KEITH ABLOW NELLA MENTE DEL KILLER (Murder Suicide, 2004) A Karen Ablow «Ma, quando l'io parla all'io, chi parla? L'anim...
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KEITH ABLOW NELLA MENTE DEL KILLER (Murder Suicide, 2004) A Karen Ablow «Ma, quando l'io parla all'io, chi parla? L'anima sepolta, lo spirito spinto giù, giù, giù, fino alla catacomba centrale; l'io che ha preso il velo e ha lasciato il mondo... vile, forse, ma bello a suo modo, mentre aleggia senza requie con la sua lanterna su e giù per i corridoi bui.» VIRGINIA WOOLF, An Unwritten Novel PROLOGO 12 gennaio 2004, ore 4.40 L'ombra della notte avvolgeva ancora una gelida mattina a Boston. Il silenzio fu interrotto solo dai suoni secchi e nitidi del carrello di una Glock che rinculava e di una pallottola 9 mm che usciva dal caricatore e scattava nella camera di scoppio. John Snow, cinquant'anni, professore al Massachusetts Institute of Technology e inventore geniale, si trovava in un vicolo tra le torri Blake ed Ellison del Massachusetts General Hospital, poco distante da Francis Street. Un'ora dopo si sarebbe dovuto sottoporre a un intervento neurochirurgico sperimentale, un intervento che gli avrebbe radicalmente cambiato la vita. Abbassò lo sguardo sulla pistola puntata al petto. I battiti del cuore accelerarono per la paura, ma era una paura remota, come quella di chi è spettatore di una sparatoria. Si chiese se ciò fosse una conseguenza del fatto che aveva già detto addio alle persone che amava o che un tempo aveva amato. «Non puoi farlo» disse con voce tremante e le sue parole si persero tra gli edifici.
Di nuovo, silenzio. Iniziò a cadere una pioggerellina gelida. La pistola tremò appena. «Se vuoi davvero essere più di quello che sei, devi riuscire a reinventarti.» La pistola smise di tremare. Lui udì dei passi in lontananza. Lanciò un'occhiata nel vicolo e un barlume di speranza si levò dal suo cuore oppresso. La canna della pistola gli toccò il petto, proprio sotto lo sterno. Lui la strinse nel pugno guantato. La canna premette più forte contro di lui. I passi si avvicinavano. «Non puoi aggrapparti al passato» riuscì dire, a denti stretti. Il grilletto dell'arma cominciò a muoversi. Lui cadde in ginocchio e guardò in alto, nell'oscurità, silenziosamente, mentre la mente ritrovava il conforto delle parole che lo avevano sorretto durante la sua odissea medica, parole prese dalla Bhagavad-gītā, il testo sacro indù che aveva ispirato Thoreau e Gandhi: Certa è la morte per chiunque nasca, e certa è la nascita per chiunque muoia; poiché il ciclo è inevitabile, non c'è ragione di affliggersi. La pistola si spostò a pochi centimetri dal suo petto. Lui si sforzò di sorridere. Il grilletto cominciò a muoversi, di nuovo. Lui sentì il dolore prima di udire la detonazione, un dolore sconosciuto e inimmaginabile, un lampo che gli scoppiò dentro e gli bruciò il petto, le braccia e le gambe, l'inguine e la testa, consentendogli a stento di vedere, ma non certo di sentire, il sangue che gli imbrattava la camicia e le mani e poi colava a terra. Fu un dolore che cancellò tutto e, in un attimo, sembrò troppo grande perché il corpo e la mente potessero contenerlo. Poi fu come se non gli fosse mai appartenuto. E infine sparì. Lui se n'era liberato, come si era liberato della sofferenza e di tutti, proprio come aveva voluto che accadesse. 1
Quando, alle 4.45, i paramedici lo portarono al pronto soccorso del Massachusetts General Hospital, John Snow era privo di sensi e respirava appena. Avevano già comunicato via radio che l'uomo era vittima di una ferita d'arma da fuoco autoinferta al petto. Il neurochirurgo di Snow, il trentanovenne J.T. "Jet" Heller, faceva parte dell'équipe di sei medici e cinque infermiere che risposero alla chiamata d'emergenza. Un interno dell'ospedale, Peter Stratton, aveva sentito lo sparo mentre rincasava dopo il turno di notte e aveva chiamato il 911 con il cellulare. La polizia era accorsa sul posto e aveva trovato Snow a terra nel vicolo, in una pozza di sangue, con le braccia e le gambe raccolte in posizione fetale. Accanto a lui, sul selciato, era stata rinvenuta una borsa da viaggio di pelle nera e una pistola Glock 9 mm. Le condizioni di Snow erano state stabilizzate sul posto, ma il tracciato del suo elettrocardiogramma risultò piatto nel momento in cui varcò la soglia del pronto soccorso. Per tre volte l'equipe medica cercò di ripristinare il ritmo cardiaco, ma le pulsazioni ripresero solo per qualche secondo. Heller, allora, ricorse a misure estreme, cominciando con una pericardiocentesi. Il muscolo cardiaco è circondato dal pericardio, una resistente membrana fibrosierosa che lo avvolge come un guanto di latice. Ma tra il muscolo e la membrana può verificarsi un'emorragia, che dilata il pericardio come un palloncino e comprime il cuore impedendogli di pompare. Così, poiché il cuore di Snow non rispondeva ad alcuno stimolo, Heller introdusse un ago ipodermico di quindici centimetri sotto lo sterno e, inclinandolo di trenta gradi, lo spinse verso il cuore nel tentativo di forare il pericardio, aspirare il sangue stagnante e liberare il ventricolo sinistro, rimettendolo in funzione. Provò sette volte, ma ogni volta la siringa risultò piena solo di aria. Il tracciato dell'elettrocardiogramma rimase piatto per un minuto. «Smettiamo?» chiese un'infermiera. Heller si scostò dal viso i capelli lunghi e biondi e fissò Snow. «Dammi una siringa di adrenalina» disse. L'adrenalina è una sostanza che talvolta viene somministrata per via endovenosa ai pazienti in arresto cardiaco e ha la funzione di stimolare l'attività del cuore. Nessuno si mosse per prenderla. Sapevano che J.T. Heller aveva in mente qualcosa di ben più invasivo di una semplice endovena e sapevano che sarebbe stato inutile. Sia che il proiettile avesse forato il cuore sia che avesse reciso l'aorta, la ferita era stata letale. «È andato, Jet» intervenne uno dei medici dell'équipe, Aaron Kaplan.
«So che è un tuo paziente, ma...» «Dammi l'adrenalina» ripeté Heller, senza distogliere da Snow gli occhi blu zaffiro. I presenti si scambiarono occhiate. Heller si avvicinò al carrello dei medicinali e prese una siringa di adrenalina, poi tornò accanto a Snow, spruzzò un po' di liquido nell'aria, quindi spinse l'ago sotto lo sterno e iniettò dieci cc nel ventricolo sinistro. Poi guardò il monitor con aria corrucciata. «Riprendi a battere, maledizione!» Tenne lo sguardo fisso nello stesso punto per cinque, dieci, venti secondi, ma l'unica cosa che vide fu una linea piatta e l'unico rumore che sentì fu un ronzio sinistro. Allora Heller giocò l'ultima carta. Dal vassoio degli strumenti chirurgici accanto al lettino prese un bisturi e, senza esitare, praticò un'incisione trasversale di quindici centimetri sotto lo sterno di Snow, infilò la mano nel torace, afferrò il muscolo cardiaco e iniziò a massaggiarlo manualmente, comprimendolo e rilasciandolo a cadenza regolare, nel tentativo di rimetterlo in funzione. «Per l'amor di Dio, Jet,» sussurrò un altro dei medici dell'équipe «è finita». Heller proseguì il massaggio con più energia. «Non mollarmi» mormorava in continuazione. «Non mollarmi.» Ma fu tutto inutile. Ogni volta che Heller si fermava, il tracciato dell'elettrocardiogramma di Snow tornava piatto. Alla fine, Heller estrasse la mano guantata e sanguinante dal torace di Snow, il quale iniziò a contrarsi, con il corpo in preda alle convulsioni come un pesce fuori dall'acqua, i denti digrignati e gli occhi rovesciati all'indietro. L'attacco durò mezzo minuto. Poi Snow restò completamente immobile, gli occhi privi d'espressione fissi sul soffitto. Sudato e sporco di sangue, Heller si scostò dal lettino, fissò Snow e scosse la testa, come stordito. «Vigliacco» disse. «Tu...» Guardò i presenti. «Basta.» Lanciò un'occhiata all'orologio sulla parete. «Ora del decesso: 5.17.» 2 Ore 8.35 Grace Baxter, proprietaria di un'elegante galleria d'arte in Newbury
Street e moglie di George Reese, fondatore e presidente della Beacon Street Bank & Trust, si strinse il corpo tra le braccia per impedirsi di tremare. Da circa un anno il suo medico la teneva sotto farmaci quali Zoloft, Ambien e Klonopin, ma quella era la sua prima seduta di psicoterapia e con tutta probabilità era anche la prima volta che qualcuno l'ascoltava - ma sul serio - da quasi un'ora. «Mi dispiace di lasciarmi andare così,» sussurrò «ma le medicine non fanno effetto. Non voglio alzarmi dal letto, alla mattina. Non voglio andare a lavorare. Non voglio andare a letto con mio marito, alla sera. Non voglio questa vita.» Il quarantottenne dottor Frank Clevenger lanciò un'occhiata fuori dalla finestra del suo ufficio, nella zona portuale di Chelsea, verso la fila di auto che avanzava lentamente in direzione di Boston, lungo lo scheletro d'acciaio del Tobin Bridge. Si chiese quante delle persone dentro quelle macchine volessero davvero andare nel luogo in cui erano dirette. Quante di loro si concedevano il lusso di andare là dove avrebbero potuto esprimersi in modo autentico o almeno in modo da non sentirsi false e fuori posto? Quante di loro volevano davvero tornare in case in cui desideravano vivere? «Grace, sta pensando di farsi del male?» le chiese con delicatezza, guardandola attentamente. «Voglio solo smettere di soffrire» rispose lei, dondolandosi avanti e indietro sulla sedia. «E non voglio mai più far del male a qualcuno.» I sensi di colpa irrazionali erano sintomi caratteristici di una grave depressione. Alcuni pazienti arrivavano perfino a credere di essere responsabili dell'Olocausto o di tutte le sofferenze dell'umanità. «Far del male in che senso?» le chiese Clevenger. Lei abbassò lo sguardo. «Sono una persona malvagia. Una persona orribile, orribile.» Clevenger vide lacrime scorrerle sulle guance. Grace aveva trentotto anni ed era ancora una splendida donna, ma tutto - gli ondulati capelli castani ramati, gli occhi verde smeraldo e il disegno perfetto del naso e dei lineamenti del volto - lasciava intuire che a ventisei anni, quando aveva sposato George Reese, più vecchio di lei di quattordici anni e già straordinariamente ricco, dovesse essere una creatura fuori dall'ordinario. Solo adesso, quando il suo aspetto fisico cominciava appena a sfiorire, lei si trovava ad affrontare il fatto che non amava né il marito né il lavoro né il suo stile di vita, e neppure le macchine costose o il jet privato, la residenza di città a Beacon Hill o le case di villeggiatura a Nantucket e ad Aspen. Cominciava a sospettare che bellezza e ricchezza l'avessero allontanata
da se stessa e non sapeva come fare per tornare indietro né sapeva se, nel caso in cui ci fosse riuscita, avrebbe ancora ritrovato qualcosa di sé. «A volte è inevitabile far del male agli altri, Grace,» disse Clevenger «se si vuole mantenere la propria integrità». Grace Baxter giunse le mani in grembo. «Quando l'ho sposato, mi ha permesso di conservare il mio cognome. Doveva essere una sorta di simbolo del fatto che nessuno di noi due era proprietà dell'altro.» Strattonò nervosamente tre braccialetti di diamanti che portava a un polso, poi passò il pollice sul quadrante del Rolex d'oro e brillanti che portava all'altro. «Odio queste cose» commentò. «Me le ha regalate George. Regali d'anniversario. È un po' come portare delle manette.» Quest'osservazione indusse Clevenger a chiedersi quanto fossero foschi i pensieri di Grace in realtà. Forse lei intendeva solo suggerire l'elegante metafora della vita in una gabbia dorata, ma il fatto che, nel giro di un minuto, avesse accennato all'idea di fare male a qualcuno e poi alla similitudine delle manette lo preoccupava. Forse aveva in mente qualcosa di realmente distruttivo. Nell'anno trascorso da quando Clevenger aveva risolto il caso del "Killer dell'Autostrada", facendo catturare il serial killer Jonah Wrens prima che potesse gettare un altro cadavere decapitato lungo qualche tratto solitario d'asfalto, il divario tra le consulenze legali come psichiatra e la pratica psicoterapeutica si era ormai annullato. Ormai non erano più solo i depressi e i nevrotici comuni a bussare alla sua porta. La maggior parte delle persone che si rivolgevano a lui per essere curate combatteva contro l'impulso di nuocere al prossimo. Grace non era certo la prima donna a sentirsi tanto prigioniera del proprio matrimonio da scambiarlo con la cella di un carcere. «C'è qualcuno a cui ha immaginato di fare del male?» le chiese. Lei piegò la testa e socchiuse gli occhi. Stava chiaramente pensando a qualcosa. Qualcosa che la fece arrossire. «No» rispose. Alzò lo sguardo e lisciò pieghe immaginarie sulla gonna. «Intendevo solo dire che voglio essere una persona migliore. Che voglio imparare ad apprezzare quello che ho.» Suonava come una via di fuga. Le persone arrossiscono quando si svela una verità molto intima che le riguarda. Qualcosa di profondamente radicato nell'anima. Il nome di una persona amata. Un orientamento sessuale. Perfino un obiettivo personale ben nascosto. E l'impulso di nuocere a qualcuno aveva tutta l'aria di essere una verità molto intima di Grace. Proprio
questo - più della spiegazione fin troppo facile che lei aveva addotto, e cioè di avere visto in televisione Clevenger parlare del Killer dell'Autostrada e di essere rimasta affascinata dal suo look fatto di jeans, dolcevita nero e testa rasata - avrebbe potuto davvero spiegare perché aveva scelto di affrontare una terapia presso uno psichiatra legale che aveva la fama di saper entrare nella testa degli assassini. «A me può dirlo» la esortò Clevenger. «Devo andare» tagliò corto Grace, asciugandosi gli occhi. «Glielo giuro, non sono un pericolo per nessuno, neppure per me stessa. Non nutro mai pensieri del genere.» Era quello che gli psichiatri chiamano un "patto di incolumità": le parole che un paziente potenzialmente pericoloso deve dire per evitare di essere ricoverato contro la sua volontà e finire in un reparto psichiatrico d'isolamento. Clevenger fu indotto a chiedersi se Grace avesse più familiarità con la psichiatria di quel che lasciava intendere. «Devo domandarglielo in modo molto diretto: intende far del male a suo marito?» «Se io intendo... ma è ridicolo.» Grace lo fissò, impassibile. Lui sostenne il suo sguardo. «D'accordo.» Lei si alzò e fece scorrere le dita sulla fila di bottoni dorati della giacca nera Chanel. «La chiamo nei prossimi giorni per fissare un appuntamento, se trova un buco per me.» Clevenger rimase seduto. Voleva che fosse ben chiaro che la decisione di non approfondire l'argomento era solo ed esclusivamente di Grace. Sarebbe stata lei a voltare le spalle a lui. Alla verità. «Abbiamo ancora dieci minuti» disse. Lei rimase immobile per alcuni secondi, visibilmente a disagio, come se il silenzio di Clevenger potesse convincerla a sedersi di nuovo. Ma poi si girò di scatto e uscì. Dalla finestra, Clevenger la guardò dirigersi in fretta verso la sua auto, una grossa berlina BMW di colore blu con i vetri fumé. Grace frugò nella borsa, la scosse con violenza, poi vi frugò di nuovo. Si mise a piangere. Alla fine, trovò le chiavi, aprì la macchina e sparì all'interno dell'abitacolo, sbattendo la portiera. «Dobbiamo risarcirla?» chiese North Anderson, sulla soglia dell'ufficio di Clevenger. Clevenger si voltò verso lui. «Quando è uscita aveva un'aria peggiore di quando è entrata.» Da due anni Anderson era socio di Clevenger alla Boston Forensics. Ex
poliziotto di Baltimora e ora investigatore privato, era un nero che dimostrava dieci anni meno dei suoi quarantaquattro, probabilmente perché era un fanatico del sollevamento pesi, cui dedicava tre ore al giorno. Non aveva un grammo di grasso. Gli unici segni della sua vita da duro erano la cicatrice irregolare sopra l'occhio destro, ricordo di un sospettato armato di coltello, e la gamba sinistra lievemente claudicante, regalo di un delinquente con una calibro 45. Sia il sospettato sia il delinquente si erano ritrovati al tappeto. Il primo era finito in prigione. Il secondo all'obitorio. «Vive una vita falsa» disse Clevenger, mentre osservava la macchina di Grace Baxter uscire dal cancello che separava il Fitzgerald Shipyard - dove aveva sede la Boston Forensics - dal resto di Chelsea. «Ed è una cosa che fa male. Un dolore che aumenta di giorno in giorno.» «La verità ti renderà libero» sentenziò Anderson. «A meno che tu non sia colpevole.» Sfoggiò quel sorriso accattivante che conquistava la gente e la metteva a proprio agio, a Baltimora come a Boston. Sì, perché lui amava la gente, con tutte le sue fissazioni. «Ha telefonato il detective Mike Coady del dipartimento di polizia di Boston.» «Che cos'è successo?» chiese Clevenger. «Sai quel tizio che doveva essere operato al cervello al Massachusetts General Hospital?» «Sì, doveva essere ricoverato stamattina. John Snow. Era di nuovo sulla prima pagina del "Globe".» «L'intervento è stato annullato.» «Perché?» «Snow è morto.» «Morto? E come?» «L'hanno trovato in un vicolo tra due edifici nei pressi dell'ospedale. Un proiettile da 9 mm nel petto.» «Oddio. Sanno chi ha sparato?» «Coady pensa che sia stato... Snow stesso.» «Si è suicidato?» «Nessun testimone. La pallottola è partita dalla pistola di Snow.» «E allora perché Coady ha bisogno di noi?» chiese Clevenger. «Il coroner non scarterà ufficialmente un'ipotesi di omicidio» rispose Anderson, incrociando le possenti braccia. «Coady ha un arretrato di undici casi di omicidio irrisolti.» «E così il bravo detective vuole che gli fornisca un profilo psicologico postumo, che possa convalidare la teoria del suicidio» concluse Clevenger,
scuotendo la testa. «Lo chiamerò per dirgli di arrangiarsi con l'esame balistico.» Anderson si strinse nelle spalle. «Potrei andare a ficcare un po' il naso in giro per sentire che cosa si dice, giusto per farmi un'idea sulla storia.» «Perché sprecare energia, se a Coady interessa soltanto un timbro per chiudere il caso?» «La nostra fama non è certo quella di chi mette il timbro su qualunque cosa.» «Forse proprio per questo lui spera che stavolta lo faremo. Urgenza di credibilità.» Sollevò il ricevitore. «Mi dai il suo numero?» «Certo» rispose Anderson, senza muoversi. Clevenger lo guardò con aria sospettosa. «Che c'è?» «Sai quando ti capita di sentire qualcosa in modo istintivo? Quel che voglio dire è che, per quanto le storie su di lui fossero gonfiate dalla stampa, Snow stava per entrare in un territorio della medicina che nessuno aveva mai attraversato. Sarebbe passato alla storia. Tutti i giornalisti del paese lo assediavano per avere una sua intervista dopo l'operazione. Non sono uno strizzacervelli, ma immagino che un simile impeto possa farti passare brutti momenti. E lui si spara in un vicolo, a due passi dalla sala operatoria? Secondo me c'è qualcosa che non quadra.» «Non credi che si sia ucciso?» «Credo che questa sia la risposta che vuole Coady. E potrebbe essere quella giusta. Però stamattina un uomo si è preso una pallottola nel petto e il mio istinto mi dice di ricostruire tutta la faccenda.» «A partire da un uomo morto.» «Se fosse stato facile arrivare alla verità,» concluse Anderson «Coady non sarebbe venuto a cercarti.» 3 Ore 13.30 Clevenger salì sul suo pick-up, un Ford F-150 nero, e imboccò il Tobin Bridge in direzione di Boston. A mezzogiorno aveva appuntamento con il detective Mike Coady all'obitorio in Albany Street. Se doveva entrare nella testa di John Snow, tanto valeva per lui partire dal suo cadavere - dall'ultima pagina della sua biografia - e procedere a ritroso. Tutto quello che sapeva di Snow lo aveva appreso dai giornali e dalla te-
levisione. John Snow era un ingegnere aeronautico che aveva conseguito il dottorato ad Harvard ed era salito nella gerarchia accademica fino a diventare, a trentadue anni, il più giovane titolare di una cattedra al celebre Lincoln Lab del MIT. Qualche anno più tardi aveva lasciato il prestigioso istituto per fondare la Snow-Coroway Engineering, con sede a Cambridge e, nel giro di una quindicina d'anni, le sue invenzioni nel campo della tecnologia radar e della propulsione a razzo gli avevano fruttato più di un milione di dollari grazie alle commesse di aziende come la Boeing e la Lockheed Martin. Ma, a quanto pareva, tanta genialità aveva un suo prezzo: Snow soffriva di attacchi di convulsioni, come se le forze congiunte della conoscenza e dell'ispirazione che turbinavano nella sua mente qualche volta si agitassero con eccessiva intensità. Si trattava non tanto di quelle piccole crisi di assenza che portano una persona a fissare il vuoto, ma piuttosto di convulsioni tonico-cloniche, di attacchi epilettici che facevano cadere a terra Snow, privo di coscienza, ansimante, con il corpo in preda a contrazioni e scosse incontrollabili e la lingua sanguinante per le morsicature. Secondo un servizio di «20/20» su di lui, Snow aveva avuto il primo attacco a dieci anni mentre cercava di risolvere un'equazione che l'insegnante di calcolo gli aveva proposto, un'equazione che avrebbe messo in crisi parecchi matematici. Quando Snow aveva spezzato in due la matita, l'insegnante si era scusato per aver preteso troppo, ma poi aveva notato che Snow aveva scarabocchiato la soluzione a piè di pagina e che le sue membra irrigidite avevano cominciato a tremare. I genitori avevano temuto il peggio: un tumore al cervello. Ma un'indagine neurologica aveva escluso questa eventualità. Non c'era traccia né di riversamento di sangue né di infarto. Era stato un elettroencefalogramma a svelare quel che era successo: scariche elettriche delta e teta avevano attraversato il lobo temporale, invadendo quello frontale. Lampi di ispirazione impazziti. John Snow soffriva di epilessia. E mentre il Dilantin era bastato a tenerla sotto controllo finché lui era un ragazzino, successivamente, più o meno in coincidenza con la fine delle scuole superiori, per ottenere lo stesso effetto era stato necessario introdurre una combinazione di due farmaci. A trentacinque anni, Snow ne assumeva tre, ma continuava ad avere attacchi di convulsioni. Quanto più si concentrava su ciò che amava - le invenzioni tanto più soffriva. Era come se il suo talento alimentasse la malattia. A cinquant'anni, prendeva quattro anticonvulsivanti, ma ciononostante era
vittima degli attacchi almeno una dozzina di volte all'anno. Allora John Snow aveva deciso di farsi rimettere in sesto il cervello malandato. Aveva letto moltissimi manuali, riviste e studi di neurologia e neurochirurgia, aveva consultato neurologi e neurochirurghi di tutto il mondo e aveva svolto ricerche minuziose su Internet, alla costante ricerca della risposta a un'unica domanda: su quali parti del suo cervello era necessario intervenire per mettere fine a quelle convulsioni? Si trattava di una domanda problematica, in quanto i collegamenti elettrici del cervello di Snow erano tutti irrorati e il disturbo tendeva a filtrare attraverso i tessuti. Ogni cellula nervosa nel cervello (e ce n'erano miliardi) perdeva e assorbiva di continuo ioni carichi mentre la corrente elettrica si propagava attraverso il suo assone, terminando in un insieme di vescicole membranose che contenevano messaggeri chimici come la serotonina e la noradrenalina, facendo scoppiare quelle vescicole e riversando le sostanze chimiche nella più vicina cellula del circuito nervoso. E così via. Una sorprendente reazione elettrochimica a catena che si propagava a cascata in ogni direzione. Ma non all'infinito. Il cervello conteneva anche strutture distinte, come stati in una nazione, con frontiere difficili da attraversare, anche per l'elettricità. Snow aveva convinto il suo neurologo a prescrivergli un complesso insieme di elettroencefalogrammi e di tomografie a emissione di positroni e a risonanza magnetica nucleare per individuare la patologia. Poi aveva creato un software per incrociare i risultati e generare un'immagine tridimensionale computerizzata del suo cervello, nella quale le aree coinvolte con maggiore sicurezza negli attacchi erano evidenziate in rosso, mentre quelle meno sospette erano di colore blu. Nell'insieme, vi figuravano parti del lobo temporale, del lobo occipitale, della circonvoluzione del cingolo, dell'amigdala e dell'ippocampo: i campi di addestramento del neuroterrorismo che teneva Snow sotto tiro. Poi Snow aveva scelto il neurochirurgo: J.T. "Jet" Heller, direttore del reparto di neurochirurgia del Massachusetts General Hospital. Trentanovenne, brillante e insolente, Heller si era fatto un nome grazie al successo ottenuto con la separazione di due gemelli siamesi uniti per la testa. Ma doveva la sua fama anche a un efficace e quasi incruento sistema criochirurgico che consentiva di rimuovere gli oblastomi invasivi risparmiando il tessuto sano. Heller era un individualista disposto a rischiare tutto e a tentare l'impos-
sibile per un paziente, anche se ciò significava scontrarsi con la dirigenza del Massachusetts General Hospital e con il comitato etico. Ed era proprio ciò che aveva fatto per Snow, organizzando una conferenza stampa per protestare contro l'iniziale decisione del comitato di bloccare l'intervento chirurgico di Snow, ritenuto troppo invasivo e causa di imprevedibili effetti collaterali, tra cui possibili danni alla vista, alla memoria e alla parola. Heller riteneva che fosse diritto di Snow decidere quanto voleva rischiare per guarire e aveva minacciato di dimettersi dal suo incarico all'ospedale, se il comitato gli avesse rifiutato il permesso di procedere. Vari anchormen di Boston, come il leggendario Matty Siegel di Kiss 108, avevano sostenuto la causa di Snow, tonnellate di lettere avevano sommerso l'ospedale ed esperti di etica medica di fama nazionale erano intervenuti a suo favore. E così il comitato etico - evento raro - era tornato sulle proprie decisioni e aveva dato il consenso all'operazione. Ma adesso Snow era morto, colpito al petto da una pallottola un'ora prima del suo previsto intervento chirurgico. Clevenger pensò che forse l'impegno di Heller a favore dell'operazione di Snow era stato superiore al desiderio del suo paziente di sottoporvisi. Forse Snow si era lasciato coinvolgere nella battaglia per ribaltare la decisione del comitato etico, ma poi non aveva saputo come confessare a Heller di aver cambiato idea. Forse era giunto all'ospedale scoraggiato e indeciso tra l'idea di lasciar perdere tutto, continuando a soffrire di attacchi debilitanti, o di affrontare un'operazione che avrebbe potuto privarlo della vista o della parola. Forse nessuna delle due alternative gli era risultata praticabile. Clevenger parcheggiò la macchina ed entrò nell'obitorio. Alla reception lo informarono che il dottor Jeremiah Wolfe, il coroner, era nella cosiddetta "sala refrigerata" dove venivano eseguite le autopsie. Insieme a lui c'era il detective Coady. Clevenger li raggiunse, attraversando un corridoio e una serie di porte automatiche. Faceva freddo, lì dentro. Un altoparlante dal suono metallico diffondeva musica jazz. Wolfe e Coady erano ai lati di un tavolo d'acciaio su cui era steso un corpo coperto da un lenzuolo. «Benvenuto, dottor Clevenger» lo salutò Wolfe. Il coroner era un uomo sulla settantina, inagrissimo, con gli occhiali tondi e una selva di capelli ribelli e innaturalmente neri. Aveva mostrato a Clevenger più cadaveri di quanti entrambi desiderassero ricordare. «Pare proprio che non riusciamo mai a incontrarci in occasioni piacevoli» commentò Clevenger, avvicinandosi.
«Rischi del mestiere» ribatté Wolfe. «Il detective Coady» disse indicando, dall'altra parte del tavolo, un uomo simile a un bulldog, sui quarantacinque anni, con i capelli e la carnagione rossastri e un abito blu. Era alto circa un metro e settanta e aveva le spalle massicce. «Grazie per essere venuto» disse Coady. Clevenger gli strinse la grossa mano. Poi abbassò lo sguardo sul volto esanime di Snow, chiedendosi dove fosse finita tutta l'energia che aveva animato la sua mente fervida e il suo corpo atletico. Dimostrava vent'anni più dell'uomo un po' trascurato, ma straordinariamente bello, che aveva visto in televisione nei giorni precedenti; ora il suo sguardo sembrava fisso su qualcosa di molto lontano, svuotato dell'intelligenza che un tempo lo animava, la pelle aveva già il grigiore della pergamena essiccata e i suoi capelli argentei erano incrostati di sangue. «Ha un aspetto anche peggiore di quello che i cadaveri hanno di solito» constatò Clevenger. «La Glock fa quest'effetto» ribatté Coady, indicando con un cenno del capo una pallottola da 9 mm insanguinata, dentro una bacinella di acciaio inossidabile accanto al tavolo. «Ha perso quasi il settanta per cento del suo sangue» dichiarò Wolfe. Forse era per questo che Snow sembrava svuotato. Ma Clevenger aveva la sensazione che mancasse qualcos'altro: nell'espressione di Snow non c'era niente che suggerisse l'idea della pace raggiunta. Lì per lì, Clevenger respinse il pensiero, dicendosi che stava vedendo nelle labbra serrate, nella mascella rigida e negli occhi fissi di Snow più di quanto avrebbe dovuto e che quelli erano soltanto i primi sintomi del rigor mortis. Tuttavia non riusciva a liberarsi della sua prima, istintiva sensazione. Sì, perché, sebbene fosse un medico e avesse studiato fisica, epidemiologia e biochimica prima che psichiatria, lo scienziato che era in lui non aveva certo soffocato il poeta. E lui non poteva cancellare la netta impressione che, prima di seppellire John Snow, ci fosse del lavoro da fare. Forse si trattava della stessa sensazione che North Anderson aveva avuto in ufficio, e cioè che la storia di Snow non fosse ancora finita. «Va bene questa musica, o preferite qualcos'altro?» Clevenger e Coady si scambiarono un'occhiata. Coady si strinse nelle spalle. «Va bene così, credo» rispose Clevenger. «Fate caso agli immani sforzi che l'équipe del pronto soccorso ha fatto per salvare la vita al dottor Snow» si raccomandò Wolfe, facendo una pausa per assicurarsi che gli altri due avessero ben compreso il significato del-
le sue parole. Poi scostò il lenzuolo che copriva il corpo. «Cristo santo!» esclamò Coady. Il torace di Snow era squarciato da un'apertura grande quanto il pugno di un uomo: il pugno di Jet Heller. Il ventricolo sinistro del cuore, gonfio e bluastro per effetto del massaggio cardiaco, risaltava attraverso la ferita aperta. L'anatomia di Snow era tanto distorta e la sua pelle tanto chiazzata dai lividi che la patologia associata con la causa della sua morte - una ferita da arma da fuoco sopra la prima costola - passava quasi completamente in secondo piano. «I medici hanno cercato di salvarlo praticandogli un'incisione nel torace allo scopo di raggiungere il cuore e massaggiarlo manualmente» spiegò Wolfe. «Come potete constatare, i tessuti sono stati strappati, lacerati. Sono sicuro del punto di entrata del proiettile, sopra la prima costola.» Lo indicò con un puntatore telescopico. «Ha certamente attraversato il ventricolo destro del cuore e si è fermato nella terza vertebra toracica. Ma per formulare un'ipotesi di suicidio plausibile, dovrei sapere con precisione l'angolo di traiettoria del proiettile, in modo da capire se a sparare è stato un aggressore, tenendo la pistola parallela al terreno, oppure il dottor Snow stesso, puntando la canna verso l'alto.» «Perché non riesci a dedurre l'angolo?» domandò Coady. «Perché dipende anche dalla posizione della vittima. E io non la conosco. Il dottor Snow avrebbe potuto trovarsi in piedi dritto oppure inclinato a sinistra o a destra. Ma avrebbe potuto anche essere in ginocchio, nell'atteggiamento di chi supplica di essere risparmiato. Senza conoscere la sua posizione quando è partito il colpo, non posso fare deduzioni in base alle lesioni né tracciare con chiarezza la traiettoria del proiettile.» Coady scosse la testa. «Ti sei dimenticato di Charles Stuart? Allora avevi dichiarato che al novantanove per cento si era sparato da solo. Cosa c'è di diverso, stavolta?» Coady si riferiva al celebre caso di Charles Stuart, il quale nel 1989 aveva ucciso la moglie Carol, incinta, e poi si era sparato nell'addome dopo avere parcheggiato la macchina in un quartiere malfamato di Boston. In seguito aveva dichiarato che un nero li aveva bloccati mentre si recavano in auto all'ospedale per il corso preparto e aveva fatto fuoco su di loro. «In primo luogo, si sapeva che Stuart, al momento dell'"aggressione", si trovava al posto di guida. Il proiettile è stato ritrovato nello schienale del sedile. In secondo luogo, qui c'è una notevole lesione iatrogena.» «Per favore, professore, stai attento a come parli» disse Coady. «Io ho
frequentato lo zoo del Massachusetts.» Università del Massachusetts, 4.0, Phi Beta Kappa, due specializzazioni in diritto penale e sociologia: tutte cose che Coady non menzionava mai, perché non voleva che gli uomini della squadra pensassero che lui fosse diverso da loro. «"Iatrogena", ovvero in relazione con la terapia praticata in ospedale» spiegò Clevenger, indicando con un cenno del capo il ventricolo sinistro gonfio di Snow. «Il massaggio cardiaco.» «Bene» commentò Coady. «Che meraviglia! E che mi dici del suo guanto?» chiese a Wolfe. «Non hai detto che presenta bruciature di polvere da sparo?» «Sì, sul cuoio ci sono tracce di polvere da sparo» rispóse Wolfe. «Anche in questo caso, però, il campione è stato compromesso dai fluidi sparsi al pronto soccorso: sangue, flebo, antisettici. Non so se sia più probabile che la polvere si sia depositata nel caso in cui il dottor Snow abbia tenuto la pistola e sparato o nel caso in cui qualcun altro abbia premuto il grilletto e lui abbia cercato di allontanare l'arma.» «Insomma, mi stai dicendo che non abbiamo niente in mano» concluse Coady. «Abbiamo quello che avevamo quando ci siamo parlati al telefono» ribatté Wolfe. «Niente di decisivo.» Clevenger si chinò per osservare meglio le unghie di Snow, che brillavano sotto le lampade fluorescenti. «Si era fatto fare la manicure» osservò. «Smalto trasparente, praticamente senza un graffio.» «Se si fosse fatto fare il pedicure,» disse Coady, mentre dava un'occhiata ai piedi di Snow «almeno potremmo dire di sapere su di lui qualcosa di decisivo.» Wolfe ignorò la battuta di Coady. «Qualche riflessione che vorresti condividere con noi, dottore?» chiese. «Perché un uomo tanto depresso da spararsi un colpo si sarebbe fatto fare la manicure un giorno - due, al massimo - prima di suicidarsi?» chiese Clevenger. Coady contrasse le labbra e annuì. «Era il mio primo anno nella polizia. Mi chiamarono all'Hancock Tower. Un tizio in smoking a una festa di Natale minacciava di buttarsi giù dal tetto. Papillon, gemelli. Impeccabile. Scommetto che aveva unghie curatissime.» «Capisco dove vuoi arrivare» fece Clevenger. «Non sono uno psichiatra,» proseguì Coady «ma, per quel che ne so, il comportamento delle persone può essere molto contraddittorio. Un uomo
ama sua moglie a tal punto che, quando lei gli dice che sta per lasciarlo, la uccide. E la uccide perché non sopporta il pensiero di vivere senza di lei. Ha senso una cosa simile? Perché mai non è stato con lei prima, anziché spassarsela in giro?» «Non ha senso, in apparenza» disse Clevenger. «Esatto, in apparenza. Ma quando uno come te scava un po' più a fondo - o molto più a fondo - i pezzi forse cominciano a combaciare. Riesci a penetrare nella mente dell'assassino. Nella sua realtà. È per questo motivo che ti ho convocato. Se provi a fare la stessa cosa con Snow, penso che capiremo il perché della sua fine in quel vicolo, delle unghie smaltate e di tutto il resto. Così posso liberarmi dei giornalisti e passare a un caso con una vera vittima.» «Non stai cercando di forzare un po' la mano?» chiese Wolfe. «No di certo» rispose Coady. Perlomeno Coady non fingeva di essere un tipo di larghe vedute, pensò Clevenger. «Tu hai una tua teoria, ovvero che Snow si sia suicidato» disse. «Hai anche una teoria sulla ragione per cui l'avrebbe fatto?» «Come già ho detto al professore qui,» rispose Coady «penso che non se la sentisse più di finire sotto i ferri. Aveva perso il coraggio.» «Un momento di vigliaccheria» sintetizzò Clevenger. «È un'eventualità cui ho pensato anch'io.» Annuì. «Ma se si è ucciso senza averlo programmato, allora come si spiega il fatto che avesse con sé una pistola?» «Aveva il porto d'armi. Può darsi che volesse tenersi accanto una pistola dopo l'operazione.» «Perché?» «Era ricco» rispose Coady. «Aveva una società che faceva affari con i militari. Lui...» «Forse si sentiva minacciato» intervenne Wolfe. «Ma non spetta a me fare ipotesi.» «Tutto è possibile» disse Coady, teso. «Ha guidato lui fino all'ospedale?» chiese Clevenger. «No» rispose Coady. «Aveva un'autista da diciassette anni, un immigrato ceco, Pavel Blazek, il quale asserisce di averlo lasciato all'angolo di Staniford Street, a due isolati dal posto in cui si è sparato, quindici minuti prima che venisse chiamata la polizia.» «Snow era sposato, aveva una famiglia? Credo di averlo letto da qualche parte. Sua moglie non è un noto architetto?» «Una moglie e due figli: un maschio di sedici anni e una femmina di di-
ciotto.» «Però all'ospedale per l'operazione al cervello ci è andato da solo.» «Un caso come questo può generare una gran quantità di sospettati» disse Coady. «Un uomo viene trovato morto in un vicolo. Non ci sono testimoni. Se scovassimo una dozzina di persone che non potevano sopportarlo, la metà di loro non avrebbe un alibi. Potrebbe anche risultare che tre o quattro di loro stanno meglio con lui morto piuttosto che vivo. Ma questo non significa che l'abbiano ucciso. Resta il fatto che il colpo è partito dalla sua pistola.» «Quando è stato ritrovato aveva con sé qualcos'altro, oltre alla pistola?» chiese Clevenger. «Una borsa di pelle nera contenente un computer portatile e una specie di quadernetto o di diario. Pagine e pagine di appunti e scarabocchi. È tutto archiviato come reperto alla centrale di polizia.» «Posso esaminare la documentazione?» «Quando vuoi. Ti faccio preparare una copia del diario e dei file contenuti nel portatile.» «Potrei passare a prendere tutto domani mattina.» «D'accordo» disse Coady. Poi si schiarì la voce. «Ah, so che dopo il caso del Killer dell'Autostrada i giornalisti non possono fare a meno di te.» «Non c'è bisogno...» intervenne Wolfe. «Il "Globe", l'"Herald" e tutti i network della città mi danno già il tormento» lo interruppe Coady. «Se è possibile, preferirei evitare che Geraldo Rivera, Larry King e gli altri mi si attaccassero alle costole. Se devi dirmi qualcosa, fai in modo che resti tra noi.» «Nessun commento, in ogni caso» assicurò Clevenger. «Ottimo» approvò Coady. «Grazie.» «Non c'è di che» ribatté Clevenger. «Posso dirti una cosa fin d'ora: se non è un suicidio, potresti avere a che fare molto presto con un altro cadavere. Perché se non è stato il dottor Snow a puntarsi addosso la pistola e a farsi un buco nel petto, è stato qualcuno che non ha esitato a sparare a bruciapelo con una Glock mentre la sua vittima lo guardava. Qualcuno davvero molto arrabbiato. E non c'è alcuna ragione di pensare che adesso sia meno arrabbiato.» «Grazie per l'avvertimento» disse Coady freddamente. «Resti tra noi.» 4
Clevenger aveva ancora qualche ora a disposizione prima di passare a prendere Billy Bishop, il figlio adottivo diciottenne, agli allenamenti di pugilato al Somerville Boxing Club. Decise di recarsi da J.T. Heller al Massachusetts General Hospital. Lasciò il pick-up nel parcheggio coperto dell'ospedale e s'incamminò verso l'ala Wang. Lo studio di Heller era all'ottavo piano, in fondo a un lungo e anonimo corridoio che, nel tratto finale, era rivestito di pannelli di mogano e illuminato da applique alogene. Una porta di vetro smerigliato ad ante scorrevoli, su cui campeggiava la scritta REPARTO DI NEUROCHIRURGIA, DIRETTORE, J.T. HELLER, DOTTORE IN MEDICINA, immetteva nella sala d'aspetto. All'interno, una mezza dozzina di pazienti, alcuni dei quali con la testa rasata e un'evidente cicatrice sul cranio, sedeva su divani di pelle imbottiti con i piedi a forma di zampa, intenti a leggere riviste oppure a sonnecchiare sotto una cinquantina di riquadri contenenti fotografie, ritagli di giornali e articoli di riviste che testimoniavano l'ascesa alla fama del loro chirurgo. C'erano immagini di Heller con celebrità di ogni genere: politici, attori, atleti professionisti. Istantanee in bianco e nero mostravano il chirurgo a raccolte di fondi e a cerimonie di premiazione in compagnia di primedonne, modelle e debuttanti con le quali, invariabilmente, aveva poi avuto una storia. Su un articolo della rivista «Boston», ingrandito più degli altri, campeggiava il titolo: Jet Heller farà l'impossibile per salvarvi la vita. Clevenger si avvicinò all'addetta alla reception, una ragazza bruna sui venticinque anni che non avrebbe sfigurato sulla copertina di «Vogue» e che alzò su di lui uno sguardo interrogativo, come se non riuscisse a ricordarsi chi fosse. «È un nuovo paziente?» gli chiese con accento britannico. Squillò il telefono. La ragazza rispose, continuando a guardare Clevenger. «Studio del dottor Heller.» Clevenger sentì lo squillo di un'altra linea telefonica e abbassò lo sguardo sulla luce lampeggiante del centralino. Qualcuno rispose alla chiamata e la mise in attesa. «Posso prendere nota del suo nome e riferirlo al dottore» disse la ragazza. «No, non so dirle con esattezza quando lui la richiamerà.» Scrisse: "Joshua Resnek, Indipendent News Group", seguito da un numero telefonico. «No, non posso tenerla in linea fino a quando il dottore si libererà.»
Clevenger conosceva bene Resnek: era il giornalista più aggressivo di Boston, l'unico che non aveva mollato la presa su di lui quando sembrava che Jonah Wrens, alias il Killer dell'Autostrada, avrebbe continuato a disseminare di cadaveri le strade interstatali del paese. «Bene, allora» concluse la ragazza. «Sì, sì, certo. Mi assicurerò personalmente che lo faccia.» Riattaccò e tornò a occuparsi di Clevenger. «Qual è il suo medico curante?» Clevenger si rese conto che la sua testa rasata l'aveva fatto scambiare per un paziente da poco operato. Abbassò la voce a poco più di un sussurro. «Non sono un paziente. Mi chiamo Frank Clevenger. Sono uno psichiatra che collabora con la polizia al caso di John Snow. Il dottor Heller potrebbe ricevermi per qualche minuto?» «Oh, mio Dio! Mi scusi» disse la ragazza. «Sascha Monroe» aggiunse poi, porgendogli la mano. Clevenger gliela strinse, notando le dita lunghe e affusolate, il polso sottile e la presa sicura e decisa. «Non intendevo offenderla» si scusò di nuovo lei. «Avrei dovuto riconoscerla. L'ho vista in televisione.» «Non si preoccupi.» «La morte del dottor Snow è stata uno shock tremendo.» «Lo conosceva bene?» chiese Clevenger. «Ho avuto spesso occasione di parlare con lui mentre aspettava il dottor Heller. Avevamo un buon rapporto.» «E adesso è sorpresa?» «Non avrei mai immaginato che potesse fare una cosa del genere.» Sascha Monroe era evidentemente convinta che Snow si fosse suicidato. «È difficile prevedere il comportamento umano» commentò Clevenger. «Credo di essere una persona abbastanza intuitiva - o, almeno, lo credevo - ma non ho colto un solo indizio. Doveva soffrire moltissimo. Era proprio fuori di sé. Ma io non ho intuito nulla.» Sembrava davvero delusa di se stessa. «Si capisce che lei aveva a cuore la sua situazione» notò Clevenger. «Di sicuro, anche Snow l'aveva capito. Qualche volta è l'unico conforto che si può dare a una persona nei momenti in cui tutto sembra nero.» «Grazie» disse Sascha Monroe. «Grazie di avermelo detto.» E il modo in cui guardò Clevenger lasciava intendere che la sua gratitudine era sincera. «Vado a vedere se il dottor Heller può riceverla.» Si alzò e sparì al di là di un passaggio ad arco ricavato nella parete di marmo rosa dietro la scri-
vania. Clevenger la vide passare accanto a due segretarie che lavoravano nella parte interna dello studio del dottor Heller e poi scomparire di nuovo dietro un'imponente porta di mogano. Fu di ritorno quasi subito. «Il dottore la riceverà appena avrà terminato di visitare una paziente. Cinque o dieci minuti, se può aspettare.» «Posso aspettare.» La paziente di Heller, una donna sulla quarantina, uscì dopo cinque minuti, ma ne passarono venticinque prima che il chirurgo chiedesse a Sascha Monroe di accompagnare Clevenger nel suo ufficio. Clevenger immaginò che quel ritardo fosse dovuto al fatto che Heller aveva bisogno di tempo per rivedere la cartella clinica della sua paziente e aggiornarla, oppure che non voleva concedersi troppo in fretta, facendo chiaramente capire che lui non se ne stava con le mani in mano ad aspettare visitatori inattesi. Sascha Monroe lo accompagnò fino alla porta aperta dello studio di Heller. «Il dottor Clevenger per lei» annunciò. Poi si voltò e se ne andò. Heller si alzò dalla scrivania. «Jet Heller» disse presentandosi a Clevenger. Era alto almeno un metro e novanta, aveva un sorriso radioso e i capelli biondi lunghi quasi fino alle spalle. I suoi occhi, di una straordinaria sfumatura di azzurro, erano scuri, ma luminosi come zaffiri. La sua voce era profonda, ma sorprendentemente gentile. Aveva l'aspetto di un robusto e affabile vichingo in stivali da cowboy di coccodrillo. Il suo nome era ricamato in lettere rosse sopra il taschino del camice bianco inamidato, che gli arrivava sopra il ginocchio e che lui portava aperto, lasciando intravedere una cintura nera di coccodrillo munita di una grossa fibbia di argento lucente con lo stemma in smalto rosso dell'Università di Harvard. «Mi dispiace di averla fatta aspettare. Prego, si accomodi.» Clevenger gli strinse la mano. «Frank Clevenger.» «Non ha bisogno di presentazioni» disse Heller. «Siamo sinceri: lei è più famoso di quanto io potrò mai esserlo.» Lasciò la presa. «Il Killer dell'Autostrada le ha fatto fare una bella cavalcata per tutto il paese.» «Sì» disse Clevenger, sforzandosi di allontanare dalla mente le immagini delle vittime decapitate da Jonah Wrens. «È stata proprio una cavalcata.» «Ma l'avete preso.» «L'abbiamo catturato,» precisò Clevenger «dopo che lui si è preso diciassette persone». «Amico mio, quando si vuol sconfiggere il cancro, bisogna combatterlo» dichiarò Heller. «Certo, ci sono delle perdite, ma questo succede in ogni
guerra.» «Un punto di vista da chirurgo» commentò Clevenger, con un sorriso forzato. «Quale altro punto di vista potrebbe mai trovare qui?» sogghignò Heller. «Ma si sieda, la prego.» E indicò un paio di poltrone di pelle nera di fronte alla sua lunga scrivania con il piano di vetro. Clevenger si accomodò su una delle poltrone ed Heller, invece di tornare alla scrivania, si sistemò sull'altra. Era il suo modo di mettere a proprio agio il visitatore, si domandò Clevenger? O lo faceva per indirizzare lo sguardo di Clevenger sopra le proprie spalle, verso la parete dove campeggiavano diplomi universitari dell'Harvard College e dell'Harvard Medical School, attestati d'appartenenza all'American Medical Association e all'American Board of Neurosurgery, una medaglia del Phi Beta Kappa, una fotografia di Heller con il presidente degli Stati Uniti, l'Harvard Teaching Award per il 2001 e il 2003, il Best of Boston Doctors Award del «Boston Magazine» per il 2003 e il 2004? «Mi fa piacere che tu sia qui, Frank» disse. «Possiamo darci del tu?» «Certo.» «Chiamami Jet, per favore.» Clevenger assentì e lanciò un'occhiata alla scrivania di Heller, maniacalmente ordinata. Vi si trovavano solo lo schermo e la tastiera del computer, un tampone di cuoio nero con un foglio intonso di carta intestata e una penna Cartier d'argento con un piccolo orologio incastonato nel cappuccio. «Disturbo ossessivo-compulsivo» disse Heller. «Ne ho tutti i sintomi.» «Se vuoi, posso darti una mano» scherzò Clevenger. Heller scosse la testa. «È una patologia che mi piace. È... com'è che la chiamate? Egosintonica. Mi piacciono i margini puliti.» Si riferiva all'asportazione completa dei tumori, che non lascia dietro sé alcuna cellula cancerosa. «Non vorrei mai privarti dei tuoi sintomi. È evidente che i tuoi pazienti ne traggono beneficio.» «Può darsi.» All'improvviso Heller si rabbuiò. «Non so esattamente perché tu sia qui, Frank, ma ne sono felice. Ho bisogno che qualcuno mi aiuti a capire che cosa è successo a John Snow» disse in tono triste e rabbioso insieme. «Non ti nascondo che la questione mi sta creando dei problemi.» «Dimmi.» «Come puoi capire, il fatto che un paziente muoia non è una novità per me. Hai visto la donna che è appena uscita?»
«Sì.» «Quarantun anni. Tre figli piccoli. Le ho dato cinque, sei settimane. Sette, al massimo.» «Mi dispiace. Qual è la diagnosi?» «Glioblastoma.» Heller storse appena la bocca, come se il solo pronunciare quella parola bastasse a farlo infuriare. «Dieci giorni fa le è successo di non riuscire a ricordare il nome del suo labrador nero. L'amnesia è durata quindici, venti secondi e poi il nome le è tornato in mente, ma lei ha trovato il fatto strano e ha cominciato a preoccuparsi. Sua madre aveva avuto le prime avvisaglie dell'Alzheimer quando non aveva ancora cinquant'anni. Così è andata a farsi visitare da Karen Grant, il suo medico al Brigham, e lei le ha prescritto una risonanza magnetica. Bang. I tessuti maligni hanno già distrutto il quaranta per cento della corteccia. Inoperabile. Non c'è nulla che io possa fare per lei.» «Dev'essere dura.» «Per lei lo è senz'altro» disse Heller. «Credevo che lo fosse anche per te» osservò Clevenger. «No, non lo è. È questo che voglio dire: quando non sono coinvolto direttamente, non mi lascio prendere il cuore. Non sono un masochista. Ma con John...» Si piegò un po' in avanti e alzò le mani come un prete nell'atto di benedire i parrocchiani. «Io avrei potuto cambiare la vita di John Snow. Ecco perché ero entrato in conflitto con il comitato etico. Ho rischiato la mia carriera per lui.» Un lampo gli attraversò gli occhi azzurri. «Oggi avrei potuto compiere un miracolo.» Era questa l'arroganza per cui Heller era famoso. «Avresti potuto far cessare i suoi attacchi di convulsioni» disse Clevenger, per verificare quanto ci mettesse Heller a tornare alla realtà. All'improvviso il chirurgo sembrò rendersi conto di avere le mani sollevate a mezz'aria. «Tanto per cominciare,» disse, abbassandole «l'epilessia di John era chiaramente collegata al suo genio creativo. Quando lui si concentrava molto intensamente - cioè, quando inventava - era esposto al massimo rischio di un attacco. Non so spiegarne la ragione, ma era così. Una volta che fosse stato libero dagli attacchi, avrebbe potuto fare con la sua mente cose che prima lo avrebbero mandato letteralmente in cortocircuito: una prospettiva che l'aveva reso quasi euforico. E poi mi combina uno scherzo del genere.» Heller contrasse la mascella. «Non capisco.» «Che uomo era Snow?» chiese Clevenger. Heller ci pensò su per qualche secondo. «Un tipo tosto.» Sorrise. «Una
caratteristica che ci accomunava.» Clevenger rise. Heller poteva anche essere arrogante, ma ne era evidentemente consapevole e ciò lo rendeva subito più simpatico. «Era un passionale» continuò Heller. «Sul lavoro, come in ogni aspetto della vita. Detestava che il suo cervello fosse "guasto", "difettoso": sono parole sue, non mie. E allora mi sai dire perché ha mollato?» Clevenger non vedeva il motivo di tenere Heller del tutto all'oscuro delle indagini su Snow. «Perché presumi che abbia mollato?» chiese. Heller si strinse nelle spalle. «Il termine non ti piace, d'accordo. Sei uno psichiatra e io lo rispetto. So che ci sono persone che si tolgono la vita perché sono depresse, hanno perso il lavoro, hanno fatto bancarotta, hanno visto fallire il loro matrimonio. Magari nell'infanzia sono state vittime di violenza o di abbandono. So che John aveva avuto la sua parte di problemi nella vita. Le cose gli stavano crollando addosso.» Improvvisamente, sembrò che Heller faticasse a tenere a freno la collera. «Forse puoi aiutarmi a capire perché mi avrebbe mollato dopo che io...» «Quel che volevo sapere,» lo interruppe Clevenger «è perché pensi che si sia ucciso?» Heller sembrò sorpreso. «Anziché...?» «Essere stato ucciso.» Heller si raddrizzò di colpo, come se fosse stato colpito da una raffica di vento. «Si è sparato con la sua pistola.» «A causare la morte è stato un colpo proveniente dalla sua pistola» precisò Clevenger. «Ma è possibile che stamattina nel vicolo ci fosse qualcun altro con lui.» «Qualcun altro» disse Heller, confuso. «È un'eventualità che non avevo considerato... La polizia è stata molto chiara con me al telefono. E così pure il personale paramedico del pronto soccorso. Ha parlato di suicidio. Un certo detective Coady.» «È possibile» disse Clevenger. «E se Snow si è suicidato, cercherò di capire perché lo ha fatto.» Heller si alzò e si avvicinò alla finestra dietro la sua scrivania, incrociò le braccia e guardò il profilo della città. Rimase in silenzio per alcuni istanti, poi scosse la testa. «Non saresti qui se la polizia fosse sicura che si tratta di suicidio» disse. «Mi stai dicendo che c'è la concreta possibilità che il mio paziente sia stato ucciso. Probabilmente lui aveva intenzione di andare fino in fondo insieme a me.» Heller sembrava considerare la causa della morte di Snow un verdetto
sull'eventualità che lui lo avesse abbandonato. «Non posso ancora dirlo» dichiarò Clevenger. «Ho bisogno di sapere di più su di lui e devo cercare di capire se c'era qualcuno che poteva desiderare di vederlo morto.» «Dovrai compiere un'indagine approfondita. Dovrai mettere le mani su qualsiasi informazione lo riguardi.» «Anche a me piacciono i margini puliti» disse Clevenger. «Allora devi sapere una cosa.» Heller si voltò e fissò Clevenger. «In sala operatoria, oggi, John avrebbe rischiato qualcosa di più della parola e della vista.» «Che cosa vuoi dire?» Heller parve chiedersi fino a dove avrebbe dovuto spingersi con le sue dichiarazioni. «C'era un alto rischio che potesse morire?» domandò Clevenger. «In un certo senso» rispose Heller, tornando a sedersi sulla sua poltrona. «Se te lo dico, deve rimanere tra noi. È un'informazione strettamente confidenziale tra medico e paziente. Ti considero una specie di psichiatra... postumo di John. Questo è un consulto riservato. Da medico a medico.» «Va bene» disse Clevenger. «Da medico a medico.» Heller si chinò in avanti, appoggiando i gomiti sulle gambe. «Le aree cerebrali coinvolte negli attacchi di John,» disse «erano l'ippocampo, la circonvoluzione del cingolo e l'amigdala. E proprio queste sono le aree più strettamente correlate con il riconoscimento delle fisionomie e le componenti emotive della memoria, almeno secondo gli studi sugli animali compiuti dall'UCLA a Los Angeles e dalla Minnesota University. Si tratta di un lavoro preliminare, ma sembra sempre più probabile che tali aree siano la banca dati dove registriamo le persone che conosciamo e il modo in cui le percepiamo. Credo che i primi risultati saranno pubblicati su "Neurosciences" tra due o tre mesi.» «Mi stai dicendo che Snow avrebbe potuto soffrire di amnesia?» «Una forma molto grave e particolare» rispose Heller. «La sua memoria dei fatti sarebbe rimasta inalterata. Il suo intelletto sarebbe sopravvissuto. La sua immaginazione avrebbe potuto addirittura risultare incrementata. Ma lui si sarebbe ritrovato solo. Con ogni probabilità l'operazione avrebbe trasformato in estranei le persone cui era legato emotivamente: sua moglie, i suoi figli, tutti.» Questa volta fu Clevenger a chinarsi in avanti. «Quindi, lui avrebbe continuato a essere un inventore, ma avrebbe perso il ricordo delle persone care. Una sorta di amnesia interpersonale.»
«Proprio così» confermò Heller. «E, ciononostante, era disposto a sottoporsi all'operazione?» «Così pensavo, almeno fino a stamattina. Tuttavia, la sua situazione si era... complicata. Era ai ferri corti con Coroway, il suo socio, per via del progetto di quest'ultimo di trasformare la loro società in una public company. John era assolutamente contrario. Non voleva essere controllato da nessuno, meno che mai dai contabili. Inoltre, il suo matrimonio stava attraversando una fase critica.» Si fermò, incerto se proseguire o meno. «Devo sapere» lo esortò Clevenger. Heller lo guardò negli occhi. «Aveva un'amante. Credo che pensasse all'operazione come a una possibilità di rinascita, una possibilità di fuga.» «Di fuga...?» si stupì Clevenger. «Da tutte le questioni in sospeso nella sua vita. Dal disordine. Da ciò che non andava più. Aveva predisposto ogni cosa... una sorta di testamento biologico. Voleva lasciare il patrimonio ai figli, sistemare finanziariamente la moglie, voltare pagina in modo onesto.» «Il comitato etico non ha avuto nulla da dire su queste cose?» chiese Clevenger. «Non equivalgono forse a un'amnesia volontaria?» «Non le ha prese in considerazione» rispose Heller appoggiandosi allo schienale. «Non le ha prese in considerazione oppure tu non gliene hai parlato?» «Come ti ho già detto, si tratta di dati molto recenti» ribadì Heller senza scomporsi. «Il comitato etico non li ha presi in considerazione.» Clevenger poteva solo immaginare l'impatto che la decisione di Snow di "resettare" il software che regolava la sua esistenza avrebbe avuto sulle persone che lui progettava di lasciarsi alle spalle. Il figlio. La figlia. La moglie. Il socio. L'amante. Sarebbero diventati estranei. Si sarebbero sentiti abbandonati? Si sarebbero arrabbiati? «Aveva pensato a ciò che la sua decisione avrebbe significato per i familiari?» chiese Clevenger. «Aveva pensato che li stava abbandonando in modo così improvviso, così definitivo?» «Era la sua vita» rispose Heller in un tono tagliente. «È proprio questo che il comitato etico non è riuscito a capire, in un primo momento. John voleva due cose: liberarsi dei suoi attacchi e liberarsi del suo passato. Io ero nella posizione di aiutarlo a ottenerle entrambe. Se l'uomo possiede qualcosa, si tratta senz'altro del suo cervello e della sua mente. Non trovi?» Clevenger non era preparato a rispondere alla domanda. C'era qualcosa
in Heller che induceva a voler essere d'accordo con lui. Quell'uomo aveva un carisma straordinario. La sua personalità era come una corrente forte e fresca, capace di trascinare chiunque vi si fosse abbandonato. Ma Clevenger non sapeva cosa pensare del suo progetto di usare il bisturi per troncare le relazioni emotive del suo paziente. Heller dava l'impressione di recitare la parte di Dio. «Non importa che cosa penso io» rispose infine. «Importa che cosa avrebbe pensato la gente vicina a lui e se qualcuno di loro si sarebbe sentito tanto minacciato o arrabbiato da farlo fuori. Qualcuno dei familiari ha cercato di ostacolare l'operazione?» «Sua moglie Theresa ha insistito per una perizia psichiatrica ospedaliera che stabilisse la capacità del marito di capire ciò a cui andava incontro acconsentendo all'operazione. Pensava che i rischi fossero troppo alti e che lui si stesse comportando in modo irrazionale. Ma, per quel che ne so, lei era a conoscenza soltanto dei problemi legati alla vista e alla parola e di una possibile, temporanea perdita della memoria. John, comunque, ha aderito alla sua richiesta. È stato qui cinque giorni.» «Posso vedere i referti?» chiese Clevenger. «Se mi lasci un recapito, te li faccio avere appena possibile» rispose Heller. «Se davvero lui non aveva perso la fiducia ed era pronto a farsi operare da me, non chiedo di meglio che veder marcire in prigione il figlio di puttana che si è portato via il futuro di John.» «Pensi che lui non abbia parlato con sua moglie - o con qualcun altro dell'entità dell'amnesia?» «Per quanto ne so, le due persone di cui si fidava eravamo io e il suo avvocato, Joe Balliro junior.» «Balliro. Snow faceva sul serio.» «Stava portando a termine alcune pratiche legali molto complesse» spiegò Heller. «Il testamento biologico e tutto ciò che ne consegue.» «Qualcuno poteva averlo scoperto, considerato il viavai di documenti. Una segretaria in ufficio. Un addetto alle fotocopie. Un amico dell'amico dell'amante di Snow.» Heller assentì con un cenno del capo. «L'amante. L'incognita è lei.» «In che senso?» «John aveva cercato di mettere fine alla loro relazione qualche settimana prima dell'operazione. Pensava che per lei sarebbe stato più facile. La donna credeva che fossero due anime gemelle e insisteva perché si costruissero una vita insieme.» «E Snow?»
«Credo che per lui fosse difficile amare qualcuno.» «Perché dici così?» «Ho sentito i discorsi che faceva. Era un perfezionista. Amava le idee e gli ideali. L'ingegno. La bellezza. L'idillio perfetto. Al mondo non c'erano molte cose che corrispondessero alle sue aspettative, neppure il suo stesso cervello. Non scendeva a compromessi.» Heller fece una pausa. «Mi ha detto che lei non aveva reagito bene alla rottura.» «Hai idea di che cosa volesse dire?» «Aveva di nuovo minacciato di farsi del male. Credo che in passato si fosse tagliata le vene, o qualcosa del genere.» «Disturbo borderline di personalità, a quanto pare» osservò Clevenger, riferendosi a quel disturbo comportamentale che presenta sintomi come rapporti interpersonali intensi e instabili, cronica paura di essere abbandonati e ripetute minacce di suicidio. «Non sono in grado di pronunciarmi sulla diagnosi» disse Heller. «So che lei è una donna molto bella, molto ricca e molto inquieta. E sposata. Dirige una galleria d'arte in città.» Clevenger rimase in silenzio. Il cuore prese a battergli forte. Tutto a un tratto ebbe la sgradevole sensazione che il suo lavoro sul caso Snow fosse cominciato ancora prima della visita all'obitorio. «Snow ti aveva detto il suo nome?» chiese. «Lui la chiamava Grace» rispose Heller. «Ma non so se fosse il suo vero nome né ho mai forzato John a dirmelo.» Heller notò che Clevenger era impallidito. «Ti senti bene?» chiese. «Snow aveva, per caso, detto qualcosa sulla professione del marito di lei?» chiese Clevenger, aspettando che la risposta gli si ritorcesse contro, come un boomerang. Uno, due, tre secondi... «So che lei era molto riservata al riguardo. Paranoica. Diceva di non volere più vivere all'ombra del marito. Di non voler più essere una sua proprietà. Ma sono quasi sicuro che si trattasse di un'attività bancaria. Anzi, ne sono del tutto sicuro. Lei ne aveva parlato a Snow.» IL FOUR SEASONS Un altro giorno d'inverno, un anno prima Snow aveva appena concluso l'intervento principale del mattino alla conferenza sulla progettazione di sistemi radar al Four Seasons, in Tre-
mont Street. Uscì dall'albergo. Il cielo era cupo e cadeva una pioggerella leggera. Lui non sopportava l'idea di rimanere là dentro. Attraversò la strada e scomparve nei giardini pubblici. Sarebbe stato libero per alcune ore, fino alla tavola rotonda sui sistemi di rilevazione dei missili. Se si fosse attardato nell'atrio o alla reception si sarebbe trovato circondato da ingegneri pronti ad approfittare senza ritegno della sua competenza. Non riuscivano proprio a capire che lui non era capace di condividere le sue conoscenze. Come ricercatore del MIT aveva avuto un grandissimo successo, ma come docente era stato un completo fallimento. Come si può insegnare un momento di ispirazione, un'epifania? Le informazioni restavano inerti nel suo cervello finché una forza superiore vi infondeva la vita e le convertiva in embrioni di idee, che poi crescevano indipendentemente dal suo assenso, incanalandosi là dove era necessario. Lui non era altro che un plagiario delle invenzioni che gli erano nate dentro. Snow passò accanto alla pista di pattinaggio pubblica osservando le espressioni soddisfatte dei bambini e dei loro genitori mentre scivolavano sul ghiaccio. Aveva ben poco tempo da dedicare allo svago. La forza creativa che viveva in lui lo teneva impegnato sette giorni su sette, per cinquantadue settimane all'anno. Per quanto lui avesse una moglie, un figlio e una figlia, una casa lussuosa e abbastanza denaro da potersi permettere di lasciare il lavoro in qualunque momento, quella forza lo possedeva e aveva la meglio su tutto. I giardini finivano in Arlington Street. Lui la attraversò, incamminandosi lungo la Newbury. Si ricordava di un caffè a tre isolati di distanza e decise di andarci per un espresso. Ma, nel giro di pochi minuti, il cielo si fece ancora più cupo e la pioggia iniziò a scrosciare gelida. Fu allora che gli capitò di lanciare un'occhiata in una vetrina lì vicino e di notare la donna più bella che avesse mai visto. Aveva circa trentacinque anni, i capelli castani ramati e il corpo di una sirena, indossava un abito nero molto semplice e lo guardava con incredibili occhi verdi. Snow ebbe la sensazione che lei lo stesse osservando da un po'. Per una frazione di secondo si chiese se quella creatura fosse reale o l'ennesimo parto della sua fantasia. Entrò e si trovò circondato da magnifici dipinti a olio appesi alle pareti e illuminati da faretti. Erano vedute di Boston, tra cui scorci dei giardini pubblici e di Commonwealth Avenue, ma l'artista era andato oltre le im-
magini reali, decostruendo la severità delle linee e delle forme per creare una città ideale in cui la gente, gli edifici, le strade e il cielo erano uniti da un vortice di colori e trascinati in un mondo molto più affascinante della somma delle sue parti. Il suo sguardo si fissò sulla parete di fronte, dov'era appeso il ritratto di una donna nuda che, dietro a tende di pizzo, osservava dal bovindo di una casa in mattoni una Beacon Street illuminata dai lampioni, al crepuscolo. Snow si mosse verso la parete, fermandosi a una certa distanza dal quadro. Riconobbe subito la donna che aveva visto nella vetrina e immaginò se stesso nel dipinto, dietro di lei, con le mani appoggiate sulle sue spalle e nell'atto di baciarle il collo. «L'autore è Ron Kullaway» lo informò la donna, avvicinandosi a lui. «Vive nel Maine.» Nella sua voce forza e intelligenza si combinavano a una sfumatura di vulnerabilità. «Splendido» commentò lui, senza guardarla. «Sta diventando uno dei grandi artisti americani. Non ha mai visto una sua opera?» «No.» «Secondo me, fa sembrare la vita una cosa importante» osservò lei. «Degna di essere vissuta.» Snow sentì la mano di lei sfiorare impercettibilmente la sua. O era il contrario? «Come fa?» le chiese. «Penso che dipenda da ciò che tralascia più che da ciò che dipinge.» «La struttura» disse Snow. «I contorni.» «Ciò che ci limita. Lui non lo vede o preferisce ignorarlo.» Alla fine, Snow si decise a guardare la donna e, nel farlo, si sentì ancora più attratto da lei. «Non gliel'ha mai chiesto? Deve averci messo parecchio tempo per catturare la sua immagine.» Riportò di nuovo lo sguardo sulla tela. Lei sorrise. «Quanto costa?» «Duecentomila.» «Per un barlume di vita degna di essere vissuta.» «C'è gente che non arriva mai a capirlo.» Lei esitò. «Se è una cosa che la lascia indifferente, non dovrebbe perderci tempo.» Lui si allontanò di qualche passo dal quadro, poi si girò. «John Snow» si presentò, tendendole la mano. «Grace Baxter» rispose lei, stringendogliela.
