INDICE
Tito]o originale: le, nous et les autres, étre humain au-delà des appartenances Traduzione da] francese di Carlo Mi]ani (aka K.) © 1999 Le Pornrnier © 2004 E]èuthera editrice
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INTRODUZIONE
Due figure della conformità: la vanità dell'identità e il carattere timorato della rappresentazione CRITICA
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DELL'IDENTITÀ
r. L'inflazione identitaria - povertà epistemo]ogica ed efficacia ideologica Il. Segni assoluti grondanti verità Ili. A proposito dell'onnipotenza IV. Un pensiero dell'essere e non un pensiero dell'a]tro V. La logica dell'avere: tutto questo mi appartiene VI. Il riflusso verso l'origine VII. La logica della sottrazione: restare in sé VIII. Segnali di sconforto IX. Il principio d'identità o ]a logica di non-contraddizione
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32 36 40 46 50
X. XI. XII.
XIII.
XIV.
I fantasmi della metafisica L'odio del tempo e della storia L'antinomia dell'identità e della temporalità Pessoa, Proust, Diderot, Montaigne L'illusione dell'autonomia dell'autore e della costanza del lettore L'identità e la verità. L'antropologia CRITICA
DELLA
e il linguaggio
XVI.
XVlIJ. XIX. XX. XXI.
XXII.
XXII!.
XXIV. XXV.
XXVI.
INTRODUZIONE DUE FIGURE DELLA CONFORMITÀ: LA VANITÀ DELL'IDENTITÀ E IL CARATTERE TIMORATO DELLA RAPPRESENTAZIONE
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RAPPRESENTAZIONE
XV. Una concezione sostanzialista del reale
XVll.
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La finzione dell'unità e dell'identità del segno e del senso Una concezione strumentale del linguaggio Rappresentazione, descrizione e teoria della conoscenza Una scrittura non differita Una scrittura della non-differenza (o indifferenza) Rappresentazione scientifica e rappresentazione teatrale «comunicare» e interpretare Critica dell'estetica della rappresentazione l'arte astratta e la scrittura di Samuel Beckett Critica della semiologia della rappresentazione Austin e gli «enunciati performativi» Riproduzione e trasmutazione Il castello del realismo balzachiano e del neorealismo etnologico Il contributo dei nuovi linguaggi della rappresentazione al mite sterminio del senso
75 78 81 84 89 91 93 96 100 103 105 109
CONCLUSIONE
AI «fondamento» della «rappresentazione»: ]' «identità». Compito dell'antropologia: mettere in crisi queste due nozioni
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Bibliografia
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Un'epoca agitata è un'epoca che dubita della coerenza del mondo e della 1?ertinenza dei linguaggi incaricati d'esprimere tale coerenza. E un'epoca in cui più che in precedenza c'è dell'incomprensibile, dell'incerto, dell'ininterpretabile, dei significati fluttuanti sparsi un po' dappertutto, mentre peraltro si ricreano per reazione le certezze identitarie e i linguaggi della «rappresentazione», che non sono affatto quelli del dubbio. Messi di fronte a una crisi della conoscenza e segnatamente a una crisi delle rappresentazioni della crisi (a cominciare, come vedremo, dalla nozione stessa di rappresentazione), dobbiamo urgentemente affrontare in un altro modo le questioni che ci vengono poste: pensare, parlare, scrivere altrimenti. È questa inadeguatezza delle situazioni e della loro concettualizzazione, o raffigurazione, questa insufficienza del linguaggio a designare l'assenza o la trasformazione, che ci spingono alla ricerca, che è essa stessa - non facciamo gli ipocriti fonte di piacere. La nostra epoca, di cui parliamo tanto male, costituisce una sfida estremamente stimolante per l'immaginario. Ci incita a pensare 1'evanescente, l'aleatorio, il precario, il turbolento, senza alcuna certezza di trovare un legame necessario di causalità o un ordine nascosto, che sono le due modalità della razionalità esplicativa. In effetti, oggi è perlomeno difficile riferirsi ancora una volta a un paradigma dell'ordine. 7
L'indeterminazione di ciò che è singolare, l'indecisionalità del senso, la non-riconciliabilità dei punti di vista differenti sono gli elementi che costituiscono la straordinaria ricchezza di questo scorcio di secolo. La nostra attenzione dovrebbe essere messa in moto dalla natura idiota della realtà. Idiota in senso etimologico, cioè singolare, aleatoria, senza possibilità di duplicazione nel mondo della struttura o nel cielo delle Idee. E questa impresa bisogna ricominciarla senza posa, poiché si scontra continuamente con la stupidità. «La stupidità è qualcosa d'impassibile; nulla può attaccarla senza infrangersi. È dura e resistente, della stessa natura del granito», ci dice Flaubert, che altrove scrive: «La stupidità consiste nel voler concludere». Quello che qui è in questione non è solamente una concezione accademica di ciò che si fa passare per la ragione, che conduce alla non-distinzione e all' indifferenza, e per reazione a quel differenzialismo che, da parte sua, pretende di sopprimere recisamente gli intervalli, gli interstizi, i tra-i-due; in questione sono anche tutte le forme «sedentarie» della ricerca e, più in generale, dell'esistenza. Omero racconta che gli dèi ridevano, ma Platone esclude il riso dalla città e a maggior ragione dalla teoria. Per molti aspetti noi continuiamo a essere eredi di Platone, ovvero adepti dei generi separati e gerarchizzati. Certo, qua e là affermiamo che una società senza riso, senza sogno, senza finzione, senza immaginario sarebbe una società carceraria, ma lo diciamo con una tale serietà! Celebriamo il romanzo in quanto spazio di gratuità, ma in una maniera così poco romanzesca e talmente mercantile! O ancora, vi sono molti discorsi sul gioco, che sarebbe proprio dell'uomo, sull'infanzia ritrovata. Ma perché la maggior parte delle volte questi discorsi sono così poco ludici? Perché non prendono in considerazione il gioco in tutti i suoi stati? Perché non concedono più gioco alla forma? Non è possibile farlo, oggi, a meno d'immaginare un discorso sul metodo che sia allo stesso tempo rigoroso e allegro. Rigettando il riso all'esterno della conoscenza ci siamo sistemati nella stupidità, cioè in un sapere che ha inghiottito la distanza creata dal dubbio, in un sapere di credenza. La forma di pensiero che sarà incoraggiata vivamente in quest'opera, alla quale Alexis Nouss e io diamo il nome di métissagel , non 8
è propriamente seria. Ma essa non conduce nemmeno all'ironia, che ride dell'altro, lo giudica, lo esclude come se fosse omogeneo ma non avesse nulla a che vedere con sé; essa conduce piuttosto all'umorismo, una forma di comico che ci permette di evitare l'adesione e l'aderenza con noi stessi, di prenderci in giro, di desingolarizzarci per universalizzarci. Mi è giunto all'orecchio che molti di quelli che rivendicano il pensiero scientifico sono cambiati, che non si danno più arie ricorrendo a toni cardinalizi da esperti riuniti in conclaye, che non sono più «ingessati», murati in cittadelle di carta. E vero, si trova sempre meno pensiero in cemento armato e libri fortificati. Parecchie opere che fanno appello alla ragione pubblicate nel corso degli ultimi due decenni hanno un aspetto assai migliore di molte che le hanno precedute. Ripetono un po' meno di quanto facesse Homais. Non copiano più ogni cosa alla maniera di Bouvard e Pécuchet. Cominciano a emergere sempre più numerosi isolotti di libertà e di razionalità critica in un oceano dogmatico. Ma è ancora ben poca cosa. Le scienze dell'uomo e della società, per esempio, sono ancora lontane dall'aver rinunciato all'idea che non c'è più alcun centro, alcuna verità, alcun assoluto. Non sono ancora realmente entrate nell'era della relatività. Esse sono rimaste ben al di qua di ciò che hanno realizzato Kafka, Proust, Joyce, Faulkner per il romanzo, Planck, Einstein, Heisenberg per la fisica dei quanti. Il mio consiglio è di abbandonare i grandi viali e cercare di aprirsi un altro cammino piantando definitivamente in asso Homais, Bouvard e Pécuchet. Per quale ragione nella ricerca propria alle scienze umane non ci dovrebbe essere posto per la sperimentazione, come avviene invece dappertutto, nella fisica, nella biologia, ma anche nella letteratura, nell'architettura, nella pittura, nella musica, nel teatro, nel cinema? Basta con i testi definitivi, lisci, educati in tutti i sensi del termine, positivi e coerenti, che tracciano un solco unico, senza dubbio con la prospettiva di riscuotere tutto quello che è stato scommesso lavorando nella monocoltura, in un solo campo. Oggi la conoscenza può essere solamente frammentaria e incompiuta. Possiamo cogliere solo delle briciole, dei frammenti, delle schegge. Non è più l'epoca dei colletti di celluloide o dei mastodonti. Quest' epoca esige invece duttilità e mode9
stia. L'unica posizione in grado di affermare una scrittura minimale mi sembra essere l'accettazione, né sconvolta né beata, di questa esplosione e di questa separazione, nell 'invenzione di una molteplicità metodologica. La percezione della separazione, questa esperienza della non-coincidenza che si manifesta in particolare attraverso gli spazi bianchi, i buchi e i silenzi, è più forte in quei ricercatori e scrittori che si rendono conto, al pari di K., l'agrimensore del romanzo di Kafka, che non potremo mai penetrare nel castello, ossia che siamo condannati a restare al villaggio. Questo può provocare panico, ma anche esultanza, come la lettura stessa dei testi di Kafka, il più chapliniano di tutti gli scrittori. Un sentimento di estraneità e soprattutto di inquietudine, titolo dell'opera di Femando Pessoa. Sono gli accidenti nella vita della società che conducono agli accidenti nel testo, a un testo accidentato come questo, fatto di quel che Montaigne chiamava «salti» e «capriole». Come potrebbe essere diverso senza essere adirato con il reale? Le fratture della cultura richiamano discorsi spezzati, discorsi suscettibili di dire e di far comprendere lo sbandamento dei suoni e dei sensi. Tentare di descrivere la realtà di ciò che viviamo oggi esige dei legami inediti tra le parole, ma anche un lavoro di «slegamento» rispetto alle convenzioni della lingua. Non è affatto una questione subaltema, bensì un punto decisivo. Il mondo non parla, e non ha previsto nulla per essere parlato. D'altra parte, non possiamo uscire fuori del linguaggio, che non è un «qualche cosa» che «s'aggiunge» al pensiero. Ora, ci sono tante parole consumate, tante parole che rimuginiamo, tante parole che escono automaticamente daila bocca o dalla penna senza che si presti loro attenzione, sempre pronte a riprendere servizio, parole che, a forza di trascinarsi, malate, diventano un vero handicap"per il pensiero, una minaccia di letargia. E opportuno rinnovare le parole, essere vigili anche quando mostrano la tendenza ad ammassarsi sempre nello stesso modo. È impossibile per un ricercatore, cioè per uno scrittore, sottrarsi alla scrittura. È però un compito sia individuale sia collettivo di una difficoltà estrema, che deve essere ripreso senza posa. Tra le parole che si diffondono, si sistemano, s'incrostano e contribuiscono allo sgretolamento, anzi alla scomparsa dell' esercizio critico del pensiero, ve ne sono due che saranno particolarmente lO
bistrattate in quest' opera. Si tratta delle nozioni parimenti angoscianti d'identità e di rappresentazione, che fanno parte di tutto questo deposito di riflessi condizionati che oggi è d'ostacolo alla riflessione. In apparenza tutto sembra opporre la nozione d'identità alla nozione di rappresentazione. La prima è caratterizzata dalla vanità, dall'arroganza, dal fatto che si espande al di là di ciò che può essere ragionevolmente detto, mentre la seconda, pigra, si tiene al di qua delle capacità del linguaggio. La rappresentazione teme il linguaggio. Se l'identità, come mostreremo, è una captatio fraudolenta di significazioni che dice sempre troppo, che afferma con tutto il suo peso la Totalità e l'Assoluto, la rappresentazione tende invece a farsi piccola piccola. Modesta e quasi timorosa, non dice mai abbastanza. In confronto all'inflazione del sapere identitario che può ricorrere a una specie d'imbottitura semantica, la rappresentazione non dice assolutamente nulla. La rappresentazione recita, ripete. Ma è, come vedremo, ciò che fa anche l'identità. C'è un secondo modo di analizzare ciò che, ancora in apparenza, separa la rappresentazione dall' identità. Per la prima, le cose hanno il loro equivalente nel linguaggio e le parole sono la replica dei fatti: una parola per ogni cosa e una cosa per ogni parola. L'identità al contrario si considera priva di qualsiasi equivalente. Si pone come se fosse insostituibile. L'ideale della rappresentazione, che sembra procedere con una logica del tutto scientifica, è di poter mettere il segno uguale tra le parole e ciò che designano. L'identità al contrario evolve in un'atmosfera di Pentecoste permanente. Poiché si ritiene ineffabile, trascina con sé quasi ineluttabilmente del pathos, mette in moto volentieri il linguaggio dellirismo, si sarebbe quasi tentati di dire della mistica. Quello che sembra dunque caratteristico dell'identità, nella sua tendenza a stirarsi, è una specie di euforia prekantiana, mentre la rappresentazione avrebbe fatto propria la lezione di un sapere limitato. Limitandosi all'enunciazione dei fatti, la rappresentazione sarebbe denotativa, mentre da parte sua l'identità sarebbe crudamente «performativa» nel senso di Austin, cioè farebbe accadere ciò che non esiste ancora. Mostreremo in questo libro che facendo ricorso all'una come 11
all'altra di queste due nozioni - ma quando consideriamo l'una, ecco che l'altra si profila - non facciamo altro che ripetere e riprodurre. La rappresentazione e l'identità si sviluppano in conformità ai pregiudizi, ai preconcetti. Non soltanto esse non rendono conto del movimento, ma si oppongono a esso, al tempo e alla turbolenza, mantenendosi sempre al di qua di un pensiero critico. Il linguaggio, ma anche la storia, non vanno d'accordo né con l'una né con l'altra. Poiché l'identità e la rappresentazione diffidano entrambe delle tensioni fra il sé e l'a1tro, così come delle avventure del linguaggio, è senz'altro il caso di pensare che esse siano incompatibili sia con il progetto dell'antropologia sia con quello della traduzione da una lingua a un'altra, per i quali c'è dell'altro in me e parte di me nell'altro. Dal momento che indubbiamente la rappresentazione non scomparirà senza l'identità, ci confronteremo con tutte e due, cominciando tuttavia, per scrupolo di chiarezza, dall'identità. È certo utile precisare anche che queste due parole non giungono mai sole. Sono in genere accompagnate da tutta una banda di colleghe, parole ed espressioni da cui si attinge, ma sempre più nell'indifferenza generale, quando non si ha granché da dire. Queste sono riconoscibili soprattutto per il loro aspetto incolore - oppure tendente al grigio - e per il loro carattere di status quo. Sono inoltre in perfetto accordo con la concezione mercantile e meccanicista vigente dell'uomo e della società: non ci trovano nulla da ridire. Saranno però solo due di queste parole che adesso occuperanno la nostra attenzione. Osserviamole con attenzione, prima di dimenticarle con determinazione.
Nota all'Introduzione
1. Ci permettiamo di rinviare alla nostra opera: F. Laplantine, A. Nouss, Le Métissage, Flammarion, colI. «Dominos», Paris, 1997.
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CRITICA DELL'IDENTITÀ
I L'INFLAZIONE IDENTITARIA POVERTÀ EPISTEMOLOGICA
ED EFFICACIA IDEOLOGICA
Poche nozioni sono tanto inflazionate. L'identità è diventata oggi uno slogan brandito come un totem o ripetuto in maniera compulsiva come un'evidenza che sembrerebbe aver risolto proprio ciò che risulta problematico: il suo contenuto, i suoi limiti, la sua stessa possibilità. La sua estensione e la sua proliferazione sono tali che essa è in grado di caratterizzare tanto un'affermazione religiosa, etnica, razziale, sociale, nazionale, regionale, familiare, professionale o generica (i gruppi di uomini, di giovani, di omosessuali), quanto l'insieme di coloro che sono affetti da un handicap fisico (<<nonvedenti», «non udenti» ...) o mentale. Quindi in questo sacco ci vengono ficcate un mucchio di cose disparate: il «me», ma anche il «noi», il noi qui, il noi là, ma anche il «noialtri», il noialtri francesi, il noialtri europei ... L'ampiezza semantica di questa nozioneche perde ogni giorno un po' più di comprensibilità a seconda 15
di quanto guadagna in estensione - è tale che conviene aggiungere qualcosa davanti (per esempio «crisi», «ricerca», «costruzione», «perdita», «disturbo», «difesa», «rivendicazione» d'identità) e qualcosa dopo (identità «confessionale», «sessuale» o qualsiasi altra cosa vi passi per la testa, vi eviti di pensare e di sentire, e vi arrivi alla gola come un singhiozzo). Prendiamo per esempio il campo politico. La rivendicazione d'identità ha un carattere estremamente vago. Passata dalla destra alla sinistra, diciamo da Barrès all' anticolonialismo e al famoso «diritto alla differenza», saremmo tentati di respingerla semplicemente al mittente. L'identità non è un concetto ma una nozione cpe si espande. Ha anche, lo vedremo, la capacità di ritrarsi. E una maniera di designare più che di comprendere (ciò che il più delle volte non comprendiamo). L'identificazione di ciò che consideriamo identico delimita (per esempio geograficamente) e determina degli spazi, delle proprietà, delle attitudini, anzi delle essenze originali ed eterne. La nostra domanda riguarda più che la «mistica» degli «attori sociali» a essa dediti - si possono comprendere le rivendicazioni della disperazione - la retorica dei ricercatori scientifici e più in generale degli intellettuali che la rinvigoriscono con la negazione di ciò che è indeterminato, incerto, effimero, transitorio. È senza dubbio necessario per un gruppo sociale definirsi e dotarsi di tratti e di caratteristiche in relazione con i tratti e le caratteristiche che gli vengono attribuiti dall'esterno. Ma quale utilità può mai avere continuare a riprodurre nelle scienze sociali una nozionè simile? L'identità è, insieme all' etnicità, una produzione ideologica che ha contribuito ad avallare l'antropologia coloniale. Ma non ha alcuna realtà operativa. Dissimula più di quanto non chiarisca. Messa in moto ogni volta che si tratta di evitare di pensare l'alterità che è in noi, il flusso del molteplice, il carattere cangiante e contraddittorio del reale così come l'infinità dei possibili punti di vista su ciò che è potenzialità o divenire, zavorra più di quanto non faccia avanzare. L'identità è un enunciato assai performativo. L'affermazione del nome è sufficiente per far esistere la cosa come nella famosa prova detta «ontologica» dell'esistenza di Dio: dall'idea di quest'ultimo se 16
ne deduce l'esistenza. Ma è un enunciato performativo che si fa passare per constatativo. È un'ingiunzione (alla disgiunzione) che agisce nel senso di una riduzione e di una semplificazione. «Ci sono - scrive Kant - concetti usurpati che circolano ovunque grazie a una indulgenza quasi universale e che tuttavia sollevano talvolta la questione: quidjuris? Con quale diritto?». Quanto più viene affermata la cons!stenza dell'identità, tanto più il pensiero è inconsistente. E una nozione di grande povertà epistemologica, ma in compenso di grande efficacia ideologica: molti uomini e donne sono morti e continuano a morire per salvare la propria «identità». Il pensiero identitario è un pensiero dogmatico nel senso kantiano. È un pensiero dell'affermazione che non permette la critica né dei suoi propri enunciati, né degli enunciati altrui. Utilizzato dagli uni come mezzo di rivendicazione e dagli altri come strumento d'indagine, esso consiste nella riproduzione di ciò che distingue e particolarizza. Non permette nemmeno di prendere in considerazione l'esistenza del singolare che ci apre all'universale. In effetti, è sempre attraverso l'esplorazione di una esperienza singolare che sorge l'universale, mentre il particolare consiste nell'irrigidimento del singolare, così come il generale tende, mediante un processo d'astrazione, all'impoverimento dell' universale. Il discorso identitario è un discorso a significazione nulla. Nel momento in cui una questione viene posta è già preventivamente risolta una volta per tutte. È un discorso che non ha nulla da dire e tuttavia dispiega un'energia considerevole, benché in pura perdita. Non fa che ripetere cose evidenti. È ridotto, al pari di Georges Dandin, a scuotere le braccia accompagnando questo movimento con semplici esclamazioni del tipo «io so quel che so». Il pleonasmo identitario manifesta tutta la propria assurdità nei due investigatori Dupond e Dupont dei fumetti di Hergé. Nulla li distingue, tranne una lieve differenza nell' ortografia e nei baffi. Quando uno si mette a parlare, l'altro ripete ciò che è appena stato detto, aggiungendo imperturbabile: «Dirò anzi di più». Così, ne Il granchio d'oro, l'uno: «Caro Tintin! Che gioia rivederla!»; l'altro: «Dirò anzi di più: che gioia rivederla, 17
caro Tintin!». O ancora, nello stesso albo, l'uno: «Ci hanno appena confidato una faccenda molto importante»; l'altro: «Dirò anzi di più: una faccenda ... ehm ... una faccenda molto importante» . Tale è appunto la logica del pensiero identitario: lo spiegamento e l'amplificazione di queste figure retoriche che sono il truismo, il pleonasmo, la petizione di principio. Dell' identità, dunque, non v' è rigorosamente nulla da dire, e tuttavia qui cercheremo di dire questa «ubriacatura semantica» (Beckett), questa vertigine che ha qualcosa della gag, questa specie di epopea grottesca del senso. È opportuno mostrare l'aspetto costernante di tale nozione, ma soprattutto l'aspetto pretenzioso e ridicolo, per poi - a nostro avviso - rinunClarVI. Non sarà per nulla facile, questo è certo. Tuttavia, ben prima che Flaubert scrivesse il suo Dizionario dei luoghi comuni, i pensatori del XVlII secolo (verso i quali i difensori dell'identità sono oggi, come è logico, fortemente ostili) avevano avviato - è vero, in tutt'altra direzione -la critica della metafisica e del pensiero speculativo. Diderot propose alla sua epoca di abbandonare alcune questioni. Ritenendo che «secondo la ragione, i termini essenza, materia, sostanza, substrato non apportano lume alcuno al nostro spirito», egli rifiutò di lasciarsi «imbarcare nelle dissertazioni sulla natura della materia, o in quelle sull'intenzionalità della sostanza, del pensiero e di altri argomenti che non hanno né riva né fondo». Molto prima di Wittgenstein, Diderot ci ha dunque proposto di smetterla con'l' affermazione non critica della trascendenza e, contro i discorsi speculativi, di attenerci alla descrizione. Ora, quello che è opportuno mostrare - mostrare, non dimostrare - è che il ricorso alla nozione d'identità partecipa a questa mistificazione. Ritenendo che la realtà va da sé, non volendo sapere nulla del fatto che quest'ultima non è affatto separabile dalla mobilità e dalla storicità del linguaggio, la nozione d'identità non potrebbe essere più conservatrice. D'altronde oggi essa vivacchia, più che vivere. Ed è inutile salvare l'identità. Non dovrebbe sopravvivere a lungo alla nozione oggi scomparsa di sostanza, cui ha dato il cambio. L'identità si è compromessa 18
davvero troppo con i suoi vicini -la proprietà, l'attributo, l' assegnazione - perché la si possa soccorrere. In particolare l' antropologia, che è un pensiero della relazione e della traduzione, e non della separazione del!' «interiore» dall' «esteriore, del «dentro» dal «fuori», oggi ha di meglio da fare che rimuginare queste anticaglie che non solo non fanno avanzare di un dito la ricerca, ma che anzi la inibiscono.
