Al sorgere delle stelle è una raccolta di riflessioni e meditazioni, suscitate dalla memoria degli orrori dell'olocaust...
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Al sorgere delle stelle è una raccolta di riflessioni e meditazioni, suscitate dalla memoria degli orrori dell'olocausto, sempre presente e sofferta negli scritti di Wiesel, ma anche da una speranza piena di trepidazione per l'avventura del nuovo stato ebraico. La scittura asciutta e insieme vibrante, graffiante eppure intrisa di un’immensa pietà per l’uomo, - sia esso vittima o carnefice – nel riproporre l’insondabile mistero dell’olocausto, che coinvolge tutta l’umanità e per primo Dio, vuole anche sollecitare la coscienza contemporanea ad un giudizio più equo, meno «farisaico», sulla giovane nazione d’Israele.
Elie Wiesel, nato nel 1928 a Sighet Transilvania), fu deportato con tutta la faniglia a Auschwitz e Buchenwald. Dopo la guerra fece per alcuni anni il giornalista in Francia, trasferendosi quindi in America, dove insegna nelle Università di Boston e di Yale. Le sue opere, scritte abitualmente in francese, hanno ricevuto numerosi premi sia in Francia che all’estero. In Israele, l’Università di Haifa ha istituito il premio annuale Elie Wiesel «per incoraggiare lo studio e la comprensione dell’olocausto e per assicurare la memoria», mentre a New York si è costituito un comitato allo scopo di appoggiare la sua candidatura al premio Nobel per la letteratura.
e-book realizzato da filuc (2003) Titolo originale dell'opera: Entre deux soleils © Les Editions du Seuil, 1970 27, rue Jacob, Paris VI I Edizione 1985 Traduzione di Anna Maria Guerrieri Copertina di Giancarlo Cancelli © 1985 Casa Editrice Marietti S.p.A. - Casale Monferrato Sede centrale: Via Adam, I? - tel. (0142) 76311 15033 Casale Monferrato (AL) ISBN 88-211-8355-6
INDICE
Presentazione di Piero Stefani ........
VII
Itinerario di una fine. .......... L'inizio ............... Dialoghi - I. ............. Storia di una promessa .......... Pagine di un diario ........... Primi diritti d'autore ........... Letture ............... Istantanee .............. Racconti ............... L'orologio .............. Appuntamento con l'odio ......... Ritorno a Mosca ............ Dialoghi - II ............. I dopoguerra: 1948 ........... ... 1967 ............... A un amico preoccupato. ......... A un giovane ebreo di oggi ........ Dialoghi - III ............. Una generazione dopo .......... Fine di un itinerario ...........
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PRESENTAZIONE
Un giorno chiesero al Rabbi chassidico Levi Jizchaq di Berdicev se fosse meglio seguire la via della gioia o quella dell'afflizione. Il Rabbi rispose che esistevano due tipi di gioia e due tipi di afflizione. Quando ci si affligge per una disgrazia, rintanati nel proprio cantuccio, disperando di ogni aiuto, questa è cattiva afflizione; la buona afflizione è invece l'onesta pena dell'uomo che sa quanto gli manca. Ugualmente per la gioia. Chi manca di intima sostanza e nella sua vana ricerca di piacere non si accorge neppure del vuoto su cui cammina, costui percorre la falsa, folle via della gioia, « ma l'uomo veramente gioioso è come uno a cui è bruciata una casa e che ha sofferto nell'anima la sua pena, ma poi ha cominciato a costruirne una nuova, e il suo cuore si rallegra di ogni pietra che pone » \ SÌ rallegra nell'atto stesso di ricostruire, ancor prima di abitare in quella casa, di cui forse non vedrà mai neppure il completamento, È una gioia memore della distruzione, ma che non si lascia neppure vincere da essa. L'atto di costruire è cammino, non mèta. La via chassidica della gioia, troppo spesso confusa con un entusiastico, esaltato slancio, cresce all'interno della distruzione dell'esilio, ' M. BUBER, I racconti dei chassidim [tr. Ìt. Garzanti, Milano 1979, p.276].
ponendo una sopra l'altra « memori » pietre di una casa di cui non si vede ancora il completamento. I giorni del messia non sono ancora giunti. Quelle pietre gioiosamente, tenacemente sovrapposte, hanno, a propria volta, conosciuto la distruzione. La prima guerra mondiale ha reso infatti i territori di elezione del chassidismo nell'Europa orientale un'immensa zona di devastazioni. Cosicché all'inizio degli anni venti Isaac Ba-bel, volgendo uno sguardo pietoso verso le ultime comunità chassidiche, poteva scrivere: « Nell'edificio appassionato dei chassidismo sono state sfondate porte e finestre, ma esso è immortale come l'anima di una madre,.. con le orbite vuote il chassidismo sta ancora in piedi al crocevia dei venti della storia » '- Nelle orbite vuote sono ormai evidentissime le cicatrici della distruzione, ma ancora c'è un misterioso balenìo di speranza, d'attesa. L'anima di una madre vuole ancora credere alla gioia, alla gioia di saper costruire con pietre contrassegnate dalla fedeltà, memori della speranza trasmessa per una lunga catena di generazioni. Wiesel nasce qui, in una delle ultime propaggini di un mondo capace ancora di educarlo e di segnarlo per tutta la vita. Siamo a Sighet in Transilvania, paese sottoposto a continui cambiamenti di confini politici, ma con impressa una forte componente ebraica, specie di ascendenza chassi-dica (cfr. p. 9). È il 1928- II giovane Eliezer (Elie) si identifica pienamente con un mondo che aveva nella pratica delle miswot (precetti), nei trattati talmudici, nei libri cabbalistici, nell'attesa messianica (cfr. p. 36), le sue coordinate fondamentali e costitutive- A quell'epoca, in seno all'ebraismo, le distinzioni, le divisioni erano già molte, ma in quell'angolo dell'Europa orientale, qualunque fosse il modo di essere e di sentirsi ebrei, poteva ancora crescere ;
I. BABBL, L'armata a cavallo [tr. il. Fdtrindji, Milano 1983, p. 39].
per tutti l'albero della speranza, tutti potevano infatti ancora esigere che la sofferenza avesse senso (cfr. p. 12), che il vivere non fosse inganno. Su quelle comunità, come su centinaia di altre, su quegli individui, come su milioni di altri, si abbatte lo sterminio nazista che ha ferito in modo indelebile una tradizione e ha reso individui e comunità un immenso cumulo di cenere. Né alla famiglia Wiesel è stata riservata una sorte diversa. Né il padre, né la madre, né la sorellina sono usciti vivi dai campi di morte, solo Elie è scampato; diventando da allora una voce, un testimone sia dell'annientamento di comunità ed individui, sia del ferimento di una tradizione. La specificità della sua voce, che la rende diversa da quella, in ogni caso preziosa, di altri superstiti (in Italia si pensa subito a Primo Levi), sta nel non abbandono di quell'educazione religiosa di impronta chassidica in cui è stato allevato e che pure riconosce definitivamente lacerata dall'immensa catastrofe che l'ha colpita. Ma se non le si rimanesse, per quanto possibile, ancora fedeli, non si darebbe, di per ciò stesso, una specie di vittoria postuma a Hitler? In ogni caso è in questo violento incrocio, in questa estrema tensione fra tradizione antica e distruzione moderna che nasce lo scrivere di Wiesel. Egli ha ripetuto decine di volte che se non ci fosse stata la guerra, se non ci fossero state camere a gas e campi di morte, non sarebbe mai diventato scrittore, sarebbe un pio talmudista in qualche comunità dell'Europa orientale. Lo scrivere di Wiesel, tanto impregnato dai morti, è sorto in lunghi anni di gestazione nell'immediato dopoguerra come testimonianza e come misterioso, irriducibile segno di speranza, perché (e lo ha detto proprio Wiesel) finché si può parlare della disperazione, la disperazione non ha ancora vinto. Anche il suo scrivere è costruire sulle rovine, ma può dirsi ancora un segno di gioia? Proprio perché il suo scrivere è nato sotto il peso di milioni di morti (cfr. p, 115), in ogni sua parola vibra un'eco, più o meno diretta, di
Auschwitz, che rimane sempre (anche quando non la si affronta direttamente) radice e linfa di tutta la sua opera. Eppure quell'evento di distruzione fu tale da distruggere anche la parola, anche la stessa possibilità di venir detto. Non ci sono più solo orbite vuote, ci sono anche labbra definitivamente mute; eppure sono proprio loro ad essere chiamate a testimoniare. La difficoltà, anzi l'impossibilità di dire e di tacere su un evento che sfida la parola, impone alla vita e allo scrivere di Wiesel una permanente nota di sradicamento. Liberato dai campi si rifiuta infatti di ritornare al proprio paese, « Sighet non esisteva più, aveva seguito gli ebrei nella deportazione ». Diviene « ebreo errante », Francia, Israele, Stati Uniti. Trova una lingua in cui scrivere, il francese, e trova infine la forza di scrivere i) suo primo libro, La notte, un ricordo diretto della deportazione dedicato a chi dalla deportazione non ha fatto ritorno. Etopo di allora ha composto tante altre opere, romanzi, racconti, saggi, drammi, sempre in francese, anche se la sua lingua abituale è ormai l'inglese e la maggior parte dei suoi lettori è ormai americana \ In questa scelta linguistica è già contenuta una sfida. Non si usa la lingua di tutti i giorni, perché le cose da dire ' Bibliografia delle principali opere di Wiesel: La nuit, Les Editions de Minuit, Paris 1958 [tr. il. La flotte, La Giuntina, Firenze 1980]. Tutte le seguenti opere sono stale pubblicale dalle Editions du Seuil, Paris, Le ;our (19611; La ville de In chrnce (1962|; Les porte s de ìa forét (1964); Le chant des morts (1966) [tr, il. L'ebreo errante. La Giunrina, Firenze 1983]; Lesjuifs du silence (I966): Zaimen (in in/olle de Din (1968); Le mendiant de Jénisa-iem (1968); Elitre deux soleiis (19701 [tr, it. Al sorgere delle stelle, Marietti, Casale Monferrato 1985J; CéUbratim hassidique 119721 [tr.ir. Celebrazione hassidica, Ed. Spirali, MiÌano 1983], Le semient de Kolvitlàg (19731; Célébra-tion biblique (1976) [tr, it. Personaggi biblici attraverso il Midrash. Cittadella, Assisi 1978]; Un ]uif aujourd'hui (1977); Le pmés di' Shsmgorod (1979) [tr. it. /; processo di Shamgorod, La Giuntina, Firenze 1982]; Le lesta/seni d'un poète juif assassine |]980) [tr, it. II testamento di un poeta ebreo assassina-lo. La Giuntina, Firenze 1981); Contro la mélancolie (1981) [tr. il. Contro la MelanMnia, Ed. Spirali, Milano 1984], Paroles d'éiranger (1982), Le cmquiè-nie fits, Editions Grassei & Fasquelk, Paris 1983 [tr. it. II quinto figlio. La Giuntina. Firenze 1984].
non sono di tutti i giorni. Non si usa però neppure una lingua « esiliata », come lo yiddish di Singer; essa è infatti tutta radicata nel mondo prima di Auschwitz, mentre Wiesel (a differenza di Singer) nasce come scrittore nei campi di morte. Egli impiega una lingua che (sono parole sue) dopo la guerra « fu più di una lingua, fu un rifugio e una patria » 4, eppure essa era estranea alla tradizione in cui era nato. È una patria diasporica. Un personaggio di un romanzo di Wiesel, il poeta yiddish Paltiel Kossover, muore, proditoriamente ucciso nelle carceri della Russia staliniana, mentre pronuncia queste parole « voi capite, la lingua di un popolo è la sua memoria, e la memoria è... » '. È memoria, ma Wiesel non scrive in yiddish, o in ebraico, perché vuole essere in ogni sua parola testimone dell'assassinio perpetrato. Assassinio non completo, ma ugualmente reale. Occorreva una lingua profana, una lingua scelta in quanto imposta dalle circostanze storiche, per cercare di sforzare il linguaggio, per tentare di esprimere l'indicibile. In occasione di una sua recente venuta in Italia b, Wiesel ha scritto questa specie di autopresentazione: « Raccontare, testimoniare: ecco il mio scopo. La mia ossessione- Dire l'indicibile, comunicare con la parola ciò che sfida la parola. Mantenere vivo il ricordo di un mondo scomparso nella cenere. Conferire un senso umano a un evento che per la sua dimensione di crudeltà si situa oltre l'umano- Offrire ai nostri figli la possibilità, se non la necessità, di non rinunciare alla speranza. Compito impossibile? Lo so. Eppure... L'angoscia pesa troppo sul nostro destino? È nostro dovere combatterla, così come è nostro dovere costruire sulle rovine ». È ancora l'immagine antica di costruire sulle rovine, di costruite senza vedere la casa completata. Un perso' Cfr. E. Wiesel et le silence de Dieu, in « Le Monde Dimanche », 15/11/1981, p.XII. ' I! testamento di un puela ebreo assassnalo, cit., p. 306. ° In occasione della rappresentazione, al festival teatrale di S. Minialo (Pisa) 198). di Il processo di Shamgorod.
naggio dell'ultimo romanzo di Wiesel afferma che ci fu un tempo in cui conosceva la mèta, non il cammino, ora è il contrario 7. È cosi anche per l'autore di quel romanzo. Sa di dover camminare e testimoniare, sa (come asseriva già la Mishnah, cfr- Avot, 2, 16) che non tocca a lui completare l'opera, ma che non è neppure libero di sottrarsene. I giorni del messia non sono ancora giunti, ed è tardi, molto tardi perché alla fine giungano, ma è proprio ora che comincia la vera attesa (cfr. p. 75). Si conosce il cammino, non la mèta. Come avvenne per Mosè, si è in obbligo di camminare nel deserto anche se si sa di non poter entrare nella terra promessa, e si sarà sepolti in una tomba posta sul suo limitare (cfr. Dt 34, 5-6). Raccontare, testimoniare. Che cosa? Ci fu un tempo in cui Dio stesso comandò ai suo popolo di raccontare ai propri figli dell'uscita dall'Egitto (cfr. Es 13,8). Ma ad Auschwitz non sorse alcun Mosè capace di liberare il popolo, né ci fu alcun inconsumabile roveto ardente da cui proveniva la voce di Dio. Ci fu solo il silenzio di Dio. Ci furono sì fiamme, ma esse bruciavano i cadaveri e le anime degli uomini: « Mai dimenticherò quelle fiamme che consumarono per sempre la mia fede... Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima » s. Senza Dio Auschwitz non può assurgere a punto decisivo della vita di un intero popolo; sarebbe ugualmente esperienza sommamente tragica e passaggio bruciante e inestinguibile nella vita dei sopravvissuti, ma non assumerebbe il ruolo, attribuitegli da Wiesel, di oscura rivelazione, di estremo opposto, ma non meno determinante, rispetto alla rivelazione sinaitica. La sua dimensione più profonda irrompe solo di fronte al silenzio di Dio, solo di fronte al fatto che Dio ha taciuto proprio nel momento in cui l'uomo, l'ebreo, avevano più bisogno di lui, della sua parola e della sua miseri' // quinto figlio, cit, p. 7. ' La notte, cit, pp. 39-40.
cordia (cfr. p. 141). Il mistero di questo silenzio si erge contro DÌO, lo provoca e Io sfida. Come può il trono divino non essere anch'esso coperto di fumo e cenere? Il tentativo di dire l'indicibile si presenta in Wiesel come la scelta di rendere V interrogazione il segno più forte della continuità di una tradizioneII miracolo di far prolungare una tradizione (cfr. p. 47) non si presenta qui come una riproposizione letterale, ma come scelta di concentrarla, riassumerla tutta in una domanda, in un'interrogazione sul silenzio di Dio: « Se non ho risposte ciò non vuol dire che l'alleanza sia stata recisa o che Dio non esista, ma che mi interrogo sul suo silenzio » ". Decine di volte Wiesel ha ripetuto che il Dio ebraico è nelle domande non nelle risposte, e altrettante volte si è identificato con Giobbe « che ha scelto le domande e non le risposte, i silenzi e non i discorsi » ll). La domanda è tipica dell'ebreo, ma è anche inevitabilmente segno di rottura. Per il poeta ebreo contemporaneo Edmond Jabès (il quale, si può dire, ha trascorso tutta la vita a riflettere sull'interrogazione) « interrogare è rompere, è stabilire un dentro e un fuori, stare ora nell'uno ora nell'altro » lt. Il « dentro » e il « fuori » di Wiesel sono Dio e Auschwitz. Rappresentano la rottura e la continuità, all'interno di una perdurante assenza di risposte. Bisogna far tesoro di questa mancanza di risposte, soprattutto di quelle tradizionalmente religiose. Una voce molto diversa da quella di Wiesel, ma anch'essa proveniente in prima persona dai campi, una voce « laica » e sensibile (quanto immeritatamente poco conosciuta), quella di Liana Millu, raccontando di come le deportate si ponevano di fronte al dolore delle guardiane tedesche che avevano avuto la famiglia annientata sotto i bombardamenti, afferma che esse sentivano come « espiazione, pena e ' E. Wiesel et le silente de Dieu, cit. 1D L'ebreo errante, di., p. 16ì. " E. JABÈS, Dal deserto a! libro [ti. it. Elitropia, Reggio Emilia 1983, p. 129].
castigo » fossero « tra le parole più vane » 12. Vogliamo qui far assurgere queste parole a segno della sconfitta delle tradizionali, pie risposte religiose e del loro tentativo di far scorrere qualsiasi dolore e qualsiasi morte nell'ambito della normalità, se non addirittura della provvidenza. In un suo dramma, II processo diShamgorod, tutto incentrato sull'insoluto interrogativo di come conciliare la misericordia di Dio con l'interminabile destino di sofferenza del popolo ebraico, Wiesel mette in bocca le consuete argomenta2Ìoni provvi-denzialistiche e giustificatorio a un personaggio che, alla fine. si rivela essere addirittura satana. Forse ci si può rivolgere ancora alla Bibbia (che si colloca ben al di là di ogni forma di pia religiosità), ma a balzare in primo piano sono allora le figure legate alla domanda, alla lotta: Abramo, Giacobbe, Giobbe... Ma neppure la Bibbia e i suoi antichi, profondissimi commenti midrashici possono ormai riproporsi alla lettera, eppure non li si può neanche lasciar cadere; « La grandezza tragica dell'opera di Wiesel consiste in questo sforzo disperato che fa dire alla Bibbia — di fronte ad Auschwitz - ciò che la Bibbia non può dire, perché ciò che ha detto, lo ha detto quando Auschwitz non esisteva ancora. E l'emozione dolorosa dei primi libri di Elie Wiesel dipende, in gran parte, da questa scommessa di situare le parole del testimone di Auschwitz all'intemo di un Libro che, al limite, non può che tacere » 1). È stato detto che Wiesel « attraverso la sua opera celebra un qaddish di dimensioni apocalittiche, un qaddish che non smette di recitare per sei milioni di morti nei campi » ". Il qaddish è la preghiera aramaica che in Israele è " L. MILLU, II furno di Qirkenau, La Giuntina, Firenze 1979, p. 98. Il medesimo testo venne scampato ne] 1947 presso La prora, Milano, e nel 1957 presso Mondadori, Milano. " A. NEHEB, L'esilio deÌ!a parola [rr. ir. Marietti, Casale Monferraio 1983. p, 226]. " A. CHOURAQUI, Ritorno alle radici [tr. it, Jaca Book, Milano 1983, P. 35J.
recitata per i defunti. Una preghiera che non nomina mai la morte. Essa rappresenta nel suo stesso recitarsi, generazione dopo generazione, la tangibile continuità d'Israele- Per questo va pronunciata in onore dei propri genitori e se essi non sono moni non lo si può dire per nessuno. II qaddish non lo si può recitare da soli, va pronunciato alla presenza di almeno dieci uomini adulti {minyan}, rappresentanti (secondo la tradizione) dell'intero Israele. Il proprio lutto è lutto di tutti; ma anche il proprio vivere è vivere di tutti- Fino a quando qualcuno risponde « amen », il popolo vive. Non si recita il qaddish per il defunto. Io si recita dopo di lui, è un segno che il suo vivere ha avuto senso ". Si può recitare per sei milioni di morti una preghiera che non nomina mai neppure la morte? E la si può non recitare senza condannare all'oblio tutti i morti, senza contribuire a propria volta a renderli numeri e cenere? Senza contribuire a spezzare ulteriormente la continuità dell'essere ebrei che non si sustanzia solo di rottura, ma anche di memoria? La notte (i! primo, indimenticabile scritto di Wiesel in cui si narra la vicenda che lo portò da Sighet ad Auschwitz e a Buchenwald) è dedicato, proprio come fosse un qaddish, alla « memoria dei miei genitori e della mia sorellina Zippo-rà ». Le pagine in cui si racconta una scissione definitiva si presentano così come segni di memoria, di continuità, di impossibile identificazione con chi non è più. Bisogna identificarsi con i morti mentre si è vivi, con le vittime mentre si sopravvive loro e mentre gli anni, e il susseguirsi delle vicende, pongono uno spazio sempre più ampio tra noi e " Ecco, in traduzione, il qaddish yatom (dell'orfanoi: «Sia ampliato e santificato il suo grande nome nel mondo che creò secondo la sua volontà e dove tara regnare il suo regno in vita nostra e in vita di tutta Sa casa d'Israele, presto, in tempo vicino - dite amen. Sia il suo santo nome benedetto, al di sopra di ogni benedizione, canto e lode e consolazione che diciamo nel mondo, e dite amen. Sia grande pace dal cielo e vita buona su di noi e su tutto Israele e dite amen. Colui che fa la pace nelle altitudini eccelse, Egli nella sua misericordia stabilisca la pace su di noi e su tutto Israele. Amen ».
loro. « Compito impossibile? Lo so. Eppure.,, ». Per Elias Canetti il compito insostituibile dell'arte non è né la catarsi, né la consolazione, « né il disporre ogni elemento in funzione di un lieto fine. Perché lieto fine non ci sarà » — Wiesel direbbe di conoscere il cammino non la mèta, e aggiungerebbe che è troppo tardi perché il messia giunga; per questo è nostro dovere attenderlo. Il compito dell'arte - prosegue Canotti ~ sta nel ricordare l'orrore « che gli uomini si procurano l'un l'altro » ". Un orrore che, se ci si pone dalla parte delle vittime, è memoria. Lo scrivere di Wiesel è questo ricordo. Ma Io scrivere è impotente a tanto, così come ormai lo è anche la religione tradizionale. Bisogna far tesoro di queste reciproche, incrociate debolezze, non abbandonando nessuno dei due incompatibili estremi. In un suo racconto Wiesel ci narra la sua incapacità di recitare e nel contempo di non recitare il qaddish m memoria del proprio padre: « Domani è l'anniversario della morte di mio padre, e io cerco una nuova legge che mi prescriva quali voli fare e quali voti non fare più, quali parole dire e quali parole non dire più » '7. Elie non comprende tante cose, sa però che, nel giorno in cui morì suo padre, fu costretto a rompere con la tradizione: non recitò il qaddish. Perché non lo conosceva ancora a memoria, perché non c'erano dieci uomini a rispondergli « amen », ma soprattutto perché si era a Buchenwald, nel regno stesso della morte 1B - Eppure nel giorno anniversario si' recherà ugualmente in sinagoga, troverà dieci uomini e reciterà il qaddish « e ciò sarà per me un'ulteriore prova della mia impotenza » '". Di impotenza, ma anche di fedeltà. È ancora una volta il porre una sopra l'altra le pietre della memoria, dell'alleanza non ancora rotta, anche se non ci è dato di vedere né il progetto, né la conclusione dell'edificio. II " E. CANETTI, II fruito dei fuoco [rr. it. Adelphi, Milano 1982, p. 235]. " L'ebreo errante, di., p. 8. '" In, p. 11, " Ivi, p. 13.
modo più autentico e fedele di recitare il qaddish per il proprio padre e per i sei milioni è, da parte di Wiesel, di raccontare a se stesso e a noi la sua incapacità di farlo e nel contempo di non farlo. Il quasi trentennale scrivere di Wiesel vuole narrare l'irraccontabile, vuole esprimere con la parola quanto trascende la possibilità di venir detto, e vuole trovare orecchie capaci di questo difficile ascolto. Tuttavia la sua parola — e Wiesel ne è profondamente consapevole - non ha la forza di cambiare il mondo, il quale continua ad accumulare motivi di orrore, di disperazione e forse di catastrofe. È a Wiesel stesso che si deve applicare il racconto in cui il profeta grida il messaggio di conversione per le vie di Sodoma non (come credeva in principio) per cambiare gli uomini, ma solo perché gli uomini non cambino lui (cfr. p. 76). Non ci si può sottrarre al compito, ma non è neppure dato di vedere il compimento dell'operaUn segno della difficoltà di cogliere questo grido ci pare riscontrabile anche nel fatto che in Italia sia stata soprattutto una piccola casa editrice fiorentina (La Giuntina) a udirlo per prima. Non si tratta di un caso. Lì c'erano orecchie capaci, anzi quasi costrette, ad intendere. Le opere sono infatti apparse in una collana dedicata alla memoria dì Schu-lim Vogelmann, scampato da Auschwitz dove sono state uccise la moglie e la piccola figlia, e sono state tradotte ed edite dal figlio Daniel, il quale ha compiuto per sé, e per noi, la scelta, tipicamente ebraica, di accogliere liberamente un'imposi2ione (cfr- p. 107): essere figlio di un deportato. L'antica espressione a cui allude il titolo di questo libro (in francese Entre deux soleiis) è ben-ha-sh'mashot, « tra i due soli ». SÌ tratta della versione talmudica della locuzione biblica « tra le due sere » (cfr. ad es. Es 12, 6). È il tempo, di durata quasi indecifrabile (vi sono in proposito lunghe discussioni talmudiche, cfr. T.B. Shabbat, 34a), che sta fra il tramonto e il crepuscolo. È l'invisibile spartiacque tra l'ultimo bagliore del giorno e le prime tenebre
notturne. Tempo sia di fine che di inizio- Quasi di sospensione atemporale lv. Momento particolarmente caro alla tradizione chassidica. Secondo la Mishnah (Avof 5, 9) e il Talmud {T.B. Pesafyim, 54b) in quell'estremo lasso di tempo dei sei giorni che diedero inizio al mondo, quando mancava un nonnulla perché si entrasse nel riposo del primo sabato, Dio creò dieci cose (non esplicitamente menzionate dalla Scrittura). Tra esse tre paiono quasi riassumere in loro il senso di queste nostre pagine: l'arcobaleno, le lettere della scrittura, la tomba di Mosè. L'arcobaleno è immagine biblica dell'alleanza (Gn 9, 12-17), è il segno di un mondo riemerso dal diluvio, è la promessa che, se ci sarà una catastrofe, una distruzione totale, essa non verrà più per mano di quel Dio che ha giurato di non più sommergere il mondo. È l'alleanza non rotta che prosegue in virtù di promessa e di memoria: « allora mi ricorderò della mia alleanza » (Gn 9, 15). Ora prosegue appoggiandosi anche alla forma delle lettere, cioè al testimoniare e allo scrivere degli scampati. Lo scrivere sulla disperazione è una sfida, anzi già parzialissima vittoria- Si vuole costruire sulle rovine, anche se non si è ancora entrati nella terra promessa, anche se in quella terra forse non si entrerà mai. È la tomba di Mosè posta ai margini della terra di Canaan; tomba costruita per mano di Dio, ma rivelatrice di un destino totalmente umano: infatti (secondo le indimenticabili parole di Kafka ") non perché la sua fu vita breve Mosè non entrò nella terra promessa, ma perché la sua fu vita umana. Solo in questo particolarissimo senso si possono ripetere le parole del filosofo ebreo contemporaneo Andre Neher secondo cui l'essenziale non sta neppure nel credere o ne) non credere in Dio, ma nel credere o nel non credere nell'uomo ". Difatti (come afferma Wiesel, cfr. pp. '"'Cir. Le mendiant de jéruselem, cit,. p. 179. " Gii, da A. NEHER, Mosè [ir. i[. Mondadori, Milano 1961, p, 76]. " Cfr. A, NEHER, L'esilio della parola, cir., p, 233.
141-142) si può persino dire di no a Dio a patto di farlo per l'uomo, a patto di restare dentro l'alleala- A patto di camminare e di costruire in virtù di fedeltà e di ricordo, e persino di drammatica rottura non di progetto, così come insegnateci da « Mosè, "servo del Signore" e "nostro maestro", dal quale impariamo ad amare la nostra opera non nel suo progetto o disegno che non si reali-azera mai, ma nel suo limitato nascere giorno per giorno » ". Wiesel ci ricorda una leggenda talmudica secondo cui, quando fu incendiato il Tempio di Gerusalemme, i sacerdoti interruppero l'ufficio sacro, salirono sul tetto e parlarono così a Dio: noi non siamo più in grado di salvaguardare la tua dimora, così te ne restituiamo le chiavi- E le lanciarono verso il cielo. Il santuario dell'Olocausto brucia ancora e Ì sopravvissuti ne sono i sacerdoti. Ma questa volta ~ prosegue Wiesel - essi ne tengono ben strette le chiavi (cfr. p. 63). PIERO STEFANI
P. DE BENEDETTI, La morte di Mosè, Bompiani, Milano 1978, p. 11.
NOTA
DELL'EOITOBE
II presente volume, per gentile concessione dell'Autore, non include la traduzione dei seguenti brani compresi nell'edizione originale: Une carrière manquée (pp. 56-60)? lishak R.ahn (pp. 143-1511, Malta Gur (pp. 152-159), 11 élail une jois (pp. 188-241).
ITINERARIO DI UNA FINE
II vecchio Rabbi posò su di me uno sguardo di disapprovazione. - Così sei tu, sospirò accarezzandosi la barba che non era più brizzolata e folta, ma rada e biancastra. Sei tu il nipote di Dodye Feìg. Mi aveva riconosciuto subito, e questo mi fece arrossire di piacere ed anche di imbarazzo. Dal tempo della mia infanzia, dal tempo della guerra, nessuno mi chiamava più così. Improvvisamente maschere e volti sepolti nel passato risalirono in superficie. Un dolore antico prese ad attanagliarmi— Dunque sei tu, gemette il Rabbi sempre più scontento. Molti anni erano trascorsi dal nostro ultimo incontro. Ci trovavamo ancora in Ungheria. Mia madre mi aveva condotto da lui per sollecitare la sua benedizione. Adesso eravamo soli, lui ed io, da qualche parte in Terra Santa. Come allora, udivo giungere dall'esterno il canto melodioso e suadente degli allievi che, nell'oratorio, studiavano il Talmud salmodiando. Ma per un motivo che mi sfuggiva, mi sentivo invadere da un malessere che non avevo provato in passato, laggiù. Non sapevo che fare dei miei occhi, dei miei ricordi. Rannicchiato su se stesso, nella sua poltrona, il Rabbi mi esaminò a lungo. Constatai che non era cambiato molto- II
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suo volto era rimasto buono, dolce e segnato dal dolore- II suo sorriso, pallido, racchiudeva tutta la saggezza del Tiondo- E s3; eccoti qui, tu, il nipote di Dodye Feig, ripete :ome tra sé, con il pensiero altrove. I suoi occhi non mi abbandonavano un istante. Mi chie-ievo chi vedesse, chi cercasse. E perché diventava cupo, riste. Forse perché, a sua insaputa, ero cambiato più di lui, n modo diverso da lui? Egli era rimasto il mio Rabbi, ma o non ero più il suo discepolo. - Non dici nulla? domandò. Il nipote di Dodye Feig lon ha nulla da dirmi? - Rabbi, risposi con voce timida, siete ingiusto, Sembra-e ignorare che da anni ed anni lavoro sodo per avere liritto al mio nome. Eppure, per voi, sono rimasto il nipote li mio nonno.,. Era, da parte mia, un tentativo - maldestro - di rompere i tensione; fallì miseramente, me ne resi conto subito, fon apprezzando minimamente il mio umorismo, il Rabbi ggrottò le sopracciglia, incollerito: - Adesso so a che cosa hai dedicato il tuo tempo do-o l'ultima visita a casa mia. Hai sprecato le tue forze cerando di staccarti da tuo nonno, è così? E, forse, ne sei ero? - Avete capito male, Rabbi- Mi sono espresso male... - Nient'affatto. Ti ho capito benissimo; non sono né lido né cieco. Lontano da tuo nonno, hai fatto tutto il Dssibile per non assomigliargli. - Non mi giudicate, Rabbi. - E perché no? — Voi non sapete tutto, non potete sapere tutto. Tacque prima di rispondermi con tono mutato: — Non ti giudico; ti compiango e basta. II padre di mia madre era stato uno dei suoi adepti voriti. Dodye Feig, fervente hssid, era, alla corte del abbi, più celebre e più influente di quanto suo nipote,
scrittore, possa mai sperare di divenire. Era forse questa la ragione che suscitava il corruccio e la stizza del mio antico maestro? Non osavo domandarglielo. Alla sua presenza ridiventavo il bambino che ero stato, abituato ad ascoltare e ad attendere. Sembrava d'altronde che il Rabbi si stesse calmando. Con un tono di voce più dolce, mi interrogava sulla mia vita, sulle mie attività, dove abitavo, chi frequentavo, con chi studiavo. Gli rispondevo come meglio potevo-
— E di che cosa vivi? domandò con tono pratico, preciso. — Lavoro. - Per chi? - Per me stesso. — E sei tu stesso che ti dai il tuo salario? - Non ricevo un salario, Rabbi. — No? Ma allora... come fai a pagarti l'affitto, i pasti? — Oh, i miei bisogni sono modesti. Ho quanto mi basta. - Sicché, ti guadagni la vita. Ma facendo che cosa? — Scrivo. - Scrivi? esclamò, incredulo. È questo il tuo lavoro? Dici sul serio? Non fai nient'altro? Non hai altre occupazioni? Passi la vita a scrivere? E basta? - SI, Rabbi. Il suo volto rifletteva un dolore così intenso che, preso dalla vergogna, provai il bisogno di spiegargli il senso e lo scopo del mio lavoro. Per nulla convinto, mi guardava senza capire. Ed era proprio ciò che avevo temuto. Se avevo aspettato tanti anni prima di venire a trovarlo, era stato per il timore di dovere constatare la distanza che ci separava, distanza che temevo e allo stesso tempo desideravo. Avevo paura di essere cambiato troppo, o non
abbastanza. E anche di scoprire che tutte quelle parole che, da dopo la guerra, mi sforzavo di mettere in fila imponendo loro un segreto e un
iilenzio particolari, mi riconducevano a lui, o me ne allonta-lavano: qual era la sua parte? Preferivo non saperlo. aspettare. — Dunque scrivi, disse il Rabbi, pensieroso. Dimmi che rosa scrivi. — Dei racconti. Volle sapere che genere di racconti, — Non ne ho idea, Rabbi. Mi gettò un'occhiata sospettosa: mi stavo forse prenden-lo gioco di lui? — Come puoi scrivere se non sai cosa scrivi? — Si può, Rabbi. Credetemi: è possibile- Le pagine mi-;liori sono quelle che si scrivono senza saperlo. Adesso era certo che mi stavo prendendo gioco di lui; lecise di non adombrarsene. - Ammettiamolo, disse. Ma i tuoi racconti, di cosa tratta-io, di chi? — Non saprei dirlo, Rabbi. — Ma, almeno, sono veri? — Sì... e no, farfugliai a fatica. Non lo so... Era la verità: sotto il suo sguardo, tutte le mie certezze si iissiparono improvvisamente; non sapevo più nulla. Appoggiato alla tavola, il Rabbi allungò la testa per esaminarmi meglio: — Devi sapere almeno se scrivi di persone o di awe-imenti. — Dei due, Rabbi. — E queste persone, le hai conosciute? — Sì... e no. Avrei voluto conoscerlo. — E gli avvenimenti, si sono verificati? — Sì... e no. Avrebbero potuto verificarsi. I suoi occhi si velarono: — Capisco... Tu inventi personaggi ed episodi... passi il •mpo a mascherare la realtà, la verità divina o umana, con arole create per altri fini. In altri termini: scrivi delle lenzogne,
Profondamente colpito, rimasi a lungo senza parlare. Il bambino in me, colto in flagrante delitto, non trovava nulla da dire in sua difesa. Ma l'adulto doveva giustificarsi: — Non è tutto così semplice come pensate, Rabbi. Vedete, ceni avvenimenti hanno avuto luogo, ma non sono veri; altri invece lo sono, ma non sono mai accaduti. Non fui capace di aggiungere altro. Era sufficiente? Lo ignoro. Il Rabbi, sempre scontento, smise di insistere. Il suo sguardo errava ora lontano, oltre le frontiere. Forse lo riportava alla sua corte in Ungheria ridotta in cenere, ai suoi adepti scomparsi. Bruscamente sembrò risvegliarsi da un sogno profondo. Una luce familiare si accese nei suoi occhi, tornati dolci e carichi di bontà. Mi ordinò di avvicinarmi; obbedii. — Vieni, disse. Il nipote di Dodye Feig non se ne andrà a mani vuote. Vieni più vicino, che possa benedirti. Non osai più ricordargli che da molti anni ormai avevo un altro nome, e che mio nonno, andandosene, si era portato via tutte le mie benedizioni. Chinai il capo immergendomi nella voce che era di nuovo quella del mio maestro. Baciai la sua mano, come avevo fatto un tempo. Riprese a sorridere e mi augurò qualcosa, non sapevo cosa. Lo lasciai indietreggiando, a testa bassa, il cuore pesante, e solo più tardi, molto più tardi, mi dissi che era forse tempo che il nipote di Dodye Feig riprendesse il suo posto nella mia vita. E mi desse la sua voce.
