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L'Autore e la sua produzione scienifica Giovanni Reale è professore ordinario, titolare della cattedra di Storia della filosofia antica presso la Facoltà di lettere e filosofia dell'Università Cattolica di Mi·lano. I suoi studi e la sua produzione scientifica spaziano su tutto l'arco della fiosofia an tic a. Nell'ambito dei Presocratici ha approfondito soprattutto gli Eleati ( Senofane, Parmenide, Zenone e Melisso ), curando dapprima gli agginornamenti sistematici de La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, 1, 3 di E. Zeller e R. Mondolfo, La Nuova lta·lia, Firenze 196 7, e pubblicando in seguito una edizione dei frammenti di Melisso che arricchisce considerevolmente la raccolta del Diels-Kranz, con ampia monografia introduttiva e commentario storico-filologico e filosofico (il primo che finora sia stato fatto): Melissa, Testimonianze e frammenti, La Nuova Italia, Firenze 1970 (Biblioteca di studi superiori, 50). A Platone ha dedicato costante studio. Ha tradotto e commentato una serie di dialoghi per la collana « Il Pensiero » dell'Editrice La Scuola di Brescia: Critone, 1961 ( 1984 11 ); Menone, 1962 (1986 11 ); Eutifrone, 1964 (1984 6 ); Gorgia, 1966 (198Y); Protagora, 1969 ( 19845 ); Fedone, 1970 ( 1986 10 ). Di recente ha pubblicato l'ampio volume: Per una nuova interpretazione di Platone. Rilettura della metafisica dei grandi dialoghi alla luce delle « Dottrine non scritte », Edizioni CUSL, Milano 1986 4 (la prima edizione - provvisoria e parziale - è del 1984 ). Quest'opera è stata insignita del « Premio Fiuggi per la saggistica ·filosofica 1986 ». Ha tradotto dal tedesco e introdotto il volume: Platone e i fondamenti della metafisica di H. Kramer (Vita e Pensiero, Milano 1982; 1987 2 ), appositamente composto da Kriimer su invito del prof. Reaie, a nome del « Centro di Ricerche di Metafisica » dell'Università Cattolica. In questa opera viene inoltre offerta la prima traduzione italiana delle testimonianze antiche sulle « Dottrine non scritte » di Platone. Su Aristotele ha scritto numerosi saggi in riviste e in miscellanee e ha pubblicato i seguenti volumi: Il concetto di filosofia prima e l'unità della Metafisica di Aristotele, Vita e Pensiero, Milano 1961 (l'opera ha avuto unà seconda edizione nel 1965, una terza nel 196 7 e una 4uarta nel 1985 e di recente è stata tradotta in lingua inglese da John R. Catan (State University of New York Press, Albany 1980); Introduzione a Aristotele, Laterza,
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Bari 1974 ( 19864 ), di recente tradotta in lingua spagnola da V. Bazterrica (Editoria) Herder, Barcelona 1985). Per la collana « Filosofi antichi » dehl'Editore Loffredo ha tradotto La Metafisica, 2 voli., Napoli 1968 (1978 2 ), con un'ampia introduzione e un commentario storico-filosofico, il primo sistematico in lingua italiana (la traduzione senza commentario è stata edita anche presso Rusconi, Milano 1978; 19842 ). Nel 1974, per la medesima collana dell'Editore Loffredo, ha curato la prima traduzione italiana del Trattato sul Cosmo per Alessandro, con testo greco a fronte, introduzione e commentario sistematico, suggerendo, sulla base di nuovi argomenti e documenti, l'ipotesi di lavoro che l'opera possa appartenere ad Aristotele, o comunque al primo Peripato. Nell'ambito della filosofia postaristotelica ha approfondito un momento particolarmente importante della storia del Peripato nel volume T eofrasto e la sua aporetica metafisica, ·La Scuola, Brescia 1964, opera che contiene anche la traduzione (la prima in lingua italiana) della Metafisica di Teofrasto, con commentario (l'opera è stata integralmente tradotta da J. Catan ed è stata in parte già edita in appendice al Concetto di filosofia prima, come è stato fatto anche nella quarta edizione italiana di quest'opera). Ha inoltre ristudiato a fondo la figura di Pirrone in un saggio dal titolo: Ipotesi per una rilettura della filosofia di Pirrone di Elide (in AA.VV., Lo scetticismo antico, Bibliopolis, Napoli 1981, pp. 243-336). NeH'ambito della filosofia dell'età imperiale si è occupato di Filone di Alessandria, oltre che con ricerche specifiche, promuovendo la prima traduzione italiana sistematica di tutti i trattati del commentario allegorico alla Bibbia, pubblicati presso l'editore Rusconi, MHano 1978-1987 in vari volumi, di alcuni dei quali ha curato le Introduzioni. Ha curato altresì l'Introduzione, le Prefazioni e le Parafrasi a tutto quanto ci è pervenuto di Epitteto (nel volume Epitteto, Diatribe, Manuale, Frammenti, Rusconi, Milano 1982). Da ultimo, ·ha pubblicato una monografia su Proclo dal titolo L'estremo messaggio spirituale del mondo antico nel pensiero metafisico e teurgico di Proclo, edita come ·saggio introduttivo in: Proclo, I Manuali, Rusconi, Milano 1985 (pp. v-ccxxm ). Inoltre, insieme a Dario Antiseri ha firmato una vasta sintesi in tre volumi: Il pensiero occidentale delle origini ad oggi, La Scuola, Brescia 1983, che ha riscosso un assai vasto consenso, e di cui sono già state pubblicate numerose edizioni.
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GIOVANNI REALE
STORIA DELLA FILOSOFIA ANTICA lll. I SISTEMI DELL'ETA ELLENISTICA Quinta edizione
VITA E PENSIERO Pubblicazioni della V niversità Cattolica Milano 1987
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Prima edizione: ottobre 1976 Seconda edizione: febbraio 1977 Terza edizione: settembre 1980 Quarta edizione riveduta: maggio 1983 Quinta edizione con nuova veste grafico-editoriale: gennaio 1987
La nuova edizione viene pubblicata con contributi del « Dipar· timento di filosofia » e del << Centro di Ricerche di Metafisica >> dell'Università Cattolica
© 1976 Vita e Pensiero · Largo A. Gemelli. l · 20123 Milano ISBN 88-343-2577-X
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SOMMARIO
Avvertenza
XVII
INTRODUZIONE ALLA FILOSOFIA DELL'ETÀ ELLENISTICA
5
l. Le conseguenze spirituali della rivoluzione operata da Alessandro Magno- 2. Genesi e diffusione dell'ideale cosmopolitico - 3. La scoperta dell'individuo - 4. La parificazione fra Greci e barbari e il crollo di antichi pregiudizi razzistici - 5. La trasformazione della cultura ellenica in cultura ellenistica - 6. Il guadagno in estensione e la perdita in profondità ddla filosofia ellenistica - 7. La reviviscenza dello spirito socratico - 8. L'ideale dell'autarchia - 9. L'ideale dell'atarassia - 10. L'ideale del Saggio - 11. La divinizzazione dei fondatori dei grandi sistemi dell'età ellenistica
Parte prima L'ESAURIMENTO DELLE SCUOLE SOCRATICHE MINORI E L'INVOLUZIONE DELLE SCUOLE DI PLATONE E DI ARISTOTELE
Sezione prima l Gli sviluppi delle Scuole socratiche minori e le ragioni del loro declino e della loro scomparsa Diogene «il cane » e gli sviluppi del cinismo l. Diogene e la radicalizzazione del cinismo - 2. La « parresia» e l'« anaideia » - 3. La pratica dell'esercizio (askesis)
1.
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25
VI
SOMMARIO
e della fatica (p6nos)- 4. L'autarchia e l'apatia - 5. Diogene e l'età ellenistica - 6. Cratete e altri seguaci di Diogene 7. Il cinismo fino alla fine dell'età pagana - 8. Valore e limiti del cinismo 11.
Il declino e la fine della Scuola cirenaica
55
l. Le ramificazioni del cirenaismo - 2. Egesia e i suoi seguaci - 3. Anniceride e i suoi seguaci - 4. Teodoro e i suoi seguaci - 5. La fine del cirenaismo
m. Gli sviluppi dialettici della Scuola megarica e la sua dissoluzione
65
l. L'evoluzione della dottrina megarica e le sue caratteristiche - 2. Eubulide e i «paradossi,. megarici - 3. Diodoro Crono e la polemica contro la concezione aristotelica della «potenza» - 4. Stilpone e le ultime affermazioni del megarismo ~ 5. La fine della Scuola megarica · IV.
La rapida dissoluzione della Scttola eliaco-eretriaca
80
Sezione seconda l La prima Accademia e il rapido smarrimento dei guadagni della « seconda navigazione » I. L'Accademia platonica, il suo scopo, la sua organizzazione e la sua rapida decadenza
85
Eudosso di Cnido, un astronomo ospite dell'Accademia
90
11.
l. L'immanentizzazione delle Idee - 2. L'edonismo di Eudosso 111. Eraclide Pontico, un reggente dell'Accademia durante l'assenza di Platone
94
l. Dimenticanza delle realtà intelligibili - 2. Concezione dell'anima - 3. Negazione del geocentrismo IV.
Speusippo, primo successore di Platone
l. Ripudio delle Idee platoniche - 2. I piani della realtà 3. I principi supremi del reale- 4. La conoscenza- 5. L'etica
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98
SOMMARIO
VII
v. Senocrate, secondo successore di Platone
107
1. La tripartizione della filosofia - 2. La dottrina della conoscenza - 3. La fisica (dottrina dei principi) - 4. Interpretazione religiosa del cosmo - 5. L'etica VI. Gli ultimi rappresentanti dell'antica Accademia: Polemone, Cratete e Crantore l. Polemone - 2. Cratete - 3. Crantore
VII.
Conclusioni sull'antica Accademia
116
121
Sezione terza l Il primo Peripato e il rapido smarrimento del senso della dimensione metafisica x. Il Peripato aristotelico, la sua organizzazione e la sua rapida decadenza
125
II.
129
m. Altri discepoli diretti di Aristotele: Eudemo, Dicearco e Aristosseno l. Eudemo- 2. Dicearco- 3. Aristosseno di Taranto
144
Teofrasto e lo smarrimento della componente speculativa l. La metafisica - 2. La fisica e la psicologia - 3. La logica - 4. L'etica - 5. Conclusioni su Teofrasto
IV.
Stratone di Lampsaco, secondo successore di Aristotele l. La fisica - 2. La psicologia
148
v. Conclusioni sul primo Peripato
153
Parte seconda L'EPICUREISMO DALLE ORIGINI ALLA FINE DELL'ERA PAGANA
Sezione prima l Epicuro e la fondazione del «Giardino» La genesi e le caratteristiche del «Giardino» 1. La polemica di Epicuro contro Platone e Aristotele - 2. Il ripudio della « seconda navigazione» - 3. La ripresa dell'atomismo e delle categorie eleatiche di fondo ad esso conI.
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161
SOMMARIO
VIII
nesse- 4. I rapporti fra Epicuro, Socrate e i Socratici minori
- 5. Il ruolo predominante dell'etica - 6. Le finalità del « Giardino » e la loro novità 11.
La canonica epicurea
177
l. La « canonica » come determinazione dei criteri di verità 2. La sensazione e la sua validità assoluta - 3. Le « prolessi » o « anticipazioni» e il linguaggio- 4. I sentimenti di piacere e dolore - 5. L'opinione - 6. Aporie e limiti della canonica epicurea
m. La fisica epicurea
195
l. I fondamenti antologici: le caratteristiche della realtà in quanto tale, i corpi, il vuoto e l'infinito - 2. Gli atomi 3. Le caratteristiche strutturali degli atomi - 4. La dottrina dei « minimi » - 5. Le caratteristiche strutturali del vuoto 6. Il movimento - 7. Il « clinamen » o « declinazione » degli atomi - 8. L'universo e i mondi infiniti - 9. I fenomeni celesti e le loro molteplici spiegazioni - 10. L'anima, la sua materialità e mortalità - 11. I simulacri e la conoscenza 12. La concezione degli Dei e del divino IV.
L'etica epicurea l. Il piacere come fondamento dell'etica - 2. Riforma dell'edonismo cirenaica - 3. La gerarchia dei piaceri e la saggezza - 4. L'ascetismo epicureo e l'autarchia - 5. L'assolutezza del piacere - 6. La relatività del dolore - 7. La morte non è nulla per l'uomo - 8. La virtù epicurea e l'intellettualismo socratico - 9. La svalutazione dello Stato e della vita politica e l'esaltazione del« vivere nascosto» - 10. L'amicizia - 11. Il quadrifarmaco e l'ideale del saggio
234
v. Seguaci e successori di Epicuro
268
Sezione seconda l La diffusione dell'epicureismo a Roma e Lucrezio I. I primi tentativi di introdurre l'epicureismo a Roma e il circolo di Filodemo l. Il tentativo di Alceo e Filisco e il suo fallimento - 2. Il tentativo di Amafinio - 3. Il circolo di Filodemo
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273
SOMMAlliO
IX
n. Lucrezio e il verbo epicureo cantato nella più alta poesia
278
l. Inadeguati giudizi su Lucrezio - 2. Il pessimismo di partenza e la vittoria della ragione in Lucrezio e in Epicuro 3. La verità che lenisce il dolore e dona la pace- 4. I principi del vero epicureo e il canto di Lucrezio - 5. La pietà per il dolore nel canto lucreziano - 6. Senso della vita e della morte
Parte terza LO STOICISMO DALLE ORIGINI ALLA FINE DELL'ERA PAGANA
Sezione prima l Lo stoicismo antico Zenone, la fondazione della Stoa e le diverse fasi dello stoicismo l. L'incontro di Zenone con Cratete e con il socratismo 2. Il ripudio della « seconda navigazione» - 3. Il ripensamento di Eraclito e il concetto di « physis » come fuoco artefice - 4. I rapporti con Epicuro - 5. La genesi della Stoa e il suo sviluppo
1.
11.
La !ripartizione della filosofia e il Logos
m. La logica dell'antica Stoa
305
320 323
l. Il ruolo e le articolazioni della logica stoica - 2. Il criterio della verità: la sensazione e la rappresentazione catalettica - 3. La conoscenza intellettiva, le prolessi e i concetti universali - 4. Gli « esprimibili » ().cuci) e la loro « incorporeità » - 5. La dialettica - 6. La retorica - 7. Conclusioni: i rapporti fra la logica e la realtà La fisica dell'antica Stoa l. I caratteri della fisica stoica e i suoi rapporti con la fisica epicurea - 2. Il materialismo e il corporeismo della Stoa 3. Il monismo panteistico - 4. Lo svuotamento ontologico dell'incorporeo - 5. illteriore determinazione della concezione stoica di Dio e del Divino - 6. Il finalismo e la Provvidenza (Pr6noia)- 7. Il Fato (Heimarméne) - 8. La Necessità e la libertà - 9. Il cosmo e il posto dell'uomo nel cosmo IV.
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350
x
SOMMAlliO
10. La conflagrazione universale e l'eterno ritorno - 11. L'uomo - 12. I destini dell'anima
v. L'etica dell'antica Stoa 388 l. Illogos come fondamento dell'etica- 2. Il primo istinto3. Il principio delle valutazioni: i beni, i mali e gli indifferenti - 4. I valori relativi, i « preferibili » e i «non preferibili » - 5. La virtù e la felicità - 6. La virtù come scienza, la sua unità e molteplicità - 7. Identità della virtù in tutti gli esseri razionali - 8. L'azione retta (kat6rthoma) - 9. Il dovere (kathékon) - 10. Legge eterna e diritto di natura 11. Cosmopolitismo- 12. Le passioni e l'apatia- 13. L'ideale del saggio Sezione seconda l Il medio stoicismo I.
Il medio stoicismo di Panezio
435
l. II nuovo corso impresso alla Stoa da Panezio - 2. Innova-
zioni nelle dottrine fisiche dell'antica Stoa - 3. Dottrine psicologiche - 4. Etica e politica - 5. Ripudio dell'apatia - 6. L'umanesimo di Panezio e il significato della sua filosofia 11.
Il medio stoicismo di Posidonio
446
l. La questione posidoniana - 2. Caratteristiche dello stoi-
cismo di Posidonio - 3. Fisica - 4. Antropologia e morale 5. Le sorti dell'anima - 6. Conclusioni su Posidonio
Parte quarta LO SCETTICISMO E L'ECLETTISMO DALLE ORIGINI ALLA FINE DELL'ETÀ PAGANA
Sezione prima l Lo scetticismo pirroniano e lo scetticismo accademico
La scepsi morale di Pirrone e il pirronismo l. Nascita del movimento scettico - 2. Pirrone e la rivoluzione di Alessandro - 3. L'incontro con l'Oriente e l'influsso dei Gimnosofisti - 4. L'influsso dei Megarici e degli AtomiI.
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465
XI
SOMMARIO
sti- 5. Il rovesciamento radicale dell'antologia- 6. Il pirronismo come sistema pratico di saggezza e le sue tre regole fondamentali - 7. La natura delle cose come indifferenziata apparenza e la natura del divino e del bene- 8. L'atteggiamento che l'uomo deve assumere nei confronti delle cose: l'astensione dal giudizio e l'indifferenza - 9. Il conseguimento dell'afasia, dell'atarassia e dell'apatia - 10. I successori di Pirrone, con particolare riguardo a Timone II.
Tendenze scettiche nell'Accademia con Arcesilao
499
1. La «seconda Accademia» - 2. Impostazione dialettica dello scetticismo di Arcesilao - 3. L'epoché di Arcesilao 4. La dottrina dell'« eulogon » o del «ragionevole» - 5. Il preteso « dogmatismo esoterico » di Arcesilao - 6. Aporeticità e limiti dello scetticismo di Arcesilao
m. Ulteriori affermazioni dello scetticismo nella Accademia
con Carneade
510
1. La« terza Accademia»- 2. Critica del criterio stoico della verità- 3. La dottrina del « pithan6n » o del «probabile» 4. Valutazione della posizione di Carneade
Sezione seconda l L'eclettismo dell'Accademia e Cicerone I.
Le ragioni e le caratteristiche dell'eclettismo
523
Filone di Larissa e la quarta Accademia 529 l. Le cinque Accademie- 2. La novità di Filone- 3. Dal pro-
II.
babilismo dialettico al probabilismo positivo - 4. Origine dell'evidenza- 5. Etica
m. Antioco d'Ascalona e la quinta Accademia
537
1. La posizione di Antioco - 2. Critica dello scetticismo accademico - 3. Logica, fisica ed etica IV.
Cicerone e l'eclettismo accademico a Roma
1. La posizione filosofica di Cicerone - 2. Il probabilismo eclettico ciceroniano - 3. Logica: il criterio della verità 4. Fisica, teologia e psicologia - 5. Etica
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543
SOMMAllJO
XII
CONCLUSIONI SUI SISTEMI FILOSOFICI DELL'ETÀ ELLENISTICA I. I pregiudizi che impedirono la corretta comprensione e l'adeguata valutazione dei sistemi ellenistici 559
11.
Significato della filosofia dell'età ellenistica
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.566
A mio figlio Alberto
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AVVERTENZA
Questo terzo volume della Storia della filosofia antica contiene la trattazione dei sistemi e delle Scuole filosofiche dell'età ellenistica, nell'arco di tempo che va, all'incirca, dall'epoca della grande impresa di Alessandro Magno fino alla fine dell'èra pagana: un periodo, questo, che gli studiosi di filosofia hanno sovente trascurato e scarsamente apprezzato, a causa di una serie di pregiudizi di varia natura (che avremo modo di illustrare) e anche per l'obiettiva scarsità dei documenti (si pensi che solo di pochissimi dei filosofi di questo periodo ci sono giunte opere complete e che della maggior parte di essi possediamo soltanto frammenti e testimonianze, raccolti e sistemati solo in te m pi a noi vicini). Abbiamo cercato di rivalutare i sistemi filosofici sorti e sviluppatisi in questo periodo rileggendo/i secondo una nuova ottica, e tenendo conto di alcuni risultati delle nuove ricerche, che sovvertono gran parte degli schemi tradizionali in cui erano stati imprigionati. Siamo partiti dalla grande spedizione orientale di Alessandro e dall'analisi delle rivoluzionarie conseguenze che essa produsse. La Grecia visse, allora, la più grave crisi spirituale della sua storia, con il crollo della polis e quindi dell'antica tavola dei valori morali e spirituali. Fu precisamente questa crisi che rese improvvisamente inintelligibili i grandi messaggi di Plt~ tone e di Aristotele, al punto che essi divennero muti all'interno delle loro stesse Scuole. L'Accademia postplatonica e il Peripato postaristotelico persero rapidamente il senso delle scoperte metafisiche e addirittura il senso della dimensione speculativa e non seppero dire alla loro epoca una parola adeguata. Parallelamente si esaurirono le Scuole fondate dai Socratici
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AVVERTENZA
XVI
minori», in quanto, pur svolgendo alcune idee rispondenti ai bisogni della nuova epoca, si mostrarono incapaci di dar ragione di esse, e, quindi, di giustificarle e di imporle. I nuovi messaggi spirituali vennero pertanto dalle nuove Scuole che si formarono sul finire del quarto secolo a.C.: vennero dal Giardino di Epicuro, dal Portico di Zenone e dal movimento scettico iniziato da Pirrone. Dopo aver seguito gli ultimi sviluppi delle Scuole socratiche fino al loro esaurimento e dopo aver tratteggiato la progressiva involuzione della prima Accademia e del primo Peripato, abbiamo illustrato la nascita e gli sviluppi dei tre grandi movimenti che costituiscono come le tre grandi linee di forza secondo cui si svolse il pensiero di quest'epoca, vale a dire l'epicureismo, lo stoicismo e lo scetticismo pirroniano e accademico, per concludere con l'eclettismo. Comune a tutti questi sistemi, come vedremo, fu il tentativo di rovesciare gli esiti della platonica « seconda . navigazione » e il conseguente tentativo di ricostruire una visione materialistica della realtà, utilizzando concetti e figure speculative elaborati già in età presocratica, che, come vedremo, comportano tutta una serie di gravi aporie. Non insisteremo tuttavia sulle carenze speculative, logiche e metafisiche, proprie di questi sistemi, come spesso si è fatto, perché ciò finisce per essere di ostacolo alla loro comprensione. Mostreremo, infatti, che le etiche di questi sistemi « sporgono » nettamente sulle <( fisiche » che sono presentate a loro sostegno e che le stesse « fisiche », a loro volta, « sporgono » sulle relative logiche. Le etiche di questi sistemi sono, in realtà, i veri punti di forza. Pertanto, si impone la necessità di rileggere e reinterpretare queste etiche con parametri diversi da quelli usuali. Il problema che si pone, allora, è il seguente: se le logiche e le antologie che vengono presentate c,ome fondamento di queste etiche si rivelano obiettivamente inadeguate, e, al limite, più che fondanti, fondate, o, almeno, derivate da quelle etiche, qual è allora il cespite da cui queste nuove etiche derivano? La nostra tesi - e avremo modo di documentarla con ampiezza - è che queste etiche sono, per così dire, vere e proprie «fedi laiche », sia pure ampiamente ragionate. Esse nascono da intuizioni del senso della vita dapprima emozionalmente colte, e, poi, organicamente svolte e razionalmente sviluppate. È per questo motivo che i messaggi di queste Scuole du«
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XVII
,\\'VERTESZA
rarono per circa mezzo millennio, quast mmterrottamente, ossia assai più di quanto non fossero durati i messaggi di tutte le altre Scuole: essi seppero dire con un linguaggio chiaro e accessibile, che parlava appunto alla « fede » oltre che alla ragione, quale fosse il giusto atteggiamento spirituale da assumere di fronte alle cose, agli uomini e agli Dei, per poter raggiungere l'eudaimonia, la felicità. È ancora questo fatto che spiega come, malgrado la diversità delle logiche e delle fisiche o addirittura malgrado la scettica negazione delle medesime, le differenti Scuole consentissero, tuttavia, su alcuni principi morali fondamentali e sul modo di concepire il « saggio ». Ed è infine questo stesso fatto che spiega perché i fondatori delle Scuole di quest'età siano stati elevati quasi al rango di numi: essi furono, in realtà, in un certo senso, i « santi » di fedi e di religioni laiche. La maturazione delle tesi qui sostenute è avvenuta nell'arco di diversi anni. Dell'Accademia postplatonica (specie di Speusippo e Senocrate) ci siamo a lungo occupati nel redigere il nostro commentario alla Metafisica di Aristotele, il quale, come è noto, polemizza continuamente con questi Platonici ( Aristotele, La Metafisica, 2 voli., Loffredo, Napoli 19782 ). Del primo Peripato ci siamo occupati nel volume Teofrasto e la sua aporetica metafisica (La Scuola, Brescia 1964, in cui presentiamo anche la prima versione italiana con commentario delta Metafisica del filosofo di Ereso). Dello stoicismo tmtico e medio ci siamo occupati in occasione del lavoro: Aristotele, Trattato sul cosmo per Alessandro ( Loffredo, Napoli 1974), che è stato a lungo sospettato di influssi stoici, specie posidoniani (ma che, a nostro avviso, va riportato nell'area del Peripato). Su alcune tesi che sono qui presentate in maniera sintetica siamo ritornati nel frattempo in maniera analitica in altra sede. I n particolare, su Pirrone abbiamo pubblicato un ampio saggio dal titolo: Ipotesi per una rilettura della filosofia di Pirrone di Elide, in AA.VV., Lo scetticismo amico, Bibliopolis, Napoli 1981, pp. 243-336. I n questa edizione abbiamo introdotto tutti gli opportuni riferimenti alte nuove e numerose edizioni critiche dei testi degli autori trattati, che sono state di recente pubblicate, soprattutto nel corso del primo lustro degli anni ottanta. Le novità che ci restano da introdurre nella prossima edizione riguardano gli Accademici antichi riletti alla luce della rivalutazione delle « Dottrine non scritte » di Platone, che abbiamo fatto nel nostro vo-
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AVVERTENZA
XVIII
lume su Platone (1986) e nel secondo volume di quest'opera ( 1987). Nel frattempo, il/ettore le potrà trovare nella nuova edizione dell'Ueberweg, vol. 3 ( 1983), in cui la sezione. sugli Accademici è stata curata da H. Kramer. Per la veste editoriale di questa edizione ringraziamo il dott. S. Raiteri, per le ragioni che abbiamo spiegato nella Prefazione del precedente volume. GIOVANNI REALE
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I SISTEMI DELL'ETA ELLENISTICA
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«Mentre una volta Diogene prendeva il sole nel Craneo, Alessandro sopraggiunto disse: "C h i e d im i q u e l c h e v u o i". E Diogene di rimando: " L a s c i a m i il m i o s o l e " ». Diogene Laerzio, VI, 38
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«Niente basta a colui per il quale ~ poco ci/) che basta». Epicuro, Sentenze Vaticane, 68
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INTRODUZIONE ALLA FILOSOFIA DELL'ETÀ ELLENISTICA
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«Ci grida la carne: non fl1Jer fame, non fl1Jer sete, non aver freddo; se uno ha queste cose e spera di continuare ad averle, può gareggiare in felicit~ anche con Zeus ». Epicuro, Sentenze Vaticane, 33 • xcxl ~xe:!vlt.lll [aeil. TOOII liycx&oov] T?jv e:ù8cxL!.LOII!cxv !.L-IJ 8LOtqlépe:LII Tijt; &e;(cxt; e:ò81XL!.LOII!cxt;, !.l"I)8È TTJII cX!.Le:pLcx!cxv . . • 8Lcxcpépe:LII Tijt; Tou .:1Lòt; e:ù8cxLj.tOV(cxt;, Xcxl XIXTCÌ j.t"l)8~ cx!pe:Tit.lUpCXII e:liiCXL !.llJTE XIXÀÀ(It.l !.llJTE ae:!.LIIOTépcxv T?jv Tou .:1Lòc; e:ù8cxL!.LOIILcXII Tijt; TOOII aocpoov liv8poov •.
« La felicit~ dei buoni non è diversa dalla felicit~ divina, n~ la felicit~ di un momento è diversa dalla felicit~ di Zeus e per nulla la felicit~ di Zetn ~ preferibile, né più bella né più pregevole di quella degli uomini saggi ». Crisippo (von Arnim, S.V.P.,
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III,
fr. '4)
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l. Le conseguenze spirituali della rivoluzione operata da Alessandro Magno
La grande spedizione di Alessandro Magno e la conquista dell'Oriente (334-323 a. C.) produssero una rivoluzione che fu di enorme importanza, non solo per le conseguenze politiche che provocò, ma altresl per tutta una serie di concomitanti mutamenti di antiche convinzioni, i quali determinarono una svolta radicale nella vita dello spirito dei Greci. Fu un avvenimento che fece epoca nel senso più forte dell'espressione, giacché chiuse un'èra e ne apri una nuova. Vediamo puntualmente quali sono i fattori di questa nuova èra, che agirono in modo determinante nel far perdere repentinamente alla problematica filosofica platonica e a quella aristotelica gran parte del loro interesse e nel far nascere nuovi probl~mi, nuove categorie e nuovi parametri per la soluzione dei medesimi, e, in breve, una temperie spirituale radicalmente diversa da quella classica. Il fattore certamente più importante che incise in questo senso fu il crollo della polis. Già il padre di Alessandro, Filippo il Macedone, aveva incominciato a minare i prindpi basilari delle poleis greche, abilmente avvalendosi degli organismi politici che già esistevano per realizzare il suo disegno di predominio macedone sulla Grecia. Pertanto, se Filippo aveva rispettato la polis, lo aveva fatto in modo solo formale, giacché il suo fine era quello di asservirne la libertà alle proprie mire egemoniche. Ma Alessandro distrusse la polis in tutti i sensi, togliendole ogni libertà formale e
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INTRODUZIONE ALLA FILOSOFIA DELL'ETÀ ELLBNISTICA
sostanziale, al fine di realizzare il suo grandioso disegno di una monarchia universale divdna, che avrebbe dovuto riunire insieme non solo Città, ma paesi e razze diverse. E se Alessandro non riusd a mandare a compimento il suo grandioso disegno e a dar forma politica alle sue immense conquiste, che si estendevano su tre continenti, sia perché gli spiriti e i tempi non erano a ciò maturi, sia perché la morte lo colse improvvisamente nel 323 a. C. in troppo giovane età; ebbene, cionondimeno egli inferse con la sua politica un tale colpo alle Città, che esse non ebbero più alcuna possibilità di riprendersi. E cosl, dopo il 323, il potere politico dal dissolto impero di Alessandro passò ai nuovi regni che si formarono in Egitto, in Siria, in Macedonia e a Pergamo, e le poleis cessarono definitivamente di fare storia. I monarchi accentrarono tutto il potere nelle loro mani, non tollerarono alcuna limitazione, si identificarono con lo Stato in modo pressoché totale e per conseguenza cancellarono ogni forma di libertà politica. Di colpo, in tal modo, veniva distrutto quel valore fondamentale della vita spirituale della Grecia classica, che Platone nella sua Repubblica e Aristotele nella sua Politica avevano ad un tempo teorizzato, mitizzato, ipostatizzato e sublimato. E altrettanto improvvisamente queste opere venivano a perdere, agli occhi di chi visse la rivoluzione di Alessandro, il loro significato e la loro vitalità e venivano a collocarsi in una prospettiva lontanissima, in totale distonia con i tempi.
2. Genesi litico
e
diffusione
dell'ideale cosmopo-
Poiché il Greco dell'età classica, come sappiamo, aveva sempre considerato la polis come l'orizzonte unico della vita morale, al di là del quale l'uomo non poteva concepire la pro-
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pria esistenza né in rapporto con gli altri ne m rapporto con sé, avendo identificato quasi per intero l'uomo e il cittadino, è facile comprendere il crollo spirituale che provocò la rivoluzione di Alessandro. L'uomo da cittadino diventa semplice suddito; cessa di valere per il suo antico valore civico, perché tutte le decisioni riguardanti la cosa pubblica sono prese senza il suo contributo; la vita dei nuovi Stati si svolge indipendentemente dai suoi voleri; cadono le ragioni delle sue antiche passioni, si sente improvvisamente vuoto di contenuto. Le « abilità» che contano non sono più le antiche « virtù » civiche, ma un sapere e una tecnica che non possono essere in possesso di tutti, perché richiedono speciali cognizioni e speciali disposizioni. In ogni caso, esse perdono il contenuto etico per acquistarne uno più propriamente professionale. L'amministratore della cosa pubblica diviene un funzionario, il soldato un mercenario, e accanto a questi nasce l'uomo che, non essendo più né l'antico cittadino né il nuovo tecnico, di fronte allo Stato assume un atteggiamento di neutrale disinteresse, quando non di avversione. Vedremo coslla filosofia teorizzare questa realtà in modo esplicito e collocare lo Stato e la politica o fra le cose neutre e moralmente indifferenti, o addirittura fra le cose moralmente negative, perché fonti di ambizioni, di passioni, di preoccupazioni e di inutili turbamenti. Alla rivoluzione della realtà etico-politica classica tien dietro anche un radicale ripensamento concettuale dei valori etico-politici. Anzi, le nuove prospettive filosofiche saranno anche più avanzate e audaci rispetto alla nuova realtà storica; e lo saranno almeno tanto quanto più avanzate e audaci rispetto alla vecchia realtà storica furono, in senso opposto, la Repubblica di Platone e la Politica di Aristotele. Infine, è importante sottolineare un'altra analogia. La monarchia universale e divina non poté essere concretamente realizzata da Alessandro e i regni ellenistici che ne derivarono furono organismi instabili e senza forza morale. Cosi la Grecia non creò, dopo la polis, un nuovo organismo politico vitale
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INTilODUZIONE ALLA FILOSOFIA DELL'ETÀ ELLENISTICA
capace di accendere nuove idealità morali e pol~tiche da sostituire a quelle della polis; nel 146 a. C. perderà addirittura ogni sua libertà, diventando una provincia romana, e l'ideale vagheggiato da Alessandro, in ben più alta forma, verrà realizzato dai Romani con il loro impero. E, come la storia greca, cosl anche la filosofia greca non vide fra la polis e la sua negazione una nuova possibilità concreta e si rifugiò nel cosmopolitismo, superando, ancora una volta, i limiti della storia, e considerando tutto il mondo una Città fino a includere, con gli Stoici, in questa Città non solo tutti gli uomini ma anche gli Dei. E mentre il cosmopolitismo delle vecchie Scuole socratiche era più che altro un paradosso sostenuto in antitesi con la realtà e il pensiero del tempo, il cosmopolitismo dell'età ellenistica diventa tesi dominante senza reale né ideale antitesi. 3. La
scoperta dell'individuo
La rottura dell'identificazione fra uomo e cittadino, oltre al risvolto prevalentemente negativo illustrato, ebbe anche un risvolto positivo: l'uomo, non potendo più chiedere alla Città, all'ethos dello Stato e ai -suoi valori i contenuti della propria vita, fu costretto, dalla forza degli eventi, a chiudersi in se medesimo, e a cercare nel suo intimo nuove energie, nuovi contenuti morali e nuovi scopi del vivere; e, in questo modo, l'uomo si scoprì come individuo. Ha illustrato molto bene questo punto il Bignone: «L'educazione civica del mondo classico formava dei cittadini; la cultura dall'età di Alessandro in poi ha foggiato degli individui. Nelle grandi monarchie ellenistiche i legami e i rapporti fra l'uomo e lo Stato divengono ognor meno stretti e imperiosi; le nuove forme politiche, in cui il potere è tenuto da uno solo o da pochi, sempre più concedono ad ognuno di foggiare a suo modo la propria vita e la propria persona morale, e anche nel-
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le città in cui perdurano, come in Atene (almeno nella forma), gli antichi ordinamenti, l'antica vita civica, ormai degradata, pare sopravviva a se medesima, languida, intimidita, fra velleità di reazioni represse, senza profondi consentimenti negli animi. L'individuo è ormai libero di fronte a se stesso. L'avventuriero in cerca di fortuna è un tipo letterario che i nuovi poeti, come Menandro, Teocrito, Eronda, colgono dal vero e ritraggono con singolare vivacità e simpatia. Le nuove monarchie dell'Asia e dell'Egitto - coi loro fascini di rapide fortune, di favolose ricchezze, con l'occasione data ad ogni audacia singolare, ad ogni ingegno industre di uscire in luce - la facilità di viaggi e di commerci nel penetrato Oriente, traggono a sé i più vari spiriti, offrono loro momentanee patrie mutevoli, ove si addensa una folla che ha per supremi dei la rinomanza o il danaro o l'avventura. Ognuno vale, non più come membro della città in cui è nato, di cui debba dividere la fortuna, la grandezza, la sventura, ma quanto vale il suo ingegno, l'intimo genio dd suo spirito. L'uomo pare tutto ormai: unico artefice del suo valore e del suo destino, signore a se stesso » 1 • Questi rilievi del Bignone vanno peraltro integrati, sottolineando come questa scoperta e questa nuova signoria dell'individuo degenerino altresl nell'individualismo e nell'egoismo, di cui vedremo paradigmatici esempi soprattutto nell'etica di Epicuro e di Pirrone. Un ultimo punto assai importante è ancora da rilevare a questo proposito. La distinzione dell'individuo dal cittadino, l'attenuarsi e ,in certi oasi lo scomparire del senso civico comportarono, in filosofia, come gli studiosi hanno ben notato, la radicale distinzione e la netta separazione fra etica e politica. L'etica classica, che conosciamo, era sostanzialmente basata sul presupposto dell'identità dell'uomo col cittadino e, perciò, essa era impiantata sulla politica o, addirittura, subor' E. Bignone, Il libro della letteratura greca, Firenze
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194~,
p. 413.
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dinata alla politica. Per Platone e per Aristotele sono impensabili sia una etica non politicamente finalizzata, sia una politica non eticamente fondata. Ebbene, per la prima volta nella storia, la filosofia morale, nell'età ellenistica, grazie alla scopert~ dell'individuo, si struttura in modo assolutamente autonomo, basandosi sull'uomo come tale, comiderato nella sua singolarità. Le tentazioni individualistiche ed i cedimenti egoistici di cui abbiamo parlato sono appunto l'esagerazione e l'esasperazione di questa scoperta. 4. La parificazione fra Greci e barbari e il crollo di antichi pregiudizi razzistici
La spedizione di Alessandro era destinata anche a scuotere .alle radici, se non a distruggere interamente, quel radicatissimo pregiudizio razzistico dei Greci, per cui essi pensavano se stessi non solo come superiori ai barbari per quan~ità di doti, ma anche per qualità delle medesime, al punto da ritenere solo se medesimi « per natura » liberi, e da considerare, per contro, i barbari inoapaci «per natura » di cultura, incapaci di libere attività, e, pertanto, « schiavi per natura». Alessandro tentò, e non senza successo, l'enorme impresa dell'assimilazione dei vinti barbari e della parificazione di essi con i Greci. Nel 331 egli faceva istruire migliaia di giovani barbari in base ai canoni della cultura greca e li faceva preparare nell'arte della guerra, al fine di disporre di nuove, fresche forze di ricambio. Nel 324 ordinava che soldati e ufficiali macedoni sposassero donne persiane: e diecimila soldati macedoni e un gruppo di ufficiali si univano in rito nuziale a donne persiane in Siria. Questi sono alcuni degli esempi più clamorosi, che illustrano quell'ideale di parificazione delle razze che verrà costantemente ribadito nell'età ellenistica. Insieme al presupposto razzistico, cadrà anche il presup-
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INTRODUZIONE ALLA FILOSOFIA DELL'ETÀ ELLENISTICA
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posto della radicale distinzione dei sessi, e la donna si avvierà al riconoscimento di alcuni diritti che le erano stati negati fino ad allora: Epicuro accoglierà nel suo Giardino alcune donne a filosofare, e non disdegnerà di aprire la porta addirittura a delle etére, che erano desiderose d~ ritrovare la pace dell'anima. E con la caduta del presupposto dell'esistenza di differenze« per natura» fra uomo e uomo, cadrà anche la base teorica per una qualsiasi giustificazione della schiavitù. Infatti la filosofia, se tollererà la schiavitù come fatto storico, non mancherà di contestarla a livello teoretico: Epicuro non solo tratterà con familiarità gli schiavi, ma li vorrà partecipi del suo insegnamento; gli Stoici insegneranno che la vera schiavitù è solo quella dell'ignoranza e che alla libertà del sapere possono accedere sia lo schiavo sia il suo sovrano: e i due ultimi grandi Stoici saranno, appunto, lo schiavo Epitteto e l'imperatore Marco Aurelio.
5. La trasformazione della in cultura ellenistica
cultura
ellenica
La cultura ellenica, diffondendosi tra tutte le razze e tutti i popoli, divenne ellenistica. E questa diffusione comportò, fatalmente, oltre che una perdita in profondità, altresl una parallela perdita in purezza. Venendo a contatto con tradizioni e credenze diverse, la cultura ellenica doveva assimilarne alcuni elementi, in modo sempre più accentuato. Soprattutto si fecero tosto sentire in modo profondo gli influssi dell'Oriente, come puntualmente verificheremo, a partire da Pirrone e, almeno per certi aspetti, dagli stessi Stoici. E i nuovi centri di cultura quali Pergamo, Rodi, e soprattutto Alessandria con la fondazione della grandiosa biblioteca e del Museo dovuta ai Tolomei, finirono per offuscare la stessa Atene. Anzi, lo stesso baricentro della cultura fini per spostarsi ad Alessandria che, per la sua favorevolissima
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posizione geografica, assorbi gli stimoli spirituali provenienti da tre continenti ed elaborò nei suoi circoli intellettuali una nuova cultura con un suo gusto particolare, che dalla città ebbe nome ·appunto di cultura alessandri.na. Anche dalla Roma militarmente e politicamente vincitrice, che l'ellenismo conquistò a sé, vennero stimoli culturali nuovi, improntati al realismo latino, i quali contribuirono in modo rilevante a creare e a diffondere il &momeno dell'eclettismo. I più eclettici dei filosofi greci furono proprio quelli che ebbero più intensi contatti con i Romani.
6. Il g u a d a g n o i n es t e n si o n e e la p e r d i ta i n profondità della filosofia ellenistica
Come in generale la cultura ellenica, diventando ellenistica, perde il suo originario vigore e la sua primigenia forza, cosi, in particolare, anche la filosofia perde in profondità quanto guadagna in estensione. La perdita avviene proprio nella dimensione della teoreticità e quindi proprio nella forza e nel vigore speculativo. Il guadagno avviene invece nel numero incomparabilmente superiore di persone, cui la filosofia, diventata essenzialmente problema della vita, sa comunicare un valido messaggio. La filosofia diviene infatti la fonte da cui l'uomo ellenistico attinge quei valori che prima attingeva dalla polis e dalla religione della polis: offre nuovi contenuti di vita spirituale, illumina le coscienze, aiuta l'uomo a vivere e gli insegna come essere felice anche nella tragica età in cui vive, nella quale tutti gli antichi valori sembrano sovvertiti. I filosofi dell'età ellenistica sono Sostanzialmente de: moralisti, dei grandi moralisti; sono predicatori di un credo et1cv, sono a loro modo apostoli e missionari. Ma in che cosa consiste, precisamente, la perdita in dimensione teoretica della filosofia ellenistica? A nostro avviso
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essa è riassumibile in una frase: la filosofia ellenistica smarrisce pressoché totalmente il senso della « seconda navigazione » intrapresa da Platone e portata a compimento da Aristotele. L'ellenismo perde cosi il senso della trascendenza, del meta-fisico,' dello spirituale, e non può pensare, quindi, se non con categorie immanentistiche, fisicistiche e materialistiche. Alla metafisica sostitui-sce la fisica, intendendola, presocraticamente, come teoria della physis, e addirittura torna ad attingere alla speculazione dei Presocratici i concetti antologici di base per intendere le cose. Ma - e questo è il punto da rilevare -la filosofia morale dei filosofi dell'ellenismo non nasce dai concetti che essi prendono a prestito dai Presocratici, giacché, come il lettore di questa Storia della filosofia antica ben sa, sulle categorie dei Presocratici non è stata fondata, né sarebbe ·stato possibile fondare, alcuna etica. È da un imme·diato sentimento della vita che dascuno dei grandi capiscuola parte intuitivamente, per poi svolgerlo teoreticamente, cercando nei Presocratici opportune categorie e utilizzando queste, in polemica antitesi col platonismo e con l'aristotelismo, come sussidiari strumenti di chiarificazione e di giustificazione. Ed è per questo motivo che, come vedremo, i concetti morali sporgono decisamente sia sulle dottrine fisiche sia sulle dottrine logiche delle varie Scuole ellenistiche e assumono valenze decisamente autonome rispetto a quelle. Al filosofo ellenistico e ai suoi seguaci, in realtà, importava non la sophia ma la phronesis; importava, cioè, risolvere il problema della vita. E, in effetti, solo una parte esigua di quanto essi dissero e scrissero all'infuori di questo problema ha validità autonoma e significato specifico. Tuttavia, nel risolvere il problema della vita, i filosofi di quest'età crearono qualcosa di veramente grandioso ed eccezionale: l'epicureismo, lo stoicismo e lo scetticismo stabilirono modelli di vita, cui gli uomini continuarono ad ispirarsi per oltre mezzo millennio, e che poi restarono veri e propri paradigmi spirituali per sempre.
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7.
INTRODUZIONE ALLA FILOSOFIA DELL'ETÀ ELLENISTICA
La reviviscenza dello spirito socratico
La concezione della filosofia come «arte del vivere », ossia come saggezza pratica, doveva necessariamente riportare in primo piano le istanze socratiche. Alcune chiarificazioni sono però necessarie per comprendere il significato di questo « ritorno a Socrate ». Socrariche, per la verità, sono tutte le Scuole fondate dai discepoli di Socrate, sia quelle « minori », sia quella « maggiore », ossia la Scuola di Platone (e in certo senso anche quella di Aristotele). Ma, come già i Socratici minori, anche i filosofi dell'età ellenistica considerarono gli sviluppi metafisici e speculativi di Platone (e di Aristotele) come deviazioni dal socl"atismo e come sovracostruzioni inutili e anzi decettive. Tuttavia, come vedremo, neppure i Socratici minori appagarono gli spiriti dell'età ellenistica: essi caddero infatti negli eccessi opposti a quelli rimproverati a Platone, in quanto eliminarono quasi per intero il momento logico e antologico, e cosl privarono i loro sistemi di qualsiasi possibilità di dar conto di se medesimi e di giustificare criticamente i propri asserti. I filosofi dell'età ellenistica cercarono dunque di collocarsi a mezza strada fra le due posizioni giudicate estreme. Non è difficile riconoscere tuttavia che, se dal punto di vista della visione morale della vita i filosofi dell'età ellenistica furono più vicini ·ai Socratici minori, in quanto da essi ripresero numerose idee e le svilupparono .in vario modo, dal punto di vista della struttura del sistema furono più vicini a Platone e ad Aristotele, perché riconobbero che non si può fondare un'etica senza costruire una visione della natura e dell'essere, che Socrate, come sappiamo, riteneva impossibile all'uomo. Predominò, comunque, lo spirito socratico, anche in questo recupero della « ~isica » (che è una « ontologia » vera e propria), nella misura in cui essa venne subordinata all'etica e non fu considerata fine a se stessa.
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1.5
Alla lettera, oltre che allo spirito di Socrate, si ispirò chiaramente Epicuro definendo la filosofia come spirituale arte medica che cura i mali dell'-anima e dichiarando tutto il resto verbalismo inutile. Socratici radicali furono anche gli Stoici, che, identificando la virtù con l'esercizio e l'incremento dellogos che è nell'uomo, ritornarono alla dottrina della virtù-scienza e ad un rigoroso intellettualismo. Socratici s.i considerarono gli stessi Scettici, che videro nella loro scepsi uno sviluppo del dubbio e del non-sapere proclamati da Socrate. Ma profondamente socratica fu soprattutto la convinzione, che costitul come il minimo .comun denominatore di tutti i sistemi dell'età ellenistica, secondo cui il vero filosofo è tale solo se e nella misura in cui sa realizzare una piena coerenza (un'« armonia» e un «accordo» diceva Socrate) fra dottrina e vita, o, meglio .ancora, fra teoria e modo di vivere e di morire. Filosofo non è colui che sa solo pensare e costruire sistemi, ma è soprattutto colui che sa vivere e morire in accordo col suo sistema. Sistema di idee e sistema di vita devono « consuonare » in modo perfetto. I capolavori dei filosofi di quest'epoca non furono solo i loro libri ma furono anche i loro modi di vivere e di morire; anzi furono il pieno accordo e la coerenza fra dottrina e vita, che in maniera paradigmatica Socrate per primo aveva saputo realizzare 2 • 2 Parlando di Pirrone M. Conche (Pyrrhon ou l'apparence, 2ditions de Mégare, Villers sur Mer 1973) ha fatto alcu11i rilievi che valgono perfettamente per tutti i filosofi di quest'epoca, e che mette conto riportare: c L'esigenza greca di saggezza indica ciò che è essenziale alla filosofia. Ogni teoria, in effetti, deve rendersi credibile. Ora non si rende credibile ciò che si dice, aggiungendo indefinitamente parole ad altre parole. Occorre cambiare piano, fornire la prova sperimentale, mostrare che si è filosofi nel modo di vivere e di morire. La filosofia ~ presa nella morsa del dilemma di reStare parola - e di annullarsi infine nel verbalismo - o di essere una saggezza (una vita, una pratica). Una dottrina o teoria filosofica, o non ~ niente, oppure, in ultima analisi, non ~ altro che una pratica di vita, e le possibilità fi-
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8.
INTRODUZIONE ALLA FILOSOFIA DELL'ETÀ ELLENISTICA
L'ideale
dell'autarchia
Le nuove concezioni filosofiche, pur manifestandosi in forme diverse nelle diverse Scuole, presentano tratti comuni e istanze identiche. Esse cercano sostanzialmente un ideale di vita cht ciascun uomo possa perseguire, attingendo le risorse unicamente da se medesimo. L'idea, che già fu di Socrate, e che alcuni suoi seguaci avevano già portato in primo piano, cioè l'idea del bastare-a-se-stessi, diviene or:1 dominante. E questo ben si capisce: in un'epoca in cui tutto rovinava e rapidamente mutava, l'uomo non poteva chiedere agli altri uomini o alle cose alcun punto d'appoggio né alcuna garanzia di sicurezza e doveva pertanto cercare e trovare in sé e solo in sé ciò di cui aveva bisogno. ~ l'ideale della totale autarchia. Anzi, i filosofi di quest'epoca estendono l'istanza di totale affrancamento addirittura nei confronti del Destino, della Tyche, dell'Inevitabile. Pirrone mette in iscacco la Tyche con l'assoluta indifferenza e la totale insensibilità. Zenone e gli Stoici cercano di affrancarsi dal Destino sintonizza:ndosi con esso, cioè facendo dei voleri del Fato il loro stesso volere; Epicuro ride del Destino e lo nega come vana opinione. L'uomo, o meglio l'individuo, viene cosl sciolto da ogni dipendenza e viene quasi assolutizzato. 9.
L'ideale dell'atarassia
Anche il fine morale cui tutte le Scuole fi.losofiche ellenistiche aspirano coincide fondamentalmente. Tutte vogliolosofiche, prese nella loro verità, non sono altro che possibilità di vita. La verità della filosofia è la saggezza, e il saggio è il filosofo la cui vita serve da prova» (p. 25). (Il Conche aggiunge ancora [ivi, nota l]: «Risulta che un filosofo è tutt'altro che un intellettuale. Del resto, se si sta all'idea che ci si fa oggi dell'intellettuale, si deve dire che in Grecia non c'erano intellettuali » ).
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no insegnare come essere felici e tutte identificano la felicità con qualcosa che è più negativo che posi civo, che costituisce più rinuncia che conquista, che implica più amputazioni ed eliminazioni di esigenze umane che non arricchimenti di esse, più un annullarsi che non un accrescersi. Tutte concordano nell'affermare che la felicità sta nell'atarassia, ossia nella pace dello spirito. Pirrone cerca la pace dello spirito nella totale rinuncia, nella piena indifferenza e nella insensibilità; Zenone la cerca nell'apatia, nell'impassibilità, ossia nella soppressione di tutte le passioni dell'animo; Epicuro, infine, la cerca nell'aponia, cioè nella soppressione del dolore fisico e nell'atarassia, cioè nell'eliminazione di ogni turbamento dell'animo. Ma è chiaro che svuotare l'uomo delle umane passioni è svuotarlo di gran parte della sua vita. Inoltre, molti filosofi, per perseguire questa pace, predicano la vita semplice e scoprono la quiete delle campagne e degli alberi, il ritorno all'incontaminata natura e anche alla solitudine. Il motto di Epicuro e degli Epicurei è addirittura: « vivi nascosto ». È l'espressione, questa, del più totale rovesciamento del sentire classico.
10.
L'ideale del Saggio
Comune a tutte le Scuole ellenistiche è anche (e per conseguenza delle cose dette) l'ideale del saggio, che, talora, viene innalzato a vertici addirittura mitici. Il saggio è l'uomo portatore di tutte le virtù che le nuove filosofie riconoscono essenziali per vivere felici, e perciò è l'uomo in sommo grado felice. Il saggio, dicono concordi le nuove filosofie, non ha nulla da invidiare agli Dei, perché la sua felicità non differisce qualitativamente da quella degli Dei: il piacere che Zeus gusta in eterno, dice Epicuro, non può essere altro che quello che noi attingiamo nel tempo, ma che, anche nel tempo, possiamo realizzare in modo perfetto, come
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INTKODUZIONE ALLA FILOSOFIA DELL'ETÀ ELLENISTICA
vedremo. E lo stesso concetto, con altri termini, ripetono gli Stoici: la nostra virtù, in cui consiste la felicità, non è che il retto logos, il quale è identico allogos di Zeus, e anche questo lo vedremo puntualmente. Corazzato di questa saggezza divina, il saggio non ha nulla da temere sulla tena: ·anche fra le fiamme - è questo un comune paradosso di tutte le Scuole ellenistiche - il saggio può essere felice: e lo può essere perché egli è in grado, con la saggezza, quasi di annullare spiritualmente lo stesso dolore che è effetto della fiamma. E poiché, smarrito il concetto del soprasensibile, non è possibile parlare di autentica immortalità e di un aldilà, questi ~ilosofi dichiarano il telos dell'uomo raggiungibile pienamente nell'aldiqua: la sola felicità che esiste è sulla terra; ma (e questo è molto indicativo) è una curiosa felicità, che si ottiene, come già per cenni abbiamo detto e come meglio vedremo nel corso dell'esposizione delle dottrine delle singole Scuole, mediante le più radicali rinunce a ciò che è più squisitamente terrestre. La divinizzazione dei fondatori dei grandi sistemi dell'età ellenistica 11.
Un ultimo punto è caratteristico e significativo. Tutti i capiscuola si avvicinarono notevolmente, nella loro vita reale, all'ideale teoreticamente vagheggiato e predicato: per questo l'impressione che suscitarono sui contemporanei e poi per interi secoli fu di enorme ammirazione e di entusiasmo senza riserve. Di Pirrone scrive il discepolo Timone: O Pirrone, questo il mio cuore desidera apprendere da te, come mai tu, pur essendo uomo ancora, cosi facilmente conduci la vita tranquilla, tu che solo sei guida agli uomini, simile ad un dio 3• • Diogene Laerzio, IX, 65 (traduzione di M. Gigante).
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INTRODUZIONE ALLA FILOSOFIA DELL'ETÀ ELLENISTICA
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E parecchi secoli dopo Timone, scrive ancora Sesto Empirico: O Pirrone, che sei apparso come una grande meraviglia, che più grande nessuna, come un essere straordinario, diverso dagli altri, per aver osato muovere vigorosamente contro tutti i filosofi, oh, quanto fosti ardito!~. Il giorno natale di Epicuro fu consacrato e venne celebrato solennemente dai seguaci. Sempre di Epicuro, in una antica sentenza, si legge:
La vita di Epicuro posta al paragone delle altre, per gentilezza ed intima pace, si stimerebbe leggenda 5• E Lucrezio ancora molto tempo dopo scrive, fra l'altro: Chi mai, dinanzi a tanto sublimi scoperte di veri, potrebbe cantare, sia pure col petto ispirato, un canto degno di quelle? E chi di linguaggio tanta possiede potenza per lodi comporre, al merito pari, di lui che tali donò a noi del suo animo frutti e conquiste? Nessuno, direi, fra i nati di sangue mortale. Giacché, se ben dire si deve tale intendendo chiara maestà del soggetto, un Dio fu quello, un Dio, o illustre Memmio, che primo alla vita trovò quella norma che ora si chiama sapienza, quello che solo in virtù ·della mente tolse la vita dai flutti del bttio e la portò nel sereno, in un calmo chiarore di luce 6• E di Crisippo, secondo fondatore dello stoicismo, scrive Epitteto: • Sesto Empirico, Schizzi pi"oniani, m, 281 (traduzione di O. Tescari). 5 Epicuro, Sentenze Vaticane, 36 (traduzione di E. Bignone, con lievi ritocchi). 6 Lucrezio, De rerum natura, v, l sgg. (traduzione di E. Cetrangolo). Si vedano anche i versi 12-55 che seguono, in cui è svolto, tra l'altro, un pensiero analogo a quello che leggiamo nel passo di Epitteto che esalta Crisippo.
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INTRODUZIONB ALLA FILOSOFIA DELL'ETÀ ELLENISTICA
Oh, la grande fortuna! Oh, il grande benefattore che addita la via! Ebbene, a Trittolemo tutti gli uomini hanno offerto sacrifici e altari, perché ci ha dato cibi ingentiliti, e a chi ha trovato la verità, l'ha rischiarata, l'ha portata a tutti gli uomini - e non la verità che fa vivere, ma quella che fa vivere bene - chi di voi ha elevato, per questo. beneficio, un altare, o dedicato un tempio o una statua, chi si prosterna davanti a Dio per questo beneficio? Perché ci hanno dato la vite e il grano, sacrifichiamo agli Dei, ma perché hanno prodotto nel pensiero umano un frutto cosi bello, grazie al quale dovevano mostrarci il vero sulla felicità, per questo, dico, non renderemo grazie a Dio? 7 • Ci troviamo senza alcun dubbio di fronte a uomini che seppero dire alla loro età la parola di cui c'era bisogno: e fu una parola che non. durò per una breve stagione, ma che varcò interi secoli e che anche all'uomo estroverso di oggi (che vive una crisi che sotto certi aspetti assomiglia alla crisi dell'ellenismo, perché vive una vera rivoluzione della tavola dei valori), se adeguatamente ascoltata, potrebbe avere un preciso messaggio da comunicare.
7
Epitteto, Diatribe, I, 4, 29-32 (traduzione di R. Laurentl).
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PARTE PRIMA
L'ESAURIMENTO DELLE SCUOLE SOCRATICHE MINORI E L'INVOLUZIONE DELLE SCUOLE DI PLATONE E DI ARISTOTELE
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« Questi filosofi ricordano i vecchi interpreti di
Omero, i quali vedevano le piccole somiglianze e non si accorgevano di quelle grandi». Aristotele, Metafisica, N 6, 1903 a-26-28
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SEZIONE PRIMA
GLI SVILUPPI DELLE SCUOLE SOCRATICHE MINORI E LE RAGIONI DEL LORO DECLINO E DELLA LORO SCOMPARSA
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« Platone, inte"ogato su che cosa pensasse di Diogeue, rispose: "~ un So c rate i m p a%% i t o"». Diogene Laerzio, VI, 54 Eliano, Var. bist., xiv, 33
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I. DIOGENE «IL CANE» E GLI SVILUPPI DEL CINISMO
l.
D i o gene e l a radi c aliz zaz i o-ne del . d ni's m o
Il fondatore del cinismo fu Antistene, come abbiamo visto nel primo volume 1; tuttavia toccò a Diogene di Sinope 2 ' Cfr. il vol. I, pp. 390-402. Ricordiamo che l'edizione di riferimento delle testimonianze e dei frammenti di 'Diogene e degli altri Cinici antichi è quella di G. Giannantoni, Antisthenis, Diogenis, Cratetis et Cynicorum velerum reliquiae, contenuta in: Socraticorum R.eliquiae, 4 voli., Edizioni dell'Ateneo, Roma 1983-1985, vol. n, v A-v N. 2 Diogene nacque a Siriope. Il padre lcesio fu un banchiere e, secondo alcune fonti, fu responsabile di aver alterato la moneta corrente e fu cacciato in esilio con la famiglia (dr. Diogene Laerzio, VI, 20 = Giannantoni, v B, 2). Secondo altre fonti fu Diogene stesso a battere moneta falsa (ed egli stesso lo avrebbe ammesso), e, per conseguenza, fu condannato all'esilio, o, prima ancora di essere condannato, fuggi (ibidem). Soggiornò a lungo ad Atene, ma anche a Corinto, dove morl. La cronologia di Diogene è piuttosto controversa. Le date più attendibili restano tuttavia quelle indicateci da Diogene Laerzio, il quale ci informa che il nostro filosofo « era vecchio nella cxm Olimpiade [ossia nel 328-325 a. C.] ,. (VI, 79 = GianGiannantoni, v B, 92), che morl «all'età di novanta anni circa,. (VI, 76 nantoni, v B, 90), e addirittura che mori a Corinto nello stesso giorno in cui Alessandro morl in Babilonia [ = 323 a. C.] ,., (VI, 79 = Giannantoni, v B, 92). Secondo alcuni studiosi moderni la notizia secondo cui Diogene sarebbe stato venduto come schiavo (cfr. Diogene Laerzio, VI, 29 sgg. = Giannantoni, v B, 70) è un'invenzione del Cinico Menippo (dr. sotto, nota 75). Che Diogene sia stato discepolo di Antistene le fonti antiche lo dicono chiaramente (dr. Giannantoni, v B, 17-24). Diogene Laerzio ci narra addirittura come sarebbe avvenuto l'incontro dei due filosofi: « Giunto ad Atene si imbatté in Antistene. Poiché costui, che non voleva accogliere nessuno come alunno, lo respingeva, egli, assiduamente perseverando, riuscl a spuntarla. Ed una volta che Antistene allungò il bastone contro di lui, Diogene gli porse la testa, soggiungendo: ..Colpisci pure, ché non troverai un legno cosi duro che possa farmi desistere dall'ottenere che tu mi dica
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L'ESAUUMJ!NTO DELLE SCUOLE SOCilATICHB MINO:U
la ventura di diventare il rappresentante più tipico, e quasi il simbolo di questo movimento spirituale. Infatti Diogene non solo portò le istanze sollevate da Antistene alle estreme conseguenze, ma le seppe far diventare sostanza di vita con un rigore e con una coerenza cosi radicali, che per interi secoli furono considerati veramente straordinari. Diogene infranse l'immagine classica dell'uomo greco e quella nuova che egli propose fu tosto considerata come un paradigma: infatti l'età ellenistica (e in parte la stessa età imperiale) riconobbe in essa l'espressione delle proprie esigenze di fondo, o, almeno, di una parte essenziale di queste. La celebre frase « cerco l'uomo » 3 , che, come ci viene riferito, Diogene pronunciava camminando con la lanterna accesa in pieno giorno, con evidente provocatoria ironia, voleva significare appunto questo: cerco l'uomo che vive secondo la sua più autentica essenza, cerco l'uomo che al di là di tutte le esteriorità, di tutte le convenzioni o di tutte le regole imposte dalla società e al di là dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente ad essa e cosi è felice, come dice la seguente testimonianza: {Diogene il Cinico] andava gridando ripetutamente che gli dèi hanno concesso agli uomini facili mezzi di vita ma anche tuttavia li hanno tolti dalla vista umana [ ... ] 4• Il compito che Diogene si propose fu appunto quello di riportare alla vista quei facili mezzi di vita, e di dimostrare qualcosa, come a me pare che tu debba". Da allora divenne suo uditore, ed esule qual era si dedicò ad un moderato tenore di vita» (VI, 21 Giannantoni, vB, 19). [Qualcuno sostiene che sia stato Diogene il vero fon· datore del cinismo; ma è questa una tesi che non regge, come già nel vol. I (pp. 400 sgg.) abbiamo dimostrato: Antistene è fondatore del cinismo teorico e Diogene del cinismo pratico, ma il nucleo essenziale del pensiero di Diogene c'è già in Antistene]. A Diogene sono attribuiti numerosi scritti, dei quali nessuno ci è pervenuto (cfr. Giannantoni, v B, 117 sg.). • Cfr. Diogene Laerzio, VI, 41 ( Giannantc:.ni, v B, 272). • Diogene Laerzio, VI, 44 ( Giannantoni, v B, 322).
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DIOGENE E GLI SVILUPPI DEL CINISMO
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che l'uomo ha sempre a sua disposizione ciò che occorre per essere felice, purché sappia rendersi conto delle effettive esigenze della sua natura. Per Socrate (come abbiamo veduto con ampiezza nel primo volume) la natura dell'uomo era la sua «anima», intesa come intelligenza e coscienza 5 ; già in Antistene questa prospettiva, pur essendo chiaramente ribadita, tuttavia vacilla 6 ; in Diogene le istanze naturalistiche (e potremmo dire anche materialistiche) prendono il deciso sopravvento. Per la verità, l'eco della dottrina socratica dell'anima si sente ancora: egli addita nell'« armonia dell'anima» lo scopo della vita morale e nella «·salute dell'anima» 7 lo scopo dello stesso « esercizio fisico », di cui sotto diremo 8 ; tuttavia egli svuota di contenuto tali affermazioni, da un lato, nella misura in cui toglie ogni consistenza a quello che per Socrate era il solo nutrimento dell'anima, ossia alla scienza e alla cultura, e, dall'altro lato, nella misura in cui gli elementari bisogni dell'essere animale finiscono, ai suoi occhi, per diventare i fondamenti da cui egli desume le regole del vivere. Per quanto concerne il primo punto, è da rilevare quanto segue. Le matematiche, la fisica, l'astronomia e la musica sono per lui «inutili e non necessarie» 9 • Assurde sono, per lui, anche le costruzioni metafisiche: le Idee platoniche non esistono, perché non sono attestate dai sensi e dall'esperienza 10 • Ma anche la dialettica socratiica con tutti • Cfr. vol. 1, pp. 300·311. 6 Cfr. vol. 1, pp. 391 sg. 7 Diogene Laerzio, vx, 27, 58, 65, 70 (= Giannantoni, vB, 374, 397, 319, 291). ' Cfr. il § 3. ' Diogene Laerzio VI, 73 ( = Giannantoni, v B, 370). •• « Discorrendo Platone intorno alle Idee e usando "tavolinità" e "coppità" invece di "tavole" e "coppa" Diogene disse: "Io, o Platone, vedo la tavola e la coppa; ma le Idee di tavola e di coppa non vedo". E Platone: "! giusto. Hai gli occhi per vedere la coppa e la tavola: non hai la mente per vedere le Idee di tavola e coppa" ,. (Diogene Laerzio, VI, 53 = Gian· nantoni, vB, 62).
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L'BSAUIUMENTO DBLLB SCUOLE SOCRATICHB MINORJ
i suoi complessi procedimenti ironici e maieutici e con tutte le sue implicanze è abbandonata: il concreto modo di vivere (l'impegno esistenziale, potremmo dire con linguaggio moderno) viene anteposto ad ogni dottrina e ad ogni procedimento razionale. Certi comportamenti e certe azioni paradossali, come ad esempio il già ricordato girar di giorno con la lanterna accesa o l'entrare in teatro quando gli altri uscivano 11 , vengono usati come arma maieutica, e preferiti al paradosso intellettuale e all'arma concettuale. Il cinismo con Diogene e dopo Diogene diventa la più « anticulturale » delle filosofie che la Grecia e l'Occidente abbiano conosciuto. Per quanto concerne il secondo punto sopra menzionato, ossia lo sporgere dell'aspetto animalesco dell'uomo su quello spirituale come regola di vita, è molto indicativa una testimonianza che attinge da Teofrasto, che conosceva bene il pensiero di Diogene: Racconta Teofrasto nel suo Megarico che una volta [Diogene] vide un topo correre qua e là, senza mèta (non cercava un luogo per dormire né aveva paura delle tenebre né desiderava alcunché di ciò che si ritiene [scii.: comunemente] desiderabile) e cosi escogitò il rimedio alle sue difficoltà 12 • Dunque, è un ·animale che addita al Cinico il modo di vivere: un vivere senza mete (senza le mete che la società propone come necessarie), senza bisogno di casa e di fissa dimora, e senza il conforto delle comodità offerte dal progresso. Ed ecco come Diogene lo mette in pratica: Secondo alcuni [Diogene] fu il primo a raddoppiare il mantello per la necessità anche di dormirci dentro, e portava una bisaccia in cui raccoglieva le cibarie; si serviva indifferentemente di ogni luogo per ogni uso, per far colazione o per dormirci o per conversare. E soleva dire che anche gli Ateniesi gli avevano procurato dove potesse dimorare: indicava il portico di Zeus e Il
12
ar. Diogene Laerzio, VI, 64 = Giannantoni, v B, 267). Diogene Laerzio, VI, 22 (= Giannantoni, v B, 172).
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DIOGENE E GLI SVILUPPI DEL CINISMO
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la sala delle processioni. [ ... ] Una volta aveva ordinato ad un tale di provvedergli una casetta; poiché quello indugiava, egli si scelse come abitazione una botte che era nel Metroo, come attesta egli stesso nelle Epistole 13 . Il parametro di vita del Cinico è il comportamento dell'animale interpretato dalla ragione umana: e il comportamento dell'animale, se ben inteso dalla ragione, dice appunto che quasi tutte le cose che l'uomo ricerca e fa sono determinate dalle convenzioni sociali e, dunque, non naturali e, pertanto, superflue 14 • È appena il caso di rilevare come questa posizione risulti fortemente aporetica o, quantomeno, assai ambigua: infatti, non è la vita dell'animale in quanto tale, ma è piuttosto la ragione che la interpreta il vero parametro. Inoltre, fra il comportamento dell'animale e quello dell'uomo c'è un vero abisso: c'è l'abisso della libertà e della scelta, che rende il primo incommensurabile rispetto al secondo. Ma Diogene ne è in certa misura consapevole, tanto è vero che pone proprio nella libertà il principio e il fine del suo sistema di vita. Ci viene infatti riferito: Modello della sua vita, egli [scii.: Diogene] diceva, fu Eracle che ltulla antepose alla libertà (4M:u&ep!ot) 15 • Natura e libertà, per lui, !ungi dall'essere in antitesi, sembrerebbero paradossalmente coincidere. Del resto, i concetti cardinali del suo pensiero esprimono non altro che i modi in Diogene Laerzio, VI, 22 sg. ( = Gian.nantoni, v B, 174 ). Diceva che tutte le maledizioni tragiche si erano abbattute su di lui in quanto era « senza città, senza tetto, bandito dalla patria, mendico, errante, alla ricerca quotidiana di un tozzo di pane » (Diogene Laerzio, VI, 38 = Giannantoni, v B, 263 ): ma lo diceva con evidente ironia, giacché, per lui, queste sciagure non costituivano innaturali privazioni, ma naturali condizioni dell'uomo, spogliato del superfluo. " Diogene Laerzio, VI, 71 ( = Giannantoni, v B, 291). 13 14
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L'ESAURIMENTO DELLE SCUOLE SOCRATICHE MINORI
cui questa libertà prende corpo, oppure i mezzi per raggiungerla o fortificarla 16 • Esaminiamo analiticamente questi concetti.
2.
La « parres{a » e l'« ana{deia » In primo luogo Diogene proclamò la libertà di parola
(7totppl)a(cx):
Interrogato quale fosse la cosa più bella tra gli uomini disse: « La libertà di parola » 17 • Il Cinico dice ciò che pensa a tutti, e anche nel modo più caustico, senza alcuna discriminazione, sia che si tratti di un semplice uomo comune, sia che si tratti di un famoso filosofo, sia che si tratti di un potente re: notissime nella antichità furono le sue mordaci risposte a Platone, a Filippo e al grande Alessandro. Ecco uno degli esempi più eloquenti, riferitoci da Diogene Laerzio:
Lo stoico Dionisio racconta che dopo Cheronea fu catturato e condotto a Filippo. A Filippo che gli chiese chi fosse, replicò: «Osservatore della tua insaziabile avidità». Per questa battuta riscosse la sua ammirazione e fu rimesso in libertà 18 • Insieme alla libertà di parola Diogene proclamò la libertà delle azioni, una libertà spinta, talora, fino al limite dell'impudenza e, addirittura, della licenza (&.vcxl8eLcx). Con questa libertà di azione egli intese dimostrare la mera convenzionalità e quindi non-naturalità di certi usi e costumi greci; 16 I suoi stessi atteggiamenti di contestazione e il suo comportamento eslege sono molto ·spesso dettati da un esasperato desiderio di illimitata libertà. ''Diogene Laerzio, vt,-69 (= Giannantoni, vB, 473). 11 Diogene Laerzio, vi, 43 ( = Giannantoni, v B, 27).
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DIOGENE E GLI SVILUPPI DEL CINISMO
ma, più di una volta, insieme ad essi, travolse, in realtà, anche le più elementari norme di decenza (la identificazione aporetica della natura animale dell'uomo con la libertà di cui sopra abbiamo detto è indubbiamente alla base della indiscriminata anaideia diogeniana). A questo riguardo ci viene espressamente riferito quanto segue: Era solito fare ogni cosa alla luce del giorno, anche ciò che riguarda Demetra e Afrodite 19 • Rimproverato una volta perché mangiava nella piazza del mercato, replicò: «Anche nella pia?..za del mercato ebbi fame» 20 • Amava discutere e concludere nel seguente modo: «Se far colazione non è strano, neppure nella piazza del mercato è strano. Non è strano far colazione; dunque non è neppure strano fare colazione nella piazza del mercato » 21 • Ma l'anaideia di Diogene si spinse ben al di là della contestazione delle regole della convenienza imposte dalla società greca, come dimostrano queste altre testimonianze: Durante un convito alcuni gli gettarono le ossa come ad un cane. Diogene andandosene ci orinò sopra, come un cane 22 • Una volta un tale l'introdusse in una casa sontuosa e gli proibiva di sputare. Diogene allora si schiarl profondamente la gola e gli sputò in faccia, dicendo di non aver saputo trovare un luogo peggiore 23 • Era solito masturbarsi in luogo pubblico e considerare: «Magari potessi placare la fame, stropicciandomi il ventre » 24 • Quest'ultima testimonianza, per la verità, non ha quel " Diogene Diogene 21 Diogene 22 Diogene 22 Diogene 24 Diogene 20
Laerzio, Laerzio, Laerzio, Laerzio, Laerzio, Laerzio,
VI, VI, VI, VI, VI, VI,
= = = =
69 ( Giannantoni, v B, 147). 58 ( = Giannantoni, v B, 186). 69 ( Giannantoni, v B, 147). 46 ( Giannantoni, v B, 146). 32 ( Giannantoni, v B, 236). 69; dr. VI, 46 ( Giannantoni, v B, 147).
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L'ESAURIMENTO DELLE SCUOLE SOCRATICHE MINORI
significato perverso che, di primo acchito, le si potrebbe attribuire. Essa si inquadra nella polemica, già iniziata da Antistene, contro Eros e Afrodite: Antistene voleva « saettare Mrodite », ossia distruggere le illusioni di cui gli uomini ammantano i piaceri d'amore, per mostrarne la vanità 25 ; Diogene, con gesto volutamente spinto all'estremo dell'impudenza, vole.va raggiungere lo stesso obiettivo e le parole con cui accompagnava il gesto ne sono la più eloquente conferma. Ed ecco alcuni giudizi di Diogene, che non solo rivelano i fondamenti teoretid dell' anaideia, ma. definiscono in maniera eloquente l'animo sostanzialmente anarchico del cinismo, il quale parte da una corretta e motivata contestazione di ciò che si regge solo sulla convenzione, ma poi, nel suo impetuoso procedere, perde rapidamente il senso del limite e finisce per calpestare e travolgere, oltre le convenzioni, la stessa « natura »: Volgeva in ridicolo la nobiltà di natali, la reputazione e simili, giudicandoli appariscenti ornamenti del vizio [ ... ] 26 • Non trovava affatto strano rubare qualcosa da un tempio o toccare la carne di qualsiasi animale; né riteneva un'empietà mangiare carne umana, come era chiaro che facevano alcuni popoli stranieri 27 •
E come motivazione di quest'ultimo asserto egli adduceva la nota dottrina anassagorea secondo cui tutto è in tutto, nel senso che gli elementi di ogni cosa sono contenuti in ogni cosa, per cui la carne di un animale non può naturalmente distinguersi da quella dell'uomo 28 • E questo dimostra ad abundantiam la portata delle conseguenze che dipendono dallo smarrimento del vero significato del concetto socra25 26
27
21
Cfr. vol. 1, pp. 397 sg. Diogene Laerzio, VI, 72 ( = Giannantoni, v B, 353). Diogene Laerzio, VI, 73 ( = Giannantoni, v B, 132). Ibidem.
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DIOGENE E GLI SVILUPPI DEL CINISMO
tico della psyche, pur chiamato in causa non infrequentemente da Diogene 29 •
3. La pratica dell'esercizio (askesis) e della fatica (p6nos) Il metodo che può condurre alla libertà e alla virtù e quindi alla felicità si riassumeva, per Diogene, nei due concetti essenziali di «esercizio» (&.crxljcrLc;) e di «fatica» (7t6voc;), che consistevano in una pratica di vita atta a temprare il fisico e lo spirito alle fatiche imposte dalla natura, e, insieme, atta ad abituare l'uomo al dominio dei piaceri, e, anzi, al « disprezzo » dei medesimi: Diceva [Diogene] che l'esercizio è duplice, spirituale e fisico. Nella pratica costante dell'esercizio fisico si formano pensieri che rendono più spedita l'attuazione della virtù. L'esercizio fisico si integra e si compie con l'esercizio spirituale. La buona condizione fisica e la forza sono gli elementi fondamentali per la salute dell'anima e del corpo. Portava delle prove per dimostrare che l'esercizio fisico contribuisce alla conquista della virtù. Egli osservava che sia gli umili artigiani che i grandi artisti avevano acquistato notevole abilità dal costante esercizio della loro arte, e che gli auleti e gli atleti dovevano la loro preminenza ad un assiduo e travaglioso impegno. E se costoro avessero trasferito il loro impegno anche all'anima, avrebbero conseguito risultati utili e concreti. Sosteneva perciò che nulla si può ottenere nella vita senza esercizio, anzi che l'esercizio è l'artefice di ogni successo. Eliminati dunque gl'inutili sforzi, l'uomo che sceglie le fatiche richieste dalla natura vive felicemente; l'inintelligenza degli sforzi necessari è la causa dell'umana infelicità. Lo stesso disprezzo del piacere per chi vi sia abituato è cosa dolcissima. E come quelli che sono avvezzi a vivere nei piaceri mal volentieri passano ad un contrario tenore di vita, cosl quelli che si sono esercitati in modo contrario, con maggior disinvoltura diprezzano gli stessi piaceri 31 • Cfr., sopra, la nota 7. "' Diogene Laerzio, VI, 70 sg.; cfr. B, 291, 174, 176). 29
VI,
23 e 34 (
= Giannantoni,
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v
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L'ESAURIMENTO DELLE SCUOLE SOCRATICHE MINORI
Questo disprezzo del piacere, che già era predicato da Antistene, è fondamentale nella vita del Cinico, giacché il piacere non solo rammollisce il fisico e lo spirito, ma mette in pericolo e distrugge la libertà, rendendo l'uomo in vario modo schiavo delle cose e degli altri uomini, e quindi rendendo impossibile la realizzazione di quell'autarchia e di quell'apatia, che costituiscono la suprema aspirazione del saggio. E non meno del distacco dal piacere, per Diogene, è fondamentale l'affrancamento dalle passioni. A questo proposito egli diceva: Gli stolti sono schiavi delle passioni, come droni 31 •
4.
L'autarchia
e
servi dei pa-
l'a p a t i a
Da quanto fin qui abbiamo detto risulta evidente come, per Diogene, l'ideale supremo fosse il bastare-a-se-stessi, il non-aver-bisogno-di-nulla, quell'« autarchia » già predicata dal maestro, nonché l'« apatia » e l'« indifferenza » di fronte a tutte le cose. Riferisce Diogene Laerzio: Talvolta [i Cinici] si cibano soltanto di erbaggi e in ogni modo bevono soltanto acqua fresca; ogni alloggio è buono, anche una botte, in cui viveva Diogene, il quale era solito dire che è proprio degli dèi non aver bisogtzo di nulla, di chi è simile agli Dei aver bisogno di poco 32•
E ancora: Lodava quelli che stavano per sposare e non sposavano, quelli che stavano per intraprendere un viaggio marittimo e vi rinunciavano, quelli che stavano per dedicarsi alla vita politica e non •• Diogene Laerzio, 11 Diogene Laerzio,
VI, VI,
66 ( = Giannantoni, v B, 318). 104 ( Giannantoni, v A, 135).
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DIOGENE E GLI SVILUPPI DEL CINISMO
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vi si dedicavano, quelli che volevano crearsi una famiglia e non se la creavano, e quelli che si accingevano a vivere insieme con i potenti e poi se ne astenevano 33 • E infine: Una volta vide un fanciullo che beveva nel cavo delle mani e gettò via dalla bisaccia la ciotola dicendo: «Un fanciullo mi ha dato lezione di semplicità». Buttò via anche il catino, avendo pure visto un fanciullo che, rotto il piatto, pose le lenticchie nella parte cava di un pezzo di pane 34 • Ma, meglio di ogni altro, esprime il significato dell'autarchia diogeniana il seguente episodio, davvero stupendo e davvero emblematico: Mentre una volta [Diogene] prendeva il sole nel Craneo, Alessandro sopraggiunto disse: «Chiedimi quel che vuoi». E Diogene di rimando: « Lasciami il mio sole » 35 • Della stragrande potenza di Alessandro Diogene non sapeva che farsene: gli bastava, per essere contento, il sole, che è la cosa più naturale, a disposizione di tutti: o meglio, gli bastava Ja profonda convinzione dell'inutilità di quella potenza, giacché la felicità viene dal di dentro e non dal di fuori dell'uomo. All'esasperato desiderio di indipendenza autarchica si ricollega indubbiamente anche la contestazione dell'istituzione del matrimonio e la sostituzione di esso con la convivenza libera di uomo e donna: A Diogene fu chiesto in quale età bisogna sposare. La sua risposta fu questa: «Quando si è giovani non ancora, quando si è vecchi mai più » 36 • Diogene Diogene • Diogene • Diogene :ss
14
Laerzio, Laerzio, Leerzio, Laerzio,
VI, VI, VI, VI,
29 37 38 54
= Giannantoni, v B, 297). = Giannantoni, v B, 158). Giannantoni, v B, 33 ). = Giannantoni, v B, 200).
( ( (= (
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L'ESAURIMENTO DELLE SCUOLE SOCRATICHE MINORI
Ammetteva la comunanza delle donne, non riconosceva il matrimonio, ma la convivenza concordata fra uomo e donna. In conseguenza, anche i figli dovevano essere comuni'~~. Naturalmente il saggio cinico non ha bisogno neppure di una Città o di uno Stato. In effetti Diogene, pur riconoscendo una utilità a quell'ordinata comunità che è la Città 38 , asseriva che l'unica costituzione retta è quella che regge l'universo, e, quindi, si proclamava «cittadino del mondo» 39 • Infine Diogene sosteneva che il saggio non ha bisogno neppure di aiuti divini, né di premi ultraterreni, pur credendo che la Divinità esiste e che tutto è pieno della sua presenza 40 • È chiaro come, sulla base di queste convinzioni, Diogene,
per vivere, dovesse chiedere agli altri ciò che gli occorreva e addirittura mendicare: ma egli chiedeva non già con l'umiltà di chi ha bisogno, ma con la fierezza e anzi con l'alterigia di chi ritiene a lui dovuto ciò che chiede: Quando aveva bisogno di danaro, si rivolgeva agli amici dicendo che non lo chiedeva in dono, ma i1z restituzione 41 • '
E inoltre giustificava il suo atteggiamento con questo ragionamento: Tutto appartiene agli dèi; i sapienti sono amici degli dèi; i beni degli amici sono comuni. Perciò i sapienti posseggono ogni cosa 42 • Diogene, forse per primo, adottò, per autodefinirsi, il termine «cane», vantandosi di questo epiteto che i nemici ., Diogene • Ibidem. " Diogene .. Diogene •, Diogene ... Diogene cfr. 353).
Laerzio,
VI,
72 ( = Giannantoni, v B, 353).
Laerzio, VI, 63 ( = Giannantoni, v B, 355). Laerzio, VI, 37 ( = Giannantoni, v B, 344) . Laerzio, VI, 46 ( = Giannantoni, v B, 234 ). Laerzio, VI, 37; cfr. VI, 72 (= Giannantoni, v B, 344;
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DIOGENE E GLI SVILUPPI DEL CINISMO
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gli rivolgevano per disprezzo, e spiegando che si chiamava cane per questi motivi: Scodinzolo festosamente verso chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente, mordo i ribaldi 43 • Egli, interrogato che razza di cane fosse, precisò altresì quanto segue: Quando ho fame, un Maltese, quando sono sazio un Molosso, di quelle specie dunque che i più lodano ma con cui tuttavia non hanno il coraggio di uscire a caccia per tema di fatica. Cosl voi non potete convivere con me, perché avete paura di soffrire 44• 5.
Diogene e l'età ellenistica
Diogene dava voce a molte delle istanze dell'età ellenistica, anche se, come vedremo, in modo unilaterale. Già i suoi contemporanei capirono questo e gli eressero, cmn,e si narra, a guisa di monumento funebre, una colonna che sorreggeva un cane di marmo di Paro con la scritta: Anche il bronzo cede al tempo e invecchia, ma la tua gloria, o Diogene, rimarrà intatta per l'eternità, poiché tu solo insegnasti ai mortali la dottrina che la vita basta a se stessa e additasti la via più facile di vivere 45 • La vita basta a se stessa: ecco il messaggio che gli uomini dell'età ellenistica appresero da Diogene e in vario modo ripensarono e approfondirono. E anche in età imperiale questo messaggio continuò a sollecitare gli spiriti: uomini come Dione di Prusa, Plutarco, Epitteto, l'imperatore Giuliano mostrarono per Diogene ancora grande interesse e considerazione . .. Diogene Laerzio, " Diogene Laerzio, ., Diogene Laerzio,
VI, VI, VI,
60 ( = Giannantoni, v B, 143). 55 ( = Giannantoni, v B, 143) . 78 ( = Giannantoni, v B, 108).
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La rappresentazione più vivace di Diogene e del suo pensiero risale proprio all'età imperiale ed è dovuta a Luciano di Samosata (II secolo dopo Cristo), che nella sua famosa Vendita dei filosofi all'incanto, sia pure in modo polemico, ma con perfetta intelligenza del verbo cinico e anzi utilizzando un genere letterario fissato e divulgato proprio dai Cinici, coglie ed esprime la cifra spirituale del nostro filosofo in modo efficacissimo. La lettura del gustoso dialogo di Luciano servirà a suggellare nel modo migliore quanto del nostro filosofo abbiamo sin qui detto. Mercurio - O tu che porti la bisaccia, e la tunica senza maniche, vieni, e gira un po' intorno all'adunanza. Vendo una vita maschia, una vita ottima e coraggiosa, una vita libera: chi la compera? Compratore - O banditore, che dici? tu vendi un libero? Mercurio - Io sl. Compratore - E non teini che ti accusi di venderlo rome schiavo, e ti citi innanzi l'Areopago? Mercurio - Non gli importa niente d'esser venduto: perché crede che in ogni modo egli è libero. Compratore - E che si potrebbe fare di uno cosl sozzo e Inisero e lacero? appena fargli· zappar la terra o portare acqua. Mercurio - Potrebbe fare anche il portinaio, assai più fedelmente dei cani. Sta' certo: egli ha tutto del cane, anche il nome. Compratore - Di che paese egli è? e che dice di sapere? Mercurio- Domanda a lui; ché è meglio cosi. Compratore - Quella cera scura e severa mi fa temere che s'io me gli avvicino, non abbai e non mi morda. Vedi come solleva il bastone, aggrotta le sopracciglia, e guarda torto e Ininaccioso? Mercurio -Non temere: è cane domestico. Compratore - Dimmi prima, o dabben uomo, di che paese tu sei? Diogene- D'ogni paese. Compratore - Che intendi dire? Diogene - Che sono cittadino del mondo. Compratore - Di chi sei seguace? Diogene - D'Ercole. Compratore - E perché non vesti anche la pelle del leone? la clava l'hai come lui.
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Diogene - Questo mantello è per me pelle di leone. Come Ercole fo guerra ai piaceri; e non per comando, come lui, ma da me, ho preso il compito di purgare la vita umana. Compratore- Bel compito: ma che sai particolarmente? che arte hai? Diogene - lo sono il liberatore degli uomini, il medico delle loro passioni: insomma io sono il profeta della verità e della franchezza. Compratore- Orbene, o profeta: e se io ti compero, in che modo tu mi ammaestrerai? Diogene - Se io ti prendo a discepolo, ti svesto della mollezza. ti chiudo nella povertà, e in questo mantello. Ti obbligherò a faticare, stancarti, dormire a terra, bere acqua, nutrirti d'ogni cibo a caso. Se avrai ricchezze, e vorrai ascoltar me, le getterai in mare. Di moglie, di figliuoli, di patria non ti darai pensiero, saran niente per te: e lasciando la casa paterna, abiterai un sepolcro, una torre abbandonata, o anche una botte. Porterai la bisaccia piena di lupini e di scartafacci zeppi di scrittura; e in questo arnese dirai d'esser più felice del gran re. Se ti frustano o ti torturano, dirai che non è dolore. Compratore - Che dici? le frustate non fan dolore? io non ho la pelle come il guscio della testuggine o del granchio. Diogene - Seguirai la massima di Euripide, con leggero mutamento. C.ompratore- Quale massima? Diogene - Il cuore soffre, sl; la lingua dice: no. Le qualità che devi avere, son queste: esser sfrontato ed arrogante, insultar tutti egualmente, senza aver rispetto a re o a privati: e cosl tutti ti ammireranno e ti terranno per coraggioso. Devi avere un parlare barbaro, una voce stridente come un cane, un viso arcigno, un andare strano, ogni cosa della bestia selvaggia: né pudore, né dolcezza. né moderazione, né punto di rossore in faccia. Va' nei luoghi più frequentati, e ·quivi rimani solo, disdegna tutti, fuggi l'amicizia e l'ospitalità, che manderebbero in rovina quel tuo regno. Fa' in pubblico quello che altri arrossirebbero di fare in privato, le più ridicole e sozze lascivie. Infine, quando te ne viene la voglia, muori mangiando un polpo crudo o una seppia. Questa è la felicità che io ti prometto. Compratore- Va' via, son cose sozze e da bestia. Diogene - Ma sono facili, e tutti possono metterle in pratica: non hai bisogno d'ammaestramenti, di discorsi, e di altre sciocchezze, ma cosl per una scorciatoia giungi alla gloria. E se
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anche sei un dappoco, un ciabattino, un salumaio, un fabbro, un gabelliere, tu diventerai un uom d'assai se ti mostrerai audace ed impudente, e sai insultare bravamente. Compratore - Va', non ho bisogno di te: ma forse potresti fare il navalestro, o talvolta l'ortolano. Se ti voglion rilasciare al più per due oboli ... Mercurio - Prendilo: ce ne sbrigheremo con piacere; costui strilla, insulta, sermoneggia, mette scompiglio in tutti, ed ha il diavolo in corpo 46 • 6. C r a t e t e e a l t ri s e g u a ci d i D i o g e n e Il più cospicuo dei discepoli di Diogene e, ad un tempo~ uno dei massimi esponenti del movimento cinico fu Cratete •7 • ·Egli ribadl il concetto che le ricchezze e la fama (o, se si preferisce, il desiderio delle ricchezze e della fama), lungi dall'essere beni e valori, per il saggio sono mali e disvalori, e sono invece beni e valori i loro contrari, vale a dire la povertà e l'oscurità, perché solo chi vive povero e oscuro può realizzare l'autarchia, il non-aver-bisogno-di-nulla. Ecco alcune significative testimonianze: [Cratete] vendette il suo patrimonio, ché apparteneva a distinta famiglia, ne ricavò circa duecento talenti che distribul ai suoi " Luciano, Vitarum auctio, 7-11 ( = Giannantoni, v B, 80 [traduzione di L. Settembrini]). 47 Cratete nacque a Tebe. St&ndo alla cronologia riferitaci da Diogene Laerzio (vi, 87 = Giannantoni, v H, 2), egli « fiorl nella CXIII Olimpiade» [= 328-325 a. C.]. Poiché le nostre fonti ci parlano di rapporti di Cratete con Stilponte (Diogene Laerzio, II, 117 sg. = Giannantoni, n O, 6) e Menedemo di Eretria (Diogene Laerzio, II, 131 e VI, 91 = Giann&ntoni, III F, 11) [dr., più avanti, pp. 73 sgg. e 80 sgg.], è probabile che il nostro filosofo sia vissuto fino agli inizi del secolo III a. C. Compose Scherzi poetici (-rta.tyv14), Tragedie, Elegie ed Epistole, che ebbero molta diffusione. Oltre a testimonianze indirette, ci sono pervenuti anche venti frammenti diretti, che ci danno un'idea abbastanza viva del pensiero e dell'arte di Cratete. (Questi frammenti e 36 Epistole a lui attribuite sono raccolti sempre in Giannantoni, v H, 67-86 e 88-123).
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concittadini [ ... ] . Diocle affenna che Diogene lo persuase ad abbandonare i suoi campi al pascolo delle pecore ed a gettar in mare il danaro che avesse [ ... ] . Fu perseverante nel suo proposito né si lasciò distogliere dai suoi parenti che venivano a visitarlo e che spesso dovette inseguire col bastone. Demetrio di Magnesia narra che consegnò il suo danaro ad un banchiere, a condizione che se i suoi figli fossero rimasti profani ed incolti desse loro il danaro, ma se fossero divenuti filosofi lo distribuisse al popolo; perché i suoi figli, se si fossero dedicati alla filosofia, non avrebbero avuto bisogno di nulla 48 • Ci viene ulteriormente riferito: Aveva come patria l'oscurità e la povertà, che la sorte non può espugnare, e come concittadino Diogene, a cui l'invidia non poteva tendere insidie 49 • Oltre che povero e oscuro, il Cinico, anche per Cratete come per Diogene, deve essere apolide: la polis, infatti, non è che un bene effimero e caduco, giacché essa può essere in ogni momento espugnata e non può offrire al saggio quel sicuro rifugio di cui egli ha bisogno per essere felice: Ad Alessandro che gli chiedeva se volesse che la sua città '" Diogene Laerzio, VI, 87 sg. ( = Giannantoni, v H, 4) . ., Diogene Laerzio, VI, 93 ( = Giannantoni, v H, 31). ~ tipica la palemie~ presa di posizione di Cratete contro Aristotele, che nel Protrettico si rivolgeva a Temisone re di Cipro, dicendo che nessuno più di lui aveva disposizioni per filosofare, in quanto ricco e famoso; Cratete riteneva vero esattamente il contrario. Leggiamo .la testimonianza in proposito, perché assai indicativa: «Zenone disse che Cratete, seduto nella bottega di un calzolaio, leggeva il Protrettico che Aristotele indirizzò a Temisone, re di Cipro, e in cui si diceva che nessun altro più di lui si trovava ad aver un maggior numero di buone qualità per filosofare: possedeva infatti grandi ricchezze per paterne spendere in queste cose, e per di più godeva di ottima reputazione. E diceva ancora che, mentre Cratete leggeva, il calzolaio stava tutto intento e nello stesso tempo cuciva e che Cratete gli disse: "ho idea, o Filisco, che scriverò per te un protreptico; mi accorgo infatti che tu hai una disposizione per la filosofia maggiore di quella che aveva colui per il quale scrisse Aristotele" » ( = Giannantoni, v H. 42 = Aristotele, Protrettico, fr. l Ross; traduzione di G. Giannantoni).
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natale fosse ricostruita, rispose: «E a che servirebbe? Forse un altro Alessandro la distruggerà » 50 • Ed ecco un passo di una sua tragedia, ancor più esplicito: La mia patria non ha una torre sola né un tetto solo; ma dove ci è possibile vivere bene, in ogni punto di tutto l'universo, n la mia città, Il la mia casa 51 • Cratete dovette insistere in modo particolare nel denunciare la vanità dei beni del mondo e nello squarciare l'illusorietà ( Tutpoc;) che li ammanta. Dice .un suo frammento pervenutoci: I beni del mondo sono posseduti dalla vanità ( rlq~oç) 52 • Molto più tardi l'imperatore Marco Aurelio, nel dimostrare la vanità delle cose, si appellava ancora a Cratéte: Come le vivande cotte e altri commestibili del genere bisogna rappresentarseli quali il cadavere di un pesce, di un uccello o di un porcellino; e il [pregiato vino] Falerno quale succo d'uva; e la porpora quale peli di pecora bagnati nel sangue d'una conchiglia; e il coito quale sfregamento di un budellino e l'emissione d'un po' di muco accompagnato da uno spasimo; e queste rappresentazioni, cosl come sono, colgono a fondo l'essenza delle cose e le mostrano nella loro realtà: cosl bisogna comportarsi in ogni occasione della vita, ponendo le cose a nudo, quando ci si presentano troppo seducenti, scorgerne la bassezza e spogliarle di quella popolarità di cui si fan belle. Perché la vanità è una terribile ingannatrice, e allorché, con la più grande certezza, tu immagini di occuparti di cose degne di considerazione, è allora che ne sei maggiormente illuso. Vedi ciò che Cratete osserva riguardo a Senocrate addirittura 53 •
Le precise parole di Cratete a Senocrate noi non Je cono50
11 12 12
=
Diogene Laerzio, vn, 93 ( Giannantoni, v H, 31). 'Diogene Laerzio, VI, 98 ( = Giannantoni, v H, 80). Diogene Laerzio, VI, 86 ( = Giannantoni, v H, 74). Marco Aurelio, I ricordi, VI, 13 (traduzione di F. Cazzamini-Mussi).
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sciamo, ma dal tenore del passo, per quanto amplificato dal neostoicismo di Marco Aurelio, si ricava il senso della denuncia che Cratete faceva della «vanità delle cose». Perciò risulta chiarissima anche la risposta che Cratete diede alla domanda circa il vantaggio che aveva tratto dalla filosofia: Un quarto di lupini e il non curarsi di niente 54 • «Un quarto di lupini » significa lo stretto indispensabile per vivere, e «il non curarsi di niente ( -rò ILYJ3evòt; !JlÀeLv) » significa il preoccuparsi e il restar pago dello stretto indispensabile e il ritener vano e inutile tutto il resto. Pare, inoltre, che Cratete abbia espressamente polemizzato contro l'edonismo, sostenendo che nessuna vita potrebbe essere felice, se la felicità dovesse essere fatta coincidere col piacere: infatti, egli argomentava, in nessuna stagione della vita dell'uomo il piacere sopravanza il dolore e il bilancio totale di ogni vita umana registra sempre più dolori che non piaceri 55 • In particolare, poi, egli, come i suoi predecessori, proclamò la necessità di tenersi lontani dai piaceri di Eros, che, più di altri, turbano l'impassibilità del saggio e, con inaudito sarcasmo, scrisse in un suo distico: La fame calma l'amore [eros], se no, il tempo; se nulla puoi ottenere da questi due rimedi, un laccio 56 • I Cinici, come già abbiamo detto, contestarono l'istituto del matrimonio, o meglio del matrimonio come era tradizionalmente concepito. Cratete, invece, si sposò, ma con una donna, di nome Ipparchia, la quale aveva abbracciato le idee e la vita dei Cinici, e riuscl, di conseguenza, a vivere un vero e proprio Diogene Laerzio, VI, 86 ( = Giannantoni, v H, 83 ). L'argomentazione ci è stata tramandata dal cinico Telete (di cui diremo sotto), che espressamente la riferisce a Cratete (dr. O. Hense, Teletis reliquiae, Hildesheim 1969", v, p. 49, 4 sgg. = Giannantoni; v H, 4.5). 56 Diogene Laerzio, VI, 86 ( = Giannantoni, v H, 79 [ = fr. 13 ]). 54
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«matrimonio cinico», un matrimonio, cioè, che rovesciava tutti i valori che la società legava al matrimonio. Scrive Diogene Laerzio: Fu attratta dalla dottrina di questa scuola anche Ipparchia, sorella di Metrocle. Entrambi erano nati a Maronea. S'innamorò delle teorie e della vita di Cratete, sprezzando tutti i pretendenti e rimanendo indifferente alla loro ricchezza e nobiltà o bellezza: per lei Cratete era tutto. Minacciava i suoi genitori che si sarebbe uccisa, se non fosse data in matrimonio a lui. Cratete allora fu pregato dai genitori di lei di distogliere la ragazza da questo proposito ed egli ricorse ad ogni espediente. Ed alla fine, poiché non vi riusciva, si alzò e depose dinanzi a lei tutto il suo abbigliamento e disse: «Ecco lo sposo, ecco i suoi possessi: prendi dunque la tua decisione. Ché non potrai essere la mia consorte, se non ti adeguerai al mio stesso modo di vita». La ragazza fece subito la sua scelta e indossava lo stesso suo vestito e andava in giro con lui e si univa con lui in pubblico e con lui andava ai conviti !il. Ma questo « matrimonio cinico » non è che una conferma della dottrina della Scuola, e la totale svalutazione dell'istituto del matrimonio da parte di Cr-atete ci è confermata da due episodi, in cui l'anaideia cinica tocca limiti estremi: portò suo figlio, non appena divenne maggiorenne, in un postribolo e gli disse che cosi « suo padre aveva celebrato le sue nozze» 58 ; e diede sua figlia «in matrimonio in prova per trenta giorni » 59 • Con Cratete H cinismo assunse un tono di calda umanità e di filantropia, del tutto assente in Antistene e in Diogene. Egli era sempre pronto a dare buoni consigli a chi ne aveva bisogno; anzi spesso non attendeva che gli altri venissero da lui a chiederli, ma di sua iniziativa si recava da chi aveva bisogno. E la saggezza dei suoi consigli e il modo affabile con 57 Diogene Laerzio, " Diogene Laerzio, 59 Diogene Laerzio,
VI, VI, VI,
96 sg. ( = Giannantoni, v I, l). 88 ( = Giannantoni, v H, 19). 93 ( = Giannantoni, v H, 26).
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cui li dava erano tali, che, per lui, nessuna porta di nessuna casa restava chiusa, tanto che fu soprannominato l'« Apritore di porte » (-9-upen«vo(xTYJç). Ecco alC!Jne significative testimonianze. Riferisce Diogene Laerzio: Era chiamato anche « apritore di porte » perché entrava in ogni casa a dar buoni consigli 60 • Scrive Apuleio: Cratete, seguace di Diogene, dagli Ateniesi suoi contemporanei fu venerato come un dio tutelare della casa: nessuna casa restava per lui chiusa, e per quanto il luogo in cui si trovava il capofamiglia fosse nascosto, Cratete vi entrava tempestivamente come arbitro e giudice di tutte le liti e contese familiari 61 • ln Plutarco leggiamo: Il filosofo Cratete, che entrava in ogni casa, era accolto con onore e con benevolenza e veniva chiamato « apritore di porte» 62 • L'imperatore Giuliano precisa ulteriormente: Si recava nelle case degli amici, senza essere chiamato oppure chiamato, per riconciliare fra di loro i familiari, se mai s'accorgeva che erano in discordia. Egli riprendeva non aspramente, ma dolcemente, in maniera da non aver l'aria di accusare coloro che riprendeva, perché voleva essere utile a loro e anche a quelli che stavano in ascolto 63 • Questo sentimento di calda umanità, di totale disponibilità verso gli altri e di filantropia non deriva, però, dai principi del cinismo (che portano, piuttosto, all'egoismo e alla misan00 Diogene Laerzio, VI, 86 ( = Giannantoni, v H, 18). " Apuleio, Florida, 22 ( = Giannantoni, v H, 18). 62 Plutarco, Quaest. conv., 11, 1,6, p. 632 e ( = Giannantoni, v H, 18). 63 Giuliano, Discorsi, IX [vx], 201 b-e; cfr. anche quanto detto a p. 200 h ( = Giannantoni, v H, 17).
