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Italia tascabile
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In copertina: la festa del Santissimo Crocefisso, a Calatafimi (per gentile concessione dell’Archivio dell’APT di Trapani) Design: Alessandro Conti Prima edizione: maggio 1997 Tascabili Economici Newton Divisione della Newton & Compton editori s.r.l. © 1997 Newton & Compton editori s.r.l. Roma, Casella postale 6214 ISBN 88-8183-744-7
Tascabili Economici Newton, sezione dei Paperbacks - Pubblicazione settimanale, 29 maggio 1997 - Direttore responsabile: G.A. Cibotto - Registrazione del Tribunale di Roma n. 16024 del 27 agosto 1975 - F'otocomposizione: Centro Fotocomposizione s.n.c., Città di Castello (PG) - Stampato per conto della Newton & Compton editori s.r.l., Roma, presso la Legatoria del.Sud s.r.l., Ariccia (Roma)
Maria Adele Di Leo
Feste patronali di Sicilia Culti, tradizioni, rituali e folclore della devozione popolare
Tascabili Economici Newton
Indice
p.
7 11 16 19 23 25 28 32 37 41 44 46 47 51 56 60 62 66
Introduzione Sant’Agata vergine e martire, patrona di Catania. Le cande lore San Biagio, patrono di Salemi. La festa dei pani San Calogero eremita, protettore di Agrigento. La «tammuriata di san Calò» San Corrado eremita, patrono di Noto. L ’«arriggirata di san Currau» La festa del Santissimo Crocefisso, protettore di Calatafimi San Giorgio cavaliere, patrono di Ragusa Ibla San Giuseppe falegname. Le cene di san Giuseppe Santa Lucia vergine e martire, patrona di Siracusa Madonna della Lettera, patrona di Messina. La «vara» Madonna della Visitazione, patrona di Enna San Michele arcangelo, patrono di Caltanissetta. Le nove candele San Paolo, patrono di Palazzolo Acreide. I «cerauli» Santa Rosalia, patrona di Palermo. «’U festinu» San Sebastiano, patrono di Melilli. Il pellegrinaggio dei «nuri» San Silvestro, patrono di Troina. La «kubbaita» San Vito, patrono di Mazara del Vallo. «Lu festinu di santi Vitu» Bibliografia essenziale
L’autrice ringrazia, per le informazioni e la collaborazione ricevute, l’Azienda Auto noma di Soggiorno e turismo di Catania e Acicastello; le Aziende Autonome Provin ciali per l’incremento turistico di: Agrigento, Trapani, Ragusa, Messina, Enna, Calta nissetta, Siracusa (sig. Santino Amenta); l’Azienda Autonoma di Turismo di Palermo e Monreale; l’Azienda di Cura, soggiorno e turismo di Sciacca; il Comune di Salemi (sig. Nino Curia).
Introduzione
Il bisogno di protezione e di tutela per superare le difficoltà e i peri coli dell’esistenza, è stato sempre vivo negli uomini fin dai tempi più remoti. Già prima dell’avvento del cristianesimo, le divinità pagane erano oggetto di culto, un culto che si espriméva attraverso una serie di manifestazioni rituali di carattere commemorativo e festivo, che più tardi appariranno anche nella cultura cristiana. In Sicilia, in se guito alle grandi persecuzioni di Decio, Diocleziano e Massimo Ga lerio, vi fu un numero considerevole di martiri cristiani che, nei luo ghi in cui subirono ogni tipo di supplizio fino alla morte, vennero ac clamati santi protettori. Durante le varie dominazioni che si sono succedute nell’isola, il culto dei santi e dei martiri è stato oggetto talora di limitazioni, talal tra di innovazioni; così, durante la dominazione araba, i musulmani imposero un tributo per venerare i santi alle popolazioni dei paesi da loro conquistati, vietando sia le processioni solenni, sia la costruzio ne di nuove chiese. Quelle esistenti nella maggior parte furono tra sformate in moschee cosicché, quando i Normanni sbarcarono in Si cilia, trovarono trecento moschee e altrettanti maestri di scuola cora nica. Successivamente, con la dominazione dei Normanni e poi con quella sveva, spagnola e aragonese, i siciliani tornarono ad essere li beri di praticare con manifestazioni solenni il culto dei santi e dei martiri, ma fu soprattutto durante il periodo normanno che il culto cristiano crebbe notevolmente, perché i re normanni, oltre a essere soldati, furono soprattutto costruttori di chiese e cattedrali in tutta l’i sola, testimonianza congiunta di fede religiosa e di sviluppo econo mico. Col tempo, la libertà di culto favorì l’incontrollata acclamazione di santi locali e, dato il loro numero elevato, papa Urbano vili nel 1630 emise un decreto in cui stabiliva norme ben precise per la scelta di coloro che sarebbero stati proclamati santi protettori. In Sicilia, in base a questo decreto, si fece distinzione tra santi patroni principali e santi patroni ordinari eletti dai consigli civici. Da allora, le vicende del protettorato dei santi in rapporto ai luoghi in cui divennero patro ni e protettori sono collegate alle storie municipali. Palermo, nel 1773, contava quindici santi principali e venti santi ordinari: le quat tro sante patrone della città (santa Ninfa, sant’Oliva, sant’Agata e la
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Madonna della Lettera) non vennero mai riconosciute dalla popola zione sante compatrone della città perché, dopo che santa Rosalia salvò la città dalla peste nel 1624, la cittadinanza riconobbe patrona soltanto quest’ultima: la santuzza, come veniva chiamata affettuosa mente dal popolo. Nel nostro secolo, la devozione per i santi patroni rappresenta il cul to più diffuso. Il santo, a differenza di Dio e della Madonna, per il fatto di essere stato mortale, è considerato una presenza viva, in gra do di comprendere i bisogni dell’essere umano; pertanto lo si ritiene più sensibile alle eventuali richieste di aiuto, di guarigione e di con forto. Di conseguenza egli diventa dispensatore di grazie e miracoli ed è considerato, per certi aspetti, più potente dello stesso Dio. Al santo ci si rivolge per qualsiasi richiesta: per far cessare la sicci tà, per evitare i pericoli di terremoti, per allontanare e scongiurare ca restie ed epidemie, per guarire da malattie gravi o quando, nei mo menti di maggiore precarietà esistenziale, il miracolo rappresenta l’u nica salvezza. Così il rapporto che si instaura tra santo e devoto di venta un rapporto privato e particolare che può produrre fenomeni di personalizzazione e di “appropriazione” della figura del santo, tanto da scatenare in alcuni casi faziosità campanilistiche e accese passioni da parte di comunità locali in difesa del santo patrono o anche del proprio quartiere. A Ragusa la devozione per i due patroni (san Gior gio e san Giovanni Battista) ha scatenato, tra le due fazioni opposte di devoti, rivalità tali che in passato sono sfociate anche in atti di sangue. Nell’agiografia popolare ogni santo assicura un patrocinio speciale, che prevede protezione per i mestieri e in occasione di calamità natu rali (terremoti, eruzioni vulcaniche e tempeste). Nella iconografia po polare si evidenziano aspetti ed episodi connessi al culto specifico: san Giuseppe, uno dei santi più amati in tutta l’isola, è rappresentato con un bastone in cima al quale vi è un giglio; san Lorenzo viene raf figurato con una graticola, strumento del suo martirio; san Paolo è raffigurato con una vipera attorcigliata nella mano, che allude alla sua protezione dai morsi velenosi. Il santo diventa così riconoscibile grazie ad alcuni elementi che costituiscono il tratto identificativo del suo potere taumaturgico o del suo speciale patrocinio. Nella religiosi tà popolare spesso la protezione si estende anche agli animali, che ancora oggi vengono fatti sfilare sfarzosamente addobbati in occasio ne dei festeggiamenti per il santo patrono. Gli itinerari processionali servono a sacralizzare i luoghi e la vara (il carro su cui viene posta la statua del santo patrono), secondo anti che credenze popolari, è dotata di poteri benefici e di un’autonoma li bertà di movimento, così come le immagini dei santi assumono una funzione magico-protettiva. L’effige in cui è raffigurato il santo, il cosiddetto santino, viene distribuita ai fedeli, dopo essere stata bene detta, per essere affissa dietro la porta di casa o sul capezzale del letto o nei luoghi di lavoro; o addirittura la si porta sulla persona come un
INTRODUZIONE
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amuleto o si mette sulle parti malate per invocare la protezione del santo attraverso preghiere e scongiuri, sostituendo così ogni medica mento. L ’immagine di santa Lucia si pone sugli occhi perché riconosciuta protettrice della vista; l’immagine di san Vito sulla parte del corpo che è stata morsa da un cane idrofobo, perché si ritiene che il santo protegga dal morso dei cani idrofobi; l’immagine di san Biagio viene posta sul collo perché riconosciuto come il santo che protegge i mali della gola; quella di sant’Agata viene posta sui seni perché, avendone subito il martirio dell’amputazione, la santa protegga proprio quella parte del corpo femminile. In Sicilia non esiste paese, anche piccolo, che non festeggi il proprio patrono o non coltivi la propria festa tradizionale, con manifestazioni rituali incentrate sull’ostentazione dell’abbondanza di cibo e su atti devozionali e penitenziali: processioni solenni, novene, pellegrinaggi e offerte spettacolari. La popolazione di Palermo dedica a santa Ro salia, patrona della città, sei giorni di festeggiamenti spettacolari, de nominati ’u festinu, che da tre secoli e mezzo si ripete come nel 1624, quando la città colpita dalla peste fu salvata dalla santa; a Troina, san Silvestro viene festeggiato con una cavalcata, la kubbaita, una rievo cazione storica di quando il castello del paese fu riconquistato da Ruggero il Normanno, dopo aver scacciato i saraceni; a Catania, la patrona sant’Agata viene tuttora portata in processione dai nuri, de voti a piedi scalzi, vestiti di bianco (il colore della fede che si ritrova nella maggior parte delle feste religiose dell’isola), in ricordo di quel la notte del 17 agosto del 1126, quando i catanesi uscirono dalle loro case a piedi scalzi per accogliere le ossa della santa che erano state ri portate da Costantinopoli; a Calatafimi, la festa del Santissimo Cro cefisso è una delle più suggestive e spettacolari della Sicilia, dove la sfilata dei vari ceti, suddivisi per mestieri, rende omaggio alla Santa Croce con una solenne processione che si tiene ogni cinque anni, da tre secoli. Ma il più amato dei santi protettori è san Giuseppe, patrono in mol tissimi paesi dell’isola festeggiato anche due volte l’anno. La festa del santo, che cade il 19 marzo, apre il ciclo delle feste primaverili e nella tradizione popolare egli è il protettore di tutti i poveri e di chi soffre la fame e il freddo: da qui l’usanza in quasi tutta l’isola di pre parare le “cene di san Giuseppe”, banchetti sacri promessi per voto al santo patriarca, con l’obbligo di invitare i più poveri fra i poveri del paese che, in numero di tre, rappresentano la Sacra Famiglia. La divi sione del cibo, oltre ad essere un atto di solidarietà, secondo la fede cristiana diventa anche un rito propiziatorio che serve a invocare la protezione del santo. Inoltre, nella cultura contadina il banchetto con la Sacra Famiglia rappresenta un momento quotidiano fondamentale: quello della famiglia riunita, garante dell’equilibrio della vita e della continuità del lavoro.
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In Sicilia ogni festa diventa un evento straordinario in cui anche la riproposizione di simboli manifesta il sentimento di religiosità popo lare. I pani votivi, ad esempio, presenti nella maggior parte delle fe ste siciliane con denominazioni diverse a seconda dei paesi e delle fe ste (cuddure, cucciddati, cannarozza, ucchialeddu e così via), diven tano un simbolo sacrale. Preparati esclusivamente dalle donne in una varietà di forme e dimensioni (con raffigurazioni che si rifanno alla tradizione cristiana), una volta benedetti, i pani vengono distribuiti tra i devoti, che li conservano, li distribuiscono tra i parenti, li smi nuzzano per spargerli nei campi seminati allo scopo di propiziare un buon raccolto. Altri segni densi di valore simbolico che ritroviamo nelle feste religiose sono costituiti dalle spighe di grano, dai rami di alloro e di ulivo. Le palme e i rami di ulivo, usati soprattutto durante i riti della Pa squa, assumono per il popolo un valore magico-religioso e sono usati in funzione apotropaica: dopo essere stati benedetti vengono conser vati in casa, sopra il capezzale o accanto alle immagini sacre, con il compito di scongiurare malattie o disgrazie. I rami di alloro - che già nei tempi precristiani era considerato sacro, e per questo veniva pian tato attorno ai templi - in alcune feste siciliane assumono un signifi cato di propiziazione: nella festa di san Silvestro a Troina, i laurati sono devoti che recano una bandiera costruita con rami di alloro che viene offerta al santo per sciogliere un voto. L’offerta del pane, nella maggior parte delle feste patronali, diventa l’elemento centrale delle celebrazioni religiose. La sacralità del pane ha sempre avuto un valore importante non solo nella religione cristia na ma anche nella cultura contadina: per san Biagio, che come si è detto è il protettore dei mali alla gola, il 3 febbraio di ogni anno si ce lebra la prima festa dei pani, caratterizzati da due forme tipiche, li cudduredda e li cavadduzzi; a san Giuseppe si celebra il più famoso dei riti connessi alla tradizione dei pani preparati in una varietà di forme e dimensioni, che raffigurano animali, fiori e arnesi di lavoro del santo. A Ragusa, durante i festeggiamenti del patrono san Gior gio, vengono offerti al santo due grossissimi pani a forma di corona, i cucciddati, che dopo la festa vengono divisi tra gli agricoltori, i quali ne getteranno delle briciole nei campi seminati come auspicio di un buon raccolto. Ugualmente in tante altre feste l’offerta dei pani votivi rappresenta l’elemento caratterizzante della celebrazione religiosa. Altri simboli che ritroviamo nelle feste sono i ceri, i cilii, tradizio nalmente portati in processione. Questa usanza risale probabilmente a quando Federico n di Svevia, durante la dominazione sveva in Sici lia, fece un’offerta in denaro alla chiesa di Palermo perché acquistas se ceri e oli sacri in suffragio dell’anima dei suoi genitori. Da allora l’uso di portare i ceri in processione, come atto di devozione soprat tutto da parte delle varie corporazioni di arti e mestieri, si ritrova in molte feste: a Catania, per la festa di sant’Agata, si svolge la proces sione delle candelore, grossi ceri alti parecchi metri offerti dalle va
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rie corporazioni nel corso dei secoli. Le candele benedette, durante la festa per il patrono, assumono talvolta un significato particolare, come nella ricorrenza di san Michele arcangelo a Caltanissetta, dove i devoti conservano queste candele per accenderle poi nei momenti più importanti, per esempio in quello della morte. Nella devozione per la Madonna, a differenza di quella per i santi (per i quali la virtù fondamentale consiste nella consacrazione a Dio fino al martirio), assumono particolare ruolo le sue doti principa li, cioè i privilegi che Dio le ha concesso. Il culto per la Madonna in tutta l’area mediterranea trae origine dal culto sviluppatosi in epo ca pagana, della Grande Madre. La devozione mariana nell’isola ha prodotto un numero considerevole di Madonne e, a seconda delle lo calità e dei miracoli, delle apparizioni e dei ritrovamenti di imma gini sacre o statue la Madonna ha assunto una infinità di denomina zioni. In Sicilia, ogni festa religiosa diventa occasione di recupero del pas sato attraverso una serie di rituali che, grazie alla profonda religiosità popolare, sono stati tramandati nel tempo e si ripetono replicando le antiche modalità di espressione.
Sant’Agata vergine e martire, patrona di Catania. Le candelore Secondo la Passio sanctae Agathae, risalente alla seconda metà del v secolo, Agata, vissuta nella prima metà del in secolo d.C., apparte neva ad una nobile famiglia catanese e subì il martirio durante la per secuzione dell’imperatore Decio in Sicilia. Secondo gli Atti, il pro console Quinziano, a quei tempi prefetto in Sicilia, invaghitosi di Agata la chiese in sposa, ma la santa fece rispondere che l’avrebbe sposato solo dopo aver finito una tela che, come nella leggenda di Pe nelope, di giorno tesseva e di notte disfaceva. Quinziano, scoperto l’inganno, la fece arrestare e per piegarla ai suoi desideri l’affidò ad una donna di facili costumi. Ma la santa, che aveva fatto voto di ca stità, non si piegò a Quinziano e per questo venne nuovamente arre stata. Dopo essere stata denudata, subì il supplizio dei carboni accesi e le furono amputati i seni; quindi, dopo il martirio, fu riportata in carcere dove morì. Si narra che nel momento stesso in cui la santa moriva, Catania fu scossa da un tremendo terremoto e che l’anno seguente, nel giorno dell’anniversario della morte, l’Etna riprese la sua attività eruttiva, con gran spavento dei catanesi. Essi corsero a pregare intensamente presso il sepolcro di Agata portando il velo appartenuto alla santa, il cosiddetto flammeum virginale, il velo verginale delle fanciulle con sacrate a Dio, che oggi è conservato nella cattedrale di Catania in uno scrigno contenente altre reliquie della santa. Secondo la tradizione, il velo riuscì a fermare l’eruzione lavica dell’Etna e, anche per questo
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SSfcri
Sant 'Agata mentre subisce il martirio.