L'INIZIO
L'ultimo sguardo che getti su ciò che fu l'inizio è senza iguali. Gli attribuisci un coefficiente assoluto. Poi lo disto-;Ii con forza, quasi con rincrescimento. E te lo porti via :ome l'aria di un canto che non verrà più cantato. Te lo xirti via come un segreto. Venticinque anni separano il testimone dall'oggetto della tua testimonianza: la sua città natale. Venticinque anni di dta errante, in un mondo sconvolto, spesso ostile e sempre rriducibile. Durante tutto questo tempo avevo cercato qual-:osa e non sapevo che cosa. Adesso lo so. Una piccola città •braica, circondata di montagne: è lì che desideravo pene-rare per lasciarvi tutto ciò che posseggo: la mia memoria. Quella città la vedo ancora, la vedo ovunque, al punto la irridere me stesso e farmi la morale: se continui cosi, mpazzirai; quella città non esiste più, non è mai esistita. ^a non posso farci nulla, non vedo che lei. I suoi Giusti lascosti e i suoi trovatori rumorosi, i suoi saggi e i loro lumerosi figli, i suoi visionari poveri ed i suoi mercanti iltrettanto poveri. LÌ vedo, nella grande piazza, madidi di udore, affrettarsi al mercato, alla scuola, all'ufficio, ai ba-;ni rituali, al cimiteroLa loro presenza, a volte, mi sembra così reale che mi 'ien fatto di voler fermare uno di loro, uno qualunque, per iffidargli un messaggio: dì a tutti che stanno sbagliando
strada, che si allontanano dal loro avvenire; dì loro che un pericolo li minaccia, l'umanità è alle loro costole, vuole il loro sangue e la loro fine. Ma rimango in silenzio. Temo che mi risponda: non ti credo, non ti conosco. Alzerebbe le spalle e continuerebbe il suo cammino, dritto verso la sua tomba lassù, verso la sua tomba tra le nuvole incandescenti. Ho voglia di gridare, di urlare, ma ho paura di svegliarlo. È pericoloso svegliare i motti, soprattutto se hanno fatto man bassa sulla tua città e sulla tua infanzia. Sighet. Provincia rumena, ungherese, austriaca. Occupata dai turchi, dai russi, dai tedeschi, bramata da tutte le tribù di quella parte della terra. Nonostante la diversità delle lingue che vi si udivano, nonostante i differenti regimi che vi si succedevano, era una città tipicamente ebraica, come ve n'erano a centinaia, a migliaia, tra il Dnieper e i Carpazi. Con la sua popolazione prevalentemente ebraica, essa si purificava per 'Yom Kippur, digiunava per il Tish'ah be-'Av piangendo sulla distruzione del Tempio, e si rallegrava, inebriandosi, durante la festa della Toràh. Si usciva per la strada, il sabato, e si sentiva lo Shabbat nell'aria. I negozi: chiusi. I centri commerciali: paralizzati. Gli uffici del municipio: deserti- Per gli ebrei, come per i loro vicini cristiani, quello era un giorno di totale riposo. I vecchi si recavano nelle case di studio per ascoltare l'oratore itinerante di passaggio; Ì giovani andavano a spasso nel parco, nei boschi, lungo il fiume. Le preoccupazioni, Ì tormenti potevano attendere: il sabato era un rifugio nel tempo. Fin dalla vigilia, il venerdì pomeriggio, si poteva percepire l'arrivo dello Shabbat. Per accoglierlo, gli uomini si immergevano nei bagni rituali. Le donne riordinavano la casa, lavavano i pavimenti, sfaccendavano in cucina e tiravano fuori i loro abiti più belli. Tornati da scuola i ragazzi, recitavano il Cantico dei Cantici. Poi, nel medesimo istan-
:, lo stesso canto si elevava da tutte le case; shalom 'ale-sm mal'ake ha-shalom, siate benedetti o messaggeri di be-edizioni; entrale e partite in pace, o angeli della pace... Rabbini ed illetterati, ricchi negozianti e facchini, datori i lavoro ed impiegati, tutti avevano per gli angeli dello habbat le stesse parole che esprimevano la stessa grati-idine« Chi sono gli angeli? » chiesi un giorno a mio nonno le lì melodie di Wizsnicz mi sconvolgevano, tanto la loro ioia è violenta e bella. Come risposta si chinò su di me e mi bisbigliò all'orec-iio un segreto che ancora custodisco: « Gli angeli, piccolo no, siamo tutti noi che stiamo ritti e sereni davanti a uesta tavola coperta da una tovaglia bianca e trasformata i altare. Tu, io, tutti Ì convitati. Ecco la forza e la grandez-i dello Shabbat: esso fa sì che l'uomo si compia ». Allora sentii ali divine palpitare sulla mia testa, eh sì, le o sentite, ve lo giuro. E da quando mi sono separato da •, nonno, non ho più visto angeli: giuro anche questo. In srità, nonno, credo che essi siano rimasti nella nostra città •polta tra le montagne, invisibili come te e come me, come itti noi. Mio nonno viveva in un piccolo villaggio: Bichkev, o ocsko in ungherese. Dodye Feig vi conduceva una placida ita di fìttavolo. Amavo i suoi racconti, Ì suoi canti; amavo gualmente il suo modo di tacere. Lavoratore instancabile, faceva tutto da sé. Mungeva le acche, arava la terra e si arrampicava sugli alberi per igliere susine, mele e albicocche. La sera, al crepuscolo, fendeva che si facesse buio per accendere la lampada a etrolio. Seduto sotto il portico, si avvolgeva di notte e di letizio. I primi tempi mi stupivo: « Ma non si vede nien•, nonno' ». Mi rispondeva in un sussurro; « Sei giovane :icora. Più lardi parlerai diversamente. Per il momento, iiarda e stai zitto ».
Lo andavo a trovare durante le vacanze. Lui veniva a Sighet solo in occasione delle grandi feste. Per pregare con il Rabbi di Borshe, un santo che aveva centinaia di adepti nelle borgate circostanti. Ricordo ancora le ore che rimanevo in piedi dietro al Rabbi. Mi sforzavo di agganciare le mie preghiere alle sue e di aprire così le muraglie del santuario celesteUn giorno vidi il Rabbi che si batteva il petto implorando Dio di perdonare i suoi peccati. Turbato, interrogai il nonno: « Come è possibile? Un Rabbi che trasgredisce le leggi? ». Fu l'occasione, per mio nonno, di rivelarmi un altro segreto: « Si può essere innocenti e ritenersi colpevoli ». L'anno seguente piansi come il Rabbi e anche di più, come lui mi accusai di peccati che non avevo avuto alcun modo di commettere, mi battevo il petto con più violenza di lui, e finii con l'attirare l'attenzione di mio nonno che mi ordinò di moderare il mio fervore per non cadere nell'orgoglio: « Non si copiano i gesti del Rabbi, non si ha il diritto di imitarlo. Puoi seguirlo, obbedirgli e bastaNon cercare di assumere il suo ruolo: non si tocca impunemente lo scettro regale. Anche se il re sembra essere assente ». La nostra città aveva anche altri capi spirituali, più o meno celebri, più o meno eruditi. Ognuno aveva il proprio oratorio, i propri fedeli, i propri consiglieri e benefattori, i propri allievi felici o infelici, e tutti supplicavano Dio perché venisse in aiuto a uomini già presi di mira, già segnati dal destino. Ma Dio si rifiutava di dar loro ascolto. Di conseguenza dovrei sentirmi meno colpevole, nonno. Eppure non è così. La lista dei delitti da me confessati si fa sempre più lunga, ed aspetto che qualcuno me ne spieghi II perché. Per evitare malintesi, mi sembra tuttavia necessario inserire, a questo punto, una breve precisazione: gli ebrei di Sighet non erano tutti dei santi. Non tutti passavano il loro tempo studiando i sacri testi o recitando i salmi- Con le
[oro debolezze e Ì loro difetti, i commercianti non erano né più onesti né più vili che altrove. I ricchi sfoggiavano la loro ricchezza e i poveri nascondevano la loro miseria. Sarti e calzolai, boscaioli e cocchieri, aggiogati al carro della propria disperazione quotidiana, non giocavano a fare i poeti mascherati: la loro miseria, carica di maledizione, era priva di poesia. Associati e vittime di Dio, non avevano tutti un buon carattere. Non tutti riuscivano a vincere frustrazioni e amarezze. Si litigava, ci si insultava, si spettegolava, si facevano maldicenze, eh sì, come dappertutto. Avevamo i nostri invidiosi, Ì nostri gelosi, i nostri bugiardi, i nostri avari e i nostri ladri, avevamo persino Ì nostri spergiuri e i nostri rinnegati. Solamente oggi, riandando col pensiero a quei tempi e a quei luoghi, mi rendo conto di quanto i loro vizi fossero inoffensivi. Pretendevano così poco dalla vita, dalla società: un letto per dormire, un libro per sognare, un melammed per istruire Ì figli, e un segno di :onsolazione, uno qualunque, la certezza che nessuna sofferenza è inutile. In cambio erano sempre pronti a dare: per le scuole talmudiche, gli ammalati, gli orfani, per le ragazze da maritare, i vecchi indigenti, gli esiliati e i decaduti. Impegnati e generosi, si poteva contare su di loro. Non appena si trattava di salvare una comunità minacciata nel ìuo onore o nella sua sopravvivenza tutti tenevano a mostrarsi solidali. Ricordo un tipo rossiccio che gridava allo scandalo perché era stato respinto il suo dono, per una causa qualsiasi. Mon so più quale. Il fatto è che egli era l'informatore accreditato della città e nessuno gli rivolgeva la parola[nutilmente protestava che il suo era un mestiere come un litro, e che era poco pericoloso perché a tutti noto. Viveva il margine. Frequentava la sinagoga, ma non veniva mai :hiamato alla Toràh. Dopo quell'incidente fu costretto a ambiare città. Più tardi cambiò anche occupazione. Avevamo, naturalmente, i nostri miscredenti, indunenti-:abili anch'essi. Il più famoso era un vecchio centenario che
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detestava i hasidim, suoi vicini di casa, perché le loro funzioni, troppo rumorose, Io disturbavano. Diceva: « Se non possono farsi udire che gridando, vuol dire che il loro cielo è lontano, ed è un peccato, soprattutto per me che abito troppo vicino ». Quando era giovane, non usciva mai senza il suo cane. Un giorno incontrò per strada il rabbino in compagnia del suo servitore. « Tu non sei un rabbino come me, ma come me hai bisogno di un compagno per servirti! » esclamò il rabbino, ridendo. « Infatti, rispose l'altro, accarezzando il cane, ma nel mio caso il servitore sono io ». Questa storia aveva un seguito. Il rabbino, invece di arrabbiarsi, mise una mano sulla spalla del miscredente e disse: « Tu non mi ami, però ami il tuo cane; vuol dire che sei capace di amare, e questo solo conterà ». Anni dopo, quello stesso miscredente schiaffeggiò il proprio figlio che aveva avuto l'impertinenza di criticare il rabbino davanti a lui. Non ho conosciuto il rabbino, ma ricordo il suo difensore. Ricordo, ricordoUn pazzo: Moshé. Era pazzo solamente durante i mesi d'estate. Ridiventava normale, equilibrato, prima delle feste dell'Anno Nuovo. Allora officiava in un granaio in rovina, dal tetto sbrecciato, in un borgo sperduto dove non vi era né rabbino né cantore. Dopo le feste insegnava l'alfabeto ai bambini. Non lo dimenticherò mai: panciuto, quadrato, perennemente affamato. Aveva la barba rossa e irsuta, le labbra gonfie, spesso paonazze. Gli occhi, selvaggi e angosciati, non si vedevano, ma si indovinavano attraverso la fessura delle palpebre: sento ancora il morso del loro sguardo. Gli scolari, crudeli nel loro ozio, lo perseguitavano. LÌ lasciava fare. Qualche volta veniva a rifugiarsi da noi- Per dimenticare la sua sofferenza, beveva. E cantava. Ascoltan-
dolo diventavo un altro. Mi metteva paura e mi affascinava. Standogli vicino mi rendevo conto che si muoveva in un universo abitato da lui solo. Cercavo di farlo parlare, gli chiedevo di descrivermi ciò che vedeva, ciò che lo tormentava. Preferiva cantare. Più tardi, quando mi interessai alla psichiatria, mi sfiorò il sospetto che fosse a causa di lui. Un amico volle sapere cosa cercavo nei pazzi. Risposi: « Sono soli e cantano. E poi vedono cose diverse da .noi ». Un altro Moshé: lo scaccino- Gracile, timido, impacciato, disarmato, rassegnato. Occhi da cane bastonato, spalle curve, corpo da ragazzino malaticcio. Vinto, accettava in partenza le angherie e le sevizie degli uomini. Camminava in punta di piedi; per non disturbare. Sempre in disparte, avrebbe voluto essere invisibile. Apolide, fu tra Ì primi « stranieri indesiderabili » a subire la legge del carnefice. Quando accadde? Nel 1942, mi pare. Quanti partirono? Cento, mille- Forse di più- Ricordo: la comunità al completo — uomini, donne e bambini — li aveva accompagnati alla stazione. Porgevano loro borse colme di cibo- Poi il treno si mise in moto. Destinazione ignota. Pochi tornarono. Tra questi: Moshé-lo-scaccino, Irriconoscibile. Aveva perso la sua dolcezza, il suo pudore. Impaziente, intollerante, aveva il volto misterioso di un messaggero perseguitato dagli autori del messaggio. Lui che, prima, tossicchiava ogni volta che doveva dire una parola, si mise improvvisamente a parlare. Raccontava, raccontava. Si scoprì una nuova vocazione: arringare le folle. Andava da una sinagoga all'altra, di casa in casa, da negozio a negozio, da officina a officina; interpellava i passanti per la strada e i fìttavoli sulla piazza del mercato. Raccontava, raccontava. Storie atroci, da far rizzare i capelli sulla testa. Faceva il resoconto del suo viaggio, della sua evasio-ne, della sua esperienza della morte da qualche parte in Galizia. E la sua famiglia? Rimasta laggiù. I suoi figli?
L INIZIO
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Rimasti laggiù. E i suoi compagni? Rimasti laggiù. In fondo a una fossa comune. Fucilati. Tutti. In pieno giorno. Lui stesso era fra loro. Caduto una frazione di secondo prima di essere colpito. Protetto da quelli che caddero dopo di lui. Ecco com'era sopravvissuto. Non smetteva di parlare. La gente, stanca e ingenua, non voleva, non poteva credere. Diceva: « Povero scaccino, ha perso il ben dell'intelletto ». Finì per tacere. A forza di reprimere la sua rabbia impotente, sprofondò in un mutismo vicino alla demenza. Due anni dopo, qualche giorno prima dell'ultima Pentecoste, quando la sorte del ghetto era già decisa, irruppe in casa nostra annunciando a mio padre la sua decisione di ruggire. Se ne andò canticchiando: « Non ho più nulla, nulla, nulla da fare qui; ritorno, ritomo, ritomo in Galizia. Con un poco di fortuna arriverò prima della festa, arriverò prima della mia sepoltura ». E Leizer - vi ho già parlato di lui? Aveva un soprannome che in questo momento mi sfugge. Leizer-il-grosso. Oppure Leizer-il-neroO forse Leizer-il-ridanciano, perché era grosso e scuro, e rideva giorno e notte senza sosta, e soprattutto senza motivo- Quanto al suo cognome, io non l'ho mai saputo. Lui nemmeno. Viso rotondo, segnato da cicatrici. Sguardo birichino. Corpo pesante, braccia enormi. Andatura strascicante, staccava Ì piedi dal suolo con fatica. Dormiva all'asilo e viveva di elemosina. Cosa strana, non entrava mai nelle case; rimaneva fuori, nel cortile o davanti al porticato, aspettando che gli portassero un pezzo di pane spalmato d'olio, alcune patate bollite, una tazza di latte, qualche soldo. Adorava giocare con i bambini che tornavano da scuola. Li incoraggiava a picchiarlo, a lanciargli dei sassi. Più lo maltrattavano, più si divertiva. D'altra parte, gli antisemiti evitavano di scontrarsi con lui. Era l'unico ebreo che se ne andasse a spasso, fuori, la notte di Natale. Incoscienza o provocazione? Fatto sta che i
monelli lo lasciavano in pace. Vedevo perciò in lui la reincarnazione del Golem, l'essere d'argilla, dotato di forza ma non d'intelligenza, che un tempo la leggenda aveva dato agli ebrei di Praga, intelligenti ma deboli, per proteggerli. Anche noi avevamo bisogno di un protettore-Durante i lunghi mesi dell'inverno, se ne stava disteso sulla stura all'ingresso del TalmudToràh, e sembrava tenersi pronto ad una chiamata. Man mano che si avvicinava la Pasqua, la sua risata si faceva nervosa, quasi convulsa. Credevo di comprendere perché: come il primo Golem, quello di Praga, Leizer si sentiva in dovere di vegliare, di stare pronto a mettersi tra noi e i nostri nemici che, da secoli, si scatenavano contro di noi, specialmente durante le festività. Lo vidi per l'ultima volta il giorno della liquidazione del ghetto. Faceva parte del primo convoglio. Quel giorno mi parve più cupo, più incollerito: qualcuno gli impediva di compiere la sua missione, di scagliarsi in avanti e calpestare al suo passaggio i portatori di odio e di sangue- II suo respiro mi sembrava più pesante, simile a quello di una bestia bastonata. Avrei dovuto notare che non rideva più. Questo avrebbe potuto servire da avvertimento. Ancora una storia di mendicanti.l'ultima.Tranquillizzate-vi: essa narra le avventure di un principe- Perché ce n'era uno tra noi. Vedrete. A ognuno il suo principe. Si caccia uno all'inferno, si fa sedere l'altro su un bianco regale destriero. Il terzo s'invola sulle ali della leggenda. Quanto al mio principe, non aveva in capo alcun diadema- Non prometteva mari e monti né favori, non esigeva obbedienza né onori, e nemmeno li cercava. Anzi, non cercava nulla. Simboleggiava qualcosa? Se si, a nessuno fu dato saperlo. Nascondeva delle meraviglie, dei tesori? A nessuno fu mai dato vederli. Il mio principe non si distingueva né per il suo splendore, né per la sua eleganza, e nemmeno per la sua giovinez
za. Era vecchio ed i suoi abiti a brandelli. Ad eccezione del suo volto, non possedeva nulla. Era un povero, il mendicante più povero della comunità. Come gli altri, dormiva accanto alla stufa, nella scuola. Ogni mattina, recandomi alla funzione, lo trovavo seduto sull'ultimo banco, perduto in un vago fantasticare, l'occhio carico di una pena senza nome. Silenzioso, solitario, mendicava raramente, e quando lo faceva non sollecitava mai l'elemosina, almeno con la parola. Se ne restava H, davanti a voi, guardandovi sottecchi. Esaudito o no, sorrideva, borbottava un ringraziamento affrettato, e proseguiva per la sua strada. Qualcosa nel suo comportamento, nei suoi gesti appena abbozzati, suscitava l'affetto più che la carità. II rispetto più che la compassione condiscendente. Lo chiamavano Shmulder. Era il suo nome o il suo cognome? Lo ignoro. Come tutti, però, sapevo che veniva da lontano- Era arrivato durante la guerra, indossando un'uniforme da ufficiale. Vincitore o vinto? Occupante o prigioniero? Le opinioni erano divise. Lui stesso le ascoltava distrattamente senza mai fare commenti. Perché aveva deciso di stabilirsi nella nostra cittadina? Perché non se ne tornava a casa sua? Il mistero che Io circondava suscitava diversi racconti a guisa di possibili spiegazioni. Era un grande industriale berlinese, un artista rinomato a Vienna. Aveva una fidanzata ricca e bellissima a Budapest: cantante o ballerina classica. No: una donna più giovane di lui, più anziana di sua madre. E si drogava. No: era lui che si drogava. Ma era veramente un ebreo? Non capiva lo yiddish, cosa che, nella nostra regione, sarebbe bastato a renderlo sospetto- Ma un mattino lo sorpresi nella sinagoga, con i filatteri sulla fronte e sul braccio sinistro; sembrava un altro uomo. Alcuni lo prendevano per un penitente, altri per un convertito. Avventuriere, santo, giusto, poeta in fuga o malfattore scarcerato: avrebbe potuto essere tutto questo.
Col passare degli anni, si smise di importunarlo. Avevamo paura che, stanco della nostra curiosità, riprendesse la strada. In effetti, gli capitava di scomparire per giorni e notti, senza dire dove andava. Presso la sua famiglia? Dalla sua fidanzata? Dai suoi soci in affari? Probabilmente si rintanava in qualche grotta sulla montagna, o errava nelle foreste, senza mèta, da uomo libero che non ha da rendere conto a nessuno. Ma ricompariva sempre nella casa di studio senza averci dato il tempo di preoccuparci veramente. Una volta lo invitai a condividere il nostro pasto di Pasqua. Mi ringraziò con effusione, ma dichiarò di aver accettato l'invito di un'altra famiglia- Quale? « Mancherei di educazione se vi rivelassi il suo nome », disse. Non potei far altro che inchinarmi. Ma durante tutta la festa restò assente dalla casa di studio- Lo cercai invano in tutti gli altri luoghi di preghiera. Allora sorse in me un sospetto: e se fosse andato a celebrare il Seder a casa sua? Quello che si raccontava era dunque vero? Il giorno dopo Pasqua lo rividi, seduto sul suo solito banco. Gli chiesi se aveva passato bene la festa. « SÌ », rispose. « Dove? ». « Oh, non molto lonano da qui ». « Un posto che conosco? ». « No, non credo. Almeno, non ancora ». « Pensate che potrei andarci con voi, la prossima volta? ». « Certamente, a patto che vi procuriate un regolare invito ». A quel tempo passava già per matto. Eppure non dava alcun segno di follia. Non lo si poteva accusare di alcun atto irrazionale, né di abitudini anormali. Non provocava scenate, non manifestava alcun gusto per la violenza, né s'immischiava in alcuna sommossa. Poco ingombrante, viveva senza far rumore. Meglio ancora: era educato, colto. Sapeva esprimersi in diverse lingue- Lo si diceva appassionato di letteratura e esperto d'arte. Tutto faceva pensare che avesse frequentato delle università, fosse cresciuto e avesse vissuto nell'agiatezza. Ma non confessava nulla. Matto, lui? Semplicemente
perché aveva abbandonato la bella vita, la grande città, per una borgata polverosa come la nostra? No, mi dicevo, non è pazzo, la sua presenza tra noi è certo dovuta a qualche disegno segreto che lo lega a noi. In un primo tempo vidi in lui un saddiq travestito la cui missione era quella di radunare le anime errabonde, le scintille sperdute, e riunirle alla primitiva fiamma sacra, quella che lega il Creatore alla sua creazione. In seguito, non so perché, mi misi a trattarlo come un principe del lontano regno delle dieci tribù perdute. Un giorno, dopo un avvenimento qualsiasi, sarebbe tornato al suo castello. Allora avremmo saputo la verità. Ma sarebbe stato troppo tardi. II principe non sarebbe più tornato nella nostra piccola città. E l'avvenimento si verificò. La Pasqua 1944 vide le nostre sinagoghe chiuse, le case di studio e di preghiera evacuate. Mi ponevo mille inquietanti interrogativi, tra Ì quali questo: dove si sarebbe rifugiato Shmukier? Cercai di informarmi ma senza alcun risultato. Interrogai gli altri pazzi, gli altri mendicanti. Nel disordine generale, ognuno aveva troppe preoccupazioni per pensare a Shmukier, Apparentemente scomparso senza lasciare traccia. Avevo anch'io troppe preoccupazioni di ordine personale per attardarmi sul suo caso. Questa volta ancora finii col ritrovarlo. Il primo convoglio stava per lasciare il ghetto. Scorsi Shmukier da lontano. La sua figura spiccava come isolata. Calmo, sereno, padrone dei suoi gesti e dei suoi sguardi. Non ricordo più se aveva in mano una valigia o un fagotto. Credo di no, poiché portava la borsa di una vecchietta che si strascinava al suo fianco. Sorrideva, e anche i suoi occhi sorridevano. Come se avesse compreso dove Io conducevano. Sapeva che Io stavano riportando a casa sua. Le altre vittime lo aspettavano già, laggiù, nel misterioso palazzo del re invisibile. Sapeva che gli avrebbero fatto cavalcare un nero de-
strierò che si sarebbe alzato molto in alto, sempre più in alto, per indicare al re gli incendiari in basso. E sapeva anche che non sarebbe mai più tornato nella città della mia infanzia. Così, venticinque anni dopo quell'avvenimento, io vi pongo la domanda: in che modo commemorare la sua morte e quella di un'intera comunità? Che cosa dire, fare? Quante candele accendere, quante preghiere ripetere e quante volte? Se qualcuno sa la risposta, quello non sono io. Io la sto ancora cercando. Continuo a non sapere come conservare viva l'immagine di una città che sono sempre meno sicuro d'avere conosciuto, Ecco perché spesso, parlandone, l'abbellisco, e spesso più di quanto sia lecito farlo. Non l'ho conosciuta nella sua bruttezza, ma in ciò che aveva di più esaltante: quale appariva ad un giovane ebreo per il quale i suoi contomi si sposavano al mondo della sua immaginazione. Ero troppo giovane per cogliere il senso delle conversazioni anodine delle persone; ascoltavo soltanto le loro preghiere. Ero troppo innocente per capire la fame e la miseria dei nostri mendicanti, lo strazio dei nostri sognatori, il supplizio dei nostri folli. Anche se adesso sono meno ingenuo, continuo a vederli come la mia fantasia me li dipinge: esseri di un paradiso dal quale era escluso tutto ciò che è umanoLi vedo ancora — e sempre li vedrò — camminare verso la stazione, le teste basse, le bocche aperte e contorte dalla sete. Camminano e camminano senza sosta, senza riposo, poiché i moni non hanno bisogno di riposo. Sono instancabili, i morti, e nessuna volontà può intralciare la loro marcia. Perfino l'angelo della morte è ormai senza alcun potere su di loro: essi sono più forti di lui, più forti di noi. E tutto quello che possiamo fare è guardarli camminare e raccontare la loro marcia, la storia della loro marcia che è la storia di una fine, una storia senza fine.
camminano e camminano, come verso un incontro nel tempo, e non nello spazio. Un incontro con chi? Per non offenderli, qualcuno dovrebbe aspettarli. Chi? Chiunque. Ma non dovunque. Solamente a Sighet. Ma Sighet non si trova solante a Sighet. Poiché questa città, inventata da loro, la portano con sé, dandole mille nomi e mille patrie. Ed essa li segue, ed anch'io li seguo da lontano, non osando avvicinarmi troppo. Seguo le loro tracce e mormoro dei salmi, poi mi metto a recitare il tjaddish una volta, dieci volte, cento volte -quante volte, ve lo chiedo, quante volte si deve recitare il qaddish per la mone di un'intera comunità inghiottita nelle proprie ceneri, quante volte bisogna ripeterlo per il venticinquesimo anniversario di questa morte? Non Io so, non lo saprò mai. Io so soltanto che è giocoforza inventare nuove preghiere, sia per i corpi che per le anime. Chiunque infatti vi dice che l'anima vola più in alto del corpo, fatelo tacere, non sa quel che dice. Non ha visto gli ebrei della mia città, gli ebrei di tutte le città come la mia, non ha visto Ì loro corpi diventare leggeri come il fuoco e le ceneri invadere il cielo.
DIALOGHI - I
Da quanto sei qui? Da ieri.
Da ieri soltanto? No. Da sempre. È come se fossi nato qui.
La parola « nascita » non è adatta a questo luogo. Questo vale per tutte le parole.
Eppure te ne servi. Sempre meno.
Ti stanca parlare? Non si tratta di questo. Le parole imprigionano, mentre io desidero evadere.
E ci riesci? A volte.
In che modo? Con delle immagini.
Quali? Quelle di una vita già vissuta.
Quando? Dove? A casa mia. Prima.
Allora, c'è stato un « prima », Sì. Credo. Lo spero.
E tu vi ritorni? Credo. Spero. Per far che cosa? Mangiare.
Tutto qui? Sì. Mangiare senza sosta. Con i miei genitori. I pasti dello Shabbat. Con gli amici, gli invitati, i mendicanti di passaggio. Pane bianco, pesce, legumi. Mangiare lentamente, molto lentamente. Masticare. Assaporare. Frutti, dolciumi. In abbondanza. Dal mattino alla sera. Non pensi che a questo? Non vedo che questo. E l'avvenire? Ci pensi mai? Sì. La minestra di questa sera, il pane secco di domani: è questo l'avvenire? Ma io ho già trangugiato la minestra col pensiero. Il pane l'ho già divorato. Non c'è più avvenire.
Chi sei? Un numero.
Il tuo nome? Sparito. Volato via. In cielo. Guarda il cielo nero, nero di nomi.
Non posso guardare il cielo. I fili spinati mi nascondono la vista, Io invece posso. Io guardo i fili spinati e so che quello che vedo è il cielo.
Ci sono dei fili spinati anche lassù? Certamente.
E tutto quello che si portano appresso? Tutto.
I torturatori? I carnefici? Le vittime che non hanno né la forza né la voglia di resistere, di sorridere alle ombre? È come qui, ti dico.
Allora siamo perduti. Soltanto noi?
Quanti anni hai? Quindici. O più. Forse meno. Non ne so nulla. E tu?
Cinquanta. Ti invidio. Sembri più giovane.
h tu più vecchio. Del resto, ci stiamo sbagliando, ne sono sicuro. Io ho cinquant'anni e tu quindici. Ti secca?
Affatto. Io o te, è la stessa cosa. Tutto è la stessa cosa. Tu, per caso, sai chi sei? No. E tu?
Nemmeno. Sei almeno sicuro di esistere?
No. E tu? Nemmeno io.
Ma Ì nostri volti? Cosa sono diventati? Maschere. Prestate a chi non ha volto.
Dormi? No. È tutt'altra cosa.
Sogni? Fai sogni a occhi aperti? Dai libero sfogo alla tua immaginazione? Ti vedi come un essere umano e soddisfatto? Now ne ho più la forza. Allora cosa fai? Hai gli occhi spalancati. Gioco. Fai cosa? Gioco. A cosa? A scacchi. E con chi? Non lo so. Chi vince? Ignoro anche questo. So solamente chi perde. Ehi, tu! Si direbbe che stai pregando. Errore.
Le tue labbra si muovono in continuazione. Questione d'abitudine senza dubbio.
Pregavi dunque tanto così? Tanto così e anche più.
Cosa chiedevi nelle tue preghiere? Niente.
Il perdono? Forse.
La conoscenza? È possibile.
L'amicizia? Sì, l'amicizia.
La possibilità di vincere il male e di allearti con il bene? La certezza di vivere nella verità, o di vivere e basta? Forse.
E lo chiami niente? Esattamente. Lo chiamo niente.
Eri ricco? Ricchissimo. Come un re. Cosa faceva tuo padre? Il commerciante. Lavorava sodo per guadagnarsi da vivere. Credevo che la gente ricca non lavorasse. Mio padre lavorava. Si alzava all'alba, andava a letto dopo mezzanotte. Mia madre lo aiutava. Lo aiutavamo tutti. Anche i bambini. Non avevamo scelta. Allora non era ricco. Sì. Nessun mendicante ci lasciava senza aver ricevuto un buon pasto, consumato alla nostra tavola, insieme a noi. Mia madre lo serviva per primo. Per le feste, la casa era piena di poveri: i nostri invitati di riguardo. Dove abitavate? In un palazzo. Grande, immenso. E bello. Lussuoso. Unico.
Quante camere? Tre. No, quattro. Si stava un po' pigiati, e non c'era acqua corrente. Però era ugualmente un palazzo.
vi tornerai un giorno;* Mai. Non esiste più, il palazzo.
Che conti di fare quando tutto questo sarà finito? Costruire una casa e riempirla di cibo. Poi inviterò tutti i poveri della terra perché vengano a condividere i miei pasti. Ma...
Sì? ...nessuno verrà, perché tutto questo non finirà mai.
Lo sai che sei fissato? Non hai che un'idea, un desiderio: mangiare a sazietà. Ho fame. Non è bello pensarci continuamente. Non è bello avere sempre fame. Vuoi dire che non c'è altro che conti? Non esiste altro. E le idee? Gli ideali? I grandiosi sogni dell'uomo che impone la sua volontà all'universo? Le gioie del vecchio che scopre il segreto dell'attesa? Te li dò in cambio di un boccone di pane. E Dio? Non parliamo di Dio. Non qui. Hai forse smesso di credere in lui? Non ho detto questo. Devo allora dedurne che la tua fede non ti ha abbandonato? Non ho detto neanche questo. Ho detto che rifiuto di parlarne, di parlarne qui. Dire sì, sarebbe mentire. Dire no, anche. Sono disposto, a rigore, a rivolgergli un grido di collera, un segno, un sussurro. Ma farne — qui — un soggetto di discussione teologica, questo noi Dio qui è la scodella di minestra che ti gettano in più, o invece ti rubano semplicemente perché l'altro, davanti a te, è più forte o più scaltro. Dio qui non è nelle frasi, umili o magniloquenti, è nel boccone di pane...
Che hai ricevuto o riceverai? ...ciò che non avrai mai.
Ti ricorderai di me? Te lo prometto.
Come farai? Non sai chi sono, io stesso non Io so. Non ha importanza: mi ricorderò della mia promessa.
A lungo? Il più a lungo possibile. Forse per tutta la vita. Ma... perché ridi?
Perché ti possa ricordare della mia risata, come pure del mio sguardo. Tu menti. Ridi perché stai diventando pazzo.
Benone! Ricordati della mia follia. Dimmi... sono io che ti faccio ridere?
Non soltanto tu. No, piccolo mio, non soltanto tu.
STORIA DI UNA PROMESSA
C'era una volta un povero visionario che voleva liberare i dannati dalla loro notte. Per costringerli a vivere, si era proclamato immortale. Non ricordo il suo nome e nemmeno la sua età; ricordo soltanto il suo viso e, soprattutto, i suoi occhi che sembravano divorarlo. Aveva il volto di un invasato e gli occhi di un santo, nemici l'uno dell'altro. Parlava e le sue labbra' si muovevano appena: la sua voce gli giungeva da lontano. Apparteneva a un uomo che, nella sua caverna, sfidava la montagna. Lo avevo incontrato da qualche parte, in un paese notturno, stregato, dove innumerevoli fantasmi, senza legami e senza destino, fuori del tempo e oltre la storia, costruivano un'immensa scala di Giacobbe, invisibile e a senso unico. Ai piedi della scala, ognuno attendeva il proprio turno per risalire lassù, purificato dai fuoco. Richiamato da Dio, l'uomo lasciava la terra. Era necessario ricominciare tutto da capo- La creazione aveva fallito; il sogno primitivo era degenerato in maledizione. Ma il nostro visionario non voleva crederlo. Pretendeva, lui, che ci trovavamo nel santuario del Messia. Mancava d'umorismo, ma non di immaginazione.
Era un Giusto, ma noi lo chiamavamo « il profeta ». Per affetto. Per prenderlo in giro, per provocarlo. Ignoro chi gli avesse affibbiato quel nomignolo e per quali motivi. Ignoro anche se gli piaceva o se lo irritava. So solamente che gli si adattava perfettamente. Il profeta si esprimeva come un profeta. SÌ attribuiva il potere di far rivivere il passato di ognuno, ci restituiva le nostre case e i nostri ricordi. Eppure Ì suoi racconti, che ascoltavamo in silenzio, la gola stretta, si riferivano sempre all'avvenire. Il fatto è che avevamo bisogno di avvenire. Alto, emaciato, scarno, la sua presenza ci rassicurava, ci dava pace. Dicevamo: se questo corpo è capace di sopportare tante prove, anche il nostro lo sarà. Lavorava come tutti e come tutti soffriva il freddo, la fame e la crudeltà dei sorveglianti. Non l'ho mai sentito lamentarsi. Ci sorprendeva per il suo buon umore, la sua vitalità. Da dove traeva la sua forza, la sua fede? Non ne sapevamo nulla. Ignoravamo anche da dove fosse venuto e cosa facesse prima della guerra. Conosceva troppe lingue, troppe cose e troppi paesi: ci disorientava. Avrebbe potuto essere originario della Polonia, della Lituania o di Salonicco: medico o scienziato, rabbino o alchimista, mendicante o filologo. Tutti i gruppi etnici lo rivendicavano, ed egli rivendicava tutti i mestieri. Quando gli facevamo qualche domanda, la eludeva sorridendo: « II mio passato non vi dovrebbe interessare, ciò che conta è il mio avvenire ». Gli perdonavamo il suo gusto per il mistero. Lo amavamo troppo per rimproverarglielo. I suoi segreti, le sue debolezze non ci riguardavano. Gli eravamo grati per ciò che faceva a viso scoperto, in quel presente che si accaniva a rendere sopportabile. Lo amavamo perché rispondeva ad ogni appello, perché combatteva il male e voleva essere umano in un universo che negava l'umano — e non se ne vantava mai. Sfuggiva Ì ringraziamenti. Diceva: « Ciò che
taccio, lo taccio a nome vostro, non sono che il vostro messaggero ». Oppure: « Ma non avete capito niente! È grazie a voi che sono quello che sono; siete voi che avete diritto alla mia gratitudine! ». Lo amavamo perché ci esortava alla dignità e al coraggio, alla fraternità delle vittime e al loro dovere di sopravvivere. Per questo rispettavamo il suo riserbo, i suoi silenzi. La sua solitudine era affar suo dopotutto. Fino al giorno in cui, trasfigurato, ci annunciò che aveva deciso di rivelarsi al mondo che non Io aspettava più. Era un sabato d'autunno. Un sabato di sangue. Stavamo eseguendo i nostri lavori di sgombero nell'officina che era stata bombardata il giorno prima. I padroni schiumavano di rabbia e si vendicavano sugli schiavi. II direttore del cantiere, indicando le macerie, ci lanciò un breve avvertimento: « Non rallegratevi troppo presto. Questa guerra sarà vinta un giorno, ma non da voi ». I guardiani si incaricarono di dimostrarcelo immediatamente assalendoci con ferocia. Colpivano nel mucchio. Il nostro gruppo ebbe tre morti e nove feriti. Il morale non era mai stato così basso. Lottare ci sembrava ormai del tutto inutile. Non saremmo stati più lì per festeggiare la disfatta della Germania. Sfiniti, col cuore greve, sentivamo avvicinarsi la fine. Non ne potevamo più. Non così il profeta, I colpi non lo avevano intaccato. Sebbene contuso, camminava eretto, la fronte alta, l'occhio duro. Andava dall'uno all'altro, pieno di brio, e ci supplicava di tenere duro, di non perdere la speranza. Invano. Non avevamo la forza di ascoltarlo. La sera, dopo l'appello, ci fece sedere sulle cuccette, mentre lui, in piedi nello stretto corridoio, ci predicava la resistenza: « Ebrei, fratelli miei, ascoltatemi. È tutto quello che vi chiedo: non rifiutate le mie parole. Non abbiamo il diritto di non sopravvivere. Chi testimonierà per noi se
non noi stessi/ Uà quale notte scoccnerà la scintilla se non dalla nostra? Un giorno bisognerà raccontare tutto, e nessuno parlerà al posto nostro. Bisognerà urlare contro Ì pazzi della morte; nessuno urlerà al posto nostro. Ora il giorno è vicino, la liberazione è in vista, ve lo dico io, ve lo prometto. Per l'amor del cielo, amici, non lasciatevi abbattere. Per l'amore della vita, fratelli, non rassegnatevi a subire la legge del carnefice; avete il potere di schernirla, di revocarla. Non arrendetevi. Aggrappatevi a me. Io vi dò l'avvenire, il mio, il vostroTenete duro, vi dico! ». La prima volta, la sua esortazione cadde nel vuoto. « E che! — esclamò indignato — non avete fiducia in me? Vi ho mai mentito? ». Qualcuno cercò di calmarlo: « Perdonaci, non è colpa nostra, e neanche tua; non ne possiamo più ». Un altro aggiunse: « L'avvenire che tu ci offri, i tedeschi lo hanno già avvelenato ». E un terzo: « Povero profeta, è proprio così; la profezia tedesca batterà la tua. Saremo tutti liquidati- Dio stesso non potrebbe aiutarci. Anche lui è impotente contro la morte ». Al che, il primo, tenne a replicare: « Impotente, dici? Balle! Dio è la morte! Ecco perché siamo tutti perduti. Non è vero, profeta? ». Questi abbassò il capo e restò a lungo in silenzio. Non potei reprimere un senso di pietà per lui: avrebbe voltato pagina, sarebbe rientrato nei ranghi? Apparentemente sì. Vinto, non ci avrebbe più consolato. Pensavo: lo abbiamo rinnegato. Dopo un interminabile silenzio, si raddrizzò con un movimento brusco; non era più lo stesso. Convulso, fremente di collera, con i tratti del volto alterati, volse uno sguardo febbrile sul suo pubblico il quale, con aria assente, non aspettava che la sua partenza per ripiombare nel conforto del torpore. Apatici, aspiravamo all'oblio, al vuoto. Un solo desiderio: cadere nel precipizio. Non pensare
più, non accumulare più progetti e miracoli gli uni più insensati degli altri, finirla con l'angoscia opprimente, soffocante, che essi generavano. Affogare nelle acque opache di un fiume che non sbocca in alcun mare. Morire prima del corpo. « Vi rifiutate di capire! », riprese improvvisamente con foga il nostro oratore. Nessuna reazione. Incapaci di capire, avevamo fretta di vederlo andar via. E poi, cosa c'era da capire? Pensavo: il narratore di storie non ha più storie da raccontare. Sembrò darmi ragione. Ebbe un gesto di stizza e, senza abbandonarci con lo sguardo, cominciò ad indietreggiare verso l'uscita, fermandosi ad ogni passo, certo che lo avremmo comunque richiamato. Non eravamo Ì suoi amici, Ì suoi fratelli? No. Muti, lo seguivamo con lo sguardo e nessuno lo pregò di tornare indietro. Ma lui tornò. « Vi rifiutate di capire, ripetè con tono ferito ma più dolce. E va bene, vi costringerò io a farlo. Sarà facile. Del resto, non mi lasciate scelta ». DÌ colpo, ogni traccia di collera era scomparsa dalla sua voce, grave e melodiosa; egli tornava ad essere il profeta, evocatore della promessa. Misurando a grandi passi il passaggio tra le cuccette, le mani annodate dietro la schiena, ci confidò la sua visione segreta: « Quando la disgrazia colpisce una delle nostre comunità disperse, è il popolo nel suo complesso che viene colpito- II nemico che ci attacca non mira soltanto ai saggi miopi, ai sonnambuli, ai commercianti o ai clienti. Chi dà la morte ad un ebreo, cerca di annientare tutti gli ebrei. Banchieri e rabbini, scribi e vagabondi, vecchi e bambini: noi rappresentiamo delle ferite nel corpo di Israele. Oscillando tra due assoluti, quello della vita e quello della morte, l'ebreo impegna con la sua scelta tutto il suo popolo. Per lui tutto è segno, e ogni segno è destino. Finché è in vita, finché uno di noi è in vita, tutto è ancora possibile... ».