Snow notò che lei portava all'anulare una fede nuziale e un diamante solitario di almeno cinque carati. Al polso aveva tre braccialetti di diamanti. I gioielli indicavano che era legata a qualcuno, ma null'altro gli aveva dato l'impressione che fosse impegnata: né il tono della voce né lo sguardo né il tocco della mano. «Vorrebbe venire a cena con me stasera?» le chiese d'impulso. «Prometto di prendere una decisione sul quadro prima che usciamo dal ristorante.» Lei accettò di raggiungerlo all'Aujourd'hui, all'ultimo piano del Four Seasons, dopo l'ultimo intervento di Snow. Ma arrivò in anticipo. Lui la vide in piedi in fondo alla sala intenta ad ascoltare le sue considerazioni sulla riduzione dell'energia rotazionale in volo. Notò che tutti gli uomini, compreso il suo socio Collin Coroway, le lanciavano sguardi furtivi. Avrebbe voluto parlare di qualcos'altro, di qualche argomento più ampio come l'universo o la creatività o l'amore. Ma era relegato alle leggi della fisica. Lei non sembrava affatto annoiata. «Qual è esattamente la sua qualifica?» gli chiese più tardi, mentre lui le versava il vino. «Sono un ingegnere aeronautico. Un inventore.» «E che genere di cose inventa?» «Sistemi radar. Sistemi di controllo dei missili.» Lei sorrise. «Vorrebbe dirmi a che cosa sta pensando?» «Non mi sembra il caso. La conosco appena.» Il fatto di trovarsi seduto vicino a lei, di ascoltare la sua voce e di sentire il suo profumo gli fece venire voglia di essere totalmente sincero. «Non dà questa impressione» le disse. «Sì, è vero.» Snow sentì sciogliersi in lui qualcosa ch'era rimasto a lungo congelato. «Allora può dirmi a che cosa sta pensando.» «Va bene...» acconsentì Grace. «Perché lei concentra tanta energia su quello che può o non può essere visto? Perché si interessa ai radar e a come eluderli?» «È un talento naturale» rispose. «Sono stato scelto. Non l'ho scelto io.» «Si, ma perché?» insisté lei. «Perché lei ha questo "talento"?» Lui sembrò confuso. «John Snow, c'è qualcosa di lei che non vuole mostrare agli altri? O che lei stesso non è disposto ad analizzare?» In quel momento Snow provò una sensazione che non aveva mai prova-
to prima. Fu come se qualcuno avesse stabilito un contatto con la sua vera essenza, un'essenza ancora più profonda della sua genialità, la vera essenza del suo cuore. «Lei conosce la risposta, ma non è pronto a condividerla» disse Grace. «È possibile» ammise Snow. «Non conferma né smentisce.» Grace bevve un sorso di vino. «Mi dica qualcosa di più di lei.» «Vuole che cominci io? Va bene. Che cosa desidera sapere?» «Esce a cena con tutti i suoi clienti?» «Oh.» Lei accarezzò l'orlo del bicchiere con la punta delle dita. «Vuole sapere se lei è speciale.» Snow avvertì di nuovo un'attrazione gravitazionale verso il centro di se stesso. «Sì» le rispose. «Credo di sì.» «Non sono certo qui per chiudere una vendita. Il denaro è l'ultima cosa di cui ho bisogno.» Questo li accomunava. «Di che cosa ha bisogno?» Lei scosse la testa. «Lei e io abbiamo ottimi radar, John. E a entrambi piace eluderli quando voliamo.» «Lei è sposata» disse. «Sì. E lei?» Snow fece un cenno d'assenso con il capo. Tutt'a un tratto gli sembrò che lei fosse diventata triste e si sorprese di quanto lo commuovesse quella tristezza. Spesso, quando le persone tradivano emozioni in sua presenza, Snow non sapeva come comportarsi, incapace com'era di capire la natura e il motivo di ciò che provavano, e questo lo faceva sentire più che mai solo e ostaggio della propria mente. Ma con quella donna era diverso. «Non voglio essere invisibile» disse. Lei si guardò intorno per assicurarsi che nessuno li stesse osservando, poi fece scivolare la propria mano sotto quella di lui. A quel contatto, Snow si calmò. Poi, non sapendo che cosa fare né che cosa dire, allontanò la mano e la infilò nella tasca della giacca, da cui estrasse un assegno da duecentomila dollari intestato alla Newbury Gallery. Lo posò davanti al bicchiere di Grace. «Prenderò il quadro» disse. «Ma questa non sarà l'ultima volta che ci vediamo.» «Le ho detto che non sono in vendita.» La nota fredda e tagliente della sua voce lo allarmò. «Non intendevo darle l'impressione di volerla comprare» si affrettò a precisare. «Davvero. Non sono bravo in queste cose.» E, mentre la guardava negli occhi, fece
scivolare con delicatezza la sua mano sotto quella di lei. «Ciò che volevo dire è che... non vorrei che il quadro mi ricordasse che siamo riusciti a nasconderci l'uno all'altra.» Lei contraccambiò il suo sguardo e, avendo capito che parlava sul serio, gli accarezzò il palmo della mano con il pollice. Si incontrarono al Four Seasons la settimana seguente, stavolta in una suite affacciata sui giardini pubblici. Dopo la sera della cena si erano telefonati tutti i giorni, spesso anche due o tre volte al giorno, abbandonandosi al piacere di condividere sempre di più i mondi in cui vivevano: l'arte da cui Grace Baxter era circondata alla Newbury Gallery; le invenzioni di Snow che prendevano forma alla Snow-Coroway Engineering. Né lui né lei potevano correre il rischio di cominciare una relazione alla luce del sole e, quindi, non trovarono nulla di male nel fatto che il loro primo incontro intimo avvenisse in un albergo. Fu Pavel Blazek, l'autista di cui Snow si fidava ciecamente, a prenotare la suite e a pagarla con la propria carta di credito. Snow arrivò un quarto d'ora prima di Grace, entrò in bagno e si guardò allo specchio. Aveva la pelle, i capelli e il fisico di un uomo molto più giovane. La fronte era spaziosa, la mascella decisa, il mento lievemente infossato. Era bello e lo sapeva, ma ne era consapevole in modo oggettivo, come lo era delle proprietà del carbonio o delle leggi di gravità. Non aveva mai saputo che cosa farsene di quella bellezza. Adesso, per la prima volta, voleva essere affascinante per Grace. Indossava una camicia e una giacca nuove, anche se avrebbe potuto benissimo utilizzare qualcuna di quelle vecchie. Si era dato una spuntata ai capelli ribelli. Si era rasato la barba di due giorni, mentre di solito aspettava più a lungo, finché diventava così ruvida da dargli fastidio mentre lavorava. Si versò un bicchiere d'acqua, prese dalla tasca un paio di compresse di Dilantin e le inghiottì. Durante le lunghe telefonate con Grace aveva fatto solo qualche accenno agli attacchi che aveva avuto da bambino, omettendo però di dire che non erano mai cessati. Non voleva che lei pensasse a lui come a un uomo finito. Si avvicinò alla finestra che guardava i giardini. Era una gelida giornata di sole e ogni cosa aveva un aspetto fresco e tonificante. Osservando la pista di pattinaggio affollata di famiglie, si trovò a pensare a quanto sarebbe stato piacevole se un giorno fosse andato a pattinare lì, con Grace. Diede un'occhiata all'orologio: quasi le quattro del pomeriggio. Di lì a
poco, lei sarebbe arrivata. Si sentiva eccitato e al tempo stesso impaurito. Perché ancora si chiedeva se Grace Baxter fosse una creatura reale o un prodotto della sua fantasia. Aveva permesso a se stesso di condividere con lei più pensieri e sentimenti intimi che con qualsiasi altra persona. Ma perché lei era la sua anima gemella o perché lui desiderava essere il tipo di uomo che poteva avere un'anima gemella? Con il suo matrimonio come puntello, si era semplicemente creato una giustificazione logica per staccare la spina? Aveva davvero il potenziale per essere pienamente umano o fingeva solo di averlo? Sentì bussare alla porta e si irrigidì, temendo che sua moglie o, ancora peggio, sua figlia o suo figlio potessero averlo seguito. Ma si trattava di una paura irrazionale, in quanto era impossibile che i suoi familiari sapessero dove si trovava. Blazek non lo avrebbe mai tradito. In quel momento, fra quelle quattro mura, lui era libero. A quel pensiero, tirò un sospiro di sollievo e si diresse alla porta. Come atto di fiducia, evitò di guardare nello spioncino prima di aprire. Grace Baxter era là, con il vestito che lui le aveva chiesto d'indossare: quello nero, semplice, che portava quando l'aveva vista per la prima volta. Ebbe un tuffo al cuore. Una sensazione nuova. Una sensazione che gli piaceva. Grace gli porse una mano. Lui gliele prese entrambe e, indietreggiando, la condusse con sé nel salotto. Grace si guardò intorno. «A quanto pare, dovremo accontentarci» scherzò, mentre osservava l'ampia stanza con gli arazzi orientali, la boiserie alle pareti, i soffitti decorati e i lampadari di cristallo. Lanciò un'occhiata alla camera attraverso la porta socchiusa e notò l'enorme letto con i cuscini, le lenzuola e la trapunta immacolati. Si staccò dolcemente dalla presa di lui e andò alla finestra che dava sui giardini. Poi si sfilò con grazia le scarpe e si accostò allo stipite, dietro le tende sottili. Snow si sentì come se si trovasse con lei, dietro le tende di pizzo di casa sua, nel momento in cui Kullaway l'aveva ritratta nuda. E mentre era immerso in questa sensazione, lei portò le mani dietro il collo, si slacciò il vestito e lo lasciò cadere sul pavimento. Era appoggiata alla finestra: nuda e splendida, con i capelli che le scendevano sulle spalle delicate e la schiena che si assottigliava in vita per arcuarsi poi delicatamente in corrispondenza delle anche. Le sue gambe erano sode, ma non muscolose. Era proprio come lui l'aveva immaginata. Perfetta. Si mosse verso di lei, temendo quasi che sarebbe scomparsa non appena l'avesse sfiorata. Ma quando lo
fece, Grace si voltò, lo strinse fra le braccia e lo baciò. E allora per Snow fu come perdere il senso del tempo e dello spazio per raggiungere qualcosa di più grande, qualcosa che dormiva dentro di lui e che ora si risvegliava: la passione per un'altra persona. Si strinse a lei e la baciò con maggiore intensità. Grace si staccò dalle sue labbra, senza fiato. «Spogliati per me» gli disse. Sua moglie non lo aveva mai visto svestirsi e a malapena l'aveva visto nudo. La loro attività sessuale si svolgeva furtivamente la notte, sotto le lenzuola. Snow si sbottonò la camicia, se la tolse e la lasciò cadere sul pavimento. Poi si slacciò la cintura, si sbottonò i pantaloni, esitò, aprì la cerniera. Fece un passo verso di lei. Lei alzò una mano. «Tutto.» Lui era imbarazzato e probabilmente lo diede a vedere. «Va tutto bene» lo rassicurò lei. «Voglio vedere tutto di te.» Snow si tolse i pantaloni, i calzini e le mutande. Era nudo davanti a lei. «Non hai la minima idea di quanto tu sia meraviglioso, vero?» gli chiese, avvicinandosi. Gli baciò il collo, le orecchie, il petto, infine s'inginocchiò. «Qui dentro facciamo tutto quello che vogliamo» gli disse. 5 Ore 15.40 Clevenger uscì dal parcheggio coperto del Massachusetts General Hospital diretto al Somerville Boxing Club per prendere Billy, ma faticò a concentrarsi sulla guida. Ripensava alla seduta di quella mattina con Grace, al suo tremore, ai suoi sensi di colpa e a quanto l'idea che lei fosse sul punto di uccidere se stessa o qualcun altro lo avesse preoccupato. La rivide mentre si dondolava avanti e indietro sulla sedia, tenendosi il corpo stretto tra le braccia per impedirsi di tremare. E pensò alle sue parole: «E non voglio mai più far del male a nessuno». Grace era reduce dall'omicidio? Per questo era a pezzi? Aveva appena sparato al cuore all'uomo che amava, lasciando se stessa sola con un matrimonio che per lei equivaleva alla morte? Oppure, non aveva fatto del male a nessuno? Anche se aveva scoperto dell'imminente amnesia di Snow, poteva darsi che avesse programmato di cominciare la psicoterapia
il giorno dell'operazione di lui. Forse la decisione di Snow di rifarsi una vita le aveva offerto lo spunto per fare altrettanto. Clevenger prese il cellulare e chiamò l'ufficio per sapere se Grace Baxter lo aveva cercato. Gli rispose Kim Moffett, la segretaria della Boston Forensics, una ragazza di ventinove anni con la saggezza di un'ottantenne. «Qualche chiamata?» chiese Clevenger. «È da un'ora che ti cerco» rispose lei. Lui guardò il cellulare e si accorse di aver ricevuto dei messaggi. Aveva spento il telefono prima del colloquio con Heller. «Che succede?» «Niente di urgente. A parte cinque telefonate di Grace Baxter.» «Sta bene?» «Dice che non si tratta di un'emergenza, ma continua a chiamare. Vuole un appuntamento per domani mattina. Sapendo che sei a Concord tutto il giorno per quel test di idoneità al processo, le ho detto che prima di darle una risposta avrei dovuto parlare con te.» Clevenger aveva in programma una visita alla prigione di Concord per determinare se un uomo schizofrenico che aveva assassinato il padre fosse abbastanza sano di mente da poter affrontare il processo, che comunque non era imminente. «Dille che posso riceverla domani mattina alle otto. E chiama Concord per spostare l'appuntamento, se non ti dispiace.» «Lo faccio senz'altro. Dove ti trovi? Dovresti essere al Somerville Boxing Club fra quindici minuti.» «Ci sto andando.» «North ti fa sapere che ha avuto informazioni su un certo Collin Coroway.» «North è li?» «No, ma posso raggiungerlo. Resta in linea.» Kim lo mise in contatto con Anderson. «Pronto, Frank?» disse Anderson. «Eccomi.» «Ho cominciato a indagare su Coroway, il socio di Snow.» «Continua.» «Non è un tipo da prendere alla leggera. Ex berretto verde, in servizio in Vietnam, legato al mondo dell'intelligence. È stato spesso coinvolto in traffici industriali con clienti militari. A quanto pare la Snow-Coroway Engineering funziona grazie alla genialità di Snow e ai contatti di Coroway. L'ottantacinque per cento dei loro affari è legato al governo. Sistemi radar, sonar, tecnologia missilistica.»
«E i due stavano discutendo se diventare o meno una public company.» «Stavano litigando. Il classico scontro di vedute tra il tipo con la testa per gli affari e quello con la testa nelle nuvole. Coroway era l'uomo delle cifre e Snow il sognatore. Si tratta di capire fino a che punto lo scontro fosse acceso.» «Già» convenne Clevenger. La lista delle persone che avrebbero potuto desiderare la morte di Snow cominciava ad allungarsi. Se Collin Coroway era venuto a sapere dell'intenzione di Snow di troncare i rapporti con lui, trasformandosi in un potenziale concorrente diretto, avrebbe potuto decidere di porre fine alla loro società con una pallottola. «Non è l'unico che deve essere tenuto sotto controllo» disse Clevenger. «Ho appena lasciato lo studio di Jet Heller. Mi ha confidato un segreto: Snow aveva una relazione... con la mia paziente di stamattina, Grace Baxter.» «Che, guarda caso, sembrava distrutta» osservò Anderson. «Mi leggi nella mente.» «Che pensiero spaventoso! Devi vederla ancora?» «Domani mattina, è la prima paziente. Nel frattempo sarebbe bene scoprire dove si trovava Collin Coroway stamattina alle cinque.» «Questo significa dover pestare i piedi al detective Coady?» «Sicuramente.» «Scusati per me» disse Anderson. «Non ho mai imparato a ballare.» «Considera le scuse accettate.» «Ci aggiorniamo più tardi.» Clevenger mise fine alla telefonata. Imboccò l'Hanover Street Bridge, uscendo da Boston, e arrivò al Somerville Boxing Club con qualche minuto di anticipo. Billy si stava allenando sul ring che occupava metà della sala, illuminato dall'alto da una serie di lampadine. C'erano altri quindici o venti ragazzi che colpivano i sacchi, sollevavano pesi e saltavano la corda ai bordi del ring. Nella sala dovevano esserci più di trenta gradi e l'aria era impregnata dell'odore acre del sudore degli atleti che, nel tempo, si erano allenati lì dentro. Ce n'erano alcuni, come Billy, che riuscivano a vincere i Golden Gloves; uno di loro, Johnny Ruiz, era diventato campione del mondo dei pesi massimi. Clevenger raggiunse l'angolo opposto della sala e, appoggiandosi contro la parete, si mise a guardare Billy tirare jab al suo avversario, un ragazzo più basso e dalle spalle massicce che indietreggiava, facendosi schermo coi guantoni. «Prendigli le misure» suggerì Buddy Donovan, l'allenatore, un uomo
sulla sessantina, ma con un gancio destro che poteva ancora spezzare il collo a qualcuno. Indossava una felpa grigia con una scritta sul petto. «Seleziona i colpi.» Scorgendo Clevenger, gli fece un cenno con la testa. Clevenger rispose al saluto, poi vide Billy sferrare un destro deciso alla mascella del suo avversario, il quale sembrò sul punto di cadere sulle corde, ma poi ritrovò l'equilibrio in extremis. Billy sapeva combattere, non c'era dubbio. Era forte e rapido come una saetta e dotato di un buon allungo. Aveva scolpito il proprio corpo fino a rendere il torace simile a una corazza. Ma, oltre alla solida muscolatura e ai riflessi pronti, aveva l'istinto del combattente: era in grado di intuire la strategia dell'avversario e di adattarvisi, sfruttando le debolezze dell'altro a proprio vantaggio. Aveva studiato lo sport, leggendo libri e guardando ripetutamente i video degli incontri dei grandi del pugilato: Marciano, Liston, Alì, Frazier, Foreman, Leonard. L'idea di dedicarsi alla boxe era venuta a Billy, ma Clevenger l'aveva caldeggiata, ritenendo che sarebbe stato un ottimo sistema per dare sfogo alla rabbia, invece di riversarla sulle strade di Chelsea. Clevenger aveva adottato Billy due anni prima, dopo aver contribuito alla soluzione del caso dell'omicidio della sua sorellina, a Nantucket. I sospetti della polizia si erano concentrati sul ragazzo, in considerazione del suo passato di droga e violenze, ma Clevenger aveva dimostrato che si trattava di una pista sbagliata. Al termine delle indagini, Billy era stato scagionato e a finire in galera era stato suo padre, mentre la madre era stata dichiarata inadatta al ruolo di genitore. Rimasto solo, Billy sarebbe stato dato in affidamento se Clevenger non l'avesse adottato. Billy prese un sinistro deciso in fronte, si riscosse e si mise a saltellare. Il suono del gong annunciò che il round era terminato. «Non lasciare che lui ti venga addosso, Nicky» gridò Buddy Donovan all'avversario di Billy. «Fatti avanti piano, non arretrare.» Billy si accorse della presenza di Clevenger. «Ehi, il dottore è qui» gridò, mentre si dirigeva all'angolo del ring. «Vai alla grande» disse Clevenger. Il ragazzo gli strizzò l'occhio. In realtà, Billy aveva un aspetto pericoloso, con i capelli biondi e stopposi acconciati nello stile dei musicisti reggae e il tatuaggio con la scritta LET IT BLEED - lascialo sanguinare - che gli campeggiava sulla schiena in lettere verdi e nere alte cinque centimetri, sopra le cicatrici delle botte
prese dal padre naturale. Fare il genitore di Billy significava tenerlo per mano mentre camminava sulla corda tesa sopra le fiamme del suo tormentato passato. Alcune volte sembrava che lui fosse ben saldo sulle gambe e procedesse con sicurezza, altre invece pareva destinato a precipitare nell'inferno e a lasciarsene inghiottire. La cosa più preoccupante era la sua totale mancanza di paura. Da bambino aveva subito traumi ed era stato picchiato. La capacità di avere paura è una delle principali componenti dell'empatia. Bisogna sperimentare la sofferenza per immaginare il dolore altrui. Donovan suonò il gong del round successivo. Billy avanzò lentamente verso il centro del ring. Curvo e guardingo, l'avversario gli si fece incontro. Billy saltellò, aspettando che fosse a tiro, e poi gli assestò tre veloci jab sinistri, che gli fecero volar via il casco di protezione. L'avversario avanzò di un altro passo e sferrò un destro che colpì di striscio la spalla di Billy. «È più forte di te» gridò Donovan a Billy. «Continua a muoverti!» Billy lanciò un'occhiata a Donovan e riprese a saltellare. Non tollerava di sentirsi definire un debole e ancora meno di pensare di esserlo. Smise di saltellare, mosse un passo verso l'avversario e gli si piazzò di fronte: in men che non si dica, un gancio sinistro lo colpì al naso, facendogli colare il sangue sulle labbra. «Ti avevo detto di continuare a muoverti!» urlò Donovan. «Con lui non puoi combattere da vicino.» Un lampo si accese negli occhi di Billy: la visione strategica e la ricerca delle opportunità da sfruttare avevano lasciato il posto a qualcosa che assomigliava al puro e semplice odio. Era come se il sapore del sangue avesse attivato un sentimento primordiale e connaturato in lui. Tenendo i pugni bassi alla cintura, Billy avanzò di un altro passo verso il suo avversario, il quale lasciò partire un diretto destro che avrebbe messo fine al combattimento se fosse arrivato a destinazione; ma Billy si piegò all'indietro, facendo sì che il pugno gli sfiorasse solo il mento, e poi si scatenò con la furia di una tempesta, sferrando destri e sinistri con la ferocia di un combattente da strada. Alcuni pugni erano tirati all'impazzata, ma altri erano ben mirati alle spalle, alla testa e al collo dell'avversario, tanto da farlo barcollare. «Tornate ai vostri angoli» ordinò Donovan. «L'incontro è finito.» Salì sul ring.
Clevenger fece per muoversi. Billy sferrò un gancio sinistro che andò a vuoto e un potente diretto destro che centrò l'orecchio sinistro dell'avversario. Il ragazzo cadde in ginocchio. «Avevo detto basta!» urlò Donovan, stavolta a voce più alta. Spinse Billy verso le corde. «Quando dico che l'incontro è finito, è finito. Chiaro?» Billy si sfregò gli occhi con i guantoni, come un bambino che si risveglia dopo un sogno. «Mi dispiace» disse. Si toccò il naso e fissò il sangue. «Fatti la doccia e datti una calmata, Cristo!» disse Donovan, poi si girò e si avvicinò all'altro ragazzo, che, barcollando, si era rialzato. Billy guardò Clevenger, a bordo ring. «Vai a vestirti» gli disse quest'ultimo. «Ti accompagno a casa.» Donovan si avvicinò a Clevenger mentre Billy andava nello spogliatoio. «Dottore, il ragazzo ha talento e, se vuole, può diventare un professionista. Deve solo imparare a controllarsi.» «Certo.» «Uno più in gamba di Nicky poteva metterlo al tappeto, quando ha incominciato a sferrare pugni all'impazzata.» A quanto pareva, Donovan era preoccupato della perdita di controllo di Billy per un motivo molto diverso da quello di Clevenger, il quale constatò: «Non è riuscito a fermarsi neppure quando lei glielo ha ordinato». «Non ci farei troppo caso. Questi ragazzi sprizzano energia da tutti i pori e non riescono a controllarla. Ci riusciranno con l'età e l'esperienza.» «Speriamo» si augurò Clevenger. «Sono in questo mondo da un sacco di anni» lo rassicurò Donovan, dandogli una pacca sulla spalla e dirigendosi nello spogliatoio. Mentre si avviava verso l'uscita, Clevenger osservò i ragazzi che si allenavano e sudavano. Gli sarebbe piaciuto credere che Donovan avesse ragione, che Billy non fosse diverso dai suoi coetanei, che il suo sistema nervoso di diciottenne cedesse solo occasionalmente. Ma sul conto di Billy, Clevenger ne sapeva più di Donovan, perché era a conoscenza del suo passato di violenze fuori dal ring e delle volte in cui aveva lasciato a terra ragazzi sanguinanti, con la mandibola fratturata e una commozione cerebrale. Sapeva anche qualcos'altro di Billy, per averlo sperimentato su di sé. Quando si è vittime di un padre brutale, la brutalità si insinua nella psiche. Il principio di conservazione dell'energia si applica alla mente, così come
ai pianeti. Assimilare la rabbia di una persona significa questo. Si può provarla dentro di sé e fare di tutto per purificarsene, oppure si può cercare di ignorarla. In quest'ultimo caso, essa si svilupperà sempre di più fino a conquistare, sotto forma di depressione o di aggressività, ogni angolo dell'anima di chi l'alberga in sé. Mentre aspettava Billy sul pick-up, Clevenger ripensò a Grace Baxter e fu tentato di chiamarla per assicurarsi che sarebbe venuta all'appuntamento, ma poi temette che lei l'avrebbe trattenuto al telefono in un momento in cui lui invece desiderava dedicarsi solo a Billy. Il ragazzo uscì dalla palestra in perfetta tenuta da teen-ager: T-shirt nera, pantaloni di foggia militare larghi e con la vita bassa e Nike alte slacciate. All'orecchio sinistro portava tre cerchietti d'argento e intorno al collo una collana di cuoio con perline. Camminava con passo volutamente spavaldo, come chi recita il ruolo del duro in un film. Salì sul pick-up, tenendo lo sguardo fisso davanti a sé. «Grazie per essere passato a prendermi.» «Non c'è di che.» Clevenger inserì la retromarcia e uscì dal posteggio, prese la Broadway, diretto alla Route 99 per tornare a Chelsea. «Ho rotto con Casey» annunciò Billy. Casey Simms, una diciassettenne di Newburyport, era la ragazza di Billy da un paio d'anni. Clevenger si chiese se quella dichiarazione fosse il suo modo di spiegare perché aveva perso la calma sul ring. «Non me l'aspettavo» disse Clevenger. «Mi pareva che tra voi le cose andassero bene.» «All'improvviso è diventata troppo appiccicosa. Gelosa marcia.» «All'improvviso. Ti sei fatto un'idea del perché è successo?» «È una ragazza» rispose Billy, continuando a tenere lo sguardo fisso davanti a sé. «E a te sta bene che abbiate rotto?» «Sì.» Ultimamente questo era il massimo grado di confidenza che Clevenger riusciva ad avere con Billy. «La rottura con Casey è in qualche modo collegata al fatto che hai infierito su quel ragazzo dopo che Donovan aveva dichiarato la fine dell'incontro?» Billy si strinse nelle spalle. «Non l'avevo sentito.» Clevenger lo guardò. «È la verità» ribadì il ragazzo, lanciando una rapida occhiata a Clevenger. «So quello che stai pensando, e cioè che ho scaricato su Nick la mia
frustrazione per la storia con Casey. Io, però, non attribuisco il mio comportamento a simili motivazioni inconsce.» Si girò verso Clevenger e sfoderò il suo sorriso più accattivante. «Insomma, avrei dovuto ascoltare Donovan e ammetto di non averlo fatto. Va bene così, dottore?» Billy trovava sempre il modo di minimizzare i guai in cui si cacciava, ma Clevenger non riusciva a fare altrettanto. «Se continui a non dar retta a Donovan, prima di quest'estate ti butterà fuori, campione» gli disse. «Se pratichi lo sport rispettando le regole, va benissimo. Ma se è una scusa per fare a botte, lascia perdere.» «D'accordo» disse Billy, tornando a fissare la strada davanti a sé e rimanendo in silenzio per qualche istante. «Ti occupi tu del caso di quel tipo nel vicolo al Massachusetts General Hospital?» si informò poi. «Dicono che non sia stato lui a spararsi.» «Chi lo dice?» «Un giornalista alla radio. L'ho sentito mentre facevo riscaldamento.» Clevenger, ormai, non faceva più mistero con Billy della sua attività di consulente psichiatrico, essendo convinto che se per il ragazzo focalizzare l'attenzione su casi di violenza non era molto salutare, lo sarebbe stato ancora meno crescere con un padre che teneva segreta la sua professione. Inoltre sperava che il fatto di vederlo lavorare con la polizia avrebbe forse reso Billy più propenso a rispettare la legge. «La polizia di Boston mi ha ingaggiato oggi. Vogliono che li aiuti a capire se Snow si è suicidato o meno.» «Che figata!» esclamò Billy tutto eccitato. «E tu che cosa ne pensi?» «È troppo presto per esprimere un parere.» Billy annuì. «Il tipo doveva essere operato al cervello, giusto?» «Esatto.» «Sarebbe potuto morire?» «È un rischio possibile in un'operazione del genere.» «Allora di sicuro non si è fatto fuori.» Clevenger lo guardò. «Perché?» «Perché, come si dice, libertà è non avere niente da perdere. Uno può sempre suicidarsi. Se pensi di poter morire comunque, allora perché non lasciar fare alla sorte? Forse non ti sveglierai più. O magari ti sveglierai e ti sentirai meglio, come una persona nuova.» Fece una pausa. «A me sarebbe piaciuto. E a te?» «Risvegliarsi ed essere un'altra persona, oppure non risvegliarsi?» «Entrambe le cose. L'una o l'altra. Una qualsiasi.»
Clevenger fissò Billy, il quale lo guardò veramente negli occhi per la prima volta da quando era salito sul pick-up. Aveva un modo del tutto repentino di stabilire un contatto diretto. Quando succedeva era una bella sensazione, ma non accadeva spesso e sembrava non durare mai a lungo. «Sì» ammise. «L'una o l'altra.» «E poi una volta non mi hai detto che i depressi si sentono più di merda al mattino?» chiese. «Per molti di loro è così.» «Perché quando si alzano sono ancora gli stessi della sera prima. Ma a questo tizio stavano per fare a pezzi il cervello. Avrebbe potuto accadergli qualsiasi cosa.» Nella sua semplicità, il ragionamento di Billy era perfettamente logico. Snow stava cercando di liberarsi, di lasciarsi alle spalle la sua vita precedente per cominciarne una nuova. Al suicidio avrebbe potuto ricorrere in qualunque momento. E allora perché non aveva aspettato di vedere l'esito dell'operazione? Un inventore come lui non sarebbe stato eccitato alla prospettiva di poter reinventare la propria esistenza? «È un modo molto interessante di considerare la faccenda» ammise Clevenger. «Potresti avere ragione.» L'istinto gli suggeriva di cambiare argomento, per evitare che Billy continuasse a pensare a omicidi o suicidi. «Tornando a Casey,» disse «non hai davvero nessuna idea del perché sia così gelosa delle altre ragazze?» «Ho bazzicato un po' in giro» rispose Billy. «Ma non è come pensa lei.» Tornò a fissare davanti a sé. Era il massimo che Clevenger avrebbe ottenuto da lui. «Ne parliamo un'altra volta» propose allora. «Okay» approvò Billy. «Un'altra volta.» 6 Ore 17.20 Billy rimase a casa appena il tempo di trangugiare un boccone, poi uscì per incontrare i suoi amici. Clevenger si ritrovò solo nel loft di quasi duecento metri quadrati in cui vivevano, con le ampie vetrate che incorniciavano la notte di Chelsea illuminata dai fari del fiume di auto in transito sul Tobin Bridge, tra i vapori delle vicine, torreggianti ciminiere che ne avvolgevano la verde struttura metallica. Sotto il ponte si stendeva un'area di cinque chilometri quadrati fatta di
caseggiati, fabbriche e villette a schiera in mattoni, che avevano ospitato, a più riprese, ondate di immigrati che si rifugiavano a Chelsea come in un secondo ventre materno, iscrivendovi i figli a scuola, registrandosi agli uffici della previdenza sociale in Everett Avenue, imparando l'inglese e trovando impiego nelle stazioni di servizio, nei negozi di alcolici e negli empori. Poi, dopo essersi rifatti una vita e aver fatto carriera, si trasferivano in città più ricche come Nahant, Marblehead e Swampscott. Clevenger accese il computer, che teneva su una scrivania di legno antica di fronte alle vetrate, con l'intenzione di fare qualche ricerca su John Snow, Collin Coroway e la Snow-Coroway Engineering e di scoprire il più possibile sul conto di Grace Baxter. Mentre aspettava che il sistema operativo si avviasse, ne approfittò per dare un'occhiata alla camera di Billy, fermandosi sulla soglia: al centro della stanza c'erano la panca e i bilancieri per il sollevamento dei pesi; contro una parete era appoggiato un materasso, mentre lungo un'altra c'erano pile di CD e DVD. I vestiti erano sparpagliati in giro. Clevenger sorrise nel vedere la fotografia appiccicata con il nastro adesivo all'anta dell'armadio: lui e Billy, il giorno in cui il ragazzo era arrivato in quella casa. In molti casi, il fatto di esercitare un ruolo genitoriale su un ragazzo problematico - anche uno violento come Billy - aveva aspetti sorprendentemente positivi. Nel caso di Clevenger, per esempio, l'essere responsabile di un'altra persona serviva a strutturargli l'esistenza, mentre la sua esperienza di psichiatra lo aiutava ad affrontare il fatto che la vita con Billy poteva dargli una sensazione di isolamento e anche di rabbia, perché gli ricordava la propria infernale adolescenza e il proprio sadico padre. E l'isolamento che l'educazione di un figlio adolescente comportava era l'aspetto per il quale Clevenger era meno preparato, in quanto significava concentrare una grande quantità di tempo e di energia su un'altra persona, una persona che non ti era amica e dalla quale non dovevi aspettarti aiuto nei periodi difficili né comprensione nei momenti di abbattimento e malumore. Clevenger stava scoprendo quanto ci si potesse sentire soli nella stanza accanto a quella del proprio figlio, pur amandolo quanto lui amava Billy, e per arginare la solitudine non poteva più ricorrere ai facili espedienti di un tempo. Le donne, innanzitutto. Negli ultimi due anni Clevenger aveva avuto qualche relazione, compresa quella a fasi alterne con Whitney McCormick, psichiatra legale dell'FBI, con cui aveva lavorato per il caso di Jonah Wrens. Ma non aveva mai potuto abbandonarsi a una storia d'amore, nep-
pure con lei, che pure continuava ad apparirgli in sogno. Non poteva rifugiarsi in una donna e annullare le proprie inquietudini nello stordimento della passione. Per dare al figlio l'inequivocabile impressione di essere al centro della sua vita doveva addormentarsi e svegliarsi solo e considerare le relazioni amorose come attività part-time. E poi c'era il suo altalenante rapporto con l'alcol e la droga. Clevenger aveva trovato meno stressante rimanere sobrio per se stesso, giorno dopo giorno, che assumersi tale impegno con la scusa di crescere un figlio sano. Perché una ricaduta, di tanto in tanto, era quantomeno concepibile se l'unico a subirne danno era lui stesso. Quando il dolore diventava insostenibile, sapeva di poterlo mettere a tacere, anche se poi l'avrebbe pagata molto cara. Adesso che il futuro di Billy era legato al suo e che, bevendo, sarebbe diventato il padre ubriacone di Billy, Clevenger non riusciva più neppure a toccare la bottiglia. Aveva stretto un patto con la realtà, indipendentemente da quanto essa fosse diventata dolorosa. Clevenger ripensò a ciò che John Snow stava per fare, al suo progetto di rendersi libero dal groviglio dei suoi neuroni e, molto probabilmente, da qualunque altro groviglio. In un certo senso, si trattava di un'idea esaltante: Snow avrebbe potuto vivere la vita priva di restrizioni di uno straniero in una terra lontana, senza obblighi verso nessuno, senza sensi di colpa per i peccati del passato, senza niente che lo definisse o lo limitasse. D'altra parte, c'era da chiedersi quanto sarebbe costata la libertà di Snow a coloro che lo consideravano parte della propria vita, della propria realtà. Una volta che lui se ne fosse andato, sarebbero mai riusciti a trovare una soluzione ai drammi di cui lui era stato protagonista, oppure ne sarebbero stati oppressi per sempre? E Snow non avrebbe dovuto preoccuparsi di tutto ciò? Una persona è libera a tal punto da permettersi un cambiamento tanto radicale? Che cosa sarebbe successo a Billy se Clevenger avesse deciso che i loro legami emotivi - positivi e negativi - erano privi di valore e inconsistenti, che loro due non avevano un futuro insieme e neppure un passato in comune? Billy sarebbe riuscito a sopravvivere all'abbandono? Sarebbe riuscito a sostenere l'amore e la paura, la fiducia e il risentimento che avevano condiviso? Oppure si sarebbe fatto schiacciare dal loro peso? Squillò il telefono. Clevenger tornò alla scrivania e rispose. «Frank Clevenger.» «Cattive notizie» disse North Anderson. «Che cosa? Dove sei?» «In ufficio. Ha appena chiamato Mike Coady. La polizia ha ricevuto una
chiamata dal 214 di Beacon Street. Si tratta di George Reese, il marito di Grace Baxter.» «Mio Dio, no» disse Clevenger, pensando che lei lo avesse ucciso o avesse tentato di farlo. Sentì le gambe cedergli. Grace Baxter gli aveva lanciato segnali della disperazione che provava e lui aveva preso la decisione sbagliata, permettendole di tornare a casa, invece di affidarla a un reparto psichiatrico d'isolamento. «Quanto sono cattive le notizie?» chiese. «I paramedici hanno tentato l'impossibile, ma non è servito a nulla. Il corpo era lì da un po', forse da un paio d'ore.» Clevenger riuscì a sedersi sulla poltrona della scrivania, prima che le gambe gli cedessero del tutto. «Come lo ha ucciso?» «"Lo"...?» si stupì Anderson. «Frank, il marito sta bene.» La mente di Clevenger non poteva - o non voleva - mettere insieme i fatti e arrivare alla terribile verità. «Non capisco.» «Si tratta di Grace» disse Anderson, rimanendo poi in silenzio per qualche secondo. «Si è uccisa.» Clevenger chiuse gli occhi, rivedendo Grace Baxter che si avviava alla macchina al Fitzgerald Shipyard, con il viso rigato di lacrime. Poi li riaprì e guardò fuori, nella notte di Chelsea. «In che modo lo ha fatto?» riuscì a chiedere. «Non è una bella storia.» «Quando mai lo è?» «Questa in particolare...» «Racconta.» «È andata in bagno e si è tagliata prima i polsi, poi la gola. Quindi, si è trascinata fino al letto, dove è morta dissanguata.» «Chi l'ha trovata?» «Suo marito. Grace avrebbe dovuto raggiungerlo a un cocktail alla Beacon Street Bank - una raccolta di fondi, o qualcosa del genere - ma non è mai arrivata. Allora lui è andato a cercarla a casa.» «Ha lasciato una lettera?» «Sì, però Coady non mi ha riferito che cosa c'era scritto.» «Possiamo vederci in Beacon Street?» chiese Clevenger. C'erano due motivi per cui voleva andare là: Grace era stata una sua paziente, anche se per una sola seduta; un uomo e una donna che erano stati amanti erano morti nel giro di alcune ore l'uno dall'altra. Una delle possibilità era l'omicidio-suicidio, ovvero che Grace Baxter avesse ucciso John Snow e poi si fosse suicidata. Ma ce n'erano anche altre. Clevenger voleva vedere dove
era morta Grace, dare un'occhiata alla stanza, verificare se c'erano segni di colluttazione. «Devo dirti anche che hanno trovato sul comodino un pezzo di carta con il tuo nome, il tuo numero di telefono e l'appunto per la seduta di domani. Suppongo che il marito sappia che è stata da te stamattina. Sta cercando qualcuno da incolpare.» «Non faticherà a trovarmi. Sarò al 214 di Beacon Street fra quindici minuti.» «Ci vediamo là.» Clevenger lasciò un messaggio a Billy, poi partì per Boston. Sapeva che gli psichiatri perdevano i propri pazienti, esattamente come succedeva agli altri medici, e che alcuni disturbi psichiatrici erano fatali. E sapeva anche che, ai sensi della legge, Grace Baxter gli aveva detto tutto quello che lui doveva sapere: il "patto di incolumità", per cui non avrebbe fatto del male a se stessa né ad altri. Ma la sua mente continuava a rivivere i quaranta minuti circa che avevano passato insieme e a rivedere il momento in cui lui le aveva chiesto se voleva far del male a suo marito. Perché non si era soffermato sul vero pericolo, e cioè sul fatto che lei voleva uccidersi? Perché non aveva intuito questo rischio? Parcheggiò l'auto in Beacon Street e percorse a passo sostenuto i tre isolati che lo separavano dal numero 214, un signorile edificio in mattoni con la facciata convessa, ampi gradini in granito e due lanterne in ferro battuto che incorniciavano un'alta porta cremisi. Due agenti erano di guardia davanti ai gradini e tre auto della polizia e la Porsche Carrera nera di North Anderson erano parcheggiate di fronte all'edificio. Gli agenti riconobbero Clevenger e si fecero da parte per lasciarlo passare. Mentre lui si avvicinava alla porta, questa si aprì per lasciar uscire Anderson, che se la richiuse alle spalle. Clevenger lanciò un'occhiata lungo Beacon Street. «Non avevo previsto una cosa del genere.» «Se non ci sei riuscito tu, nessun altro avrebbe potuto farlo.» Clevenger lo guardò. «Non ne sono sicuro.» Anderson distolse lo sguardo. «Il marito è andato fuori di testa molto più di quel che mi aveva detto Coady. Forse è meglio aspettare che portino il cadavere all'obitorio. Wolfe ti dirà tutto quello che hai bisogno di sapere.» Clevenger scrollò la testa. «Lei dov'è?»
«Posso fare tutto io qui.» Clevenger fece per oltrepassarlo. Anderson lo trattenne per un braccio. «Al piano superiore, in camera da letto. C'è anche Coady. Il marito è nel suo studio, a destra dell'ingresso.» Clevenger aprì la porta ed entrò in casa. George Reese, il marito di Grace Baxter, si alzò da una poltrona di pelle bordeaux, drizzò la testa e fissò Clevenger con gli occhi grigi iniettati di sangue. Alto circa un metro e ottanta, era molto snello e dimostrava meno dei suoi cinquantadue anni. La camicia bianca da smoking era insanguinata. I capelli neri come l'ebano, precedentemente pettinati all'indietro con il gel, adesso gli ricadevano sulla fronte. Clevenger si diresse verso di lui, notando che aveva anche le palme delle mani e una guancia sporche di sangue. «Mi dispiace molto...» disse. Chiazze rosse comparvero sul collo di Reese. «Lei ha davvero un bel coraggio a presentarsi in casa mia» sibilò, sforzandosi di tenere la voce bassa. Anderson si accostò a Clevenger. Reese guardò di traverso il dottore. «Grace mi aveva detto di averle telefonato cinque volte oggi. E lei non l'ha mai richiamata. Che cosa c'era di più importante della vita di mia moglie?» Clevenger si accorse che il fiato di Reese puzzava d'alcol. Si guardò intorno e notò una bottiglia di scotch aperta, sul tavolino da caffè. «Grace aveva chiamato per fissare un appuntamento» si giustificò Clevenger. «Sarebbe dovuta venire da me domani mattina alle otto.» Sapeva che come risposta non era un granché. «Be', non ce l'ha fatta ad aspettare fino a domani mattina» disse Reese, trattenendo a stento la rabbia. «Vorrei essere riuscito a fare di più» ammise Clevenger. Reese mosse un passo verso di lui e Anderson fece per frapporsi tra loro, ma Clevenger lo trattenne con un cenno. «Cinque telefonate» ripeté Reese. «La maggior parte dei suoi pazienti la chiama una mezza dozzina di volte in poche ore?» Parlava a denti stretti. «Conosceva l'anamnesi di Grace, dottor Clevenger? Si è preoccupato di esaminare la sua cartella clinica prima di riceverla? Ha parlato con il suo ultimo psichiatra?» Queste domande risvegliarono in Clevenger un altro spiacevole ricordo della sua seduta con Grace Baxter, ovvero il modo in cui lei gli aveva snocciolato il "patto di incolumità", inducendolo a chiedersi quante volte
in passato avesse dato motivo di preoccupazione agli psichiatri. A lei però non l'aveva chiesto. «Tre tentativi di suicidio» disse Reese. «Nove ricoveri in reparti psichiatrici d'isolamento.» Dopo aver abbassato lo sguardo per un attimo, Clevenger si costrinse a guardare di nuovo Reese negli occhi. «Non ha trovato un'ora per lei, magari alla fine della sua giornata piena d'impegni? Doveva andare da qualche altra parte?» «Mi spiace davvero per sua moglie» disse Clevenger. Reese si piegò per bisbigliare qualcosa nell'orecchio di Clevenger. Il suo fiato era un concentrato di alcol. «Salga in camera da letto e le dia un'occhiata. Vada a vedere che cosa ha fatto.» E si scostò da lui. Clevenger lo oltrepassò e salì la scala che portava al piano superiore, seguito da Anderson. Si fece guidare dalla voce di Mike Coady che si sentiva fin nell'atrio. Quando entrò in camera da letto, si sentì gelare. Anderson gli appoggiò una mano sulla spalla. «Deve aver barcollato in giro per la stanza nel tentativo di raggiungere il letto.» La trapunta era scostata e ripiegata e Grace Baxter giaceva nuda sulle lenzuola intrise di sangue; anche le pareti e il tappeto ne erano macchiati. Le tende di velluto azzurro erano state in parte strappate dalle finestre e giacevano sul pavimento in un mucchio insanguinato. Clevenger si avvicinò al letto camminando sul telo di plastica steso a terra dagli agenti della scientifica. Guardò Grace Baxter. Tagli color rosso cupo si intersecavano sul suo collo: un lavoro davvero maldestro. I polsi erano stati incisi una sola volta, in orizzontale. I braccialetti di diamanti e il Rolex, che indossava ancora, erano macchiati di sangue. Coady si accostò all'altro lato del letto. «Una tua paziente?» «Mi aveva detto che per lei erano come manette» osservò Clevenger. «Che cosa?» «I braccialetti» rispose. «L'orologio.» «Manette di gran lusso.» «In effetti, sì.» «Si è tagliata le arterie carotidee» disse Coady. «Il bagno è ancora più incasinato.» «Che cosa ha usato?» «Un taglierino da moquette. Stanno ristrutturando il secondo piano. Il marito dice che dev'essere di un operaio dell'impresa.» Clevenger annuì.
«Ha lasciato una lettera» lo informò Coady, allungandogli una busta di plastica contenente un foglio di carta. Clevenger la prese. Nonostante le macchie di sangue, il testo era leggibile. Amore mio, non posso più andare avanti così. La sera, quando mi addormento, e il mattino, quando mi sveglio, sono gli unici momenti in cui mi sento viva, prima di rendermi completamente conto di ciò che è diventata la mia vita. Se provi a immaginare di avere solo questi pochi istanti di felicità in tutta la giornata e in tutta la notte, la più dolce e passeggera illusione di libertà, puoi forse capire e anche perdonare quel che ho fatto. Ricordo ogni nostro bacio, ogni nostra carezza. Quando sei entrato in me, io sono entrata in te. Sono fuggita e mi sono lasciata il dolore alle spalle. Non sono in grado di affrontarlo da sola. Ho sbagliato a fare affidamento su di te per la mia felicità. La tua vita è tua. Ma il pensiero del tuo abbandono rende il mio orizzonte così oscuro che non riesco a vedere più alcun futuro, né tollero di avanzare anche di un solo passo. Per favore, perdonami di tutto. Per sempre tua, Grace «Il marito mi ha detto che stavano per divorziare» disse Coady. «Era stato da un avvocato.» Clevenger gli restituì la busta. «C'è un posto dove possiamo parlare?» «Vieni con me.» Clevenger seguì Coady lungo un altro telo di plastica fino in bagno. Le pareti erano rivestite di specchi, per cui, in qualunque direzione Clevenger si girasse, continuava a vedere se stesso macchiato del sangue di Grace Baxter. Un brivido gli percorse la schiena. Coady chiuse la porta con la mano protetta da un guanto. «Il taglierino da moquette» disse, indicando il lavabo. Clevenger abbassò lo sguardo nel punto indicatogli e vide l'arma con la lama insanguinata. «Lei era l'amante di Snow» affermò poi, senza alzare lo sguardo. «Ma di che parli?»
«Grace Baxter e Snow. Avevano una relazione.» «Te l'aveva detto lei?» «No» rispose Clevenger, guardando Coady negli occhi. «Oggi ho visto Jet Heller. Era stato Snow a parlargliene.» Coady aveva l'aria di chi si sta sforzando di trovare una soluzione semplice a un problema complesso. «Magari lei viene a sapere che il suo uomo si è ucciso, cade in depressione e...» «È possibile» disse Clevenger. Fece una pausa. «Come mai non prendi in considerazione il marito?» «Che cosa?» «La maggior parte delle volte le donne si uccidono con un'overdose» spiegò Clevenger. «Qualche volta si tagliano le vene dei polsi. Ma i tagli sul collo e un unico taglio orizzontale in ogni polso? Sarebbe materiale per le riviste di psichiatria. Chi arriva a recidersi le carotidi lo fa in risposta a una psicosi: la fissazione di avere il sangue del diavolo nelle vene, o qualcosa del genere. Non avevo riscontrato alcun segno di psicosi in Grace Baxter.» «Siamo sinceri» disse Coady. «Non avevi previsto nulla di tutto ciò.» La frase colpì Clevenger come un calcio, lasciandolo stordito per qualche secondo. «No» ammise, alla fine. «Non avevo previsto nulla. Ma anche questo è significativo.» «Ah, ho capito» disse Coady. «Tutto ciò non poteva accadere perché l'onniveggente dottor Frank Clevenger non lo aveva previsto. Non possiamo certo accettare l'evidenza, se ciò significa ammettere che hai preso una cantonata.» «Il marito è macchiato del sangue di Grace.» «È entrato, ha visto la donna che era sua moglie da dodici anni che si stava dissanguando sul letto e ha cercato di rianimarla. Quando siamo arrivati, il corpo era ancora caldo. Il cuore non batteva più, ma era ancora caldo.» Clevenger rimase zitto. «Che motivo avrebbe avuto il marito di ucciderla?» proseguì Coady. «La gelosia? La morte di Snow era su tutti i giornali, oggi. Quindi sapeva che non avrebbe più dovuto competere con lui.» Sembrava irritato dalle sue stesse parole. «D'accordo» disse Clevenger. «Snow era fuori dai piedi.» «Oh, così adesso lui è colpevole di un doppio omicidio. Un banchiere, un pilastro della comunità, in preda a furia omicida, uccide l'amante della
moglie al mattino e fa fuori la moglie verso sera. E non ha preso una pistola e li ha uccisi dopo averli sorpresi insieme. No, qui, non c'è alcun impulso incontrollabile. Lui ha pianificato di eliminarli entrambi lo stesso giorno.» Fece una pausa. «Questo sarebbe materiale interessante per le riviste di criminologia.» «Forse non l'ha pianificato bene» disse Clevenger. «Sentì, non sto dicendo che il marito sia necessariamente coinvolto. Ma sua moglie lo tradiva e sia lei sia il suo amante sono morti. E lui si è fatto trovare con il sangue della moglie addosso.» «Va bene» tagliò corto Coady. «Non lo scarterò ufficialmente.» «E ufficiosamente?» «Vieni qui a dirmi come devo svolgere le mie indagini? Avevo un'unica domanda per te: John Snow era psicologicamente capace di suicidarsi? Se vuoi il caso, questo è ciò su cui devi concentrarti. Non è affare tuo se decidiamo che Grace Baxter si è suicidata o no.» «Ricevuto» disse Clevenger. Coady sapeva che lui non lo stava ascoltando. «Dovresti farti da parte. Tu hai tutto da guadagnarci, se non è un suicidio. Perché se invece lo fosse, potrebbe anche diventare un bel caso di negligenza professionale.» «Il che potrebbe essere il solo modo di cominciare a capire che cos'è successo» disse Clevenger, voltandosi e uscendo. 7 Ore 20.40 Clevenger se ne andò con Anderson. Si ritrovarono in ufficio, a Chelsea. «Allora, che cosa ne pensi?» domandò Anderson, mentre si sedeva di fronte alla scrivania di Clevenger, sulla stessa sedia che aveva occupato Grace Baxter. «Abbiamo un uomo e una donna innamorati, o perlomeno intimamente legati, che sono morti nel giro di qualche ora l'uno dall'altra» rispose Clevenger. «La loro storia è certamente il punto da cui bisogna partire. Qualcuno non riusciva a sopportare quello che c'era tra loro, oppure non poteva sopportare che fosse una storia finita.» «Potrebbe trattarsi della stessa Grace. Potrebbe essere lei la persona che ha sparato.» «È possibile» disse Clevenger. «Ma per autoinfliggersi quelle ferite do-
veva essere psicotica.» Scosse la testa. «Forse era più malata di quanto pensassi. Ha detto di sentirsi in colpa. Magari era qualcosa di più. Magari era convinta di essere malvagia. Forse credeva che dissanguarsi fosse l'unico modo per purificarsi dai suoi peccati.» «L'assassinio di Snow potrebbe avere indotto in lei questo stato d'animo?» chiese Anderson. Clevenger lo guardò. «Sì, potrebbe.» Parte dell'efficacia di una perizia medico-legale condotta su un assassino consisteva nel capire che il suo stato mentale poteva essere stato drammaticamente influenzato dall'atto omicida in sé. Un omicidio poteva far precipitare una persona in qualcosa di molto simile alla mania, o anche alla schizofrenia paranoide: in alcuni casi pochi minuti dopo il fatto, in altri casi dopo ore. Clevenger scosse la testa. «Grace Baxter non mi è sembrata proprio una persona che stesse perdendo il contatto con la realtà.» «Fino a quando non avremo in mano qualcos'altro, dobbiamo seguire il nostro istinto. Se è stato un omicidio-suicidio, la cosa finisce qui. Come pure se si sono suicidati entrambi. Ma se c'è in giro il colpevole di un doppio omicidio, siamo gli unici a cercarlo.» Anderson aveva ragione. Loro erano gli unici a cercare la verità sino in fondo. E se questa verità includeva un assassino abbastanza temerario da uccidere un brillante inventore e la sua ricca amante, dovevano cominciare a preoccuparsi anche della loro incolumità. «Dovremo guardarci le spalle a vicenda» disse Clevenger. «Hai centrato il punto» convenne Anderson. «Penso che la prossima visita sarà alla moglie di Snow, per scoprire se sapeva di Grace Baxter. Domani mattina Coady mi farà avere il diario di Snow. Gli darò un'occhiata prima di andare da lei.» «Devo ancora rintracciare Coroway. E dovremo anche trovare il modo di stabilire un contatto con George Reese.» «D'accordo.» «Ti rendi conto che in questo caso non abbiamo un vero e proprio cliente?» osservò Anderson. «Devi preparare un rapporto sulla salute mentale di Snow per Coady, ma lui potrebbe anche decidere di lasciarlo perdere se premiamo troppo l'acceleratore sulla teoria del doppio omicidio.» Clevenger rifletté su questa osservazione. Erano liberi di mollare il caso e una parte di lui ne sarebbe stata contenta. In ufficio aveva parecchie altre urgenze, senza contare il tempo e l'energia di cui aveva bisogno per tenere Billy fuori dai guai. Ma sapeva che, se qualcuno aveva ucciso Grace Ba-
xter e John Snow, costui avrebbe dormito sonni più tranquilli se lui e Anderson avessero lasciato perdere l'indagine. E sapeva anche che ciò lo avrebbe tenuto sveglio la notte e fatto riaffiorare gli incubi, in cui suo padre ubriaco infieriva come un pazzo. E, visto che era stato ucciso a poco a poco da un simile soggetto, Clevenger non poteva sopportare l'idea di lasciare in giro un assassino. Questo era il modo in cui i frammenti della sua psiche si erano ricomposti e lui era diventato quel che era. «L'unico cliente che abbiamo effettivamente avuto era John Snow» disse. «Credo che solo lui possa revocarci il mandato.» «Se è così, speriamo che succeda il più tardi possibile.» Ore 22.35 Clevenger salì al quinto piano con l'ascensore e si avviò verso la porta d'acciaio del suo loft. Dall'interno provenivano voci e, di tanto in tanto, qualche risata. Si chiese se Billy avesse invitato un amico, un'abitudine che aveva mantenuto anche nei giorni infrasettimanali, benché Clevenger gli avesse chiesto di farlo solo nei week-end. Cercò di liberarsi la mente dall'indagine, preparandosi a pronunciare un paterno discorso del tipo diamoci-un-taglio seguito da una ramanzina un po' più severa, una volta che lui e Billy fossero rimasti soli. Ma quando aprì la porta, trovò J.T. Heller e Billy seduti in cucina a bere Coca-Cola come due vecchi amici. Heller si alzò per andare incontro a Clevenger. Aveva una grossa busta in mano. «Mi dispiace di aver approfittato dell'ospitalità» si scusò. «Nessun problema» disse Clevenger, colto alla sprovvista. «Sono passato a consegnarti la documentazione: la perizia psichiatrica effettuata su Snow in ospedale.» «Grazie.» «Volevo che tu l'avessi al più presto» disse Heller. «Oggi ti sei dimenticato di lasciarmi il tuo indirizzo. L'ho avuto dalla Massachusetts Medical Society. Billy mi ha detto che stavi per tornare a casa.» Gli porse la busta. Clevenger la prese. «Te ne sono grato.» «Vedo che anche tu hai giornate pesanti come me. Sono reduce da sei ore di sala operatoria.» «Fai interventi così tardi?» «No. Un tipo era venuto a farsi visitare dal neurologo per un fortissimo mal di testa. Lo hanno portato subito in radiologia, secondo la prassi, e gli hanno fatto un'angiografia. Un fottuto aneurisma dell'arteria cerebellare
superiore. Non c'è stato tempo da perdere.» «Com'è andata?» «Quando ho aperto, l'aneurisma si stava già espandendo. Se il tipo fosse venuto a farsi visitare un'ora dopo, adesso parleremmo di lui al passato. Comunque, ho risolto il problema e richiuso. Dovrebbe essere a posto per altri centomila anni.» Alzò gli occhi al cielo. «Se Dio vuole.» «Bene, allora.» «Non c'è dubbio che la giornata sia finita decisamente meglio di com'era cominciata» osservò, e le sue parole sembrarono riportarlo ai fatti di quella mattina, facendolo di colpo apparire stanco come avrebbe dovuto essere un uomo che ha perso un paziente e ne ha appena salvato un altro. «Devo andare» disse poi. «Ma è presto» intervenne Billy, abbassando subito lo sguardo, imbarazzato, come se la sua abituale maschera di impassibilità fosse improvvisamente caduta. Clevenger non ricordava di averlo mai sentito rivolgersi a un adulto con tanto trasporto. «Sono a pezzi» gli spiegò Heller. «Ci vedremo un'altra volta, non dubitare.» Poi strizzò l'occhio a Clevenger. «Billy e io ci siamo resi conto di avere alcune cose in comune.» Billy rialzò lo sguardo e sorrise. «Ottimo» disse Clevenger. «Quali, per esempio?» «Nella mia vita ci sono stati cambiamenti imprevisti e svolte, tra cui il fatto di essere stato dato in adozione.» «E non solo» intervenne di nuovo Billy. Il modo in cui Clevenger guardò Heller era un invito a proseguire il racconto. «I miei genitori biologici mi hanno abbandonato all'ospedale, dopo che mia madre mi aveva partorito. Se ne sono andati a notte fonda, lasciando il paese. Mi ha adottato una coppia di Brookline: lui era un medico del Massachusetts General Hospital, lei un'infermiera, e non potevano avere figli.» Heller lanciò un'occhiata a Billy, poi tornò a guardare Clevenger. «Devo ammettere che per anni ho fatto patire loro le pene dell'inferno. Marinavo la scuola, rubavo auto. A undici anni mi sono beccato otto mesi di riformatorio con l'accusa di aggressione.» «Proprio come me» disse Billy. Circa un anno prima, dopo che lui e un amico avevano avuto una lite con tre ragazzi di Saugus, Billy si era fatto tre mesi di riformatorio. I ra-
gazzi di Saugus erano finiti tutti al pronto soccorso. «Che cosa ti ha fatto cambiare?» chiese Clevenger. «La mia religione: il sistema nervoso...» rispose Heller, lasciando il discorso in sospeso per qualche istante. «Ho cominciato a seguire mio padre, quello adottivo, nel suo lavoro. Era un neurologo e mi permetteva di raggiungerlo in ospedale dopo la scuola, di frequentare il suo studio, di rispondere ogni tanto al telefono e qualche volta anche di assistere mentre lui visitava i pazienti, quelli davvero interessanti.» «Che figata, vero?» commentò Billy. Clevenger immaginò che agli occhi di Billy tutto ciò risultasse molto più affascinante del coinvolgimento nell'attività di consulente psichiatrico che lui poteva offrirgli. «E così hai finito per fare il neurochirurgo» commentò. «Ti piaceva quello che vedevi.» «Mi affascinava. Mi affascinava mio padre. L'aver partecipato alla sua vita professionale mi ha salvato, davvero. Finché non ho visto quello che lui era in grado di fare per le persone, il potere che aveva di aiutarle, non sapevo che fossimo dotati di un simile potere. Il potere di fare il bene.» «Mi ha detto che posso andare a vederlo in sala operatoria» riferì Billy raggiante. «Posso metterci il naso dentro.» Disse queste ultime parole con il tono di chi è stato ammesso a una società segreta. In un certo senso, la neurochirurgia lo era. «A dire il vero, non mi sono spinto tanto in là» corresse il tiro Heller. «Ho detto a Billy che ne avrei prima parlato con te.» Billy lanciò a Clevenger un'occhiata ansiosa. «Certo che può venire» disse Clevenger, avvertendo una fitta di gelosia. Si rendeva conto che era una cosa irrazionale. In fondo, era lui ad avere remore nel coinvolgere Billy nelle sue attività, mentre il ragazzo ne sarebbe stato entusiasta. «Ti avviserò per tempo, quando mi capita qualche caso interessante» disse Heller a Clevenger. «Ottimo» approvò lui. «Forse la settimana prossima, se non mi si incasinano i programmi. Ho una paziente che è diventata cieca a undici anni. Adesso ne ha trentatré. Un tumore benigno sul nervo oftalmico. Se tutto procederà come dovrebbe e se avrò un po' di fortuna, quando si sveglierà, aprirà gli occhi e potrà vedere.» «Gesù» commentò Billy. «Gesù ci mette sempre lo zampino» disse Heller a Billy. Poi si rivolse di
nuovo a Clevenger, accennando con la testa alla busta che aveva in mano. «Fammi sapere se c'è qualcos'altro che posso fare per te.» «A dire il vero, se hai un paio di minuti,» ne approfittò Clevenger «vorrei sottoporti velocemente un paio di cose riguardanti il caso Snow. Se vuoi, ti accompagno fuori.» Notò la delusione sul viso di Billy. Non voleva escluderlo, né dare l'impressione di contendersi con lui l'attenzione di Heller, ma non voleva neppure parlare dell'omicidio di Grace Baxter in sua presenza. Cercò di rimediare. «Immagino che tu sia stanco come me, adesso» disse a Heller. «Perché non riprendiamo l'argomento domani mattina?» Billy si alzò dalla sedia. «Non fatevi problemi per me» disse. «In ogni caso, stavo per andarmene di là.» E si avviò verso la sua camera. «Ci vediamo in ospedale» gli disse Heller. «Okay» rispose Billy. Clevenger seguì il ragazzo con lo sguardo, mentre spariva nella sua stanza. «C'è un nuovo sviluppo nel caso?» chiese Heller. «Sì» rispose Clevenger. «Grace Baxter è stata trovata morta stasera.» «Grace Baxter...» disse Heller, cercando di rintracciare quel nome nella sua memoria. «Suo marito, George Reese, è il presidente della Beacon Street Bank.» «La Grace di Snow!» Clevenger annuì. «Sono stato a casa di Reese in Beacon Street, oggi.» «Come è morta?» «Polsi tagliati, gola aperta.» «Si è uccisa.» Heller lanciò un'occhiata a Clevenger, storcendo appena la bocca. «Pensi che lei abbia ucciso Snow? Ma di cosa si tratta? Di un meschino omicidio-suicidio? Di una stronzata tipo triangolo amoroso? È per questo che ho perso il mio paziente?» «Non lo so» rispose Clevenger, colpito ancora una volta da come Heller tendesse a vedere ogni cosa attraverso la lente dell'interesse personale. Il fatto che Snow avesse perso la vita gli sembrava meno importante del fatto che lui avesse perso il suo paziente. «Quando ci siamo incontrati, oggi, nel tuo studio, non te ne ho parlato, ma Grace Baxter era una mia paziente» disse Clevenger. «Una nuova paziente. L'ho vista una sola volta.» «Era in cura da te?» «Stamattina aveva fatto la sua prima seduta di psicoterapia.» «Che strana combinazione!» «Penso che abbia fissato l'appuntamento con me perché si sentiva de-
pressa, dopo che Snow l'aveva lasciata.» «Ti ha parlato della sua relazione?» «No.» «Aveva minacciato il suicidio per questo» disse Heller. «Credo di avertene accennato, oggi.» «Se almeno avessi conosciuto i suoi trascorsi psichiatrici!» esclamò Clevenger, in preda ai sensi di colpa. «Avrei dovuto farle più domande in proposito.» «Ti senti responsabile per la sua morte» commentò Heller, fissandolo negli occhi. C'era in Jet Heller qualcosa che riusciva a creare un immediato senso di cameratismo, un'immediata fiducia: che cos'era? La sua spontanea propensione a parlare liberamente? O la sua mancanza di limiti rigidi, per cui si presentava in casa altrui a tarda sera e invitava Billy in sala operatoria? Oppure, più semplicemente, il fatto di sembrare a proprio agio in qualunque circostanza, ivi compresa la morte? Che cosa poteva turbare un uomo che ogni giorno, per mestiere, apriva la testa di altri uomini? «Ci sono domande che non ho formulato» si limitò a dire Clevenger, evitando di accennare al fatto che non era sicuro che Grace Baxter si fosse uccisa. «Avanti, Frank. Da medico a medico. Pensi di averla uccisa?» Clevenger si schiarì la voce. «Lei aveva pronunciato il "patto di incolumità".» Heller annuì. «Ho perso ventisette pazienti sul tavolo operatorio» disse. «Vuoi sapere con quanti di loro ho fallito?» «Senti, non devi...» «Sei. Forse sette. Sono morti a causa dei miei limiti come medico.» Seppur riluttante, adesso Clevenger ascoltava Heller più come suo psichiatra che come suo paziente. «E tu che cosa pensi in proposito?» gli chiese. «Penso che il mio è un lavoro maledettamente difficile, che però io adoro, e penso che sono un essere umano, qualunque cosa dicano di me i giornali. Se non riesco ad affrontare i miei fallimenti, non sono fatto per entrare nella testa degli altri.» Clevenger deglutì. «E tu, Frank? Sei un essere umano? Oppure anche tu cominci a credere a quel che dicono i giornali: che puoi guarire chiunque e risolvere qualunque caso?» Allungò la mano e strinse il braccio di Clevenger. Quando cresci con un padre che non ti dimostra affetto, un uomo che al-
lunga una mano verso di te può bloccarti oppure farti sciogliere. Clevenger distolse lo sguardo, mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime. «Risposta esatta, fratello» disse Heller. «Mi sono sentito nello stesso modo almeno una mezza dozzina di volte e prima di essere tanto vecchio da non riuscire a tenere saldamente in mano il bisturi mi capiterà un'altra dozzina di volte.» Clevenger fece un respiro profondo e lo guardò. «Grazie» disse. «Tienimi informato su questa vicenda, se non è contro le regole» si raccomandò Heller. «E se salta fuori che Snow non si è suicidato, ma è stato ammazzato e tu hai bisogno di soldi per incastrare quel bastardo, rivolgiti pure a me. Se qualcuno lo ha derubato della vita, ha derubato anche me.» «Ti terrò informato» assicurò Clevenger, costringendosi peraltro a ricordare che in realtà lui non conosceva molto bene Heller. «Dei fatti che non saranno vincolati dal segreto, beninteso.» «Tutti noi abbiamo il nostro codice etico» disse Heller. «Non ti chiederò mai di violare il tuo.» Fece un cenno con la testa in direzione della stanza di Billy. «A proposito, con lui andrà tutto bene. È un bravo ragazzo.» Si strinse nelle spalle. «E poi, non si sa mai, sotto quei capelli e quei piercing potrebbe nascondersi un neurochirurgo.» «Non si sa mai.» «Buonanotte.» «Buonanotte.» Heller si voltò ed uscì. Clevenger si diresse verso la stanza di Billy. La porta era chiusa. Non filtrava nessuna luce. O il ragazzo dormiva oppure fingeva di farlo. Clevenger rimase lì in piedi qualche secondo, quasi tentato di entrare e svegliarlo per cercare di capire meglio il suo entusiasmo per Heller e per la sala operatoria. Ma sapeva che avrebbe ottenuto il solito: «Un'altra volta, okay? Sono distrutto». Allora andò alla scrivania, si sedette e aprì la busta che Jet Heller gli aveva portato. Sfogliò le note sul ricovero e sulla visita medica, a firma di un certo dottor Jan Urkevic, e lesse la parte intitolata Resoconto dell'attuale malattia. Il dottor Johnathan Snow, 54 anni, sposato, padre di due figli, epilettico, è stato ricoverato per una valutazione delle sue capacità di intendere e di volere prima di affrontare un intervento neurochirurgico che comporta molti potenziali rischi, quali la perdita
della vista e della parola. Si è fatto ricoverare spontaneamente, dichiarando di sottoporsi a questa perizia per esaudire il desiderio dei familiari, soprattutto della moglie. «Anche se non condivide la mia posizione, lei ha bisogno di sapere se io penso in modo razionale, se ho considerato i rischi e i benefici derivanti dalla mia decisione di procedere con l'operazione.» Il dottor Snow definisce "sperimentale" il procedimento previsto. Il dottor J.T. Heller asporterà singole parti del suo cervello per tentare di rimuovere il focolaio degli attacchi responsabile della epilessia, condizione da lui descritta come «una condanna a vita, da scontare nella prigione che è dentro di me». Snow afferma: «Il mio cervello è guasto. Va in corto circuito quando la mente produce le idee migliori. Le mìe vie neurali non reggono la corrente elettrica della mia immaginazione». Nell'affermare ciò, il dottor Snow è consapevole di usare una metafora per descrivere la propria condizione. È perfettamente a conoscenza del fatto che la rimozione del focolaio degli attacchi dal suo cervello - anche nel caso in cui il procedimento lo guarisse dall'epilessia - potrebbe anche non provocare un'accresciuta funzione intellettuale. È fermamente deciso ad accettare i rischi dell'operazione chirurgica (che elenca con precisione) indipendentemente dai benefici che potrebbe ricavarne. Il dottor Snow ha una laurea in ingegneria aeronautica e lavora come inventore in una società di cui è il cofondatore (la SnowCoroway Engineering). Nulla indica che sia diventato incapace di adempiere incarichi che richiedono memoria, concentrazione o capacità di prendere decisioni razionali. Clevenger diede un'occhiata alla parte intitolata Resoconto dei trascorsi psichiatrici, dove lesse che Snow sosteneva di non avere mai sofferto di disturbi psichici e di non essere mai stato da uno psichiatra. Nell'Esame delle condizioni mentali Urkevic aveva scritto che il paziente negava di avere mai avuto pensieri suicidi o omicidi, o allucinazioni di qualunque tipo. Nelle sue conclusioni, il medico definiva Snow capace di intendere e di volere e pronto per i test psicologici. Clevenger sfogliò le pagine fino al Rapporto sui test psicologici del dottor Kenneth Sklar. Era la parte della cartella clinica di Snow che doveva offrire la visuale migliore sul suo intelletto e sulla sua vita emotiva profon-
da, compresi eventuali desideri di morte, consci o inconsci. La valutazione consisteva in una serie di esami comprendenti un test d'intelligenza, un profilo della personalità e il test delle macchie di inchiostro. Cominciò a leggere. PROCEDURE DI VALUTAZIONE Colloquio Test di Rorschach, o test delle macchie d'inchiostro Test di appercezione tematica (TAT) Test MMPI-2 (Minnesota Multiphasic Personality Inventory) WAIS-III (Wechsler Adult Intelligence Scale), o scala di intelligenza Wechsler per adulti Bender-Gestalt Test (BGT) con richiamo DRS-2 (Dementia Rating Scale), o scala di rilevazione della demenza OSSERVAZIONI SUL COMPORTAMENTO Ho ricevuto il dottor Snow nel mio studio al Massachusetts General Hospital per sottoporlo ai test. È un uomo alto e attraente, che durante tutto il nostro incontro si è mostrato affabile. Il flusso dei suoi pensieri è stato normale e lui ha dato prova di una marcata assenza di stati ansiosi (si veda sotto). Si è informato sulle ragioni effettive dei test cui si sarebbe sottoposto, ma senza invadenza. Ha dimostrato una tendenza a voler sapere se, come suo esaminatore, ero qualificato a condurre valutazioni psicologiche, chiedendomi delucidazioni sul mio curriculum scolastico e sul numero di anni di esperienza. Detto questo, si è dimostrato cortese e disponibile sotto ogni punto di vista. RISULTATI DEI TEST Dal test d'intelligenza WAIS-III risulta che il dottor Snow è un uomo molto acuto e intelligente. Dal suo modo di ragionare verbale e non verbale è risultato un individuo estremamente dotato, con un quoziente di intelligenza (QI) pari a 165, che lo colloca nella categoria dei geni. Il WAIS, inoltre, rivela in lui la capacità di pensare in modo sia concreto sia più astratto. In altre parole, le sue conoscenze tecniche non limitano la creatività. Questa dualità è molto insolita e
spiega senza ombra di dubbio il fatto che il dottor Snow possa padroneggiare una complessa disciplina scientifica ed essere poi in grado di applicarla in modi nuovi e "inventivi". I test proiettivi e oggettivi di personalità (compreso l'MMPI) hanno tuttavia messo in evidenza alcune limitazioni. Il soggetto manifesta una marcata tendenza all'autocritica e alla critica degli altri. Si sofferma sulle proprie carenze assai più che sui propri punti di forza ed è, parimenti, focalizzato sulle debolezze altrui. Definisce "imperfetti" o "non meritevoli" molti personaggi delle storie che gli vengono presentate. Vincola i comportamenti delle persone a modelli ideali, piuttosto che reali. Elogia l'intelligenza, ma solo quando riflette la genialità mentre, quando è inferiore a questo standard, la denigra. Apprezza gli ideali della bellezza fisica, mentre esagera le imperfezioni fisiche. Gli stessi argomenti vengono evidenziati anche nel test di Rorschach. Il dottor Snow ha descritto molte tavole come rappresentazioni del "caos" o di "una tempesta", manifestando il suo disagio con esempi simmetrici, ma generati casualmente. Davanti a una delle tavole più colorate, il suo commento è stato: «Forse un giardino. Mal progettato. Un guazzabuglio di cose mescolate le une alle altre». È interessante come a Snow il disordine provochi non ansia, ma un livello accresciuto di reattività prossimo all'irritabilità. Ha paragonato tale sentimento a ciò che prova quando inventa. Ha affermato che per trovare la risposta giusta a un problema è necessario scartare quelle sbagliate, ivi comprese le soluzioni corrette in senso stretto, ma mediocri. Queste idee imperfette, ha detto, «mi fanno arrabbiare, al punto da indurmi a eliminarle, soprattutto quando sono mie». È una sensazione che gli procura piacere e che lui collega direttamente alla fase iniziale del suo genio creativo. Questa insistenza sul bisogno di perfezione e di ordine può indurre il dottor Snow a riflessioni intense e concentrate. Le persone devono «capire tutto di se stesse» e impedire alle emozioni di guidare l'intelletto. Quando non lo fanno, vengono considerate «deboli» o «malate», soprattutto se il loro comportamento è causa di ulteriori tensioni per lui. Durante il TAT i commenti del dottor Snow hanno confermato tutto ciò. Per esempio, di fronte all'immagine di un ragazzino che
osserva attentamente un violino ha prodotto la seguente descrizione: «Sta pensando a Mendelsohn, a ciò che lui faceva con il violino, e si sta chiedendo se riuscirà mai a produrre una musica simile. C'è sempre speranza. Magari il ragazzo è dotato. E non c'è altro modo per scoprirlo se non suonare. Ma ci vuole un grande coraggio. Voglio dire, chi vuole davvero scoprire di essere adatto alla banda del liceo?». Quando ho provocato il dottor Snow su questo tipo di riflessione elitaria, luì ha ribadito che le sue opinioni rispecchiavano quelle dell'intera società, «anche se nessuno ci tiene ad ammetterlo». Ecco le sue parole: «Perché non trasmettono le partitelle di basket dei giardini pubblici? Perché non interessano a nessuno. Sono irrilevanti. Ciò che interessa davvero sono le partite dell'NBA e, di quelle, solo la squadra che ha vinto il campionato e, di quella squadra, solo il fuoriclasse. Ecco perché ogni partitella improvvisata, ogni partita del liceo, ogni partita del college da un capo all'altro dell'America funge da nutrimento. L'energia viene risucchiata verso la cima, come accade nelle piante, affinché noi possiamo assistere sulla CBS a un tiro da tre punti all'ultimo secondo e scattare in piedi, il che è un modo di adorazione: di adorazione della grandezza, che è appunto un riflesso di Dio». Il dottor Snow considera il proprio lavoro esattamente nello stesso modo. Rifugge dal lavoro di gruppo, è il critico più severo di se stesso e giudica i propri risultati confrontandoli con quelli di Benjamin Franklin, Albert Einstein e Bill Gates. CONSIDERAZIONI RIASSUNTIVE In conclusione, si può affermare con certezza che se il dottor Snow fosse un tipo diverso di uomo tollererebbe l'epilessia e rifiuterebbe i rischi dell'operazione, che invece accetta. Ha sempre considerato i suoi attacchi «un'assoluta debolezza», arrivando a definirli «grotteschi». Ma questa severa visione della propria patologia non arriva al livello di una fissazione e non dovrebbe influire sulla sua capacità di acconsentire a una procedura ideata per porvi rimedio. L'intelletto, la memoria e la concentrazione del dottor Snow sono integri. Non c'è niente che provi un disordine mentale o una condizione psicotica. Lo reputo capace di intendere e di volere.
