella maggioranza dei casi, IP spesso >1,3 e Vmax spesso >15 cm/s (a prescindere dall’eventuale malignità). Esiste quindi una certa sovrapposizione complessiva con il fibroadenoma, rispetto al quale il filloide tende a rilevarsi in donne di età più avanzata, ad essere mediamente più voluminoso, ed a non esibire calcificazioni o rinforzo posteriore. Un’a-
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Fig. 3.213. Tumore filloide. Voluminosa formazione paraareolare, profonda, ipoecogena relativamente omogenea (areola anecogena centrale), ad orientamento parallelo
deguata definizione preoperatoria, peraltro spesso difficoltosa anche alla FNAC o alla core biopsy, può essere importante poiché, altrimenti, vi è il rischio di un’escissione con margini positivi e quindi di una maggiore probabilità di recidiva. Esiste anche il rischio che un tumore filloide con aspetto particolarmente ipoecogeno, con ombra posteriore e con segni di intensa vascolarizzazione all’analisi colore e spettrale, simuli un carcinoma [Chao et al. 2002, 2003]. L’iperplasia lobulare sclerosante è una lesione proliferativa benigna, poco frequente (3-7% delle biopsie mammarie benigne), riscontrata soprattutto in donne giovani e caratterizzata da un’iperplasia dei lobuli con sclerosi dello stroma interposto e quindi piuttosto simile al fibroadenoma. Non associata a neoplasie maligne e passibile di regressione spontanea, questa lesione non richiede un’asportazione chirurgica ed è pertanto opportuno che la diagnosi corretta avvenga prima di un eventuale intervento. L’US dimostra noduli ovalari o lobulati, ben delimitati, a disposizione parallela: l’unico elemento semeiologico che può permetterne quindi la distinzione da un fibroadenoma è il riscontro di un sottile setto ecogeno intralesionale, specie se ne dimostra la partenza dalla periferia (incidentalmente si segnala come la presenza di sepimentazioni ecogene intranodulari sia un segno suggestivo di benignità, riscontrandosi talora nei fibroadenomi, nei tumori filloidi benigni e negli amartomi, anche se senza partenza dalla periferia) [Cho et al. 2003] (cfr. Fig. 3.183). Le lesioni cistiche rappresentano un reperto frequentissimo, rilevandosi in 1/4 delle donne tra 35 e 50 anni; sono invece meno frequenti al di sotto di tale età ed anche al di sopra, a meno che la paziente non sia sottoposta a terapia ormonale sostitutiva [Steyaert 2001]. A parte le cisti displasiche e quelle sebacee (Fig. 3.214), numerose altre lesioni benigne possono avere,
Fig. 3.214. Cisti sebacee. Possono essere localizzate sia a livello totalmente sottocutaneo, che parzialmente al di sotto del piano sottocutaneo, che totalmente al di sotto del piano sottocutaneo ma con un tramite di raccordo alla superficie. Modificato da [Stavros 2004]
almeno in una parte dei casi o in una fase della loro evoluzione, un aspetto similcistico: galattocele, ascesso, mastite plasmacellulare, sieroma, ematoma, linfocele, steatonecrosi, tromboflebite superficiale di Mondor, angioma, linfangioma, malformazione artero-venosa [Stavros 2004] (Figg. 3.215-3.217). Le cisti “semplici” sono estremamente variabili per dimensioni e forma, ed appaiono anecogene omogenee, con pareti sottili e rinforzo posteriore; gli artefatti da riverbero possono determinare alcuni echi lineari sul versante anteriore così come possono essere presenti sottili setti interni determinanti pluriloculazioni complete o meno; spesso si tratta di microcisti confluenti “a grappolo”. Le cisti “complicate” o “sporche” sono quelle caratterizzate da multipli echi interni di basso livello, eventualmente mobili (come dimostrabile anche con l’M-mode o l’ECD) e nelle varie casistiche sono risultate maligne nello 0-0,3% dei casi [Chang et al. 2007]. Echi interni ad una cisti possono in realtà riconoscere molte cause, a parte il papilloma ed il carcinoma: detriti cellulari, globuli proteici, cristalli colesterinici, cellule flottanti, coaguli ematici [Stavros 2004] (Video 3.15). Le cisti “complesse” sono quelle che mostrano qualche segno di atipia, come gettoni murali, setti
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.215. Displasia cistica della mammella. Area vagamente nodulare, addensante, con multiple piccole formazioni cistiche all’interno
spessi o pareti irregolari, e che vanno inquadrate come BI-RADS 4. Semeiologicamente sono state considerate sei tipologie di lesioni cistiche (Fig. 3.218): I (semplice), formazione anecogena con bordo impercettibile e circoscritto e con rinforzo posteriore; II (a grappolo), formazione anecogena a grappolo senza componenti solide; III (settata), formazione con setti sottili (<0,5 mm di spessore); IV (complicata), formazione con echi omogenei di basso livello o con detriti galleggianti o con livello liquido-detriti; V, formazione con pareti o setti spessi (>0,5 mm) o con noduli ma comunque con componente liquida >50%; VI (complessa), formazione con componente liquida <50%, essenzialmente solida con foci cistici eccentrici, corrispondenti a dottuli dilatati, acini o necrosi. I tipi da I a IV sono risultati sempre benigni, con il pattern IV spesso corrispondente ad ascessi; i tipi V e VI sono maligni (di
Fig. 3.216. Cisti “sporca”. Formazione ipoecogena, ben delimitata, con rinforzo posteriore e senza segnali vascolari
Fig. 3.217. Cisti “sporca”. Formazione ipoecogena ben delimitata, con qualche segnale colore marginale al PD direzionale ma senza flussi interni
Fig. 3.218. Pattern morfostrutturali delle cisti mammarie. Tipo I, semplici; tipo II, a grappolo; tipo III, settate; tipo IV, complicate; tipo V, con pareti o setti spessi o con noduli ma comunque con componente liquida prevalente; tipo VI, prevalentemente solide con foci cistici eccentrici. Modificato da [Chang et al. 2007]
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solito, duttali infiltranti) rispettivamente nel 26 e 62% dei casi, potendo anche essere espressione soprattutto di fibroadenomi, tumori filloidi, ascessi [Chang et al. 2007] (Figg. 3.219-3.224). I carcinomi intracistici (0,32% dei cancri mammari) sono generalmente papillari e vanno distinti dai papillomi, dai tumori solidi necrotici e dai coaguli ematici adesi alla parete delle cisti (anche dopo cisticentesi ma in questo caso l’anamnesi è fondamentale) [Chang et al. 2007, Mehta 2003]. Sebbene la presenza di segnali vascolari in un gettone intracistico renda maggiore il sospetto di malignità (quantunque anche le vegetazioni intracistiche benigne possono mostrare vasi interni, generalmente con spettro a basso IR), in realtà tutte le cisti complesse andrebbero aspirate e sottoposte a valutazione citologica; in caso di vuotamento incompleto dopo aspirazione è poi spesso indicata una core biopsy del residuo [Rizzatto et al. 2006]. Bisogna anche ricordare co-
Fig. 3.221. Carcinoma mammario intracistico. Vegetazione a base sottile, vascolarizzata al PD direzionale
Fig. 3.219. Papilloma mammario intracistico. Proiezione papillare endocistica, con qualche segnale colore al PD
Fig. 3.222. Carcinoma mammario cistico. Formazione ipoanecogena disomogenea, con setti interni e segnale colore intrasettale al PD
Fig. 3.220. Papilloma intracistico. Piccolo aggetto parietale, senza segnali vascolari al PD direzionale
Fig. 3.223. Carcinoma intracistico della mammella. Voluminosa proiezione endocistica solida, con evidenti segnali colore all’ECD
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
a Fig. 3.225. Galattocele. Formazione anecogena superficiale, estremamente allungata
b Fig. 3.224a, b. Carcinoma mammario intracistico. Voluminoso gettone solido a larga base (a). Segnali vascolari al PD direzionale (b)
me alcuni carcinomi, particolarmente voluminosi e/o a rapida crescita, possano essere massicciamente necrotici e simulare pertanto una cisti “sporca” o un ascesso: la dimostrazione di qualche segnale di flusso all’ECD può essere dirimente [Fornage 2000b, Steyaert 2001]. Le cisti sebacee hanno un aspetto ipoecogeno e si localizzano a livello cutaneo o anche nel sottocute, ma generalmente con visibilità di un dotto ipoecogeno che raggiunge la cute o di una deformità della cute ai margini della formazione stessa [Stavros 2004]. Già la sede è indicativa di benignità e queste lesioni non richiedono di solito approfondimenti. La suppurazione può renderne particolarmente disomogeneo il contenuto e determinare un’iperemia del tessuto circostante all’ECD. Il galattocele, riscontrato generalmente ma non necessariamente in donne con gravidanza o con allattamento in atto o recente, consiste in una formazione cistica di dimensioni variabili da pochi mm a vari cm,
Fig. 3.226. Galattocele. Formazione ovalare, ecogena con periferia ipoecogena, senza segnali vascolari al PD direzionale
contenente latte e dovuta all’ostruzione (flogistica o talora neoplastica) di un dotto mammario (che ne spiega il rivestimento epiteliale cuboidale). Ecograficamente l’aspetto è variabile: immagini cistiche uni- o pluriloculate generalmente ben delimitate e con rinforzo posteriore, reperti intraluminali di livello idrolipidico (quota lipidica ipoecogena declive e quota acquosa anecogena proclive), quote ecogene pseudosolide (talora estese a tutta la formazione). A volte l’aspetto può anche simulare un nodulo solido, con un’accennata ombra posteriore e con dei margini indistinti o microlobulati, ma comunque il galattocele si caratterizza per essere di piccole dimensioni, rotondeggiante, con una sottile rima ecogena parziale anteriore o posteriore (quale residuo delle pareti duttali originarie) e senza segnali vascolari all’ECD. L’ago-aspirazione, indicata nel sospetto di una neoformazione endocistica, dimostra il contenuto lattiginoso, negativo per cellule maligne [Kim et al. 2006b, Stevens et al. 1997] (Figg. 3.225-3.226).
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L’adenoma lattante è una massa adenomatosoiperplastica, poco dolente, che si sviluppa in risposta a stimoli ormonali fisiologici, rilevandosi nella fase avanzata della gravidanza o durante l’allattamento. Il quadro US è di una formazione ovalare, con asse maggiore parallelo a quello cutaneo, a margini generalmente netti ed ecostruttura ipoecogena relativamente omogenea con rinforzo posteriore. Vi sono forme comunque atipiche, con margini irregolari ed attenuazione del fascio. La diagnosi definitiva, ipotizzabile sulla scorta anche del contesto anamnestico, richiede pertanto la FNAC o meglio ancora la core biopsy, che tuttavia comporta il rischio di creare una “fistola di latte” [Sumkin et al. 1998] (Figg. 3.227, 3.228).
Fig. 3.227. Adenoma lattante. Nodulazione ovalare, ben delimitata, relativamente omogenea eccetto che per alcune areole anecogene, con rinforzo posteriore. La lesione presenta una tipica disposizione immediatamente sovrafasciale
Fig. 3.228. Adenoma lattante della mammella. Lesione cistica, finemente sepimentata, senza segnali vascolari al PD direzionale
I papillomi intraduttali sono relativamente frequenti, specie tra i 35 ed i 55 anni, mentre piuttosto rari risultano i carcinomi papillari intraduttali, tipici inoltre dell’età medio-avanzata. Clinicamente si associa una secrezione dal capezzolo, sierosa o ematica. L’US, specie se eseguita con un orientamento della sonda parallelo all’asse longitudinale del dotto e prima di una spremitura mammaria, che altrimenti provoca lo svuotamento del dotto stesso, permette spesso di identificare del tessuto ipoecogeno occupante parzialmente o totalmente il lume anecogeno duttale [Steyaert 2001] (Fig. 3.229). L’ascesso, non raro né nell’adolescenza né nell’età adulta ed anche a prescindere dall’allattamento, si caratterizza come una formazione complex, con aree di differente ecogenicità per la coesistenza di porzioni ecogene edematose e infiammate e di altre ipo-anecogene colliquative. L’ECD può dimostrare un’iperemia perifocale ma con uno spettro “benigno” a bassa resistenza [Rizzatto et al. 2006] (Fig. 3.230). Il tumore a cellule granulari, lesione poco frequente e talora localmente aggressiva, ha l’aspetto di noduli ipo- o iperecogeni, disomogenei, con margini talora irregolari. Si può osservare un alone ecogeno sul versante superficiale e un’attenuazione del fascio su quello profondo, nonché un’ipervascolarità all’ECD. Il quadro US, così come quello mammografico, è pertanto aspecifico, potendo simulare la malignità, e tale da richiedere un approfondimento [Yang et al. 2006]. I lipomi appaiono come lesioni generalmente superficiali, spesso completamente contenute in un lobulo di grasso, di aspetto iperecogeno più o meno accentuato e talora con lieve disomogeneità interna. L’iperecogenicità di un nodulo mammario è un affidabile indicatore di presumibile benignità [Steyaert 2001] (Figg. 3.231, 3.232, Video 3.16). La steatonecrosi, un’area di necrosi del grasso intramammario progressivamente circoscritta da una reazione fibrocalcifica incapsulante, compare soprattutto dopo eventi traumatici o chirurgici (distinzione dalla recidiva dopo chirurgia conservativa!) [Brancato et al. 1996, Soo et al. 1998, Steyaert 2001]. Nelle forme cistiche (“cisti oleose”) si rileva un’immagine più o meno complex, ipoecogena disomogenea, con strato esterno ecogeno più o meno spesso e continuo, possibili “gettoni” o bande interne ecogene, e ombra acustica posteriore più o meno evidente. Nelle forme maggiormente fibrotiche l’aspetto è più solido, ipoecogeno disomogeneo (talora anche iperecogeno omogeneo), con margini irregolari, presenza calcificazioni e possibile attenuazione posteriore del fascio; il riconoscimento all’interno di microcisti oleose può consentire comunque una corretta caratterizzazione e l’insieme del quadro mammografico ed ecografico può essere sufficiente, nei casi tipici, per una diagnosi finale. Al follow-up le lesioni possono apparire stabili o in invo-
Capitolo 3 Le problematiche cliniche Fig. 3.229. Pattern morfostrutturali dei tumori intraduttali. Le tre colonne mostrano i diversi aspetti di queste lesioni in caso di dilatazione duttale, in caso di assente dilatazione ed in caso di estensione duttale e ramificazione. Modificato da [Stavros 2004]
Fig. 3.230. Ascesso mammario. Piccola formazione ipo-anecogena disomogenea, con aspetto iperemico dei tessuti circostanti al PD direzionale ed ispessimento della superficie cutanea
Fig. 3.231. Lipoma intramammario. Nodulo sottocutaneo, ecogeno, con attenuazione posteriore
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a Fig. 3.233. Metastasi intramammarie da melanoma. Due noduli ipoecogeni con aspetto ipervascolare all’ECD (frecce)
b Fig. 3.232a, b. Lipomi mammari multipli. Due nodulazioni superficiali, ovalari, ecogene, una più omogenea dell’altra, entrambe a disposizione parallela
luzione dimensionale ed internamente tendono a divenire più cistiche o, generalmente, più solide. Le radial scars sono lesioni benigne di origine ignota, che si sviluppano soprattutto dopo resezioni o biopsie escissionali. Quando sono superiori al centimetro possono essere palpabili e simulare all’imaging una neoplasia: l’aspetto US è di formazioni ipoecogene con intensa attenuazione in profondità ed è tale da consigliare la biopsia, possibilmente escissionale. La fibrosi focale è una proliferazione stromale con obliterazione duttale e lobulare, piuttosto frequente (4-8% delle lesioni mammarie bioptizzate) che può riconoscere diversi fattori determinanti, come un’involuzione regionale del tessuto mammario. L’aspetto US è variabile, con nodulazioni di solito ovalari, orientate parallelamente alla cute, iso-ipoecogene più o meno omogenee e delimitate, associate talora ad una più o meno marcata attenuazione posteriore del fascio. Stante l’aspecificità è generalmente indicata una FNAC o meglio ancora una core biopsy [You et al. 2005].
Fig. 3.234. Angiosarcoma primitivo della mammella. Grossolano ed irregolare infiltrato ipoecogeno disomogeneo della mammella, di aspetto irregolarmente ipervascolare al PD direzionale (ove si rilevano anche delle lacune vascolari)
La mastopatia diabetica insorge talora in pazienti con diabete mellito di lunga durata ed in postmenopausa. La lesione pseudonodulare, di dimensioni oscillanti da pochi mm ad alcuni cm, appare di solito poco definibile alla mammografia mentre all’US è meglio valutabile. L’aspetto è tuttavia aspecifico: nodulo ipoecogeno mal delimitato con attenuazione posteriore, e tale da indicare di solito un approfondimento citologico (sebbene l’anamnesi sia indicativa) [Stavros 2004]. Le metastasi mammarie, rare, possono svilupparsi per via linfatica o ematogena e si rilevano soprattutto nei linfomi e nei melanomi, anche con quadro di “mastite”. Le lesioni sono spesso multiple e bilaterali ed hanno un aspetto variabile, apparendo spesso come formazioni simili ai fibroadenomi (ben delimitate, omogenee, senza particolare attenuazione del fascio) ma con angioarchitettura spesso intensa e caotica (Fig. 3.233). Rari sono infine i tumori primitivi non epiteliali della mammella (Fig. 3.234).
Capitolo 3 Le problematiche cliniche Infine, bisogna anche considerare le false immagini nodulari [Fornage 2000b]. Alcuni reperti fisiologici possono simulare una focalità mammaria, specie nel contesto di un seno a prevalenza adiposa. I legamenti di Cooper, sottesi tra il parenchima ed il sottocute, e le varie strutture connettivali, possono creare delle attenuazioni posteriori, specie quando sono disposti obliquamente rispetto al fascio, e quindi simulare una focalità ipoecogena. Tuttavia il reperto si attenua o si risolve completamente variando il piano di scansione e/o comprimendo l’immagine con il trasduttore ed è quindi possibile differenziare queste immagini da delle focalità vere e proprie: l’ombra posteriore non è in realtà associata ad alcuna lesione e quindi, con un po’ d’esperienza, la si riesce a riferire a strutture connettivali ecogene disposte più in superficie. Anche il complesso areola-capezzolo può ostacolare lo studio dei tessuti immediatamente retroareolare e può simulare un’attenuazione del fascio secondaria ad una focalità: la conoscenza di quest’evenienza e la possibilità di scansione da angolazioni diverse o con l’ausilio di un distanziatore consentono di solito un inquadramento adeguato. Un’ombra posteriore può essere creata da un’arteria intramammaria calcifica, specie quando il vaso è scansionato in sezione trasversa; la rotazione della sonda dimostra tuttavia la caratteristica immagine vasale a binario. I lobuli adiposi della normale architettura ghiandolare possono simulare una lesione nodulare, ed in particolare un fibroadenoma: un’attenta rotazione della sonda permette tuttavia di riconoscere la continuità tra il lobulo similnodulare ed il tessuto adiposo circostante. Il linfonodo intramammario, rilevabile talora nel prolungamento ascellare o nel quadrante supero-esterno o più di rado in quello infero-esterno, può simulare una lesione tumorale, specie quando la forma è tondeggiante ed il centro ecogeno è poco riconoscibile o assente; generalmente, tuttavia, è possibile cogliere i segni ecografici caratteristici della struttura linfonodale ed il color-Doppler dimostra di solito un singolo vaso che penetra nell’“ilo” ecogeno (Fig. 3.235). I serbatoi di accesso ai sistemi port-a-cath, nelle donne in trattamento chemioterapico, e le valvole degli espansori mammari, possono simulare una lesione con sbarramento acustico ma in questi casi è sufficiente un adeguato inquadramento anamnestico. I granulomi da silicone, possibili specie in caso di rottura protesica extracapsulare, appaiono come areole ecogene con fenomeni posteriori di attenuazione e riverbero, a “tempesta di neve”, e possono simulare noduli iperecogeni, mentre le raccolte di silicone libero appaiono come delle immagini similcistiche, tipicamente sviluppate in senso antero-posteriore. Le cartilagini costali, di aspetto ipoecogeno omogeneo o ipoecogeno con foci ecogeni nel caso siano andate incontro a fenomeni di calcificazione, possono simulare una focalità (specie una cisti
Fig. 3.235. Linfonodo intramammario iperplastico. Linfonodo ingrandito, con ispessimento corticale assimetrico
o un fibroadenoma) quando sezionate trasversamente: la rotazione della sonda dispiega tuttavia tutta la lunghezza della cartilagine che, inoltre, è più profonda rispetto al tessuto mammario.
3.14. Carcinoma infiammatorio, carcinoma mammario localmente avanzato e controllo dopo terapia neoadiuvante, metastasi linfonodali Il carcinoma infiammatorio (mastite carcinomatosa) costituisce l’1-6% dei cancri mammari neodiagnosticati, con un’incidenza di 0,7 casi/100.000/anno e con un’età media alla diagnosi di 55 anni ma con un incremento negli ultimi anni dei casi in donne <50 anni [Cariati et al. 2005, Caumo et al. 2005, Griff et al. 2002]. Può esprimere qualsiasi istotipo e rappresenta una forma di carcinoma localmente avanzato per definizione (T4d), con frequenti adenopatie ascellari e metastasi a distanza alla presentazione (sopravvivenza a 5 anni del 25-48%). Esso si associa ad un ispessimento ed indurimento cutaneo flogistico, su base edematosa ed eritematosa, ed è dovuto all’infiltrazione dei linfatici dermici per opera di cellule tumorali dimostrabili biopticamente. Sul piano teorico bisogna distinguere la forma emergente secondariamente alla diffusione di un carcinoma mammario avanzato da quella che si presenta fin dall’inizio con l’aspetto del carcinoma infiammatorio, cosa peraltro non sempre possibile nella pratica. La forma primaria di carcinoma infiammatorio si caratterizza per essere particolarmente aggressiva fin dall’inizio, per presentarsi in maniera relativamente improvvisa e per assumere un tipico carattere intensamente angiogenetico ed angioinvasivo [Cariati et al. 2005]. Essa può essere a sua volta distinta in “comune” (50% dei casi), ove si
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Ecografia in oncologia
associano clinica infiammatoria e infiltrazione cutanea alla biopsia, “clinica” (40%) in cui mancano i rilievi anatomo-patologici, e “occulta” (10%) in cui un reperto di biopsia cutanea positiva non si associa ad un quadro clinico corrispondente [Caumo et al. 2005]. L’ispessimento cutaneo è peraltro un dato aspecifico, potendo essere rilevabile anche nelle forme edematose di varia origine (es. posturali nelle donne anziane allettate o secondarie a vuotamento ascellare o anche a trombosi venosa), nelle mastiti da allattamento ed in quelle infettive (ove tuttavia si possono rilevare componenti di tipo colliquativo-ascessuale) [Mehta 2003]. L’US identifica, oltre all’ispessimento cutaneo, i segni dell’edema sottocutaneo diffuso, con strie e bande ipoecogene trasversali, e dell’infiltrazione tumorale del corpus mammae che presenta aree ipoecogene disomogenee e mal delimitate, che solo a tratti assumono un carattere francamente nodulare. Il prelievo citologico o microistologico delle aree a maggior carattere nodulare e con maggiori segnali vascolari all’ECD conferma di solito la diagnosi [Cariati et al. 2005] (Figg. 3.236, 3.237). Per carcinoma mammario localmente avanzato (LABC) si intende una lesione di diametro >3 cm e/o con positività linfonodale ascellare [Oruwari et al. 2002]. Lo stato della regione ascellare è particolarmente importante per la stadiazione e la gestione terapeutica di queste pazienti e deve essere verificato citologicamente: in una casistica, ad esempio, la FNAC US-guidata forniva una sensibilità ed una specificità del 100% per la diagnosi di metastasi linfonodali [Oruwari et al. 2002] (Figg. 3.238, 3.239). Le donne con carcinoma infiammatorio o comunque con LABC vengono generalmente trattate con chemio-ormonoterapia neoadiuvante, allo scopo di
Fig. 3.236. Carcinoma infiammatorio della mammella. Diffuso rimaneggiamento ecostrutturale mammario, con ispessimento della cute sovrastante
Fig. 3.237. Mastite carcinomatosa. Marcato ispessimento ipoecogeno della cute, associato a strie e bande ipoecogene edemigene tra i lobuli ecogeni del grasso sottocutaneo
Fig. 3.238. Carcinoma mammario localmente avanzato. Lesione tumorale, con margini infiltranti e microcalcificazioni, estesa alla cute areolare
Fig. 3.239. Carcinoma mammario localmente avanzato. Massa mammaria solida, estremamente voluminosa (>9 cm), ipoecogena, relativamente omogenea e delimitata, che si riesce a comprendere e a misurare solo con l’impiego della sonda internistica
Capitolo 3 Le problematiche cliniche ridurre lo stadio della malattia e farlo entrare nuovamente nell’ambito dell’operabilità. Una risposta completa viene ottenuta nel 10% dei casi ed una risposta parziale nel 75% [Ollivier 2005]. Esiste peraltro una limitata standardizzazione attuale sia della durata che dell’intensità della terapia neoadiuvante. Indicatori prognostici di una buona risposta sono rappresentati da scarsa differenziazione tumorale, alto indice proliferativo e negatività del recettore estrogenico [Loehberg et al. 2005]. Un residuo tumorale microscopico, peraltro presente in quasi la totalità dei casi, non ha particolare significato e pertanto un risultato terapeutico è considerato eccellente già se non si rilevano residui macroscopici alla successiva resezione chirurgica. Una risposta efficace si correla ad una migliore prognosi rispetto ai casi con residuo, essendo associata ad un aumento di intervallo libero da malattia e di sopravvivenza. È tuttavia importante poter documentare preoperatoriamente la scomparsa delle quote tumorali macroscopiche, ad esempio per consentire un trattamento chirurgico conservativo della mammella, oppure perché la determinazione della negativizzazione dei linfonodi ascellari rende possibile una procedura di biopsia su linfonodo sentinella in luogo di un’escissione chirurgica di tutti i linfonodi ascellari [Loehberg et al. 2005, Tardivon et al. 2006]. Anche la scelta della terapia medica post-operatoria è influenzata dalla presenza o meno di un residuo tumorale [Ollivier 2005]. Tradizionalmente, la valutazione della risposta del LABC dopo terapia neoadiuvante è affidata all’esame obiettivo ed alla mammografia, con il più recente inserimento dell’US. Bisogna comunque segnalare che, in quest’ambito, la RM con mdc sta acquisendo un rilievo sempre maggiore, grazie anche alla possibilità di quantificare la risposta terapeutica sulle mappe perfusionali. Altre opzioni suggerite per questo genere di pazienti sono la scintimammografia con Tc99m-MIBI, la PET e la TC [Balu-Maestro et al. 2002, Ollivier 2005]. Non di rado, il confronto tra la valutazione clinica, mammografica o ecografica ed i reperti chirurgici nelle donne con LABC sottoposte a trattamento neoadiuvante è discordante [Loehberg et al. 2005]: in circa la metà dei casi con risposta completa sul piano clinico si riscontrano residui tumorali macroscopici alla successiva chirurgia e, all’opposto, nel 20% circa delle donne con risposta apparentemente parziale si rileva poi una risposta completa al tavolo operatorio. La palpazione può essere inficiata da vari fattori, con errori valutativi in eccesso nel caso di residui fibrotici o necrotici che simulano una persistenza di malattia e con errori in difetto se la regressione di modifiche edematose o emorragiche post-bioptiche simula una riduzione della quota neoplastica [Ollivier 2005]. La PET e la RM si sono dimostrate accurate nella definizione precoce della risposta ed in particolare la se-
conda viene oggi considerata come opzione, morfologica ma anche funzionale, di riferimento [Tardivon et al. 2006]. Esame clinico e mammografia sono risultate superiori all’US nel definire le dimensioni del residuo tumorale dopo trattamento neoadiuvante e l’utilizzo dell’US non ha influenzato l’accuratezza predittiva della valutazione prechirurgica [Loehberg et al. 2005]. Tuttavia, l’US si è dimostrata superiore ad esame fisico e mammografia nel determinare lo stato linfonodale residuo. Pertanto è sempre auspicabile un impiego combinato di valutazione clinica, mammografica ed ecografica [Loehberg et al. 2005]. La misurazione US del residuo tumorale è spesso problematica poiché, ai noti limiti di panoramicità e difficoltosa obiettivabilità della metodica, si aggiunge che le lesioni sono spesso mal delimitate, frazionate e multifocali, con commistione di zone di tessuto sano e zone di tessuto tumorale; a ciò si aggiungono i fenomeni fibrotici indotti dal trattamento, con aumento di ecogenicità della lesione e sua maggiore difficoltà di delineazione rispetto allo sfondo parenchimale [Balu-Maestro et al. 2002, Ollivier 2005, Tardivon et al. 2006]. Inoltre lesioni particolarmente voluminose o profonde possono essere difficili da comprendere nel campo di vista ecografico, almeno con la sonda superficiale e quindi problematiche da valutare sul piano morfodimensionale. Tuttavia, le forme monofocali, relativamente delimitate (per quanto ampie), ed ipoecogene, vengono ben definite e monitorate dalla US [Powles et al. 1995]. Inoltre, lo studio ECD, dimostrando una riduzione o scomparsa dei segnali vascolari, può indicare anche precocemente una buona risposta terapeutica, così come un aumento di vascolarità può predire una progressione; l’ECD sembra comunque essere affidabile quando non vi è residuo macroscopico, ma può invece risultare falsamente negativo in caso di persistenza di questo [Ollivier 2005, Powles et al. 1995]. L’impiego di mdc ecografici può aumentare la detezione di segnali vascolari intralesionali sia prima che, eventualmente, dopo il trattamento e rendere quindi più affidabile la valutazione ECD [Vallone et al. 2005]. Bisogna anche misurare lo spessore cutaneo, quale indicatore dell’edema, e seguirne l’evoluzione (Figg. 3.240, 3.241). Le linfadenopatie ascellari costituiscono il singolo fattore prognostico più importante per il carcinoma mammario operabile (Fig. 3.242). Linfadenopatie sono presenti nel 20% dei T1, e nel 35% dei T2 e la loro probabilità si correla con le dimensioni del nodulo. Da questo punto di vista si riconoscono nell’ascella tre livelli linfonodali chirurgici: prossimale (livello I), caudale e laterale al margine inferiore del muscolo piccolo pettorale; medio (livello II), nel contesto del piccolo pettorale; distale (livello III), tra margine superiore del piccolo pettorale ed ingresso toracico della vena ascellare (Fig. 3.243). Questi livelli vengono di
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a
a
b
b
Fig. 3.240a, b. Carcinoma mammario localmente avanzato, prima e dopo chemioterapia. Diffuso rimaneggiamento ecostrutturale mammario (a), notevolmente ridotto dopo terapia neoadiuvante (b)
Fig. 3.241a, b. Carcinoma mammario localmente avanzato, prima e dopo chemioterapia. Voluminosa lesione tumorale mammaria (a), notevolmente ridotta dopo terapia neoadiuvante (b)
solito coinvolti in maniera progressiva, dal I al III (sebbene, fino nel 30% dei casi, i livelli II e III possano essere metastatizzati senza interessamento del livello I), e l’estensione del loro coinvolgimento si correla con la prognosi [Allan et al. 1994]. I linfonodi ascellari palpabili sono metastatici nel 75% circa dei casi mentre quelli non palpabili lo sono in circa il 30%; complessivamente l’esame fisico ha dimostrato nelle varie casistiche una sensibilità del 50-74% ed una specificità del 48-91%. L’US è più accurata rispetto sia all’esame clinico che alla mammografia nell’identificazione delle localizzazioni metastatiche ai linfonodi ascellari, sebbene anche la sua accuratezza non sia ottimale, specie per i linfonodi dell’apice ascellare, e pertanto la negatività non escluda totalmente la presenza di metastasi [Alvarez et al. 2006, Brancato et al. 2004]. I linfonodi francamente patolo-
gici all’US lasciano pochi dubbi diagnostici, specie quando si rileva la scomparsa dell’“ilo” ecogeno centrale (mentre gli ispessimenti asimmetrici della corticale sono più aspecifici, potendo determinare anche delle false positività), la forma rotondeggiante, le dimensioni >10 mm e la fissità. Se si considera il solo criterio dimensionale l’US ha dimostrato una sensibilità del 49-87% ed una specificità del 56-97% nell’identificazione dei linfonodi non palpabili mentre, se si considerano anche i dati morfologici, la sensibilità varia dal 26 al 76% e la specificità dall’88 al 98% [Alvarez et al. 2006]. In uno studio su pazienti con noduli mammari BI-RADS 5, i pattern linfonodali più frequenti erano quello ipoecogeno diffuso (45% dei casi, sede metastatica nell’87% di questi), quello di ispessimento corticale focale (20%, con metastasi nel 53% di questi) e quello di ispessimento corticale diffuso
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.242. Parametro N per carcinomi mammari. Sono considerati regionali i linfonodi ascellari, infraclaveari, mammari interni e sovraclaveari, tutti solo se omolaterali. N1, metastasi in linfonodi ascellari, singoli o multipli, mobili; N2a, metastasi ascellari “a pacchetto” o adesi ad altre strutture; N2b, metastasi solo in linfonodi mammari interni identificati con imaging; N3a, metastasi sottoclaveari; N3b, metastasi ascellari e mammarie interne associate; N3c, metastasi sovraclaveari. Modificato da [Wittekind et al. 2005]
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Fig. 3.243. Livelli dei linfonodi ascellari. Livello I, ascella inferiore, linfonodi laterali rispetto al margine laterale del muscolo piccolo pettorale; livello II, ascella media, linfonodi tra margine laterale e mediale del piccolo pettorale e linfonodi interpettorali; livello III, apice ascellare, linfonodi mediali al margine mediale del piccolo pettorale (esclusi i sottoclaveari). Modificato da [Wittekind et al. 2005]
(35% dei casi, metastatico nel 30% di questi): si sottolinea quindi la necessità di approfondire anche i linfonodi con ilo conservato ma con corticale diffusamente o focalmente ispessita, se tale spessore è >2 mm [Duchesne et al. 2005]. Nei casi in cui i linfonodi appaiono all’US sospetti o indeterminati, può essere utile un’integrazione con una FNAC, che ha dimostrato una sensibilità del 31-100% e una specificità del 100% nell’individuazione delle localizzazioni metastatiche ascellari [Alvarez et al. 2006, Krishnamurthy et al. 2002, Nori et al. 2005, Oruwari et al. 2002]. In termini di costo-beneficio, l’US ascellare di routine, con FNAC dei linfonodi evidenziati e successiva dissezione chirurgica solo dei casi con citologia positiva, è risultata l’opzione migliore [Brancato et al. 2004]. Un’alternativa alla FNAC, sempre con il fine di evitare procedure intraoperatorie del linfonodo sentinella non necessarie (cfr. paragrafo 3.3), è data dalla core biopsy linfonodale con ago tranciante, che è più invasiva ma anche più affidabile [Nori et al. 2005] (Figg. 3.244-3.249).
Fig. 3.244. Metastasi linfonodale ascellare da carcinoma mammario. Voluminosa linfadenopatia, con asimmetrico ispessimento della corticale che mostra ad un estremo un nodulo ipoecogeno (freccia)
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.245. Metastasi linfonodali ascellari da carcinoma mammario. Multiple adenopatie ipoecogene, omogenee o con parziale conservazione dell’ilo ecogeno centrale (frecce)
Fig. 3.248. Metastasi linfonodale ascellare parziale da carcinoma mammario. Il linfonodo mostra un ispessimento nodulare della corticale, con vascolarizzazione aumentata e capsulare al PD direzionale
Fig. 3.246. Metastasi linfonodali ascellari da carcinoma mammario. Multiple adenopatie ipoecogene rotondeggianti
Fig. 3.249. Metastasi linfonodali sottoclaveari da carcinoma mammario. Multiple adenopatie ipoecogene rotondeggianti in sede pettorale alta e sottoclavicolare (frecce)
Fig. 3.247. Metastasi linfonodali ascellari da carcinoma mammario. Due grossolane adenopatie ipoecogene ovalari, con vascolarizzazione capsulare al PD direzionale
Le linfadenopatie mammarie interne si localizzano nel mediastino anteriore subito postero-lateralmente allo sterno. Questa regione non viene generalmente esaminata, perché sede poco frequente di localizzazione nodale al momento della presentazione del tumore primitivo (anche per le neoplasie dei quadranti interni che comunque prediligono la diffusione linfatica ascellare) ed anche perché, prescindendo dall’impiego della sonda superficiale e/o di quella profonda, è possibile riconoscere ecograficamente solo le linfadenopatie di maggiori dimensioni. Le linfadenopatie sovraclaveari, che attualmente rientrano nell’N3 ma che fino a poco tempo fa erano classificate già come M1 (lo sono tuttora quelle controlaterali alla mammella patologica), sono piuttosto rare al momento della presentazione della malattia. I linfonodi microscopicamente riconoscibili all’esplora-
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Fig. 3.250. Metastasi linfonodali sovraclaveari da carcinoma mammario. Multiple adenopatie ipoecogene confluenti in sede sovraclavicolare alta (frecce), subito esternamente alla vena giugulare
zione US in questa sede sono praticamente sempre patologici. Comunque si ricorrerà alla nota semeiotica di caratterizzazione delle linfadenomegalie maligne, ed eventualmente al prelievo citologico (Fig. 3.250).
3.15. La ripresa loco-regionale del tumore mammario: il follow-up, le caratteristiche della recidiva, la mammella operata, la differenziazione cicatrice vs. recidiva dopo chirurgia conservativa, la ripresa linfonodale La sorveglianza della donna operata per carcinoma mammario si basa sulla valutazione clinica e su di una serie di esami laboratoristici, di diagnostica per immagini ed eventualmente cito-bioptici. Il contributo della diagnostica per immagini, a livello loco-regionale, è dato dalla mammografia annuale (bilaterale tranne che dopo mastectomia radicale), dall’ecografia bilaterale e, in casi selezionati, dalla RM e dalla PET. Sicuramente PET, PET-TC e RM sono metodiche più panoramiche e sensibili dell’US nella valutazione soprattutto della regione ascellare-sovraclaveare [Hathaway 1999], ma queste metodiche entrano generalmente in gioco in un secondo momento, dinanzi ad un reperto mammo-ecografico da approfondire o ad un sospetto clinico-laboratoristico persistente nonostante la negatività eco-mammografica. In uno studio si dimostrava l’utilità del follow-up ecografico mammario ed anche linfonodale, mentre al tempo stesso si considerava poco raccomandabile una valutazione ecografica di routine dell’addome [Kauczor et al. 1994]. La frequenza degli esami, da correlare comunque al livello di rischio, deve essere maggiore (es. semestrale tra 2° e 5° anno) nei primi
anni dopo l’intervento (il 60-80% delle recidive si verifica nei primi 3 anni e la mediana dall’intervento è di 2,3 anni), nei casi trattati con resezione conservativa, nelle donne giovani e nelle donne con tumore al II stadio; questi parametri costituiscono tutti degli indicatori di aumentato rischio di ripresa locale. Successivamente il monitoraggio può essere diradato (es. annuale dal 5° anno in poi) [de Bock et al. 2006, Elder et al. 2006, Molino et al. 1996]. La problematica della recidiva loco-regionale del carcinoma mammario (1% per anno) costituisce una condizione frequente e complessa. Se isolata, essa è ancora curabile, con una sopravvivenza a 5 anni rispettivamente del 41% dopo ripresa locale (mammella omolaterale residua o parete toracica dopo mastectomia, e del 20% dopo ripresa linfonodale (linfonodi ascellari o sovraclaveari omolaterali); in caso di metastasi a distanza la sopravvivenza è invece del 13% [Elder et al. 2006]. Ne deriva l’importanza di una diagnosi precoce di recidiva, quantomeno a livello locoregionale. Bisogna chiaramente distinguere tra interventi radicali ed interventi conservativi. Dopo mastectomia radicale o radicale modificata (riservata oggi essenzialmente alle forme multifocali, localizzate entro 2 cm dal capezzolo, ampie rispetto alle dimensioni globali della mammella e/o associate ad un’estesa componente in situ), eventualmente seguita da radioterapia, la ripresa loco-regionale si verifica nel 50-70% a livello della sola parete toracica, nel 1015% a livello della parete e delle stazioni linfonodali e a livello sovraclaveare nel 10-25%; più rare sono le recidive ascellari e mammarie interne [Pacini et al. 1996]. La maggior parte delle recidive insorge entro i primi due anni dall’intervento (80-90% entro 5 anni), con un intervallo libero che è inversamente proporzionale allo stadio della malattia, al numero di linfonodi patologici ed al grado di dedifferenziazione al momento della mastectomia [Pacini et al. 1996]. Fattori di rischio accertati sono: dimensioni del tumore, presenza ed entità dell’interessamento dei linfonodi ascellari, grado istologico, edema e infiltrazione cutanea, interessamento del piano muscolo-fasciale pettorale; controverso è invece il ruolo dell’età giovanile, del tipo istologico, dello stato recettoriale [de Bock et al. 2006, Pacini et al. 1996]. L’esplorazione US deve comprendere non solo la cicatrice, da valutare con particolare attenzione, ma l’intera emiparete toracica anteriore e laterale, poiché quasi metà delle riprese parietali avviene in sede diversa da quella della cicatrice. Deve essere inoltre inclusa la regione ascellare, i piani muscolari pettorali (con le stazioni linfonodali del II e III livello chirurgico) e la regione sovraclaveare. Lo studio del cavo ascellare può risultare difficoltoso, per l’irregolarità della superficie cutanea di appoggio della sonda e per l’accentuazione postoperatoria della concavità ascellare. La regione mammaria
Capitolo 3 Le problematiche cliniche interna non viene generalmente esaminata, perché sede rara di ripresa ed anche perché, prescindendo dall’impiego della sonda superficiale e/o di quella profonda, è possibile riconoscere solo le linfadenomegalie maggiori. La recidiva parietale dopo mastectomia radicale può essere cutanea, identificata clinicamente, o più frequentemente sottocutanea. Quest’ultima appare generalmente come un nodulo singolo, ipoecogeno disomogeneo, a contorni irregolari, con eventuale attenuazione posteriore del fascio ultrasonoro [Brancato et al. 1996]. Rare le recidive negli spazi intercostali. Dopo mastectomia, ma anche dopo chirurgia conservativa, la presenza di un impianto protesico, generalmente sottomuscolare, può creare qualche difficoltà all’esplorazione ecografica (ma ancor più a quella mammografica), specie per quanto riguarda la detezione delle recidive periprotesiche profonde. Analoghe considerazioni valgono per i casi di ricostruzione con trasposizione di lembi miocutanei, poiché in questo caso i frequenti fenomeni steatonecrotici alla periferia del lembo possono creare problemi diagnostico-differenziali [Brancato et al. 1996] (Fig. 3.251). Gli interventi conservativi, generalmente seguiti dall’irradiazione esterna, sono costituiti dalla semplice nodulectomia, dall’escissione ampia (almeno 1-2 cm di tessuto sano peritumorale) e dalla quadrantectomia. Quest’ultima consiste nella resezione dell’intero quadrante coinvolto, con la cute sovrastante e la porzione di fascia superficiale del muscolo pettorale sottostante e, se associata alla dissezione ascellare (axillectomia) ed alla radioterapia postoperatoria, costituisce la QU.A.RT, che è oggi il trattamento conservativo più diffuso [Brancato et al. 1996]. La recidiva dopo trattamento conservativo si verifica nel 3-19% dei casi [Rizzatto et al. 2006]. Bisogna distinguere tuttavia tra
Fig. 3.251. Recidiva locale dopo mastectomia. A livello della parete toracica si rileva un nodulo ipoecogeno mal definito, con alcuni segnali vascolari interni al PD direzionale
le recidive vere e proprie (70-80% dei casi), che compaiono a livello nella sede del focolaio chirurgico per la crescita di residui tumorali microscopici, ed i “secondi tumori” (20-30% dei casi), che si manifestano in altri quadranti mammari quale segno di multicentricità metacrona [Pacini et al. 1996]. I fattori di rischio maggiori per una recidiva loco-regionale dopo trattamento conservativo sono positività dei margini di escissione, estensione ampia della componente intraduttale, età giovane al momento della prima diagnosi [de Bock et al. 2006]. La ripresa intramammaria, piuttosto rara nel primo anno, si verifica nel 5-10% dei casi a 5 anni e fino nel 15% a 10 anni dall’intervento; in particolare, tra 2° e 7° anno prevalgono di gran lunga le recidive vere mentre l’incidenza relativa dei secondi tumori, rari nei primi 4-5 anni, aumenta progressivamente [Brancato et al. 1996]. I maggiori fattori di rischio confermati sono: sede centrale (<2 cm dal complesso areola-capezzolo), plurifocalità macroscopica, estesa diffusione intraduttale; controverso è invece il ruolo di età giovanile, dimensioni del tumore, interessamento dei margini della sezione (ruolo della radioterapia!), tipo e grado istologico (ricordando però la maggiore incidenza di forme multicentriche nei tumori lobulari), invasione linfatica o vascolare, presenza di necrosi o di infiltrato flogistico, interessamento dei linfonodi ascellari e stato recettoriale [Pacini et al. 1996]. La recidiva ascellare-sovraclaveare, meno frequente di quella intramammaria, può essere di difficoltosa individuazione perché i sintomi sono spesso subdoli e sovente si sovrappongono a quelli legati agli effetti collaterali del trattamento chirurgico e radioterapico [Hathaway 1999]. La ripresa locoregionale dopo QU.A.RT è preceduta o associata a metastasi a distanza solo nel 10% dei casi e pertanto il suo riconoscimento precoce è importante perché ancora passibile di trattamento efficace, sia a livello mammario che in sede ascellare. Anche in questo caso lo studio ecografico deve essere panoramico, soffermandosi particolarmente sulla cicatrice chirurgica ma esplorando anche gli altri quadranti, il piano muscolo-pettorale, la mammella controlaterale ed i cavi ascellari. Per la sorveglianza ecografica della mammella operata in maniera conservativa è innanzitutto necessaria una conoscenza dei reperti fisiologici e parafisiologici a livello della mammella residua, in generale, e della sede di escissione, in particolare [Brancato et al. 1996, Calkins et al. 1988, Campi et al. 1991]. Dette modifiche sono più evidenti nelle donne sottoposte a vuotamento ascellare e trattate con radioterapia e specie nel primo anno da questa quando prevalgono i fenomeni edemigeni, in fase più avanzata subentrano le modifiche fibrotiche. La cute si ispessisce, con uno slargamento delle due linee iperecogene che la costituiscono e lo sviluppo di una banda ipoecogena ede-
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matosa interposta. L’edema sottocutaneo si manifesta con strie e bande ipoecogene (da distinguere dai dotti dilatati, che mostrano una parete definita); successivamente il grasso sottocutaneo diviene addensato ed ecogeno, con eventuale mascheramento dei legamenti di Cooper o con esaltazione degli stessi, iperecogeni con eventuale ombra acustica posteriore. Il corpus mammae residuo diviene ipoecogeno disomogeneo nella fase edematosa, così come le creste del Duret che dal parenchima si irradiano verso la cute; le creste si mascherano peraltro nell’ipoecogenicità del grasso sottocutaneo edematoso che attraversano. A maggiore distanza di tempo dal trattamento il parenchima residuo mostra un aspetto variabile, con chiazze ecogene di tipo fibrotico, più o meno evidenti e più o meno diffuse (rispetto alle quali sia la cicatrice che l’eventuale recidiva sono piuttosto ben riconoscibili). Le raccolte liquide, sia ascellari che intramammarie, sono frequenti in fase precoce ed il loro rilievo, con eventuale aspirazione, può avere utilità in fase preliminare alla radioterapia adiuvante; generalmente questi sieromi e linfoceli non creano problemi di diagnostica differenziale e non deve soprendere di identificare del liquido incistato anche a distanza di anni dall’intervento. A livello della sede di escissione, l’azione della chirurgia ed il conseguente iperdosaggio radioterapico determinano modifiche più evidenti che nel resto della mammella: l’ispessimento superficiale è più marcato, con eventuale deformazione del profilo cutaneo, mentre in profondità si osserva un’immagine ipoecogena mal delimitata, vagamente triangolare ad apice verso la profondità, espressione del focolaio chirurgico; detta area può contenere raccolte liquide anecogene, più o meno omogenee, che si riassorbono con il tempo ma che possono persistere, di dimensioni contenute, anche a distanza di anni. A maggiore distanza di tempo la sede di escissione mostra un aspetto variabile a seconda dell’intensità dei fenomeni fibrotico-cicatriziali intraparenchimali: generalmente la cicatrice diviene più piccola e netta, di aspetto ipoecogeno anche se meno marcato, con eventuale ombra acustica posteriore e possibili calcificazioni amorfe nel suo contesto. La cicatrice è dimostrabile in più del 90% dei casi dopo un anno dall’intervento conservativo; a maggior distanza di tempo diviene sempre meno riconoscibile ecograficamente, potendo talora scomparire (Figg. 3.252-3.254). La cicatrice deve essere differenziata dalla recidiva cicatriziale e paracicatriziale (50% dei casi), cosa non sempre semplice perché le due evenienze presentano un aspetto similare, specie allorquando la cicatrice assume un carattere ipertrofico [Brancato et al. 1996, Campi et al. 1991]. La dimostrazione di una stabilità nel tempo - in pratica, la dimostrazione di un’immagine US sovrapponibile a quella del controllo precedente - è chiaramente importante. A differenza della
Fig. 3.252. Aspetto cicatriziale normale dopo QU.A.RT. Sottile banda ipoecogena, con attenuazione posteriore, sezionata trasversalmente e longitudinalmente
Fig. 3.253. Cicatrice esuberante dopo QU.A.RT. Ampia area ipoecogena, mal delimitata, con lieve rinforzo posteriore. Quest’immagine è posta subito in profondità rispetto alla cicatrice cutanea (freccia)
Fig. 3.254. Linfocele ascellare dopo vuotamento linfonodale. Raccolta liquida setta tra regione ascellare e regione mammaria
Capitolo 3 Le problematiche cliniche recidiva, poi, la cicatrice non ha un aspetto nodulare in tutti i piani di scansione, apparendo sottile allorquando la rotazione opportuna della sonda consente di coglierla in senso longitudinale. Inoltre la cicatrice è almeno in parte deformabile con la compressione, presenta spesso una digitazione apicale ipoecogena, che raggiunge i piani sottocutanei, ed appare più come un’attenuazione del fascio senza nodulo associato che come un nodulo determinante un’ombra posteriore. Il riconoscimento di segnali vascolari intracicatriziali al color-Doppler è sospetto per recidiva, essendo la cicatrice relativamente avascolare, e deve indurre, ed anche guidare, il prelievo citologico; peraltro, è bene ricordare come una cicatrice “giovane” (primi 18 mesi dall’intervento) possa anche esprimere qualche segnale colore al suo interno [Schroeder et al. 2003]. L’aspetto della recidiva extracicatriziale dipende anche dalla reazione fibrotica circostante: se
questa è marcata (30% dei casi), il nodulo di ripresa mostra una forma irregolare e margini infiltrati con significativa attenuazione del fascio mentre, se la reazione è scarsa (20% dei casi), il nodulo appare rotondeggiante ed a margini meno definiti [Campi et al. 1991] (Figg. 3.255-3.261). I secondi tumori hanno un aspetto US sovrapponibile a quello del nodulo mammario maligno in generale, alla cui descrizione si rimanda. Le recidive ascellari possono originare dal prolungamento ascellare della ghiandola o, più frequentemente, dai linfonodi del cavo ascellare, compresi quelli tra i muscoli pettorali e quelli posti medialmente oppure al di sotto del muscolo piccolo pettorale (se originariamente risparmiato dalla resezione). Chiaramente è importante non considerare come patologici i linfonodi residui dalla dissezione ascellare, ma soltanto quelli che ecograficamente presentano caratteri
a Fig. 3.255. Recidiva cutanea retroareolare di carcinoma mammario. Ispessimento ipoecogeno della regione areolare con discreta ed irregolare vascolarizzazione al PD direzionale
b
Fig. 3.256. Recidiva paracicatriziale dopo QU.A.RT. Grossolana nodulazione solida, ipovascolare all’ECD
Fig. 3.257a, b. Recidiva paracicatriziale dopo QU.A.RT., con controllo dopo chemioterapia. Nodulazione ipoecogena infiltrante, con calcificazioni e con ipervascolarizzazione al PD direzionale (a). Dopo chemioterapia la lesione appare leggermente ridotta di ampiezza e soprattutto mostra scarsi segnali di flusso (b)
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a Fig. 3.260. Recidiva pettorale alta dopo QU.A.RT. Multiple areole ipoecogene nel contesto del muscolo pettorale a sede sottoclaveare. Aumentata vascolarizzazione regionale al PD direzionale
b Fig. 3.258a, b. Recidiva paracicatriziale dopo QU.A.RT. In sede cicatriziale si osservano due nodulazioni ipoecogene, mal delimitate, similari di aspetto (a). L’ECD con mdc e.v. dimostra tuttavia la discreta vascolarizzazione del nodulo più profondo, indicandone la natura di ripresa locale (b). Senza il reperto ECD probabilmente un’eventuale FNAC sarebbe stata mirata sulla lesione più superficiale, con conseguente falsa negatività
a
b Fig. 3.259. Recidiva paracicatriziale dopo QU.A.RT. Lesione solida con margini irregolari ed attenuazione posteriore
Fig. 3.261a, b. Recidiva pettorale alta dopo QU.A.RT. Due linfonodi sottoclaveari (a), con multipli vasi capsulari dimostrati con l’ECD (b)
Capitolo 3 Le problematiche cliniche dubbi o francamente neoplastici [Brancato et al. 1996]. L’US può avere comunque difficoltà nel rilevare una recidiva dell’apice ascellare; nei casi dubbi, ove si siano sviluppati un edema dell’arto superiore (possibile espressione di linfadenopatie del livello III) o dei sintomi neuropatici (possibile espressione di infiltrazione del plesso brachiale), è indicato uno studio TC o, meglio, RM. Le recidive sovraclaveari, generalmente rilevate alla palpazione, richiedono comunque una conferma ecografica. In questa sede praticamente tutti i linfonodi identificati dall’ecografia sono patologici, sebbene la caratterizzazione delle piccole linfadenopatie possa richiedere una conferma microscopica. Nelle recidive mammarie interne l’US dimostra, dapprima, una nodulazione ipoecogena intercostale e poi una massa retro-parasternale disomogenea, che si accresce attraverso lo spazio intercostale verso la superficie; nei casi avanzati si osserva l’irregolarità della corticale ossea dello sterno [Brancato et al. 1996].
3.16. Le tumefazioni della parete toracica e addominale: gli espansi benigni, le metastasi, il seeding tumorale Le tumefazioni della parete del torace, ed ancor di più di quella addominale, costituiscono un’evenienza di frequente osservazione nella pratica quotidiana, siano esse dolenti o meno, di lunga data o di recente comparsa, costanti o intermittenti. Non sempre, peraltro, al rilievo palpatorio da parte del medico o dello stesso paziente corrisponde un’effettiva alterazione poiché il reperto può essere anche legato ad asimmetrie conformazionali, ad esempio dei muscoli sottostanti, oppure a sporgenze ossee (es. inversione dell’appendice xifoidea o dismorfismi costali). D’altro canto, alcune lesioni non risultano palpabili, specie se si tratta di soggetti obesi o comunque con uno spesso pannicolo adiposo sottocutaneo: in questo caso il reperto può essere un riscontro incidentale di un’US addominale, nel momento in cui con lo scorrimento della sonda si percepisce uno “scatto” o quando si visualizza un’alterazione dei primissimi piani del campo di vista di una sonda internistica. In questi casi è sempre opportuno rivalutare la regione con un trasduttore ad alta frequenza. La parete toracica normale è costituita dalle arcate costali, con i loro prolungamenti cartilaginei, alternate agli spazi intercostali; a livello intercostale si rilevano: cute, grasso sottocutaneo, muscoli, fascia toracica, grasso extrapleurico e pleura parietale. Come “linea pleurica” si identifica specificamente l’interfaccia iperecogena lineare tra tessuti parietali e polmone aerato, caratterizzata durante gli atti respiratori da un
movimento in direzione opposta rispetto a quello delle coste [Mathis 1997]. La parete addominale mostra una serie di strati: la cute, ecogena, il sottocute, generalmente reticolare ipoecogeno e di variabile spessore, lo strato muscolare, a struttura fibrillare e di ecogenicità intermedia. I muscoli laterali costituiscono in tre strati, e sono rappresentati dall’obliquo esterno, dal trasverso addominale e dall’obliquo interno; l’aponeurosi di questi muscoli, ecogena, si slarga per accogliere a livello paramediano il muscolo retto di ciascun lato, di forma lenticolare sul piano trasverso, formando la superficie anteriore e posteriore della guaina del retto. Poi le aponeurosi dei due lati si fondondono sulla linea mediana a costituire la linea alba. Profondamente al piano muscolare si trovano la fascia trasversale, ecogena, il grasso extraperitoneale, ipoecogeno, ed il peritoneo parietale anteriore, ecogeno [Gokdale et al. 2006, Meire et al. 2001]. Le tumefazioni della parete toracica comprendono, antero-lateralmente o posteriormente, diverse evenienze, alcune specifiche di questa regione ed altre rilevabili anche altrove: borsiti (borsa scapolo-toracica e borsa sottoscapolare), raccolte liquide, elastofibroma del dorso, tumori benigni (lipomi, linfangiomi, ecc.) e maligni (liposarcomi, istiocitomi fibrosi maligni, fibrosarcomi, dermatofibrosarcomi, ecc.) dei tessuti molli superficiali, tumori di origine ossea (gabbia toracica, specie osteosarcomi) o cartilaginea (cartilagini costali, soprattutto condrosarcomi) [Huang et al. 2005] (Figg. 3.262-3.264). È importante una distinzione di queste masse dai carcinomi polmonari che abbiano infiltrato la parete, cosa non sempre agevole oltre determinate dimensioni. A differenza di questi, tuttavia, i tumori benigni e maligni della parete appaiono di solito come formazioni ipoecogene a margini smussati e con un angolo di raccordo con il polmone sottostante, curvo e liscio; inoltre la lesione risulta
Fig. 3.262. Leiomioma sottomammario. Nodulo ipoecogeno con bande ecogene localizzato nello strato muscolare della parete toracica
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a
b Fig. 3.263a, b. Metastasi pettorali da melanoma in soggetto maschio. Infiltrato ipoecogeno, disomogeneo e mal delimitato, con qualche segnale di flusso al PD direzionale in sede retroareolare (a). Più in alto si osservano diffuse areole ipoecogene nel contesto del muscolo pettorale (b)
Fig. 3.264. Metastasi sternale da carcinoma mammario. Diffusa irregolarità della corticale sternale anteriore, in scansione longitudinale
solidale con la parete toracica durante i movimenti respiratori [Saito et al. 1988]. Il carcinoma polmonare infiltrante (T3) interrompe la linea ecogena pleurica, sconfina nei tessuti molli parietali e risulta alquanto fisso durante gli atti respiratori. I tumori maligni primitivi della parete toracica costituiscono circa l’1,8% dei tumori solidi pediatrici ed il 3,2-8% di tutti i tumori toracici dell’adulto [Briccoli et al. 2007]. Poiché le recidive locali si verificano nel 7-52% dei casi, è importante un’accurata delimitazione della neoplasia prima dell’asportazione, sia per quanto riguarda la diffusione in profondità, ottimamente definita da TC ed RM soprattutto per quanto riguarda i vasi cervico-mediastinici, che per ciò che concerne la diffusione in superficie, per la quale l’US è risultata superiore alle altre metodiche per ottenere un ampio margine laterale libero all’escissione. TC ed RM, infatti, definiscono meno bene i rapporti con i diversi strati superficiali della parete toracica e possono quindi sovrastadiare o, più frequentemente, sottostadiare, l’estensione della lesione e condurre ad un’escissione non sufficientemente ampia (ricordando che in questo distretto anatomico il chirurgo deve comunque preservare la meccanica respiratoria e quindi deve cercare di non eccedere oltre il necessario l’ampiezza della resezione parietale). L’US è anche più accurata nel riconoscere i piccoli noduli satelliti, che caratterizzano le recidive sarcomatose e che è importante identificare preoperatoriamente al fine di pianificare un’escissione en bloc [Briccoli et al. 2007] (Figg. 3.265, 3.266). Le metastasi costali vengono identificate con buona accuratezza dall’US che, basandosi sulla sede del dolore riferito, permette di esplorare con scansioni longitudinali e trasversali tutto l’arco costale in questione e di rilevare la distruzione irregolare della corticale ossea e la presenza di una quota carnosa ipoecogena di accompagnamento. Ciò è particolarmente importante perché i pazienti oncologici, essendo spesso anziani e/o cachettici, possono andare incontro con relativa facilità a fratture costali dopo traumi di modesta entità e tali da non essere presenti nell’anamnesi, o anche dopo colpi di tosse o sforzi; queste fratture, caratteristiche soprattutto a livello della giunzione costo-condrale, possono essere responsabili di captazioni alla scintigrafia ossea: in questo caso si osserva la franca discontinuità costale (immagine di “scalino” o di angolazione a livello della linea ecogena corticale), con eventuale ematoma dei tessuti pericostali e formazione di callo (nodulazione ecogena con ombra acustica posteriore) [Mathis 1997, Paik et al. 2005]. Più precisamente, sono stati identificati tre pattern di coinvolgimento tumorale costale: I, ombra a placca, eccentrica ed ecogena all’interno della lesione ipoecogena (reperto caratteristico del tumore di Pancoast); II, ombra ecogena, rotondeggian-
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
a Fig. 3.266. Recidiva postoperatoria di condrosarcoma della parete toracica. Voluminosa nodulazione ipoecogena, ovalare, ben delimitata, praticamente priva di segnali vascolari al PD direzionale
b
c Fig. 3.265a–c. Fibrosarcoma della parete toracica. Anteriormente al piano osseo sternale si rileva una voluminosa formazione ipoecogena disomogenea (a), discretamente ed irregolarmente vascolarizzata al PD specie perifericamente (b). Normale aspetto postoperatorio della sede di escissione, con raccolta liquida profonda (c, frecce)
te o anulare, all’interno della lesione ipoecogena (metastasi); III, lesione ipoecogena isolata (metastasi o tumori benigni). A differenza dei pattern descritti, altri elementi quali la forma ed i margini della lesione e le caratteristiche dell’ombra acustica costale e della linea pleurica non sembrano di aiuto nella distinzione tra benigno e maligno [Yang et al. 1991]. L’elastofibroma dorsi è una proliferazione connettivale non rara, in parte sottostimata, che si produce unilateralmente o talora anche bilateralmente tra angolo scapolare inferiore e parete toracica proprio per la frizione determinata dai movimenti scapolari. Questo pseudotumore viene riscontrato nell’età medioavanzata con predilezione, almeno per le forme più voluminose e sintomatiche, per il sesso femminile. Al di sotto del piano muscolare si rileva una struttura striata, con fondo ecogeno (adiposo) e bande ipoecogene lineari o circolari (fibroelastiche) o con fondo ipoecogeno e strie ecogene interposte; i margini possono essere netti oppure mal definibili rispetto ai tessuti molli adiacenti. Non si rilevano segni di infiltrazione o erosione ossea. L’abduzione dell’arto superiore può agevolarne lo studio. La sede, la moderata dolenzia e l’aspetto US simil-muscolare rendono tipico il reperto, se noto all’esaminatore, ed evitano il ricorso ad indagini ulteriori o alla biopsia [Bianchi et al. 1997, Dalal et al. 2003]. Se l’ecografista non ha esperienza di questa lesione è possibile che la confonda con un fibrolipoma, se ben evidente, oppure che la misconosca del tutto, se mal definita. Per quanto riguarda la mammella maschile, le tumefazioni a livello di questa area anatomica ed in particolare della regione areolare, uni- o bilateralmente, sono tutt’altro che rare e vedono nell’US la metodica di scelta, stanti anche le difficoltà tecniche di un adeguato studio mammografico [Jellici et al.
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2005]. Nella larga maggioranza dei casi (>93%), tuttavia, si tratta di lipomastia, ascesso retroareolare, cisti da inclusione epidermica, iperplasia stromale angiomatosa o soprattutto ginecomastia (epatopatici, pazienti in trattamento per carcinoma prostatico, ecc.). Solo una minoranza dei casi è invece dovuta a tumori: lipomi, angiomi, sarcomi, metastasi da melanoma (sottocutanee o anche, eccezionalmente, su linfonodi retroareolari), linfomi, papillomi intraduttali, carcinomi [Caruso et al. 2004, Chen et al. 2006] (Figg. 3.267-3.271). I carcinomi, costituiscono lo 0,2-1,5% dei tumori maschili maligni e l’1% di tutti i tumori della mammella, con picco d’incidenza tra i 60 ed i 75 anni e con fattori di rischio quali criptorchidismo, sindrome di Klinefelter (rischio del 35%), tumori testicolari, epatopatie, trattamenti radioterapici toracici nell’età pediatrica. La presentazione è di solito come tumefazione leggermente dolente, comparsa da
alcuni mesi ed eventualmente associata a secrezione scura o francamente ematica dal capezzolo [Abbattista et al. 2006]. Essi sono nell’85% dei casi del tipo duttale infiltrante e possono insorgere sul modesto tessuto mammario presente nel maschio in sede retroareolare ma possono anche svilupparsi a partire da zolle di tessuto mammario ectopico, presenti in altre aree della regione pettorale; possibile la plurifocalità. In ogni caso, stante anche le ridotte dimensioni della regione mammaria maschile, il tumore diviene precocemente invasivo e infiltra piuttosto facilmente le strutture viciniori. L’aspetto è generalmente di noduli di piccole dimensioni, circacentimetrici, ipoecogeni, a contorni irregolari o sfumati, con eventuale attenuazione del fascio e con eventuale anarchia dell’angioarchitettura endolesionale; segni secondari relativamente frequenti sono costituiti da ispessimento o ulcerazione cutanea e adenopatie ascellari [Caruso
Fig. 3.267. Ispessimento areolare unilaterale in paziente cirrotico. Areola ipoecogena non nodulare, con qualche segnale vascolare al PD
Fig. 3.269. Addensamento fibrocistico della mammella maschile. Area ipoecogena mal delimitata in sede retroareolare
Fig. 3.268. Ginecomastia unilaterale in paziente in ormonoterapia per carcinoma prostatico. Ispessimento ipoecogeno disomogeneo, non nodulare, della regione retroareolare di destra in confronto con quella controlaterale
Fig. 3.270. Linfoma della mammella maschile. Nodulo ipoecogeno, piuttosto disomogeneo, ben delimitato
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.271. Linfoma della mammella maschile. Nodulo ipoecogeno, disomogeneo, ben delimitato, con modica vascolarizzazione soprattutto centrale al PD direzionale
et al. 2004, Chen et al. 2006] (Figg. 3.272, 3.273). Le raccolte liquide sono costituite dai sieromi postchirurgici, generalmente anecogeni, omogenei quando sterili, e da ascessi ed ematomi liquidi, con possibile presenza di detriti interni, livellamenti, sepimentazioni. A livello toracico sono possibili gli ascessi legati alle carie tubercolari costali; in questo caso la costa appare rimaneggiata e si rileva una raccolta fluida disomogenea a livello pericostale [Gokdale et al. 2006]. Gli ematomi della guaina dei retti si sviluppano soprattutto in soggetti trattati con anticoagulanti, o comunque con diatesi emorragica, e possono avere anche una notevole estensione, soprattutto in senso longitudinale. Generalmente ovalari, slargano il muscolo e possono attraversare la linea mediana a livello ipogastrico assumendo così una conformazione oblunga. L’ematoma è piuttosto ecogeno in fase precoce, per poi divenire sempre più ipoecogeno e disomogeneo [Meire et al. 2001] (Figg. 3.274, 3.275).
Fig. 3.272. Carcinoma della mammella maschile. Diffuso rimaneggiamento del tessuto retroareolare, con discreta ed irregolare vascolarizzazione interna al PD direzionale
Fig. 3.273. Carcinoma della mammella maschile. Nodulo con centro ecogeno e periferia ipoecogena in sede pettorale alta, evidentemente su tessuto mammario ectopico. Scarsa vascolarizzazione al PD direzionale
Fig. 3.274. Sieroma postoperatorio della parete addominale. A livello di un’incisione laparotomica mediana, in sede epigastrica, si osserva una piccola formazione ipo-anecogena, priva di segnali di flusso al PD direzionale
Fig. 3.275. Ematoma della guaina dei retti. Formazione ovalare ipoecogena nel contesto del muscolo retto, in sezione trasversale e longitudinale
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Ecografia in oncologia
Le ernie esterne sono localizzate soprattutto in sede addomino-pelvica (ombelicali, della linea alba, spigeliane, incisionali, inguinali, femorali, ecc.) ed è possibile riconoscere il difetto fasciale attraverso il quale è avvenuta la migrazione. Il contenuto può essere almeno in parte ridotto con la delicata compressione attuata dalla sonda ed aumenta invece di dimensioni durante colpi di tosse o manovra di Valsalva e ciò costituisce l’elemento diagnostico-differenziale rispetto a lesioni solide. L’aspetto interno è variabile, potendosi osservare solo l’ipoecogenicità vagamente striata del grasso oppure la presenza di anse collabite, normodistese o dilatate, con contenuto interno di tipo liquido e/o gassoso. Talora, specie in caso di strangolamento del contenuto enterico o di ampia ascite, si rileva del liquido intorno alle anse [Gokdale et al. 2006]. In oncologia sono soprattutto importanti le ernie incisionali poiché queste alterazioni, che generalmente si producono nel primo anno dall’intervento ma che possono anche essere riconosciute in un secondo momento, possono talora simulare sul piano clinico o anche ecografico una disseminazione neoplastica (vedi dopo). Caratteristica è l’endometriosi della parete addominale, da sospettare in tutte le donne che presentano una tumefazione palpabile dolente in prossimità di cicatrici sovrapubiche, specie se il dolore è ciclico, se la tumefazione si accentua durante il mestruo, se la cicatrice è dovuta ad un taglio cesareo (0,03-1% dei tagli cesarei) e se questo è stato praticato almeno un anno prima (media 4 anni). All’US si rilevano nodulazioni singole, sottocutanee (profonde e spesso adagiate sulla fascia muscolare), di dimensioni variabili (in genere 2-3 cm), ipoecogene disomogenee, a margini irregolari ed infiltranti, con un eventuale alone ecogeno periferico di variabile spessore e continuità, con vascolarizzazione variabile ma spesso intensa (seppur proveniente da un singolo polo arterioso ed armonicamente distribuita) e con IR variabile (0,520,83); le lesioni più voluminose possono mostrare delle areole anecogene dovute a recenti fenomeni emorragici [Francica et al. 2003] (Figg. 3.276-3.278). L’associazione dei dati clinici ed ecografici è spesso sufficiente per porre una corretta diagnosi; il quadro US, di per sé, richiede una differenziazione da entità quali ascessi, ernie ventrali, granulomi da sutura, tumori desmoidi (anch’essi alquanto vascolarizzati), metastasi (melanomi), sarcomi, linfomi, angiomi e cisti sebacee [Francica et al. 2003]. I veri e propri tumori della parete toraco-addominale (cfr. anche paragrafo 3.4) comprendono i condromi e condrosarcomi di origine costale, i lipomi sottocutanei o più raramente profondi, i desmoidi, le lesioni linfomatose (specie alla parete toracica e soprattutto nel morbo di Hodgkin quale estensione dal mediastino) le metastasi (Figg. 3.279-3.285). I lipomi
Fig. 3.276. Endometriosi della parete addominale. Doppia nodulazione (frecce) ipoecogena disomogenea, di forma irregolare, in corrispondenza di un pregresso taglio cesareo
Fig. 3.277. Endometriosi della parete addominale. Nodulazione ipoecogena disomogenea, di forma irregolare, con qualche segnale vascolare periferico al PD, in corrispondenza di un pregresso taglio cesareo
Fig. 3.278. Endometriosi della parete addominale. Nodulazione ovalare, relativamente omogenea e delimitata, tra piano sottocutaneo e piano muscolare, in corrispondenza di un pregresso taglio cesareo
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.279. Metastasi della parete addominale da carcinoma mammario. Grossa lesione sottocutanea, ipoecogena disomogenea, con qualche segnale di flusso specie periferico al PD direzionale
Fig. 3.282. Metastasi della parete addominale da melanoma. Due noduli ipoecogeni sottocutanei
a Fig. 3.280. Nodulo metastatico della parete addominale da carcinoma ovarico. In profondità, a livello della fascia, si osserva una piccola lesione ipoecogena, con qualche segnale vascolare periferico al PD direzionale
b
Fig. 3.281. Metastasi della parete addominale da melanoma. Nodulo ipoecogeno nel contesto del muscolo retto, con discreta vascolarizzazione specie periferica al PD direzionale
Fig. 3.283a, b. Metastasi della parete addominale da melanoma, in un paziente più volte operato in tale sede. Due noduli ipoecogeni sottocutanei profondi, immediatamente superficiali rispetto al piano muscolare, peraltro atrofico (a). Erano presenti anche altri tre noduli minori ma solo i due maggiori potevano essere identificati dalla TC (b, frecce)
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Ecografia in oncologia
Fig. 3.284. Metastasi della parete addominale da sarcoma di Ewing. Nodulo rotondeggiante, ipoecogeno, mal delimitato, all’interno del piano muscolare (freccia)
Fig. 3.285. Metastasi della parete addominale da melanoma. Nodulo sottocutaneo nettamente ipoecogeno a livello sovrapubico
appaiono ovalari, iso- o lievemente iperecogeni rispetto ai muscoli, spesso delimitati da una sottile capsula ecogena; peraltro il riconoscimento rispetto al normale grasso sottocutaneo non è sempre agevole, data la frequente isoecogenicità. I desmoidi originano dalle fasce o dalle aponeurosi muscolari, soprattutto nelle donne e spesso in prossimità di cicatrici; appaiono come formazioni ipoecogene disomogenee, più o meno delimitate, con variabile vascolarizzazione al color-Doppler. La diagnosi differenziale si pone soprattutto con gli endometriomi e gli impianti tumorali [Gokdale et al. 2006]. Le metastasi ombelicali (nodulo di Sister Mary Joseph), sebbene rare, possono costituire la prima modalità di presentazione di un tumore endoaddominale (pancreas, colon, ecc.) e si caratterizzano come noduli cutanei eritematosi, dolenti o meno. Queste lesioni si producono come conseguenza dello sviluppo
embrionale di questa regione anatomica e delle strutture legamentose che la connettono a diversi organi splancnici. L’US consente il riconoscimento di un nodulo solido, distinguendolo dall’ernia ombelicale, e permette di guidarne la biopsia [Ching et al. 2002, Dodiuk-Gad et al. 2006]. Per seeding si intende la deposizione di cellule tumorali vitali, con successiva crescita di una lesione tumorale macroscopica, quale conseguenza del “trascinamento” di cellule determinato da procedure diagnostiche o terapeutiche: interventi chirurgici, posizionamento di trocar per procedure laparo- o toracoscopiche diagnostiche o terapeutiche, prelievi citoistologici, drenaggio percutaneo di raccolte o versamenti tumorali, ablazioni percutanee [Shimizu et al. 2004, Tarantino et al. 2006]. Ciò avviene soprattutto a livello dei tessuti molli sovrastanti la neoplasia, come il sottocute o la parete toracica o addominale ma chiaramente può anche verificarsi all’interno di cavità quali il peritoneo o il retroperitoneo, oppure all’interno dell’organo stesso sede della lesione tumorale; in quest’ultimo caso tuttavia è concettualmente difficile, ad esempio nel fegato, distinguere tra seeding e crescita di lesioni satelliti. In generale sono soprattutto le lesioni superficiali a poter provocare un seeding, poiché è più facile che si abbia un trascinamento di cellule tumorali a partire da queste; nel caso di procedure terapeutiche quali PEI o altro, è inoltre più difficile con le lesioni superficiali poter “sterilizzare” il tramite. Con aghi per biopsia il rischio di disseminazione cellulare è maggiore che con gli aghi sottili per citologia, probabilmente perché solo nel primo caso possono essere aspirati anche frammenti stromali significativi e quindi vi è una maggiore probabilità di sopravvivenza e crescita delle cellule tumorali “trascinate”. Anche un grado di differenziazione lesionale particolarmente basso aumenta la probabilità di seeding, ma questo è chiaramente un evento poco definibile se non si dispone di dati istologici [Bruix et al. 2005]. Il riconoscimento dell’inseminazione tumorale è importante perché, in generale, questa lesione non indica necessariamente una prognosi negativa e, se isolata, può essere adeguatamente trattata, mediante escissione chirurgica, ablazione percutanea, embolizzazione o radioterapia [Kim et al. 2003]. Inoltre, in molti casi, il rischio più o meno concreto di un seeding condiziona la gestione di un paziente: tipicamente, nel soggetto candidato al trapianto epatico si evitano procedure diagnostiche o terapeutiche percutanee per il rischio di inseminazione, laddove le prime sarebbero importanti per avere diagnosi certe dei reperti di imaging e le seconde potrebbero aiutare il paziente a giungere sino al momento del trapianto [Maturen et al. 2006]. Nei soggetti con HCC l’incidenza riportata di seeding dopo FNAC è del 0,6-5,1% mentre quella dopo biopsia istologica dello 0,8-3,4%
Capitolo 3 Le problematiche cliniche [Maturen et al. 2006]. Nei pazienti con carcinoma polmonare il seeding parietale è riportato nello 0,2% dei FNAC ed è passibile di resezione ampia [Kim et al. 2003]. Dopo procedure terapeutiche percutanee (drenaggi, ablazioni, ecc.) il seeding è descritto nello 0,21,4% dei casi, specie dopo termoterapia con RF, e può essere prevenuto riscaldando l’elettrodo al momento in cui lo si ritrae dall’organo o comunque praticando una parziale ablazione del tramite oltre che della lesione [Ishii et al. 1998]. Un’alternativa profilattica è quella di iniettare dell’etanolo lungo il tramite provocato da procedure interventistiche [Shimizu et al. 2004]. Nel caso del seeding da HCC l’aspetto è di nodulazioni di dimensioni variabili da pochi mm ad alcuni cm, a margini netti e regolari, ipoecogene, con aspetto ipervascolare per la presenza di multipli segnali intralesionali [Tarantino et al. 2006]. In generale, comunque, si può dire che l’incidenza di quest’evenienza è troppo bassa per giustificare una sorveglianza routinaria, con sonda superficiale, delle sedi di accesso a livello della parete addominale; uno stu-
Fig. 3.287. Seeding di HCC dopo PEI. Lesione ipoecogena parietale, che protrude verso la glissoniana sottostante
dio di questo tipo si impone tuttavia quando il paziente riferisce qualche modifica a livello della cicatrice o della sede di accesso di una procedura percutanea o quando, scorrendo sulla cute con la sonda addominale per esplorare gli organi interni, si percepisca un’irregolarità superficiale (Figg. 3.286, 3.287).
3.17. La massa addominale palpabile: cause, identificazione e diagnostica differenziale
a
b Fig. 3.286a, b. Seeding tumorale incisionale in paziente operato per carcinoma dell’angolo colico destro. Nel piano muscolare si osserva un nodulo ipoecogeno disomogeneo, con qualche sporadico segnale colore all’ECD
Nell’approccio iniziale al paziente con presunta massa palpabile dell’addome è necessario innanzitutto assicurarsi che vi sia effettivamente una massa in corrispondenza del reperto palpatorio addominale, cosa che nel 20% dei casi circa non si verifica (es. pseudomassa da cieco ripieno di feci). Bisogna anche considerare che la “massa” può essere all’interno della parete addominale (ematoma, ascesso, ernia, tumore ecc.). Nell’ambito dell’addome, la sede della formazione può già fornire un primo orientamento sulla sua pertinenza e natura. L’ecografia rappresenta la metodica di prima istanza nella maggioranza di queste evenienze, pur richiedendo in alcuni casi l’integrazione con una metodica più panoramica ed accurata quale la TC. Se è vero infatti che l’US risulta più efficace nello studio di determinate regioni addominali e la TC di altre, è anche vero che la “massa” può essere, come detto, non realmente presente oppure può essere di scarso significato come ad esempio una grossa cisti renale. Si impone pertanto, in ogni caso, un iniziale studio US ed un impiego selettivo della TC [DiSantis et al. 2000]. In uno studio retrospettivo l’US ha dimostrato un elevato valore predittivo positivo (99%) e valore predittivo negativo (97%) nello studio delle masse addominali palpabili; l’organo di origine veniva definito corretta-
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Ecografia in oncologia
mente nell’87% dei casi e la diagnosi istologica veniva ipotizzata con esattezza nel 77% [Barker et al. 1990]. L’US non è generalmente in grado di identificare le fasce che demarcano i diversi spazi retroperitoneali e può quindi avere difficoltà a definire la sede esatta delle lesioni del retroperitoneo, dovendosi basare solo sui rapporti spaziali tra queste e le strutture viciniori. Inoltre, per masse particolarmente voluminose, l’US può incontrare più difficoltà della TC e della RM nel definire la pertinenza d’organo ed i rapporti anatomici (anche ai fini della pianificazione chirurgica), anche se si ricorre a ricostruzioni panoramiche dell’immagine ecografica. Per ciò che concerne le masse solide queste possono essere dovute ad organi ingranditi (es. utero grossolanamente miomatoso) oppure a neoformazioni vere e proprie. La natura esatta può essere ipotizzata, oltre che dalla topografia della lesione, anche dalla presenza di quote adipose, calcificazioni, aree necrotiche o segni di vascolarizzazione. La natura adiposa della massa, seppur sospettabile all’US in base ad un aspetto iperecogeno, non è sempre ben definibile, perlomeno non con l’immediatezza di TC e RM (Figg. 3.288-3.305). La diagnostica differenziale delle “masse cistiche” comprende soprattutto ascessi, versamento loculato, pseudocisti del pancreas, cisti e tumori cistici dell’ovaio, linfoceli, linfangiomi cistici, idronefrosi massive, globi vescicali (Figg. 3.306, 3.307). Le formazioni di natura vascolare (aneurismi aortici, iliaci, dei rami splancnici) vengono agevolmente riconosciute per la presenza di un lume aneurismatico con segnale di flusso o, in caso di trombosi luminale parziale o completa, per l’aspetto strutturato e le calcificazioni parietali [Catalano et al. 2002].
Fig. 3.288. Metastasi peritoneale da carcinoma mammario. Voluminosa formazione solida rotondeggiante, ecogena disomogenea, a livello pelvico
a
b Fig. 3.289a, b. Fibrosarcoma addominale. Massa ipogastrica prevalentemente solida, con quote anecogene, in sezione trasversale e longitudinale. Falda liquida pelvica (freccia). U, Utero
Fig. 3.290. Recidiva di sarcoma pelvico. Massa solida con centro necrotico
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.291. Recidiva di sarcoma stromale pelvico. Massa retrovescicale a struttura complex
Fig. 3.293. Liposarcoma retroperitoneale. Voluminosa massa solida con aree anecogene minoritarie
a Fig. 3.294. Liposarcoma retroperitoneale. Massa ecogena infiltrante il polo superiore del rene sinistro
b Fig. 3.292a, b. Liposarcoma retroperitoneale. Massa ipoecogena – relativamente omogenea – posta esternamente al rene destro e posteriormente al fegato. R, rene; F, fegato
Nell’età pediatrica la massa palpabile costituisce un riscontro molto frequente, da relazionare innanzitutto all’età. Nel neonato la natura delle masse addomino-pelviche è generalmente benigna e l’aspetto è
spesso cistico. L’origine più frequente è quella renale (55% dei casi) o quantomeno retroperitoneale: il riscontro più frequente è l’idronefrosi di alto grado, su base ostruttiva o non ostruttiva, ma si può anche trattare di rene multicistico, rene policistico, nefroblastoma, idrometrocolpo, cisti ovariche (generalmente uniloculate omogenee ed a parete sottile), tumori ovarici cistici e solidi, cisti dell’uraco (formazione cistica sovravescicale mediana, con detriti in caso di superinfezione), cisti enteriche da duplicazione (parete stratificata simildigestiva), cisti mesenteriche e omentali (malformazioni linfatiche), pseudocisti giganti da meconio (parete spessa ed ecogena e contenuto viscoso ecogeno, talora pseudosolido), diverticolo di Hutch (giunzione uretero-vescicale), otricolo prostatico gigante, fetus in fetu, meningocele sacrale anteriore, emorragia surrenalica, neuroblastoma, teratomi cistici, cisti del coledoco (dilatazione cistica
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Ecografia in oncologia
a Fig. 3.297. Recidiva di sarcoma peritoneale. Massa rotondeggiante, solida con qualche area necrotico-colliquativa. Si associa versamento peritoneale
b Fig. 3.295a, b. Schwannoma maligno addominale. In un paziente con neurofibromatosi, lo studio della fossa iliaca destra dimostra una massa ipoecogena disomogenea con qualche segnale vascolare all’ECD (a). La ricostruzione TC in coronale conferma la massa della regione ileocecale (b, freccia)
Fig. 3.296. Neurofibromatosi pelvica. Nodulazioni retrovescicali ipoecogene (frecce) in paziente con neurofibromatosi
Fig. 3.298. GIST. Massa solida, lobulata, ipoecogena con aree necrotico-colliquative interne, in fossa iliaca sinistra
della via biliare extraepatica, spesso con aspetto “a lacrima”, associata nel 44% dei casi ad atresia biliare), epatoblastoma, o ancora di altre evenienze [Haddad et al. 2001, Khong et al. 2003] (Fig. 3.308). Queste “masse”, rilevate nel neonato generalmente come formazioni asintomatiche palpabili, vengono ormai in molti casi identificate già in occasione di esami US in gravidanza. Anche nel bambino più grande l’origine è più spesso retroperitoneale, ed in particolare renale (55% dei casi), ma vi è un moderato aumento del rischio di malignità: idronefrosi, nefroblastoma, nefroma cistico multiloculare, cisti (renali, omentali, mesenteriche, coledociche, pancreatiche, epatiche, ovariche), neuroblastoma, epatoblastoma, HCC fibrolamellare, adenoma epatico, tumore papillare cistico del pancreas, linfangioma retroperitoneale, idrope colecistica, megacolon, invaginazione intestinale, idrome-
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
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Fig. 3.299a, b. Linfoma addominale. Voluminose masse solide mesenteriche, con grossi vasi circostanti e limitato segnale di flusso interno al PD direzionale
trocolpo, teratomi ovarici, tumore o torsione su testicolo ritenuto [Haddad et al. 2001]. In particolare masse cistiche giganti del bambino possono essere dovute a: cisti coledociche, cisti spleniche, idrope colecistica, cisti e pseudocisti pancreatiche, cistoadenomi del pancreas, idronefrosi, rene multicistico, nefroma cistico multiloculare, emorragia surrenalica in risoluzione, neuroblastoma cistico, cisti mesenterico-omentali, duplicazione intestinale, pseudocisti da meconio, cisti e tumori cistici dell’ovaio, ematocolpo, cisti dell’uraco, ascessi appendicolari, teratomi sacrococcigei e pseudocisti liquorali (soggetti portatori di shunt ventricolo-peritoneale) [Wootton-Gorges et al. 2005]. Nelle adolescenti le masse pelviche sono soprattutto di origine annessiale e possono associarsi a dolore per la crescita espansiva, la torsione o il sanguinamento interno. Esse sono costituite soprattutto da
Fig. 3.300a, b. Feocromocitoma extrasurrenalico. Formazione para-aortica ipoecogena, con scarsi segnali vascolari all’ECD (a). La ricostruzione coronale TC evidenzia invece un discreto contrast enhancement della massa (b, freccia)
Fig. 3.301. Metastasi peritoneale da melanoma. Voluminosa massa pelvica, ecogena e relativamente omogenea
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Ecografia in oncologia
a Fig. 3.304. Recidiva di carcinoma colico. Massa para-anastomotica (frecce lunghe) associata a due linfadenopatie ilari spleniche (frecce brevi)
b Fig. 3.302. Carcinoma ovarico. Estesa massa a struttura complex, con setti irregolari ed aree solide a
b Fig. 3.303. Recidiva pelvica di carcinoma colico. Massa ecogena disomogenea occupante ampiamente la pelvi
Fig. 3.305a, b. Recidiva paracolostomica di carcinoma del colon. Masse solide ipoecogene disomogenee, in stretta contiguità con l’ansa anastomotica (frecce)
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.306. Linfocele lomboaortico. Ampia raccolta liquida uniloculata omogenea, avascolare al PD, dopo linfadenectomia retroperitoneale
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b Fig. 3.307a, b. Ascesso tubo-ovarico. Raccolta liquida ipoecogena disomogenea in sede retrouterina (a). La TC rende in maniera meno evidente la disomogeneità del contenuto interno ma definisce meglio le pareti ed i rapporti topografici della formazione (b)
Fig. 3.308. Massa addominale neonatale (cisti da duplicazione intestinale). Nel fianco sinistro, anteriormente al rene, si rileva una formazione con la parete stratificata digestiva e contenuto interno disomogeneo
cisti follicolari semplici, cisti luteiniche, teratomi maturi, cisti emorragiche e più di rado da torsioni ovariche, ascessi tubo-ovarici, gravidanze ectopiche, tumori maligni (specie disgerminoma e tumori del sacco vitellino) [Spevak et al. 2002]. Nella diagnosi differenziale delle neoplasie pelviche, specie femminili, rientrano anche le masse di origine flogistica, come quelle conseguenti alla complicazione di appendiciti, diverticoliti, morbo di Crohn. Masse ginecologiche persistenti vengono riscontrate ecograficamente nell’1-2% delle donne in gravidanza, sebbene solo l’1-3% di queste sia di natura maligna. Nei casi più frequenti si riscontrano cisti ovariche follicolari o emorragiche, leiomiomi uterini, sindrome da iperstimolazione ovarica. Quest’ultima evenienza, legata al trattamento induttivo dell’infertilità, si presenta come un marcato ingrossamento ovarico, con multiple ampie immagini cistiche periferiche a pareti sottili; stante la possibile presenza di versamento peritoneale vi è il rischio teorico di sospettare una lesione espansiva, sebbene il quadro US sia alquanto caratteristico (a parte l’anamnesi!). Più di rado si rilevano incidentalmente teratomi ovarici, idrosalpingi, endometriomi, cistoadenomi e cistoadenocarcinomi ovarici, idronefrosi massive, lipomi mesenterici, ectopie renali pelviche; per quanto riguarda in particolare l’endometriosi, che peraltro comporta di regola un’infertilità, questa può andare incontro ad un processo di decidualizzazione gravidica, simulando una lesione maligna a causa dell’aspetto complex e dell’ipervascolarità Doppler [Sammour et al. 2005]. Evenienze poco frequenti, ma specificamente legate allo stato gravidico, sono dovute a iperreazione luteinica non correlata ad induzione farmacologica di gravidanza, cisti tecaluteiniche (con mola idatiforme completa nel 14-30% dei casi), luteomi [Chiang et al. 2004].