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II SEGNI ASSOLUTI GRONDANTI VERITÀ
Coloro che si riferiscono alla nozione d'identità fanno un'esperienza comparabile a quella che Niels Bohr ha chiamato del «bastone rigido». Ecco in cosa consiste tale esperienza nelle parole di Geotges Devereux: Niels Bohr ha mostrato in qual misura un dispositivo sperimentale determina il luogo della demarcazione [tra il soggetto e l'osservatore] analizzando un' esperienza molto semplice: l' esplorazione di un oggetto mediante un bastone. Se il bastone è tenuto in modo rigido, diventa un prolungamento della mano; il luogo della demarcazione si trova dunque all' «altra» estremità del bastone (quella più lontana). Se è tenuto in maniera lasca, dal punto di vista della percezione esso non fa parte dell'osservatore; la demarcazione si situa quindi a «questa» estremità del bastone (quella più vicina). 20
Sebbene Bohr non abbia approfondito la sua analisi di questa l:sperienza, la non-coincidenza di queste due demarcazioni, dovuta III fatto che l'esperienza del bastone tenuto rigidamente fornisce principalmente dati cinestetici, mentre quella del bastone tenuto mollemente fornisce soprattutto dati tattili, rimanda tanto alla logica quanto alla psicologia. [...] Nell'esempio di Bohr, il bastone tenuto con forza fa più parte delI'osservatore che dell'oggetto. Tenuto in modo lasco, fa più parte dell' oggetto che dell' osservatore. Questi due modi di tenere il bastone costituiscono un paradigma per ogni esperienza e osservazione nella scienza del comportamento. Tutte le esperienze che non lasciano al soggetto alcuna scelta cosciente né alcun mezzo per riflettere sul comportamento, che non includono, quanto meno in Iinea di principio, le nozioni di scelta cosciente e di coscienza, corrispondono all'esperienza del bastone tenuto con fermezza. Le esperienze che permettono una scelta cosciente nella quale l'osservatore è libero di pensare che il comportamento del suo soggetto riflette o implica una scelta cosciente corrispondono all'esperienza del bastone tenuto mollemente. Tutte le esperienze della scienza del comportamento sono sia del tipo «bastone rigido», sia del tipo «bastone lasco». La maniera in cui teniamo il bastone è determinata dalle teorie cui facciamo riferimento e che, a loro volta, ne sono radicalmente influenzate. Le esperienze del tipo «bastone rigido» forniscono normalmente informazioni del genere che William James definisce «conoscenza a proposito di» (knowledge about), quelIe del tipo «bastone lasco» forniscono informazioni del genere definito «familiarità con» (acquaintance with). Guthrie in psicologia e White in etnologia sono ricercatori del tipo «bastone rigido»; Freud, Tolman, Linton, Mead, Lévi-Strauss e La Barre sono ricercatori del tipo «bastone lasco». Non è certo che Ralph Linton, Margaret Mead e Claude Lévi-Strauss abbiano sempre tenuto il «bastone» in maniera «tasca». Ma la cosa qui poco importa visto che l'identità rimanda al «bastone rigido». L'identità peraltro non c'entra affatto in questa operazione d'irrigidimento. È il «bastone rigido» che la suscita, che crea l'illusione di una coerenza identitaria, cioè l'impressione di cogliere qualcosa di «autentico», della materia, della carne, qualcosa di solido, di compatto.
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Si comprende bene perché in queste condizioni l' «identità» appaga e avvince. Essa fornisce dei segni assoluti grondanti verità. È liscia e lucente come la pelle di un neonato. Tutto ciò che fluttua e volteggia nell'aria in essa si condensa, si contrae e si solidifica. L'identità ingoia tutte le contraddizioni, e poco importa. Essa è a tenuta stagna e non crivellata di buchi. Essa è la pienezza, la continuità senza imperfezioni. Essa ha l'esattezza di quella che chiamiamo per l'appunto - e ci ritorneremo -la foto d'identità, la quale non può essere confusa con un'altra. Compatta, solidamente insediata nella riproduzione dell'identico, l'identità appare allora come qualcosa di duro, di netto, di definitivo, qualcosa cui ci si può aggrappare o abbarbicare. Con essa si poggia sulla terraferma, e tuttavia si deve anche comprendere che alcuni non hanno particolare desiderio di venire a rannicchiarsi tra le sue braccia. L'identità è tesa come un tamburo su cui si possono far risuonare tranquille certezze. Una delle sue caratteristiche è la sua pronunciata tendenza all'affermazione. Ci sono fatti veritieri, schietti, incontestabili, chiari, che non possono essere confusi con altri e che sono peculiari di certe entità preliminarmente definite. La frase tipo della designazione identitaria è: «è cosÌ». Simon, domestico nero di Sartoris, nella saga di Faulkner esclama: «Son cosÌ i Bianchi. I negri non sarebbero certo abbastanza furbi per farcela in tutto quel casino». E il centauro di Moacyr Scliar dice a se stesso, rassegnato: «Centauro, ero irrimedi abilmente centauro». Parlare d'identità signifÌca affermare che ci sono delle verità da prendere o lasciare, delle immagini che traboccano di senso, dei suoni che possiamo far risuonare molto forte, ma che non c'è mai e poi mai quell' oscillazione strana tra le immagini e i suoni caratteristica, secondo Jean-Luc Godard, del cinema. L'identità è pensiero in cemento armato. Essa pietrifica, assomiglia all' «in sé» sartriano che non vuoi sapere nulla dell'insufficienza e della mancanza di definizione. Essa è l'adeguamento perfetto, la giustezza alla quale Godard, ancora lui, reagisce proponendoci questa formula che sarebbe a suo avviso caratteristica del cinema: «Non un'immagine giusta, giusto un'immagine». 22
L'uomo identitario s'impedisce la debolezza, gode ad affermarsi e soprattutto a mostrarsi grande e forte, su di giri. Si monta la testa. Non s'accorge che facendo lo sbruffone si Irova in effetti a fare delle rinunce (rispetto a tutte le altre possibilità dell'esistenza). È l'adulto definito e definitivo di Jombrowicz, quello che l'autore di Bakakai'chiama l' «uomo blocco», cui oppone «il verde dell'lmmaturità». Forse nessuno meglio di Gombrowicz ha mostrato fino a che punto ciò che chiamiamo «identità» sia un artificio, un' astuzia, una corsa ridicola verso la maturità che consiste nel fingere un'identità alla quale non crediamo nemmeno noi, nel voler apparire per gli altri e innanzi tutto per se stessi: «Gli avversari, messi faccia a faccia, faranno una serie di smorfie. A ogni smorfia costruttiva e bella di Siphon, Mientus risponderà con una contro-smorfia laida e distruttrice». L'identità è falsificatrice. Essa è una menzogna e una smorfia dell'esistenza. Essa permette di ricoprire con un velo quel che è insopportabile nell'esistenza stessa: la nostra socievolezza radicale. È l'aspetto daparvenu dell'essere umano in tutti i sensi del termine: arriva a essere se stesso solamente nel circo e nella falsificazione, ciò che avvelena ma, forse, anche ciò che consente la vita in società. È quello che Gombrowicz chiama la «Forma»: «È il costume che mettiamo per coprire la nostra vergognosa nudità e soprattutto per apparire davanti agli altri più maturi di quel che siamo». I giovani, che hanno il vantaggio sugli adulti di essere individui «in fermentazione», non sfuggono a lungo al processo di maturazione identitaria. Imparando assai presto a «danzare seguendo esattamente i violini», essi divengono, come i più vecchi, dei buffoni obbedienti alle convenzioni: «Falsi nella commozione, orripilanti nellirismo, funesti nel sentimentalismo, infelici nell'ironia e nella battuta, pretenziosi negli slanci, repulsivi nelle cadute ... Trattati artificialmente, come avrebbero potuto non essere artificiali?». Mentre «le nostre azioni sono in primo luogo inconsistenti e capricciose, come delle cavallette», le identità di cui ci avvaliamo, e~che consistono nel riempire il vuoto e nel far di tutto per soffocare il non-senso, sono dei personaggi convenzionali il cui ruolo è stato debitamente appreso, personaggi che apprendono dei ruoli e adottano delle attitudini, 23
personaggi prets à porter ma confezionati in modo da starci male addosso tanto mancano di plasticità. Sono maschere, travestimenti, alibi ridicoli che ci impediscono di assumere pienamente e con umorismo quel che c'è d'indeterminato in noi. «Smettete - scrive Gombrowicz in Ferdydurke - di identificarvi in ciò che vi definisce [...] nel postulato erroneo secondo il quale l'uomo dovrebbe essere incrollabile nei suoi concetti, categorico nelle sue dichiarazioni, chiaro nelle sue ideologie, appassionato nei suoi gusti, responsabile nel suo modo di essere [...] Il nostro elemento è l'Immaturità eterna». È un'altra maniera di smontare l'aspetto grottesco dell'identità, ovvero far apparire, nella sua affettazione presuntuosa e solenne, il comico provocato da quello che Bergson chiama l' «effetto rigidità». Vituperante o didascalica, blindata come un'armatura o al contrario ridondante, l'identità non può essere né gioviale né tragica. È indefettibilmente seria. Un altro modo per tentare di venirne a capo potrebbe essere opporle lo scetticismo dello humor. E poi rifarci agli autori del passato, voglio dire a quelli cui ancora oggi possiamo ispirarci: filosofi, scrittori, artisti, sapienti. Costoro non hanno mai militato per la difesa dell' «identità» (nazionale, estetica, disciplinare, o che so io). Semplicemente, sono stati se stessi. È la ragione per la quale ci parlano ancora oggi.
III A PROPOSITO DELL'ONNIPOTENZA
L'io identitario, una variante del quale, lo vedremo, è l'iopopolo, è totalmente refrattario all'umorismo. Non riusciamo a farlo sorridere. Si prende assolutamente troppo sul serio per sorridere. Non percepisce mai che ciò che fa passare per l'io non è solamente il proprio, ma è attraversato dall'alterità. Quest'io monolitico che aderisce, s'aggrappa, testimonia, grida, anzi sbraita, ha orrore di tutto ciò che potrebbe rimetterlo in questione e provocare un'erosione di sé, per quanto minima essa sia. Non conosce la distanza, lo scarto, la deviazione, il cambiamento di prospettiva. Dal momento che trova la propria giustificazione nella metafisica del «fondamento» - io sono ciò che sono, per sempre, imperturbabilmente me - non può nemmeno tentare di osservarsi a distanza come lo osservano gli altri. L'identità, dunque, è una garanzia di serietà. Ma è anche una garanzia di onnipotenza, come vedremo immediatamente, 24
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quanto meno problematica. Un soggetto in eccesso che si contempla e si compiace di ciò che è manifesta un'attività bulimica che si nutre sempre della stessa cosa, benché difficilmente quest'avidità possa essere soddisfatta. Didascalica o edificante, l'identità non è però esente da tormenti. L'inquietudine identitaria, risolutamente voltata verso J'interno, tortura letteralmente il paranoico che, nel suo desiderio di onnipotenza, sente come una minaccia di destabilizzazione l'idea che gli altri possano avere qualcosa in comune con lui. Ce l'ha a morte con tutto quello che non è lui stesso. È per proteggersi da questa idea fissa che tende all'ossessione che si ripete senza posa: io so ciò che so, io sono ciò che sono, io = io, io sono io e nessun altro. L'uomo o la donna identitari, senza spingere necessariamente l'allucinazione all'estremo della paranoia, sono l'uomo o la donna dalle idee fisse. Nulla può giungere a ostacolare la propria monomania, a contraddire la propria maniera di essere e di dire un'illusione che si fa passare per realtà, nulla può arrivare a infligger loro una smentita. L'irritazione affettiva è subito interpretata nei termini di una contraddizione logica e trasformata nella prova che si ha ragione. Lui o lei non considerano nemmeno la possibilità di capitolare, di riconoscere che si è sbagliato, che si è cambiati. Nell'identità è davvero ammirevole la sua strabiliante attitudine a resistere al reale. Socrate ha una sola idea in testa: assillare i passanti nella prospettiva di fadi incespicare; incontra un venditore di pere e gli domanda che cosa è una pera, incontra un magistrato e gli' ingiunge di spiegare che cosa è la giustizia, incontra un pittore e gli domanda di rendere conto deUa natura della pittura. Però non ascolta mai quel che dicono il commerciante, l'uomo di legge, l'artista. È preoccupato unicamente di far trionfare il proprio punto di vista, di affermare la propria superiorità sullo sciocco. Per lui, le pere, la legge, l'opera pittorica, se non sono zuppa, sono pan bagnato: insomma, dei pretesti.
IV UN PENSIERO DELL'ESSERE E NON UN PENSIERO DELL' ALTRO
Il verbo essere è la pietra angolare della logica dell'identità. Procedendo al taglio di un continuum, instaura un rapporto di coincidenza tra l'individuo e se stesso, tra la società, la cultura e coloro che ne fanno parte. Il pensiero dell'essere è un pensiero dell'identificazione. È quest'ultima che designa, segna, piazza, posiziona, dispone e infine istituisce la pretesa identitaria: la negritudine, l'indianità, la latinità, la germanità, l'Oriente, l'Occidente ... Questo pensiero dell'identità poggia su una solida tradizione che in Europa va da Parmenide a Heidegger ed è segnata dalla figura maggiore di Platone. Quest'ultimo nel Timeo oppone l'essere al divenire e definisce il primo in questo modo: È un cerchio unico e solitario ma capace, in ragione della sua
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Platone, e dietro di lui i platonici, sono assillati dalla distinzione tra Idee e simulacri, tra verità e tempo. Ritengono che sussista un primato dell'originale (che è senz'altro divino) sulla creazione (umana), un mondo di essenze preesistenti e costituite che rende aleatorio, per non dire pericoloso, ogni tentativo di traduzione. Platone serba tanto rancore verso i sofisti perché essi hanno messo alla prova la pretesa del fondamento (della ragione, del linguaggio, dell'identità, della verità). Essi, dicendo una cosa e il suo contrario, introducendo la mobilità nel discorso, sono rinviati alle loro contraddizioni. Uno dei pensieri che domina ancora il nostro tempo è quello di Heidegger, e dell' ontologia, che nella sua opera prevale su quella che è stata definita la svolta linguistica della fenomenologia. È una concezione del mondo che non permette di pensare veramente la differenza. Nella distinzione fra l'essere e l'ente l, l'essere è sempre presente in ciascuno degli enti. Li ingloba e dissolve, per così dire, ciò che hanno di singolare. È un pensiero dell' origine e del principio, del fondo, del fondamento, della fondazione, un pensiero della terra e del territorio (al quale Heidegger era tanto attaccato), un pensiero dello stesso, cioè dell'affermazione e della riaffermazione identitaria. Questa fiducia nell' essere tutta ellenica - è sia indifferente sia ostile al pensiero dell'alterità, a quello che è stato chiamato pensiero del difuori, un termine forgiato da Blanchot e ripreso da Foucault e Deleuze. Ponendo l'essere come onnipresente e allo stesso tempo separato in enti, la filosofia identitaria non permette di pensare che ci possa essere dell' alterità in ciascuno di noi, né dialogo con le culture in cui non siamo nati. Non potendo concepire l'estraneità, è condannata a vedere l'estraneo e gli stranieri come modalità assurde dell'essere o come dei potenziali nemici. In questa prospettiva è come se ogni confronto con l'alterità fosse concepito e vissuto innanzi tutto come un rischio e una minaccia di alterazione, come se l' estraneità dovesse essere immediatamente riassorbita. La costituzione dell' «altro»
conduce allora all'espulsione dell'alterità che si trova in me (e che mi costituisce) come impura. L'identità, dunque, non si dà le condizioni di pensarsi come attraversata ed elaborata dal di dentro dalla contraddizione, che viene sistematicamente rigettata all'esterno (di sé, del gruppo, dello Stato, della nazione, della conoscenza). Infine, in quanto affermazione d'assoluto, essa prova avversione sia per l'insolito sia per il caso. Il modo di procedere dell'antropologia ha tanta difficoltà a imporsi perché tende a costituirsi in un atto di rottura verso i presupposti ontologici del pensiero identitario. L'antropologia è un pensiero della relazione, cioè un pensiero del di fuori che si incontra soprattutto in autori come Foucault, Deleuze, Lévinas. Non ha nulla a che fare con l'esperienza interiore, nemmeno nel senso di Georges Bataille. L'antropologo non è per nulla concentrato sulla propria identità, ma è rivolto verso l'esterno, attirato dal!' aria aperta, dalle larghe vedute. Egli non cerca affatto di raggiungere una conoscenza dell' «io»; al contrario, si dirige metodicamente verso una comprensione del non-io. Ecco qui una forma di pensiero, di scrittura, che comporta una quantità di rischi talmente elevata che spesso esitiamo ad avventurarci in essa. Poiché l'esterno non è l'esteriorità ma ciò che costituisce il di dentro. È anche l'impensato del pensiero. È il doppio di se stesso, è il pressoché, è la follia, è la morte. Il pensiero identitario, comandato interamente dal primato del verbo essere (che per esempio in francese non permette affatto la differenziazione spagnola e portoghese di ser ed estar), è modellato da giudizi di attribuzione che nella maggior parte dei casi presentano un carattere di riducibilità totale all'univocità: un tale è questo o quello, il tempo che fa oggi è gradevole o sgradevole, ciò che dico è vero o non lo è. È possibile pensare, parlare, scrivere in un altro mo~o, ma il pensiero dell'essere non può, non vuole farlo. E un pensiero dell' uno e non del molteplice; si realizza a meraviglia neli' assegnazione (e di conseguenza nell' esclusione) e non nella relazione. È proprio ciò che ha ben rilevato Jean-Luc Godard quando dice che tutto si divide in due e che, nel giorno, c'è il mattino e la sera; allo stesso modo Gilles Deleuze mostra, prendendo le mosse da Godard, che quella e, contrariamente
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eccellenza, di vivere solo con se stesso, senza aver bisogno di nessun altro, bastante a se stesso quanto a conoscenze e amici.
Si
a])' essere, introduce il flusso nel pensiero. Secondo Deleuze, «la E è la diversità, la molteplicità, la distruzione delle identità». Sotto questo aspetto, i titoli di alcune opere sono a volte rivelatori. Gli Sciuani di Balzac, Il suicidio di Durkheim, I Nuer di Evans-Pritchard sembrerebbero indicare che senza dubbio si tratterà di un pensiero dell'uno, mentre Case e catapecchie, padroni e schiavi di Gilberto Freyre, Il gesto e la parola di André Leroi-Gourhan o ancora Le parole e le cose di Michel Foucault suggeriscono piuttosto un pensiero della tensione. Ma i titoli possono ingannare: Guerra e pace di Tolstoj, Il crudo e il cotto di Lévi-Strauss si risolvono infatti in un'unità supenore. La logica dell' identità ha la fobia della congiunzione e, che essa elimina in favore della o: una proposizione, un sentimento, un'esperienza non possono essere contemporaneamente veri e falsi, trasparenti e opachi, rivelare qualcosa del presente e del passato. C'è ancora ontologia nell' antropologia - pensiero delle relazioni, dei legami, delle rotture, delle ricomposizioni fra gruppi, e non delle proprietà e delle essenze - cosa che le impedisce di pensare il carattere congiuntivo della vita nella società. Le società che definiamo «non occidentali» non smettono di essere perturbanti e disorientanti per la logica dell'identità e del terzo escluso. I «selvaggi» spesso continuano a essere trattati selvaggiamente, rinviati al lato peggiore di questa logica: la confusione, la contraddizione. Oppure, in questo movimento da bilanciere alla Cristoforo Colombo, «essi» (gli Indiani), vengono anche superlativamente esaltati, cioè ancora una volta presi per ciò che non sono. Le società in questione sono talmente poco identitarie, così poco metafisiche, ma per contro a tal punto metaforiche, che la loro stessa esistenza costituisce un insulto per la logica dell'identità. E poi c'è anche l'essere selvaggio applicato a noi stessi, quando nel medesimo linguaggio metafisico dell'identità parliamo indistintamente dell' «Occidente» o del «pensiero occidentale». Questo è il frutto di un' enorme semplificazione, oppure dell'oblio di una civiltà che, ben lontana dal ridursi alla «sua» tendenza dominante, è anche capace di opporre resistenza alla tirannia dell'idealismo ontologico, di dar prova di vitalità pensando il molteplice, cioè il singolare e l'universale.
Succede persino, a questa civiltà - Kafka, Borges, Pessoa, Joyce, Beckett, Clarice Lispector ... - di riuscire a porre fine alle chiacchiere delle finzioni dell'identitario.