Se il comitato etico negasse al dottor Snow l'opportunità di sottoporsi all'operazione, mi preoccuperei dell'impatto che ciò potrebbe avere sul suo stato mentale. C'è la possibilità che lui arrivi a rifiutare l'idea di passare il resto della vita in compagnia della sua malattia. Adesso più che mai Clevenger faticava a credere che la mattina della sua operazione Snow si fosse sparato in un vicolo perché si era perso d'animo. Né il dottor Urkevic né il dottor Sklar avevano riscontrato in lui alcuna traccia di depressione, presente o passata, che potesse spiegare la decisione di suicidarsi. Snow non era un uomo ansioso. Aveva un'immagine di sé positiva, a tratti addirittura grandiosa, e concentrava tutta la rabbia sulle sue imperfezioni, di molte delle quali stava per liberarsi. Era sul punto di eliminare non solo le parti del suo cervello responsabili degli attacchi epilettici, ma anche le parti della memoria responsabili di tante delle sue sofferenze, in quanto lo tenevano legato a rapporti interpersonali incrinati. Avrebbe dovuto sentirsi euforico. Squillò il telefono. Lui sollevò il ricevitore. «Clevenger.» «Come va?» chiese Mike Coady. Clevenger avvertì una nota di sincero interessamento nella voce di Coady. «Cerco di tener duro.» «Bene. Molto bene.» Fece una pausa. «Sono qui con Jeremiah Wolfe. È lui che si occupa dell'autopsia di Grace Baxter.» «Ebbene?» «La donna aveva del cibo nello stomaco. Ha mangiato non più di un'ora prima della morte.» Il che non quadrava esattamente con il panico da suicidio, ma neppure lo escludeva in modo assoluto. Clevenger si chiese quale fosse il vero motivo della telefonata di Coady. «Aveva deciso di farsi un ultimo pasto» commentò. «E con questo?» «Sono sicuro che è andata così.» «Senza dubbio.» «Eppure, è strano.» Clevenger non sapeva bene dove Coady volesse andare a parare né perché non arrivasse subito al punto. «Okay, è strano.» «Così, Jeremiah ha esaminato con attenzione il contenuto dello stomaco della donna e ne ha estratto il frammento di una pillola, che poi ha confrontato con quella raffigurata nella foto di un prontuario per medici.»
«Il Physician's Desk Reference» disse Clevenger. «Ne risulta che il frammento di pillola rinvenuto corrisponde a una vitamina... qualcosa che si chiama Materna.» Clevenger ebbe un tuffo al cuore. «È un complesso vitaminico per la gravidanza» mormorò. La replica di Coady non arrivò subito. «Stando all'ecografia, la donna... ehm... era incinta di tre mesi. Forse anche un po' di più.» «Tre mesi» ripeté Clevenger. «Be', non so, magari la cosa è in qualche modo in relazione con ciò che sostenevi tu. Io non sono uno psichiatra, ma non mi immagino una donna che prende vitamine per la gravidanza prima di suicidarsi. Non ho le statistiche sottomano, ma credo che i suicidi tra le donne incinte non siano particolarmente frequenti.» «Non lo sono affatto.» «Già, perché loro sono in trepidante attesa della nascita del bambino e di tutto il resto. È così, vero? Hanno un'altra vita a cui pensare.» Clevenger ebbe l'impressione di aver sentito la voce di Coady incrinarsi alla fine della frase. Volle dargli l'opportunità di esprimere ciò che provava. «Penso che non mi abituerò mai a questo lavoro» osservò. Coady non raccolse l'invito. «C'è la lettera di addio, comunque.» «Ne vorrei una copia.» «Te la faccio avere.» Si schiarì la voce. «Non ho prove concrete che implichino George Reese nella morte della moglie» disse. «E penso sempre che immaginarlo nell'atto di compiere due omicidi in dodici ore richieda un bello sforzo. Si tratterebbe di un piano incredibilmente stupido e lui non è uno stupido. Continuo a vedere Snow solo, in quel vicolo.» Clevenger non voleva affrontare una discussione sull'argomento. «George Reese non è l'unico ad avere motivo di essere arrabbiato per la relazione tra i due» disse. «Non ho ancora parlato con i familiari di Snow.» «Quando lo farai?» «Domani, o almeno questa sarebbe l'intenzione.» «Ti organizzo l'incontro. Posso convocare Reese per un interrogatorio in qualunque momento. Ma più informazioni veniamo a sapere da altre fonti sulla relazione di sua moglie con John Snow, meglio è.» «A quanto pare, ci troviamo d'accordo» osservò Clevenger. Ma Coady non raccolse il ramoscello d'ulivo. «Ah, un'altra cosa» disse. «Dopo che te ne sei andato, Reese ti ha minacciato.» «Che genere di minaccia?»
«Ha detto che saresti dovuto finire tu all'obitorio, non sua moglie.» «Grazie per avermene informato.» «Vista la situazione, posso farti assegnare una scorta» disse Coady. «Quell'uomo non manca di mezzi.» «Niente scorta, grazie» rifiutò Clevenger. «Sapevo che non avresti accettato.» La voce di Coady si affievolì. «Tre mesi, tre mesi e mezzo... non è possibile salvare un bambino, vero? Forse addirittura quattro mesi.» Clevenger chiuse gli occhi, rendendosi conto che Coady si stava chiedendo se avrebbe potuto fare qualcosa per salvare il bambino di Grace. Era un pensiero irrazionale - allora, lui non sapeva ancora che lei fosse incinta - ma i pensieri irrazionali erano i soli ad avere il potere di scavare voragini nella risolutezza di una persona. «No» rispose Clevenger. «Il bambino non sarebbe riuscito a sopravvivere.» Sapeva che Coady avrebbe avuto bisogno di qualcosa di più definitivo di questo per la notte in cui il dubbio si sarebbe riaffacciato di nuovo... forse non proprio quella notte, ma di lì a sei settimane, o a sei anni. «Nessuna possibilità» ribadì. «Zero.» «Certo» convenne Coady, riprendendo il controllo. Si schiarì la voce. «Ci sentiamo domani.» 8 13 gennaio 2004 Poco dopo le sette del mattino Clevenger ricevette una telefonata da Mike Coady, che gli comunicò di avergli fissato un incontro con la famiglia Snow alle dieci, nella loro casa di Bratde Street, a Cambridge. Prima di mettersi in viaggio si fermò alla centrale di polizia e ritirò la busta che Coady aveva lasciato per lui. All'interno c'era una copia del diario manoscritto di Snow, insieme a cinque dischetti con i file trovati nel suo portatile. Alle 9.35 Clevenger raggiunse Harvard Square e parcheggiò in Massachusetts Avenue, a mezzo chilometro dalla casa di Snow. Aprì la busta ed estrasse il plico di fogli in essa contenuti. La prima cosa a colpirlo fu il titolo in francese sul primo foglio, Renaissance, "rinascita". La seconda fu la calligrafia di Snow: i caratteri erano talmente piccoli da essere a malapena leggibili. Ciascuna pagina conteneva almeno un migliaio di parole. Alcune erano cerchiate, altre in-
corniciate in un riquadro, altre sottolineate. Le frasi uscivano dal margine, salivano in cima alla pagina, si capovolgevano e fuoriuscivano dal foglio per proseguire sul retro, come se i pensieri di Snow non conoscessero ostacoli. Clevenger sfogliò le pagine e vide che il testo era interrotto qua e là da schemi e calcoli matematici. Poi notò qualcos'altro: non c'erano errori, non c'erano cancellature né correzioni. Ciascuna delle minuscole lettere era stata vergata alla perfezione. In quello che sembrava un caos regnava un ordine assoluto, come un puzzle di centomila pezzi che combaciano l'uno con l'altro formando un labirinto perfetto. Cominciò a leggere e, di tanto in tanto, per seguire il testo dovette girare il foglio di lato o capovolgerlo. RENAISSANCE Noi esistiamo dentro i nostri corpi, ma separati da essi. Per legge, un individuo sano di mente può lasciar morire il proprio corpo e rifiutare le cure mediche che lo manterrebbero in vita, in conformità con le proprie credenze religiose. Perché la religione di questo individuo afferma che la sopravvivenza dell'anima è sovrana. Noi esistiamo dentro i nostri corpi, ma separati da essi. Un feto vive dentro una donna. Ma, secondo le leggi dello stato, la donna può decidere di eliminare quella parte del suo corpo perché incompatibile con la storia della sua vita. Ma andiamo oltre. E se lo spirito che dimora nel corpo di un uomo o di una donna vuole liberarsi di quella particolare biologia che lo tiene legato al passato? Perchè si tratta solo e unicamente di biologia, di fasci di neuroni nella circonvoluzione del cingolo, nel lobo temporale e nell'ippocampo. E se i ricordi codificati non sono più compatibili con la coscienza che l'uomo ha di sé? E se lui ne è spiritualmente consapevole con la stessa intensità con cui una donna è in grado di sapere di non essere compatibile con la
vita che si muove nel suo grembo? Quest'uomo sa che il suo spirito potrebbe elevarsi ulteriormente, se non fosse ostacolato dal passato. Incapace di realizzare i suoi sogni, lui soffre molto di questa schiavitù. Perché è degno di minor considerazione rispetto agli altri? Perché la sua anima non dovrebbe essere liberata? Perché il suo spirito dovrebbe invecchiare e morire incatenato al corpo, quando invece potrebbe rinascere semplicemente eliminando gli ostacoli presenti nel suo sistema nervoso? Io sono quest'uomo, strangolato dalle catene che mi legano a un matrimonio senza amore, a figli per i quali non sono un padre, ad amici e a un socio che sono tali solo di nome. Io vorrei liberarmi di tutti loro. La mia storia ha preso una piega sbagliata e io non vedo l'ora di scriverne un'altra. Che loro abbiano la loro vita e io la mia. Datemi la possibilità di iniziare davvero una vita nuova, sgravata anche dal più lontano ricordo di loro. Perché solo così non potranno rivendicare alcun diritto su di me. L'uomo che conoscevano sarà morto. E io rinascerò. La scienza medica che permette di ottenere questa rinascita personale è a portata di mano. Ho il diritto di farne uso? È morale che io mi separi dal passato, che dia un taglio netto alla mia vita attuale per iniziarne un'altra? Il testo scritto si fermava qui, in quanto le pagine successive erano piene di disegni e di calcoli. I disegni erano tridimensionali, molto dettagliati, e raffiguravano un cilindro in varie posizioni: orizzontale, inclinato di trenta gradi, di quarantacinque gradi, e verticale. In una versione Snow aveva disegnato frecce per indicare una rotazione in senso antiorario, in un'altra
quella in senso orario. In altre versioni ancora il cilindro cadeva a vite. I calcoli avevano l'aria di essere complesse soluzioni a equazioni di fisica. Snow ci aveva scritto sotto: «Ogni azione provoca una reazione INEGUALE e contraria». Clevenger voltò pagina e si fermò. A metà del margine destro, circondato da calcoli e cifre, c'era un disegno di cinque centimetri per cinque della testa e delle spalle di una donna: Grace Baxter. Era evidente che Snow vi aveva lavorato a lungo, soffermandosi a ombreggiare i capelli, gli occhi e le labbra e a imprigionare sulla pagina i più minuti dettagli della bellezza di lei. Quel ritratto vibrava di un sentimento che mancava non solo agli schemi e ai disegni di Snow, ma anche alle sue parole. In esso c'era vera passione. Clevenger sfogliò anche le pagine successive, una dopo l'altra: altri cilindri e numeri, altre riflessioni filosofiche. Guardò l'orologio: era ora di muoversi. Mise in moto l'auto e arrivò in Brattle Street. Parcheggiò davanti al numero 119, una maestosa dimora di mattoni in stile coloniale costruita su un terreno di circa duemila metri quadrati, circondata da un muro di pietra lungo una cinquantina di metri, con un vialetto d'accesso semicircolare ombreggiato da querce imponenti. La proprietà doveva valere almeno cinque milioni di dollari. All'esterno erano parcheggiate una limousine Mercedes, una Land Cruiser e tre radiomobili della polizia. Clevenger scese dall'auto e si incamminò verso la porta d'ingresso. Un poliziotto di nome Bob Fabrizio gli andò incontro. Clevenger lo conosceva perché lì a Cambridge aveva lavorato con lui al caso di un professore di Harvard che aveva ucciso la moglie. «Come mai questo spiegamento di forze?» si informò Clevenger. «Scorta a pagamento» rispose Fabrizio. «La vedova teme per la sua sicurezza.» «Al punto da richiedere tre radiomobili della polizia?» «Quattro, ma quelle disponibili erano tre.» «Credo che non si possa darle torto» commentò Clevenger. «Le hanno ucciso il marito non più di trenta ore fa.» «Be', il lavoro non mi dispiace» disse Fabrizio. «Ma, se proprio vuole saperlo, fa tanto O.J. Simpson e casi analoghi.» «Che cosa intendi dire?» «Quattro radiomobili della polizia? Quella donna teme forse un assalto degli uomini del Mossad? Ha detto bene lei quando ha parlato di "spiega-
mento di forze". Forse è tutta una messinscena. Forse la donna vuole sembrare buona e spaventata, per distogliere l'attenzione da lei... o dal figlio.» «Sai qualcosa di lui?» «Quello che sanno tutti i poliziotti di Cambridge. Due arresti per possesso di cocaina. Un arresto, primo e secondo grado. Una minaccia premeditata. Ha telefonato per un allarme bomba alla sua scuola nel Connecticut. Aveva addosso un dispositivo ridicolo, che non avrebbe dato fuoco neppure a un pezzo di carbonella. Tutte le accuse sono state ritirate o non hanno avuto conseguenze. Avvocati di lusso. Il ragazzo è più che altro una testa calda, ma non si sa mai. Secondo me, questo Snow o si è ucciso o è stato ammazzato da qualcuno che aveva accesso alla sua pistola. In un modo o nell'altro, la bussola del mio istinto porta proprio qui.» «Grazie per la consulenza.» «È gratuita. Come sta Billy?» «Bene» rispose Clevenger, lì per lì sorpreso dall'interessamento di Fabrizio. Qualche volta si dimenticava che Billy era diventato famoso per il caso di omicidio della sua sorellina a Nantucket. Dopo che lui era stato scagionato, la sua vicenda era finita su quasi tutti i giornali nazionali. E, in seguito alla sua adozione da parte di Clevenger, l'assalto mediatico si era fatto ancora più opprimente. «Mi fa piacere» commentò Fabrizio. «Tifiamo tutti per lui.» E ritornò verso la sua radiomobile. Clevenger si avvicinò alla porta d'ingresso di casa Snow e suonò il campanello. Venne ad aprirgli una bella ragazza con i capelli color castano chiaro, lunghi e lisci, e gli occhi scuri. Indossava una maglia nera aderente con lo scollo a "V" e un paio di jeans Levi's ancora più aderenti. Dimostrava più di vent'anni. «Lei è della polizia?» chiese. «Esatto» rispose lui, porgendole la mano. «Sono Frank Clevenger.» La ragazza gliela strinse appena. «Mamma l'aspetta in salotto.» "Possibile che abbia solo diciott'anni?" si chiese Clevenger. «Lei è la figlia di John Snow?» «Lindsey.» «Mi dispiace per suo padre.» Gli occhi della ragazza si riempirono di lacrime. «Grazie» mormorò lei, facendosi da parte. «Sempre dritto.» Clevenger si incamminò lungo una passatoia orientaleggiante che lo condusse, al di là di una scalinata, a un corridoio rivestito di pannelli di legno chiaro e di una tappezzeria a spesse righe di due diverse tonalità di
verde. Alle pareti erano appese antiche stampe dei luoghi più importanti di Cambridge, scelte molto probabilmente dalla moglie di Snow, l'architetto di famiglia. Alla fine del corridoio c'era il salotto, abbellito su due pareti da alti camini con la cappa in pietra su cui erano scolpiti angeli che suonavano la tromba. Sopra i camini erano appesi due splendidi quadri a olio. Il soffitto era decorato da un'elaborata cornice di stucco con foglie di quercia e ghiande. La stanza era così imponente che Clevenger impiegò qualche secondo prima di notare una donna sottile, alta circa un metro e sessanta, in piedi vicino a una finestra ad arco e intenta a guardare il giardino coperto di brina che brillava al sole del mattino. Indossava pantaloni di flanella grigia e una semplice maglia azzurra, che la mimetizzavano tra le righe grigie e blu della tappezzeria. «È permesso?» chiese Clevenger. Lei si voltò. «Oh, mi scusi, non l'avevo sentita arrivare. Prego, si accomodi.» E indicò due poltroncine al centro della stanza. «Frank Clevenger» si presentò lui, avvicinandosi e tendendo la mano alla donna. «Theresa Snow» rispose lei, stringendogliela con freddezza. Aveva un aspetto elegante, ma non bello. I suoi occhi erano dello stesso azzurro della maglia e i capelli, precocemente ingrigiti, le arrivavano alle spalle. I lineamenti spigolosi - gli zigomi e la mascella - le davano un'aria molto concentrata. Theresa fece un rapido sorriso, che non contribuì ad addolcirle l'espressione, poi si sedette. Clevenger si accomodò di fronte a lei. «Il detective Coady mi ha spiegato che lei lo affianca nelle indagini» disse. «Sì» confermò Clevenger. «Grazie, lo apprezziamo più di quanto lei possa immaginare.» E giunse le mani, come se volesse pregare. «Ho bisogno di sapere il più possibile su suo marito» spiegò Clevenger. «Devo conoscerlo, se voglio capire che cosa può essergli successo.» «Cioè, se si è suicidato» disse lei, sospirando. «Tra le altre cose.» «Il detective Coady ha detto la stessa cosa.» Theresa si chinò in avanti, appoggiando le mani su un ginocchio. «Deve credermi, mio marito non si sarebbe mai suicidato.» Clevenger notò che gli unici gioielli che portava erano un semplice diamante solitario e una sottile fede nuziale. «Perché?» le chiese. «Perché era un narcisista.»
Pur non suonando come un complimento, quelle parole erano prive di acredine. Theresa Snow le aveva pronunciate come un dato di fatto: suo marito era innamorato di se stesso. «Non gli interessavano gli altri?» si informò Clevenger. «Solo se confermavano quello che lui voleva credere di se stesso e del mondo che lo circondava. Usava le persone come specchi, in cui riflettere la propria immagine.» «Che immagine era?» domandò Clevenger, lanciando un'occhiata al quadro appeso sopra il camino, alle spalle della signora Snow: ritraeva una donna nuda che, in piedi dietro tende di pizzo, guardava una strada illuminata al crepuscolo. Gli sembrò familiare, come se l'avesse già visto in un libro o altrove. «L'immagine di un uomo infallibile, onnipotente» rispose Theresa Snow, appoggiandosi allo schienale della poltroncina. «Mi mancherà moltissimo. Non so come riuscirò ad andare avanti senza di lui. Ma non voglio dare un'impressione mielosa della nostra vita insieme. John era un uomo complicato.» «Che cosa le mancherà?» «La sua sicurezza. La sua creatività. Era geniale, davvero. Quando si è convissuto con una mente del genere, è molto difficile immaginare di convivere con un'altra. Almeno per me.» Nelle parole di Theresa Snow, notò Clevenger, non solo non c'era traccia di acredine, ma c'era anche pochissimo dolore. Quella donna sembrava una conduttrice televisiva che dà l'addio a un politico famoso di cui ha seguito le vicende per una ventina d'anni. «Le persone assorbite da se stesse non sono immuni dal suicidio» disse Clevenger. «Talvolta capita che non riescano a sopportare il divario tra il modo in cui si vedono e il modo in cui vengono viste dagli altri.» «Ciò vale per quelli cui interessa la gente che li circonda» osservò lei. «Ma John non concedeva a nessuno un simile potere. Non metteva mai in discussione i pensieri o i sentimenti che riguardavano se stesso, o chiunque altro. Forse è per questo che non l'ho mai visto depresso. Era sempre convinto che i problemi della sua esistenza fossero esterni a lui, mai interni.» «Si arrabbiava facilmente?» «Aveva il suo carattere.» «E come lo manifestava?» si informò Clevenger, lanciando un'altra occhiata al quadro. «Facendo in modo che le persone si sentissero inesistenti» rispose.
«Come?» chiese Clevenger, tornando a concentrarsi sulla sua interlocutrice. «Se non eri d'accordo con la visione che John aveva della realtà, lui ti trattava semplicemente come se fossi tu a non essere reale. Ci sono state volte in cui, subito dopo il matrimonio, abbiamo litigato su argomenti privi di importanza e poi lui non mi ha rivolto la parola per settimane. Riusciva a far finta che una persona fosse scomparsa dalla faccia della terra.» Era proprio quello che John Snow, grazie al bisturi di Jet Heller, si proponeva di ottenere nei confronti di tutti quelli che facevano parte della sua vita. Clevenger non aveva bisogno di domandare a Theresa Snow perché fosse rimasta sposata per circa vent'anni con una persona così assorbita da se stessa, in quanto era evidente che quella donna non era psicologicamente pronta a una relazione più profonda. La vita con Snow le aveva dato tutto ciò che in apparenza costituisce una famiglia, compresi una casa lussuosa e due figli, ma al prezzo della più completa solitudine emotiva. È il genere di compromesso che può tenere in piedi un matrimonio fra due persone affettivamente limitate, ma che può anche rivelarsi una fonte di guai: se Theresa Snow si fosse resa conto che il marito aveva una relazione davvero intima con un'altra donna, violando così il loro patto di reciproco isolamento, avrebbe potuto sentirsi come l'unica a essere oltraggiata, abbandonata alla propria solitudine. E la cosa avrebbe potuto farla infuriare parecchio. Clevenger si chiese se la moglie di Snow sapesse di Grace Baxter. E quella domanda gli fece capire che cosa avesse di tanto familiare il quadro sopra il camino. Gli ricordava Grace Baxter, ma non da morta. Ciò che gliel'aveva fatta venire in mente era lo schizzo che aveva visto nel diario: Snow aveva disegnato la testa e le spalle di Grace nella stessa identica prospettiva del quadro. Ed era stato tanto spudorato da portarsi il ritratto di lei in casa. «Le piace?» chiese Theresa Snow. «Come, prego?» «Il quadro» disse lei. «Ne sembra colpito.» «È molto bello.» «È una scoperta di John» raccontò, voltandosi a guardare il ritratto. «Lei è stupenda, vero?» Clevenger si chiese se quel modo criptico di alludere a Grace Baxter mostrasse reticenza da parte di Theresa.
«Il pittore è uno della zona» proseguì la signora Snow. «Ron Kullaway.» E indicò con un cenno la parete alle spalle di Clevenger. «Anche quello è suo.» Clevenger si voltò a guardare il dipinto sopra l'altro camino, un'immagine invernale della pista di pattinaggio dei giardini pubblici, affollata di gente. «Notevole.» Si girò di nuovo. «John non ha mai dimostrato un grande interesse per l'arte, fino a poco tempo fa. Poi, molto rapidamente, è diventato un vero esperto e ha messo insieme una raccolta di pezzi davvero importanti.» «Dev'essere stato un piacere per voi due» osservò Clevenger, rendendosi subito conto di quanto suonassero false le sue parole. «Penso che John si sia divertito parecchio» disse la signora Snow con disincanto. «Io non ho mai capito fino in fondo questa sua passione.» Clevenger voleva aprire la strada alle confidenze di Theresa Snow su Grace Baxter, ammesso che la donna sapesse qualcosa di lei. «Lo considerava un buon marito, a dispetto del suo narcisismo?» le chiese. Per diversi secondi Theresa fissò Clevenger con aria inespressiva. «Era mio marito» rispose, alla fine. «Non era l'uomo perfetto che lui immaginava di essere, ma io gli perdonavo i suoi difetti. Non mi aspettavo che fosse normale. Era un uomo fuori dal comune.» Non era la risposta che Clevenger si aspettava. «Mi domandavo se voi due andaste d'accordo» insistette lui. «Il giorno dell'operazione è stato il suo autista ad accompagnarlo in ospedale.» «E allora?» «Me ne chiedevo il motivo.» Per la prima volta Theresa Snow sembrò un po' stizzita. «Se lo chiedeva per via del suo modo di vedere le cose» disse. «Lei crede che quando qualcuno sta per affrontare un evento rischioso, come un'operazione chirurgica, dovrebbe avere tutti i familiari vicini... fisicamente vicini. La gente è perlopiù propensa a pensarla come lei. E lo sono anch'io. John, invece, aveva una visione della realtà che lo portava a considerarsi invulnerabile. Non avrebbe mai tollerato che io e i suoi figli lo vedessimo in un momento di debolezza, o di paura, prima o dopo l'operazione. L'unico modo di manifestargli il nostro sostegno era lasciarlo solo. Mi aveva detto che lo avrebbe accompagnato Pavel e io sapevo che l'argomento era chiuso.» «Altrimenti avrebbe fatto finta che lei non esistesse?» «Sono stata contenta di potergli dare un bacio e augurargli ogni bene.» «Lei capiva l'uomo che aveva sposato?»
«Non sono sicura che qualcuno lo abbia davvero capito. Io gli perdonavo i suoi limiti. Il che, da parte mia, può essere stato un atto di egoismo.» «Perché dice questo?» chiese Clevenger. «Ho sposato un genio e non me ne sono mai pentita. La scarsa attitudine di John ai rapporti interpersonali era più che compensata dalle sue capacità intellettuali. La potenza del suo cervello poteva essere davvero sbalorditiva. Stargli accanto era stupefacente. Un'esperienza che non saprei descrivere. Un po' come assistere da vicino a un evento naturale di grande impatto, credo. Il sorgere del sole. Lo scatenarsi di una tempesta. Un po' come vivere su una spiaggia, ipnotizzati dalle onde che potrebbero spazzare via la tua casa dalle fondamenta. Mia figlia, però, non accettava questo compromesso e, pur tuttavia, le toccava vivere in casa con noi. Penso che ciò le abbia reso la vita molto difficile.» «In che senso?» «Il continuo stress della perfezione» rispose Theresa Snow. «È molto fortunata. È bella e ha una testa molto simile a quella di suo padre, quando decide di usarla. Lui la adorava. Ma credo che l'incessante sforzo di soddisfare le sue aspettative sia stato un peso enorme per lei. Negli ultimi tempi non si impegnava abbastanza e le cose non andavano troppo bene.» «Che cos'è cambiato?» «Penso che lei si sia distratta, nel senso buono del termine. È sempre stata molto dedita ai suoi studi.» Sorrise, quasi timidamente. «Ma poi deve avere scoperto i ragazzi.» Il sorriso sparì. «Lei era letteralmente l'ombra di John. Faceva i compiti nello studio di casa, mentre lui lavorava ai suoi progetti. Lo chiamava alla Snow-Coroway parecchie volte al giorno per salutarlo. Ma col passare del tempo non è più stato così.» «Che cosa mi dice di suo figlio? Come l'ha condizionato il fatto di vivere con un padre come suo marito?» «Per lui è stato diverso.» Sul viso di Theresa Snow comparve un misto di tristezza e frustrazione. Sospirò. «Kyle non è mai riuscito a conquistare l'amore di suo padre, qualunque cosa facesse.» «Perché?» «Ha... problemi di apprendimento.» Era come se non volesse usare il termine esatto. «Dislessia?» «Sì, e problemi di concentrazione.» «E questi problemi come hanno interferito nel rapporto con suo marito?» chiese Clevenger, che si era già dato una risposta sulla base dei test psico-
logici nella cartella clinica di Snow. La concentrazione di Snow sugli ideali di bellezza, forza e intelligenza non era certo compatibile con un figlio alle prese con "problemi di apprendimento". «John considerava Kyle fondamentalmente imperfetto. Guasto. Quand'era piccolo lo adorava. Kyle era un bambino formidabile. Ma nel momento in cui si è capito che era diverso... In un primo tempo John si è fatto in quattro per trovare una soluzione, per curarlo. Al Massachusetts General Hospital. Al Johns Hopkins. L'ha portato anche a Londra per un programma di apprendimento mediante computer. Ma poi, quando si è reso conto che Kyle non sarebbe diventato normale, ha cominciato a tenerlo a distanza.» «E come?» «Iscrivendolo a scuole speciali, fin dalle elementari. La prima è stata quella di Portsmouth, nel New Hampshire. Kyle aveva sette anni e praticamente stava fuori tutto il giorno, partendo alle sette del mattino e tornando alle sette di sera, a volte anche più tardi. Dalle medie in poi, si è trasferito nel Connecticut. Vive con noi a tempo pieno solo da quando ha preso il diploma delle superiori, a giugno.» Clevenger annuì. «Lei non si è opposta a questo programma scolastico?» «L'idea non mi piaceva» rispose la signora Snow. «Ma ritenevo, e lo ritengo tuttora, che per Kyle fosse la soluzione migliore. Se fosse rimasto qui, John l'avrebbe ignorato e lui ne sarebbe uscito a pezzi.» «Suo marito non avrebbe finito per accettarlo, con il tempo?» «No. John, no.» Theresa Snow dava l'impressione di non avere mai affrontato il marito, neppure quando lui aveva costretto il figlio malato a un lungo esilio in scuole private lontane da casa. Ma Clevenger sapeva che almeno una volta lei gli aveva tenuto testa: quando lo aveva costretto a sottoporsi a una perizia psichiatrica prima dell'operazione. Forse perché sapeva che era l'ultima possibilità di tenerlo legato a sé? Aveva capito che lui la stava lasciando? «Lei ha corso un grosso rischio obbligando suo marito ad affrontare una perizia psichiatrica, non crede?» le chiese. «Per lui dev'essere stata una notevole sfida all'immagine che aveva di se stesso. Avrebbe potuto tagliare completamente i ponti con lei.» «Lei deve avere parlato con il dottor Heller» disse. «Ha visto la cartella clinica di John?» «Sì» rispose Clevenger. Theresa Snow fece un cenno di assenso con la testa. «Certo, il rischio
c'era» ammise. «Lui avrebbe potuto non rivolgermi mai più la parola. Ma io dovevo sapere se era capace di intendere e di volere. Avrebbe potuto rischiare di perdere la vista e la parola. E prima di decidere di affrontare l'operazione si era comportato in modo strano, quasi euforico. Una cosa che è andata avanti per mesi.» Si strinse nelle spalle. «John non ha fatto troppe obiezioni. Sono sicura che lui sapesse fin dall'inizio che la perizia avrebbe rivelato la sua piena capacità di intendere e di volere. In caso contrario, lui sarebbe sparito per sempre. Era generoso nella vittoria, molto meno nella sconfitta.» «Una persona difficile da amare.» «No» si affrettò a ribattere lei. «Amarlo era facile. Io lo capivo. Aveva investito tutta la sua tolleranza per le imperfezioni in un'unica causa: i suoi attacchi. Riusciva a sopportarli a stento. Qualsiasi altra mancanza di ordine gli risultava inaccettabile. Questo è un altro motivo per cui non si sarebbe mai suicidato: aveva la possibilità di liberarsi dagli attacchi e ciò lo entusiasmava, certo non lo deprimeva.» «Suo marito ha mai condiviso le preoccupazioni che lei nutriva sull'operazione?» «Lui aveva una fiducia totale nel dottor Heller. Conosceva i possibili effetti collaterali dell'intervento, ma credeva che non ne sarebbe stato vittima.» Clevenger annuì, tra sé e sé, sapendo che c'era, tuttavia, un effetto collaterale di cui John Snow desiderava essere "vittima": la perdita della memoria. «Se suo marito non si è tolto la vita, chi pensa che l'abbia ucciso?» chiese Clevenger. Theresa Snow esitò, ma solo per qualche secondo. «Ho esortato il detective Coady a concentrare l'attenzione su Collin» rispose. Era una risposta più precisa di quanto Clevenger si aspettasse. «Perché su Collin?» chiese. «Lui e John erano arrivati a un punto morto riguardo al futuro della società e Collin era furioso.» «Trasformare o meno la Snow-Coroway in una public company: era questo il problema, vero?» disse Clevenger. «Soprattutto questo. John non gliel'avrebbe mai permesso.» «C'era altro?» «Un'invenzione di John.» «Che tipo di invenzione?» «John era ormai quasi riuscito a mettere a punto un sistema per rendere
un oggetto volante invisibile dai radar. Lo aveva chiamato Vortek.» «Per "oggetto volante" intende un aereo?» «Il sistema era progettato specificamente per i missili. Da come me l'aveva spiegato John, i missili fanno tre cose, oltre a muoversi in avanti: ruotano, cadono a vite e si inclinano da un lato all'altro. I radar rilevano ciascuno di questi tre movimenti. John aveva messo a punto una serie di giroscopi che li avrebbe evitati tutti. La società si aspettava di fare affari d'oro con i militari.» «Ma...» «John ci aveva riflettuto a lungo. Era un inventore e gli piaceva il fatto che il suo cervello avesse partorito un'idea così intelligente come il Vortek, ma si era reso conto che stava creando un mostro. Aveva capito che quel dispositivo avrebbe causato la morte di tantissime persone. Non avrebbe dato il consenso alla cessione della proprietà intellettuale.» «Aveva il diritto di veto?» «Alla Snow-Coroway tutte le decisioni importanti richiedevano due firme, la sua e quella di Collin.» «E in caso di morte di suo marito...» «Le sue idee diventano proprietà della società. Il comando passa a Collin.» «In altre parole,» disse Clevenger «adesso Collin Coroway è libero di portare avanti il progetto.» «Sì. E John era sicuro che il Vortek avrebbe fruttato più di un miliardo di dollari. Il che avrebbe reso sensazionale un'offerta pubblica di vendita delle azioni della società. Adesso Collin non ha più ostacoli sulla sua strada.» Clevenger ebbe l'impressione che Theresa Snow stesse premendo per spostare il tiro dell'indagine su Collin Coroway. Forse perché non voleva che i sospetti si appuntassero su di lei? O sul figlio? «Lei era d'accordo con suo marito?» chiese. «Riteneva, cioè, che la sua invenzione dovesse rimanere segreta?» «Certo.» «È una posizione di grande moralità... e anche molto costosa.» A Theresa non sfuggì il sottinteso del commento di Clevenger. «Mi sta chiedendo se avrei scambiato la vita di mio marito con un'eredità più sostanziosa?» «Non intendevo...» «È una buona domanda» disse lei seccamente. «E io le darò una risposta
molto diretta. Tra la quota di mio marito nella Snow-Coroway, i nostri altri beni e la sua polizza di assicurazione sulla vita, dovrei ereditare circa centocinquanta milioni di dollari. Non meno di centoventi. Abbastanza per tirare avanti.» Clevenger fu tentato di chiederle se nel testamento di Snow fossero citati anche i figli, soprattutto il maschio che lui non era stato capace di amare, ma si trattenne. «Nei prossimi giorni, potrei fare due chiacchiere con Kyle e Lindsey?» chiese. «A quale scopo?» «Sono certo che hanno il loro punto di vista su suo marito. Raccogliere un profilo completo della famiglia è normale in una valutazione come quella che stiamo effettuando. L'anomalia sarebbe non parlare con loro.» «Quand'è così, senz'altro» acconsentì Theresa. «Faremo il possibile perché le indagini procedano senza problemi.» La mascella le si irrigidì, rendendo ancora più spigoloso il suo viso. «Chiunque abbia tolto la vita a John,» disse «ha privato me di mio marito e tutti noi dei frutti del suo intelletto. Se questa persona è Collin, non voglio che ne tragga profitto. Voglio che la paghi.» «Ha suggerito al detective Coady di prendere in considerazione qualche altro sospettato?» domandò Clevenger. «No. Se Collin riesce a provare che ieri mattina non era al Massachusetts General Hospital, non so proprio chi altro possa avere sparato. Non mi resta che affidarmi alla polizia - e a lei - per scoprirlo.» «Crede che Collin possa cercare di farvi del male?» chiese Clevenger. «Ho visto le radiomobili della polizia, qui fuori.» «È assurdo, lo so» ammise Theresa Snow. «Non ho motivo di temere che qualcuno possa fare del male a me o ai miei figli. Ma la verità è che non so più cosa aspettarmi. John faceva sembrare il mondo qualcosa di molto prevedibile e gestibile, quasi come se lui potesse inventare il suo futuro, e il nostro, senza aiuto. Ma, ovviamente, si sbagliava.» 9 Clevenger aveva quasi raggiunto il suo pick-up, quando si sentì chiamare da una voce femminile. Si voltò e vide che Lindsey Snow lo stava raggiungendo a passo svelto. Era senza giacca e si teneva il corpo stretto tra le braccia per scaldarsi. «Ha un minuto?» «Certo.»
«Ha potuto vedere mio padre?» gli chiese. «Voglio dire... dopo.» Clevenger non si aspettava che la figlia di Snow lo coinvolgesse nel proprio dolore in modo così repentino. Sentì il respiro e il battito del cuore calmarsi e si chiese ancora una volta perché la condivisione delle sofferenze altrui lo rendesse più forte. «Sì» rispose. «L'ho visto.» «So che ha appena cominciato a farsi un'idea dell'accaduto.» Lindsey si strinse ancora di più le braccia intorno al corpo. Gli occhi le si erano inumiditi di lacrime. «Fa freddo. Torniamo in casa e continuiamo a parlare lì.» Lei scosse la testa in segno di diniego. «Mamma non vuole che parli con lei.» «Perché?» «Mi faccia salire in macchina e mi porti in un altro posto.» Clevenger non aveva alcuna intenzione di andarsene via con un'adolescente che aveva appena conosciuto. «Possiamo parlare sul pick-up» disse. «Okay.» Clevenger la precedette per aprirle la portiera sul lato del passeggero e Lindsey si infilò nella vettura. Lui si accomodò al posto di guida, accese il motore e regolò il riscaldamento. La ragazza teneva lo sguardo fisso davanti a sé, proprio come talvolta faceva Billy quando era turbato. «Immagino già la risposta a quanto sto per chiederle, anche se probabilmente lei non può ancora parlarne, o non vuole farlo con me...» Deglutì e chiuse gli occhi. «Voglio sapere se mio padre si è ucciso.» Poi li riaprì, gli lanciò una rapida occhiata e distolse subito lo sguardo. «Ho bisogno di saperlo.» Sollevò le gambe, portandosi le ginocchia al petto e appoggiandovi sopra la testa. Per la prima volta, Lindsey sembrò più una ragazzina inquieta che una donna. «È la domanda più dolorosa per te?» le chiese Clevenger. Le lacrime le rigarono il viso. «È per questo che pensi di conoscere la risposta?» Lei annuì e scoppiò a piangere. «Mi sento così sola» riuscì a dire tra i singhiozzi. Clevenger provò l'impulso di stringerla a sé e consolarla, come avrebbe fatto un padre. Ma così avrebbe cancellato quel confine tra loro che, nell'esercizio della sua professione, doveva rimanere saldo. Se avesse cominciato a pensare a Lindsey come a una persona da proteggere, forse non sarebbe più riuscito a cogliere le dinamiche emotive della famiglia Snow nella loro reale essenza.
Si chiese perché Lindsey, seduta nel suo pick-up, sembrasse così a proprio agio nel confidarsi con un perfetto sconosciuto. Perché gli aveva proposto di andarsene insieme? Cercava di coinvolgerlo? «Non sei obbligata a raccontarmi quello che pensi» disse, per vedere se, tirandosi un po' indietro, riusciva a farla avvicinare di più. Funzionò. «Ma io devo raccontarlo a qualcuno» disse lei e, sempre tenendo le ginocchia strette tra le braccia, girò la testa verso di lui. Quel semplice gesto, che le fece cadere i capelli lucenti sulla guancia e sul collo e mise in risalto gli occhi scuri e umidi e le labbra piene, bastò a trasformare la ragazzina nuovamente in donna. «L'ho ucciso io» disse. Clevenger la guardò e scorse nei suoi occhi una traccia di quella vacuità che aveva visto negli occhi degli assassini. E, tutt'a un tratto, si rese conto che trovarsi lì da solo con Lindsey Snow avrebbe potuto essere pericoloso. Premette la gamba contro la portiera, per assicurarsi che la pistola si trovasse nella fondina al polpaccio. In quell'istante, vide gli occhi di Lindsey riempirsi di disperazione e vulnerabilità: la donna era tornata ragazzina e l'assassina vittima. «Mi stai dicendo che hai sparato a tuo padre?» le chiese Clevenger. Lindsey tornò a fissare il parabrezza davanti a sé. «L'ho indotto a spararsi» rispose lei. «Come?» «Io...» Sembrava che il solo proferire quelle parole le causasse una sofferenza indicibile. «L'ho fatto sentire un uomo morto.» «In che modo?» «Gli ho detto che avrei voluto che lo fosse.» «E tu pensi che avergli detto una cosa simile sia bastato a indurlo al suicidio?» Lo sguardo di Lindsey tornò freddo e vacuo. «Sì.» Era ovvio che la ragazza credeva di avere esercitato sul padre un potere assoluto: il potere di privarlo della voglia di vivere. Forse ciò significava che Snow l'aveva fatta sentire totalmente responsabile della sua felicità. «Perché volevi tuo padre morto?» le chiese Clevenger. Lei si raggomitolò ancora di più, lasciando che i capelli le ricadessero sul viso. «Mi aveva mentito» mormorò. «Su cosa?» «Su tutto» rispose lei, con un accenno di rabbia nella voce. Lindsey sapeva della relazione di Snow con Grace Baxter? Oppure sapeva che il padre si stava preparando a lasciare tutti, compresa lei? E chi
glielo aveva raccontato? La madre? Il fratello? «Qual è la menzogna che ti ha fatto arrabbiare di più?» chiese Clevenger. Lei scosse la testa. «A me puoi dirlo.» Lei allungò la mano verso la maniglia del pick-up. «Lindsey, aspetta.» Lei aprì la portiera, scese dalla vettura e corse verso casa. Clevenger la vide rallentare l'andatura quando giunse in prossimità delle radiomobili della polizia che stazionavano davanti alla casa. Dopo che le ebbe oltrepassate, sua madre comparve sulla porta d'ingresso. Uno sguardo d'insieme alle due donne bastò a Clevenger per rendersi conto di quanto fossero diverse, sotto parecchi punti di vista: una era riservata, l'altra molto emotiva; una era poco avvenente, l'altra lo era molto; una era assai indulgente verso le eccentricità di John Snow, che invece facevano infuriare l'altra. Lindsey chinò la testa, passò accanto alla madre senza fermarsi e sparì all'interno della casa. La madre la seguì. La porta si chiuse. Clevenger innestò la marcia del pick-up e partì alla volta del suo ufficio di Chelsea, distante circa venticinque minuti da lì. Ripensò a quando Mike Coady l'aveva avvertito che un caso come quello poteva generare una quantità di possibili sospettati, anche se Snow si era suicidato. Si domandò se North Anderson avesse trovato qualcosa che potesse escludere Collin Coroway. Lo chiamò. «Ciao, Frank» lo salutò Anderson. «Novità su Coroway?» «Parecchie. Alle sei e mezzo di ieri mattina ha preso un volo della US Air per Washington» disse Anderson. «Nessuna prenotazione. Alle cinque e cinquanta si è presentato allo sportello: biglietto di sola andata.» «Mentre Snow era in viaggio verso l'obitorio, lui lasciava lo stato a bordo di un aereo» commentò Clevenger. «E non si è affrettato a tornare indietro per consolare la moglie di Snow oppure per convocare una riunione urgente alla Snow-Coroway. È ancora registrato all'Hyatt.» «Ha le sue buone ragioni. Ho scoperto che Coroway eredita il controllo dell'intera proprietà intellettuale della società. Prima aveva bisogno della firma di Snow per avviare un'operazione. Avevano in cantiere un'invenzione strepitosa che Snow voleva tenere nascosta e che, invece, Coro-
way intendeva vendere ai militari. Era fondamentale per Coroway premere il grilletto per rendere la Snow-Coroway una public company.» «Adesso Snow sta per essere sepolto» disse Anderson. «Ma se pensiamo a un doppio omicidio, non è Coroway il nostro uomo. Era già a Washington quando Grace Baxter è morta.» «A meno che gli assassini non siano due» osservò Clevenger d'istinto, ma le sue parole non gli piacquero. «È meno probabile» commentò Anderson. «Snow e Grace Baxter erano amanti. Alla fine, io continuo a preferire George Reese come assassino di entrambi. Un marito geloso è una gran brutta cosa.» «In ogni caso,» disse Clevenger «magari faccio un salto a Washington e vedo di prendere Coroway in contropiede.» «Buona fortuna. Mi dicono che è un osso duro.» «Ha preso una limousine per andare all'aeroporto?» «Non lo so» rispose Anderson. «Pensi che l'autista possa dirci se aveva un'aria strana?» «O magari possa lasciarci cercare tracce di sangue sul sedile posteriore.» «Se ha preso una limousine, provvederò alle ricerche. Se ha lasciato la sua auto al parcheggio dell'aeroporto, andrò a dare un'occhiata. Sono sicuro che Coady non avrà difficoltà a emettere un mandato di perquisizione, se salterà fuori qualcosa che merita un controllo più approfondito.» «Ho appena finito di parlare con Theresa e Lindsey Snow» lo informò Clevenger. «C'è qualcosa che dovrei sapere?» «Snow le aveva in pugno entrambe, in modi diversi: lo adoravano. Il pensiero di perderlo avrebbe potuto portarle a sentirsi come chi ha perso tutto.» «Il pensiero di perderlo a causa di un'altra donna o dell'operazione?» chiese Anderson. «Entrambe le cose.» Clevenger si ricordò del quadro sopra il camino. «Snow aveva un ritratto di Grace appeso alla parete del salotto.» «Che cosa?» «Opera di un pittore che si chiama Kullaway. Non sono riuscito a capire se la moglie sapesse o no di Grace Baxter. Non ha lasciato intendere se le fossero giunte voci della relazione tra lei e il marito.» «Un ritratto dell'amante in bella vista sulla parete del salotto, davanti alla moglie e ai figli? Un po' morboso. Come si spiega?» «Non ne sono sicuro. Se devo azzardare un'ipotesi, direi che si spiega
con l'incapacità quasi totale di John Snow di stabilire una relazione con i suoi familiari in quanto persone reali.» «Vale a dire?» «Si aspettava che fossero perfetti. Il rovescio della medaglia è che non li considerava come esseri umani, con i loro pregi e i loro difetti... e con i loro sentimenti. Voleva avere Grace Baxter accanto a sé e così se l'è portata a casa. Punto e basta. Sono passato da Coady a prendere il diario di Snow: si tratta perlopiù di schemi e calcoli e di alcune sue considerazioni sull'intervento chirurgico. Ma c'è anche un suo schizzo di Grace Baxter, che rivela un'autentica attenzione per i dettagli e un autentico sentimento. Come se lei fosse riuscita ad aprire una breccia nella barriera di cui Snow si circondava per tenere tutti gli altri a distanza. Lui deve averla amata in un modo molto diverso da come ha amato il suo lavoro o sua moglie o anche sua figlia. In un modo più profondo.» «Non mi hai detto niente del figlio.» «Non l'ho visto» disse Clevenger. «Sua madre me ne ha parlato un po'. Ha un disturbo dell'apprendimento. Snow non è riuscito a instaurare un rapporto con lui. In pratica l'ha ignorato per tutta la vita.» «Snow non era uno stinco di santo. Per carità, nessuno merita una fine come la sua, ma lui non era un campione di simpatia.» «No, non lo era» convenne Clevenger, ripensando a Billy e a quanto doveva essere stato sconvolgente avere un padre che si era sbarazzato di lui come merce avariata. «A quanto pare Snow aveva maggiore dimestichezza con ciò che era prevedibile e sistematizzato, piuttosto che con i rapporti interpersonali. Quando uno è vittima di attacchi epilettici fin da bambino e sa che in qualsiasi momento potrebbe perdere conoscenza e finire sul pavimento in preda alle convulsioni, può sviluppare l'ossessione di tenere le cose sotto controllo e di far funzionare tutto correttamente. Snow poteva riuscire in ciò con i missili e i sistemi radar. Ma con un figlio, una figlia o un'amante la cosa era decisamente più difficile.» «Riusciva, comunque, a mantenere i rapporti con più di una donna.» «Mantenere i rapporti, sì, ma amare non so. Comincio a pensare davvero che l'unica a fargli provare vera passione sia stata Grace Baxter.» «Snow aveva cinquant'anni. Mi stai dicendo che nessun'altra l'ha mai davvero conquistato?» «È possibile» disse Clevenger. «Ma perché proprio Grace Baxter? Snow era famoso. Era ricco. Era bello. Deve aver affascinato un sacco di donne.»
«Forse lei era la sua "mappa dell'amore".» «La sua cosa?» «"Mappa dell'amore". Alla facoltà di medicina avevo un professore che si chiamava Money, John Money. Ebbene, lui ha intervistato alcuni scolari di prima e di seconda elementare, mostrando loro foto di ragazzini e ragazzine, poi ha chiesto loro quali preferissero e perché. Se una ragazzina dichiarava di essere attratta dalla foto di un ragazzo in particolare, Money le chiedeva che cosa le piacesse e lei gli rispondeva, magari, che era il modo di sorridere del ragazzo, con l'angolo sinistro della bocca più in alto del destro. Money ha inserito tutte le sue risposte, tutte le particolarità che le piacevano, in un database, insieme a quelle di migliaia di altri scolari. Poi, a distanza di trent'anni, ha rintracciato quegli stessi scolari per terminare la ricerca. Ne è risultato che ciò che piaceva loro a sei o sette anni - il loro ideale di bellezza - non era cambiato molto. La bambina a cui piaceva il bambino con il sorriso un po' storto aveva poi sposato un uomo con quel sorriso, con l'angolo sinistro della bocca più in alto del destro. Alcuni non avevano mai trovato ciò che cercavano e non erano mai stati molto felici in amore.» «E così esiste davvero da qualche parte l'amore perfetto per ognuno di noi.» «Secondo Money, sì. Lui crede che ciascuno di noi sia nato con una "mappa dell'amore", un insieme di caratteristiche fisiche codificate nel cervello che rappresentano il partner ideale. Se tu vai bene fisicamente e c'è qualcuno che combacia con te psicologicamente, allora scatta la combinazione giusta. L'amore vero, eterno. Forse esiste solo una persona su un milione che può combinarsi in questo modo con un'altra. Forse è stato così per Grace Baxter con Snow.» «Pensi che troverai mai la tua?» chiese Anderson. «La mia "mappa dell'amore"?» volle sapere Clevenger, ridendo. «Sì.» Nella mente di Clevenger prese corpo l'immagine di Whitney McCormick, la psichiatra legale dell'FBI che lo aveva aiutato a risolvere il caso del Killer dell'Autostrada. Tra loro era nata una relazione intima che poi aveva finito per complicarsi e passare in secondo piano nel momento in cui Clevenger aveva anteposto a tutto lo sforzo di diventare un buon padre per Billy. Non si vedevano più da un anno. «Non lo so» rispose. «Andar bene fisicamente è di gran lunga più facile che andar bene psicologicamente. Nella mia psiche ci sono strane tortuosità con cui è piuttosto difficile ar-
monizzarsi.» Anderson rise. «Eh, amico mio, per me è lo stesso. Io amo mia moglie, non fraintendermi, ma immagino che sia possibile che un giorno, per effetto della "mappa dell'amore", io prenda una sbandata.» «E, in tal caso, che cosa pensi di fare?» «Non mi sparerò, questo è sicuro.» Clevenger sorrise. «Chiamami, se scopri qualcosa sull'auto di Coroway, eh? Ti faccio sapere cosa salta fuori a Washington.» Clevenger prese il volo US Air delle 12.30 per Washington, dopo aver chiamato Billy sul cellulare e avergli chiesto se poteva aspettarlo al Somerville Boxing Club fino al suo ritorno, probabilmente intorno alle 18.30. «Nessun problema» era stata la risposta del ragazzo. Se fosse stato per lui, sarebbe rimasto in palestra ventiquattr'ore su ventiquattro, sette giorni su sette. Dopo il decollo Clevenger aprì il diario di John Snow e riprese a leggere le sue annotazioni: Un uomo ha il diritto di rifarsi una vita? È l'unico proprietario della sua esistenza, oppure ne è soltanto un socio accomandante? Un uomo nasce dai suoi genitori. È il loro figlio e le loro vite si svolgono di pari passo con la sua, mescolandosi con essa, cosicché la trama di ciascuna dipende in parte anche dalle altre. I genitori gli cambiano i pannolini, lo tengono per mano il primo giorno di scuola. Per decenni non fanno che preoccuparsi con lui e per lui, festeggiare le sue vittorie, subire le sue sconfitte. Ma che cosa succede se l'idea che loro hanno di lui ha poco a che fare con la sua vera natura? E se non conoscono la sua vera essenza? È giusto che lui, il loro figlio, estragga il filo della sua identità dalle trame della vita familiare, per trovare se stesso, anche a costo di perderli? Un uomo ha la libertà di dimenticare da dove viene, così da poter procedere senza impedimenti verso la meta indicatagli dalla sua anima? Un altro esempio. Una donna è sposata da vent'anni. Ha un figlio adolescente e un marito. Una casa. Animali domestici. Un album di foto e diari traboccanti di ricordi. Che cosa succede
quando questa donna non prova più alcun entusiasmo per un futuro condiviso con il marito e il figlio? E che cosa succede se lei si sente inesistente? E depressa? Ha bisogno di un farmaco antidepressivo, tipo lo Zoloft? Di una dose maggiore? Di due farmaci? Oppure è possibile che la sua vita l'abbia talmente allontanata dalla sua verità interiore da trasformarla in tutto e per tutto in una zombie, in una morta vivente? Questa donna ha il diritto - eticamente e moralmente - di lasciare casa, famiglia e amici, di lasciarli in modo così definitivo da non conservare più traccia di loro? Per il fatto di averli messi al mondo, deve ai figli il resto dei suoi giorni o è libera di dire addio al passato e di andare oltre per creare un nuovo futuro senza di loro? La risposta dev'essere un altisonante "sì". Una persona - uomo o donna - può essere spiritualmente defunta, la carcassa della sua anima alla deriva in una gabbia di pelle e ossa che le è sopravvissuta. Che razza di madre o padre, di sorella o fratello, di moglie o marito, anteporrebbe il proprio attaccamento a un passato condiviso al futuro di quella persona, alla sua rinascita? Il vero amore non dovrebbe mai esigere tanta sofferenza. Clevenger posò il diario, rendendosi conto della differenza fra la visione del mondo di John Snow e la propria. Clevenger credeva che le persone potessero cambiare e crescere, indipendentemente dalle circostanze che intervenivano a limitarle. Con la giusta motivazione e la giusta guida e, sì, talvolta anche con la giusta medicina, potevano reinventarsi e superare il passato. Questo significava vivere una vita riuscita. Poteva essere doloroso, qualche volta straziante, ma era un dolore con cui bisognava confrontarsi. Scaricare la sofferenza sugli altri scomparendo chirurgicamente da una scena per ricomparire su un'altra gli sembrava davvero immorale. In questo modo si sarebbe potuta riattivare la
circolazione sanguigna dell'anima di una persona, ma si sarebbero provocate emorragie in tante altre. Pensò a Theresa Snow, al fatto che aveva definito il marito un narcisista, incapace di valutare i bisogni degli altri in rapporto ai propri. E forse qui stava il nocciolo della faccenda. Ma c'era ancora una domanda cui rispondere: che cosa aveva indotto John Snow a considerare se stesso un morto dentro un corpo vivo e a credere che la sua storia fosse giunta al termine? Qualcosa aveva ucciso John Snow prima del proiettile in quel vicolo. Clevenger riprese a sfogliare il diario. Le dieci pagine successive erano piene di calcoli e disegni che sicuramente si riferivano al Vortek, l'ultima invenzione di Snow adesso in mano a Collin Coroway. Clevenger guardò il disegno del missile, più grande in alcune pagine, più piccolo in altre, a volte con le ali, a volte senza. Talvolta il missile era raffigurato in sezione frontale e Snow vi aveva tracciato dentro delle spirali. Clevenger voltò un'altra pagina e si trovò a fissare un caos di lettere, numeri e simboli matematici. Snow aveva scritto le parole ancora più piccole del solito e le aveva riunite in linee ora spezzate, ora curve, persino in nuvole amorfe di lettere e numeri. Clevenger continuò a fissare la pagina, tenendola a una certa distanza. Cosi, quello che sembrava un caos a poco a poco cominciò a prendere forma. Capelli. Occhi. Naso. Labbra. Guardò con maggiore concentrazione. E allora, stupefatto, si rese conto di avere davanti a sé il viso di Grace Baxter. IL FOUR SEASONS Un giorno di primavera, nove mesi prima Tutto sembrava rinascere. Le giornate erano più lunghe, il sole brillava e i fiori nei giardini pubblici sbocciavano rosa, azzurri e bianchi ai bordi del laghetto dove le swan boats, le barche a forma di cigno, galleggiavano sotto i rami fruscianti. Le finestre della suite erano aperte, le soprattende erano tirate indietro, le tendine di mussola si gonfiavano ogni volta che un alito di vento tiepido entrava nella stanza. Nudi sul letto, sfiorati dalla brezza e persi nel rumore bianco del traffico in lontananza, Grace Baxter e John Snow potevano quasi immaginare di essere fuori da lì, sdraiati insieme sulla tenera erba del parco. Era il turno di lui nel gioco che Grace gli aveva insegnato, un gioco di
intuito nel quale uno dei due doveva immaginare ciò che l'altro voleva e indovinare il punto in cui baciare o toccare ascoltando le impercettibili variazioni nel ritmo del respiro, osservando i peli che si rizzavano e i muscoli che si rilassavano o si irrigidivano. Un sospiro. Un fremito. John non aveva indovinato né la prima né la seconda né la decima volta in cui avevano giocato e lui e Grace ne avevano riso insieme. Non era riuscito a intuire i bisogni di lei e lei aveva dovuto guidargli la mano nei punti in cui voleva essere toccata, attirarlo più vicino a sé quando desiderava che lui la prendesse, sussurrargli nell'orecchio i segreti per eccitarla. Adesso, però, Snow stava migliorando e cominciava a sviluppare una sorta di radar emotivo e sessuale simile a quello di Grace. Si sollevò su un gomito accanto a lei, rapito dalla visione dei suoi capelli sparsi sulle lenzuola bianche, dai suoi occhi che diventavano color smeraldo quando erano colpiti dalla luce del sole, dal suo collo lungo e aggraziato, dai suoi seni perfetti, dalle sinuosità dell'addome. Dopo tre mesi di incontri - una volta o due alla settimana - il desiderio per lei non era affatto diminuito. Centinaia di ore al telefono avevano solo accresciuto la sua voglia di ascoltare la voce di Grace; l'attrazione che provava per lei lo aveva sottratto dall'isolamento in cui era vissuto e lo sgretolarsi della barriera che aveva costruito intorno a sé lo aveva reso euforico. Snow appoggiò la mano sul ginocchio di Grace e avvertì la pressione della sua coscia contro la propria. Le accarezzò la gamba. Il ginocchio di lei scivolò tra le sue gambe, la coscia premette contro il suo inguine. Si chinò su di lei e la sfiorò con un bacio, accendendole il desiderio di qualcosa di più profondo, come piaceva a lei. Quando vide che Grace reclinava leggermente la testa all'indietro, la baciò lungo il contorno del mento, poi sul collo. Grace ansimò ed emise un sospiro a metà tra il dolore e il piacere. Lui colse il fremito che la percorreva e spostò la mano sul seno. Sentì il piede di lei risalire lungo il suo polpaccio e capì che cosa ciò significava. La baciò più in giù, sulla pancia. Lei aprì le ginocchia. E lui la baciò ancora più giù. Più tardi, mentre era sdraiato con la testa poggiata sul ventre di Grace che si alzava e abbassava al ritmo del suo respiro, un ritmo ipnotico, lui si ricordò di ciò che lei gli aveva chiesto la prima volta che si erano incontrati all'hotel: perché si concentrava tanto su quello che può o non può essere visto? Perché perfezionare radar e progettare sistemi per eluderli era diventato la sua professione? Lui non aveva mai saputo che cosa rispondere, fino a quel preciso istante. «Era più facile» le disse con calma.