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Ecografia in oncologia
3.18. La massa addominale complicata Il riscontro di masse addominali nel paziente che si presenta in condizioni cliniche di urgenza non è un evento raro, siano esse effettivamente responsabili della sintomatologia in atto o semplicemente rilevate in maniera incidentale, già note in precedenza al paziente o misconosciute. Le masse sintomatiche possono determinare ostruzione intrinseca o estrinseca delle vie biliari (ittero), delle vie urinarie (idronefrosi) o dell’intestino (occlusione) oppure possono provocare sanguinamenti (emorragia intraparenchimale, retroperitoneale, intraperitoneale, endoluminale in strutture cave) (Figg. 3.309-3.311). Il sanguinamento (rottura) di una massa addominale costituisce un’evenienza non frequentissima ma comunque possibile e da considerare in ogni paziente con anemizzazione acuta/subacuta non traumatica. Esso pone diversi problemi diagnostici e terapeutici, sia immediati, per il rischio di emorragia interna grave, ma anche a lungo termine poiché può determinare la diffusione delle cellule tumorali, ad esempio intraperitoneale [Yunoki et al. 1999]. Compito della diagnostica è di sospettare innanzitutto la presenza di un processo espansivo alla base dell’emorragia, di definire la tipologia del processo espansivo stesso, e di fornire dati rilevanti al fine della scelta di un trattamento chirurgico o embolizzante (sede e gravità del sanguinamento, presenza di una fonte emorragica attiva, ecc.) e della pianificazione terapeutica (individuazione dei vasi afferenti alla sede emorragica, ecc.) [Catalano et al. 2002]. L’emorragia può provenire da lesioni non tumorali quali le cisti complicate, da tumori benigni, da tumori maligni o da metastasi. Le cause più frequenti di sanguinamento a livello epatico sono date dall’HCC e dall’adenoma mentre etiologie più rare sono costituite da iperplasia nodulare focale (molto raramente), metastasi (melanoma), grossi angiomi cavernosi, lesioni linfomatose, angiomiolipomi, angiosarcomi. La rottura splenica, poco frequente, può essere dovuta ad angiomi, teratomi, sarcomi, linfomi, metastasi. L’emorragia surrenalica dell’adulto si associa con carcinomi, metastasi o mielolipomi, ma è rara. Il sanguinamento a livello renale è sicuramente più frequente, per rottura di carcinomi a cellule chiare ma soprattutto di angiomiolipomi; cause meno comuni comprendono cisti, sarcomi, metastasi. L’emorragia ginecologica, prescindendo dalla gravidanza ectopica, è legata soprattutto a rottura di cisti [Casillas et al. 2000, Chen et al. 2002, Hertzberg et al. 1999, Hora et al. 2004, Yip et al. 1998]. Prescindendo dalla natura e dall’istotipo, alcune masse hanno una maggiore tendenza emorragica: lesioni voluminose, a crescita rapida, infiltranti, ipervascolarizzate, adiacenti a vasi di calibro significativo, con sviluppo interno di pseudoaneurismi, periferi-
Fig. 3.309. Recidiva pelvica di carcinoma vescicale con idronefrosi. Massa solida a livello pelvico, associata a discreta dilatazione calico-pielica e ad assottigliamento parenchimale
che, protrudenti dalla superficie dell’organo o peduncolate [Yamakado et al. 2002]. Bisogna anche ricordare come la rottura possa anche svilupparsi in assenza di una massa, allorquando un organo è reso fragile da un processo tumorale diffuso: è quanto si può ad esempio verificare nelle splenomegalie su base leucemica o linfomatose, con sviluppo di ematomi sottocapsulari e/o perisplenici. L’evento emorragico può svilupparsi all’interno della massa (sanguinamento intraparenchimale), a livello sottocapsulare, oppure verso l’esterno, nella cavità peritoneale, negli spazi retroperitoneali o nelle strutture duttali e viscerali adiacenti. La rottura della massa può essere propriamente spontanea, oppure indotta da traumi anche di modesta entità o da procedure bioptiche, di embolizzazione o chirurgiche. Nei pazienti oncologici esistono fattori favorenti quali la fragilità vasale e la riduzione della conta piastrinica indotte dalla chemioterapia. Nei pazienti con HCC e cirrosi si aggiungono i fattori di ipertensione portale, allungamento del PT e riduzione della conta piastrinica correlati all’epatopatia; in alcuni casi un trattamento farmacologico anticoagulante può avere ruolo di concausa. Sul piano clinico la presentazione è variabile, con soggetti che presentano anemizzazione progressiva e vaga dolenzia del quadrante coinvolto ed altri che giungono all’osservazione con un addome acuto improvviso ed eventuale shock ipovolemico. L’aspetto US dell’emoperitoneo varia con il tempo e dipende dalla velocità di produzione, dalla sede di esplorazione e dallo stato coagulativo di base del paziente [Belloir et al. 1983, Hirata et al. 1997, Ishida et al. 1998, Mortele et al. 2003]. Come regola generale esso appare anecogeno, pur potendo risultare talora finemente corpuscolato, con echi fini o anche grossolani che si muovono nel liquido. Specie in prossimità della fonte emorragica e
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Fig. 3.310a–f. Doppia recidiva di leiomiosarcoma uterino con idronefrosi. Discreta dilatazione calico-pielica a destra, associata ad una massa solida lomboaortica (a e b, frecce), possibile causa dell’ostruzione. Più distalmente tuttavia si rileva anche una marcata ureterectasia lombo-iliaca (c), ed infatti è presente una seconda massa ostruente a livello retrovescicale (d). La TC conferma le due masse ostruenti (e, f)
soprattutto nei casi che si producono nel giro di varie ore, l’aspetto può essere più ecogeno, anche stratificato [Jeffrey et al. 1982]. Infine, quando l’emorragia avviene in un soggetto già portatore di ascite, si possono creare immagini di livello idro-ematico, con una
quota sedimentata ecogena ed una sovrastante anecogena (effetto ematocrito). Gli eventuali coaguli ematici, ecogeni, si riconoscono soprattutto nelle sedi declivi ed in prossimità della massa sanguinante (segno del “coagulo sentinella”), eventualmente stratifi-
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massa, esso risulta anecogeno all’esplorazione US, con segnale di “va e vieni” all’analisi spettrale e con segnale vascolare vorticoso, eventualmente “a bandiera coreana”, al color-Doppler; a distanza dall’evento emorragico, qualora non si intervenga subito, può mostrare una trombosi luminale parziale o totale [Lan et al. 2007, Yamakado et al. 2002]. La CEUS può consentire di rilevare lo stravaso di mdc quale segno di emorragia in atto [Catalano et al. 2005b, Catalano et al. 2006b]. Specie nel caso di emorragia retroperitoneale è possibile cogliere l’obliterazione dei margini lesionali e dei piani adiposi circostanti, con strie ipoecogene che solcano il grasso circostante ed ispessiscono i piani fasciali; si tratta peraltro di reperti meglio identificabili con la TC [Casillas et al. 2000] (Fig. 3.312, Video 3.17).
b Fig. 3.311a, b. Invaginazione intestinale ostruente da metastasi linfonodali mesenteriche da melanoma. Lo studio ad alta risoluzione (a) dimostra le anse dilatate, con contenuto corpuscolato, a monte dell’ostacolo (freccia breve) e la caratteristica immagine di ansa nell’ansa (freccia lunga), anche con il mesentere ecogeno eccentrico invaginato. Lo studio panoramico con sonda addominale (b) riconosce i linfonodi ipoecogeni invaginati (freccia breve) ed il versamento peritoneale, segno di occlusione “scompensata” (freccia lunga)
cati sulla sua superficie; non vanno confusi con anse intestinali collabite o appendici epiploiche galleggianti nel versamento. La massa stessa viene modificata nel suo aspetto dall’evento emorragico, potendone risultare anche mascherata: talora la presenza di una lesione sanguinante costituisce una sorpresa intraoperatoria quando si interviene per un focolaio emorragico. La neoformazione diviene internamente disomogenea, soprattutto sul versante dell’emorragia, con superficie irregolare o francamente interrotta e possibile evidenza al suo interno di pseudoaneurismi, di livelli liquido-liquido o di raccolte sottocapsulari [Casillas et al. 2000, Ishida et al. 1998, Yamakado et al. 2002]. Per quanto riguarda lo pseudoaneurisma, prodotto proprio dall’azione angioerosiva della
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b Fig. 3.312a, b. Rottura di pseudoaneurisma all’interno di un angiomiolipoma renale. Raccolta ematica perirenale posteriore (freccia lunga) associata ad una formazione renale ecogena disomogenea (frecce brevi), con piccola immagine interna anecogena espressione appunto dello pseudoaneurisma intratumorale
Capitolo 3 Le problematiche cliniche In caso di torsione lungo l’asse del peduncolo di una massa, caratteristica soprattutto delle neoformazione annessiali (2,7% delle urgenze ginecologiche), si rileva, oltre alla stessa massa solida o più spesso cistica o complex, l’aspetto convoluto del peduncolo vascolare, che al color-Doppler assume un tipico andamento spiraliforme (segno del “turbine”) [Auslender et al. 2002, Vijayaraghavan 2004]. È possibile dimostrare l’assenza di vascolarizzazione all’interno del peduncolo convoluto o della massa stessa, quale segno di strangolamento; oltre che una totale assenza di flussi si può anche registrare la presenza di soli flussi arteriosi, ridotti, oppure di flussi arteriosi e venosi, ridotti, ed entrambi questi quadri sono comunque sospetti per devascolarizzazione ovarica [Albayram et al. 2001, Vijayaraghavan 2004]. Un segno frequente è costituito da una piccola quantità di versamento nello scavo del Douglas.
3.19. Identificazione e caratterizzazione delle lesioni focali epatiche: il soggetto non epatopatico L’ecografia, largamente utilizzata qualche metodica iniziale per lo studio dell’addome, interviene nel riconoscimento delle lesioni focali epatiche, sia nel paziente con una neoplasia extraepatica nota (pregressa o in atto) che nel soggetto ove il riscontro di una focalità epatica costituisce un reperto occasionale. Una volta identificate, le lesioni devono essere caratterizzate, innanzitutto, in termini di benignità o malignità. Le lesioni maligne di tipo metastatico devono essere adeguatamente definite per numero, sede (attribuzione segmentaria), dimensioni, caratteristiche morfostrutturali e rapporti vascolari e ciò sia ai fini della pianificazione chirurgica che dell’eventuale confronto dopo chemioterapia. Sebbene in tutte queste fasi vi sia un ruolo significativo di metodiche più accurate e panoramiche quali TC, RM e PET, l’US svolge comunque un compito importante, sia esso integrativo oppure già autonomo ai fini delle conclusioni diagnostiche e dell’analisi decisionale [Choi 2006]. Sicuramente la sensibilità dell’US, che oscilla nelle casistiche più recenti tra il 63 e l’85%, è inferiore rispetto a quella delle macchine pesanti di TC e RM, nonché della PET. Lesioni profonde (segmenti posteriori del lobo destro e I segmento), specie se in soggetti obesi, possono essere di difficoltosa identificazione, anche a causa dell’attenuazione del fascio. Anche lesioni superficiali tuttavia, come quelle sul profilo anteriore del fegato (specie IV e V segmento), possono essere tuttavia misconosciute a causa della compressione degli strati superficiali nel campo di insonazione. È perciò importante modificare nel corso dell’esame
frequenza di emissione, profondità di focalizzazione e guadagni. Il color-Doppler può essere di qualche ausilio nell’identificazione lesionale. Innanzitutto permette di escludere la natura vascolare di un’immagine ipoanecogena, come nel caso di un vaso sezionato trasversalmente, ma anche nell’eventualità di una patologia vascolare come un aneurisma, e all’opposto di confermare la natura non vascolare, come per formazioni cistiche adiacenti ai vasi. Inoltre le lesioni ipoanecogene possono risaltare meglio rispetto alle strutture vascolari “colorate” dal segnale Doppler, mentre lesioni ipervascolari (HCC, FNH, alcune metastasi) divengono più evidenti, e pertanto riconoscibili, grazie alla maggiore concentrazione di segnale colore in quella sede. Tipico è l’esempio di una FNH isoecogena, la cui presenza viene percepita dall’operatore grazie all’effetto massa sulle strutture viciniori ed alla significativa presenza di arterie alla periferia ed al centro della lesione [Jeffrey et al. 1995]. Anche la flussimetria Doppler dell’arteria epatica è stata suggerita per l’identificazione delle focalità epatiche, in particolare nei pazienti con sospetto di metastatizzazione occulta al fegato. In questi casi, infatti, sia la TC dinamica che l’eco-Doppler hanno suggerito la presenza di modifiche emodinamiche tali da indicare un aumentato rischio o un sospetto di metastatizzazione occulta, poi svelatasi macroscopicamente nei controlli successivi. Infatti la TC dimostra quantitativamente un maggior enhancement parenchimale nella fase arteriosa dell’iniezione del mdc e.v. nei soggetti che poi svilupperanno lesioni epatiche o che hanno lesioni occulte, rispetto a quelli sani. Nel soggetto con metastasi vi sarebbe quindi un aumento generalizzato del flusso arterioso epatico, forse in risposta ad una riduzione dell’afflusso ematico portale (indotta da mediatori chimici tumorali) [Kopljar et al. 2004, Leen et al. 1993, Öktar et al. 2006]. Possono essere registrati vari parametri Doppler: Vmax e IR dell’arteria epatica, volume del flusso nell’arteria epatica, volume del flusso nella vena porta, volume del flusso totale del fegato (volume del flusso nell’arteria + volume del flusso nella vena porta, normalmente nelle proporzioni di 1/4 e 3/4 circa), indice perfusionale Doppler (DPI, volume del flusso nell’arteria/volume del flusso epatico totale, normalmente pari a circa 0,25). In particolare l’indice perfusionale è stato suggerito quale indicatore di metastasi epatiche “occulte” e quindi quale elemento addizionale nella ricerca delle lesioni ripetitive al fegato: dinanzi ad un valore aumentato del DPI (arterializzazione), infatti, si può ripetere con maggiore attenzione l’esplorazione US del parenchima epatico alla ricerca di lesioni sfuggite in un primo momento o si può approfondire lo studio con CEUS o altre metodiche. Fattori che influenzano sicuramente lo spettro flussimetrico Dop-
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pler sono comunque lo stato post-prandiale (necessità di eseguire le indagini a digiuno!) e l’eventuale epatopatia cronica sottostante. La valutazione flussimetrica dell’arteria epatica è stata segnalata anche per la formulazione prognostica dei pazienti con metastasi epatiche e la selezione dei soggetti da sottoporre a chemioterapia adiuvante [Leen et al. 1996, 2000]. Per quanto riguarda la CEUS, sicuramente questa aumenta la sensibilità (oltre che la specificità) dell’US nell’identificazione delle metastasi epatiche, poiché quelli che si ricercano sono dei difetti di enhancement (non dovuti a cisti) nel contesto del parenchima epatico opacizzato in fase portale-sinusoidale, per ricercare i quali si dispone di almeno 4-5 minuti di tempo per esplorare in real-time l’intero organo. La paziente ricerca di “difetti di enhancement” nei vari minuti della fase vascolare portale-sinusoidale con mdc di II generazione o anche in quella parenchimale post-vascolare con mdc di I generazione, consente infatti di identificare un notevole numero di piccole lesioni sfuggite all’iniziale valutazione US. Purché il fegato abbia una buona esplorabilità in tutte le sue sedi, la sensibilità della CEUS è elevata e praticamente confrontabile con quella di TC e RM per l’identificazione di metastasi occulte [Gultekin et al. 2006, Oldenburg et al. 2005]. Studi sui tempi di transito del mdc ecografico hanno ipotizzato un passaggio più rapido nelle vene sovraepatiche per quanto riguarda i soggetti con metastasi epatiche rispetto ai controlli, ma questi dati funzionali vanno confermati [Blomley et al. 1998]. Un’adeguata caratterizzazione delle focalità riscontrate è fondamentale, specie qualora ciò abbia una rilevanza per la stadiazione di un paziente oncologico oppure avvenga in fase preliminare ad un intervento di resezione epatica. Un numero sempre maggiore di pazienti è candidabile ad interventi resettivi e quindi è importante un’adeguata caratterizzazione delle piccole lesioni. Ancora oggi tuttavia, con le metodiche diagnostiche a disposizione, si riscontrano difficoltà di diagnostica differenziale: in un’ampia casistica su pazienti con lesione epatica considerata maligna [Clayton et al. 2003], alla resezione si rilevava invece una diagnosi di benignità nel 7,2% dei casi totali (ma fino nel 24% nella sottocategoria con diagnosi di colangiocarcinoma ilare). L’alternativa è rappresentata dalla valutazione citologica o istologica di tutte le lesioni candidate ad una resezione epatica, ma ciò espone chiaramente a complicanze e, teoricamente, comporta anche un problema opposto, quello delle false negatività. In generale, in un soggetto senza epatopatia cronica, le probabilità che una lesione riscontrata sia benigna anziché maligna sono maggiori, sia che si tratti di una focalità singola che di focalità multiple (se <4) ed anche se il paziente è portatore di una neoplasia extraepatica: la prevalenza di evenienze quali cisti ed angiomi è infat-
ti talmente elevata da rendere meno probabile il riscontro di lesioni maligne [Tchelepi et al. 2004]. Ciò risulta particolarmente vero, almeno in TC, per le lesioni di piccole dimensioni (≤15 mm), che sono maligne solo nel 5% dei casi (ma nel 19% se in numero di 2-4 e nel 76% se >4) [Jones et al. 1992]. Una problematica frequente è data dalle lesioni subcentimetriche identificate in TC (fino nel 17% dei pazienti ambulatoriali studiati con TC convenzionale) e da questa non adeguatamente caratterizzate [Jones et al. 1992]. Se nella maggioranza dei casi si tratta di piccole cisti, è anche vero che può trattarsi di lesioni solide e questo soprattutto nei soggetti oncologici: in quest’ultimo caso il 12% delle lesioni subcentimetriche identificate dalla TC si rivela poi essere di natura metastatica [Schwartz et al. 1999]. Con le attuali apparecchiature TC multistrato è verosimile che la problematica non si modifichi granché, poiché se è vero che molte piccole lesioni vengono meglio caratterizzate è anche vero che con tali apparecchi si rileva un numero maggiore di microfocalità epatiche. È quindi suggeribile in questi casi una correlazione US, possibilmente estemporanea [Brick et al. 1987, Eberhardt et al. 2003]. In uno studio su lesioni <15 mm indeterminate alla TC, in pazienti con tumori extraepatici [Eberhardt et al. 2003] si riusciva ad identificare un corrispettivo ecografico per il 48% delle lesioni rilevate dalla TC, anche in relazione al morfotipo del paziente, alle dimensioni del reperto TC (se >5 mm) e alla disponibilità della valutazione diretta delle immagini TC di riferimento, mentre la sede della lesione all’interno del fegato non risultava un fattore condizionante; l’US riusciva a caratterizzare il 93% delle lesioni identificate (33 cisti, 18 lesioni solide/metastasi e 5 angiomi). Nei casi in cui l’US non riesce a caratterizzare il reperto, ed una diagnosi definitiva è importante dal punto di vista clinico, può essere opportuna una valutazione ulteriore con CEUS, RM o ago-aspirato; quest’ultimo si è dimostrato fattibile ed efficace anche nelle piccole lesioni epatiche [Middleton et al. 1997, Yu et al. 2001] (Fig. 3.313). Lesioni focali anecogene del fegato possono essere espressioni di: cisti congenite, cisti acquisite (dopo traumi, ascessi, ecc.), dilatazione segmentaria delle vie biliari, sindrome del fegato policistico, dilatazione cistica delle vie biliari, cisti da echinococco, ascessi, ematomi (fase acuta), bilomi (fase acuta), metastasi cistiche, cistoadenomi biliari, colecisti intraepatica, aneurismi e pseudoaneurismi arteriosi, aneurismi venosi. Le cisti semplici (agli US, almeno 1% degli individui <60 anni e almeno 3-7% di quelli >60 anni) prediligono il sesso femminile (F/M 4:1) e, in proporzione, il lobo sinistro [Tchelepi et al. 2004]. Esse appaiono come formazioni singole o più spesso multiple, omogeneamente anecogene, con rinforzo posteriore, margini netti ma privi di parete, eventuali calcifica-
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Fig. 3.313a–d. Studio US estemporaneo dopo TC. Riscontro TC di due areole ipodense millimetriche, aspecifiche (a, c, frecce), che all’US si dimostrano corrispondere la prima ad una microcisti (b, freccia) e la seconda ad un piccolo angioma (d, tra i calibri)
zioni marginali, possibili sepimentazioni interne parziali con aspetto complessivo plurilobulato [Tchelepi et al. 2004] (Fig. 3.314). Il riscontro di contenuto disomogeneo, quote solide, setti spessi e irregolari, segnali vascolari interni deve comportare un approfondimento diagnostico, per il rischio soprattutto che si tratti di cistoadenomi biliari o di metastasi. Le lesioni solide da considerare, stante la rarità nel nostro paese dell’HCC su fegato sano, sono nella diagnostica differenziale: angioma, adenoma, iperplasia nodulare focale, metastasi, colangiocarcinoma intraepatico, lesioni rare; bisogna inoltre ricordare le pseudolesioni epatiche, quali le aree di parenchima sano su fegato steatosico (“aree indenni”) e le aree di steatosi focale (skip areas). Metastasi epatiche vengono rilevate autopticamente nel 25-50% dei pazienti con carcinoma extraepatico e la loro identificazione è importante per la stadiazione ma anche per la scelta del trattamento, chirurgico, percutaneo o sistemico. Il fegato è terreno fertile per lo sviluppo di metastasi perché riceve il 25% della gittata cardiaca, perché è la prima sede di
Fig. 3.314. Cisti epatica atipica. Formazione anecogena, sostanzialmente uniloculata, a margini netti e lobulata e con lieve disomogeneità iperecogena del parenchima adiacente
deflusso del sangue dalla maggioranza degli organi digestivi, perché i suoi sinusoidi sono ampi ed hanno una membrana basale fenestrata, e perché vi sono i meccanismi umorali locali che stimolano la crescita
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delle colonie cellulari [Robinson 2004, Siani et al. 2000]. Le metastasi epatiche provengono più spesso dai tumori di polmone, colon, pancreas, mammella e stomaco: il 25-40% dei pazienti con tumori gastrointestinali o con carcinoma polmonare a piccole cellule è affetto da metastasi epatiche alla presentazione. La prevalenza più elevata si ha comunque nei soggetti con carcinoma polmonare (a piccole cellule), colecistico, pancreatico, colico, gastrico ed esofageo, nonché in quelli con carcinoide; il carcinoma prostatico, insieme a quelli del rene, della cervice e del capo e collo (squamosi), ha la frequenza relativa di metastatizzazione epatica più bassa [Jeffrey et al. 1995, Robinson 2004, Tchelepi et al. 2004]. I tumori che più frequentemente metastatizzano al fegato sono in particolare colon (~40%), stomaco (>20%), pancreas (~20%), mammella e polmone (~10%). Le vie di diffusione delle metastasi sono molteplici e spesso coesistenti: ematogena portale, dagli organi del distretto splancnico; ematogena arteriosa, dal polmone e dagli organi della grande circolazione; linfatica retrograda, a partire da tumori gastrici, pancreatici, colecistici, ecc.; per contiguità, da organi viciniori quali colecisti, colon, stomaco; peritoneale transcavitaria, da tumori ovarici o da altri organi endoperitoneali [Filippone et al. 2006, Siani et al. 2000]. I tempi di crescita sono estremamente variabili, in dipendenza di molti fattori, solo in parte predicibili; per le metastasi da tumore colorettale si è visto che il raddoppiamento dimensionale può avvenire dopo 1-36 mesi [Robinson 2004]. La vascolarizzazione delle metastasi epatiche è prevalentemente dovuta a vasi arteriosi, laddove l’afferenza portale è modesta o nulla, presente più che altro alla periferia delle lesioni più voluminose (ove si creano anche numerose fistole arterovenose) [Robinson 2004]. Tradizionamente queste lesioni sono state distinte in ipervascolarizzate, con iperdensità/iperintensità nella fase arteriosa della TC/RM dinamica (tumori endocrini, sarcomi, carcinomi renali a cellule chiare, ecc.) e in ipovascolarizzate, più frequenti e senza appunto iperdensità/iperintensità nella fase arteriosa della TC/RM. In realtà, con gli studi CEUS in real-time, è stato possibile osservare come quasi tutti gli istotipi mostrano almeno una qualche forma di enhancement in fase arteriosa, talora della durata di pochi secondi e quindi non sempre “intercettabile” nelle acquisizioni multifasiche TC/RM. Sicuramente, ancor oggi, le metodiche di imaging tendono a sottostimare la presenza di un impegno epatico metastatico, specie se si tratta di lesioni subcentimetriche; l’accuratezza dell’US convenzionale è limitata, rispetto a TC ed RM, essendo fortemente dipendente dall’esperienza dell’operatore e dall’habitus del paziente ed aggirandosi intorno al 64-85%. La CEUS consente un significativo guadagno diagnostico rispetto all’esame basale ma, considerando i costi e la maggiore
complessità, appare poco proponibile di routine e consigliabile solo in pazienti con elevata probabilità di metastasi epatiche come in quelli con tumori extraepatici ad elevata prevalenza di metastasi epatiche o quelli valutati ecograficamente nella fase preoperatoria. L’IOUS ha un’elevatissima sensibilità (97-98%), essendo in grado di rilevare lesioni anche di 2 mm, e risulta utile soprattutto nella scelta della condotta operatoria [Lencioni et al. 2006, Tchelepi et al. 2004]. Le metastasi, multiple in circa il 90% dei casi e con predilezione per il lobo destro (seppur spesso presenti in entrambi i lobi), hanno un aspetto che varia notevolmente in rapporto alle caratteristiche istologiche e bioevolutive del tumore primitivo, al grado di vascolarizzazione, alle dimensioni e alla sede, sebbene in maniera spesso poco prevedibile [Tchelepi et al. 2004]. Possono essere isolate o confluenti tra loro. La forma dipende soprattutto dalla loro dimensione: quando esse hanno un diametro <3 cm sono generalmente rotondeggianti ma crescendo possono assumere qualsiasi forma, divenendo spesso irregolari. I margini delle lesioni di piccole dimensioni sono generalmente regolari e ben demarcati rispetto al tessuto epatico circostante ma, aumentando in grandezza, divengono bozzuti ed in alcuni casi non è più possibile identificare una linea di demarcazione con il tessuto circostante. Una crescita di tipo infiltrante può talora rilevarsi nelle metastasi da carcinoma mammario o polmonare, così come in quelle da melanoma. Tra i pattern US, quello ipoecogeno è il più frequente, specie nel caso di lesioni di piccole dimensioni, seguito da quello iperecogeno e infine da quello isoecogeno; peraltro non è stata mai trovata alcuna correlazione precisa tra l’aspetto US delle metastasi e la loro origine. In generale, le metastasi a crescita rapida, come quelle da tumori polmonari e pancreatici o da melanoma, sono del tipo ipoecogeno, mentre quelle a crescita più lenta, come quelle di origine colica, risultano relativamente iperecogene, così come peraltro quelle ipervascolarizzate; lesioni ipoecogene sono anche, generalmente, quelle da tumori della mammella, mentre iperecogene sono quelle da tumori neuroendocrini, carcinoma renale e corioncarcinoma [Choi 2006]. Una caratteristica di frequente riscontro nelle metastasi, e specie in quelle di dimensioni maggiori e soprattutto nel carcinoma polmonare, è l’alone ipoecogeno periferico, dovuto prevalentemente a fenomeni compressivi e edematoso-reattivi, che conferisce alla lesione un aspetto complessivo a bersaglio; tale alone non è specifico delle metastasi, poiché è di possibile osservazione anche in caso di FNH, ascesso fungino, angioma, adenoma, linfoma, HCC e colangiocarcinoma periferico [Wernecke et al. 1992]. Un aspetto francamente a bersaglio, con numero variabile di anelli di diversa ecogenicità, viene riscontrato soprattutto nella metastasi da neoplasie neuroendo-
Capitolo 3 Le problematiche cliniche crine. In altri casi l’aspetto è più sfumato, con aree di tenue e mal delimitata ipoecogenicità o iperecogenicità. Nel caso di uno sfondo steatosico, non raro visto che spesso questi pazienti sono in chemioterapia al momento dell’esame, l’aspetto è solitamente ipoecogeno. In altre circostanze le metastasi assumono invece un aspetto iperecogeno più o meno omogeneo, similangiomatoso: è questo il caso soprattutto delle lesioni di origine colica. Le neoplasie che più frequentemente danno metastasi calcifiche, eventualmente anche con ombra acustica posteriore, sono: adenocarcinoma mucinoso (colon, stomaco, ovaio), neuroblastoma, condrosarcoma, osteosarcoma, pancreas endocrino, melanoma, mesotelioma, carcinoma midollare tiroideo, carcinoma polmonare; in particolare nei tumori ovarici questo reperto può essere a livello parenchimale, ma anche glissoniano, e spesso si produce dopo chemioterapia [Cosgrove 2001]. L’aspetto pseudocistico, dovuto a fenomeni necrotici, è tipico degli istotipi (carcinoma colico, mammario o ovarico, tumori a cellule squamose, sarcomi, melanomi, ecc.) caratterizzati da una marcata proliferazione cellulare a cui non corrisponde un’analoga angiogenesi e quindi un apporto ematico sufficiente; in alternativa l’aspetto pseudocistico è l’effetto di un trattamento, tipico il caso dei GIST dopo terapia specifica con Imatinib. Possibili i setti interni, eccezionali (leiomiosarcomi) le immagini di livello liquido-liquido per fenomeni necrotici emorragici [Tchelepi et al. 2004]. L’aspetto francamente cistico è invece caratteristico di quegli istotipi primitivi (cistoadenocarcinoma ovarico, adenocarcinoma mucinoso macrocistico pancreatico, ecc.) in cui la specifica differenziazione cellulare neoplastica comporta, ab initio, una struttura prevalentemente cistica indipendentemente da fenomeni di necrosi sovrapposta. Possibile l’ascessualizzazione (carcinomi colici), con eventuali microbolle gassose sottoforma di nuclei ecogeni con artefatti da riverbero [Filippone et al. 2006] (Figg. 3.3153.334, Video 3.18-3.23). Al color-Doppler le metastasi possono apparire più spesso prive di segni di vascolarizzazione, mostrare una dislocazione dei vasi adiacenti (detouring pattern, 40% dei casi) oppure presentare una più o meno significativa vascolarizzazione interna (1/3 delle metastasi, contro i 3/4 degli HCC) [Nino-Murcia et al. 1992, Tanaka et al. 1990]. I vasi all’interno possono essere prevalenti alla periferia o omogeneamente distribuiti e possono mostrare profili spettrali variabili, sia di tipo venoso che soprattutto di tipo arterioso: l’assenza o la minima rappresentazione della componente diastolica, con IR conseguentemente elevato, è altamente suggestiva di malignità ma poco frequente [Lencioni et al. 2006, Maresca et al. 2006]. In generale comunque la vascolarizzazione delle metastasi è limitata, potremmo dire maggiore dell’angioma e minore
Fig. 3.315. Metastasi epatica da carcinoma gastrico. Lesione di forma irregolare, iso-ipoecogena disomogenea con sottile alone ipoecogeno periferico
a
b Fig. 3.316a, b. Metastasi epatiche similcistiche da melanoma. Due formazioni ipo-anecogene, una nel lobo destro (a) e l’altra, setta, in quello sinistro (b)
dell’HCC, ma non tale da essere significativamente di ausilio in termini di caratterizzazione. Il color-Doppler può consentire l’identificazione di un’infiltrazione
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Fig. 3.317. Metastasi epatica da carcinoma mammario, su steatosi. Lesione nettamente ipoecogena rispetto allo sfondo parenchimale
a
Fig. 3.318. Metastasi epatiche da carcinoma mammario, su steatosi. Lesioni ipoecogene rispetto allo sfondo parenchimale, a margini sfumati
b
Fig. 3.319a, b. Metastasi epatiche da carcinoma del colon. Formazioni tenuemente ipoecogene, con colliquazione centrale accennata (a, freccia) o evidente (b, freccia)
Fig. 3.320. Metastasi epatica glissoniana da carcinoma dell’ovaio. Lesione ipoecogena che bozza la cupola epatica (freccia)
Fig. 3.321. Metastasi epatiche da melanoma. Multiple lesioni iperecogene, relativamente omogenee e delimitate, con accennato alone ipoecogeno periferico
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.322. Metastasi epatica glissoniana da carcinoma ovarico. L’impiego della sonda superficiale permette di definire accuratamente l’area ecogena, che determina una netta retrazione ed ombelicatura della superficie della piccola ala epatica
Fig. 3.325. Metastasi epatiche da angiosarcoma mammario. Voluminosa lesione in particolare a livello del lobo caudato, ipoecogena disomogenea
a Fig. 3.323. Metastasi epatica da carcinoma mammario. Formazione ipoecogena con centro ecogeno
b
Fig. 3.324. Metastasi epatiche da carcinoma mammario, su steatosi. Lesioni macronodulari, nettamente ipoecogene rispetto allo sfondo parenchimale
Fig. 3.326a, b. Metastasi epatica da carcinoma colico, con infiltrazione cavale. Lesione epatica tenuemente ipoecogena e disomogenea (a, frecce brevi), con gettone ecogeno nella vena cava inferiore (freccia lunga). Correlazione TC in fase venosa (b)
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Fig. 3.327. Metastasi epatica da tumore neuroendocrino del pancreas. Lesione macronodulare, nettamente ipoecogena
Fig. 3.330. Metastasi epatiche da carcinoma pancreatico. Sfumate ed irregolari areole ipoecogene nella piccola ala del fegato (frecce)
Fig. 3.328. Metastasi epatica da carcinoma gastrico. Massa ecogena disomogenea, con tendenza all’ipoecogenicità centrale ed accennato alone ipoecogeno periferico
Fig. 3.331. Metastasi epatica da carcinoma del retto. Voluminosa lesione ecogena disomogenea in corrispondenza del V segmento epatico
Fig. 3.329. Metastasi epatiche parenchimali e glissoniane da carcinoma ovarico. Visibilità di due lesioni epatiche ipoecogene disomogenee, una all’interno del fegato (freccia) e l’altra sulla superficie (tra i calibri)
Fig. 3.332. Metastasi epatica calcifica da carcinoma pancreatico. Formazione a bersaglio, isoecogena con sottile alone ipoecogeno periferico. Nucleo ecogeno calcifico centrale
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.333. Metastasi epatica calcifica da carcinoma ovarico. Formazione ipoecogena, con multiple calcificazioni specie centralmente e con retrazione della superficie capsulare epatica (freccia)
Fig. 3.335. Metastasi epatica ascessualizzata da carcinoma colico. Voluminosa lesione con centro necrotico-colliquativo. Qualche segnale vascolare periferico al PD direzionale
Fig. 3.334. Metastasi epatica da carcinoma del retto. Lesione iperecogena disomogenea, con alone ipoecogeno periferico
Fig. 3.336. Metastasi epatica da carcinoma mammario. Lesione ipoecogena disomogenea, su sfondo steatosico, che al PD mostra qualche flusso interno ma soprattutto un pattern di dislocazione di un vaso adiacente
vascolare, a livello dei rami portali o delle vene sovraepatiche, ma si tratta di un’evenienza molto più frequente nell’HCC che nelle lesioni ripetitive, specie per quanto riguarda l’infiltrazione portale (<5% dei casi) [Tchelepi et al. 2004]. Non è possibile invece dimostrare con l’ECD se e quando un’ipovascolarizzazione interna alle metastasi epatiche è espressione di necrosi, elemento generalmente indicativo di natura maligna ma appunto non rilevabile con le tecniche Doppler [Maresca et al. 2006] (Figg. 3.335-3.337). La valutazione CEUS si è rivelata di notevole ausilio anche nella caratterizzazione delle metastasi. Prescindendo da quello che è l’aspetto in fase arteriosa, una lesione epatica ipoecogena in fase portale-sinusoidale deve essere considerata maligna (metastatica) sino a prova contraria, sia che si tratti di un soggetto con anamnesi oncologica positiva sia che si tratti di un riscontro incidentale [Catalano et al. 2005a, Gulte-
Fig. 3.337. Metastasi epatica da carcinoma endometriale. Ampia lesione ipoecogena parailare infiltrante, che congloba un ramo arterioso epatico all’ECD
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kin et al. 2006, Oldenburg et al. 2005]. In fase arteriosa, le metastasi mostrano livelli diversi di enhancement, potendo apparire ipervascolarizzate, seppur in maniera spesso fugace, molto più spesso di quanto non avvenga per TC e RM ed anche a prescindere da quelli che sono classicamente ritenuti gli istotipi ipervascolari (tumori endocrini del pancreas, sarcomi, RCC, uroteliomi, ecc.). Il pattern tipico di impregnazione arteriosa è quello anulare, con un cercine iperecogeno più o meno spesso e regolare ma tipicamente continuo, mentre più raro è un enhancement diffuso, omogeneo o disomogeneo. Come detto in precedenza, in fase portale-sinusoidale si identificano delle aree di più o meno netta ipoecogenicità, caratterizzate all’interno da un pullulare di echi in real-time, espressione del “microcircolo” e indicatore dell’attività lesionale [Catalano et al. 2005a] (Fig. 3.338). L’angioma è la più frequente lesione solida del fegato, con una prevalenza negli adulti fino al 20% ed una predilezione per il sesso femminile. Si tratta di un tumore vascolare, con lacune rivestite da endotelio e interposte a setti fibrosi. Multipli nel 10-80% dei casi, gli angiomi sono asintomatici, pur potendo eccezionalmente andare incontro a rottura spontanea, a sintomi da effetto massa nelle forme più voluminose o a coagulopatia da consumo in caso di trombosi di lesioni multiple e voluminose [Jeffrey et al. 1995, Lencioni et al. 2006]. I piccoli angiomi (<3 cm nel 60-70% dei casi), che abitualmente, forse un po’ impropriamente sul piano anatomo-patologico, si definiscono come capillari, appaiono all’US come formazioni nettamente iperecogene, talora “brillanti” (quando si riesce a ridurre molto la distanza dalla sonda come nel caso di un accesso intercostale ad angiomi laterali del lobo destro), omogenee, ben definite, talora polilobate, prive di alone ipoecogeno perifocale, con eventuale rinforzo posteriore, localizzate spesso in sede iux-
Fig. 3.338. Metastasi cistica del fegato da carcinoma polmonare. Formazione plurisettata della piccola ala epatica, che alla CEUS (destra) mostra un chiaro enhancement settale
tavasale o disposte “a cavallo” di un vaso (tipicamente, in un angolo delle vene sovraepatiche), oppure in sede periferica o sottocapsulare (Figg. 3.339-3.342). Non sono tuttavia questi gli angiomi che creano difficoltà diagnostico-differenziali. Il problema nasce con gli angiomi “atipici” (20% circa dei casi): lesioni ipoecogene (di per sé o perché vi è uno sfondo ecogeno di steatosi), formazioni ecogene disomogenee (con eventuale ombra acustica posteriore o presenza di qualche calcificazione o di aree disomogenee di tipo necrotico o fibrotico), lesioni con un più o meno evidente alone ipoecogeno periferico, formazioni con qualche segno di crescita rispetto ad un esame precedente [Lencioni et al. 2006, Schmidt 2006] (Figg. 3.343-3.348, Video 3.24-3.26). Le forme atipiche sono spesso caratterizzate da una più o meno sottile porzione periferica ecogena e da un centro ipoecogeno,
Fig. 3.339. Angioma epatico. Chiazza ecogena (“brillante”), rotondeggiante, relativamente omogenea e delimitata, visualizzata sia per via intercostale (sinistra) che sottocostale (destra)
Fig. 3.340. Angiomi epatici. Due formazioni ecogene, relativamente omogenee e delimitate (frecce)
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.341. Angiomi epatici. Due voluminose formazioni ecogene, relativamente omogenee e delimitate
Fig. 3.342. Angioma epatico. Formazione ecogena, relativamente omogenea e delimitata, con accennato rinforzo posteriore, senza segnali vascolari all’ECD
a
in assenza invece di un alone ipoecogeno periferico. In particolare nei bambini si è visto come gli angiomi epatici possono essere ipoecogeni, disorganizzanti e con flussi interni all’ECD, simulando una metastasi [Cosgrove 2001]. Un elemento caratteristico che vi si può invece rilevare è dato da una sottile rima ecogena, che delimita in maniera relativamente netta la lesione rispetto al parenchima circostante, possibile peraltro anche nell’FNH, nei granulomi e nella splenosi intraepatica [Moody et al. 1993]. Negli angiomi ad alto flusso, spesso ipoecogeni, si possono determinare fistole arterovenose nel parenchima circostante, tali da creare nel B-mode delle aree ipoecogene sfumate, talora cuneiformi, che possono anche determinare un’erronea misurazione delle dimensioni dell’angioma stesso. Nel tempo gli angiomi possono leggermente aumentare o anche diminuire di dimensioni, nonché ridursi di ecogenicità. Al color-Doppler gli angiomi, specie quelli iperecogeni, possono apparire del tutto privi di segnale vascolare, essendo lesioni più o meno vascolarizzate ma generalmente con flussi lenti, al di sotto delle possibilità dell’ECD. In alternativa, specie nelle forme ipoecogene e/o di dimensioni medio-grandi, si può rilevare (10-30% dei casi) qualche segnale colore puntiforme all’interno (spotlike pattern), specie periferico, a flusso continuo (venoso) o più di rado pulsante (arteriolare) ma sempre con velocità basse e buona rappresentazione della componente diastolica (qualora lo spettro sia campionabile); il riscontro di flussi arteriosi non esclude quindi l’angioma, anche nel caso di lesioni di piccole dimensioni (a differenza di quanto ipotizzato in passato), mentre l’aspetto propriamente ipervascolare dell’angioma è raro [Lencioni et al. 2006, Maresca et al. 2006, Nino-Murcia et al. 1992, Tanaka et al. 1990, Wachsberg et al. 1999]. Il parenchima circostante può apparire particolarmente ricco di segnali, sia per la presenza di vasi compressi dalla crescita espansiva
b
Fig. 3.343a, b. Angioma epatico. Formazione ipo-anecogena disomogenea (a). L’aspetto è aspecifico ma la scansione TC assiale in fase portale documenta l’impregnazione progressiva centripeta della lesione (b, frecce)
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a Fig. 3.344. Angioma epatico. Lesione tenuemente ipoecogena, mal delimitata (frecce)
b
Fig. 3.345. Angiomi epatici. Due formazioni tenuemente ecogene, disomogenee, nel lobo destro (tra i calibri) ed in quello sinistro (frecce)
Fig. 3.346. Angioma epatico atipico. Formazione lobulata, ipoecogena leggermente disomogenea, nel lobo epatico destro
Fig. 3.347a, b. Angioma epatico atipico. Formazione paracolecistica ecogena disomogenea, mal delimitata (a). L’ECD dimostra una discreta vascolarizzazione diffusa, sia centrale che periferica (b)
Fig. 3.348. Angioma epatico atipico. Formazione tenuemente iperecogena, disomogenea e mal delimitata
Capitolo 3 Le problematiche cliniche dell’angioma sia per il frequente sviluppo di alterazioni perfusive periangiomatose. Il reperto ECD, quindi, non è assolutamente specifico, poiché vi sono angiomi che mostrano segnali vascolari e, all’opposto, vi sono lesioni maligne, specie metastasi, che possono apparire prive di segnali di flusso così come tipico degli angiomi. L’ECD può però avere una rilevanza pratica, perché, quantomeno nel soggetto che non è noto come portatore di una neoplasia extraepatica, può essere consigliabile inviare al follow-up (eventuale) le formazioni di tipo angiomatoso all’US in scala dei grigi che siano anche prive di segnale all’ECD, e studiare in maniera più approfondita quelle che invece presentano segni di vascolarizzazione e/o quelle identificare in pazienti oncologici [Jeffrey et al. 1995]. La CEUS dimostra, nelle forme tipiche, un enhancement periferico in fase arteriosa, sottoforma di globuli iperecogeni, seguito da un’impregnazione centripeta e persistente con progressivo incremento dimensionale di tali globuli e con un’iperecogenicità totale o subtotale (risparmio della parte più centrale) in fase portale-sinusoidale. Il riconoscimento dell’enhancement globulare centripeto è importante poiché esso non viene rilevato nelle lesioni maligne. Esistono peraltro comportamenti atipici, in dipendenza soprattutto della velocità di flusso endolesionale: enhancement anulare o omogeneo in fase arteriosa nei piccoli angiomi ad alto flusso, enhancement molto lento e tardivo, sostanziale isoecogenicità in tutte le fasi vascolari (piccoli angiomi “capillari”), isoecogenicità o anche ipoecogenicità (rare forme trombizzate) in fase portale-sinusoidale, ecc. [Catalano et al. 2005a]. La puntura bioptica è generalmente sconsigliata per il rischio emorragico, specie negli angiomi periferici, e perché può non essere conclusiva ai fini diagnostici; con le dovute cautele, comunque, anche gli angiomi possono essere sottoposti a FNAC, di solito con aghi da 22 G [Tchelepi et al. 2004]. L’amartoma epatico è un raro tumore mesenchimale, con componenti solide e cistiche, generalmente identificato tra i 4 mesi e i 2 anni di età e che può raggiungere dimensioni anche considerevoli. L’aspetto è variabile, da multiple piccole cisti all’interno di una massa solida ad una formazione prevalentemente cistica più o meno settata (Fig. 3.349); in quest’ultimo caso l’aspetto è simile all’idatidosi ed al cistoadenoma/adenocarcinoma biliare [Kim et al. 2006, Smith et al. 2001]. Gli amartomi biliari (complessi di von Meyenburg) sono malformazioni biliari composte da dotti disorganizzati e stroma fibrocollagene, associati con anomalie cistiche epatiche e/o renali; si rilevano numerosi foci subcentimetrici, iperecogeni (quando più piccoli) o ipoecogeni (specie quando più grandi), sparsi uniformemente nel parenchima epatico, con possibili artefatti a coda di cometa [Markhardt et al. 2006].
Fig. 3.349. Amartoma mesenchimale epatico. Forma a prevalenza solida, caratterizzata da un aspetto ecogeno disomogeneo, ben delimitato, con qualche calcificazione interna
L’angiomiolipoma, talora associato alla sclerosi tuberosa e quindi a lesioni analoghe nei reni, è composto da quote variabili di vasi a parete spessa, cellule muscolari lisce e grasso. Il contenuto adiposo, variabile dal 10 al 90%, condiziona l’ecogenicità e quindi la possibilità di diagnosi o quantomeno di sospetto ecografico: una lesione nettamente iperecogena, più o meno omogenea, con lieve ombra posteriore può essere infatti sospettata per angiomiolipoma [Kim et al. 2006]. Analoghe considerazioni valgono per il lipoma, che tuttavia appare nettamente ed omogeneamente iperecogeno. All’ECD l’angiomiolipoma mostra una vascolarizzazione di variabile entità, soprattutto periferica o comunque non nelle sue porzioni più ecogene, nel caso di lesioni ad ecostruttura disomogenea (Fig. 3.350). Il miofibroblastoma (pseudotumore infiammatorio), raro, predilige i maschi (rapporto M/F 8:1) ed è multiplo nel 19% dei casi. Appare comune una formazione complex, prevalentemente cistica, con quote solide sottoforma di setti o di porzioni periferiche [Kim et al. 2006]. L’iperplasia nodulare focale (FNH) ha una prevalenza fino al 3%, è più frequente nel sesso femminile (generalmente tra i 20 ed i 50 anni, con rapporto F/M 8:1), con una relativa associazione all’assunzione di contraccettivi orali [Lencioni et al. 2006]. L’FNH viene generalmente trattata conservativamente, eccetto che per lesioni particolarmente voluminose o peduncolate, e ci si limita ad un follow-up periodico. È costituita da noduli rigenerativi iperplastici e setti fibrosi contenenti vasi, dotti biliari e cellule infiammatorie. Può essere capsulata o meno e tende a localizzarsi perifericamente, determinando una protrusione della superficie epatica o sviluppandosi esofiticamente. L’FNH, multipla nel 10-20% dei casi e non di rado associata ad an-
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b Fig. 3.350a, b. Angiomiolipoma epatico. Formazione iperecogena, relativamente omogenea e delimitata (a, freccia), subito mediale al legamento rotondo. La scansione TC assiale, in fase portale, dimostra la prevalente densità adiposa della lesione (b, freccia)
giomi, appare come una formazione relativamente delimitata, a margini talora policiclici, omogenea, con un’ecogenicità uguale o appena superiore rispetto a quella del parenchima circostante ma anche tenuemente ipoecogena, specie nel caso di una steatosi epatica. Le dimensioni sono generalmente contenute, <50 mm nel 65% dei casi [Lencioni et al. 2006]. Talora può riscontrarsi un alone ipoecogeno periferico. Nel 20% dei casi circa, specie nel caso di lesioni voluminose, è possibile riconoscere una banda cicatriziale ecogena centrale, da cui si irradiano verso la periferia delle sottili strie ecogene; peraltro, una scar può talora essere presente anche negli adenomi e negli HCC fibrolamellari [Lencioni et al. 2006]. In alcuni casi l’FNH non è riconoscibile come tale, essendo isoecogena, ma può essere percepita per l’effetto massa sui vasi circostanti e per una sottile rima ecogena capsulare. Nel 15% dei casi è presente un alone ipoecogeno periferico. All’ECD e soprattutto al PD l’aspetto è di solito cospicuamente ipervascolare, sia a livello peri-
che intralesionale: nelle forme tipiche (80%) si osservano dei vasi pulsanti irradiati a raggiera da un’arteria afferente centrale (aspetto “a ruota di carro”). L’arteria centrale presenta elevate velocità sistoliche ma buona rappresentazione della componente diastolica e basso IR (in media pari a 0,51, minore sia di quello dell’arteria epatica sia di quello delle arteriole intralesionali); alla periferia della lesione e soprattutto in sede perinodulare si può rilevare qualche flusso di tipo venoso [Lencioni et al. 2006, Maresca et al. 2006, Uggowitzer et al. 1997]. In mancanza di una cicatrice centrale, invece, l’FNH mostra una vascolarizzazione intensa ma con una disposizione non a raggiera, bensì irregolare e poco specifica. La diagnosi è agevole dinanzi ad una formazione isoecogena, con cicatrice centrale e vascolarizzazione a ruota di carro, ma diviene difficoltosa nelle piccole lesioni, che possono simulare degli angiomi ma anche delle metastasi. Il quadro CEUS si caratterizza per un enhancement arterioso molto intenso e precoce, preceduto dall’iniziale opacizzazione dell’arteria centrale e poi dei vasi che si irradiano da questa; segue una lenta detersione, con una iperecogenicità o più spesso un’isoecogenicità in fase portale-sinusoidale, e con eventuale riconoscimento della cicatrice centrale ipoecogena [Catalano et al. 2005a] (Figg. 3.351-3.354). L’adenoma epatocellulare è più frequente nel sesso femminile e nell’età fertile, con una significativa associazione con l’assunzione di contraccettivi orali ma anche con evenienze come glicogenosi tipo I (fino al 50% dei pazienti con questa malattia), assunzione di androgeni, tirosinemia, galattosemia, diabete, cirrosi; esso è 4-7 volte più raro dell’FNH [Ascenti et al. 2007]. Stante il rischio di complicanze emorragiche e di degenerazione maligna, nonché di difficoltosa distinzione dall’HCC ben differenziato, l’adenoma viene di solito trattato chirurgicamente. È composto da epatociti pleomorfi, con perdita della normale struttura lobulare e senza dotti biliari; generalmente risulta capsulato. L’aspetto è quello di una lesione solitaria (80-90% dei casi), rotondeggiante, ben delimitata (ma la capsula non è riconoscibile all’US), ipo-isoecogena disomogenea, con possibile alone ipoecogeno perilesionale e presenza all’interno di aree anecogene (necroticoemorragiche) o ecogene (deposizione adiposa) più o meno ampie o di calcificazioni [Hung et al. 2001]. Al momento della diagnosi le dimensioni sono spesso cospicue. L’ECD dimostra grossi vasi arteriosi e venosi circolari alla periferia e soprattutto in sede sottocapsulare, e prevalentemente vene al centro. In generale, comunque, l’aspetto globale è di una lesione discretamente vascolarizzata, sia a livello perinodulare che intranodulare, senza particolarità morfologiche e soprattutto senza l’aspetto a raggiera tipico invece dell’FNH e con prevalenza dei flussi continui su quelli pulsati [Lencioni et al. 2006, Maresca et al. 2006]. Il
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
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Fig. 3.351a, b. FNH. Lesione esofitica ovalare, tenuemente ipoecogena, alla base del lobo caudato (a, frecce). La scansione TC assiale in fase arteriosa evidenzia una lesione ipervascolarizzata, con centro cicatriziale ipodenso (b, frecce)
a
b
Fig. 3.352a, b. FNH su fegato steatosico, in paziente con recidiva pettorale in corso di carcinoma mammario. Formazione ipoecogena paracolecistica, aspecifica (a). Lo studio con PD direzionale e mdc ecografico dimostra una cospicua vascolarizzazione arteriosa centrale (b)
a
b
Fig. 3.353a, b. FNH. Formazione esofitica, isoecogena, omogenea, con cicatrice centrale (freccia) e vasi irradiati all’ECD (a). L’immagine TC assiale in fase arteriosa dimostra un intenso contrast enhancement e la cicatrice ipodensa (b, freccia)
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Ecografia in oncologia
a
b
sivamente minore, con una tenue iperecogenicità all’inizio della fase portale-sinusoidale ed una progressiva isoecogenicità [Catalano et al. 2005a]. L’iperplasia nodulare rigenerativa è un processo di raro riscontro, caratterizzato da rigenerazione epatocitaria in assenza di cirrosi. Si rilevano noduli singoli o multipli, ipoecogeni o isoecogeni, solo eccezionalmente iperecogeni, eventualmente disomogenei, che possono simulare le metastasi [Clounet et al. 1999]. L’ematopoiesi extramidollare intraepatica (metaplasia mieloide) è un processo compensatorio che si verifica in caso di riduzione della produzione eritrocitaria per problematiche ematologiche. Le forme focali, rare, hanno un aspetto variabile, da foci ecogeni omogenei a masse ipoecogene disomogenee con eventuale alone ipoecogeno periferico e con eventuali vasi che la attraversano, più o meno deformati, all’ECD [Aytaç et al. 1999] (Fig. 3.355). Nella necrosi eosinofila si osserva un’infiltrazione eosinofila focale destruente (granuloma o ascesso), in associazione con condizioni quali sindrome da ipereosinofilia, parassitosi, reazioni allergiche, neoplasie. Il quadro US simula notevolmente quello delle metastasi (così come allo studio TC ed RM), per presenza di multiple lesioni ipoecogene omogenee, a margini sfumati, più o meno tenui, rotondeggianti o ovalari, prive di ombra posteriore ma talora con rinforzo posteriore [Yoo et al. 2003]. La diagnosi, ipotizzabile in base all’eventuale ipereosinofilia periferica, è comunque fondamentalmente bioptica. I controlli US seriati dimostreranno la progressiva regressione del reperto (Fig. 3.356). Il tubercoloma appare come una lesione ipoecogena mal delimitata, determinata dalla confluenza di areole minori, oppure come lesioni ipoecogene a rima iperecogena e possibile colliquazione ascessuale interna.
c Fig. 3.354a–c. FNH. Formazione sostanzialmente isoecogena, con alcuni rami arteriosi irradiati all’interno all’ECD (a). Lo spettro flussimetrico conferma il flusso arterioso intralesionale, a bassa resistenza (b). La scansione TC assiale in fase arteriosa evidenzia una lesione ipervascolarizzata (c, freccia)
quadro CEUS si caratterizza per un’intensa impregnazione in fase arteriosa, più o meno rapida, con macrovasi periferici e capsulari e con eventuali disomogeneità interne; l’ecogenicità prevalente diviene progres-
Fig. 3.355. Ematopoiesi extramidollare epatica. Area ecogena disomogenea del lobo epatico destro (freccia)
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
a Fig. 3.357. Ascesso piogenico del fegato. Formazione ovalare, ipoecogena disomogenea, con tendenza alla colliquazione interna e sostanziale avascolarità all’ECD
b Fig. 3.356a, b. Necrosi eosinofila epatica (paziente con storia di carcinoma mammario). Riscontro di piccola formazione ipoecogena con accennato orletto ecogeno (a). La CEUS dimostra una scarsa vascolarizzazione in fase portale, che non consente di per sé una distinzione da una lesione secondaria (b)
Gli ascessi epatici possono essere di origine batterica o amebica e si presentano come formazioni singole o multiple, prive di capsula, a margini irregolari e mal definiti, con rinforzo posteriore più o meno evidente, solitamente ipoecogene ma con possibili aree ecogene irregolari o talora con nuclei gassosi o livelli idroaerei interni. I microascessi diffusi creano un aspetto di eterogeneità parenchimale non sempre agevole da inquadrare se non nel contesto clinico appropriato [Tchelepi et al. 2004]. In fase di formazione l’ECD può dimostrare un’iperemia perifocale ma la raccolta, una volta formatasi, non mostra segnali vascolari. La CEUS identifica la perfusione delle pareti e dei setti, l’avascolarità delle quote necrotico-colliquative e l’eventuale iperemia reattiva perifocale [Catalano et al. 2004a]. L’aspetto dell’ascesso varia comunque con la fase evolutiva e, soprattutto in quella precolliquativa, può simulare una neoplasia (Fig. 3.357).
Le cisti idatidee, dovute allo stadio larvale dell’E. granuloso, appaiono come formazioni liquide, a parete spessa e con rinforzo posteriore (Figg. 3.358, 3.359). Possono essere presenti calcificazioni parietali, loculazioni interne, cisti figlie. L’ECD e la CEUS dimostrano la costante assenza di vascolarizzazione. Le cisti morte appaiono come aree calcifiche disomogenee. Le rare forme da echinococco multiloculare possono avere un aspetto infiltrante, similtumorale. La splenosi è un autotrapianto postraumatico o postoperatorio di tessuto splenico, possibile talora sulla superficie epatica o in sede immediatamente sottoglissoniana. L’US rileva una formazione tenuemente ipoecogena, omogenea, talora delimitata dal restante parenchima da una sottile rima ecogena, con qualche segnale vascolare all’ECD e soprattutto con ipervascolarità nella fase arteriosa della CEUS, sì da poter simulare un HCC (Fig. 3.360).
Fig. 3.358. Idatidosi epatica. Formazione cistica, di forma irregolare, con componenti liquide interne
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Ecografia in oncologia
Fig. 3.359. Idatidosi epatica. Formazione cistica disomogenea, adiacente alla colecisti, con calcificazioni marginali ed interne, avascolare all’ECD
a
b Fig. 3.360a, b. Splenosi intraepatica. Formazione ipoecogena, ben delimitata, sulla superficie glissoniana anteriore del fegato (a, frecce). Corrispettivo TC in fase arteriosa (b), con un enhancement simile a quello normale della milza ed a quello di un’altra area similare nella loggia splenica (freccia)
Nella peliosi epatica si riscontrano multiple lacune a contenuto ematico, di dimensioni variabili e disomogenee. Il colangiocarcinoma intraepatico si sviluppa dai dotti biliari e costituisce circa il 10% dei tumori maligni primitivi del fegato, potendosi associare con emocromatosi, malattia di Caroli, dilatazioni cistiche congenite delle vie biliari, colangite sclerosante, clonorchiasi, rettocolite ulcerosa. La forma intraepatica è, almeno nei paesi occidentali, più frequente di quella ilare, nota come tumore di Klatskin (cfr. paragrafo 3.23). Il colangiocarcinoma intraepatico periferico si presenta come formazioni generalmente solitarie (95% dei casi), spesso di discrete dimensioni, mal definite, a struttura disomogenea, prevalentemente ipoecogena o iperecogena. Può essere presente un alone perifocale e talora la lesione si dispone in contiguità con una vena sovraepatica. Molto rare le calcificazioni. I dotti biliari a monte possono apparire dilatati o mostrare una crescita francamente endoluminale. All’ECD i segnali sono solitamente scarsi e periferici, mentre la CEUS può identificare un variabile grado di enhancement in fase arteriosa, generalmente disomogeneo, ed una sostanziale ipoecogenicità nella fase portale-sinusoidale [Catalano et al. 2005a] (Figg. 3.361, 3.362, Video 3.27). Il cistoadenoma ed il cistoadenocarcinoma biliare, distinguibili tra loro solo istologicamente, prediligono donne d’età media, che si presentano con ittero e dolenzia nel quadrante superiore destro. Si identificano come formazioni cistiche multiloculate, di dimensioni cospicue, con possibili proiezioni papillari endocistiche e calcificazioni nelle aree solide. I linfomi epatici, primitivi o secondari, possono coinvolgere il fegato in maniera diffusa, con un’epatomegalia relativamente omogenea, o presentarsi come lesioni focali: un’infiltrazione epatica si osserva fino nel 50% dei soggetti con linfoma ma questa assume un carattere focale solo nell’8%. L’aspetto dei noduli è variabile: generalmente ipo-anecogeno, può essere iperecogeno, disomogeneo o a bersaglio, ed i margini possono apparire netti o anche infiltranti. Le lesioni possono essere micro- o macronodulari ed anche confluire, con un aspetto a carta geografica [Siniluoto et al. 1991]. La CEUS dimostra un grado variabile d’impregnazione in fase arteriosa e soprattutto un aspetto ipoecogeno in quella portale-sinusoidale [Catalano et al. 2005a]. I linfonodi all’ilo epatico risultano ingranditi, deformati ed ipoecogeni. L’emangioendotelioma epitelioide è un raro tumore vascolare di medio-bassa malignità. L’aspetto è generalmente ipoecogeno, sia nodulare multiplo che confluente o diffuso. Possibili le calcificazioni intralesionali. Il fegato sano va incontro ad un processo d’ipertrofia e quindi l’organo può essere ingrandito e deformato per il sommarsi di porzioni sane e di porzio-
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
a
b Fig. 3.361a, b. Colangiocarcinoma intraepatico. Lesione ipoisoecogena del lobo epatico sinistro (a). Tracciato flussimetrico del ramo sinistro dell’arteria epatica, conglobato nella massa (b)
Fig. 3.362. Colangiocarcinoma intraepatico. Lesione ipoecogena, a margini infiltranti, che congloba il ramo portale sinistro. Steatosi
ni in trasformazione cistica disomogenea [Kim et al. 2006, Tchelepi et al. 2004]. L’angiosarcoma predilige il sesso maschile (rapporto M/F 4:1) e può essere talora correlato all’esposizione a sostanze come il mdc Thorotrast, l’arsenico, gli androgeni anabolizzanti, il cloruro di vinile. Si presenta come lesioni singole o multiple, ipoecogene disomogenee; in alternativa si osserva un sovvertimento epatico diffuso. Nella milza possono rilevarsi metastasi sincrone [Jeffrey et al. 1995, Kim et al. 2006]. Il sarcoma embrionale indifferenziato è molto raro e predilige i giovani (media 12 anni). Si presenta come una grossa massa disomogenea, ben delimitata, con multiple aree cistiche al suo interno [Kim et al. 2006]. L’epatoblastoma è un tumore aggressivo, tipico della prima infanzia (<3 anni) e si presenta come masse disomogenee, prevalentemente iperecogene ma con porzioni ipo- ed anecogene. L’ECD dimostra un’ipervascolarizzazione. Possibili le calcificazioni interne e l’attenuazione posteriore [Jeffrey et al. 1995]. Bisogna inserire in questo contesto anche l’HCC fibrolamellare, una varietà piuttosto rara di epatocarcinoma (2% dei casi), che insorge su fegato sano, soprattutto in donne giovani. Si rilevano noduli singoli, a margini ben definiti e lobulati e con ecogenicità variabile, da ipoecogena ad iperecogena [Tchelepi et al. 2004]. La crescita è lenta ed espansiva e le dimensioni sono spesso cospicue al momento della diagnosi. È possibile rilevare una “cicatrice” ecogena centrale e calcificazioni. L’ECD dimostra un aspetto ipervascolare e la CEUS un enhancement discreto ma disomogeneo, con tendenziale ipoecogenicità in fase portalesinusoidale [Catalano et al. 2005a]. Le aree indenni da steatosi sono porzioni parenchimali ove l’infiltrazione grassa è minore o assente e che pertanto appaiono come difetti ipoecogeni, singoli o multipli, più o meno evidenti rispetto allo sfondo parenchimale divenuto iperecogeno. Queste aree possono simulare una lesione focale soprattutto quando localizzate centralmente nel parenchima e con morfologia rotondeggiante o ovalare. Tuttavia, l’ECD dimostra vasi normali che attraversano l’area pseudonodulare senza subire dislocazioni o altre modifiche, mentre la CEUS rileva la sostanziale isoecogenicità (isovascolarità) rispetto al parenchima circostante in tutte le fasi del contrast enhancement, permettendone così il definitivo inquadramento diagnostico [Catalano et al. 2005a, Maresca et al. 2006] (Figg. 3.363-3.365, Video 3.28 e 3.29). La steatosi focale è dovuta ad una deposizione non uniforme del grasso all’interno del fegato, per cui si possono creare una o più aree di steatosi epatica, eventualmente con aspetto rotondeggiante e similfocale. Queste aree appaiono iperecogene (sebbene, di solito, in maniera meno netta rispetto ad angiomi, lipomi ed angiomiolipomi), a margini policiclici o digitati, con
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Ecografia in oncologia
Fig. 3.363. Area indenne da steatosi. Immagine rotondeggiante (frecce), ipoecogena rispetto allo sfondo di discreta iperecogenicità steatosica
a
b Fig. 3.364a, b. Area indenne da steatosi. Immagine francamente nodulare, ipoecogena, relativamente omogenea e delimitata (a). La scansione TC in fase venosa dimostra una tenue iperdensità lesionale, escludendo la natura metastatica (b, frecce)
Fig. 3.365. Associazione di metastasi epatica da melanoma e di area indenne da steatosi. Formazione nodulare rotondeggiante, a margini netti ed alquanto ipoecogena, da metastasi (freccia lunga) ed area ipoecogena sfumata, da skip lesion (freccia breve)
predilezione per i segmenti IV e V (mentre non si riscontrano mai nel lobo caudato). L’ECD dimostra solo vasi normali, che attraversano la lesione senza alcun segno di effetto massa, distribuendosi e ramificandosi in maniera analoga alle altre aree parenchimali. La CEUS rileva un andamento della perfusione di queste aree simile a quella delle regioni parenchimali adiacenti e ne permette pertanto la diagnosi definitiva [Catalano et al. 2005a, Maresca et al. 2006]. Complessivamente, possiamo ricordare tra le cause di lesione ipoecogena del fegato metastasi, angiomi, linfomi, ascessi, ematomi, cisti complicate, adenomi, FNH, HCC, aree indenni da steatosi. Lesioni isoecogene possono essere invece dovute ad adenoma, FNH, HCC, angioma, metastasi, ematoma, epatizzazione colecistica. Infine, lesioni iperecogene possono essere espressione di angiomi, noduli rigenerativi, HCC, FNH, metastasi, ascessi, necrosi, colangiofibroma di von Meyenburg, steatosi focale, porfiria [Schmidt 2006]. Lesioni multiple, generalmente ecogene ed associate ad epatomegalia, possono riscontrarsi nei pazienti con glicogenosi. Nel contesto di un fegato steatosico le lesioni epatiche tendono ad essere più spesso ipoecogene, rispetto allo sfondo iperecogeno, di quanto non lo siano generalmente (es. l’81% degli angiomi appare ipoecogeno), con margini più spesso indistinti e con più evidenti fenomeni di rinforzo posteriore (mentre normalmente il rinforzo posteriore si rileva negli angiomi e negli HCC ma non nelle metastasi), aspetti tutti questi che possono rendere più complessa la caratterizzazione lesionale; risulta mal riconoscibile l’orletto ecogeno che può caratterizzare gli angiomi ipo-isoecogeni [Konno et al. 2001].
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.366. Pseudolesione epatica dovuta al legamento rotondo. Formazione iperecogena allungata, con attenuazione posteriore (sinistra), che ruotando la sonda si dispiega tuttavia longitudinalmente (destra)
False immagini di focalità epatiche possono essere prodotte da varie condizioni, anatomiche o patologiche: la scissura principale o delle scissure accessorie possono parzialmente circoscrivere un’area parenchimale e simulare pertanto l’orletto ecogeno di una lesione isoecogena; l’areola ecogena con eventuale ombra posteriore del legamento rotondo in sezione trasversa (riconoscibile tuttavia ruotando la sonda e rilevando il dispiegarsi longitudinale dell’immagine ecogena); i fasci diaframmatici (slips) possono simulare lesioni ecogene periferiche del fegato (tuttavia gli slips diaframmatici si muovono con gli atti respiratori e possono essere seguiti nei diversi piani di scansione all’esterno della superficie epatica), la trasmissione degli ultrasuoni attraverso i vasi epatici ed in particolare la vena sovraepatica destra può creare distalmente una falsa immagine di lesione ecogena; le alterazioni perfusionali ipoecogene sottese da fistole possono simulare una lesione focale (ma sono di solito caratterizzate da un aspetto cuneiforme e sono comunque differenziabili mediante CEUS) [Catalano et al. 2007, Cosgrove 2001, Johnson et al. 2000] (Figg. 3.366-3.368).
3.20. Identificazione e caratterizzazione delle lesioni focali epatiche: il soggetto epatopatico
Fig. 3.367. Pseudolesione epatica dovuta a fascio diaframmatico. Nodulazione ecogena disomogenea e mal delimitata, con parziale ombra acustica posteriore (sinistra) che tuttavia, ruotando la sonda, si dispiega longitudinalmente (destra) assumendo anche un aspetto pluristratificato e fibrillare
Fig. 3.368. Pseudonodulazione epatica. L’immagine scissurale che giunge sino al letto colecistico circoscrive un’area di (apparente) lieve ipoecogenicità in sede paracolecistica (freccia)
L’epatocarcinoma (HCC) è uno dei tumori più frequenti in assoluto, sebbene con incidenze molto diverse nei differenti paesi e massime in Asia (per il problema dello screening cfr. paragrafo 1.3). Gli HCC su fegato sano, nel nostro paese assolutamente poco frequenti, tendono a presentarsi in età più giovanile come lesioni monofocali ben definite; le condizioni di epatopatia più frequenti sono su base virale, alcolica ed emocromatosica. Una lesione identificata solo in fase sintomatica comporta una prognosi assolutamente negativa, anche per la progressione della sottostante epatopatia, con sopravvivenza a 5 anni dello 0-10%, laddove le forme identificate precocemente hanno ampi margini di trattamento, con sopravvivenza a 5 anni >50% sia per la chirurgia resettiva che per il trapianto epatico ortotopico [Bruix et al. 2005]. L’HCC può svilupparsi de novo ma generalmente l’epatocarcinogenesi costituisce un processo progressivo, che parte dal nodulo di rigenerazione su epatopatia cronica ed evolve nella fasi successive del nodulo di displasia di lieve grado (anche definita come iperplasia adenomatoide ordinaria), del nodulo di displasia di alto grado (anche definita come iperplasia adenomatoide atipica), del nodulo di HCC iniziale (early HCC), del nodulo di HCC iniziale-avanzato (nodulo nel nodulo) ed infine di HCC avanzato (overt HCC). Durante questo processo l’apporto vascolare
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Ecografia in oncologia
portale, che è quello principale del parenchima epatico, si riduce progressivamente sino a scomparire, mentre quello arterioso diviene prima predominante e poi esclusivo. I noduli displasici hanno una natura precancerosa e pertanto la loro identificazione aumenta la probabilità di sviluppare un HCC [Kanematsu et al. 1999]. Il dosaggio dell’alfafetoproteina sierica identifica non di rado valori aumentati nei pazienti con HCC anche se spesso non in quelli con noduli di piccole dimensioni, di recente insorgenza, risultando utile più per il monitoraggio e la prognosi che per la diagnosi precoce. Con valori limite di 20 ng/ml si ottiene una sensibilità del 60%, che scende al 22% per soglie di 200 ng/ml; in quest’ultimo caso la probabilità che la lesione identificata sia un HCC diviene elevata [Bruix et al. 2005]. L’US, quando utilizzata come opzione di screening, ha dimostrato una sensibilità del 65-80% ma con una specificità >90% [Bruix et al. 2005]. Concettualmente, una lesione identificata in un paziente con epatopatia cronica deve essere considerata un HCC fino a prova contraria, sebbene in quasi la metà dei casi di piccoli noduli (<2 cm) è in realtà di natura benigna (steatosi focale, displasia, angiomi, ecc.), così come la maggioranza di quelle <1 cm [Bruix et al. 2005, Kanematsu et al. 1999]. L’US è sicuramente la metodica più utilizzata per l’identificazione e l’iniziale caratterizzazione dell’HCC, che viene completata dalla CEUS estemporanea e/o da metodiche di secondo livello quali la TC multistrato (o, in alternativa, la RM dinamica) che ne permettono anche un’adeguata stadiazione [Bruix et al. 2005]. Per la diagnosi definitiva di HCC si utilizzano infatti attualmente dei criteri standard, formulati inizialmente per TC e RM dinamiche ma nei quali la CEUS può intervenire in maniera efficace, sempre con il fine di ridurre la necessità di una biopsia. I criteri di Barcellona, recentemente modificati, considerano sufficienti, per lesioni >2 cm identificate durante la sorveglianza, la presenza di un AFP >200 ng/ml o di un’ipervascolarità lesionale in fase arteriosa dimostrata da due metodiche (tra angiografia, TC, RM e CEUS) o anche da una sola metodica se vi è anche un’ipovascolarità in fase portale; in questo caso non è necessaria la conferma bioptica, a meno che l’AFP non sia <200 oppure che il quadro di imaging non sia caratteristico oppure che il nodulo non sia su fegato cirrotico. Per lesioni di 1-2 cm è indicata la biopsia, eccezion fatta per l’eventualità che due metodiche di imaging documentino coincidentemente un quadro caratteristico. Infine, per lesioni <1 cm si consiglia, anche dinanzi ad un quadro radiologico suggestivo, il solo follow-up ravvicinato: una mancata crescita in un periodo di 1-2 anni esclude in linea di massima la natura tumorale [Bruix et al. 2001, 2005]. La displasia è, come detto, una lesione nodulare precancerosa prodotta dall’evoluzione dei noduli ri-
generativi. Si tratta di lesioni di piccole dimensioni, isoecogene o ipoecogene, con eventuale sottile rima ecogena. Peraltro, in una minoranza dei casi, il nodulo displasico appare iperecogeno, in relazione all’accumulo adiposo intralesionale; non vi è comunque una relazione definita tra ecogenicità e grado di displasia [Kim et al. 2003]. Il riconoscimento dei noduli displasici è spesso difficoltoso, così come lo è la differenziazione da un lato dal nodulo rigenerativo e dall’altro dal piccolo HCC, poiché tutte queste lesioni mostrano un’ecogenicità variabile, inferiore, uguale o superiore rispetto a quella del parenchima (Figg. 3.369, 3.370). Ne derivano limiti non solo di sensibilità (1,6% in uno studio su fegati espiantati) ma anche di specificità dell’US, rispetto alla metodiche di TC e RM per la displasia. In qualche caso, compatibilmente con le ridotte dimensioni lesionali, può essere utile l’ECD, che dimostra nell’HCC segnali arteriosi ad alto flusso (peraltro presenti in <50% dei casi) o eventualmente anche segnali continui, assenti invece nelle le-
Fig. 3.369. Nodulo displasico. Areola ipoecogena (freccia) nel contesto di un fegato disomogeneo per epatite cronica
Fig. 3.370. Noduli displasici. Areole ipoecogene (frecce) nel lobo epatico sinistro
Capitolo 3 Le problematiche cliniche sioni precancerose che risultano virtualmente prive di segnali colore campionabili [Bennett et al. 2002, Lencioni et al. 2006, Maresca et al. 2006]. In alternativa si può utilizzare la CEUS, che nella maggioranza dei noduli di HCC documenta un contrast enhancement nella fase arteriosa, mentre nella maggioranza dei noduli displasici si osserva una sostanziale isovascolarità con il parenchima circostante (sebbene le displasie di alto grado possano apparire tenuemente iperecogene in fase arteriosa ed ipoecogene in quella portale-sinusoidale) [Catalano et al. 2005a]. Nella maggioranza dei pazienti con epatopatia compensata, almeno in quelli con sorveglianza US periodica, l’HCC viene identificato in forma monofocale, specie se alla base dell’epatopatia vi è un unico fattore etiologico; le dimensioni della lesione al momento della diagnosi non predicono comunque in maniera costante il decorso successivo della malattia [Colombo 2005]. L’ecogenicità della piccola lesione epatica identificata è poco specifica, potendo oscillare da un aspetto ipoecogeno ad uno iperecogeno sia nel caso dell’HCC che delle etiologie benigne [Kanematsu et al. 1999]. Gli HCC di piccole dimensioni (tradizionalmente <3 cm ma oggi, ormai, <2 cm) hanno generalmente un aspetto nodulare, potendo essere distinti in quattro tipi: nodulare, nodulare a crescita extranodulare, multinodulare confluente e a margini irregolari [Lencioni et al. 2006]. Queste lesioni tendono a presentare un’ecostruttura uniforme, apparendo ipoecogene fino nel 75% dei casi. In generale, man mano che crescono, i noduli di HCC tendono ad apparire prima ipoecogeni, poi a sviluppare una maggiore ecogenicità centrale ed infine a divenire diffusamente ecogeni, seppur in maniera disomogenea; sembra inoltre che i noduli con alone ipoecogeno periferico crescano più velocemente di quelli omogeneamente ipoecogeni. Talora si può rilevare un gettone ipoecogeno nel contesto di una lesione ecogena più ampia, quale conseguenza di uno sviluppo di un “nodulo nel nodulo” [Cosgrove 2001]. Vi sono comunque piccoli HCC che, soprattutto a causa della metaplasia adiposa, della fibrosi e/o della dilatazione sinusoidale, possono assumere un aspetto ecogeno, più o meno omogeneo, e simulare così degli angiomi: statisticamente, comunque, è più probabile che una lesione iperecogena in un soggetto con epatopatia cronica sia un HCC che non un angioma e quindi il nodulo deve essere considerato sospetto, a meno che non sia presente già in precedenza, sino a prova contraria [Caturelli et al. 2001]. In uno studio di screening su 2.341 pazienti cirrotici l’US dimostrava 46 lesioni iperecogene preesistenti, di cui 24 HCC e 22 angiomi, e 38 nuove lesioni riscontrate durante il follow-up, delle quali 31 erano noduli di HCC e 7 noduli displasici [Ghittoni et al. 2004]. Dal punto di vista della diagnostica differenzia-
le bisogna poi ricordare che le metastasi su fegato cirrotico sono rare (Figg. 3.371-3.383, Video 3.30-3.34).
Fig. 3.371. Epatocarcinoma. Piccolo nodulo ipoecogeno disomogeneo. Si associa versamento peritoneale
Fig. 3.372. Epatocarcinoma. Piccolo nodulo ecogeno con alone ipoecogeno periferico
Fig. 3.373. Epatocarcinoma. Piccolo nodulo ecogeno omogeneo, senza segnali interni all’ECD
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Ecografia in oncologia
a Fig. 3.374. Epatocarcinoma. Nodulo tenuemente ipoecogeno, che bozza il profilo epatico profondo (freccia)
b Fig. 3.377a, b. Epatocarcinoma. Nodulo ecogeno, relativamente omogeneo e delimitato (a). La scansione TC in fase arteriosa dimostra la natura ipervascolare della lesione (b) Fig. 3.375. Epatocarcinoma. Nodulo ipoecogeno disposto intorno alla confluenza della vena sovraepatica media e sinistra, pervie all’ECD
Fig. 3.376. Epatocarcinoma. Nodulo iperecogeno omogeneo del lobo epatico sinistro
Fig. 3.378. Epatocarcinoma. Nodulo ecogeno, relativamente omogeneo e delimitato, che bozza leggermente il profilo epatico profondo
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.379. Epatocarcinoma. Nodulo a struttura composita, per presenza di un gettone iperecogeno nel contesto di una formazione iso-ipoecogena disomogenea, che protrude dal profilo dorsale della piccola ala epatica
Fig. 3.382. Epatocarcinoma, su fegato sano. Due noduli contigui, di aspetto differente, uno ecogeno relativamente omogeneo con sottile alone ipoecogeno periferico (freccia lunga) e l’altro ipoecogeno disomogeneo con margini iperecogeni (freccia breve)
Fig. 3.380. Epatocarcinoma. Nodulo a struttura composita per presenza di quote ipoecogene e di quote iperecogene
Fig. 3.383. Epatocarcinoma. Due noduli ecogeni disomogenei
Fig. 3.381. Epatocarcinoma. Nodulo sostanzialmente isoecogeno, riconoscibile solo grazie alla presenza di un orletto iperecogeno (frecce)
L’identificazione del piccolo HCC è resa più difficoltosa dalla presenza di uno sfondo parenchimale più o meno disomogeneo e grossolano, come conseguenza dell’epatopatia cronica, sebbene in alcuni studi su fegato espiantato il grado di disomogeneità parenchimale non sia risultato influente sulla sensibilità dell’US [Liu et al. 2003]. Gli HCC che più possono sfuggire alla valutazione US sono, oltre a quelli di ridotte dimensioni, quelli isoecogeni, quelli posti sulla superficie epatica specie se di forma rotondeggiante e quelli a crescita infiltrativa diffusa in cui la neoplasia è poco definibile [Hirata et al. 1997]. Il mdc ecografico consente di incrementare sensibilmente il rilievo di segnale colore in queste lesioni, dal 33 al 92%, potendo aiutare nel riconoscerne l’ipervascolarizzazione arteriosa (vedi dopo) [Maruyama et al. 2000]. Nel passato la sensibilità riportata per l’US è stata molto
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Ecografia in oncologia
variabile, dal 33 al 96%, ma studi più recenti, condotti su fegato espiantato, hanno indicato valori minori, del 20-27%, con una forte dipendenza dalle dimensioni lesionali [Bennett et al. 2002, Liu et al. 2003]. Uno degli aspetti importanti dell’US è, comunque, quello di sospettare, dinanzi ad un’area di maggiore disomogeneità, la presenza di una lesione che poi verrà in molti casi confermata con TC e RM o anche, estemporaneamente, con la CEUS. In alcuni casi la piccola lesione bozza focalmente la superficie epatica, cosa riconoscibile soprattutto in caso di ascite associata, ma anche in assenza di questa, specie se lo studio US viene condotto con un’attenta esplorazione della superficie dell’organo, impiegando anche diverse frequenze di emissione [Cosgrove 2001]. L’HCC di medie (da 2-3 cm a 5 cm) e grandi (>5 cm) dimensioni può essere classificato in nodulare espansivo, infiltrativo e diffuso [Lencioni et al. 2006]. Esso tende a presentare una rima ipoecogena periferica di tipo capsulare e ad assumere un aspetto più ecogeno, come conseguenza soprattutto di fenomeni fibrotici. Nella lesione ipoecogena si tendono a formare con la crescita una o più aree ecogene centrali e circa il 50% dei grossi HCC è di aspetto ecogeno disomogeneo; in particolare, è possibile riscontrare un aspetto “a mosaico”, con aree di diversa ecogenicità separate da sottili setti (Figg. 3.384-3.386). Le calcificazioni sono poco frequenti mentre, nelle masse voluminose, possono manifestarsi fenomeni necrotico-colliquativi interni. Le forme infiltranti mostrano margini irregolari e mal definibili e segni di infiltrazione delle strutture viciniori ed in particolare delle diramazioni portali. La forma diffusa (cancrocirrosi) si presenta con un sovvertimento ecostrutturale nodulare e disomogeneo del parenchima epatico, cui contribuisce peraltro anche la malattia cirrotica di base nonché le alterazioni perfusive secondarie alle ostruzioni venose ed alle fistole
[Lencioni et al. 2006, Tchelepi et al. 2004]. Nelle forme multifocali si rilevano noduli multipli, di dimensioni diverse e con aspetto morfostrutturale spesso etero-
Fig. 3.385. Epatocarcinoma esofitico. Voluminoso nodulo ipoecogeno disomogeneo, protrudente verso lo spazio sottoepatico posteriore
a
b Fig. 3.384. Epatocarcinoma. Voluminosa lesione nodulare, con aspetto ecogeno disomogeneo (“a mosaico”) ed alone ipoecogeno marginale
Fig. 3.386a, b. Epatocarcinoma. Le due scansioni CEUS in fase arteriosa dimostrano la rapida ed intensa impregnazione della lesione (freccia)
Capitolo 3 Le problematiche cliniche geneo, con le lesioni minori più ipoecogene ed omogenee e quelle maggiori più ecogene e disomogenee. Al color-Doppler l’HCC appare generalmente più vascolarizzato rispetto al parenchima epatico circostante, con vasi arteriosi ipertrofici che raggiungono la periferia del nodulo, circondandolo e penetrandovi all’interno, talora con la tipica disposizione “a canestro” [Nino-Murcia et al. 1992, Tanaka et al. 1990]. In alternativa è possibile identificare un pattern di “vaso nel tumore”, in cui si osserva appunto la presenza di segnali colore ramificati al centro del nodulo oppure un pattern punteggiato, con multipli segnali puntiformi, non ramificati, all’interno del nodulo [Lencioni et al. 2006, Maruyama et al. 2000]. Le forme ipovascolari al color-Doppler, senza significativi segnali intranodulari sono ormai di infrequente riscontro e limitate alle piccole lesioni [Lencioni et al. 2006]. I vasi intranodulari sono prevalentemente di tipo arterioso, tortuosi, disposti irregolarmente, con brusche angolazioni o interruzioni e con alti flussi sistolici (valori velocimetrici anche superiori a quelli dell’aorta) ed elevati valori dell’IR, come conseguenza anche delle fistole arterovenose e della bassa impedenza al flusso; la componente diastolica è variabile e, nei vasi a fondo cieco, può anche mancare. Nei grossi HCC l’aspetto dell’angioarchitettura è alquanto eterogeneo e “policromo” [Maresca et al. 2006]. Il PD è superiore all’ECD per lo studio degli HCC situati a profondità limitata o intermedia mentre risulta di scarso ausilio per le lesioni del lobo sinistro, il cui studio è spesso ostacolato da artefatti cardiaci ai quali il PD è più sensibile, e per le lesioni profonde del lobo destro, stante la minore penetrazione del PD rispetto all’ECD [Kubota et al. 2000]. L’impiego di mdc ecografici permette di aumentare sensibilmente il numero di lesioni che mostrano segnali vascolari e di meglio definire il pattern vascolare [Maruyama et al. 2000]. Sicuramente il reperto color-Doppler non è di per sé dirimente, rispetto ad altri criteri, ma si può comunque affermare che una lesione con segnali vascolari interni al color-Doppler in un soggetto epatopatico ha un’altissima probabilità di essere un HCC, laddove una lesione priva di vascolarizzazione ha buona probabilità di non esserlo (Figg. 3.387-3.389). Alla CEUS l’HCC iniziale può essere sostanzialmente isoecogeno in tutte le fasi vascolari oppure può mostrare una tenue iperecogenicità in fase arteriosa e/o un’ipoecogenicità in fase portale-sinusoidale, risultando di fatto mal distinguibile dal nodulo displasico di alto grado. Quando si forma un HCC inizialeavanzato si può osservare un’immagine di nodulo ipervascolare nel nodulo iso-ipovascolare che è caratteristica. L’HCC avanzato, nutrito prevalentemente da rami arteriosi neoangiogenetici e privo o quasi di afferenze portali, si caratterizza generalmente per un enhancement precoce, intenso e fugace, risultando
Fig. 3.387. Epatocarcinoma. Nodulo ipoecogeno disomogeneo, con alcuni flussi arteriosi sparsi all’interno al PD direzionale. Versamento periepatico
Fig. 3.388. Epatocarcinoma. Nodulo tenuemente ipoecogeno, con alcuni flussi arteriosi interni al PD direzionale. Versamento periepatico
Fig. 3.389. HCC. Lesione macronodulare ecogena, relativamente omogenea e delimitata, con qualche arteria afferente all’ECD
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omogeneamente o disomogeneamente iperecogeno in fase arteriosa e divenendo iso- o più spesso ipoecogeno in quella portale-sinusoidale [Catalano et al. 2004b, 2005a]. L’eventuale isoecogenicità in fase portale-sinusoidale può creare qualche problema diagnostico-differenziale rispetto ad altre lesioni ipervascolari ad alto flusso, specie di tipo angiomatoso, mentre l’ipoecogenicità portale e sinusoidale in associazione con l’ipervascolarizzazione arteriosa è praticamente diagnostica nel contesto di un’epatopatia cronica. Bisogna poi ricordare la possibilità di HCC ipovascolari, di solito ben differenziati con scarsa impregnazione in tutte le fasi. In fase arteriosa è anche possibile riconoscere una o più arterie nutritizie ipertrofiche, che si portano ad uno o più poli e che poi penetrano all’interno formando una rete macrovascolare “a canestro” o caoticamente distribuita. I grossi HCC hanno un aspetto CEUS simile a quanto indicato ma mostrano più facilmente aree di ipo- o di aperfusione, su base necrotica, soprattutto al centro, ed anche laghi venosi. Il coinvolgimento vascolare della vena porta o, più di rado, delle vene sovraepatiche, è relativamente frequente, specie nelle forme infiltranti, e caratterizza l’HCC rispetto ad altre lesioni epatiche quali soprattutto le metastasi, in cui si presenta raramente; la probabilità di una natura neoplastica del trombo aumenta all’incrementare delle dimensioni della lesione. A differenza delle trombosi benigne, anch’esse non rare nel soggetto epatopatico anche come conseguenza di procedure interventive, quelle maligne appaiono più ecogene e disomogenee, slargano il vaso e possono mostrare segnali arteriosi al loro interno all’ECD (i trombi benigni ricanalizzati possono mostrare flussi interni ma solo venosi) oppure un’impregnazione in fase arteriosa alla CEUS. Le masse estese possono anche infiltrare la vena cava inferiore, talora raggiungendo l’atrio destro, oppure la via biliare; dopo il carcinoma renale, l’HCC è il tumore che più frequentemente determina un’infiltrazione trombotica cavale [Cosgrove 2001, Jeffrey et al. 1995] (Figg. 3.390-3.393, Video 3.35 e 3.36). Salvo i casi che alla presentazione sono già in fase avanzata, con cirrosi scompensata, HCC ampio o diffuso e trombosi portale, generalmente l’US, anche se integrata dalla CEUS, non è sufficiente per un accurato bilancio di malattia, fondamentale per la programmazione terapeutica (numero e dimensioni delle lesioni, coinvolgimento vascolare, diffusione extraepatica della malattia, ecc.) (Figg. 3.394, 3.395). In questi casi è necessario il ricorso alla TC spirale/multistrato o alla RM dinamica (eventualmente anche con mdc epatospecifico), mentre oggi la Lipiodol-TC non è più utilizzata ai fini della stadiazione. La CEUS non consente lo studio sistematico di tutto il parenchima epatico in fase arteriosa e, pertanto, non permette di escludere, anche ricorrendo ad iniezioni multiple, la
a
b Fig. 3.390a, b. Epatocarcinoma infiltrante, con trombosi portale maligna. Diffuso sovvertimento strutturale del lobo epatico destro (a). All’ECD si rileva materiale ecogeno disomogeneo nel contesto della biforcazione portale, con alcune arteriole all’interno (b)
Fig. 3.391. Trombosi portale benigna. Ostruzione completa del tratto venoso prossimale, con venule di ricanalizzazione invece in quella distale (frecce), al PD direzionale
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
a Fig. 3.392. Trombosi portale maligna. Segnali arteriosi all’interno del trombo
b Fig. 3.394a, b. Epatocarcinoma con noduli satelliti. Intorno al nodulo maggiore (a) si osservano almeno due areole ipoecogene “figlie” (b, frecce) a
b Fig. 3.393a, b. Epatocarcinoma con coinvolgimento venoso. Nodulo ipoecogeno disomogeneo esteso alla vena sovraepatica media (a). L’ECD dimostra l’ipervascolarizzazione arteriosa del nodulo e la stenosi della vena (b, artefatto di aliasing, freccia)
Fig. 3.395. Epatocarcinoma con lesione “figlia”. Voluminoso HCC ecogeno, relativamente omogeneo, con alone ipoecogeno periferico. Si associa un piccolo nodulo satellite ipoecogeno (freccia)
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presenza di altri noduli, elemento chiaramente fondamentale per la programmazione terapeutica. Il sistema di Barcellona (BCLC) [Llovet et al. 1998] distingue l’HCC in vari stadi, importanti ai fini della gestione terapeutica (cfr. Capitolo 4) e viene oggi preferito sia al TNM che al sistema di Okuda. Nello stadio precoce il paziente ha un “performance status” WHO di 0, una funzionalità epatica conservata (Child A o B), un tumore singolo >5 cm o fino a 3 lesioni tutte <3 cm, senza segni di invasione vascolare macroscopica o di diffusione extraepatica (con Child A e lesione singola >2 cm si parla anche di stadio molto precoce); in questi soggetti è possibile utilizzare vari trattamenti, quali trapianto, resezione o ablazione percutanea, con buone possibilità di risposta. Nello stadio intermedio il performance status è ancora 0 ed il Child è ancora A o B, ma l’HCC è grande o multifocale, senza segni di invasione vascolare macroscopica o di diffusione extraepatica e senza sintomi legati al tumore stesso; questi pazienti sono candidati alla TACE. L’HCC di stadio avanzato è presente in soggetti con performance status di 1 o 2, Child A o B, e sintomi legati alla neoplasia, che determina invasione vascolare o diffusione extraepatica; questi pazienti sono candidati a trattamento di TACE o di TACE + ablazione percutanea, ma con finalità soprattutto palliative. Lo stadio terminale, infine, comprende i soggetti con performance status di 3 o 4, Child C e noduli di qualsiasi numero e dimensioni; si esegue solo una terapia medica di supporto. Le tecniche US sono infine importanti nell’identificazione precoce delle recidive postoperatorie (Fig. 3.396, Video 3.37).