Parlava, parlava, ma noi continuavamo a non capire. Dovette rendersene conto, perché si fermò e riprese con tono diverso: « Le nostre prove ci situano a livello della Storia; a noi superarla. Pensate al Messia che ne è il simbolo. Voi lo collocate in cielo, ed egli si trova tra noi. Voi lo immaginate al sicuro, al riparo, ed egli ha raggiunto le vittime. Sì, anche luì. soprattutto lui conosce il dolore che vi consuma, il pugno che vi schiaccia: la notte che ci imprigiona è anche la sua notte. Ed è lui, presente, che vi chiede di non disperare. È lui che ha bisogno di voi. Non lo abbandonate, Abbiate pietà di lui, lo merita. Non l'abbandonate. Fate che non debba ritrovarsi l'unico sopravvissuto del suo popolo ». Travolto dalla sua visione fattasi selvaggia, citò testi e leggende del Talmud: « Sta scritto: che l'umanità raggiunga l'innocenza o la colpevolezza totale, e il Messia farà la sua apparizione, Ebbene, essa è colpevole e noi ne siamo testimoni. Nessuno può pretendere di essere innocente. Noi costituiamo la prova irrefutabile che l'uomo ha tradito la propria immagine, la propria missione; ci incombe dunque l'obbligo di proclamare la fine del suo regno. Già a nostra insaputa è stata proclamata. Siamo gli emissari di una nuova era. Presto riecheggerà il suono dello shofar che dissiperà le tenebre- Si tratta quindi di resistere un giorno, una settimana, un mese, e assisterete al sorgere dell'alba; e gli uomini, in ginocchio, ci chiederanno perdono: sono io che ve lo prometto, è LUÌ che ve lo dice ». Eh si. parlava bene. Come il solito. Le frasi si susseguivano, si spezzavano, si infiammavano. Ma adesso restavamo insensibili alla loro bellezza: esse si spegnevano cammin facendo, e ricadevano in cenere prima di averci raggiunti. « La vostra incredulità non mi sorprende — concluse con tono per metà doloroso e per metà canzonatorio —. Me l'aspettavo. Ma mi state ascollando; per il momento, questo
mi basta. Perciò vi rivelerò una verità che non potete rifiutare: sapete perché mi chiamate profeta? Perché lo sono ». Quella notte, nei miei sogni, lo sentii ridere e piangere; ignoravo perché. Naturalmente, non avevamo preso sul serio il suo discorso. LUÌ sì. Se stava recitando una parte, nessuno lo sapeva, comunque la recitava fino in fondo. Assumendosi il suo ruolo, ci associava ad esso; spettatori o complici, non potevamo fare a meno di vederlo all'opera. SÌ occupava dei malati, si offriva volontario per i lavori peggiori, divideva il suo pane con chiunque glielo chiedesse: si prodigava senza sosta e non viveva che per gli altri. Alcuni Io ammiravano, altri lo compiangevano. Quando passava, le conversazioni morivano- La gente si scambiava strizzatine d'occhio e mor-morii; poveretto, sta perdendo la testa' I suoi amici, sempre più preoccupati, l'imploravano di ritornare in sé, di non buttarsi via inutilmente: tentare il destino è un peccato. Alzava le spalle e raddoppiava di zelo. Lungi dall'evitare l'eccesso, lo cercava. Gli chiedevo: « Perché affronti tanti rischi? ». Rispondeva: « Io non rischio nulla ». « Non temi la morte? ». « Perché dovrei temerla? DÌO solo mi fa paura. Alla morte quasi non ci penso ». « Ma che cosa speri di dimostrare? ». « Che non sono un bugiardo ». La fortuna che lo assisteva ci affascinava e divenne oggetto di scommesse: gli scettici perdevano sempre. In effetti il profeta sembrava indistruttibile. Un giorno ebbe a che fare con il kapò più temuto del campo, Hansil-Boia, il quale sosteneva che gli era stata rubata una scatoletta di marmellata. Proferendo minacce ed ingiurie, esigeva dalla baracca che il colpevole fosse denunciato, altrimenti sarebbero stati puniti tutti. Il profeta uscì dalla fila: « Sono io ». Allibito, Hans Io fissava senza capire. « Sì, sono io il ladro », riprese il profeta senza batter ciglio. Il boia si riscosse: « E il barattolo? - ruggì - dov'è
il barattolo? ». « L'ho mangiato », disse il profeta calmissimo. I due uomini si squadrarono a lungo. Hans corrugò la fronte. Brutto segno. Trattenni il fiato e chiusi gli occhi. Li riaprii immediatamente; Hans stava venendo meno alla propria leggenda. Si torceva dalle risate; « Tu menti! Questo furto, me lo sono inventato! La scatoletta di marmellata è nell'armadio! Vieni, te la faccio vedere! ». E gli fece dono della vita e di un grosso pezzo di pane. Non sapevamo più cosa pensare. La selezione d'inverno ebbe luogo poco tempo dopo. Per il profeta fu la prova ultima e fatale. Il medico militare lo giudicò inabile al lavoro. La notizia sconvolse il campo, che decise di venire in suo aiuto. Fu creato un comitato speciale. Aveva una settimana per tentare un'operazione di salvataggio- Una settimana per organizzare una colletta, avvicinare persone influenti, comprare complicità, stabilire un piano e metterlo in atto. Azione di solidarietà di una portata senza precedenti negli annali del campo: vi parteciparono più di cento persone. Mai tanti sforzi erano stati fatti, e da tanti detenuti, per salvare un solo ebreo. Perché lui? Perché era amato da tutti: ciascuno gli doveva un momento di tregua, un gesto di gratitudine. E anche perché, oscuramente, sentivamo che rappresentava la nostra unica possibilità di superamento. Salvando lui, era la nostra probabilità di sopravvivenza che speravamo salvaguardare. Continuavamo a non credere ai suoi doni e poteri profetici, ma ci comportavamo come se da quelli dipendesse la nostra sorte, In quanto a lui, prendeva la cosa alla leggera. Sapeva che stavamo facendo tutto il possibile per ricuperarlo? Sì. E questo lo divertiva. Prima di noi, e meglio di noi, si era reso conto che i nostri tentativi sarebbero finiti in un fallimento; la sentenza era senza appello. Sette giorni dopo la selezione, in un mattino sereno, il profeta ricevette l'ordine di restare nella baracca: per quel
giorno era dispensato dal lavoro. Sapevamo cosa voleva dire. Anche lui lo sapeva. I suoi amici avevano le lacrime agli occhi. LUÌ no. Fino all'ultimo momento esercitava, nei nostri riguardi, il suo ruolo di consolatorc. Sorrideva, dicendoci addio; « Non piangete, potrebbe indebolirvi. Di due cose l'una; o sono io, o sono Lui. In entrambi i casi, una cosa è certa: Lui non vi lascerà. Allora, perché piangere? », Qualcuno ebbe il tempo di domandargli: « Tu dici; Lui. Di chi parli? ». Il profeta non ebbe il tempo di rispondergli. Ci lasciò. Non l'abbiamo più rivisto. Ancora non so a chi si riferiva. Mi domando se lo saprò, un giorno. Spesso penso a lui. Mi capita ogni volta che sento il canto chassidico 'Ani Ma'amin, che proclama la fede dell'ebreo nella venuta del Messia. Quando ero bambino, ci credevo con fervore. Ci credo ancora, ma è soprattutto per ritrovare quel fervore. Se consideriamo i fatti, la promessa formulata dal profeta, la sera della sua « rivelazione », è stata mantenuta: tutti noi che eravamo intorno a lui, noi, siamo sopravvissuti.
PAGINE DI UN DIARIO Per Jean Halperin Vicinissime al luogo dove abito, all'angolo della 101" strada, fra Broadway e la West End Avenue a Manhattan, c'è un modesto oratorio chassidico — uno Shitbel — che mi ricorda i luoghi di preghiera della mia infanzia. Salvo che, qui, le funzioni si svolgono nel sottosuolo. I fedeli che vi si riuniscono sono per la maggior parte degli scampati. Originar! di Varsavia e dintorni, hanno vissuto nelle loro carni le ore della sua agonia. Tutti hanno conosciuto la realtà concentra-zionaria. Ne parlano soltanto durante le feste. E ascoltandoli capisco ciò che Rabbi Nachman di Brafi-slava intendeva dire quando espresse il desiderio che i suoi racconti fossero trasformati in preghiere.
Pasqua
Caffettano nero, feltro nero, sguardo luminoso dietro gli occhiali di tartaruga: Reb Avraham Zemba appartiene al mondo dei miei ricordi, se non altro per il suo modo di vestire. Amabile, direi amichevole, non vi rivolge la parola se non per condividere con voi un commento tratto dallo Sfat-Emet o dal Khidushei-Harim, pilastri del chassidismo di Guer. Non lo si vede pregare che di spalle. A volte, si indovina il fremito che Io percorre. Qui, il settimo giorno di Pesah recitavamo tutti il qad-dish, mi disse. Era il giorno del nostro arrivo a Treblinka. Eravamo stati tra gli ultimi a lasciare il ghetto in fiamme. In piena rivolta, sotto terra, sotto le macerie, avevamo nonostante tutto celebrato il Seder. Cantando.
E dopo un silenzio: — Il Midrash racconta che Rabbi Hanina ben Dossa pregava con tanto fervore che, senza accorgersene, gli capitava di afferrare una grossa pietra e di trasportarla altrove, Non conclude la leggenda. Ma c'è nei suoi occhi una pena così profonda ed un fervore così antico, che comprendo: quella pietra di Rabbi Hanina ben Dossa pesa adesso su di lui. Lo schiaccia con il suo peso e, se prega, non lo fa neppure per liberarsene. Pentecoste
Festa che commemora la rivelazione sul Sinai. L'incontro del popolo di Israele con il Dio e la Toràh di Israele. Ascoltiamo la lettura dei dieci comandamenti in piedi: non ruberai, non ucciderai. Naturalmente, sono sempre le vittime che li ripetono. Al termine della lettura, secondo le usanze, uno dei fedeli lancia un appello in favore dei talmudisti bisognosi. Oggi se ne incarica Yosseph Friedenson. Magro, febbrile, appassionato, questo militante ortodosso — redattore di un mensile in yiddish, ad alto livello — improvvisa una commovente arringa: — DÌO ha dato la Legge una sola volta — dice ~ ma ci chiede di riceverla ogni giorno. E noi, in cambio, Jion chiediamo che di esserne degni. Si interrompe per schiarirsi la gola, poi: — In linea di massima, per rispettare la tradizione, dovrei adesso decantare i meriti della Toràh. Non lo farò, sarebbe superfluo. La storia contemporanea lo ha già fatto. Essa costituisce una prova irrefutabile del fatto che, fra tutti i sistemi, tutte le ideologie, la Toràh è l'unica che non ha tradito l'uomo. Non ha prodotto né campi di concentramento, né fabbriche della morte. Questo vale anche per coloro che la rivendicano. Essi non provocano né sommosse razziali né disordini sociali, non incitano all'odio, al disprezzo. Non considerano l'uomo un oggetto o un ostacolo.
Non accusano nessuno né esigono vendetta alcuna. Hanno un solo desiderio: approfondire lo studio della Toràh, dedicarvi tutto il loro tempo. Ma non ne hanno Ì mezzi. Sta a noi aiutarli. Non sapranno da dove viene il denaro e noi non sapremo a chi sarà consegnato. Anonimato indispensabile per gli uni e per gli altri, affinchè non ne traggano né vanità né rimorsi... Strana colletta- Vi partecipano tutti. Eppure tutti qui, senza eccezione, hanno appena quanto basta per arrivare alla fine della settimana. La loro generosità mi ricorda un'umanità che non esiste più. Anno Nuovo
.. .Eravamo nel 1944. Fu deciso di organizzare un minyan, un servizio comune. Decisione pericolosa che avrebbe potuto trasformarsi in un disastro. Ma volevamo assolutamente accogliere l'Anno Nuovo come facevamo in passato, aggregandoci con la forza e la concentrazione dei nostri slanci. E i fili spinati? Li avremmo ignorati. E i carcerieri? Saremmo stati capaci di sfidarli. E la funzione ebbe luogo in una baracca colma da un capo all'altro. Perfino i kapò, perfino quelli che non credevano, in un raro slancio di solidarietà, tennero ad assistervi. Scovammo un cantore che ricordava il servizio liturgico a memoria. Lo recitò a voce alta, e il pubblico ripetè ogni versetto. La pena che provavamo per la nostra situazione era così grande che avevamo voglia di piangere. Ma riuscivamo a controllarci- Era necessario farlo, SÌ andò avanti cosi per un pezzo. Poi un uomo, mezzo curvo, non ne potè più e si lasciò andare. Un attimo dopo tutti singhiozzavano insieme a lui. Ricordavamo i parenti e i compagni del tempo in cui l'Europa ospitava rabbini e discepoli, mille sinagoghe e milioni di fedeli. Ricordavamo il tempo in cui la famiglia significava presenza e non lacerazione. Piangevamo sui morti e sui vivi, sulle case distrutte e le sinagoghe saccheggiate; piangevamo senza ritegno e senza speranza, e
sembrava che avremmo continuato a piangere così fino alla fìne di tutti gli esili, fino all'ultimo sopravvissuto... Improvvisamente dall'assemblea emerse un detenuto e cominciò a parlare: « Fratelli, ascoltatemi. Questa sera è Rosh-Hashanah, eccoci alle soglie di un nuovo anno. Anche se siamo tutti affamati, in lutto e pazzi di dolore, ritroviamo le nostre abitudini e i riti di una volta. Allora, dopo la funzione, andavamo ad augurare buon anno ai nostri genitori, figli e amici. Dove sono? Lo ignoriamo, o piuttosto lo sappiamo, il che è peggio. Pronunciamo ugualmente i nostri voti; Dio li trasmetta a chi di diritto ». Allora l'assemblea, come un sol uomo, gridò con forza, quasi volesse scuotere cielo e terra: buon anno, buon anno! E l'oratore seguitò: « Prima di separarci, dovremmo, sempre secondo l'uso, fare qiddush, benedire il pane e santificare il vino- Non abbiamo pane; quanto al vino, i nostri nemici ne sono ubriachi. Non ha importanza, prendiamo le nostre gavette e lasciamo colare dentro le nostre lacrime. In questo modo faremo giungere il nostro qiddush davanti a Dio e ai suoi messaggeri sulla terra », ...E adesso, dopo molti anni, in questo modesto oratorio chassidico, vicinissime a casa mia, osservo lo stesso oratore — Shimon Zucker — che si dondola avanti e indietro, durante lo stesso servizio di RoshHashanah. E mi dico che un giorno avrò il coraggio di andare da lui per sentirlo santificare il vino e benedire il pane. Grande Perdono
Questo racconto l'ho sentito da un ebreo anziano e triste: — La sera di Yom Kippur i morti e i vivi si mescolano gli uni con gli altri. Non ci credi? Superstizione, dici? Anch'io ero come te. E tuttavia...
È l'ultimo Yom Kippur di guerra. L'intero campo ascolta il cantore ripetere tre volte l'invocazione solenne del Kol Nidré. Segue la funzione di Ma'ariv, e quindi il Widduy, la confessione che enumera peccati e violazioni che un mortale potrebbe commettere o immaginare dalla nascita alla morte. Giunti a metà dell'enumerazione, scoppia un incidente. Un detenuto scarno, dal volto color cenere, spinge da parte il cantore con una gomitata brutale e si rivolge all'assemblea; « Fratelli, non vi permetto di mentire! No, noi non abbiamo peccato, non abbiamo tradito, non abbiamo derubato i nostri simili. Questa sera, per la prima volta dalla creazione siamo giudici e non imputati! Siamo noi che pronunceremo la sentenza! Altrimenti mancheremmo al nostro dovere! ». Un uomo, alla mia destra, mi stringe il braccio: « È... è lui! », mi sussurra, terrorizzato. Sulla punta dei piedi, osservo il detenuto che ha appena parlato e a mia volta sono colto da stupore. Lo conosciamo. Siamo dello stesso cantiere. E ieri, prima di tornare al campo, uno degli aguzzini lo ha ucciso. Il suo cadavere era stato riportato al campo e deposto davanti alla sua baracca, per l'appello. « Torno da lassù, dice, indicando il cielo con il dito. Conosco la verità. Ci hanno preso tutto. Hanno ucciso in noi perfino il gusto della gioia. Se, fin all'origine dell'avventura umana, vi sono stati uomini spogliati di ogni legame terreno, quelli siamo noi- Hanno soffocato in noi perfino la capacità di fare il male. Osserviamo tutti Ì comandamenti. Non uccidiamo, non desideriamo con bramosia, non siamo né spergiuri né ipocriti. Non assomigliamo ai nostri carnefici che invece uccidono l'uomo, e non fanno che questo, E allora, fratelli, vi domando: perché addossarci i loro crimini? Abbiamo il coraggio di proclamare la nostra innocenza, ed anche la nostra determinazione di sedere in tribunale... ». Passato il primo spavento, lo fanno tacere. Il cantore, livido in volto, ricomincia il Widduy dall'inizio. E i condan-
nati pronunciano con lui le formule rituali, menzognere, cercando di dimenticare l'interruzione. Ci dichiariamo colpevoli, e forse pensiamo di esserlo. Forse sentiamo la necessità di saperci colpevoli, perché, altrimenti, vorrebbe dire che Dio non sa quello che fa, non fa quello che vuole. Nonostante il filo spinato, e a causa di esso, ci sforziamo di credere che Dio esiste e che, nel suo libro, tutto è scritto, pesato, rettificato e compiuto. Terminata la funzione, scorgo il redivivo tornare alla caricaPercorre le file, si agita come un forsennato, supplica i compagni di non ripudiarlo, di unire i loro sguardi al suo, la loro fede alla sua collera. Lo respingono. Uno gli dice: « Pretendi di essere morto? I morti non ci fanno più alcun enetto », E un altro: « Dimentichi dove ti trovi. Dimentichi che la tua verità è anch'essa mona ». E un terzo: « Rinnegare Dio, qui, non richiede alcun coraggio, è persi-nò troppo facile, ammettilo! ». Sopraffatto dalla generale incredulità, il nostro compagno risale in cielo. Là Io trattano da indesiderabile. Lo informano che non lo vogliono più. Ha rivelato cose che non devono essere rivelate. Lo rispediscono sulla terra. E se viene alla funzione del Kol Ntdre, è per riscattarsi. ...Il vecchio ebreo ha terminato il suo racconto. Gli domando: — Quel morto-in-collera, chi era? Che ne è stato di lui in seguito? Gli occhi del mio interlocutore cambiano colore, cambiano espressione, ma rimangono vitrei: — Come osi? — esclama, visibilmente ferito. E si mette ad insultarmi, ad umiliarmi perché sono « troppo giovane per sapere tutto », Shabbat
Udito dallo scrittore israelita Moshé Prager: — Nei campi di concentramento c'erano dei kapò tedeschi, polacchi, ungheresi, cechi, sloveni, belgi, ucraini, fran
cesi e lituani. Erano cristiani, ebrei, atei. Erano stati universitari, industriali, artisti, commercianti, operai, militanti di sinistra e di destra, filosofi e esploratori dell'anima, marxisti e umanisti convinti. E, naturalmente, criminali comuni. Ma neppure uno era stato rabbinoPreghiera
Non ti chiedo più la felicità e nemmeno il paradiso; ti chiedo solo di ascoltarmi, e che io ne sia cosciente. Non ti chiedo più di risolvere i miei problemi, ma di accoglierli e farli tuoi. Non ti chiedo più il riposo e la saggezza, ti chiedo soltanto di non chiudermi alla gratitudine, anche quotidiana, alle sorprese e all'amicizia. L'amore? Non sta a te darmelo. I miei nemici, non ti chiedo di punirli, e neppure di illuminarli; ti chiedo soltanto di non prestar loro la tua maschera e i tuoi poteri. E se devi cedere loro l'una o gli altri, dà loro i tuoi poteri. Non i tuoi volti, Le mie richieste non sono esagerate. Anzi sono umili. Ti chiedo ciò che chiederei ad uno straniero incontrato al crepuscolo su una terra inospitale. Io ti chiedo. Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, fa' che sia capace di pronunciare queste parole senza tradire il bambino che me le ha trasmesse: Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, fa' che riesca a perdonarti, fa' che acconsenta, lui, a perdonarmi. Non ti chiedo più la vita per quel bambino, e nemmeno la fede. Ti imploro solamente di ascoltarlo e di far sì che io possa ascoltarlo insieme a te. Pesta chassidica
Ieri, sabato, ho assistito a un ricevimento inaspettato in onore di un giovane universitario che frequenta questo oratorio per gli stessi miei motivi: ama e ammira questi miraco-
Iati di un'altra età che si battono e contro l'oblio e contro la tristezza. L'officiante aveva già iniziato il servizio quando uno dei fedeli si avvicinò al capo della piccola comunità — Reb Leibele Cywiak — e gli bisbigliò qualche parola all'orecchio; « Sembra che il giovanotto si sposi questa settimana ». Il servizio viene interrotto e tutti Ì hasidim circondano il fidanzato per felicitarsi con lui e porgergli Ì loro auguri. Burbero, il rabbino Cywiak finge di essere offeso: — Perché non hai detto niente? Prima di tutto la tradizione esige che tu venga chiamato alla Toràh. In secondo luogo, se lo avessi saputo, avrei organizzato un ricevimento, un qiddush in piena regola. Ma hai voluto privarci di questo piacere- Non è bello, giovanotto, non è bello per niente. — Ma... perché importunarvi? Dopotutto... — Importunarci hai detto? Lo avete sentito, amici? Ci priva di una buona azione e vorrebbe anche essere ringraziato. È così, mettendoci di fronte ad un fatto compiuto, che ci importuni... non è bello, ripeto, non è bello per niente... — Perdonatemi... Non è importante... Ho orrore dei ricevimenti... — Egoista! Non pensi che a te stesso! E noi? Non contiamo più nulla? Sta scritto... — Non sta scritto da nessuna parte che si debba festeggiare il fidanzato prima del matrimonio. Durante e dopo, sì. Prima, no. Lo osservo dal mio angolo: è turbato ma si controlla bene. Sembra un po' impacciato, intimidito, tutto qui- Imbarazzato. Di fronte all'esuberanza del rabbino, deve fare uno sforzo per non arrossire. Arrossisce lo stesso. Scorgo il famoso pensatore A.-J. Heschel che, anche lui, sta osservando il fidanzato. — Perché quest'aria malinconica? — Vedo questo giovanotto qui e lo ambiento altrove, risponde. Se non ci fosse stata la guerra...
— Ma la guerra c'è stata! — ...Lo so, lo so. Ma a volte, in sogno, soffoco l'incendio in tempo. Mi ritrovo proiettato nel passato. Ricordo. Le usanze di una volta. Il sabato che precedeva il matrimonio, tutta la città accompagnava il fidanzato alla sinagoga. Trattato come un principe, gli veniva concesso il posto d'onore. Chiamato alla Toràh, ci si alzava al suo passaggio. Dopo aver recitato le preghiere d'uso, riceveva sulla testa una grandinata di nocciole, uva secca ed altri dolciumi, lanciati da ogni parte: auguri e simboli di abbondanza. Poi veniva ricondotto a casa sua in pompa magna. Per ore si cantava, si danzava e si beveva in suo onore. Gli anziani raccontavano delle storie, i trovatori componevano poesie. Adesso invece... — Che volete, risposi al posto del fidanzato, i tempi sono cambiati, ed anche le usanze. Abbiamo disimparato a fare appello alla gioia, al fervore. Entrambi rimaniamo silenziosi. Sappiamo che il giovane universitario ha perduto i genitori. Sarebbe meglio lasciarlo ai suoi pensieri. Nel frattempo s'è fatto tardi. SÌ continua il servizio interrotto. Ma Reb Leibele Cywiak e i suoi confidenti, appartati in un angolo, tengono consiglio; — E che? Se ne andrà via così, senza niente? — A mani vuote? — Inconcepibile... — Inammissibile... — Potremmo combinare... — ...un ricevimento? In un'ora? E per di più nel giorno di Shabbat? È impossibile... — Eppure.,, II giovanotto non è un frequentatore abituale dell'oratorio, ma ha diritto ai riguardi e agli onori dovuti alla sua situazione, I hasidim di Guer non usano fare discriminazioni. Tutti i figli di Israele sono uguali, devono essere amati allo stesso modo e, se è necessario,
bisogna dimostrarglielo.
— Bene — taglia corto il rabbino — non vi angustiate. Ce la caveremo. Non sia detto che le nostre tradizioni vadano perdute. Tracagnotto e agile, si toglie lo scialle rituale e scompare dietro la porta che conduce al suo appartamento privato. Dopo circa mezz'ora è di nuovo tra noi, più radioso che mai. Rapidamente riprende la funzione. SÌ è già alla lettura della Toràh. Da regista coscienzioso fa in modo di comunicare le sue istruzioni segrete ai presenti, senza che il personaggio principale se ne accorga. Secondo l'usanza, questi viene chiamato per ultimo alla tribuna. Recita la benedizione di chiusura quando, all'improvviso, ubbidendo ad un cenno del rabbino, gli astanti fanno parecchi passi indietro. Il fidanzato si ritrova solo. Smarrito, spaventato. Poi il suo volto assume un'espressione di profondo e doloroso stupore, poiché da ogni Iato piovono su di lui nocciole e uva secca, come un tempo, come se vivesse ancora in un mondo protetto da suo padre. Lo vedo chiudere gli occhi, e vedo anche il fremito che increspa dolorosamente il loro velo. Senza dubbio vede quello che la mia immaginazione mi riporta da un passato irrimediabilmente finito. Certamente si rende conto di ciò che ormai ci separa da esso. Tra un secondo avrà abbando-. nato la lotta: scaturite dalla sorgente del suo essere, le lacrime, così lungamente trattenute, scorreranno liberamente. No. Non qui. Non adesso, sembra ripetere a se stesso per darsi un contegno. Né qui, né altrove. Né mai. Pensa ad altro, distogliti dal presente. I tuoi nervi, i tuoi muscoli, non li rilassare. Attenzione. Stringi i pugni fino a scoppiare, mordi le labbra fino a farle sanguinare: nessuna lacrima sarà versata. Che diamine, non hai allenato la tua volontà Ìn tutti questi anni per giungere a questo, o no? Contratto, a prezzo di uno sforzo che spera di riuscire a nascondere, legge la Haftarah e canta le benedizioni senza che la voce lo tradisca una sola volta.
Compiuto il suo dovere, si ritira nel suo cantuccio dove rimane per tutta la seconda parte del rito- Più solitario di prima, mi sembra anche più pallido: lo sforzo deve averlo esaurito. Ma la storia non finisce qui. Dosando le sue sorprese, Reb Leibele Cywiak invita tutti a un ricevimento improvvisato, Appena si prende posto a tavola e già vengono serviti vini e liquori, vodka e tutto ciò che si ha diritto di aspettarsi Ìn una festa chassidica. Qualcuno esclama: « Rabbi Cywiak, non sapevamo che foste capace di compiere miracoli! ». E l'ospite, fiero della propria prodezza, risponde: « II perpetuarsi di una tradizione, ecco il vero miracolo! ». Si riempiono i bicchieri, si beve alla salute del fidanzato, alla sua futura felicità, si sgrana una canzone dietro l'altra. Quasi come una volta, quasi come laggiù, dall'altra parte della guerra. Ciò non toglie che il giovanotto, silenzioso e taciturno, respiri profondamente, pesantemente, come per calmare il suo cuore che batte da spezzarsi; gli manca l'aria, nuota in un bagno di sudore. Senza dubbio pensa agli assenti, poiché una nube vela la sua fronte, il suo sguardo. Se riposassero da qualche parte, andrebbe, secondo la tradizione, ad invitarli al matrimonio. Ma non sa dove andare. A tavola, i convitati si danno tuttavia da fare per tenerlo allegro. Straripanti di zelo, alcuni Io punzecchiano per rompere il suo mutismo. Altri gli parlano a voce bassa. Reb Leibele Cywiak esige il silenzio; — II Rabbi di Guer — la sua santa memoria ci protegga — interrogò un giorno uno dei suoi adepti: « Come sta Mo-shé-Yakov? ». L'interpellato non lo sapeva. « Come? — esclamò il Rabbi —. Non lo sai? Preghi insieme a lui sotto lo stesso tetto, studiate gli stessi testi, servite lo stesso Signore, cantate gli stessi cantici, e osi dirmi che non sai se Moshé-Yakov è in buona salute, se ha bisogno di aiuto, di consiglio, di conforto? ». Ecco la sostanza della nostra vita chassidica, concluse il padrone di casa. Essa esige che cia-
scuno partecipi alla vita degli altri, e non lo lasci solo né nello sconforto né nella gioia. Uno sguardo furtivo verso l'ospite d'onore : non l'ho mai visto così teso. Nel seminterrato c'è buio, ma ha messo gli occhiali scuri. Ha Ì tratti del volto disfatti, i nervi scoperti, non riesce più a controllare il fremito delle narici e delle labbra che si aprono e si chiudono a scatti: per quanto riuscirà ancora a dominarsi? Altri oratori prendono la parola. Sempre secondo l'usanza, si cantano le lodi del fidanzato. Ma questi ascolta ciò che si va dicendo? Le qualità che gli vengono attribuite? Gli auguri che vengono formulati? Cosa vedono i suoi occhi in questo preciso momento? Quali immagini rievoca, tratte da quali abissi? Perché prova questo opprimente desiderio, questo irresistibile bisogno di piangere, e perché non piange? Chi sfida reprimendo le lacrime? Intorpidito, la testa rientrata nelle spalle, sta seduto in mezzo a noi controvoglia, alla deriva: un estraneo alla propria festa. Indovinando il suo disagio, provo il desiderio di toccargli la spalla e di dirgli: scaccia la malinconia, alza gli occhi e vedi gli amici che ti circondano, non li respingere. Ma per discrezione, rimango al mio posto, rispetto il mio ruolo. Heschel invece dà prova di spirito d'iniziativa rivolgendosi ai convitati': — E allora? Non si balla qui da voi? I hasidim non chiedono di meglio. Rapidamente si rimuovono i tavoli, si spostano i banchi. Ancora non si è formato il cerchio e già un canto possente solleva la comunità. Canto rapido, torrenziale, ardente e a scatti, che dà le vertigini, canto che impone il suo ritmo alla terra. SÌ balla tenendosi per mano, spalla contro spalla, il viso in fiamme e il cuore in festa. Il cerchio di volta in volta si restringe e si allarga. Ci si allontana e ci si riavvicina, ci si perde e ci si ritrova: si diventa tutfuno con il canto, ci si trasforma in canto. La voce ha vinto il silenzio e la solitudine: si esiste
per gli altri e per se stessi. Allora si canta per coprire il fragore degli anni che si riversano nella memoria. Per riconciliare Ì vivi con Ì sopravvissuti. E per evocare gli avi: vedete, la catena non è spezzata. Si riprende lo stesso canto dieci, cento volte, per non lasciarlo, per non lasciarsi. Come un tempo a Wizsnicz, come una volta a Sighet. Si balla come un tempo a Guer. Più forte, più presto, più in alto. Che il canto si faccia danza, che il movimento si trasformi in canto. Venga la gioia, dilaghi sugli orfani e sui loro congiunti: la gioia ancestrale e primitiva, parossistica e serena, gioia che annuncia la creazione e con questa si fonde. Poiché rimango in disparte - una gamba fratturata m'impedisce di ballare — ho la possibilità di osservare comodamente Ì partecipanti. Dall'inizio della festa, il giovanotto non ha ancora aperto gli occhi, E così, palpebre abbassate, denti stretti, si abbandona ai danzatori, che lo trascinano nel loro sfrenato girotondo. Non sa più quel che fa né dove si trovi. Bruscamente si rivede in un'altra città, in un'altra sinagoga, circondato da altri convitati. Li riconosce, li conosce: genitori, zii, cugini, maestri, compagni di studi, amici. E tutti mormorano: grazie per averci invitati, grazie per averci permesso di celebrare questo Shabbat insieme a te; verremo al tuo matrimonio. In quel momento, per la prima volta dopo la loro separazione, il giovane non riesce più a trattenersi. Tutto gira intorno a lui, e dentro di lui. Crollino le difese. Non c*è più motivo di aver vergogna, di temere i rimorsi. Attraverso le palpebre, che sembrano chiuse per sempre, sente scorrere le sue prime lacrime da adulto; le lacrime scorrono, scorrono e gli bruciano il volto. Mi domando se il suo sguardo è mutato.
PRIMI DIRITTI D'AUTORE
Se qualcuno mi avesse detto, allora, che sarei diventato un romanziere, e per di più un romanziere francese, gli avrei voltato le spalle, convinto che mi stava prendendo per un'altra persona. Quando ero adolescente, mi sembrava che il mio avvenire fosse tracciato con assoluta chiarezza. Avrei continuato gli studi con il medesimo zelo e nel medesimo ambiente, avrei approfondito i testi sacri e aperto le porte della conoscenza segreta dove l'« io » si realizza abolendo se stesso. Consideravo puerili Ì romanzi: la loro lettura una perdita di tempo. Bisognava essere ben sciocchi per compiacersi dell'universo romanzesco fatto di parole, quando esisteva l'altro universo, incommensurabile e fatto di verità 9 di presenza. Preferivo Dio alla sua creazione e, alle parole, l'enigma e il silenzio. Quanto alla Francia, essa rappresentava per me una contrada mitica, senza reale valore, se non per il fatto che il suo nome figurava nei commentali sulla Bibbia e sul Talmud. C'è voluta una guerra — e quale guerra — perché cambiassi strada, se non addirittura destino. La storia di questo cambiamento, avrei potuto non viver-la. E non scriverla, I miei primi diritti d'autore furono due gamelle di minestra che ricevetti per un'opera di fantasia che non avevo scritto. A volte ne sento ancora il sapore in bocca.