«Mmm?» mormorò lei, facendo le fusa. «Quando abbiamo cenato all'Aujourd'hui, la prima volta che ci siamo incontrati qui, mi hai chiesto perché mi interessava tanto indagare quello che sta là fuori... nel cielo, nello spazio.» «Me lo ricordo.» «Volevo evitare di guardare dentro me stesso...» «Perché?» «Perché non ero sicuro che ci fosse qualcosa da vedere» rispose lui. Grace gli passò le dita tra i capelli. «Certo che c'era. Per qualche motivo, hai solo perso di vista te stesso.» «Per qualche motivo.» Passò qualche secondo. «Quale motivo?» gli chiese Grace. Lui si soffermò a pensarci. «Da piccolo affascinavo la gente» le rispose. «Affascinavo me stesso. Per quello che sapevo fare con il mio cervello.» «Che cosa sapevi fare?» «Calcoli. Soluzione di problemi. Complicate equazioni scientifiche.» «Un piccolo genio» commentò Grace. «Così dicevano.» «E i tuoi genitori ne erano orgogliosi?» «Molto» rispose lui. «Quindi, ciò che sapevi fare veniva scambiato per ciò che eri.» Come faceva Grace ad andare dritta al cuore delle cose? E come faceva a trovare il tono di voce capace di dargli la sicurezza di poterle raccontare la verità senza problemi? «Sì» ammise lui. «Amavano il tuo cervello.» «Quando funzionava» le disse con una risatina, ma il sorriso svanì in fretta. Lei non rise affatto. «E se non avesse funzionato?» volle sapere. «E se avesse smesso di funzionare? Ti avrebbero amato ancora?» Snow ripensò al suo primo attacco, all'età di dieci anni e si ricordò di quanto gli fosse piaciuto stare in ospedale e di come suo padre e sua madre avessero trascorso con lui molto più tempo del solito, in quella stanza dalle pareti bianche. E ne capì la ragione: loro erano lì perché era malato il suo cervello, non perché era malato lui. Ciò di cui andavano orgogliosi aveva avuto un cortocircuito. «Non lo so» rispose a Grace. «Non so se mi abbiano mai amato.» «Mi dispiace» disse lei, passandogli le dita tra i capelli. «Se non sai una cosa del genere con certezza, è difficile avere la certezza di qualunque altra
cosa.» «Va bene così» le disse. «Davvero? John, perché devi essere così coraggioso? Potresti lasciarti un po' andare ed essere lo stesso una bella persona.» Una parte di Snow avrebbe voluto raccontare a Grace il resto della storia, e cioè che il suo cervello aveva avuto un cortocircuito dopo l'altro e che lui ancora adesso, a decenni di distanza, prendeva quattro farmaci per farlo funzionare in modo affidabile. Ma Snow voleva che tra loro tutto fosse perfetto e non intendeva passare per un debole agli occhi di Grace. Forse era per questo che lui non credeva neppure che lei lo amasse. Forse lei aveva ragione su tutta la linea e perfino sul modo in cui lui avrebbe potuto, alla fine, trovare la risposta alla domanda se meritava l'amore di Grace o quello di chiunque altro, se stesso compreso: lasciandosi un po' andare, permettendo a lei di conoscere le sue imperfezioni e a se stesso di comportarsi da essere umano con lei. Ma non riusciva proprio a indurre se stesso ad assumersi quel rischio. Chiuse gli occhi e lasciò che il movimento del ventre di Grace gli calmasse il dolore. «E tu?» le chiese. «Sei stata amata?» Un altro respiro profondo. «No» rispose lei. «Credo di non esserlo stata mai.» «Da bambina?» «Tu eri un genio. Io ero carina.» «E questo era tutto quello che gli altri vedevano?» «Ero molto carina.» Grace rise. Questa volta fu Snow a non ridere affatto. «I tuoi genitori dovevano sapere quanto sei intelligente. Tu riesci a vedere - a capire - cose che agli altri sfuggono.» «Forse era questo il problema.» «In che senso?» «Riuscivo a vedere.» «E che cosa vedevi?» volle sapere lui. «Stai diventando bravo in questo gioco.» Talmente bravo da intuire che Grace non era disposta a dirgli altro. Lei gli fece scorrere la punta di un dito sulla fronte, sul contorno dell'orecchio, sul collo. «Parlami di tua moglie» gli disse. Lui si sollevò di nuovo su un gomito e alzò lo sguardo su di lei. «Perché mi fai questa domanda?» «Mi stavo chiedendo delle cose su di lei, tutto qui. Che cosa le piace?
Com'è la vita con lei?» Snow non le rispose subito. «Con me puoi parlarne» lo esortò. Lui si appoggiò alla testiera del letto, accanto a lei. Dovette pensare a lungo prima di trovare qualcosa di significativo. «È una persona migliore di me» le disse. «In che senso?» «È stata presente per mio figlio e mia figlia, mentre io non lo sono stato.» «Come avresti potuto? Non eri presente nemmeno per te stesso. Il tuo cervello era troppo occupato.» «Non è una scusa.» «Sì che lo è» ribatté Grace, piegandosi su di lui e baciandolo su una guancia. «Fai ancora l'amore con lei?» «Penso di non averlo mai fatto» rispose lui. Adesso, Grace lo baciò sulle labbra. «Che cosa mi dici di tuo marito?» le chiese Snow. «Fai ancora l'amore con lui?» «Si, ma non sono neppure nella stanza. Con la testa, vado altrove. Su una spiaggia deserta. In mezzo alle montagne. In un posto dove posso stare sola.» Snow la baciò delicatamente sulla fronte. «Perché non vieni qui?» Grace chiuse gli occhi e gli appoggiò la testa sulla spalla. «Potrei tentare» rispose. «Se lo farai anche tu. Quando sei con lei, intendo. Così, loro ci avvicineranno l'uno all'altra.» «Lo farò.» «Bene» approvò lei. «Sdraiati adesso.» Mentre lui lo faceva, lei si sollevò su un gomito. «Adesso tocca a me» disse. Gli accarezzò il ginocchio con la punta delle dita, poi cominciò a risalire lentamente con la mano lungo la coscia. 10 13 gennaio 2004 Clevenger atterrò al Reagan National Airport poco prima delle 14.00. Riaccese il cellulare e constatò che c'erano due messaggi sulla segreteria. Li ascoltò mentre si avviava alla fila dei taxi.
Il primo era del detective Coady, per riferirgli che l'autopsia di Grace Baxter aveva rivelato qualche interessante novità. Il secondo era di J.T. Heller, per comunicargli che aveva anticipato a quella sera l'operazione della donna cieca cui sperava di restituire la vista, perché aveva avuto nuovi attacchi di emicrania che gli avevano fatto temere una rapida evoluzione del tumore. Si chiedeva se Billy avesse voglia di raggiungerlo per assistere all'intervento. Clevenger chiamò per prima cosa lo studio di Heller. Gli rispose Sascha Monroe. «Sono Frank Clevenger, ho ricevuto una telefonata dal dottor Heller» disse. «Sì, mi ha avvisata di passargli subito la sua chiamata» rispose lei. «Ma prima vorrei ringraziarla.» «Di che cosa?» «Di quello che mi ha detto riguardo a John Snow: che non sempre si può salvare qualcuno e che il massimo che si può fare è lasciargli capire che si ha a cuore la sua situazione.» «E sono davvero pochi quelli che lo fanno.» «Passerà ancora di qui?» Clevenger percepì un calore autentico nella sua voce e una parte di lui avrebbe voluto passare alla domanda successiva, ovvero chiedere a Sascha se voleva davvero vederlo. Ma sapeva che la risposta di lei sarebbe stata poco significativa. Lui le aveva offerto l'assoluzione dai suoi sensi di colpa e probabilmente era questo ciò che lei desiderava ardentemente: il messaggio, non il messaggero. «Prima o poi passerò di sicuro» rispose. «Bene, spero di vederla» disse lei, in un tono più formale. «Rimanga in linea.» «Frank!» tuonò Heller dopo qualche istante. Sembrava in preda all'effetto di una trentina di caffè. «Ho ricevuto il tuo messaggio» disse Clevenger. «Credo che Billy sarebbe entusiasta di venire da te.» «Riesci a portarlo al General, diciamo per le quattro?» «Purtroppo sono fuori città» rispose Clevenger. «Provo a chiedere a un amico se può passare a prenderlo agli allenamenti di boxe e accompagnarlo lì. Altrimenti potrebbe venire con la metropolitana.» «Posso passare io a prenderlo» si offrì Heller. «Non ho impegni fino all'ora dell'operazione e potrei sfruttare il tragitto in macchina per rilassarmi. Prima di entrare in sala operatoria sono piuttosto nervoso e non faccio altro che verificare le mosse.»
«Le mosse...» «La mia strategia. Ogni intervento è una guerra, amico mio. Il tumore che grava sul nervo oftalmico della mia paziente vuole vincere a tutti costi, proprio come lo voglio io. Bisogna sempre risalire alla cellula progenitrice che per prima si è staccata dal programma scritto da Dio per lei e si è messa in proprio, collocandosi dove non aveva diritto di stare. Quella cerca con ogni parte del suo protoplasma di impossessarsi del progetto di Madre Natura e di riconfigurarlo secondo il suo piano perverso e omicida. Capisci ciò che intendo dire?» Clevenger si chiese se per caso Heller avesse passato il limite della grandiosità per sconfinare nella mania. «Che cosa?» «Oggi è il giorno del Giudizio.» «Per il tumore?» «Per il tumore. Per il disordine. Per l'entropia. A Dio piacendo, oggi ristabilirò ciò che lui, nella sua estrema saggezza, aveva progettato.» Rise di se stesso. «Frank, che ne dici di un po' di litio per il tuo nuovo amico?» Heller, se non altro, si rendeva conto di sembrare bisognoso di supporto medico. E forse non era giusto mettere in dubbio la sua stabilità. Forse, per aprire la testa di una donna e sezionare parti del suo cervello era necessaria l'energia di un guerriero, la convinzione di combattere contro il male. «Pensi che te ne basti solo un po'?» lo prese in giro Clevenger. «Giusta osservazione» ribatté Heller. «Allora, che ne dici? Passo io a prendere Billy? Mi sono appena comprato un enorme fuoristrada. Tutto nero. Al ragazzo piacerà un sacco.» Clevenger provò lo stesso disagio di quando aveva trovato Billy ed Heller che chiacchieravano nel suo loft. Era perché Heller scatenava in lui un istinto di protezione? Oppure perché scatenava la sua gelosia? Dovette ammettere che quest'ultima era l'ipotesi più probabile. Dopotutto, la gente metteva abitualmente la propria vita nelle mani di Jet Heller. E, in ogni caso, Billy sarebbe stato in grado di badare a se stesso. «Lo chiamo per sapere se è d'accordo» disse Clevenger. «Se ci sta, mi fiondo al Somerville Boxing Club nel giro di tre quarti d'ora.» Clevenger fu sorpreso che Heller sapesse dove trovare Billy. Heller dovette percepire il suo disagio. «Il ragazzo mi ha raccontato tutto della palestra» disse. «Dei Golden Gloves. Roba seria. Comunque, stai attento ai traumi cerebrali. Ho pazienti che, dopo quattro o cinque anni di boxe, non riescono più a ricordarsi quello che hanno mangiato a colazio-
ne.» «Ci sto attento» assicurò Clevenger, provando la sensazione che Heller stesse cercando di sostituirsi a lui nelle vesti di padre. «Billy indossa il casco protettivo.» Sapeva che non aveva bisogno di giustificarsi, ma era più forte di lui. Il fatto di aver avuto un padre che non era stato un padre gli faceva dubitare di essere a propria volta all'altezza del ruolo. «Billy si è già preso la sua dose di commozioni cerebrali, ma fuori dal ring.» «Per quanto mi riguarda, ne ho avute sette. E in tre occasioni sono svenuto. Il tutto prima di compiere sedici anni. So bene quello che stai passando. Io mi sono trovato dove si trova Billy. Al limite. Farlo salire sul ring è stata una grande idea.» Quante cose potevano avere in comune due persone? E perché quelle parole infastidivano tanto Clevenger? «Spero solo che anche per lui le cose vadano a finire tanto bene quanto sono finite per te.» «Sempre che aprire teste per mestiere sia un buon traguardo» commentò Heller. «A proposito, quando torni in città?» «Se tutto va bene, a fine giornata.» «Credo che non usciremo dalla sala operatoria prima delle nove. Se vuoi, possiamo berci una birra insieme, dopo che ho riportato a casa Billy.» E così nel piano rientrava anche il fatto di riaccompagnare Billy a casa. «Perché no?» Ma Clevenger non voleva lasciare che Heller desse per scontato che il ragazzo avrebbe abbandonato gli allenamenti di boxe per immergersi nella sua ombra. «Entro la prossima ora, ti faccio sapere se Billy ha accettato la tua proposta.» «Va bene.» «Grazie.» «Senti, Frank...» disse Heller. «Sì?» «Spero che tu non mi giudichi strano o invadente se mi sono offerto di mostrare a Billy quello che faccio. È solo che in lui io vedo me stesso. Probabilmente capita lo stesso a te. E poi penso che lui, sotto sotto, sia un bravo ragazzo. Ma se preferisci che mi faccia da parte...» In quel momento Clevenger si rese conto che Heller aveva una straordinaria capacità di spazzar via le remore degli altri, dandovi voce lui stesso. Sentendo le proprie obiezioni in bocca a lui, c'era meno gusto a obiettare. Era una forma di manipolazione? Oppure era soltanto il suo modo di essere sincero? «Non c'è bisogno che tu ti faccia da parte» disse Clevenger.
«Penso che per Billy assistere all'operazione sarà fantastico.» «Mi premeva solo chiarire le cose.» «Tutto chiarito. Ti richiamo.» Clevenger mise fine alla telefonata. Prese un taxi per il centro e, durante il tragitto, compose il numero del cellulare di Billy, preparandosi a lasciargli un messaggio. Le lezioni a scuola non erano ancora terminate. Billy rispose. «Che c'è? Sei già a Washington?» «Sono appena arrivato. Tu dove sei?» «Sto andando al Somerville. L'ultima ora è saltata perché il professore è malato e così ci hanno fatti uscire prima.» «Mi ha telefonato Jet Heller. Oggi opererà quella donna a cui lui pensa di restituire la vista. Vuole sapere se ti va di assistere all'intervento.» «Andrò all'ospedale con la metropolitana. Posso saltare gli allenamenti.» «Non ce n'è bisogno» disse Clevenger. «Heller ha detto che può passare a prenderti in palestra. Puoi allenarti per un'oretta e poi andare al General con lui.» «Incredibile!» Era moltissimo tempo che Clevenger non sentiva Billy tanto entusiasta. «Ci vediamo a casa quando hai finito.» «Ma certo!» esclamò Billy. «Che figata!» Sembrava su di giri come Heller. «Grazie.» Anche il ringraziamento era abbastanza insolito in lui. «Prego» disse Clevenger. Poi richiamò Heller e gli disse che poteva portare Billy con sé in ospedale e riaccompagnarlo a casa dopo l'intervento. Infine telefonò alla centrale di polizia di Boston e si fece passare Coady. «Che novità ci sono?» gli chiese. «Ha chiamato Jeremiah Wolfe. È impegnato nell'analisi microscopica su Grace Baxter.» «E...?» «Non crede che a procurare le lacerazioni ai polsi sia stato il taglierino da moquette» rispose Coady. «Perché?» «Sostiene che il tessuto è stato aperto da qualcosa di più affilato. Le ferite non sono abbastanza slabbrate, o qualcosa del genere. Pensa che una lametta da barba sia l'arma più probabile.» «Lametta che, per altro, non abbiamo.» «Nel bagno ce ne sono alcune, ma nessuna presenta tracce di sangue.»
«Wolfe pensa che il taglierino da moquette sia compatibile con le ferite sul collo?» «Sì» rispose Coady. «Immagino che non molte persone si suicidino usando due tipi diversi di lama. Ma penso anche che non molti assassini cambino arma del delitto.» «A meno che la lametta da barba non abbia funzionato» disse Clevenger. «Supponiamo che Grace Baxter fosse svenuta, ubriaca. Qualcuno intenzionato a far sembrare la cosa un suicidio avrebbe potuto iniziare l'opera con una lametta da barba sui polsi, sperando che lei non si risvegliasse e morisse nel sonno. In questo modo, l'avrebbe fatta franca. Ma forse lei non aveva perso i sensi come l'aggressore pensava e ha cominciato a divincolarsi. Allora lui ha dovuto bloccarla e forse gli è capitato sotto mano il taglierino da moquette.» «Può essere» commentò Coady. «E poi ha lavato la lametta?» «Oppure l'ha pulita.» «Farò analizzare in laboratorio tutti gli oggetti metallici affilati che si trovano in bagno. Vediamo se emergono tracce di sangue su quelli nuovi. Farò anche smontare le tubature, per vedere se ci è finito dentro qualcosa.» «Mi sembra una buona idea.» «Posso farti una domanda?» chiese Coady. «Spara.» «Immagina quest'altro scenario: Grace Baxter comincia a tagliarsi i polsi...» Di nuovo la teoria del suicidio? «Sai che io non credo che...» lo interruppe Clevenger. «Lasciami finire.» Clevenger sentì le pulsazioni farsi più frequenti e la mascella irrigidirsi. «D'accordo.» «Grace Baxter comincia a tagliarsi i polsi in bagno. È ubriaca. Il sangue sgocciola. Lei vacilla. Pensa alla morte di Snow, alla sua storia d'amore finita. Oppure, forse è fuori di testa perché lo ha ucciso.» L'insistenza di Coady nel sostenere l'idea dell'omicidio-suicidio fece digrignare i denti a Clevenger. «Forse si odia per quello che ha fatto» proseguì Coady. «Vede il sangue sgocciolare. Si mette a piangere, a urlare che la sua vita è finita. O muore adesso o muore in prigione. In ogni caso, ha perso Snow. Allora vede il taglierino da moquette, forse lasciato lì da uno degli operai. Lo afferra...» «...e si taglia la gola, uccidendo se stessa e il bambino» concluse Cle-
venger. «Credevo che avessimo scartato quest'ipotesi. Ricordi il complesso vitaminico per la gravidanza?» «Sì, certo, l'avevamo scartata, ma poi ci ho riflettuto sopra e ho pensato: e se il bambino fosse stato suo? Di Snow, intendo.» Clevenger non si era mai soffermato a pensare di chi fosse il bambino che Grace portava in grembo, il che lo indusse a chiedersi se davvero ci fosse un aspetto del caso che lui si rifiutava di vedere. Era possibile che si sentisse tanto in colpa per non aver fatto ricoverare Grace Baxter quando era venuta nel suo studio da chiudere gli occhi? In fondo alla sua mente si annidava il pensiero di aver causato le morti di Grace e del suo bambino non ancora nato? «Supponiamo che il bambino fosse di Snow» disse pacatamente. «Allora comincio a pensare che lei possa aver fatto quel che probabilmente ha fatto. Voglio dire, riesco a immaginare che prenda le vitamine un'ora prima di uccidersi. Fa parte delle sue abitudini. Lei sta cercando di tornare alla normalità, di superare quello che ha perso in quel vicolo, oppure quello che ha fatto in quel vicolo. Poi, nonostante l'alcol che ha in corpo, tutto comincia a farsi chiaro. Porta in grembo il figlio di Snow. Ha ucciso il padre di suo figlio. Sta vivendo un incubo che non avrà mai fine. Si guarda, non riesce a credere a quello che si è fatta ai polsi. Come può essere una madre e aver fatto ciò? La rabbia, il dolore, il senso di colpa confluiscono insieme...» «E l'unica cosa che lei desidera è mettervi fine.» «Basta con lo sgocciolio di sangue. Lei vuole farla finita.» «Il taglierino da moquette» disse Clevenger. Il taxi si fermò di fronte all'Hyatt. Il portiere dell'albergo aprì la portiera. «Benvenuto, signore. Ha bagagli?» Clevenger fece segno di no con la testa. Pagò l'autista, scese dalla vettura e chiuse la portiera. Non sentì l'aria fredda sul viso. «Sto solo dicendo che varrebbe la pena tenere in considerazione questa teoria» disse Coady. «Non so se l'aspetto psicologico sia plausibile.» Questo era un problema. «Può darsi di sì» disse Clevenger. «Penso che potrebbe esserlo.» «Del resto, non stiamo né accettando né scartando alcuna pista» disse Coady, evidentemente imbaldanzito. «Dobbiamo ancora considerare George Reese e tutti gli altri sospettati.» «Giusto.»
«Hai ottenuto tutte le informazioni che ti servivano dagli Snow, oggi?» «Non ho parlato con il figlio Kyle» rispose Clevenger. «Non c'era. Almeno, così mi ha detto Theresa Snow. Penso che lei cerchi di tenerlo alla larga da me.» «Perché?» «Non lo so.» «Posso metterlo dentro subito» disse Coady. «Per cosa?» «Oggi è arrivato il referto del suo esame delle urine ed è positivo agli stupefacenti. Oppiacei. È una violazione della libertà provvisoria. Vuoi passare più tardi a fare due chiacchiere con lui?» «Sono appena arrivato a Washington» lo informò Clevenger. «Washington? Che ci fai lì?» «Collin Coroway è arrivato qui ieri.» «Chi l'ha rintracciato?» «Che differenza fa?» «Contavi di farmelo sapere?» «Come ho detto, sono appena arrivato. È stata una decisione dell'ultimo momento.» Sapeva che non era la risposta alla domanda di Coady. «Ti avrei chiamato» disse. «Il caso è mio.» «Il caso è tuo.» Coady rimase in silenzio per qualche secondo. «Non voglio dire che devi mollare» disse poi. Di nuovo silenzio. «In questa faccenda ho bisogno di te più che mai. Io posso anche avere una teoria su quello che è successo, ma sono ancora ben lontano dal poterla provare. E potrei sbagliarmi alla grande. Lo so.» «Io non mollo i casi» ribatté Clevenger, sforzandosi di sembrare convincente. «Fisso subito un incontro con Kyle Snow per domani mattina. Alle nove ti va bene?» «Ci sarò.» «A domani, allora.» Clevenger chiuse la comunicazione ed entrò nella hall dell'Hyatt. Pur cercando di concentrarsi su Collin Coroway, non poteva evitare di riascoltare nella mente ciò che aveva appena sentito. Il quadro dipinto da Coady era, infatti, tutt'altro che stravagante. Se Grace Baxter portava in grembo il figlio di John Snow, la rabbia che provava verso di lui perché stava abban-
donando lei e il bambino era un movente plausibile per un omicidio. E la sua disperazione dopo la morte di lui poteva averla condotta a una totale implosione. Si ricordò di aver spiegato a Coady il motivo per cui la gola tagliata di Grace Baxter mal si addiceva al suicidio di una donna. Sono gli uomini a scegliere i metodi più violenti, tranne nei casi in cui il soggetto - maschio o femmina - è in preda a un delirio psicotico. E gli aveva fatto l'esempio della donna convinta di avere il sangue del diavolo nelle vene. E se la cosa che Grace odiava e di cui doveva liberarsi fosse stata non un demone, ma la nuova vita che cresceva dentro di lei? E se la morte di Snow l'avesse indotta a pensare al bambino come a un invasore, al suo sangue come al sangue di Snow, che si mescolava al proprio, avvelenandola? Ecco allora il bisogno disperato di far uscire quel sangue. Stava ancora rimuginando su questo pensiero, quando raggiunse il banco della reception. «Posso aiutarla?» gli chiese gentilmente un addetto di origine indiana, sulla trentina. «Per favore potrebbe chiamare la stanza di Collin Coroway e avvisarlo che sono qui?» L'uomo controllò sul computer. «Chi devo annunciare?» «Il dottor Clevenger. Frank Clevenger.» «Un attimo.» L'addetto alla reception prese il telefono, chiamò la stanza e rimase in ascolto. Passarono dieci, quindici secondi. Scosse la testa in segno di diniego. «A quanto pare, il signor Coroway non c'è.» Clevenger pensò che fosse meglio indurre un impiegato dell'albergo a fare un po' di lavoro per lui, piuttosto che mettersi lui stesso a ficcare il naso in giro, dando assai più nell'occhio. «Le dispiacerebbe chiedere al portiere se il signor Coroway ha chiesto un'auto? Forse riesco ancora a raggiungerlo.» «Mi faccia controllare.» L'addetto alla reception citofonò al portiere e gli chiese se avesse visto Coroway lasciare l'hotel. Riagganciò dopo avere ottenuto la risposta. «È fortunato. Il signore ha chiesto un'auto per andare al 1300 di Pennsylvania Avenue. Il Reagan Building. Desidera che ne faccia venire una anche per lei?» Che servizio fantastico all'Hyatt! «Sì, grazie» rispose Clevenger. «La stessa ditta, se è possibile.» Per la prima volta, l'uomo lo guardò con un po' di sospetto. «Va in nota spese» fece Clevenger con una strizzata d'occhio.
«Naturalmente. Non ci sono problemi, signore.» Un quarto d'ora dopo Clevenger era diretto al 1300 di Pennsylvania Avenue a bordo di una Lincoln Town Car nera della Capitol Limousine. «Di dov'è?» gli chiese con voce baritonale l'autista, un uomo robusto sulla sessantina. «Di Boston» rispose Clevenger. «E lei?» «Di Los Angeles.» Ridacchiò. «Non sopportavo il clima.» Clevenger sapeva che la battuta era un invito a chiedergli la vera ragione del suo trasferimento. Avrebbe voluto far finta di niente e concentrarsi su John Snow e Grace Baxter, ma non era mai riuscito a tirarsi indietro di fronte a chi voleva raccontargli la storia della propria vita. «E così laggiù faceva troppo caldo» disse. «Per così dire.» Un altro invito. «Allora il clima non c'entra niente.» L'autista scosse la testa. «Una donna.» «Le cose andavano male?» «Anche peggio.» La storia si faceva interessante. «Ah, sì?» chiese Clevenger, mettendosi comodo e disponendosi ad ascoltare. «Quando l'ho conosciuta, lei aveva già due figli. Ma me ne sono innamorato subito. Capisce? E così, dopo un anno che stavamo insieme, le cose andavano proprio bene. Lei mi amava. Io l'amavo. I figli già mi chiamavano papà, cosa che forse avrei potuto considerare un problema, visto che il padre vero era in prigione.» Alzò un dito per sottolineare il passaggio successivo. «Rapina a mano armata, pensavo.» «Rapina a mano armata» ripeté Clevenger. L'uomo alzò di nuovo il dito. «L'ho sposata. All'epoca la bambina aveva undici anni. Di punto in bianco la madre mi accusa di farle troppe feste.» «Di coccolarla, vuol dire.» L'uomo ignorò la correzione. «Io non le ho fatto niente. Lo giuro sulla testa dei miei poveri genitori. Niente. Le ho soltanto portato un asciugamano dopo la doccia. Ho aperto la porta del bagno di cinque centimetri, girando la testa dall'altra parte, per rispettare la sua privacy. Nel frattempo sua madre arriva in corridoio. Vede la scena e comincia a urlare. Come una pazza. Per farla breve, mi arrestano.» «Per cosa?» «Tentata violenza carnale e aggressione. Mia moglie dice che io ho for-
zato la porta. E la ragazzina, che io avevo appena rimproverato per avere preso brutti voti a scuola, dice che l'ho toccata.» Si portò una mano al petto. «Mai successo.» Guardò nello specchietto retrovisore, forse per verificare se Clevenger gli credeva, e sembrò soddisfatto. «Ho dovuto assumere un avvocato e dargli trentamila dollari per dimostrare che ero innocente, cosa che del resto era vera. Ma in un caso come quello non c'è bisogno di prove, basta la parola della vittima. E in tribunale lei ritirò tutte le accuse.» Annuì. «Indovini un po' come mai il padre era finito dentro.» «Tentata violenza carnale e aggressione nei confronti della ragazzina.» L'autista guardò nello specchietto. «Bravo! Vede, mi stavano col fiato sul collo per causa sua. Quello aveva fatto qualcosa che non andava e allora madre e figlia hanno giocato d'anticipo, immaginando che anch'io fossi come lui.» «Ammesso che anche lui fosse in quel certo modo» disse Clevenger. «Che intende dire?» «Può darsi che il primo marito avesse toccato la ragazzina, o che non l'avesse fatto. Può darsi che sua moglie fosse stata toccata dal padre quando aveva dieci o undici anni. Forse era successo nel bagno della casa in cui era cresciuta. Poi vede lei aprire la porta di qualche centimetro e pensa che stia per succedere la stessa cosa, questa volta a sua figlia...» «Mai pensato a niente del genere.» «E così si è trasferito» disse Clevenger. «Laggiù ero su tutti i giornali. Titoloni enormi quando mi hanno arrestato. Nemmeno un titoletto quando mi hanno scagionato. In più, mi hanno bastonato per bene con il divorzio. E senta questa...» «Mantenimento dei figli.» «Esattamente.» L'autista si voltò per guardare Clevenger. Clevenger ebbe modo di constatare che i suoi occhi erano di colore verde chiaro e straordinariamente miti. Poi, lanciando un'occhiata alla mano con cui teneva il volante, notò che l'uomo portava la fede nuziale. «E così sono rimasto al verde,» proseguì l'autista «e con il nome rovinato.» «Si è risposato?» gli chiese Clevenger. «Mai.» «Però porta la fede.» L'uomo si strinse nelle spalle. «Lo so che è una follia. Non l'ho mai tolta. Neppure quando sono andato al processo. Neppure quando mi hanno dichiarato innocente. Neppure quando ho ricevuto i documenti del divorzio.»
«Perché?» volle sapere Clevenger. «Amo ancora quella donna.» Scosse la testa. «E voglio ancora bene ai suoi figli. Ci sono cose che non si superano mai e poi mai.» "No, certe cose non si superano" pensò Clevenger, cacciando dalla mente un altro ricordo di Whitney McCormick. Ma si va avanti. Se l'autista aveva detto la verità - e sembrava proprio che l'avesse detta - aveva perso la donna che amava e due figliastri di cui si era preso seriamente cura, aveva perso la sua reputazione, aveva dato tutti i suoi risparmi a un avvocato perché lo difendesse dall'accusa di violenza sessuale e infine si era trasferito altrove per cominciare una nuova vita. Perché John Snow non avrebbe potuto fare lo stesso? Anche se il suo matrimonio era finito, anche se i suoi rapporti con i figli erano tesi fin quasi alla rottura, perché lui non avrebbe potuto cominciare daccapo? I suoi sentimenti per Grace Baxter erano troppo ingombranti, troppo minacciosi? L'intervento di neurochirurgia avrebbe dovuto togliergli dalla mente lei come tutti gli altri? «Mai pensato di riprendere i contatti con loro?» chiese Clevenger. «Mando una lettera ogni mese, per raccontare che cosa combino» rispose l'autista. «Ho scritto loro che li ho perdonati. Ventuno lettere, fino a oggi. Quasi due anni.» «Le hanno risposto?» «Non ancora. Ma le lettere non sono mai tornate indietro. Quindi le hanno ricevute.» «Penso che voglia dire qualcosa.» «Per me, sì.» L'uomo accostò l'auto di fronte al Reagan Building, un imponente complesso in granito su un terreno di circa cinque ettari. «Ecco il 1300 di Pennsylvania Avenue.» Si voltò. «Fanno venti dollari e grazie per avere ascoltato le mie stronzate.» Clevenger gli allungò cento dollari. «Forse c'è qualcosa in cui può aiutarmi» disse. «Sentiamo.» «Un tizio che si chiama Collin Coroway ha preso una limousine della Capitol per farsi portare qui dallo Hyatt. C'è un modo per scoprire se è ancora nell'edificio?» «Lei è una specie di investigatore?» volle sapere l'autista squadrando Clevenger. «È stato molto bravo ad ascoltarmi, come se sapesse in anticipo dove sarei andato a parare.» «Sono uno psichiatra» rispose Clevenger. «Questa sì che è bella.» L'ampio sorriso dell'uomo lasciava capire che
non se l'era bevuta neanche per un attimo. «Comunque non sono affari miei. Dimentichi la mia domanda.» Prese il cellulare e compose un numero. Rispose una donna. «Katie, sono Al» disse. «Collin Coroway, dall'Hyatt per il 1300 di Penn Avenue. È tornato?» Rimase in ascolto. «Fa' con calma. Aspetto.» Passò mezzo minuto prima che Katie riprendesse la linea e gli dettasse un numero di telefono. L'autista prese una penna e lo annotò. «Sono in debito con te» le disse. Schiacciò un tasto, poi compose il numero. Quando ottenne risposta, riattaccò subito. Si girò verso Clevenger. «È ancora lì. E il nostro contatto telefonico per qualunque variazione di programma sul viaggio di ritorno è quello della segreteria di qualcosa che si chiama InterState Commerce.» «Ha fatto tutto senza problemi.» «Un regalino per lei» disse strizzandogli l'occhio. «Da investigatore a investigatore.» «È un investigatore privato?» «Ho preso la licenza in California. Bisogna pur guadagnarsi da vivere, giusto?» «Giusto.» «Stia bene, amico mio.» E gli allungò il suo biglietto da visita. Clevenger lesse il nome: Al French. «Stia bene anche lei, Al.» Scese dall'auto, entrò nel Reagan Building e trovò la InterState Commerce sulla mappa dell'edificio all'ingresso. Decimo piano. L'attico. Prese l'ascensore. L'InterState occupava una delle due suite del piano, ognuna delle quali misurava circa millecinquecento metri quadrati. Clevenger si diresse verso l'entrata della società, un'imponente porta di vetro smerigliato con un'enorme "I" incisa su un battente e una corrispondente "S" sull'altro. Premette il tasto del citofono. «Posso esserle utile?» chiese una voce di donna. «Sono qui per Collin Coroway.» La serratura della porta scattò. Clevenger spinse un battente ed entrò. La reception era ultramoderna, con pareti rivestite di acciaio inossidabile e giganteschi monitor a schermo piatto appesi a massicce colonne di cemento. Uno trasmetteva il notiziario della CNN. L'altro mostrava un planisfero punteggiato di centinaia di sfere blu cobalto, con impresso il logo IS, che risaltavano come una tempesta di palline da ping-pong sui sei continenti. In mezzo ai monitor, una bellissima donna di colore con un auricola-
re sedeva dietro una scrivania di vetro blu cobalto ed esibiva un finto sorriso. Clevenger si avvicinò alla scrivania. «Sono Frank Clevenger» si presentò. «Non credo che il signor Coroway abbia già chiesto l'auto.» Un'addetta alla reception lo scambiava per un paziente operato al cervello, un'altra lo prendeva per un autista. «Non sono del servizio di autonoleggio. Per favore può dirgli che vorrei vederlo?» «La conosce?» «Collaboro con la polizia per la morte del suo socio, John Snow.» Nessuna reazione. «Quindi lui la sta aspettando?» «Mi riceverà senz'altro.» Un sorriso ancora più finto. «Attenda, per favore.» Scomparve dietro una parete di plastica blu traslucida e ondulata che separava l'atrio dal resto della lussuosissima suite. Clevenger notò sulla scrivania una pila di brochure dell'InterState. Ne prese una. La copertina era un collage di foto: un jet da caccia, una petroliera, una centrale atomica, un soldato con la mimetica che parlava in un walkie-talkie. Aprì la prima pagina e lesse la presentazione della società: InterState Commerce è specializzata nella creazione di partnership tra società private ed enti governativi nei più svariati settori industriali edilizia, trasporti, salute e servizi pubblici. "E armamenti" aggiunse mentalmente Clevenger. Sfogliò pagine e pagine di testimonianze rilasciate da amministratori delegati di importanti società, inframmezzate da foto evocative di onde, tramonti, lampi. Accanto a ogni foto si trovava uno studio analitico del ruolo svolto dall'InterState nel far incontrare una particolare esigenza governativa con un particolare prodotto. Il petrolio Getty che riforniva di carburante la Marina degli Stati Uniti. Gli antibiotici Merck che guarivano la brava e sottomessa popolazione dell'Iraq. I satelliti Viacom che trasmettevano Voice of America. «Il signor Coroway la riceverà subito» annunciò l'addetta alla reception, facendo capolino da dietro la parete di plastica. Clevenger la seguì per un lungo e ampio corridoio. Su un lato c'erano uffici con le porte a vetri, sull'altro si allineavano decine di fotografie incorniciate di leader mondiali. In ciascuna di esse c'era un politico o un alto uf-
ficiale che stringeva la mano a un uomo piccolo con la testa rasata, che indossava sempre lo stesso vestito nero. Poteva avere una settantina d'anni, ma era in ottima forma. E Clevenger aveva l'impressione di conoscerlo. «Il vostro amministratore delegato?» chiese, indicando l'uomo mentre passavano davanti a una sua foto. «Sì, è il signor Fitzpatrick» gli rispose la donna. Clevenger allora si ricordò di lui: Byron Fitzpatrick era stato segretario di stato nell'ultimo anno della presidenza di Gerald Ford. Evidentemente, aveva sfruttato al meglio le proprie conoscenze. Il cellulare di Clevenger squillò e lui lanciò un'occhiata al display: North Anderson. Rispose. «Sto per vedere Collin Coroway» sussurrò. «Fino all'aeroporto ha usato la sua macchina» lo informò Anderson. «Per quanto ho potuto vedere, non ci sono macchie di sangue, ma la mascherina è ammaccata.» «La sala riunioni è dietro l'angolo» annunciò l'addetta alla reception, visibilmente sconcertata dal fatto che Clevenger stesse parlando al telefono. «Ho dieci secondi» disse Clevenger ad Anderson. «Coady ha controllato i verbali degli incidenti. Ieri Coroway è passato con il rosso e si è scontrato con un furgone delle consegne del "Boston Globe". Indovina quando e dove?» «Tre secondi.» «In Storrow Drive, a una cinquantina di metri dal Massachusetts General Hospital. Alle quattro e quarantasette del mattino.» «Allora è coinvolto.» «Eccoci» disse l'addetta alla reception, fermandosi di fronte a un'altra porta di vetro smerigliato. «Guardati le spalle» gli raccomandò Anderson. «Non mancherò» assicurò Clevenger e chiuse la comunicazione. La donna spinse uno dei battenti e lo tenne aperto per Clevenger. «Signor Coroway, Frank Clevenger.» Coroway si alzò in piedi da una sedia all'estremità di un lungo tavolo da riunioni nero. Era un uomo elegante, sui cinquantacinque anni, alto circa un metro e ottanta, con i capelli grigi pettinati con cura, le spalle larghe e la vita stretta. Indossava un gessato grigio antracite, una camicia bianca con doppi polsini e una cravatta con lo stemma di un club. «Prego, si accomodi.» Clevenger entrò. «Grazie, Angela» disse poi Coroway, con una voce vellutata come la se-
ta della sua cravatta. La donna se ne andò. Coroway si avvicinò a Clevenger e gli tese la mano. «Collin Coroway.» Clevenger gliela strinse, notandone la presa sicura e il grande anello d'oro con uno zaffiro al centro e la scritta Annapolis, 70 ai lati. L'Accademia navale. «Frank Clevenger.» «La sua fama la precede. Mi fa piacere che lei sia qui. La sua presenza ha decisamente rinforzato la squadra.» Coroway si comportava come se fosse stato lui a convocare Clevenger a Washington. Non sembrava minimamente scosso. «Quale squadra?» chiese Clevenger. Coroway storse la bocca e annuì. «So che il detective Coady sta investigando sulla morte di John. L'ufficio del senatore Blaine è stato così gentile da passarmi qualche informazione su di lui. Nessun dubbio sulla sua competenza. Però ha un gran numero di casi irrisolti.» «Questo ha la priorità assoluta» assicurò Clevenger. «Speriamo che sia vero.» Fece un cenno in direzione del tavolo da riunioni, circondato da sedie girevoli di pelle nera. «Prego.» E tornò a sedersi sulla sedia da cui si era alzato. Clevenger si accomodò su una sedia a metà strada tra Coroway e la porta. «Grazie per avermi ricevuto senza preavviso» disse. «Non c'è di che. Ho lasciato detto a John Zack, dell'ufficio del senatore, dove potevo essere rintracciato. Mi sorprende che nessuno mi abbia contattato prima. È per questo che avevo dei dubbi sul detective Coady. Dovrei essere ai primi posti sulla lista dei sospettati.» Si allungò in avanti, mettendo in mostra i gemelli d'oro a forma di jet da caccia. «Con questo non voglio sembrare pronto alla chiacchiera o eccessivamente critico. Ma John era più di un socio per me. Era un fratello.» «Mi parli di lui.» «L'uomo più creativo, intelligente, rispettabile che abbia mai conosciuto o avessi mai immaginato di conoscere. Era il mio migliore amico.» E allora perché Coroway non dava segno di essere turbato dalla sua morte? Perché non era tornato a Boston? «Era una persona molto complicata?» chiese Clevenger. «Proprio l'opposto. Era semplice. Amava inventare. Adorava riuscire a immaginare qualcosa e vederlo realizzato.» «Non tutto quello che immaginava, però» osservò Clevenger. Coroway si appoggiò di nuovo allo schienale della sedia. «Lei è andato a
trovare la moglie di John.» «Sì, ci sono andato.» «E lei le ha parlato del Vortek.» «Mi ha detto che lei e John eravate in disaccordo sul fatto di commercializzarlo o tenerlo nascosto.» «E le ha detto anche che adesso, dopo la morte di John, io ho carta bianca. Posso iniziare la produzione del Vortek, chiamare la Merrill Lynch e annunciare un'offerta pubblica di vendita delle azioni della SnowCoroway.» «Questo è ciò che la signora Snow pensa.» Coroway rimase in silenzio per alcuni secondi. «Le piacerebbe sapere perché sono qui a Washington?» chiese infine. Clevenger avrebbe voluto dirgli che quello pareva un posto buono come un altro per aspettare che le tracce di polvere da sparo sparissero dalle sue mani, ma si trattenne. «Certo» si limitò a rispondere. «L'InterState ha finanziato una parte consistente dei costi di ricerca e sviluppo relativi al Vortek. Ho appena restituito circa la metà dei venticinque milioni di dollari investiti su di noi.» «Perché?» chiese Clevenger. «Perché non riusciamo a mantenere l'impegno preso. Non credo che sia possibile realizzare l'invenzione di John. Il Vortek era un sogno esagerato.» «Snow aveva mai completato un modello?» «Abbiamo testato due prototipi. Entrambi miseramente falliti.» «La moglie di Snow mi ha detto che il lavoro era terminato, ma che lui non voleva cederne la proprietà intellettuale.» Coroway rise e annuì. «John il difensore degli oppressi, il nemico di tutte le armi di distruzione di massa.» Si sistemò meglio sulla sedia. «È vero che Theresa ha tre radiomobili della polizia davanti a casa?» «Sono sicuro che sa già la risposta.» «Lei credeva veramente che con il suo cervellone John avrebbe potuto realizzare qualunque cosa. E ci ho creduto anch'io, fino a sei mesi fa.» «Perché non è riuscito a mantenere l'impegno del Vortek.» «Perché non ci è neppure andato vicino. Neanche con un finanziamento di venticinque milioni di dollari. Mi creda, non ci sarebbe stata alcuna offerta pubblica di vendita delle azioni.» «Perché Theresa avrebbe mentito?» «Secondo me, lei credeva sinceramente a quello che John le diceva: che
aveva sconfitto i radar, che aveva creato un missile fantasma in grado di penetrare le difese del nemico, che era troppo umano per permettere che la sua invenzione vedesse la luce.» Fece una pausa. «La verità è che John sarebbe stato il primo a vendere al governo degli Stati Uniti tutti i brevetti del Vortek, se mai fosse riuscito ad arrivarci. Tutte quelle balle pacifiste che faceva bere a sua moglie servivano solo a salvargli la faccia.» «Non ci aveva rinunciato?» gli chiese Clevenger. «No. Ciò avrebbe significato che John non era onnipotente e che la sua mente non era in grado di cambiare le leggi della fisica.» Fece una pausa. «Invece, lui ha dato la colpa al suo cervello.» «Che cosa intende dire?» «Ogni volta che John capiva di essere vicino a un punto di svolta nello sviluppo del Vortek, aveva un attacco di convulsioni. Penso che sia stato questo a dare il via all'odissea verso la sala operatoria con Jet Heller. John credeva che l'intervento avrebbe sbloccato dei poteri nel suo cervello ai quali non aveva accesso a causa dell'epilessia.» «E lei che cosa ne pensa?» «In tutta onestà? Penso che sarebbe stato più semplice lasciar perdere Grace Baxter. Lo distraeva.» «John, quindi, le ha parlato di lei.» «Tra noi non c'erano segreti.» Era evidente che Snow non aveva affatto tenuto nascosta la relazione con Grace Baxter. Heller ne era a conoscenza. Coroway pure. Il ritratto di lei era appeso in casa sua. «Sto indagando anche sulla morte di Grace Baxter» disse Clevenger. «Lo so.» Nessuna sorpresa. Coroway sapeva veramente tutto delle indagini. «Qualche idea?» «Penso che lei non potesse vivere senza di lui.» «Allora crede che si sia suicidata.» «Finché non viene dimostrato con sicurezza il contrario. Aveva minacciato il suicidio.» «Quando?» «La prima volta che John le comunicò che tra loro era finita, circa un mese fa. Lei disse che si sarebbe tagliata la gola.» Clevenger ebbe un tuffo al cuore. «Ed è stato solo il suo ultimo e più plateale modo di sconvolgerlo» precisò Coroway.
Lei disse che si sarebbe tagliata la gola. Quelle parole presero a echeggiare nella mente di Clevenger. Lui aveva lo sguardo fisso su Coroway, ma in realtà vedeva Grace Baxter nel suo bagno, con il taglierino da moquette in mano. «Va tutto bene, dottore?» Clevenger si sforzò di concentrarsi sul presente. «In che modo lei lo sconvolgeva?» «Grace era sempre nella testa di John. Non saprei come altro dirlo. Lui era ossessionato da lei, come uno sciocco quindicenne.» Si assestò sulla sedia. «Per lui era qualcosa di completamente nuovo. Lui e Theresa vivevano insieme, avevano figli insieme, ma non sono mai stati davvero insieme. John amava il suo cervello. E Theresa pure. Era un ménage à trois. Nel momento in cui lui si è innamorato di un'altra persona le cose sono precipitate. All'improvviso lui si è sentito un uomo, invece che una macchina.» Il che avrebbe potuto compromettere il bilancio della Snow-Coroway. La società faceva profitti grazie al cervello di Snow. «E lei, signor Coroway, era felice per lui?» chiese Clevenger. «Certo, per un po' sì. Era un fatto straordinario, che ha cambiato ogni cosa. L'umore di John è migliorato e la sua energia era sempre al massimo. Dio santo, si è perfino comprato abiti decenti. Ha cominciato a subire il fascino di cose per le quali in passato non aveva mai mostrato alcun interesse. L'arte. La musica. Perfino suo figlio. Per lui è stato come tornare a vivere.» Theresa Snow non gli aveva parlato del rinnovato interesse di suo marito per Kyle. «Ma il suo lavoro...» «Il lavoro è andato a farsi friggere.» L'analisi di Coroway combaciava con quello che Clevenger sapeva di Snow. Ma quanto aveva affermato sul fallimento del Vortek non era facilmente confermabile. Per quel che Clevenger ne sapeva, Coroway poteva avere brevettato l'invenzione un'ora prima. E non bisognava dimenticare che Coroway era finito contro un furgone mentre si allontanava a gran velocità dal Massachusetts General Hospital, nel momento in cui John Snow moriva dissanguato. «Ha visto Snow nelle ultime ventiquattr'ore?» gli chiese. Di nuovo, Coroway si allungò in avanti. «Non sia così cauto con me. Se a quest'ora non aveste ancora trovato il verbale dell'incidente, mi sarebbero venuti seri dubbi non solo sul detective Coady, ma anche su di lei e North
Anderson.» Coroway poteva essere o meno colpevole di omicidio, ma nessuno avrebbe potuto accusarlo di essere ambiguo o scarsamente informato. «E va bene: ha visto Snow al Massachusetts General Hospital ieri mattina?» «Non sono riuscito a trovarlo. L'ho chiamato sul cellulare, ma lui non ha risposto.» «Perché lo cercava?» «Volevo tentare per l'ultima volta di farlo ragionare sull'operazione» rispose Coroway. «Ecco perché sono andato all'aeroporto con la mia auto. Avevo prenotato una limousine che alle cinque e quarantacinque del mattino sarebbe passata a prendermi a casa. Ma poi ho avuto una sensazione...» Scosse la testa. «Quale?» chiese Clevenger. «Farò la figura del matto furioso.» «Resterà tra noi due.» «Ho avuto la sensazione di doverlo proteggere.» Fece una pausa. «La sola cosa che ho capito è che dovevo proteggerlo da se stesso, che se fossi andato là e gli avessi detto una volta per tutte che stava facendo una sciocchezza, allora...» Si fermò. «Dovevo proteggerlo da qualcun altro.» «Lei non crede che Snow si sia ucciso?» «Ho sentito che Coady punta molto su questa ipotesi» rispose Coroway. «Spero che la lasci perdere, altrimenti per lui è arrivato il momento di passare la mano.» Questo per mettere in chiaro il grado di influenza che Coroway poteva avere sul dipartimento di polizia di Boston. «Non esiste nessuna remota possibilità che si sia suicidato?» gli chiese Clevenger. «La pistola era sua. Pochissime persone vi avevano accesso.» «John non era un rinunciatario» disse Coroway seccamente. «Capita di non poterne più» fece notare Clevenger. «Lui stava per liberarsi di tutto ciò che lo affliggeva. O perlomeno di ciò che pensava lo affliggesse. Stava per farsi sezionare il cervello per eliminare i circuiti danneggiati. Stava per dimostrare a me e a chiunque altro che il Vortek non era un prodotto della sua immaginazione e che poteva diventare realtà.» Ciò che Snow stava davvero per dimostrare era che lui poteva lasciarsi alle spalle tutti, Coroway incluso. «Voi due avete stipulato un accordo legale per cautelarvi dall'eventualità che John non fosse più nelle condizioni di rimanere nella società.»
«Lui stava per sottoporsi a un intervento al cervello. Sarebbe potuta accadere qualsiasi cosa.» Era venuto il momento di essere un po' più precisi. «In quali posti esattamente lo ha cercato al Massachusetts General Hospital?» chiese Clevenger. «Bene. Dritto al punto» rispose Coroway con il tono distaccato che gli era caratteristico. «Prima all'ingresso. Poi al bar. Mi ha visto la cassiera, un'asiatica sulla quarantina, di corporatura esile e con gli occhiali.» L'addestramento di Coroway nel corpo scelto della Marina sembrava dare i suoi frutti. «Ho chiamato lo studio di Heller» proseguì. «Ma non mi ha risposto nessuno. Ho pensato che John dovesse essere entrato in sala operatoria molto presto, così sono ritornato al parcheggio coperto, dove ho pagato sei dollari all'uscita. A un tipo giovane. Venti, ventidue anni, occhiali spessi. Capelli ricci e neri.» «Toccata e fuga.» «Dovevo prendere un aereo.» «Alle sei e mezzo» disse Clevenger. Secondo il verbale dell'incidente, Coroway aveva lasciato il Massachusetts General Hospital poco prima delle cinque. Il Logan Airport era a una quindicina di minuti da lì. «Avevo dimenticato in ufficio una cosa che mi serviva.» O invece era andato a ripulirsi? «E così si è diretto in macchina alla Snow-Coroway.» «Dopo lo scontro con il furgone. La guardia giurata della società può confermarle che sono arrivato verso le cinque e venti. Ho raggiungo l'aeroporto un po' prima delle sei.» «Quando era all'ospedale, ha sentito un colpo d'arma da fuoco?» «No, però ho sentito le sirene. In quel momento non potevo certo sapere il motivo di tutto quel trambusto.» Fece una pausa, chiuse gli occhi e se li sfregò con il pollice e l'indice. Clevenger lasciò passare qualche secondo. «Perché non voleva che Snow si facesse operare?» chiese poi. «Non volevo un socio cieco e muto.» «Quindi, pensava che il rischio fosse troppo alto.» Coroway lo fissò. «Quale sarebbe stato il guadagno? È meglio che se ne convinca. Il Vortek era un fallimento. Ormai lo consideravo una perdita secca. Ecco perché dovevo venire subito qui, per restituire i soldi dell'InterState. Non ho mai creduto nemmeno per un secondo che l'operazione
avrebbe portato a John i risultati che lui pensava di ottenere.» «Gliel'ha mai detto in modo così diretto?» «Centinaia di volte.» I suoi occhi erano fissi in quelli di Clevenger. «Però non gli ho detto tutto. Non gli ho detto quello che veramente pensavo dei suoi attacchi. Mi ero ripromesso di farlo all'ospedale, ieri mattina.» «Che cosa aveva intenzione di dirgli?» «Che non credevo che fossero veri.» «Gli attacchi?» «O quel che erano.» «Lei pensa che Snow fingesse?» «Non consciamente» rispose Coroway. «Secondo me, erano una valvola di sfogo nei momenti di stress, quando un problema era più grande della sua capacità di risolverlo. Credo che avesse preso quest'abitudine da bambino. Perché nessuno gli aveva mai detto che un fallimento non è un dramma. Poi era diventato qualcosa di automatico. Un riflesso.» Quelli di cui Coroway stava parlando erano pseudoattacchi, che potevano essere scambiati per attacchi epilettici, ma che in realtà erano una sorta di reazione isterica allo stress. Gli occhi si rovesciavano all'indietro nelle orbite, le membra si contraevano, ma non c'era alcun problema a livello cerebrale. «Non dico che durante questi "attacchi" John non stesse male» proseguì Coroway. «Penso, però, che fossero qualcosa di analogo a quando qualcuno sviene in seguito a una cattiva notizia. Non è una questione di pressione bassa, come ho sentito dire. È un collasso emotivo.» «Nella cartella clinica di Snow al Massachusetts General Hospital si dice che durante le convulsioni si è morso la lingua più volte. Ce ne vogliono di emozioni per produrre un simile effetto!» «John aveva bisogno di convincere chi gli stava intorno - a cominciare dalla sua famiglia quando era bambino - del fatto che lui era malato. Ma più di tutti doveva convincere se stesso. Penso che pur di evitare la verità si sarebbe staccato la lingua a morsi.» «La verità...» «...è che lui aveva dei limiti.» «Cosa diceva Jet Heller dell'epilessia? Pensa che avrebbe praticato un intervento di neurochirurgia su una persona il cui cervello era sostanzialmente a posto?» «Vuol sapere come la penso? John interpretava qualsiasi anomalia in una TAC o in un elettroencefalogramma come una prova del fatto che il
suo sistema nervoso lo tradiva. E credo che anche Heller vedesse le cose nello stesso modo. Dev'essere stato proprio questo il vero problema per quelli del comitato etico del Massachusetts General Hospital. Avevano per le mani un neurochirurgo senza scrupoli, così bramoso di titoli in prima pagina che avrebbe sezionato il cervello di John anche per curargli un raffreddore.» «E John aveva così tanta paura di fallire con il Vortek?» «Il Vortek era soltanto un simbolo» disse Coroway. «Lui aveva paura di essere umano.» Questa era una prospettiva completamente nuova sulla decisione di Snow di sottoporsi all'operazione, ma non cambiava i fatti. Coroway aveva preso un aereo per lasciare lo stato dopo essersi allontanato a gran velocità proprio dall'isolato in cui il suo socio era stato colpito da una pallottola. E non era ritornato. Sarebbe potuto partire da Washington per Parigi e da lì per chissà dove, a seconda di come gli girava. «Pensa di tornare presto a Boston?» chiese Clevenger. «Probabilmente domani» rispose Coroway. «O forse dopodomani. Mi piacerebbe stare con i nostri dipendenti, ma la morte di John mi ha lasciato un carico aggiuntivo di lavoro, gran parte del quale va sbrigato qui, con i nostri venditori e clienti, compresi certi personaggi del Congresso. Devo rassicurarli e far loro sapere che siamo ancora in affari.» «Ed è così?» volle sapere Clevenger. Coroway storse impercettibilmente la bocca. «Nessuno è indispensabile» disse. «Io ho costruito la Snow-Coroway almeno quanto John. Lui era un genio, ma ci sono persone molto dotate che lavoravano sotto la sua direzione.» Dava l'impressione di non credere lui stesso a ciò che stava dicendo. «E devo sempre ricordare a me stesso,» proseguì «che John, nonostante la sua creatività, per mesi ci ha fatto lavorare a vuoto sul Vortek. Avremmo dovuto lasciar perdere molto prima.» Lo sguardo di Clevenger si fissò sui gemelli di Coroway, i piccoli jet da caccia d'oro. Aveva fatto una domanda ingenua. Gli affari sono affari. Lo spettacolo sarebbe andato avanti senza Snow. «Secondo lei chi l'ha ucciso?» chiese. «Non ne ho la minima idea» fu l'immediata risposta di Coroway. A quanto pareva, era l'unica cosa che quell'uomo non sapesse. «Nessun sospetto?» «Questo è compito suo.» «Per questo glielo chiedo.»
Coroway si alzò in piedi e andò alla finestra. «Forse siamo tutti un po' colpevoli.» Questo mea culpa ricordò vagamente a Clevenger la strana confessione di Lindsey Snow. «Si spieghi meglio.» «Per una ragione o per l'altra, tutti noi avevamo bisogno di John nella nostra vita» disse Coroway con un tono di voce più mite, meno sicuro di sé. «Grace, Theresa, i figli di John. Io. Probabilmente nessuno ha le mani pulite.» Clevenger voleva mettere Coroway un po' più alle strette. «Mi parli delle sue» disse. Coroway si voltò, pallido in viso. «Ho detto a Lindsey di Grace Baxter.» Clevenger rivide lo sguardo freddo e vacuo della ragazza. «Le ha raccontato che suo padre aveva una relazione?» «Non ne vado fiero.» «Allora, perché...?» «Lindsay sa essere molto persuasiva» rispose Coroway. «Piangeva, domandandosi che cosa fosse cambiato nei rapporti tra lei e il padre. Fino ad allora Lindsey era l'unica persona nella vita di John che poteva fare concorrenza al lavoro per il grado di attenzione ricevuta. John la adorava. E all'improvviso, lei si è trovata a doverlo condividere.» «Con Grace.» «Con Grace. Con Kyle, suo fratello. Con Heller. Con tutti gli stramaledetti Stati Uniti, a pensarci bene. Suo padre era diventato improvvisamente celebre. Non era facile stare a guardare mentre lei soffriva.» Scosse la testa, con l'aria di chi è disgustato di se stesso. «Grace ha telefonato a casa di John per organizzare la consegna di un quadro e Lindsey ne ha subito ricavato una strana sensazione. Così mi ha chiesto se stava succedendo qualcosa di cui lei non era a conoscenza. E io le ho raccontato tutto.» «Avrebbe potuto mentirle.» «Avrei dovuto.» «Perché non l'ha fatto?» «Perché Grace Baxter non era la donna giusta per John» si affrettò a rispondere Coroway, ma parve insoddisfatto da quella risposta almeno quanto Clevenger. «Volevo che lui tornasse com'era. Sembra patetico, lo so. Ero preoccupato per gli affari e sentivo la mancanza del mio amico.» «Mi sta forse dicendo che pensa che sia stata Lindsey a uccidere suo padre?» «John stava giocando a un gioco pericoloso. Gli stavano addosso ben tre
donne.» «Theresa, Grace e Lindsey.» «Theresa voleva il suo cervello. Non penso che le sia mai importato molto di ciò che lui faceva con il resto del suo corpo. Grace sembrava più che altro autodistruttiva, perché aveva minacciato di tagliarsi la gola e cose del genere.» Tagliarsi la gola. Queste parole colpirono Clevenger non meno della prima volta in cui le aveva sentite. «Rimane Lindsey» riuscì a dire. Lo sguardo di Coroway si perse in lontananza. «Era molto arrabbiata» disse. «Nel momento stesso in cui le ho raccontato tutto sapevo... sapevo che non sarebbe riuscita ad accettarlo.» «Ed è crollata.» «No, non è crollata affatto. Ed è stato proprio questo a preoccuparmi. È diventata molto tranquilla. Impassibile.» Coroway riportò l'attenzione su Clevenger. «Poi ha detto qualcosa che non sono riuscito a capire.» «Che cosa?» «Mi ha detto che non avevo idea di quanto Kyle odiasse suo padre.» Coroway scosse la testa. «Non sono riuscito a capire perché avesse fatto quel salto logico, da se stessa al fratello. Ma adesso, penso forse di averlo capito.» 11 A conclusione del loro incontro, Coroway si offrì di far chiamare un'auto per Clevenger, ma lui declinò l'offerta dicendo che si sarebbe trovato con un vecchio amico, a pochi isolati di distanza. Non aveva nessuna intenzione di salire su una berlina priva di contrassegni richiesta da un uomo che aveva due jet da caccia come gemelli e un socio ucciso da una pallottola in un vicolo. Percorse a piedi tre isolati, fermò un taxi, salì e disse all'autista di portarlo al Reagan National Airport. Durante il tragitto chiamò subito la sua segretaria, Kim Moffett. I giornalisti erano venuti a sapere che Clevenger era stato ingaggiato dalla polizia di Boston per trovare l'assassino di Snow e almeno una dozzina di loro aveva chiamato il suo ufficio. Il parcheggio brulicava di troupe televisive. Kim Moffett era così distratta da tutto quel caos che solo alla fine della telefonata si ricordò di riferire a Clevenger che circa venti minuti prima Lindsey Snow era passata di lì. «Ti ha detto che cosa voleva?» chiese Clevenger.