Fig. 3.396. Epatocarcinoma, recidiva postoperatoria. Nodulo ecogeno (tra i calibri) contiguo alla trancia di resezione (frecce)
3.21. Le metastasi epatiche: valutazione dopo chemioterapia Il monitoraggio delle lesioni epatiche note in pazienti sottoposti a terapia sistemica viene generalmente eseguito con US e/o TC (per il problema della valutazione della risposta cfr. paragrafo 1.6). È chiaro che quest’ultima è in generale preferibile, poiché consente di ottenere un quadro sia epatico che extraepatico più completo, con una migliore definizione numerica e dimensionale delle metastasi epatiche e qualche informazione accessoria sulle modifiche interne subite dalle lesioni in trattamento. L’US, avendo come caratteristica la più semplice ripetitibilità, può essere tuttavia utilmente impiegata nell’intervallo tra i diversi cicli chemioterapici, consentendo ad esempio di distanziare maggiormente i controlli TC programmati. Un impiego routinario della CEUS, escludendo chiaramente i pazienti che mostrano già una palese progressione allo studio US basale, potrebbe in ampia parte colmare il gap tra le US e la TC. Nei pazienti monitorizzati solo o anche con US è necessario disporre di un adeguato inquadramento, con US ma anche TC od RM, delle condizioni basali pretrattamento della malattia metastatica epatica al fine di poterne valutare le variazioni. Lo studio US del parenchima epatico dopo chemioterapia è spesso difficoltoso, a causa soprattutto dei fenomeni di fibrosteatosi che si determinano, con elevato rischio di una sottostima numerica e/o dimensionale delle lesioni presenti. In particolare nei soggetti con metastatizzazione diffusa, un giudizio sulla risposta al trattamento è spesso difficoltoso e rischia di divenire alquanto soggettivo. Nei pazienti con interessamento epatico diffuso, laddove la misurazione delle singole lesioni diviene spesso improponibile, può essere di qualche ausilio la misura delle dimensioni epatiche (quantomeno del diametro longitudinale della grande ala, che andrebbe sempre misurato) o, almeno teoricamente, la valutazione flussimetrica dell’arteria epatica [Robinson 2004] (Figg. 3.397-3.399). L’ECD ha limitate possibilità applicative, poiché generalmente le lesioni metastatiche sono povere di segnale colore e quindi senza possibilità di documentare una risposta in termini di ridotta angiogenesi. Tuttavia il riscontro di segnali vascolari intralesionali può essere considerato un segno di maggiore attività lesionale e, negli istotipi con aspetto ipervascolare delle metastasi epatiche, una diminuzione soggettiva o oggettiva della vascolarizzazione Doppler può essere considerato un criterio di valutazione della risposta. In un recente lavoro con una tecnica Doppler, il dynamic flow, e con iniezione di mdc ecografico, è stato possibile monitorare quantitativamente la ri-
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
a
b
Fig. 3.397a, b. Metastasi epatiche da carcinoma ovarico, in corso di trattamento chemioterapico. Lesioni con centro ecogeno calcifico e retrazione della glissoniana contigua
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b
c
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Fig. 3.398a–d. Metastasi epatiche da carcinoma mammario, prima e dopo trattamento. Lo studio iniziale (a, b) dimostra un diffuso sovvertimento strutturale epatico, con micronoduli e macronoduli. Dopo otto settimane (c, d) dall’inizio della chemioterapia le lesioni epatiche appaiono sfumate: s’intuisce una buona risposta al trattamento ma è difficile definire e quantificare per numero e dimensioni le lesioni residue
sposta alla terapia specifica con Imatinib in soggetti con metastasi epatiche da GIST: nei pazienti rispondenti si aveva un’evidente e precocissima riduzione
della vascolarizzazione lesionale [Lassau et al. 2006]. La CEUS appare sicuramente più promettente, essendo in grado di studiare in tempo reale la perfusio-
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maggiore nei responders tardivi che nei non responders, mentre durante il trattamento esso diminuisce nei responders, restando invece immodificato nei non responders [Delorme et al. 2006, Krix 2005]. Peraltro in un caso aneddotico di metastasi da carcinoma rettale si è osservata una progressione della malattia in corso di chemioterapia sistemica nonostante la riduzione dell’ipervascolarizzazione lesionale in fase arteriosa [Piscaglia et al. 2003].
3.22. Le alterazioni della parete colecistica: polipo, adenomioma, carcinoma, metastasi a
b Fig. 3.399a, b. Metastasi epatica da carcinoma mammario, prima e dopo trattamento. Nodulo epatico sottoglissoniano (a), associato a versamento pleurico. Dopo dodici settimane di terapia la lesione risulta notevolmente ridotta di dimensioni (b)
ne lesionale sottoforma di contrast enhancement. Le casistiche sinora pubblicate sono tuttavia limitate, soprattutto per la scarsa disponibilità di sistemi di quantificazione perfusionale. Bisogna valutare anche se il parametro da considerare è l’enhancement lesionale in fase arteriosa oppure il “microcircolo” in quella portale-sinusoidale. In pazienti con metastasi epatiche da GIST è stata dimostrata l’efficacia della CEUS, seppur condotta solo qualitativamente, nel monitoraggio della risposta alla terapia con Imatinib e nel riconoscimento delle recidive intralesionali: nei casi responsivi le lesioni trattate possono anche aumentare di dimensioni o restare a lungo stabili, ma mostrano una netta devascolarizzazione, assumendo un aspetto similcistico in cui l’eventuale gettone di tessuto residuo o recidivante appare ben delineato dal contrast enhancement [De Giorgi et al. 2005]. È stato osservato come, nelle metastasi epatiche trattate con chemioterapia, il contrast enhancement lesionale nella fase arteriosa della CEUS pre-trattamento è
L’US è la metodica di prima istanza nello studio della colecisti. Le lesioni parietali costituiscono un reperto piuttosto frequente, generalmente incidentale ed asintomatico, dell’US epatobiliare ed è quindi importante conoscerne gli aspetti diagnostico-differenziali al fine di individuare i casi che richiedono un followup o un approfondimento diagnostico. Come regola generale, si tende a trattare chirurgicamente le lesioni polipoidi >10 mm, per il rischio di una loro natura maligna, e a monitorare ecograficamente, seppur in maniera non particolarmente ravvicinata, quelle tra 5 e 9 mm. Una crescita >5 mm o la presenza di una parete ispessita sono altre possibili indicazioni all’intervento. Le immagini micropolipoidi parietali generalmente non richiedono ulteriori controlli [Gandolfi et al. 2003, Jeffrey et al. 1995]. Nelle diverse casistiche, l’US ha riportato una sensibilità del 36-90% nell’identificazione di queste lesioni, che si massimizza soprattutto se nella colecisti non ci sono calcoli associati e se la lesione in questione è del tipo vegetante [Gandolfi et al. 2003]. Il 95-99% dei polipi colecistici è di tipo colesterinico; nei restanti casi si tratta di polipi iperplastici, adenomiomatosi, adenomatosi, maligni (1% circa, primitivi e secondari) o anche dovuti a tessuto eterotopico di mucosa gastrica. La colesterolosi è una forma di colecistosi iperplastica determinata dal deposito nella lamina propria della colecisti di esteri e di macrofagi a contenuto lipidico; la mucosa diviene iperemica e con numerose piccole escrescenze giallastre. L’adenomiomatosi è una forma di colecistosi iperplastica caratterizzata da estroflessioni diverticolari della mucosa nella tonaca muscolare (seni di Rokitansky-Aschoff); può essere localizzata o diffusa e può determinare, nella sede coinvolta, un restringimento luminale. L’adenoma (“polipo vero”) può essere singolo ma anche multiplo e predilige l’infundibolo. Le lesioni che possono sfuggire sono i piccoli polipi endoluminali, specie se localizzati in un’area angolata della colecisti come a livello del terzo prossimale, oppure gli ispessimenti parietali non associati a
Capitolo 3 Le problematiche cliniche significative alterazioni endoluminali né ad evidente alterazione del parenchima epatico adiacente. Nella diagnostica differenziale delle lesioni polipoidi rientrano anche i coaguli ematici (emobilia), detriti compatti e, chiaramente, i calcoli. La fissità al variare del decubito è il presupposto per una corretta differenziazione da questi ultimi, sebbene vi possano essere formazioni litiasiche saldamente adese alle pareti colecistiche. Va operata una distinzione rispetto ai depositi di melma biliare (“tumefazione” di sabbia biliare) che, quando molto densi, possono simulare una lesione parietale; tuttavia, l’integrità della parete sottostante, l’assenza di segnali vascolari al color-Doppler e, in ultima analisi, la regressione anche parziale al ricontrollo dopo terapia medica litolitica, consentono di solito un’adeguata diagnostica differenziale [Jeffrey et al. 1995, Komatsuda et al. 2000]. Una volta accertata la natura solida della lesione, bisogna valutare le dimensioni, la forma, la superficie, la base (sessile o peduncolata) e la tessitura interna. I polipi colesterinici, spesso multipli, si presentano come lesioni peduncolate, a superficie granulare e con tessitura fine, prive di ombra acustica posteriore (Fig. 3.400). L’adenomiomatosi localizzata appare con un ispessimento parietale sessile, spesso localizzato al fondo, contenente multiple immagini microcistiche pseudodiverticolari, piccoli calcoli e/o piccoli cristalli di colesterolo con artefatti a coda di cometa (Figg. 3.401, 3.402). I polipi neoplastici (adenoma o adenocarcinoma allo stadio T1) appaiono come formazioni rotondeggianti, sessili o peduncolate, a superficie nodulare ed irregolare (“ad anemone”) e con struttura ipo-isoecogena; la lesione interessa tutti gli strati parietali ed è associata ad un ispessimento parietale che si estende lateralmente [Azuma et al. 2001, Schmidt 2006, Xu et al. 2003] (Fig. 3.403). Qualche informazione addizionale può essere ottenuta con lo studio US 3D, in grado di dimostrare ad esempio la
Fig. 3.400. Polipo colesterinico della colecisti. Piccola formazione ecogena, a peduncolo sottile, vegetante nel lume
Fig. 3.401. Adenomiosi localizzata del fondo della colecisti. Estroflessioni parietali contenenti sabbia e microcalcoli, con artefatti da riverbero
Fig. 3.402. Adenomiosi localizzata del fondo colecistico. Estroflessioni parietali contenenti sabbia e microcalcoli, con artefatti da riverbero
Fig. 3.403. Polipo adenomatoso colecistico. Formazione polipoide, a base sottile, con qualche segnale vascolare interno all’ECD, a livello della parete posteriore della colecisti
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superficie granulare delle lesioni polipoidi (82% dei casi contro il 45,5% dell’US 2D) e l’aspetto peduncolato della base di tali lesioni (86% dei casi contro il 14% dell’US 2D), e permettendo una corretta differenziazione polipo neoplastico-polipo non neoplastico nel 91% dei casi rispetto al 54,5% dell’US 2D [Xu et al. 2003]. L’analisi ECD dimostra segnali di flusso solo negli adenomi e soprattutto nei carcinomi (ove si rilevano anche flussi più elevati, >20-30 cm/s, ma con valori di IR sovrapponibili a quelli delle lesioni benigne) e quindi risulta utile, quando positiva, nella caratterizzazione dei “polipi” colecistici e nella scelta per l’intervento chirurgico (oltre che nella distinzione del carcinoma dagli ammassi di fango biliare) [Gandolfi et al. 2003, Komatsuda et al. 2000]. In definitiva la distinzione con US transaddominale tra polipi benigni e maligni non è sempre agevole, specie quando le dimensioni della lesione sono relativamente ridotte. L’EUS consente una valida rappresentazione delle diverse lesioni della parete colecistica [Azuma et al. 2001], ma sicuramente non può essere utilizzata di routine; le lesioni polipoidi identificate dall’EUS possono comunque essere adeguatamente monitorizzate con l’US transaddominale. Il carcinoma colecistico è il quinto tumore gastrointestinale in ordine di frequenza negli Stati Uniti (8.570 nuovi casi/anno con 3.260 decessi stimati), con maggior incidenza nelle donne di età avanzata (età media 72 anni) [Jeffrey et al. 1995]. Si può associare a poliposi colica, malattia infiammatoria intestinale e colecisti “a porcellana” (carcinoma presente nel 25% di questi ultimi pazienti). L’US ha riportato un’accuratezza diagnostica dell’80% nell’identificazione di questa patologia [Gandolfi et al. 2003]. Sul piano anatomo-patologico, ed US, si distinguono una forma polipoide intraluminale (15-30% dei casi), una forma intraparietale con ispessimento circonferenziale, segmentario o diffuso (5-30%) ed una varietà massiforme, con sostituzione totale o quasi della colecisti stessa (40-65%) [Komatsuda et al. 2000, Weiner et al. 1984]. Un riscontro molto frequente (44100% dei casi) è dato dalla colelitiasi: nelle forme avanzate di carcinoma è spesso solo il riconoscimento di un minimo lume centrale residuo contenente calcoli a consentire ecograficamente l’attribuzione della massa alla colecisti (oltre che, chiaramente, la sede e la mancata visualizzazione di una colecisti normale) (Figg. 3.404-3.406). Tra le lesioni che rientrano nella diagnostica differenziale del carcinoma colecistico, specie nella sua varietà di ispessimento parietale diffuso, bisogna segnalare le colecistiti croniche e in particolare quella xantogranulomatosa, un raro processo flogistico caratterizzato dall’infiltrazione delle pareti colecistiche per opera di istiociti a contenuto lipidico e di cellule giganti multinucleate; ne deriva un cospicuo e irrego-
Fig. 3.404. Carcinoma della colecisti. Diffuso, marcato ispessimento delle pareti colecistiche. Colelitiasi
Fig. 3.405. Carcinoma della colecisti. Diffuso e grossolano ispessimento ipoecogeno delle pareti colecistiche (frecce); il modesto lume residuo del viscere è occupato da calcoli
Fig. 3.406. Carcinoma della colecisti. Cospicuo ispessimento delle pareti del fondo colecistico (frecce). Si associa microcolelitiasi
Capitolo 3 Le problematiche cliniche lare ispessimento parietale che può simulare il carcinoma [Jeffrey et al. 1995]. Nella colecisti “a porcellana” si rileva un grossolano processo di calcificazione, parziale o completo, delle pareti colecistiche, con intenso sbarramento acustico posteriore e difficoltosa valutazione del contenuto luminale del viscere (nonché di un’eventuale degenerazione neoplastica all’interno di questo); trattandosi di una precancerosi, viene spesso posta come indicazione alla colecistectomia, anche se asintomatica; anche un’adenomiomatosi diffusa può simulare il carcinoma. Le forme tumorali con ampio tessuto polipoide luminale possono essere confuse o simulate da degli ammassi di melma biliare, da un empiema colecistico o da una raccolta ematica luminale (Figg. 3.407-3.410). Nella maggioranza dei casi il carcinoma colecistico viene identificato in fase piuttosto avanzata, ed i vari
aspetti quindi si combinano: si rileva un diffuso e irregolare ispessimento ipoecogeno disomogeneo delle pareti della colecisti, con vegetazioni luminali e infiltrazioni ipoecogene nel parenchima epatico adiacente (IV e/o V segmento) (Fig. 3.411). L’infiltrazione epatica è relativamente precoce: dinanzi ad una massa ipoecogena che infiltra il letto colecistico e che si associa ad un ispessimento parietale della cistifellea, peraltro, non è sempre agevole distinguere tra un carcinoma primitivo ed una lesione epatica infiltrante, specie metastatica. In molti casi questa diffusione al fegato per contiguità si associa a metastasi epatiche più distanti, evidentemente su base ematogena. L’US tende a sottostadiare l’estensione del carcinoma e comunque il paziente necessita di un secondo livello diagnostico, con TC o RM. Ecograficamente bisogna ricercare i segni di infiltrazione della vena porta e del-
Fig. 3.407. Colecisti “a berretto frigio”. Angolazione del fondo colecistico simulante un’alterazione parietale, polipoide (sinistra) o intraparietale (destra), secondo il piano di sezione
Fig. 3.409. Melma biliare simulante un tumore colecistico. Materiale denso e disomogeneo nel lume viscerale
Fig. 3.408. Colecistite cronica. Ispessimento diffuso ma asimmetrico delle pareti colecistiche, simulante un processo tumorale
Fig. 3.410. Melma colecistica. Colecisti “epatizzata” per completa obliterazione del lume ad opera di materiale biliare fangoso che simula un tessuto neoplastico; le pareti del viscere, peraltro, sono riconoscibili ed appaiono sottili
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Fig. 3.411. Stadiazione del carcinoma colecistico. T1a, invasione della lamina propria; T1b, invasione dello strato muscolare; T2, invasione del connettivo perimuscolare ma non oltre la sierosa o nel fegato; T3, diffusione oltre la sierosa peritoneale e/o nel parenchima epatico adiacente e/o in strutture viciniori (stomaco, duodeno, colon, pancreas, omento, via biliare principale); T4, invasione vascolare (vena porta o arteria epatica) oppure infiltrazione di almeno due strutture ed organi extraepatici. Modificato da [Wittekind et al. 2005]
Capitolo 3 Le problematiche cliniche la via biliare, il coinvolgimento del parenchima epatico adiacente, le metastasi epatiche non contigue, e le linfadenopatie del dotto cistico, dell’ilo epatico e della regione lomboaortica (Figg. 3.412, 3.413). L’assenza di una delimitazione capsulare, la presenza di lobulazioni dei margini e l’irregolarità dei margini stessi possono suggerire l’infiltrazione del parenchima epatico adiacente. Le immagini 3D possono essere utili nella precisa localizzazione e nel bilancio di estensione del carcinoma colecistico [Xu et al. 2003]. Un’ultima causa di alterazione parietale neoplastica della colecisti è data dalle metastasi, poco frequenti ma possibili, specie nei pazienti con melanoma, carcinoma polmonare o carcinoma mammario. L’a-
spetto generalmente è quello di una o più formazioni polipoidi che protrudono nel lume con superficie irregolare e che tendono ad ispessire le pareti del viscere (Figg. 3.414, 3.415, Video 3.38).
a
b Fig. 3.413a, b. Carcinoma colecistico con metastasi epatiche e linfonodali. Massa occupante la loggia colecistica (a), associata a lesione epatica ipoecogena e a linfadenopatia dello spazio porto-cavale (b, freccia)
Fig. 3.412. Parametro N per carcinomi colecistici. Sono considerati regionali i linfonodi del dotto cistico, pericoledocici, ilari epatici, pericefalopancreatici, periduodenali, periportali, celiaci e mesenterici superiori. L’N1 considera metastasi in uno o più delle stazioni linfonodali elencate. Modificato da [Wittekind et al. 2005]
Fig. 3.414. Metastasi colecistiche da melanoma. Vegetazioni ipoecogene protrudenti nel lume colecistico (frecce)
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Ecografia in oncologia
Fig. 3.415. Metastasi colecistiche da melanoma. Immagini polipoidi ipoecogene a sviluppo endoluminale (frecce). Si associa una diffusa, tenue disomogeneità della bile endoluminale
Fig. 3.416. Associazione di coledocolitiasi e trombosi portale. Nuclei ecogeni nel lume della via biliare dilatata (frecce), associati ad una tenue ipoecogenicità del lume portale
3.23. L’ittero ostruttivo maligno: valutazione ecografica e diagnosi etiologica
nel momento in cui coinvolge la diramazione biliare principale. In condizioni normali le vie biliari intraepatiche hanno un calibro di <2 mm o meno e sono poco o nulla percepibili; è eventualmente possibile riconoscere qualche collettore biliare adiacente ai rami portali dell’ilo epatico. In caso di ostruzione le vie biliari si dilatano, prima a livello extraepatico, poi dei dotti parenchimali contigui all’ilo, quindi dei rami segmentari intraepatici di sinistra ed infine di quelli di destra. Nelle ostruzioni croniche, come quelle su base neoplastica, la dilatazione delle vie biliari è di solito cospicua, specie nel tratto a monte dell’ostacolo ma anche a livello delle vie biliari intraepatiche. In caso di dilatazione le vie biliari intraepatiche appaiono come immagini anecogene tubulari >2-3 mm di diametro, a pareti moderatamente ecogene, ramificate, con calibro maggiore verso l’ilo e meno evidente man mano che si va verso la periferia. A livello ilare, i dotti dilatati che confluiscono creano un’immagine complessiva a “ragnatela” o a “caput medusae” ed in generale l’aspetto del parenchima epatico è quello di “troppe immagini tubulari” per il sommarsi sia dei vasi che dei dotti biliari, divenuti riconoscibili. Dette strutture canalicolari, dilatate e tortuose, avranno un diametro >40% di quello dei rami portali adiacenti [Bressler et al. 1987]. A differenza dei rami venosi, le vie biliari presentano una parete ecogena irregolare e possono mostrare un rinforzo posteriore. Nel sospetto di un’iniziale dilatazione delle vie biliari intraepatiche può essere utile il color-Doppler, che dimostra la natura non vascolare di questi dotti e ne conferma l’andamento adiacente ai rami portali (segno del “doppio canale”) (Fig. 3.417): ciò risulta particolarmente utile
L’ittero ostruttivo è determinato da un ostacolo posto tra la coniugazione della bilirubina a livello intraepatocitario ed il deflusso della bile a livello della papilla di Vater; in particolare si definisce come ittero “chirurgico” quello provocato da un ostacolo meccanico a qualche livello delle vie biliari extraepatiche. Le neoplasie, nel loro insieme, sono responsabili del 30-35% dei casi totali di ittero ostruttivo. Nel paziente oncologico, inoltre, esiste spesso il problema diagnostico-differenziale di verificare se l’aumento della bilirubina e degli enzimi di colostasi è determinato da lesioni propriamente del parenchima epatico oppure da lesioni che agiscono mediante un’ostruzione delle vie biliari. L’US è sicuramente la metodica di prima istanza nello studio dell’ittero ostruttivo, potendo confermare una dilatazione delle vie biliari (accuratezza 85-95%), dimostrare l’altezza dell’ostruzione (accuratezza >90%) ed eventualmente chiarire la causa (in 1/3 circa dei casi) (Fig. 3.416). Una definizione più dettagliata della lesione ostruente può essere ottenuta con EUS o anche con l’US intraduttale (minisonde ad alta frequenza introdotte per via retrograda endoscopica o discendente percutanea). Peraltro, per la definizione etiologica accurata sono spesso necessarie ulteriori indagini quali innanzitutto la MRCP o in altri casi la TC. L’ostruzione può essere a vario livello: intrapancreatico (a livello del coledoco distale, 90% degli itteri ostruttivi), sovrapancreatico (tra ilo epatico e testa del pancreas, 5%) ed ilare (all’ilo epatico, 5%); è chiaro che una lesione determina un ittero ostruttivo solo
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.417. Segno del doppio dotto. Due immagini duttali parallele nel lobo epatico sinistro, che all’ECD si dimostrano corrispondere una al ramo portale sinistro, con segni di flusso, e l’altra al dotto biliare dilatato, avascolare
in quei casi, peraltro rari, in cui una dilatazione dei vasi intraepatici, sottesa da anomalie vascolari quali malformazioni arterovenose nella sindrome di Rendu-Osler, ipertrofia arteriosa nella cirrosi, cavernomatosa dei rami portali, ecc.), può mimare un’ectasia dei dotti biliari [Wing et al. 1985]. In particolare a sinistra è possibile riconoscere l’immagine “a canna di fucile” determinata dal ramo portale sinistro, ventralmente, e dal dotto biliare di sinistra, posto subito dorsalmente a questo. All’opposto, bisogna anche ricordare che vi sono evenienze in cui le vie biliari sono ostruite ma non dilatate a monte dell’ostacolo: è questo il caso dell’ostruzione recente (evenienza peraltro che, per ovvi motivi, riguarda più la coledocolitiasi che le neoplasie), della cirrosi, della metastatizzazione epatica massiva e di alcune colangiti (sclerosante e AIDS-correlata); in questi casi le vie biliari intraepatiche non riescono a dilatarsi o comunque lo fanno in grado minore di quanto non accadrebbe negli altri individui con una simile ostruzione biliare [Jeffrey et al. 1995]. Nel caso di emobilia o di aerobilia, la dilatazione delle vie biliari intraepatiche può essere misconosciuta rispettivamente perché queste divengono isoecogene con il parenchima epatico o perché vengono mascherate dagli artefatti da riverbero. È necessario anche segnalare che una neoplasia ostruente può determinare la formazione prossimalmente di sabbia biliare ed anche di calcoli, con il conseguente rischio che l’individuazione ecografica di questi ultimi reperti possa indurre al misconoscimento della sottostante neoplasia. La via biliare principale, disposta ventralmente e lateralmente rispetto alla vena porta, ha normalmente un calibro interno-interno massimo di 5 mm, con
un lieve aumento progressivo in direzione distale e con un incremento dipendente dall’età (1 mm in più per decade di vita a partire dai 50 anni); più discusso è l’effetto di una pregressa colecistectomia, ma in generale in questi pazienti si tende a considerare normale anche un diametro della via biliare di 6-7 mm, a prescindere dall’età del soggetto [Jeffrey et al. 1995]. Diametri di 6-9 mm sono considerati come valori limite per una dilatazione biliare, in termini generali, mentre un calibro >10 mm è considerato patologico ed indicativo di un’ostruzione: in questo caso si osserva il tipico aspetto “a canna di fucile”, con la vena porta dorsalmente e la via biliare, dilatata e divenuta di calibro simile a quello venoso, ventralmente. Un altro elemento di sospetto è dato da un diametro della via biliare distale notevolmente superiore a quello del tratto prossimale: ciò si riscontra nelle fasi precocissime dell’ostruzione, in pazienti con recente rimozione dell’ostacolo o in pazienti con ostacolo presente ma scarsa possibilità di dilatazione delle vie biliari prossimali (es. cirrosi ma talora anche metastatizzazione massiva). In questi casi, se il diametro della via biliare viene misurato troppo vicino all’ilo, si rischia una falsa negatività per una dilatazione biliare. Nei pazienti con dilatazione limite dalla via biliare può essere talora utile impiegare un test di somministrazione di un pasto grasso: dopo una trentina di minuti, una via biliare non ostruita si riduce di calibro di 2 mm laddove una mancata riduzione o all’opposto un aumento di calibro suggeriscono un’ostruzione parziale della via biliare e quindi la necessità di un approfondimento diagnostico [Darweesh et al. 1988]. L’altezza dell’ostruzione viene identificata di solito agevolmente dall’US, sia in base ai segni indiretti del livello di dilatazione delle vie biliari (solo intraepatiche in un segmento, solo intraepatiche in un lobo, intraepatiche in ambo i lobi, anche extraepatiche prossimali, anche extraepatiche distali) ed al riconoscimento diretto dell’ostacolo. Quest’ultimo viene ricercato seguendo, con scansioni trasversali e longitudinali, la via biliare dilatata sino al punto di transizione, avvalendosi eventualmente dell’ECD per distinguere, soprattutto distalmente, il coledoco dai vasi regionali. Nelle ostruzioni distali della via biliare principale, inoltre, si può osservare una sovradistensione della colecisti (>3 cm di larghezza e >10 cm di lunghezza), che è invece assente nelle ostruzioni a monte della confluenza del dotto cistico. La dimostrazione di una dilatazione colecistica nelle ostruzioni biliari distali maligne a fronte di una mancata distensione o una scleroatrofia per stenosi benigne (segno di Courvoisier ecografico) non costituisce invece un criterio affidabile. Per quanto riguarda la diagnosi della causa dell’ittero, i tumori più spesso responsabili di un ittero ostruttivo possono essere localizzati in sede distale, in
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sede sovrapancreatica o in sede iliare. Essi sono costituiti dal colangiocarcinoma extraepatico (tipicamente, dell’ilo epatico o dell’epatocoledoco), dal carcinoma colecistico infiltrante la via biliare, dall’ampulloma e dal carcinoma della testa pancreatica (cfr. paragrafo 3.24). A questi bisogna aggiungere altre evenienze, quali soprattutto la compressione estrinseca attuata dalle masse del sottoepatico e specie dalle metastasi linfonodali poste tra ilo epatico, vena porta e testa del pancreas. In alternativa si tratta di tumori intraepatici, primitivi o secondari, che con la loro crescita comprimono l’ilo e provocano quindi l’ostruzione biliare. Nei linfomi è anche possibile una forma paraneoplastica di ittero, legata all’ostruzione a livello canalicolare [Cosgrove 2001]. È necessario segnalare come in molti pazienti oncologici l’ittero abbia una natura multifattoriale, potendovi contribuire sia il tumore primitivo ostruente (es. cefalopancreatico), sia le metastasi di questo a livello linfonodale, sia le metastasi epatiche (e queste con un doppio meccanismo sia di compressione sull’ilo che di sovvertimento funzionale del fegato stesso), sia infine la melma biliare che si accumula nel coledoco a monte della stenosi neoplastica (Figg. 3.418-3.422). Il colangiocarcinoma ilare o tumore di Klastkin costituisce circa il 20% dei colangiocarcinomi ed ha una sopravvivenza a 5 anni del 4% se non trattato e fino al 35% se sottoposto a resezione [Clayton et al. 2003]. Esso risulta spesso di difficoltosa dimostrazione diretta, con US ma anche con TC, a causa della limitata componente extraduttale; inoltre nelle forme infiltranti la dilatazione duttale può essere scarsa. È comunque possibile identificare facilmente il livello dell’ostruzione, per la dilatazione dei soli dotti intraepatici. Tra i dotti dilatati all’ilo epatico è possibile quantomeno rilevare un “vuoto”, e cioè un’assente comunicazione tra le vie biliari dilatate del lobo destro e di quello di sinistra. Nei casi di riconoscibilità diretta, il colangiocarcinoma extraepatico appare come un ispessimento focale delle pareti dei dotti biliari o come nodulazioni solide protrudenti nel lume della via biliare ectasica, improvvisamente amputata. Talora si osserva un’infiltrazione colecistica, che può far nascere il dubbio di un tumore primitivo della cistifellea con infiltrazione dell’ilo epatico. La dimostrazione di un’infiltrazione della vena porta o dell’arteria epatica, nonché di lesioni epatiche (per contiguità o distanti) o linfonodali ne indica l’inoperabilità (Figg. 3.423, 3.424). Nei tumori della papilla di Vater (ampullomi) si rileva la dilatazione combinata delle vie biliari intraepatiche ed extraepatiche, estesa fino alla regione papillare e talora associata all’ectasia del dotto pancreatico e a linfadenopatie peripancreatiche. Il tumore ampollare, di per sé, è riconoscibile solo quando diviene voluminoso, apparendo come una formazione
a
b Fig. 3.418. Multifattorialità dell’ittero in paziente con metastasi da carcinoma mammario. Multiple lesioni ipoecogene metastatiche epatiche, specie parailari, associate a dilatazione delle vie biliari intraepatiche (a). La via biliare principale (tra i calibri) appare dilatata, con presenza di sabbia biliare luminale (b). Si riconosce anche un voluminoso linfonodo ilare, anch’esso comprimente (freccia)
Fig. 3.419. Linfoma epatico determinante ittero. Infiltrato ipoecogeno della regione ilare epatica (frecce) associato a dilatazione delle vie biliari intraepatiche
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
a
b
Fig. 3.420a, b. Carcinoma colecistico ostruente, trattamento con stent biliare. Massa colecistica (tra i calibri) comprimente l’ilo (a). Presenza di stent metallico e di linfadenopatia ilare (b, freccia)
a
b
c
d
Fig. 3.421a-d. Carcinoma pancreatico ostruente, trattamento con stent biliare. Cospicua dilatazione delle vie biliari intraepatiche (a) in paziente con voluminosa massa cefalopancreatica (b) e presenza di stent plastico coledocico. La dilatazione delle vie biliari appare ridotta (c) dopo il posizionamento di uno stent metallico (d)
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a Fig. 3.422. Carcinoma pancreatico con stenting biliare. Lesione ipoecogena cefalopancreatica (freccia), con dilatazione del coledoco a monte che ospita uno stent plastico
b Fig. 3.424. Tumore di Klatskin. Infiltrazione ipoecogena della regione ilare epatica, associata a dilatazione delle vie biliari intraepatiche e con segni di crescita endoluminale (freccia) Fig. 3.423. Colangiocarcinoma intraepatico. Nodulo parailare tenuemente ipoecogeno (frecce) determinante dilatazione delle vie biliari intraepatiche di sinistra
ipoecogena similare alle neoplasie del pancreas descritte nel paragrafo successivo. L’EUS consente invece una stadiazione accurata.
3.24. I tumori del pancreas: i segni del carcinoma, la differenziazione tumore-pancreatite produttiva, la stadiazione del carcinoma, i tumori cistici, i tumori endocrini I tumori primitivi del pancreas possono essere classificati, dal punto di vista anatomo-patologico, in epiteliali (esocrini ed endocrini) e non epiteliali (sarcomi e linfomi). Tra i tumori esocrini, quello di maggior frequenza e rilevanza è l’adenocarcinoma duttale (7592% di tutti tumori pancreatici ed il 95% dei carcino-
mi), associato ad una sopravvivenza a 5 anni <2% nelle forme non trattate e <10% in quelle resecate. Il carcinoma insorge soprattutto nel 6-7° decennio di vita, con rapporto M/F di 1,3:1. Esso si sviluppa a livello della testa pancreatica nel 60-70% dei casi, del corpo nel 20% e della coda nel 5-10%; esiste anche un forma diffusa, con ingrandimento ghiandolare globale (515%). Fattori di rischio sono la fibrosi cistica, la sindrome di Peutz-Jeghers ed alcune rare sindromi familiari [Di Candio et al. 2006]. Al momento della diagnosi, il 40% dei pazienti ha già metastasi linfonodali, il 35% peritoneali e il 50% epatiche: solo il 5-10% dei casi risulta operabile con criteri radicali [Candiani 2006b, Jeffrey 2004]. I tumori delle testa del pancreas, a differenza di quelli del corpo-coda ed anche di quelli del processo uncinato, si associano ad ittero e dilatazione duttale (cfr. paragrafo 3.23) (Figg. 3.425, 3.426).
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.426. Parametro N per carcinomi pancreatici. Sono considerati regionali i linfonodi peripancreatici: superiori alla testa ed al corpo, inferiori alla testa ed al corpo, pancreatico-duodenali anteriori, pilorici (solo per i tumori della testa), mesenterici prossimali, pancreatico-duodenali posteriori, del dotto epatico comune, ilari splenici e della coda ghiandolare (solo per i tumori di corpo e coda), celiaci (solo per i tumori della testa). L’N1 indica il coinvolgimento di una o più stazioni linfonodali tra quelle elencate. Modificato da [Wittekind et al. 2005]
Fig. 3.425. Stadiazione dell’adenocarcinoma pancreatico. T1, tumore limitato alla ghiandola (testa, corpo o coda) e ≤2 cm; T2, tumore limitato alla ghiandola e >2 cm; T3, tumore di qualsiasi dimensione con diffusione oltre la ghiandola ma senza coinvolgimento di tripode celiaco o arteria mesenterica superiore; T4, tumore di qualsiasi dimensione con infiltrazione di tripode celiaco o arteria mesenterica superiore. Modificato da [Wittekind et al. 2005]
L’US è spesso la prima metodica che individua un tumore pancreatico, essendo l’opzione di scelta nello studio dell’ittero ed anche la modalità più utilizzata nei pazienti con sintomatologia algica o dispeptica più o meno vaga. La sensibilità per l’identificazione del carcinoma pancreatico era nelle prime casistiche alquanto limitata, con dimostrazione insoddisfacente della neoplasia nel 20-25% dei casi; con le apparecchiature attuali, invece, le possibilità di valutazione sono superiori, con sensibilità e specificità >90% [Angeli et al. 1997]. Ciononostante è sempre importante un’esplorazione attenta di tutti i segmenti pancreatici da diversi approcci anatomici, onde evitare di misconoscere lesioni particolarmente profonde o mascherate dal meteorismo. I fattori che maggiormente influenzano la sensibilità sono infatti le dimensioni (<2cm vs. >2 cm), la sede (testa vs. corpo e soprattutto coda) e l’esperienza dell’operatore [Gandolfi et al. 2003].
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Il carcinoma pancreatico si presenta nella maggioranza dei casi come ipoecogeno, mal delimitato, che deforma il profilo ghiandolare. Può essere disomogeneo, ecogeno, talora con qualche calcificazione amorfa (sebbene le calcificazioni orientino di solito più per una forma neuroendocrina) [Di Candio et al. 2006] (Figg. 3.427, 3.428). L’ECD non fornisce informazioni addizionali di rilievo per l’identificazione e caratterizzazione della neoplasia, sebbene possa essere talora utile nella diagnosi differenziale, in particolare rispetto alle forme ipertrofiche focali di pancreatite cronica, tipicamente ipovascolarizzate [Candiani 2006b]. Tra i segni indiretti del carcinoma figurano la dilatazione delle vie biliari, la dilatazione del dotto pancreatico, la pancreatite ostruttiva con formazione di pseudocisti nel parenchima a monte del tumore (fino nel 11% dei casi), i segni di infiltrazione vascolare, le metastasi ai linfonodi e quelle al fegato. Una dilatazione del dotto pancreatico può riscontrarsi anche in corso di neoplasie ampollari, coledociche distali o pancreatiche, nonché di coledocolitiasi distale e di pancreatite cronica. La dilatazione irregolare e la presenza di calcoli è di aiuto nella diagnosi differenziale con dilatazione secondaria a neoplasia: si può infatti ipotizzare una natura neoplastica quando l’ectasia è marcata (>50% del diametro pancreatico antero-posteriore), netta e regolare, mentre si deve considerare l’ipotesi flogistica allorquando la dilatazione è irregolare ed associata a concrezioni litiasiche luminali. Spesso, tipicamente, un tumore della testa del pancreas si associa alla dilatazione combinata del coledoco e del Wirsung (segno del doppio dotto) ed i due canali appaiono aumentati di diametro ma anche anormalmente distanziati tra loro: dinanzi a questo reperto bisogna sospettare innanzitutto un carcinoma della testa del pancreas o un ampulloma, anche quando questo non risulta direttamente apprezzabile, ma bisogna anche ricordare altre cause alternative di dilatazione duttale combinata, quali il colangiocarcinoma a sviluppo intrapancreatico, la litiasi del coledoco distale e la pancreatite cronica. Segni di flogosi cronica su base ostruttiva non sono rari, per cui alla dilatazione duttale si aggiungono disomogeneità del tessuto ghiandolare e calcificazioni. I tumori originanti dal processo uncinato possono avere uno sviluppo alquanto esofitico ed essere pertanto confusi con lesioni mesenteriche o linfonodali, anche perché non si associano, se non in fase avanzata, a dilatazione del coledoco o del dotto pancreatico [Catalano et al. 2006c]. In generale le metodiche di imaging, ma specie l’US, tendono a sottostadiare la diffusione locale del tumore e molti casi ritenuti operabili preoperatoriamente non si dimostrano tali al tavolo operatorio. Stante la bassa sopravvivenza anche dei pazienti resecati e la morbilità e mortalità (fino al 5%) delle chirurgia pancreatica maggiore (duodenocefalopancre-
a
b Fig. 3.427a, b. Adenocarcinoma del pancreas. Neoformazione ipoecogena della regione istmica del pancreas (a), che al PD appare conglobare il tratto iniziale dell’arteria splenica (b)
Fig. 3.428. Adenocarcinoma del pancreas. Lesione solida ipoecogena della testa del pancreas (freccia)
sectomia, ecc.) uno dei compiti delle metodiche di imaging è quello di evitare gli interventi chirurgici non necessari, e di inviare alla resezione solo quei ca-
Capitolo 3 Le problematiche cliniche si ben selezionati che possono effettivamente giovarsene [Angeli et al. 1997]. Un coinvolgimento dell’arteria splenica o della vena splenica non preclude di per sé l’intervento chirurgico, comportando solo la totalizzazione della pancreasectomia e la conseguente asportazione della milza, mentre risulta cruciale la dimostrazione di un interessamento delle arterie celiaca, epatica e mesenterica superiore e delle vene porta e mesenterica superiore; peraltro, un limitato coinvolgimento portale non esclude totalmente l’operabilità, potendosi eventualmente praticare una resezione venosa con innesto [Angeli et al. 1997]. Già eventuali dimensioni significative della massa (>2 cm) escludono spesso un’operabilità radicale. I segni specifici di non resecabilità comprendono: la diffusione extraghiandolare, con tessuto ipoecogeno che fuoriesce dalla ghiandola giungendo in contatto con gli organi circostanti (elemento peraltro riconoscibile ecograficamente solo nei casi grossolani); l’infiltrazione vascolare; le metastasi linfonodali (peripancreatiche, ilari epatiche e lomboaortiche); le metastasi ematogene, specie epatiche. Si tratta in generale di elementi meglio riconoscibili con la TC, se solo si pensa all’analisi del parametro N, ma da ricercare anche con l’US poiché la dimostrazione di un tumore pancreatico inoperabile e con metastasi epatiche può rendere non necessari gli ulteriori livelli diagnostici. Inoltre, bisogna considerare che, nei pazienti sottoposti a terapia neoadiuvante, è importante definire con precisione le condizioni basali dell’estensione di malattia, al fine di potere poi monitorizzare e identificare così i casi rientrati nell’operabilità (sebbene il giudizio finale in questo senso spetti sempre alle “macchine pesanti”) [Candiani 2006b]. Nei casi avanzati si rileva anche versamento peritoneale e segni di carcinosi. US ed ECD consentono di rilevare i casi più evidenti di coinvolgimento vasale, con un’accuratezza superiore a quella angiografica, specie per le arterie ma comunque inferiore a TC, RM ed EUS [Candiani 2006b, Di Candio et al. 2006] (Fig. 3.429). L’EUS è risultata utile soprattutto nel giudizio di resecabilità dei piccoli tumori, apparendo confrontabile con la TC spirale nella diagnosi di coinvolgimento delle vena porta e della vena mesenterica, ma inferiore per l’identificazione dell’infiltrazione arteriosa mesenterica [Midwinter et al. 1999]. La visibilità di tessuto ghiandolare interposto tra tumore e vaso e la chiara integrità della parete vasale ecogena ne indicano l’indennità, ma si tratta di reperti non sempre di agevole dimostrazione quando la neoplasia è contigua al vaso. L’interessamento vascolare è rilevabile all’US sottoforma di: ampia contiguità tra lesione e vaso (>2 cm lungo l’asse longitudinale del vaso); ampia diffusione perivasale del tessuto neoplastico (significativa specie se >25% ed ancor più >50% della circonferenza vasale, definita in quest’ultimo caso come encasement); deformazione
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Fig. 3.429a-f. Coinvolgimento del sistema portale nei carcinomi pancreatici. Reperto anatomico normale (a) e gradi diversi di interessamento venoso (b-f)
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vasale con stenosi e turbolenze di flusso (artefatto di aliasing), franca infiltrazione della parete vasale che diviene irregolare o non più riconoscibile, trombosi luminale di arterie o vene peripancreatiche, che mostrano echi strutturati al loro interno e difetti del segnale colore [Angeli et al. 1997, Candiani 2006b]. Per l’asse mesenterico-portale, interessato sino nel 65% dei tumori della testa del pancreas, sono stati distinti alcuni gradi: grado 1, compressione vascolare o assenza di clivaggio adiposo con flusso regolare (10-20 cm/s); grado 2, irregolarità e rigidità della parete vasale in un punto, con flusso moderatamente accelerato; grado 3, irregolarità concentrica della parete vasale con flusso turbolento; grado 4, trombosi neoplastica con flusso del tutto assente o parzialmente conservato ma turbolento. La resezione pancreatica è possibile solo nei gradi 1-2 e nel grado 3 laddove l’infiltrazione vasale sia <35 mm in senso longitudinale [Calculli et al. 2002]. In generale, l’ECD ha una sensibilità del 72% ed una specificità del 45% nella diagnosi di coinvolgimento venoso che risulta invece, rispettivamente, dell’83 e 100% con l’impiego di mdc ecoamplificatori; considerando indistintamente arterie e vene, l’ECD senza mdc ha dimostrato una sensibilità globale del 79% e una specificità dell’89%. Sicuramente il rischio è quello della falsa negatività, mentre sono rari i falsi positivi per un coinvolgimento vasale [Angeli et al. 1997, Candiani 2006b] (Figg. 3.430, 3.431). Nell’ambito diagnostico-differenziale, una problematica non rara è data dalla pancreatite cronica e specie dalle varianti ipertrofiche, massiformi, di quest’ultima (“pseudotumori flogistici”) [Catalano et al. 2006c]. Una tumefazione pancreatica focale si verifica sino nel 30% dei pazienti con pancreatite cronica ed il discorso è reso più complesso anche dalla possibile coesistenza delle due patologie poiché, non di rado, i tumori dell’ampolla o della testa del pancreas determinano, come detto in precedenza, una flogosi cronica ed un’atrofia del corpo-coda su base ostruttiva. Tra gli elementi differenziali si segnalano, nelle pseudomasse flogistiche, un aspetto più spesso iperecogeno, la maggiore incidenza di calcificazioni e specie di calcificazioni grossolane, la relativa minore incidenza di una dilatazione combinata del coledoco e del dotto pancreatico [Catalano et al. 2006c]. Recentemente sono stati pubblicati lavori che utilizzano l’ECD, eventualmente anche con mdc e.v., per valutare la vascolarizzazione della massa, con un maggior numero di vasi ed un enhancement più precoce in caso di tumore ed un’ipo-isovascolarità nella pancreatite cronica; nel carcinoma, inoltre, i vasi sono spesso tortuosi e penetranti laddove nella pancreatite focale essi sono scarsi e periferici [Scialpi et al. 2005]. In EUS, invece, il carcinoma ha un aspetto ipovascolare e si caratterizza per l’assenza di vasi interni presenti invece nei pseudotumori flogistici; anche l’evidenza di circoli
a
b Fig. 3.430a, b. Carcinoma del pancreas infiltrante i vasi. Neoformazione solida del corpo pancreatico, che congloba l’arteria splenica, sede di artefatti di aliasing (a). La flussimetria dell’arteria stenotica (b) identifica altissime velocità di picco sistolico (>400 cm/s)
Fig. 3.431. Carcinoma del pancreas infiltrante i vasi. Nodulo ipoecogeno conglobante la vena mesenterica superiore, sede di artefatti di aliasing
Capitolo 3 Le problematiche cliniche collaterali e di segni di infiltrazione vasale può essere un elemento a favore della neoplasia, non riconoscendosi queste alterazioni nella pancreatite [Saftoiu et al. 2006]. Per quanto riguarda la CEUS, studi preliminari hanno dimostrato negli pseudotumori flogistici un’isovascolarità e un’isoperfusione assenti invece nei tumori. La maggiore vascolarizzazione dei pseudotumori rispetto ai carcinomi si spiega con la presenza nei primi di modifiche infiammatorie, quali la fibrosi interlobulare e l’infiltrato flogistico perilobulare e periduttale, tali da richiedere un flusso ematico [Ozawa 2002]. Si tratta peraltro di elementi relativi che spesso richiedono un approfondimento con metodiche quali TC, EUS, MRCP. Si è utilmente impiegata anche la biopsia ecoguidata, in casi selezionati, con risultati di sensibilità peraltro non sempre soddisfacenti e non superiori al 50%. Bisogna ricordare la necessità di un campionamento microistologico, poiché la FNAC si dimostra spesso insufficiente per escludere la malignità del processo massiforme [Chang et al. 1997, Solmi et al. 1992]. Tuttavia la notevole consistenza delle pseudomasse flogistiche spesso ostacola un adeguato campionamento. Migliori risultati si sono ottenuti con la biopsia ecoendoscopica, anche se i dati in letteratura sono contrastanti. Anche il duodeno collabito può simulare una massa a livello della superficie destra o dorsale della testa del pancreas. Con l’uso sempre più diffuso delle metodiche di imaging non è raro il riscontro di formazioni di aspetto cistico a livello del pancreas, generalmente di limitate dimensioni. I tumori cistici del pancreas costituiscono in realtà una minoranza delle neoplasie pancreatiche (1-15%) e rappresentano anche una minoranza (<15%) delle formazioni cistiche a partenza dalla ghiandola pancreatica, poiché circa l’80% di tali formazioni è costituito dalle pseudocisti su base pancreatitica: il primo rischio è quindi proprio quello di misdiagnosticare questi tumori come pseudocisti [Francis 2003] (Fig. 3.432). Queste neoplasie cistiche, peraltro definite nel dettaglio morfostrutturale soprattutto dalla TC (specie MSCT) e della RM (specie MRCP con eventuale test secretinico), hanno un variabile potenziale maligno. In alcuni casi i dati clinico-anamnestici ed il quadro di diagnostica per immagini è caratteristico se non patognomonico, e tale da consentire un inquadramento definitivo, mentre in altri casi si può porre una diagnosi presuntiva, che tuttavia richiede una valutazione anatomo-patologica. Generalmente, comunque, si tende al follow-up, con resezione di quelle lesioni che mostrano segni di crescita dimensionale o di cambiamento della struttura interna [Francis 2003]. Questi tumori possono essere classificati, dal punto di vista pratico, in neoplasie focali (di ridotte dimensioni, come il tumore intraduttale mucinoso-pa-
Fig. 3.432. Cisti pancreatica. Formazione anecogena omogenea sul margine anteriore del passaggio corpo-coda del pancreas (freccia)
pillare dei dotti collaterali, e di cospicue dimensioni cistoadenoma sieroso microcistico, cistoadenoma sieroso micro-macrocistico e cistoadenoma mucinoso) e neoplasie diffuse, come il tumore intraduttale mucinoso-papillare del dotto principale ed il cistoadenoma sieroso (microcistico o micro-macrocistico, generalmente nel contesto di una sindrome di von Hippel-Lindau). Il cistoadenoma sieroso (1-2% delle neoplasie pancreatiche) predilige il sesso femminile >60 anni e la testa del pancreas (70% dei casi) ed è generalmente trattato conservativamente. L’estensione è variabile, sino ad interessare nelle forme diffuse tutta la ghiandola. Esso si caratterizza per un aspetto “ad alveare”, con numerose sepimentazioni sottili e vascolarizzate, convergenti eventualmente verso una sorta di cicatrice centrale, fibrosa o fibrocalcifica, rilevabile in circa la metà dei casi. Le loculazioni cistiche possono essere molto piccole (<2 cm), nella variante microcistica, oppure miste, di piccole e grandi dimensioni. Cisti molto piccole e fitte, comunque, possono creare paradossalmente delle aree di aspetto ecogeno. L’aspirazione rileva un elevato contenuto glicogenico [Demos et al. 2002, Gandolfi et al. 2003] (Figg. 3.433, 3.434). Il cistoadenoma mucinoso (3% delle neoplasie pancreatiche) viene di solito trattato chirurgicamente a causa del potenziale maligno. Predilige il sesso femminile (rapporto F/M 10:1) nel 5-6° decennio di vita e la sede corpo-coda (80-95% dei casi) [Francis 2003]. L’aspetto è piuttosto aspecifico, uni- o pluriloculato, con loculazioni di variabile ampiezza (di solito comunque ciascuna >20 mm e massimo cinque in numero), parete generalmente spessa, pochi setti di variabile spessore, possibili nodulazioni e calcificazioni parietali (20% dei casi) [Demos et al. 2002, Jeffrey et al. 1995]. Nei casi dubbi o di sospetta malignità può essere utile un’aspirazione imaging-guidata: le forme
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Ecografia in oncologia
a
a
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b Fig. 3.434a, b. Cistoadenoma microcistico della testa del pancreas. Formazione iperecogena disomogenea, finemente settata, mal delimitata, che disloca senza infiltrare i vasi viciniori ma che appare nettamente ipovascolare all’ECD (a). Ricostruzione TC tridimensionale (b) che dimostra la formazione ed i rapporti con le strutture vascolari circostanti
c Fig. 3.433a, b. Cistoadenocarcinoma sieroso del pancreas. La testa ghiandolare è occupata da un’ampia massa disomogenea, con alcune areole ipo-anecogene interne, che determina una dilatazione del dotto pancreatico (a, freccia) ma non della via biliare (b, freccia). L’immagine TC in coronale conferma la massa cefalopancreatica (c), adiacente alla vena mesenterica superiore
maligne, oltre ad elevato tasso di mucina, presentano elevati livelli di marcatori quali CEA e CA-129, laddove un’elevata quota amilasica indica una pseudocisti (Figg. 3.435, 3.436). I tumori intraduttali mucinosi, riscontrati di solito incidentalmente in soggetti di età medio-avanzata, possono avere un comportamento benigno o maligno. Essi si presentano come formazioni cistiche settate, di aspetto variabile, con un’ampiezza che dipende anche dell’origine dal dotto principale o dai dotti collaterali (quest’ultima forma predilige il processo uncinato); nel primo caso, con dilatazione segmentaria o diffusa del dotto pancreatico, l’aspetto viene ad essere simile a quello della pancreatite cronica ostruttiva, senza tuttavia la caratteristica calcolosi intraduttale [Gandolfi et al. 2003, Prasad et al. 2003, Procacci et al. 1996]. Le pareti delle loculazioni possono mostrare gettoni solidi. Con MSCT e MRCP è possibile
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
a
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b
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Fig. 3.435a, b. Cistoadenoma mucinoso del pancreas. Formazione anecogena omogenea che slarga la testa ghiandolare (a). Correlazione TC (b, frecce)
Fig. 3.436a, b. Cistoadenocarcinoma mucinoso del pancreas. Neoformazione mal delimitata, a struttura complex, con aree solide e quote cistiche disomogenee (a). La correlazione TC dimostra la trasformazione cistica del corpo-coda del pancreas (b, frecce)
dimostrare la comunicazione con il sistema escretore e quindi porre una diagnosi presuntiva, improbabile invece ecograficamente. Per quanto riguarda i tumori neuroendocrini del pancreas - o meglio dell’area pancreatica, poiché molti di essi originano spesso dal duodeno o da altre strutture contigue alla ghiandola pancreatica - questi derivano dalla cresta neurale e possono essere funzionanti (insulinoma, gastrinoma, glucagonoma, VIPoma, somatostatinoma, polipeptidoma, carcinoide, ecc.) oppure non funzionanti [Buetow et al. 1997]. Nel primo caso, si manifestano spesso per gli effetti sistemici dell’iperincrezione ormonale, mentre nel secondo vengono identificati per lo più in maniera occasionale. Il potenziale di malignità è variabile, risultando minore negli insulinomi, frequenti, piccoli e localizzati soprattutto nel corpo-coda, e maggiore nelle altre forme e specie (90%) in quelle non funzionanti,
spesso voluminose e localizzate maggiormente a livello dell’area cefalopancreatica. I tumori endocrini di piccole dimensioni risultano rotondeggianti o ovalari, omogenei, iperecogeni o più spesso ipoecogeni, a contorni netti e definiti; talora sono presenti piccole calcificazioni [Buetow et al. 1997, Gandolfi et al. 2003]. Al momento della diagnosi gli insulinomi hanno un diametro medio <20 mm, i gastrinomi di circa 35 mm ed i tumori non funzionanti >5 cm. Dette lesioni bozzano il profilo pancreatico, cosa che talora ne costituisce l’unico segno. Le forme più voluminose presentano aspetti variabili, con componenti ipoecogene necrotiche e talora depositi calcifici. L’ECD, per via transaddominale o ecoendoscopica, e la CEUS possono dimostrare l’ipervascolarizzazione arteriosa delle lesioni, quantomeno di quelle che l’ecografia riesce a dimostrare adeguatamente [D’Onofrio et al. 2003, Ueno et al.
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Ecografia in oncologia
1996]. L’EUS può essere utile come alternativa alla ricerca degli insulinomi con TC o RM [Anderson et al. 2000]. La scintigrafia con octreotide è utile soprattutto per la diagnosi ed il monitoraggio delle metastasi epatiche. La FNAC serve soprattutto per distinguere questi tumori dal carcinoma pancreatico, diverso per prognosi e gestione terapeutica. L’IOUS è proponibile quando il reperimento di un piccolo insulinoma non è stato possibile preoperatoriamente [Galiber et al. 1988]. Le metastasi epatiche da tumori endocrini possono risultare ipoecogene o iperecogene con aree ipoanecogene necrotiche variamente rappresentate; l’iperecogenicità può essere un elemento distintivo delle metastasi da tumore endocrino rispetto a quelle derivanti dal carcinoma pancreatico (Figg. 3.437, 3.438). Nei linfomi il pancreas è coinvolto raramente, e in genere si tratta di forme NHL. L’US identifica una massa ipoecogena senza rinforzo posteriore oppure un’infiltrazione diffusa, simil-pancreatitica [Merkle et al. 2000]. Le metastasi pancreatiche sono rare e nella maggioranza dei casi derivano da melanomi, tumori mammari, carcinomi ovarici, carcinomi renali a cellule chiare, carcinomi polmonari a piccole cellule, risultando spesso la conseguenza di una fase avanzata della disseminazione neoplastica. Si individuano una o più lesioni nodulari ipoecogene, relativamente delimitate, con variabile ecovascolarità Doppler. A differenza dei tumori primitivi, l’infiltrazione vascolare è rara mentre è possibile il coinvolgimento duttale, che causa ittero o pancreatite [Gandolfi et al. 2003, Sato et al. 2001] (Fig. 3.439). In definitiva, lesioni anecogene del pancreas possono essere dovute soprattutto a cisti, pseudocisti, necrosi, strutture vascolari o duttale in sezione traversa o dilatate; lesioni ipoecogene a carcinomi, ampullomi, tumori neuroendocrini, linfomi, metastasi, asces-
Fig. 3.437. Insulinoma del pancreas. Nodulo ipoecogeno disomogeneo tra corpo e coda del pancreas. L’ECD (destra) documenta alcuni flussi arteriosi intranodulari
a
b Fig. 3.438a, b. Tumore neuroendocrino maligno non funzionante della coda pancreatica. Massa ipoecogena disomogenea con calcificazioni amorfe (a), che infiltra l’ilo splenico (b, frecce)
Fig. 3.439. Metastasi pancreatiche da melanoma. Piccoli noduli ipoecogeni nel contesto della ghiandola iperecogena (frecce)
Capitolo 3 Le problematiche cliniche si, cisti e pseudocisti complicate, pancreatite focale, diverticoli duodenali privateriani; lesioni isoecogene a carcinoma, linfoma, pancreatite focale, pancreas anulare, pancreas divisum; lesioni iperecogene ad angiomi, lipomi, calcoli, calcificazioni [Schmidt 2006].
3.25. Detezione e caratterizzazione delle lesioni focali spleniche La milza, il più grande organo linfoide dell’organismo, determina raramente una propria sintomatologia, sebbene a seconda dei casi si possa avere massa palpabile, dolore/dolenzia nell’ipocondrio sinistro, al fianco sinistro o a livello della spalla sinistra, nausea, vomito, febbre, anemia acuta (emorragia), anemizzazione cronica e piastrinopenia (coagulapatia da consumo, sindrome di Kasabach e Merritt). Lo studio US viene generalmente eseguito nel contesto dell’inquadramento generale di malattie sistemiche o di altri organi, oppure nel sospetto di complicanze di dette malattie. In molti casi la dimostrazione di una patologia di quest’organo avviene invece in maniera del tutto occasionale (<1% delle US addominali). La milza andrebbe comunque valutata in ogni paziente con epatopatia cronica o linfoma. Indicazioni selettive possono invece essere la febbre cronica criptogenetica, le splenomegalie ematologiche o infettive (soprattutto nel sospetto di complicanze), le splenomegalie di origine dubbia, il dolore nell’ipocondrio e fianco sinistro (unitamente allo studio di altre strutture quali il rene). L’US rappresenta la metodica di prima istanza nello studio della milza. L’esplorazione splenica deve far parte dello studio di ogni paziente in cui si sospetti una patologia dell’addome superiore. Spesso non è possibile, sulla base dei soli dati ecografici, avanzare una diagnosi di natura. Occorre l’ausilio di altre metodiche di imaging e segnatamente della TC. Non di rado è necessaria una biopsia eco- o TC-guidata. L’impiego dell’ECD è utile per mettere in evidenza le varici perispleniche e la dilatazione della vena splenica nell’ipertensione portale, per dimostrare la pervietà della vena splenica o per analizzare il flusso sanguigno a livello di lesioni del parenchima. Le cause di “focalità” spleniche sono numerose, risultando benigne in circa il 57% dei casi, linfomatose nel 36% e metastatiche nel 7%. Comprendono soprattutto: cisti, pseudocisti (comprese le pseudocisti pancreatiche a sviluppo intrasplenico), raccolte intraspleniche (ascessi, ematomi, ecc.), pseudotumori infiammatori, linfangiomi, amartomi, teratomi, angiomi, metastasi, sarcomi, linfomi [Görg et al. 1991a, 1991b]. Le cisti della milza possono essere vere (25%), rivestite da epitelio, che possono essere a loro volta congenite (epiteliali), parassitarie (echinococcosi) o non parassitarie (teratomi cistici, linfangiomi cistici, an-
giomi cavernosi, ecc.); le cisti false (75%) sono invece pseudocisti dovute all’organizzazione di ematomi, infarti o ascessi, e non sono quindi rivestite da epitelio [Giovagnoni et al. 2005] (Fig. 3.440). Il riconoscimento di queste formazioni è agevole: si rilevano una o più formazioni cistiche intraparenchimali, omogeneamente ecoprive e con rinforzo acustico posteriore; tali strutture, che appaiono nettamente delimitate e che possono avere un aspetto lobulato o sepimentato, sono in molti casi poste alla periferia dell’organo, potendo anche avere un aspetto francamente sottocapsulare allungato. Le cisti epidermoidi possono avere una parete spessa e irregolare ed echi interni. I linfangiomi, rilevati soprattutto nell’età pediatrica, pur potendo essere singoli, si caratterizzano soprattutto per un aspetto ad alveare della milza, con multiple lacune cistiche, di dimensioni eterogenee, a pareti sottili; si può associare una splenomegalia nonché la presenza di linfangiomi in altre sedi [Komatsuda et al. 1999] (Fig. 3.441). Nelle cisti da echinococco vi può essere
Fig. 3.440. Cisti splenica. Formazione lobulata ipo-anecogena nel parenchima della milza
Fig. 3.441. Linfangioma cistico splenico. Formazione anecogena pluriloculata della milza (frecce)
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Ecografia in oncologia
una componente mista solida oppure si possono riconoscere le cisti figlie all’interno; la membrana può scollarsi, con un aspetto festonato mentre la parete può andare incontro a calcificazioni [Giovagnoni et al. 2005]. In casi particolari può essere necessaria una differenziazione tra cisti spleniche di varia natura e focalità solide di aspetto similcistico quali quelle riconoscibili nel linfoma, negli ascessi o in alcuni casi di metastasi: peraltro, all’ECD non si rilevano nelle cisti segnali vascolari, né alla CEUS si osservano mai segni di enhancement [Catalano et al. 2006a] (Fig. 3.442). Le lesioni focali iperecogene della milza, più o meno delimitate e più o meno omogenee, con eventuale attenuazione posteriore, sono: angioma, amartoma (splenoma), ascessi (solo raramente, in caso di contenuto gassoso o di fase di esito), noduli siderotici (corpi di Gamma-Gandy), cicatrici parenchimali, sarcoidosi, istoplasmosi, tubercolosi (miliare), tesaurismosi, infarti (fase cronica), ematopoiesi extramidollare, metastasi (raramente), sarcoma di Kaposi, lesioni calcifiche. In particolare, foci ecogeni puntiformi possono essere dovuti a sarcoidosi, istoplasmosi, tubercolosi, infezione disseminata da P.carinii (AIDS), corpi di Gamma-Gandy (generalmente secondari ad ipertensione portale) [Bhatt et al. 2006, Robertson et al. 2001, Schmidt 2006]. L’angioma è la più frequente focalità splenica solida, riscontrandosi all’autopsia nel 14% degli individui. Le lesioni sono spesso piccole (>2 cm) e non di rado multiple, sino all’angiomatosi. L’aspetto è generalmente ecogeno omogeneo, sostanzialmente avascolare al color-Doppler [Görg et al. 1994]. Si può tuttavia riscontrare qualche aspetto atipico: un’area anecogena ben demarcata con rinforzo acustico posteriore, un alone ipoecogeno, delle aree cistiche, dei nuclei calcifici oppure dei segnali arteriosi all’ECD [Duddy et al. 1989, Giovagnoni et al. 2005, Jeffrey et al. 1995] (Figg. 3.443, 3.444, Video 3.39). Si può avere
Fig. 3.442. Echinococcosi splenica. Grossolana formazione cistica ipoecogena, a pareti calcifiche
Fig. 3.443. Angioma splenico. Formazione iperecogena nel parenchima splenico (freccia)
Fig. 3.444. Angioma splenico. Formazione tenuemente iperecogena nel contesto del parenchima splenico (frecce)
anche un aspetto di tipo misto, cioè un’area ipoecogena non omogenea con accennato rinforzo posteriore [Görg et al. 1991a, 1991b] (Figg. 3.445, 3.446). Dinanzi ad una lesione iperecogena omogenea, senza alone ipoecogeno, si può generalmente ritenere che l’esame US sia virtualmente diagnostico, anche in soggetti portatori di neoplasie eterotopiche: solo eccezionalmente le lesioni iperecogene sono infatti maligne. In alternativa è necessario un approfondimento con CEUS, TC o RM oppure un controllo US a distanza di qualche mese. La CEUS rileva una sostanziale isovascolarità in tutte le fasi per i piccoli angiomi ed un’impregnazione intensa e persistente, eventualmente disomogenea, per i grossi angiomi cavernosi [Catalano et al. 2006a]. L’amartoma è poco frequente (0,13% delle autopsie), spesso identificato nei giovani e generalmente <3 cm. L’aspetto è solido, spesso eterogeneo per pre-
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.445. Angiomi splenici. Formazioni ipoecogene aspecifiche nel parenchima della milza (frecce)
Fig. 3.447. Amartoma splenico. Formazione ipo-anecogena della milza (frecce)
a Fig. 3.446. Angioma splenico. Formazione ipo-anecogena disomogenea (frecce)
senza di aree ecogene, calcificazioni e lacune cistiche. L’ECD dimostra una discreta vascolarizzazione, con multipli vasi a disposizione radiale [Giovagnoni et al. 2005] (Figg. 3.447, 3.448, Video 3.40). Le lesioni focali ipoecogene della milza, associate o meno a splenomegalia, possono essere dovute a: ematomi non recenti, infarti, pseudotumori infiammatori, ascessi, cisti complicate, angiomi (raramente), linfangiomi, noduli di Osler, glicogenosi, emosiderosi (aree di risparmio), metastasi, linfomi. Salvo contesti clinici particolari, una lesione ipoecogena, francamente nodulare, è generalmente di tipo maligno, specie quando essa è di dimensioni significative [Robertson et al. 2001, Schmidt 2006]. La milza è interessata frequentemente dai processi linfomatosi e leucemici; mentre le forme primitive sono rare e costituite soprattutto da NHL; l’organo è frequentemente coinvolto nei casi sistemici di morbo
b Fig.448. Amartoma splenico. Massa splenica ipoecogena, rotondeggiante e relativamente omogenea (a), che nella scansione TC assiale in fase venosa presenta invece un aspetto più disomogeneo, specie centralmente (b, frecce)
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Ecografia in oncologia
di Hodgkin e di linfoma non Hodgkin. In ogni paziente con linfoma è indispensabile lo studio della milza, ai fini della stadiazione della malattia. L’organo viene coinvolto in circa il 30% dei pazienti con linfoma. L’US costituisce la metodica di prima istanza sebbene sia generalmente necessario uno studio TC e PET al fine di ricercare l’eventuale interessamento combinato delle stazioni linfonodali retroperitoneali, nonché allo scopo di inquadrare panoramicamente le strutture cervico-toraco-addomino-pelviche [Görg et al. 1997, Shirkhoda et al. 1990]. In genere vi è una splenomegalia con infiltrazione linfomatosa micro- e macroscopica; in molti casi la milza è ingrandita ma senza evidenza diretta di lesioni focali. È opportuno ricordare che questo non indica obbligatoriamente un coinvolgimento splenico diretto poiché può anche essere espressione, in circa 1/3 dei casi, di semplice congestione o iperplasia reattiva. In altri casi, specie nei soggetti con morbo di Hodgkin, l’organo può essere di dimensioni normali o aumentate ma è interessato da alterazioni a focolaio; peraltro le lesioni miliariche non sono sempre identificabili ecograficamente [Siniluoto et al. 1991]. I pattern di coinvolgimento splenico non diffuso sono quattro: micronodulare (nessuna lesione >3 cm), macronodulare (almeno una lesione >3 cm), bulky (almeno una lesione massiforme anche protrudente dal profilo d’organo) e infiltrante perisplenico (capsulare) [Schmidt 2006]. Le dimensioni delle lesioni focali sembrano correlarsi con il grado di malignità del processo: nei linfomi di basso grado prevale infatti la splenomegalia e le lesioni fini mentre in quelli di alto grado ricorrono soprattutto le lesioni macronodulari o massiformi [Görg et al. 1997]. Le lesioni focali, uniche o multiple, sono di solito ipoecogene disomogenee; in qualche caso l’ipoecogenicità è particolarmente netta e può mimare una patologia cistica. Talvolta invece queste focalità appaiono ecogene. L’ECD documenta scarsi segnali di flusso, prevalentemente perilesionali o intralesionali periferici, e non fornisce di solito informazioni addizionali di rilievo [Shirkhoda et al. 1990]. In genere vi è un’associata linfadenopatia dei linfonodi dell’ilo splenico e di quelli lomboaortici [Shirkhoda et al. 1990] (Figg. 3.449-3.451, Video 3.41 e 3.42). I sarcomi primitivi ed in particolare l’angiosarcoma sono tumori rari (1-2% dei sarcomi delle parti molli) ed aggressivi che si associano a metastasi precoci [Giovagnoni et al. 2005]. Talora la presentazione avviene con rottura ed emoperitoneo. La milza può risultare ingrandita e la massa appare di diversa ecogenicità, con struttura disomogenea e margini irregolari, talora frastagliati; sono possibili aree necrotiche ed emorragie sottocapsulari o intraperitoneali [Görg et al. 1991a, 1991b]. Nel sarcoma di Kaposi si rilevano multiple aree iperecogene, di aspetto complessivo simil-angiomatoso.
Fig. 3.449. Lesioni spleniche da leucemia mieloide acuta. Milza ingrandita e sovvertita da multiple aree ipo-anecogene, di dimensioni eterogenee. La d.d. deve essere posta soprattutto con lesioni ascessuali
Fig. 3.450. NHL splenico di alto grado. Multiple lesioni macronodulari, ipo-anecogene disomogenee, sparse nel parenchima della milza
Gli pseudotumori infiammatori (tumore infiammatorio miofibroblastico), caratterizzati da una proliferazione di cellule fusiformi con abbondante reazione flogistica, sono anch’essi spesso ipoecogeni, con aspetto di solito ben circoscritto e scarsa ecovascolarità [Giovagnoni et al. 2005]. Nonostante la cospicua vascolarizzazione di quest’organo, la localizzazione splenica di metastasi (non linfomatose) è piuttosto rara (0,3-10,3% dei pazienti oncologici), sovente tardiva (fase multimetastatica), e spesso sottoforma di micrometastasi non riconoscibili ecograficamente. L’infiltrazione per contiguità è rara e riguarda soprattutto tumori della grande curvatura gastrica o della coda pancreatica. Le forme ematogene sono in genere dovute al carcinoma del colon, della mammella, dell’utero o dell’ovaio o anche al
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
a Fig. 3.452. Metastasi spleniche da melanoma. Formazioni ipoisoecogene disomogenee, con alone ipoecogeno periferico, nel contesto della milza
b Fig. 3.451a, b. Linfoma splenico non Hodgkin, localizzazione unica. Grossolana massa alquanto ipoecogena, relativamente omogenea, con immagine centrale ecogena similcicatriziale, che slarga la metà inferiore dell’organo (a). La scansione TC assiale in fase venosa (b) dimostra una struttura endolesionale comparabile con quella ecografica (freccia)
melanoma; più rare come sedi di origine sono mammella, polmone e stomaco. Il carcinoma ovarico può raggiungere la superficie splenica per diffusione peritoneale e sviluppare impianti superficiali simili a quelli epatici: le lesioni superficiali sono più tipiche del carcinoma ovarico alla presentazione mentre quelle parenchimali ematogene si riscontrano soprattutto in caso di recidiva. Le metastasi spleniche possono essere di variabile ecogenicità: nella maggior parte dei casi si rilevano lesioni ipoecogene di forma ovalare, singole o multiple, localizzate più spesso alla periferia ma talora l’aspetto è più complesso, con disomogeneità interna o con ipoecogenicità più netta al centro che alla periferia della lesione; un aspetto a bersaglio, possibile anche nei linfomi, è tuttavia più caratteristico delle metastasi (alone ipoecogeno peri-
Fig. 3.453. Metastasi splenica da carcinoma mammario. Formazione ipo-anecogena disomogenea del polo splenico inferiore (frecce)
ferico nel 20% circa dei casi). In qualche caso si riconosce una disomogeneità diffusa dell’ecotessitura splenica, in assenza di singole focalità misurabili. Nelle metastasi da carcinoma ovarico si possono rilevare grossolane calcificazioni capsulari e/o formazioni similcistiche, con pareti spesse, setti o gettoni interni [Giovagnoni et al. 2005, Jeffrey et al. 1995]. L’ECD rileva qualche segnale vascolare intranodulare, poco specifico, risultando di solito di scarso ausilio diagnostico [Görg et al. 1994]. La CEUS identifica un’ipoecogenicità con “microcircolo” interno che diviene sempre più evidente in fase venosa [Catalano et al. 2006a] (Figg. 3.452-3.456). Bisogna ricordare che l’infarto splenico, anch’esso ipoecogeno, può talora assumere un aspetto rotondeggiante o ovalare e quindi simulare una lesione tu-
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Ecografia in oncologia
Fig. 3.455. Metastasi splenica da carcinoma ovarico. Area ipoecogena disomogenea sul versante anteriore della milza (frecce)
morale. Negli stadi precoci, infatti, l’aspetto è aspecifico e spesso non risulta distinguibile sul solo piano US da quello di ascessi, lesioni micotiche, metastasi e linfomi. Nella fase acuta, l’edema, l’infiammazione e la necrosi danno luogo ad un’area ipoecogena ben demarcata, in genere di aspetto cuneiforme e con margini “a carta geografica”, ma che può assumere anche una morfologia più rotondeggiante oppure essere relativamente ecogena [Robertson et al. 2001]. Talora le aree sono multiple o tendenti alla confluenza. L’ECD non riesce ad identificare segnali di flusso nell’area patologica [Görg et al. 1994]. Nel dubbio è indicato il ricorso estemporaneo con la CEUS, che ne rileva l’avascolarità, oppure il controllo US dopo pochi giorni [Catalano et al. 2006a]. Analoghe considerazioni valgono per l’ascesso, peraltro generalmente identificato in un contesto clinico differente, che può avere una struttura interna ipoecogena disomogenea, non francamente liquida o corpuscolata, e può presentare uno scarso o assente rinforzo posteriore. Gli ascessi e microascessi fungini e tubercolari, ipoecogeni o ecogeni con alone ipoecogeno periferico, possono simulare lesioni miliariche da metastasi o soprattutto da linfoma, considerando anche che il paziente ematologico, immunodepresso, è anche prono alle infezioni opportunistiche [Jeffrey et al. 1995]. Un accenno può essere fatto infine alle alterazioni perispleniche, ed in particolare alle milze accessorie. Queste sono presenti nei reperti autoptici nel 10-30% degli individui e passibili di ingrandimento per splenomegalia o splenectomia [Görg 2001]. Esse non creano generalmente problemi di diagnosi differenziale, presentandosi tipicamente come formazioni di dimensioni contenute (<3 cm), ben delimitate, ovalari-rotondeggianti, di ecotessitura analoga alla contigua milza e poste in prossimità di questa, di solito a livello parailare (Fig. 3.457). Nella diagnostica diffe-
Fig. 3.456. Metastasi splenica da carcinoma rinofaringeo. Lesione nettamente ipoecogena, disomogenea, che deforma la milza
Fig. 3.457. Milza accessoria. Piccola formazione rotondeggiante, isoecogena al parenchima splenico contiguo, senza segni di vascolarizzazione all’ECD
Fig. 3.454. Metastasi spleniche da melanoma. Formazioni ipoecogene disomogenee, ben delimitate, all’interno della milza, della quale bozzano il profilo
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.458. Aneurisma dell’arteria splenica. Formazione ipoanecogena con ampio guscio calcifico in prossimità dell’ilo splenico
renziale rientrano: linfonodi, lesioni del surrene sinistro, lesioni della coda pancreatica (pseudocisti, tumori), aneurismi dell’arteria splenica (specie se trombizzati), trombosi, aneurisma o varicosità della vena splenica, anse digiunali collabite, normale flessura colica sinistra [Görg 2001] (Fig. 3.458). Diverso è il caso per la splenosi, e cioè per lo sviluppo di nodulazioni di tessuto splenico dopo asportazione della milza, specie in seguito a traumi. La splenosi può localizzarsi in varie sedi, sia a livello della loggia splenica che altrove, compresa quella intraepatica, a livello glissoniano/sottoglissoniano. La natura può essere sospettata dall’US se il reperto è localizzato nella sede della milza, ma richiede ulteriori valutazioni se la splenosi si è invece sviluppata in altre sedi.
3.26. La linfadenopatia addominale: detezione e diagnostica differenziale Il drenaggio linfatico degli arti inferiori, delle formazioni pelviche e dei visceri addominali è assicurato dai vasi linfatici che decorrono parallelamente alla vena cava inferiore e all’aorta. Le principali stazioni linfoghiandolari che fanno parte di questo sistema di drenaggio sono la catena lombo-aortica (linfonodi peri- e para-aortici di destra e di sinistra), quelle in prossimità del tripode celiaco, dell’ilo epatico, dell’ilo renale, pericavali e mesenteriche (Fig. 3.459). Le stazioni linfoghiandolari iliache, comuni, interne ed esterne, drenano tutto il territorio pelvico. Lo studio di queste stazioni non viene praticato di scelta con l’US, sebbene questa metodica possa identificare una patologia linfonodale nel corso di esami eseguiti per altra indicazione o comunque in occasione dello studio di affezioni d’organo correlate con dette adenopatie. L’US viene effettuata di routine nell’analisi di
Fig. 3.459. Nomenclatura dei linfonodi retroperitoneali. Terminologia dei linfonodi lomboaortici in relazione ai grossi vasi retroperitoneali
strutture retroperitoneali quali i reni, il pancreas e l’aorta. In questi casi, o nel corso di qualsiasi esame US dell’addome o della pelvi, è possibile rilevare delle tumefazioni linfoghiandolari. L’US ha un ruolo secondario ma non trascurabile nella valutazione dei linfonodi addomino-pelvici. Spesso le stazioni linfoghiandolari, specie quelle più profonde, risultano di approccio difficoltoso e l’accuratezza dell’US nell’identificare, ma soprattutto nell’escludere, la presenza di adenopatie risulta limitata. Inoltre per l’ecografia (così come per le altre metodiche di imaging) l’unico criterio discriminante risulta quello dimensionale. Nonostante ciò è necessario segnalare come l’US sia spesso la prima metodica ad essere impiegata in questi pazienti e come essa consenta spesso un primo inquadramento della condizione patologica. È chiaramente importante valutare, sia nelle adenopatie linfomatose che in quelle metastatiche, l’interessamento sincrono di altri organi addominali, ed in particolare i parenchimi ipocondriaci ed il tubo digerente. Ne deriva la necessità, di fronte ad un reperto di tumefazione linfonodale, di praticare un accurato studio di tutte le strutture addomino-pelviche. L’US può essere infine impiegata, in alternativa alla TC, per la guida alla biopsia delle formazioni linfonodali addomino-pelviche, anche quando di piccole dimensioni [Fisher et al. 1997]. In condizioni normali i linfonodi sono riconoscibili solo di rado all’esplorazione ecografica: la loro limitata grandezza e la loro ecogenicità, simile a quella del tessuto connettivo retroperitoneale, ne rendono difficile il riconoscimento US [Smeets et al. 1990]. Si parla
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di linfadenomegalia quando il diametro maggiore supera 10 o 15 mm. La presenza di un gruppo di ghiandole di 6-10 mm è già sospetto ma risulta di raro rilievo ecografico essendo appannaggio soprattutto della TC. Peraltro molti autori raccomandano di misurazione del diametro minore (trasverso) del linfonodo o di entrambi i diametri. Le adenopatie possono consistere in multiple tumefazioni linfonodali tra loro indipendenti, conglomerato di linfonodi tra loro comunque distinguibili, ampio conglomerato di linfonodi poco differibili morfovolumetricamente tra di loro. Salvo casi di particolare volume, gli ingrandimenti linfonodali dell’addome non sono tali da consentire uno studio dell’architettura interna, che appare genericamente ipoecogena. A differenza delle adenopatie superficiali, né l’ecostruttura né il pattern di vascolarizzazione al color-Doppler sono di ausilio nella differenziazione delle tumefazioni linfonodali, né nel riconoscimento della necrosi o della metaplasia adiposa dei linfonodi, che generalmente non sono infatti riconoscibili all’US, almeno non come con la TC. I linfonodi ingranditi possono apparire ipoecogeni o ecogeni, con o senza ombra acustica posteriore, spesso a contorni lobulati, rotondeggianti o ovali, unici o confluenti. Grossi pacchetti linfonodali possono apparire come masse lobulate, ipoecogene disomogenee, con eventuali depositi calcifici all’interno. La linfadenomegalia può improntare o comprimere i vasi adiacenti, sia la vena cava inferiore che anche l’aorta, e si può estendere dai vasi iliaci sino allo iato diaframmatico dell’aorta e della vena cava inferiore. I linfonodi paraortici di frequente obliterano il bordo anteriore dell’aorta, producendo così una “silhouette ecografica” che aiuta a discernere una linfadenopatia da una patologia aortica. Quelli mesenterici assumono a volte la morfologia di uno “pseudorene”. Meno frequente è l’interessamento isolato di un linfonodo, più spesso si rilevano linfadenopatie multiple, con linfonodi ingranditi in vario modo e talvolta conglomerati in modo da formare una vera e propria massa. Il solo dato della grandezza non è un elemento diagnostico valido per la distinzione di una linfadenopatia benigna da una maligna ed è raramente possibile, all’US, riconoscere l’ilo ghiandolare dei linfonodi profondi. Benché i linfonodi patologici siano generalmente piuttosto poveri di echi, essi possono anche avere di media intensità; spesso il linfonodo metastatico è più ecogeno di quello linfomatoso. Nei casi dubbi, sia nei grossi pacchetti che nelle piccole adenopatie, può essere necessaria la biopsia TC- o anche US-guidata [Fisher et al. 1997]. Una presunta adenomegalia deve essere differenziata dai vasi (aorta e suoi rami viscerali, vena cava inferiore, sistema portale, vena gonadica, ecc.), dalle anomalie vascolari (aneurismi, vena cava inferiore sinistra, doppia vena cava inferiore, dilatazione della
vena azygos o della vena gonadica, varici da ipertensione portale, ecc.), dall’uretere dilatato, dalle anse intestinali normali o patologiche, dalle raccolte (linfoceli, ascessi, pseudocisti pancreatiche, ecc.) e masse retroperitoneali cistiche, dalla fibrosi retroperitoneale, dai pilastri diaframmatici, dal muscolo psoas con le sue varianti [Smeets et al. 1990]. Con l’eccezione dell’aorta e della vena cava, tutte le altre formazioni vascolari sono, in condizioni normali, di limitate dimensioni trasversali, inferiori a quelle di una linfadenomegalia. Segmenti intestinali, come il duodeno a livello pericefalopancreatico e le prime anse digiunali tra ilo splenico, coda pancreatica e retroperitoneo di sinistra possono simulare delle linfadenopatie. Tuttavia la sede, la presenza di un’attività peristaltica e la visibilità di nuclei gassosi luminali consentono generalmente un’adeguata differenziazione. È necessario considerare poi che alterazioni venose retroperitoneali possono mentire dei linfonodi, specie all’osservazione sul piano assiale, come ad esempio nel caso di varici retroperitoneali da ipertensione portale. Lo stesso dicasi per le anomalie della vena cava inferiore come nel caso di vene lombari ascendenti distese e dilatate. In tutti questi casi è utile lo studio del flusso con l’ECD. A livello ilare epatico si segnala come sia il margine inferiore del lobo caudato che il suo processo papillare possono simulare una linfadenopatia: la distinzione si basa sulla dimostrazione di una continuità con il restante parenchima epatico [Johnson et al. 2000]. Lo sviluppo di linfadenopatie metastatiche, profonde ma anche superficiali, costituisce un fattore prognostico negativo per la maggior parte delle neoplasie. La maggior parte dei tumori non è in grado di crearsi una rete linfatica analoga a quella vasale neoangiogenetica e penetra nei collettori linfatici per infiltrazione diretta o per invaginazione cellulare nell’endotelio linfatico, raggiungendo poi i linfonodi più vicini con sviluppo di foci metastatici a partire dal seno sottocapsulare [Carrington 2004]. La localizzazione delle linfadenopatie addomino-pelviche dipende in gran parte dalla sede di origine del tumore primitivo. I tumori testicolari e quelli ovarici provocano soprattutto linfadenopatie lomboaortiche. In particolare le neoplasie testicolari interessano soprattutto i linfonodi lomboaortici omolaterali; il coinvolgimento isolato di quelli controlaterali è molto raro. Le metastasi originate dal testicolo sinistro si localizzano come prima sede, in caso di linfonodo singolo, in corrispondenza dell’ilo renale omolaterale subito caudalmente alla vena renale, per poi estendersi a livello intercavo-aortico e preaortico ma non controlateralmente, mentre quelle di destra tendono a localizzarsi a livello mediano (linfonodo singolo intercavo-aortico o paracavale destro), potendosi poi estendere anche dal lato opposto, in corrispondenza dell’ilo renale (cfr. Fig. 3.358). La localizzazione linfonodale pelvi-
Capitolo 3 Le problematiche cliniche ca dei tumori su testicoli normodiscesi è invece poco frequente e segue di solito quella retroperitoneale massiva, alla quale possono associarsi anche adenopatie mesenteriche o retrocrurali. Per quanto riguarda i carcinomi ovarici, questi possono coinvolgere i linfonodi iliaci e inguinali ma hanno come sede prediletta la regione lomboaortica: dall’ovaio destro vengono coinvolti soprattutto i linfonodi precavali e laterocavali destri, dalla biforcazione aortica sino al livello dell’ilo renale omolaterale, mentre dall’ovaio sinistro vengono interessanti per primi i linfonodi dell’ilo renale e paraortici sinistri, ad un livello in generale più elevato che nel lato opposto. I tumori del collo e del corpo dell’utero, così come quelli vescico-prostatici, interessano inizialmente i linfonodi iliaci interni ed esterni prima di diffondersi verso l’alto. Il cancro dello stomaco coinvolge i linfonodi perigastrici, peripancreatici, del piccolo omento e celiaci, e solo in un secondo momento quelli lomboaortici e ilari epatici (Figg. 3.460-3.464).
Fig. 3.462. Linfadenopatie metastatiche peripancreatiche da carcinoma gastrico. Due linfonodi nettamente ipoecogeni in sede retrogastrica
a Fig. 3.460. Linfadenopatie metastatiche da carcinoma colico. Massa linfonodale tra regione pancreatica e stomaco
b
Fig. 3.461. Linfadenomegalie metastatiche da HCC fibrillare. Adenopatie, relativamente ecogene ed omogenee, poste a livello intercavo-aortico e porto-cavale (frecce)
Fig. 3.463a, b. Linfadenopatia retroperitoneale metastatica da seminoma. Voluminosa massa ecogena disomogenea ad origine paraortica sinistra e con ampio sviluppo anteriore (a). La correlazione TC (b) conferma la massa ipodensa disomogenea in sede retroperitoneale sinistra
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a Fig. 3.464. Linfadenopatie lomboaortiche da carcinoma colico. Linfonodi retroperitoneali confluenti
Caratteristico delle linfadenopatie linfomatose è l’esteso interessamento di linfonodi ingranditi, rotondeggianti e spesso lobulati, confluenti a formare pacchetti voluminosi [Wojnar et al. 1992]. Un dato significativo ai fini della diagnosi è la contemporanea presenza di localizzazioni linfomatose nei reni, nel fegato, nella milza e nei surreni. L’interessamento linfomatoso dei linfonodi mesenterici che decorrono lungo i vasi omonimi è caratteristico: in questi casi si osserva l’aspetto “a sandwich” con le linfadenopatie poste anteriormente e posteriormente ai vasi, dinanzi all’aorta e alla vena cava [Wojnar et al. 1992]. L’ECD, dimostrando i rapporti tra i vasi retroperitoneali con i loro rami viscerali e l’assenza di turbolenze di flusso a livello di detti vasi, consente la distinzione tra le linfadenopatie a livello della loggia pancreatica ed un carcinoma del pancreas (Figg. 3.4653.469, Video 3.43). Ultime entità da segnalare quali possibili cause di adenopatie addominali, in particolare mesenteriche e retroperitoneali, sono la malattia di Castleman (linfadenopatia angiofollicolare) e le sindromi da malassorbimento intestinale (in particolare il morbo di Whipple); nella prima è caratteristica l’ipervascolarità delle neoformazioni al color-Doppler [Gimondo et al. 1996, Konno et al. 1998] (Fig. 3.470). L’interessamento dei linfonodi del legamento epato-duodenale costituisce un problema particolare, talora di difficile gestione [Cassani et al. 1990]. Infatti, circa il 10% dei processi linfomatosi interessa i linfonodi di questo legamento, ma essi sono coinvolti di frequente in caso di una patologia epatica cronica: una linfadenopatia dei linfonodi dell’ilo epatico è presente nell’epatopatia cronica (sino nel 39% dei casi), nonché nelle metastasi epatiche, nelle patologie colecistiche (senza o con colangite) e talvolta in caso di
b Fig. 3.465a, b. Linfonodi mesenterici da leucemia linfatica cronica. Multipli linfonodi ipoecogeni, non confluenti, disposti ventralmente e dorsalmente ai vasi mesenterici sezionati longitudinalmente (a). La scansione trasversale (b) conferma le linfadenomegalie, alcune delle quali mostrano dei foci ecogeni subcalcici interni (frecce)
Fig. 3.466. Linfoma retroperitoneale e mesenterico, segno del “sandwich”. L’ECD dimostra come i linfonodi ingranditi si alternino ai vasi retroperitoneali e mesenterici
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
a Fig. 3.467. Linfoma retroperitoneale. In un soggetto femminile particolarmente magro, l’impiego della sonda superficiale consente di ben identificare la linfadenomegalia ipo-anecogena paraortica sinistra, che congloba l’arteria mesenterica inferiore
b Fig. 3.469a, b. Linfoma mesenterico. Numerose linfadenomegalie ipoecogene, relativamente omogenee, non confluenti, ipovascolarizzate all’ECD, poste tra le pieghe mesenteriche
Fig. 3.468. Linfoma retroperitoneale. Due linfadenopatie intercavo-aortiche (una tra i calibri), distinguibili dai vasi grazie all’ECD
gastrite e pancreatite [Gimondo et al. 1996, Soresi et al. 2003] (Fig. 3.471). Per quanto riguarda l’epatopatia cronica, le linfadenomegalie ilari si riscontrano soprattutto nei soggetti HCV+ o con cirrosi biliare e costituiscono, da un lato, un segno di attività del processo, dall’altro un elemento prognostico, riscontrandosi soprattutto nelle forme più severe di malattia [Soresi et al. 2003]. Anche in soggetti portatori di HCC si è visto che nella maggioranza dei casi i linfonodi ingranditi dell’ilo epatico e del piccolo omento sono espressione della malattia di base e non della complicanza neoplastica.