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Nota al capitolo
1. Ente nel senso «antico» di essente, esistente [N.d.T.].
L'identità non si esprime solamente con l'inflazione del verbo essere, ma anche del verbo avere. È un processo di assegnazione, di attribuzione di proprietà specifiche, di qualificazioni (spesso squalificanti quando si tratta d'identificare ciò che considero del tutto differente da me), che procede all'esasperazione di tutto quello che è definizionale, definitivo e conclusivo. Nell'identità riconosciamo i nostri. Com'è bello questo bimbo, ha la mia fronte, la mia mascella, il mio naso, il mio mento, i miei pensieri. Nell'identità c'è un lato da dolce fatto in casa - non ce ne sono di migliori - fatto proprio dalla massaia, che prova una cucchiaiata di diffidenza per ciò che viene dalle pasticcerie e una mesto lata di sospetto per i dessert dei ristoranti. Nell'identità c'è un lato da mia piccola cara patria, mio fazzoletto di terra, mio papà, mia mamma. Come potremmo avercela con gli etnologi che si stanno formando e
che abbondano di espressioni come il «mio terreno», i «miei indigeni», i «miei informatori»? È peraltro lo stesso Malinowski che ha cominciato a dare l'esempio, sin da quando si trovava nelle isole Trobriand I. Il fondatore dell' etnologia parla così del «sentimento che questo mi appartiene; a me è dato di descriverli; a me di crearli». Questa nozione s'inscrive in una logica dell'avere. Tale logica non vuoI sapere nulla dell' esperienza della perdita, della mancanza, dell' assenza e, di conseguenza, della scrittura. Essa è quasi sempre mobilitata per rinforzare un rapporto di possesso, un desiderio d'appartenenza. «L'identità - scrive Baudrillard - è legata alla sicurezza». Essa è «questa ossessione di riconoscenza dell'essere liberato, ma liberato sotto vuoto e che non sa più in alcun modo chi è. È un' etichetta d'esistenza». I «mio», «mia», «miei» con tutto quello che si portano dietro - e nella maggior parte dei casi non è mai abbastanza non rinviano quindi solamente a una questione lessicale, ma sintattica: la sintassi geniti va che rinforza tanto il pri vativo nel senso di Emmanuel Mounier (ciò di cui priviamo gli altri), quanto il giuridico, che è una sintassi dell'avere, della proprietà, dell'appropriazione e del dominio, cioè in definitiva del potere nelle sue differenti forme. Qui è in questione l'unità illusoria dell'io, «questo io che riporta tutto a se stesso», come scrive Maurice Blanchot, questo io che si crede libero quando invece, a furia di lavaggi del cervello, si è riusciti a fargli portare l'uniforme. Alla ricerca del tempo perduto di Proust può essere letto come un lavoro meticoloso che consiste nel disfare quell' operazione di cui si compiacciono fino alla noia i Verdurin e i Cottard con i loro primi salotti, nel disfarla attraverso l'esperienza dell'incertezza di Swann e del narratore rispetto alla consistenza del loro «io». Per quanto lo riguarda, Kafka - ma è proprio questo lo che diventa problematico nella disputa dei pronomi, l'io, il noi, l'essi, il loro ... - comincia a scrivere Il Castello in prima persona. Poi, a un certo momento, ritorna sui suoi passi. Cambia tutti gli io in K. Se con Kafka il tempio dell' «io~>comincia a incrinarsi, con Beckett si crepa. Lo scrittore può certo continuare a dire
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v LA LOGICA DELL' AVERE: TUTTO QUESTO MI APPARTIENE
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io, ma ha sempre presente che si tratta di un «io poroso e agonizzante», un io che è «quasi io e quasi egli». Così ne L'[nnommable: «lo dico io sapendo che non sono io. Ne ho abbastanza di questa cazzo di prima persona». Ci sono tanti barboni nel teatro di Beckett (Vladimir, Estragon ...) perché costituiscono la figura della non-identità nomade per eccellenza. Privati degli agi, non possiedono più nulla, nemmeno le parole per dire questo nulla. La loro spoliazione provoca un profondo malessere in tutti coloro che, come Pozzo, si dedicano alla pantomima dell'appropriazione identitaria e linguistica. In effetti Pozzo ritiene di essere un padrone, cioè di possedere la padronanza di se stesso e degli altri, del linguaggio, del tempo e dello spazio. Da questa posizione d'appartenenza non si esce necessariamente preconizzando il dialogo. Per esempio, tra i dialoghi di maggior prestigio al mondo ci sono i Dialoghi di Platone. Ma sono dialoghi truccati. Socrate si procura innanzi tutto un nemico assoluto, cui affibbia una vera e propria debolezza mentale. In un certo senso costruisce il personaggio del cretino ideale. Poi - ed è a questo punto che la strategia di dominazione sull' altro può essere messa in gioco - finge di non sapere nulla. Il sinistro gioco può allora cominciare, ma i dadi sono evidentemente truccati. Tutti gli interlocutori di Socrate sono considerati come degli imbecilli, degli ignoranti, degli incapaci. È sempre Socrate ad avere ragione. Sentiamo solo lui, che copre senza posa la voce degli altri. Per finire, questa logic,! dell'appropriazione (della verità) da parte di un soggetto monolitico è spesso legata a doppio filo con l'ordine della spiegazione nella sua tendenza all'esclusione e alla disgiunzione. Il pensiero esplicativo procede all' appropriazione di contenuti. Consiste in un processo d'identificazione e di stabilizzazione di questi ultimi, cosa che suppone un'assegnazione di qualità da parte di un soggetto sovrano ed esclusivo - che può essere un dato gruppo, misura per tutti gli altri - il quale si pone come centro, origine, focolare, sorgente stabile e permanente non turbata dall'alterità, incapace di accedere alla comprensione del «tra» e del «tra-i-due», che non appartengono a nessuno. Ora, è proprio questo punto a essere rimesso in discussione
dalla ricerca antropologica. Essa non mira, almeno nel suo progetto originale, a proteggere o isolare i fenomeni che si propone di studiare. Questa ricerca si oppone alla logica dell'appartenenza identitaria. Si propone di spostare, decentrare, deindividualizzare attraverso aperture successive nella prospettiva di moltiplicare le individualizzazioni possibili. André Gide, citato da Roger Bastide: «Ci sono mille possibili io in me, ma non posso rassegnarmi a esserne solamente uno».
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Nota al capitolo
l. Malinowski è probabilmente uno fra gli autori piÙ complessi e stimolanti dell'antropologia. La sua opera, eminentemente contraddittoria, non può essere ridotta a questo solo aspetto.
L'identità, rinviando ciascun individuo o ciascuna cultura a un'appartenenza, designa la loro origine. Essa attira l'attenzione su ciò che è più stabile e permanente in un essere umano o in un gruppo sociale, compresi a partire da quel che erano una volta e non da quello che stanno diventando. L'identità conduce a identificarsi in, al punto da coincidere con uno stato compiuto del soggetto o del sociale. In questo pensiero della retromarcia avanziamo, per così dire, «a ritroso» nel tempo. Valorizzando ciò che è atavico, veniamo inebetiti dalle radici. Nell'identità, che ha quasi sempre un carattere gregario, si ricerca l'eredità, la razza, il sangue, il suolo, il radicamento nella nazione, nella famiglia, nella nascita, il determinismo dell' ascendenza, anzi del colore della pelle. La rivendicazione identitaria, proclamazione di «autoctonia» e «autenticità», è la rivendicazione di un riflusso. Il compimento ha già avuto
luogo, si può solo ripetere. È il passato a comandare il presente, attribuendogli la propria legittimità retroattiva. L'identità riattualizza in continuazione, ritualizzandolo, un «fondamento» incontestabile. È un processo di riattivazione dell' origine. Esiste una teoria del sociale in anticipo sui tempi, elaborata, o meglio composta, quando la sociologia non si è ancora affermata in qualità di disciplina universitaria autonoma, una teoria in cui i rapporti fra i gruppi non solo non vengono zavorrati dalle origini sociali ma, al contrario, non smettono di muoversi. Nell'epoca in cui Durkheim elabora la nozione di anomia e molto prima che si parli di mobilità sociale, Proust, moltiplicando le prospettive, introduce relatività e dinamismo nella comprensione dei rapporti sociali fra le classi dominanti. Alla ricerca del tempo perduto non è solamente uno dei più grandi libri d'immagini della letteratura, è anche una storia - della Francia dagli anni Ottanta del XIX secolo agli anni Venti del xx - che comincia nel modo seguente. Ci sono due porte per uscire dalla dimora di Combray. La prima si prende per andare «dalla parte di Méséglise-Ia-Vineuse, che era anche chiamata la parte di Swann perché di là si passava davanti alla proprietà del signor Swann», l'altra si attraversa per andare «dalla parte dei Guermantes». «Se era abbastanza semplice andare dalla parte di Méséglise - prosegue il narratore - era un'altra faccenda andare dalla parte dei Guermantes, perché di là la passeggiata era lunga» l. Ebbene, questa opposizione viene progressivamente superata. In Albertine scomparsa è Gilberte a rivelare incidentalmente al narratore che esiste un cammino alternativo, insomma una scorciatoia che permette di conciliare i due itinerari facendo corpunicare i due spazi, quello borghese e quello aristocratico. E ancora Gilberte, una Swann di nascita, che sposando Robert de Saint-Loup diviene una Guermantes, portando a termine l'incontro di ciò che all'inizio del romanzo pareva irrimediabilmente separato. Nel primo volume l'individuo tende a confondersi con la classe sociale di cui è originario; in particolare, la distanza tra i Verdurin e i Guermantes sembra incommensurabile, tanto grande, insiste il narratore, quanto «quella che separa il mondo minerale da quello umano». Insomma, i limiti che la borghesia impone a se stessa
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VI IL RIFLUSSO VERSO L'ORIGINE
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come quelli che le vengono imposti sono le altezze per sempre inaccessibili del nome dei Guermantes. Ma lungo la vicenda ci accorgiamo che i due blocchi non sono eterogenei quanto credevamo, poiché esistono dei passaggi tra di loro. La vita dei personaggi trova il proprio senso nelle relazioni eminentemente evolutive che essi intrattengono con tutti gli altri e soprattutto con gli ambienti sociali da cui non provengono. È in Sodoma e Gomorra che l'edificio sociale del quartiere di Saint-Germain (quei palazzi privati che costituiscono lo sdoppiamento urbano delle residenze rurali dell'aristocrazia) comincia a incrinarsi. Alcuni borghesi sono ammessi nei salotti dell'aristocrazia, e il narratore, con l'intermediazione del barone Charlus (che frequenta il «piccolo gruppo» dei Verdurin, non senza una certa vergogna), è invitato dai Guermantes. Lì incontra Oriane, il suo secondo amore. Il romanzo di Proust, analista dei rapporti sociali, è l'esatto contrario di un racconto delle origini. Quello che ci mostra, attraverso lo studio delle rispettive posizioni degli uni e degli altri, che si sono evoluti in maniera considerevole nell' arco di quarant'anni fino al punto di dar luogo a veri processi di permutazione, è l'instabilità sociale che può giungere a disturbare i punti di riferimento sociali, è la distruzione degli insiemi coerenti (espressione che l'autore utilizza per designare ciò che un tempo era stato il salotto dei Guermantes). Volendo precisare ancor meglio, ci mostra il carattere effimero del potere, il declino di quella aristocrazia parigina che il narratore credeva, quando era giovare, possedesse la perpetuità del minerale, mentre ora «mille corpi estranei vi penetravano, togliendole ogni omogeneità»; e soprattutto, attraverso la collusione tra i due mondi, ci mostra l'ascesa della borghesia, che non è più rigorosamente identica a ciò che era. Tutto ciò che è appena stato detto rimane nondimeno assolutamente insufficiente, perché non considera gli artisti Vinteuil, Bergotte, Elstir - a partire dai quali si organizza la ricerca del narratore. Soprattutto non considera l'arrivo improvviso di Albertine nel romanzo, che aggiunge ulteriore turbamento e turbolenza al testo e apre uno spazio sociale inedito che non è appesantito da alcun passato. L'inafferrabile Albertine, piccolo-borghese imprevedibile, 38
circola nei vari ambienti e mette in scena una terza cultura, meno limitata da confini, che non è né l'universo ovattato, o meglio tappato, dei salotti, né quello della provincia (Combray): una cultura all'epoca assolutamente nuova, i cui contorni non sono ancora fissati, che è la cultura marina simboleggiata dal nome di Balbec. La giovane eroina libertaria, o quanto meno libertina, sorge e poi si evol ve in gran parte nella socialità delle spiagge. È lei che contribuisce, grazie alla propria inconsueta mobilità, a smuovere ancora un poco di più la visione sociale proustiana, che non è esattamente quella della lotta delle classi, ma della lotta delle classificazioni.
Nota al capitolo
1. Corsivo mio.
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La tematica identitaria è quella della separazione e della conservazione. Ponendo l'accento sulla chiusura a scapito dello scambio, trova una delle sue referenze teoriche nella monade leibniziana, peraltro a torto, visto che per Leibniz la monade è un punto di vista possibile sul mondo. Attraverso un processo di sottrazione, l'individuo è ridotto a essere solamente il «rappresentante» della «comunità» alla quale «appartiene»; in questo modo l'identità può disporre di diversi criteri: la lingua (la «mia» «appartenenza» alla «comunità francofona» o alla «comunità anglofona» in Quebec), la religione (cattolico o protestante in Irlanda, musulmano, ortodosso o cattolico in Bosnia), l'etnia (Tutsi o Hutu in Ruanda), l'età (giovane per sempre o assolutamente vecchio), il sesso (solamente maschio o solamente femmina), il colore (bianco o nero per l'eternità). In tale prospettiva, Simone de
Beauvoir è considerata una delle «rappresentanti» delle donne, come se fosse solamente donna (o soltanto bianca o soltanto francese) e Martin Luther King come uno dei «rappresentanti» dei neri, come se fosse solamente nero (o soltanto pastore). La guerra fredda aveva degli aspetti positivi. Perlomeno garantiva una perfetta chiusura stagna: i comunisti e i capitalisti, il diavolo e il buon Dio, e senz'altro gli uomini e le donne. I comunisti a Est, i capitalisti a Ovest; il diavolo in basso, il buon Dio in alto; gli uomini di sopra, le donne di sotto. Ma naturalmente il principio della chiusura stagna dei generi e dei gruppi separati non si è fermato con la caduta del muro di Berlino. Al contrario: nel momento in cui diciamo che gli uomini sono così e le donne cosà, che i ragazzi fanno in questo modo e le ragazze in quest'altro, che le rosse e le bionde e le brune fanno, fanno, fanno ... gli ebrei e gli arabi non sono così lontani. Ciò che oggi chiamiamo «comunitarismo», ovvero la radicalizzazione logica del tema del «diritto alla differenza», consiste nel ritrovarsi in sé, nel restare fra cugini. È la riscoperta delle differenze, delle identità, delle radici, delle culture, che sono forse un altro modo di designare ciò che un tempo chiamavamo razze. L'ossessione differenziali sta, più forte nelle società anglosassoni che altrove, si costruisce a partire da un pensiero categoriale e cIassificatorio che oppone in un primo momento gli eletti e i dannati (Calvino), poi i bianchi e i neri, e infine si estende - più o meno a cominciare dal 1965 - molto al di là della differenziazione etnica, visto che oppone progressivamente gli ebrei e i cristiani, gli anglosassoni e i latini, gli uomini e le donne, gli omosessuali e gli eterosessuali, ecc. Nel suo aspetto più radicale, la logica esclusiva della differenza è una logica razzista e sessista. Crede pervicacemente che esistano delle essenze umane assolutamente distinte le une dalle altre: le donne, gli omosessuali, i neri, gli ebrei, i sordi, i curdi, gli arabi. Tale esacerbazione del differenzialismo si chiama oggi multiculturalismo: il politically correct nordamericano, la rivendicazione dei diritti delle minoranze e delle «comunità etniche», l'apologia del pluralismo terapeutico. Questa posizione, che d'altra parte si esprime attraverso i migliori sentimenti del mondo e preconizza la coabitazione e la coesistenza di gruppi separati e giustapposti risolutamente
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VII LA LOGICA DELLA SOTTRAZIONE: RESTARE IN SÉ
rivolti al passato, può essere considerata una reazione - che sorge nelle società più inclini all'uniformazione - di paura, di angoscia, di diffidenza e di distanziazione dell'alterità. Gli «altri» sono rinviati ai loro rispettivi sostrati biologici oppure alle loro culture di origine (i neri con i neri, le donne con le donne, gli Indiani con gli Indiani e i pinguini con i pinguini), fissati, rinchiusi in riserve, in quartieri, in chiese, in scuole, insomma in categorie separate, in forme sociali maggiori del ghetto. Si tratta altresì di una delle forme intellettuali e affettive che si riveste oggi d'indifferenza e disprezzo. Gli uni e gli altri possono benissimo ignorarsi per qualche tempo. Ma se invece le differenze sono pensate, vissute, come irriducibili e definitive, perfettamente estranee e di conseguenza senza più alcuna estraneità, fra loro resta ugualmente un rapporto possibile, o probabile: la violenza. Il ronzio identitario ha dunque qualcosa d'ingannevole. Si presenta con fare tanto rassicurante, ma la sua attitudine a rendere allucinato il reale è tale che in taluni momenti può virare al fanatismo e quindi preparare la guerra. La tentazione differenzialista deriva da un'esigenza di purezza e di purificazione (etnica, linguistica, scientifica) che non supporta per nulla la mescolanza e il meticciato, la contraddizione e il cambiamento. Essa cerca d'isolare dei fenomeni allo stato puro, non meticciati, per esempio puramente biologici, puramente psicologici, puramente economici. Una tale concezione sottrattiva dell'identità, che conduce alla negazione del carattere composto, comP9sito e polifonico degli esseri e delle culture, è costruita a partire da una finzione mutilante: quella dell'individuo che per restare «corretto» dovrebbe riassorbire la propria duplicità, triplicità, ecc., quella della società che è solamente se stessa, per esempio della Spagna che cancella la propria memoria ebrea e musulmana, della Francia che ignora le proprie componenti italiane, polacche, armene ... Da quando esiste, l'antropologia, messa a confronto con la questione della differenza, continua a oscillare fra una posizione universalizzante (lo strutturalismo nasce in Francia, ossia nella società che ha forgiato il concetto di «uomo universale») e una posizione particolarizzante (il culturalismo si sviluppa negli Stati Uniti prendendo le mosse da idee prove42
nienti da una delle società più differenzialiste in assoluto: la società tedesca). Questa tensione non è quindi solo scientifica, ma anche strettamente legata a delle poste in gioco ideologiche. Alla fine del XIX secolo e poi all'inizio del XX, Joseph de Maistre e in seguito Maurice Barrès preconizzano la negazione di ogni universalità a vantaggio della «Francia» (Barrès) e dei «francesi» (de Maistre). Oggi sono le delusioni provocate dalle promesse dell' universaI ismo astrattò che conducono a questi attriti particolaristi di cui si sente parlare in continuazione: l'assoluto della purezza religiosa, l'affermazione culturale esclusiva attraverso il radicamento restrittivo nel territorio o nella memoria, la tesi dell' etnicità che sovente veicola razzismo di contrabbando. Il culturalismo può essere assai facilmente mobilitato per servire da legittimazione a ogni rivendicazione di monoappartenenza identitaria e di rigetto degli «stranieri» (Le Pen, Jirinovski, Khomeini non sono altro che le forme più esacerbate di questa monoappartenenza). I discorsi del puro, del semplice, del chiuso, del distinto e della frontiera sono discorsi privativi: senz'alcool, senza macchia, senza peccato, senza contaminazione. In questa prospettiva, esisterebbe un'eternità non turbata dalla temporalità. Ci sarebbe dell'essenziale diventato solo per accidente miscuglio. E se ci si rassegna a pensare il cambiamento è solo per deplorare ciò che sarebbe dovuto rimanere immutabile e inalterabile. Mentre il meticciato è un processo senza fine di bricolage, la purezza appartiene all' ordine della selezione. È la stabilizzazione disperata della storia, ricostruita retrospettivamente a vantaggio delle categorie prime, del primordiale e dell'autentico, a partire dalle quali si sarebbe prodotta un'alterazione. Tuttavia, anche ponendo un punto di partenza assoluto in rapporto al quale ci sarebbe un derivato, essa non sfugge al movimento. Essa stessa è un jprocesso: quello della purificazione, della semplificazione e della mistificazione che ha come effetto di sostanzializzare, naturalizzare, destoricizzare e infine neutralizzare l'incontro con gli altri. La tesi della purezza è refrattaria alla sua propria teorizzazione perché non sopporta la prova dei fatti. È votata all' assurdità. L'identità «pulita», concepita come proprietà di un gruppo esclusivo, sarebbe inerte, poiché essere solo se stessi, 43
identici a ciò che eravamo ieri, immutabili e immobili, significa non essere, o piuttosto non essere più, cioè essere morti. L'assurdità della monade o del solipsismo, secondo il quale per il soggetto pensante non ci sarebbe altra realtà al di fuori di se stesso, è la sua inesistenza, poiché essere significa essere con, essere insieme, condividere l'esistenza, la maggior parte delle volte in maniera conflittuale. Privati del rapporto con gli altri, siamo privati della nostra identità, ovvero condotti attraverso l' autosufficienza e l' autoerotismo all' autismo. La specificità di una cultura o di un individuo proviene dalle infinite combinazioni che si possono produrre, dalle combinazioni di termini eterogenei, disassemblabili, differenti, insomma dalla riformulazione di molteplici eredità. La coppia formata da universalismo e particolarismi (i quali possono essere i risultati di «tradizioni» inventate, per esempio l' «Oriente» per l'Occidente) si trova sempre congiunta; i particolarismi poi non sono mai delle essenze, ma dei processi d'acquisizione, di elaborazione, d'interpretazione, che si costituiscono permanentemente in un movimento d'interazione ininterrotto. Si chiama identità culturale ciò che è il risultato di miscele e d'incroci fatti di memorie, ma soprattutto di oblii. Perciò opporremo alla nozione di purezza originaria la nozione freudiana di «perverso polimorfo» applicata alla cultura. Il che significa che l'identità culturale, nella maniera in cui è stata percepita, non esiste affatto. Prendiamo l'esempio della Francia. Formato nel crogiolo gallico, questo Paese viene molto presto «acculturato» dai Romani. Il periodo medievale'è marcato dal pensiero arabo e dal pensiero ebraico, che giungono dall' Andalusia. Più tardi, questo Paese riceve le influenze inglesi dei Lumi. Il surrealismo deve molto a un rumeno, Tristan Tzara, che abitava a Zurigo; il teatro francese degli anni Cinquanta deve molto a Beckett, che era irlandese, ad Adamov, che era russo, e a Ionesco, un altro rumeno. Quanto al cinema della Nouvelle Vague, spesso descritto come tipicamente francese, esso è stato molto influenzato da Hitchcock. Ciò significa che la «cultura francese» non è mai presente tutta intera in uno dei suoi «rappresentanti». André Breton per esempio non è meno francese di Descartes, né Baudelaire di Claude Bernard. Questa cultura 44
dunque non è puramente francese: consiste invece in uno stile rulto di prestiti successivi, di scarti e di sfumature. La cosa più patetica nella concezione identitaria dell'esistenza è tutta l'energia dispiegata nel rifiuto del reale, una prolesta continuamente reiterata contro la condizione meticcia del!' essere umano, che si rivela ogni volta perfettamente illusoria. È l'illusione del «noialtri», dell' «io stesso», che non si dà pace di esser nato, che non accetta che l' «io» sia lungi dall'essere semplice, omogeneo, identico a se stesso, ma che sia fatto degli altri. L'affermazione identitaria oscilla continuamente tra il comico e il drammatico. Non è mai tragica e ancor meno umoristica. Comica, essa attinge nella propria sufficienza - come abbiamo cominciato a vedere -le vette più alte del grottesco, ed è in grado di provocare i tre tipi di riso distinti da Arsène, uno dei servi tori del signor Knott in Watt di Beckett: il riso amaro, il riso forzato e il riso senza gioia. Drammatica, poiché dal bisticcio campanilistico si può passare per gradi impercettibili al genocidio. Nozione difensiva che tende all'attrito del particolare nella negazione sia dell'universale sia del singolare, l'identità contiene una carica di violenza che in determinate condizioni storiche può condurre alla guerra. C'è qualcosa di temibile nel linguaggio dell 'io o del gruppo che si ritiene, a torto o a ragione, aggredito, che si ritrae ed è pronto alla vendetta. C'è come un rumore di colpi nel furore del vociferare che si procura come alibi l'affrancamento. L'identità trascina con sé la morte. È esagerato, direte. Ebbene no, niente affatto. Ho un bel cercare, ma io non vedo un esempio - questo io, ovviamente, si sarà capito, è un noi che intende solamen~e desolidarizzarsi con la parte ostensibilmente o residualmente identitaria che c'è in ognuno di noi - un solo esempio, un piccolo esempio, anche minimo, nel quale la logica identitaria non si rivolga al dramma o al melodramma. Non ne trovo nessuno. Anche i dialoghi fra le identità, s'è visto con Garaudy, finiscono male.
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Nella nozione d'identità si afferma il senso pieno e autosufficiente di un'intimità e interiorità in sé, l'esistenza di un «interno» o di un contenuto specifico: la distinzione sfrenata del «di dentro», il cui corollario è l'indistinzione radicale del «di fuori». L'impensato di questa nozione del «di fuori» non smette di costituirmi, mentre il suo nemico è il meticciato nato dall' incontro.