«No, però ha detto che non è un'emergenza. Non piangeva e non sembrava sconvolta o cose del genere.» Kim Moffett aveva un atteggiamento più prudente del solito, visto quello che era successo dopo le telefonate di Grace Baxter, e ciò fece aumentare in Clevenger il rimorso di non aver risposto a quelle chiamate. «Ha lasciato un numero di telefono?» «Quello del suo cellulare: seiunosette-cinquecinquecinqueottounotreuno.» «La richiamerò.» «Posso dirti una cosa strana su di lei?» chiese Kim Moffett. Clevenger aveva imparato a non lasciarsi fuorviare dalla giovane età, dai riccioli biondi e dalla voce suadente della sua segretaria, perché in realtà lei era una ragazza piena di saggezza e buonsenso. «Spara.» «Si è rivolta a me come se mi conoscesse e mi ha parlato di te come se fosse del tutto normale che lei passasse di qui. Come se lo facesse tutti i giorni. Come se fossimo grandi amiche. Così, senza preamboli. Insomma, vive in una specie di mondo fantastico tutto suo?» «Non lo so» rispose Clevenger. «Ma, qualunque sia il mondo in cui Lindsey vive, tu stanne alla larga.» «Ho capito.» «C'è altro?» «North non è in ufficio, ma mi ha detto di ricordarti di chiamarlo non appena fossi uscito dall'incontro, il che dev'essere già avvenuto, visto che mi hai telefonato.» «Lo chiamerò.» Clevenger si mise in contatto con Anderson e lo aggiornò velocemente sul colloquio con Coroway. Decisero che Anderson avrebbe fatto un giro al Massachusetts General Hospital tra le 21.00 e le 7.00 con una fotografia di Coroway scaricata da Internet. Valeva la pena controllare se qualcuno del personale si ricordava di averlo visto nell'atrio o al bar o nel parcheggio, o nelle vicinanze del vicolo dove era stato trovato Snow. Poi Clevenger telefonò a Lindsey Snow. «Pronto?» rispose lei. «Sono il dottor Clevenger» disse lui. «Ehi, è nel suo ufficio?» Il suo tono confidenziale era decisamente fuori luogo. «No» rispose Clevenger. «Ho saputo che sei passata a cercarmi.» «Quando rientrerà? Posso fare un salto da lei?»
Clevenger guardò l'orologio. Le 17.10. Se prendeva il volo delle 18.00 per Boston avrebbe potuto essere in ufficio alle 20.00. In ogni caso, Billy sarebbe rincasato dalla sala operatoria più tardi. Sapeva che parlando con la figlia diciottenne avrebbe agito alle spalle di Theresa Snow, ma in un'indagine per omicidio non rappresentava niente di illecito. Forse poteva chiedere a Kim di trattenersi in ufficio più a lungo, in modo che fosse presente anche una terza persona. «Certo» rispose dunque alla ragazza. «Perché non passi stasera, alle otto?» «Non sto bene» disse lei, con un tono di voce che all'improvviso si era fatto quasi disperato. «Mi sento così svuotata.» «Hai perso tuo padre.» «Ho perso tutto.» Sembrava allo stremo. «Lindsey, se hai bisogno di parlare subito con qualcuno,» le suggerì «non devi vergognarti di rivolgerti al pronto soccorso. Ti raggiungo al Cambridge Hospital.» «Non mi va di parlare con nessuno.» «Mi prometti che te ne starai buona buona, nelle prossime due ore?» «Andrà tutto bene» lo rassicurò lei. Clevenger ebbe l'angosciosa sensazione di rivivere il suo incontro con Grace Baxter, con la richiesta di un altro "patto di incolumità", come se ciò avesse potuto garantire qualcosa. Ma sapeva anche che Lindsey non aveva detto nulla che potesse giustificare un intervento della polizia e un ricovero in ospedale contro la sua volontà. «Sei sicura?» le chiese. «Lei si preoccupa per me» gli disse, adesso in lacrime. «È molto bello da parte sua.» Si schiarì la voce. «Ma non ce n'è bisogno. Io uccido gli altri, ricorda?» «Lindsey... dove sei?» «Ci vediamo alle otto.» E riattaccò. Clevenger la richiamò e trovò la segreteria telefonica. Riprovò, senza maggior fortuna. Allora pensò di telefonare al Cambridge Hospital, perché mandassero uno psicologo a casa degli Snow in Brattle Street, ma si rese conto che non aveva alcun diritto di farlo. Sapeva, inoltre, che gran parte della sua ansia era dovuta non tanto a ciò che sarebbe potuto accadere a Lindsey, quanto a ciò che era già successo a Grace Baxter. Chiuse gli occhi e appoggiò la testa al sedile, ma ottenne solo il risultato di ricordarsi le parole di Collin Coroway. Lei disse che si sarebbe tagliata la gola. Riaprì gli occhi e si mise a fissare gli alberi spogli che scorrevano veloci fuori dal finestrino del taxi.
Il sole stava per tramontare e il cielo gli sembrò molto più scuro di come lo aveva visto solo qualche minuto prima. Sull'aereo Clevenger avrebbe voluto dormire, ma non ci riuscì. Tirò fuori il diario di John Snow e gli diede un'occhiata. La maggior parte delle annotazioni inserite fra i disegni e i calcoli di Snow girava intorno alla solita domanda fondamentale, cioè se lui aveva il diritto di uscire dalla scena della propria vita. Ma a metà del diario c'era un passaggio scarabocchiato in caratteri particolarmente minuscoli, scritti in diagonale sulla parte più bassa del foglio. Cominciava con la parola "amore". L'amore è il più grande ostacolo alla rinascita. In amore una persona rivendica il proprio diritto su un altro essere umano, incorporandolo nell'immagine che ha di sé. Gli amanti non solo faticano a immaginare di esistere l'uno senza l'altra, ma si trasformano in una terza entità: la coppia. Ecco perché, quando sboccia, l'amore sembra così liberatorio. Ma in ogni accoppiamento non è presente anche la lenta morte di ciascun individuo, la scomparsa di lui e di lei l'uno nell'altra? È questo ciò che si intende quando si dice di amare qualcuno da morire? Ti amo proprio da morire. La coppia è davvero più degna di sopravvivenza di due individui? La tecnologia ci offre una soluzione. Quando l'amore svanisce, un bisturi utilizzato in modo corretto può completamente ricostituire l'individuo - uomo o donna - liberandolo con precisione dai tentacoli dell'altra persona che si è radicata così profondamente nella sua anima. Lo spirito umano del singolo può essere liberato dal peso schiacciante delle emozioni e delle esperienze condivise, sotto cui è seppellito.
L'individuo può rinascere senza sensi di colpa né tristezza, perché non si è lasciato dietro alcun ricordo degli altri e davanti a sé ha solo il più luminoso degli orizzonti, l'infinito potenziale di una storia completamente nuova. Clevenger posò il diario. Ovunque, nello scritto di Snow, si trovava la paura di essere inghiottito, la preoccupazione che i "tentacoli" della sua amante si insinuassero in profondità dentro di lui e non lo lasciassero più andare, che l'amore romantico fosse una sorta di cancro intossicante che consumava le anime che univa. Era questo che significava per lui l'essersi innamorato di Grace Baxter? Aveva preso la decisione definitiva di chiudere la loro storia e di sottoporsi all'operazione perché era terrorizzato dall'idea di cessare di esistere, se si fosse totalmente innamorato di lei? E come avrebbe reagito se fosse venuto a sapere che una parte di lui stava crescendo nel ventre della sua amante? Clevenger respirò a fondo e scosse la testa. Si sentì invadere da un grande senso di tristezza e se ne chiese la ragione. Sulle prime pensò che fosse perché stava cominciando a provare davvero pietà per Snow, a identificarsi con lui, un uomo convinto che un abbraccio fosse sempre il preludio di un soffocamento. Un uomo che si era sposato perché voleva stare solo. Poi, però, gli tornò di nuovo in mente l'immagine di Whitney McCormick. Durò solo un attimo, ma bastò a fargli capire che non era triste solo per Snow. Era triste per se stesso. Perché l'essere passato attraverso l'inferno in cui aveva vissuto da bambino non l'aveva certo lasciato nelle migliori condizioni. Anche lui, in definitiva, era solo. Aveva i suoi pazienti da curare. Poteva amare suo figlio. Ma non era affatto sicuro che si sarebbe lasciato amare. Malgrado il ritardo accumulato, Clevenger arrivò alla Boston Forensics dieci minuti prima di Lindsey Snow, dopo essersi imbattuto in tre giornalisti, autentici mastini che dovevano essere in agguato da ore fuori dal cancello. Tra loro c'era Cary Shuman, un coraggioso cronista di strada che non avrebbe esitato a scavare sotto l'asfalto delle tortuose strade di Chelsea, se avesse pensato di potervi trovare qualche storia. «Dottore, qualche indizio?» gridò, mentre Clevenger si avviava verso l'entrata. Clevenger non si fermò. «È vero che Grace Baxter era una sua paziente?»
A quella domanda, Clevenger rallentò l'andatura spedita, ma non si fermò. «Allora ce l'hai fatta» lo salutò Kim Moffett alzandosi dalla scrivania per andargli incontro quando lo vide entrare. Aveva accettato di trattenersi in ufficio oltre il consueto orario. Era vestita con un giubbotto di pelle nera, jeans Levi's strappati e scarpe da ginnastica di Prada, una tenuta piuttosto abituale per lei. «Grazie per essere rimasta» disse Clevenger. «Prego.» «Tutto bene?» «Alla grande. Se mi sento sola posso avere tutta la compagnia che voglio» rispose lei, accennando con un movimento della testa a Shuman e agli altri fuori in strada. Clevenger sorrise e si avviò verso il suo ufficio. «Non hai un gran bell'aspetto, sai» gli disse Kim. «Hai dormito?» «Sto bene» la rassicurò lui, poi si fermò e si voltò verso di lei. «Grazie per avermelo domandato.» Ormai nessuno lo faceva più. «Vuoi che ti ordini qualcosa da mangiare?» «Mangerò qualcosa mentre torno a casa.» «Bugiardo.» Clevenger le sorrise, si voltò di nuovo ed entrò in ufficio. Si era appena tolto il cappotto quando suonò l'interfono. «È arrivata Lindsey Snow» gli comunicò Kim Moffett. «Falla entrare.» E andò ad aprirle la porta. Passandogli accanto per entrare nella stanza, Lindsey gli lanciò un'occhiata timorosa. Indossava gli stessi jeans aderenti e il maglione nero di quando lui l'aveva vista a casa sua, ma si era data una sistemata, si era truccata, profumata e aveva raccolto i capelli. «Sono contento che tu sia venuta» disse Clevenger e le indicò la sedia che aveva occupato Grace Baxter. «Accomodati.» Lindsey si sedette. Lui si sistemò sulla sua poltrona, la fece ruotare per guardare in faccia la ragazza e si accorse che piangeva. «Perché non riesco a trattenermi?» gli chiese. «Forse perché non devi farlo» le rispose Clevenger. Lindsey si asciugò le lacrime, ma non smise di piangere. Clevenger la lasciò sfogare e, guardandola, constatò ancora una volta come lei oscillasse tra l'adolescenza e l'età adulta, con quella sua sensualità acerba che la col-
locava in una sorta di terra di nessuno: troppo donna per i ragazzi della sua età, troppo ragazzina per gli uomini pienamente adulti. Dopo un minuto Lindsey parve ricomporsi. «Oggi non le ho detto tutto» disse. Clevenger rimase in attesa, ricordandosi che quando l'aveva incalzata aveva ottenuto solo di farla ritrarre. «Ho fatto qualcosa di tremendo.» Un'altra esca, ma lui non abboccò. «Sei sicura di volermene parlare?» le chiese. Lei si strinse nelle spalle. Passarono alcuni secondi e a Clevenger venne il dubbio di comportarsi in modo troppo distaccato. «Non mi farai fuggire per lo spavento.» Lindsey chiuse gli occhi, deglutì, poi li aprì e lo fissò. «Non soltanto gli ho detto che doveva morire. Ho fatto in modo che lui volesse morire. Nel senso che gli ho portato via qualcosa che gli dava la voglia di vivere.» «Che cos'era?» «Una donna.» La ragazza avvampò e abbassò lo sguardo. «Lui aveva una storia con un'altra.» A giudicare dall'acredine nella sua voce, sembrava che la donna tradita da Snow fosse Lindsey, invece che sua madre. «Chi è?» chiese Clevenger. «Si chiamava Grace Baxter. Gestiva una galleria d'arte.» La ragazza strinse le gambe, unendo le ginocchia. «Anche lei si è suicidata, subito dopo mio papà.» Tenne la testa china. «Sono una persona malvagia.» «Come hai fatto a sapere di lei e di tuo padre?» «Una volta lei ha chiamato a casa» raccontò Lindsey, risollevando lo sguardo e fissandolo su Clevenger. «Al telefono era, come dire, molto strana. Come se mi conoscesse, o qualcosa del genere. E il modo in cui ha pronunciato il nome di lui... È stato disgustoso. Ho chiesto di lei a Collin, il socio di mio papà.» Tutto collimava con il racconto di Coroway. «E lui che cosa ti ha detto?» «Che lei era la... be', ha capito... di papà.» «E tu come ti sei sentita?» «Come le ho già detto, mio papà era un bugiardo.» Clevenger la fissò negli occhi. Lindsey sostenne il suo sguardo. «E lei era una fottuta puttana.» La rabbia della ragazza era prevalentemente concentrata su Grace Baxter. Il che, dal punto di vista psicologico, era comprensibile. John Snow
viveva un matrimonio privo di passione, ma aveva una figlia che considerava perfetta. Questo squilibrio poteva aver facilmente indotto Lindsey a considerarsi la donna più importante della sua vita. Il padre era stato una sua proprietà, finché non era entrata in scena Grace Baxter. «Una volta sono andata alla sua galleria» proseguì Lindsey. «L'hai riconosciuta?» Sembrava disgustata. «Ma certo, come avrei potuto non riconoscerla? Ce l'avevo davanti agli occhi da mesi. Ha visto il quadro sopra il camino in salotto? La donna nuda dietro la finestra?» Clevenger annuì. «È lei. Che perversione! Quella donna ha fatto in modo che lui se la portasse in casa.» «Che cos'hai provato, quando l'hai vista alla galleria?» volle sapere Clevenger. «Mi è venuta voglia di vomitare.» «Hai detto a tuo padre che sapevi di lei?» «Non esattamente. Gli ho detto che era un bugiardo. Gli ho detto che avrei voluto che morisse.» La bugia, in realtà, era che Snow sarebbe appartenuto a Lindsey se non fosse stato per il suo matrimonio senza vita. Il fatto di essere l'unica donna che lui adorava aveva impedito alla sua psiche immatura di arrivare alla salutare conclusione che suo padre era totalmente irraggiungibile come compagno, in quanto innamorato della madre. L'entrata in scena di Grace Baxter aveva dimostrato che Snow voleva evadere dal suo matrimonio, che voleva essere passionale, ma non con Lindsey. Non sarebbe mai stato suo. «E lui come ha reagito quando gli hai detto che desideravi la sua morte?» chiese Clevenger. «Ha detto...» Gli occhi di Lindsey si riempirono di lacrime. «Ha detto che forse il mio desiderio si sarebbe avverato.» «Quando è successo tutto ciò?» «Qualche mese fa.» «E da allora vi siete più parlati?» «Sì, ma raramente e di argomenti poco importanti. Non c'era niente da dire.» Lindsey si sforzò di non scoppiare a piangere. «Poi ho trovato qualcosa.» «Cosa?» «Una lettera.» «Di tuo padre?»
Lei scosse la testa in segno di diniego. «Di quella...» Fece una pausa. «...della donna. Era una lettera di addio.» Clevenger ebbe un tuffo al cuore. «Dove l'hai trovata?» «Nella ventiquattrore di mio padre.» «Hai frugato nella sua ventiquattrore?» «Lui ci teneva le ricevute del Four Seasons» rispose la ragazza con asprezza. «Loro due si vedevano sempre in quell'albergo. Una volta li ho anche seguiti. Volevo verificare se ci andavano ancora.» «Ricordi quello che c'era scritto nella lettera?» «Stronzate del tipo che senza di lui lei non si sentiva viva. Che sperava che lui l'avrebbe perdonata per essersi uccisa. E poi altre cose, davvero disgustose.» Clevenger non voleva incalzare Lindsey, inducendola a ritrarsi, ma aveva assolutamente bisogno di sapere. «Quali, per esempio?» chiese. La ragazza assunse un'aria schifata. «Diceva che ogni volta che lui era entrato in lei, lei era entrata in lui.» Le parole citate da Lindsey corrispondevano a quelle della lettera trovata sul comodino di Grace. «Che cosa ne hai fatto della lettera?» le chiese. La ragazza distolse lo sguardo. Lui rimase in attesa. «Avrei proprio dovuto rimetterla nella ventiquattrore di mio padre.» «E invece...» Lindsey lo guardò con un'espressione nuova degli occhi, un'ipocrisia che lui non aveva mai visto prima. «L'ho data al marito di lei, George Reese. Ho detto a mio fratello di portargliela in ufficio, alla Beacon Street Bank.» «Hai parlato a Kyle di Grace Baxter?» «Negli ultimi tre o quattro mesi lui era entrato nelle grazie di papà. Come se, all'improvviso, loro due fossero grandi amici, anche se in sostanza papà lo teneva fuori dalla sua vita. Non volevo che lui si facesse fregare, per poi scoprire che ci aveva mollati tutti per lei.» Il crescente legame tra Kyle e Snow avrebbe chiaramente finito per minacciare lo speciale posto che Lindsey occupava nella vita del padre. Informando Kyle di Grace Baxter, Lindsey non solo faceva naufragare la relazione di suo padre, ma distruggeva anche ogni possibilità di una significativa relazione tra lui e il figlio. «Quand'è che Kyle ha portato la lettera a George Reese?» «Una settimana fa.» Coady aveva proprio bisogno di quell'informazione per sottoporre Reese
a un interrogatorio. Era il movente per uno o per entrambi gli omicidi: quell'uomo sapeva che sua moglie aveva una relazione e con chi l'aveva. E sapeva che non era un'avventura. Lei era innamorata. Non voleva vivere senza Snow. «E così tra lei e mio papà è finito tutto» proseguì Lindsey. «Come fai a saperlo con sicurezza?» «Dal suo cellulare. Kyle è riuscito a trovare un sistema per controllare le chiamate in uscita: dopo quel giorno, lui non le ha più telefonato.» «Hai ottenuto ciò che desideravi ottenere, credo.» Lindsey si strinse nelle spalle. «Alla fine quella donna è andata fino in fondo, credo» disse con voce quasi priva di emozione. La consegna della lettera di addio a Reese avrebbe potuto davvero mettere in moto il meccanismo che aveva portato alla morte di John Snow e di Grace Baxter. Ma Lindsey non sembrava avere troppi rimorsi. «Sono contento che tu mi abbia raccontato questa storia» disse Clevenger. «Ci vuole molto coraggio per ammettere una cosa simile.» Lei sollevò le gambe sulla sedia, portandosi le ginocchia al petto e appoggiandovi sopra la testa, come aveva fatto sul pick-up. «Lei mi fa sentire molto a mio agio» ammise. «Potrei raccontarle qualunque cosa. Succede così a tutti?» «Non a tutti» rispose Clevenger. «Credo che si tratti di qualcosa di chimico. Voglio dire, la terapia è una relazione piuttosto intima.» «Questa non è una terapia.» «Che cos'è?» Clevenger non rispose. Lui non era lo psichiatra di Lindsey, ma l'aveva invitata nel suo ufficio. Forse era stato un errore. «E lei a chi racconta le sue menate?» volle sapere la ragazza. Clevenger ebbe l'impressione che Lindsey stesse cercando di rendere ancora più confuso il confine tra loro. Adesso voleva essere lei la sua terapista, o magari qualcosa di più. Quando si ha un padre che sembra offrirti la possibilità di un legame totale, si può correre il rischio di inseguire quell'illusione ovunque e con tutte le figure sostitutive del padre in cui ci si imbatte. «Non potrei scaricare su di te le mie "menate"» rispose. «Non si faccia problemi.» «Non devi preoccuparti per me» disse Clevenger. «È tutto okay.» Lei gli lanciò uno sguardo appassionato. «Scommetto che non ha nessuno su cui contare. Lei è un solitario. Ascolta i segreti della gente, ma non
permette a nessuno di condividere i suoi.» Si morsicò il labbro inferiore. «Mi sbaglio?» In quel momento Clevenger si rese conto di come talvolta gli psichiatri smarriscano la strada. Perché ciò che Lindsey Snow aveva detto di lui era in parte vero. Era bello sentirselo dire, essere capito, anche da una diciottenne. E, malgrado i diciotto anni di Lindsey, sarebbe stato facile dimenticare la dinamica psicologica che l'aveva portata a dire quel che aveva detto, ovvero il transfert con il padre. Sarebbe stato facile credere che loro due avessero un legame speciale. «Per qualsiasi terapista sarebbe un errore parlare di se stesso con...» «Ma io non sono una sua paziente.» «No, non esattamente.» «Okay. E allora... che cosa sono?» «Sei la figlia di un uomo che è morto ieri. Sto indagando sulla vicenda. Sono felice di esserti d'aiuto, se posso, ma...» «Ma si ascolti! Continua a girarci intorno. È una logica completamente circolare. Non posso essere tuo amico, ma non sono il tuo psichiatra, però se posso aiutarti... bla bla bla. Mi ricorda mio papà e il suo modo di ragionare quando trattava i problemi di fisica. Lei non permette a se stesso di sentire le cose in nessun altro modo se non attraverso i numeri.» Abbandonò la posizione rannicchiata in cui si trovava e si raddrizzò sulla sedia. Poi si alzò in piedi, unì le mani dietro la testa e s'inarcò come una gatta. Il maglione si sollevò, scoprendo l'ombelico con il piercing e le sinuosità dell'addome perfetto. Quand'ebbe finito di stirarsi, Lindsey si strinse nelle spalle. «Andrà tutto bene. Grazie.» «Sei venuta qui in macchina? Ti chiamo un taxi?» «Attenzione: nemmeno lei deve preoccuparsi per me!» Si girò e si avviò alla porta. Clevenger la guardò mentre usciva dall'ufficio e poi dall'edificio, raggiungeva una Range Rover blu, saliva al posto di guida e si allontanava. E fu ancora una volta colpito dalla rapidità con cui lei sembrava essersi ripresa da tristezza e sensi di colpa. Forse perché Lindsey, sotto sotto, aveva davvero voluto che suo padre pagasse con la vita il suo peccato, ovvero il fatto di averla tradita? La rabbia aveva un potere così grande sulla sua coscienza? Poi a Clevenger venne in mente un'altra eventualità, ancora più preoccupante. E se la storia che riguardava George Reese non fosse stata vera? E se Lindsey avesse trovato la lettera di Grace Baxter e l'avesse tenuta da
parte fino al momento in cui lei o Kyle avrebbero avuto l'occasione di lasciarla accanto al letto di Grace Baxter, dopò che uno dei due, o entrambi, gliel'avevano fatta pagare per aver rubato loro il padre? «Se è vero che lo sguardo uccide...» disse Kim Moffett sulla porta dell'ufficio di Clevenger. Lui si voltò verso di lei. «Non so che cosa tu abbia detto a quella ragazza, ma di sicuro non sarà mai più mia amica. Mi ha guardata come se le avessi fregato il fidanzato.» Sorrise e inclinò di lato la testa. «Tesoro.» «È pericolosa. Non scordarlo.» Kim si batté la mano sulla fronte e strizzò l'occhio. «Buonanotte.» 12 Clevenger chiamò il Massachusetts General Hospital, si fece passare la sala operatoria e venne a sapere che Heller stava ancora operando. Allora, compose il numero del cellulare di Mike Coady. «Pronto?» rispose Coady. «Sono Frank.» «Sei tornato?» «Un paio d'ore fa.» «Com'è andata?» Clevenger raccontò che Coroway gli era sembrato nient'affatto turbato, anche quando lo aveva interrogato sul Vortek, e che era stato lui a confermare a Lindsey Snow il suo sospetto che il padre avesse una storia con Grace Baxter. «Quindi dobbiamo pensare che anche la madre lo sapesse» disse Coady. «Forse. Ma senti la parte più importante: ho appena visto Lindsey, la quale mi ha detto di aver trovato la presunta lettera di addio di Grace Baxter, quella rinvenuta sul luogo della tragedia. L'ha citata parola per parola. Grace l'aveva scritta non per George Reese, ma per John Snow. Lindsey l'ha trovata nella ventiquattrore del padre una settimana fa.» «Grace Baxter ha scritto quella lettera una settimana fa?» «E l'ha data a John Snow, oppure lui l'ha trovata. Qualunque cosa lui abbia poi detto o fatto dev'essere stata quella giusta. Grace Baxter non è andata fino in fondo, perlomeno non mentre John era vivo.» «Ma se Lindsey Snow ha trovato la lettera, come ha fatto poi la suddetta lettera a finire vicino al cadavere?»
«Lindsey l'ha fatta recapitare a George Reese da suo fratello. Voleva chiaramente che la relazione finisse, una volta per tutte.» «Può darsi» disse Coady. «Se la ragazza ha detto la verità, è probabile che Reese abbia messo la lettera vicino al letto, dopo avere ucciso la moglie.» «Sì, è probabile.» Coady rimase in silenzio per qualche secondo. «Ma può anche darsi che lui avesse paura che qualcuno pensasse che l'aveva uccisa lui. Voglio dire, Grace Baxter ha scritto quella lettera. Era conciata piuttosto male quando è venuta da te. Magari lui l'ha trovata morta, si è fatto prendere dal panico e ha camuffato un po' la scena.» Era conciata piuttosto male quando è venuta da te. Coady era intenzionato a considerare la morte di Grace Baxter un suicidio. E Clevenger dovette chiedersi se, a propria volta, era intenzionato a considerarla un omicidio. C'era qualcosa che offuscava i pensieri di Coady, oppure era il senso di colpa a offuscare i suoi? «Credo che sia possibile» ammise. «Sto solo cercando di ragionare come ragionerebbe la squadra di avvocati difensori da cinque milioni di dollari ingaggiata da Reese» disse Coady. «Comunque, farò in modo di convocarlo per un interrogatorio.» «Non vedo l'ora di parlargli di nuovo.» «Dobbiamo stare davvero molto attenti con la Beacon Street Bank.» «Attenti?» «È una banca importante. Dà lavoro a un sacco di persone. Le azioni scenderanno, quando il "Globe" strombazzerà che Reese è al centro dell'indagine, il che dovrebbe richiedere non più di quattro secondi, visto il numero di giornalisti che si occupano del caso. Mi telefoneranno il sindaco Treadwell e magari anche il governatore. Vorranno sapere se, per caso, non mi sono fottuto il cervello.» «Nessuno può dire che tu abbia premuto il grilletto troppo in fretta. Ci sono domande concrete a cui Reese deve rispondere. Che cosa ha fatto con quella lettera? Che cosa pensava della relazione intima di sua moglie con John Snow? Dov'era alle... diciamo... quattro e mezzo di ieri mattina?» «Ci penso io.» «D'accordo» disse Clevenger. «Kyle Snow è tutto tuo. Ti aspetta nel carcere della contea di Suffolk, all'ora che vuoi.» «L'hai sbattuto dentro?» «L'idea di fare un salto in centrale per farsi interrogare non gli andava tanto e così gli ho fatto revocare la libertà provvisoria per via dell'esame
delle urine positivo.» Lindsey non gli aveva parlato dell'arresto di suo fratello. «Quando lo avete arrestato?» chiese Clevenger. «Circa un'ora fa. Magari tu riesci a farlo parlare, adesso che è rinchiuso.» «Ci proverò. Passerò da lui domani mattina.» «Poi fammi sapere com'è andata.» «Certo.» Clevenger andò a casa ad aspettare il ritorno di Billy e Jet Heller. Erano le 21.20. Accese il computer e caricò uno dei cinque dischetti contenenti i file copiati dal portatile di John Snow. In mezzo a vari altri, perlopiù di sistema, ce n'erano venti con la sigla iniziale VTK e una numerazione progressiva: da VTKl.LNX a VTK20.LNX. A quanto pareva, si riferivano al Vortek. Clevenger aprì il primo. Intere schermate di quello che sembrava un codice informatico. O i file erano danneggiati, oppure erano programmati in un linguaggio che Clevenger non era in grado di leggere. Inserì, uno dopo l'altro, tutti i dischetti, con lo stesso risultato. In totale c'erano centocinquantasette file VTK, nessuno dei quali leggibile. Clevenger prese il telefono e compose il numero del suo amico Vania O'Connor della Portside Technologies, a Newburyport, a nord, vicino al confine con il New Hampshire. O'Connor era un trentacinquenne genio del computer con un portafoglio clienti che includeva pezzi grossi dell'industria, tutta gente che molto probabilmente non aveva mai messo piede nel suo ufficio, in un seminterrato senza finestre, stracolmo di manuali di programmazione informatica e di ricerca ed eliminazione dei guasti. O'Connor rispose al primo squillo. «Mmm?» borbottò con la sua inconfondibile voce baritonale. «Sono Frank. Scusami per l'orario.» «Perché, che ore sono?» Clevenger guardò l'orologio. «Le dieci e un quarto.» Si domandò come mai Billy non fosse già tornato. «Di mattina o di sera?» Clevenger sorrise. Non dubitava che O'Connor faticasse a distinguere il giorno dalla notte, lavorando nello scantinato della casa dove lui, la moglie e i tre figli conducevano un'esistenza sorprendentemente normale. E proprio il pensiero di O'Connor, capace di soddisfare il suo genio e la sua famiglia al tempo stesso, lo spinse a chiedersi di nuovo perché John Snow non fosse riuscito a fare altrettanto. «Di mattina» scherzò.
«Impossibile» lo smentì O'Connor. «Oggi tocca a noi portare la merenda alla scuola dei bambini. Nicole mi avrebbe già svegliato urlando ore fa.» Nicole era la sua incantevole figlia di sei anni. «Hai troppi padroni da servire.» «Lo so» convenne O'Connor. «Fammi indovinare: mi hai chiamato per capire perché, se apri Explorer mentre usi un foglio Excel, non riesci ad accedere alla funzione delle previsioni mensili. Il che è davvero bizzarro, perché è proprio ciò a cui sto lavorando in questo momento.» «Sembra interessante.» «Da morire.» «Da quanto tempo ci lavori?» «Non lo so.» «Mi dispiace interromperti.» «Qualcosa mi dice che ci riuscirai. Che succede?» «Ho qui alcuni dischetti contenenti file di diversa natura scaricati dall'hard disk di un portatile. Alcuni sembrano di formato abbastanza riconoscibile, ma ce ne sono 157 che cominciano con la sigla VTK e finiscono con LNX.» «157.» «Li ho aperti tutti. Non riesco a capire se sono danneggiati da un virus o se sono scritti in codice. In ogni caso, per me non hanno senso.» Clevenger sentì la serratura scattare e la porta dell'appartamento aprirsi. «Non spedirmeli via e-mail» lo avvertì O'Connor. «Chissà quanti virus ci sono lì dentro.» Lo disse come se a Clevenger restasse più o meno un giorno di vita. «E se te li portassi di persona? Prometto di non starti col fiato sul collo.» «Quando vuoi.» «Domani mattina?» chiese Clevenger. «Prima delle otto e mezzo oppure dopo le nove e un quarto. Come ti dicevo, tocca a noi...» «...portare la merenda.» La porta si aprì e Clevenger udì le voci di Billy ed Heller. «Dolcetti ai mirtilli» precisò O'Connor. «È una scuola Montessori. Vogliono solo roba naturale. Io preferisco quella artificiale. Stasera sono alla terza scatola di snack alla cannella.» Billy venne avanti in tenuta antisettica da sala operatoria e giubbotto di jeans, seguito da Heller, che indossava la medesima tenuta e un cappotto di lana nera. Portava i suoi abituali stivali da cowboy neri di coccodrillo.
«Ci vediamo domani mattina intorno alle otto» disse Clevenger a O'Connor. «Bicchiere grande, con panna e quattro zollette di zucchero.» «Aggiudicato.» Clevenger riattaccò. «Allora, com'è andata?» chiese a Billy. Il ragazzo sorrise e lanciò uno sguardo a Heller, che gli restituì il sorriso. «Grandioso» rispose poi. «Assolutamente, completamente grandioso.» «Fermati un po' qui» disse Clevenger a Heller. «Sei sempre dell'idea di bere qualcosa?» chiese Heller. «Credo che Billy sia molto stanco.» «Sono a pezzi» confermò il ragazzo, esibendo un libro. «Vado a letto a leggere.» Clevenger colse con un'occhiata il titolo in copertina: Struttura del cervello e del midollo spinale, del dottor Abraham Kader. Stentava a credere che Billy lo tenesse nella stessa mano con cui di solito maneggiava le Marlboro e i CD di Eminem. «È un classico» commentò. «Kader è un mio amico» spiegò Heller. "Certo, è ovvio" pensò Clevenger. «C'è una dedica autografa» fece notare Billy. «"Da guaritore a guaritore".» «Ecco perché l'ho dato a Billy» disse Heller. «Potrebbe avverarsi un'altra volta.» «Avresti dovuto esserci!» si entusiasmò il ragazzo. «Finiamo l'intervento e, tipo mezz'ora dopo, lei apre gli occhi nella sala di risveglio e...» lanciò un altro sguardo a Heller, che gli fece cenno di proseguire «...ci vede!» concluse Billy in tono ammirato. «Incredibile» commentò Clevenger. «Come spiegavo prima a Billy,» intervenne Heller «noi non c'entriamo nulla. È stato Dio a dare la vista a quella donna.» Alzò le mani. «E queste a me.» Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. «Se un domani Billy diventerà un neurochirurgo, sarà perché ce l'aveva dentro da sempre e aspettava solo che venisse fuori.» Clevenger non aveva nulla da obiettare sulla sostanza del monologo di Heller, ma il modo in cui l'aveva pronunciato dimostrava chiaramente che lui era ancora in preda alla mania che lo aveva portato in sala operatoria. «Qualunque sia il tuo dono, devi rispettarlo» disse Clevenger a Billy, sentendo che le sue parole venivano travolte dall'eco perdurante di quelle di Heller.
«Proprio così» approvò Heller. «Gli ho fatto da assistente» raccontò Billy a Clevenger. «Fantastico» commentò lui. «Nessuno che abbia la passione per la chirurgia riesce a guardare e basta» disse Heller. «Billy ha tenuto i divaricatori per quattro ore di fila, senza fiatare. Si è guadagnato il diritto di fissare gli ultimi due punti.» «Temo che non sarà l'ultima volta in cui vorrà fare un salto in sala operatoria» osservò Clevenger. «Non c'è problema» disse Heller. «Si è comportato benissimo. Efficiente. Rispettoso. È piaciuto a tutti.» «Intanto comincerò a leggermi questo» disse Billy, sollevando il libro. Poi guardò Heller. «Grazie.» «Grazie a te.» Clevenger li osservò mentre si stringevano la mano. «'Notte» disse Billy a Clevenger e si avviò verso la sua camera. «'Notte, figliolo» gli rispose lui. «Ti voglio bene.» Era abituato al fatto che Billy lo abbracciasse o dicesse di volergli bene raramente - il ragazzo veniva da una famiglia dove tutto ciò che poteva rendere vulnerabile era causa di ulteriore sofferenza - ma la presenza di Heller accentuava la sua sensazione di distanza dal figlio. «Allora, andiamo a bere qualcosa?» chiese a Heller. Aveva davvero voglia di un drink. «Dove?» «All'Alpine? Non è un granché, ma è proprio in fondo alla strada.» «Decisamente, non ho la tenuta adatta a un locale elegante» notò Heller. Raggiunsero a piedi l'Alpine, un buco quasi interamente occupato dal bancone del bar, cosa che un tempo, quando il bere aveva un posto rilevante nella sua vita, Clevenger aveva trovato molto opportuna e addirittura rassicurante. Nessuno andava all'Alpine per il caffè o per l'arredo (pannellatura di legno scuro, moquette dozzinale, controsoffitto). Ci si andava perché era a un tiro di schioppo da casa o perché una birra costava un dollaro e un gin tonic due. Heller ordinò uno scotch liscio. «E tu, dottore?» chiese il barista a Clevenger. Era un uomo sulla quarantina, alto circa un metro e novanta e tutto muscoli. Clevenger esitò. Sarebbe stato facile ordinargliene un altro, facile come il primo passo verso il baratro. Ordinò una Diet Coke. «Ci sei mancato» osservò il barista. «Anche voi a me, Jack» ribatté Clevenger.
«Adesso comunque sembra che te la passi bene. Hai per le mani quel grosso caso. Quello del professore che si è sparato, o quel che è.» «Sì» confermò Clevenger. «Dài, dammi un'anteprima: è stato un suicidio o cosa?» «Ci stiamo ancora lavorando.» Jack gli strizzò l'occhio. «Ah, già, dimenticavo che è un segreto.» Poi lanciò un'occhiata a Heller. «E questo tizio in pigiama?» «È un chirurgo» spiegò Clevenger. «Appena uscito dalla sala operatoria.» «Due dottori in questa bettola» osservò Jack, versando da bere. «Questo giro lo offro io» disse. «Grazie» rispose Heller. «Ne tenga conto, nel caso in cui mi venisse un'ernia o l'appendicite.» «È un neurochirurgo» precisò Clevenger. «Neuro...?» rifletté Jack. «Cervello.» Socchiuse gli occhi e fissò Heller. «Ehi, un attimo! Lei era il suo chirurgo. Il chirurgo del professore morto.» Heller s'irrigidì. «Esatto.» «Jet Heller.» «Sì.» «Dev'essere stata dura... tutta quella pubblicità prima dell'intervento e poi il tizio si fa saltare le cervella.» «È stato molto difficile» disse Heller. «Avrebbe potuto essere un altro trofeo nella sua collezione. Mi dispiace che non sia finita bene» disse Jack. «Non era un trofeo da collezione quello che volevo» ribatté Heller. Jack prese da sotto il bancone una bottiglia di Johnnie Walker Red Label. «Certo, capisco. Scommetto che odia i titoloni sui giornali.» I muscoli della mascella di Heller si contrassero. Jack cominciò a riempirgli il bicchiere. «Ehi, sta parlando con Jack Scardillo. Undici anni dietro questo bancone.» Spinse lo scotch verso di lui. «Ho detto abbastanza?» «Anche troppo» rispose Heller, fissandolo. Jack faceva il barista da tanto di quel tempo da capire al volo quando un cliente era pronto a saltargli addosso attraverso il bancone. Sfoderò un sorriso in cui mancavano un paio di denti. «Ho sparato un po' di cazzate.» Gli porse la mano. Heller gliela strinse, ma il suo sguardo restò gelido. «Non c'è problema» disse.
«Andiamo a sederci» propose Clevenger a Heller. «La giornata è stata lunga per tutti.» Si sistemarono a un tavolo accanto alla vetrina, sotto un'insegna al neon della Budweiser. «Mi dispiace per quello che è successo» disse Clevenger. «La morte di John è troppo recente, non riesco a scherzarci sopra» ammise Heller. Fece un cenno del capo verso la Diet Coke di Clevenger. «Bevi soltanto quella?» Clevenger sentiva l'odore dello scotch di Heller, poteva quasi sentirne il sapore. «Oggi, sì.» «Buon per te. Ti dispiace se io ci do dentro?» «Nient'affatto.» Heller bevve una lunga sorsata di scotch. Clevenger tracannò d'un fiato mezza Diet Coke. «Oggi in sala operatoria hai vinto la tua battaglia.» «Mi fa sentire dannatamente bene» si esaltò Heller. «Perché ricordo tutte le volte in cui ho perso. Sono contento che la prima esperienza di Billy non abbia coinciso con una sconfitta.» Bevve un altro sorso di scotch. «Che mi dici di te? La storia di Grace Baxter ti pesa ancora tanto?» «Sto cercando di farmene una ragione» rispose Clevenger. Heller fissò il bicchiere. «In medicina non c'è quasi nulla di esatto» dichiarò. Clevenger apprezzò la piega che Heller aveva dato alla conversazione e che sembrava ricondurre al caso Snow. «In psichiatria, intendi» disse. Heller alzò lo sguardo. «In tutte le specialità. Prendi, per esempio, patologia. L'opinione comune dice che in questo campo le risposte sono chiarissime. Si prendono campioni di tessuto, si sistemano su un vetrino e si osservano attraverso un microscopio. Uno immagina di poter affermare con assoluta certezza che questo è un cancro, mentre quest'altro non lo è. Ma non è così. Sullo stesso campione si possono avere responsi diversi da patologi molto competenti. Ho dovuto mandare campioni di tessuto a quattro laboratori prima di essere sicuro di avere a che fare con un cancro e non con una formazione benigna. E comunque mi sono dovuto fidare della parola di uno contro quella di un altro. Il Massachusetts General Hospital contro il Johns Hopkins. Quest'ultimo contro il National Institute of Health. Perché le malattie sono in realtà una gamma di possibilità.» «Alcune, sì» disse Clevenger per punzecchiare un po' Heller. «Tutte. Prendi, per esempio, il diabete. Alcuni casi sono chiari, ma ce ne
sono altri borderline e altri ancora subclinici. Forse il paziente è malato, forse non lo è. Si misura la glicemia e si ottiene un responso ambiguo, quindi bisogna misurare la glicemia a digiuno e poi l'emoglobina glicosilata. Forse bisogna iniziare una terapia, forse no. Lo stesso succede con l'ipertensione. Ci sono moltissimi casi evidenti, ma non hanno niente a che fare con la vera arte della medicina. Questa entra in gioco quando la pressione di un individuo, che di solito è nella norma, risulta un po' più alta dopo un caffè o in presenza di uno stress eccessivo... ecco, in una situazione del genere, si deve decidere se c'è o non c'è il disturbo.» Heller tracannò quel che restava del suo scotch. «La stessa cosa, dunque, dovrebbe valere per l'epilessia» osservò Clevenger, rispondendo con un cenno di assenso allo sguardo di Jack puntato sul bicchiere vuoto di Heller. Heller annuì, ma rimase in silenzio. «Quel che voglio dire è che può esserci gente con un'attività elettrica cerebrale anomala, ma che non arriva al livello di una vera e propria epilessia» puntualizzò Clevenger. «Certo» convenne Heller. «Potrebbe capitare al due o al tre per cento delle persone in questo locale, se le sottoponessimo a un elettroencefalogramma.» Clevenger sorrise. «In questo locale? Facciamo anche il cinque o il dieci per cento.» «Per questo spero che tu abbia superato il senso di colpa nei confronti di Grace Baxter. Lasciamo perdere il diabete, l'ipertensione e l'epilessia. Non c'è modo di prevedere con precisione se qualcuno è affetto da una depressione mortale. Non esistono microscopi per questo. Né elettroencefalogrammi. Nulla.» Jack portò al tavolo un altro scotch e lo posò davanti a Heller, al quale, prima di andarsene, diede una leggera pacca sulla spalla. Heller non se accorse neppure. «Permettimi di farti una domanda» disse Clevenger: «Che cosa mi dici di Snow? Del suo elettroencefalogramma?». «Che cosa devo dirti? Aveva fatto tutto. Elettroencefalogrammi, risonanze magnetiche, tomografia a emissione di positroni.» «I referti erano chiari o richiedevano un'interpretazione?» «Chiarissimi» rispose Heller. Prese il bicchiere e ingollò un sorso di scotch. «Quindi il suo era un caso classico di epilessia» concluse Clevenger.
«Ammesso che possa esistere un caso classico» disse Heller. «Aveva convulsioni tonico-cloniche, per cui cadeva a terra e si mordeva la lingua, e un'attività elettrica anomala in diverse parti del suo cervello, compresi il lobo temporale e l'ippocampo.» Clevenger bevve un sorso di Diet Coke e si schiarì la voce. «E la patologia - l'attività elettrica anomala - ha convinto quelli del comitato etico. Erano solo preoccupati per gli effetti collaterali dell'operazione.» «Senti, sai meglio di me che, quando si ha a che fare con un comitato ospedaliero, tutti sollevano ogni tipo di domanda possibile, reale o inventata. Conclusione: si trattava della vita di Snow. Lui odiava i suoi attacchi e voleva liberarsene.» Ma questo lasciava aperta la questione se uno o più membri del comitato avessero dubitato dell'autenticità dell'epilessia di Snow. Clevenger decise di insistere. «Che cosa mostrava, in realtà, l'elettroencefalogramma? Tu hai parlato di attività elettrica anomala. Ma, come hai detto prima, ogni malattia è una gamma di possibilità. E, allora, dove si collocava la malattia di Snow all'interno della gamma? Se lui non avesse avuto convulsioni tonicocloniche, con morsicatura della lingua e tutto il resto, avresti diagnosticato l'epilessia in base al solo elettroencefalogramma?» «Ma lui aveva le convulsioni e tutto il resto» sottolineò Heller. Fece una pausa. «Che cosa mi stai chiedendo, veramente?» «Se sapessi che Snow, in realtà, aveva degli pseudoattacchi, dovrei farmi delle domande sulla sua stabilità psicologica in generale» rispose Clevenger. «Dovresti» convenne Heller e sorrise a denti stretti. «Ma non è questo il punto a cui vuoi arrivare. Quello che, di fatto, vuoi sapere è se intendevo eseguire un intervento sperimentale sul cervello di John Snow al solo e unico scopo di liberarlo dai suoi rapporti interpersonali - dal suo passato indipendentemente dall'epilessia. E offrirgli, in questo modo, una nuova vita. È così, vero?» Clevenger non aveva in mente quella specifica domanda, ma Heller evidentemente sì. «L'avresti fatto?» «Forse.» «Anche se gli attacchi - o gli pseudoattacchi - fossero stati una conseguenza dello stress?» «Non essere così rigido, Frank. Sei uno psichiatra. Non so se abbia importanza se l'esatta patologia di Snow si collocasse nel cervello o nella psiche. In ogni caso, l'intervento lo avrebbe liberato sia dai circuiti elettrici
danneggiati sia dai rapporti molto stressanti. E presumibilmente lui sarebbe guarito da entrambi i punti di vista.» «E se un paziente non avesse attacchi?» chiese Clevenger. «Se sentisse di essere arrivato al capolinea della propria esistenza e avesse bisogno di trovare una via d'uscita, di premere il tasto di reset?» «Non lo so. Una parte di me pensa: chi sono io per rifiutare una cosa del genere a una persona?» La risposta colse Clevenger di sorpresa. Considerava Heller un purista, uno che si sarebbe sentito oltraggiato dall'idea di usare il bisturi per qualcosa di diverso dall'asportazione di tessuti malati. «Non vorrebbe dire mettersi al posto di Dio?» domandò Clevenger. «Meglio che essere il diavolo» rispose Heller con un sorriso e finì il suo secondo scotch. «Stasera è successa una gran cosa. Davvero. Quella donna ha riacquistato la vista. Ma John avrebbe potuto riacquistare la vita. Lei era cieca. Lui era morto.» Si allungò in avanti. «Qualcuno lo ha privato di questa occasione, e ne ha privato anche me. Ciò che questa persona ha fatto è terribile: ha derubato noi tutti della possibilità di rinascere, di risorgere. In un certo senso, ha ucciso Gesù Cristo.» Forse Heller era davvero affetto da megalomania, pensò Clevenger. «Quindi immagino che andrai a cercarti un altro John Snow.» Heller scosse la testa. «Era uno su un milione. Un esploratore. Colombo. John Glenn. Non credo che ci sia un altro uomo con la sua stabilità psicologica e il suo livello di intelligenza disposto a mettere in gioco la vista e la parola per ricominciare daccapo. E con una patologia al cervello tale da convincere il comitato etico. I requisiti minimi. È stata l'occasione della vita. Ho avuto la possibilità di passare alla storia.» Clevenger fu ancora una volta sorpreso da come Heller considerasse la morte di Snow un attacco personale e un affronto a Dio. «Mi dispiace» fu tutto ciò che riuscì a dire. Stavolta fu Heller a fare un cenno a Jack perché gli riempisse il bicchiere. Poi si rivolse di nuovo a Clevenger. «Visto che ho risposto alle tue domande, che ne diresti, ora, di rispondere alle mie?» «Ci proverò.» «Billy mi ha detto che oggi eri a Washington.» «È vero.» «Posso chiederti se il viaggio aveva a che fare con il caso Snow?» «Stavo seguendo una pista» rispose Clevenger. Heller annuì. «Ho parlato con Theresa Snow e lei mi ha raccontato dei
sospetti che nutre.» «E che cosa ti ha detto?» «Lei pensa che Collin Coroway abbia ucciso suo marito, per la storia del Vortek e della possibilità di trasformare la società in public company.» Quindi la vedova insisteva molto su quella versione della morte di Snow. «Okay...» si limitò a dire Clevenger. Jack portò il terzo scotch a Heller e la seconda Diet Coke a Clevenger e ritornò al bancone senza dire una parola. «Faccio uno più uno» proseguì Heller. «Il Vortek e il tuo viaggio a Washington. Sei stato all'ufficio brevetti per controllare se recentemente Coroway ha fatto registrare qualcosa?» «No. Ma posso chiederti perché ti interessa saperlo?» domandò Clevenger. «Quando mi hai detto che probabilmente Snow non si è suicidato, ho cominciato a considerare la sua morte un omicidio passionale. Grace Baxter, l'amante sconvolta, uccide il mio paziente e poi si uccide. Tutti morti. Ma tu sei più bravo di me. E, a quanto pare, stai guardando oltre questo scenario.» «Non posso escluderlo.» «Il tuo istinto ti dice che Collin Coroway è l'assassino di Snow?» «Sia l'istinto sia l'esperienza mi dicono di esaminare ogni possibilità.» Heller tracannò metà dello scotch. «E quali sono le altre possibilità?» «Sono informazioni riservate» rispose Clevenger. «Un favore professionale, da medico a medico.» «Fammi capire: perché per te è così importante essere al corrente delle indagini?» Heller fece scorrere il dito sull'orlo del bicchiere. «L'hai già capito.» Guardò Clevenger negli occhi. «Hai visto Grace Baxter per circa un'ora, giusto? E stai facendo il diavolo a quattro per trovare chi l'ha uccisa. Io so che lo fai non solo perché vuoi metterti in pace la coscienza, ma anche perché senti di essere in debito con lei, anche dopo quell'unica ora. Perché lei era la tua paziente. È un legame mistico, incommensurabile. Prova a spiegarlo a qualcuno che non sia un medico - e maledettamente in gamba, per di più - e non ne caverai nulla. Dico bene?» «Sì.» «Bene, sono stato a stretto contatto con Snow per più di un anno. Ho messo in gioco la mia carriera per lui. Sono stato qualcosa più del suo chirurgo. Sono stato il suo confessore. Sono stato uno di quelli che, al pronto
soccorso, hanno risposto alla chiamata d'emergenza. Sono stato la persona che gli ha messo la mano dentro il torace e gli ha massaggiato il cuore.» Clevenger fissò Heller per capire se stava mentendo, ma il suo sguardo gli parve sincero, come quello di uno che avesse perso un fratello o un figlio. «Qualsiasi cosa io scopra, non avrai bisogno di leggerla su un giornale» lo rassicurò. «Te la dirò io, non appena mi sarà possibile. Hai la mia parola.» «Mi fido di te» disse Heller. «E, per favore, come ti ho già detto, se dovessi avere bisogno di soldi per indagare più a fondo, fammelo sapere. Sono anche disposto a offrire una ricompensa, se credi che possa servire.» «Me ne ricorderò.» Heller scolò quel che rimaneva dello scotch. «Il terzo è una meraviglia» commentò. «Che dici? Andiamo via?» «Sei sicuro di poter guidare?» chiese Clevenger. Heller si alzò e provò l'equilibrio, prima su un piede, poi sull'altro. Non barcollò neppure un po'. «Sto bene. Odio confessare quanti tripli scotch serali mi sono fatto negli ultimi sei mesi. Il fatto è che ero totalmente preso dal caso di John.» Heller parlava come un alcolizzato. «Il caso è chiuso» disse Clevenger alzandosi in piedi. «No» ribatté Heller. «Prendi chi ha fatto fuori Snow. Solo allora sarà chiuso.» Clevenger rincasò qualche minuto dopo la mezzanotte. Dalla stanza di Billy non filtrava alcuna luce. Il libro che gli aveva dato Heller doveva avergli conciliato il sonno. Andò alla scrivania e si accorse che lo schermo del computer era acceso e vi campeggiavano gli incomprensibili codici dell'ultimo file VTK che aveva esaminato. Era un fatto strano, perché il computer era settato in modo da far entrare automaticamente in funzione lo screen saver dopo cinque minuti di inattività. Clevenger toccò il sedile della sua poltrona da scrivania: era caldo. Provò un senso di rabbia e di delusione. Billy aveva rovistato tra i suoi file. Lanciò di nuovo un'occhiata verso la stanza del ragazzo. Forse sarebbe stato opportuno che padre e figlio si facessero una bella chiacchierata notturna sul rispetto della privacy altrui. Ma, all'improvviso, un'altra sensazione si impadronì di Clevenger, annullando tutte le altre: la sensazione di aver vinto. Su Heller. Su Abraham Kader. Sulla neurochirurgia. Sì, per-
ché mentre lui ed Heller erano all'Alpine, Billy probabilmente non aveva letto il libro sul sistema nervoso. Si era seduto al computer, cercando di avvicinarsi a Clevenger e al suo lavoro. E per quanto Clevenger temesse sempre di perdere Billy nelle tenebre dei casi di omicidio, non poteva negare che la curiosità di suo figlio lo faceva sentire bene. Non andò a bussare alla porta della stanza di Billy, né gli gridò di uscire. Si sedette alla scrivania e chiuse gli occhi, sapendo che pochi minuti prima Billy era stato al suo posto. IL FOUR SEASONS Un giorno d'estate, cinque mesi prima Ore 18.00 Grace Baxter bussò alla porta della loro suite, senza sapere se lui fosse lì. Avevano programmato l'incontro una settimana prima, ma da allora lei non lo aveva più sentito, nonostante l'avesse chiamato al telefono una dozzina di volte. Bussò di nuovo, aspettò dieci, quindici secondi, poi si voltò per andarsene. John aprì la porta. Grace si girò verso di lui e ciò che vide la sconvolse. Aveva la barba lunga e gli occhi iniettati di sangue e cerchiati di scuro. La camicia bianca era stropicciata e macchiata di sudore. Lei entrò nella stanza e si richiuse la porta alle spalle. «John, che sta succedendo?» gli chiese. Lui scosse la testa e fissò il pavimento. «Mi dispiace.» Alzò gli occhi e la guardò. Era splendida, con quel suo abito nero aderente e i sandali neri col tacco a spillo. «Io non...» Si strofinò gli occhi. Grace lo prese per mano e lo condusse a un divanetto di velluto. «Non volevo che tu mi vedessi ridotto così» disse lui. «Avevamo deciso che non ci saremmo mai nascosti nulla.» John la guardò come se fosse stata trasparente. «Le cose non vanno bene.» «Quali cose?» Lui scosse di nuovo la testa. «È solo che...» «Quali cose? John, ti prego, dimmelo.» «La mia mente» rispose lui, fissandola come se facesse fatica a metterla a fuoco. «Il mio lavoro. Sono a un punto morto.» Lei si protese verso di lui. «Mi hai detto che il fatto che ci vediamo spes-
so ti è d'aiuto. Se vuoi, possiamo vederci tutti i giorni.» John chiuse gli occhi. Grace gli prese la mano e la posò sulla propria coscia facendola scorrere verso l'alto fino a toccare il pizzo del perizoma con la punta delle dita. «C'è di nuovo un ostacolo sul tuo cammino. Tutto qui. Sei bloccato. Possiamo superarlo.» John percepiva il suo calore umido e una parte di lui avrebbe voluto entrare in lei e attingere quell'energia che negli ultimi sei mesi lo aveva aiutato a eliminare tanti blocchi creativi, trasformando progressivamente il Vortek in una realtà. Ma, dopo l'ultima volta che erano stati insieme, lui non si era sentito né più forte, né meno sterile. Si era convinto che nemmeno lei potesse più alimentare la sua immaginazione. Era privo di idee. E questo, per John Snow, era come essere morto. Grace gli si fece ancora più vicina e lo baciò sulla bocca. John sentì appena le sue labbra. Ormai era fuori dalla sua portata e sempre più distante. Improvvisamente ebbe delle vertigini. Grace gli baciò il collo. John ebbe la sensazione che un cerchio gli stringesse la testa. Si sentì le braccia e le gambe rigide. Guardò Grace e la vide seduta sul divanetto a due metri di distanza. Eppure avvertiva ancora il calore delle sue labbra. "Come può essere?" si chiese. «Ti amo» gli sussurrò Grace nell'orecchio. Lui udì quelle parole come un'eco lontana. E poi si rese conto di ciò che stava per accadere. L'indicibile, l'impensabile tradimento del suo cervello che andava in cortocircuito. La perdita totale del controllo, della luce, dell'amore. Si sentiva risucchiare lontano da lei. Oppure si stava rimpicciolendo? «John» lo chiamò lei. «Cosa ti sta succedendo? Oh, mio Dio!» E lui osservò la scena come se fosse stato una terza persona nella stanza: gli occhi che si rivoltavano nelle orbite, il collo che si inarcava, le membra che tremavano, la schiena che si contorceva dolorosamente, come uno straccio strizzato. Vide il proprio aspetto grottesco riflesso sul volto inorridito di Grace, ma, mentre serrava le mascelle e sentiva il sapore del sangue che usciva a fiotti dalla lingua, vide anche che lei allungava le braccia verso di lui e lo stringeva a sé. Si risvegliò sul pavimento, tra le braccia di Grace. Lei piangeva, cullandolo come un bimbo. Lui alzò lo sguardo su di lei.
«John?» disse Grace, accarezzandogli una guancia. «È tutto okay. Andrà tutto bene.» John cercò di parlare, ma gli parve di avere la bocca piena di lamette da barba. I pantaloni gli davano una sensazione strana sulla pelle. Si era bagnato. «Ti sei morsicato la lingua. Non sforzarti di parlare.» Lui rimase sdraiato, ancora intontito, a guardarla. Lei continuava a cullarlo. «Non puoi fare una cosa simile a te stesso» gli disse. «Hai capito? Devi lasciar perdere questo progetto. Devi dimenticarlo. Ci tornerai sopra tra un anno, o cinque, oppure mai più. Non importa.» John sentì le lacrime di lei sul suo viso. «È soltanto un'idea» continuò Grace. «Non puoi permetterle di distruggerti. Io non te lo permetterò. Ti amo.» Gli parve strano sentire il vero potere della devozione di quella donna quando lui era al suo peggio, anziché quando era al suo meglio; strano che lei lo amasse nonostante quel crollo. Eppure un'altra parte di lui sapeva che non avrebbe mai potuto ricevere il suo dono in un altro modo. Perché adesso era assolutamente certo che Grace amava lui, e non il suo cervello. John Snow. L'uomo, non la macchina. E così come quell'amore puro e incondizionato poteva davvero guarirlo, poteva davvero ispirarlo, lui sapeva in cuor suo che non avrebbe mai cessato di lottare per creare ciò che secondo molti era solo una fantasia. Perché in quel momento, lì tra le braccia di lei - con la barba lunga, bagnato di sangue, quasi privo del controllo del proprio corpo - tutto, assolutamente tutto, era alla sua portata. 13 14 gennaio 2004 Clevenger arrivò a casa di Vania O'Connor, un grande edificio in stile coloniale in una tranquilla via di Newburyport, un po' prima delle otto. Parcheggiò e scese dal pick-up. C'erano due gradi sopra lo zero, ma con il vento freddo sembrava di essere a meno venti. L'aria luccicava per una spolverata di scintillanti fiocchi di neve. La moglie di O'Connor, un'attraente biondina con la mente matematica, stava uscendo in retromarcia dal vialetto d'accesso. Lavorava come controller in un hedge fund di Boston.
Abbassò il finestrino. «Vania ti sta aspettando» disse a Clevenger. «Ha detto che il caffè gliel'avresti portato tu.» Clevenger sollevò il bicchiere. «Grande, con panna e quattro zollette.» «Ne ha davvero bisogno. È stato in piedi quasi tutta la notte. Per favore, potresti ricordargli...?» «Di portare la merenda a scuola. So tutto.» Lei sorrise, alzò il finestrino e si allontanò. Clevenger percorse il sentiero di ghiaia che conduceva alla botola dello scantinato su un lato della casa. Bussò e aprì. «Vania, ci sei?» «Penso di sì» rispose O'Connor. Clevenger scese la stretta scala che conduceva alla tana di O'Connor e lo trovò chino su una tastiera, illuminato dal solo bagliore del monitor di fronte a lui. Clevenger mancava da quel posto da circa un anno e trovò il locale ancora più stipato di computer, libri e software, accatastati ovunque. Si piazzò alle spalle di O'Connor e guardò lo schermo del computer affollato di numeri, lettere, asterischi e quant'altro. Posò il bicchiere del caffè accanto alla tastiera. «Quella roba dovrebbe significare qualcosa?» chiese all'amico. «Il problema è proprio quello. Non riesco a cavare un ragno dal buco» rispose O'Connor. Poi prese il bicchiere, tirò via il coperchio e bevve. «Be', ci stai lavorando.» O'Connor alzò la testa e gli sorrise. «Sembri stanco, amico.» Gli allungò la mano. Clevenger gliela strinse. «Perché tu allora?» Ma non era vero. O'Connor sembrava pieno di energia, più giovane di un anno prima. «Come sta Billy?» «Bene.» «Ricordati che se qualcosa non funziona in un programma io riesco a capirlo all'istante» gli disse guardandolo di traverso. «Che c'è che non va?» «Va tutto bene. Solo che è una bella sfida, tutto qua.» «Ti saresti mai preso in casa un ragazzino che non fosse una sfida?» Clevenger ci pensò. «No.» «Appunto. Saresti sprecato, con uno che non ti dà problemi.» O'Connor aveva ragione. Ma Clevenger si chiese perché le cose dovessero andare così. Perché il fatto di essere sopravvissuto ai traumi dell'infanzia lo legava così indissolubilmente ad altre persone traumatizzate? «Sarebbe davvero bello non avere problemi, una volta ogni tanto.» «Fidati, non ti piacerebbe. Tu sei un guaritore a tempo pieno. Che tu lo
voglia o no.» Poi indicò con un cenno della testa i dischetti in mano a Clevenger. «Allora, socio, in che guaio ci siamo cacciati?» «Qui ci sono i file di cui ti ho parlato. Vengono dal portatile di John Snow. L'inventore.» «Il tizio che è stato ammazzato, o che si è sparato, o vattelapesca?» «Sì.» «Non è mica come lo descrivono i telegiornali.» Indicò nuovamente i dischetti. «Non penserai che sia stato ucciso per via di quello che c'è lì dentro, vero?» «Non lo so. Ma non ho detto ad anima viva che li avrei dati a te.» Vide l'espressione di O'Connor perdere un po' della sua baldanza. «E tu devi essere altrettanto cauto.» O'Connor fissò i dischetti per qualche istante. «Il tuo caffè l'ho già bevuto» disse. «Dimmi tutto.» Clevenger gli raccontò del Vortek. «Quindi si sta parlando di ingegneria, di fisica, di forza, di velocità. Quel genere di cose lì.» «Esatto.» «Apriamone uno.» O'Connor inserì il dischetto nel computer e richiamò la directory. Aprì VTK1.LNX e per almeno un minuto rimase a fissare la schermata di numeri e di lettere. «Va bene» disse, alla fine. «Ci capisci qualcosa?» «No. Ma posso spiegarti perché. È scritto in linguaggio Visual Basic, C++, molto criptato.» «Non oso immaginare che cosa possa essere...» O'Connor rise. «Riesci a decifrarlo?» volle sapere Clevenger. «Se sono fortunato. Anche se ci riesco, 157 file richiederanno un sacco di tempo.» «E di soldi.» «Anche. Dovrò farmi dare una mano. Conosco un tizio che è in pensione dalla NASA e abita in una fattoria a Rowley. Potrei aver bisogno del suo aiuto per certi calcoli.» «Fa' quel che c'è da fare» disse Clevenger. «Eviterei, però, di scoprire le carte con questo tizio. Come ti dicevo prima, non so se Snow sia stato ucciso a causa del contenuto di quei file. E poi non conosco il tuo amico né la gente che frequenta.» Mise una mano in tasca e ne estrasse venti banco-
note da cento dollari, che allungò a O'Connor. «Così posso cominciare» commentò O'Connor. «Ma non basta.» «Te ne darò ancora. Avevo solo questi con me.» «Non mi riferisco ai soldi» disse O'Connor. «Ma alle informazioni. La data di nascita di Snow, il suo numero di previdenza sociale, le date di nascita dei suoi figli, la data del suo matrimonio. I tipi come lui usano dati simili come chiavi per accedere ai codici criptati.» «Ti faccio avere tutto quello che posso.» «Frank, io starei attento» lo avvertì O'Connor facendo scorrere la schermata. «Snow si è dato un gran da fare per impedire a chiunque di vedere cosa c'era dietro questo codice. Può darsi che nessuno sappia che io ho avuto questi dischetti, ma devi pensare che qualcuno sa che tu ce li hai.» Clevenger tornò a Boston per incontrare Kyle Snow nel carcere della contea di Suffolk. Controllò il cellulare e vide che aveva ricevuto una chiamata da North Anderson. Lo richiamò. Anderson rispose. «Ciao, Frank.» «Novità?» gli chiese Clevenger. «La storia di Coroway tiene, in parte. Il parcheggiatore e la cassiera del bar si ricordano di lui.» «Che cos'è che non quadra?» «Ho parlato con l'autista del furgone delle consegne del "Boston Globe". Un tizio che si chiama Jim Murphy. Sulla trentina. Dice che Coroway era fuori di sé, davvero sconvolto dopo quella che in fondo era stata solo un'ammaccatura, e ha tentato di pagarlo in contanti per evitare la denuncia. Cinquecento dollari.» «Molta gente lo fa» disse Clevenger. «E Coroway sostiene che andava di fretta e che doveva prendere l'aereo.» «Certo, ma Murphy si è sentito messo sotto pressione. Gli ha detto che non poteva accettare l'offerta, perché il furgone era del "Boston Globe", ma Coroway non ha voluto sentire ragioni. Ha alzato la tariffa a mille dollari e ha continuato a insistere finché Murphy non ha chiamato la polizia per farsi fare il verbale. Coroway ha tagliato la corda prima dell'arrivo della radiomobile.» «Interessante.» «E adesso?» chiese Anderson. «Dobbiamo scoprire se Coroway ha richiesto dei brevetti all'ufficio preposto a Washington» disse Clevenger. «Voglio sapere se il Vortek era veramente un fiasco o no.» Guardò nello specchietto retrovisore e scorse, a
una quindicina di metri da lui, una Crown Victoria che pensava di avere già visto mentre percorreva la Route 95 in direzione di Newburyport. Ebbe la spiacevole sensazione che qualcuno lo stesse pedinando fin da quando aveva lasciato Chelsea. Si spostò nella corsia di sorpasso e accelerò. «Le invenzioni per uso militare vengono registrate?» chiese Anderson. «Dobbiamo scoprirlo» rispose Clevenger. «Non sarebbe male controllare se Coroway ha ceduto il diritto di utilizzo del Vortek alla Boeing o alla Lockheed, o ad aziende simili.» La Crown non aveva cambiato corsia, ma non lo perdeva d'occhio. Allora Clevenger si spostò sulla corsia più a destra, con l'idea di prendere la prima uscita e di mettere a tacere la propria paranoia. «Recupererò il nome dei consiglieri di amministrazione delle più importanti aziende del settore» disse Anderson. «Possiamo confrontarli con i nostri contatti e vedere se c'è una via d'accesso. Magari uno dei miei amici di Nantucket può darmi una mano.» Prima di andare a lavorare con Clevenger, Anderson era stato il capo della polizia di Nantucket. «Benissimo. Ti richiamo dopo che ho parlato con il figlio di Snow. Adesso sto andando alla prigione.» Imboccò l'uscita. La Crown gli andò dietro. «Bene, allora.» «Aspetta un attimo. C'è qualcuno che mi sta seguendo» disse Clevenger. «Dove sei?» «Dalle parti di Newburyport.» «Hai portato i dischetti a O'Connor?» «Sì. Conosci qualcuno a Newburyport che può mandare una pattuglia a casa sua? Al cinquantacinque di Jackson Way. Possono avermi seguito anche da lui.» «Va bene. Resta sull'autostrada. Non uscire per nessun motivo.» «Troppo tardi. Sono appena uscito per Georgetown. Sulla Route 133.» «Torna sulla Route 95. Ti richiamo tra un minuto.» Riagganciò. Clevenger udì una sirena dietro di lui. Guardò nello specchietto retrovisore e vide una luce blu lampeggiare sul cruscotto della Crown Vic. Riuscì anche a scorgere due figure maschili nell'auto, una al posto di guida e l'altra sul sedile del passeggero. Accostò, estrasse la pistola dalla fondina e la infilò sotto la coscia. L'uomo al posto di guida rimase sull'auto, mentre il passeggero, un tipo alto sui cinquantacinque anni, con i capelli radi e gli occhiali, scese e si avvicinò al suo finestrino.