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tropia), ma dal temperamento e dal carattere di Cratete particolarmente sereno per natura. Scrive Plutarco: Cratete, con la sua bisaccia e il suo mantello, passò la sua vita ridendo e scherzando come in una festa 64 •
La seguente preghiera (che è una evidente parodia della preghiera di Solone) esprime perfettamente le istanze di fondo del nostro filosofo e lo spirito che le anima: Di Mnemosine e Zeus Olimpio fulgide figlie, Muse Pieridi, ascoltate la mia preghiera: date assiduamente il cibo al mio stomaco, 'e datelo senza la schiavitù, che rende la vita meschina ... Rendetemi utile, non piacevole agli amici. Non voglio raccogliere ricchezze magnifiche, cercando la felicità dello scarabeo, l'abbondanza e [la ricchezza delle formiche, ma ·voglio partecipare a giustizia e possedere una ricchezza facile a portarsi, bene acquistata, preziosa per esercitare virtù. Se otterrò queste cose, Ermete e le caste Muse placherò non con lussuosi dispendi, rua con le sante virtù 65 •
Fra i seguaci di Diogene, tutti assai inferiori a Cratete, sono da ricordare, in primo luogo, Filisco, cui, secondo una testimonianza antica, pare debbano essere attribuite le tragedie che andavano sotto il nome di Diogene, nelle quali, parodiando i classici temi della tragedia greca, egli presentava le dottrine ciniche 66 • Celebre fu anche Onesicritp, che ammirò la dottrina ma non praticò la vita cinica. Partecipò alla. spedizione di Alessandro in Oriente e ritenne di ritrovare certi tratti dei Cinici nei Gimnosofisti orientali 67 • Di lui ci viene detto: .. Plutarco, De an. tranquill., 4, 466 e ( = Giannantoni, v H, 46). 65 Ap. Giuliano, Discorsi, VII, 213 b-d; IX [VI], 199 d-200 b ( = Giannantoni, v H, 84). 66 Cfr. Diogene Laerzio, VI, 73, 80 (= Giannantoni, v B, 128). 61 Cfr. Strabone, xv, 715 sgg. (dr. Giannantoni, v C, 1-4).
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La sua attività ha nell'insieme qualcosa di simile a quella di Senofonte. Come Senofonte partecipò alla campagna di Ciro, cosi Onesicrito a quella di Alessandro; l'uno scrisse L'Educazione di Ciro, l'altro L'Educaziotze di Alessandro; l'uno ha scritto le lodi di Ciro, l'altro di Alessandro. Anche la maniera e lo stile si assomigliano, ma ovviamente l'imitatore è inferiore al modello 68 • Discepolo di Diogene e di Cratete fu Monimo 69 , che conquistò una certa popolarità, tanto che il comico Menandro )o menziona, attribuendogli la massima: È
vano ogni umano pensiero 70 •
Compose degli Scherzi poetici (7ttx(yvLat), come Cratete, in cui mescolava serio e faceto (caratteristica, questa, che resterà tipica della letteratura cinica). Infine, ricordiamo Metrocle, che fu fratello di Ipparchia (e quindi cognato di Cratete) 7 \ con il quale il cinismo assume un tono decisamente pessimistico, in netto contrasto con il sereno ottimismo di Cratete. Ci viene riferito, tra l'altro, che Metrocle bruciò i suoi scritti esclamando: Questi sono fantasmi di sogni dell'aldilà 72 • Ci viene pure riferito che egli mori suicida, essendosi strangolato 73 •
61 Diogene Laerzio, VI, 84 ( = Giannantoni, v C, 1). ., Monimo nacque a Siracusa. Essendo al servizio di un banchiere di Corinto, si entusiasmò delle idee di Diogene a tal punto da fingersi pazzCJ per farsi licenziare dal banchiere. Segul da vicino anche Cratete (cfr. Diogene Laerzio, VI, 82 = Giannantoni, v G, 1). 70 Ap. Diogene Laerzio, VI, 83 (:::::: Giannantoni, v G, 1). 71 Su Metrocle cfr. Diogene Laerzio, VI, 94 sg. ( = Giannantoni, v L, 1). 72 Ap. Diogene Laerzio, vi, 95 (= Giannantoni, v L, 1). ,. Diogene Laerzio, VI, 95 ( = Giannantc.ni, v L, 1).
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Il cinismo fino alla fine dell'età pagana
La forza e la capacità di diffusione del c1msmo si fondavano, in massima parte, sulle doti di temperamento e di carattere degli uomini che lo professavano, e, in particolare, sull'eccezionale vigore con cui sapevano fare del loro pensiero sostanza di vita e del loro modo di vivere un paradigma, un punto di riferimento insieme reale e ideale. ~ evidente, quindi, come solo uomini dalla straordinaria personalità quali furono Antistene, Diogene e Cratete potessero garantirne il successo; ma è altrettanto evidente come uomini di tale tempra e levatura non potessero che essere assai rari, e che, in assenza di questi, il cinismo dovesse progressivamente languire, e anche, per conseguenza, contaminarsi. ~ inoltre da rilevare come, sia dal punto di vista della dottrina sia dal punto di vista della .pratica di vita, con Diogene e·con Cratete il cinismo avesse raggiunto i limiti estremi, al di là dei quali non c'era spazio alcuno per ulteriori sviluppi. Ai Cinici posteriori a Cratete, per conseguenza, non restavano altre possibilità che queste: o tener ferme le posizioni di Diogene e di Cratete, oppure tornare indietro. E poiché le posizioni di Diogene ~ di Cratete erano posizioni-limite e, come tali, difficilissime da mantenere, cosl si spiega come la seconda alternativa fosse pressoché inevitabile. Per il secolo m a. C. abbiamo notizie di un certo numero di pensatori che professarono dottrine ciniche: Bione di Bo74 Diogene Laerzio elenca Bione fra gli Accademici, in quanto all'inizio fu discepolo dell'Accademico Cratete. Ma lo stesso Diogene ci informa che «successivamente [Bione] si volse alla dottrina cinica e indossò il mantello e la bisaccia •, anche se subito rileva che « solo con questo mutamento esteriore aderl al principio fondamentale dell'insensibilità (ci:rcliltE14) • (Iv, 51-52=Kindstrand, T 19). Segui anche Teodoro, filosofo cirenaico, di cui diremo appresso (cfr. pp. 60-62). Fu abilissimo nel ridicolizzare ogni cosa, servendosi anche di espressioni volgari. Figlio di uno schiavo e di una meretrice, non esitò a .far conoscere a tutti questa circostanza, mostrando di ritenerla, secondo lo spirito della cinica anaideia, del tutto in-
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ristene 74 , Menippo di Gadara 75 , Cercida di Megalopoli 76, Telete 77 e Menedemo 78 • In tutti è chiaramente riscontrabile la differente, se non addirittura positiva. Diogene Laerzio (Iv, 46 sg. = Kindstrand, F l A) ci riferisce: « Bione fu Boristenita di nascita; quali siano stati i suoi genitori e per quali circostanze sia giunto alla filosofia, rivela egli stesso ad Antigono. Chiedendogli infatti il re: Chi fra gli uomini tu sei e donde? Qual ~ la tua città? Quali i tuoi genitori? e sapendo Bione che era già stato calunniato presso di lui, questa fu la sua replica: '\Mio padre era liberto, si puliva il naso col braccio - voleva dire che era un salsamentario - . Boristenita di stirpe, non aveva una faccia da mostrare, ma una scrittura sulla faccia, segno della severità del padrone. Mia madre fu tale, quale un uomo si.ffatto poteva sposare: veniva da un bordello. Poi mio padre non so quale dazio non pagò e fu venduto con tutta la famiglia, insieme con noi. lo giovinetto e non privo di grazia fui comprato da un retore, che alla sua morte mi lasciò i suoi beni. E io bruciai i suoi libri, raggranellai ogni cosa e venni ad Atene, ove mi dedicai alla filosofia. Questa ~ la stirpe, questo ~ il sangue a cui mi vanto di appartenere. Tale è la mia storia sl che Perseo e Filonide smettano una buona volta di raccontarla. Giudica me da me stesso». L'edizione di riferimento di Bione è quella curata da: J.F. Kind· strand, Bion of Bo,rysthenes, A collection of Fragments with Introduction and Commentary, Uppsala 1976. 75 Menippo, ci riferisce Diogene Laerzio (vi, 99), «proveniva dalla Fenicia ed era servo, come dice Acaico nell'Etica. Diocle riferisce che il suo padrone era del Ponto e si chiamava Batone ». Fra le sue opere, in cui predominava Io spirito derisorio e burlesco, dovettero avere particolare importanza una Nekyia o Mondo sotterraneo (in cui probabilmente, ~ando Omero, evocava gli spiriti degli avversari e si burlava di essi) e la Vendita di Diogene. Che Menippo, schiavo di origine, abbia inventato la leggenda della vendita di Diogene come schiavo per dimostrare che l'essere schiavo è cosa indifferente per il saggio, è tesi sostenuta da alcuni studiosi moderni, di per sé non impossibile, ma non dimostrabile. (Su Menippo si veda Dudley, A History of Cynicism, pp. 69-74). 76 Cercida visse nella seconda metà del III secolo a. C. Ebbe un ruolo n<>tevole, come politico, nella sua città natale, Megalopoli. Scrisse Giambi e Meliambi dei quali ci sono pervenuti pochi frammenti. (Su di lui si veda Dudley, A History of Cynicism, pp. 74-84). 77 Telete tratta la tematica cinica con scarsissima originalità. I frammenti di Telete, conservatici da Stobeo, sono piuttosto consistenti e sono utili soprattutto per ricostruire il pensiero degli altri Cinici ai quali egli si rifà espressamente. (Eccellente è l'edizione moderna dei suoi frammenti, già citata, curata da O. Hense, Teletis reliquiae). 71 Menedemo visse nella seconda metà del secolo III a. C. Di lui sap· piamo poco. Diogene Laerzio (VI, 102 Giannantoni, v N, l) ci riferisce che fu discepolo di Colote di Lampsaco, Epicureo, contro cui, poi, polemizzò.
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tendenza ad ammorbidire sia la dottrina sia la prassi di vita, proprio nei tratti più qualificanti. Per quanto concerne l'atteggiamento nei confronti dei beni di fortuna e delle ricchezze, è da rilevare come già Cratete risulti più moderato di Diogene: egli, come vedemmo, vendette i suoi possessi e rinunciò ·ai suoi averi, ma -non si ridusse alla condizione di mendicante e ammise la necessità di un minimo di possesso di beni materiali 79 • Bione sembra essere stato decisamente incoerente con i principi, e con la massima « sono comuni i beni degli amici » mascherava i suoi abusi 80 • Di Menippo, se è degna di fede la notizia pervenutaci, sappiamo che prestava danaro ·a giornata esigendo forti interessi e che in tal modo « acquistò una grandissima ricchezza», la qual cosa provocò un complotto che lo spogLiò di ogni bene (e per conseguenza si sarebbe impiccato) 81 • Cercida teorizzò la necessità di avere una somma di danaro che basti per i bisogni elementari della vita 82 • Per quanto concerne l'atteggiamento nei confronti del piacere, con Bione si registra un vero e proprio cedimento, tanto che si è addirittura parlato, a proposito di questo autore, di cinismo edonistico: qualifica, questa, certamente eccessiva, ma indicativa. L'antiedonismo dei maestri del cinismo, come vedemmo, si spingeva addirittura alla estrema condanna dei piaceri dell'eros, come quelli che 'in sommo grado minano l'impassibilità e l'autarchia del saggio. Già Bione, nella sua vita, largamente contravviene a questo dogma, cosl come nelle affermazioni dottrinarie 83 • Cercida distingue due tipi di eros: quello disgiunto da passione amorosa e quello unito alla tempe79 La preghiera che abbiamo riportato sopra, a p. 46, è la più eloquente prova di questo. 12 Cfr. Diogene Laerzio, IV, 53(= Kindstrand, T 3). 11 Cfr. Diogene Laerzio, VI, 99 sg. 12 Cfr. Cercida, fr. l Diehl. 13 Cfr. Diogene Laerzio, IV, 47, 49, 53 sg. ( = Kindstrand, pp. 103 sg.).
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DIOGENE E GLI SVILUPPI DEL CINISMO
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sta dei sentimenti. Basta che il saggio rifugga dal secondo, perché è questo che compromette l'impassibilità; il primo, invece, si soddisfa con una «Afrodite di piazza», con pochi oboli e « senza curarsi di nulla» 84 • Lo squallore di questa posizione di Cercida è evidente: poiché è assai difficile reprimere gli impulsi erotici, egli dice in sostanza, ci si limiti alla soddisfazione del puro bisogno fisiologico. E questo significa, a ben vedere, dar soddisfazione a ciò che nell'uomo è puramente animale e reprimere proprio quegli aspetti per cui l'uorho si differenzia dall'animale. · Anche l'atteggiamento nei confronti dello Stato e dei potenti cambia notevolmente: Bione pare sia stato amico del potente Antigono Gonata e Cercida fu egli stesso politico militante e, pare, piuttosto abile 85 • Infine è da rilevare come le critiche dei primi Cinici alla religione popolare e tradizionale 86 , che erano fatte allo scopo di difendere una visione più alta e più pura del divino, tendano a degenerare, per esempio con Bione e con Cercida, nell'ateismo o comunque sembrino perdere quel loro significato originario 87 • In questo periodo acquista caratteristiche definitive la produzione letteraria dei Cinici, la cui cifra consiste nella mescolanza di serio e di faceto: la parodia viene usata non per ottenere effetti comici fine a se stessi, ma per contestare più efficacemente quelle convenzioni e quelle regole della società che i Cinici ritenevano decettive. A Bione, poi, pare debba essere fatta risalire, in particolare, la codificazione della diatriba, che avrà larga fortuna. La diatriba è un breve dialogo, di carattere prevalentemente popolare e di contenuto .. Or. Cercida, frr. 2 e 9 Diehl. • Or. Dudley, A History of Cynicism, pp. 69, 75 sgg. 11 Or. Giannantoni, v B, 332-350. 111 Or. Cercida, fr. 4 Diehl e, per Bione, Kindstrand, T 3.
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L'ESAUIUMENTO DELLE SCUOLE SOCRATICHE MINOIU
etico: si tratta, in sostanza, del dialogo socratico cinicizzato. Le composizioni di Menippo diventeranno dei veri modelli letterari (Luciano si ispirerà largamente .ad esse; la stessa satira latina di Lucilio e di Orazio si ispirerà alla caratteristica di fondo degli •scritti cinici, i quali, appunto, ridendo castigant mores) 88 • Negli ultimi due secoli dell'era pagana il cinismo langul. Un solo nome di autore cinico ci è noto in questo periodo: Meleagro di Gadara (la cui attività si colloca ·agli inizi del secolo I a. C.), peraltro di scarsa importanza 89 • La crisi del cinismo, durante questo ·periodo, fu prodotta, in primo luogo, dalle cause sopra menzionate, ma risultarono senza dubbio determinanti anche ragioni sociali e politiche: all'ethos della romanità ormai dominante ripugnavano sia la dottrina sia la vita cinica. Il giudizio di Cicerone è quanto mai eloquente: Il sistema dei Cinici deve essere respinto in blocco, poiché è contrario alla verecondia, senza la quale nulla di retto ci può essere, nulla di onesto 90 •
La storia del cinismo non è tuttavia terminata: esso rinacque in età imperiale, come avremo modo di vedere nel quarto volume. 8.
Valore e limiti del cinismo
Il cinismo, soprattutto nella formulazione datagli da Diogene e da Cratete, come abbiamo già sopra rilev·ato, rispose • Sui caratteri della letteratura cinica dr. Dudley, A History of Cynicism, pp. 110-116. Di opposta opinione è Kindstrand, cit., passim. " Or. su di lui Dudley, A History of Cynicism, pp. 121 sgg. 111 Cicerone, De ol/iciis, I, 41, 148 ( = Giennantoni, v B, 515).
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DIOGENE E GLI SVILUPPI DEL CINISMO
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ad alcune delle esigenze di fondo dell'età ellenistica, e, per questo motivo, esso ebbe una vita lunga cosl come le grandi filosofie nate in questa tormentata epoca. La denunda cinica delle tre grandi illusioni che vanamente agitano gli uomini, vale a dire la ricerca del piacere, l'attaccamento alla ricchezza, la brama della potenza, e la ferma convinzione che esse conducono l'uomo sempre e solo alla ·infelicità, ·saranno ribadite sia dalla Stoa di Zenone sia dal Giardino di Epicuro sia dalla scepsi di Pirrone e diventermmo un « luogo comune » ripetuto per interi secoli. L'esaltazione dell'autarchia e dell'apatia, intese come le condizioni essenziali della saggezza e quindi della felicità, diventerà addirittura il motivo conduttore del pensiero ellenistico. La minore vitalità che il cinismo dimostrò rispetto allo stoicismo, all'epicureismo e allo scetticismo è dovuta al suo estremismo e, quindi, ad un suo squilibrio di fondo e ad una sua obiettiva povertà spirituale. L'estremismo del cinismo consiste nel fatto che la contestazione delle convenzioni e dei valori consacrati dalla tradizione da esso sistematicamente perseguita non salva pressoché nulla, mancando al cinismo valori alternativi positivi da proporre. Lo squilibrio di fondo del cinismo è dovuto al fatto che riduce l'uomo, in ultima analisi, alla sua animalità, e ritiene essenziali (e quindi da appagare) quasi soltanto i bisogni animali, o, se si vuole, i bisogni dell'uomo primitivo; ma, ad un tempo, propone al saggio un modello di vita, per realizzare il quale occorrono energie spirituali che vanno ben al di là di quelle che la pura animalità o l'uomo nel suo stato primitivo possono avere: richiedono l'attività superiore dello spirito, della socratica psyché, che a poco a poco il cinismo dimentica pressoché per intero. Infine, la povertà spirituale del cinismo consiste non solo nel ripudio della scienza e della cultura, ma anche nella riduzione dell'aspetto propriamente speculativo del suo messaggio ad un punto tale che esso risulta incapace di giusti-
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L'ESAURIMENTO DELLE SCUOLE SOCRATICHE MINORI
ficare teoreticamente se medesimo. L'intuizione emozionale della validità del proprio messaggio è il vero e unico fondamento del cinismo. Già gli antichi avevano definito il cinismo come « la via breve alla virtù » 91 • Ma in filosofia, potremmo ben dire con lo Hegel, non ci sono vie brevi, ossia scorciatoie. E infatti lo stoicismo, che più di tutte le altre filosofie ellenistiche fece proprie le istanze essenziali del cinismo, allungò considerevolmente «la via alla virtù», ma proprio per questa «mediazione » e per questo cercare di dar conto a fondo di se medesimo e delle proprie affermazioni di base, esso conquistò gli animi in misura ben maggiore del cinismo e soppiantò radicalmente lo stesso cinismo.
" Cfr. Diogene Laerzio,
VI,
104 ( = Giannantoni, v A, 135).
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II. IL DECLINO E LA FINE DELLA SCUOLA CIRENAICA
l.
Le ramificazioni del cirenaismo
Abbiamo visto, nel primo volume 1, come sia difficile e anzi pressoché impossibile distinguere le dottrine che furono già del fondatore della Scuola da quelle che i primi discepoli vi aggiunsero. certo, in ogni caso, che i primi discepoli di Aristippo, a partire dal nipote che portava lo stesso nome, non fecero che approfondire e sistemare la dottrina del caposcuola. Ecco due testi basilari:
:n
Aristippo era amico di Socrate e fondò la Scuola chiamata cirenaica, dalla quale Epicuro trasse le mosse per la sua esposizione del fine ultimo. Aristippo fu per tutta la sua esistenza di molle vita e amante del piacere e non disputò mai apertamente sul fine ultimo, ma disse che il fondamento della possibilità di essere felici era posto nei piaceri. E poiché non faceva altro che parlare di piacere, spinse quelli che erano con lui alla supposizione che egli insegnasse che il fine della vita consisteva nel vivere piacevolmente 2 • Di Aristippo fu seguace insieme a molti altri anche la figlia Arete, la quale, avendo dato alla luce un figlio, lo chiamò Aristippo. Questi, indirizzato dalla madre ai ragionamenti filosofici, 1 Cfr. vol. I, pp. 406 sg. Ricordiamo che l'edizione di riferimento' delle testimonianze e dei frammenti dei Cirenaici è quella nuova di G. Giannantoni (Aristippi et Cyrenaicorum philosophorum reliquiae), contenuta nella già citata edizione delle Socraticorum Reliquiae (dr. Prefazione), che sostituisce la precedente del medesimo autore (dr. vol. I, p. 403, nota 1). Nella nuova edizione è soppressa la traduzione, per la quale occorrerà rifar~ si ancora alla prima. Perciò manterremo anche ~'indicazione della prima edizione, seguita da quella della seconda contrassegnata con l'esponente 2. · 2 Eusebio, Praep. evang., XIV, 18, 31 ( = Giannantoni, I B, 27 = IV A, 173').
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L'ESAURIMENTO DELLE SCUOLE SOCRATICHE MINORI
fu chiamato Metrodidatta; fu costui a definire chiaramente che il fine consiste nel vivere piacevolmente, introducendo il concetto di piacere in movimento. Disse infatti che tre sono gli stati della nostra costituzione, uno per il quale proviamo dolore, simile a tempesta sul mare; un ·altro per il quale godiamo, simile ad un lieve ondeggiare: il piacere infatti è un moto lieve, come sospinto da un vento favorevole; il terzo è uno stato intermedio, per il quale né godiamo né soffriamo, essendo simile a tranquillità. Di queste sole affezioni egli disse che noi abbiamo sensazione 3 •
In ogni caso, sia o no stata questa indicata dalla testimonianza l'evoluzione della Scuola, è da rilevare che i primi Cirenaici svilupparono dottrine omogenee e perfettamente coerenti con le idee del fondatore della Scuola. Per contro, i secondi Cirenaici spezzarono l'unità della dottrina e, anzi, giunsero a mettere in crisi e addirittura a negare ·n principio stesso su cui poggiava la dottrina della Scuola. L'ambiguità di fondo del cirenaismo, che, come abbiamo visto, è, in sosta112a, un socratismo che distrugge il vero Socrate (una sorta di socratismo impazzito come il cinismo, anche se in forma e misul"a diverse), doveva necessariamente portare a questi esiti. La Scuola cirenaica, proprio nel tentativo di districare le aporie che nascevano da quella ambiguità, si divise in tre correnti, facenti capo, rispettivamente, ad Egesia detto «il persuasore di morte», Anniceride e Teodoro detto «l'ateo», dei quali dobbiamo ora esaminare il pensiero.
2.
Egesia e i suoi seguaci
Egesia e i suoi seguaci 4 ribadirono il prinClpto della Scuola, secondo cui il fine è il piacere, ma ritennero che il 3
B, 5').
Eusebio, Praep. evang.,
XIV,
18, 32 (
= Giannantoni,
n, 5
=
IV
• Su Egesia e i suoi seguaci ci sono pervenute poche testimonianze,
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DECLINO E FINE DELLA SCUOLA CIRENAICA
piacere fosse qualcosa di non raggiungibile se non in modo saltuario, e, dooque, non in nostro possesso; anzi essi giunsero a sostenere .addirittura che il piacere è qualcosa di relativo e non oggettivo. Che solo il piacere fosse un bene e il dolore un male e che solo esso potesse dare la felicità pareva chiaro ad Egesia, dal momento che per lui non esistevano altri valori indipendenti dal piacere e dall'utilità: Nulla sono gratitudine, amicizia, e beneficenza, onde queste cose noi le scegliamo non per se stesse ma per ragioni di utilità, mancando le quali neppure quelle sussistono più 5•
Ma, se è vero che il piacere pare essere l'unico bene, è altrettanto vero che esso ci sfugge di mano e che il suo contrario ha in noi sempre il sopravvento: Il corpo infatti è pieno di mille sofferenze, l'anima soffre col corpo ed è turbata e la sorte rende vane molte cose da noi sperate[ ... ] 6•
Né si può dire che la ricchezza determmi il piacere, dato che godono, quando godono, sia i ricchi sia i poveri. E nemmeno, secondo Egesia, incidono, nel determinare la misura del piacere, libertà, nobiltà, saggezza, né i loro contrari, per il medesimo motivo 7 • Anzi, Egesia e i suoi .seguaci, come già abbiamo accennato, contestavano addirittura che il piacere fosse alcunché di naturalmente determinato in modo oggettivo e lo ritenevano invece qualcosa di relativo, cosi come le sensazioni: fra le quali la più ricca è quella di Diogene Laerzio (II, 93-96 = Giannantoni, VI, l = IV F, 1'). Egesia fu contemporaneo del re Tolomeo I, come si ricava dal fatto che costui gli proibl d'insegnare, perché spingeva gli allievi al suicidio (dr. Cicerone, Tusc. Disput., I, 34, 83 Giannantoni, VI,
3
=
= IV F, 3
2 ).
5 Diogene Iferzio, n, 93 ( = Giannantoni, VI, 1 ' Diogene L8erzio, II, 94 ( Giannantoni, VI, 1 7 Ibidem.
=
= IV F, 1"). = IV F, 1
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2 ).
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L'ESAURIMENTO DELLE SCUOLE SOCRATICHE MINORI
Ritenevano che nulla fosse per natura piacevole o spiacevole: per la rarità o per la novità o per la sazietà accade che taluni godano e altri no[ ... ]. Svalutavano anche le sensazioni, perché non danno conoscenza certa, ma facevano tutto ciò che loro sembrasse ragionevole 8 • Sulla base di queste premesse, Egesia e i suoi seguaci concludevano che, dunque, la felicità è irraggiungibile e la vita è indifferente: La felicità è [ ... ] irrealizzabile. Vita e morte sono da prendersi senza preferenza [ ... ] . Per l'insensato vivere può essere vantaggioso, per l'uomo saggio indifferente 9• La morte non deve dunque in alcun modo essere temuta, perché non ci separa dai beni, bensl dai mali: concetto, questo, che valse ad Egesia il soprannome « persuasor di morte» 10• Il saggio, allora, non si affannerà a ricercare l'irraggiungibile piacere e l'inesistente felicità, ma vivrà evitando i mali, mediante l'indifferenza (&8ta:q>op(a:): Perciò il sapiente non si affannerà tanto nel procurarsi i beni quanto nell'evitare i mali, proponendosi come fine una vita né faticosa né dolorosa, il che realizza con uno stato d'animo di indifferenza per ciò che produce il piacere 11 • In questa « indifferenza » non c'è spazio nemmeno per l'amicizia: Egesia riteneva, infatti, che il saggio dovesse fare ogni cosa per sé, che non dovesse ritenere gli altri degni • Ibidem. 'Ibidem. 10 Epiphan., Adv. haeres., m, 2, 9 ( = Giannantoni, VI, 2 = IV F, 22 ). Cicerone ci informa anche che Egesia scrisse un libro intitolato Colui che si lascia morire di fame, «in cui un uomo, sul punto di morire di inedia, è salvato dagli amici, e nel rispondere ad essi egli fa l'elenc;.o di tutti i mali della vita,. (Tusc. disput., I, 34, 84 = Giannantoni, VI, 4 = IV F, 42). " Diogene Laerzio, u, 9.5 sg. ( = Giannantoni, VI, l = IV F, F).
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DECLINO E FINE DELLA SCUOLA CIRENAICA
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di sé (nessun sacrificio per gli a:ltri, secondo il nostro filosofo, v,ale ciò che costa) 12 • Sullo squallore di queste conclusioni getta un po' di luce la ripresa della dottrina socratica dell'involontarietà della colpa, con i relativi corollari etici e pedagogici: Dicevano [scil.: Egesia e i suoi seguaci] che agli errori spetta il perdono: non si sbaglia volontariamente, ma costretti da qualche passione. Non bisogna quindi odiare, ma piuttosto insegnare 13 • Ma è una ripresa di motivi che nel contesto del discorso egesia.no non si inseriscono. Con Egesia il cirenaismo ha già distrutto se medesimo.
3.
Anniceride e i suoi seguaci
Anniceride e i suoi seguaci 1.. concordarono con Egesia intorno all'analisi del piacere, ma, contrariamente a lui, ammisero l'esistenza di altri valori oltre il piacere, e precisamente: l'amicizia, la gratitudine, l'onore dei genitori, l'amore della patria, e ritennero che questi valori contribuissero alla felicità. Riferisce Diogene Laerzio: I seguaci di Anniceride per altre cose sono d'accordo con i seguaci di Egesia, ma ammettono nella vita l'amicizia, la gratitudine, la reverenza verso i genitori e l'adoprarsi per la patria. Perciò il saggio, anche se avrà dei fastidi, non di meno sarà felice, anche se ci saranno per lui solo piccoli piaceri 1 ~. Anniceride, dunque, accoglie il principio dell'amicizia come essenziale alla vita, e non solo per ragioni di utilità, ma Cfr. Diogene Laerzio, n, 95 ( = Giannantoni, VI, l = IV F, -l"). Ibidem. •• Su Anniceride abbiamo pochissime testimonianze, fra le quali la più ampia è in Diogene·Laerzio, n, 96sg. (= Giannantoni, VII, 3 =IV G, 32 ) 15 Diogene Laerzio, II, 96 ( = Giannantoni, vn, 3 = IV G, 32 ). 12 13
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L'ESAURIMENTO DELLE SCUOLE SOCRATICHE MINORI
altresl a causa del sentimento di benevolenza: L'amico non deve essere accolto soltanto per utilità, né ci si deve allontanare da lui quando questa manchi; ma anche per l'insita benevolenza, per la quale si sopporteranno anche i dolori. E invero anche colui che pone come fine il piacere e si duole quando ne sia privato, tuttavia sopporta volentieri dolori per affetto verso l'amico 16 • ~ evidente che i valori cui fa appello Anniceride port8itlo oltre il cirenaismo; in particolare, poi, per quanto concerne l'istanza relativa all'amicizia, egli dipende essenzialmente da Epicuro, che, come vedremo, all'amicizia assegna un ruolo essenziale.
4.
Teodoro e i suoi seguaci
Teodoro 17 cercò di battere una via intermedia, ponendo il fine non nel piacere come tale, ma nel1a gioia, cioè non nel piacere-sensazione (nel piacere del momento), bensl in .uno stato dell'animo, che non è posSibile raggiungere senza la saggezza. Ecco una esplicita testimonianza eli Diogene Laerzio: Concepl come fine la gioia e la tristezza: l'una posta nella saggezza, l'altra nell'insensatezza. Beni sono la saggezza e la giustizia, mali i comportamenti contrari, intermedi i piaceri e i dolori 18 • Cfr. Diogene Laerzio, n, 97 ( = Giannantoni, vn, 3 = IV G, 3'). Teodoro fu discepolo di Anniceride (Diogene Laerzio, n, 98 = Giannantoni, VIII, 23 = IV H, 13'). Espulso da Cirene soggiornò per un certo tempo ad Atene. Ritornò ·quindi a Cirene dove visse fino alla morte, e godette di grandi onori (n, 103 = Giannantoni, ibidem). Fu amico di uo· mini insigni e potenti come Demetrio Falereo, che lo salvò da un proces· so per ateismo e del re Tolomeo figlio di Lago, che lo ospitò alla sua corte (II, 102 = Giannantoni, ibidem). Di lui ci restano numerose testimo· nianze (fra le quali le più illuminanti sono quelle di Diogene Laerzio). 11 Diogene Laerzio, 11, 98 ( = Giannantoni, VIII, 23 = IV H, 13'). 16 17
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Respinse come valori sia l'amicizia, sia il sacrificarsi per la patria, che erano stati, invece, come vedemmo, accolti da Anniceride. Rif~risce Diogene Laerzio: Rifiutò anche l'amicizia come insussistente sia per gli insensati che per i saggi: per gli uni, infatti, una volta tolta di mezzo l'utilità, anche l'amicizia sfuma; i secondi poi sono sufficienti a se stessi e tali da non aver bisogno di amici. Diceva anche che è ragionevole che l'uomo di valore non si sacrifichi per la patria: poiché è sconsiderato gettare via la propria saggezza per l'utilità degli insensati. La patria è l'universo 19 •
La distinzione introdotta da Teodoro fra « gioia » e « piacere » (e soprattutto !'·identificazione della prima con la saggezza) si dimostra tuttavia fragilissima e ·all2Ji fortemente ambigua: infatti la « saggezza » per il nostro filosofo consiste nel rendersi conto che è lecito ~are tutto dò che si giudica utile e di cui si ha desiderio, senza tener conto né delle leggi né delle convenzioni. F·a cosl ingresso nel cirenaismo l'anaideia cinica: ~ lecito rubare, commettere adulterio e compiere sacrilegi, ma al momento opportuno: nessuna di queste cose è infatti turpe per natura, una volta che sia stata rimossa l'opinione che sussiste per accordo degli stolti. Apertamente il saggio farà uso delle cose da lui bramate senza alcuna esitazione 20 •
Insieme all'anaideia, ·Teodoro accolse anche la parresia cinica, cioè l'assoluta libertà e franchezza nel parlare con chicchessia, come da molte fonti ci è tramandato. Ecco due eloquenti esempi: E che? non ammireremo noi Teodoro di Cirene, filosofo non disprezzabile? Il quale, minacciandolo una volta il re Lisimaco del supplizio della croce, « questi terribili supplizi, disse, " Ibidem. Diogene Laerzio,
20
1,
99 ( = Giannantoni,
VIII,
23 =
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IV
H, 13').
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L'ESAURIMENTO DELLE SCUOLE SOCRATICHE MINORI
minacciali, ti prego, ai tuoi cortigiani: a Teodoro invero non interessa nulla se debba imputridire sotto terra o all'aria aperta » 21 • A Lisimaco che gli chiedeva: «non te ne andasti dalla tua patria spinto anche dall'invidia? », rispose: «non dall'invidia, ma dai pregi della mia natura, ai quali la mia patria non faceva posto sufficiente » 22 •
:B da ricordare, infine, che Teodoro negò l'esistenza degli Dei, confutando tutte le opinioni espresse dai Greci intorno ad essi, e, per questo, fu soprannominato «l'ateo». Scrive Diogene Laerzio: Teodoro fu colui che distrusse ogni opinione sugli Dei 23 •
E Cicerone precisa: Anche riguardo a questo problema la maggior parte degli uomini affermò l'esistenza degli dei, il che è massimamente conforme a verità e a ciò a cui noi tutti ci indirizziamo sotto la guida della natura. Protagora invece ne dubitò, li negarono del tutto Diagora di Melo e Teodoro di Cirene 24 •
E a questa concezione aderi, come sopra abbiamo già ricordato 25 , anche il cinico Bione 26 • Cicerone, Tusc. disput., I, 43, 102 ( =Giannantoni, VIII, 14 = IV H, 82). Filone di Alessandria, Quod omn. prob. lib. sit., 129 sg. ( = Giannantoni, VIII, 18 = IV H, ~). 23 Diogene Laerzio, 11, 97 ( = Giannantoni, VIII, 23 = IV H, 13 2 ). 24 Cicerone, De nat. deor., I, 1,2 ( = Giannantoni, VIII, 30 = IV H, 1~). Cfr. inoltre tutte le testimonianze dalla 23 alla 42 = testimonianze 13-25 della seconda edizione. Per la vel.'ità, il Gomperz (Pensatori greci, 11, p. 707, nota l) ha affermato che, malgrado il tenore delle affermazioni di Diogene e di Cicerone, non si può dire che Teodoro abbia avuto di mira la negazione pura della credenza in Dio, ma piuttosto, come riferisce Sesto Empirico, Contro i matem., IX, 55 ( = Giannantoni, VIII, 38 = IV H, 23'), che abbia distrutto « tutto quello che i Greci avevano detto sulla divinità ». Senonché la negazione di tutto ciò che i Greci avevano detto sugli Dei difficilmente poteva lasciare ancora spazio ad una qualche credenza in Dio. 2 certo, in ogni caso, che gli antichi non videro nell'opera Sugli Dei di Teodoro alcuno spiraglio positivo in tale senso. 25 Cfr. sopra, pp. 49 e 51. 26 A Teodoro e alla Scuola cirenaica molti ricollegano Evemero di Mes21
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5. La fine del cirenaismo
La Scuola di Cirene, nella sua prima fase, come abbiamo veduto, perde gran parte del messaggio socratico, mentre, nella seconda fase, perde, oltre a quanto di socratico era rimasto nella prima, anche se medesima, rinnegando le istanze da cui era nata. E perde se medesima per le seguenti ragioni. Aristippo aveva sostanzialmente insegnato questo: l) il bene è il piacere; 2) il piacere è il positivo godimento e non l'assenza di dolore; 3) il piacere è quello del momento. Ora, come è stato ben notato, «queste tre determinazioni vengono eliminate una dopo l'altra: Teodoro contesta la terza, Egesia la seconda, Anniceride non si attiene più nemmeno alla prima » 27 • È poi particolarmente eloquente, e quasi simbolico, il rovesciamento totale del gioioso sentimento del vivere, che era proprio di Aristippo, in un desolato desiderio di morte di Egesia, «il persuasor di morte». Il messaggio di vita si capovolgeva in messaggio di morte:
La morte ci divide dai mali, non dai beni, se badiamo al vero. È per questo concetto discusso cosi ampiamente da Egesia Cirenaisene in Sicilia, vissuto a cavaliere fra il IV e il III secolo a. C., autore di uno Scritto sacro (tradotto in latino dal poeta Ennio). Ma da tempo questo collegamento è stato, a buona ragione, contestato. Scrive il Gomperz (Pensatori greci, II, p. 709, nota 2): «Non possiamo assentire alla tradizione che ricollega Evemero alla scuola cirenaica, il che si fa tuttora, sia pure con ogni specie di riserve e di restrizioni. "Non sussiste la più piccola testimonianza - ha osservato già da tempo, a ragione, Erwin Rohde - che parli in favore di una tale assunzione" (Der Griechische Roman, 2' ed., p. 241;' nota l)». Né Evemero sembra meritarsi l'epiteto di «famoso razionalista greco» datogli da Zeller (Die Philosophie der Griechen, II, l, p. 343), dato che la sua opera aveva carattere romanzesco e l'idea che gli Dei fossero uomini deificati è stemperata nel fantastico e abbondantemente mescolata con la favola. '~~ Zeller, Die Philosophie der Griechen, II, l, p. 383.
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L'ESAURIMENTO DELLE SCUOLE SOCRATICHE MINORI
co che, si dice, il re Tolomeo gli vietò di insegnare quelle idee nelle scuole, poiché molti, uditele, si davano spontaneamente la morte 28 • D'altra parte, il messaggio di fondo del cirenaismo era stato raccolto da Epicuro, il quale aveva ripensato e motivato l'edonismo con profondità e originalità tal~. da eclissare interamente l'antico edonismo. Tutte queste ragioni, sommandosi insieme, provocarono la definitiva scomparsa della Scuola di Cirene.
28
Cicerone, T usc. disput.,
1,
34, 83 ( = Giannantoni,
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VI,
3 =
IV
F, 32 ).
III. GLI SVILUPPI DIALETTICI DELLA SCUOLA MEGARICA E LA SUA DISSOLUZIONE
l. L' e v o l u zio n e d e 11 a d o t tr i n a m e g a ri c a e l e sue caratteristiche
Come già accennammo nel primo volume ', la Scuola megarica si dedicò prevalentemente alla dialettica e all'aspetto eristico di questa. Non trascurò le dottrine morali, ma, come vedremo, in questo ambito non raggiunse risultati ragguardevoli né originali. La componente eleatica della dottrina prese il sopravvento su quella propriamente socratica e, per conseguenza, le polemiche che i Megarici condussero finirono per essere per lo più polemiche di retroguardia e quasi mai d'avanguardia. Ha scritto, a questo proposito, Teodoro Gomperz: «Se si possono paragonare. le grandi filosofie di Atene alle colonne di un esercito vittorioso, i Megarioi possono essere rappresentati come dei tiratori che non cessano mai di dar loro noia, scompigliando le retroguardie e ostacolando la marcia in avanti. Andare alla ricerca dei punti deboli delle costruzioni filosofiche ateniesi, seguire passo passo con una critica penetrante il cammino delle scuole dogmatiche, dalla aristotelica, alla stoica alla epicurea, ecco ciò a cui i pensatori di Megara si sono sempre mostrati ben disposti e pronti » 2 • Il giudizio
' Cfr. vol. I, pp. 418-426. Ricordiamo che l'edizione di riferimento dei Megarici, oltre a quella del DOring (dr. vol. I, p. 418, nota 1), è, ora, anche quella di G. Giannantoni, Euclidis et Megaricorum philosophorum reliquiae, nelle Socraticorum Reliquiae (più volte citate), 11 A-u S. • Gomperz, Pensatori greci, n, p. 611. -.
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del Gomperz è in gr·an parte esatto e la sua formulazione efficacissima; tuttavia esso non rileva un punto, che è, invece, essenziale. Le critiche e le polemiche megariche hanno quasi sempre sapore arcaico, e, al di sotto della loro apparente audacia e novità, sono, in realtà, conservatrici e addirittura reazionarie, in senso eleatico: esse risultano sostanzialmente sorrette dalla convinzione che l'antologia eleatica sia insuperabile e che la dialettica di tipo zenoniano sia l'unica forma possibile di dialettica o l'unica valida. Non c'è dunque da stupirsi del fatto che i Megarici abbiano polemizzato soprattutto contro Platone e contro Aristotele, e proprio contro le dottrine di questi filosofi che costituivano un superamento radicale dell'ontologia eleatica, ossia contro la platonica teoria delle Idee e l'aristotelica dottrina della potenza, che davano ragione, rispettivamente, della molteplicità e del divenire e componevano l'eleatica antitesi fra la ragione e l'esperienza. In effetti, sono due i principi speculativi che i Megarici cercarono di riguadagnare: l) non esiste il molteplice (né il molteplice empirico, né il molteplice metafisica del platonico mondo delle Idee), 2) non esiste alcuna forma di movimento e in genere di divenire. I loro principali argomenti erano dialetticamente finalizzati al recupero del primo o del secondo di questi principi. È peraltro da rilevare come, talora (e anzi ·in alcuni rappresentanti della Scuola piuttosto di frequente), le argomentazioni dialettiche non fossero connesse espressamente alle finalità che abbiamo :indicate e come, talora, addirittura le dimenticassero, per diventare mero esercizio di bravura formale, e, quindi, mera eris~ica. Sicché, anche da questo punto di vista, è innegabile quel carattere arcaico, e in parte anche retrivo, della dialettica megarica, di cui sopra dicevamo. I nomi più famosi del secondo megarismo sono quelli di Eubulide, di Alessino, di Diodoro Crono e di Stilpone, che di tutti fu il più famoso e ammirato.
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2.
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Eubulide e i «paradossi» megarici
In Eubulide 3 (di cui fu uditore il celebre oratore Demostene) sembra predominassero gli interessi eristici, come provano i sette argomenti dialettici che gli vengono attribuiti. Già un antico comico diceva di lui: Eubulide l'Eristico che poneva sofismi cornuti e confondeva gli oratori con argomenti falsi e pomposi, se ne andò col volgare ed inutile cicaleccio di Demostene 4 • Questi argomenti sono stati, già nell'antichità, indicati con i nomi seguenti: l) il Mentitore, 2) il Celato, 3) l'Elettra, 4) il Velato, 5) il Sorite, 6) il Cornuto, 7) il Calvo. Data la celebrità che essi ebbero nell'antichità, e poiché di alcuni di essi si occuparono anche logici antichi e contemporanei, vogliamo brevemente riferirli, a cominciare da quelli che mostrano maggiore consistenza 5 • L'argomento del Sorite, o del «mucchio», e quello del Calvo agitano una identica difficoltà e si ispirano direttamente ad un analogo argomento già formulato da Zenone di Elea 6 • Dalle molteplici varianti in cui essi sono stati tramandati, possiamo trarre le seguenti formulazioni sintetiche. Se due chicchi sono pochi, lo sono anche tre chicchi, e cosi anche quattro, e lo stesso deve dirsi successivamente per ogni numero, giacché non si vede alcun criterio in base al quale, giunti ad un certo numero di chicchi, si debba dire che sono molti e che sono un mucchio: dunque, non è possibile dire quanti chicchi di grano occorrono per costituire « un mucchio ». Analogamente, se strappo ad uno un capello non lo 3 Eubulide nacque a Mileto (Diogene Laerzio, II, 108 = DOr.ing, fr. 50 = Giannantoni, II B, 1). Fu un contemporaneo di Aristotele, ma probabilmente più vecchio, e con lui polemizzò (dr. DOring, frr. 59-62 = Giannantoni, II B, 8-11). • Diogene Laerzio, II, 108 ( =DOring, fr. 51 A=Giannantoni, n B, 1). 5 Cfr. Gomperz, Pensa/ori greci, II, pp. 634 sgg. ' Cfr. vol. I, pp. 139 sg.
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rendo calvo, e nemmeno se gliene strappo un secondo, e poi un terzo, e cosi via; manca, insomma, un criterio per stabilire quanti capelli un uomo deve perdere per essere detto calvo. È chiaro che questi due argomenti sono diretti, come quello zenoniano su cui sono modellati, contro tutte le dottrine che ammettono il molteplice (e dunque sono una riprova per assurdo dell'Uno-Bene euclideo): infatti le caratteristiche essenziali del moltep1ice, se questo davvero esistesse, dovrebbero essere quelle quantitative del molto e del poco, che, invece, i ragionamenti sul Mucchio e sul Calvo dimostrano essere indeterminabili e, quindi, ,inesistenti 7 • L'argomento del Mentitore può essere cosi formulato: di uno che mente e dice di mentire, diremo che mente o che dice il vero? Il mentitore che dice di mentire risulterebbe, insieme, e mentire e dire il vero; ma questo è contrario al principio di non contraddizione e quindi è assurdo. Anche questo argomento, probabilmente, come i precedenti, intendeva colpire il pluralismo, mostrando come il molteplice e le proposizioni della logica discorsiva (che strutturalmente suppone il molteplice) si dibattano in insuperabili contraddizioni, come, in modo paradigmatico, dimostra appunto la proposizione che esprime il paradosso del mentitore 8 • Gli argomenti dell'Elettra, del Velato e del Celato agitano tutti la medesima difficoltà, espressa in diverso modo. Alla domanda se Elettra conosca o no il fratello Oreste, cresciuto lontano da lei, a:llorché le si presenta come straniero, l'interlocutore può rispondere in modo negativo o affermativo. Ma in ambedue i casi viene confutato. Se risponde no, vien confutato in base al rilievo che Elettra sapeva che Oreste 7 Cfr. Cicerone, Acad. pr., 11, 16, 49; 28, 92 sgg.; Sesto Empirico, Contro i matem., VII, 416; Idem, Schizzi pi"oniani, 11, 253; Orazio, Epist., Il, l, 45-47. • Cfr. Aristotde, Confutazioni sofistiche, 25, 180 b 2 sgg.; Cicerone, Acad. pr., 11, 29, 95. Abbiamo accolto l'esegesi di A. Levi, Le dottrine filosofiche della scuola di Megara, pp. 484 sg.
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era suo fratello. Se risponde sl, viene confutato in base al rilievo che ella ignorava che colui che le stava dinanzi era Oreste. Analogamente, se ad uno viene presentato il padre velato. e gli si domanda se conosca o no suo padre, questo interlocutore viene confutato in qualunque modo risponda. Se dice sl, gli si oppone che, in quanto velato, non lo può conoscere; se dice no, gli si oppone che è impossibile che non conosca suo padre. Qui è evidente che l'argomentazione gioca sull'ambiguità dei significati di conoscere (per smantellare i due paradossi, basterebbe fare uso del verbo riconoscere, per indicare uno dei due significati in cui viene usato lo stesso verbo conoscere) e non sembra aver di mira la confutazione delle antologie pluralistiche 9 • Ancor più capzioso è l'argomento del Cornuto. All'interlocutore veniva posta la domanda se avesse perduto o no le sue corna e gli si permetteva di rispondere solo con un « sl » o con un « no ». Se rispondeva sl, si obiettava che, allora, in precedenza egli le aveva; se rispondeva invece no, gli si obiettava che, allora, le aveva ancom (e che, quindi, era stato o era tuttora cornuto) 10 • È evidente che Eubulide, con questi argomenti, mirava a far sfoggio di bravura, perseguendo un intento squisitamente eristico, esattamente ·come i Sofisti descrittici da Platone nell'Eutidemo 11 • Il suo discepolo Alessino, che gli antichi ci dicono « amantissimo delle controversie », si meritò addirittura il nomignolo di Elessino, che, con Heve modificazione del suo vero nome, veniva ad esprimere in modo arguto ('E>..e:y~!voc; da lhn:oc;, che vuoi dire confutazione) la .smania di confutare che lo distingueva 12 • ' Cfr. Luciano, Vitarum auctio, 22 ( = von Arnim, S. V.F., II, fr. 287). Diogene Laerzio, vn, 187 ( = Giannantoni, n B, 13); Gellio, Noctes Atticae, VI, 2, 9-10; xvn, 2, 9. 11 Cfr. vol. 1, pp. 271 sgg. 12 Diogene Laerzio, n, 109 ( = DOring, fr. 73 = Giannantoni, II C, 1).
° Cfr.
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3. Diodoro Crono e la polemica contro la concezione aristotelica della «potenza»
Diodoro soprannominato « Crono » 13 fu pure un formidabile dialettico; ma i suoi argomenti rivelano maggior serietà e consistenza rispetto a quelli di Eubulide, e soprattutto una consapevole finalizzazione teoretica all'obiettivo che vogliono colpire, che consiste, questa volta, nella negazione del divenire in tutte le sue varie forme. Naturalmente, per ridifendere questa tesi eleatica (la più tipica delle tesi eleatiche), occorreva fare i conti con Aristotele, che più di tutti gli altri filosofi aveva contribuito a sgretolarla, guadagnando le categorie della potenza e dell'atto. Ogni forma di divenire è impossibile, dicevano gli Eleati, perché ogni forma di divenire suppone un passaggio dal non-essere all'essere (o viceversa); ma siccome il nonessere non esiste, cosi non esiste neppure il divenire. Aristotele controbatte che la posizione eleatica giunge a queste assurde conseguenze, perché concepisce l'essere in modo monolitico come mera attualità già da sempre e per sempre realizzata, laddove l'essere è, invece, anche potenza o possibilità (la potenza non è assoluto non-essere, bensl non-essere-inatto) e il divenire è passaggio da potenza ad atto, ossia da un modo di essere ad un altro modo di essere, come abbiamo veduto nel precedente volume 14 • Ebbene, Diodoro adduce alcuni argomenti contro il moto in generale, ispirandosi a Zenone; ma gioca la partita decisiva proprio cercando di smantellare la concezione della potenza, utilizzando argomenti già fatti valere dai predecessori, ma Alessino fu contemporaneo all'incirca di Zenone, contro cui polemizzò (cfr. Diogene Laerzio, II, 109 [= DOring, fr. 92; ivi, p. 117, altre indicazioni]). 13 Diodoro Crono fu discepolo di Apollonia Crono, che fu discepolo di Eubulide (Diogene Laerzio, II, 111 = DOring, fr. 96 = Giannantoni, II F, 1). Fiori probabilmente nella seconda metà del IV secolo a. C. •• Cfr. il vol. II, pp. 294 sgg.
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aggiungendone anche dei nuovi. Ci limiteremo all'esame di questa polemica contro la dynamis, dato che gli altri argomenti si rifanno a moduli presocratici, mentre quelli contro la potenza hanno un significato assai più profondo e mostrano che DiOdoro aveva perfettamente capito che la scoperta aristotelica era tale da liquidare l'eleatismo. Il ragionamento che facevano i Megarici doveva essere sostanzialmente questo: se la potenza è essere, allora coincide con l'atto (perché l'essere non può che essere uguale all'essere), e, dunque, c'è potenza solo quando c'è atto. Ci riferisce lo stesso Aristotele in aperta polemica contro i Megarici: Ci sono alcuni pensatori, come ad e~empio i Megarici, i quali sostengono che c'è la potenza solamente quando c'è l'atto, e che quando non c'è l'atto non c'è neppure la potenza. Per esempio colui che non sta costruendo - secondo costoro - non ha la potenza di costruire, ma solo colui che costruisce e nel momento in cui costruisce; e cosi dicasi per tutti gli altri casi 15 •
Aristotele rilevava poi le assurdità che conseguono da tale identificazione. a) Se la potenza non si distinguesse dall'atto, nessuno potrebbe possedere qualsivoglia arte (l'arte è potenza, è capacità di realizzare), se non si trovasse attualmente ad esercitarla (il costruttore, quando smette di costruire anche momentaneamente, verrebbe a perdere la sua arte, e cosi via). b) Nessun sensibile (caldo, freddo, dolce, amaro) potrebbe esistere (il sensibile è potenzialità o capacità di essere sentito), se non venisse sentito in atto. c) Non si potrebbe dire che possiede sensibilità (che è potenza di sentire) se non chi sente in atto (chi cessasse, anche momentaneamente, di vedere e di sentire diventerebbe cieco e sordo). d) Ciò che non è attualmente verrebbe ad essere impossibile (chi è in piedi non potrebbe più sedersi e chi è seduto non potrebbe più alzarsi) 16 • " Aristotele, Metafisica, 8 3, 1046 b 29-32 (:::: DOring, fr. 130 A :::: Giannantoni, n B, 15. " Cfr. Aristotele, Metafisica, 8 3, 1046 b 32 sgg.
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Ma Diodoro non si scoraggia per nulla e rincara la dose, non solo ribadendo la tesi dell'identità fra potenza e atto, cioè fra possibilità e realtà, ma altresi fra possibilità e necessità. Per Aristotele · è in potenza solo ciò il cui tradursi in atto non implica (di diritto) alcuna impossibilità (o assurdità), anche se di fatto potrà non tradursi in atto 17 • Per Diodoro potenziale o possibile è solo ciò che di diritto e di fatto, e dunque di necessità, si tradurrà in atto. Ci riferisce Cicerone: Egli [scil.: Diodoro] infatti sostiene che è possibile solo ciò che è vero ora o lo sarà in futuro, e tutto ciò che accadrà in futuro egli lo dichiara necessario, e tutto ciò che non accadrà lo dichiara impossibile 18 •
E .ancora: Ma ritorniamo alla discussione di Diodoro che si chiama n-e:pl 3uvoc-rwv, nella quale si cerca la definizione di possibile.
Dunque Diodoro crede che sia possibile soltanto ciò che è vero nel presente o lo sarà nel futuro. Questo principio è collegato alla seguente tesi: nulla accade che non sia stato necessario, ciò che è possibile o è già o sarà; il futuro non può diventare più del passato da vero a falso. Ma l'immutabilità del passato è evidente, mentre quella del futuro in certi casi non ~ppare e [solo] per ciò può essere messa in dubbio 19 •
In altri termini: se il passato è necessario, doveva essere necessario anche prima di diventare passato; lo stesso vale se si prospetta il ragionamento nel futuro: il possibile è ciò che necessariamente sarà (altrimenti sarebbe un non-possibile, ossia un impossibile). È appena il caso di rilevare che la riduzione della potenzialità all'attualità (ossia alla realtà), e quindi alla necessità, " Cfr. Aristotele, Metafisica, 9 4, passim. 18 Cicerone, De fato, 7, 13 ( Doring, fr. 132 A Giannantoni, 11 F, 25). " Cicerone, De fato, 9, 17 ( = DOring, fr. 132 A = Giannantoni, 11 F, 25). Si veda anche Epitteto, Diatribe, 11, 19, 1·5 ( Giannantoni, 11 F, 24).
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comporta, a ben vedere, oltre che la negazione del divenire, la negazione della stessa temporalità, in quanto, rinserrato nelle catene della necessità, il futuro, dal punto di vista ontoJogico, risulta già determinato come il passato e come il presente. E allora si reimpone appunto la ,tesi di Parmenide, secondo la quale l'essere non era né sarà, ma, propriamente, è ora, è un presente assolutamente immutabile 20 • L'argomento di Diodoro fu denominato xupLe:U(I)V J..6yoc;, ossia « argomento dominatore » o « vittorioso » o « irresistibile », ossia « ·inoppugnabne » 21 • In realtà, esso non vince affatto la posizione aristotelica: una oosa, per essere possibile, non deve necessariamente attuarsi di fatto; basta che di diritto sia attuabile, ossia che non implichi contraddizioni logico-antologiche 22 • È importante rilevare, inoltre, come tale dottrina implichi. sul piano morale, un determinismo ferreo e come pertanto al libero agire umano essa non lasci spazio. Non risulta, tuttavia, che Diodoro abbia approfondito i rapporti fra l'etica e la sua ontologia. Anche in lui la componente eleatico-dialettica ha il netto sopravvento. 4. Stilpone e le ultime affermazioni del megarismo
Stilpone 23 sembra essere stato l'esponente del megarismo che condusse più a fondo la polemica contro i presupposti della logica discorsiva, che è propria di ogni forma di plurali-smo, compreso il pluralismo platonico. Cfr. Levi, Le dottrine filosofiche della scuola di Megara, pp. 492 sg. Sul problema cfr. P.M. Schuhl, Le dominateur et les possibles, Paris 1960. 22 Cfr. Aristotele, Metafisica, e 3 e 4, passim. 23 Stilpone nacque a Megara (dr. DOring, fr: 147 e Giannantoni, 11 O, 2). Fiorì probabilmente verso la fine del IV secolo a.C. Il DOring congettura che Stilpone sia vissuto fra il 360 e il 280 a. C. circa (p. 140). 21 21
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È valido solo il giudizio identico, in cui si afferma nel predicato lo stesso concetto espresso dal soggetto. Si potrà dunque correttamente dire Socrate è Socrate, il buono è buono, il musico è musico; ma non si potrà dire Socrate è buono e musico e nemmeno, separatamente, Socrate è buono e Socrate è musico. Riferisce Simplicio:
Anche i filosofi chiamati Megarici, assumendo come evidente la proposizione che le cose le cui definizioni sono diverse, sono esse stesse diverse e che le cose che sono diverse sono fra loro separate, credevano di dimostrare che ciascuna cosa è separata da se stessa. Infatti, dal momento che altra è la definizione di Socrate musico e altra la definizione di Socrate bianco, anche Socrate sarebbe separato da se medesimo 24 •
Plutarco riferisce anche questo argomento. Si può predicare solo l'identico dell'identico. Infatti, se dicessimo Sacrate è buono o il cavallo corre, e lo dicessimo con verità, noi verremmo ad identificare « Socrate » e «buono », « cavallo» e «correre», di guisa che non potremmo più dire di alcuna altra cosa « è buona », né di alcun altro animale « corre » 25 • Per capire questi ragionamenti, occorre tener presente che la copula « è » è intesa dai Megarici nel senso di « è identico » o « è uguale » (l'uomo è buono nel senso di: uomo = buono). La logica megarica ignora, quindi, i guadagni della logica aristotelica e le distinzioni f.ra sostanza e categorie, sostanza e accidenti (fra il soggetto che è sostrato di inerenza e le affezioni che ineriscono al soggetto); guadagni e distinzioni che sono tali da recidere in tronco tutte le difficoltà sollevate. Essa ruota interamente nella sfera della logica eleatica, la quale ammette la sola esistenza dell'Essere uno •• Simplicio, In Arist. Phys., 120, 12-17 ( = DOring, fr. 198 = Giannantoni, II O, 30). 25 Cfr. Plutarco, Adv. Colot., 22, 1119 c-d; 23, 1120 a-b ( = DOring, fr. 197 = Giannantoni, II O, 29).
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identico a sé. Propriamente parlando, i Megarici avrebbero dovuto non solo sostenere che sono validi solamente i giudizi identici come «l'uomo è uomo», «il bene è bene», «il musica è musica»; ma avrebbero dovuto negare anche la stessa possibilità di una pluralità di giudizi identici (uomo, buono, musico sono cose diverse e, dunque, molteplici) e ridursi all'affermazione di un unico giudizio identico: l'essere è l'essere (o l'uno è l'uno). Stilpone condusse, inoltre, una esplicita polemica contro la teoria platonica delle Idee. Riferisce Diogene Laerzio: Molto bravo nelle controversie, negava anche la validità delle Idee. Egli diceva che quando uno afferma l'uomo [l'Idea di uomo], non intende nessun uomo particolare, né questo né quello; perché infatti dovrebbe intendere l'uno piuttosto che l'altro? Dunque non intende neppure quest'uomo particolare. Cosi pure la verdura [l'Idea di verdura] non è questa verdura particolare, perché la verdura esisteva già da diecimila anni; dunque questa non è la verdura 26 •
Questo ragionamento significa: posto che esistano le Idee, ciascuna di esse non designa né questa né quell'altra cosa in particolare (l'Idea di uomo non designa né quest'uomo qui, né quell'altro uomo), e, pertanto, non ne designa nessuna. Dunque le Idee non esplicano quel ruolo per cui sono state introdotte (ossia non garantiscono affatto l'unità del molteplice, .non medi'atlo l'unità e la molteplicità) 27 • Ricordiamo che la polemica antip1atonica era già stata iniziata da Brisone, che apparteneva al circolo di Euclide, e dal suo discepolo Polisseno 28 , cui è attribuito espressamente dagli antichi l'argomento del cosiddetto« terzo uomo» contro la teoria delle Idee e ,al quale Platone stesso già risponde nel Diogene Laerzio, n, 119 (=DOring, fr. 199=Giannantoni, II O, 27). Cfr. Gomperz, Pensatori greci, II, pp. 644 sg. 21 Su di essi si veda DOring, pp. 62 sgg. e 157 sgg.; ci sembra tuttora convincente quanto dice Levi, Le dottrine filosofiche della scuola di Megara, p. 476, e nota 2. 26
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Parmenide 29 • Se, partendo dalla molteplicità degli uomini empirici, per spiegare l'unità di questa molteplicità noi introduciamo l'Idea unica di uomo, ebbene, in base al medesimo r:agionamento, potremmo dire che occorre introdurre un nuovo uomo (un terzo uomo), che dovrà essere la ragione per cui sono uomo e l'Idea di uomo e gli uomini empirici, e poi, per la stessa ragione, una ulteriore Idea di uomo che a tutti comunichi l'essere uomo, e cosl via all'infinito. Del resto si hanno buone ragioni per credere che l'intero Parmenide (o almeno tutta la prima parte) sia diretto contro la logica e l'antologia megariche 30 • Stilpone non mostra, pertanto, di aver compreso la risposta che Platone aveva dato agli interrogativi suscitati dalla Scuola megarica fin dal suo nascere circa il rapporto fra l'uno e i molti, cosl come Diodoro mostra di non aver compreso la portata della dottrina aristotelica della potenza nella soluzione del problema del mutamento e del divenire. Per tali ragioni dicevamo che questi filosofi rappresentano la « reazione eleatica »,perché non sanno procedere al di là delle risposte di Platone e di Aristotele, ma si collocano al di qua di esse. Di Stilpone ci sono riferite anche alcune idee morali. Egli riteneva che il saggio dovesse bastare a se medesimo e che quindi, per salvaguardare la sua autarchia, non dovesse aver bisogno di amici. Anzi il saggio, secondo Stilpone, deve non solo essere superiore ai bisogni, ma addirittura deve essere capace di non sentire neppure questi bisogni. L'insensibilità ( cbt oc .& e: L ex ) è dunque l'ideale di Stilpone 31 • Alcuni hanno visto in queste .dottrine precisi influssi cinici 32 , altri hanno invece rilevato che esse derivano dal presupposto metafisico antipluralistico 33 • Scrive ad esempio il Levi che le teorie onto29 Platone, Parmenide, 131 e - 132 b. "' Cfr. Levi, Le dottrine filosofiche della scuola di Megara, pp. 475 sgg. •• Cfr. Seneca, Epist., 9, 1-3 ( =DOring, fr. 195=Giannantoni, II O, 33). 02 Cfr. Zeller, Die Philosophie der Griecben, II, pp. 273 sg. 33 Cfr. la nota che segue.
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logiche dei Megarici «includono per necessità un'orientazione etico-religiosa della vita, attestata da notizie scarse, ma significative, che costituisce il presupposto naturale dell'insegnamento di Stilpone. Si può osservare che il misticismo ascetico delle religioni positive, quando, per accentuare l'abisso che divide il Creatore dalle creature (alle quali nega una certa realtà), afferma che l'universo e gli esseri finiti che lo costituiscono sono un nulla di fronte all'Essere supremamente reale, esprime già una certa valutazione della vita e fissa una determinata norma della condotta. Con maggior ragione ciò si può dire del megarismo, che afferma in senso non relativo, ma assoluto, l'irrealtà di tutto ciò che non è l'Essere Uno, il Bene, Dio » 34 • Il Levi può aver l."agione; tuttavia è certo che, se anche Stilpone e i Megarici presentarono coo questo spirito il loro messaggio etico, i contemporanei lo intesero scarsamente e ritennero ben più attraenti e sostanziosi i messaggi etici delle altre Scuole. Del resto, la contemplazione del vero che per il fondatore della Scuola era la contemplazione dell'Uno-bene, a poco a poco diventò quasi solo negazione dialettica del molteplice, e questa, nella misum in cui sottintendeva o lasciava nello sfondo quel positivo che voleva difendere, doveva fatalmente perdere ogni mordente etico, anche quando non degenerava (come abbiamo visto in Eubulide) nell'eristica. 5.
La fine della Scuola megarica
Stilpone ebbe una forte personalità ed eccezionali capacità dialettiche. Scrive di lui Diogene Laemo: Per l'invenzione degli argomenti e per la capacità sofistica primeggiò tanto sugli altri che quasi tutta la Grecia volse lo sguardo verso di lui e segui la Scuola megarica. Su di lui Filippo di 34
Levi, Le dottrine filosofiche della scuola di Megara, p. 472.
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Megara cosl si esprime testualmente: «Da Teofrasto trasse a sé Metrodoro il Teoretico e Timagora di Gela, da Aristotele filosofo cirenaica Clitarco e .Simmia, dai dialettici Peonio, da Aristide Difilo del Bosforo figlio di Eufanto e Mirmece figlio di Esseneto: questi due ultimi erano venuti da lui per confutarlo, ma divennero suoi devoti seguaci». Inoltre guadagnò alla sua scuola Frasiderno il Peripatetico, esperto negli studi fisici e il retore Alcimo, principe di tutti gli oratori della Grecia d'allora; Cratete anche e moltissimi altri egli conquistò ed infine, insieme con questi, trasse via anche Zenone il Fenicio 35 • Furono questi, però, gli estremi successi della Scuola. Con Stilpone il megarismo esaurisce pressoché del tutto la sua funzione: i messaggi etici che venivano dalle nuove Scuole ellenistiche con ben altra carica di vigore e con ben 1Ùtra efficacia oscurarono del tutto i messaggi del megarismo, mentre lo scetticismo (cui peraltro il megarismo fornl armi copiose: Pirrone, fondatore dello scetticismo, ebbe fra i maestri anche un Megarico) con ben più coerenti motivazioni prosegui quella critica e quella dialettica per cui i Megarici erano stati tanto ammirati. È peraltro giusto riconoscere che La Scuola megarica è stata per lo più sottovalutata. Platone avew riconosciuto che il problema di fondo che essa agitava era un grave problema, e, dopo aver dedicato al medesimo l'intero Parmenide, ancora nel Filebo .affermava quanto segue: Che i molti siano uno e che l'uno sia molti, è cosa mirabile a dirsi 36 • Aristotele, nella Metafisica, come abbiamo visto, rispose espressamente alle obiezioni megariche 37 • Dal megarismo desunsero alcuni dei loro problemi logici gli Stoici e lo stesso Epicuro polemizzò con Stilpone, mentre, come abbiamo detto, 35 Diogene Laerzio, II, 113 sg. ( = Giannantoni, II O, 3). "' Platone, Filebo, 14 c. 37 Cfr. Aristotele, Metafisica, 9 3 ( = Giannantoni, n B, 15).
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SVILUPPI DIALETTICI DELLA SCUOLA MEGAUCA E SUA DISSOLUZIONE
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a piene mani gli Scettici attinsero ai loro argomenti. Ma successivamente l'interesse per questa Scuola si spense quasi del tutto. Solo ·in tempi moderni pensatori come Herbart, Bradley e Hartmann ne ripensarono alcuni dei problemi d:i fondo. E solo in tempi moderni la storiografia filosofica ha fatto luce sul significato filosofico e storico delle dottrine della Scuola. Per riallacciarci al tema generale che stiamo svolgendo, diremo, a conclusione, che il secondo megarismo di« socratico » mantenne assai poco: di Socrate sviluppò la dialettica in senso eristico, ma perdendone i precisi connotati ironico-maieutici e in gran parte anche le finalità etiche. L'ultima fase della Scuola megarica assomiglia pertanto più ad una prosecuzione della Scuola eleatica che non a quella di una Scuola socratica. E certamente molti dei suoi successi, e soprattutto la sua durata, sono dovuti, come già accennammo, oltre che all'entità dei problemi da essa sollevati, al gusto straordinario che i Greci ebbero per quei virtuosismi eristico-dialettici di cui i Megarici furono maestri.
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IV.
LA
RAPIDA
DISSOLUZIONE
DELLA
SCUOLA
ELIACO-
ERETRIACA
Abbiamo già detto, nel primo volume 1, come la Scuola di Pedone di Elide si fosse rapidamente dissolta e come la sua eredità fosse stata raccolta da Menedemo e dal suo amico Asclepiade di Fliunte, i quali la trasportarono ad Eretria, donde venne alla Scuola il nome di eretriaca (o, per ricordare altresl la sua origine, eliaco-eretriaca). Scrive Diogene: Suo [di Fedone] successore fu Plisteno di Elide, a cui successero una generazione più tardi Menedemo di Eretria e Asclepiade di Fliunte, che provenivano da Stilpone. Fino ad allora la scuola era chiamata di Elide, ma da Menedemo in poi fu chiamata di Eretria 2• Menedemo fu uno dei seguaci di Fedone [ ... ]. Menedemo, inviato dagli Eretriesi al presidio di Megara, visitò l'Accademia di Platone e ne rimase attratto fino al punto di lasciare il servizio militare. Asclepiade di Fliunte lo trasse a sé ed egli visse a Megara con Stilpone, delle cui lezioni furono entrambi uditori. Di Il navigarono verso Elide, dove si incontrarono con Anchipilo e Mosco, seguaci di Fedone. D'allora in poi furono chiamati Eliaci o Scuola di Elide; successivamente si chiamò Scuola di Eretria, dalla patria di colui di cui ci occupiamo 3 • ' Cfr. vol. 1, pp. 427-430. Ricordiamo che l'edizione di riferimento per i filosofi di questa scuola è quella di G. Giannantoni, Phaedonis Eli· densis, Menedemi Eretrii, eorumque discipulorum reliquiae, contenuta nelle già più volte citate Socraticorum Reliquiae, III A-m H. • Diogene Laerzio, n, 105 ( = Giannantoni, m A, 1). 1 Diogene Laerzio, n, 125 sg. ( = Giannantoni, III F, 1).
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RAPIDA DISSOLUZIONE DELLA SCUOLA BLIACO.BRBTUACA
Le dottrine di Menedemo, per quanto è possibile desumere dalle testimonianze su di lui pervenuteci, sono una eco di quelle dei maestri. In esse si fondono la dialettica megarica con le istanze etiche della Scuola di Fedone. Nella dialettica Menedemo dovette eccellere, t-anto che le antiche testimonianze ci dicono che egli non aveva rivali « nella concatenazione dei pensieri » e che « poteva rivolgersi a tutti gli argomenti e inventava obiezioni con facilità » e addirittura che era « il principe dell'eristica» 4 • In questo ambito egli dovette largamente ispirarsi a Stilpone, come è dato di ricavare dalla testimonianza di Diogene: Come dicono, non ammetteva le proposizioni negative, ma le risolveva tutte in proposizioni affermative e di queste ammetteva bensl le semplici, respingeva le non semplici, intendo le proposizioni ipotetiche e complesse 5• Come i Megarici, egli respingeva altresl la teoria platonica delle Idee, come si ricava da questa testimonianza: I seguaci della Scuola di Eretria negavano che le qualità fossero qualcosa di comune sostanziale, ritenendo che esse sussistessero negli oggetti individuali concreti 6 •
(Queste qualità comuni sostanziali - si noti - non possono essere altro che le platoniche Idee). Per l'etica Menedemo ebbe più interesse che non i Megarici, anche se ad essi, oltre che alla Scuola di Fedone, è debitore di alcuni concetti morali, come quello dell'unità del bene: A chi diceva che vi sono molti beni chiedeva quanti fossero di numero e se credeva che fossero più di cento 7 • • Diogene Laerzio, II, 134 ( = Giannantoni, m F, 18). ' Diogene Laerzio, II, 135 ( = Giannantoni, m F, 18). • Simplicio, In Arist. Categ., 216, 12·14 ( = Giannantoni, 7 Diogene Laerzio, n, 129.. (= Giannantoni, III F, 17).
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III
F, 19).
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L'ESAURIMENTO DELLE SCUOLE SOCRATICHE MINOBI
Negava che il bene e l'utile (materiale) si identificassero, e sosteneva che il bene è la virtù-scienza. Ecco una testimonianza che mette bene in rilievo la sua sensibilità morale e il generale orientamento della sua etica: Una volta udl un tale che diceva che il bene più grande è ottenere tutto ciò che si desidera, ma egli replicò che bene ancor più grande è desiderare ciò che si deve 8•
Menedemo non ebbe discepoli che continuassero la Scu~la. Assorbito dall'attività .politica e anche per una certa negligenza, egli non si curò né degli uni né dell'altra. Ci viene riferito, a .proposito della sua trascuratezza di maestro, quanto segue: Dicono che egli aborrisse dalle consuete fatiche e che non si curasse dell'andamento della sua scuola. Nessun ordine era possibile vedere nella sua scuola né vi erano scanni disposti in giro, ma dove ciascuno si trovava, passeggiando o seduto, udiva la lezione e Menedemo si comportava allo stesso modo 9 •
Tutto questo, congiuntamente alla obiettiva mancanza di originalità di pensiero, fece sl che, con Menedemo, la Scuola di Eretria scomparisse. La Scuola eliaco-eretriaca non diede contributi di rilievo allo sviluppo del pensiero filosofico e interessa pertanto quasi esclusivamente la storia della diffusione delle idee maturate nei circoli socratici e la storia della diffusione della cultura filosofica in generale.
• Diogene Laerzio, ' Diogene Laerzio,
II, II,
136 ( = Giannantoni, III F, 13 ). 130 ( = Giannantoni, III F, 8)
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SEZIONE SECONDA
LA PRIMA ACCADEMIA E IL RAPIDO SMARRIMENTO DEI GUADAGNI DELLA «SECONDA NAVIGAZIONE,.
c 7tatpli (.LÌV ylip 1'wv &Eo>.6ywv lo ~XCV O(.LoÀoyei:ahL 1'WV Wv 1'La(v, ot o\S <patCJLV, dll!i 7tpoù.&oU!rrj!; "'ij!; 1'wv ISV1'wv cpuacw~ xatl TÒ dyat&bv xatl 1'b xat>.bv i(.Lcpat(vea&ou •· « Sembra che gli antichi teologi concordino con alcuni pensatori contemporanei, i quali negano (che il bene e il bello siano nei principi): secondo costoro il bene e il bello si manifesterebbero solo quando la natura delle cose è in grado di avanzato sviluppo».
Aristotele, Metafisica, N 4, 1091 a 33-36
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I.
L'ACCADEMIA PLATONICA, IL SUO SCOPO, LA SUA ORGA-
NIZZAZIONE E LA SUA RAPIDA DECADENZA
La fondazione dell'Accademia, come già abbiamo detto, è quasi certamente da collocare negli anni immediatamente successivi al -primo viaggio di Platone in Italia. Il filosofo aveva ben compreso che il peculiare insègnamento socratico, impartito sulle pubbliche piazze e nei ginnasi a tutti coloro che ne volevano beneficiare, era strutturalmente legato alla inimitabile personalità del Maestro, e,_ dunque, era qualcosa di irripetibile: per giunta, concepito com'era al di fuori di qualsiasi regola, esso rischiava di disperdere la propria efficacia e di vanificare i propri benefici. Inoltre, a differenza di Socrate, Platone mirava a finalità politiche ben precise. Convintosi dell'inutilità della sua partecipazione immediata alla politica militante, per le ragioni che già sappiamo, il filosofo aveva maturato un disegno di ben più vasto raggio: egli intendeva preparare mediatamente, ossia tramite la filosofia, i futuri « veri » politici, cioè gli uomini che sarebbero stati in grado di rinnov-are lo Stato alle radici. Occorreva, dunque, fondare una vera e propria Scuola: un organismo che, analogamente alle comunità pitagoriche, perseguisse l'educazione e la formazione di chi ne diveniva membro, secondo piani di studio ben congegnati e secondo metodi sistematicamente determinati. Per poter realizzare questo, Platone acquistò un appezzamento di terreno e un edificio, che restarono poi stabilmente
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LA PRIMA ACCADEMIA
proprietà della Scuola, e diede alla Scuola stessa una precisa fisionomia giuridica. E poiché le leggi dello Stato ateniese erano ben lungi dal prevedere la possibilità di un organismo quale era quello che Platone aveva in animo di costruire, cosi il filosofo scelse l'unica via che lasciava giuridicamente spazio alla esecuzione del suo disegno: fece, cioè, riconoscere la sua Accademia come comunità consacrata al culto delle Muse e di Apollo, signore delle Muse. E una comunità di studio che si radunava per coltivare il più alto sapere, ben rientrava, nel concetto del Greco, e in particolare dell'Ateniese, sotto la generale concezione di una comunità sacra al culto delle Muse. In questo modo nacque qualcosa di veramente nuovo e di incalcolabile importanza nella storia della Grecia e dell'Occidente: nacque, in quella istituzione platonica, un organismo che, per più di un aspetto, merita di essere chiamato, sia pure con tutte le dovute limitazioni, come subito vedremo, se non la prima università del mondo, almeno un antecedente che in qualche modo prefigura quelle che saranno le università 1• Intanto, come il Wilamowitz-Moellendorff ha ben sottolineato 2 , va precisato che i membri dell'Accadetnia non erano studenti nel senso moderno della parola, perché costituivano quasi una confraternita; d'altra parte l'Accademia non era un convento separato dal mondo: ai giov·ani si affiancavano anche uomini anziani, tutti dovevano contribuire al finanziamento delle spese di esercizio e dovevano prendere anche, verosimilmente, alcuni pasti in comune. Probabilmente non esistevano
' Dicendo questo non intendiamo affatto der ragione, come è ovvio, a quegli studiosi che, esagerando le analogie fra l'Accademia e le universitA moderne, arrivano addirittura a vedere all'interno dell'Accademia caratteristiche corrispondenti a quelle delle università di oggi. (Si vedano in merito le giuste osservazioni di H. Cherniss, The Riddle of the Early Academy, Berkeley 1945 [traduzione italiana di L. Perrero col titolo L'enigma dell'Accademia antica, La Nuow Italia, Firenze 1974, pp. 72 sgg.]). 2 Wilamowitz-Moellendorff, Platon, pp. 208 sgg.
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L'ACCADEMIA PLATONICA B LA SUA DECADENZA
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statuti scnitti della Scuola, e tutta la regolamentazione dipendeva dalla persona del suo capo. Inoltre, lo scopo ultimo dell'Accademia non erano il sapere e la scienza perseguiti solo nella loro astrattezza, ma ricercati altresl per la loro valenza etico-politica. Solo tenendo ben presente tutto quanto abbiamo sopra detto di Platone, questo scopo risulta perfettamente intelligibile. E se si tiene presente tale scopo etico-politico~uca tivo dell'Accademia, allora è esatto, sotto tale profilo, quanto dice lo Jaeger in questa pagina: «La conoscenza, a cui Socrate attribuiva la capacità di rendere buoni gli uomini, è diversa da ciò che di solito ha quel nome nella scienza. Essa è un sapere creativo e accessibile soltanto all'anima, che abbia affinità di natura con ciò che dev'essere conosciuto, il buono, il giusto, il bello. Nulla è negato con tanta appassionata energia da Platone, anche nella sua più tarda età, quanto il principio che l'anima possa conoscere ciò che è giusto senza essere essa stessa giusta. In ciò, e non nell'organizzazione delle scienze, era il significato della fondazione dell'Accademia platonica. Tale significato si mantenne vivo fino all'ultimo, come dimostra la lettera della vecchiaia di Platone: lo scopo è quello della convivenza delle persone elette, le quali, allevata la loro anima nel bene, possono per la loro superiore attitudine spirituale divenir partecipi di quella conoscenza "conclusivamente illuminante", della quale Platone dice che il commercio con essa non gli sembrava alcun bene per la massa degli uomini, ma solo per quei pochi che,, con piccolo avviamento, erano capaci di trovarla da sé » 3 • Tuttavia, pur essendo incontestabile la finalità etico-religioso-politica dell'Accademia, e anche la mancanza, almeno a livello tematico, dell'idea dell'unità sistematica di tutte le scienze e della loro organizzazione enciclopedica, cionondimeno non è esatto affermare in modo categorico, come • Jaeger, Aristotele, pp. 27 sg.; cfr. Platone, Lettera VII, 341 c-e.
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LA PRIMA ACCADEMIA
fa lo Jaeger, che « le modeme ·accademie e università non possono far risalire la loro tradizione a Platone » ". Infatti, per la prima volta nell'Accademia convennero, come lo stesso Jaeger pur riconosce e mette bene in luce, personalità, anche straniere, di diversissima formazione e anche di opposte attitudini spirituali. Ben al di là dell'orizzonte socratico, vi fecero trionfale ingresso aritmetica, geometria e astronomia. Con l'Accademia ebbe rapporti Eudosso, capo di una Scuola matematico-astrpnomica. Abbiamo, inoltre, testimonianze che provano la presenza nell'Accademia di medici provenienti dalla Sicilia 5 • E questi personaggi, con il loro insegnamento, che dovette essere in qualche modo regolato, promossero nella Scuola una serie di dibattiti assai fecondi. E cosi, sia pure non a livello programmatico, tuttavia di fatto, e sia pure per una breve stagione, questo incontro di uomini e di insegnamenti diversi nell'Accademia produsse altresì un incontro delle scienze che essi coltivavano, e i vari membri dell'Accademia poterono per la prima volta udire insieme queste diverse voci, i loro confronti e i loro scontri, come prima di allora non era stato possibile. E, in questo senso, non può non venire riconosciuto all'Accademia platonica il merito di aver anticipato sotto certi aspetti, sia pure in maniera inconsapevole (e anche con le diverse finalità sopra precisate), quell'incontro del sapere, che, molto più tardi, le università ricercheranno e realizzeranno in modo consapevole e sistematico. Ben a ragione, dunque, la posterità sceglierà proprio il nome dell'Accademia platonica per designare quelle istituzioni in cui le v·arie forme di sapere vengono coltivate ed elaborate al più alto livello. :S peraltro vero che l'Accademia, non appena morto Platone, perse rapidamente questa caratteristica, restringendo • Jaeger, Aristotele, p. 21. Cfr. a questo riguardo quanto rileva lo stesso Jaeger, Aristotele, p. 20 e nota 2. 5
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L'ACCADEMIA PLATONICA E LA SUA DECADENZA
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sempre più i propri interessi ii1 una visione angusta e priva di originalità. Ma la colpa fu dei successori di Platone, i quali non solo non furono in grado di sviluppare l'opera del Maestro, ma non furono nelpllleno in grado di conservarla intatta. L'antica Aci:ademia diventò. subito infedele a Platone, sviluppando solo alcuni tratti del platonismo, isolandoli da tutto il resto, e cosl deformandoli irrimediabilmente. L'impegno e l'interesse politico si affievolirono rapidamente fino a spegnersi, sia a livello pratico sia a livello teoretico; né dopo la rivoluzione messa in atto da Alessandro sarebbe stato possibile mantenerli in vita. L'interesse mistico-religioso prese una piega diversa da quella che Platone gli aveva impresso 6 • L'interesse metafisica e dialettico degenerò rapidamente in vacua scolastica, e quindi si spense. L'interesse etico rimase fortissimo, ma con esiti poco originali. Anche l'interesse per le scienze matematiche e astronomiche si smorzò rapidamente ed esse finirono per non essere più coltivate, nemmeno nella dimensione e nella funzione propedeutica essenziale che loro aveva assegnato Platone. La grande luce accesa nell'Accademia, morto Platone, langul; ad altre Scuole toccò il compito di illuminare le menti degli uomini dell'età ellenistica. Ma, appunto per poter capire il successo incontrastato delle nuove Scuole, dobbiamo vedere, in modo puntuale, come gli uomini della vecchia Accademia in larga misura liquidarono, senza saperlo né volerlo, il pla" tonismo 7 •
• Più esattamente: l'Accademia sviluppò unilateralmente certi spunti mistico-religiosi del Platone delle Leggi, staccandoli quasi del tutto dal contesto metafisico del platonismo. ' Per le indicazioni bibliografiche si veda il vol. v, pp. 298-301.
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Il. EUDOSSO DI CNIDO, UN ASTRONOMO OSPITE DELL'ACCADEMIA
l.
L' i m m a n e n t i z z az i o n e d e 11 e I d e e
Già l'astronomo Eudosso t, intervenendo nelle discussioni filosofiche dell'Accademia ancor vivo Platone, come ci viene tramandato, non esitò ad assumere posizioni decisamente eretiche su due punti essenziali e tali da compromettere irreparabilmente il senso del platonismo. In primo luogo, Eudosso sostenne una interpretazione dei rapporti fra le Idee e le cose, la quale nel modo più eloquente mostra come il senso della platonica « seconda naviga' Eudosso nacque a Cnido, fra il decennio finale del v secolo e il primo decennio del IV (sulle indicazioni cronologiche relative a Eudosso le fonti sono in verità discordi; una discussione su questi dati si vedrà in F. Lasserre, Die Fragmente des Eudoxos von Knidos, Berlin 1966, pp. 137139). Da Cnido andò ad Atene, attratto dalla fama dei Socratici (Diogene, vm, 86 [ = Lasserre, fr. T 7]). Soggiornò in Egitto, dove ebbe contatti con i sacerdoti e apprese la loro sapienza. Quindi fondò una Scuola a Cizico. Da Cizico si trasferl ancora ad Atene con numerosi allievi. Trascorse gli ultimi anni della sua vita in patria. Qualche studioso tende oggi a negare che Eudosso sia entrato nell'Accademia platonica. Il Lasserre scrive: «Sicuramente egli non entrò nell'Accademia, e dunque non insegnò là,. (p. 41). Ma questa è certamente una tesi ipercritica. Infatti Eudosso a) ha una dottrina delle Idee; b) Aristotele parla di lui come di uno dei Platonici; c) la sua tesi sul piacere provocò nell'Accademia reazioni che si spiegano solo ammettendo che egli, almeno per un certo tempo, abbia fatto parte della Scuola; d) troppe fonti ribadiscono il fatto che Eudosso fu uditore di Platone (dr. i documenti in Zeller, Die Philosophie der Griechen, n, l, p. 993, nota 3). ~ vero, peraltro, che la collaborazione fra Platone ed Eudosso non dovette essere duratura e che dovettero sorgere screzi che portarono ad una rottura (dr. del resto le esplicite indicazioni di Diogene, VIII, 87 sg.).
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EUDOSSO DI CNIDO
zione » non sia stato da lui veramente colto. Ci riferisce infatti Aristotele che, secondo Eudosso, le Idee erano causa delle cose« per mescolanza» 2 • E Alessandro, commentando il passo, precisa: Anche Eudosso, fra gli amici di Platone, riteneva che ciascuna realtà fosse a causa della mescolanza delle Idee nelle cose che hanno l'essere in rapporto con esse 3• È ovvio che Eudosso cercava con questa dottrina di risolvere il problema, come abbiamo visto assai arduo nel contesto dell'antologia platonica, dei rapporti fra Idee e cose, problema semplicemente impostato nel Pedone, e poi approfondito nel Parmenide e nei dialoghi successivi, ma mai risolto in modo perfetto. Ma la soluzione di Eudosso è la peggiore possibile. Infatti, come già obiettava Aristotele, le Idee, per potersi « mescolare » alle cose, dovrebbero essere corporee, giacché la mescolanza ha luogo appunto fra elementi corporei. E certamente Eudosso non affermava senz'altro che le Idee fossero esse stesse corporee, ma assumeva una posizione che comportava, per poter essere correttamente sostenuta, la corporeità deHe Idee; o meglio, egli assumeva una posizione che dimostrava come, in fondo, non avesse colto il senso dell'immateriale, perché l'immateriale non si può « mescolare » al materiale ,. .
2
Aristotele, Metafisica, A 9, 991 a 14 sgg. e M 5, 1079 b 18 sgg.
(= Lasserre, fr. D 1). Alessandro di Afrodisia, (= Lasserre, fr. D 2). 3
In Arist. Metapb., p. 97, 17-19 Hayduck
• Sul problema si vedano: Reale, Aristotele, Metafisica, vol. I, pp. 199 sg.; Berti, La filosofia del primo Aristotele, pp. 232-239; Lasserre, Die Fragmente des Eudoxos... , pp. 149 sgg.
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2.
LA PRIMA ACCADEMIA
L' e d o n i s m o d i Eu d o s s o
Altrettanto vistoso fu inoltre il distacco di Eudosso dall'etica platonica. Egli sostenne, infatti, che il piacere è il bene, e che ciò si desume dal fatto che al piacere tendono tutti gli esseri, spontaneamente. Riferisce Aristotele testualmente: Eudosso [ ... ] identificava il piacere col bene, giacché vedeva che tutti gli esseri aspirano ad esso, sia quelli dotati di ragione sia quelli privi di essa. E diceva che tutti scelgono ciò che è conveniente e ciò che è soprattùtto migliore; e che il fatto che tutti siano portati alla stessa cosa significa che essa è il sommo bene per tutti (ciascuno infatti ricerca ciò che è bene per lui, come accade anche per il nutrimento), e che quindi ciò che è buono per tutti e a cui tutti aspirano, è il bene. Questi suoi ragionamenti erano creduti più per la virtù del suo costume che per il loro valore. Infatti egli sembrava essere straordinariamente moderato; e quindi sembrava ch'egli non dicesse queste cose perché era amico del piacere, bensl che cosl fosse in verità. Ed egli riteneva che ciò risultasse non meno evidente dal ragionamento contrario: infatti il dolore di per sé è cosa da fuggirsi per chiunque, e quindi similmente dev'essere desiderabile il contrario. E diceva che è da scegliersi soprattutto ciò che scegliamo non a causa di altro o in vista di altro; e che una tal cosa, per consenso di tutti, è il piacere; e che a nessuno si chiede per quale fine egli gode, in quanto il piacere è desiderabile di per sé. Inoltre, se esso si aggiunge a qualcuno dei beni, lo rende ancora più desiderabile, come ad esempio se s'aggiunge all'agire con giustizia e all'esser moderato; e il bene può accrescersi solo col bene 5• È chiaro, dall'argomento principale addotto, che Eudosso pensava soprattutto alla natura fisica e animale dell'uomo (quella natura che l'uomo ha in comune con gli animali), e niente affatto alla natura puramente spirituale dell'uomo, cioè all'anima, che tanto Socrate quanto Platone avevano 5 Aristotele, Etica Nicomachea, x, 2, 1172 b 9 sgg. ( = Lasserre, D 3; dr. anche D 4). La traduzione che riportiamo ~ di A. Plebe.
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EUDOSSO DI CNIDO
contrapposto alla natura fisica, mostrando come in essa e solo in essa consistesse la vera natura dell'uomo. Perciò Eudosso si portava sulle posizioni dei Cirenaici e anticipava Epicuro, e cosl si poneva .decisamente al di fuori della sfera platonica. Le diffidenze che Platone aveva nutrito nei confronti di Eudosso e gli screzi che erano sorti fra i due 6 erano ben motivati: lo scienziato Eudosso, in effetti, non capl il filosofo Platone.
• Cfr., sopra, la nota l.
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III. ERACLIDE PONTICO, UN REGGENTE DURANTE L'ASSENZA DI PLATONE
l.
DELL'ACCADEMIA
Dimenticanza delle realtà intelligibili
Non meno indicative sono le deviazioni dalla dottrina platonica che si riscontrano in Eraclide Pontico, che pure godette grande stima del maestro, al punto che ricevette l'incarico di sostituirlo pro tempore nella direzione dell'Accademia, in occasione dell'ultimo viaggio a Siracusa 1• E fu solo per limitato scarto di voti che, dopo la morte di Speusippo, nipo' Eraclide nacque ad Eraclea nel Ponto, da nobile e ricca famiglia. Dovette essere all'incirca contemporaneo di Speusippo. Se è vero, come ci viene riferito (Suda, s.v. [ = Wehrli, frr. 2 e 17]), che Platone lasciò a Eracli· de l'incarico di reggere la Scuola durante il suo viaggio in Sicilia, ciò dovette coincidere con l'ultimo dei tre viaggi, quello del 361 a. C. E a quest'epoca, per ottenere tale incarico, Eraclide non poteva essere giovanissimo. Se, come ci è tramandato (Diogene, v, 86 = Wehrli, fr. 3), Eraclide fu uditore di Aristotele, ciò va riferito, come è stato notato dagli studiosi, all'attività di Aristotele come insegnante di retorica quando era nell'Accademie. Gli scritti attribuiti ad Eraclide pare fossero «eccellenti per bellezza stilistica e dignità di argomento»: lo afferma Diogene (v, 86), il quale fornisce anche (v, 86-88) un lungo elenco di titoli (dr. Wehrli, fr. 22). Dopo la morte di Speusippo, amareggiAto per non essere stato eletto scolarca, Eraclide lasciò l'Accademia e Atene per far ritorno in patria, ove morl nel modo che sotto diremo (dr. nota 8). Diogene elenca Eraclide fra i discepoli di Aristotele; ma si tratta certamente di un equivoco, perché l'Aristotele che Eraclide poté udi.re, come dicemmo, poté essere solo il giov11.ne Aristotele ancora Accademico e non l'Aristotele maestro del Peripato. Nella Scuola di Aristotele lo include anche il più recente editore dei suoi frammenti (F. Wehrli, Die Schule des Aristoteles, Heft VII: Herakleides Pontikos, Basel 1953, 19692). Ma, in verità, in questi frammenti non c'è nulla che richiami in modo puntuale il Peripato, mentre sono evidentissimi i legami con l'Accademia.
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9.5
ERACLIDE PONTICO
te e primo successore di Platone, egli non riusd a diventare terzo capo dell'Accademia. Eraclide non sembra affatto essersi occupato dei problemi suscitati dalla dottrina delle Idee, né in generale di tutta quella tematica collegata alla « seconda navigazione». Dice bene uno studioso italiano che «a stare alle testimonianze esistenti, la filosofia di Eraclide non soltanto non sembra richiedere, ma sembra addirittura escludere la realtà di essenze intelligibili » 2 • Intanto, egli sostenne una dottrina di tipo atomistico, o meglio a mezza strada fra pitagorismo e atomismo, secondo cui tutte le cose sono composte di «masse senza giunture», cioè di corpi indivisibili, ossia di atomi, che, a differenza di quelli della Scuola di Abdera, erano «capaci di affezioni », quindi capaci di entrare in reciproca relazione, in modo non semplicemente meccanico 3 • Si capisce come una teoria di questo genere rendesse inutile l'ammissione dell'esistenza di Idee. A differenza degli Atomisti, Eraclide doveva però ammettere un Dio che, col suo intervento, combinasse fra loro gli atomi e costituisse il cosmo; un Dio che, a differenza del platonico Demiurgo, doveva essere concepito come l'immanente anima del mondo. Scrive a questo proposito Cicerone: Eraclide Pontico, a parte le sciocchezze puerili di cui ha infarcito i suoi libri, ondeggia fra una concezione tendente ad identificare la divinità col mondo ed una concezione tendente ad identificare Dio con la mente divina. Ma non esita, in seguito, a ritenere divini i pianeti, a spogliare la divinità di ogni facoltà percettiva e ad attribuirle un aspetto cangiante per poi annoverare di nuovo fra gli dei, in quello stesso libro, il cielo e la terra 4 •
• Pesce, Idea, Numero e Anima, p . .50. ' Cfr. Wehrli, Herakleides, frr. 118-123. • Cicerone, De nat. deor., I, 13, 34 ( [traduzione di U. Pizz1mi, con un ritocco]).
=
Wehrli, Herakleides, fr. 111
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LA PRIMA ACCADEMIA
E questo, a ben vedere, era quanto rimaneva di Platone, una volta eliminati il mondo ideale e il Demiurgo.
2.
Concezione dell'anima
Cosl, smarrito il senso dell'essere intelligibile platonico, Eraclide torna a concepire l'anima in modo fantastico, come costituita di materia siderea e luminosa. Le anime, prima di entrare nei corpi, hanno dimora nella Via Lattea e formano gli innumerevoli punti luminosi che vediamo 5 • Pertanto, nella concezione di Eraclide, l'anima ritorna ad essere materia, sia pure siderea. Quanto si è detto spiega bene come il misticismo e la religiosità di Eraclide, smarrito il guadagno della seconda navigazione, non pCISsano che tornare ad essere dello stesso tipo del misticismo e della religiosità dei misteri. E puntualmente Eraclide si richiama ai profeti Zoroastro 6 e Abari 7 , e si rifà a filosofi come Pitagora ed Empedocle, ben più che a Platone. Sulla sua morte circolarono due versioni differenti nei particolari, ma identiche nel significato: egli voleva, dopo la morte, ricevere onori divini 8 • 5 C&. Wehrli, Herakleides, &r. 90-103. • Cfr. Wehrli, Herakleides, frr. 68-70. 7 Cfr. Wehrli, Herakleides, frr. 73-75. • Diogene, v, 89 sg. ( = Wehrli, Herakleides, fr. 16) riferisce questo racconto tratto da Demetrio di Magnesia: « Eraclide sin da giovane e in età matura aveva allevato un serpente. In punto di morte, ordinò a uno dei suoi fidi amici di nascondere il suo cadavere e di porre nel letto al suo posto il serpente, perché si credesse che egli se ne fosse andato tra gli dèi. Tutto fu eseguito puntualmente. Ma mentre i cittadini accompagnavano Eraclide alla sepoltura e lo lodavano cantando, il serpente udendo le grida balzò fuori dalle vesti e sconvolse la moltitudine. Quando il fatto fu scoperto, videro Eraclide non più nella falsa credenza che egli aveva vol~ta, ma nell'essenza reale, cosi com'era». Sempre Diogene (v, 91 [ = Wehrli, Herakleides, fr. 14 a]) riferisce una seconda versione, ancora più fantasiosa, che desume da Ermippo: « Ma Ermippo racconta che,
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ERACLIDE PONTICO
3.
Negazione del geocentrismo
Non possiamo concludere su Eraclide senza ricordare che, sia pure su basi puramente intuitive, egli negò che la terra stesse al centro dell'universo e che fosse immobile, ma sostenne che essa gira sul proprio asse da Occidente ad Oriente'. Copernico lo ricorderà (insieme ad Iceta ed Ecfanto) come un suo precursore.
essendo la regione devastata da una carestia, gli Eracleoti chiesero alla Pitia un rimedio. Eraclide corruppe con denaro non solo i sacri inviati, ma anche la predetta Pitia, in modo che il responso fosse questo: il male sarebbe cessato se avessero incoronato Eraclide figlio di Eutifrone da vivo con una corona aurea, e se l'avessero onorato da morto, come un eroe. Quando fu portato un siffatto responso, i suoi autori non ne trassero alcun vantaggio, perché Eraclide appena ricevette la corona nel teatro morl per un colpo apoplettico e gl'inviati furono lapidati a morte. E anche la Pitia alla stessa ora mentre scendeva nei penetrali del tempio si fermò e fu morsa da un serpente e subito spirò» (traduzione di M. Gigante). • Cfr. Wehrli, Herakleides, frr. 104-117, e il commentario, ivi, pp. 94 sgg.
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IV. SPEUSIPPO, PRIMO SUCCESSORE DI PLATONE
l.
Ripudio delle Idee platoniche
L'indice della misura in cui il senso dell'autentico messaggio della componente metafisica platonica venne frainteso e smarrito nell'Accademia è dato proprio da coloro che affrontarono di petto la discussione dei problemi relativi al mondo intelligibile e cercarono di venire a capo delle aporie che esso sollevava. E, in primo luogo, è dato proprio dal successore di Platone, Speusippo 1, il quale negò l'esistenza delle Idee e l'esistenza dei Numeri ideali, riducendo tutto quanto il mondo intelligibile platonico unicamente agli enti matematici, come Aristotele ci riferisce: ' Speusippo era figlio di Potone, sorella di Platone. Successe a Platone nel 347/346 e resse l'Accademia per otto anni, cioè fino al 339/338. Pare che, vecchio e malato, abbia posto spontaneamente fine alla· propria vita (cfr. Isnardi Parente, fr. 2). L'elenco dei libri .scritti da Speusippo è riferi· to da Diogene, IV, 4-.5 (= Isnardi Parente, fr. 2). P. Lang ha raccolto per primo i frammenti che ci _sono rimasti, trascurando però le testimonianze biografiche (De Speusippi academici scriptis. Accedunt fragmenta, Bonn 1911; Frankfurt 19642 ). A breve distanza di tempo, sono recentemente uscite due nuove poderose raccolte, curate, rispettivamente, da M. Isnardi Parente (Speusippo, Frammenti. Edizione, traduzione e commento, Bibliopolis, Napoli 1980) e da L. Tarlln (Speusippus of AJhens, A Critical Study with a Collection of the Related Texts and Commentary, Brill, Leiden 1981). Accanto alla classica numerazione di IAng, riporteremo anche quella della Isnardi Parente, che ha il vantaggio di appartenere ad una collana che sta proponendo tutta quanta «La scuola di Platone» (e come tale si impone quale punto di riferimento) e di fornire anche la traduzione dei testi. La menzione aggiuntiva della numerazione dell'edizione di Tarm s'impone per la sua im~rtanza eccezionale.
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99
SPEUSIPPO
Non credeva che esistessero Idee, né intese in senso vero e proprio, né intese come numeri, [ma credeva] che esistessero enti matematici e che i numeri fossero le realtà prime 2 •
Lo Stagirita ci dice anche la ragione per cui Speusippo
fu indotto a questo, e cioè perché egli non riusciva a venire a capo delle difficoltà cui andava incontro la teoria delle Idee: Infatti coloro che ammettono l'esistenza solo di enti matematici oltre le realtà sensibili, hanno abbandonato il numero ideale e hanno ammesso solo il numero matematico, perché videro l'artificiosità e le difficoltà della aottrina delle Idee 3• Gli studiosi hanno ben notato questo sbandamento decisamente eretico di Speusippo, ma senza rilevarne la portata. Eliminati i Numeri ideali e le Idee, restavano indubbiamente ancor-a gli enti matematici e geometrici, che, come già sappiamo, costituivano il gradino più basso della gerarchia del mondo intelligibile platonico, quasi una fascia intermedia fra gli enti sensibili e i superiori enti ideali. Tali enti matematici e geometrici, appunto in quanto intelligibili, erano intesi come antologicamente diversi dalle cose sensibili (cioè come ingenerati, incorruttibili, immutabili, coglibili col solo pensiero), e, perciò, « distinti » o « separati » da esse 4 • E se, dopo questa riforma, la posizione di Speusippo non si ridusse senz'altro al mero pitagorismo, fu solo per quella « separazione » che non c'era nei Pitagorici, e che egli accettò ancora da Platone, ma che fatalmente assottigliò fino a vanificarla. In effetti, gli enti matematici e geometrici sono i meno idonei a dare il senso del soprasensibile, dal momento • Aristotele, Metafisica, M 8, 1083 a 20 sgg. ( = Lang, fr. 42 d; cfr. frr. 42 a-c = lsnardi Parente, frr. 73-76 = Taran, frr. 31-34). • Aristotele, Metafisica, M 9, 1086 a 2 sgg. ( = Lang, fr. 42 e = Isnardi Parente, fr. 77 = Taran, fr. 35). • Come ci riferisce Aristotele: dr. Lang, frr. 42 a-c = Isnardi Parente, frr. 73-75 = Taran, frr. 31-33.
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LA PRIMA ACCADEMIA
che, mentre posseggono i caratteri essenziali del soprasensibile, mantengono alcuni caratteri del sensibile, come la molteplicità (vi sono molti singoli numeri matematici, molti due, tre, quattro, etc., mentre le Idee sono uniche; vi sono molti triangoli geometrici, molti quadrati, etc.); inoltre gli enti geometrici implicano la spazialità, sia pure ideale. Dunque, la riduzione operata da Speusippo ·comprometteva, in realtà, la grande scoperta platonica del soprasensibile, al punto da farle smarrire, quasi per intero, il suo significato di fondo. Il senso della « seconda navigazione » è ormai quasi dimenticato: 2.
I piani della realtà
La distanza che separa Speusippo da Platone risulta in modo evidente anche dalla diversità e dalla netta distinzione dei piani gerarchici della realtà che egli proponeva. Oltre all'Uno-principio, di cui diremo più oltre, egli ammetteva: l) i numeri (matematici); 2) Je grandezze (geometriche); 3) l'anima; 4) i sensibili 5 •
Come si vede, in questo schema non c'è più posto per le Idee-numeri, né per le Idee in genere, e nemmeno per il Demiurgo, che era una figura troppo teologica e, come tale, decisamente al di fuori delle categorie unilateralmente matematizzanti cui Speusippo riduce il discorso metafisica. S mantenuta, invece, l'anima del mondo, ma con diversa rilevanza e funzione. Ma c'è di più. Platone, come abbiamo visto, aveva interpre• ar. Aristotele, Metafisica, Z 2, 1028 b 18 sgg. ( = Lang, fr. 33 a; dr. frr. 33 b-d = lsnardi Parente, frr. 48-51 = Taran, frr. 29 a<).