Il neoculturalismo contemporaneo insiste sull'oggettività e sulla nettezza di queste entità distintive incommensurabili. Questa concezione, che già non perveniva a render conto della complessità del reale all'epoca della costituzione della disciplina, appare sempre più come un inganno teologico. Oggi, confrontati a brandelli d'esistenza sparsi così come a temporalità eterogenee - in Brasile, Paese di architetture futuriste, di costruttori di computer e di gran premi di formula uno, nel cuore del sertao si danza la polka, ]a quadriglia, i] minuetto come alla corte di Luigi XIV, mi parlano di Carlo Magno, di san Luigi, di Orlando, di Du Guesclin - come potremmo continuare a parlare d'identità? Che ne resta oggi? Forse qualche rivolo esangue, che lancia segnali di sconforto. E cosa sarebbe poi un'identità non originale, non primeva? «Uso le parole che mi hai insegnato tu», replica Clov in Giorni felici di Beckett. «Se queste non vogliono dire più nulla, insegnamene altre. O lasciami tacere». Insomma, come non percepire l'aspetto derisorio di questa nozione ne] pensare e ancor prima nel nominare il composto, il composito, il polimorfo, i] frammentato? .. Ci troviamo più che mai a misurarci con aggregazioni provvisorie votate a cambiare e soprattutto a scomparire, con un'assenza di essenza e di sostanza, mentre le povere parole di ieri, termini usurati e cagionevoli di salute, sono ancora costituiti di ciò che appunto cerchiamo di dissipare. La nozione d'identità è stata formata a partire dal modello medievale di sostanza, che mira a designare gli attributi della divinità: la sua onnipotenza, la sua eternità e innanzi tutto la sua presenza. Dal momento che l'identità continua oggi a essere convocata come sostanza e le viene ingiunto di declinare le sue qualità, il linguaggio risponde ancora alla logica della presenza, mentre la nozione d'identità dà segni soprattutto della sua assenza, come del resto dà segni dell'assenza delle parole per designarla. Nonostante questo, sebbene l'identità non sia affatto un «dato» o una «forma elementare», non è possibile rigettar]a puramente e semplicemente nel non-senso, cosa che sarebbe ancora una volta propria del processo dicotomico che la suscita e la garantisce. Benché ciò che si designa col termine d'identità non possa essere antropologicamente pensato (o non possa adattarsi alle esigenze del pensiero an-
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VIII SEGNALI DI SCONFORTO
L'antropologia viene da lontano: nel suo periodo di costituzione (Malinowski) ci ha insegnato a considerare ogni società come un sistema chiuso su se stesso e ad assegnare a questa finzione il nome di «identità», di «etnia», di «cultura», di «tradizione». L'identità ha una curiosa concezione della pluralità. Essa esalta in qualche modo la pluralità dello stesso, la plura]ità interna di cui ogni unità cultura]e dovrebbe conservare ge]osamente i] segreto, un segreto che l'etno]ogo si propone appunto di svelare.
tropologico, se si preferisce), questo non significa che essa non esista. Piuttosto, sarebbe opportuno dire che essa esiste, e tuttavia non appartiene all'universo di ciò che può essere ragionevolmente detto. Wittgenstein direbbe che la si può soltanto «mostrare». Viene qui messa in discussione - e «mettere in discussione», ci ricorda opportunamente Bataille, «non significa esattamente negare» - non tanto la questione stessa, assai concreta, dell'identità quanto la maniera di porla; non tanto l'esistenza del fenomeno stesso quanto l'apparato concettuale di cui ci dotiamo per coglierlo: le opposizioni binarie dell'endogeno e dell'esogeno, dell' originario e del derivato, che ci costringono a pensare la storia come una «acculturazione» contro la quale l'identità sarebbe portata a difendersi. L' «acculturazione», giusto una parola, non è altro, come dice Bastide, che «l'inverso della dinamica culturale» nel suo lavoro di assimilazione, di trasformazione, di negazione e anche di creazione. L'importante nei confronti dell'identità - o nei confronti di nozioni di corollario altrettanto povere come «acculturazione», o ancora «radicamento», «sradicamento»,«innesto», «trapianto», tutte categorie vegetali che derivano da una naturalizzazione del sociale e della cultura - è compiere una rottura con l' ontologia implicita che la comanda. A tal proposito è interessante 1'opera di Predrik Barth. In gruppi etnici e i loro confini, propone di rivalutare la nozione di etnicità, che è, come abbiamo visto, un altro nome dell'identità. L'etnicità, argomenta Barth, lungi dall'essere mantenuta nella propria stabilità dalla chiusura stagna di ciascuno dei gruppi che si riproducono per trasmissione endogena, si costruisce al contrario attraverso le relazioni con gli out-groups (gli outsiders) proprio come si costruisce nel mantenimento delle frontiere. Non è l'isolamento, ma l'intensificazione degli scambi (in particolare urbani) a essere la condizione della riaffermazione identitaria. In questo modo, Barth oppone a una etnicità tradizionale una etnicità reattiva, di «interazione», che egli chiama anche «simbolica». Se questa ricerca ha il merito di mettere in discussione una concezione statica ed essenzialista dell'identità etnica, le etnicità non sono per questo meno riaffermate, ma curiosamente
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in quanto forme praticamente svuotate di contenuto culturale. Che cosa può significare un'etnicità che dobbiamo apprendere di nuovo? E, d'altro canto, perché questo ostinarsi sulle «frontiere» ? Dopo tutto, l'identità non è altro che un principio classificatorio, un operatore categoriale e generico possibile che opta deliberatamente per una concezione monolinguistica del sociale, rivelandosi eccezionalmente opportuno per la logica sia del particolare sia del generale, ma quasi per nulla utile per la comprensione dell'universalità e della singolarità. Ce ne sono ben altri di operatori logici e sensibili: il totemismo, la traduzione da una lingua all'altra, il meticciato. I lavori di Barth contribuiscono a desostanzializzare e a storicizzare nuovamente l'etnicità, ma è questa nozione stessa a essere parecchio datata. Non eviteremo, in un progetto non tanto di accomodamento quanto di messa in discussione molto più radicale, il confronto con ciò che è già stato indicato in precedenza come la «svolta linguistica» del xx secolo e in particolare con l'opera di Wittgenstein, che è il pensatore più esigente di questa svolta. Allo stesso modo, non eviteremo di trarre tutte le conseguenze della lezione di Lévi-Strauss: «Non sono le somiglianze ma le differenze che si somigliano». Legare l'antropologia alla ricerca e all'analisi della «identità», come l'estetica alla bellezza, significherebbe bloccarsi a una sterile premodernità. Checché se ne dica, la nostra epoca presenta degli aspetti positivi. Ci permette di realizzare, se appena si è un po' svegli, il riassorbimento graduale delle identità, la successiva scomparsa degli «io», che nel teatro di Beckett giungono persino a perdere le loro parti inferiori. Beckett sembra volerci dire che l'identità è innominabile, che volerne fare la cernita e definirla è un'impostura, che l' «io stesso» ha un carattere non solo instabile ma illusorio: l'illusione della coincidenza sia con un qui e ora, sia con un tempo passato. Ma non sono solo gli autori contemporanei che possono venirci in aiuto: Lucrezio, fra i primissimi, pensa la dinamica del molteplice nato dalla congiunzione, Aristotele forgia il concetto di «potenza», Leibniz la «potenzialità» ...
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IX IL PRINCIPIO D'IDENTITÀ O LA LOGICA DI NON-CONTRADDIZIONE
La logica del pensiero identitario accetta difficilmente lo scarto e la contraddizione. Nutre una concezione quanto meno curiosa tanto della realtà che della ragione stessa. A proposito della realtà, ritiene che essa sia pienezza e positività assoluta; della ragione, che sia identificazione e quindi coincidenza. Non le viene mai in mente che avere ragione può voler dire contraddirsi. Una simile concezione di ciò che esitiamo a qualificare come razionale viene definita da Fernando Pessoa come una concezione non eteronima (<
se stessa, quando al contrario vi sono solamente dei segni che la richiamano, ma falliscono sempre nel designarla. Tuttavia questa concezione truccata corrisponde a una certa idea che spesso l' etnologo - più che l' antropologo - si fa di se stesso e della sua professione. L'etnologo, in questa prospettiva, che non può nemmeno essere definita patrimoniale, è al pari di Caeiro un «guardiano di greggi». Sorveglia, protegge, ma essenzialmente confida sempre in ciò di cui si occupa. Celebrando l'essere, non può esprimere il minimo dubbio su ciò che è, ma è un falso pastore. NeU' antropologia, come nella letteratura, ci si accosta al reale abbandonando l'affermazione pura (o la negazione pura) a favore della contraddizione, e ci si accorge che questo pensiero dell' affermazione non è solo fittizio, ma anche costernante. Come scrive Wittgenstein: «Dire di due cose che sono identiche è un' assurdità e dire di una cosa che è identica a se stessa significa non dire nulla». Se si escludono le finzioni dell'identitario, non ci si trova mai in presenza dell'identico. Tutto ciò che dico è non solo confrontato, ma attraversato da una parola altra costituita di alterità, cioè dall'incontro degli altri. Solo nella costruzione del «principio d'identità», come lo chiama la filosofia greca, può sorgere, con ogni evidenza logica, il «principio del terzo escluso». Eppure attraverso i secoli questo pensiero continua - è il meno che si possa dire - a segnarci in maniera durevole. Anzi, non solo a segnarci, ma molto di più: esso trionfa, si espande e dove passa lascia solo minuscole sacche di resistenza. È quando «il reale è veramente morto» che l'individuo è «ricolmo, in modo virtuale ovviamente» e che «diventa finalmente identico a se stesso», scrive Jean Baudrillard. «La promessa dell'Io - aggiunge - è stata realizzata». Siamo passati «dall'Altro allo stesso, dall'alienazione all' identificazione». L'identità, strategia - derisoria - d'identificazione restrittiva mediante esclusione dell'avversità che esiste anche «all'interno», condanna chi vi ricorre alla ripetizione. È proprio questo postulato a proclamare che l'alterità si trova «al di fuori» e l'identità «al di dentro»; esso continua a ostacolare il modo peculiare di conoscenza dell' antropologia, pen51
siero della relazione e non della separazione, per il quale non esiste mai nulla d'intrinseco, d'inerente, d'interno, di essenziale, di profondo e nemmeno di esclusivamente superficiale.
X I FANTASMI DELLA METAFISICA
Il linguaggio dell' identità è un linguaggio metafisico di cui gli umanisti del Rinascimento hanno compreso per primi che c'erano tutte le ragioni di diffidare. È il linguaggio della filosofia scolastica che definisce l' identitas attraverso l'essere in sé, dotandolo di due proprietà: il semper idem (lo stesso per sempre, indenne alla temporalità) e il semper unum (l'uno per sempre, indifferente alla molteplicità). «Per questo Stesso - commenta Marc Fumarolli - non c'è Altro. Per questo Uno non c'è plurale». La difficoltà comincia quando si cerca di trasporre ciò che è stato pensato nel dominio della teologia (l'identità costituisce con l'unità l'attributo maggiore della divinità) al dominio della psicologia e della sociologia. Il problema è causato dal transfert abusivo, potremmo addirittura dire dalla trasfusione, che avviene tra la metafisica greca - che postula il principio della 52
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stabilità delle essenze - e la conoscenza empirica dell'umano, della cultura e del sociale. La finzione dell'Essere supremo cui soccombe la concezione deista della filosofia dei Lumi, contrariamente alla Trinità della teologia cristiana, è proiettata puramente e semplicemente sull' «io», l' «etnia», lo «Stato», i «primitivi», l' «Occidente». Questo periodo è passato, mi si dirà; ma quelle che chiamiamo scienze umane sono veramente convinte che l' «io», l' «etnia», lo «Stato», i «primitivi», l' «Occidente» siano sprovvisti di ogni identità e caratterizzati piuttosto dalla mobilità, e che l'uomo stesso non sia pienezza dell'essere quanto piuttosto desiderio, ossia privazione di tale pienezza? Non saranno ancora animate, queste scienze umane, dal progetto cartesiano delle idee chiare e distinte, progetto di restaurazione identitaria quant'altri mai, che mette fine per molto tempo alla grande libertà di cui facevano prova gli autori del Rinascimento? Colpisce nel cogito cartesiano l'aspetto monolitico, il fatto che sia sotteso, una volta passata la prova del dubbio, da un pensiero del «fondamento» (dell' io, della ragione, della politica, della morale) alla radice del quale, naturalmente, c'è Dio. Il pensiero che qualifichiamo sempre troppo rapidamente come occidentale non presenta nulla di omogeneo. Sono numerosi coloro che hanno riflettuto, sia prima sia dopo Descartes, sulla pochezza dell'identità che caratterizza l'essere umano. Montaigne, senza immischiarsi con ciò che è accreditato come assoluto, anzi, senza nemmeno metterlo in questione in alcun modo, persino obbedendogli, si limita ragionevolmente alla relatività dei «costumi» sociali e smette di opporre in maniera identitaria i protestanti e i cattolici, i «naturali» e i «civilizzati». Hume, nel Trattato sulla natura umana, propone una critica decisamente più filosofica della nozione metafisica d'identità. Egli mostra che non è possibile applicare all'esperienza umana - che è singolare, multipla, fugace, perché presa nel flusso della temporalità - i concetti antologici di unità e d'identità elaborati nel crogiolo della filosofia greca per render conto della divinità. Si ricorderà infine la perspicacia dei teologi stessi, secondo i quali la nozione di Trinità strappa la divinità all'astrazione dell'autosufficienza identitaria: un essere assoluto, sempre identico a se stesso, rende54
l'ebbe in effetti la divinità del tutto indifferente al desiderio e alla sofferenza degli uomini. Non è tuttavia in queste direzioni che si trovano la legittimità, il prestigio, il sapere, ma dalla parte del cartesianesimo, ovvero dell' attribuzione al soggetto sovrano delle proprietà dell'essere in sé. Perché la metafisica occidentale riprende sempre il sopravvento. Non è mai Lucrezio a trionfare su Platone, né Diderot su Descartes. Vico è stato dimenticato, Hegel viene ricordato; si è persa di vista la lezione di Montaigne, la pittura del «passaggio» a vantaggio della designazione dello «stato». La sostituzione della nozione di sostanza con quella d'identità è molto meno importante di quanto si creda. È sempre Dio che continua a vivere e a nutrirsi dell'identità in maniera vampiresca. L'identità si può senz'altro ritenere «sociale», «culturale», «individuale»: continua però a supporre una trascendenza del sociale, della cultura, dell'io, s'inscrive nella continuità di quell' invenzione senza dubbio geniale che è la religione. L'identità ci fa abbandonare il terreno della realtà per ricongiungerci con quello della metafisica. Non dovrebbe far parte del vocabolario delle scienze umane. La sua esistenza è fantomatica e fantasmatica, perché ciò che designa può sorgere solamente come mancanza. Essa conduce infine alla rinuncia del ricercatore che si sforza di fissare e irrigidire il flusso del tempo e del molteplice come tutti gli individui frettolosi di chiudere con le loro contraddizioni. C'è tuttavia un ambito - sì, cambio spesso parere - nel quale l'identità può pretendere di avere una certa pertinenza: si tratta dell' ambito poliziesco. La «carta d'identità» e ancor di più la «foto d'identità» permettono la segnalazione antropometrica, l'individuazione e persino l'arresto. Ma troppo bene e troppo alla svelta identificato (per esempio nel corso di ciò che si chiama, facciamo attenzione a questa espressione, un «controllo d'identità»), ridotto a un dispositivo segnaletico e semiologico esclusivo di simboli, l'individuo percepisce molto presto la natura di un processo mediante il quale viene posto termine proprio a ciò che costituisce la sua singolarità. D'altra parte ciascuno di noi, anche chi non ha mai avuto a che fare con la polizia, ha potuto fame l'esperienza: la foto d'identità non potrebbe essere totalmente me 55
perché non posso riconoscermi come identico a me stesso, non posso accettare questa riduzione a una posa, cioè a una sola delle mie rappresentazioni.
XI L'ODIO DEL TEMPO E DELLA STORIA
Gli uomini e le donne dell'identità vedono nella mobilità una «maledizione», come la chiama Winnie, uno dei personaggi di Samuel Beckett. Al contrario, l'immobilità è agognata spasmodicamente, come dichiara Molloy, un altro personaggio creato da Beckett: «Essere davvero nell' impossibilità di muoversi, questo sì che sarebbe un successo!». Il pensiero dell' identità, dell' identico e dell' identificazione, comandato da una logica della proposizione, anzi della parola, non del periodo e ancor meno del romanzo, esclude il tempo dal suo orizzonte. Esso designa e determina uno stato (ser), non un movimento (estar). Dal suo presupposto antologico consegue il suo carattere di permanenza e immutabilità: ebreo, arabo, bantu o bambara per sempre. Parlare d'identità (etnica, nazionale, religiosa, linguistica), ossia nominare ciò che è a partire da ciò che era (da cui l'impressione di un eterno pre56
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sente), significa tacere o almeno minimizzare il fatto che il fenomeno di cui cerchiamo di render conto si trasforma, che quindi è sempre altro da se stesso e può essere detto anche in modi differenti, cosa che i seguaci dell'identità considerano in maniera perfettamente logica un atto di tradimento. In effetti, quando una nozione trascina con sé il sacro, la traduzione è considerata blasfema, al pari di una perdita, di una distruzione, di un'infedeltà. La traduzione viene ritenuta inopportuna, imperfetta, anzi impossibile. Leibniz direbbe che l'identità ci fa accedere a una sola classe d'essere: quella che egli chiama gli Identici, esseri completi in se stessi e autosufficienti. Ma ancor di più si tratta di un'operazione volta a rendere identici. Il pensiero identitario è un pensiero dell'invarianza che procede alla negazione del tempo, il quale non ha né centro né punti fissi, né identità, ma esiste solamente nella molteplicità delle variazioni da un momento all'altro. L'identità, preferendo la metafisica alla metafora, bloccando il divenire impedendogli di addivenire e facendo di tutto per premunirsi in tal senso mediante il ritorno, è un concetto che, a rigore, può designare un'essenza (un blocco di pietra nella sua perennità, anche se quest'ultimo non è mai del tutto uguale a se stesso), non un'esistenza, ancor meno una storia e senz'altro non una cultura. In effetti ciò che davvero meriterebbe di essere chiamato cultura deriva proprio dalla trasformazione nata dal disaccordo con l'identità. Ebbene, questa strategia greca e poi scolastica della conoscenza, fondata sull' evitare sia il tempo sia il linguaggio, trova un' accoglienza più che favorevole nelle scienze sociali e in particolare nell'antropologia. Quest'ultima, durante il suo periodo di formazione, soprattutto in Francia e in Gran Bretagna, ha inteso trovare la propria legittimazione neutralizzando la storia (Malinowski) e diffidando di pari passo dell'instabilità del linguaggio. Attraverso la costituzione dell'antropologia come «scienza» viene riattualizzata proprio l'antinomia fra tempo e verità. Effettivamente ciò che si fa passare per scienza (o che è accreditato come scienza) deve spesso la sua immensa nomea alla fissità e all'extraterritorialità culturale (ovvero alla neutralità). È logico che l'identità, situandosi o più precisamente essendo si58
tuata dalla parte della verità, può solamente contribuire a una sconfitta del tempo. A condizione tuttavia di resistere per sempre alla molteplicità e al cambiamento, al flusso e all'affluenza che va e viene in noi come tra noi e gli altri. A condizione di stare sempre sulla difensiva, di mettere in opera dei potenti meccanismi di difesa, nel senso freudiano del termine. Ciò che si chiama specificità etnica, «identità» dei «popoli», ma anche identità di una disciplina, consiste nel proteggersi da una possibile minaccia che giungerebbe a mettere in pericolo la coerenza e la coesione (del gruppo, dell'io, della disciplina ...). Tale protezione contro le aggressioni esterne si rivela nei fatti soprattutto una protezione contro l'altro che è in noi e una protezione contro il tempo, che può arrivare fino alla guerra, come si è visto, ma che il più delle volte si limita all 'ironia, una collera nata dall' ossessione dell' identico. Sull' antropologia pesa un malinteso: è considerata e spesso si considera essa stessa come un genere maggiore, nel senso in cui Gilles Deleuze parla di una letteratura maggiore, ufficiale, istituita, trionfante. Nei fatti il suo status è quello di genere minore, voglio dire di una sperimentazione che non può essere magistrale e decisiva e non può andare nel senso di un'affermazione e ancor meno di un'imposizione di senso. In effetti essa è frutto del lavoro di una minoranza (da cui discende lo spazio esiguo concessole nelle istituzioni), sebbene contemporaneamente s'inscriva in uno spazio maggiore: la scienza. Mentre il pensiero maggiore pretende soprattutto di marcare e spiegare le grandi dimensioni del sociale (la scienza politica classica è macropolitica, la sociologia classica è macrosociologia), un pensiero in modo minore è attento piuttosto ai dettagli minuscoli (il micropolitico, il microsociologico ...). Ma più ancora ha un carattere incompiuto, ribelle. Non pensa più il mondo in termini di proposizioni principali e proposizioni subordinate, di fiumi regali e miserabili affluenti. Un pensiero in modo minore, preoccupato di cogliere i flussi e le tensioni più impercettibili, non intende farsi prendere in giro dalla logica della proposizione (che è spesso anche la logica della dominazione). Consiste in uno sradicamento dall'universo dei Signori, da quello che Gombrowicz chiama l' «orgogliosa superiorità». 59
L'antropologia s'inscrive in un procedimento di questo tipo. Non ha come fine di confortare e avallare, ma al contrario di attaccare le «espressioni» correnti incaricate di racchiudere un «ordine del mondo» dominante, ma anche dominato. Contribuire all' «esaurimento» della nozione d'identità è un compito che le spetta in maniera particolare. Ma essa non potrebbe portarlo a termine da sola nel quadro della chiusura stagna delle frontiere. Le garanzie che il cemento identitario non si riformerà sono la moltiplicazione degli approcci, la molteplicità delle scritture e, all'interno del testo stesso, la molteplicità dei soggetti della scrittura. L'antropologia non è certo la sola a non rassegnarsi a questo intorpidimento del pensiero. Ha senza dubbio molto da dire e soprattutto ancora tanto da fare per venire a capo del crampo identitario. Nel quadro di questo compito, perpetuamente da ricominciare, essa costituisce un approccio che ci sembra privilegiato; ma non è certo l'unico possibile. Mescolare l'antropologia con la letteratura - il che non significa amalgamarle completamente e ancor meno confonderle - può forse aiutarci a fare un passo in più.
XII L' ANTINOMIA DELL'IDENTITÀ E DELLA TEMPORALIT À PESSOA, PROUST, DIDEROT, MONTAIGNE
Poiché riteniamo che la narrazione letteraria - che è sempre una narrazione di trasformazioni - possa essere utilizzata come operatore logico per riattualizzare e rinnovare (e non risolvere) questioni che si pongono nel cuore stesso dell'antropologia, il tutto rispettando l'autonomia dei due progetti, suggeriamo qualcosa di analogo (ma non d'identico) al procedimento seguito da Samuel Beckett. Costui, nella costituzione del suo progetto teatrale, fa riferimento alla pittura (in particolare a Bram van Velde) come modello in grado di aiutarlo ad avanzare nella ricerca narrativa, poi ai matematici, e in misura ancora maggiore alla musica. In questa prospettiva, quattro autori che cominciano a esserci familiari - Pessoa, Proust, Diderot e Montaigne - e che avremmo davvero grossi problemi a rinchiudere nei limiti di generi separati, ci permetteranno di fare un passo in più 60
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I verso l'elaborazione dell' antinomia dell 'identità e della temporalità. Pessoa, o piuttosto uno dei suoi eteronimi, Bernardo Soares, scrive ne Il libro dell'inquietudine: «Vivere è essere un altro. E sentire non è possibile se si sente oggi come si sentiva ieri: sentire oggi la stessa cosa di ieri significa non sentire». «Quest' aurora - prosegue Bernardo Soares - è la prima del mondo. Accade per la prima volta che questa tinta rosa, che delicatamente vira al giallo, poi al bianco caldo, si posi sul volto che le case delle pendici occidentali, con le loro finestre simili a migliaia di occhi, offrono al silenzio che promana dalla luce nascente. Per la prima volta esiste questa ora, questa luce, questo essere che è il mio. Ciò che sarà domani sarà altro e ciò che io vedrò sarà visto da occhi ricomposti e colmati da una nuova visione». I personaggi di Proust, in Alla ricerca del tempo perduto, si evolvono in un movimento di trasformazione continua. Nulla in loro e fra di loro rimane fisso, nulla riesce a star fermo. I sentimenti che paiono più stabili sono sottomessi alle leggi ineluttabili del tempo, cioè alla molteplicità infinita degli stati. Così accade al grande amore del narratore per Albertine: «Non l'amavo più, non ero più l'essere che l'amava, ma un essere differente che non l'amava, avevo cessato d'amarla quando ero divenuto un altro». Così accade per la sofferenza estrema provocata dalla morte della nonna: «Ormai ero solo quell'essere che cercava di rifugiarsi neUe braccia della nonna, di cancellare le tracce delle sue pene baciandola, quell' essere che avrei dovuto percepire quando ero il tale o il tal altro dei molti che si erano avvicendati in me in quel lasso di tempo; fra tante difficoltà ora dovevo fare degli sforzi, per altro sterili, per provare i desideri e le gioie di uno di quelli che, ormai da tempo, non ero più». Se propriamente parlando non esiste una teoria proustiana del tempo è solo perché nella Ricerca il teorico e il poetico (nel senso dell'elaborazione e della composizione testuale) sono a tal punto mescolati che è vano volerli separare. Inoltre il narratore scrive in proposito: «Un'opera nella quale vi sono teorie è come un oggetto su cui si lascia l'etichetta del prezzo».