motivo, la patrona è invocata contro le eruzioni del vulcano ed è con siderata la protettrice del fuoco. Il culto per sant’Agata si diffuse so prattutto durante la dominazione normanna, quando due monaci, Goselmo e Gisliberto, riuscirono a individuare a Costantinopoli il luogo in cui era stata sepolta la santa, il cui corpo vi era stato portato dal ge nerale bizantino Maniace nel 1040. Si narra che quando le reliquie della santa giunsero a Catania, tutte le campane delle chiese suonas sero da sole. Catania, l’antica Katane, fondata dai coloni calcidesi di Naxos nel 729 a.C., festeggia sant’Agata, patrona della città, dal 3 al 5 febbraio e i catanesi ricorrono da secoli alla loro santa concittadina quando la lava del vulcano li minaccia in modo particolare. Alla data del ritorno a Catania delle spoglie della santa si ricollega il festeggiamento di mezz’agosto, ma attualmente le celebrazioni religiose in onore della patrona hanno inizio sin dalla prima domenica del mese di gennaio, con l’esposizione del velo nella chiesa di Sant’Agata al Borgo, per permettere ai fedeli di venerare la sacra reliquia. Il velo è una striscia di seta di colore rosso lunga quattro metri e lar ga cinquanta centimetri. Secondo una delle tante leggende esso, ori-
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ginariamente di colore bianco, sarebbe diventato rosso dopo essere stato esposto per la prima volta per fermare la lava che minacciava la città. Da allora, nel corso dei secoli, si è ricorso all’esposizione del velo tutte le volte che la lava dell’Etna minacciava alcuni paesi della pro vincia di Catania. La domenica successiva, in piazza Duomo viene portata, dai soci dell’Associazione di Sant’Agata, la candelora dedi cata alla patrona (assieme a quella dei pastai) e nel pomeriggio il velo della santa patrona viene condotto in corteo sino alla chiesa di Santa Maria Ognina, dove si commemora il passaggio delle reliquie per quei luoghi. Il sacro velo viene esposto alla venerazione dei fedeli nella chiesa di Sant’Agata alla Fornace; subito dopo la messa vi è la benedizione dei portatori delle candelore e dei devoti che indosseranno il tradizionale sacco per la processione delle reliquie. Il 3 febbraio hanno inizio i fe steggiamenti solenni per la patrona con la processione della Lumina ria, alla quale prendono parte il sindaco e la giunta comunale a bordo di una carrozza che ricalca il modello della carrozza reale appartenu ta a Ferdinando n di Borbone. Il percorso giunge sino alla chiesa di San Biagio, luogo in cui la martire fu posta sui carboni ardenti. Segue l’offerta della cera alla santa da parte dei fedeli, i quali per corrono la strada che va dalla chiesa della patrona sino alla cattedra le. La tradizione dell’offerta della cera risale al Trecento, quando, in alternativa a quella del denaro, essa costituiva un obbligo da parte dei quartieri e delle maestranze. Tale offerta si ritrova in molte feste pa tronali, sin da quando, durante la dominazione sveva, i sovrani erano soliti fare l’offerta della cera alla Madonna in occasione della proces sione dell’Assunta che si svolgeva a Trapani. A Catania nel 1315 re Ludovico impose l’offerta della cera alla Madonna, alla quale aveva fatto erigere un altare nella cattedrale, accanto alla cappella di san t’Agata. Più tardi, nel 1435, re Alfonso dispose che le maestranze do vessero offrire un cero anche a sant’Agata. In tarda mattinata vi è l’omaggio floreale alla santa da parte dei vi gili del fuoco, dal momento che essa, come abbiamo detto, viene considerata anche la protettrice del fuoco. La prima volta che le reli quie della santa furono portate in processione su una vara fu il 4 feb braio del 1519, ma l’itinerario processionale nel corso dei secoli ha subito dei mutamenti, anche in relazione delle avvenute modificazio ni topografiche. La duplice processione che si tiene nei giorni 4 e 5 febbraio venne decisa nel 1712, anno a cui risale il primo calendario ufficiale dei festeggiamenti in onore della patrona, e l’itinerario pro cessionale prevedeva quasi tutti i quartieri della città. Nella stessa oc casione venne fissata anche la processione delle candelore. Tuttavia, già nel 1522 il nobile don Alvaro di Paterno, legato di Catania presso la corte, aveva redatto il cerimoniale dei festeggiamenti in onore di sant’Agata, istituendo cortei, giostre e cavalcate e indicando anche
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chi dovesse eseguire il primo giro di chiave nella stanza del tesoro, dove sono custodite le reliquie della martire. La processione delle re liquie inizia la mattina del 4 con il giro esterno, che parte da Porta Uzeda. Il pesante carro della patrona viene portato in processione dai fedeli i quali, vestiti con il tradizionale sacco bianco e il berretto di velluto nero in testa, disposti in due file tirano le grosse funi al grido di viva Sant'Aita! (viva sant’Agata). Il giro esterno consiste nel percorrere un itinerario ben preciso di al cuni luoghi e vie della città, in cui il fercolo della santa fa delle brevi soste davanti alla chiesa del Carmine e alla chiesa di Sant’Agata la Vetere, dove vengono officiati i vespri solenni. Dopo che la proces sione ha concluso il giro esterno, il simulacro viene riportato in catte drale. La processione viene ripetuta il giorno seguente, in cui si com pie il giro interno che consiste in un altro itinerario attraverso altre strade e piazze finché, in tarda serata, le reliquie vengono riportate nel duomo. Sino ad alcuni decenni fa la caratteristica della festa di sant’Agata era costituita dalla processione delle candelore, grossi candelabri in legno, ornati di statue di angeli e santi, su cui sono raffigurate alcune scene del martirio della santa. Alti parecchi metri, anticamente essi venivano donati dalle varie corporazioni di mestieri e rappresentano le offerte simboliche della cera alla patrona: nel 1514 si contavano 22 candelore, nel 1674 erano 28, alla fine dell’Ottocento erano 15, at tualmente le candelore che sfilano in processione sono 11 così distri buite: la più piccola candelora è stata fatta costruire da monsignor Ventimiglia dopo l’eruzione lavica del 1766; segue la candelora degli abitanti del quartiere San Giuseppe La Rena e quella degli ortofrutti coli, costruita in stile gotico; poi la candelora dei pizzicagnoli, in stile liberty; le candelore dei pescivendoli, fruttivendoli, macellai, pastai, panettieri, bettolieri, in stile barocco o rococò; ultima è la candelora fatta realizzare dal cardinale Dusmet per il circolo di Sant’Agata. Du rante il Rinascimento questa caratteristica processione seguiva un ce rimoniale e un ordine ben precisi e la mancata osservanza di tali re gole veniva punita con la carcerazione e una multa da pagarsi sia all’Opera di sant’Agata che alla Loggia di città. Era infatti stabilito che la sfilata venisse aperta dalla candelora dei viticultori, seguivano in ordine quelle dei cardunari, ortolani, burdunari, tavernari, putigari, buckeri, massari, ctitillari, spatari, caudarari, muraturi, maestri daxa, sellari, planellari, curbisieri, mercheri, cimmaturi, pellicteri, custureri, arginteri, barberi e marcanti. Quando nel 1837 furono aboli te in Sicilia le corporazioni delle arti e mestieri, le maestranze si co stituirono in associazioni religiose e a Catania presero il nome di cir coli agatini. Dal Settecento apre la sfilata la candelora fatta costruire da monsi gnor Ventimiglia, nota come la cannalora di sant'Aita, mentre oggi l’unica candelora rimasta dei ceri settecenteschi è quella dei pastai.
SANT?AGATA VERGINE E MARTIRE
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Durante la processione, gli uomini che sfilano con le candelore ese guono dei movimenti con il corpo: è la cosiddetta annaccata, che al buio della sera diventa uno spettacolo suggestivo per le scie luminose e fumose che lasciano i ceri accesi. Il busto d’argento della santa, in cui sono riposte le reliquie, durante il resto dell’anno è collocato dentro un tempietto, nella cappella di Sant’Agata all’intemo del duomo di Catania. Questo fu edificato ver so il 1092 dal conte Ruggero e venne rifatto successivamente nel 1169. Dopo il terremoto del 1693, il duomo venne ricostruito sulle stesse fondamenta, su progetto di frate Girolamo Palazzotto, e venne completato più tardi da Giovanni Battista Vaccarini. L ’interno del duomo di Catania è ricco di opere d’arte e monumenti funerari dedi cati a personaggi illustri e la cappella dedicata alla patrona, in cui sono riposti le reliquie e il tesoro, è un capolavoro. Nel 1890, a causa di un furto sacrilego, la cappella venne chiusa con una cancellata di ferro. Il busto, opera del senese Giovanni Di Bartolo, fu realizzato nelle officine papali di Avignone e giunse a Catania 1’ 11 dicembre del 1376. È alto circa sessanta centimetri e impreziosito da ricami in argento e smalti, mentre sulla testa della santa poggia una pesante co rona. Così lo descrive il Pitré (Feste patronali in Sicilia, Palermo 1900, pp. 223-224; da questa opera le due citazioni seguenti): «Non è credibile la ricchezza delle gioie e dei monili onde esso è cosparso; basta soltanto ricordare che tra quelli di reale valore storico sono no tevoli la corona di Riccardo Cuor di Leone, l’anello di Gregorio Ma gno, la croce pettorale di Leone x i i i , quand’era arcivescovo di Peru gia, un anello con una superba margherita della regina d’Italia: parec chi milioni insomma di lire in pietre preziose, rappresentati da quasi ottanta chilogrammi di peso». Anticamente il fercolo della santa veniva portato in processione dai nuri, devoti vestiti di bianco, a piedi scalzi, in ricordo della notte del 17 agosto del 1126, quando i catanesi uscirono scalzi dalle loro case per accogliere esultanti le ossa della santa, che erano state riportate da Costantinopoli. Per l’occasione anche il vescovo Maurizio e il cle ro indossavano vestiti di colore bianco. Il bianco, oltre ad essere il simbolo della gioia e dell’allegria, è il colore della fede. Da allora è rimasto l’uso di indossare durante la processione della santa il cosid detto sacco, come spiega il Pitré: «Il costume della sopravveste bian ca detto sacco, e stretta alla vita con un cordoncino, è di rito per tutti i devoti e così il berrettino di velluto nero, i guanti bianchi a maglia e la caratteristica pezzuola bianca, pezzuola continuamente mossa e sempre destinata a rafforzare mimicamente il cennato grido: citatini, viva sant’Aitai Ma vi è anche un’altra particolarità per molti di code sti devoti: i piedi scalzi, pei quali essi ricevono il nome di nudi, che fuori Catania per altre feste, ha significato più letterale» (p. 225). Una tradizione oggi scomparsa, di cui parla il Pitré, consisteva nella partecipazione delle donne alla processione della santa: esse veniva no chiamate ’ntuppatteddi. Il termine indicava le donne avvolte da
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uno scialle che lasciava scoperti soltanto gli occhi. Le devote, duran te la festa della patrona, godevano della libertà di potere uscire da sole facendosi corteggiare dagli uomini senza violazione del codice d’onore. Il Pitré riferisce una citazione dello storico catanese Pietro Carrera tratta dall’opera Delle Memorie Historiche della città di Ca tania del 1641 : «Le donne bramose ancora di andare all’incontro del la Santa per non essere vedute o conosciute in campagna ritrovaron l’invention degli occhiali; così diciamo quel bianco fazzoletto di tela che legato su ’l capo e pendente copre il volto della donna, nel quale, ove gli occhi della debbono rimirare, vi si formano due spiragli a fenestrette. Da quel tempo insino al presente s’è continuato questo uso nelle donne, ma specialmente nelle feste della Santa a febbraio e ago sto: il che per le donne povere a gran commodità risulta, e per esse, e per tutte l’altre a cautela di honestà, togliendosi l’occasione d’esser vagheggiate da’ giovani» (p. 226). Per la festa di sant’Agata è tradizione preparare dei dolcetti a forma di olive fatti con pasta di mandorle. Secondo una leggenda, infatti, mentre veniva condotta da Quinziano per essere processata, la santa si chinò per allacciarsi un calzare e su quel luogo nacque un ulivo sel vatico i cui frutti furono raccolti e conservati dai devoti come reliquie perché ritenuti miracolosi. Da allora i catanesi per devozione prepa rano in occasione della festa della patrona questi dolcetti, chiamati “olivette di sant’Agata”.
San Biagio, patrono di Salemi. La festa dei pani Biagio, pur esercitando la professione di medico, fu nominato ve scovo di Sebaste in Armenia. Durante la persecuzione di Licinio in Oriente, nel 314, si rifugiò in una grotta sul monte Argeo vivendo da eremita. Secondo le leggende nate intorno alla sua figura, egli guari va gli animali con il segno della croce e quando fu rinchiuso in pri gione continuò ad operare guarigioni sugli ammalati. Il santo subì il martirio per decapitazione, dopo orrende torture. L’iconografia popo lare lo rappresenta a figura intera o a mezzobusto, con le insegne ve scovili e l’elemento che lo identifica, il pettine, che è il mezzo di tor tura subito. Uno dei suoi miracoli più noti risale a quando salvò un bambino che stava rischiando di morire soffocato a causa di una lisca di pesce conficcataglisi in gola. Questo miracolo ha dato origine al suo patrocinio speciale contro le malattie della gola, mentre la guarigione di un maialino recatogli da una donna, la quale, per ringraziamento portò in chiesa delle candele e fece al santo delle offerte di cibo, ha dato origine alla tradizione delle offerte votive. Le vicende leggendarie del santo hanno determinato una larga diffusione del suo culto, che si esprime in una serie di atti devozionali caratteristici della sua festa. Il santo è anche patrono di Comiso, l’antica Casmene in provincia di
SAN BIAGIO
Immagine di san Biagio.
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Ragusa, perché, secondo la tradizione, evitò che il paese venisse col pito dalla peste. I festeggiamenti dedicatigli si svolgono dal 5 al 9 lu glio, con la preparazione di grandi fanali dipinti. Nella cultura contadina il santo è molto amato perché protegge la semina. Infatti anticamente, prima di seminare i terreni, si usava an dare in chiesa con un sacchetto di cereali affinché fossero benedetti dal parroco e quindi sparsi sul terreno seminato. Il santo viene rico nosciuto inoltre come protettore degli animali e di questo suo partico lare patrocinio il Pitré racconta (nella sua opera Spettacoli e feste po polari siciliane, Palermo 1881, pp. 182-3) che a San Piero Patti, in provincia di Messina, «chi ha vacche, cavalli, muli, asini, pecore ed altri animali stimati e lucrosi, inclusi i maiali, misura il collo della statua del Santo con un laccio, e questo legato con un altro laccio cin ge al collo, al petto, al ventre dell’animale che vuol preservato da ma lattie a venire; così venti su cento Siciliani, dotti o indotti, nobili o plebei, maschi o femmine credono davvero preservarsi da infiamma zioni di gola e da angine tenendo giorno e notte legato al collo un filo di spago qualunque». L ’uso di porre il laccio dapprima intorno al collo del santo e poi a quello dell’animale, con il chiaro significato di preservarlo dalle ma lattie, sopravvive in altre feste in cui il patrono locale è protettore an che degli animali. Nella festa di san Biagio, che viene celebrata il 3 febbraio nella chiesa del Rabato, una delle più antiche borgate di Sa lemi, l’antica Halicyae (divenuta sotto i Romani una delle cinque cit tà libere della Sicilia), vi è l ’usanza di preparare dei pani votivi. Si tratta in questo caso della prima festa dei pani con cui si apre un ciclo di ricorrenze che copre l’intero arco dell’anno. È un antico rito di ori gine pagana, con evidente significato propiziatorio, entrato successi vamente a far parte del culto cristiano, rinnovandosi nei secoli. Que sta usanza, collegata alla tradizione del santo protettore dei mali che affliggono la gola, consiste nella preparazione di tre forme tipiche di pani: li cudduredda, pani la cui forma rappresenta la gola; li cavadduzzi, pani a forma di cavallette, in ricordo di quando nel 1542 le ca vallette invasero la campagna di Salemi e furono debellate grazie al l’intervento del santo; e infine pani a forma di mano, la manina di san Brasi, e di bastone fiorito da un lato, simbolo di fertilità. I preparativi hanno inizio circa una settimana prima della festa per il patrono ed il 3 febbraio 4 pani vengono benedetti e distribuiti ai fede li. I cuddureddi di san Biagiu sono largamente diffusi anche in altre parti della Sicilia: a Racalmuto per la festa del santo vi è l’usanza di consumare per devozione soltanto i pani votivi a forma di trachea o di barba che vengono chiamati varva di san Bilasi. Il Pitré (Feste pa tronali, cit.), a proposito dei pani votivi, scrive: «In quasi tutti i co muni dell’isola, per grazie invocate ed ottenute ed a compimento di voti fatti, si usa eseguire o far eseguire in certe feste dell’anno delle devozioni, panini sacri».
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San Calogero eremita, protettore di Agrigento. La «tammuriata di san Calò» San Calogero è uno dei santi più amati e venerati nella Sicilia occi dentale perché nella cultura contadina è ritenuto il santo protettore del raccolto estivo. Il nome Calogero significa “bel vecchio”, termine con cui si designava colui che viveva da eremita. La tradizione popo lare presenta il santo come un uomo dotato di poteri taumaturgici, in quanto curava e guariva i malati. Quando morì, il suo corpo venne seppellito sul monte Kronio. Successivamente le reliquie del santo furono trasferite nel monastero di San Filippo di Fragalà, presso Messina. Le notizie sul santo sono tramandate dalle biografie contenute in due testi liturgici: secondo il primo testo Calogero, nato presumibil mente a Cartagine, sbarcò in Sicilia nel v secolo d.C., dove visse in una grotta nei pressi di Lilibeo, l’attuale Marsala, curando gli infermi e convertendo i pagani alla fede cristiana. Diversamente, secondo l’altro testo (del 1610), Calogero sarebbe nato a Costantinopoli e dopo una vita di preghiere e di digiuni si sarebbe recato a Roma, dove ottenne dal papa il permesso di vivere in solitudine. In seguito ad una visione divina, si sarebbe recato in Sicilia fermandosi per un breve periodo nell’isola di Lipari, nelle Eolie. Successivamente, in seguito ad un’altra visione, il santo sarebbe andato sul monte Gemeriano, l’antico monte Kronio, presso Sciacca - di cui il santo è com patrono insieme alla Madonna del Soccorso - dove si guadagnò la fama di santo perché, oltre che scacciare i sacerdoti pagani che cele bravano riti idolatri sul monte Kronio (nome connesso al culto di Kronos, per i Romani Saturno, protettore dell’agricoltura), divenne popolare soprattutto per là sua opera di taumaturgo. Si era guadagna to tale fama curando i malati che si recavano da lui con i vapori delle grotte, di cui aveva intuito le proprietà benefiche. Da allora i vapori delle grotte di Sciacca presero il nome di “stufe di san Calogero” e ancora oggi mantengono intatta la suggestione del passato. Il culto per san Calogero è legato al miracolo avvenuto nel 1578, quando Sciacca fu flagellata da continue scosse di terremoto e la popolazione non sapeva a che santo votarsi. Là Compagnia di San Vito pensò in quella occasione di promettere a san Calogero una processione se avesse salvato il paese dal terremoto. Il miracolo avvenne e da allora, come ringraziamento ài santo, si svolge un pellegrinaggio che pun tualmente si ripete ogni anno, il lunedì dopo la Pentecoste. Il Pitré {Feste patronali, cit.; da quest’opera provengono le altre quattro citazioni seguenti), a proposito dei devoti che usavano com piere tale pellegrinaggio al santuario, che si trova poco distante da Sciacca è custodisce la statua del santo eseguita da Antonello e Gia como Cagini nel 1538, narra che i pellegrini venivano chiamati leti, e
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ne spiega la ragione: «ed anche oggi è uno spettacolo esilarante quel lo di siffatti pellegrini, andati con le migliori intenzioni religiose, e che tornano troppo allegri, se non briachi fradici» (p. 383). San Calo gero morì il 18 giugno del 561, giorno in cui viene festeggiato nella maggior parte dei comuni dell’isola di cui è patrono. Ad Agrigento - l’antica Akragas per i Greci e Agrigentum per i Ro mani - , nonostante il patrono principale sia san Gerlando, gli agri gentini sono molto devoti a san Calogero, al quale tributano dei so lenni festeggiamenti. Anticamente il festino per il santo durava circa un mese, mentre oggi si limita alla prima settimana di luglio. I festeg giamenti iniziano dal giovedì con la benedizione, da parte del vesco vo, della divisa dei portatori del simulacro, la pazienza, una camicia bianca che reca sul petto lo stemma di san Calogero. Fra gli atti devo zionali che si compivano nella festa di una volta il Pitré narra che era usanza tra i devoti promettere il viaggio da svolgersi durante il mese precedente il festino: tale viaggio consisteva nel fare un pellegrinag gio da casa sino alla chiesa, anche a piedi scalzi, recitando mental mente delle preghiere durante il percorso. Appena giunti in chiesa, i fedeli che avevano compiuto il viaggio usavano fare un atto peniten ziale, comune in altre feste religiose siciliane di una volta, che consi steva nello strisciare la lingua davanti alla statua del santo. Un’altra usanza èra l’offerta di sacchi di frumento e di oggetti di cera a forma di membra umane. Durante i festeggiamenti i fedeli più devoti osservavano per peni tenza il cosiddetto dijuno addumannatu: digiuno durante il quale si mangiava soltanto ciò che si riceveva in elemosina. Un altro uso pe nitenziale consisteva nel fare il percorso da casa alla chiesa con ai piedi soltanto delle calze: era il cosiddetto viaggio ni piduni, usanza che tutt’oggi si ritrova tra i fedeli particolarmente devoti. Ad una set timana dalla grande festa, alcuni percorrevano le strade del paese con i tamburi per suonare la diana, dandosi appuntamento davanti alla chiesa dove, una volta dispostisi a cerchio, davano inizio alla tammuriata di san Calò. Al centro del cerchio si trovava il capo tamburo che aveva il compito di dirigere gli altri tammurinari in una gara di abilità. Il Pitré descrive così questa cerimonia: «Ad un tratto tutti so spendono di battere sulla tesa pelle: alzano le mazzuole in alto, le in crociano, le intrecciano, le fanno scricchiolare; poi un colpo sul cer chio del tamburo, un altro o due sulla loro testa; e tutto questo con tanta esattezza di tempo e di armonia (se così può chiamarsi) che rie sce un vero partito a tamburi!» (p. 371). La domenica mattina si svolge il trasporto della statua, opera del xvi secolo che raffigura il santo con il viso color cioccolata, coperto per la maggior parte da un berretto, recante nella mano destra un libro aperto mentre al braccio tiene una cassettina in cui, secondo la tradi zione popolare, vi sono gli strumenti con i quali san Calogero eserci tava il suo potere di taumaturgo. Il privilegio di trasportare la statua
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durante la processione, come nella maggior parte delle feste patrona li, è un privilegio che si trasmette di padre in figlio. Durante la pro cessione il simulacro del santo viene fatto fermare per consentire alla folla dei fedeli di toccarlo o baciarlo e per chiedere in raccoglimento una grazia, avvicinando alla statua i propri bambini, che vengono spogliati dei loro abiti. È l’offerta simbolica dei bambini al santo, of ferta che si ritrova in altre feste religiose: «Ecco avanzarsi una donna con un bambino o con un fanciullo sbonzolato. Il farmacista gli slar ga le gambe coram populo, lo esamina, lo preme, lo pigia senza nul la commuoversi agli strilli che esso manda; indi lo adagia sulla mac china attendendo l’opera del Santo. Di lì a poco il miracolo è fatto» (p. 374). Così viene descritta dal Pitré la scena in cui le madri chiedo no il miracolo, nel corso della processione. Dopo la sosta il simulacro viene nuovamente portato in processione da altri portatori che hanno dato il cambio a quelli precedenti. Al passaggio della vara i fedeli lanciano dai balconi piccole forme di pane precedentemente benedet te, i muffuletti, pani votivi raccolti e conservati come pegno di abbon danza e di protezione da parte del santo. La festa si conclude la do menica successiva con la sfilata dei cavalli e dei muli parati, finaliz zata in passato a portare le offerte in natura, a ringraziare e a propi ziare un buon raccolto. Il culto di san Calogero è diffuso anche ad Aragona, dove ritrovia mo l’usanza di preparare per la sua festa i ben noti pani devozionali. Il Pitré ci tramanda una particolarità riguardante la preparazione di questi pani; si tratta di ex voto riproducenti membra umane e ottenuti lavorando il pane anziché la cera: «Tu quindi troverai un gran pane che raffigura una gamba, un piede, un braccio, una testa. Questi pani o si portano in chiesa o si offrono in istrada nel momento in cui passa la statua del santo. Lì, durante la festa solenne, qui, trinciandosi una benedizione purchessia, il pane viene benedetto e diviso in due: un pezzo, messo nel sacco, sarà poi diviso ai poveri; un altro, rotto in molti pezzetti, è gettato ai devoti presenti. Così benedetto, questo pane diventa prodigioso e come tale mangiato in occasioni tristi e ca lamitose della vita» (p. 384). San Calogero è patrono anche a Naro, diventata città regia sotto Fe derico li. Qui esiste un santuario del xvi secolo, dedicato all’eremita, in cui si trova la statua del santo e la grotta dove era vissuto. La devo zione per san Calogero ebbe origine da un miracolo compiuto in oc casione della peste del 1626, quando egli apparve a una suora annun ciandole la cessazione del terribile flagello. Da allora il santo viene celebrato con tre processioni, dal 17 al 19 giugno, e ancora oggi la folla dei devoti lo invoca e lo prega allo stesso modo in cui ne parla il Pitré: «Sono i muti che attendono la parola, i ciechi che implorano la vista, i paralitici che sperano il movimento delle membra divenute inerti per opera di spiriti maligni o per arte malefica di uomini e don ne» (p. 382).