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SPEUSIPPO
tato i piani della realtà in funzione di principi analoghi, soprattutto in funzione delle categorie del limite e dell'illimite (il limite inteso come forma, l'illimite come materia: come materia intelligibile nel mondo intelligibile, come chora o spazialità sensibile nel mondo sensibile); egli inoltre aveva sempre mantenuto salda la convinzione che tutto il reale in tutti i suoi piani dipendesse da un Principio Primo. Speusippo abbandonò anche questa spiegazione del reale, come ci informa Aristotele: Ammetteva principi diversi per ogni tipo di sostanza: in effetti altro è il principio dei numeri, altro quello delle grandezze, e altro ancora quello dell'anima ... 6 •
Aristotele rileva inoltre la ·scorrettezza di questa posizione, giacché, egli dice, l'ammettere principi diversi per le diverse realtà significa ridurre l'universo ad una serie di episodi 7 , come avviene in una cattiva tragedia sconnessa e senza precisa unità 8 • E ancora contro Speusippo lo Stagirita rileva, in spirito platonico, come l'ammettere principi diversi per le diverse realtà significhi ammettere un universo mal governato, giacché un universo ben governato deve far capo ad un unico principio 9 • Ma quanto stiamo dicendo risulterà ancor più chiaro dalle precisazioni che seguono.
3.
I principi supremi del reale
Platone, nelle sue « dottrine non scritte », come sappiamo, aveva posto all'apice della gerarchia del mondo intelligibile l'Uno, facendo derivare da esso in unione con una DiaIbidem. Cfr. Aristotele, Meta/isca, A 10, 1075 b 37 sgg.; N 3, 1090 b 13 sgg. Lang, frr. 33 e, 50 = lsnardi Parente, frr. 52, 86 = Taran, frr. 30, 37). • Cfr. Lang, fr. 50 = Isnardi Parente, fr. 86 = Taran, fr. 37. ' Cfr. Lang, fr. 33 e = Isnardi Parente, fr. 52 = Taran, fr. 30. 6
7
(=
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LA PRIMA ACCADEMIA
de di grande-piccolo (l'indeterminato intelligibile) i Numeri ideali. Speusippo accettò in parte la dottrina dell'Uno-principio (per altro verso largamente tradendola, come sotto vedremo), ma sostitul alla diade di grande-piccolo il principio della molteplicità 10, probabilmente perché, eliminate le Ideenumeri e le Idee in genere, dovendo dedurre come primi i numeri matematici, la molteplicità gli parve essere principio più confacente allo scopo. Tuttavia, come già s'è detto, Speusippo non seppe sviluppare la deduzione delle successive realtà, in modo unitario, a partire da quei principi supremi. Domenico Pesce ha proposto la seguente esegesi, che salverebbe Speusippo dall'accusa di rapsodismo ontologico. I piani del reale sopra elencati potrebbero essere cosl intesi e spiegati: l) 2) 3) 4)
numero; numero + estensione = grandezza; grandezza + movimento = anima; anima + corporeità = sensibili 11 •
Orbene, precisa questo interprete, «l'Uno e il molteplice [ ... ] , pur restando in sé identici, con l'operare ad ogni livello su una materia diversa, danno luogo ai piani successivi. Con maggior esattezza, andrebbe però detto che molteplice e materia sono la stessa cosa, di modo che propriamente identico rimane soltanto l'Uno, perché l'altro principio è molteplicità al primo livello, estensione al secondo, movimento al terzo e corporeità al quarto » 12 • Purtroppo questa fine esegesi non sembra essere confermata dai testi: infatti, è proprio Aristotele che espressamente ci dice che per Speusippo non solo era diverso il principio materiale delle diverse realtà, ma che era diverso an-
° Cfr.
Aristotele, Metafisica, N 5, 1092 a 35 sg., N l, 1087 b 4 sgg. 48 a-b = Isnardi Parente, frr. 82-82 a = Taran, frr. 38-39). " Pesce, Idea, Numero e Anima, p. 57. 12 Ibidem. 1
(= Lang, frr.
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SPEUSIPPO
che il principio formale, e in particolare che Speusippo deduceva le grandezze dal punto «che è non l'uno, ma simile all'uno» 13 e da una diversa materia che non è il molteplice, ma « che è simile al molteplice » 14 • Sicché non pare possibile salvare Speusippo dall'accusa di rapsodismo ontologico, e Aristotele può ben far valere l'obiezione che i piani della realtà da lui ammessi non possono influire gli uni sugli altri e non possono dipendere gli uni dagli altri: Infatti, anche se il numero non esistesse, stando alla dottrina di coloro che ammettono solamente l'esistenza di enti matematici, esisterebbero, cionondimeno, le grandezze; e se anche non esistessero queste grandezze, esisterebbero, cionondimeno, l'anima e i corpi sensibili. Ma i fatti dimostrano che la realtà non è una serie slegata di episodi, come una cattiva tragedia 15 . Ma c'è un altro punto che indica in modo eloquente la misura in cui viene smarrito il messaggio di Platone. Dalla Repubblica al Timeo e anche nelle «dottrine non scritte», Platone aveva ribadito che il Principio primo è il Bene: nella Repubblica il Bene è la più alta delle Idee; l'Uno è indubbiamente il Bene, e per essenza buono è anche il Demiurgo che costruisce il mondo. Speusippo, per contro, negò che il Principio coincidesse con il Bene, sostenendo che il bene e il bello esistono solo in ciò che deriva dal Principio, come avviene ad esempio nelle piante e negli animali: non è buono e betlo il seme né il germe che corrisponderebbero al principio, ma solo l'organismo sviluppato, ciOè il principiato 16 • Sappiamo che Speusippo sostenne questa tesi per evitare, identificando l'Uno col Bene, di dover identificare per conseguenza il principio del molte-
=
=
'" Cfr. Lang, fr. 49 Isnardi Parente, fr. 84 Taran, fr. 51. •• Ibidem. •• Aristotele, Metafisica, N 3, 1090 b 13 sgg. ( = Lang, fr. 50 = Isnardi Parente, fr. 86 Taran, fr. 37). · 16 Cfr. Aristotele, Metafisica, A 7, 1072 b 30 sgg. ( = Lang, fr. 34 a; cfr. frr. 34 b-f = Isnardi Parente, frr. 53-58 = Taran, frr. 42-44).
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plice con il male 17 • Ma la medicina era ben peggiore del male che voleva curare: per eliminare una difficoltà dialettica, Speusippo finiva per eliminare in tronco una delle più potenti intuizioni platoniche, l'intuizione con cui, per la prima volta nell'Occidente, si poneva il Bene come fondo dell'essere 19 • Infine, un'ultima peculiarità del pensiero di Speusippo è da rilevare. Egli non solo ha dissociato l'Uno dal Bene, ma, ulteriormente, dall'Uno e dal Bene ha dissociato anche l'Intelligenza. Riferisce Aezio: Speusippo disse che Dio è l'Intelligenza, la quale non si identifica né con l'Uno né con il Bene, ma ha una sua natura particolare 19 •
E quale sia questa natura dell'Intelligenza ce lo dicono altre testimonianze, secondo le quali essa consisterebbe nell'essere una forza vitale che regge le cose~. L'Intelligenza doveva coincidere, dunque, con l'anima del mondo. Una posizione, questa, che preludeva decisamente ad uno dei più famosi dogmi dello stoicismo 21 •
4.
La conoscenza
Dopo quanto s'è detto, non stupirà il taglio antidualistico che assume anche la gnoseologia di Speusippo. Gli enti intel-
=
17 Cfr. Aristotele, Metafisica, N 4, 1091 b 30 sgg. ( Lang, fr. 3.5 a; dr. fr. 3.51H: Isnardi Parente, frr. 64 sgg., .59 Taran, frr. 4.5 a-46 b). 11 Cfr. il vol. 11, pp. 53 sgg., 74 sgg., 235. " Aezio, presso Stobeo, Anthol., 1, l ( = Diels, Doxographi graeci, p. 303 b = Lang, fr. 38 = Isnardi Parente, fr. 89 = Taran, fr . .58). 20 Cfr. Cicerone, De nat. deor., 1, 13, 32; Minucio Felice, Octav., 19, 7 (= Lang, frr. 39 a-b = Isnardi Parente, frr. 90-91 = Taran, frr. 56 a-b). 21 A proposito dell'anima umana, sembra che Speusippo sostenesse l'immortalità di tutte le parti di cui essa è costituita; dr. Lang, fr. 55 = Isnardi Parente, fr. 99 = Taran, fr. 55.
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SPEUSIPPO
ligibili sono colti dalla conoscenza intellettiva, mentre gli enti sensibili sono colti da una percezione sensibile avente valore conoscitivo 22 • Platone, come sappiamo, negava invece alla sensazione e alla percezione sensibile valore di conoscenza, negava che del sènsibile potesse esserci vera conoscenza, e riservava la qualifica di vera conoscenza alla dialettica e all'intellezione, capaci di cogliere il mondo delle Idee. Per quanto concerne la conoscenza intellettiva, Speusippo, sviluppando certi aspetti della dialettica platonica, che già mirava a determinare i rapporti essenziali (positivi e negativi) che collegano fra ài loro le varie Idee, affermava, in maniera originale, che noi possiamo conoscere una cosa solo stabilendo la totalità dei rapporti positivi e negativi che la collega organicamente con tutte le altre. Riferisce Aristotele alludendo a Speusippo: Alcuni sostengono che è impossibile conoscere le differenze di una cosa rispetto a ciascun'altra senza conoscere ciascuna di queste; ma senza le differenze - essi dicono - non è possibile conoscere ciascuna cosa definibile, giacché una cosa è identica a ciò da cui non differisce ed è diversa da ciò da cui differisce 23 • È una concezione organicistica della conoscenza che anticipa in qualche modo Hegel e Bradley, come è stato ben notato 24 •
5.
L'etica
In etica Speusippo dovette condividere alcune idee platoniche, temperandone però notevolmente l'ascetismo. 22 Cfr. Sesto Empirico, Contro i matem., VII, 145 ( = Lang, fr. 29 = Isnardi Parente, fr. 34 = Taran, fr. 75). 23 Aristotele, Analitici Secondi, B 13, 97 a 6 sgg.; traduzione di M. Mignucci ( = Lang, fr. 31 a; dr. frr. 31 b-e = Isnardi Parente, frr. 38-40 = Taran, frr. 63 a-d). •• Cfr. Cherniss, L'enigma..., p. 45.
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LA PRIMA ACCADEMIA
Affermò che il bene supremo dell'uomo è la virtù perché è il bene dell'anima, ma ritenne beni, sia pure inferiori, -anche le affezioni positive del corpo, come salute e simili, e mali le cose a queste contrarie 25 , e polemizzò contro Eudosso che sosteneva essere il piacere un bene 26 • Ma ciò che merita di essere maggiormente rilevato è la definizione generale che Speusippo diede della felicità come « sistema perfetto di realizzazione delle cose che sono conformi a natura» 71• Infatti il richiamo alla conformità alla natura diventerà proprio la parola d'ordine di tutte le Scuole ellenistiche. Qui, in Speusippo, la natura è, almeno in parte, ancora quella platonica; nelle Scuole ellenistiche, invece, tornerà ad essere la presocratica physis, anzi una natura concepita in modo decisamente materialistico, come vedremo.
25 Cfr. Lang. frr. 57-59 = Isnardi Parente, frr. 101-107 =Terin, frr. 77, 78 a-d, 79. " Cfr. Lang., frr. 60 a-60 i = Isnardi Parente, frr. 108-117 = Taran, frr. 80 sgg. 27 Clemente Aless., Strom., n, 22, 133 ( = Lang, fr. 57 = Isnardi Parente, fr. 101 = Taran, fr. 77).
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V. SENOCRATE, SECONDO SUCCESSORE DI PLATONE
l.
La tripartizione della filosofia
Speusippo fu scolarca dell'Accademia, come s'è detto, per soli otto anni. Gli successe Senocrate (sconfiggendò Eraclide, ma di stretta misura), che, invece, resse la Scuola per un quarto di secolo 1 e, con la sua abilità personale di insegnante e con numerosi scritti, lasciò un'impronta più marcata e più duratura: non a torto, quindi, egli viene considerato il maggiore esponente dell'antica Accademia. Si suole dire che Senocrate ~ più vicino a Platone che non Speusippo, il che induce in inganno, in quanto tale maggiore vicinanza resta tuttavia molto relativa, giacché; in sostanza, l'autentico spirito di Platone non rivive più nella dottrina di Senocrate e subisce deformazioni che, se pure sono meno vistose di quelle che abbiamo riscontrato nella dottrina di Speusippo, restano tuttav.ia assai notevoli. ' Senocrate nacque a Calcedone, agli inizi del secolo IV. Ancor giOvane si recò ad Atene, dove divenne ben presto seguace di Platone. Segul anche Platone in uno dei suoi viaggi in Sicilia (Diogene Laerzio, IV, 6 e 11 = Isnardi Parente, fr. 2). Assunse la direzione dell'Accademia nel 339/338 e la tenne fino al 315/314 a.C. Morl a ottantadue anni, stando a Isnardi Parente, fr. 2). Fu scrittore asquanto ci dice Diogene (IV, 14 sai fecondo: compose opere in prosa e in poesia, nonché esortazioni, di cui Diogene (IV, 11-14 = Isnardi Parente, fr. 2) ci fornisce i titoli. I frammenti pervenutici sono stati raccolti per la prima volta da R. Heinze, Xenokrates, Darstellung der Lebre und Sammlung der Fragmente, Leipzig 1892 (Hildesheim 19652), e, ora, da M. Isnardi Parente, Senocrate-Ermodoro, Frammenti. Edizione, traduzione e commento, Bibliopolis, Napoli 1982. Alla classica numerazione di Heinze faremo seguire quella di Isnardi Parente.
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LA PRIMA ACCADEMIA
Intanto, molto indicativa risulta la tripartizione che Senocrate operò nell'ambito della filosofia, credendo di dare con essa forma sistematica alle prospettive secondo cui si era svolto il pensiero platonico. Egli distinse infatti la filosofia in l) fisica, 2) etica e 3) dialettica. La distinzione sarebbe sussistita virtualmente in ~latone, il quale aHa fisica degli antichi Naturalisti e all'etica di Socrate avrebbe aggiunto la dialettica, e avrebbe fuso il tutto in un grandioso sistema 2 ; ma il primo a proporla fu Senocrate 3 • La distinzione ebbe una enorme fortuna e di essa si servl tutta l'età ellenistica, per oltre mezzo millennio, per fissare i quadri del sapere filosofico. In logica, fisica ed etica divisero la speculazione filosofica gli Epicurei, gli Stoici e gli Eclettici; contro gli schemi e i dogmi della logica, della fisica e dell'etica diressero le loro critiche dissolvitrici gli Scettici. Eppure la tripartizione in parola non coglie e non rivela le vere linee di forza del filosofare platonico, ma piuttosto le vela, perché occulta proprio la linea di forza essenziale del platonismo, cioè la metafisica. Infatti basterebbe rimeditare il Pedone per costatare la radicale rottura che Platone opel'la con la vecchia fisica, ·in funzione appunto della sua « seconda navigazione »; e basterebbe considerare i libri centrali della Repubblica e i dialoghi immediatamente successivi, per rendersi conto che la dialettica platonica include una vera e propria metafisica, nella misura in cui essa esprime la salita dal sensibile al soprasensibile e nella misura in cui i suoi procedimenti discensivi e ascensivi sono connessi alla concezione della struttura del soprasensibile (e quindi sono connessi agli esiti della « seconda navigazione » ). Lo schema di Senocrate avrebbe dovuto dunque fondamentalmente rilevare quella componente che Aristotele chiamò « fiCfr. Diogene Laerzio, m, 56. ' Cfr. Sesto Empirico, Contro i matem., Isnardi Parente, fr. 82). 2
VII,
16 ( = Heinze, fr. l
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SENOCilATE
losofia prima» e i posteri« metafisica», e distinguere: l) metafisica, 2) fisica, 3) etica e 4) dialettica o logica. Ma tele distin2lione, come vedremo, non fu fatta neppure nel Peripato postarist
2. L a d o t
tr i
n a d e 11 a c o n o s c enza
Della dialettica, cui Senocrate dovette dedicare molta attenzione 4 , non sappiamo nulla. Ci è giunta, invece, notizia della sua gnoseologia, che, in parte non indifferente, modifica quella platonica. Platone, come sappiamo, in funzione del presupposto della perfetta corrispondenza fra i piani del conoscere e i piani dell'essere, aveva ammesso le due fondamentali figure· gnoseologiche della « scienza » e della « opinione » o doxa, nferentisi, rispettivamente, alla sfera dell'intelligibile e a quella del sensibile; e aveva ammesso come vera in senso assoluto solo la prima; la doxa era, per Platone, per lo più falsa e, quan• Nel catalogo delle opere di Senocrate si leggono numerosi titoli di opere dedicate a questo argomento (cfr. Isnardi Parente, fr. 2, pp. 55 sgg.).
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LA PRIMA ACCADEMIA
do era vera, lo era per accidens. Senocrate prospetta una nuova distinzione delle sfere dell'essere e, per conseguenza, modifica anche la distinzione delle forme del conoscere. Egli distingue tre diversi piani del -reale: l) la realtà che sussiste fuori del cielo, 2) la realtà costituita dai cieli e 3) la realtà che è rinchiusa all'interno della sfera del cielo 5 • La distinzione riecheggia moduli platonici, ma soprattutto ripete in modo chiarissimo il celebre schema aristotelico e lo riproduce ricalcando pesantemente i caratteri cosmologici, più che non quelli più squisitamente metafisici e ontologici. La realtà che è fuori del cielo è la realtà dell'intelligibile; il cielo è concepito come un misto di sensibile e di intelligibile; la realtà che è all'interno della sfera del cielo è il sensibile. A queste tre sfere della realtà corrispondono tre forme conoscitive, rispettivamente: l) la pura conoscenza noetica, 2) la rappresentazione doxastica, 3) la percezione sensoriale. Inoltre Senocrate dichiarò la conoscenza noetica scientificamente vera, perché ha come oggetto l'intelligibile; la conoscenza sensoriale è invece empiricamente vera, perché la percezione .sensoriale come costatazione dell'empirico è sempre vera. Per contro, Ja rappresentazione doxastica può essere vera o falsa, in quanto, essendo i cieli realtà ad un tempo intelligibili (per le leggi che li governano) e sensibili (perché si vedono, e quindi hanno mateDia), possono dar luogo aJJ.'errore appunto in virtù deJJa mescolQDZa dei due elementi 6 • :È chiaro, in ogni caso, che, per Senocrate, la doxa vale di più della sensazione e che ha un ambito autonomo, più di quanto non avesse per Platone . .3. La fisica (dottrina dei principi)
Speusippo aveva eliminato i Numeri ideali e le Idee a beneficio dei numeri matematici, riducendo quelli a questi, come • Cfr. Heinze, fr . .5 ' Ibidem.
= Isnardi
Parente, fr. 83.
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SENOCllATB
si è sopra veduto; Senocrate ripudia la posiZione di Speusippo e cerca una via di mezzo fra questa e quella platonica sostenendo quanto segue:
Le Idee ed i Numeri hanno la medesima natura e tutte le restanti cose - linee e superfici, giù giù fino alla sostanza del cielo e delle cose sensibili - derivano da essi 7 • Dunque, i Numeri ideali assorbono in sé tutta la realtà del mondo intelligibile e spiegano tutte le cose celesti e sensibili. Quelle realtà che costituiscono la sfera sopraceleste, di cui si è detto al paragrafo precedente, sono pertanto i Numeri ideali, e da essi derivano le altre due sfere. E i Numeri ideali, dal momento che sono una molteplicità, che come tale va spiegata, da che cosa derivano? Senocrate, ricollegandosi alle « dottrine non scritte » di Platone, reinterpretò la dottrina dei due principi supremi della « Monade » e della « Diade indefinita di grande e piccolo » 8 • Secondo Senocrate questi principi, combinandosi fra di loro, davano origine (una origine - si badi - non cronologica, ma extratemporale, cioè ideale) ai Numeri ideali 9 • Senocrate derivava poi dai Numeri le Figure ideali 10 (avvalendosi, probabilmente, del concetto di linee indivisibili e forse del concetto di « grandezze indi visibili »), secondo un procedimento che i documenti non ci permettono di ricostruire in modo puntuale e secondo moduli stucchevoli e che Aristotele non si stanca di denunciare come assurdi. Anche nel cosmo di Senocrate, come in quello di Speusippo, non c'è posto per il Demiurgo. Sotto l'influsso di Arista' Aristotele, Metafisica, Z 2, 1028 b 24 sgg. ( = Heinze, fr. 34; cfr. anche gli altri passi ivi riportati = Isnardi Parente, frr. 103 sgg.). • Cfr. Teofrasto, Metafisica, 6 a-b Usener ( = Heinze, fr. 26; cfr. anche Heinze, frr. 27 e 28 = Isnardi Parente, frr. 100, 98, 101, 102). ' Cfr. Heinze, frr. 29 sgg. = Isnardi Parente, frr. 119 e 94 sgg. 1° Cfr. Heinze, frr. 37-39 = lsnardi Parente, frr. 117, 118, 260.
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LA PRIMA ACCADEMIA
tele, egli concepl il mondo come eterno 11 , e quindi diede della narrazione del Timeo una interpretazione non letterale: anche la generazione del mondo è fuori del tempo come quella dei Numeri ideali. Senocr-ite (çome Speusippo) mantenne invece l'anima del mondo, che fece derivare dai supremi principi della Monade e della Diade, e la definl come numero semovente, che però non coincide con l'Intelligenza suprema, la quale, come subito vèdremo, secondo Senocrate è l'Uno 12• Le anime umane, che sono egualmente numeri semoventi, sono concepite platonicamente come incorporee, come intelligenze immateriali provenienti dal di fuori del corpo, come immortali, anzi come eterne: Senocrate ritenne addirittura immortale ed eterna non solo la parte razionale. dell'anima, ma anche quella irrazionale 13 •
4. I n t e r p re t az i o n e re li g i o s a d e l c o s m o Ma quanto fin qui abbiamo detto non caratterizza ancora pienamente il pensiero di Senocrate. Egli, infatti, interpreta in· chiave accentuatamente religiosa l'ontologia, la cosmologia e l'etica. Abbiamo visto ·quale massiccia presenza abbia la componente religiosa nel sistema platonico; in ciò Senocrate parrebbe, dunque, fedele seguace del maestro: ma vedremo che ciò è vero solo nella lettera e non nello spirito, perché la religiosità di Senocrate è ormai altra rispetto a quella platonica. Intanto, come ci è espressamente riferito, egli non solo identificava la Monade con l'Intelletto, ma la chiamava Zeus, supremo Dio maschile, padre e reggitore dell'univ:erso. In Cfr. Heinze, frr . .54-.5.5 = lsnardi Parente, frr. 1.53-160. Cfr. Heinze, frr. 60 sgg. = lsnardi Parente, frr. 16.5 sgg. '" Cfr. Heinze, frr. 70 sgg. Isnardi Parente, frr. 20.5 sgg.
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SENOCllATB
modo ana:logo egli identificava la Diade con la Dea femminile, madre degli Dei 1... E non solo i due principi antologici supremi erano da lui intesi in chiave religioso-mitologica, ma erano intese allo stesso modo anche le tre sostanze o le tre sfere della realtà in cui egli divideva l'universo, sostanze che egli identificava con le tre Parche: egli chiamava infatti Atropo la sfera dell'mtelligibile, Lachesi la sfera dei cieli, Cloto la sfera del sensibile 15 • Oltre al cielo, naturahnente, esseri divini, anzi Dei, erano considerati ·anche i pianeti. Qcerone riferisce: Senocrate diceva essere otto il numero degli dei, dei quali cinque trarrebbero il nome dai pianeti, un sesto risulterebbe dall'insieme delle stelle fisse che verrebbero cosl a costituire le sparse membra di un unico corpo indivisibile, il settimo e l'ottavo, infine, andrebbero identificati, rispettivamente, col sole e con la luna 16 •
Divini erano da lui considerati gli stessi elementi fisici 17 • Perfino gli animali, a suo avviso, avrebbero posseduto un certo senso del divino 18 • La visione religiosa del cosmo, come si vede, si colloca in una temperie di carattere più mistico-magico che non razionale. Una ulteriore riprova di quanto diciamo si ha nella dottrina dei Demoni, che Senocrate sv:iJ.uppa partendo da spunti platonici 19 • I Demoni sono esseri intermediari fra gli uomini e gli Dei, che agiscono in modo particolare nei sacrifici e negli oracoli. Essi sono esseri più potenti degli uomini, ma meno deCfr. Aezio, Plac., I, 7, 30 (=Heinze, fr. 15=1snardi Parente, fr. 213). Cfr. Heinze, fr. 5 = Isnardi Parente, fr. 83. 16 Cicerone, De nat. deor., I, 13, 34 ( = Heinze, fr. 17 = Isnardi Parente, fr. 263). 1' Cfr. Heinze, fr. 15 = lsnardi Parente, fr. 213. 11 Cfr. Heinze, fr. 21 = lsnardi Parente, fr. 220. " Cfr. Heinze, frr. 23-25 = Isnardi Parente, frr. 222-230. 14
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LA PRIMA ACCADEMIA
gli Dei, e, contrariamente agli Dei, possono essere buoni o cattivi. Ciò che le antiche leggende narravano circa le contese e le lotte fra gli Dei, le loro passioni e le loro azioni, sarebbe, in realtà, da attribuire non agli Dei ma ai Demoni. I Demoni sono le anime liberate dai corpi. Come è stato ben rilevato, la demonologia di Senocrate ha un triplice significato: l) un significato religioso, appunto in quanto i Demoni sono mediatori fra uomini e Dei e hanno parte dominante nei culti e negli oracoli, 2) un significato psicologico,· perché sono anime umane che si sono liberate dai corpi con la morte e 3) anche un significato etico, perché il conflitto fra bene e male prosegue con essi, oltre che sulla terra, anche nel mondo celeste 20 • Questa demonologia ebbe notevoli influssi sullo stoicismo e poi su tutta 1a filosofia pagana di carattere religioso e, in particolare, sul medio e sul neoplatonismo.
5.
L'etica
Senocrate scrisse molto di etica, mostrando, in tal modo, di essere sensibile alle nuove esigenze spirituali dei tempi. Vedremo, infatti, in quale massiccia misura nei sistemi dell'età ellenistica l'etica sia dominante. Per quel poco che ci è riferito di lui in materia, possiamo dire che egli fissò lo schema cui si attennero poi tutti gli antichi Accademici. In particolare, Senocrate dovette contribuire in modo fattivo a fissare la « tavola dei beni »o dei valori (evidentemente ispirandosi alle Leggi di Platone), ossia quella tavola rispettando la quale l'uomo vive come deve vivere ed è felice. Come primo bene egli pose il bene spirituale della virtù: "' Cfr. l'ampio esame del tema in Heinze, pp. 78- 123.
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11.5
SENOCRATE
primo bene, si badi, ma non unico bene, come invece sostenevano gli Stoici. Come secondo bene pose le affezioni positive del corpo (come ad esempio la salute) e come terzo bene pose le cose favorevoli esteriori (i beni strumentali). Per raggiungere la felicità non bastano i beni inferiori; occorre il primo bene. Tuttavia, la virtù, se è in grado di dare la felicità, non può dare la felicità totale, ove manchino gli altri beni. I beni inferiori, dunque, se non danno la felicità, la possono tuttavia completare 21 • E a fondamento di questa tavola Senocrate poneva la stessa« natura», la physis 22, come già ·aveva fatto Speusippo e come ancor più accentuatamente faranno Polemone e poi tutti i filosofi dell'età ellenistica.
Cfr. Heinze, frr. 76-94 = lsnardi Parente, frr. 231-2.51. Plutarco, Adv. Stoic., 23, 1069 e ( = Heinze, fr. 78 = Isnardi Parente, fr. 233); Cicerone, De fin., IV, 6, 15 ( = Heinze, fr. 79 Isnardi Parente, fr. 234). 21
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VI. GLI ULTIMI RAPPRESENTANTI DELL'ANTICA ACCADEMIA: POLEMONE, CRATETE E CRANTORE
Dopo la morte di Senocrate, nel mezzo secolo che segui, l'Accademia fu dominata da tre figure di pensatori, che produssero una mutazione nel clima spirituale, tale da rendere l'antica Scuola di Platone ormai quasi irriconoscibile. Questi furono: Polemone, che fu a lungo capo della Scuola, Cratete, che successe al maestro Polemone per un brevissimo periodo, e Crantore, compagno e discepolo di Polemone. Nei loro scritti, nel loro insegnamento, cosl come nel loro modo di vivere, dominano ormai le istanze della nuova epoca, quelle istanze cui danno voce decisamente più viva e vera gli Stoici, gli Epicurei e gli Scettici; e quanto di Platone in essi resta, viene deformato dalle nuove proSpettive.
l.
Polemone
Polemone 1 nacque da agiata famiglia ateniese, Dopo aver trascorso una dissoluta giovinezza fra intemperanze di ogni genere, fu convertito da Senocrate, improvvisamente, un giorno in cui lo senti parlare della moderazione. Da allora ' Polemone successe a Senocrate nel 315/314 a. C. e tenne la direzione dell'Accademia fino al 270/269 a. C. L'edizione di riferimento è quella di M. Gigante, Polemonis Academici fragmenta, Napoli 1977 (estratto dai « Rendiconti dell'Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti di Napoli,., vol. LI (1976), pp. 91-144.
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POLEMONE, CllATETE E CllANTOU
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la filosofia trasformò completamente Polemone, che acquistò una fermezza, una risolutezza di carattere, una compostezza di modi, una costanza e una perseveranza morale tali che lo reserQ famoso 2 • Si racconta di lui addirittura questo episodio: Quando un cane rabbioso gli sbranò un poplite, egli non impallidl neppure; diffusasi la notizia del fatto, in città scoppiò un tumulto, ma Polemone rimase impassibile 3• L'episodio è significativo, perché dice nella maniera più eioquente come ormai anche nell'Accademia la filosofia fosse diventata dottrina e pratica di vita, proprio come nelle nuove Scuole ellenistiche che andavano affermandosi, dallo scetticismo all'epicureismo, allo stoicismo. :S inoltre da rilev·are che tale episodio ~igurerebbe perfettamente nella biografia di un Cinico o di un Pirroniano o di un Saggio stoico, i quali appunto nella « impassibilità » indicavano una delle conquiste fondamenta1i della saggezza, come in parte abbiamo già detto e come ampiamente vedremo più oltre. · Ma c'è di più. Non solo nella pratica della vita, ma anche nelle affermazioni dottrinarie Polemone è in sintonia con lo spirito delle nuove Scuole. Ecco una eloquente testimonianza: Polemone soleva dire che bisogna esercitarsi nei fatti concreti della vita e non nelle speculazioni dialettiche, per evitare di essere come uno che abbia imparato a memoria un manuale di armonia musicale e non sappia esercitarla, e quindi per evitare di riscuotere ammirazione per l'abilità dialettica e di essere incoerenti con se stessi nel disporre della propria vita 4• A ben vedere, questo significava né più né meno che il rinnegamento di PliNone e il ritorno su posizioni preplatoniche, ossia su quelle posizioni che avevano assunto i SoCfr. Diogene Laerzio, IV, 16-17 (= Gigante, frr. 14 e 16). Diogene Laerzio, IV, 17 (= Gigante, fr. 108). • Diogene Laerzio, IV, 18 ( = Gigante, fr. 101). 2
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LA PRIMA ACCADEMIA
cratici minori. Del:le tre parti de11a filosofia distinte da Senocrate: fisica, dialettica ed etica, solo l'ultima interessa ormai aPolemone. E il parametro della vita morale, Polemone, come già Speusippo e Senocrate, lo indicò nella physis, nella natura, nella vita secondo natura. Dedicò anzi all'argomento un libro che doveva sviluppare quella concezione assunta ormai come base dell'etica da tutte le Scuole ellenistiche 5 • E, secondo natura, sono beni, come da Speusippo in poi l'Accademia sostenne, sia quelli dello spirito, e cioè la virtù, sia, in subordine, anche quelli del corpo. La felicità si può raggiungere con la sola virtù, ma per la perfetta felicità occorrono anche i beni inferiori 6 • ~una posizione, questa, che, come vedremo, gli Stoici fermamente avversarono.
2.
Cra te te
Non dissimile dovette essere la posizione dell'ultimo scolarca dell'antica Accademia, Cratete 7, che con Polemone ebbe legami assai stretti, come riferisce Diogene Laerzio: In vita non solo ebbero i medesimi interessi e la medesima attività; ma anche fino all'ultimo respiro divennero sempre più simili l'uno all'altro, e morti ebbero comune la tomba 8 • 5 Cfr. Demente Aless., Strom., vu, 6; Plutarco, Ad v. Stoic., 23, 1069 e; Cicerone, Acad. pr., n, 42, 131; Id., De fin., n, 11, 33 sg. ( = Gigante, frr. 112, 124, 125, 127). • Cfr. Gigante, frr. 131-137. 7 Cratete nacque ad Atene e fu prima allievo e poi successore di Polemone nel 270/269. Tenne lo scolarcato verosimilmente solo pochi anni. Oltre che filosofica, la sua produzione fu anche letteraria e retorica. Ci riferisce Diogene (IV, 23): « Cratete morendo, secondo Apollodoro nel terzo libro .della sua Cronologia, lasciò molti libri: alcuni sulla filosofia, altri sulla commedia, e orazioni tenute dinanzi al popolo o in occasione di ambascerie ». • Diogene Laerzio, IV, 21.
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POLEMONE, CRATETE B CUNTOilB
3.
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Crantore
Crantore, che morl ancor vivo Polemone 9 , rip.rese la componente « tiosica », scrivendo un commento ·al Timeo, sostenendo l'idea, che abbiamo già .visto in Senocrate, secondo cui il racconto della creazione del Demiurgo andrebbe inteso solo come espressione immaginifica avente scopo didattico, e quindi non in senso letterale 10 • La generazione dell'anima e del mondo sarebbe da interpretarsi non in senso cronologico, ma in senso metatempor8le: essa illustrerebbe non altro che la struttura antologica dell'una e dell'altro. Egli rielaborò, inoltre, la dottrina relativa alla tavola dei valori, includendovi anche il piacere: al primo posto pose la virtù, al secondo la salute, al terzo il piacere e al quarto la ricchezza 11 • E in questa rivalutazione del piacere dovette non essere estranea l'influenza epicurea. Di Crantore va ancora menzionato lo scritto Sul dolore, il quale è forse il primo scritto di quel genere consolatorio che successivamente avrà larghissima fortuna. In esso il filosofo probabilmente analizzava il senso del dolore fisico e spirituale 12 • E anche questo era del tutto in sintonia con lo spirito dei nuovi tempi. Infine, contro la posizione stoica, Crantore respinse nettamente la dottrina dell'apatia, di cui diremo a lungo più avanti, ' Crantore nacque a Soli, in Cilicia. Fu discepolo di Senocrate e compagno di scuola di Polemone. Dovette essere press'a poco contemporaneo di Polemone, un poco più giovane. Non ebbe lo scolarcato dell'Accademia, perché morl prima di Polemone. Narra Diogene (Iv, 24) che«[ ... ] ammalatosi si ritirò nel tempio di Asclepio, ed ivi passeggiava: accorsero a lui da ogni parte, credendo che non si trovasse n per malattia, ma perché voleva fondarvi una Scuola. Tra questi vi era anche Arcesilao che voleva essere da lui raccomandato a Polemone [ ... ]. Tuttavia quando guarl riprese ad ascoltare le lezioni di Polemone e per questo fu ammirato moltissimo •· Lasciò ad Arcesilao i suoi averi. 1° Cfr. Proclo, In Tim., I, 76, l sgg.; 277, 8 sgg. Diehl. " Cfr. Sesto Empirico, Contro i matem., x, 51 sgg. 12 Diogene Laerzio, IV, 27, dice che questo libro era «ammiratissimo».
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LA PRIMA ACCADEMIA
e sostenne invece la dottrina della moderazione delle passioni, come Cicerone ci riferisce: Non siamo fatti di pietra, noi: anzi, abbiamo nell'anima un non so che di costituzionalmente tenero e sensibile, qualche cosa che il dolore riesce a scuotere come se fosse una tempesta. E non sbaglia Crantore, che fu una delle figure più illustri della nostra Accademia, a dire: «Io non sono affatto d'accordo con quelli che tanto elogiano questa non meglio precisata insensibilità, che non può esistere, e non deve. Io m'auguro di non star mai male, questo sl; ma se proprio dovessi, ebbene, voglio conservare la sensibilità, qualurique sia l'operazione o il taglio a cui mi debba sottoporre. Perché l'immunità dal dolore non si ottiene se non pagando un prezzo assai alto: l'abbruttimento dell'anima, e la paralisi del corpo ,. 13 •
•• Cicerone, Tusc. disput., m, 6, 12 (traduzione di A. Di Virginio); cfr. anche Acad. pr., II, 44, 135.
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VII. CONCLUSIONI SULL'ANTICA ACCADEMIA
Dopo la morte di Cratete prese la direzione dell'Accademia Arcesilao, molto viqoo agli ultimi tre pensatori che abbiamo menzionato, il quale, come vedremo, tagliò netto con la tradizione, assumendo posizioni decisamente scettiche. In realtà, dopo il progressivo smarrimento del senso della « seconda navigoione » platonica e il rapido oblio di tutte le novità ad essa legate, l'Accademia non aveva ormai più nulla da proporre. Le astruse deduzioni metafisiche riguardanti la teoria dei principi e degli enti ideali sostenute da Speusippo e da Seno· crate si esaurirono ben presto per l'eccessiva astrattezza. Le mistiche e misteriosofiche amplificazioni operate da parte di Eraclide e dello stesso Senocrate di alcuni spunti propri di Platone, specie dell'ultima stagione di Platone, non potevano trovare immediato favore in una età tutta rivolta all'immanenza, che cercava di ridurre tutto alla physis materiale. Solo alla fine dell'età pagana e negli sviluppi ulteriori della filosofia pagana in età cristiana quella tendenza troverà il terreno adatto. In etica (a parte l'affermazione del principio secondo cui la physis è il fondamento dell'agire) l'antica Accademia ebbe poco da dire: le assai più audaci e caustiche pPsizioni scettiche, epicuree e stoiche seppero aiutare spiritualmente molto di più i loro contempol'allei. E così la voce di Platone si spense fra le mura stesse del-
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LA PRIMA ACCADEMIA
l'Accademia: solo col medioplatonismo e soprattutto con il neoplatonismo essa saprà farsi riascoltare e saprà farsi nuovamente comprendere. Ma ciò avverrà quando ormai le Scuole ellenistiche saranno al tramonto, e soprattutto nei primi secoli dell'età cristiana."
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SEZIONE TERZA
IL PRIMO PERIPATO E IL RAPIDO SMARRIMENTO DEL SENSO DELLA DIMENSIONE METAFISICA
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« ... vi sono molte cose che non ubbidiscono fil bene e che non lo ricevono, anzi questo avviene nella maggior parte dei casi... ». Teofrasto, Metafisica, 11 a 14-16
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I. IL PERIPATO ARISTOTELICO, LA SUA ORGANIZZAZIONE E LA SUA RAPIDA DECADENZA
La fondazione del Peripato, come già abbiamo detto nel precedente volume, coincise col ritorno di Aristotele ad Atene, e dunque avvenne intorno al 335-334 a. C. L'Aristotele che ritornava ad Atene, dopo ben tredici anni di as&enza, non era più il semplice platonico dissidente, non gradito a molti degli Accademici: era ormai il filosofo più affermato e rinomato, era .i} maestro del grande Alessandro, era un uomo sulla cui fama nessuno, ormai, poteva gettare ombra. Per di più, l'uomo che ritornava era profondamente consapevole di essere l'unico vero erede di Platone; l'unico che fosse stato capace di portare avanti, in modo critico e costruttivo, quel discorso platoirlco che, nell'Accademia, i sedicenti fedeli discepoli andavano sempre più gravemente compromettendo. Dice bene lo Jaeger: «Fu il ricordo di Platone che gli fece scorgere nel ritorno [ad Atene] qualcosa di più che un'estrinseca condizione favorevole per una più vasta manifestazione della sua attività. Assunse cosi ora anche pubblicamente, di fronte a tutto il mondo, la successione del maestro • 1• Per questo, all'Accademia di Senocrate egli non esitò a contrapporre una nuow Scuola, sicuro di poter spiritualmente 1
Jaeger, Aristotele, p. 423.
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IL PRIMO PERIPATO
costruire, a sua volta, quanto il maestro Platone aveva costruito con l'Accademia. Ma Aristotele era un meteco, e la legge ateniese non gli permetteva di acquistare case e terreni; per questo egli fondò la sua Scuola in un ginnasio pubblico, il Liceo, che probabilmente aveva nelle immediate vicinanze un edificio e un giardino. Era costume diffuso quello di insegnare passeggiando; ma nel Liceo aristotelico tale costume dovette avere un particolare rilievo, se la Scuola aristotelica fu tosto denominata « Peripato » e i suoi seguaci « Peripatetici »: in greco, infatti, come già abbiamo detto, Peripato significa passeggiata e Peripatetici significa passèggianti 2 • Già ~on il primo successore di Aristotele, Teofrasto, l'edificio e il giardino divennero proprietà della Scuola. Per la verità, anche Teofrasto era meteco, ma Demetrio di Falero, che fu discepolo affezionato del Peripato e raggiunse in Atene un notevole potere politico, fece adottare una procedura giuridica spedale e donò a Teofrasto l'edificio e il giardino della Scuola 3 • E dal testamento di Teofrasto si ricava che l'edificio doveva essere piuttosto ampio, dotato di una biblioteca, di un museo di storia naturale e di un tempietto 4 • È probabile che Aristotele stesso abbia fissato il piano generale degli studi, oltre al regolamento della Scuola. La sistemazione generale del sapere che egli tracciò, e che abbiamo con ampiezza esaminato, dovette verosimilmente fornire la precisa trama secondo cui venivano organizzati i corsi e le lezioni. Accanto alle scienZe teoretiche, pratiche e poietiche, che sono quelle propriamente filosofiche, fecero il loro trionfale ingresso nel Peripato le scienze naturali, le analisi e le Cfr. Cicerone, Acad. post., I, 4, 17. • Cfr. Diogene Laerzio, v, 39. Le testimonianze e i frammenti di Demetrio sono raccolti da F. Wehrli, Die Schule des Aristoteles, Heft IV: Demetrios von Phaleron, Basd 1949. • Diogene Laerzio, v, 51 sg. 2
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IL PERIPATO ARISTOTELICO E LA SUA DECADENZA
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classificazioni dei fatti particolari, il gusto della ricerca nella dimensione dell'empiria. Aristotele stesso condusse imponenti ricerche di fisiologia, di biologia e di zoologia e Teofrasto (che insieme ad altri condiscepoli dovette tenere regolarmente corsi Hn dagli inizi della Scuola} fondò 1a botanica. Cosl, almeno fino a quando Aristotele restò in vita, il Peripato in complesso superò l'Accademia, e non solo l'Accademia di Senocrate, ma la stessa Accademia di Platone, sia in dimensione orizzontale per la vastità enciclopedica del sapere, sia in dimensione verticale per la profondità del ripensamento dei problemi speculativi. Ma come il momento magico dell'Accademia rimase limitato al periodo in cui Platone restò in vita, così il momento magico del Peripato andò poco oltre la morte di Aristotele. Infatti i due grandi ebbero l'identico destino: Platone fu tradito dai suoi successori nell'Accademia e Aristotele fu tradito dai suoi successori nel Peripato. E poiché la storiografia per lo più non ha riconosciuto adeguatamente questa analogia di destini, dobbiamo puntualmente farla emergere da alcuni rilievi e da alcune precisazioni. Riconoscere l'infedeltà dei discepoli di Platone non fu difficile, anche perché nessun personaggio di eccezionale rilievo prese le redini dell'antica Accademia, e i mediocri tentativi fatti dagli Accademici con l'intento di approfondire il discorso platonico mostrano la loro inadeguatezza in modo quanto mai scoperto. Invece l'immediato successore di Aristotele, Teofrasto, fu una figura di prim'ordine, un formidabile ricercatore, un enciclopedico che, quanto a vastità di sapere, gareggiò con lo stesso Aristotele. Teofrasto seguì molto da vicino l'evoluzione spirituale dello Stagirita, fin dal periodo di Asso e di Mitilene; poi riprese, ripensò tutti i temi aristotelici e in alcuni casi sembrò andare oltre le conclusioni di Aristotele. E così l'immagine del Teofrasto fedele discepolo di Aristotele finì per far velo alla verità storica e per non lasciar
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IL PRIMO PEiliPATO
vedere la frattura che nel Peripato teofrasteo si verificò rispet· to al Peripato aristotelico. Per conseguenza, non si riusd a capire come mai col secondo successore di Aristotele, Stratone, discepolo di Teofrasto, il Peripato avesse ormai dimenticato il messaggio di Aristotele pressoché per intero. La verità è che Teofrasto fu solo a metà fedele discepolo del maestro. In Aristotele, come abbiamo visto, convissero due interessi ben distinti, quello filosofico-speculativo e quello scientifico. Lo Stagirita esplicò il suo genio in ambedue le direzioni in maniera creativa veramente eccezionale. Per contro, gli interessi di Teofrasto furono prevalentemente scientifici, e solo in questa direzione il suo genio fu creativo; la fondazione della botanica fu il suo guadagno essenziale. Invece nel camp<> squisitamente filosofico, egli non ebbe capacità sufficienti per muoversi in modo davvero autonomo e creativo. Ripeté Aristotele, ripensò punti particolari, introdusse innovazioni; tuttavia non solo non guadagnò qualcosa che fosse organicamente nuovo, ma gli mancò sostanzialmente quel respiro speculativo dell'aristotelismo, senza il quale molti problemi avvizziscono, perdendo consistenza e rilievo. Insomma, il pensiero di Teofrasto, mentre rivela una imponente estensione scientifica, del tutto paragonabile a quella del maestro, rivela anche, quando lo si saggi criticamente, una esilità nello spessore speculativo e filosofico che in certi punti finisce per essere quasi inconsistenza. E cosl si può ben capire perché, dopo Teofrasto, Stratone si rifugerà nella fisica, e perché dopo Stratone gli scolarcbi del Peripato tenderanno a ripiegare sulle scienze empiriche; ma questa è una parabola iniziata appunto con Teofrasto, che già non aveva saputo riproporre il senso ultimo della filosofia di Aristotele. Vediamo puntualmente i modi in cui avvenne questo smarrimento da parte di Teofrasto.
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II. TEOFRASTO E LO SMARRIMENTO DELLA COMPONENTE SPECULATIVA
l.
La metafisica
La misura in cui Teofrasto 1 smarrisce il senso dello speculativo e del metafisica è rivelata esattamente dal suo breve trattato di filosofia prima (cui fu dato dai posteri il titolo di Metafisica per analogia di contenuto con l'opera aristotelica di filosofia prima), il quale contiene una serie di problemi e aporie senza risposte 2 • ' Teofrasto nacque nell'isola di Lesbo, nella città di Ereso. La data di nascita è difficilmente determinabile. La data di morte, come riferisce Diogene (v, 58) sulla scorta di Apollodoro, deve collocarsi nella 123' Olimpiade (288/284 a. C.). Ancora Diogene (v, 40) afferma che morl a 85 anni, il che permetterebb,: di fissare la data di nascita con relativa approssimazione. Ma altre fonti dicono che morl a 99 e perfino a 107 anni. Come già abbiamo detto, fu discepolo e compagno di Aristotele fin dall'epoca in cui lo Stagirita insegnò in Asia Minore. Non è improbabile che Teofrasto abbia, da allora in poi, sempre seguito Aristotele. Nel 323/322 successe ad Aristotele nella carica di capo della Scuola peripatetica, che tenne per circa trentacinque anni con grande successo. Saisse moltissime opere, di cui Diogene (v, 42- 50) fornisce il catalogo. Cfr. l'eccellente ricostruzione del medesimo fatta da O. Regenbogen, nella monografia Theophrastos, Suppl. vu, 1940, coli. 1363 sgg. della Realenzyclopadie der classischen AJtertumswissenschaft Pauly- Wissowa- Kroll. (Questa del Regenbogen è la migliore monografia d'insieme dedicata al nostro pensatore). L'unica edizione integrale delle opere di Teofrasto resta quella di F. Wimmer, Theophrasti Eresii Opera, quae supersunt, omnia, Parisiis 1866 (riprodotta con procedimento fotomeccanico a Frankfurt a. M. 1964), ormai invecchiata. 2 Questo breve saitto di Teofrasto è stato studiato a fondo solo in tempi moderni: dapprima da H. Usener (Zu Theophrast's metaphysischem Bruchstuck, in « Rheinisches Museum », 16 [1861], pp. 258- 281), che ne curò anche una edizione (Theophrasti De prima philosophia libellus,
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IL PRIMO PEII.IPATO
Pur mantenendo una parte della terminologia aristotelica e certe formule che apparentemente ripetono analoghe formule dello Stagirita, Teofrasto, e per lo più senza rendersene conto, in quest'opera riduce le originarie valenze concettuali delle medesime in una maniera e in una misura tali da compromettere gravemente l'originario impianto metafisico aristotelico (proprio come Speusippo e Senocrate avevano compromesso l'originario impianto metafisico platonico) 3 • Come abbiamo puntualmente mostrato nel precedente volume, l'orizzonte metafisico dello Stagirita era caratterizzato da quattro dimensioni o componenti: l) Aristotele, in primo luogo, aveva definito la metafisica come teoria delle cause e dei principi primi; 2) inoltre aveva mostrato come la metafisica fosse anche ontologia, ossia teoria dell'essere, giacché le cause che il metafisico ricerca sono le cause di tutto l'essere; 3) in terzo luogo, aveva mostrato come la metafisica fosse altresl teoria della sostanza, in quanto la sostanza è il nucleo dell'essere, il primo dei significati dell'essere, e dunque il fondamento di ogni ulteriore significato dell'essere; 4) infine, Aristotele aveva definito la metafisica anche come teologia, cioè come teoria di Dio e del divino, essendo divina la prima e suprema causa, divino l'essere supremo, divina la sostanza prima. Abbiamo inoltre visto come l~ quattro definizioni della metafisica, lungi dall'escludersi reciprocamente, stiano fra di loro, nel contesto del discorso aristotelico, in un rapporto di complementarità, come l'una porti all'altra e come tutte sfocino nella definizione teologica. Infatti, se la ricerca delle Bonn 1890), e poi dal Ross (W. D. Ross- F. H. Fobes, Tbeophrastus, Metapbysics, with Translation, Commentary and Introduction, Oxford 1929). In Italia è rimasto a lungo pressoché sconosciuto; ne abbiamo curato di recente la prima versione italiana, con commentario e monografia introduttiva (G. Reale, Teofrasto e la sua aporetica metafisica. Saggio di ricostruzione e di interpretazione storico-filosofiea con traduzione e commento della «Metafisica», Brescia 1964). • L'interpretazione che qui diamo riproduce, in sintesi, le conclusioni del nostro lavoro su Teofrasto, citato sopra alla nota 2.
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TEOFRASTO
cause e dei principi non giungesse a Dio e al Principio divino, si ridurrebbe a mera ricerca dei principi fisici e dunque sarebbe fisica e non metafisica; se la teoria dell'essere fosse una teoria limitata alla sola sfera dell'essere sensibile e non ponesse il problema dell'essere soprasensibile, sarebbe sempre fisica e non metafisica; e lo stesso dicasi della teoria della sostanza, la quale può essere appunto metafisica solo se e nella misura in cui pone il problema e indaga intorno alla sostanza divina. Questo era, dunque, l'orizzonte speculativo della metafisica aristotelica 4 • Ebbene, che cosa è rimasto; in Teofrasto, di tutto questo complesso e multiforme gioco di componenti? Come si è ridotto l'orizzonte speculativo della sua metafisica? l ) Nel suo trattato metafisico l'Eresio mantiene salda la definizione della metafisica come teoria delle cause e dei principi primi, e sottolinea anzi la differenza fra essa e le scienze particolari: queste partono da principi per allontanarsi da essi procedendo verso ciò che dai principi deriva, mentre la metafisica, all'opposto, parte dalle cose per procedere verso i principi:
Le cose si fondano non su altro che sui principi. Accade qui [cioè in metafisica] proprio l'opposto di quello che accade nelle altre discipline. In queste ultime scienze, infatti, le parti che vengono dopo i principi hanno· maggior forza e compiutezza. Ed è certo cosi a buona ragione: qui infatti [in metafisica] ci si occupa fondamentalmente dei principi, mentre, nelle altre scienze, la ricerca si allontana dai principi 5 • 2) Invece la dimensione ontologica risulta già interamente smarrita, e in maniera pressoché totale. E si noti: non solo • Cfr. vol. II, pp. 261 e sgg.; dr. anche Reale, Aristotele, La Metafisica, pp. 10 sgg.; Reale, Il concetto di filosofia prima, passùn. 5 Teofrasto, Metafisica, 6 b 17-22 (la traduzione è nostra, tratta dal volume citato alla nota 2; dr. ulteriormente Reale, Teofrasto ... , pp. 138 sg.). vol.
I,
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risulta smarrita la complessa problematica dei molteplici significati dell'essere e delle loro relazioni, ma risulta sostanzialmente smarrita addirittura la stessa tematica dell'essere. Il primo Peripato, dunque, non comprendeva già più il significato della domanda sull'essere: proprio quella domanda che Aristotele aveva detto essere l'eterna domanda della filosofia 6 • 3) Anche il senso della complessa problematica della sostanza è perduto da Teofrasto. E alla sostanza non solo Aristotele aveva dedicato una cospicua parte della sua Metafisica, ma di essa aveva scritto espressamente: E in verità, ciò che prima, ora e sempre è oggetto di ricerca e costituisce l'eterno problema che cos'è l'essere, equivale a questo: che cos'è la sostanza [ ... ] . Perciò anche noi, principalmente, foodamentalmente e unicamente, per cosl dire, dobbiamo esaminare che cos'è l'essere inteso nel senso della sostanza 7 •
Nella Metafisica di Teofl'a.Sto scompaiono alcuni dei termini che in Aristotele erano strettamente legati alla problematica della sostanza, mentre l'uso di altri, sempre legati alla tematica della sostanza, si fa raro. Lo stesso termine ousia in "Teofrasto si carica di un ulteriore nuovo significato cosmologico, che indica la sostanza del Tutto o dell'universo. Ora, questo è altamente significativo in quanto l'aristotelica dottrina della sostanza, come s'è visto a suo luogo, era tutt'altro che materia definitivamente sistemata nei suoi particolari e chiarita in tutti i suoi presupposti e corollari. Essa offriva abbondante materiale per formulare problemi e aporie. Evidentemente, il fatto che Teofrasto non sfiori neppure questa sfera di questioni, dimostra che il suo interesse è ormai notevolmente mutato rispetto a quello del maestro 8 • • Cfr. Reale, Teofrasto ... , pp. 140 sgg. 7 Aristotele, Metafisica, Z l, 1028 h 2-7. ' Cfr. Reale, Teofrasto ... , pp. 144 sgg.
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TEOFRASTO
4) Per contro, lo scritto di Teofrasto presenta ancora la metafisica come teologia, vale a dire come dottrina delle realtà supreme, immutabili e immobili, intelligibili e soprasensibili. La metafisica, per lui, resta, almeno nominalmente, ancora la scienza che è al di sopra della astronomia (che è la parte più alta della fisica), perché essa cerca di determinare i Motori primi e i fini supremi che sfuggono all'astronomia. Scrive anzi l'Eresio: Se [ ... ] l'astronomia apporta il suo contcibuto al conoscere, ma · non riguardo ai principi primi della natura, le realtà supreme dovr:~o essere altre da quelle che sono oggetto di essa astronomia e a quelle anteriori. E in effetti il metodo [della metafisica] , come alcuni ritengono, non è il metodo fisico o non lo è interamente 9 • ~ da rilevare, inoltre, quanto segue. Dio, anche da Teofrasto, è detto Mente, Nous, sia pure di sfuggita 10 • Ma Dio non è più al centro dell'interesse dell'Eresia, il quale anzi, sia pure a mo' di ipotesi dialettica, prospetta addirittura la possibilità di spiegare il movimento dei. cieli in funzione di una intrinseca loro animazione, cosl come si spiega il movimento degli animali, facendo a meno del Motore Immobile ".
L'essere in movimento, in generale, è un carattere peculiare della natura e, soprattutto, del cielo. Perciò, se anche l'attività fa parte dell'essenza di ciascuna cosa, e se ciascuna cosa quando è in attività è anche in movimento, come avviene negli animali e nelle piante (se, infatti, non fossero tali, sarebbero piante e animali solo per omonimia), allora è evidente che anche il cielo, nel suo movimento di rotazione, si muove in virtù de1la sua stessa essenza; separandolo dal suo movimento e considerandolo in riposo, sarebbe cielo solo per omonimia. Il movimento di rotazione dell'universo è, infatti, come la vita dell'universo stesso. Dunque, se non si deve cercare spiegazione dell1l vita degli animali o se si deve cercarla soltanto nel modo precisato, non è ' Teofrasto, Metafisica, 10 a 5-9. Cfr. Teofrasto, Metafisica, 7 h 22 sg. " Teofrasto, Metafisica, 10 a 9- 19. '0
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forse vero che non si dovrà neppure spiegare il moto circolare del cielo e dei corpi celesti, oppure che lo si dovrà spiegare solo in un certo modo? L'ipotesi viene poi lasciata cadere da Teofrasto; ma già cosi come viene formulata è eloquentissima, perché insinua l'·idea che un'.anima immanente al mondo basti a spiegare i movimenti cosmici: un'idea che porta nella direzione che batterà la Stoa 12 • Ma c'è di più. Una volta smarrita la problematica dell'essere e quella della sostanza, la metafisica di Teofrasto tende fatalmente a restringersi ad una forma di cosmologia: le cause, i principi e Dio interessano a Teofrasto non pm per spiegare metafisicamente l'essere e la sostanza, ma per spiegare il mondo fisico. Nel corso dello scritto sulle aporie, neppure una volta ci vien detto, quando si parla di principi, di che cosa essi siano principi, e meno che mai vien detto che si tratta dei principi dell'essere e della sostanza. Quando Teofrasto parla di principi e di cause, pensa, più che ad altro, alle cause e ai principi che muovono i cieli, ovvero alle cause dell'universo e del mondo. L'essere e la sostanza non costituiscono più un problema formalmente autonomo rispetto alla cosmologia. Per Teofrasto si tratta, in sede di metafisica, di spiegare il mondo in tutte le sue peculiarità, il mondo come mondo. È chiaro, allora, come lo preoccupino spiccatamente alcuni particolari: i flussi del mare, le umidità e i disseccamenti, le trasformazioni di elementi, le corna dei cervi, gli organi rudimentali in alcuni animali, il modo di accoppiarsi degli aironi, la vita delle effemeridi, i fenomeni della generazione e della nutrizione degli animali e altri simili, proprio in sede di filosofia prima. E, analogamente, si spiega il rilievo del tutto particolare che egli dà alle questioni della efesis e del rapporto fra i cieli, i loro movimenti, il Motore, i motori, il deside12
Cfr. Reale, Teofrasto ... , pp. 151 sgg.
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TEOPllASTO
rio e l'anima: il suo interesse risulta particolarmente sensibilizzato ai problemi cosmologici, e, malgrado le affermazioni esplicitamente fatte all'inizio dello scritto: che la metafisica è scienza delle realtà prime e supreme, intelligibili e immobili, la discussione dei successivi problemi prende quell'altra direzione. Di quanto stiamo dicendo costituisce piena conferma il fatto che tutte quelle aporie che hanno radice e natura cosmologica hanno un effettivo rilievo ed un loro valore, mentre le altre più propriamente metafisiche sono prive di mordente e piuttosto insignificanti. Dunque, in Teofrasto, la metafisica si « cosmologizza » fortemente e il suo orizzonte si riduce ad una sola dimensione: ricerca delle cause che spiegano l'universo, il mondo fisico e il mondo celeste. Esiste Dio ed esistono sostanze soprasensibili, ma a Teofrasto interessano unicamente (e problematicamente) come cause dell'universo, e non in sé e per sé. Metafisica come ricerca delle cause dell'universo in quanto universo, ricerca dei limiti del medesimo, dei reciproci rapporti che, in esso, hanno le realtà, ricerca dei limiti del finalismo e della tendenza al meglio: ecco a che cosa effettivamente ·si riduce la « filosofia prima » o meglio la « scienza delle realtà supreme »di Teofrasto, quale essa risulta dallo scritto che ci è pervenuto 13 • Dunque, Teofrasto è ben !ungi dall'essere rimasto fedele ad Aristotele: sono le fondamenta stesse del discorso metafisico che nel suo scritto di filosofia prima risultano compromesse. L'esame di un ultimo punto completerà la nostra interpretazione. · Teofrasto, cosi come Aristotele, concepisce l'universo eterno, ingenerato ed incorruttibile. (Si vuole, anzi, che egli abbia difeso la tesi aristotelica contro Zenone e la Stoa) 14 • Cfr. Teofrasto, Metafisica, 11 b 24- a 11. Si veda la bibliografia sull'argomento in Reale, Teofrasto ... , p. 157, nota 93. 13 14
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Tuttavia, nell'universo di Teofrasto, pur ingenerato ed incorruttibile, una vastissima zona viene sottratta al finalismo e alla tendenza al meglio; anzi, non solo viene messa in rilievo la disteleologia che regna nell'ambito dell'universo medesimo, ma vengono presentate nuove spiegazioni, le quali assumono una colorazione decisamente meccanicistica. Teofrasto, ormai, non spiega più la disteleologia come resistenza che la materia oppone alla forma, bensl come casuale risultante del meccanico movimento degli astri. Nel capitolo quarto leggiamo: D'altra parte è difficile a ciascun tipo di realtà assegnare ragioni, ricollegandole alla loro causa finale, in tutti i casi: e negli animali, e nelle piante, e nella stessa bolla d'aria. A meno che il generarsi di forme molteplici e di vario tipo, e di quelle cho sono nell'aria e di quelle che. sono in terra, non abbia luogo a causa dell'ordine e del mutamento di altre realtà. Come esempio pii't importante di queste cose, alcuni adducono le stagioni dell'anno, nelle quali hanno luogo le generazioni degli animali, delle piante e dei frutti, fungendo il sole da principio generatore 15 •
E nel nono capitolo, dopo aver rilevato i vari esempi di realtà che non hanno un fine, Teofrasto soggiunge: Ma l'esempio più notevole e più evidente riguarda i fenomeni della nutrizione e della generazione degli animali; alcuni di questi, infatti, non hanno alcun fine, ma sono dovuti a mere coincidenze ed a necessità estrinseche. Bisognerebbe, infatti, che, se essi avvenissero effettivamente per il vantaggio degli animali, si verificassero sempre negli stessi modi ed uniformemente. Inoltre, per quanto riguarda le piante e specialmente gli esseri inanimati, che sono dotati, come risulta evidente, di una natura determinata, rispetto alle loro figure, alle loro forme e alle loro potenze, si potrebbe domandare per quale fine ci siano questi caratteri. La supposizione che essi non abbiano una spiegazione è assurda, soprattutto per coloro che non vogliono estendere questa stessa supposizione anche nell'ambito di altri esseri che sono anteriori e più nobili. Piuttosto, sembra avere una certa verosimiglianza la seguente 15
Teofrasto, Metafisica, 7 a 19- h 5.
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TEOPUSTO
spiegazione: che tutte queste cose vengano a possedere alcune forme e alcune differenze, le une rispetto alle altre, casualmente e per il movimento circolare del cielo 16• Infine nello stesso capitolo, poco avanti, leggiamo ancora: Ma se tale è il desiderio della natura, risulta chiaramente questo: che vi sono molte cose che non ubbidiscono al bene e che non lo ricevono, e che, anzi, questo avviene nella maggior parte dei casi. Infatti il mondo animato è una piccola parte, mentre infinita è la sfera dell'inanimato; e solo una minima parte degli stessi esseri animati è anche migliore per il semplice fatto di essere
viva 17 • Se, dunque, c'è una cosi vasta sfera in cui le realtà e i fenomeni non si producono per uno scopo, cioè in vista di un metempirico telos, ma solo per accidentali coincidenze e per necessità estrinseche, ossia per il moto dei corpi celesti, il mondo sublunare (ossia la vera e propria natura) è interamente (o quasi) sottratto alla tendenza al meglio. L'ordine predomina solamente, per esplicita dichiarazione di Teofrasto, nell'ambito dei cieli e degli enti matematici 10 • Se cosi è, non si potrà più dire, con Aristotele, che da
Dio dipendono il cielo e la natura. La natura resta pressoché separata dal principio primo, contro le stesse intenzioni dichiarate esplicitamente da Teofrasto nel primo capitolo. E in questa tendenza a delimitare fortemente il finalisnto e a spiegare meccanicisticamente i fatti della natura inanimata e gran parte dei fenomeni relativi alle piante e agli stessi animali, lo scritto di Teofrasto anticipa, in modo sorprendente, quello che, sia pure su altre basi, sarà il tipo di spiegazione della natura propugnato dagli Epicurei 19 • Teofrasto, Metafisica, 10 b 16- 11 a l. Teofrasto, Metafisica, 11 a 13 - 18. •• Cfr. Teofrasto, Metafisica, 11 b 12- 21. " Cfr. anche le conclusioni di R. Mondolfo, L'infinito nel pensiero dell'antichità classica, La Nuova Italia, Firenze 1956, pp. 158 sgg. 16
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I ponti con la metafisica di Aristotele sono stati rotti. Ed è chiaro perché, subito dopo Teofrasto, nel Peripato, di metafisica, o di filosofia prima, non si parlerà più, e la fisica prenderà il posto della metafisica. 2. L a fisica e l a p si c o l o g i a Analoghe osservazioni vanno fatte, anche se in più limitata misura, a proposito della fisica e della psicologia di Teofrasto. Egli sa sollevare dubbi e aporie, ma per lo più non è in grado di risolverli, e per giunta quei dubbi e quelle aporie, ·anche se espressi con terminologia aristotelica, tradiscono tendenze antitetiche allo spirito della filosofia aristotelica.· Per quanto concerne la fisica, egH solleva dubbi su alcuni punti della dottrina del movimento, sulla dottrina del luogo, nonché sulla dottrina del ·fuoco. Il fuoco, per Teofrasto, non sembra essere un elemento come gli altri tre (terra, aria, acqua), perché non sussiste per sé ma solo in un sostrato, cioè nella cosa che brucia. In genere, nelle ricerche fisiche, egli tende a prescindere dalla spiegazione finalistica. Inoltre (e anche questa è una novità rispetto ad Aristotele) egli tende a fornire dei vari fenomeni una pluralità di spiegazioni. soprattutto quando si tratta dei fenomeni particolari 20 • Interessanti sono anche gli spunti aporetici della sua psicologia 21 • L'Eresio accetta Ja dottrina aristotelica dell'intelletto potenziale e dell'intelletto agente, e accetta il punto di vista aristotelico che l'intelletto agente è nell'anima 22 • Ma per 20 Una ottima analisi della fisica teofrastea è contenuta nel libro di P. Steinmetz, Die Physik des Theophrast, Bad Homburg- Berlin- Ziirich 1964. " Sull'argomento si vedano: E. Barbotin, La théorie aristotélicienne de l'intellect d'après Théophraste, Louvain- Paris 1954 (contiene anche una edizione dei frammenti di psicologia con traduzione francese) e G. Movia, Anima e intelletto. Ricerche sulla psicologia peripatetica da Teofrasto a çratippo, Padova 1968. 22 Cfr. Movia, Anima e intell1tto ... , pp. 61 sgg.
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rispondere all'aporia, già sollevata da Aristotele, come mai l'intellezione non si eserciti sempre in atto, scrive: Quali sono dunque queste due nature? E che cos'è, ancora, questo principio che fa da sostrato ed è come connesso con il principio attivo? L'intelletto, difatti, è una specie di mescolanza del principio attivo e del principio potenziale. Se dunque l'intelletto movente è congenito, fin dall'origine dovrebbe agire e senza discontinuità; ma se appare più tardi, con il concorso di quale principio e in quale maniera è generato? Sembra dunque essere ingenerato, dal momento che certamente è pure incorruttibile. In questo caso, poiché è immanente, perché non agisce sempre? E perché la dimenticanza, l'inganno e l'errore? Non avviene tutto questo, a motivo della mescolanza? 23 • In questo passo risulta evidente che, come qualche studioso ha già ben rilevato 24 , l'idea di « mescolanza » rischia di compromettere la spiritualità de1l'intelletto e in qualche modo di materializzarlo {la mescolanza avviene infatti, normalmente, fra elementi materiali). La stessa tendenza rivela, per altro verso, l'affermazione di Teofrasto secondo cui l'attività del pensiero sarebbe da considerarsi un movimento dell'anima. Leggiamo infatti in un frammento: Queste vedute sono approvate anche dal corifeo dei discepoli di Aristotele, Teofrasto; nel primo libro del suo trattato Del movimento, egli dichiara: «Da una parte, le tendenze, i desideri, gli accessi di collera sono movimenti dipendenti dal corpo e ricevono da questo il loro principio, ma per tutto ciò che riguarda giudizi e speculazioni, non è possibile riportarli ad altra cosa: è, al contrario, nell'anima stessa che essi trovano il loro principio, il loro atto e il loro termine, se è vero che l'intelletto è qualcosa di migliore e di più divino, penetrando esso dal di fuori ed essendo assolutamente perfetto». Poi prosegue: «A proposito di queste 23 Temiatio, De anim., 108, 22 sgg. Heinze (= Barbotin, fr. 12 [traduzione di G. Movia]). 24 Cfr. M. De Corte, La doctrine de l'lntelligence chez Aristate, Paris
1934, p. 58.
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ultime operazioni, bisogna dunque domandarsi se esse si dipartano dalla definizione di movimento, poiché si è d'accordo nel considerarle anch'esse come dei movimenti» 25 • Anche da tutto questo, dunque, risulta evidente l'incapacità propria di Teofrasto di cogliere il senso del metafisico e la tendenza a ridurre tutta la problematica speculativa alla dimensione fisica. 3. La logica
Più penetranti e costruttive furono le correzioni apportate da Teofrasto alla logica di Aristotele. Esse furono, come giudicano gli specialisti di logica, quasi tutte effettivi miglioramenti 26 • L'Eresio dimostrò, per esempio, che oltre ai quattro modi che Aristotele aveva ammesso per la prima figura di sillo• gismo se ne dovevano ammettere altri cinque 71 • Corresse alcuni errori in cui Aristotele era incorso nella sillogistica modale, basandosi su una nuova calibrazione del concetto del « possibile» 28 • Infine egli introdusse i sillogismi ipotetici 29 • · Teofrasto, pur non innovando i fondamenti della logica di Aristotele, assunse posizioni più accentuatamente formali, sempre meno legate all'ontologia dell'eidos e dell'essenza. E con i sillogismi ipotetici egli si mise sulla via che batteranno
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25 Simplicio, In Phys., 964, 29 sgg. Diels ( Barbotin, fr. 13 [ traduzione di G. Movia]). 28 Un attento e sistematico riesame dei frammenti e delle testimonianze concernenti la logica di Teofrasto è stato fatto da I. M. Bochenski, La logique de Théophraste, Fribourg en Suisse 1947. 'l1 Cfr. Alessandro di Afrodisia, In Analyt. pr., 69, 26 sgg.; Bochenski, La logique de Théophraste, pp. 56 sgg. 28 Cfr. Bochenski, La logique de Théophraste, pp. 67- 102. 29 Cfr. testi e discussione in Bochenski, La logique de Théophraste, pp. 103 - 120.
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gli Stoici. Pur senza esserne cosciente, egli in realtà contribul ad aprire alla logica, come dice il più attento studioso di questa parte del pensiero teofrasteo, nuovi orizzonti: «non è uno Stoico, tuttavia prepara lo stoicismo » 30 •
4.
L'etica
Anche nell'etica sono ben visibili gli orientamenti empiristici di Teofrasto. Le novità dell'Eresia in etica non consistono nell'introduzione di nuovi principi morali, ma piuttosto nell'attenuazione dell'interesse per i principi e per i fondamenti dell'etica, a beneficio dell'interesse per la descrizione fenomenologica del particolare. E in questo ambito Teofrasto si dimostra veramente maestro: i suoi Caratteri, che passano in rassegna una trentina di tipi umani più caratteristici, sono pieni di acume, di finezza e di penetrazione psicologica 31 • Per quanto concerne la tavola dei valori, Teofrasto non fece che ribadire le cose che già Aristotele aveva detto, sottolineandone alcuni aspetti per ragioni di polemica antistoica ed antiepicurea. Per lui la virtù è il bene supremo, il bene che dà felicità, ma essa è condizione necessaria e non sufficiente alla felicità. Per la felicità occorrono anche beni del corpo e beni esteriori. Stoici ed Epicurei si illudono che il saggio possa essere felice anche fra i tormenti: dove c'è tormento non c'è felicità. Per questo Cicerone lo critica aspramente: Teofrasto [ ... ] dopo aver dichiarato che le percosse, le torture, i tormenti, le sciagure civili, l'esilio, i lutti influiscono molto a rendere brutta e infelice la vita, non si sentl poi di adottare un linguaggio nobile ed elevato, che sarebbe stato in contrasto col suo modo volgare e meschino di pensare. Se questo modo di penBochenski, La logique de Théophraste, p. 127. I Caratteri sono l'opera di Teofrasto di gran lunga più letta, soprattutto, al di fuori della cerchia dei filosofi,- come provano le numerose edizioni e le svariate traduzioni in lingue moderne. 311
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sa:e era giusto, qui non ha importanza: certo si è che era coerente, e io, una volta che si siano accettate le premesse, non critico mai le conseguenze. E comunque Teofrasto, che fra i filosofi è il più raffinato e il più dotto, non viene criticato tanto per la sua distinzione dei beni in tre categorie: tutti quanti gli danno addosso specialmente per il suo libro sulla felicità, in cui egli si dilunga a spiegare perché chi è torturato, chi è sottoposto ai tormenti non può essere felice. Sempre in quel libro, pare che dichiari anche che sulla ruota - una macchina di tortura usata dai Greci la felicità non sale. Non lo dice esplicitamente in nessun luogo, a dire il vero; ma il significato delle sue parole è quello 32 • 'l
Orbene, a questo riguardo è da notare quanto segue: se Cicerone credeva che Teofrasto non fosse in linea con il Peripato 33 , è solo perché non conosceva l'Etica a Nicomaco (fino al tempo dell'edizione degli esoterici fatta da Andronico, l'Aristotele letto, come vedremo, era soprattutto quello degli scritti essoterici giovanili). Abbiamo visto infatti che Aristotele affermava espressamente che la felicità, oltre che della virtù, « ha bisogno anche di beni esteriori » 34 e che « nessuno sarà veramente felice se farà la fine di Priamo » 35 • E ancor più espressamente rilevava: [ ... ] perciò l'uomo felice ha bisogno dei beni del corpo, di quelli esteriori e di quelli della fortuna affinché in essi non sia ostacolato. Quelli che affermano che, se uno è buono, è felice anche se sottoposto al supplizio della ruota e anche se cade in grandi disgrazie, fanno volontariamente o involontariamente una affermazione priva di senso 36 • Ma la novità e l'audacia delle nuove Scuole ellenistiche stava proprio nell'affermazione dell'autosufficienza della virtù per raggiungere la felicità, come ampiamente vedremo. Cicerone, Tusc. disput., v, 9, 24 (traduzione di A. Di Virginio). Cfr. Cicerone, Tusc. disput., v, 30, 85. ,. Aristotele, Etica Nicomachea, A 8, 1099 a 31. 35 Aristotele, Etica Nicomachea, A 10, 1101 a 7 sg. 36 Aristotele, Etica Nicomachea, H 13, 1153 h 17 · 21. 32
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Invece l'individualismo delle nuove Scuole ellenistiche si fa sentire nella presa di posizione di Teofrasto a proposito del matrimonio, che egli sconsiglia al filosofo, il quale non deve essere distratto dalle preoccupazioni domestiche e deve potere bastare a se medesimo :v. E soprattutto, positivamente, si fa sentire nella presa di posizione di Teofrasto circa l'eguaglianza di tutti gli uomini, la quale supera decisamente il pregiudizio razzistico del maestro. Teofrasto, infatti, giustamente sostiene che tutti gli uomini, sia Greci che Barbari, sono affini e congeneri ( otxetouc; xocl auyyevei:c; }, anche se poi eccede nel voler estendere tale legame a tutti gli esseri viventi e quindi anche agli animali 38 • 5.
Conclusioni su Teofrasto
Abbiamo visto che, esaminate con la dovuta attenzione, le dottrine filosofiche di Teofrasto, lungi dal mostrare una fedeltà del discepolo al maestro, dimostrano una irresistibile, costante, per lo più non consapevole tendenza verso soluzioni dei problemi di tipo empiristico, meccanicistico e immanentistico. Lo scienziato Teofrasto mostra in modo inequivoco di non saper più intendere adeguatamente il messaggio filosofico del maestro; anche se, come scienziato, per esempio nella botanica, sta senz'altro sul piano del maestro. Teofrasto ha ormai smarrito il senso della dimensione speculativa e metafisica del filosofare e non fa quindi meraviglia che già il suo discepolo Stratone, il quale gli successe nella direzione del Peripato, delimiti l'ambito delle ricerche alla sola fisica e che i successori di Stratone si indirizzino prevalentemente alle scienze empiriche.
"' Cfr. Zeller- Plebe, p. 404. • Porfirio, De abstinentia, m, 25; u, 20 sgg.
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III. ALTRI DISCEPOLI DIRETTI DI ARISTOTELE:
EUDEMO,
DICEARCO E ARISTOSSENO
l.
Eudemo
Prima di dire di Stratone «il fisico», vogliamo ricordare almeno tre discepoli diretti di Aristotele, condiscepoli di Teofrasto, le cui tendenze sono assai indicative. Eudemo di Rodi tenne corsi nel Peripato, insieme aTeofrasto, quando Aristotele era ancora vivo 1• Non sembra che Eudemo sia stato molto originale; tuttavia sono ben visibili alcuni suoi spostamenti nelle stesse direzioni imboccate da Teofrasto. . Intanto, insieme a Teofrasto, egli sviluppò i sillogismi ipotetici 2 • Ma ciò che più interessa è che Eudemo, cosl come Teofrasto, fece affermazioni di sapore immanentistico, proprio a proposito del Motore Immobile. Cercando infatti di risolvere il problema del · come il Motore Immobile muova il primo cielo, Eudemo prescinde totalmente dalla soluzione data da Aristotele nella Metafisica, secondo cui il Motore muove come oggetto d'amore, stando fuori dal mondo, essendo immateriale, senza parti, impassibile, non mescolato ad altro. Eude' Eudemo nacque a Rodi. La tradizione non ci fornisce dati aonologici sufficienti a stabilire le date di nascita e di morte. Dovette essere all'incirca dell'etA di Teofrasto. Dopo che Teofrasto divenne scolarca nel Peripato, Eudemo probabilmente tornò a Rodi. I frammenti e le testimonianze di Eudemo sono stati raccolti e commentati da F. Wehrli, Die Schule des Aristoteles, Heft VIII: Eudemos von Rbodos, Basel 1955 (196~). • Cfr. Wehrli, Eudemos, frr. 7- 24.
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BUDEMO, DICBAitCO B AJUSTOSSBNO
mo, infatti, sostiene che il Motore ha da essere presente « dentro alla sfera più grande» 3 ; una soluzione, questa, che ricorda l'ipotesi immanentistica di Teofrasto, secondo cui basterebbe un'anima cosmica a spiegare il moto dei cieli 4 • Ed è una soluzione che, in qualche modo, suppone la materializzazione del Motore, o, quantomeno, la perdita del suo carattere metafisica a totale beneficio di quello fisico-cosmologico 5 •
2.
Dicearco
Dicearco 6 è non meno interessante, in quanto sembra ritornare addirittura ad una concezione dell'anima non solo prearistotelica, ma senz'altro preplatonica 7 • Egli sostiene infatti una concezione di tipo epifenomenistico dell'anima come « armonia dei quattro elementi'» 8 • Questo significava, come ben si accorsero già gli antichi, negare che l'anima fosse sostanza 9 • E significava, anche, e • Cfr. Simplicio, In Arist. Phys., p. 13.54, .5 sgg. Diels ( = Wehrli, Eudemos, fr. 122 a; dr. anche fr. 123 b). • Cfr. il passo riporteto sopra, pp. 133 sg. • 2 appena il caso di ricordare che i giudizi degli studiosi del secolo scorso e del principio del nostro secolo che affermavano un riavvicinamento in etica di Eudemo a Platone, sono fondati sul presupposto che l'Etica Eudemia sia opera di Eudemo, laddove oggi la maggioranza degli studiosi ritiene l'Etica Eudemia opera di Aristotele. Tutto quanto si legge in Zeller (Zeller- Plebe, pp. 449-4.56) a questo riguardo è del tutto superato. • Dicearco nacque a Messina in Sicilie. Non conosciamo la sua data di nascita né quella di mprte. Le poche congetture che si possono fare sulla sua vita si vedranno in Wehrli, Die Schule des Aristoteles, Heft 1: Dikaiarchos, Basel1944 (1967'), pp. 43 sg. (commento ai frr. 1- 4). 7 Cfr .. Wehrli, Dikaiarchos, frr . .5- 12. • Plutarco, Plac. philos., IV, 2, .5 ( Wehrli, Dikaiarchos, fr. 12 a; dr. anche fr. 12 h, c, d). ' Nemesio, De nat. hom., n; Migne, XL, p . .537 ( Wehrli, Dikaiarchos, fr. 11), riferisce: « Dicearco dice che l'anima è armonia dei quattro elementi per dire che è mescolanza e accordo di elementi. Non vuole intendere infatti l'armonia che scaturisce dai suoni, ma la mescolanza armonica nel corpo e l'accordo di caldo e freddo, umido e secco. 2 quindi evidente
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146
IL PRIMO PERIPATO
per conseguenza, negare che l'anima fosse immortale (l'anima cessa di essere nel momento in cui cessa l'accordo degli elementi) e significava, in generale, negare un discorso metafisica sull'anima 10 •
3. -Aristosseno di Taranto
Analoga fu anche la posizione di Aristosseno di Taranto Riferisce Cicerone: 11 •
Una teoria diffusa nell'antichità, e ripresa recentemente da Aristosseno, che oltre che filosofo era anche musico, fa dell'anima una specie di tensione del corpo stesso: come nel canto e negli strumenti a corda si ha quella che viene chiamata armonia, cosl, secondo la natura e l'organizzazione del corpo nel suo complesso, si avrebbero delle diverse vibrazioni analoghe ai toni della musica. Aristosseno non si allontanò dal terreno del suo mestiere: però che tutti quelli di cui abbiamo parlato sostengono che l'anima è sostanza; Aristotele e Dicearco sostengono invece che non è realtà sostanziale •· (Qui Nemesio cade in errore su Aristotele, che evidentemente non conosceva, ma chiarisce bene la posizione di Dicearco). ' 0 Vale la pena leggere alcune notazioni di Cicerone: « Dicearco, riportando in tre libri una conferenza tenuta a Corinto, introduce come personaggi del primo parecchi sapienti in discussione tra loro; negli altri due affida a Ferecrate, un vecchio di Ftia che egli dice discendente di Deucalione la tesi che segue. L'anima non esiste, è un nome assolutamente privo di significato; parlare di animali e di esseri animati non vuoi dire niente, né esiste, nell'uomo come nelle bestie, anima o soffio vitale che sia: quella forza che ci permette di qire e di provare sensazioni è ugualmente diffusa in tutti i corpi viventi, e non è nient'altro che il corpo, il quale è uno, semplice, e conformato in modo da avere vigore e sensibilità per la sua naturale organizzazione • (Tusc. disput., I, 10, 21 Wehrli, Dikaiarchos, fr. 7 [traduzione di A. Di Virginio]). Sempre Cicerone (I,21,51 sg. = Wehrli, fr. 7 e) ribadisce: « Dicearco e Aristosseno negarono l'esistenza dell'anima appunto perché riusciva loro difficile spiegarsi la sua essenza e la sua qualità •· 11 Aristosseno nacque a Taranto. Non è possibile precisare le date di nascita e di morte. Dovette essere coetaneo di Dicearco; fu in ogni caso suo condiscepolo e amico. I suoi frammenti sono stati raccolti e commentati da F. Wehrli, Die Schule des Aristoteles, Heft n: Aristoxenos, Base!
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1945 (1967").
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EUDEMO, DICEARCO E ARISTOSSENO
147
disse qualcosa che corrispondeva a quanto, assai prima di lui, aveva enunciato e discusso Platone 12 •
Cicerone ha perfettamente ragione: sia Dicearco sia Aristosseno riprendono esattamente quella posizione di estrazione medico-pitagorica che Platone presenta nel Pedone e che confuta vigorosamente ed efficacemente. Ma proprio questo è assai istruttivo: la confutazione della teoria epifenomenistica dell'anima come armonia di elementi corporei era fatta sulla base della scoperta del soprasensibile e dei risultati della «seconda navigazione». Ed è precisamente il totale smarrimento di quella scoperta, che lasciava tornare in vita posizioni fisiche e addirittura presocratiche 13 • •• Cicerone, Tusc. disput., I, 10, 19-20 ( = Wehrli, Aristoxenos, fr. 120 a, riportato parzialmente). " Discepolo diretto di Aristotele fu anche Qearco, nativo di Soli nell'isola di Cipro. (l suoi frammenti sono stati raccolti e commentati da F. Wehrli, Die Schule des Aristoteles, Heft m: Klearchos, Basel 1948). Si sostiene, da parte di alcuni studiosi, che Oearco sia in antitesi con le tendenze immanentistiche e materialistiche degli altri Peripatetici. E questo è in parte vero. Tuttavia non è certamente il continuatore dell'autentico filone aristotelico. Infatti le sue dimostrazioni dell'immortalità dell'anima scadono da livello metafisica a livello magico e misteriosofico (Oearco ricorda un poco Eraclide Pontico ). 'Su di lui si fanno sentire in modo accentuato gli influssi delle religioni dell'Oriente. Vale la pena leggere il fr. 7 Wehrli: « Che l'anima possa entrare nel corpo e uscirne, lo prova anche il fatto di colui che, come si legge in Clearco, si era servito di una bacchetta "psicagogica", tenendola sopra un giovanetto che dormiva, e aveva convinto il divino Aristotele, come racconta Clearco nel suo scritto Del sonno, che l'anima è separabile dal corpo, che vi entra e che se ne serve come di un albergo. Egli aveva infatti percosso il ragazzo con la bacchetta, traendone l'anima; e come conducendola, con quella, lontano dal corpo, fece vedere che quest'ultimo era senza movimento e rimaneva insensibile, senza reagire sotto i colpi che lo straziavano, come un corpo esanime. Poi, siccome l'anima si era separata nel frattempo dal corpo, egli avvicinò di nuovo la sua bacchetta al corpo del giovane, il quale, dopo il ritorno dell'anima, raccontò tutto ciò che era avvenuto. Cosi dunque, in seguito a questa esperienza, egli convinse tutti coloro che avevano visto il fenomeno, e lo stesso Aristotele, che l'anima è separabile dal corpo» (traduzione di G. Movia). Lo stesso tenore ha il fr. 8 Wehrli. Insomma: Qearco presenta un tipo di discorso basato su determinate esperienze misteriosofiche, che sono lontane dal discorso metafisica aristotelico tanto quanto la pratica misterica è lontana dal logos filosofico.
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IV.
STRATONE DI
LAMPSACO,
SECONDO
SUCCESSORE DI
AIUSTOTELE
l.
La 'fisica
Il personaggio più celebre dell'antico Peripato, dopo Teofrasto, fu Stratone di Lampsaco, che fu, fra l'altro, precettore di Tolomeo II ad Alessandria, e poi successore di Teofrasto nella direzione del Peripato 1 • Con Stratone le tendenze che abbiamo visto operare nel Peripato già con Teofrasto giungono ad uno sbocco clamoroso: la dottrina di Stratone è ormai, senza più alcuna incertezza, una forma di materialismo e di immanentismo sia nella lettera che nello spirito. Riferisce Cicerone: Tu neghi che senza Dio ci possa essere alcunché: ma ecco che ti si para contro Stratone di Lampsaco, il quale concede a Dio l'esonero da un cosl grande incarico. Se i sacerdoti degli Dei fanno vacanza, è tanto più giusto che facciano vacanza anche gli Dei: nega infatti di aver bisogno di avvalersi dell'opera degli Dei per costruire il mondo. Tutte le cose che esistono, egli insegna, sono state prodotte dalla natura; non, però, come dice quel filosofo secondo cui queste cose sono fatte di corpuscoli scabri e lisci, den' La cronologia di Stratone è relativamente determinabile, almeno per quanto concerne lo scolarcato e la morte. Sappiamo da Diogene (v, 58) che successe a Teofrasto nella carica di scolarca del Peripato nella 123' Olimpiade (288/284), che tenne tale carica per diciotto anni e che morl nella 127' Olimpiade (274/270 a. C.). Alla corte egiziana fu dunque antoriormente al 288/284. Delle sue opere fornisce l'elenco Diogene (v, 59 sg.). I suoi frammenti sono stati raccolti e commentati da F. Wehrli, Die Schule des Aristoteles, Heft v: Straton von Lampsakos, Basel 1950 (19692 ).
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STRATONE DI LAMPSACO
149
tellati e uncinati, frapponendosi il vuoto; questi, egli sostiene, sono sogni di Democrito, che non insegna, ma sogna. Stratone infatti, indagando le singole parti del mondo, insegna che tutto ciò che è e si produce, è o è stato prodotto da pesi e da moti. Cosl egli libera Dio da un grande lavoro e me dal timore 2 • Il frammento è per molti aspetti rivelatore. In primo luogo, è evidente la liquidazione del Motore Immobile, che già era stata iniziata da Teofrasto. Stt•atone dice chiaramente, contraddicendo Aristotele il quale affermava che cielo e natura dipendevano "da quel principio divino, che la natura basta a se stessa e non ha bisogno di alcun trascendente principio. Ma è evidente anche la totale liquidazione di qualsiasi principio immanente di tipo vitalistico, come, poniamo, un'anima cosmica, un divino artefice immanente, sul tipo di quello che vedremo ipotizzato dagli Stoici 3 • Stratone piega decisamente dalla parte degli Atomisti e degli Epicurei. Anche se critica Democrito, infatti, egli è sulla sua stessa linea, nella misura, almeno, in cui pone i « pesi » e i « movimenti » come cause di tutte le cose, e mette tutto sotto il segno della necessità meccanica, escludendo qualsiasi finalismo 4 • Né èambia la natura di questo meccanicismo il fatto che egli, oltre ai «pesi » e ai « movimenti », per spiegare le cose ricorra anche ai due principi qualitativamente differenziati del caldo e del freddo, dalla cui dinamica derivano le successive qualità 5 • Infatti, questi due principi qualitativi non operano in funzione di un fine, ma in modo automatico e necessario, né più né meno che i «pesi» e i « movimenti ». Cicerone, Acad. pr., II, 38, 121 ( = Wehrli, Straton, fr. 32). Cfr. Plutarco, Adv. Colot., XIV, 1115 b ( = Wehrli, Straton, fr. 35). • Dagli Atomisti Stratone, tra l'altro, si distaccava, negando il vuoto infinito e sostenendo la divisibilità infinita dei corpi (cfr. Wehrli, Straton, frr. 55 e 82). · 5 Cfr. Wehrli, Straton, frr. 42- 49. 2
3
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1.50
IL PRIMO PERIPATO
Tolto il Principio trascendente come causa finale-motrice, tolta la causa finale e tolta la forma, della aristotelica physis non resta che la materia, vale a dire pressoché nulla di aristotelico, in quanto non resta altro che la presocratica physis. Perdute le conquiste platoniche e aristoteliche, il ripiegamento su posizioni presocratiche diventa fatale. Non c'è pertanto da stupirsi del fatto che Stratone, oltre che i concetti metafisici, respinga anche molte delle vedute propriamente f~sdche di Aristotele. Respinge la dottrina del «quinto elemento», sostenendo che il cielo è fatto di fuoco 6 , invece che di etere. Respinge la teoria dei luoghi naturali e i connessi moti naturali degli elementi 7 • Modifica la dottrina del tempo e reinterpreta la dottrina del movimento 8 •
2.
La psicologia
Naturalmente, smarriti i concetti di forma e di sostanza spirituale, Stratone cade in una interpretazione decisamente materialistica dell'anima umana. Già Teofrasto, come vedemmo, tendeva ad interpretare il pensiero come « movimento » dell'anima 9 , e in chiave di movimento lo interpreta, in modo più deciso, anche Stratone. Sensazioni e pensieri, a suo avviso, sono movimenti dello stesso genere. Ecco un eloquente frammento in proposito: E Stratone di Lampsaco, che fu discepolo di Teofrasto, ed è ' Cfr. Aezio, Plac., 11, 11, 4 ( = Wehrli, Straton, fr. 84). 7 Cfr. Wehrli, Straton, frr . .50- .53. • Cfr. Wehrli, Straton, frr. 70- 83. Una attenta analisi della fisica stratoniana e in particolare del movimento è stata fatta recentemente da M. Gatzemeier, Die Naturphilosophie des Straton von Lampsakos. Zur Geschichte des Problems der Bewegung im Bereich des friihen Peripatos, Meisenheim am Gian 1970. • Cfr. il frammento di Teofrasto, che riportiamo alle pp. 139 sgg.
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STltATONE DI LAMPSACO
151
annoverato fra i migliori Peripatetici, non soltanto conviene nel dire che si muove l'anima irrazionale, ma pure quella razionale, dal momento che egli afferma che sono movimento anche le attività dell'anima. Dice dunque nel libro Del movimento, fra le al~e cose, anche quanto segue: «sempre infatti colui che pensa è mosso, come pure colui che vede, ascolta e odora; l'intellezione infatti è un atto dell'intelletto, proprio come il vedere è un'azione della vista». E prima di questo contesto scrive: «La maggior parte dei movimenti sono dunque i medesimi, quelli cioè con cui l'anima si muove da sé nell'atto d'intendere, e quelli per cui in antecedenza fu mossa dalle sensazioni. Ed è chiaro: qualunque cosa che non sia stata dapprima percepita, non può essere conosciuta intelligibilmente, si tratti di luoghi, porti, pitture, statue, uomini, o qualsiasi altra cosa del genere 10 • Dunque, il pensiero non è qualitativamente diverso dalla sensazione, ma è «movimento psichico », proprio come lo è la sensazione, e dipende, anzi, dalla sensazione medesima. La conclusione della materialità dell'anima è pertanto inevitabile, stanti le premesse del discorso stratoniano. L'anima si riduce, più precisamente, ad una sostanza pneumatica, diffusa· per tutto il corpo, ma che ha il suo centro o la sua parte « egemonica » localizzata nella parte del cervello che sta fra le due sopracciglia. Tutte le sensazioni, le affezioni, oltre che le passioni, sono riportate a questa parte egemonica, che sola ha capacità di sentire 11 • Non è improbabile che questa sostanza pneumatica dell'anima fosse da Stratone collegata col principio del caldo. Non ci stupiamo, per conseguenza, di sentir affermare da Stratone che « ogni animale accoglie in sé l'intelletto » 12 • Infatti, l'intelletto di cui qui si parla è la sostanza pneumatica di cui s'è detto, responsabile di tutte le sensazioni, cosi come del pensiero, che non è che un prolungamento della sensazione. Simplicio, In Phys., 965, 7 sgg. ( = Wehrli, Straton, fr. 74 [ tradudi G. Movit]). " Cfr. Wehrli, Straton, frr. 107- 131. ' 2 Cfr. Epifanio, Adv. baereses, m, 33 ( = Wehrli, Straton, frr. 48 e 117).
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zione
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IL PRIMO PERIPATO
In effetti, dice bene il Wehrli, «il ·sensismo non conosce alcuna distinzione essenziale fra uomo e animale» 13 • È appena il caso di notare che, in questo contesto, non ha senso parlare di una immortalità dell'anima. Anzi, ci è tramandato che Stratone espressamente confutò le prove platoniche addotte nel Pedone a favore dell'immortalità dell'anima 14. Così Stratone fu in tutto e per tutto un fisico: non solo perché egli si occupò di questioni di fisica, ma anche perché quei problemi, così come i problemi dell'uomo, egli li risolse tutti in chiave naturalistica, cioè materialistica. Stratane ha così riportato nel Peripato, al posto dell'aristotelismo, il fisicismo presocratico.
" Wehrli, Straton, p. 74. •• Cfr. Wehrli, Straton, frr. 122- 127 (questi frammenti ci sono stati tramandati da Olimpiodoro nel suo commentario al Fedone).
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V. CONCLUSIONI SUL PRIMO PERIPATO
La sorte toccata ad Aristotele nella sua Scuola, e (come v~dremo nel quarto volume) per tutta l'età ellenistica fino alle soglie dell'età cristiana, fu assai infelice. Il suo più grande discepolo, collaboratore e immediato successore, Teofrasto, se fu sicuramente alla sua altezza per la vastità della conoscenza e per l'originalità della ricerca nell'ambito deHe scienze, come abbiamo puntualmente veduto, non fu all'altezza di capire e quindi di far capire agli altri l'aspetto più propriamente filosofico e speculativo di Aristotele. Ancor meno capaci di intendere Aristotele si mostrarono gli altri suoi discepoli, che rapidamente ripiegarono su concezioni materialistiche di tipo presocracico, mentre il successore di Teofrasto, Stratone di Lampsaco, segna il punto di rottura più clamoroso con l'aristotelismo. Ma oltre a questo oblio o a questa inintelligenza del maestro che si verifica nei discepoli, e che, come abbiamo veduto, ha un puntuale parallelo nella storia dell'Accademia platonica, c'è un altro fatto che spiega la cattiva fortuna di Aristotele. Teofrasto, morendo, lasciò il giardino e gli edifici del Peripato alla Scuola, ma riservò la biblioteca che conteneva tutte le opere non pubblicate di Aristotele a N eleo di Scepsi 1• Ora, sappiamo da Strabone 2 che Neleo si portò fa- biblioteca ' Or. Diogene Laerzio, v, 52. Strabone, XIII, l, 54.
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IL PRIMO PERIPATO
in Asia Minore e che, morendo, la lasciò ai suoi eredi. Costoro, come già abbiamo avuto modo di ricordare nella trattazione su Aristotele, nascosero i preziosi manoscritti in una cantina, onde evitare che cadessero nelle mani dei re Attalidi, che lavoravano alla costituzione della biblioteca di Pergamo. Questi scritti rimasero così nascosti fino a che un bibliofilo di nome Apellicone li acquistò e li ritrasportò ad Atene. Poco dopo la morte di Apellicone, essi furono confiscati da Siila ( 86 a. C.) e portati a Roma, dove vennero affidati per la trascrizione al grammatico Tirannione. Una sistematica edizione fu però fatta 5olo da Andronico di Rodi (decimo successore di Aristotele) nella seconda metà del 1 secolo avanti Cristo. Dunque, dalla morte di Teofrasto in poi il Peripato venne privato proprio di quello che può considerarsi lo strumento più importante di tma Scuola filosofica. In particolare venne privato proprio di quella produzione aristotelica, consistente negli appunti e nel materiale delle lezioni (i cosiddetti scritti esoterici), che conteneva il messaggio più profondo e più originale dello Stagirita. Ed è ben vero che, come qualcuno ha rilevato, qualche riproduzione di questi scritti fu certamente fatta e che quindi qualche copia rimase nel Peripato e che il racconto di Strabone ha un po' troppo del romanzesco. Ed è anche vero che l'attento studio degli antichi cataloghi delle opere di Aristotele che ci son stalli tramandati farebbe concludere che erano r-imaste in circolazione copie degli esoterici aristotelici oltre quelle trasportate in Asia Minore. Tuttavia, quale che sia la verità in proposito, rimangono questi due fatti incontestabi1i, e cioè che il Peripato m05trò per lungo tempo di ignorare la maggior parte degli scritti esoterici e che solo dopo l'edizione di Andronico essi ritornarono alla ribalta. Se, dunque, il Peripato, dopo Teofrasto, rimase in possesso & qualche opera esoterica ari5totelica, nessuno fu più in grado, per oltre due secoli e mezzo, di far parlare quelle opere. L'età ellenistica lesse quindi prevalentemente, anzi quasi esclu-
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155
CONCLUSIONI
sivamente, le opere 'essoteriche, le uniche che Aristotele aveva pubblicato, le quali, come abbiamo visto, mancavano proprio di quella forza speculativa e di quelle profondità teoretiche che caratterizzano le opere esoteriche. Così il Peripato non fu in grado di esercitare un influsso filosofico di rilievo e le sue dispute andarono ben poco oltre le mura della Scuola. L'alimento spirituale dell'età nuova proveniva ormai da altre Scuole: dal Giardino di Epicuro, dalla Stoa di Zenone e dal movimento scettico di Pirrone.
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PARTE SECONDA
L'EPICUREISMO DALLE ORIGINI ALLA FINE DELL'ERA PAGANA
t M~n viot; TLt; &v JLEÀÀtr(l) q>r.Àoaoq~civ, JL'*In yip(I)V òdpx(l)v xonr.ci-r(l) tpr.Àoaoq~iliv. o!Su ylip !(l)pot; oò8clt; lMLV o!Su ntip(l)pOt; npbç Tb XatTfi ~X'iJV Ò'yLCitLVOV. ò 8~ ).~(I)V ~ JL~n(l) -rou q>r.Àoaotpciv òntipxcLv &patv ~ 7ratpc>.lJÀu8ivatL "Tljv &patV 1 15JLQL6ç 40'TL Téj) ~VTL npbç cò8atLJLOVIatv ~ JL~7r(l) natpsivatL "Tljv &pCitV ~ JLlJX~TL clvatL t.
« Nessuno, mentre ~ giovane, tudi a filosofare, né, mentre ~ vecchio, si stanchi di filosofue: infatti, per acquistue la salute dell'anima, nessuno ~ immaturo o troppo maturo. E chi dice che non ~ ancora venuta l'et/J del filosofue, o che ~ gi/J passata, ~ come se dicesse che non ~ ancor giunta l'ora di essere felici, o che ~ gi4 passata ». Epicuro, Epistola a Meneceo, 122
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SEZIONE PRIMA
EPICURO E LA FONDAZIONE DEL «GIARDINO»
• xe:vòc;; ixe(vou cpV.oa6cpou Myoc;;, ~'oti (.L7J3n n"ti&oc;; liv&p6mou &epcme:UtrcxL • ~an"ep yclp [a;TpLxijc;; où3n /Scpe:Àoc;; (.L~ Tele; v6aout; Twv aw(.LciTwv ix~cxÀÀOÙa7Jt;, o(hoot; ou3è cp&Àoaocp(cxç, el (.L~ TÒ Tijc;; ljnl)(ijt; ix~ciÀÀ&:L n"ci&ot;t.