La grande novità di questo libro-cattedrale, che è anche un libro floreale, è tuttavia la maniera in cui è considerato e messo in movimento il tempo. Non più solamente in quanto categoria o in quanto dimensione (della società, dei sentimenti), ancor meno in quanto presente, passato e futuro sotto le spoglie dei motivi, ma come operatore al contempo logico e sensibile della ricerca. La ricerca, completamente tesa alla realizzazione - incerta - dell'opera, ci mostra che non siamo mai gli stessi, che la coincidenza con se stessi è un' illusione e altrettanto lo è la conoscenza, poiché Proust esclude che sia possibile immobilizzare il flusso della coscienza e afortiori il movimento dell'inconscio. Da qui deriva il carattere arborescente e in perpetua crescita e digressione della frase proustiana, che tenta di cogliere il molteplice in trasformazione mostrando nello stesso tempo l'impossibilità di coglierlo totalmente. Il metodo proustiano è stato classificato dallo scrittore stesso come «trasversale», che cioè consiste nel passare e ripassare da un ricordo all'altro, da un paesaggio all'altro, da una persona all'altra o a se stesso (per esempio nel lavoro di demoltiplicazione delle Albertine) senza mai ricondurre il molteplice all'uno, senza riunire tutte le innumerevoli sfaccettature in un «tutto». È un metodo della svolta - il narratore della Ricerca spiega, dispiega, dilata, ma anche contrae - che non smette di girare intorno ai differenti frammenti dell'io o della società mondana. Questi ampi «avvolgimenti» formati da catene di associazioni visuali, sonore, olfattive ammassano, assemblano, ma non saldano artificialmente ciò che nella finzione - ma anche nell' esistenza - rimane differente nel tempo e nello spazio. La lettura di Proust affina la nostra sensibilità e ci rende più intelligenti perché il testo instaura continuamente delle relazioni inedite. Mette in luce la distanza di ciò che sembrava contiguo e la contiguità di ciò che pareva distante. Mentre il romanzo contemporaneo insiste piuttosto sulla separazione assoluta e sull' incomunicabi Iità totale (da cui la disperazione o il non-senso), per Proust, se pur esiste qualcosa d'incommensurabile, nondimeno tutto comunica anche se nulla coincide. L'identità colma e rapisce perché annulla la distanza, ma a prezzo di risposte truccate che si chiamano origine, principio,
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unità, totalità. In Proust (analista delle metamorfosi, delle intermittenze, delle trasformazioni dell' amore e più ancora dei processi di disamoramento che conducono all'oblio) è proprio il tempo che impedisce al tutto di riformarsi e a maggior ragione d'istituirsi in risposte identitarie: «Le passioni politiche sono come le altre passioni, non durano. Arrivano nuove generazioni che non le capiscono più; la generazione stessa che le ha provate muta, prova delle passioni politiche che non essendo esattamente ricalcate sulle precedenti, riabilitano una parte degli esclusi, poiché è cambiata la causa dell'esclusione. I monarchici non si preoccuparono più durante l' affaire Dreyfus che qualcuno fosse stato repubblicano, oppure radicale, o anticlericale, purché fosse antisemita e nazionalista ... Così a ogni crisi politica Mme Verdurin aveva raccolto a poco a poco, come l'uccello che fa il suo nido, i frammenti, al momento inutilizzabili, di quello che sarebbe diventato un giorno il suo salotto. L'affaire Dreyfus era passato, Anatole France invece restava».
cora lo e Lui (Il Nipote di Rameau) formano delle coppie bizzarre, squilibrate, rivali e nelle quali tuttavia i personaggi s'influenzano l'un l'altro man mano che avanzano nelle loro pagliacciate e tirano il lettore a destra e a sinistra. Il nipote, nato sotto il segno di Vertumno (divinità delle stagioni e delle mutazioni del tempo), «si disassembla costantemente». «Vacillante nei suoi principi», spinge al parossismo il processo del de-impressionamento di sé, della non-coincidenza e della disaggregazione del soggetto. Inizialmente lo sembra statico nel suo ruolo di etnografo classico ante litteram; poi, osservando le spacco nate del nipote, che evoca per esempio le coliche della cagna Criquette e le «altre lievi indisposizioni dei suoi maestri», viene a sua volta contaminato dall'indecisione. In questo strano dialogo tutto costituisce una vera presa in giro della serietà e del dogmatismo identitario. «Che il diavolo mi porti se so davvero chi sono», urla Rameau.
Alla voce Enciclopedia Diderot mostra già che l'essere umano è un «composto», un «bizzarro composto di qualità sublimi e di vergognose debolezze». Nel Discorso sulla poesia drammatica, ritiene che «tutto, nello stesso uomo, è una vicissitudine perpetua, che lo si consideri sotto l'aspetto fisico o sotto l'aspetto morale». Nel Rifiuto dell'uomo di Helvétius se la prende con i «metodisti», come li chiama Buffon, ovvero con quei naturalisti che stabiliscono classificazioni sistematiche perfette in cui tutto il reale deve rientrare, costi quel che costi. Questa mobilità di Diderot, secondo cui tutto «si agita» e «si muove senza regole» (<
Con i Saggi di Montaigne l'Europa, per una delle primissime volte, si preoccupa realmente della diversità in sé, dell'uomo «mutevole e diverso», delle fluttuazioni della sensibilità, senza più alcun giudizio di valore riguardo a ciò che sarebbe «autentico» o «inautentico». Lungi dall'opporre l'Europa agli altri, le cose importanti (il pensiero, lo spirito) al resto (per esempio il corpo), un ambito nobile dell'esistenza a un ambito triviale, cosa che conduce a ripudiare una parte di sé come estranea, Montaigne s'interessa a tutto e parla di tutto: di politica, di cucina, di medicina, di sport, di economia domestica, di modi di dormire e di mangiare. L'uomo, con lui, non è solamente ragione, ma immaginazione, memoria e soprattutto desiderio. Nessun aspetto dell'esperienza umana, compresi quelli della cultura altrui, può essere considerato più o meno legittimo. Montaigne vuole dirci in un certo senso che no, non è peccato avere sonno, avere paura, temere la morte, essere tristi o allegri, preferire un piatto a un altro, bere un bicchiere di vino. Montaigne, lungi dal distruggere la morale, la rende al contrario possibile. Infine, e soprattutto, le osservazioni che egli si propone di effettuare riguardano l'instabilità dei sensi, la trasformazione, la pluralità dell'io: «lo non descrivo l'essere, io descrivo il passaggio»; «La nostra vita è composita». O an-
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cora: «Un uomo onesto è un uomo mescolato»; «Posso comprendere gli altri solo perché io sono altro da me»; «Noi siamo, e io so come, duplici in noi stessi». «lo adesso e io oggi pomeriggio siamo senz'altro due»; «Pierre è prodigo e avaro: prodigo il mattino, avaro la sera». Se l'uomo è continuamente differente da se stesso e mai allineamento e chiusura, è perché tutto nel mondo è movimento, cambiamento, instabilità, variazione e moltiplicazione. Proprio Montaigne cita Lucrezio: «Il tempo cambia tutto neU'universo: in ogni cosa a uno stato ne succede necessariamente un altro; non v'è nulla che rimanga simile a se stesso: tutto si trasforma, la natura modifica tutto e obbliga tutto a cambiare». L'io non può essere pensato e in primo luogo percepito se non a partire dalla dimensione temporale che tutto destabilizza. È lui stesso flusso, movimento, metamorfosi: «Ciascuna parte, ciascun momento, fa il proprio gioco e non c'è alcuna esistenza costante, né del vostro essere, né deU'essere degli oggetti. E noi, il nostro giudizio e tutte le cose mortali scorrono e rotolano senza posa. Perciò non è possibile stabilire nuUa di certo fra l'una e l'altra cosa, e giudicante e giudicato sono in continuo mutamento e movimento». Il corpo e l'anima, il concreto e l'astratto, l'io e l'altro, lungi dall' essere separati, si compenetrano, s'intrecciano, si mescolano senza tuttavia amalgamarsi e confondersi. «La nostra vita è composita, come lo è l'armonia del mondo fatta di cose contrarie, di toni diversi, dolci e aspri, acuti e piatti, deboli e forti. Che senso avrebbe un musicista che ne amass~ solo alcuni? Bisogna ch'egli sappia servirsene insieme e mescolarIi». Come il passato s'insinua surrettiziamente nel presente, così l'altro s'insinua nel medesimo e il medesimo nell'altro; conoscere, in queste condizioni, significa riconoscere che c'è dell' altro in me, parte di me nell' altro, del passato nel presente, del presente nel passato; significa studiare gli scarti, le variazioni, le trasformazioni del singolare (nel dettaglio del dettaglio) al fine di pervenire aU'universale. Montaigne, che è, notiamolo, uno fra i primi ad aver cominciato a pensare il corpo in quanto tale come istanza non separata, è al contempo il precursore di ciò che sarebbe diventata l'antropologia: un genere meticcio che non può essere soddi66
sfatto dei linguaggi differenzialisti e identitari deUa fissazione, deUa stabilizzazione e della separazione: in particolare del corpo e dello spirito, ma anche del passato e del presente, dell'io e dell'altro. I Saggi ci lanciano una sfida che è indissociabilmente scientifica, semantica e linguistica. Se effettivamente il reale, senza cessare di trasformarsi, è mobile, paradossale e contraddittorio, esso invoca una temporalità del testo, in special modo delle parole che non possono più ripiegarsi su se stesse in significazioni prestabilite. Come ci dice Montaigne, «è il dettaglio della vita così come il movimento della scrittura a generare i pensieri e non le idee che, dal loro trono, generano gli accidenti del testo».
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XIII L'ILLUSIONE DELL' AUTONOMIA DELL' AUTORE E DELLA COSTANZA DEL LETTORE
Il misconoscimento della testualità riposa sullo zoccolo dell'identità. Quest'ultima conduce non solo ad affermare che esistono generi separati (per ysempio, la letteratura di finzione o di testimonianza), ma anche che, all'interno di questi generi fissati per sempre, i testi sono indipendenti gli uni dagli altri. I testi avrebbero, per così dire, vita propria; potrebbero esistere da soli, senza contesto, senza relazioni con gli altri libri scritti dall'autore o da altri autori, e praticamente anche senza lettori. L'illusione identitaria è anche l'illusione dell'autonomia del testo, la credenza nella sua stabilità e unità, il postulato che esista una sorta di in sé del testo, ignorando sia il lavoro di composizione sia l'attività del lettore. È davvero un'illusione, poiché mai nessun testo (scientifico, letterario, musicale, pittorico, architettonico, cinematografico ...) risponde a tali criteri identitari impliciti propri tanto della scrittura quanto della 68
lettura: della scrittura omogenea, della lettura e del lettore costante. Un testo, qualunque esso sia, non può mai essere considerato come se fosse esclusivamente se stesso, dal momento che è formato dalla somma dei testi anteriori, che lo costituiscono in maniera implicita o esplicita (citazioni) e che esso ricompone, e allo stesso tempo dall'insieme delle letture (inizi di riscritture esse stesse) che suscita. Effettivamente parlare di un testo significa anche parlare del lavoro del lettore che lo modifica, della variabilità delle letture che vengono compiute dai diversi lettori, soprattutto in funzione di altre letture, ovvero in funzione di altri testi. Possiamo aver accesso a un libro solo avendo attraversato e integrato altri libri, e non rileggiamo mai un testo nello stesso modo (a diciott'anni o a trentacinque). La prima lettura non è quella buona, non è nemmeno quella vera e soprattutto non è la sola. Nessun testo è mai lo stesso per due lettori, e d'altra parte lo stesso lettore ne fa ogni volta due letture differenti. La caratteristica della testualità è dunque la sua mobilità. Un testo non smette mai di trasformarsi e di trasformare il lettore (in caso contrario non vale nulla). Può essere colto solo nel flusso perpetuo d'immagini e di suoni mescolati e nel movimento perpetuo della rete che è stata chiamata intertestualità. Le questioni poste dall'intertestualità - concetto ben più fecondo rispetto alla così povera nozione di «influenza» (letteraria, culturale) - fanno esplodere i rapporti d'identificazione pura e semplice che si rivelano sempre marcati e fissati dal verbo essere. Infatti tali questioni consistono nel domandarsi non qual è il rapporto fra testi differenti (di uno stesso autore, di differenti autori, di differenti epoche e culture), ma come i testi agiscono gli uni sugli altri, come si spostano, si trasformano, si ricompongono e suscitano altri testi.
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XIV L'IDENTlTÀELA VERITÀ. L'ANTROPOLOGIA E IL LINGUAGGIO
In qualunque modo la si affronti, l'identità si rivela deficitaria. Deficitaria ma appassionante, perché ci permette di percepire fino a che punto il cambiamento faccia paura e lo sforzo linguistico scoraggi. Cercando di fissare degli enunciati essa si ribella specialmente alla comprensione del processo di enunciazione. Affermando la pienezza di questi enunciati essa non vuoI sapere nulla del confronto delle enunciazioni, ossia del lavoro combinatorio che si compie a partire da frammenti eterogenei. L'identità, mirando alla concentrazione particolarizzante il cui corollario è l'esclusione, fallisce nell'universale tanto quanto nel singolare. Povera e sulla difensiva, essa è l'esaurimento del particolare, che è a sua volta solo un singolare disseccato e tendente al funereo. L'antropologo può - e deve - comprendere l'indignazione dei cattolici integralisti che si lamentano del fatto che non si 70
dica più la messa in latino, ma s'interessa soprattutto a ciò che si trova di universale in ogni gruppo: non ciò che si presenta come irriducibile, ineffabile, ma ciò che risuona e parla in ciascuno di noi, che ci fa diventare grandi. La questione della legittimità in un approccio come questo (e più in generale nel pensiero critico) non è affatto l'appartenenza a un territorio, a una famiglia, a una lingua, bensì il superamento dell'appartenenza, le condizioni di una possibile apertura verso il pensiero altrui. Non l'assegnazione, la designazione del sociale, della cultura, ma il fatto che questi si possano percorrere in tutti i sensi, da est a ovest, da ovest a est, da nord a sud, dal basso in alto, dall'alto in basso. Si tratta del percorso di quello che Deleuze chiama, e ci ritorneremo, la deterritorializzazione, che si oppone alla riterritorializzazione identitaria. Se dunque l'identità tende a situarsi dalla parte della verità e sente il bisogno di una sfida alla temporalità per farla trionfare, l'antropologia s'impegna nel movimento inverso: un movimento che consiste nel disfare le identità (le identità, le tradizioni, le culture) e attraverso tale movimento disfare la verità, in particolare l'idea di una lingua madre, di un centro del mondo. Quest'ultimo punto ci rinvia ineluttabilmente alla questione della scrittura, che è allo stesso tempo anche quella della lettura. Il carattere fragile e provvisorio di ciò che non si può più chiamare «identità» corrisponde all' instabilità del testo che si sforza di dire contemporaneamente la permanenza e il cambiamento e che provoca una lettura interrogativa. Faulkner, mettendo in scena la coscienza sudista, non parla mai di «identità», ma evoca in una maniera indiretta e laterale una memoria ferita e nello stesso tempo una negazione reiterata. Nell' antropologia, come nella letteratura, non si pone mai la questione dello stesso, ma la questione dello stesso e dell' altro, e il fatto che ci sia dell'altro invoca un lavoro sull'altro della lingua, cioè sull'estraneità che sorge quando si mette in moto illinguaggio, quando si spostano le parole. Ebbene, questa estraneità e a volte persino questa asocialità nel testo cozzano contro un'altra logica che è ancora quella dell'ordine e della riproduzione dello stesso: la logica della rappresentazione.
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xv UNA CONCEZIONE SOSTANZIALISTA DEL REALE
La nozione di rappresentazione s'inscrive nella tradizione dell' estetica della rappresentazione, o anche dell' epistemologia della rappresentazione. Ci proponiamo ora di contribuire a disfare questa tradizione, come abbiamo tentato di disfare la tradizione dell'identità, e di mostrare che il pensiero è più debole proprio quando la corrispondenza fra parole e cose sembra più forte. Come vedremo, non significa poi molto sostenere che la rappresentazione è una nozione debole. Si tratta di una nozione del tutto sterile che presenta una delle concezioni più povere della ragione e del linguaggio. La nozione di rappresentazione è considerata nella maggior parte dei casi come doppio, raddoppiamento, replica, ripetizione, riconoscimento (e non conoscenza), insomma riproduzione di una realtà anteriore ed esterna alla questione della sua ricerca, cioè esterna in particolare alla ricerca del 75
linguaggio. Viene concepita come una duplicazione, una fotocopia, un'imitazione del reale che accompagna ciò che vediamo e sentiamo, che fa da scorta in qualche modo alle nostre attività, cosa che presuppone che i fenomeni con i quali ci confrontiamo non suscitino alcun dubbio né alcun interrogativo, che la realtà sia omogenea e il linguaggio statico. Le scienze sociali hanno largamente contribuito a preservare la tesi della rappresentazione o di quella che Durkheim chiama, tra i primi, tesi delle «rappresentazioni sociali». Anzi, hanno in una certa misura contribuito a rinforzarla tentando di dar soluzione all'immensa questione affidandosi all'espressione «raccolta dei dati», il cui senso tende ad assegnare al ricercatore un ruolo passivo di registrazione delle informazioni.
che si riproduce ciò che vi è di più conservatore nelle scienze sociali: tutto ciò che conduce esclusivamente a registrare e a non agire, a essere solo testimoni e non attori, insomma tutto quello che c'impegna nelle vie senza uscita della riproduzione del «reale» e non nelle avventure della produzione di un testo.
La rappresentazione, dal nostro punto di vista, presta il fianco a una prima critica: presuppone una concezione sostanzia lista del reale. Esisterebbe una verità del mondo e una veridicità del sociale indipendentemente dal linguaggio. Ci sarebbe da qualche parte del già detto che sarebbe sufficiente scoprire, qualcosa di nascosto che sarebbe opportuno portare alla luce. Tale è l'artificio del positivismo che consiste nel far credere che le significazioni ricercate sono completamente contenute nelle cose, nel mondo, nella società. Sotto un comportamento modesto, la rappresentazione fa ancora appello alla trascendenza, a quella che Deleuze chiama la trascendenza dell' oggetto, e pone il postulato della referenza in quanto centro. Esisterebbero, da una parte, dei fatt.iallo stato puro che possiedono ciò che in filosofia si chiama lo statuto di cosa in sé, ossia di assoluto; dall'altra, dei discorsi che enunciano e, nel caso della descrizione, sillabano con difficoltà questi fatti in maniera mimetica per fornirne una copia conforme. Quello che consideriamo rappresentazione - ma mi auguro vivamente di non ricorrere mai più a questo linguaggio, e d'altra parte l'antropologia, nei suoi aspetti più incisivi, non lo ha mai fatto - puzza oggi di «sovrastruttura»: perciò rimarrebbe sempre in seconda posizione in rapporto a quel «fondamento» che, come vedremo più avanti, merita l'appellativo d'identità. È alla luce - o piuttosto all'ombra - delle rappresentazioni 76
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XVI LA FINZIONE DELL'UNITÀ E DELL'IDENTITÀ DEL SEGNO E DEL SENSO
Il senso, in una concezione rappresentazionale del mondo, può essere considerato l'enunciato di un fatto ripresentato da un segno (parola) o da un sistema di segni (frase)"suscettibile di essere verificato o smentito da altri fatti per mezzo di altri segni. La peculiarità della rappresentazione è dunque di rappresentare qualcos'altro rispetto a se stessa. Tuttavia, essa suppone da un lato la coincidenza, o quanto meno il maggior adeguamento possibile fra il segno e ciò che esso mira a significare, mentre dall' altro lato invoca l'eliminazione del segno a favore della cosa. Un'attenzione eccessiva ai segni ci distoglierebbe, infatti, dal senso. La rappresentazione implica che si passi attraverso il segno (grafico, fonico, gestuale ...), ma che non ci si attardi troppo. Il segno sarebbe solamente un mezzo per designare le cose, i fatti, il mondo, il «reale» nella loro presenza. Nella lingua ufficiale, la lingua delle convenzioni, del com78
mercio, della trasmissione delle «informazioni», è sempre così. Questa lingua va sempre - o almeno finge di andare - dal «contenuto» alla «forma», dal significato al significante. Dato un oggetto è necessario trovare una forma, poiché la natura del rappresentato prescrive la forma della «sua» propria rappresentazione. Tutto ciò non ha solo implicazioni linguistiche, ma anche sociali: «Paris-Match» al popolo, ai borghesi di una volta il piano bar o l'operetta, agli intellettuali d'oggi la lettura di Wittgenstein e i film di Garrel. Se esiste una dualità, esiste però anche un'unità e un'identità del segno e del senso. Nella rappresentazione, il segno è l'esplicazione del senso conosciuto, o piuttosto riconosciuto. C'è un' identificazione del senso mediante il segno e allo stesso modo una coincidenza e una simultaneità (o meglio un effetto di coincidenza e simultaneità) fra il reale e il segno. In effetti la rappresentazione non ostenta mai una tale convinzione che sa di finzione: l'unità e l'integrità del senso. E tuttavia la suffraga, affermando in continuazione l'omogeneità di parola e cosa. Si tratta di ciò che i linguisti definiscono «cratilismo» del segno, una posizione completamente soggetta a uno dei presupposti deterministi fra i più dogmatici, visto che postula l'esistenza di un legame necessario ed essenziale fra le parole e le cose: il significante è la copia del significato. Tale concezione mimetica è davvero tenace. Criticata per la prima volta da Platone nel Cratilo, non tiene in alcuna considerazione il fatto che le parole non assomigliano affatto alle cose, per esempio che la parola «cane» non è simile a un cane. La tesi dell' adeguamento fra le parole e le cose - Cratilo pretende che le parole e le cose siano simili a ciò che designano non tollera nemmeno l'interrogarsi sulla loro tensione e mobilità. La rappresentazione non smette di rimuginare la medesima cosa. In qualche modo, essa dice sempre: è così, o così è scritto, oppure ancora così è stato detto alla televisione, insomma il senso è lì, l'ho riconosciuto ed è opportuno limitarsi a esso. Ha orrore del linguaggio tanto quanto della riflessione e ancor di più, è logico, della riflessione sul linguaggio. La rappresentazione riflette, ma nel senso ottico del termine, ed è questa concezione speculare della riflessione che agisce nei suoi confronti come un bastione contro ogni pericolo di destabilizzazione. 79
Effettivamente, il discorso rappresentazionale è un discorso privo di rischi. È tutto già là, bene a posto. La scena è disposta in anticipo. La casa regge contro le intemperie. La nonna si affaccenda in cucina per preparare il caffè al mattino. Gli stivali sono sull'uscio della scuderia e le pantofole ci attendono presso il caminetto. La giornata può cominciare. La rappresentazione si snoda nella soddisfazione della trascrivibilità, sempre uguale, sempre nello stesso luogo; ma si fa disperatamente gioco della sua problematica traducibilità. È un calmante ontologico che maschera la voragine di ciò che separa quel che s'è detto e quel che si vorrebbe dire, che dissimula lo scarto del linguaggio o per maggiore esattezza il linguaggio come scarto. Le scritture della rappresentazione possono essere solamente scritture della trascrizione, che esauriscono e dissolvono l'alterità in quello che ha di unico nella banalità dell'enumerazione e nella monotonia del medesimo. In queste condizioni si capisce bene 1'odio del credo rappresentazionale per la metafora («portare altrove» nominando una cosa al posto di un'altra) e contemporaneamente il suo rifiuto o la sua indifferenza nei confronti della letteratura. Quest'ultima, in effetti, è assolutamente estranea e contraddittoria rispetto alla concezione rappresentazionale del senso. Ma non è solo la letteratura a ritrovarsi incompatibile con la rappresentazione. Anche l'antropologia. Infatti, entrambe hanno contribuito a mostrare che non esistono relazioni naturali fra il mondo e il linguaggio, fra il significante e il significato, ma solo elaborazioni culturali, il che suppone che l~ si debba smettere con queste finzioni della trasparenza del linguaggio, dell'adeguamento delle parole e delle cose, dell'isomorfismo del referente e del segno.