Fig. 3.470. Linfadenopatie adipose da morbo di Whipple. Ampio infarcimento adiposo di formazioni linfonodali mesenteriche, riconoscibili nel loro profilo solo anteriormente (frecce)
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Fig. 3.471. Linfadenopatie del piccolo omento da carcinoma gastrico. Multipli piccoli linfonodi non confluenti, tra ilo epatico e regione cefalopancreatica
3.27. La tumefazione surrenale: detezione e caratterizzazione La dimostrazione US dei surreni, di piccole dimensioni e localizzati in profondità, richiede particolare attenzione alla tecnica di scansione, con talvolta uno studio laborioso per poter trovare la via di approccio più valida per poter esaminare i surreni. Ciò risulta particolarmente vero nella valutazione di soggetti obesi e/o meteorici. Benché con l’US, specie a sinistra, non tutto il surrene e non in ogni caso possa essere esplorato, è tuttavia costantemente possibile la visualizzazione o l’esclusione di ingrandimenti surrenalici significativi. Nei casi studiati in prima istanza con US, quando il sospetto di iperplasia persiste nonostante la negatività del reperto, è opportuno procedere ad una TC o ad una RM. È necessario inoltre segnalare come l’US possa essere impiegata in alternativa alla TC nella biopsia percutanea delle formazioni surrenaliche (previa profilassi farmacologica nel sospetto di feocromocitoma) ed anche nella PEI degli adenomi. Il surrene destro è meglio esaminabile rispetto all’adelfo; un’ottimale rappresentazione può essere ottenuta con il paziente nella posizione obliqua anteriore destra o in decubito prono, sfruttando il lobo destro del fegato come finestra acustica. Nei soggetti più magri è anche possibile una valutazione per via anteriore, trasversale, con paziente supino. Il polo superiore del rene destro e la vena cava inferiore costituiscono degli utili punti di repere. Il surrene sinistro risulta di studio più difficoltoso del controlaterale, per la presenza del gas endogastrico, per la minore ampiezza della finestra acustica splenica rispetto a quella epatica, e per
la minore disponibilità di punti di riferimento; esso può essere visualizzato con il paziente nella posizione obliqua anteriore sinistra o in decubito prono, usando la milza come finestra acustica e con scansioni andanti dalla linea medioascellare a quella ascellare anteriore. In soggetti magri la visualizzazione del surrene sinistro può essere ottenuta con il paziente supino, previa distensione idrica dello stomaco; il punto di repere, in questo caso, è dato dal polo superiore del rene e, secondariamente, dalla coda del pancreas [Bertolotto et al. 2006, De Nicola et al. 2005]. I surreni possono essere indagati con metodiche di imaging quando risultano responsabili di un’iperfunzione endocrina da iperincrezione primitiva o secondaria dei suoi ormoni, oppure di un’ipofunzione determinata da deficit enzimatici o da altre condizioni che determinano una ridotta produzione ormonale. La sindrome di Cushing con soppressione dell’ACTH, dovuta all’iperincrezione di cortisolo, può essere dovuta ad un adenoma surrenalico o più di rado ad un’iperplasia bilaterale o ad un carcinoma (20-30% dei Cushing surrenalici dell’adulto); la sindrome di Conn, da iperproduzione di aldosterone, può essere sottesa da un adenoma (generalmente <2 cm) o da un’iperplasia bilaterale, eccezionalmente (2% dei casi) da un carcinoma; l’iperincrezione di catecolamine è presente nel feocromocitoma, che può essere bilaterale nel 10% dei casi ed extrasurrenalico (generalmente, regioni paraortiche retroperitoneali) nel 10% dei casi. In tutte queste forme l’ipotesi diagnostica è clinico-laboratoristica e la valutazione di imaging viene fatta con la RM e soprattutto con la TC. Le lesioni delle ghiandole surrenaliche prive di espressione endocrina sono costituite dagli adenomi e carcinomi non funzionali, dal mielolipoma, dalle cisti e da forme rare (ganglioneuroma, linfoma, ematomi, granulomatosi). Inoltre queste ghiandole costituiscono una localizzazione piuttosto frequente di metastasi ematogene e la loro valutazione risulta parte integrante della stadiazione e del follow-up di varie neoplasie, innanzitutto di quella polmonare. Inoltre, con la sempre più massiccia diffusione delle metodiche tomografiche, occorre non di rado di identificare in maniera occasionale (“incidentaloma surrenalico”) delle tumefazioni surrenaliche in soggetti asintomatici, sia oncologici che non. Quella del cosiddetto incidentaloma costituisce una problematica frequente e complessa, che dipende anche dalle dimensioni della lesione e dall’anamnesi oncologica positiva o negativa del paziente: sebbene la maggior parte delle tumefazioni surrenaliche sia benigna e non secernente, è necessario definirne comunque il contesto clinico. Quando s’identifica una lesione <4-5 cm in un paziente senza storia pregressa di tumore extrasurrenalico, è necessario fare una valutazione completa del profilo ormonale surrenale: le lesioni iperfunzionan-
Capitolo 3 Le problematiche cliniche ti vengono trattate, mentre quelle non iperfunzionanti vanno al follow-up per i successivi 18 mesi (con l’US, se accessibili) e, se di dimensioni stabili, vengono etichettate come adenomi non funzionanti e non più monitorizzate. Dinanzi ad una lesione >4-5 cm si opta generalmente per un trattamento chirurgico (a meno che l’aspetto non sia francamente adiposo): la biopsia ha infatti un’accuratezza limitata (54-86%) nell’escludere un carcinoma primitivo, la cui probabilità è del 6% per lesioni surrenaliche tra i 4 ed i 6 cm di diametro, ma del 25% per masse >6 cm. Più complesso il discorso nel paziente con neoplasia extrasurrenalica sincrona o pregressa: in questo caso il riscontro incidentale di una tumefazione surrenalica non associata a segni di iperfunzione endocrina ha una probabilità del 32-72% di essere metastatica e pertanto viene valutata con studio TC mirato o PET e, nel caso queste indagini risultino sospette o equivoche, anche con biopsia (le forme non sospette vanno invece al monitoraggio, con US o TC) [Jeffrey et al. 1995, Mitchell et al. 2007]. Le lesioni patologiche del surrene sono rappresentate dalle cisti, dall’iperplasia e dai tumori. Questi ultimi possono essere benigni o maligni, primitivi o secondari, e possono originare dalla corticale o dalla midollare. Quelli della corticale comprendono l’adenoma, il carcinoma ed il mielolipoma; quelli della midollare il feocromocitoma ed il neuroblastoma. L’US permette una buona visualizzazione delle tumefazioni surrenaliche ed una relativa possibilità della loro caratterizzazione. Il valore predittivo positivo è certamente superiore a quello negativo e nel dubbio è sempre consigliabile ricorrere alle altre metodiche di imaging e/o a quelle medico-nucleari. Solo una tecnica accurata consente di visualizzare con un sufficiente grado di riproducibilità e sicurezza i surreni, anche considerando che l’US non è nell’adulto la metodica di scelta rappresentata invece dalla TC (o in alternativa dalla RM) [Dunnick 1990]. Bisogna tener conto però che l’US è la prima metodica impiegata nel sospetto di una patologia dell’addome superiore, ed inoltre va sottolineato il fatto che può essere presente una patologia surrenalica anche in assenza di una specifica sintomatologia. Così, ad esempio, una metastasi può essere rilevata nel corso di una ricerca US di metastasi epatiche, o un tumore primitivo surrenalico può essere scoperto nel corso di un’indagine addominale o renale effettuata per altro motivo. Nel sospetto clinico di endocrinopatia surrenalica andrebbe prima confermata la diagnosi con i dosaggi ormonali specifici e poi ricercata la patologia con le metodiche di imaging, anziché procedere direttamente ad un approfondimento diagnostico. Analoga considerazione è valida per i pazienti con ipertensione arteriosa in cui si voglia escludere una natura secondaria della stessa.
Le lesioni cistiche delle surrenali sono poco frequenti, generalmente asintomatiche e comunque di limitato interesse diagnostico intrinseco. Oltre la metà dei casi è di natura congenita (linfangioma) o degenerativa (pseudocisti); in alternativa queste formazioni sono secondarie ad emorragia in un adenoma o in un altro tumore surrenalico necrotico come il feocromocitoma o il neuroblastoma [de Bree et al. 1998, Trojan et al. 2000]. Non di rado le metastasi vanno incontro a degenerazione cistica. Gli aspetti sono quelli tipici di una cisti localizzata in sede soprarenale: formazione rotondeggiante/ovalare, anecogena, con pareti sottili e ben definite, rinforzo acustico posteriore. Le cisti possono mostrare un contenuto interno anecogeno o finemente corpuscolato, con pareti sottili o spesse, e con possibile presenza di calcificazioni parietali (da qualche calcificazione isolata ad una rima calcifica circonferenziale) o anche qualche sottile setto interno [de Bree et al. 1998]. Comunque è spesso difficile la distinzione tra una grossa cisti surrenalica e cisti esofitica del polo superiore del rene. Nei casi di cisti da degenerazione neoplastica è spesso presente anche una componente solida, o quantomeno un’irregolarità delle pareti. Ogni caso in cui l’aspetto non sia quello della cisti semplice dovrebbe essere indagato con ulteriori indagini e/o con aspirazione percutanea, altrimenti non sono necessari né l’approfondimento diagnostico né il monitoraggio nel tempo. Un’iperplasia surrenalica può essere asintomatica oppure esprimersi con segni di insufficienza ghiandolare: sindrome di Cushing, sindrome adreno-genitale, sindrome di Conn. Nella sindrome e nella malattia di Cushing si ha un diffuso ingrandimento dei surreni bilateralmente, ma con integrità della struttura e della morfologia ghiandolare complessiva. L’aspetto è quindi di formazioni ipoecogene ben delimitate. Un diffuso ingrandimento surrenalico si ha nella tubercolosi, nell’istoplasmosi ed in altre malattie infettive. In questi casi le ghiandole sono diffusamente e simmetricamente ingrandite, a contorni arrotondati e spesso con un’aumentata ecogenicità. In molti casi di iperaldosteronismo (sindrome di Conn) è presente un’iperplasia surrenalica bilaterale, spesso accompagnata da noduli iperplastici di meno di 1 cm non sempre rilevabili come tali all’esplorazione US [Bertolotto et al. 2006] (Fig. 3.472). Un adenoma di diametro <2,5 cm si riscontra autopticamente nel 2-9% degli individui ed è generalmente non funzionante. La frequenza nella pratica clinica è di gran lunga minore. Generalmente il riscontro di un adenoma surrenalico è del tutto casuale, nel corso di un’esplorazione US praticata per altri motivi. Circa una metà dei pazienti che presentano sintomi da iperaldosteronismo ha un adenoma che è generalmente unilaterale e di piccole dimensioni (2-
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Fig. 3.472. Iperplasia surrenalica. Minimo ispessimento, vagamente nodulare, del surrene destro (frecce)
Fig. 3.473. Adenoma surrenalico in paziente con metastasi epatiche da carcinoma polmonare. Formazione ipoecogena del surrene destro (freccia lunga) associata ad infiltrazione ipoecogena epatica (frecce brevi)
2,5 cm). Una metà di questi casi è dovuta ad iperplasia bilaterale. L’aspetto è quello di una massa ipoecogena ben delimitata. Quando l’adenoma solitario è piccolo risulta difficile, se non impossibile, distinguerlo da un nodulo iperplastico. In genere i noduli iperplastici sono multipli, mentre l’adenoma funzionante si associa ad un’atrofia del surrene controlaterale (Fig. 3.473). Il carcinoma surrenalico è un tumore con alto grado di malignità e prognosi infausta, anche perché diagnosticato nel 70% dei casi in stadio III/IV. Piuttosto raro (0,05-0,2% di tutti i tumori maligni), talora familiare, si verifica nell’adulto (picco 4-7° decennio) ma talora anche nella prima infanzia, più nel sesso femminile per le forme funzionanti (59%) e maggiormente in quello maschile per quelle non funzionanti (41%) [Reznek et al. 2004a]. La grandezza di questi tumori è molto varia, da 3 a 22 cm di diametro, e spesso essi sono alquanto voluminosi al momento della scoperta, specie se non secernenti. La distinzione tra adenoma e carcinoma non è agevole, talvolta difficile anche all’esame istologico. Nel 50% dei casi il carcinoma surrenalico è iperfunzionante e tende ad essere più grosso; può calcificare ed andare incontro ad una degenerazione cistica. Si presenta come una massa disomogenea, con componenti ipoecogene necrotiche di variabile ampiezza e calcificazioni amorfe. L’aspetto in caso di piccolo carcinoma (da 2 a 6 cm) è quello di una massa omogenea di modesta ecogenicità mentre quelli più grossi mostrano al centro un focolaio ipoecogeno dovuto a necrosi o emorragia. Nel 19% dei casi sono presenti delle calcificazioni. Il tumore tende ad invadere le vene surrenaliche e renali per poi raggiungere la vena cava inferiore, la vena sovraepatica ed anche l’atrio destro; per documentare
quest’invasione venosa, presente sino nel 10% dei casi, è opportuno il ricorso ad uno studio ECD. Sedi frequenti di metastatizzazione, accessibili all’US, sono: fegato, linfonodi, retroperitoneo, cavità peritoneale. Il mielolipoma è un tumore benigno, non raro, contenente in varia proporzione vasi sanguigni, tessuto adiposo ed elementi cellulari del midollo osseo. Il mielolipoma può essere microscopico ma può anche raggiungere i 30 cm. In genere è unilaterale ma sono stati descritti anche casi che interessano entrambi i surreni. Sono in genere asintomatici, ma la comparsa di un’emorragia nel contesto della neoplasia provoca un dolore al fianco. Le forme a prevalenza adiposa sono quelle meglio caratterizzabili e si mostrano come masse ecogene o in prevalenza ecogene nella loggia surrenalica. La maggiore presenza di tessuto mielomatoso può essere invece causa di aree ipoanecogene nel contesto della lesione, così come fenomeni emorragici provocano la formazione di focolai ipoanecogeni. Nuclei calcifici possono creare immagini ecogene puntiformi, ma spesso queste calcificazioni sono troppo piccole per essere rilevate con l’US. Un piccolo mielolipoma può essere mascherato dal grasso perirenale, così come un accumulo di questo grasso o un angiomiolipoma esofitico del polo renale superiore possono simulare un mielolipoma surrenalico [Musante et al. 1988] (Fig. 3.474, Video 3.44). Il feocromocitoma origina dalla midollare surrenalica nel 90% dei casi; da strutture extra-surrenaliche (gangli simpatici paravertebrali o parete vescicale) nel restante 10%. Questo raro tumore, a crescita lenta, si sviluppa maggiormente nell’adulto, tra il 4° ed il 6° decennio di vita; può verificarsi però anche nell’infanzia. Può far parte di una MEN: in questo caso il tumore, presente sin dall’infanzia e spesso multi-
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.474. Mielolipoma surrenalico. Formazione iperecogena, relativamente omogenea e delimitata, del surrene destro
centrico, ha generalmente un grado basso di malignità. La secrezione di catecolamine (adrenalina e noradrenalina) da parte di questo tumore è causa di tachicardia, cefalea ed ipertensione arteriosa e viene dimostrata mediante dosaggio urinario. Il feocromocitoma è maligno nel 5-13% dei casi, specie se extrasurrenalico; l’invasione dei tessuti adiacenti non è un indice di malignità, lo è invece lo sviluppo di linfadenopatie e metastasi (epatiche). Nel 10% dei casi il feocromocitoma è multicentrico e nel 5% dei casi è bilaterale; nell’infanzia la multicentricità risulta più frequente. L’esplorazione US ha un alto grado di sensibilità, con un quadro non troppo dissimile da quello del carcinoma: il tumore tende ad essere grosso (in media 5-6 cm), più o meno omogeneamente ipoecogeno e relativamente marginato. Un’emorragia o una necrosi provocano la formazione al centro di un’area ipo-anecogena oppure determinano un aspetto “complex” della formazione. Il feocromocitoma può essere del tutto cistico e presentare un livello liquidoliquido, così come può dar luogo a calcificazioni [Reznek et al. 2004a]. Il neuroblastoma è il tumore solido extracranico più frequente nell’infanzia, predilige i primi 5 anni di vita, potendo talora essere anche funzionalmente attivo [Hugosson et al. 1999, Siegel 2004]. Pur potendo localizzarsi ovunque lungo le catene del simpatico, dal collo alla pelvi, predilige l’addome (2/3 dei casi) ed in particolare il surrene (50-75% dei casi). Alcuni casi vengono attualmente diagnosticati nell’epoca prenatale, grazie all’identificazione ecografica di tumefazioni delle logge surrenaliche. Ai fini della diagnosi bisogna tener conto del dato dell’età, piuttosto che basarsi sull’aspetto ecografico, che è molto vario sebbene tenda di solito all’iperecogenicità [Amund-
son et al. 1987]. La massa può essere prevalentemente sovrarenale o paravertebrale e risulta disomogenea per presenza aree ipo-anecogene necrotico-emorragiche, di lacune similcistiche e di foci ecogeni calcifici [Siegel 2004]. Significativa è soprattutto la presenza di calcificazioni nel contesto della neoplasia, che appaiono come nuclei iperecogeni, talora accompagnati da ombra acustica posteriore: i casi più tipici si presentano infatti come masse disomogenee e con inclusioni calcifiche di dimensioni medio-grandi [Amundson et al. 1987, Hugosson et al. 1999]. L’ECD mostra una certa vascolarizzazione, periferica, centrale o diffusa. Un importante criterio di stadiazione è dato dalla diffusione o meno aldilà della linea mediana, così come vanno ricercati i segni di impegno linfonodale, infiltrazione locale (organi contigui, vasi, muscoli lombari, astuccio vertebrale, ecc.), di metastatizzazione epatica. La diagnosi differenziale si pone soprattutto con il tumore di Wilms, altra frequente neoplasia pediatrica. Le rare varianti cistiche, riscontrabili soprattutto nei neonati, vanno differenziate da altre formazioni cistiche di pertinenza surrenalica e perisurrenalica. Le forme più voluminose e che comprimono nettamente il fegato vanno inoltre distinte da masse epatiche e specie dall’epatoblastoma [Hugosson et al. 1999]. Dinanzi al riscontro di una massa con le caratteristiche sovradescritte è indicata l’esecuzione di una TC toraco-addominale e di una scintigrafia ossea. Le metastasi surrenaliche sono molto frequenti, costituendo la quarta localizzazione di secondarietà dopo polmone, fegato e ossa, e si verificano soprattutto nel cancro del polmone (30-40% dei casi in fase metastatica) e più di rado nel carcinoma gastrico, mammario, renale e pancreatico, oppure nel melanoma; anche nei linfomi la tumefazione di uno o entrambi i surreni è relativamente frequente, pur potendo essere reattiva. Bisogna comunque ricordare che alcune neoplasie secernenti ACTH possono determinare un’iperplasia surrenale non metastatica. Inoltre, in metà dei casi, l’interessamento metastatico è bilaterale e quindi la tumefazione di entrambi i surreni non costituisce assolutamente un criterio differenziale rispetto all’iperplasia e all’adenoma. Le metastasi si manifestano sottoforma di masse in media di 3,5 cm di diametro massimo, anche perché quelle <2 cm sono difficilmente riconoscibili all’US. L’aspetto delle metastasi non è assolutamente specifico, e di varia ecogenicità, sebbene nella maggioranza dei casi prevalga l’ipoecogenicità. La forma è generalmente tondeggiante o ovalare e le dimensioni contenute. Le masse più voluminose presentano in genere aree disomogenee di necrosi o emorragia e talora assumono un aspetto similcistico, specie centralmente; le calcificazioni sono rare. In associazione con altre localizzazioni metastatiche, ad esempio con quella epatica,
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l’approfondimento diagnostico non è necessario. Se l’ingrandimento surrenalico è invece isolato ed unilaterale deve essere prima esclusa la presenza di un adenoma non funzionante: le dimensioni notevoli (il 90-95% delle lesioni >3 cm è maligna) e/o la disomogeneità ecostrutturale suggeriscono la natura metastatica, ma US ed ECD sono spesso insufficienti ed è necessario ricorrere ad approfondimento con TC o RM, alla FNAC o al controllo a breve distanza di tempo [Ghiatas et al. 1996] (Figg. 3.475-3.481). Il linfoma surrenalico primitivo è raro, mentre l’interessamento surrenalico secondario è frequente ed in genere bilaterale. Esso riguarda soprattutto le forme non Hodgkin e può avere le caratteristiche dell’interessamento diffuso, dando luogo ad un’iperplasia, oppure quelle di una vera e propria massa. È spesso presente una tumefazione dei linfonodi retro-
peritoneali o un interessamento di altri organi addominali. L’aspetto è aspecifico. Generalmente il linfoma appare ipoecogeno ma talvolta risulta anecogeno e tale da simulare una formazione cistica. Le masse linfomatose possono però presentarsi anche come ecogene; in quest’evenienza l’aspetto di una surrenale risulta differente rispetto a quello della controlaterale (Fig. 3.482). I pilastri del diaframma possono essere fonte di errori interpretativi, potendo essere confusi con le ghiandole surrenaliche [O’Kane et al. 2000]. Analoga considerazione è valida a destra per la vena cava inferiore che, nelle immagini trasversali, può simulare un surrene ingrandito. Inoltre un surrene nodulare può apparire poco distinguibile dal profilo epatico interno e quindi risultare misconosciuto ed all’opposto una lesione esofitica del fegato può simulare un’affe-
Fig. 3.475. Metastasi surrenalica da adenocarcinoma polmonare. Piccolo nodulo rotondeggiante, relativamente omogeneo, ben delimitato, del surrene destro
Fig. 3.477. Metastasi surrenalica da melanoma. Nodulo nettamente ipoecogeno del surrene sinistro
Fig. 3.476. Metastasi surrenalica da melanoma. Nodulo discretamente ipoecogeno (tra i calibri) del surrene destro
Fig. 3.478. Metastasi surrenalica da melanoma. Neoformazione ipoecogena disomogenea, ben delimitata, del surrene destro
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
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Fig. 3.479a, b. Metastasi surrenaliche bilaterali da melanoma. Grossolana tumefazione dei surreni, con aspetto più ipoecogeno e definito a destra (a) che a sinistra (b)
Fig. 3.481. Metastasi surrenalica da melanoma. Voluminosa massa ipoecogena disomogenea, a partenza dal surrene sinistro e che giunge in contatto con la milza (m) ed il rene sinistro (s) e che inoltre disloca nettamente il pancreas e la vena splenica (frecce). Quest’ultimo reperto dimostra l’origine retroperitoneale della lesione
Fig. 3.480. Metastasi surrenalica da microcitoma polmonare. Massa ipoecogena disomogenea del surrene destro
Fig. 3.482. Linfoma surrenalico. Nodulo ipoecogeno, relativamente omogeneo e delimitato, del surrene destro
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zione surrenalica. Falsi negativi dell’US per nodularità surrenaliche possono essere dovuti, oltre che a semplice iperplasia o piccole tumefazioni nodulari, anche alla presenza di ingrandimenti surrenalici più significativi che, per la loro ecogenicità, si differenziano poco dall’ambiente adiposo retroperitoneale. Per le masse surrenaliche più voluminose è spesso difficile con l’US definire la pertinenza d’organo ed escludere un’origine renale, epatica o da altre sedi. Anche da questo punto di vista TC e RM sono più panoramiche ed accurate [Dewbury 2001].
si rilevano irregolarità del profilo renale che possono simulare, specie sul profilo esterno mesorenale sinistro, una focalità corticale isoecogena protrudente; anche in questo caso comunque l’ECD è di aiuto, rilevando un’angioarchitettura simile nell’area sospetta e in quelle adiacenti [Hélénon et al. 2001]. Eventualmente l’ECD con mdc ecografico può risultare utile nella caratterizzazione delle sospette pseudomasse [Ascenti et al. 2001]. Infine, può essere eventualmente dirimente lo studio con CEUS, dimostrando la costante isoecogenicità (isovascolarità) della presunta lesione focale rispetto al rimanente parenchima renale [Barozzi et al. 2006] (Figg. 3.483, 3.484).
3.28. Il piccolo tumore renale: riconoscimento degli pseudotumori, caratterizzazione, differenziazione carcinoma-angiomiolipoma Come piccolo tumore renale si intende una lesione espansiva del rene che abbia diametro <3 cm. In questo caso si pongono dei particolari problemi di identificazione e di caratterizzazione, che generalmente non si hanno nelle forme più voluminose. Bisogna infatti essere innanzitutto certi che vi sia effettivamente una lesione espansiva nella sede ove l’US mostra un’anomalia morfostrutturale, differenziandola da altre evenienze come gli pseudotumori. In un secondo momento, è necessario caratterizzare la lesione, distinguendo fondamentalmente il carcinoma dalle altre tipologie ed in particolare dall’angiomiolipoma, che costituisce l’alternativa più frequente. Tra i “simulatori” dei tumori renali bisogna includere innanzitutto le pseudonodularità iperecogene, che simulano un piccolo carcinoma ecogeno o un piccolo angiomiolipoma: i difetti corticali congeniti (giunzionali) o acquisiti (es. dopo enucleazione di cisti o noduli), occupati dal grasso retroperitoneale ecogeno, vengono riconosciuti perché, nel primo caso, sono in comunicazione con il seno renale ecogeno, mentre i secondi vengono identificati innanzi tutto dall’anamnesi di pregressa chirurgia; talora anche componenti adipose del seno renale protrudono localmente nella corticale profonda, mimando anche qui un nodulo ecogeno [Amendola 2000, Hélénon et al. 2001]. Ematomi e fistole arterovenose possono simulare delle lesioni solide ipoecogene. Esistono poi altre varianti anatomiche che appaiono come pseudotumori. Un dismorfismo lobare appare come una nodulazione profonda, ben delimitata, isoecogena alla corticale, eventualmente associata ad una piramide ipoecogena ipertrofica, simulando così una lesione endofitica; l’ECD dimostra tuttavia rami segmentari ed interlobari che originano esternamente alla “lesione” e decorrono ai lati di questa sino alla giunzione corticomidollare ed eventualmente anche con arterie arcuate all’interno dell’area dismorfica. Nella persistenza delle lobature fetali e nel rene “a dromedario”
Fig. 3.483. Nefrite focale. Focolaio ipoecogeno disomogeneo, ipovascolare all’ECD (frecce)
Fig. 3.484. Esito di enucleazione per lesione renale benigna, pseudotumore. L’alterazione localizzata del profilo e dell’ecogenicità del parenchima (freccia) crea una falsa immagine di lesione espansiva
Capitolo 3 Le problematiche cliniche La possibilità d’identificazione US delle lesioni renali è fortemente dipendente dalle caratteristiche fisiche del paziente ed anche dalle dimensioni della lesione, con una buona efficacia soprattutto per quelle >2 cm. I piccoli tumori renali hanno generalmente forma rotondeggiante, con associata deformazione focale del profilo renale, in caso di sviluppo verso l’esterno, oppure del grasso del seno renale, qualora la formazione si sviluppi verso l’interno. I limiti di detezione dell’US sono legati a lesioni isoecogene, polari o esofitiche, specie allorquando i reni sono profondi o mascherati da gas colico; inoltre, specie per lesioni profonde, vi può essere il rischio di confondere una lesione solida ipoecogena con una cistica anecogena, e viceversa. La sensibilità dell’US non sembra essere comunque eccezionale: l’US preoperatoria eseguita da tecnici ecografisti su di un gruppo di pazienti a rischio di neoplasia (sindrome di von Hippel-Lindau o carcinoma renale papillare ereditario) dimostrava lo 0% delle lesioni <6 mm, il 21% di quelle <11 mm, il 28% di quelle <16 mm, il 58% di quelle <21 mm, il 79% di quelle <31 mm ed il 100% di quelle <36 mm; la detezione era quindi fortemente dipendente dalle dimensioni lesionali e non da parametri quali lato destro o sinistro, sede polare o meno, natura solida o cistica, localizzazione superficiale o profonda, mentre la specificità, che non dipendeva dalle dimensioni, era dell’82% (considerando solo le lesioni di 10-35 mm) [Jamis-Dow et al. 1996]. In generale, l’US è meno efficace di TC e RM sia nell’identificazione che nella caratterizzazione dei tumori renali <3 cm. Attualmente l’impiego dell’armonica tissutale e dell’ECD può migliorare le possibilità identificative, ma si ricorda l’importanza in questi casi di un’esplorazione US paziente e attenta, che includa tutte le porzioni d’ambo i reni e che consideri anche la possibilità di forme esofitiche o isoecogene [Barozzi et al. 2006]. Le possibilità della CEUS nell’identificazione e caratterizzazione di queste piccole lesioni devono ancora essere verificate su ampie casistiche, ma probabilmente l’iniezione di mdc può essere utile in casi selezionati dinanzi a specifici dubbi (es. pseudotumori [Setola et al. 2007). Il prelievo percutaneo ecoguidato viene poco utilizzato per queste lesioni: la FNAC, ma anche la core-biopsy, si rivelano spesso inefficaci per un’adeguata diagnostica differenziale di queste lesioni, che sono frequentemente eterogenee e che quindi facilmente comportano problemi di campionamento; in particolare vi possono essere difficoltà nel distinguere oncocitomi e carcinomi, ed inoltre alcuni angiomiolipomi possono essere considerati maligni. L’indicazione al campionamento percutaneo può essere invece il sospetto di linfoma o di metastasi renale. Quando la lesione resta indeterminata nonostante un accurato imaging può apparire più razionale un controllo a distanza di tempo, tenendo però in consi-
derazione il fatto che la maggioranza dei piccoli carcinomi renali identificati incidentalmente, specie se ben delimitati, cresce con notevole lentezza (al punto da suggerire nel soggetto particolarmente anziano o ad elevato rischio chirurgico una condotta attendistica in luogo di quella operatoria) [Bosniak et al. 1995, Curry 2002]. Il carcinoma renale (RCC) costituisce il 68-87% dei piccoli tumori renali solidi [Curry 2002]. Esso è generalmente singolo e localizzabile nello spessore del parenchima o con protrusione verso il seno renale o più spesso verso l’esterno; esso mostra un’ecogenicità variabile, potendo apparire iperecogeno sino nel 6177% delle forme <3 cm (specie se papillari), laddove le forme più voluminose appaiono spesso iso-ipoecogene, più o meno disomogenee (cfr. paragrafo 3.29) [Caskey 2000, Curry 2002]. Talora è presente una cisti adiacente, la cisti “sentinella” [Webb 2001]. L’omogeneità strutturale può suggerire un oncocitoma, ricordando tuttavia che anche il 35% dei carcinomi appare omogeneo. La presenza di una rima ipoecogena perilesionale, espressione della presenza di una pseudocapsula, e di multiple microcisti intralesionali costituisce un reperto alquanto specifico per l’RCC ma purtroppo poco frequente (sensibilità rispettivamente dell’8-84% e del 12-31%). Nel carcinoma si rileva una discreta vascolarizzazione lesionale, specie periferica, con vasi ad elevata velocità di flusso; all’interno si rilevano invece vasi sinusoidali a bassa resistenza, con scarsa modulazione sisto-diastolica; la rima periferica vascolarizzata può consentire il riconoscimento di noduli isoecogeni, altrimenti non riconoscibili. Sono stati catalogati cinque pattern di vascolarizzazione delle focalità renale: 0, nessun segnale; 1. qualche segnale intralesionale; 2. vasi penetranti; 3. vascolarizzazione nodulare periferica; 4. vascolarizzazione mista penetrante e periferica. I carcinomi esprimerebbero solo i pattern 3 e 4 mentre gli angiomiolipomi mostrerebbero nell’80% dei casi i pattern 0-2 [Jinzaki et al. 1997]. Tuttavia, la vascolarizzazione dell’RCC all’ECD può apparire superiore rispetto al parenchima sano adiacente ma anche inferiore, in questo caso un nodulo isoecogeno potrà essere messo in evidenza proprio perché corrispondente ad un difetto relativo della mappa vascolare parenchimale [Hélénon et al. 2001]. I reperti ECD non sono sufficienti come tali e, se è vero che un’ipervascolarizzazione deve sempre insospettire, è anche vero che questi dati devono essere integrati con quelli US morfologici (Figg. 3.485-3.491, Video 3.45). L’angiomiolipoma renale è un tumore amartomatoso costituito da quote variabili di vasi neoformati a parete spessa, cellule muscolari lisce e tessuto adiposo maturo [Barozzi et al. 2006]. Predilige sesso femminile ed età >40 anni. Circa l’80% dei pazienti con sclerosi tuberosa, generalmente donne di mezza età,
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Fig. 3.485a, b. Carcinoma renale. Deformazione tenuemente iperecogena del polo renale inferiore destro (a, frecce). La scansione TC conferma il nodulo renale (b, frecce)
presenta degli angiomiolipomi renali, spesso multipli (sincroni o metacroni) e bilaterali; al contrario, meno del 40% dei pazienti con riscontro incidentale di angiomiolipoma risulta poi affetto dalla sclerosi tuberosa [Pavlica et al. 2006]. Nei casi tipici, il piccolo angiomiolipoma si presenta come una formazione iperecogena (quanto se non di più del grasso del seno renale, peraltro senza correlazione diretta con l’effettiva quota adiposa presente nel nodulo), omogenea, ben delimitata, con eventuale ombra acustica posteriore (21-40% dei casi) e con, eventualmente, solo qualche segnale vascolare interno o qualche vaso penetrante all’ECD [Barozzi et al. 2006, Hélénon et al. 2001, Pavlica et al. 2006]. L’aspetto può essere però anche isoecogeno al parenchima (29% dei casi) o anche ipoecogeno (6%) e possono essere presenti porzioni interne disomogenee ma non si rilevano di regola né immagini microcistiche né l’alone ipoecogeno
Fig. 3.486a, b. Carcinoma renale di tipo alveolare. Formazione ecogena esofitica (a, frecce), con area ipo-anecogena interna eccentrica. La scansione TC in fase nefrografica totale mostra un’ottimale correlazione morfologica (b, frecce)
Fig. 3.487. Carcinoma renale. Nodulo ipoecogeno deformante il profilo renale (frecce)
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.488. Carcinoma renale. Nodulo iperecogeno, con segnali colore centrali al PD
Fig. 3.489. Carcinoma renale. Nodulo tenuemente iperecogeno, disomogeneo, con alcuni segnali vascolari all’ECD (frecce)
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Fig. 3.490a–d. Carcinoma renale. Nodulo tenuemente ipoecogeno che bozza il profilo renale (a, freccia). Esso mostra alcuni segnali vascolari centrali all’ECD (b), ed un flusso a bassa resistenza all’analisi spettrale (c). La scansione TC in fase corticale dimostra l’intensa vascolarizzazione della lesione (d, freccia)
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Fig. 3.491. Carcinoma renale. Nodulo sostanzialmente isoecogeno, che tuttavia slarga il parenchima a tale livello e bozza il profilo d’organo (freccia)
perilesionale pseudocapsulare (Figg. 3.492-3.495). Dinanzi ad un quadro tipico di piccola formazione “brillante” con ombra posteriore nel parenchima renale la probabilità di un carcinoma è molto bassa; può essere comunque opportuna l’esecuzione di qualche scansione TC diretta per rilevare un’attenuazione adiposa o un controllo US a distanza di tempo. Nelle forme meno tipiche, ad esempio con un’iperecogenicità inferiore al seno renale, il monitoraggio US è meno razionale, poiché anche il carcinoma cresce comunque con estrema lentezza e quindi, considerando anche la fluttuazione delle misurazioni, una mancata o scarsa crescita non esclude un carcinoma se non dopo diversi anni di stabilità dei diametri. Più opportuno invece, nei casi meno tipici appunto un approfondimento con
Fig. 3.493. Angiomiolipoma renale. Nodulo nettamente iperecogeno, omogeneo, all’interno del parenchima renale sinistro (freccia)
a
b Fig. 3.492. Angiomiolipoma renale. Nodulo nettamente iperecogeno, omogeneo, all’interno del parenchima renale (freccia)
Fig. 3.494a, b. Angiomiolipoma renale. Piccolo nodulo intraparenchimale, iperecogeno, omogeneo, ben delimitato, con lieve attenuazione del fascio (a). Non si osservano segnali colore al PD direzionale (b)
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
a
b Fig. 3.495a, b. Angiomiolipoma renale. Nodulo tenuemente ecogeno all’interno del parenchima renale (a, freccia). La ricostruzione TC coronale dimostra un piccolo nucleo di ipodensità adiposa (b, freccia) mentre il resto del nodulo non è riconoscibile come tale
Fig. 3.496. Metastasi renale da carcinoide bronchiale. Nodulo discretamente ipoecogeno (frecce), che disloca i vasi renali all’ECD
TC o RM. Le possibilità discriminatorie della CEUS devono essere ancora vagliate da casistiche ampie ma è chiaro che gli angiomiolipomi con quote vasali consistenti possono essere comunque difficili da distinguere rispetto ai carcinomi; l’ECD con mdc ecografici si è dimostrato poco efficace allo scopo [Ascenti et al. 2001, Quaia et al. 2003]. Una volta confermata, con un test o l’altro, la diagnosi di angiomiolipoma, si tende ad inviare al trattamento chirurgico le lesioni >4-5 cm, soprattutto a causa del rischio di sanguinamento spontaneo, e ad inviare al monitoraggio i noduli più piccoli, sebbene un controllo periodico almeno degli angiomiolipomi <2 cm non abbia un razionale particolarmente robusto. Il follow-up può essere anche un modo per escludere definitivamente un piccolo carcinoma ecogeno ma, da questo punto di vista, bisogna anche ricordare che i piccoli carcinomi renali identificati incidentalmente possono accrescersi con notevole lentezza [Bosniak et al. 1995] e che, all’opposto, anche gli angiomiolipomi possono aumentare di dimensioni nel tempo, seppur lentamente, specie quando multipli ed a prescindere dall’entità della loro quota adiposa [Lemaitre et al. 1995]. L’adenoma non viene riconosciuto da tutti i patologi come un’effettiva entità nosologica. In ogni caso l’aspetto è sovrapponibile al piccolo RCC, con particolare tendenza all’omogeneità [Webb 2001]. L’oncocitoma (8-27% dei piccoli tumori renali) è un adenoma tubulare prossimale costituito da cellule larghe con citoplasma eosinofilico e granulare. Generalmente benigno e singolo, ipo- o isoecogeno rispetto al parenchima, può apparire come si è detto tipicamente omogeneo. Di regola, comunque, non è possibile con l’US una distinzione dal carcinoma [Curry 2002, Hélénon et al. 2001]. Le metastasi renali sono poco frequenti e generalmente si riscontrano in una fase avanzata della metastatizzazione (soprattutto melanoma o carcinomi di mammella, polmone, colon, sfera genitale femminile o lo stesso rene controlaterale, eventualmente già operato). Nel paziente con tumore primitivo extrarenale avanzato una nuova lesione renale è con maggiore probabilità secondaria anziché primitiva. Possono essere singole o multiple, talora bilaterali, e spesso si localizzano nello spessore parenchimale o più spesso verso l’esterno: non di rado, ad esempio nei melanomi, la sede effettiva di metastatizzazione è il grasso perirenale, con successiva estensione al parenchima sottostante. L’aspetto è generalmente ipoecogeno disomogeneo, più o meno delimitato, con qualche modesto segnale vascolare all’ECD e con deformità del profilo dell’organo a tale livello. In qualche caso si osservano ingrandimento e deformità renale senza una definita focalità apprezzabile ma con una disomogeneità diffusa [Barozzi et al. 2006, Caskey 2000, Jeffrey et al. 1995] (Figg. 3.496-3.500, Video 3.46).
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Fig. 3.497. Metastasi renale da carcinoma polmonare. Nodulo francamente esofitico, iperecogeno disomogeneo
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Fig. 3.498. Metastasi renale da carcinoma anaplastico della tiroide. Nodulo ipoecogeno disomogeneo, mal delimitato, del polo renale superiore sinistro
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Fig. 3.499a, b. Metastasi renale da melanoma. Lesione ipoecogena, a centro anecogeno (a), ipovascolare all’ECD (b)
3.29. La massa renale: cause, identificazione e diagnostica differenziale
Fig. 3.500. Metastasi renale da carcinoma polmonare. Nodulazione ipoecogena disomogenea (freccia) che impronta sia il seno renale che il profilo esterno dell’organo
I carcinomi a cellule renali (RCC) dell’adulto sono rappresentati nell’80-90% dei casi dall’adenocarcinoma a cellule chiare (3% delle nuove diagnosi di cancro); più rari il cistoadenocarcinoma papillifero (1015%) ed il carcinoma a cellule transizionali (5-7%, dai calici e bacinetto). L’RCC predilige il sesso maschile (rapporto M/F 2:1) ed il 5-7° decennio di vita; condizioni di rischio sono la sindrome di von Hippel-Lindau (36% dei pazienti), la malattia cistica dialisi-correlata (incidenza 3-6 volte maggiore della popolazione generale), forse la sindrome del rene policistico, ed in misura minore condizioni come obesità, fumo, esposizione a determinati agenti chimici [Caskey 2000]. L’aumento d’incidenza negli ultimi anni è in
Capitolo 3 Le problematiche cliniche gran parte apparente, derivando dal prolungamento della vita media e dall’elevata diffusione di esami di imaging, con riscontri incidentali nell’83% dei casi [Hélénon et al. 2001, Johnson et al. 2000]. I tumori renali identificati incidentalmente hanno mediamente dimensioni minori (5,5 vs. 7,8 cm), stadio e grado più bassi ed una maggiore sopravvivenza libera da malattia rispetto a quelli sintomatici [Curry 2002, Hélénon et al. 2001, Siow et al. 2000]. In uno studio su lesioni renali <7 cm, peraltro, si è visto che il 16% di quelle benigne era stato operato per un sospetto di malignità; le nefrectomie “benigne” erano particolarmente frequenti nel sesso femminile mentre non si correlavano probabilisticamente con le dimensioni lesionali [Snyder et al. 2006]. L’estensione dell’RCC ne costituisce il principale fattore prognostico ed è sicuramente molto più importante delle dimensioni della massa in sé. Nel TNM, il T1 è <7 cm mentre il T2 è >7 cm ed il T3a presenta una diffusione extrarenale, nel grasso retroperitoneale (elemento peraltro di non agevole identificazione ecografica) (Figg. 3.501, 3.502). Lo stadio T3b si caratterizza per l’infiltrazione della vena renale e/o della vena cava inferiore. Molti urologi, in ogni modo, fanno riferimento non al TNM ma alla classificazione di Robson: stadio I, tumore confinato nella capsula; II, diffusione nel grasso perirenale ma confinato nella fascia di Gerota; III, coinvolgimento di vena renale, vena cava inferiore e/o linfonodi regionali; IV, invasione di organi adiacenti e/o metastasi [Robson et al. 1969] (Fig. 3.503). Nei pazienti con rene controlaterale normale sul piano morfologico e funzionale viene eseguita la nefrectomia radicale, anche se sempre più spesso si cerca di adottare una chirurgia nephron-sparing (nefrectomia parziale o enucleazione, con risparmio anche del surrene), indicata soprattutto nei tumori monofocali, piccoli (<4 cm), in stadio iniziale (I di Robson o T1/2 del TNM), di adeguata accessibilità; è chiaro che un simile tipo di chirurgia richiede una stadiazione particolarmente accurata. Da questo punto di vista, l’US non è in grado di distinguere tra stadio I e II di Robson (T1/2 e T3a), poiché generalmente non riconosce la fascia perirenale, sebbene di recente sia stata segnalata con CEUS la possibilità di riconoscere la pseudocapsula tumorale come una rima di contrast enhancement che incrementa di ecogenicità andando verso le fasi tardive (21% di individuazioni dei carcinomi nelle scansioni basali vs. 86% in quelle con mdc) [Ascenti et al. 2004]. L’aspetto è generalmente di una formazione isoipoecogena, disomogenea per fenomeni necrotici specie centrali, con possibili aree cistiche e/o calcificazioni sparse. Più rare le forme con ecogenicità uguale o superiore a quella del grasso del seno renale. Le calcificazioni (8-18% dei casi) possono essere peri-
feriche o più spesso centrali, diffuse o puntiformi [Caskey 2000]. I contorni sono spesso irregolari e mal definibili. Le dimensioni della massa sono variabili, potendo raggiungere anche diverse decine di cm al momento della diagnosi, ed in generale la probabilità di malignità di una massa renale si correla con le sue dimensioni, con una soglia in particolare ai 4 cm [Li et al. 2004], sebbene in uno studio l’incidenza di lesioni benigne tra i pazienti sottoposti a nefrectomia per sospetto tumore non dipendesse dalle dimensioni [Snyder et al. 2006]. Nelle forme infiltranti di RCC si possono osservare l’obliterazione del grasso del seno renale, la presenza di calicectasie legate all’infiltrazione pielica, la disomogeneità del cellulare adiposo perirenale. In alcuni casi (5-15%) l’aspetto è cistico, unio più spesso multiloculato, con pareti e setti interni spessi e irregolari, e con gettoni solidi e grossolane calcificazioni settali o parietali, elementi questi che permettono la distinzione rispetto alle cisti benigne (cfr. paragrafo successivo) [Caskey 2000]. L’ECD documenta di solito una discreta vascolarizzazione dell’RCC, specie perifericamente, con vasi ad alto flusso e possibili fistole arterovenose, ma è anche possibile registrare flussi lenti o spettri a scarsa modulazione sisto-diastolica e basso IR; in realtà, non sono state rilevate differenze significative in termini di IR tra lesioni renali benigne e maligne [Barozzi et al. 2006]. In un ampio studio retrospettivo su 299 lesioni renali operate, il 92% di quelle con segnali vascolari, a prescindere dal pattern, risultava essere di tipo maligno (RCC); prospettivamente, l’83% di altri 65 RCC mostrava segnali vascolari interni [Raj et al. 2007]. Allo studio CEUS le masse renali sono meno vascolarizzate rispetto al parenchima adiacente, ben delimitate, con un “microcircolo” interno più o meno accentuato ed eterogeneo; la CEUS si è dimostrata utile soprattutto nell’identificare flussi modesti all’interno di alcune lesioni ipovascolari, con efficacia superiore all’ECD ed anche alla TC (rischio di diagnosi erronea di cisti), mentre ha una limitata utilità per le lesioni ipervascolarizzate [Barozzi et al. 2006, Tamai et al. 2005]. È peraltro chiaro che, in generale, uno studio Doppler ed ancor di più CEUS di queste masse, specie se di significative dimensioni, ha un limitato interesse pratico (Figg. 3.504-3.510, Video 3.46-3.49). La diffusione perirenale viene documentata con difficoltà dall’US, a causa della mancata visualizzazione della fascia. Nel caso di masse voluminose risulta talora difficile distinguere, più che con TC o RM, tra lesioni di origine dal polo renale superiore destro, dal surrene destro o dalla superficie profonda del lobo epatico destro. È importante in questo caso cercare un piano di clivaggio tra la massa ed i vari organi, importante anche per escluderne un’infiltrazione, identificare lo strato adiposo ecogeno che separa le masse retroperitoneali dalla grande ala epatica, indi-
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Ecografia in oncologia
Fig. 3.501. Stadiazione dei tumori renali. T1a, tumore ≤4 cm e limitato al rene; T1b, tumore di 4-7 cm e limitato al rene; T2, tumore >7 cm e limitato al rene; T3a, tumore di qualsiasi dimensione che invade il surrene o il tessuto perirenale ma non supera la fascia di Gerota; T3b, tumore di qualsiasi dimensione che invade la vena renale o la vena cava inferiore sottodiaframmatica; T3c, tumore di qualsiasi dimensione che invade la vena cava inferiore sovradiaframmatica; T4, tumore di qualsiasi dimensione che supera la fascia di Gerota. Modificato da [Wittekind et al. 2005]
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.502. Parametro N per tumori renali. Sono considerati regionali i linfonodi ilari renali, paraortici, preaortici, intercavo-aortici, paracavali, retrocavali e retroaortici. L’N1 considera la metastasi ad un singolo linfonodo regionale, omo- o controlaterale e l’N2 metastasi in più linfonodi, omo- o controlaterali. Modificato da [Wittekind et al. 2005]
Fig. 3.503. Stadiazione di Robson del carcinoma renale. Stadio 1, tumore intrarenale; stadio 2, tumore con infiltrazione del grasso perirenale; stadio 3, tumore esteso anche alla vena renale e cava inferiore e/o ai linfonodi regionali; stadio 4, tumore esteso anche oltre la fascia di Gerota con invasione di organi o strutture adiacenti
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Fig. 3.504. Metastasi perirenale da carcinoma polmonare. Bilateralmente si osservano alcune nodulazioni ipoecogene del profilo renale (frecce)
Fig. 3.507. Carcinoma renale. Ampia massa ipoecogena disomogenea, con estese quote calcifiche, quale effetto di pregresse embolizzazioni (frecce)
a Fig. 3.505. Carcinoma renale. Lesione ipo-isoecogena disomogenea, ipervascolare all’ECD specie sul suo versante profondo
b
Fig. 3.506. Carcinoma renale. Massa ecogena con multiple aree cistiche
Fig. 3.508a, b. Carcinoma renale in paziente con rene da dialisi. In un soggetto con ipotrofia renale e multiple cisti corticali semplici si osserva un nodulo ipoecogeno (a) che disloca all’ECD i vasi contigui. L’impiego della sonda superficiale consente di cogliere segnali di flusso endolesionali all’ECD (b), permettendo così la distinzione rispetto ad una cisti complicata
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.509. Carcinoma renale a sviluppo endosinusale. Formazione solida sostanzialmente isoecogena rispetto al parenchima renale contiguo (freccia), a sviluppo endofitico con ampia obliterazione del seno renale
a
b Fig. 3.510a, b. Carcinoma renale a sviluppo endosinusale. Formazione tenuemente ipoecogena, mal definibile, all’interno dell’ecogenicità sinusale (a, frecce). La ricostruzione TC sagittale in fase corticale dimostra la lesione ipervascolare endofitica (b, freccia)
viduare l’origine delle afferenze arteriose alla massa. Talora il carcinoma renale si complica con un’emorragia intralesionale, perirenale o pararenale, costituendo una delle più frequenti cause di emorragia peri/pararenale spontanea [Hora et al. 2004]. Il coinvolgimento della vena renale principale (fino a 30% dei RCC nelle vecchie casistiche ma 0% nel caso di lesioni <2,5 cm). Il tumore renale è quello che più frequentemente infiltra la vena cava inferiore (fino al 5-10% dei RCC nelle casistiche non recenti). Quest’evenienza, che non controindica neccessariamente l’intervento ma ne modifica la condotta, si riscontra più frequentemente nei tumori del rene destro rispetto a quelli del rene sinistro, a causa della diversa lunghezza della vena renale corrispondente [Webb 2001]. I trombi vengono rilevati soprattutto con l’ausilio dell’ECD che, all’interno di una vena normale o più spesso dilatata, rileva un difetto di vascolarizzazione più o meno ecogeno, eventualmente circondato da segnali colore e con possibile rallentamento del flusso subito a monte. Eventuali segnali vascolari intratrombotici ne indicano definitivamente la natura neoplastica, almeno parziale, ma costituiscono un reperto di difficoltosa identificazione [Hélénon et al. 2001]. La sensibilità dell’US per l’infiltrazione cavale è solo del 54% (ma 100% con l’ECD); tuttavia il riconoscimento delle forme più importanti, quelle estese al tratto retroepatico della vena, avviene costantemente, ed il limite di estensione craniale dovrebbe essere sempre indicato nel referto [Habboub et al. 1997, Kallman et al. 1992]. Nel 5-10% dei casi l’infiltrazione cavale raggiunge l’atrio destro e può essere identificata con l’ecocardiografia. È importante la valutazione attenta del rene controlaterale, non solo per analizzare il suo stato morfofunzionale globale, ma anche perché non sono rari (1-2%) i casi di bilateralità/metastatizzazione controlaterale [Pavlica et al. 2006]. Altre possibili sedi di metastatizzazione accessibili alla US, e da valutare, sono il fegato ed il surrene omolaterale (6% dei casi di RCC) e controlaterale. Le metastasi ematogene epatiche hanno un aspetto variabile; inoltre quest’organo può anche essere infiltrato per contiguità. Le linfadenopatie lomboaortiche vengono sicuramente meglio rilevate con TC e RM, così come l’infiltrazione dei muscoli posteriori. Quando visibili ecograficamente, le linfodenopatie appaiono ipoecogene disomogenee, poste tipicamente sul versante lomboaortico corrispondente al lato del rene patologico, oppure in sede intercavo-aortica. Globalmente, l’accuratezza dell’US nella stadiazione del RCC è del 50-70% ma, salvo casi in cui l’inoperabilità risulta già ben evidente, si procede di solito ad un ulteriore staging con RM o soprattutto TC [Webb 2001]. L’oncocitoma (5% circa dei tumori renali) predilige il sesso maschile ed il 5-6° decennio di vita [Webb
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2001]. Può raggiungere dimensioni cospicue ed essere omogeneo o dimostrare una cicatrice centrale, di aspetto stellato ed ipo- o iperecogeno, ed anche fenomeni necrotici o calcificazioni. L’ECD identifica talora un aspetto “a ruota di carro”, con vasi disposti radialmente [Caskey 2000, Hélénon et al. 2001] (Fig. 3.511). L’angiomiolipoma di grosse dimensioni tende ad avere una struttura interna disomogenea e margini meno definiti, con possibili segnali vascolari all’ECD, risultando pertanto, in molti casi, mal distinguibile dal carcinoma [Barozzi et al. 2006]. Di solito non vi si riscontrano calcificazioni. Le forme con protrusione dal profilo renale o francamente esofitiche vengono mal definite nella loro reale grandezza perché si confondono con l’ecogenicità del grasso perirenale; inoltre le forme francamente extrarenali devono essere differenziate dai sarcomi e specie dai liposarcomi retroperitoneali, distinzione talora difficile con l’US. L’ECD può mostrare singoli o talora multipli pseudoaneurismi intralesionali, come piccole formazioni anecogene, con segnali vascolari all’ECD (talora “a bandiera coreana”) o con enhancement alla CEUS. In caso di emorragia si rileva la disomogeneità accentuata dell’angiomiolipoma e la presenza di raccolte liquide perirenale (Fig. 3.512, Video 3.50). Il nefroma cistico multiloculare è un tumore benigno poco frequente, che predilige i maschi nell’età pediatrica e le femmine in quella adulta. Si rileva una formazione con una spessa capsula e con all’interno multiple loculazioni fluide separate da setti, talora con calcificazioni. La disposizione all’interno del seno e l’andamento relativamente regolare dei setti suggeriscono la diagnosi, ma una d.d. ecografica con l’RCC cistico multiloculare è comunque difficoltosa [Webb 2001] (Fig. 3.513). Il carcinoma a cellule transizionali (uroteliali) dei calici e del bacinetto renale (7% dei tumori del rene, 4-5 volte meno frequente del carcinoma parenchimale) può simulare appunto un tumore parenchimale, specie quando raggiunge cospicue dimensioni ed invade il tessuto renale contiguo: in questi casi spesso non è possibile ecograficamente distinguere tra un’origine parenchimale ed un’origine uroteliale. Spesso multiplo e bilaterale, questo tumore è riconoscibile ecograficamente soprattutto quando si associa a dilatazione della pelvi e/o dei calici, mentre può essere di difficoltosa detezione se di piccole dimensioni [Barozzi et al. 2006, Caskey 2000]. La lesione appare come un difetto ipoecogeno nel lume delle strutture calico-pieliche eventualmente dilatate, con base sessile o peduncolata, con possibili calcificazioni (d.d. con calcoli!) e con qualche segnale vascolare all’ECD, soprattutto se di discrete dimensioni. Altre volte si riconosce una nodulazione ipoecogena all’interno del grasso ecogeno del seno renale, senza associata calicectasia. A questo proposito bisogna ricor-
Fig. 3.511. Oncocitoma renale. Formazione disomogenea, più ecogena centralmente, protrudente dal parenchima del rene
Fig. 3.512. Angiomiolipoma renale esofitico. Grossolana neoformazione iperecogena, relativamente omogenea, mal delimitabile (frecce), da differenziare rispetto ad un liposarcoma retroperitoneale
Fig. 3.513. Nefroma cistico multinodulare. Formazione cistica multiloculata del rene
Capitolo 3 Le problematiche cliniche dare che, talora, il grasso del seno renale può apparire in parte ipoecogeno: tuttavia quest’ipoecogenicità appare centrale, simmetrica, mal delimitata, con attenuazione posteriore del fascio e con vasi normali che l’attraversano, mentre quella indotta dal tumore uroteliale risulta più eccentrica e delimitata, senza attenuazione del fascio e con vascolarizzazione più irregolare [Seong et al. 2002]. Esistono infine forme diffusamente infiltranti il parenchima renale, che apparirà slargato e sovvertito [Webb 2001] (Figg. 3.5143.516). Il nefroblastoma (tumore di Wilms) è il più frequente tumore primitivo renale dell’infanzia (6% dei tumori pediatrici), con lieve predilezione per il sesso femminile e picco d’incidenza ai 3-4 anni di età (solo il 20% dei casi si presenta >5 anni). Bilaterale nel 5% dei casi, il nefroblastoma si presenta come una massa intrarenale che distorce l’architettura dell’organo ma che inizialmente mostra spesso una pseudocapsula ecogena; l’ecostruttura risulta solida con aree ipoanecogene necrotico-emorragiche e foci ecogeni dovuti a calcificazioni o grasso. Talora si osservano forme prevalentemente cistiche, plurisettate, non troppo dissimili dal nefroma cistico multiloculare, nel quale tuttavia le cisti non si pongono mai all’interno dei setti stessi [Duncan et al. 1996]. Con la crescita la lesione tende prima ad uno sviluppo esofitico e poi alla diffusione extrarenale, così come a quella intravascolare, nella vena renale e nella vena cava inferiore [Williams et al. 2004] (Figg. 3.517). I linfomi renali primitivi sono rari, visto che il rene non possiede tessuto linfoide, mentre non infrequenti sono le localizzazioni secondarie legate al morbo di Hodgkin e soprattutto ai NHL (5-6% dei soggetti alla presentazione, 33-41% all’autopsia) [Barozzi et al. 2006, Jeffrey et al. 1995]. L’aspetto US è variabile: le-
Fig. 3.514. Tumore a cellule transizionali del bacinetto. Gettone ecogeno (freccia), sessile, protrudente nel lume della pelvi renale, dilatata
Fig. 3.515. Tumore uroteliale del bacinetto. Modica dilatazione calico-pielica con tessuto tenuemente ecogeno all’interno della pelvi renale (tra i calibri)
Fig. 3.516. Tumore uroteliale del bacinetto. Dilatazione pielica con formazione ecogena all’interno (tra i calibri)
Fig. 3.517. Nefroblastoma. Massa ecogena con componenti similcistiche interne, scarsamente vascolarizzata all’ECD
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a Fig. 3.519. Linfoma non Hodgkin perirenale. Tessuto ipoecogeno disomogeneo che circonda completamente il rene destro, intrinsecamente nella norma
3.30. La cisti renale atipica: caratterizzazione, follow-up
b Fig. 3.518a, b. Linfoma renale. Totale sovvertimento ipo-anecogeno del rene destro (a). Scansione TC assiale (b) che conferma il sovvertimento renale ipodenso (frecce) ed evidenzia alcune linfadenopatie retroperitoneali
sione singola (10-20% dei casi all’autopsia ma 50% dei casi rilevati dall’imaging), lesioni multiple (3060%) o infiltrazione parenchimale diffusa (20%); frequente la bilateralità [Reznek et al. 2004b]. Le forme monofocali possono essere indistinguibili dal carcinoma. Le lesioni, di solito di dimensioni contenute, appaiono infatti ipoecogene, relativamente omogenee; talora queste lesioni sono quasi anecogene o associate ad un modesto rinforzo posteriore, sì da simulare una cisti [Caskey 2000]. L’ecovascolarità Doppler è generalmente scarsa. Nelle forme diffuse si osserva un sovvertimento ipoecogeno o iperecogeno del parenchima renale, senza definite focalità. In molti casi si associano nodulazioni sottocapsulari o perirenali, quale segno talora di invasione diretta, ed inoltre circa la metà dei pazienti presenta adenopatie retroperitoneali (Figg. 3.518, 3.519, Video 3.51).
Le formazioni renali di aspetto cistico, più o meno complex, costituiscono un frequente reperto occasionale nel corso di esami ecografici, TC o RM eseguiti per altri motivi e possono essere espressione di: cisti corticali semplici, cisti complicate (sette, infette, emorragiche, calcifiche), cisti parapieliche, nefroma cistico multiloculare, RCC cistico (uni- o multiloculare) o necrotico, rene policistico dell’adulto, rene multicistico, diverticoli caliceali, idrocalici (compresi gli oncocalici da ostruzione pielica neoplastica), piocalici, emocalici, ematomi parenchimali fluidificati, ascessi, idatidosi, aneurismi [Webb 2001]. Nella larga maggioranza dei casi (95%) si tratta di cisti semplici, senza potenziale maligno, ampiamente rappresentate nei soggetti di età medio-avanzata. Talora, tuttavia, queste cisti hanno una struttura complessa ed un potenziale di degenerazione (natura) neoplastica: echi interni disomogenei, pareti spesse, setti, calcificazioni, gettoni solidi [Caskey 2000]. Echi interni possono essere dovuti a contenuto infetto o emorragico, così come i setti possono essere anche espressione della progressiva coalescenza di cisti contigue e sono sospetti soprattutto se spessi (>1 mm), irregolari ed incompleti (non sempre attaccati cioè alla parete cistica). Le calcificazioni possono essere fini o grossolane, lineari o rotondeggianti, localizzate nella parete o nei setti; esse sono sospette soprattutto se spesse e irregolari. Anche le nodularità adese a setti o pareti sono altamente sospette. La probabilità di malignità dipende quindi da aspetti morfologici quali il numero e lo spessore dei setti interni, la presenza di gettoni murali, la presenza di
Capitolo 3 Le problematiche cliniche calcificazioni periferiche; questi elementi sono alla base della classificazione TC delle cisti atipiche secondo Bosniak [Bosniak 1997]. Lo studio US delle cisti renali atipiche non è sempre agevole, non essendo la metodica in grado di rilevare la presenza di una vascolarizzazione lesionale, elemento di notevole sospetto. Tuttavia anche la TC presenta alcune limitazioni nello studio di queste lesioni: a causa dell’effetto di volume parziale, la TC può avere difficoltà nel rilevare setti sottili o modeste disomogeneità. Non di rado una formazione di aspetto “semplice” alla TC mostra invece una struttura complessa all’analisi ecografica, sebbene si tratti sempre di forme con setti sottili e senza calcificazioni o noduli e quindi benigne [Robbin et al. 2003] (Figg. 3.520-3.522, Video 3.52). Talora risulta anche difficoltoso dimostrare la macrovascolarizzazione sia con TC sia con RM. Inoltre, in molti casi è necessario un monitoraggio nel tempo e pertanto sarebbe utile poter disporre di una tecnica di imaging di pari affidabilità rispetto alla TC ma con minore invasività radiobiologica e farmacologica. Alcuni autori [Kim et al. 1999] hanno utilizzato il PD con mdc per rilevare il segnale vascolare nei setti e nei noduli parietali ma questo consente solo una valutazione macroangioarchitettonica (Fig. 3.522). Altri hanno ipotizzato che la CEUS, essendo in grado di studiare il microcircolo, potesse essere utilizzata a questo scopo ed hanno quindi adattato la classificazione di Bosniak a tale studio [Robbin et al. 2003]: tipo I, cisti semplici, nessun contrast enhancement; tipo II, pochi setti sottili o piccole quantità di calcificazioni murali, possibile contrast enhancement; tipo III, multipli setti sottili o alcuni setti spessi o piccola nodulazione murale, possibile contrast enhancement; tipo IV, numerosi setti spessi, ampio nodulo murale o multiple nodularità murali, possibile contrast enhancement. Nei RCC cistici si osserva un’impregnazione in fase arteriosa della parete lesionale, con progressiva detersione in fase tardiva. Anche se l’enhancement di setti o gettoni murali non è indicativo in assoluto di malignità, potendo rilevarsi anche nelle forme infiammatorie; esso costituisce comunque un reperto fondamentale al fine di inviare il paziente alla chirurgia [Ascenti et al. 2007, Quaia et al. 2003] (Figg. 3.5233.524). La CEUS, essendo paragonabile alla TC come resa diagnostica, potrebbe porsi come metodica più idonea per il monitoraggio di queste lesioni [Ascenti et al. 2007, Setola et al. 2007].
Fig. 3.520. Cisti corticale atipica, assimilabile ad un grado II di Bosniak. Formazione cistica a livello corticale renale destro, con qualche sottile setto interno
Fig. 3.521. Cisti corticale atipica, assimilabile ad un Bosniak II. Formazione cistica a livello corticale renale destro, con multipli sottili setti interni
Fig. 3.522. Carcinoma renale a cellule chiare cistico, assimilabile ad un Bosniak IV. La formazione cistica mostra una grossolana vegetazione parietale, di aspetto ipoecogeno disomogeneo
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a Fig. 3.524. Cisti renale atipica. Lo studio CEUS permette di riconoscere l’enhancement di alcune vegetazioni solide endocistiche (frecce)
3.31. I processi espansivi dell’ovaio: diagnosticadifferenziale, gli elementi di sospetto per malignità
b
c Fig. 3.523a–c. Cisti renale atipica. Gettone solido all’interno di una formazione cistica renale (a), priva di segnali di flusso allo studio con PD direzionale dopo mdc e.v. (b). Correlazione RM coronale (c, freccia)
Il problema delle “masse ovariche” è frequente e importante: si stima che il 5-10% delle donne venga sottoposto nel corso della propria vita ad un intervento per una formazione annessiale. Peraltro, almeno l’80%, le masse annessiali è di nature benigna e ciò soprattutto nella donne in età fertile (87% delle formazioni asportate), meno in quella postmenopausale (65%) [Derchi et al. 2002]. Il carcinoma ovarico, la cui incidenza è in aumento, costituisce il 4% dei tumori femminili ed è il secondo tumore maligno della sfera genitale femminile per frequenza ed il primo per mortalità (per il problema dello screening cfr. paragrafo 1.3). Sia l’incidenza di queste lesioni che la probabilità di malignità aumenta con l’età, con un range sui 40-70 anni ed un’età media alla diagnosi di 61 anni, quindi in postmenopausa: l’85% dei casi riguarda donne >45 anni. I fattori di rischio comprendono: nulliparità, primiparità tardiva, infertilità, familiarità (forme ereditarie sino nel 5% dei casi, con eventuale neoplasia già sviluppata in premenopausa), storia personale di pregressa neoplasia di colon, mammella o utero. Un certo effetto protettivo sembra essere legato alla contraccezione orale ed all’allattamento. Stanti i sintomi aspecifici e tardivi, la maggioranza dei casi viene identificata in fase avanzata e quindi si associa spesso ad una prognosi sfavorevole; le lesioni identificate, eventualmente in maniera incidentale, nello stadio I hanno invece una sopravvivenza a 5 anni >90% [Ascher et al. 2002, Derchi et al. 2002].
Capitolo 3 Le problematiche cliniche I tumori epiteliali costituiscono il 60-75% delle neoplasie dell’ovaio e l’85-95% di quelle maligne, comprendendo le forme: sierosa (52% dei tumori epiteliali), mucinosa (16%), indifferenziata (6%), endometrioide (19%, associata nel 20-33% dei casi ad iperplasia o carcinoma endometriale), a cellule chiare (7%) e di Brenner [Ascher et al. 2002, Jeong et al. 2000]. Possono essere classificati in benigni, borderline (presenza di proiezioni papillari interne ma assenza di invasione stromale, possibile metastatizzazione peritoneale) e maligni; le forme sierose (30% di tutti i tumori ovarici) sono borderline nel 15% dei casi e maligne nel 25%, quelle mucinose (20-25% dei tumori ovarici) risultano borderline nel 10% e maligne nel 20%, mentre quelle endometrioidi sono generalmente maligne. Il CA-125 è un determinante antigenico identificato mediante dosaggio radioimmunologico, i cui livelli sierici risultano aumentati (>35 UI/ml) nell’80-85% dei casi, di carcinoma ovarico senza peraltro chiara correlazione tra dimensioni lesionali e livelli dosati. Molti tumori ovarici comunque, specie se in fase iniziale e soprattutto se di tipo mucinoso, possono dare valori normali del CA-125. L’US costituisce, insieme al dosaggio del CA-125, il primo livello diagnostico nello studio delle masse annessiali, stante la sua disponibilità, la non invasività e l’alta predittività negativa. Se l’approccio transvaginale, con sonde ad alta risoluzione ed ECD, è quello più accurato, anche l’approccio sovrapubico ha il suo ruolo preliminare, considerando che, oltre ad offrire una visione più panoramica, esso è anche quello che più spesso identifica, più o meno incidentalmente, un espanso ovarico iniziale. La TVUS è comunque più sensibile (piccoli tumori!) e più specifica, fornendo informazioni addizionali nel 70% dei casi. La RM, dotata di una maggiore capacità di caratterizzazione [Kurtz et al. 1999], costituisce l’eventuale secondo livello diagnostico; importante è anche il ruolo della laparoscopia, della laparotomia di stadiazione, e del second look chirurgico [Jeong et al. 2000]. Secondo i criteri di stadiazione della FIGO, infatti, un ruolo fondamentale è dato dalla laparotomia: stadio I, limitato all’ovaio; stadio II, limitato alla pelvi con dimostrazione chirurgica degli impianti tumorali; stadio III, limitato all’addome con dimostrazione chirurgica degli impianti tumorali; stadio IV, con diffusione ematogena o extraddominale. La determinazione di un adeguato sospetto di malignità è importante: solo nel 13-21% delle donne trattate chirurgicamente per un sospetto carcinoma la diagnosi di malignità viene effettivamente confermata [Jeong et al. 2000]. Inoltre, il livello di sospetta malignità influenza la condotta chirurgica: si suggerisce infatti un approccio laparoscopico per le masse con aspetto US mediamente sospetto e senza fattori
di rischio aggiuntivo (ascite, diametro >10 cm, bilateralità, IR <0,6, CA-125 >35 UI/ml), laddove viene utilizzato l’approccio laparotomico dinanzi ad uno degli indicatori suddetti [Berlanda et al. 2002]. Una formazione cistica semplice, uniloculata e omogenea, di dimensioni <5 cm ed identificata in un soggetto asintomatico, può essere semplicemente monitorizzata con l’US, essendo con grande probabilità benigna; dinanzi a formazioni di aspetto differente è invece necessaria un’analisi caso per caso. Gli elementi morfologici di sospetto per la malignità sono (oltre che, chiaramente, gli eventuali reperti di colonizzazione peritoneale o parenchimale): dimensioni significative (>5 cm ed ancor più >9-10 cm, ma esistono anche cistoadenomi giganti!), bilateralità (20% dei tumori benigni ma fino al 50% di quelli maligni, specie se sierosi o endometrioidi), componenti solide senza chiaro aspetto adiposo (bassa o moderata ecogenicità, senza netta iperreflessività con attenuazione del fascio), pareti spesse (>2-3 mm) e irregolari, setti spessi (>2 mm) e irregolari, vegetazioni (proiezioni papillari emergenti dalla superficie interna della parete cistica, altamente sospette), ipervascolarizzazione, versamento peritoneale (ma solo se cospicuo) (Figg. 3.525-3.528). La maggiore o minore ecogenicità del liquido endocistico non sembra avere un valore discriminativo. Sono stati proposti diversi sistemi di scoring multiparametrico (Fig. 3.529), che hanno condotto ad una sensibilità della TVUS per la diagnosi di malignità dell’82-100% con una specificità tuttavia oscillante dal 56 al 95%, a causa appunto della sovrapposizione tra forme benigne e maligne [Brown et al. 1998, Jeong et al. 2000, Sassone et al. 1991]. Uno studio qualitativo ecocolor-Doppler del flusso lesionale deve essere sempre attuato, sia nell’esplorazione transaddominale che in quella transvaginale, dimo-
Fig. 3.525. Carcinoma endometrioide dell’ovaio. Voluminosa massa pelvica, prevalentemente solida, ipoecogena disomogenea
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Ecografia in oncologia
Fig. 3.526. Cistoadenocarcinoma mucinoso ovarico. Massa complex, prevalentemente cistica, con zolla solida centrale da cui si irradiano multipli setti di variabile spessore
Fig. 3.527. Cistoadenocarcinoma sieroso dell’ovaio. Neoformazione annessiale con setti interni spessi e irregolari
Fig. 3.528. Cistoadenocarcinoma sieroso ovarico. Massa ovarica con multipli, sottili setti interni
strando la presenza di vascolarizzazione nelle quote solide, nei gettoni e nelle proiezioni papillari delle lesioni maligne [Brown et al. 1998, Marret et al. 2002] (Figg. 3.530-3.534). Ciò si è dimostrato particolarmente utile, ad esempio, nella differenziazione dei carcinomi ovarici dalle altre masse pelviche di aspetto complex [Guerriero et al. 2002]. L’ECD aiuta innanzitutto a rilevare le aree solide vascolarizzate, distinguendone le varie componenti, ed inoltre permette un’analisi dei pattern vascolari, dimostrando sia soggettivamente che quantitativamente una maggiore vascolarizzazione delle lesioni maligne rispetto a quelle benigne [Wilson et al. 2006]. Mentre nelle lesioni benigne la formazione di vasi avviene soprattutto alla periferica, quelle maligne dimostrano fenomeni neoangiogenetici che generalmente partono dal centro e si rilevano nei setti, nelle proiezioni papillari e nei gettoni solidi; peraltro vengono anche riscontrare forme benigne ipervascolarizzate e forme maligne prive di segnali colore [Ascher et al. 2002, Derchi et al. 2002] (Fig. 3.535). L’ECD si è dimostrato utile nella differenziazione tra tumori ovarici maligni ed altre masse pelviche di aspetto complex, essendo sicuramente più specifico della sola US e soprattutto della sola valutazione della concentrazione plasmatica del CA-125 [Guerriero et al. 2002]. Più complesso è il discorso sui parametri spettrali, molto enfatizzati nel passato ma il cui ruolo nella diagnosi di malignità è stato ridimensionato negli ultimi anni [Jeong et al. 2000]. La flussimetria è complessa e time-consuming poiché richiede il campionamento del flusso a livello di vari poli vascolari. Essa dimostra, in questi vasi privi di muscolatura liscia, con scarsa impedenza al flusso e alta incidenza di fistole arterio-venose, una significativa rappresentazione della componente diastolica dello spettro, con conseguente scarsa modulazione sisto-diastolica (Fig. 3.536). Ne derivano valori della velocità sistolica che sono sospetti se >16 cm/s, valori dell’IR che sono sospetti se <0,4-0,8 (la maggior parte degli autori si attesta però su <0,4-0,45) e valori dell’IP che sono sospetti se <1 [Brown et al. 1998, Hata et al. 1995, Jeong et al. 2000, Kurjak et al. 1992, Marret et al. 2002] (Fig. 3.537). La sensibilità delle tecniche Doppler nelle diverse casistiche oscilla dal 50 al 100% e la specificità dal 46 al 100%, anche perché vi sono fattori interferenti quali innanzitutto lo stato ormonale della paziente (i reperti sono sicuramente più affidabili in postmenopausa che in premenopausa, per la quale si raccomanda una misurazione tra 3° e 11° giorno del ciclo) e vi sono affezioni benigne, quali l’endometriosi e la malattia infiammatoria pelvica, che possono avere impedenze acustiche di tipo “maligno”. Bisogna inoltre considerare che una massa annessiale può mostrare spettri flussimetrici piuttosto differenti in poli vascolari diversi: in questo caso non bisogna fare una media tra i diversi
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.529. Scoring morfostrutturale delle masse ovariche. Secondo Sassone et al. [1991] si considerano da 1 a 4 tipologie per la struttura interna, da 1 a 3 per la parete, da 1 a 3 per gli eventuali setti e da 1 a 5 per l’ecogenicità
campionamenti, così come si farebbe in altre circostanze, ma prendere in considerazione, per il sospetto di malignità, il tracciato che dia i valori più bassi dell’IR e dell’IP. Per quanto riguarda infine la veloci-
tà di picco sistolico, suoi valori elevati sono stati correlati con le forme maligne e vi è stato anche attribuito un valore, come parametro indipendente, nella prognosi dei tumori epiteliali dell’ovaio [Hata et al.
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Fig. 3.530. Cistoadenocarcinoma sieroso ovarico. Formazione complex, con aree prevalentemente solido-microcistiche caratterizzate da qualche segnale colore al PD direzionale e da aree macrocistiche corpuscolate, con segnale colore nei grossi setti
a
Fig. 3.531. Cistoadenocarcinoma mucinoso ovarico. Formazione prevalentemente cistica, con quote solide periferiche e spessi setti sede di segnali di flusso all’ECD
b
Fig. 3.532a, b. Carcinoma ovarico. Formazione ipoecogena disomogenea che slarga l’annesso (a) e che mostra una discreta vascolarizzazione prevalentemente centrale all’ECD (b)
Fig. 3.533. Cistoadenocarcinoma mucinoso ovarico. Massa cistica pluriloculata, disomogenea, con segnali di flusso all’interno degli spessi setti al PD direzionale
2002]. In definitiva, quindi, la valutazione US deve integrare i dati morfologici in scala dei grigi con quelli color-Doppler ed eventualmente anche con quelli forniti dal Doppler spettrale per poter ottenere risultati accurati (sensibilità e specificità del 90% in casistiche recenti). In un ampio studio multicentrico su masse pelviche identificate con la US ed ECD transvaginale e ritenute di pertinenza extrauterina l’8% risultava non classificabile dal punto di vista del sospetto di malignità; queste lesioni indeterminate erano soprattutto, come anche comprensibile, tumori ovarici borderline ma anche casi di miomi parametriali, di cistoadeno(fibro)mi papilliferi e di struma ovarii [Valentin et al. 2006]. Le esperienze attuali con i mdc sono ancora limitate; sembrerebbe comunque che i tumori maligni si caratterizzino soprattutto per un wash-out più lento ed una più ampia area sotto la curva, all’analisi delle curve intensità/tempo con PD, e che la CEUS
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
a
b
Fig. 3.534a, b. Carcinoma ovarico. Voluminosa massa pelvica mediana, ipoecogena disomogenea, con cospicua vascolarizzazione specie periferica al PD direzionale (a). Correlazione TC in coronale, con dimostrazione di una tessitura interna molto simile a quella ecografica (b)
Fig. 3.536. Profili flussimetrici tipici delle masse annessiali. Nelle forme benigne la differenza sisto-diastolica è maggiore ed è presente un’incisura diastolica mentre in quelle maligne la modulazione è minore e manca l’incisura Fig. 3.535. Possibili pattern di distribuzione ECD delle masse ovariche. Nelle forme benigne prevalgono i flussi periferici e pericistici mentre in quelle maligne si riscontrano soprattutto flussi centrali, settali e diffusi
con sonda transvaginale aumenti la confidenza nella distinzione benigno-maligno, identificando la microvascolarizzazione intralesionale [Marret et al. 2004, Testa et al. 2005].
I carcinomi ovarici hanno una diffusione innanzitutto per contiguità, a livello di tuba, legamenti larghi, utero e ovaio controlaterale (il 50% dei carcinomi è infatti bilaterale ma nella metà di questi si tratta di
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Ecografia in oncologia
Fig. 3.537. Cistoadenocarcinoma ovarico. Formazione finemente ed irregolarmente settata. La flussimetria Doppler di un vaso arterioso settale dimostra uno spettro a bassissima resistenza
propagazione dall’ovaio del lato opposto); in fase avanzata vengono infiltrati vescica, retto-sigma, anse ileali e pareti pelviche (Fig. 3.538). La diffusione peritoneale, che rientra ancora nel parametro T, può essere identificata soprattutto a livello del grande omento, della glissoniana epatica, dell’emidiaframma destro, della superficie sierosa intestinale e dello scavo di Douglas (cfr. paragrafo 3.36). Per la diffusione linfatica cfr. paragrafo 3.26; i linfonodi regionali comprendono comunque quelli ipogastrici, iliaci comuni, iliaci esterni, sacrali laterali, paraortici e inguinali. Metastasi ematogene vengono identificate solo nell’1% dei casi alla presentazione ma sono frequenti nelle fasi avanzate o nella ripresa di malattia: gli organi esplorabili ecograficamente sono fegato ma anche rene, surrene, vescica e milza. L’US, transaddominale ma soprattutto transvaginale e transrettale, può essere utile infine per la diagnosi delle recidive pelviche del carcinoma (cupola vaginale, parete vescicale, ecc.), con un’accuratezza del 90%. Per quanto riguarda specificamente gli altri processi espansivi ovarici, quello più frequente sia nella donna in età fertile che in quella in postmenopausa è sicuramente dato dalle cisti funzionali (cisti follicolari, derivanti da follicoli non scoppiati o non riassorbiti, cisti luteiniche, derivanti dal sanguinamento all’interno di un corpo luteo), associate ad irregolarità mestruali e prive di potenziale maligno. Si tratta generalmente di formazioni di dimensioni <3 cm (sebbene talora anche >10 cm), uniloculate, a pareti sottili e lisce, con rinforzo di parete posteriore [Jeong et al. 2000]. Dinanzi a questo quadro non sono generalmente necessari particolari controlli, sebbene esista una certa sovrapposizione con tumori benigni quali innanzitutto il cistoadenoma sieroso: per dimensioni
<5 cm (<6 cm se in postmenopausa) si esegue un controllo US dopo uno o due cicli mestruali, al fine di rilevare la regressione spontanea del reperto, piuttosto frequente soprattutto se le dimensioni della formazione funzionale solo limitate e se la donna è ancora in età fertile; spesso si esegue un trattamento estroprogestinico per favorire il riassorbimento della cisti, sebbene sia discussa la reale efficacia e necessità di questo approccio [Arger 1996]. Cisti di aspetto semplice ma di dimensioni superiori ai valori soglia indicati precedentemente è meno probabile che siano funzionali e sono spesso dovute a cistoadenomi sierosi che, se persistenti, vengono rimossi per via laparoscopica. Diverso è il caso in cui i fenomeni emorragici interni abbiano reso disomogeneo il contenuto della formazione cistica, con echi reticolari o coaguliformi (ma senza setti o gettoni): in questo caso l’ECD è di scarso ausilio, potendosi comunque identificare dei segnali vascolari, ed è indicato il ricontrollo ecografico per un’adeguata caratterizzazione. Le cisti luteiniche in particolare possono avere un aspetto molto variabile e non di rado possono simulare, ad una prima analisi, un carcinoma. Esse sono piuttosto frequenti sia come riscontro incidentale che come fonte di dolore pelvico e massa palpabile, e vengono tipicamente rilevate nella fase postovulatoria [Jan et al. 2002]. Le dimensioni sono generalmente di 3-3,5 cm ma possono raggiungere gli 8 cm e la parete appare sottile (2-3 mm), netta e regolare. Si rileva un rinforzo posteriore, quale indicatore della natura cistica. La struttura interna è molto variabile, in relazione all’epoca della cisti e quindi dell’evoluzione del sangue fuoriuscito: tralci di fibrina (reticolato ecogeno, generalmente sottile e regolare), coagulo retratto (pseudogettone ecogeno più o meno omogeneo, adeso alla parete cistica e con forma semilunare o triangolare), livelli (liquido-liquido o liquido-detriti) [Arger 1996, Jan et al. 2002]. Sicuramente le diverse morfologie dei coaguli e dei setti possono simulare un tumore cistico, sebbene l’assenza di segnali colore all’ECD transvaginale costituisca di solito un elemento sufficientemente chiarificatore; nei casi dubbi, comunque, la condotta più razionale appare quella del controllo US a breve distanza di tempo, con dimostrazione dell’involuzione anche parziale della lesione (generalmente non più riconoscibile dopo 6-8 settimane) [Arger 1996]. Talora invece un aspetto anulare della cisti, con immagine ecogena periferica e centro ipoecogeno, può simulare una gravidanza tubarica e ciò specie in caso di rottura della cisti emorragica che comporta la presenza di un versamento nel cavo di Douglas [Jan et al. 2002] (Figg. 3.539-3.542). L’endometrioma ovarico (o cisti endometriosica, 80% delle endometriosi pelviche) predilige le donne in età fertile e appare come una massa cistica annessiale con diffusi echi interni di basso livello, di di-
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.538. Stadiazione dei carcinomi ovarici. T1a, tumore limitato all’interno di un ovaio; T1b, tumore limitato all’interno di entrambe le ovaie; T1c, tumore limitato a una o entrambe le ovaie ma con rottura capsulare e/o con cellule tumorali nel liquido peritoneale; T2a, estensione su utero e/o tuba ma senza cellule tumorali nel liquido peritoneale; T2b, estensione alle altre strutture pelviche ma senza cellule tumorali nel liquido peritoneale; T2c, estensione pelvica con cellule tumorali nel liquido peritoneale; T3, metastasi peritoneali extrapelviche, comprese quelle a livello della glissoniana epatica. Modificato da [Wittekind et al. 2005]
mensioni generalmente contenute, con eventuale multiloculazione e/o con foci ecogeni parietali colesterinici ma generalmente senza caratteri suggestivi di malignità quali gettoni parietali o setti spessi e irregolari [Jeong et al. 2000, Patel et al. 1999]. Sono possibili i livelli interni liquido-liquido o liquido-detriti. I teratomi cistici maturi, generalmente asintomatici, costituiscono il 15-54% dei tumori ovarici e possono essere bilaterali nel 10-13% dei casi. Gli aspetti tipici includono: zolle dermoidi ecogene (o ampie aree iperecogene), livelli interni idro-lipidici (liquido, meno ecogeno, in sede declive, e grasso, più ecogeno, in
sede antideclive), segno della punta dell’iceberg (mascheramento delle componenti profonde ad opera delle quote iperecogene superficiali) e calcificazioni. Talora si osservano multiple “palle” ecogene flottanti endolume, di 5-40 mm di dimensioni [Tongsong et al. 2006]. La diagnosi di dermoide è considerata affidabile in presenza di almeno due dei segni sopraelencati; soprattutto caratterizza questa formazione la presenza di echi ad elevata ampiezza, focali o diffusi, dovuti a grasso, depositi calcifici o ammassi di capelli. L’ECD documenta una sostanziale avascolarità, salvo qualche segnale vascolare [Speca et al. 2006]. L’aspet-
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Ecografia in oncologia
Fig. 3.539. Cisti luteinica ovarica. Formazione annessiale sinistra ben delimitata, con contenuto disomogeneo e finemente reticolare. U, utero (con endometrio ispessito)
Fig. 3.542. Cisti luteinica. Formazione ipoecogena disomogenea dell’ovaio destro (freccia breve), associata a versamento peritoneale (freccia lunga)
Fig. 3.540. Cisti luteinica ovarica. Formazione annessiale ben delimitata, con contenuto disomogeneo e finemente reticolare
Fig. 3.543. Teratoma ovarico. In sede annessiale sinistra si osserva una formazione ecogena (tra i calibri), leggermente disomogenea, mal delimitabile
Fig. 3.541. Cisti luteinica ovarica. Formazione cistica annessiale sinistra con qualche setto interno ma senza segnali vascolari all’ECD
to complessivo, con un evidente segno dell’iceberg, potrebbe teoricamente simulare un sigma-retto disteso con ristagno fecale [Derchi et al. 2002]. L’unica altra lesione annessiale a poter contenere grasso è il raro e maligno teratoma immaturo, che si presenta come masse ampie, prevalentemente solide, con piccoli foci ecogeni adiposi e calcificazioni grossolane [Jeong et al. 2000] (Figg. 3.543-3.545, Video 3.53). Il cistoadenoma sieroso appare come una formazione cistica a contenuto liquido chiaro, omogeneamente anecogeno, con qualche setto interno sottile e, talora, qualche piccola nodulazione parietale. Il cistoadenocarcinoma sieroso ha tendenzialmente un aspetto più complex, con pareti spesse, multipli setti spessi e irregolari, e gettoni solidi vegetanti a partire dalle pareti o dagli stessi setti [Derchi et al. 2002]. Nel cistoadenoma mucinoso e nel cistoadenocarcinoma mucinoso si osserva un aspetto non troppo
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
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b
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Fig. 3.544a, b. Teratoma ovarico. Formazione ecogena, leggermente disomogenea, mal delimitabile (a), praticamente priva di segnali vascolari all’ECD (b)
Fig. 3.545a, b. Cisti dermoide ovarica. Formazione complex, per presenza di zolle iperecogene con marcata ombra posteriore (a, segno dell’“iceberg”) nonché di aree iperecogene adipose e di altre ipo-anecogene liquide (b)
dissimile da quanto appena riportato per i corrispettivi sierosi, con una tendenza tuttavia ad una maggiore ecogenicità del contenuto liquido endocistico, talora con livelli liquido-detriti, e mediamente con un numero maggiore di setti interni [Derchi et al. 2002]. Una caratteristica delle forme mucinose benigne è la presenza di diversi gradi di ecogenicità tra le varie loculazioni fluide endolesionali, evidentemente espressione di produzione mucinica con diversa composizione chimica [Caspi et al. 2006]. In caso di rottura si osservano multiple loculazioni liquide peritoneali (pseudomixoma peritonei, cfr. paragrafo 3.36). I tumori fibrosi (4% dei tumori dell’ovaio, 2% di quelli maligni), nelle diverse varietà di fibromi, tecomi, tecomi fibrosi e fibrotecomi, vengono di solito identificati incidentalmente in donne di mezza età. Appaiono come masse di diversa ecogenicità, ipoecogene ma talora anche iperecogene con rinforzo posteriore. L’aspetto solido può simulare una lesione maligna, anche perché non di rado è presente un ver-
samento peritoneale ed anche pleurico. Nelle forme sclerosanti l’aspetto è più complesso, con componenti cistiche rotondeggianti localizzate centralmente e ipervascolarità specie periferica e centrale intercistica; IR e IP presentano valori bassi in media (0,39 e 0,47 rispettivamente) [Lee et al. 2001]. L’ECD può essere utile nella distinzione rispetto ai miomi uterini sottosierosi peduncolati, dimostrando la presenza, nel tumore fibroso, di flussi intralesionali scarsi, irregolarmente distribuiti e lenti, laddove i miomi sono tendenzialmente ipervascolarizzati [Speca et al. 2006]. In generale, sebbene la maggior parte di questi tumori sia benigna, si tende a rimuovere chirurgicamente tutte le formazioni solide o prevalentemente solide dell’ovaio, anche a prescindere dall’età della paziente [Arger 1996] (Fig. 3.546). I tumori a cellule germinali (5-15% dei tumori ovarici maligni) sono costituiti innanzitutto dal disgerminoma, che predilige adolescenti e giovani donne. Possono associarsi con un aumento dei livelli sie-
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a Fig. 3.547. Metastasi ovarica da carcinoma colico. Formazione annessiale destra (frecce) caratterizzata da porzioni ipoecogene solide e da porzioni anecogene cistiche
b Fig. 3.546. Fibrotecoma ovarico. Formazione ecogena (frecce), ben delimitata, sostanzialmente omogenea eccetto che per la presenza di un nucleo calcifico e di un’area colliquativa eccentrica (a). La scansione TC (b) conferma la formazione solida annessiale destra. Sono anche presenti una cisti follicolare annessiale sinistra ed una lieve falda liquida nel cavo del Douglas
rici di AFP e HCG. Sono generalmente solidi ,e bilaterali nell’80%. Le metastasi costituiscono il 5-10% dei tumori ovarici maligni e sono più spesso di origine gastrica (30-40% dei casi), colica (10-15%), pancreatica, mammaria, endometriale o anche ovarica controlaterale; le ovaie funzionanti sono a maggior rischio rispetto a quelle delle donne in postmenopausa [Ascher et al. 2002]. Le metastasi sono difficilmente differenziabili dai tumori primitivi maligni, condividendo con questi molti aspetti morfostrutturali e flussimetrici. La bilateralità è frequente (80% dei casi) ma, come detto, essa non è rara neanche nelle forme primitive. Una metastasi può essere sospettata dinanzi ad una massa prevalentemente o esclusivamente solida (non adiposa) ma per il resto esiste un’ampia sovrapposizione semeiologica [Alcázar et al. 2003] (Figg. 3.547-3.550).
a
b Fig. 3.548a, b. Metastasi ovarica da carcinoma mammario. Formazione complex dell’annesso destro, con quote cistiche e con gettoni solidi (a), discretamente vascolarizzati all’ECD (b). U, utero
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.549. Metastasi ovarica da carcinoma rettale. Ampia massa pelvica complex, con quote ipo-anecogene
Fig. 3.550. Metastasi ovarica da carcinoma mammario. Ampia massa ecogena, con qualche areola ipo-anecogena colliquativa e discreta vascolarizzazione al PD direzionale
3.32. L’ispessimento endometriale: detezione, valutazione, indicazioni per l’approfondimento diagnostico Il carcinoma del corpo uterino (endometrio) rappresenta la più frequente neoplasia maligna della sfera genitale femminile e la 4a neoplasia maligna della donna, con un’incidenza in aumento nei paesi industrializzati. Il picco di presentazione è tra 55 e 65 anni, con l’80% dei casi in postmenopausa e <5% dei casi al di sotto dei 40 anni [Boles et al. 2002, Kitchener 2006, Valenzano et al. 2001]. Nel 90% dei casi si tratta di un adenocarcinoma ben differenziato. Fattori di rischio sono: nulliparità, obesità, diabete, ipertensione, terapia ormonale per carcinoma mammario (tamoxifene), terapia sostitutiva prolungata per menopausa e
sindrome dell’ovaio policistico, sindrome del carcinoma colico ereditario non poliposico, neoplasie secernenti estrogeni (es. tumore ovarico a cellule della granulosa) [Boles et al. 2002]. Nell’età fertile si rileva un’alterazione del ciclo, variabile dall’amenorrea alla menometrorragia. La metrorragia (anche come spotting) costituisce il sintomo più frequente e precoce del carcinoma in postmenopausa, che deve sempre indurre ad approfondimenti diagnostici (>75% dei casi viene pertanto identificato quando ancora in stadio I, con sopravvivenza a 5 anni del 76%); il dolore è di solito tardivo. Peraltro, nell’80-95% dei casi, la metrorragia postmenopausale ha cause benigne: atrofia endometriale (l’etiologia più comunque, con ulcerazioni della superficie endometriale atrofica), terapia estrogenica (senza associazione progestinica), iperplasia endometriale, vaginite atrofica, polipi cervicali o endometriali [Boles et al. 2002, Epstein et al. 2002, Levine et al. 1995]. Lo scopo della TVUS in questi casi è di: selezionare le pazienti candidate alla biopsia endometriale, studiare l’endometrio alla ricerca di polipi o miomi sottomucosi, identificare l’eventuale infiltrazione miometriale da parte del carcinoma dell’endometrio [Derchi et al. 2002]. Nelle donne in postmenopausa operate per carcinoma mammario viene impiegata, in caso di positività per il recettore degli estrogeni, un’ormonoterapia adiuvante con tamoxifene per 5 anni. È ormai pratica consolidata, ancorché di non confermata utilità, sottoporre periodicamente queste pazienti a controlli US periodici per valutare lo spessore endometriale; l’endometrio infatti aumenta di spessore, specie al centro del corpo uterino, e mostra spesso piccole lacune anecogene, quale conseguenza di fenomeni di iperplasia, modificazione polipoide e degenerazione cistica dell’endometrio e del miometrio più interno [Coleman 1996]. Nel 90% circa dei casi si tratta di forme epiteliali (adenocarcinoma nel 90%) mentre negli altri si riscontrano sarcomi, tumori misti, metastasi. La stadiazione TNM è rappresentata nella Figura 3.551 e nella Figura 3.552. La classificazione della FIGO del 1988 comprende i seguenti stadi: I, limitato al corpo uterino incluso l’istmo (IA limitato all’endometrio, IB esteso a <50% del miometrio, IC esteso a >50% del miometrio); II, interessante corpo e cervice (IIA limitato allo spessore ghiandolare, IIB estensione allo stroma cervicale); III, esteso oltre l’utero ma non oltre la pelvi (IIIA invasione del peritoneo dell’utero, degli annessi, citologia peritoneale positiva, IIIB metastasi vaginali; IIIC metastasi pelviche o ai linfonodi pelvici e/o lomboaortici); IV esteso oltre la pelvi o infiltrante la mucosa del retto o della vescica (IVA invasione mucosa di vescica, retto, sigma e intestino tenue, IVB metastasi a distanza compresi i linfonodi intraddominali e/o inguinali). Dal punto di vista del grading, si distinguono una forma ben differenziata, una mo-
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Fig. 3.551. Stadiazione dei carcinomi endometriali. T1a, tumore limitato all’endometrio; T1b, invasione di <50% del miometrio; T1c, invasione di >50% del miometrio; T2a, invasione cervicale ghiandolare; T2b, invasione cervicale anche stromale; T3a, estensione alla sierosa e/o agli annessi; T3b, estensione alla vagina, T4, estensione sino alla mucosa vescicale o intestinale. Modificato da [Wittekind et al. 2005]
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.552. Parametro N per tumori endometriali. Sono considerati regionali i linfonodi pelvici (ipogastrici, iliaci comuni, iliaci esterni, sacrali laterali, parametriali, presacrali, sacrali laterali) e quelli paraortici (compresi paracavali e interaortocavali). L’N1 considera la metastasi ad una o più di queste stazioni. Modificato da [Wittekind et al. 2005]
deratamente differenziata ed una scarsamente differenziata. La visita ginecologica e l’US transvaginale sono gli elementi di inquadramento iniziale della metrorragia postmenopausale, ma generalmente la diagnosi finale, sulla scorta di un’ipotesi ecografica eventualmente suffragata dall’isterosonografia, viene ottenuta dal secondo livello diagnostico, con isteroscopia e/o biopsia. La RM ha un ruolo, peraltro fondamentale, soprattutto nella stadiazione, che in generale non dovrebbe essere affidata alla sola TVUS. Lo studio US della cavità endometriale e dell’intero utero può utilmente avvalersi, anche per via transvaginale, delle tecniche Doppler, della seconda armonica, dell’imaging 3D nonché del FOV esteso [Bega et al. 2003]. In alcuni casi può essere anche utile l’aggiunta di uno studio isterosonografico, eseguito con TVUS previa distensione cavitaria con liquido (isteroiniettore monouso e palloncino gonfiabile) (Fig. 3.553); esso risulta utile dinanzi ad un endometrio poco definibile o ad un endometrio ispessito, distinguendo in quest’ultimo caso tra veri ispessimenti e falsi positivi della TVUS [Valenzano et al. 2001]. All’US transvaginale lo spessore endometriale viene misurato a livello della linea iperecogena centrale determinata dalle riflessioni speculari della cavità uterina. In scansione sagittale, nel punto di maggiore ampiezza, si sommano i due strati endometriali affrontati (da una giunzione endometrio-miometrio a quella opposta), senza considerare lo strato (alone) ipoecogeno sottoendometriale (corrispondente al terzo interno del miometrio, compatto e discretamente vascolarizzato); l’eventuale liquido nel lume cavitario beante deve essere sottratto allo spessore endome-
Fig. 3.553. Sonoisterografia. Distensione liquida della cavità uterina ai fini dello studio ecografico transvaginale
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triale complessivo quando quest’ultimo viene misurato [Coleman 1996] (Fig. 3.554). L’accumulo intracavitario di liquido non è un reperto raro in postmenopausa, specie nelle donne trattate con terapia ormonale sostitutiva, ed il suo effettivo significato patologico è discusso; in ogni caso si consiglia l’approfondimento se la falda liquida è >3 mm di spessore e/o ecogena [Takacs et al. 2005] (Fig. 3.555). La riproducibilità intra- ed interosservatore della misurazione dello spessore endometriale è più che sufficiente per un impiego clinico efficace [Warming et al. 2002]. Nella donna in età fertile l’endometrio è <4 mm in fase mestruale, pari a 4-8 mm in quella proliferativa e a 7-14 mm in quella secretiva, allorquando diviene anche più ecogeno [Coleman 1996] (Fig. 3.556). In postmenopausa l’endometrio si atrofizza per la mancanza di
stimolazione epiteliale ed appare come una sottile stria di diametro <4 mm, generalmente intorno a 2 mm con un progressivo assottigliamento negli anni ed una sostanziale differenza tra i primi 5 anni dalla menopausa e gli anni successivi. Una terapia ormonale sostitutiva continua, con estrogeni o combinata (estradiolo a bassa dose e progesterone), aumenta mediamente lo spessore di 1-1,5 mm; quella sequenziale di 3 mm [Levine et al. 1995]. Se lo spessore misurato è <4 mm si considera che la menorragia postmenopausale è stata determinata dall’atrofia endometriale e non si prosegue ulteriormente con l’iter diagnostico. Peraltro, la misura dello spessore endometriale non può essere un criterio assoluto se si considera ad esempio che un endometrio ispessito può anche essere riscontrato in donne senza alcun pro-
Fig. 3.554. Anatomia endometriale. Endometrio in età fertile, in fase proliferativa, visualizzato come una sottile stria ecogena con tenue alone ipoecogeno adiacente
Fig. 3.556. Variazioni fisiologiche dello spessore endometriale. Differenze dello spessore endometriale nella donna in età fertile, in relazione alle diverse fasi del ciclo uterino
Fig. 3.555. Ispessimento endometriale benigno. Aumento di spessore dell’endometrio postmenopausale (frecce), con minima raccolta liquida intracavitaria a livello fundico
Capitolo 3 Le problematiche cliniche blema metrorragico; in questi casi, quindi, la decisione di eseguire la biopsia si deve basare sul contesto clinico-anamnestico, nonché sui reperti ecostrutturali ed ecovascolari [Derchi et al. 2002, Warming et al. 2002]. Il carcinoma endometriale allo stadio I si presenta come un aumento di ampiezza focale della linea endometriale, che diviene anche più ecogena e disomogenea. Lo spessore endometriale in postmenopausa è considerato patologico se >5 mm (>7 mm nelle donne che ricevono estrogeni per terapia sostitutiva e >10 mm in quelle sottoposte a terapia con tamoxifene); la dimostrazione di uno spessore normale virtualmente esclude il carcinoma (indicazione alla biopsia solo in caso di emorragie ripetute) mentre uno spessore postmenopausale >10,5 mm ha una sensibilità dell’88% ed una specificità del 61% nella diagnosi di malignità [Boles et al. 2002, Epstein et al. 2002]. Nelle donne con sindrome dell’ovaio micropolicistico si rileva spesso un endometrio ispessito e talora anche disomogeneo con areole microcistiche, quale conseguenza dell’iperplasia indotta dallo stato anovulatorio cronico [Peri et al. 2007]. Anche dopo la menopausa, esistono altre cause di ispessimento endometriale: iperplasia endometriale, atrofia cistica, polipi, sinechie, terapia adiuvante per carcinoma mammario. In queste condizioni esiste una certa sovrapposizione semeiologica, sebbene lacune cistiche possano suggerire un polipo, l’ispessimento omogeneo un’iperplasia e l’ispessimento marcato, iperecogeno e disomogeneo la neoplasia [Derchi et al. 2002] (Figg. 3.557, 3.558). L’isterosonografia viene impiegata da alcuni autori in tutti i casi di ispessimento endometriale, al fine di meglio definire semeiologicamente le diverse cause di sanguinamento: in questo caso, se l’endometrio non è realmente ispessito (singola parete <2 mm) l’iter viene concluso, mentre con ispessimenti focali o polipoidi si procede alla biopsia sotto guida isteroscopica e con ispessimenti diffusi si effettua una biopsia convenzionale o una procedura di dilatazione e curettaggio [Derchi et al. 2002]. Lo studio ecocolor-Doppler viene praticato in scansione longitudinale, andando a identificare con il color- o ancor meglio con il power-Doppler, l’area maggiormente vascolarizzata, sulla quale viene effettuata l’analisi spettrale [Epstein et al. 2002]. Istologicamente lo sviluppo della neoplasia endometriale è correlato alla formazione di vasi disordinati e sottili (senza muscolare propria), spesso raggruppati in aree di ipervascolarizzazione ed associati a numerose microfistole arterovenose [Mirk et al. 2006]. Con le apparecchiature attuali, segnali vascolari si rilevano al PD transvaginale nel 77% dei casi di endometrio postmenopausale normale, nell’85% degli ispessimento benigni e nel 100% degli ispessimenti maligni, mentre lo studio delle arterie uterine principali non ha dato risul-
Fig. 3.557. Atrofia endometriale. Omogeneo ispessimento dell’endometrio postmenopausale. È presente versamento
Fig. 3.558. Iperplasia endometriale. Grossolano ispessimento ecogeno disomogeneo dell’endometrio che presenta anche alcune lacune anecogene interne. Aspetto regolare della giunzione mio-endometriale
tati significativi [Epstein et al. 2002, Mirk et al. 2006]. Nelle lesioni polipoidi benigne e maligne l’ECD riesce di solito a rilevare i segnali dei vasi peduncolari, che nelle forme maligne sono generalmente più numerosi e ramificati nonché associati ad uno spettro flussimetrico di minor impedenza; questi elementi possono essere utili nell’analisi decisionale polipectomia vs. isterectomia [Fleisher 2003]. La dimostrazione soggettiva o quantitativa di un’ipervascolarità nell’endometrio o nel passaggio endometrio-miometrio, suggerisce la natura maligna del reperto, con una riproducibilità intra- ed interosservatore almeno per gli esaminatori esperti [Alcázar et al. 2006]. I vasi tumorali sono caratterizzati da flussi piuttosto elevati (Vmax sospetta se >18 cm/s) ed a bassa impedenza (IR 0,34-0,6, sospetto se <0,5 - IP sospetto se <1).