...Accadde tanto tempo fa, da qualche parte, dove tutti avevano la stessa maschera sotto lo stesso voltò, e tutti i volti gli stessi occhi senza sguardo. Ero giovane, appena uscito dalla Yeshivah. Sul mio braccio sinistro erano ancora visibili i segni delle strisce di cuoio dei tefillin messi per la prima volta. Con il pensiero correvo ancora dietro ai maestri, di cui ero stato il discepolo ma non l'erede. Mentre trasportavo sulle spalle delle pietre più pesanti del mio corpo, mi vedevo, davanti alle candele tremolanti, assorbito da interrogativi formulati secoli prima, altrove, dall'altra parte del mondo e forse della storia. Più tardi, dopo qualche mese, il mio essere sarebbe diventato sinule agli altri, saturo di stanchezza, rassegnato, insensibile ad ogni appello. Come i miei compagni, nei miei sogni, sarei andato in cerca di pane, nient'altro che di pane. Ma nei primi tempi avevo ancora una sufficiente riserva di forza per resistere, e per opporre un argine. Inoltre avevo la fortuna — sì, la fortuna — di avere come vicino, in cantiere, un vecchio Rosh-Yeshivah della Galizia. Il suo nome? Non l'ho mai saputo. Avevo dimenticato perfino il mio. Quanto al suo volto, non l'ho mai neanche guardato. Solamente la sua voce è rimasta in me, indimenticata, indimenticabile: grave, cavernosa, la voce di un amico, di un amico malato. — Sei nuovo qui? Anziché darti il benvenuto, mi prefiggo di insegnarti il tuo primo dovere. Consiste in una sola parola: resistere. Mi capisci? Resistere costi quel che costi. Non piegarti. Non adorare, in te stesso e negli altri, ciò che è impuro, ignobile. Curvo, tacque come per riprendere fiato prima di continuare con una voce che mi parve più flebile e più melodiosa: — Sappi, fratellino, che l'anima conta più del corpo. Che essa conservi la sua forza, e il tuo corpo, anche lui, supererà la prova. Te lo dico perché sei appena arrivato e sei ancora capace di ascoltare. Tra un mese, sarà troppo tardi,
Tra un mese non saprai più cosa possa significare avere un'anima. - Non è dunque immortale? chiesi innocentemente. Smise di scavare e rispose con voce ancora più bassa, come per non udire le proprie parole: - Domani imparerai che questo non è né il luogo né il momento di parlare di immortalitàTemendo di averlo in qualche modo irritato, stavo per chiedergli perdono, ma lui riprese immediatamente: - Per resistere, fratellino, accetta il mio consiglio: proteggi la tua anima. I mezzi per farlo li hai, È semplice: non dovrai fare altro che studiare. SI, studiare la Toràh. È l'unico cammino che porta da qualche parte. Prendilo, seguilo. Come prima, meglio di prima, con maggiore applicazione di quando eri a casa. - Insensato, replicai, stupefatto. Siete un insensato. Come volete che studi senza libri? - Saprai fame a meno. Farai un salto indietro di duemila anni. Il Talmud lo imparerai come lo si insegnava a quei tempi a Sura e Pumbedita: oralmente. Qui, fratellino, non abbiamo scelta. Ciascuno di noi, lo voglia o no, ha l'obbligo di essere Rabbi Yochanan ben Zakkay, Rabbi Aqiba, Rabbi Yshmael... Divenne il mio maestro. - A che punto eri con i tuoi studi, prima? volle sapere. Glielo dissi: terzo capitolo del trattato sullo Shabbat. - A quale pagina? Gli dissi la pagina. - Benissimo, Continuiamo. Non c'è tempo da perdere, Conosceva l'intero trattato a memoria. Meglio: l'intero Talmud. Quello di Gerusalemme e quello di Babilonia. Con i commenti dei Ga'onim. Senza alcun dubbio, doveva essere stato un 'llluy, un grande erudito nella sua città. Un saggio prodigioso. Qui viveva segnato dalla fame, come tutti noi. Sperduto nella folla anonima. Cosa, per lui, senza importanza. L'importante per lui era poter tornare ad esse
re, grazie ad un unico discepolo, Rosh-Yeshivah, perfino qui nel campo di concentramento. Dal momento che ero pronto a ricevere, si sentiva capace di dare. E fintante che dava, sapeva di essere forte come la vita, anzi più forte. Di fronte a me, incarnava il bisogno di trasmissione che caratterizza il nostro popolo; si rendeva conto di essere fuori dal tempo, indistruttibile. Studiavamo insieme, dalla mattina fino all'appello della sera, senza interruzioni a volte, senza accorgerci della morte che infieriva intorno a noi senza sosta. Il nostro metodo: lui recitava un passo, io lo ripetevo. Poi lo discutevamo sotto tutti gli aspetti. E così imparai più con lui che negli anni di studio nella mia città. Venne il giorno della separazione. Inaspettato, irrevocabile: come tutto ciò che avveniva al campo. Il Rosh-Yeshivah non ebbe nemmeno il tempo di darmi la sua benedizione. Fu trasferito in un altro campo e di lui non seppi più nulla. Dopo la sua partenza, mi trovai costretto ad interrompere Ì miei studi per la seconda volta. Del resto, anche se fosse rimasto, non sarei più stato in grado di continuare. Le forze mi stavano abbandonando. Lo spirito finì col cedere, col seguire il corpo: indeboliti l'uno e l'altro, e l'uno a causa dell'altro. Un miserabile pezzo di pane nerastro giunse a contenere più verità, più eternità che tutte le pagine di tutti i libri messi insieme. Ridotto al livello della materia, lo spirito si trasformò in materia. Come tutti Ì corpi ormai si rassomigliavano, così anche tutti i cuori finirono con l'albergare un unico desiderio: un pezzo di pane, una minestra, possibilmente più densa di quella del giorno prima. Livellando gli esseri, la fame popolava le loro fantasie. Una sera, il capoblocco, un ebreo di origine ceca, più umano dei suoi colleghi, ci annunciò una buona notizia: nel suo paiolo erano rimaste due porzioni di mine-
stra. Le avrebbe offerte a chi avesse raccontato la storia migliore. Fu un concorso estemporaneo, al quale non mancarono i candidati, I detenuti non chiedevano che essere ascoltati. Il capoblocco presiedeva. Col dito indicava uno e questi, fatto un passo avanti, aveva tre minuti di tempo per far valere il proprio talento. Alcuni descrissero la loro passata grandezza, altri il loro supplizio presente. Qualcuno si espresse con umorismo, altri con sconvolgente, lirismo. Parole magniloquenti, balbettii da agonizzanti: tutti cercarono di suscitare pietà. Il mio turno giunse quasi alla fine. In effetti, non avendo posto la mia candidatura, la chiamata mi colse di sorpresa. Più giovane degli altri, avevo dovuto attirare l'attenzione del capoblocco, il quale, probabilmente, voleva dar prova di generosità invitandomi a tentare la fortuna: — E tu, giovanotto, cosa ci racconti? — Io? Niente. — Come sarebbe? Non hai fame, tu? — No signore, risposi, senza la minima esitazione. — Bugiardo! Non dissi nulla. Indifferente agli insulti, ai colpi. Il capoblocco alzò il tono: — Imbecille! Ti offro una possibilità e tu la rifiuti? Non hai più voglia di vivere, è così? — Voi non capite, signore. Non ho nulla da raccontare. Ho tutto ciò di cui ho bisogno, grazie. Davvero, signore, Non mi manca niente, grazie tante. Irritato, sconcertato, si mise ad interrogarmi: chi ero, da dove venivo, da quanto tempo mi trovavo 11, e perché non riuscivo ad inventare una storia che avrebbe potuto riempire il mio stomaco. — Ma perché è già pieno il mio stomaco, risposi con convinzione. Davvero, signore. Non ho bisogno di niente. Né della vostra minestra, né della vostra pietà. Se proprio lo volete sapere, ho appena finito di mangiare. Con comodo
e a sazietà. Dovete credermi. Ho mangiato meglio... meglio di voi. — Meglio di me? esclamò, aggrottando le sopracciglia. Tu? Oggi? Qui? Sei pazzo, ragazzo mio. Pazzo, quindi spacciato. Morirai. Presto. E io che volevo aiutarti... Mi scrutò con tanta dolorosa incredulità che decisi di raccontargli tutto. Mi misi a descrivergli, con tutti i dettagli, il sontuoso pasto che, nella mia fantasia, avevo appena gustato. I piatti, i vini, Ì frutti, i discorsi che si tengono a tavola, Invitandolo al mio immaginario festino, gli ricordai che era venerdì sera. Pasto di Shabbat. Tovaglia bianca, candelieri d'argento. Serenità, dolcezza. Le mani sugli occhi, mia madre benedice le candele. Mia sorellina apparecchia la tavola: attenta, sorellina, abbiamo degli invitati! Ed essa sistema nuovamente i coperti. La porta si apre, ed ecco il nonno, preceduto dal canto rituale che invita gli angeli dello Shabbat ad onorarci della loro visita. Mio padre santifica il vino, spezza il pane. La domestica serve il pesce. Il nonno mangia con appetito, canta con fervore. Suo genero tenta di avviare una discussione politica, ma lui lo interrompe: non questa sera, niente politica durante un pasto di Shabbat. Poiché, vedete, è Shabbat nella nostra casa e in quella di Dio: pace e gioia di Shabbat a tutti quelli che ne hanno bisogno, dovunque, Mi esprimevo con parole semplici: era il bambino che parlava in me e che condivideva il suo sogno. Chiudendomi in un ampio cerchio, i detenuti mi ascoltavano scuotendo il capo: per ognuno di loro ero il bambino che un giorno ciascuno era stato. Perfino il capoblocco sembrava un altro. — È lungo il pasto del venerdì sera, dissi. E intramezzato da canti. Ve ne sono molti. E poi piacciono. Per l'ardore, per la nostalgia che racchiudono: è dato all'uomo liberarli. Quindi, perché avere fretta? C'è tempo, c'è tutto il tempo, L'operaio non andrà al lavoro domani, il viaggiatore non riprenderà il treno del mattino. Il vagabondo, inattivo, non
temerà il risveglio. È Shabbat, e l'anima ha bisogno soltanto di un'altra anima per approvare la creazione e completarla. In quanto al corpo, lui non ha bisogno di niente. Non stasera, dopo un simile pasto di Shabbat... II silenzio nel blocco si protrasse oltre la durata del mio racconto. II capoblocco fu il primo a romperlo, esclamando: — Ma bravo, ragazzino! Me l'hai proprio fatta! E, volgendosi verso i detenuti; — Propongo che Io si incoroni laureato. Che ne dite? Domanda puramente retorica, beninteso. Non aveva nessun bisogno della loro approvazione. Del resto nessuno avrebbe osato negargliela. Cerimonioso, mi consegnò due gamelle di minestra densa. Ed io, sotto gli sguardi invidiosi, le presi e le portai fino al mio pagliericcio. Là, ne nascosi una e immersi il cucchiaio nell'altra. Mescolai, mescolai a lungo prima di gustarne il contenuto per attenuare la mia fame, E non mi fu possibile reprimere un sentimento di disagio. Avevo la sensazione sgradevole, opprimente, che era il mio racconto che stavo inghiottendo cosi — racconto già impoverito, sminuito, attinto ad una sorgente che, sempre più offuscata, mi apparteneva sempre meno.
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Treblinka, Birkenau, Belsen, Buchenwald, Auschwitz, Mauthausen, Belzec, Fonar, Sobibor, Majdanek: capitali notturne di un reame strano, immenso e fuori del tempo, dove la morte, sovrana, sembra aver usurpato il volto di Dio ed i suoi attributi in cielo e sulla terra, e perfino nel cuore degli uomini. Siamo nel 1941-1945. In pieno olocausto, termine che indica una dimensione mistica del fenomeno concentrazio-nario. La Germania nazista sprofonda sotto la propria maledizione, ma non per questo gli ebrei vinceranno la guerra. Molti non vedranno la vittoria. Giudicandoli di troppo, la Svizzera li respinge dal suo territorio. Nessuna potenza li accoglie sotto la propria protezione. La loro sorte non è presa in considerazione negli incontri dei Tre Grandi, non turba affatto la coscienza dei popoli. Scrittori, artisti, moralisti: alcuni si preoccupano della loro opera, della loro immortalità, altri del conflitto nel suo insieme. Tutto si svolge come se gli ebrei non esistessero, come se non esistessero più. Come se Auschwitz non fosse che una tranquilla città da qualche parte in Siesta. Il presidente Rooseveit rifiuta di fare bombardare le linee ferroviarie che conducono ad essa. Wmston Chur-chill, consultato in proposito, condivide questo rifiuto. Mosca condanna le atrocità commesse dal tedeschi ai danni delle popolazioni civili, ma passa sotto silenzio il massacro degli ebrei. Da una parte e dall'altra, gli ebrei sono sacrifica-
ti m anticipo. 51 dice: la Stona giudicherà, ài, ma giudicherà senza comprendere. Quanto ad Adolf Hitler, lui comprende. Per di più è convinto che i suoi stessi avversari gli saranno riconoscenti di aver risolto, al posto loro, l'eterna questione ebraica. Un giorno gli sarà resa giustizia, sarà proclamato benefattore dell'umanità: ne è convinto. Un'organizzazione gigantesca ed efficiente è già all'opera. Teorici, taumaturghi, giustizieri, sorveglianti, segretari, dattilografi, ingegneri, esperti e tecnici di ogni settore: tutti vi dedicano le loro energie e il loro entusiasmo. Per loro è la grande avventura, l'ideale, il sorgere esaltante della loro stella: stanno prendendo parte alla mutazione più profonda di tutti i tempi, ricostruiscono l'umanità su nuove basi. Grazie a loro, il popolo eletto e dissanguato sarà inghiottito nell'oblioII procedimento è ovunque Io stesso. Tutte le strade conducono alla notte. Respinti dagli uomini. Ì condannati non giungono a rinnegarli a loro volta. La loro fede nella Storia rimane incrollabile e ci si chiede proprio il perché. Non perdono la speranza. Prova ne è che se si accaniscono per sopravvivere non lo fanno solamente per sussistere, ma per potere raccontare. Le vittime vogliono essere dei testimoni. Avviandosi verso la fossa comune, lo storico Shimon Dubnov grida agli ebrei di Riga, suoi compagni di sventura: spalancate occhi e orecchie, ricordate ogni fatto, ogni nome, ogni bisbiglio. Il colore delle nuvole, il fruscio del vento tra gli alberi, i gesti del carnefice: colui che soprawi-verà non deve dimenticare nulla! A Birkenau, un membro del Sonderkommando — incaricato della manutenzione dei forni — redige, alla luce delle fiamme, rapporti e statistiche dettagliate ad uso delle future generazioni, Dovunque, nel cuore stesso dell'angoscia e della morte, giovani resistenti e vecchi curvi annotano, tramandano av
venimenti, aneddoti, impressioni. Alcuni sono ancora dei bambini: Davide Rubinstein ed Anna Frank. Dietro le mura del ghetto di Varsavia, Emanuele Ringel-blum e Ì cento scrivani del suo comitato hanno un solo pensiero: raccogliere il maggior numero di documenti e seppellirli; tante sofferenze e tante prove non devono andar perdute per la Storia. È impossibile salvare l'ebraismo europeo? SÌ salvino almeno le tracce e le ustioni del suo passaggio. Poemi, litanie, opere teatrali: per scriverli, per procurarsi carta e matita, ci si privava del nutrimento e del sonno. Ci si esponeva, si rischiava continuamente. SÌ affrontava il castigo, la frusta. Il sorvegliante alzava il suo nervo di bue, pronto a colpire? Tanto peggio. Si mettevano insieme le parole, i segni. Un istante prima di morire, ad Auschwitz, a Bialistok, a Buna, il moribondo descriveva la sua agonia. A Buchenwald ho assistito a serate « letterarie » e ascoltato poeti anonimi recitare versi che ero troppo giovane per comprendere. Non erano stati scritti per me, per noi, ma per gli altri, per quelli che si trovavano fuori e per quelli che non erano ancora nati. Si trattava di una vera passione nel dare la propria testimonianza per l'avvenire, contro la morte e l'oblio, passione che coinvolgeva tutti Ì generi. Documenti spogli, bilanci minuziosi e racconti di un'ingenuità infantile: tutti hanno in comune la preoccupazione di strappare alla notte la vita e la morte di quella che fu una comunità fiorente, vibrante, prima di trasformarsi in un branco inseguito, senza possibilità di scampo. Ossessionati, terrificanti, oscillano tra il grido e la collera trattenuta, repressa. Fatti autentici, episodi conosciuti, ripetuti con insistenza ed eternamente sorprendenti, episodi bum e perciò tanto più strazianti: si crede sempre di conoscere tutto su questo o quell'aspetto dell'olocausto. E si sbaglia; tutto resta ancora da scoprire. Leggendo certe opere di autori che
'*on si conoscono ci si stupisce: raccontano le stesse scene, '^ stesse partenze. Tutto inizia e tutto finisce allo stesso ^odo. Tutto è stato detto e tutto resta da direRaccontÌ autobiografici o testi immaginati, il personaggio Principale rimane il campo o il ghetto con la loro popolazione che cala sempre più, divorata dal tempo, dalla morte. , II ghetto con i suoi fantasmi, i suoi becchini, i suoi bambini dallo sguardo vuoto, fisso o demenziale. L'interno ^i un incubo: si finisce col farci l'abitudine, E molto presto etiche: il tempo di un sospiro, di un palpito. In una notte, ^ un'ora si acquista ricchezza interiore o maturità. Il bambino si scopre vegliardo. Dall'oggi al domani, strutture menta-ì e concetti scompaiono, per rinascere subito dopo sotto Differenti combinazioni. Nonostante tutto ci si fa l'abitudine. Si ama, si infoca la purezza e l'irriducibilità dell'amore, ^ì celebrano matrimoni e feste religiose, si canta, ci si na-^onde, ci si inganna, ci si prende in giro, si mendica una batata o una briciola di conforto, si finge di essere diversi e ^trove, e tanto peggio se domani si muore di fame, di Malattia, di sfinimento o semplicemente di speranza — sì, di peranza. Pazzo di dolore, torturato, un ragazzino di otto anni ^rida: voglio rubare, voglio mangiare, voglio essere tede-^o. Per poter mangiare, mangiare senza vergogna e dormi•^> dormire senza paura. Muore senza aver mangiato. Altri ^ambini, di una maturità precoce, soccombono al freddo, al ^olore di vedere Ì loro genitori percossi, calpestati. Altri ^ticora servono da bersaglio ai soldati che, da bravi combattiti, si devono esercitare al tiro. E poi ci sono i campi di concentramento. E la paura che Spirano agli abitanti dei ghetti. I bambini sono Ì primi ad 'ssere presi di mira. Poi vengono rastrellati i vecchi, i disoccupati, i malati, Ì rassegnati, tutti quelli che non possiedono ^ carta di lavoro — gialla, rossa, verde — timbrata dalle ^litorità militari, dalla polizia, dal datore di lavoro tedesco. eraltro non si sa mai quale colore sia quello giusto.
Alla hne, nessuno crede più alle carte, alle promesse. Qua e là dei giovani si armano o scappano per raggiungere i partigiani. Qua e là vengono costruiti rifugi sotterranei, bunker fortificati, linee di difesaQua e là ci si prepara all'insurrezione per dare all'umanità e alla Storia una lezione di cui non sono affatto degne. Quella di Varsavia non sarà dimenticata. Ve ne sono state altre, delle quali si parla meno. Eppure ogni rivolta ha avuto il suo poeta, ogni massacro il suo storiografo. Quanti documenti si trovano ancora sepolti in fondo a qualche buca? Un giorno saranno scoperti. Per il momento, ogni racconto di ogni ghetto vale per tutti. Li anima la medesima collera. Riuscirà un giorno a placarsi? Certi testimoni rispondono di no. Ci tengono alla loro collera. Vi si aggrappano. Costituisce il loro legame con un universo che non esiste più. Irascibili, non risparmiano né i vivi né gli scomparsi. Per illustrare meglio il male che a tutti i livelli imperava nel regno concentrazionario se la prendono perfino con le vittime rimproverandole per la loro docilità. Che il male abbia avuto un coefficiente assoluto è un fatto innegabile. Ad Auschwitz si respirava l'indegnità e il disprezzo. Un pezzo di pane valeva più delle promesse divine; una gamella di minestra trasformava l'uomo colto in bestia feroce. Principi, discipline e sentimenti difficilmente resistevano di fronte alle implacabili leggi di Majdanek. Un aguzzino, per divertirsi, simulò l'esecuzione di un ebreo: lo stordì con una randellata sparando contemporaneamente un colpo di pistola in aria. Mentre riprendeva conoscenza, l'ebreo se lo vide sopra ghignante: « Credi di poterci sfuggire morendo? Ci sottovaluti. Anche nell'altro mondo, i padroni siamo noi ». Aneddoto che racchiude la sua parte di verità: nei loro rapporti con le vittime e per demoralizzarle prima di annientarle, i carnefici giunsero persino a sostituirsi a Dio. Soltanto essi potevano, per decreto, nominare il Bene e il Male.
Le loro manie avevano forza di legge, ed anche i loro capricci. Erano al di sopra della morale, al di sopra della verità. Prigionieri di un tale sistema, numerosi deportati scelsero il facile cammino dell'abdicazione. Come giudicarli? Io non li giudico. Chiunque non abbia saputo superare prove e tentazioni, non posso condannarlo. Colpevoli o non colpevoli, i poliziotti dei ghetti, i kapò privilegiati hanno diritto a circostanze attenuanti. Suscitano pietà piuttosto che disprezzo. I deboli, i vigliacchi, tutti quelli che hanno venduto la loro anima per vivere un mattino in più, una notte d'angoscia in più, preferisco includerli nella categoria delle vittime. Più degli altri hanno bisogno di perdono. Più e diversamente dei loro compagni meritano compassione e carità. La loro colpevolezza ricade sui loro carnefici. Eppure mi capita a volte di leggere degli scritti presentati come deposizioni a loro carico- I loro autori sono duri, i loro giudizi senza pietà. Che le loro parole facciano male o lascino stupefatti, poco importa: saranno ascoltate. Necessariamente frammentarie, non rifletteranno il tutto, ma ne fanno parte. Questo del resto può servire come regola generale: ogni testimone esprime soltanto la sua verità, quella a nome suo. Per trasmettere la verità dell'olocausto nella sua totalità non sarebbe sufficiente ascoltare quelli che gli sono sopravvissuti; bisognerebbe anche potervi aggiungere il silenzio che milioni di sconosciuti hanno lasciato dietro di sé andandosene: nessuno può servirgli da interprete. Non si concepisce l'olocausto che come un mistero; dei morti l'hanno generato. Oggi ci si domanda, e a lungo ancora ci si domanderà, come possano essere stati commessi simili crimini e orrori: non si saprà mai come ciò sia stato possibile. Perché tale popolo ha scelto l'assassinio, e tal altro il martirio? Non si saprà il perché. Sul piano di Auschwitz, tutti gli interrogativi si spalancano sull'angoscia. Che la morte di un milione
di bambini abbia un senso o no, in entrambi i casi, nega l'uomo e lo condanna. Essa si sottrae al linguaggio del romanziere, all'analisi dello storico, alla visione del profeta-L'esperienza che ne deriva non è trasmissibile. Sopravvissuti e testimoni hanno fatto del loro meglio, ma forse i loro scritti non hanno sostanzialmente alcun rapporto con quello che hanno visto e vissuto. Hanno raccontato perché non potevano fare altrimenti: era pur necessario sollevare un poco la pietra tombale, uscire un poco dalla notte! Parlando, hanno perlomeno indicato che esiste un mistero. E nella misura in cui questo mistero implica un significato, esso è quello di una sconfitta. Di fronte a tale mistero, le parole suonano vuote. Nella sua ombra siamo forse degli impostori. Sapremo un giorno quale fu la realtà di Auschwitz? Forse Auschwitz non è mai esistito, tranne per coloro che vi hanno lasciato in pegno una parte del loro avvenire sotto le ceneri. Il Talmud racconta che quando il Tempio di Gerusalemme venne incendiato Ì sacerdoti interruppero l'ufficio sacro, salirono sul tetto e parlarono a Dio; non siamo riusciti a proteggere la tua dimora, perciò te ne restituiamo le chiavi. E le lanciarono verso il cielo. A volte dico a me stesso che, da qualche parte, il santuario è ancora in fiamme e i sopravvissuti sono i suoi sacerdoti. Ma conserveranno le chiavi.
ISTANTANEE
Un ebreo, in ginocchio, scava una fossa. Lo immagini stordito, quasi incosciente. Il suo viso sfocato, annerito, si intravede appena: a metà riassorbito dalla notte. Si vedono i suoi genitori, i suoi fratelli: maschere di argilla infrante, sfigurate. Dietro di loro, a gambe larghe e braccia incrociate, gli assassini in uniforme contemplano il becchino con naturalezza. Rilassati, di buon umore, si scambiano delle osservazioni. Ridono Una vecchia, con la stella gialla sul petto, si gira per gettare un ultimo sguardo sgomento sul marciapiedi, prima di venir inghiottita nel vagone dove cento corpi anonimi sono già aggrovigliati. La vediamo ancora, appoggiata al predellino, ma non più lei che guardiamo: è la sua ombra. No: non è neppure la sua ombra. E questo cadavere senza volto, quale paese e quale paesaggio ha scelto come luogo di abdicazione? Ha avuto la delicatezza di nasconderei il suo viso. Forse ha avuto vergogna per Ì suoi simili: perciò quel suo gesto di coprirsi gli occhi con la veste a brandelli. Non ne poteva più, non voleva più vedere. Ha visto tutto, misurato tutto. È morto cieco. Eccolo, disteso su un mucchio di sassi, brandire il pugno come per cacciare qualche nemico lontano. Osserva
attentamente Ì suoi- piedi: gli manca la scarpa destra. E il piede sinistro. Un osso. Senza traccia di pelle sopra. Queste istantanee, scattate da ufficiali e soldati tedeschi, collezionisti di ricordi esotici, figurano in diversi album dedicati all'olocausto. Esaminatele, e dimenticherete chi siete. Non vorrete più saperlo. Nulla avrà più importanza. Avrete intravisto un abisso che avreste preferito non fosse mai stato svelato. Troppo tardi. Sfogliando queste raccolte fotografiche, sprofondate, inebetiti per la vertigine, in una notte glaciale senza fondo. Gli esseri vi sembrano meno vicini, Ì legami si dissolvono. Ciò non toglie che, l'indomani, siete pronti a ricominciare. Nel più profondo di me stesso so che ogni occhio che mi fissa troncherà il ramo nuovo di un albero e aggiungerà al sole una macchia in più. So che ognuna di quelle immagini mi toglierà un motivo di speranza. Tuttavia le dita continuano a voltare le pagine, e i col-pi accartocciati, le bocche storte, spalancate, le loro urla perdute nel vuoto si susseguono. E l'angoscia che mi afferra e mi siringe si fa sempre più tenebrosa, schiacciante: con tutti questi cadaveri sotto gli occhi, ho paura di inciampare su me stesso. Ad ogni pagina, davanti ad ogni immagine, mi fermo per riprendere fiato. E per calmarmi, dico a me stesso: è finito; hanno raggiunto il limite estremo; ciò che segue non potrà che essere meno orrendo, poiché non è possibile inventare sofferenza più nuda, crudeltà più raffinata. Un istante dopo riconosco il mio errore: ho sottovalutato l'immaginazione degli assassini. La progressione nel disumano supera dunque quella che esplora le componenti dell'umano. Il male, più che il bene, suggerisce l'infinito. Come spiegare il bisogno masochista che vi spinge a tenere aperto davanti agli occhi il libro di un passato sepolto e senza sepoltura? C'è prima di tutto la sete di sapere, il desiderio di comprendere. Sono gli scampati che leggono i
resoconti di quelle atrocità. Per decifrare la verità che li ha traditi. Per conoscere tutto dell'avvenimento che li ha mutilati. Il fatto è che non possono sempre rendersi conto di ciò che è loro accaduto. E come — e perché — sono stati risparmiati. Familiarizzandosi con documenti e diagrammi, studi e racconti, sperano di andare fino in fondo alla loro esperienza, e forse al di là. Questo vale ancor più per le immagini, ben più eloquentemente evocatrici delle parole, qualunque esse siano. Le immagini sono implacabili, definitive. E per di più precise. Affascinato dai ricordi che racchiudono, il sopravvissuto vi si immerge per unirsi al rinesso di un « io » che considera spento. È il suo modo di recitare il qaddish: con gli occhi anziché con la bocca. La bocca si è resa troppo immeritevole: ha taciuto quando era necessario alzare la voce, parla quando non si deve dire nulla. Più fedeli, gli occhi sono testimoni migliori: non hanno dimenticato nulla, loro, Visto di profilo, il detenuto sembra soffuso di una strana serenità. Lo si direbbe seduto, se non fosse per la sua cinghia stretta attorno al collo e legata, dall'altro capo, ad un tubo avvitato al soffitto. L'impiccato non avrebbe potuto scovare luogo più adatto e più simbolico; le latrine. Eccole promosse a sala di tribunale dove il suicida ha appena pronunciato una sentenza di morteUn poco più in là, cinque contadini crollano come spighe falciate, sotto un cielo grigio e tetro, nel bel mezzo di un campo di grano. Più in là ancora, una madre senza età, livida per il terrore, stringe a sé con violenza la sua creatura per proteggerla dai proiettili. Alle sue spalle, un soldato dall'espressione impassibile e stupida preme il grilletto. La madre cade dunque, come il suo bambino; cadono, cadono, non finiscono più di cadere. Non vi fermate. Non ancora. La pagina che segue vi mostrerà dei bambini con teste gonfie da vecchi, e dei vecchi con corpi emaciati da bambini. E la pagina successi
va mostra delle donne incinte che pendono dagli alberi, immobili, senza far tremare le foglie e il vento, senza scatenare la tempesta. E l'occhio non è ancora appagato, né il dito disseccato. Le scene si susseguono e si somigliano, ed è la loro somiglianza che improvvisamente colpisce come una frustata: si direbbe lo stesso ebreo, assassinato sei milioni di volte, da un solo assassino, sempre Io stesso. Stregati, intorpiditi, continuate a guardare. Avete fatto a pezzi lo specchio, siete dall'altra parte. Coraggio, voltate le pagine, impregnatevi della notte che esse nascondono; apritevi ai sorrisi irrigiditi che non finiscono mai di morire, alle innumerevoli braccia che si protendono verso di voi, captate dunque quegli sguardi smarriti che non appartengono più ad esseri viventi, e poi tanto peggio o tanto meglio se, colti da rabbia e da rimorso, avete voglia di sputare su questo mondo che fu il loro e che è rimasto il vostro. Su, proseguite. Ancora, ancora. Ogni pagina si trasforma in un caleidoscopio, vi rimanda all'infinito. Su, non datevi per vinti. Non avete visto tutto, non avete visto niente. Aspettate: dopo questo ghetto, ne visiterete un altro più grande, più piccolo, più vicino all'inferno. In seguito vedrete le foreste dove si eseguono le uccisioni in massa. Le tombe, i roghi. I padri e Ì figli che si parlano o che tacciono prima di precipitare nella fossa. Le partenze, gli arrivi. I marciapiedi delle stazioni ferroviarie, le selezioni. I musicisti, i rifiuti. La fame, la paura, la peste, la vergogna, la fine. I nomi vi sfilano davanti, ma non fateci caso. Città ungheresi, ghetti polacchi, cimiteri lituani, ovunque la stessa cosa. Ovunque la vergogna e la fame, la paura e la fine. Andate avanti! Chi è quel vegliardo che sembra sfidare i suoi seviziatori? Gli tagliano la barba, e fanno apposta a fargli male. Ci si mettono tuttiLui incassa senza un gemito. Si direbbe si stia prendendo gioco di loro. Silenzioso e fiero, il torso
eretto, li fissa dritto negli occhi. La sua dignità vi impressiona, vero? LÌ sta provocando, parola mia! È pazzo, lo uccideranno! I suoi lineamenti mi sembrano familiari. Li studio più da vicino. L'ombra di un sospetto. Seguita da un'indagine tortuosa, complicata. No, la memoria non mi ha ingannato. Sì, è mio nonno. Altra immagine che resterà per sempre scolpita nella mia mente. Un ragazzino ebreo, le mani alzate. Si direbbe un soldato che si arrende al nemico dopo un'accanita battaglia. La paura lo ha invaso. Il berretto, troppo grande per la sua testa, gli nasconde la fronte e le orecchie. Ma non gli occhi: due neri bracieri. Ma non vede i soldati che lo circondano, i tiratori scelti che Io stanno prendendo di mira? Del resto quanti sono? Dieci, cento, Centomila? Armati di pistole, fucili e fucili mitragliatori. Tutti Ì guerrieri tedeschi, di tutti i fronti, si sono dati appuntamento qui per condurre al macello questo ragazzino ebreo, dagli occhi di vegliardo che, allo stremo, non ha la forza e nemmeno, sembra, la voglia di opporre resistenza. Una scena di ghetto: un combattente, torcia viva, salta da una finestra, inseguito dai lanciafiamme. Giù, tedeschi e polacchi, militari e curiosi trovano lo spettacolo interessante. Ripresa a Treblinka — oppure si tratta di Birkenau, Fonar, Majdanek? — questa immagine un giorno scoppierà dentro di me come un lancinante appello alla follia: delle madri ebree, nude, conducono al sacrificio i loro bambini, nudi anch'essi. A forza di scrutarli, finite col vederli avanzare su un campo sconfinato e in fiore, verso un altare rosso sangue, poi li scorgete sospesi tra cielo e terra, angeli atterriti e condannati al silenzio. Osservate le donne, alcune sono giovani e belle; i loro bambini, stupiti, stanno buoni. Altre, meno giovani, sono senza più illusioni e stanche, terribilmente stanche! Quasi tutte, pudicamente, cercano di nascondere la loro femminilità, I bambini, rispettosi, voltano la testa. E voi, cosa fate voi? Andate, su, cogliete un fiore,
offritelo a quelle madri in cambio dei loro figli, cosa aspettate, fate presto, sbrigatevi, afferrate un bambino e correte, correte fin dove le gambe vi portano, più lontano del vento, correte finché siete in tempo, finché il rumo non vi rende ciechi... ...Ma immobili e muti rimanete 11, come me, davanti a queste immagini che uomini come voi e come me si sono divertiti a fissare sulla pellicola per mostrarle, a casa loro, agli invitati tediati, ai cugini estasiati. Le dita voltano una pagina dopo l'altra, e l'occhio torna a far conoscenza con gli occhi che lo bruciano. Dall'altra parte del fiume, il sole, dopo aver riscaldato la terra, va ad annegarsi in un crepuscolo rosseggiante dai rinessi dorati. E se l'olocausto non fosse stato altro che un incubo, una parentesi? Il mondo è rimasto mondo. Gli uomini non sono cambiati, non hanno imparato niente: forse non c'era niente da imparare. Amori, vanità delle vanità, gelosie: la vita continua. Vacanze, automobili, contestazioni: si segue la moda. I miri di ieri vengono sostituiti dalle « vedettes » e dagli Ìdoli pubblicitari. Gli scienziati subentrano agli esteri. I popoli, grandi e piccoli, si preparano ad ammazzarsi l'un l'altro su tutti i continenti. Gli industriali fanno i loro affari e i politici i loro discorsi, i profittatori si occupano della propria reputazione e gli artisti della loro arte. Quanto a me..., anche a me piace assistere ad un buon concerto, o rispondere al sorriso di una bella donna. Spezzo il pane e benedico il vino, e nessuno è più felice di me quando, sotto la mia penna, le parole si allineano, si concatenano l'una all'altra, e danno l'illusione di dirigersi da qualche parte. In verità so dove conducono. Là dove la parola non esiste più. Nelle foreste misteriose dove padri e figli, di condizione ebraica, già segnati dal carnefice, sempre lo stesso, si raccontano una storia, sempre la stessa. Là dove delle donne, dalle pupille scure e dilatate, atrofizzate o ebbre di
dolore, scortano i loro bambini all'altare del sacrificio, e più lontano ancora. Allora, sorgendo dalle profondità del vostro essere, vi afferra un irresistibile desiderio di lasciare andare tutto. Di gettare la penna, di tagliare i ponti, di mettervi a correre e a maledire, di seminare il presente lontano dietro di voi, e ritrovare l'istante che diede origine a queste immagini, e soprattutto di non sentire più il riso e il gemito del vento sferzato dalle ombre, sempre le stesse.
Un discepolo venne a trovare Rabbi Pinhas di Koretz e gli disse: — Aiutatemi, Maestro. Grande è la mia inquietudine, fate che essa sparisca. Il mondo è colmo di tristezza, di angoscia. Gli uomini non sono uomini. Dubito di loro e dubito di me stesso. Dubito di tutto. Che posso fare, Rabbi, che posso fare? — Va' a studiare, È l'unico rimedio che io conosca. — Ahimè, non riesco nemmeno a studiare, disse il discepolo- I miei dubbi sono talmente spessi, talmente invadenti, che sono un ostacolo anche allo studio. Apro il Talmud, lo contemplo. E per settimane, per mesi, resto inchiodato alla stessa pagina. Non riesco ad andare avanti, neanche di un passo, di una riga; che posso fare, Rabbi, che posso fare? Quando un ebreo non ha una risposta da dare, ha almeno una storia da raccontare. E Rabbi Pinhas di Koretz rispose: — Sappi che ciò che ti sta accadendo, è accaduto anche a me- Alla tua età mi dibattevo nelle stesse difficoltà. Anch'io avevo degli interrogativi, dei dubbi. A proposito del Creatore e della sua creazione. Anch'io non riuscivo ad andare avanti. Provavo lo studio, la preghiera, la devozione. Invano. Il digiuno, la mortificazione, il silenzio. Invano. I dubbi restavano dubbi, e gli interrogativi restavano interrogativi. Impossibile superarli. Poi, un giorno, venni a sapere che Rabbi Israel Baal Shem Tov era di passaggio. La mia
curiosità mi condusse fino alla casa dove pregava. Entrai nel momento in cui terminava Ìn'Amidah.Si voltò ed il suo sguardo mi sconvolse. Sapevo che non stava osservando me soltanto, sapevo però che ero meno solo. DÌ colpo, senza che fosse stata detta una sola parola, fui in grado di tornare a casa, di aprire il Talmud e di rimirarmi nello studio. Vedi, disse Rabbi Pinhas di Koretz al suo discepolo, gli interrogativi erano rimasti degli interrogativi, e i dubbi non avevano perduto il loro carico d'angoscia, ma io potevo continuare. Come tutti i bambini ebrei della mia città, dovevo preparare un discorso per la mia festa di Bar-Miswah, festa che, a tredici anni, avrebbe segnato il mio ingresso nella comunità come membro a pieno diritto. Alcuni giorni prima della cerimonia, mi recai dal mio Maestro e Io pregai di non parteciparvi: — Cercate di capirmi, non oserei aprire bocca in vostra presenza. Ciò che potrei dire di nuovo, l'ho imparato da voi. Sapete meglio di me quello che dirò. Parlare davanti a voi, sarebbe giocare a fare il maestro davanti al mio stesso maestro. Era un uomo solitario e pieno di dolcezza; per questo mi sorprese quando respinse la mia richiesta: — Vuoi escludermi dalla tua festa? Mi spiace, ma io verrò. Vedendo il mio smarrimento, si affrettò ad aggiungere: — Più tardi insegnerai, comunicherai ciò che hai raccolto da me e dai miei simili. Io non ci sarò più per ascoltarti. Ricordati di questo: non chiedo a chi parlerà di giocare a fare il maestro, ma di compiere il suo dovere di messaggero e di testimone. Con grande stupore dei miei genitori e dei miei compagni, la festa trascorse senza che facessi il discorso. Questa è la storia di un ghetto che cessò di esistere, e di uno scaccino che perse la ragione.
Costui aveva l'abitudine di precipitarsi ogni mattina dentro la sinagoga dove saliva sulla tribuna e gridava, dapprima con nerezza, poi con ira: — Sono venuto ad annunciarti, Signore dell'universo, che noi siamo qui! Venne il primo massacro, seguito da molti altri. Lo scaccino ne usciva sempre indenne, e sempre si precipitava verso la sinagoga per battere il pugno sul banco e gridare fino a spolmonarsi: — Vedi, Signore, siamo ancora qui! Dopo l'ultimo massacro, si ritrovò solo nella sinagoga deserta. Ultimo ebreo vivente, salì sulla tribuna un'ultima volta, fissò il santuario con lo sguardo spento e mormorò con una dolcezza infinita: — Vedi? Sono sempre qui. SÌ fermò un istante prima di aggiungere con voce roca e triste: — Ma tu, dove sei, tu? Lo chiamavano il matto, il matto del ghetto. Gli affamati gli davano un boccone di pane, qualche buccia di patata. LÌ divertiva, li distraeva. Quanto agli aguzzini, lo trattavano con un certo riguardo. I convogli si susseguivano, il matto non ne faceva parte. Gli chiesero: — Come fai per sfuggire alle retate? — Un personaggio importante mi protegge. — Chi è? — Il dirigente del ghetto. Sono andato a trovarlo. Gli ho detto: nessuna comunità può continuare ad esistere senza il suo matto; se lei mi uccide, o mi consegnerà alla morte, prenderà il mio posto; lei sarà me. Poi l'argomento cadde, perché non ci fu più comunità. Con il loro gusto per l'umorismo macabro, gli assassini informarono gli abitanti del ghetto che dieci ostaggi sarebbero stati impiccati, per rappresaglia contro l'uccisione dei figli di Hamman, avvenuta duemila anni prima durante il
regno di Assuero per colpa degli ebrei, così come viene riferito dal libro di Ester. Gli ostaggi prescelti si chiamavano tutti Mardocheo, come lo zio di Ester; tra questi c'era un pover'uomo che di mestiere faceva il portatore d'acqua. Fu l'unico a salire sul patibolo ridendo, ridendo fragorosamente. — Stai diventando matto? — Che idea! certo che no! fece lui, scoppiando dalle risate. — Non hai paura di morire? — E come se ho paura! — Allora perché ridi? — Una cosa non ha niente a che fare con l'altra. E ai carnefici spiegò: — Oggi sono Mardocheo, il portatore d'acqua. Ma domani, eh? Domani sarò Mardocheo il martire, Mardocheo il santo; e questo Mardocheo non lo impiccherete mai, mai. E rideva, rideva senza lacrime. Poiché riteneva che la sofferenza umana stava diventando intollerabile, un Rabbi salì in cielo e andò a bussare alla porta del Messia. — Perché ti attardi? gli chiese. Non sai che gli uomini ti stanno aspettando? — Non è me che aspettano, rispose il Messia- Alcuni aspettano la salute, la ricchezza. Altri la serenità o la conoscenza. O ancora la pace del focolare, la felicità. No, non è me che aspettano. SÌ racconta che allora il Rabbi perse la pazienza ed esclamò; — E va bene! Se non hai che un solo volto, rimanga pure oscuro! Se non puoi aiutare gli uomini, tutti gli uomini, a risolvere i loro problemi, tutti i loro problemi, compresi Ì più insignificanti, resta dove sei, resta come sei. Se ancora non hai intuito che sei il pane per colui che ha fame, una voce per il vecchio senza eredi, il sonno per colui che ha
paura della notte, se ancora non ti sei reso conto di tutto questo, se ancora non hai capito che ogni attesa è attesa di te, allora hai ragione tu: infatti non è te che gli uomini stanno aspettando. II Rabbi ridiscese sulla terra, fece chiamare i suoi discepoli e proibì loro di disperare: — Adesso, disse, comincia la vera attesa. Ieri, una fanciulla, bella e di condotta esemplare, vide dalla finestra il crepuscolo che si avvicinava come per impadronirsi di lei. II suo cuore si mise a battere sordamente. Si volse verso il padre che leggeva tranquillamente il giornale e gli disse: — Ti voglio tanto bene, papà. Lo sai. Vero che lo sai? — Naturalmente, rispose il padre assorto nella lettura. Sei adorabile. Sono fiero di te. Ella posò lo sguardo sulla madre che stava apparecchiando la tavola; — Anche a te mamma. Anche a te voglio tanto bene! Non te l'ho detto molto spesso. Non era necessario. Ma sappi che è la verità. La madre alzò su di lei gli occhi stupiti: — Lo spero bene! Una figlia deve amare i propri genitori. Anche noi ti amiamo. Non abbiamo che te. E con un'espressione beata continuò a sistemare Ì piatti, le forchette, i coltelli, senza dimenticare i tovaglioli. La fanciulla si ricordò del fidanzato, e la sua anima ne fu lacerata: tu, noi. Vinceremo il male, ricreeremo il mondo, avremo dei bambini ed io li amerò, li amerò con tutte le mie forze, come amerò anche i bambini che non avremo, Nella strada, giù in basso, uno straniero, vestito d'ombra, passava da un marciapiede all'altro, esaminava un immobile dalle tende tirate, poi si allontanava con passo lento. — Anche a te, straniero — gli disse la fanciulla — anche a te faccio dono del mio amore- I tuoi passi ti conducano
verso la mèta da raggiungere e non verso l'esilio. La tua speranza ti liberi dalla paura che l'ha fatta nascere. L'amore in te non uccida la gioia, e la gioia in te sia terra di rifugio e non di sangue. Gli parlò finché ebbe girato l'angolo. Allora, con una voce che non tradiva né rimprovero né rimpianto, esclamò: — Che fare. Dio mio, che fare? Amo tutti, è me soltanto che non amo! E la fanciulla, saggia e bella, si gettò dalla finestra. Un Giusto si recò a Sodoma, deciso a salvare Ì suoi abitanti dal peccato e dal castigo. Giorno e notte percorreva le strade e i mercati predicando contro la cupidigia e il furto, la menzogna e l'indifferenza. Dapprima Io ascoltavano sorridendo con fare ironico. Poi non lo ascoltarono più: non divertiva nessuno. Gli assassini uccidevano, i prudenti tacevano: come se non vi fosse nessun Giusto in mezzo a loro. Finalmente un bambino, mosso da un impeto di pietà per il predicatore sfortunato, lo abbordò con queste parole: — Povero straniero- Voi gridate, vi prodigate corpo e anima, ma non vi rendete conto che non avete speranza alcuna? — Sì, me ne rendo conto, rispose il Giusto. — Ma allora, perché continuate? — Te lo dirò il perché. All'inizio, pensavo di poter cambiare gli uomini. Oggi, so che non ci riuscirò. Se oggi continuo a gridare, se urlo, è perché gli uomini non finiscano per cambiare anche me.