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XVII UNA CONCEZIONE STRUMENTALE DEL LINGUAGGIO
La nozione di rappresentazione implica la riduzione dellinguaggio a una sola delle sue funzioni: la funzione che Jakobson ha definito espressiva, e che può essere ugualmente chiamata strumentale o referenziale, per la quale il linguaggio, in posizione subordinata al reale, è un semplice supporto che serve da veicolo per il trasporto del pensiero e per la comunicazione d'informazioni. Il segno rappresenta la realtà, ma non si presenta come facente parte di essa. Il linguaggio è meno reale dei fatti, è sempre al servizio di qua1cos'altro, insomma le parole non sono veramente importanti, è sempre possibile la sostituzione dell'una o dell'altra: le parole vengono trattate come delle cose. E ancora ... non traggono benefici dal prestigio delle merci trattate. Essendo soltanto mezzi per identificare le cose, non importa quale di loro porterà a termine l'affare. In questa concezione utilitarista qualsiasi giornale è buono per accendere il fuoco. 81
Secondo la tesi della rappresentazione il linguaggio, finalizzato a un servizio (quello di nominare il mondo esterno), può essere rivolto esclusivamente verso la cosa e non riflessivamente verso se stesso. Gli enunciati che non designano un referente sono considerati delle pseudo-proposizioni. Ogni significazione della rappresentazione si trova esaurita e compresa nell'affermazione della presenza di ciò che è. Poiché il segno è sempre segno di un senso, il non-senso si trova a essere escluso. Infatti, in questa prospettiva rappresentare l'assenza consisterebbe nell'emissione di segni che non avrebbero alcun senso. Dobbiamo convenirne, sarebbe perfettamente stupido. Come se si trovasse un rimedio per il quale non esiste ancora alcuna malattia. Ridicolo, non è vero? Secondo questa logica impareggiabile è quindi opportuno congedare l'ipotesi di una qualche possibile relazione tra il senso e l'assenza (che tuttavia è la peculiarità dell'esistenza e ancor più della scrittura), è opportuno escluderla dal legittimo ambito della conoscenza e rigettarla infine nella categoria del non-senso. La pregnanza del modello rappresentazionale determina a priori il rapporto fra il senso (e l'insensato) e il segno. Consiste non solo in una riduzione ma anche in una manipolazione del linguaggio, il cui fine è di rinviare al non-senso e alla confusione non-cognitiva tutto ciò che non rientra nel quadro di questa operazione. Che ha però grosse difficoltà a essere condotta a buon fine. Persino quando un etnografo ha la convinzione di attenersi a un referente extralinguistico (la «realtà sociale»), nel suo procedimento rientra un referenJe che da parte sua è senza dubbio linguistico e afferisce al discorso stesso della disciplina. Parecchie opere di scienze sociali non mostrano alcuna particolare meraviglia di fronte alle potenzialità del linguaggio. La riflessione sul linguaggio viene espletata in qualche riga, al massimo in qualche pagina, e siamo presto rimandati al «terreno», all' «oggetto», ai «fatti» (che hanno una solida identità) come se fossero una scappatoia. In Durkheim, per esempio, non si trova alcuna teoria del linguaggio. Il linguaggio e il sociale sono trasparenti e, per così dire, equivalenti. Il primo, nella sua neutralità strumentale, mira a significare un contenuto, a rivelare una realtà (è la concezione della scienza che 82
parte alla ricerca del significante nascosto), come se il reale potesse essere estraneo alle parole, come se esistesse rintanato da qualche parte un contenuto indipendentemente dalla forma costruita per significarlo, come se si trattasse solamente di designare la presenza di significazione, preesistente all' atto stesso dell'enunciazione. In queste condizioni la nozione di rappresentazione, offrendosi completamente in qualità di rappresentazione di ciò che è presente, rifiuta lo scarto tra significante e significato, tra le parole e le cose; rifiuta la separazione, l'assenza (soprattutto del significante quando si tratta di tradurre un termine proveniente da una cultura straniera e che non ha equivalenti rigorosi); rifiuta l'erranza e l'errore che sono propri di ogni itinerario scientifico. La rappresentazione conduce alla illusione antologica dell'unità, dell'identità, della stabilità e della permanenza del senso.
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Nella descrizione etnografica viene posta in continuazione la questione delle relazioni tra le parole e le cose, tra l'occhio che guarda e la mano che scrive, tra l'osservator~ e l'osservato; e non si può mai far finta che tale questione sia risolta una volta per tutte. Lo scoglio maggiore in questo confronto deriva dal fatto che nella maggior parte dei casi non ci troviamo in presenza di pensieri binari, cioè di ragionamenti in forma di dilemma, definiti come se fosse possibile scegliere fra termini posti preliminarmente in maniera del tutto esclusiva: selvaggi o civilizzati? Conosciuto o sconosciuto? Vicino o lontano? lntraducibile o totalmente traducibile? lndescrivibile o completamente descrivibile? «Dalla parte» degli indigeni o venduto all'Occidente imperialista? Questa ingiunzione a situarsi «da una parte» o «dall' altra» trova peraltro la propria
duplicazione nella questione di sapere se si adotta l' «io» dell' osservatore emancipato o il «noi» professionale, il che d'altra parte non cambierà nulla rispetto al fatto che gli individui e i gruppi oggetto del discorso restano irrimediabilmente gli altri (<
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XVIII RAPPRESENTAZIONE, DESCRIZIONE E TEORIA DELLA CONOSCENZA
non è mai un semplice esercizio di trascrizione o di «decodifica», ma un' atti vità di costruzione e di traduzione nel corso della quale il ricercatore produce più di quanto non riproduca; insistere sul fatto che questa operazione si compie non malgrado bensì grazie al linguaggio (la descrizione etnografica viene effettuata in una lingua, che è una particolare lingua in azione) significa mettere in guardia contro la tendenza ancora oggi largamente oggettivista del discorso antropologico. Quest'ultimo, tributario delle scienze della natura, si è costituito ignorando la questione della storia, del linguaggio, ritenuto derivato rispetto all'originale, e della scrittura, a proposito della quale sostiene esplicitamente che ha minor esistenza dell'oggetto. In flagrante contraddizione con la sua stessa esperienza, Malinowski ci ha insegnato che possiamo pervenire a un' osservazione neutra e imparziale, mentre Mauss, il suo teorico, riteneva che la descrizione fosse solo una mera «registrazione». Concepita in tal modo, l'antropologia sposa il presupposto spontaneistico del realismo filosofico e considera la tesi empirica più elementare come sufficiente in sé: la conoscenza deriva completamente dall' esperienza; l'oggetto è totalmente indipendente dalle sue condizioni storiche di osservazione e allo stesso modo è indipendente dalle condizioni culturali, linguistiche, di traduzione; esiste - ed è un pegno di oggettività - qualcosa di anteriore e di esterno al «terreno» rispetto all' etnologo. Raccomandare con forza e ovunque la descrizione etnografica come l'ABc di questa disciplina, ma allo stysso tempo pensarla così poco - per non dire mai - in quanto tale nel quadro della disciplina stessa, significa che abbiamo ereditato una concezione indolente dell'osservazione e soprattutto una concezione povera del linguaggio. Quest'ultimo è riservato per una funzione esclusiva che consisterebbe nell'afferrare la realtà nel momento in cui la fa esistere e la precisa, pareggiandola nell'equazione matematica, esplicandola nella correlazione statistica, espandendola, per esempio nel romanzo, o contraendo la, come accade nella novella. È opportuno mettere in discussione la pretesa all'unicità e all'omogeneità del linguaggio. Ovviamente ciò che dico non è mai detto per la prima volta, io non sono il primo a parlare e 86
a scrivere e ogni scrittura è senza dubbio una riscrittura. E tuttavia questa parola non è necessariamente un'imitazione della parola degli altri né una riproduzione fedele del «reale». È proprio dallo sguardo singolare dell'etnografo che nasce la scrittura singolare di tale sguardo. Ma nella misura in cui questa scrittura è «partecipe», essa contribuisce a una spersonalizzazione del suo autore che deve rassegnarsi all'esplosione dell' io. E c'è ancora dell'altro, poiché il linguaggio, nei suoi perpetui slittamenti, è tanto una facoltà di dissimulazione quanto una facoltà di «espressione». Si crede che esso «trasmetta», ~capti», «esprima», ma esso, soprattutto, inganna e tradisce. E più menzogna che verità e tirando le somme i partigiani della rappresentazione potrebbero avere delle buone ragione per diffidarne. Scrivere non significa arrivare a dire ciò che si vorrebbe dire, significa piuttosto rendersi conto che tentando di dire ciò che è successo lo si dice altrimenti, lo si viene a sapere altrimenti da come è successo. Gilles Deleuze mostra che nella scrittura di Michel Foucault i rapporti fra dicibile e visibile sono eminentemente instabili. Si assiste, scrive Deleuze, a «una lotta perpetua tra ciò che si vede e ciò che si dice, a delle rapide strette, dei corpo a corpo, delle prese, perché non si dice mai ciò che si vede e non si vede mai ciò che si dice. Il visibile sorge fra due proposizioni, così come l'enunciato sorge fra due cose». Il fatto che non si possa percepire il mondo al di fuori dell'atto dello sguardo, né descrivere ciò che si percepisce al di fuori della parola e della scrittura, implica l'impossibilità di uscire tanto dal corpo quanto dal linguaggio. L'idea di un'autonomia del referente (di ciò che è descritto, del oggetto, del significato) è un'illusione, mentre la sua problematizzazione (Jakobson, Wittgenstein) non corrisponde affatto all'abbandono del senso. A rigore non esistono dunque dei «dati etnografici» e poi delle «rappresentazioni» di questi «dati», bensì dall'immediato, sempre e dappertutto, esiste il confronto di un etnologo (singolare) con un gruppo sociale e culturale (singolare), l'interazione fra un ricercatore e quello che studia. E proprio questo incontro che merita di essere chiamato «terreno». Questo confronto e questa interazione costitui-
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scono l'oggetto stesso dell' esperienza etnografica e della costruzione etnologica, che diventeranno antropologiche solo inscrivendosi in una rete d'intertestualità.
XIX UNA SCRITTURA NON DIFFERITA
Esiste un'altra illusione: quella della simultaneità dello sguardo e della scrittura o, se si preferisce, dell'immediatezza del testo, concepito come una riproduzione di ciò che si vede. Viceversa la visione non è mai contemporanea al linguaggio. Esiste una differenza tra ciò che si vede e ciò che si scrive e un rapporto tra il vedere e la scrittura della visione, che è scrittura di uno scarto, di un tra-i-due, di un interstizio, di un intervallo, insomma di un'interpretazione. Questo scarto è il linguaggio, o piuttosto la scrittura, che differisce l'immediatezza non solamente dalla visione ma anche dalla parola. Ebbene, la scrittura etnografica, lungi dal ridurre questa differenza, di riassorbirla nell'identità e nell'indifferenziazione della cultura osservante, contribuisce ad amplificarla. Da una parte si tratta di una scrittura che viene sempre dopo lo sguardo del ricercatore e dopo la parola dei suoi interlocutori. 88
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È un discorso che imprime nella memoria questo sguardo e questa parola, ne conserva la traccia, ne conserva il ricordo. Dall'altra parte si tratta di una scrittura provocata da ciò che Lévi-Strauss ha chiamato uno «sguardo da lontano» in opposizione allo sguardo che potrebbe essere rivolto da un individuo appartenente alla cultura di cui è originario. AI pari della traduzione interlinguistica (da un linguaggio a un altro), interculturale (da una cultura a un' altra) e interstorica (da un'epoca a un'altra), l'osservazione etnografica, nata da un andirivieni ininterrotto fra la prossimità e la distanza, fra lo stesso e l'altro, non dovrebbe essere il punto di partenza di una copia dell'originale che miri a pareggiare - cioè ad annullare - le differenze e a neutralizzare l'estraneità. AI contrario, si tratta di un lavoro di mediazione senza fine che cerca di rendere conto in maniera linguistica, culturale e storica del fatto che questo scarto non potrà mai essere del tutto colmato.
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XX UNA SCRITTURA DELLA NON-DIFFERENZA (O INDIFFERENZA)
La rappresentazione è una ripetizione e riproduzione dello stesso, una reiterazione dell' identico, un raddoppiamento del mondo che ha come effetto d'immobilizzarlo: è una duplicazione. In effetti non si può immaginare una rappresentazione come un avvenimento che si produca una volta sola. Non sarebbe una rappresentazione: deve invece rimanere la stessa e poter essere ripetuta ogni qual volta appaia l'oggetto rappresentato. La rappresentazione è linguaggio aggrappato ai fatti, è un derivato della cosa la cui incontestabile presenza è riproducibile senza posa nelle parole. Il dogma rappresentazionale riconduce in continuazione ]e differenze alla similitudine e ]0 sconosciuto al conosciuto, tendendo una rete dalle maglie tanto larghe che i pesci più piccoli ci passano quasi sempre attraverso. In questo modo blocca i] pensiero stesso della dif90
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ferenza che è all'origine dell'arte e della scienza e che consiste innanzi tutto nell'attenzione rivolta alle variazioni. Separando il senso dal non-senso, il «dentro» (che sarebbe la cosa in sé) dal «fuori» (che sarebbe il linguaggio), tale dogma manifesta la propria avversione per la realtà che è opacità, turbamento, turbolenza, non solamente presenza o non solamente assenza, non soltanto passato o non soltanto presente, bensì presenza-assenza, passato-presente. Saudade. Nelle epoche in cui trionfa la rappresentazione, ovvero quando si crede con pervicacia alla permanenza (di un oggetto identico a se stesso) e ci si compiace della ripetizione (di questa presenza), ci sono dei modelli che vengono imitati per offrire al lettore o allo spettatore il piacere del riconoscimento, il cui corollario è il misconoscimento di ciò che sussiste nella realtà di più complesso e di più paradossale. Ma al di là di modelli particolari - classico, realista, romantico - ai quali si fa riferimento, c'è un modello generale e generico che è quello del riconoscimento dell'identità. Il pensiero della rappresentazione non si trova mai, per così dire, in una relazione di estraneità con ciò che «rappresenta». Esso si attende quello che sta per accadere, presume e giudica in anticipo dalla sua «forma» complessiva che dipende da un «contenuto» già noto. Si tratta di un pensiero docile, completamente asservito al principio d'identità che assegna in anticipo l'omogeneità e la permanenza di ciò che si presenta allo sguardo. La rappresentazione è una lingua morta che ci può trascinare verso la morte. È una spesa in pura. perdita. Non offre nulla al pensiero. Non insegna nulla che non si conoscesse già. Non consente alcuna scoperta, poiché la sua ambizione è la copertura perfetta della cosa da parte della parola. Non fa altro che identificare e riprodurre all'infinito, tutte le volte che sarà necessario, ciò che ci era già noto.
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XXI RAPPRESENTAZIONE SCIENTIFICA E RAPPRESENTAZIONE TEATRALE «COMUNICARE»
E INTERPRETARE
Tutto o quasi al giorno d'oggi è diventato informazione, immagine, e non c'è quasi più nulla d'immaginario. Siamo impegnati nella trascrizione automatica del «reale» nel linguaggio dell'informazione così come nella fabbricazione dei prodotti di consumo, compresi i prodotti di consumo culturale. Quasi tutto è rappresentazione, reality show, e quasi più nulla è creazione. Quasi tutto è rappresentazione che si offre al primo colpo d'occhio o alla prima lappata di lingua e quasi più nulla è relazione; la quale invece, da parte sua, richiede attenzione, esige formazione, tempo, sforzo. Nell' assenza di pensiero accade ciò che si definisce «esprimere», anzi «esprimersi», «comunicare», che sono altri modi per dire rappresentare. Siamo partigiani convinti della sostituzione della rappresentazione con la presentazione e del prescrittivo - che dice ciò che bisogna vedere e ciò che bisogna pensare - con il de93
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scrittivo, atto in apparenza dei più modesti, ma nei fatti di una difficoltà incredibile. La descrizione più infima, quella che si cura non di spiegare bensì di restare il più vicino possibile alla realtà, non è mai semplice imitazione, riproduzione, ripresentazione, ma trasposizione e trasformazione del visibile. L'etnografia, cioè la scrittura delle culture, non mira a «comunicare delle informazioni» già in possesso di altri, o a «esprimere» un contenuto già palese e già detto; mira invece a far accadere quello che non è ancora stato detto, insomma a far sorgere qualcosa d'inedito. Questa scrittura non consiste in un trattamento (grafico, fonico ...) di «informazioni». Non «comunica» né «rappresenta» la cultura, ma la interpreta nel senso musicale o anche teatrale del termine. L'atto di scrivere - ma anche di leggere - nel suo aspetto più radicale non soltanto sfugge, ma riesce perfino a porre fine all'ideologia «informativa», rimandando a un' interpretazione della realtà che sorge in particolare quando il senso è oscuro, lontano, strano, come nel caso della ricerca etnografica. Sebbene la rappresentazione, che in queste condizioni esitiamo a qualificare come «scientifica», e la rappresentazione teatrale siano designate non soltanto dallo stesso prefisso ma addirittura dalla stessa parola, si produce fra l'una e l'altra un cambiamento di senso. La rappresentazione che si considera come «scientifica» è una rappresentazione teatrale bloccata, una rappresentazione ferma alla sua fase di «ripetizione». Al contrario, la rappresentazione teatrale non rappresenta nel senso di cui sopra, ma mette in scena e mostra uno spettacolo. Se vogliamo dire le cose altrimenti, a teatro tutto è metamorfosi; a teatro nulla è fisso, eccetto il testo che è però esso stesso oggetto di molteplici interpretazioni. La rappresentazione teatrale, lungi dall' essere «informati va», è interpretati va. Il teatro abolisce il dominio delle «rappresentazioni» a ogni rappresentazione. Tali «rappresentazioni» non permettono di pensare il virtuale perché per loro il virtuale è l'opposto del reale, mentre, come ha mostrato Gilles Deleuze, il virtuale si distingue solamente dall'attuale. Nella prospettiva rappresentazionale - che è affermazione d'identità - la questione della differenza così come quella del differimento, ossia della trasformazione (da
parte della scrittura, della lettura, della partecipazione dello spettatore), non è assolutamente una preoccupazione quanto piuttosto un ostacolo. Viceversa, nella rappresentazione teatrale l'attore si trasforma e compie, grazie alla sua capacità di essere fuori di sé, un'esperienza di perdita d'identità. L'interprete non si «identifica» con se stesso ma con ciascuno dei personaggi successivi che interpreta. Per quanto il lavoro compiuto dalla rappresentazione teatrale contro la rappresentazione nel senso triviale e penoso del termine non potrebbe evidentemente confondersi con il compito di un sociologo o di un antropologo messi a confronto con questa stessa nozione, nondimeno esso consente allo studioso di avvicinarsi all'oggetto della sua ricerca. Gli mancano tuttavia due mediazioni affinché esplodano finalmente le trappole evidenti del dogma rappresentazionale. Gli verranno fornite da una doppia critica radicale: la critica del realismo da parte della pittura astratta così come da parte della scrittura di Samuel Beckett e la critica del linguaggio di Austin, che mostra come esistano enunciati che non «rappresentano» assolutamente nulla e che egli definisce performativi.