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L’efficacia diagnostica delle misurazioni spettrali è comunque controversa ed alcuni lavori riportano una sostanziale sovrapposizione della vascolarizzazione tra ispessimenti benigni e maligni dell’endometrio, soprattutto con valori di IR e IP non troppo dissimili (considerando anche i valori normali per età e parità) [Alcázar et al. 2005, Coleman 1996, Epstein et al. 2002, Mirk et al. 2006]. In alcuni lavori, comunque, l’entità della vascolarizzazione si correla con la probabilità di malignità anche a prescindere dal grado di ispessimento endometriale ed inoltre la vascolarizzazione risulta maggiore negli stadi più avanzati della malattia che non in quelli iniziali, correlandosi quindi con il grado, lo stadio e la prognosi [Epstein et al. 2002, Mirk et al. 2006]. Nelle forme localmente avanzate la diagnosi US di neoplasia endometriale diviene chiaramente più agevole, con evidenza di ingrossamento uterino, ispessimento endometriale grossolano e disomogeneo, distensione cavitaria con materiale fluido, ecogeno e/o papillare, discontinuità dell’alone ipoecogeno periendometriale, infiltrazione del miometrio [Mirk et al. 2006] (Fig. 3.559). L’infiltrazione miometriale costituisce il singolo parametro prognostico di maggiore importanza e predice il rischio di diffusione linfonodale (3% dei casi di invasione miometriale superficiale e 40% di quelli con invasione profonda) [Sarna et al. 2005]. Il miometrio interno circonda all’US l’iperecogenicità endometriale ed ha un’ecogenicità bassa, inferiore rispetto a quello del miometrio più esterno. L’assenza del normale alone ipoecogeno subendometriale, in particolare un suo assottigliamento focale, nonché l’irregolarità della giunzione endometrio-miometrio possono suggerire un’infiltrazione di quest’ultimo; l’obliterazione completa dello strato miometriale ipoecogeno suggerisce un’infiltrazione parietale profonda (>50% del miometrio). Lesioni endometriali maligne con ampia componente polipoide possono apparentemente assottigliare a tale livello il miometrio, anche per fenomeni compressivi, e determinare quindi una sovrastadiazione della diffusione in profondità; lo stesso dicasi per un’atrofia miometriale o per la presenza di miomi, ematometra o piometra. Falsi negativi possono invece derivare da una diffusione tumorale superficiale oppure da microinvasioni endometriali [Boles et al. 2002]. La TVUS ha dimostrato complessivamente un’accuratezza dell’84-99% per l’infiltrazione miometriale [Derchi et al. 2002, Gordon et al. 1990] mentre l’isterosonografia una sensibilità dell’88% ed una specificità del 100% [Valenzano et al. 2001]. Il coinvolgimento cervicale, che costituisce un’indicazione alla radioterapia adiuvante, può essere sospettato dinanzi ad una disomogeneità del normale stroma ecogeno della cervice e viene identificato con un’accuratezza del 93-96% [Art-
Fig. 3.559. Carcinoma endometriale. Grossolano ispessimento anfrattuoso della parete uterina con cavità distesa da liquido
ner et al. 1994, Derchi et al. 2002]. Per il resto, la diffusione extrauterina, sia per contiguità che per via linfatica, viene mal definita dall’US e richiede l’apporto soprattutto della RM [Del Maschio et al. 1993].
3.33. Le alterazioni della parete vescicale Un ispessimento circoscritto, reale o presunto, della parete vescicale riconosce poche cause all’infuori del carcinoma; tra queste vanno ricordati i tumori non epiteliali, i coaguli ematici, l’ipertrofia parietale, l’edema parietale (es. da decubito di catetere) e gli esiti chirurgici [Schmidt 2006]. Il carcinoma vescicale è la neoplasia più frequente delle vie escretrici (70% dei casi) e costituisce il secondo tumore urologico in ordine di frequenza dopo quello prostatico, con un’incidenza in aumento. Insorge quasi sempre (97% dei casi) dopo i 40 anni ed il rischio aumenta con l’età (picco tra 60 e 70 anni); il rapporto M/F è di 3-4:1 [Rickards et al. 2001]. Fattori di rischio sono: esposizione, generalmente professionale, a coloranti (es. anilina), terapia con alcuni farmaci (es. ciclofosfamide e fenacetina), esposizione a radiazioni, fumo, schistosomiasi. Si distingue una forma papillifera (80% dei casi), a base larga o sottile ma con regolare profilo aggettante nel lume vescicale, ed una forma sessile, infiltrante e senza peduncolo (20%). Il carcinoma vescicale è istologicamente del tipo uroteliale (a cellule transizionali) in circa il 9095% dei casi, squamoso nel 5-10% e adenocarcinomatoso nell’1-3%; in circa il 10% dei casi inoltre la struttura istologica vede forme associate o miste [Husband et al. 2004]. La sede prediletta dei tumori a cellule transizionali è costituita dalle pareti laterali e dal versante poste-
Capitolo 3 Le problematiche cliniche riore; in particolare la localizzazione alla cupola avviene nel 6-9% dei casi, quella alle pareti laterali nel 38-63%, quella alla parete posteriore nel 9-11%, quella trigonale nel 15-27%, quella al collo nel 2-6% e quella alla parete anteriore nel 2-8%. Ciò è in qualche modo confortante per l’ecografista, poiché la parete anteriore ed il collo vescicale sono le due porzioni di accesso più difficoltoso per lo studio US sovrapubico. Le lesioni a cellule transizionali sono multifocali nel 15-30% dei casi ed hanno una significativa tendenza a recidivare, con delle riprese che ogni volta tendono ad essere di grado più maligno rispetto alla lesione precedente; le recidive sono soprattutto frequenti nelle forme invasive, in quelle multifocali ed in quelle voluminose. Talora una lesione uroteliale non si ripresenta a livello della vescica ma a carico delle vie escretrici superiori. Lo stadio della malattia (Fig. 3.560) influenza il trattamento: le forme superficiali (Tis, Ta e T1), senza invasione della muscolaris propria, hanno tendenza a recidivare e, nel 10-20% progrediscono verso lesioni avanzate, essi vengono sottoposti alla cistoscopia con
resezione transuretrale, che è anche il sistema clinico per una loro differenziazione dagli stadi superiori. Le forme avanzate (T2, T3 e T4a) con invasione della tonaca muscolare o oltre, hanno una prognosi meno favorevole e vengono meno agevolmente definite per via cistoscopica (errori nel 25-50% dei casi); questi tumori sono trattati generalmente con cistectomia e linfadenectomia. Alcuni T4a, così come le forme che si sono propagate alle pareti pelviche o addominali (T4b) o che si associano a metastasi, vengono infine sottoposti a chemioterapia neoadiuvante o a radioterapia palliativa [Balci et al. 2002, Husband et al. 2004]. L’US costituisce la metodica di prima istanza nella valutazione del soggetto con macroematuria indolore e con microematuria, le due classiche modalità di presentazione di questo tumore, peraltro in qualche caso identificato accidentalmente. In casi particolari può essere utile anche un approccio transrettale o transvaginale, specie di ausilio per lo studio del trigono (d.d. con tumori vaginali e prostatici) o del collo vescicale (utile anche la fase perminzionale), oppure un approccio transluminale, con sonde endouretrali,
Fig. 3.560. Stadiazione dei tumori vescicali. Tis, tumore piatto, in situ; Ta, carcinoma papillare non invasivo; T1, invasione del connettivo sottoepiteliale; T2a, invasione <50% dello strato muscolare; T2b, invasione >50% dello strato muscolare; T3a, invasione microscopica dei tessuti perivescicali; T3b, invasione macroscopica dei tessuti perivescicali; T4a, invasione di prostata o utero o vagina; T4b, invasione di parete pelvica o parete addominale. Modificato da [Wittekind et al. 2005]
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efficaci soprattutto per la stadiazione. L’US transaddominale ha una sensibilità dell’80-90% per le lesioni vescicali >5 mm ma solo del 33% per lesioni <5 mm; le difficoltà di detezione sono legate soprattutto a casi di insufficiente distensione del viscere oppure di localizzazione alla cupola (possibile mascheramento da parte del gas intestinale) o alla parete anteriore della vescica (possibile “compressione” nei primi cm del fascio ultrasonoro e/o mascheramento nei comuni artefatti da riverbero dell’urina). L’US transuretrale ha dimostrato un’accuratezza variabile dal 62 al 92%, con difficoltà soprattutto nelle forme più invasive che peraltro sono anche quelle in cui incontra limitazioni la stadiazione clinico-cistoscopica [Balci et al. 2002, Husband et al. 2004]. Lo studio US deve valutare sede, numero e dimensioni delle lesioni (misurando sia l’altezza che la larghezza alla base), le caratteristiche della base di impianto (sottile o ampia), l’aspetto della parete vescicale sottostante e del grasso perivescicale, lo stato delle vie escretrici superiori e dei reni. Le lesioni papillifere appaiono come formazioni ecogene, aggettanti nel lume vescicale, a superficie più o meno irregolare, senza ombra acustica posteriore e con tessitura interna più o meno disomogenea (Figg. 3.561-3.564). L’ecogenicità è superiore a quella dell’urina e, di solito, moderatamente inferiore rispetto a quella della parete vescicale, dato questo che spesso permette la distinzione tra le forme superficiali, con strato parietale indenne, e forme profonde, con strato parietale discontinuato. In caso di lesioni grossolanamente calcifiche si possono avere difficoltà nella valutazione della parete vescicale sottostante. In altri casi possono rilevarsi solo piccole calcificazioni intralesionali, eventualmente responsabili di un artefatto da luccichio (twinkling artifact) all’ECD, da non confondere con dei segnali vascolari (Fig. 3.565). La ricerca di
Fig. 3.563. Tumore a cellule transizionali della vescica. Formazione ipoecogena “a placca”, sottile ma estesa, della parete vescicale posteriore ed inferiore
Fig. 3.561. Papilloma vescicale. Piccolissima formazione aggettante nel lume della vescica
Fig. 3.564. Tumore a cellule transizionali della vescica. Lesione multifocale, ad ampia base, con grossolana calcificazione interna
Fig. 3.562. Tumore a cellule transizionali della vescica. Ampia neoformazione parietale ipoecogena, a superficie anfrattuosa e con ispessimento della parete vescicale alla sua base. Cospicua vascolarizzazione all’ECD
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
a
b Fig. 3.565a, b. Tumore a cellule transizionali della vescica. Formazione ipoecogena, con superficie iperecogena, sessile, a livello della porzione sinistra della parete vescicale posteriore (a). L’ECD mette in evidenza un twinkling artifact, generato da una calcificazione intralesionale, che non deve essere confuso con un segnale di flusso (b)
questi ultimi, generalmente sottoforma di un singolo peduncolo vascolare, può essere utile per definire l’entità del processo eteroplasico, essendosi notata una certa correlazione con l’invasività della lesione (a differenza dell’IR misurato a tale livello). Le lesioni superficiali non comportano modifiche a carico della parete vescicale sottostante, che risulta invece localmente interrotta e disomogenea nelle lesioni infiltranti; peraltro, la distinzione tra forme infiltranti la porzione superficiale del detrusore (T2a) e forme infiltranti anche quella profonda (T2b) non è possibile con l’US. A lungo andare, specie nelle infiltrazioni a tutto spessore, la parete diviene ispessita e rigida. La diffusione extraviscerale risulta difficile da cogliere, pur potendosi talora rilevare, specie a livello delle pareti laterali o di quella posteriore, delle bande o dei veri e propri gettoni ipoecogeni nel grasso peri-
vescicale iperecogeno. L’infiltrazione delle vescicole seminali può essere sospettata in caso di perdita unilaterale dell’angolo di raccordo vescico-vescicolare; più difficile, se non quando grossolano, il riconoscimento delle infiltrazioni dell’utero, della vagina e del retto. In generale comunque, l’US transaddominale tende a sovrastadiare le lesioni superficiali ed a sottostadiare quelle profonde. Le lesioni trigonali tendono a stenosare lo sbocco intramurale, determinando un’idronefrosi e, a lungo andare, un’atrofia del parenchima renale. Lo studio ECD del getto urinoso uretero-vescicale può dimostrare una deviazione del getto stesso oppure una sua parziale (flusso basso e subcontinuo) o totale obliterazione. I carcinomi vescicali sono generalmente a crescita lenta e sono caratterizzati soprattutto dall’infiltrazione locale. I linfonodi classificati come regionali sono quelli della piccola pelvi, posti cioè al di sotto di un piano passante per la biforcazione delle arterie iliache comuni. Le localizzazioni linfonodali, la cui individuazione ha notevole rilievo prognostico, sono soprattutto a livello dei linfonodi iliaci esterni del gruppo mediale (otturatori) e del gruppo medio, di difficoltoso riconoscimento con US, così come, peraltro, quelle successive ai linfonodi iliaci comuni e lomboaortici; l’US identifica solo le linfadenopatie pelviche più grossolane. La metodica può essere di ausilio per le metastasi epatiche, le più frequenti insieme a quelle polmonari e ossee ma come queste piuttosto tardive; la ricerca e la quantificazione di un’eventuale idronefrosi, uni- o bilaterale, deve essere praticata costantemente [Balci et al. 2002, Husband et al. 2004]. Le evenienze da porre in diagnosi differenziale sono limitate. Gli artefatti da riverbero subito posteriormente alla parete vescicale anteriore possono simulare (o mascherare!) un aggetto parietale, sebbene sia sufficiente regolare il guadagno dei grigi per risolvere il dubbio. Le diverse forme di cistite cronica, se l’ispessimento parietale è particolarmente irregolare e distribuito in maniera asimmetrica sulla parete vescicale, possono simulare delle lesioni “a placca” (Fig. 3.566). I calcoli vescicali si modificano di posizione al variare del decubito, non hanno segnali all’ECD, sono ecogeni e con eventuale ombra posteriore (possono simulare una neoformazione calcificata). Anche i coaguli ematici sono generalmente mobili e dissociabili dalla parete, risultando inoltre privi di flusso all’ECD; bisogna considerare che spesso il carcinoma vescicale può manifestarsi con un’ematuria massiva e quindi associarsi a coaguli, che possono ad esempio condurre ad una sovrastima dimensionale della lesione (Fig. 3.567). Un ureterocele ha una sede trigonale tipica ed ha un centro anecogeno; peraltro un tumore può talora insorgere sulla mucosa di un ureterocele (Figg. 3.568, 3.569). Strutture perivescicali normali o patologiche (utero,
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Fig. 3.566. Cistite da cateterismo cronico. Ispessimento diffuso delle pareti vescicali in un soggetto portatore di catetere vescicale (si riconosce il palloncino del Foley), più marcato sulla parete posteriore ove è necessario considerare una diagnosi differenziale con una lesione produttiva uroteliale
Fig. 3.569. Papilloma su ureterocele. Formazione anecogena (frecce) aggettante nel lume vescicale a partire dall’orifizio ureterale destro, con aspetto spesso ed irregolare della sua superficie esterna. L’ECD consente di riconoscere bilateralmente il getto urinoso uretero-vescicale
Fig. 3.567. Coagulo vescicale. Grossolano deposito ematico ecogeno disomogeneo (tra i calibri) nel lume vescicale, simulante una neoformazione aggettante endolume
Fig. 3.570. Linfoma vescicale. Formazione sessile, ipoecogena con iniziale colliquazione interna, priva di segnale vascolare al PD direzionale, che aggetta nel lume vescicale
Fig. 3.568. Ureterocele. Piccola formazione anecogena (freccia), con parete definita, in corrispondenza del meato ureterale destro
adenomiomi prostatici, masse ginecologiche, ecc.) possono, se la vescica è poco distesa, simulare una lesione endoluminale così come, se la vescica è collabita, essa può essere mimata da una formazione cistica pelvica e le quote solide eventuali di questa possono simulare delle lesioni vescicali [Karahan et al. 2004]. I tumori non epiteliali della vescica (<10% dei casi) sono di origine intraparietale e presentano un aspetto US differente, con una parete ispessita, un’ecogenicità generalmente superiore rispetto al resto della parete, un’interruzione secondaria della linea ecogena mucosa ed un angolo di raccordo ottuso con la superficie mucosa stessa (Figg. 3.570, 3.571). Il follow-up, da definire nel singolo soggetto, si basa sull’alternanza tra la cistoscopia e la combinazione
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.571. Metastasi della parete vescicale da melanoma. Formazione complex, prevalentemente cistica ma con gettoni solidi, che impronta il lume vescicale. V, vescica; P, prostata
Fig. 3.573. Tumore a cellule transizionali della vescica, recidiva. A livello della sede di una resezione vescicale si rileva un nuovo ispessimento parietale, sottile ma esteso, più evidente di quanto atteso per semplici fenomeni cicatriziali e comunque assente nei controlli precedenti
3.34. Il nodulo prostatico: la caratterizzazione, gli elementi di sospetto per malignità, le indicazioni alla biopsia, la detezione della recidiva
Fig. 3.572. Papilloma vescicale. In un paziente con pregressa resezione vescicale per tumore a cellule transizionali, esaminato per macroematuria, si rileva una piccola formazione polipoide (freccia) della parete anteriore della vescica residua, quasi confusa tra gli artefatti da riverbero frequenti a questo livello
US sovrapubica + citologia urinaria in una prima fase, e poi sul solo impiego di US e citologia in una seconda fase, con valutazione cistoscopica di tutti i casi sospetti (Figg. 3.572, 3.573). La cistoscopia è più sensibile ma anche più costosa ed invasiva, mal tollerata dai pazienti; essa non consente inoltre la sorveglianza delle vie escretrici superiori. Anche l’approccio combinato TRUS + US sovrapubica può apparire come una ragionevole alternativa alla cistoscopia, risultando anche più economico [Rickards et al. 2001].
L’adenocarcinoma prostatico (95% dei tumori prostatici) è una neoplasia dell’età avanzata, rara prima dei 50 anni, molto frequente nella forma clinicamente manifesta ed ancor di più in quella microscopica silente (presente nel 30% degli individui >50 anni). Insorge nella porzione centrale della ghiandola nel 10% dei casi circa, in quella transizionale (sede dell’iperplasia prostatica benigna e quindi iperrappresentata nell’anziano) nel 20% circa ed in quella periferica nel 70% circa (con pari distribuzione tra la porzione anteriore e quella posteriore della periferia) [Yu et al. 2002] (Fig. 3.574). Il grading della neoplasia si basa sullo scoring istologico di Gleason, che va da un grado 1, molto ben differenziato, ad un grado 5, indifferenziato: il sistema somma il punteggio del grado più rappresentato all’analisi microscopica a basso potere e del secondo meglio rappresentato. Può pertanto oscillare da 2, nel caso peggiore, a 10, in quello migliore [Gleason 1977]. L’antigene prostatico specifico (PSA) viene largamente utilizzato nello screening (cfr. paragrafo 1.3), nella diagnosi e nella formulazione prognostica del carcinoma prostatico. Esso risulta aumentato nel 1686% dei soggetti con iperplasia benigna e nel 60-70% di quelli con carcinoma, nonché in caso di prostatite o di recente TRUS, biopsia prostatica, cistoscopia o cateterismo vescicale. I valori normali del PSA sierico sono di 0-4 ng/ml e dipendono dal volume ghiandolare e dall’età; l’impiego del valore soglia di 4 ng/ml
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Fig. 3.574. Anatomia zonale della prostata. Suddivisione anatomica della ghiandola prostatica in zone
comporta tuttavia il significativo rischio di diagnosi falsamente positive, con le conseguenti ricadute su costi, invasività (biopsie non necessarie) e ansia per il paziente [Yu et al. 2002]. È anche possibile fare un rapporto tra il PSA libero (cioè non legato a proteine) e quello totale campionato: il valore percentuale di questo rapporto si riduce nel caso di un carcinoma. È importante definire il tasso di aumento del valore del PSA nel tempo, che ha rilevanza ai fini diagnostici se >0,4-0,75 ng/ml/anno. Lo studio US della prostata per via sovrapubica permette solo una valutazione dimensionale ed uno studio strutturale di massima; qualche informazione in più sulla struttura ghiandolare può essere ottenuta per via transperineale. L’unica modalità in grado di studiare i noduli prostatici è quella con sonda endocavitaria transrettale (TRUS), che rileva la zona ghiandolare centrale, meno ecogena, e quella periferica, più ecogena. Nella maggioranza dei casi la TRUS è sufficiente per l’inquadramento locale; segue generalmente la biopsia, possibilmente ecoguidata, di tipo sistematico (a sestante, con almeno tre prelievi, in particolare della periferia di ambo i lobi) e/o di tipo mirato (3-5 prelievi sul nodulo rilevato alla visita e/o alla TRUS e/o all’ECD) [Clements 2001]. Quando l’US identifica un nodulo ipoecogeno la biopsia viene mirata soprattutto su questo ma, altrimenti, viene effettuata in maniera random, ottenendo risultati meno brillanti ma permettendo comunque di identificare molti tumori con reperto TRUS negativo [Lan et al. 2007]. Qualora la biopsia dia come risultato una neoplasia prostatica intraepiteliale (PIN), vale a dire una lesione displastica spesso precorrente l’adenocarci-
noma, vi è l’indicazione per ripetere la biopsia a distanza di qualche mese (specie in caso di PIN di alto grado). Nei casi candidati alla chirurgia, o eventualmente in quelli da sottoporre ad ormonoterapia, può essere necessaria una RM di stadiazione. Allo studio con TRUS il nodulo tumorale iniziale appare in generale ipoecogeno, tuttavia non tutte le lesioni cancerose sono ipoecogene e non tutte le lesioni ipoecogene sono cancerose, sebbene il sospetto di malignità della lesione ipoecogena aumenti con le dimensioni, il reperto digitale ed il valore del PSA (Fig. 3.575). I carcinomi prostatici di piccole dimensioni risultano ipoecogeni nel 60-75% dei casi e isoecogeni nel 12-40%; sono invece rare le forme ipereco-
Fig. 3.575. Carcinoma prostatico. Nodulo periferico, ipoecogeno disomogeneo (tra i calibri)
Capitolo 3 Le problematiche cliniche gene o le forme ipoecogene con foci ecogeni (<5%); peraltro, l’ecogenicità non sembra correlarsi con la prognosi [Rickards et al. 2001, Yu et al. 2002]. I noduli che insorgono nella parte periferica, se ben differenziati, possono apparire quindi isoecogeni rispetto al tessuto circostante, così come lo sono spesso quelli iniziali che si sviluppano nella parte centrale; queste formazioni vengono quindi riconosciute solo se determinano una bozzatura del profilo ghiandolare o una distorsione del grasso periprostatico. Non di rado le formazioni nodulari rilevate alla TRUS sono multiple. Bisogna considerare che noduli e pseudonoduli possono essere dovuti a processi benigni, da considerare nella diagnosi differenziale: adenomioma, flogosi granulomatosa cronica, malacoplachia, atrofia parenchimale, dilatazione acinare, zone infartuali, cicatrici, fibrosi (pregressa resezione prostatica transuretrale), infezione tubercolare, infezione acuta, linfoma primitivo, tessuto muscolare periferico, vasi periferici (valore dell’ECD!) [Paradiso et al. 2006] (Fig. 3.576). L’adenomioma si presenta come due nodulazioni tendenzialmente ipoecogene, laterali all’uretra, o come una formazione che tende a protrudere verso l’alto improntando la vescica. La caratteristica principale delle prostatiti è data dalle calcificazioni grossolane, da correlare topograficamente con un eventuale reperto digitale di “durezza”; possono poi rilevarsi aree disomogenee ipoecogene ed iperecogene, difficilmente distinguibili da una neoplasia infiltrante. Infine, esiste anche il problema dello “sfondo” ghiandolare: in molti casi il carcinoma si sviluppa infatti in una ghiandola a tessitura grossolana, per fenomeni iperplastici o flogistici e pertanto il suo riconoscimento diviene difficoltoso. Tutte queste considerazioni spiegano l’accuratezza relativamente bassa della TRUS nella detezione di questi tumori iniziali. Con la crescita, e la progressiva dedifferenziazione, la
Fig. 3.576. Adenomioma prostatico. Voluminosa nodulazione ipoecogena disomogenea protrudente dalla superficie prostatica verso il lume vescicale
lesione diviene più facile da individuare, potendo assumere una morfologia “a placca”. Anche in questi casi, tuttavia, crescite infiltranti possono comportare un diffuso sovvertimento dell’ecostruttura ghiandolare, senza possibilità di rilevare lesioni definite. L’US, anche per via transrettale, ha quindi una limitata sensibilità e specificità per la detezione del carcinoma della prostata, con circa il 30% dei tumori che non sono riconoscibili e con solo il 21-56% dei noduli ipoecogeni che poi si rivela corrispondere ad un carcinoma [Paradiso et al. 2006]. L’analisi flussimetrica spettrale non sembra essere di aiuto poiché i valori di velocità sistolica e di IR sono simili nelle lesioni benigne e maligne [Paradiso et al. 2006]. La dimostrazione dell’iperemia delle lesioni ipo-isoecogene identificate all’ecocolor-Doppler, eventualmente anche con iniezione di mdc e.v., non sembra aumentare significativamente l’accuratezza diagnostica della metodica (incremento solo del 7%), poiché se la maggioranza dei carcinomi è ipervascolarizzata vi sono anche le forme iso- o ipovascolari, mentre l’impatto sia dell’elastografia che della CEUS transrettale, anche se promettente, deve essere verificato in ampi studi [Halpern et al. 2001, Yi et al. 2006, Yu et al. 2002] (Figg. 3.577-3.579). L’ECD e la CEUS possono comunque aiutare il riconoscimento delle forme isoecogene in alcuni casi, anche riconoscendo i relativi peduncoli vascolari, ed inoltre l’entità della vascolarizzazione Doppler sembra correlarsi con il punteggio di Gleason e con lo stadio della malattia e quindi con la prognosi [Pelzers et al. 2005, Yi et al. 2006, Yu et al. 2002]. Inoltre ECD con mdc e CEUS possono guidare la puntura mirata di aree prostatiche nodulari, possibilmente in combinazione con la biopsia sistematica del resto della ghiandola: rispetto alla guida dell’US in scala dei grigi, infatti, si ottiene un aumento dell’accuratezza bioptica, stimata nel 10% per l’ECD e riferita evidentemente ai tumori più aggressivi che, come detto, sono generalmente ipervascolarizzati [Paradiso et al. 2006, Pelzers et al. 2005, Yi et al. 2006]. Per incrementare la sensibilità della TRUS la si può combinare con il valore del PSA: 1 g di tessuto normale o iperplasico produce circa 0,3 ng/ml, mentre ogni ml di tessuto canceroso produce anche 3,5 ng/ml; è evidente che esiste una correlazione tra il volume prostatico misurato alla TRUS e la probabilità di neoplasia dedotta dai valore del PSA sierico. Premesso che il valore del PSA può essere influenzato come detto da una recente visita urologica, da una recente TRUS e soprattutto da una recente biopsia, è possibile distinguere alcune categorie utili per la gestione diagnostica e terapeutica. Se il PSA è <3-4 μg/ml, la probabilità di neoplasia è molto bassa, sebbene esistano tumori molto ben differenziati o molto poco differenziati che comportano valori normali di PSA; in questo caso, se l’esplorazione rettale è normale non è necessa-
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Fig. 3.577a, b. Carcinoma prostatico. Nodulo periferico, ipoecogeno disomogeneo (a, tra i calibri), con qualche segnale vascolare all’ECD (b)
rio praticare la TRUS mentre questa può essere utile se il reperto digitale è anomalo. Se il PSA è compreso tra 3-4 e 10 μg/ml, risulta importante calcolare la densità del PSA (PSAD) e cioè il rapporto tra il valore assoluto del PSA ed il volume ghiandolare misurato alla TRUS: se la PSAD è >0,12-0,15 è necessario eseguire una biopsia guidata dai reperti digitali o da quelli TRUS oppure biopsie multiple se sia l’esplorazione che l’US non sono di ausilio, mentre se la PSAD è inferiore a tali valori soglia è necessario un follow-up o un approfondimento solo se vi è qualche elemento obiettivo o ecografico di sospetto. Infine, se il PSA è >10 μg/ml, la probabilità di neoplasia è elevata e vanno eseguite biopsie multiple anche in caso di negatività della visita e della TRUS [Littrup et al. 1991, Veneziano et al. 1990]. La TRUS può fornire anche informazioni per la stadiazione, sebbene non sia questo il suo scopo precipuo e vi siano invece metodiche più affidabili (RM)
c Fig. 3.578a–c. Carcinoma prostatico. Nodulo periferico, ipoecogeno disomogeneo (a), con modica vascolarizzazione, specie periferica e perinodulare, all’ECD (b) ed al PD (c)
(Fig. 3.579). Con la crescita, la lesione altera in maniera più ampia l’ecostruttura ghiandolare, eventualmente con la presenza di un sovvertimento ipoecogeno conglobante aree ecogene fibrotiche o calcifiche. La neoplasia va anche incontro a diffusione extracap-
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.579. Stadiazione dei tumori prostatici. T2a, tumore unilaterale, esteso a <50% di un lobo; T2b, tumore unilaterale, esteso a >50% di un lobo; T2c, tumore che interessa entrambi i lobi; T3a, estensione extracapsulare, unilaterale o bilaterale; T3b, invasione delle vescichette seminali; T4, tumore fisso o invasione di altre strutture pelviche oltre le vescichette (collo vescicale, sfintere esterno, retto, muscoli elevatori e/o parete pelvica). Modificato da [Wittekind et al. 2005]
sulare ed infiltra le strutture perighiandolari (la “capsula” iperecogena). Ciò è sospettabile nel caso di deformità focale del profilo capsulare, discontinuità localizzata della capsula, esteso contatto tra neoplasia e capsula, o interruzione degli echi del grasso periprostatico; peraltro l’infiltrazione capsulare anteriore è spesso difficile da riconoscere alla TRUS, specie se la prostata è particolarmente ingrandita [Rickards et al. 2001, Yu et al. 2002]. Le vescicole seminali, in caso di coinvolgimento, divengono asimmetriche per dimensioni, forma e/o ecogenicità, con presenza di un alone ipoecogeno intorno ai dotti eiaculatori oppure con scomparsa del normale angolo acuto tra vescichetta
seminale e prostata; l’identificazione con TRUS di una chiara infiltrazione non è agevole ma, eventualmente, si può procedere alla biopsia ecoguidata. In caso di infiltrazione delle altre strutture viciniori (vescica e retto), possibile soprattutto per i tumori più voluminosi, si osserva la continuità tra la lesione e la parete dell’organo coinvolto; l’ECD può essere di ausilio nel riconoscere l’infiltrazione del fascio neurovascolare [Paradiso et al. 2006]. L’estensione extracapsulare viene studiata dalla TRUS soprattutto sul piano assiale, mentre l’infiltrazione delle vescichette seminali viene valutata nelle immagini sagittali [Yu et al. 2002]. Peraltro, la TRUS ha dimostrato un’accura-
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tezza piuttosto limitata nella stadiazione, del 46% nelle forme localizzate e del 66% in quelle localmente avanzate (58-86% complessivamente), con una sensibilità del 27-86% ed una specificità del 58-94% per l’infiltrazione capsulare, una sensibilità del 20-92% ed una specificità del 65-100% per l’infiltrazione delle vescichette seminali ed una sensibilità del 66% ed una specificità del 78% per il riconoscimento di un’infiltrazione del fascio neurovascolare [Yu et al. 2002]. I linfonodi classificati come regionali sono quelli della piccola pelvi, posti cioè al di sotto di un piano passante per la biforcazione delle arterie iliache comuni; le metastasi linfonodali (linfonodi otturatori interni ma anche ipogastrici, presacrali, iliaci comuni, lomboaortici), presenti in >40% dei pazienti con T4, vengono rilevate ecograficamente solo quando divengono grossolane. Il follow-up dei pazienti trattati ed asintomatici non si basa generalmente sulle metodiche di imaging ma su dosaggio del PSA, che peraltro non distingue tra recidive locali e recidive a distanza, e sull’esplorazione rettale, comunque di limitata accuratezza. La TRUS può essere utile nei casi sospetti per identificare la recidiva dopo prostatectomia radicale e guidarne la biopsia. Si rileva un’area ipoecogena, vascolarizzata all’ECD, intorno all’anastomosi vescico-uretrale; peraltro il 30% circa delle riprese può essere isoecogena e mal identificabile. Dopo radioterapia per carcinomi localizzati, la prostata diviene piccola e disomogeneamente ecogena; la TRUS identifica, con una sensibilità di circa il 50%, il residuo/recidiva tumorale come un’area focale ipoecogena. Le focalità >5 mm e persistenti >12 mesi dopo il trattamento radioterapico sono sospette di malignità e vanno sottoposte a biopsia [Nudell et al. 2000, Rickards et al. 2001].
3.35. I tumori testicolari: la tumefazione scrotale palpabile, la caratterizzazione dei tumori testicolari, gli elementi di sospetto per malignità I tumori del testicolo costituiscono circa l’1% delle neoplasie del sesso maschile (ma la neoplasia più frequente tra i 15 e i 44 anni), con un’incidenza in aumento. Nel 95% dei casi si tratta di tumori a cellule germinali, con picco d’incidenza tra 25 e 35 anni e bassa incidenza al di sopra dei 40 anni. Tra questi bisogna distinguere il seminoma (40-50% dei tumori germinali, bilaterale nel 2-5%) ed i tumori non seminomatosi (60% dei tumori germinali), in generale più aggressivi del seminoma e leggermente più precoci come età d’insorgenza: tumore a cellule embrionali (1525%), corioncarcinoma (1-3%), teratomi (5-10%, di diverso grado di differenziazione), carcinoma del sacco vitellino, tumore misto (20-40%, di solito carcinoma embrionale + teratoma) [Akin et al. 2004, Oyen
2002]. Più rari i tumori non a cellule germinali, stromali (1-5% delle neoplasie testicolari): leydigioma, gonadoblastoma, tumore a cellule di Sertoli. Questi tumori sono di variabile aggressività e possono essere funzionanti dal punto di vista ormonale e bilaterali. I fattori di rischio delle neoplasie testicolari comprendono: criptorchidismo (rischio 2,5-8 volte maggiore che nel soggetto con testicoli normodiscesi, ed anche se il paziente è stato sottoposto ad orchipessia ma ad un’età >2 anni), disgenesia testicolare, atrofia testicolare di varia origine, sindrome di Klineferter, sindrome di Down, microlitiasi testicolare (moderatamente), calcificazioni testicolari non microliasiche (probabilmente), esposizione materna a dietilstilbestrolo ed a contraccettivi orali in gravidanza [Dogra et al. 2003, Miller et al. 2007]. L’elevata curabilità di queste neoplasie (>95%) ne impone una gestione diagnostica e terapeutica particolarmente attenta. In molti casi tuttavia il paziente si sottopone a visita medica piuttosto tardivamente: quasi 2/3 dei soggetti quando la massa è presente da più di 3 mesi. La presentazione più tipica è quella della tumefazione testicolare poco o nulla dolente in un giovane. Tuttavia, circa il 10% dei casi si presenta con un dolore acuto, probabilmente secondario ad emorragia intratumorale, ed in questo vi è il rischio di confusione da parte del clinico con patologie benigne come le orchiepididimiti; nel 4-14% dei casi le metastasi toraciche o più spesso addominali costituiscono il primo sintomo di un tumore testicolare occulto [Oyen 2002]. I marcatori bioumorali comprendono l’AFP (teratoma indifferenziato e tumore del sacco vitellino, raramente seminoma), la LDH (seminoma e tumori germinali non seminomatosi) e la HCG (seminoma e soprattutto tumori germinali non seminomatosi); essi utili nella diagnosi (anche se spesso elevati solo in fase avanzata), nella stadiazione, nella gestione terapeutica e nel monitoraggio terapeutico. L’US costituisce l’opzione di scelta sia nei pazienti che si presentano con tumefazione indolente che in quelli con esordio atipico, avendo una sensibilità praticamente del 100% per l’identificazione delle neoplasie testicolari. Essa inoltre viene impiegata per la sorveglianza dei soggetti ad alto rischio come quelli con criptorchidismo, per il sospetto di tumore burned out (vedi dopo) e per il sospetto di impiego testicolare su base ematologica. TC e PET possono essere impiegate per la stadiazione. In generale non è possibile discriminare, almeno non con sicurezza, tra i diversi istotipi dei tumori testicolari, che peraltro sono quasi tutti maligni, almeno tra le forme a cellule germinali [Dogra et al. 2003]. I tumori del didimo possono essere singoli o anche multipli, specie nel caso di seminomi o di tumori misti; sino al 10% dei casi può essere bilaterale, sincrono o metacrono. Possono essere di forma ovalare, rotondeggiante o irregolare ed i loro margini possono ap-
Capitolo 3 Le problematiche cliniche parire netti o indistinti. Si presentano come aree ipoecogene (rare le forme iso- o iperecogene, riconoscibili soprattutto nei teratomi), più o meno disomogenee, spesso con quote ipo-anecogene necrotiche o foci ecogeni emorragici (specie nelle forme più voluminose ed avanzate, in particolare nei tumori non seminomatosi) (Figg. 3.580-3.586, Video 3.54). Nei casi tipici di seminoma l’aspetto è particolarmente omogeneo e ben delimitato. Calcificazioni si riscontrano in circa 1/3 dei seminomi e sono frequenti anche nei tumori non seminomatosi; nei teratomi eventuali componenti ossee e cartilaginee possono apparire come nuclei ecogeni con eventuale ombra acustica posteriore; il testicolo controlaterale è spesso sede di microlitiasi [Oyen 2002]. I teratomi di aspetto cistico devono essere in particolare distinti dalle cisti displa-
siche [Fowler 2001]. Le lesioni più voluminose e diffuse possono conservare solo un guscio di tessuto testicolare sano circostante oppure possono sovvertire e infiltrare totalmente l’organo, che nei casi massivi risulterà anche deformato o a contorni irregolari per coinvolgimento dell’albuginea. L’ECD rileva segnali intralesionali nella larga maggioranza dei tumori testicolari e può dimostrare un aumento dei flussi arteriosi e/o venosi rispetto al parenchima circostante, con un’angioarchitettura anarchica ed irregolarmente distribuita; l’IR risulta in media pari a 0,7 e le velocità di picco a circa 10 cm/s [Horstman et al. 1992] (Fig. 3.587). In qualche caso il nodulo, specie se di piccole dimensioni, appare iso-ipovascolarizzato rispetto al resto del didimo, a prescindere dall’istotipo; solo nei leydigiomi è stata osservata un’ipervascola-
a Fig. 3.580. Leydigioma. Piccolo nodulo testicolare ipoecogeno, ipervascolare all’ECD. Nonostante le piccole dimensioni e la bassa aggressività dell’istotipo il quadro ECD impone comunque un approccio diagnostico-terapeutico “aggressivo”
b Fig. 3.582a, b. Seminoma testicolare. Ampio nodulo ipoecogeno disomogeneo, con discreta vascolarizzazione all’ECD
Fig. 3.581. Seminoma. Nodulo ipoecogeno, relativamente omogeneo e delimitato, con discreta ipervascolarizzazione al PD direzionale
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Fig. 3.583a, b. Seminoma. Diffuso infiltrato ipoecogeno testicolare (a), ipervascolarizzato specie perifericamente al PD (b)
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Fig. 3.584a, b. Seminoma testicolare. Aree di tenue e disomogenea ipoecogenicità (a), con modica vascolarizzazione al PD direzionale (b)
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Fig. 3.585a, b. Teratocarcinoma testicolare. Didimo ampiamente slargato, e totalmente destrutturato, per presenza di tessuto ipoecogeno disomogeneo (a). L’immagine con sonda internistica (b) documenta la differenza con il lato sano a destra
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
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Fig. 3.586a, b. Teratocarcinoma testicolare. Formazione complex, con multiple loculazioni microcistiche (a) e quote solide vascolarizzate all’ECD (b)
rizzazione periferica piuttosto caratteristica (in associazione ad un piccolo nodulo ipoecogeno omogeneo e senza calcificazioni), sebbene ciò non sia di solito sufficiente per una corretta diagnosi preoperatoria (che se effettuata permetterebbe invece una chirurgia testicolo-risparmiante in questo tumore fondamentalmente benigno) [Akin et al. 2004, Horstman et al. 1992, Maizlin et al. 2004]. L’ECD, in generale non di grande valore addizionale rispetto ai reperti morfologici, può comunque risultare utile nell’identificazione di lesioni tumorali poco percepibili ma soprattutto nella diagnostica differenziale rispetto alle lesioni infartuali e fibrotiche o agli ematomi. L’ECD può essere talora fuorviante nelle orchiti focali, specie se con presentazione clinica atipica, poiché in questo caso l’ipervascolarità può venire interpretata erroneamente dall’ecografista; comunque nei noduli tumorali si osserva anche un pattern di dislocazione vascolare non riconoscibile invece nelle flogosi [Akin et al. 2004, Horstman et al. 1992, Oyen 2002].
c Fig. 3.587a–c. Seminoma testicolare. Lesione ipoecogena lobulata del didimo (a), discretamente vascolarizzata sia al centro che alla periferia al PD (b), con Vmax di 14 cm/s e IR di 0,58 alla flussimetria Doppler (c)
Per lo studio delle metastasi linfonodali lomboaortiche, peraltro meglio dimostrati con TC e RM, cfr. paragrafo 3.26 (Fig. 3.588). Le metastasi ematogene rilevabili all’US sono soprattutto epatiche ma an-
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Fig. 3.588a, b. Parametro N per tumori testicolari. Sono considerati regionali i linfonodi paraortici, preaortici, interaorto-cavali, precavali, paracavali, retrocavali, retroaortici nonché quelli posti lungo la vena spermatica. L’N1 considera la metastasi ad uno o più linfonodi regionali tutti ≤2 cm, l’N2 metastasi ad uno o più linfonodi regionali tutti ≤5 cm (a), l’N3 metastasi in un linfonodo >5 cm (b). Modificato da [Wittekind et al. 2005]
che renali, surrenali, spleniche, prostatiche, peritoneali e muscolari. Un’evenienza particolare è data dai tumori andati incontro a regressione spontanea (burned out): in questo caso si riscontrano lesioni metastatiche, ad esempio sottoforma di ampie masse linfonodali retroperitoneali, associate a una banda ecogena “cicatriziale” nel didimo, con ombra acustica posteriore ed eventuale alone ipoecogeno. Si tratta di una problematica importante, sebbene non frequente, perché nella diagnosi differenziale rientrano i rari tumori a cellule germinali primitivi dell’addome e pelvi: dinanzi al dato bioptico di una lesione addominale a cellule germinali bisogna anche pensare ad un tumore primitivo testicolare eventualmente regredito e ricercarlo con US; la diagnosi differenziale si pone ri-
spetto al normale mediastinum testis ed a fenomeni fibrotici quale esito di infarti segmentari [Comiter et al. 1996, Fowler 2001, Patel et al. 2007] (Figg. 3.589, 3.590). Nel paziente >50 anni, con massa testicolare, bisogna sospettare anche un linfoma, generalmente non Hodgkin, che costituisce il 4% dei tumori testicolari ma la seconda causa neoplastica di tumefazione del didimo a quest’età. Nei linfomi e nelle leucemie l’aspetto è quello di una tumefazione testicolare, spesso bilaterale, con aree ipoecogene, di variabili dimensioni, più o meno omogenee e delimitate, ipervascolari all’ECD (a prescindere dalla grandezza); talora si osservano strie ipoecogene alternate, irradiate perifericamente dal mediastinum testis oppure si osserva un coinvolgimento diffuso del didimo, diffusamente sov-
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b Fig. 3.589a, b. Disgerminoma testicolare burned out, con metastasi pelvica. Massa pelvica ipoecogena disomogenea (a), che alla biopsia si dimostra corrispondere ad un tumore a cellule germinali. Il successivo studio testicolare documenta una sottile banda ecogena subcalcica (b, freccia), quale residuo della neoplasia primitiva
Fig. 3.590. Teratocarcinoma testicolare burned out. In un paziente con metastasi linfonodali addominali e con localizzazioni polmonari secondarie l’US testicolare dimostra solo una zolla calcifica disomogenea, quale espressione della neoplasia residua
vertito oppure omogeneamente infiltrato con rischio di una diagnosi falsamente negativa [Akin et al. 2004, Oyen 2002]. La distinzione dalle flogosi testicolari può essere difficoltosa e si deve anche basare sul contesto clinico-laboratoristico. Le metastasi testicolari sono rare e possono derivare soprattutto da neoplasie di cute (melanomi), prostata, polmone, rene, pancreas, tratto gastrointestinale (compresi i carcinoidi); l’aspetto US è assolutamente variabile e aspecifico, con noduli singoli o multipli oppure con infiltrazione diffusa [Akin et al. 2004, Fowler 2001]. Nella diagnostica differenziale delle neoplasie del didimo bisogna includere varie condizioni, peraltro con presentazione clinica generalmente diversa oppure comunque con possibilità di modifica ad un controllo a distanza di qualche giorno: atrofia testicolare, esiti necrotici parziali di torsione funicolare (non operata di detorsione o operata troppo tardivamente), infarti parziali, orchiti focali, malattie granulomatose (sarcoidosi, tubercolosi, orchite granulomatosa idiopatica, ecc.), cisti epidermoidi (formazione a parete ecogena e spesso calcifica e contenuto disomogeneo), ematomi (anamnesi di trauma, anche minore!), esiti bioptici recenti (ipoecogeni) o inveterati (ecogeni), specie possibili nei pazienti studiati per infertilità (Figg. 3.591-3.594). Per la maggior parte di queste evenienze, comunque, il quadro clinico-anamnestico, insieme ai dati US ed ECD ed eventualmente ai reperti ottenuti in un controllo a breve distanza di tempo, consentono un adeguato inquadramento diagnostico, evitando orchiectomie non necessarie. Bisogna anche considerare alcune anomalie vascolari del didimo: il varicocele intratesticolare, che tuttavia ha un aspetto piuttosto definito, con associazione al varicocele extratesticolare e con accentuazione del
Fig. 3.591. Necrosi testicolare dopo torsione funicolare. Rimaneggiamento ipoecogeno disomogeneo del didimo, simulante una neoplasia (a parte la presentazione clinica!) ma avascolare al PD
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.592. Infarto testicolare parziale. Banda ipoecogena disomogenea del didimo, simulante una neoplasia
pattern ECD durante manovra di Valsalva, e le malformazioni artero-venose, che simulano una lesione tumorale ipervascolarizzata, avendo un aspetto ipoecogeno di nodulazione con intensi segnali colore all’interno [Dogra et al. 2003, Kutlu et al. 2003]. Per quanto riguarda le patologie espansive extradidimarie dello scroto, le maggiori sono: raccolte liquide (idrocele, piocele, ematocele, ecc.), ernie, spermatoceli (dilatazione cistica dei tubuli nella testa dell’epididimo), cisti dell’epididimo (ecograficamente indistinguibili dai più frequenti spermatoceli), cisti della tunica albuginea, mesotelioma della tunica vaginale, pseudotumor fibroso, tumori del funicolo spermatico, tumori dell’epididimo, metastasi della parete scrotale [Dogra et al. 2003, Sudakoff et al. 2002] (Figg. 3.595-3.597). In effetti, i tumori dell’epididimo sono rari e sono rappresentati nel 75% dei casi dal tumore
Fig. 3.593. Infarto su testicolo ipotrofico. Didimo dismorfico e di dimensioni inferiori alla norma, con banda ipoecogena disomogenea interna, senza segnali vascolari, simulante una neoplasia
Fig. 3.595. Cisti dell’epididimo. Formazione cistica uniloculata omogenea a livello della testa dell’epididimo
Fig. 3.594. Angiomatosi testicolare. Chiazze ecogene sparse, non confluenti, presenti unilateralmente
Fig. 3.596. Cisti dell’epididimo. Formazione cistica pluriloculata, con qualche accennato segnale vascolare settale al PD direzionale
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Ecografia in oncologia
3.36. La carcinosi peritoneale
ritoneale, in un paziente con un tumore addominale avanzato, è chiaramente indicativo di un coinvolgimento diffuso della sierosa, tuttavia è spesso difficoltosa la dimostrazione diretta del coinvolgimento peritoneale; essa risulta particolarmente complessa in assenza di versamento consensuale. Tuttavia, un’esplorazione paziente dei diversi ambiti peritoneali addomino-pelvici può spesso consentire l’identificazione del coinvolgimento peritoneale in pazienti con adeguato sospetto. A tal fine è importate una tecnica idonea, che contempli anche l’impiego di sonde di frequenza più elevata, per l’identificazione dell’infiltrazione omentale, delle lesioni glissoniane anteriori, specie nel lobo epatico sinistro, e dei noduli a carico del peritoneo parietale anteriore (Figg. 3.598-3.605). Le forme “iniziali” di carcinosi, peraltro spesso più estese di quanto stimato ecograficamente, consistono in piccoli noduli o placche sulla superficie delle anse intestinali, dei parenchimi addominali (specie fegato) e sul profilo peritoneale sottostante la parete addominale anteriore. Gli impianti peritoneali appaiono come nodulazioni ipoecogene e sono riconoscibili soprattutto quando contornati dal versamento peritoneale: in presenza di ascite è possibile riconoscere anche lesioni millimetriche ma senza questa il riconoscimento della carcinosi è possibile soprattutto nelle forme macronodulari e massiformi [Görg et al. 1991c, Jeffrey et al. 1995, Yeh 1979]. L’analisi della disposizione del versamento peritoneale stesso può essere di ausilio. Una sua quantità significativa in alcune sedi ed una sua contemporanea assenza in altre può indicare una “diffusione bloccata”, ad esempio tra le pieghe mesenteriche con conglomerazione delle anse, e quindi suggerire indirettamente una carcinosi: nelle asciti benigne le anse galleggiano invece liberamente insieme ai rispettivi foglietti mesenterici,
I processi tumorali diffondono al peritoneo per propagazione diretta lungo legamenti, mesi e omenti (carcinomi di stomaco, colon, pancreas, ovaio, ecc.), oppure per circolazione cellulare nel liquido peritoneale (seeding intraperitoneale, specie nei recessi declivi, tipico ma non esclusivo del carcinoma ovarico), o anche per via linfatica (es. linfomi mesenterici) o ematogena (embolia, specie da tumori extraddominali, con sviluppo di lesioni massiformi discrete a livello del peritoneo e/o del retroperitoneo); in casi limite è la rottura tumorale spontanea (es. HCC) oppure le manovre strumentali (chirurgia, biopsia, ecc.) ad indurre l’inseminazione di cellule tumorali in cavità peritoneale [Healy et al. 2004]. Frequentemente si associa versamento pleurico, specie a destra (es. sindrome di Meigs dei tumori ovarici). Come e più delle altre metodiche di diagnostica per immagini, l’US tende a sottostimare la presenza di una carcinosi peritoneale. In molti casi la presenza di versamento pe-
Fig. 3.598. Carcinosi peritoneale da carcinoma ovarico, ispessimento della sierosa intestinale. Banda ipoecogena (frecce) che ispessisce diffusamente la sierosa delle anse intestinali. Si associa versamento peritoneale
Fig. 3.597. Epididimite. Ispessimento ecogeno della testa dell’epididimo, con areola colliquativa ipo-anecogena interna
adenomatoide benigno (originante generalmente dalla coda, ipoecogeno o più spesso iperecogeno rispetto al didimo), e nei rimanenti dal cistoadenoma papillifero (nella sindrome di von Hippel-Lindau), dal leiomioma e da altri istotipi ancor più rari [Fowler 2001, Oyen 2002]. I tumori del funicolo (lipomi, fibromi, liposarcomi, rabdomiosarcomi, ecc.), insorgono sia nell’età pediatrica che in quella adulta e sono generalmente riconoscibili come masse ecogene disomogenee. Le metastasi della sacca scrotale, rare, derivano soprattutto da melanomi e carcinoma del canale anale, e sono di aspetto ipoecogeno disomogeneo [Dogra et al. 2003].
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.599. Carcinosi peritoneale da carcinoma ovarico. Diffuse loculazioni sepimentate
Fig. 3.602. Metastasi peritoneale da melanoma. Nodulo lobulato, ipoecogeno disomogeneo, in sede paracolica destra
Fig. 3.600. Carcinosi peritoneale da carcinoma ovarico. Versamento con sedimentazioni interne che circoscrive le anse intestinali, adese tra loro per diffusione bloccata. I, intestino
Fig. 3.603. Metastasi peritoneale da carcinoma ovarico. Nodulo lobulato, ipoecogeno disomogeneo, in fossa iliaca destra (sinistra). L’impiego della sonda superficiale consente una definizione ecostrutturale molto più accurata della lesione (destra)
Fig. 3.601. Carcinosi peritoneale da carcinoma uterino, infiltrazione del grande omento. Grossolano ispessimento ecogeno disomogeneo, discretamente vascolarizzato al PD direzionale, dell’omento
con aspetto complessivo “ad anemone” [Schmidt 2006]. Altamente sospetto è inoltre un aspetto corpuscolato del versamento, con qualche eco flottante nel liquido anecogeno, la visibilità di loculazioni oppure la presenza di setti irregolari [Jeffrey et al. 1995]. I legamenti peritoneali, quale quello falciforme, distesi dal liquido, possono apparire ispessiti oppure risultare sede di vegetazioni solide. La superficie esterna della anse diviene ispessita e rigida. Il grande omento infiltrato dalla carcinosi si presenta come un’ampia piastra ecogena disomogenea (omental cake) rilevabile anteriormente tra la parete addominale e le anse intestinali [Derchi et al. 1987, Yeh 1979]. Le infiltrazioni nodulari mesenteriche sono particolarmente difficili da riconoscere ecograficamente, specie se profonde [Healy et al. 2004]. A livello epatico (specie
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Fig. 3.604a–d. Carcinosi peritoneale da carcinoma ovarico. Multipli segni di coinvolgimento peritoneale: versamento peritoneale finemente corpuscolato (a), grossolano ispessimento ipoecogeno disomogeneo del grande omento (b) con segnali vascolari al PD direzionale (c), gettone parietale solido vascolarizzato (d)
sul profilo anteriore della piccola ala e su quello laterale del lobo destro) e, meno frequentemente, a livello splenico, si possono osservare dei depositi ipoecogeni che ispessiscono la capsula e rendono retratto (scalloping) il profilo d’organo in quella sede; un’ondulazione focale della superficie parenchimale deve essere peraltro considerata sospetta. Immagini francamente cistiche, con eventuali detriti ecogeni interni, o depositi calcifici a livello del peritoneo o della superficie dei parenchimi sono rilevabili soprattutto nelle metastasi da carcinoma ovarico. In generale le metastasi epatiche superficiali, non con aspetto franco di impianto glissoniano, ma comunque poste perifericamente con irregolarità della superficie dell’organo, possono suggerire una coesistente carcinosi, e ciò a prescindere dal fatto che la colonizzazione peritoneale possa aver determinato quella epatica o viceversa. È bene comunque ricordare che tutti quelli descritti sono aspetti riscontrati nelle carcinosi grossolane, spesso già sospettabili clinicamente. Il loro ri-
scontro può essere di particolare ausilio nella distinzione tra asciti benigne e maligne: soprattutto nei pazienti senza una chiara anamnesi di tipo oncologico, il riscontro di un versamento può essere espressione di altre evenienze, quali l’epatopatia cronica, lo scompenso cardiaco congestizio o l’insufficienza renale e quindi il riscontro di segni diretti di carcinosi consente il corretto inquadramento del versamento [Görg et al. 1991c]. Elementi addizionali possono essere la diffusione bloccata del liquido, il mancato riconoscimento di uno stato di ipertensione portale, l’aspetto sottile delle pareti colecistiche. Nelle asciti benigne, infatti, le pareti colecistiche appaiono diffusamente ispessite per edema, e talora anche stratificate; bisogna peraltro ricordare che, se il paziente ha una coesistente ipoalbuminemia, la parete colecistica può apparire ispessita anche nelle asciti maligne [Huang et al. 1989]. Una forma particolare è costituita dal pseudomixoma peritonei, dovuto alla rottura di cistoadenomi
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
a Fig. 3.606. Congestione omentale simulante una carcinosi in un paziente con HCC e trombosi portale. Aspetto edematoso iperecogeno dell’omento, con areole ipoecogene interne indicative dei vasi dilatati al suo interno
b
Fig. 3.607. Infarto segmentario del grande omento simulante una carcinosi in un paziente con storia pregressa di carcinoma renale. Ispessimento ipoecogeno del grande omento, con sottile bordo ipoecogeno (frecce)
c Fig. 3.605a–c. Carcinosi peritoneale da carcinoma colico. Multipli segni di coinvolgimento peritoneale: versamento peritoneale grossolanamente corpuscolato più addensato in sede declive (a), vegetazioni solide a livello del legamento falciforme (b), ispessimento ipoecogeno disomogeneo del grande omento (c)
o cistoadenocarcinomi mucinosi dell’ovaio o talora appendicolari. In questi casi la cavità peritoneale si riempie di materiale mucoide denso ed all’US si rilevano grossolane loculazioni liquide, eventualmente a pareti calcifiche, con scalloping della superficie epatica e dislocazione delle anse intestinali [Lersch et al. 2001]. Nella diagnostica differenziale della carcinosi è necessario considerare soprattutto le diverse forme di addensamento, disomogeneità o nodularità a carico delle strutture mesenterico-peritoneali, quali si possono produrre, in maniera più o meno diffusa, come conseguenza di fenomeni congestizi (ipertensione portale!), ischemici o infiammatori (flogosi primitive, infiammazioni su base appendicolare, diverticolitica, tubo-ovarica, ecc.) (Figg. 3.606, 3.607).
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Fig. 3.608. Iniezione intraperitoneale di mdc ecografico, che identifica una “diffusione bloccata” in una paziente con carcinoma pancreatico. Al momento della paracentesi terapeutica si introduce in cavità il SonoVue, che opacizza gli spazi pelvici anteriori ma non riesce a raggiungere quelli posteriori (frecce). U, utero
Fig. 3.609. Carcinoma della flessura colica sinistra, immagine “a pseudorene”. Grossolano ispessimento parietale focale dell’angolo colico sinistro, con iperecogenicità interna corrispondente al gas luminale
L’US si dimostra utile anche nel guidare l’aspirazione del liquido peritoneale a scopo diagnostico e nel drenaggio palliativo del liquido stesso, quando diffuso, oppure della/e sacche fluide più estese e sintomatiche, quando loculato (cfr. paragrafo 4.8). Inoltre, talora può essere utile uno studio dopo introduzione intracavitaria di mdc ecografico (Fig. 3.608): riconoscere spazi peritoneali ove il mdc non riesce a spandere a causa della diffusione “bloccata” indotta dalla carcinosi, può essere infatti importante nei Centri ove si pratica la chemioterapia intraperitoneale; può ad esempio influenzare il posizionamento dei ports intraperitoneali o indurne un riposizionamento [Puls et al. 2003].
linfonodi delle stazioni contigue alla lesione, utili per la pianificazione terapeutica. Con la sonda addominale, l’aspetto classico dei tumori digestivi è costituito dall’immagine a “pseudorene”, con la parete intestinale infiltrata, ipoecogena, paragonabile alla corticale renale, ed il complesso mucosa-lume ecogeno, assimilabile al grasso del seno renale [Bluth et al. 1979] (Fig. 3.609). Con l’uso delle sonde superficiali e della tecnica della compressione dosata è invece possibile analizzare la lesione neoplastica molto più in dettaglio. La normale stratificazione della parete digestiva viene sovvertita, a differenza degli ispessimenti parietali benigni ove, con l’eccezione delle forme transmurali avanzate del morbo di Crohn, essa appare invece rispettata, quando non addirittura accentuata come conseguenza dell’interessamento flogistico preferenziale di un determinato strato (Figg. 3.610, 3.611). La superficie luminale appare irregolare, con eventuali ulcerazioni che appaiono come perdite di sostanza parietale in cui penetra l’iperecogenicità del gas luminale [Jeffrey et al. 1995]. Il carcinoma dello stomaco può localizzarsi in sede cardiale (25% dei casi circa), accessibile all’US solo in soggetti molto magri, a livello del corpo (25%), ed in corrispondenza dell’antro (50%), che è anche la sede meglio accessibile ecograficamente. Si rileva un ispessimento parietale gastrico (>5 mm), circolare o asimmetrico, con discontinuità della normale stratificazione del viscere. Il contenuto ecogeno dello stomaco mostra indirettamente la stenosi e la dislocazione luminale. Il tratto coinvolto appare ipoperistaltico, poco comprimibile, con possibili depositi calcifici. Adiacenti si osservano spesso linfadenopatie, sia anteriormente all’antro gastrico che nel pic-
3.37. I tumori del tratto gastrointestinale: aspetti US transaddominali Sicuramente, l’US non è la metodica da impiegare nel sospetto di una neoplasia del tratto gastroenterico, esistendo modalità di studio del “versante mucoso”, quali quelle radiografiche e quelle endoscopiche, molto più idonee allo scopo. Tuttavia, non di rado è possibile identificare una neoplasia digestiva in un soggetto esaminato con US addominale per una sintomatologia vaga, di calo ponderale e anemizzazione, o in un soggetto esaminato per tutt’altri motivi. Anche nel paziente già noto come portatore di un tumore gastrointestinale, ed esaminato con US per motivi differenti come ad esempio la ricerca di metastasi epatiche, non si dovrebbe rinunciare all’esplorazione del tumore primitivo, potendosi identificare segni di diffusione nell’ambiente peritoneale circostante o nei
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.610. Colite acuta. Ispessimento diffuso circonferenziale della parete colica, con conservata stratificazione murale
Fig. 3.612. Carcinoma antrale gastrico. Diffuso grossolano ispessimento ipoecogeno della parete dell’antro gastrico, con fissità del contenuto gassoso luminale
a Fig. 3.611. Morbo di Crohn. Lieve ispessimento della parete dell’ultima ansa ileale, specie a carico della sottomucosa iperecogena, con stratificazione parietale sostanzialmente conservata
colo omento ed in sede peripancreatica (Figg. 3.6123.615). Nei carcinomi duodenali (0,3% di tutti i tumori gastrointestinali maligni) l’US può essere utile per l’identificazione (sensibilità 87%) ma anche per il riconoscimento di un’eventuale infiltrazione portale o cavale (tumori della II e III porzione duodenale), di un’ostruzione biliare (tumori della II porzione), di linfadenopatie, di versamento peritoneale e di metastasi epatiche [Ishida et al. 2001]. L’US riconosce masse ipoecogene disomogenee, mal delimitate. Le lesioni profonde possono essere di difficoltosa identificazione ma in questi casi già il sospetto ecografico è
b Fig. 3.613a, b. Carcinoma dell’antro gastrico con metastasi linfonodali. Ispessimento della parete dello stomaco a livello antrale (frecce), associato a multiple linfadenomegalie del piccolo omento e peripancreatiche. L, linfonodi
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Fig. 3.614. Carcinoma gastrico scirroso. Grossolano e diffuso ispessimento ipoecogeno della parete del corpo ed antro gastrico
Fig. 3.615. Carcinoma gastrico. Cospicuo ispessimento, irregolare e con perdita della normale stratificazione parietale, a livello dell’antro, specie evidente sulla parete posteriore
importante, spingendo ad uno studio con altre metodiche diagnostiche, ad esempio suggerendo un’estensione dell’esame endoscopico sino a tutto il duodeno. L’adenocarcinoma dell’intestino tenue è raro e predilige il digiuno. L’aspetto caratteristico è quello “a coccarda”, con parete ispessita (>3 mm), stenosi luminale, ipoperistaltismo, scarsa comprimibilità ed eventuale dilatazione delle anse a monte o adenopatie mesenteriali. Poiché lo stomaco è ben identificabile topograficamente e la cornice colica può essere generalmente seguita per tutta o ampia parte della sua estensione, ne deriva che qualsiasi immagine di “tumore digestivo” non ascrivibile a queste due porzioni sia riferita all’intestino tenue. Le sedi predilette del carcinoide sono l’appendice e soprattutto l’ileo distale (80% dei casi). Si rileva una
Fig. 3.616. GIST gastrico. Nodulazione ipoecogena, relativamente omogenea e delimitata, in rapporto con la parete posteriore dell’antro gastrico (frecce)
lesione ipoecogena intraluminale, di dimensioni di solito inferiori a quelle del carcinoma, con parete intestinale spesso infiltrata, associata a metastasi soprattutto epatiche (95% dei carcinoidi >2 cm) [Gritzmann et al. 2002]. I tumori stromali gastrointestinali prediligono lo stomaco ed il piccolo intestino ed appaiono come masse di discrete dimensioni, ipoecogene disomogenee, con possibile escavazione interna o aspetto francamente pseudocistico. La crescita spesso esofitica dei GIST pone problemi di diagnostica differenziale con altre masse addomino-pelviche ed è pertanto importante cercare di identificare un’indissociabilità dalle strutture digestive. Rare le linfadenopatie peritumorali; più frequenti le metastasi epatiche [Catalano et al. 2005c] (Figg. 3.616-3.618). I linfomi, primitivi o secondari, sono generalmente del tipo non Hodgkin ed in particolare MALTomi, prediligono lo stomaco (2-5% dei tumori gastrici primitivi) e l’ileo (fino al 50% dei tumori primitivi dell’intestino tenue) ed hanno un aspetto variabile [Reznek et al. 2004b]. Nelle forme caratteristiche si apprezza un marcato ispessimento parietale ipoecogeno, spesso multiplo, con superficie luminale eventualmente polipoide o ulcerata. Nelle fasi iniziali l’ispessimento può limitarsi alla sola mucosa, con conservazione della stratificazione parietale, ma ben presto la parete diviene tutta ispessita e sovvertita. L’ansa patologica tende a dilatarsi, sino a forme “pseudoaneurismatiche” mentre, all’opposto, è rara la stenosi luminale. Frequenti le adenopatie contigue, specie perigastriche o mesenteriche (Fig. 3.619). Il carcinoma del colon si localizza a livello del sigma nel 25% dei casi, del colon discendente nel 5%, del colon trasverso nel 15% e del cieco-ascendente nel 25%; le localizzazioni della flessura colica sini-
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Fig. 3.617a, b. GIST digiunale. Massa solida, ben delimitata, ipoecogena disomogenea, in sede sottoepatica (a). La ricostruzione TC in coronale meglio definisce i rapporti spaziali della formazione (b)
Fig. 3.618a, b. GIST del sigma. Massa ipoecogena disomogenea, con aree necrotico-colliquative (a), eccentrica rispetto al lume sigmoideo (frecce). La scansione TC (b) conferma il rapporto della massa con il sigma (freccia)
stra e della giunzione retto-sigma possono essere mal riconoscibili ecograficamente mentre di agevole studio sono di solito i carcinomi del colon destro e del sigma; le localizzazioni rettali (20%) non sono generalmente accessibili all’US transaddominale ma solo a quella con sonda transrettale [Gritzmann et al. 2002]. In particolare le lesioni della parete colica posteriore possono essere difficili da riconoscere, anche con un’adeguata compressione. Eventualmente è possibile ricorrere alla distensione del lume colico (idrocolosonografia) mediante introduzione retrograda di acqua (es. 1,5 L) ed eventuale ipotonia farmacoindotta (es. 20 mg e.v. di joscina-bromobutilato): ciò migliora sensibilmente la trasmissione degli ultrasuoni e permette una migliore definizione delle lesioni parietali. L’US dimostra un breve segmento con parete ipoecogena, irregolare ed asimmetricamente ispessita (>4 mm), con sovvertimento della
stratificazione murale, stenosi luminale, fissità del reperto, scarsa comprimibilità e possibili adenopatie contigue (10% dei casi) (Figg. 3.620-3.623). Il grasso pericolico può essere leggermente disomogeneo ma l’assenza di alterazioni significative costituisce un utile elemento di differenziazione rispetto ai processi flogistici. Le metastasi intestinali ematogene prediligono l’intestino tenue, in particolare sul versante antimesenterico, ed appaiono di solito come aree di ispessimento segmentario della parete intestinale, con perdita della normale stratificazione murale e dell’attività peristaltica a tale livello (Fig. 3.624). Esse vengono generalmente identificate dall’US in fase piuttosto avanzata, allorquando sono divenute sintomatiche o hanno determinato complicanze quali la perforazione, l’occlusione o soprattutto l’intussuscezione [Ledermann et al. 2001] (Video 3.55).
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Fig. 3.619a–c. Linfoma intestinale e mesenterico. Multiple grossolane adenomegalie mesenteriche (a) associate a dilatazione di un’ansa ileale a pareti diffusamente ispessite (b). La ricostruzione TC coronale conferma sia le adenopatie mesenteriche e retroperitoneali (frecce brevi) che la dilatazione “aneurismatica” dell’ansa ileale (c, freccia lunga)
Fig. 3.620a–c. Carcinoma del sigma. Con l’impiego della sonda internistica si riconosce un grossolano ispessimento ipoecogeno sigmoideo a livello sovravescicale (a). L’utilizzo del trasduttore ad alta frequenza permette di meglio definire l’ispessimento asimmetrico e privo di stratificazione della parete colica (b), discretamente vascolarizzato al PD direzionale (c)
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Fig. 3.621a, b. Carcinoma del sigma. Con l’impiego della sonda superficiale si definisce accuratamente l’ispessimento asimmetrico e disomogeneo della parete sigmoidea (a) e si rileva anche una linfadenopatia paracolica (b, tra i calibri)
Fig. 3.622. Carcinoma del colon ascendente. Ispessimento parietale ipoecogeno asimmetrico, focale, della parete colica profonda (frecce)
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Fig. 3.623. Carcinoma cecale infiltrante il muscolo psoas. Grossolano ispessimento disomogeneo del fondo cecale, con evidente protrusione (frecce) nel contesto dello psoas, ipoecogeno rispetto alla massa
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Fig. 3.624. Metastasi intestinale da melanoma. Nodulo ipoecogeno nel lume di un’ansa ileale (a, freccia). Correlazione con la ricostruzione TC in coronale (b, freccia)
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Nel caso la neoplasia determini un’occlusione intestinale, si rileveranno a monte le anse dilatate e, seguendo queste, si potrà raggiungere la sede dell’ostacolo. L’occlusione dell’intestino tenue viene diagnosticata in caso di anse con calibro >3 cm, per una lunghezza >10 cm. Dette anse mostrano inizialmente una peristalsi aumentata, con intensi movimenti del contenuto luminale liquido; successivamente tale contenuto diviene sempre più denso e corpuscolato e la peristalsi poco efficace, con un caratteristico movimento pendolare, anterogrado e retrogrado, del materiale luminale. I tratti digestivi a valle, compreso l’intero colon se l’occlusione riguarda il piccolo intestino, appaiono collabiti. Il livello dell’occlusione può essere definito dalla topografia delle anse dilatate (quadrante superiore sinistro per le anse digiunali e quadranti inferiori per quelle ileali) e dalle caratteristiche del disegno plicare (ben rappresentato a livello digiunale e progressivamente sempre più diradato per quelle ileali). L’ispessimento delle pliche intestinali e la presenza di versamento tra le anse possono indicare un’occlusione “scompensata” o francamente complicata, con sofferenza vascolare delle anse coinvolte; nel caso delle neoplasie, peraltro, il versamento peritoneale può anche essere espressione di diffusione peritoneale [Catalano et al. 1998, Gritzmann et al. 2003a].
3.38. Ecoendoscopia: i tumori del tratto gastrointestinale, le altre applicazioni addominali, le applicazioni toraciche L’US endoscopica o ecoendoscopia (EUS) è un’indagine strumentale che utilizza contemporaneamente l’endoscopia e l’ecografia, consentendo di praticare uno studio endocavitario dettagliato della parete dei tratti digestivi accessibili all’endoscopia, nonché degli organi ad essi immediatamente adiacenti, sia nell’addome (lobo epatico sinistro, coledoco, pancreas, linfonodi ecc.) che nel torace (mediastino, linfonodi, ecc.). Rispetto all’approccio transaddominale, la tecnica ha ben altre caratteristiche di costo e invasività ma offre anche una visione ravvicinata, ecografica ed eventualmente anche bioptica, di strutture anatomiche che altrimenti sarebbero poco o nulla accessibili. L’EUS ha il vantaggio di consentire il superamento di alcune fisiologiche barriere alla trasmissione degli ultrasuoni (aria, osso, grasso), oltre a permettere una maggiore vicinanza fra il trasduttore e le strutture da studiare: la metodica utilizza sonde ad alta frequenza, con elevato potere di risoluzione, che consentono di ottenere immagini molto dettagliate dei singoli strati della parete digestiva (Figg. 3.625-3.631).
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c Fig. 3.625a–c. Massa pancreatica determinante impronta sul lume gastrico. Endoscopia: area di compressione ab extrinseco della parete posteriore dell’antro gastrico (a). EUS a scansione radiale (b) con sonda da 7,5 MHz: area ipo-anecogena ovalare del corpo del pancreas in rapporto con il dotto pancreatico. EUS a scansione settoriale (c): FNAC transgastrico della lesione (ago da 22 G, freccia)
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Fig. 3.626a, b. Linfoma non Hodgkin dello stomaco. EUS a scansione radiale (a) con sonda multifrequenza (7,5-12 MHz): marcato aumento di spessore della parete gastrica (frecce), con perdita della stratificazione parietale che appare sostituita da un’area ipoecogena che interessa la mucosa, sottomucosa e muscolaris propria (immagine ottenuta a 12 MHz). Altra area circoscritta ipoecogena (b), limitata agli strati della mucosa e sottomucosa con integrità della muscolaris propria a livello dell’antro identificata alla sola EUS
Fig. 3.627a, b. Leiomioma esofageo. Endoscopia (a) bozza dell’esofago distale rivestita da mucosa normale per aspetto e colorito sospetta per lesione intraparietale, quale reperto occasionale in un soggetto con dispepsia. EUS a scansione radiale (b) con sonda multifrequenza: lesione iso-ipoecogena confinata alla mucosa e sottomucosa con integrità della muscolare propria (immagine ottenuta a 12 MHz)
L’ecoendoscopio tradizionale è costituito da un piccolo trasduttore ad alta frequenza, che viene posizionato all’estremità distale di un endoscopio con visione laterale (per il tratto gastrointestinale alto) o a visione frontale (per il tratto intestinale basso). I trasduttori miniaturizzati hanno diametro di 11-13 mm, possono essere meccanici o elettronici ed a scansione radiale o lineare. Quelli a scansione radiale offrono un’immagine a 360°, perpendicolare intorno all’asse dello strumento, e sono particolarmente utili per la diagnostica in quanto consentono un’ampia panoramica del viscere e degli organi adiacenti. I trasduttori a scansione lineare forniscono una proiezione parallela all’asse dello strumento: con questo tipo di proie-
zione l’angolo di visione è più ristretto ma è possibile seguire il percorso di un ago sottile introdotto lungo il canale operativo; ciò consente di praticare in sicurezza una FNAC EUS-guidata. La tecnica elettronica ha la possibilità di applicare all’ecoendoscopio anche l’ECD, con evidenti vantaggi nello studio delle strutture vascolari; sono anche disponibili sonde con modalità power-Doppler e CEUS ed è anche possibile ottenere ricostruzioni luminali 3D [Caletti et al. 1999, Rösch et al. 2004, Van Dam et al. 1999]. La disponibilità di strumenti con elevate frequenze ultrasonore ha consentito lo studio di piccole lesioni superficiali. È poi risultata importante la disponibilità di strumenti in grado di abbinare e alterna-
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b Fig. 3.629a, b. Leiomioma gastrico. Endoscopia (a): lesione della sottomucosa della parete posteriore del corpo gastrico, ulcerata e causa di ematemesi e melena. EUS a scansione radiale (b) con sonda multifrequenza (7,5-12 MHz): area ipoecogena ovalare e irregolare di diametro >2 cm a partenza dalla muscolaris propria (freccia) con presenza di foci iperecogeni interni
c Fig. 3.628a–c. Polipo fibroso dell’antro gastrico. Endoscopia (a) polipo peduncolato della sottomucosa con ulcerazione superficiale. EUS a scansione radiale (b, c) con sonda (s) multifrequenza (5-20 MHz): immagine di formazione polipoide (t) a corto peduncolo con bordo isoecogeno e centro ipoecogeno con integrità della muscolaris propria. p, palloncino
re un’ampia gamma di frequenze, consentendo durante un unico esame lo studio di piccole lesioni superficiali (frequenze elevate) e lo studio dei linfonodi e organi a maggiore distanza (frequenze basse). Lo sviluppo tecnologico ha portato alla creazione e al perfezionamento delle minisonde, che per il loro sottile diametro hanno il vantaggio di poter essere introdotte all’interno del canale operativo dello strumento endoscopico e sono costituite da trasduttori ad altra frequenza (12-40 MHz). Le minisonde hanno il vantaggio di consentire l’esecuzione dell’EUS in un solo tempo durante l’esame endoscopico, senza necessità di cambiare lo strumento [Menzel et al. 2000].