Clevenger lo abbassò. «Il dottor Clevenger?» «Con chi parlo, prego?» «Paul Delaney, FBI.» «Piacere di conoscerla. Se voleva un appuntamento poteva chiamare il mio ufficio.» Delaney sorrise. «Spiacente, dottore, ma devo perquisirle il bagagliaio.» «Non lo farà, se non ha un mandato.» «Eccolo.» Delaney infilò una mano nella tasca interna della giacca. Prima che Clevenger potesse fare qualunque mossa, si ritrovò una pistola puntata alla nuca. «Ha gli occhi dietro la testa?» gli chiese Delaney. «Li usi per leggere il mandato.» Fece un cenno con la testa in direzione della Crown Vic. Di lì a pochi istanti, la portiera del passeggero del pick-up di Clevenger si aprì e il collega di Delaney, un tipo grassoccio alto almeno uno e ottanta, si introdusse nell'abitacolo e si mise a frugare sotto i sedili e nel vano portaoggetti. Poi si lasciò cadere sul sedile del passeggero. «Dottore, devo perquisirla» lo avvertì. Clevenger sentì squillare il proprio cellulare e controllò sul display il numero di chi chiamava. North Anderson. «Finiamo subito» disse Delaney. «Poi, potrà richiamare.» L'uomo grassoccio tastò con le mani il torace, le braccia e le gambe di Clevenger. Trovò la pistola e la sollevò, mostrandola al collega. «Infilala nel vano portaoggetti» gli disse quest'ultimo. «Se mi dite che cosa state cercando, forse potrei aiutarvi» propose Clevenger. «Possiamo evitare questa messinscena da sbirri televisivi.» «I dischetti. Glieli hanno dati per errore.» Il cellulare di Clevenger riprese a squillare. «Errore di chi?» «Del detective Coady» rispose Delaney. «Una mossa ingenua. Avrebbero dovuto essere consegnati all'FBI.» Poi accennò con la testa al cellulare di Clevenger. «Risponda, se vuole. Magari Billy ha bisogno di lei.» Clevenger sapeva che suo figlio aveva una certa notorietà, ma sentire Delaney chiamarlo per nome lo mise a disagio. «Se state minacciando mio figlio, sarà meglio che abbiate l'autorizzazione a premere quel grilletto.» Delaney non batté ciglio. «Mi scusi. Tutto ciò non ha nulla a che vedere con suo figlio e mi dispiace di averlo nominato. Ma, per rispondere alla sua osservazione, sono autorizzato a premere il grilletto nel caso in cui lei
si rifiuti di farsi perquisire e opponga resistenza.» Il telefono cessò di squillare, poi ricominciò nuovamente. «Immagino che quei dischetti siano veramente importanti» disse Clevenger. «Io non li ho.» Indicò il cellulare con un cenno del capo. «Le dispiace? È Billy.» «Faccia pure.» Clevenger premette il tasto di risposta. «Frank?» disse Anderson. «Cinque dischetti blu. Accanto al mio computer, nel loft. Vai...» Sentì una fitta di dolore, quando Delaney lo colpì alla nuca con il calcio della pistola. Poi svenne. Si svegliò tremante, rannicchiato sul sedile del passeggero del suo pickup, in un angolo remoto del parcheggio del supermercato Shaw, nel centro commerciale di Georgetown Plaza. Si sentiva la testa come se qualcuno l'avesse usata per giocare a pallavolo. Passandoci sopra la mano, avvertì qualcosa di appiccicoso e si guardò le dita. Sangue. Delaney, o come diavolo si chiamava, gli aveva dato una botta in testa con la pistola. Guardò l'orologio: le 9.40. Era rimasto svenuto venti minuti. Cercò il cellulare, ma non lo trovò. Aprì la portiera e arrivò barcollando fino alla cabina del telefono fuori dal supermercato. Inserì nella fessura alcune monete e chiamò Anderson. «Dove sei?» gli chiese Anderson. «Georgetown Plaza. Mi hanno messo ko, mi hanno portato qui con il mio pick-up e se ne sono andati. Tu, tutto bene?» «Io sì. Pare che avessero tre squadre. Una è arrivata al loft prima di me e ha preso i dischetti. E anche il tuo computer.» «Billy sta bene?» «Sì. L'ho chiamato sul cellulare. Era uscito dall'appartamento subito dopo di te.» «E Vania?» «Ti hanno seguito per tutto il tragitto fino a casa sua. Gli hanno portato via tutto: computer, software e dischetti. Fisicamente, comunque, lui sta bene. Quando hanno saccheggiato la casa stava portando la bambina a scuola.» «E adesso dov'è?» «Ha fatto fagotto ed è partito in barca a vela.» «Stai scherzando?!»
«No, dico sul serio. Quel tipo dev'essere una specie di maestro zen. Ha detto che tanto non può fare nulla finché l'FBI non gli restituisce le sue cose.» «Tu dove sei?» «In ufficio. Quando hanno finito al loft sono venuti qui.» «Hanno preso i computer?» «I computer. Tutti i dischetti. Hanno rovistato tra i file, ma a quanto pare non hanno trovato niente di interessante. Volevano portare via anche il palmare di Kim, ma, sostanzialmente, lei li ha mandati affanculo. Così gli hanno dato appena un'occhiata e poi hanno lasciato perdere.» «Non posso biasimarli» commentò Clevenger e, malgrado tutto riuscì a sorridere, cosa che gli provocò una fitta di dolore dalla base del cranio alla fronte. Chiuse gli occhi. «Ci sei?» «Ci sono, ci sono.» «Riesci a guidare oppure devo venire a prenderti?» «Ce la faccio. Bisogna che rintracci Coady: lui doveva sapere che sarebbe successa una cosa del genere. Poi devo andare da Kyle Snow alla prigione.» «Io mi occuperò della faccenda dei consiglieri di amministrazione.» «Vediamoci in ufficio. All'una ti va bene?» «Sì, a dopo.» Il sergente alla guardiola della centrale di polizia di Boston accompagnò Clevenger nell'ufficio di Coady e scomparve quando Coady si alzò in piedi dietro una scrivania di metallo grigio stracolma di faldoni. Clevenger lo raggiunse. La testa gli pulsava e gli occhi gli dolevano ogni volta che li muoveva. «Tu sapevi che sarebbe successo?» Si aggrappò al bordo della scrivania per tenersi in piedi. «Io lo sapevo?» «Mi hai tirato dentro per levarmi di torno? Avevi paura che Theresa Snow mi assumesse per lavorare seriamente al caso?» Coady non gli rispose. «Ti paga qualcuno?» gli chiese Clevenger forzando la situazione. «Coroway?» Coady si inalberò. «Passi troppo tempo insieme ai pazzi.» «Quand'è che ti sei venduto all'FBI?» Il collo di Coady si fece paonazzo. «Sono stato onesto con te fin dall'ini-
zio...» «Vorresti vendermi di nuovo la teoria del doppio suicidio? O magari ti accontenti dell'omicidio-suicidio?» «Non sto cercando di venderti un bel niente. E, poi, che cosa stai combinando? Guarda che mi hai messo nei casini.» «Come no. Ho sabotato la tua bella indagine.» «Non sono io quello con gli agganci a Washington» sbottò Coady, furente. «Di che diavolo stai parlando?» «Sai esattamente di che cosa sto...» e si bloccò, guardando la porta. Clevenger si voltò e rimase senza parole. Sulla soglia c'era Whitney McCormick, la psichiatra legale dell'FBI, la donna che aveva rischiato tutto insieme a lui per catturare il Killer dell'Autostrada, alias Jonah Wrens. La donna che ancora popolava i suoi sogni. Coady le passò accanto e uscì, richiudendosi la porta alle spalle. «Ho chiesto a North dove avrei potuto trovarti» disse Whitney McCormick con voce garbata. «Gli ho fatto promettere di non dirtelo.» «E lui non me l'ha detto.» Clevenger non riusciva a distogliere lo sguardo da lei. Aveva trentasei anni, era snella, con lunghi capelli biondi e lisci e occhi color castano scuro. Chiunque l'avrebbe descritta come carina, ma per Clevenger era qualcosa di più che semplicemente bella: era una chiave per aprire qualcosa dentro di lui. Vide che portava lo stesso rossetto rosa pallido che aveva quando si erano incontrati per la prima volta, un anno prima, e si ricordò di quanto fosse rimasto stupito, quando quel giorno lei, senza perdere un briciolo della propria femminilità, lo aveva ragguagliato sulle carneficine perpetrate da Wrens durante le sue scorribande per il paese. «Lavoro di nuovo per l'FBI,» gli comunicò «dal mese scorso.» Whitney McCormick aveva rassegnato le dimissioni da capo del dipartimento di psichiatria legale perché il suo diretto supervisore, un uomo di nome Kane Warner, direttore dell'Unità di scienze comportamentali dell'FBI, aveva scoperto che lei e Clevenger erano diventati amanti durante la caccia a Wrens. «Con lo stesso incarico?» le chiese Clevenger. Lei scosse la testa. «Ho preso il posto di Kane.» «Non ho parole.» Clevenger si chiese se il padre della donna, un ex senatore, avesse qualcosa a che vedere con il fatto che la figlia aveva preso il posto dell'uomo che l'aveva costretta a dimettersi. «Tra i compiti del tuo
nuovo incarico c'è anche quello di concedermi un po' di terapia dopo che mi sono beccato un calcio di pistola sulla testa per aver svolto il mio lavoro?» «Non sono qui in missione» disse lei. Clevenger annuì. Sarebbe stato così semplice andare da lei, prenderla tra le braccia e baciarla! Provava un'attrazione magnetica per quella donna. Perché lei lo calmava. Il suo battito cardiaco rallentava, in sua presenza. L'ansia per il mondo e il posto che occupava in esso scomparivano. Pensò a John Money, il suo vecchio professore, e alla sua teoria della "mappa dell'amore". Forse Whitney McCormick era la sua. Ma neppure una "mappa dell'amore" consente di superare d'incanto tutti gli ostacoli. C'era il fatto che Whitney McCormick era talmente legata a suo padre che non avrebbe potuto esserci spazio per una relazione davvero intima con un altro uomo. C'era il fatto che lei era tornata a lavorare in un'istituzione con cui Clevenger si era scontrato più di una volta. E, soprattutto, c'era il fatto che Clevenger si era impegnato a fare da padre a Billy Bishop e questo gli lasciava poco spazio per una storia d'amore. «E allora come mai sei qui?» le chiese. «Per renderti le cose più facili.» «E come?» «Innanzitutto cercando di farti dimenticare quei dischetti.» «Pensavo che tu non fossi qui in missione.» «Sono qui perché lo voglio» sottolineò lei. «Non mi ha mandata nessuno. Ma tu dovresti sapere bene che quei dischetti sono stati confiscati perché hanno a che fare con la sicurezza nazionale. Non c'è nulla di personale.» «È difficile considerare una botta in testa come qualcosa di non personale.» Lei sorrise. «Sto cercando di dirti che nessuno vuole impedirti di trovare l'assassino di John Snow. Non era questo lo scopo della nostra missione, che mirava a evitare una fuga di notizie.» «Hanno eliminato i dischetti dai reperti, qui alla centrale?» «Quei dischetti non esistono. E tu non li vedrai né li sentirai nominare mai più» disse Whitney. «Né quelli, né il diario.» Clevenger aveva lasciato la sua copia del diario accanto al computer. Sicuramente l'FBI se l'era portata via. «Che c'entri tu in questo caso?» chiese poi. «Un'indagine per omicidio a Boston di solito non arriva fino all'Unità di scienze comportamentali di Quantico.»
«Io non c'entro nulla. Ma mio padre sì.» «Ah...» Prima di diventare senatore, McCormick aveva lavorato nell'intelligence. Evidentemente, ne faceva ancora parte. «Perché non ne sono sorpreso?» chiese Clevenger. «Non cominciare! Non c'è bisogno che giochi allo psicanalista con me.» «E se avessi bisogno di quei dischetti per risolvere il mio caso di omicidio?» «Frank, stiamo parlando di tecnologia missilistica. Di dati criptati. Equazioni matematiche. Che differenza farebbe se tu li vedessi?» «Non lo so. Ed è questo che mi preoccupa.» «E allora preoccupati» disse Whitney McCormick. «Ma datti una mossa.» «Altrimenti?» «Meglio non essere parte del problema quando si tratta di sicurezza nazionale. Non di questi tempi.» Era un avvertimento molto chiaro. «E nessuno ti ha detto di dirmi queste cose?» «No. Ti sei già preso una botta in testa. Voglio evitare che tu finisca contro un muro di mattoni.» «Ho afferrato il messaggio.» Sembrava sinceramente preoccupata che lui ignorasse il suo consiglio. «Ho capito» disse Clevenger. «Okay?» Lei annuì. «Allora, che mi dici: stasera ci sei? Potremmo vederci per cena.» «Se ti va, io ci sono.» «Alle nove. Prima voglio essere sicuro che Billy sia tornato a casa.» «Rientra alle nove, adesso?» «Quasi mai. Ma io ci spero sempre.» «Buon per te... e per lui.» «Dove passo a prenderti?» «Sono al Four Seasons.» Clevenger sorrise di quella coincidenza. «Che c'è?» «Niente. Prenoto all'Aujourd'hui.» Rimasero in silenzio per parecchi secondi. Poi Whitney fece qualche passo verso di lui, fermandosi a mezzo metro di distanza. «Ci vediamo dopo» disse. Non c'era bisogno che aggiungesse altro. Il suo profumo faceva parte
della combinazione che li teneva uniti. Lui l'attirò a sé. Clevenger trovò Coady che si versava una tazza di caffè fuori dalla stanza degli interrogatori. «Mi dispiace per quello che ti ho detto nel tuo ufficio» gli disse. «Mi sa che siamo stati presi entrambi dentro un ingranaggio su cui non abbiamo alcun controllo.» «Questo è ancora da vedere» disse Coady versando nella tazza tre bustine di dolcificante. «Vale a dire?» Coady si appoggiò al bancone in formica crepata. «Quegli stronzi dell'FBI!» disse. «Qui dentro fanno quello che vogliono da troppo tempo. Non posso credere che la cosa vada avanti ancora.» «E che cosa pensi di fare?» «Sicuramente non mi faccio da parte.» Si guardò intorno, per controllare che nessuno li stesse ascoltando. «Ci sono un paio di cosette che dovresti sapere.» «Spara.» «Kyle Snow è stato visto in centro a Boston alle tre e dieci del mattino in cui hanno sparato a suo padre. Stava comprando dieci pasticche di un oppiaceo come l'Oxycontin dal suo spacciatore.» «E tu come lo sai?» «Quando l'ho minacciato di lasciarlo in galera a scontare il resto della libertà provvisoria, Kyle ha cantato. E così sono andato a beccare lo spacciatore, un universitario, un piccolo infame. Mi ha detto che cos'ha venduto a Kyle e quando.» «Come fai a sapere che dice la verità?» «Gli ha venduto la roba allo Store 24 sull'angolo tra la Chestnut e la Charles. Sul nastro della videosorveglianza si vede Kyle che compra un sandwich e un cartone di latte dopo aver concluso l'affare.» «Ma c'è davvero qualcuno che riesce a mangiare quei sandwich?» «Be', la gente li compra, ma non so se abbia il coraggio di mangiarli.» «E così si trovava più o meno a quattro isolati dal luogo della sparatoria, circa un'ora e mezza prima che accadesse» disse Clevenger. Coady annuì. «Seconda cosa: alla fine della giornata voglio convocare George Reese per interrogarlo. Senza alcun preavviso. Così gli facciamo capire che non scherziamo, a quelli. Lo ammanetto e lo trascino qui dentro. Tu ci sei?» Questo atteggiamento di Coady era una novità. A volte bisogna mettere
una persona con le spalle al muro per scoprire com'è veramente. «Certo, lo sai» rispose Clevenger. «I federali vengono qui da Washington e mi portano via le prove del caso? Senza preavviso? Senza alcun rispetto? Se gli permetterò di farlo un'altra volta, molto presto non avrò più rispetto per me stesso.» «Mi preoccupi.» «Perché?» «Stiamo cominciando a pensarla allo stesso modo.» 14 Kyle Snow era un sedicenne dal fisico asciutto e dai lineamenti delicati, quasi femminili, con i capelli piuttosto lunghi che lui scostava in continuazione dagli occhi grigio-azzurri. Non riusciva a star fermo. Indossava la tuta arancione del carcere. Seduto a un tavolo davanti a Clevenger, continuava a battere ritmicamente il tallone sul pavimento. Aveva le pupille dilatate. Goccioline di sudore gli imperlavano la fronte. Aveva bisogno di una dose. «Sì, gliel'ho portata io» disse rispondendo alla domanda di Clevenger sulla consegna della lettera di addio di Grace Baxter a suo marito, George Reese. «E allora?» «E lui l'ha letta?» «Certo.» «E come ha reagito?» «Mi ha detto "grazie", tranquillissimo. Non si è mica arrabbiato, o roba del genere. Se proprio vuole saperlo, secondo me era a conoscenza del fatto che lei aveva una storia. E forse ne aveva una anche lui.» «Ti ha chiesto qualcosa?» «Solo come l'avevo avuta.» «E tu gliel'hai detto?» «No.» «Perché gliel'hai portata?» «Non lo so.» «Eri arrabbiato per la storia di tuo padre con Grace Baxter?» Kyle si mise a battere il piede. Lanciò un'occhiata verso la porta della stanza degli interrogatori. «Quando arriva il metadone?» «Ci vogliono ancora un paio di minuti» rispose Clevenger. Poi fece una piccola pausa. «Eri arrabbiato con tuo padre?»
«Non particolarmente.» Clevenger decise di cambiare rotta. «Fino a non molto tempo fa, tu e tuo padre non avevate un gran bel rapporto.» «Lui mi odiava» disse Kyle, impassibile. «È un rapporto anche questo.» Clevenger lo sapeva benissimo, visto il padre che lui stesso aveva avuto. «E tu lo odiavi?» Kyle sorrise. «Fantasticavo di ucciderlo. Va bene come risposta?» «Ucciderlo in che modo?» «Sparandogli.» Sorrise, scuotendo la testa. «Strano come le cose vanno a finire, poi.» Clevenger rimase in silenzio. Kyle si asciugò la fronte. «Non ce la faccio più.» Clevenger si alzò e andò alla porta. L'aprì e fece un cenno al secondino seduto nel corridoio esterno. Il secondino si alzò e lo raggiunse. «Che ne è del metadone?» si informò Clevenger. «Dovrebbe essere già qui, dottore» rispose l'uomo. «Proverò a chiamare di nuovo l'infermeria.» Clevenger rientrò nella stanza e si sedette davanti a Kyle. «Ti hanno visto nelle vicinanze del Massachusetts General Hospital, verso l'ora in cui tuo padre è stato ucciso.» «Peccato non averlo saputo. Avrei potuto assistere.» Clevenger lo guardò negli occhi e gli credette. Forse Kyle Snow aveva visto sparare a suo padre, forse no. Ma certamente gli sarebbe piaciuto. «Sai qualcosa del progetto a cui stava lavorando quando è morto?» gli chiese. «Non so di che cosa si trattasse. So che gli ha creato un sacco di casini fino a un mese fa o giù di lì.» «Come fai a saperlo?» «Quando le cose non filavano, mio padre si innervosiva tantissimo. Rimaneva sveglio tutta la notte, camminava per la casa, girava per il quartiere. Stronzate del genere. Poi, a un certo punto, tutto ha cominciato a girare per il verso giusto. Come se ci fosse stato un importante passo avanti, o roba così. Lo si capiva da come lui camminava: con il passo più leggero. E dalla fronte. Poteva tenerla aggrottata per mesi, come se stesse cercando di leggere qualcosa stampato in caratteri troppo piccoli. Ma poi, quando terminava un progetto, si rilassava. E così è successo anche stavolta.» «Riuscivi a leggere in lui molto bene» osservò Clevenger.
«In tutti gli anni in cui mio padre non mi ha parlato, in cui non mi ha degnato neanche di uno sguardo, io lo osservavo, cercando di immaginare quello cui stava pensando o che cosa ci fosse che non andava. Che stupido!» «Perché?» «Perché non è servito a niente. Io stavo cercando il modo di avvicinarmi a lui. Ma non c'era. Non per me, comunque.» «E Lindsey?» chiese Clevenger. «Lindsey cosa?» «Anche lei provava le stesse sensazioni nei confronti di tuo padre?» «Ehi, lei lo adorava e lui adorava lei. Finché non è saltata fuori 'sta storia.» «La relazione.» «La storia non è tutta qui. Mio padre era diverso. Più umano. Si era messo con Grace Baxter, e questa è una parte della storia; e, all'improvviso, aveva cominciato ad andare d'accordo con me, e questa è un'altra parte della storia. E, comportandosi più da essere umano, gli è capitato di avere problemi con mia sorella. Tipo la faccenda che lei stava fuori la notte con i ragazzi. Lui ha provato a imporsi, mentre prima non si accorgeva se lei tornava alle quattro o alle cinque del mattino. E, creda a me, a lei la cosa non è piaciuta proprio per niente.» «Perché non voleva che tu ti riavvicinassi a tuo padre?» «Senta, non sono uno stupido. Lei odiava il fatto che mio padre prestasse attenzione a me. Per tutti gli anni in cui lui non mi ha dedicato neanche un minuto, lei l'ha avuto tutto per sé.» Kyle si agitò nervosamente sulla sedia. «Se vuol sapere la verità, in un certo senso sono qui perché lei mi ha incastrato.» A Clevenger sembrò un buon punto su cui far leva. «Mandandoti a consegnare la lettera nell'ufficio di George Reese?» Kyle annuì. «Mio padre ha sicuramente scoperto che ero stato io. Il che probabilmente spiega perché nelle ultime due settimane non mi ha rivolto la parola.» «E ti è dispiaciuto?» gli chiese Clevenger. «Ci sono abituato» rispose Kyle. Ma dalla sua voce si capiva chiaramente che nel profondo, sotto i residui dell'Oxycontin, soffriva. Bussarono alla porta. Un infermiere l'aprì ed entrò. Aveva in mano un bicchierino di carta pieno di un liquido chiaro: il metadone di Snow. Si avvicinò al ragazzo e glielo porse.
Kyle lo trangugiò in fretta e gli restituì il bicchierino. «Grazie.» Clevenger aspettò che l'infermiere fosse uscito. «Penso che ti abbia ferito il fatto di essere nuovamente ignorato da tuo padre, dopo che finalmente eri riuscito a ristabilire un rapporto con lui.» «Non ho mai creduto fino in fondo che lui fosse cambiato» disse in tono poco convincente. «No?» «Voglio dire, uno prima si augura che tu non sia mai nato e poi, all'improvviso, vuole essere il tuo migliore amico? Io non ci credo. Lui stava cavalcando un'onda, ecco tutto. Era al settimo cielo per via di Grace. E così ha semplicemente distribuito in giro un po' di felicità. Ma io non c'entravo. C'entravano lui e lei.» «Sapevi del ritratto in salotto?» «Me l'ha detto Lindsey quando l'ha scoperto. La cosa l'ha sconvolta.» «E tu come l'hai presa?» «Ho pensato che fosse una figata.» «Una figata?» «Lei ancora non capisce. Mio padre non è mai stato altro che una macchina. Un computer. Dati in uscita, dati in entrata. Il matrimonio dei miei era tutto una finzione. Non so come ci sia riuscita, ma Grace Baxter l'ha riportato alla vita. Mio padre sarebbe andato in giro con quel ritratto addosso, se lei gliel'avesse chiesto.» Clevenger fissò Kyle per parecchi secondi. «Veniamo al punto» disse infine. «Sei contento che tuo padre sia morto?» Kyle non rispose. Clevenger attese. «Credo che lui mi manchi» rispose, alla fine. «Ma è tutta la vita che mi manca. In realtà il fatto che sia morto migliora la situazione.» «In che modo?» «Lui non mi trascurerà più.» Kyle Snow stava fornendo a Clevenger un movente psicologico per l'omicidio. L'uccisione del padre avrebbe cancellato dalla sua vita l'uomo la cui presenza era per lui un costante ricordo del suo essere "guasto" e non amato. Forse il dolore del riavvicinamento del padre seguito da un nuovo allontanamento era stato troppo forte da sopportare. Forse era bastato a fargli perdere il controllo. Ma Kyle sembrava profondamente consapevole dei propri sentimenti - e anche dolorosamente onesto riguardo a essi - tanto da far escludere che fosse ricorso all'omicidio. E l'Oxycontin significava
che lui aveva nella droga un sistema affidabile per soffocare la sua rabbia. «Pensi che tuo papà si sia ucciso?» gli chiese Clevenger. «Può darsi che sia stato lui a sparare. Ma è un fatto irrilevante.» «Che cosa vuoi dire?» «Anche se è stato lui a premere il grilletto, l'abbiamo ucciso noi. Lindsey, io, il suo socio Collin.» Sorrise. «Ha conosciuto Collin?» «Sì» rispose Clevenger. «Bel tipo. Lo sa che ha detto a Lindsey che Grace e mio padre erano amanti?» «Sì.» «Bene, vedo che sta facendo il suo dovere. Adesso le dico come la vedo io. Lui è tornato in vita per un po' mentre stava con Grace e, per la prima volta, ha cominciato a respirare, come se fosse rinato, e noi gli abbiamo tagliato la riserva d'aria, l'abbiamo soffocato.» «L'avete spinto a suicidarsi.» «Esatto. Ecco perché ho detto quel che ho detto sul fatto che questa storia è proprio strana. Io avrei voluto sparargli, ma non ce n'è stato bisogno.» Clevenger annuì. C'era un tema costante. Collin Coroway, Lindsey e Kyle credevano di aver cospirato per rendere invivibile la vita di John Snow. Forse era stato questo che, alla fine, l'aveva spinto a optare per l'intervento chirurgico. Forse, per un po', lui aveva davvero pensato di poter rinascere nell'amore di Grace Baxter. E quando la sua vita si era chiusa intorno a lui come un cappio, aveva deciso che un bisturi era l'unico modo per liberarsi. Ma rimaneva ancora un interrogativo fondamentale: se Grace Baxter amava John Snow tanto da scrivergli una lettera di addio dopo averlo perduto - se lei era la sua "mappa dell'amore" e lui era quella di lei - perché quell'amore non era bastato a sconfiggere tutto il resto? Perché la loro relazione era terminata nel momento stesso in cui era stata scoperta? Mancava una tessera del puzzle. Clevenger guardò negli occhi Kyle Snow e vi vide il proprio riflesso. E per quanto sapesse di essere lì per svolgere un'indagine su due persone morte e si rendesse conto che Kyle era un sospettato, e non un paziente, non poté fare a meno di vedere tutto il dolore che pervadeva il suo mondo. Se lo sentiva nelle viscere. Era il suo dono naturale e, al tempo stesso, la sua croce. Lui era permeabile al dolore altrui. Era la cosa che un tempo l'aveva spinto a bere, a drogarsi e a giocare d'azzardo fino allo stordimento. Ed era la cosa che lo manteneva seduto su quella sedia, in quel momento.
Perché lui aveva già tutto ciò che avrebbe ricevuto da Kyle Snow. E adesso sentiva il bisogno di restituirgli qualcosa. «Pensi che il fatto che tuo padre sia morto ti farà sentire meglio? È così?» gli chiese Clevenger. «Decisamente.» «Be', ti sbagli.» «L'unica persona che si sia mai occupata di me è stata mia madre. Adesso sono figlio di una vedova. Mi sento già meglio.» «Può darsi, per una settimana. Magari per due. Ma la verità è che l'eliminazione di tuo padre dalla faccia della terra non cambia il fatto che lui è sempre dentro di te.» «Non mi sono mai piaciute 'ste stronzate new age.» «Ed è proprio per questo che prendi l'Oxycontin: ti serve per nutrire la parte di te che è tuo padre, la parte che pensa che tu non vali niente, che non saresti neppure dovuto nascere.» «C'è un sacco di quella roba, là fuori.» Clevenger sorrise tra sé e sé. Una volta anche lui la pensava così, e cioè che non avrebbe avuto problemi finché avesse avuto a disposizione alcol e cocaina. «Tutto l'Oxycontin del mondo non basterebbe a eliminare quella sensazione. Non a lungo termine. L'unico modo per riuscirci è quello di pensare per te stesso e di provare sensazioni tue.» Kyle alzò gli occhi al cielo e distolse lo sguardo. «Mio padre usava una cintura per convincermi che non avrei dovuto essere vivo. Penso che, in realtà, una cosa del genere fosse più facile da affrontare di quanto non lo sarebbe stato l'essere ignorato. Perché quando ti ignorano cominci a chiederti se esisti davvero. Lo so. I lividi da soli...» Al ricordo, Clevenger chiuse gli occhi. Quando li riaprì, Kyle lo stava guardando. «Allora, in che cosa sei bravo?» chiese Clevenger al ragazzo. «Perché sei a questo mondo?» «Sono molto bravo a farmi arrestare. Questo lo so di sicuro.» Clevenger continuò a fissarlo. Per dieci, quindici secondi. "Su," disse tra sé e sé "lascia perdere, ormai". Altri dieci secondi. Stava per mollare, per smettere, quando alla fine Kyle rispose. «Sono abbastanza bravo a disegnare» disse, e mentre pronunciava queste parole tutta la sua spavalderia da duro evaporò, lasciando il posto all'immagine di un ragazzo molto vulnerabile. Un cerbiatto abbagliato dalla luce dei fari. «Penso di averlo preso da mia madre.» «Che tipo di disegni fai?» «Disegni tecnici, da architetto, tipo quelli che fa la mamma. Sono piutto-
sto bravo. Cioè, credo di esserlo.» «Tua madre lo sa?» «No.» «Forse dovresti dirglielo.» «Già, forse» disse con scarso entusiasmo. Clevenger sapeva che genere di sconvolgimento stava provocando in Kyle Snow quel consiglio. L'amore di suo padre era il premio che lui aveva silenziosamente sognato. Il fatto di cercare attivamente l'affetto di sua madre avrebbe voluto dire che lui aveva perso il padre, una volta per tutte. «Kyle, voglio dirti molto chiaramente una cosa,» disse Clevenger «perché penso che ti ci vorrebbe un centinaio di sedute con uno strizzacervelli per venirne a capo e non credo che ci sia alcuna probabilità che tu le affronti: tuo padre non poteva amare nessuno. Lui venerava la bellezza e la perfezione. Lui venerava la propria mente. Ma non era in gradò di afferrare se stesso nella sua interezza, o chiunque altro, compresa tua sorella. Forse Grace Baxter avrebbe potuto sistemare le cose, forse no. Ma adesso è troppo tardi per saperlo.» Kyle abbassò lo sguardo sul tavolo e si strinse nelle spalle. «E così adesso devi solo amare te stesso» proseguì Clevenger. «Non c'è altra via d'uscita. Devi pensare a tutte le tue qualità, a tutto ciò che puoi donare al mondo che ti circonda. E devi cogliere l'opportunità di farlo. Se ci riesci, non avrai tempo per l'Oxycontin. Perché non avrai più tempo per odiare te stesso.» «Che mi importa?» Clevenger sentì l'impulso di agire da padre sostitutivo e si chiese se ciò dipendesse dal fatto che Kyle aveva realmente bisogno che lui lo facesse. Oppure dipendeva dal fatto che Clevenger avrebbe desiderato che qualcuno facesse la stessa cosa per lui? In ogni caso, non poté trattenersi. «Quando l'indagine sarà conclusa,» disse a Kyle «guarderò con piacere i tuoi disegni. Ho vari amici che hanno studi di architettura. Sono sicuro che sarebbero contenti di scambiare due chiacchiere con te sull'argomento.» «Sempre che lei non mi arresti per omicidio, intende» disse Kyle. Dietro questo commento apparentemente estemporaneo Clevenger colse un interrogativo molto diretto: fino a che punto Clevenger avrebbe impersonato il ruolo di padre di Kyle Snow? Avrebbe consegnato il ragazzo alla polizia se si fosse scoperto che era colpevole? Il che servì a fargli capire quanto fosse importante non fingere che Kyle fosse un suo paziente, e ovviamente neppure suo figlio. Stava correndo lo stesso tipo di pericolo che
aveva corso con Lindsey Snow, ovvero rischiava di perdere se stesso dentro le dinamiche emotive degli Snow. Guardò Kyle negli occhi. «Amico mio, se sarò costretto a farti arrestare per omicidio,» gli disse «avrai tutto il tempo del mondo per fare disegni. Ma io sarò comunque felice di dar loro un'occhiata.» Quando Clevenger uscì, trovò North Anderson ad aspettarlo nell'atrio del carcere. Gli andò incontro. «Coady mi ha detto che saresti venuto qui» disse Anderson. «Ho scoperto qualcosa che devi sapere.» «Che cosa?» volle sapere Clevenger. «Ho cominciato a dare un'occhiata alla composizione dei consigli di amministrazione delle aziende appaltatóri di forniture militari, sperando di trovarci qualcuno che conosco, per aiutarci a investigare sul Vortek. Non ho trovato nessuno di familiare. Poi ho deciso di trattenermi all'ufficio del tesoriere dello stato, tirare fuori la documentazione societaria della SnowCoroway Engineering e di controllare il suo consiglio di amministrazione.» «E cos'hai trovato?» «Nessuna vera sorpresa. Ci sono Coroway, Snow, un venture capitalist della Merrill Lynch e un professore di Harvard, un genio del computer che si chiama Russell Frye. L'unico nome insolito è quello di Byron Fitzpatrick, che è stato segretario di stato sotto Ford. Ma credo che uno come lui sia nel consiglio di amministrazione di duecento società.» «Può essere,» disse Clevenger «però è anche l'amministratore delegato della InterState Commerce, la società cui Coroway ha fatto visita a Washington, ieri.» «Allora i tasselli cominciano a incastrarsi. Infatti, subito dopo sono passato da un mio amico all'ufficio del fisco del Massachusetts e gli ho fatto esaminare le dichiarazioni dei redditi della Snow-Coroway degli ultimi cinque anni. Indovina chi ha comprato il dieci per cento della società, nel 2002?» «Sono uno psichiatra, non un medium.» «La Beacon Street Bank.» L'impatto della notizia fece arretrare Clevenger di un passo. «Ha sborsato venticinque milioni di dollari per il dieci per cento della società.»
Clevenger si ricordò che Collin Coroway gli aveva detto che venticinque milioni erano l'ammontare del finanziamento per la ricerca e lo sviluppo originariamente destinato al Vortek. Si trattava solo di una coincidenza? «Immagino, perciò, che Reese e la Beacon Street avessero un chiaro interesse a che il Vortek arrivasse sul mercato» osservò Anderson. «E quindi Snow gli serviva vivo» ne dedusse Clevenger. «Almeno fino a Vortek ultimato. A questo punto, conviene che io vada a Washington e faccia un giro all'ufficio brevetti. Ho chiesto informazioni a un paio di avvocati specializzati in materia: il contenuto vero e proprio del brevetto di qualsiasi missile sarebbe coperto da segreto. Ma Snow e Coroway dovrebbero comunque risultare almeno agli atti, se hanno richiesto il brevetto.» «Stai molto attento. Dobbiamo andare con i piedi di piombo.» «Ehi, quello t'è spuntato dopo la botta dei federali?» Clevenger si toccò il bernoccolo sulla nuca. «Sì, e Whitney McCormick è intervenuta per raffreddare i miei bollenti spiriti. È tornata a lavorare con l'FBI.» Sul volto di Anderson comparve un ampio sorriso. «Potevi aspettare ancora un po' a dirmelo!» «Era alla centrale di polizia, quando sono andato da Coady.» «Questa sì che è una svolta nel caso. Nel tuo caso, intendo dire. È stato abbastanza difficile dirle addio una volta. Potrebbe essere tornata per restare, amico mio.» «Ha altre cose in programma.» «Forse. Ma penso che sia tu quello che deve stare attento» disse Anderson. «Non smettere mai di ricordarmelo.» Clevenger telefonò a Kim Moffett alla Boston Forensics. «Sono andata a noleggiare tre computer» disse lei. «Ho pagato con il libretto degli assegni della società. Spero che non ti dispiaccia.» «Cambierebbe qualcosa se mi dispiacesse?» «Ho pensato che quei tizi si sarebbero tenuti i nostri computer per un po'.» «Hai pensato bene.» «Posso chiederti una cosa?» «Sono tutto orecchie.» «Frugheranno nei nostri file e nelle nostre e-mail personali?»
«Sì, se hanno un mandato di perquisizione» rispose Clevenger. «E probabilmente anche se non ce l'hanno. Perché?» «No, così.» «Avanti, Kim.» «È solo che dentro c'era la mia inserzione sul sito per cuori solitari "Match.com", insieme a tutte le risposte.» «E allora?» «È roba privata. È imbarazzante.» «Saranno discreti. Ma forse è meglio che in futuro ti occupi di questo genere di faccende nel tempo libero» osservò Clevenger. «La settimana scorsa mi hai chiesto un aumento perché il carico di lavoro è tanto aumentato...» «Non ricevo molte risposte alla mia inserzione. E poi ci vogliono due secondi per leggerle.» «Sono sicuro che sei sommersa di proposte. E poi stavo solo scherzando.» «Con te non si può mai dire, visto che il tuo tono di voce non cambia.» «Tirocinio psichiatrico. Hai ricevuto qualche messaggio per me?» «Soltanto uno di Billy.» «Mi ha lasciato un messaggio in ufficio?» si stupì Clevenger. «Ha detto che ha provato a chiamarti sul cellulare, ma che non rispondevi.» «Che cosa voleva?» «È venuto via dalla scuola per raggiungere di nuovo Heller in sala operatoria.» «Cosa?» «Credo che non volesse dirtelo direttamente, cioè... direttamente al telefono. È per questo che ha chiamato qui.» «Ha detto qualcos'altro?» «Solo che è un'operazione davvero importante, per cui sapeva che tu non avresti avuto niente in contrario. Ha detto che potrebbe impegnarlo tutta la giornata, fino a metà sera.» «Ah, davvero?» «Gli ho detto che mi sembrava un po' strano» disse Kim Moffett. «Senza l'autorizzazione di papà...» «Heller ha chiamato per sapere se questa faccenda mi andava bene?» «No. Forse ha provato sul tuo cellulare.» «Adesso controllo. C'è altro?»
«John Haggerty ha un caso per te. Un'accusa di infermità mentale. Vuole farti avere il dossier.» «Digli che lo mandi pure, ma che passerà un po' di tempo prima che io possa iniziare a lavorarci.» «Glielo dirò.» Dopo aver chiuso la telefonata, Clevenger controllò la segreteria del cellulare. C'era un messaggio di Mike Coady con l'invito a richiamarlo, ma nessun messaggio di Heller. Era chiaro che Clevenger doveva mettere dei limiti ben precisi alla presenza di Billy al Massachusetts General Hospital. Fece il numero di Coady e se lo fece passare. «Che succede?» gli chiese. «Ho beccato George Reese appena in tempo.» Clevenger guardò l'orologio: le 13.20. «Perché?» «Se n'era andato all'aeroporto. L'ho fatto pedinare fino al terminal delle partenze internazionali. Aveva un biglietto per Madrid.» «Una vacanzina per riprendersi dalla perdita di Grace.» «Biglietto di sola andata.» «Forse non gli piace essere vincolato a un determinato volo di ritorno.» «Be', adesso è vincolato per benino. Almeno per il momento. Si è fatto raggiungere da Jack LeGrand.» LeGrand era il re dei penalisti del New England, un avvocato che in ogni causa combatteva come un gladiatore e che poteva vantare molte più vittorie che sconfitte. Qualche anno prima Clevenger aveva lavorato con lui in un paio di casi. «Saluta Jack da parte mia.» «Mi piacerebbe che tu venissi qui prima possibile. Non so per quanto posso trattenere Reese senza incriminarlo. E non sono ancora pronto a farlo.» «In meno di un'ora sono da te» assicurò Clevenger. «A dopo.» Sulla Storrow Drive Clevenger prese l'uscita di Back Bay e si diresse al Massachusetts General Hospital. Voleva almeno essere sicuro che Billy gli avesse detto la verità sul motivo per cui aveva saltato la scuola. Lasciò il pick-up nel posteggio coperto dell'ospedale e raggiunse la sala operatoria. Al banco dell'accettazione una donna paffuta con le guance rubizze gli confermò che Heller stava eseguendo un intervento e che era assistito da un ragazzo. «Sono il padre di quel ragazzo» disse Clevenger. «Sa di che cosa si tratta?» «Aneurisma dell'arteria basilare» rispose. «Sono dentro da tre ore e ce ne
vorranno come minimo altre cinque.» L'arteria basilare corre lungo la base del cervello. Fa parte del circolo di Willis, la principale rete di vasi che irrora la corteccia cervicale. Intervenire chiurgicamente su un aneurisma in quel punto presenta notevoli rischi. «La paziente ha nove anni» lo informò la donna. Clevenger ebbe un tuffo al cuore. «Nove anni.» La tragedia di una bambina che affrontava un intervento di neurochirurgia di oltre otto ore gli fece capire quanto fossero imparziali ed estremamente ingiuste le malattie. Si preoccupò di come avrebbe reagito Billy se l'operazione non fosse andata a buon fine. «È in ottime mani» assicurò la donna. «Il dottor Heller fa l'impossibile per i suoi pazienti. Sa, per lui è sempre un fatto personale, un qualcosa che si porta dietro anche a casa.» «L'ho sentito dire» ribatté Clevenger. Era difficile concentrarsi sulle doti chirurgiche di Heller quando le sue doti sociali erano quantomeno discutibili. Non aveva avuto nemmeno la compiacenza di informare Clevenger che avrebbe nuovamente ospitato Billy al Massachusetts General Hospital. Clevenger pensò di far chiamare Billy fuori dalla sala operatoria e di portarlo subito a casa per fargli capire che non poteva prendere da solo la decisione di mollare la scuola per giocare al dottore. «Potrebbe dire al ragazzo che sono passato di qui per assicurarmi che tutto fosse a posto?» si limitò invece a chiedere. «Se vuole fermarsi, è il benvenuto. Penso che tra un po' dovrà prendersi una pausa.» «Io non ci scommetterei» disse Clevenger. 15 Clevenger arrivò alla centrale di polizia un po' prima delle 14.00. Coady voleva vederlo nel suo ufficio prima di interrogare George Reese. «Ha chiamato Jeremiah Wolfe» disse l'investigatore. «Ha analizzato il dna del feto che Grace Baxter portava in grembo.» Si sedette alla sua scrivania. «Era figlio di John Snow. Un maschietto.» A quella notizia Clevenger ripensò di nuovo all'ipotesi secondo cui Grace Baxter avrebbe potuto essere tanto furiosa con Snow, che l'aveva lasciata, da voler eliminare ogni traccia di quell'uomo, compreso il sangue avvelenato che le scorreva nel corpo. «Va bene» disse. «C'è altro?» Coady scosse la testa in segno di diniego. «Vuoi interrogare tu Reese,
oppure vuoi che lo faccia io, mentre tu assisti da dietro il vetro-specchio? Decidi tu.» «Penso che otterremo maggiori risultati se lo faremo innervosire» disse Clevenger. «O è davvero pieno di rancore nei miei confronti, oppure vuole dare l'impressione di esserlo. Magari farà fatica a non contraddirsi.» «Magari dovresti pensare alla scorta che ti ho offerto, quando ti ho avvertito di stare in guardia. Tra i federali e Reese...» «Ne riparleremo.» «Quando?» gli chiese Coady. «Dopo.» «Frank, non è uno scherzo.» «Mi vedi ridere, forse?» Coady scosse la testa in segno di disapprovazione. «Kyle Snow è tornato a casa. Sua madre ha pagato la cauzione. Cento bigliettoni da mille. Bazzecole, per gente del genere.» «Che cosa pensi del ragazzo?» «Che sicuramente odiava il suo vecchio.» «Anch'io odiavo il mio. Però non gli ho sparato.» «Perché no?» «Bella domanda» ammise Clevenger. Più di una volta aveva immaginato di strangolare il padre con la stessa cintura con cui lui lo picchiava. «Mio padre non aveva una pistola.» Coady sogghignò. «A volte l'occasione aguzza l'ingegno» osservò. «La verità è che se tu tratti un ragazzino nel modo in cui Snow aveva trattato suo figlio non devi tenere un'arma in casa.» «Non sono pronto a togliere Kyle dalla lista dei sospettati» disse Clevenger. «E Lindsey?» «Anche lei, come suo fratello, aveva accesso a quella pistola. Anche lei, come suo fratello, sapeva della relazione del padre. E tutto il suo mondo stava cambiando proprio perché Snow stava cambiando.» «Per cui anche lei è tra i sospettati» disse Coady. «E la moglie?» «Idem. Snow era il cardine di questa famiglia. Via lui, la famiglia crolla. E lo sapevano tutti, perlomeno inconsciamente.» «Come ho già avuto modo di dirti, compilare una lista di sospettati in un caso come questo è facile. Il difficile è ridurre l'elenco dei nomi.» «È vero» assentì Clevenger. «Comunque sono contento che Reese sia qui. È l'unico della lista che era coperto di sangue, quando l'ho visto.»
Clevenger aprì la porta della stanza degli interrogatori ed entrò. Reese, che indossava un gessato grigio, una camicia bianca con i gemelli e una cravatta bordeaux, si alzò dal lungo tavolo di legno a cui era seduto insieme all'avvocato Jack LeGrand. «Lei che diavolo ci fa, qui?» chiese a Clevenger. «Io lavoro con la polizia, si ricorda?» rispose Clevenger. «Ho qualche domanda da farle.» «Lei ha domande da fare a me?» «Si sieda» gli disse Clevenger. Reese rimase in piedi. LeGrand gli posò una mano sul braccio e lo indusse gentilmente a sedersi. L'avvocato era un uomo di circa cinquant'anni, con i capelli ondulati color ruggine, le labbra piene, le ciglia lunghe e gli occhi color castano scuro, quasi nero. Aveva l'aria di un lupo pensoso vestito con un abito di Armani da duemila dollari. «Piacere di vederla, Frank» disse con una voce gutturale che in aula poteva farsi subito tonante. Clevenger lo salutò con un cenno del capo e si avvicinò al tavolo. Prese una sedia e si sedette. «Le hanno letto i suoi diritti?» chiese a Reese. «Dovrebbero leggerle i suoi» rispose lui impassibile. «Non è in arresto» intervenne LeGrand. «È qui di sua spontanea volontà.» «Allora, veniamo subito al punto» disse Clevenger e guardò Reese. «Quando ha scoperto che sua moglie aveva una relazione con John Snow?» Reese gli restituì lo sguardo, imperturbato. «È una domanda a cui il mio cliente non vuole rispondere» intervenne di nuovo LeGrand. «Sono sicuro che lei capirà.» «Io, invece, non sono affatto sicuro di riuscirci» ribatté Clevenger, anche se sapeva benissimo perché LeGrand avesse istruito il suo cliente a non rispondere. Non avrebbe avuto nulla da guadagnare facendo mettere a verbale le sue dichiarazioni. L'unica ragione per cui LeGrand aveva concesso quell'interrogatorio era sostanzialmente capire quale direzione stessero prendendo le indagini della polizia. «Si sta appellando al Quinto Emendamento contro l'autoincriminazione?» chiese poi. «Non ce n'è bisogno» rispose LeGrand. «Il mio cliente non è stato incriminato. Non siamo di fronte al gran giurì. Questo non è un processo. Ha
scelto di non risponderle, ecco tutto. Forse non gli piace il suo tono.» Clevenger guardò di nuovo Reese. «Lei sapeva che loro si vedevano al Four Seasons?» «Splendido hotel» rispose Reese. «Piace anche a me.» «Dove ha trovato la lettera da suicida... la lettera di addio di sua moglie?» gli chiese Clevenger. I muscoli della mascella di Reese si contrassero. «Lei ha un bel coraggio a parlare del suicidio di mia moglie. Se non fosse per lei, a quest'ora Grace sarebbe ancora viva.» Quelle parole toccarono un nervo scoperto di Clevenger, che dovette sforzarsi di non darlo a vedere. «Quante volte Grace l'ha chiamata chiedendo aiuto, quel giorno?» chiese Reese. LeGrand toccò il braccio di Reese. «Anche in questo caso,» disse poi a Clevenger «il mio cliente non ha alcun commento da fare riguardo a quella lettera.» Clevenger ebbe l'impressione che la discussione fosse giunta a un punto morto. Voleva far perdere la calma a Reese e indurlo a chiedersi che cosa la polizia potesse realmente avere in mano su di lui. «Lei ha visto Kyle Snow, giusto?» «No comment» rispose LeGrand per il suo cliente. «Gli ha dato qualcosa, quando l'ha visto?» chiese Clevenger. «Non rispondere» disse LeGrand a Reese. «Si appelli al Quinto Emendamento, allora» disse Clevenger senza mai staccare gli occhi da Reese. «Non ce n'è bisogno» ribadì LeGrand. Clevenger continuava a fissare Reese. «E allora parli. Non ha niente da nascondere, no?» «Prosegua» disse LeGrand. «La sera in cui sua moglie è stata trovata morta, lei ha raccontato al detective Coady di essere stato da un avvocato divorzista» ricordò Clevenger a Reese. «Lei ha detto che era questo il motivo per cui la lettera di addio trovata sul comodino di sua moglie alludeva a un distacco. Da che avvocato era stato?» «No comment» rispose LeGrand per il suo cliente. «Il signore qui presente sostiene di essere stato da un avvocato divorzista» disse Clevenger lanciando un'occhiata a LeGrand. «Venga messo a verbale il nome dell'avvocato, ammesso che lui ci sia mai andato.»
LeGrand sorrise. Clevenger doveva forzare ancor di più la situazione. «Signor Reese, lei sapeva che sua moglie era incinta?» La fronte di Reese si increspò. Un lampo di dolore gli attraversò gli occhi. LeGrand si protese in avanti. «Incinta di tre mesi circa» precisò Clevenger. «Forse è meglio che ci interrompiamo qui» disse LeGrand guardando Reese. Clevenger sapeva di non avere più molto tempo a disposizione. «Quando sua moglie è venuta da me, mi ha detto che il suo matrimonio la faceva sentire prigioniera.» «Lei è un maledetto bugiardo» ribatté Reese. Una reazione che suonava strana da parte di un uomo che considerava il proprio matrimonio prossimo alla fine. «E i braccialetti di diamanti che le ha regalato? Grace mi ha detto che per lei erano come manette.» Reese guardò Clevenger come se volesse allungarsi attraverso il tavolo e strangolarlo. «Abbiamo finito» disse LeGrand a Reese. Reese continuava a fissare Clevenger. «A proposito, il bambino era di John Snow» aggiunse Clevenger. «Abbiamo appena ricevuto il risultato dell'esame del dna.» Reese chiuse gli occhi per un istante. «George, adesso dobbiamo proprio andare» lo sollecitò LeGrand. Clevenger voleva che Reese sapesse anche un'altra cosa. «La sua banca era tra i maggiori investitori nella Snow-Coroway Engineering. Lo sappiamo. Lei è stato davvero così sciocco da presentare sua moglie a John Snow? Quell'uomo era un inventore. Un genio. Sono cose che le donne adorano.» Reese lanciò a Clevenger uno sguardo furibondo. LeGrand si alzò in piedi. «George» disse. «Andiamocene. Subito.» Reese non si mosse. «Lì per lì avrebbe mai pensato che sarebbero diventati amanti? Sa, dicono che a volte capita, che è evidentissimo fin dall'inizio. Qualcuno la chiama "mappa dell'amore". Quando una persona è fatta apposta per l'altra.» «Basta adesso, andiamo via» ribadì LeGrand. Reese strinse i pugni.
«Brutta storia» insisté Clevenger. «Snow si è preso i suoi soldi e poi anche sua moglie. Venticinque milioni e Grace. C'era di che infuriarsi. Voglio dire... che razza di ritorno dell'investimento per lei!» Reese si buttò su Clevenger, attraverso il tavolo, e prima che lui riuscisse a farsi indietro gli agguantò il colletto del giubbotto con la mano sinistra, mentre con la destra gli sferrò un pugno che lo colpì su un labbro e sul mento. Clevenger sentì il sapore del sangue. Fissò Reese, senza cercare di staccarsi da lui. «George, lei ha un temperamento irascibile. Che cosa le aveva detto Grace per farle perdere le staffe? Le aveva detto che amava Snow, che aspettava un figlio da lui?» Reese lo colpì di nuovo, alla fronte. LeGrand cercò di allontanare il suo cliente dal tavolo, ma senza riuscirci. «Grace voleva tenere il bambino?» insistette Clevenger. «Allora era lei quella che voleva andarsene?» Coady irruppe nella stanza e aiutò LeGrand a staccare Reese dal tavolo. Poi lanciò un'occhiata a Clevenger. «Adesso basta» gli disse. «Ci vediamo nel mio ufficio.» Clevenger non si mosse. Reese cercò di divincolarsi per aggredirlo di nuovo, ma Coady e LeGrand riuscirono a trattenerlo. Clevenger guardò Reese negli occhi. «Cosa cazzo ha da guardare, schifoso che non è altro?» gli gridò Reese, paonazzo in viso e sul collo. «Lo sa che cosa vuol dire vedere la propria moglie che muore dissanguata? Ne ha una pallida idea, cazzo?» «Vai via!» intimò Coady a Clevenger. Clevenger indugiò qualche istante prima di voltarsi e uscire. «Di questa faccenda riparleremo quanto prima» disse LeGrand a Coady. «Quello a cui ha appena assistito era una vessazione, non un interrogatorio di polizia. Il dottore ha fatto in modo che ciò accadesse.» Quando Coady rientrò nel suo ufficio, Clevenger era seduto sulla sedia dietro alla scrivania. «Si può sapere che diavolo t'è saltato in mente?» gli chiese Coady. «Non mi avrebbe detto nulla» disse Clevenger. «Ho dovuto farlo.» Coady si sedette sulla sedia pieghevole davanti alla scrivania. «E allora che cosa ne hai ricavato, a parte un labbro gonfio?» «Non ne sono sicuro.»
«Magnifico. Mi piacerebbe riuscire a dire al capo che se non altro abbiamo ottenuto qualcosa, quando LeGrand ci farà causa per un milione di dollari.» «Ho detto che non sono sicuro, non che non abbiamo ottenuto niente. Tu cos'hai visto dall'altra stanza?» «Adesso fai l'interrogatorio a me?» chiese Coady scuotendo il capo con disapprovazione. «Dài, accontentami.» «Posso dirti che cosa non ho visto. Non l'ho visto confessare. Non l'ho visto rispondere a una sola domanda. L'ho visto esplodere. Ti ho visto provocarlo fino a quando non è scoppiato.» «Esatto, ma quando?» «Quando? Quando hai cominciato a parlare di sua moglie.» «Sì, ma a che proposito?» «Che intendi dire? Quando hai accennato al fatto che se la faceva con Snow.» Clevenger fece segno di no con la testa. «No. Non in quel momento.» Si alzò e cominciò a camminare per la stanza. Coady lo seguì con gli occhi. «Frank, non metterti a fare il Socrate qui dentro. Non sono uno dei tuoi fottuti studenti di medicina.» Clevenger si fermò e lo guardò. «Non è esploso quando gli ho detto che sua moglie aveva una relazione con John Snow. È stato quando ho detto che lei lo amava.» «E allora?» «E allora Kyle Snow mi ha detto che Reese ha accolto la notizia della relazione - e anche la lettera di addio di Grace - con grande tranquillità. Quasi come se sapesse che cosa stava succedendo.» «Okay... forse è andata così. Molti si concentrano sulla faccenda dell'amore quando scoprono che le mogli li tradiscono. "Ma tu lo ami?" È questo il luogo comune, no?» «Certo» convenne Clevenger. «Ma, di solito, quando arrivano a quel punto, sono tristi, non furibondi. Cercano di riconquistare la loro donna, di salvare il rapporto con lei.» Fece un profondo sospiro. «Reese sapeva che loro due stavano insieme, Mike. Quello che ignorava era il fatto che fossero innamorati. E proprio questo lo ha fatto imbestialire al punto da indurlo ad aggredirmi, e magari anche a uccidere sua moglie.» «E adesso che lo sappiamo, come può esserci utile?» «Mi permette di entrare nella sua testa» rispose Clevenger. «Mi porta a
pensare come lui.» «Magnifico, Frank.» Coady si strofinò il palmo delle mani sugli occhi. «Ora però devo farti presente una cosuccia, okay? Hai la mascella gonfia, un labbro spaccato e un livido sulla fronte. Vediamo di darci un taglio, finché siamo ancora in tempo.» «Guarda che se qualcuno mi volesse morto adesso non sarei certo qui a parlare con te.» «Ma hai proprio intenzione di giocarti la vita ai dadi? Lo so che non bevi più. Per qualcuno, qui dentro, sei stato un esempio. Circola anche la voce che tu abbia perso il vizio del gioco. Ma forse non è proprio vero.» Clevenger chinò la testa e cercò di ricordarsi perché l'idea di avere una scorta lo innervosiva tanto. E non gli veniva in mente la maggior parte delle circostanze che possono spiegare il dolore che abbiamo nel cuore. Non riusciva a vedere la verità perché era troppo grande e si trovava proprio di fronte a lui. Era tanto grande quanto gli era sembrato grande suo padre, che, quando lui era piccolo, lo sovrastava. E riconoscere la verità avrebbe significato ricordarsi come si era sentito vulnerabile e terrorizzato allora, com'era stato indifeso, com'era stato bisognoso di protezione e di amore e come nessuno gli era venuto incontro. «Non mi piace l'idea» disse. «Non voglio che Billy lo sappia.» Scosse la testa, perché sapeva che non si stava spiegando affatto. «Non la voglio e basta» disse. Ore 15.50 Clevenger aveva lasciato il cellulare sul pick-up. Uscì dalla centrale di polizia e ascoltò i messaggi sulla segreteria. Billy gliene aveva lasciato uno alle 15.12. "Ho sentito che mi stavi cercando" diceva. "Sto andando in palestra." Strano, dato che era previsto che l'operazione sulla bambina di nove anni si protraesse fino a sera. Clevenger si chiese se il fatto che lui lo avesse cercato in sala operatoria non avesse in qualche modo rovinato a Billy l'esperienza, facendogli fare la figura del bambino agli occhi di Heller. Chiamò Billy sul cellulare, ma non ottenne risposta. Decise di andare in palestra per incontrarlo. Quando Clevenger entrò, Billy era sul ring e stava mettendo il suo avversario all'angolo. Lo sfidante era un ragazzo alto e dinoccolato, ma muscoloso, che superava Billy in altezza di almeno quindici centimetri. Sparò un jab che colpì Billy alla testa, poi un altro che lo centrò in pieno naso.
Billy continuava ad avanzare. Clevenger si appoggiò con la schiena alla parete e salutò con un cenno del capo Buddy Donovan, l'allenatore di Billy. Donovan rispose al saluto. Lo sfidante aveva ormai la schiena contro le corde. Si rannicchiò appena e schivò lateralmente una serie di destri e di sinistri di Billy, quasi tutti tirati a casaccio. Quando ne ebbe l'opportunità, gli assestò qualche colpo, centrando il bersaglio un paio di volte. Clevenger attese l'inevitabile e quasi incontrollata raffica di colpi con i quali Billy solitamente metteva fine agli incontri. Lo sfidante sferrò un gancio destro che colpì Billy lateralmente sul collo. Billy arretrò di un passo. Donovan guardò Clevenger e si strinse nelle spalle. Si avvicinò al ring. «Che fai lì, Bishop?» gli gridò. «Puoi colpirlo quando vuoi. Che cosa aspetti?» Billy tirò una serie di pugni decisamente fiacchi. Due arrivarono a segno, costringendo l'avversario a coprirsi. Ma nessuno pareva avere nerbo. Poi Billy arretrò di un altro passo. «Mi sono forse perso qualcosa?» chiese Donovan guardandolo da bordo ring. «Ti è arrivato un pugno fantasma, oppure oggi non ti interessa proprio boxare? Magari stai pensando di essere già pronto per i professionisti. Con noi dilettanti ti stai annoiando. È così?» Billy gli lanciò un'occhiata e, nel frattempo, si beccò un destro durissimo sul mento, che lo fece barcollare. «Bel colpo, Jackie» disse Donovan all'altro pugile. «Mi sa che adesso è tutto tuo. Oggi si è preso una piccola vacanza. Però stai attento.» Lo sfidante avanzò di due passi verso Billy, i muscoli delle braccia tesi e pronti a scattare. Si piegò a sinistra e fece per sferrare un gancio destro, ma proprio in quel momento Billy lasciò partire un solo, imprevedibile gancio sinistro che lo fece cadere su un ginocchio. Donovan guardò il ragazzo e vide che stava lottando per non perdere i sensi. «Basta, Billy. È ko» gridò. Billy si era già voltato e stava raggiungendo il suo angolo. Raccolse l'asciugamano, allargò le corde e saltò giù dal ring. Clevenger gli andò incontro. «Pensavo che ti fossi distratto. Invece mi sbagliavo.» Billy si strinse nelle spalle. «Mi sa che anche tu hai abbassato la guardia.»
Clevenger si toccò il labbro. «Un sospettato che non ha gradito molto le mie domande. Ma non avresti dovuto essere in sala operatoria fino a stasera?» «Mi sono annoiato.» Si asciugò il sudore dalla faccia. «Ho qualcosa per te nel mio armadietto. Vuoi venire a dare un'occhiata?» «Certo. Di che si tratta?» «Su, vieni.» Clevenger lo seguì nello spogliatoio. Billy iniziò a digitare numeri nella combinazione del suo lucchetto. «Prima o poi dobbiamo parlare delle ore di lezione che hai saltato oggi» disse Clevenger. Per un attimo Billy smise di digitare, poi ricominciò. «Capisco che la chirurgia ti piaccia e penso che sia una cosa bellissima, davvero, ma non può interferire con la scuola.» «Non ha importanza» disse Billy guardando di traverso il lucchetto. «Te l'ho detto, mi sono annoiato.» Tornò a digitare numeri. Saltare le ore di scuola aveva importanza, eccome, e a Clevenger non piacque il modo in cui Billy prese la cosa sottogamba. «Ne parliamo quando siamo a casa» disse. Billy alzò le spalle e aprì l'armadietto. A Clevenger non piacque nemmeno quell'alzata di spalle. «E poi dobbiamo parlare di te e del mio computer, del fatto che vai a curiosare tra i miei file.» Billy scosse la testa. «Pensi che ti stia spiando?» «Non ho detto questo.» Billy si voltò e lo guardò in faccia. «Invece sì.» «Non è il momento di parlarne, adesso.» «Tu non vuoi che mi avvicini alla tua roba. L'ho capito.» «Io non frugo tra le tue cose e mi aspetto che tu faccia altrettanto con le mie. Ecco tutto.» «Tranquillo» disse Billy. «Forse dovremmo tracciare una linea di confine nell'appartamento.» «Come ti salta in testa?» Billy allungò una mano all'interno dell'armadietto, ne estrasse un plico di fogli e lo porse a Clevenger. Clevenger lo afferrò. Era il diario di John Snow. «Dove l'hai preso?» «Sulla tua scrivania» rispose Billy. «L'ho arraffato e l'ho messo nel mio giubbotto quando i federali sono venuti a casa. Ma non preoccuparti. Non
violerò mai più il tuo spazio personale.» Clevenger non sapeva che cosa dire. Billy doveva rispettare il suo spazio. «Senti, apprezzo quello che hai fatto» disse. «Sul serio. Mi è di grande aiuto nel caso di Snow. Ma c'è la questione della vita in comune e del rispetto...» «Non c'è problema» tagliò corto Billy. «È tutto a posto. Andiamo.» Durante il ritorno a casa non aprirono bocca. Arrivarono al loft dopo le cinque del pomeriggio, quando ormai era quasi buio. Billy andò dritto nella sua stanza e chiuse la porta. Clevenger pensò che avrebbe dovuto dargli un po' di tempo per smaltire la tensione che gli veniva dall'essersi sentito ferito. Andò alla sua scrivania e passò la mano sullo spazio un tempo occupato dal computer. Aprì i cassetti: tutti i suoi dischetti erano stati confiscati, perfino quelli nuovi e sigillati. Aprì il classificatore e vide che i documenti erano stati tirati fuori e poi rimessi dentro a casaccio; i federali avevano rovistato anche in mezzo a quelli. Controllò la segreteria telefonica, poi chiamò Kim Moffett e si fece aggiornare. Niente di urgente. Prese il diario di John Snow, un po' di ghiaccio per il labbro e si sedette sul divano. Diede una scorsa ai fogli e arrivò al disegno di Grace Baxter: il suo volto era un collage di numeri, lettere e simboli aritmetici. Continuò a fissarlo, pensando a come Grace Baxter si fosse completamente infiltrata nella mente di Snow, a come la sua energia fosse diventata tutt'uno con lo spirito creativo di lui. Era incredibile, pensò, come una persona potesse compenetrarne un'altra in modo così totale. Incredibile, anche, che Snow avesse scelto di liberarsi di quell'abbraccio, anche dopo che Grace aveva chiaramente detto, nella sua lettera di addio, che non sarebbe riuscita a sopravvivere da sola, che era arrivata a considerare loro due come un'unica entità. Qualche minuto dopo qualcuno bussò alla porta del loft. Clevenger si alzò e andò a dare un'occhiata. «Chi è?» chiese. «Jet» rispose J.T. Heller. Clevenger apri. Heller, che indossava un paio di jeans, un maglione a collo alto nero e i soliti stivali da cowboy neri di coccodrillo, si teneva appoggiato allo stipite della porta per non cadere. Era pallido e puzzava di scotch. «Lui come sta?» gli chiese. «Bene, credo. Perché?»