« V ano ~ il discorso di quel filosofo che non curi qualche umana passione: e come l'arte medica non ~ di alcun giovamento se non ci libera dalle malattie dei corpi, cosi non ~ di alcun giovamento neppure la filosofia, se non d libera dalla malattia deU'anima ». Epicuro (Usener, fr. 221)
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I. LA GENESI E LE CARATTERISTICHE DEL
«GIARDINO~
l. La polemica di Epicuro contro Platone e Aristotele
La prima, in ordine cronologico, delle grandi Scuole ellenistiche sorse ad Atene verso la fine del secolo IV a. C. (307 /306 a. C.) ad opera di Epicuro 1• Per l'esattezza, la ' Epicuro nacque a Samo nella Olimpiade 109,3, ci~ nel 341 a. C. (cfr. Diogene Laerzio, x, 14). Il padre Neocle era ateniese e si era recato a Samo come colono. A diciotto anni Epicuro venne ad Atene per l'efebato (qualcosa che ricorda, per certi .Spetti, il nostro servizio militare). Reggeva allora l'Accademia Senocrate ed egli verosimilmente « Xenocraten audire potuit » (Cicerone, De nat. deor., 1, 26, 72). Prima di venire ad Atene, però, Epicuro si era già avvicinato alla filosofia e aveva frequentato le lezioni di un platonica di nome Panfilo (Diogene, x, 14). Ma cerwnente l'incontro decisivo dovette essere quello con Nausifane, filosofo atomista, che gli dischiuse gli orizzonti di Democrito, e di cui diremo ulteriormente nel testo. In seguito all'espulsione dei coloni ateniesi da Samo, Epicuro passò a Colofone (Diogene, x, l) e quindi a Mitilene e a Lampsaco (Diogene, x, 15): La nuova visione della vita dovette già essere chiara ad Epicuro, a Mitilene e a Lampsaco, dove insegnò per cinque anni (Diogene, x, 15). Intorno al 307/306 Epicuro si trasferl ad Atene (Diogene, x, l) e fondò il Giardino (di ciò parleremo ampiamente più avanti). Morl nella Olimpiade 127, 2, cioè nel 270 a. C. (Diogene, x, 15). Epicuro fu scrittore fecondissimo. Diogene lo dice autore di circa trecento rotoli (dr. in Diogene, x, 26 sgg. l'elenco dei titoli delle opere più notevoli). Di questa imponente produzione ci è rimasto poco: tre lettere (A Meneceo, A Erodoto, A Pitocle), una raccolta di sentenze (Massime capitali), conservateci da Diogene, una seconda raccolta di massime (Sentenze Vaticane), e frammenti vari, alcuni dei quali tratti dai papiri di Ercolano. , I frammenti diretti e le testimonianze indirette di EpiC~!fC sono stati raccolti e sistemati per la prima volta da H. Usener, Epicurea, Lipsia 1887 (riproduzione anastatica, Roma 1963). L'edizione Usener rimane tuttora il punto di riferimento per le citazioni. Gli ulteriori frammenti venuti
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EPICUltO E LA FONDAZIONE DEL GLUDINO
Scuola era già stata costituita, almeno nel suo embrione, qualche ·anno addietro, giacché Epicuro aveva insegnato a Colofone, a Mitilene e a Lampsaco; e a Mitilene, e soprattutto a Lampsaco, Epicuro aveva raccolto i primi seg'ilaci. In ogni caso, fu il trasferimento della Scuola ·ad Atene (la quale restava ancora 1a capitale della cultura dell'Ellade) che segnò l'ingresso effettivo di essa nella vita spirituale della grecità. Questo trasferimento della Scuola di Epicuro ad Atene costituiva, nei confronti delle grandi Scuole di Platone e di Aristotele, un vero e proprio atto di. sfida, una provocazione e, addirittura, l'inizio di una spirituale rivoluzione, come vedremo. Ma Epicuro aveva capito di avere qualcosa di nuovo da dire, qualcosa che aveva per sé il futuro, mentre le Scuole di Platone e di Aristotele avevano per sé, ormai, quasi solo il passato: un passato che, per quanto fosse prossimo cronologicamente, dai nuovi eventi era stato reso d'improvviso remoto spiritualmente. Inoltre, come abbiamo veduto 2 , l'Accademia e il Peripato stavano scalzando le fondamenta stesse su cui erano stati costruiti e stavano rapidamente obliterando la parola dei loro fondatori, sia nello spirito, sia, spesso, -anche nella alla luce, specie dai papiri di Ercolano, si possono trovare nell'edizione di G. Arrighetti, EpiCIIrO, Opere, Torino 1960, 19732, che è la più completa raccolta e sistemazione dei frammenti diretti, corredata anche di buona traduzione, oltre che di apparati critici e note. Una traduzione ad alto livello dei frammenti diretti è quella di E. Bignone, EpiCflro, Opere, frammenti, testimonianze sulla vita, Bari 1920 (riproduzione anastatica, Roma 1964), accompagnata da note critiche di grande valore (il Bignone eggiunge nuovi frammenti a quelli raccolti dall'Usener, mentre tralascia il grosso della dossografiA epicurea). La traduzione completa degli EpiCflrea di Usener è stata fatta da Lidia Massa Positano (Padova 1969). Di recente tutti i frammenti e le testimonianze sono stati ritradotti (insieme a quelli degli Epicurei Metrodoro, Ermarco, Colote e Polistrato), con ampie introduzione e note di commento, da Margherita Isnardi Parente (Opere di Epicuro, Utet, Torino 1974). A questa traduzione ci siamo rifatti (talora con lievissimi ritocchi), perché, oltre ad essere chiara e scorrevole, è la più completa. (Nei pochi casi in cui utilizzeremo altre traduzioni, ne faremo espteSSa menzione). 2 Cfr. sopra, pp. 83 sgg. e 123 sgg.
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GENESI E CAKATTElliSTICHE
163
lettera. E a cagione di questa crisi delle Scuole ~radizionali veniva obiettivamente a crearsi un vuoto spirituale, in cui potevano agevolmente inserirsi nuove proposte alternative che rispop.dessero ai nuovi bisogni dei mutati tempi. L'avversione nutrita dal nostro filosofo sia per Platone sia per Aristotele fu radicale e non conobbe mezze misure. L'avversione per il platonismo era nata in Epicuro, probabilmente, già al tempo della sua prima venuta ad Atene, in occasione dell'efebato 3 , e forse addirittura prima, allorché, nella nativa Samo, egli aveva udito le lezioni del platonico Panfilo 4 • Epicuro non poteva accordarsi con Platone m nessuna delle dimensioni secondo cui questi s'era mosso: non nella dimensione metafiisica e gnoseologica, che fa perno sull'immateriale; non nella dimensione mistico-religioso-teologica, tutta incentrata sul soprasensibile e sul trascendente; non nella dimensione poJ..itica, la quale 1deaJ..izzava la vecchia polis e i suoi valori, che la storia stava distruggendo inesorabilmente. La stessa marcata avversione Epicuro concepl anche nei confronti di Aristotele, che egli considerava seguace di Platone e sostanzialmente platonico. Ettore Bignone 5 ha infatti dimostrato, in modo che non sembra facilmente contestabile, come Epicuro abbia letto e meditato l'Aristotele essoterico, cioè le opere (per lo più composte in forma dialogica, ad imitazione dei dialoghi platonici) che lo Stagirita scrisse e pubblicò soprattutto quando era discepolo dell'Accademia, e che erano espressione di concetti e in genere di un modo di pensare e di sentire fortemente platonici. Le opere di Scuola di Aristotele, le esoteriche, se non restarono interamente ignote ad Epicuro, non incisero tuttavia a fondo sul nostro
4
Cfr., sopra, la nota l. Cfr. Diogene Laerzio, x, 14 ( = Usener, p. 366).
5
E. Bignone, L'Aristotele perduto e la forlllll%ione filosofica di BpiCIII'o,
3
2 voll., La Nuova It>alie, Firenze 1936 [19732 ]. 2 certamente questa l'opera più significativa su Epicuro pubblicata nel nostro secolo, e resta tuttora un ·punto di riferimento per l'esatta comprensione del nostro filosofo.
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EPICURO E LA FONDAZIONE DEL GIARDINO
filosofo, checché si cerchi di dimostrare da alcuni studiosi. È con l'Aristotele platonico, in ogni caso, che Epicuro ingaggia le sue polemiche più vigorose e più radicali. 2.
Il
r i p ud i o
d e 11 a « s e c o n-d a
n a v i g az i o n e »
Le tappe della polemica antiplatonica e antiaristotelica sono state individuate e ricostruite dai più recenti studiosi: è risultato, di fatto, che tutte le tesi essenziali dell'epicureismo acquistano il loro giusto significato storico e teoretico proprio nel contesto di queste polemiche 6 • Ma ciò che a noi qui maggiormente interessa J:lilevare è che Epicuro cerca di respingere, in modo drastico, il fondamento stesso su cui poggiano gli imponenti edifici speculativi di Platone e del primo Aristotele, vale a dire la « seconda navigazione » con tutti gli esiti ad essa connessi. Nel celebre passo del Pedone in cui vengono chiarite le ragioni che resero necessaria la « seconda navigazione » (di cui abbiamo detto con ampiezza nel precedente volume), Platone dice con chiarezza che il suo itinerario speculativo consiste nel passaggio dalle· cose alle Idee mediante i logoi, i ragionamenti. Le cose non sono conoscibili attraverso i sensi: infatti questi« accecano l'anima »,e, quindi, lungi dal rivelare ad essa le cose, le velano. Le cose risultano intelligibili solo postulando con i ragionamenti l'esistenza di Idee metempiriche: la ragione del nascere, del perire e dell'essere delle • Oltre al volume del Bignone citato alla nota precedente, si vedrà: Domenico Pesce, Saggio su Epicuro, Laterza, Bari 1974. Concordiamo largamente con le tesi di questo libro. Personalmente siamo convinti che Epicuro abbia letto alcune parti (probabilmente esigue) degli esoterici di Aristotele solo dopo la fondtl%ione del Giardino, ossia quando i tratti essenziali della suei visione del mondo e della vita erano stati fissati. Infatti, le tracce degli 'esoterici aristotelici sono rinvenibili soprattutto nel grande trattato Sulla Natura (in 37 libri), che è la summa che Epicuro compose (pare in un arco di tempo piuttosto ampio) per offrire, in qualità di maestro, una sistemazione compiuta- e definilliva del suo pensiero.
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GENESI E CARAT1'1!1ISTICHE
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cose sensibili .non è nelle cose stesse, bensl lin una causa meta-sensibile (la « vera causa ») 7 • Nella Repubblica, poi, Platone spiega, con tutti i particolari, quali siano le tappe necessarie di questa « lunga strada » che conduce dal sensibile aH'intelligibile: l'anima si stacca gradatamente dal sensibile, dapprima, mediante le scienze matematiche (matematica, geometria, astronomia, armonia), le quali rivelano attraverso i sensibili (le figure geometriche, la· visione degli astri e dei loro moti, i suoni) l'esistenza di enti, leggi e propor2li.oni intelligibili, e, successivàmente, mediante la dialettica, la quale oonduce alla visione delle Idee in sé e dei loro reciproci rapporti, e, da ultimo, alla visione della suprema Idea, l'Idea del Bene 8 • Ebbene, Epicuro cerca di sgretolare questa imponente costruzione, contestando in modo puntuale tutti i principi che la sorreggono. Innanzitutto egli non solo nega che la sensazione veli le cose e confonda 1'-anima, ma ritiene che essa costituisca il più solido criterio di verità, che sia sempre e solo verace, e che dunque « colga l'essere » (come con ampiezza vedremo nel prossimo capitolo). I ragionamenti e le dimostrazioni portano nel vuoto, perché procedono all'infinito, e, pertanto, ci allontanano sempre piii dalle cose, le velano e mai le rivelano. La platonica inferenza metempirica e la dialettica che opera questa inferenza sono dunque decettive: bisogna fermarsi alle cose e alle loro «voci» (le sensazioni). Riferisce Diogene Laerzio: [Gli Epicurei] respingono la dialettica come superflua: dicono che ai Fisici deve bastare l'attenersi ai significati naturali [in greco t&6yyouç, che significa, alla lettera, suoni, voci] delle cose 9 • 7 Cfr. il vol. II, pp. 34 sgg. (il passo del Pedone cui alludiamo è riportato a p. 37). • Cfr. il vol. II, pp. 196 sgg. • Diogene Laerzio, x, 31 ( = Usener, fr. 36). Che in questo passo
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EPICURO E LA FONDAZIONE DEL GLUDINO
Inoltre, contro lo specifico processo diairetico della dialettica platonica leggiamo nella Epistola ad Erodoto: Per prima cosa, o Erodoto, bisogna aver ben chiare le nozioni che corrispondono ai vari termini, per potere, in rapporto a queste, giudicare delle opinioni, dei problemi, dei termini, dei dubbi, sì da non cadere nella confusione andando, nelle nostre dimostrazioni, all'infinito, e non trovarsi a possedere altro che vuoti suoni. n concetto fondamentale che sta dietro ad ogni parola deve essere immediatamente chiaro, e non aver bisogno di dimostrazione, se è vero che per ogni oggetto di ricerca, per ogni dubbio e per ogni opinione dobbiamo avere qualcosa a cui riferirei 10 •
E non solo la dialettica, secondo Epicuro, ma anche le scienze prescritte da Platone come tappe obbligate della «lunga via »dell'essere, sono decettive. La geometria è« tutta contraria alla verità», perché sono « infondati i suoi principi » 11 • L'astronomia è « vana » 12 • La musica è « inutile » e addirittura «dannosa» 13 • Respingendo la « seconda navigazione » ed eliminando il soprasensibile, non restava ad Epicuro se non la presocratica physis, la quale veniva però ad assumere un nuovo significato. I Presocratici non avevano determinato la physis in base alle categorie sensibile-soprasensibile, materiale-immateriale, corporeo-incorporeo, appunto perché queste nascono solo con la «seconda navigazione». Ma dopo Platone e Aristotele la determinazione della realtà in funzione di queste categorie diventa necessaria, sia per chi condivida sia per chi non condivida le soluzioni platoniche e aristoteliche 14 • Epicuro polemizzi con le affermazioni di Platone, Pedone, 99 c sg., lo ha ben dimostrato D. Pesce (Saggio su Epicuro, pp. 12 sgg.). 10 Epistola a Erodoto, 37 sg. (cfr. Pesce, Saggio su Epicuro, pp. 9-12). " Cfr. Cicerone, Acad. pr., II, 33, 106; Proclo, In Eucl. I elem. libr., 55, p. 199, 9 Friedlein ( = Usener, fr. 229 a). 12 Epistola a Pitocle, 113. 13 Cfr. Sesto Empirico, Contro i matem., VI, 27 ( Usener, fr. 229 b). 14 Cfr. il vol. II, pp. 38 sg.
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GENESI E CARATTEIUSTICHE
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Sicché la visione della physis, della realtà, proposta da Epicuro diviene un vero e proprio« materialismo», mercé la negazione chiara ed esplicita del soprasensibile, dell'incorporeo e dell'immateriale. Epicuro è, in certo senso, il primo materialista che abbia formulato in modo teoreticamente consapevole il proprio materialismo. Infatti i Presocratlici, che come abbiamo detto ignorarono la dimensione immateriale dell'essere, non potevano negare ciò che ignoravano (il materialismo è tale solo se nega espressamente l'esistenza di altra realtà che non sia quella materiale); i Socratici minori si fermarono a mezza strada, giacché negarono l'esistenza delle platoniche Idee e fecero generiche affermazioni di sapore materialistico, ma senza trarre tutte le dovute conseguenze e senza esplicitarne le imp1icanze, perché furono quasi tutti interessati solo ad un discorso etico, prospettato in maniera alquanto unilaterale.
3. La ripresa dell'atomismo e delle categorie eleatiche di fondo ad esso connesse
Epicuro, per la verità, non sa creare una nuova antologia: per esprimere la propria visione materialistica della realtà in maniera positiva (ossia non negando semplicemente la tesi platonico-aristotelica), egli si rifà ,a concetti e a figure teoretiche già elaborate, appunto nell'ambito della filosofia presocratica. E fra tutte le prospettive presocratiche era pressoché inevitabile che Epicuro scegliesse quella degli Atomisti, proprio perché essa, dopo la platonioa «seconda navigazione», risultava senz'altro la più materialistica di tutte. Le nostre fonti ci informano che Epicuro apprese le dottrine dell'atomo da Nausifane 15 , che egli ascoltò aTeo, vicino 15 Si vedano le testimonianze e i frammenti rimastid di Nausifane in Diels-Kranz, vol. n, 75, pp. 246-250. Sul pensiero di Nausifane cfr. Nestle
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EPICURO E LA FONDAZIONE DEL GIARDINO
a Colofone, pare per quattro anni (da Nausifane conobbe anche il nuovo verbo scettico che Pirrone andava diffondendo, dato che Nausifane fu uditore di Pirrone) 16 • Tuttavia, superbamente convinto com'era delle novità etiche che veniva elaborando e insegnando ai Greci, Epicuro negò a Nausifane ogni debito di riconoscenza, cosl come lo negò a tutti gli altri filoso& con cui ebbe rapporti diretti o indiretti 17 • Evidentemente in ciò egli ebbe torto: il senso di quelle novità di cui si sentiva portatore fece velo alla verità; infatti, se la visione della vita che egli propose fu una ·autentica sua creazione, non furono invece sue creazioni né le motivazioni teoretiche con cui egli cercò di sorreggerla né la visione « fisica » dell'universo in cui egli collocò la sua visione della vita, che ripetono i moduli dell'atomismo, con poche novità e variazioni, come vedremo, fra le quali quella di maggior rilievo consiste nella lucida consapevolezza materialistica con cui vengono riutilizzati quei moduli, cui già abbiamo fatto cenno. Ma l'atomismo, come abbiamo visto nel primo volume 11 , è una precisa risposta alle aporie sollevate dall'eleatismo, un tentativo di mediare le opposte istanze del logos eleatico da un lato, e dell'esperienza dall'altro. Nella logica dell'atomismo passò gran parte della logica eleatica (Leucippo, il primo Atomista, fu discepolo di Melisso 19, e, in generale, l'atomismo fu, fra le proposte pluralistiche, la più rigorosamente eleatica). Per conseguenza, era inevitabile che questa passasse anche in Epicuro, come di recente è stato acutamente dimostrato 20•
in Zeller, Die Pbilosopbie der Griecben, I, 2, pp. 1191 . sg. (aggiunta alla nota 3). 16 Cfr. Diogene Laerzio, IX, 64 ( Diels-Krauz, 75 A 2); IX, 69 ( Diels-Kranz, 75 A 3); cfr. anche Seneca, Epist. 88,43 ( Diels-Krauz, 75 B 4). 17 Cfr. Cicerone, De nat. deor., I, 26, 72 ( Usener, Epicurea, fr. 233); Ibid., I, 33, 93 ( = Usener, Epicurea, fr. 235). 11 Or. vol. I, pp. 171 sgg. " Cfr. Reale, Melissa, pp. 18, 21, 278 sgg. 21 Pesce, Saggio su Epicuro, passim.
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GENESI E CARATTElliSTICHE
E cosl vedremo come, spesso, più che non i canoni della logica espressamente elaborata da Epicuro (di cui diremo nel prossimo capitolo), risultino determinanti i canoni della logica eleatica, e, in particolare, la logica del terzo escluso, che si fonda su questo paradigma: l'essere è, il non-essere non è, e tertium non datur. Non solo, quindi, udremo risuonare, nell'ontologia, le tipiche affermazioni eleatiche che «nulla deriva dal nulla», che « nulla si risolve nel nulla », che l'essere è tutto omogeneo, «tutto uguale a se medesimo», ma vedremo prolungarsi altresl nella canonica e nell'etica questo tipico modo di ragionare che non ammette l'« intermedio», non solo fra i contraddittori, ma neppure fra i contrari.
4. I rapporti f.r a Epicuro, So c rate e tici minori
Soc;ra-
Abbiamo detto, sopra, che una delle caratteristiche della filosofia dell'età ellenistica è il ritorno a Socrate e al socratismo 21 • Già in Epicuro questo è ben evidente, non solo nella decisa preminenza data ai problemi etici in generale, ma proprio nella specifica concezione della filosofia come quella che deve provvedere alla «salute dell'anima», come si desume chiaramente dall'Epistola a Meneceo 22 e, meglio ancora, dalla seguente testimonianza: È vuoto il discorso di quel filosofo che non riesca a guarire alcuna passione dell'uomo: come non abbiamo alcun bisogno della medicina se essa non riesca ad espellere dal nostro corpo le malattie, cosl non abbiamo alcuna utilità dalla filosofia se essa non serva a scacciare le passioni dell'anima 23 •
Vedremo, inoltre, come lo stesso
«intellettualismo socra-
•• Cfr., sopra, pp. 14 sg. 22 Cfr. Epistola a Meneceo, 122. 21 Porfirio, Ad Marcellam, 31, p. 297, 7 sgg. Nauck2
(
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= Usener, &. 221).
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EPICUB.O B LA FONDAZIONE DBL GIAllDINO
tico » ritorni a giocare un ruolo molto importante e come vengano ribaditi perfino i« paradossi» di questo intellettualismo. Naturalmente, il messaggio di Socrate agisce attraverso il filtro del materialismo: infatti Epicuro non pub più dare alla psyche quella valenza e quella preminenza che le dava Socrate, giacché il suo materialismo impone di concepire l'anima e il corpo come omogenei per natura (sono fatti di atomi materiali e l'una e l'altro) 24 • Fra i Socratici minori agirono sulla formazione della filosofia epicurea, in primo luogo, i Cirenaici con la loro dottrina del piacere, che, come vedremo, con logica eleatica verrà ripensata a fondo e radicalmente riformata. In secondo luogo, esercitarono un preciso influsso anche i Cinici: l'elimi.nazione dei bisogni superflui e indotti dalla società e la riduzione dei bisogni elementari a quelli il cui soddisfacimento è indispensabile alla sopravvivenza, il rifiuto della partecipazione alla vita politica e l'autarchia sono infatti precisi temi cinici che, sia pure con nuova coloritura, giocano un ruolo es~iale nel sistema epicureo. Da Socrate (e dai Socratici) Epicuro si differenzia invece nettamente nella concezione della filosofi.a come «sistema», come espressione di dogmi sistematicamente dedotti e giustificati e non di semplici istanze e di problemi: Il saggio [ ... ] insegnerà dottrine dogmatiche e non parlerà per aporie 25 •
:S proprio per questo che Epicuro elabora una « canonica » e soprattutto una «fisica», appunto per dare all'etica una fondazione non solo antropologica ma anche antologica, perché una visione dell'uomo non può veramente giustificarsi se non in funzione di una concezione del cosmo e dell'essere, di cui l'uomo è parte. .. Cfr. più avanti, pp. 220 sgg. .. Diogene Laerzio, x, 121 b (= Usener, p. xxx, 46).
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GENESI B CAltATl'BlliSTICHB
5.
Il
ruolo
predominante
dell'etica
IDEine, per una esatta collocazione storica e teoretica del pensiero di Epiouro resta ancora un punto essenziale da rilevare. I Presocratici conobbero solamente la filosofia come cosmologia e come ontologia, ignomndo l'etica; Socrate e i Socratici respinsero invece la cosmologia e l'antologia e ridussero la filosofia alla sola etica, al1a dottrina della saggezza; con Platone e Aristotele, l'antologia (che divenne metafisica) ritornò ad essere momento essenziale della filosofia e su di essa fu fondata l'etica: la superiorità dell'ontologia (della dottrina che spiega le cause di tutta la realtà) sull'etica è chiarissima in Platone e viene addirittura affermata a livello tematico in Aristotele. Ebbene, Epicuro, mentre riàfferma la necessità dell'ontologia come fondamento dell'etica, capovolge
la gerarchia platonico-aristotelica e dichiara l'etica superiore alla fisica (all'ontologia). Alla scienza e alla sophia viene sovraordinata la phronesis, la saggezza. Leggiamo nella Epistola a Meneceo: La saggezza appare ancor più apprezzabile che la filosofia
[ = scienza], giacché da essa provengono tutte le altre virtù, in quanto ci insegna che non è possibile vivere piacevolmente se non vivendo saggiamente e bene e giustamente, (e di contro che non è possibile vivere saggiamente e bene e giustamente) se non anche piacevolmente 211 •
ll problema della vita diventa, per Epicuro, il problema per eccellenza: tutto il resto viene finalizzato alla soluzione di questo problema. Inoltre a Epicuro non interessa solo la soluzione teoretica del problema, ma anche la messa in pratica dell'etica:· in certi testi, anzi, Epicuro sembrerebbe soprattutto preoccupato di questa messa in pratica, specialmente allorché si rivolge ai ili:scepoli. Domenico Pesce chiarisce questa .. Epistola a Meneceo, 132.
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EPICURO E LA FONDAZIONE DEL GIA:RDINO
singolare posizione di Epicuro in modo esatto, come segue: « [ ... ] la funzione esclusivamente [meglio sarebbe forse dire:
prevalentemente] pratica dell'intera filosofia porta a queste conseg'uenze. Per quel che coneeme l'etica, si tratta di metterla in pratica, in quanto la validità della dottrina sarà immediatamente verificata dall'esperienza della vita vissuta, mentre, per quel che concerne la fisica, poiché questa a differenza dell'etica ha funzione negativa di liberazione piuttosto che positiva di promovimento, non ci sarà nessun bi-sogno di possedere la dottrina, di conoscere cioè l'effettiva spiegazione dei vari fenomeni, ma basterà sapere che questa spiegazione ci sia. Di qui il carattere singolare del 7te:pt cpuae:wc; di Epicuro ed il rapporto tutto particolare che si instaura tra il maestro e i discepoli. La summa del. sapere deve esserci, perché soltanto in essa si dà la prova che i prindpi della dottrina e lo schema generale d'interpretazione dei fenomeni (l'antologia e la gnoseologia) funzionano perfettamente e ·non soffrono eccezione veruna, ma non è affatto necessario che il discepolo la ripercorra tutta, bastando al suo convincimento lo studio di qualche excerptum o di un compendio o, al limite, la semplice fiducia di chi ne ·sa meno in chi ne sa più di lui » 71 • La forte tendenza· della filosofia epicurea a diventare e anzi a porsi senz'altro come una fede e addirittura come una religione laica risulta evidentissima già da questo, e le ultel'liori precisazioni che ora forniremo chiariranno le intime motivazioni di tale tendenza.
6.
L e fi n a li t à d e l « G i a r d i n o » e l a l o r o n o v i t à
Pur con le numerose differenze che le contraddistinguono, le filosofie morali di Socrate, di Platone e di Aristotele hanno come sfondo comune la polis e l'ethos che la caratterizza. 'D
Pesce, Saggio su Epicuro, p. 18.
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GENESI E CARATTERISTICHE
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Tutte le voci di dissenso che si erano levate contro l'ethos della polis, da quelle dei Sofisti a quelle dei Socratici minori, per quanto radicali e audaci potessero essere o apparire, supponevano, in 'ogni caso, un assetto ideologico e sociale ancora saldamente sorretto dalla vitalità della polis greca; le affermazioni di cosmopolitismo dei SocratJioi minori, poi, hanno un significato particolare, in quanto, come sappiamo, si tratta di uomini di origine non greca o semi-greoa, ai quali era quindi, in tutto o in parte, estraneo quell'ethos. Epicuro vive e pensa in un'epoca in cui la polis, il suo ethos e la sua tavola dei valori sono stati messi in crisi dalla rivoluzione di Alessandro; inoltre, essendo di sangue greco, anzi di origine ateniese, comprende perfettamente il senso tragico di quel vuoto spirituale che si era formato e si prefigge di colmarlo, proponendo appunto un nuovo ethos che rompa con il passato, ormai morto e non più risuscitabile a nuova vita. Il nuovo ethos, di contro a quello tradizionale radicato nella polis, si fonda sul singolo uomo, sull'uomo privato: è l'ethos dell'individuo. Socrate, Platone e Aristotele insegnavano la « virtù politica», vale a dire la virtù che perfezionava l'uomo come cittadino, presupponendo che l'uomo in quanto tale coincidesse col cittadino (uomo = cittadino). La nuova virtù che Epicuro insegna è la virtù dell'uomo privato, la virtù che perfeziona l'uomo come individuo, ossia l'uomo di per sé considerato, al di fuori della sua convivenza in uno Stato. Epicuro contesta definitivamente l'identificazione dell'uomo col cittadino; anzi, condanna addirittura la ·(politica come « inutile affanno » e proclama la validità e l'e~ellZa del « vivere nascosto », appartato e lontano dal tumultO della politica 28 • In questo contesto va intesa, a nostro giudizio, l'a~rJione di Epicuro contro tutta la cultura tradizionale. L'avversione epicurea alle scienze, come abbiamo visto, ha significato anti21
Si veda più avanti, pp. 2'57 sgg.
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EPICURO E LA FONDAZIONE DEL GIARDINO
platonico (antimetafisico), mentre l'avversione alla poesia 29 e alla retorica 30 è motivata dal fatto che l'una e l'altra erano legate a quei valori civici, messi
Cfr. Usener, frr. 227, 228, 229. Cfr. Usener, frr. 46-.5.5. Cfr. Fedro, 230 d.
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GENESI E CARATTERISTICHE
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solo di se stesso; 5) non gli servono quindi la Città, le istituzioni, la nobiltà, le. riccheZze, le cose tutte e nemmeno gli Dei: l'uomo è perfettamente autarchico. È chiaro che, nei confronti di questo messaggio, tutti gli uomini diventano uguali, perché tutti aspirano alla pace dello spirito, tutti ne hanno diritto e tutti possono anche raggiungerla, se vogliono. Per conseguenza, il Giardino volle aprire le sue porte a tutti: a nobili e a non nobili, a liberi e a non liberi, a uomini e a donne e, perfino, a prostitute in cerca di redenzione. Il nuovo verbo che veniva dal Giardino era dunque originale proprio nel suo spirito informatore, nella cifra spirituale che lo caratterizzava: esso non costituiva un movimento alla moda con una attrattiva puramente o prevalentemente intellettuale, bensì il richiamo ad un modo di vita veramente inconsueto 32 • C'è in Epicuro più di un tratto che richiama le figure del profeta e del santo 33 • Ispirandosi in gran parte al Bignone, scrive giustamente il Farrington: « li Giardino era una base di addestramento per i missionari e la Casa era il centro di una intensa propaganda. I frammenti che sopravvivono ci informano sulla diffusione del movimento anche durante la vita del fondatore. Sappiamo di lettere ".agli amici di Lampsaco", "agli amici di Egitto", "agli amici in Asia", "ai filosofi di Mitilene". Nella sua letteratura epistolare indirizzata alle sue comunità sparse in Oriente Epicuro sembra essere il precursore di San Paolo » 34 • 32 Cfr. B. Farrington, The Faith of Epicurus, London 1967; traduzione italiana di F. Cardelli con il titolo: Che cosa ha veramente detto Epicuro, Roma 1967, p. 19. 33 Nota il Farrington (Che cosa ha veramente detto Epicuro, p. 18): « [Epicuro] era più un profeta che un filosofo, più un santo che un profeta. L'istituzione del Giardino fu la sua risposta ai mali del mondo. La sua autorità spirituale è mostrata dal fatto che condusse seco i fratelli, come fece, per esempio, S. Bernardo di Chiaravalle, che portò con sé nella vita monastica tutta la famiglia». 34 Farrington, Che cosa ha veramente detto Epicuro, p. 141; dr. Bignone, L'Aristotele perduto ... , I, p. 137.
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EPICURO E LA FONDAZIONE DEL GIARDINO
Epicuro aveva visto molto lontano; se i contemporanei accolsero con sospetto le sue idee, il tempo gli diede invece ragione e la sua filosofia sopravvisse addirittura a tutte le altre create nella sua epoca. Scrive il Bignone: «E più a lungo di ogni altra essa [la filosofia epicurea] resiste, nella rovina del mondo antico, perché più di ogni altra ha ferme le due fedi che nel mondo antico sono le ragioni intime di vita: la fede nel reale e nella sua conoscenza, e la fede nella conquista della felicità. Quando vincerà l'ansia del soprannaturale, e la realtà mondana parrà illusione ed errore, e il vero conoscere non sarà più ricerca sulle vie della esperienza, ma apocalissi mistica e religiosa (onde parrà inutile lo stesso travagliarsi per sapere quello che mai non potremo apprendere nel mondo, e che ci verrà un giorno rivelato), quando l'esistenza stessa mondana sarà irrimediabilmente condannata, e non si aspirerà ad altro che ad esularne, al più presto, allora la filosofia di Epicuro dileguerà, come tutte le realtà soleggiate del mondo antico. Ma fino allora, fino a che resterà nell'uomo classico la speranza di vincere, di trovare in sé, con le sole sue forze, la salute dell'anima e la ragione della vita, Epicuro, questo medico di spiriti, apparirà ancora [ ... ] un "salvatore", e la scuola sarà l'ultima che per queste fedi avrà combattuto » 35 • Vediamo ora in modo dettagliato quali sono le nuove dottrine del Giardino nella loro distinzione di canonica, fisica ed etica.
• Bignone, L'Aristotele perduto ... , I, p. 111. (Le espressioni alquanto enfatkhe possono riuscire sgradite, ma era questo lo stile proprio del Bignone, in tutti i suoi libri).
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Il. LA CANONICA EPICUREA
l. La « canonica » criteri di verità
come
determinazione
dei
Abbiamo visto, nel precedente volume, quale sia stato il significato della logica aristotelica: essa segnava, sostanzialmente, il momento della maturazione completa del logos filosofico, ossia il momento nel quale illogos, dopo aver saputo mettere a problema tutto ciò che è oggetto di pensiero, poneva a problema se medesimo, i suoi procedimenti, le condizioni e le regole generali che lo determinano. Pertanto, la logica aristotelica costituiva il primo grandioso tentativo, nella storia spirituale dell'Occidente, di determinare le forme che strutturalmente sorreggono e determinano il pensiero dell'uomo, il primo tentativo · di spiegare in generale come ragiona la mente umana. Così lo Stagirita aveva saputo stabilire quali siano gli elementi primi del pensare e del ragionare (le categorie), quale sia la più elementare connessione di questi elementi (il giudizio, la proposizione), che cosa sia il ragionare in quanto tale (il sillogismo), quali tipi di ragionamenti siano possibili, quali validi e quali non validi, quali siano i sillogismi dialettici e quali siano i paralogismi sofistici, che cosa siano i procedimenti deduttivi e quelli induttivi, quale sia la loro portata, il loro 1imite e le loro condizioni 1• Orbene, il Giardino di Epicuro non solo perde pressoché per intero i risultati e le acquisizioni di questo grandioso disegno, ma perde perfino il senso stesso della problematica ' Cfr. il vol.
11,
pp. 399 sgg.
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EPICUilO E LA FONDAZIONE DEL GIAilDINO
logica aristotelica 2 • Cicerone notava giustamente: Già in un'altra parte della filosofia, quella che riguarda l'arte del discorrere e che si chiama «logica», questo vostro Epicuro è, mi sembra, assolutamente sprovveduto e inerme. Abolisce le definizioni, non insegna nulla circa la divisione e l'articolazione, non insegna in che modo un ragionamento si costruisca e si concluda, in che modo si risolvano i sofismi e si discerna l'ambiguità dei discorsi [ ... ] 3•
In effetti, Epicuro si occupò di logica solamente al fine di stabilire quali siano i criteri e i canoni basilari che ci permettono di raggiungere la verità e la certezza, come già gli antichi ben notarono: Gli Epicurei trasferiscono la logica lungi dal campo che le è proprio, perché in primo luogo indagano i canoni del giudizio, facendone una precettistica applicata sia alle evidenze, sia a ciò che non cade sotto i sensi, ed a quanto consegue 4 •
Insomma, gli Epicurei restrinsero la loro logica ad una sorta di critica della conoscenza e ridussero questa ad alcuni principi elementarissimi, che, dopo Aristotele, suonano come semplicistici e, in parte, perfino come grossolani. Del resto, il terrnme « canonica » con cui Epicuro designò la sua logica esprime assai efficacemente il significato che egli le attribuiva 5 • Pertanto, ben si spiega come Epicuro e gli Epicurei ·non riconoscessero alla logica alcun valore autonomo e la congiungessero alla fisica, considerandola addirittura quasi una • ~ molto probabile, per la verità, che gli scritti logici di Aristotele siano rimasti addirittura, se non in tutto almeno in gran parte, sconosciuti ad Epicuro, cosi come gran parte degli esoterici aristotelici, come abbiamo già ricordato. • Cicerone, De fin., I, 7, 22 ( U.ener, fr. 243, p. 178, 22 sgg.). • Sesto Empirico, Contro i matem., VII, 22 (= Usener, fr. 242, p. 177, 24 sgg. [la traduzione è di L. Massa Positano]). 5 Il trattato epicureo di logica si intitolava appunto Del criterio o canone (cfr. Diogene Laerzio, x, 27; cfr. Usener, pp. 104 sg.).
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LA CANONICA EPICUilEA
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introduzione ad essa. In effetti la canonica epicurea è svolta solo come propedeutica alla fisica e all'etica, e può essere detta correttamente il momento metodologico di esse. (Del resto, come già abbiamo accennato e come meglio vedremo più avanti, anche la fisica di Epicuro non ha valore autonomo, ma è essenzialmente mnalizzata all'etica: essa viene svolta solamente in quanto e nella misura in cui serve a determinare i fondamenti ontologici dell'etica).
2.
La sensazione e la sua validità assoluta
Epicuro, nel suo Canone, affermava che i criteri della verità sono tre: le sensazioni, le prolessi e i sentimenti. Come primo e fondamentale criterio egli poneva la sensazione ( octa.&7JaLç ). Contro tutte le tendenze (da quelle dei Sofisti a quelle dell'incipiente scetticismo) che avevano affermato o andavano tuttora affermando il carattere soggettivo e relativizzante della sensazione, e quindi la sua aleatorietà dal punto di vista della certezza e della validità, Epicuro rivendicava con la più strenua energia la certezza e la validità oggettiva della sensazione, che egli proclamava essere addirittura assolute. Ecco alcune significative affermazioni: Se ti opporrai a tutte le sensazioni, non avrai più nemmeno criteri cui riferirti e perciò neanche modo di giudicare quelle che tu dici essere errate 6 • Se rifiuterai una sensazione senza ben distinguere fra ciò che è dovuto a opinione, ciò che attende conferma, ciò ch'è presente con evidenza in base a sensazione o ad affezione o a un qualunque atto di intuizione rappresentativa della mente, finirai col confondere anche le altre sensazioni con opinione vana, e non riuscirai più ad usare alcun criterio di giudizio [ ... ] 7 • 6
7
Massime capitali, 23. Massime capitali, 24.
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E si noti: per Epicuro le sensazioni sono sempre e tutte vere, senza alcuna eccezione. Infatti, egli diceva, se uno solo dei sensi, anche una sola volta, ci ingannasse, allora non si potreblx; più prestar fede ad alcuno dei sensi e crollerebbe la validità della sensazione come tale. Riferisce Cicerone: A tal segno giunge Epicuro, da dire che, se una sensazione una sola volta nella vita dovesse indurre errore, non ci sarebbe più possibilità di credere a nessuna sensazione 8 • Epicuro tèmeva che, se una sola sensazione si fosse rivelata mentitrice, nessuna più si potesse dire vera. E chiamava i sensi « nunii del vero » 9 •
Gli argomenti sui quali Epicuro fondava queste asserzioni ci sono stati tramandati da Sesto Empirico e da Diogene Laerzio e li dobbiamo riferire, perché rivelano in modo efficace le peculiarità del suo «dogmatismo». In primo luogo, la sensazione, in quanto è una affezione e quindi passiva, non si produce da sé, ma deve essere prodoua da qualcosa di cui essa è come l'effetto; e, se è prodotta da questo qualcosa, deve essere altresì corrispondente ad esso. Come le affezioni di piacere e di dolore sono prodotte da qualcosa e corrispondono ad esso (è impossibile che ciò che produce dolore, se ~e nella misura in cui lo produce, non sia doloroso, e ciò che produce piacere, se e nella misura in cui lo produce, non sia piacevole), così è per ogni altra sensazione: è necessario non solo che sussista l'oggetto che la produce, ma che corrisponda altresì alla sensazione che produce. In secondo luogo (e questo costituisce indubbiamente l'argomento principale), la sensazione è oggettiva e vera perché, in ultima analisi, è prodotta e quindi garantita dalla stessa struttura atomica della realtà. Infatti, come vedremo più avanti, da tutte le cose emanano dei complessi di atomi, che costituiscono immagini o simulacri ( e:t3 (J) Àot) delle medesime e 8 Cicerone, Acad. pr., n, 25, 79 ( = Usener, fr. 251). ' Cicerone, De nat. deor., I, 25, 70 ( = Usener, fr. 251).
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le sensazioni sono prodotte dalla penetrazione di tali simulacri in noi. Appunto per questo motivo l'oggettività delle sensazioni è assoluta, perché esse possono prodursi solamente se, quando e come i simulacri entrano in noi. Quelle che pqssono essere giudicate illusioni dei sensi (come la diversa figura in cui un oggetto appare in lontananza o l'affievolirsi o il deformarsi del suono sempre 1n lontananza) sono, per contro, oggettive registrazioni e riproduzioni dei simulacri come effettivamente sono: allontanandosi dalle cose i simulacri si alterano, e la sensazione li rivela sempre e solo cosl come essi giungono ai sensi: il simulacro dell'oggetto vicino è effettivamente diverso dal simulacro dell'oggetto lontano, sl che quello che, secondo alcuni, è un inganno dei sensi è, invece, una prova della loro oggettività. (L'errore può essere solo dell'opinione, la quale può intervenire e giudicare
scorrettamente intorno alla sensazione). Ecco la celebre testimonianza di Sesto Empirico in cui sono contenuti questi argomenti: Epicuro, di quelle due cose strettamente congiunte fra loro che sono la rappresentazione e l'opinione, dice che la rappresentazione, che chiama anche evidenza, è ùz ogni caso vera. Cosl come le affezioni primarie, il piacere e il dolore, derivano da qualcosa che le produce e sono corrispondenti a questo, il piacere da ciò ch'è ·piacevole, il dolore da ciò ch'è doloroso, e non è possibile che ciò che produce il dolore non sia doloroso, ma necessariamente, di loro natura, l'una e l'altra cosa devono essere tali, cosl, anch.e per quelle affezioni a noi proprie che sono le rappresentazioni, è necessario che in ogni caso sussista l'oggetto della rappresentazione stessa, che la produce, e questo oggetto non potrebbe cattsare la rappresentazione in quella data forma se non fosse in tutto e per tutto tqle quale ci appare. La stessa
cosa si può arguire a proposito di tutte le altre rappresentazioni prese singolarmente. L'oggetto della visione non solo dà luogo a questa, ma è tale quale ad essa appare; l'oggetto dell'audizione non solo dà luogo a questa, ma è tale quale si presenta ad essa, nella sua vera realtà; e cosl per tutte le altre conoscenze. Tutte le rappresentazioni dunque son vere, e ben a ragione: se infatti una rappresentazione può dirsi vera, ragionano gli Epicurei, quan-
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do provenga da ciò che sussiste di fatto e corrisponda a questo qualcosa che sussiste di fatto, ed ogni rappresentazione proviene effettivamente da qualcosa di realmente sussistente e corrisponde a questo, ne consegue necessariamente che ogni sensazione è vera. Ma succede che alcuni siano tratti in inganno dalla differenza intercorrente fra le rappresentazioni che appaiono derivare da uno stesso oggetto dei sensi; dall'oggetto, per esempio, della vista, per cui questo appare di volta in volta o di altro colore, o di altra forma, o diverso in un qualsiasi altro modo; e cosl siano indotti a ritenere che di queste rappresentazioni cosi differenti o addirittura contrastanti fra loro alcune debbano essere vere ed altre, contrarie alle prime, false. Ora, questo è ingenuo, ed è proprio di chi non riesce a cogliere la vera natura delle cose. Per esempio, per attenersi semplicemente alle rappresentazioni visive, non tutto il corpo solido è visibile, ma solo la sua superficie colorata. E del colore una parte è pertinente al corpo stesso, come avviene nel caso che l'osservazione si compia da vicino o da una non grande distanza; parte è fuori di esso e posto nello spazio che lo circonda, come risulta se guardiamo il corpo da grande distanza; questo, mutandosi nello spazio interposto e assumendo una configurazione propria, è a noi causa di una rappresentazione corrispondente a quello ch'esso è nell'effettiva realtà. E cosl come non si avverte il suono della voce né entro il bronzo percosso né nella bocca di colui che grida, ma solo quando sia pervenuta alla nostra sensazione, e nessuno peraltro dice che è falsa la sensazione della voce resa tenue per la lontananza, cosi non si potrebbe dire falsa la visione per cui una torre, per la grande distanza, ci appaia piccola e rotonda, mentre da vicino è grande e quadrata, ma si dovrà dire, al contrario, ch'è vera perché quando ad essa l'oggetto della sensazione appare piccolo o di una certa forma esso è in realtà così, per i! fatto che, a causa del passaggio attraverso l'aria, i contorni dei simulacri hanno subito una riduzione; e quando appare grande e di un'altra forma, anche allora è in realtà cosl. Non già che in ambedue i casi l'oggetto sia uguale; questo infatti è proprio dell'opinione distorta, che l'oggetto percepito da vicino e da lontano sia esattamente lo stesso. La sensazione deve limitarsi a cogliere ciò ch'è presente e la muove, il colore per esempio; non deve giudicare se altro sia l'oggetto posto in un certo luogo, altro l'oggetto posto in un altro. Perciò le rappresentazioni sono tutte vere 10 • 10
Sesto Empirico, Contro i matem., VII, 203-210 ( = Usener, fr. 247).
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Un terzo argomento ci è riportato da Diogene Laerzio. La sensazione, diceva Epicuro, è arazionale e anche priva di memoria, non si autoproduce ma è prodotta da altro; cosl essendo, essa non è in grado di togliere da ·sé, né di aggiungere a sé alcunché, ma, proprio perché tale, la sensazione è oggettiva (non è in alcun modo manipolata dall'attività del soggetto). La sensazione è quindi irrrefutabile, perché nulla le si può opporre: a) non un'altra sensazione omogenea, perché ha il medesimo valore; b) non una eterogenea, perché si riferisce ad un differente oggetto; c) non la ragione, perché la ragione dipende dalla sensazione e non viceversa: Ogni sensazione, egli dice, è irrazionale e non partecipa della memoria; non si produce da se stessa, né, prodotta da qualcos'altro, è capace di togliergli o aggiungergli qualcosa. Niente vi è che possa confutate una sensazione: non può una sensazione omogenea confutarne un'altra perché entrambe hanno Io stesso valore, né lo può una eterogenea, perché il loro giudizio non verte sullo stesso oggetto; né il ragionamento, perché ogni ragionamento dipende dalle sensazioni; né infine l'una può confutare l'altra, poiché a tutte ci atteniamo. Il solo fatto che la sensazione sia qualcosa di esistente è garanzia della veracità dei sensi. È un fatto reale che noi vediamo e udiamo, cosl come che soffriamo 11 • È stato acutamente rilevato che, in queste affermazioni, Epicuro capovolge esattamente la posizione di Platone 12 • Questi, infatti, svalutava la sensazione proprio perché arazionale, ossia incapace di dar conto di se medesima, e, quindi, la degradava a livello eli cieca credenza (pistis) 13 • Epicuro ritiene, invece, che il carattere di arazionalità e passività della sensazione costituisca la miglior garanzia del suo essere pura riproduzione di dati immodificati, e appunto per questo la dichiara assolutamente vera. Pertanto, a ragione
=
" Diogene Laerzio, x, 31 sg. ( Usener, fr. 36). 12 Cfr. Pesce, Saggio su Epicuro, pp. 24 sgg.; 31 sgg. 13 Cfr. vol. n, pp. 95-98.
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conclude questo studioso: « Immediatezza, passività, limitazione al presente [e, possiamo aggiungere, arazionalità];· in una parola il carattere puramente registrativo della sensazione fanno sì che le sensazioni debbano di necessità possedere tutte lo stesso valore di verità. Ecco perché dubitare di una equivale a dubitare di tutte, dichiararne una falsa significa affermare che false siano tutte. Ci imbattiamo cosi [ ... ] in uno schema eleatico che ritroveremo poi puntualmente m ogni singola parte dd sistema: o il dogmatismo o lo scetticismo,
tertium non datur »
14 •
3. Le « prolessi » o «anticipazioni» e il linguaggio
Come secondo criterio della verità Epicuro poneva le cosiddette. proléssi (1t p o Àipjl u c;), o anticipazioni o prenozioni, le quali non sono altro che rappresentazioni mentali delle cose, e, potremmo dire, il corrispettivo sensistico del concetto o, meglio ancora, ciò a cui il sensismo epicureo riduce l'universale concettuale. Gli Epicurei, ci riferisce Diogene, designavano la prolessi come segue: Dicono che la anticipazione [prolessi] è un apprendimento o una idea generale insita in noi, che non è poi altro se non la memoria di ciò che spesso ci si è dall'esterno mostrato 15 • Le ultime parole sono le più indicative: le prolessi non sono altro che le immagini delle cose che scaturiscono dalle percezioni e si formano attraverso il ripetersi delle medesime percezioni e la loro conservazione nella memoria. Esse sono chiamate proléssi, cioè anticipazioni o prenozioni, per i seguenti motivi. Una volta che, tramite le sensazioni, si siano •• Pesce, Saggio su Epicuro, p. 26. " Diogene Laerzio, x, 33 ( = Usener, fr. 255).
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formate in noi le immagini delle cose nel modo sopra descritto, esse possono essere richiamate alla mente quandochessia, perché rimangono nella mente come « impronta » ('t'Un:oc;) delle passate sensazioni 16, e cosi ci permettono di conoscere in anticipo e quelle forme e quei caratteri che sono propri delle cose, senza che ci sia bisogno di averle di fronte e di percepirle attualmente; per dirla in altri termini, ci anticipano quali caratteri e quali forme le cose ci manifeste-
16 Cfr. Diogene Laerzio, x, 33 ( = Usener, fr. 255, p. 188,8). Questa interpretazione « empiristica » della prolessi, quale ci è stata presentata da Diogene Laet?Ji.o, è stata, per la verità, vivacemente discussa e contestata, già a partire dal secolo scorso, da P. Natorp (Forschungen zur Geschichte des Erkenntnisproblems im .Altertum, Berlin 1884 [llildesheim 1965"], pp. 234 sgg.), il quale rilaviene, f)er contro, elementi aprioristici. Di recente N. W. De Witt (Epicurus and bis Philosophy, Minneapolis 1954 [19642]) ha interpretato la prolessi come il co"ispettivo materialistico deU'anamnesi platonica ·e ha sostenuto, di conseguenza, che l'innatismo è « parte del nucleo essenziale della sua dottrina ». Anche la Isnardi Parente ritiene che la prolessi, appunto in quanto è criterio, non sia una pura e semplice impressione, ossia « un riflesso concettuale derivato meccanicamente dall'imprimersi di una serie di immagini o del loro "immagazzinarsi" nella mente: la prolessi come l'ha concepita Epicuro deve certamente contenere in sé un atto di effettiva comprensione intellettuale, un atto di giudizio intellettivo della mente esercitantesi sulle immagini» (Epicuro, Opere, p. 24). Forse questi interpreti, pur facendo valere istanze valide a livello teoretico, si spingono oltre la lettera e anche oltre le intenzioni del nostro filosofo. Infatti le prolessi, per Epicuro, sono prodotte dal continuo flusso dei simulacri e dalla regalarità e costanza con cui agiscono sull'uomo, e, dunque, sono gli effetti della dinamica degli atomi. ~ peraltro da rilevare che ben difficilmente si può negare in modo categorico che le prolessi siano una sorta di « apriori matecialistico », nel senso che la natura precondiziona strutturalmente la conoscenza del:l'uomo. n caso più eloquente, di cui diremo più oltre, è quello della conoscenza degli Dei, di cui Epicuro afferma che abbiaino prolessi; e queste particolari prolessi - si badi - non derivano dalle sensazioni (dato che non vediamo né percepiamo gli Dei), ma appunto direttamente dal flusso dei simulacri che gli Dei (come ogni altra cosa che esiste) emanano di continuo e che giungono fino a noi e ci predispongono a riconoscerli. Ed è anche vero che l'empirismo di Epicuro non ha assolutamente nulla a che vedere con lo sperimentalismo delle moderne forme di empirismo: « non si saprebbe concepire - scrive la Isnardi Parente - una forma di empirismo più aliena da sbocchi sperimentalistico-scientifici » (p. 30).
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ranno quando, tramite la sensazione, nuovamente ci troveremo a contatto diretto con esse. Inoltre, esse precedono e condizionano ogni forma di riflessione, di ragionamento e in genere ogni attività razionale: infatti noi non potremmo impostare e svolgere alcun ragionamento o discorso, se non basandoci su termini che ci sono noti per prenozione. La prolessi epicurea anticipa l'esperienza e l'attività razionale solo in quanto e nella misura in cui è derivata e prodotta dall'esperienza. E proprio questo stretto legame con l'esperienza e con la sensazione garantisce il valore di verità delle prolessi, le quali, non diversamente dalle sensazioni, sono ·prodotte dall'azione delle cose sulla nostra anima, e, per questo, sono veritative, come già abbiamo rilevato. Inoltre, per Epicuro, i« nomi »di cui è costituito il nostro linguaggio si riferiscono non ad altro che a queste prolessi e si riferiscono ad esse in modo fondamentalmente naturale: infatti i nomi e in genere il linguaggio, secondo il nostro filosofo, non sono altro che l'espressione, tramite i mezzi fonici, delle nostre percezioni e affezioni e, quindi, costituiscono una naturale manifestazione dell'originaria azione delle cose sulla nostra anima. Scrive espressamente Epicuro: Bisogna poi credere che dai fatti stessi la natura ha ricevuto molti insegnamenti e molti impulsi: il ragionamento ha poi, in seguito, perfezionato ciò che gli era stato affidato dalla natura, e ha aggiunto ulteriori scoperte, più rapidamente in alcuni casi, più lentamente in altri, e in determinati periodi e lassi di tempo (con ritmo più rapido), in altri più lento. Perciò anche i nomi all'inizio non si formularono per convenzione, ma le diverse nature degli uomini, in quanto erano soggette ad affezioni particolari secondo la diversità delle stirpi e concepivano rappresentazioni diverse, emettevano anche l'aria in una maniera propria sia secondo le affezioni e rappresentazioni da secondo la differenza sussistente fra i luoghi in cui si trovavano a vivere i vari popoli; successivamente, nell'àmbito di ciascun popolo, si stabilirono in comune certe espressioni peculiari, allo scopo di offrirsi reciprocamente indicazioni meno dubbie delle cose e di spiegarsi in forma più concisa; e quelli che volevano, in base a una
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loro consapevolezza, introdurre la nozione di cose fino allora mai viste, fissavano determinati nomi, alcuni formulandoli sotto la spinta dell'impulso naturale, altri scegliendoli in base a un certo ragionamento e seguendo la ragione più valida per egprimersi in tal modo 17• . In conclusione, nella misura in cui il linguaggio esprime le prolessi, è, come queste, rivelatore della natura delle cose e portatore di verità.
4.
I
sentimenti di piacere e dolore
Come terzo criterio di verità Epicuro considerava le alfe:doni o i sentimenti (7tc1&1J) di piacere e dolore (che si possono chiamare, in certo qual modo, anche « sensi in temi » ). Riferisce Diogene Laerzio: Dicono che due sono le affezioni, piacere e dolore, che esistono in ogni essere vivente, l'una conforme a natura, l'altra contraria, per mezzo delle quali si giudica ciò che è da scegliersi e ciò che è da fuggirsi 18 • Aristocle conferma: Epicuro e i suoi ritengono [ ... ] che il piacere e il dolore siano principio e criterio di tutto ciò che è da scegliersi e da fuggirsi [ ... ] 19 •
Lo stesso Epicuro nell'Epistola a Meneceo scrive testualmente: Diciamo che il piacere è principio e fine del vivere felicemente. Lo consideriamo infatti come un bene primo e connatUrato a noi, e da esso muoviamo nell'assumere qualsiasi posizione di Epistola a Erodoto, 7'5 sg. •• Diogene Laerzio, x, 34 ( = Usener, fr. 260). " Aristocle presso Eusebio, Praep. evang., XIV, 21,1, 768 d- 769 a ( Usener, fr. 260). 17
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scelta o di rifiuto, cosl come ad esso ci rifacciamo nel giudicare ogni bene in base al criterio delle affezioni 20 •
Come abbiamo letto nel passo di Sesto Empirico sopra riportato 21 , le affezioni del piacere e dolore sono oggettive per le medesime ragioni per cui lo sono tutte le sensazioni. Esse hanno tuttavia una importanza particolare, perché, oltre che criterio per discriminare il vero dal falso, l'essere dal non-essere, come tutte le altre sensazioni, costituiscono, come abbiamo letto nelle testimoniaru;e e nel frammento riportati, il criterio assiologico per discriminare il valore dal disvalore, il bene dal male, e, quindi, costituiscono il criterio della scelta o della non scelta, ossia la regola del nostro agire. Ma di questo dovremo parlare con ampiezza nell'esposizione dell'etica epicurea. 5.
L'opinione
Sensazioni, prolessi e sentimenti hanno una comune caratteristica che garantisce il loro valore di verità, e questa consiste nella evidenza immediata ( ~v&.pye:LOt ). Pertanto, finché noi ci fermiamo all'evidenza e accogliamo come vero ciò che è evidente, non possiamo errare, perché l'evidenza è data, in ultima analisi, dalla diretta azione che le cose esercitano sul nostro animo. Evidente in senso stretto è, allora, solo ciò che è immediato come le sensazioni, le anticipazioni e i sentimenti. Ma poiché nel ragionare non ci si può fermare all'immediato, essendo il ragionare fondamentalmente operazione di mediazione, cosi nasce l'opinione ( 36~oc, Ò7t6ÀYJ~Lt; ), e, con essa, nasce la possibilità dell'errore. Pertanto, mentre le sensazioni, le prolessi e i sentimenti sono sempre veri, le opinioni potranno essere a volte vere 20
21
Epistola a Meneceo, 128 sg. Cfr. sopra, pp. 181 sg.
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e a volte false. Perciò Epicuro ha cercato di determinare i criteri in base ai quali si distinguono le opinioni vere da quelle false. Sono vere quelle opinioni che a) ricevono attestazione probante, cioè conferma da parte dell'esperienza e dell'evidenza e b) non ricevono attestazione contraria, ossia smentita dall'esperienza e dall'evidenza; invece sono false quelle opinioni che a) ricevono attestazione contraria, ossia sono smentite dall'esperienza e dall'evidenza e b) non ricevono attestazione probante' ossia non ricevono conferma dalla esperienza e dall'evidenza. Sesto Empirico ci riferisce con molta chiarezza questo punto della dottrina epicurea, in un passo che mette conto leggere per intero: Poiché abbiamo la facoltà di poter giudicare le nostre rappresentazioni, ci accade di giudicarne alcune rettamente e altre no, sia perché aggiungiamo ad esse e attribuiamo loro qualcosa di non -pertinente, sia perché detraiamo ad esse qualcosa, e in generale perché interpretiamo erroneamente la sensazione, che di per sé è irrazionale. Dunque per Epicuro le opinioni sono alcune vere, altre false; vere quelle confermate o non smentite dall'evidenza, false quelle smentite o non confermate dall'evidenza. La conferma è l'atto di comprendere con evidenza che l'oggetto dell'opinione corrisponde all'opinione stessa; per esempio, mentre Platone viene di lontano, io mi raffiguro e rappresento nell'opinione, a distanza, che quello sia proprio Platone; nel tempo in cui si avvicina, si rafforza ,la mia opinione che quello sia effettivamente Platone; _quando poi ogni distanza è venuta meno, essa riceve piena conferma dall'evidenza. La non smentita consiste nella coerenza con i dati dell'esperienza quando l'oggetto dell'opinare non sia attingibile dai sensi; per esempio Epicuro, affermando che esiste il vuoto, ch'è di per sé inattingibile ai sensi, apporta come prova un fatto di natura evidente, il movimento: non essendovi il vuoto non potrebbe esserci neanche il movimento, non avendo il corpo in movimento un luogo in cui effettuare il suo spostamento dal momento che tutto lo spazio sarebbe pieno e compatto; cosicché il dato dell'esperienza che attesta esserci il movimento non contraddice all'opinione circa l'oggetto che sfugge alla sensazione.
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La smentita è l'opposto della non smentita; essa è la confutazione che l'esperienza sensibile dà all'opinione circa un oggetto che non cade sotto i sensi, cosl, per esempio, gli stoici affermano che il vuoto non esiste, perché lo ritengono cosa che non cade sotto i sensi: ora, una ipotesi del genere contrasta con l'esperienza sensibile, che è in questo caso il movimento: perché, come si è detto prima, non essendovi il vuoto, di necessità non potrebbe esistere neanche il movimento. Cosl anche la non conferma è l'opposto della conferma: essa consiste nel sottomettere alla prova dell'evidenza il fatto che l'opinato non sia quale era apparso in precedenza, come per esempio se, quando qualcuno viene di lontano, a distanza facciamo l'ipotesi che sia Platone ma poi, venuta meno ogni distanza, ci appare con evidenza che non si tratta di Platone. Un simile fatto si chiama, appunto, non conferma, perché l'opinato non è stato confermato dalla sensazione. In base a tutto questo si può dire che la conferma e la non smentita sono il criterio della verità, la non conferma e la smentita il critèrio della non verità; e l'evidenza è base e fondamento di tutto 22•
:g da notare che, come Sesto Empirico rileva assai bene nell'ultima frase, l'evidenza resta il parametro in base al quale si misura e si riconosce la verità: ma è, in ogni caso, una evidenza solamente empirica: è l'evidenza di fenomeni, cioè l'evidenza quale appare ai sensi e non già un'evidenza quale ·appare alla ragione. Più che mai sono qui rilevabili le pesanti ipoteche sensistiche della canonica epicurea, che, come subito vedremo, la rendono inadeguata e insufficiente alle esigenze della costruzione della stessa fisica epicurea. 6.
Ap o r ie
e li m i t i
d e Il a
c a n o n i c a e p i c u re a
Gli storici della filosofia da tempo hanno ben individuato le aporie di fondo della canonica epicurea, le quali si riducono sostanzialmente alle seguenti due. 22 Sesto Empirico, Contro i matem., vn, 211-216 ( = Usener, fr. 247, p. 181, 12 sgg).
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In primo luogo, proprio l'assoluta validità che Epicuro attribuisce alla sensazione, al limite, toglie qualsiasi possibilità di conoscenza oggettiva. Infatti, dalla pura affermazione che tutte le sensazioni sono vere, si possono dedurre il relativismo e il soggettivismo protagoreo non meno che l'oggettivismo epicureo 23 • Come in ·parte abbiamo già visto e meglio vedremo più avanti, Epicuro ha ingegnosamente cercato di spiegare qualsivoglia nostra percezione con l'azione che le cose esercitano su di noi: infatti, per il nostro filosofo, ogni rappresentazione è generata dai « simulacri », cioè dagli effluvi di atomi che emanano dalle cose; e, poiché di questi simulacri ve ne sono moltissimi provenienti dalla medesima cosa fra loro identici ma anche diversi (perché soggetti a modificazioni di vario genere e dovute a differenti cause), cosl, quando si dice che il medesimo oggetto appare in modo diverso a diverse persone, in realtà non è vero: le diverse persone che hanno avuto sensazioni diverse sono state affette non dal medesimo simulacro proveniente dal medesimo oggetto, bensl da differenti simulacri provenienti da quello stesso oggetto. Pertanto Epicuro crede di poter concludere che tutte le diverse sensazioni di queste diverse persone sono egualmente vere, nel senso che hanno tutte corrispettivi simulacri, e che l'inganno nasce solo col giudizio, che in modo indebito dalla sensazione inferisce ciò che non deve circa la cosa. Ma dice bene lo Zeller che, con questa spiegazione, Epicuro non risolve, ma solo sposta la difficoltà. Resta infatti l'aporia seguente: «La percezione deve sempre ridare fedelmente l'immagine o simulacro da cui gli organi sensoriali sono colpiti; però le immagini o simulacri ridanno l'oggetto in maniera non se~pre uniforme e fedele. Orbene, come è possibile distinguere le immagini o simulacri fedeli da quelli non fedeli, ossia quelli che risultano indicare un oggetto determinato e reale da quelli che non corrispondono ad alcun ogget20
Cfr. Zeller, Die Philosophie der Griechen, m, 1, p. 406.
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to o che corrispondono ad un oggetto diversamente determinato? A questo problema ii sistema epicureo non dà alcuna risposta. Infatti, se si dice che il saggio sa distinguere i simulacri gli uni dagli altri, con ciò si rinuncia ad un criterio oggettivo, e si trasferisce interamente nel soggetto la decisione sulla verità e sull'errore » 24 • Risulta evidente, dunque, che il sensismo non è in grado di uscire dal soggettivismo e dal relativismo. In secondo luogo, la logica di ;Epicuro è debolissima proprio nello spiegare, in generale e in particolare, quali siano i processi di inferenza che stanno alla base della possibilità stessa di costruire una fisica (e anche di fondare e giustificare un'etica). Tutte le proposizioni della fisica che ora ci accingiamo a spiegare (cosl come molte delle proposizioni etiche) vanno al di là dell'immediato controllo empirico, nel senso che non sono verità che cadono sotto i sensi e suppongono inferenze raziocinative, che, a garanzia di verità, non possono avere altro che quella mancanza di attestazione contraria, ossia di smentita da parte dell'esperienza, bene illustrata nel passo sopra letto di Sesto Empirico, vale a dire un fondamento molto fragile. Gli atomi, il vuoto, la declinazione degli atomi non sono cose per sé evidenti, per il motivo che non sono in alcun modo sensorialmente accertabili; però, dice Epicuro, sono cose non evidenti supposte ed opinate per dare ragione dei fenomeni e in accordo coi fenomeni. Ma che proprio gli atomi, il vuoto, la declinazione etc., siano le sole e uniche cose che si possano supporre per spiegare i fenomeni, evidentemente, Epicuro è ben lungi dal poterlo dimostrare, perché altri principi, del tutto diversi da questi, potrebbero .ugualmente vantare la «mancanza di attestazione contraria» da parte dell'esperienza 25 • "' Zeller, Die Pbilosophie der Griechen, m, l, p. 407. " Per la verità gli studiosi hanno da tempo riconosciuto la rilevanza
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E come mai, allora, Epicuro è giunto proprio all'atomismo? A nostro avviso Epicuro è partito da una nuova visione morale della vita emozionalmente e intuitivamente colta e ha poi scelto l'atomismo, perché giudicava questa dottrina come il miglior « fondamento» della sua etica. Il vero centro dell'epicureismo è l'etica, e l'ontologia è svolta solo perché, nella misura e nel modo in cui serve all'etica. Del resto è lo stesso Epicuro che ce lo dice quasi espressamente in una sua massima: Se non ci turbasse la paura dei fenomeni celesti e quella della morte, ch'essa possa essere qualcosa che ci tocchi da vicino, e il non conoscere il confine dei piaceri e dei dolori, non avremmo bisogno della scienza della natura 26•
dd processo di inferenza e soprattutto dell'inferenza per analogia nel pensiero di Epicuro (nella successiva polemica contro la Stoa la Scuola epicurea approfondirà in modo particolare questo punto). In modo particolare, è stata ben individuata in Epicuro la presenza e l'importanza del concetto di « apprensione intuitiva ,. o « apprensione intellettiva ,. ( im~oÀ'Ì) Tij~ 3Lotvo!ot~ ), ossia di un atto squisitamente razionale con cui cogliamo ciò che è al di là dd fenomeno, ossia i principi (si veda l'eccellente analisi e interpretazione dei testi epicurei che rigUardano questo argomento di C. Bailey, The Greek Atomists and Epicurus, New York 19642, Appendix m, pp. 559-576). Infine, si sono rilevati il significato e il valore dei termini irn>.oy!~O!J.OtL e derivati (si veda soprattutto: G. Arrighetti, Sul valore di irn>.oy!l:o(LotL, ixrJ.oyLa!J-6~, imMyLaL~ nel sistema epicureo, in «La parola del passato», 7 (1952), pp. 119-144), che indicano «l'attività della mente che riflette sui dati immediati dd senso per trasporti su altro piano, per trasformare la visione sensoriale in visione mentale,. (lsnardi Parente, Epicuro, Opere, p. 28). Orbene, se questo è vero, è altrettanto vero che Epicuro introduce queste figure gnoseologiche in modo surrettizio, senza giustificarle, e addirittura in contrasto con il suo sensismo. Per poter giustificare queste figure logiche, egli avrebbe dovuto riconoscere all'intelletto e alla ragione una statura ontologica che è invece lungi dal riconoscere. Non è certamente casuale il fatto che queste figure si inseriscano nel ditcorso epicureo senza essere messe espressamente a tema e senza essere dedotte e giustificate. Questo conferma ulteriormente la nostra tesi, di cui subito diremo, dell'intuizionismo di fondo che è proprio del pensiero di Epicuro. "' Massime capitali, 11.
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EPICURO E LA FONDAZIONE DEL GIARDINO
Cosi si spiega quanto già abbiamo accennato e via via dimostreremo: che, cioè, la fisica di Epicuro sporge nettamente sulla sua logica, e a sua volta l'etica di Epicuro sporge, e in misura ancora più accentuata, sulla sua fisica, appunto per il motivo che la funzione e il valore strumentale che il nostro filosofo attribuiva alla fisica e alla canonica e il loro asservimento ad un'etica che nasce lin realtà da altri cespiti, finivano per alterare il ruolo di fondamento e di criterio che esse avrebbero dovuto avere e per costringerne gli sviluppi e gli esiti a seconda delle necessità dell'etica, rovesciando cosi i loro ruoli naturali. Fenomeno, questo, che vedremo ripetersi, anche se in maniera diversa, nelle altre grandi Scuole dell'età ellenistica.
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III. LA FISICA EPICUREA
l. I fondamenti antologici: le caratteristiche della realtà in quanto tale, i corpi, il vuoto e l'infinito
Esaminiamo ora la fisica di Epicuro, in modo dettagliato. La grande Epistola ad Erodoto, per quanto sia un'epitome e una sintesi, permette di cogliere in modo preciso sia i fondamenti che i corollari essenziali di questa sezione della filosofia epicurea, mentre i frammenti del grande trattato Sulla natura finora scoperti offrono preziosi approfondimenti di alcuni importanti concetti 1• I fondamenti possono essere enucleati e formulati come segue. « Nulla nasce dal non essere » 2 , perché, altrimenti, ogni cosa potrebbe assurdamente generarsi da qualsiasi cosa senza bisogno di nessun seme generatore; e nessuna cosa « si dissolve nel nulla» 3 , perché, altrimenti, a questo momento, tutto sarebbe ormai perito e nulla più sarebbe. E poiché nulla nasce e nulla perisce, cosl il tutto, cioè la realtà nella sua totalità, fu sempre· quale è ora, e sarà tale sempre; infatti, oltre il tutto, non vi è nulla in cui esso possa mutarsi, né vi è nulla da cui possa essere mutato. Ecco le precise parole di Epicuro: Dobbiamo indagare su quello che sfugge all'esperienza sen' I frammenti del 7tcpl q~òacoo~ provengono soprattutto da scoperte papiracee: cfr. Arrighetti2, frr. 23-39 (pp. 189-418). 2 Epistola a Erodoto, 38: o68~ y!vtr<XL be TOU ILi! 6VTo~. 3 Epistola a Erodoto, 39; cfr. anche 41 e 55.
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EPICURO E LA FONDAZIONE DEL GIARDINO
sibile prendendo questo come punto fermo: in primo luogo, non v'è nulla che derivi dal non essere; altrimenti tutto nascerebbe da tutto, né ci sarebbe alcun bisogno di semi. E analogamente se ciò che viene meno si dissolvesse nel nulla, tutte le cose avrebbero già finito col dissolversi, non esistendo ciò in cui si sono risolte. Inoltre il tutto fu sempre quale ora è e quale sempre sarà; nulla esiste in cui esso possa mutarsi, né al di là del tutto vi è alcunché che, penetrando in esso, possa provocare in esso un mutamento 4 •
:g qui ribadito l'antico grande principio eleatico che era stato assunto come punto di partenza dai Pluralisti e in particolare dagli Atomisti. Epicuro lo formula secondo la versione propria di Melisso, che sappiamo essere stato maestro degli Atomisti 5 , sia pure diluendone la pregnanza antologica con un linguaggio più fisico e cosmologico. Questo « tutto» (7tiiv}, ossia la totalità della realtà, è determinato da due costitutivi essenziali: i corpi e il vuoto. L'esistenza dei corpi è provata dai sensi stessi, mentre l'esistenza dello spazio e del vuoto è inferita dal fatto che esiste il movimento; infatti, perché ci sia movimento, è necessario che ci sia uno spazio vuoto in cui i corpi possano spostarsi. Il vuoto non è assoluto non-essere, ma appunto «spazio», o, come dice anche Epicuro, «natura intangibile». Oltre i corpi e il vuoto tertium non datur, perché null'altro è pensabile che sia di per sé esistente e che non sia affezione dei corpi: Che i corpi esistano, lo attesta di per sé in ogni caso la sensazione, in base alla quale si deve poi arguire col ragionamento ciò che sfugge all'esperienza sensibile [ ... ] . Se poi non esistesse ciò che noi chiamiamo vuoto, o luogo, o natura intangibile, i corpi non avrebbero né dove stare né dove muoversi cosl come evidentemente fanno. Oltre a queste due realtà, niente è concepibile, sia direttamente, sia per analogia con le cose percepite Epistola • Erodoto, 38 sg. s Or. Melissa, fr. l; Reale, Melisso, pp. 34 sgg. e 368 sgg.
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LA FISICA EPICUREA
coi sensi: e tali realtà noi le intendiamo come nature (q~òacLç) integrali e non come quelli che diciamo essere i loro attributi, propri o accidentali che siano 6 • L'inferenza del vuoto con la relativa motivazione risale a LeticipP,O e risente ancora della problematica eleatica, e in particolare della polemica antimelissiana da cui scaturisce 7 • La recisa negazione, poi, che oltre i corpi e il vuoto esista alcunché suppone essa pure il dogma eleatico della assoluta omogeneità e uguaglianza dell'essere 8, ossia la categorica esclusione della possibilità di distinguere piani e significati diversi dell'essere, cioè il preciso ripudio delle riforme di Platone e di Aristotele 9 • La realtà quale è concepita da Epicuro è infinita. In primo luogo, è infinita come totalità. Scrive il nostro filosofo: Inoltre, il tutto è infinito, perché ciò ch'è finito ha un limite estremo, e tale limite estremo lo si determina in rapporto con qualcos'altro; (ma non è possibile conoscere il tutto in rapporto a qualcos'altro); si deve perciò ammettere che, in quanto non ha un limite estremo, esso non ha limite in assoluto, e non avendo limite è infinito e illimitato 10 • Cicerone, dal canto suo, ci riferisce: Non vedi Epicuro [ ... ] in che modo ha dedotto l'infinità di ciò che, riferendoci alla natura, noi diciamo semplicemente il • Epistola a Erodoto, 39 sg. 7 Cfr. Reale, Melisso, pp. 176 sgg. 1 Cfr. vol. 1, pp. 124 sg. • Già nell'antichità Plutarco notava, con evidente ironia: «certo più saggio di Platone fu Epicuro, il quale affermava che tutte le cose sono allo stesso modo, il vuoto intattile e il corpo resistente, i principi e i composti; ritenendo, per Zeus, che ciò ch'è eterno e ciò ch'è in divenire partecipino della stessa essenza, e cosl pure l'indistruttibile e il caduco, e quelle realtà che sono impassibili e autosufficienti e immutabili e mai periture allo stesso modo di quelle che hanno il loro essere nel subire affezioni e nel mutarsi e non sono mai in nessun tempo uguali a se stesse,. (Adv. Colot., 16, 1116 d [Usener, 76 add., p. 345]). •• Epistola a Erodoto, 41.
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EPICURO E U. FONDAZIONE DEL GIARDINO
tutto? Dice: «ciò ch'è finito ha un .limite [ ... ] , ciò che ha un limite è limitato da qualcos'altro esterno ad esso [ ... ] . Ma ciò che è tutto, non può essere limitato da niente di esterno [ ... ] . Non avendo quindi alcun limite, ne consegue di necessità ch'è infinito » 11 •
:g evidente, inoltre, che, perché il tutto possa essere infinito, infiniti debbono essere ciascuno dei suoi principi costitutivi: infinita dovrà essere la moltitudine dei corpi e infinita l'estensione del vuoto (se fosse finita la moltitudine dei corpi, questi si disperderebbero nell'infinito vuoto, e se ·fosse finito il vuoto, questo non potrebbe accogliere gli infiniti corpi). Il concetto di infinito torna cosl a reimporsi, contro le concezioni platoniche e aristoteliche che, sulla scia dei Pitagorici, lo avevano negato. Rispetto all'antico infinito presocratico, dal punto di vista speculativo, l'infinito di Epicuro non manifesta nulla di nuovo: esso è infatti non altro che l'infinito ammesso da Leucippo e da Democrito, i quali, a loro volta, riprendevano l'antica intuizione ionica, e 'soprattutto la puntuale dimostrazione melissiana dell'infinitudine dell'essere, della quale si sente ancora una precisa eco nelle parole stesse di Epicuro 12 • Tuttavia questa ripresa del concetto di infinito no~ è senza importanza, soprattutto per quanto concerne le sue ripercussioni sulla visione dell'uomo e della vita, come vedremo più avanti. 2.
Gli atomi
I « corpi » sono, alcuni, composti, altri, invece, semplici e assolutamente indivisibili. Questi ultimi soltanto sono origi" Cicerone, De divin., n, .50, 103 ( = Usener, fr. 297). Si confronti il paragNfo 41 ddla Epistola a Erodoto (nonché la testimonianza ciceroniana) con i frammenti 3 e 4 di Melisso. Sull'infinito epicureo dr. le stimolanti, anche se talora opinabili, nota2ioni di R. Mondolfo, L'infinito nel pensiero dell'antichità classica, Firenze 19.56, pp. 497 sgg. 12
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LA FISICA BPICUBEA
nari, e sono alcunché di compatto e di indivisibile (atomi). L'ammissione dell'esistenza di questi corpi indioisibili o atomi si rende necessaria perché, nel caso contrario, bisognerebbe ammettere una divisibilità all'infinito dei corpi, la quale porterebbe, al limite, a:lla dissoluzione delle cose nel non-essere, il che, come sappiamo, è assurdo 13 • Il fondamento per l'ammissione dell'esistenza dell'atomo è dunque il principio eleatico (e precisamente zenoniano) dell'impossibilità della divisione all'infinito, la quale risolverebbe l'essere nel nulla. Dei corpi alcuni sono composti, altri sono gli elementi che dànno origine ai composti. Questi sono corpi indivisibili e immutabili, dal momento che il tutto non può dissolversi nel nulla; essi possiedono la capacità di rimanere immutati nel corso delle dissoluzioni dei composti, avendo natura compatta né essendo in alcun modo suscettibili di dissoluzione. I princlpi costitutivi dei corpi sono dunque di necessità nature indivisibili 14 o
o
È evidente, da quanto s'è detto, che il principio secondo
cui nulla nasce e nulla perisce vale per i corpi semplici, cioè per gli atomi (così come per la totalità in quanto totalità) e non per i corpi composti, che si generano e si corrompono. Tuttavia la generazione e la corruzione dei corpi composti, ancora una .rolta, sono intese in spirito eleatico, ossia nella stessa maniera in cui le avevano intese gli Atomisti (e in genere tutti i Pluralisti), preoccupati di salvare i fenomeni senza contraddire al grande principio di Parmenide 15 , come unione di cose che sono e come disgregazione o separazione in cose che sono. Scrive Plutarco: [Gli Epicurei] ritengono che non vi sia genesi di ciò che non era in precedenza o distruzione di ciò che è, ma che la nascita avvenga per incontro reciproco di alcune entità e la morte per la loro disgregazione 16 o
" Cfr. sopra, pp. 195 sgo " Epistola a Erodoto, 40 sg. " Cfr. vol. I, pp. 148 sgg. •• Plutarco, Advo Colot., 10, 1112 a ( = Usener, fro 283)0
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3.
EPICURO E LA FONDAZIONE DEL GIARDINO
Le caratteristiche strutturali degli atomi
Fra le caratteristiche dei corpi occorre distinguere quelle che appartengorio ai corpi in quanto composti (che dipendono, quindi, dalla composizione), da quelle che appartengono ai corpi semplici, le quali sono originarie ed essenziali, ed hanno quindi la massima importanza, perché senza esse i corpi stessi non potrebbero sus-sistere, e anche perché da esse derivano le ulteriori caratteristiche dei corpi composti. Le caratteristiche strutturali dell'·atomo sono la forma o figura, il peso e la grandezza e quanto alla figura è naturalmente connesso 17 • Su questo punto Epicuro si differenzia dagli Atomisti antichi. Questi indicavano come caratteristiche strutturali degli atomi la figura, l'ordine (o disposizione spaziale che "l'atomo ha rispetto agli altri sia nell'aggregato sia fuori) e la posizione (che un atomo ha sia nell'aggregato sia nel complesso della realtà) 18 • Gli antichi Atomisti - si badi non mettevano la grandezza fra le qualità originarie. Essi però includevano la grandezza nella forma; infatti indicavano la forma col termine rhusm6s (pua!L6t;), il quale significava forma geometrica e quindi dimensione, massa, misura. E come i moderni studi hanno messo in rilievo, gli Atomisti probabilmente non facevano neppure del peso una qualità originaria: lo utilizzavano bensl nella spiegazione del movimento, ma in maniera diversissima rispetto ad Epicuro (come tosto vedremo), e con una sfumatura particolare che, in certa misura, ancora una volta, il termine rhusm6s poteva suggerire, dato scorrere) esprime che rhusm6s (il quale deriva da pe!v l'idea di forma dinamica (massa, grandezza, misura), «ossia la forma in quanto tende a congiungersi alle altre forme e perciò imprime una direzione all'atomo» 19 • Epicuro espri-
=
Cfr. il passo che riportiamo a p. 201. •• Cfr. vol. I, pp. 177 sgg. " Alfieri, Atomos Idea ... , p. 94. 17
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LA FISICA EPICUREA
me invece il concetto di forma col termine schema (ax1j!J4), che era il termine con cui Aristotele aveva tradotto l'arcaico rhusm6s degli antichi Atomisti. Ma « schema» indica la statica forma ontologica, senza più includere l'idea fisica di massa e la dinamica direzione dell'atomo; e cosl ben si spiega come Epicuro sentisse il bisogno di esplicitare ed affiancare ad essa i caratteri di grandezza e di peso, lasciando cadere l'ordine e la posizione, che sono caratteristiche riguardanti, più che gli atomi in sé considerati, i rapporti degli uni rispetto ag1i altri. Le forme diverse degli atomi (che non sono solamente forme regolari di carattere geometrico, ma sono forme di ogni foggia e tipo e sono, in ogni caso, sempre e solo forme quantitativamente differenti e non qualitativamente divel'Se come le forme platoniche o aristoteliche, dato che g1i atomi sono tutti di natura identica) risultano necessarie per spiegare l~ diverse qualità fenomeniche delle cose che ci appaiono, e cosl anche la grandezza degli atomi (il peso invece, come sotto meglio vedremo, risulta ne<)essario per spiegare il movimento degli atomi). Dice chiaramente Epicuro, riprendendo il tipico argomentare eleatico dei Pluralisti: Bisogna anche convincersi che gli atomi non presentano altre proprietà dei fenomeni se non la figura, il peso e la grandezza, e tutto ciò che è necessariamente connesso alla figura. Ogni proprietà infatti tende a mutarsi, mentre gli atomi non cambiano in assoluto, poiché deve necessariamente permanere qualcosa di solido e di indistruttibile nella dissoluzione degli esseri composti, qualcosa che fa ·sl che i mutamenti non si risolvano nel nulla o provengano dal nulla, ma avvengano per trasposhioni in molti corpi, o per aggiunta o detrazione di atomi. Dal che deriva la necessità che le realtà trasposte siano indistruttibili, e non abbiano la natura dell'essere soggetto a mutamento, ma possiedano una massa e una figura a loro propria, e, ttecessariamente, di natura permanente. Nelle cose soggette alla nostra esperienza che mutano di forma, vediamo che la figura si mantiene anche detraendo la materia; ma le proprietà non permangono nell'essere che cambia, cosl come permane la figura, e tendono a venir meno in tutto il corpo.
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EPICURO E LA FONDAZIONE DEL GIARDINO
Dobbiamo dunque pensare che siano le realtà che permangono quelle capaci di causare le differenziazioni dei corpi composti, dal momento che c'è di necessità qualcosa che permane e (non) si disperde nel nulla :lll. Gli atomi, per potere generare tutte le differenze che riscontriamo nella realtà, devono avere figure diversissime e numerosissime, ma non infinite (per essere infinite dovrebbero poter variare all'infinito la grandezza; ma, allora, diverrebbero visibili, il che non accade), mentre è infinito il numero degli atomi per ciascuna delle forme esistenti:
Le parti di cui sono formati e in cui si risolvono i corpi sono indivisibili e compatte, e hanno una varietà di figure tale da non potersi abbracciare con la mente. Non è infatti possibile che tutte le differenze del reale, tante quante sono, si producano per via di figure uguali in numero delimitato. Per ciascuna figura ve ne è un'infinità di simili; -tuttavia, quanto alle differenze di figura, gli atomi non sono infiniti, ma semplicemente tali da non potersi abbracciare col pensiero [ ... ] ; a meno che non d sia chi vuol portare all'infinito gli atomi sotto l'aspetto delle loro grandezze 21 • Non bisogna neanche credere ·che gli atomi possano avere ogni sorta di grandezza, il che andrebbe contro alla nostra esperienza: è solo da credersi che vi siano fra loro differenze di grandezza, e ammesso questo potremo anche più facilmente spiegare ciò che riguarda le affezioni e le sensazioni. Che sussista fra gli atomi ogni sorta di grandezza non serve a spiegare le differenze di qualità, perché in tal caso bisognerebbe che giungessero ai nostri sensi atomi visibili, cosa che evidentemente non si verifica, né si vede come potrebbe pensarsi un atomo visibile 22 • È questo .un altro punto in cui Epicuro si allontana dagli
antichi Atomisti, i quali, invece, ritenevano infinite le forme o figure degli atomi 23 • "' Epistola a Erodoto, 54 sg. 21 Epistola a Erodoto, 42 sg. 22 Epistola a Erodoto, 55 sg. 22 Cfr. Diels-Kranz, 68 A 38; dr. anche 67 A 9.
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LA FISICA EPICUREA
4.
La dottrina dei
«minimi»
Abbiamo visto che la grandezza degli atomi ha un limite: infatti, se essi potessero avere ogni sorta di grandezza, dovrebbero (una volta raggiunta una certa grandezza) diventare visibili; ma questo è smentito dall'esperienza. Inoltre, anche la piccolezza degli ·atomi ha un limite: infatti, se essi potessero diminuire in grandezza all'infinito, si vanificherebbero nel nulla, il che è assurdo ed è contrario a quella stessa logica (eleatica) che porta ad ammettere l'esistenza eli atomi (come sopra abbiamo veduto). Orbene, tutti quanti gli atomi, dai più piccoli ai più grandi, sono strutturalmente, ossia fisicamente e antologicamente, indivisibili. Tuttavia, lo stesso fatto di essere « corpi » dotati di figur·a e quindi di estensione e con grandezze diverse (pur nell'ambito dei due limiti sopra segnalati) implica che gli atomi abbiano delle parti. (Se così non fosse, non avrebbe neppur senso parlare eli atomi piccoli e di atomi grandi e, ,in generale, di atomi di differenti grandezze). Ovviamente si tratterà di « parti » antologicamente non separabili, ma solo logicamente e idealmente distinguibili, appunto perché l'atomo è strutturalmente indivisibile. E anche la grandezza di queste « parti » dell'atomo, per lo stesso motivo eleatico per cui è impossibile che gli atomi diminuiscano in grandezza all'infinito, dovrà arrestarsi ad un limite, che Epicuro chiama « minimo » ( -rò èÀtXJ:La-rov ), e che costituisce, come tale, l'unità di
misura. Epicuro - si noti - parla dei « minimi » non solo in riferimento agli ·atomi, ma altresì allo spazio (al vuoto), al tempo, al movimento e alla « decLinazione » degli atomi (di cui diremo più avanti), e, in tutti questi casi, i « minimi » costituiscono l'unità di misura analogica 24 • 24 La dottrina dei « minimi », trascurata dagli studiosi di Epicuro del secolo scorso, è, viceversa, al centro dell'interesse degli studiosi del nostro
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EPICURO E LA FONDAZIONE DEL GIARDINO
È, questa, una notevole novità apportata dal fondatore del Giardino alla fisica degli antichi Atomisti.
'·
Le caratteristiche strutturali del vuoto
Il vuoto ha caratteri antitetici a quelli dei corpi. Esso è lo spazio che accoglie i corpi e che permette ad essi di muoversi, di riunirsi e di disgregarsi. È detto vuoto appunto in contrapposizione ai cor.pi che sono il pieno (il pieno di essere). secolo. Ricordiamo i due studi più significativi e ampi sull'argomento: D. Furley, Two studies in the Greek Atomists, Princeton 1967 (Study 1: Indivisible Magnitudes, pp. 3-158) e H. J. Kriimer, Platonismus und hellenistische Philosophie, Berlin 1971, pp. 2}1-362. D testo essenziale è costituito dall'Epistola ad Erodoto, 55-59 (in particolare, dai paragrafi 58 sg.), dove Epicuro procede mediante un ragionalnento analogico, riassumibile come segue: poiché c'è corrispondenza (analogica) fra gli etomi e i corpi e poiché nei corpi percepibili c'è un minimo (una percezione minima), cosi si deve pensare, per analogia, anche per gli atomi. Ecco n testo: «Quanto al minimo concepito dai nostri sensi, si deve ritenere che esso non è uguale a ciò che ha una estensione percorribile [ = ciò che ammette passaggi da parte a parte], né del tutto e in assoluto dissimile da esso: ha una certa somiglianza con i corpi estesi, non è comunque divisibile in parti; quando perciò, per una certa analogia tratta da tale somiglianza, riteniamo di afferrare di que e di là parti di esso, vuoi dire che è caduto sotto i nostri sensi un altro minimo uguale al primo. Noi quindi prendiamo in considerazione i minimi in successione contigua, cominciando dal primo, e non sinteticamente in uno stesso corpo né ricollegandoli fra loro, come parti reciprocamente connesse, ma . come entità che danno -misura alle grandezze con la loro specifica proprietà, differentemente a seconda che si tratti di grandezze maggiori o minori. Secondo la stessa proporzione si deve ritenere che proceda anche quel minimo ch'è nell'atomo. ~chiaro ch'esso differisce da ciò ch'è avvertito dai sensi per la sua piccolezza, ma procede secondo lo stesso rapporto analogico, poiché per rapporto analogico con le cose sensibili abbiamo predicato dell'atomo una certa grandezza, semplicemente portando la sua piccolezza a valori minimi. Dobbiamo inoltre, in base al metodo teorico che si addice alle cose invisibili, ritenere che le parti minime indivisibili dell'atomo siano anche gli elementi limite delle lunghezze, che forniscono a queste, sia alle maggiori sia alle minori, la unità di misura. La somiglianza che sussiste fra tali minimi e i corpi estesi è sufficiente a garantire che avvenga tutto ciò che finora si è detto. Non è però possibile che si fortni un aggregato da tali minimi quasi essi siano dotati di movimento ».
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LA FISICA EPICUREA
Ben si spiega, inoltre, come esso sia detto anche natura intangibile, mquanto la caratteristica più tipica dei corpi per Epicuro è la loro tangibilità (il suo sensismo lo porta a privilegiare in larga misura il tatto sugli altri -sensi). E si spiega, anche, la negazione che il vuoto possegga capacità di agire o patire, in quanto queste sono prerogative della corporeità: il semplice permettere ai corpi di passare attraverso di sé non è un patire, perché non è un'affezione. Infine, ben si spiega anche il carattere di incorporeità attribuito al vuoto: se esso fosse corporeo, i corpi, come si è detto, non potrebbero penetrare e muoversi in esso: Bisogna anche considerare che noi parliamo di incorporeo, secondo l'accezione più generale del termine, quando vogliamo riferirei a ciò che può essere pensato come sussistente di per sé; ma iQ realtà niente di incorporeo può essere pensato come sussistente di per sé se non il vuoto; il vuoto infatti non può né agire né patire, la sua sola funzione è quella di permettere ai corpi il passaggio attraverso di sé 25 •
Per conseguenza, parlare dell'esistenza di esseri incorporei (quali sono ad esempio le Idee platoniche, l'Intelligenza divina o le anime), per Epicuro, è una pura e semplice assurdità. L'essere è tutto omogeneo, come abbiamo sopra visto, cioè corporeo; incorporeo non può essere alcun ente, ma solo il vuoto. Il consapevole ripudio della « seconda navigazione » è, ancora una volta, chiarissimo.
6.
I l mov i me n t o
Oltre alle qualità esaminate, che sono, per cosl dire, statiche, gli atomi hanno una ulteriore qualità essenziale di carattere dinamico. Infatti gli atomi sono sempre in continuo 25
Epistola a Erodoto, 67.
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EPICURO E LA FONDAZIONE DEL GIARDINO
moto. Epicuro intende questo moto originario degli atomi non come quel volteggiare in tutte le direzioni di cui parlavano gli antichi Atomisti, ma come un moto di caduta verso il basso nell'infinito spazio, dovuto appunto al peso degli atomi, come un moto velocissimo quanto il pensiero ed uguale per tutti gli atomi, pesanti o leggeri che siano 26 • Tale correzione della concezione dell'antico atomismo risulta un ibrido assai infelice, perché dimostra in maniera lampante come il pensiero dell'infinito sia irrimediabilmente compromesso dal sensismo, che non sa scrollarsi di dosso l'empirica rappresentazione dell'alto e del basso. Ma quali sono esattamente i cespiti di questa ibrida concezione? Ce lo dice molto bene V. E. Alfieri, in una pagina che merita di essere qui letta: « Anzitut· to, [un primo cespite è stata] la concezione geocentrica di Aristotele, nella quale soltanto si può parlare di un alto e di un basso assoluto; ed Epicuro si trova inconsapevolmente schiavo di quella visione del mondo, tanto più consentanea al modo di vedere comune che non le ardite concezioni dei filosofi presocratici e degli atomisti segnatamente, e non si libera da quella schiavitù pur affermando la molteplicità dei mondi e rifiutando la teoria dei corpi "lievi" tendenti verso l'alto. Inoltre, di fronte alla possibile abbiezione che nell'infinito è assurdo parlare di un alto e di un basso assoluto, Epicuro si appella a un argomento per lui validissimo, per lui che sempre invoca la sensazione come la testimonianza più sicura e cioè che la direzione verso l'alto è quella linea ideale che si estende sopra la nostra testa all'infinito e la direzione verso il basso quella che si estende al di sotto dei nostri piedi infinitamente: concezione che non si può neppure dire geocentrica, ma antropocentrica. Solo per la velocità degli atomi, come del resto per l'esistenza stessa degli atomi, Epicuro non poteva pronunciarsi in base alla sensazione: qui egli era costretto a rimettersene al pensiero ed appunto come ... .. Cfr. Epistola a Erodoto, 61.
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LA FISICA BPICUIIEA
movimento veloce quanto il pensiero definiva il movimento libero degli atomi nel vuoto infinito » 71 • Di recente è stato affermato che « quello di Epicuro è un universo perpendicolare» 28 ; ma, anche cosl ingegnosamente qualificata, la concezione epicurea non perde la sua aporeticità: appunto nella qualimcazione di « perpendicolare » data al cosmo s'·annidano tutte le contraddizioni di cui s'è detto. Resta ora da vedere come, cadendo in un« universo perpendicolare», gli atomi possano incontrarsi fra loro e congiungersi, sl da poter costituire i corpi composti. Come mai gli atomi non cadono secondo 1inee parallele, all'infinito, senza mai toccarsi?
7. Il « clinamen » atomi
o
«declinazione»
degli
Per risolvere la difficoltà Epicuro introdusse la teoria della «declinazione» (mlpÉyxÀLcnr,;, clinamen) degli atomi, secondo cui gli atomi possono deviare m qualsiasi momento del tempo e in qualsiasi punto dello spazio per un intervallo minimo dalla linea retta e cosl incontrare altri atomi. Riferisce Cicerone: [Epicuro], giacché capiva che se tutti i corpi si fossero mossi dalla regione superiore cosl come ho detto, a perpendicolo, non sarebbe stato possibile l'incontro di alcun atomo con un altro [ ... ] , escogitò un artificioso espediente: affermò che l'atomo può declinare un tantino, con uno spostamento minimo; e che cosl si rendono possibili l'intrecciarsi, l'unirsi, l'aderire l'uno all'altro degli atomi, da cui si originano l'universo e tutte le sue parti e ciò ch'esso contiene [ ... ] 29•
'D 21 29
Alfieri, Atomos Itlea..., p. 82. De Witt, Epicurus ... , p. 168. Cicerone, De fin., 1, 6, 18 ( Usener, fr. 281).
=
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EPICURO E LA FONDAZIONE DEL GIARDINO
In virtù del pr111C1plo della declinazione, gli atomi si urtano reciprocamente e rimbalzano, e conseguentemente si origina anche un moto verso l'alto, appunto per. l'urto e per il rimbalzo che consegue. alla declinazione. Questa del « clinamen »costituisce senza dubbio la più notevole delle innovazioni che Epicuro introdusse nella fisica atomistica; ma si tratta di una innovazione che egli poté introdurre solo a prezzo di gravissime aporie, le quali, peraltro, proprio in quanto tali, risultano estremamente eloquenti e rivelatrici circa la n1:1ova cifra del filosofare del Giardino. La prima ragione dell'introduzione del concetto di« declinazione» l'abbiamo già rilevata ed è di carattere puramente fisico (il solo moto di caduta non permetterebbe l'incontro degli atomi e la formazione delle cose), e, per quanto sia di grande importanza, non deve essere stata certamente quella decisiva, appunto in quanto è una ragione fisica. Decisiva dovette essere, invece, una ulteriore ragione di carattere morale. Nel sistema dell'antico atomismo tutto avviene per necessità: il fato e il destino sono sovrani assoluti; ma in un mondo in cui predomini il destino, non c'è posto per la libertà umana, e, quindi, non c'è posto per una vita morale quale Epicuro la concepisce, e, dunque, non c'è posto per una vita del saggio. Ecco quanto, opP<>nendosi alla necessità dominante nel sistema degli antichi Atomisti, Epicuro scrive: E in verità sarebbe stato meglio credere ai miti sugli Dei che non rendersi schiavi di quel fato che predicano i Fisici: quel mito, infatti, offre una speranza con la possibilità di placare gli Dei con onori, mentre nel fato vi è una necessità implacabile 30 •
Perciò non c'è dubbio che il clinamen sia stato introdotto per far spazio nell'universo atomisticamente concepito alla libertà, alla vita morale e alla possibilità di realizzazione dell'ideale del saggio; a tal punto a Epicuro interessava aprire "" Epistola a Meneceo, 133 sg.
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LA FISICA EPICUIIEA
uno spazio antologico a questi valori morali, che egli non si preoccupò delle gravissime conseguenze che l'introduzione di quel concetto produceva in sede fisica e forse nemmeno s'accorse che esso, come un massiccio cuneo violentemente infitto, provocava una tale spaccatura nel sistema atomistico, da mandarlo addirittura in frantumi. Di questa contraddizione già gli antichi si erano in gran parte avveduti. Scrive infatti Cicerone: Epicuro introdusse questa teoria perché temeva che, ammettendo che l'atomo si muova sempre per la causa naturale e necessaria del suo peso, a noi non resterebbe libertà alcuna, giacché la nostra anima si muoverebbe cosi come la costringerebbe a muoversi il moto degli atòmi. Democrito, il primo introduttore della nozione di atomo, preferl invece accettare questo, che tutto avvenga per necessità, piuttosto che togliere ai corpi indivisibili il loro moto naturale 31 •
E ancora: [Epicuro] afferma: «l'atomo subisce deviazione». In primo luogo, perché? Da Democrito gli atomi erano stati concepiti come dotati di un'altra forza motrice, quella ch'egli chiamava «forza d'urto»; per te, Epicuro, il moto dipende esclusivamente dalla gravità e dal peso. Qual è dunque la ragione straordinaria nella natura che provoca la deviazione dell'atomo? Forse essi stessi tirano a sorte fra di loro quali debbano deviare e quali no? E perché deviano di un solo intervallo minimo, e non di due o tre intervalli? Tutto questo è l'espressione di una velleità e non una posizione dottrinale. Non dici infatti che l'atomo si sposta dal suo luogo e devia perché spinto dall'esterno; né che in quello spazio vuoto in cui l'atomo si muove esistano cause tali da impedirgli il moto perpendicolare dall'alto verso il basso; né che nell'atomo stesso si sia verificato un mutamento tale da fargli abbandonare il movimento naturale conseguente al suo peso. Pertanto, pur non avendo addotto alcuna causa capace di dar luogo a questa deviazione, Epicuro ritiene di aver formulato una 31
Cicerone, De fato, 10, 22 sg. ( = Usener, fr. 281, p. 200, 14 sgg.).
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EPICURO E LA FONDAZIONE DEL GIAUINO
teoria importante, mentre in realtà fa un'affermazione che la ragione universalmente sdegna e respinge 32 •
Già gli Stoici, come riferisce Plutarco, obiettavano, e a buona ragione, che il clinamen supponeva, in ultima analisi, una geneNZione dal non-essere, essendo senza causa: Gli Stoici non concedono ad Epicuro che l'atomo declini neppure di un minimo, perché dicono che egli in tal modo introduce
un movimento senza causa generatosi dal non essere 33: Orbene, questo, noi possiamo aggiungere, è tanto più grave per il fatto che proprio Epicuro ripetutamente ed energicamente si appella al principio che « nulla può derivare dal nulla». Cosl Epicuro, per introdurre il clinamen, contraddice al principio eleatico, che, come abbiamo visto, sta alla base della sua fisica, e per trovare riparo dalla Necessità, dal Fato e dal Destino, getta il cosmo in balia del fortuito; infatti il clinamen, che non ·è vincolato da legge né da regola di sorta, non è certo libertà, pèr'ché gli sono estranee qualsiasi finalità e qualsiasi intelligenza, e dunque è solo mera casualità: la libertà non può essere cercata e trovata nella sfera del fisico e del materiale, ma solo nella superiore sfera dello spirituale. Peraltro, come dicevamo, proprio queste aporie sono fra le cose che meglio ci aiutano a comprendere la complessità del pensiero di Epicuro e la sua vera statura. 8.
L' un i v e r s o e i m o n d i i n fin i t i
Nell'infinito tutto (come già gli antichi Atomisti, e contro la concemone di Platone e di Aristotele) 34 EJ:licuro sostiene 32 Cicerone, De fato, 20, 46 ( = Usener, fr. 281, p. 200, 29 sgg.). "' Plutarco, De animae procr., 6, 101.5 c ( = Usener, fr. 281, p. 201,
21 sgg.) . .. Cfr. vol. n, pp. 320 sg., dove sono documentate le ragioni per cui Aristotde riteneva impossibile l'esistenza dell'infinito in atto.
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LA PISICA BPICUKBA
l'esistenza di infiniti mondi; alcuni uguali o analoghi al nostro, altri dissimili. Scrive espressamente il filosofo:. Ma anche i mondi sono infiniti, quali simili a questo nostro e quali dissimili. Gli atomi infatti, infiniti come prima si è dimostrato, percorrono anche le più grandi lontananze; e quegli atomi che sono capaci di formare un mondo non si esauriscono nella formazione di uno solo né di un numero di mondi limitato, si tratti di mondi simili o dissimili al nostro. Cosl niente si oppone a ·che 'li siano infiniti mondi 35 • È poi da rilevare che. tutti questi infiniti mondi nascono e si' di~solvono, alcuni più rapidamente e altri più lentamente, nella durata del tempo. Sicché non solo i mondi sono infiniti nell'infinitudine dello spazio, in un dato momento del tempo, ma son\l altresl infiniti nell'infinita successione temporale. E malgrado in ogni istante vi siano mondi che nascono e mondi che muoiono, Epicuro può ben affermare, come s'è prima detto, che il tutto non muta: infatti, non solo gli elementi costitutivi dell'universo rimangono perennemente quali sono, ma anche tutte le loro possibili combinazioni rimangono sempre attuate, appunto a causa dell'infinitudine dell'universo che dà luogo sempre all'attuazione di tutte le possibilità. Ed ecco eone Epicuro _concepisce ciascuno dei mondi:
Un mondo è una parte circoscritta del cielo, che comprende gli astri, la terra e tutti i fenomeni celesti separati dall'infinito e terminante con un confine che può essere di natura rada o fitta, dissolvendosi il quale si dissolve anche tutto ciò ch'è in esso contenuto; inoltre o in moto o in quiete, di forma rotonda o triangolare o di qualsiasi tipo; nessuno dei dati dell'esperienza si oppone a ciò in questo nostro mondo, giacché in esso non po5lsiamo percepire il confine 36 •
35 36
Epistola a Erodoto; 45. Epistola a Pitocle, 88.
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EPICURO E LA FONDAZIONE DEL GIARDINO
·La na!IC.ita dei nuovi mondi può aver luogo sia nello spazio che separa mondo da mondo e che Epicuro chiama intermondo sia, anche, all'interno di ciascun mondo, quando questo sia in via di dissoluzione. Essa è determinata dall'afflusso di atomi aventi forme opportune, provenienti da altri intermoudi o da altri mondi. Questi, dapprima, si combinano frs loro, in vhtù dei moti che conosciamo; successivamente, questo composto di atomi si accresce, a causa di gruppi d1 atomi di opportune forme che continuano ad affluire, fino a completarsi; infine, dopo aver raggiunto il punto culminante della crescita e l'equilibrio, incomincia a perdere atomi e, quindi, a decrescere, e, da ultimo, si dissolve e gli atomi di cui era composto passano a generare nuovi mondi :rt. Ed ecco come una testimonianza antica descrive come avrebbe avuto luogo, secondo Epicuro, la genesi del nostro mondo: Il mondo dunque si formò foggiato in figura curva tutt'intorno nel modo seguente: poiché i corpi indivisibili hanno movimento imprevedibile e casuale, e si muovono continuamente e con ]a più grande velocità, per · questo molti di essi, di figure grandezze (e pesi) i più •varii, si raccolsero nello stesso luogo. Raccoltisi, dunque, tutti insieme nello stesso luogo, alcuni, quelli più grandi e più pesanti, si deposero nel punto più basso; quelli, invece, che erano piccoli e rotondi e lisci e scorrevoli venivano espulsi per l'affluire di altri atomi ed erano proiettati in alto. Come poi cessò la forza repulsiva che li sollevava, e l'urto non più li spingeva in alto, ma anche trovavano impedimento a portarsi verso il basso, venivano compressi verso i luoghi idonei ad accoglierli, quelli periferici: e su questi si disponeva in giro la moltitudine di tali còrpi che, intrecciatisi gli uni con gli altri secondo una linea curva, dettero origine al cielo. Gli atomi poi che erano di varie specie, come s'è ora detto, pur avendo la stessa natura, spinti verso lo spazio in alto formarono la natura degli astri. Inoltre la moltitudine degli atomi che ascendevano come evaporando, colpiva e comprimeva l'aria; l'aria, a sua volta, convertitasi in vento per ., Cfr. Epistola a Pitode, 89.