SAN CORRADO EREMITA
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Il culto di san Calogero è diffuso anche a Termini Imerese, luogo che il santo, secondo la tradizione, avrebbe liberato da infestazioni malefiche.
San Corrado eremita, patrono di Noto. «L’arriggirata di san Currau» Corrado Confalonieri nacque a Piacenza nel 1290. Si narra che ri nunciò alle sue ricchezze a seguito dell’ingiusta condanna di un uomo accusato di aver appiccato il fuoco ad un bosco, causando dei danni. Corrado, che si trovava in quel bosco per una partita di caccia, si accollò la colpa e, una volta risarciti i danni causati dall’incendio, decise di dedicare il resto della propria vita alla preghiera e alla peni tenza. Giunto in Sicilia per predicare la fede di Cristo, scelse di vive re da eremita sul colle di Acre, ma, cacciato via dagli abitanti del luo go, si stabilì vicino a Noto Antica, nella grotta dei Pizzoni, vivendo in solitudine sino alla morte avvenuta il 19 febbraio 1351. Il culto per san Corrado si diffuse in Sicilia fin dal 1515, quando papa Leone x permise che le reliquie del santo fossero custodite in un’urna d’argento per essere venerate dai fedeli. La prima processio ne dedicata al santo ebbe luogo a Noto nell’agosto del 1525. Succes sivamente, nel 1643, il consiglio civico del paese lo elesse suo protet tore e patrono. Da allora san Corrado viene festeggiato con solennità due volte l’anno: il 19 febbraio, data della sua morte, e l’ultima do menica di agosto, per un totale di quattro processioni l’anno, di cui una si svolge nel giorno della festa e una per l’ottava. L ’urna del pa trono viene portata in processione in tutto il paese, fin dentro ai vicoli dei quartieri popolari. Noto, vero gioiello barocco, edificata nel 1703 a sei chilometri a sud di Noto Antica (l’antica Netum), durante la do minazione araba divenne capoluogo della valle omonima (Val di Noto). In seguito al terremoto del 1693 il paese venne ricostruito a valle, in stile esclusivamente barocco, prendendo l’aspetto attuale. È da notare il fatto che san Corrado vi fosse venerato prima ancora di essere stato santificato da papa Leone x. Nel tardo pomeriggio del l’ultima domenica di agosto, l’urna d’argento contenente le sue reli quie esce dalla cattedrale portata a spalla, secondo un antico privile gio, dai componenti della Confraternita dei portatori di san Corrado, che indossano un camice bianco e hanno in testa un fazzoletto. Se guono il clero e la banda musicale, mentre in testa alla processione sfilano i bambini con indosso il saio del santo, seguiti dalle donne a piedi scalzi e con in mano una torcia accesa. Da ultimo sfilano le va rie confraternite: quella dei Cappuccinelli, costituita dai contadini; la Confraternita di santa Caterina, costituita dai muratori, e la Confra ternita delle anime sante, che riunisce i calzolai. Ciascuna confrater nita indossa il proprio costume, recando le coppe su cui sono incise le
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immagini devozionali dedicate al santo e lo stendardo di appartenen za. Ai lati deH’uma d’argento sfilano i portatori dei cilii, grossi ceri montati su un fusto di legno, sul quale sono dipinte a mano scene del la vita del santo. La folla dei fedeli partecipa innalzando un grosso cero acceso e molte donne procedono a piedi scalzi per sciogliere un voto. Durante la processione, i genitori avvicinano i figli piccoli fino a toccare l’urna del santo, atto devozionale teso ad invocare la guari gione, soprattutto di chi soffre di ernia, come ci tramanda il Pitré (Fe ste patronali, cit., pp. 303-4): Sulla macchina stanno adagiati quanto più ce n’entrano bambini erniosi (e da qui la ingiuria di baddusi appioppata ai Notigiani). Tutti sono stati e sono osservati dal chirurgo, con la cui assistenza il Santo li guarisce. Ma le guari gioni non vengono operate dappertutto; v’è un sito, un sito solo nel quale possono, anzi devono aversi: la piazza della chiesa del Crocefìsso. E già vi siamo giunti; e l’urna è entrata: questo il momento solenne. Le madri prega no, supplicano così pietosamente che si spezzerebbero anche le pietre: è im possibile che il santo non si commuova. Il chirurgo allora prende un bambino e ne osserva i gonfi: Mirabile dictu! i gonfi sono scomparsi; il bambino è guarito: un urlo di viva San Currau! echeggia per la piazza. Il corteo, dopo aver sostato e dopo che i fedeli hanno visitato la chiesa del Santissimo Crocefìsso, raggiunge la cattedrale dove una folla di devoti attende per assistere alla trasuta ri San Curradu (l’en trata di san Corrado), cioè l’ingresso deH’uma nella cattedrale. È il momento più spettacolare della processione: i portatori dei cilii ese guono una corsa, come fosse una danza, mentre i portatori del simu lacro del santo patrono salgono di corsa le tre rampe di scale della cattedrale per far rientrare le reliquie del santo in chiesa. Gli applausi e gli incitamenti dei fedeli accompagnano l’urna, mentre i portatori dei cilii continuano a eseguire la loro danza in onore del santo. Una volta si usava fare la penitenza della lingua a trasiniuni (strisciare la lingua), per cui chi seguiva in processione l’urna del santo leccava i gradini dello scalone della cattedrale come atto penitenziale o al fine di sciogliere un voto. Ogni dieci anni l’urna viene portata, sempre a spalla dalla confraternita, fino all’eremo di San Corrado fuori le mura, seguita da una immensa folla di fedeli. Anche ad Avola, fondata nel 1695 dal principe Nicolò Aragona Pignatelli, si festeggia il santo suo patrono con una processione deno minata San Currau arriggira (san Corrado ritorna), che inizia la do menica successiva a quella in cui si svolge la processione di Noto. In passato alla vigilia della festa si svolgeva una corsa, che rievocava una scorreria dei turchi dalla quale, per intercessione del santo, il paese si sarebbe salvato. Dopo la corsa veniva portato in giro per il paese uno stendardo altissimo, issato su di un mulo accompagnato da una processione di gente recante delle fiaccole accese. Oggi ci si li mita ad una pantomima, in rievocazione della suddetta scorreria. Fino a non molto tempo fa, la mattina del 19 febbraio si radunavano
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in chiesa i poeti, che erano contadini e gente semplice. Essi si esibi vano su un piccolo palco allestito dentro la chiesa, recitando dei versi in rima e delle lodi dedicate al santo patrono in ottave siciliane, che servivano ad invocarne la protezione. Il Pi tré così li descrive (Spetta coli e feste popolari siciliane, cit., pp. 200-1): La mattina del 19 verso la Salve si adunavano in chiesa i così detti Poeti a cantare l’un dopo l’altro, saliti sopra un piccolo pulpito, le lodi di S. Corrado in ottave siciliane con le solite rime alterne. Questi poeti che gettavan giù de versi con la più disinvolta franchezza e non di rado con frizzi e concetti vera mente originali, sono tre o quattro appartenenti alla classe dei contadini, analfabeti del tutto e senza alcuna coltura; e per sempre, per uno che ne muoia, ne sorge un altro a prenderne il posto. Il tema di queste loro canzoni, oltre una succinta biografia del Santo, era d’invocare il suo patrocinio pel cattivo andamento delle stagioni e per le miserie di cui il popolo si trovasse travagliato. E poiché non ne venivano risparmiate le autorità locali pel loro mal governo e pè loro abusi, questa cantata mattutina è stata da qualche anno, con sommo dispiacere del popolo minuto, interdetta. Durante la processione il simulacro del santo fa il giro di alcune chiese del paese e quando giunge davanti alla chiesa di Sant’Antonio, secondo la tradizione popolare, esso sembra diventare così pesante che^ nonostante gli sforzi dei portatori, è impossibile spostarlo da ter ra. E quello che viene comunemente detto, Varriggirata di san Currau (il ritorno di san Corrado). La scena dovrebbe rievocare gli anti chi contrasti tra notigiani ed avolesi per il possesso delle reliquie del santo. In particolare essa rappresenta un fatto prodigioso avvenuto al lorché la bara del santo, non riuscendo ad entrare nella chiesa del Crocefisso, per quanto era diventata pesante, con sorpresa di tutti di venne improvvisamente leggerissima allorché si decise di portarla alla chiesa Matrice.
La festa del Santissimo Crocefìsso, protettore di Calatafimi La festa del Crocefisso che si celebra a Calatafimi, in provincia di Trapani, è considerata, per la ricchezza di manifestazioni e per il dif fuso coinvolgimento popolare, una delle feste folcloristico-religiose più interessanti della Sicilia. La festa solenne della santa cruci, un crocefisso in argento donato nel 1776 dal ceto dei mugnai, si svolge da tre secoli ogni cinque anni, mentre annualmente e in tono minore ha luogo la celebrazione religiosa. È una festa popolare che non si può fare a meno di vedere almeno una volta nella vita, specialmente se si vuole conoscere a fondo l’animo dei siciliani. La tradizione lo cale narra che nel 1657 un vecchio crocefisso di legno, molto antico e tarlato, posto nella sacrestia della chiesetta di Santa Caterina, in de terminati giorni dell’anno - e precisamente il 23, 24 e 25 giugno aveva operato vari miracoli. Così il 19 dicembre del 1657 i giurati di Calatafimi, che allora rappresentavano la massima autorità, chiesero
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al vescovo il permesso di portare in processione il crocefisso e di de dicargli una chiesa. Da allora, nel giorno di Pasqua la Santa Croce viene condotta in processione dalla chiesa del Santissimo Crocefisso a quella della Madonna del Giubbino. Il paese di Calatafimi sorse in torno alla roccaforte bizantina di Castrum Phimes. Durante la domi nazione araba prese il nome di Kalat Al Fimi (cioè ‘castello di Pilimi’), mentre poi sotto i Normanni divenne una delle città appartenen ti al regio demanio, quindi di grande importanza strategica. I cittadini, suddivisi nei vari ceti, rendono omaggio alla santa cruci nei primi tre giorni di maggio, attraverso manifestazioni solenni ed offerte spettacolari. L ’annuncio ufficiale dei festeggiamenti viene dato il giorno di Pasqua. Il primo maggio sfilano circa cento bambini, di età compresa tra i sette e gli undici anni, con il tesoro del crocefis so: si tratta di calici, coppe, pissidi, oggetti di artigianato palermitano e trapanese del Seicento, in oro e in argento, tutti pezzi di inestimabi le valore. È per questo che la sfilata diventa una singolare mostra d’arte itinerante. La vara del Santissimo Crocefisso è un pezzo arti stico eseguito da artigiani palermitani in argento massiccio e risale al 1728. La vara della Madonna del Giubbino sembra risalire invece ai primi dell’Ottocento. Durante il pomeriggio ha luogo il corteo sacro allegorico, in occasione del quale sfilano per le vie del paese dei carri finalizzati a rappresentare, con figuranti scelte fra le ragazze del luo go, un episodio del Vecchio Testamento. I carri, per la preziosità de gli addobbi sono un esempio di abilità e maestria dell’artigianato lo cale. II secondo giorno sfilano, a passo di marcia, i rappresentanti del ceto della maestranza, ai quali spetta l’onore di aprire la solenne pro cessione (le maestranze erano associazioni di arti e mestieri ricono sciute dalle istituzioni dell’isola). Essi avanzano impettiti e seri nella loro divisa costituita da abito e cappello neri, camicia e guanti bian chi, più gilet nero su cui fa bella mostra una catena d’oro, segno di di stinzione del ceto di appartenenza. La divisa risale ai tempi in cui in Sicilia venivano affidati alle maestranze i compiti di polizia urbana. Ogni rappresentante sfila con il fucile in spalla e con lo stendardo su cui è ricamata la M maiuscola, ad indicare la speciale devozione del ceto alla Madonna e alla Eucarestia. La tradizione secolare di indos sare la divisa e di portare il fucile alla processione del Santissimo Crocefisso si collega all’episodio in cui il viceré Caracciolo nel 1782 proibì con un editto agli abitanti di Calatafimi di portare armi per uso personale, a seguito di alcune intemperanze da parte della popolazio ne. La risposta delle maestranze fu quella di organizzarsi in confra ternite religiose che, sotto la protezione del clero, consentirono loro di continuare a portare armi. Dopo il corteo della maestranza seguo no la processione i borgesi, i contadini a cavallo, e gli altri ceti espressione della vita e del lavoro dei paesani, per rendere anche loro omaggio e ringraziare il crocefisso dei buoni raccolti.
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Oggi i ceti principali sono quattro: la maestranza, i borgesi, i mas sari e i cavallari; categorie minori sono quelle dei mugnai, degli or to/ara, dei pecorari, dei borgesi di san Giuseppe, dei macellai e il ceto della sciabica, nome di origine araba che significa ‘rete’, che riunisce coloro che non rientrano in un ceto specifico. Il ceto della sciabica sfila con uno stendardo in velluto rosso sul quale è dipinta l’immagine di Maria Santissima di Giubbino, recante la scritta «ma dre e gloria del popolo di Calatafimi», sull’altra parte dello stendardo vi è dipinta l’immagine del crocefisso con la scritta «Gesù proteggi il tuo popolo». I componenti della sciabica camminano scalzi per scio gliere un voto e durante la processione finale sfilano subito dietro la sacra croce. I vari ceti, in segno di fede profonda e di devozione, ren dono omaggio al Santissimo Crocefisso facendo anche un’offer ta simbolica. Quando sfila il ceto dei massari ogni figurante porta - dentro una torcia - il tipico cucciddato, pane lavorato nella forma caratteristica e decorato con pizzi, e lanciando confetti ripete il gesto antico della semina. La folla dei devoti riceve il pane benedetto, sim bolo della vita e della protezione del Signore, dai massari, i quali sfi lano su un carro a forma di torre ricoperto interamente da cucciddati e trainato da buoi. Il Pitré {Feste patronali, cit.) descrive così la scena dell’offerta del pane: Grande è il diletto che della lor vista prende la gente: ma maggiore ne pren de della così detta carrozza, un carro rivestito di alloro e coperto di buccella ti, alla cui cima è un bello e ben auguroso manipolo di spighe, le quali, se condo la credenza, per la festa del Signore son belle e compiute (cunchiuti). Lo tirano quattro paia di buoi fiorati ed infettucciati, e vi stan sopra dei massarioti, i quali lungo la strada non si stancano di rompere uno alla volta quei pani e di gettarne i pezzi in alto alle persone dei balconi e delle finestre; in basso alla folla, e tutti si adoprano ad afferrarlo premurosamente come pane benedetto (p. 505). Ogni anno in prossimità del 19 marzo il ceto dei borgesi di san Giu seppe, detti anche mercurianti perché nati per solennizzare il quinto mereoledì e per incrementare il culto e la devozione di san Giuseppe, raccoglie offerte in cambio della distribuzione dei cucciddati; essi sfilano con uno stendardo raffigurante la Sacra Famiglia e con un semi-mappamondo ricoperto di piccole forme di pane, chiamato lu circu. Il ceto dei pecorari e caprai sfila portando anch’esso lu circu, insieme a pecorelle, formaggio fresco, pecorelle di legno contornate da monete ed una piccola urna con san Pasquale di Baylon, protettore dei caprai, raffigurato anche sullo stendardo in atto di adorazione del crocefisso. Il ceto dei macellai sfila con uno stendardo a coda di vel luto rosso, sul quale è ricamata in oro una croce e reca in dono ’u prisenti, una coppa contenente monete d’oro. Il ceto dei mugnai sfila con uno stendardo, con croce ricamata in oro, mentre un figurante imbiancato di farina sorregge un piccolo mulino. Il ceto dei borgesi, che rappresenta gli agricoltori, sfila con muli addobbati recando lo
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stendardo con l’effige della Santa Croce, decorata con spighe, fiori, uva e ramoscelli di ulivo e con la scritta gloria filiorum. Simboli dei borgesi sono lu zu ntunisi (Dionisio), un gruppo ligneo raffigurante un agricoltore che guida l’aratro tirato da muli, e li muliceddi, una scultura in legno ricoperta da zecchini di oro. Il ceto dei cavallari, devoto a Maria Santissima di Giubbino, sfila con i cavalli bardati sfarzosamente e con le sacchine a tracolla da cui essi lanciano ai fe deli confetti, noccioline e cioccolatini in confezioni che recano im presso il ceto di appartenenza. Orgoglio dei cavallari è il famoso car retto, capolavoro dell’artigianato siciliano. La sfilata si chiude con il cassiere del ceto che reca in mano un cavallino tempestato di zecchi ni, simbolo della categoria e omaggio al crocefisso. La festa simboleggia il ringraziamento innalzato al cielo per l’ab bondanza e il benessere concessi. I festeggiamenti si concludono con la processione della vara d’argento, su cui viene posto il Santissimo Crocefisso, e della vara sulla quale è collocata l’immagine della Ma donna del Giubbino, compatrona del paese. Tutti i ceti sfilano uno dietro l’altro, con i loro emblemi e stendardi, secondo un ordine rigo rosamente stabilito da un’usanza secolare in un clima di coinvolgi mento popolare e di profonda fede.