L'OROLOGIO
Per la mia festa dì Bar-Miswah, ricordo, avevo ricevuto un magnifico orologio d'oro. Era il regalo che, secondo l'usanza, si faceva ai ragazzi per ricordare loro che, d'ora in avanti, sarebbero stati considerati responsabili delle loro azioni davanti alla Toràh e alle leggi eterne in essa contenute. Ma non ho potuto conservare il mio regalo. Dovetti separarmene il giorno stesso in cui la mia città natale divenne l'orgoglio della nazione ungherese cacciando fuori dalle sue mura fino all'ultimo dei suoi ebrei. Sbarazzatisi di noi, Ì gloriosi padroni del comune esultarono; non si sarebbero più visti caffettani per le strade. II giornale locale fece il punto: d'ora in poi nessuno si sarebbe più vergognato di indicare il luogo del proprio domicilio. Questo accadeva alla fine dell'aprile 1944. Quel giorno, di prima mattina, dopo una notte insonne, il ghetto si trasformò in un cimitero arato, e i suoi abitanti in becchini. Febbrilmente si scavava in cortile, in giardino, in cantina. Affidavamo alla terra ciò che restava dei nostri beni accumulati da molte generazioni, la fatica e il frutto di decine e decine di anni di lavoro. Mio padre si incaricò dei gioielli e dei titoli di valore. Curvo, muto, vangava vicino al granaio. Più in là, mia madre, accoccolata, si occupava dei candelieri d'argento che accendeva solo la vigilia dello Shahbat: gemeva sordamente, ed io evitavo il suo sguardo. Le mie sorelle scavava-
no nei pressi della cantina. Zipporà, la più piccola, aveva preferito il giardino. Come me. Maneggiava la pala con aria grave, rifiutando il mio aiuto. Cosa aveva da nascondere? I suoi giocattoli, i suoi quaderni di scuola. Quanto a me, non possedevo che il mio orologio. Ci tenevo. Perciò, per proteggerlo, lo seppellii in una buca nera e profonda, a tre passi dal muro di cinta, sotto un pioppo i cui rami vigorosi e folti sembravano offrire una copertura abbastanza sicura. Speravamo tutti di recuperare i nostri tesori. Al nostro ritorno, la terra ce li avrebbe restituiti. Li avrebbe protetti per noi fino alla fine della tormenta. Eh sì, nella nostra ingenuità, non potevamo prevedere che già la sera stessa, prima che l'ultimo treno avesse lasciato la stazione, la muta eccitata dei nostri amici e vicini, ben informati, si sarebbe precipitata nelle case spalancate del ghetto e avrebbe messo sottosopra le pietre e le travi, gettandosi su un bottino fatto per soddisfare tutti i gusti, tutti Ì collezionisti. Vent'anni dopo, tornato nella mia città, in piedi nel nostro giardino, in piena notte, mi ricordai del mio primo regalo, l'ultimo anche che ricevetti dai miei genitori. Naturalmente fui assalito da una voglia irragionevole, irresistibile, di vederlo, di vedere se era sempre là, nello stesso posto, se, a dispetto di tutte le leggi e di tutte le probabilità, era sopravvissuto come me, accidentalmente come me, senza sapere come né per quale scopo. La curiosità divenne ossessione. Non pensai né al denaro di mio padre né ai candelieri di mia madre. Il mio orologio d'oro, lui solo contava in quella città. Solo il suo battito aveva ancora importanza. Nonostante l'oscurità, mi oriente facilmente nel giardino. Tomo ad essere il ragazzino dopo la sua Bar-Mifwah. Ecco il granaio, il muro di cinta, l'albero. Nulla è cambiato. Alla mia sinistra, il cenile che conduce verso la casa del Rabbi di SIotvino. Lui, il Rabbi, è cambiato: il roveto ardente è
bruciato e si è consumato. Che cosa ha nascosto, lui, il giorno della partenza? I suoi filatteri? Il suo scialle rituale? Il santo rotolo, ereditato dal suo celebre antenato Rabbi Meirl di Premishian? No, certamente no, neppure questi tesori. Ha portato via tutto, convinto com'era che avrebbero garantito la sua protezione e quella dei suoi adepti. Si è sbagliato, il rabbino miracoloso. Non pensiamo dunque a lui, non adesso. L'orologio, pensiamo all'orologio. Forse è stato risparmiato. Vediamo, tre passi a destra. Alt. Due in avanti. Riconosco il posto. Istintivamente mi preparo a ripetere Ì gesti di allora. Cado in ginocchio. Con che cosa scavare? Nel granaio c'è una pala, la porta non è chiusa a chiave. Ma, frugando nel buio, rischio, con un movimento maldestro, di allarmare le persone addormentate nella casa: mi prenderanno per un vagabondo, un ladro, mi consegneranno alla polizia, mi uccideranno forse, Pazienza, rinunciamo alla pala. E agli altri utensili. Mi servirò delle mie mani, delle mie unghie. Non è facile. Il terreno è duro, gelato; resiste. Sembra deciso a conservare il suo segreto. Non importa, lo punirò, lo vincerò. Le mie mani smuovono la terra febbrilmente e con furore, senza sentire né freddo né fatica né dolore. Una scalfittura, un'altra: non è niente. Continuiamo. Le unghie avanzano, centimetro dopo centimetro, le dita affondano, le spingo avanti, tutto il mio essere si unisce alla loro fatica. Poco a poco la buca si fa più profonda. Acceleriamo il ritmo. Ecco la mia fronte tocca il suolo. Quasi. Invaso da sudore freddo, intirizzito, deliro. Più presto, più presto. Perforerò la terra da parte a parte, ma saprò. Nulla potrà fermarmi o spaventarmi. Andrò fino in fondo alla paura, fino in fondo alla notte, ma saprò. Che ora era? Da quanto tempo mi trovavo lì? Cinque minuti, cinque ore? Vent'anni. La notte si perpetuava al di là del tempoLavoravo per dissotterrare non un oggetto, ma il tempo stesso, l'anima e la memoria di quel tempo. Nulla mi sembrava più urgente, più vitale-
Improvvisamente fui scosso da un sussulto. Sensazione acuta simile ad un morso. Le mie dita avevano toccato un oggetto duro. Un oggetto metallico. Rettangolare, Non avevo dunque scavato invano. Tutto prese a vacillare attorno a me, sopra di me; dovetti alzarmi per riprendere fiato. Poi mi chinai sulla scatola e la estrassi dalla sua tomba, con prudenza, con dolcezza. Eccola nel palmo della mia mano: l'ultima reliquia, l'unico simbolo di ciò che avevo amato, di ciò che ero stato. Una voce in me disse: non aprirla, contiene solo del vuoto, gettala via e vattene. Non l'ho ascoltata. Era troppo tardi per tirarmi indietro. Avevo bisogno di una certezza, non importa quale. Una leggera pressione del pollice e la scatola si aprì. Dovetti trattenere un grido: l'orologio c'era. Presto, un fiammifero. Presto, un altro, Fuggevol-mente, tra due respiri, potei contemplarlo. Una lacerazione: il mio orologio, quello? La mia fierezza? Il mio passato? Coperto di sporcizia e di ruggine, formicolante di vermi, l'oggetto era irriconoscibile, ripugnante. A lungo immobile, lo fissai con il disgusto che ispira l'amore tradito, il corpo avvizzito, chiedendomi che cosa ne avrei fatto. Adesso mi pentivo amaramente di aver ceduto alla curiosità- Poi una profonda pietà subentrò, in me, alla delusione. Anche lui, l'orologio, aveva vissuto la guerra e l'olocausto, quelli degli orologi, forse. A suo modo anche lui era un sopravvissuto, uno spettro umiliato dalle sue ferite, dai suoi ricordi morti. Allora ebbi voglia di portarlo alle labbra, sporco com'era, di baciarlo e di consolarlo piangendo, come se fosse stato un essere vivente, un amico malato che, tornando da lontano, avesse bisogno di molta tenerezza e riposo, soprattutto di riposo. Lo toccai, lo accarezzai. Oltre alla compassione, provavo nei suoi confronti una singolare riconoscenza. Il fatto è che gli uomini che avevo creduto immortali sono scomparsi oltre la bruma incendiaria; Ì miei maestri, i miei amici, le mie guide mi hanno abbandonato. Mentre questo oggetto, senza nome né respiro, è sopravvissuto ad essi per accoglier
mi a casa mia, e dare un seguito alla mia infanzia. Perciò sentivo il desiderio di parlargli, di aprirmi a lui. Gli avrei raccontato le mie avventure e avrei ascoltato, in cambio, le sue: cosa era accaduto qui durante la mia assenza? Chi fu il primo ad occupare la mia casa, il primo a dormire nel mio letto? O piuttosto, no: ci saremmo riservati le nostre confidenze per un'altra volta, altrove. A Parigi, New York, Gerusalemme. Prima lo avrei affidato al migliore orologiaio-orafo del mondo: affinchè l'orologio ritrovi il suo splendore, la sua memoria di un tempo. SÌ stava facendo tardi. L'orizzonte già s'arrossava. Dovevo andarmene; meglio se al più presto. Gli inquilini non avrebbero tardato a svegliarsi, sarebbero venuti al pozzo ad attingere l'acqua. Non c'era tempo da perdere. Ficcai l'orologio in tasca e mi diressi fuori dal giardino. Penetrai nel cortile. Sotto il portico, un cane abbaiò e subito tacque; capiva che non ero un ladro, che ero tutto fuorché un ladro. Aprii il cancello, ero già nella strada, quando un violento rimorso s'impadronì di me: avevo appena commesso il mio primo furto. Tomai indietro, riattraversai il cortile e il giardino, e andai ancora una volta ad inginocchiarmi sotto il pioppo, come alla funzione di Yom Kippur. Il cuore e gli occhi asciutti, rimisi l'orologio nella sua scatola, richiusi il coperchio e il mio primo regalo ritornò nel suo nascondiglio in fondo alla buca nera. Poi con le due mani colmai e livellai la terra in modo che nessuno potesse rilevarne le tracce. Oppresso, ansimante, ritrovai la strada ancora deserta. MÌ interrogai sul senso del mio atto e non potei spiegarmelo. Ora, a distanza di tempo, mi dico che forse era solo il desiderio di lasciare dietro di me, nel suolo muto, un riflesso della mia presenza. O forse ho voluto fare di quell'orologio ritrovato e perduto lo strumento di una vendetta a scoppio ritardato: un bambino giocherà un giorno nel giardino, scaverà sotto l'albero e s'imbatterà nella scatola di
metallo; saprà così che i suoi genitori erano degli usurpatori, e che tra gli abitanti della sua città, una volta, c'erano degli ebrei, dei bambini ebrei, mutilati del loro avvenire. Il sole era spuntato, camminavo per strade e stradine, e mi sembrava di udire i canti degli scolari che, al f?edsf, imparavano il Talmud fin dall'aurora, le invocazioni dei fyasidim che, in trentatrc posti contemporaneamente, celebravano la funzione del mattino. AI di sopra dei loro incantesimi, percepivo, vicino e lontano, il tic-tac dell'orologio che avevo appena seppellito in conformità alla legge ebraica. Poiché, dopotutto, si trattava del primo regalo che un bambino ebreo aveva ricevuto un tempo per la sua prima festa.
Da allora, la città della mia infanzia non è più, per me, una città come le altre. Essa è il quadrante di quell'orologio.
APPUNTAMENTO CON L'ODIO
Scrive Albert Camus in Lettere ad un amico tedesco: « Ecco perché, alla fine di questo conflitto, dal seno di questa città che ha assunto il suo volto infernale, al di là di tutte le torture inflitte ai nostri, nonostante i nostri morti sfigurati e i nostri villaggi di orfani, posso dirvi che, nel momento stesso in cui ci accingiamo a distruggervi senza pietà, non proviamo alcun odio contro di voi. E anche se domani, come tanti altri, dovessimo morire, saremmo ancora senza odio ». È pensando a questo umanesimo tragico di Camus che sono tornato in Germania, molti anni dopo averla lasciata — lasciata, come si suoi dire, per sempre. Vi sono tornato non allo scopo introspettivo o terapeutico di esorcizzare qualche demone invecchiato e certamente fuori moda, quanto piuttosto per affrontarlo faccia a faccia. Invece di chiudere definitivamente le parentesi, speravo coglierle nel punto preciso in cui aprendosi, sorte da una notte interminabile di primavera, mi avevano preso nei loro artigli. L'uomo è così fatto che i misteri dell'inizio lo affascinano più di quelli della fine. Attende la venuta del Salvatore, ma è Caino che lo ossessiona. II criminale non è il solo a ritornare sul luogo del delitto: vi è raggiunto dalla vittima. La stessa curiosità li agita, la stessa passione li domina: rivivere l'istante preciso che, per tutti e due, legò il passato e l'avvenire. La moglie di Lot, gettando uno sguardo indietro, ci appare più umana di suo marito; il suo movimento
risponde a un'angoscia più profonda, poiché pone il problema non della giustizia ma della durata. Perciò un giorno ho deciso di includere nei miei pellegrinaggi alle fonti un viaggio in Germania per assistere, da spettatore se non da testimone, a un duplice confronto: tra loro e me, e anche tra il me prigioniero e l'altro che si credeva guarito, liberato. Come previsto, il confronto ebbe luogo. Mi ha schiarito la mente, insegnandomi quale sia l'influenza del tempo sul cuore: qualunque cosa si faccia, tutto cambia. Le cose che l'occhio guarda, e l'occhio che le guarda. Qualunque cosa faccia, l'uomo genera la propria mutazione. Gli antichi hanno visto giusto: il fiume scorre e, per i nuotatori, non vi è possibilità di ritorno. La casa brucia, ma l'orologio continua a segnare le ore. Nessuno può giudicare veramente il proprio passato poiché la sua visione stessa Io separa da esso; non si tratta più dello stesso passato- Nessuno ritorna sui propri passi; il percorso rimane lo stesso, ma chi ritorna cambia lungo il cammino. Per molti anni ho evitato di rivedere la Germania, sicuro di ritrovarvi il mio odio intatto, eterno. Ero contro il liberalismo a buon mercato che vuole l'oblio e il perdono — e l'assoluzione — in nome di imperativi politici o religiosi. Chi ama Ì propri nemici, dicevo a me stesso, si fa dell'amore un'idea pericolosamente falsa, e dell'uomo un'idea pericolosamente irreale. Chi uccide per amore — o semplicemente con amore — finisce con l'uccidere quell'amore. Per l'uomo, condannato a scegliersi carnefice o vittima, l'amore e ciò che lo nega non vanno di pari passo, e nessuno ha il diritto di riconciliarli, È l'uno o l'altro, l'uno opposto all'altro. L'omicidio, per sua stessa definizione, esclude l'umano. Punto d'arrivo e non tappa, l'assassinio costituisce un attentato contro l'immortalità promessa all'uomo. Chi uccide, uccide Dio. Ecco perché non è sufficiente combattere l'omicidio e l'omicida, ma bisogna anche odiarli. Questo era ciò
che pensavo, ciò che desideravo senza confessarlo a me stesso. Con 'gli anni si impara che i sentimenti, come le persone, ci sfuggono. Con gli anni le sorgenti più vitali finiscono per inaridirsi. Quella dell'amore e quella dell'odio. Rivivere l'uno non è meno deludente che ritufTarsi nell'altro. Invece di riportarne un rinesso della nostra primitiva innocenza, ne riemergiamo impoveriti. Le promesse e gli impegni che un tempo riempivano le nostre giornate, colmando di significato ogni nostro gesto, eccoli esangui, alienati. Credevamo di portare in noi dei vulcani addormentati; invece sono spenti. Chissà: può darsi che odiare, come amare, si coniughi soltanto al presente. DÌ proposito dunque evitavo ogni contatto con quei tedeschi che avevano fatto la guerra. Per non dover incolpare questo, assolvere quello: non ci tenevo ad entrare nei particolari. Allo stesso tempo protestavo contro la colpevolezza collettiva: tutti i tedeschi non erano egualmente colpevoli né egualmente complici: c'erano perfino degli innocenti. Non avrei potuto dialogare con questi? Sì, potevo. Teoricamente. Razionalmente. Salvo che, ai miei occhi, qualsiasi argomentazione riguardante la Germania dipendeva dall'irrazionale. Sì, è con apprensione che mi preparai al viaggio in fèndo al quale presumevo mi aspettasse il mio odio. Ignoravo che non si sarebbe presentato all'appuntamento. Diserzione che non avevo creduta possibile. In realtà, alla Germania del dopo guerra non mancava proprio nulla per farsi detestare. Che abbia superato i suoi vincitori come potenza economica, passi. Ma mi era difficile perdonarle la sua sufficienza. E anche la sua buona stella: non le sono stati imposti né pentimento né espiazione. Città splendide, prospere. Edifici moderni, lussuosi. Mescolatevi alla gente comune, agli sfaccendati; osservate i
passanti. Procedono diritti, a testa alta, fieri: nessuno spavento nelle loro espressioni, nessun fardello sulle loro spalle. Il passato non li preoccupa più, siamo i soli a pensarci. Rivolgete loro la parola e vi fissano nel bianco degli occhi come se non avessero nulla da temere, nulla da nascondere; non hanno conti da rendere a nessuno. Per pura cortesia saranno disposti a concedere che non sono più superiori a noi, ma insisteranno per essere nostri eguali. L'uomo tedesco ha ripreso il suo posto tra gli uomini; non permette più che lo si giudichi. Che i giovani, nati durante e dopo il nazismo, assumano un simile atteggiamento, è nel loro diritto. Ma non sono i giovani. Al contrario; meno arroganti, non pretendono che il loro popolo sia al riparo da ogni sospetto, al di sopra di ogni critica. Questo genere di arroganza pare essere l'esclusivo privilegio dei loro genitori. Durante la guerra, non è così che immaginavamo i tedeschi nella sconfitta. Eravamo convinti che molta acqua sarebbe trascorsa nel Reno prima che un compatriota di Adolf Eichmann avesse osato incrociare Io sguardo di un uomo libero. Gli stessi tedeschi condividevano questa convinzione. Bastava osservarli, soprattutto dopo Stalingrado, soprattutto dopo lo sbarco in Normandia. Il castigo che paventavano aveva il sapore di una maledizione: sarebbero stati colpiti da scomunica, e questo fino alla settima generazione. Dopo la capitolazione, non sapevano dove rintanarsi. In ginocchio, coperto di macerie, il loro paese devastato era a mezza strada tra il pretorio e il cimitero. Attanagliati dal terrore, braccati, gli abitanti respiravano il rimorso. Perpetuamente all'erta, sospettavano un giustiziere in ogni straniero. Il fatto è che attribuivano ai sopravvissuti una sete di vendetta — e di giustizia — proporzionata alle atrocità che avevano loro inflitto. Se abbordavate un qualsiasi cittadino, non importa dove in Germania, subito piagnucolava: « Io
non ho fatto niente, non ho visto niente, non sapevo niente ». Oppure: « Ero al fronte, all'ospedale, in un ufficio, in prigione ». O ancora; « I treni, sì, li ho veduti dirigersi verso l'est; ho visto il fumo all'orizzonte, ma non sapevo, non potevo sapere ». Prima di passare agli affari, ogni cittadino tedesco si sentiva in dovere di discolparsi, di farsi perdonare. Vennero i grandi processi, tipo quello di Norimberga, Sollevati, i tedeschi non poterono che stupirsi: come, non è dunque con noi — o anche con noi — che ce l'hanno? Se la prendono solo con i capi, con i grandi responsabili? Osavano appena crederlo: come, il tedesco medio sarebbe stato quindi lasciato in pace, senza nemmeno costringerlo a fare penitenza? Gli ebrei che incontravano — rifugiati in transito per l'America o la Palestina — li scrutavano sospettosi: cosa vogliono da noi? cosa stanno macchinando? Progettano qualche vendetta; i tedeschi erano pronti a giurarlo. Si arresero presto all'evidenza: le loro paure non avevano avuto alcun fondamento. Come conseguenza, segretamente, divennero sprezzanti: « Guardate questi ebrei, non approfittano della situazione per farcela pagare ». E questo, un poco alla volta, consentì loro di rivendicare l'assoluzione totale: « Se il mondo non ci accusa di nulla, vuol dire che non abbiamo fatto nulla. Hitler? Avreste potuto moderarlo, smascherarlo. Prendetevela con la Francia e con la Gran Bretagna. Non con noi, E i campi? Prima di tutto, esagerate certamente, non erano né così numerosi né così orrendi. In secondo luogo, la loro esistenza era nota a Washington, in Svizzera, in Vaticano: i vostri capi non hanno detto nulla. AI silenzio del popolo tedesco si è aggiunto quello del mondo cosiddetto civile. Allora perché scagliare la pietra? ». Così cominciarono a sviluppare la tesi che la complicità dell'Occidente, una volta stabilita, non avrebbe mancato di diminuire la loro. Da quel momento si diedero alla pazza
gioia. Documenti, studi, opere teatrali, saggi politico-filoso--fici: facevano a chi gridava più forte contro questo o quel personaggio più o meno celebre, più o meno rispettato. Churchill, Rooseveit, i dirigenti sionisti, i governi dei paesi neutrali, i militari, Ì diplomatici: tutti erano al corrente, tutti avevano optato per l'inazione- Come i tedeschi. Risultato: i tedeschi non si sentono più a disagio di fronte al visitatore straniero, non recitano più la parte del martire perseguitato per impressionarlo. Sono come sono, e se non li trovate di vostro gradimento, peggio per voi: il problema è vostro, non loro. È finito il tempo in cui cercavano l'approvazione universale. I loro rapporti con il mondo si svolgono ormai sul piano della politica; la morale non c'entra più. Finito il tempo delle mascherate. La Germania, che durante i primi anni che seguirono la disfatta brulicava di commedianti travestiti, di bugiardi untuosi e servili, è finalmente tornata se stessa. Non sentirete più maledire Hitler per discolpare se stessi. Per riuscire gradito, il tedesco medio non dirà più: non sono stato io, sono stati gli altri. Un tempo questo rendeva. Adesso non più. Adesso sentirete il tedesco medio dichiarare alla televisione che gli autori dell'attentato del 20 luglio 1944 erano dei traditori, E che le SS avevano compiuto il loro dovere patriottico, I processi di Auschwitz? Una serie di farse noiose. Gli imputati sono membri rispettabili e rispettati della società: una condanna per crimini di guerra e contro l'umanità non fa più vergogna in Germania, Prescrizione o no, i processi di questo genere hanno durato troppo a lungo; l'opinione pubblica si interessa ad essi solo moderatamente. La sofferenza delle vittime? Non parlatene più ai tedeschi di oggi. Il loro passato riguarda soltanto loro. Il partito nazista, è affar loro, Non vostro. E affar loro è il congresso dei revanscisti fanatici. Affar loro la rinascita di gruppi di SS. Affar loro la stampa fascista, Affar loro il fatto che migliaia di ex carcerieriassassini si pavoneggino liberamente per le vie di Am-
burgo o di Stoccarda. Affar loro anche gli scoppi di risa dei seviziatori in faccia agli scampati, sotto gli occhi del tribunale, Ciò che avviene in Germania riguarda solamente la Germania: il mondo non ha più alcun diritto su di lei. Ecco come la pensa il tedesco medio, ex soldato della Wehr-macht, ex membro del partito nazista, ex complice degli esperti concentrazionari. Ecco insomma perché dovrebbe essere facile odiarlo, lui e ciò che evoca, che rappresenta. Eppure, se ho dovuto abbreviare la mia visita e riprendere l'aereo per Parigi dopo solo ventiquattr'ore, è stato perché non mi riconoscevo più: avevo perso il gusto dell'odio. Solo il primissimo contatto fu come l'avevo immaginato Ìn anticipo- Nel posare il piede sul suolo tedesco mi sentii percorrere da un brivido, scorgendo le uniformi. Al doganiere che mi interpellava in tedesco, rispondevo in francese: frasi brevi, sferzanti. E lui, di una cortesia impeccabile, mi squadrava con aria più allibita che offesa: non capiva la mia ostilità, non vi era più abituato. Taciturno, passeggiavo per i viali affollati di gente frettolosa o spensierata, e di tanto in tanto la mia attenzione si fissava su di un volto: « Anche lui? ». Lo scrutavo con insistenza, volevo vedere l'invisibile; cosa aveva fatto durante la guerra? Come sapere se laggiù le nostre strade si erano incrociate oppure no? Mi sentivo in territorio nemico, allo scoperto. Stavo continuamente in guardia, come se un pericolo, allo stesso tempo oscuro e familiare, fosse in agguato ad ogni mio passo, ad ogni angolo di strada, Una giovane donna si avvicinò e mi chiese la strada per la stazione. Risposi che non la conoscevo. Aggiunsi: non sono di qui. Mi sorrise e mi ringraziò. Stavo per ricambiare il suo sorriso, quando mi resi conto che la conversazione si era svolta in tedesco. Un poco più tardi mi lasciai andare di più. Cedevo. Mi parlavano, rispondevo. E ascoltandomi sciorinare le solite
oanama, si-grazie, no-grazie, state bene-grazie, dominavo a stento la mia meraviglia. Nessuna traccia di odio nella mia voce. Nessun rancore o amarezza nel mio modo di comportarmi. Invece di gridare allo scandalo, invece di gettar loro in faccia la mia rabbia, non facevo che mormorare. Ecco perché ho lasciato la Germania dopo un solo giorno, invece di un mese; non sapevo di non essere più capace di odiare. Ne provavo una vergogna, un rimorso senza nome: mi sembrava di tradire i morti, In verità, avrei dovuto aspettarmelo. L'odio, fosse pure verso il nemico, non ha mai avuto diritto di cittadinanza nella tradizione del mio popolo. Il re Salomone ci proibì di rallegrarci per la disfatta dei nostri aggressori. Saul rifiutò di giustiziare Agag, re degli Amaleciti, simbolo del nemico ereditario di Israele. Agli angeli che intonavano cantici per celebrare il passaggio degli ebrei attraverso il Mar Rosso, Dio disse con irritazione: « Le mie creature (gli egiziani) stanno annegando, e voi vi mettete a cantare? », Fatto caratteristico: le rare volte in cui la parola « odio » compare nella Scrittura, si tratta sempre di un odio di famiglia, di tribù o di vicini di casa. Gli ebrei non si fidano degli stranieri, ma non li odiano. La Toràh ci ordina di ricordarci di Amalek, non di odiarlo. Duemila anni di persecuzioni, invece di preparare l'ebreo all'odio, lo hanno immunizzato contro di esso, I nostri saggi non si aspettano che l'ebreo ami il proprio nemico; ma non gli chiedono di odiarlo. Odiare sarebbe assomigliargli. Ora l'ebreo è stato fatto per rimanere ebreo, per sempre. Per questo oppone l'attesa messianica ai messia sanguinar!. L'odio è un'attesa mancata, tradita. Solo l'ebreo che si rinnega è capace di odiare. DÌ odiare se stesso, È l'altro in lui che odia. Notiamo anche che, propaganda a parte, i rapporti tra ebrei e tedeschi, anche ai tempi dell'Apocalisse, sono stati privi di odio, il che conferisce ai crimini la loro reale dimensione di orrore.
« Non sono un antisemita! » proclamava Adolf Eichmann, proprio lui che aveva organizzato i convogli della morte- Può darsi che non abbia mentito. Sterminava gli ebrei senza odiarli. Come la maggior parte dei suoi colleghi vedeva negli ebrei non degli esseri umani, ma degli oggetti, dei numeri. E non si odiano i numeri. Quanto agli ebrei, consideravano i tedeschi come una macchina destinata a stritolare gli esseri umani; e non si odia una macchina. La pietra che ci schiaccia, la bestia che ci divora non si odiano. Non c'è che l'uomo per ispirare l'odio, e per subirlo. Non c'è che l'ebreo per non rispondere ad esso. I rapporti dell'ebreo con ciò che gli è estraneo sono basati sul reciproco rispetto. Ve'ahavfem 'et hii-ger, dice la Toràh: amerete lo straniero, perché siete stati stranieri in Egitto. In altri termini: non cercate di modificare, di rimaneggiare ciò che non vi rassomiglia. Ecco un tratto essenziale dell'atteggiamento ebraico verso le altre culture e religioni: l'ebreo non cerca di cambiarle, di sostituire le loro qualità con le sue. Nemico di ogni proselitismo, non pretende di imporre la propria verità agli altri. È proprio perché teneva a rimanere fedele a se stesso che, nel corso dei seco,Ii, è stato perseguitato. È perché rifiutava un amore che non era il suo, una salvezza che non veniva dalla sua memoria collettiva, che si attirava l'odio. Non cercando di convincere l'altro, e meno ancora di convertirlo, non aveva alcun motivo per odiarlo. Non avendo mai patito questa delusione, non provava quella stizza che il cristiano del Medioevo manifestava nei suoi confronti. Il dio degli ebrei è talvolta il dio della collera, ma mai dell'odio. Eppure, per la generazione dell'olocausto, dovrebbe esserci un tempo per amare e un tempo per odiare. Entrambi i sentimenti sono umani. Chi non odia quando dovrebbe odiare, non riesce ad amare quando trova chi amare. Forse
se avessimo imparato a odiare durante gli anni della prova, il destino si sarebbe preso paura. Ma ne eravamo incapaci. Non c'è niente da fare : l'odio non sarà mai per noi un culto o un comandamento. Se dovessimo odiare tutti quelli che ci hanno odiato, avremmo da tempo perduto ogni desiderio di sopravvivere.
RITORNO A MOSCA
Anche quest'anno, ci sarà festa a Mosca. Lo so. A migliaia, dei giovani ebrei verranno in via Arkipova, non lontana dalla Piazza Rossa, per/are comunione con i loro fratelli dell'altra parte delle frontiere, e questo nel senso più ampio della parola. Verranno per portare la prova che essi non hanno dimenticato Simhat-Torah, né ciò che questa festa simboleggia: un legame con la storia ebraica, una parentela indissolubile con il popolo ebraico. Venendo, daranno prova di fedeltà. Non so se potrò essere dei loro. Mi riprometto di darmi da fare. Il fatto è che, dopo le mie due visite nell'Unione Sovietica, sono convinto che questa festa, all'aria aperta, non può essere celebrata in alcun altro luogo. Come Pentecoste evoca il Sinai e il nono giorno di Av ricorda la distruzione del Tempio, così Siml^at-Torah sarà d'ora in poi associata agli ebrei del silenzio. Per colui che partecipa alla loro gioia, ogni attimo diventa privilegiato: una vittoria sul silenzio. Più che a Brooklyn, più persino che a Gerusalemme, è laggiù, a Mosca, a Taskent, a Tbilisi, che si può cogliere l'ampiezza e la profondità dell'attaccamento ebraico alla gioia e alla forza che racchiude. Il hasid più fervente imparerebbe dallo studente più alienato come raggiungere l'estasi, come trasformare il canto più semplice in atto di fede, in sfida. Scene esaltanti, incontri strazianti, li ho già vissuti due volte. Il racconto che segue vuole tentare di descrivere la mia seconda visita. Mai prima di allora, e mai in seguito, ho provato un'emozione simile. Non sapevo che Simhat-Torah potesse avere un prolungamento diverso da quello religioso. I canti, gli appelli che si sono sentiti quella sera a Mosca, li ho portati con me, lontano da Mosca, e li ho riuditi per molto tempo, dopo. Li odo ancora.
La vigilia, all'università e nelle scuole superiori, erano stati fatti circolare, tra gli iniziati, dei volantini manoscritti ed anonimi: « La sinfonia di Sim^at-Torah. Questo giovedì. Solito posto; solita ora ». Parola d'ordine che scatenò immediatamente una febbrile attività tra le file studentesche ebraiche. L'avviso veniva trasmesso da mano a mano, da bocca a orecchio: è per domani. Inutile precisare l'ora: appena farà buio. Né il luogo: davanti alla sinagoga. Né il senso del messaggio; non si trattava di un concerto, ma di un pellegrinaggio, E questa volta ancora, come l'anno precedente, al crepuscolo, Ì giovani si misero in cammino. Studenti, funzionari, operai, ragazzi e ragazze, uomini e donne, tutti avidi di fraternità o semplicemente di ricordi, arrivavano da ogni parte, isolati o in gruppo, con i libri di scuola sottobraccio o la chitarra a tracolla, per inserirsi nella tradizione del popolo ebraico disperso e unirsi al suo canto se non ai suo destino. Non era ancora scesa la notte e già in via Arkipova, chiusa al traffico automobilistico per la circostanza, la folla ingrossava di minuto in minuto, a vista d'occhio. Le cupole dorate del Cremlino rinviavano ancora al sole i suoi violenti colori d'incendio e già, qui, la festa raggiungeva il suo culmine. Risa e urla, come per liberarsi da fardelli invisibili; danze e chiasso fino a tarda notte, fino allo sfinimento e assai oltre, come esige la tradizione, fino al delirio e assai oltre. E una volta ancora mi ritrovai in mezzo a quella moltitudine tumultuosa, testimone alla ricerca di una sua giustificazione nella sua stessa testimonianzaVolti febbricitanti, sguardi ardenti, gioiosi. Più ferventi, più numerosi dell'anno precedente- Diecimila? Trentamila? Nel timore di incidenti o malori, sempre possibili, la polizia aveva ritenuto necessario installare posti di soccorso, di pronto intervento. Con ambulanze ed infermieri. Precauzioni superflue. Non un solo caso di svenimento. Non un
collasso. Come l'anno precedente, Ì manifestanti stavano stretti e non si lamentavano. Al contrario: se ne facevano un vanto. Esuberanti, danzavano la hora, e la terra tremava sotto i loro piedi. I loro clamori si perdevano lontano, a squarciare la notte. Cantavano in ebraico, in yiddish e in russo, e, senza rendersene conto, lanciavano in faccia al mondo circostante, come una sfida, la continuità di Israele e la sua sopravvivenza, imponendo cosi un significato dimenticato a questa festa antica che deve per l'appunto ricordare l'eternità d'Israele. Come l'anno prima, la strada sembrava inserita in un universo irreale, lontano, quello della leggenda, quello di Gerusalemme dove, un tempo, da tutti gli angoli della Giudea, gli abitanti, grandi e piccoli, venivano a celebrare lo stesso avvenimento, nella stessa maniera, pervasi dallo stesso ansito. Con il cuore in tumulto, colmo di stupore, traversavo e riattraversavo la strada senza sosta, con la sensazione di non muovermi affatto. Andavo da un cerchio all'altro, da un coro all'altro e, dappertutto, era lo stesso gruppo che sembrava intento a compiere lo stesso rito, obbedire allo stesso comando- Dovunque si gridava che il re Davide, il re d'Israele è vivo. Si sarebbe detto un unico girotondo moltiplicato per mille, nel mezzo del quale stava il vincitore di Golia, invisibile e presente, invisibile e vivente. Lo spettacolo faceva pensare allo stesso tempo ad un festival chassidico e a una sagra. Scuoteva abitudini e difese, e non permetteva ad alcuno di starsene a lungo in disparte. I timidi avevano dimenticato le loro inibizioni, i timorosi la loro prudenza. Lo spettatore più chiuso era diventato partecipe- E in mezzo a quella folla giubilante, lo straniero qual ero io si sentiva più a casa sua che nella sua stessa casa, altrove. Qui ho ritrovato il fervore della mia infanzia, seppellito se non soffocato da qualche parte sotto le macerie.
Più concretamente, ho ritrovato anche alcuni ospiti di una sera, che avevo conosciuto l'anno precedente proprio in questo stesso luogo e nelle stesse circostanze. Due di loro, di cui un ingegnere originario di Minsk, mi evitavano al punto da non rispondere al mio saluto. Più tardi dovevo saperne il motivo: il fatto di avere avuto allora una conversazione con me era costato loro un interrogatorio da parte della polizia segreta. Rilasciati dopo ventiquattr'ore, non era loro accaduto niente. Ma non ci tenevano a ripetere l'esperienza. In compenso, Ì più si rallegravano nel vedermi di nuovo e non cercavano affatto di nasconderlo. Alcuni mi augurarono il benvenuto. Altri si accontentarono di toccarmi il braccio. Un interprete, impiegato presso l'Istituto di lingue straniere, mi strinse la mano mormorando: Bene, molto bene! Un'istitutrice mi disse: Grazie. Di che cosa mi ringraziava? Di essere ritornato? Di non avere dimenticato? Una studentessa, carina e radiosa, lasciò il suo gruppo e venne verso di me tendendomi le mani: siete di nuovo dei nostri? Di lei mi ricordavo. Il nostro breve incontro mi aveva colpito. Animatrice di un coro parlato, mi aveva confessato la sua totale ignoranza dell'ebraismo. Il poco che ne sapeva le era arrivato storpiato, in forma caricaturale. La religione ebraica? Antiquata, desueta. Il popolo ebraico? Composto da capitalisti, commercianti, imbroglioni e usurai. Lo stato di Israele? Imperialista, razzista. Ma allora, perché veniva a celebrare la festa della Legge? Perché si accaniva a voler rimanere ebrea? La sua risposta: perché? perché mi piace cantare. Non mi chiese perché fossi tornato, e gliene fui riconoscente. Ci guardammo un istante senza dire una parola. Poi il suo volto si aprì e mi trascinò verso i suoi amici: venite a cantare con noi. Ed era come se mi avesse detto: venite e vi sentirete ebreo come noi. Mi unii al girotondo.