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LA FISICA EPICUREA
il movimento impressole e avvolgendo gli astri tutti insieme, li trascinava in giro con sé e a sua volta imprimeva loro negli alti spazi quel movimento rotatorio, che anche ora perdura. In seguito, dagli atomi posatisi in basso ebbe origine la terra; da quelli sollevatisi nell'alto spazio ebbero origine il cielo, il fuoco e l'aria. Ma poicht! sulla terra si era ancora accumulata molta materia, la quale si condensava per gli urti dei venti e le esalazioni degli astri, tutto che in essa aveva configurazione di parti minute fu ulteriormente compresso e produsse la natura liquida. Questa, essendo fluida, si portò verso i luoghi cavi, idonei ad accoglierla ed a contenerla, oppure l'acqua, depositatasi da se stessa, scavò i luoghi sottostanti. Le parti più importanti del mondo, dunque, si sono farinate nel modo suddetto 311 •
:S un universo, questo di Epicuro, in cui la negazione non solo di ogni finalità, ma anche di ogni razionalità è spinta fino all'estremo, al di là del limite cui si erano spinti gli stessi Atomisti. Infatti le spiegazioni teleologiche del cosmo erano sor.te posteriormente alla Scuola di Abdera soprattutto ad opera di Platone e di Aristotele. Ed Epicuro vuole puntualmente smentire proprio queste spiegazioni e in special modo quella platonica del Demiurgo costruttore del mondo. :S chiaro, pertanto, come già da questa stessa contrapposizione polemica alle nuove posizioni fortemente teleologiche la ripresa del meccanicismo degli Abderiti dovesse assumere una nuova portata. Ma, come abbiamo già notato e meg1io risulta ora dopo quanto abbiamo detto in questo paragrafo, il meccanicismo epicureo, avendo spezzato con la teoria della « declinazione » la Necessità che dominava nel sistema degli Abderiti, resta privo-anche di quel tipo di razionalità che è legato alla Necessità. Infatti è innegabile che la Necessità abbia una sua regola, una sua logica, e, in questo senso, una sua ragione (la logica del non poter essere altrimenti). Ma, tolto il Demiurgo che è Ragione trascendente, e tolta la Ne38
Ps. Plutarco, Plac. philos., 1, 4 ( = Diels, Doxographi graeci, p. 289 308 [traduzione di L. Massa Positano]).
= Usener, fr.
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EPICURO E LA FONDAZIONE DEL GI.uDINO
cessità con la sua ragione immanente, non restano che il Casuale e il Fortuito, che sono l'irrazionale. E il cosmo epicureo resta interamente consegnato ad essi. Epicuro e non Democrito è il filosofo che veramente «il mondo a caso pose». Cosl il cosmo cessa di essere la realizzazione di un modello intelligibile nel sensibile, dovuto alla bontà di un Demiurgo, o quel mirabile ordine costituito dal movimento causato dalla perfezione di un Dio. L'antitesi fra la cosmologia epicurea e quella del Timeo platonico o quella del Trattato sul cosmo aristotelico (o comunque desunto dagli essoterici di Aristotele) non potrebbe essere più radicale 39 • 9. I fenomeni spiegazioni
celesti
e
le
loro
molteplici
Nella spiegazione della realtà e delle cause del cosmo e dei mondi in generale Epicuro è guidato costantemente dalla preoccupazione di dimostrare che· il tutto non dipende né da un Dio o da Dei né dalla Necessità, ma unicamente dai principi che sopra abbiamo esaminato, che sono i soli che liberano l'uomo da tutti i timori e aprono al suo agire uno spuio assoluto. La stessa preoccupazione guida Epicuro anche nella spiegazione dei fenomeni celesti particolari. Ma nei confronti di tali fenomeni il nostro filosofo muta improvvisamente metodologia, sostenendo il curioso principio delle molteplici spiegazioni possibili. Ora, questo principio afferma che i fenomeni fisici particolari possono avere, ciascuno, cause differenti e molteplici. Una volta escluso che quei fenomeni possano essere causati dagli Dei o dalla fatale Necessità, numerose spiegazioni possono essere sostenute e accettate come plausibili o soddisfacenti.
"' Cfr. il vol.
11,
prJSsim, e Reale, Aristotele, Trattato sul cosmo ... , passim.
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LA FISICA BPICUKEA
Scrive espressamente Epicuro nella Epistola a Pitocle, dedicata appunto a questo argomento: Per prima cosa occorre convincersi che nello studio dei fenomeni celesti, sia considerati nella loro relazione reciproca sia indipendentemente gli uni dagli altri, non vi è altro scopo da conseguire se non la imperturbabilità dell'anima e la sicura fiducia, cosl come nelle altre ricerche; e non si deve far forza alle cose per ottenere l'impossibile, né usare lo stesso metodo riguardo a tutti gli oggetti, sia che si tratti della ricerca sui generi di vita sia della ricerca volta alla soluzione dei problemi che pone la scienza della natura, come per esempio « il tutto consta di corpi e della natura intattile », o « gli elementi ultimi della realtà naturale sono indivisibili », o altre proposizioni che, come queste, comportano una sola soluzione in accordo con gli oggetti della esperienza. Per ciò che riguarda i fenomeni celesti, le cose vanno diversamente: essi ammettono più spiegazioni causali della loro origine e la possibilità di più determbzazioni della loro essenza, purché sempre in accordo con le sensazioni. Quando si studia la scienza
della natura, non bisogna procedere per enunciati vani e posizioni convenzionali, ma cosl come richiedono gli stessi oggetti dell'esperienza sensibile. La nostra vita, infatti, ha bisogno non già di irrazionalità o di vuoto opinare, ma di poter essere vissuta senza turbamento. E otteniamo una quiete senza scosse se spieghiamo i fenomeni col metodo delle spiegazioni molteplici e in accordo con gli oggetti dell'esperienza; lasciando sussistere a loro proposito, come si conviene, le opinioni probabili. Quando invece si ammette qualcosa e si rifiuti qualcos'altro di ciò ch'è ugualmente in accordo con i dati dell'esperienza, è chiaro che in tal caso dalla scienza della natura si trapassa nel mito.,_
Per conseguenza, Epicuro presenta tutta una rosa di possibili spiegazioni dei vari fenomeni relativi al sole e alla luna, alle comete, alle stelle cadenti, alle nuvole, ai venti, ai lampi, ai tuoni, ai terremoti e ad altri fenomeni di questo tipo; spiegazioni che, a suo dire, sono tutte egualmente possibili e conformi ai fenomeni, cioè metodologicamente plausibili . .., Epistola a Pitocle, 85-87.
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EPICURO E LA FONDAZIONE DEL GIARDINO
L'opposto atteggiamento che Epicuro assume, da un lato, nella spiegazione dei fenomeni principali della natura, e, dall'altro, nella spiegazione dei fenomeni particolari, è stato oggetto di molte critiche e di molte perplessità e non sempre ne sono state individuate le ragioni in maniera corretta. Intanto, è da rilevare che la spiegazione dei fenomeni fisici (e in par~icolare dei fenomeni sopra elencati) mediante una molteplicità di cause era già stata metodologicamente perseguita da Teofrasto, come sopra abbiamo detto 41 • Gli estratti arabo-siriaci della Meteorologia teofrastea lo confermano in maniera lampante 42 • ~ quindi indubbio che Epicuro, su questo punto, è debitore a Teofrasto. Tuttavia è da rilevare che nello scolarca del Peripato la spiegazione plura1istica dei fenomeni fisici si accorda, in gran parte, con la sua metafisica, perché, come abbiamo visto, egli procede con analogo metodo e non esita addirittura a ventilare (anche se poi non ha il coraggio di accoglierla) l'ipotesi di un'anima cosmica, come possibile alternativa alla tesi del Motore Immobile, la quale spiegherebbe ugualmente bene il movimento universale. In breve, Teofrasto, in sede di ontologia, ha problemi più che certezze, e, in generale, i suoi interessi sono fuori di questo ambito, e sono pressoché per intero proiettati sulle scienze (potremmo dire che egli è un metaf.isico o un ontologo solo per accidens) 43 • Ora, nel caso di Epicuro il discorso è decisamente diverso. La sua ontologia è di un dogmatismo adamantino. Le spiegazioni ultimative della realtà sono uniche e sono tali da non amm~ttere spiegazioni alternative; L'unicità delle cause supreme non sembra lasciare spazio alla molteplicità delle cause dei fenomeni fisici. In effetti, il nostro filosofo, per giustifi" Cfr. sopra, p. 138. .., Su questi estratti si vedano le indicazioni che diamo in Reale, Aristotele, Trattato sul cosmo ..., pp. 113 sg., nota 95. "' Cfr. Reale, Teofrasto ..., passim.
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LA FISICA EPICUREA
care il diverso comportamento dei fenomeni fisici, non può fare appello a ragioni plausibili: non alla declinazione che può sempre variare l~ causazione dei fenomeni, né all'infinitudine del cosmo che nelle sue innumerevoli combinazioni può produrre gli stessi fenomeni in differenti modi, perché non si vedrebbe come queste ragioni debbano valere solamente per alcuni fenomeni e non per tutti quanti. La verità è che a Epicuro la spiegazione dei fenomeni particolari, ossia la fisica propriamente detta, non interessava assolutamente nulla. Gli interessava solo guadagnare attraverso di essa la tesi negativa che i fenomeni non sono prodotti da nature intelligenti, cioè da esseri divini, cosl come non sono prodotti dalla necessità, mentre gli era del tutto indifferente la positiva, puntuale, oggettiva e disinteressata spiegazione scientifica di essi. L'interésse scientifico in senso moderno era totalmente estraneo ad -Epicuro. Ma questo, più che come un rilievo critico negativo, è da considerarsi come rilievo di struttura essenziale: Epicuro aveva perfettamente compreso che il problema della vita - che per lui era l'unico problema che contasse veramente - non può essere risolto dalla spiegazione scientifica dei fenomeni particolari, cioè da quella che oggi chiamiamo propriamente «scienza»; la felicità e la pace dello spirito possono discendere solo da una spiegazione ultimativa delle cose, cioè dalla scoperta della verità circa i principi primi e supremi della realtà nella sua totalità, vale a dire dalla sciena delle cause prime e supreme, dall'ontologia. Ma ascoltiamo le precise parqle del filosofo al riguardo, tratte dalla Epistola a Erodoto, assai significative: Per quanto riguarda i corpi celesti, non bisogna credere che i loro moti e le loro rivoluzioni, e il sorgere e il tramontare e altri fenomeni di questo tipo, avvengano per opera di qualche essere che cosl disponga o cosl abbia disposto, godendo poi, allo stesso tempo, della più piena felicità nell'immortalità: giacché le occupazioni, le preoccupazioni, le ire, le benevolenze non sono conciliabili con la beatitudine, ma si verificano tutte in condizione
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di debolezza, di timore, di bisogno di quelli che ci stanno intorno. E nemmeno bisogna credere che questi colpi siano nient'altro che un addensamento di fuoco capace di possedere beatitudine e compiere i suoi movimenti per spontaneo atto di volontà. Ma in tutte le espressioni che si riferiscono a tali nozioni bisogna conservare intatto il carattere venerando, e far si che in esse niente contraddica a tale carattere: questa contraddizione apporterebbe infatti alle nostre anime il massimo turbamento. Bisogna perciò pensare che il loro moto regolare è necessario si compia in dipendenza dal modo con· cui tali agglomerati furono compresi inizialmente nel tutto all'origine del mondo. Si deve ritenere, inoltre, che è compito della scienza della natura indagare le cause dei fetti fondamentali, e che in questo consiste la felicità [nella conoscenza dei fenomeni celesti], e nel sapere quali siano di loro natura le realtà che si contemplano nei ci.eli e nell'apprendere quanto è a ciò affine, in vista della conoscenZa rigorosa di tutto q~esto. In questo tipo di indagine non è possibile adottare il metodo delle diverse spiegazioni né ammettere che le cose possano essere anche altrimenti; bisogna piuttosto credere assolutamente che in una natura felice e immortale non vi è nulla che può provocare contrasto o turbamento; che sia cosl lo si può cogliere in assoluto con la ragione. Al contrario, ciò che concerne l'indagine circa il tramontare o il sorgere degli astri, le rivoluzioni, le eclissi e ogni altro fenomeno affine a questi non ha alcun rapporto con la felicità: coloro che conoscono queste cose, ma che ignorano in pari tempo la natura degli esseri e le cause fondamentali, sono soggetti ai timori esattamente come se non ne sapessero niente, e forse anche di più, perché lo stupore stesso che deriva loro dalla conoscenza di tali fenomeni è causa del loro non saper trovare la soluzione e il principio di ordinamento nelle questioni fondamentali. Per questa ragione, se giungessimo a fissare più cause delle rivoluzioni, del sorgere o tramontare, delle eclissi e di altre realtà inaloghe, non dovremmo credere che su questo punto le nostre esigenze non abbiano raggiunto quel tanto di esattezza ch'è necessario alla tranquillità e alla felicità. Esaminando bene, perciò, in quante maniere nell'ambito della nostra ~perienza può verificarsi un fenomeno simile, si deve cercare le causa dei fenomeni celesti e di tutto ciò che oltrepassa i nostri sensi: disprezzando quelli che non sanno, a proposito dei fenomeni che si verificano a distanza, quali si verificano sicuramente in un sol modo e quali possono anche verificarsi in più modi diversi, e per di più ignorano in quali èasi non è possibile conser-
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vare l'impassibilità, (in quali invece è possibile). Cosl, se riteniamo che un fenomeno possa verificarsi in una certa maniera [ ... ] , sapendo in pari tempo che può verificarsi in più modi, conserveremo la tranquillità dell'anima come se sapessimo con certezza ch'esso si verificherà in quella determinata maniera. Su questo bisogna riflettere soprattutto: il massimo turbamento si ingenera nell'animo degli uomini quando essi ritengono che certe realtà siano perfette e beate, e in pari tempo attribuiscono ad esse proprietà contrarie a questo, come volontà, azione, effettuazioni, e attendono o sospettano, seguendo il mito, qualche terribile pena per l'eternità, o temono quel venire meno della sensibilità che c'è nella morte, come se essa li riguardasse direttamente, e soffrono tutto ciò non per riflessione ma per disposizione irrazionale; per cui, non sapendo ben deterniinare quale sia il male che li attende, subiscono un perturbamento uguale o anche maggiore di quello che li coglierebbe se veramente avessero su tutto questo un'opinione sicura. La tranquillità di spirito consiste invece nel liberarsi da tutto questo, e nel tenere a mente i principi generali e fondamentali. Per cui bisogna attenersi alle sensazioni e alle affezioni che si verificano in noi, in generale a quelle generali, in particolare a quelle particolari, e attenersi all'evidenza in accordo con ciascuno dei nostri criteri di giudizio. Se ci atterremo a tutto questo, sapremo trovare la causa dell'origine del timore e del turbamento e ce ne libereremo, indagando le ragioni dei fenomeni celesti e di tutti gli altri che sempre si verificano, e che tanto timore recano al resto degli uomini 44 • A ben vedere, il senso di tali affermazioni è di portata assai più profonda di quanto comunemente non si riconosca. La distinzione fra una scienza che spiega la totalità del reale, ricercandone e additandone le supreme cause e che ammette solo spiegazioni univoche e incontrovertibili, e una scienza dei fenomeni particolari e delle loro cause particolari che ammette spiegazioni polivoche e perfino oppost~, a ben vedere, corrisponde, ci sembra, alla distinzione fra una scienza o filosofia prima e una scienza o filosofia seconda, ossia fra· W18 metafisica o meglio una ontologia e una fisica vera e propria; .. Epistola a Pitocle, 76-81.
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EPICURO E LA FONDAZIONE DEL GIAltDINO
distinzione che Epicuro, dopo l'esplicito ripudio delle acquisizioni della « seconda navigazione » platonica, non ha più modo di calibrare dal punto di vista teoretico, ma che, di fatto, la forza delle cose lo costringe a reintrodurre. Ed è una distinzione tanto più interessante, proprio per la svalutazione operata senza mezzi termini della conoscenza dei fenomeni particolari, cioè di quel tipo e di quell'oggetto di conoscenza che oggi perseguono le scienze. Epicuro ha capito molto bene che nelle decisioni riguardanti le scelte morali dell'uomo incide solo la conoscenza della totalità in cui l'uomo si colloca ontologicamente, e che determinante può essere pertanto solamente la conoscenza delle cause di questa totalità e niente altro. Un'intuizione, questa, che può essere assai indicativa per l'uomo d'oggi, il q9ale, dopo decenni di indiscriminata esaltazione dell'onnipotenza della scienza, ·incomincia ad accorgersi che essa non ha risolto i suoi problemi di fondo, e anzi, sotto molti aspetti, li ha aggravati. 10. L'anima, la sua materialità e mortalità
L'anima, come tutte le altre cose, è un aggregato di atomi. Aggregato fonnato in parte di atomi ignei, aeriformi e ventosi, i quali costituiscono la parte irrazionale e alogica dell'anima, e in .parte di atomi che sono « diversi » dagli altri e che non hanno un nome spècifico, i quali costituiscono la parte razionale .s. Pertanto l'anima, come tutti gli altri aggregati, non è eterna, ma è mortale. :S questa una conseguenza che scaturisce necessariamente dalle premesse materialistiche del sistema. Abbiamo infatti ampiamente veduto, nel precedente volume, come il concetto di immortalità si possa calibrare unicamente sulla ~ase del concetto del soprasensibile, dello .os Cfr.
Epistola
Il
Erodoto, 63.
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LA FISICA BPICUBEA
spirituale, dell'immateriale e dell'incorporeo. Ma dopo lo smarrimento dei guadagni della «seconda navigazione», Epicuro non può più neppure capire che cosa voglia dire incorporeo nel senso platonico e aristotelico. Ecco le sue parole: Vaneggiano perciò quelli che sostengono l'anima essere un incorporeo: se lo fosse non potrebbe né agire né patire, mentre noi possiamo cogliere chiaramente nell'anima questi due accidenti 46 •
Ma si badi come la verità, forzatamente repressa, si faccia decisamente rivalere. Epicuro, sulla scia di Platone e di Aristotele, corregge la psicologia degli antichi Atomisti, distinguendo una parte irrazionale dell'anima e una razionale. Ma è proprio tramite questa distinzione che la verità negata si riafferma. Epicuro, infatti, sa ben qualificare gli atomi che -costituiscono la parte irrazionale dell'anima, precisando che essi sono ventosi e ignei (ossia che sono gli atomi più sottili e mobili che esistano); ma non sa qualificare gli atomi che costituiscono la parte razionale dell'anima. Scrive infatti: Dopo di ciò, bisogna considerare, rifacendoci sempre alle sensazioni e alle affezioni, come l'anima sia un corpo sottile, sparso per tutto il composto, assai simile a un soffio e avente in sé una certa mistura di calore, per un v~rso quindi simile all'uno e per un verso all'altro; e c'è poi in essa una parte che per la. sua estrema sottigliezza si differenzia anche da questi elementi, e per questo si trova in una particolare connessione col resto dell'organismo. Provano ciò le capacità dell'anima e le sue affezioni, i moti e i pensieri, e tutte quelle facoltà per la cui privazione cessiamo di vivere 47 • ~ decisamente evidente, qui, la surrettizia introduzione, più o meno camuffata, di una differenza qualitativa, che i quadri dell'atomismo non giustificano. Già Plutarco notava:
La parte con cui l'anima giudica, ricorda, ama, odia, in genere • Epistola a Erodoto, 67. " Epistol11 a Erodoto, 63.
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la parte del pensiero e della ragione, dicono [gli Epicurei] infatti che è composta di una sostanza senza nome. E noi sappiamo che questa sostanza senza nome altro non è se non una confessione di vergognosa ignoranza, di chi non sa come chiamare ciò che non riesce a comprendere ...
Ma l'aporeticità della psicologia epicurea risulta ancor più stridente alla luce di queste ulteriori considerazioni. La ammissione dell'esistenza di atomi che molto differiscono in sottigliezza dagli atomi pur cosl sottili quali sono quelli aerei ·e ignei per spiegare la psichicità vera e propria, sembrerebbe implicare logicamente l'ammissione della originarietà della psichicità quale prerogativa di questi atomi speciali. Invece Epicuro insiste nel dire che l'anima è anima e ha le sue tipiche funzioni psichiche, e in particolare la sensibilità, solo se e quando è in un corpo. Morto il corpo, gli atomi che costituivano l'anima si disperdono e scompare ogni sensibilità, sentimento, pensiero e coscienza. Ma l'unità dell'alÌi.ma, che è l'unità della coscienza e quindi della persona, non è una unità che risulta dail'aggregazione e dalla somma di parti, giacché è originaria e incombinata: ma è proprio questo che Epicuro non sa spiegare. Per Epicuro vale puntualmente quanto V. E. Alfieri nota a proposito degli antichi Atomisti: « [ ... ] gli Atomisti non riescono a spiegare né quel che vi è di unitario e sintetico nel fatto di coscienza né l'unità dell'individuo come persona. Il loro pluralismo parte, sl, dall'uno e procede, come vedemmo, dalla logica moltiplicazione dell'uno; ma quell'uno, che è l'atomo, è il limite inferiore dell'essere, non già la concretezza e ricchezza ed individualità dell'essere. Con l'individualità astratta, quantitativa, di tipo matematico, per quanto la si proietti nel mondo fisico, non si arriva a spiegare l'individualità rea1e, comunque poi questa debba essere concepita; con la fisicità e il meccanicismo non si &piega la spiritualità, perché, comunque si voglia concepire quella che in " Plutarco, Adv. Colot., 20, 1118 d ( = Usener, fr. 314, p. 218, 13 sgg.).
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senso affatto generico designiamo come spiritualità, l'immaterialità del suo essere e del suo agire non si lascia ricondurre a semplice manifestazione meccanica della materia. È vero che gli Atomisti, con l'ammettere come originario (almeno nel cosmo già formato) il carattere igneo degli atomi dell'anima [e per Epicuro, ancor peggio, con l'ammettere anche atomi specialissimi che costituiscono la parte razionale dell'anima] ... , potevano credere di spiegare sufficientemente la specificità dell'anima in confronto agli altri corpi. Ma la loro sostanza anima restava pur sempre una molteplicità di atomi giustapposti e per giunta una molteplicità fluida: essa non costituiva una vera unità e pertanto restava inspiegabile che l'uomo, o l'essere animato in genere, possa essere un centro di coscienza. In tanta sovrabbondanza di individualità, che erano individualità elementari, rimaneva senza spiegazione l'individualità superiore; e soprattutto quel centro individuale che noi designiamo col termine Io» 49 • Ma dopo Socrate, Platone e Aristotele, la mancanza di spiega2'Jione, diversamente che negli Atomisti, in Epicuro significa lo smarrimento del senso di alcune conquiste di inestimabile valore.
I simulacri e la conoscenza
11.
La sensazione e, in generale, i processi conoscitivi sono spiegati da Epicuro secondo i moduli desunti sempre dall'atomismo {i quali, come abbiamo visto, erano in parte comuni anche ad Empedocle). Da tutte le cose emanano« immagini» o « simulacri » (e:t3CilÀor.) che ne riproducono le fattezze e, penetrando in noi, producono non solo le sensazioni ma anche il pensiero. Ecco come Epicuro caratter.izza questi eldola: Vi sono poi immagini che hanno la stessa configurazione dei corpi solidi, ma per la loro leggerezza sono assai diverse dalle cose 49
Alfieri, Atomos Idea ... , p. 150.
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che si manifestano ai sensi. Non è infatti impossibile che, nell'ambiente che ci circonda, si formino simili emanazioni, e condizioni adatte alla formazione di oggetti cavi o piani, o efflussi che conservino la stessa disposizione e la stessa struttura dei corpi solidi da cui provengono: e tali immagini son quelle che noi chiamiamo simulacri 50 •
Questi efflussi, a causa della loro sottigliezza si espandono in tutte le direzioni con un moto veloce quanto il pensiero 51 e, penetrando in noi, ci fanno sentire e anche pensare. Le percezioni sensibili, come già sappiamo, sono veritiere appunto nella misura in cui sono apprensione diretta dei simulacri che procedono dalle cose e ridanno la realtà di queste 52 • In modo analogo Epicuro spiega le rappresentazioni fantastiche, le rappresentazioni dei sogni e dei deliri. Infatti egli dice che i simulacri possono mantenersi a lungo, conservando la disposizione e l'ordine che gli atomi avevano nella cosa da cui provengono, ma possono anche scomporsi, deformarsi o ricomporsi, combinandosi anche con simulacri di altre cose. E sono appunto questi simulacri isolati, deformati, scomposti o scombinati, che provocano le rappresentazioni dei sogni, dei deliri, delle fantasie. In ogni caso, dunque, le nostre rappresentazioni sono generate dai simulacri; non sono, cioè, qualcosa che deriva dal nostro interno, ma qualcosa che ci proviene sempre obiettivamente dall'esterno. Anche il pensiero è spiegato in base all'azione dei simulacri, ma in modo assai meno chiaro. In particolare, Epicuro non sa dar ragione di quanto il pensiero ha di attivo in proprio e di quanto di autonomo esso ha rispetto alla sensazione. Epicuro ammette tuttavia che, insieme al moto psichico prodotto nell'anima dalle percezioni, si produca anche un altro speciale moto psichico, congiunto alla percezione, ma ., Epistola a Erodoto, 46. •• Cfr. Epistola a Erodoto, 48. 52 Cfr. Epistola a Erodoto, 49·50.
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che da essa si può in certo modo distinguere. ~ proprio da questo moto psichico, il quale si può distinguere dalla percezione, che nasce l'opinione, e, per conseguenza, come già sappiamo, anche la possibilità dell'errore 53 • Ma è una ammissione, questa, che non viene approfondita, cosi come non viene approfondito il problema della coscienza e dell'autocoscienza: in effetti a questi problemi, con la sua dottrina dei simulacri, Epicuro non ha risposte plausibili da dare. E cosi, per analoghe ragioni, Epicuro non è in grado, in sede teoretica, di spiegare che cosa siano la volontà e la libertà, che, peraltro, costituiscono il presupposto centrale della sua etica: come già abbiamo avuto modo di notare, senza il concetto dello spirituale non si possono calibrare i concetti di volontà e di libertà. Si può, al più, invocare il principio della «declinazione» degli atomi; ma questo, quando venga trasportato nell'anima, intesa nel modo sopra visto, non si capisce davvero che cosa positivamente possa significare. 12.
La concezione degli Dei e del divino
In questo universo costttulto esclusivamente da atomi, vuoto, movimento di caduta e« declinazione», in questa visione fisicistica, che risolve ogni cosa in elementari componenti materiali e che nega categoricamente lo spirituale, non parrebbe esserci spazio alcuno per la Divinità e per esseri divini. Inoltre, Epicuro si propone come uno degli scopi essenziali proprio quello di liberare gli uomini dal timore degli Dei. Pertanto noi ci aspetteremmo o di sentire Epicuro negare il Divino, oppure di sentir parlare del Divino al massimo come 53 Epicuro, Epistola a Erodoto, 51. Ecco il testo esatto: « N~ l'errore potrebbe verificarsi se noi non concepissimo un altro movimento in noi, congiunto (con la facoltà immaginativa) e tuttavia distinto in certo modo da questa».
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di un attributo degli atomi indistruttibili ed eterni; in altri termini, noi ci aspetteremmo, al più, affermazioni dello stesso tenore di quelle che trovammo negli antichi Fisici, che facevano coincidere il Divino appunto con il Principio o i Principi naturali di tutte le cose. Invece cosl non è, e la posizione che il nostro filosofo assume risulta del tutto sorprendente. Epicuro nega recisamente non già l'esistenza del Divino e degli Dei, bensll'esistenza del Divino e degli Dei quali erano comunemente intesi, e contro tali rappresentazioni egli si f.a paladino di una nuova e rivoluzionaria concezione, eversiva non solo rispetto al modo di immaginare del volgo e dei poeti, ma altresl rispetto al modo di pensare dei filosofi. In effetti, come subito vedremo, la teologia epicurea resta qualcosa di eccentrico rispetto a tutta la teologia greca, pur mantenendo alcuni tratti propri del pensiero ellenico. a) Incominciamo dalla polemica contro gli Dei della religione popolare. Ecco uno dei testi più espliciti di Epicuro: Per prima cosa devi ritenere che la divinità sia un essere vivente immortale e felice, cosl come è suggerito dalla comune nozione del divino, è non attribuirle niente che sia estraneo alla immortalità e discorde dalla beatitudine; pensa invece di essa tutto ciò che può essere atto a preservare la felicità insieme con l'immortalità. Gli dèi esistono: abbiamo di essi conoscenza evidente. Ma non esistono nella forma in cui li concepisce il volgo; e questo toglie loro ogni fondamento reale nella forma in cui è uso concepirli. Empio non è colui che rinnega gli dèi del volgo, ma colui che applica le opinioni del volgo agli dèi: infatti i giudizi di questo circa gli dèi non sono prenozioni, ma supposizioni false; e in base a tali supposizioni si usa ricondurre agli dèi i più grandi danni e i più grandi benefizi 54 •
Lasciando per ora la spiegazione delle affermazioni parti.. Epistola a Meneceo, 123 sg.
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colari, che daremo sotto, vogliamo, in primo luogo, esplicitare i presupposti che questa massiccia presa di posizione contro gli Dei della fede popolare implica. Fin dai tempi di Omero, e ancor prima, era stata ferma convinzione del Greco che la buona e la cattiva fortuna, il buon successo e il cattivo successo degli uomini dipendessero fondamentalmente dagli Dei, dal loro favore o dalla loro avversione. Per tutto il periodo in cui era stata in auge la polis, il Greco credette in Dei che proteggevano la polis e che fattivamente ne reggevano i destini: erano Dei da pregare, supplicare, placare, implorare, a· seconda delle circostanze, perché erano pensati perennemente in grado di giovare o di nuocere, e considerati come le cause prime e gli autori delle grandi sventure, cosl come delle grandi venture pubbliche. E dopo la crisi della polis e la conseguente crisi degli Dei della polis, se il Greco aveva cessato di credere ad un intervento degli Dei nelle sorti della Città, aveva tuttavia continuato a credere all'intervento degli Dei nella sorte del singolo. L'età ellenistica, infatti, se, da un lato, presenta manifestazioni di scetticismo e di miscredenza, dall'altro presenta « ritorni all'antico pietismo » 55 e accentua i caratteri superstiziosi di quelle credenze. Ora, è chiaro che colui che è convinto del capriccioso intervento degli Dei sarà portato ad interpretare tutte le sventure come punizioni divine delle proprie colpe e dei propri demeriti, si cruccerà e si amareggerà profondamente di questo, e, cosl, sarà infelice. Per di più, se crederà anche all'immortalità dell'anima, non cesserà di temere la punizione degli Dei anche dopo la morte. Orbene, secondo Epicuro, è esattamente questo l'errore in cui cade la rappresentazione volgare degli Dei: il credere che essi si occupino e si preoccupino degli uomini e delle loro vicende sia pubbliche sia private. Per Epicuro, è vero esattamente il contrario; egli afferma infatti 55
Cfr. Bignone, L'Aristotele perduto ... ,
1,
p. 284.
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[ ... ] che ogni essere che appartiene alla specie divina è tale da non provocare in noi alcun turbamento, e che è scevro da tutto ciò che incute timore [ ... ] 56 ; Riferisce anche Cicerone: La divinità infatti non agisce, non è implicata in occupazioni di sorta, non si prodiga in alcuna opera, gode della sua sapienza e della sua virtù, e sa con assoluta certezza che sarà sempre immersa nei piaceri insieme eccelsi ed eterni SI. h) E in che cosa sono errate le rappresentazioni filosofiche della Divinità? Intenderemo meglio il pensiero di Epicuro, se terremo ben presente che le rappresentazioni filosofiche che egli ha di mira sono quelle dell'ultimo Platone e quelle divulgate dalla produzione essoterica di Aristotele. Si tratta, quindi, della concezione del Dio demiurgo plasmatore del cosmo, della concezione che vedeva negli esseri celesti altrettanti esseri divini dotati di vita e di intelligenza, di quella concezione che aveva prodotto la nascita di una religione filosofica, in cui i dotti si rifugiavano: la cosiddetta religione del Dio cosmico. Ebbene, l'errore in cui cade questa rappresentazione del divino è quello stesso in cui cade la religione volgare, e per giunta è ,un errore che risulta, -per Epicuro, ulteriormente aggravato. Infatti, l'una e l'altra attribuiscono agli Dei le cure e le preoccupazioni derivanti dalla costruzione e dal governo del mondo, e, per di più, non essendo Dei capricciosi come quelli della fede popolare, ma Dei che reggono il mondo con regole e leggi costanti, risultano di conseguenza fautori della tanto aborrita Necessità. Dunque, né gli Dei sono causa del cosmo e dei corpi celesti, né sono identificabili con questi stessi corpi celesti, come abbiamo letto in un passo deJJ'Epistola a Erodoto, sopra riportato 58 •
=
=
56 Filodemo, De pietate, fr. 104, p. 122 Gomperz ( Usener, fr. 33 Arrighetti2 , fr. 17, 3). 51 Cicerone, De nat. deor., I, 19, 51 ( = Usener, fr. 352, p. 235, 17 sg.). 51 Epistola a Erodoto, 76 sg. (vedi sopra, pp. 217 sgg.).
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Ma per quale motivo, allora, Epicuro ammette gli Dei, e su quali basi, se non si appoggia né alla fede popolare, né agli argomenti dei Fisici, né a quelli legati alla « seconda navigazione» platonica? Ecco le sue argomentazioni: [l] Degli Dei abbiamo una conoscenza evidente (Èvotpy~c; yv(;)cuc;), e l'evidenza, come sappiamo dalla logica, è sempre inoppugnabile 59 • [ 2] Questa conoscenza evidente è posseduta non solo da alcuni, ma da tutti gli uomini di tutti i tempi e di tutti i popoli, anche di quelli più incolti 60 • . [ 3] Questa conoscenza è esattamente una « prolessi » o « prenozione », e, come tale, è prodotta da precisi eidola o simulacri, che, a loro volta, non possono che provenire da corrispettivi oggetti, anche se questi sono fuori dalla portata dei nostri sensi. Riferisce Cicerone: Solo Epicuro capl che anzitutto gli Dei devono esserci proprio perché la natura stessa ne ha impresso la nozione nell'anima degli uomini tutti. E quale stirpe o quale gente umana 'vi è mai infatti che non abbia, anche senza la conoscenza vera e propria, almeno la prenozione del divino? quella prenozione che Epicuro chiama ~p6>
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I,
16,
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minore, quella degli Dei immortali; e se le sue forze dissolventi sono innumerevoli, infinite devono essere ugualmente quelle preservanti 62 • [ 5] Infine, Epicuro doveva far appello ad una specie di
argomento ex gradibus. Ci riferisce infatti Cicerone che Epicuro affermava l'esistenza degli Dei, perché riteneva necessaria l'esistenza di una natura eccelsa, alla quale nulla sia superiore: Placet enim illi [scii.: Epicuro] esse deos, quia necesse sit praestantem esse aliquam naturam, qua ttihil sit melius 63 •
Ma se queste ragioni di primo acchito risultano chiare, tosto si offuscano non appena ci si domandi quale natura mai possano avere questi Dei di Epicuro. E, su questo punto, il nostro filosofo non cessa di sorprenderei. Gli Dei hanno figure analoghe a quelle degli uomini, perché la figura umana è la più bella che Ja natura presenti. Ma ecco quanto, a dire di Cicerone, egli soggiungeva: E tuttavia questa loro [scii.: degli Dei] conforma;!:ione non è corpo ma quasi corpo, non è sangue ma quasi sangue [ ... ] 64 • È appena il caso di rilevare che, qui,
il « quasi » rovina
tutto il ragionamento filosofico e mette irreparabilmente a nudo l'insufficienza del materialismo atomistico. Come ogni altra cosa, gli Dei devono essere costituiti da atomi; ma ogni composto atomico è suscettibile di dissolu1Jione, mentre gli Dei sono immortali. Orbene, l'affermare che il composto atomico che costituisce gli Dei, diversamente da quello che costituisce tutte le altre cose, non si dissolve perché le sue perdite (che subisce con il continuo flusso degli atomi che formano i simulacri) vengono continuamente colmate, non fa altro che
= Usener, fr. 3.52, p. 23.5, lO sgg.). = Usener, fr. 3.58, p. 240, 21 sgg.) . = Usener, fr. 3.52, p. 234, l sg.);
Cicerone, De nat. àeor., 1, 19, .50 ( Cicerone, De nat. àeor., n, 17, 46 ( .. Cicerone, De nat. àeor., 1, 18, 49 ( dr. anche De nat. àeor., 1, 2.5, 71 (Usener, 62
62
p. 234, 6 sgg.).
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spostare il problema. Infatti non c'è modo di spiegare la ragione dello statuto privilegiato di questi composti. E, allora, ad Epicuro non resta se non quell'aporetico «quasi corpo», che, in realtà, rivela inesorabilmente la strutturale incapacità dell'atomismo a spiegare gli Dei. Ma c'è di più. In un frammento leggiamo: Nell'opera Sugli Dèi [Epicuro] dice che non lascia adito a dubbi che l'essere che possiede una natura perfetta deve essere percettibile con l'intelletto e non essere concepito affatto come sensibile 65 • Di qui si ricava pertanto chiaramente che, come a proposito degli atomi che abbiamo visto costituire l'anima razionale, anche in questo caso surrettiziamente Epicuro introduce l'intelligibile: in effetti, l'asserzione letta ha significato solamente se si concepiscono intelletto e senso come aventi natura diversa, cioè in maniera non materialistica e non sensistica, giacché, per il sensismo, l'intelletto non può essere qualcosa di superiore, ma solamente un senso illanguidito ed estenuato, e ciò che esso coglie non può mai essere qualcosa di metasensoriale e metempirico. Più che mai evidente risulta quanto abbiamo cercato di dimostrare nel corso di quest'opera: dal punto cui è approdata la« seconda navigazione» platonica non si può retrocedere, se si vuoi fare un discorso razionale su Dio; il che significa che, senza la categoria dello spirituale, Dio non si può rappresentare, se non cadendo nelle più grossolane contraddizioni. E tutto il resto che Epicuro dice degli Dei riconferma clamorosamente quanto asseriamo. Gli Dei sono numerosissimi: sono almeno tanti quanti sono gli uomini, sono divisi essi pure in esseri maschili e femminili, abitano negH intermondi, 65 Filodemo, De pietate, fr. 117, p. 133 Gomperz ( = Usener, fr. 34 = Arrighetti2, fr. 17, 4). Cfr. anche Cicerone, De nat. deor., I, 19,49 (= Usener, fr. 352, p. 234, 3 sgg.); dr. anche De nat. deor., II, 37, 105 (Usener, p. 234, 26 sgg.).
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conversano e parlano una lingua simile a quella greca (che è la lingua dei saggi), e trascorrono l'eternità nella gioia della loro sapienza e della loro compagnia, senza turbamenti e preoccupazioni di alcun genere, in una sfera in sé totalmente chiusa alle vicende dei mondi e degli uomini e, in genere, di tutte le cose che nascono e muoiono 66 • Come dicevamo, la concezione degli Dei di Epicuro è eccentrica rispetto a tutto il pensiero della grecità. La fede popolare aveva ammesso gli Dei per spiegare la vita e le vicende umane, mentre i filosofi ammisero la Divinità per spiegare il cosmo e la realtà; ed Epicuro respinge proprio quelle due motivazioni che costituivano gli assi portanti della credenza negli Dei e nel Divino. Ma, ad un tempo, mantiene alcuni tratti squisitamente ellenici del pensiero teologico antico: proprio quei caratteri che sono più aporetici. Dalla fede popolare egli trae l'antropomorfismo, riportandosi al di là di Senofane; dalla concezione filosofica di Aristotele trae la cQnvinzione dell'impassibilità di Dio, che a suo luogo abbiamo ampiamente discusso 67 , la quale è fonte di insuperabili difficoltà. Dimmi che Dio hai e ti dirò chi sei, diceva Goethe. Ma il principio è anche rovesciabile: dimmi chi sei e ti dirò che Dio hai. Epicuro non è un metafisico, né un fisico nel senso antico; e proprio per questo egli non ricollega il suo Dio alla sua ontologia e alla sua fisica, che nel suo sistema giocano il ruolò funzionale di supporto all'etica. E come il suo interesse di fondo è di carattere etico, cosl anche la concezione del suo Dio è di carattere etico: il suo Dio, in ultima analisi, è l'ideale della sua etica oggettivato e ipostatizzato. Quei suoi Dei che vivono una vita eterna senza preoccupazioni e turbamenti e godono di sagge conversazioni in piena amicizia, sono infatti la proiezione dell'ideale del Giardino, so66 67
Cfr. Usener, frr. 352-366. Cfr. vol. 11, pp. 306 sgg.
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no il disegno ingrandito che riproduce perfettamente i modi e i tratti secondo cui la Scuola epicurea insegnava agli uomini la vita felice, che esamineremo nel prossimo capitolo. E quando Epicuro proclamava che gli Dei vanno onorati, anche se non ci hanno generati né di noi in alcun modo si curano, semplicemente per la loro maestà, superiorità ed eccellenza 68 , ben lungi dal peccare di conformismo o di ipocrisia, come qualche antico ha creduto, diceva cosa di cui era profondissimamente convinto. L'onore agli Dei significava in ultima analisi l'onore a quell'ideale di vita che dal Giardino egli andava predicando agli uomini e che costituiva la cifra della sua stessa esistenza 69 •
Cfr. Seneca, De benef., IV, 19 ( = Usener, fr. 364, p. 243, 4 sgg.). "' Per un approfondimento della teologia epicurea si vedrà: A.J. Festugière, '2picure et ses Dieux, Paris 1946 (1961f; traduzione italiana, Brescia 1952). 68
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IV. L'ETICA EPICUREA
l.
Il piacere co.me fondamento dell'etica
Abbiamo veduto come la fisica di Epicuro sporga decisamente dai limiti stabiliti dalla sua logica. In modo analogo, e forse ancora di più - e anche questo lo abbiamo già notato -, la sua etica sporge dai quadri fissati dalla sua fisica. Naturalmente, non vogliamo negare che vi siano larghi tratti in cui l'etica del nostro filosofo s'accorda con la sua logica e la sua fisica; tuttavia, ciò non toglie che proprio alcune delle note più caratteristiche di questa etica e soprattutto la temperie spiritualè che per intero la caratterizza, vadano assai oltre gli ambiti del sensismo e dell'atomismo. Ciò spiega assai bene il motivo per cui questa etica fu oggetto di opposte interpretazioni, al punto che, mentre, soprattutto nell'antichità, si volle vedere in essa non altro che un volgare e perfino ripugnante edonismo, in tempi recenti, per contro, si è creduto di poter addirittura negare che sia lecito parlare di edonismo epicureo. Vediamo quindi di ricostruire ordinatamente il pensiero del filosofo. La filosofia morale, a partire da Socrate, come abbiamo visto, aveva perfettamente fissato lo statuto dell'etica. Essa deve stabilire quale sia l'essenza dell'uomo, quale sia la sua peculiare areté, il suo specifico bene e quindi il suo modo di vivere per raggiungere questo bene che lo rende felice. E, da Socrate ad Aristotele, concordemente, la speculazione morale aveva stabilito che il bene morale dell'uomo altro non è
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L'ETICA EPICUREA
che l'attuazione della sua essenza, il realizzarsi e il farsi pienamente ciò che egli è, e che la felicità si raggiunge sempre e solo per questa via della compiuta realizzazione della propria essenza. Anche Epicuro condivide questa formale impostazione dell'etica, ormai irreversibilmente acquisita, ma dalla linea socratico~platonico-aristotelica egli si stacca nettamente nella determinazione dell'essenza dell'uomo, cioè nella determinazione del fondamento stesso dell'etica. E su questo punto egli è del tutto coerente con i principi della sua logica e della sua fisica. Come la natura in generale è costituita da atomi materiali e da aggregati atomici, cosl anche la specifica natura dell'uomo è costituita non da altro che da aggregati di atomi: dall'aggregato degli atomi dell'anima e dall'aggregato degli atomi del corpo; l'uno e l'altro materiali. Se materiale è l'essenza dell'uomo, materiale sarà necessariamente anche il suo specifico bene, quel bene che, attuato e realizzato, rende felici. E quale sia qu"esto bene, la natura, considerata nella sua immediatezza, ce lo dice senza mezzi termini, mediante i sentimenti fondamentali del piacere e del dolore (cosl come senza mezzi termini ci dice ciò che è vero mediante la sensazione). Gli esseri viventi, già fin dalla nascita, istintivamente ricercano i piaceri e istintivamente rifuggono dai dolori. Riferisce Cicerone: Appena nato, ogni essere vivente tende al piacere, gode di esso come del sommo bene, rifugge dal dolore come dal sommo male e lo respinge da sé il più possibile; e compie tutto questo senza ancora aver subito alcuna corruzione, seguendo il criterio della natura ancora innocente e integra. Epicuro perciò nega che vi sia bisogno di ragionamento e di argomentazione per provare perché il piacere sia da scegliersi e il dolore da respingersi: ritiene infatti che ciò sia oggetto di sensazione immediata, come il fatto che il fuoco è caldo, la neve è bianca, il miele è dolce, cose di cui nessuna deve essere provata con ragionamenti appositi, ma che basta semplicemente enunciare [ ... ] . Dal momento che, se viene meno la facoltà di sentire, non rimane all'uomo niente, bisogna
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EPICURO E LA FONDAZIONE DEL GIAllDINO
giudicare in base alla stessa natura che cosa sia contro o secondo natura: e questa che cosa può percepire o giudicare che sia da scegliersi o da fuggirsi se non il piacere o il dolore? [ ... ] 1•
Dunque, principio e fi.ne dell'agire umano deve essere
il piacere, perché esso è il vero bene naturale: è ciò che, posseduto, fa felici. Ecco alcune esplicite affermazioni del nostro filosofo. Nella Epistola a Meneceo leggiamo: Per questo diciamo che il piacere è principio e fine del vivere felicemente. Lo consideriamo infatti come un bene primo e connaturato a noi, e da esso muoviamo nell'assumere qualsiasi posizione di scelta o di rifiuto, cosl come ad esso ci rifacciamo nel giudicare ogni bene in base al criterio delle affezioni 2 •
E dall'opera intitolata Del fine ci sono stati riportati i seguenti frammenti in ~ommo grado eloquenti: Quanto a me non so immaginarmi il bene se si sopprimano le delizie del gusto, quelle dell'amore, quelle dell'udito, e i moti di piacevolezza che derivano dalla visione delle belle forme 3 • Non saprei cosa intendere per bene se si prescinda eia quei piaceri che si avvertono con il gusto, da quelli (che si hanno dai piaceri erotici), da quelli che provengono all'udito dai canti, da quei moti gradevoli che si hanno alla vista delle belle forme, e da tutti quegli altri che possono verificarsi in un essere umano per mezzo di qualunque dei sensi. Né in realtà si può dire che la gioia del pensiero sia da considerarsi il solo bene. Anche se il pensiero gode proprio per la speranza di possedere tutti quei piaceri che sopra ho enumerato, e di allontanare, con tale possesso, il dolore 4 •
E ancora: Ho spesso chiesto a quelli che avevano fama di sapienti che cosa potessero continuare ad annoverare fra i beni una volta eli' Cicerone, De fin., I, 9, 30 (= Usener, fr. 397, p. 264, 9 sgg.). Epicuro, Lettera a Meneceo, 128 sg. 3 Ateneo, Deipnosoph., xn, p. 546 e ( = Usener, fr. 67). • Cicerone, Tusc. disput., m, 18, 41 ( = Usener, fr. 67, p. 120, 18 sgg.). 2
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L'ETICA EPICUREA
minati quei piaceri, a meno di non voler dire delle vacuità; e non mi è stato dato di saperlo. Se vorranno riempirsi la bocca di virtù e sapienza, nient'altro dovranno fare se non indicare la via per cui si conseguono i piaceri che ho detto 5 •
E i dossografi largamente fanno eco a queste parole 6 • Si badi come la prospettiva epicurea si chiarisca perfettamente tramite il rapporto con Socrate, Platone e Aristotele. Questi avevano posto l'essenza dell'uomo nell'anima, perciò avevano identificato il bene umano coi beni dell'anima e dello spirito, e per conseguenza avevano con tutta chiarezza negato che il piacere del corpo potesse essere un bene 7 • Lo stesso Aristotele, che aveva rivalutato i piaceri in modo considerevole, non ne aveva fatto dei valori, ma li aveva considerati come qualcosa che si accompagna all'attuazione dei valori, come un coronamento e un perfezionamento dell'attività dell'uomo, dunque non li aveva considerati come beni, ma piuttosto come epifenomeno dei beni 8 • Invece per Epicuro il pia.cere in quanto piacere è il valore, il bene, il fine e pertanto la sua posizione è inequivocabilmente edonistica. In tal modo, la posizione di fondo dei Cirenaici è fatta energicamente rivalere, anche se con riforme essenziali.
2.
Riforma dell'edonismo cirenaico
Abbiamo richiamato i Cirenaici e ad essi converrà fare un più puntuale riferimento, perché costituiscono un preciso termine di pa11agone per intendere Epicuro e gli Epicurei, i quali sentirono il bisogno di differenziare il loro edonismo da quello oirenaico in due punti di notevole importanza. 5 Cicerone, Tusc. disput., m, 18, 42 ( = Usener, fr. 69). • Cfr. Usener, frr. 396 sgg. 7 Cfr. vol. I, pp. 311 sgg.; vol. II, pp. 141 sgg. 1 Cfr. vol. II, pp. 372 sgg.
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EPICURO E LA FONDAZIONE DEL GIARDINO
In primo luogo, i Cirenaici identificavano il piacere con un movimento, con un dolce movimento, e identificavano il dolore con un movimento violento, mentre negavano recisamente che l'intermedio· stato di quiete, cioè l'assenza di dolore, potesse essere un piacere, assomigliando piuttosto, a loro avviso, allo stato del dormiente, cioè ad uno stato di insensibilità. Epicuro, per contro, non solo ammette anche questo tipo di piacere, ma, come vedremo, dà ad esso grandissima importanza. Ecco come, con grande chiarezza, Diogene Laerzio spiega questa differenza: Si differenzia dai Cirenaici per quanto riguarda il piacere; quelli infatti non riconoscono il piacere immobile, ma solo il piacere in movimento; egli invece li ammette entrambi sia nell'anima che nel corpo 9• Anzi, non solo li ammette entrambi, ma ritiene il piacere catastematico come il supremo e più genuino piacere, perché esso corrisponde allo stato di assenza di dolore e di perturbazione, laddove l'altro reca sempre, insieme al movimento, anche turbamento. La distinzione è dunque fondamentale, perché implica, come vedremo, una netta subordinazione del secondo tipo di piaceri al primo, nella ricerca della felicità. Cicerone spiega con molta chiarezza questo concetto: Spiegherò ora che cosa sia il piacere di per sé [ ... ] . Noi non ricerchiamo solo quel piacere che muove il nostro istinto naturale con un senso di delizia e che è percepito dai nostri sensi con piacevolezza, ma consideriamo massimo piacere quello la cui percezione consiste nella soppressione del dolore. Infatti, poiché nel Hberarci dal dolore godiamo della stessa liberazione e del sentirei esenti da ogni fastidio, e poiché ogni godimento non è altro che piacere, cosl come tutto ciò che ci offende in qualche modo è dolore, a ragione ogni soppressione del dolore si può chiamare piacere. Cosl come, quando la fame e la sete vengono rimosse • Diogene Laerzio, x, 136. Sulla posizione dei Cirenaici, dr. vol. pp. 411 sgg.
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I,
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L'ETICA EPICUREA
con cibo o bevanda, la soppressione della sofferenza porta di conseguenza il piacere, cosl in ogni cosa la rimozione del dolore porta di immediata conseguenza il piacere. Per questa ragione Epicuro rifiutò la tesi che possa esservi uno stato intermedio fra piacere e dolore: egli riteneva che quello che ad. alcuni sembra uno stato intermedio, in quanto semplice assenza di dolore, fosse non solo piacere, ma piacere supremo. Chiunque avverte, infatti, quale sia la sua affezione del momento, si trova di necessità in uno stato di piacere o di dolore; ed Epicuro ritiene che nella privazione di dolore ha il suo culmine il piacere, sl che si può andare più oltre nella variazione e differenziazione dei piaceri, ma non nell'accrescimento e nell'intensificazione di essi [ ... ] 10 •
L'assenza del dolore, vale a dire il piacere catastematico, è dunque il limite supremo che raggiunge il piacere, al di là del quale non può ulteriormente estendersi, perché nell'assenza di dolore il piacere ha raggiunto la sua completezza e perfezione 11 • Ma, rispetto ai Cirenaici, Epicuro si differenzia anche per un secondo aspetto assai importante. Quelli, infatti, ritenevano i piaceri fisici superiori ai piaceri dell'animo e i dolori corporei più gravi dei dolori dell'animo, tanto è vero- essi argomentavano -che i colpevoli sono puniti con tormenti corporali. Al che Epicuro sagacemente obietta: Il corpo soffre solo per il male attuale, mentre l'anima soffre per il male presente, passato e futuro 12 • ' 0 Cicerone, De fin., I, 11, 37 ( = Usener, fr. 397, p. 266, l sgg.). " La posizione di Epicuro nei confronti dei Cirenaici si spiega ancor meglio, se si tiene presente il suo modo « eleatico ,. di ragionare, che esclude l'c intermedio •, come ha bene rilevato il Pesce: «Per Epicuro [ ... ] gli stati emotivi sono due: il piacere e il dolore; se uno corrisponde al pieno e l'altro al vuoto, l'uno all'essere e l'altro al non-essere, tertium non datur, il preteso terzo stato del né piacere né dolore non può sussistere, risultando intimamente contraddittorio. Ed infatti, equivalendo il non piacere al dolore e il non dolore al piacere, il né piacere né dolore si convertirebbe nell'e dolore e piacere» (Saggio su Epicuro, p. 81). " Diogene Laerzio, x, 137 ( = Usener, fr. 452); dr. Cicerone, Tusc. disput., v, 34, 95 ( = Usener, fr. 439).
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In effetti, è un innegabile dato di fatto che la carne gode solo di ciò che è presente, mentre l'anima, col ricordo, gode del piacere passato e può anche anticipare con l'attesa q1:1ello futuro. Per que!!tO motivo, per Epicuro, i piaceri dell'énimo sono s~periori a quelli del corpo. Anche questo punto fondamentale dell'edonismo epicureo è spiegato assai bene da una testimonianza ciceroniana, che conviene leggere per intero: Diciamo infatti che i piaceri e i dolori dell'anima nascono da quelli del corpo [ ... ]. Benché il piacere dell'anima ci dia gioia, e sofferenza il dolore, tuttavia l'uno e l'altro di essi è sorto nel corpo e va riportato a cause fisiche; né per questa ragione si deve dire che i piaceri e i dolori dell'anima non sono molto maggiori di quelli del corpo; infatti fisicamente possiamo avvertire solo ciò ch'è presente e attuale, mentre con l'anima avvertiamo anche i dolori del passato e del futuro. Nel caso che soffriamo di uguale dolore nell'anima e nel corpo, una grande intensificazione del dolore può esserci data dall'impressione che un male eterno e senza limiti penda minaccioso sopra di noi; la stessa cosa si può applicare anche al piacere, che è tanto più grande in quanto siamo liberi da simili timori. È chiaro insomma che il massimo piacere o la massima sofferenza dell'anima è di maggior peso, nei riguardi della felicità o dell'infelicità deUa vita, che non una soffere~a o un piacere di uguale durata e intensità che risiedano nel corpo. Non ritiene egli poi che, soppresso il piacere, consegua subito la sofferenza, a meno che in luogo del piacere non sia subentrato un dolore; al contrario, ritiene che vi sia godimento immediato quando usciamo dal dolore, anche se non subentri alcun piacere a muovere i nostri sensi. Da ciò si può comprendere qual grande piacere sia il non provare alcun dolore 13 .
n da notare che anche questa seconda correzione del cirenaismo è di essenziale importanza per intendere la novità della posizione di Epicuro. Infatti, ·a ben considerarla, essa risulta la positiva giustificazione della prima distinzione: il piacere in quiete può essere piacere positivo solo se ci si ri11
Cicerone, De fin.,
I,
17, 55 sg. ( = Usener, fr. 397, p. 271, 10 sgg.).
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ferisce alla dimensione psicologica dell'uomo, altrimenti risulterebbe vero, come dicevano i Cirenaici, che esso è uno stato analogo a quello del dormiente, cioè insensibilità e, dunque, non piacere. E poiché la portata di questa distinzione è stata, di volta in volta, o sottovalutata o sopravvalutata, è opportuno che individuiamo i presupposti su cui poggia e le · conseguenze che comporta. Domandiamoci in primo luogo: può Epicuro coerentemente distinguere un piacere del corpo da un piacere dell'anima? Il suo materialismo atomistico e il suo sensismo permettono tale discriminazione? Abbiamo visto nella esposizione della fisica che l'uomo non è un aggregato atomico semplice, ma complesso, nel senso che è costituito dall'aggregato atomico dell'anima che è incluso nell'aggregato atomico del corpo. E poiché le caratteristiche dell'aggregato anima sono differenti da quelle dell'aggregato corpo, cosi una distinzione fra i piaceri relativi alla prima e quelli relativi al secondo parrebbe corretta. Del resto, Epicuro era troppo attento indagatore della realtà dell'uomo per non accorgersi che ben più che il titillamento dei sensi e il loro momentaneo godimento, per la felicità dell'uomo, contano le risonanze interiori e i moti della psiche che a quelli si 'accompagnano. Tuttavia alla distinzione egli dà un rilievo tale e su essa appoggia conseguenze così notevoli da minacciare i fondamenti antologici che stanno alla sua base. Infatti, da un lato, l'edonismo (e quindi il materialismo atomistico che sta a fondamento di esso) sembra riaffermato e garantito dall'affermazione che piaceri e dolori dell'anima sono originati dal corpo e al corpo si riportano 14 ; dall'altro, invece, esso viene gravemente scosso dall'affermaZione che i piaceri e i dolori dell'anima sono molto maggiori di quelli del corpo 15 • La coerenza materialistica e sensistica vorrebbe che i piaceri dell'anima fossero piaceri •• Si veda il passo ciceroniano sopra letto. Si veda ancora il passo ciceroniano sopra letto.
15
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sensibili illanguiditi ed estenuati e niente affatto piaceri amplificati. Invece da Epicuro la coerenza è rotta interamente non solo con la sovraordinazione dei piaceri dell'anima a quelli della carne nel senso della superiorità quantitativa, ma addirittura nel senso della superiorità qualitativa: infatti dalle testimonianze lette risulta chiaramente che sono la coscienza, la consapevolezza e la razionalità a rendere superiori i piaceri dell'anima. Rispunta cosl, in tutta la sua tensione, l'aporia che già abbiamo rilevato nella psicologia epicurea: come gli atomi che costituivano la parte razionale dell'anima erano considerati privilegiati al punto da non poter essere qualificabili con un nome preciso a differenza di tutti gli altri, e surrettiziamente veniva introdotta una differenza qualitativa, contro lo statuto degli atomi che ammette solo differenze quantitative, cosl, allo stesso modo, il piacere proprio di questa parte dell'anima si pone come privilegiato al punto da diventare, al limite, qualitativamente. diverso dal piacere corporeo. Cosl Epicuro può riformare l'edonismo cirenaico in ambedue i punti sopra illustrati solo contraddicendo al suo materialismo atomistico. a) Se non il piacere in movimento ma il piacere in quiete è il sommo bene, allora Epicuro deve rinunciare a sostenere, come invece sostiene, che gli esseri della natura non ancora corrotti, quali sono gli animali e i bambini, costituiscano il criterio infallibile che rivela ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è da farsi e ciò che è da evitarsi: infatti questi non ricercano affatto il piacere catastematico, ma, al contrario, proprio il piacere cinetico. In verità, già Cicerone notava: Tuttavia Epicuro non trasse questo suo argomento fondamentale dagli infanti o dalle bestie, che pur ritiene essere specchio della natura, né giunse a dire che sotto la guida della natura essi ricercano quel piacere che consiste nell'assenza di dolore. Questo stato di assenza di dolore, infatti, non può dare impulso al desiderio dell'animo, non ha alcuna forza motrice su di esso[ ... ]. Forza propulsiva ha invece quello stato di piacere ch'è capace di
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allettare i sensi; ed è a questo che Epicuro ricorre sempre per provare che il piacere è desiderato per natura, poiché è il piacere in moto quello che attira a sé i bambini e le bestie, non quello stabile, consistente solo nell'assenza di dolore 16 • È chiaro allora che, contrariamente a quel che dice, Epicuro si rifà non alla originaria natura dell'animale e del bambino, in cui prevale appunto l'animalità, ma a quella particolare natura dell'uomo, che si differenzia da tutte le altre. b) Se non il piacere della carne, ma quello dell'anima è superiore, e in modo qualitativo e non solo quantitativo, allora bisognerebbe concludere che in quella natura particolare che è l'uomo c'è una componente che si differenzia dalla mera componente carnale e fisica, almeno nella misura corrispondente alla differenza dei due tipi di piaceri di cui stiamo ragionando. Come si vede, risulta impossibile ridurre l'uomo ad una sola dimensione: da qualunque parte Epicuro tenti di correggere la concezione integralistica e semplicistica propria dell'edonismo cirenaico, prestando orecchio alle più intime e profonde istanze della natura umana, si vede parare di fronte, implacabile, l'istanza dello spirito.
3.
La gerarchia dei piaceri e la saggezza
La posizione che Epicuro ha assunto nei confronti del piacere, e di cui abbiamo detto nel paragrafo iniziale, implica che il piacere non possa mai essere, di necessità, un male, giacché male è solo il dolore. In effetti egli ribadisce questo punto con estrema chiarezza: Nessun piacere è di per se stesso un male: però i mezzi per procurarsi certi piaceri arrecano molti più tormenti che piaceri 17 • 16 Cicerone, De fin., n, 10, 33 ( = Usener, fr. 398, p. 274, 11 sgg.). " Massime capitali, 8.
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E ancora: Se le cose che danno luogo ai piaceri propri dei dissoluti fossero anche tali da liberarci dai timori dell'animo circa i fenomeni celesti, la morte, il dolore, e ci insegnassero quale sia il limite dei desideri, non avremmo niente da rimproverare a quelli: essi sarebbero infatti ricolmi di ogni piacere e non avrebbero mai da soffrire fisicamente o da affliggersi, nel che consiste appunto il male 18• Dunque, il piacere di Epicuro non è il piacere dei dissoluti, ed espressamente egli respinse, nella Epistola a Meneceo, i grossolani fraintendimenti di cui, già allora, la sua dottrina fu vittima: Quando dunque diciamo che il piacere è un bene, non alludiamo affatto ai piaceri dei dissipati che consistono in crapule, come credono alcuni che ignorano il nostro insegnamento o Io interpretano male; ina alludiamo all'assenza di dolore nel corpo, all'assenza di perturbazione nell'anima. Non dunque le libagioni e le feste ininterrotte, né il godersi fanciulli e donne, né il mangiare · pesci e tutto il resto che una ricca mensa può offrire è fonte di vita felice; ma quel sobrio ragionare che scruta a fondo le cause di ogni atto di scelta e di rifiuto, e che scaccia le false opinioni, per via delle quali grande turbamento s'impadronisce dell'anima 19 • Sostanzialmente, in queste affermazioni, si fanno rivalere le distinzioni di cui si è detto al precedente paragrafo: il non soffrire quanto al corpo (o l'aponia) è piacere catastematico, stabile, in quiete, mentre il non esser turbati quanto all'animo è il connesso piacere dell'animo. Questi piaceri, e solo questi, garantiscono il vivere felice. Ma, dai ·passi sopra letti, un'altra conclusione si impone: la funzione di regia nella vita morale non è già esercitata dal piacere come tale, bensl dalla ragione, dal ragionamento, dal calcolo applicato ai piaceri, per stabilire quali piaceri produ11 Massime capitali, 10. " Epistola a Meneceo, 131 sg.
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cano solo piaceri, e quali comportino invece dolori e quindi quali siano utili e quali dannosi: Bisogna giudicare in merito di volta in volta, in base al calcolo e alla considerazione dei vantaggi e degli svantaggi: giacché certe volte·un bene viene ad essere per noi un male e un male per contro un bene 20 • Orbene, il calcolo delle utilità, il giudizio che dissipa gli errori e la giusta valutazione dei piaceri da che cosa dipendono? Epicuro non ha dubbi: dipendono dalla phr6nesis, dalla
saf!,gezza: Principio di tutto ciò e massimo bene è la saggezza. Perciò la saggezza appare ancor più apprezzabile che la filosofia, giacché da essa provengono tutte le altre virtù, in quanto ci insegna che non è possibile vivere piacevolmente se non vivendo saggiamente e bene e giustamente, (e di contro che non è possibile vivere saggiamente e bene e giustamente) se non anche piacevolmente. Le virtù sono infatti connaturate alla vita felice e questa è inseparabile dalle virtù 21 • Così la saggezza v-iene proclamata come virtù suprema, e viene rovesciata la gerarchia di Aristotele, che all'apice metteva la sapienza o sophia (e quindi la scienza pura), che è pura contemplatività, e non la saggezza, che è invece strutturalmente legata alla vita pratica dell'uomo. Ma è un rovesciamento che costituisce, come abbiamo già detto, uno dei tratti più tipici delle nuove correnti del pensiero ellenistico, che appunto del problema della vita avevano fatto il problema filosofico per eccellenza. Ma torniamo alla saggezza e vediamo quali ne siano i Epistola a Meneceo, 130. •• Epistola a Meneceo, 132 (ci scostiamo dalla traduzione della Isnardi Parente, nel rendere il termine cpp6V7)at;, cui corrisponde meglio il termine italiano saggezza che non il termine prudenza, preferito invece dalla Isnardi Parente, la quale, peraltro, in nota, lo dichiara equivalente a saggezza pratica). 20
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concreti suggerimenti circa la valutazione dei desideri e dei piaceri e circa il giudizio di elezione dei medesimi. Innanzitutto, occorre distinguere tre grandi classi di piaceri: [l] piaceri naturali e necessari [2] piaceri naturali ma non necessari [ 3] piaceri non naturali e non necessari 22 • E come netta è la distim:ione fra questi piaceri, cosl altrettanto netto e infallibile è il criterio di scelta fra questi piaceri: Una sicura conoscenza di essi sa rapportare ogni atto di scelta o di rifiuto al fine della salute del corpo e della tranquillità dell'anima, dal momento che questo è il fine della vita beata; è in vista di ciò che compiamo le nostre azioni, allo scopo di sopprimere sofferenze e perturbazioni. Una volta che ciò sia stato raggiunto, si dissolverà ogni tempesta dell'anima, non avendo l'essere vivente altra esigenza da soddisfare né altro che possa render completo il bene dell'anima e del corpo. Abbiamo infatti necessità del piacere quando, per il suo mancarci, soffriamo; (ma quando non soffriamo più ) , anche il bisogno del piacere viene meno 23•
In altri termini potremmo dire: dobbiamo scegliere sempre e solo piaceri catastematici o stabili (che si riducono ad assenza di dolore) e piaceri dell'animo (che si riducono a mancanza di turbamento nello spirito). 4.
L'asce t i s m o epicureo e 1 'autarchia
Dunque, se cosi è, noi dovremo accontentarci di soddisfare sempre il primo tipo di desideri e di piaceri; dovremo !imitarci nei confronti dei secondi; non dovremo mai cedere ai terzi: 22
23
Cfr. Massime capitali, 29. Epistola a Meneceo, 128.
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Sulla natura non bisogna esercitare violenza, ma opera di persuasione; e la persuaderemo soddisfacendo i desideri necessari, quelli naturali che non rechino danno, respingendo aspramente quelli dannosi 24 • E qui Epicuro manifesta una presa di posizione quasi ascetica di fronte alla svariata molteplicità dei piaceri. Infatti, fra i piaceri del primo gruppo, cioè quelli naturali e necessari, egli pone unicamente i piaceri che sono strettamente legati alla conservazione della vita dell'individuo, gli unici che veramente giovano, in quanto sottraggono il dolore del corpo, ad esempio il mangiare quando si ha fame, il bere quando si ha sete, il riposare quando si è stanchi, e simili. Egli esclude da questo gruppo il desiderio e il piacere d'amore: L'amplesso non giova mai, c'è da contentarsi che non nuoccia 25 • Fra i piaceri del secondo gruppo egli pone invece tutti quei desideri e piaceri che costituiscono, per cosl dire, le variazioni superflue dei piaceri naturali: mangiare bene, bere bevande raffinate, vestire in modo ricercato, e cosl via. Infine, fra i piaceri del terzo gruppo, non naturali e non necessari, Epicuro poneva i piaceri « vani », nati cioè dalle vane opinioni degli uomini, quali sono tutti i piaceri legati al desiderio di ricchezza, potenza, onori e simili. Orbene, i desideri e i piaceri del primo gruppo sono gli unici che vanno sempre e comunque soddisfatti, perché danatura hanno un preciso limite, che consiste nell'eliminazione del dolore: raggiunta "l'eliminazione del dolore, il piacere non cresce ulteriormente 26 • I desideri e i piaceri del secondo gruppo non hanno già più quel limite, perché non sottrag"Sentenze Vaticane, 21; dr. Cicerone, Tusc. disput., v, 33,93 (= Usener, fr. 456). 25 Diogene Laerzio, x, 118 ( = Usener, fr. 62). 26 Cfr. Epicuro, Massime capitali, 3 e 18 (cfr., sul limite dei piaceri, Usener, frr. 454 sgg.).
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gono il dolore corporeo, ma variano solo il piacere, e possono provocare un notevole danno. I piaceri del terzo gruppo non tolgono il dolore corporeo e per giunta arrecano sempre turbamento all'anima. Perciò Epicuro può scrivere: Esulta il mio corpo per la delizia vivendo a pane e acqua, e sputo sui piaceri del lusso, non tanto di per se stessi quanto per i fastidi che conseguono ad essi v. È una gioia, questa, la quale, più che dall'azione delJe cose su di noi, deriva dalla limitazione che noi poniamo alle sollecitazioni e agli effetti delle cose su di noi. E, per conseguenza, è una gioia che può essere a disposizione di tutti, purché si voglia seguire la natura:
I beni della natura sono facilmente procacciabili perché la natura si accontenta di poco 28 •
La natura [ ... ] ha fatto le cose necessarie facili a procacciarsi e quelle difficili a procacciarsi non necessarie 29 • La ricchezza secondo natura è tutta compresa in pane, acqua e un riparo qualsiasi per il corpo; la ricchezza superflua procura all'anima anche una illimitata prova dei desideri 31 • Sfrondiamo, dunque, i nostri desideri, riduciamoli a quel primo nucleo essenziale, e ce ne verrà ricchezza e felicità copiosa, perché per procurarci quei piaceri noi bastiamo a noi stessi, e in questo bastare-a-se-stessi (autarchia) stanno la più grande ricchezza e felicità. Ecco alcuni eloquénti frammenti: A chi non basta il poco, nulla basta 31 • Niente è sufficiente a colui cui il sufficiente non basta 32 • Stobeo, Anthol., m, 17, 33, p. '01 Hense {= Usener, fr. 181). '" Cicerone, De fin., II, 28, 91 {= Usener, fr. 468). 20 Stobeo, Anthol., m, 17, 22, p. 49' Hense ( = Usener, fr. 469). 00 Gnomologium Byzantinum, p. 197, n. 189 Wachsmuth (= Usener, fr. 471). " ELieno, Varia hist., IV, 13 (= Usener, fr. 473). 32 Sentenze V aticane, 68. 'D
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Mentre Euripide scrisse: «ai saggi basta il sufficiente», Epicuro di contro scrisse: «l'autosufficienza è la ricchezza più grande » 33 • I filosofi affermano che nulla è cosl necessario come il saper ben riconoscere ciò che non è necessario, e ritengono che· la maggior ricchezza fra tutte è l'autosufficienza, e che nulla è cosl nobile come il non aver bisogno di nulla 34 •
5.
L'assolutezza del piacere
Chiunque ponga nel piacere il bene supremo e la felicità è fatalmente tormentato dalle seguenti tre cose: l) l'incalzare del tempo che divora e porta via il piacere, 2) la minaccia del dolore che può sempre sopraggiungere, 3) l'agguato della morte. Epicuro ha pertanto cercato di elevare attorno al piacere delle barriere che lo tutelassero da tali insidie, e, a differenza di altri edonisti, a suo modo è riuscito nel suo intento, proprio grazie alla sua concezione della totale superiorità del piacere « catastematico » sul piacere in movimento: infatti quest'ultimo tipo di piacere è strutturalmente implicato nella corsa del tempo, inceppa incessantemente nei mali ed è messo in scacco dalla morte. Vediamo come Epicuro consideri il piacere catastematico, che predica come bene supremo, al riparo da tutte quelle avversità. Dice una delle Massime capitali: Un tempo illimitato contiene la stessa quantità di piacere che uno limitato, quando i confini dei piaceri si valutino con retto calcolo 35 •
=
'' Oemente Aless., Strom., VI, 2 ( Usener, fr. 476). ,. Porfirio, ·Ad Marcellam, 28, p. 292, 16 sgg. NaucJt2 ( fr. 476). "" Massime capitali, 19.
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=
Usener,
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Hanno uguale piacere non solo per quanto riguarda la qualità (e fin qui non fa difficoltà il pensare che, di fronte alla squisitezza qualit.ativa di un piacere, .un Dio eterno quale è concepito da Epicuro e un uomo mortale godano e gioiscano allo stesso modo, appunto perché la durata finita o infinita non cambia la qualità), ma proprio per quanto riguarda la quantità: e questo è uno dei punti più audaci della dottrina di Epicuro, che dobbiamo capire a fondo. Epicuro nega, in sostanza, che una esistenza infinita possa rendere il piacere maggiore non solo in qualità ma anche in quantità: la durata del tempo non incrementa in alcun modo il piacere 36 • Come è possibile? Basta, dice la massima che abbiamo letto, comprendere a fondo quale sia il« limite » del piacere. E il limite del piacere, come noi già sappiamo, è il toglimento del dolore, è l'aponia. In altri termini: il piacere aumenta fino a quando il bisogno sia stato spento e il dolore tolto, e qui il piacere tQcca il suo limite estremo, oltre al quale non può più crescere. :g la natura stessa del piacere catastematico che impone queste conclusioni: se esso consiste nella mancanza di dolore (aponia), è chiaro che nessuna aggiunta e nessun incremento sono pensabili al non provare più dolore. Dunque, il piacere (catastematico ), quando ci sia e finché ci sia, è pieno e totale, ha valenza assoluta e, quindi, è infinito 37 • E, nella massima che subito segue, precisa ulteriormente Epicuro: La carne non ammette limiti nel piacere, e il tempo che serve a procurarle tale piacere è anch'esso senza limiti. Ma il pensiero che ha appreso a ragionare intorno al fine e al limite di ciò ch'è pertinente alla carne, e che ha soppresso il timore dell'eternità, ci rende possibile una vita perfetta, per cui non sentiamo più l'esigenza di un tempo infinito: esso non rifugge dal piacere né, Cfr. Arrighetti, Epicuro, Opere, 2• ediz., pp. 550 sg. Particolarmente chiare e puntuali sono le analisi che di questa dottrina fa il Bignone nel suo Epicuro, pp. 26-32. 36
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quando le circostanze ci portano al momento di uscire dalla vita, può dire di andarsene avendo tralasciato qualcosa di ciò che rende questa ottima 38 •
La carne percepisce come illimitati i limiti del piacere, perché, quando esso è presente, è totale appagamento, cui non manca nulla, è appagamento non ulteriormente incrementabile, cioè assoluto, e perciò la sua pienezza è illimitata in ogni istante. La ragione, intervenendo col giudizio, si rende conto che il limite del piacere, come abbiamo visto, è l'aponia o mancanza di dolore; prende atto che il piacere non cresce oltre questo limite, e consolida i piaceri eliminando dagli animi tutto quanto li possa perturbare, come la paura della morte, il timore degli Dei o il desiderio di eternità, e cosi rende la felicità perfetta 39 • In questo senso Epicuro può dire che il godimento, nel tempo, è assoluto non meno che nell'infinito.
6.
La relatività del dolore
E come può questa valenza assoluta del piacere, che Epicuro proclama, non essere irrimediabilmente compromessa dai dolori, dai quali nessuno, proprio in quanto mortale, è mai al riparo? Dice il nostro filosofo in una delle sue massime capitali: Non dura ininterrottamente il dolore della carne; il suo culmine dura anzi un tempo brevissimo; e ciò che di esso appena oltrepassa il piacere non si protrae molti giorni nella nostra carne. Le lunghe malattie poi arrecano alla carne più piacere che dolore..,,
• Massime capitali, 20. 39 Cfr. Bignone, Epicuro, pp. 30 sg. "" Massime capitali, 4.
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E lo stesso concetto viene ripetuto anche in un'altra massima: Ogni dolore è facilmente disprezzabile: ciò che ha intensa la sofferenza ha anche breve la durata, e ciò che a lungo dura nella carne reca una sofferenza mite 41 •
Analogamente leggiamo nella Epistola a Meneceo: Il sommo dei beni è facilmente raggiungibile e facile a conseguirsi, mentre il sommo dei mali ha breve durata o intensità lieve 42 •
Insomma: se è lieve, il male fisico è sempre sopportabile e non è mai tale da offuscare la gioia dell'animo; se è acuto, passa presto; e, se è acutissimo, conduce presto alla morte, la quale, in ogni caso, come vedremo, è uno stato di assoluta insensibilità. ·E i mali dell'anima? Su questi non è il caso di diffondersi, perché essi non sono. altro che quelli prodotti dalle fallaci opinioni e dagli errori della mente. E contro questi tutta quanta la filosofia di Epicuro si presenta come il più efficace rimedio e il più sicuro antidoto.
7.
La morte non è nulla. per l 'uomo
E la morte? La morte è un male solo per chi nutre false opinioni su di essa. Poiché l'uomo è un composto anima in un composto corpo, la morte è non altro che la dissoluzione di questi composti. E, in questa dissoluzione, gli atomi si dileguano per ogni dove, la coscienza e la sensibilità cessano totalmente, e cosi dell'uomo non restano che macerie che si disperdono, ossia nulla. Quindi la morte non è paurosa di •• Sentenze Vaticane, 4. ., Epistola a Meneceo, 133.
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per sé, perché al suo sopravvenire noi non sentiamo più nulla, né per un suo «dopo», perché appunto di noi nulla resta, dissolvendosi totalmente la nostra anima cosi come il nostro corpo; né, infine, essa toglie nulla alla vita che abbiamo trascorso, ·perché, come abbiamo visto, all'assoluta perfezione del piacere non è necessario l'eterno. Ecco la pagina in cui Epicuro espone questo ordine di pensieri in modo esemplare: Abituati a pensare che la morte non è nulla per noi, perché ogni bene e ogni male risiedono nella facoltà di sentire, di cui la morte è appunto privazione. Perciò la retta conoscenza che la morte non è niente per noi rende gioiosa la stessa condizione mortale della nostra vita, non prolungando indefinitivamente il tempo, ma sopprimendo il desiderio dell'immortalità. Nulla c'è di temibile nel vivere per chi si sia veracemente convinto che nulla di temibile c'è nel non vivere più. E cosl anche stolto è chi afferma di temere la morte non perché gli arrecherà dolore sopravvenendo, ma perché arreca dolore il fatto d~ sapere che verrà: ciò che non fa soffrire quando sopravviene, è vano che ci addolori nell'attesa. Il più terribile dei mali dunque, la morte, non è niente per noi, dal momento che, quando noi ci siamo, la morte non c'è, e quando essa sopravviene noi non siamo più. Essa non ha alcun significato né per i viventi né per i morti, perché per gli uni non è niente, e, quanto agli altri, essi non sono più. Ma il volgo ora fugge la morte come il più grande dei mali, ora invece (la cerca) come cessazione (dei mali) della vita. (Il saggio, al contrario, non chiede di vivere) né teme il non vivere: non è contrario alla vita, ma neanche ritiene che la morte sia un male. E cosl come del cibo non aspira al più abbondante ma al più gradevole, del tempo cerca di godere non il più lungo, ma il più dolce. Chi esorta il giovane a ben vivere, il vecchio a ben morire, è uno stolto; e non solo per ciò che la vita ha di piacevole, ma anche perché uno solo è l'esercizio del ben vivere e del ben morire. Ma assai peggio fa chi dice: bello sarebbe non esser nati, o «non appena nati, subito ripassar le porte dell'Ade» Se è persuaso di ciò che dice, perché non esce dalla vita? Ciò è in suo potere, se questa è la sua salda convinzione. Ma se scherza, è stolto a farlo riguardo a cose cui non si conviene 43 • "" Epistola a Meneceo, 124 sgg.
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EPICURO E LA FONDAZIONE DEL GIARDINO
Anche nella costruzione di questo ragionamento, come è stato giustamente notato, sta a fondamento « il solito schema eleatico che nega potersi dare qu~cosa di intermedio tra il vivere e il morire, tra l'aver coscienza e il non aver coscienza, e concepisce pertanto la morte non già in termini di durata, come un processo, ma come quell'istante in cui appunto il vivere cessa per dar luogo alla morte» 44 • Ma ciò che spaventa gli uomini è esattamente quel passaggio (quell'intermedio) che Epicuro nega.
8. L a v i r t ù epicurea e l'i n t e 11 e t tu a l i s m o socratico
Tenendo presente quanto abbiamo precisato, non ci stupiremo in alcun modo se Epicuro identifica 1a virtù con H piacere o, comunque, se considera la virtù solamente ih funzione del piacere e come strumento per garantire il piacere. Nell'opera Del fine Epicuro scrive: Il decoro, la virtù e tutte le cose di questo genere sono da apprezzarsi se sono tali da procurare il piacere; se non lo sono, !asciamole perdere .es. E in una lettera ad Anassarco: Invito a piaceri continui, non a virtù stolte, e vane, e tali da arrecare turbamento per l'attesa dei loro risultati <46. Anzi Epicuro giunge addirittura a dire: Sputo sul bello morale e su chi stoltamente l'ammira qualora esso non procuri piacere c . . .. .. " "
Pesce, Saggio su Epicuro, Ateneo, Deipnosoph., XII, Plutarco, Adv. Colot., 17, Ateneo, Deipnosoph., XII,
p. 61. .546 e ( Usener, fr. 67). 1117 a ( = Usener, fr. 116). .547 a ( = Usener, fr. 512).
=
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L'ETICA EPICUREA
Per quanto gli antichi si siano molto scandalizzati di tali affermazioni, esse risultano, nel sistema epicureo, del tutto necessarie, e non costituiscono nemmeno, a ben vedere, una radicale rottura con la concezione greca dell' areté. Per rendersi conto di questo, occorre tener ben presente la peculiare teoria epicurea del piacere, la dichiarazione di superiorità assoluta del piacere catastematico, e la ascetica eliminazione operata da Epicuro di tutta una serie di piaceri, dichiarati, gli uni, non necessari, gli altri, addirittura, vani e illusori. E occorre tener presente il notevole rilievo che il nostro filosofo dà alla phronesis, alla saggezza, nella valutazione dei piaceri, ai fini della scelta o della eliminazione dei medesimi. La phronesis sta essenzialmente a fondamento della vita felice, come abbiamo già letto in un passo dell'Epistola a Meneceo 48 • E in una delle Massime capitali viene ribadito: Non è possibile vivere felicemente senza anche vivere saggiamente, bene e giustamente, (né saggiamente e bene e giustamente) senza anche vivere felicemente. A chi manchi ciò da cui deriva la possibilità di vivere saggiamente, bene, giustamente, manca anche la possibilità di una vita felice 49 • Insomma: le virtù hanno un senso e un valore perché e nella misura in cui sono strumento di felicità: Tutte queste sono cose [ = virtù] che esercitiamo allo scopo di vivere senza affanno né timore, e di liberare, per quanto è possibile, il nostro corpo dai fastidi 50 • La virtù è tecnica del vivere piacevolmente e felicemente 51 • E, se cosi è, la virtù o areté umana resta pur sempre, anche nel contesto di questa nuova visione dell'uomo e della vita, '" Epistola a Meneceo, 132; si veda il passo a p. 145. "' Massime capitali, 5. 50 Cicerone, De fin., I, 15, 49 ( = Usener, fr. 397, p. 269, 8 sgg.). 51 Cfr. tutto il passo di Cicerone riportato da Usener come fr. 397, pp. 264-273.
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EPICURO E LA FONDAZIONE DEL GIARDINO
cosl come lo era stata per tutti i Greci, quella qualità che contraddistingue l'uomo da ogni altro essere, o meglio l'attuazione piena e il perfezionamento di quella qualità, giacché solo dell'uomo è propria la capacità di vivere una vita felice. E, per di più, nel suo fondamento, l'areté resta pur sempre, come da Socrate in poi il Greco aveva affermato, fondamentalmente legata alla conoscenza, giacché conoscenza e non altro che conoscenza, anche per Epicuro, è quella che ci insegna la giusta valutazione e il ragionato calcolo dei piaceri. ~ una posizione, questa di Epicuro, che paradossalmente il Socrate del Protagora platonico aveva addirittura previsto e formulato 52 , almeno in una certa misura, al fine di dimostrare dialetticamente che, anche accettando i presupposti dell'edonismo, resta pur sempre vero che la virtù è scienza, perché l'edonista non può affidarsi indiscriminatamente al piacere, ma deve fondarsi su un sapiente calcolo della convenienza dei piaceri, e questo calcolo è appunto scienza. Anche nell'etica di Epicuro, dunque, la vena dell'intellettualismo socratico è presente e operante, perché il primato, più che non al piacere come alogica affezione, resta -al logos che lo razionalizza, e la virtù e il bene morale restano la saggezza, ossia la scienza pratica e fattiva del piacere. E questa saggezza, una volta acquistata, diviene eticamente determinante: Tutti i danni provengono agli uomini dall'odio o dall'invidia o dal disprezzo, cose tutte cui il saggio si rende superiore per meu.o del ragionamento. Ma chi una volta è divenuto saggio, non potrà più assumere disposizione contraria alla saggezza, e nemmeno fingere a proposito di assumerla 53 •
E come Socrate, anche Epicuro, per conseguenza, deve affermare che il vizio è fondamentalmente mancanza di quella scienza e cioè ignoranza: 52 Platone, Protagora, 351 c sgg.; cfr. Reale, Platone, Protagora, Brescia 1969, pp. 166 sgg. e pp. XLV sgg. 53 Diogene Laerzio, x, 117 (cfr. Usener, fr. 222 a).
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L'ETICA EPICUREA
Nessuno sceglie il male vedendo chiaramente che è tale: ma ne rimane preso se, ingannevolmente, lo considera un bene rispetto a un male maggiore 54 La svalutazione dello Stato e della vita politica e l'esaltazione del« vivere nascosto»
9.
Ogni forma di edonismo e di utilitarismo è sempre anche una forma di individualismo egoistico, e tale è anche la posizione di Epicuro. Anzi, in Epicuro l'individualismo è particolarmente accentuato, oltre che dalle premesse teoretiche del suo sistema, da due ulteriori fattori di notevole importanza: l'esperienza del crollo della Città-Stato e delle tradizionali istituzioni politiche, che egli visse nel momento più drammatico, e la conseguente convinzione della fallacità della interpretazione teoretica che Platone aveva dato dell'uomo come strutturalmente cittadino della Città-Stato, inter~ pretazione vigorosamente ribadita anche da Aristotele, che nell'uomo vedeva un animale politico (si badi: politico e non semplicemente sociale) nella dimensione della Città-Stato. Orbene, proprio il fallimento storico della Città-Stato e delle istituzioni ad essa connesse comportava eo ipso la perdita di credibilità delle ricostruzioni teoretiche di Platone e di Aristotele, apparendo esse, ormai, non altro che l'indebita idealizzazione di un dato storico contingente. E poiché le forme politiche successe alla Città-Stato, ossia l'impero di Alessandro e le monarchie ellenistiche con le loro istituzioni, si mostrarono quanto mai instabili e labili, così Epicuro credette di trovare in tutto questo la controprova della validità di quelle conclusioni individualistiche che i principi della sua fisica e della sua etica logicamente imponevano. Ci viene riferito da Lattanzio: .. Senten%e Vaticane, 16.
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EPICURO E LA FONDA7.JONE DEL GIARDINO
Epicuro dice [ ... ] che non c'è alcuna società fra gli uomini: ciascuno pensa solo a se stesso 55 • E un'altra testimonianza pone queste parole in bocca ad Epicuro: Non ingannatevi, uomini, non lasciatevi aggirare, non cadete in errore. Non vi è alcuna società naturale degli esseri ragionevoli gli uni verso gli altri, credetemi: quelli che dicono altrimenti vi ingannano con falsi ragionamenti 56 • Dunque, la vita politica è, per le ragioni dette, sostanzialmente innaturale. Essa comporta, per conseguenza, continuamente dolori e turbamenti; compromette l'aponia e l'atarassia, e, quindi, compromette quanto di più prezioso l'uomo possa avere, vale a dire la felicità. Infatti quei piaceri che dalla vita p<>litica molti si ripropongono, sono pure illusioni: dalla vita politica gli uomini si aspettano potenza, fama e ricchezza, che sono, come sappiamo, desideri e piaceri né naturali né necessari, e, dunque, vuoti e ingannevoli miraggi. Ben si comprende, quindi, l'invito di Epicuro: Liberiamoci una buona volta dal carcere delle occupazioni quotidiane e della politica 'il. La vita pubblica non arricchisce l'uomo, ma lo disperde e lo dissipa. Perciò l'Epicureo si apparterà e vivrà in disparte dalle folle: Se la sicurezza nei riguardi degli altri uomini deriva fino ad un certo punto da una ben fondata situazione di potenza e ricchezza, la sicurezza più pura proviene dalla vita serena e dall'appartarsi dalla folla 58 • 55 Lattanzio, Div. Instit., 111, 17, 42 ( = Usener, fr. 523; dr. inoltre Usener, fr. 525). 56 Epitteto, Diatribe, 11, 20, 6 ( = Usener, fr. 523, p. 318, 30 sgg.) . ., Sentenze Vaticane, 58. 51 Massime capitali, 14. Cfr. anche. Usener, frr. 570 e 571.
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L'ETICA EPICUREA
Ritirati in te stesso soprattutto quando sei costretto a stare fra la folla 59 • « Vivi nascosto » ( M&e ~Lwaocç) suona il celebre comanda-
mento epicureo! 60 • Solo in questo rientrare in sé e rimanere in sé può essere trovata la tranquil1ità, la pace dell'anima, l'atarassia. E per Epicuro l'atarassia è il bene supremo: La corona dell'atarassia è incomparabilmente superiore alla corona dei grandi imperi 61 • Sulla base di queste premesse, è chiaro che Epicuro doveva dare del diritto, della legge e della giustizia, una interpretazione in netta antitesi sia con l'opinione classica dei Greci sia con le tesi filosofiche di Platone e di Aristotele. Diritto, legge e giustizia hanno senso e valore unicamente quando e nella misura in cui sono legati all'utile: e l'utilità e non altro che l'utilità è il loro fondamento oggettivo. Ecco alcune massime particolarmente eloquenti: Il giusto secondo natura è l'e~pressione dell'utilità che consiste nel non recare né ricevere reciprocamente danno 62 • Per tutti quegli esseri viventi che non ebbero la capacità di stringere patti reciproci circa il non recare né ricevere danno, non esiste né il giusto né l'ingiusto; e altrettanto si deve dire per quei popoli che non poterono o non vollero stringere patti per non recare e non ricevere danno 63 • In senso generale il giusto è uguale per tutti, in quanto è un accordo di utilità reciproca nella vita sociale; ma a seconda della 59 Seneca, Epist., 25, 6 ( = Usener, fr. 209). "' Cfr. Plutarco, De latenter vivendo, 3, 1128 f. sg. ( = Usener, fr. 551); cfr. anche le altre testimonianze raccolte da Usener, sempre sotto il numero 551, pp. 326 sg. 61 Plutarco, Adv. Colot., 31, 1125 c ( = Usener, fr. 556, p. 328, 26 sgg. [traduzione di E. Bignone]) . . 62 Massime capitali, 31. •• Massime capitali, 32.
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EPICURO E LA FONDAZIONE DEL GIARDINO
particolarità dei luoghi e delle condizioni risulta che non per tutti il giusto è lo stesso 64 • Fra le cose che la legge prescrive come giuste, quella che è comprovata come utile dalle necessità dei rapporti sociali reciproci deve esser considerata come avente il requisito del giusto, sia essa la stessa per tutti o no; ma se si ponga una legge che non risulti coerente all'utilità nei rapporti reciproci, essa non possiede la natura del giusto. Se poi ciò ch'era utile secondo giustizia viene a decadere, pur avendo per un certo tempo corrisposto alla prenozione del giusto, ciò non vuoi dire che non lo fosse durapte quel tempo, se non ci si vuole turbare per vane chiacchiere ma guardare sostanzialmente ai fatti 65 • È chiaro, pertanto, che la giustizia cessa di essere un valore assoluto, come voleva Platone, ma si riduce alla relazione di utilità:
La giustizia non esiste di per sé, ma solo nei rapporti reciproci, e in quei luoghi nei quali si sia stretto un patto circa il non recare né ricevere danno 66 • E, dunque, da tale premessa scaturisce la seguente conseguenza: L'ingiustizia non è di per sé un male, ma consiste nel timore che sorge dal sospetto di' non poter sfuggire a coloro che sono stati preposti a punirlo 67 • Cosl lo Stato da realtà morale dotata di validità assoluta diventa istituzione relativa, nata dal semplice contratto in vista dell'utile; anziché fonte e coronamento dei supremi valori morali, diviene semplice mezzo di tutela dei valori vitali, dive1;1ta condizione necessaria, sl, alla vita morale, ma tutt'altro che sufficiente. La giustizia diventa un valore relativo, ]'ingiustizia diventa un male prevalentemente estrinseco, .. Massime capitali, .. Massime capitali, 66 Massime capitali, 61 Massime capitali,
36 . 37. 33. 34.
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L'ETICA EPICUKE.A.
derivante dalla possibile punizione. Il rovesciamento del mondo ideale platonico non potrebbe essere più radicale e la frattura con il sentimento classicamente greco della vita non potrebbe essere più decisa: l'uomo ha cosl cessato di essere uomocittadino ed è diventato puro uomo-individuo.
10.
L'amicizia
L'Accademia di Platone era nata per creare uomini politid, uomini pubblici, uomini che dovevano ridimensionare se medesimi al fine di ridimensionare lo Stato, dato che era considerato principio fondamentale e inoppugnabile che l'uomo non possa essere veramente buono, se non è buono lo Stato, cosl come lo Stato non può essere buono se non è buono l'uomo. Il Giardino di Epicuro era nato, all'opposto, per creare uomini che prendessero pienamente coscienza di essere individui, e che imparassero a capire che ogni salvezza può venire non da altro che da se medesimi. Fra questi individui l'unico legame che viene ammesso come veramente fattivo è l'amicizia, la quale è un libero legame che insieme unisce chi in modo identico sente, pensa e vive. Nell'amicizia nulla viene imposto daf di fuori e in modo innaturale, e, dunque, nulla viola l'intimità dell'individuo; nell'amico l'Epicureo vede quasi un altro se stesso 68 • Anche l'Accademia platonica aveva coltmtto l'amicizia, ma in modo diversissimo: l'amicizia doveva essere mezzo che più agevolmente aiutasse a ricostruire ]o Stato, che era il fine ultimo. Epicuro la trasforma invece da mezzo in fine; o, se si vuole, dato che l'amicizia stessa non sfugge del tutto alla legge dell'utilità, la trasforma in mezzo per- realizzare l'individuo e non altro che l'individuo. 61 Sull'amicizia epicurea si veda il bel capitolo che le dedica il Festugière, Épicure et ses Dieux, pp. 36-70.
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EPICURO E LA FONDAZIONE DEL GIARDINO
Abbiamo detto che l'amicizia non sfugge alla legge dell'utile: in effetti, nulla, nel contesto dell'etica epicurea, ha senso se non in funzione del piacere e dell'utile. Tuttavia Epicuro vorrebbe riconoscere all'amicizia un qualche privilegio, scrivendo: Ogni amicizia è desiderabile di per sé, anche se ha awto il suo inizio dall'utilità tn. Non sa esercitare l'amicizia chi cerca sempre in ogni occasione l'utile, ma nemmeno chi non sa mai ·unire l'amicizia all'utilità: l'uno col pretesto dell'affetto mercanteggia il cambio, ma l'altro si taglia via ogni buona speranza per il futuro 70 •
Dunque l'amicizia muove dall'utile, ma, una volta sviluppatasi, diventa un bene per sé, perché dà piacere. Spiega bene Diogene: L'amicizia nasce in vista dell'utilità, essa deve infatti prendere inizio da qualcosa, cosl come si gettano nella terra i semi, ma poi si afferma attraverso la comunanza di vita fra coloro che hanno raggiunto la pienezza del piacere 71 •
Insomma: prima si ricerca l'amicizia per conseguire determinati vantaggi estranei ad essa, poi, una volta nata, diventa essa stessa fonte di piacere e perciò fine. E dunque Epicuro può ben affermare quanto segue: Di tutte le cose che la sapienza procura in vista della vita felice, il bene più grande è l'acquisto dell'amicizia n. L'uomo onesto coltiva soprattutto sapienza e amicizia; e di questi l'uno è bene mortale, l'altro immortale 73 •
E può addirittura scrivere: •• Sentenze Vaticane, 23. "' Sentenze Vaticane, 39. 71 Diogene IAerzio, x, 120 b ( = Usener, fr. 540). 72 Massime capitali, 27. 73 Sentenze Vaticane, 78.
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L'ETICA EPICUREA
L'amicizia trascorre per la terra, annunziando a tutti noi di destarci per darci gioia l'un l'altro 74 •
Essa è infatti il coronamento e il suggello della felicità del saggio 75 • A queste affermazioni di principio, si accompagnò, nel Giardino, la pratica dell'amicizia, per cui esso divenne famosissimo. E al Giardino vennero non solo uomini provenienti dalla nobiltà e dai ceti sociali più elevati, come all'Accademia, ma uomini di estrazione sociale diversa; vennero anche le donne, e furono addirittura ammesse alcune etére, in cerca della pace dell'anima, come già abbiamo detto. Il verbo di Epicuro rompeva così gli antichi argini e le barriere tradizionali della società greca: e tuttavia non distruggeva ancora tutte le barriere tra uomo e uomo. Restavano ancora le barriere delle differenze naturali: infatti il saggio epicureo non può diventare amico di tutti, ma solo di chi gli è simile. Inoltre per Epicuro esistono uomini che non solo non sono saggi, ma che non possono strutturalmente nemmeno diventare tali, o per costituzione, o per razza: Il saggio non può nascere da ogni costituzione fisica né da ogni popolo 76 •
Anche la filosofia di Epicuro non costituisce un messaggio universale per tutti gli uomini senza distinzione.
Sentenze Vaticane, 52. Nella Sentenza Vaticana n. 78 sopra letta, l'amicizia è addirittura qualificata come un bene immortale. Si capisce quindi come Epicuro non esiti ad affermare che il saggio «saprà all'occorrenza anche morire per un amico» (Diogene Laerzio, x, 121 h). 76 Diogene Laerzio, x, 117 ( = Usener, fr. 226). 74
75
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11.
EPICURO E LA FONDAZIONE DEL GIARDINO
Il quadrifarmaco e l'ideale del saggio
Epicuro ha dunque fornito agli uomini il quadruplice rimedio nel modo veduto: ha mostrato l) che son vani i timori degli Dei e dell'al di là, 2) che è assurda la paura della morte, la quale non è nulla, 3) che il piacere, quando lo si intenda correttamente, è a disposizione di tutti, 4) infine che il male o è di breve durata, oppure è facilmente sopportabile. L'uomo che sappia applicare a sé questo quadruplice rimedio acquista la pace dello spirito e la felicità, che nulla e nessuno possono intaccare. Diventato, cosi, totalmente padrone di sé, il saggio di nulla può ormai più temere, nemmeno i più atroci mali e additittura nemmeno le torture: Il saggio sarà felice anche fra i tormenti 77 • Riferisce Seneca: Anche Epicuro dice che il saggio, se sia bruciato entro il toro di Falaride, griderà: «è dolce questo, e non mi tocca affatto» 78 • [Epicuro] dice addirittura che «è dolce ardere tra le fiamme» 79 • È evidente che questo è un modo paradossale per dire che il saggio è assolutamente impertut~babile: e di questo Epicuro stesso diede dimostrazione, quando, fra gli spasimi del male che lo portava a morte, scrivendo ad un amico l'ultimo addio, proclamava la vita dolce e felice. E cosi Epicuro ritiene di poter dire, forte della sua atarassia, che il saggio può contendere in felicità perfino con gli Dei: ove si tolga l'eternità, Zeus non possiede di più del saggio 80 • 71 Diogene Laerzio, x, 118 ( = Usener, fr. 601). Cfr. anche i passi di Cicerone e di Lattanzio che Usener riporta sempre al numero 601, pp. 338 sg. 71 Seneca, Epist., 66, 18 ( = Usener, fr. 601, p. 338, 35 sgg.). 79 Ibidem ( = Usener, p. 339, 4) . ., Cfr. Eliano, Var. bist., IV, 13 ( = Usener, fr. 602); dr. anche i passi
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L'ETICA EPICUREA
Agli uomini del suo tempo, ormai privi di tutto ciò che agli antichi Greci aveva reso sicura la vita, tormentati dalla paura e dall'angoscia del vivere, Epicuro indicava una nuovissima via per ritrovare la felicità, e porgeva una parola che era come una sfida alla sorte e alla fatalità, perché mostrava come la felicità possa venire dal di dentro di noi, comunque sciano le cose fuori di noi, perché il vero bene, nella misura in cui viviamo e finché viviamo, è sempre e solo in noi: il vero bene è la vita, e a mantenere la vita basta pochissimo, e quel pochissimo è a disposizione di ogni uomo; tutto il resto è vanità. In fondo, si può dire che la v-ita è, per Epicuro, il vero Assoluto; la devozione e la gratitudine che egli mostra verso la vita, sempre e senza eccezioni, ha senza dubbio qualcosa di religioso e perfino di mistico. Ha rilevato di recente questo punto con esattezza Domenico Pesce: «Sta qui il profondissimo senso religioso della dottrina di Epicuro, che colpisce per la singolarità di un ascetismo che non è la pavida ed egoistica fuga dinanzi alla vita del Cinico né l'elevazione all11 pura teoresi del Platonico, m11 la scoperta, tanto più sorprendente perché raggiunta al di fuori di ogni tradizione religiosa costituita (benché forse qualche sentore è dato avvertirne nell'antico paganesimo), che il livello dell'elementare coincide con quello dell'essenziale, là dove, tolto il vano e il superfluo, si tocca l'essere:- La via de1la semplificazione si rivelava cosi, come per ogni mistico, anche per Epicuro, non perdita, ma acquisto » 81 • Epicuro si pone come una delle voci più autentiche delIa sua età, il suo pensiero e la su11 vita diventano paradigma; il successo che egli riscosse nell'·arco di cinque secoli ne è la controprova. Ha colto assai bene questo punto il Bignodi Clemente, Giuliano e Cicerone, riportati da Usener sempre al numero 602, pp. 339 sg. "' Pesce, Saggio su Epicuro, p. 98.