San Giorgio cavaliere, patrono di Ragusa Ibla Le notizie su san Giorgio si basano sulla più antica redazione della sua Passio del v secolo, in lingua greca. Giorgio, il cui nome in greco significa ‘agricoltore’, a causa delle sue gesta eroiche che hanno dato origine a diverse leggende, è diventato nell’immaginario popolare una figura mitica al punto che in Sicilia l’appellativo di “cavaliere” segue il nome del santo. Giorgio, originario della Cappadocia, era uf ficiale delle milizie di Diocleziano e si convertì al cristianesimo al lorché in Palestina iniziò la feroce persecuzione contro i cristiani, vo luta dallo stesso Diocleziano. Inutilmente Giorgio aveva chiesto cle menza. Fu arrestato anche lui e, dopo essere stato torturato, subì il martirio per decapitazione. Nella iconografia popolare il santo viene raffigurato a cavallo, con indosso l’armatura di cavaliere e ai suoi piedi il drago contro cui ha scagliato la lancia. Questa immagine si collega alla ben nota leggenda della lotta tra il santo e il drago, narra ta per la prima volta nella Legenda aurea di Jacopo da Varazze, com posta tra il 1265 e il 1275. Il culto di san Giorgio si diffuse in Occidente soprattutto durante la dominazione normanna. Una leggenda narra che il santo cavalcasse accanto a Ruggero durante le battaglie contro i musulmani. Inoltre, nella cultura popolare egli fa parte di quel gruppo di santi ausiliatori la cui intercessione si ritiene particolarmente efficace. Secondo una tradizione popolare siciliana, che risale al xiv secolo, per ottenere una grazia bisogna invocare il santo con la seguente orazione: s. Giorgiu
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cavaleri, vui a cavaddu e eu a peri; vui eh ’andasti a lu livanti chi vinisti a lu punenti, sta grazia m ’ati a fari tempu un nenti (san Giorgio cavaliere, voi a cavallo e io a piedi, voi che siete andato a levante, che venite da ponente, questa grazia mi dovete fare in tempo breve). Sempre secondo la credenza popolare, se la notte si sogna un uomo a cavallo significa che il santo ha concesso la grazia. San Giorgio è pa trono di Ragusa Ibla, l’antica Hybla Heraia, che era un aggregato di villaggi siculi venuto in contatto con le popolazioni greche e romane e che raggiunse una certa importanza nel periodo bizantino, quando nella città venne edificato un castello. Fu conquistata dagli arabi nell’848 e rimase sotto la loro dominazione per circa due secoli e mezzo. Il terremoto del 1693 distrusse una parte della città, che nel 1865 venne divisa amministrativamente in Ragusa Ibla e Ragusa Superio re, di cui è patrono san Giovanni Battista. Nel 1926 Ragusa venne unificata in un unico comune, ma restò la divisione della città sotto i due patroni. Fu in questo periodo che si inasprirono le lotte campani listiche vere e proprie fra gli abitanti della parrocchia di San Giovan ni, detti sangiovannari e quelli della parrocchia di San Giorgio, detti sangiorgiari. Le rivalità tra le due fazioni erano iniziate fra il xn e il xiii secolo, quando in uno dei quartieri fuori dalle mura di Ragusa Ibla fu costruita una chiesa in onore di san Giorgio. Allorché il quartie re fuori le mura, denominato Cosentini, crebbe sia per importanza che per numero di abitanti, le rivalità tra le due fazioni si inasprirono ulteriormente. Nel 1630 i giurati di Ragusa elessero san Giorgio patrono della cit tà, non tenendo conto né di san Giovanni Battista né di santa Gaudenzia, santa che godeva di un culto più antico e diffuso fra gli abitanti della città. Le rivalità ed i contrasti tra le due fazioni continuarono per secoli tra tribunali civili ed ecclesiastici, provocando anche spar gimenti di sangue tra i fedeli più fanatici. La chiesa di San Giorgio, essendo chiesa matrice, godeva di alcuni diritti nei confronti delle al tre chiese e alla processione del patrono era prescritta la partecipazio ne, a titolo di sottomissione, del clero e delle statue delle altre parroc chie di Ragusa, che annualmente accampavano delle scuse per evita re di prendervi parte. La domenica delle palme, dopo la processione del santo, era consentito ai preti di San Giorgio di celebrare la messa nella chiesa di San Giovanni, purché la croce processionale restasse fuori dalla chiesa. Soltanto l’asta poteva oltrepassare di un metro la ringhiera del sagrato. Una volta accadde che tale limite venisse supe rato e il sagrestano, reo di non averlo fatto rispettare, venne ucciso in un eccesso di furore popolare. Nel corso dei secoli le rivalità fra le due fazioni turbarono a tal pun to il normale svolgimento della festa del patrono che solo le catastrofi naturali e le epidemie impedirono il manifestarsi delle intolleranze campanilistiche. Anticamente i festeggiamenti per il patrono erano
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solenni: iniziavano il sabato santo e duravano fino al 23 aprile. Du rante i nove giorni che precedevano la festa, la chiesa veniva illumi nata con torce, candele e con quattro grandi lumi che pendevano dal soffitto. In processione sfilavano le varie confraternite con i loro gon faloni mentre sui carri vari personaggi in costume rappresentavano gli episodi più significativi della vita del santo: il martirio, Dioclezia no e il mago Attanasio, la lotta contro il drago, san Giorgio e la Sina goga. Inoltre venivano rappresentate anche le virtù del santo, cioè la fede e la carità, e gli eventi per i quali lo si invoca: la peste, la fame e la guerra. La sfilata si concludeva con la maschera di un enorme dra go trascinata dalla Vergine di Berito. I devoti del santo per tradizione recavano dei grossi ceri e due grandi pani a forma di corona, i cuccid dati, i quali, dopo essere stati benedetti, a festa conclusa venivano sminuzzati e divisi fra gli agricoltori per essere sparsi nei campi se minati come auspicio di un buon raccolto. Oggi san Giorgio viene festeggiato l’ultima domenica di maggio e la chiesa dedicata al patrono è uno dei più bei gioielli barocchi, non solo di Ragusa ma di tutta la Sicilia. All’interno del duomo a tre na vate vi sono disegni rappresentanti il martirio del santo e la lotta e l’uccisione del drago. In una nicchia della chiesa vi è l’urna reliquia ria in argento, la santa cassa, che viene portata in processione duran te la festa del patrono. In occasione dei festeggiamenti, il duomo vie ne addobbato con stendardi, fiori e luci mentre la statua del santo vie ne posta al centro della chiesa per essere venerata dai fedeli. In que sta occasione, inoltre, vengono aperte le porte scolpite, che durante il resto dell’anno sono coperte da due ante. Dopo la messa solenne, nel pomeriggio della domenica, al suono della banda e dopo gli spari dei mortaretti il simulacro del santo, una statua non molto pesante, viene fatto uscire dalla chiesa. Allora i portatori, a passo di danza, girano e sollevano la statua e la lanciano in aria, per poi riprenderla. San Gior gio cavaliere è rappresentato vestito da soldato, con corazza, elmo con pennacchio e mantello rosso e una lunga lancia nell’atto di colpi re il drago ai suoi piedi. Appena scesi i cinquantaquattro gradini della scalinata del duomo, si forma il corteo in processione: il clero, la ban da musicale e la folla dei fedeli. La statua farà il suo giro processio nale attraversando tutte le strade della città. Negli ultimi decenni è avvenuto che i due patroni della città si siano scambiate le visite, così la statua di san Giorgio visita la parrocchia di san Giovanni e altret tanto fa san Giovanni in occasione della sua festa, a dimostrare la scomparsa delle antiche rivalità. A Modica invece - l’antica Mòtyka che sotto la dominazione arago nese divenne capitale di contea con il nome di Contea di Modica -, la statua di san Giorgio, compatrono assieme a san Pietro, viene portata in processione per due giorni, dal 23 al 24 aprile e la caratteristica principale della processione è data dall’usanza di ricoprire la statua con piante di fave e con offerte.
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San Giuseppe falegname. Le cene di san Giuseppe Il culto per san Giuseppe è diffuso in moltissimi paesi della Sicilia dei quali il santo è patrono. Nella tradizione popolare egli svolge un ruolo ben determinato, quello di avvocato delle cause impossibili. Il Pitré (Feste patronali, cit.) descrive così la devozione dei siciliani per il santo: «Dei santi il più carezzato patrono è S. Giuseppe che occupa 13 comuni». Il suo culto si manifesta attraverso un complesso di ele menti rituali, pubblici e privati, quali il banchetto sacro, la prepara zione dell’altare, la raccolta delle offerte, la sacra rappresentazione, l’accensione dei fuochi e la processione, che hanno luogo in due di versi periodi dell’anno: a marzo e a fine agosto. Anticamente il santo veniva celebrato con messe e novene ogni mercoledì sin dal mese di gennaio, oggi invece ci si limita al solo mese di marzo e la data della sua festa coincide con l’equinozio di primavera. Nella tradizione po polare, oltre ad essere il protettore degli orfani e delle ragazze nubili, san Giuseppe protegge soprattutto i poveri, ed è per questo motivo che esiste l’usanza di preparare il pranzo sacro offerto ai bisognosi e agli orfani. Il banchetto per la festa di san Giuseppe viene denominato in vari modi a seconda del paese: cena, ammitu, artaru, tavulata. Anche il giorno della sua preparazione può variare: il 19 marzo, giorno della ricorrenza liturgica, la domenica delle palme, il primo maggio, ogni mercoledì del mese di marzo e in qualunque altro momento dell’an no. L ’uso di imbandire mense su altari allestiti per l’occasione, diffu so in tutta l’area del Mediterraneo, risale fin alle epoche più antiche. Il cibo, nella sua valenza simbolica e rituale, diventa quindi l’elemen to principale nei festeggiamenti dedicati al santo. La preparazione dell’altare consiste nell’edificazione di una cappelletta utilizzando come materiali il legno o il ferro. La struttura viene ricoperta da rami di mirto e di alloro, simboli agresti con chiaro significato propiziatorio, e in ultimo essa viene decorata con arance, limoni e piccole for me di pani, legati tra di loro con delle cordicelle. All’interno della cappelletta viene preparato un altarino disposto su un ripiano e sotto di esso vi sono altri tre ripiani dove vengono collocati i pani votivi e i simboli religiosi tradizionali della festa del santo. Tutto l’altare è de corato da lumini, vasi di fiori, piatti con germogli, brocche di acqua e di vino e al suo centro viene posto un grande quadro che raffigura la Sacra Famiglia. Una volta la preparazione dell’altare avveniva fuori dalle case, nei cortili o nelle piazze del paese, oggi invece viene allestito dentro casa, mentre il pranzo continua ad essere consumato all’aperto, in spazi pubblici o su appositi palchi allestiti nelle piazze riccamente or nati di rami di alloro, palme e rami di cedro. A Ribera, in provincia di Agrigento, paese che nel 1627 prese il nome di Maria Afan de Ribe ra, moglie del principe di Paterno, vi è l’usanza di raccogliere dei
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rami di alloro per rivestire la stragula, una torre di legno alta circa una decina di metri, collocata sopra un grande carro e decorata da forme di grandi pani chiamate cudduri, legati tra loro per mezzo di cordicelle. Davanti alla torre è collocata l’immagine di san Giuseppe. La stragula, trainata da due buoi, rappresenta, secondo la tradizione popolare, l’abbondanza e la gloria del santo patriarca mediante alcuni elementi carichi di valore simbolico, quali il pane e i rami di alloro. In provincia di Trapani, a Salemi (l’antica Halicyae fondata dagli Elimi che durante l’epoca romana fu una delle cinque città libere della Sicilia e che poi, sotto la dominazione araba, prese il nome attuale della parola araba Salam, cioè salubrità e sicurezza) nel mese di mar zo è tradizione locale fare una promessa di voto al santo o ringraziar lo per la grazia ricevuta. I preparativi durano otto giorni e durante questo periodo viene allestito l’altare in casa e si provvede ad invitare un certo numero di bambini, in base al voto fatto, di solito in numero di tre in quanto devono rappresentare la Sacra Famiglia: Maria, Giu seppe e il Bambin Gesù. Un paio di giorni prima di ogni mercoledì del mese o il 19 marzo, il devoto che ha fatto promessa di voto gira per il paese per chiedere delle offerte, che di solito consistono in fari na, olio, uova o anche in danaro. Questo atto penitenziale è la que stue2 , rituale comune non solo alla festa di san Giuseppe ma anche ad altri santi patroni che si celebrano in Sicilia. L ’altare viene decorato con molti rami di mirto e di alloro, mentre la preparazione del pane impegna per diversi giorni non solo le donne di casa, ma anche quelle del vicinato. L ’impasto della farina segue un rituale ben preciso: i pani devono essere di peso e dimensione diversi e le forme rappresentano fiori, frutta e animali, mentre la loro collo cazione sull’altare spetta per tradizione al capofamiglia. Il segno del l’abbondanza nell’altare è rappresentato dagli ortaggi, soprattutto dal finocchio, e dalla frutta collocata in grandi cesti. Al centro vengono invece disposti i cucciddati, grandi forme di pani votivi. La forma di pane dedicata al santo ne riproduce il bastone, u vastuni, decorato con un giglio simbolo di purezza; il pane dedicato a Maria è decorato con una rosa che rappresenta la verginità e guarnito da datteri (che, secondo la tradizione, la Vergine mangiò durante la fuga in Egitto), e da un ramo di palma simbolo di pace; questo pane è destinato alla fanciulla che impersona la Madonna, mentre il pane dedicato a Gesù viene decorato con gelsomini, con uccelli e con i simboli della sua passione. I pani, una volta benedetti dal parroco, saranno regalati a parenti e amici. Questi pani votivi assumono nella maggior parte del le feste religiose (e soprattutto nella festa del santo patriarca) un pro fondo significato sacrale, a cui la festa di san Giuseppe allude esplici tamente poiché è legata all’arcaico simbolismo agrario del rinnova mento della natura, che avviene proprio nel mese di marzo. La preparazione del pranzo offerto ai poveri e agli orfani compren de un certo numero di portate, da un minimo di diciannove a un mas simo di centouno. Le pietanze vengono preparate sin da un paio di
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giorni prima della data del banchetto e poste sulla tavola in una stan za adiacente a quella in cui è stato allestito l’altare. Quando tutto è pronto, il primo giorno dei festeggiamenti il prete benedice sia l’alta re che la tavola imbandita. L’abbondanza del cibo rappresenta anche il trionfo della carità e della solidarietà cristiana e quando più tardi giungeranno i bambini invitati sarà il capofamiglia, dopo aver loro ri tualmente lavato le mani, a condurli a prendere posto attorno alla ta vola. A Pietraperzia, in provincia di Enna, è consuetudine celebrare il santo con un grande banchetto pubblico. Le pietanze sono offerte da gli abitanti del paese, mentre per rappresentare la Sacra Famiglia vengono scelte tre persone povere, di età diversa, che sono invitate a sedersi alla tavola per consumare pubblicamente il pranzo votivo. Dal 1922 si rappresenta uno spettacolo che rievoca la fuga in Egitto della Sacra Famiglia. Alcuni personaggi in costume d’epoca, che in terpretano gli ufficiali di Erode, si dirigono a cavallo verso la chiesa del Carmine, dove rimarranno in attesa. I falegnami del paese, orga nizzatori dei festeggiamenti, si recano prima a casa del ragazzo che è stato scelto per impersonare l’angelo, poi dai ragazzi che impersona no Maria e Gesù e quindi tutti insieme si dirigono in corteo verso la chiesa di Santa Maria, dove li attende il ragazzo che impersona san Giuseppe. Verso mezzogiorno inizia la messa con la partecipazione dei fedeli, e dopo la funzione religiosa, parte la processione precedu ta dall’angelo e dal bambino che impersona Gesù, tenuto per mano da san Giuseppe e Maria, quest’ultima seduta sull’asino. Giunto da vanti alla chiesa madre, il corteo viene avvicinato da tre soldati di Erode, i quali annunciano a Giuseppe che hanno avuto l’ordine di uc cidere Gesù. Lo spettacolo si conclude allorché i soldati si rifiutano di eseguire la loro missione e tornano indietro. A questo punto i tre personaggi che rappresentano la Sacra Famiglia salgono sul palco per consumare pubblicamente le pietanze che sono state preparate per loro. A Rosolini, in provincia di Siracusa, la devozione per san Giuseppe si manifesta con la tradizionale cavalcata, alla quale assiste e parteci pa tutto il paese. Le strade vengono transennate per lasciare passare i cavalieri, che montano cavalli sfarzosamente bardati, mentre nel po meriggio, dopo la funzione religiosa, il simulacro del santo viene portato in processione per le vie del paese sotto una pioggia di volan tini su cui è scritto «viva san Giuseppe». Ad Alimena, in provincia di Palermo, antico centro costruito nel 1603 da don Pietro Alimena, la mattina del 19 marzo si svolge il banchetto promesso al patrono. Un tempo venivano invitati a sedersi alla tavola imbandita tredici ragazzi orfani e poveri, i virgineddi. A Favara, il cui nome di origine araba Fawwara significa ‘polla d’acqua’, la devozione per san Giuseppe costituisce una testimonian za concreta di fede e fervore religioso. In questo paese dell’agrigenti no, sviluppatosi verso il xm secolo intorno al castello di Federico n
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Chiaramonte, ogni mercoledì i fedeli si recano in pellegrinaggio alla chiesa del Rosario, dov’è situata la statua del santo che regge per mano il Bambin Gesù. Un tempo la festa si svolgeva il 19 marzo, in vece oggi è stata spostata alla prima domenica di settembre. Fino a non molto tempo fa i festeggiamenti erano affidati ad un “governato re”, un falegname del luogo, il cui nome veniva estratto a sorte su un palco allestito nella piazza principale. Si inserivano in una urna i no minativi dei falegnami del paese aggiungendo dopo nove nomi un bi glietto sul quale era scritto «viva san Giuseppe». L’estrazione veniva affidata ad un bambino bendato: sarebbe stato nominato governatore colui che fosse stato estratto immediatamente dopo il biglietto con la scritta «viva san Giuseppe». Oggi l’estrazione avviene in modo più semplice, direttamente in chiesa, ed è il primo nominativo ad essere estratto che designa il nuovo “governatore”. I festeggiamenti in ono re del santo cominciano di venerdì, con l’ingresso in paese di tre ban de musicali di cui una locale e le altre due provenienti da altri centri. I devoti, prima di portare in giro per il paese una piccola statua raffi gurante il santo, usano recitare per una settimana consecutiva la no vena. La processione viene accompagnata dai fedeli che recano in mano delle torce, le caratteristiche fanare , preparate con una pianta graminacea popolarmente chiamata disa. Nella piazza del paese vie ne allestito il palco sul quale verrà offerto il pranzo alla Sacra Fami glia. La domenica mattina, vicino all’ingresso della chiesa, gli orga nizzatori della festa raccolgono li prumisi, cioè le promesse dei fede li. I muli e i cavalli, per l’occasione, vengono bardati sfarzosamente con ricchi finimenti e vengono caricati delle offerte in grano; quindi vengono condotti dai contadini, i quali reggono un grosso ramo di abete. Questo bastone reca incisi dei grandi tagli, delle vere e proprie tacche nelle quali sono infilate le offerte in denaro, promesse per sciogliere un voto o come doni devozionali. La festa si conclude con la processione della statua, che inizia la domenica all’Avemaria in un frastuono di spari di mortaretti accompagnati da imponenti spettacoli pirotecnici. A Marettimo, nelle isole Egadi, per festeggiare san Giuseppe è tra dizione fare la duminaria , che consiste nell’accendere tre falò o vam p i di san Giuseppe , l’uno vicino all’altro, in onore di Gesù, Giuseppe e Maria. Ciò accade alla vigilia del 19 marzo, secondo una tradizione popolare per la quale il santo rappresenta tutti i poveri che soffrono il freddo e la fame. Il pranzo tradizionale viene preparato la mattina del 19 e la Sacra Famiglia è impersonata, secondo l’usanza, da tre perso ne scelte tra le più povere del paese. Al pranzo partecipano tutti gli abitanti dell’isola mentre coloro che non possono parteciparvi, per ché malati o impossibilitati, vengono serviti in casa. Nel pomeriggio i devoti del santo si dividono in due gruppi, di cui uno si dirige in chie sa e l’altro si ferma all’esterno. Una volta chiuso il portale il gruppo di fedeli rimasto fuori della chiesa comincia a bussare, mentre dal l’interno gli altri chiedono: «Chi cercate?». Dopo tre volte il portone
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viene aperto e la statua di san Giuseppe compare sulla soglia. Inizia così una pantomima in cui il gruppo dei fedeli che si trova all’interno della chiesa cerca di trattenere la statua del santo, mentre l’altro grup po tenta di portarla fuori. I festeggiamenti si concluderanno con la processione. A Caccamo, in provincia di Palermo, divenuta al tempo dei Nor manni uno dei punti strategici dell’isola, il 19 marzo si celebra san Giuseppe con a rètina , una sfilata di muli bardati a festa che, accom pagnati dalla banda musicale, fanno il giro del paese per raccogliere offerte. Dopo la solenne funzione liturgica nella chiesa della Santissi ma Annunziata, il simulacro del santo viene portato in processione lungo una scalinata illuminata da ceri. A Santa Croce Camarina, pae se in provincia di Ragusa fondato nel 1598 dal marchese Celestri, il culto di san Giuseppe risale a quando venne rinvenuta su una spiag gia vicina, chiamata Punta Braccetto, una statua del santo. A seguito di una serie di miracoli, la statua venne collocata in una chiesa. La tradizione locale festeggia il santo con una cena che il Pitré (Feste patronali , cit., p. 450) descrive così: «Non vi è famiglia di S. Croce che per devozione non imbandisca una mensa per ricevere, in onore di S. Giuseppe, della Madonna e di Gesù, tre poveri, che sceglie tra le persone più bisognose del paese». Il 19 marzo i tre santi, invitati alla cena e accompagnati da chi ha preparato il pranzo votivo, vanno in chiesa per ricevere la benedizione. Quindi si recano alla casa dove è stata preparata la tavola imbandita per consumare la cena: la tradizio ne locale vuole che i tre santi debbano bussare tre volte prima di po ter entrare. Come si è visto, tutte le feste che si celebrano in onore di san Giu seppe condividono una caratteristica fondamentale, cioè la prepara zione del banchetto collettivo che, come nelle feste di origine agrico la, assume un valore propiziatorio teso ad assicurare dei buoni rac colti ricorrendo ai segni dell’abbondanza. Ma la festa di san Giuseppe non è soltanto la festa del pane, del rac colto e del risveglio della natura, è soprattutto la festa della famiglia, in cui attraverso la preparazione del pranzo votivo i fedeli ritualizza no un momento quotidiàno fondamentale della tradizione e della cul tura contadina.