I canti e le danze raddoppiarono di vigore. La testa mi girava- Mi lasciai trasportare dalla marea scatenata, agitata da ricordi di un'altra età. L'anno precedente, assistendo allo stesso spettacolo, avevo creduto di vivere un sogno. Perciò ero tornato: per convincermi del contrario. Ebbene, non ne sono per questo più convinto. Il fatto è che la mia seconda visita nella Russia sovietica, la sera di Simhat-Torah, la più ebraica delle feste ebraiche, è stata identica alla prima: lo stesso sogno era 11 ad attendermi, Non avevo preso a cuor leggero la decisione di ritornarvi. Non perché temessi delle complicazioni. Non rischiavo nulla e lo sapevo. L'era staliniana appartiene al passato. II terrore poliziesco ha ceduto davanti a un sistema che, dòpo la morte del tiranno e nonostante gli sconvolgimenti interni del Cremlino, tenta di liberalizzarsi. Gli arresti, quando non prendono di mira gli intellettuali, non sono più arbitrari. Il cittadino ha riconquistato alcuni dei suoi diritti; non è più tallonato ad ogni passo dal sospetto. A meno che non sia cinese o maoista, lo straniero non è più trattato come una spia o come un nemico. D'altra parte, avevo ottenuto il mio visto senza difficoltà. Nonostante Ì miei articoli, apparsi in diverse riviste dopo il mio primo viaggio, non figuravo su alcuna lista nera. Perdi più, il mio arrivo nella capitale sovietica, coincideva con la pubblicazione a Parigi del mio libro: Les Juifs du silence. Non me ne venne alcuna noia- Non fui molestato in alcun momento del mio soggiorno. Non credo di essere stato sorvegliato. Ero padrone dei miei movimenti. Poliziotti, doganieri e agenti dell'Intourist erano cortesi, servizievoliSe Ì servizi interessati erano informati su di me, il che mi sembra probabile, dovevano aver prestato fede alle dichiarazioni secondo le quali Ì miei scritti non hanno come scopo quello di fomentare la guerra fredda.
Le mie esitazioni erano di tutt'altro ordine. Temevo una delusione. La celebrazione di Simfyat-Torah, ripetendosi, non avrebbe perso della sua forza, del suo fascino? Non era una di quelle esperienze originarie che, per salvaguardare il loro segreto, debbono rimanere uniche ed irraggiungibili? A forza di ricordarmene, la vivevo in anticipo; essa si ergeva davanti a me come un ostacolo, togliendo all'avvenire la sua dimensione d'imprevisto, la sua parte di sorpresa. Non avrebbe potuto essere come la prima volta. La prima volta ero passato di stordimento in stordimento, di miracolo in miracolo, e ogni avvenimento, carico di mistero, si offriva a me come un segno di speranza. Sarebbe stato così anche la seconda volta? Pesavo il prò e il contro; la logica era contro: ci sono dei viaggi che bisogna intraprendere soltanto una volta. Finalmente optai per il ritomo. Non so che cosa abbia fatto pendere la bilancia. Forse il desiderio di aver la prova che gli appelli alla gioia, raccolti e portati con me l'anno prima, non erano il sogno di un allucinato. E inoltre ero affezionato a quegli ebrei. Qualcosa in loro mi attraeva. La loro capacità di fare del silenzio e del canto un atto di sopravvivenza. I loro tormenti e le loro vittorie-1 loro occhi, soprattutto i loro occhi, che ti fanno piangere di commozione, di nerezza, di vergogna, sì, anche di vergogna. Eccoli in via Arkipova, raggianti, invincibili. Alcuni gridavano: chi siamo noi? Gli altri rispondevano: ebrei! Cosa siamo noi? Ebrei! Risposte semplici a domande semplici, non come altrove, nei grandi centri ebraici del mondo occidentale, dove tutto quello che si riferisce all'ebraismo scoraggia per il suo Iato complesso e apologetico. Qui tutto è chiaro. E preciso. Cinquant'anni dopo la rivoluzione, si è ebrei perché si è ebrei. « Perché siete tornato? » mi chiese una giovane studentessa osservandomi con aria birichina. Come aveva fatto a leggere nei miei pensieri? Avrei voluto risponderle: sono
tornato perché mi avete insegnato una verità nuova, mai formulata prima, ed eccola: colui che fa dell'ebraismo un canto vale quanto colui che ne fa una preghiera. Ma doveva averlo capito. Così mi sono accontentato di sorriderle: « Perché sono tornato? Per sentirvi cantare ». Qualche ora prima avevo assistito alla funzione che si svolgeva all'interno della sinagoga. Più di tremila persone vi si pigiavano. Un ambiente insieme allegro e solenne. Come l'anno precedente. Più dell'anno precedente. Uomini, donne e bambini tutti insieme. Volti sudati, languidi, divorati dall'attesa, dall'ebbrezza. Si sarebbe detto che fossero coscienti del fatto che la loro comune presenza in quel luogo, quella sera, racchiudeva un significato che li superava: rappresentavano tre o quattro generazioni di ebrei che si cercavano e si trovavano, sapendo che quanto avevano in comune doveva essere tramandato. Per questo i devoti venivano a pregare, e i loro nipoti a guardarli pregare. Che cos'era cambiato dalla mia ultima visita? La sala mi sembrava più illuminata, il pubblico più giovane. I muri erano stati ridipinti. II cantore era nuovo: lo avevano « preso a prestito » da una sinagoga della periferia per succedere al havwn regolare, che andava per gli ottant'anni. Circondato da un coro di otto vegliardi, il sostituto raccoglieva un ben meritato successo. Il presidente della sinagoga era nuovo anche lui. Un personaggio taciturno, dall'aria cupa- Lo temevano e lo stimavano per gli stessi motivi: era stato funzionario della polizia segreta. Con le relazioni che aveva, poteva fare molto bene, o molto male. Fino a quel momento non avevano avuto di che lamentarsi: aveva una reputazione migliore di Aaron Vergelis, soprannominato « il politruk ebreo », unanimemente detestato. Il gran-rabbino, sulla stessa tribuna, non era nuovo, ma non era più Io stesso uomo. In un anno era invecchiato di
dieci. Le spalle curve, l'aria accasciata, emanava una rassegnazione opaca. Come se, dentro di lui, una corda si fosse spezzata. Stava di fronte ai partecipanti, ma sembrava non vederli. Il giorno del Gran Perdono, prima della preghiera per i morti, aveva pronunciato un sermone che aveva scandalizzato molti fedeli. Aveva commemorato l'olocausto e Ì suoi « due milioni di vittime ». Qualcuno lo aveva corretto: « sei milioni ». Testardo, il rabbino aveva insistito sul suo numero. Di fronte alle proteste scoppiate da ogni parte, era stato costretto a giustificarsi: si era riferito solamente a quegli ebrei che il nemico aveva massacrato in territorio sovietico: due milioni. Come se i tedeschi avessero fatto una distinzione tra gli ebrei russi e gli altri. Come se i loro piani di sterminio non mirassero al popolo ebraico nella sua totalità. Povero vecchio. Erano cinquant'anni che gli ripetevano che il popolo ebraico non esiste. Pure lo scaccino era invecchiato. Tetro, impassibile. Lui che non stava fermo un minuto, ora quasi non si staccava dalla sedia, di fronte al rabbino, davanti all'arca illuminata. LUÌ che sembrava essere dappertutto nello stesso momento, per sapere tutto e tutto raccontare, faceva errare sugli astanti uno sguardo assente. Al contrario, il piccolo spione dal cappello verde non era cambiato. Tutto in lui restava contorto, snaturato, odioso. Il suo lavoro apparentemente gli piaceva; si crogiolava nel disprezzo che suscitavaAveva sempre la stessa minaccia sulla bocca: « La milizia vi insegnerà a vivere ». Di tanto in tanto, per strada, di notte, gli capitava di venir bastonato di santa ragione da qualche giovanottone mascherato; non se ne lamentava mai. Incidenti sul lavoro che considerava come altrettanti titoli di gloria. Pure tra il pubblico molti volti familiari. I frequentatori abituali occupavano le prime file. II fratello di un Primo Ministro israeliano. Il cugino del sindaco di Tel-Aviv. Lo zio di uno scrittore era seduto dietro il nipote di un deputa
to. Erano poche le personalità ebraiche che non fossero rappresentate in quella salaNon uno, tra i membri di quella comunità, era senza parenti, più o meno stretti, in Europa, in America, in Israele. Il cantore aveva da tempo terminato la funzione di Ma'ariv. Un bambino interrogava il nonno: Cosa sriamo aspettando? E questi rispondeva: Pazienza, piccolo mio, pazienza. Stavamo aspettando che iniziasse la cerimonia delle Haqafot. Le persone non sembravano avere fretta. Si sentivano a loro agio, al sicuro. Si interpellavano, facevano conoscenza tra loro. Un uomo faceva ridere Ì suoi vicini: cercava un marito per la figlia. Insisteva: faceva sul serio. Gli domandavano: Tua figlia, dov'è? Fuori, nella strada. Stava ballando. Con i giovani. In questo caso, spiegavano al padre preoccupato, non datevi pensiero per lei: forse ha già trovato. Dalla tribuna si chiedeva silenzio. Un membro del comitato afferrò il microfono ed annunciò che l'invocazione d'uso, che avrebbe segnato l'inizio della cerimonia, sarebbe stata letta dal « direttore della scuola rabbinica, il gran-rab-bino Yehuda Leib Levin in persona ». Qua e là, qualcuno in vena di scherzare scoppiò a ridere. Della scuola rabbinica non era rimasto che il titolo di direttore. Terminata la preghiera, vennero estratti dall'arca i rotoli sacri per far loro compiere sette volte il giro della sala. Ai dignitari e ai visitatori stranieri toccò l'onore di aprire la processione, dietro al gran-rabbino- Spaventato dalla folla troppo fitta e visibilmente agitata, questi si tirò indietro all'ultimo momento: avrebbe fatto il giro non della sala ma della tribuna. Senza consultarci, decidemmo di non seguirlo. Dal pubblico qualcuno ci gridò: « Venite, venite da noi, vi stiamo aspettando! ». Con la Toràh stretta fra le braccia ci tuffammo nella massa che si richiuse sul corteo e lo smembrò. E come l'anno precedente, mi ritrovai prigioniero di mille mani tese, di mille occhi interrogativi, sferzato
dal pensiero che vedevano in me un messaggero recante non so quale consolazione. Ciascuno aveva qualcosa da chiedergli, qualcosa da confidargli. Una informazione, un favore. Un uomo anziano mi sussurrò all'orecchio: « Conoscete Chagall? », Per non deluderlo, mentii: « Si, lo conosco ». « Salutatelo da parte mia ». « Lo farò. Ma voi chi siete? », Esitò, e fini col mormorare: « Non ha importanza ». Se un giorno dovessi incontrare Chagall, gli farò la commissione. Forse comprenderà. Forse l'ebreo che mi ha dato l'incarico abita a Vitebsk, la città natale del pittore, ~ o uno dei suoi quadri. Un uomo pio, calotta nera e barba bianca, mi augurò lunga vita. « Altrettanto a voi » risposi. Scosse la testa: « Preferirei qualche altra cosa. Auguratemi di non disperare ». Una giovane donna dai capelli scarmigliati mi parlò in russo. Il suo vicino tradusse: « Possiate sopravvivere fino alla prossima festa ». Qui il termine « sopravvivere » sostituisce quello di vivere. Risposi; « Altrettanto voi ». Ella si chinò verso di me come se volesse baciare la Toràh: baciò invece la mia mano. Ad ogni passo mi piovevano addosso messaggi ed auguri, invariabilmente gli stessi: « Dite dovunque ai nostri fratelli che noi siamo con loro ». Oppure: « Che siano forti e prosperi! ». O ancora: « Non ci dimentichino, perché noi non li abbiamo dimenticati ». Procedevo lentamente e mi imbattevo in un uomo o in una donna che si ricordavano di me e dei quali mi ricordavo. Brevi incontri, scambi di frasi furtive, senza muovere le labbra. Per quella gente ero solamente un sogno che stava per abbandonarli, che stava per abbandonarmi. Quando raggiunsi il mio posto ero mezzo svenuto. Ero in un bagno di sudore, non ne potevo più. Due potenti martelli mi percuotevano le tempie. Alcuni amici mi invitarono ad accompagnarli fuori dove la festa impazzava. Non
mi sentivo in condizioni di farlo. Dovevo prima riprendere fiato: tornavo da molto lontano. Nella sala, la cerimonia seguiva il suo corso. Altri cortei si mettevano in moto. I canti mi giungevano da dieci diverse direzioni contemporaneamente. Mi indicarono un ex capitano dell'Armata Rossa che stringeva tra le braccia una Toràh e rifiutava di separarsene. Era vicinissime al microfono, la sua voce dominava quella degli altri. Cantava: « Sia lodato il Signore che ci ha creati per la sua gloria ». Dietro di lui, il gran-rabbino annuiva: si, sì, per la sua gloria. Altri fedeli si unirono a loro. Soltanto lo scaccino taceva. Lui che un tempo conduceva la danza, restava seduto al suo posto, con aria grave, perduto nei suoi pensieri. Si sarebbe detto che avesse appena scoperto il significato delle parole cantate. Forse provava pietà per Colui che aveva creato un mondo simile per la sua gloria; o invece provava pietà per se stesso che in quel mondo era costretto a vivere? Dal mio posto, osservavo il pubblico. I giovani. Un tempo non varcavano quasi mai la soglia del santuario. La linea di divisione era nettamente tracciata: Ì vecchi pregavano nella sinagoga, i giovani facevano festa fuori. Adesso, questi ultimi cominciavano a raggiungere i primi. Spinti certo dalla curiosità. Piuttosto spettatori che partecipi, guardavano e ascoltavano. La cerimonia doveva sembrare loro strana. Il loro interesse non aveva nulla a che vedere con Dio e con la religione. Tuttavia, dopo un certo tempo, si rasserenarono. Un ragazzo, vinto l'imbarazzo, si mise timidamente a canticchiare un cantico ebraico. Un altro vide i vecchi abbracciare la Toràh: fece come loro. La ragazza che stava con lui lo squadrò con aria mezzo canzonatoria e mezzo complice. Intorno a loro, i più anziani li osservavano sorridendoPoi i giovani ne ebbero abbastanza di giocare agli intrusi. Si aprirono un varco verso l'uscita. La strada li chiamava; quella notte, era il loro regno. Era lì, all'aperto, nel vento gelido, che, a modo loro, avrebbero realizzato la loro
comunione con la comunità di Israele anziché con la Toràh di Israele. Fuori, in prossimità delle mura del Cremlino, a poca distanza dalla prigione dove i loro pensatori e poeti erano stati torturati, resi folli e fulicati con una pallottola alla nuca, proprio lì avrebbero cantato e danzato con il selvaggio fervore che li caratterizza, perché il mondo intero sappia che anche qui, soprattutto qui, gli ebrei restavano ebrei e non rinunciavano alla festa, — perché fuori c'è festa, capite? Fuori, c'è la festa della gioventù russa ebraica che canta per sopravvivere. A mia volta lasciai la sinagoga. La tanto temuta delusione non ci fu. II presente non si vendicò del ricordo. Lo spettacolo era rimasto lo stesso e tuttavia mi appariva nuovo. Non si trattava tanto di un ritomo, quanto di un'esplorazione. La strada tornava ad essere una galleria immaginaria, stregata, emergente sotto il mio sguardo che vi si avventurava andando incontro all'ignoto. Affreschi e quadri prendevano forma e nascevano alla vita: mi ricordavo di ogni immagine, di ogni suono pur non riconoscendone alcuno. Come se vedessi ed ascoltassi tutto per la prima volta, passavo di stupore in stupore, di rapimento in rapimento, non riuscendo a spiegarmi come facciano certi sogni a non morire. Il presente annullava il passato: le due visioni si raggiungevano, si sovrapponevano. Arrivavo a chiedermi se erano due, se realmente ero tornato. Quella fanciulla, con il foulard bianco disciolto, che modulava sulla chitarra una nin-na-nanna ebraica, aveva già cantato quella stessa ninna-nan-na. E quei danzatori sfrenati che proclamavano l'immortalità del re Davide, era la stessa bora che li aveva esaltati. Facevo loro le stesse domande per ricevere le stesse risposte; « Perché tenete tanto a rimanere ebrei? ». « Perché lo siamo! ». Era semplicissimo. E anche paradossale. Non avevano mai letto Ì salmi del re-poeta, ma li volevano immortali — e se questo dava fastidio ad altri, tanto peggio. Leali
cittadini del loro paese, vibravano tuttavia all'evocazione di ciò che accadeva in Israele — e tanto peggio se questo comportava un certo pericolo. Si dichiaravano comunisti convinti, e senza dubbio lo sono, ma questo non impediva loro di celebrare, con tutte le loro forze, la festa della Toràh.
I miei timori e le mie esitazioni si rivelarono dunque puerili. Ebbene si, è possibile penetrare per due volte nello stesso tempio senza che questo perda la sua novità; la ripetizione di un'esperienza non ne attenua necessariamente l'intensità. Questo Simhat-Torah assomigliava al precedente: ecco in cosa era singolare. Il fatto che tanti giovani siano ritornati, la stessa sera, nel medesimo luogo, per lo stesso scopo e sospinti dal medesimo impulso, non è meno straordinario di quanto non lo fu la loro prima apparizione davanti alla sinagoga. Dopo tutto avrebbero potuto dimenticare, o scoraggiarsi, o optare per la prudenza. Avrebbero potuto tornare meno numerosi, trattenersi meno a lungo e lasciarsi andare alia festa con minor abbandono. Invece si era verificato il contrario. Essendosi creata una tradizione, la continuavano- Ora, lo sprizzare della scintilla e il conservarsi della fiamma dipendono dallo stesso miracolo. Del resto avevo avuto torto. Le celebrazioni, a Mosca, si susseguono senza ripetersi. Ognuna supera la precedente per importanza e apoteosi. Tutte sono caratterizzate dall'imprevisto. Ho detto che le due serate alle quali avevo assistito si rassomigliavano? Ascoltate la conclusione. Poco prima di mezzanotte, un responsabile della sinagoga, alquanto zelante, giudicando che fosse finalmente ora che Ì gruppi si disperdessero, pensò bene di togliere la corrente nell'edificio, tuffando così anche la strada nell'oscurità- Era la prima volta che una simile tattica veniva sperimentata. I giovani, presi alla sprovvista, non sapevano come interpretarla. Colti da stupore o spavento, si
bloccarono
tutti d'istinto come all'approssimarsi di una minaccia. Due anni prima, in una serata come quella, a Leningrado, la polizia aveva effettuato degli arresti: era forse adesso la volta della capitale? Immobili, tendevano l'orecchio, spiando il più piccolo rumore proveniente dalla città. Lo smarrimento durò solo un breve istante. Un mormo-rio appena percettibile percorse le file: falso allarme. Sollevati, i gruppi si misero a far commenti, a discutere. Alcuni, ragionevoli, consigliavano la prudenza ed erano del parere che fosse meglio rientrare. Altri, ed erano la maggioranza, vi si opponevano con violenza; ad ogni costo la festa doveva continuare. Rifiutando di sottomettersi, reclamavano il ritorno della luce. Invano. Insistettero. Fatica sprecata. Ormai incombente, l'oscurità si fece pesante, immutabile. Allora un ragazzo, scaltro, ebbe un'idea: trasse di tasca un giornale e l'accese. Era il gesto naturale di chi, trovandosi al buio, cerca di orientarsi. La trovata ebbe successo e, probabilmente per le stesse ragioni, due o tre dei suoi amici a lui vicini Io imitarono. Altri fecero altrettanto. Ben presto la fiamma fece irruzione in tutti i gruppi, in tutti Ì cerchi, e finalmente brillò da un capo all'altro della strada. La gente si spartiva giornali e riviste, si strappava quaderni di scuola, e carta da pacchi, accendini e scatole di fiammiferi venivano passati di mano in mano, di cerchio in cerchio; e senza che quelle migliaia di giovani lo avessero saputo o voluto, lo spettacolo si trasformò in una fiaccolata e la strada in un fiume di fuoco. Azione collettiva, simbolica anche se spontanea, che nessuno aveva preparato né previsto. Nessuno avrebbe potuto immaginare che la scintilla, accesa nell'inattesa oscurità, si sarebbe propagata con tanta rapidità e così lontano- La folla, muta, gli occhi arrossati, tratteneva il fiato: ognuno si sentiva afferrato dal proprio incantesimo e temeva di infrangerlo. Una strana pace la avviluppò e la isolò dal mondo assente. Nel silenzio, si percepiva soltanto il crepitio sordo della carta che si consumava nella notte.
Non ricordo più quanto durò esattamente quella visione: un minuto o due. Forse di più, forse di meno. Ricordo solo di essermi ridestato di soprassalto: alcune decine di ragazzi si erano arrampicati su un muro o su un balcone e, continuando a brandire le loro torce ardenti, si erano messi a gridare in ebraico, in russo e in yiddish: 'Am Yisra'el Hai! Il popolo ebreo vive e vivrà! Dal basso, in un rombo possente, giunse loro la risposta: Urrà! Ancora una volta: 'Am Yisra'el Hai! E di nuovo, come una sola voce, la folla rispose: Urrà! Urraaaa! E mentre la festa riprendeva più animata di prima, alla mia memoria riapparve un'immagine antica. Quando ero bambino vivevo nell'attesa costante se non concreta del Messia, e la mia fede nella sua venuta era tale che nella mente mi raffiguravo l'avvenimento in tutti Ì suoi particolari. Il Messia sarebbe arrivato in un mattino pieno di sole. I Trentasei Giusti, grazie ai quali il mondo aveva potuto rimanere in vita, sarebbero stati naturalmente i primi ad accoglierlo. Poi i saggi avrebbero lodato la sua grandezza e i rabbini la sua saggezza. I bambini gli avrebbero cantato degli inni. E l'umanità, in ginocchio, avrebbe riconosciuto la sua gloria. Adesso, passeggiando per la via Arkipova, mi dicevo che sarebbe stato necessario modificare il programma: gli mancava una fiaccolata. L'attrattiva che il giudaismo esercita su questi giovani ebrei ci pone in presenza di un fenomeno certo sconcertante, ma incontestabile. Si comprende che siano rimasti ebrei: non possono non esserlo. Le loro carte di identità recano tuttora l'annotazione « nazionalità ebraica ». Ma di uno stato di costrizione hanno fatto un atto di libera scelta; da ciò che avrebbe dovuto spezzarli umiliandoli, traggono la loro ragione e la loro forza di resistenza. Poiché intendono essere ebrei, assumono la loro condizione. Anche se la possibilità di assimilazione venisse loro offerta,
oggi la rifiuterebbero. Per quanto li riguarda, l'assimilazione è già superata dagli avvenimenti. Presa in considerazione prima, avrebbe potuto risolversi in modo positivo-Adesso è troppo tardi. Per i dirigenti del Cremlino, che ne sono coscienti, la situazione pone un problema tanto più inquietante in quanto sembra escludere qualsiasi soluzione radicale. Nessuna misura estrema potrebbe essere in grado di invertire la corrente. Ottengano gli ebrei i diritti e i privilegi accordati alle altre minoranze, e la Russia conoscerà una rinascita culturale ebraica, etnica e forse tradizionalistica senza precedenti nella sua storia. Il risultato sarebbe lo stesso, anche se invisibile, qualora venisse adottata nei loro riguardi una politica opposta. Si stringa la morsa, e la resistenza si farà più forte. La si allenti, e la comunità ebraica ridiventerà un centro di irradiamento. Nessun ritorno indietro è più possibile. Ecco il vicolo cieco. I dirigenti sovietici vorrebbero venirne fuori, ma non sanno come comportarsi. Costretti a tener conto di un'opinione pubblica mondiale sempre più agitata, e delle pressioni sempre più insistenti dei partiti comunisti o di sinistra occidentali, tergiversano, cercando di guadagnare tempo. Ma il tempo gioca contro di loro. L'ebreo russo, soprattutto se giovane, ne approfitta per premere e spingersi più avanti. Il terreno conquistato non gli basta più. Vivere da ebreo una volta l'anno non lo soddisfa più. Invece di accontentarsi del miracolo di Simhat-Torah, ne esige altri. Una 'sera di Pasqua, la scorsa primavera, un centinaio tra ragazzi e ragazze vennero in via Arkipova quasi per saggiare il terreno, e cominciarono a danzare e cantare. Spaventato, il comitato della sinagoga dovette supplicarli perché se ne andassero. Ma ricominceranno. Li si lasci fare, e si riuniranno sempre più spesso e in altri luoghi. Non soltanto davanti alla sinagoga. Non una volta all'anno, ma quattro volte. Poi sarà ogni mese, ogni settimana. E non solamente di
notte. In pieno giorno. A viso scoperto. Ecco in che cosa la fiaccolata fu simbolica: il giovane ebreo russo non vuole più essere un clandestino. Non ha più paura di mostrarsi, di rivendicare i propri diritti. Del resto ne diede una prova più tangibile l'indomani della celebrazione notturna di cui stiamo parlando. Per la prima volta dei giovani — non molti, qualche centinaio — si radunarono davanti alla sinagoga verso mezzogiorno e tentarono di prolungare la festa. La polizia fu di nuovo costretta a chiudere la strada al traffico. Come se la sono sbrogliata quegli studenti e quegli operai per abbandonare aule e posti di lavoro? Lo ignoro. Ma lo hanno fatto. Alla presenza degli agenti e dei curiosi, venne eretta una scala umana, e il ragazzo che ne costituiva la sommità si mise ad arringare gli altri cacciando formidabili « evviva » in onore di tutti gli ebrei celebri del paese. Tutti i nomi furono passati in rassegna: il ministro Venjamin Dimschicz, il violinista David Ojstrach, l'economista Yev-sei Lieberman, il campione di scacchi Mikhail Botvinik, la ballerina MaJa Plissetskaja. Lo stesso Lazar' Kaganovic, anche se in esilio negli Urali, fu acclamato da quei giovani che gli perdonavano il suo passato stalinista- Esaurita la lista, il caporione tacque. I suoi amici protestarono. In mancanza di meglio, urlò: viva tutti gli ebrei! Ebbene sì, gli ebrei vivono — e vogliono vivere. Qualcuno mi domanda: ma come faranno a sopravvivere spiritualmente senza scuole, senza letteratura, senza libri, senza riviste, senza legami tra di loro e senza contatto con il popolo ebraico che vive fuori dalla Russia? Come riusciranno a sviluppare una vita ebraica, senza averne i mezzi? Non so come faranno, ma ho buone speranze: ci riusciranno. Ci hanno sorpreso in passato, ci sorprenderanno anche in avvenire. Meritano la nostra fiducia, più di quanto meritiamo la loro. Noi non li aiutiamo in alcun modo, e tuttavia tengono duro. La loro salvezza la dovranno a se stessi. Non a noi.
Nessuno sa come facciano, ma imparano l'ebraico e lo yiddish; traducono in russo poemi e racconti ebraici, copiano a mano romanzi e opere storiche e li fanno circolare sotto Ì cappotti. Non si tratta di un'operazione individuale: molti vi prendono parte. Uno impara un nuovo canto e Io insegna al compagno, il quale, a sua volta, gli mostra segretamente un calendario ebraico che si è procurato non si sa dove. Tutto quello che è ebraico li interessa. SÌ sono battuti durante i concerti di una cantante israeliana. Abbandonano il Bolscioi per un qualsiasi artista ebreo, anche se mediocre. Durante il mio soggiorno a Mosca, una compagnia ambulante rappresentava una patetica commedia musicale in yiddish: i giovani, che si facevano tradurre le battute dai loro genitori, costituivano la metà del pubblico. Ad un dato momento, il personaggio principale — nella parte di Uriel d'Acosta — lanciò contro Ì suoi accusatori la melodrammatica risposta: « Sono ebreo, e ebreo resterò » — e la sala crollò sotto gli applausi. Questi giovani, per la maggior parte, non capiscono bene lo yiddish, ma non perderanno una sola rappresentazione in questa lingua: essa evoca per loro un passato che viene loro sottratto. Anche della tradizione ebraica non conoscono nulla, eppure vi si affezionano. Non sanno niente del popolo ebraico, e tuttavia si identificano con il suo destino. Comunisti della terza generazione, non sono religiosi e non possono esserlo: non hanno nessuna nozione di ciò che sia la religione. E tuttavia il loro risveglio e la loro tenacia comportano un elemento di fervore quasi mistico che li ricollega al popolo d'Israele se non al Dio di Israele. È vero che si riuniscono davanti alla sinagoga per cantare e non per pregare, ma il loro canto, come tale, si trasforma in preghiera. La mia seconda testimonianza viene dunque ad aggiungersi alla prima senza modificarla. La situazione oggettiva degli ebrei russi rimane immutata. La festa di Simhat-To-
rah è solo una parentesi. Gli altri giorni dell'anno, la paura che li circonda non si è attenuata. La politica discriminatoria che li tiene sotto tiro è tuttora in vigore. DÌ tutte le minoranze e le nazionalità in U.R.S.S., la loro è la sola la cui eredità venga sistematicamente denigrata, derisa e imbavagliata. Un milione e trecentomila tedeschi, in quanto collettività, godono di maggiori diritti culturali e possibilità di espressione che tre milioni di ebrei. Nonostante questo, la gioventù ebraica russa resterà ebraica. La sua presa di coscienza si situa a livello di impegno, II movimento si dilata e cresce, l'ondata sale di continua. E nulla al mondo potrà spengere questa scintilla scoccata alla radice del suo essere.
DIALOGHI - II
Ce l'hai con me? A volte. Un poco. Perché non ho sofferto come hai sofferto tu? Perché eri qui e non hai fatto nulla. Cosa si poteva fare? Piangere. Gridare. Spezzare la cospirazione, ti silenzio. Non si sapeva. Falso. Tutto si sapeva. Nessuno più lo nega. E va bene. Si sapeva. Ma nessuno ci credeva. Nonostante le prove, i diagrammi, i rapporti confidenziali? Proprio per tutto questo. Che vuoi, erano talmente orribili che non ci si poteva credere. Avresti dovuto. Ci avresti creduto, tu? O meglio: tu che hai vissuto quell'esperienza, credi veramente, oggi, credi che abbia avuto luogo? No. Ma... Sì? ...Per me è un po' diverso. A volte mi chiedo se ho ancora il diritto di dire « io ». Eccolo! È lui! Presto, prendetelo!
Di chi stai parlando? È lui, ti dico! È pericoloso, bisogna sbatterlo in prigione, oppure al manicomio.
Cosa gli rimproveri? Cosa ha fatto dunque? Niente, ma...
Non ha fatto niente? E vuoi rinchiuderlo, punirlo? Soltanto rinchiuderlo. È capace di tutto. Sa troppe cose sull'uomo e sul suo pianeta. Bisogna proteggerlo, proteggerci. Se si mette a parlare, sarà finita per il nostro riposo. Bisogna fare di tutto perché rimanga in silenzio. Ma se non ha ancora detto niente. Ragione di più per rinchiuderlo subito, finché siamo in tempo! Rinchiuderlo con i pazzi senza memoria, i pazzi senza avvenire! finché è libero, mi sento minacciato. Gli hai mai rivolto la parola? Mai. Lui sì. Mi ha parlato. E cosa ti ha detto? Mi ha chiesto perdono. Tutto qui? E non ti sembra abbastanza? Si è burlato di me, lo so. Sta a me chiedergli perdono. Non ne ho il coraggio. Ho paura della sua voce, dei suoi occhi. Quando è presente, ho freddo. Divento il suo segreto, lo stesso che intende portarsi nella tomba. Mi fa paura. Non ho più il coraggio di muovermi, di respirare. Neppure di guardare. Sbatto la testa contro il muro, e il muro è lui, sei tu—e io dove sono? Chi sono? Lui solo lo sa ed è la sua vendetta. È pericoloso, ti dico! Aiuto!
Che faccia strana hai! Oh, passerà. Sei giù di giri? È possibile. Nulla di grave. Dovresti vederti! Ti credo. Non puoi continuare così. Che vuoi che faccia? Non so. Guardati intomo. Gli alberi, i frutti. Le vetrine, le belle ragazze. Lasciati andare, che diamine! Ti assicuro che dopo... Dopo? Hai detto: dopo? Che cosa significa?
Dimmi qualcosa. Cosa precisamente?
Che ti piaccio, Mi piaci.
Che ti sono mancato. Mi sei mancato.
Che mi ami. Ti amo.
Che vuoi vivere con me Voglio vivere con te.
Questo ti fa paura? Sì.
Io ho paura soltanto quando non ci sei. Anch'io.
Allora rimani con me. Proverò.
E mi parlerai? Proverò.
Non ti fidi delle parole? Peggio: ho perduto ogni rapporto con le parole.
Ma io ho paura dei tuoi silenzi. Anch'io.
Appena stai zitto, smetti di vedere. No: solo allora comincio a vedere.
Ti ricordi di me? No.
Eravamo vicini. È possibile.
Eravamo amici. Quando?
Prima. Ah sì, comincio a ricordare.
Abbiamo frequentato la stessa scuola, cullato gli stessi sogni, ammirato gli stessi maestri. Ah sì, ricordo. Volevamo diventare rabbini.
Cosa fai adesso? Io sono scultore. E tu? Scrivo.
Lo dici con un tono... Che vuoi? Milioni di esseri umani hanno dovuto morire perché diventassimo tu scultore ed io narratore.
Mi piacerebbe farle una domanda, solo che rischia di metterla in imbarazzo. faccia pure, non si preoccupi. Come ha fatto per dormire? Dove? Laggiù? Sì, laggiù. Oh, signora, era semplice: contavo i cadaveri. Tanti ce n'erano. Nel buio si rassomigliavano. Anch'io rassomigliavo loro. Mi confondevo. Dovevo ricominciare più di una volta: ne avevo sempre uno di troppo. Il sonno era l'unico mezzo per sbarazzarmi dell'ultimo intruso. Ma perché vuole sapere? Oh, per pura curiosità. Peccato. Pensavo che lei soffrisse d'insonnia.
Hai un'aria triste, malata. Non lo sono. Ti senti bene? Mangi a sufficienza? Non soffri di nulla? Non mi lamento. Non sei irritato della felicità degli altri? Dell'innocenza dei bambini? Amo la felicità e amo i bambini. E allora perché racconti loro delle storie tristi? Le mie storie non sono tristi. I bambini te lo confermeranno. Ma fanno piangere, no? No, non fanno piangere.
Non dirmi che fanno ridere! Non lo dirò. Dirò soltanto che fanno sognare. Giochiamo, vuoi? Sì, volentieri.
Io sono un messaggero. Buongiorno, messaggero.
Sono potente e generoso. Bravo, messaggero.
Voglio il tuo bene, Evviva il messaggero'.
Qual è il tuo desiderio più caro, più segreto? Dimmelo e sarà esaudito. Sei gentile, messaggero!
E allora? Il tuo desiderio? Ah sì, eccolo: fa' che incontri qualcuno come te.
Sei qui? Sono qui, figliolo.
Fa così buio. Sto tremando. Ho la febbre. Ho paura. Sono qui. Siamo soli, tu ed io? Credo di sì. Vuoi farmi un piacere? Ma certo, figliolo. Canta per me-A quest'ora? Ti rifiuti? Ma corriamo il rischio di svegliare tutta la casa, tutta la strada...
Tanto peggio. Voglio che tu canti. Per me. E anche per te. Hai promesso. Quando canti, non siamo più soli. Fa sempre buio, e ho sempre paura, ma non importa, capisci, questa paura non viene più da fuori ma dal tuo canto, dalle tue parole, viene da me stesso... sei qui? Sì, figliolo. Siamo tutti qui.
I DOPOGUERRA 1948
Era un venerdì pomeriggio. Israele aveva appena proclamato la sua indipendenza. Il mondo, diviso tra Io stupore e l'angoscia, tratteneva il fiato: il popolo ebraico, realizzando il suo antico sogno, avrebbe finalmente cambiato segno e situazione? Studente e apolide, abitavo a Parigi e mi immaginavo soldato a Gerusalemme. Teso, incredulo, divoravo le edizioni speciali che si susseguivano di ora in ora. L'avvenimento si svolgeva lontano ed io desideravo parteciparvi. Al cader della sera, mi recai alla sinagoga per la funzione dello Shabhat. Non tanto per pregare, quanto per stabilire uno scambio, per integrarmi ad una comunità. La funzione non era ancora cominciata. Si stava facendo tardi, ma i fedeli, eccitati, discutevano di politica e di strategia: Io stato ebraico avrebbe retto, sarebbe riuscito a sopravvivere ? Le grandi potenze Io avrebbero difeso, se non altro per riscattarsi? Oppure Israele sarebbe stato soltanto uno spa-smo della storia? Il nemico aveva già proclamato la guerra santa e Ì seicentomila ebrei, spalle al mare, senza armi e senza esperienza, si battevano contro sei eserciti contemporaneamente, dando prova di un coraggio disperato e lucido, vecchio di duemila anni.