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EPICURO E LA FONDAZIONE DEL GIARDINO
ne, in una pagina esemplare, con cui vogliamo concludere: « Il mondo alessandrino è la vera patria dell'epicureismo. Mai come· allorà gli uomini furono cosi avidi di quel delicato equilibrio spirituale che è l'eudaimonia greca: mai come allora l'uomo pose la sua orgogliosa superiorità nel proclamarsi felice; mai come allora la vita umana cercò avidamente il suo tipo di perfezione, che obbedisse a canoni di armonia cosi perfetta come quelli che regolano la statuaria di Prassitele e di Lisippo. Ogni filosofo deve offrire il suo modello della suprema perfezione umana, deve attestarlo nella sua vita, e concluderlo in una morte armoniosamente serena. Dinanzi all'ultimo dolore, alla dipartita suprema, deve saper proclamare come Arria, porgente allo sposo l'arma con cui s'è colpita: Paete, non dolet. Questa audace sfida al destino, questa eroica menzogna alla legge della natura, sarà la sua gloria. E mentre l'età greca classica consacrava il tipo ideale del filosofo che muore per la giustizia, in Socrate conversante con i discepoli nella sua cella lungi dai pianti delle femmine, in aspettativa del meraviglioso mistero dell'anima rinascente; l'età alessandrina lo ritrova in Epicuro che, nelle ultime sue parole, afferma vittorioso dinanzi alla morte la fede nella felicità: "Volgeva per me [scrive Epicuro in una Epistola ad un amico con cui si accomiatava dalla vita] il giorno supremo e pur felice della mia vita, quando queste cose ti scrivevo. Cosi acuti erano i miei mali [ ... ] che più oltre non poteva procederne la violenza. Pure ad essi tutti s'adeguava sempre la gioia dell'animo nel ricordare le nostre dott11ine e le verità da noi scoperte". Queste due morti, cosi diverse e pur cosi greche entrambe, segnano il limite di due età, e rappresenteranno per l'uomo antico il suggello di due tipi umani e di due forme spirituali, con propria fede e devozione: l'imitatio Socratis, e l'imitatio Epicuri » 82 •
12
Bignone, Epicuro, pp. 40 sg.
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L'ETICA EPICUREA
Socrate ed Epicuro sono i paradigmi di due grandi fèdi, e anzi di due religioni « laiche »: la fede e la religione della giustizia, la fede e la religione della vita.
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V. SEGUACI E SUCCESSORI DI EPICURO
L'epicureismo non ebbe una storia paragonabile a quella delle altre Scuole dell'età ellenistica, nel senso che non ebbe una vera e propria evoluzione di pensiero, non .ebbe sviluppi dottrinari né svolgimenti concettuali degni di rilievo. Epicuro non solo propose la propria dottrina, ma in qualche modo la impose, con disciplina fermissima 1 • Pertanto, nel Giardino, non si accesero discussioni e non ' Scrive giustamente il Boyancé (Lucr~ce et l'épicureisme, Paris 1963; edizione italiana a cura di A. Grilli, Brescia 1970): «Fra le scuole ddl'antichità non ce n'è nessuna che sia stata dominata dal pensiero di un solo uomo come quella di Epicuro. Dopo di lui nessuno ha più veramente significato. Non è come per lo stoicismo, in cui dopo Zenone c'è Oeante, dopo Oeante Crisippo e cosl via. Gli scolarchi del Giardino sono solamente epigoni il cui nome è rimasto e dovev« rimanere oscuro. Seneca, che ben conosceva questa caratteristica della Scuola rivale, l'ha definita con una frase incisiva e tipicamente romana: tutto ciò che ha detto Metrodoro, tutto ciò che ha detto Ermarco, è stato detto sotto la guida e gli auspici di uno solo (Epist. 34, 4). t! la stessa espressione con cui si definisce la teoria imperiale dd supremo comando militare: tutto quello che fanno i generali, tutte le vittorie che conseguono si svolgono "sotto la guida e gli auspici" del principe, unico imperator e unico a cui spetta il trionfo. Per tutte le vittorie spirituali dell'epicureismo, sempre, in ogni tempo, non c'è stato e non ci sarà che un unico trionfatore. Ma proprio ai filosofi, sia detto senza ironia, è difficile chiedere una siffatta abnegazione: in nessuno più che in loro s'incontra la superba convinzione d'essere maestri di se stessi e di far cominciare a partire da sé, dalle proprie intuizioni, dalle proprie scoperte il pensiero dd genere umano. Fra gli epicurei un uomo soltanto ha avuto questa audace superbia, e l'ha avuta al massimo grado: · dopo di lui nessuno » (p. 45).
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SEGUACI E SUCCESSORI DI EPICURO
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scoppiarono conflitti di idee. I seguaci di Epicuro si limitarono a ripeteme e a esplicarne il verbo, o, al massimo, ad approfondirne . ed a completarne certi aspetti. Le polemiche con le Scuole avversarie, in linea di massima, non portarono ad accomodamenti eclettici né ad ammissioni di principi o corollari allotrii. I capisaldi del pensiero di Epicuro divennero dogmi da apprendere e da difendere: quasi come verità di religione. E cosl si spiega perché, mentre vi furono varie fasi della Stoa (una antica, una media e una nuova), nonché varie fasi dello scetticismo (uno scetticismo pirroniano, uno scetticismo accademico ed un neopirronismo ), come ampiamente vedremo, non vi fu, invece, se non un ciclo unico e dottrinalmente unitario nella storia del Giardino. Dai frammenti di Epicuro -al poema di Lucrezio alle iscrizioni murali di Diogene di Enoanda, cioè dalla fine del IV secolo a. C. al II secolo d. C., restò fondamentalmente immutato lo spirito vivificatore degli scritti degli Epicurei, restò immutata la fede, e restarono identiche le articolazioni teoretiche. Discepoli di Epicuro, prima ancora della fondazione del Giardino ad Atene, furono Metrodoro e Polieno di Lampsaco 2 • Metrodoro si segnalò soprattutto come polemista, come risulta dagli stessi titoli delle sue opere. Di lui scrisse Diogene: [Metrodoro] dal giorno che conobbe [Epicuro], non si staccò da lui che una sola volta, per un periodo di sei mesi, per recarsi nella sua patria, ma poi subito tornò da lui. Fu un uomo eccellente sotto ogni aspetto, come attesta lo stesso Epicuro nei proemi alle sue opere e nel libro m del T imocrate [ ... ] . Era impassibile di fronte ai dolori e alla morte, come afferma Epicuro nel libro I del suo Metrodoro 3. Metrodoro e Polieno morirono prima di Epicuro •. Sue2 Cfr. Diogene Laerzio, x, 23 sg. ' Diogene Laerzio, x, 22 sg. • Cfr. Diogene Laerzio, x, 19 e 23.
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EPICURO E LA FONDAZIONE DEL GIARDINO
cessore di Epicuro alla direzione del Giardino fu Ermarco di Mitilene, che scrisse contro Platone e contro Aristotele 5 • Si distinsero in quel periodo anche Leonteo di Lampsaco, Colote e Idomeneo 6 • I successivi scolarchi del Giardino, dei quali sappiamo molto poco, furono, in ordine: Polistrato, lppoclide, Dionigi, Basilide, Protarco di Bargilia, Apollodoro, soprannominato «il Tiranno del Giardino » (che si dice abbia scritto oltre quattrocento libri), Zenone di Sidone, Fedro e Patrone (Zenone e Fedro furono personalmente conosciuti e ascoltati da Cicerone) 7 • Nella seconda metà del primo secolo a. C. il Giardino ad Atene era ormai morto (dopo Patrone non si ha più notizia di altri scolarchi, e si sa che il terreno su cui sorgeva il Giardino era stato venduto) 8 , ma H verbo epicureo si era ormai da tempo diffuso dovunque, sia in Oriente sia in Occidente. Ma era in Occidente, e precisamente a Roma, che l'epicureismo doveva trovare la sua seconda patria, soprattutto per merito del poeta Lucrezio, che lo seppe cantare con la più alta e commossa poesia.
• Ciò risulta chiaramente dal titolo delle opere riportate de Diogene Laerzio, x, 25. ' Cfr. Diogene Laerzio, x, 25. 7 Su ciascuno di questi filosofi sono ancora utili le indicazioni biografiche e cronologiche raccolte dallo Zeller, Die Philosophie der Griechen, m, l, pp. 378 sgg.; vi si troverà l'indicazione di tutti i nomi di Epicurei di cui ci è giunta notizia. Cfr .. le indicazioni che diamo nd vol. v, pp. 372-376. • Cfr. Cicerone, Ad. fam., xm, l. Cicerone scrivendo a C. Memmio, lo pregava di risparmiare il Giardino di Epicuro, la cui area Memmio aveva acquistato dall'Areopago. II che significa che il Giardino non ospitava più la Scuola epicurea, che dunque ad Atene, probabilmente, era morta.
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SEZIONE SECONDA
LA DIFFUSIONE DELL'EPICUREISMO A ROMA E LUCREZIO
« bune igitur terrorem animi tenebrasque necessest
non radii solis neque lucida tela diei discutiant, sed naturae species ratioque ». « ... Né valgono i raggi del sole a sperder le tenebre e questo terrore dell'animo, ma solo lo studio del vero, ma solo la luce della ragione ». Lucrezio, De rerum natura, n, 59-61
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I.
I PRIMI TENTATIVI DI INTRODURRE L'EPICUREISMO A
ROMA E IL CIRCOLO DI FILODEMO
l. Il tentativo di fallimento
Alceo e Filisco e il suo
Un tentativo stroncato subito agli inizi, di introdurre il verbo epicureo a Roma, fu fatto da due seguaci del Giardino (non noti se non per questo tentativo), di nome Alceo e Filisco i quali furono subito cacciati da Roma 1 • Questo accadde sotto il consolato di Lucio Postumio. Ora, vi fu un consolato di un L. Postumio nel 173 a. C. e un altro nel 154. Per conseguenza, gli studiosi sono divisi fra le due date. Nel 156/155 ci fu a Roma la nota ambasceria dei tre filosofi greci più famosi a quel tempo: Carneade, Critolao e Diogene (il primo scolarca dell'Accademia, il secondo del Peripato e il terzo della Stoa), i quali, approfittando della circostanza, tennero lezioni pubbliche e tentarono di propagandare le loro dottrine, e per questo furono espulsi, soprattutto per volere di Catone. Orbene, è ben possibile - pensa qualcuno - che proprio per questo motivo, dal momento che lo scolarca del Giardino non era stato inviato a Roma con gli altri tre scolarchi, due Epicurei abbiano voluto tentare per conto proprio quell'esperimento. Altri studiosi propendono, invece, per la data anteriore, ritenendo improbabile che qualcuno osasse, subito dopo l'espulsione dei tre celebri scolarchi, ritentare l'esperimento di in' Cfr. Ateneo, Deipnosoph., xn, 68, 547 a; Eliano, Var. hist., Ateneo si legge Alcio, in Eliano Alceo).
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IX,
12. (In
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DIFFUSIONE DELL'EPICUREISMO A llOMA
trodurre a Roma la filosofia 2 • In ogni caso, la data ha una importanza relativa. Il motivo che fu addotto per espellere Alceo e Filisco da Roma fu la licenziosità dei costùmi che essi predicavano (in quanto esortavano i giovani ai piaceri 3 ), e, dunque, fu una Ngione di carattere morale, o religioso-morale. 2.
Il tentativo di Amafinio
Più fortunato fu il tentativo di Amafinio, che per primo compose un trattato filosofico in latino, sostenendo appunto idee epicuree. Scrive Cicerone: Opere rappresentative di questa filosofia, in latino si può dire non ne esistano: o, se mai, sono assai poche. Ciò è dovuto alla difficoltà della materia e al fatto che i nostri connazionali erano presi da ben altri problemi, e ritenevano inoltre che quelle non fossero cose da piacere a gente senza istruzione come erano loro. Mentre essi tacevano, venne fuori Gaio Amafinio: quando uscirono i suoi libri la gente ne rimase impressionata, e accordò notevolissimo favore alla dottrina di cui egU era rappresentante, per la facilità con cui si capiva, per l'attrazione esercitata dalle seducenti lusinghe del piacere, e anche perché, dal momento che non le era offerto nulla di meglio, prendeva quello che c'era. All'opera di Amafinio hanno fatto seguito, in gran numero, gli scritti dei molti altri partigiani dello stesso sistema, che hanno invaso tutta l'Italia: ora, è questa la miglior prova che le loro teorie non sono profonde, dal momento che si capiscono con tanta facilità e trovano credito presso chi non se ne intende. Per loro, invece, questo qui è il dato infallibile che conferma la bontà del loro sistema 4•
E sempre in riferimento ad Amafinio Cicerone scrive ancora: 2 Cfr. sul problema: Boyancé, Lucrezio e l'epicureismo, p. 17 e nota 3. • Cfr., sopra, la nota l. • Cicerone, Tusc. disput., IV, 3, 6-7 (traduzione di A. Di Virginio).
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Dico questo [si riferisce al proposito da lui stabilito di introdurre la filosofia in Roma seguendo rigore logico, buon gusto ed eleganza] perché ho sentito che libri [di filosofia] in latino ne esistono, e come: sarebbero libri scritti da quei tali che si fanno chiamare filosofi. lo questi libri · - sarà perché non li ho mai letti - non è che li disprezzi: ma quando i loro stessi autori ammettono apertamente di non saper scrivere né con chiarezza, né con ordine, né con gusto, né con eleganza, io rinuncio senza rammarico a una lettura cosl poco attraente. Tanto, le teorie della loro scuola le sanno già tutti quelli che abbiano un minimo di cultura. Cosl, visto che poi non si preoccupano nemmeno loro del modo in cui scrivono, non vedo perché gli altri debbano andare a leggerli: che si leggano tra di loro, con quelli che la pensano in quel modo. Platone e gli altri socratici, coi filosofi che si ricollegano alla loro scuola, li leggono tutti quanti, anche quelli che non la pensano come loro o che non sono simpatizzanti del loro sistema: mentre Epicuro e Metrodoro li prendono in mano i loro seguaci e basta, si può dire. Cosl è per i libri di questi scrittori latini: li leggono solo coloro che prendono per vero ciò che essi dicono. Noi invece siamo del parere che, qualunque cosa si scriva, si debba scrivere per il pubblico colto: e se non riusciamo a mantenerci sul piano adeguato, non dobbiamo per questo dimenticarcene 5• Dunque, i libri di filosofia epicurea di Amafinio e dei suoi seguaci avevand un carattere fondamentalmente divulgativo, erano, cioè, diretti in prevalenza ad un pubblico non colto, e, probabilmente, si limitavano all'etica, o almeno puntavano soprattutto sull'aspetto pratico dell'epicureismo. Certo essi non dovevano disquisire sulle complesse questioni dell'atomismo, altrimenti quanto dice Cicerone non avrebbe senso. Pertanto, il movimento di Amafinio dovette avere carattere essenzialmente popolare. La collocazione cronologica di questo movimento è purtroppo incerta: si è pensato, da alcuni, alla fine del II secolo a. C.; da altri, invece, agli inizi del 1 secolo a. C.; infine c'è qualcuno che colloca il movimento negli anni immedia5
Cicerone, Tusc. disput., n, 3, 7-8 (traduzione di A. Di Virginio).
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DIFFUSIONE DELL'EPICUREISMO A ROMA
tamente anteriori all'epoca in cui Cicerone ne fa menzione (46/45 a. C.) 6 •
3.
Il circolo di Filodemo
In Italia, nel 1 secolo a. C., si costitul un altro circolo di Epicurei, di carattere decisamente aristocratico, che trovò la sua sede in una villa di Ercolano di proprietà di Calpurnio Pisone, noto e influente uomo politico (fu suocero di Cesare e fu console nel 58 a. C.), e grande mecenate. L'uomo che converti Calpurnio Pisone all'epicureismo era nato a Gadara in Siria e si chiamava Filodemo. Venuto a Roma da Atene dopo la morte del maestro Zenone di Sidone, contrasse amicizia con Calpurnio Pisone, il-quale gli mise a disposizione, come s'è detto, una sua villa ad Ercolano, che divenne la sede di un cenacolo epicureo frequentato dall'alta società romana 7 • Gli scavi compiuti ad Ercolano hanno portato all'identificazione della villa e al ritrovamento dei resti di una biblioteca costituita di scritti di Epicurei e in particolare di scritti dello stesso Filodemo 8 • Contrariamente all'epicureismo di Amafinio, quello di Filodemo mantenne la lingua greca e affrontò problemi tecnici ad alto livello. Nella rinascita di studi epicurei, in atto da qualche decennio, la figura di Filodemo sta vieppiù acquistando una sua fisionomia precisa. Un contributo di Filodemo, almeno in parte originale, dovette consistere nell'approfondimento delle opera• Cfr., sul problema, H. Howe, Amafinius, Lucretius and Cicero, in « American Journal of Philology », 72 (1951), pp. 57-62. 7 Filodemo è contemporaneo di Cicerone (nacque verosimilmente verso la fine del n secolo e mori fra il 40 e il 30 a. C.). • Sull'argomento si veda: D. Comparetti, La villa dei Pisani in Ercolano e la sua biblioteca, Napoli 1879.
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zioni logiche che sorreggono l'umano ragionare, iniziato già dal maestro Zenone, e in particolare nell'approfondimento del procedimento induttivo fondato sull'analogia. Filodemo indagò il problema degli Dei, della religione e della morte. Si occupò diffusamen~e di problemi dell'arte e della retorica, nonché della economia 9 • Ma il contributo di gran lunga più cospicuo all'epicureismo doveva venire dal canto del poeta Tito Lucrezio Caro, di puro sangue latino, e indipendentemente sia dal movimento popolare messo in atto da Amafinio, sia dal circolo dotto di Filodemo e di Calpurnio Pisone. Di Lucrezio dobbiamo dire a parte, perché, malgrado non presenti novità filosofiche degne di rilievo rispetto ad Epicuro, costituisce tuttavia un unicum nella storia della filosofia di tutti i tempi.
' Dettagliate indicazioni su Filodemo si troveranno nel vol. v, sotto la voce, pp. 391 sg.
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II. LUCREZIO E IL VERBO EPICUREO CANTATO NELLA PIÙ ALTA POESIA
l.
Inadeguati giudizi su Lucrezio
Sono ben note le posizioni dei vecchi interpreti di Lucrezio 1 , che sottolineavano il netto divario fra l'altezza e la sublimità della sua poesia e la povertà, la freddezza e perfino l'empietà della dottrina epicurea che canta. E sono noti i tentativi di mostrare come Lucrezio poeta finisca per spiccare il suo volo oltre Epicuro e, perfino, contrç> Epicuro. E sono noti, infine, i tentativi di mostrare un « Ant-ilucrezio » in Lucrezio, in quella diffusa malinconia e in quella fitta tristezza l ·Lucrezio nacque all'inizio del I secolo a. C. e morl verso la metà di esso. (Si veda la discussione delle fonti da cui si ricavano questi dati in Boyancé, Lucrezio e l'epicureismo, pp. 26 sg.). Della sua vita si conosce pochissimo. Da san Gerolamo apprendiamo che Lucrezio impazzi per aver bevuto un filtro amoroso e che compose il suo poema negli intervalli di lucidità concessigli dalla follia. Per quanto la notizia sia da molti considerata pura favola, non sono pochi gli studiosi che vi vedono almeno una parziale verità, non solo perché tali filtri erano effettivamente in uso a Roma, e non solo per un certo disordine del poema, ma anche per un certo furore poetico che in non pochi passi crea un'atmosfera esaltata e anche per quell'ansia che pervade tutti i Canti. Sempre da Gerolamo sappiamo che Lucrezio morl suicida a 44 anni. E ancora da Gerolamo sappiamo che Cicerone « emendavit » il poema lucreziano, espressione che la recente critica interpreta come «pubblicò» (cfr. Boyancé, pp. 33 sg.). In effetti Cicerone, in una let~ra del 54, dice del De rerum natura che è opera piena di ingegno e di talento artistico. Egli non considerò tuttavia Lucrezio come un pensatore e non lo nominò mai nei suoi trattati filosofici. Lucrezio è stato nei tempi moderni di gran lunga più studiato e più amato di Epicuro stesso, appunto per la sua poesia altissima. Tutti gli studiosi concordano infatti nel giudicare il De rerum natura il più grande poema filosofico di tutti i tempi. Noi ci occuperemo invece del significato di Lucrezio filosofo.
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LUCREZIO
che pervadono il poema: tristezza e malinconia che si ritenevano decisamente antiepicuree e, quindi, contrarie anche alle intenzioni epicuree di Lucrezio. Orbene, tutte queste opinioni nascono, fondamentalmente, da una effettiva incomprensione di Epicuro. In effetti, il fondatore del Giardino ha cominciato ad essere inteso in profondità solo nel nostro secolo. Si capisce, pertanto, come l'incomprensione di Epicuro comportasse, fatalmente, l'incomprensione dell'epicureismo lucreziano e quindi di Lucrezio. E come al Bignone spettò il merito di aver riletto in nuova chiave il pensiero di Epicuro, cosi spettò al Bignone anche il merito di aver saputo abbattere il radicato pregiudizio che portava a vedere Lucrezio in una antitesi di fondo rispetto ad Epicuro2.
2. I l pessimismo d i partenza e l a v i t tori a d e 11 a ragione in Lucrezio e in Epicuro
L'antitesi più notevole, ripetutamente additata dalla critica, fra Lucrezio ed Epicuro, fu vista nei celebri versi del canto quinto che sembrano intrisi di profondo pessimismo, in quanto illustrano il male e il dolore, i quali inesorabilmente pervadono il mondo intero: la natura non sembra fatta per l'uomo e l'uomo non sembra fatto per la natura. Ecco i famosi versi: Potrei non sapere del mondo le origini, ma dai segni del cielo e da molte cose create io sono certo che il mondo non è fatto per noi: tanto esso è forte di male. Quanto di spazio copre lo slancio terrestre gran parte hanno i monti 2
Cfr. E. Bignone, Storia della letteratura latina, n, Firenze 1945, pp.
180 sgg.
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avidi, le selve grate alle fiere, le rupi, le paludi plumbee di stagni e i mari che fanno lontane le terre: qui l'arsura deserta, là il ghiaccio perenne ci tolgono la distesa del suolo: e il poco che avanza di terra più docile se la forza dell'uomo, per restare in vita, non preme in sudore la vanga, s'ingombra di sterpi. E noi fecondiamo le glebe con l'aratro, facciamo grandi le piante perché da sole non verrebbero all'aria. Ma intanto che le campagne frondeggiano e gli alberi e le erbe respirano con assidua cura educate, giunge su le opere umane la pioggia improvvisa e la brina o la fiamma troppo accesa del sole: oppure scende a schiantarle il soffio dell'uragano. E la natura dovunque, per la terra e nei fondi del mare che alleva le stirpi delle belve, spinge su noi i fiati maligni delle stagioni: e la morte va in giro inaspettata. E il fanciullo, come naufrago gettato alla riva dalle onde infuriate, giace nudo a terra, senza poter parlare, bisognoso d'aiuto; e quando dall'urlo materno la natura l'ha buttato là nella luce piange e fa lugubre il giorno di lamenti: presagio del male che gli rimane di vivere. Invece le bestie, gli armenti, le belve crescono varie né di trastulli han bisogno né di nutrici con blande e tenere voci né di vesti che mutano al mutare del tempo, non d'armi, non di muraglie a difendersi: giacché tutto per loro produce la terra generosa, a tutto per loro provvede natura 3 • Orbene, il Bignone ha dimostrato che, lungi dal cadere in una forma di eresia, in questi versi, Lucrezio ripete concetti 3 De rerum natura, v, 195·234. La traduzione che qui e in seguito riportiamo è di E. Cetrangolo (Sansoni, Firenze 1969, con testo a fronte), a nostro avviso assai bella.
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puntualmente sostenuti da Epicuro in un'opera polemica volta a confutare il dialogo aristotelico Sulla filosofia 4 • All'ottimismo teleologico aristotelico Epicuro contrapponeva una visione decisamente non ottimistica e fortemente disteleologica, in cui egli parlava di « imperizia» e «inettitudine » della natura, e quindi di mancanza totale di finalità 5, e adduceva argomenti analoghi a quelli utilizzati da Lucrezio. Ma ecco, ad ulteriore riconferma, uno stralcio di un frammento epicureo molto significativo nel suo pessimismo di fondo, che sembra andare perfin oltre quello del passo lucreziano sopra letto: Epicuro vedeva che le avversità colpivano sempre i buoni: povertà, travagli, esilio, perdite dei propri cari; vedeva che i cattivi sono sempre felici, divengono sempre più potenti, ricevono cariche e onori; vedeva che l'innocenza è indifesa, i delitti restano impuniti; vedeva che la morte infierisce senza tener conto dellll condotta degli uomini, senza ordine né distinzione di età, ché alcuni giungono alla vecchiaia, altri sono rapiti alla vita bambini, altri muoiono adulti, altri nel primo fiore dell'adolescenza sono spenti da morte immatura; vedeva che nelle guerre son piuttosto i migliori ad essere vinti e a perire. Ma soprattutto lo commoveva che gli uomini davvero pii sono afflitti da più gravi mali, mentre quelli che o sono del tutto incuranti degli dei o non prestano loro il dovuto ossequio soffrono mali minori o non ne soffrono affatto [ ... ] 6 •
Dunque, come Lucrezio, Epicuro non negava affatto i mali del mondo, anzi li riconosceva e li sottolineava. Egli yoleva, però, curarli, voleva lenirli e superarli con la sua filosofia. E giustamente il Bignone rileva: « [ ... ] quanto più la sorte degli uomini lasciati a sé è dolorosa, tanto più grande è l'orgoglio di trionfo della filosofia che, secondo Epicuro, per essi conquista la felicità. Il capolavoro della natura non • E. Bignone, Storia della letteratura latina, vol. n, pp. 183 sgg. • Cfr. Galeno, De usu partium, VII, 14, vol. III, p. 571 sg. Kiihn ( = Usener, fr. 381, ·p. 255). • Lattanzio, Div. Instit., m, 17, 8 (= Usener, fr. 370 [traduzione di L. Massa Positano]).
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è dunque per Epicuro il mondo, come per l'Aristotele del De philosophia, contro cui egli polemizzava, ma l'uomo, a cui la natura, pur tra i mali che lo insidiano, lasciò la possibilità di trionfare per saggezza "sl che degna dei Numi egli possa viver la vita" » 7 , come lo stesso Lucrezio ribadisce 8 • Dunque, identica è la cifra spirituale che caratterizza il pensiero del fondatore del Giardino e quello del poeta romano che lo ha cantato. E quella stessa angoscia che pervade tutto il poema lucreziano è alla base del filosofare di Epicuro: sono proprio quegli oscuri mali dell'animo- di cui parla Lucrezio, che Epicuro voleva fugare con la sua parola e voleva ricomporre in superiore atarassia. Ché Epicuro tutte dovette provare entro di sé le angosce che volle curare: la paura degli Dei (lui, cosl convinto dell'esistenza di esseri divini, al punto da ammetterli senza più alcuna ragione né fisica né etica né escatologica), la paura dei mali (lui, cosl sofferente nel fisico e cosl sensibile nello spirito) e la paura della morte (lui che comprese cosi bene come essa sia sentita come il più orrendo dei mali per gli uomini). E, come abbiamo visto, l'atarassia, la felicità epicurea, non è inerzia, non è immobilità né accidia 9 , e nemmeno immediato dono di natura: essa è, invece, conquista lottata e sofferta, tramite il logos, che culmina nella suprema virtù della phr6nesis. L'atarassia epicurea è, a suo modo, trionfo della ragione dell'uomo sull'irrazionale che lo circonda. Anche Lucrezio, ribadendo puntualmente la posizione del Maestro, scrive: Ora, se questo è un rimedio ridicolo 10 7 Bignone, Storia deUa letteratura latina, vol. II, p. 185. • Il verso di Lucrezio è nel canto m, 322. • Cfr. Bignone, Storia della letteratura latina, vol. II, p. 186; dr. anche L'Aristotele perduto, vol. II, pp. 573 sgg. 10 Il rimedio ridicolo è quello illustrato nei versi che precedono, consistente nell'abbandonarsi a tutte le illusioni degli uomini: potenza, ricchezza e simili.
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e gli umani terrori e gli affanni seguaci non temono il suono dell'armi né guerre, ché anzi si mischiano audaci fra i re e i potenti, né il fulgore dell'oro li abbaglia o la porpora, perché dubitare che solo il potere della ragione sia in grado di abbatterli? tanto più che la vita è avvolta di tenebre.
E come i fanciulli vedon di notte atterriti nel vuoto dell'ombra fantasmi di gelide ali e ne fingono altri in cammino per l'aria, cosl nella luce tremano gli uomini di cose più esigue dell'ombre. Né valgono i raggi del sole a sperder le tenebre e questo terrore dell'animo, ma solo lo studio del vero, ma solo la luce della ragione 11 •
La differenza fra Epicuro e Lucrezio sta nel fatto che il primo, anche dal punto di vista esistenziale, riuscl a dominare con la ragione le sue inquietudini e angosce, mentre Lucrezio non vi riuscl; ma di ciò diremo più avanti.
3. La verità che lenisce il dolore e dona la pace Ma c'è un altro punto da rilevare, e proprio in riferimento alla ricostruzione razionale del reale e al senso della « fisica » che il De rerum natura ripropone. Sempre sulla linea della annosa e mal posta questione dell'originalità di Lucrezio, si è tentato, di recente, invertendo la rotta tradizionalmente seguita dalla critica, di additare propr-io nella scienza e nella rigorosità deduttiva del De rerum natura l'originalità del poeta romano 12 • " De rerum natura, n, 47-61. 12 A. D. Winspear, Lucretius antl Scientific Thought, Montreal 1963; traduzione italiana di F. Cardelli col titolo: Che cosa ha « veramente» detto Lucrezio, Roma 1968.
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Scrive il Winspear: « L'originalità di Lucrezio potrebbe essere analizzata ·su due livelli differenti. Primo: un talento per l'esposizione che gli fa prendere da uno dei suoi predecessori uno spunto prosaico che fa poi fiorire di metafore, immaginazione e passione. Secondo: una forza intellettuale che gli fa vedere assai più chiaramente di ogni pensatore antico le implicazioni della posizione filosofica che sostiene. Lucrezio aderl ad una concezione antiteologica dell'universo, evoluzionistica e antiteleologica, e restò attaccato a questa prospettiva e la espose assai più fermamente ed eloquentemente di qualsiasi altro pensatore antico. Questa concezione del mondo egli la applicò all'evoluzione delle piante, degli animali e dell'uomo e propose una teoria di evoluzione biologica e sociale che supera di gran lunga qualsiasi altra teoria proposta nell'antichità classica. Ed è forse questo che spiega la straordinaria modernità del pensiero di Lucrezio » 13 • Giocano, nell'interpretazione del Winspear, fattori di estrazione positivistica e anche marxistica, che, in realtà, sono del tutto estranei agli intendimenti lucreziani. In primo luogo, gioca il presupposto che la «scienza» (intendendo per « scienza » proprio la moderna scienza della natura), sia il supremo parametro della verità; in secondo luogo, gioca il presupposto che l'evoluzionismo darwiniano sia la lettura più scientifica della natura, e, infine, che l'atomismo sia il più perfetto dei tentativi fatti dagli antichi per intendere il mondo. Tutti questi presupposti, in realtà, contribuiscono non arivelare ma a velare il senso del verbo lucreziano. La « scienza » di Lucrezio è tentativo di cogliere la totalità, le cause supreme di tutta la realtà, i fondamenti ultimativi dell'essere e, perciò non è affatto scienza nel senso moderno del termine, ma è metafisica, o, in ogni caso, antologia (si ricordi il senso della greca physis, che con ampiezza abbiamo via via chiarito nel corso di quest'opera, e di cui la latina natura è l'esatto corri'" Winspear, Che cosa ba «veramente» detto Lucrezio, p. 10.
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spondente). L'evoluzionismo del poema lucreziano, su cui lo studioso molto insiste 1\ ha - e per conseguenza - tutt'altro senso teoretico rispetto all'evoluzionismo darwiniano, e, quindi, le tangenze che Winspear rileva sono accidentali e non toccano la sostanza delle due dottrine. Infine, anche l'atomismo lucreziano che Winspear esalta non è l'atomismo della nuova scienza. L'atomismo antico (e quello lucreziano non solo non fa eccezione, ma costituisce una delle più belle conferme) è una ontologia nata per superare gli Eleati e fondata su categorie eleatiche e, in particolare, melissiane. Anzi, fra le fisiche antiche l'atomismo è quella più fortemente aporetica, in particolare nella versione epicureo-lucreziana, a causa della assunzione del clinamen, di cui sopra abbiamo diffusamente detto. Senza contare, poi, che affermazioni del tipo di quelle del Winspear non ·reggono, se non altro, per il semplice motivo che la maggior organicità e consequenzialità dell'atomismo lucreziano, rispetto a quello degli altri Atomisti, potrebbe essere una pura illusione prospettica, dovuta al semplice fatto che di questi ultimi non possediamo testi ampi e organici, ma solo frammenti. Abbiamo richiamato questa posizione del Winspear perché ci permette, proprio rilevandone gli equivoci, di chiarire un punto essenziale. ~ vero che nel poema lucreziano si parla molto più di fisica che di etica, ma l'estensione con cui sono discusse le dottrine fisiche non deve gettare un velo sulla loro qualità, cioè sulla loro natura e sul loro scopo. Le dottrine fisiche non sono assolutamente fine a se stesse, ma rappresentano quel « vero » che deve fugare gli orrori e le angosce umane, quel «lume» che deve squarciare le tenebre delle menti, quella forza che deve far dileguare i fantasmi. Insomma, la fisica lucreziana non ha altro scopo, come le fisiche di tutte le Scuole ellenistiche, se non quello di •• Winspear, Che cosa ha « v~ramente » d'tto Lucrezio, pp. 7-26.
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dimostrare che esistono le dimensioni antologiche in cui può trovar posto una vita felice. Il vero della « scienza » che canta Lucrezio è solo quel vero che sa guarire i mali degli uomini, o almeno lenirli.
4. I principi d e l v ero epicureo e il c a n t o d i Lucrezio
Le novità che al vero e ai principi del vero epicureo apporta Lucrezio vanno dunque ricercate non in altro che nella sua poesia. A questo proposito scrive il Boy:ancé: «Per conquistare l'uomo, sia pure per liberarlo dalle passioni, bisogna innanzitutto commuoverlo. Per liberare gli uomini Lucrezio ha capito che non si trattava di ottenere, nei momenti di fredda riflessione, la loro adesione ad alcune verità di ordine intellettuale, ma che bisognava rendere queste verità, come avrebbe potuto dire Pascal, comprensibili al cuore » 15 • Ed, in effetti, una lettura del De rerum natura in questa chiave è la più feconda. Se si mettono in sinossi i passi di Epicuro e i corrispondenti passi del poema lucreziano, si noterà che la differenza è quasi sempre questa: il filosofo parla con il linguaggio dellogos, il poeta aggiunge a questo logos i toni suadenti del sentimento, colora illogos con l'intuizione fantastica, sorreggf: il concetto con l'immagine. Insomma: la novità è la magia dell'arte che s'aggiunge alla filosofia e la trasfigura e la fa penetrare nel cuore oltre che nella mente. In questa Storia della filosofia antica non possiamo occuparci dell'arte di Lucrezio 16 , ma solo del suo significato nell'ambito della storia del Giardino. Pertanto ci limiteremo ,. Boyancé, .Lucrezio e l'epicureismo, pp. 12 sg. " Al lettore raccomandiamo il citato volume del Boyancé, che a nostro avviso è uno dei più validi; alle pp. 341 sgg. il lettore troverà anche una bibliografia ricchissima.
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ad alcune esemplificazioni, scelte fra quelle più significative soprattutto dal punto di vista filosofico. Basti vedere come, dopo il prologo, il canto prin1o ridica nel modo più suggestivo i principi eleatici, fatti propri dagli Atomisti, che nulla nasce dal nulla e che nulla si dissolve nel nulla, i principi del vuoto e dei corpi. Principi di per sé ari· dissimi, e che nel canto lucreziano si ravvivano di inusitate risonanze piene di patos. Ma leggiamo come è riproposta la epicurea negazione della metafisica « seconda navigazione » platonica, cioè la negazione dell'esistenza di un essere incorporeo immateriale soprasensibile: E nulla che tu possa dire davvero incorporeo · esiste o diverso dal vuoto, qualcosa che sia quasi una terza scoperta natura. E poi, mi par chiaro: qualunque cosa esistente dev'essere pure qualcosa per sé, e se questo qualcosa può essere al tatto avvertito in modo anche lieve e sottile - non conta se grande o se piccolo esistendo dovrà noverarsi fra i corpi. Se poi non può essere ·al tatto avvertito né può ad altro corpo impedire il passaggio attraverso· di sé in ogni senso, sarà questo appunto il vuoto assoluto. Inoltre: ogni cosa esistente per sé o agisce o patisce alcunché, oppure farà che le cose si muovano e agiscano in lei; ma un.a cosa incorporea non può agire o subire e il vuoto soltanto può ai corpi far posto. E dunque, al di fuori di vuoto e materia non c'è un'altra cosa che possa nel mondo esiste~ per sé come terza né tale che possa cadere giammai sotto i sensi o esser raggiunta giammai dal pensiero 17 • 17
De rerunz natura, I,
43~8.
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Ed ecco come è riproposto l'infinito, con accenti melissiani: quell'infinito che il Greco non riuscl mai a comprendere a fondo, e che, quando ammise, ammise solo in senso materiale e quantitativo: Il tutto esistente non è in alcun senso finito: ché avrebbe altrimenti un estremo: ma è chiaro che mai di una cosa può esserci estremo se un'altra non c'è che ne segni il confine: di guisa che il punto si veda oltre il quale s'arresti la vista di quella. E siccome ammettiamo che nulla esiste oltre il tutto, al tutto manca l'estremo e la fine; né conta in che punto ti trovi del tutto: ché un punto qualsiasi ha innanzi a sé l'infinito. Tu pensa un momento finito lo spazio: se alcuno si spinge laggiù verso gli ultimi lidi del mondo e scagli una freccia veloce; che cosa ti piace di credere? che il dardo lanciato con forza raggiunga la mira e voli lontano o che possa qualcosa arrestarlo e impedirlo? Costretto tu sei ad accettare una di queste due cose; eppure sia l'una che l'altra ti chiude ogni via e ti piega ad ammettere che il tutto si estende infinito: giacché, sia che qualcosa impedisca al volo del dardo di giungere al segno, sia che il volo prosegua di fuori, partito non è certamente da un termine ultimo. Se vuoi continuare ti seguo dovunque tu ponga l'estremo confine e sapere la sorte vorrò di quel dardo. Né un termine avrai per fermarti e aperta avrai sempre la fuga in cerca di limiti nuovi. Ecco: allo sguardo una cosa limita l'altra cosi che ogni limite segna le forme del mondo: l'aria è confine di un colle, un monte dell'aria;
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la terra è termine al mare, il mare alla terra. Nulla c'è che il tutto chiuda in un giro da fuori. Se tutto lo spazio del mondo fosse chiuso da termini certi e finito, già sceso nel fondo sarebbe l'ammasso della materia a causa del peso e sotto la volta del cielo più nulla vivrebbe e il cielo né il sole sarebbero affatto: giacché accumulata sarebbe da tempo infinito nel basso l'inerte materia. Ma ora, com'è naturale, i germi dei corpi non hanno mai tregua perché non esiste un fondo ove possan cadere e fermarsi; e sempre con moto continuo accorrono atomi a formare le cose, da tutte le parti ed anche da sotto, veloci, dall'infinito. Tale è dunque la natura del vuoto, cosl dello spazio è fondo, l'abisso che neppure la folgore potrà mai percorrerlo intero né abbreviarne d'un punto solo il cammino, neppure se il tratto lucente durasse il corso perenne del tempo, tanto è lo spazio aperto alle cose da tutte le parti, libero inco!mahile vuoto. La stessa natura del resto provvede che il mondo non abbia confini: costringe i corpi ad essere cinti dal vuoto e il vuoto dai corpi: cosl che per questo alternarsi di vuoto e materia, per queste due cose sia il tutto infinito: ed anche se l'una non fosse limite all'altra, l'altra da sola sarebbe infinita 18 •
Ed ecco quest'altro passo in cui risuonano accenti che richiamano alla mente addirittura i leopardiani smarrimenti nell'infinito: Se fuori da queste ampie mura del mondo si stende lo spazio •• De rerum natura,
1,
958-1013.
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la mente vuole alzarsi a vedere e in quel vuoto l'animo mio peregrinare. Intorno a me non ho termine alcuno: è immensa la natura del vuoto, è certa questa profondità luminosa. Qui dove in lungo vuoto sospinti volano atomi non c'è posto per credere che solo la terra e solo questi archi celesti si siano formati: oltre di noi non ha requie la materia creatrice. E tanto più s'io penso che il mondo terrestre la natura ha fatto .per caso, che gli atomi si urtarono a caso e dopo molta e vana violenza finalmente riuscirono a stringersi e a gettare nei grembi del vuoto l'esordio dell'universo. Esistono altrove disperse altre masse di atomi come questa che l'etere copre in gelosa custodia. Non è meraviglia che dove la materia è disposta, dove è aperto lo spazio là nuove cose si formino. Se tanto è il numero dei nuclei creatori che tutta l'età dei viventi non basta a contarli, se la stessa forza permane che possa gli stessi elementi riunire dovunque al modo che qui li ha riuniti, è certo che altrove ci sono altre terre e altri mari, altre forme ci sono di animali e di uomini. Nella somma di tutte le cose non può esisterne una che sola sia generata, che parte non sia di una specie e di un ordine: come per le bestie dei monti, come per questa prole degli uomini, per le mute famiglie dei pesci, per i corpi degli uccelli nel vento. Da questi ra#ronti tu vedi che non uniche sono le cose che sono: non è unico il cielo né il sole né il mare:
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ma sono infiniti di numero, proprio perché è fisso nel fondo di ogni essere un termine, proprio perché tutto è formato alla morte. E per tutti gli spazi è lo stesso come qui delle cose terrene 19 • Lasciando da parte l'illustrazione dei modi con cui Lucrezio ripropone la teoria degli atomi, dei loro moti, della ge1terazione e della vita sulla terra e dei fenomeni celesti, nonché la teoria della conoscenza e dei simulacri, che ci porterebbe troppo oltre i limiti che la natura di quest'opera impone, vogliamo illustrare ancora qualche punto particolarmente significativo. Anche Lucrezio, come Epicuro, distingue due parti dell'anima, l'irrazionale e la razionale, e chiama la prima anima e la seconda animo o spirito. E come Epicuro, egli ripropone l'aporetica affermazione che l'animo o spirito è fatto di un elemento privilegiato che non ha nome. Dopo aver detto che nell'animo ci sono vento, aria e calore, scrive: Triplice dunque dell'animo appare l'essenza; ma questi elementi non bastano insieme a produrre la vita animale; ripugna al nostro intelletto di ammettere che alcuno di essi possa creare i moti del senso né suscitare i pensieri alla mente. Aggiungere a questi_ dqnque si deve una quarta sostanza, ch'è priva di nome;
e niente di questa c'è di più mobile né di più tenue, non cosa formata di più lisci e sottili elementi; ed è questa che sparte per prima alle membra i moti del senso [ ... ] 20 Anche qui, come in Epicuro, è quell'immateriale che, negato, si vendica, ricomparendo come sostanza «senza nome». Tuttavia, come. in Epicuro, esso viene dichiarato mortale in " De rerum natura, 11, 1044-1089. .., De rerum natura, m, 237-24.5.
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modo addirittura ossessivo: Come dal grano d'incenso non può separarsi l'odore senza che insieme l'un l'aftro si perdano, staccare dal corpo cosl non si può lo spirito e l'anima senza che il tutto perisca: fomiti di sorte comune essi nascono con atomi tanto fra loro intrecciati che l'uno non vive disgiunto dall'altro [ ... ] 21 • [ ... ] e se parlo, ad esempio, dell'anima spiegando com'essa è mortale, considera che intendo pure lo spirito, in quanto si tratta di cose congiunte fra loro ed unite 22 •
Ed ecco una delle argomentazioni più patetiche: Inoltre sentiamo ·che l'anima nasce insieme col corpo e cresce ed invecchia con lui. Come il bambino vacilla nei passi perché debole e tenero ha il corpo, cosl a lui s'accompagna una debole mente; ma poi, quando il tempo lo fa vigoroso, già uomo, cresce il giudizio e la forza dell'animo; e quando alla fine battuto il corpo sia stato dai colpi del tempo e stanche cadon le membra e s'accasciano logore, ecco lo spirito zoppica, la lingua s'inceppa, la mente s'annebbia e tutto ci manca, tutto si perde e s'invola. Ammettere dunque si deve che intera si dissipa la sostanza dell'anima, simile al fumo, nell'alte regioni dell'aria, perché la vediamo nascere e crescere insieme col corpo e invecchiare sfinita con gli anni del corpo 73 •
E ancora: Come l'occhio strappato dall'orbita, isolato dal corpo non vede più nulla, 21 22
23
De rerum natura, De rerum natura, De rerum natura,
111, III, III,
327-333. 422-424. 445-458.
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cosl da se stessi lo spirito e l'anima non possono nulla [ ... ] 24 •
E infine: Ma poiché stabilito nel corpo degli uomini è il luogo dove spirito ed anima possano vivere e crescere, a maggior ragione si deve negare che possano esistere e nascere fuori del corpo. Ed ecco perché, quando il corpo perisce, anche l'anima devi creder che muore, straziata nel corpo, Congiungere cosa mortale all'eterno, supporre che possano entrambi sentire in comune ed avere rapporti reciproci, è delirare. Che cosa si può immaginare più strana e discorde e stridente di ciò ch'è mortale unito all'eterno ed entrambi associati sostenere le stesse crudeli tempeste del mondo? 25 • È, questa, la netta antitesi della visione platonica e aristotelica, riproposta nella esatta portata in cui l'aveva formulata Epicuro.
Da ultimo, si ascolti come è ridetta la dottrina della morte: Dunque la mo~te non è niente per noi, non ci tocca per niente, perché l'anima è una cosa mortale. E come nel passato non sentimmo dolore quando i Punici vennero da ogni parte a far guerra e il mondo percosso tremò sotto gli archi dell'etere e fu incerto a chi andasse l'impero della terra; cosl quando più non saremo, quando il connubio del corpo e dell'anima, dal quale uniti respiriamo l'aria del giorno, si sarà spezzato, allora niente più ci muoverà; nemmeno se il mare .. De rerum natura, III, 563-565. 25 De rerum natura, In, 794-805.
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disteso sulla terra salisse a turbare la chiarità alta dei cieli 26 • E perfino nel caso che il tempo adunasse in futuro o avesse già adunato in passato, nelle infinite possibilità di combinazioni, quella combinazione di atomi che ora ci costituisce, questo non potrebbe in alcun modo mutare ciò che s'è detto: infatti, fra questa combinazione di atomi che noi siamo e l'altra che si potrebbe formare o che può già in passato essersi formata mancherebbe il legame essenziale della continuità di sensazione e coscienza, e dunque l'interruzione della morte rende le identiche combinazioni meccaniche totalmente altre l'una rispetto all'altra 27 • Perciò, conclude Lucrezio: [ ... ] la vita è stata in quell'intervallo interrotta e i moti qua e là si dispersero vagando lontano dai sensi. Bisogna che un uomo, perché lo raggiunga il dolore, sia vivo nel tempo in cui il male lo possa raggiungere. Siccome la morte ci toglie da questo e impedisce di esistere all'uomo cui volgersi potrebbero i mali, staremo sicuri che niente c'è nella morte di orrendo né infelice può èssere chi non esiste; né c'è differenza tra chi non è nato mai in alcun tempo e chi ha dato la vita mortale alla morte immortale 28 •
5.
La pietà per il dolore nel canto lucreziano
Una differenza che la poesia lucreziana comporta c'è, ed è la pietà per il male e per il dolore che colpiscono " De rerum natura, III, 830-842. 71 Cfr. De rerum natura, III, 843 sgg. " De rerum natura, m, 860-869.
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tutte le cose e la conseguente amplificazione di quel senso
di malinconia che c'era già in Epicuro, ma più contenuto, più neutralizzato e anzi spesso addirittura superato dalla ragione. È una pietà per il dolore cosmico: una pietà che va dalla amara considerazione sulla sorte delle stesse « muraglie del mondo» che, espugnate, cadranno un giorno in frantumi 29, alla compassione per l'umile giovenca che invano cerca il suo vitello che è stato sacrificato, mentre il suo inutile muggito si perde fra i boschi 30 • Ma è soprattutto pietà per l'uomo, e in particolar modo per l'uomo non saggio, il quale, privo della verità svelata da Epicuro, trascina una vita assurda ed inutile nell'affanno e nella noia, per perdersi poi nel nulla. Ecco uno dei passi più toccanti: Se gli uomini come sentono il peso che li stanca almeno potessero di tanto male scoprire la causa avrebbero forse una vita migliore. E cosl li vediamo incerti non saper cosa vogliono: li vediamo cercare inquieti altre sedi, un luogo diverso dal solito dove pure quel peso depongano: questo, annoiato delle sue stanze, esce dal suo ricco palazzo e vi torna: ha visto che fuori non c'è niente di meglio; quest'altro spinge i cavalli alla villa campestre, li sferza preclpite come a spegnere i tetti dalle fiamme, e già sulla porta sbadiglia: discende nel sonno e il grave affanno interrompe oppure rientra in città e le solite strade rivede. Ognuno vorrèbbe staccarsi da sé, fuggirsi lontano e non può, anzi sempre più a se stesso costretto si attacca e intanto si odia: malato non sa come il male gli viene, non vede la causa del male. Ché se mai la vedesse lascerebbe andare ogni cosa per tentare Cfr. De rerum natura, "' Cfr. De rerum natura,
29
II, II,
1144. 355 sgg.
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di aprire dal fondo questo sordo segreto della materia: dove non è un'ora che scorre o un giorno soltanto, ma il tempo eterno, l'età che ci prepara la morte. Perché una smania atroce di vivere ci fa trepidare tanto nei pericoli incerti della fortuna? Eppure sta fissa ai mortali una fine sicura, la morte inevitabile termine ultimo. La via che facciamo affannati è sempre la stessa né il tempo ci mostra vivendo un nuovo piacere. Ci sembrano belle soltanto le cose lontane dal desiderio: larve che appena raggiunte rimandiamo lontane, cercandone altre, arsi sempre e spronati da una sete medesima. Che cosa per sorte ci rechi il futuro è incerto, quale caso, quale esito volga il giorno alla sera. Né prolungando la vita potremo niente sottrarre al tempo che segue la morte, neppure un minuto. Tu potresti vivendo chiudere età quante vuoi, non di meno la morte resterà quella: eterna. E chi della luce avrà visto oggi 1a fine non starà nella quiete del nulla un tempo più corto di chi giace in quella da ieri o da anni o da secoli 31 •
Il vero inferno e i veri dannati, secondo Lucrezio, sono qui sulla terra: i veri dannati sono coloro che ignorano la parola della saggezza. Lucrezio ha immensa compassione per essi. Tantalo soffre i tormenti del macigno sospeso sul capo qui sulla terra, ed è colui che teme gli Dei. Tizio soffre lo strazio di uccelli che lo lacerano, qui sulla terra, ed è colui che fomenta passioni e angosce che lo tormentano e divorano. E cosi Sisifo è colui che si affanna ogni giorno in continue fatiche per ottenere il potere, e che puntualmente ritorna deluso e sconfitto 32 • I flagelli del Tartaro e le Furie che puniscono i più tristi delitti sono tutti qui in terra:
31 32
De rerum natura, 111, 1053-1094 Cfr. De rerum natura, m, 978 sgg.
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Ma esiste qui nella vita un terrore di pene gravi pe' gravi delitti e il castigo dei crimini: il carcere, il lancio giù dalla rupe, le verghe, i carnefici, lastre roventi, la pece, le torce; ed anche in assenza di tali castighi, l'anima stessa, conscia e atterrita al pensiero dei crimini, s'affligge con sproni e flagelli da sola né vede quale mai fine si trovi ai tormenti, ed anzi ha paura che li aggravi la morte. Gli stolti hlliD. qui sulla terra il vero Acheronte 33 • E, per converso, Lucrezio è convinto che, come lo stolto ha qui il suo inferno, il saggio ha qui il suo paradiso, e scrive tutto il poema per dimostrare questo. Ma proprio la sincerità del suo canto e la sensibilità al dolore degli altri dicono i limiti di quel paradiso, ancor meglio e ancor più di quanto non lo dicesse la composta riflessione di Epicuro. È un paradiso che non annulla il dolore né la morte e quindi è un paradiso che non appaga. Del resto Lucrezio, lasciandosi prendere la mano dal sentimento, scrive: Che male sarebbe mai stato per noi non essere nati? 34 • È una domanda a cui l'epicureismo non sa e non .può
rispondere. La vita potrebbe essere detta una cosa buona solo
se l'essere fosse identificato col positivo e col bene e se il telos sorreggesse le cose, ma non se l'essere nasce da atomi, da vuoto, da movimento e da cieca declinazione, totalmente estranei al bene e al fine .
.. De rerum natura, III, 1014-1023. 34 De rerum natura, v, 174.
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S e n s o d e 11 a v i t a e d e 11 a m or t e
Epicuro, nel giorno stesso della sua morte, come già abbiamo detto, pur fra gli spasimi del male della pietra, si proclamava felice, e, ripiegandosi sul passato, diceva bella la vita, affermando la sua vittoria sulla morte 35 • Metrodoro, dal canto suo, ribadiva: Ti prevenni, o Fortuna, da ogni insidia mi premunii: e non a te, non ad altro frangente m'arrendérò: ma quando sia necessità dipartirei, assai sputacchiando la vita e quelli che ad essa stoltamente si appiccicano, con bel peana ci dipartiremo, proclamando che ben per noi s'è vissuto 36 • Dove lo sputacchiare la vita significa sputacchiare la assurda pretesa di vivere ad ogni costo, di vivere eterni, e quindi significa sputacchiare la morte. Identico concetto svolge Lucrezio, amplificandolo: Che cosa mai tanto ti è caro, povero mortale, che piangi la morte e ti abbandoni a scomposti lamenti? Se la vita che hai consumato fin qui ti piacque né ti fluirono invano i piaceri raccolti come in un vaso forato, perché non ti alzi e non te n'e vai dalla vita come dal convito un ospite sazio e non accetti, o stolto, la quiete? Se invece la tua gioia è perduta e ancora la vita ti offende, perché vuoi aggiungere altri giorni ai tuoi mali e piuttosto non metti una fine al fastidio di vivere? lo non ho niente da darti di nuovo che possa piacerti: qui tutto è sempre lo stesso 'SI. Epicuro, fr. 138 Usener. Sentenze Vaticane, 47. " De rerum natura, III, 932-945.
35
36
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In altri termini: chi ha saputo vivere bene, quando è l'ora della morte non ha rimpianti, e se ne va come l'ospite che al banchetto si è saziato. Chi non ha saputo vivere bene è inutile che continui a vivere, perché, continuando a vivere, continuerebbe a vivere male. In ambedue i casi, la morte non è un male. Diceva il Bignone, a proposito di Epicuro, che la negazione che la morte sia un male era una sfida al destino e una eroica menzogna: l'eroica· menzogna che rese appunto grande Epicuro 38 • In Lucrezio la menzogna eroica fa sentire tutta la sua drammatica contraddittorietà, proprio attraverso la poesia. In effetti, vien spontanea la domanda: perché il convitato deve inesorabilmente lasciare il banchetto, senza alcun appello, quando gli è imposto, e dichiararsi ospite sazio, anche se il banchetto è solo all'inizio, o non è terminato? Fuor di metafora, Lucrezio spiega che la morte è una legge ineluttabile. Ma non sa dire, come non lo sa dire Epicuro, perché tale legge non sia assurda. E proprio con la forza della sua poesia, Lucrezio dice l'immedicabile desiderio che l'uomo ha di eterno, e dice, proprio contro le argomentazioni che adduce, che non c'è modo di dar senso ad una vita che sia solo una breve stagione fatta per il nulla. Sono i limiti e le aporie del messaggio epicureo, che la verità della poesia fa emergere dal sistema logico. Ma proprio per questo Lucrezio non tradisce Epicuro, lo rende più toccante e più vero. Ma è anche giusto riconoscere che nessuna filosofia, e non solo quella epicurea, ha mai saputo rispondere a livello del puro logos ai problemi della morte e del male, perché morte e male sono l'irrazionale, che la ragione - da sola - può al " Bignone, Epicuro, p. 41.
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massimo nascondere, tacere o negare, ma non penetrare e spiegare. In Epicuro, cosi come in Lucrezio, il male è appunto velato e la morte negata; ché il dilemma: finché ci sei tu non c'è la morte e quando c'è la morte non ci sei più tu, nega proprio il momento tragico della morte, che non è il nulla del non esserci più, ma è il momento della vita che cessa, è il negativo che toglie il positivo, è il momento dell'essere che va nel non essere, ed è proprio di fronte a questo nullificarsi dell'essere che la ragione resta ·tragicamente muta.
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PARTE TERZA
LO STOICISMO DALLE ORIGINI ALLA FINE DELL'ERA PAGANA
« Nulli praeclusa virtus est, omnibus patet, omnes
admittit, omnes invitat, ingenuos, libertinos, servos, reges, exules. Non eligit domum nec censum, nudo homine contenta est ». « La virtù non è preclusa ad alcuno, è permessa a tutti, accoglie tutti, chiama a sé tutti, liberi, liberti, schiavi, re, esuli. Non sceglie la casa o il censo, si accontenta dell'uomo nudo».
Seneca, De beneficiis, m, 18
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SEZIONE PRIMA
LO STOICISMO ANTICO
• aol a~ 7t'ii~ 113c x6a!'OI;, SÀI!7176jUVO~ 7t'Epl yor;tor;v, 7td.&trotl, fl XEV 4'Y1l~· xor;l ix~v U7t'Ò ado xpotTELTotL t. « A T e tutto il mirabile universo Che ruota intorno a questa te"a ognora, Obbedisce, da T e guidar si lascia E del comando Tuo fa il suo volere».
Oeante, Inno a Zeus, vv. 7 sg. (von Arnim, S.V.P., I, fr. 537)
«4-you Sé 11-', w Z!U, xor;l ero y'lj 7t'E7t'P(J)I'Wq, ll7toL 7to.&'ul'i:v el11-l SlotTET«Y!'évo~, C:,~ l!ljlo!'«L y'4oxvo~· fjv 8é ye l'lJ .&éÀ(J) xatxò~ YEW!'EVO~, oòaèv -Jjnov l!ljlol'ot' •· « Guidami, o Zeus, e tu, Destino, al termine, Qual esso sia, che d'assegnarmi piacquevi.
Seguirò pronto, eh~ se poi m'indugio, Per esser vile, pur dovrò raggiungervi ». Oeante (von Arnim, S.V.P.,
I,
fr. 527)
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I. ZENONE, LA FONDAZIONE DELLA STOA E LE DIVERSE FASI
DELLO STOICISMO
l. L' i n c o n t r o d i Z e n o n e c o n C r a t e t e e c o n il socratismo
Nel312/311 a. C. giunse ad Atene, dall'isola di Cipro, un giovane di razza semitica, con l'intento di prendere diretto contatto con le fonti della grande cultura ellenica e di dedicarsi interamente alla filosofia. Era Zenone, l'uomo che avrebbe dovuto fondare quella che, forse, fu la più grande delle Scuole dell'età ellènistica 1• Il padre Mnasea, che si recava ' «Zenone figlio di Mnasea nacque a Cizio in Cipro, città greca che aveva avuto coloni fenici,. (Diogene Laerzio, VII, 1), intorno al 333/332 a. C. Non c'è ormai dubbio che, come il Pohlenz ha dimostrato (Die Stoa, Geschichte einer geistigen Bewegung, traduzione italiana, Firenze 1967, pp. 26 sg.; cfr. sotto la ~ota 30), Zenone sia stato di sangue semitico. Si trasferl ad Atene all'età di ventidue anni, non già in seguito ad un casuale naufragio (alla versione del naufragio Diogene stesso, che la riferisce [VII, 2], contrappone opposte versioni [vii, 5]), ma per una precisa scelta spiritutle. Per quanto concerne i rapporti che egli ebbe con i filosofi che insegnavano allora ad Atene e la fondazione della Stoa, diremo più avanti. Delle sue opere, tutte per noi perdute, Diogene fornisce un elenco abbastanza nutrito (VII, 4). Zenone morl nel 262. Il suo insegnamento gli meritò grande stima e rispetto, a motivo dell'elevato senso morale. La sua rettitudine e morigeratezza divennero proverbiali. Malgrado fosse straniero, gli Ateniesi gli conferirono grande onore: « depositarono nelle sue mani le chiavi delle mura della città, gli tributarono una corona d'oro e gli elevarono una statua di bronzo,. (Diogene Laerzio, VII, 6). I frammenti di Zenone, cosl come quelli di tutti gli Stoici antichi, sono stati raccolti e sistemati da Hans von Arnim, Stoicorum Veterum Fragmenta, 4 voll., Lipsiae 1903-1924. Il volume 1 contiene i frammenti di Zenone e dei suoi discepoli (Aristone, Apollofane, Erillo, Dionigi d'Eraclea, Perseo, Cleante, Sfero); il volume II contiene i frammenti logici e fisici di Crisippo; il volume m contiene i frammenti morali di Crisippo e quelli dei successori (Zenone di Tarso, Diogene di Babilonia, An-
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LO STOICISMO ANTICO
da Cipro ad Atene come commerciante, gli aveva portato, di ritorno da uno dei suoi viaggi, alcuni scritti socratici: Demetrio di Magnesia negli Omonimi riferisce che il padre di lui Mnasea, essendo un commerciante, veniva spesso ad Atene e di qui portava molti libri socratici a Zenone ancora fanciullo. Perciò ancor prima di lasciare la sua patria aveva già una preparazione filosofica 2 • Furono, con molta probabilità, appunto questi « libri socratici » che maturarono nel giovane la decisione di trasfe· rirsi ad Atene. Nella capitale della cultura ellenica non furono gli uomini delle grandi Scuole dell'Accademia e del Peripato a determinare l'orientamento di Zenone, ma fu in primo luogo un rappresentante delle Scuole socratiche minori: Cratete, discepolo di Diogene il Cinico, a sua volta discepolo, come sappiamo, di Antistene 3 • Ma Cratete Cinico offri a Zenone soprattutto un esempio pratico di vita filosofica, che rispondeva solo in parte a quelle esigenze che il giovane sentiva urgere dentro di sé. In Cratete mancava una giustificazione teoretica adeguata della sua scelta di vita: pertanto, nel suo insegnamento, Socrate era presente solo a metà. Socrate aveva insegnato fondamentalmente questo: a) che il vero uomo è l'uomo interiore (è la psyché); b) che pertanto i beni non sono quelli esteriori ma solo quelli interiori; c) che la felicità consiste quindi solamente tipatro di Tarso, Apollodoro di Seleucia, Archedemo di Tarso, Boeto di Sidone, Basilide, Eudromo, Crini); il volume IV contiene gli indici a cura di M. Adler. Tutti i riferimenti delle citazioni si rifanno a questa raccolta del von Arnim, rimasta finora unica. In italiano è stato tradotto il volume I da N. Festa, diviso in 2 volumi: Zenone occupa il primo (Bari 1932), i discepoli di Zenone occupano il secondo (Bari 1935); il Festa ha però riordinato con criteri diversi il materiale dell'Arnim, dando anche un succinto commento. Di notevole rilievo è la ricostruzione del pensiero zenoniano fatta da A. Graeser, Zenon von Kition, Berlin-New York 1975. 'Diogene Laerzio, VII, 31 (= von Arnim, S.V.P., 1, fr. 6, p. 7, 10 sgg. [traduzione di M. Gigante]). 3 Cfr. sopra, pp. 40 sgg.
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ZENONE E LA STOA
nell'attuazione di questi beni; d) che i fatti, le circostanze, e, in genere, tutto ciò che è esterno non ci possono impedire l'attuazione di questi valori e quindi il raggiungimento della felicità: gli uomini possono uccidere il nostro corpo, ma non possono farci del male, perché non possono toccarci l'anima, se noi non lo vogliamo; e) che per il raggiungimento di questa meta occorre la scienza, iJ vero sapere. Platone aveva accolto tutte queste premesse ed aveva sviluppato e approfondito la struttura di tale sapere, in Socrate solo abbozzata (l'Accademia c il Peripato avevano poi proseguito su questa linea). Invece le Scuole socratiche minori (con la sola eccezione deHa Scuola megarica) avevano accolto tutte le premesse socratiche, meno l'ultima; per conseguenza, avevano dato ad esse un significato decisamente contrario a quello che loro aveva dato Platone. Come abbiamo detto, il socratismo, soprattutto con i Cinici, divenne una pratica di vita e la riflessione si restrinse all'elaborazione di alcuni principi e norme immediatamente applicabili, senza il supporto di una adeguata deduzione teoretica dei medesimi. Zenone si accostò anche ad un'altra Scuola socratica minore, che in quel tempo mieteva ancora successi, e precisamente alla Scuola dei Megarici: ci viene infatti riferito che egli « fu alunno di Stilpone », il quale, come sappiamo, verso la fine del secolo IV a. C. era ~na grossa celebrità 4 • Ma la dottrina megarica mutilava Socrate ancor più di quella cinica, esaltando il momento logico-dialettico e rischiando addirittura, per le ragioni che sopra abbiamo spiegato, di riportarsi su posizioni presocratiche. L'incontro con Stilpone incise tuttavia su Zenone in modo non lieve: la logica e la dialettica della Stoa, come vedremo, recano indubbi influssi di matrice megarica.
• Diogene Laerzio, vn, 2 ( = von Arnim, S.V.P., si veda sopra, pp. 73 sgg.
1,
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fr. 1). Su Stilpone
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2.
LO STOICISMO ANTICO
I l ripudi o d e Il a « se c o n d a n a v i g az i o n e »
Oltre la voce dei Socratici minori, Zenone volle ascoltare anche quella degli Accademici. Le nostre fonti ci riferiscono infatti che Zenone fu discepolo anche dei filosofi platonici Senocrate e Polemone 5 • Orbene, per quanto questo contatto con l'Accademia abbia influito su di lui e lo abbia aiutato a maturare e a risolvere problemi particolari e, anche, a dare una consistenza e uno spessore speculativo al suo filosofare, che differenzia la Stoa da tutti gli altri sistemi dell'età ellenistica, non gli vietò tuttavia di prendere una posizione nei confronti del problema metafisica in netta antitesi con quella di Platone. Del resto abbiamo visto come Senocrate avesse già compromesso il guadagno essenziale del maestro e come Polemone tendesse addirittura a riportarsi su posizioni in certo senso preplatoniché. Zenone rifiutò gli esiti della « seconda navigazione », e, non meno di Epicuro, assunse posizioni decisamente materialistiche. Negò non solo l'esistenza trascendente delle Idee, ma rifiutò di attribuire loro anche quella statura antologica che Aristotele, pur confut~ndo la loro trascendenza, aveva tuttavia mantenuto. Per Zenone e per gli Stoici le Idee divennero semplicemente pensieri della mente umana: Le idee sono concetti della nostra mente (mo~(Lcmt -flfLe:Tipot) 6. I concetti non sono né sostanza né qualità, ma immagini mentali simili alle sostanze e alle qualità. Sono quelli che gli antichi chiamavano «Idee». Infatti si può parlare di Idee per ogni cosa che ci si offra in forma di concetto, per esempio di uomini, di cavalli e in genere di tutti gli animali e di tutti gli esseri di cui si dice che ci sono Idee. Le Idee non hanno una loro esistenza 5 Cfr. Diogene Laerzio, vn, 2 ( = von Amim, S.V.P., I, fr. 1). • Aezio, 1, 10, 5 ( = von Arnim, S.V.P., I, fr. 65).
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a sé; siamo noi che partecipiamo alla formazione dei concetti e troviamo i termini del linguaggio, i cosiddetti « appellativi » 7 •
Zenone negò non solo l'esistenza di Idee intelligibili trascendenti, ma altresll'esistenza di un'anima spirituale per sua natura diversa dal corpo e anche di Intelligenze immateriali e trascendenti, quali H platonico Demiurgo, l'aristotelico Motore Immobile e le aristoteliche Intelligenze motrici delle sfere celesti. L'anima è di natura corporea e materiale: se non fosse corporea, precisa Cleante, riferendo un'argomentazione che risale però a Zenone, non si potrebbero spiegare, tra l'altro, i molteplici rapporti che essa ha con il corpo: Alterazioni e affezioni non si comunicano da cose corporee a incorporee e viceversa; ma ecco che l'anima soffre insieme al corpo, partecipando al suo dolore se esso è battuto, ferito, piagato; e il corpo con l'anima, partecipando alla sua tristezza, se essa è afflitta da preoccupazioni, da angosce, dall'amore, come sentendo venir meno una forza a lui associata, di cui col suo rossore e il suo pallore attesta la vergogna e la paura. Dunque l'anima è corpo 8 . L'anima è pneuma e fuoco; essa sopravvive per un certo periodo alla morte ~el nostro corpo, ma poi si dissolve nel tutto: Zenone di Cizio definisce l'anima un soffio caldo che ci consente di respirare e di muoverei 9 •
(Ttv&:ii!J.a:
l!v&cp!J.ov),
L'anima è un soffio durevole (7tvcii!J.a: Ttoì.uxp6vLov), che sopravvive al corpo, ma non per questo si può dire eterna, perché, col tempo, si dissolve nel tutto 10 • 7 Stobeo, Anthol., I, 136, 21 (= von Amim, S.V.F., I, fr. 65 [traduzione di N. Festa con ritocchi]). • Nemesio, De nat. hom., p. 32 ( = von Arnim, S. V.F., I, fr. 518 [traduzione di N. Festa, con lievi ritocchi]). 'Diogene Laerzio, vn, 157 (= von Arnim, S.V.F., I, fr. 135). 10 Epifanio, Ad v. haeres., m, 2, 26 ( = von Arnim, S. V.F., I, fr. 146 [traduzione di N. Festa]).
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Corporeo è anche Dio, il quale coincide con il principio attivo dell'universo ed è immanente all'universo stesso; Dio è il fuoco eterno, come vedremo più avanti. Per dare una precisa idea della antitesi fra la posizione platonica e quella stoica, conviene rifarsi ad un passo del Sofista, in cui Platone, contrapponendosi probabilmente ad Antistene e ai primi Cinici, per confutare la loro identificazione dell'essere (oùcr(cx) con il corpo e il corporeo (crc':>!J.cx), ribadiva i guadagni della « seconda navigazione » nel modo seguente: Lo straniero - Dicano se ammettono che vi sia il vivente mortale. Teeteto- Come no? Lo straniero - Forse che non saranno d'accordo di definirlo corpo animato? Teeteto - Certamente. Lo straniero - Ponendo fra le cose che sono l'anima? Teeteto - Sl. Lo straniero - Ebbene? Non diranno forse che un'anima è giusta, un'altra ingiusta, una saggia, un'altra stolta? Teeteto - Come no? Lo straniero - Ma ciascuna di queste anime non diviene giusta per il possesso e la presenza della giustizia, e ingiusta per il possesso e la presenza di ciò che è opposto alla giustizia? Teeteto - Sl, anche questo ammettono. Lo straniero - Ma allora ammetteranno pure che sia veramente qualche cosa che è ciò che può aggiungersi a qualche cosa e da qualche cosa staccarsi. Teeteto - Lo ammettono. Lo straniero - Se dunque son.o e la giustizia e l'intelligenza e ogni altro simile valore, e cosi tutto ciò che è opposto a queste, e se pure è l'anima, in cui viene ad esserci quanto sopra, forse che affermano che v'ha di tutto ciò qualche cosa di visibile e tangibile oppure; secondo loro, si tratta di cose tutte invisibili? Teeteto- Io direi che debbono ammettere che di tutte queste realtà nessuna è visibile. Lo straniero - E cosl quale sarà la condizione di tali realtà? Dicono forse che hanno corpo? Teeteto - Essi non danno più una sola ed identica risposta,
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una risposta valida per tutto ciò, ma l'anima stessa secondo loro ha una certa corporeità, mentre l'intelligenza e ciascuna delle altre cose di cui hai chiesto essi hanno vergogna di osare sia di escluderle dalle cose che sono, sia di sostenere che sono tutte corporee.
Lo straniero - È chiaro, Teeteto, che questi nostri uomini si sono migliorati; perché altrimenti non esiterebbero di fronte a nessuna di queste asserzioni, quelli almeno che furono veramente seminati nella terra e dalla terra sono sorti, ma andrebbero fino in fondo a sostenere che ciò che essi non possono serrare in mano, tal cosa assolutamente non ha nessuna realtà. Teeteto - Tu enunci, direi, proprio ciò che essi pensano. Lo straniero- Poniamo dunque a loro delle nuove domande: se infatti essi vogliono concedere l'incorporeità anche di una, una piccola cosa, fra le cose che sono, è già sufficiente 11 • Il passo è veramente paradigmatico, perché prova che i vecchi Cinici, per coerenza con il presupposto che l'essere è corpo, ammisero la corporeità dell'anima, ma non osarono sostenere la « corporeità » dell'intelligenza e delle virtù. Per contro, Zenone e la Stoa non solo ribadirono che l'essere ( 6v, ouata:) è corpo (aCl !L IX), ma spinsero l'affermazione alle conseguenze più estreme ed affermarono che qualsiasi cosa, senza alcuna distinzione, se è essere, è corpo, anche l'intelligenza, anche la scienza, anche le virtù, come con ampiezza documenteremo più avanti 12 • Il tentativo di rovesciare il discorso platonico è dunque radicale.
3. Il ripensamento di Eraclito e il concetto di « physis » come fuoco artefice
Zenone non si limitò ad ascoltare filosofi a lui contemporanei, ma lesse e meditò anche i libri dei filosofi antichi, " Platone, Sofista, 246 e- 247 b (traduzione di A. Zadro). 12 ar., più avanti, pp. 352 sgg.
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come ci viene espressamente riferito: Ecatone ed Apollonio di Tiro nel primo libro riscono che Zenone andò a consultare l'oracolo, cosa dovesse fare per vivere nel modo migliore spose che doveva eguagliarsi ai morti. Egli intese dedicò alla lettura degli antichi autori 13 •
Su Zenone rifeper sapere che e il dio gli rirettamente e si •
Di fondamentale importanza fu, indubbiamente, soprattutto la lettura di Eraclito. Infatti l'idea eraclitea del fuoco, che è ph'ysis, logos, Dio, ripensata ed opportunamente rielaborata, come vedremo, divenne l'idea centrale della ontologia di Zenone e della Stoa. Diceva E radi t o: Tutte le cose sono uno scambio del fuoco, e il fuoco uno scambio di tutte le cose 14 • E ancora: Questo ordine (x6a~J.ot;), che è identico per tutte le cose, non lo fece nessuno degli Dei né degli uomini, ma era sempre ed è e sarà fuoco eternamente vivo, che secondo misura si accende e secondo misura si spegne 15 • Questo fuoco « governa tutte le cose » 16 ed è quindi « intelligenza che governa tutte le cose attraverso tutte le cose » 17 , è il « logos che governa la totalità delle cose » 18 • Ecco alcuni significativi frammenti stoici: La natura è un fuoco artefice, che procede nel suo cammino verso la generazione, cioè un soffio igneo e creativo 19 •
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" Diogene Laerzio, VII, 2 ( von Amim, S.V.P., I, fr. 1). " Diels-Kranz, 22 B 90. " Diels-Kranz, 22 B 30. 16 Cfr. Diels-Kranz, 22 B 64. 17 Cfr. Diels-Kranz, 22 B 41. 11 Cfr. Diels-Kranz, 22 B 72. " Diogene Laerzio, VII, 156 ( von Arnim, S.V.P., I, fr. 171).
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Zenone definisce la natura come fuoco artefice che procede alla generazione dègli esseri secondo un metodo preciso [ ... ] . In realtà la natura del mondo che avvolge e stringe nel suo abbraccio gli esseri tutti non solo procede con arte ma è essa stessa, come dice Zenone, un vero artista: suo compito è quello di provvedere e predisporre tutto ciò che può essere di utilità e di vantaggio [ ... ] . Poiché tale è la mente del mondo, e in conseguenza di ciò, le competono a buon diritto gli appellativi di saggezza e provvidenza 20 •
A questo proposito dobbiamo ribadire un rilievo essenziale, che in parte abbiamo fatto già a proposito di Epicuro: la physis eraclitea, ripensata da Zenone, non poteva più mantenere il significato presocratico, vale a dire arcaico, ossia un significato al di qua delle distinzioni di organico-inorganico, di materia-spirito, di corporeo-incorporeo, di immanente-trascendente, di sensibile-soprasensibile. Dopo le acquisizioni platoniche ed aristoteliche, la concezione della physis poteva essere determinata solo in funzione di queste distinzioni. E cosl abbiamo visto che Zenone, come Epicuro, negò lo spirituale, l'immateriale, il soprasensibile e determinò la physis in senso materialistico, corporeistico e sensistico. Ma, a differenza di Epicuro che dagli Atomisti dovette trarre coerentemente conseguenze meccanicistiche con tutti i corollari connessi alle medesime, Zenone, invece, in modo egualmente coerente, trasse dal principio eracliteo cui si era ispirato, conseguenze vitalistiche, ilozoistiche, organicistiche e panteistiche. Che tutto sia vivo, che la materia sia intrinsecamente dotata di vita, che tutto sia organismo vivente e che tutto sia Dio e che Dio coincida con il cosmo, che physis e theion si identifichino sono tesi implicite nei Presocratici, ma che solo con gli Stoici diventano esplicite e /ematiche, per le ragioni spiegate. Una volta negata la trascendenza platonico"' Cicerone, De nat. deor., n, 22, 57 sg. ( = von Arnim, S.V.F., 171 sg. [traduzione di U. Pizzani]).
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1,
frr.
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aristotelica, Dio, se ammesso come esistente, doveva essere necessariamente immanentizzato ed identificato con il cosmo e con la natura. Come meglio vedremo esponendo la fisica, gli Stoici sono i primi panteisti nella storia del pensiero occidentale, o, se si preferisce, i primi veri panteisti, cioè i primi filosofi che hanno identificato Dio e Natura con piena consapevolezza teoretica dei presupposti e dei corollari che questa identificazione comporta. Ma di ciò diremo con ampiezza più avanti 21 • 4.
I rapporti con Epicuro
Un avvenimento che agl in modo determinante su Zenone fu indubbiamente la fondazione del Giardino ad opera di Epicuro, nel 307/306 a. C. Questo avvenimento, come abbiamo sopra visto, nella vita spirituale di Atene, costituiva una vera e propria rivoluzione 22 • Nei confronti della nuova Scuola Zenone dovette subito nutrire sentimenti contraddittori: un misto di attrazione e repulsione, di ammirazione e disprezzo, di consenso e dissenso. Zenone dovette certamente capire che Epicuro cercava di soddisfare a quegli stessi bisogni che anch'egli provava, che cercava di dar voce a quelle istanze che anch'egli sentiva come imprescindibili, che intendeva e praticava la filosofia in quella nuova valenza di « arte del vivere », ignota alle altre Scuole, oppure da esse solo imperfettamente realizzata. Ma se Zenone condivise il concetto epicureo della filosofia nonché il conseguente modo di porre i problemi filosofici, non accettò le soluzioni di questi problemi e divenne tosto fiero avversario dei dogmi del Giardino. Gli ripugnavano profondamente le due idee basilari del sistema epicureo,. vale a dire la riduzione del mondo •• Cfr. pp. 355 sgg. "' Cfr., sopra, pp. 172 sgg.
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e dell'uomo ad un mero accozzo di atomi e l'identificazione del bene morale con il piacere. L'apertura del Giardino, pertanto, dovette agire da stimolo su Zenone in due sensi: da un lato, dovette far maturare nel giovane fenicio l'idea di fondare una nuova Scuola; dall'altro, con i suoi dogmi, dovette costituire un termine di riferimento polemico per la soluzione di tutto l'arco dei problemi filosofici. Già poco più di un lustro dopo la fondazione del Giardino Zenone si sentiva pronto ad indicare ai suoi contemporanei una visione del mondo che faceva appello non agli atomi ma al logos, pur senza far ricorso alla metafisica platonica o aristotelica, e si sentiva pronto a proporre una alternativa alla soluzione epicurea del problema della vita, che, senza fare appello ai valori tradizionali ormai ritenuti non più credibili, poteva insegnare a vivere da ·individui secondo un ideale più nobile di quello. predicato dal Giardino, ossia senza cadere nello sfrenato individualismo e nel gretto egoismo, ma mettendosi al servizio degli altri in un costante impegno sociale giacché il logos unisce e mai divide. Zenone si sentiva, infine, pronto ad indicare un ideale di felicità che non la degradasse al piacere, sia pure purificato quanto si voglia, un ideale di pace spirituale raggiunta superando il peso e l'avversità delle cose e degli eventi esteriori e l'ostacolo intemo delle passioni appunto nellogos e mediante illogos. Si capisce, pertanto, come non sia possibile comprendere la filosofia della Stoa, prescindendo da questa contrapposizione ad Epicuro, che agi in maniera costante e quindi determinante, come a più riprese avremo modo di costatare. 5. La genesi della Stoa e il suo sviluppo
Zenone non era cittadino ateniese e, come tale, non aveva diritto di acquistare un edificio; per questo motivo tenne le
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LO STOICISMO ANTICO
sue lezioni in un Portico, che era stato dipinto dal celebre pittore Polignoto.- In greco Portico si dice Stoa, e per tale ragione la nuova Scuola ebbe il nome appunto di Stoa o Portico ed i suoi seguaci furono detti « quelli della Stoa » o « quelli del Portico » o anche semplicemente « Stoici ». Riferisce Diogene Laerzio: [Zenone] era solito tenere le sue lezioni passeggiando su e giù nel Portico Dipinto [h -rjj no,xL>.n a-roci], Pecile, detto anche di Pisianatte, designato come dipinto [ Pecile, no,xL>."l] per
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i quadri di Polignoto [. .. ] . Quelli che convenivano ad ascoltarlo - ed erano in gran numero- furono per questo chiamati Stoici; cosi furono chiamati anche i suoi seguaci, che in un primo tempo erano detti Zenoniani, come attesta anche Epicuro nelle Epistole Zl.
Nel Portico di Zenone, a differenza che nel Giardino di Epicuro, fu ammessa la discussione critica intorno ai dogmi del fondatore della Scuola e, per tale motivo, questi furono soggetti ad approfondimenti, a revisioni e a ripensamenti. Per conseguenza, mentre la filosofia di Epicuro non subl modificazioni di rilievo e fu, in pratica, solamente o prevalentemente ripetuta e chiosata e restò pertanto sostanzialmente immutata, la filosofia di Zenone subl innovazioni anche notevoli ed ebbe una evoluzione ·piuttosto considerevole. Gli studiosi hanno ormai messo bene in chiaro che nella storia della Stoa è necessario distinguere tre periodi: l) il periodo della antica Stoa che va dalla fine del secolo IV a tutto il secolo III a. C., in cui la filosofia del Portico viene via via sviluppata e sistemata ad opera della grande triade di scolarchi: Zenone appunto, Cleante 24 e soprattutto Crisippo (fu ., Diogene Laerzio, vu, 5 ( = von Amim, S.V.F., I, fr. 2). .. Oeante, nativo di Asso, dopo essere stato membro della Stoa per quasi un ventennio, successe a Zenone nella direzione del Portico nel 262 e capeggiò la Scuola per un trentennio. Morl fra il 233 e il 231 a. C. Prima di diventare seguace della Stoa fece il pugile (Diogene Lacrzio, VII, 168 [von Arnim, S.V.F., I, fr. 463, p. 103, 2]). Conosciuto Zenone, si appassionò alla filosofia, per coltivare la quale non esitò, essendo povero, a sottoporsi
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soprattutto quest'ultimo 25 , egli pure di origine semitica, che, a duri e umili lavori notturni, itrigando orti e impastando farina per una venditrice (Diogene Laerzio, ibidem). La libertà di discussione che Zenone aveva lasciato ai discepoli, a differenza di Epicuro, produsse nella Scuola notevoli scosse e quindi una crisi, che Qeante non riuscl perfettamente a dominare, mancandogli la genialità del fondatore e l'acutezza e l'abiliti di Crisippo. Diogene ci dice che « lasciò bellissimi libri » ed elenca una cin• quantina di titoli (vn, 174 sgg.). I frammenti rimastici sono raccolti dal von Amim, S.V.P., I, pp. 103-139. Una ricostruzione completa del nostro filosofo è quella di G. Verbeke, Kleanthes van Assos, Bruxelles 1949. 25 Crisippo nacque a Soli, in Cilicia, tra il 281 e il 277 e morl fra il 208 e il 204 a. C., come si ricava da Diogene Laerzio (VII, 184 von Arnim, S.V.P., 11, fr. l, p. 2, 16 sg.), che attinge da Apollodoro. Come bene ha evidenziato il Pohlenz (La Stoa, I, pp. 39 sg.), Crisippo dovette essere di origine semitica, come si desume dai tratti del volto, dal fatto che imparò il greco ormai già adulto e che commetteva errori di lingua (dr. von Arnim, S.V.P., u; frr. 24 e 894). Fu discepolo di Oeante, dopo essere stato per un certo periodo nell'Accademia e aver ascoltato Arcesilao e Lacide (Diogene Laerzio, VII, 183 [ = von Arnim, S.V.P., n, fr. l, p. 2, 8 sg.]), dai quali apprese l'arte dialettica, per cui aveva spiccate tendenze: « Acquistò tale rinomanza nella dialettica - riferisce sempre Diogene (vn, 180 [ = von Arnim, n, fr. l, p. l, 12 sgg.]) - che i più credevano che se gli dèi avessero avuto bisogno della dialettica, non altra dialettica che quella di Crisippo avrebbero adottata ». E proprio in vittù di· queste eccezionali capaciti dialettiche, egli poteva dire al maestro Oeante che gli « occorreva soitanto l'insegnamento della dottrina [della Stoa], ché le dimostrazioni le avrebbe trovate da solo » (vu, 179). Malgrado alcuni dissensi con Oeante riguardanti la dottrina, la coscienza della propria superiorità e il notevole successo delle proprie lezioni, Crisippo restò fedele al maestro e alla Scuola, e alla morte di Cleante divenne capo della Stoa. Sotto la guida di Crisippo il Portico superò tutte le crisi interne e si impose all'esterno in maniera decisiva, tanto che di lui tosto si disse: «Senza Crisippo, non sarebbe esistita la Stoa » (Diogene Laerzio, VII, 183 [ = von Arnim, S.V.P., II, fr. 6]). Crisippo fu scrittore fecondissimo. Diogene Laerzio (vu, 189 sgg. [= von Amim,S.V.P., II, fr.13]) fornisce un imponente catalogo di titoli di opere, tutte quante per noi perdute. Questa immensa produzione eclissò quella di Zenone e quella di Oeante, e la formulazione della dottrina stoiCla data da Crisippo si impose pertanto come paradigmatica. I frammenti pervenutici sono raccolti nel II e nel III volume dell'opera del von Arnim (volume II, frr. l- 1216, vol. w, frr. 1- 777). Il volume III (che contiene i frammenti morali) è stato tradotto anche in lingua italiana da R. Anastasi (Padova 1962). Per una ricostruzione del pensiero di Crisippo si vedrà: E. Bréhier, Chrysippe, Paris 1910 (riedito nell951 col titolo Chrysippe et l'ancien sto"icisme). J. B. Gould, The Philosophy of Chrysippus, Leiden 1970.
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con oltre 700 libri, fissò in modo definitivo la dottrina della prima stagione della Scuola); 2) il periodo cosiddetto della media Stoa, che si svolge fra il II e il 1 secolo a. C., e che è caratterizzato da infiltrazioni eclettiche nella dottrina originaria; 3) il periodo della Stoa romana o della nuova Stoa, che si situa ormai ·in età cristiana, in cui la dottrina si fa essenzialmente meditazione morale e assume forti toni religiosi, in conformità con lo spirito e le aspirazioni dei nuovi tempi 26 • La distinzione di questi tre periodi comporta, pertanto, la necessità di esaminarli partitamente, perché ciascuno di essi rivela caratteristiche particolari, spiegabili solo con le istanze che, nel corso di cinquecento anni, i nuovi tempi via via posero. Il pensiero dei singoli rappresentanti della vecchia Stoa è difficilmente differenziabile, perché coloro che ce lo tramandarono attinsero alle innumerevoli opere di Crisippo, le quali, condotte com'erano con dialettica e abilità raffinate, oscurarono tutta la produzione dei precedenti pensatori della Stoa, fino a farla quasi scomparire. In effetti, se Crisippo non fosse esistito, come già abbiamo ricordato v, la Stoa sarebbe scomparsa dopo Cleante, tanto più che si erano verificate con Aristonc 28 e con Erillo 29 tendenze eterodosse che erano sfociate in veri e propri scismi. Perciò l'esposizione della dottrina della vecchia Stoa è soprattutto una esposizione della dottrina nella formulazione crisippea. Anche per quanto concerne i pensatori della media Stoa, Panezio e Posidonio, le testimonianze precise sono scarse, ma i due pensatori sono net26 Sui singoli esponenti della media e della nuova Stoa diremo più avanni, quando ne esporremo il pensiero (pp. 433 sgg.). '11 Cfr., sopra, nota 25. '" I frammenti di Aristone di Chio sono raccolti in von Arnim, S.V.P., I, frr. 333-403, pp; 75-90; su lui cfr. l'articolo dello stesso von Arnim nella Pauly-Wissowa, II, col. 957. · 29 I frammenti di Erillo di Cartagine si trovano sempre nella raccolta del von Arnim, S.V.P., I, frr. 409-421, pp. 91 sgg.; su di lui si veda l'articolo del von Arnim nella Pauly-Wissowa, VIII, col. 683.
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tamente differenziabili. Invece, per quanto concerne lo stoicismo romano, possediamo opere complete, numerose e assai ricche. Iniziamo dalla illustrazione sistematica dei capisaldi dottrinali della Stoa antica 30 •
30 Dopo la raccolta del von Arnim i contributi più cospicui alla giusta comprensione dello stoicismo sono stati dati da Max Pohlenz, il quale ha dedicato all'argomento l'intera sua vita di studioso, pubblicando tutta una serie di "lavori culminanti nella grandiosa sintesi, già citata, Die Stoa, Geschichte einer geistigen Bewegung, terminata nel1943 e pubblicata nel1947. L'edizione italiana (curata da O. De Gregorio e B. Proto, La Nuova Italia, Firenze 1967, con una Presentazione di V. E. Alfieri) è migliore dell'originale, in quanto contiene modifiche, aggiunte e aggiornamenti predisposti dallo stesso Pohlenz. Il lavoro del Pohlenz ha superato e reso in gran parte non più utilizzabili molti lavori precedenti, a incominciare dalla sintesi dello Zeller fino a quella assai fortunata di P. Barth, che ebbe varie edizioni (Die Stoa, sechste Auflage, vi:illig neu bearbeitet, von A. Goedeckemeyer, Stuttgart 1946). Pohlenz si è accostato agli Stoici con nuova sensibilità e con notevole interesse simpatetico e ha saputo superare il vecchio pregiudizio, che nello stoicismo (cosi come nelle correnti ellenistiche) vedeva nient'altro che «filosofia postaristotelica », filosofia di epigoni in un certo senso; pregiudizio, questo, strettamente legato a quello classicistico, che vedeva nell'età ellenistica solo decadenza dello spirito della grecità. La sintesi del Pohlenz spicca soprattutto per quanto concerne la ricostruzione della Stoa antica; il suo punto più. debole è la ricostruzione della media Stoa, per le ragioni che vedremo. Dopo il Pohlenz si sono avuti buoni studi su singoli settori della filosofia stoica, di cui daremo conto man mano, ma nessuna sintesi neppure lontanamente paragonabile a quella del Pohlenz, con la sola eccezione del libro di J.M. Rist, Stoic Philosophy, Cambridge 1969 (che arriva fino al medio stoicismo), il quale contiene ottimi spunti. Molto utile è anche la raccolta di saggi di vari autori curata da A. A. Long, Problems in Stoicism, London 1971. ar. vol. v, pp. 549-555.
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Il. LA TRIPARTIZIONE DELLA FILOSOFIA E IL LOGOS
Anche Zenone e la Stoa accettano la tripartizione della filosofia stabilita dall'Accademia (che era stata sostanzialmente accolta anche da Epicuro, come abbiamo sopra visto); anzi, la accentuano e non si stancano di foggiare nuove immagini per illustrare, nel modo più efficace, il rapporto che lega fra loro le tre parti. L'intero della filosofia è da essi paragonato ad un frutteto in cui la logica corrisponde al muro di cinta che delimita l'ambito del medesimo e che funge ad un tempo da baluardo di difesa; gli alberi rappresentano la fisica, perché sono come la struttura fondamentale, ovvero ciò senza cui non ci sarebbe il frutteto; infine i frutti, che sono ciò a cui mira tutto l'impianto, rappresentano l'etica. Altra celebre immagine è quella dell'uovo: il guscio protettivo raffigura la logica, l'albume la fisica, il tuorlo l'etica. Posidonio addurrà, invece, l'immagine dinamica dell'organismo vivente: la logica è come l'ossatura, la fisica come il sangue e la carne, mentre l'etica è l'anima 1• Queste immagini esprimono bene tanto la preminenza e la privilegiata posizione dell'etica quanto l'imprescindibilità delle altre due parti della filosofia. Ma gli Stoici, a differenza delle altre Scuole che ammisero la tripartizione della filosofia (e a differenza degli stessi Epi-
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' Cfr. Sesto Empirico, Contro i matem., VII, 16 sgg. ( von Arnim, S.V.F ..• II, fr. 38); Diogene Laerzio, VII, 40 (= von Arnim, S.V.F., II, fr. 38); Filone, De agricultura, § 14 ( von Arnim, S.V.F., II, fr. 39).
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LA TRIPARTIZIONE DELLA FILOSOFIA E IL LOGOS
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curei, i quali, peraltro, oltre che la tripartizione, ammisero la stessa subordinazione gerarchica proposta dagli Stoici), seppero additare, in maniera originale, il fondamento che solidamente lega le tre parti nel principio del logos. Il logos è principio di verità in logica, è principio creatore del cosmo in fisica, è principio normativo in etica. A questo proposito risulta assai significativo il fatto che gli Stoici, per indicare questo principio di spiritualità immanente e di razionalità che sta a fondamento del loro sistema, non abbiano scelto il termine Nous ( vouc; ), cioè pensiero o intelligenza, che pure aveva una gloriosa storia, da Senofane a Parmenide ad Anassagora a Platone e ad Aristotele ( quest'ultimo - ricordiamolo - aveva indicato addirittura il principio primo come v67Jatc; voijae6lc;), ma abbiamo appunto preferito il termine eracliteo logos, perché, per le ragioni che abbiamo indicate al precedente paragrafo, essi ritenevano di trovare espressa in esso una polivalenza di significati che riuniva il momento soggettivo e quello oggettivo, l'antropologico e il cosmologico, il gnoseologico e l'ontologico, e, quindi, poteva fungere da comune denominatore fra soggetto e oggetto. Il Pohlenz, che, come abbiamo già ricordato, è lo studioso che più compiutamente e attentamente ha esaminato e interpretato la filosofia stoica in tutto l'arco del suo sviluppo e dei suoi problemi, ha cosi chiarito il senso del logos stoico: « [ ... ] per i Greci l'essenza del logos non si esaurisce nel conoscere e nel parlare. Non si può solo dire che una cosa è, ma anche che una cosa deve essere. Illogos non si arresta alla conoscenza, ma contiene anche l'impulso ad operare. Solo partendo da questa funzione possiamo capire perché illogos divenne il concetto fondamentale della filosofia di Zenone ed ebbe un significato quale il nous non poté mai raggiungere. Per Zenone il logos non rappresentava soltanto la ragione pensante e conoscente, ma anche il principio spirituale che dà forma a tutto l'universo razionalmente e in base ad un piano rigoroso e fissa per ogni singola creatura la sua destinazione.
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Per Zenone, come per Eraclito, illogos regna tanto nel cosmo quanto nell'uomo e ci fornisce la chiave per cogliere non solo il significato del mondo, ma anche quello della nostra esistenza spirituale, e per conoscere il nostro effettivo destino. In questo modo esso indicava anche la via per arrivare ad una comprensione del divenire cosmico tale da soddisfare in egual misura il pensiero razionale di Zenone e il suo sentimento religioso » 2 • Cosi resta chiarito quanto sopra dicevamo: come, cioè, il logos costituisca un principio unitario, il quale, con le sue tre diverse valenze, genera le tre parti della filosofia: il logos come principio di verità, con le sue leggi del pensare, del conoscere e del parlare, costitU!isce l'oggetto specifico della logica; illogos come principi~ antologico del cosmo costituisce l'oggetto della fisica (intesa, questa, nel senso originario, presocratico, di dottrina della physis), e, ~ine, illogos come principio finalizzatore, ossia come principio che determina il senso di ogni cosa e quindi anche il fine e il dover essere dell'uomo, costituisce l'oggetto dell'etica.
• Pohlenz, La Stoa, I, pp. .54 sg. Sul concetto di loaos resta tuttora utile il libro di M. Heinze, Die Lehre vom Logos in der griechischen Philosophie, Oldenburg 1872 (Aalen 19612 ).
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III. LA LOGICA DELL'ANTICA STOA
Il ruolo stoica l.
e
le
articolazioni
della
logica
Se, dal punto di vista assiologico, ossia del valore, il primo posto nella gerarchia del sapere tocca all'etica, mentre dal punto di vista antologico alla fisica, dal punto di vista metodologico e didattico tocca, invece, alla logica. E se pure, al riguardo, i seguaci dello stoicismo manifestarono diversità di opinioni e oscillazioni, la convinzione dei fondatori, cioè di Zenone e di Crisippo, fu che la logica dovesse metodologicamente essere trattata per prima, la fisica per seconda e l'etica per terza 1• In effetti, come già sopra abbiamo in parte detto, se è vero che ciò che preme agli Stoici (come a tutti i filosofi dell'età ellenistica) è la risoluzione del problema della vita e la ricerca della pace dello spirito, e se è vero che per risolvere il problema della vita dell'uomo occorre stabilire quali siano le dimensioni cosmo-antologiche in cui l'uomo si colloca e pertanto elaborare una fisica, è altrettanto vero che, per poter risolvere tali problemi, occorrono adeguati strumenti, e che questi strumenti è in grado di fornirli solamente la logica, la quale, dunque, va preliminarmente conosciuta.
' Diogene Laerzio, vn, 40 (= von Arnim, S.V.P., I, fr. 46; n, fr. 43): «Altri danno il primo posto alla losica, il secondo alla fisica, il terzo all'etica: tra costoro è Zenone nel libro Sulla logica, oltre a Crisippo ... ,. (ricordiamo che la traduzione dei passi di Diogene che riportiamo, salvo indicazione contraria, è sempre quella di M. Gigante).
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D'altra parte, come gli Epicurei, e anzi, più ancora degli Epicurei, gli Stoici sono fermamente convinti che l'uomo ha la possibilità di raggiungere la certezza e la verità assolute e che la pace dello spirito può discendere solamente dal raggiungimento e dal possesso pieno di esse: e la logica nel suo momento culminante è appunto elaborazione e fondazione del criterio della verità e della certezza assolute. Lo Stoico non solo sente di essere nella verità in ogni momento del suo sistema, ma orgogliosamente proclama di essere in grado di dimostrarlo logicamente a sé e agli altri. Si comprende, quindi, come gli Scettici dovessero scegliere proprio gli Stoici come loro bersaglio preferito: essi, infatti, sono i filosofi più dogmatici dell'età ellenistica. E trascinati nella polemica scettica, essi affilarono anche di più le loro armi dialettiche e finirono per dare ancora di più peso alla logica, differenziandosi così sempre più dagli Epicurei, i quali, come abbiamo visto, mostrarono interessi molto scarsi per tale disciplina e raggiunsero pertanto in essa risultati alquanto modesti. Per la verità, fino alla fine dello scorso secolo, pur riconoscendo l'impegno bc:n diverso che il Portico ebbe rispetto al Giardino nell'ambito delle ricerche logiche, si valutarono in modo decisamente negativo i risultati di questo impegno 2 • La Stoa avrebbe semplificato e impoverito le posizioni platonicoaristoteliche, avrebbe semplicemente rivestito con nuova terminologia la logica aristotelica, avrebbe inopportunamente sviluppato alcune parti di essa a scapito di altre, e, talora, le avrebbe altresì distorte. Per contro, i nuovi studi hanno messo bene in luce che, in realtà, la logica stoica è altra cosa rispetto a quella aristotelica, che si muove .in direzioni differenti e addirittura opposte, riprendendo elementi di matrice • Cfr. Zeller, Die Philosophie der Griechen, III, l, pp. 117-118 e Prand, Geschichte der Logik im Abendlande, 2 voli., Leipzig 1927", vol. I, p. 408.
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prearistotelica elaborati nell'ambito delle Scuole socratiche minori e in particolare della Scuola megarica 3 • In effetti la logica aristotelica, come abbiamo visto, dipende dall'antologia aristotelica, e, in particolare, dalla concezione dell'essere come determinato secondo le categorie, dalla concezione del primato della categoria della sostanza rispetto alle altre categorie e del rapporto di inerenza che lega queste ultime alla prima, e, infine, dalla concezione del primato antologico della forma o dell'essenza (intesa come separata o separabile col pensiero e come causa metafisicamente privilegiata). Orbene, gran parte delle accuse di contraddizione e di ingenuità mosse alla logica stoica nascono proprio dal non aver tenuto nel dovuto conto quella dipendenza e dal non aver rilevato che il nuovo orizzonte antologico del Portico doveva di necessità comportare un mutamento dell'orizzonte logico. Riletta dunque nell'ambito del nuovo orizzonte antologico, la logica del Portico, a differenza di quella del Giardino, risulta avere una sua precisa fisionomia, una sua coerenza e una sua originalità, anche se, come vedremo, cade in aporie insolubili. Già la distinzione delle parti della logica propugnata dagli Stoici indica chiaramente la sua matrice non aristotelica. Zenone, infatti, con una angolazione addirittura prearistotelica distingueva la logica in dialettica e retorica, in quanto egli riconosceva due sole possibilità per il discorso: quella di procedere per argomenti e quella di svilupparsi in maniera oratoria: Il discorso è di due maniere: ragionativo e oratorio. Sicché, o dialettica o retorica. Col pugno chiuso Zenone soleva indicare • Riassume le tappe essenziali di questa rivalutazione M. Mignucci in Il significato della logica stoica, Bologna 1965, pp. 19 sgg. Altri studi di rilievo sull'argomento sono: A. Virieux Reymond, La logique et l'épistémologie des Sto'iciens, Lausanne 1949; B. Mates, Stoic Logic, Berkeley- Los Angeles 19612 •
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il carattere conciso e serrato della dialettica, con la palma aperta e con le dita tese l'ampiezza e la diffusione della retorica 4 • Siamo peraltro informati che alla trattazione logica alcuni Stoici attribuivano altresl il compito di fornire i canoni o criteri di verità 5 , analogamente agli Epicurei. Anzi, alcune fonti ci dicono che proprio la dottrina del criterio della verità aveva il primo posto nell'insegnamento: Gli Stoici concordano nel dare il primo posto alla dottrina della rappresentazione e della sensazione, in quanto il criterio, con cui si discerne la verità delle cose, è in generale rappresentazione, ed in quanto la teoria dell'assenso e della comprensione e dell'intelligenza, che precede tutte le altre, non può avere un punto fermo senza rappresentazione. La rappresentazione ha infatti la precedenza; ad essa segue il pensiero che in quanto è capace di enunciare ciò che riceve dalla rappresentazione lo esprime per mezzo della parola 6 • In effetti una filosofia può esprimere dogmi, ossia certezze assolute, solo se e nella misura in cui forni'SCe i criteri che permettono di guadagnare queste certezze: di qui deriva la priorità data alla dottrina del criterio della verità, dal quale deve pertanto muovere anche la nostra esposizione.
2. Il criterio della verità: la sensazione e la rappresentazione catalettica
L'anima è, originariamente, come una « tabula rasa», e per azione dell'esperienza acquista via via le sue conoscenze: Gli Stoici dicono: quando l'uomo nasce, ha la parte egemonica dell'anima come un foglio di carta pulita, adatta per co• Von Arnim, S.V.P., I, fr. 75 (traduzione di N. Festa). 5 Cfr. Diogene Laerzio VII, 41. • Diocle di Magnesia, presso Diogene Laerzio, VII, 49 ( = von Amim, S.V.F., n, fr. 52).
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piarvi uno scritto. Su questa parte registra ogni singolo concetto. Il primo modo di questa trascrizione è mediante i sensi 7 • Si capisce, quindi, che, essendo la sensazione e la rappresentazione sensoriale il momento iniziale, ossia l'ingresso nell'anima della conoscenza, gli Stoici abbiano dedicato ad esse attente analisi e, stante la temperie fondamentalmente sensistica e materialistica della loro gnoseologia, abbiano finito per indicare, come vedremo, se non addirittura nella sensazione, come avevano fatto gli Epicurei che erano anco.ra più accentuatamente sensisti, appunto nella rappresentazione il criterio della verità. Base della conoscenza, dunque, è la sensazione (aisthesis), la quale è una impressione provocata dagli oggetti sui nostri organi sensoriali. Questa impressione si trasmette, tramite i sensi, all'anima e si imprime in essa, generando in tal modo la rappresentazione (phantasia). Spiega Diogene Laerzio: La rappresentazione è un'impressione nell'anima: è qui adottato in senso traslato un termine proprio in quanto propriamente l'impressione è l'effetto delle impronte che l'anello col sigillo imprime nella cera 8• Il materialismo di fondo della Stoa doveva però comportare non poche difficoltà nel determinare la natura di tale impronta sull'anima. E, in effetti, Zenone e Cleante intesero l'impressione come vera e propria materiale impronta sull'anima, mentre il più raffinato e smaliziato Crisippo parlò di alterazione qualitativa. Ci riferisce Sesto Empirico: La rappresentazione, secondo gli Stoici, è una impressione o impronta nell'anima. Ma nell'intendere tale impronta subito discordano. Infatti Cleante [cosl come Zenone] intese l'impressione come depressione e rilievo, cosl come l'impronta fatta dai sigilli 7 Aezio, Plac., IV, 11 (Diels, Doxographi graeci, p. 400, 4 sgg. = von Arnim, S.V.P., II, fr. 83 [traduzione di L. Torraca]). • Diogene Laerzio, vn, 45 ( = von Arnim, S.V.P., II, fr. 53).