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
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Fig. 3.630a, b. Leiomioma esofageo. Endoscopia (a): lesione intraparietale dell’esofago distale, rivestita da mucosa normale. EUS a scansione radiale (b) con sonda multifrequenza: la scansione a 7,5 MHz mostra un’area ipoecogena omogenea, a contorni regolari ed a partenza dalla muscolare propria
Esiste una buona correlazione fra le immagini EUS e l’anatomia della parete dei tratti digestivi [Caletti et al. 1999, Rösch et al. 2004]. All’EUS, seppur con qualche differenza a seconda del tratto esaminato, la parete intestinale appare costituita da cinque strati distinti, caratterizzati dall’alternanza di immagini con aspetto iperecogeno ed ipoecogeno, che dall’interno del lume del viscere verso l’esterno sono così suddivise: interfaccia fra mucosa e lume del viscere (iperecogena), mucosa profonda (ipoecogena), sottomucosa (iperecogena), muscolaris propria (ipoecogena), sierosa (iperecogena). Quest’ultimo strato è riconoscibile ove una tonaca sierosa è anatomicamente presente
b Fig. 3.631a–c. Lipoma colico. Endoscopia (a): polipo della sottomucosa del colon destro diametro maggiore di circa 2 cm. EUS (b) con strumento con sonda radiale (s) e frequenza di 7,5 MHz: immagine di area sessile, iperecogena, senza lacune interne della mucosa-sottomucosa e con integrità della muscolaris propria (t), caratteristica per grosso lipoma della parete del colon (mp). Polipectomia endoscopica (c)
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Fig. 3.632. Stratificazione EUS della parete digestiva normale. Dall’interno: I, interfaccia fra mucosa e lume (iperecoica); II, mucosa profonda (ipoecoica); III, sottomucosa (iperecoica); IV, muscolare propria (ipoecoica, mono- o bistratificata - dove i indica la tonaca circolare interna ed e quella longitudinale esterna); V, sierosa (iperecoica). Modificato da [Wittekind et al. 2005]
(stomaco, duodeno, sigma) o dove si crea un’interfaccia fra margine esterno della parete e grasso periviscerale (esofago e retto) [Rösch et al. 2004] (Fig. 3.632). L’EUS riveste un ruolo insostituibile in oncologia nella stadiazione locoregionale delle neoplasie di vari distretti dell’apparato digerente e del polmone per la sua elevata accuratezza nell’individuazione e definizione del grado di infiltrazione del tumore e dell’interessamento linfonodale [Rösch et al. 2004]. L’EUS trova pertanto ampio impiego nella stadiazione locoregionale delle neoplasie dei tratti digestivi accessibili all’endoscopia: esofago, stomaco, duodeno e rettocolon e di alcuni organi ad essi immediatamente adiacenti, soprattutto il pancreas e le vie biliari. Un settore di particolare utilità è rappresentato dallo studio delle lesioni della sottomucosa, considerata anche l’incidenza di GIST fra queste lesioni, ed attualmente l’EUS si è confermata sempre di più indispensabile nella stadiazione dei tumori polmonari e nello studio delle masse del mediastino [Rösch et al. 2004, Van Dam et al. 1999]. I pazienti affetti da neoplasie del tratto digerente superiore senza evidenza di metastasi a distanza sono
i candidati ideali alla stadiazione con EUS pretrattamento per la definizione della scelta terapeutica ottimale. La metodica consente, inoltre, di definire la resecabilità definendo i rapporti della malattia con gli organi e strutture vascolari e nervose adiacenti, consentendo l’individuazione dei veri candidati alla chirurgia radicale, la sola condizione nella quale la chirurgia può dare reale giovamento. L’EUS ha mostrato elevati livelli di accuratezza nella definizione dello stadio T e dello stadio N, nei tumori dell’esofago (7492% per il T e 55-90% per l’N), dello stomaco (67-92% per il T e 50-87% per l’N) e del retto (83% per il T e 75% per l’N). In questi pazienti la definizione dello stadio T rappresenta il fattore critico nella definizione della strategia terapeutica e della sopravvivenza postoperatoria [Caletti et al. 1999, Rösch et al. 2004, Van Dam et al. 1999]. Le neoplasie del tratto digestivo si presentano all’EUS con un ispessimento variabile della parete del viscere, misurabile in modo accurato. Si rileva una perdita parziale o totale della normale architettura parietale, che appare sostituita da aree ipoecoiche disomogenee, di forma e contorni irregolari, che si sostituiscono alla regolare alternanza degli strati parietali a seconda del grado di penetrazione in profondità del tumore [Rösch et al. 2004, Van Dam et al. 1999]. Nei tumori del tratto digestivo lo stadio T1 è caratterizzato da un coinvolgimento limitato ai primi tre strati interni della parete (interfaccia lume-mucosa, mucosa profonda e sottomucosa), e si suddivide in T1m quando la penetrazione del tumore è limitata al 1° e 2° strato (con integrità della muscolaris mucosae) e in T1sm quando la neoplasia interessa anche il 3° strato (sottomucosa). Lo stadio T2 è caratterizzato dall’estensione della neoplasia sino al 4° strato della parete, mentre in quello T3 l’intero spessore parietale è coinvolto dal tumore che determina un’irregolarità del margine esterno del 4° strato (muscolaris propria), sino alla sua totale scomparsa. Nello stadio T4, infine, l’area ipoecogena, oltre a coinvolgere l’intero spessore della parete, si estende all’esterno di essa sino a coinvolgere organi adiacenti, come il fegato nel caso del carcinoma gastrico e la prostata in quello rettale [Caletti et al. 1999, Rösch et al. 2004, Van Dam et al. 1999]. L’EUS ha dimostrato un’accuratezza elevata, e superiore a TC e RM, nella definizione del parametro T. Quest’accuratezza dipende peraltro dall’organo considerato e dallo stadio della neoplasia [Rösch et al. 2004]. L’EUS consente anche di definire il coinvolgimento metastatico dei linfonodi definendo il parametro N, basandosi su dimensione, forma, contorno ed ecogenicità linfonodale: sono espressione del coinvolgimento linfonodale l’aumento della dimensione (>10 mm), la forma ovale-rotonda, i contorni regolari, l’aspetto ipoecogeno omogeneo. L’osservazione
Capitolo 3 Le problematiche cliniche contemporanea di questi parametri, peraltro rilevata in non più del 25% dei casi, ha un valore predittivo positivo dell’80%. Il livello di accuratezza dell’EUS nella definizione del coinvolgimento linfonodale non è considerato del tutto soddisfacente. La diagnosi differenziale fra linfadenopatia metastatica o reattiva (flogistica) non è sempre possibile, ed inoltre sono state riscontrate micrometastasi in rilevanti percentuali di linfonodi <10 mm. La probabilità che un linfonodo osservato all’EUS sia metastatico aumenta con l’aumentare del T (>80% nel T3 e <5% nel T1m) [Bhutani et al. 1997, Catalano et al. 1994]. La FNAC transparietale EUS-guidata è una tecnica accurata e sicura nella definizione del coinvolgimento linfonodale [Bhutani et al. 1997, Catalano et al. 1994]. L’EUS non è peraltro priva di problematiche che possono indurre ad errori di sovrastadiazione o sottostadiazione [Caletti et al. 1999, Rösch et al. 2004, Van Dam et al. 1999]. Diversi possono essere i fattori che possono indurre queste misinterpretazioni: l’infiammazione e la fibrosi peritumorale sono causa di sovrastadiazioni e le aree di infiltrazione neoplastica microscopica di sottostadiazione. Le substenosi/stenosi non consentono inoltre di valicare e studiare interamente la lesione, e la dimensione e la forma della lesione stessa (depressa, protrudente) possono influenzare l’accuratezza della osservazione EUS. Infine alcune sedi come l’antro gastrico, la piccola curvatura, la regione sottocardiale, il retto distale possono rendere difficoltosa la stadiazione EUS. Lo stadio stesso della neoplasia può influenzare il grado di accuratezza dell’EUS: nell’identificazione delle neoplasie allo stadio T2, l’EUS presenta minore accuratezza rispetto agli altri stadi. L’EUS è una metodica soggetto-dipendente con una curva di apprendimento complessa, per cui l’esperienza dell’operatore e l’attuazione di una corretta tecnica influenzano in modo rilevante la sua accuratezza. Diversi fattori tecnici possono indurre in errori di interpretazione e vanno pertanto evitati: scarso o eccessivo riempimento del palloncino, esecuzione di scansioni oblique, allagamento inadeguato del viscere [Rösch et al. 2004]. Nei pazienti con tumori dell’esofago la sopravvivenza postoperatoria a 5 anni oscilla fra l’80-85% delle forme precoci (Tis-T1m) e il 40-50% di quelle più estese (T1sm-T2), sino a calare drammaticamente a <25% in quelle localmente avanzate (T3-T4). La definizione della stratificazione dello stadio T è meno rilevante, ai fini della strategia terapeutica, quando già dimostrato un coinvolgimento dello stadio N. Infatti, la sopravvivenza dei pazienti N+ è indipendente dal T: il coinvolgimento linfonodale rappresenta l’elemento determinante la prognosi [Caletti et al. 1998, Rösch et al. 2004, Van Dam et al. 1999]. Il rischio del coinvolgimento linfonodale varia a seconda dello stadio (T1m 5%, T1sm 25%, T2 50%, T3-T4 80%). Sino
al 30% dei pazienti con tumori dell’esofago presentano una stenosi marcata che non è valicabile dallo strumento e l’accuratezza della stadiazione della sola porzione prossimale della lesione è bassa (33% circa). La procedura di dilatazione della stenosi seguita dalla scansione con EUS è sconsigliata, in quanto gravata da un’elevata incidenza di perforazioni, tenendo anche conto che la presenza di una stenosi marcata ha, comunque, un elevato valore predittivo per una malattia localmente avanzata. Importanza assume la definizione del coinvolgimento linfonodale a livello del tronco celiaco, che va interpretato come stadio M. La FNAC EUS-guidata, in questa sede, è particolarmente utile per la sua elevata accuratezza ed impatto clinico (Fig. 3.633). Anche nelle neoplasie dello stomaco la sopravvivenza è strettamente correlata allo stadio al momento della diagnosi, e nonostante lo sviluppo diagnostico e
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b Fig. 3.633a, b. Adenocarcinoma esofageo. Endoscopia (a): neoformazione vegetoinfiltrante e stenosante dell’esofago distale. EUS a scansione radiale (b) con sonda multifrequenza: la scansione a 7,5 MHz evidenzia un’area ipoecogena disomogenea (t), a contorni e forma irregolari, che interessa l’intero spessore della parete con totale perdita della stratificazione parietale e sconfinamento nel tessuto periviscerale
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terapeutico a tutt’oggi la malattia viene diagnostica nella maggiore parte dei casi in uno stadio definito avanzato ed in pazienti sintomatici che moriranno per la loro malattia. L’accuratezza dell’EUS nella definizione dello stadio T e N, seppur considerata elevata, è inferiore a quella di altri distretti del tratto digestivo, per diverse ragioni. Lo stomaco, per la sua forma, presenta diverse zone, l’antro, la piccola curva e la regione sottocardiale, dove la scansione è difficile e va soggetta con maggiore facilità ad errori di interpretazione; raro è invece il problema legato alle stenosi serrate. Nella stadiazione dei tumori gastrici (Figg. 3.634-3.636) l’accuratezza della metodica risente dello stadio della malattia ed è inferiore per lo stadio T2, con 10-20% di sovrastadiazioni per la difficoltà a differenziare l’interessamento della sottosierosa (T2) da quello della sierosa (T3). La presenza di componente ulcerativa della lesione è responsabile di errori di sovrastadiazione sino al 40%, a causa della fibrosi e flogosi perilesionali che non possono essere distinte dal tessuto tumorale all’EUS. Anche la definizione dei linfonodi presenta difficoltà, legata alla maggiore ampiezza della zona perigastrica e alla difficoltà di scansione delle stazioni linfonodali lontane (N2). L’EUS gastrica è particolarmente accurata nella differenziazione fra le lesioni avanzate e fra quelle allo stadio early, con un’accuratezza del 90% [Rösch et al. 1999, Van Dam et al. 1999] (Fig. 3.637). Nella ristadiazione dopo terapia neoadiuvante, l’incapacità dell’EUS di differenziare flogosi, fibrosi e necrosi dal tessuto neoplastico rendono non soddisfacente l’accuratezza dell’EUS post-trattamento. Nel follow-up, l’EUS presenta un’accuratezza meno soddisfacente, con sensibilità elevata ma scarsa specificità a causa dell’incapacità di differenziare la fibrosi dal tessuto tumorale di ripresa. In questo caso la FNAC EUS-guidata ha un potenziale elevato, sicuramente ben superirore a quello della sola EUS. Le lesioni sottomucose/intraparietali rappresentano una categoria molto vasta ed eterogenea di lesioni della parete del tratto digestivo, con diversa origine, natura e potenziale evolutivo. L’EUS è in grado di individuare lo strato della parete da cui prende origine la lesione ed è in grado di differenziare una lesione intramurale vera da una compressione “ab extrinseco” con un’accuratezza molto elevata. Nell’ambito delle lesioni extramucose, di particolare interesse per il loro potenziale maligno sono i GIST, neoplasie mesenchimali che originano cellule interstiziali di Cajal (ckit positive). Il GIST si presenta come un’area ipoecogena che prende origine dal 4° strato ipoecogeno della parete corrispondente alla muscolaris propria, meno spesso dal 2° strato ipoecogeno della muscolaris mucosae. I principali fattori predittivi di malignità sono: dimensione >3-4 cm, presenza di spazi cistici (numero e dimensioni), irregolarità del margine
Fig. 3.634. Stadiazione dei tumori gastrici. T1, tumore che invade la lamina propria o la sottomucosa; T2a, tumore che invade la muscolare propria; T2b, tumore che invade la sottosierosa; T3, tumore che infiltra la sierosa; T4, tumore che invade le strutture adiacenti. Modificato da [Wittekind et al. 2005]
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.635. Stadiazione dei tumori gastrici. Il piccolo omento è rispettato nel T2b e coinvolto nel T3. La diffusione transpilorica configura un T2b. Modificato da [Wittekind et al. 2005]
esterno. Il contributo aggiuntivo della FNAC appare limitato rispetto ad altre neoplasie: la diagnosi citologica di malignità non è generalmente possibile, dal momento che i campioni ottenuti sono piccoli e non consentono una valutazione dell’indice mitotico. La FNAC con aggiunta anche dell’identificazione immunoistochimica ha un ruolo promettente, con accura-
Fig. 3.636. Parametro N per tumori gastrici. Sono considerati regionali i linfonodi paracardiali (1 e 2), perigastrici della piccola curvatura (3 e 5), perigastrici della grande curvatura (4a, 4b e 6), nonché quelli lungo le arterie gastrica sinistra, epatica comune, splenica e celiaca e quelli epatoduodenali. L’N1 considera fino a 6 linfonodi regionali metastatici, l’N2 7-15 linfonodi e l’N3 >15 linfonodi. Modificato da [Wittekind et al. 2005]
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Fig. 3.637a, b. Carcinoma gastrico. Endoscopia (a): ulcera neoplastica dello stomaco. EUS a scansione radiale (b) con sonda multifrequenza (s): a 20 MHz si osserva un’escavazione con stria iperecogena (freccia), espressione della lesione ulcerativa che interessa la sola mucosa (m) e sottomucosa (sm) con integrità della muscolare propria (mp). La muscolaris mucosae è scomparsa nei pressi della lesione. p, palloncino
Fig. 3.638a, b. GIST gastrico. Endoscopia (a): formazione della sottomucosa del corpo gastrico rivestito da mucosa normale. EUS a scansione radiale (b) con sonda (s) a multifrequenza (5-20 MHz): immagine ipo-anecogena (T), a margine e contorni regolari, a partenza dalla muscolaris propria
tezza del 91% e specificità del 100% [Ando et al. 2002, Chak 2002] (Fig. 3.638). Nei tumori pancreatici un’accurata stadiazione delle neoplasie è essenziale per la selezione dei candidati alla chirurgia. L’identificazione attraverso EUS di malattia localmente avanzata non resecabile consente di evitare inutili trattamenti chirurgici ed avviare i pazienti alla chemio-radioterapia. Le neoplasie solide del pancreas si presentano all’EUS come masse ipoecogene, disomogenee, con presenza al loro interno di lacune cistiche e spots iperecogeni, a contorni e forma irregolari, con diverso rapporto con il dotto pancreatico che si può presentare dilatato (Fig. 3.639). L’accuratezza dell’EUS è del 74-94% per il T e del 64-82% per l’N [Rösch et al. 1995, 2004, Van Dam et al. 1999]. I principali parametri indicativi di coinvolgimento
vascolare sono: crescita tumorale direttamente all’interno della struttura vascolare fino alla sua ostruzione, perdita dell’interfaccia fra parete iperecogena del vaso e massa tumorale (quando sono in diretto contatto) e sviluppo di vasi collaterali. La possibilità di praticare la FNAC transparietale di piccole lesioni, non evidenziabili con altre metodiche, accresce ulteriormente il valore diagnostico della metodica; peraltro un risultato negativo non esclude costantemente la natura maligna. Un’altra indicazione della FNAC è la necessità di definizione citologica in pazienti non candidati alla chirurgia per malattia localmente avanzata [Chang et al. 1997, Rösch et al. 1995, 2004]. Le cisti del pancreas raggruppano una vasta categoria di lesioni che includono le lesioni infiammatorie (pseudocisti), le cisti benigne (sierose), premali-
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Fig. 3.639a, b. Carcinoma del pancreas. Endoscopia (a): carcinoma del pancreas infiltrante la seconda porzione del duodeno. EUS (b) sonda (s) radiale (5-20 MHz): area ipoecogena (t), irregolare e disomogenea, della testa del pancreas, infiltrante a tutto spessore la parete duodenale
Fig. 3.640a, b. Cistoadenoma sieroso del pancreas. EUS a scansione radiale (a) con sonda a multifrequenza (5-20 MHz): area ipo-anecogena ovalare della testa del pancreas (giovane donna con pregresso ittero, febbre e dolore addominale). EUS settoriale. FNAC transgastrica della lesione (ago da 22 G, freccia) (b)
gne e maligne (mucinose). L’EUS, da sola o associata alla FNAC, offre un valido mezzo per lo studio di queste lesioni, anche se rimangono problemi di diagnosi differenziale fra le lesioni cistiche (Fig. 3.640). Bisogna osservare i seguenti aspetti: dimensione della lesione cistica, forma, spessore parietale, ecogenicità, presenza di setti. Questi aspetti non sono peraltro specifici, per cui è anche importante una raccolta di materiale per la citologia e l’analisi di marcatori. La sola valutazione morfologica delle cisti comporta una specificità del 54%, che sale all’83% quando si associa lo studio citologico. L’analisi del liquido ha un’elevata specificità per le cisti mucinose e maligne: sono utili le colorazioni per la ricerca della mucina e del glicogeno nonché la determinazione di amilasi, lipasi e marker tumorali. Il prelievo EUS-guidato del liquido
cistico è una tecnica sicura, con un’incidenza di pancreatite del 2-3%; è consigliata la profilassi antibiotica [Sedlack et al. 2002]. L’EUS riveste un ruolo di rilievo nella diagnostica e stadiazione delle neoplasie polmonari, grazie anche alla possibilità di individuare e definire la natura delle linfadenopatie mediastiniche con la FNAC EUSguidata (Fig. 3.641). La strategia terapeutica del carcinoma polmonare si basa, oltre che sulla differenziazione fra tumore a piccole cellule o tumore non a piccole cellule, sull’infiltrazione locale e la presenza di metastasi linfonodali mediastiniche o di metastasi a distanza. I pazienti senza interessamento del mediastino (stadio I e II) sono potenziali candidati alla chirurgia, ma sfortunatamente circa il 50% dei soggetti con tumori del polmone ha un coinvolgimento del
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b Fig. 3.641a, b. Carcinoma polmonare. Ecoendoscopia con sonda lineare. Linfadenopatia sottocarenale metastatica in paziente con neoformazione polmonare periferica non individuabile alla tracheobroncoscopia (a). Ecoendoscopia con sonda lineare. Immagine iperecogena corrispondente all’ago di 22 G utilizzato per la FNAC transesofagea (b, freccia)
mediastino al momento della diagnosi. Lo stadio IIIa è caratterizzato da metastasi ai linfonodi omolaterali (N2), mentre lo stadio IIIb è caratterizzato da coinvolgimento del mediastino controlaterale (N3). Nello stadio IIIb la sopravvivenza a cinque anni è <5% e i pazienti sono sottoposti alla sola chemioterapia, mentre il trattamento dello stadio IIa (chemioterapia e/o chirurgia) è controverso [Fickling et al. 2002, Micames et al. 2007]. La stadiazione dei linfonodi è pertanto molto importante nella definizione della strategia terapeutica da adottare nel singolo paziente. Le stazioni da valutare sono: livello 2, paratracheale superiore; livello 4, paratracheale inferiore; livello 5, finestra aorto-polmonare; livello 7, sottocarenali; livello 8, mediastino inferiore [Fickling et al. 2002]. La puntura linfonodale sotto guida TC è limitata dalle
numerose strutture vascolari che caratterizzano la regione, e la metodica presenta una sensibilità e specificità ~70%. La PET ha un’accuratezza dell’85% nel definire il coinvolgimento linfonodale ma sono possibili falsi negativi nei tumori con bassa attività metabolica e nei linfonodi di dimensioni <10 mm; possono esserci poi falsi positivi in caso di lesioni benigne. La broncoscopia con FNAC transbronchiale non è in grado di accedere ai linfonodi del livello 5 e 8. La mediastinoscopia e toracoscopia sono infine invasive, costose e non scevre da complicanze; inoltre non sono in grado di accedere a tutti i livelli linfonodali [Fickling et al. 2002]. L’EUS consente un agevole accesso per l’osservazione del mediastino posteriore attraverso la parete dell’esofago ed è molta accurata nell’individuare i linfonodi anche <10 mm; sono stati descritti altri parametri predittivi di coinvolgimento metastatico: la forma, i contorni e l’ecogenicità. La possibilità di abbinare all’EUS la tecnica di prelievo di campioni cellulari con la FNAC ecoguidata transesofagea ha migliorato ulteriormente la sensibilità (90%) e la specificità (100%) della metodica, che si è dimostrata superiore alla TC nella definizione del coinvolgimento linfonodale [Fickling et al. 2002]. Di particolare interesse è l’abilità nell’identificare, nei pazienti negativi alla TC, le micrometastasi linfonodali. La principale limitazione della FNAC EUS-guidata è l’impossibilità di accedere al mediastino anteriore così che i livelli 2 e 4, immediatamente anteriori alla trachea, non possono essere esplorati. Questo problema può essere superato iniziando ad osservare il mediastino posteriore ed ottenendo campioni di tessuti da ogni linfonodo individuato, a cominciare da quelli controlaterali, la cui positività denoterebbe uno stadio IIIb (in tale situazione la caratterizzazione dei linfonodi del mediastino anteriore diventa ininfluente). In caso di negatività alla FNAC EUS-guidata, i pazienti dovrebbero essere indirizzati a tecniche invasive di valutazione, dal momento che circa il 30% di questi pazienti risulterà positivo alla mediastinoscopia [Fickling et al. 2002]. Inoltre l’attuale sviluppo di un ecobroncoscopio dedicato consente di superare il limite dello studio del mediastino anteriore con l’EUS convenzionale. Il contributo dell’EUS alla stadiazione del carcinoma polmonare non è limitato al mediastino, dal momento che con questa metodica si ottengono eccellenti immagini del lobo sinistro del fegato e di parte del lobo destro, nonché della ghiandola surrenale di sinistra, con un’accuratezza del 97% nella definizione del coinvolgimento metastatico. Fra le altre indicazioni oncologiche dell’EUS vanno ricordate la diagnosi e stadiazione dei tumori neuroendocrini e surrenalici e lo studio delle masse retroperitoneali. Un esempio del perfezionamento delle minisonde è la possibilità di un’US endoluminale delle vie biliari, con valutazione dei tratti tumorali
Capitolo 3 Le problematiche cliniche stenotici. Altre indicazioni emergenti sono la stadiazione dell’esofago di Barrett e la stadiazione ed indicazione della resezione endoscopica dei tumori allo stadio “early”. Altre aree ancora d’utilizzo della metodica in campo diagnostico sono la FNAC EUS-guidata delle lesioni epatiche, surrenaliche e pelviche, ed anche la diagnosi delle linfadenopatie d’origine ignota. L’utilità dell’EUS dipende dalla possibilità che i tumori individuati dalla metodica, a diversi stadi di sviluppo, siano sottoposti a diverse strategie terapeutiche; questo significa che l’indicazione della metodica è valida solo in sottogruppi di pazienti che sono candidati alla chirurgia e nei quali altri test diagnostici (TC, RM, US transaddominale) abbiano escluso le metastasi o comunque indicato l’eleggibilità alla chirurgia.
3.39. I tumori del retto: stadiazione con US endorettale, valutazione dopo radiochemioterapia neoadiuvante, identificazione della recidiva L’EUS rettale è molto accurata nella stadiazione locoregionale dei tumori del retto (Fig. 3.642) e presenta un rilevante impatto sulla strategia terapeutica, individuando i candidati alla sola chirurgia e quelli che possono beneficiare del trattamento neoadiuvante (chemioterapia + radioterapia). L’EUS aiuta a determinare la giusta strategia terapeutica da adottare: escissione transanale nello stadio T1, escissione chirurgica con eventuale radioterapia postoperatoria nello stadio T2, terapia neoadiuvante nel T3-T4 o nello stadio N1 indipendentemente dallo stadio T. La chirurgia con totale escissione del mesoretto ha mostrato di ridurre l’incidenza di recidive locali a meno del 6%. La terapia neoadiuvante sembra influenzare sia l’incidenza delle recidive locali, che diventa inferiore al 15%, sia la possibilità di una chirurgia più conservativa evitando la colostomia permanente, oltre a migliorare il livello di sopravvivenza alla malattia. La maggior parte dei pazienti con cancro rettale è candidata alla terapia neoadiuvante, dal momento che circa il 65-85% di essi presenta un coinvolgimento a tutto spessore della parete o un coinvolgimento linfonodale al momento della diagnosi [Rösch et al. 1999]. L’incidenza dei linfonodi maligni dipende dallo stadio del T e varia dal 6-11% del T1, al 10-35% del T2, al 25-65% del T3-T4 [Rösch et al. 1999]. L’EUS rettale è praticata con sonde rigide o flessibili. Molto utili sono gli ecoendoscopi dedicati e flessibili, a frequenza variabile, che consentono di ottenere allo stesso tempo e con un’unica strumentazione sia la visione endoscopica della lesione tumorale, con
Fig. 3.642. Stadiazione dei tumori del retto. T1, tumore che invade la sottomucosa; T2, tumore che invade la muscolare propria; T3, tumore che invade i tessuti perirettali; T4, tumore che invade le strutture e gli organi adiacenti. Modificato da [Wittekind et al. 2005]
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possibilità di biopsie, che lo studio endocavitario dettagliato della parete; sono anche disponibili le minisonde (Fig. 3.643). L’esame richiede un’idonea pulizia del retto con clisteri mentre la sedazione non è indispensabile. Il paziente è solitamente nel decubito laterale sinistro, ma la posizione può essere cambiata durante l’esame. Lo strumento viene fatto progredire oltre il tumore, in assenza di stenosi: la scansione viene praticata ritirando gradualmente lo strumento in
senso distale, utilizzando la tecnica del palloncino e/o l’allagamento. Nel caso dell’utilizzo del palloncino, specie in presenza di lesioni piccole e di consistenza molliccia, bisogna porre attenzione a non provocare lo schiacciamento della lesione, causa di errori di stadiazione. Le scansioni ecoendoscopiche devono essere perpendicolari alla parete, evitando quelle oblique che possono causare falsi immagini di aumento dello spessore parietale. Particolare attenzione va posta al-
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e
Fig. 3.643a–e. Aspetto normale della parete rettale. EUS a scansione radiale (a) con sonda (s) da 7,5 MHz. Anatomia normale nel sesso maschile (b, c). v, vescica; vs, vescichette seminali; p, prostata. Anatomia normale nel sesso femminile (d, vagina; e, utero)
Capitolo 3 Le problematiche cliniche la definizione della profondità d’invasione della lesione (stadio T) e quando questo è precoce (stadio T1T2) vanno ricercate con particolare attenzione eventuali linfadenoapatie, dal momento che in questo caso il loro coinvolgimento ha rilevanti implicazioni terapeutiche poiché indica la terapia neoadiuvante indipendentemente dallo stadio T. In caso di esecuzione della tecnica FNAC-EUS guidata viene utilizzato uno strumento a visione lineare ed un ago da 22 G. È consigliata la profilassi antibiotica, anche se i rischi della procedura sono bassi. L’aspetto dei tumori del retto è di aree ipoecoiche, disomogenee, con forma e contorni irregolari, che si sostituiscono parzialmente o totalmente alla normale stratificazione a cinque strati della parete del retto, sino a non renderla più riconoscibile nei casi di ma-
lattia localmente avanzata (Figg. 3.644-3.650). I linfonodi metastatici si presentano come formazioni ipoecoiche, di aspetto omogeneo, con dimensioni >10 mm, di forma ovalare a margini e contorni regolari. Il solo riscontro di linfadenopatie periviscerali ha comunque un elevato valore predittivo positivo per coinvolgimento metastatico e la probabilità del coinvolgimento è strettamente correlata con lo stadio della malattia. Infatti, normalmente l’EUS non visualizza linfonodi perirettali normali in quanto molto piccoli: l’impatto della FNAC in questi casi è pertanto basso [Harewood et al. 2002]. L’EUS è molto accurata anche nel definire i rapporti del tumore del retto con le strutture adiacenti; prostata, vescichette seminali e vescica nell’uomo e vagina, utero e vescica nella donna [Marone et al. 2000, Van Dam et al. 1999]. Il tumo-
a
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b
b
Fig. 3.644a, b. Adenocarcinoma del retto. Endoscopia (a): substenosi del retto per neoformazione vegeto-infiltrante, fragile e facilmente sanguinante. EUS a scansione radiale (b) con sonda (s) multifrequenza: immagine a 5 MHz che documenta un’area ipoecogena disomogenea ed irregolare (frecce) con perdita totale della stratificazione della parete, che appare marcatamente ispessita con interessamento di tutti gli strati sino al grasso perirettale, corrispondente ad uno stadio T3
Fig. 3.645a, b. Adenocarcinoma rettale. Endoscopia (a): neoformazione rettale vegeto-infiltrante, ulcerata, substenosante il lume. EUS a scansione radiale (b) con sonda multifrequenza: l’immagine a 7,5 MHz identifica un’area ipoecogena disomogenea, irregolare, che interessa a tutto spessore la parete del retto con perdita della stratificazione parietale ed invasione del grasso perirettale (t)
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Ecografia in oncologia
a
b
Fig. 3.646a, b. Adenoma villoso con foci carcinomatosi. Endoscopia (a): area vegeto-infiltrante del retto. EUS a scansione radiale (b) con sonda multifrequenza (5-20 MHz): area sessile, di forma e contorni irregolari, ed ecogenicità mista con interessamento della mucosa e sottomucosa e con integrità dello strato ipoecogeno espressione della muscolare propria. l, lume del retto è ripieno di acqua
Fig. 3.647. Adenocarcinoma rettale e prostatico. EUS a scansione radiale con sonda (s) multifrequenza (5-20 MHz): neoformazione del retto (t) senza segni di invasione della prostata (p), il cui parenchima presenta aree ipoecoiche disomogenee sospette per lesione neoplastica sincrona (tp)
Fig. 3.648. Adenocarcinoma rettale. EUS a scansione radiale con sonda (s) da 12 MHz: aumento dello spessore della parete, con perdita della stratificazione sostituita da un’area ipoecogena (t) contenuta nello spessore parietale senza segni di invasione del grasso perirettale e delle vescichette seminali (vs)
re rettale viene stadiato all’EUS secondo il sistema TNM: per stadio T1 si intende il coinvolgimento della mucosa e sottomucosa con integrità della muscolaris propria, per stadio T2 il coinvolgimento della muscolaris propria, il cui margine esterno appare ancora riconoscibile e regolare, per stadio T3 il coinvolgimento della parete a tutto spessore con presenza di irregolarità del margine esterno della muscolaris propria all’EUS e per stadio T4 il coinvolgimento degli organi adiacenti al retto. Nello stadio N1 è presente un coinvolgimento linfonodale in 1-3 linfonodi regionali e nello stadio N2 vi è il riscontro di metastasi in 4 o più
linfonodi [Marone et al. 2000, Rösch et al. 1999, Savides et al. 1999]. L’EUS ha dimostrato un’accuratezza all’incirca dell’83% per il parametro T e del 75% per quello N. Rispetto all’esplorazione rettale l’EUS presenta un’accuratezza maggiore per la definizione del T (91-92% vs. 52-60%). L’EUS appare inoltre più accurata della TC nella stadiazione locoregionale del cancro rettale (87% vs. 76% il T e 78% vs. 62% per l’N) [Marone et al. 2000, Rösch et al. 1999, Savides et al. 1999]. La TC non è in grado di distinguere i singoli strati della parete rettale, pertanto non è utile nella definizione del-
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
a Fig. 3.649. Adenocarcinoma stenosante del retto. EUS a scansione radiale con sonda multifrequenza. L’immagine a 5 MHz documenta un aumento marcato e concentrico dello spessore della parete rettale, con perdita della stratificazione parietale sostituita da un’area ipoecogena irregolare e disomogenea che interessa il grasso periviscerale. Linfadenopatia metastatica periviscerale (tra i calibri), che appare come una formazione ovalare, ipoecogena omogenea, a margini e contorni regolari
lo stadio T1-T2. Anche rispetto alla RM i dati della letteratura suggeriscono un’accuratezza maggiore dell’EUS, 85% vs. 77%. Studi di costo-efficacia della strategia di stadiazione locale del carcinoma del retto hanno considerato differenti protocolli ed hanno trovato che l’associazione TC addominale + EUS rettale è l’approccio più vantaggioso [Rösch et al. 1999]. L’accuratezza della metodica varia con lo stadio della malattia: pT1 80%, pT2 68%, pT3 94%, pT4 89%, con una minore accuratezza nello stadio T2 così come riscontrato anche in altre sedi. Fra gli errori di stadiazione, la sovrastadiazione è quello più frequente. Le principali cause di sovrastadiazione sono legate all’incapacità della metodica di differenziare la flogosi e l’edema peri-lesionali dal tessuto tumorale, e dalla posizione della lesione che talvolta non consente di evitare scansioni oblique. La definizione del coinvolgimento linfonodale ha un’accuratezza meno soddisfacente a causa della difficoltà di differenziare i linfonodi infiammatori da quelli neoplastici [Rösch et al. 1999]. Un altro limite della metodica nella stadiazione del cancro del retto è la presenza di stenosi: in circa il 14% dei casi la presenza di una stenosi invalicabile allo strumento non consente una stadiazione dell’intera lesione ma solo della sua porzione distale [Akasu et al. 1997, McClave et al. 2000]. I principali fattori condizionanti l’accuratezza dell’EUS sono quindi stadio del tumore, vicinanza al margine anale e presenza di stenosi [Marone et al. 2000, 2001]. L’accuratezza nella ristadiazione del cancro rettale dopo terapia neoadiuvante (chemio-radioterapia) è
b
c Fig. 3.650a–c. Adenocarcinoma colico. EUS con minisonda a scansione radiale da 12 MHz: stenosi neoplastica. Il quadro ecoendoscopico mostra un ispessimento marcato e concentrico della parete viscerale, con la presenza di un’area ipoecogena disomogenea ed irregolare, che interessa la parete a tutto spessore. Linfadenopatia periviscerale
limitata, a causa della flogosi, fibrosi e necrosi postradioterapica. Gli errori più frequenti sono quelli di sovrastadiazione del parametro T, con incidenza varia-
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Ecografia in oncologia
bile dal 40 al 50% [Marone et al. 2001]. L’EUS è sufficientemente accurata nel definire la mancata risposta alla terapia, mentre risulta poco affidabile nel definire la diminuzione dello stadio in seguito al trattamento e nell’identificare la completa regressione della malattia. In questi ultimi due gruppi prevalgono nettamente le sovrastadiazioni [Marone et al. 2001, Rau et al. 1999, Van Dam et al. 1999]. La FNAC EUS-guidata presenta, per diverse ragioni, un basso impatto clinico nella stadiazione del cancro rettale. Come già detto, la maggiore parte dei linfonodi perirettali, osservati all’EUS in pazienti con carcinoma del retto, sono metastatici percui la sola individuazione ha di per sé un elevato valore predittivo positivo che riduce l’impatto clinico della FNAC. Inoltre i pazienti che all’EUS sono allo stadio T3, sono candidati alla terapia neoadiuvante indipendentemente dallo stadio dell’N; pertanto in questo gruppo di pazienti la definizione dell’N non ha un’influenza rilevante sulla strategia terapeutica [Harewood et al. 2002]. La FNAC è riservata a quel ristretto gruppo di pazienti allo stadio T1 e T2, candidati alla chirurgia d’ambleè, dove l’eventuale dimostrazione di un coinvolgimento linfonodale induce ad una terapia neoadiuvante. L’utilizzo della FNAC nella stadiazione del cancro rettale ha mostrato un impatto clinico del 19% [Harewood et al. 2002, Shami et al. 2004]. La recidiva locale dopo chirurgia per cancro del retto avanzato è approssimativamente del 25% e decresce a valori del 10% dopo radioterapia. Il rischio di recidiva è aumenta con l’aumentare dello stadio T al momento della diagnosi, ed è maggiore nei primi due anni dopo l’intervento. L’individuazione precoce della recidiva ed il suo precoce trattamento possono potenzialmente migliorare la sopravvivenza dei pazienti. L’EUS presenta tuttavia un’elevata sensibilità ma una bassa specificità nell’individuare la recidiva locale. Il valore della metodica è limitato dalla sua incapacità di differenziare le lesioni benigne e maligne. L’utilizzo della FNAC EUS-guidata aumenta la specificità della metodica (EUS da sola 57%. vs. EUS+FNAC 97%). A tutt’oggi mancano linee guida definitive relative agli intervalli di follow-up con EUS e non è noto in che misura l’EUS e la FNAC EUS-guidata influenzino la sopravvivenza [Hünerbein et al. 2001, Lohnert et al. 2000, Marone et al. 2000].
3.40. Il melanoma metastatico: localizzazioni superficiali, localizzazioni addominali La ricerca di localizzazioni linfomatose a distanza viene riservata ai pazienti con melanoma di stadio clinico IIB o superiori; per gli stadi I e IIA può essere sufficiente la valutazione ecografica delle stazioni linfono-
dali superficiali e del fegato, insieme all’eventuale radiografia del torace, poiché l’impiego delle “macchine pesanti” non trova giustificazione in termini di rapporto costo/beneficio: i pazienti con melanoma che vanno incontro alla fase metastatica sono una minoranza ed inoltre, per questi ultimi pazienti, il work-up diagnostico ed il trattamento chemioterapico trovano uno scarso impatto globale sulla sopravvivenza. Generalmente viene utilizzata la TC per gli scopi di stadiazione e monitoraggio. Più recentemente, la PET con FDG si è dimostrata accurata nella valutazione del melanoma metastatico, risultando più sensibile della TC. I fondamenti della valutazione sistemica, per staging e follow-up, sono quindi la TC e la PET, entrambe con alcune limitazioni ma tutte e due panesploranti e chiaramente superiori alla US; eventualmente si aggiunge la scintigrafia ossea [Burkill et al. 2004]. Le metastasi da melanoma costituiscono un’evenienza complessa a causa dell’indefinibile modalità di diffusione, della variabile localizzazione anatomica e delle molteplici presentazioni iconografiche. La localizzazione metastatica può manifestarsi anche a distanza di anni dal trattamento della lesione cutanea di origine, oppure quest’ultima può essere non nota. I pazienti con melanoma metastatico hanno spesso localizzazioni multiple coesistenti e le localizzazioni parenchimali ematogene non di rado coesistono con quelle linfonodali e con la diffusione tumorale al tessuto adiposo peritoneale e retroperitoneale [Kamel et al. 1998]. Le localizzazioni cutanee sono trattate nel paragrafo 3.1. Le metastasi ai linfonodi regionali vengono spesso identificate già all’esame obiettivo, che ha una specificità simile all’US ma con una minore sensibilità (71% vs. 89%) (cfr. anche paragrafo 3.1) [Burkill et al. 2004]. L’US può essere di aiuto nell’identificare piccoli linfonodi patologici oppure metastasi linfonodali parziali, e nel guidare una FNAC dei linfonodi sospetti. L’ECD, eventualmente con l’aggiunta di mdc ecografici, può agevolare la distinzione da raccolte liquide (ematomi, sieromi, linfoceli) e dimostrare l’angioarchitettura linfonodale, aiutando nella diagnosi differenziale tra linfonodi reattivi, a vascolarizzazione ilare, e linfonodi metastatici, a vascolarizzazione capsulare (cfr. paragrafo 3.2) [Schmid-Wendtner et al. 2002] (Figg. 3.651-3.653). Poiché localizzazioni addomino-pelviche si verificano in circa il 60% dei pazienti con malattia in fase metastatica, è importante identificare accuratamente tutte le sedi di diffusione tumorale endoaddominale, non di rado alquanto atipiche rispetto ai pattern di metastatizzazione ematogena di altre neoplasie. Ecograficamente è necessaria un’attenta e paziente esplorazione di tutte le sedi intraddominali possibili, senza tralasciare alcuna area anatomica. Anche le localizza-
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
a
b Fig. 3.651a–c. Metastasi linfonodali inguinali da melanoma. Due grossolane linfadenomegalie rotondeggianti, a margini regolari, ipoecogene (a), con cospicua ipervascolarizzazione al PD direzionale (b) e con spettro a basse resistenze ma ad elevata velocità sistolica (Vmax 61 cm/s) alla flussimetria (c)
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Fig. 3.652. Metastasi linfonodali sovraclaveari da melanoma. Multiple adenomegalie ipoecogene disomogenee
Fig. 3.653. Recidiva di melanoma dopo vuotamento linfonodale inguinale. Rimaneggiamento cicatriziale postoperatorio della regione inguinale, nel cui contesto si osserva un nodulo ipoecogeno di ripresa tumorale (freccia)
zioni della parete addominale, infine, possono essere identificate dall’ecografia mediante impiego di sonde ad alta frequenza. La ricerca di tali localizzazioni è parte integrante dello studio US dei visceri addominali, così come è consigliabile comprendere l’esplora-
zione delle regioni inguinali (Figg. 3.654, 3.655, cfr. anche Figg. 3.282 e 3.283). Le metastasi parenchimali addominali interessano più spesso il fegato, ma non di rado possono coinvolgere milza e reni [Kamel et al. 1998]. Le metastasi
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Ecografia in oncologia
Fig. 3.654. Metastasi lombare da melanoma. Grossolana massa ipoecogena, relativamente omogenea e delimitata, vascolarizzata all’ECD. R, rene
Fig. 3.656. Metastasi epatiche da melanoma. Numerosissime lesioni micronodulari, ipoecogene oppure a bersaglio
Fig. 3.655. Recidiva lombare di melanoma, in paziente operato di escissione cutanea a tale livello due anni prima. Grossolana massa lombare profonda, ipoecogena disomogenea, peraltro dissociabile dal rene. L’ECD ne dimostra la vascolarizzazione
Fig. 3.657. Metastasi epatiche da melanoma. Diffuse lesioni miliariche e micronodulari, ipoecogene, su fegato steatosico
epatiche hanno nella maggioranza dei casi un pattern di distribuzione micronodulare, sottoforma di multiple areole ipoecogene più o meno omogenee, di solito piuttosto evidenti e demarcate rispetto allo sfondo parenchimale. In altri casi l’aspetto è macronodulare o anche massiforme. Possibili le calcificazioni ed i foci emorragici. Lo studio con tecniche Doppler dimostra di solito scarsi segnali vascolari intorno ed all’interno delle lesioni, mentre alla CEUS le metastasi epatiche possono apparire come ipervascolari o ipovascolari nelle diverse fasi dell’enhancement epatico (Figg. 3.656-3.658). Le localizzazioni alla colecisti (metà delle metastasi colecistiche totali) si rilevano sino nel 20% dei riscontri autoptici ed appaiono come lesioni polipoidi a sviluppo endoluminale, spesso multiple, di variabi-
Fig. 3.658. Metastasi linfonodale ed epatica da melanoma. Lesione ecogena disomogenea del fegato (freccia lunga) associata con una linfadenomegalia a centro anecogeno colliquativo posta nello spazio porto-cavale (freccia breve)
Capitolo 3 Le problematiche cliniche li dimensioni (generalmente >10 mm), con segni di vascolarizzazione all’ECD e alla CEUS (cfr. Figg. 3.414 e 3.415). L’aspetto è iperecogeno ma l’assenza di ombra acustica e la mobilità al variare del decubito permettono un’agevole diagnosi differenziale con i calcoli [Holloway et al. 1997]. Le metastasi spleniche, riscontrate sino nel 34% dei pazienti deceduti per melanoma metastatico, ripetono di solito le caratteristiche semeiologiche di quelle epatiche (Figg. 3.659, 3.660, cfr. anche Figg. 3.452 e 3.454). Le metastasi renali possono essere localizzate all’interno del parenchima, slargando lo spessore cortico-midollare, oppure possono localizzarsi perifericamente o anche protrudere ampiamente nel grasso perirenale al punto da suggerirne un’origine retroperitoneale anziché renale. Nei casi tipici si rilevano mul-
tiple piccole lesioni corticali ipoecogene disomogenee [Burkill et al. 2004] (Fig. 3.661, cfr anche Fig. 3.499). Possibile la tumefazione nodulare dei surreni (sino nel 50% dei pazienti con melanoma metastatico), nei casi tipici con aspetto unilaterale, massiforme (diametro medio 4 cm), ipoecogeno disomogeneo [Burkill et al. 2004] (Fig. 3.662, cfr. anche Figg. 3.476 e 3.477). Le localizzazioni peritoneali hanno un aspetto di nodulazioni discrete oppure presentano un quadro di infiltrazione diffusa, sovrapponibile a quello della carcinosi (cfr. paragrafo 3.36). Possibili le localizzazioni muscolari profonde (diaframma, psoas, ecc.) e quelle linfonodali addomino-pelviche (sia ematogena che da propagazione linfatica, ad esempio dalle stazioni inguinali) (Figg. 3.663-3.665). Le metastasi ovariche si presentano come masse voluminose, lobulate, relativamente delimitate, preva-
Fig. 3.659. Metastasi spleniche da melanoma. Diffuse lesioni miliariche e micronodulari, di aspetto ipoecogeno o a bersaglio
Fig. 3.661. Metastasi perirenale da melanoma. Nodulazione ipoecogena del profilo renale destro. Si associa versamento peritoneale periepatico a carattere corpuscolato e disomogeneo
Fig. 3.660. Metastasi spleniche da melanoma. Multiple lesioni disomogenee, di diverse dimensioni, all’interno del parenchima splenico
Fig. 3.662. Metastasi surrenale da melanoma. Formazione ipoecogena omogenea del surrene sinistro
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a Fig. 3.664. Metastasi linfonodale addominale da melanoma. Linfadenopatia rotondeggiante, ipoecogena, tra ilo epatico e testa del pancreas
b Fig. 3.663a, b. Metastasi diaframmatica da melanoma. Grossolana massa ipoecogena disomogenea occupante il passaggio toraco-addominale a sinistra Fig. 3.665. Metastasi linfonodali lomboaortiche da melanoma. Multiple linfadenomegalie ipoecogene poste tra i vasi retroperitoneali, evidenziati questi ultimi dall’ECD
lentemente solide o cistiche e quindi mal distinguibili dai carcinomi primitivi [Burkill et al. 2004] (Fig. 3.666, Video 3.56). Per quanto riguarda il tubo digerente, il melanoma ne rappresenta la principale causa di localizzazione metastatica. In casistiche autoptiche si è rilevata una localizzazione al piccolo intestino nel 58% dei soggetti deceduti con melanoma metastatico, sebbene tale localizzazione fosse sintomatica solo nel 9% di questi. Metastasi all’intestino tenue sono state identificate sino nel 33% dei pazienti con melanoma metastatico e nel 2-5% di quelli complessivi con melanoma maligno [McDermott et al. 1996]. Le localizzazioni ematogene al tratto gastrointestinale (stomaco, duodeno e intestino tenue, molto più di rado colon) sono di solito rappresentate da multiple lesioni sottomucose, di dimensioni eterogenee, spesso localizzate sul versante antimesenterico [Kawashima et al. 1991] (Fig.
3.667, cfr. anche Fig. 3.624). Queste piccole lesioni sono difficili da rilevare con l’US, anche ricorrendo alle sonde ad alta frequenza ed alla distensione luminale con mdc orale. Possono essere invece rilevate lesioni più voluminose, lobulate, a sviluppo esofitico, con ulcerazione o necrosi centrale che crea un aspetto a bersaglio. Soprattutto l’US può avere un ruolo nel rilevare i segni diretti ed indiretti di complicanze quali l’occlusione meccanica dell’intestino e l’invaginazione intestinale (Cfr. Fig. 3.311). Quest’ultima è generalmente entero-enterica e spesso multipla e transitoria, potendosi creare e svolgere nel corso della stessa osservazione ecoscopica (Video 3.57). Le metastasi alla mammella, rilevabili in entrambi i sessi, possono essere singole o multiple, ed appaiono di solito come noduli ipoecogeni di forma irregolare, disomogenei, discretamente vascolarizzati all’ECD (Fig. 3.668, cfr. anche Figg. 3.233 e 3.263).
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
Fig. 3.666. Metastasi ovariche da melanoma. Nodulazioni annessiali solide bilateralmente. Si associa abbondante versamento peritoneale
Fig. 3.668. Metastasi da melanoma a livello della mammella maschile. Nodulo ipoecogeno disomogeneo in sede retroareolare
3.41. I linfomi: localizzazioni superficiali, localizzazioni addominali
a
b Fig. 3.667a, b. Metastasi ileali da melanoma, con conseguente invaginazione intestinale. In sezione longitudinale si osserva il deposito melanomatoso parietale ipoecogeno (a, frecce) ed il mesentere ecogeno invaginato. L’ECD dimostra la persistente vascolarizzazione della parete intestinale dell’invaginante e dell’invaginato (b)
I linfomi costituiscono il 5-6% dei tumori maligni dell’adulto (5% dei nuovi tumori del maschio e 4% di quelli della femmina) ed il 10% di quelli del bambino e rappresentano una categoria estremamente eterogenea per età di insorgenza, tipo di diffusione e comportamento [Reznek et al. 2004b]. Il morbo di Hodgkin ha un’incidenza stabile negli ultimi decenni, con un rapporto M/F di 1,4:1 e con due picchi di età, tra 20 e 30 anni e, in misura minore, tra 65 e 75 anni. L’esordio è generalmente (95% dei casi) a livello linfonodale, sia superficiale (specie cervicale) che profondo (soprattutto mediastinico e lomboaortico), in genere senza grosse masse nodali addominali e con una diffusione che solitamente avviene tra stazioni linfonodali contigue; le eventuali localizzazioni parenchimali, poco comuni specie all’esordio, sono generalmente associate a quelle linfonodali. Si distinguono quattro forme: a predominanza linfocitaria (<5% dei casi, poco aggressiva), con sclerosi nodulare (60-80%, relativamente favorevole), a cellularità mista (15-30%, meno favorevole) e con deplezione linfocitaria (<5%, la più aggressiva). Un’adeguata stadiazione è assolutamente fondamentale per la prognosi e la gestione terapeutica [Bragg et al. 2002, Halliday et al. 2003a, Reznek et al. 2004b]. I linfomi non Hodgkin hanno un’incidenza in aumento, simile nei due sessi, con un’età media di 65 anni alla diagnosi. La presentazione della malattia è spesso caratterizzata da localizzazioni multiple, sia linfonodali che extralinfonodali; queste ultime, presenti sino nel 33% dei casi, possono manifestarsi in assenza di linfadenopatie, mentre le linfadenopatie
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Ecografia in oncologia
possono rilevarsi in qualsiasi sede anatomica. I NHL possono essere a cellule B o a cellule T e vengono distinti in tre gradi, basso, intermedio ed alto. La diffusione della malattia è meno prevedibile che nel morbo di Hodgkin, con coinvolgimento di stazioni non contigue e con localizzazioni extranodali, come detto, fino nel 33% dei casi. Prognosi e terapia sono più legate al tipo istologico che allo stadio di diffusione della malattia [Bragg et al. 2002, Halliday et al. 2003a, Reznek et al. 2004b]. Per la stadiazione non si utilizza il sistema TNM. Per il morbo di Hodgkin è stato infatti elaborato il sistema di Cotswold, generalmente utilizzato anche per i NHL. Si comprendono i seguenti stadi: I, interessamento di una singola regione linfonodale o struttura linfoide (milza, timo, anello di Waldayer) o organo extranodale; II, coinvolgimento di due o più regioni linfonodali dallo stesso lato del diaframma oppure interessamento contiguo localizzato di un solo organo extranodale e regione linfonodale dallo stesso lato del diaframma; III, coinvolgimento di regioni da ambo i lati del diaframma, eventualmente accompagnato da interessamento splenico e/o da interessamento localizzato contiguo di un solo organo extranodale; IV, interessamento diffuso o disseminato di uno o più organi o tessuti extranodali, con o senza linfadenopatie [Bragg et al. 2002]. È chiaro che la stadiazione ed il monitoraggio di queste malattie è affidato a metodiche panoramiche quali soprattutto la TC, dal punto di vista morfologico, e la PET, da quello funzionale, laddove la linfangiografia non ha più applicazione effettiva. L’US può essere tuttavia utile in diverse circostanze, come nella prima identificazione di una localizzazione linfomatosa, nel confermare la natura linfonodale di una tumefazione palpabile (suggerendone eventualmente la natura linfomatosa) o nel valutare specifici problemi a livello epatico, splenico o renale. Bisogna infatti ricordare come la TC sia eminentemente basata sui dati dimensionali, laddove almeno a livello superficiale la US consente una valutazione strutturale dei linfonodi; va altresì ricordato che la PET può risultare falsamente negativa nei linfomi di basso grado [Reznek et al. 2004b]. Le adenomegalie superficiali (cfr. paragrafo 3.2 e Figg. 3.15, 3.16, 3.72, 3.100) sono un reperto frequente: il 60-80% dei soggetti con morbo di Hodgkin si presenta inizialmente con un pacchetto linfonodale cervicale, con predilezione per la catena giugulare interna e da questa alle catene spinale accessoria e cervicale trasversa, mentre il 6-20% ha localizzazioni ascellari [Reznek et al. 2004b]. Le linfadenopatie appaiono piuttosto rotondeggianti, a margini lobulati, con un’ipoecogenicità generalmente marcata; le calcificazioni sono rare nelle forme non trattate (Figg. 3.669-3.672). Le dimensioni sono variabili, da pochi mm a vari cm,
Fig. 3.669. Linfoma inguinale. Massa linfonodale disomogenea dell’inguine, vascolarizzata al PD direzionale
a
b Fig. 3.670a, b. Linfoma inguinale di basso grado, PET negativo. Grossolana nodulazione ipoecogena (a), con discreta vascolarizzazione interna al PD direzionale (b)
risultando particolarmente voluminose nei NHL, specie se di alto grado, piuttosto che nel morbo di Hodgkin; comunque anche i linfonodi piccoli ma multipli,
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
a
b Fig. 3.671a, b. Linfoma del gomito. Multiple adenomegalie cubitali, con aspetto ipervascolare al PD direzionale
Fig. 3.672. Linfoma laterocervicale inattivo (PET negativo) dopo terapia. Persistenza di alcuni piccoli linfonodi ipoecogeni non confluenti, senza significativi segnali vascolari residui al PD direzionale
ravvicinati o tendenti alla confluenza costituiscono un riscontro frequente [Reznek et al. 2004b]. L’angioarchitettura appare spesso conservata, con una vascola-
rizzazione Doppler generalmente di tipo ilare, non troppo dissimile rispetto a quella del linfonodo normale o iperplastico [Giovagnorio et al. 2002]. La maggior parte dei processi linfomatosi è a lenta crescita, e quindi non comporta quel sovvertimento ecostrutturale ed ecovascolare del linfonodo che si osserva nel caso delle metastasi. In realtà, sulla scorta dei soli dati US ed ECD appena descritti, la distinzione tra linfonodi linfomatosi e linfadenite è spesso difficoltosa e richiede valutazione clinica, monitoraggio ed eventuale biopsia [Giovagnorio et al. 2002]. Per la gestione terapeutica del morbo di Hodgkin, una definizione importante è quella di forma bulky. I criteri che definiscono i casi con bulky disease sono tuttavia ancora controversi: alcuni considerano come bulky ogni massa linfonodale con diametro massimo >5 cm, altri >7 cm ed altri ancora >10 cm [Picardi et al. 2006]. Tuttavia, la sola definizione dimensionale può non essere affidabile, andando ad esempio a comprendere nella misura (e quindi nella definizione di bulky) anche dei singoli linfonodi periferici o delle aree linfonodali periferiche di tipo esclusivamente reattivo, necrotico o steatofibrotico. Recentemente è stato pertanto proposto, limitatamente ai linfonodi superficiali nel morbo di Hodgkin, di considerare non il diametro massimo ma il volume del pacchetto linfonodale e di associarvi un dato funzionale e cioè l’ipervascolarità al color-Doppler: vengono definite come bulky quelle masse linfonodali che hanno un volume ≥30 ml, un IR >0,65 ed un pattern vascolare anomalo al power-Doppler. Questo tipo di definizione, infatti, si correlava meglio rispetto a quella clinico-TC, esclusivamente dimensionale, con la prognosi e con la libertà dal fallimento terapeutico [Picardi et al. 2006]. In particolare, poiché si è visto che l’angiogenesi aumenta di pari passo con la progressione del linfoma, in termini di aumentato grado di malignità, si può ipotizzare che le forme bulky dimostrate con il power-Doppler, essendo ipervascolari (per definizione) sono anche espressione di un comportamento più aggressivo e quindi della necessità di un trattamento più intensivo. La milza è interessata nel 30-40% dei pazienti con morbo di Hodgkin, di solito in associazione a localizzazioni linfonodali sovra- o sottodiaframmatiche ma talora anche in assenza di linfadenopatie addominopelviche; per quanto riguarda i NHL, questi coinvolgono la milza secondariamente sino nel 40% dei casi mentre le forme primitive sono rare (1-2% dei casi) [Reznek et al. 2004b]. L’ingrandimento della milza, con l’asse longitudinale che misura oltre 120-130 mm (a seconda dell’età), si verifica in diverse condizioni morbose. È opportuno ricordare comunque che il solo reperto di un diametro longitudinale maggiore di 12 cm non è di per sé indicativo di una splenomegalia, poiché è necessario tenere in considerazione la morfologia globale dell’organo e non considerare co-
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me ingrandito un organo semplicemente di forma allungata; la diagnosi dovrebbe sempre basarsi sull’aumento associato di due diametri. La diagnosi di splenomegalia è, di per sé, clinica e la diagnostica per immagini interviene in un secondo momento, per una precisa definizione volumetrica e per un’eventuale analisi strutturale. Ai fini diagnostico-differenziali è necessario valutare i dati clinico-laboratoristici, la struttura splenica (omogenea conservata, omogenea ridotta, disomogenea) ed i reperti extrasplenici. La milza ingrandita risulta di agevole studio US, sebbene nelle forme massive sia spesso difficile includere l’intero organo nel campo di vista e quindi si possa misurare solo approssimativamente il diametro longitudinale. A seconda dell’etiologia della splenomegalia l’organo può conservare la sua ecogenicità, può mostrare un’ecogenicità aumentata o invece diminuita: la reflessività è generalmente normale o anche ridotta nei casi di congestione splenica secondaria ad ipertensione portale ed, ancor di più, nelle forme ematologiche benigne mentre appare aumentata nelle leucemie acute ed in quelle croniche, nel linfoma, in malattie infiammatorie croniche (tubercolosi, malaria, sarcoidosi, brucellosi), nella mielofibrosi e nella sferocitosi ereditaria. Per quanto riguarda l’entità della splenomegalia, questa è lieve-moderata nei linfomi e nella leucemia linfatica cronica mentre raggiunge dimensioni massive soprattutto nei casi di anemie emolitiche, glicogenosi, infezioni croniche, sindromi mieloproliferative (leucemia mieloide cronica, meliofibrosi, policitemia vera): un ingrandimento splenico massivo non dovrebbe quindi ricontrarsi in un paziente affetto da linfoma. Nei linfomi la splenomegalia non indica obbligatoriamente un coinvolgimento splenico diretto in questi pazienti poiché, in circa 1/3 dei casi e specie nei soggetti con malattia di Hodgkin, può anche essere espressione di congestione o di iperplasia reattiva; inoltre, anche qui soprattutto nel morbo di Hodgkin, l’organo può essere di dimensioni normali ma risultare interessato da focalità tumorali macroscopiche. Negli ingrandimenti splenici maggiori, specie nei NHL, sono possibili le sovrapposizioni infartuali [Reznek et al. 2004b]. La misura accurata di due o tre diametri splenici costituisce un elemento importante nel monitoraggio dei pazienti con linfoma in trattamento. Per ciò che concerne le eventuali lesioni focali spleniche, queste possono essere miliariche, micronodulari, macronodulari o massiformi, o ancora possono avere una prevalente distribuzione periferica e capsulare in associazione spesso ad adenopatie ilari; le lesioni tendono ad avere dimensioni uniformi tra loro, con i noduli più voluminosi nei linfomi ad alto grado. L’aspetto è ipoecogeno, più o meno netto, con disomogeneità più evidente nelle lesioni più voluminose; esso non è troppo dissimile da quello delle lesioni metastatiche e di quelle infettive,
peraltro generalmente più piccole e più uniformi tra loro per dimensioni [Görg et al. 1997, Reznek et al. 2004b]. L’ECD dimostra qualche segnale vascolare soprattutto alla periferia. La CEUS può mettere in evidenza piccole lesioni poco o nulla riconoscibili in basale, con evidenza di un enhancement marginale più o meno evidente in fase arteriosa e soprattutto di un “microcircolo” in quella venosa; in caso di risposta positiva al trattamento chemioterapico le lesioni perdono precocemente di enhancement arterioso e “microcircolo” venoso, divenendo nettamente ipoecogene, a stampo, e poi coartandosi progressivamente [Catalano et al. 2006a] (Figg. 3.673-3.676, cfr. anche Figg. 3.450 e 3.451). Il fegato è interessato secondariamente nel 3-14% dei linfomi alla presentazione e nel 50-80% delle casistiche autoptiche su pazienti con morbo di Hodgkin o soprattutto con NHL, mentre le forme epatiche primitive sono rare e vengono riscontrate soprattutto
Fig. 3.673. Linfoma splenico. Due noduli ipoecogeni disomogenei della milza (frecce)
Fig. 3.674. Linfoma splenico. Noduli ipoecogeni della milza, associati a linfadenopatie ilari
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
a Fig. 3.677. Linfoma epatico. Nodulo ipoecogeno disomogeneo del fegato
b Fig. 3.675a, b. Linfoma splenico. Nodulo ipoecogeno disomogeneo della milza (a), con qualche segnale colore interno al PD direzionale (b)
Fig. 3.676. Linfoma splenico. Diffuse e tenui lesioni miliariche nel parenchima della milza
nei pazienti immunocompromessi o con epatite B o C [Reznek et al. 2004b]. Il coinvolgimento epatico può essere nodulare (noduli singoli o multipli, tenuemente o nettamente ipoecogeni), infiltrante (fine disomogeneità parenchimale, generalmente con epatomegalia), misto nodulare e infiltrante (3% dei casi) oppure periportale (raro, specie possibile nei NHL pediatrici, con distribuzione intorno ai rami di divisione della vena porta) ma nella maggioranza dei casi, specie se non trattati, si osserva solo un’epatomegalia. Bisogna ricordare che l’ingrandimento epatico, sebbene con minor frequenza di quello splenico, può, specie nel morbo di Hodgkin, non essere dovuto direttamente alla malattia. All’opposto, il fegato può essere sede di coinvolgimento tumorale in assenza di aumento delle dimensioni. Le lesioni focali macroscopiche sono poco frequenti (5-10% dei casi) e non sempre caratterizzabili con certezza, specie quando molto piccole [Halliday et al. 2003] (Figg. 3.677, 3.678, cfr. anche Figg. 3.518 e 3.519). I linfomi del rene, generalmente non Hodgkin, sono spesso multifocali (60% dei casi) e bilaterali e possono associarsi o meno ad un impegno linfonodale retroperitoneale [Halliday et al. 2003]. Si rilevano lesioni nodulari ipoecogene (più o meno nette e delimitate, ipovascolari all’ECD), slargamento renale diffuso di aspetto ipoecogeno disomogeneo oppure infiltrazione nodulare ipoecogena disomogenea del grasso perirenale con conglobazione del parenchima stesso [Bragg et al. 2002]. L’infiltrato perirenale ad “alone” deve essere distinto da condizioni quali metastasi perirenali con reazione desmoplastica, fibrosi retroperitoneale a localizzazione inusuale perirenale, urinomi perirenali, flogosi da pancreatite acuta. Sia
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Fig. 3.678. Linfoma epatico. Multiple lesioni ipoecogene, di diversa grandezza, nel parenchima del fegato
quando sottile che quando grossolano, comunque, l’aspetto che la lesione linfomatosa perirenale crea è di una sorta di “galleggiamento” del rene, intrinsecamente normale, all’interno dell’immagine ipoecogena perirenale, distribuita in maniera relativamente uniforme intorno all’organo [Duyndam et al. 2002] (Figg. 3.679, 3.680, cfr. anche Figg. 3.518 e 3.519). Il pancreas è coinvolto raramente e si tratta generalmente di forme non Hodgkin. Si rileva una massa ipoecogena senza rinforzo posteriore oppure un’infiltrazione diffusa, di più difficile riconoscimento [Merkle et al. 2000]. Il tratto digerente costituisce la più frequente sede di localizzazione extranodale primitiva dei linfomi (510% degli adulti) [Reznek et al. 2004b]. Sia nelle forme primitive che secondarie lo stomaco viene interessato con maggiore frequenza (51% dei casi), seguono l’intestino tenue (33%) ed il colon-retto (16%). Bisogna distinguere soprattutto i MALTomi, che prediligono lo stomaco, ed i linfomi intestinali a cellule T, più rari, associati talora con la celiachia e solitamente localizzati a livello ileale. L’aspetto è di nodulazioni o masse sottomucose, singole o multiple, che possono andare incontro a necrosi ed ulcerazione e che possono determinare un ispessimento della parete intestinale e/o del meso corrispondente. In altri casi la parete ispessita si associa ad una dilatazione “aneurismatica” dell’ansa, reperto peraltro possibile anche nei melanomi [Bragg et al. 2002, cfr. Fig. 3.619]. Per quanto riguarda i linfonodi profondi, qualsiasi stazione linfonodale addominale e pelvica può essere coinvolta, con una certa predilezione per i linfonodi retroperitoneali lomboaortici (25-35% dei pazienti con morbo di Hodgkin e 45-55% di quelli con linfomi non Hodgkin alla presentazione), per quelli iliaci e, nei NHL, per quelli mesenterici (talora sede isolata di localizzazione dei linfomi non Hodgkin di
Fig. 3.679. Linfoma renale. Formazione ipoecogena disomogenea nel polo superiore del rene sinistro
Fig. 3.680. Linfoma perirenale. Tessuto ipo-anecogeno distribuito diffusamente intorno al rene
basso grado); le localizzazioni all’ilo epatico ed all’ilo splenico sono relativamente più frequenti nei linfomi non Hodgkin [Halliday et al. 2003, Reznek et al. 2004b]. Nel morbo di Hodgkin si osservano di solito piccoli linfonodi non confluenti a diffusione contigua, mentre nei NHL la distribuzione più essere più irregolare, con masse bulky e frequenti lesioni extranodali ai visceri addominali [Reznek et al. 2004b]. Le adenopatie mesenteriche, con i vasi retroperitoneali e mesenterici interposti, creano una caratteristica immagine stratificata in senso ventro-dorsale (segno “del sandwich”), riconoscibile all’US ed ancor di più all’ECD [Bragg et al. 2002, Wojnar et al. 1992]. L’ECD è inoltre utile per distinguere le lesioni linfomatose da tumori di altro tipo, ad esempio da un carcinoma pancreatico localmente avanzato, documentando in quest’ultimo effetti di infiltrazione vasale che sono invece assenti nei linfomi (Figg. 3.681-3.684).
Capitolo 3 Le problematiche cliniche I testicoli sono una sede extranodale non rara, soprattutto nei linfomi non-Hodgkin (specie di medio e alto grado), che rappresentano la seconda neoplasia testicolare in ordine di frequenza al di sopra dei 50 anni. Si rilevano nodulazioni singole o multiple, unio bilaterali, ipoecogene più o meno nette; in alternativa si osserva una tumefazione disomogenea diffusa del didimo [Halliday et al. 2003]. Le localizzazioni alla mammella sono infrequenti ma possibili, sia nella femmina (1% dei tumori mammari) che nel maschio. Si rilevano noduli ipoecogeni, ben delimitati, con o senza rinforzo posteriore, o più raramente si riscontra un sovvertimento mastitico diffuso; possono associarsi linfadenopatie ascellari [Reznek et al. 2004b] (Fig. 3.685). Fig. 3.683. Linfoma mesenterico. Grossolane linfadenopatie ipoecogene della radice mesenterica
Fig. 3.681. Morbo di Hodgkin, linfadenopatie addominali. A livello sottoepatico si rileva un grossolano pacchetto linfonodale, ipoecogeno, relativamente omogeneo e delimitato
Fig. 3.684. Linfoma iliaco. Grossolane adenopatie ipoecogene a sede iliaca esterna, conglobanti i vasi a tale livello
Fig. 3.682. Linfoma retroperitoneale. L’ECD permette la distinzione tra i vasi lomboaortici e le linfadenopatie ipoecogene
Fig. 3.685. MALToma mammario, in un soggetto di sesso femminile. Piccolo nodulo ipoecogeno, aspecifico, senza segnali vascolari al PD direzionale, a carico della mammella
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I linfomi della tiroide (1-10% dei tumori tiroidei) sono di solito non Hodgkin e possono insorgere su una preesistente tiroidite di Hashimoto. L’aspetto è di noduli ben delimitati, ipoecogeni disomogenei o pseudocistici, oppure di un sovvertimento diffuso. Generalmente si associano linfadenopatie cervicali [Takashima et al. 1988]. Le localizzazioni linfomatose alle ghiandole salivari possono essere primitive (2-5% dei tumori salivari) o secondarie (soprattutto NHL, 0,7% di tutti i linfomi) e si possono associare alla sindrome di Sjögren. Le ghiandole appaiono ingrandite, con aree ipoecogene disomogenee, più o meno delimitate, talora di aspetto similcistico [Salaffi et al. 2006]. Nei muscoli, peraltro interessati di rado, si osserva un infiltrato ipoecogeno diffuso oppure nodulazioni ipoecogene disomogenee, più definite, con variabile grado di vascolarizzazione all’ECD [Halliday et al. 2003]. Il versamento pericardico e soprattutto pleurico costituisce un riscontro US non raro in questi pazienti, e sempre da ricercare, mentre nei linfomi non trattati è piuttosto infrequente rilevare versamento peritoneale, a meno che non vi sia un’infiltrazione linfonodale massiva con stasi linfatica. Dopo il trattamento chemioterapico di prima linea della malattia linfomatosa si esegue una ristadiazione. Dal punto di vista dell’imaging ci si basa soprattutto sulla riduzione dimensionale delle localizzazioni linfonodali ed extralinfonodali note alla TC (ritenendo una riduzione >70% rispetto all’esordio un buon indice di efficacia terapeutica) e sui dati funzionali della PET. Quest’ultima fornisce informazioni più precoci (già nel corso stesso del trattamento, “interim PET”) e predittive della risposta finale. Inoltre, spesso (60% delle forme bulky e 10-15% di quelle non bulky), la TC dimostra una massa residua a fine trattamento, che tuttavia dal punto di vista metabolico risulta sede attiva di malattia solo nel 18-25% dei casi di residuo macroscopico [Coiffier 1999]. Dinanzi ad un quadro TC (o US) di massa residua macroscopicamente si parla pertanto di “remissione completa non confermata”, poiché all’interno possono teoricamente resistere foci tumorali attivi. Questi residui, che costituiscono una problematica alquanto frequente nei linfomi trattati, possono essere a lungo stabili dal punto di vista dimensionale, ma risultano ipo-avascolari alla valutazione con imaging, compresi i reperti ECD e CEUS. L’US, con l’ausilio anche dell’ECD ed eventualmente della CEUS, può essere impiegata per lo studio delle masse residue superficiali, in particolare linfonodali, al fine sia di una conferma dell’effettiva risposta al trattamento che di una precoce identificazione dell’eventuale recidiva. Esami ECD seriati consentono di monitorizzare la risposta al trattamento dei linfomi, che si esprime con una progres-
siva diminuzione della vascolarizzazione linfonodale (mentre non si è dimostrata una correlazione con i reperti dell’IR e dell’IP); una vascolarizzazione persistente si correla ad una prognosi meno favorevole [Ho et al. 2000]. Bisogna considerare che, specie nei linfomi di basso grado, le captazioni PET possono essere assenti o aspecifiche ed inoltre esiste il problema di una loro definizione topografica. Anche la biopsia US-guidata può risultare utile per riconoscere una ripresa di malattia [Halliday et al. 2003]. Nonostante la prognosi favorevole per l’80% circa dei pazienti con morbo di Hodgkin e la metà circa di quelli con NHL, le ricadute sono relativamente frequenti e nella maggioranza dei casi si verificano entro 1-2 anni dal trattamento. Il follow-up dei linfomi viene praticato con una cadenza e con una scelta di metodiche che dipende dallo stadio di esordio, dal tipo istologico, dall’entità della malattia residua e da altri fattori. Esso si riduce progressivamente dal 1° al 5° anno di remissione e si basa su indagini clinico-laboratoristiche, sulla radiografia del torace e sull’US addomino-pelvica e delle stazioni superficiali (collo, ascelle e inguini). La TC e/o la PET, in particolare, sono indicate nelle forme aggressive.
3.42. La CUP syndrome Per sindrome da tumore primitivo sconosciuto si intende l’evenienza di un paziente con metastasi dovute ad un tumore di origine non nota al momento dell’osservazione, ed eventualmente che resterà tale, nonostante gli sforzi dell’imaging, anche fino all’exitus ed alla valutazione autoptica (nel 15-20% dei casi): vi sono cioè una o più localizzazioni metastatiche, provate istologicamente, ma di cui non si conosce con certezza l’origine [Chorost et al. 2004, Gallagher et al. 2004]. Non si tratta di un’evenienza rara, rappresentando questi pazienti il 2-6% dei soggetti oncologici sono adenocarcinomi nel 50-60% dei casi, carcinomi squamosi nel 5% e tumori scarsamente differenziati nel 35% [Chorost et al. 2004, Gallagher et al. 2004, Shaw et al. 2006]. Nonostante sforzi diagnostici anche intensivi, il tumore di origine non sempre può essere identificato, ad esempio perché localizzato in una sede inusuale e/o perché di dimensioni particolarmente ridotte [Ambrosini et al. 2006]. In qualche caso esso è stato già rimosso, come per un “neo” asportato frettolosamente e non adeguatamente esaminato sul piano istologico o di una colecisti litiasica, ablata chirurgicamente senza una successiva valutazione istologica. Altre volte il tumore primitivo si è involuto, ad esempio per scarsa angiogenesi; un esempio è dato dalle neoplasie testicolari burned out (cfr. paragrafo 3.35). È chiaro che in molti casi è una problematica di tipo anatomo-patologico, in quanto una non corretta let-
Capitolo 3 Le problematiche cliniche tura del materiale bioptico risulta spesso fuorviante, sia per l’oncologo che per il diagnosta per immagini. La prognosi della CUP syndrome è sfavorevole (mediana di sopravvivenza di circa 8 mesi), specie negativa nel caso di metastasi epatiche da carcinoma indefinito e relativamente migliore, ad esempio, nel caso di linfonodi cervicali medio-alti quale sede di metastatizzazione di carcinomi occulti del capo e collo [Ayoub et al. 1998, Haas et al. 2002]. Tuttavia, almeno in alcune categorie di pazienti (es. pazienti con un buon performance status, istotipo differenziato ed assenza di metastasi epatiche), è possibile ottenere dei buoni risultati terapeutici pallativi e pertanto, per poter pianificare un trattamento adeguato, è necessario cercare di identificare la sede o quantomeno il tipo istologico del tumore d’origine [Ayoub et al. 1998, Hogan et al. 2002, Shaw et al. 2006]. L’approccio diagnostico più appropriato per questi pazienti è tuttora discusso e poco chiaro, con una notevole disparità di condotta tra i diversi Centri [Shaw et al. 2006]. Sicuramente un ruolo fondamentale è dato da quelle metodiche che, data la loro panoramicità, possono identificare con buona accuratezza sia il tumore primitivo che eventuali metastasi sincrone: RM, TC, PET (identificazione della sede primitiva di malattia nel 24-40% dei casi negativi alle altre metodiche diagnostiche) e soprattutto PET-TC (sensibilità 53%) [Ambrosini et al. 2006, Pelosi et al. 2006]. Tuttavia, questa problematica deve essere nota all’ecografista perché non di rado, sia nelle localizzazioni addominali che in quelle superficiali, egli è il primo a identificare la metastasi da primitivo occulto. Inoltre può essere utile revisionare tutta la diagnostica cui è stato sottoposto il paziente, ed eventualmente ripetere gli esami ecografici, poiché non di rado è possibile così ottenere un quadro più completo, eventualmente anche con l’identificazione del tumore primitivo. I casi di CUP syndrome che più facilmente giungono all’osservazione dell’ecografista sono tipicamente: le linfadenopatie cervicali e sovraclaveari (ma anche inguinali) da tumore primitivo (squamoso) occulto (generalmente, tumori del capo e collo e specie del rino- e orofaringe), le linfadenopatie ascellari da carcinoma occulto (sino nel 70% dei casi, piccoli tumori mammari), le metastasi epatiche in assenza di un tumore primitivo noto [Ayoub et al. 1998, Haas et al. 2002] (Figg. 3.686-3.689). Altri esempi tipici sono dati dalle masse retroperitoneali metastatiche da tumori testicolari occulti e dalle carcinosi peritoneali di origine non nota [Gallagher et al. 2004]. In due studi su pazienti con sindrome CUP e metastasi epatiche, si riusciva a risalire al tumore primitivo solo nel 9 e 18% dei casi, costituiti soprattutto da neoplasie di polmone, stomaco, colon-retto e pancreas (compreso un discreto numero di tumori neuroendocrini) [Ayoub et al. 1998, Hogan et al. 2002].
Fig. 3.686. Carcinosi peritoneale di origine ignota. Massa complex, con quote solide ecogene profonde e multipli setti e loculazioni anteriormente
Fig. 3.687. Metastasi linfonodale cervicale di origine ignota. Nodulazione ipoecogena disomogenea, con fenomeni necrotico-colliquativi interni e con modica vascolarizzazione delle quote solide al PD direzionale
Fig. 3.688. Metastasi linfonodale ascellare parziale di origine ignota. Nodulo ipoecogeno disomogeneo che ispessisce eccentricamente la corticale linfonodale e che appare ipovascolare rispetto ai segnali ilari linfonodali al PD direzionale
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Fig. 3.689. Metastasi epatiche di origine ignota. Innumerevoli micronodulazioni ipoecogene miliariche nel parenchima epatico
Il reperto US può essere talora di ausilio nella ricerca del cancro primitivo: un aspetto necrotico delle linfadenomegalie cervicali può spingere alla ricerca più approfondita di un carcinoma squamoso del capo e del collo, mentre un aspetto tenuemente ecogeno, con alone ipoecogeno periferico, delle metastasi epatiche, può suggerire un’origine colica. Una valutazione di tipo citologico, eventualmente imaging-guidata, può essere di ausilio. In una casistica su 116 pazienti con metastasi di origine indefinita [Reyes et al. 1998] la FNAC riguardava i linfonodi nel 49% dei casi, il fegato nel 23%, la cute nel 19%, l’osso nel 5%, il polmone nel 3% e la pleura nell’1%. Il tumore primitivo era identificato nel 26% dei casi: i tumori a piccole cellule erano di origine polmonare, mentre la maggioranza di quelli a cellule squamose cervicali proveniva da neoplasia del capo e del collo. Per maggiori caratterizzazioni sono generalmente necessari campionamenti microistologici, che consentono ad esempio di identificare i recettori progestinici e estrogenici nelle metastasi da carcinoma mammario [Vignal 2005].
3.43. Le urgenze nel paziente oncologico L’urgenza oncologica è definibile come una condizione acuta, determinata dal cancro e dai suoi trattamenti, che richiede una pronta e appropriata gestione diagnostica e terapeutica onde evitare il decesso o danni gravi permanenti [Cervantes et al. 2004]. Non è detto che si tratti di un’emergenza assoluta ma è comunque una condizione che richiede atti diagnostici ed eventualmente terapeutici rapidi, appunto “urgenti”. Il 5% circa delle ammissioni in un DEA è rappresentata da soggetti con una neoplasia, e con l’invecchiamento della popolazione, l’aumento dell’incidenza di varie
neoplasie e l’aumentata sopravvivenza di questi pazienti è prevedibile che questa percentuale diventi sempre più elevata [Halfdanarson et al. 2006, Swenson et al. 1995]. Ogni paziente osservato in sede di Pronto Soccorso, o comunque ogni paziente “acuto”, è potenzialmente portatore di una neoplasia, eventualmente occulta, e questo dato deve essere sempre tenuto presente dal medico che si accinge a praticare un esame ecografico in urgenza. I soggetti si rivolgono al DEA per sintomi dovuti ad un tumore sino ad allora occulto oppure per sintomi dovuti alla neoplasia stessa o ai trattamenti antitumorali; i sintomi “acuti” più frequenti sono gastrointestinali (48%), neurologici (38%), cardiaci (25%) e polmonari (23%); nel 40% dei casi il problema è il dolore [Swenson et al. 1995]. La condizione di urgenza può manifestarsi improvvisamente o progressivamente, e costituisce spesso una complicanza in un paziente con malattia tumorale già nota, eventualmente avanzata o terminale: il 10% dei soggetti ammessi in un DEA con sintomi correlati ad una neoplasia muore durante il ricovero ed il 48% entro un anno [Bozcuk et al. 2004, Maschmeyer et al. 2003, Swenson et al. 1995]. In altri casi, la sintomatologia acuta che ha condotto il soggetto all’osservazione rappresenta il momento di esordio della neoplasia. Esiste infine la possibilità che una condizione non correlata alla neoplasia, sia essa precedente o nuova, possa manifestarsi in modo acuto [Cervantes et al. 2004]. Nel complesso si tratta di evenienze non rare, che pongono tutta una serie di problematiche sia diagnostiche che terapeutiche a breve e lungo termine [Bhuyan et al. 2005, Nicolin 2002, Thirlwell et al. 2003]. Le fonti potenziali di acuzie in questi soggetti sono numerose. Prescindendo infatti dalle complicanze legate direttamente alla crescita tumorale ed all’infiltrazione delle strutture anatomiche circostanti, possono avere un ruolo favorente le sostanze prodotte dalla neoplasia, gli effetti delle terapie antitumorali ad alto dosaggio (chemioterapia sistemica e locoregionale, chirurgia, radioterapia, procedure interventistiche percutanee, ecc.), gli effetti dei prolungati trattamenti farmacologici necessari per dominare le complicanze legate alla tossicità dei farmaci antiblastici (antibiotici, corticosteroidi, anticoagulanti, ecc.), l’ospedalizzazione e l’allettamento prolungati [Kwok et al. 2006, Palmone et al. 2005, Thomas et al. 1994]. In alcuni casi si tratta di vere emergenze, in altri di quadri acuti o subacuti ma che, comunque, richiedono un inquadramento diagnostico ed un trattamento rapidi ed efficaci, anche perché vanno differenziati dalla progressione o dalla ripresa di malattia. La detezione delle complicanze è, infatti, importante per la gestione oncologica specialistica del paziente, perché in molti casi essa determina un cambiamento del piano terapeutico, ad esempio con il differimento di un ciclo chemioterapico. Si tratta di pazienti complessi, che ri-
Capitolo 3 Le problematiche cliniche chiedono un approccio multidisciplinare. L’anamnesi praticata dell’ecografista, ancorché rapida, deve mirare all’acquisizione di alcuni dati importanti: qual è il tumore di cui soffre il paziente ed a che stadio, da quanto tempo è iniziata la storia clinica oncologica e da quanto tempo rispetto alla malattia tumorale è iniziata la condizione di urgenza, quali trattamenti sono stati praticati in passato e quali sono in atto, se vi sono fattori di rischio addizionale [Cervantes et al. 2004, Salama 2004]. Ciò è spesso complicato dal fatto che il paziente in prima persona non è sempre a conoscenza di tutti i dati relativi alla propria malattia. L’abilità dell’ecografista nel cogliere i segni ed i sintomi del tumore può man mano modificare il divenire dell’esplorazione US e condurre quindi ad una definizione completa del quadro morboso in atto. È anche importante che l’ecografista sia a conoscenza degli esiti dei precedenti accertamenti di diagnostica per immagini, per capire se i reperti rilevati rappresentino o meno qualcosa di nuovo nel quadro morboso: nel valutare un paziente sottoposto a procedura percutanea, ad esempio, sapere se in precedenza già vi fosse del versamento peritoneale e di quale entità, consente di inquadrare in maniera ben diversa una falda liquida rilevata. Molte complicanze oncologiche sono di tipo medico: infezioni, reazioni da ipersensibilità, ipercalcemia, sindrome da inappropriata secrezione di ormone antidiuretico, effetti tossici della terapia antiblastica [Cervantes et al. 2004]. Queste non richiedono una valutazione ecografica, se non quando simulano una sintomatologia acuta [Albanell 2000, Hohenberger et al. 2005]. Di seguito discuteremo alcune evenienze particolarmente frequenti nei pazienti oncologici, che possono comportare un ruolo dell’US. La sindrome da lisi tumorale acuta è una complicanza del trattamento con alcuni chemioterapici e di alcuni tumori particolarmente chemiosensibili, rara ma che può essere anche di grave entità o mortale, per lo sviluppo di iperkalemia, insufficienza renale ed aritmie [Cervantes et al. 2004, Lee et al. 2006]. Si manifesta soprattutto in soggetti con masse solide voluminose ed a crescita rapida oppure in pazienti con neoplasie ematologiche ed è dovuta alla rapida necrosi di un elevato numero di cellule attivamente proliferanti, con massivo rilascio in circolo di prodotti cellulari [Cervantes et al. 2004, Lee et al. 2006]. In questi casi la diagnosi è clinica, ma l’US e la diagnostica per immagini in generale hanno un ruolo importante perché devono dimostrare una significativa riduzione dimensionale della massa tumorale. La popolazione oncologica presenta, rispetto ai controlli, una maggior incidenza di episodi di trombosi venosa profonda, sia delle vene degli arti superiori che in quelle degli arti inferiori, a prescindere dalla presenza o meno di cateteri venosi centrali (CVC). Ciò è diretta conseguenza della maggiore trombofilia di
questi soggetti, in cui la trombosi venosa costituisce una lesione paraneoplastica (produzione di sostanze procoagulanti da parte del tumore) e talora il sintomo stesso di presentazione della malattia tumorale; altri fattori sono dati dai fenomeni compressivi e/o infiltrativi prodotti dalla massa tumorale stessa sulle vene, con possibile trombosi del tratto a monte [Mamede et al. 2004, Salama 2004]. La maggiore tendenza alla coagulazione ematica del soggetto oncologico può essere spesso colta durante l’esplorazione venosa, specie di vene come la giugulare interna e l’ascellare, che non di rado presentano un aspetto ondulato del contenuto luminale, con immagini laminari di diversa ecogenicità, che progrediscono in direzione distale ma con estrema lentezza (questo aspetto di pseudotrombosi può simulare una trombosi vera e propria e deve esserne pertanto differenziato, soprattutto sfruttando il colorDoppler, che dimostra segnali vascolari molto lenti ma presenti) (Fig. 3.690, Video 3.58). Peraltro, nonostante quanto detto sinora, lo studio routinario dei vasi venosi profondi nei pazienti oncologici non appare razio-
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b Fig. 3.690a, b. Pseudotrombosi della vena giugulare. Echi densi, in lento movimento, nel lume della vena giugulare interna sinistra. La carotide comune è riconoscibile più in profondità
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nale: uno studio recente non ha dimostrato la presenza di una trombosi femoro-poplitea in nessuno tra i 62 pazienti trattati con chemioterapia su base ambulatoriale e senza sintomi riferibili a trombosi venosa (nonostante la presenza in molti di livelli plasmatici elevati del D-dimero) [Bernstein et al. 2004]. Diverso è il discorso per i soggetti sintomatici, ad esempio con edema di un arto: in questo caso sono state rilevate una trombosi venosa delle estremità superiori nel 40% dei pazienti oncologici (e fino al 48% di quelli oncologici con catetere venoso centrale) ed una trombosi delle vene profonde degli arti inferiori fino nel 22% dei soggetti con neoplasia cui era stata richiesta una valutazione US venosa [Giess et al. 2002]. Un pronto riconoscimento e trattamento della trombosi venosa è importante per il rischio associato di tromboembolia polmonare, anch’essa non rara nei soggetti oncologici. I soggetti che più facilmente vanno incontro a trombosi profonda sono quelli portatori di tumori ematologici o di tumori solidi di polmone, mammella, pancreas o sfera genitale femminile. In quest’ultimo caso si aggiunge spesso una componente meccanica, legata alla compressione/infiltrazione tumorale delle vene pelviche; quindi la trombosi è alta, a livello della vena iliaca comune o esterna, o anche della stessa vena cava inferiore. Fattori di rischio associati possono essere la chemioterapia, i pregressi interventi chirurgici, i CVC [Bernstein et al. 2004, Salama 2004]. Una categoria particolare di soggetti è rappresentata dai portatori di grossolane linfadenomegalie inguinali (o ascellari e basicervicali per l’arto superiore) oppure che siano stati sottoposti più o meno recentemente a linfadenectomia: in questi casi è spesso presente un gonfiore diffuso dell’arto ma questo può anche non essere dovuto a trombosi venosa e spiegarsi semplicemente con una compressione venosa e/o un linfedema. La diagnosi differenziale in questi soggetti sarà anamnestica, clinica ed infine ecografica. Negli arti superiori una differenziazione della trombosi venosa da fare, invece, per la quale si può ricorrere alla valutazione US, è quella con la flebite da stravaso di chemioterapico e con la sindrome postflebitica in pazienti con CVC (presenti al momento dell’osservazione o pregressi) [Albanell 2000]. L’esplorazione US del soggetto con sospetta trombosi venosa si deve basare soprattutto sulla compressione della vena mediante graduale movimento della sonda e sull’impiego del color-Doppler, e deve essere bilaterale ed estesa dalle vene addomino-pelviche a quelle profonde dell’arto, compreso il polpaccio, ed includendo anche la porzione distale di quelle superficiali. In regime di urgenza, comunque, una semplice compression US dei segmenti venosi dall’inguine al polpaccio, e limitata al solo arto patologico, può rivelarsi sufficiente. Le sedi più frequenti sono date dalla vena femorale superficiale e dalle vene e venule del polpaccio (Figg. 3.691-3.695). La vena patologica appa-
Fig. 3.691. Tromboflebite della vena grande safena a livello della gamba. La vena superficiale, sezionata longitudinalmente e trasversalmente, mostra pareti ispessite e contenuto luminale ipoecogeno disomogeneo
Fig. 3.692. Trombosi giugulare da linfoma laterocervicale. Multiple linfadenopatie alla base del collo cui si associano dei difetti luminali ipoecogeni della vena giugulare interna sinistra, sezionata in senso longitudinale e trasversale
Fig. 3.693. Trombosi giugulare. La vena giugulare interna destra mostra del tessuto luminale ecogeno, con qualche venula interna e marginale di ricanalizzazione. C, carotide
Capitolo 3 Le problematiche cliniche
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b Fig. 3.695a, b. Trombosi venosa profonda dell’arto inferiore da massa pelvica. Ostruzione completa della vena femorale comune e della vena femorale superficiale (a) in paziente con voluminoso condrosarcoma dell’ala iliaca (b)
c Fig. 3.694a–c. Trombosi venosa profonda dell’arto inferiore da massa pelvica. Ostruzione completa della vena femorale comune (a) e della vena femorale superficiale (b). Recidiva pelvica sinistra di carcinoma vescicale, che ha completamente infiltrato la vena iliaca, non più riconoscibile (c)
re, in caso di ostruzione recente, di calibro aumentato, poco o nulla comprimibile, con contenuto luminale disomogeneo ma prevalentemente ipoecogeno, parzialmente o totalmente priva di segnale all’ECD. Biso-
gna ricordare come in fase acuta il lume possa apparire quasi anecogeno e quindi la trombosi risultare misconosciuta (se non si ricorre alla compressione o al color-Doppler). È necessario porre particolare attenzione all’estremo distale del trombo per riconoscere un eventuale aspetto flottante endolume. Con il passare del tempo il lume diviene più ecogeno ed il calibro normale o ridotto; compaiono fenomeni di ricanalizzazione, sia come canalicoli di riabitazione luminale che come venule intraparietali o perivenose. Il riconoscimento delle vene all’ingresso mediastinico, in particolare delle anonime e della cava superiore, risulta talora difficoltoso, anche ricorrendo a sonde internistiche; comunque la visualizzazione di queste vene è possibile sino nel 90% dei soggetti oncologici sintomatici per edema degli arti superiori. Vi è anche la possibilità di riconoscere segni indiretti di un’ostruzione centrale,
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come un anomalo profilo flussimetrico con perdita della normale modulazione legata alla pulsatilità cardiaca o alla fasicità respiratoria [Giess et al. 2002]. A livello addominale bisogna infine ricordare la possibilità di trombosi della vena renale, della vena cava inferiore in uno dei suoi tratti, delle vene sovraepatiche (sindrome veno-occlusiva) o delle vene del sistema portale (specie nei soggetti con coesistente epatopatia cronica) (Figg. 3.696-3.698). In alcuni casi si tratta di trombi maligni, legati all’infiltrazione tumorale, ma in altri casi di trombi benigni, prodotti dalla compressione, da disordini coagulativi o da procedure terapeutiche. Gli accessi venosi di uso oncologico, a breve o lungo termine, periferici o centrali (come i cateteri tunnellizzati ed i dispositivi totalmente impiantabili tipo
“port-a-cath”), costituiscono un presidio fondamentale per consentire un adeguato trattamento oncologico [Kuter 2004]. Le complicanze associate ai CVC possono presentarsi al momento del posizionamento o successivamente, hanno un’incidenza del 4-40% e sono numerose: malfunzionamento, distacco con embolizzazione distale, malposizionamento, stravaso del materiale iniettato, infezioni, trombosi del lume del catetere, trombosi venosa profonda comunque correlata al catetere, emorragia, pneumotorace [Gryn et al. 1992, Thomas et al. 1994]. Trombi si riscontrano nel 12-74% dei soggetti oncologici con CVC e determinano, oltre ad un funzionamento difficoltoso o impossibilitato del catetere, infezioni, embolia polmonare (11% dei casi, sintomatica solo nella metà), sindrome postflebitica (15-30%) [Kuter 2004]. L’US può
a Fig. 3.696. Trombosi spontanea della vena cava inferiore in paziente in trattamento per linfoma. Tessuto ipoecogeno nel lume cavale (frecce), determinante un difetto di vascolarizzazione all’ECD
b Fig. 3.698a, b. Sindrome VOD dopo trapianto di midollo osseo per linfoma. La vena porta mostra un flusso presente ed epatopeto ma centralizzato ed attenuato (a), con rallentamento identificato anche dallo spettro flussimetrico Doppler (b), con velocità media di 11cm/s Fig. 3.697. Trombosi portale. Il PD documenta un difetto luminale da trombosi benigna eccentrica a livello del tronco comune della vena porta
Capitolo 3 Le problematiche cliniche dimostrare vegetazioni più o meno ecogene adese al catetere oppure alla parete venosa oppure ampi fenomeni trombotici che conglobano il catetere ed obliterano completamente il lume vasale. I CVC aumentano il rischio di trombosi venosa e l’esplorazione US si deve focalizzare particolarmente sul vaso in cui dimora il catetere, cercando di rilevare un’obliterazione parziale o totale del lume venoso e di riconoscere l’apice di quest’ultimo ed il suo eventuale coinvolgimento da parte della trombosi (Fig. 3.699). Peraltro anche gli altri collettori venosi, omolaterali o controlaterali, vanno esplorati, poiché non di rado la trombosi riguarda anche o solo le vene estranee al decorso del CVC. La trombosi del lume del catetere centrale è invece di più difficile dimostrazione ecografica ma viene facilmente identificata sul piano clinico. Biso-
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b Fig. 3.699a, b. Trombosi venosa su catetere centrale. La sottile immagine a binario del catetere è conglobata nel materiale ipoecogeno che occupa il lume (a). L’ECD (b) dimostra i parziali difetti del segnale colore luminale
gna anche considerare come talora l’edema subentrato nella porzione superiore del corpo non sia legato a problematiche di malfunzionamento o trombosi del CVC ma alla stessa crescita tumorale, con sviluppo di una sindrome mediastinica “della vena cava superiore”. Per la rimozione del catetere è preferibile attendere la “maturazione” del focolaio trombotico, che diviene progressivamente più ecogeno. Un gruppo ampio di complicanze del paziente oncologico è costituito da quelle di tipo strutturale ed ostruttivo: idrocefalo, compressione midollare neoplastica, localizzazioni metastatiche mielo-midollari, sindrome della vena cava superiore, tamponamento cardiaco, emottisi e compromissione tumorale delle vie aeree, occlusione intestinale, ostruzione urinaria [Cervantes et al. 2004, Kwok et al. 2006]. Si tratta spesso di diagnosi cliniche o comunque di evenienze che esulano dalla diagnostica US. Un tamponamento cardiaco si determina quando il versamento pericardico causa un’instabilità emodinamica, come conseguenza di un’ostruzione al drenaggio linfatico (es. espansi mediastinici), di un’eccessiva secrezione liquida (noduli tumorali pericardici) o di cause non tumorali (infezioni, radioterapia, ipotiroidismo, ecc.) [Cervantes et al. 2004]. Anche l’approccio sottoxifoideo dell’ecografista non cardiologico può essere sufficiente a dimostrare una quantità significativa di versamento pericardico, che tuttavia non ha valore in senso assoluto ma solo nel momento in cui determina alterazioni emodinamiche, dimostrabili chiaramente con l’ecocardiografia bidimensionale ed il color-Doppler [Cervantes et al. 2004]. L’US può anche guidare la pericardiocentesi d’urgenza. Per quanto riguarda l’occlusione intestinale da causa neoplastica, questa ripete la semeiotica US delle forme non neoplastiche nota dalla letteratura, con anse dilatate a monte dell’ostacolo ed anse collabite a valle di questo [Catalano et al. 1998]. Rilevando i diversi segmenti del piccolo e grosso intestino dilatati, l’esplorazione US deve cercare di raggiungere progressivamente la sede dell’ostacolo alla canalizzazione, al fine di confermarne la natura ostruttiva e definirne la causa. I tumori che causano occlusione sono comunque, generalmente, di dimensioni significative, e riconoscibili con la classica immagine a centro ecogeno e contorno ipoecogeno dello “pseudorene”. Una forma particolare di occlusione, direttamente legata al concetto di “massa”, è data dall’invaginazione intestinale: in questo caso l’US coglie molto bene, nei diversi piani di sezione, l’aspetto pluristratificato concentrico, ipoecogeno ed iperecogeno, determinato dall’insieme delle pareti dell’ansa invaginata e di quella invaginante nonché dal tessuto adiposo mesenterico coinvolto [Catalano et al. 1998, Gritzmann et al. 2003a]. Bisogna anche ricercare, con l’aiuto dell’ECD, l’eventuale presenza di segni di ipovascolarizzazione
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su base ischemica. La detezione e, tanto meno, la caratterizzazione della “massa” trainante (diverticolo di Meckel, polipi, lipomi, carcinomi, metastasi, etc.) non è sempre possibile. Tuttavia, nell’adulto, l’invaginazione riconosce praticamente sempre una causa organica macroscopica e quindi la sua individuazione deve sempre indurre ulteriori atti diagnostici e terapeutici. In determinati contesti clinici, come nel paziente con storia di melanoma, il riconoscimento di un’immagine di invaginazione è praticamente diagnostico per una metastasi intestinale. Nel paziente con occlusione da carcinosi peritoneale, le anse dilatate possono mostrare un ispessimento della sierosa su base infiltrativa ed è necessario inoltre ricercare gli altri segni di carcinosi quali i depositi del peritoneo parietale o delle capsule viscerali e gli ispessimenti di legamenti, mesi e omenti. Un’altra evenienza possibile nel soggetto oncologico è l’occlusione su base attinica, legata a trattamenti radioterapici soprattutto per neoplasie pelviche. In questi ultimi soggetti l’US mostra spesso anse dilatate e discinetiche più a monte, ed anse di calibro ipoperistaltiche ed a parete ispessita nel tratto infiammato endopelvico, e questo reperto può lasciar pensare ad uno stato occlusivo in atto, eventualmente con la sofferenza vascolare di un segmento intestinale; l’occlusione deve essere diagnosticata invece solo quando si osserva una netta transizione delle anse tra quelle dilatate e quelle collabite a valle del punto di stenosi. Il ruolo dell’US nelle occlusioni intestinali è di identificazione ma anche di graduazione dell’entità del quadro e quindi dell’urgenza di un suo trattamento. Bisogna tuttavia ricordare come nelle occlusioni maligne il versamento peritoneale, considerato nelle forme benigne un segno di “scompenso”, possa anche essere preesistente all’episodio di discanalizzazione e non essere direttamente correlato con questo. Per l’ittero ostruttivo si rimanda al paragrafo 3.23. Anche nel soggetto oncologico il primo ruolo dell’US è quello di confermare la natura ostruttiva dell’iperbilirubinemia e di rilevare la dilatazione delle vie biliari, ma un compito particolarmente importante è quello di definire il livello, oltre che la causa, dell’ittero. In questi soggetti, infatti, concomitano spesso diverse cause di ittero: un paziente con un tumore pancreatico avanzato che ostruisce il coledoco, ad esempio, può presentare anche linfonodi che comprimono la via biliare più a monte, sabbia biliare che ostruisce il lume epato-coledocico, metastasi epatiche che comprimono sull’ilo ed infine metastasi epatiche che contribuiscono all’iperbilirubinemia danneggiando il parenchima epatico stesso. L’ecografista deve cercare di comprendere quale sia la lesione maggiormente responsabile dell’ittero, al fine di scegliere tra i diversi approcci palliativi, percutanei o retrogradi endoscopici. L’ostruzione urinaria si determina soprattutto in pazienti con tumori uro-ginecologici (cervice e pro-
stata ma anche corpo uterino, ovaio, vescica) o con masse di varia origine, comprese le recidive pelviche delle neoplasie suddette, delle quali l’individuazione US di un’idronefrosi può rappresentare il primo elemento di sospetto. Nel soggetto oncologico si tratta di un’evenienza temibile, soprattutto perché non di rado l’ostruzione è bilaterale (o il rene controlaterale è stato già minato da un’idronefrosi pregressa) e perché il paziente spesso presenta altre cause di ridotta funzionalità renale, compresa la tossicità chemiocorrelata [Cervantes et al. 2004]. L’US costituisce chiaramente la metodica di scelta e deve identificare la presenza di una dilatazione della via escretrice superiore, definire la sede e la causa, riconoscere un’eventuale riduzione dello spessore parenchimale ed un’eventuale parzialità ostruttiva (persistenza del getto urinoso uretero-vescicale all’ECD) (Figg. 3.700-3.702). È
Fig. 3.700. Carcinoma della cervice uterina, determinante idrometra e dilatazione dell’uretere. All’interno dell’uretere dilatato si osservano sia un’immagine a binario da nefrostomia che del tessuto ipoecogeno (freccia) dovuto all’infiltrazione neoplastica. C, cervice; U, utero
Fig. 3.701. Ostruzione ureterale completa. Lo studio con ECD dimostra l’assenza a sinistra del getto urinoso uretero-vescicale
Capitolo 3 Le problematiche cliniche importante classificare l’idronefrosi nei gradi I-III e misurare il diametro A-P massimo del bacinetto e dell’uretere, soprattutto per il confronto con esami seriati e l’eventuale pianificazione di un trattamento percutaneo o endourologico. Bisogna anche ricercare segni di infezione della via escretrice stessa al di sopra dell’ostruzione o del parenchima renale, quali il contenuto corpuscolato dell’urina ristagnante, l’ispessimento delle pareti pielo-ureterali, i focolai parenchimali ipoecogeni disomogenei (eventuale ricerca di difetti di vascolarizzazione all’ECD). Dette evenienze devono essere ricercate anche nel paziente che è già portatore di stent. Un’evenienza non rara è l’infiammazione, più o meno diffusa, di segmenti del piccolo e/o del grosso intestino, con una particolare incidenza di forme necrotizzanti e di forme opportunistiche, ed è favorita dai trattamenti chemioterapici ed antibiotici (specie cefalosporine) prolungati; nell’enterite attinica la causa diretta è l’inclusione di segmenti intestinali nel campo d’irradiazione [Palmone et al. 2005]. La diagnosi è clinico-anamnestica ma l’US può avere un ruolo in termini di diagnostica differenziale. Soprattutto lo studio ad alta risoluzione con sonde superficiali consente di cogliere l’ispessimento parietale, diffuso e circonferenziale, la sostanziale conservazione della stratificazione murale e l’eventuale iperemia con l’ECD. Anche per le flogosi acute della colecisti e del pancreas la semeiotica è simile a quanto riconoscibile nel soggetto non oncologico. Segnaliamo tuttavia una discreta incidenza relativa di forma di colecistite alitiasica e soprattutto di pancreatite acuta. Una cistite emorragica, con sanguinamento anche massivo, si osserva soprattutto nei pazienti sottoposti a trattamento ad alte dosi e/o prolungato con farmaci quali ifosfamide o ciclofosfamide, oppure nei soggetti trattati, anche anni prima, con radioterapia esterna e brachiterapia per tumori del collo uterino (specie nelle donne isterectomizzate) [Cervantes et al. 2004]. La diagnosi è clinico-anamnestica, ma l’US può avere un ruolo in termini di diagnostica differenziale. Si osserva l’ispessimento parietale diffuso, massivo e disomogeneo dell’organo, che eventualmente può apparire anche di ridotta capacità (Fig. 3.703). L’US ha un ruolo importante, oltre che come guida a procedure diagnostiche e terapeutiche percutanee nel paziente oncologico, anche per il controllo successivo e la detezione di complicanze legate alle procedure interventistiche (cfr. Capitolo 4). L’US è anche importante nella ricerca delle complicanze postoperatorie (Fig. 3.704). Il soggetto oncologico ha una maggiore probabilità di sviluppare complicanze postoperatorie, quali gli ascessi, a causa della maggiore estensione degli interventi chirurgici e, spesso, della diminuzione delle capacità di risposta. Nel controllo del paziente oncologico operato è necessario che l’e-
Fig. 3.702. Idronefrosi da sarcoma retroperitoneale. Massa lombare che disloca l’uretere anteriormente (frecce) e determina dilatazione del tratto pielo-ureterale a monte
Fig. 3.703. Cistite da chemioterapico. Marcato ispessimento diffuso della parete vescicale
Fig. 3.704. Peritonite dopo isteroannessectomia. Multiple lacune ipo-anecogene (frecce) tra le anse intestinali, con contenuto a tratti corpuscolato e qualche sottile tralcio ecogeno interno
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Fig. 3.705. Cavo residuo dopo metastasectomia epatica. Area ipoecogena fluida nella sede della pregressa enucleazione chirurgica, da non confondere con una raccolta postoperatoria
cografista sia a conoscenza dei dettagli relativi all’intervento praticato, del tempo trascorso tra intervento ed esame ecografico e dell’eventuale presenza di segni di infezione o di anemizzazione. L’ecografista deve inoltre avere esperienza dei reperti postoperatori “fisiologici”: nella ricerca di raccolte liquide bisogna sapere che la presenza di materiale più o meno denso nella sede del focolaio chirurgico resettivo, ad esempio epatico, deve essere considerata normale, mentre ben altro peso ha una raccolta subfrenica, specie se rilevata a distanza di giorni dall’intervento (Fig. 3.705). Sia le raccolte liquide che le falde di versamento diffuso devono essere per quanto possibile misurate e quantificate, ciò anche al fine del monitoraggio seriato (specie se non è sempre lo stesso operatore a valutare il paziente!) e dell’eventuale decisione diagnostico-terapeutica (aspirazione, drenaggio, ecc.).