I dibattiti erano lunghi, inesauribili. Il mio maestro, un vegliardo famoso per le sue conoscenze talmudiche, mi attirò in un angolo e mi chiese a bruciapelo: — D'ora in poi crederai ai miracoli? — Sì, gli risposi. — E non negherai più i benefici del cielo? —No, Mi trafisse con il suo sguardo acuto e la sua voce si fece dura, pungente: — Ebbene, ragazzo mio, ti accontenti di poco! — II risorgere di una sovranità, spenta da venti secoli, è poco per voi? Non lo avevo mai visto cosi scontento di me: — Non capisci, esclamò con tono brusco. C'è Israele e c'è la tua reazione a Israele, Mi deludi. II presente e l'avvenire ti fanno dimenticare il passato- Perdoni troppo in fretta. Arrossii. Quattro anni prima, avevo lasciato la mia città e la mia infanzia per entrare nella notte. Come tutti gli ebrei di tutte le città occupate di Europa, me ne andavo con, sulle labbra, il nome del Messia che, secondo la leggenda, esisteva prima che la creazione fosse. Avevo fede nell'uomo e più ancora in ciò che lo trascendeva. Poco dopo ero stato costretto a liberarmi dei miei legami. Fino all'ultimo. Da un giorno all'altro mi ero ritrovato privo del più piccolo punto di riferimento e d'appoggio. Cozzavo contro il vuoto. Da ogni parte. Per non sprofondare avevo bisogno di un miracolo, o almeno di un segno. — No! esclamò il mio maestro. La^ salvezza che giunge troppo tardi per troppe vittime non ho il diritto di rifiutarla. Sono disposto ad accoglierla e ad aprirle tutte le porte e tutti i cuori possibili. Questo, si. Ma mi rifiuto di qualificarla come miracolosa. L'abbiamo pagata troppo cara. Perché fosse un miracolo sarebbe stato necessario che si verificasse un po' prima. E a denti stretti si mise a pregare, mentre in Israele già scorreva Ìl sangue,
Penso spesso a quella conversazione, che risale ad una ventina di anni fa. Ci penso ogni volta che visito la Terra Santa, ogni volta che sento evocare l'intrinseco legame che collegherebbe la risurrezione nazionale di Israele all'era con-centrazionaria. Tutto in me si ribella contro questo accostamento, soprattutto se viene concepito non come conseguenza puramente cronologica ma come legame di causa a effetto o di compensazione. Ora, le due esperienze hanno in comune soltanto le persone che le hanno vissute. Da qui la loro parentela a livello di coscienza e di sensibilità, e forse anche di ricordo, ma non sul piano etico della storia. Imporre ad Auschwitz e a Gerusalemme un collegamento, un disegno che non sia puramente dialettico, sarebbe sminuirle entrambe. Israele, una risposta all'olocausto? Soluzione troppo comoda, scandalosa. Prima di tutto perché significherebbe oberare i figli di un fardello, di un ingiusto sentimene di colpa. Pretendere che senza Auschwitz non ci sarebbe stato Israele vuol dire addossare a quest'ultimo una parte di responsabilità per Auschwitz. E inoltre, Israele non è, non può essere, la risposta all'olocausto, poiché l'olocausto — per le sue dimensioni e anche per la sua essenza — rifiuta qualsiasi risposta. DÌ conseguenza, per me, si tratterebbe di due avvenimenti distinti, tutti e due inspiegabili, inspiegati, misteriosi, tali ambedue da turbare la mente e sfidare l'immaginazione. Non si comprenderà mai come Auschwitz sia stato possibile. Né come, appena tre anni dopo, Israele abbia potuto trovare in se stesso forza e slancio per riedificare il suo sogno Ìn un mondo in rovina, alla deriva. Certo, dopo Auschwitz, gli ebrei avevano bisogno di un appello alla consolazione o perlomeno di una diversione. Per respirare. Per riprendere coraggio. Ma il mondo ne aveva bisogno ancora di più. Per fare dimenticare il suo silenzio, la sua schiacciante complicità. Per comprarsi una coscienza pulita e sfuggire così alla propria distruzione. In
altre parole, il popolo ebraico avrebbe continuato ad esistere anche se avesse dovuto aspettare altri cinquant'anni per ritrovare il suo stato. Ma il mondo no. Il mondo, schiacciato dalla colpa, non poteva aspettare. Diciamolo senza giro di parole; se non ci fosse stato il sionismo e le sue esigenze, che ne sarebbe stato dei superstiti dei ghetti, degli scampati dei campi di concentramento, dei partigiani, dei « maquisards » che sbucavano dalle foreste e dalle montagne, Ì quali, secondo logica, avrebbero dovuto sputare sul genere umano e giurargli un odio sprezzante, sanguinario, devastatore? Oltraggiati e traditi, quegli uomini e quelle donne, quei diseredati, vittime dell'intera società, avevano il diritto e anche i mezzi di scegliersi un qualche dio nichilista e lasciare esplodere la loro collera: e... accada quel che accada. Non avevano nulla da perdere e nessuno per cui aver riguardo. Nulla li legava alla loro patria, alla vita. Non avevano più illusione alcuna sul procedere della storia né sull'uomo. Avrebbero potuto facilmente diventare dei disadattati, dei caratteriali, dei criminali. Se avessero messo a fuoco l'Europa nessuno se ne sarebbe meravigliato. Ma non l'hano fatto. Non hanno nemmeno approfittato dell'occasione per vendicarsi dei loro carnefici immediati. Non lo si ripeterà mai abbastanza: gli ebrei, dopo il tracollo tedesco, non volevano essere né dei vendicatori né dei giustizieri. Avrebbero potuto diventare l'una o l'altra cosa dando libero sfogo alla loro rabbia repressa. Per fortuna si sono lasciati conquistare dalla grande avventura politico-messianica che la Palestina offriva loro; le hanno consacrato le loro energie, le loro ambizioni. Il resto non contava più. La lotta esigeva tutta la loro passione, tutto il loro slancio: un impegno totale. Ecco perché il regolamento di conti non ha avuto luogo. E perché la campana non ha suonato a morto. Così si spiega la quasi generale simpatia manifestata allora alla patria ebraica risorta. Inconsciamente la gente le era quasi ricono
scente di essere arrivata in tempo, di aver deviato U fulmine. Il discorso valeva sia per Ì paesi occidentali che per le democrazie popolari; Israele si situava al di là della cortina di ferro. Stalin e Truman si contendevano l'onore di essere i primi ad allacciare relazioni diplomatiche con il nuovo Stato. Da Praga, Israele riceveva armi e aeroplani. Alle Nazioni Unite, Andrej Gromyko, capo della delegazione sovietica, imbattibile stratega, era sempre presente nei momenti critici per appoggiare le rivendicazioni israeliane. La Francia concedeva libertà di transito agli immigrati e agli arruolati volontari. L'opinione pubblica era favorevole, entusiasta: vedeva in Israele una promessa, un esempio da seguire, da incoraggiare, L'intelligenza dei suoi agricoltori, il coraggio dei suoi soldati, il suo accanimento nel voler conquistare il deserto per edificarvi una nuova città del sole: si ammirava la sua opera, si benediva la sua visione e la sua vocazione pioneristica, non era possibile non amarla senza sminuirsi. Come tutto questo sembra lontano! Gli amici sono divenuti esitanti, gli esitanti ostili. Come il popolo ebraico nel corso dei secoli, lo Stato ebraico è oggi l'unico a dover continuamente giustificare la propria esistenza. Non passa giorno senza che il suo « caso » venga portato in istruttoria, senza che lui stesso venga giudicato. Dalla destra e dalla sinistra. Dai neutrali di professione. Lo si critica per la sua tenacia, ma si perdona la tenacia dei suoi nemici. Gli si rimproverano le sue vittorie e si dimentica quello che le ha precedute, ciò che le ha provocate. Sotto la copertura dell'antisionismo, dei giovani anarchici tedeschi fanno dell'antisemitismo. Cinesi, russi e algerini addestrano ed equipaggiano Ì terroristi arabi perché uccidano e si facciano uccidere. E poi vi sono i « rivoluzionari », fra gli intellettuali occidentali, che li circondano di un'aureola di romanticismo riuscendo così a fare o rifare della resistenza per inter-
posta persona. Fenomeno rattristante e grottesco, superato soltanto da quello cui si assiste in Polonia: un antisemitismo senza ebrei, Tutto questo spiega perché, pur non essendo cittadino di Israele, io mi identifichi totalmente al suo destino. Nella sua solitudine, Israele rappresenta per me non una risposta ma un interrogativo e, più ancora, una rimessa in questione. Non mi aiuta a comprendere l'olocausto, al contrario: di fronte a Israele comprendo Auschwitz meno di prima. Interrogativo per il mondo, che lascia interdetto, Israele lo è anche in rapporto alla propria storia. Faccio mio, appunto, questo interrogativo, come faccio mia la sua determinazione a trasformare l'odio in sete di fraternità, in un universo dove continua ad imperversare l'odio: miracolo in se stesso, forse l'unico. Ma Israele, per me, rappresenta anche una vittoria sull'assurdo, sul disumano. E se la rivendico è perché appartengo a una generazione che non ne ha conosciute molte.
... 1967
Bisognava aspettarselo : si invidia ad Israele la sua vittoria. Le sue campagne-lampo contro quattro eserciti e una ventina di nazioni le ha vinte troppo in fretta, in modo troppo spettacolare, o semplicemente le ha vinte e basta: questo gli si rimprovera con rancore- Che fare? Israele vincitore non corrisponde all'immagine che taluni amano farsi del suo destino tra le nazioni. Si preferisce saperlo vinto, in ginocchio, vittima di errori o di ingiustizie, che importa, salvo poi a soccorrerlo, a compiangerlo, a coprirlo di corone e di elogi funebri vibranti di carità e forse perfino d'amore. Un ebreo che trionfa sulla morte? Pensiero intollerabile, perfino per i suoi protettori occasionali. Si ama l'ebreo soltanto sulla croce; se non ci sta, lo si manda. Poi Io si venera. Secondo il movimento d'opinione che si delinea sempre più in certi ambienti, si direbbe che il mondo non perdoni all'ebreo di averlo ingannato: l'olocausto promesso non avrà luogo. L'agnello osa rifiutare il sacrificio. Che mancanza di stile da parte sua; quelle lacrime che stavano per essere versate sulla sua tomba, e quella pietà che si era pronti ad offrire ai poveri scampati, eccole del tutto mutili. Per colpa sua, saranno servite a nulla. Colmo dell'ingratitudine: Israele non si accontenta di sottrarsi al massacro, ma
trova anche il modo di umiliare quelli che 1 hanno preparato. Avrebbe potuto comportarsi diversamente! Vincere i suoi nemici senza umiliarli. E avere un po' di riguardo per la loro suscettibilità. Così, quegli stessi che prima dello scoppio delle vere e proprie operazioni militari avevano sostenuto il suo irriducibile diritto alla propria esistenza sovrana, alla propria sopravvivenza, alla propria dignità umana e nazionale, adesso gli si rivoltano contro mettendogli il broncio. Frustrati, sostengono che Israele avrebbe dovuto sapere fin dove poteva spingersi, I più virulenti sono proprio quegli stessi che, fino a ieri, erano pronti a prescindere — temporaneamente, ben inteso — dalle loro opzioni e fedeltà politiche o altro, per prendere le sue difese- Certi ebrei, cosiddetti liberali, difensori tradizionali di tutti gli oppressi, di tutte le minoranze minaccciate, di tutti i movimenti di liberazione, non nascondono minimamente il loro rimorso per essersi lasciati andare, durante Ì giorni di angoscia e d'incertezza, ad alzare la voce per il loro popolo assediato; il loro slancio di ieri li fa arrossire di vergogna oggi. Lasciamo da parte i fanatici: da tempo hanno fatto la loro scelta. Seguono le parole d'ordine e ripetono quello che viene loro detto. È cosa di vecchia data! Perché preoccuparsene? Se si erigono ad etemi giudici della storia e dell'umanità, è affar loro. Sono quello che sono, e le loro scelte non hanno più il potere di sorprenderci. Ci sembra quasi naturale che trattino Israele da aggressore senza tenere conto delle provocazioni subite, giustificando gli atti di guerra che hanno provocato la guerra. Per i loro dialettici, l'ideologia è sempre stata più importante della verità, l'apparato più indispensabile dell'uomo. Per meritare la loro simpatia, Israele non doveva far altro che favorire i propri nemici armandosi, se così posso dire, di pazienza — solo di pazienza — assumendo il suo ruolo di strumento se non di martire. Israele ha pensato a sé piuttosto che agli altri, ai propri interessi vitali anziché alle manovre telecomandate
da qualche parte; ne subisce adesso le conseguenze. È nella logica delle cose- Nessuno può al tempo stesso intralciare Ì piani del Cremlino e piacere ai comunisti, fossero anche i più ingenui del mondo. Il comportamento di certi cristiani e simpatizzanti della sinistra, la cui onestà intellettuale è al di sopra di ogni sospetto, ci ferisce di più. Mossi da un umanesimo fuori posto, avanzano la loro tesi personale: tra le infuocate esortazioni di un Nasser o di un Shukeiri e l'attacco armato di Israele non vi sarebbe alcuna proporzione. Riconoscono volentieri che sono stati gli arabi ad innescare la guerra — con il blocco del golfo di Aqaba — ma, secondo loro, la vittoria israeliana proverebbe che Nasser non aveva l'intenzione di spingersi fino alle estreme conseguenze. Vi diranno: conoscete gli arabi, sono dei bambinoni, parlano molto, si agitano, bisogna perdonarli, e soprattutto non prenderli sul serio. Questi protestatari in buona fede sembrano dimenticare che esistono parole che uccidono o che perlomeno ricordano il tempo della morte- Ebbene sì, esistono parole che non devono più essere usate: sono cariche di troppi ricordi. Quando si minaccia una comunità ebraica di « guerra totale », di bagni di sangue, di sterminio col fuoco, non possiamo riderci su. Che minacce verbali comportino la loro parte di pericolo e che occorra prenderle sul serio lo so io, da molti anni, e ancora di più da quando ho potuto vedere, nel SinaÌ, gli aerei e i carri armati, i cannoni e i razzi, come pure i soldati che si preparavano ad usarli secondo dei piani — ho visto anche quelli — preparati dai loro stati maggiori. Il loro obiettivo immediato? Ricacciare in mare gli ebrei. I loro capi lo hanno detto e scritto: non riuscirete a convincermi che non lo pensavano. Che volete, appartengo ad una generazione estremamente sensibile alla quale avete insegnato a dare più peso alle minacce che alle promesse, È un fatto
che nel momento del pencolo, i nostri amici e protettori, se si trovano al potere, si scoprono all'improvviso un'ipocrita vocazione alla prudenza e alla saggezza. Atteggiamento questo che accentua la nostra solitudine. Quello che era vero in passato è rimasto tale anche ai giorni nostri. In occasione della guerra dei Sei Giorni, abbiamo assistito ad una ripetizione della storia. Solo lo scenario era cambiato, il meccanismo era rimasto lo stesso. L'ombra di Auschwitz aveva finito per stendersi su Gerusalemme. Minacciato, lo Stato ebraico non poteva contare su alcun governo per allentare la morsa. La politica di un De Gaulle nel 1967 valeva quanto quella di un Rooseveit nel 1942: per ragioni di ordine pratico, e soprattutto di comodità, il destino degli ebrei non ha avuto alcun peso sulla bilancia. Perché negarlo? Il voltafaccia del generale ci ha profondamente shoccati, addolorati e sconvolti. Delusione sentimentale più che altro. Le consegne di armi? Israele saprà farne a meno, o rivolgersi altrove. Non mancano fornitori di materiale ed equipaggiamento militari da una parte e dall'altra dell'oceano. È sul piano umano che la diserzione ufficiale della Francia ci ha fatto male. Molti di noi continuavano a vedere nell'uomo del 18 giugno non soltanto « un amico e un alleato » sulla parola del quale si poteva contare, ma anche una coscienza. Peggio per noi: avremmo dovuto essere meno ingenui. Sempre sul piano umano anche altre prese di posizione ci hano rattristati. Mi riferisco ad un illustre scrittore il quale, giocando a fare l'arbitro, vede nella vittoria di Israele un venir meno al carattere sacro della sua missione. Il disagio che Israele gli ispira è di ordine teologico. Vincendo le sue battaglie — così sembra pensare — Israele non può che rinnegare la propria alleanza con Dio. Crede dunque davvero costui che gli ebrei « abbiano cacciato Dio dalla loro terra », che è anche la Sua? È
seriamente convinto che la Terra Santa abbia perduto la sua santità da quando gli ebrei vi hanno rimesso radici? Crede proprio che un Israele temporale e un Israele spirituale siano necessariamente incompatibili? Ho visto Israele in guerra, posso quindi renderne testimonianza. Nella città vecchia di Gerusalemme, appena riconquistata, ho visto paracadutisti induriti pregare e piangere per la prima volta nella loro vita; li ho visti, in piena battaglia, colti da un fervore collettivo e antico, baciare le pietre del Muro del Pianto e comunicare tra loro in un silenzio tanto inafferrabile quanto puro; li ho visti, come in sogno, fare un salto all'indietro di duemila anni per riannodare il legame con la leggenda, la memoria e la tradizione segreta di Israele. No, non venitemi a dire che erano mossi da una volontà di potenza o di dominio materiale. La volontà l'attingevano nella spiritualità e nelle acque vive del loro passato. La loro esperienza è stata di ordine mistico. Quelli stessi che non credevano si sentivano trascesi dai loro atti e dai racconti che ne fecero in seguito. Le parole, sulle loro labbra, avevano un suono stranamente bruciante e antico. Si direbbe che si siano tutti messi a credere ai miracoli, o a credere e basta. Della loro commovente umiltà di fronte alla vittoria, ancora irreale ai loro occhi e ai miei, mi sento fiero quanto della loro stessa vittoria. Strana vittoria del resto. Nessuna festa l'ha sottolineata. Nessuna cerimonia. La transizione è passata quasi inosservata. Senza sfilate militari o festeggiamenti pubblici- I conquistatori del Sinai e Ì liberatori di Gerusalemme, quelli stessi che avevano tenuto il mondo con il fiato sospeso, li ho visti rientrare nelle loro case e riprendere le proprie occupazioni come se niente fosse accaduto. La loro cosiddetta volontà di dominio sembrava non riferirsi che al loro orgoglio; lo hanno dominato, anche se ne avevano diritto.
L'umanità non ha mai conosciuto vincitori meno arroganti, eroi più sobri. più assetati di pace e di purezza. Si invidia la loro vittoria, e questo posso comprenderlo, Ma si ha torto di fargliene un rimprovero. Ne avevano bisogno per sopravvivere, Anche noi.
A UN AMICO PREOCCUPATO
Sei preoccupato. È quanto mi hai detto in occasione del nostro ultimo incontro. Preoccupato a proposito del Medio Oriente, naturalmente. Ti ho risposto; anch'io- Preoccupato e spesso depresso. L'avvenire mi pare gravido di presagi. Violazioni del cessate-il-fuoco, duelli di artiglieria, sabotaggi e rappresaglie, incursioni notturne, attentati e bombardamenti: la violenza non conosce sosta, reca con sé la propria escalation. Già troppe madri, nei due campi, portano il lutto. Troppi giovani, dalle due parti, fan dono della propria esistenza prima ancora di averla vissuta. Questa maledizione non sarà dunque mai revocata? Ho pensato: siamo amici, tu ed io, condividiamo la stessa fede nell'amicìzia, senza dubbio condividiamo gli stessi timori. Ma hai proseguito dicendo; non mi piacerebbe che Israele diventasse una potenza che si definisca tale per le sue conquiste, ed ora finirà col diventarlo. E hai aggiunto: non mi piacerebbe che la gioventù ebraica, laggiù, sviluppasse una mentalità da occupante, ma ora, se lo stato attuale delle cose si protrae, sarà costretta ad acquisirla, se già non l'ha fatto. Perciò, visto che siamo amici, mi propongo di rassicurarti. Hai torto a preoccuparti. L'ebreo vittorioso non ti deluderà: il cambiamento della sua condizione non si verifiche-rà a livello dell'essere. Non è più una vittima, ma non sarà mai un carnefice. Non cercherà di spezzare la volontà dei vinti a colpi di patibolo o di sputi. La vittoria, nella tradi-
zione ebraica, non è legala alla sconfitta inflitta all'avversario, Ogni vittoria è, prima di ogni altra cosa, una vittoria su se stessi. Anche per questo l'ebreo non è mai stato carnefice e quasi sempre vittima. Vai su e giù per la Cisgiordania e non è un'atmosfera da ghetto che vi regna, ammettilo. Non sei perseguitato da immagini degradanti di fame e di desolazione. I malati sono curati, i bambini nutriti. Li avvicini senza provare disgusto o pietà. Inoltre qui sei libero. Libero di andare dovunque, di frequentare qualsiasi persona. I notabili ti confesseranno in tutta libertà la loro opposizione ad Israele: sanno che Io fanno impunemente. Come impunemente possono ascoltare le trasmissioni del Cairo o di Damasco, anche se queste, giorno dopo giorno, li incitano al terrorismo, all'insurrezione. Conosci molti esempi di occupanti che autorizzino un simile genere d'ascolto? Conosci altri casi di occupanti che incoraggino i loro amministrati a mantenere relazioni familiari, commerciali e altro con il nemico, e questo in stato di guerra? Vai un po' a vedere quello che succede sul ponte Allenby — dove centinaia di persone vanno quotidianamente avanti e indietro tra la Cisgiordania e le capitali arabe — e non li paragonerai più ai francesi durante l'occupazione. Certo, mi risponderai che, per definizione, qualsiasi regime di occupazione è avvilente e sostanzialmente ingiusto. Su questo convengo anch'io. Ma mentirei se non aggiungessi questo: dato che nella situazione attuale il regime di occupazione è una necessità, il modo in cui lo gestisce Israele mi sembra meno disumano e meno opprimente. Bisogna essere davvero in mala fede per osar paragonare, ad esempio, i soldati israeliani ai soldati tedeschi. La loro concezione dell'uomo e delle sue vittorie non è la stessa. Perché vuoi che il combattente ebraico si riveli, all'improvviso, ebbro di potenza, assetato di violenza, quando non Io è stato mentre infuriava la battagia? Perché vuoi che, tutt'ad un tratto, si scopra una vocazione al sadismo?
Non dimenticarlo: questa guerra, questa vittoria, Israele non le ha volute. Gli sono state imposte. E non dimenticare neppure che le ostilità non sono scoppiate di colpo, da un giorno all'altro, per caso, o per capriccio- Durante tre settimane — non lo si ripeterà mai abbastanza — Israele ha dovuto far fronte ad un'offensiva psicologica su vasta scala. La partenza dei Caschi Blu, la chiusura del passaggio di Tiran, le sfilate ed i movimenti di truppe nel Sinai, le alleanze militari, gli slogan incendiar!, le folle arabe scatenate, sferzate da un follia distruttiva, vendicatrice. Rileggiti la propaganda araba di quel periodo. Lo sbraitare di Ahmed Shukeiri. E non venirmi a dire che quest'ultimo si è comportato da imbecille irresponsabile: Nasser e Hussein lo hanno giudicato sufficientemente rispettabile per abbracciarlo davanti alle telecamere e associarlo alle loro deliberazioni. E tutti insieme proclamavano che l'ora del castigo era vicina: avrebbero cancellato il nome e il popolo di Israele con il sangue e con lo zolfo. Con queste grida di odio che gli rombavano nelle orecchie, qualunque altro combattente avrebbe dato libero sfogo alla vendetta. Ma il soldato ebraico ha saputo trattenersi, dominarsi. I prigionieri di guerra che si aspettavano il peggio — cioè la sorte che essi avevano riservato agli ebrei — erano stupefatti tanto dalla moderazione del vincitore quanto dalla sua vittoria. Stesso stupore tra la popolazione civile. Salvo qualche rara eccezione, le vittime designate di ieri non hanno consentito alla loro amarezza accumulata e repressa di trasformarsi in crudeltà. Non vi furono case saccheggiate, violenze carnali, punizioni collettive, esecuzioni di ostaggi, o quelle scene di nauseante e avvilente ferocia che accompagnano di solito ogni conquista territoriale. Ascolta il racconto che mi è stato fatto da un amico. Mi faccio garante della sua sincerità come della sua autenticità. Questo amico faceva parte del battaglione che doveva liberare la città vecchia di Gerusalemme. I combattimenti
erano stati duri, sanguinosi. All'improvviso, sotto una micidiale tempesta di proiettili, in una stradina appena conquistata, un arabo ferma una pattuglia e chiede di essere condotto da un umciale: era urgente. Pensando che si trattasse di un parlamentare, o di un agente che faceva il doppio gioco, il mio amico lo ricevette. Ho bisogno di un dottore, gridò l'arabo. Presto, mia moglie sta partorendo. Sul momento, l'ufficiale credette di sognare di fronte all'assurdità della richiesta e della situazione. Esitò — e gli voglio bene per questa esitazione — considerando il prò e il contro. A chi accordare la priorità? Ai suoi uomini che gli cadevano attorno, o a quella sconosciuta la cui creatura — un figlio maschio?- avrebbe forse un giorno pugnalato il suo? Finì col prendere una decisione — e gli voglio bene ancora di più per averla presa —: un medico ebraico portò soccorso alla donna in preda alle doglie. Perché vuoi che quell'ufficiale, ridiventato un civile, scopra all'improvviso in sé una tendenza alla brutalità, un istinto di carnefice? Consentimi di andar fino in fondo al mio pensiero, a rischio di shoccarti: se tanti pacifisti convinti o di circostanza, se tanti uomini politici levano oggi la loro voce contro la vittoria di Israele, è proprio perché il suo popolo l'ha ottenuta senza perdere il proprio onore. Se l'ebreo vittorioso si fosse comportato normalmente, cioè alla maniera dei vincitori degli anni quaranta, se anche lui avesse stabilito con i vinti rapporti da padrone a schiavo o a subumano, o ancora da uomo ad oggetto, lo avrebbero più facilmente capito e perdonato. Quello che non gli si perdona è la sua risoluzione, temeraria ed irritante insieme, di voler rimanere umano in una situazione che non lo è. Ti faccio un esempio: la città vecchia di Gerusalemme, sì, ancora lei. Durante i venti anni della sua occupazione illegale — perché contraria alla risoluzione dell'Assemblea delle Nazioni Unite — da parte della Giordania, non ci fu nessuno che trovasse qualcosa da ridire: era considerata un
fatto compiuto. Nessuna cancelleria giudicò opportuno protestare contro la profanazione dei luoghi sacri dell'ebraismo, la costruzione di un albergo di lusso sopra un cimitero ebraico, la demolizione di sinagoghe più volte centenarie, I membri dell'O.N.U. hanno trovato naturale il fatto che la Giordania violasse i suoi stessi accordi di. armistizio, vietando agli ebrei l'accessso al Muro del Pianto. Ma è bastato che i giordani venissero rimpiazzati dagli ebrei, perché governi reazionari e comunisti, editorialisti di sinistra e propagandisti di destra si mettessero a urlare. I torti subiti da Israele? I suoi diriti ereditati da un passato tre volte millenario? Argomenti senza interesse. Il fatto che nessun arabo sia stato cacciato dalla città vecchia nel 1967, mentre tutti gli ebrei erano stati costretti ad andarsene nel 1948, non ha alcun peso sulla bilancia. Che gli ebrei rispettino — e facciano rispettare, per la prima volta dopo la distruzione del Tempio — i luoghi santi delle tre religioni non gioca a loro favore- Al contrario, ti dico: proprio perché Israele non commette alcun sacrilegio e nessuna moschea è stata profanata da un ebreo tutti gli danno addosso. Prendiamo un altro esempio. L'incursione sull'aeroporto di Beirut. Ricordi? Una dozzina di velivoli distrutti al suolo; brillante operazione di rappresaglia contro il Libano, le cui autorità chiudevano gli occhi sul comportamento dei terroristi palestinesi. Ricordi le reazioni internazionali? Mai il Consiglio di Sicurezza si riunì così in fretta per votare in un tempo così breve, e con tale spirito di unanimità, una condanna tanto severa. Gli amici degli arabi erano furibondi, Ì nostri confusi. Negli ambienti più benevoli, si respingeva la tesi israeliana secondo la quale i dodici aerei non valevano la vita dell'uomo che Ì terroristi avevano assassinato, una settimana prima, ad Atene. A quell'epoca mi sono posto la domanda: perché una simile levata di scudi? Quell'operazione di rappresaglia, tutto sommato innocente dato che aveva preso di mira soltanto un poco di ferraglia, in che cosa differiva dalle
altre? Perché si era scontrata con tanta incomprensione, dato che non era stata accompagnata da alcuna perdita umana? E, come al solito, la risposta era racchiusa nella domanda : si deplorava l'incursione di Beirut proprio perché, a differenza delle altre, non aveva comportato alcun spargimento di sangue. Se ci fossero stati dei morti, la reazione sarebbe stata meno violenta. Affermando che l'uomo — qualsiasi uomo — è più importante di qualche aeroplano, Israele non poteva che alienarsi l'opinione pubblica. Ma sì, non protestare, è proprio cosi. E non è un fatto nuovo. Prima si odiava l'ebreo perché voleva essere differente in quanto vittima. Oggi lo si condanna perché ha scelto di essere diverso in quanto vincitore. Ha osato intraprendere e condurre felicemente a termine un'operazione pericolosa — l'occupazione di un aeroporto nemico, in questo caso — senza causare una sola ferita: ammmeti che ce n'era abbastanza per irritare Ì suoi giudici. In verità, dovremmo essere abituati a queste cose- Da quando l'ebreo esiste viene giudicato. Prima è stato Dio. Poi sono venuti gli uomini i quali, uno dopo l'altro, a titoli diversi, tenevano a sostituirsi a Dio, E alla fine, ogni ebreo doveva giustificarsi agli occhi del mondo intero per ogni giorno, ogni ora in cui era ancora in vita. E il gioco continua. Gli rimproverano il suo spirito nazionale e universale, la sua ricchezza e la sua povertà, la sua capacità di sottomissione e di rivolta. Non abbiamo ancora finito di giustificare il fatto che, durante l'olocausto, tanti ebrei abbiano accettato la morte senza combattere, e già siamo costretti a difendere altri ebrei che, una generazione più tardi, si battono — e si battono bene — rifiutando la morte. Ma, di fatto: chi sono i nostri giudici? Mosca e gli strangolatori della primavera di Praga? Washington, Ì cui militari raserò al suolo Ì villaggi vietnamiti « per salvarli »? I santi dalle mani pure di Parigi, i giusti dalla coscienza tranquilla di Londra? Forse la Cina di Formosa? Ci sarebbe da ridere, se la farsa non contenesse una parte di trage
dia, Leggi Ì giornali, amico mio. Migliaia di esseri umani muoiono nella giungla asiatica. E l'O.N.U. tace. II Cremlino prende in considerazione la possibilità di un'attacco nucleare contro la Cina- E l'O.N.U. tace. Nel Biafra, dove imperversa un'insensata guerra fratricida, dei bambini, snaturati dalla fame, fissano il fotografo un giorno, una settimana prima della loro morte, E l'O.N.U. tace. Un momento, amico. Riprendiamo quest'ultima frase. Questa mattina ho sentito alla radio che il numero di biafrani moni di fame — sì, di fame — ha raggiunto e probabilmente superato Ì due milioni. E l'O.N.U. tace. Ma quando si tratta di accendersi contro Israele, i delegati si risvegliano. Per fare il processo a Israele, tutti rispondono presente. Perché tanta sollecitudine? Perché, ai loro occhi, Israele continua ad essere una nazione a parte, una nazione la cui esistenza, il cui modo di fare la guerra e di vincerla, costituiscono altrettante sfide ai paesi più ricchi e potenti, che hanno condotto campagne ben altrimenti indegne, Per me, la vittoria di Israele è innanzitutto morale. Stato senza partito unico, senza complotti e senza epurazioni, senza esecuzioni sommarie: ne conosci molti in questa parte del mondo? Le folle che danzano ai piedi delle forche, dalla sera al mattino, è a Baghdad che le troverai. I campi di internamento, se non di concentramento, è in Egitto che sono situati. Sai come i siriani trattano i loro prigionieri ebrei? LÌ fanno diventare pazzi — letteralmente pazzi — a forza di torture. In Israele l'arbitrio non ha forza di legge. Lì, Ì processi che fanno spettacolo non hanno corso. Nessuno è stato ancora condannato per delitto d'opinione. L'opposizione siede in parlamento, e non in prigione. I terroristi Ìn Cisgiordania godono di maggiori diritti degli avversari politici di Huari Bumedien. In Israele, la rivoluzione non ha eliminato la democrazia: questa è la sua vera vittoria.
Certo, come te, spero con tutte le mie forze che un giorno ebrei e arabi, riconciliati nel nome della ragione, vivranno in pace, senza che la dignità degli uni limiti la dignità degli altri. E sono fermamente convinto che questo corrisponda alla profonda visione degli ebrei. Disgraziatamente Ì dirigenti arabi, minacciati dai militanti del loro proprio campo, non osano stringere la mano che viene loro tesa. Qui sta il nocciolo del dramma- Accettino un primo contatto umano, e il resto diventerà possibile. Invece si rifiutano e persistono nel negare l'esistenza stessa di Israele: non si fa la pace con chi non esiste. Accecamento tanto puerile quanto inammissibile. Posso concepire che degli uomini, ed anche delle nazioni, possano, in un impeto di follia, combattersi e odiarsi. Ma non che gli uni si accaniscano nel vedere negli altri dei fantasmi: dei non-esseri. Ridurre l'uomo alla condi2ione di oggetto, Dio stesso non se lo permette. Israele non ha dunque scelta: aspetterà di essere riconosciuto. Ricordati: venti secoli di solitudine gli hanno insegnato ad aspettare. In fondo, detto tra noi, so che cosa ti preoccupa. Hai paura che ciò che chiami l'anima ebraica, forgiata nella sofferenza e abituata alla persecuzione, cessi di essere tale. Temi che diventi diversa, malefica. Come quella che il mondo le oppone. Ebbene, rassicurati. L'anima ebraica ha saputo resistere a tanti assalti di odio, odio senza età e dai volti cosi molteplici, che saprà resistere anche alla seduzione effimera della gloria militare. Abbi fiducia in lei, lo merita; ne ha dato la prova. Non si cambia anima tanto in fretta. Non si acquista una mentalità da occupante, un istinto di conquistatore in qualche mese, nemmeno in qualche anno. Questo richiede un lavoro di generazioni, implica una tradizione che gli ebrei non hanno. L'ebreo non è cambiato nel corso della sua storia millenaria: credi che possa rinnegare se stesso, convertirsi a motivo di qualche fatto d'armi?
Conosci abbastanza il popolo ebraico, e Io ami abbastanza per sapere che il segreto della sua sopravvivenza, come pure dell'antagonismo che suscita, è legato al fatto che non può e non potrà assumersi un destino che non sia il suo. Lo scenario conta poco, meno ancora la situazione materiale. L'anima ebraica è rimasta ebraica — cioè vibrante di fronte a tutto ciò che è umano — durante tutto il tempo che è durata la tormenta, e ebraica rimarrà adesso che comincia a spuntare l'alba.
A UN GIOVANE EBREO DI OGGI
Hai diciassette anni e mi confidi il tuo smarrimento: sei ebreo e ne ignori il perché. Ignori addirittura che cosa significa essere ebreo: Ì tuoi amici non lo sono e i tuoi genitori lo sono così poco e in modo cosi superficiale! Non sei credente, eppure il fatto di non digiunare per lo Yom Kippur suscita in te un malessere che non ti sai spiegare. Sostieni di essere di sinistra, e tuttavia ne rifiuti le posizioni antiisraeliane: senza essere sionista ti senti tanto vicino a Gerusalemme quanto a Mosca. Il marxismo ti attrae con il suo progetto messianico, mentre il messianismo ebraico ti lascia indifferente. Contraddizioni reali o apparenti, mi chiedi di aiutarti a sbrogliarle. In breve, cosa significa essere ebreo ai nostri giorni? A che cosa ti impegna? Ti piacerebbe saperlo. Purtroppo, a rischio di deluderti, devo confessarti che non posseggo nessuna chiave da offrirti, nessuna formula da confidarti. Anziché parlarti delle mie certezze — ne ho cosi poche, e sono talmente personali ! —, preferisco rievocare gli sforzi che ho compiuto per acquisirle. Scrivo per capire quanto per farmi capire. Attraverso i miei personaggi e i loro giochi di specchi, è l'ebreo in me che si cerca. Un ricordo: da bambino accompagnavo mia madre dal Rabbi di Wizsnicz, dal quale sollecitava, per me, sempre la stessa benedizione: che io potessi crescere da buon ebreo, timorato di DÌO e ubbidiente ai suoi comandamenti.
Realizzato in parte — soltanto in parte —, quel voto continua ad ossessionarmi, come mi ossessiona tutto ciò che mi tiene unito al paesaggio della mia infanzia. Oggi so già che bisogna temere Dio, e credo persino di sapere in che cosa. Ma mi capita di interrogarmi sull'inizio della benedizione appena ricordata: come si diventa un buon ebreo? È l'aggettivo che mi mette a disagio. Senza di esso il problema sarebbe semplificato, o non si porrebbe affatto. A parer mio infatti essere ebreo costituisce non un problema — nessun uomo è un problema — ma una situazione. Sono ebreo perché sono ebreo. E non perché la mia esistenza pone dei problemi a coloro che non lo sono, Non ho mai potuto sottoscrivere la tesi sartriana, che peraltro è ormai sorpassata. Dire dell'ebreo che la sua esistenza è condizionata dall'esterno significa negare nello stesso tempo la sua specificità, la sua identità intrinseca e la sua forza creatrice. Come l'uomo, l'ebreo non si definisce che in rapporto a se stesso. Soggetto e non oggetto, è un fine in sé, e non una funzione di ciò che lo rifiuta o di ciò che egli non è. Dobbiamo concludere che la condizione ebraica esclude qualunque elemento di scelta? Certo che no. Le due nozioni non sono affatto ÌncotapatÌbilÌ. Al contrario: essere ebreo, per me, è in primo luogo assumere il proprio destino di ebreo, e successivamente sceglierlo. In altri termini: si tratta di una scelta deliberata con effetto retroattivo. È perché sono nato ebreo che posso e devo scegliermi come tale. Scelta che implica dunque un'avventura a livello di storia e anche di coscienza. Nulla è dato per acquisito, nulla ti viene imposto: ad ogni istante, ad ogni svolta, puoi ricominciare. Impegna il tuo essere in ciascuna delle tue opzioni. La tua adesione ha valore solo se proviene da una coscienza eternamente lacerata, capace di sorprendersi.