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sulla cera. Invece Crisippo ritenne assurda tale interpretazione. In primo luogo, infatti, egli dice, quando la mente rappresenta in un medesimo tempo un triangolo e un quadrato, bisognerà che il medesimo corpo [cioè la mente o l'anima che come ogni altra cosa per gli Stoici è un corpo] nello stesso tempo abbia in sé differenti figure e che diventi insieme triangolo e quadrato e anche circolo, il che è assurdo. Inoltre, poiché in noi sono insieme presenti molte rappresentazioni, l'anima dovrà avere innumerevoli figure, il che è ancor peggio. Crisippo supponeva allora che Zenone avesse usato il termine impressione in luogo di alterazione, di guisa che la definizione veniva ad essere la seguente: rappres-entazione è un'alterazione dell'anima, giacché non risulta più un assurdo che il medesimo corpo [cioè l'anima] nello stesso momento, essendoci in noi molte rappresentazioni, riceva una quantità di alterazioni. Infatti come l'aria, quando molti parlano nello ste~so tempo, ricevendo nello stesso momento numerose e differenti percussioni, subisce molte alterazioni, cosl anche la parte reggitrice dell'anima, ricevendo numerose rappresentazioni, subirà qualcosa di analogo 9 • È chiaro che la correzione di Crisippo sposta la difficoltà, ma non la risolve per nulla. Infatti, anche l'alterazione, non appena si sostituisca all'esempio addotto da Crisippo esempi di contrari, urta contro le identiche difficoltà in cui egli rimprovera a Cleante di cadere: quando noi abbiamo rappresentazioni simultanee di contrari o comunque di cose tali da escludersi reciprocamente, la nostra anima dovrebbe avere corrispettive -simultanee alterazioni contrarie, tali da escludersi reciprocamente. È, questa, una difficoltà che non si può risolvere, se si resta nell'ambito di una psicologia materialistica. Ma procediamo nell'esame della dottrina stoica. Criterio della verità non è la mera sensazione, ma è la rappresentazione, e, anzi, non ogni e qualsivogtia rappresentazione, ma solo la rappresentazione catalettica o comprensiva. Vediamo con esat' Sesto Empirico, Contro i matem., vn, 227 sgg. ( = von Arnim, S.V.F., 1,
frr. 58, 484;
11,
fr. 56).
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tezza in che cosa consista, perché essa, oltre ad essere fondamentale per la comprensione della filosofia del Portico, è fondamentale anche per la comprensione delle posizioni assunte dagli avversari del Portico, in particolare dagli Scettici e dagli Accademici. La rappresentazione veritativa, secondo gli Stoici, non implica soltanto un sentire, ma postula altresl un assentire, un acconsentire e un approvare provenienti dal logos che è nella nostra anima. L'impressione non dipende da noi, giacché dipende dall'azione che gli oggetti esercitano sui nostri sensi e noi non siamo liberi di accogliere questa azione o di sottrarci ad essa; tuttavia noi siamo, in certo senso, liberi di prendere posizione di fronte alle impressioni e alle rappresentazioni che si formano in noi, dando loro l'assenso del nostro logos, oppure rifiutando loro questo assenso (auy-..
•• Cicerone, Acad. post., I, 41 e Acad. pr., frr. 60 e 66 [traduzione di N. Festa]).
11,
144 ( = von Arnim, S.V.F.,
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La spontaneità dell'assenso, proclamata dagli Stoici, è il punto di gran lunga più delicato da capire, ma anche il più importante. Leggiamo tre testimonianze al riguardo. Scrive ancora Ciceronè: Zenone a queste che sono rappre.sentazioni e quasi ricevute dai sensi aggiunge l'assenso dell'animo, il quale egli pretende che sia posto in noi e che sia volontario 11 •
Scrive Sesto Empirico: A sentire gli Stoici, la comprensione è l'assenso della rappresentazione comprensiva, il quale sembra essere una cosa duplice, che da un lato sembra avere qualcosa di involontario, mentre dall'altro lato sembra volontario e dipendere dal nostro giudizio. Infatti l'avere rappresentazioni è involontario, perché non dipende dal soggetto che rappresenta ma dall'oggetto rappresentato che lo fa essere in quello stato, come di veder bianco allorché gli sia fatto vedere il color bianco o di sentire dolce allorché il dolce sia posto a contatto col palato. Ma l'assentire a.questo movimento dipende da colui che riceve la rappresentazione 12•
Infine scrive il neostoico Epitteto: [ ... ] te lo mostrerò dapprima nel campo dell'assenso. Chi può impedirti di aderire al vero? Nessuno. Chi può costringerti ad accettare il falso? Nessuno. Vedi che in questo campo la tua facoltà di scelta è libera da costrizioni, da necessità, da impedimenti [ ... ] 13 •
In verità questa libertà dell'assenso è fortemente ambigua e si assottiglia fino quasi a scomparire, non appena se ne saggi la consistenza. Gli Stoici sono ben lungi dal pensare che il logos abbia, rispetto alla sensazione, una autonomia o una funzione regolativa del tipo di quella che ritroviamo " Cicerone, Acad. post., I, 40 (= von Arnim, S.V.F., 1, fr. 61). 12 Sesto Empirico, Contro i matem., VIII, 397 ( von Arnim, S. V.F., n, fr. 91). 13 Epitteto, Diatribe, I, 17, 22 (traduzione di R. Laurenti, con un
=
ritoc~o).
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nelle moderne gnoseologie, e sono lungi dal pensare che la rappresentazione catalettica sia una specie di sintesi o una sorta di misurazione che lo spirito opera sui dati sensoriali. La libertà dell'assenso è, in ultima analisi, non altro che il riconoscere e il dire di si all'evidenza oggettiva e il respingere e il dire di no alla non-evidenza. Estremamente rivelatore al riguardo è il seguente passo di Diogene Laerzio: Di rappresentazioni ve ne sono due: l'una (comprensiva), che coglie immediatamente la realtà (q~cxvTcxa!cx xcxTcxÀ'I)7tTLx-lj), l'altra (non comprensiva) che coglie la realtà con scarsa o nessuna distinzione (clxcxTii>.'ll7rTot;). La prima, che essi definiscono criterio della realtà, è determinata dall'esistente, conforme all'esistente stesso ed è impressa e stampata nell'anima. L'altra non è determinata dall'esistente oppure se procede dall'esistente non è deterIninata conforme all'esistente stesso: non è quindi né chiara né distinta 14•
Con questo passo concorda perfettamente quanto riferisce Sesto Empirico: La rappresentazione comprensiva è quella impressa e ben segnata da una cosa che realmente sussiste e nel modo in cui realmente sussiste e che è tale quale non potrebbe sorgere da una cosa che non sussiste 15•
Come ben si vede, la presupposta convinzione degli Stoici è che, in realtà, quando siamo effettivamente di fronte all'oggetto si producono in noi una impressione e una rappresen-
tazione dotate di tale forza ed evidenza 16 , che naturalmente ci portano all'assenso e quindi alla rappresentazione comprensiva; e che dunque, per converso, quando noi abbiamo rappresentazione comprensiva e cioè diamo l'assenso ad una rappresentazione, ci troviamo sicuramente di fronte ad un reale 1• 15
I,
Diogene Laerzio, VII, 46 ( = von Arnim, S.V.F., II, 53). Sesto Empirico, Contro i matern., VII, 248 ( = von Arnim, S.V.F.,
59). 16
Cfr., sopra, nota 12.
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oggetto. Pertanto il presupposto di una piena corrispondenza fra reale presenza dell'oggetto e rappresentazione evidente che ci porta all'assenso finisce per essere, in realtà, predominante in questa concezione del criterio della verità. E cosl non sarà difficile agli Scettici scoprire in questo punto della dottrina stoica un ginepraio di contraddizioni e mostrare che nessuna rappresentazione, in quanto tale, si presenta con connotati tali da meritare o non meritare, senza possibilità di equivoco, il nostro assenso 17• In sostanza, per gli Stoici la verità o veridicità che è propria della rappresentazione catalettica è dovuta al fatto che questa è un'azione e una modificazione materiale e « corporea » che le cose producono sulla nostra anima e che provoca una risposta egualmente materiale e « corporea » da parte della nostra anima. Per le ragioni che avremo modo di chiarire più avanti, la verità, secondo gli Stoici, è qualcosa di materiale, « è un corpo » 18• La conoscenza intellettiva, le prolessi e concetti universali 3.
La conoscenza non si esaurisce nell'ambito della sensazione, e nemmeno dell'espemell2la in generale, che non è altro se non il consolidarsi di ricordi di rappresentazioni sensibili della medesima specie. Gli Stoici riconoscono che l'uomo ha anche capacità di pensare e di ragionare, ossia di formare rappresentazioni intellettive o concetti (~vvoLcxL) e di connettere queste rappresentazioni, e quindi di procedere ad «in17 Per un approfondimento della problematica stoica della rappresentazione e dell'assenso dr. Bréhier, Chrysippe ..., pp. 80-107; Rist, Stoic Philosophy, pp. 133-151; F. H. Sandbach, Phantasia Kataleptike, in A. A. Long, Problems..., pp. 9-21. 11 Cfr. Sesto Empirico, Contro i matem., vn, 38 ( = von Arnim, S. V.F., n, fr. 132).
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ferenze » in modi diversi. Orbene, gli Epicurei, nella loro canonica, si erano preoccupati soprattutto di riportare le « opinioni » all'esperienza, e per accertare la validità di una opinione non avevano saputo indicare altri criteri che non fossero la semplice « conferma » e la « non smentita» da parte delle sensazioni e· dell'esperienza. Essi avevano limitato gravemente, o quantomeno non avevano riconosciuto la rilevanza e la fecondità di quella «autonomia» che è propria del pensare e del ragionare, e, per conseguenza, non avevano elaborato una teoria delle forme del pensare e del ragionare, ossia una vera e propria logica 19 • Invece gli Stoici riconobbero al pensiero quell'autonomia e quindi poterono elaborare una vera e propria logica, che essi denominarono« dialettica». Per intendere questa dialettica occorre comprendere la dottrina stoica della genesi, della natura e del significato dell'universale (o meglio, di ciò a cui gli Stoici riducono l'universale). Come avviene il passaggio dalla sensazione e dalla rappresentazione sensibile all'« intellezione » (v6l)cnc;, ~vvoLct), ossia al concetto? ~iferisce Sesto Empirico: Ogni intellezione deriva da una sensazione o non senza una sensazione e da un contatto (nep!7tTwat~) o non senza un contatto :10.
Altri testi specificano, ulteriormente, che, oltre a questo «contatto» (7te:pbt-rwaLc;), che è il modo più immediato ' 9 Cfr., sopra, pp. 177 sgg. '" Sesto Empirico, Contro i matem., vm, 56 ( = von Arnim, S.V.P., u, fr. 88). Il termine neptnTwa~.ç è difficilissimo da tradurre e per lo più viene frainteso. Abbiamo accolto la proposta di traduzione di M. Mignucci (Il significato della logica stoica, p. 81); questo studioso precisa (p. 84, nota 48): «l'espressione "contatto attraverso la sensazione" [ ... ] non deve indurre nell'errore di pensare che con essa l'Autore intenda riferirsi alla conoscenza sensibile. L'espressione si spiega rilevando che l'intellezione per contatto, a differenza di tutte le altre, consiste in una rielaborazione che opera direttamente sul contenuto della sensazione ».
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con cui si passa dalla rappresentazione empirica a quella intellettiva, ve ne sono altri non immediati e più complessi. Lo stesso Sesto Empirico scrive: In generale tutto ciò che è concepito dall'intelletto è concepito in due modi: o per un contatto e per una immediata eviden%11 [xot-ril 7; c p ( 7; 'r Co) (JI v notpyii] o per un passaggio [o inferenza] da cose evidenti [xotd: !L e or li ~ ot a L v cbò -rwv hotpywv], e quest'ultimo avviene in tre modi: o per via di somiglianza, o per via di composizione, o per via di analogia. Per contatto e immediata evidenza si concepiscono con l'intelletto il bianco e il nero, il dolce e l'amaro. Per passaggio [o inferenza] da cose evidenti si concepiscono nozioni per via di somiglianza, come ad esempio dall'immagine di Socrate Socrate stesso, per via di composizione, come ad esempio dal cavallo e dall'uomo l'ippocentauro: infatti mescolando membra di cavallo a membra umane abbiamo forgiato la rappresentazione di ippocentauro, che non è né uomo né cavallo, ma un composto dell'uno e dell'altro. Per via di analogia noi ulteriormente concepiamo nozioni in due modi: per aumento o per diminuzione, come ad esempio partendo dagli uomini comuni quali sono ora, per accrescimento concepiamo la nozione di Ciclope [ ... ], o per diminuzione quella di pigmeo, che non abbiamo colto per immediata evidenza 21 • Se prima non abbiamo sensazioni, non possiamo avere rappresentazioni intellettive e concetti. Dalla sensazione si passa alla intellezione, in primo luogo, con una operazione immediata: per e§empio da questo bianco che vedo alla nozione (generale) di bianco, da questo colore alla nozione di' colore (è'questo il passaggio xomx 7tepbt-rc.Hnv). In secondo luogo, per passaggio mediato, ossia operando per via di associazione, combinazione, divisione sulle nozioni ottenute per immediata evidenza e cosl trasformandole in varia maniera. È da notare, inoltre, che (probabilmente accogliendo la terminologia epicurea) anche gli Stoici ammisero l'esistenza di 21 Sesto Empirico, Contro i matem., 111, 40; dr. anche Diogene Laerzio, vn, 52 sg. ( = von Arnim, S. V.F., 11, fr. 87) e Cicerone, De finihus, in, 10, 33.
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« prolessi », concependole come «naturale concezione degli
universali » 22 , ossia come un processo che avviene in modo naturale già nel bambino e che giunge a compiutezza intorno a sette anni: Dei concetti poi alcuni si costituiscono naturalmente secondo i modi detti e senza alcuna arte, altri invece mediante ]a nostra dottrina e industria. Questi dunque sono chiamati concetti soltanto, quelli invece [che si costituiscono naturalmente] sono detti anche anticipazioni. Dicono che la ragione, per la quale siamo definiti ragionevoli, attinga la sua compiutezza dalle anticipazioni nel primo settennio. Il concetto poi è visione intellettiva in un animale ragionevole. Infatti, quando la visione venga a cadere in un'anima razionale, allora viene detta concetto, prendendo tale nome dall'intelletto 23 •
Quelle prolessi e nozioni che si riscontrano in tutti gli uomini sono «concetti o nozioni universali» ( xotvot~ ~vvotott, communes notitiae) 24 • Gli Stoici hanno parlato addirittura di «nozioni o prolessi insite nella natura umana» (ftJ.cp·u-rot 7tpoÀ~Ijle:tc;) a proposito di alcuni concetti morali 25 • Questo linguaggio, che può far pensare ad un innatismo almeno « virtuale », mal si accorda con l'affermazione che l'anima è una « tabula rasa». Peraltro è da rilevare che, come vedremo, illogos dell'uomo altro non è se non una parte e un momento del logos universale e, come tale, deve non solo essere capace di raggiungere la verità, ma deve altresl avere in sé, in certo qual modo, qualche germe della verità.
Diogene Laerzio, VII, 54. Ae2io, IV,"ll, 3 sg. (= von Arnim, S.V.P., II, fr. 83 [traduzione di L. Torraca con ritocchi]). 24 Cfr. per esempio von Arnim, S.V.P., II, fr. 473 (p. 154, 29) e III, fr. 218. ,. Cfr. von Arnim, S.V.P., III, p. 69. Per un approfondimento di queste dottrine cfr. F.H. Sandbach, Ennoia and Prolepsis in the Stoic Theory of Knowledge, in A. A. Long, Problems ... , pp. 22-37. 22 23
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4. Gli « esprimibili » (ì.. e: x -r ci) e l a l or o « i ncorporeità »
Quale è la natura degli «universali », ossia di ciò che il pensiero pensa, congiunge e disgiunge in vario modo? La risposta a questo problema comportò per gli Stoici notevoli difficoltà, a causa delle premesse materialistiche e sensistiche del loro sistema. Epicuro, come abbiamo visto, tagliava netto: egli ammetteva solo le cose, che sono corporee· e .individuali, e le parole, che sono egualmente corporee e individuali, e riteneva che le parole si riferiscano immediatamente alle cose (cosi come le sensazioni e le prolessi, che sono impronte materiali). Epicuro, pertanto, sopprimeva il problema dell'universale 26 • Gli Stoici, invece, si accorsero che questa era una soluzione semplicistica e ammisero, oltre alle cose esistenti e alle parole significanti, anche un tertium quid, ossia i contenuti di pensiero, «i significati» (a1)!J.ottv6!J.e:vcx), che affermarono essere meri ì..e:x-rci, ossia, per dirla con l'espressione entrata in uso, meri « esprimibili » (meglio sarebbe tradurre il termine con « cose espresse » o « enunciate » o « dette ») e affermarono che tali cose sono « incorporee » (ci a wIL ex -r ot). Riferisce Sesto Empirico: Gli Stoici sostennero che « sono tra loro congiunte tre cose, ossia la cosa significata, quella significante e quella-che-si-trovaad-esistere » e che, tra queste, la cosa significante è la voce (ad esempio la parola « Dione »; quella significata è lo stesso oggettoche-viene-indicato- oggetto che noi percepiamo nel suo presentarsi reale per mezzo del nostro pensiero, mentre i barbari, pur ascoltando la voce che lo indica, non lo comprendono -; infine, ciòche-si-trova-ad-esistere è quello che sta 11 fuori di noi (ad esempio, Dione in persona). Di queste cose due sono corpi, cioè la voce e ci9-che-si-trova-ad-esistere, ed una è incorporea, in quanto oggetto significato, ed è un «esprimibile» [>. e:xT6v = espresso, detto, •• Cfr., sopra, pp. 184 sgg.
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significato], e proprio quest'ultimo è vero o falso. Esso, poi, non è in ogni caso tutto quanto vero o falso, ma in parte incompleto, in parte completo-di-per-sé. E di quello completo-di-per-sé è vero o falso il cosiddetto giudizio, che del resto gli Stoici descrivono dicendo: «giudizio è ciò che è vero o falso» 71 • Il passo letto si chiarisce ulteriormente con un altro dello stesso Sesto: Essi [gli Stoici] affermano che è « esprimibile » [ ì.&x-r6v = espresso, detto, significato] ciò che sussiste in conformità con una rappresentazione razionale, e che è razionale quella rappresentazione in conformità con la quale è possibile stabilire razionalmente l'oggetto rappresentato 28 • Che i contenuti del pensiero, che sono il frutto della nostra attività razionale e che esprimiamo e comunichiamo con le parole (cioè gli universali), siano, per gli Stoici, meri esprimibili (lekta) e incorporei, si spiega abbastanza facilmente tenendo presente quanto segue. L'essere è sempre e solo corpo e come tale individuale; i contenuti del pensiero si predicano di molti individui e pertanto essi non sono individuali e non possono essere,corpi e quindi realtà. Per conseguenza, essi sono non-corporei, non già nel significato spiritualistico e quindi positivo, ma nel senso negativo di mancanza di quella caratteristica che è tipica della realtà e dell'essere, che per gli Stoici è solo la corporeità. Inoltre sono lekta, in quanto essi esistono solo congiuntamente al leghein e al dia-leghein umano, ossia in dipendenza dal nostro dire, pensare e ragionare. La posizione degli Stoici è dunque concettualisticonominalistica, in quanto riconosce l'universale come qualcosa che dipende dal nostro pensare e parlare, ma gli rifiuta una esistenza reale, o comunque un fondamento nella realtà.
II, II,
71 Sesto Empirico, Contro i matem., VIII, 11 sg. ( = von Arnim, S.V.P., fr. 166 [traduzione di A. Russo, con lievi ritocchi]). ,. Sesto Empirico, Contro i matem., VIII, 70 ( = von Arnim, S.V.P., fr. 187).
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LO STOICISMO ANTICO
Con questa concezione del lekt6n immateriale come concetto (come « semain6menon ») se ne intreccia una seconda, attestata da altre fonti e dallo stesso Sesto Empirico, che è assai più complessa, ma non meno importante per la retta comprensione della filosofia del Portico in generale e della dialettica in particolare e che, dunque, è necessario riferire. Nel contesto del materialisnto e corporeismo stoico, che, come abbiamo già accennato, è di carattere ilozoistico e vitalistico, la concezione del rapporto causa-effetto è del tutto particolare e senza un preciso riscontro in tutto il pensiero precedente. Solo la causa è realtà, è essere, è «corpo », l'effetto è invece un mero accidente, sprovvisto di realtà corporea, e dunque «incorporeo». Gli effetti sono pertanto considerati meri « predicati » ( Xat't"I)YOP~fLOt't'at) e quindi « incorporei » e quindi anche « esprimibili » ( Àex-roc) 29 • Ecco i testi più significativi: Zenone dice che ~ausa è il «ciò per cui», mentre ciò di cui è causa è un accidente. E la causa è corpo, ciò di cui è causa è un predicato (XIXT'I)y6p7J!L«) 30 •
Crisippo dice che causa è il «ciò per cui». E la causa è essere e corpo e ciò di cui è causa non è né essere né corpo 31 • Gli Stoici affermano che ogni causa è corpo e che diviene causa in un corpo di qualcosa di incorporeo ( tlaw!Lchou ·nv6~ ); per esempio il coltello, che è un corpo, è causa nella carne, che è pure un corpo, del predicato incorporeo ( Llaw(Lchou xiXT'I)yopiJ!L«TO~) dell'essere tagliato; ancora, il fuoco, che è corpo, nel legno, che è esso pure corpo, è causa del predicato incorporeo dell'essere bruciato 32• Cleante e Archedemo chiamano esprimibili (Àex-rci) i predicati (XIXT'r)yop'iJ!LIXTIX) 33 • 29 t questa una dottrina che non ha precedenti. ., Ario Didimo, fr. 18 Diels (= von Arnim, S.V.P., I, fr. 89). "' Ario Didimo, fr. 18 Diels ( von Arni.m, S.V.P., II, fr. 336). "" Sesto Empirico, Contro i matem., IX, 211 ( von Arnim, S.V.P., II, fr. 341). 33 Clemente Aless., Strom., VIII, 9, 26 ( = von Arnim, S.V.P., I, fr. 488).
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LA LOGICA DELL'ANTICA STOA
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I tentativi di spiegare questa sconcertante concezione degli Stoici sono stati diversi e non hanno raggiunto risultati concordi. In realtà le ragioni che la spiegano sono più d'una. Intanto, la ragione per cui l'effetto prodotto da una causa è considerato un accidente o un mero evento, come abbiamo già accennato, va ricercata nel materialismo monistico-panteistico stoico e nel nuovo sistema categoriale che ne consegue, il quale, come vedremo più avan.ti trattando della fisica, riconosce essere e realtà solo alla sostanza-sostrato e alla qualità, che sono «corpi», e considera tutto il resto modi e modi relati.vi, che stanno su un piano completamente diverso. Orbene, l'effetto non può mai essere sostanza-sostrato, come è ovvio, ma nemmeno una qualità, dato che sostanza-sostrato e qualità sono monisticamente concepite come « interamente penetrate fra di loro » 34 : la qualità è un corpo che penetra e pervade un altro corpo. Se cosl è, ciò che la forza intrinseca di un corpo produce all'esterno di esso o ciò che un corpo produce su un altro, senza compenetrarlo intr.insecamente, non può essere che un esteriore «evento», una modalità accidentale, appunto, e dunque anche privo di vera realtà e di essere, cioè, nel linguaggio stoico, « incorporeo ». Ma perché l'effetto-accidente-incorporeo è detto « predicato » ( xoc·t"rJy6pl)!J.at)? È evidente che, nel qualificarlo in questo modo, gli Stoici si sono rifatti ad un altro ordine di considerazioni, che il significato del termine « predicato » potrà rivelarci. Il « predicato » è definito come « ciò che è congiunto ad una o a più cose» 35 ; ora, se è congiunto a più cose, non è individuale, e dunque ha una universalità, e per questa ragione - ci sembra - esso rientra fra gli esprimibili ( ÀEX't'oc ), che sono universali 36 • .. Cfr. von Arnim, S.V.F., I, fr. 92. Cfr. Diogene Laerzio, VII, 64 ( = von Arnim, S.V.F., II, fr. 183). " La più approfondita spiegazione della concezione stoica dell'incorporeo
35
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LO STOICISMO ANTICO
In conclusione, fra gli « esprimibili » ( Àex't'oc ) rientrano sia i « significati» sia i «predicati », per le ragioni dette. Queste complesse chiarificazioni erano indispensabili per comprendere la natura della dialettica stoica, la sua novità e anche la sua portata, dato appunto che essa verte per intero intorno agli esprimibili (>.ex-.oc ).
5.
La dialettica
Gli Stoici definivano la dialettica, come già abbiamo accennato, in maniera socratica: La dialettica è scienza del discutere ( 3Latì.6ye:a&«L) rettamente su argomenti per domanda e risposta 37 • Orbene, il discutere, il dia-leghein, ha a che fare sia con parole sia con nozioni, o, per dirla con linguaggio stoico, con cose significanti ( aYJfLot(vov't'oc) e con significati ( GYJfLottv6fLeVot); per conseguenza, la dialettica si occupa di ambedue queste cose. Crisippo definiva, per conseguenza, la dialettica come segue: La dialettica si riferisce al significante e al significato 38 . La dialettica stoica si divide pertanto in due grandi sezioni: una riguardante il linguaggio e la sua struttura, l'altra le forme del pensiero. Nello studio del linguaggio gli Stoici gettarono le premesse per lo studio scientifico della grammatica. La teoria della resta quella fornita da E. Bréhier, La théorie des incorporels dans l'ancien sto"icisme, Paris 1962' (in forma ridotta si potrà vedere il contenuto di questo saggio anche in Bréhier, Etudes de philosophie antique, Paris 1955, pp. 105-116), anche se pecca di unilateralità. Utili sono anche le chiarificazioni di Mignucci, Il significato della logica stoica, pp. 88-103. "' Diogene Laerzio, vn, 42 ( = von Arnim, S.V.P., n, fr. 48). 31 Diogene Laerzio, vn, 62 ( = von Arnim, S.V.P., n, fr. 122).
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LA LOGICA DELL'ANTICA STOA
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declinazione con la determinazione dei « casi » fu, probabilmente, la più significativa loro scoperta in questo campo 39 • È da notare che, nella sezione della dialettica concernente il linguaggio, gli Stoici, come riferisce Diogene Laerzio 40 , non si limitarono a trattare delle parti del discorso (che per loro sono: il nome proprio, il nome comune, il verbo, la congiunzione e l'articolo), della sua struttura, e_ delle connesse questioni di stile. Essi vi inclusero anche le questioni concernenti la definizione, il genere, la specie. Sono, questi, problemi che dovrebbero rientrare nella sezione concernente i semain6mena. Ma ciò, per quanto possa di primo acchito stupire, a ben riflettere ha una precisa motivazione nel sistema. Il ripudio della struttura eidetica del reale, cioè di quella struttura metafisica che privilegia la forma e la specie (e quindi dà particolare risalto all'essenza e alla definizione) e il conseguente concettualismo, che assume addirittura punte di nominalismo, hanno indubbiamente portato gli Stoici a considerare questi problemi prevalentemente come problemi di parole e di linguaggio. Nell'altra sezione della dialettica gli Stoici si occuparono invece delle forme del pensiero, come ci dice ancora Diogene Laerzio: Nella sezione concernente le cose e i significati è collocata la teoria degli « esprimibili » (" wv >.ex Ti:'> v ) , degli esprimibili completi, dei giudizi e dei sillogismi, e anche la teoria degli esprimibili ellittici e dei predicati attivi e passivi 41 •
Questa seconda sezione della dialettica, dunque, oltre ai giudizi e ai sillogismi si occupava dei « predicati », che, secondo g1i Stoici, sono i verbi. Sono questi appunto gli « espri39 Una buona esposizione sintetica della dottrina stoica del linguaggio si troverà in Pohlenz, La Stoa, 1, pp. 58-81. ., Cfr. Diogene Laerzio, vn, 55-62. 41 Diogene Laerzio, vn, 63 (ci scostiamo dalla traduzione di M. Gigante).
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LO STOICISMO ANTICO
mibili ellittici »o« incompleti »,come ad esempio: « scrive», « discorre », « corre » 42 • Le ragioni per cui gli Stoici spostarono tutto il loro interesse dal soggetto al predicato e privilegiarono quest'ultimo in modo netto, sono da ricercare nella loro antologia, e precisamente nelle dottrine che abbiamo cercato di chiarire nei precedenti paragrafi. Il loro sensismo e materialismo doveva spingerli ad intendere il soggetto di un giudizio prevalentemente come un individuo (e non come un concetto) e il predicato come una .azione e un effetto prodotto dal soggetto (e non come un altro concetto). Il giudizio preferito dagli Stoici è quello singolare, come: « Socrate scrive», « Socrate discorre », « Socrate corre », o addirittura: «costui scrive », « costui discorre » e cosi via. Pertanto nella loro logica gli Stoici cercarono di stabilire non i legami che uniscono fra loro concetti, bensl i legami che uniscono fra loro eventi. E noi già sappiamo che i verbi esprimono appunto « eve,nti » e sono, per le ragioni viste, « incorporei ». La proposizione o giudizio 43 è un« esprimibile completo», ossia un esprimibile avente senso determinato e completo, in quanto connette il predicato ad un soggetto. Come per Aristotele, anche per gli Stoici .i} vero e il falso sono legati strutturalmente al giudizio: Il giudizio infatti è ciò che, espresso in parole, diviene una asserzione di ciò che è o vero o falso 44 •
Ma, anche su questo punto, gli Stoici non cessano di stupire: ess·i, infatti, considerarono differente lo statuto ontologi"" Per la comprensione e l'approfondimento di questo punto dr. Bréhier, La théorie des incorporels..., pp. 20 sgg. • La proposizione è indicata col termine rli;Ew!J.CX (assioma), che gli Stoici ritenevano derivare da rli;L6w, che vuoi dire reputare, giudicare (in Aristotele gli assiomi erano i principi primi); cfr. Diogene Laerzio, VII, 65. .. Diogene Laerzio, VII, 66.
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co della« verità »e del« vero». La verità è corporea, il vero, invece, incorporeo, nel senso che conosciamo, come con precisione ci riferisce Sesto Empirico: Tra il vero e la verità c'è differenza, nella sostanza, nella conformazione e nel valore. Nella sostanza: la verità è corpo, il vero è invece incorporeo. Questa distinzione si spiega cosi: il vero è un giudizio, il giudizio è un enunciabile, quindi incorporeo. D'altra parte la verità pare sia la scienza che afferma tutti i veri, ma la scienza non è che un modo di es~ere della parte principale della ragione, come il pugno si considera un modo di essere della mano, e la ragione è corpo, quindi la verità è nel suo_ genere corporea [ ... ] <45. È da notare che gli Stoici si interessarono soprattutto dei giudizi ipotetici e disgiuntivi, trascurati da Aristotele, ma sui quali già il primo Peripato aveva fissato la propria attenzione -46. Anche nello studio dei ragionamenti gli Stoici privilegiarono i sillogismi ipotetici e disgiuntivi, perché questi sono i più idonei a collegare non concetti ma eventi. Crisippo cercò di individuare le figure o gli schemi fondamentali di deduzione cui si riducono 'tutti i ragionamenti e ne determinò cinque, detti « anapodittici », perché essi sono evidenti di per sé, ossia non hanno bisogno di essere ulteriormente dimostrati 47 • Ecco lo schema con le relative esemplificazioni dei cinque anapodittici:
[l] Se A è, anche B. è;
ma A è; dunque anche B è. .. Sesto Empirico, Contro i matem., VII, 38 ( = von Arnim, S.V.F., II, fr. 132 [traduzione di N. Festa, con ritocchi]) . .. Sulla dottrina stoica della proposizione e del giudizio dr. Mignucci, Il significato della logica stoica, pp. 119-155. "' Cfr. von Arnim, S.V.F., II, frr. 231-269. Per un approfondimento degli anapodittici dr. Mignucci, Il significato della logica stoica, pp. 166-178.
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LO STOICISMO ANTICO
Esempio: Se è giorno (A), è chiaro (B); ma è giorno (A); dunque è chiaro (B). [2] Se A è, anche B è; ma B non è; dunque nemmeno A è. Esempio: Se è giorno (A), è chiaro (B); ma non è chiaro (B); dunque non è giorno (A). [ 3] A. e B non possono essere ad un tempo; ma A è; dunque B non è. Esempio: Non può essere ad un tempo giorno (A) e notte (B); ma è giorno (A); dunque non è notte (B).
[4] O A è o B è; ma A è; dunque B non è. Esempio: O è giorno (A) o è notte (B); ma è giorno (A); dunque non è notte (B). [5] O A è o B è; ma B non è; dunque A è. Esempio: O è giorno (A) o è notte (Bì; ma non è notte (B); dunque è giorno (A).
Questi tipi di sillogismi ipotetici sono stati da alcuni studiosi _ritenuti più « moderni » di quelli aristotelici e più fecondi. In realtà, non si inseriscono bene nel sistema stoico. Infatti, una volta esclusa l'essenza come principio del sillogismo, i meri eventi ( « incorporei »), nell'ambito del sistema
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LA LOGICA DELL'ANTICA STOA
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stoico, restano slegati, o, se vengono legati, il loro legame, quando non si riduce alla mera identità, finisce per essere surrettiziamente introdotto, come il Bréhier ha dimostrato: « agli occhi del puro dialettico [stoico] che raccoglie gli avvenimenti isolati, non c'è legame possibile, o piuttosto non c'è altro legame se non quello di identità. La dialettica resta alla superficie dell'essere. Certamente gli Stoici si sono sforzati di superare il ragionamento tautologico: "Si lucet, lucet; lucet autem; ergo lucet". Ma essi non hanno potuto far questo, se non a prezzo di inconseguenze e arbitrii [ ... ] . Nessuna dottrina stabile ha mai potuto imporsi ai loro occhi. La loro dialettica, per quanto paradossale ciò possa apparire, è troppo legata ai fatti, per essere feconda. Essa non è in grado di uscire dal fatto bruto e dal dato né mediante l'idea [cioè l'essenza] che essa nega, né mediante la legge [scil.: la legge che lega i fenomeni scoperta dalle scienze moderne], che essa non conosce ancora, essa deve accontentarsi di ripetere indefinitamente il dato di fatto » •. 6.
La retorica
Come sopra già abbiamo rilevato, la retorica, secondo gli Stoici, è un mQdo fondamentale del parlare, del leghein, cioè dellogos, e, in quanto tale, fa parte di diritto della logica. D'altra parte, è pur vero che gli Stoici attribuirono alla retorica un valore decisamente subordinato alla dialettica. Infatti la retorica è scienza che permette di esporre bene e chiaramente il vero, ma questo si scopre solo mediante la dialetcica. Ecco due si~nificative testimonianze: Definiscono la Retorica la scienza del dire bene su argomenti pianamente ed unitariamente esposti, e la Dialettica la scienza di • Bréhier, La théorie des incorporels ... , pp. 35 sg.
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LO STOICISMO ANTICO
discutere rettamente su argomenti per domanda e risposta. Perciò danno anche quest'altra definizione: la scienza di ciò che è vero e di ciò che è falso, e di ciò che non è né vero né falso 49 • Solo con lo studio della Dialettica il sapiente potrà ragionare senza cadere in errore: infatti per mezzo della dialettica si distingue il vero dal falso e si discerne ciò che è persuasivo da ciò che è espresso ambiguamente. ·Inoltre senza la dialettica non è possibile interrogare e rispondere metodicamente 50 • Come si vede, da onnipotente strumento politico di convinzione e di commozione degli animi- quale Gorgia l'aveva esaltata e Platone 51 l'aveva bollata- la retorica diviene semplicemente l'arte del parlare con eleganza, cioè l'arte di dire in modo acconcio la verità: la dialettica esprime la verità in modo secco e sintetico, la retorica la esprime in modo appropriato e ornato. Del testo, con la morte delle poleis e delle libere democrazie e con l'avvento delle monarchie ellenistiche, ben si spiega come alla retorica in senso classico non restasse ormai alcuno spazio politico e come essa non potesse ormai mantenere se non un più modesto significato letterario. Ed ecco quali, secondo gli Stoici, sono gli elementi e le parti costitutive della retorica:
La retorica è costituita dai seguenti elementi: invenzione degli argomenti, loro espressione in parole, loro disposizione e viva rappresentazione. Costituiscono il discorso retorico le seguenti parti: il proemio, la narrazione dei fatti, la confutazione della parte avversa e l'epilogo 52 • L'epilogo, qui inteso come riassunto - si badi - e non come conclusione ad effetto patetico ed emotivo: la retorica, infatti, deve far leva solo sullogos. Diogene LaeiZio, vu, 42. "" Diogene Laerzio, VII, 47 ( = von Arnim, S.V.P.,
111
28 sgg.). 51 52
Si veda il Gorgia di Platone, passim. Diogene Laerzio, VII, 43.
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II,
fr. 130, p. 39,
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LA LOGICA DELL'ANTICA STOA
Insomma: per gli Stoici la retorica è la forma bella del vero. È una purificata concezione della retorica, questa, che Platone stesso non avrebbe potuto disdegnare. 7. Conclusioni: realtà
rapporti fra la logica e la
La canonica degli Epicurei si limitava ad elaborare una dottrina del « criterio della verità » e, riducendo questo alla sensazione, non lasciava spazio per una vera e propria logica. Per contro, la Stoa, a cagione della valorizzazione del logos, non limita alla rappresentazione sensibile la capacità conoscitiva dell'uomo, ammette una conoscenza intellettiva, ammette la validità delle operazioni della ragione e quindi elabora una vera e propria logica, come abbiamo visto. Ma quale incidenza ha la logica· degli Stoici sulla realtà, o, almeno, sulla realtà come è da loro concepita, e, in generale, sulla costruzione del sistema? E, soprattutto, che ruolo gioca nell'elaborazione dell'etica? Diciamo subito che tale incidenza è assai scarsa, se non addirittura inesistente; e la comprensione della ragione di questo fatto è molto importante sia ai fini della comprensione dell'evoluzione dello stoicismo, che come vedremo tenderà vieppiù a disinteressarsi della logica fino ad eliminarla, sia ai fini della comprensione di quella che, a nostro avviso, è una delle caratteristiche essenziali dei sistemi dell'età ellenistica, vale a dire il loro intuizionismo di fondo. La dialettica stoica non coglie l'essere e l'essenza delle cose, ma solo degli « incorporei » nel senso negativo che abbiamo precisato (gli incorporei sono irreali) e quindi scivola sulla superficie delle cose e coglie solo gli « accidenti » delle cose; lo stesso sillogismo ipotetico, che intende spostarsi dalle essenze e dai concetti agli «eventi » e ai « fatti» per essere fecondo, in realtà, come abbiamo notato, posto anche che rie-
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LO STOICISMO ANTICO
sca ad uscire dalle secche della tautologia, non esce dall'ambito dell'incorporeo e dell'accidentale. La rappresentazione catalettica, che è conoscenza sensibile, resta dunque l'unica forma di conoscenza che ci fa cogliere la realtà, perché, come abbiamo visto, è un contatto con le cose corporee intimo e immediato ed è essa stessa corporea. Il pensiero e la ragione, dunque, nella dottrina stoica, non mordono l'essere, ma lo sfiorano soltanto. Cosi, l'unico sistema dell'età ellenistica che ha elaborato una logica, ha svuotato questa logica di autentica validità, assegnandole come oggetto un « incorporeo » ontologicamente snervato. Le conseguenze, che sono di grandissima importanza, sono state assai bene individuate dal Bréhier: « La scissione completa fra questo modo di conoscere [quello della rappresentazione catalettica] e il pensiero razionale e logico, scissione che deriva dalla teoria degli incorporei, doveva avere nell'evoluzione dello stoicismo una influenza immensa [ ... ] . I successori del primo stoicismo, lasciando completamente da parte la dialettica sterile e il ragionamento ipotetico, che ruotava indefinitamente su se stesso, dovevano applicarsi a sviluppare le conseguenze della conoscenza intuitiva, sola attiva e reale» 53 • In ultima analisi, come nota ancora il Bréhier, fu « "il disprezzo degli incorporei" segnalato da Proclo come una caratteristica degli Stoici, che produsse nella loro Scuola l'abbandono della logica discorsiva a beneficio degli slanci dell'attività morale e religiosa » 54 • Noi aggiungeremmo anche quanto segue. Già nell'ambito dell'antica Stoa la incomprensione della statura antologica dell'incorporeo (lo smarrimento della « seconda navigazione ») e la massiccia riduzione dell'incidenza della logica sul reale provoca le seguenti conseguenze. La fisica, come già nell'aro.. Bréhier, La théoric des incorporels ... , p. 63 . .. Ibidem.
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LA LOGICA DELL'ANTICA STOA
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bito dell'epicureismo, anche nello stoicismo finisce per « sporgere » notevolmente sulla logica e la stessa etica finisce per sporgere oltre che sulla logica anche sulla fisica. Nell'elaborazione della fisica, in certa misura, soccorre la rappresentazione catalettica, ma, al di là di questa, è una intuizione religiosa (che vedremo essere di carattere panteistico) che dà coerenza all'insieme, mentre nella elaborazione dell'etica è un nuovo sentimento della vita, una nuova intuizione emozionale dei valori la vera molla. Anche nella vecchia Stoa, dunque, la logica, pur elaborata e studiata accuratamente (e da Crisippo addirittura accanitamente), resta strutturalmente ai margini e alla superficie del sistema.
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IV. LA FISICA DELL'ANTICA STOA
I caratteri della fisica stoica e i suoi rapporti con la fisica epicurea l.
Come per gli Epicurei, cosl anche per gli Stoici la fisica non è affatto una dottrina concernente un settore della realtà, ma una dottrina della physis in senso presocratico, vale a dire una dottrina che pretende di conoscere la totalità della realtà, additando i principi e le leggi che stanno a suo fondamento. Essa è dunque una vera e propria ontologia, una metafisica della immanenza, come vedremo 1 • Come per gli Epicurei, inoltre, la fisica, secondo gli Stoici, ha il compito di accertare quali siano gli spazi antologici in cui si può collocare l'etica ed è costruita in funzione dell'etica. E le analogie fra la fisica del Giardino e quella del Portico si ritrovano perfino nella formulazione e nell'impostazione dei problemi singoli. Sotto queste analogie, però, si inseriscono contrasti radicali, che risultano tanto più accesi e stridenti, proprio per la ragione che essi derivano da opposte soluzioni degli stessi problemi, per giunta impostati per raggiungere un medesimo fine. Si può dire, in generale, che le soluzioni fisiche che gli ' Sulla fisica stoica esiste un lavoro di S. Sambursky, Physics of the Stoics, London 1959, che caldamente consigliamo perché fa vedere la diversa piega che prende la fisica stoica, letta in chiave « scientifica » o meglio scientistica. L'autore interpreta la fisica del Portico con la mentalità dello scienziato moderno, e i risultati della sua ricerca mostrano, proprio nella loro chiarezza e precisione, come, all'interno di tale prospettiva, non sia possibile cogliere l'autentico messaggio del Portico.
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LA FISICA DELL'ANTICA STOA
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Stoici adottano sono, nella maggior parte dei casi, esattamente opposte rispetto· a quelle adottate dagli Epicurei. Qualcuno ha addirittura affermato che si tratta «non tanto di differenze quanto di reazioni, e per cosi dire di un corpo a corpo tra due filosofie » 2 • Epicuro aveva riproposto il pluralismo atomistico, gli Stoici propongono, invece, il monismo; Epicuro aveva sostenuto l'assoluta mancanza di finalismo, gli Stoici difendono a spada tratta la teleologia; Epicuro aveva sostenuto il meccanicismo, gli Stoici ripropongono l'ilozoismo e il vitalismo; Epicuro aveva sostenuto l'infinitudine dei mondi, gli Stoici sostengono l'esistenza di un solo mondo e per di più finito; Epicuro aveva sostenuto l'esistenza dell'atomo, e quindi l'impossibilità di divisione all'infinito della materia, gli Stoici sostengono, all'opposto, la dottrina del continuo dinamico e la possibilità della divisione all'infinito; Epicuro aveva fatto del vuoto un principio, gli Stoici negano categoricamente che nel mondo ci sia il vuoto e lo confinano al di fuori del mondo; Epicuro aveva negato la penetrabilità dei corpi, gli Stoici sostengono la penetrabilità dei corpi; Epicuro aveva posto gli Dei totalmente fuori del mondo e senza relazione di sorta con il mondo, gli Stoici identificano Dio col principio costitutivo del mondo e col mondo stesso; Epicuro aveva categoricamente negato qualsiasi Provvidenza, gli Stoici fanno della Provvidenza un dogma fondamentale; Epicuro aveva negato il fato col suo clinamen, gli Stoici fanno del Destino l'altra faccia della Provvidenza, essenziale quanto la Provvidenza. E l'elenco delle opposizioni potrebbe ulteriormente estendersi. In verità, tali opposizioni scaturiscono coerentemente da due opposte visioni del mondo: le più opposte che si possano immaginare in· uno spazio lasciato dalla comune negazione della trascendenza. La fisica epicurea e la fisica stoica rappresentano le due forme fra loro più distanti del materialismo an2
Robin, Storia del pensiero greco, p. 415.
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LO STOICISMO ANTICO
tico, ma sono tuttavia, e l'una e l'altra, materialismo che respinge in toto gli esiti della « seconda navigazione » di Platone. Solo tenendo ben presenti le analogie sopra indicate, insieme a quest'ultima sottolineata, si comprende appieno il senso delle singole opposizioni, nonché l'esatta portata dell'ininterrotto fronteggiarsi delle due Scuole.
Il Sto a 2.
materialismo
e
il
corporeismo
della
La caratteristica prima, che differenzia la fisica della Stoa non solo da quella del Giardino ma in certo senso anche da quella di tutti i pensatori greci, è la seguente: il suo materialismo si configura nettamente come monismo panteistico. Infatti, se alcuni dei sistemi presocratici, sotto certi aspetti, possono apparire monistici e panteistici, è solo perché noi li interpretiamo facendo uso di chiarificazioni e di scoperte posteriori, e li giudichiamo in funzione di categorie di cui noi non sappiamo né possiamo più fare a meno, ma che i Presocratici certamente non possedevano. Nel caso degli Stoici, invece, il discorso è di tutt'altro genere. I concetti di corporeo e incorporeo, materia e spirito, immanenza e trascendenza, monismo e pluralismo erano stati ormai chiaramente elaborati e acquisiti dalla coscienza filosofica; e la Stoa costruisce la sua visione della realtà proprio sulla base di un consapevole sfruttamento di tali acquisizioni, come ora vedremo. Per cominciare, è bene chiarire il senso che va dato al termine materialismo nel contesto stoico: senza questa preliminare chiarificazione sfuggirebbe il senso peculiare del monismo panteistico del Portico. Gli Stoici, come gli Epicurei, negano l'esistenza di qualsiasi realtà che sia puramente spirituale. E come gli Epicurei, essi rivolgono contro Platone quelle stesse armi che egli
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LA FISICA DELL'ANTICA STOA
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nel Sofista aveva usato per confutare quei pensatori materialisti, i quali sostenevano che non esiste se non ciò che è corpo 3 • Infatti Platone aveva detto, nel Sofista, che ha titolo per essere considerato reale solo ciò che è capace di agire e di patire e che tale è l'essere ideale 4 • Come gli Epicurei 5 , anche gli Stoici s'appropriano di questa definizione e affermano essi pure che la capacità di agire e di patire appartiene solamente a ciò che è corporeo e materiale: Tutto ciò che agisce o patisce è corporeo 6 • L'essere si dice solamente di ciò che è corpo 7 • Essere e corpo sono identici 2 • L'essere, in quanto tale, dunque, è materialità e corporeità. Sulla base di questo presupposto, si capisce come gli Stoici dovessero considerare corporeo tutto ciò che ha realtà, senza alcuna eccezione. Corpo è Dio, corpo è l'anima, corpo è il bene, corpo è il sapere, corpi sono le passioni, corpi. sono i vizi e corpi sono le virtù. E poiché sui primi torneremo a più riprese, leggiamo un passo a chiarimento della riduzione a corpi delle stesse virtù e dei vizi. Scrive Seneca, riferendo il pensiero dell'antica Stoa: Il bene è un corpo? Il bene agisce: infatti giova. Ciò che agisce è un corpo. Il bene agisce sull'animo ed in certo qual modo lo forma, lo regge, attività queste che sono proprie di un corpo. 3 Cfr. Platone, Solista, 241 d sg. • Si veda il vol. n, p. 60. • Cfr. sopra l'esposizione che abbiamo fatto dei capisaldi della fisica epicurea. Il Pohlenz (La Stoa, 1, p. 120) nota giustamente che il materialismo stoico si calibra mediante un rovesciamento della posizione di Platone, ma non riconosce che questo aveva già fatto puntualmente Epicuro (si veda ad esempio Epistola a Erodoto, 67). • Cfr. von Arnim, S.V.P., 1, fr. 90 (p. 25, 36 sg.), e 111, fr. 84 (p. 20, 37); cfr. anche 1, frr. 342, 363, 387. 7 Cfr. von Arnim, S.V.P., n, fr. 329 (p. 117, 5 sg.). • Cfr. von Arnim, S.V.P., n, fr. 359 (p. 123, 17 sg.).
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Quelli che sono beni del corpo, sono corpi. Dunque lo sono anche quelli che sono propri dell'animo. Infatti anche questo è un corpo. Il bene dell'uomo è per necessità corporeo, dal momento che questi è fornito di corpo. Mentirei, se dicessi che tutto ciò che lo alimenta, lo conserva, gli ridà la salute non è corpo: dunque anche il suo bene è un corpo. Non penso che tu potrai essere in dubbio se siano corpi le passioni [ ... ] come ad esempio l'ira, l'amore, la tristezza: se hai qualche dubbio, pensa se essi non ci fanno tramutare il volto, se non ci fanno corrugare la fronte, se non ci rasserenano il volto, se non ci fanno arrossire, se non ci fanno impallidire. E che dunque? Da che cosa pensi che questi segni cosl manifesti siano provocati nel corpo, se non da un corpo? Se le passioni sono un corpo, Io sono anche i mali dell'animo: avarizia, crudeltà, vizi inveterati ed ormai giunti ad un punto tale da non poter essere guariti: dunque sono corpo anche l'iniquità e tutte le sue forme, la malvagità, l'invidia, la superbia: ne consegue che anche i beni siano corpo, per prima cosa perché sono i contrari di questi, poi perché ti danno gli stessi indizi. O che non vedi quanto vigore dà agli occhi la fortezza? Quanta attenzione la prudenza? Quanta moderatezza e calma la verecondia? Quanta serenità la letizia? Quanto rigore la severità? Quanta remissione la moderazione? Sono corpi dunque quelli che mutano il colore e l'aspetto dei corpi ed agiscono su di essi come su un loro dominio. Tutte queste virtù, che ho citato, sono beni e bene è tutto ciò che da esse deriva. Può dubitarsi che ciò da cui qualcosa può essere toccata sia un corpo? Tutte queste cose che io ho detto, non potrebbero determinare mutamenti in un corpo, se non lo toccassero: dunque sono corporee. Ed ancora, ciò che ha tanta forza da spingere, costringere e comandare, è un corpo. E che? Forse il timore non trattiene? L'audacia non spinge? La fortezza non eccita e non dà impeto? La moderazione non frena e richiama? La gioia non solleva e la tristezza non deprime? Infine, tutto ciò che facciamo lo facciamo sotto la spinta della malizia o della virtù: ciò che comanda un corpo è un corpo, ciò che può fare violenza ad un corpo è corpo. Il bene del corpo è qualcosa di corporeo. Il bene dell'uomo è anche bene del corpo: dunque è cosa corporea 9 •
' Seneca, Epist., 106, 2 (= von Arnim, S.V.F., m, 84 [traduzione di R. Anastasi]). Si veda anche, di Seneca, la Epist. 113.
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3.
Il monismo panteistico
« Corpo » è però, per gli Stoici, un concetto complesso. Infatti nella determinazione di questo concetto essi battono la via esattamente opposta rispetto a quella pluralistico-atomisticomeccanicistica battuta dagli Epicurei. Corpo è per gli Stoici materia e qualità (o forma), unite fra loro in maniera tale da essere l'una strutturalmente inscindibile dall'altra e viceversa. La qualità-forma è la causa o il principio attivo, mentre la materia è il principio passivo; la prima· è sempre e solo immanente alla seconda e in nessun caso ne può essere separata e può sussistere di per sé. Riferisce Seneca:
Come tu sai, i nostri Stoici affermano che nella realtà due sono i principi essenziali da cui nascono tutte le cose, la causa e la materia. La materia giace sostanza inerte, pronta a tutti i mutamenti, ma ferma se nessuno la muove: la causa invece, cioè la ragione, dà forma alla materia, la rielabora comunque vuole, e trae da essa la varietà delle sue opere. Bisogna dunque che ci sia un principio dal quale una cosa viene ricavata ed un principio dal quale la cosa è fatta: questo primo principio attivo è la causa, l'altro primo principio è la materia 10 • E una numerosa serie di testimonianze insiste sulla « inseparabilità » del principio attivo da quello passivo 11 • In modo efficace ci sembra esprimere il concetto della coeterna e strutturale unione dei due principi il seguente passo di Calcidio: Questa essenza [la materia] è finita, unica, e comune sostanza di ogni cosa che esiste; divisibile e soggetta a ogni sorta di mutamenti. Si spostano, infatti, le parti di essa, ma non periscono. Prestandosi a comporre ogni sorta di figura, come cera che si può conformare in mille modi, non ha una sua propria qualità; e nondimeno non si presenta mai le non congiunta e inseparabil10 Seneca, Epist., 65, 2 (= von Arnim, S.V.F., di B. Giuliano]). " Cfr. von Arnim, S.V.F., 11, frr. 306 sgg.
11,
fr. 303 [traduzione
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mente connessa con qualche qualità. Non avendo né principio né fine, poiché non sorge dal nulla e non si riduce al nulla, non è priva di uno spirito e vigore eterno, che secondo ragione la muove, talora tutta quanta e talora in parte, ed è cagione di sl frequente e impetuoso mutamento dell'universo. Ora, questo spirito movente non è la natura, ma l'anima, e beninteso, razionale, che dà vita al mondo sensibile e gl'imprime la bellezza di cui esso risplende [ ... ] 12 • Questo principio che pervade la materia, la informa e plasma, la muove e squassa tutta quanta, è, al di là dei vari nomi che assume (mente, anima, natura e simili), Dio stesso. Scrive Diogene: Secondo gli Stoici i principi dell'universo sono due, l'attivo e il passivo. Il principio passivo è la sostanza senza qualità, la materia; il principio attivo è la ragione nella materia, cioè dio. E dio, che è eterno, è demiurgo creatore di ogni cosa nel processo della materia 13 • E Temistio: I discepoli di Zenone sostengono concordemente che Dio penetra per tutta la realtà e che ora è intelligenza, ora anima, ora natura [ ... ] 14 • La penetrazione di Dio (che è corporeo) attraverso la materia e la realtà tutta (che è pure corporea) per lo stoicismo è possibile in virtù del dogma della « commistione totale dei corpi » (xp~aLç aL· l5À6lV ). Respingendo la teoria degli atomi degH Epicurei, gli Stoici ammettono la divisibilità all'infinito dei corpi, e quindi la possibilità che le parti dei corpi si possano fra loro intimamente unire, si che due corpi possono fon12 Calcidio, In Tim., cap. 292 (= von Arnim, S.V.P., I, fr. 88 [traduz:one di N. Festa]). 13 Diogene Laerzio, vn, 134 (= von Arnim, S.V.P., I, fr. 85 [traduzione di M. Gigante, con un ritocco]). 14 Temistio, In Arist. De amm., pp. 35, 32 sgg. Heinze (= von Arnim, S.V.P., I, fr. 158).
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dersi perfettamente in uno. È evidente che questa tesi comporta l'affermazione della penetrabilità dei corpi, e, anzi, coincide con questa. Per quanto aporetica sia questa tesi (sulle difficoltà che essa solleva non è il caso di soffermarsi, tanto sono evidenti), essa è in ogni caso richiesta dalla forma del materialismo panteistico adottato dalla Stoa 15 • Dai passi letti e dai rilievi fatti possiamo trarre le seguenti conclusioni riassuntive. a) La concezione di fondo della fisica stoica è una forma di corporeismo e di materialismo, perché riduce l'essere a corporeità e a materialità. b) Questo materialismo, anziché prendere la forma del meccanicismo e pluralismo atomistico come negli Epicurei, si configura in senso ilemorfico, ilozoistico e monistico. Il corpo è sempre materia unita a qualità, inseparabili l'una dall'altra; e ogni corpo è sempre un momento inscindibile del tutto di cui è parte. Vi è un'unica materia, la quale reca in sé quel principio della vita e della razionalità che fa da essa germinare tutte le cose. Principio passivo e principio attivo, materia e Dio, non sono, dunque, due entità separate; sono logicamente e concettualmente distinguibili, ma sono antologicamente inseparabili: costituiscono, pertanto, una realtà unica. Di conseguenza, tutte le singoÌe molteplici cose si riportano ai due principi che antologicamente coesistono, cosi come le molteplici membra si riportano all'organismo uno. E poiché una è la materia e uno il principio attivo, uno è il cosmo che tutto in sé abbraccia. La concezione monistica è nettissima. c) Poiché il principio attivo, che è Dio, è inscindibile dalla materia, e poiché non c'è materia senza forma, Dio è in tutto e Dio è tutto. Dio coincide col cosmo. Scrive Diogene: Come sostanza di Dio Zenone indica l'intero cosmo e il cielo
16 •
15 Sulla concezione della commistione totale dei corpi e della penetrabilità dei corpi dr. von Arnim, S.V.P., II, frr. 463-481. " Diogene Laerzio, vii, 148 ( = von Arnim, S.V.P., I, fr. 163 ).
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E ancora: Cosmo ha per gli Stoici un triplice significato: primo, Dio stesso, la cui singola qualità è identica a quella di tutta la sostanza
dell'universo; egli è perciò incorruttibile ed ingenerato, creatore dell'ordine universale, che in determinati periodi di tempo assorbe in sé tutt'intera la sostanza dell'universo e a sua volta la genera da sé 17• Conferma un'altra testimonianza: Chiamano Dio l'intero cosmo e le sue parti 18• Dunque, anche il panteismo della concezione stoica è chiarissimo.
4.
L o svuota m e n t o o n t o l o g i c o d e Il' i n c or por e o
In base a quanto è stato fin qui precisato, è possibile comprendere appieno la curiosa posizione che gli Stoici assunsero nei confronti dell'« incorporeo ». Abbiamo detto 19 che la riduzione dell'essere a corpo comporta, come necessaria conseguenza, la riduzione dell'in-corporeo (di ciò che è privo di corpo) a qualcosa che è privo di essere. L'incorporeo, mancando appunto della corporeità, manca di quei connotati che sono distintivi dell'essere, ossia non può né agire né patire: Niente può essere prodotto da ciò che è incorporeo 20 • L'incorporeo per sua natura non è in grado né di agire, né di patire 21 • Diogene Laerzio, VII, 137 (= von Arnim, S.V.P., II, fr. 526). Ario Didimo, presso Eusebio, Praep. evang., xv, 15 ( Dids, Doxographi graeci, 29, p. 464 von Arnim, S.V.P., II, fr. 528). " Cfr., sopra, S 2. "' Cfr. von Arnim, S.V.P., 1, fr. 90 (p. 25, 35 sg.). 21 Sesto Empirico, Contro i matem., VIII, 263 ( = von Arnim, S.V.P., II, fr. 363). 17
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Gli incorporei non sono tuttavia il nulla e nemmeno si esauriscono nell'ambito della dialettica, vale a dire nell'ambito dei lekta, degli« esprimibili »,di cui abbiamo sopra parlato 22 • Infatti, ci v·iene riferito che, oltre ai lekta, gli Stoici affermavano essere « incorporei » altresl il luogo, il tempo e l'infinito 23 • Per quali ragioni gli esprimibili siano «incorporei» già lo abbiamo spiegato trattando della logica 24 • Il luogo, che è inteso come «ciò che è occupato interamente da un corpo » 25 , è incapace sia di agire sia di patire, ed è, per cosl dire, un effetto dell'esserci dei corpi, e, per questi motivi, è in-corporeo (si ricordi che per gli Stoici gli effetti prodotti dai corpi non sono corpi) 26 • Il tempo è l'« intervallo [o la dimensione] » del movimento » 27, o, come Crisippo precisava, « l'intervallo del movimento del cosmo» 28 • Come tale, il tempo non può avere alcuna capacità di agire o patire; esso è effetto dell'esserci, del vivere e del muoversi dei corpi e in genere del cosmo, e, come tale, è « incorporeo ». Per giunta, esso è incorporeo per l'ulteriore ragione che è infinito (nelle dimensioni del passato e del futuro) e nessun corpo, per gli Stoici, può essere infinito 29 • Il vuoto, che è concepito come «assenza di corpo» 30 ed è collocato all'infuori del cosmo, e pure concepite come infinito (appunto perché l'assoluta assenza di corpo compor22 ar., sopra, pp. 336 sgg. '" Cfr. Sesto Empiria>, Contro i matem., x, 218 ( = von Arnim, S.V.P., II, fr. 331). . 24 Cfr., sopra, pp. 337 sgg. 25 Cfr. von Arnim, S.V.P., II, frr. 501-508. " Cfr., sulla teoria stoica del luogo, Bréhier, La tMorie des incorporels ... , pp. 37-44. -o Cfr. von Arnim, S.V.P., I, fr. 93. 21 ar. von Arnim, S.V.P., II, frr. 509-521. 29 Sulla dottrina stoica del tempo cfr. Bréhier, La théorie des incorporels ... , pp. 44-53. 30 Sul vuoto cfr. i frr. citati alla nota 25.
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ta l'assenza di limiti), è « incorporeo » per le medesime ragioni 31 • Questa concezione dell'« incorporeo» è tale da suscitare numerosissime aporie, delle quali, in parte almeno, gli stessi Stoici furono consapevoli. Infatti sorge spontanea la domanda: se l'« incorporeo» non ha essere perché non è corpo, allora è non-essere, è nulla. Per sfuggire a tale difficoltà gli Stoici furono costretti a negare che l'essere sia, per cosl dire, il genere supremo e che sia preàicabile di ogni cosa, e ad affermare che il genere più ampio di tutti è il « T ( », il « qualcosa ». Scrive Alessandro: [Gli Stoici affermano] che l'essere si predica solamente dei corpi [ ... ] . Per questo motivo essi dicono che "il qualcosa" è un genere più ampio di esso, che si predica non solo dei corpi ma altresl degli incorporei 32 •
Questa dottrina dovette suscitare non poche perplessità 33 • Seneca, che personalmente non l'accettò, ci dice espressamente che essa fu sostenuta non da tutti, ma solo da alcuni Stoici: Quel genere universale dell'essere (-rò llv) non ha sopra di sé nulla; è l'inizio delle cose, tutte sono ad esso soggette [ ... ]. Gli Stoici veramente vogliono sovrapporre a questo un genere ancor più comprensivo [ ... ] . Ad alcuni Stoici [ Stoicis quibusdam l parve che il genere primo sia «un qualcosa» (quid) 34 • È chiaro che tale dottrina, sovvertendo lo statuto stesso
dell'antologia classica; doveva fatalmente cadere in un gine31 Sulla concezione stoica del vuoto cfr. Bréhier, La théorie des incorporels... , pp. 44-53 . .. Alessandro, In Arist. Topica, 301, 19 Wallies ( = von Arnim, S.V.F., II, fr. 329). '" Basilide e i suoi seguaci rifiutarono addirittura di ammettere l'esistenza dell'incorporeo cosl inteso, come ci riferisce Sesto Empirico, Contro i matem., VIII, 258 ( = von Arnim, S.V.F., III, p. 268, 5-8) . .. Seneca, Epist., 58, 12 e 15 ( = von Arnim, S.V.F., II, fr. 332).
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praio di contraddizioni, donde le perplessità degli stessi Stoici. Plotino rilevava giustamente: Questo loro « qualcosa » è tale da riuscire incomprensibile e impensabile finanche per loro e non si addice né all'incorporeo né al corporeo; ed essi non hanno lasciato nessun carattere discriminante sl da poter in seguito, con esso, suddividere il «qualcosa »; inoltre questo « qualcosa » o è essere o è non essere: allora, se è essere, esso è una delle sue specie; se è non-essere, esso è l'essere che non è - e oosl via tra assurdità a non finire 35 • Naturalmente, in questo contesto, veniva a perdere ogni senso la tavola aristotelica delle categorie, che sono le supreme « divisioni » o i supremi « generi » dell'essere. Gli Stoici ridussero le categorie a due fondamentali, alle quali ne aggiunsero altre due che, però, stanno su un piano molto diverso. Le due categorie fondamentali sono: la sostanza intesa come sostrato materiale ( u7tox.dfJ.e:vov) e la qualità (7toL6v) intesa come la qualità che in unione col sostrato determina l'essenza delle singole cose. L'una e l'altra sono materiaLi e corporee e sono l'una indisgiungibile dall'altra (come abbiamo veduto nel paragrafo precedente) 36 • Le altre due categorie sono costituite dai modi (7twç l:x,ov-rcx) e dai modi relativi ( 7tpÒç -r( 7tC..'ç lx_ov-rcx) 37 • Queste due categorie nella misura in cui esprimono effetti e accadimenti delle cose dovrebbero rientrare fra gli« incorporei ». In effetti qualche studioso ha ritenuto senz'altro di poter. trarre tali conclusioni 38 , che però sono contraddette dai testi espressamente. È in ogni caso evidente la fragilità speculativa di questo punto, peraltro essenziale, dell'antologia della Stoa. Anche Plotino, Enneadi, VI, 1,25 (traduzione di V. Cilento). Sulle categorie stoiche cfr. von Arnim, S.V.P., n, frr. 369 sgg. "' Su queste due categorie dr. von Arnim, S.V.P., n, frr. 399-404. • Cfr. Bréhier, La théorie des incorporels ... , p. 43 (Per un approfondimento della teorie stoica delle categorie dr. ]. M. Rist, Categories and their Uses, in A. A. Long, Problems ... , pp. 38-57). 35 36
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il materialismo vitalistico stoico, cosl come il materialismo meccanicistico epicureo, non riesce a giustificare le sue assunzioni di fondo. 5. Ulteriore determinazione della concezione stoica di Dio e del Divino
Prima di procedere, dobbiamo ritornare al concetto di Dio, che costituisce il cardine attorno cui ruota tutta la fisica stoica, e approfondirlo ulteriormente. a) Abbiamo già spiegato sopra che cosa significhi l'identificazione di Dio e physis sia dal punto di vista storico sia da quello speculativo. È tuttavia necessario ribadire ancora quanto segue. Per i Presocratici physis era il principio materiale, per Platone physis nel senso più alto indicava addirittura l'Idea; per Aristotele physis indicava, nella accezione più qualificata, l'eidos o l'essenza immanente delle cose, nonché il principio immanente dal quale si svolge la crescita delle cose. Per gli Stoici physis implica materia, ma implica, insieme, il principio intrinseco agente che è, dà e diventa forma di tutte le cose, cioè il principio che tutto fa nascere, crescere ed essere. La physis stoica sussume in sé sia .i significati naturalistici sia quelli spiritualistici, quali via via erano venuti svolgendosi nella precedente speculazione. Si capisce, pertanto, come essa fondamentalmente non possa significare se non il Dio immanentisticamente e panteisticamente concepito 39 •
b) Il Dio che è Physis, è altresl Logos, vale a dire principio di intelligenza, razionalità e spiritualità. E si capisce che, 39 Sulla pbysis stoica e sulle sue diverse valenze si vedano: E. Grumach, Pbysis and Agatbon in der alten Stoa, Berlin 1932; Heinrich und Marie Simon, Die alte Stoa und ibr Naturbegriff, Berlin 1956; Pohlenz, La Stoa, I, pp. 126 sgg.
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una volta negata l'esistenza di qualsiasi realtà e di qualsiasi sostanza che non sia materiale e corporea, questo principio di intel1igenza e di razionalità non possa essere se non immanente alla materia e non possa antologicamente essere altro dalla materia e dalla corporeità. Leggiamo, ad abundantiam, due testimonianze al riguardo: Crisippo e Zenone [ ... ] posero come principio di tutte le cose Dio e Io intesero come il corpo più puro [ ... ] 40 • Platone e Zenone Io Stoico, trattando della essenza di Dio, non la concepirono nello stesso modo, ma Platone pensò Dio come incorporeo, Zenone, invece, lo pensò come corpo 41 • Questa conclusione degli Stoici era necessaria, perché ciò che non è corpo, per essi, non è realtà e non è essere; e se Dio è, è corpo, come corpo è ogni essere. c) Si comprende bene, in questo modo, come gli Stoici potessero identificare -il loro Dio-physis-logos con il fuoco artefice, con l'eracliteo « fulmine che tutto governa » 42, o anche col pneuma, che è « soffio infuocato », ossia aria dotata di calore 43 • Il fuoco, infatti, è il principio che tutto quanto trasforma e tutto penetra; il caldo è il principio sine qua non di ogni nascita, crescita, e, in genere, di ogni forma di vita. Scrive Cicerone: Tutti gli esseri che si nutrono e crescono contengono in sé energia calorifica senza la quale non potrebbero né nutrirsi né crescere; infatti tutto ciò che ha in sé fuoco e calore si muove ., Ippolito, Philosoph., 21, l (Dids, Doxographi graeci, p. 571 = von Arnim, S.V.P., 1, fr. 153). •• Ps. Galeno, Hist. philos., 16 (Diels, Doxographi graeci, p. 608) = von Arnim, S.V.P., 1, fr. 153) . ., Dids·Kranz, 22 B 64 . ., Cfr. Alessandro, De an., 26, 13 ( von Arnim, S.V.P., II, fr. 786); Id., De mixtione, 224, 32 sgg. ( = von Arnim, S.V.P., II, fr. 310, p. 112, 35 sg.); ivi, 224, 14 ( = von Arnim, S.V.P., II, fr. 442).
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di un movimento suo proprio; ma tutto ciò che si nutre e cresce è caratterizzato da un movimento continuo e costante, e quanto più a lungo esso rimane in noi, tanto più a lungo rimangono in noi la sensibilità e la vita, mentre quando· il calore si indebolisce e si estingue anche noi periamo e ci estinguiamo. Questo prova Cleante anche dimostrando quanta energia calorifica sia contenuta in ciascun corpo. Per lui non v'è cibo tanto massiccio che non bruci in continuazione giorno e notte una volta ingerito; ed il calore che ne deriva si conserva ancora nei rifiuti di cui la natura si'sbarazza. Inoltre le vene e le arterie non smettono mai di pulsare come se fosse del fuoco ad imprimere loro il movimento e spesso si è osservato che il cuore strappato ad un animale palpitava in modo tale da imitare il rapido movimento della fiamma. Tutto ciò che vive dunque, sia esso animale o vegetale, vive in forza del calore che reca chiuso in sé. Dal che si deve dedurre che la sostanza che costituisce il calore possiede una forza vitale che si estende all'intero universo 4C. E dopo aver dimostrato che tutti gli elementi naturali costituenti il mondo ·implicano calore, Cicerone ulteriormente conclude: Poiché tutti gli elementi che costituiscono il mondo risultano sostenuti dal calore, anche il mondo nel suo insieme deve la sua conservazione attraverso un così lttngo lasso di tempo allo stesso e identico elemento; e questa conclusione è tanto più valida in quanto si deve ammettere che codesto elemento, identificantesi col calore e col fuoco, permea l'intera natura e assomma in sé la forza procreatrice e la causa della generazione in virtù della quale tutti gli animali e quegli esseri le cui radici sono trattenute dalla terra sono soggetti alle leggi della nascita e della crescita 45 •
Alessandro di Afrodisia conferma: È opinione di Crisippo [ ... ] che tutta quanta la realtà sia unificata da un pneuma che tutta la pervade e dal quale il tutto è tenuto insieme, permane e consente con se medesimo -16 • .. Cicerone, De nat. deor., n, 9, 23 sg., traduzione di U. Pizzani (il passo è parzialmente riportato in von Arnim, S.V.P., I, fr . .513). 45 Cicerone, De nat. deor., n, 9, 28. " Alessandro, De mixtione, 216, 14 (= von Arnim, S.V.P., 11, fr. 473).
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E numerose altre testimonianze confermano pienamente la dottrina 47 • d) Questa concezione panteistico-materialistica di Dio non esclude il politeismo. Anche per gli Stoici, infatti, come per tutti Greci, le concezioni di Dio-uno e di Dio-molti non si escludono a vicenda e monoteismo e politeismo non appaiono posizioni antitetiche. Essi infatti parlano di Dio uno e, insieme, di Dei molteplici, e, perfino, parlano di« Demoni» e di« Eroi» intermedi fra Dei e uomini. Il Dio è illogos-fuoco, è il principio attivo supremo, o, visto sotto altra prospettiva, è la totalità del cosmo. Gli Dei molteplici sono gli Astri, cioè parti privilegiate del cosmo, e sono concepiti quali esseri viventi e intelligenti 48 • Riferisce Diogene: Gli Stoici affermano che vi sono alcuni demoni che hanno affetti e sentimenti comuni all'umanità e vigilano sul corso delle umane vicende. Credono anche negli eroi, che sono le anime superstiti degli uomini virtuosi 49 • È però da notare che solo il Logos è veramente Dio eterno;
gli altri sono Dei di lunga vita, ma nascono e muoiono insieme alle vicende cicliche del cosmo, che, come vedremo, nel ricorrente grande anno viene divorato dal fuoco, e, poi, rigenerato: Tutti gli Dei nascono e muoiono, tranne il Dio supremo che s'identifica col fuoco eterno, e permane attraverso le conflagrazioni e i successivi rinnovamenti dell'universo 51 •
•, Or. l'indice compilato da M. Adler per i S.V.P. del von Amim, vol. IV, p. 124 b sgg.
.. Or. von Arnim, S.V.P., II, frr. 92, 613, 685, 1027, 1076. ., Diogene Laerzio, VII, 151 ( = von Arnim, S.V.P., II, fr. 1102). 50 Plutarco, De comm. not., 31, p. 1066 a ( = von Arnim, S.V.P., I, fr. 536).
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e) La mitologia politeistica, allegoricamente interpretata, cioè considerata espressione poetica di una verità fisica, poteva cosl essere accolta dagli Stoici e considerata conciliabile con la loro dottrina. Ecco come Diogene riferisce questo punto della dottrina del Portico:
Dio è un essere immortale, razionale, perfetto e intelligente, beato, non suscettibile di alcun male, sollecito, per la sua provvidenza, del cosmo e di tutto ciò che è in esso; ma non è antropomorfo. ~ il demiurgo dell'universo e, quasi padre di tutte le cose, è ciò che penetra dovunque in tutto o in parte ed è chiamato con molti nomi secondo i modi della sua potenza. ~ chiamato Dia {d'ci) perché tutto avviene per mezzo di ( a,ci) lui; è chiamato Zeus (Zijv«) perché è autore del vivere (tijv) o perché pervade tutta la vita; è chiamato Atena ( 'A&71viiv) perché la sua egemonia si estende fino all'etere («l&~pot); Era ("Hp«v) perché domina l'aria (Hpot); Efesto, perché è signore del fuoco creativo; Posidone perché domina tutte le acque; Demetra perché domina tutte le terre. Similmente gli imposero anche altri nomi, per rilevare altre particolari proprietà 51 •
f) Il Dio stoico, stando alla logica del sistema, nella misura in cui si identifica con la natura, non può essere personale. Per conseguenza, non ha senso la preghiera, se Dio è l'impersonale logos e la natura: tanto più che, come vedremo, l'uomo, per realizzare la sua vita, non ha nessun bisogno dell'aiuto di Dio. Tuttavia, nella storia della Stoa, Dio tenderà sempre più ad assumere tratti spirituali e personali, la religiosità tenderà sempre più a permeare fortemente di sé il sistema, e la preghiera verrà ad acquistare un preciso senso. Del resto, è destino fatale del panteismo il non poter mantenere in giusto equilibrio l'identificazione di Dio e Natura e il tendere a risolversi, al limite, o nell'ateismo o nel teismo. La Stoa piegherà, specie nell'ultima sua stagione, verso il teismo, pur senza sapervi giungere pienamente. In ogni caso, già nell'ambito della prima Stoa, con Cleante, si manife•• Diogene Laerzio,
VII,
147 ( = von Arnim, S.V.P.,
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II,
fr. 1021).
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stò un vivo senso religioso, che trovò piena espressione nel celebre Inno a Zeus (l'unico ampio frammento diretto che possediamo dell'antica Stoa), che vogliamo leggere nella sua integrità, perché è la sintesi di quanto gli Stoici antichi pensarono su Dio, sia pure nella coloritura religiosa, che era una prerogativa del solo Cleante. O glorioso più d'ogni altro, o somma Potenza eterna, Dio dai molti nomi, Giove, guida e signor della Natura, Tu che con Legge l'universo reggi, Salve! poiché a Te porgere il saluto È diritto in ciascun di noi mortali: Di tua stirpe noi siamo, e la parola Come riflesso di tua mente abbiamo, Soli fra tutti gli esseri animati Che sulla nostra terra han vita e moto. A Te dal labbro mio, dunque, si levi L'inno, e ch'io sempre canti il tuo potere! A Te tutto il mirabile universo Che ruota intorno a questa terra ognora, Obbedisce, da Te guidar si lascia E del comando Tuo fa il suo volere: Tale strumento, nelle invitte mani, Hai di tua possa il fulmine forcuto, Tutto di fuoco sempre acceso e vivo, Sotto i cui colpi la Natura tutta Compie l'opere sue ad una ad una. E con esso dirigi la Ragione Comun, che in tutti penetra, toccando Del pari il grande ed i minori lumi; E per esso, Signor, Tu cosi grande, Hai l'alta signoria in ogni tempo. Nessuna, sulla terra, opra si compie, Dio, sema Te; né per la sacra sfera Dell'ampio ciel, né tra' marini gorghi; Salvo quelle che spiriti perversi Fanno seguendo lor consigli stolti. Ma pur gli eccessi livellar tu sai, Dar ordine al disordine; son care A Te le creature a Te nemiche:
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368
W
STOICISMO ANTICO
Il tutto, insieme, in armonia, Signore, Hai Tu raccolto, il bene, il mal, per modo Che una Ragione, unica di tutti, Si svolge e vive per l'eternità. Se non che da lei partonsi fuggendo Quei mortali dall'anima corrotta, Miseri! che pur vanno in ogni tempo Cercando d'acquistare il loro bene, Ma non vedon la Legge universale Di Dio, e più non odon la sua voce; Ché se quella seguissero con senno, Goder potrebber la più bella vita. Ma da sé ciascheduno or questo cerca, Or quel malanno, nella sua stoltezza: Chi per acquistar fama, in aspre gare D'ambiziose cure è tutto preso; E chi al guadagno volge i suoi pensieri Senza ritegno e senza alcun decoro; E chi cerca una vita inoperosa, E per godere ogni piacer carnale, Or all'uno portato ed ora all'altro, lnsaziato, insoddisfatto sempre, Intanto fa con ogni studio e cura Che tutto contro il suo deslo gli avvenga. Ma Tu, dispensator di tutti i beni, Signor dei nembi e dell'accesa folgore, Gli uomini tutti dall'errar distogli E l'ignoranza che a soffrir li mena, O Padre, Tu dall'anima disperdi A ciascuno, e fa' sl che ognun raggiunga Il Tuo pensier, sul qual poggiando reggi Con la Giustizia l'universo intero; Sl che, di tale onor da Te degnàti, Noi ti rendiamo a nostra volta onore, Celebrando negl'inni senza fine L'opere Tue, cosl come s'addice Al mortale. Non c'è pregio più alto Per gli uomini del pari e per gli Dei Che inneggiando lodar come si deve La comun legge che governa il mondo 52 • " von Arnim, S.V.P.,
1,
fr. 537 (traduzione di N. Festa).
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6.
J69
Il f i n a l i s m o e l a P r o v v i d e n z a ( P r 6 n o i a )
Contro il meccanicismo degli Epicurei, gli Stoici difendono a spada tra~ta una rigorosa concezione finalistica. Già Platone e Aristotele avevano formulato una concezione nettamente teleologica del cosmo; ma gli Stoici procedono oltre. Infatti, se tutte le cose senza eccezione sono prodotte dall'immanente principio divino, che è logos, intelligenza e ragione, tutto è. rigorosamente e profondamente razionale, tutto è come la ragione vuole che sia e come non può non volere che sia, tutto è come deve essere e come è bene che sia, e l'insieme di tutte le cose è perfetto: non c'è ostacolo ontologico all'opera dell'artefice immanente, dato che la stessa materia è il veicolo di Dio, e cosl tutto ciò che esiste ha un suo preciso significato ed è fatto nel migliore dei modi possibili; il tutto è in sé perfetto: le singole cose, pur essendo, in sé considerate, imperfette, hanno la loro perfezione nel disegno del tutto. Riferisce Cicerone: Non v'è alcun essere, al di fuori del mondo, cui nulla manchi e che sia perfettamc;nte compiuto ed idoneo alle sue funzioni in ogni minimo particolare. Con singolare acutezza Crisippo sostiene che, come per lo scudo si escogitò una copertura e per la spada una vagina, così tutti gli esseri, fatta eccezione per il mondo nel suo insieme, furono creati a motivo di altri. Quelle messi e quei frutti che la terra produce sarebbero stati creati per servire agli animali, creati a loro volta per servire all'uomo: il cavallo per trasportarlo, il bue per arare la terra, il cane per aiutarlo nella caccia e per proteggerlo. L'uomo poi, in sé imperfetto ma partecipe di ciò che è perfetto, sarebbe nato per contemplare ed imitare il mondo. Ma il mondo, poiché ahhraccia in sé ogni cosa e nulla esiste che rion ne faccia parte, è assolutamente perfetto 53 • E Seneca a favore del finalismo universale e della perfe53 Cicerone, De nat. deor., II, 14, 37 sg. (traduzione di U. Pizzani), parzialmente riportato in von Arnim, S.V.P., II, fr. 1153.
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LO STOICISMO ANTICO
zione del mondo adduce un argomento, che con Leibnitz diverrà famoso, ma che lo stoicismo, come subito si vedrà, ha già perfettamente formulato: Ne!!sun animale è perfettamente uguale ad un altro. Osserva tutti i loro corpi: ognuno ha qualche cosa di proprio nel colore nella figura nella grandezza. Fra tutte le altre cose per cui è da ammirare la sapienza del divino artefice io credo che sia da annoverare anche questa, che nell'infinito numero dei reali esistenti non ce ne sono due perfettamente uguali: anche quelli che sembrano simili, messi a confronto appaiono diversi. Ha creato tante specie di foglie: ognuna porta il segno di una propria forma. Ha creato tanti animali: nessuno è uguale all'altro per grandezza, qualche differenza fra loro si trova sempre. Ha imposto a se stesso che le molteplici realtà viventi fossero fra loro dissimili ed irriducibili ad un fondo di uguaglianza 54 •
Logicamente, in conseguenza dell'affermazione del finalismo, anche ,il discorso sulla Provvidenza (pr6noia) emerge in primo piano. Nell'ambito delle filosofie presocratiche il concetto di Provvidenza è assente. Lo stesso Aristotele non ha collegato la concezione del fine con la dottrina della Provvidenza. Invece la dottrina si ritrova nei Memorabili di Senofonte 55 , e si trova congiunta alla concezione del Demiurgo nel Timeo platonico 56 • Ma solo con gli Stoici la Provvidenza emerge in primo piano e· occupa un posto importantissimo nel sistema. La Provvidenza stoica - si badi - non ha nulla a che vedere con la Provvidenza di un Dio personale. Essa, in ultima analisi, non è altro che quel finalismo universale che abbiamo esaminato: essa esprime, cioè, quell'essere ogni cosa (anche la più piccola) fatta come è bene e come è meglio che sia da parte del logos. È una Provvidenza immanente e non trascendente, che coincide con l'artefice immaSeneca, Epist., 113, 15 sg. (traduzione di B. Giuliano). Senofonte, Memorabili, I, 4 e IV, 3. " Cfr. il volume n, pp. 69 sgg. e in particolare si veda il testo del Timeo riportato a p. 77; cfr. anche il libro x delle Leggi. 54 55
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nente, con l'anima del mondo, con lo stesso mondo panteisticamente inteso. Ecco, al riguardo, due belle testimonianze ciceroniane. La prima la conosciamo già in parte, ma giova rileggerla nella sua integrità. Zenone definisce la natura come fuoco artefice che procede alla generazione degli esseri secondo un metodo preciso. C.ompito proprio e peculiare dell'attività artistica è infatti, secondo il nostro filosofo, quello di provvedere alla generazione e creazione delle cose e ciò che nelle nostre creazioni artistiche è opera della mano dell'uomo, con arte assai più raffinata lo compie la natura, cioè, come s'è detto, quel fuoco artefice, maestro di tutte le arti. E la ragione per la quale la natura tutta è dotata di facoltà artistiche è che segue le direttive metodiche di una ben definita scuola. In realtà la natura del mondo che avvolge e stringe nel suo abbraccio gli esseri tutti non solo procede con arte ma è essa stessa, come dice Zenone, un vero artista: suo compito è quello di provvedere e predisporre tutto ciò che può essere di utilità e di vantaggio. E come le altre creature naturali sono procreate ciascuna dal proprio seme e si sviluppano contenendosi entro i limiti della propria specie, cosl la natura del mondo compie tutti i suoi movimenti in seguito ad un atto di volontà ed è soggetta a tendenze e ad istinti (le op IL« l dei Greci) ai quali ispira le proprie azioni cosl come facciamo noi che ci lasciamo guidare dalla sensibilità e dall'intelletto. Poiché tale è la mente del mondo, e in conseguenza di ciò, le competono a buon diritto gli appellativi 4i « saggezza » e « provvidenza » (i Greci dicono ~p6vo&cz), ciò cui essa soprattutto tende e per cui si impegna a fondo è che nel mondo vi siano i migliori presupposti per la sua conservazione, che nulla gli venga a mancare e che, soprattutto, in esso risplenda una suprema bellezza e siano presenti tutti gli elementi atti ad aumentarne il fascino 57 • Ed ecco la seconda testimonianza: Voi stessi siete soliti affermare che non v'è nulla che un dio non possa fare e, per giunta, senza fatica alcuna. Come le membra dell'uomo si muovono senza alcun sforzo sotto l'im57 Cicerone, De nat. deor., n, 22, 57 sg. ( = von Amim, S.V.F., 171 e 172 [traduzione di U. Pizzani, con lievi ritocchi]).
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I,
frr.
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pulso del pensiero e della volontà, cosl al cenno divino ogni cosa può prendere forma, muoversi e subire delle trasformazioni. E questo voi affermate non spinti da superstizione da vecchierelle, ma sulla base di precise leggi naturali. È infatti vostra convinzione che la materia primigenia da cui derivano e di cui constano gli esseri tutti sia di per sé suscettibile di piegarsi e di trasformarsi sl che non v'è nulla ch'essa non possa foggiare o trasformare anche in un tempo minimo, ma che sia la provvidenza divina a darle una forma ed una regola. Essa è pertanto in grado di fare ciò che vuole, dovunque si volga 58 • E come la Provvidenza è immanente e fisica, cosi non c'è da stupirsi che essa provveda più alla specie che non all'individuo e che quindi non si occupi dei singoli uomini in quanto singoli: solo una concezione della Divinità e della Provvidenza come personali avrebbe potuto permettere un guadagno in questo senso 59 • 7.
Il Fato (Heimarméne)
Senonché questa Provvidenza immanente degli Stoici, vista sotto altra prospettiva, doveva rivelarsi come « fato » e come« destino» (heimarméne), ossia come ineluttabile necessità. Gli Stoici intesero questo Fato come la serie irreversibile delle cause, come l'ordine naturale e necessario di tutte le cose, come l'indissolubile intreccio che lega tutti gli esseri, come il logos secondo cui le cose avvenute sono avvenute, quelle che avvengono avvengono e quelle che avverranno • Cicerone, De nat. deor., 111, 39, 92 ( = von Arnim, S.V.P., 11, fr. 1107 [traduzione di U. Pizzani, con un lieve ritocco]). "' Solo nell'ultima fase dello stoicismo, il prevalere dell'interesse rdigioso porterà ad aperture in tal senso, peraltro non teoreticamente fondate. Il logos = fuoco = physis o natura = anima dd mondo è principio impersonale e non può pertanto che essere provvidenza impersonale, ossia legge impersonale, ragione impersonale che all'individuo non può provvedere in altro modo che come a un momento o membro della totalità, livellandolo assolutamente rispetto a tutti gli altri momenti o membri della totalità.
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avverranno. E poiché tutto dipende dall'immanente logos, tutto è necessario, anche l'evento più insignificante. Siamo agli antipodi della visione epicurea, che con la « declinazione degli ·atomi » aveva, invece, posto ogni cosa in balla al caso e al fortuito. Leggiamo alcune testimonianze sulla dottrina stoica della heimarméne. Riferisce Stobeo: Lo stoico Zenone nel libro I ntorno alla natura scrive che il fato è potenza che muove la materia secondo gli stessi modi e similmente, e che non fa nessuna differenza chiamarlo provvidenza e natura. Lo Stoico Antipatro affermò che dio è il fato [ ... ] . Crisippo spiega l'essenza del fato come potenza pneumatica che governa con ordine il tutto. Questo scrive, dunque, nel secondo libro dell'opera Intorno al cosmo. Nel secondo libro delle Defini:doni, nei libri Intorno al Fato ed altrove, qua e là, si esprime variamente dicendo che il fato è il logos del cosmo, ovvero il logos delle cose che nel cosmo sono governate dalla provvidenza, ovvero illogos, secondo cui le cose che sono accadute, sono accadute, le cose che accadono, accadono, le cose che accadranno, accadranno. In luogo del termine « logos » adotta anche i termini « verità », « causa», « natura », « necessità », aggiungendo anche altre denominazioni, riferite da lui alla stessa essenza secondo sempre nuove intuizioni di concetti 60 •
Diogene Laerzio precisa: Il fato è una concatenazione di cause di ciò che è oppure la ragione (À6yo~) che dirige e governa il cosmo 61 • E Cicerone, riprendendo tali concetti, scrive: La ragione ci obbliga ad ammettere che tutto avviene per volere del fato, e fato io chiamo quello a cui i Greci danno il nome di d!J.otp~, cioè una serie concatenata di cause e di effetti '" Stobeo, Anthol., I, 78, 18 sgg. ( = von Arnim, S.V.F., 1, fr. 176 e 11, fr. 913 = Diels, Doxographi graeci, p. 322, 5 e p. 323, 3 [traduzione di L. Torraca]). 61 Diogene Laerzio, VII, 149 (= von Arnim, S.V.F., 1, fr. 175).
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da cui hanno origine tutte le cose. È questa una verità eterna che affonda le sue radici nell'eternità; e perciò, dato che le cose stanno cosl, nulla è mai accaduto che non dovesse accadere e, parimenti, nulla accadrà di cui non esistano già, contenute nella natura, le cause che ne provocheranno il verificarsi. Da questo si capisce chiaramente perché il fato è la fonte da cui hanno origine tutte le cose, esistente ab aeterno ed intesa non secondo le sciocche credenze dei superstiziosi, ma secondo le teorie dei filosofi che hanno studiato la natura, e per quali motivi sono accadute tutte le cose successe nel passato, perché accadono le presenti ed accadranno le future [ ... ] 62 • Su queste basi è chiaro come gli Stoici dovessero difendere la mantica: se tutto è determinato e predeterminato, con opportuna arte il futuro può essere scrutato e in qualche modo previsto 63 • Il Pohlenz ha avanzato l'ipotesi che Zenone, il quale era di origine semita, avesse tratto dal patrimonio spirituale della sua razza e della sua patria i germi di alcune delle idee che ora abbiamo esaminato. In particolare l'idea della Provvidenza, piuttosto tenue nella tradizione filosofica greca, potrebbe essere una eco della biblica Provvidenza, immanentisticamente interpretata, cosl come l'idea della Heimarméne potrebbe essere una eco del fatalismo, profondamente sviluppato fra i popoli orientali, in particolare fra gli Arabi. È peraltro da rilevare che i Memorabili di Senofonte, che sono l'opera in cui la dottrina della Provvidenza (che come sappiamo viene messa in bocca a Socrate) ha un consistente sviluppo, furono certamente letti da Zenone. Invece la preminenza che l'idea del Fato ha nel sistema stoico sembra andare al di là delle convinzioni della grecità e quindi non se ne vede la-genesi. Pertanto, se non per spiegare la concezione della Provvidenza, tuttavia, per spiegare la particolare con62 Cicerone, De div., I, 55, 125 ( = con Arnim, S.V.P., duzione di R. Giommi]). 63 Cfr. von Arnim, S.V.P., II, frr. 1187 sgg.
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II,
fr. 921 [tra-
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cezione stoica del Fato, la tesi del Pohlenz può avere una sua plausibilità 64 •
8. L a N e c essi t à e l a l i h e r t à
Gli avversari dello stoicismo ben si accorsero che nel contesto di questa concezione fatalistica non è possibile far posto alla libertà umana. Se ogni evento è rigidamente determinato, e perfino la caduta di un capello non può essere casuale, non ha più alcun senso l'impegno morale, appunto perché l'esito dell'azione è predeterminato in ogni caso, e non ha più alcun senso la responsabilità, perché non da noi ma dalla necessaria e immodificabile serie delle cause dipendono, come tutte le cose, anche le nostre azioni. Crisippo cercò di risolvere l'aporia, ma con ben scarso successo. Essa, infatti, è strutturalmente insolubile. Non è possibile ammettere la Heimarméne nel senso stoico e, insieme, salvare l'umana libertà: l'una, infatti, distrugge l'altra, e viceversa, irreparabilmente. Ma vediamo brevemente quale sia il ragionamento di Crisippo, che è assai interessante. Egli distingue due specie di cause: a) le cause ausiliari ed esterne e b) le cause principali e perfette, cioè in grado di produrre da sé l'effetto. La catena delle cause della Heimarméne che ci rinserra è la catena delle cause ausiliari che non dipendono da noi. Le cause pros-
64 Cfr. Pohlenz, La Stoa, 1, pp. 215 sg. Nella prefazione all'edizione italiana, pp. XIX sg., il Pohlenz richiama in modo fermo l'attenzione del lettore affinché non fraintenda la sua tesi (come alcuni hanno fatto): egli non vuole affatto fare del pensiero della Stoa un prodotto del sangue semitico, ma solo rilevare alcune componenti stoiche che sono o possono essere di genesi semitica. Del resto è caratteristica propria di tutto l'ellenismo quella di far proprie idee orientali ed ellenizzarle. I passi dei Memorabili (I, 4 e IV, 3) cui facciamo riferimento sono stati da noi riportati nel vol. I e considerati come testimonianze fedeli del pensiero teologico socratico (dr. pp. 340-346).
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LO STOICISMO ANTICO
sime e capaci di produrre da sé l'effetto dipendono invece da noi. Esemplifichiamo. Che sorga in noi una determinata rappresentazione dipende da cause ausiliari ed esterne a noi, e dunque è fatale. Ma l'assenso che noi diamo o no a tale rappresentazione, e quindi anche ciò che all'assenso consegue, non dipende dalle cause ausiliari, ma da una causa interna a noi, la quale sola è capace di produrre l'effetto; ma questa è una causa che dipende dalla nostra interiore natura, e, dunque, è libera. Abbiamo già visto, sopra, la forte carica di ambiguità che è propria dell'assenso stoico: esso è, in sostanza, libertà di dir sl all'evidenza e di dir no alla non evidenza; e poiché all'evidenza non si può dire di no, è ben difficile capire che cosa voglia dire la libertà di assentire all'evidenza. Ancora più chiara risulta l'aporia da questo esempio con cui Crisippo, rifacendosi alla distinzione delle due cause, vorrebbe illustrare la libertà umana. Se uno dà una spinta ad un cilindro su un piano inclinato, il cilindro rotola; ma la spinta è solo la causa esterna e ausiliare, mentre la vera causa, quella prossima e che porta ali'effetto, è la natura rotonda del cilindro:
.
Dunque, come colui che ha spinto il cilindro, gli ha dato l'inizio del movimento, ma non la proprietà di rotazione, cosl l'immagine che si presenta imprimerà sl e segnerà, per cosl dire, la sua forma nella nostra anima, ma l'assenso sarà in nostro potere, ed esso, come si è detto per il cilindro, una volta prodotto da un impulso esterno, si muoverà per il resto per effetto della sua forza e della sua natura. Se qualche cosa si producesse senza una causa antecedente, sarebbe falso il principio che tutto accade per opera del fato; se invece è verosimile che tutto ciò che accade è preceduto da una causa, quale ragione si potrà addurre per non ammettere che tutto accade per opera del fato? Basta comprendere quale sia la distinzione e la differenza tra le cause 65 • 65 Cicerone, De fato, 19, 43 ( = von Arnim, S.V.P., 24 sgg. [traduzione di F. Pini]).
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11,
fr. 974, p. 283,
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Come risulta evidente, la difficoltà non è risolta, ma è semplicemente spostata: si può obiettare a Crisippo che, sì, il cilindro rotola a causa della sua natura, dopo aver ricevuto il colpo; ma, appunto data questa sua natura, esso non può fare altro che necessariamente rotolare, sicché quella sua natura diventa inesorabilmente un anello della necessaria serie causale del Fato 66 • Analogamente, come già abbiamo notato, non si vede in che senso sia libera la facoltà che l'uomo ha di assentire; infatti, una volta che si presenti una rappresentazione fornita di evidenza, l'assenso non può non essere necessariamente dato. In ogni caso, stante la psicologia materialistica degli Stoici, non si comprende in alcun modo come l'assenso possa uscire fuori dalla catena delle cause della Heimarméne. Del resto, il rigido determinismo, che la dottrina stoica implica di necessità, è espresso in maniera addirittura paradigmatica nella teoria dell'eterno ritorno di cui diremo sotto: il mondo a cicli alterni si riformerà e ciascun uomo ritornerà sulla terra e farà esattamente tutto quello che fece nelle precedenti esistenze fino nei minimi particolari, con assoluta necessità 67 • Invece, molto più chiaro è il discorso che fanno gli Stoici, quando spiegano che la vera libertà del saggio sta nell'uniformare i propri voleri a quelli del Destino, sta nel volere insieme al Fato ciò che il Fato vuole. E questa è« libertà » in quanto razionale accettazione del Fato, che è razionalità: infatti il Destino è il Logos, e perciò volere i voleri del Destino è volere i voleri del Logos. Libertà, dunque, è impostare la vita in totale sintonia col logos. Cleante esprimeva perfettamente questo concetto di « libertà » nei seguenti versi:
66 67
Cfr. Cicerone, De Fato, 17, 39 · 20, 46. Si veda, più avanti, il S 10.
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Guidami, o Giove, e tu, Destino, al termine, Qual esso sia, che d'assegnarmi piacquevi. Seguirò pronto, ché se poi m'indugio, Per esser vile, pur dovrò raggiungervi 68 • Ecco un bel passo riferitoci da lppolito, che esemplifica assai bene questo concetto: Anch'essi [gli Stoici] affermarono con certezza che tutte le cose sono per fato, e si servirono dell'esempio seguente. Quando un cane sia legato ad un carro, se voglia seguirlo, è trascinato e lo segue, facendo con necessità anche ciò che fa di propria volontà; se invece non voglia seguirlo, sarà costretto in ogni caso a farlo. La stessa cosa in vero capita anche agli uomini. Anche se non vogliano seguire, saranno in ogni caso costretti a pervenire dove è stato stabilito dal fato 69 • Seneca·dirà, traducendo un verso di Cleante, con lapidaria sentenza: Ducunt volentem fata, nolentem trahunt 70 • È questo un punto di forza della saggezza stoica che fece grande impressione, perché insegnava che, in certo senso, era possibile affrancarsi dal Destino per la via opposta a quella indicata da Epicuro. Inutile, come pretendeva Epicuro, ridere del Destino, perché esso tosto ci riafferra implacabile. C'è però modo di affrancarsi dal Destino, comprendendone le ragioni, le intime leggi, e di conseguenza sintonizzandosi con esse. E cosi, anziché forza che ci piega e ci sferza, il Destino diventa forza che ci conduce e ci guida, con assoluta certezza, al termine che ci è stato assegnato .
.. Riportati in Epitteto, Manuale, 53 ( = von Arnim, S.V.P., 1, fr. 527 [traduzione di N. Festa]). 69 lppolito, Philosoph., 21 (Diels, Doxographi graeci, p. 571 = von Arnim, S.V.P., n, fr. 975 [traduzione di L. Torraca]). "' Seneca, Epist., 107, 10.
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9.
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Il cosmo e H posto dell'uomo nel cosmo
Il mondo e le cose del mondo nascono dall'unica materiasostrato qualificato via via dall'immanente logos, che è, esso pure, uno, eppure capace di differenziarsi nelle infinite cose. Il logos è come il semt: di tutte le cose, è come un seme che contiene molti semi (i logoi spermatikoi, che i latini tradurranno con l'espressione rationes semina/es). Riferisce Aezio: Gli Stoici affermano che dio è intelligente, fuoco artefice, che metodicamente procede alla generazione del cosmo, ed include in sé tutte le ragioni seminati, secondo cui le cose sono generate secondo il fato 71 • Diogene ribadisce: Dio è [ ... ] la ragione seminale del cosmo 72•
Le Idee o Forme platoniche e le forme aristoteliche sono cosl sussunte nell'unico logos che si manifesta in infiniti semi creativi, o forze o potenze germinative che operano nell'intrinseco della materia, immanendo strutturalmente alla materia. Dall'originario logos-fuoco si formano i quattro elementi: l'elemento fuoco 73 , l'elemento aereo, che, riscaldato dal fuoco, come sappiamo, è detto pneuma (spirito); quindi si formano l'elemento liquido e quello solido e tutto il cosmo e le cose del cosmo, ad opera del fuoco stesso e del pneuma che cir71 Aezio, Plac., I, 7, 33 (Diels, Doxograpbi graeci, pp. 305 sg. = von Arnim, S.V.P., n, 1027 [traduzione di L. Torraca]). 12 Diogene Laerzio, VII, 136 ( = von Arnim, S.V.P., I, fr. 102, p. 28, 26. Cfr. anche fr. 98, p. 27, 17 sgg.). 71 L'elemento fuoco che vediltiilo non è il fuoco-principio, ma un elemento derivato, rome gli altri elementi, dal primo principio. Aristocle, presso Eusebio, Praep. evang., xv, 14, l (= von Arnim, S.V.P., I, fr. 98) precisa: ·« Il fuoco è elemento universale i c11i principi sono Dio e la materia, corporei l'uno e l'altra,. (traduzione di N. Festa).