Santa Lucia vergine e màrtire, patrona di Siracusa Secondo una Passio di origine greca, Lucia era una nobile fanciulla siracusana. Si narra che ella avesse deciso di recarsi in pellegrinaggio a Catania il 5 febbraio, giorno della festività di sant’Agata, perché sperava che la santa patrona di Catania avrebbe intercesso per sua madre, gravemente malata. Mentre pregava intensamente presso il sepolcro della santa, presa dalla stanchezza Lucia si addormentò ed ebbe la visione di sant’Agata la quale, chiamandola “sorella vergine
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di Cristo”, le disse che la madre sarebbe guarita perché lei aveva di mostrato una fede tanto profonda, quanto gradita a Dio. Lucia rac contò alla madre la visione e quanto le era stato detto, e subito prese la decisione di consacrarsi a Dio, rinunciando tanto al matrimonio quanto alla propria dote, che distribuì ai poveri. Quando comunicò al suo fidanzato l’intenzione di non sposarlo più, questi per vendicarsi del rifiuto denunciò Lucia come cristiana all’arconte Pascasio. A quei tempi, Diocleziano perseguitava i cristiani e Lucia venne arre stata e decapitata - pena inflitta ai nobili - il 13 dicembre del 304 d.C. Attualmente il corpo della santa è sepolto a Venezia, nella chie sa parrocchiale dedicata ai santi Geremia e Lucia; fu il doge Enrico Dandolo a trasferirvi i resti di santa Lucia nel 1204, in occasione del la caduta di Costantinopoli nelle mani dei Crociati. Il buono stato di conservazione del corpo denota l’avvenuta decapitazione, in quanto la testa è nettamente staccata dal busto. A Siracusa, l’antica Syraka, fondata nel 734-733 a.C. da un gruppo di coloni corinzi, santa Lucia patrona della città viene festeggiata due volte l’anno: la prima domenica di maggio e il 13 dicembre. La festa della prima domenica di maggio, detta “Santa Lucia delle quaglie”, è collegata all’episodio di un miracolo, avvenuto nel 1646, quando Si racusa fu colpita dalla carestia a causa delle continue tassazioni da parte del governo spagnolo. Il popolo, stremato per la mancanza di cibo e per le epidemie che nel frattempo erano scoppiate, si raccolse in preghiera nella cattedrale davanti al simulacro della santa. La tra dizione narra che una colomba volò dentro la chiesa quale presagio augurale: e infatti di lì a poco si sparse la voce che alcune navi erano entrate nel porto cariche di grano e di legumi. La folla gridò al mira colo e decise che ogni anno la statua della santa sarebbe stata traspor tata dalla cattedrale alla chiesa di Santa Lucia alla Badia e lì esposta per otto giorni. Secondo una leggenda, che ci riporta il Pi tré (Spetta coli e feste popolari siciliane , cit., p. 429), la santa avrebbe fatto ca dere dal cielo centinaia di quaglie, dando origine così alla festa che si tiene a maggio: «Graziosa a vedersi è la festa delle quaglie che si fa in Siracusa in Calen di Maggio». In memoria di questo evento, a par tire dal 1646 si istituì la festa del patronato di santa Lucia, con il volo delle quaglie e delle colombe. La festa che si tiene a maggio è orga nizzata dalla Deputazione della cappella di Santa Lucia, i cui membri si distinguono per il caratteristico berretto verde, colore dedicato alla patrona. Ma i festeggiamenti solenni iniziano sin dalla vigilia del 13 dicem bre con l’usanza di accendere dei fuochi, il cui significato è quello di voler esorcizzare il progressivo e inevitabile scemare della luce pro prio della stagione invernale. La santa del resto rappresenta la luce perché prima della riforma del calendario gregoriano, avvenuta alla fine del Cinquecento, il giorno dedicatole coincideva con il solstizio d’inverno, ossia il giorno più corto dell’anno. Quindi, proprio perché dopo la ricorrenza di santa Lucia i giorni riprendevano ad allungarsi,
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la santa fu investita del ruolo di portatrice di luce. Ella inoltre è stata messa in relazione anche con la dea Demetra, dal momento che gli attributi della santa sono le spighe di grano e la fiaccola. Oltre a ciò va ricordato l’uso di preparare dei pani votivi a forma di occhi, detti uccioli di santa Lucia, e di consumare il 13 dicembre, al posto di pane e pasta (soprattutto nel palermitano, dove la santa ha un culto molto diffuso), la cuccia , grano cotto condito con la ricotta o con il miele, secondo una tradizione che risale alle antiche civiltà cerealicole me diterranee e che in alcune feste religiose assume il significato di atto penitenziale e rituale. Diversamente dai festeggiamenti che si tengo no a Catania e a Palermo per le rispettive patrone, a Siracusa quelli dedicati a santa Lucia mantengono un tono devozionale, meno chias soso e più misurato, senza nulla togliere alla profonda devozione dei siracusani nei confronti della loro patrona. Il loro culto risale ad un’antica iscrizione ritrovata nelle Catacombe di San Giovanni a Si racusa, risalenti alla fine del iv secolo, che è il più antico documento in cui viene menzionata la santa. I preparativi della festa iniziano diversi giorni prima della data ef fettiva. Le strade attraverso le quali il simulacro della santa sarà con dotto in processione vengono addobbate con luminarie e anche i bal coni dei palazzi sono ornati di tappeti o di drappi. La statua della pa trona è un capolavoro dell’oreficeria siciliana del xvi secolo, opera di Pietro Rizzo, alta circa un metro e 54 centimetri. Per toglierla dalla nicchia all’interno della cattedrale, dato il suo peso notevole, occor rono circa venti uomini. Nel primo pomeriggio la statua viene posta sul fercolo, un piedistallo su ruote, e una volta fuori dalla chiesa vie ne condotta a spalla da sessanta portatori per mezzo di lunghe aste. Costoro sono guidati da un capo portatore che, con un campanello, indica loro quando devono posare e quando devono sollevare la sta tua. A causa di queste continue soste la processione dura oltre cinque ore. Il corteo si rifà alla tradizione settecentesca, in quanto prevede una carrozza dalle pareti di cristallo, tappezzata internamente di raso damascato, classico esempio di rococò che riproduce la carrozza im periale austriaca. Un tempo vi salivano le autorità della città, oggi in vece viaggia vuota, tirata da quattro cavalli e scortata da cocchieri con la livrea di colore verde olivo, e viene seguita da fedeli che im personano staffieri, mazzieri e paggi, tutti vestiti con i costumi d’epo ca. I portatori sono scelti tra coloro che si sono offerti di trasportare a spalla il simulacro della santa fino alla basilica di Santa Lucia. Qui l’immagine resterà esposta per otto giorni alla venerazione dei fedeli fino al 20 dicembre, giorno in cui viene riportata nella cappella della cattedrale. II simulacro è composto dalla statua, dalla cassa reliquiaria e da una base e raggiunge un’altezza complessiva di 3,70 m. La cassa reliquia ria, rivestita di lamine d’argento, è attribuita ad Antonello Gagini ed è decorata da sei pannelli in lamina cesellata, che illustrano alcuni episodi del martirio della santa. Il reliquiario conserva tre frammenti
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di costole e due frammenti del braccio sinistro. La statua reca una ' tazza d’oro, rivestita di gemme, dalla quale esce una fiammella che indica la luce e la fede, mentre la cassa è collegata alla base da quat tro aquile d’argento con una torre nel petto. Sia l’aquila che la torre rappresentano gli antichi simboli della città siracusana. Dal 1204 i si racusani attendono di riavere il corpo della santa protettrice per po terlo custodire nel sepolcro originario, un tempietto barocco a forma ottagonale, pronto dal 1629. Fino ad oggi però ciò non si è potuto rea lizzare, nonostante i diversi tentativi perseguiti nel corso dei secoli. Dal 1970 - in occasione dei festeggiamenti di santa Lucia - Siracu sa si è gemellata con la Svezia, perché anche in questa nazione il 13 dicembre si festeggia la santa con un concorso nazionale che elegge la “Lucia di Svezia”. Tale iniziativa risale al 1927, quando un quoti diano di Stoccolma ebbe il merito di intuire quanto la devozione per la santa fosse diffusa in tutta la nazione. Da allora per mezzo di un concorso viene scelta una ragazza che, vestita con una tunica bianca e adomata di una corona di candeline in testa, distribuisce regali gi rando per le case secondo un’antica tradizione svedese. Ogni anno l’Azienda di turismo di Siracusa invita la Lucia eletta in Svezia, che partecipa quindi ai festeggiamenti per la patrona della città. Santa Lucia è patrona anche di Beipasso, in provincia di Catania. Il paese fu distrutto nel 1669 a causa dell’eruzione dell’Etna. Successi vamente venne ricostruito più a valle col nome di Fenicia Moncada, ma il terremoto del 1693 lo rase nuovamente al suolo. Venne riedifi cato due anni dopo nello stesso sito e col nome attuale di Beipasso. Il paese festeggia la santa patrona con una serie di manifestazioni so lenni risalenti al 1669, quando una reliquia della santa fu portata in processione sino alle pendici dell’Etna. Per tredici giorni, dal primo dicembre fino al giorno della sua ricorrenza, alle cinque di ogni mat tina gli abitanti del paese rendono omaggio alla santa nella chiesa madre di Santa Lucia. In serata si svolge la processione delle reliquie con lo scrigno di santa Lucia, incastonato dentro il fercolo, opera di maestri argentieri siciliani del Settecento. Il simulacro viene traspor tato dai devoti che indossano il costume caratteristico di colore bian co e subito dopo vi è la sfilata dei carri di santa Lucia, accompagnati dalle cosiddette cantate. Ogni carro è preparato in gran segreto dai giovani dei vari quartieri. Si tratta di enormi costruzioni meccaniche di circa dieci metri condotte in piazza chiuse da pannelli che succes sivamente, con un congegno apposito, si aprono lasciando scoprire effetti scenici, immagini allegoriche, e luci multicolori. Il tutto è ca ratterizzato dai canti in onore di santa Lucia (le cantate).
Madonna della Lettera, patrona di Messina. La «vara» Diversamente da molte città siciliane, che sostituirono spesso i loro patroni, Messina è stata sempre fedele e devota alla Madonna della Lettera, patrona della città. La leggenda narra che, mentre san Paolo
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si trovava a Messina per predicare la fede in Cristo, i messinesi volle ro - attraverso il santo - inviare un messaggio alla Madonna che si trovava a Gerusalemme. La Vergine rispose con una lettera scritta in lingua ebraica, legata con dei suoi capelli, in cui mandava la sua be nedizione ai messinesi e alla loro città: vos et ipsam civitatem benedicimus (benediciamo voi e la città), frase che si legge alla base della statua della Madonna situata nel porto di Messina. Secondo la leg genda, la lettera della Madonna venne nascosta dal senato cittadino per evitare che venisse distrutta durante le persecuzioni contro i cri stiani. Nel 430 l’originale venne ritrovato nell’archivio pubblico e i capelli che legavano la lettera vennero custoditi in una teca, la cosid detta varetta. Le varie dominazioni che si sono succedute nel corso dei secoli a Messina, da quella musulmana sino a quella dei Borbone, hanno dovuto tenere conto del fatto che i messinesi, per la loro pro fonda devozione nei confronti della Madonna della Lettera, iniziava no ed attuavano ogni rivolta sotto il segno della loro patrona al grido di «viva Maria», nonostante la città non dipendesse dal potere reli gioso ed ecclesiastico. È noto che a Messina (l’antica Zancle, dove nell’vm secolo a.C. gli Ioni e i Calcidesi fondarono il primo nucleo urbano tra la penisola di San Ranieri e la zona del porto) sin dai tempi più remoti sorsero dei templi dedicati al culto degli dèi. Questi edifici divennero più nume rosi durante l’epoca romana, in cui erano diffusi i culti di tutti gli dèi della mitologia antica. Con la venuta di san Paolo a Messina ebbe ini zio l’opera di lenta e paziente amalgama dei culti pagani con quelli della religione cristiana e la chiesa messinese seppe attuare talmente a fondo questa operazione culturale da far dimenticare, nelle epoche successive, la progressiva sovrapposizione del cristianesimo alle tra dizioni pagane. La Madonna della Lettera si festeggia il 3 giugno con una celebra zione religiosa che consiste nel portare in processione la varetta d’ar gento, ove è custodita la sacra reliquia dei capelli della Vergine. La varetta fu realizzata intorno al 1626 da argentieri messinesi su ordine dei cavalieri appartenenti all’Accademia della Stella, un’associazio ne costituita da cento nobili cavalieri che avevano il compito di di fendere la città in caso di attacchi pirateschi. Nel 1902 venne posta sulla varetta una statuina d’argento della Vergine, alta circa novanta centimetri, sul cui basamento sono raffigurati in rilievo la città di Messina e il suo stendardo, una palma e un cherubino. Durante la processione del 3 giugno, nella varetta viene collocata una pigna di cristallo di rocca in cui è custodita la reliquia. Nel 1977 la varetta è stata completamente ristrutturata aggiungendovi quattro anfore d’ar gento cesellato, alla base di ognuna delle quali vi è una formella: nel la prima formella è raffigurato lo stemma della città; nella seconda è raffigurata la Madonna mentre consegna la lettera; nella terza la nave con la delegazione che si reca in Palestina e nell’ultima la colonna
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votiva, in cima alla quale vi è la statua della Madonna nell’atto di be nedire la città, così come la si può vedere quando si entra nel porto di Messina. La festa solenne per la Madonna della Lettera, nota come la festa dell’Assunta, in cui si mischiano fede e folklore, si svolge il 15 ago sto. In questa occasione, viene condotta in processione una vara , co struita nel 1535 su progetto dell’architetto Radese. Costui aveva ideato un carro con un marchingegno mobile, in cui prendevano po sto circa cento ragazzi e ragazze che rappresentavano nell’insieme l’Assunzione della Vergine al cielo. In realtà, la vara era originaria mente un carro trionfale che non doveva raffigurare l’Assunzione, bensì celebrare la vittoria militare di Carlo v sugli Arabi a Tunisi. Fino al Cinquecento il simulacro della Madonna veniva portato in trionfo su un cavallo bardato d’oro, evento descritto nel 1606 da Giu seppe Bonfiglio, studioso messinese: «Si soleva condurre in trionfo una statua a cavallo di Nòstra Donna con gran festa [...] tenevasi per simil conto un cavai leardo, la cui sella trionfale di velluto cremisino riccamato d’oro a tronconi si conserva per sin’al di d’hoggi nel luogo nomato il Tesoro [...] fino a quando un certo Radese inventò il carro nomato la Bara, et allhora in poi in cambio della statoa si conduce questa al di solito ogn’anno». La processione della vara , per il suo significato sacrale, viene rico nosciuta come manifestazione di devozione profonda nei confronti della Madonna protettrice, poiché attraverso essa si esprime la fede nelle sue qualità taumaturgiche e si ricorda la fiducia che la Vergine volle dimostrare nei confronti dei messinesi inviando loro la famosa lettera. La manifestazione di fede e gratitudine dei messinesi nei con fronti della loro patrona non poteva essere che grandiosa e solenne e la vara ne diventa l’esempio evidente per dimensioni, forma, peso e ricchezza di particolari. La vara messinese dell’Assunta è uno dei più celebri e antichi carri devozionali esistenti ancora oggi in Europa. Anticamente era alta circa quindici metri e pesante circa otto tonnel late. Su di essa prendevano posto bambini di età compresa tra i quat tro e i quindici anni che venivano legati per mezzo di corde e per i quali l’estenuante giro della città costituiva un vero supplizio. Col tempo i bambini sono stati sostituiti da personaggi di cartapesta. Nel 1681, per un guasto al meccanismo della vara, la giovane che imper sonava la Vergine e quattro bambini che impersonavano gli angioletti precipitarono giù dal carro, fortunatamente senza che fossero feriti in modo grave; i fedeli addebitarono la causa di questo incidente alla fanciulla che raffigurava la Madonna, supponendo che non fosse illi bata. A seguito di quell’incidente il clero mise maggior cura nella scelta della ragazza che doveva rappresentare la Vergine. La giovane scelta godeva del privilegio di fare il giro delle case nobiliari, dove riceveva doni per la sua dote. La grande macchina raffigura una sublime apoteosi di fede, dalla morte della Madonna alla sua Assunzione. Alla punta estrema della
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vara vi è la figura del Padreterno che col braccio destro sostiene una fanciulla che personifica la Vergine nell’atto di ascendere in cielo. La struttura conica del carro è coperta da angioletti, da nuvole del para diso e da tutti i simboli dell’universo cristiano atti a rappresentare l’Assunzione della Vergine in cielo mediante un complesso apparato a piramide eseguito ispirandosi al tema delle sacre rappresentazioni molto diffuse dal Medioevo in poi. Oggi la pesante mole della vara poggia su enormi scivoli di acciaio e viene fatta scorrere sull’asfalto, tenuto sempre bagnato, trainata con delle grosse funi da fedeli a piedi scalzi al grido di «viva Maria!». Anticamente la processione era più un’occasione trionfalistica che una vera festa di fede e devozione e fu soprattutto verso la metà dell’Ottocento che essa divenne una proces sione propriamente religiosa. A causa del terremoto del 1908 la vara fu restaurata in alcune parti e i pezzi danneggiati vennero rifatti. Nel 1987 è stata invece interamente ristrutturata, anche se è rimasto qual che pezzo originale. Oggi essa è composta da un basamento sul quale poggia una cappelletta al cui interno vi è distesa una statua della Ma donna, coperta dagli ex voto. Il 15 agosto, la vara viene portata a piazza Castronovo, e da qui nel primo pomeriggio, quando la piazza è stracolma di fedeli, il carro viene fatto scivolare fino a piazza Duo mo dove, una volta giunto, il vescovo impartisce la benedizione sia ai fedeli che alla vara stessa che rimarrà esposta in quel luogo per di versi giorni.