Questa avventura, dove condurrà alla fine? L'ebreo stesso lo ignora, e deve ignorarlo. Yzs'ra'el niqra'holek, dice il Talmud. L'ebreo è perennemente in movimento. La sua ricerca Io caratterizza quanto la sua fede, il suo silenzio quanto il suo grido. L'ebreo si definisce più per ciò che lo ferisce che per ciò che Io rassicura. Puskin affermava che l'uomo russo è nato per l'ispirazione. Unamuno metteva in evidenza la qualità sobria e poetica dell'uomo spagnolo. Per me, l'uomo ebreo si identifica con il proprio interrogativo. Quando il dibattito giunge al termine, e tutto sembra essere stato detto e stabilito, allora emerge l'ebreo che, con la sua sola presenza, con la sua sola sopravvivenza, capovolge teorie e sistemi sapientemente elaborati: si riparte da zero. Appena un edificio è stato costruito, già esige che se ne rivedano le fondamenta. Appena una dottrina è enunciata, la rimette in discussione: sfugge a tutte le dottrine. Non c'è quindi da meravigliarsi se non è ben visto: disturba i suoi protettori e li irrita. E questo perché, con lui, ci si può aspettare qualsiasi imprevisto. Radicato nello stesso tempo nella sua epoca e nell'atemporale, predica l'esitazione, il dubbio. Semina l'inquietudine nel cuore del vincitore e cerca di minare la buona coscienza del vinto. Etemo punto di interrogazione, non concepisce il tempo messianico che sotto il segno dell'attesa. Essere ebreo significa dunque porre un interrogativo'— mille interrogativi, ma sempre lo stesso — alla società, agli altri, a se stesso, alla morte, e a Dio. Questo: perché e come sopravvivere in un universo che ti nega? Oppure; come riconciliarsi con la storia e con i fossati che essa scava o scavalca? O ancora: che cosa rispondere al bambino ebreo che dichiara: non voglio, non voglio più soffrire senza sapere perché soffro? Peggio: che cosa rispondere al padre del bambino che ti dice: non voglio, non voglio più che mio figlio subisca pene e castighi senza sapere che il
suo tormento ha un significato e avrà una fine? E poi il grande interrogativo, il più grave di tutti: che cosa rispondere a colui che esige una interpretazione del silenzio di Dio nel momento in cui l'uomo ebreo — e l'uomo « tout court » — avevano più che mai bisogno della sua parola se non della sua misericordia? Ebreo, prima o poi ti scontrerai con l'enigma dell'azione di DÌO nella storia. Senza Dio, l'esistenza ebraica incuriosirebbe soltanto i sociologi. Con Lui, affascina filosofi e teologi, e li disorienta. Senza Dio, l'olocausto dell'ebraismo europeo si inscriverebbe al solo livello della storia — un episodio crudele nella cornice di una guerra disumana, ma quale guerra non lo è? — e non ci sarebbe bisogno di una revisione di valori e di concetti apparentemente immutabili. Togli ad Auschwitz il suo aspetto ebraico ed esso ti apparirà come spogliato di ogni mistero. Ricordati il detto di Sartre: in amore, uno più uno fa uno. Per gli ebrei contemporanei, uno più uno fa sei milioni. Sei milioni per uno fa Dio. Infatti, come non si può concepire una simile ecatombe con Dio, così essa è inconcepibile senza Dio. Forse è questa l'assurda conclusione di quell'avvenimento: ad esso tutte le strade conducono, ma contro di esso tutte le spiegazioni si infrangono. Vicolo cieco in assoluto: l'agonia del credente equivale allo smarrimento dell'incredulo. Se Dio è una risposta, non può che essere falsa. Non esiste una risposta. Se con l'olocausto Dio ha scelto di interrogare l'uomo, spetta a questi rispondere con una ricerca che ha Dio per oggetto. Duplice interrogativo: a te rivendicarlo e inserirlo nelle azioni che ne derivano. Ma attenzione: si tratta di un duplice interrogativo, a due sensi. Non scinderlo. La domanda che l'uomo pone a Dio è forse la stessa che Dio pone all'uomo. Ciò non toglie che, per viverla, è l'uomo che deve formularla. Può persino trasformarla in una sfida. È cosa consentita, anzi richiesta. Colui che dice « no » a Dio, non è automaticamente un rinnegato. Tutto dipende dal suo modo di dirlo, dalla sua
motivazione. Si può dire tutto, a condizione che sia a favore dell'uomo. E non contro di lui. A condizione di rimanere all'interno dell'alleanza. Rinnegato è soltanto colui che la sconfessa e la giudica dal di fuori. Mi obietterai: perché parlare di Dio dal momento che non sono credente? Rassicurati; mia intenzione non è ridarti la fede. Sei libero di sostituire Dio con il termine — e la presenza — che più ti piace, ma non cambierò un solo segno di questo messaggio che ti è destinato. Inoltre, lascio a te il compito di sbrogliare da solo le tue relazioni con Dio. Per me, contano soltanto i rapporti tra l'individuo e la comunità. Essere ebreo significa operare per la sopravvivenza di un popolo che ti ha trasmesso la sua memoria collettiva nella sua totalità. Nessuno ha il diritto di vivisezionare la storia per operarvi una scelta personale, conservando solo questo o quel periodo, questo o quel personaggio. Il tuo « Io » li racchiude tutti. Hai visto Mosè sul Sinai, ascoltato Davide nella sua città, combattuto i romani a Massada e subito i colpi di spada dei crociati lungo il loro percorso. Chiunque vuol essere un ramo tagliato diventa qualcosa d'altro, ci insegna il Midrash. Isolati nel tempo, e il tempo diventa astrazione, e anche tu. II tempo è un legame, il tuo « Io » una somma. Il tuo nome, altri lo hanno portato prima di te. La tua condizione, altri l'hanno subita come te. Le domande poste dai bambini e le risposte che verranno date loro sono state udite tutte sul Sinai. I tuoi dubbi e i tuoi conflitti, come anche le tue vittorie, ti giungono, in linea diretta, dai tuoi primi antenati. Chiama tutto questo coscienza storica o, se preferisci, senso di solidarietà. Solidale lo sei con quelli che vivono insieme con te, o che sopravvivono in te. Non puoi realizzarti come ebreo se non sei solidale con coloro che condividono i tuoi dilemmi, le tue feste e anche le tue contraddizioni: gli ebrei in Israele, nell'Unione Sovietica, nei paesi
arabi, ed anche nei paesi nei quali i tuoi fratelli non sono perseguitati. In quanto ebreo sei autorizzato, anzi chiamato, a parlare in nome di tutti gli ebrei. La tua parola acquista perciò una portata incommensurabile, una risonanza antica: impegna altri oltre te, persino Ì tuoi precursori più remoti. Poiché l'ebreo che si rinnega, rinnega più che la propria persona: ripudia Abramo, Isacco e Giacobbe. Tradire se stesso oggi significa sradicarsi, amputarsi del passato. Per contro, realizzarsi significa scegliersi come legame tra presente e avvenire, rimorso e progetto, tra il silenzio primordiale della creazione e quello che aleggiava su Treblinka, Anche tu infatti hai vissuto l'olocausto. Sei nato dopo? Poco importa. SÌ può penetrare all'interno del recinto incendiario anche venticinque anni dopo, cinquant'anni dopo. Conosci Uri Zvi Grinberg? Questo poeta e visionario di Israele racconta la storia del giovane ebreo che, al tempo del re Erode, lasciò Gerusalemme per trasferirsi a Roma. Aveva portato con sé un cuscino dal quale non si separava mai. Una notte, mentre dormiva, il cuscino prese fuoco: la stessa notte, a Gerusalemme, il Tempio andò in fiamme. Si può vivere infatti mille miglia lontano dal Tempio e vederlo bruciare. SÌ può morire ad Auschwitz dopo Auschwitz. Siamo tutti dei sopravvissuti. E poiché olocausto c'è stato, non mi sarei mai perdonato di averlo vissuto a distanza. Questo ti stupisce? Con tutto il suo carico di smarrimento, di vergogna e di orrore, l'esperienza che il sopravvissuto ne trae fa di lui un essere privilegiato: un testimone. Ma non vedere in questo alcun tentativo di glorificare il martirio ebraico. Non credo nel martirio. Fa parte del nostro passato, non del nostro destino. Gli ebrei non lo hanno mai ricercato. Non hanno mai introdotto un elemento di sacralità nella sofferenza. L'ascetismo era mal visto, la mortificazione considerata una colpa. La rinuncia alla vita e ai
nutrimenti terrestri non conduce a Dio. Dio abita solamente nella gioia. Dio è gioia. Dio è canto- La necessità di soffrire? Pura invenzione di coloro che, per duemila anni, hanno fatto soffrire quelli che « voltano le spalle alla salvezza ». Il martirio è un mito, fra tanti altri, che ci viene attribuito. Per avere la coscienza tranquilla. Per poter dire: « Castigandoli, rendiamo loro un servizio; la nostra ostilità li mantiene in vita ». Ebbene no! Gli ebrei avrebbero potuto far a meno delle persecuzioni. Contrariamente all'opinione generalmente diffusa, non hanno bisogno di antisemiti per affermarsi e prosperare. L'immagine dell'ebreo perseguitato, piegato dal rimorso, che trova la felicità soltanto nell'espiazione, è un archetipo estraneo agli ebrei, Ì quali se ne sbarazzavano come potevano. Ridendone. E ribellandosi. Dato che la società considerava la propria esistenza incompatibile con la loro, era naturale che essi cercassero di cambiare tale società. Ciò spiega perché tanti movimenti rivoluzionar!, in tutti i campi, contassero tanti ebrei fra i loro precusori e apostoli. Questo mi riporta, nella tua lettera, alla domanda circa lo spirito di contestazione che anima i tuoi compagni. Mi chiedi quale atteggiamento dovresti adottare nei suoi riguardi. La contestazione si confonde con le origini stesse della storia ebraica, e questo Io hai senza dubbio imparato a scuola. Abramo che spezzava gli Ìdoli del padre, Mosè che rifiutava la schiavitù, e i profeti che criticavano — molto irrispettosamente — Ì re e i loro abusi di potere: erano dei contestatori ante litteram. Come lo erano tutti quegli ebrei che, sebbene in esilio ed oppressi, non passavano nel campo dei loro oppressori. Con la loro ostinata fedeltà, mettevano in questione la validità del sistema. La loro presenza diventava un atto di protesta e di ingiunzione. Ogni ebreo che non prendeva la strada comoda della conversione faceva della propria eresia un'espressione di rivol
ta quotidiana, continua- II movimento contestatario dei giorni nostri si situa su questa stessa linea. Tanto più che 10 credo collegato — anch'esso — alle sconvolgenti ripercussioni della seconda guerra mondiale o, più esattamente, all'olocausto. La diffidenza, il rifiuto dell'autorità, Ì disordini, le sommosse, la sete di verità e di purezza, la determinazione di abolire uniformi e tabù: l'ombra dell'evento concentraziona-rio si libra sulle aspirazioni e sui comportamenti dei tuoi compagni. Eorse non ne sono coscienti, ma i loro termini di riferimento convengono più alla mia generazione che alla loro. È ad Auschwitz che si sono verificate le prime mutazioni dell'essere. Senza Auschwitz, non ci sarebbe stato Hiroshima. Né i genocidi in Africa. Ad Auschwitz sono stati intrapresi, catalogati e perfezionati i tentativi aventi lo scopo di disumanizzare l'uomo, le sperimentazioni miranti a ridurlo alla condizione di oggetto, di minerale, di numero di matricola. Ad Auschwitz l'avvenire è stato mutilato e mistificato. La disperazione che ne è scaturita non si placherà tanto presto. Non a caso l'era dello spazio segue cosi da vicino quella delle officine della mone. Posando sulla terra uno sguardo da redivivo, l'uomo ne fugge le maledizioni cercando rifugio su altri pianeti. Con Auschwitz nel loro passato, i tuoi compagni — ebrei e non ebrei — si oppongono a coloro che l'hanno lasciato loro in eredità- Ai genitori, ai pensatori, agli insegnanti, ai profittatori, agli imitatori servili, agli agitatori senza ideale, ai loro seguaci, ai predicatori senz'anima, alle istituzioni inchiodate all'inerzia, in breve a questa generazione di adulti, disonorata e demistificata, che vi ha messo al mondo. Se essa non avesse mancato di perspicacia, di dirittura morale, di ispirazione, avrebbe potuto evitare lo scatena-mento delle catastrofi, o perlomeno ostacolarlo. Scalzando 11 presente, è il passato che i tuoi amici denunciano. Passato screditato, fallito, che crolla sotto la propria colpevolez-
za: ricollega l'uomo a Caino. Tutti i campi, tutte le sfere di attività sono sospette. Una società, una civiltà che hanno potuto portare ad una simile degradazione, hanno infatti pronunciato la loro propria condanna, ed è una condanna senza appello, Se i tuoi compagni si inventano nuovi dèi, è perché gli antichi hanno generato Eichmann e Treblinka. Se si mostrano irriverenti verso i più anziani di loro, è perché questi hanno vissuto i tempi di Sobibor e di Babi-Yar, La loro collera rifiuta la compiacenza che, a loro avviso, era il modo di vivere — o di morire — dei loro genitori. Se aspirano ad un nuovo linguaggio, è perché quello degli adulti si è prostituito a Majdanek. Ritenendosi dei diseredati, dei reclusi, tengono ad assomigliare agli abitanti dei ghetti che lo erano prima e più di loro. Si fanno manganellare, senza rispondere, per seguire le orme dei milioni di ebrei che, prima di loro e più di loro, hanno praticato la nonviolenza come arma inefficace ed inutile di contestazione. Mi dici che Marx ed Engeis, Lenin e Stalin non ispirano più i tuoi compagni. Perché? Perché fanno parte di quell'insieme di ideologie varie e contraddittorie che lastricavano la strada per Birkenau, venendo semplicemente prima di Birkenau. Se i nuovi santi si chiamano Mao, Che o Zen, è perché non hanno nulla che li associa alla geograna concen-trazionaria. Sono convinto che la contestazione attuale ponga in discussione molto più che il presente. Il suo vocabolario dovrebbe farti riflettere: ti riporta un quarto di secolo addietro, Si « occupano » officine e facoltà universitarie, i neri si agitano nei « ghetti ». Praga invade con titoli cubitali le prime pagine dei giornali, così pure Monaco, La polizia utilizza il « gas » per disperdere i dimostranti. Vi sono campi di concentramento in Egitto, in Grecia. Si rievoca Auschwitz per descrivere il Biafra, si paragonano le rivolte razziali alla Insurrezione del ghetto di Varsavia. Per insulta-
re Ì rappresentanti del potere si grida « SS ». Si predice un « olocausto » nucleare. Razzismo, fascismo, dittature totalitarie, complicità, passività: parole che si trascinano appresso un passato greve di significato; da qui il loro impatto sui tuoi compagni. Si denigra il regime attuale, ma è lo scandalo di ieri che viene chiamato in causa. Ecco perché è necessario fare il processo a questa società che è stata — ed è tuttora — la nostra. Dicendole di no, parlerete a favore delle sue vittime. Ma ricordati: l'ebreo agisce sul proprio ambiente senza assimilarsi ad esso. Solo nella misura in cui la sua esperienza è unica, gli altri ne trarranno beneficio. Realizzandosi in quanto ebreo, gli è possibile raggiungere la dimensione universale. L'ebreo che rinnega se stesso, con la scusa di volersi dare all'umanità intera, la rinnegherà a sua volta. È inevitabile. Sul cammino della verità, la menzogna non costituisce una tappa, ma un ostacolo. Quanto alla tua domanda: « Come conciliare l'uomo e l'ebreo? », essa mi sembra mal posta. Non ammetto la distinzione che si è soliti fare tra l'uomo ebreo e l'uomo « tout court »: l'uno non è opposto all'altro, non si annullano a vicenda. Un ebreo che opera a favore del suo popolo, lungi dall'escludersi dall'umanità, opera anche in suo favore. Consentimi di precisare: lottando a favore degli ebrei russi, arabi o polacchi, mi batto per l'uguaglianza dei diritti dell'uomo ovunque. Rivendicando la pace per il Vicino Oriente, insorgo contro tutte le aggressioni, tutte le guerre. Protestando contro l'incitamento allo sterminio del mio popolo, protesto contro il soffocamento della libertà a Praga. Cercando di mantenere vivo il ricordo dell'olocausto, denuncio il massacro dei biafrani e la minaccia nucleare. Soltanto partendo dalla propria particolare esperienza l'ebreo può rendersi utile. L'ebreo infatti non può essere uomo se non all'intemo della propria condizione ebraica.
Ecco perché il tema dell'ebreo è dominante nei miei scritti. MÌ aiuta ad affrontare e ad approfondire il tema dell'uomo-Certo, se non ci fosse stata la guerra, avrei cercato di realizzarmi in modo diverso. Per esempio, non sarei diventato uno scrittore. O, perlomeno, avrei scritto di tutto, tranne dei romanzi. E nella piccola Yeshivah, dove sarei rimasto indefinitamente, chino sulla stessa pagina dello stesso libro, non avrei mai pensato che ci si potesse realizzare al di fuori della stretta osservanza dei 613 comandamenti della Toràh. Oggi, so che questo non basta. La guerra ha messo tutto sottosopra, ha cambiato tutto. Per me, essere ebreo oggi significa raccontare questo cambiamento. Chiunque infatti attraversa una prova, partecipando ad un avvenimento che pesa sul destino dell'uomo o lo libera, ha il dovere di trasmettere ciò che ha visto, provato e temuto. Da sempre l'ebreo è ossessionato da questo dovere. Come ieri, egli sa che vivere un'esperienza, forgiare una visione senza farne un legame e un progetto, significa fame un regalo alla morte, Ai giorni nostri dunque, essere ebreo vuol dire testimoniare. Testimoniare ciò che è e ciò che non è più. Si può testimoniare con gioia — gioia reale, entusiasta anche se frammista ad inquietudine — dando il proprio appoggio ad Israele, o con collera — collera contenuta, depurata e purificata da ogni sterile amarezza — rimestando le ceneri dell'olocausto: per il narratore ebreo e contemporaneo, non può esistere tema più umano, progetto più universale, Quand'ero bambino, sapevo tutto questo senza veramente saperlo, e soprattutto senza saperlo esprimere. Ma continuo ad ignorare come si diventi un « buon » ebreo. Il Talmud racconta che un certo Reb Zeira decise di digiunare per cento giorni per dimenticare ciò che aveva imparato. Solo dopo si recò in Terra Santa.
Che cosa dobbiamo fare noi, uomini della mia generazione e della tua, per imparare di nuovo ciò che ogni giorno, sempre un po' di più, tendiamo a dimenticare? Non lo so. Te l'ho detto più volte nel corso di questa lettera: dò più importanza alle domande che alle risposte. Soltanto le prime diventano condivisione.
DIALOGHI - III
È me che stai spiando con tanta ostilità? SÌ, le. Mi conosci? Ti riconosco. Ci siamo dunque già incontrati? Spesso. Troppo spesso. Dove? Laggiù. Tu c'eri? Non ricordo di averti visto. Io, mi ricordo di te. Che aspetto avevo? Nero. Come??? Eri nero, tutto nero. Il manganello, il fumo, gli occhi malefici degli assassini, e quelli, spenti, delle vittime: tutti erano neri. I fili di ferro spinato, le torrette di guardia, le pietre, le labbra esangui: tutto ciò che era nero, eri tu... E il mio colore preferito. ... Non vedevo che te. Dal mattino alla sera e fino alla successiva aurora. Te, te, solo te e sempre te. Lo sconosciuto il cui respiro affannoso mi bruciava la nuca durante l'appello, il malato che mi invidiava la crosta di pane che conservavo per più tardi: eri tu. L'amico che si aggrappava a me, il moribondo che si avvinghiava a lui, il bruto che riceveva nella propria gamella una minestra più densa della mia, H padre che inciampava e il figlio che, terrorizzato,
non io aiutava a rialzarsi, il kapò che colpiva e i detenuti che si lasciavano colpire, in silenzio o urlando: eri ancora tu, tu, tu.
Strano, non ricordo il tuo volto. Eri occupato, sopraffatto. Eravamo molto numerosi. Ma io ho buona memoria... E non ho l'abitudine di dimenticare... Sei sicuro che... Dal momento che te lo dico! Ero laggiù! La tua preda, il tuo oggetto! Coperto dalla tua ombra nera! Ti appartenevo! La tua potenza era ineguagliata, ineguagliabile. Eri l'assoluto. Suggerivi l'infinito. Da te si correva verso te. Impossibile sfuggirti: eravamo tutti dentro di te. Ma perché t'innervosisci? Gridi, gridi. Ce l'hai con me? In questo momento? Ce l'avevo con te. Perché mai? Dal momento che ti ho lasciato partire-,. ... Non avresti dovuto.
Sei proprio un ingrato. Se avessi saputo... Continua: se avessi saputo? Niente, Se avessi saputo, non mi avresti risparmiato, è così? È possibile. Perché mi hai risparmiato? Perché non sapevo, te l'ho appena detto. Scantoni? E va bene. Te lo dico: eri ancora giovane. Altri erano più giovani di me. Li hai presi. Diciamo allora che eri più meritevole. Io? Meritevole? Tu menti, lo non ero migliore dei miei compagni e sicuramente non ero superiore ai miei ultimi amici.
Può darsi che qualcuno abbia interceduto in tuo favore. Chi? I tuoi antenati. Oppure i tuoi maestri. Che ne so, Non ero dunque favorito dal caso? Sapevi quello che facevi? Eri più che un intermediario? Più che uno strumento? t
Molto di più. Le tue decisioni erano dunque volute e non arbitrarie? Sapevi perché — e a che scopo — destinavi gli uni all'abisso e gli altri ad un cammino offuscato da chimere? Avevi un piano ben preciso, un programma, un fine? Ti piacerebbe che ti dicessi di sì? Certamente. Ma voglio la verità. Peggio per te. Perché la mia risposta è no. Non seguivo alcuna direttiva, non procedevo da alcun principio. Nessuno mi aveva detto in che cosa consistesse il mio compito. Nessuno mi aveva indicato i limiti da non valicare, le vite da non toccare. I miei atti non corrispondevano ad alcun disegno e non contenevano alcun significato. Facevo il mio lavoro quasi senza pensarci, senza nemmeno interessarmene. Eppure, di solito, sono piuttosto meticoloso. Non mi sbaglio mai. Ispeziono il terreno — per cosi dire — prima di presentarmi. È subdolo, Io so, ma le mie funzioni lo esigono. Ogni essere è per me un caso a parte. Lo valuto, lo scandaglio. Per evitare gli errori, le confusioni. Ciò che capita ad un uomo che porta il mio segno non può capitare che a lui soltanto. Ma laggiù era diverso. Gli uni potevano prendere il posto degli altri. I morti avrebbero potuto non morire? Proprio così. E gli altri avrebbero potuto non sopravvivere? Naturalmente No» lo dici per prenderti gioco di me o per amareggiarmi? Davvero non eseguivi nessuna volontà? Non ubbidivi a nessuna legge, a nessun criterio? Non assumevi nessun ruolo? Non recitavi nessuna parte? Ero indifferente, E distratto. Meglio: ero libero. Ma il tuo nome? Esso Ìndica pure la tua qualità di servitore! Di te si dice che sei colui che compie le missioni del tuo Padrone — il nostro Padrone! È lui che ti dice dove andare e di chi impadronirti, non è così?
in linea di massima, si. salvo che, laggiù, avevo pieni poteri. Ero sovrano. Facevo ciò che mi pareva. Lui non se ne immischiava, non interveniva mai. Come lui, non avevo nome, o ne avevo troppi. Tutti i nomi erano miei. Lui trova questo divertente. Io, mi annoiavo. Era dunque... era dunque puro caso?
Puro caso. Avrei anche potuto andarmene dalla parte sbagliata?
Perfettamente. È orribile.
Cos'hai detto? È più orribile, più atroce di quanto pensassi. Cos'hai detto? Era dunque puro caso, puro caso, puro caso.
Se proprio ci tieni tanto, potresti seguirmi adesso. Non è mai troppo tardi, Non è più la stessa cosa. Sarei dunque tanto cambiato? Non tu. Tu allora? Neanch'io. Che cos'è cambiato? I rapporti fra noi. Prima non c'eravamo che tu ed io. Adesso non siamo più soli. Se ti seguo, altri ne sarebbero addolorati.
Non dirmi che sei felice! No» si tratta di questo. Ti credi dunque utile? Indispensabile? Neppure di questo si tratta. Di che cosa allora? Prima io ero te. Agli occhi dell'uomo che precedevo nella fila, agli occhi del vecchio le cui probabilità di sopravvivenza si sbriciolavano di ora in ora: la mia giovinezza, la mia resistenza li condannavano. Ti vedevano in me. Ora è finita. Sono più debole, infinitamente più debole di te, ma non sono più te.
Scherzi.'* Meno che mai.
Allora mi fai pietà. Conosci questa parola, tu?
Sì, la conosco. Conosco tutte le parole! Mi fai pietà perché stai diventando debole. Accetti solo quello che ti fa comodo. Ma sappi una cosa: che tu mi segua o no, per alcuni io sarò sempre te. Poco importa che mi creda o no: loro mi credono. E questo mi basta. Per quanto li riguarda, questo non dipende per nulla dal caso. Non avresti dovuto risparmiarmi laggiù, non avresti dovuto.
Avvicinati. Chi desideri vedere? Lo sai chi. Osserva bene, e li vedrai. Saprai riconoscerli? Credo di si. Li vedi già? Non ancora. Avvicinati un po' di più. Li vedo. Tutti? Non tutti. Chi manca? Un bambino. Deve esserci. Cerca bene. Non lo vedo. Senza dubbio è colpa tua, non sua. Ma gli altri, li vedi? Chiaramente. Quasi non sono cambiati. Soltanto che sembrano soffrire il freddo. Per riscaldarsi si stringono gli uni contro gli altri. Tremano. Hanno paura? Sono al di là della paura. Perché tremano? Non lo so.
Domandaglielo. Non oso.
Non parlerai con loro? Gli sto parlando. Ma pare che non mi sentano. Eppure mi guardano, mi vedono, ma non dicono niente. Probabilmente è ancora colpa tua, non loro. Questo è certo. Dì un po'; adesso sei tu che tremi. Non me n'ero accorto. Credevo di essere anch'io al di là della paura. Allora è collera! Lo spero.
Però! Stai attento! Controllati un po'! E soprattutto, fammi il piacere: non toccare Io specchio. Rischi di romperlo. Non posso fame a meno, ne ho bisogno, capisci, ne ho bisogno! Più di me? Più di tutti voi. A voi permette di sognare, mentre a me, mi spinge ad agire. Non te la prendere. Non sarò io a rompere il tuo specchio, ma il bambino. E non puoi nulla contro di lui. Non è prigioniero dello sguardo, lui. Non trema, lui. È morto. Gli hai permesso di sfuggire al tuo potere. Decisamente rifiuti di capire. Non sono io che l'ho ucciso. Sei tu!
Venticinque anni, che cosa sono, quanto significano? Un punto di riferimento, una linea di demarcazione. Per gli uni una generazione, per gli altri un'eternità. Diciamo una generazione senza eternità. Dei fanciulli condannati a non invecchiare mai, dei vecchi a non morire mal. Una solitudine a livello di popoli, una colpevolezza a livello di umanità. Una disperazione che ha trovato il suo volto, ma non il suo nome. Una memoria maledetta che rifiuta di maledire, di odiare, che cerca di comprendre e forse perfino di perdonare. Questo è una generazione. Per la nuova generazione sarà ben presto storia antica, Senza rapporto con i conflitti e le dispute che oggi la appassionano. Senza effetto sulle aspirazioni e sul modo di comportarsi dello studente ancora adolescente che vuole vivere la propria vita e conquistare l'avvenire. Il passato non lo interessa. Se non nella misura in cui può ripudiarlo. Auschwitz? Ignora. Ora, nella storia c'è una logica. Anche il futuro è il prodotto di un condizionamento- Tutto è legato, inscindibil-mente. All'era del silenzio concentrazionario subentra, naturalmente, quella della comunicazione. Murato nei ghetti,
l'uomo evade nello spazio. ^>e oggi si vive più m fretta e perché ieri si moriva troppo in fretta. Si accordano pieni poteri agli oggetti, ai calcolatori, perché la generazione precedente aveva avuto il torto di fidarsi dei giudizi e delle decisioni degli uomini, Primavera 1945: liberato dall'incubo, il mondo scopre i campi di concentramento, le officine della morte. L'orrore assurdo, l'abiezione: il regno del male allo stato puro. Di colpo, la vittoria ha un sapore di cenere. Così, è dunque possibile insudiciare la vita, la creazione, senza provare rimorso. Coltivare il proprio giardino, annaffiare i fiori, a due passi dai fili spinati. Procedere a mutazioni mostruose e, nello stesso tempo, credere all'immortalità, all'anima, alla felicità. Andarsene in vacanza, inebriarsi di un paesaggio, far ridere i bambini, pur compiendo, ogni giorno, regolarmente, ad ore fisse, la funzione di carnefice. Esisteva dunque una tecnica, una scienza dell'assassinio, con laboratori e specializzazioni, con colloqui e promozioni. E coloro che la praticavano non provenivano dai bassifondi, non costituivano un'accozzaglia di farabutti. Molti di loro erano diplomati in filosofia, sociologia, biologia, medicina generale, psichiatria e belle arti. C'erano persino dei giuristi. E — cosa incredibile ma vera — dei teologi. E lunghi nomi, con, davanti, la particella nobiliare. Stupefatti, i vincitori stentano a riaversi. Mai avrebbero creduto che l'armatura dell'uomo, nel secolo XX, fosse così esile, o le sue difese così vulnerabili. Così il Bene e il Male possono coesistere senza che l'uno eserciti alcun influsso sull'altro: anche il demonio persegue un ideale; anche lui cerca di essere puro ed incorruttibile- II peso dell'ereditarietà è nullo. Le generazioni passate hanno seminato al vento e nella sabbia. La civiltà? Schiuma che le onde fanno salire e scendere prima di scomparire. Nulla è acquisito. Il presente cancella trionfi e tesori con una rapidità vertiginosa. La
decadenza e il morboso gusto per il sangue versato sono senza rapporto con l'ambiente sociale o culturale dell'individuo. Si può nascere in una famiglia nobile o borghese, ricevere un'educazione accurata, rispettare genitori e vicini, frequentare musei e salotti letterari, svolgere un ruolo sulla scena pubblica, e mettersi, improvvisamente, bruscamente, a massacrare uomini, donne e bambini senza batter ciglio e senza provare alcun senso di colpa. Si può sparare su bersagli viventi e nondimeno apprezzare la cadenza di una poesia, la composizione di un quadro. Il bagaglio spirituale non fa da schermo, i postulati etici non offrono alcuna protezione. Si può torturare il figlio davanti al padre, e considerarsi uomo di religione e di cultura. E sognare un placido tramonto sul mare, Se Ì carnefici fossero stati dei bruti selvaggi, dei sadici, degli squilibrati, lo shock sarebbe stato minimo. E la delusione anche. Adolph Eichmann era un uomo normale. Dormiva bene, mangiava bene, non soffriva di alcun disturbo mentale. Padre esemplare, sposo premuroso. Durante il processo, a Gerusalemme, non riuscivo a distogliere il mio sguardo dal suo. Lo fissavo fino a bruciarmi gli occhi. Ingenuamente cercavo un segno sulla sua fronte. Oscuramente credevo che colui che semina la morte attorno a sé si scavi una tomba nel proprio corpo. Il suo aspetto umano, il suo comportamento normale mi scandalizzavano. Il suo modo di parlare, di difendersi. Tutto diventava di una chiarezza trasparente, di una banalità nauseante. Si esprimeva senza ironia, senza veemenza, con una voce impersonale, snocciolando date, cifre e rapporti. All'inizio mi faceva paura. Mi dicevo: se lui è sano di mente, per me scelgo la follia. O lui o io. Con lui non voglio avere nulla in comune. Non abitiamo lo stesso universo, non dipendiamo dalle medesime leggi. Ma era un uomo come gli altri.
Ci si trovava di fronte ad una metamorfosi dalle dimensioni molteplici, coinvolgente la condizione umana nel suo insieme, carnefici e vittime. Se i primi hanno rimosso troppo in fretta ogni divieto per diventare dei carnefici, i secondi hanno accettato troppo rapidamente il loro ruolo di vittime, Durata della metamorfosi: una notte, una settimana. O di più. Diciamo un anno, forse tre. Il tempo conta meno del principio: l'uomo è capace di disfarsi del proprio « Io ». Stritolato dal sistema concentrazionario, non gli importa più di essere stato intellettuale o operaio, studente turbolento o marito perbene. È bastato qualche colpo, qualche grido, perché facesse tabula rasa. Perché la perdita della propria identità fosse totale. Non pensava più come prima, non guardava più gli uomini negli occhi: non aveva più gli stessi occhi. Le leggi e le verità del campo sopraffanno quelle del mondo esterno, il prigioniero non poteva non integrarsi ad esse. AI fondo di una lunga fame, pensava alla minestra e non all'immortalità dell'anima. Al fondo di una lunga marcia notturna, aspirava al riposo e non alla grazia. Questo dunque era l'uomo? Si voleva capire. L'attrattiva del crimine nei seviziatori, e quella della mone nelle loro vittime. Le condizioni che avevano reso possibile Auschwitz. Si avanzavano spiegazioni e ipotesi che andavano dalla politica alla psicosi di massa; ma si dimostravano insufficienti. Si cozzava contro un muro, Auschwitz sfuggiva all'uomo fino alla fine. Anche dopo. Di qui l'angoscia incombente sulla generazione del dopoguerra. Doveva assolutamente penetrare il mistero. Individuare con precisione che cosa, nell'abisso, ecciti l'uomo, che cosa lo spinga verso la caduta. Per giungere a questo sarebbe stato necessario interrogare molti carnefici e molti morti. I primi per lo più erano in fuga, i secondi senza sepoltura.
Allora ci si rivolse alle vittime, i sopravvissuti. A loro fu chiesto di denudarsi, di scrutare i recessi più segreti del loro essere, di raccontare, di raccontare ancora, fino allo sfinimento, fino al delirio che segue lo sfinimento. Qual era la realtà? Gli assassini erano davvero così numerosi, così coscienziosi come si sosteneva? E l'apparato, realmente così efficace? Era veramente un universo, con i suoi dèi e i loro sacerdoti, i suoi principi e le loro leggi, i suoi filosofi e i loro interpreti ? E voi, come avete fatto per sopravvivere ? Conoscevate già in precedenza l'arte di sopravvivere? E come avete fatto per rimanere sani di mente? Come fate per dormire di notte, andare a lavorare, recarvi al ristorante, al cinema, come fate per frequentare le persone e condividere i loro pasti? Si voleva sapere tutto, risolvere tutti gli interrogativi. Non lasciare nulla nell'ombra; il mistero faceva paura, I sopravvissuti, reticenti, davano risposte approssimative, aggiravano l'argomento. Oppure rimanevano in silenzio. Innanzitutto per pudore: vi sono ferite e lutti che si preferisce tenere nascosti. Anche per timore. Per timore soprattutto. Timore di suscitare l'incredulità, di sentirsi dire: avete l'immaginazione malata, quello che descrivete non può essere accaduto. Oppure: tentate di intenerire la nostra pietà, di mercanteggiare le vostre sofferenze. O peggio: timore di venir meno ad una missione, di tradire l'esperienza unica imprigionandola dentro parole logore, nefaste. Timore di dire quello che non deve essere detto, di voler comunicare con la parola ciò che sfugge alla parola, di cadere nella trappola della bugia facile. Ciascuno di loro doveva, ad un certo momento, subire la tentazione di stringere le labbra e adottare un mutismo assoluto. E trasmettere la visione dell'olocausto alla maniera di ceni mistici, sottraendola al linguaggio. Se tutti avessero taciuto, l'assommarsi dei loro silenzi sarebbe stato insopportabile: il mondo sarebbe diventato sordo.
Allora, hanno consentito a sollevare il velo. Per farlo, dovevano sormontare ostacoli e inibizioni. Ma dicevano a se stessi; pazienza, è un brutto momento da superare. In ogni modo noi non siamo che dei messaggeri. E poi, forse, con un po' di fortuna, gli uomini trarranno profitto dalla nostra esperienza. Impareranno di che cosa è capace l'individuo in un regime totalitario, dove l'umano e l'inumano si confondono, di che cosa sono fatte le guerre e dove conducono, Impareranno che esiste un legame tra le parole e le ceneri che esse ricoprono. Erano degli ingenui, i narratori-superstiti. Pensavano di compiere una missione attribuendo un significato retroattivo a una prova che non ne aveva affatto. Dicevano a sé stessi: chissà, forse se riusciamo a farci capire, l'uomo cambierà. Modificherà l'idea che ha di sé. Grazie alle cose che gli chiariremo, saprà d'ora in poi distinguere tra le cose da fare e quelle da non fare, le finalità da perseguire e quelle da abbandonare. Saprà forgiarsi una realtà fatta di desiderio e non di necessità, una libertà a misura del suo slancio creatore e non del suo istinto degradante. Un quarto di secolo dopo, facendo il punto, si rischia di perdersi d'animo. Il bilancio ottenuto non induce davvero alla fierezza. In Germania, dove i nazisti ricompongono i loro quadri, si scoprono degli assassini sotto i tratti di un giudice, di un procuratore, di un mecenate, e persino di un vescovo. Un deputato francese accusa pubblicamente gli ebrei di calcare un po' troppo sulle loro sofferenze. Nei paesi arabi, i cittadini ebrei, spogliati dei loro beni e dei loro diritti, sono votati all'obbrobrio. Calunniati nell'Unione Sovietica, perseguitati in Polonia. E, fatto senza precedenti, l'antisemitismo ha varcato anche le frontiere della Cina. Da qui l'interrogativo che i sopravvissuti devono porsi; non era uno sbaglio voler deporre, e affermare così la loro fede nell'uomo e nella parola?
conosco perlomeno un uomo che ha spesso voglia di rispondere affermativamente. Se la società è cambiata così poco, se tanti strateghi preparano l'esplosione del pianeta e tanti popoli li lasciano fare, se tanti uomini vivono ancora sotto l'oppressione e tanti altri nell'indifferenza, questo può significare soltanto che il fallimento degli anni bui ne ha generato un altro: quello della sterilità. Non si è imparato nulla. Auschwitz non è servito neanche come avvertimento. Per più ampie informazioni consultate il vostro giornale abituale. Se il testimone è un narratore, ne raccoglie un sentimento di impotenza e di colpevolezza. Ha avuto torto di imporsi, di importunare: le persone non ne hanno tenuto conto, Ha avuto torto di aprire le porte del santuario in fiamme: la gente ha girato la testa dall'altra parte. Peggio: ha guardato e non ha visto niente. La scrittura stessa è messa così in dubbio. Fissarsi come progetto di fare rivivere ciò che fu la realtà allucinante di un solo essere — voi o un altro — in un solo campo, ecco ciò che rasenta il sacrilegio. Più il racconto è buono e più appare artefatto. Il segreto deve restare allo stato puro. Una volta rivelato, diventa mito e inevitabilmente si offusca, si sminuisce. Le parole finiscono col perdere la loro innocenza, la loro capacità suggestiva. La verità non sarà mai scritta. Come la Legge orale, sarà trasmessa da bocca ad orecchio, da sguardo a sguardo. Esperienza unica, l'olocausto sfida la letteratura. Crediamo di raccontare ciò che accadde, ma non ne comunichiamo che un rinesso. Nessuno ha il diritto di parlare per i morti, nessuno ha il potere di farli parlare. Nessuna immagine è abbastanza demenziale, nessun grido abbastanza blasfemo per evocare quello che fu il comportamento di una sola vittima — accettasse o meno la propria condizione — che camminava verso la morte in silenzio, senza collera e soprattutto senza rimpianti. Ecco dunque il dilemma del narratore che vuole essere essenzialmente testimone, il dramma del messaggero incapa
ce di consegnare il suo messaggio: come parlarne e come non parlarne? Da un lato per lui non può osservi altro argomento che questo: tutte le situazioni, tutti i conflitti, tutte le ossessioni non possono, in paragone, che apparire scialbe e puerili. Dall'altro, come affrontare quell'universo notturno senza diventare mercante di angoscia e di tenebre? Senza diventare un altro? Il Talmud racconta che Yonathan ben Uziel studiava la Toràh con tale ardore che un fuoco — quello del Sinai — lo circondava, accecante, ferendo gli uccelli che si avvicinavano per guardare o per riscaldarsi. Questo vale anche per lo scrittore che affronta il tema dell'olocausto: non mancherà di bruciarsi le dita e, a volte, più che le dita, Non importa. Bisognava raccontare. A dispetto dei rischi, a dispetto dei malintesi. Bisognava raccontare per i nostri figli. Perché sappiano da dove vengono. E quale eredità trasmettiamo loro. Quel passato, portato, via dalle nuvole, occorreva recuperarlo e recuperare le nuvole. I morti, bisognava guardarli, e guardarli ancora, per placarli e scongiurarli, forse per cercare vicino a loro, oltre il paradosso e l'assurdo, un indizio, un inizio di promessa. Ma d'ora in poi sarà diverso. Lo si voglia o no, un quarto di secolo segna una svolta. Una rottura. D'ora in poi si parlerà dell'olocausto in modo diverso. Oppure non se ne parlerà affatto, almeno per lungo tempo. Altre imprese, altre esplorazioni esercitano già il loro fascino sulla nuova generazione. L'era della Luna si apre nel momento in cui termina, recalcitrante, l'era di Auschwitz. Ora , si conosce già la faccia segreta, oscura, di quella, mentre non si conoscerà mai completamente la faccia tenebrosa dell'altra. L'uomo dell'epoca concentrazionaria si sforzerà di sigillare la propria memoria, il testimone si ripromette di non chiamarlo più alla sbarra. L'inventario è terminato. I fantasmi dovranno farsene una ragione. Presto non ci sarà più nessuno per parlarne, nessuno per ascoltare.
FINE DI UN ITINERARIO
Due leggende; Quando a subire il martirio dei romani fu la volta di Rabbi Yishmael, si udì dal cielo una voce: Yishmael, figlio mio, taci. Se piangi, riporterò il mondo nel nulla. Una sola lacrima inghiottirà l'intera creazione. E Rabbi Yishmael non pianse- Nonostante il suo dolore. Nonostante la sua collera. Non ha distrutto nulla. Vestito con il mantello dei profeti, il giovane Elisha riunì i contadini e fece loro uno strano, inquietante racconto: aveva appena visto il suo maestro volarsene via, vivo, su un carro di fuoco, dritto verso il cielo, per sempre. Eccettuati Ì bambini, il villaggio si dimostrò incredulo. Allora Elisha ricominciò il racconto. Per i bambini. ... Ed ora, narratore, volta pagina- Parlaci d'altro. I tuoi profeti folli, i vecchi ebbri di nostalgica attesa, i tuoi ossessi tornino tutti nella loro isola notturna. Sono sopravvissuti alla loro morte per più di un quarto di secolo: dovrebbe bastare loro. Se rifiutano di andarsene, falli almeno tacere. Ad ogni costo. Con tutti i mezzi. Dì loro che il silenzio, più della parola, rimane la sostanza e il segno di ciò che fu il loro universo e che, come la parola, il silenzio s'impone e chiede di essere trasmesso.
STAMPATO A CASALE MONFERRATO PRESSO poligrafico piemontese marititi