«Se n'è andato dalla sala operatoria prima che riuscissi a parlargli.» «Se n'è andato?» Heller annuì. «Era già una causa persa, ma...» «Che cosa era già una causa persa?» «La bambina. Non c'era più niente da fare per quell'arteria. Ho cercato di salvargliela, di salvare lei, ma...» Chiuse gli occhi. «È morta?» Heller riaprì gli occhi e fissò Clevenger. «Nove anni, cazzo.» «Mi dispiace. Io non... Billy non me l'aveva detto.» Mise una mano sulla spalla di Heller. «Entra.» Heller non si mosse. «Forse, se fossi risalito dal palato...» Adesso guardava oltre Clevenger, verso qualcosa che si trovava al di là di loro due. «Ho sezionato verso il basso.» Si toccò la sommità del capo. «Attraverso il seno sagittale. Questo ha senso se inserisci una graffa, ma rende molto difficile mettere un innesto. Capisci?» «Dài, entra» lo esortò Clevenger. Heller si staccò dallo stipite della porta e barcollò leggermente. Clevenger lo afferrò saldamente e lo accompagnò dentro. Si sedettero ai lati opposti del divano. «Billy è nella sua stanza» disse Clevenger. «Penso che stia dormendo.» «Vedi, ho avuto una possibilità» mormorò Heller. «Là dentro c'era Dio, insieme a me. Ho sentito la sua presenza. E io credo di essermela giocata.» «Non sei stato tu a dirmi che siamo esseri umani? Io non sono un neurochirurgo, ma dagli studi di medicina mi ricordo che un aneurisma dell'arteria basilare così esteso di solito non si può curare, indipendentemente da chi tiene in mano il bisturi.» «Io non mi sono fatto un nome su quello che succede "di solito"» disse Heller. «E nemmeno tu.» Si coprì il volto con le mani e si massaggiò le tempie. «Ho dovuto dirlo ai genitori della bambina. Loro si aspettavano buone notizie, gliel'ho letto in faccia. Sono uscito presto. Hanno immaginato che fosse andata meglio del previsto.» «Come hanno reagito, quando gliel'hai detto?» Heller lo guardò. «Come hanno reagito? Sono morti insieme a lei, ecco come hanno reagito. Può darsi che ancora non se ne rendano conto. Ma se ne renderanno conto dopo la veglia funebre, dopo il funerale, quando tutti se ne saranno tornati alle loro case e loro si guarderanno in faccia e vedranno che le loro vite non sono più nulla.» Per un attimo il pensiero di Clevenger andò a Grace Baxter, alla sensa-
zione di non poter più vivere senza Snow. «Ubriacarsi così non risolverà nulla» disse a Heller. «Ci sono tantissime altre persone che contano su di te.» Heller sorrise. «Jet Heller farà l'impossibile per salvarvi la vita.» Rise cupamente. Clevenger rimase in silenzio per parecchi secondi. «Non sono sicuro che questo sia il momento migliore per parlare con Billy di ciò che è successo» disse poi. «Non sembro certo un modello di comportamento in questo momento, eh?» Annuì. «D'accordo.» Si alzò in piedi. «Sai, per quello che può valere, credo di capire perché tu faccia questo lavoro.» «Forse puoi illuminarmi in proposito» disse Clevenger alzandosi. «Semplice. È il concetto di malattia. Se riesci a trovare l'agente patogeno responsabile di un omicidio, cioè la persona guasta, potresti riuscire a impedire a una persona sana di morire. Ed è la stessa cosa che facciamo noi, Frank. Combattiamo contro la Falciatrice. Tutti i giorni. Oggi ha vinto lei. E ha vinto anche quando John Snow si è preso quel proiettile da un mostro. Ma se tu riesci a scoprire chi l'ha ucciso, a isolare l'agente patogeno, puoi cancellarlo dalla faccia della terra.» «Oppure metterlo in quarantena. In prigione.» «Dio non la vede così, amico mio. Occhio per occhio. È l'unico modo per vincere la battaglia. Non puoi avere paura di estirpare un tumore maligno.» Clevenger era certo che i buoni dovessero agire a un livello più elevato degli assassini, perché la società potesse riuscire a distinguere gli uni dagli altri. Ma sapeva anche che non era il momento di discutere di politiche sociali. «Io la vedo diversamente» disse soltanto. «Ti conosco» disse Heller. «Il dottor Gandhi.» Barcollò, ma riacquistò l'equilibrio. «Perché non resti qui a dormire?» Heller fece segno di no con la testa. «C'è giù un taxi che mi aspetta. Sto bene.» Allungò la mano a Clevenger. «Buonanotte, amico mio.» Clevenger gliela strinse. «Parlerò della bambina con Billy.» «Sei fortunato» commentò Heller. «A essere suo padre. Che cosa meravigliosa. Non ho mai pensato di avere un figlio. Billy mi fa venire voglia di averne uno.» Clevenger sapeva che Heller era ubriaco, ma neppure l'alcol spiegava quello che sembrava un attaccamento irrazionale: Heller conosceva il ra-
gazzo solo da pochi giorni. «Fai attenzione nel tornare a casa» gli raccomandò Clevenger. «Sì» disse Heller, poi si girò, si diresse verso la porta e la aprì. «Scusati con Billy da parte mia. Cercherò di farmi perdonare.» «Mi assicurerò che capisca che tu non potevi fare nulla.» «Grazie» disse Heller. Uscì, chiudendosi la porta alle spalle. Clevenger andò verso la camera di Billy. Stava per bussare, quando la porta si aprì. Billy era in piedi nella stanza. Gli tremava il labbro. «Ehi, amico» disse Clevenger. «Hai sentito tutto?» «Non mi sono annoiato» riuscì a dire Billy ricacciando indietro le lacrime. «Che intendi dire?» «In sala operatoria. Non mi sono annoiato.» «Okay...» disse Clevenger. «E come ti sei sentito?» Una lacrima gli scese sulla guancia. «Io... io ero spaventato. Ero spaventato per quella bambina.» Clevenger si sentì accapponare la pelle. Crescere con un padre sadico, sopravvivere alla morte della sorellina, affrontare ragazzi più grandi nelle risse di strada e salire a più riprese sul ring non avevano avuto per Billy lo stesso effetto di un paio di visite in sala operatoria insieme a Jet Heller. Il ragazzo aveva avuto paura, e non soltanto per se stesso, ma per un'altra persona. Cominciava a provare empatia per un altro essere umano. Era una specie di miracolo. Forse quel giorno Dio aveva davvero assistito all'intervento di Jet Heller in sala operatoria. Forse quella bambina non era la sola persona che poteva guarire. «Vieni qui» lo esortò Clevenger aprendo le braccia. Billy si gettò in quell'abbraccio, nascondendo il viso sulla spalla di Clevenger. Clevenger lo tenne stretto. «Come può succedere una cosa del genere?» gli chiese Billy in lacrime. «Era così piccola.» Clevenger avrebbe voluto trovare una risposta, avrebbe voluto proteggere Billy dal fatto che la morte è capricciosa, che l'entropia è una forza fondamentale dell'universo, che l'amore dei genitori migliori del mondo non può proteggere la bambina più innocente da un aneurisma o dal cancro o da un incidente d'auto o da un omicidio. Sì, avrebbe voluto proteggere Billy, ma lo amava troppo per mentirgli. «Non lo so» disse. «Vorrei tanto
saperlo, Billy, ma non lo so.» 16 Ore 20.37 Clevenger uscì di casa per andare all'appuntamento con Whitney McCormick al Four Seasons. Salì sul pick-up e notò un pezzo di carta infilato sotto il tergicristallo. Scese a prenderlo. Era una busta non sigillata con il suo nome scritto in un inchiostro rosso cupo. Clevenger ne estrasse un biglietto. All'esterno c'era un acquerello di un arcobaleno. All'interno c'era un messaggio scritto con lo stesso inchiostro della busta e firmato da Lindsey Snow: Dottor Clevenger, non mi aspetto nulla da lei. Non la tormenterò. Voglio solo farle sapere quanto la sento vicino a me. Non credo che si tratti di una cosa tipo padre-figlia, o stravaganze del genere. Credo che non abbia nulla a che fare con l'aver perso mio padre. Nel mio cuore, sono convinta che noi siamo fatti per stare vicini l'uno all'altra. A volte le persone semplicemente sentono queste cose, vero? Sua Lindsey La dichiarazione di Lindsey che i propri sentimenti per Clevenger non avevano nulla a che fare con quelli per suo padre era un classico rinnegamento. Il nesso era talmente stretto che lei aveva sentito il bisogno di sconfessarlo non una sola volta, ma due, nello stesso paragrafo iniziale. Clevenger si infilò il biglietto nella tasca del giubbotto e risalì a bordo del pick-up. Pensò che il mattino dopo sarebbe dovuto tornare a casa degli Snow per capire se, mettendo alle strette Lindsey, Kyle e Theresa, avrebbe potuto ricavare qualcosa di nuovo sul caso. Infilò la chiave nel blocchetto di accensione e la girò. Sentì uno scatto sordo. Riprovò e udì una specie di schiocco sotto il cofano. L'istinto gli disse di scendere immediatamente. Spalancò la portiera e si buttò a terra. Il pick-up saltò in aria. Una manica del giubbotto aveva preso fuoco. Clevenger rotolò giù dal marciapiede e riuscì a sfilarselo di dosso. Poi si girò verso il suo pick-up e
vide un pennacchio di fumo che si levava in aria a più di cinque metri di altezza. Il cofano e l'abitacolo erano carbonizzati. Il parabrezza era in frantumi. Billy, che si era precipitato fuori di casa, lo raggiunse e gli si inginocchiò accanto. Era in preda al panico. «Che diavolo...? Sei ferito?» Clevenger mosse le gambe e le braccia, poi si passò le dita sulla faccia, per controllare se c'erano tracce di sangue. «No, sto bene.» «Ma che cos'è successo?» volle sapere il ragazzo. «Qualcuno cerca di dirmi che mi sto dando troppo da fare» rispose Clevenger. «Pensi che sia stato qualcuno degli uomini di Snow? La sua società fabbrica anche bombe, o roba del genere, no?» Clevenger continuava a pensare che Billy dovesse tenersi il più possibile alla larga dall'indagine. «Non ho idea di chi possa essere stato» disse. «Sono solo contento che non sia riuscito a raggiungere il suo scopo.» Pensò al biglietto che aveva in tasca, a Lindsey. Si ricordò che uno degli arresti di Kyle Snow era stato per un allarme bomba alla sua scuola. Ma poi gli venne in mente anche un'altra cosa: la strana dichiarazione di J.T. Heller riguardo al suo desiderio di avere un figlio come Billy. Era possibile che Heller avesse cercato una scorciatoia per prendersi Billy? Oppure quel pensiero era solo il frutto paranoico della gelosia e della competitività di Clevenger? Ma il pensiero non se ne andò e ne generò altri. Perché Clevenger non aveva mai chiesto a Heller dove si trovasse esattamente nei minuti prima che John Snow venisse trasportato d'urgenza al pronto soccorso del Massachusetts General Hospital? E poi, era solo una coincidenza che Heller si trovasse al pronto soccorso? E, ancora, era solo una coincidenza che la procedura da lui attuata per cercare di salvare Snow avesse distrutto i punti di riferimento anatomici che avrebbero permesso a Jeremiah Wolfe di stabilire formalmente che la sua morte era stata un omicidio o un suicidio? La comune appartenenza alla categoria medica poteva aver spinto Clevenger a concedere a Heller il beneficio del dubbio che invece poteva non meritare? «Pensi che tutto questo abbia a che vedere con il fatto che sei andato a Washington da Collin Coroway?» chiese Billy. «Può darsi» ammise Clevenger, desiderando che Billy smettesse di fare domande. Il ragazzo lo aiutò ad alzarsi, lo tirò in piedi e lo riaccompagnò verso il
marciapiede. Guardarono il pick-up che finiva di bruciare. In lontananza, si udì l'urlo delle sirene. «Cos'era, un modello del '98?» chiese Billy. Clevenger sentì intorno alla vita il braccio del ragazzo che lo sorreggeva. Gli appoggiò una mano sulla spalla. «I nuovi modelli hanno gli interni in pelle e il navigatore satellitare» disse Clevenger. «Hai impegni per questo week-end?» «Mi sa che devo andare a comprare un pick-up a mio padre.» «Mi sembra una buona idea.» La polizia di Chelsea inviò quattro radiomobili a casa di Clevenger, insieme a una squadra di artificieri temporaneamente distaccata da Boston. Due artificieri si misero subito all'opera sul pick-up, mentre tre agenti ispezionavano l'ascensore, le scale e i corridoi che portavano al loft. Mentre li osservava lavorare, Clevenger tirò fuori il cellulare e chiamò Whitney McCormick per spostare l'appuntamento alle undici per un drink nella sala Bristol del Four Seasons. Le disse che poi le avrebbe spiegato tutto. Lì per lì avrebbe voluto annullare l'impegno, ma l'idea di perdere una serata di lavoro lo infastidiva. Era ovvio che stava facendo innervosire qualcuno. Poi chiamò Mike Coady. «Ciao, Frank» rispose Coady. «Ho avuto un problemino con il mio pick-up» disse Clevenger. «Dove sei? Mando una macchina a prenderti.» «Sono già arrivate qui quattro radiomobili da Chelsea» disse Clevenger. «In realtà, il problema non è che si è guastato. È che qualcuno l'ha fatto saltare in aria.» «Gesù Cristo. Stai bene?» «Sono riuscito a saltare fuori in tempo. Con un pick-up e un giubbotto di pelle nuovi sarò quello di prima.» «Qualche idea su chi possa essere stato?» «Nessuna. Sul parabrezza c'era un biglietto di Lindsey Snow, ma non credo che la ragazza sia capace di far esplodere un'auto.» «Che cosa diceva il biglietto?» «Lindsey è confusa. Crede di provare qualcosa per me. In realtà tutto è dovuto al fatto che lei era molto legata al padre e che adesso lui le manca.»
«Okay... Da quanto tempo il pick-up era parcheggiato lì?» «Da tre ore, tre ore e mezza.» «Ti mando un agente di scorta» disse Coady. «Ti ho già detto che non mi piacciono le scorte» ribatté Clevenger. «Però vorrei che qualcuno tenesse d'occhio Billy. Adesso è qui con me, ma io devo andare. Lui resta in casa.» «Faccio venire una macchina per tutta la notte, anche per le prossime, finché il caso non sarà risolto.» «Grazie.» «Sai niente del viaggio di Anderson a Washington?» «Niente.» Clevenger pensò che avrebbe dovuto avvertire Anderson di quello che avevano fatto per bloccare l'indagine. «Lo chiamo subito.» «Fammi sapere se ha scoperto qualcosa. Adesso vado da Kyle Snow per controllare se ha un alibi per stasera. Non sarebbe la prima volta che il ragazzo consegna qualcosa per sua sorella. Passo anche da Collin Coroway e da George Reese.» «Ti chiamo domani mattina.» «A domani.» Clevenger chiuse la comunicazione con Coady e chiamò Anderson, il quale gli riferì che era appena atterrato al Logan con l'ultimo volo e che non era ancora arrivato a casa, a Nahant. Clevenger gli raccontò dell'esplosione. «Forse è meglio che per qualche giorno tu non ti faccia vedere troppo in giro» commentò Anderson. «Posso proseguire io le indagini.» «C'è qualcuno che si sta spaventando. Non voglio mollare adesso.» «Non so se far saltare in aria il tuo pick-up possa essere un segno di qualcuno che "si sta spaventando", ma ho afferrato il concetto.» «Dimmi di Washington.» «Ho trovato un'accoglienza molto fredda all'ufficio brevetti, ma ho ottenuto comunque qualche risultato.» «Spara.» «Tutti i brevetti della Snow-Coroway sono coperti da segreto. Ce ne sono cinquantasette. Agli atti risultano soltanto le date in cui sono stati richiesti e quelle in cui sono stati concessi. Il contenuto delle richieste è segreto.» «Ci sono richieste recenti?» «Il giorno dopo la morte di Snow» rispose Anderson. «Il pomeriggio successivo la società ha fatto richiesta di due brevetti.»
«Il Vortek?» «Ho cercato in tutti i modi di farmi dire almeno l'argomento generico delle due richieste» rispose Anderson. «Mi sono portato dietro un avvocato di Nantucket specializzato in brevetti, che ha provato anche con il Freedom of Information Act. Niente da fare.» «Se Snow ha dato a Coroway e a Reese quello di cui avevano bisogno, se ha creato il Vortek e ne ha ceduto la proprietà intellettuale, allora era sacrificabile. Era l'unico ostacolo che si frapponeva alla trasformazione della Snow-Coroway in public company e all'offerta pubblica delle sue azioni. Ma perché uccidere Grace?» «Bella domanda.» «Mi sa che non abbiamo troppo tempo per scoprire la risposta.» «Il che significa che dobbiamo trovarla subito.» «Adoro il tuo ottimismo» disse Clevenger. «Quando comincerà a sembrarti euforia, dammi una cura.» «Non mancherò.» Clevenger prese un taxi e arrivò al Four Seasons alle 22.55. Nella hall chiese che gli chiamassero Whitney McCormick nella sua stanza. «Ciao» disse lei. «Sono qua sotto.» «Dammi due minuti.» «Ti aspetto fuori dalla Bristol.» Si incontrarono nel luogo convenuto. Whitney indossava una gonna nera e un golfino aderente di cachemire color crema, con i bottoni di perle. Si era evidentemente pettinata e truccata con cura ed era bella ed elegante. Niente di eccessivo, niente di vistoso, il che la rendeva ancora più seducente. Clevenger sentì una chiave scattare nella serratura della sua anima. «Hai un aspetto magnifico» le disse e si chinò per baciarla sulla guancia, indugiando un istante per sussurrarle nell'orecchio: «Come sempre». «Lo stesso vale per te, dottore.» «Grazie» disse lui, raddrizzandosi. «Se senti puzza di lamiera carbonizzata, posso spiegarti tutto.» Lei sorrise. «Che cosa vuoi dire?» «Sediamoci.» La direttrice di sala li accompagnò verso un gruppo di poltrone imbottite, vicino alla finestra affacciata sui giardini pubblici, dove gli alberi erano
leggiadramente illuminati dal chiarore della luna. Una cameriera si materializzò accanto a loro. Clevenger ordinò un caffè. Whitney McCormick un bicchiere di Merlot. «Ho un buon motivo per il mio ritardo» si giustificò Clevenger. «Sentiamolo» disse lei, allungandosi in avanti e prendendogli la mano. Lui non si aspettava quel gesto, ma ci prese subito gusto. «Il mio pickup è saltato in aria. O meglio, qualcuno l'ha fatto saltare in aria.» «Stai scherzando?» «Ti sembra che si possa scherzare su una cosa del genere?» Lei impallidì e lasciò andare la mano di lui. «Che c'è?» «Questo caso ti sta travolgendo» rispose lei. «Lo sai che nuoto meglio quando l'acqua è profonda» ribatté lui. «Il fatto di sapere che l'alternativa è affogare serve a motivarmi.» «Hai sconfinato in questioni che riguardano la sicurezza nazionale» disse lei in tono distaccato, professionale. «Non è prudente e ti ho già detto che non credo sia necessario.» «Parli per te stessa o per conto dell'FBI?» «Che differenza c'è?» Forse non c'era più differenza. «Qui stiamo parlando di lealtà nei confronti del proprio lavoro» disse Clevenger. «Spero che ti diano un'auto aziendale. Magari, assicurati che abbia l'accensione a distanza.» «Pensi che sia divertente? Io no.» Clevenger avvertì preoccupazione, non irritazione, nella sua voce. «Saprò badare a me stesso» le assicurò. «Badare a te stesso? Qualcuno ti ha fatto saltare in aria la macchina!» «Si può sapere che vuoi? Non ho alcuna intenzione di lasciare un assassino a piede libero.» «Perché non vuoi che il caso sia trasferito all'FBI?» Stava diventando un gioco di potere. «Il caso è mio.» «No, il caso è di Mike Coady e lui ti ha ingaggiato come consulente.» «Stai interferendo.» «Sto cercando di aiutarti. Se tu interpreti così il coinvolgimento dell'FBI, è segno che sono entrate in gioco delle forze su cui non hai controllo.» «Quando ho smesso di bere ho imparato che l'unica cosa che posso controllare è me stesso.» «Forse però c'è qualcos'altro» disse lei. «Forse il motivo per cui non puoi rinunciare al caso è che per te è diventato come una droga.»
«E quale sarebbe, esattamente, la mia droga? Farmi saccheggiare l'appartamento? Finire con la testa spaccata?» «Non puoi fare a meno dell'oscurità. Di un concetto di verità idealizzato e senza compromessi, che soltanto tu puoi vedere. Forse è per questo che non accetti il mio consiglio. Perché non puoi.» «È possibile» ammise Clevenger. «Ma devo essere onesto: è un vizio che non perderò mai. È ciò che faccio. È ciò che sono.» La cameriera portò le consumazioni. Clevenger guardò le labbra di Whitney McCormick posarsi sull'orlo del bicchiere. «Visto che sono incurabile, forse potresti aiutarmi a liberarmi di un certo chiodo fisso» disse. «Forse» disse lei, pensando evidentemente che avessero terminato di parlare di lavoro. Posò il bicchiere. «North è andato a Washington per scoprire se la Snow-Coroway ha depositato qualche brevetto relativo al Vortek. Due brevetti sono stati depositati il giorno dopo la morte di Snow, ma il loro contenuto è vincolato da segreto. Non so se abbiano a che fare con il Vortek o meno. Forse tu potresti scoprirlo.» «Ma stai scherzando? Ti ho appena detto di tirartene fuori. Non ti aiuterei a farti coinvolgere ancora di più nemmeno se potessi. E non posso.» «Ma tuo padre sì.» Clevenger sapeva che la questione del rapporto di Whitney con il padre era il loro punto dolente, forse il motivo per cui la loro relazione non era mai decollata, ma lui doveva chiederle quel favore. Whitney sorrise. «Mettiamo le cose bene in chiaro: mio padre non userà i suoi contatti per aiutarti.» «Perché dovrebbe sapere che sta aiutando me?» «Perché non ho alcuna intenzione di mentirgli.» Clevenger annuì. Dopo neanche dieci minuti che erano seduti insieme erano finiti di nuovo in quel groviglio di complicazioni psicologiche che era stato il maggiore responsabile della loro separazione: Whitney McCormick credeva di dover scegliere tra la devozione nei confronti del proprio padre e l'amore romantico. «Mi dispiace» le disse Clevenger. «Fa' conto che non te l'abbia chiesto. È stato veramente inopportuno.» Lei chiuse gli occhi per un istante e scosse la testa. Poi tornò a guardare Clevenger in viso. «Che ne dici di dimenticare il motivo professionale che mi ha portato qui a Boston e concentrarci su qualcosa di più personale?» Forse c'erano ancora delle possibilità. «A me sta bene» rispose Clevenger.
«Mi sei mancato.» Ma come faceva? Lei riusciva a tenere ben separati il lavoro e gli affetti e forse era proprio questa la ragione per cui era stato così facile innamorarsi sempre più di lei mentre davano la caccia al Killer dell'Autostrada. Ma quando poi erano riusciti a catturarlo, il loro rapporto si era intiepidito. Forse perché la violenza aveva alimentato la loro passione? Il fatto di aver dato la caccia a un killer, di riconoscere la loro estrema mortalità negli occhi delle sue vittime, aveva fatto sì che l'amore fosse l'unico antidoto contro la morte? Era stato per quello che Clevenger si era sentito attratto da Whitney McCormick nel preciso istante in cui l'aveva vista? «Anche tu mi sei mancata» disse. Ed era vero. «Coady mi ha raccontato che John Snow e Grace Baxter si trovavano sempre qui per fare l'amore» disse lei. «In una suite affacciata sui giardini pubblici.» Clevenger si appoggiò allo schienale della poltrona. «Pensavo che avessimo smesso di parlare di lavoro.» «Infatti.» Lei aprì la mano sinistra e gli mostrò la chiave della sua stanza. Lo fecero appena varcata la soglia, ma non sul letto. Whitney McCormick spinse Clevenger contro la parete e lo baciò a lungo. Lui non si lasciò annebbiare completamente dalla passione. Voleva sentire le labbra di lei contro le proprie, la lingua di lei contro la propria. Fece scorrere le mani sulle scapole di lei e sentì ancora più forte la pressione del suo corpo contro il proprio. Poi scese con le mani verso il fondoschiena. Lei gli baciò l'orecchio, il collo. Lui le sollevò la gonna, infilando le mani sotto le mutandine, e la tirò verso di sé, dicendole, senza bisogno di parole, quanto la desiderasse, quanto il suo corpo fosse pronto per quello di lei. Ma in quell'abbraccio c'erano molte altre cose non dette: interi capitoli di una vita trascorsa alla ricerca della verità, ma anche dell'amore, in fuga dal sadismo di suo padre e dal freddo distacco di sua madre. Lei gli slacciò la cintura, gli abbassò la cerniera dei pantaloni e gli infilò le mani nelle mutande. Lui sospirò. Lo teneva stretto, muovendo su e giù la mano, lentamente, delicatamente, incessantemente. Lui fece scivolare la mano tra le gambe di lei, trovandola calda, bagnata,
pronta per lui, cosa che altri uomini avrebbero potuto dare per scontata, ma che lui invece considerava un miracolo, forse la prova più convincente dell'esistenza di Dio. Lei lo spinse a terra sul folto tappeto, lo fece sdraiare sulla schiena e poi lo guidò dentro di sé. E iniziò a muoversi e il suo ritmo era il desiderio che la solitudine potesse essere bandita, che la speranza potesse essere eterna, che la morte potesse essere sconfitta. Erano sdraiati uno di fianco all'altra, nudi, sotto le lenzuola, e guardavano gli alberi illuminati. «Pensi che abbiano visto quello che stiamo vedendo noi adesso?» gli chiese. «Probabilmente, sì» rispose Clevenger. «Dovevano sentirsi molto al sicuro.» «Perché...» «Be', qui dentro fa caldo, mentre là fuori fa freddo. Bisogna coprirsi molto bene, in tutti i sensi. È la vita reale. Non si tratta dell'amore. Si tratta di realizzare cose, di andare avanti.» A Clevenger non sfuggì la visione fattiva che Whitney McCormick aveva di se stessa nel mondo esterno, né il fatto che lei aveva usato la parola amore per descrivere ciò che provava in quella stanza. «Chissà se erano davvero innamorati» disse lui. «Non capisco perché Snow abbia deciso di sottoporsi all'operazione, se questo significava dire addio a Grace.» «È facile pensare di essere innamorati, tra queste quattro mura. Tutto è piacevole e pulito. Perfetto. Forse alla fine la realtà ha fatto irruzione.» «Sotto forma di George Reese?» «Può darsi. Ma Snow non poteva aver conosciuto Grace Baxter - conosciuto veramente, intendo - incontrandola in una suite di lusso una volta o due alla settimana. Lei avrebbe potuto essere deludente sotto altri aspetti.» Clevenger pensò all'amore di Snow per la bellezza e la perfezione. Come Snow aveva fatto affidamento sul proprio lavoro per sfuggire alla realtà della sua vita familiare, con le sue imperfezioni, così la suite al Four Seasons, con i suoi tendaggi impalpabili e la sua vista surreale, poteva aver contribuito a oscurare la vera Grace Baxter. Forse Snow aveva scorto in lei qualcosa di imperfetto o, peggio ancora, di veramente riprovevole. Poi pensò di nuovo a Grace Baxter che, seduta davanti a lui, strattonava nervosamente i braccialetti di diamanti. "E non voglio mai più far del male a nessuno", gli aveva detto. "Sono una persona malvagia. Una persona or-
ribile, orribile." Aveva fatto del male a Snow, infrangendo la sua illusione che lei fosse perfetta? Era per questo che lui era arrivato a vedere nel bisturi la sua unica via d'uscita, la sua unica verità? «A cosa stai pensando?» gli chiese Whitney McCormick. Clevenger si sentiva a disagio nel condividere le sue riflessioni sul caso Snow e ciò significava che, per quanto fosse innamorato di quella donna, non si fidava completamente di lei. Si domandò se fosse davvero possibile. «Sto pensando se si possa conoscere davvero una persona, se con qualcun altro si possa essere più al sicuro che con se stessi.» Lei si rannicchiò contro di lui sotto le lenzuola. «Credo che quasi tutti rinuncino prima di arrivare a capirlo» disse. «Dovremmo soltanto continuare a provarci.» Clevenger la guardò e vide nei suoi occhi che era sincera. Forse due persone potevano unirsi in qualcosa di più grande delle loro due individualità. O forse anche questa era una fantasia. Una folie à deux. Una pazzia condivisa. «A me piacerebbe» disse, facendole scorrere la mano sul ventre. «Sai, forse l'idea fondamentale è proprio questa.» «Quale?» «Continuare a provarci. Magari provare è il punto fondamentale. Magari non si va oltre questo stadio. Magari non ci si arriva neanche. Magari va bene così.» «Sai cosa penso?» gli chiese lei, accarezzandogli la mano. «Cosa?» «Penso che dovresti ritornare di nuovo in terapia» rise lei. Lui scese ancora un po' con la mano. «Quand'è il mio prossimo appuntamento?» 17 15 gennaio 2004 Clevenger rincasò all'una e dieci. Si preparò un bricco di caffè, prese la sua copia del diario di Snow e si sedette sul divano per darvi un'occhiata. Sfogliò le pagine, fermandosi ogni tanto a leggere alcuni passaggi filosofici, ma la sua attenzione andava sempre a finire sui disegni che Snow aveva fatto di Grace. Era li che la passione di quell'uomo si evidenziava maggiormente. Era lì che lui sembrava più umano. Arrivò all'ultimo ritratto, in cui Snow aveva disegnato il viso di Grace
Baxter come un collage di numeri, lettere e simboli matematici. Lo fissò per più di un minuto. E per la prima volta si rese conto che Grace non avrebbe mai potuto essere un'intrusa nella creatività di Snow né avrebbe potuto semplicemente coesistere con essa. Lei l'aveva certamente alimentata. Snow aveva usato Grace Baxter? Lei era stata la prima donna che aveva avuto accesso alla sua passione oppure era stata solo una nuova fonte di energia a cui approvvigionarsi? Lui stava diventando più umano, oppure era un vampiro, che succhiava la linfa vitale di una donna vulnerabile? La linfa vitale. Queste parole portarono Clevenger a ripensare alla possibilità che fosse stata Grace a recidersi le carotidi. Se Snow l'aveva svuotata emotivamente e poi l'aveva prontamente scaricata, lei avrebbe potuto trasformare questo crimine psicologico nel suo equivalente fisico, trasformando il proprio corpo privo di sangue nel simbolo concreto della loro relazione abortita. Ma uno scenario simile non collimava affatto con le considerazioni di Lindsey e Kyle Snow, secondo i quali il padre aveva davvero subito una trasformazione. E non collimava con l'asserzione di Jet Heller, secondo cui Snow si era realmente innamorato di Grace Baxter. Clevenger posò il diario e chiuse gli occhi, abbandonandosi a quel sonno che si era negato per troppo tempo. Ma si risvegliò dopo appena un quarto d'ora, pensando a qualcosa che gli aveva detto George Reese il giorno prima, alla centrale di polizia. Si alzò e cominciò a camminare per la casa. Forse la sua memoria gli stava giocando un brutto scherzo, forse lui stava dando troppo peso a parole dette in un accesso di rabbia, eppure non riusciva proprio a togliersele dalla testa. Prese il telefono e chiamò Mike Coady, a casa. «Buongiorno» disse Coady mezzo addormentato. «Quando ieri stavo interrogando Reese, mi ha detto gridando di com'era stato doloroso trovare sua moglie che stava morendo dissanguata.» «Già.» «Te le ricordi anche tu le sue esatte parole?» «Credo di sì.» «Credi di sì?» «No, no.» Sospirò Coady e si schiarì la voce. «Ne sono sicuro. Ha detto: "Lo sa che cosa vuol dire vedere la propria moglie che muore dissanguata? Ne ha una pallida idea, cazzo?".» «È quello che mi ricordo anch'io.» «Benissimo. Allora mi vuoi dire che cosa c'è di così importante da sve-
gliarmi nel bel mezzo della notte?» «Non stava morendo dissanguata, Mike. Era già morta. Aveva le carotidi recise. Non avrebbe potuto essere viva quando lui l'ha trovata, a meno che non fosse arrivato nel giro di pochi secondi dall'accaduto.» «Forse non si è accorto che era morta finché non ha tentato di farla rinvenire. Forse è questo ciò che si ricorda: il pensiero che lei stesse morendo.» «Ma lui sapeva che in passato Grace aveva tentato di suicidarsi. L'aveva vista con i polsi tagliati. Tentativi di suicidio. Pioggerelle estive in confronto allo stramaledetto uragano che si è scatenato stavolta. Non riesco a capire come abbia potuto confondere le due cose. A meno che...» «A meno che cosa?» «Hai detto che in bagno non hai trovato lamette macchiate di sangue» disse Clevenger. «Neanche mezza.» «Jeremiah Wolfe, però, ci ha detto che le ferite sono state inferte da due oggetti diversi: qualcosa di simile alla lama di un rasoio che le ha tagliato i polsi, e qualcos'altro che aveva una lama leggermente più spessa e più rigida, il taglierino da moquette.» «Vai avanti» lo esortò Coady. «E allora dov'è la lametta?» Coady rimase in silenzio per parecchi secondi. «Chi lo sa? Magari lei l'ha buttata nel water e poi ha tirato l'acqua. Che differenza fa? La causa della morte è stata un'emorragia di sangue dalle carotidi.» Clevenger non era ancora pronto a raccontargli la sua teoria. Era un pezzo di puzzle che lui voleva avere il tempo e il modo di comporre interamente. Se avesse riferito a Coady quello che stava pensando, sarebbero venuti a saperlo altri poliziotti e anche l'avvocato di Reese, Jack LeGrand. E LeGrand avrebbe avuto il tempo per elaborare una spiegazione adeguata: Reese aveva buttato la lametta nel secchio della spazzatura e nessuno l'aveva recuperata; gli infermieri dell'ambulanza l'avevano presa e poi l'avevano persa; l'aveva presa Clevenger stesso. Avrebbe iniziato a interrogare gli agenti responsabili e avrebbe costruito un'accusa di manomissione della scena del crimine. «Probabilmente hai ragione» disse Clevenger a Coady. «Fammici pensare ancora un po'.» Voleva cambiare discorso prima che Coady potesse affezionarsi all'argomento. «Hai scoperto qualcosa sul mio pick-up?» «Ieri sera Kyle Snow era in casa. L'ha confermato sua madre. Mi è sem-
brata credibile. Non sono riuscito a trovare Coroway.» «Sta diventando un'abitudine, con lui.» «Sono contento che davanti a casa tua ci sia una radiomobile della polizia. Billy non si fa problemi con la sorveglianza, vero?» Clevenger si diresse verso la stanza del ragazzo. La porta era socchiusa. Voleva guardarlo mentre dormiva, la gioia segreta di tutti i genitori rispettabili di questo mondo. Aprì la porta di qualche centimetro e mise dentro la testa. Billy non c'era. Clevenger uscì di casa e, nel buio, si diresse verso la radiomobile parcheggiata davanti a casa. L'agente, un ragazzo con la faccia da bambino che non doveva avere più di venticinque anni, abbassò il finestrino. «Salve, dottor Clevenger.» «Salve. Billy non è in casa. L'ha visto uscire?» Il poliziotto lanciò un'occhiata nervosa fuori dal finestrino del passeggero e nello specchietto retrovisore, come se stesse controllando lì per li. Non era un buon segno. «Io pensavo che fosse di sopra» disse. Billy conosceva tre diverse uscite dall'edificio, ma Clevenger non riusciva a immaginare il motivo per cui se ne fosse voluto andare senza essere notato. E il fatto di non saperlo gli mise il cuore in tumulto. «Grazie» disse all'agente. Clevenger risalì in casa di corsa e fece il numero del cellulare di Billy, ma non ottenne risposta. Entrò nella stanza del ragazzo e accese la luce. Il letto era disfatto. Billy aveva dormito, o perlomeno era stato a letto prima di andarsene. Forse aveva ricevuto una chiamata da qualche amico con la proposta di andare al cinema all'ultimo spettacolo. Ma adesso era decisamente molto tardi, troppo tardi. Richiamò Coady e gli disse di spargere la voce tra i poliziotti di Chelsea che, se avessero trovato Billy, avrebbero dovuto riportarlo a casa. Poi provò di nuovo a chiamare il ragazzo sul cellulare. Niente. Uscì di casa e si diresse allo Store 24 dietro l'angolo. Kahal Ahmad, che faceva il turno di notte, gli disse di non avere visto Billy. Non c'era molto altro che Clevenger potesse fare. Così, tornò a casa e si versò una tazza di caffè. Poi si sedette sul divano a sorseggiarla, osservando lo scheletro di acciaio del Tobin Bridge, che si inarcava nel cielo scuro verso Boston, e i fari delle auto che di tanto in tanto occhieggiavano attraverso le travi metalliche. Appoggiò la testa allo schienale, pensando di appisolarsi per qualche minuto.
Si svegliò sentendo la porta d'ingresso aprirsi. Guardò l'orologio: le 2.05. Si alzò. Billy entrò nella stanza, con l'aria agitata. «Che c'è che non va?» gli chiese Clevenger. Il ragazzo guardò davanti a sé socchiudendo gli occhi, nel modo che gli era abituale quando aveva un conflitto di coscienza, come se stesse cercando di trovare una via d'uscita a un ingorgo o un sistema per aggirare la verità. «L'automobile della polizia è qui davanti per una ragione ben precisa» disse Clevenger. «Se devi andare da qualche parte, fatti scortare. Fino a quando il caso non sarà chiuso.» Billy annuì. «Non volevo essere seguito.» «Dove sei stato?» «Con Casey.» Casey Simms, la sua ex fidanzata diciassettenne di Newburyport. Clevenger sentì la tensione sciogliersi. Forse i due ragazzi si erano rimessi insieme. O forse avevano deciso di chiudere la loro storia una volta per tutte. In ogni caso, aveva l'aria di essere un comune dramma adolescenziale. «Ti va di parlarne?» gli chiese. «Si è incasinato tutto» rispose Billy. «Che cosa? Che cos'è successo?» «Tutto.» «Pensi che stavolta sia finita per sempre?» Billy si strinse nelle spalle e chinò la testa. C'era qualcosa che gli pesava. «Di che si tratta? Lei ti ha ferito? Non volevi che la storia finisse? Credimi, ci sono passato. A me puoi dirlo.» «Non ci sei passato. Non come me. Almeno, credo.» E distolse lo sguardo. Clevenger colse il segnale. Questa volta non sembrava un semplice litigio. «Che succede?» gli chiese di nuovo. «Di qualunque cosa si tratti, Billy, sappi che non sei solo. E non lo sarai mai, finché ci sarò io.» Il ragazzo fece un profondo respiro e, ancora una volta, guardò davanti a sé socchiudendo gli occhi. «Lei sostiene di essere incinta» disse. «Ha fatto il test.» Clevenger cercò di mascherare il proprio shock e la propria delusione, che dovevano essere niente in confronto a quelli di Billy, il panico per una vita che stava prendendo una piega inaspettata, che la faceva deragliare dai binari che secondo lui avrebbero potuto condurre il ragazzo a un futuro più
certo. «I suoi genitori lo sanno?» Billy fece segno di no con la testa. «Tu che cosa ne pensi?» gli chiese. «Voglio che Casey se ne sbarazzi» disse rabbioso. «Ma lei non vuole.» Clevenger annuì. «Di quanti mesi è?» «Un mese o giù di lì.» «Okay.» «Okay cosa?» sbottò Billy, esasperato. «Okay e basta. Vieni qui.» Billy gli si avvicinò, fermandosi a qualche passo di distanza. Clevenger gli appoggiò la mano sulla spalla e gli accarezzò il collo muscoloso con le dita. «Ne verremo fuori, credimi. Qualunque cosa succeda, ce la caveremo. Sistemeremo le cose insieme.» Lo tirò a sé e lo tenne abbracciato per qualche secondo, ma quando si rese conto che Billy si irrigidiva lo lasciò andare. «Ho bisogno di dormire un po'» disse il ragazzo, evitando di guardare Clevenger in faccia. Poi andò nella sua stanza e chiuse la porta. Billy spense la luce verso le tre del mattino. Clevenger era a letto, sveglio. Ripensò alla faccia di Billy quando gli aveva detto che Casey era incinta. Aveva l'aria spaventata. In preda al panico. E Clevenger voleva fare in modo che lui capisse che la sua vita poteva andare avanti, anche se intervenivano eventi su cui sentiva di non avere alcun controllo, anche se uno di tali eventi era la nascita di un figlio a diciotto anni. Clevenger sapeva da molto tempo prima di sentir nominare John Snow e Grace Baxter che le persone correvano il rischio di cadere in depressione e perfino di suicidarsi quando avevano la sensazione che la loro vita fosse stata presa in ostaggio, quando si sentivano passeggeri su un aereo diretto dove loro non volevano andare. A volte, quando fare da padre a Billy era particolarmente difficile, quando i ricordi della brutalità del proprio padre erano particolarmente nitidi, quando arrivava a chiedersi se quel pazzo avesse distrutto per sempre qualcosa di fondamentale dentro di lui, quel qualcosa che permetteva alle persone di sentirsi a proprio agio nel mondo e nei rapporti con gli altri, anche Clevenger si sentiva preso in ostaggio. E tante volte, molte più di quante potesse ricordare, aveva pensato di imbarcarsi su una delle gigantesche petroliere che entravano e uscivano dal porto di Chelsea, accettando
qualunque lavoro gli avessero offerto, e poi scomparire. Pensò a John Snow e alla soluzione che aveva ideato per liberarsi della moglie, dei figli e del socio, ma anche della donna di cui si era profondamente innamorato e che portava in grembo un figlio suo. La forza di quel legame era come la forza di gravità per la maggior parte delle persone. Faceva sì che per decenni gli uomini e le donne girassero gli uni intorno alle altre, a volte con grande angoscia, ma incessantemente, stagione dopo stagione, anno dopo anno. Qualcosa di esplosivo aveva allontanato John Snow dall'orbita di Grace Baxter, qualcosa di più potente del loro amore. O perlomeno qualcosa che sembrava più potente. Clevenger vide riaccendersi la luce nella stanza di Billy. Il ragazzo non stava dormendo. Un minuto dopo lo sentì muoversi in sala, in direzione delle vetrate affacciate sul Tobin Bridge, e fermarsi lì. Clevenger avrebbe voluto scendere dal letto e raggiungerlo, ma si ricordò di come Billy si fosse irrigidito tra le sue braccia. E dovette ammettere che c'erano cose che uno non era in grado di fare per il proprio figlio, come per esempio cancellare i suoi errori. Si poteva soffrire insieme a lui, ma non al posto suo. Billy si mosse di nuovo. Questa volta i suoi passi si stavano avvicinando. Clevenger sentì bussare alla porta. «Ehi, giovanotto» disse Clevenger sollevandosi su un gomito e accendendo la lampada del comodino. «Entra.» Billy non si mosse. Aveva un aspetto peggiore di prima, era più pallido, più spaventato. «Brutta nottata» osservò Clevenger. «Mi sa che tra tutti e due non dormiremo molto. Magari potremmo infilarci i jeans e fare un salto da Savino per un pancake.» Billy non rispose. «Possiamo guardarci un DVD» propose Clevenger. «Ho qualcos'altro da dirti» disse Billy. Clevenger ebbe un tuffo al cuore. Si mise seduto sul bordo del letto. «Ti ascolto.» «Ti ho mentito.» Clevenger rimase in silenzio, in attesa del seguito. «Non mi sono limitato a guardare i file sul tuo computer» disse Billy. Abbassò lo sguardo a terra e poi lo rialzò su Clevenger. «Li ho anche co-
piati.» «I file che erano sui dischetti? Hai fatto delle copie di quelli?» «Di quelli e del diario.» Clevenger provò una sensazione di catastrofe incombente. Qualunque fosse il motivo che aveva spinto Billy a bussare alla sua porta, era chiaro che lo angustiava molto di più della notizia di avere una fidanzata incinta. «Perché hai fatto delle copie dei dischetti?» gli chiese. «Per Jet» disse Billy. «Come?» «Le ho fatte per il dottor Heller. Le ho date a lui.» Clevenger scattò in piedi. «Hai dato le copie a Heller? Te le ha chieste lui?» «Mi ha chiesto di dirgli tutto quello che potevo scoprire sul caso Snow.» «E ti ha detto perché voleva che lo facessi?» «Mi ha detto che voleva sapere chi aveva ucciso il suo paziente. Voleva dare una mano a trovare il colpevole. Ha detto che chiunque avesse ucciso John Snow avrebbe ucciso anche tutti quelli che sarebbero venuti dopo di lui, tutti quelli che avrebbero potuto sottoporsi alla sua stessa operazione.» Un nobile intento, ma difficile da credere. La spiegazione più semplice era che J.T. Heller temeva di essere implicato nell'omicidio di Snow e voleva ficcare il naso nell'indagine. Ciò non significava che fosse colpevole, ma lo faceva balzare ai primi posti nella lista dei sospettati. «Mi dispiace» disse Billy. Il suo dispiacere sembrava sincero, ma non sistemava le cose. «Perché l'hai fatto?» volle sapere Clevenger. «Non lo so. Nessuno è mai stato tanto buono con me quanto lo sei stato tu. Stanotte, per esempio. Pensavo che mi avresti buttato fuori, o qualcosa del genere. E non l'hai fatto. E allora ho voluto dirti la verità su quello che ho combinato.» Lo psichiatra che era in Clevenger capiva due cose di Billy: che era destinato a mettere alla prova il suo amore per lui e che si lasciava influenzare dalle attività degli uomini che si comportavano in modo paterno con lui. Se Jet Heller fosse stato un allibratore, probabilmente Billy avrebbe passato ore e ore a prendere numeri in un bar di Chelsea, invece di tenere in mano divaricatori nella sala operatoria del Massachusetts General Hospital. Ma in Clevenger non c'era solo lo psichiatra e la sua parte più vulnerabile, forse la più umana, era in grado di sentire le cose a un livello più viscerale che razionale. Ebbene, questa parte di lui era furibonda per essere stata
ingannata da qualcuno che stava cercando di aiutare in tutti i modi. «Tu mi hai mentito» disse. «E hai messo a repentaglio un indagine per omicidio.» «Vuoi che me ne vada?» gli chiese Billy. Clevenger lo guardò e capì che la domanda si riferiva al fatto di uscire non dalla stanza, ma dalla casa, per sempre. Billy stava mettendo alla prova i limiti del suo amore per. lui, ma anche la sua capacità di stabilire dei limiti, di plasmare il carattere di Billy, per quanto fosse possibile a diciotto anni. «Non voglio che tu te ne vada» disse Clevenger. «Ti voglio bene. Se non riuscissimo a venire a capo di questa storia, per me sarebbe la cosa peggiore che mi sia mai capitata.» Lasciò al ragazzo qualche secondo per assimilare le sue parole. «Ma se tu ruberai ancora le mie cose e saboterai il mio lavoro, non ci sarà altra scelta.» Guardò Billy negli occhi. «Non potrai rimanere qui.» «Non succederà più. Mai più.» Clevenger fece un cenno di assenso con la testa. «Tu non devi più parlare con Jet Heller. Capito? Lui non aveva il diritto di usarti in questo modo. Lui non è tuo amico. E io non so perché ha voluto entrare nell'indagine. Io non lo conosco affatto. E nemmeno tu.» «Okay» disse Billy. Clevenger si chiese se Billy non lo stesse semplicemente assecondando, ma fu rassicurato dal fatto che il ragazzo gli aveva fornito l'informazione su Heller spontaneamente. Si era assunto una responsabilità del genere. «Cerca di dormire» gli disse. «Ne verremo fuori. E troveremo anche il modo di sistemare le cose con Casey.» «So di non meritare il tuo aiuto.» «Sai una cosa?» disse Clevenger. «È ora che tu la smetta di cercare di provarlo.» 18 Ore 8.00 Clevenger aveva dormito a intermittenza per meno di un'ora in tutta la notte. Alle cinque si era alzato e aveva chiamato il servizio di autonoleggio del Logan Airport per farsi recapitare una Ford Explorer. Aveva in mente una destinazione ben precisa. Chiamò lo studio di Jet Heller e gli rispose Sascha Monroe. «Sono Frank Clevenger» disse.
«È bello sentire la sua voce.» «Anche per me sentire la sua.» Rimase in silenzio qualche istante per sottolineare l'insondabile legame che indubbiamente esisteva tra loro. «Ho bisogno di vedere Jet.» «Non c'è.» «Per tutta la giornata?» «Ha detto che sarebbe passato di qui alle undici. Ha annullato il primo intervento in programma per le sei.» «Non sapevo che il grande Heller annullasse gli interventi.» «È la prima volta che succede in cinque anni che lo conosco.» «Ma sta bene?» «Dovrebbe chiederlo direttamente a lui, quando passa di qui.» «Lei è preoccupata per lui.» «Ha perso quella bambina. Quella con l'aneurisma, alla cui operazione ha assistito anche Billy.» «Lo so.» «Ma credo che si tratti anche di qualcos'altro.» «Che intende dire?» «È cominciato quando ha perso John Snow.» Fece una pausa. «Non so perché le racconto queste cose. Lei non è il suo psichiatra. E nemmeno io lo sono.» «Si preoccupa per lui» disse Clevenger. «Così come si preoccupava per John Snow.» Queste parole spinsero Sascha Monroe a proseguire. «Non è stato più lui. Continua a parlare dell'uccisione di John Snow, a rimuginarci sopra. Vuole sapere se ho letto qualcosa sui giornali, se ho sentito qualcosa in televisione. È un'ossessione per lui.» «E lei che cosa ne pensa?» «Onestamente? Credo che lui vedesse un po' di se stesso in John.» «In che senso?» «L'idea di sconfiggere il passato, di dimenticare le persone che ti hanno fatto del male e quelle cui tu hai fatto del male. Penso che Jet volesse guarire John dai suoi attacchi, ma che si sentisse ancora più impegnato a liberarlo dei suoi ricordi.» «Perché sarebbe stato così importante per lui?» «Per via di ciò che è successo a Jet quando era giovane, credo.» Clevenger ricordava la storia di Heller: abbandonato dai genitori biologici, sempre assente da scuola, chiuso in riformatorio per aggressione.
«Me ne ha parlato» disse. «Quando ha scoperto la neurochirurgia, tutto è cambiato per lui.» «Avrebbe potuto essere una cosa che gli dava l'opportunità di salvare vite umane. Voglio dire, lui non intendeva sparare a quel ragazzo. Aveva solo undici anni. Uno sbandato. Anche se, dentro di sé, non penso che lo credesse davvero. Non credo sia mai riuscito a perdonare se stesso.» Heller non aveva detto a Clevenger di essere finito in riformatorio per aver sparato a qualcuno. Gli aveva parlato di un'aggressione. «Il ragazzo è sopravvissuto?» chiese Clevenger. «Non me l'ha detto.» «No» disse la Monroe. «È morto.» Clevenger non trovò le parole per replicare a quella rivelazione. Heller aveva ucciso qualcuno. Il che non provava con certezza che avesse ucciso di nuovo, ma gettava un'ombra su di lui. Gli assassini sono diversi dal resto delle persone: non sono frenati dall'empatia. Forse Heller era cambiato, forse no. «Era come se Jet stesse cercando proprio il tipo di operazione che stava per eseguire su John» proseguì la Monroe. «Ecco perché era così importante per lui. Anche se riuscisse a salvare mille vite, credo che lui non potrà mai dimenticare di averla tolta a una sola persona. E penso che desideri vivere senza più quel senso di colpa, che desideri ricominciare daccapo.» «Lei potrebbe fare il mio lavoro» disse Clevenger, sperando di porre fine alla conversazione senza dare a vedere quanto fosse rimasto sorpreso. «La ringrazio. Ma riesco a tenere in carreggiata a malapena la mia vita, figuriamoci quella di altre persone.» Era un invito ad approfondire la storia della vita di Sascha Monroe. «Dovremmo parlarne, una volta o l'altra» disse Clevenger. «Una volta o l'altra» ripeté lei. «Allora passa alle undici?» «Benissimo.» «La metto in agenda. Ci vediamo dopo.» «Stia bene.» Clevenger riagganciò. Si avvicinò alle vetrate e guardò il ponte. L'analisi che Sascha Monroe aveva fatto avrebbe potuto essere corretta. La sete di Heller di liberarsi della propria coscienza poteva aver alimentato il suo singolare desiderio di liberare Snow e, al tempo stesso, la sua indignazione, quando qualcuno aveva mandato a monte il suo piano. Ma la faccenda poteva essere considerata anche da un altro punto di vista. Forse l'entusiasmo di Heller per l'operazione più importante del decen-
nio era scemato nel momento in cui gliene erano diventate chiare le implicazioni morali. Il lavoro di tutta la sua vita, in fondo, era stato guidato dal desiderio di fare ammenda per la vita che aveva tolto. Separare di netto un uomo dalle sue azioni passate poteva anche essere percepito come aiutare un fuggiasco a sottrarsi alla giustizia. Tra un drink e l'altro all'Alpine, Heller aveva detto a Clevenger che avrebbe operato Snow anche se i suoi attacchi non fossero stati vera e propria epilessia, ma solo pseudoattacchi. Se, però, questa non fosse stata la verità? Se Heller avesse capito che non c'era modo di curare Snow dai suoi "attacchi" con un bisturi e che in sala operatoria avrebbe solo distrutto la memoria di Snow? E se con quell'operazione, grazie alla quale sarebbe potuto passare alla storia della chirurgia, Heller si fosse sentito un impostore, un traditore della professione che lui amava così tanto? Allora uccidere Snow avrebbe potuto essere l'unica via di uscita, l'unico modo per difendere la purezza di ciò che lui aveva chiamato la sua religione: la neurochirurgia. Heller aveva già ucciso un essere umano. Il fatto di essere diventato un medico, di curare le persone, aveva semplicemente nascosto la tenebra che albergava dentro di lui, fino a quel momento? La sua storia passata - il suo karma - era in definitiva così inevitabile come quello di Snow? Gravità. Orbite. L'inesorabile forza d'attrazione del passato. Era possibile liberarsene davvero? Clevenger sentì Billy uscire dalla sua stanza. Si voltò. Il ragazzo indossava jeans larghi, una felpa grigia a maniche lunghe, un berretto da baseball con il logo di una ditta di skateboard verniciato a spray sul davanti. Aveva aggiunto qualche perlina metallica alla sua acconciatura. «Vuoi che vada a prendere la roba che ho dato a Jet?» chiese. Sentendo Billy chiamare Heller con il nome di battesimo, Clevenger si domandò fino a che punto il ragazzo si sentisse davvero ferito, fino a che punto stesse prendendo sul serio tutta quella storia. E il fatto che avesse considerato la possibilità di andare da lui era ancora più preoccupante. «Voglio essere chiaro» gli disse Clevenger. «Tu con Jet Heller non parli. Tu non vai nel suo studio. Tu non rispondi alle sue chiamate. Mi sono spiegato?» «Voglio soltanto sistemare le cose.» «Devi promettermi che gli starai alla larga.» Billy si strinse nelle spalle. «Promesso» disse. Sospirò. «Qualche suggerimento su quello che devo dire a Casey?»
«Tu cosa vuoi dirle?» «Che sta incasinando la vita di tutti e due.» Clevenger avrebbe anche potuto sorridere delle parole così dirette di Billy. Ma si trattenne. «Se fossi in te, adesso non le direi niente. Lasciale un po' di tempo. Ha molte cose a cui pensare.» Billy annuì. «Ci vediamo quando torni a casa? Diciamo, alle cinque?» «Certo.» Lo guardò uscire. «Ehi, Billy» gli gridò dietro prima che la porta d'ingresso si richiudesse. La testa di Billy fece capolino. «Che c'è?» «Abbiamo la limousine oggi: l'auto della polizia qui di fronte. Basta che tu dica all'agente dove deve portarti.» «Che figata!» E uscì. Clevenger prese il telefono, chiamò North Anderson e lo aggiornò su Heller. «Forse dovrei passare di nuovo al Massachusetts General Hospital» disse Anderson. «Per scoprire se qualcuno può confermare che Heller era dentro l'ospedale quando hanno sparato a Snow.» «Buona idea. C'è altro?» «Sto facendo il possibile per ricostruire la situazione finanziaria di George Reese. Fino a questo momento ho trovato parecchi conti deposito titoli, una mezza dozzina di conti correnti. Era veramente pieno di soldi, ma perdere venticinque milioni nel Vortek può aver cambiato un sacco di cose.» «Quanti soldi pensi che avesse?» «Finora, escludendo eventuali conti offshore, circa trenta, forse trentacinque milioni di dollari. E non so quanti altri prestiti abbia concesso la Beacon Street Bank. Se, oltre al fallimento del Vortek, qualcuno dei debitori più grossi fosse insolvente, tutta la baracca potrebbe crollare.» «C'è modo di rintracciare i versamenti effettivi? Coroway mi ha detto di aver restituito circa metà del finanziamento per la ricerca e lo sviluppo destinato al Vortek. Era proprio una causa persa. Vorrei sapere se l'ha fatto davvero.» «Potrei aver bisogno di una mano da Vania O'Connor, se il compito non lo spaventa. Una password o due.» «Non è uno che si spaventa facilmente. Dagli un colpo di telefono.» «Certo. Dove stai andando?» «Nello studio di Heller.» «Vuoi che ti accompagni?»
«No, non credo che possa aggredirmi in ospedale. Se è lui il nostro uomo, verrà a cercarmi in qualche vicolo buio... oppure mi farà saltare la macchina.» «La gente fa cose strane, quando si trova con le spalle al muro.» «Posso farcela da solo.» «Avrò detto la stessa cosa un milione di volte, ma ancora non so davvero come tu ci riesca.» Clevenger sorrise. «Andrà tutto bene. Chiamami, non appena salta fuori qualcosa.» «Certo, amico mio.» Clevenger arrivò nello studio di Jet Heller alle 10.50. Nella sala d'aspetto c'era una mezza dozzina di pazienti. Si diresse verso la scrivania di Sascha Monroe. «Salve» disse. La ragazza alzò gli occhi. «Salve.» Che succede quando uno non conosce una persona che lo ha messo nella condizione di chiedersi se lei potesse essere la risposta a tutti i tuoi problemi? Dove porta, alla fine, una "mappa dell'amore"? All'estasi, all'appagamento? Oppure alla delusione, al tradimento? Se lui avesse incoraggiato Sascha Monroe a entrare nella sua vita e fosse arrivato a conoscerla come persona nella sua realtà e completezza, sarebbe stato capace di avere delle fantasie su di lei, di adorarla? «Sono in anticipo» disse lui. «Non ha ancora chiamato» disse Sascha in tono preoccupato. «È normale?» «Per Jet? Di solito chiama cinque volte prima di entrare da quella porta. "Prendimi quella cartella", "Chiama il tal paziente", "Stampami quei referti".» «Oggi, invece, niente.» «Nemmeno una parola. L'ho chiamato a casa sua: nessuna risposta. Anche sul cellulare: nessuna risposta.» Sembrava davvero strano. «Fa sempre così quando perde un paziente?» le chiese Clevenger a bassa voce, per non farsi sentire dalle persone in sala d'aspetto. «È una cosa che non accade spesso. E quando accade, lui non è più se stesso, ma non scompare.» «Comunque non sono ancora le undici.» «Lo so, però...»
«Aspettiamo e vediamo che cosa succede.» Sascha annuì, ma era in un visibile stato di ansia. Clevenger si sedette nella sala d'aspetto, prese una copia di «Time» e la sfogliò. Passarono cinque minuti. Dieci. Quindici. Entrarono altri due pazienti. Uno dei presenti nella sala d'aspetto guardò l'orologio e scosse la testa irritato. Clevenger lanciò un'occhiata a Sascha e si accorse che anche lei lo stava guardando, con un'aria davvero preoccupata. Clevenger si alzò e si diresse alla sua scrivania. «C'è qualcosa che non va» disse lei. «Me lo sento.» «Sa cosa faccio? Vado a casa sua per vedere se riesco a trovarlo lì.» «Può andarci davvero?» «Certo. Dove abita?» «Al quindici di Chestnut Street. È l'attico. Appartamento tre.» Si trovava a Beacon Hill, a poco più di un chilometro da lì. «Se lui è a casa, gli dirò di chiamarla.» Clevenger lasciò l'auto nel parcheggio coperto del Massachusetts General Hospital e si avviò a piedi: Chestnut Street era a dieci minuti da lì. L'aria era fredda, ma non spiacevole. Il sole splendeva e non c'era vento. Il genere di giornata che spinge la gente a visitare Boston, a passeggiare tra le vecchie case di mattoni, che fanno venir voglia di andarci ad abitare. Arrivò al quindici di Chestnut Street, un imponente palazzo di tre piani con la facciata sporgente. Aprì il massiccio portone in legno di quercia che immetteva nell'atrio e trovò il nome di Heller inciso su una targhetta di ottone accanto al pulsante del citofono dell'appartamento tre. Premette il pulsante. Attese. Nessuna risposta. Premette di nuovo. Niente. Uscì e si diresse sul retro del palazzo. C'erano tre posti macchina. Quello dell'appartamento tre ospitava un'Aston Martin. Rossa. Da centocinquantamila dollari. Doveva essere di Heller. Clevenger alzò gli occhi e vide che le imposte del suo appartamento erano chiuse. Tornò al portone principale e rientrò nell'atrio. Citofonò all'appartamento uno. Passarono parecchi secondi prima che una donna con un accento straniero venisse a rispondere. «Sì? Mi dica.» «Corriere» rispose Clevenger. «Per la signora Webster?» «Corriere» ripeté Clevenger. Quando una persona può fare un semplice gesto che evita situazioni di conflitto - diciamo premere un bottone o tirare un chiavistello - di solito lo fa. Ecco perché in genere i topi d'appartamento
non devono buttar giù le porte. «Corriere» disse per la terza volta. «UPS?» «Corriere.» Il citofono ronzò. Clevenger aprì la porta e salì al terzo piano. L'uscio della casa di Heller era socchiuso. Clevenger bussò comunque con il massiccio battente di ottone. Nessuna risposta. Spinse il battente ed entrò. Tutte le finestre avevano le imposte chiuse, riducendo il sole della tarda mattinata a un bagliore filtrato e indistinto. Dal punto di vista architettonico, l'appartamento era splendido, con l'imponente camino di pietra, le colonne scanalate e i pavimenti di legno lucido, ma era quasi spoglio. Gli unici arredi nella sala erano un divano di cuoio nero e un televisore a schermo piatto da quaranta pollici montato sulla parete opposta. Un quadro a olio di Mark Rothko, che probabilmente valeva mezzo milione di dollari, era appoggiato contro lo schienale di una sedia, a un'altra parete. Sul piano di granito nero al centro della cucina c'era una scultura spiraliforme di acciaio inossidabile. «Jet?» chiamò Clevenger. Nessuna risposta. Si avvicinò al camino e gli sembrò di aver sentito qualcosa muoversi in fondo a un corridoio che sembrava portare alle stanze da letto. «Jet?» Il rumore cessò. Clevenger percorse il corridoio, passò accanto a una porta chiusa e si diresse verso un'altra, aperta, alcuni metri più in là. L'aveva quasi raggiunta quando sentì dei passi dietro di sé e si voltò. In piedi nel corridoio c'era Heller vestito con un paio di jeans e una felpa grigia. Teneva in mano una pistola. Aveva l'aria pallida ed esausta e non si era fatto la barba. «Frank?» chiese. «Che ci fai qui?» Si diresse verso Clevenger con la fronte aggrottata e gli occhi iniettati di sangue. «Questa è casa mia» disse, dando l'impressione di non esserne completamente sicuro. Clevenger riuscì a sentire a distanza l'odore di scotch che Heller emanava. Mosse la gamba per assicurarsi di avere la pistola nella fondina al polpaccio. «Mi sembra un po' spoglia» disse sforzandosi di sorridere. «Stai traslocando?» «In realtà non mi sono ancora stabilito qui» disse Heller. «Io vivo al lavoro.» Clevenger sapeva che Jet stava dicendo la verità. Poteva permettersi un attico da cinque milioni di dollari, ma non gli interessava ammobiliarlo.