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L'estetica realista è un' estetica della rappresentazione o di ciò che Auerbach ha chiamato Mimesis. Secondo questa tendenza, di cui Zola è certamente uno dei fari e.il romanzo sovietico degli anni Trenta una delle più grottesche manifestazioni, esiste una trasparenza del reale e del linguaggio, e quest'ultimo deve sforzarsi d'imitare il primo. Il che spiega bene fino a che punto in tale prospettiva il linguaggio sia sempre secondo, come la copia rispetto al modello e il referente rispetto alla scrittura, decisamente esterno al testo. Questa concezione, che consiste nel simulare la realtà - nella maniera più perfetta possibile - e nel fornime, come lo chiama Proust, un «miserabile resoconto», non ha atteso l'arte astratta per essere criticata. Bisognerebbe senz'altro evocare Flaubert e quindi il suo discepolo Maupassant, che nella prefazione di Pierre e Jean scrive: «Ricreare il vero consiste nel dare l'illusione totale del vero, seguendo la 10-
gica ordinaria dei fatti, e non nel trascriverli fedelmente nella loro successione nuda e cruda. Ne concludo che i Realisti di talento dovrebbero piuttosto chiamarsi Illusionisti». Joseph Conrad, da parte sua, scrittore classico quant' altri mai, ritiene che «il realismo nell'arte non si avvicinerà mai alla realtà». Per cercare di giungere a una conoscenza più precisa della realtà questi autori imbastiscono un processo al realismo che è, nei fatti, idealismo mascherato. Ciò che a contrario ci mostrano è che il testo realista, presentando un'apparente omogeneità, produce quello che Roland Barthes ha definito ne Il brusio delle lingue un «effetto di realtà», che è un effetto di lettura nel quale un lettore poco esigente riconosce un discorso totalmente preorganizzato da un genere atto a soddisfarlo. Ma in queste condizioni quale può essere la ragion d'essere della letteratura? In qualità di «espressione» del soggetto, dell'ambiente, della cultura, del sociale ... rischia di essere più povera della vita e di entrare in concorrenza col giornalismo. Benché gli autori che abbiamo citato abbiano, ciascuno a modo suo, tentato di congedare l'arte della rappresentazione, è solo con l'arte astratta che il presupposto della figurazione esplode letteralmente. La pittura di Kandinsky, di Mondriaan e di Malevitch procede alla dissoluzione del legame fra l'opera d'arte e la natura e questa volta la nozione di rappresentazione non ha più alcuna ragion d'essere. Lo stesso si può dire di gran parte dell' arte contemporanea. Nell' arte cinetica, l'artista esplora il movimento, mentre nell' op art crea l'illusione di questo movimento. E se la body art mette in scena il corpo stesso, l'action painting che l'ha preceduta è già risolutamente performativa, cioè non-rappresentativa. «La tela appare come un' arena offerta all'azione del pittore, piuttosto che come uno spazio dove riprodurre un oggetto reale o immaginario», scrive Harold Rosenberg. «Ciò che doveva passare sulla tela non era un'immagine, ma un fatto, un' azione». Christo e Jeanne Claude, quando decidono nell985 d'impacchettare il Pont-Neuf, non rappresentano nulla, ma propongono ai parigini e ai turisti una riflessione sull'arte stessa che permette di vedere la città in un modo diverso. Infine, sono i titoli stessi delle opere presentate (spesso «senza titolo») che
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XXII CRITICA DELL'ESTETICA DELLA RAPPRESENTAZIONE L'ARTE ASTRATTA E LA SCRITTURA DI SAMUEL BECKETT
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costituiscono una presa in giro dell'idea stessa di rappresentazione. Si ricorderà il famoso quadro di Marcel Duchamp Étant donnés: J o la chute d'eau, 2° le gaz d'eclairage. Da guardare, Duchamp ci dà un corpo di donna sdraiata su dei rami. Quel che è appena stato detto a proposito delle arti plastiche - per le quali Germano Celant ha forgiato il termine di «inespressionismo» - riguarda forse ancora di più la musica, e non solo la musica contemporanea. Sarebbe veramente difficile dire ciò che essa «esprime» o ciò che «rappresenta». E poi c'è l'opera di Joyce, in particolare l'enorme Finnegan's Wake, che mescola vari linguaggi al punto che alcuni dei suoi traduttori ritengono che sia vano ricercarvi una lingua di partenza. Nei casi che sono stati appena evocati, la famosa metafora stendhaliana dello specchio (<
Una volta che l'essere umano è stato posto di fronte al fallimento di tutto ciò che costituiva la sua vanità, perdurano, soli, il linguaggio e la provocazione di una scrittura minimale per dire il nulla. Oggi dunque, con Beckett, la letteratura e il teatro mostrano di essere realmente letteratura e teatro proprio sovvertendo le norme della rappresentazione e liberandosi innanzi tutto dalla tirannia del rappresentato stesso. Coloro che non adempiono al dovere della rappresentazione potrebbero essere giudicati irresponsabili e le questioni affrontate potrebbero apparire del tutto estranee alle scienze umane. Questioni fuori luogo. E fuori luogo lo sono senz'altro nell'universo dei venditori di fumo, ma non in quello dei ricercatori. È vero, il lavoro di sperimentazione formale riguarda l'antropologia solo in maniera molto indiretta. Ma anche l'antropologia appartiene alla modernità, e non può in alcun modo rimanere indifferente alle domande poste. Essa, non meno della letteratura, non può restare al traino delle convenzioni linguistiche, ovvero sociali, che hanno ormai fatto il loro tempo. Senza dubbio l'antropologia viene sempre a posteriori. Ma interpretando le culture produce anch'essa della cultura, delle idee. Essa nutre il dibattito culturale della nostra epoca. Ebbene, non è forse uno degli obiettivi della teoria precedere e trascinare? Kafka, uno degli autori che più ha contribuito a introdurre il dubbio sulla stabilità del referente, riteneva che la letteratura fosse da considerare più come un orologio che va avanti che come uno specchio. Perché non potrebbe essere questa l'ambizione anche dell'antropologia e più in generale delle scienze sociali?
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«Ho l'impressione che pioverà», «Per dove è passata Catherine?», «Perché non andiamo a Barcellona?», «L'ho molto amato». Austin, nel suo Come fare le cose çon le parole, mostra come esistano enunciati che, lungi dal constatare una realtà preesistente, di «rappresentarla», producono invece una realtà inedita. Austin propone di chiamarli «enunciati performativi». La loro peculiarità risiede nel fatto che non comportano alcuna informazione sul mondo. Non riportano un avvenimento. Non «esprimono» qualcosa. Non registrano nulla, a dire il vero. Non riferiscono un fatto, lo costituiscono. Il modello classico del linguaggio, ancora ampiamente attivato dalle scienze sociali costruite su un modo maggiore, tende a prendere in considerazione solo le affermazioni esplicite e spogliate di ogni possibile equivoco, delle quali si può dire che sono vere o false. Ma questo genere di affermazioni -
o di negazioni - alle quali è possibile attribuire un significato chiaro sono l'eccezione nella lingua. La maggior parte degli enunciati (ma anche dei pensieri, delle emozioni, dei sentimenti) raramente descrivono ciò che è, piuttosto lo negano, si sostituiscono a esso e fanno avvenire ciò che non esisteva. Gli enunciati performativi non sono in alcun modo conformi a ciò che si considera molto spesso come realtà. Non informano, ma molto spesso deformano e soprattutto trasformano. Non sono né veri né falsi e dunque in realtà non possono essere oggetto di una procedura di validazione. Non dicono nulla di reale nel senso triviale del termine, ma agiscono tuttavia sul reale e instaurano qualcosa di nuovo. Ed è proprio con questa modalità che si parla ogni volta che si domanda, che si suggerisce, che si sollecita, che si supplica, che s'implora, che si rimpiange, che si raccomanda, che si chiede scusa, che si minaccia, che si comanda, che si ordina, che si promette, che ci si impegna. Gli enunciati performativi - «credo», «so», «ritengo», «ti consiglio», «vorrei», «verrò», ma anche «in nome della legge, la dichiaro in arresto», «la seduta è aperta» - consistono nel compimento di un atto. Sono parole alle quali non corrisponde nulla e che tuttavia trasformano le parole stesse in cose. Non constatano nulla, ma spesso insinuano. Se vi dico «Praga è una città molto animata», probabilmente capirete che ci sono andato. Reagite, reagiamo, tanto ai contesti delle enunciazioni - l'intonazione della voce, i gesti, la mimica, i silenzi che avvolgono la frase quanto ai contenuti degli enunciati. La quasi totalità degli oggetti d'investigazione delle scienze umane è formata da enunciati performativi e da comportamenti che li accompagnano (specialmente fisici). Per esempio, i riti, questi figli diletti degli antropologi, sono integralmente performativi. Comportano sempre almeno una sequenza di toccamento e una formula performativa del tipo «lo ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo», oppure «La commissione di laurea, dichiara Charles Bobino dottore in scienze sociali con il massimo dei voti e la lode». L'interesse per gli enunciati performativi sta nel mostrare i limiti della concezione rappresentazionale del reale e nel farci comprendere che il reale stesso è linguaggio. D'altra parte, già Cristoforo Colombo, nel suo Diario di bordo, se n'era accorto.
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XXIII CRITICA DELLA SEMIOLOGIA DELLA RAPPRESENTAZIONE AUSTIN E GLI «ENUNCIATI
PERFORMATIVI»
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Quando scopre il continente americano, è letteralmente sbalordito. Quello che vede - piante stravaganti ed esseri fantastici - oltrepassa il conosciuto e il credibile. Come fare per dirlo? E i conquistadores insistono su questo punto: noi non abbiamo mai visto nulla di simile, tutto ciò non assomiglia per nulla a quello che voi conoscete. Herlllln Cortés non sa come nominare «la grandezza, le strane e meravigliose cose di questa terra [00'], cose che anche mal dette io per certo so che sarebbero tanto ammirevoli da non poterle credere, perché quello che vediamo con i nostri occhi non possiamo comprenderlo nel nostro spirito». E anche Bernal D{az del Castillo si domanda «se tutto ciò che vedevamo non fosse un sogno». Spesso pensiamo che il linguaggio si limiti a «comunicare» delle «informazioni» preesistenti, ossia a nominare ciò che già esisteva e non a far accadere una realtà inedita. Si capisce, grazie agli enunciati performativi, che tutte le relazioni della significazione sono ben lontane dal ridursi alle sole relazioni della rappresentazione. Esistono parole, frasi, libri che non rappresentano nulla. Non per questo essi risultano spogliati di senso. Finalmente, con gli enunciati performativi - che costituiscono la maggior parte di ciò che diciamo e scriviamo - il linguaggio viene considerato in quanto tale e non per la sua facoltà strumentale di designare altro da sé.
XXIV RIPRODUZIONE
E TRASMUTAZIONE
Dotati degli strumenti operativi forniti dalla sperimentazione nella pittura astratta e dai lavori di Austin sugli enunciati performativi, eccoci ora in una posizione migliore per comprendere come il procedimento scientifico, al pari della creazione artistica, non rimandi all'imitazione di qualcosa che sarebbe anteriore ed esterno al soggetto. L'arte e la scienza non sono copie conformi della «realtà», riflessi, riproduzioni, ma sono l'elaborazione di sistemi simbolici per cercare di renderne conto, in cui un sistema può presentare un'interpretazione provvisoriamente soddisfacente in un determinato campo mentre un altro risulterà essere, in un dato momento, assai meno pertinente. In senso stretto, la scienza non può pretendere di conoscere il reale, bensì di conoscere il rapporto con il reale nel contesto di un dialogo con esso e parimenti con la storia della disciplina 102
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nella quale la scienza s'inscrive; non certo nel quadro in un monologo con se stessa. Come i pittori dialogano con la storia della pittura, i fisici dialogano con la storia della fisica e gli antropologi con la storia dell'antropologia. Ma nella maggior parte dei casi questo dialogo è conflittuale. Copernico stabilisce contro i suoi contemporanei che la Terra non si trova al centro del sistema solare. Einstein, ma anche l'arte moderna, mandano in pezzi l'idea stessa di centro del mondo. Proust dice a proposito del romanzo che non ha come fine di dire il visibile, ma di cercare di conoscere ciò che non si vede o quanto meno ciò che non si vede immediatamente. Senza dubbio non si può partire se non da ciò che si vede o si è visto, da ciò che si vive o si è vissuto, ma si tratta di elementi iniziali che assumono significato solamente raccontati (nella trama di un romanzo che si è vissuto, oppure che non si è vissuto) o spiegati (nella dimostrazione scientifica che mira a stabilire delle leggi). Anche il discorso antropologico e quello sociologico operano una trasmutazione del visibile. Non mirano a fotografarlo, a fotocopiarlo, a registrarlo. Non consistono nella duplicazione dell' originale, nella rappresentazione della società (o dell'epoca), bensì nella sua analisi, nella sua critica, nella sua messa in discussione attraverso la sua messa in parole. Una delle lezioni che possiamo trarre dalla lettura di Wittgenstein (che non ha mai smesso di accompagnare la redazione di questo libro) è che quando crediamo di registrare solamente dei fatti produciamo ugualmente delle forme. Vedere non significa ricevere e scrivere non significa trascrivere. La cQnoscenza esiste, in particolare la conoscenza scientifica, solo a partire da un lavoro di messa in relazione (<
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XXV IL CASTELLO DEL REALISMO BALZACHIANO
E DEL NEOREALISMO ETNOLOGICO
Siamo ancora ben lontani dall' aver chiuso con il realismo, completamente obnubilati come siamo dall'adeguamento fra parole e cose e da una concezione della società che si potrebbe definire balzachiana. Sono innumerevoli gli antropologi che rimangono a loro insaputa scrittori realisti. Più precisamente, il procedimento che mira alla descrizione più completa di un gruppo umano mediante l'osservazione a distanza della «realtà sociale» è comune alle correnti positiviste delle scienze sociali e naturaliste del romanzo. La visione balzachiana che ha privilegiato il carattere eminentemente sociale delle situazioni (descritte nella loro esteriorità) e dei personaggi (i quali, in Balzac, si confondono con la loro funzione e con il loro status) corrisponde a una tendenza ben viva dell'antropologia e forse ancor di più della sociologia. Si tratta di una visione non solamente esterna, ma anche 105
omogenea, e che d'altra parte non si pensa mai come prospettiva e come punto di vista possibile sul mondo in mezzo ad altri, bensì come verità. Verità naturalista: la società è un organismo, un «corpo sociale». Verità determinista: gli individui devono tutto al sociale e all'economico. Non basta dire che la scrittura del romanzo sociale del XIX secolo e in seguito del xx secolo Zola, Eugène Sue, Machado de Assis, Sherwood Anderson, Theodore Dreiser, James Thomas Farrell e prima di loro Balzac che mira a sfidare lo statuto civile - è stata ben recepita dalle scienze sociali. Le scienze sociali le hanno dato una specie di certificato di garanzia. Uno dei modelli dominanti dell'etnografia resta esplicitamente il naturalismo di Zola, la novel nel senso anglosassone, racconto realistico di carattere sociale, e non il romance, che sarebbe un peccato contro la realtà. Tale compiacenza, anch' essa implicita, nei confronti di Balzac e di Zola, persino quando dà luogo a nuove forme che si possono classificare come neorealiste, avalla il modo della comprensione sociale in assoluto più rassicurante: la riproduzione del «reale» e non la costruzione della realtà del testo nei suoi aspetti contraddittori. Essa avalla la fiducia nella stabilità di un referente assoluto del quale si vuole ignorare del tutto il carattere convenzionale. In una simile concezione che impone una identità sociale senza incrinature a tutti i membri dello stesso gruppo, i personaggi dell'etnologia - che possono essere solo i Nuer, gli Azandé, gli Ik o i Mundugumor - si comportano in modo camaleontico. Non hanno alcuna consistenza. Plasmati nel medesimo stampo, sembrano di gomma, fanno pensare a una sarabanda di marionette. D'altra parte, l'etnologo non è totalmente stupido. A furia di privilegiare nei testi ufficiali il «di fuori» dei comportamenti osservabili, riversa il «di dentro» nei testi esterni alla sua opera: giornali, diari, confessioni ... Mettendo in scena dei personaggi, ma facendo interpretare loro sempre gli stessi ruoli, arriva un momento in cui non sa più come gestirIi. li realismo pretende di farci penetrare nel cuore della realtà e invece ce ne allontana consegnandoci una comprensione semplificata. Non ponendo mai la questione dei rapporti fra linguaggio e realtà, il realismo intende offrire una copia fedele e oggettiva della realtà, nella coincidenza perfetta fra le parole e 106
le cose. Ma questo «effetto di realtà» (Barthes) consiste nell'infliggere correzioni alla realtà. E proprio in nome della complessità di quest'ultima che conviene respingere il realismo dalla società e dalla cultura al pari della tesi rappresentazionale che l'accompagna sempre. È un po' come se i romanzieri contemporanei fossero rimasti al XIX secolo e non avessero nemmeno letto Flaubert, come se la crisi del romanzo non avesse dato luogo ad alcuna domanda. Le cose sono senza dubbio cambiate molto. Innanzi tutto, ci sono tutte le ragioni per pensare che l'accanimento dei regimi totalitari nel bandire tutto ciò che non è realista abbia messo la pulce nell'orecchio a molti. E ci si è resi conto che fra il mondo e le forme (artistiche ma anche scientifiche) che mirano a comprenderlo è una lotta senza quartiere. Le forme sono costrette a intrattenere con il mondo una relazione irrimediabilmente sfasata in cui ogni termine è pronto a ribaltarsi in qualsiasi istante. Secondo Jean-Luc Godard: «La rappresentazione consola del fatto che la vita è difficile, ma la vita consola del fatto che la rappresentazione è solamente un'ombra». Infine, proprio come nel romanzo contemporaneo il soggetto si sforza di reintegrare la società (in un dialogo solitamente doloroso fra i personaggi, o addirittura fra il narratore e se stesso), nelle scienze sociali la società ha cominciato a reintegrare il soggetto: Bateson, Devereux e più recentemente Touraine. Ciò che invece ha iniziato a creparsi è la figura riprografica dell'etnografo scrupoloso, relatore sprovveduto quando è anche un compositore; è il presupposto dell'adeguamento fra la verità e la realtà. Oggi si può misurare meglio fino a che punto la realtà, quando viene situata dalla parte della chiarezza e della semplicità, possa essere falsificatrice e produttrice di finzione. Prendere coscienza del vicolo cieco in cui si trova l'etnologismo significa accedere all'etnologia, così come rinunciare al naturalismo significa ambire a una concezione più esigente del reale - dopotutto, il realismo è solamente una delle possibili forme della realtà, la forma naturalista, lontano dall' esaurire sia i significati del reale sia le possibilità del linguaggio. Da cui deriva l'audacia (e non più il peccato) dei modelli non realisti in antropologia. Studiando una famiglia messicana a partire dagli sguardi incrociati (convergenti, divergenti) dei suoi membri, 107
Oscar Lewis ci mostra in Les Enfants de Sanchez che la descrizione stessa della realtà è essenzialmente tributaria della molteplicità dei punti di vista. Cronaca di una tribù di Pierre Clastres si organizza simultaneamente a partire dal senso che tanto gli Aché quanto l'etnologo attribuiscono alla propria esistenza. Il testo si apre con il risveglio in piena notte dell' autore, che assiste a una nascita (della società aché e dell' avventura etnologica), prosegue attraverso tutta una serie di apprendistati (dei giovani aché alla loro cultura e di Clastres alla cultura di questi ultimi) che condurranno fino all'iniziazione, e si conclude con la descrizione di una scena di cannibalismo, istituzione chiave che presso i Guayaki regge i rapporti fra i vivi e i morti, ma anche tra i vivi e gli stranieri. Un altro esempio ci è dato da Jacques Rancière quando cerca di cogliere il significato del termine operaio mentre sta scrivendo La Nuit des prolétaires. Si accorge che è impossibile per lui ricorrere a una ricostruzione alla Zola e opta allora per «un tipo di racconto alla Virginia Woolf, dove ci sono delle voci che si intrecciano a poco a poco». E poi c'è la lezione di LéviStrauss che fa molto di più che evocare il lavoro proustiano di composizione del romanzo. Così Lévi-Strauss: «Per comprendere la realtà abbiamo bisogno all'inizio di ripudiare l'esperienzache più tardi reintegreremo in una sintesi».
XXVI IL CONTRIBUTO DEI NUOVI LINGUAGGI
DELLA RAPPRESENTAZIONE AL MITE STERMINIO DEL SENSO
I nuovi linguaggi della rappresentazione - quelli dell' informazione in diretta, dell' attualità, cioè del flash e del primo piano (un attentato terroristico + una inondazione + uno stupro + una mostra di pittura, tutto fa brodo), quelli della pubblicità, ovvero del culto della novità (ciò che è immediatamente identificabile) e quelli della performance sportiva o commerciale (o al contrario dello smacco) - fanno troppo rumore e vendono troppa paccottiglia per essere considerati «realtà». Poiché la «realtà» esibita e illuminata al neon, con appiccicata un'etichetta indicante il prezzo, imbustata in confezioni choc quasi per dimostrarvi meglio (ma soprattutto per farvi accettare) che ciò che avete sotto gli occhi esiste totalmente, senza fallo, senza ombra, ebbene, tale «realtà» non è affatto la realtà. La luce attira sempre coloro che si richiamano al dogma della rappresentazione, che è anche quello dell'identità. Questi non 108
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Il pensiero critico - che in queste condizioni è sempre più residuale - è oggi inversamente proporzionale all'adesione a questo universo e alla credenza nelle sue «rappresentazioni» che hanno la tendenza a farsi passare per realtà. È ciò che
vuole dire Baudrillard quando scrive che «non ci sono più metafore possibili, né metamorfosi possibili - rimane, sola, la metastasi indefinita dell'identità». Quel poco di energia critica che ci resta deve procedere all'analisi e alla rottura di quella «realtà». Ma non in un modo qualsiasi. Non affidandosi alla trasgressione pura e semplice che, lungi dal negare il divieto, in ultima istanza non fa che rinviare a esso, non fa che mantenerlo e rinforzarlo, una volta trascorso il tempo della festa. Non facendo romanticamente rifiorire i fiori della retorica. Non iniettando senso a ogni costo, come se fosse possibile ricaricare il mondo come una batteria. Tanto meno abbandonandosi alla disperazione. Piuttosto disintossicandosi, per esempio, da questa montatura che ci fa credere che la pluralità sia sempre subordinata ali 'unità, quasi una sua imperfezione, senza per questo cedere alla mistica della «pura pluralità», ossia all' esotismo, processo per il quaLe il diverso viene trasformato in divertimento. In che modo, allora? Smettendo di prendere i vecchi o i nuovi calmanti, quelli che provocano le confortevoli certezze di un linguaggio consacrato (dagli automatismi). Sbarazzandosi di tutti gli accessori, di tutti gli orpelli posticci. Insomma, attraverso una specie di rinuncia, di ascesi. Alcuni autori - Proust, Kafka, Beckett, Borges, Clarice Lispector - ci possono essere d'aiuto. Soprattutto, ci mostrano che non si scrive per far piacere, in particolare a quelli che si compiacciono di semplificare i rapporti fra il reale e il linguaggio. Scrivere significa scrivere per la distruzione di quel piacere, che d'altronde è assai mediocre. Non dobbiamo tuttavia minimizzare: per i tempi attuaLi, questo compito è di una difficoltà inaudita, poiché i pensieri e le scritture minori, quelli che si rendono conto che non c'è più alcuna certezza semantica per sostenere il discorso, quelli che non pretendono di appropriarsi e di padroneggiare totalmente il senso, sono bloccati da un rapporto di forze diseguale. Sono di una fragilità estrema. Sono continuamente sottomessi all' assillo della spiegazione e all'ingiunzione di compilare dettagliatamente i resoconti. Cosa possono fare i tentativi di cogliere con precisione il singolare, il gioco, l'avvenimento, l'instabilità, il dubbio, l'estraneità, contro una «realtà» assolu-
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pensano mai, nemmeno per un attimo, che il fatto d'identificare chiaramente e perfettamente, di portare alla luce, di sottolineare con l'evidenziatore tutto ciò che si evolve nell'ombra e nel chiaroscuro, che si dissimula e si ritrae nel vago e nell'incerto della presenza-assenza, potrebbe contribuire non a rischiarare, ma a dissipare il senso. Quello che oggi è opportuno attaccare - sì, attaccare, ritorneremo su questo punto - è la diffusa ideologia contemporanea in tutte le sue forme (economiche, politiche, estetiche) che ha la faccia tosta di farsi passare per reale - riuscendoci - quando al contrario essa è solamente la ridondanza di un universo in via di derealizzazione verso il quale ci stiamo evolvendo: l'universo dell'iperpositività, dell'iperprotezione, dell'iperesc1usione, dell' iperrealismo, l'universo del compimento stesso del senso in un eterno presente al cuore del quale nulla può più accadere. «Il mondo è così pieno che si soffoca [...] Possiamo soltanto imitare un gesto che è comunque anteriore», dichiara Sherrie Levine che, al fine di far cogliere questo blocco del senso nel quale non ci sono altro che immagini d'immagini infinitamente riciclate, procede alla riprografia di riproduzioni di opere d'arte. Il paradosso di questo nuovo integralismo, che riduce e confonde l'elaborazione del senso e la ripetizione dei segni, ma anche il singolare-universale che Gombrowicz chiama «l'universalità tutta intera» (oggi definita «globalizzazione»), il male e l'infelicità, il destino e la predestinazione (o programmazione), la politica e la «gestione», il Lettoree il «pubblico», l'amore e Lasessualità, la scienza e la tecnica, l'esperienza e i test attitudinali, l'arte e i «prodotti culturali», sta nel presentarsi come sovrasignificante a maggior beneficio dell'umanità, mentre in realtà esso consiste in un mite sterminio deLsenso. Questo processo di banalizzazione che rende insignificante la maggior parte dei nostri comportamenti è praticamente impercettibile, ma guadagna un po' di terreno dappertutto, ogni giorno, a colpo SICUro.