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Interventistica oncologica ecoguidata
4.1. L’ecografia come guida alle procedure interventistiche Grazie ai progressi delle moderne metodiche di imaging, è oggi possibile ottenere un’affidabile caratterizzazione non invasiva della maggior parte delle lesioni focali. In generale è sempre preferibile giungere ad una diagnosi con le metodiche diagnostiche (radiologiche ma anche medico-nucleari, endoscopiche, laboratoristiche, ecc.) che non con il prelievo citologico o istologico, sebbene talora questo possa evitare una “spirale” eccessiva tra le diverse metodiche di imaging, con il consumo di tempo ed i costi connessi. In molti casi, tuttavia, è ancora necessario ottenere una diagnosi istologica o quantomeno citologica di malignità, per un’appropriata gestione del paziente; ciò anche per motivazioni di tipo medico-legale, quando ci si accinge a trattamenti chemioterapici, radioterapici e/o chirurgici. Bisogna anche ricordare che in molte circostanze l’acquisizione di materiale cito- o istologico non ha come fine la diagnosi, già nota, quanto la necessità di ottenere altre informazioni importanti per l’inizio o il prosieguo della terapia, quali il tipo istologico, il grado della neoplasia, oppure i suoi aspetti biochimici e funzionali. Queste procedure di prelievo richiedono, solitamente, la guida delle metodiche di diagnostica per immagini per raggiungere con precisione e sicurezza la lesione. Per le lesioni superficiali palpabili le procedure percutanee, quantomeno la FNAC, possono essere praticate invero anche senza la guida della diagnostica per immagini ma questa diviene assolutamente necessaria quando si tratta di lesioni profonde. La modalità non imaging-assistita risulta più rapida ed economica ed è largamente impiegata soprattutto per la tiroide. Tuttavia, per tumefazioni palpabili, può essere preferibile, o indispensabile, l’ausilio delle metodiche di imaging ed in particolare dell’ecografia. L’US risulta utile innanzitutto per una valutazione preliminare di una lesione, confermandone l’effettiva presenza a livello di una “tumefazione palpabile” e dirimendo facilmente le tumefazioni da non aspirare
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(aneurismi!). Inoltre, la guida ecografica consente di definire i rapporti con le strutture anatomiche poste intorno o in profondità rispetto alla lesione (vasi, polmone, ecc.), di aspirare anche lesioni mobili sotto le dita, di fare prelievi multipli in punti diversi della lesione (evitando anche aree necrotiche o cistiche). In uno studio sulla FNAC dei linfonodi cervicali, ad esempio, l’impiego della procedura ecoguidata determinava percentuali di falsi positivi dell’1% e di falsi negativi dell’1% a confronto del 5 e 8% rispettivamente per la procedura senza guida US [Baatenburg de Jong et al. 1991]. Escludendo le aree poco o nulla accessibili agli ultrasuoni, quali cranio, ossa e torace, tutte le altre regioni corporee vengono preferenzialmente raggiunte con la guida US. Rispetto alla TC ed alla RM, l’US è disponibile più ubiquitariamente, è più rapida, è più flessibile nelle applicazioni, è più economica, e soprattutto ha il considerevole vantaggio di essere in tempo reale, con possibilità di continuo monitoraggio sia dell’ago, che della lesione, che delle strutture viciniori, e di esserlo in maniera multiplanare. I bersagli in movimento pongono quindi problemi minori rispetto a quanto non avvenga con la guida TC o RM. Rispetto in particolare alla TC, l’US non impiega radiazioni ionizzanti né mdc iodati. È anche opportuno ricordare che l’US è l’unica metodica di guida trasportabile, e quindi sfruttabile per atti diagnostici o terapeutici sia al letto del paziente che in sala operatoria. La possibilità di ruotare ed angolare la sonda relativamente a piacimento consente un ottimale inquadramento delle lesioni piccole e profonde e quindi permette di seguire la punta dell’ago durante la procedura. A livello epatico, ed in generale delle strutture addominali accessibili agli ultrasuoni, è preferibile la guida ecografica rispetto a quella TC o RM ogni qualvolta che la lesione sia adeguatamente visualizzata all’US. L’US si è dimostrata particolarmente utile nell’esecuzione di biopsie per lesioni epatiche di piccole e piccolissime dimensioni [Middleton et al. 1997, Yu et al. 2001]. In particolare per le lesioni epatiche subfreniche, che in TC richiederebbero un approccio angolato, viene preferita la guida US. In ge-
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Ecografia in oncologia
nerale, compatibilmente con la preferenza del singolo operatore, la guida TC viene riservata a surreni, linfonodi profondi ed eventualmente pancreas, nonché alle lesioni non identificabili all’US. Quando la lesione, in particolare a livello epatico, risulta poco o nulla visibile all’US, è possibile metterla in evidenza sfruttando la CEUS, che aumenta il contrasto lesione-parenchima [Skjoldbye et al. 2002, Solbiati et al. 2004]. In alternativa sono stati proposti dei sistemi di navigazione nei quali un volume acquisito con TC o RM, le cui immagini vengono inserite nell’apparecchiatura di supporto all’ecografo, viene sfruttato per guidare il centraggio US “virtuale”, sia ai fini del prelievo che dell’ablazione percutanea: ciò consente di non rinunciare ai notevoli vantaggi della guida ecografica anche quando questa non riesce a visualizzare la lesione [Hirooka et al. 2006]. A livello mammario, come guida alle procedure di core biopsy o di vacuum biopsy, l’US si deve confrontare con la mammografia. La biopsia mammografica stereotassica, tuttavia, comporta l’impiego di radiazioni ionizzanti, richiede sistemi dedicati prontamente disponibili, provoca un maggior disagio per la paziente, non consente di raggiungere tutte le aree (es. prolungamento ascellare), non permette di visualizzare in tempo reale sia la lesione che l’ago, e risulta più lunga e costosa. Bisogna anche ricordare che la guida stereotassica è fondamentalmente monodirezionale, laddove in US è possibile angolare a piacimento la sonda, ed eseguire le biopsie multiple secondo diverse traiettorie [Crystal et al. 2005]. Il vantaggio fondamentale della guida stereotassica è la possibilità di impiego nel caso di microcalcificazioni, indicazione importantissima e di per sé spesso non accessibile alla guida US; bisogna comunque segnalare che, se opportunamente guidata dalla mammografia, l’US può in qualche caso identificare cluster di microcalcificazioni non associate a noduli e consentirne quindi la biopsia ecoguidata [Soo et al. 2003]. Negli altri casi la guida mammografica dovrebbe essere riservata soprattutto alle lesioni non adeguatamente accessibili a quella ecografica. La guida US risulta di impiego difficoltoso o impossibilitato nel caso di masse toraciche che non raggiungono la base del collo o la parete toracica ed in ogni caso in cui vi è uno strato d’aria interposto (polmone!). A livello delle estremità l’US costituisce la guida di gran lunga più utilizzata, per i prelievi delle lesioni solide dei tessuti molli e per il drenaggio di raccolte (inguine, coscia, ascella, gluteo, ecc.) [Wu et al. 1998]. Anche le lesioni ossee superficiali o di segmenti sottili (es., coste) possono essere raggiunti con la guida dei ultrasuoni, così come le aree di diffusione nei tessuti molli dei tumori ossei. Le varie procedure diagnostiche e terapeutiche
possono essere attuate a mano libera, oppure sfruttando costantemente la guida della sonda ecografica ma senza vincolo tra ago e sonda (tecnica ecoassistita) o anche vincolando l’ago alla sonda (tecnica propriamente ecoguidata), che può essere del tipo normale utilizzato in diagnostica oppure dedicata. In generale, nessuna di queste opzioni è superiore alle altre e molte volte la scelta dipende dalla preferenza del singolo operatore; sarà poi il risultato in termini di “giudizio patologico” a decretare la correttezza della procedura di volta in volta utilizzata. Nella modalità a mano libera, utilizzata per bersagli grossi e superficiali, ci si limita a localizzare ecograficamente l’area da raggiungere, a misurarne la profondità, a marcarne sulla cute il punto corrispondente e poi, senza ausilio dell’US, a procedere con la puntura: l’ago è quindi svincolato dalla sonda. La tecnica ecoassistita impiega le sonde normalmente utilizzate per la diagnostica, per monitorizzare costantemente la progressione dell’ago (Fig. 4.1, Video 4.1). Soprattutto per la FNAC di strutture superficiali, infatti, si può impiegare la sonda solo per assistere “ecoscopicamente” la procedura, senza alcun supporto porta-ago: si mantiene la sonda con una mano e l’ago con l’altra e poi si spinge l’ago subito lateralmente alla sonda stessa (approccio coassiale), con un’inclinazione variabile in dipendenza della profondità che si intende raggiungere e delle eventuali strutture sensibili poste lateralmente al bersaglio. Più superficiale è la lesione e maggiore deve essere l’angolazione dell’ago rispetto alla sonda (quindi la penetrazione dell’ago stesso in profondità, andandosi a localizzare proprio al di sotto della sonda); quando la lesione è posta in profondità, l’ago viene angolato di meno, e viene disposto anche un po’ lateralizzato rispetto al centro del fascio ultrasonoro. Un’alternativa è data dall’approccio tangenziale, in cui si cerca di procedere con l’ago in una direzione perpendicolare rispetto al fascio ultrasonoro, e quindi alla posizione della sonda sulla cute: in questo caso la visualizzazione dell’ago e della sua punta può essere più difficoltosa, specie nel primo tratto della penetrazione; quest’approccio tuttavia può consentire di evitare strutture anatomiche profonde a rischio (es. superficie pleurica nel caso delle lesioni mammarie) e può eventualmente permettere di utilizzare aghi brevi anche per strutture che, raggiunte perpendicolarmente, richiederebbero invece aghi lunghi, passibili di maggiore deformazione e deviazione nel penetrare i tessuti, specie profondi. Sperimentalmente si è visto che le condizioni ottimali per una puntura ecoassistita efficace e sicura sono rappresentate da una distanza tra sonda e ago di 2-3 cm in combinazione con un’angolazione tra gli stessi di 55-60°: ciò permette una precoce e agevole visualizzazione della punta dell’ago unitamente ad un breve percorso dell’ago stesso [Bradley 2001]. Nella tecnica
Capitolo 4 Interventistica oncologica ecoguidata Fig. 4.1. Procedura percutanea ecoassistita. L’ago è svincolato dalla sonda che serve solo a verificare la correttezza della traiettoria e la posizione dell’ago nel bersaglio. In questo caso l’approccio è tangenziale
ecoguidata si utilizzano dei piccoli adattatori di guida porta-ago (kit bioptico), inseriti lateralmente alla sonda, diversi a seconda dell’angolazione che si intende ottenere oppure dotati della possibilità di variare l’angolo stesso. Il calibro del canale del dispositivo dipende da quello dell’ago da impiegare. Quest’ultimo è così vincolato alla sonda e ciò richiede una corrispondenza tra la traccia elettronica predisposta sul monitor ed il tragitto dell’ago, inevitabilmente obliquo per poter rientrare nel campo di vista [Parlato et al. 2006]. Sull’ecografo è infatti possibile selezionare un angolo di traiettoria corrispondente all’adattatore prescelto e sul monitor appaiono una o più linee punteggiate che indicano il percorso esatto da far compiere all’ago; questi dispositivi vincolanti si utilizzano soprattutto per le strutture profonde, poiché aumentano la precisione del prelievo e riducono il problema della deviazione dell’ago lungo il tragitto anche se, al medesimo tempo, diminuiscono le possibilità di correzione della traiettoria dell’ago stesso (sebbene l’ago possa anche essere sganciato e riangolato nel suo decorso) ed inoltre non danno la possibilità di seguire l’ago nei primi centimetri della sua progressione e di pungere strutture particolarmente superficiali (Fig. 4.2); data la maggiore obliquità di traiettoria rispetto all’approccio tangenziale, questi sistemi richiedono inoltre aghi più lunghi [Parlato et al. 2006]. Una modalità ecoguidata alternativa è di utilizzare delle sonde speciali, dedicate appunto alle procedure interventistiche, che hanno un foro centrale o un canale eccentrico per far passare l’ago: il sistema sonda-ago, peraltro piuttosto ingombrante e poco adattabile alle regioni curve della superficie cutanea, è quindi coassiale, molto preciso rispetto a ber-
sagli anche piccoli e profondi, con scarse probabilità che il sistema subisca deviazioni. Almeno per alcuni modelli di sonda, tuttavia, non vi è la possibilità di angolare l’ago rispetto al fascio ultrasonoro, cosa che può essere di ostacolo qualora si debbano evitare determinate strutture anatomiche [Torzilli et al. 1997, Wojtowycz 1995]. Sperimentalmente, con le sonde forate internistiche, è stata riscontrata una seppur modesta distorsione dell’immagine, della quale l’operatore deve tenere conto durante le procedure di centraggio diagnostico o terapeutico delle lesioni: con le sonde forate al centro, si è riscontrato un errore di posizionamento, legato alla geometria del trasduttore, da -10,9 a 3,8 mm, e uno scostamento da -11,3 a 3,8 mm con i sistemi ad attacco laterale. Di conseguenza, con l’uso di sonde forate si raccomanda, per le punture epatiche in generale, l’uso di sonde ad ampio raggio, con l’angolo di puntura più ottuso possibile; per le lesioni della cupola epatica è consigliato invece l’impiego di sonde a curvatura più stretta con un angolo più acuto [Konno et al. 2003]. Gli aghi vengono utilizzati sia per prelievi diagnostici, che per aspirazioni terapeutiche di liquidi che, infine, per iniezione di sostanze terapeutiche. Gli aghi possono essere genericamente classificati in rapporto: al calibro, in sottili e grossi; al tipo di punta, in trancianti e non trancianti; al meccanismo d’azione, in manuali, semiautomatici ed automatici. Per quanto riguarda il calibro (diametro esterno) gli aghi vengono distinti in sottili se <1 mm (20 G o superiori) e grossi se >1 mm (21 G e inferiori). In generale, gli aghi sottili non trancianti vengono utilizzati per i prelievi citologici, quelli di calibro maggiore non trancianti per drenaggi di raccolte e quelli trancianti per
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Ecografia in oncologia
a
b Fig. 4.3. Aghi trancianti. Differenti tipologie della punta per aghi trancianti, con superficie tagliente apicale o laterale
Fig. 4.2a, b. Procedura percutanea ecoguidata. L’ago è vincolato alla sonda con un dispositivo dedicato (a). La puntura di un bersaglio particolarmente superficiale (b) può essere tuttavia meglio condotta svincolando l’ago
biopsia. Esiste sicuramente una correlazione tra calibro e accuratezza diagnostica, ma anche tra calibro e complicanze: la scelta dipende da molti fattori, quali l’indicazione al prelievo o alla puntura, il tipo di materiale atteso, l’esperienza e confidenza dell’operatore, la preferenza del patologo, il grado di collaborazione del paziente, la presenza di fattori di rischio (es. diatesi emorragica). Gli aghi non trancianti presentano una punta a becco di flauto, di diversa angolazione in base al modello ma generalmente da 25-30°, che agiscono non tanto tagliando i tessuti, bensì scollan-
doli; ne sono esempi l’ago di Chiba e gli aghi spinali. Gli aghi trancianti agiscono per un meccanismo di taglio, essendo dotati di un mandrino, estraibile o meno, conformato a punta conica, a corona o obliqua, con angolazione variabile da 45 a 90°, che permette la penetrazione nei tessuti, eventualmente anche grazie ad un meccanismo di tipo rotatorio (Fig. 4.3). Quelli trancianti di calibro minore (18-22 G) hanno un mandrino estraibile ed una siringa per l’aspirazione del materiale; ne sono esempi l’ago di Greene, quello di Franseen, quello di Otto, quello di Madayag, il Surecut ed il Menghini modificato; lo stiletto può anche raggiungere lo stantuffo della siringa, come nell’ago di Menghini modificato, di modo che il frustolo resti nell’ago e non si frammenti nella siringa (Fig. 4.4). Gli aghi trancianti di grosso calibro, come il TruCut, il Lee, il Westcott ed il Menghini (14-19 G), hanno una conformazione uguale a quella dei trancianti sottili oppure hanno dei meccanismi tipo ghigliottina, per cui una cannula scorrevole seziona il tessuto accolto in un incavo del mandrino (Fig. 4.5). Vi sono anche aghi trancianti connessi a dispositivi automatici, come le “pistole” per biopsia, dotati di un meccanismo a molla che permette all’ago di scattare e tranciare rapidamente il tessuto. I sistemi a pistola permettono una semplice e rapida esecuzione del prelievo e consentono di ottenere significative quantità di tessuto, anche meno degradato da frammentazioni rispetto agli aghi convenzionali; in questo caso la punta della cannula viene avanzata sino al margine superficiale
Capitolo 4 Interventistica oncologica ecoguidata
a
b
a
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b Fig. 4.4a, b. Ago per biopsia. Sistema con siringa premontata, da 17 G, della lunghezza di 20 cm. Immagine con ago separato dal mandrino (a) e con ago montato (b)
del bersaglio e poi l’ago viene fatto “scattare” all’interno (Fig. 4.6). La scelta del calibro dei trancianti dipende soprattutto dalla patologia che si deve valutare e quindi dalla quantità di materiale di cui necessita il patologo [Parlato et al. 2006, Torzilli et al. 1997, Wojtowycz 1995]. La presenza dell’ago all’interno dell’area da campionare deve essere costantemente verificata, sfruttando il real time della metodica. In generale, se l’allineamento sonda-ago è corretto, la visualizzazione ecografica dell’ago è buona anche se non paragonabile con quella ottenuta in TC o radioscopia: un’eventuale obliquità dell’incidenza ago-fascio ultrasonoro può essere verificata osservando l’orientamento della parte dell’ago ancora esterna al paziente rispetto alla sonda. Se non si vede la punta dell’ago, anche dopo aver variato la posizione della sonda, si può ricorrere ad alcuni espedienti: si possono eseguire dei piccoli movimenti continui avanti e indietro, al fine di visua-
Fig. 4.5a–c. Ago tranciante, meccanismo d’azione. Con un sistema “a ghigliottina” l’estremo dell’ago viene posto sul versante superficiale del bersaglio (a), per poi scattare in avanti, sezionare un frustolo tissutale ed aspirarlo (b, c)
Fig. 4.6. Pistola automatica. Sistema a pistola multiuso con ago tranciante dedicato da 14 G. Il dispositivo è illustrato sia assemblato all’ago che separato da questo e con visione del meccanismo interno. Il disegno del riquadro mostra la conformazione della punta tranciante
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lizzarla, oppure si possono imprimere dei movimenti di va e vieni con lo stiletto, lasciando l’ago propriamente detto nella sua sede, o ancora si possono introdurre minime quantità di aria o di soluzione fisiologica al fine di generare degli echi [Wojtowycz 1995]. Peraltro, gli aghi dedicati presentano di solito delle guarnizioni o scanalature della superficie distale, che ne incrementano l’ecogenicità e che risultano particolarmente utili nelle condizioni di angolazione non ottimale dell’ago (20°). Sono stati anche proposti dei sistemi con trasmettitori elettrici alla punta, i quali tuttavia hanno avuto una scarsa diffusione [Hopkins et al. 2001]. L’impiego delle modalità 3D e 3D in “tempo reale” (4D) può essere utile (nel 34% dei casi in una recente casistica), sia a livello superficiale che profondo, per una migliore definizione ecografica della procedura, ed in particolare dell’orientamento spaziale dell’ago e della lesione; si utilizzano le immagini multiplanari oppure una combinazione di immagini tomografiche e di immagini in volume rendering [Albrecht et al. 2006]. Anche l’imaging armonico ed il compound permettono spesso una migliore definizione dell’ago ed in generale risultano di aiuto nelle procedure interventistiche a carico delle strutture superficiali. Soprattutto all’interno di versamenti e raccolte liquide l’ago è riconoscibile come un doppio eco lineare. Le sonde non disinfettabili devono essere ricoperte da guaine o sacchetti di plastica sterili, con gel ecografico all’interno. In alternativa la sonda viene disinfettata, di solito con pulitura meccanica e poi trattamento con aldeide in soluzione. Il cavo della sonda viene rivestito da una lunga guaina di plastica sterile. In generale è importante la sterilità del campo e dei materiali impiegati. Per lo scorrimento della sonda sulla cute, per questa ed altre procedure percutanee, può essere utilizzato lo stesso disinfettante liquido oppure del gel sterile specifico, più costoso ma che consente una migliore visualizzazione ecografica. Per tutte le modalità diagnostiche e terapeutiche di seguito descritte è necessaria una procedura di consenso informato, nonché un’adeguata anamnesi al fine di valutare i rischi specifici della procedura (disordini coagulativi, ecc.) e l’eventuale allergia ai materiali utilizzati (anestetico locale, sedativo, ecc.).
4.2. Ago-aspirato. Strutture superficiali Per ago-aspirato (FNAC) si intende il prelievo di materiale con un ago sottile (massimo 20 G, quindi un diametro esterno <1 mm) al fine di valutarlo dal punto di vista citologico (per questo, il termine di biopsia con ago sottile e l’acronimo correlato di FNAB, seppur diffusi nella pratica, andrebbero evitati), nonché
citochimico ed immunocitochimico. I tumori maligni, specie se con scarso stroma, sono particolarmente ricchi di materiale cellulare e quindi l’analisi di queste cellule è generalmente sufficiente per una diagnosi di natura. La FNAC è anche sufficiente, generalmente, per una diagnosi di recidiva tumorale o di metastasi da tumore primitivo noto [Orsi et al. 2004]. Generalmente non si utilizza alcuna anestesia locale, limitandosi ad una disinfezione della cute (possibilmente, clorexina ed etanolo) [Orsi et al. 2004]. Applicando una compressione con il trasduttore è possibile cercare di ridurre la distanza cute-bersaglio e quindi l’entità dell’escursione dell’ago. Il prelievo può essere effettuato utilizzando il solo ago, un semplice ago da siringa per prelievo, con calibro variabile da 21 a 27 G (generalmente, 21-23 G): in generale, maggiore è il calibro e maggiore è la quantità di materiale cellulare prelevato, ma maggiore può anche essere la quota ematica nel prelievo. Si può sfruttare la sola diffusione passiva del materiale all’interno del lume dell’ago (capillarità), possibilmente compiendo multipli e rapidi movimenti di va e vieni nelle diverse angolazioni (tecnica multidirezionale), ed attuando contemporanei movimenti di rotazione; ciò anche allo scopo di campionare tutte le aree della lesione, che può avere diversa distribuzione delle cellule tumorali, o di cellule tumorali a diverso grado di dedifferenziazione. L’accuratezza del prelievo è notevolmente influenzata dal numero e dall’ampiezza delle escursioni dell’ago [Parlato et al. 2006]. Appare ben chiaro, peraltro, che la guida US consente anche di mirare verso la parte più sospetta di una lesione focale, di un’area patologica o di un linfonodo. In alternativa, si può esercitare un’aspirazione attiva con una siringa da 5-20 ml collegata all’ago (maggiore la siringa, maggiore la suzione), con l’ago fermo o sottoposto a piccoli movimenti avanti e indietro, interrompendo poi delicatamente la suzione e ritirando l’ago; l’ago non viene ritirato in aspirazione sia per evitare di prelevare materiale inquinante lungo il tragitto, sia per evitare di danneggiare la qualità del materiale prelevato con una suzione eccessiva (Fig. 4.7). Alcuni operatori ricorrono all’aspirazione attiva solo quando, per capillarità, non si osserva materiale che giunge nella porzione trasparente della siringa. Si possono anche impiegare sistemi di aspirazione a distanza, mediante siringhe o pompe dedicate; in generale, comunque, i sistemi di aspirazione forzata possono aumentare la quantità di materiale prelevato ma possono al tempo stesso danneggiare la qualità delle cellule e aumentare la quota ematica [Wojtowycz 1995]. Soprattutto nelle lesioni o negli organi molto vascolarizzati (es. tiroide e paratiroidi) è preferibile non mantenere a lungo l’ago all’interno dei tessuti poiché altrimenti aumenta significativamente la quota ema-
Capitolo 4 Interventistica oncologica ecoguidata
Fig. 4.7. Ago-aspirazione. Suzione con lo stantuffo della siringa associata a movimenti di rotazione e di “va e vieni” dell’ago
tica del campione ed il sangue, alla lunga, rischia di coagulare. Nelle masse più voluminose, superficiali ma anche profonde, è preferibile campionare più in periferia, poiché gli eventuali fenomeni di necrosi centrale possono ridurre la cellularità del materiale prelevato. In questo può essere poi di ausilio l’ECD che, oltre ad offrire una mappa vascolare dei tessuti da attraversare e quindi permettere una migliore rilevazione dei vasi importanti contigui alla lesione, consente di indirizzare il prelievo verso le regioni più vascolarizzate e quindi, presumibilmente, più ricche di materiale utile ai fini diagnostici. Ciò vale anche per le biopsie. Un allestimento corretto dei vetrini è fondamentale. L’anatomopatologo deve poter disporre di tutte le informazioni relative alla storia clinica del paziente, di modo da utilizzare colorazioni o analisi citochimiche particolari, se necessarie. Per l’allestimento di ago-aspirato il materiale viene depositato immediatamente all’estremità di alcuni vetrini porta-oggetto puliti ed eventualmente trattati con soluzione solfocromica aderente, mediante l’aspirazione di una minima quantità di aria con una siringa che viene poi attaccata all’ago e utilizzata così per far fuoriuscire il materiale dall’interno dell’ago stesso, posto quasi a contatto con il vetrino; in aggiunta si può picchiettare con il cono porta-ago su di un vetrino per prelevare ogni residuo, oppure far passare nel lume dell’ago
il suo eventuale stiletto, o un altro ago più sottile, oppure, ancora, farvi fluire una soluzione fisiologica eparinizzata [Parlato et al. 2006]. Il materiale viene quindi immediatamente strisciato, in maniera delicata ma precisa e uniforme, mediante un altro vetrino porta-oggetto, angolato di circa 10° rispetto al primo su cui è stato deposto il materiale stesso. In genere, si lascia asciugare il vetrino all’aria (o lo si fissa in metanolo) per la colorazione panottica secondo MayGrünwald-Giemsa (oggi in parte sostituita dalla DiffQuick) oppure, specie qualora siano necessarie valutazioni immunoistochimiche, lo si fissa immediatamente con immersione in etanolo al 95% (10-15 min in appositi contenitori chiusi) o con spray per la colorazione di Papanicolaou o per colorazioni speciali; peraltro, gli spray determinano una fissazione non uniforme, con possibili artefatti, e vengono quindi sconsigliati dai patologi [Orsi et al. 2004]. Quando il materiale prelevato è particolarmente abbondante, prima di strisciarlo sui vetrini è possibile depositarne la parte più consistente in un blocchetto di paraffina (“cell block”) e poi tagliarlo con il microtomo: questo sistema di “citoinclusione” consente di ottenere qualche informazione di tipo tissutale a partire dall’agglomerato di cellule povero di stroma ottenuto. Nel caso di materiale prevalentemente liquido questo viene deposto delicatamente sottoforma di gocce sul vetrino porta-oggetto e poi viene strisciato, mentre il fluido residuo viene raccolto in una provetta contenente un prefissativo (metanolo al 50%) ed immediatamente inviato al laboratorio ove esso viene sottoposto a trattamento in centrifuga ed il sedimento risultante analizzato [Parlato et al. 2006]. Nel caso di un prelievo microistologico con ago tranciante il frustolo tissutale ottenuto viene fissato con formalina tamponata al 10% per un tempo massimo di 4 ore e poi disidratato ed incluso in paraffina [Livraghi et al. 1997, Parlato et al. 2006]. Durante l’allestimento si possono verificare diversi inconvenienti. Un’eccessiva quota ematica può diluire la cellularità, rendendo il materiale citologico insufficiente ai fini di una conclusione diagnostica. Inoltre bisogna evitare che il materiale sia contaminato da gel ecografico o da liquido di disinfezione cutanea, poiché ciò provoca il deterioramento delle cellule [Orsi et al. 2004]. Vi possono anche essere artefatti legati ad una procedura di striscio non corretta. È preferibile confermare immediatamente l’adeguatezza del prelievo, e cioè la presenza nel materiale di cellule da analizzare, con una colorazione rapida. In caso di inadeguatezza segnalata dal citopatologo si procederà ad un’aspirazione ripetuta. La presenza del citologo quindi è molto importante, riducendo il numero di prelievi inadeguati ed incrementando specificità ed accuratezza della metodica. In assenza di un anatomopatologo può essere preferibile eseguire
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FNAC multiple oppure ricorrere alla core biopsy, al fine di assicurarsi materiale più significativo. Le classi diagnostiche sono state standardizzate in particolare per la mammella: C1, materiale inadeguato per un giudizio diagnostico (scarsa cellularità, artefatti da allestimento improprio, ecc.); C2, reperto negativo per cellule maligne; C3, reperto dubbio ma probabilmente benigno da verificare per la presenza di atipie; C4, reperto sospetto - dubbio ma probabilmente maligno - con indicazione perentoria all’approfondimento; C5, reperto positivo per malignità (cellule inequivocabilmente maligne, eventualmente già riconoscibili a piccolo ingrandimento). La FNAC è gravata da un discreto tasso di risultati inadeguati, nei quali il materiale è insufficiente per offrire un risultato diagnostico. Bisogna anche ricordare che la FNAC è altresì gravata da una certa percentuale di falsi positivi e soprattutto di falsi negativi, per i quali quindi un risultato positivo appare altamente convincente nell’affermare la malignità di una lesione, mentre non altrettanto può sempre dirsi per uno negativo. Le complicanze delle FNAC superficiali sono molto limitate. Si possono verificare ematomi, specie nei soggetti con alterazioni coagulative, o infezioni; eccezionali sono i casi di seeding tumorale lungo il tragitto. La FNAC della mammella ha una sensibilità dell’83-98%, con una specificità del 93-97%; il tasso di risultati inadeguati varia dal 5 al 40% nei diversi centri ma è <10% in presenza di cancro; i falsi negativi, nelle lesioni subcentimetriche, variano dal 2 al 36%; la predittività della classe C5 per il carcinoma è >99%, ma i falsi positivi possono talora raggiungere il 6% e sono dovuti soprattutto alle lesioni proliferative atipiche. Un aspetto benigno di un nodulo mammario solido alla valutazione combinata con US, mammografia e FNAC virtualmente esclude la malignità [Bonifacino et al. 1997, 2005]. La diagnosi delle lesioni benigne risulta più difficoltosa ed in particolare l’identificazione di un tumore filloide è spesso non corretta. La FNAC si è dimostrata utile nel verificare lo stato dei linfonodi ascellari sia in fase di stadiazione del carcinoma mammario, allorquando il reperto US ascellare sia indeterminato, sia nel corso del trattamento neoadiuvante per un LABC [Krishnamurthy et al. 2002]. Una FNAC positiva su di un linfonodo ascellare identificato come sospetto dall’US consente di evitare la procedura del linfonodo sentinella. Le complicanze comprendono dolore, ematomi, infezioni, pneumotorace (lesioni profonde o lesioni in pazienti operate). Il seeding è raro, eccezionale con aghi sottili. La FNAC è praticamente parte integrante dell’approccio US alla problematica dei noduli della tiroide. Si tratta di una procedura economica, diffusa, di esecuzione semplice e sostanzialmente scevra da complicanze (dolore e piccoli ematomi); le descrizioni di
seeding tumorale dopo FNAC tiroidea sono eccezionali. Sebbene sia possibile pungere lesioni anche molto piccole, la FNAC tiroidea viene impiegata soprattutto per i noduli ipoecogeni >10 mm, o comunque nei noduli che per un motivo o per l’altro non possono essere considerati sicuramente benigni (e non siano “caldi” all’eventuale scintigrafia); i noduli <10 mm vengono aspirati soprattutto se vi sono linfadenopatie cervicali di origine ignota, in caso di lesioni multiple per programmare l’ampiezza di un’eventuale resezione chirurgica, nel caso l’analisi del pezzo operatorio di una resezione tiroidea parziale abbia dimostrato una neoplasia. I noduli palpabili possono anche essere punti a mano libera ma la guida ecografica è consigliabile dinanzi a noduli poco o nulla palpabili, piccoli, o che siano già stati punti senza guida US con risultati insoddisfacenti [Wong et al. 2005]. Si utilizzano solitamente aghi sottili non trancianti da 2225 G. La sensibilità oscilla tra il 65 ed il 98% e la specificità tra il 72 ed il 100% [Solbiati et al. 2001]. Peraltro il tasso di prelievi inadeguati è piuttosto consistente, potendo raggiungere il 34% [Orsi et al. 2004]. L’accuratezza predittiva preoperatoria è superiore al 90%, sebbene essa dipenda chiaramente dall’esperienza tanto del medico che esegue il prelievo, quanto del citologo che lo esamina [Walsh et al. 1999]. Generalmente la FNAC non è sufficiente per distinguere l’adenoma dal carcinoma follicolare. Falsi positivi sono riportati nello 0-7,1% dei casi. I falsi negativi, più frequenti (0,5-11,8% dei casi) possono essere ridotti con attente tecniche di ago-aspirazione, follow-up meticoloso e FNAC seriate: se l’ecografista osserva un nodulo con caratteristiche di sospetto in un paziente che riferisce già una FNAC negativa, può essere corretto che egli suggerisca la ripetizione del prelievo [Walsh et al. 1999, Wong et al. 2005]. Le paratiroidi vengono punte con aghi non trancianti da 21 o 22 G, specie nel caso vi sia un dubbio tra nodulo tiroideo esofitico e nodulo paratiroideo oppure nel caso di un iperparatiroidismo primitivo o secondario. Si possono verificare limitati ematomi intra- e perilesionali. Nei pazienti in emodialisi è preferibile non eseguire la puntura nella stessa giornata della seduta dialitica poiché questa richiede un trattamento anticoagulante. La FNAC dei linfonodi superficiali risulta accurata nella diagnosi di metastasi mentre non è sufficiente per le localizzazioni linfomatose. La guida US ed ECD indirizzerà verso i linfonodi più sospetti o verso la porzione più sospetta di linfonodi atipici. I limiti maggiori sono dati dai piccoli linfonodi e da quelli immediatamente adiacenti ai grossi vasi. A livello cervicale si riportano una sensibilità dell’89-98% ed una specificità del 95-98% [Rubaltelli et al. 2004]. Nel sospetto di un tumore maligno dei tessuti molli è necessario praticare una core biopsy (es. ago da 20
Capitolo 4 Interventistica oncologica ecoguidata G) mentre per la diagnosi di recidiva postoperatoria è generalmente sufficiente una FNAC (aghi da 18-25 G) [Alexander et al. 1997]. Nei sarcomi la cellularità è più scarsa che nei carcinomi e quindi l’allestimento corretto del materiale diviene ancor più fondamentale [Orsi et al. 2004]. La FNAC di lesioni ossee sospette per una natura metastatica viene di solito praticata con guida US, soprattutto a livello della gabbia toracica e del bacino, e si è dimostrata efficace, quando l’accessibilità delle lesioni è adeguata, con una sensibilità del 93% [Civardi et al. 1994].
4.3. Ago-aspirato. Strutture profonde La FNAC di organi toracici o addominali viene di solito eseguita in regime ambulatoriale. Si procede al reperimento della sede di accesso, alla sua sterilizzazione ed all’eventuale anestesia locale; quest’ultima viene utilizzata solo in alcuni casi, ad esempio quando si deve procedere per via intercostale, quando il paziente è particolarmente ansioso e nei bambini. La necessità di aghi lunghi, per raggiungere lesioni profonde, fa sì che non possano essere utilizzati i semplici aghi delle siringhe ma siano necessari aghi dedicati, neanche eccessivamente sottili altrimenti questi deviano la loro traiettoria lungo il percorso. Generalmente si utilizzano aghi tipo Chiba, mandrinati, da 21-22 G (eventualmente anche 20 o 23 G). Come parametri di sicurezza si considerano generalmente una conta piastrinica >40.000/mm3 (>50.000 nel caso dell’HCC su epatopatia cronica), un PT >40-50%, un PTT <45 s, un rapporto del PT <1,7 (<1,6 nel caso dell’HCC su epatopatia cronica), un tempo di sanguinamento <10 minuti [Maturen et al. 2006]. Peraltro, nel paziente in buone condizioni generali non sempre queste valutazioni laboratoristiche sono necessarie, essendo la probabilità di sanguinamento alquanto bassa. In caso di conta piastrinica particolarmente bassa, questa può essere corretta, così come un eventuale stato di deficitaria coagulazione, prima di eseguire la procedura (pappa piastrinica o plasma fresco congelato). Eventuali farmaci anticoagulanti vengono interrotti una settimana prima della procedura; una terapia antiaggregante viene spesso sospesa 2-5 giorni prima della procedura, sebbene in soggetti senza altri fattori di rischio essa possa anche non essere interrotta [Giorgio et al. 2003, Livraghi et al. 1997]. Un’antibioticoterapia viene utilizzata solo nei soggetti immunodepressi o quando vi sia un’alta probabilità di attraversare un campo settico, come nelle procedure transcoliche. In presenza di ascite marcata può essere opportuna una paracentesi prebioptica [Maturen et al. 2006]. La puntura di lesioni surrenaliche richiede, nell’eventualità di una lesione
funzionante, una premedicazione specifica (α- e βbloccanti come la fenossibenzamina ed il propanololo per il feocromocitoma) [Wojtowycz 1995]. Nell’eventualità di una cisti idatidea il rischio di anafilassi, anche in soggetti con titolo antigenico negativo, controindica solitamente la procedura, a meno che questa non abbia uno scopo terapeutico. È sempre corretto predisporre un accesso venoso periferico, soprattutto per le biopsie ma anche per le FNAC. Nei pazienti ansiosi può essere praticata una sedazione, ma in soggetti particolarmente agitati, o in caso di mancanza di un accesso sufficientemente sicuro, la procedura non dovrebbe essere praticata. Il digiuno non è necessario; per lesioni paracolecistiche può essere consigliabile indurre la contrazione del viscere con un pasto grasso. Si dirige la punta dell’ago sotto la guida degli ultrasuoni. Successivamente lo stiletto viene rimosso e si procede al prelievo, che può essere eseguito per capillarità oppure per aspirazione, quest’ultima praticabile manualmente o talora con appositi sistemi a pistola. In generale, comunque, si tende ad evitare eccessive aspirazioni attive, e piuttosto ad ottenere materiale abbondante e poco ematico mediante multipli passaggi endolesionali dell’ago. A rigore, è corretto praticare un rapido controllo ecografico dopo 20-30 minuti dalla procedura, per escludere un emoperitoneo. Per pazienti con uno stato coagulativo precario può essere preferibile una giornata di ricovero, con dimissione la mattina dopo [Giorgio et al. 2003]. Le complicanze maggiori ed il decesso dopo una FNAC profonda sono eventi rari ma possibili: con aghi da 20 G o meno si sono registrate, in ampie casistiche sulle procedure addominali, complicanze severe nello 0,04-0,05% dei casi e decessi nello 0,004-0,008%. Il rischio di emorragia aumenta, oltre che in relazione ad un deficitario stato coagulativo, nel caso di tumore ipervascolarizzato (HCC, angioma, angiosarcoma), organo molto vascolarizzato (milza), posizione superficiale della lesione, particolare estensione della malattia, decorso molto tangenziale dell’ago rispetto alla capsula dell’organo, impiego di aghi di grosso calibro (vedi core biopsy) e passaggi ripetuti [Livraghi et al. 1997]. Il seeding tumorale è molto raro: per l’HCC oscilla tra lo 0,6 ed il 5,1% [Maturen et al. 2006]. La FNAC imaging-guidata si è dimostrata efficace e poco invasiva nella diagnostica delle masse toracoaddominali profonde, risultando diagnostica nel 93% dei casi, con un’accuratezza del 100% nella distinzione benigno-maligno, del 54% nella caratterizzazione delle lesioni benigne e del 64% nella caratterizzazione delle lesioni maligne [Sheikh et al. 2000]. La diagnosi clinico-radiologica pre-FNAC è risultata corretta nel’80% delle lesioni maligne. I limiti maggiori sono risultati le dimensioni ridotte, le sedi ad accesso par-
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ticolarmente difficile e le lesioni linfomatose (per le quali è necessaria una biopsia). Per il fegato è consigliabile, se anatomicamente possibile, attraversare una certa porzione di parenchima sano, specie nella possibilità di un angioma, di un HCC o di una metastasi ipervascolare, al fine di evitare un eventuale sanguinamento post-procedura direttamente in cavità peritoneale. Dinanzi a focalità multiple è preferibile scegliere per la FNAC una lesione più profonda, eventualmente anche più piccola, piuttosto che una lesione sottoglissoniana (Video 2). Le lesioni del pancreas, se adeguatamente visualizzate all’US, vengono generalmente raggiunte per via anteriore diretta, poiché l’attraversamento di fegato, stomaco o colon non pone generalmente problemi; spesso tuttavia si preferisce la guida TC, specie per le possibili difficoltà con US nell’evitare le strutture vascolari peripancreatiche. La sensibilità della FNAC per la diagnosi di carcinoma pancreatico è del 67-90% ed i falsi negativi sono spesso dovuti alla reazione desmoplastica e flogistica talora intensa in questi tumori [Wojtowycz 1995]. Il tasso di inadeguati può essere notevole, sicuramente più che negli altri organi addominali [Orsi et al. 2004]. Le complicanze sono poco frequenti (<3%) e comprendono pancreatite acuta, setticemia ed eccezionalmente il seeding; a causa di quest’ultima evenienza, comunque, si preferisce evitare la FNAC nei pazienti ancora potenzialmente candidabili alla resezione chirurgica. La puntura della milza, nel passato considerata sconsigliabile per l’ipervascolarizzazione arteriosa dell’organo e la sottigliezza della sua capsula, può essere invece praticata con sicurezza, specie utilizzando aghi sottili (di solito, 22-25 G). Si preferisce la guida ecografica, con un accesso laterale a paziente nel decubito laterale destro o supino. L’indicazione maggiore è la lesione dubbia nel soggetto con neoplasia extrasplenica e la complicanza maggiore è l’emoperitoneo. I linfonodi addominali vengono aspirati soprattutto nel sospetto di una localizzazione metastatica, anche postoperatoria, nei pazienti con tumori gastrointestinali, urologici o ginecologici. Per la diagnosi di linfoma, in soggetto senza localizzazioni superficiali disponibili, è comunque necessaria la core biopsy, essendo la FNAC insufficiente. I surreni vengono generalmente punti sotto guida TC, specie se si tratta di piccole lesioni. È possibile seguire un approccio posteriore diretto, attraverso i muscoli paraspinali ed il grasso perirenale, con angolazione del tragitto, tuttavia, specie a sinistra per evitare il seno costo-frenico posteriore. In alternativa è possibile utilizzare un approccio laterale, destro o sinistro a seconda del caso, o anche transepatico, per la surrenale destra. L’indicazione maggiore è data dai casi con dubbia diagnosi differenziale tra lesione benigna e metastasi in un soggetto con un tumore ex-
trasurrenalico o, eventualmente, dal riscontro occasionale di una lesione surrenalica di dubbio aspetto; il valore predittivo positivo e negativo per la diagnosi di malignità è rispettivamente del 100 e 92%. Bisogna comunque ricordare che la diagnosi di adenoma o di iperplasia è difficoltosa con la semplice FNAC. Le complicanze della puntura surrenalica possono raggiungere il 13% dei casi e comprendono emorragia, pneumotorace e crisi ipertensiva; generalmente sono comunque di lieve entità ed autolimitantesi [Mitchell et al. 2007]. Le lesioni del rene non vengono generalmente bioptizzate, poiché sono di solito adeguatamente caratterizzate con l’imaging e quelle non chiaramente benigne richiedono in ogni caso una rimozione chirurgica. Può essere comunque indicato un prelievo in circostanze particolari: nel caso di dubbi diagnostico-differenziali (es. con flogosi focali o con angiomiolipomi); nella conferma di un RCC qualora si tratti di pazienti ad alto rischio chirurgico; nel soggetto con carcinoma renale metastatico per confermare la natura primitiva della lesione oppure nel sospetto di metastasi (es. d.d. metastasi-secondo tumore in un soggetto con eteroplasia extrarenale), nel sospetto di un linfoma (ma in questo caso si preferisce la biopsia istologica, vedi dopo) [Maturen et al. 2007]. Si procede con paziente nel decubito prono o laterale opposto, a seconda anche della posizione della lesione da raggiungere. Le lesioni ipervascolari vanno punte con cautela. Le complicanze oscillano tra lo 0 ed il 12% e comprendono ematuria (3-12%), ematoma intrarenale, sottocapsulare o perirenale, fistole artero-venose, seeding tumorale (Video 4.3). Nelle lesioni primitive e secondarie dell’intestino l’ago-aspirato viene generalmente praticato con aghi tipo Chiba, lunghi 11-15 cm e con un diametro di 22 G. Si praticano multipli passaggi, con l’ago diretto secondo un piano tangenziale alla parete intestinale, di modo da ottenere un campionamento ampio ma al tempo stesso da non violare l’integrità della superficie mucosa, con i conseguenti rischi sia di complicazioni che di inseminazione tumorale [Ledermann et al. 2001]. Se il prelievo per FNAC è insufficiente si procede ad eseguire 1-2 core biopsy, con aghi da 18 G. Utero e annessi possono essere punti per via sovrapubica (eventualmente anche transvescicale), transvaginale o transrettale, con aghi da 20-22 G. L’indicazione è data da masse pelviche di incerta natura o origine, dal sospetto di un’origine ovarica di una carcinosi peritoneale, dal sospetto di una localizzazione ovarica secondaria (es. da carcinoma gastrico) o dal dubbio di una recidiva postoperatoria di un tumore ginecologico (Fig. 4.8, cfr. anche Fig. 1.2). Le lesioni pelviche e retroperitoneali possono essere raggiunte, a seconda dei casi, sia per via anteriore che posteriore. Quelle pelviche possono essere rag-
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Fig. 4.8. Biopsia di massa annessiale. Visualizzazione della punta dell’ago (freccia) all’interno della formazione complex, a prevalenza liquida
giunte attraverso il forame ischiatico ed in particolare la sua porzione infero-mediale, subito lateralmente all’ala sacrale. Per le lesioni pelviche profonde è anche possibile ricorrere ad un approccio ecoguidato laterale basso attraverso il muscolo psoas oppure transrettale o transvaginale. Le masse toraciche vengono raggiunge di solito per via intercostale, scegliendo il decubito più idoneo (Video 4.4).
4.4. Core Biopsy. Strutture superficiali La vera e propria biopsia comporta l’acquisizione di una quantità maggiore di tessuto rispetto all’agoaspirato e quindi consente di condurre una valutazione microistologica anziché citologica del materiale stesso, con la possibilità anche di ottenere alcune informazioni sull’invasività e grado del tumore nonché di definirne determinati parametri biologici, istochimici ed immunoistochimici, importanti sia ai fini dell’eventuale terapia neoadiuvante che della formulazione prognostica (Fig. 4.9). Se quindi la FNAC ha fondamentalmente lo scopo di distinguere la benignità dalla malignità, la biopsia può trovare impiego in diverse condizioni: caratterizzazione di una lesione non sufficientemente definibile sul piano dell’imaging, valutazione del grado, del tipo istologico o delle caratteristiche biologiche di una lesione francamente neoplastica per impostarne il trattamento, valutazione di una particolare lesione dubbia in un paziente oncologico (es. d.d. metastasi-secondo tumore), valutazione della quota tumorale dopo il trattamento (residuo neoplastico, recidiva, ecc.). Rispetto alla FNAC, l’impiego di calibri meno sottili espone nelle biopsie superficiali e profonde (cfr. paragrafo 4.5) a minori rischi di inadeguatezza del
Fig. 4.9. Frustolo tissutale per microistologia. All’interno della provetta è visibile il materiale prelevato (frecce) con ago tranciante
prelievo (5,4% dei casi in un’ampia casistica multiorgano vs. 28,8% della FNAC), purché si compia un numero adeguato di campionamenti, ma comporta anche una maggiore invasività ed incidenza di complicanze [Orsi et al. 2004]. Se è quindi vero che la biopsia è tendenzialmente più costosa della FNAC ecoguidata, è anche vero che i costi possono invertirsi se il numero di risultati inadeguati della FNAC è elevato e pertanto una consistente quota di pazienti deve eseguire successivamente anche la core biopsy ecoguidata (che invece risulta solo raramente inadeguata, es. 1% delle biopsie mammarie). Un altro vantaggio della biopsia rispetto alla FNAC è di poter fornire materiale idoneo a valutazioni più approfondite della semplice (ma fondamentale!) distinzione benigno-maligno. L’esperienza dell’operatore è estremamente importante, ancor più che nella FNAC: il tasso di inadeguati dell’operatore poco esperto è doppio rispetto a quello dell’operatore con una pratica consolidata [Orsi et al. 2004]. In relazione anche con il calibro più o meno grande dell’ago, può essere necessario praticare un’anestesia locale prima della procedura (con spray anestetico o possibilmente con iniezione cutanea-sottocutanea di un anestetico - es. lidocaina 2%), un’incisione cutanea per favorire la penetrazione dell’ago tranciante (specie se di grosso calibro) e, dopo il prelievo, una compressione manuale della cute o l’applicazione successiva di ghiaccio secco. Alcuni Autori ricorrono alla sedazione e.v., ad esempio con fentanyl 25-100 μg e/o midazolam 0,5-2 mg [Maturen et al.
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2007]. È consigliabile lo iodopovidone per la disinfezione cutanea [Orsi et al. 2004]. Si possono impiegare sia aghi più sottili, tipo 21 G, che aghi trancianti di calibro maggiore, tipo 18 G, ma eventualmente anche fino a 14 G. La punta dell’ago viene posizionata sul margine anteriore della lesione; successivamente, nel sistema manuale, si estrae parzialmente il mandrino e l’ago viene fatto avanzare ed arretrare due volte all’interno della lesione, e successivamente estratto dopo un movimento di rotazione (per evitare l’ancoraggio del frustolo in profondità). In particolare per la mammella si impiegano anche aghi trancianti (14-20 G) con sistemi automatici o semiautomatici [Crystal et al. 2005]. Si esegue un numero di prelievi che varia nei diversi centri ma che generalmente è di almeno 3 (di solito 4-5, in relazione anche alle dimensioni della lesione, che se piccola richiede un maggior numero di campionamenti per evitare un’inadeguatezza del prelievo); tale numero consistente è ritenuto necessario per massimizzare l’accuratezza diagnostica della procedura. Esistono anche sistemi con aghi coassiali, meno utilizzati, in cui si impiega un ago introduttore esterno più largo, da lasciare in sede mentre con l’ago interno prelevatore si eseguono multipli campionamenti; ciò consente teoricamente di ridurre i rischi delle biopsie multiple, con ripetuti passaggi dell’ago, sia per quanto riguarda le complicanze meccaniche che per ciò che concerne il rischio di seeding tumorale [Maturen et al. 2007]. In alternativa è possibile utilizzare la tecnica tandem, ove si inserisce un primo ago, che viene lasciato in sede durante le successive biopsie ripetute, fungendo così da guida per l’introduzione degli aghi necessari. Il materiale viene fissato generalmente in formalina tamponata al 10%, compatibile con la maggior parte delle colorazioni routinarie e speciali, anche se non sempre ottimale per le analisi di tipo immunoistochimico [Orsi et al. 2004]. Altri fissativi utilizzati dal patologo sono rappresentati dalla soluzione di Carnoy (a base di acido acetico e cloroformio), dal B5 (formalina e cloruro di mercurio) e dal liquido di Bouin (acido acetico e acido picrico). Se il materiale è particolarmente abbondante, una parte può essere avvolta in carta stagnola e congelata mediante rapida immersione in azoto liquido, per eventuali ulteriori valutazioni, ad esempio di tipo istochimico o di biologia molecolare. La core biopsy ha dimostrato un’accuratezza elevata, sovrapponibile a quella della biopsia chirurgica, rispetto alla quale è chiaramente meno invasiva e meno costosa. La ripetizione del prelievo, o l’esecuzione di una biopsia escissionale, è raccomandata in caso di discordanza tra imaging e reperto istologico. Inoltre è necessario il follow-up dei casi negativi alla core biopsy, al fine di identificare eventuali falsi negativi (3,7% dei casi a livello della mammella) [Crystal et al.
2005]. Rispetto alla FNAC, la core biopsy risulta utile soprattutto per la precisa definizione anatomopatologica delle lesioni benigne, per diagnosticare istotipi particolari e per un tentativo di distinzione tra le lesioni precancerose e atipiche ed il carcinoma. Le indicazioni maggiori sono l’inadeguatezza di una precedente FNAC, una discrepanza tra i dati clinici, radiologici o citologici, la necessità di avere maggiori informazioni istologiche e biologiche ai fini della corretta gestione terapeutica del paziente. Bisogna comunque segnalare che, rispetto al dato istologico definitivo, la biopsia può sottostimare il grado di malignità e di invasività del tumore. Analogamente a quanto avviene per la citologia, si possono distinguere alcune classi diagnostiche: B1, tessuto normale (eventualmente anche per erroneo campionamento), B2, lesione benigna, B3, lesione ad incerto potenziale maligno, B4, lesione sospetta, B5, lesione maligna. Una procedura bioptica può in realtà risultare non diagnostica per diversi motivi: acellularità, materiale insoddisfacente, reperto atipico ma non dirimente, reperto sospetto per una determinata lesione ma non conclusivo. A livello della mammella la biopsia è utilizzata soprattutto quando la FNAC di un nodulo risulta inadeguata o discordante rispetto ai dati clinici o mammografici ed ecografici, nonché nella caratterizzazione precisa dei fibroadenomi ed eventualmente delle lesioni proliferative atipiche, ad alto rischio (iperplasia lobulare atipica, carcinoma lobulare in situ e lesioni papillari); bisogna comunque segnalare che anche con la biopsia, alcune d.d., come quella tra fibroadenoma e tumore filloide benigno, possono non essere possibili [Bonifacino et al. 1997, Zuiani et al. 2005]. La corrispondenza tra core biopsy e valutazione istopatologica dell’intero pezzo operatorio è del 95% nei carcinomi infiltranti e del 71% in quelli in situ, con sensibilità del 96% e specificità del 93% globalmente: ciò rende inutile la biopsia estemporanea nei casi positivi, a meno che non vi sia una discordanza tra reperto della core biopsy e dati dell’imaging, mentre una biopsia chirurgica è ancora indicata nei casi sospetti sul piano radiologico ma con reperto core biopsy negativo per malignità [Cipolla et al. 2006]. Nelle pazienti con carcinoma, un risultato falsamente negativo può dipendere da: mancato riconoscimento ecografico della lesione, errori tecnici o di campionamento (mammella densa e fibrotica, nodulo profondo o mal delimitato, ago o lesione poco riconoscibili, ecc.), discordanza US-istologia (il reperto istologico appare poco compatibile con quello ecografico e talora dovrebbe indurre alla ripetizione del prelievo), mancato follow-up dopo un risultato istologico negativo [Youk et al. 2007]. Nel caso di lesioni particolarmente profonde, e contigue alla parete toracica è possibile, con sistemi a pistola ed aghi di grosso calibro
Capitolo 4 Interventistica oncologica ecoguidata (es. 14 G), raggiungere la superficie della lesione con la punta della cannula, sollevarla leggermente con un’opportuna angolazione della parte della cannula stessa esterna al paziente, ed infine fare scattare l’ago all’interno del bersaglio; ciò consente, eventualmente, di condurre un approccio verticale anche per lesioni profonde, le quali richiederebbero in alcuni casi un approccio parallelo alla parete toracica ma con un tragitto dell’ago particolarmente lungo. Può essere opportuna la radiografia del materiale prelevato, soprattutto al fine di documentarvi la presenza di microcalcificazioni. Un’altra possibile indicazione, in alternativa alla FNAC, è data dal prelievo sui linfonodi ascellari dubbi, al fine di evitare la procedura intraoperatoria del linfonodo sentinella. Alternative più invasive alla core biopsy mammaria, sono date dalla biopsia “sotto vuoto forzato” (cfr. paragrafo 4.6) e dal sistema prelievo-escissione stereotassico (ABBI). Quest’ultima strumentazione “a pistola”, con una lama circolare interna, consente la biopsia escissionale, in passaggio singolo, delle lesioni mammarie non palpabili sotto guida stereotassica mammografica; le lesioni di piccole dimensioni vengono in questo modo estirpate in toto, eventualmente anche con l’aggiunta di un margine libero circostante. Per le metastasi dei linfonodi, di varia origine, la biopsia può essere utile soprattutto quando guidata dall’US e dall’ECD verso le ghiandole più sospette o verso le porzioni più sospette di queste, considerando tuttavia le difficoltà nel caso di linfonodi piccoli o necrotici. Una core biopsy con ago da 16-18 G può prelevare materiale sufficiente per una valutazione della malattia linfomatosa, evitando la biopsia escissionale [Rubaltelli et al. 2004]. A livello della tiroide il ricorso alla core biopsy è molto raro, preferendosi eventualmente la FNAC ripetuta. La biopsia può essere invece proficuamente utilizzata per i linfonodi superficiali, sia nei pazienti con carcinomi nel bacino afferente sia in quelli con linfoma. Si possono utilizzare aghi trancianti da 14-16 G [Nori et al. 2005]. Le lesioni delle ghiandole salivari vengono generalmente punte con aghi da 18-20 G, eventualmente con sistemi a pistola, utilizzando in media due passaggi per paziente [Howlett et al. 2007]. Nella distinzione benigno vs. maligno la core biopsy ha dimostrato un’accuratezza del 97-100%, con vantaggi rispetto alla FNAC per la diagnosi ed il grading sia dei linfomi che dei carcinomi e per la differenziazione tra l’iperplasia linfonodale ed il linfoma stesso. Le complicanze sono rare. Per quanto riguarda i tumori dei tessuti molli, in genere si preferiscono aghi di grosso calibro (14-18 G), da impiegare soprattutto con sistemi a pistola, poiché la caratterizzazione dei sarcomi può richiedere una quantità cospicua di tessuto; per la diagnosi di
recidiva dei tumori di tessuti molli è invece sufficiente la FNAC [Fornage 2000]. Per minimizzare i rischi di seeding e recidiva postoperatoria può essere consigliabile fare la biopsia nel punto ove poi il chirurgo eseguirà l’incisione chirurgica per l’escissione; quantomeno, bisogna coinvolgere nella procedura solo in compartimento muscolare patologico, senza attraversarne altri. La biopsia TC- o US-guidata si è anche dimostrata utile nella distinzione tra i sottotipi di liposarcoma, ed in particolare nell’identificazione di foci indifferenziati nel contesto della massa, cosa che ha riflessi sulla prognosi e anche sulla gestione terapeutica [Nikolaidis et al. 2005].
4.5. Core Biopsy. Strutture profonde La biopsia microistologica viene generalmente eseguita a livello addominale con aghi trancianti con calibro che varia da 14 a 22 G. Le motivazioni che, più o meno fondatamente, possono indurre all’impiego di calibri maggiori sono molteplici: la possibilità di ottenere una maggior quantità di tessuto (soprattutto dinanzi a determinate patologie quali i linfomi), la maggiore possibilità di visualizzazione US di questi aghi, i rischi minori di deviazione. Calibri minori vengono preferiti nei soggetti dove la procedura appare a maggior rischio di complicanze, come nei cirrotici o nel caso di lesioni ipervascolarizzate/superficiali. In realtà i risultati della letteratura sono controversi ed in un’ampia casistica monocentrica su biopsie addomino-pelviche si rilevava come aghi più sottili (≤21 G) ed aghi più larghi (≥20 G) fornissero simile resa diagnostica (rispettivamente 92,9 e 97,5%) e simile percentuale di diagnosi incorrette o non diagnostiche (rispettivamente 8,2 e 6,3%). Considerando che gli aghi più sottili comportano spesso un minor numero di passaggi e minori rischi, essi non vanno scartati a priori optando sempre per aghi di grosso calibro; anche da questo punto di vista l’interazione tra ecografista e patologo risulta fondamentale [Stockberger et al. 1999]. In genere si procede all’anestesia del sottocute (con attenzione per l’eventuale puntura di vasi), portandosi in profondità lungo il tragitto che si intende far compiere all’ago; nel caso del fegato si cerca di indurre un’anestesia anche della regione glissoniana coinvolta, essendo questa particolarmente sensibile. Con i calibri maggiori può essere necessario praticare una piccola incisione cutanea con una punta di bisturi. Qualora ci si renda conto di una traiettoria non corretta dell’ago, utilizzato senza adattatori della sonda, è opportuno ritirarlo per un certo tratto e ruotarlo, di modo che il lato tagliente della punta sia rivolto verso il lato del bersaglio; successivamente si avanza l’ago inclinando diversamente la parte esterna, even-
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tualmente con un’opportuna pressione sulla cute adiacente. A differenza di un trocar, che ha una punta simmetrica e che quindi tende ad avere un percorso rettilineo, gli aghi per biopsia, tipo Chiba, hanno una punta asimmetrica, aguzza su di un lato, che non modifica i tessuti sul suo lato liscio ma che invece li disloca dal suo lato tagliente durante l’avanzamento: questa tendenza alla deviazione dell’ago verso il lato acuto della sua punta deve essere considerata al momento dell’introduzione e può essere sfruttata per una correzione della traiettoria (Fig. 4.10). Esiste an-
Fig. 4.10. Correzione della traiettoria. Una traiettoria inadeguata può essere corretta sfruttando l’orientamento del lato acuto della punta dell’ago che, ruotato, può essere reindirizzato verso il bersaglio, anche grazie ad un’opportuna azione sulla parte dell’ago stesso esterna al corpo del paziente
che la possibilità di impiegare i sistemi coassiali o la tecnica tandem, magari lasciando in sede un ago sottile e facendo poi penetrare sulla guida di questo un ago di calibro maggiore (cfr. paragrafo 4.4); in alternativa si possono utilizzare aghi introduttori di calibro ampio ma brevi, che permettono di indirizzare l’ago interno, più sottile e ben più lungo, correttamente e senza deviazioni. Rispetto al rischio emorragico valgono, ancor più, le limitazioni indicate a proposito delle FNAC profonde. Specie nelle condizioni a particolare rischio può essere inoltre opportuno iniettare lungo il tragitto dell’ago dei materiali procoagulanti riassorbibili, tipo Gelfoam o fibrina, o non riassorbibili, come le spirali di Gianturco. Nei pazienti con ostruzione delle vie biliari vi è un aumentato rischio di provocare la formazione di bilomi o peritoniti biliari e pertanto, prima di una biopsia epatica, può essere opportuno decomprimere le vie biliari. L’incidenza di complicanze è bassa, ma superiore (tendenzialmente doppia) a quella con aghi sottili per FNAC. Con aghi trancianti è stata riportata una mortalità dello 0,027% per le procedure addominali e dello 0,031% con aghi da 19 G o più sottili [Smith 1991]. Le complicanze della biopsia addominale si manifestano generalmente nelle prime tre ore dalla procedura. In generale è consigliabile eseguire la procedura in regime di ricovero, dimettendo il paziente il giorno dopo [Giorgio et al. 2003]. Le complicanze maggiori, ed i decessi, sono rari ma certamente più frequenti rispetto alla FNAC. Un rischio aumentato esiste nei soggetti con disordini coagulativi ed in quelli con cirrosi epatica, specie in caso di puntura di lesioni ipervascolari come l’HCC o l’angioma. I rischi connessi con la biopsia di un angioma epatico sono stati certamente sovrastimati nel passato, e la biopsia nei casi dubbi all’imaging non invasivo può essere praticata con efficacia e bassa incidenza di complicanze [Heilo et al. 1997]. L’incidenza di seeding dopo biopsia per HCC è risultata, nelle diverse casistiche, dello 0,763,4% con aghi trancianti [Maturen et al. 2006]. Con l’impiego di sistemi di aghi trancianti coassiali è stato possibile rendere nullo questo rischio, poiché l’ago esterno resta in sede e quindi protegge il parenchima dall’impianto di eventuali cellule trascinate dai passaggi dell’ago interno da prelievo [Maturen et al. 2006]. Per le biopsie addominali viene sempre eseguito un controllo ecografico dopo 10-30 minuti dalla procedura, con l’esplorazione dei principali recessi peritoneali alla ricerca di un’eventuale falda liquida [Giorgio et al. 2003, Livraghi et al. 1997]. Le lesioni periferiche del polmone e della pleura parietale possono essere adeguatamente raggiunte e bioptizzate con la guida ecografica, utilizzando di solito aghi da 18, tipo Menghini modificato o Trucut semiautomatico. L’US si è anche dimostrata efficace, e
Capitolo 4 Interventistica oncologica ecoguidata confrontabile con la radiografia standard, nell’identificare, ma non nel quantificare, l’eventuale pneumotorace postbioptico. Questo si manifesta con la scomparsa del segno dello scivolamento e degli eventuali artefatti a “coda di cometa”, reperti che permettono di identificare il polmone aerato, e con lo sviluppo di artefatti da riverbero, prodotti dall’aria libera nel cavo pleurico; chiaramente, anche la scomparsa della visualizzazione della lesione bioptizzata costituisce un reperto sospetto [Sartori et al. 2007]. La biopsia del fegato viene eseguita soprattutto nel sospetto di malignità anche se, negli ultimi anni, lo sviluppo di metodiche di imaging in grado di cogliere la fase arteriosa di impregnazione dell’HCC (CEUS, TC spirale, RM dinamica) ha permesso di affidarsi in molti casi ad una semplice diagnosi “radiologica”, procedendo direttamente al trattamento (cfr. paragrafo 3.20) [Bruix et al. 2001]. La biopsia epatica viene anche eseguita per la diagnosi di sicurezza di lesioni benigne, quali angiomi, adenomi e FNH, nonché per le metastasi [Livraghi et al. 1997] (Video 4.5-4.7). I linfonodi profondi, più spesso raggiunti con guida TC che US, vengono campionati con FNAC (20-22 G) nel caso di lesioni sospette in pazienti con una neoplasia primitiva ma richiedono una core biopsy quando si tratta di pazienti con linfoma, poiché soprattutto le forme non Hodgkin di basso grado vengono mal definite dalla FNAC (Video 4.8). Per la milza la FNAC può essere sufficiente per confermare una diagnosi di metastasi ma per i linfomi, in mancanza di un linfonodo superficiale da escindere, è necessaria una biopsia con ago tranciante (es. da 21 G). Si tratta di un impiego importante, poiché può evitare una splenectomia diagnostica. A differenza del fegato, per la milza è consigliabile ridurre al minimo la percentuale di parenchima da attraversare con l’ago, per minimizzare il rischio emorragico, e quindi bisogna cercare di raggiungere la lesione in maniera diretta [Livraghi et al. 1997] (Video 4.9). La biopsia del pancreas può essere necessaria per confermare la diagnosi di carcinoma, soprattutto nelle forme giudicate non operabili, e per distinguere l’adenocarcinoma dal tumore neuroendocrino, essendo quest’ultimo gruppo caratterizzato da una diversa gestione terapeutica e da una differente prognosi. In presenza di metastasi epatiche può essere preferibile, soprattutto in relazione ai rischi della procedura, la biopsia di queste ultime in luogo della massa pancreatica. La biopsia del rene viene effettuata soprattutto nel sospetto di un linfoma; come detto in precedenza, nelle altre (limitate) indicazioni alla puntura diagnostica renale è generalmente sufficiente la FNAC. Nel sospetto di un oncocitoma la biopsia viene di solito evitata, per il rischio di misconoscere eventuali aree di degenerazione maligna. Recentemente, comunque,
è stata riportata un’ampia casistica che documenta l’efficacia diagnostica della core biopsy renale, condotta con sistema coassiale (ago da 18 G con pistola e introduttore da 17 G), e la sua sicurezza (1,3% di ematomi post-procedura e 0,7% di pseudoaneurismi tardivi) nella caratterizzazione delle lesioni renali: la procedura, US- o TC-guidata, dimostrava una sensibilità del 98% ed una specificità del 100% per la diagnosi di malignità, ed influenzava significativamente la gestione clinica del paziente nel 60,5% dei casi [Maturen et al. 2007] (Video 4.10 e 4.11). La biopsia del surrene ha una sensibilità per la malignità >90%, con qualche difficoltà, tuttavia, nel distinguere tra tessuto adenomatoso e carcinomatoso (sensibilità del 54-86%) ed anche nel differenziare tra carcinoma primitivo e metastasi da carcinoma renale [Livraghi et al. 1997, Mitchell et al. 2007]. La prostata può essere punta con guida palpatoria o con guida ecografica, sia per via transperineale che talora transrettale, e viene valutata con core biopsy (raramente con FNAC). Le sonde transrettali lineari consentono di visualizzare l’intero tragitto dell’ago. Di solito si impiegano aghi trancianti da 15-18 G, specie del tipo con pistola. Le indicazioni maggiori alla biopsia ecoguidata sono la presenza di un’area ipoecogena >10 mm e la presenza di un’area ipoecogena di 5-10 mm ma con valori patologici del PSA sierico o della densità del PSA (cfr. paragrafo 3.34). Se detti valori patologici non si associano ad alterazioni ecostrutturali si ricorre ad una biopsia random (di solito, 3 biopsie per lobo) ma in questo caso non è generalmente necessaria la guida US.
4.6. Biopsia vacuum assisted I sistemi di biopsia mininvasiva direzionale mediante vuoto forzato (VB), tipo Mammotome, si basano sull’aspirazione di frustoli tissutali ad opera di aghi e di sistemi dedicati, sotto guida mammografica (stereotassi) oppure ecografica. Il sistema comporta una singola introduzione dell’ago e permette di effettuare più prelievi istologici di una lesione con l’ausilio del vuoto. Si utilizza un braccio operativo che supporta un ago monouso da 8, 11 o 14 G ed un modulo di controllo su carrello, che contiene il software per lo svolgimento della procedura, oltre che una pompa per aspirazione ed un piccolo schermo per seguire le manovre. In regime ambulatoriale ed in anestesia locale, si posiziona la punta dell’ago in vicinanza dell’area da campionare: l’estremo distale dell’ago non viene posto all’interno della lesione anche perché, se questa è piccola, può occultarne la vista, mentre, se questa è dura o calcifica, può dislocarla (Fig. 4.11). La posizione tangenziale dell’ago rispetto alla lesione consente
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Fig. 4.11a–e. Biopsia vacuum assisted. L’estremo dell’ago dedicato viene portato subito tangente al bersaglio (a), che viene poi attratto dalla suzione nello sportello operatore (b). Una porzione del bersaglio viene quindi tranciata (c), immessa nel canale dello strumento e portata verso l’esterno (d). Infine, il sistema è pronto per un’altra asportazione di tessuto (e)
di visualizzare ecoscopicamente l’effettiva cattura del tessuto da campionare all’interno della sonda aspirante. Il materiale tissutale viene attratto dal sistema di vuoto all’interno di una scanalatura laterale (“finestra istologica”) dell’estremo distale dell’ago, poi se-
zionato da una lama rotante ad alta velocità e infine portato esternamente nella camera di prelievo (mentre il sistema introduttore resta in sede) [Parker et al. 1996]. La procedura può essere svolta in maniera automatica o semiautomatica, mediante i comandi presenti sul braccio operativo (avanzamento della lama, retrazione della lama e aspirazione del materiale); ruotando questo è possibile campionare diverse porzioni tissutali in diverse angolazioni, ottenendo ogni volta frustoli di 15-20 mm, che vengono fissati in formalina tamponata al 10% per 4-6 ore e poi inclusi in paraffina e colorati con il metodo ematossilina-eosina per l’esame istologico. Al termine della procedura, che ha una durata complessiva di 10-15 minuti circa, si può poi posizionare una clip metallica nel tramite, come repere anatomico (visto che la lesione è stata in parte o in toto rimossa), eventualmente insieme a materiali procoagulanti riassorbibili che servono a garantire l’emostasi. La VB ecoguidata è risultata più accurata di mammografia, US e FNAC nel predire la benignità di un nodulo mammario, ponendosi come opzione di scelta nei casi indeterminati o comunque dubbi [Bonifacino et al. 2005]. Ciò consente di evitare la biopsia chirurgica nei casi con risultati dubbi o discrepanti dalle indagini precedenti e un sospetto di malignità persistente. È chiaro che, in molti casi, è consigliabile far precedere la VB da una semplice FNAC poiché, laddove questa risulti già positiva, la procedura in aspirazione forzata non sarà più necessaria. Rispetto alla core biopsy la VB ha infatti il vantaggio di non richiedere passaggi multipli dell’ago (che viene lasciato in sede durante i vari campionamenti per aspirazione), sebbene bisogna ricordare che, almeno in linea teorica, anche l’impiego di aghi coassiali per core biopsy consente di evitare ripetuti passaggi per campionare le diverse porzioni di un nodulo. Inoltre, rispetto alla core biopsy, i frustoli prelevati sono più consistenti, con la possibilità di una più agevole valutazione anatomo-patologica e di praticare valutazioni immunoistochimiche e biologiche (recettori ormonali, indici proliferativi, ecc.) e ciò è importante anche per la gestione terapeutica della paziente, particolarmente in caso di LABC [Bonifacino et al. 2005]. La VB ha un’accuratezza diagnostica >99% ed un’ottimale correlabilità con la biopsia chirurgica. Questa metodica bioptica è più accurata rispetto alla classica biopsia percutanea effettuata con aghi automatici (14 G), soprattutto per lesioni nodulari (visibili quindi anche o solo all’US) di piccole dimensioni (<15 mm). La maggiore accuratezza deriva dalla possibilità di ottenere numerosi e più grandi frustoli di tessuto dalla lesione fino addirittura alla sua scomparsa iconografica, con la riduzione significativa dei falsi negativi (3-11% dei casi) che sono presenti quando si utilizza la biopsia ecoguidata [March
Capitolo 4 Interventistica oncologica ecoguidata et al. 2003]. Bisogna comunque ricordare che la VB ha un costo elevato, legato sia alla necessità di un apparecchio dedicato che agli aghi dedicati, e che comunque è più invasiva ed a rischio di complicanze rispetto alla core biopsy [Crystal et al. 2005]. La VB deve essere considerata come una metodica diagnostica; anche se a volte le lesioni vengono asportate per intero, questa procedura non è di per sé concepita come una modalità terapeutica. Bisogna anche segnalare che, poiché il nodulo viene frammentato, la successiva misurazione delle sue dimensioni non è più possibile sul materiale di resezione e quindi per definire il T, parametro prognostico importantissimo, ci si può basare sui soli dati di imaging pre-VB. Rispetto alla biopsia “in vuoto forzato” eseguita sotto guida mammografica (stereotassica), quella ecoguidata presenta vantaggi e svantaggi. Essa è indicata in tutte le lesioni adeguatamente visibili all’US, poiché consente il monitoraggio in tempo reale, è più rapida ed economica e non utilizza radiazioni ionizzanti. Bisogna anche ricordare che non tutte le lesioni ben visibili alla mammografia sono poi tecnicamente bioptizzabili sulla guida di questa. Peraltro, condizioni come microcalcificazioni isolate e distorsioni architettoniche, che sono attualmente tra le indicazioni maggiori alla VB, richiedono solitamente una guida stereotassica. Riguardo le complicanze osservate durante la procedura, queste sono di lieve entità e consistono in sanguinamenti, in genere autolimitantisi con l’opportuna compressione, o reazioni vagali.