Madonna della Visitazione, patrona di Enna La leggenda sulla Madonna della Visitazione narra che una delega zione di ennesi decise di acquistare una statua della Vergine per eli minare definitivamente i culti pagani a cui essi, nonostante fossero cattolici, erano ancora legati. Si decise di acquistare la statua a Vene zia e, dopo averla custodita dentro una cassa, di imbarcarla su una nave. Durante il viaggio la nave si trovò in mezzo ad una tempesta e naufragò nel mare Ionio a Capo Spartivento. La cassa, sospinta dalle onde, finì sulla costa messinese. Gli scaricatori del porto di Messina la recuperarono e la depositarono in un magazzino. Dopo alcuni eventi prodigiosi accaduti nel magazzino si decise di aprire la cassa e così si scoprì che essa conteneva la statua della Madonna. La notizia arrivò sino ad Enna e gli ennesi, legittimi proprietari, partirono alla volta di Messina per riprendersela. Essa fu caricata su un carro trai nato da buoi e finalmente giunse ad Enna, il 29 giugno del 1412. La leggenda narra che quando si decise di porre la statua su un fer colo per trasferirla nella cappella nessuno riuscisse a sollevarla, es sendo divenuta così pesante che non vi fu verso di spostarla. Si deci se allora di chiamare alcuni contadini, i quali contenti di tenere sulle spalle un peso diverso da quello del vomere sollevarono il pesante fercolo, che divenne improvvisamente leggero. Da allora i contadini
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hanno l’onore di portare il simulacro della Madonna nella solenne processione, che si svolge attualmente il 2 luglio. La Madonna è de nominata “della Visitazione”, in ricordo di quando la Vergine si recò in Giudea dalla cugina Elisabetta e vi restò per tre mesi. Ad Enna, che sino al 1927 mantenne il nome di Castrogiovanni, la Madonna viene invocata non solo per scongiurare malattie e pericoli, ma so prattutto per propiziare un buon raccolto. Anticamente in occasione della sua festa sfilava un enorme carro, chiamato Nave d'oro , suddiviso in tre piani e trainato da buoi, sul quale prendevano posto anche l’orchestra, i cantori e i bambini vestiti da angioletti. In cima al carro troneggiava la statua della Madonna. Alla fine della processione secondo l’usanza locale il carro vuoto ve niva bruciato per propiziare un buon raccolto. Anche l’itinerario pro cessionale è legato ad una leggenda. Si narra infatti che il 30 giugno del 1413 i dignitari della chiesa maggiore e i senatori dell’università lo affidarono al volo di venticin que colombe, poste ai piedi della statua della Vergine, che una volta liberate volarono per le strade della città, indicando così anche l’iti nerario processionale. Anticamente l’inizio dei festeggiamenti veni va annunciato dagli Araldi della Maranna della Chiesa Madre, men tre alla vigilia della festa alcuni cavalieri portavano in Cattedrale il gonfalone della città. Partecipavano alla processione 216 confrati, coperti solo da una fascia bianca ai fianchi e recanti sulle spalle nude la vara della Madonna. Fu soltanto nel xvn secolo che la Chiesa loca le intervenne per far indossare ai portatori un camice bianco, ritenen do indecente l’uso di partecipare nudi alla processione. Attualmente i portatori indossano un saio di colore bianco e camminano scalzi. Du rante la processione la vara della Madonna sosta in tutti i quartieri della città, dove viene accolta con spari di mortaretti e al suono delle campane, secondo l’usanza locale che prevede che gli abitanti dei vari quartieri ringrazino così la Madonna, per le grazie concesse. In fine il simulacro giunge presso il convento dei Minori osservanti, dal quale vengono fatte uscire le statue dei santi Zaccaria ed Elisabetta, in ricordo della visita fatta dalla Vergine alla cugina prima di diven tare madre. La statua della Vergine viene condotta nella chiesa di Montesalvo, dove per quindici giorni resterà esposta alla venerazione dei fedeli, che le rendono omaggio con offerte di ceri votivi e pelle grinaggi. Anticamente la statua vi sostava per tre mesi in ricordo del periodo trascorso dalla Madonna in casa di Elisabetta. Terminati i quindici giorni la vara della Madonna, la nave d'oro , viene condotta nuova mente al duomo, seguendo l’altro itinerario processionale tracciato secondo la tradizione locale dal volo delle colombe. Nell’Ottocento i festeggiamenti in onore alla Madonna della Visitazione si sono arric chiti di allestimenti particolari: oltre all’illuminazione d’uso della fe sta, una famiglia ennese inventò una luminaria particolare e suggesti va costituita da delle piramidi, ognuna delle quali formata da quindici
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bicchieri, che venivano posti colmi d’olio su delle mensole fissate ai muri delle case. Inoltre, per festeggiare in modo ancora più solenne la Madonna, gli abitanti decisero di dipingere su dei teli alcuni episodi della storia della città e delle virtù della Vergine. Questi teli venivano esposti lungo il percorso processionale e al tramonto venivano illuminati da lucerne, creando così un effetto particolarmente suggestivo. La do menica successiva il simulacro viene riportato alla Chiesa Matrice, secondo uno dei percorsi tracciato dal volo delle colombe. La statua, riposta nella nicchia, resterà nascosta alla venerazione dei fedeli sino all’11 gennaio dell’anno seguente.
San Michele arcangelo, patrono di Caltanissetta. Le nove candele Il culto dell’arcangelo Michele si diffuse principalmente in Oriente, dove a Costantinopoli già intorno al vi secolo gli erano stati dedicati diversi centri di culto, mentre in Occidente la sua devozione è colle gata alle sue apparizioni. Secondo la tradizione cristiana, l’arcangelo Michele è considerato il capo degli angeli fedeli a Dio e infatti nell’i conografia popolare viene rappresentato come un angelo guerriero, forte e possente, che lotta contro il diavolo. «È quanto di più bello per aitanza di persona e nobiltà di forme si possa immaginare, reso anche più bello dal suo costume del guerriero di Dio», così viene descritto dal Pitré (Spettacoli e feste popolari siciliane , cit., p. 367). L’attribu to dell’arcangelo Michele è la bilancia, che tiene in mano e che sim boleggia il potere di soppesare le anime dei defunti. Nella cultura tra dizionale siciliana san Michele svolge un ruolo analogo a quello di san Giorgio, infatti per indicare un uomo forte si usa l’espressione “è un san Micheli” oppure “è un san Giorgi”. Il Pitré riferisce che sino al 1860, durante il periodo dei Borbone, il santo veniva festeggiato anche presso la corte di re Ferdinando n a Napoli. Si racconta che il re fosse sfuggito alla morte proprio nel giorno dedicato al santo e che per lo scampato pericolo chiese a papa Gregorio xvi che la ricorrenza di san Michele Arcangelo venisse considerata giorno festivo. San Michele è patrono di Caltanissetta, l’antica Nissa al cui nome sotto la dominazione araba venne aggiunto l’appellativo di q a l’at, cioè ‘castello’, appellativo che rimase durante la conquista normanna avvenuta nel 1086. Città feudale, Caltanissetta fu elevata a contea da gli Aragonesi, passò alla fine del Duecento ai Lancia e nel xv secolo ai Moncada, che la governarono per circa quattro secoli. La leggenda locale narra che l’arcangelo apparve ad un frate cappuccino al quale annunciò che avrebbe protetto la città. Nel 1625 la Sicilia fu colpita dalla peste e gli abitanti di Caltanissetta, per evitare il contagio, isti tuirono con delle guardie un cordone di vigilanza intorno alle mura. Un appestato che, eludendo la sorveglianza, aveva tentato di entrare
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nella cittadina venne fulminato da san Michele. Da allora Caltanissetta lo elesse patrono al posto del Santissimo Crocefisso e del prece dente protettore. I nisseni inoltre eressero una chiesa in suo onore e gli dedicarono due feste l’anno. Prima di ogni festa, è tradizione in ogni famiglia recitare una nove na e fare osservare per voto ad ogni figlio o figlia il digiuno, limitan dosi a consumare solo pane e acqua. Il digiuno inizia dal lunedì dopo Pasqua e si ripete ogni anno, per nove anni consecutivi. Il Pi tré (Feste patronali , cit., p. 515, anche per la citazione seguente) descrive così la novena dedicata al santo: «Son pochi versi consacrati alle virtù dell’Arcangelo ed alla insufficienza del devoto che li recita di fronte a quelle: e formano nove domande del devoto medesimo». Trascorsi i nove anni, i genitori portano in chiesa nove candele, una per ogni anno, le quali, una volta benedette dal parroco, vengono conservate in casa. Secondo la religiosità popolare si ritiene infatti che esse ser viranno nei momenti più importanti della vita di coloro che, in occa sione dei festeggiamenti per il santo, hanno osservato il digiuno per nove anni consecutivi. Essi le potranno utilizzare sia per invocare la protezione dell’arcangelo, sia per accenderle nei momenti particolari dell’agonia e della morte. Durante la processione, la statua del patrono, opera dell’artista Ste fano Livolsi, scolpita fra il 1622 e il 1644, viene portata dal duomo al santuario di San Michele, dove resterà per alcuni giorni per permette re ai fedeli di venerarla e di fare il viaggio , cioè il pellegrinaggio. Il Pitré, a proposito della processione, scrive: «La processione va fatta a qualunque costo, e se per caso piove quando il simulacro vien portato fuori, e non esce, è segno che l’Arcangelo non vuole uscire; e se pio ve quando è giunto al santuario, segno che non vuole tornare. Ma questo non importa: perché la processione di andata e di ritorno sarà differita sì, ma non tralasciata» (pp. 516-7). A Caltanissetta e nella maggior parte della Sicilia si recita la seguente preghiera per invoca re la protezione dell’arcangelo Michele: Patri nostru chi stati in celu, siti un ancilu san Michele , siti un ancilù maggiuri ca parrati cu lu signuri, d ’ogni mali chi nni veni, libiràtinni san Micheli (Padre nostro che siete in cielo, siete un angelo san Michele, siete un angelo mag giore che parlate con il Signore, di ogni male che verrà liberateci San Michele).
San Paolo, patrono di Palazzolo Acreide. I «cerauli» Saulo, che mutò il suo nome ebraico in Paolo, nacque a Tarso di Cilicia intorno al 10 d.C. Dopo aver ricevuto un’educazione sia greco ellenistica che giudaica, andò a Gerusalemme per seguire le lezioni di Gamaliele, maestro nella tradizione ebraica. Più tardi, divenuto soldato romano, fu acerrimo persecutore dei primi cristiani. La tradi zione della Chiesa narra che la conversióne del santo al cristianesimo
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avvenne grazie all’apparizione del Cristo sulla via di Damasco, dove Paolo era diretto per perseguitare i cristiani del luogo. Dopo l’appari zione, rimase cieco per diversi giorni e successivamente, giunto a Damasco, chiese di essere battezzato proprio dai cristiani che avreb be dovuto perseguitare riacquistando subito la vista. Da allora Paolo viaggiò in ogni luogo convertendo i pagani alla fede cristiana. Per questo venne arrestato e imprigionato a Roma, dove subì il martirio per decapitazione. Nell’iconografia popolare, il santo viene raffigura to vestito di tunica e mantello e con un libro in mano, attorno al quale è attorcigliata una vipera, mentre nell’altra mano reca la spada sguai nata. Il motivo della vipera si collega all’episodio in cui il santo, se condo gli Atti degli Apostoli , mentre si trovava nell’isola di Malta fu morso da una vipera rimanendone immune. La leggenda narra che, da allora in poi, nell’isola di Malta i morsi dei serpenti velenosi e dei cani idrofobi non hanno mai danneggiato nessuno. Secondo una credenza popolare, san Paolo fu il primo ceraulo , cioè ‘serparo’, il cui ruolo è quello di proteggere dai morsi velenosi. Il Pitré (F estepatronali , cit.; da quest’opera sono tratte le altre tre citazio ni seguenti) descrive infatti una particolare processione che si tiene in occasione dei festeggiamenti di san Paolo, la processione dei cerauli, composta da questi singolari personaggi che accompagnavano il si mulacro del santo per le vie di Palazzolo Acreide: «Vedeteli in mu tande con una grossa cuddura a forma di serpente sul capo, preceduti dal tamburino e aventi chi in mano una biscia, chi alle spalle o attor cigliato al collo un colubro dei più lunghi» (p. 355). Questi uomini non temono i rettili, e addirittura li portano addosso come amuleti a simbolo di guarigione e di salute e si crede che siano immuni dal loro morso velenoso. È credenza diffusa che gli uomini nati nella notte del 24 e 25 gennaio, ricorrenza della conversione del santo, abbiano il potere di guarire dal veleno del morso dei rettili. Il segno di tale potere consiste nell’avere sin dalla nascita l’impronta del ragno sotto la lingua. I cerauli godevano di grande considerazione tra il popoli no, in quanto vantavano la diretta discendenza del santo stesso affer mando che San Paulu fu lu primu ciaraulu (san Paolo fu il primo ser paro). Il Pitré si sofferma diffusamente su questi personaggi: «Due, tre settimane prima della festa, i cerauli si recano in campagna e, in sul mezzogiorno, quando il sole è più cocente danno la caccia alle bi sce» (p. 353). I cerauli erano personaggi singolari, che nell’Italia meridionale ve nivano ritenuti fortunati perché in possesso di doti particolari. In al cuni paesi della Sicilia essi esercitavano anticamente un mestiere ri conosciuto tanto che nel Trecento a Palermo essi non solo furono esclusi dai divieti imposti ai ciarlatani e ai guaritori, ma le loro capa cità vennero addirittura riconosciute come terapeutiche. Nella cultura popolare i cerauli sono stati inclusi nelle credenze religiose, nei miti e nelle leggende locali perché si riteneva che fossero persone dotate di poteri soprannaturali. Anticamente cibarsi di serpenti significava
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acquisirne la saggezza, farsi leccare le orecchie da loro equivaleva a comprenderne il linguaggio, così come sognarli era ritenuto segno di buon auspicio. Il Pitré, a proposito di questi personaggi capaci di ren dere innocui i rettili, racconta: «Donne d’ogni età, ragazze e spose, le quali fuggirebbero solo a scorgerne uno in campagna, se li lasciano senz’altro appressare, deporre placidamente nel grembiule e li guar dano impassibili e certune anche li palpano, tanto può non so se la virtù della devozione, o la forza dell’esempio degli altri, o la sugge stione di tutto ciò che circonda!» (pp. 357-8). In alcuni paesi della Si cilia, per tenere lontani i rettili velenosi, ancora oggi si recitano una serie di scongiuri durante la notte di san Paolo: san Paulu, ciaràulu ammazza a chissu , ca è nimicu di Diu e sarva a mia ca sugnufiggiu di Maria (san Paolo, serparo, ammazza questo eh’è nemico di Dio e salva me che sono figlio di Maria). A Palazzolo Acreide, civitas stipendiaria sotto i Romani, san Paolo venne eletto patrono nel 1690, al posto dell’allora patrona Madonna di Odigitria, venerata da una parte degli abitanti del paese chiamati sambastianesi perché del quartiere di san Sebastiano. Questa sostitu zione scatenò una rivalità fra sampaolesi e sambastianesi, che si ma nifestava in occasione dei festeggiamenti. Il santo è festeggiato due volte l’anno: il 25 gennaio, giorno in cui si ricorda la sua conversio ne, ed il 29 giugno, giorno del suo martirio. La sua festa, come per la maggior parte di quelle religiose che si celebrano in Sicilia, appartie ne alle grandi feste stagionali legate al ciclo della natura. Nella cultu ra contadina infatti, le particolari manifestazioni devozionali elabora te nella sfera del sacro raggiungono una ricchezza espressiva così si gnificativa da diventare caratteristiche fondamentali della religiosità popolare. I festeggiamenti del santo durano tre giorni, dal 27 al 29 giugno, preceduti anticamente dalla novena, rito di preparazione alla festa e segno anche di partecipazione popolare. Il giorno 27 iniziano i prepa rativi veri e propri per i festeggiamenti in onore del patrono: si co mincia con a sìrata a villa , la serata alla villa, l’allestimento del palco della musica e si continua con la raccolta di offerte in denaro, la que stua, girando casa per casa. In ultimo ha luogo la vestizione della sta tua del santo. Il giorno seguente, nel tardo pomeriggio, la banda mu sicale inizia il giro d’onore per le strade del paese, preceduta dai de voti di san Paolo, i sampaolesi, con gli stendardi del santo. Il suono delle campane avverte dell’inizio della funzione religiosa con i vespri cantati e con la svelata del santo: la statua, modellata nel 1567 dal l’artista Vincenzo Lorefice di Ragusa, rimasta per circa sei mesi na scosta da un sipario, viene scoperta durante la funzione per essere ve nerata dai fedeli in tutto il suo splendore. All’apparizione del simula cro, ricoperto di ex voto d’oro e d’argento, la folla dei devoti urla: viva san Paulu e echi ssiemi tutti muti, viva lu gran patronu (viva san Paolo e non restiamo muti, viva il grande patrono).