Viveva esclusivamente per la neurochirurgia. «Sono passato dal tuo ufficio. Sascha sta cercando di mettersi in contatto con te. Quando ha visto che non rispondevi alle sue chiamate si è preoccupata. E cosi sono venuto qui io.» «Tu le piaci.» «È una donna molto attraente.» «Molto attraente? Frank, in una scala da uno a dieci, lei è undici. Uno come te se ne sarebbe dovuto accorgere.» Heller stava tentando di distrarlo? E perché parlava di lui al passato? «Non si sa mai quello che ci può riservare il futuro» commentò Clevenger. Heller sollevò la pistola. Clevenger pensò di prendere la propria, ma Heller non gliela puntò contro. Invece, la tenne davanti a sé all'altezza del petto, la girò di lato e la fissò come se fosse un uccellino ferito. «Snow è stato ucciso con un colpo a bruciapelo, al cuore» disse Heller. «Immaginati il panico.» Scosse la testa e respirò a fondo. «Frank, io ho visto un uomo ucciso da un proiettile. È una cosa orribile. Davvero.» Alzò gli occhi su Clevenger. «Tu l'ha mai visto?» «Sì. Mi è capitato.» «Mi dispiace.» Clevenger voleva evitare di parlare di morti ammazzati. «Perché non sei tornato al lavoro?» gli chiese. «Io sono al lavoro» rispose Jet. «Solo che è un tipo di lavoro diverso.» Indicò con un cenno della testa la porta aperta accanto a sé. «Vuoi dare un'occhiata?» «Certo» rispose Clevenger e si mosse lentamente verso Heller. «Ti dispiace mettere giù la pistola? Gli incidenti sono frequenti.» «Non c'è problema» acconsentì Heller, scomparendo all'interno della stanza. Clevenger si chinò, estrasse la pistola dalla fondina al polpaccio e se la infilò nella cintura dei jeans, sotto il dolcevita nero. Poi si diresse verso la porta. Una parte di lui si chiese perché mai si trovasse ancora lì. Avrebbe potuto andarsene e tornare insieme ad Anderson o Coady, ma pensava che così facendo non sarebbe riuscito a cavare nulla da Heller. Inoltre, non c'erano ancora elementi per poterlo arrestare. Quando Clevenger ebbe varcato la soglia della stanza, si bloccò, allibito. Heller era seduto a un tavolo ricavato da una porta e tenuto in piedi da due cavalletti di metallo e stava fissando lo schermo di un computer su cui bril-
lavano numeri, simboli e lettere. Accanto alla tastiera era posata la pistola. C'erano fogli e libri dappertutto. «Cammina pure sopra quel che trovi per terra» disse Heller senza distogliere gli occhi dal monitor. Clevenger abbassò lo sguardo e vide che ai suoi piedi c'erano pagine di un codice informatico. I libri erano manuali di fisica e di ingegneria aeronautica. Per quanto possibile, cercò di evitare di calpestarli. Guardando più da vicino le pareti, notò che Heller ci aveva incollato sopra le pagine del diario di Snow, una dopo l'altra, per intere file. «Che cosa stai facendo?» chiese Clevenger. «Sto riportando in vita il mio paziente» rispose. «Ah...» Heller era impazzito? «Da quanto tempo lo stai facendo?» Heller lanciò un'occhiata alle finestre chiuse. «Non lo so.» Si voltò verso Clevenger. «Che cosa lascia un uomo quando muore?» «Quel che ha fatto nella sua vita. Qualsiasi cosa abbia lasciato dietro di sé.» «La sua eredità» disse Heller. «È tutto ciò che John Snow ha lasciato. Il suo lavoro, tanto per cominciare. E la risposta a una domanda: era o non era un codardo? Mi ha piantato in asso o no?» «E finora, qual è la tua diagnosi?» si informò Clevenger, tenendo d'occhio la distanza della mano di Heller dalla pistola. «Non era uno che mollava. Era pronto a terminare la corsa.» «Come fai a dirlo?» «Perché in quella borsa da viaggio nera che hanno trovato vicino al corpo c'era la sua idea più preziosa. Un uomo che lascia questo mondo non porta con sé il suo lavoro.» «Non credo di capire.» «Dai un'occhiata.» Heller si alzò, prendendo con sé la pistola, e si fece da parte. A Clevenger non piacque l'idea di sedersi dando le spalle a Heller. Non se lui aveva un'arma in mano. «Metti giù quella pistola» gli disse. Heller posò l'arma, tenendola però sempre a portata di mano. «Non so neanche perché l'ho tirata fuori dalla cassaforte. La odio. E, soprattutto, non so neanche perché l'ho comprata.» «Un'idea l'avrai pure avuta.» «Forse per provare a me stesso che non l'avrei mai usata. Come un alcolizzato che per dieci anni lascia una bottiglia di scotch sul ripiano del caminetto per provare che può resistere, che è non solo sobrio, ma più che
sobrio.» «Forse dovresti farlo anche tu. Mi sa che ultimamente ci hai dato un po' dentro.» «Non farti accecare dal tuo problema, Frank. Io non sono alcolizzato. Sto semplicemente soffrendo. Per me è come un anestetico. Due, tre, quattro giorni, e poi sto bene. Dopodiché non bevo più una goccia.» «Passerò a controllarti il quarto giorno» disse Clevenger avvicinandosi al tavolo. Poi si sedette al posto di Heller e osservò la schermata di numeri, lettere e simboli matematici che campeggiava sul monitor. «Che cosa sto guardando?» chiese. «Grace Baxter.» Clevenger alzò lo sguardo su Heller, il quale sorrise con aria misteriosa. «Non parlare per enigmi» gli disse. «Sono anche stanco, Cristo santo.» Heller gli mise una mano sulla spalla. «Lo so, fratello.» Poi indicò lo schermo con un cenno del mento. «Ho costruito un modello informatico per analizzare l'ultimo disegno con cui Snow ha ritratto Grace nel suo diario, quello composto da un collage di numeri e simboli matematici. Mi sono fatto aiutare da un mio amico del California Institute of Technology. Premi contemporaneamente i tasti F1, CTRL e CANC.» Clevenger obbedì e si appoggiò allo schienale della sedia, mentre le righe di codice sullo schermo iniziavano a muoversi e i numeri, le lettere e gli altri simboli si riorganizzavano fino a comporsi in una versione intelligibile del ritratto di Grace disegnato da Snow. «Lei era profondamente dentro la sua testa» disse Heller. «Sdraiata come un gatto tra l'emisfero destro e quello sinistro del suo cervello. Premi i tasti F2, CTRL e CANC.» Clevenger obbedì di nuovo. Il ritratto iniziò a smontarsi nelle righe di codice che aveva visto prima. «Il ritratto contiene la soluzione di tutto il resto» dichiarò Heller indicando con un gesto della mano le pagine incollate alle pareti. Poi fece un giro per la stanza e ne toccò alcune. «Come creare un oggetto volante dotato di un semplice movimento in avanti, invisibile ai radar.» Clevenger continuò a fissare lo schermo del computer e si rese conto che Snow aveva ultimato l'invenzione che lo teneva sulla corda da tanto tempo. Premette di nuovo i tasti F1, CTRL e CANC. E, sotto i suoi occhi, i numeri, le lettere e i simboli tornarono a ricomporsi nel ritratto di Grace Baxter. La passione di Snow per Grace e il suo genio si erano fusi, dando vita a quello che Collin Coroway e George Reese volevano da lui: il Vortek.
«Qual è il vero motivo per cui sei venuto qui?» chiese Heller. Clevenger lo guardò. «Hai detto che eri preoccupato per me, ma era una bugia. Qual è il vero motivo?» «Dove hai preso i dischetti e il diario?» gli chiese Clevenger di rimando. Heller rimase in silenzio per alcuni secondi. «Ho delle conoscenze alla centrale di polizia» disse poi. Era una bugia ammirevole, in un certo senso. Heller non aveva fatto il nome di Billy. Ma perché ci teneva veramente a lui, oppure perché pensava di poter continuare a usarlo? «Non devi più metterti in contatto con mio figlio. Hai capito?» «Tu vuoi tenerlo fuori da ciò che fai. Che male c'è se lui si avvicina un po'? Ti vuole bene.» «Non sono fatti tuoi. Stai alla larga da Billy.» «Il ragazzo ha bisogno di qualcosa che gli tenga occupati la mente e il cuore. Dentro di lui ci sono zone buie. Lo so, perché le vedo anche dentro me stesso.» «Stai alla larga da lui, altrimenti...» «Altrimenti mi uccidi?» Heller sogghignò. «Forse tu e io siamo molto più simili di quanto immagini.» «Noi non siamo simili» ribatté Clevenger. «Tu ti sei smarrito in questo caso. Io lo sto risolvendo.» Lo sguardo di Heller si spostò sullo schermo del computer. «John Snow era un mio paziente. La sua vita era nelle mie mani.» Clevenger pensò a quello che gli aveva detto Sascha Monroe, e cioè che Heller fantasticava di rinascere lui stesso, senza più sensi di colpa, e che per lui liberare Snow dal suo passato era come liberare se stesso. «La tragedia è che tu avresti potuto essere un esempio per Billy» disse. «Avresti potuto aiutarlo a trovare un posto nel mondo, se non lo avessi usato per i tuoi scopi.» «Tutti veniamo usati, di tanto in tanto, Frank. Anche quando stai facendo il lavoro di Dio, sei comunque preso in prestito.» Clevenger si alzò e se ne andò. 19 Clevenger sapeva che Whitney McCormick sarebbe rimasta a Boston fino a fine giornata e poi sarebbe tornata a Washington. La chiamò sul cellu-
lare. «Come sta il mio paziente preferito?» rispose lei. «È ancora malato.» «Bene.» «Dove sei?» le chiese Clevenger. «Sto facendo alcune telefonate dall'hotel.» «Ci vediamo per un caffè?» «Perché non chiamiamo il servizio in camera?» Chestnut Street distava poco più di un chilometro dal Four Seasons. «Sono qui dietro l'angolo.» «Allora sbrigati.» In men che non si dica, Clevenger bussò alla sua porta. Lei aprì. Indossava jeans strappati al ginocchio e una camicia da uomo troppo grande ed era bella come la sera precedente. Clevenger scosse la testa. «Ti capita mai di essere un po' spettinata, di avere una macchiolina, che so, qualcosa che dia a una persona una possibilità di rivincita?» «Noi non ci vediamo spesso. Due giornate buone di fila sono un fatto insolito, per me.» «Perché non riesco a crederci?» Lei lo tirò a sé. Si baciarono. Lui fece scorrere le labbra sul suo collo. Lei chiuse la porta con uno spintone e lo trascinò verso il letto. Fecero l'amore lentamente, guardandosi negli occhi, mentre Clevenger si muoveva dentro il corpo di lei ed entrambi godevano estraniandosi dalle rispettive esistenze, lasciandosi travolgere da una forza che era maggiore della semplice somma delle loro energie individuali. Kimasero sdraiati uno di fianco all'altra, esausti, crogiolandosi in quei pochi minuti in cui gli amanti formano un tutto unico. Whitney girò la testa verso di lui, accostandogli le labbra all'orecchio. «Mi piace questo posto. Dovremmo farlo qui più spesso.» «Certo.» Clevenger chiuse gli occhi e fece un profondo sospiro. Pensò a quanto fosse strano che lui e Whitney si incontrassero al Four Seasons e che avessero deciso di continuare a vedersi lì. Era quasi come se entrambi si fossero persi in una sorta di controtransfert nei riguardi del caso, rimettendolo in scena. Aprì gli occhi. «Devo chiederti ancora una volta...» Lei sorrise. «Non devi chiedere.» «Si tratta del caso» disse lui, sollevandosi su un gomito. «Okay. Di che cosa si tratta?»
«Di quei brevetti.» Lei lo guardò e il suo sguardo a poco a poco si raffreddò, invaso da un misto di dolore, rabbia e gelida rassegnazione a ciò che entrambi facevano per vivere e al fatto che non si erano incontrati lì come amanti né sarebbe mai stato solo così. «Che vuoi sapere?» gli chiese. Clevenger esitò, in preda al disagio di passare da un ruolo all'altro. Ma l'urgenza dell'informazione che voleva lo travolse come un'onda di piena. «Se la Snow-Coroway avesse depositato i brevetti per il Vortek, allora saprei con certezza che Collin Coroway e George Reese avevano in mano tutto ciò che occorreva loro per staccarsi da John Snow. Avevano l'invenzione che avrebbe permesso loro di trasformare la società in una public company. Il che avrebbe reso Snow superfluo.» «Ma io non posso ottenere questa informazione.» Clevenger non poteva lasciar perdere, non poteva rinunciare alla propria professione, alla propria vocazione, neanche per lei, neanche se aveva capito che avrebbe potuto amarla fin dal primo momento in cui l'aveva vista. «Non voglio tirare ancora in ballo tuo padre. Ma, come ex senatore e come persona che ha lavorato nell'intelligence, dovrebbe ancora avere certi contatti...» Si rese conto di aver fatto un passo più del necessario. «Non sto affatto cercando di insinuare che si tratti in qualche modo di scegliere tra...» «E allora perché senti il bisogno di negarlo?» Lei si alzò e cominciò a raccogliere i propri vestiti. «Sono una psichiatra anch'io, Frank.» Clevenger si alzò. «Volevo dire che...» «So che cosa volevi.» «Senti,» sospirò lui «ho sbagliato a tirar fuori questa cosa.» «Non puoi farci niente. Il lavoro è il tuo scudo. Ti aiuta a evitare qualunque altra cosa. È sempre stato così. E sarà sempre così.» «Per esempio, cosa?» «Una vera relazione, tanto per cominciare.» Whitney si infilò i jeans. «Proprio non riesci a capire perché hai accettato questo caso, Frank? Non vedi in te un po' di John Snow, quando ti guardi allo specchio? Un maniaco della soluzione di enigmi. Che tiene le altre persone a distanza. Che evita la vera intimità nei rapporti. Non ti suona familiare tutto ciò?» L'unica cosa che Clevenger poteva fare, adesso, era stare ad ascoltarla. Lei si sistemò la camicia dentro i jeans, dopo aver richiuso la cerniera. «Una sola cosa su mio padre» disse. «Lui non mi ha mai usata.» Clevenger scosse la testa, pensando alla propria mancanza di tatto e a quanto era stato frainteso. «Io non ho fatto l'amore con te per ottenere
qualcosa» disse. «Immagino che ti sembri così.» Si mise le scarpe e prese la giacca dallo schienale della sedia. «Whitney, aspetta.» «Aspettare che cosa?» E uscì dalla stanza senza voltarsi indietro. Clevenger andò alla finestra e guardò fuori. Vide Whitney attraversare la strada e scomparire nei giardini pubblici, mentre i rami gelati degli alberi oscillavano nel vento leggero. Quando Clevenger varcò la soglia della Boston Forensics, Kim Moffett sollevò una pila di messaggi. «John Haggerty ha chiamato tre volte per il nuovo caso» disse. «Lindsey Snow ha chiamato due volte. E l'FBI ha chiamato quattro volte. Ma solo perché continuo a tampinarli per sapere qualcosa del mio computer.» «Tu tampini l'FBI?» «L'ufficio reperti, a Quantico.» «Kim...» «Devono ridarmelo. C'è dentro tutta la mia roba.» «Sono cose che richiedono tempo. Possono trattenerlo un anno, magari anche di più.» «E i miei diritti? E la privacy delle persone? Tutte cose che dopo l'undici settembre sono andate a farsi benedire?» Kim non avrebbe desistito. «Farò tutto quello che è in mio potere» le assicurò Clevenger. «Grazie.» Kim sorrise. «North ha voluto che ti dicessi che sta venendo qui. Ti ha cercato due volte sul cellulare.» Clevenger annuì e fece per entrare nel suo ufficio. «Un'altra cosa» lo trattenne Kim. Lui si voltò. «Hai uno sbaffo di rossetto rosa sul giubbotto.» Clevenger abbassò lo sguardo e vide la macchia del rossetto di Whitney sul cuoio nero. «Che cosa ti fa pensare che sia rossetto?» Kim si girò e iniziò a battere sulla tastiera del suo nuovo computer. Lui entrò in ufficio, si tolse il giubbotto e, dopo averlo ripulito dalla macchia, lo buttò su una sedia. Poi si sedette alla scrivania e chiamò Lindsey Snow sul cellulare. Lei rispose subito. «Sono il dottor Clevenger.»
«Posso passare da lei? Si tratta di mio papà. Del fatto che gli hanno sparato.» Gli hanno sparato. Questa era una novità. Secondo la teoria di Lindsey, era stata lei a spingere il padre a suicidarsi. Adesso credeva che lui fosse stato ucciso? «Quando puoi venire qui?» le chiese Clevenger. «Tra meno di un'ora.» «Va bene.» «Grazie.» E chiuse la comunicazione. Clevenger cercò di parlare con John Haggerty, ma trovò la segreteria telefonica. «Non prendo più casi finché non ho risolto quello di Snow» gli lasciò detto. «Quando ho finito, ti avviso.» Mise i piedi sulla scrivania, si appoggiò allo schienale della sedia e chiuse gli occhi. Rivide Whitney McCormick che spariva nei giardini pubblici. Pensò che l'aver mescolato il piacere con il lavoro poteva avergliela fatta perdere per sempre. Poi aprì gli occhi di scatto pensando di aver trovato la risposta a una delle domande che da tempo si faceva: perché John Snow avrebbe rinunciato all'operazione e si sarebbe suicidato, se aveva trovato l'amore della sua vita? La risposta era semplice, talmente semplice che lui non l'aveva vista finché non aveva ripensato alla discussione con Whitney McCormick. O Snow aveva tradito Grace Baxter o lei aveva tradito lui in qualche modo. Il loro amore non era più puro come all'inizio. Qualcosa era andato terribilmente storto. «Chi si rivede!» disse Anderson dalla soglia. Clevenger tirò giù i piedi dalla scrivania. «Che c'è?» «Entro oggi avrò accesso all'estratto conto relativo sia ai conti correnti sia ai conti deposito titoli personali di George Reese. Vania sta facendo notevoli progressi.» «E dove lavora? Sono preoccupato per lui.» Anderson fece segno di no con la testa. «È da me. Lì nessuno lo può trovare, a meno che non riescano a localizzare i bicchieri di carta del caffè che si accumulano nella mia spazzatura. Lo rifornisco ogni due ore. Bicchiere grande, con panna...» «...e quattro zollette di zucchero.» «Vedo che ha istruito tutti.» «Qualcos'altro?» «Al Massachusetts General Hospital non ho trovato nessuno in grado di dirmi se Heller era all'interno dell'ospedale quando hanno sparato a Snow. Non ancora, perlomeno. Non che questo provi alcunché.»
«Già.» «A proposito, come sta Billy?» Clevenger guardò l'orologio. Le 14.15. Billy era ancora a scuola, o almeno avrebbe dovuto esserci. «È alle prese con un paio di problemi, in questo momento» si limitò a rispondere. «C'è qualcosa che posso fare?» «Non credo che ci sia qualcuno che possa fare qualcosa, me compreso. Ma te lo farò sapere.» «Okay.» «Sta venendo qui Lindsey Snow.» «Mai un attimo di pausa.» Lindsey si sedette sulla stessa sedia in cui si era seduta l'ultima volta. Indossava una minigonna color lime e una dolcevita di lana bianca a coste. Quando accavallò le gambe, Clevenger intravide un paio di mutandine di seta nera. «Se le racconto una cosa,» disse la ragazza «deve promettermi che non dirà mai di averla sentita da me.» «So mantenere un segreto» le assicurò Clevenger, senza staccare gli occhi da quelli di Lindsey. «Glielo racconto perché la sento davvero molto vicino a me.» Clevenger sapeva che il fatto che lei lo sentisse vicino aveva a che fare non certo con la sua persona, ma con la mancanza di John Snow che lei avvertiva. Lindsey era come un atomo di ossigeno: estremamente instabile, disperatamente bisognosa di legarsi a qualcuno. E una parte di Clevenger avrebbe voluto dirglielo, avrebbe voluto spiegarle che l'attrazione che lei provava per lui era dovuta solo all'improvvisa perdita di equilibrio che la scomparsa del padre le aveva causato. Ma Lindsey non era una sua paziente. Era una sospettata. Verso di lei Clevenger non aveva alcun obbligo psicoterapeutico, né di altro genere. Era libero di sfruttare le sue esigenze, di lusingarla per indurla a confidarsi. Si poteva arrivare a questo per risolvere un caso di omicidio. Innocenti bugie al servizio della verità. Non era un mestiere piacevole, ma era il suo mestiere. Clevenger abbassò lo sguardo sulle cosce della ragazza quel tanto che bastava a far sì che lei si accorgesse della sua occhiata. «Su, prosegui pure» la esortò. «Voglio che tu me lo racconti.» Sapeva che la ragazza avrebbe sentito solo le prime tre parole: Voglio che tu. Lei arrossì e si morse il labbro inferiore. «Durante la sua ultima settimana di vita, mio padre era veramente giù. Era come se tutta l'energia che l'a-
veva investito lo stesse abbandonando. Non parlava più con nessuno. Nemmeno con me.» Clevenger annuì. Si chiese se Lindsey fosse ancora convinta della teoria del suicidio. «Così Kyle ha deciso di prendere la pistola di papà. In questo modo, lui non si sarebbe fatto del male. O almeno, questo è quello che mio fratello ha detto.» Clevenger cercò di non tradire alcuna emozione, anche se sentiva che il caso avrebbe potuto prendere una svolta decisiva, dopo un cammino lungo e tortuoso. «Come ha fatto a prendere la pistola?» «Papà la teneva sempre nello stesso posto, sul ripiano dell'armadio che sta sopra le camicie. Tutti e due l'abbiamo visto prenderla da lì, quando andava in ufficio, e poi riporvela, quando tornava a casa. I proiettili li nascondeva da un'altra parte.» «Tuo padre non si è chiesto che fine avesse fatto la pistola?» «È stato Kyle a dirglielo. Gli ha raccontato che l'aveva presa lui e perché.» «E tua madre lo sapeva?» Lindsey annuì. Questo poteva spiegare il tentativo di Theresa Snow di impedire a Clevenger di parlare con Kyle. «E Kyle come si spiega il fatto che vostro padre sia stato ucciso da quella pistola?» «Lui sostiene di averla tenuta solo fino alla sera prima del fatto. Mi ha detto che papà la voleva indietro e che ha minacciato di denunciarlo per aver violato la libertà provvisoria. Così Kyle si è incazzato di brutto e gliel'ha restituita.» Gli occhi di Lindsey si riempirono di lacrime. «Dice di avergli detto che poteva anche tenersela e usarla per spararsi, se era ciò che voleva.» «Tu gli credi? Pensi che abbia restituito la pistola?» Lindsey distese e riaccavallò le gambe, attirando di nuovo lo sguardo di Clevenger. «So solo che non l'ho mai visto così felice come negli ultimi giorni» disse. «Dice che non può andare al funerale di papà. Che non sarebbe "onesto".» Lindsey stava dicendo la verità, oppure stava cercando di rovinare il fratello, punendolo per aver dirottato su di sé l'adorazione del padre? Se Clevenger era soltanto un rimpiazzo di Snow, Lindsey poteva desiderare che lui mettesse in prigione Kyle, l'equivalente di ciò che aveva fatto Snow bandendolo da casa. «Pensi che tuo fratello abbia sparato a tuo padre?» le
chiese Clevenger. «Io non vorrei, ma...» Lindsey distolse lo sguardo. Lui lasciò passare qualche istante. «Grazie per avermene parlato, Lindsey» disse. Lei lo guardò negli occhi e piegò la testa di lato, facendosi ricadere sulla guancia una cascata di capelli setosi. «Tutto qui?» «Parlerò anche con tuo fratello e vedrò dove possiamo arrivare.» «Dove possiamo arrivare, noi?» chiese lei in tono lamentoso. Clevenger voleva evitare di ferirla. Non ce n'era bisogno. «Lindsey, per quanto tu sia carina,» le disse più gentilmente che poté «e per quanto io possa anche voler trascorrere del tempo con te fuori dall'ufficio, non posso farlo.» «Mai?» Quella domanda fece capire a Clevenger che Lindsey era intenzionata ad aspettarlo per molto, molto tempo. Forse per sempre. E lo aiutò a vedere ancora una volta che la sua ossessione non era il sesso con suo padre, ma la potenzialità di un legame sessuale con lui. Snow l'aveva tenuta legata a sé adorandola più di qualunque altra donna, senza mai toccarla. Lindsey cercava un uomo in grado di darle quel tipo di adorazione, non un amante. «Tu sei troppo bella perché io possa dirti "mai"» le disse. Lindsey arrossì. «Lei non sta con...» Fece un cenno del capo in direzione della scrivania di Kim Moffett. Clevenger scosse la testa in segno di diniego. La ragazza fece un profondo sospiro. «Bene. Dunque, le serve solo del tempo?» «Dammene un po'.» «Capisco.» Lindsey si alzò in piedi e iniziò a infilarsi il giaccone. Clevenger si alzò e la guardò. Era davvero una bella ragazza. Questa non era un'innocente bugia. «Sei straordinaria, sai?» le disse. Per la prima volta lei parve colta alla sprovvista. «E non soltanto perché lo pensava tuo padre, o perché io lo penso.» «Che intende dire?» «Io...» Clevenger si rese conto di parlare una lingua che lei non poteva capire. Sarebbe stato inutile dirle che gli altri uomini non solo l'avrebbero trovata desiderabile, ma si sarebbero comportati di conseguenza, sarebbero stati onesti con lei in ogni modo. La sua autostima era sempre derivata dal riflesso che lei vedeva negli occhi di John Snow. «Adesso non ha importanza» disse Clevenger.
Lei parve contenta che lui si fosse fermato li. «Ci vediamo.» «Abbi cura di te.» Lindsey uscì. Kim Moffett fece capolino nella stanza dieci secondi dopo. «Whitney McCormick in linea per te» disse. Il solo nome bastò a evocare a Clevenger il profumo di lei, a fargli immaginare le sue dita che lo accarezzavano. Allucinazioni d'amore. «Grazie.» Aspettò che Kim uscisse e sollevò la cornetta. «Ciao, Whitney.» «Ho parlato con mio padre» gli disse lei. Clevenger rimase in silenzio. «Sono stati depositati due brevetti per un sistema di stabilizzazione del volo, registrati congiuntamente dalla Snow-Coroway, dalla InterState Commerce e dalla Lockheed Martin.» «Coroway mi ha mentito, a Washington» disse Clevenger. «Lui e Reese avevano il Vortek. Snow l'aveva già messo a punto. E loro non avevano più bisogno di lui.» «Conosco la sensazione. Dev'essere nell'aria.» «Senti,» disse Clevenger «ho sbagliato a tirare fuori questa storia. Io...» «Potresti semplicemente dire: "È stato un bel modo di lavorare"» ribatté lei freddamente. «Quando posso vederti?» Lei chiuse la comunicazione. IL FOUR SEASONS Appena venti giorni prima Ore 14.45 Lui era impaziente di vederla, di dirglielo. Indossava una camicia azzurra e un abito blu di Armani che aveva comprato il giorno prima in Newbury Street. Cintura nera di coccodrillo. Mocassini neri lucidi. Si era rasato di fresco e si era fatto spuntare i capelli. In piedi davanti alla finestra affacciata sui giardini pubblici, la guardò mentre scendeva dal taxi accostato al marciapiede, i capelli scompigliati dal vento freddo. Lei si avviò verso l'ingresso dell'hotel. In due settimane tutto era cambiato. Due settimane prima, lui le aveva detto che avrebbero dovuto smettere di vedersi, che il magico effetto che lei aveva avuto su di lui mesi prima, sostenendolo dopo un attacco, era
svanito. Lui aveva toccato il fondo della propria esistenza, incapace di compiere il passo finale verso quell'invenzione che lo teneva sulla corda da tanto tempo. Il Vortek era davvero un'illusione. E lui era un impostore. Sua figlia aveva scoperto la sua relazione e lo evitava. Suo figlio non gli rivolgeva la parola. Persino la sua immaginazione lo aveva abbandonato. Non si era mai sentito così solo, così indegno di essere amato. Ma poi Grace gli aveva detto che avrebbe preferito morire piuttosto che vivere senza di lui e che lei portava in grembo un figlio loro. Lei lo amava. Più della propria vita. E quello aveva fatto la differenza. Il suo amore aveva fatto scattare qualcosa dentro di lui, ancora una volta. Il ghiaccio aveva cominciato a sciogliersi. Gli ingranaggi della sua mente avevano cominciato a funzionare. Le rotelle avevano preso a girare. Lui sognava intere equazioni che si risolvevano da sole, facendo incastrare le tessere del puzzle che stava tentando di risolvere. Bussarono alla porta della suite. Lui andò ad aprire. Sulle prime lei sembrò sfinita e preoccupata, ma, quando lo vide, il suo viso si illuminò. «Sembri nuovo di zecca» osservò. «Mi sento nuovo di zecca.» Lei entrò nella suite e si girò per guardarlo in faccia. Lui richiuse la porta e le porse il suo diario, aperto alla pagina in cui aveva disegnato un ritratto di lei fatto di numeri e simboli matematici. «Che cos'è?» chiese Grace con un sorriso, prendendo il diario. «Il Vortek» rispose Snow. Lei lo guardò con aria interrogativa. «Ogni volta che mi sono imbattuto in un ostacolo, ho pensato a te, ho disegnato il tuo viso.» Allungò la mano e le accarezzò la guancia. «Ha funzionato. Sempre. E così, quando è arrivato il momento di fare l'ultimo passo e di scrivere la soluzione finale ho deciso di tenerti davanti alla mia mente. E tutte le barriere sono cadute.» Indicò il disegno con un cenno della testa. «Raddrizza le curve, distanzia le righe e otterrai ventinove equazioni, il programma per volare senza essere rilevato dai radar, come un fantasma.» «Ce l'hai fatta» disse lei sbalordita. «Noi ce l'abbiamo fatta.» «No.» Grace scosse la testa. «È stata una joint venture.»
Lei sembrò di nuovo preoccupata. «Che c'è?» le chiese lui. «Adesso non abbiamo più ostacoli sulla nostra strada.» Grace gli buttò le braccia al collo e gli affondò il viso nell'incavo della spalla. «Ti amo» sussurrò. «Sono fiera di te. Ma non avrebbero dovuto esserci ostacoli sulla nostra strada fin dall'inizio.» 20 Mike Coady passò a prendere Kyle Snow nella sua casa di Brattle Street e lo portò da Clevenger alla centrale di polizia di Boston. Il ragazzo si era presentato spontaneamente, senza dubbio per evitare un altro test farmacologico che l'avrebbe spedito di nuovo in galera per violazione della libertà provvisoria. Lui e Clevenger si trovarono di nuovo seduti uno di fronte all'altro, questa volta nella stanza degli interrogatori in cui Clevenger aveva incontrato George Reese. Coady assisteva al colloquio, al di là del vetro-specchio. «Parlami della pistola di tuo padre» esordì Clevenger. «Quale pistola?» Clevenger rimase in silenzio. Notò che le pupille di Kyle erano grosse come capocchie di spilli. Il ragazzo era fatto, probabilmente di Percocet o di Oxycontin. «Non so di cosa stia parlando» disse Kyle. «Io non so nulla di...» «Lui la teneva nel suo armadio, giusto? Sul ripiano che sta sopra le camicie.» Kyle si strinse nelle spalle. «Ho capito quello che è successo, Kyle. Lui si è occupato di te per la prima volta in vita tua e poi si è eclissato di nuovo. Ha riaperto la ferita. Una ferita molto profonda.» «Come le ho già detto, lui non poteva ferirmi. Da lui non mi sono mai aspettato nulla.» «Uno non si dà agli oppiacei, se dentro non si sente ferito e svuotato. E tu hai visto l'opportunità di lenire quel dolore. Non hai saputo resistere. A sedici anni è impossibile.» Kyle si scostò i capelli dalla fronte e si allungò verso Clevenger. «Lei non sa un cazzo di me.» «Così gli hai preso la pistola... dall'armadio.» «E chi lo dice?»
«Tu hai detto di avergliela ridata la sera prima che gli sparassero.» Osservò il viso di Kyle, gli occhi semichiusi, la mascella irrigidita. «Ma non è andata così.» «Gliel'ha detto mia sorella?» «Non ha importanza.» Adesso Kyle sembrava furibondo. «Che troia!» «Sulla pistola non c'erano le impronte di tuo papà» disse Clevenger. «Ci sarebbero state, se tu gliel'avessi ridata e lui si fosse sparato. Qualcuno ha ripulito la pistola. Non credo proprio che l'abbia fatto tuo papà.» Clevenger alzò un po' la voce. «Perché tuo padre avrebbe dovuto pulire la pistola prima di spararsi?» I muscoli facciali di Kyle erano contratti per la tensione. «Sappiamo che sei tu l'ultima persona che ha avuto in mano la pistola di tuo padre. Sappiamo che eri nei pressi del Massachusetts General Hospital, la mattina in cui gli hanno sparato. Sappiamo che tu lo odiavi. Tutto quadra. Ecco perché quando ho chiesto a tua madre di interrogarti lei mi ha detto di no.» «Io non l'ho ucciso» disse Kyle mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime. «No?» lo incalzò Clevenger. «Mi hai detto che lo volevi morto. Volevi vederlo ammazzato. Adesso dovrei credere che tu non hai preso la pistola e non l'hai...» «L'ho presa perché cosi lui non avrebbe potuto ammazzarsi da solo. Ma non ce l'ho fatta a tenerla.» «Perché no?» «Perché avrei voluto usarla.» «Fammi capire. Eri così preoccupato che lui volesse ammazzarsi, ma non ce l'hai fatta a tenere la pistola per paura di ammazzarlo tu?» Mentre formulava questa domanda, Clevenger si rese conto che avrebbe potuto essere davvero così. Kyle aveva estremamente bisogno di suo padre e, al tempo stesso, era estremamente infuriato con lui. Tuttavia, Clevenger continuò a incalzare il ragazzo, sentendo che la verità stava per venire a galla. «No» disse allora. «Tu volevi usarla e l'hai usata. Tu l'hai ammazzato. Hai ammazzato tuo padre.» «No» urlò Kyle, mentre le lacrime cominciavano a rigargli il volto. «Avrei voluto farlo, e così ho dato via la pistola.» «Tu l'hai data via» ripeté Clevenger, con un tono fintamente arrabbiato. «E come? Ti sei fatto un giro in Harvard Square e l'hai passata a qualche
studente? Chi diavolo l'avrebbe presa?» «Collin» sbottò Kyle e si coprì il viso con le mani. «L'ho data a Collin.» «L'hai data a Collin.» Clevenger rimase in silenzio qualche istante. «E perché?» gli chiese con un tono più tranquillo. «Perché a Collin?» «Non lo so.» Adesso Kyle singhiozzava. «Ma perché non ci lascia in pace? Ci lasci in pace.» Clevenger annuì. Fissò Kyle, con il viso nascosto tra le mani, mentre la sua supplica gli riecheggiava nella mente. Ma perché non ci lascia in pace? Noi. E allora tutto divenne chiaro. A volte è così che la verità viene a galla. Come un sottomarino che emerge dall'acqua o un missile che appare sullo schermo di un radar. All'improvviso. «Capisco.» «Gli credi?» chiese Coady a Clevenger, che lo aveva raggiunto nella stanza in cui aveva assistito al colloquio. Clevenger lanciò un'occhiata a Kyle al di là del vetro-specchio. «Non credo che sia stato lui a sparare.» «Ma questo non lo toglie dai guai. E così torniamo a Coroway. Se Kyle vorrà testimoniare, e se la giuria lo riterrà credibile, abbiamo Coroway al Massachusetts General Hospital con la pistola di John Snow. Abbiamo il movente: Coroway ottiene improvvisamente carta bianca per commercializzare il Vortek e fare della Snow-Coroway una public company. Cose a cui Snow si sarebbe opposto. E, guarda caso, deposita il brevetto del Vortek il giorno dopo che hanno sparato a Snow. L'unica cosa che ci manca è un testimone oculare. Non possiamo collocarlo a forza in quel vicolo. Ho controllato i tabulati del cellulare di Snow. La mattina in cui è stato ucciso non ha ricevuto chiamate da Coroway. E poi c'è un altro problema: non abbiamo il movente di Coroway per l'assassinio di Grace Baxter.» «Convochiamolo comunque» disse Clevenger. «Pensi di riuscire a ottenere una confessione?» «Credo di riuscire a ottenere quello che ci serve.» Coady lo guardò con diffidenza. Clevenger lanciò un'altra occhiata a Kyle. «Ho avuto un'intuizione che vorrei seguire. Ma ho bisogno di riunire tutti in una stanza: gli Snow, Coroway, Reese e Jet Heller.» «Senti, se convoco Reese, quello si presenta con Jack LeGrand ed è verosimile che non dica una parola, se ha l'avvocato accanto. E noi camminiamo già sul filo del rasoio con il capo della polizia.» «L'ultima volta ha parlato molto. E con lui c'era anche LeGrand.»
«Ti avverto che questa è l'ultima volta che lo interroghi. Sei sicuro di volerlo convocare?» «Sì.» «Che cos'hai in mente? Una terapia di gruppo?» «Esattamente. E tu, al di là del vetro-specchio, assisterai.» Coady non gli rispose subito. «Sarà meglio che tutto vada per il verso giusto» disse alla fine. Clevenger era alla scrivania nel suo ufficio, intento a rileggere il diario di Snow, mentre aspettava che Billy passasse da lui dopo gli allenamenti di boxe. Aveva deciso di invitarlo ad assistere all'interrogatorio, per riuscire finalmente a guadagnarsi la sua completa fiducia. Il telefono squillò. Clevenger sollevò la cornetta. «Ho in linea North per te» annunciò Kim Moffett. «Passamelo.» Attese un secondo. «Che succede?» «Non so esattamente come interpretare la cosa,» disse Anderson «ma abbiamo scoperto una grossa e strana operazione sul conto corrente di George Reese un paio di settimane fa. E non si tratta di un versamento, il che farebbe pensare al rendimento dell'investimento sul Vortek. Si tratta di un bonifico dal suo conto.» «Di quanto?» «Cinque milioni di dollari.» «A beneficio di chi?» «Grace Baxter.» Clevenger rabbrividì. Chiuse gli occhi e ripensò a Grace Baxter che strattonava nervosamente i braccialetti di diamanti. Le sue manette. Sono una persona malvagia. Una persona orribile, orribile. «Tu che ne pensi?» gli chiese Anderson. «Una specie di accordo, prima della separazione?» Clevenger riaprì gli occhi. Si sentiva oppresso da una grande tristezza: per Grace Baxter, per Snow, per tutte le persone che cercano di liberarsi da ciò che sono, solo per trovarsi ad affondare nelle sabbie mobili della vita che stanno così disperatamente tentando di lasciarsi alle spalle. «Adesso tutte le tessere del puzzle sono andate al loro posto.» 21 George Reese, l'avvocato Jack LeGrand, Theresa, Lindsey e Kyle Snow,
Collin Coroway e Jet Heller erano seduti intorno al lungo tavolo della stanza degli interrogatori. Clevenger, North Anderson, Mike Coady insieme a Billy Bishop li osservavano dalla stanza attìgua, al di là del vetro-specchio. Per più di un minuto nessuno dei presenti nella stanza degli interrogatori guardò gli altri. Alla fine Kyle lanciò un'occhiata furtiva a Coroway, il quale rispose con un paterno cenno della testa che Clevenger trovò rivoltante. LeGrand guardò l'orologio. Heller, scarmigliato e con gli occhi iniettati di sangue, fissava il piano del tavolo. Theresa Snow si scostò i capelli dal volto. Clevenger osservò Billy che guardava la scena attraverso il vetrospecchio e, invece di sentirsi a disagio perché il figlio stava invadendo i suoi spazi o di preoccuparsi che il contatto con il crimine potesse trasformarlo in un criminale, fu semplicemente grato al ragazzo per il fatto di essere lì, per il fatto di aver voluto essere lì. «Tutto pronto allora?» chiese Coady a Clevenger, che gli aveva spiegato il suo piano. «Tutto pronto» rispose Clevenger. «Buona fortuna» gli augurò Coady. «Se funziona, è un caso da manuale.» Clevenger entrò nella stanza degli interrogatori. Si sedette a capotavola, di fronte a George Reese e Jack LeGrand. Jet Heller era seduto a un lato, accanto a Collin Coroway, e gli Snow erano davanti a loro. Clevenger squadrò i presenti. «Chi vuole cominciare?» chiese. Silenzio. Alcuni si scambiarono sguardi. Lindsey lo fissava. Reese si spostò sulla sedia. «Non so a che gioco stia giocando, dottore,» disse LeGrand «ma se lei non ha domande particolari da fargli, il mio cliente vorrebbe tornare al suo lavoro.» «La banca» disse Clevenger. «Cominciamo pure da lì.» E guardò Coroway. «Il signor Reese e la Beacon Street Bank hanno investito nella SnowCoroway Engineering. È esatto?» «È esatto» rispose Coroway impassibile. «Un investimento cospicuo» sottolineò Clevenger guardando Reese. «È così?» Reese non rispose.
«Venticinque milioni di dollari» precisò Clevenger. «E la situazione della Beacon Street Bank non è proprio floridissima. State nuotando in un mare di crediti non esigibili. Una perdita pari a venticinque milioni di dollari poteva farvi finire in bancarotta.» «Il mio cliente non dirige una public company» intervenne LeGrand. «Il suo patrimonio è affar suo. Devo chiederle di astenersi dall'insinuare che i suoi affari siano in passivo.» «Chiedo scusa» disse Clevenger. Poi si rivolse a Theresa Snow. «Suo marito stava per realizzare un'invenzione che avrebbe risolto i problemi finanziari del signor Reese. Per non parlare del fatto che avrebbe reso il signor Coroway più ricco di quanto già fosse. Molto più ricco. Ma poi tutto è andato storto. Qualche ostacolo si è frapposto sul cammino di suo marito. Chiamiamolo un blocco mentale. E quando lui ha provato a liberarsene... Be', sappiamo tutti che John Snow soffriva di epilessia.» Clevenger lanciò un'occhiata ai presenti. «Troppo stress, un problema che lui non riusciva a risolvere, e la sua mente andava in cortocircuito. Ora, i suoi attacchi forse erano reali, forse no. In ogni caso, per lui erano una sofferenza, questo lo sappiamo per certo. Ed è proprio questa una delle ragioni per cui lui aveva deciso di sottoporsi a un intervento di neurochirurgia. Era stanco dei suoi limiti.» Clevenger riportò lo sguardo su Theresa Snow. «Lei lo sapeva.» La donna annuì impercettibilmente. «Tutti voi lo sapevate» proseguì Clevenger guardando i presenti. Per qualche secondo indugiò su Heller, per assicurarsi che stesse seguendo. «Per cui la questione era: come aiutare John Snow a superare quell'ultimo ostacolo creativo? Come stimolare un genio il cui cervello - o la cui mente - non riesce ad arrivare in fondo alla corsa?» Si strinse nelle spalle. «Qualcuno vuol provare a rispondermi?» Attese. Nessuno parlò. «Be'...» Puntò gli occhi su George Reese. «E se il genio si fosse innamorato?» Reese cambiò posizione sulla sedia ed evitò lo sguardo di Clevenger. Jack LeGrand parve chiedersi per quale motivo Reese avesse un'aria così imbarazzata. «Funziona più o meno così» spiegò Clevenger senza mai staccare gli occhi da Reese. «Un giorno sua moglie torna a casa e le dice che ha realizzato una grossa vendita alla sua galleria d'arte. Duecentomila dollari. Per un solo quadro. E, guarda caso, è il quadro in cui è ritratta lei.» Fece una pausa e lanciò un'occhiata a Theresa Snow, che distolse lo sguardo. «Sua moglie è orgogliosa di sé,» proseguì Clevenger «perché sa che ultimamente le cose vanno piuttosto male, dal punto di vista finanziario. La cosa che le è
sempre stata più a cuore - ossia, il denaro - si sta esaurendo.» «Questo lo dice lei» intervenne LeGrand. Clevenger ignorò l'interruzione. «E così, signor Reese, lei si informa sul nome del compratore, come avrebbe fatto qualsiasi marito. Dopotutto, dev'essersi trattato di qualcuno molto preso da sua moglie.» Reese alzò gli occhi su di lui. «Sua moglie le dice che il tizio in questione si chiama John Snow» proseguì Clevenger. «È un ingegnere aeronautico e possiede un'azienda propria. Molto, molto intelligente, ma socialmente piuttosto impedito. Un tipo strano. Sembra affascinato, quasi stregato, da sua moglie, la quale ha l'impressione di potergli vendere qualsiasi cosa e trova questo fatto quasi divertente. E allora il suo cervello, signor Reese, comincia a lavorare.» Lo guardò negli occhi. «Vuole proseguire lei?» «Vada a farsi fottere» gli rispose Reese. Clevenger vide Coroway sollevare la mano dal tavolo e far segno a Reese di controllarsi e fissò lo sguardo su di lui. «Il signor Reese gioca un ruolo di primo piano nell'infatuazione di John Snow per sua moglie, perché Snow ha la cattiva abitudine di confidarsi con il suo socio. E lei, signor Coroway, non ha mai visto John tanto pieno di energia come dopo che ha conosciuto Grace Baxter. Non lo ha mai visto tanto vitale.» Fece una piccola pausa. «Così lei e il signor Reese escogitate un bel piano. Perché non fare in modo che Grace Baxter diventi la musa di John Snow? Se lui è già in possesso delle informazioni che vi servono, forse potrebbe rivelarle a lei. Se lui è davvero bloccato, forse lei potrebbe motivarlo a compiere l'ultimo sforzo per tagliare il traguardo, per fare l'ultimo salto creativo. Dopotutto non sarebbe certo il primo grande artista o intellettuale ispirato da una bella donna.» Clevenger si strinse nelle spalle e guardò Reese. «Lui è già mezzo innamorato di Grace ed è improbabile che lei si innamori di lui a propria volta. Snow è uno che riesce a stento a vestirsi da solo.» Clevenger pensò a Billy che si trovava nell'altra stanza, pronto ad assimilare ciò che stava per vedere e sentire, e si sforzò di concentrarsi sulle persone sedute intorno al tavolo. «Nessuno, infatti, avrebbe mai pensato che Grace Baxter e John Snow potessero mettersi insieme per davvero.» Si girò verso Theresa Snow. «Certamente non lei, signora. Ecco perché non si è opposta al piano di Collin Coroway. Lei sapeva che la passione di suo marito si limitava alla scienza. Lui non era certo un romantico, né il tipo d'uomo che potesse rubare a un marito multimilionario la sua giovane e affascinante moglie. Perciò, quando Snow ha appeso il ritratto di Grace in
casa sua, lei ha tenuto lo sguardo puntato sul tornaconto: sull'invenzione e sui soldi che la trasformazione della Snow-Coroway Engineering in public company avrebbe fruttato. Lei ha fatto ciò che doveva fare per fargli superare il suo blocco mentale. Se alla sua musa serviva un po' di spazio sopra il caminetto, che facesse pure.» Lindsey Snow guardò sua madre inorridita. «Tu sapevi? Fin dall'inizio?» La madre non le rispose. Clevenger rimase in silenzio alcuni secondi. «Certo che sapeva» disse alla fine. Il viso di Theresa Snow si indurì, imbruttendosi, gli occhi si fecero di ghiaccio, i denti si scoprirono appena in una smorfia. Per la prima volta lei apparve ciò che era in realtà, ovvero una donna tre volte beffata: prima dall'amore di suo marito per le invenzioni, poi dall'adorazione di lui per sua figlia e infine dalla sua passione per un'altra donna. Clevenger si rivolse a Coroway. «E su John Snow lei sapeva qualcos'altro, che lui stesso le aveva detto. Sapeva, cioè, che c'era la possibilità che dopo l'operazione lui risultasse un uomo molto diverso, che ricominciasse un'altra vita da zero.» «Non ho intenzione di rimanere qui ad ascoltare queste sciocchezze» protestò Coroway. «E invece ci rimarrà» ribatté Clevenger. «Perché Theresa non verrà accusata di nulla, in quanto il fatto che sapesse che Grace Baxter stava seducendo suo marito e che tutta la storia era una messinscena non è un crimine. Lei invece, signor Coroway, è la persona che ha sparato a Snow.» Heller scattò in piedi e fissò furibondo Coroway. «Brutto figlio di...» Clevenger posò una mano sul braccio di Heller. Coroway non disse una parola. «Vede, Collin, tutti qui dentro possono essere colpevoli di qualcosa, ma lei andrà in prigione da solo. Perché lei ha agito da solo.» «Io gli ho dato la pistola» disse Kyle Snow con voce tremante. Clevenger guardò il ragazzo, poi di nuovo Coroway. «Kyle le ha dato la pistola di suo padre e questo lo fa sentire molto in colpa. Perché in cuor suo sapeva esattamente ciò che lei ne avrebbe fatto. Aveva seriamente pensato di fare la stessa cosa.» Coroway guardò Kyle. «Gli assassini si riconoscono fra loro» disse Clevenger a Coroway. «Lei ha abboccato. Lui l'ha usata.» «Non potete provare nulla di tutto ciò» protestò Coroway.
«Invece possiamo, e lo faremo» replicò Clevenger. «Non vedo alcun rischio legale per il mio cliente» disse Jack LeGrand, con una punta di ansia nella voce. «Se lei non ha niente in contrario, noi adesso ce ne andiamo.» «Io aspetterei ancora un po'» lo trattenne Clevenger. Indicò Lindsey e Kyle. «Vede, questi ragazzi hanno avuto un rapporto molto tormentato con il loro padre, ma non se lo sarebbero fatti portar via da Grace Baxter. E così Lindsey ha mandato suo fratello a consegnare la lettera di addio della donna alla Beacon Street Bank, affinché il signor Reese sapesse che sua moglie non voleva più vivere senza il suo amante, John Snow. Pensavano che così avrebbero messo fine alla relazione.» Guardò Reese negli occhi. «Questa è la lettera che lei avrebbe messo sul comodino dopo aver ucciso sua moglie. Anche lei ha abboccato.» «Noi ce ne andiamo» disse LeGrand scattando in piedi. Reese rimase seduto. In cuor suo, ognuno desidera sapere la verità. Lentamente LeGrand si risedette. «Vede, il piano ha funzionato bene» proseguì Clevenger. «John Snow continuava a vedersi con Grace Baxter in una suite del Four Seasons. Ben presto lei ha capito che Snow non le avrebbe dato le informazioni. Lui non era davvero in grado di trovare la soluzione finale per il Vortek. Ma Grace gli ha fornito quell'energia che lui non sapeva neppure di avere e il suo cervello l'ha usata per abbattere la barriera creativa che aveva impedito al Vortek di diventare realtà e per raggiungere traguardi intellettuali fino ad allora impensati. Ha superato i suoi attacchi epilettici, perché lei lo sorreggeva saldamente. Grace era diventata a tal punto parte integrante del suo intelletto e della sua genialità che quando, alla fine, John ha risolto il problema contro cui combatteva da tempo, ha scritto la soluzione sotto forma di un suo ritratto. Ha disegnato sul proprio diario i capelli, gli occhi, il naso e le labbra di Grace con un collage di numeri e di simboli matematici: equazioni che spiegavano quell'invenzione che lui inseguiva da così tanto tempo.» «Non sapevo che il diario fosse ancora tra i reperti» disse LeGrand. «Si dà il caso che mio figlio me ne abbia fatto una fotocopia prima dell'intervento dell'FBI» spiegò Clevenger. «Quindi è tra i reperti. Così come la registrazione del bonifico da cinque milioni di dollari effettuato dal signor Reese sul conto di sua moglie come ricompensa per aver sedotto John Snow. Lei ha ricevuto i soldi il giorno dopo il brevetto del Vortek.» «Molto interessante» commentò LeGrand. «Ma quello che la sua teoria
prova in realtà è che il mio cliente e sua moglie erano totalmente dediti uno all'altra. Lei avrebbe fatto qualunque cosa per lui e lui per lei. L'unica persona con un vero movente per uccidere Grace è la signora Snow, la moglie di John. Lei è l'unica persona che lui ha tradito.» Theresa Snow rimase impassibile. «Questo potrebbe essere vero se il piano avesse funzionato secondo le previsioni del suo cliente» ribatté Clevenger. «Invece, ha funzionato un po' troppo bene. Non soltanto John Snow si è innamorato di Grace Baxter, ma anche lei si è innamorata di lui. Era incinta di un figlio suo e voleva tenere il bambino.» Lindsey Snow trasalì. Theresa Snow girò la testa dall'altra parte. Reese scattò in piedi. «È una menzogna!» LeGrand lo prese per un braccio e lo costrinse a sedersi di nuovo. Clevenger guardò Reese, che cercava di controllarsi. «Il guaio è che nessuno, compreso lei, signor Reese, aveva tenuto conto del fatto che John Snow era un uomo fuori dal comune. Non vestiva all'ultima moda. Non era uno sportivo. A uno dei suoi sontuosi party si sarebbe sentito un pesce fuor d'acqua. Ma la sua mente aveva qualcosa di miracoloso. Lui era un genio. Un inventore. Aveva un'immaginazione talmente portentosa che il suo cervello riusciva a contenerla a stento. Ed è stato proprio questo a sedurre sua moglie. Perché, in realtà, il denaro non l'ha mai appagata e ha sempre tenuto in ostaggio la parte migliore di lei. Grace era una donna molto più profonda di quanto lei, signor Reese, pensasse. Molto più di quanto lei stessa si rendesse conto di essere. E i cinque milioni di dollari che lei, come promesso, le ha dato non le hanno fatto dimenticare John Snow.» Clevenger osservò come le sue parole si insinuassero nella mente di Reese. «Quando sua moglie non si è fatta vedere al cocktail alla banca, lei è tornato a casa» disse. «Aveva già letto la terribile verità nella sua lettera di addio. Grace amava Snow. Non voleva più vivere senza di lui. E quando l'ha trovata sul letto con i polsi tagliati, alcune ore dopo che Snow era stato ucciso, per lei è stato troppo. Sua moglie non sarebbe morta a causa di quelle ferite. Lei lo sapeva, signor Reese. Grace aveva già tentato il suicidio più di una volta, in passato. Ma questa volta era diverso. Questa volta lei aveva davvero perso sua moglie, per colpa di un altro uomo. Un uomo che era morto. E così ha preso il taglierino da moquette e le ha tagliato la gola.» «Sarà meglio che lei abbia delle prove a sostegno di ciò che afferma...» cominciò a dire LeGrand.
«Le ferite sono state prodotte da due lame diverse» lo interruppe Clevenger. «Il taglierino che il suo cliente ha usato per recidere le carotidi della moglie e qualcosa di più sottile, come una lametta da barba, che Grace Baxter ha usato per tagliarsi i polsi.» LeGrand perse la sua baldanza. «La polizia non ha trovato nessuna lametta insanguinata, perché il signor Reese se ne è sbarazzato prima del suo arrivo.» Clevenger fece una pausa. «Per me è tutto chiaro. E lo sarà anche per la giuria.» «È stato lui a ucciderli entrambi» saltò su Coroway indicando Reese. «Kyle ha portato la lettera di Grace e la pistola di John alla stessa persona: George Reese. È stato lui a uccidere John. E poi ha ucciso sua moglie. Perché loro due si erano innamorati quando non avrebbero dovuto. Io non ho fatto niente più di quello che ha fatto Theresa. Io ho solo contribuito a tenere viva l'illusione tra loro due. Io non ho commesso alcun crimine.» Clevenger lo guardò e scosse la testa. «Lei è il perno di tutta la faccenda. Perché una volta che ha ottenuto dal suo socio quello che voleva, ovvero il Vortek, lei gli ha raccontato la verità. Gli ha detto che era stato ingannato. Che si è innamorato di un'attrice. Perché sotto sotto, Collin, lei odiava Snow. Odiava la sua intelligenza. Odiava il fatto che lui fosse un genio mentre lei era solo quello che teneva i conti. E che dire del pensiero che, per di più, Snow finisse con Grace Baxter? No, lei non poteva tollerarlo. Allora, gli ha detto che quello che lui pensava fosse amore era soltanto una messinscena. Lo ha distrutto. Ed è stato allora che John le ha dato il benservito. È stato allora che le ha detto che avrebbe mollato tutti, che l'operazione non solo avrebbe messo fine ai suoi attacchi, ma avrebbe anche fatto sparire tutta la sua sofferenza. Perché lui non avrebbe più ricordato nessuno di voi.» Heller stringeva il bordo del tavolo tanto da farsi sbiancare le nocche. «Non so di che cosa stia parlando» disse Coroway. «Non poteva certo permettere che uno come John Snow, con tutte le sue conoscenze in fatto di sistemi bellici, se ne andasse in giro libero per il mondo. Avrebbe potuto divulgare i vostri segreti. Avrebbe potuto fondare una società per conto suo, estromettendo lei dagli affari. Alla fine, era una questione di soldi. E così, quella mattina, lei è andato al Massachusetts General Hospital e ha fatto in modo di incontrare Snow in quel vicolo. Gli ha sparato al cuore a bruciapelo. Lo ha ucciso prima che lui avesse la possibilità di rinascere.» Heller balzò su dalla sedia, agguantò Coroway e lo sbatté con le spalle
alla parete. Poi gli strinse le mani intorno al collo, con l'intenzione di strangolarlo. Lindsey Snow si mise a urlare. «Chi eri tu per portarmi via il paziente?» gridò Heller. «Credevi, forse, di essere Dio?» Clevenger e Kyle Snow si precipitarono su Heller, cercando di tirarlo da parte. Ma le mani di Heller si strinsero ancora di più intorno al collo di Coroway. «Stavamo per fare una cosa che sarebbe passata alla storia» disse fuori di sé. La porta della stanza si aprì di colpo. Con la coda dell'occhio Clevenger vide entrare Mike Coady e Billy. Coady teneva la pistola puntata. «No, dottor Heller» gridò Billy «non lo faccia.» Heller guardò prima il ragazzo, poi le proprie mani. «La prego» insisté Billy. Heller mollò lentamente la presa su Coroway, che cadde a terra boccheggiante. Coady abbassò la pistola. «Si dà il caso che abbia con me un paio di manette» disse sollevandole e guardando George Reese. «Non sono tempestate di diamanti, per cui dovrà accontentarsi.» 22 Poco più di un'ora dopo Theresa Snow entrò nell'ufficio di Clevenger alla Boston Forensics. Clevenger l'aveva chiamata, non appena lei era arrivata a casa, e le aveva detto che aveva bisogno di incontrarla subito. Lui avvicinò una sedia alla sua scrivania e le fece cenno di accomodarsi, poi andò a sedersi al suo solito posto. «Di cosa voleva parlarmi?» gli chiese lei. «Della verità.» Theresa Snow lo guardò fisso negli occhi. «La verità su cosa?» «Su John.» «Si spieghi meglio.» «Theresa, io so che cos'è successo veramente. E so anche perché.» Distolse lo sguardo. «Non sono fiero di quello che ho fatto nella stanza degli interrogatori, ma lo rifarei.» Lei rimase in silenzio.
Clevenger riportò di nuovo lo sguardo sulla donna e abbassò il tono di voce. «Io so perché lei ha ucciso John e non la biasimo per averlo fatto.» «Lei è pazzo» disse lei, con tono esitante. «La sua mente era innamorata di quella di John, ma il resto di lei era morto, in tutti gli anni in cui è stata sposata con lui.» Theresa non fiatò. «Lei è rimasta al suo fianco, quando chiunque altro se ne sarebbe andato. Lei è rimasta anche quando lui si è comportato crudelmente nei confronti di suo figlio. Lei è rimasta anche quando lui ha riversato tutto il suo affetto su sua figlia. Si è sempre messa all'ultimo posto. Prima veniva lui. Perché lui era straordinario.» «I matrimoni si reggono su motivazioni diverse» disse la donna. «Il nostro si reggeva sul lavoro di John.» «Ed è questa la ragione per cui lei ha collaborato con Coroway e Reese. Ha permesso che costruissero per John una falsa storia d'amore. Perché lei sapeva quanto John soffrisse quando si bloccava, quando non riusciva a inventare. Il Vortek lo stava torturando. Poi lui si è imbattuto in qualcuno che poteva infondergli un nuovo tipo di energia, un'energia che voi due insieme non avete mai posseduto, un'energia che avrebbe potuto rimettere in moto la sua creatività. E così, ancora una volta, lei ha sacrificato i suoi sentimenti... per lui.» «Quella donna non avrebbe dovuto... insomma... ha capito.» «Andare a letto con lui.» Theresa Snow sembrò ferita da queste parole. «Lei avrebbe dovuto dirgli che teneva moltissimo a lui, ma che, prima, doveva chiarirsi le idee sul proprio matrimonio. Avrebbe dovuto incanalare di nuovo l'energia di John verso il suo lavoro.» «Finché lui non avesse ultimato il Vortek. Dopodiché tra loro due sarebbe finita.» Lei annuì. «E invece non è finita. Non per lei. Non per lui. Tutti gli anni che lei, Theresa, aveva passato accanto a lui, tutte le sofferenze di Kyle, sembravano non contare nulla. John voleva vivere con Grace Baxter tanto quanto lei voleva vivere con John. E allora lei, e non Collin, ha detto a John che tutta la sua storia con Grace era una montatura. Lei ha distrutto la sua fiducia in quella donna. Ed è stato allora che lui le ha detto che se ne sarebbe andato, che avrebbe mollato tutti. Che l'operazione vi avrebbe resi due perfetti estranei.»
«Non si sarebbe neppure ricordato quello che mi aveva fatto.» «Lei non sarebbe più esistita per lui» disse Clevenger. «John aveva minacciato di annientarla e lei non gliel'avrebbe mai permesso.» Fece scivolare la mano verso di lei sulla scrivania. Lei la fissò intensamente. Clevenger lesse nei suoi occhi il desiderio, il desiderio per quel genere di relazione che suo marito aveva con un'altra donna. «C'è una ragione per cui nulla è andato come Coroway e Reese le avevano prospettato» proseguì. «A volte, quando due persone si incontrano, provano qualcosa che non hanno mai provato prima. È come quando una chiave si inserisce perfettamente in una serratura. Un mio vecchio professore diceva che è come trovare la propria "mappa dell'amore". Grace era quella di John. E John era quella di Grace.» «E io riuscirò mai a...?» Theresa Snow lo guardò negli occhi. «Mi racconti che sensazione ha provato» le disse Clevenger. «Eh?» «Quando gli ha sparato.» Lei esitò. «Può dirmi tutto. Adesso è finita. Reese verrà dichiarato colpevole per il delitto di Grace. Coroway per quello di John.» Clevenger fece una pausa. «Le ha dato una bella sensazione?» La donna chiuse gli occhi, poi li aprì, come una gatta. «Per la prima volta mi sono sentita una persona.» «Per una volta, lei ha anteposto i suoi sentimenti a quelli di lui.» «A dire il vero, non credo che sarei riuscita a premere il grilletto, ma poi lui ha avuto la faccia tosta di dirmi che non potevo aggrapparmi al passato, che dovevo reinventarmi. Dopo che io gli avevo dato tutta la mia vita.» Allungò la mano fino quasi a toccare quella di Clevenger. «La cosa strana è che, sparandogli, credo proprio di aver reinventato me stessa. Credo di aver cambiato tutta l'architettura della mia vita.» «Pensa che sia questo il motivo per cui Kyle le ha dato la pistola di John? Perché così lei sarebbe potuta fuggire?» «Ne avevamo bisogno tutti e due.» Clevenger fece un profondo respiro e scosse la testa. «Coroway si prende la prigione a vita. Non so se se lo merita.» «Collin, George e io sapevamo benissimo che stavamo giocando con il fuoco» gli fece notare Theresa. «Chiunque di noi avrebbe potuto scottarsi in qualunque momento.»
«Questo è vero» ammise Clevenger. «Solo che non si sa mai quando o come ciò possa avvenire.» Fece ruotare la poltrona verso il grosso specchio con la cornice decorata che era appeso sulla parete opposta. Anche Theresa si voltò e guardò nello specchio. Sorrise ai loro volti riflessi. Clevenger allungò la mano verso un pulsante sistemato sotto la sua scrivania. Il loro riflesso svanì lentamente, mentre le luci nell'ufficio si abbassavano rendendo lo specchio trasparente e rivelando le figure di Collin Coroway, Mike Coady, Billy Bishop e Jet Heller che si trovavano in piedi dall'altra parte. «Che significa, Frank?» chiese Theresa, confusa e in preda al panico. «Mi perdoni per aver organizzato un'altra messinscena ai suoi danni.» «Nessuno può dare prova di quello che le ho detto» protestò la donna. «Lei è uno psichiatra. Questo è il suo studio.» «Ma io non sono il suo psichiatra. E questa non è una terapia. È un'indagine per omicidio.» Gli occhi di Theresa si riempirono di lacrime. «È stato Kyle? Gliel'ha detto lui?» «Kyle non l'avrebbe mai tradita. In questi anni lei è stata tutto ciò che lui aveva» disse Clevenger. «Non ho mai creduto che lui avesse dato la pistola di John a Collin, non aveva senso. Suo figlio è fin troppo sveglio. Lui voleva che suo marito morisse. L'unico vero movente di Collin per ucciderlo erano i soldi e lui aveva già una fortuna. Invece lei, Theresa, avrebbe ucciso per passione, per gelosia, per rabbia. Avrebbe ucciso per le stesse ragioni per cui George Reese ha ucciso Grace. Perché lei non poteva sopportare il pensiero della rinascita di suo marito. Non dopo aver tollerato tanto a lungo un matrimonio che era morto.» La porta dell'ufficio si aprì. Coady entrò con un paio di manette in mano. «Pensavo che lei mi capisse» disse Theresa con un tono che la faceva sembrare molto vulnerabile. «Pensavo... Non prova nulla per me?» «Certo» rispose Clevenger. «Mi dispiace davvero molto di non averla avuta come paziente, prima che tutto ciò accadesse. Forse avrebbe avuto la possibilità di ottenere una vera libertà, invece di una vita dietro le sbarre.» Billy Bishop era seduto sul davanzale della finestra nell'angolo opposto alla scrivania di Clevenger. Era stato informato in anticipo di come si sarebbe svolta la messinscena alla centrale di polizia di Boston e aveva fatto
la sua parte senza sbavature. «Allora, secondo te, chi è stato a farti saltare in aria il pick-up?» chiese a Clevenger. «Dieci a uno che è stato Kyle Snow» rispose Clevenger. «Aveva un valido motivo e una certa pratica di esplosivi. Ma non posso provarlo.» «Anch'io la penso così» disse Billy. «Ha contribuito all'uccisione di Grace Baxter e di suo padre e ha quasi ammazzato te. Tutto perché odia se stesso. Glielo si legge negli occhi. Ora più che mai avrà bisogno dell'Oxycontin.» «Stai diventando bravo.» «Il dottor Heller è stato decisamente convincente, là dentro. Potrebbe fare l'attore.» «Non ha alcuna intenzione di cambiare lavoro. Mi ha detto che si prenderà una settimana di vacanza, poi ha in programma un grosso intervento. Un'altra ragazzina... Questa volta si tratta di un tumore.» Billy ebbe un sussulto. «Pensi che sarà abbastanza tranquillo?» «Vedrai che si rimetterà in sesto» rispose Clevenger. «Il caso di John Snow è chiuso, in parte grazie a lui... e a te.» Sembrava che Billy avesse qualcosa di importante da dire, ma non riusciva a trovare le parole. «Sono sicuro che puoi andare ad assistere all'intervento, se ti va» disse Clevenger. «A Heller fa molto piacere se in sala operatoria ci sei anche tu e io, di sicuro, non ho nulla in contrario.» «Non stavo pensando al dottor Heller.» Clevenger rimase in silenzio, in attesa del seguito. «Ho parlato del bambino con Casey» disse Billy. «Ieri sera tardi.» Quanta fretta. Clevenger voleva aiutarlo a considerare le cose nella giusta prospettiva. «Come ti ho detto, è ancora troppo presto per sapere se lei lo vuole tenere davvero» disse. «Lo so» convenne Billy. «Ma io le ho detto che se lei vuole tenerlo a me sta bene.» Clevenger non aveva nessuna risposta pronta. «Voglio dire, è una persona, giusto?» proseguì Billy. «O perlomeno lo è in potenza. Per cui, se lei già gli vuole bene non sarò certo io a costringerla a fare qualcosa che non vuole, qualcosa di cui potrebbe pentirsi per il resto della vita.» Parole ammirevoli. Il primo passo di un cammino molto lungo e impervio. «Sembra proprio che tu ami questa ragazza» osservò Clevenger.
Billy arrossì, abbassò per un istante lo sguardo a terra e poi tornò a guardare Clevenger. «Hai chiamato Whitney?» «Non ancora.» Billy annuì. «Be', allora ci vediamo a casa.» E si alzò in piedi. Anche Clevenger si alzò. Si abbracciarono e stavolta fu una stretta un po' più forte del solito frettoloso abbraccio. Billy uscì dalla stanza. Clevenger tornò a sedersi. Fissò il telefono per dieci, quindici secondi, prima di sollevare la cornetta. Compose il numero di Whitney McCormick a Washington. E sentì il suo telefono squillare una, due, tre volte. «Pronto?» rispose lei. «Sono Frank.» Silenzio. Clevenger guardò fuori dalla finestra il porto di Chelsea e il mare cupo e mosso per il costante vento invernale. «Non voglio che finisca così, che la facciamo finire così.» Lui poteva sentirla respirare, ma lei rimaneva in silenzio. «Penso che dovremmo provare a trascorrere più tempo insieme. Perché è molto raro incontrare qualcuno che ti dà la sensazione di poter essere qualcosa di più di quello che sei. Io ne sono davvero convinto adesso. Capita una volta su un milione. E penso che stia capitando a noi.» Ancora nessuna reazione. Lui sospirò. «O perlomeno che ci sia capitato.» «Ci sta capitando» si decise a dire lei. Clevenger chiuse gli occhi. «Voglio vederti.» «Mi dai un po' di tempo?» «Certo.» Lui riaprì gli occhi. «E penso che sia meglio che proviamo il Ritz» disse lei. «Dobbiamo inaugurare una tradizione tutta nostra.» RINGRAZIAMENTI Sono molto grato al mio editor, Charles Spicer, alla mia agente, Beth Vesel, e ai miei editori, Sally Richardson e Matthew Shear, che hanno tanto a cuore il loro lavoro e il mio. Non c'è compagnia migliore per uno scrittore. Importantissime sono state le prime letture di Christopher Keane, Jeanette e Allan Ablow, Paul Abruzzi, Stephen Bennett, Charles "Red" Donovan, Julian e Jeanne Geiger, Michael Homler, Rock Positano e dell'avvocato
Anthony Traini. Il mio amico, collaboratore e co-terapista J. Christopher Burch, irreprensibile genio gentiluomo, ha seguito tutte le fasi del lavoro. Ringrazio, infine, mia moglie Deborah, mia figlia Devin e mio figlio Cole per avermi sempre ricordato quanto magiche e toccanti possano essere le trame della vita. FINE