4.7. Posizionamento di reperi prechirurgici L’US può essere impiegata per la localizzazione preoperatoria, o anche intraoperatoria, delle lesioni superficiali di piccole dimensioni, non palpabili, nonché per la valutazione immediatamente postescissionale del focolaio chirurgico o dello stesso pezzo operatorio, per definire la completezza effettiva dell’exeresi. Per quanto riguarda la localizzazione preoperatoria, questa è importante perché consente di ridurre in molti casi l’ampiezza dell’incisione cutanea e di raggiungere la lesione da asportare con maggiore sicurezza ed anche con minore traumatismo per la parte anatomica in questione. A volte ci si può limitare ad una semplice indicazione, sulla cute, della sede della lesione (repere “cutaneo”), mediante una matita dermografica. In altri casi si utilizzano fili di repere intralesionali, sfruttati soprattutto per tumori mammari, linfonodi, tumori dei tessuti molli [Tregnaghi et al. 2005]. A livello mammario questa procedura può essere utile anche per raggiungere chirurgicamente clusters di microcalcificazioni oppure per guidare una biopsia escissionale, sebbene negli ultimi anni le pro-
cedure non chirurgiche (core biopsy e VB) abbiano in gran parte sostituito queste applicazioni [Bonifacino et al. 1997, Crystal et al. 2005]. Nei tessuti molli l’impiego può essere legato a piccole lesioni, a lesioni situate in aree anatomiche sovvertite da pregressi trattamenti chirurgici, a lesioni contigue a strutture vulnerabili o comunque situate in una sede altrimenti di accesso difficoltoso [Tregnaghi et al. 2005]. Il posizionamento di un filo-repere metallico su guida ecografica può essere utilizzato, come detto, in fase preliminare all’escissione di un nodulo (benigno, dubbio o maligno) di piccole dimensioni e/o profondo (Video 4.12). La procedura non richiede generalmente alcun trattamento anestesiologico locale o generale, dato il calibro estremamente sottile (es. 21 G) [Tregnaghi et al. 2005]. Vengono impiegati aghi di diversa lunghezza, considerando la sede e la profondità della lesione ma anche la necessità che l’ago raggiunga il centro della lesione prima dell’apertura dell’uncino. Si possono impiegare aghi riposizionabili, tipo Homer o tipo Hawkins, con possibilità di modificare la posizione del filo se questa non appare ottimale. Nel caso degli aghi non riposizionabili, tipo Kopans, il sistema di ancoraggio non consente invece di modificare la posizione [Bonifacino et al. 1997, Kopans et al. 1989] (Fig. 4.12). In entrambi i casi, una volta ancorato il filo grazie al suo sistema “ad amo”, si procede ad arrotolarne la parte esterna al corpo del paziente su delle garze, in modo da attenuare al massimo il discomfort ed anche da ridurre i rischi di dislocazione (evento non raro soprattutto con i sistemi riposizionabili) (Fig. 4.13). In circostanze ideali, la procedura viene eseguita con paziente in barella, nelle ore immediatamente precedenti l’intervento chirurgico. Una mammografia può eventualmente confermare la posizione corretta del repere posizionato su guida ecografica ma questo non è generalmente necessario; è invece im-
Fig. 4.12. Filo di repere chirurgico. Filo guida da 21 G illustrato sia chiuso che con il piccolo uncino aperto (freccia)
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Fig. 4.13. Errato posizionamento di filo di repere. La scansione TC senza mdc e.v. documenta come il filo guida, mirato su di un piccolo nodulo mammario, sia stato posizionato ed aperto (si nota il piccolo uncino) nella profondità della parete toracica, a livello del piano costale, in stretta contiguità con la superficie pericardica (che mostra anche una limitata reazione liquida di densità ematica)
portante la valutazione mammografica del pezzo operatorio escisso, ancora con il filo di repere all’interno. Un’alternativa alla resezione tumorale guidata dal filo di repere, più indaginosa ma probabilmente anche più precisa, è costituita dalla localizzazione radioguidata delle lesioni (mammarie) occulte (ROLL) [De Cicco et al. 2002, Nadeem et al. 2005]. In questa procedura si utilizza un radiofarmaco (particelle di albumina umana sierica marcata con Tc99m) per marcare il nodulo e, tramite la ricerca dell’attività correlata con la gamma probe manuale, consentire l’identificazione topografica in sala operatoria e la successiva asportazione; chiaramente, trattandosi di lesioni non palpabili, vi è la necessità che il radiofarmaco sia iniettato con guida stereotassica o, più agevolmente, ecografica [De Cicco et al. 2002]. Eventualmente, è possibile combinare questa procedura con quella di ricerca delle localizzazioni linfonodali ascellari “sentinella” e quindi eseguire ad entrambi i livelli, mammario ed ascellare, un’escissione radioguidata [Strnad et al. 2006].
tuale antibiogramma, nel caso di un ascesso; il materiale evacuato potrà essere pus, bile, sangue, chilo, succo enterico e verrà sottoposto, a seconda dei casi, a valutazioni microscopiche (contenuto emoglobinico, frazioni leucocitarie), biochimiche (bilirubina, urea, trigliceridi, glucosio, LDH, amilasi, ecc.), microbiologiche (colturali, ecc.) e citologiche. L’aspirazione, tuttavia, non drena completamente la raccolta ascessuale, specie se questa è di dimensioni significative e/o pluriconcamerata e/o a contenuto densamente corpuscolato [Goletti 1997]. Il drenaggio percutaneo con uno o più cateteri si è ampiamente sostituito a quello chirurgico data la sua minore morbilità. Esso deve essere sempre preceduto da una puntura esplorativa, che permette da un lato di confermare la diagnosi e dall’altro di saggiare la consistenza del liquido al fine di scegliere il catetere più idoneo. Il materiale occorrente comprende aghi, fili guida, introduttori, dilatatori, cateteri, sistemi di drenaggio e sistemi di fissaggio; generalmente il tutto è incluso all’interno di kit dedicati [Parlato et al. 2006] (Fig. 4.14). Si procede in anestesia locale, essendosi assicurati un accesso venoso periferico e cercando di evitare strutture quali vasi, milza, anse intestinali. I cateteri, in vario materiale (silicone, polietilene, poliuretano, latex, teflon, ecc.), sono misurati in French (F), dove 3 F corrispondono a 1 mm. Essi vengono quindi classificati in sottili, quando il calibro è compreso tra 5 e 8 F (raccolte piccole e costituite da materiale sieroso, biliare, linfatico, ecc.), medi, se di calibro tra 9 e 11 F (materiale più denso, corpuscolato e necrotico, op-
4.8. Drenaggio di raccolte, cisti, masse colliquate, versamenti peritoneali Per l’evacuazione di liquidi, liberi o raccolti, ci si può limitare, a seconda dei casi, alla semplice aspirazione con ago oppure, in prima o seconda battuta, al posizionamento di un catetere di drenaggio. L’aspirazione percutanea è più semplice e consente di ottenere materiale idoneo per un esame colturale ed un even-
Fig. 4.14. Kit per drenaggio. Catetere, siringa, sacca di raccolta, rubinetto a tre vie
Capitolo 4 Interventistica oncologica ecoguidata
Fig. 4.15. Sistema di fissazione cutanea di un catetere. Il catetere di drenaggio, posto con l’estremo all’interno di una raccolta, viene fissato alla cute con un disco apposito e con dei punti
pure raccolte più voluminose), e grossi, tra 12 e 14 F (materiale particolarmente denso o raccolte particolarmente ampie) [Goletti 1997, Torzilli et al. 1997]. I cateteri sono costituiti da una punta, aperta o chiusa e di varia morfologia, da un corpo e da un sistema di raccordo, a vite (luer lock) o a cono; quest’ultima porzione consente appunto il raccordo con contenitori di raccolta quali siringhe o buste oppure il fissaggio di aghi e mandrini [Parlato et al. 2006] (Fig. 4.15). La punta può essere conformata a “J”, a coda di maiale (pig tail), a cestello o a palloncino. Multipli fori laterali assicurano un valido drenaggio anche di liquidi corpuscolati: i fori possono essere disposti per una lunghezza variabile nel tratto distale del catetere e secondo un allineamento monolaterale, a spirale o affrontato; quest’ultima modalità tuttavia rende più fragile la parte distale del catetere. Alcuni cateteri di grosso calibro hanno un doppio lume, per eseguire contemporaneamente drenaggio e lavaggio della cavità, con soluzione fisiologica, antibiotica o fluidificante [Goletti 1997, Torzilli et al. 1997] (Fig. 4.16). Le tecniche di posizionamento del catetere sono varie; tutte richiedono l’anestesia locale (es. lidocaina all’1%) ed eventualmente somministrazione di sedativi o di antidolorifici. La tecnica di Seldinger, mutuata dall’angiografia, procede con il posizionamento di un ago nella raccolta, possibilmente un ago di discreto calibro (18 G), poi di un filo-guida (0,035-0,038 pollici), poi di eventuali dilatatori di calibro crescente ed infine del catetere stesso lungo la guida; una volta sfilata la guida, il catetere viene raccordato al sistema evacuatore e fissato alla cute con semplici punti di sutura o con appositi dischi in silicone. Questo sistema, molto diffuso, risulta preciso e poco traumatico (Fig. 4.17). Nella tecnica di Seldinger modificata si impiega un catetere armato su una guida metallica cilindrica. La tecnica one stop, semplice ma potenzial-
Fig. 4.16. Catetere con sistema a doppia via. I due canali interni consentono il contemporaneo lavaggio e drenaggio della raccolta
mente più traumatica, non utilizza un filo-guida ma direttamente un catetere armato con una cannula a punta trocar, introdotto attraverso una piccola incisione chirurgica della cute (Fig. 4.18). Per cateteri particolarmente flessibili o del tipo a palloncino, si può utilizzare la tecnica dell’introduttore; quest’ultimo, posizionato con una delle modalità precedenti, è costituito da una guaina esterna apribile, montata su di un dilatatore [Torzilli et al. 1997]. Gli aghi utilizzati per il posizionamento di questi cateteri sono generalmente del tipo Chiba o del tipo spinale, di calibro variabile a seconda della guida che vi dovrà poi essere introdotta all’interno. Le guide possono essere metalliche, teflonate (acciaio rivestito da una guaina in teflon), plastiche o idrofile ed a seconda dei casi possono avere calibro da 0,016 a 0,038 pollici, lunghezza variabile, essere rigide (stiff) o flessibili, con punta dritta o curva (a “J”) o anche con punta retraibile. Un sistema interno con filo di trazione, che arriva sino all’estremo prossimale esterno al corpo del paziente, consente di modellare il catetere, secondo la
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a a
b
b
c
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Fig. 4.18a–c. Drenaggio con tecnica one stop. Il catetere armato, con una cannula a punta trocar, viene introdotto direttamente nella raccolta
d a Fig. 4.17. Drenaggio con tecnica di Seldinger. Dopo puntura della raccolta e posizionamento all’interno della guida viene fatto avanzare il catetere e viene sfilata la guida
sua caratteristica forma distale, dopo che esso è stato posizionato. Il contenuto della raccolta può essere drenato per caduta passiva o per aspirazione attiva: è sempre opportuno mantenere il sistema in lieve aspirazione, onde evitare che le pareti della cavità collabiscano, ostacolando il vuotamento completo della raccolta o ostruendo il catetere stesso. Bisogna anche considerare la posizione dei multipli fori del catetere, di modo che questi non si vengano a trovare esternamente alla raccolta, impedendo un’efficace suzione e soprattutto diffondendo in aree inappropriate il suo contenuto (Fig. 4.19). Il cono del catetere è particolarmente delicato, essendo suscettibile a trazioni ed angolazioni sia durante la procedura che nei giorni successivi, soprattutto per movimenti impropri del
b
Fig. 4.19a, b. Erroneo posizionamento del catetere. Il catetere in (a) presenta tutti i fori all’interno della raccolta da drenare mentre quello in (b) mostra dei fori anche esterni, responsabili di una fuoriuscita del materiale
paziente. Una corretta manutenzione del catetere è assolutamente necessaria per la riuscita completa del trattamento. Inoltre è importante monitorizzare i sintomi, i dati laboratoristici e l’aspetto ecografico al fine
Capitolo 4 Interventistica oncologica ecoguidata di seguire l’involuzione della raccolta: il catetere viene mantenuto raccordato fino a quando la sua portata scende al di sotto di 10-15 ml al giorno dopodiché, eventualmente dopo 1-2 giorni a sistema chiuso, può essere rimosso [Goletti 1997, Torzilli et al. 1997]. Nel paziente oncologico, la formazione degli ascessi addominali, sia intraperitoneali che intraparenchinali, è legata soprattutto agli interventi chirurgici, più o meno demolitivi, oppure a procedure terapeutiche di altro tipo, comprese quelle radiointerventistiche, che possono complicarsi con un’infezione; in alternativa, l’ascesso o l’empiema possono essere una complicanza diretta della crescita neoplastica, che può evolvere ad esempio con la perforazione di un viscere cavo o con la fistolizzazione interna o esterna, oppure che può svilupparsi all’interno di una cavità neoplastica, come nel caso delle metastasi epatiche ascessualizzate [Caremani et al. 2004]. Si impiegano aghi tipo Chiba da 18-22 G, utilizzando i calibri maggiori per le raccolte più ampie e più dense (corpuscolate o ecogene) [Giorgio et al. 2003]. Se il paziente non è ancora sotto terapia antibiotica, è preferibile attendere l’aspirazione, per poi iniziare una terapia e.v. ad ampio spettro (es. cefalosporine di II e III generazione), per poi modificare lo schema in base ai risultati dell’analisi microbiologica colturale [Giorgio et al. 2003]. Per gli ascessi piccoli e medi è sufficiente l’aspirazione diagnostico/terapeutica, o aspirazioni ripetute, così come per gli ascessi micotici o tubercolari. Per gli ascessi voluminosi, batterici o amebici, è spesso necessario il posizionamento di un catetere di drenaggio, di solito da 8-10 F [Caremani et al. 2004]. Quando le raccolte sono multiloculate si può cercare di infrangere i setti
più esili con il catetere, al momento del suo posizionamento; in alternativa si utilizzano cateteri multipli, posizionati in porzioni diverse di una raccolta ampia ma comunque in sede declive, oppure si esegue un’irrigazione con urochinasi. Il materiale ottenuto deve essere sottoposto a valutazioni microbiologiche ma spesso anche citologiche e biochimiche. Per raccolte o ascessi pelvici situati profondamente nello scavo di Douglas può essere proponibile, specie in assenza di alternative adeguate (accesso sovrapubico US- o TC-guidato e accesso transgluteo, fondamentalmente TC-guidato), un approccio transvaginale [Abbitt et al. 1990]. Vi sono infatti trasduttori endovaginali dedicati, con una guida attaccabile per il posizionamento di aghi o cateteri da drenaggio (Fig. 4.20). La TVUS preliminare consente di definire accuratamente i rapporti tra la raccolta, la cupola vaginale e le strutture pelviche viciniori. La procedura, ed in particolare il posizionamento dell’ago o della guida nella raccolta, viene poi monitorizzata in tempo reale con la sonda in sede; successivamente questa viene rimossa e la guida sfruttata per l’introduzione del catetere. Un’ulteriore alternativa è data dall’accesso US-guidato transperineale, cui ad esempio ricorrere nei soggetti maschi operati di amputazione addomino-perineale secondo Miles, ove questo approccio può costituire l’unica modalità di drenaggio non chirurgico delle raccolte pelviche profonde [Sperling et al. 1998]. Le cause di insuccesso delle procedure di trattamento percutaneo possono essere: sede d’accesso inappropriata, numero insufficiente di drenaggi, calibro dell’ago insufficiente, prematura sospensione del-
Fig. 4.20. Drenaggio transvaginale. La sonda endocavitaria dedicata permette la puntura transvaginale di una raccolta dello spazio utero-rettale
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le aspirazioni, rimozione prematura del catetere [Caremani et al. 2004]. Le complicanze del drenaggio degli ascessi addomino-pelvici sono limitate, con un’incidenza del 4-5%, ma considerando che i soggetti oncologici possono essere più o meno immunodepressi è chiaro come essi siano a rischio maggiorato. Le complicanze minori sono costituite da rialzo della temperatura (batteriemia transitoria), dolore, infezione cutanea nel punto di ingresso del catetere, modesto sanguinamento; quelle maggiori comprendono sepsi generalizzata e shock settico, coagulazione intravascolare disseminata, emoperitoneo (lesione vascolare), pneumotorace (puntura del polmone), piotorace (contaminazione del cavo pleurico), coleperitoneo (lesione delle vie biliari), reazione peritonitica e fistole (lesione visceri digestivi) [Goletti 1997]. Il trattamento delle cisti, con vuotamento (cisticentesi) o eventualmente con scleroterapia, viene utilizzato per formazioni benigne, o presunte tali, a livello soprattutto tiroideo, mammario, epatico, pancreatico (pseudocisti), splenico e renale. L’indicazione terapeutica, come alternativa alle procedure chirurgiche (endoscopiche o a cielo aperto) dovrebbe essere tendenzialmente basata sulla presenza di una sintomatologia significativa, ma è chiaro che a volte ci sono altre motivazioni, compresa la necessità di confermare la natura benigna della lesione [Lucey et al. 2006]. Per quanto riguarda le cisti mammarie, la procedura è indicata nelle forme voluminose e/o sintomatiche (Figg. 4.21, 4.22). La valutazione citologica andrebbe eseguita per tutte le cisti che non si vuotano completamente, e per quelle in cui il liquido evacuato appare di tipo ematico [Mehta 2003]. Le cisti epatiche semplici, se voluminose, possono essere trattate quando sintomatiche (517% dei casi), determinando dolore, epatomegalia, ittero, disturbi digestivi o producendo complicanze acute, quali emorragia interna o infezione. È possibile procedere alla semplice aspirazione, peraltro spesso fonte di recidiva, oppure all’aspirazione e successiva sclerosi, con etanolo ma anche con tetracicline, fenolo, glucosio, colla di fibrina o altri agenti ancora. La scleroterapia con etanolo può anche essere eseguita in seduta singola, mediante posizionamento US-guidato di catetere e ritenzione intracistica dell’alcool per 60 minuti o, in una recente casistica, anche di soli 10 minuti (con una quantità di etanolo variabile dal 10 al 96% del volume cistico ma mai superiore a 100 ml) [Larssen et al. 2003, Lucey et al. 2006, Montorsi et al. 1997]. Il trattamento percutaneo di cisti renali semplici può essere praticato quando queste sono particolarmente voluminose o quando vengono ritenute responsabili di dolore, compressione sulle vie escretrici (o ostacolo all’espulsione di calcoli in esse contenuti), ipertensione nefrovascolare. È possibile praticare la semplice aspirazione, con vuotamento della cisti, ma per evitare recidive si preferisce effettuare anche una sclerosi me-
a
b Fig. 4.21a, b. Cisticentesi mammaria. La scansione in corso di procedura (a) dimostra la formazione cistica uniloculata omogenea con la punta dell’ago all’interno (freccia). La scansione dopo vuotamento (b) dimostra il collasso completo della formazione
Fig. 4.22. Emorragia endocistica dopo cisticentesi mammaria. Lo studio ECD direzionale dimostra un grossolano coagulo ematico all’interno di una cisti sottoposta a vuotamento, senza guida ecografica, tre giorni prima. Non si osservano segnali di flusso
Capitolo 4 Interventistica oncologica ecoguidata diante etanolo (in quantità del 30% del volume cistico), tetracicline, Atossisclerol (circa 10 ml) o colla di fibrina (Tissucol). Viene impiegata una tecnica di Seldinger per la puntura, ma anche sistemi di ago-catetere trocar, con drenaggio lasciato in sede per una settimana; esistono anche protocolli “multiseduta”. Le complicanze, rare, comprendono emorragie, infezioni, pneumotorace, fistole arterio-venose, perforazione intestinale [Agostini et al. 2004, Chung et al. 2000]. Il drenaggio di raccolte postoperatorie sterili, come ad esempio linfoceli, urinomi o bilomi, viene eseguito soprattutto quando questi sono voluminosi, comprimendo le strutture viciniori (es., idronefrosi), oppure quando sollevano dei dubbi diagnostico-differenziali rispetto ad un residuo o ad una ripresa tumorale, o infine quando sono andate incontro ad una superinfezione. Il trattamento è simile a quello descritto precedentemente per le cisti, con vuotamento percutaneo transcatetere ed eventuale scleroterapia, in sessione singola o mediante sessioni multiple (etanolo, antibiotici, talco, colla di fibrina, ecc.). Nei linfoceli postoperatori il trattamento risulta efficace in quasi tutti i casi, eventualmente necessitando tuttavia di nuove sedute a seguito dello sviluppo di una recidiva della raccolta linfatica [Caliendo et al. 2001, Karcaaltincaba et al. 2005, Lucey et al. 2006]. Il vuotamento dei tumori colliquati viene eseguito nel caso di masse ampie, sintomatiche, refrattarie ad altri tipi di trattamento, a scopo di palliazione. Ci si può limitare al solo drenaggio oppure si può procedere ad una sclerosi della cavità necrotica, che aumenta l’efficacia della procedura. Le complicanze sono legate soprattutto al rischio di superinfezione [Gorich et al. 1995]. La paracentesi, cioè il drenaggio del versamento peritoneale, viene eseguita in oncologia soprattutto per il trattamento palliativo di un’ascite maligna sintomatica, secondaria a sua volta ad una carcinosi peritoneale. L’ascite maligna, che si associa ad una prognosi infausta (<6 mesi di aspettativa di vita), comporta sintomi quali distensione addominale, nausea, anoressia, sazietà precoce e, nei casi estremi, difficoltà respiratorie. Un versamento peritoneale abbondante riduce sensibilmente la qualità di vita di questi pazienti e pertanto può richiedere un trattamento addizionale rispetto a quello farmacologico. La paracentesi è una procedura ambulatoriale, che generalmente viene eseguita alla cieca, con predilezione per il quadrante inferiore sinistro dell’addome e facendo decombere il paziente verso quel lato. Tuttavia, non di rado, è necessaria una guida ecografica, perché la quantità di versamento non è abbondante o perché questo è saccato o quantomeno irregolarmente distribuito a causa della diffusione bloccata tra i diversi comparti peritoneali; spesso inoltre vi sono fenomeni di adesione delle anse intestinali alla parete addomi-
nale, che aumentano il rischio in una procedura non guidata [Ross et al. 1989]. La guida ecografica consente al tempo stesso di evitare complicanze, quali innanzitutto la puntura di un’ansa intestinale, e di aumentare l’efficacia della procedura, identificando la sede più opportuna per praticare la puntura allo scopo di evacuare la quantità maggiore possibile di liquido e così ridurre anche il numero di paracentesi periodiche necessarie. È quindi importante un accurato studio ecografico preliminare, per identificare il percorso più opportuno da far compiere all’ago. L’approccio può essere anteriore, anterolaterale o laterale (fianco), misurando con i calibri la distanza tra la cute ed il centro dell’area di liquido da evacuare. Il catetere di drenaggio, multiforo, viene posizionato con l’estremo in sede declive, facendo anche variare leggermente il decubito del paziente durante l’aspirazione in modo da favorire il drenaggio. Almeno 0,5 l devono essere evacuati per ottenere un qualche miglioramento sintomatologico. Bisogna comunque ricordare come l’evacuazione di ampi volumi di liquido in tempi molto rapidi può creare una condizione di squilibrio al paziente, ad esempio sottoforma di calo pressorio: alcuni suggeriscono un monitoraggio della pressione nel corso e subito dopo la procedura e comunque un vuotamento del liquido ad una velocità non eccessiva [Ross et al. 1989]. Al termine della procedura l’ago viene rimosso o talora si lascia a dimora un catetere, per 24 ore o per qualche giorno, peraltro con i possibili rischi di una contaminazione batterica della cavità addominale. In casi particolari è anche possibile posizionare dei cateteri a lungo termine (es. tunnellizzati sottocutanei) in grado di funzionare per mesi, evacuando quotidianamente piccoli volumi di liquido ed evitando al paziente la necessità di ospedalizzazioni frequenti per ripetute procedure di paracentesi; in questo caso la guida US potrà essere utile per un eventuale riposizionamento periodico del catetere stesso [Brooks et al. 2006, Rosenberg et al. 2004].
4.9. Iniezione percutanea di etanolo La terapia con iniezione percutanea di alcool etilico (PEI) è stata la procedura ablativa maggiormente diffusa per il trattamento delle lesioni focali epatiche e specificamente dell’HCC, potendo peraltro essere utilizzata anche per noduli tiroidei autonomi, iperparatiroidismo (primitivo, secondario o terziario), adenomi surrenalici iperfunzionanti, cisti epatiche, renali o di altre sedi, neuromi di Morton [Bartolozzi et al. 1996, Livraghi et al. 2003, 2005]. L’effetto ablativo è legato sia alla diffusione dell’etanolo nelle cellule, con disidratazione e necrosi coagulativa, sia alla penetrazione nei piccoli vasi intralesionali, con danneggiamento delle cellule endoteliali e conseguenti fenome-
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ni di trombosi luminale ed ischemia [Magnolfi 2006]. L’HCC ha caratteristiche che lo rendono altamente suscettibile al trattamento, essendo a crescita relativamente lenta, ben delimitato o francamente capsulato, con consistenza relativamente scarsa, elevata vascolarizzazione, e localizzazione nel contesto di un parenchima compatto che limita la diffusione extranodulare dell’etanolo quale è quello del soggetto con epatopatia cronica; inoltre, la comparsa di metastasi extraepatiche avviene solo in una minoranza di casi, tipicamente avanzati. La PEI viene utilizzata in particolare nel trattamento di lesioni di piccole dimensioni, specie in pazienti non candidabili alla chirurgia resettiva o con recidiva postoperatoria [Bruix et al. 2001, Livraghi et al. 1999]; nei noduli <3 cm essa è in grado di ottenere una necrosi completa in circa il 70% dei casi. È anche possibile l’alcolizzazione diretta dei trombi maligni, specie se segmentari o subsegmentari, al fine di evitare la progressione verso i rami portali maggiori. Nelle metastasi epatiche i risultati sono stati invece mediocri ed il trattamento con PEI di queste lesioni è stato abbandonato. Generalmente la PEI viene praticata con una seduta ambulatoriale, a digiuno, senza sedazione e senza anestesia locale. L’unica controindicazione assoluta è data da una severa diatesi emorragica, mentre l’ascite non è di per sé una controindicazione, a meno che non sia cospicua e posta anche lungo il decorso prescelto dell’ago [Magnolfi 2006]. Nei soggetti ansiosi può essere opportuno un trattamento farmacologico, ad esempio con 1-3 mg di midazolam e.v. (a dosi progressive di 0,5-1 mg) per la sedazione e 50-200 g di fentanil e.v. (a dosi progressive di 25-50 g) per il dolore. In tutti i pazienti è comunque consigliabile disporre un accesso venoso periferico [Magnolfi 2006]. La terapia viene effettuata una o, più spesso, due volte alla settimana per 4-6 settimane. Si utilizzano aghi di Chiba non trancianti dedicati (tipo PEIT, con punta conica chiusa e 3 fori distali laterali), da 21-22 G ed etanolo al 95%. Nel decubito supino o laterale sinistro, per via sottocostale o intercostale, si procede all’iniezione lenta dell’etanolo nella lesione, possibilmente in più punti di questa: si può ad esempio distinguere un settore profondo ed uno superficiale della lesione, trattando prima la porzione più profonda e poi, previa opportuna retrazione dell’ago, quella più superficiale; in alternativa si possono inserire aghi multipli contemporanei, iniettando poi l’etanolo a partire dall’ago più profondo [Magnolfi 2006]. Se il nodulo è particolarmente piccolo è sufficiente porre la punta dell’ago al centro della lesione per ottenere una necrosi validamente distribuita. Alcuni autori utilizzano la guida dell’ECD, cercando di iniettare l’etanolo in corrispondenza delle arterie intralesionali. Per le lesioni non visibili all’US convenzionale è stato proposto per il passato l’impiego della carboecografia
ma oggi, più semplicemente, si può ricorrere all’ausilio della CEUS. L’etanolo è facilmente riconoscibile, poiché appare come una netta “nubecola” di iperecogenicità, con eventuale ombra acustica posteriore, che riempie la lesione per 2-3 cm intorno alla punta dell’ago e che poi può eventualmente diffondere nei vasi intorno al nodulo sottoforma di qualche piccolo nucleo ecogeno endoluminale; nel caso la diffusione intravasale dell’alcool appaia eccessiva l’iniezione deve essere interrotta. La respirazione deve essere bloccata al momento dell’introduzione e della retrazione dell’ago mentre deve essere superficiale tranquilla durante l’iniezione dell’etanolo. Al termine dell’iniezione, generalmente, si lascia l’ago in sede per altri 30-60 s, onde evitare il reflusso dell’etanolo, e poi lo si ritrae lentamente, facendo attenzione all’eventuale diffusione dell’etanolo lungo il tramite, che risulta piuttosto dolorosa per il paziente; in quest’ultimo caso ci si arresta di nuovo per qualche decina di secondi e poi si rimuove definitivamente l’ago. Alcuni Autori iniettano un analgesico durante la retrazione dell’ago [Giorgio et al. 2003, Livraghi 2001, 2003]. Complessivamente la procedura dura 10-20 minuti ed il paziente resta nella sala d’attesa per 1-2 ore successive. La quantità è generalmente di pochi ml (1-8/seduta) ma può arrivare anche a 14 ml per seduta, eventualmente in frazioni distanziate di qualche minuto; essa dipende dalle dimensioni della lesione ma anche dalla tolleranza dimostrata dal paziente e dalla facilità maggiore o minore con cui l’etanolo diffonde nella lesione. La quantità in ml di etanolo da iniettare per un ciclo di trattamento completo può essere dedotta dalla formula 4/3 Π (r+0,5)3, dove r è il raggio del nodulo in cm (es. almeno 14 ml per una lesione di 2 cm ed almeno 32 ml per una di 3 cm); numero di sedute e quantità di etanolo da iniettare dipendono comunque dal volume iniziale del nodulo e dalla compliance del singolo paziente [Magnolfi 2006]. In generale sono necessarie 2-3 sedute per noduli <2 cm, 4-6 per quelli di 2-3 cm e 6-8 sedute per quelli di 3-4 cm (approssimativamente, un numero di sedute doppie rispetto ai cm del nodulo). La parte del nodulo su cui insistere nelle sedute successive alla prima può essere scelta puntando sull’area più vascolarizzata al color-Doppler, oppure su quella con segni di contrast enhancement alla CEUS. In caso di residuo tumorale dimostrato anche dopo varie sedute è possibile utilizzare procedure percutanee più distruttive come la RFTA [Livraghi 2001, 2003]. Il trattamento presenta in genere limitati effetti collaterali, con dolore eventualmente irradiato all’epigastrio o alla spalla destra e possibile febbricola nei giorni successivi alla PEI. L’eventuale spandimento di etanolo in cavità peritoneale è particolarmente doloroso, mentre la diffusione nelle vie biliari può provocare stenosi importanti; la penetrazione nei rami por-
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a Fig. 4.23. Trombosi portale dopo PEI. Si evidenzia la lesione ipoecogena trattata e si osserva inoltre un difetto luminale all’interno di un ramo portale segmentario, sezionato sia in senso longitudinale che trasversale (frecce)
tali determina di solito una trombosi chimica, che tuttavia regredisce entro 1-3 mesi. Le complicanze di maggior rilievo comprendono emoperitoneo, emobilia, colangite chimica, colecistite, ascessualizzazione, infarto epatico, trombosi cavale, lesione intestinale, idrotorace e pneumotorace [Di Stasi et al. 1997] (Fig. 4.23). La mortalità è dello 0,09% nella PEI multiseduta. Il seeding tumorale intra- o extraepatico è relativamente raro: 1,1% in uno studio mirato [Ishii et al. 1998], 0,01% in un’ampia casistica con trattamenti di PEI e PEI one shot [Giorgio et al. 2003] (Fig. 4.24). Esiste tuttavia il problema, relativamente frequente nelle diverse casistiche, del residuo tumorale e della ripresa locale, nonché i limiti nel trattamento di lesioni multiple e/o voluminose. Recidive locali sono, infatti, rilevate sino nel 33% degli HCC <3 cm e sino nel 43% di quelli >3 cm [Lencioni et al. 2005]. L’etanolo diffonde disomogeneamente nelle lesioni, specie in relazione a setti interni di queste, ed inoltre ha scarsa efficacia sulla diffusione tumorale extracapsulare; i residui e le recidive sono tipicamente alla periferia della lesione trattata. Un’alternativa è data dalla PEI in sessione singola (one shot), con iniezione di una quantità elevata di etanolo [Livraghi 2003]. In anestesia generale, si eseguono passaggi multipli, con introduzione nella lesione (>5 cm) di una quantità di etanolo corrispondente al volume della lesione stessa [Giorgio et al. 1996, 2003]. Date le complicanze registrate nel passato, compresi i problemi cardiocircolatori da etilismo acuto (specie se cospicue quantità di alcool diffondono inavvertitamente nei vasi), i fautori di questa procedura tendono più recentemente a dividerla in due o più sedute, intervallate di due settimane [Giorgio et al. 2003].
b Fig. 4.24a, b. Seeding parietale di HCC dopo PEI. La scansione con PD direzionale dopo mdc e.v. (a) dimostra un grossolano gettone solido ipervascolarizzato a livello della parete toracica. Conferma con TC in fase arteriosa (b, freccia)
4.10. Termoablazione con radiofrequenze, altre terapie ablative percutanee, trattamenti combinati Successivamente all’introduzione della PEI sono state sviluppate numerose altre terapie ablative percutanee (PAT) che hanno tutte la caratteristica di indurre una distruzione locale di una lesione in maniera paucinvasiva e non chirurgica, limitando al minimo necessario il danno al parenchima epatico sano e pertanto intaccando solo marginalmente la riserva funzionale d’organo. Le PAT sono basate sull’effetto di sostanze chimiche (PEI, iniezione di acido acetico), caldo (termoablazione con RF, coagulazione con microonde, laserterapia, iniezione di soluzione salina bollente), freddo (crioterapia) o radioattività (iniezione di microsfere marcate con ittrio-90). La termoablazione con radiofrequenze (RFTA), in particolare, sfrutta l’effetto di necrosi coagulativa, indotto
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nel tumore mediante il riscaldamento resistivo prodotto da onde elettromagnetiche (radiofrequenze), determinando un’area necrotica sferoidale intorno alla punta dell’elettrodo. Le RF provengono dalla punta di un elettrodo collegato ad un generatore appropriato, che converte appunto la corrente elettrica in energia elettromagnetica. Il calore si produce direttamente nei tessuti circostanti la porzione non isolata (punta esposta) dell’elettrodo attivo ed è dipendente dalla differenza tra il calore prodotto dall’elettrodo e quello dissipato dal tessuto a causa della circolazione sanguigna perfrigerante. Bisogna inoltre aggiungere che, nel fegato cirrotico, il parenchima perinodulare agirebbe da isolante termico, formando una sorta di protezione dalla dissipazione del calore al di fuori del nodulo (“effetto forno”) [Livraghi et al. 1999, Scott Gazelle et al. 2000]. La RFTA è stata utilizzata soprattutto a livello epatico, per l’HCC e le metastasi, ma poi le sue applicazioni si sono notevolmente estese ed oggi essa viene impiegata, con guida US o di altro tipo, per il trattamento di lesioni epatiche benigne (tumori benigni, idatidosi), tiroidee (es. noduli caldi e recidive di carcinomi), paratiroidee (adenomi iperfunzionanti), polmonari (alcuni carcinomi non a piccole cellule e alcune metastasi), ossee (metastasi dolorose ed osteoma osteoide), surrenali (metastasi), renali (lesioni primitive), retroperitoneali (metastasi), uterine (miomi) ed anche mammarie, pancreatiche, spinali-paraspinali e prostatiche. Bisogna inoltre considerare che la RFTA, così come altre procedure ablative, può anche essere utilizzata nel contesto di procedure laparoscopiche o laparotomiche e non solo per via percutanea [Lucey 2006, Scott Gazelle et al. 2000]. In alcuni casi l’intento è di trattamento radicale, almeno localmente, mentre in altri esso è palliativo; in entrambe le evenienze, comunque, appare ben chiaro che, a parità di risultati, le PAT si lasciano preferire alla chirurgia, stante la minore morbilità e mortalità, nonché i minori costi. Le attuali possibilità terapeutiche dell’HCC sono numerose, integrabili tra loro in maniera sincrona o sequenziale (trattamento multimodale), senza che sia stato sinora possibile porre delle scelte definitive: la resezione chirurgica è curativa ma non può essere applicata a tutti i pazienti e non elimina il problema di una malattia che è “d’organo”; il trapianto è l’unico trattamento che realmente risolve il problema epatico ma può essere effettuata solo su pazienti selezionati, le procedure intrarteriose transcatetere (chemioterapia, embolizzazione, radioembolizzazione, chemioembolizzazione) vengono generalmente riservate alle lesioni più ampie con intento palliativo; le terapie ablative percutanee sono paucinvasive e ripetibili ma hanno un effetto solo locale ed espongono, specie la PEI, alla recidiva; i trattamenti sistemici (chemioterapia con farmaci come la doxorubicina, immunotera-
pia con interferone, terapia antiormonale con tamoxifene, terapia genica, ecc.), infine, sono poco efficaci o ancora poco sperimentati [Giorgio et al 2000, Lau 2002, Livraghi 1999, 2003]. La scelta dipende dalle condizioni generali del paziente, dallo stadio della malattia, dalla funzionalità epatica residua, nonché dalle scelte del singolo paziente e dall’esperienza e preferenza specifica del singolo centro [Lau 2002]. Concettualmente, l’impiego della PAT dovrebbe essere considerato solo come un “ponte” per il trapianto ma è chiaro che, numericamente, il numero di pazienti che possono accedere a quest’ultimo è limitato rispetto a quello dei soggetti portatori di lesioni epatiche [Lucey 2006]. Il sistema di stadiazione più direttamente correlato con la gestione terapeutica è quello BCLC, descritto nel paragrafo 3.20. In linea teorica la resezione chirurgica è tuttora considerata l’opzione di scelta (anche se non esistono significativi studi randomizzati controllati che confrontino resezione e ablazione percutanea); l’opzione chirurgica andrebbe offerta a tutti i pazienti con lesione singola, fegato non cirrotico o cirrotico con buona funzionalità residua, bilirubina normale e gradiente pressorio nella vena epatica <10 mmHg. In effetti, solo il 9-27% dei pazienti è eleggibile per la chirurgia, a causa della limitata riserva funzionale epatica, della multifocalità e bilobarità lesionale, della presenza di metastasi extraepatiche e/o dell’infiltrazione portale; inoltre la resezione è seguita da un tasso di recidive (compresi nuovi noduli in altri segmenti) >70% entro 5 anni [Bruix et al. 2001, Kim 2006]. Ciò spiega l’attuale diffusione delle terapie ablative percutanee, meno invasive e ripetibili, ideali per il paziente con HCC in stadio iniziale non candidabile alla chirurgia (sebbene in molti centri oggi questa opzione venga offerta come prima scelta). La RFTA, efficace almeno quanto la PEI per lesioni <2 cm, ma con un numero minore di sedute, risulta certamente superiore per lesioni di dimensioni maggiori ed è in grado di ottenere un buon controllo delle lesioni, risultando “localmente curativa” [Livraghi et al. 1999]. Uno studio a lungo termine ha riportato una sopravvivenza del 78% a 3 anni e del 54% a 5 anni per i pazienti con HCC efficacemente ablato [Tateishi et al. 2005]. Per quanto riguarda le metastasi epatiche, sono state soprattutto quelle da carcinoma colorettale ad essere trattate con RFTA o altre procedure percutanee (eccetto la PEI, come detto, inefficace). Senza resezione chirurgica, questi pazienti hanno una mediana di sopravvivenza <12 mesi, poco modificata dalla chemioterapia o dalla radioterapia, mentre casistiche chirurgiche con pazienti adeguatamente selezionati hanno riportato una sopravvivenza a 5 anni del 2045% [Choi 2006]. Quello che si ripromette l’impiego delle terapie percutanee, sicuramente meno invasive e quindi maggiormente ripetibili rispetto alla resezio-
Capitolo 4 Interventistica oncologica ecoguidata ne epatica, è di ottenere percentuali simili se non superiori, prolungando la sopravvivenza libera da malattia con una qualità di vita ragionevole [Lucey 2006, Scott Gazelle et al. 2000, Solbiati et al. 1997]. Esistono differenti sistemi per RFTA, che variano nella tipologia dell’ago-elettrodo, nel numero di elettrodi all’estremità e nella potenza del generatore. Quello RITA “ad uncini” (RITA Medical Systems, USA) utilizza un generatore di corrente connesso ad un ago esterno isolato da 12-15 G con un numero variabile di uncini terminali, ciascuno della lunghezza di 1-2 cm e dotato di un elettrodo attivo alla punta; quando l’ago è in sede, gli uncini vengono dispiegati e formano una sorta di ombrello rovesciato con un diametro fino a circa 5 cm. Il sistema a “perfusione esterna” Elektrotom HiTT 106 (Berchtold, Germania) utilizza un generatore da 375 kHz ed un ago-elettrodo monopolare da 12-14 G con punta attiva di 15 mm, raggiungendo temperature fino a 100 gradi; l’ago ha una doppia parete in cui viene immessa soluzione salina isotonica destinata a perfondere nei tessuti circostanti la punta dell’ago. Il sistema “a punta fredda” o a “raffeddamento interno” (Radionics, USA) utilizza tipicamente un generatore da 480 kHz ed un ago monopolare da 14-18 G, “a grappolo”: 3 elettrodi paralleli, distanziati tra loro di 5 mm, con 10-30 mm di parte attiva terminale (da scegliere in relazione all’ampiezza della necrosi desiderata); la refrigerazione interna dell’elettrodo avviene mediante soluzione salina a 2-5° C introdotta mediante una pompa peristaltica. Il sistema RF 3000 (Radiotherapeutics, USA), utilizzato nel nostro Istituto, impiega caratteristicamente un generatore da 480 kHz ed un ago monopolare espandibile (“ago di LeVeen”) che contiene 12 punte ricurve retrattili, le quali aperte formano un “ombrello” di 4 cm di diametro [Brieger et al. 2003, Buscarini et al. 2004, Curley et al. 1999, Francica et al. 1999, Giorgio et al. 2003, Lee et al. 2004]. Sperimentalmente si è visto che gli elettrodi a perfusione e quelli con raffreddamento interno inducono volumi di necrosi più ampi di quelli provocati con gli altri sistemi, sebbene quelli con raffreddamento e quelli a 12 uncini provochino volumi più regolari e ripetibili di quanto non si verifichi con gli elettrodi a perfusione e con quelli a 9 uncini [Brieger et al. 2003, De Baere et al. 2001]. Il diametro della lesione prodotta dipende soprattutto da quello dell’elettrodo e dalla durata dell’applicazione delle RF, sebbene esso risulti maggiore in vitro che in vivo poiché, nel secondo caso, il raffreddamento prodotto dalla perfusione ematica nei territori trattati ha un effetto antagonista. Il riscaldamento tissutale è massimo a livello dell’area di maggiore densità della corrente e cioè intorno alla punta dell’elettrodo. Il maggior fattore limitante la necrosi è proprio il fenomeno di carbonizzazione che si crea intorno all’elettrodo ad elevate temperature, che limita
l’ulteriore diffusione di calore nei tessuti circostanti. Per aumentare l’area di necrosi è possibile impiegare più elettrodi, in maniera simultanea o alternata, oppure iniettare soluzione fisiologica raffreddante prima e/o durante la procedura (cosa che permette di incrementare l’energia generata, senza indurre eccessivi fenomeni di bollitura e cavitazione intorno alla punta); sono stati anche proposti sistemi con elettrodi bipolari (singolo elettrodo bipolare oppure doppio elettrodo) [Scott Gazelle et al. 2000]. Per ottenere una necrosi completa ed evitare le recidive alla periferia della lesione trattata, è necessario, per l’HCC ma soprattutto per le metastasi, ottenere una necrosi non solo della lesione ma anche di uno strato di parenchima disposto tutto intorno. Per “zona di ablazione” si definisce propriamente la regione evidenziabile radiologicamente nella quale è stato direttamente indotto l’effetto ablativo, laddove per “margine di ablazione” si intende un’area tissutale di 5-10 mm posta intorno alla lesione [Goldberg et al. 2005] (Fig. 4.25). La mancata estensione della necrosi a tutto il margine di ablazione mette a rischio di recidiva, evidentemente a causa dell’estensione microscopica delle cellule tumorali oltre la zona di ablazione evidenziabile radiologicamente o a causa di limiti intrinseci delle stesse metodiche di imaging nel definire la reale estensione della lesione [Scott Gazelle et al. 2000]. In generale la RFTA utilizza aghi di calibro ben superiore rispetto a quelli per PEI o per altre terapie ablative quali la fotocoagulazione con laser. Queste ultime potrebbero essere quindi preferite per lesioni profonde, mal definibili ecograficamente e/o che richiedono multipli passaggi [Giorgio et al. 2003]. Alcune sedi della lesione aumentano il rischio di complicanze alla RFTA, come le localizzazioni periferiche, in particolare contigue al diaframma (rischio di perforazione) o comunque esofitiche (rischio di rottura tumorale), o quelle in vicinanza della colecisti, dei grossi vasi (rischio di emorragia) e soprattutto dei dotti biliari parailari (rischio di stenosi biliare) [Giorgio et al. 2003]. Anche la mielina è molto sensibile agli insulti termici e pertanto la RFTA dovrebbe essere utilizzata con cautela nel trattamento di lesioni particolarmente vicine a tronchi nervosi importanti. Nei pazienti con pacemaker bisognerebbe evitare che quest’ultimo si venga a trovare lungo il percorso tra elettrodo e piastra della terra; inoltre il pacemaker dovrebbe essere revisionato dopo la procedura. Anche nei soggetti con sostituzione protesica dell’anca bisogna evitare che la piastra della terra si trovi in contiguità con la protesi stessa. Tipici criteri di inclusione sono, per l’HCC, un nodulo singolo <5 cm di diametro o 3 noduli <3 cm, e per le metastasi epatiche, <6 lesioni con <5 cm di diametro o <10 lesioni con <4 cm di diametro [Gillams 2005]. A livello renale vengono generalmente trattati i
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Fig. 4.25a, b. Concetto di margine di sicurezza. L’ablazione percutanea deve mirare ad ottenere non solo la necrosi nodulare (a) ma anche un alone di necrosi tissutale perinodulare di 5-10 mm (b)
pazienti monorene (anatomicamente o funzionalmente) o quelli con tumori multipli (es. i pazienti con sindrome di von Hippel Lindau). Nella maggioranza dei centri la RFTA, così come tutte le altre procedure percutanee ablative con l’eccezione della PEI multisessione, viene praticata in regime di ricovero ed in singola seduta, a meno che il controllo successivo non dimostri un residuo tumorale. Generalmente il trattamento viene eseguito in sala operatoria, in anestesia generale; talora ci si limita alla semplice sedazione, quando il paziente è particolar-
mente collaborante ed il numero di inserzioni una o massimo due. Uno schema spesso utilizzato si basa su una premedicazione con atropina e.v. (0,5 mg) e su un’induzione con propofol (9-12 mg/Kg/ora) e fentanil citrato e.v. (50 mg); in alternativa si impiega una sedazione con midazolam maleato e fentanil [Giorgio et al. 2003, Scott Gazelle et al. 2000]. L’intubazione tracheale consente, tra l’altro, di poter modificare la “altezza” del diaframma e quindi di rendere più agevole il trattamento di lesioni sottodiaframmatiche. Con le tecniche monopolari si applica un cuscinetto per la messa a terra al di sotto della coscia del paziente mentre con quelle bipolari si impiega un secondo elettrodo, passivo, posizionato entro 5 cm da quello attivo [Scott Gazelle et al. 2000]. L’applicazione delle RF ha una durata variabile, di alcuni minuti, in relazione alla tecnica di RFTA utilizzata, alla potenza del generatore a disposizione e all’eventuale necessità di praticare inserzioni multiple (Video 4.13). Terminata la procedura, l’ago-elettrodo viene ritirato lentamente ed ancora caldo (70-80°), in modo da bonificare il tramite da eventuale inseminazione di cellule tumorali e assicurare al tempo stesso una forma di emostasi; chiaramente la manovra deve essere effettuata in questo modo anche quando l’ago deve essere semplicemente ripuntato, ad esempio perché posizionato in una sede non ottimale della lesione. Generalmente la guida US è sufficiente per l’ablazione delle lesioni epatiche primitive e secondarie non ancora sottoposte a trattamenti percutanei, mentre nelle recidive di HCC è stata dimostrata la superiorità della guida CEUS nel consentire la focalizzazione del trattamento sull’area di ripresa tumorale [Minami et al. 2007]. È consigliabile la valutazione dell’emocromo e degli enzimi epatici dopo circa 6 ore dal trattamento ed una ripetizione la mattina dopo, prima della dimissione del paziente, che peraltro in alcuni centri avviene anche in terza giornata. È possibile una riduzione dell’emoglobina anche di 1-2 g e delle piastrine anche del 10-15%, specie nel caso di lesioni voluminose con inserzioni multiple dell’ago; il quadro si stabilizza dopo 2-3 giorni. È inoltre possibile un incremento, fino anche a 10 volte il valore pretrattamento, del livello sierico delle transaminasi, che poi discendono gradualmente nei giorni successivi; anche la bilirubina può aumentare, per ritornare ai valori iniziali dopo 4-5 giorni [Gillams 2005]. La necrosi indotta si associa pressoché costantemente, nei giorni successivi, a sintomi di malessere, mialgia e febbricola (intorno a 38°), che non possono essere comunque annoverati come una complicanza ma come un evento atteso; talora l’apertura intraperitoneale della cavità con il materiale necrosato, giunto a contatto della glissoniana, può determinare un dolore addominale acuto dopo qualche giorno dal trattamento. Le complicanze vere e proprie possono essere distinte in locali e sistemiche e sono
Capitolo 4 Interventistica oncologica ecoguidata legate fondamentalmente o all’inserzione dell’agoelettrodo o al danno termico prodotto dalle RF (Figg. 4.26, 4.27). L’incidenza di complicanze maggiori dopo RFTA epatica è superiore a quella dopo PEI multisessione ed è riportata del 2,2-4,4%, con una mortalità dello 0-1,4%. In un’ampia casistica monocentrica su casi di HCC e metastasi trattati con sistema espandibile RITA [Buscarini et al. 2004] si identificavano complicanze maggiori precoci nel 4,6% dei casi, complicanze maggiori tardive nell’1,9% e complicanze minori nel 32,5%. Bisogna però considerare che la resezione epatica ancora oggi ha una morbilità >26% ed una mortalità sino al 3%, e questo anche nei centri ove i pazienti vengono attentamente selezionati per la chirurgia [Gillams 2005, Tateishi et al. 2005]. L’emorragia (emoperitoneo) dopo RFTA non è rara ma di solito è di limitata entità (<2 unità) e si produce nell’arco di diverse ore, potendo richiedere talora delle trasfusioni ma solo eccezionalmente un’embolizzazione o un trattamento chirurgico; nei cirrotici comunque, in cui si aggiunge il problema dell’anomala coagulazione e della bassa conta piastrinica, è opportuno non indurre volumi di necrosi eccessivamente ampi, proprio per il rischio emorragico [Gillams 2005]. L’infezione della zona trattata avviene di solito tardivamente, nel momento in cui agenti patogeni penetrati da una porta anche lontana raggiungono per via ematogena o ascendente la lesione necrotica. Nei pazienti con stent biliare o anastomosi biliodigestiva è consigliabile un’antibioticoterapia per 3 mesi dopo la RFTA [Gillams 2005]. L’ascessualizzazione può essere sospettata, oltre che sul piano clinico, per la visibilità all’US di lesioni trattate che incrementano di dimensioni o che mostrano artefatti da riverbero interni dovuti a gas; l’aspirazione diagnostica conferma la diagnosi e consente il trattamento con antibiotici o con eventuale drenaggio. Lesioni dovute alla penetrazione dell’ago in strutture anatomiche viciniori possono comportare pneumotorace, perforazione intestinale (specie colica), formazione di fistole e/o ascessi, lacerazione diaframmatica, occlusione dell’arteria epatica, lesione ureterale (per RFTA renale). Per evitare questi eventi, taluni adottano la tecnica di instillare 0,5-1 L transcatetere di destrosio al 5% o di soluzione glucosata, tra l’area da trattare e la struttura vulnerabile adiacente e cioè, a seconda dei casi, nel cavo pleurico destro oppure in uno degli spazi periepatici [Gillams 2005]. La lesione della via biliare può determinare flogosi, bilomi e stenosi e può essere eventualmente prevenuta incannulando e raffreddando la via biliare principale; in generale, è comunque consigliabile evitare il trattamento con RF delle lesioni epatiche poste troppo vicino alla via biliare principale o alla colecisti. La trombosi della vena porta o di suoi rami lobari o segmentari, se da un lato può incrementare l’effetto necrotizzante sulla lesione può anche determinare nel cirroti-
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b Fig. 4.26a, b. Emoperitoneo dopo trattamento di HCC con RFTA. Il controllo a cinque giorni dalla terapia ablativa identifica una lesione ipoecogena disomogenea della piccola ala epatica, con discreto versamento peritoneale contiguo (frecce), assente prima del trattamento. Anemizzazione nei giorni precedenti
Fig. 4.27. Emobilia dopo trattamento di HCC con RFTA. Materiale ipoecogeno corpuscolato nel lume colecistico
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co uno scompenso irreversibile [Gillams 2005]. Un trattamento ablativo può, infatti, comportare uno scompenso della funzionalità epatica, temporaneo o permanente. In particolare nei pazienti con Child C, esiste il rischio concreto di sanguinamento da varici esofagee, che generalmente si verifica dopo 15-20 giorni dal trattamento. La RFTA renale non determina invece un deterioramento della funzionalità di tale organo. L’ablazione di metastasi da tumori neuroendocrini secernenti può indurre un aumento marcato dei livelli ematici degli ormoni prodotti: nel carcinoide si può indurre una crisi ipertensiva anche fatale e pertanto è consigliato il trattamento periprocedurale con ocreotide e l’attento monitoraggio post-ablativo. L’ablazione surrenale può comportare crisi ipertensive da rilascio catecolaminico ad opera del tessuto ghiandolare sano funzionante e pertanto la pressione arteriosa dovrebbe essere costantemente monitorizzata durante la procedura [Gillams 2005]. Si stima in media un’incidenza di seeding tumorale lungo il tragitto dell’ago di circa lo 0,5% (cfr. paragrafo 3.16) [Gillams 2005]. Uno studio multicentrico su 2.542 pazienti trattati con RFTA (tecnica “a punta fredda”) per HCC ha riportano un’incidenza dello 0,9% [Livraghi et al. 2005]. In una casistica isolata, tuttavia, è stata segnalata un’incidenza molto più alta, pari al 12,5% dei pazienti con HCC <5 cm trattati con RFTA [Llovet et al. 2001]. Come noto già dalla chirurgia, il rischio è maggiore con le metastasi epatiche che con gli HCC. Il riscaldamento dell’ago-elettrodo prima della sua estrazione dal fegato può, come già detto, evitare il trascinamento di cellule tumorali lungo il tragitto. Uno dei limiti maggiori delle terapie ablative percutanee è dato dal volume di necrosi, che non consente di includere tumori di dimensioni elevate, pena la presenza di ampi residui. Dopo ablazione con RF è stata segnalata anche una percentuale di recidive dell’HCC del 63% (locali nel 26% e distanti nel 53%) [Kim 2006]. I fattori di rischio per la ripresa locale sono tumore >3 cm, contatto del tumore con un vaso ed insufficiente margine di sicurezza, laddove per la recidiva in altri segmenti epatici l’unico fattore di rischio segnalato è rappresentato da elevati livelli di AFP prima del trattamento; ne deriva che gli HCC più voluminosi e con elevati livelli sierici di AFP dovrebbero essere trattati più aggressivamente e monitorizzati più attentamente [Kim 2006]. Nelle lesioni più voluminose risulta difficoltoso determinare il numero di ablazioni necessarie e stabilire l’esatta localizzazione degli aghi o degli elettrodi di modo da indurre un’omogenea distribuzione del-
l’agente necrotizzante, sia esso l’etanolo o il calore, a meno di non praticare multiple ablazioni sovrapposte o di combinare diverse terapie ablative. Ricorrere a multiple sedute ablative o impiegare multipli aghi per ablazione può risultare piuttosto indaginoso e pertanto, soprattutto per ovviare a queste limitazioni, sono stati utilizzati negli anni i trattamenti combinati. Con queste modalità si impiegano, contemporaneamente o sequenzialmente a seconda dei casi, gli effetti antitumorali combinati di due tipi differenti di trattamento locoregionale: PEI + chemioembolizzazione (TACE), RFTA + TACE, termocoagulazione con microonde + TACE, fotocoagulazione con laser + TACE, ablazione con ultrasuoni focalizzati ad alta intensità + TACE, radioterapia a fasci esterni + TACE, PEI + RFTA, procedura percutanea + ostruzione dell’afflusso arterioso o del deflusso venoso [Buscarini et al. 1999, Gasparini et al. 2002, Lencioni et al. 1998, Qian et al. 2003, Vallone et al. 2006]. La combinazione con la TACE consente di ridurre gli effetti negativi di quest’ultima sulla funzionalità epatica, eseguendola di solito con modalità segmentaria o subsegmentaria anziché globale. Inoltre la necrosi coagulativa indotta dalla TACE permette una maggiore diffusione dell’etanolo nel caso di una PEI successiva [Lencioni et al. 1998]. Il trattamento combinato con PEI e RFTA è in grado di determinare un volume di necrosi più ampio della semplice addizione aritmetica dell’effetto distruttivo delle due metodiche, per un potenziamento reciproco: l’etanolo induce infatti una necrosi coagulativa che facilita la diffusione del calore, anche per l’effetto trombizzante sui piccoli vasi intralesionali (l’effetto delle RF è infatti minore nelle aree con persistente perfusione); inoltre si ipotizza che l’etanolo possa essere riscaldato dalla successiva applicazione di RF, con aumento del suo effetto necrotizzante e diffusione nelle aree tumorali sopravvissute alla RFTA [Goldberg et al. 2000]. In alcuni centri si inietta l’etanolo centralmente e si praticano le termoablazioni alla periferia, mentre in altri si effettua l’inverso, ma sempre facendo precedere la PEI alla RFTA (posizionando però prima gli elettrodi della RFTA perché l’iperecogenicità indotta dall’etanolo renderebbe diffile farlo in un secondo momento) (Fig. 4.28, Video 4.14). L’associazione PEI + RFTA consente di ridurre il numero e la durata delle applicazioni di RF per seduta ed anche di rendere accessibili al trattamento lesioni in sede “difficile”, come quelle sottoglissoniane, paracolecistiche o paradiaframmatiche: si agisce con l’etanolo sul versante lesionale contiguo alla zona a rischio e con le RF sull’altro [Kurokohchi et al. 2002, Vallone et al. 2006].
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Fig. 4.28a-d. Trattamento combinato con RFTA e PEI per HCC >4 cm. Vengono prima posizionati gli elettrodi per RF (a). Poi vengono inseriti gli aghi e si procede all’introduzione di etanolo (b). Infine si effettua la termoablazione sul versante profondo (c) e su quello superficiale (d) della lesione. Modificato da [Vallone et al. 2006]
4.11. L’aspetto della lesione trattata per via percutanea e la valutazione della risposta dopo terapie ablative Il compito della diagnostica per immagini nella valutazione delle lesioni trattate con terapie ablative percutanee è molteplice: determinare l’effettiva distruzione di tutto il tessuto neoplastico (completezza del-
la necrosi), riconoscere eventuali complicanze, individuare precocemente una ripresa della malattia, sia nella sede del trattamento (recidiva vera e propria) che in altre porzioni dell’organo in questione (comparsa di nuovi noduli). Il follow-up è chiaramente fondamentale sia nel paziente con HCC che in quello con metastasi da tumore extraepatico, poiché la tendenza naturale è verso lo sviluppo di nuove lesioni.
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L’individuazione precoce sia di un residuo, che di una recidiva locale, che di nuove lesioni è importante, quantomeno nel paziente trattato con intento localmente radicale (maggioranza dei soggetti con HCC), perché ne migliora le possibilità di trattamento tempestivo e quindi di controllo. L’individuazione di un residuo tumorale è importante perché, se questo viene identificato precocemente, è possibile reintervenire quanto prima e quindi non pregiudicare l’intento generale del trattamento. I marcatori tumorali, in particolare l’AFP per l’HCC ed il CEA per le metastasi da tumore colico, costituiscono un parametro sullo stato generale della malattia ma hanno un limitato valore nel descrivere lo stato di vitalità del singolo nodulo trattato [Scott Gazelle et al. 2000]. L’ecografia, modalità ideale come guida al trattamento, ha invece difficoltà nella dimostrazione della necrosi. L’iperecogenicità prodotta dalla diffusione dell’etanolo, nella PEI, o quella indotta dal calore, nella RFTA o in altre terapie similari, indica solo con molta approssimazione l’estensione dell’area necrotica e non può essere utilizzata per un’efficace stima dell’eventuale residuo tumorale già nel corso della terapia ablativa [Scott Gazelle et al. 2000] (Fig. 4.29). Inoltre bisogna considerare che l’ecogenicità prodotta dal trattamento della parte più superficiale della lesione maschera la visualizzazione della sua porzione profonda, a meno che non si proceda sistematicamente a trattare prima in profondità e poi in superficie. In realtà, l’ablazione viene spesso continuata sino a ottenere la più ampia area di necrosi possibile, compatibilmente con la sicurezza e con la tolleranza del paziente. L’US non è in grado di distinguere tra tessuto necrotico e tessuto sano all’interno della lesione trattata,
Fig. 4.30. HCC dopo RFTA. Aspetto ecogeno disomogeneo, aspecifico, della voluminosa lesione nodulare epatica (frecce)
Fig. 4.29. HCC dopo trattamento con PEI in seduta singola. La scansione US praticata due giorni dopo la sessione di one shot dimostra una diffusa iperecogenicità gassosa e artefattuale
Fig. 4.31. Carcinoma renale necrotico dopo RFTA, in paziente monorene. La scansione a 6 mesi dal trattamento ablativo dimostra una lesione esofitica, ecogena disomogenea, del rene destro (frecce)
il cui aspetto post-trattamento è infatti variabile ed aspecifico: le lesioni ipoecogene tendono a divenire iso-iperecogene e quelle iperecogene a diventare disomogenee, ma chiaramente ciò non consente di stabilire se vi sia o meno una quota di tessuto tumorale attivo residuo (Figg. 4.30, 4.31). L’esito necrotico focale ripete la forma e le dimensioni della lesione originaria, risultando talora leggermente più ellittico, cioè allungato verso la direzione di accesso della sorgente ablativa. Soprattutto dopo RF e dopo fotocoagulazione con laser è possibile rilevare all’interno delle lesioni necrotiche, almeno di quelle di maggiori dimensioni, delle bande di maggiore ecogenicità, che sono proprio il segno della carbonizzazione prodotta rispettivamente dall’elettrodo o dall’ago [Scott Gazelle et al. 2000].
Capitolo 4 Interventistica oncologica ecoguidata Il color- ed il power-Doppler sono stati proposti nel passato per la valutazione dell’efficacia terapeutica delle terapie ablative percutanee ma sono stati alquanto ridimensionati nel loro impiego dopo l’introduzione della CEUS. Il power-Doppler è sicuramente più sensibile del color-Doppler, ed entrambe le metodiche incrementano di sensibilità dopo iniezione di mdc ecografico. Tuttavia il valore delle tecniche Doppler è soprattutto in senso affermativo, indicando un residuo tumorale quando documentano dei segnali vascolari intralesionali dopo il trattamento; in questo caso l’ECD può anche essere utile nel guidare il ritrattamento percutaneo verso l’area sede di vascolarizzazione residua [Bartolozzi et al. 1998, Choi et al. 2000, Lencioni et al. 1995] (Figg. 4.32, 4.33). Nel caso invece di flussi assenti, concludere per una necrosi completa
Fig. 4.32. Residuo di HCC dopo trattamento combinato con RFTA e PEI. Lo studio ECD dopo trattamento dimostra qualche segnale vascolare residuo
Fig. 4.33. Residuo attivo di HCC dopo trattamento combinato con chemioembolizzazione transcatetere e PEI. Lo studio ECD della grossa lesione epatica dimostra qualche segnale arterioso residuo
è sicuramente arbitrario, pur dovendosi valutare caso per caso. In ogni caso la TC è risultata, almeno in alcune casistiche, superiore rispetto alle tecniche Doppler nel definire i risultati terapeutici [Vallone et al. 2003]. La CEUS è utile per guidare il trattamento di lesioni poco o nulla visibili all’US basale oppure per guidare l’ablazione di lesioni già trattate e con recidiva locale: in questo caso infatti l’US può incontrare difficoltà nel riconoscere la componente necrotica e la componente dovuta alla ripresa tumorale. Per quanto riguarda l’impiego della CEUS per il riconoscimento di un residuo tumorale immediatamente dopo l’ablazione, nel corso della stessa seduta terapeutica, questo è concettualmente molto interessante, specie nel trattamento di lesioni di dimensioni maggiori che richiedono inserimenti multipli dell’elettrodo ed in cui l’iperecogenicità sviluppata dal trattamento può mascherare determinate aree di residuo tumorale. Estemporaneamente, sia nella PEI che con le altre PAT, si può eseguire un’ablazione mirata sul residuo attivo messo in evidenza dalla CEUS. Nella pratica, tuttavia, si ci deve anche relazionare con l’aumento consequenziale del tempo totale della seduta ablativa, come anche con l’iperecogenicità indotta dall’etanolo o dal calore, la quale ostacola il riconoscimento delle parti ancora vitali della neoplasia, anch’esse iperecogene [Solbiati et al. 2004]. La CEUS post-procedurale eseguita nelle prime 24 ore dal trattamento è utile, consentendo di definire precocemente la necessità di un ritrattamento, e di programmarlo senza dover attendere il controllo TC o RM a 2-3 settimane. Comunque, la CEUS immediatamente post-procedurale (entro un’ora dalla RFTA) è risultata meno accurata rispetto al follow-up a 2 settimane con TC o RM (sensibilità 40%, specificità 94%), con un risultato concordante nel 76% dei casi [Dill-Macky et al. 2006]. La CEUS risulta di notevole utilità nella PEI multisessione: l’esecuzione di un controllo CEUS consente infatti di definire il numero di sedute e la quantità di etanolo ancora necessari, evitando sia l’ipotrattamento, quando si dimostra un residuo tumorale, che l’ipertrattamento, quando la lesione appare completamente necrotica e si può quindi già interrompere il protocollo terapeutico ed inviare il paziente al follow-up. Come già noto dagli studi TC ed RM, il residuo tumorale si localizza perifericamente, laddove l’etanolo ha più difficoltà a diffondere per la presenza intratumorale di setti e laddove il calore o il freddo utilizzato dalle altre PAT viene ostacolato dall’effetto perfrigerante o riscaldante, rispettivamente, dei vasi perilesionali. Il residuo tumorale, sia nell’HCC che nelle metastasi, è inoltre spesso eccentrico, disponendosi il più delle volte sul versante profondo della lesione trattata, con un aspetto semilunare o più di rado di
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Ecografia in oncologia
vero e proprio gettone (Fig. 4.34); nell’HCC esso è nettamente iperecogeno in fase arteriosa, mentre nelle metastasi appare di più difficoltosa determinazione, apparendo come una vascolarizzazione più o meno tenue sia in fase arteriosa che portale-sinusoidale (Figg. 4.35-4.38). Spesso, per le motivazioni suddette, il tessuto tumorale attivo si riconosce nelle adiacenze
a
b Fig. 4.35a, b. HCC trattato con RFTA. La scansione pretrattamento dimostra una voluminosa lesione nodulare ipoecogena (a, frecce). Quella CEUS dopo ablazione (b) documenta una sostanziale avascolarità della lesione, con modesti fenomeni reattivi perilesionali
Fig. 4.34. Principali pattern CEUS del residuo tumorale dopo ablazione percutanea. Il residuo ipervascolare (iperecogeno) di HCC può essere semilunare, a gettone, a clessidra lungo setti interni oppure circonferenziale. Specie in quest’ultimo caso esso deve essere distinto dal tessuto reattivo e granulativo perilesionale
Fig. 4.36. HCC, residuo tumorale dopo trattamento con PEI. La scansione CEUS con sistema intermittente dimostra, in fase arteriosa, una lesione ipoecogena necrotica, con un gettone eccentrico di persistente enhancement
Capitolo 4 Interventistica oncologica ecoguidata
a
a
b
b
Fig. 4.37a, b. Residuo di HCC dopo trattamento con PEI. Lo studio ECD dopo trattamento dimostra qualche segnale vascolare residuo (a). La valutazione CEUS in fase arteriosa identifica un ampio gettone di tessuto ipervascolarizzato residuo (b, frecce)
di un vaso paratumorale maggiore, che è visibile mentre protrude marginalmente verso l’area di necrosi (“cuffia perivasale”). La concordanza tra followup CEUS e follow-up con TC o RM è risultata del 91% [Dill-Macky et al. 2006]. Le difficoltà diagnostico-differenziali della CEUS sono tra il residuo neoplastico ed i grossi vasi residui adiacenti alla lesione, nonché con il tessuto granulativo postablativo, che tuttavia tende ad essere sottile e circonferenziale, ed inoltre a scomparire nei controlli successivi. La TC precoce viene ormai utilizzata solo nel sospetto di complicanze. La TC spirale/multistrato, con valutazione multifasica del parenchima epatico, costituisce la metodica maggiormente utilizzata per la valutazione delle lesioni trattate con procedure percutanee, essendo panoramica, standardizzata ed affidabile [Catalano et al. 2000a, 2000b]. Il controllo, con TC spirale/multistrato o con RM dinamica (eventualmente anche con mdc epatospecifici), viene eseguito entro 6
c Fig. 4.38a–c. Residuo di HCC dopo trattamento combinato con PEI e RFTA. Nodulo paracolecistico, con segnali arteriosi interni al PD direzionale (a). Viene trattata la parte contigua alla colecisti con PEI ed il resto con RFTA. Aspetto US aspecifico, ipoecogeno disomogeneo, dopo il trattamento (b). Gettone di tessuto vitale residuo (frecce) nello studio CEUS in fase arteriosa (c)
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Ecografia in oncologia
settimane dal trattamento [Goldberg et al. 2005]. Prima di quest’epoca si avrebbero informazioni più precoci sulla persistenza di tessuto vitale e quindi sulla necessità di un ritrattamento; tuttavia un esame condotto nei primi 15 giorni dalla sessione ablativa crea spesso delle difficoltà interpretative, essendo presenti fenomeni reattivi che possono simulare la persistenza di tessuto neoplastico. Bisogna inoltre considerare che oggi, sempre più, si tende ad utilizzare la CEUS nella valutazione post-terapeutica più o meno precoce, in-
viando il paziente ad un nuovo trattamento in caso di identificazione di un residuo; in caso di necrosi completa si attende il follow-up TC o RM, praticato sempre più tardivamente (anche 3-6 mesi presso alcuni centri con grossa esperienza nella CEUS). La periodicità del follow-up a lungo termine, è di 3-6 mesi, fino ad arrivare ad un anno nei soggetti trattati da tempo. Esso è basato sui marcatori tumorali e sull’US, ricorrendo alla CEUS o alle macchine pesanti, in casi selezionati e soprattutto dinanzi a modifiche del quadro noto. La recidiva può essere all’interno dell’area trattata (evidentemente per persistenza di foci tumorali microscopici), sui margini della lesione necrotica, nello stesso segmento ma non in contatto con la regione necrotica originaria (eventualmente anche per crescita di noduli satelliti microscopici), in altro segmento (come conseguenza più che di una recidiva della stessa natura d’organo dell’HCC) (Catalano et al. 2001) (Figg. 4.39-4.41).
a
b Fig. 4.39. Principali pattern CEUS della recidiva tumorale dopo ablazione percutanea. Si distinguono un’endocrescita, nell’ambito del nodulo trattato, un’esocrescita, marginalmente al nodulo trattato, una diffusione, nello stesso segmento del nodulo trattato ed una progressione, con nuovi noduli in segmenti diversi da quello trattato. Modificato da [Catalano et al. 2006b]
Fig. 4.40a, b. Recidiva di HCC dopo PEI. L’US (a) dimostra un gettone ipoecogeno disomogeneo (frecce) contiguo ad una lesione trattata con calcificazioni marginali. La CEUS in fase arteriosa (b) documenta l’ipervascolarizzazione di questa recidiva paranodulare e la persistente avascolarità del nodulo trattato
Capitolo 4 Interventistica oncologica ecoguidata
Fig. 4.41. Nuovo nodulo di HCC in paziente con lesione necrotica dopo PEI. Lo studio CEUS in fase arteriosa evidenzia un nodulo anecogeno necrotico (freccia breve) ed uno nuovo, con aspetto ipervascolare, in un altro segmento (freccia lunga)
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Indice analitico
A adenolinfoma 106, 108 adenoma - epatocellulare 188 - follicolare 117 - lattante 142 - pleomorfo 45, 47, 106, 107, 109 - surrenale 236-238 - tossico 117 adenomioma 206, 281 adenomiomatosi 206, 207, 209 adenosi mammaria 27 ago - tranciante 150, 359, 361, 365, 369 - non tranciante 358, 362 alcolizzazione (vedi iniezione percutanea di etanolo) 377, 378
alfafetoproteina (AFP) 10, 11, 17, 196, 268, 274, 384, 386 aliasing 43, 46, 49, 77, 203 allestimento 361-363 alone 11, 30, 36, 41, 80, 81, 111-113, 117, 128, 129, 142, 162, 178, 179, 180, 182, 185, 188, 190, 192, 197, 199, 200, 203, 226, 229, 230, 271, 272, 283, 289, 327, 332, 382 amartoma 187, 226, 228, 243 ampulloma 214, 218 aneurisma 85, 92, 93, 175, 231 angiogenesi (vedi neoangiogenesi) 12, 13, 15, 18, 49, 61, 179, 204, 325, 330 angioma 28, 45, 60, 78, 79, 138, 177-179, 184-187, 194, 197, 226, 227, 363, 364, 368 angiomiolipoma 175, 187, 188, 239, 242, 244, 246, 247, 254 angiosarcoma 145, 181, 193, 228, 363 antigene prostatico specifico (PSA) 8, 17, 112, 279, 280-282, 284, 269 aorta 11, 35, 52, 201, 231, 232, 234 area indenne da steatosi 194 armonica (vedi imaging armonico) 32, 33, 35, 49, 51-53, 82, 126, 162, 243, 271, 360
arteria - femorale 88, 91 - iliaca 277, 284 - mesenterica 217, 235 - splenica 218-220, 231 atrofia endometriale 269, 272, 273 ascella 72, 86, 147, 150, 356 ascesso 80, 92, 138, 141-143, 160, 165, 171, 178, 190, 191, 220, 374, 375 ascite 162, 173, 200, 259, 292, 363, 377, 378
attenuazione del fascio 34-37, 46, 127-129, 131, 136, 137, 142, 144, 145, 155, 159, 160, 175, 246, 255, 259
B bacinetto 248, 254, 255, 339 B-flow 35 biopsia vacuum assisted (VB) 369, 370 borsite 85, 91 box del colore 45 BI-RADS 125, 126, 139, 148 bulky 228, 325, 328, 330, 350 C CA-125 8, 9, 17, 259, 260 carcinoide 17, 90, 178, 223, 247, 298, 384 carcinoma - a cellule renali (RCC) 248 - a cellule transizionali 248, 254 - anaplastico 8, 101, 111, 115, 116, 118, 120, 123, 248 - colecistico 208-211, 214, 215 - colloidale 129 - del corpo uterino (vedi carcinoma endometriale) 9, 183, 259, 269, 273, 274
- duodenale 297 - duttale 6, 41, 49, 125, 128, 129, 216 - endometriale 9, 183, 259, 273, 274 - follicolare 110, 115, 123, 124, 362 - infiammatorio 133, 145, 146 - intracistico 140 - lobulare 125, 366 - mammario 4, 5, 7, 17, 28, 34, 37, 42, 50, 62, 71-73, 86, 87,
-
112, 125-128, 130-134, 140, 141, 145-148, 150-152, 155, 158, 163, 166, 178, 180, 181, 183, 189, 191, 205, 206, 211, 214, 229, 268, 269, 273, 332, 362 mammario localmente avanzato (LABC) 145-148 midollare 17, 39, 65, 70, 102, 111, 115, 116, 120, 122, 124, 131, 179 ovarico 8, 9, 17, 31, 36, 44, 163, 170, 181-183, 205, 229, 230, 258, 259, 262-264, 292-294 pancreatico 182, 216, 218, 224, 296, 328, 364 papillifero 112-115, 119-124 polmonare 2, 31, 41, 62, 70, 71, 82, 87, 89, 99, 109, 158, 165, 178, 179, 184, 211, 238, 248, 252, 311, 312 renale 11, 178, 202, 243-246, 251-253, 257, 295, 364, 369, 386 tiroideo 110, 111, 118, 119, 124 tubulare 129
396
Indice analitico carcinosi peritoneale 31, 292-295, 331, 338, 364, 377 carotide (vedi arteria carotide) 98, 101, 118, 119, 333, 335 catetere venoso centrale 334 cavo popliteo 83, 92, 93 chemodectoma 98, 104 cicatrice 63, 76, 94, 95, 153-155, 162, 165, 188, 189, 193, 221, 254 cisticentesi 140, 376 cisti - branchiale 100 - complicata 252 - da echinococco (vedi cisti idatidea) 176, 191, 225, 226, 363
- del dotto tireoglosso 96, 98, 100 - del pancreas 166, 310 - follicolare 171, 264 - gangliare 83 - idatidea 363 - luteiniche 171, 264 - poplitea 92 - renale atipica 256, 258 - sebacee 63, 64, 86, 138, 141, 162 cistite emorragica 339 cistoadenoma 187, 192, 221-223, 264, 266, 292, 311 cistoadenocarcinoma 104, 179, 192, 222, 223, 248, 260, 262, 264, 266
classificazione del barcelona clinic liver cancer (BCLC) 204, 380
cluster 129, 356, 371 colangiocarcinoma 41, 42, 176-178, 192, 193, 214, 216, 218 colecisti 12, 40, 53, 176, 178, 192, 206-209, 211, 214, 321, 331, 340, 381, 384, 389
colecisti “a porcellana” 208 colecistite 209, 339, 379 coledoco 167, 212-214, 216, 218, 220, 302, 338 collo 4, 8, 29, 64, 66-68, 73, 78, 83, 84, 95-105, 111, 118, 119, 122, 178, 233, 239, 275, 283, 330-332, 334, 339, 356
colon 3, 6, 23, 39, 89, 104, 164, 170, 178-180, 210, 228, 247, 258, 292, 298, 299, 301, 302, 305, 322, 328, 331, 340-342, 347, 350, 357, 364 complicanza 235, 332, 333, 364, 375, 382 compound 33, 59, 60, 110, 126, 341, 360 compressione 5, 29, 35, 40-42, 45, 61, 77-79, 85, 106, 107, 111, 134, 155, 162, 175, 214, 220, 276, 296, 299, 302, 308, 334, 335-337, 360, 365, 371, 376 crescita 6, 10-14, 39, 41, 42, 50, 57, 66, 74, 80, 82, 106, 108, 111, 112, 116, 118, 126, 132, 134, 137, 141, 153, 164, 169, 172, 177, 178, 184, 185, 192, 193, 196, 197, 199, 200, 206, 214, 216, 221, 238, 246, 255, 277, 281, 282, 298, 310, 325, 332, 333, 337, 375, 378, 390
criteri - dell’organizzazione mondiale della sanità (WHO) 18-20, 204
- di Barcellona 196 - di valutazione della risposta nei tumori solidi (RECIST) 19-21, 25 CUP syndrome 86, 330, 331 cute 5, 40, 41, 45, 53, 61, 62, 67, 77, 128, 132, 141, 144, 146, 153, 154, 157, 165, 290, 332, 356, 360, 365, 368, 371, 373, 377
D densità - del PSA (PSAD) 282, 369
- microvasale (MVD) 13, 14 dermoide 265, 267 didimo 9, 10, 37, 284-287, 289, 290-292, 329 disgerminoma 171, 267, 290 displasia 139, 195, 196 distanziatore 27, 28, 62, 145 doppler spettrale 13, 42, 43, 45, 76, 262 dotto pancreatico 214-218, 220, 222, 302, 310 E ecocontrastografia (CEUS) 51, 54 ecoendoscopia (EUS) 302, 312 ecografia - tridimensionale (3D) 19, 33, 35, 40, 46, 81, 128, 137, 207, 211, 271, 360
- intraoperatoria (IOUS) 35 - intravascolare 35 - laparoscopica 35 - transrettale (TRUS) 8, 29, 279-284 - transvaginale (TVUS) 8, 9, 29, 44, 259, 269, 271, 272, 274, 375
elaioma 85 elastofibroma 157, 159 elastografia 35, 41, 281 ematoma 92, 95, 138, 158, 161, 165, 194, 364 ematopoiesi extramidollare 41, 190, 226 emoperitoneo 172, 228, 363, 364, 376, 379, 383 endometrio 9, 89, 266, 269, 270-274 endometrioma 264 endometriosi 9, 88, 162, 163, 171, 260, 264 epatocarcinogenesi 195 epatocarcinoma (HCC) 10, 46, 47, 54, 193, 195, 197-204 HCC fibrolamellare 168, 193 epididimo 38, 291, 292 epitelioma 61, 89 ernia 91, 92, 164, 165 F falsa immagine 88, 124, 195, 242 fascite nodulare 80, 85, 105 fattore di crescita dell’endotelio vascolare (VEGF) 12 fegato 11, 14, 32, 36, 40, 41, 46, 48, 50, 52-55, 111, 164, 167, 175-178, 182, 184, 189, 191-200, 209, 210, 214, 218, 234, 236, 238, 239, 240, 253, 264, 292, 306, 312, 318-320, 327, 328, 332, 350, 364, 367, 369, 380, 384 feocromocitoma 17, 169, 236, 237, 350, 238, 239, 363 fibroadenoma 51, 86, 127, 128, 132, 134-138, 145, 366 fibroma 97 fibrosarcoma 159, 166 fibrosi focale 128, 144 filo di repere 371, 372 filtro di parete (WF) 45 fissità 42, 147, 207, 297, 399 flash 46, 54, 55 fotocoagulazione interstiziale con laser (ILP) 381, 384, 386 FOV esteso (EFOV) 33, 34, 271 focalizzazione 19, 27, 28, 32, 52, 53, 175, 382 funicolo 88, 92, 291, 292 fuoco 32, 53 fremito vocale 126 frequenza di ripetizione dell’impulso (PRF) 5, 43, 45
Indice analitico G gain (vedi guadagno) 32, 37, 43, 45, 46, 53, 178, 277 galattocele 138, 141 gluteo 78, 85, 95, 356 granuloma 4, 76, 124, 190 guadagno 32, 37, 43, 45, 46, 53, 178, 277 I idrocolosonografia 299 idronefrosi 166-169, 171-173, 277, 338, 339, 377 imaging armonico 32-35, 49, 53, 126, 360 incidentaloma 236 indice - di accelerazione (IA) 14 - di Breslow 62 - di pulsatilità (IP) 14, 43 - meccanico (IM) 15, 51, 52, 54 - resistivo (IR) 14, 107 infarto 52, 134, 229, 291, 295, 379 inguine 29, 89, 324, 334, 356 iniezione percutanea di etanolo (PEI) 377 insulinoma 223, 224 intestino tenue 269, 298, 299, 302, 322, 328 invaginazione 168, 174, 232, 322, 323, 337, 338 iperplasia - lobulare sclerosante 129, 138 - nodulare focale (FNH) 13, 48, 172, 177, 187 - nodulare rigenerativa 190 - surrenalica 237, 238 ispessimento endometriale 269, 272-274 istiocitoma 74, 93, 95 ittero ostruttivo 212, 213, 338 L laterocervicale 64, 70, 101, 109, 111, 120, 123, 324, 334 lesione - focale epatica 15, 30, 55, 57, 176, 181, 183, 195, 197, 209, 211, 387
- focale splenica 225, 326 leucemia 228, 234, 326 Levovist 51, 52 linfadenite 68, 69, 88, 89, 98, 325 linfadenopatia - addominale 231 - ascellare 87, 125, 132, 145, 329, 332 - cervicale 59, 101 - inguinale 32, 69, 70 - mammaria interna 150 - sovraclaveare 104, 150 - superficiale 48, 64 linfangioma 97, 138, 168, 225, 227 linfoma 21, 42, 53, 54, 58, 87, 160, 161, 169, 178, 192, 214, 226-229, 230, 234, 235, 240, 241-243, 256, 278, 281, 289, 300, 303, 324-329, 334, 336, 364, 367, 369 - epatico 214, 327 - intestinale 300 - non Hodgkin (NHL) 228, 256, 303 - renale 21, 42, 256, 328 - splenico 229, 326, 327
linfonodo 18, 62, 64-74, 87-89, 90, 96, 98-100, 102, 109, 119, 120, 123, 145, 147, 150, 151, 214, 232, 251, 289, 307, 312, 325, 360, 362, 367, 369 - del legamento epato-duodenale 234 - reattivo 68 - “sentinella” 62, 64, 72-75, 89, 147, 150, 362 lipoma 77, 82, 84, 85, 92, 100, 143, 187, 305 liposarcoma 74, 77, 84, 85, 93-95, 100, 167, 254, 367
localizzazione radioguidata delle lesioni occulte (ROLL) 372
M macrocalcificazioni 39, 136 mammella 6-8, 22, 32, 34-36, 39, 41, 43, 83, 86, 100, 125, 131-134, 139, 142, 144-147, 151, 152-154, 159-161, 178, 229, 247, 258, 322, 329, 334, 362, 366 mammella accessoria 86 mano 2, 35, 63, 83, 86, 197, 212, 271, 291, 333, 356, 362
massa - addominale complicata 172 - addominale palpabile 165 - cervicale 95 - cistica 262, 264 - pelvica 169, 259, 263, 269, 290, 335 - renale 248, 249 mastectomia 3, 28, 152, 153 mastopatia diabetica 128, 144 melanoma 1, 4, 17, 30, 34, 36, 42, 61-64, 72-74, 76, 82, 86, 88, 90, 91, 101, 144, 158, 160, 163, 164, 169, 172, 174, 178-181, 194, 211, 212, 224, 229, 230, 240, 241, 247, 248, 279, 293, 301, 318-323, 338
metastasi - costali 158 - cutanea 62, 63, 82 - epatica 30, 42, 179-183, 194, 206 - glissoniana 180, 205, 264, 265, 364, 367, 382 - intestinale 301, 338 - in transito 61, 63 - linfonodale 72, 101, 120, 121, 123, 151, 320, 322, 331 - mammaria 144 - pancreatica 224, 225 - ovarica 268, 269 - renale 243, 247, 248 - splenica 229, 230 - surrenale 321 - testicolare 289 - tiroidea 117 microcalcificazioni 39, 70, 80, 102, 108, 112, 114, 115, 122, 123, 127-130, 146, 356, 367, 371
microlitiasi testicolare 284 mielolipoma 236-239 milza 54, 57, 192, 193, 219, 225-231, 234, 236, 241, 264, 319, 324, 326, 327, 364, 369, 372
milza accessoria 230 minisonda 317 miofibroblastoma 187 miosite 75, 83, 85, 97 mixoma 80, 267, 294 Morbo di Hodgkin 7, 17, 18, 70, 162, 228, 255, 323, 325, 326, 328, 329, 330
397
398
Indice analitico N nefroblastoma 167, 168, 255 nefroma cistico 168, 169, 254-256 neoangiogenesi 12, 18, 49, 61 neoplasia prostatica intraepiteliale (PIN) 280 neurinoma 81, 98, 99 neuroblastoma 15, 17, 167-169, 179, 237, 239 neuroma 80, 81, 83, 236 nodulo - di Sister Mary Joseph 164 - mammario 33, 125, 128, 132, 142, 155, 362, 370, 372 - prostatico 279 - tiroideo 36, 38, 40, 41, 48, 110, 111, 113, 117, 362 O occlusione 172, 174, 299, 302, 322, 337, 338, 383 ombre acustiche laterali 39 omental cake 293 oncocitoma 243, 247, 253, 254, 369 orientamento 35, 40, 126, 127, 135, 138, 142, 165, 359, 360, 368 ovaio 8, 17, 43, 89, 104, 166, 169, 179, 180, 228, 233, 258-269, 273, 289, 292, 295, 338
Q quadrantectomia 153 R radial scars 144 recidiva - ascellare 153 - cicatriziale 154 - tumorale 22, 284, 360, 390 repere chirurgico 371 regione sovraclaveare 152 rene 11, 57, 104, 167, 169, 171, 178, 225, 236, 237, 241, 242, 247-250, 252-256, 264, 290, 320, 321, 327, 328, 337, 338, 364, 369, 386 resezione transuretrale (TUR) 275 residuo tumorale 16, 22, 147, 378, 379, 382, 386-388 retrazione capsulare 42 retto 8, 32, 89, 130, 157, 161, 163, 182, 183, 264, 266, 269, 283, 300, 306, 307, 313-318, 328 rinforzo posteriore 38, 39, 61, 63, 68, 80, 83, 85, 87, 126-129, 135, 137-142, 154, 176, 184, 185, 190, 191, 194, 212, 224, 226, 230, 256, 264, 267, 328, 329 ripresa intramammaria 153 ristadiazione 16, 17, 20, 308, 317, 330
P pancreas 12, 17, 57, 104, 164, 166, 168, 169, 178, 179, 182, 210, 212, 214, 216-225, 231, 234, 236, 241, 290, 292, 302, 306, 310, 311, 322, 328, 331, 334, 339, 364, 369 pancreatite 8, 216, 218, 220-222, 224, 225, 235, 311, 327, 339, 364 panoramic view (vedi FOV esteso) 33, 34, 271 papilloma 138, 140, 276, 278, 279 - intracistico 140 - intraduttale 142, 160 paracentesi 296, 363, 377 paratiroide 102-105, 111, 362, 380
parete - addominale 29, 82, 157, 161-165, 275, 292, 293, 319, 377 - colecistica 206, 208, 294 - intestinale 296, 298, 299, 305, 323, 328, 364 - toracica 3, 31, 42, 77, 83, 126, 133, 152, 153, 157-159, 162, 164, 356, 366, 367, 372, 379
- vescicale 238, 264, 274-279, 339 parotide 44, 45, 47, 64, 70, 95, 105-109 pattern CEUS 57, 388, 390 PEI in seduta singola 386 peliosi 192 piccolo tumore renale 11, 242 polipo colecistico 206, 208 polipo colesterinico 207 polso 83, 85 power-Doppler 14, 29, 33, 35, 44-46, 48, 51, 66, 130, 273, 303, 325, 387
prostata 8, 12, 275, 278, 280, 281, 283, 284, 290, 306, 314-316, 338, 369
pseudoaneurisma 174, 298 pseudocisti 66, 69, 108, 116, 134, 166, 167, 169, 179, 218, 221, 222, 224, 225, 231, 232, 237, 298, 310, 330
pseudomixoma peritonei 267, 294 pseudotumore 159, 187, 242
S sarcoma 5, 34, 64, 71, 74, 81-85, 92-95, 164, 166-168, 193, 226, 228, 339
schwannoma 81, 82, 168 screening 1, 6-12, 15, 87, 125, 195-197, 258, 279 seeding 16, 157, 164, 165, 292, 362-364, 366-368, 379, 384 segno del doppio dotto 213, 218 segno dell’iceberg 266 seminoma 9, 10, 17, 233, 284-286, 288 sindrome da lisi tumorale acuta 333 sindrome veno-occlusiva 336 sistema di Cotswold 324 sistema TNM 16, 17, 22, 316, 324 SonoVue 51, 52, 296 sottolinguale 105, 108 sottomandibolare 64, 95, 99, 100, 105-107, 109 sovraclaveare 64, 96, 98, 104, 152, 153 spessore endometriale 9, 269, 271, 272, 273 splenomegalia 225-228, 230, 326 splenosi 41, 185, 191, 192, 231 stadiazione 13, 15-17, 20, 72, 74, 75, 96, 100, 118, 133, 146, 176, 196, 202, 210, 216, 217, 228, 236, 239, 249, 250, 253, 259, 269, 270, 272, 274-276, 280, 283, 284, 306-310, 312-318, 324, 330, 380 stadiazione della FIGO 259 stadiazione di Robson 251 steatonecrosi 128, 138, 142 stomaco 104, 178, 179, 210, 229, 233, 236, 292, 296-298, 303, 306, 308, 310, 322, 328, 329, 331, 364 surrene 231, 236, 237, 238-241, 249, 250, 253, 264, 321, 369
Indice analitico T tamponamento cardiaco 337 terapia - ablativa percutanea (PAT) 20, 379, 380, 384, 385, 387 - adiuvante 93, 154, 176, 271, 273, 274 - neoadiuvante 145, 147-148, 219, 308, 313, 315, 317, 318, 365 - ormonale sostitutiva 125, 138, 272 teratocarcinoma 286, 287, 290 teratoma 29, 266, 267, 284 termoablazione con RF (RFTA) 378-381, 382-389 tessuti molli 4, 5, 37, 40, 44, 74, 75, 77, 79, 82, 83, 85, 88, 89, 91-93, 105, 118, 157-159, 164, 356, 362, 367, 371
testicolo 9, 10, 17, 88, 91, 104, 169, 232, 284, 285, 287, 291 tiroide 7, 17, 38, 39, 48, 50, 65, 66, 70, 73, 95-97, 98, 100-104, 111, 113-117, 119, 120, 121-125, 248, 330, 355, 360, 362, 367
tiroidectomia 111, 118, 124 TNM (vedi sistema TNM) 14, 16, 17, 22, 25, 204, 249, 269, 271, 316, 324 torsione 169, 175, 290
trattamenti combinati 379, 384 triangolo di scarpa 88, 89 transizione 32, 41, 213, 338 tromboflebite 138, 334 trombosi - cavale 379 - portale 202, 203, 212, 295, 336, 379 - venosa profonda 334, 336, 337 tuba 263-265, 282 tubercoloma 190 tumefazione - ascellare 86 - del cavo popliteo 92 - inguinale 88 - scrotale 284 - superficiale 74 - surrenale 236 tumore - a cellule germinali 290 - a cellule granulari 142 - burned out 284 - cistico 264 - cutaneo 61 - dei tessuti molli 44, 74, 75, 88, 93, 367, 371 - del didimo 284 - del funicolo 291, 292 - delle ghiandole salivari 105, 106, 108
- dell’epididimo 291 - del pancreas 216 - del retto 313, 315 - del tratto gastrointestinale 296, 302 - di Klatskin 192, 216 - di Wilms 239, 255 - endocrino del pancreas 184, 223 - fibroso 267 - filloide 34, 137, 138, 362, 366 - intraduttale 221 - neuroendocrino 182, 224, 369 - neurogeno 81 - non a cellule germinali 284 - polmonare 43, 82, 178, 306 - sincrono 40 - stromale gastrointestinale (GIST) 21, 22, 168, 179, 205, 206, 298, 299, 306, 308, 310
- testicolare 9, 10, 284, 289, 291, 329 U uretere 232, 338, 339 urgenza oncologica 332 utero 38, 166, 228, 233, 258, 263, 265, 268, 269, 271, 275, 277, 296, 314, 315, 338, 364, 375
V vagina 89, 264, 270, 275, 277, 314, 315 vasi normali intralesionali 42 vena - cava 35, 181, 202, 231, 232, 234, 236, 238, 240, 249, 250, 253, 255, 334, 336, 337
- femorale 88, 334, 335 - iliaca 334, 335 - mesenterica 219, 220, 222 - porta 55, 175, 202, 209, 210, 213, 214, 216, 219, 327, 336, 383 - splenica 219, 225, 231, 241 versamento - pericardico 330, 337 - peritoneale 31, 168, 171, 174, 197, 219, 259, 266, 292, ,377 - pleurico 2, 3, 206, 292 vescica 38, 40, 264, 269, 275-277, 279, 281 vie biliari 18, 34, 172, 176, 192, 212-218, 306, 312, 338, 368, 376, 378
vie urinarie 34, 172
399