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La mattina del 29 alcuni fedeli girano con un carro, carruozzu rò pani (il carro del pane), per raccogliere i cudduri, pani votivi su cui sono raffigurati a rilievo i serpenti caratteristici dell’Italia meridiona le. I pani raccolti casa per casa, una volta benedetti, saranno venduti all’asta davanti alla chiesa. «Il devoto che acquista la cuddura», rife risce il Pitré (Feste patronali , cit., p. 358), «ritenendo che in questo pane ci sia qualcosa di misteriosamente soprannaturale, lo distribui sce tra i familiari e gli amici, che ne mangiano un pezzo o lo conser vano per devozione». Più tardi si porteranno in chiesa a spica i san Paulu , fasci di aromatiche spighe di san Paolo che, insieme alle immaginette del santo patrono, verranno dati ai fedeli che nei giorni di festa hanno fatto offerte in denaro. Fino al 1949, durante i festeggia menti per il patrono, prima di assistere alla messa si conducevano in chiesa degli animali che, adomati con dei nastri rossi, venivano fatti inginocchiare davanti al santo per essere benedetti e offerti simboli camente. Questa è una tradizione che affonda le origini nei riti pagani che prevedevano il sacrificio di animali e l’offerta di doni propiziatori. Da tempo è stato poi abolito l’atto di devozione penitenziale, ri corrente anche in diverse processioni della Sicilia, che consiste nello strisciare la lingua sul pavimento della chiesa, dalla porta sino all’al tare maggiore. Alle 13 in punto del giorno 29, il simulacro del santo viene solleva to dai devoti a spalle nude, con un fazzoletto legato al collo o in testa, i quali dopo averlo issato sulla vara escono dalla chiesa. Precedono la statua i sampaulesi, i devoti del santo recanti gli stendardi con lo stemma della spada e il serpente, le bandiere rosso-blu e le insegne dorate del santo. Al passaggio del simulacro i fedeli inneggiano ripe tutamente al patrono con grida di evviva. Durante la processione le famiglie che seguono il carro del santo adempiono al voto della denudazione dei propri bambini che, spo gliati dei loro indumenti, vengono sollevati e issati sulla vara, con il chiaro significato di essere offerti simbolicamente per grazia ricevu ta; secondo un’antica tradizione i vestitini saranno poi riacquistati dai genitori con una offerta in denaro. Concludono la processione i fedeli che hanno fatto voto di seguire il fercolo del santo a piedi scalzi sotto una pioggia di nzareddi, strisce lunghissime di cotone multicolore preparate dalle donne parecchi giorni prima della festa. La processio ne termina verso sera, quando la statua di san Paolo viene riportata davanti alla chiesa dove in suo onore vengono sparati fuochi d’artifi cio.
Santa Rosalia, patrona di Palermo. «’U festinu» Secondo le notizie di agiografi locali, Rosalia era la figlia del duca Sinibaldo di Quisquina e delle Rose. Alla morte di Ruggero n, ella chiese e ottenne il permesso di vivere da eremita in una grotta sul
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monte Quisquina, dove trascorse dodici anni della sua vita. Successi vamente si trasferì in una grotta sul monte Pellegrino, a Palermo, dove visse fino alla morte avvenuta, secondo la tradizione, il 4 set tembre del 1160. L’iconografia popolare rappresenta la santa giova nissima, con una corona di rose bianche sul capo, in contemplazione davanti al Crocefisso che, secondo la sua agiografia, sarebbe lo spec chio nel quale la santa vide riflessa l’immagine del Cristo. Altri attri buti identificativi sono il teschio, la grotta, il bastone e l’incontro con il cacciatore Vincenzo Bonello. A Palermo, l’antica Ziz (fiore), fon data dai Fenici attorno all’viii secolo a.C. (chiamata poi Panormus, cioè ‘tutto porto’, per la particolare insenatura che consentiva un age vole approdo), di cui la santa è patrona, il suo culto si collega ad un evento particolare occorso alla città in occasione di una pestilenza. Nonostante le intense preghiere della cittadinanza e le processioni, le quattro sante compatrone di allora - santa Cristina, santa Ninfa, sant’Oliva e sant’Agata - non erano riuscite a fermare l’epidemia. Il mi racolo fu invece attribuito alle reliquie di santa Rosalia le quali, por tate in processione, riuscirono ad impedire l’ulteriore diffondersi del morbo. La leggenda narra che un giorno, sul monte Pellegrino, Rosalia ap parve ad un cacciatore smarritosi a causa di un forte temporale. In dialetto palermitano la santa gli avrebbe detto di avvertire il vescovo di Palermo che in una caverna, dove ella era vissuta da eremita, vi erano le sue ossa. Inoltre gli predisse che sarebbe morto di peste. Il cacciatore, un tale Vincenzo Bonello, terrorizzato parlò solo in punto di morte. Il vescovo di allora, cardinale Doria, si recò subito nel luo go indicato dalla santa e, ritrovate le ossa, le mise dentro un sacco. Poi in processione solenne e tra i fiori, candele accese e canti, esse furono portate in città. Il Pitré (Feste patronali, cit., pp. 6-7) descrive così la processione delle reliquie della santa ritrovate il 15 luglio del 1624: «Al loro passaggio il male si alleggeriva, diventava meno in tenso, perdeva la sua gravità. Palermo in breve fu libera, ed in attesta to di riconoscenza a tanto beneficio si votò a Lei e prese a celebrare in suo onore feste annuali che ricordassero i giorni della liberazione e fossero come il trionfo della Santa protettrice. La grotta del Pellegri no divenne santuario, ove la pietà d’ogni buon devoto si ridusse a ve nerare la squisita immagine della Patrona». Dal 1624, ogni anno dal 9 al 15 luglio Palermo festeggia la patrona, la santuzza , così chiamata affettuosamente dai devoti, con un festino che dura sette giorni, mentre il 4 settembre, dies natali , giorno di na scita della santa, ha luogo il pellegrinaggio alla grotta del monte Pel legrino, dove è stato edificato il santuario, e alla cappella della catte drale di Palermo, in cui è custodita la statua della santa. La scultura in marmo, realizzata nel 1625 dallo scultore Gregorio Tedeschi, è rico perta di monili d’oro e pietre preziose, offerte dai fedeli durante il corso dei secoli. Le reliquie sono custodite dentro un’urna d’argento,
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eseguita nel 1631 dagli argentieri Francesco Ruvolo, Gian Nicola Vi viano e Matteo Lo Castro. Un tempo il festino era molto più ricco di manifestazioni rispetto a quello che si tiene ai nostri giorni. Com prendeva, oltre alla sfilata del carro tirato da quaranta muli riccamen te bardati (sostituiti successivamente da buoi), fuochi pirotecnici che si tenevano alla marina della città e la processione finale dell’urna con le reliquie. Inoltre si svolgevano una lotteria, denominata la be neficiata , la corsa dei cavalli berberi per le vie della città e la tradi zionale novena cantata dai cantastorie. Il Pitré (Feste patronali , cit.) riporta che la beneficiata era una grandiosa lotteria che si allestiva a piazza Marina. I premi consistevano in drappi e pitture su legno, su cui venivano incollate delle monete di argento da 5 e 10 lire, e in ta vole su cui erano raffigurate la città di Palermo e santa Rosalia, arric chite anch’esse con molti pezzi d’argento. La vincita di questi premi suscitava una gioia incontenibile tra i devoti e il premio vinto veniva portato in trionfo da due uomini per le vie della città, al suono dei tamburi o con delle fiaccole accese. Nei vicoli popolari gli orvi , i cantastorie, accompagnati dal violino, cantavano la storia della santa in versi siciliani o la novena per la santuzza , eseguita sempre alla stessa ora davanti alle stesse case e per nove giorni di seguito. Dal secondo al quarto giorno del festino aveva luogo la corsa dei cavalli berberi, i cursi che si tenevano al Cassaro, un’antica via della città che veniva transennata da paletti legati tra loro da funi, per evitare che la folla che assisteva alla corsa scendesse dal marciapiede. Il Pitré narra che anticamente i cavalli venivano cavalcati da fantini scelti tra i trovatelli e che solo più tardi si decise di eliminare questa crudele usanza e di far correre gli animali senza cavalieri. Si decise anche di collocare sulla criniera e sulla coda dei cavalli delle palline e dei pungoli, che li eccitassero a correre più velocemente. Allo stallie re al quale era stato affidato il cavallo vincitore della corsa, veniva data in premio un’aquila in legno dorato, su cui erano state incollate delle grosse monete d’argento. Ma l’attrattiva principale del festino era costituita dal carro trionfa le, costruito con enormi travi molte settimane prima dell’inizio dei festeggiamenti. La forma del carro era quella di una nave, decorata con pitture che rappresentavano gli episodi più significativi della vita della santa. In cima al carro troneggiava la sacra immagine della pa trona, ma a differenza degli altri carri religiosi non ne trasportava né le reliquie né tantomeno il simulacro. Il Pitré (Feste patronali , cit.) descrive così il carro trionfale: Dal basso all’alto, da tutti i lati, erano rappresentati i più bei tratti della vita della Santa. Qua Rosalia che abbandona la Corte di Sinibaldo suo padre; là l’aspra vita di penitenza che ella mena sul Pellegrino; altrove l’apparizione del demonio tentatore; l’angelo che la rassicura e le addita la croce; e il cac ciatore Vincenzo Bonello che s’imbatte nell’angelica figura della Vergine,
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dalla quale ha rivelato il luogo ove giacciono le ceneri di Lei; ed il rinveni mento di esse alla presenza dell’Arcivescovo e del Senato di Palermo, ed al tri fatti particolari della devota leggenda [...] proprio in cima del carro, spic cava nella sua sveltezza la figura della Santa, dalle candide vesti, dal capo coronato di rose (Rosalia), dal volto raggiante di bellezza, che torreggiava sopra i più alti fabbricati del Corso; ed avea intorno, ai piedi, una miriade di angeli sorretti dalle nuvole.
Il carro, che in passato veniva costruito ex novo di anno in anno su progetto di architetti e autori diversi, veniva trainato da cinquanta buoi tenuti dai fedeli vestiti di bianco, colore che rappresenta la fede. La pesante mole del carro si muoveva lentamente e, per evitare che le scintille causate dal forte attrito delle ruote contro il pavimento della strada potessero causare un incendio, venivano disposti ai lati del carro degli uomini che provvedevano a bagnarne le ruote ogniqual volta si muoveva. Dopo il 1858 a Palermo sia per i lavori di livellamento che interes sarono la strada del Cassaro e durarono sei anni, sia per la politica del nuovo governo di allora volta a cancellare forme e usi che potessero in qualche modo ricordare l’antico regime, vi fu l’interruzione della tradizione del carro, ripresa soltanto nel 1896, dopodiché venne so spesa per un paio di decenni. I festeggiamenti erano stati interrotti in due altre occasioni: nel 1837 a causa dell’epidemia di colera e suc cessivamente nel 1848 e 1849, gli anni della rivoluzione antiborboni ca. La processione del carro riprese nel 1924 in occasione del terzo centenario del ritrovamento delle reliquie e dopo tale data la tradizio ne di far girare il carro per le vie della città venne sospesa per molti anni. Oggi il carro si mantiene invariato salvo alcune modifiche e ag giunte secondarie ed è dal 1974 che viene fatto nuovamente girare per la città. Attualmente esso è lungo circa nove metri e largo sei con una altezza, compresa la testa della santuzza, di circa dieci metri. Su di esso trovano posto circa sessanta persone, costituite dagli orche stranti e dal coro, e in cima al carro viene collocata la statua della santuzza attorniata da nuvole, angeli e putti. Nelle processioni che si svolgevano nel secolo scorso, il carro veniva preceduto da carri mi nori, detti macchinette , che rappresentavano scene ed opere della vita della santa. Questi carri per la loro piccola mole potevano sfilare inoltrandosi nelle vie interne della città. Con il trascorrere del tempo la profonda devozione della cittadinanza nei confronti della patrona è notevolmente aumentata, come attestano gli innumerevoli ex voto che tappezzano l’ex grotta sul monte Pellegrino o i numerosi pelle grini che nei giorni 3 e 4 settembre affollano il santuario. Santa Rosalia è patrona anche di Santo Stefano Quisquina, paese in provincia di Agrigento. La festa si celebra la prima domenica di giu gno e dura cinque giorni, dal sabato al mercoledì. L’origine della ce lebrazione è strettamente legata all’eremo della Quisquina, dove la santa visse per circa dodici anni e dove ancora oggi si legge la scritta ego Rosalia Sinibaldi Quisquine, et Rosarum Domini, fd ia amore
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D.ni mei Jesu Cristi in hoc antro habitari decrevi (io Rosalia, figlia
di Sinibaldo di Quisquina delle Rose, per amore del mio Signore Ge sù Cristo decisi di abitare in questa grotta). Accanto alla grotta venne costruita una chiesa che fu terminata nel 1630. Il paese, il nucleo del cui centro attuale sorse probabilmente durante il regno di Federico n d’Àragona, ingaggia per tutto il periodo dei festeggiamenti dei tam burini, che sin dalle prime ore del sabato mattina sfilano per tutte le vie del paese. Nel pomeriggio vi è la funzióne religiosa del vespro, in onore della patrona. La domenica si svolge la processione del mezzo busto d’argento, contenente le reliquie della santa, che i quisquinesi ottennero nel 1625 dal vescovo di Palermo, cardinale Doria. Il simu lacro viene portato a spalla dai devoti che effettuano delle soste, al suono di una campanella, tutte le volte che un fedele fa un’offerta: è la prummisione , secondo un’antica tradizione per la quale i devoti della santa promettono appunto di fare l’offerta durante la processio ne. Il lunedì pomeriggio sfilano i carretti addobbati, orgoglio dell’ar tigianato siciliano, e subito dopo segue la cavalcata, costituita da de cine di cavalieri in costume che rappresentano i vari ceti sociali. Essi hanno il compito di rendere omaggio ed accompagnare, quale scorta d’onore, il simulacro della santa. I festeggiamenti si concludono con il ritorno del mezzobusto nella chiesa e con gli immancabili fuochi pirotecnici.
San Sebastiano, patrono di Melilli. Il pellegrinaggio dei «nuri» Secondo una Passio sancti Sebastiani, composta verso il v secolo, Sebastiano soldato e martire sarebbe oriundo di Narbona, in Francia. Convertitosi al cristianesimo, venne arrestato e condannato al suppli zio delle frecce. Legato a un palo, il santo fu trafitto da centinaia di frecce finché i soldati, credendolo morto, lo abbandonarono. Durante la notte alcuni cristiani portarono via il suo corpo e, sotto le cure del la matrona Irene, Sebastiano si riprese e continuò a predicare la fede di Cristo. Arrestato nuovamente, stavolta venne ucciso a colpi di ba stone e il suo corpo venne gettato in una cloaca, da dove più tardi fu tratto per esser sepolto a Roma accanto alla tomba dei santi Pietro e Paolo. A causa del supplizio subito san Sebastiano divenne colui che protegge gli uomini dalla peste (<depulsor pestis ), perché sin dalle ori gini più remote della civiltà umana le frecce hanno un legame simbo lico con la peste. Infatti secondo la mitologia fu Apollo a mandare la peste tra gli uomini con saette mortifere. Nell’iconografia popolare, inoltre, san Sebastiano è l’unico santo cristiano raffigurato nella sua totale nudità, mentre subisce il supplizio. San Sebastiano, la cui festa cade il 20 gennaio, è il patrono più amato in tutta la provincia di Sira cusa, dove il suo culto risale al 1414, quando venne ritrovata una sta tua del santo. È protettore di molti paesi siracusani come Tortorici, Acireale, Avo
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la, Francofonte, Canicattini Bagni e Palazzolo Acreide, ma è soprat tutto a Melilli che la devozione per il santo sfocia in manifestazioni spettacolari, che sconfinano nella sfera del magico-religioso e nel fa natismo. Ogni anno a Melilli, che in età feudale appartenne alla contea di Au gusta, il primo maggio si ripete il rito devozionale della processione dei nuri, il pellegrinaggio di devoti provenienti da molti paesi della Sicilia. Alcuni di loro affrontano il viaggio a piedi scalzi per scioglie re un voto e fino a pochi decenni fa il paese veniva invaso da centi naia di carrettini che trasportavano i fedeli. Per questa ragione il pel legrinaggio assumeva il tono di una sagra paesana. Il Pitré (.Feste p a tronali , cit., p. 287) lo descrive così: Si chiamano nudi perché fino ad una decina di anni fa, in omaggio al Santo martirizzato ignudo, eran tali; ora però sono coperti di semplici mutande. Avvolto il capo da un fazzoletto di seta, con una fascia ad armacollo e nastri attorno alle braccia ed al petto, giovani e adulti di vari paesi della provincia di Siracusa, da Giarratana, da Cassaro, da Augusta, da Lentini, da Sortino, da Canicattini, da Palazzolo, da Militello, da Siracusa si avviano di notte verso Melilli. È di rito che portino una grande torcia ed un mazzo di fiori in mano; e non camminano, ma corrono, e la lor corsa dura lunghe ore, quanto ce ne vogliono per andare dai luoghi di partenza alla città del Santo.
Oggi il pellegrinaggio viene effettuato non più a piedi ma con mo derni mezzi di trasporto e si è perso l’antico carattere di occasione di incontro e di sagra che animava il pellegrinaggio di una volta. Tutta via la partecipazione alla festa da parte di devoti e pellegrini si è ac cresciuta nel tempo. I nuri vestono oggi con il tipico costume di colo re bianco, il colore della fede, e una fascia rossa a tracolla ed entrano in chiesa correndo al grido di: e-cchiamàmulu ca n ’ aiuta! e-cchiamàmulu tutti, frusteri e-ppaisani, viva Ddiu e Sam-Mastianu! (Invo chiamolo che ci aiuta, invochiamolo tutti, forestieri e paesani, viva Dio e san Sebastiano!). La maggior parte dei pellegrini che affluisce a Melilli proviene dalla contrada della Santa Croce, dove si trova un’e dicola votiva e da dove i devoti iniziano il loro viaggio partendo al l’alba. I nuri, giunti davanti al fercolo del santo, depongono il mazzo di fiori votivo. Nei festeggiamenti per san Sebastiano si usava far of ferte di gioielli, cera e animali (cavalli, muli, galline, capre e asini); quest’usanza è stata tuttavia abolita dalla Chiesa per quanto riguarda gli animali. La chiesa dedicata al santo patrono, costruita nel 1751 su progetto del francese Louis Alexander Dumontier e restaurata dopo il terremoto del 1990, in occasione dei festeggiamenti si riempie di fe deli che vogliono consegnare l’offerta promessa: ex voto in cera e de naro. Tutti vogliono toccare la statua, issata nel frattempo su una mac china. Subito ha luogo l’offerta simbolica dei bambini al santo: essi, spogliati dei loro indumenti, vengono cinti ai fianchi da una fascia rossa e coperti con un fazzoletto in testa; ognuno ha accanto un mazzo di fiori. Molte madri sfregano i vestitini dei propri figli sulla statua a
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San Sebastiano martire.