tamente vera che esige un quadro solidamente definito, delle «cause», delle «ragioni», un «fondamento», la «verifica» delle «informazioni» e delle loro giuste «rappresentazioni» ? La logica della derealizzazione - quella che cioè afferma che le immagini sono la realtà - ha ammassato sul nostro cammino mucchi di divieti. Essa ha in definitiva istituito un embargo per un pensiero che non intende sottomettersi a quel consenso o a quelle convenzioni, ovvero a ciò che Proust chiama la forza dell' abitudine, ovvero alla meccanizzazione di una maniera di vedere e di dire il mondo che si accontenta completamente della rappresentazione. Posta di fronte alla rappresentazione, l'antropologia non può rassegnarsi. Essa non ha come scopo di proferire (letteralmente, di portare avanti) un insieme fittizio che sarebbe formato dalla coppia composta dalla parola e dalla cosa che avanzano tenendosi la mano, ma di «deproferire» (Beckett) un tutto che non permette di cogliere le variazioni. Non ha come fine di «rappresentare», ma di smontare le rappresentazioni, di opporsi nella scrittura all' enunciazione di un senso istituito. Il processo di «deterritorializzazione» di cui parla Deleuze a proposito di Kafka può essere condotto solo in un modo minore, in antropologia proprio come in letteratura. Come precisa Deleuze, si tratta della «possibilità di fare della propria lingua, anche ammettendo che essa sia unica, che sia o sia stata una lingua maggiore, un uso minore. Essere nella propria lingua come uno straniero». Le scienze sociali non potranno chiudere~on la rappresentazione se non affrancandosi dall'ontologia e dall'idealismo platonico in particolare (che nei fatti è un realismo nel senso banale e usurpato delterrnine), la cui agonia non si è ancora conclusa. Ma proprio per questo è opportuno tenere presente che il linguaggio è autonomo e non più «immagine», «espressione» dei «fatti». È opportuno problematizzare il rapporto fra le idee e la realtà, mostrare che ciò che chiamiamo «reale» non ha l'affidabilità e la stabilità che gli vengono generalmente accreditate, ma è al contrario eterogeneo, incerto, mutevole e disorientante.
denza e una trasparenza perfette come nella pornografia, contro questo adeguamento senza sorprese delle parole e delle cose e parimenti delle culture, che si oppone un progetto come l'antropologia, il quale si costruisce non nella conformità del nominare ripetuto senza posa di ciò che è visto, bensì nel confronto dell' eterogeneità dei punti di vista. In un procedimento di questo genere, che implica la distruzione dell'idea che ci sia un centro del mondo, che ci sia un linguaggio, una grammatica, una sintassi unica, il senso non può essere dato nella rappresentazione-segno di un essere sociale, ma al contrario si evolve negli intervalli e negli interstizi che vengono a perturbarlo. Il senso non è assiso nel chiaro e distinto, senza per questo rassegnarsi a essere relegato nell' oscuro. La peculiarità del senso che deve mobilitare il lavoro delle scienze umane è di non poter mai essere colto completamente, di non smettere mai di spostarsi, di spostare l'ordine delle cose e l'ordine del mondo, di contestarne un orientamento unidirezionale, d'introdurre disordine, angoscia (ma anche piacere), di camminare nella distorsione e nella differenza nate da una frattura dell 'unità e tuttavia nell' incontro possibile di diverse prospettive. La progressiva produzione ideologica si costituisce nella crescente riduzione dello scarto fra il «reale» e la «sua» «rappresentazione», la quale può finire, se si rimane col naso attaccato alle cose, con il sostituirsi a ciò che si vede. La letteratura, ma anche la scienza, iniziano veramente solo quando questa unità del «rappresentato» e della «rappresentazione» non solo si perde ma viene abolita; solo quando non c'è più identità ma al contrario distanza, per quanto minima, venendo a quel punto obbligati a sperimentare nuove relazioni possibili.
In effetti è proprio contro questa concezione - oggi trionfante - dell'immagine, nella quale non c'è più gioco ma una coinci112
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CONCLUSIONE AL «FONDAMENTO» DELLA «RAPPRESENTAZIONE»: L' «IDENTITÀ». COMPITO DELL' ANTROPOLOGIA: METTERE IN CRrSI QUESTE DUE NOZIONI
L'identità e la rappresentazione non sono due nozioni distinte: derivano invece da un'unica affermazione, quella che tende all'univocità e alla coerenza del senso. Dal loro punto di vista esiste un senso già costituito che si tratterebbe (nel caso della rappresentazione) di catturare e riprodurre per mezzo del linguaggio o (nel caso dell'identità) di ritrovare e restaurare. L'identità si manifesta nell' eccesso di senso. Non ne ha mai abbastanza. Beninteso, non ne ha mai abbastanza per l' «io» e per il gruppo. Tutto il senso per me, tutto il senso per noi, ecco quale potrebbe essere il motto dell'identità; se infatti sussistesse del non-senso, questo apparirebbe immediatamente come estrinseco, come se fosse un affare degli «altri», che possono tuttavia essere aiutati, trasmettendo loro un po' di quel senso originario concepito come un deposito, una riserva, un principio. La rappresentazione da parte sua dice molto meno. Si accontenta di riprendere dei cliché fotografici ed è pronta a rinnovare tale operazione ogni volta che ce n'è bisogno. La rappresentazione non fa rifluire l'individuo o la comunità all'origine, si limita invece modestamente al presente. Sta in questo il significato stesso del termine rappresentazione, in quanto pura presenza. Le due nozioni sono parimenti incapaci persino di considerare che possa esserci un non-senso che non sia solamente mancanza di senso. Insieme, dipendono da una stessa logica antidialogica, la logica della proposizione. Ciò che «esprime» 115
la rappresentazione, ciò che difende o celebra l'identità, è affermativo (l'affermazione di senso). Entrambe non permettono mai il lavoro della negatività. L'una si trova molto a suo agio nel particolare (l'identità), l'altra (la rappresentazione) nel generale e specialmente nella generalità delle convenzioni; ma sono talmente monocentriche sia l'una che l'altra nella loro ossessione di captazione e incarceramento da essere definitivamente bloccate in un pensiero monolinguistico che impedisce loro per sempre di accedere all'universale. Infine, le due nozioni sono conservatrici all' estremo. Mirano a far coincidere (l'io con se stesso, il soggetto con il sociale, le parole con le cose) e trattengono del «reale» solamente la sua conformità. L'identità e la rappresentazione nutrono in permanenza l'illusione della conservazione - delle cose nelle parole, del passato nei monumenti, dell'identità dell'inizio nel divenire - e anche della ripetizione. Sono duplicazione e reduplicazione senza fine che si oppongono alla moltiplicazione delle lingue, dei punti di vista, delle possibili figure dell'io. La sufficienza identitaria e rappresentazionale è refrattaria all'alterità. Contrariamente a ciò che può sorgere dal meticciato, che è sempre imprevedibile, nella logica identitaria e rappresentazionale sappiamo sempre ciò che sta per accadere: si farà di tutto per riassorbire e annullare l' alterità, neutralizzare l'insolito, negare lo stupore che suppongono l'incontro e la trasformazione nata da questo incontro. Dal momento che l'identità ha orrore del vuoto, procede senza mai smettere al riempimento: il riempimento identitario. Visto cl}e la rappresentazione ha orrore della svolta e delle scorciatoie, non la vedrete mai scostarsi, per così dire, dalla strada che ha tracciato. Affermare una specificità di ciascuna delle identità e di ciascuna delle interpretazioni può senza dubbio apparire una forma di differenza, ma se ci si presta un po' d'attenzione ci si renderà conto che, in quest'ottica, tale presunta differenza è ogni volta la stessa. Le figure di ciò che consideriamo come altro non sono che variazioni di sé. Si può dire dell'identità che è una «rappresentazione», la «rappresentazione» che un gruppo sociale ha di se stesso o di un altro gruppo. O, per dirla altrimenti, il regime identitario è un regime figurativo. L'identità rinvierebbe dunque alla «rap116
presentazione», rappresentazione ovviamente dell'identitario, altrimenti ci potrebbe essere qualcosa d'irrappresentabile, comportamento che sarebbe davvero assai maleducato. Ma la verità della rappresentazione è certamente l'identità, in particolare delle parole e delle cose, la riproduzione dell'identico. L'identità si mantiene più vicina all'essere, fino a coincidere con esso, mentre la rappresentazione è la sua immagine. L'identità (nel linguaggio, nella cultura) è il senso (dell'identico), e ciò che la nega -la causa è convenuta in anticipo - è il non-senso. Detto altrimenti, l'identità è il senso della rappresentazione, la sua caparbietà ... nel negare l'indeterrninazione. Vero è che se la rappresentazione è l'identità si tratta di una identità che si fa modesta. L'identità romba sotto la rappresentazione, ma questo rombo è attutito. Nondimeno, se si ritiene al giorno d'oggi che la rappresentazione possa essere salvata, è ancora e sempre «dall'alto» del «principio d'identità». L'identità è certamente - altra metafora - ciò che «fonda» le rappresentazioni. Ogni rappresentazione risiede in un'identità che permette di riconoscerla ogni volta e di ripeterla. La rappresentazione è impossibilitata a pensare la differenza proprio perché è prigioniera di questa logica dell'identico. «Dietro» alla rappresentazione - terza metafora - si trova l'identità, ma dietro all'identità, che si autoaccredita come principio e origine, non c'è nulla. O piuttosto, c'è l'affermazione reiterata senza fine dell'essere al presente, valore metafisico e talvolta addirittura mistico, rintracciabile persino nella filosofia di Husserl, che si trova minacciato quando si considera in una maniera non accessoria la vita e soprattutto la vita dellinguaggio. La rappresentazione e l'identità, che si sforzano di scongiurare nel modo più assoluto non solo il disordine ma anche il cambiamento, consistono nell'affermazione ostinata della presenza, o meglio, nella certezza della permanenza di questa presenza. Il corollario di questa attitudine è l'occultamento del rapporto con la temporalità e con la morte. Il suo impensato è la non-alterità, la non-differenza, cioè l'indifferenza. Non potendo concepire l'assenza e il non-senso, o persino concependoli, li rigetta all' esterno del pensiero, del soggetto, del gruppo. La «matrice comune» e la «solidarietà sistematica dei concetti di senso, idealità, oggettività, verità, intuizione - scrive Derrida - è l'es117
sere come presenza: vicinanza assoluta dell 'identità a sé, apparenza dell'oggetto disponibile per la ripetizione, mantenimento del presente temporale». Le due nozioni appartengono dunque al medesimo orizzonte epistemologico: l'orizzonte metafisico della presenza. Il garante dell'unità dell'io (identità) e della stabilità del linguaggio (rappresentazione) può essere solo Dio. E anche se si dice che «Dio è morto», questo non significa che non si possa continuare a farvi riferimento, o almeno a provare nostalgia di quel]' epoca dal senso pieno e completo. Certo, oggi non basta più confessarsi per ritrovare il senso, ma è ancora ciò che si chiamava Dio che continua a sorreggere la costruzione dell' edificio identitario e rappresentazionale. Quando questa costruzione crolla, il riferimento a Dio rimane non meno presente sotto forma di una impossibile attesa. Il riferimento a Dio si potrebbe altrettanto ben chiamare Godot insieme a Vladimir ed Estragon, o Klamm insieme all'agrimensore K., sebbene Klamm nel racconto del Castello non sia una divinità così immutabile come sembra. Olga suggerisce che anche Klamm potrebbe essere soggetto a metamorfosi e addirittura che Frida potrebbe essere stata la sua amante: una condotta che non è propriamente quella del Dio della Bibbia. L'identità (o la società, l'io identico) e la rappresentazione (o il linguaggio della stabilizzazione) non ricamano sul reale. Non si pongono alcuna questione su questa presenza-assenza di un senso che si ritrae. Sono francamente e dichiaratamente restauratrici dell'integrità della divinità. Si.richiamano a una concezione integrali sta del «reale». Spesso ciò che consideriamo ancora scienza suppone questa stessa fede in un «reale» che resta integro anche quando il divino viene trasferito dal lontano al vicino. E in effetti tale fede nel sapere della presenza è religiosa, non tanto nel senso del «religioso» proprio alla pluralità pagana del sensibile e della superficie quanto del «religioso» cristiano dei mondi retrostanti e di quell'unità per la quale la verità nascosta può essere trovata e rivelata. Si può senza dubbio decidere di abrogare la teologia cristiana nei suoi portati di perfezione e assoluto, senza intaccare troppo la Trinità, ma gli stessi modelli possono continuare a organizzare il pensiero. 118
Si capisce allora perché tanta gente tiene a tal punto all'identità e alla rappresentazione, che effettivamente agiscono da corroboranti. Il fatto è che senza identità e senza rappresentazione il mondo, informe, va alla deriva, l'universo è un caos, si evolve in un labirinto. Meglio dunque continuare ad affermare la presenza di un senso invariante o che possa variare solo a partire dall' originale (l'etnicità) o dall' originario (il significato). Quello che crea il panico fra i seguaci dell' identità e della rappresentazione - diciamo fra gli identificatori e i rappresentatori, poiché le cose che essi identificano e rappresentano non esistono affatto - è di ritrovarsi orfani della trascendenza. Ciò che fa loro orrore è il tempo, il linguaggio, il carattere contraddittorio della realtà dell' esistenza, che provoca in loro una tale contrarietà che si danno un gran da fare per neutralizzare questa angoscia. Comprendono assai bene che i nemici sono il linguaggio e la storia, fantasmi che conviene non frequentare troppo. La sventura per la rappresentazione non è di rappresentare qualcosa ma di non poter fare a meno del linguaggio, allo stesso modo per cui la sventura per l'identità è di essere mescolata con l' alterità. Ma la negazione della storia non impedisce a quest'ultima di continuare per la sua strada e di giocarci brutti tiri; allo stesso modo, l'indifferenza o l'odio per il linguaggio non pongono fine alla sua ambi valenza. Se dunque si cerca di comprendere la posta in gioco relativa a queste due nozioni è opportuno rinunciare alloro par~digma comune e non certo alla storia né al linguaggio. E soprattutto la distanza (in particolare in antropologia), il gioco, la messa in prospettiva che fanno apparire il carattere talora comico, talora drammatico, di queste due tristi finzioni, ove la rappresentazione tende più al comico, mentre l'identità propende maggiormente al drammatico, pur celando degli aspetti comici, come abbiamo visto. Se il dramma e l'identità sembrano far lega (giungendo fino al punto di dar luogo a un gran numero di drammi dell'identità) è perché appaiono solitamente quando si considera l'esistenza da lontano, nella sua globalità, nelle sue grandi dimensioni; il comico e la rappresentazione (il comico della rappresentazione) sorgono invece da un' attenzione verso i dettagli, ossia da una visione ravvicinata. Può darsi che non ne abbiano ancora per molto, ma non si sa 119
mai. Identità e rappresentazione sono i segni di una coerenza (o piuttosto di un bisogno di coerenza) che sembra abbia fatto il suo tempo. «Il pensiero moderno - scrive Gilles Deleuze nasce dal fallimento della rappresentazione come dalla perdita delle identità e dalla scoperta di tutte le forze che agiscono sotto la rappresentazione dell'identico». Tuttavia bisogna mantenere la guardia affinché queste due nozioni, divenute secondo l'espressione di Beckett dei «singulti universitari», non riprendano vigore. In ogni caso, non possiamo contare su di loro perché si ritirino discretamente in punta di piedi. «I fatti - scrive il narratore di dalla parte di Swann - non penetrano nel mondo dove vivono le nostre credenze, non le distruggono; possono infliggere loro le smentite più costanti senza per ciò indebolirle». L'identità e la rappresentazione possono sopravvivere ancora a lungo, almeno in quanto simulazione: finzione (nel caso della rappresentazione) che gli «enti» (Sartre) siano chiari e distinti, pronti a essere detti dal linguaggio; finzione (nel caso dell'identità) della pienezza dell'Essere. Per poter entrare davvero nella modernità, cioè per rendere feconda la constatazione di Mallarmé che concerne appunto la fine delle rappresentazioni (<
reale. Proprio da questa dissoluzione nascono, non senza disincanto, l'aggiornamento e la problematizzazione del senso. Ci si accorge allora che ciò che si presenta di solito come assenza di «fondamento», di «rappresentazione», di «identità» (quando si parla per esempio di «disturbo dell'identità», di «perdita d'identità», di «identità problematica»), ben lungi dall'essere una deficienza o una lacuna, è un' esigenza ... d'immanenza, peculiare a ciò che si chiama antropologia, la quale peraltro si elabora a partire da ciascuno di noi, o più precisamente fra di noi, e non a partire da Dio. Soprattutto, questa assenza è la capacità di assicurare finalmente lo stimolo del molteplice, i conflitti, le contraddizioni, il divenire sia della personalità sia della società. Ciò che viene definito «perdita» di riferimenti identitari o anche «problema» identitario deve essere salutato in quanto riscoperta dell'inquietudine e della ricchezza del diverso. Per questo è opportuno disfarsi di tutto ciò che si spaccia per universale ed è invece solamente generale e omogeneo, ovvero quegli artifici inventati per sovrintendere e cingere un insieme facendo poca attenzione all'incontro che al contrario è sempre singolare. E in effetti, come il fenomeno attuale con cui mi confronto non può essere dedotto da uno anteriore, allo stesso modo non può nemmeno essere «spiegato» da uno superiore. Il progetto antropologico comincia a profilarsi con Kant, il quale, legando il tempo all'esercizio stesso del pensiero e mettendo in discussione la sicurezza ontologica, produce una destabilizzazione della rappresentazione e soprattutto dell'identità. Kant mette in discussione la possibilità di accedere mediante la ragione all'unità dell'essere, ossia all'identità. Mostra come l'uomo non possa pervenire a questa unità - che è anche un altro nome di Dio - attraverso la conoscenza, ma attraverso lafede. Si tratta di una tappa decisiva, di un' avanzata verso la modernità, o quanto meno di una rinuncia alla fede nell' ontologia e nell'identitario - che, supponendo la trascendenza, si riveleranno incompatibili con questa modernità. È una tappa che apre la strada benché ancora timidamente - alI' «lo è un altro» di Rimbaud. L'antropologia nel senso moderno del termine, cioè soprattutto nella sua originalità antietnocentrica, giunge ad aprirsi un cammino mediante la destabilizzazione di queste nozioni monocen121
triche della rappresentazione e dell'identità. Si trova però bloccata in questo lento cammino -lo sforzo per pensare finalmente il molteplice e la differenza, la dolorosa rinuncia all' appropriazione - dalla carenza di una critica radicale di queste due nozioni, una critica che nelle scienze sociali non è ancora stata spinta fmo alle sue estreme conseguenze e non è senz' altro all' altezza delle mutazioni della realtà sociale della nostra epoca. L'attività antropologica per eccellenza è un'attività in divenire. Non ha punti di partenza né punti d'arrivo, ma si costruisce pazientemente nell'incontro con gli altri e - non simultaneamente ma successivamente - nella scrittura di questo incontro. Se esiste un pensiero antropologico esso nasce, come del resto tutte le forme di pensiero, anche se più di altre, dal confronto con lo sconosciuto e non con il conosciuto e il riproducibile. Ma il suo dramma è che, diffidando della tentazione che consisterebbe nel lasciarsi sommergere da questo sconosciuto, sulla scia della mistica o dell'erotismo, rischia di consumarsi nelle affermazioni di «modo maggiore» nel tentativo di padroneggiare perfettamente l'oggetto con il quale si confronta. Uno dei fini dell'antropologia è affrancarsi dall'egemonia di queste due nozioni, ovvero cercare di pensare quello che sfugge a ogni «rappresentazione» e a ogni «identità»: i processi del ripiegamento, dell'oblio,-di-ciò che non è presente e che dunque si assenta, di ciò che si sottrae a ogni identificazione, a ogni riduzione all'identico. Evitando di dominare processi di una tale complessità, e accettando piuttosto di accompagnarli e di analizzarli ne/linguaggio, ci si rende conto che il sapere identitario e rappresentazionale può costituire un ostacolo al sapere-non-sapere che si abbozza nell'equilibrio sempre precario della conoscenza. Inoltre, la disgregazione contemporanea delle identità e delle rappresentazioni ci dovrebbe aiutare ad ammettere che esiste il non-rappresentato, il non-identitario, il non-analizzabile. Tanto meglio se l'antropologia-come la traduzione - fa orrore agli integralisti e ai fondamentalisti. Potrebbe darsi benissimo che abbiano compreso che un approccio di questo tipo non mira a venerare l'identità ma a metterla in discussione; non mira a copiare il reale rappresentandolo, ma a turbarlo. Però questo procedimento è forse ancora troppo timorato. Su-
bisce un ritardo sulla realtà delle mutazioni contemporanee che alla lunga può diventare irrecuperabile. Accetta senz'altro la polisemia, ma una polisemia a tal punto regolamentata e normalizzata che corre sempre il rischio, se non vi si presta attenzione, di ritornare al di qua della lezione di Aristotele: «L'essere si dice in molti modi». In conclusione, la difficoltà dell'antropologia, genere meticcio quant'altri mai, che si riforma continuamente al contatto con gli altri e riformula senza posa gli enunciati che sembrerebbero più evidenti sulla propria cultura e sulla cultura degli altri, deriva dal fatto che essa persegue simultaneamente un duplice progetto: rendere conto il più precisamente possibile della diversità delle culture e iniziare una critica sociale di queste culture. Dunque trascrivere, o piuttosto tradurre, ma anche smontare le trascrizioni e le traduzioni mostrando che sono solamente forme provvisorie. In questo lavoro, che non può fare a meno di una teoria della traduzione, si è sensibili in particolare agli intervalli e agli interstizi. Proponiamo allora di tentare di comprendere e di nominare ciò che non è totalmente «rappresentabile», chiaramente identico a se stesso, distintamente «identjficabile», necessariamente riproducibile, cosa che presuppone che si accetti di fare una croce sull'unità rassicurante dell' omogeneo. L'antropologia, in quanto istanza critica, mette in crisi la logica dell' identità e della rappresentazione, ma deve andare ancora più lontano. L'impostura di un senso stabilizzato e totalmente esplicitato di cui si finge di credere che potrà avere ancora un senso, il ripudio contemporaneo di un reale che è singolarità, instabilità, rischio, estraneità, destino, rendono legittimo un diritto, o meglio un dovere di disobbedienza e di resistenza. Qui non si tratta affatto di preconizzare un fronte di riconquista del reale alla maniera del vecchio incubo religioso o totalitario (cosa che sarebbe assolutamente contraria a questo pensiero meticcio «di modo minore» che s'insinua e si abbozza in queste pagine), dato che oltretutto gli itinerari sono diversificati all'estremo ed è fuori luogo cercare di riconciliarli. Si tratta piuttosto di contribuire a rianimare la realtà, che oggi si trova sotto flebo, e di dare un po' di fiato alla nostra epoca. La realtà presuppone uno slancio, o almeno una vibra-
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zione che ci mantenga in vita, una vibrazione che d'altra parte non può essere isolata dai suoni e dai colori. Da questo rifiuto ad abdicare dipende l'avvenire del pensiero. La credenza nella stabilità e nella solidità che pretendono di procurarci quei palloni gonfiati che sono l'identità e la rappresentazione ci distoglie dall'esercizio critico del pensiero e costituisce un handicap per la sensibilità. Ma quando si moltiplicano i punti di vista, le lingue e i linguaggi, quando si cambia prospettiva, quando si procede a una deformazione, a uno smontaggio (cosa che è propria dell'arte, dell'antropologia, della traduzione, nei loro processi di sperimentazione), allora l'identità si sente minacciata e la rappresentazione non ha più modo d'esistere. Tanto meglio così, si fa tardi e c'è ancora molto da fare.
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