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scopo propiziatorio e come promessa al santo. Infine questi indumen ti vengono regalati ai bambini poveri del paese. È da ricordare che l’offerta simbolica dei figli al santo patrono è un atto devozionale che si trova in molte altre feste religiose siciliane. In tarda serata, il ferco lo del santo viene portato in processione per le vie del paese. Ad Acireale, durante la processione la statua di san Sebastiano, montata su un marchingegno con le ruote, viene fatta scendere di cor sa nelle viuzze del paese, seguita dalla folla dei fedeli che partecipa con grande fervore alla corsa. Alla fine della processione, il fercolo e il marchingegno, spinti a forza stavolta in salita, vengono riportati nella basilica. Anche a Palazzolo Acreide, dove il santo viene festeggiato il 10 agosto, il fercolo su cui è posta una statua del 1663, realizzata secon do una leggenda locale prendendo a modello un fedele, viene portato a spalle nude da centinaia di devoti lungo una ripida scalinata invo cando ad alta voce E chi siemu tutti muti, chistu è lu veru patronu! (Stiamo tutti zitti, questo è il vero patrono!). A Palazzolo, san Seba stiano è antagonista di san Paolo. Come sappiamo dal capitolo dedi cato a san Paolo, esistono infatti due fazioni di devoti: i sampaulesi e i sambastianesi, i quali in occasione dei festeggiamenti dedicati al l’uno o all’altro santo riaccendono le antiche rivalità e si affrontano in una gara che consiste nel verificare quale delle due fazioni festeggi il proprio santo nel modo più sfarzoso. Ad Avola, già esistente in età bizantina e araba e poi distrutta dal terremoto, quindi riedificata nel 1695 dal principe Nicolò Aragona Pignatelli, il culto per san Sebastiano risale ad epoca remota. Il paese possiede una chiesa del 1449, ubicata nel quartiere delle Balze e de dicata al culto del santo. Le forme attuali di culto che Avola tributa a san Sebastiano risalgono probabilmente a non oltre la seconda metà dell’Ottocento, così come attesta lo studioso avolese Gubemale, il quale testimonia che «fu nella seconda metà del secolo scorso che la festa ebbe un incremento straordinario, sì da gareggiare con quella di santa Venera, per l’interessamento di alcuni commercianti, fra i quali si distinsero i macellai; certo i macellai sono una classe danarosa e perciò la festa riusciva solenne». Tuttavia il Pitré non riporta alcuna notizia sulla festa di san Sebastiano ad Avola né in Feste patronali né in Spettacoli e fe ste , mentre riferisce di festeggiamenti in suo onore per quanto riguarda altri paesi della provincia di Siracusa. La cele brazione del santo ad Avola risente, per certe manifestazioni di fede, del culto che allo stesso patrono si tributa da secoli a Melilli. Basti pensare all’analogo pellegrinaggio dei devoti, detti nuri, con gli stes si rituali. Fin dall’inizio del secolo, i pellegrini provenivano in gran parte dalla contrada Chiusa di Carlo e precisamente dal luogo dove sorge un’edicola votiva in pietra calcarea con una statuetta del santo. Nel corso degli anni i pellegrini si abbandonarono a manifestazioni esteriori che, secondo il giudizio della Chiesa locale, sembravano più dettate dalla superstizione che da un’autentica fede cristiana: i devoti
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adulti si davano appuntamento alle due di notte per fare il pellegri naggio totalmente nudi, suscitando così l’indignazione dell’istituzio ne ecclesiastica che intervenne nel 1908 tramite il vescovo di Noto, monsignor Blandini. Costui emanò un decreto che impose maggiore compostezza ai pellegrini, dichiarando indecente tale usanza. Per raf forzare tale rimprovero, inoltre, vennero sospesi a divinis i parroci delle chiese locali.
San Silvestro, patrono di Troina. La «kubbaita» Silvestro, nato a Troina intorno al xn secolo, fu ordinato sacerdote da papa Adriano iv. Morì nella stessa Troina, dove si era ritirato vi vendo da eremita. Il suo culto si diffuse soprattutto a causa dei nume rosi miracoli attribuitigli. La tradizione popolare narra ad esempio che il santo guarì dalla lebbra l’imperatore Costantino, convertendolo poi alla fede di Cristo. Il paese di Troina, in provincia di Enna, duran te la conquista normanna divenne un centro importante, tanto che il conte Ruggero vi fondò due monasteri basiliani e la chiesa cattedrale annessa al primo vescovado normanno in Sicilia. I troinesi festeggiano san Silvestro, monaco basiliano, tre volte l’an no. Il primo festeggiamento ha luogo il 2 gennaio, quando il santo vie ne celebrato con la messa solenne nella basilica dedicatagli, al cui in terno è custodita la sua tomba (attribuita a Domenico Gagini). Oltre la messa solenne il santo riceve l’omaggio della pioggia di nocciole lan ciate dal campanile della basilica, comunemente chiamata Vabbiate di nuciddi. La seconda festa ricorre a fine maggio, in coincidenza col f e stino, durante il quale fino al 1575 venivano celebrati la Vergine As sunta e san Nicolò da Tolentino. La coincidenza è dovuta al miracolo compiuto da san Silvestro quando il suo simulacro, portato in proces sione, salvò la popolazione dal pericolo della peste che a quei tempi aveva colpito la Sicilia. Il terzo festeggiamento avviene a settembre, mese in cui per circa quindici giorni si svolge una grandiosa fiera. II festino di maggio comprende: il pellegrinaggio votivo denominato la Ddarata , organizzato dai massari (i contadini); la processione della reliquia ed infine la cavalcata storica, la kubbaita . Il penultimo giove dì di maggio, i fedeli chiamati a raccolta da un suonatore di tamburo si avviano in corteo verso i boschi vicini per compiere il pellegrinag gio votivo. Ogni pellegrino, appena giunto nel bosco, sceglie una pianta di faggio e dopo averla ripulita da rami e da fronde l’adorna con fasci di alloro, fiori, arance, nastri colorati e bambole. Compiuto il rito, i ramari - come vengono comunemente chiamati questi devoti - ritornano al paese a piedi, ognuno con il proprio ramo. Il giorno se guente, in mattinata, i fedeli sfileranno con i rami in processione sino alla piazza del conte Ruggero, dove lasceranno i bastoni appoggiati ai muri delle case per proseguire fino alla chiesa Madre. Lì assisteranno alla funzione religiosa. Il Pitré (Feste patronali , cit., p. 268) racconta di un’usanza praticata per la festa del santo: «I popolani dè vari quar
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tieri [...] si riuniscono, ed a cavallo si recano in un vicino bosco a rac cogliere ciascuno un ramo d’alloro. È la costumanza della sa rd a di Ragusa. Così fomiti, a due a due tornano in Troina, e giunti innanzi la chiesa del Santo spiccano un ramuscello dal ramo e lo gettano sulla porta; indi con una rapida giravolta tornano indietro, sempre a cavallo e col ramo in mano già benedetto». Al termine della funzione religio sa si svolge una gara in cui ogni pellegrino darà prova di abilità ed equilibrio reggendo sul palmo della mano il ramo. I più anziani inve ce si accontentano di assistervi, con i loro rami di alloro sulle spalle. Conclusa la gara, i pellegrini rendono omaggio alla tomba del santo, La domenica mattina ha luogo la Ddarata , cioè il pellegrinaggio or ganizzato dai contadini, armati di fucili e bastoni, a dorso di muli e ca valli bardati sfarzosamente e carichi di rami di alloro. Sabato pomeriggio la reliquia del santo viene portata in processione sino alla basilica di San Silvestro. Il corteo è costituito, oltre che dai fedeli, dai componenti delle undici confraternite: tutti in saio peniten ziale, di colore bianco e con mantelle dai colori vivaci. Ogni confra ternita è preceduta dal suonatore di tamburo e dallo stendardo, ed è seguita dal proprio governatore che sfila in coda accompagnato dai congiunti e da due valletti in costume, mentre al centro un confrate regge un crocefisso d’argento. Le confraternite sfilano su due file, reggendo il cero acceso. I massari a cavallo hanno il compito di rego larne il passo spostandosi avanti e indietro tra le file della processio ne. Dopo le confraternite, viene il clero con il parroco che regge la statuetta d’argento raffigurante il santo e contenente le sue reliquie. Questa processione è la rievocazione storica degli eventi del 1575, anno in cui, per scongiurare la peste, le reliquie di san Silvestro furo no condotte in giro per il paese. La domenica pomeriggio inizia la caratteristica cavalcata della kubbaita , che ha sicuramente origini arabe: da gubbiat, termine che in arabo significa ‘mandorla’ (nome usato per indicare anche un tipico torrone siciliano). Alla cavalcata partecipano molti personaggi che sfilano in costumi cinquecenteschi: trombettieri, tamburini, portainsegne, alabardieri e archibugieri, soldati e cavalieri. Ogni cavaliere è accompagnato da un palafreniere che regge le briglie al cavallo e da un valletto, il quale a sua volta conduce un mulo carico di provviste. Il valletto porta sulle spalle una bisaccia piena di dolciumi, tra cui il ca ratteristico torrone siciliano. La cavalcata di Troina è la rievocazione storica della presa del castello ad opera del conte Ruggero quando, scacciati i saraceni, fece del paese la roccaforte delle sue conquiste in Sicilia. La kubbaita si svolge la prima domenica di giugno e percorre le vie principali, fino ad arrivare in piazza conte Ruggero, dove il cor teo attraversa l’antico passaggio delle mura del castello, che consiste in un arco di legno sormontato da un’aquila dorata. Dopo il passaggio dell’arco, il corteo viene ricevuto dalle autorità civili del paese. Il lunedì i festeggiamenti proseguono con la processione della vara. La statua del santo, avvolta in un abito di rito greco, viene posta su un
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carro di pregevole fattura, opera del xvm secolo, tutto rivestito di la mine d’argento lavorato. Anticamente il simulacro veniva trasportato da circa sessanta portatori e sotto la cornice del fercolo venivano di sposti dei cordoni di seta, ornati da nastri, che servivano a mantenerla in equilibrio. Oggi la vara viene trasportata dai devoti dalla chiesa di San Silvestro alla chiesa madre. I festeggiamenti si concludono il lu nedì sera, con l’esplosione dei fuochi pirotecnici.
San Vito, patrono di Mazara del Vallo. «Lu festinu di santi Vitu» Vito, figlio di un funzionario romano di nome Ila, nacque a Mazara intorno al 286 d.C. Rimasto orfano di madre, fu affidato alle cure del la nutrice Crescenza e del precettore Modesto, che lo educarono alla fede cristiana. Quando il padre scoprì che il figlio era cristiano per punirlo lo consegnò al prefetto Valeriano, ma secondo l’agiografia l’intervento di un angelo lo avrebbe liberato. Assieme a Crescenza e Modesto, Vito decise di lasciare Mazara. Viaggiò fermandosi in Lu cania, in Calabria e in Campania, luoghi in cui predicò la fede di Cri sto. La sua fama, dovuta ai miracoli che operava sui malati, giunse fino a Diocleziano il quale, secondo alcune fonti storiche, ordinò a Vito di recarsi a Roma per liberare la figlia dall’epilessia. Dioclezia no lo ripagò facendolo arrestare e dando ordine che venisse sottopo sto al supplizio dell’olio bollente. Secondo la leggenda il santo fu nuovamente liberato dall’angelo. Poi, accompagnato dai fedeli Cre scenza e Modesto, tornò in Lucania stabilendosi presso la valle del Seie, dove visse e morì. Nell’iconografia popolare è rappresentato con due cani al guinzaglio; in una mano reca la palma del martirio e un libro, mentre con l’altra mano regge una croce. San Vito divenne popolare soprattutto nel Meridione, dove fu anno verato tra i santi ausiliatori a causa delle sue proprietà taumaturgiche. Viene invocato come protettore dei malati di mente e di tutti coloro che soffrono di affezioni psicosomatiche, quali ad esempio il cosid detto “ballo di san Vito”. La tradizione popolare gli attribuisce anche la protezione dal morso dei cani idrofobi, come narra il Pitré (Spetta coli e feste popolari siciliane , cit., pp. 279-280): «La credenza poi è così diffusa e comune che non v’è angolo della Sicilia dove non si sappia, essere S. Vito medico de’ morsi dai cani, e il suo tempio dell’Egitarso teatro di miracoli. Quando il morsicato si presume perico loso di vita, e i mezzi non mancano, il viaggio sino a quel sito è la conseguenza necessaria». Secondo la credenza popolare la guarigio ne si ottiene recitando anche particolari scongiuri o portando l’imma gine del santo, così come viene rappresentato nell’iconografia ac compagnato dai cani al guinzaglio. Lo speciale patrocinio del santo parrebbe risalire al fatto che gli antichi ritenevano che alcune razze canine fossero la reincarnazione degli spiriti irrequieti dei morti, i
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quali sotto spoglie animali vagavano per spaventare gli uomini e per far loro del male. I morsi dei cani idrofobi, secondo un’antica cultura religiosa, erano in grado di trasformare in demoni gli uomini morsi cati. Questo concetto si estendeva anche a tutte quelle malattie che si manifestavano con contrazioni nervose, comunemente chiamate “bai lo di san Vito”. Lu festinu di santi Vitu si svolge a Mazara, capoluogo del Val di Mazara al tempo dei Normanni, nel periodo compreso tra la penulti ma e l’ultima settimana di agosto, in coincidenza con la commemora zione della traslazione di alcune sue reliquie. La celebrazione liturgi ca cade invece il 15 giugno. La festa per il patrono è caratterizzata da due processioni: quella storico-ideale dei quadri viventi (una sacra rappresentazione della vita del santo) e la processione della statua d’argento, che viene posta su un carro trainato dai pescatori e condot ta fino alla chiesetta di San Vito. Le origini del festino risalgono al xvn secolo, quando i giurati di Mazara nominarono san Vito compa trono della cittadina il 23 agosto del 1614. Papa Gregorio xm fissò la data del 15 giugno come ricorrenza liturgica in onore del santo. In un primo tempo il festino venne celebrato in questa ricorrenza, in segui to fu spostato alla seconda metà di agosto in coincidenza con la com memorazione della traslazione delle reliquie del santo, fissata nel 1742 nell’ultima domenica di agosto. Il festino si apre con l ’annun zio, un corteo di personaggi in costumi seicenteschi che, dopo aver reso omaggio alla statua del patrono, sfila per le vie della città al rullo dei tamburi dando la notizia dell’inizio dei festeggiamenti. Il corteo dell’annunzio è formato dall’araldo, da un alfiere a cavallo che reca la bandiera municipale, accompagnato dal palafreniere, dai tamburini e dai trombettieri, da quattro vessilliferi che recano le inse gne dei quattro quartieri storici di Mazara (Torre Bianca, Torre Mar te, San Francesco e San Giovanni) e dal paggio con il rotolo di perga mena, in cui è scritto l’annuncio, che chiude il corteo. Ma la manife stazione più caratteristica del festino è la processione dei quadri vi venti, con personaggi che rappresentano le grandi virtù e l’esperienza di fede di san Vito e dei fedeli Modesto e Crescenza. Apre la proces sione l’immagine dell’antico stemma del paese, seguita dai carri alle gorici. Il primo carro rappresenta una donna che contempla una stella posta su un altare, la stella della fede di cui parla l’Apocalisse. Sul l’altare sono raffigurati i simboli dei quattro evangelisti mentre alcu ne ragazze, che rappresentano le ancelle della fede, reggono un mes sale, un calice, il pane e il vino. Il secondo carro rappresenta la spe ranza, attraverso l’immagine di una donna che si regge ad un’àncora e di una ragazza che tiene una brocca d’acqua, simbolo del primo sa cramento. Il terzo carro rappresenta la fortezza raffigurata da una donna, armata di elmo e spada, che si regge ad una colonna e da quat tro ancelle che recano rispettivamente una corona d’oro simbolo del la vittoria, una veste bianca simbolo del martirio, una lampada sim-
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bolo di Cristo luce della vita e una scala d’oro, grazie alla quale è possibile salire in cielo. La processione continua con i personaggi dei quadri viventi che rap presentano i momenti più importanti della vita del santo: la famiglia di san Vito, Diocleziano con i pretoriani, Valeriano con i soldati, papa Marcellino con i sette diaconi ed infine san Vito con i fedeli Modesto e Crescenza. Chiude la processione il carro con la statua del santo, trainata dai pescatori in costume marinaresco per essere ricon dotta alla chiesa del monastero di San Michele. Il Pitré (Feste patro nali , cit., p. 500) racconta di una manifestazione in onore del santo caduta in disuso: «Un carro a forma di barca su ruote solea anche per correre Mazzara, e sopravi fanciulli che cantavano un inno in onore di S. Vito. È facile riconoscere in questo canto la vecchia frottola, ora dimenticata, di S. Rosalia in Palermo, della Nunziata in Trapani e quella tuttora in uso per S. Agata in Catania». Nel trapanese il culto di san Vito risale sin all’epoca in cui, dopo la morte del santo avvenuta nel 330 d.C., fu eretta una cappella sull’o dierno Capo San Vito, che sin dal x iii secolo era meta di pellegrinag gi. La cappella fu ampliata fino a divenire un santuario dedicato al culto del santo. Si narra che in passato i pellegrini che affrontavano il viaggio correvano il rischio di essere derubati dai pirati che infesta vano la costa. Gli abitanti del luogo allora fecero costruire una fortez za vicino al santuario in modo da poter ospitare i fedeli. All’interno della fortezza vi era un pozzo, chiamato il pozzo di san Vito, la cui acqua, secondo la tradizione popolare, era miracolosa e attorno alla quale sono nate diverse leggende locali. I devoti iniziano le celebra zioni sin dai primi giorni di giugno. La festa cade il 15,giugno, quan do viene rievocato con una solenne processione lo sbarco di san Vito. Dopo aver fatto un giro nelle acque antistanti, un giovane che rappre senta il santo, seguito da altri due personaggi che rappresentano i fe deli Crescenza e Modesto, approda a riva. Il culto di san Vito è diffuso anche a Chiaramonte Gulfi, dove il santo è compatrono assieme a san Giovanni. Come in molti paesi del la Sicilia, in cui vi sono due patroni, anche tra gli abitanti di Chiaramonte esistono rivalità sulle priorità da assegnare ad uno dei due san ti. Il paese, in provincia di Ragusa, fu fondato da Manfredi i Chiaramonte agli inizi del xiv secolo. Popolato anche dagli abitanti di Gulfi, distrutta nel 1299 durante la guerra dei Vespri, mantenne dagli An gioini sino ad oggi il nome attuale. La devozione profonda per il san to è attestata dalla chiesa dedicata a San Vito che è stata costruita in teramente dagli abitanti. Si narra che il campanile sia stato imprezio sito murando tra le pietre l’oro dei diversi ex voto offerti per grazie ricevute. Nella chiesa è custodita la reliquia dell’avambraccio del pa trono. In occasione della processione, dopo una breve sosta al con vento dei francescani, il simulacro viene portato in visita alla chiesa di San Giovanni, come atto di ringraziamento per esservi stato ospi tato per qualche giorno e per esser stato indorato.
Bibliografìa essenziale
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