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LO STOICISMO ANTICO
colano in tutte le cose. Grande importanza gli Stoici diedero al concetto di t6nos o tensione del fuoco, o meglio del pneuma, che sarebbe una specie di forza propulsiva che va dal centro agli estremi limiti e poi ritorna al centro, assicurando cosl unità alle singole cose e al tutto 74 • Il pneuma si distende per l'universo con una intensità e una purezza differenti, e quindi genera le varie cose con una precisa gradazione gerarchica, pur restando uno. Nascono in questo modo le cose inorganiche, in cui il pneuma agisce e si manifesta come hexis (l~Lt;), ossia come forza che garantisce alle cose coesione e durata; nascono quindi gli organismi vegetali in cui il pneuma agisce e si manifesta come capacità di nutrirsi, di crescere e di riprodursi e quindi come physis (nel significato specifico di principio di crescita); nascono infine gli animali, in cui il pneuma si manifesta come psyché, vale a dire come principio di vita in senso pieno, e quindi si manifesta -come sensazione e istinto e, nell'uomo, come logos 75 • L'universo è sferiforme: alla periferia stanno gli astri, che sono fatti di fuoco (e non di etere come invece voleva Aristotele), e, come sappiamo, sono esseri animati, viventi e divini. Al centro sta la terra, che è come il focolare (la sacra Restia) del divino edificio dell'universo 76 • L'universo, contrariamente a quanto sosteneva Epicuro, è finito, ma è circondato dal vuoto infinito. Riferisce Sesto: Secondo i filosofi della Stoa l'universo e il tutto sono fra loro diversi. Dicono infatti che l'universo è il cosmo, mentre il tutto è il vuoto esterno insieme al cosmo e che per questo l'universo è finito: infatti il cosmo è finito, mentre il tutto è infinito, infinito essendo il vuoto che è fuori del cosmo 77 • '" Cfr. Sambursky, Physics of tbe Stoics, p. 5. Cfr. von Arnim, S.V.F., II, frr. 458-462, 714-716. "' Cfr. von Arnim, S.V.F., I, fr. 500 e Pohlenz, lA Stoa, I, p. 160. 71 Sesto, Contro i matem., IX, 332 (= von Arnim, S.V.F., II, 524). 75
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LA FISICA DELL'ANTICA STOA
Piante e animali della terra sono in funzione dell'uomo: per l'uomo è stato creato tutto ciò che sta nel mondo sublunare, come abbiamo già veduto 78 • Ben si comprende quindi la definizione data dagli Stoici: l'universo è il sistema costituito dagli Dei e dagli uomini e dalle cose create per loro 79 • Questa concezione antropocentrica professata dagli Stoici secondo il Pohlenz non sarebbe di origine greca, dato che affermazioni di sapore antropocentrico si trovano solo in passi dei Memorabili di Senofonte e della Politica aristotelica 80 • Scl'ive lo studioso tedesco: «Siamo quindi di fronte ad un sentimento della vita affatto nuovo, quando la Stoa mette al centro della sua cosmologia proprio questa idea, che l'uomo costituisce l'unico scopo della formazione del mondo e che tutto è stato creato per lui. E quanto estraneo questo sentimento era all'antica grecità, altrettanto è familiare a noi attraverso il Vecchio Testamento [ ... ] ». Il Pohlenz avanza quindi la congettura che Zenone abbia portato con sé dalla sua patria questa concezione antropocentrica unitamente all'idea della Provvidenza 81 • Ma anche in questo caso i due documenti menzionati di Senofonte e di Aristotele vietano di trarre queste conclusioni. È vero invece che, in ogni caso, solo con gli Stoici questa concezione si impone. 10. La conflagrazione ritorno
universale
e
l'eterno
Ma c'è ancora un punto essenziale concernente la cosmologia degli Stoici da illustrare. Come i Presocratici, anche gli " Per la concezione antropocentrica cfr. von Arnim, S.V.P., II, frr. 1152-1167. " Cfr. von Arnim, S.V.P., II, frr. 527, p. 168, 11 sgg.; 528, p. 169, 21 sgg.; 529, p. 169, 39 sg. 111 Cfr. Senofonte, Memorabili, I, 4 e IV, 3; Aristotele, Politica, I, 8, 1256 b. 11 Pohlenz, La Stoa, I, p. 197.
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LO STOICISMO ANTICO
Stoici ritennero il mondo generato, e quindi corruttibile (ciò che nasce, deve, ad un certo punto, morire). Del resto era l'esperienza stessa che diceva loro che, cosl come esiste un fuoco che crea, esiste anche un fuoco o un aspetto del fuoco che brucia, incenerisce e distrugge. E in ogni caso era impensabile che le singole cose del mondo fossero soggette a corruzione e non il mondo che di esse è costituito. La conclusione era perciò obbligata: il fuoco a misura crea e a misura distrugge: di conseguenza, al fatidico compimento dei tempi, avverrà una conflagrazione universale, ossia una generale combustione del cosmo (ekpyrosis), che sarà anche una sorta di universale purificazione, e ci sarà solamente fuoco 12 • Seguirà quindi una nuova rinascita (palingénesi) e tutto si ricostituirà esattamente come prima(apocatastasi).Rinascerà il cosmo, questo medesimo cosmo, il quale per l'eternità continuerà ad essere distrutto e poi a riprodursi non solo nella sua struttura generale, ma anche negli accadimenti particolari (l'eterno ritorno): rinascerà ciascun uomo sulla terra e sarà quale fu nella precedente vita, fino nei minimi particolari. Del resto, identico è illogos-fuoco, identico il seme, identiche le ragioni seminali, identiche le leggi del loro esplicarsi, identiche le concatenazioni delle cause secondo cui le ragioni seminali si sviluppano in generale e in particolare. Riferisce Nemesio: Gli Stoici dicono che quando i pianeti sono tornati nello stesso segno sia quanto alla longitudine sia quanto alla latitudine dove erano ciascuno in principio, allorché in origine l'universo si costitul, nei detti periodi di tempo, avviene una conflagrazione e una distruzione degli esseri; e di nuovo da principio si riforma lo stesso cosmo; e di nuovo muovendosi gli astri nel medesimo modo ciascun evento accaduto nel precedente periodo nuovamente si compie, invariabilmente. E ci saranno nuovamente Socrate e Platone e ciascuno degli uomini con i suoi stessi amici e cittadini; e le medesime cose saranno credute e le medesime cose
" Cfr. von Arnim, S. V.F.,
I,
frr. 98 sgg. e 497;
II,
frr. 585 sgg. e 596 sgg.
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LA FISICA DELL'ANTICA STOA
saranno trattate, ed ogni città e villaggio e campagna ugualmente ritorneranno. E questo ritorno di tutte le cose avverrà non una sola, ma molte volte; anzi, all'infinito e senza fine le medesime cose ritorneranno [ ... ] . Nulla accadrà di estraneo a quanto prima è accaduto, ma tutto ritornerà nello stesso· mpdo invariabilmente, fino nei minimi particolari 83 • E T aziano conferma: Attraverso .la conflagrazione il mondo st rmnova e ricomincia daccapo, ripetendosi in tutti i suoi particolari, con le stesse persone nelle stesse condizioni e attività, come dire Anito e Meleto per fare i delatori, Busiride per uccidere gli ospiti, Ercole per sostenere le sue fatiche 114 •
11.
L'uomo
Nell'ambito del mondo, come abbiamo veduto, l'uomo occupa una posizione preminente. Questo privilegio gli deriva, in ultima analisi, dal fatto di essere più di ogni altro ente partecipe del logos divino. L'uomo è costituito, infatti, oltre che dal corpo anche dall'anima, che è un frammento dell'anima cosmica 85 e, dunque, un frammento di Dio, giacché l'anima universale, come sappiamo, non è che Dio. Naturalmente, nel contesto dell;ontologia stoica che ormai ben conosciamo, l'anima non è sostanza immateriale ma è corpo 86, sia pure corpo privilegiato, ossia fuoco o pneuma: Per Zenone il seme della vita è fuoco, che è anima e intelligenza 11• "' Nemesio, De nat. hom., 38, p. 277 (= von Arnim, S.V.P., II, fr. 625). " Taziano, Adv. Gr., 5 ( von Arnim, S.V.P., I,. fr. 109 [traduzione di N. Festa]). 15 Diogene Laerzio, VII, 143 ( = von Arnim, S.V.P., II, fr. 633, p. 191, 39 sg.). 16 Cfr. von Arnim, S.V.P., I, frr. 137, 142, 518; II, frr. 790 sgg . ., Varrone, De lingua lat., v, 59(= von Amim, S.V.P., I, fr. 126).
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LO STOICISMO ANTICO
Secondo Zenone l'anima è pneuma infuocato 88 • L'anima si alimenta del sangue, e la sua natura è pneuma 89 •
· L'anima permea tutto intero l'organismo fisico, vivificandolo; il fatto che essa sia materiale non è d'impedimento, giacché gli Stoici ammettono la penetrabilità dei corpi. Proprio in quanto permea tutto l'organismo umano e presiede alle sue funzioni essenziali, l'anima è distinta dagli Stoici in otto parti: una centrale, chiamata egemonico, cioè la parte che dirige e che coincide essenzialmente con la ragione, cinque parti costituenti i cinque sensi, la parte che presiede alla fonazione e, infine, quella che presiede alla generazione 90 • Oltre alle otto « parti » gli Stoici distinsero, in una medesima parte, differenti « funzioni »: cosl l'egemonico o parte principale dell'anima ha in sé le capacità di percepire, assentire, appetire, ragionare 91 • La morte è separazione dell'anima dal corpo 92 , ma non è una separazione metafisica quale ammetteva Platone 93 , bensl una separazione fisica, come già per gli Epicurei. Ma mentre gli Epicurei affermavano che l'anima, separandosi dal corpo, si disperde subito, gli Stoici ammettono una sopravvivenza di essa, anche se solamente temporanea.
12.
I
destini dell'anima
La posizione che gli Stoici assumono nei confronti della sopravvivenza dell'anima è dunque a mezza strada fra quella Diogene Laerzio, VII, 157 ( = von Arnim, S.V.P., 1, fr. 135). Galeno, De plac. Hippocr. et Pl., II, 8 ( = von Arnim, S.V.P., fr. 140, p. 38, 32 sg.). 90 Cfr. von Arnim, S.V.P., 1, frr. 143 sgg.; II, frr. 823 sgg. " Cfr. von Arnim, S.V.P., I, fr. 143; II, frr. 837 sgg. 92 Cfr. von Arnim, S.V.P., 1, frr. 138, 145, 146; II, frr. 790 sgg. 93 Cfr. Platone, Pedone, 67 d. 11
89
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I,
LA FISICA DELL'ANTICA STOA
385
di Platone e quella di Epicuro. Riferisce Diogene Laerzio: L'anima [ ... ] permane dopo la morte ed è tuttavia corruttibile 94 •
Cicerone conferma: Gli Stoici dicono che le anime dureranno a lungo, ma non sempre 95•
Fino a quando perdura l'anima dopo la morte? Il terminus ad quem ultimo è dato dal momento della conflagrazione universale. Ma su questo punto i filosofi del Portico si dividevano: alcuni, come Cleante, pensavano che tutte le anime indistintamente durassero fino al momento della conflagrazione universale: Le anime dei trapassati continuano a vivere fino alla [prossima] conflagrazione 96 •
Altri invece, come Crisippo, pensavano che solo le anime dei saggi avessero il privilegio di una così lunga durata: Scrive Diogene Laerzio: Crisippo sostiene cl:ie solo le anime dei sapienti sopravvivono fino alla conflagrazione del mondo "'.
R:iferisce Aezio: Gli Stoici dicono che l'anima uscendo dai corpi non muore, ma permane un certo tempo in sé e per sé. E l'anima più debole (cioè quella degli incolti) permane per poco tempo, quella più valida, qual è l'anima dei sapienti, permane persino fino alla conflagrazione 98 • ,. Diogene Laerzio, VII, 156 ( = von Arnim, S.V.P., II, fr. 774). " Cicerone, Tusc. disp., I, 31, 77 ( = von Arnim, S.V.P., II, fr. 822). " Diogene Laerzio, VII, 157 ( = von Arnim, S.V.P., I, fr. 522). '" Diogene Laerzio, vii, 157 ( = von Arnim, S.V.P., II, fr. 811). "Aezio, Plac., IV, 7, 3 (= von Arnim, S.V.P., II, fr. 810 [traduzione di L. Torraca]).
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LO STOICISMO ANTICO
Il luogo destinato alle anime, che assumono forma sferica 99 , sembra che sia quello situato sotto la luna ~<10 • Esse mantengono le loro facoltà conoscitive, hanno un certo ruolo nella divinazione e nei sogni e le migliori di esse danno origine ai cosiddetti « Eroi » 101 • Ma anche quando, al sopraggiungere dell'anno cosmico, le anime vengono assorbite nell'anima universale e nel fuoco eterno, non scompaiono se non in senso relativo. Infatti, con la palingenesi, ciascuna anima, cosi come ciascuna delle cose, torna a ricostituirsi, all'infinito. E, in questo senso, l'esistenza di ciascun'anima e di ciascun uomo riprende all'infinito. È tuttavia da rilevare come, per gli Stoici, la sopravvivenza dell'anima (cosl come la rinascita nelle successive paliogenesi) non rivesta alcuna importanza ai fini della determinazione della condotta morale della vita sulla terra. Il destino in certo senso privilegiato deWanima del saggio dopo la morte non deve incidere sulla scelta della vita virtuosa anche se si configura in un certo senso come premio, cosl come la sorte parzialmente diversa del non saggio si configura in un certo senso come pena. Una testimonianza di Lattanzio, per la verità, afferma: Zenone stoico insegnò che esistono gli inferi e che le sedi dei buoni sono separate da quelle degli empi: gli uni abitano luoghi tranquilli e ameni, gli altri scontano le pene in orrende voragini di fango 102•
Ma si tratta di ·una testimonianza sospetta. Resta certo, in ogni caso, che, per gli Stoici, il premio e il castigo sono strut•• Or. von Arnim, S.V.F., II, fr. 815. Gfr. Tertulliano, De anima, '4 sg. (= von Arnim,S.V.F.,II,fr.814); cfr. anche Sesto Empirico, Contro i matem., IX, 71 ( von Arnim, S.V.F., II, fr. 812). 101 Diogene Laerzio, VII, 151 ( = von Arnim, S.V.F., II, fr. 1102). MD Lattanzio, Div. lnstit., vn, 7, 20 (= von Arnim, S.V.F., I, fr. 147; dr. anche II, fr. 813). ' 00
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LA FISICA DELL'ANTICA STOA
387
turalmente connessi alla virtù e al vizio già in questa vita: la virtù, come vedremo, ha già qui il suo paradiso e il vizio il suo inferno 103 • Sostanzialmente agli Stoici interessava l'al di qua, e, pur ammettendo un aldilà, non diedero ad esso una portata tale che riducesse in qualche modo l'aldiqua a semplice luogo di passaggio: la vita terrena, ai filosofi del Portico, sembrò essere la vera vita cosl come la felicità attingibile sulla terra sembrò essere la vera felicità, come ora vedremo.
'"' Sul problema dell'immortalità nella filosofia stoica, in passato mai trattato oon la dovuta precisione, esiste ora uno studio puntuale e accvrato di R. Hoven, Stoicisme et Sto"iciens face au problème de l'au.JeU, Paris 1971, al quale rimandiamo il lettore. Ricordiamo, inoltre, che il Pohlenz, date le sue personali convinzioni teoretiche, su questo problema della filosofia stoica è assai evasivo e tende a dargli un rilievo decisamente minore di quello che il Portico effettivamente gli attribuiva.
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V. L'ETICA DELL'ANTICA STOA
l.
Il logos
come fondamento
dell'etica
La parte più significativa e più viva della filosofia del Portico non è tuttavia l'originale e audace fisica, bensll'etica: è infatti con il loro messaggio etico che gli Stoici, per oltre mezzo millennio, seppero dire agli uomini una parola veramente efficace, che fu sentita come particolarmente illuminante circa il senso della vita, come profondamente consolatrice dei mali dell'uomo, come liberatrice dalle illusioni. Anche per gli Stoici, così come per gli Epicurei, lo scopo del vivere è il raggiungimento della felicità. E l'etica deve appunto determinare in che cosa esattamente consista la felicità e quali siano i mezzi appropriati per raggiungerla. Anzi, proprio come per gli Epicurei, come già sappiamo, la soluzione di questo problema costituisce non già, come per i sistemi classici, lo scopo di un settore della filosofia, ma lo scopo principale e anzi unico di tutte quante le parti della filosofia. Anche per gli Stoici, ancora come per gli Epicurei, l'impostazione e la soluzione dei problemi etici vengono perseguite al di fuori degli schemi ellenici tradizionali, in funzione di nuovi parametri desunti da una nuova interpretazione della physis. Anche il motto degli Stoici è: «vivere conformemente alla natura » o « vivere secondo i dettami della natura » 1, dove per « natura » è da intendersi sia la physis uni-
' Cfr. von Arnim, S.V.P., m, frr. 2-19.
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L'ETICA DELL'ANTICA STOA
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versale, sia la physis specifica dell'uomo, la quale della physis universale è un momento e una parte 2 • Ma il disaccordo con gli Epicurei si manifesta, e in modo assai marcato, non appena si passi alla determinazione specifica di questa natura. Impossibile, per gli Stoici, ammettere che l'istinto fondamentale dell'uomo sia il sentimento del piacere insieme al suo contrario, il sentimento del dolore: se cosl fosse, l'uomo e l'animale sarebbero sul medesimo piano e non si differenzierebbero in alcuna maniera. Una obiettiva considerazione della natura dell'uomo mostra che la sua peculiarità e specificità consiste proprio nell'essere dotato di ragione: ed è una ragione la cui portata va ben oltre il semplice calcolo dei piaceri. La differente visione metafisica dell'uomo, che dà all'anima razionale e al logos dell'uomo un rilievo antologico nettamente superiore che nell'epicureismo (il logos umano è un frammento e un momento del Logos divino), permette a Zenone e ai suoi seguaci di dare alla caratteristica che differenzia l'uomo da tutte le altre cose uno spessore antologico più consistente. Leggiamo in una testimonianza di Seneca, che ripete su questo punto la dottrina dell'antica Stoa: Ciò che è proprio dell'uomo è la ragione. Per essa l'uomo precede gli animali e viene subito dopo gli dèi. Una ragione perfetta è quindi il bene proprio dell'uomo; tutti gli altri sono beni comuni agli animali e alle piante. Ogni essere, quando ha raggiunto la perfezione di quello che è il suo bene, è degno di lode e ha toccato il limite massimo della propria natura. Se pertanto l'uomo ha per suo proprio bene la ragione, se ha portato questa alla perfezione, ha raggiunto il fine ultimo della sua natura 3•
In una testimonianza di Cicerone, altrettanto esplicita, leggiamo: 2 Cfr. a questo proposito il già citato studio di Grumach, Physis und Agathon in der alten Stoa, passim, e Pohlenz, La Stoa, I, pp. 223-227. ' Seneca, Epist., 76, 9 ( = von Arnim, S. V.F., m, fr. 200 a [ traduzione di N. Festa]).
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LO STOICISMO ANTICO
E come le membra che ci sono state date si presentano tali da sembrare che ci siano state date per un certo sistema di vita, cosi l'inclinazione dell'anima che i greci chiamano ò p 11. 'il sembra che ci sia stata data non per condurre un qualsiasi genere di vita, ma per un ben determinato sistema di vita; e così la ragione, e la ragione che ha raggiunto la sua perfezione. Come infatti l'attore non ha libertà di scegliere i gesti che vuole, ed il danzatore qualsiasi passo, cosl bisogna vivere in un modo ben determinato e non in una maniera qualsiasi, cioè in quel modo che diciamo conveniente e consentaneo. Non pensiamo infatti che la saggezza è simile all'arte del nocchiero e del medico, bensl a quella dell'attore, di cui poco fa ho parlato e del danzatore, in quanto essa è tale che trova in se stessa senza doverlo cercare fuori di sé il suo fine e cioè la sua perfezione 4• Dunque, la physis caratteristica dell'uomo è il logos, la ragione, e come lo scopo di ogni essere è quello di attuare la propria physis, cosi lo scopo e il fine dell'uomo sarà quello di attuare appunto la ragione; e, per conseguenza, sulla base dei modi e delle maniere in cui la ragione si attua perfettamente si dovranno dedurre tutte le norme della condotta morale.
2.
I l primo istinto
Ma ritorniamo un passo indietro e vediamo meglio come nella sfera della generale physis si collochi esattamente la particolare physis dell'uomo. Se osserviamo l'essere vivente, noi costatiamo, in generale, che esso è caratterizzato dalla costante tendenza a conservare se medesimo, ad appropriarsi il proprio essere e tutto quanto è atto a conservarlo e ad evitare ciò che gli è contrario, a conci-
• Cicerone, De finibus, III, 7, 23 (= von Arnim, S.V.P., III, fr. 11 [tutti i frammenti del volume m delle raccolta dell'Arnim, salvo indicazione contraria, saranno riportati nella traduzione di R. Anastasi, già citata]).
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L'ETICA DELL'ANTICA STOA
liarsi con se medesimo e con le cose che sono conformi alla propria essenza. Questa fondamentale caratteristica degli esseri viene indicata dagli Stoici con il termine oikelosis ( olxelwcnc; = approvazione, attrazione = conciliatio). Dalla oikelosis appunto deve muovere la deduzione del principio dell'etica. Nelle piante e nei vegetali in genere questa tendenza è del tutto inconsapevole, negli animali essa è consegnata ad un preciso istinto o impulso primigenio, mentre nell'uomo questo impulso è ulteriormente specificato e sorretto dall'intervento della ragione. Ecco dunque come viene a determinarsi il senso della formula di cui si è detto al precedente paragrafo. Vivere conformemente a natura significa vivere realizzando pienamente questa appropriazione o· conciliazione del proprio essere e di ciò che lo con_serva e attua, e, in particolare, poiché l'uomo non è semplicemente essere vivente, ma è essere razionale, il vivere secondo natura sarà un vivere « conciliandosi » col proprio essere razionale, conservandolo e attuandolo pienamente 5 •
5 Cfr. von Arnim, S.V.F., 1, frr. 197 sg.; n, frr. 178 sgg. La oikeiosis, insieme alla forma di autocoscienza che essa implica (synaisthesis, auvetla&lja1c;l e al compiacimento e amore di sé che essa comporta in ogni essere vivente è spiegata dal Pohlenz come segue: « L'essere viventl' differisce dalla pianta a causa dell'anima, la cui prima manifestazione è la percezione. Appena l'essere vivente percepisce qualcosa di bianco o di caldo, ha anche coscienza del processo interno con cui viene colpito dall'impressione del bianco o del caldo. Con la percezione esterna è quindi connessa fin dalla nascita una synaisthesis, una "compercezione" interna, una coscienza del proprio io; da questa percezione di 1lé il primo movimento attivo dell'anima in direzione di un oggetto, e cioè il primo istinto. Esso consiste in un rivolgersi del soggetto verso il proprio essere, quell'essere che sente appartenente a sé, olxr:to11, e che egli "si appropria". Questa è la oikeiosis. Ma poiché la percezione di sé è necessariamente accompagnata da un senso di compiacimento (r:botpi
nasce
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LO STOICISMO ANTICO
Il fondamento dell'etica epicurea viene in tal modo rovesciato da questi concetti dell'oikeiosis e dell'istinto originario: piacere e dolore diventano infatti, considerati alla luce di questi nuovi parametri, non un prius, ma un posterius, cioè qualcosa che vien dopo e di conseguenza, quando cioè la natura ha già cercato e trovato ciò che la conserva e realizza. Poiché ci troviamo di fronte a una dottrina nuova e importante, vogliamo leggere alcune testimonianze in cui essa è formulata ed illustrata. Riferisce Diogene Laerzio: Sostengono [gli Stoici] che l'animale abbia come primo istinto la conservazione di se stesso, avendoglielo la natura dato sin dall'origine, come dice Crisippo nel primo libro Sui fini, quando dice che per ogni animale la prima cosa propria è la sua natura e la coscienza di essa. Né infatti sarebbe verosimile che un animale sia nemico di se ste~>so, né che si inimichi e non sia attaccato alla natura che lo ha fatto. Resta dunque che quella che lo ha fatto lo concili a se stesso. Cosl infatti evita le cose che nuocciono e ricerca le utili. In quanto a ciò che alcuni [gli Epicurei] dicono, che il primo istinto per gli animali è verso il piacere, essi dicono che è una cosa falsa. Infatti essi [gli Stoici] dicono che il piacere, se esiste veramente, è qualcosa che sopravviene quando la natura, avendo cercato da se stessa ciò che si adatta alla sua conservazione, lo ha ottenuto; ed è in questo modo che gli animali godono e le piante fioriscono. La natura, essi dicono, non ha fatto nessuna differenza tra le piante e gli animali, dal momento che essa governa quelli senza istinto e sensazione, e vi è in noi qualcosa di vegetale. Essendovi negli animali in sovrappiù l'istinto, usando il quale ricercano ciò che loro conviene, in questi la vita secondo natura è regolata dall'istinto. E giacché agli esseri razionali la ragione è stata data in modo più perfetto, il vivere rettamente secondo ra-
che regola direttamente lo sviluppo. Nell'essere vivente invece essa ha infuso, insieme con la coscienza di se stesso, anche l'istinto di provvedere da sé alla conservazione e allo sviluppo del proprio essere» (La Stoa, 1, pp. 228 sgg.; dr. anche pp. 104 sg.). Per un approfondimento del concetto di oikeiosis, cfr. S. G. Pembroke, Oikeiosis, in A. A. Long, Problems ... , pp. 114-149.
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L'ETICA DELL'ANTICA STOA
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gione è per questi vivere secondo natura. Infatti la ragione è quella che regola l'istinto 6•
Cicerone scrive: L'animale, appena nato, si affiata con se stesso per la conservazione del proprio stato e per amare tutto quanto giova a conservarlo, come pure per rifuggire dalla distruzione e da tutto quanto sembri capace di distruggerlo. La prova di ciò è nel fatto che, prima ancora di avere alcuna percezione di piacere o di dolore [contrariamente a quanto pretendevano invece gli Epicurei], i piccoli cercano le cose salutari e rifuggono da quelle contrarie. Il che non avverrebbe, se essi non amassero il proprio stato e non temessero la distruzione. E, d'altra parte, non potrebbero desiderare cosa alcuna, se non avessero il senso di loro stessi (sensus sui) e per questo si amassero 7 • Seneca afferma: Voi dite, si obietta, che ogni animale per prima cosa conforma se stesso alla propria costituzione; d'altra parte la costituzione dell'uomo è razionale e pertanto l'uomo si conforma a se stesso non in quanto essere vivente ma in quanto essere razionale. Infatti l'uomo è caro a se stesso proprio per quella parte per cui è detto uomo 8 • Infine, concludiamo con un passo tratto ancora da Cicerone, in cui la deduzione del bene e della scelta morale dal primo istinto è piuttosto puntuale: L'uomo si concilia prima di tutto alle cose conformi alla sua natura: e, posto il principio di accogliere ciò che è conforme alla natura e respingere ciò che le è contrario, sorge il primo dovere di conservarsi nella costituzione naturale e attenersi a tutto quello che conferisce ad essa, rigettando ciò che le è avverso. Una volta trovato questo procedimento di scelta e di rifiuto, viene su• Diogene Laerzio, vn, 85 ( = von Arnim, S.V.P., III, fr. 178). ' Cicerone, De finibus, m, 5, 16 ( = von Arnim, S.V.P., III, fr. 182 [traduzione di N. Festa]). Per il sensus sui (autocoscienza) cfr. la nota 5. • Seneca, Epist., 121, 14 ( = von Arnim, S.V.F., III, fr. 184).
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LO STOICISMO ANTICO
bito dopo l'abito doveroso di scegliere ad ogni momento attenendosi} costantemente e fino all'ultimo} alla natura; e qui comincia a trovarsi e a sentirsi l'idea di ciò che possa essere chiamato il sommo bene 9• • · Riassumendo: in virtù del principio della oikeiosis, ogni cosa tende ad appropriarsi il proprio essere e ama il proprio essere, tende a conservarlo e a incrementarlo, si concilia con le cose che giovano e si inimica con quelle che nuocciono. In particolare l'uomo, oltre e più che il proprio essere animale, poiché la propria essenza specifica è la razionalità, tende ad appropriarsi, a conservare e ad incrementare questa razionalità, scegliendo ciò che le giova e sfuggendo ciò che le nuoce. L'uomo, dunque, si attua incrementando la razionalità.
3. Il principio delle valutazioni: mali e gli indifferenti
beni,
Gli Epicurei avevano fatto coincidere il bene con il piacere e il male con il dolore e avevano stabilito che il principio della valutazione dei beni e dei mali non è altro che quello della discriminazione e della giusta valutazione dei piaceri e dei dolori. Gli Stoici, sulla base della dottrina della oikeiosis, contrappongono al principio degli Epicurei un principio più radicale e più solidamente fondato. Se, infatti, il piacere non è un qualcosa di originario, ma è solo un fenomeno concomitante, non è possibile fondarsi su di esso per valutare ciò che è bene e ciò che è male, ma bisogna risalire a ciò che è originario e primo. E poiché primo e originario è l'istinto della conservazione e la tendenza all'incremento dell'essere, ecco trovato il principio della valutazione: « bene» è ciò che conserva e incrementa il nostro essere}· «male» è} invece} ciò che • Cicerone, De finibus, m, 6, 20 ( duzione di N. Festa]).
= von Arnim, S.V.P., m, fr. 188 [tra-
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lo danneggia e lo diminuisce. Al primo istinto è dunque strutturalmente connessa la tendenza a valutare, nel senso che tutte le cose, commisurate al primo iscinto, a seconda che risultino giovevoli o dannose, vengono considerate beni oppure mali. Il bene è, dunque, il giovevole o l'utile; male è il nocivo 10 • Ma si badi: poiché gli Stoici insistono nel differenziare l'uomo da tutte le altre cose, mostrando come esso sia determinato non solo dalla sua natura puramente animale, ma soprattutto dalla natura razionale, cioè dal privilegiato manifestarsi in lui del logos, cosl il principio delle valutazioni sopra stabilito assumerà due differenti valenze, a seconda che venga riferito alla physis puramente animale ovvero alla physis razionale. Altro, infatti, risulta essere ciò che giova alla conservazione e all'incremento della vita animale e altro risulta essere ciò che giova alla conservazione e all'incremento della vita della ragione e dellogos. Risulta necessaria·, per conseguenza, una differenziazione gerarchica dei beni, a seconda che essi siano di giovamento e di incremento alla ragione, oppure semplicemente alla vita animale. A dire il vero, in questa differenziazione gli Stoici si spingono ad un tale punto di rigore e di intransigenza da considerare veri e autentici beni esclusivamente quelli che incrementano illogos e veri e autentici mali esclusivamente quelli che si oppongono alla physis razionale. Questi e solo questi sono i beni morali, cioè i beni che concernono l'uomo in quanto tale, e per conseguenza fanno sl che egli realizzi tutto ciò che è e deve essere, lo fanno quindi «buono» nel senso antologico che ben conosciamo, cioè «virtuoso», e, dunque, lo fanno felice. E viceversa solo ciò che è contrario a questi beni, di conseguenza, è male, è vero male, perché rende l'uomo come non deve essere, cioè« cattivo »,ossia« vizioso ». Tutto questo si riassume nel celebre principio stoico: bene è solo la virtù e male è solo il vizio.
° Cfr.
1
von Arnim, S.V.P., m, frr. 72 sgg.
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E ciò che giova al corpo e alla nostra natura biologica come lo considereremo? E il contrario di questo come lo denomineremo? La tendenza di fondo dello stoicismo è quella di negare a tutte queste cose la qualifica di« beni» e di «mali», appunto perché, come s'è visto, bene e male sono solo ciò che giova e ciò che nuoce allogos, e dunque solo il bene e il male morale. Pertanto, tutte quelle cose che sono relative al corpo, sia che nuocciano sia che non nuocciano, sono considerate « indifferenti» (tl3&!iq>op«), o più esattamente moralmente indifferenti. Fra le cose moralmente « indifferenti » vengono conseguentemente collocate sia le cose fisicamente e biologicamente positive, come: vita, salute, bellezza, ricchezza, etc., sia quelle fisicamente e biologicamente negative, come: morte, malattia, bruttezza, povertà, etc. Ci riferisce Diogene: Delle cose che sono essi dicono che alcune sono buone, altre cattive; altre ancora né buone né cattive [indifferenti]. Buone sono le virtù, prudenza, giustizia, fortezza, moderazione, etc., cattivi sono i vizi, stoltezza, ingiustizia, etc.; indiflerenti sono tutte le cose che non portano né vantaggio né danno [si intende: morale], per esempio vita, salute, piacere, bellezza, forza, ricchezza, buona reputazione, nobiltà di nascita e i loro contrari, morte, infermità, pena, bruttezza, debolezza, povertà, ignominia, oscura nascita e simili [ ... ] 11 • Stobeo conferma: Gli enti si dividono in buoni, cattivi, indifferenti. Buoni [o beni] sono i cosl fatti: intelligenza, temperanza, giustizia, fortezza e tutto ciò che è virtù o partecipa della virtù. Cattivi [o mali] i cosl fatti: stoltezza, dissolutezza, ingiustizia, viltà e tutto ciò che è vizio o partecipa del vizio. Indifferenti i così fatti: la vita e la morte, la celebrità e l'oscurità, il dolore e il piacere, la ricchezza e la povertà, l'infermità e la buona salute, e cose simili a queste 12 • " Diogene Laerzio, VII, 102 (= von Arnim, S.V.F., III, fr. 117 [traduzione di M. Gigante]). ' 2 Stobeo, Anthol., II, 57, 19 ( = von Arnim, S.V.F., r, fr. 190; m, fr. 70 [traduzione di N. Festa]).
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Questo nettissimo distacco operato fra beni e mali, da un lato, e indifferenti, dall'altro, è indubbiamente una delle note caratteristiche più tipiche dell'etica stoica e già nell'antichità fu oggetto di enorme stupore, di vivaci consensi e dissensi e suscitò molteplici diS(:ussioni fra gli avversari e perfino fra i seguaci stessi della filosofia del Portico. In effetti, proprio con questa radicale scissione gli Stoici potevano mettere l'uomo al riparo dai mali dell'epoca in cui vivevano: tutti i mali derivanti dal crollo dell'antica polis e tutti i pericoli, le insicurezze e le avversità provenienti dagli sconvolgimenti politici e sociali che avevano fatto seguito a quel crollo venivano semplicemente negati come mali e confinati fra gli indifferenti. Era, questo, un modo assai audace per dar nuova sicurezza all'uomo, insegnandogli che beni e mali derivano sempre e solo dall'interno del suo io e mai dall'esterno, e dunque per convincerlo che la felicità poteva essere perfettamente conseguita in modo assolutamente indipendente dagli eventi esterni 13 • Tuttavia è da notare che tale distinzione, esaminata a fondo, nel contesto dello stoicismo si rivela priva di adeguati supporti antologici e metafisici. Essa ha precedenti in Socrate e in Platone, i quali già avevano, in vario modo, cercato di convincere gli uomini che veri beni sono solo quelli che giovano all'anima e allo spirito. Ma - e questo è il punto essenziale da rilevare - a supporto dell'inveramento platonico dell'intuizione socratica c'era la scoperta operata tramite la « seconda navigazione », cioè la scoperta del soprasensibile e l'affermazione che l'uomo è costituito da una componente sensibile e da una componente soprasensibile (non solo strutturalmente diverse ma addirittura fra loro in conflitto) e l'affermazione che compito dell'uomo è quello di liberare e scio" Il recente tentativo del Rist (Stoic Philosophy, pp. 1-21) di intendere la dottrina stoica del bene in relazione con l'etica aristotelica, a nostro avviso, le fa perdere proprio quel senso caustico in cui consiste proprio la sua originalitl.
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gliere la propria componente soprasensibile da quella sensibile. Orbene, in questo contesto, e solo .in questo, può aver senso una svalutazione di tutto ciò che è connesso al corporeo e la negazione che sia bene ciò che giova alla dimensione fisica. Ma nel contesto monistico e materialistico della fisica stoica non c'è spazio antologico per una distinzione cosl radicale qual è quella di cui discorriamo e pertanto essa rimane metafisicamente non giustificata, e sorretta solamente da un senso della vita elaborato dalla Stoa per via prevalentemente intuitiva, e che viene a sovrapporsi surrettiziamente all'antologia monistica e materialistica. Questo spiega bene, per altro verso, le sottili distinzioni che essi, in tema di « indifferenti », furono costretti ad operare, e, anche, le numerose polemiche interne a queste connesse, di cui ora dobbiamo dire. 4. I v a l ori re l a t i v i, preferibili »
« preferibili » e
«non
La legge generale della oikeiosis implicava che, dal momento che è un istinto di tutti gli esseri quello di conservare se medesimi, e dal momento che proprio questo istinto è fonte delle valutazioni, si dovesse riconoscere come positivo tutto ciò che li conserva e li incrementa, anche al semplice livello fisico e biologico. E cosl non solo per gli animali, ma altresl per gli uomini, si doveva riconoscere come positivo tutto ciò che è conforme alla natura fisica e che garantisce, conserva e incrementa la vita, come la salute, la forza, la vigoria del corpo e delle membra, e cosl di seguito. Questo positivo secondo natura, gli Stoici lo chiamarono valore o stima (ci~(«), mentre l'opposto negativo lo chiamarono mancanza di valore e di stima (cbr«~(«). Pertanto quegli « intermedi » che stanno fra i beni e i mali cessano di essere del tutto « indifferenti»; o meglio: pure re-
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stando moralmente indifferenti, diventano, dal punto di vista fisico, « valori » e « disvalol"i ». Riferisce Cicerone: Tutte le altre cose che sono nel mezzo, tra il vero bene e il vero male, non sono né beni, né mali; tuttavia alcune sono conformi a natura, altre no, e anche qui vi sono vari gradi intermedi. Le cose conformi a natura si debbono prendere itJ qualche considerazione, quelle contrarie a natura si debbono respingere e disprezzare; le intermedie [si intenda: intermedie fra quelle conformi a natura e quelle no, non le intermedie fra beni e mali] sono indifferenti 1 ~. Stobeo conferma:
Le cose conformi a natura hanno valore o stima, quelle contrarie hanno disvalore o disistima. Valore o stima in senso assoluto hanno le cose che conferiscono al vivere secondo natura; in senso relativo, le cose per sé indifferenti, se possono accordarsi con la vita secondo natura 15 • Dunque, le cose che stanno fra beni e mali morali sono, alcune, valori, altre, disvalori; alcune sono valori in maggiore o minore grado e, per converso, altre sono disvalori in maggiore o minore grado. Ne viene, di conseguenza, che da parte della nostra natura animale le prime saranno oggetto di « preferenza »,le seconde saranno invece oggetto di « avversione». Nasce cosi una seconda distinzione, strettamente dipendente dalla prima, degli indifferenti «preferiti» (1tpOY)Y!Lévet) e di quelli « non preferiti » o « respinti » ( tX1to1tpoY)y!Lévet), perfettamente illustrata dalle testimonianze seguenti: Delle cose che hanno valore, alcune ne hanno molto, altre poco. Similmente, delle cose che hanno disvalore, alcune ne hanno molto, altre poco. Orbene, quelle che hanno molto valore si chia14 Cicerone, Acad. post., 1, 10, 36 ( = von Arnim, S.V.F., I, fr. 191 [traduzione di N. Festa]). " Stobeo, Anthol., II, 83, 10 e 84, 4; Diogene Laerzio, VII, 105 ( = von Amim, S.V.F., m, frr. 124-126 [traduzione di N. Festa, con ritocchi]).
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mano «preferite» (o promosse), quelle che hanno molto disvalore si dicono « respinte » (o retrocesse). Quando si dice « preferito», si intende qualcosa per sé indifferente, che noi eleggiamo per ragione di preferenza. Lo stesso discorso si fa per il « respinto », e gli esempi secondo il principio di analogia sono gli stessi. Nessuno dei beni [si intenda: dei beni in stretto senso, cioè dei beni morali e spirituali] è «preferito» (o promosso), poiché i beni hanno già di per sé il massimo del valore e della stima; !addove il « preferito » (o promosso) trovandosi in un posto secondario e con un valore e una stima minori, si avvicina in qualche modo alla natura dei beni. Anche a corte, del resto, il re non è uno dei
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iori in senso assoluto. 3) Gli « indifferenti », se sono tutti quanti sul medesimo piano dal punto di vista morale, non sono sul medesimo piano dal punto di vista fisico e biologico, a seconda che incrementino o danneggino la vita oppure non facciano né l'una né l'altra cosa. 4) Ci saranno, per conseguenza, ~ose che, pur essendo moralmente indifferenti, saranno tuttavia, dal punto di vista fisico e biologico, «valori », oppure « disvalori », oppure saranno del tutto neutre. 5) Le cose che hanno valore fisico sono « preferite », quelle che hanno disvalore sono « respinte », le neutre sono del tutto indifferenti. 6) Poiché i beni morali sono valori assoluti, per questo nei loro confronti non ha senso la qualifica di « preferiti », appunto perché la loro assolutezza li pone al di sopra di qualsiasi relazione con altro. Queste distinzioni corrispondevano non solo ad una esigenza di attenuare realisticamente la troppo netta dicotomia fra beni e mali e indifferenti, di per sé paradossale, ma trovavano nei presupposti del sistema una giustificazione addirittura maggiore che non la sopraddetta dicotomia, per le ragioni illustrate sopra. Perciò ben si capisce come il tentativo di Aristane 18 e di Erillo 19 di sostenere la assoluta adiaphoria o indifferenza delle cose che non sono né beni né mali, abbia trovato netta opposizione in Crisippo, che difese la posizione di Zenone e la consaçrò in via definitiva 20 •
5.
La virtù e la felicità
Chi ci ha fin qui seguito avrà sicuramente notato come anche negli Stoici, non meno che in Platone e in Aristotele, acquisti perfetta espressione quella concezione dell'areté, cioè " Si veda sopra, p. 318, nota 28. 19 Si veda sopra, p. 318, nota 29. 20 Cfr. von Arnim, S.V.P., m, fr. 117 sgg.
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della virtù, che noi sappiamo essere una delle costanti più tipiche del pensiero morale greco, fin dalle sue origini. La virtù umana è la perfezione di ciò che è peculiare e caratteristico dell'essere umano; e poiché caratteristica dell'essere umano è la ragione, la virtù è la perfezione della ragione 21 • Pertanto, il «vivere secondo natura », che abbiamo visto essere precetto basilare dell'etica stoica, coincide esattamente con il « vivere secondo ragione » e quindi con il « vivere secondo virtù »; e poiché la virtù. è l'esplicazione e l'attuazione perfetta della na-tura umana, essa è eo ipso felicità: infatti la vita beata, o felicità, è non altro che questo pieno e perfetto attuarsi della physis umana. Riferisce Stobeo: Dicono [gli Stoici] che il fine è l'essere felici, per il quale si fa ogni cosa, mentre esso non è fatto per alcuna cosa. Esso consiste nel vivere secondo. virtù, nel vivere in accordo con la natura ed ancora, il che è lo stesso, nel vivere <>econdo natura. Zenone definl la felicità in questo modo: la felicità è un prospero corso della vita. Anche Cleante nei suoi scritti si serve di questa definizione e cosl Crisippo e tutti i loro seguaci, affermando che la felicità non si distingue dalla vita felice, pur dicendo che la felicità è lo scopo, mentre il fine è l'aver felicità, il che equivale all'essere felici. È chiaro da ciò che ha lo stesso valore il «vivere secondo natura», il «vivere nobilmente», il «vivere bene» ed ancora « bontà e nobiltà » e « virtù e ciò che è partecipe di virtù». È pure evidente che tutto ciò che è virtuoso è buono e che ogni cosa viziosa è cattiva. Perciò anche il fine degli Stoici equivale ad una vita secondo virtù 22 • Sulla base di queste premesse, è evidente come gli Stoici dovessero combattere sia la tesi epicurea che subordinava la virtù al piacere come mezzo a fine, sia la concezione escatologica che legava la virtù ad un premio ultraterreno: come perfezione della physis umana la virtù vale per se medesima, Cfr., sopra, nota .3. Stobeo, Anthol., II, 77, 16 (= von Amim, S.V.P., zione di R. Anastasi, con lievi ritocchi]). 21
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III,
fr. 16 [tradu·
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non produce la felicità come qualcosa di altro da sé (sia essa piacere o premio ultra terreno), ma è essa stessa la felicità, e, dunque, va desiderata, cercata, amata e coltivata in sé e per sé. Riferisce Diogene: La virtù è una disposizione a vivere secondo natura; essa è desiderabile di per se stessa, ·non per una qualche paura o speranza o per qualcosa di esterno; it~ essa risiede la felicità, poiché essa è come un'anima fatta per armonizzare tutta la vita 23 • Cosl lo Stoico è reso dalla virtù perfettamente autosufficiente: non ha bisogno di piaceii, che non sono perfezionamenti della sua natura di uomo, ma sono solo fenomeni concomitanti e in ogni caso non interamente in suo potere; non ha bisogno nemmeno di una vita futura che aggiunga qualcosa· a quella perfezione che già possiede con la virtù; non teme di perderla per opera altrui, perché nessuno gliela può strappare di dosso, essendo essa antologicamente radicata nella sua natura; con la virtù, insomma, l'uomo tocca un vertice di assolutezza, in cui si sente uguale agli Dei: Per nulla la felicità di Zeus è preferibile né più bella né più pregevole di quella dei sapienti 24 • Pertanto ben si spiegano le ferventi lodi con cui gli Stoici esaltano la virtù, attribuendole tutti gli epiteti che il Greco, e in particolare il Greco filosofo, considerava espressioni di perfezione assoluta: Chiamano con molti appellativi la virtù: la dicono buona perché ci conduce ad una retta via; gradita perché è senza dubbio approvata; degnissima poiché ha valore insuperabile; pregevole poiché è degna di molta cura; lodevole, ed infatti a buon diritto la si può lodare; bella poiché è per natura tale da chiamare a sé quelli che ad essa tendono; conveniente, ed infatti contribuisce molto al ben vivere; utile poiché giova nel bisogno; preferibile 23 24
Diogene Laerzio, VII, 89 ( = von Arnim, S.V.F., Stobeo, Anthol., II, 98, 20 ( = von Arnim, S.V.P.,
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111, 111,
fr. 39). fr. 54).
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poiché da essa deriva ciò che è ragionevole scegliere; necessaria poiché quando è presente si ha giovamento, quando manca non si ha da dove trarre giovamento; z•antaggiosa, ed infatti i vantaggi che da essa derivano sono superiori a quelli ricavabili dalla attività volta a raggiungerli; autosufficiente, ed infatti basta a chi la possiede; di niente bisognosa, in quanto è priva di qualsiasi bisogno; bastevole poiché è sufficiente nell'uso ed ha di mira ogni utilità della vita 25 •
Malgrado il lettore moderno possa sentire, in questo fervore di epiteti, qualcosa di retorico, in effetti cosl non è 26 : con la virtù lo Stoico si sentiva corazzato contro tutti i mali della sua tormentata epoca; in essa e solo in essa trovava la pace dell'anima, e perciò quest'inno alla virtù è profondamente sincero 27 • 6. L a v i r t ù c o m e s c i e n z a , l a s u a u n i t à e m o 1teplici tà
Negli Stoici un'altra componente dell'etica greca, quella che in un certo senso. può considerarsi la più tipicamente greca, trova perfetta espressione: alludiamo alla componente intellettualistica nata con Socrate, cioè con la stessa filosofia morale, e rimasta poi una vera e propria categoria del pensiero morale degli Elleni. In effetti, una filosofia che, come quella stoica, poneva nellogos il principio antologico di tutte le cose e considerava l'uomo come quella privilegiata realtà in cui il logos si manifestava in modo nettamente diverso rispetto a tutte le altre cose, non poteva non ribadire le conclusioni socratiche. Stobeo, Anthol., n, 100, 15 ( = von Arnim, S.V.F., m, fr. 208). Si ricordi, anche, la diversa carica concettuale che il termine greco areté aveva rispetto al nostro termine virtù, sulla quale abbiamo a più riprese richiamato l'attenzione nel corso di quest'opera. 71 Si tengano presenti i riconoscimenti che lo stesso Epicuro aveva dovuto fare nei confronti della virtù pratica della phronesis, della saggezza. 25
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Se la virtù è il perfezionamento di ciò che è peculiare dell'uomo, e se peculiare dell'uomo è la ragione e illogos, è evidente che la virtù deve essere scienza e conoscenza, perché la ragione si perfeziona appunto nella e con la conoscenza. Pertanto la virtù torna ad essere definita come « scienza dei beni e dei mali » e il vizio « ignoranza dei beni e dei mali » 28 • Anche agli Stoici, almeno agli Stoici antichi, resta fondamentalmente sconosciuta la « volontà » come facoltà spirituale indipendente dal conoscere e resta sconosciuto il ruolo che essa gioca nella vita morale. E quando in Seneca troviamo un particolare rilievo dato alla volontà, non dobbiamo !asciarci trarre in inganno: Seneca, rendendo con voluntas quello che il Greco esprimeva con disposizione interiore derivante da perfetta conoscenza, aggiunge qualcosa di nuovo, come vedremo; tuttavia nemmeno Seneca sa dar ragione della voluntas dal punto di vista speculativo, e anche lui finisce per far dipendere la moralità dalla conoscenza. Ecco un passo significativo: Un'azione non sarà retta, se non sarà retta la volontà; l'azione infatti procede da quella. A sua volta la volontà non sarà retta, se non sarà retta la disposizione dell'anima; da questa infatti dipende la volontà. Certamente la disposizione dell'anima non sarà rivolta al meglio, se ·non si sarà resa conto delle leggi, che dominano tutta la vita, e non avrà compreso quale giudizio bisogna dare su ciascuna cosa 29 •
Dove l'« et quid de quoque iudicandum exegerit », cioè il giudizio della ragione (e quindi la ragione stessa) resta la condizione incondizionata dell'agire morale. Con questa riduzione della virtù a conoscenza dei beni e dei mali ritorna il problema che già Platone sentl come assai difficile da risolvere, cioè il problema della unità o molteplicità della virtù, problema che fu a lungo discusso nel Por28 29
Cfr. von Arnim, S.V.F., m, frr. 255 e 256. Seneca, Epist., 95, 57 ( = von Arnim, S. V.F., m, fr. 517).
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tico e che divise gli animi. Aristone, ad esempio, discepolo di Zenone, sostenne che la virtù è una 30 • Crisippo, invece, seguito dai più, sostenne che le virtù sono molteplici, per cui già gli antichi gli rimproveravano di risvegliare « uno "sciame di virtù" insolito e sconosciuto » 31 , utilizzando una nota immagine con cui Platone già metteva in ridicolo la tesi dei Gorgiani che ammettevano molteplièi virtù 32 • In realtà, Crisippo cercava di dar conto della fenomenologia della vita morale, la quale attesta che vi sono nell'uomo molte qualità, e che ciascuna qualità ha la sua perfezione, e, dunque, la sua « virtù». Ma Crisippo stesso, come tutti gli Stoici, definiva poi ciascuna di queste virtù come un modo particolare di attuarsi della scienza dei beni e dei mali. Come Platone, gli Stoici fissarono in numero di quattro le virtù cardinali: saggezza, temperanza, fortezza e giustizia, e tutte le ulteriori virtù che meticolosamente distinsero vennero subordinate a queste. Due passi di Stobeo danno in modo preciso il catalogo delle virtù e insieme riconfermano in modo esplicito e perfetto la riduzione di tutte e di ciascuna delle virtù a scienza: Saggezza (phronesis) è scienza di ciò che bisogna fare, di ciò che non bisogna e di ciò che non è né nell'una né nell'altra condizione, o scienza dei beni e dei mali e delle cose indifferenti per natura per l'uomo che vive in società [ ... ].La temperanza (sophrosyne) è scienza di ciò che è desiderabile, di ciò che è da evitare e di ciò che non è né l'una né l'altra cosa; giustizia (dikaiosyne) è scienza capace di assegnare a ciascuno ciò che merita; fortezza (andrela) è scienza di ciò che è temibile, di ciò che non lo è e di ciò che non appartiene a nessuna delle due categorie; stoltezza (aphrosyne) è ignoranza dei beni, dei mali e delle cose indifferenti; intempéranza (akolasia) è ig11oranza delle cose da scegliere e da fuggire, e di ciò che non è né da scegliere né da fuggire; ingiustizia (adikia) è ignoranza incapace di assegnare a ciascuno Cfr. von Arnim, S.V.F., I, frr. 373 sgg. "' Cfr. von Arnim, S.V.F., m, fr. 255. 32 Cfr. Platone, Menone, 72 a b.
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ciò che merita; vigliaccheria (deilia) è ignoranza di ciò che è da temere, di ciò che non lo è e di ciò che non è né da temere né da non temere 33 • E sempre Stobeo ulteriormente precisa: Delle virtù alcune sono primarie, altre subordinate a queste; le primarie sono quattro: [l] saggezza, [2] temperanza, [31 fortezza e [ 4] giustizia. [l] La saggezza riguarda il conveniente; [2] la temperanza gli istinti umani; [3] la fortezza la forza di sopportazione; [ 4] la giustizia la distribuzione dei beni. Fra quelle che sono subordinate a queste virtù alcune lo sono alla saggezza, altre alla temperanza, altre alla fortezza, altre alla giustizia. [l] Orbene, sono subordinate alla saggezza: a) consiglio, b) riflessione, c) perspicacia, d) assennatezza, e) destrezza, /) accortezza; [2] alla temperanza: a) tempestività, b) decoro, c) riservatezza, d) continenza; [3] alla fortezza: a) fermezza, b) coraggio, c) grandezza d'animo, d) ardire, e) laboriosità; [4] alla giustizia: a) pietà, b) bontà, c) socievolezza, d).affabilità. [l] a) Il consiglio dicono che è la scienza di che cosa e come bisogna operare per agire convenientemente; b) la riflessione la scienza che esamina e riassume le cose avvenute e già fatte; c) la perspicacia è la scienza che permette di trovare subito il conveniente, d) la assennatezza la scienza del peggio e del meglio, e) la destrezza la scienza che conduce a buon termine il fine di ciascuna cosa; /) l'accortezza la scienza capace di trovare una via di uscita per ogni cosa; [2] a) la tempestività la scienza che permette di individuare quando bisogna fare una cosa, dopo quale altra ed in breve l'ordine delle azioni; b) il decoro la scienza dei movimenti convenienti o sconvenienti; c) la riservatezza la scienza che preserva dal giusto rimprovero; d) la continenza la, scienza che non ci permette di oltrepassare ciò che appare essere secondo retta ragione; [3] a) fermezza la scienza che fa rimanere nei retti giudizi; b) coraggio la scienza per cui sappiamo che non cadremo mai in niente di terribile; c) grandezza d'animo la scienza che rende superiori a tutto ciò che per natura avviene sia nei buoni che nei cattivi; d) ardire la scienza di un'anima che si presenta invincibile; e) laboriosità la scienza capace di compiere il proprio intento non ostacolata dalla fatica; "" Stobeo, Anthol., 11, 59, 4 (= von Amim, S.V.P., m, fr. 262 [traduzione di R. Anastasi, con alcuni ritocchi]).
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[ 4] a) pietà è la scienza del culto da prestare agli dei; b) bontà è la scienza di operare bene; c) socievolezza è la scienza dell'uguaglianza in società; d) affabilità è la scienza di vivere irreprensibilmente con il prossimo. Di tutte queste virtù il fine è di vivere secondo natura; ciascuna C01J i propri mezzi fa conseguire ciò all'uomo. Infatti l'uomo ha da parte della natura impulsi che lo spingono alla ricerca del conveniente, all'equilibrio deg!i istinti, alla perseveranza ed alla giustizia distributiva. Ciascuna delle virtù agendo in accordo con le altre e con se stessa fa in modo che l'uomo viva secondo natura 34 • Come si vede, nell'istante stesso in cui le distinguevano, gli Stoici riunificavano le virtù nella scienza, nella scienza pratica. Meglio di tutti Olimpiodoro ci ha illustrato il nesso che collega tutte le virtù: Se le virtù si accompagnano reciprocamente, differiscono però per la proprietà specifica. Non infatti sono una sola, ma nella fortezza vi sono tutte fortemente, altrove prudentemente. C..ome anche tutti gli altri Dei in Zeus assumono il carattere di Zeus e altrove quello di Era. Nessun Dio infatti è imperfetto. E come Anassagora diceva che tutto è in tutte le cose, ma una cosa sola predomina, cosl diremo anche per gli Dei. Ogni virtìt infatti è saggezza, in quanto conosce le cose da fare; ognuna è fortezza in quanto lotta; ognuna è temperanza in quanto spinge al meglio; ognuna è giustizia in quanto assegna alle cose ciò che ad esse conviene 35 • Se cosl è, si spiega perfettamente la celebre massima degli Stoici per cui « chi ha una virtù le ha tutte » 36 • Esse, infatti, non solo si accompagnano l'una all'altra, ma sono tutte quante emanazioni particolari della suprema virtù, la scienza del bene e del male, cioè la phronesis o saggezza 37 • .. Stobeo, Anthol., n, 60, 9 ( = von Arnim, S.V.P., III, fr. 264 [ traduzione di R. Anastasi, con alcuni ritocchi]) . ., Olimpiodoro, In Plat. Alcib. pr., p. 214 Creuzer ( = von Amim, S.V.P., 111, fr. 302 [traduzione di R. Anastasi, con ritocchi]). "' Cfr. von Arnim, S.V.P., III, frr. 295 sgg. "' Cfr. von Arnim, S.V.P., I, frr. 200 sgg.
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7. Identità della virtù in tutti gli esseri razionali
La riduzione della virtù a perfezione del logos, e quindi a scienza, conteneva in sé una conseguenza che, fondamentalmente, né Socrate, né Platone, né Aristotele ebbero il coraggio di trarre, o che trassero in maniera mutila, perché condizionati dalle convinzioni sociali del loro tempo e in particolare dai dogmi della polis. Alludiamo all'affermazione dell'identità assoluta della virtù negli uomini, a qualunque ceto, sesso e condizione appartenessero, perfino negli schiavi, che espressamente e ripetutamente gli Stoici ribadirono. Già Epicuro aveva accolto nel suo Giardino uomini di varia estrazione sociale, donne e perfino etère. La caduta delle strutture della polis, le quali in passato per gli stessi filosofi avevano costituito quasi categorie del pensare politico, spesso sovrapponendosi ai loro stessi principi metafisici, rendeva ormai possibile una coerenza nel pensare morale, che, per le ragioni dette, era mancata nei filosofi dell'età classica. Dice una antica testimonianza: Se la natura umana è capace di saggezza, è necessario che gli artigiani, i contadini e le donne ed insomma quanti hanno forma umana, siano istruiti in modo da essere sapienti e che si crei una folla di sapienti di ogni lingua, condizione, sesso ed età [ ... ]. Di ciò si resero conto gli Stoici, i quali dissero che dovevano darsi allo studio della filosofia servi e donne, ed anche Epicuro che invitava alla filosofia gli inesperti di studi 38 •
In verità Epicuro mantenne qualche riserva e manifestò 38 Lattanzio, Div. Instit., III, 25 (= von Arnim, S.V.F., III, fr. 253). Platone aveva, sl, nel Menone, tentato di ricuperare l'identità della virtù in tutti gli uomini e di riconoscere che uomo, donna, vecchio, giovane, schiavo e libero, se hanno una virtù, hanno una identica virtù. Ma poi il suo discorso subl un mutamento nella Repubblica. E infine il programma educativo dell'Accademia risulta decisamente ari11tocratico e addirittura agli antipodi sia di quello stoico, sia di quello epicureo.
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qualche reticenza, come abbiamo visto. Gli Stoioi furono più decisi, dal punto di vista della dottrina. Riferendosi in gran parte al pensiero già proprio degli Stoici antichi, Seneca in· fatti scrive: La virtù non è preclusa ad alcuno, è permessa a tutti, accoglie tutti, chiama a sé tutti, liberi, liberti, schiavi, re, esuli. Non sceglie la casa o il censo, si accontenta dell'uomo nudo (nudo homine)". È un pensiero, questo, fra i più alti della speculazione antica, e che fa giustizia, in larga misura, di molti retrivi atteggiamenti di cui furono vittime lo stesso Platone e soprattutto Aristotele: la virtù non ha bisogno di aggiunte di alcun genere alla pura natura deH'uomo! - E \u1a ulteriore conseguenza, a questa strettamente connessa, gli Stoici dedussero dalla riduzione della virtù a scienza e a saggezza: non solo è uguale la virtù in tutti gli uomini, ma è uguale altresì la virtù degli uomini e la virtù degli Dei 40 • Tale affermazione fece enorme impressione agli antichi e fu giudicata come smodata ed empia:
Gli Stoici affermano che identica è la virtù in Dio e negli uomini, restando, cosl, lontani dalla religiosità di Platone e dalla misura socratica 41 • Ma era una affermazione coerente coi principi: il logos umano non è che un momento dellogos divino, e, per conseguenza, la perfezione (cioè la virtù) dellogos umano non può che essere identica a quella dellogos divino. La virtù, dunque, accomuna uomini e donne, liberi e schiavi, Greci e barbari, mortali e immortali. "' Seneca, De beneficiis, III, 18 ( = von Arnim, S.V.F., duzione di R. Anastasi, con ritocco finale]). 40 Cfr. von Arnim, S.V.F., III, frr. 245 sgg. •• von Arnim, S.V.F., III, fr. 252.
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III,
fr. 508 [tra-
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L'az i o n e re t t a ( k a t 6 r t h o m a)
Gli Stoici non si sono limitati alle considerazioni generali sulla essenza della virtù e del vizio, ma sono scesi, spinti dal loro accentuato interesse etico, ad un attento esame della condotta morale, delle azioni di cui essa è costituita e delle differenti valenze morali che le azioni umane possono avere, creando cosi concetti nuovi e originali. Chi possiede la virtù, ossia il logos armonizzato in modo perfetto, non può se non compiere «azioni perfette», ossia azioni che corrispondono in tutto e per tutto alle istanze del logos perfetto. Gli Stoici affermano: Ciò [ ... ] che parte dal sapiente deve subito essere perfetto in ogni sua parte 42• Ciò significa che le azioni portano con sé necessariamente la carica di perfezione della fonte da cui derivano. Già Zenone diceva: Il carattere morale [ethos] è la fontana della vita, da cui sgorgano le singole azioni <43. Egli era addirittura convinto che questo carattere morale si ripercuotesse perfino nei tratti del volto e nei sogni: Il carattere morale si può cogliere dall'aspetto: il sapiente si riconosce intuitivamente dai tratti del volto. Anche dai sogni è possibile ad ognuno accorgersi dei suoi progressi sulla via della virtù; se non gli avviene di vedere in sogno ch'egli si compiaccia di qualcosa di disonesto né che approvi o commetta azione alcuna indegna o mostruosa, ma come in un gran mare in perfetta bonaccia, lucido e trasparente, la facoltà fantastica e passionale dell'anima gli si illumini rasserenata dalla ragione'". Cicerone, De finibus, III, 9, 32 ( = von Arnim, S.V.F., III, fr. 504). Stobeo, Anthol., 11, 7, l(= von Arnim, S.V.F., I, fr. 203 [traduzione di N. Festa]). " von Arnim, S.V.F., I, frr. 204 e 234 (traduzione di N. Festa). G G
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Insomma: la virtù, quando sia posseduta, si riverbera su tutte le azioni e su tutti gli atteggiamenti morali, e si manifesta perfino nell'inconscio. Tenendo presente questo, è agevole comprendere che cosa sia quello che gli Stoici denominano col termine kat6rthoma ( xar:ropS.wfLoc), cioè « azione retta » o « azione perfetta » o « azione virtuosa ». Katorthoma è quell'azione che si radica nella virtù, e quindi « contiene tutte le caratteristiche della virtù» 45 : e si chiama katorthoma appunto perché deriva da un « orth6s logos »; è azione perfetta perché ispirata e sorretta da un logos perfetto. Da queste dottrine risulta evidente come gli Stoici incomindno a rendersi in parte conto di alcune verità che solo con l'etica del cristiane~imo verranno chiarifi.cate ed acquisite. a) Non si deve giudicare se una azione sia retta o no (cioè se sia o no un katorthoma) dal suo esito e dal raggiungimento del risultato che si era proposta, ma si deve giudicare dal suo punto di partenza: Ciò che ha il suo punto di partenza nella virtù è da considerare retto non dal suo compimento ma dall'intenzione di compierlo -46. La fatica spesa per le cose belle e buone anche se non raggiunge il suo scopo è in grado di per se stessa di essere utile a chi l'ha spesa, mentre ciò che è estraneo alla virtù se non perviene allo scopo è del tutto inutile 47 • Colui che accetta con buon animo un beneficio lo ha già restituito. Poiché riportiamo ogni cosa all'animo, ognuno ha fatto ciò che ha voluto. Ed ·essendo la piet-à,' la fede, la giustizia ed infine ogni virtù perfette di per sé, ogni uomo può essere grato anche con la volontà, anche se non gli sia stato possibile tendere la mano 48 • ., Cicerone, De finibus, III, 7, 24 (= von Arnim, S.V.P., III, fr. 11). 46 Cicerone, De finibus, III, 9, 32 ( = von Arnim, S.V.P., III, fr. 504). D Filone Aless., De sacri/. Abel. et Cain., § 115 (= von Arnim, S.V.P., m, fr. 505). • Seneca, De beneficiis, n, 31 (= von Arnim, S.V.P., m, fr. 507).
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Dunque, è la disposizione spirituale interiore quella che conta. Il passo letto per ultimo parla di « volontà», ma sappiamo che è Seneca che usa voluntas per diathesis, cioè disposizione spirituale, ossia retta conoscenza, e aggiunge qualcosa di nuovo alle originarie acquisizioni della vecchia Stoa; tuttavia è chiaro che, almeno a livello di esigenza intuitiva, gli Stoici intravvedono quella che per il cristianesimo sarà la « buona volontà », anche se restano del tutto incapaci di darle il suo vero volto, perché la agganciano alla conoscenza e in sostanza ad essa la riducono. b) Non si può giudicare se una azione sia retta o no (se sia un katorthoma o no) dai suoi tratti estrinseci: un'azione può benissimo assomigliare esteriormente a un katorthoma, ma non esserlo affatto, se manca la giusta disposizione, se non vi è a sostegno 1'orth6s logos. Un saggio e uno stolto potranno fare la stessa cosa, ma la loro azione risulterà uguale solo esteriormente, e sarà, invece, diversissima intrinsecamente: katorthoma sarà la prima e solo la prima, come risulta necessariamente da quanto si è spiegato al punto precedente, e mai potrà esserlo la seconda. c) Poiché l'« azione retta » è prodotta dalla virtù, cioè dalla saggezza, ne viene, di conseguenza, che nessu1to stolto potrebbe mai compiere azioni rette, ovvero che, per compiere azioni rette, dovrebbe prima diventare saggio. Il che significa, però, che i più non avranno mai la possibilità di compiere « azioni rette (katorth6mata) »,perché i più non sono saggi. A questo proposito scrive il Pohlenz: « [ ... ] gli Stoici si mostrano assolutamente convinti che la grande massa degli uomini non raggiunge mai questa disposizione ideale dello spirito e quindi non è capace di alcun katorthoma. Un'affermazione cosl cruda ci può sconcertare, ma anche Paolo nell'Epistola ai Romani (14,23) dice "Tutto ciò che non viene dalla fede è peccato", e Clemente Alessandrino adopera di proposito iJ termine stoico per caratterizzare quello che è il
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suo tipo ideale di crtstlano: "Ogni azione dello gnostico è un katorthoma" (Stromateis vn, 111 ). In Paolo domina la fede, in Zenone la conoscenza etica, ma entrambi mirano allo stesso scopo: vogliono richiamare con la massima energia l'uomo all'unica cosa necessaria, allo spirito che decide di tutta la vita » 49 • A questa notazione dello studioso tedesco è tuttavia da aggiungere che per Paolo si tratta in ogni caso di una fede trascendente che rivoluziona l'uomo, agganciandolo al soprannaturale, per Zenone si tratta invece della conoscenza del logos immanente, che attua l'uomo naturale.
9.
Il dovere (kathékon)
Le azioni umane non si possono però dividere con un taglio netto fra « azioni rette o virtuose » (katorth6mata) e quelle contrarie, cioè le « azioni viziose o errori » (amartémata): infatti fra le prime e le seconde si colloca tutta una fascia di azioni intermedie, che gli Stoici hanno cercato di determinare con molta precisione. Già vedemmo come fra i beni e i mali (morali) gli Stoici ponessero tutta una fascia di « indifferenti » (aditzphora), che avevano un certo loro valore, o un certo disvalore, se non morale, almeno naturale, e che quindi risultavano « preferiti » o « respinti ». Analogamente, fra « azioni virtuose » e « azioni viziose » che riguardano propriamente l'aspetto spirituale e morale dell'uomo, essi ammettono azioni dotate di un valore relativo o di un disvalore relativo. Si tratta di tutte quelle azioni che riguardano soprattutto la componente naturale e fisica dell'uomo, dalla quale non è possibile prescindere. Orbene, quando queste azioni siano compiute conforme''lente a natura, ossia in modo razionalmente corretto, hanno .. Pohlenz, La Stoa, 1, p. 261 (tenga presente il lettore che l'interpretazione che Pohlenz dà del passo di Paolo si ispira alla dottrina protestante).
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una piena giustificazione razionale e si chiamano quindi « azioni convenienti» o « doveri» (kathékonta). Diogene Laerzio. spiega: Gli Stoici intendono per «dovere» (xot&'ijxov) l'atto che è possibile giustificare razionalmente, in quanto sia conforme alla natura nella vita, che si estende anche alle piante- e agli animali: perché secondo gli Stoici anche in questi si vedono i doveri 50 • Per la verità, è da rilevare che la traduzione con « doveri » del termine kathékon ( xot&ljxov) forza in senso moderno il pensiero degli Stoici; alla lettera bisognerebbe tradurre con« conveniente». Si capirebbe meglio allora come Zenone abbia attribuito dei « convenienti » anche agli animali e alle piante: anche questi, infatti, per esistere, devono rispettare determinate condizioni, conformarsi a determinate esigenze della natura. Ma è chiaro come specialmente per l'uomo si possa e si debba parlare di « azioni convenienti » o « doveri »: il paragone con gli animali e con le piante serve solo a mostrare come il kathékon sia legato alla natura biologica e fisica dell'uomo, a differenza della virtù e dell'atto virtuoso, che riguardano invece l'aspetto propriamente morale e spirituale dell'uomo. È chiaro che le azioni dell'uomo comune, le quali non possono mai rientrare nella sfera delle azioni moralmente perfette (katorthomata), rientrano a pieno diritto in questo ambito. La condotta dell'uomo medio, dunque, ha essa stessa dei parametri per essere intesa, ed ha altresl un punto di tangenza, anche se parziale, con la condotta del saggio. Naturalmente, come ci sono azioni· che hanno valore di convenienti o « doveri » (kathekonta), cosi ci sono azioni che recano l'opposto segno del disvalore, e cioè sono sconvenienti, e, infine, ce ne sono alcune assolutamente indifferenti. Spiega 50 Diogene Laerzio, VII, 107 (= von Arnim, S.V.P., m, fr. 493 [traduzione di M. Gigante]).
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Diogene Laerzio: Sono conformi al dovere le azioni dettate dalla ragione, per esempio onorare i genitori, i fratelli, la patria, avere buoni rapporti con gli amici; non sono conformi al dovere le azioni non ammesse dalla ragione, per esempio trascurare i genitori, non curarsi dei fratelli, non essere d'accordo con gli amici, disprezzare la patria e simili. Né conformi né contrarie al dovere sono quante azioni la ragione né impone né vieta di fare, per es. tagliare gli sterpi, tenere lo stilo e lo strigile e simili 51 • Per completare l'argomento, leggiamo un passo ciceroniano che riassume bene i concetti fin qui esposti e fornisce gli elementi per concludere: Ma benché diciamo che è bene solo ciò che è morale, tuttavia osservare il dovere o conveniente [ olficium] è cosa conforme a natura, giacché non poniamo il conveniente [o dovere] né tra i beni né tra i mali. Vi è infatti in essi qualcosa di plausibile, ed è tale che se ne può dare una giustificazione, e dunque che si può anche rendere ragione di un'azione fatta plauri.bilmente. Ed il conveniente è ciò che è fatto in modo che della sua realizzazione si può dare giustificazione. Da ciò si capisce che il conveniente è qualcosa di medio, tale che non si può porre né tra i beni né tra le cose contrarie ai beni. E poiché tra queste cose, che non sono né tra le virtù né tra i vizi vi è tuttavia qualcosa, che può essere di utilità, essa non è da rifiutare. Vi è poi anche un certo modo di agire di tal fatta e tale che la ragione esige di compiere e fare qualcuna di queste cose medie; d'altra parte ciò che è fatto in base a ragione, noi lo chiamiamo conveniente; è dunque il conveniente di tal natura che non viene considerato né tra i beni né tra i mali. Ed è chiaro anche che il sapiente svolge parte della sua attività fra queste cose medie. Dunque giudica della sua azione che essa è conveniente. Poiché egli mai sbaglia nel giudicare, il conveniente apparterrà alle cose mediane. Il che si ricava anche da questo ragionamento: poiché noi vediamo che vi è qualcosa che diciamo azione retta ed essa è il conveniente perfetto, vi è anche il convenimte imperfetto, come ad esempio se il «restituire il deposito secondo giustizia » appartiene alle azioni rette, •• Diogene Laerzio, vn, 108 (= von Amim, S.V.P., m, fr. 495 [traduzione di M. Gigante]).
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si deve porre tra il conveniente solo « il restituire il deposito »; infatti aggiungendovi « secondo giustizia » si ha l'azione retta, mentre il restituire di per se stesso lo si considera un conveniente. Poiché non vi è dubbio che tra quelle cose che chiamiamo medie, vi è qualcosa da accettare e qualcosa da rifiutare, tutto ciò che è fatto o detto in tal modo è compreso nel conveniente. Da ciò si ricava che, poiché tutti per natura amano se stessi, sia il saggio che lo stolto accetteranno ciò che è secondo natura, rifiuteranno ciò che è contrario. Così vi è un conveniente comune al saggio ed allo stolto; dal che si conclude che esso sta tra quelle cose che chiamiamo medie 51 • Dunque: l) fra le azioni perfette e virtuose e le azioni viziose vi è tutta la sfera delle azioni medie, fra le quali spiccano le convenienti o doveri (kathékonta), che sono azioni dotate di relativo pregio, di contro alle ·azioni virtuose che sono dotate di pregio assoluto. 2) Sempre nell'ambito delle azioni medie, vanno distinte le azioni opposte alle convenienti o doveri, ossia le azioni sconvenienti. 3) Da queste andranno ulteriormente distinte le azioni assolutamente indifferenti, cioè in tutto e per tutto neutre. 4) I doveri diventano doveri o convenienti perfetti se vi si aggiunge la saggezza; ma allora, i doveri perfetti verranno senz'altro a coincidere con le azioni rette o katorthomata, e cesseranno di essere veri kathekonta, perché verranno a ricollegarsi con quello spirito o disposizione interiore che è la fonte della moralità, e diventeranno emanazioni e aggettivazioni di esso. 5) Lo spazio in cui si collocano i doveri resta, dunque, quello intermedio di cui s'è detto, e relativo resta il loro valore. Tuttavia non si può disconoscere la fondamentale incidenza dei doveri nel regolare la moralità comune. Cosl le leggi umane, che, come vedremo sotto, per gli Stoici, lungi dall'essere mere convenzioni, sono espressione di una legge eterna ed indistruttibile che proviene dal Logos eterno, al saggio comanderanno azioni rette (kator,. Cicerone, De finibus, m, 17, 58(= von Arnim, S.V.P., m, fr. 498).
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thomata), perché il saggio sentirà il comando in strutturale coincidenza con le sue intime esigenze, in virtù della perfetta disposizione interiore, cioè del retto logos che è in lui e che è in perfetta sintonia con il retto logos che è fuori di lui. Al limite, quindi, il saggio, nella sua perfezione, non ha bisogno né di leggi né di comandi. Invece allo stolto le leggi, non potendo comandare azioni rette, per mancanza in lui dello spirito retto che l'azione retta presuppone, in primo luogo, vieteranno molte colpe (al saggio non vieteranno nulla, perché il non commettere colpe è per lui naturale) e, in secondo luogo, comanderanno azioni convenienti, doveri, cioè azioni che, pur coincidendo quanto al contenuto con quelle del saggio, mancano di quella forma che rende perfette le azioni del saggio, cioè di quell'intima disposizione interiore di cui sopra abbiamo detto 53 • Dunque, i comandi e i precetti delle leggi sono, per la massa degli uomini, kathékonta, doveri, e dai kathékonta resta regolata tutta la vita dell'uomo medio. Questo concetto di kathekon è sostanziale creazione stoica. I Romani, che lo renderanno con il termine officium, contribuiranno, con la loro sensibilità pratico-giuridica, a stagliare più nettamente i contorni di questa figura concettuale, che noi moderni chiamiamo dovere. Anteriormente agli Stoici, presso i Greci si può trovare, ovviamente, il corrispettivo di quello che il Portico chiama kathekon, espresso anche in vario modo, ma mai ridotto unitariamente a problema e mai formulato con precisa consapevolezza. Il Pohlenz pensa che Zenone abbia desunto dal patrimonio spirituale della sua patria il concetto di « comandamento», cosl familiare agli Ebrei, e che abbia creato il concetto di kathekon innestando il concetto di comandament~ sul concetto greco di physis 54 • Il che è verosimile. Certo è che Zenone e la Stoa, con l'eia• C&. von Arnim, S.V.P., m, ftt . .519 sgg. .. Pohlenz, Ltz St011, 1, pp. 271 sgg.
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borazione del concetto di kathekon, hanno dato alla storia spirituale dell'Occidente un contributo di grandissimo rilievo: il concetto di « dovere » è rimasto infatti, sia pur modulato in varie maniere, una vera e propria categoria del pensiero morale occidentale.
10.
Legge eterna e diritto di natura
Epicuro aveva fondamentalmente negato al diritto e alla legge una loro statura antologica: per lui legge e giustizia erano solo espressioni di accordi transeuiui stabiliti fra gli uomini per garantire la sicurezza della vita, cioè per fini strettamente utilitaristici; in questo egli si riallacciava a quel movimento di pensiero che era stato messo in atto dalle Scuole socratiche, ma che era stato potentemente arginato da Platone e da Aristotele. Gli Stoici si collocano agli antipodi degli Epicurei, ma senza riprendere l'ordine di idee di Platone e di Aristotele, e quindi guadagnando una visione in gran parte nuova. Il crollo della polis, da un lato, e l'antologia del logos immanente, dall'altro, diedero infatti agli Stoici la possibilità di vedere il problema del diritto e della legge con una ottica nuova, cioè in una prospettiva metapolitica e universalistica. La legge umana non è· altro che l'espressione di una legge naturale eterna, che nasce dallogos stesso che plasma tutte le cose, il quale, in virtù della sua razionalità, stabilisce ciò che è bene e ciò che è male, e, dunque, impone obblighi e divieti. E il modo in cui abbiamo visto gli Stoici dedurre bene e male morale mostra chiaramente come, in concreto, essi pensassero la physis e illogos, oltre che in dimensione ontalogica, anche in dimensione deontologica. Dice Cicerone in una testimonianza: La legge [ ... ] è somma ragione, insita nella natura, che co-
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manda ciò che bisogna fare e vieta il contrario: questa stessa ragione rafforzata e perfezionata dalla mente umana è legge 55 • E in una ulteriore testimonianza: La legge non fu inventata dal genio umano né fu una decisione arbitraria dei popoli, ma è un qualche cosa di eterno, che regge il mondo intero con saggi comandi e divieti. Cosl [gli Stoici] sostenevano che quella legge prima e ultima fosse la mente divina che secondo ragione dà obblighi o impone divieti a tutte le cose; perciò giustamente è lodata la legge che gli Dei diedero al genere umano; infatti è la ragione e la mente di un essere saggio adatta a comandare e a vietare. I comandi e i divieti dei popoli hanno il potere di invitarci alla rettitudine e di distoglierci dalle colpe, il quale potere non solo è più vecchio dell'età dei popoli e delle città, ma è coetaneo a quel dio c:he custodisce e regge il cielo e la terra. Né infatti vi può essere una mente divina senza ragione, né la ragione divina può essere priva di questo potere di sanzionare il bene e il male [ ... ] . Perciò la legge vera e prima capace di comandare e vietare è la retta ragione del sommo Giove 56 •
E in una testimonianza di Plutarco leggiamo: Infatti non è possibile trovare altra origine, né altra genesi per la giustizia, tranne che da Giove e dalla comune natura; infatti bisogna che tutto ciò prenda le mosse da qui, se ci accingiamo a parlare di beni e di mali 51 • Dunque, la legge deriva dal Logos stesso che regge l'universo; pertanto il diritto « è dato da natura » 58 e il diritto positivo umano non è se non l'esplicitazione di questo fondamentale diritto naturale. Legge e natura, con gli Stoici, tornano a riconciliarsi in modo perfetto: il nomos non è più mera convenzione e opinione in contrasto con la physis, ma Cicerone, De legibus, I, 6, 18 (= von Arnim, S.V.P., m, fr. 315). Cicerone, De legibus, II, 8 sgg. ( = von Amim, S.V.P., III, fr. 316). st Plutarco, De Stoic. repugn., 9, 1035 c ( = von Arnim, S.V.P., III, fr. 326). • Diogene Laerzio, VII, 128 (= von Arnim, S.V.P., III, fr. 308). 55
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è la traduzione e interpretazione delle istanze della physis. Perciò Crisippo può tornare a inneggiare alla legge, addirittura con espressioni desunte da Pindaro: La legge è la regina di tutte le cose divine ed umane: bisogna che essa sovrintenda alle cose belle e turpi e sia il capo e la guida, ed in base a ciò vi sia una norma del giusto e dell'ingiusto e degli esseri socievoli per natura che imponga ciò che bisogna fare e vieti ciò che non bisogna fare 59 •
11.
Cosmopolitismo
Anche l'individualismo e l'egoismo in cui Epicuro aveva imprigionato l'uomo, vengono vivacemente contestati dagli Stoici sulla base della physis. L'uomo è spinto dalla natura a conservare il proprio essere e ad amare se stesso. Ma questo istinto primordiale non è finalizzato solo alla conservazione dell'individuo: l'uomo estende immediatamente l'oikeiosis ai suoi figli e ai suoi parenti e mediatamente a tutti i suoi simili. Insomma: è la natura che, come impone di amare sé, così impone di amare chi abbiamo generato e chi ci ha generati; ed è la natura che ci spinge a unirei agli altri e anche a giovare agli altri: Siamo spinti dalla stessa natura ad amare quelli che abbiamo generato. Dal che deriva che vi è tra gli uomini un reciproco senso di interesse degli uni yerso gli altri, per etti è necessario che un uomo per il fatto stesso che è un uomo non sembri estratteo ad un altro uomo.
Noi siamo per natura portati ad unirei, e ad associarci con gli altri uomini e ad una società naturale. Siamo spinti poi dalla natura a giovare a quanti più possiamo soprattutto con l'insegnare e col dare regole di prudenza 60 • "' von Arnim, S.V.P., III, fr. 314. "' Cicerone, De finibus, 111, 19, 62 sg. ( = von Arnim, S.V.P., III, fr. 340) e Cicerone, De finibus, III, 20, 65 sg. ( = von Arnim, S.V.P., III, fr. 342).
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Da essere che vive nel chiuso della sua individualità, come voleva Epicuro, l'uomo torna ad essere « animale comunitario ». E la formula nuova dimostra che non si tratta di una semplice ripresa del pensiero aristotelico, che voleva l'uomo« animale politico »: l'uomo, più ancora che essere fatto per associarsi in una polis è fatto per consòciarsi con tutti gli uomini 61 • Su queste basi, gli Stoici non potevano essere se non fautori di un ideale fortemente cosmopolitico. La polis era ormai completamente crollata senza speranze di risorgere; d'altra parte non era nato ancora qualcosa di nuovo che la sostituisse: le monarchie che si erano formate dal dissolto impero macedone si dimostravano sempre più fragili e passeggere. Perciò gli Stoici si limitarono a definire lo Stato in modo giuridico: Dicono che lo stato è una moltitudine di uomini che abitano nello stesso luogo amministrati dalla legge 62 • Pertanto non si può dire che « gli Stoici crearono il concetto generale di Stato», come vorrebbe il Pohlenz 63 • Infatti, questa definizione, come riconosce il Pohlenz stesso, è una mera estensione del concetto di polls ·ai nuovi regni; ma, in verità, il concetto di Stato modemo è qualcosa di più che non il mero ingrandimento del concetto di polis. In effetti, gli Stoici considerarono come cittadini dello Stato ideale, non solo tutti gli uomini del vasto mondo, ma vi inclusero anche gli Dei 64, perché anche gli Dei sono esseri razionali: Bisogna chiamare propriamente stato felice o città questa 61 62
Cfr. Pohlenz, La Stoa, 1, pp. 232 sg. e p. 233, nota 11. Dione Crisostomo, Orat., xxxvi, § 20 ( = von Arnim, S.V.P., m,
fr. 329). 62 Pohlenz, La Stoa, 1, p. 280. 66 Cfr. von Arnim, S.V.P., 111, frr. 333 sgg.
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sola comunanza reciproca degli dei, includendovi anche gli uomini assieme agli dei, se si vuole includervi ogni essere razionale [. .. ] 65 • Tutto questo universo deve essere [considerato] una sola città comune agli dei e agli uomini 66 • Sempre sulla base del loro concetto di physis e di logos, gli Stoici seppero mettere in crisi, più di quanto non seppero fare gli altri filosofi, gli antichi miti della nobiltà del sangue e della superiorità della razza, nonché le catene della schiavitù. La nobiltà è detta cinicamente « scoria e raschiatura dell'uguaglianza» 67 ; tutti i popoli sono dichiarati capaci di giungere alla virtù 68 ; l'uomo viene proclamato strutturalmente libero: infatti« nessun uomo è per natura schiavo» 69 • I nuovi concetti di nobiltà, di .libertà e di schiavitù vengono collegati alla saggezza e all'ignoranza: vero libero è il saggio, vero schiavo è lo stolto 70 • I presupposti della politica aristotelica sono in tal modo completamente infranti: il logos ha ristabilito, almeno a livello di pensiero, la fondamentale uguaglianza degli uomini.
12.
L e passi o n i e l'a p a t i a
Come per Epicuro il dolore e le false opinioni circa i beni e i mali erano ciò che fondamentalmente poteva turbare l'uomo, cosl, per gli Stoici, le passioni, insieme alle loro cause ed ai loro effetti, sano la fonte di ogni infelicità. Pertanto, è ben comprensibile come nel Portico si discutesse in modo 65 Dione Crisostomo, Orat., XXXVI, S 23 ( = von Arnim, S.V.P., m, fr. 334). 66 Cicerone, De legibus, I, 7, 23 ( = von Arnim, S.V.P., m, fr. 339). 67 Plutarco, Pers. de nob., 12 ( = von Arnim, S.V.P., m, fr. 3.50). 61 Cfr. von Arnim, S.V.P., m, fr. 343. "' von Arnim, S.V.P., m, fr. 3.52. '" Cfr. von Arnim, S.V.P., m, frr. 349-366.
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approfondito di esse e come si dedicassero ad esse speciali studi. Si trattava in effetti di spiegare quel fenomeno importantissimo dell~ vita morale, per cui la ragione viene obnubilata, accecata e perfino travolta da moti irrazionali che sono dentro di noi. Socrate, con il suo razionalismo e intellettualismo morale, aveva cercato di spiegare questo essere travolti dalle passioni come conseguenza di un errore logico, come effetto di ignoranza. Ma già Platone aveva ben compreso che le passioni e quanto c'è di passionale nell'agire umano suppongono forze alogiche scaturenti dallo stesso animo umano, ed aveva parlato, per conseguenza, di tre parti o funzioni dell'anima: una concupiscibile, una irascibile, e una razionale. Anche Aristo-tele aveva dato rilievo alle parti non razionali dell'anima, come abbiamo visto. Ebbene, gli Stoici, in conseguenza della loro antologia che dà la preminenza assoluta e totale al log,os a tutti i livelli, tendono a riportarsi inesorabilmente su posizioni socratiche. Essi, in primo luogo, scartano concordemente la tesi secondo cui le passioni sono l'effetto del puro irrazionale, cioè di quanto c'è in noi di animalesco e in ogni caso di non riducibile al logos. Ora si badi: dire che le passioni sono determinate dall'irrazionale e da quanto di alogico c'è in noi, significa riconoscere, ovviamente, la non-volontarietà della pas· sione, appunto per la sua totale estraneità alla sfera logica. Ma se si scarta questa spiegazione, la passione viene necessariamente ad agganciarsi allogos ed alla ragione, e, in tal caso, sono possibili le due seguenti posizioni. a) È possibile dire che le passioni nascono a causa e in conseguenza di un giudizio erroneo; oppure b) è possibile addirittura identificare la passione con lo stesso giudizio erroneo. Ambedue queste tesi furono sostenute nella Stoa: Zenone e molti suoi seguaci sostennero la prima, Crisippo la seconda con notevole insistenza. La posizione assunta dal Portico a questo riguardo si capisce assai bene. Infatti, se le passioni costituiscono il più
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grave pericolo che minaccia la pace dello spirito e la felicità, occorre poterle in ogni caso interamente dominare con la ragione; ma si possono interamente dominare, solo se non provengono da una forza estranea e contrapposta alla ragione, e se dipendono in qualche modo dalla ragione stessa. Zenone spiegò la passione nel modo seguente. In conseguenza di una data rappresentazione, poniamo della ricchezza, si manifesta in noi una tendenza, la quale, se non è controllata da un logos retto e forte che la giudichi come cosa « indifferente » (cioè come cosa che non è né bene né male, ed è utile solamente per quel tanto che è richiesto dalle necessità della vita) ma è assecondata da un logos debole che sopravvaluta la ricchezza, diviene una falsa opinione cui consegue un moto irrazionale dell'anima (un moto contro il retto logos), che va oltre misura e si ha quindi la passione: la brama di ricchezza e l'avarizia. Dunque, la passione è l'effetto di un errato giudizio; nell'esempio da noi fatto è effetto dell'errato giudizio: « la ricchezza è un bene». Ecco due testimonianze: La passione [ ... ] , secondo Zenone, è o un movimento dell'anima, irrazionale e contrario a natura, oppure un impulso eccessivo. Zenone definiva la passione cosl: la passione - che egli chiamava 1rci&ot; - è una emozione che si allontana dalla ragione· e contraria a natura che si produce nell'anima 71 •
Le conseguenze di questa dottrina sono evidenti: nella misura in cui Zenone, con il suo intellettualismo etico, riduceva volontà, libertà e responsabilità a ragione, egli doveva concludere che la passione è volontaria, nel senso che noi siamo responsabili del suo stesso nascere e albergare in noi. 7' Le due testimonianze sono, rispettivamente, di Diogene Laerzio, VII, 110 e di Cicerone, Tusc. disput., IV, 5, 11 ( = von Arnim, S.V.P., I, fr. 205).
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Zenone, dunque, non identificò le passioni coi giudizi, ma con « le contrazioni ed effusioni, esaltazioni e depressioni sopravvenienti ai giudizi » 72 , e dunque ammise in qualche modo una forza alogica, sia pur capace di svilupparsi solo se la ragione le lasci via libera. Invece Crisippo riportò interamente alla ragione questo elemento passionale, facendo coincidere, come dicemmo, la passione con il giudizio medesimo. Ci riferisce Galeno, che riporta numerosi frammenti del nostro filosofo: Crisippo [ ... ] nel primo libro Sulle passioni cerca di mostrare che le passioni sono giudizi della ragione, mentre Zenone credette che le passioni non sono i giudizi stessi, ma contrazioni e dilatazioni, esaltazioni e depressioni dell'anima conseguenti ai giudizi 73•
Ecco come Plutarco espone la dottrina di Crisippo: Alcuni sostengono che la passione non sia differente dalla ragione e che tra le due non vi è differenza e contrasto, ma un volgersi dell'unica ragione ad entrambe, che a noi sfugge per la rapidità e la velocità del mutamento. Non ci accorgiamo infatti che è la stessa parte dell'anima che per sua natura desidera e si pente, si adira e teme, è spinta dal piacere al turpe e che di nuovo mentre vi è spinta si arresta. Ed infatti desiderio, ira, paura e simili sono opinioni e giudi%i depravati, che non si trovano in una sola parte dell'anima, ma sono assolutamente inclinazioni, cedimenti, assensi, impulsi della parte fondamentale dell'anima ed in una sola parola forze che facilmente cambiano, cosl come le corse dei bambini hanno impetuosità e violenza instabile ed incostante per la debolezza 74 •
Come a proposito delle virtù, cosl anche a proposito delle passioni gli Stoici mostrarono un interesse accentuatissimo Cfr. il passo di Galeno, che riportiamo subito sotto. Galeno, De plac. Hippocr. et Plat., v, l ( = von Arnim, S.V.F., fr. 461). •• Plutarco, De uirtute morali, 7, 446f (= von Arnim, S.V.F., fr. 459). 72 72
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III, III,
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per la fenomenologia delle loro manifestazioni empiriche. Distinsero quattro specie di passioni fondamentali: desiderio, paura, dolore e piacere, e una serie di sottospecie di passioni subordinabili a queste quattro 75 • Il desiderio dipende da una falsa opinione e da un falso giudizio circa un bene futuro; la paura dipende da una falsa opinione e da un falso giudizio rispetto a un male futuro; il dolore dipende da una falsa opinione e da un falso giudizio circa un presunto male attuale e il piacere dipende da una falsa opinione e da un falso giudizio su un presunto bene presente. Al desiderio sono collegate passioni come l'ira e le varie forme di questa come: sdegno, stizza, risentimento, rancore, collera e simili, brama e cupidigia, ambizioni e simili; al piacere sono collegati esaltazioni, godimenti, malevolenze e malefici; alla paura sono collegati esitazioni, angosce, costernazioni, trepidazioni, terrori e simili; al dolore sono collegati invidia, gelosia, compassione, tormen.to e simili 76 • Siccome le passioni provengono direttamente dal logos, perché sono errori dellogos, è chiaro che non ha senso, per gli Stoici, il moderare o il circoscrivere le passioni: come già Zenone diceva, esse devono essere distrutte, estirpate, sradicate totalmente 77 • Il saggio, curando il suo logos, e facendolo essere il più possibile retto, non lascerà neppure nascere nel suo· cuore le passioni, o le annienterà nel loro stesso nascere. È, questa, la celebre apatia stoica, cioè il toglimento e la assenza di ogni passione, la quale è sempre e solo turbamento dell'animo. La felicità è, dunque, apatia, impassibilità 78 • Come Epicuro, per salvare il suo ideale della pace interiore data dal piacere catastematico, cioè dalla mancanza di dolore e di turbamento, fu costretto a misconoscere la dram" Cfr. von Arnim, S.V.F., III, fr. 377 sgg. 76 Cfr. von Arnim, S.V.F., III, frr. 378 e 394. 71 Cfr. von Arnim, S.V.F., I, frr. 20.5 sgg.; cfr. anche n, frr. 443 sgg. " Sulla dottrina stoica delle passioni cfr. Pohlenz, La Stoa, 1, pp. 284-309.
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matica portata della realtà del dolore e la sconvolgente tragedia della morte, cosi, analogamente, per salvare il proprio ideale della pace interiore, data da un logos armonico e perfettamente pacificato con se stesso e per tutta la vita coerente, gli Stoici furono costretti a misconoscere le forze irrazionali che lottano dentro di noi in ogni momento, a negare la loro statura e la loro rilevanza antologica, e a ridurle a errori di ragione. È evidente, quindi, che sia gli Stoici che gli Epicurei poterono sostenere il loro ideale di felicità solo a prezzo di amputazioni radicali ai danni della integrità della vita dell'uomo e della sua realtà. E come dolore e morte segnano lo scacco dell'etica dell'aponia, la massiccia e ineliminabile presenza in noi dell'irrazionale segna lo scacco dell'etica dell'apatia.
13.
L'ideale del saggio
In una concezione della filosofia intesa come problema della vita quale è stata formulata nell'età ellenistica, ha grandissima importanza la caratterizzazione dell'uomo perfetto, ossia dell'uomo che vive in totale sintonia collogos, cioè del saggio, che costituisce il paradigma ideale cui ciascuno deve ispirarsi. Basterebbe dire che il saggio è cinto dalla corona di tutte le virtù, per dire tutto. Ma gli Stoici (come del resto gli Epicurei) non cessano di aggiungere epiteti per caratterizzare la figura del saggio, dando fondo a tutta la serie di aggettivi che denotano qualifiche positive. Il saggio non sbaglia mai, perché non ha opinione ma scienza. Il saggio fa bene tutto ciò che fa, perché lo fa con il retto logos, con il giusto spirito. Il saggio è grande, grosso, alto e forte: Grande in quanto può conseguire le cose che sceglie e si propone; grosso in quanto si è spiritualmente ingrandito in ogni parte; alto in quanto partecipa di quell'altezza che tocca ad un
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uomo egregio e saggio; forte in quanto fornito di quella forza che gli spetta, essendo invitto e invincibile 79 • Inoltre il saggio è ricco, nobile e bello: ricco anche se mendico, nobile anche se servo, bello anche se fisicamente brutto, perché ha la sua ricchezza, nobiltà, bellezza nellogos. Il saggio è libero, perché vuole tutto ciò che è necessario; sopporta e accetta tutto quanto è voluto dal Fato. Il saggio basta a se stesso, perché nellogos ha tutto ciò che gli occorre. Nulla lo può turbare, perché la corazza del logos da tutto lo protegge, e, come il saggio epicureo, così il saggio stoico anche fra le torture può essere felice, perché collogos trascende il dolore e lo svuota della sua negatività. Nella sua pace interiore è uguale a Zeus 80 • In questa descrizione - si noti bene - c'è qualcosa che ricorda sia la platonica descrizione del mondo delle Idee sia la descrizione aristotelica del Motore Immobile. In effetti il vero Assoluto dell'età ellenistica è appunto l'ideale morale di cui il saggio è la paradigmatica incarnazione. Ma per quanto esaltante possa essere questa descrizione, cionondimeno emergono da più di un lato aspetti negativi. Intanto l'ideale del saggio non ammette alcuna via di mezzo; O si è saggi o si è stolti e tertium non datur 81 • E fra gli stolti non esiste una gradazione gerarchica. Si annega sia in pochi centimetri d'acqua sia nelle profondità degli oceani: la profondità dell'acqua non conta, perché si annega comunque; cosl non conta che chi è stolto sia poco stolto o molto stolto: la quantità maggiore o minore è insignificante rispetto alla qualità. Per conseguenza, anche le colpe sono tutte egualmente gravi, perché egualmente negativo è lo spirito da cui esse scaturiscono. Perciò fra stolti e saggi c'è assoluta incommensuStobeo, Anthol., n, 7, p. 99, 14 ( = von Arnim, S. V.F., "' Sul saggio cfr. von Arnim, S.V.F., III, frr. 544-656. •• Cfr. von Arnim, S.V.F., 111, fr. 657 e sgg.
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III,
fr. 567).
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rabilità 82 • Ma soprattutto l'apatia che cinge lo Stoico è veramente raggelante e, al limite, è inumana. Poiché pietà, compassione, misericordia sono passioni, lo Stoico le estirperà da sé:
La misericordia fa parte dei difetti e vizi dell'anima: misericordioso è l'uomo stolto ~ leggero. Il sapiente non si commuove a favore di chicchessia; non condona a nessuno una colpa commessa. Non è da uomo forte il lasciarsi vincere dalle preghiere e distogliere dalla giusta severità 83• L'aiuto che lo Stoico darà agli altri uomini non potrà quindi essere che asettico, lontano da qualsiasi umana simpatia; appunto come il ~reddo logos è lontano dal calore del sentimento. E cosi il saggio si muoverà fra i suoi simili in atteggiamento di totale distacco simpatetico: sia quando farà politica, sia quando si sposerà, sia quando si curerà dei figli, sia quando contrarrà amicizie, e finirà cosi per estraniarsi alla vita stessa; ed, in effetti, lo Stoico non è un entusiasta della vita, né è un amante di essa come invece lo è l'Epicureo. E mentre Epicuro gustava anche gli ultimi istanti della vita e li godeva, beato pur fra i tormenti del male, Zenone, in paradigmatico atteggiamento, in seguito ad una caduta in cui ravvisava un segno del Destino, si gettava, felice di finire la vita, in braccio alla morte, gridando: Vengo, perché mi chiami? 84 •
Il suicidio, che gli Stoici ammettevano nei casi in cui il saggio si trovasse in eccezionali condizioni avverse ali' esercizio di virtù 85 , non è coerente con le premesse teoretiche del sistema, se è vero che il logos è invitto e invincibile e se è Cfr. ibidem. von Arnim, S.V.P., 1, frr. 213 sgg. (traduzione di N. Festa). .. Diogene Laerzio, VII, 28. 15 Sul suicidio cfr. Rist, Stoic Philosopby, pp. 233-255. 12
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vero che il saggio anche fra le fiamme può essere felice: l'ammissione del suicidio si radica, piuttosto, in quella plumbea visione della vita che abbiamo descritto, la quale, eliminando o reprimendo ogni sentimento e passione, perde quasi del tutto anche la primigenia e istintiva gioia del vivere.
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SEZIONE SECONDA
IL IVIEDIO STOICISMO
« [ ... ] Posidonius [ ... ] cumque quasi faces ei doloris admoverentur, saepe dixisse: "nihil agis, dolor! quamvis sis molestus, numquam te esse confitebor malum"».
« [ ... ] Posidonio [ ... ] nei momenti in cui il dolore
era più cocente ripeteva: "tanto non la spunti, dolore! Sei gravoso, si, ma non ammetterò mai che sei un male" ». Cicerone, Tusc. disput., u, 25, 61
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l. IL MEDIO STOICISMO DI PANEZIO
l. Il nuovo corso impresso alla Stoa da Panezio
La Stoa, dopo Crisippo, si era sostanzialmente limitata alla conservazione e alla difesa dei dogmi, perdendo notevolmente in vigore e in efficacia'. Fu Panezio che, nell'ultimo trentennio del n secolo a. C., la riportò agli antichi splendori, ridonandole quella vitalità che sembrava aver perduto 2 • Egli riusd t~ttavia in questa impresa solo appor1 Una precisa ricostruzione di questa fase della Stoa si troverà in Pohlenz, La Stoa, I, pp. 359-383. ar. vol. v, pp. 433435. 2 Panezio nacque a Rodi sembra intorno al 185 a. C. da nobile famiglia. Trasferitosi ad Atene (dopo aver udito le lezioni di Cratete, forse a Pergamo), ascoltò soprattutto le lezioni di Diogene di Seleucia, che era allora alla direzione del Portico, e divenne convinto seguace del verbo stoico (ciò dovette avvenire fra il 160 e il 150), restando legato alla Scuola anche quando ne prese la direzione Antipatro. Udi anche le lezioni di Polemone, di lui assai più vecchio, e probabilmente anche quelle di Carneade. Visitò Roma e vi soggiornò, probabilmente più volte, e fu accolto come apprezzato ospite nel circolo di Scipione, forse per mediazione dello storico Polibio. Nel 140-139 Panezio prese parte con Scipione ad un viaggio in Oriente, che, insieme al soggiorno romano, dovette fortemente incidere sull11 sua formazione spirituale. Nel 129 a. C. divenne capo della Stoa, succedendo ad Antipatro. Mori verso gli inizi del primo secolo (Posidonio ci dice che Panezio visse ancora trent'anni dopo la pubblicazione del suo capolavoro Dei doveri, avvenuta subito dopo il suo insediamento alla direzione del Portico; dr. Cicerone, De officiis, m, 2, 8). Pare, in ogni caso, che Panezio non 11bbia continuato le sue lezioni fino alla fine della vita (probabilmente per ragioni di salute), almeno per certi periodi; infatti, nel 109, allorché Lucio Crasso andò ad Atene, alla Stoa teneva le lezioni Mnesarco,discepolo di Panezio (Cicerone, De orat., I, 11, 45). Delle opere di Panezio nessuna ci è pervenuta. I frammenti sono stati raccolti, dapprima, da H. N.
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IL MEDIO STOICISMO
tando al patrimonio dottrinale del Portico modifiche di un certo rilievo. In parte egli mitigò certe asperità dell'etica, in parte modificò alcuni punti della psicologia, in parte ripensò alcuni aspetti della fisica. Le ragioni che portarono a questi mutamenti sono molte e di diverso genere. a) In primo luogo, sono da rilevare gli effetti che l'Accademia scettica produsse con la sua polemica contro la Stoa. Gli attacchi che Arcesilao sferrò contro Zenone e contro Cleante e che Carneade sferrò contro Crisippo (di cui parleremo con ampiezza discorrendo degli Scettici) si erano limitati a smantellare le dottrine stoiche, senza essere in grado di sostituire alternative nuove; nondimeno, essi non avevano mancato di segnalare effettivi punti deboli dello stoicismo. Bisognava, dunque, se non si voleva soccombere sotto quelle critiche, rinnovare la dottrina e soprattutto vivificarne lo spirito, che tendeva ad irrigidirsi in una sterile scolastica. b) In secondo luogo, fondamentale, soprattutto nella revisione della morale stoica, fu il contatto di Panezio con la mentalità romana. Accolto a Roma nel circolo degli Scipioni, attraverso una assidua frequenza con gli uomini romani più potenti, influenti e illuminati del momento, egli comprese la novità e la grandezza della romanità e ne fu avvinto e, in una certa misura, ne fu anche positivamente condizionato. I suoi predecessori avevano veduto, in Grecia, prevalentemente ciò che Fowler, Panaetii et Hecatonis librorum fragmenta, Bonn 1885, e, di recente, da M. van Straaten, Pan~tius, ses écrits et sa doctrine avec une ~dition des fragments, Amsterdam 1946; Id., Panaetii Rhodii fragmento, Leiden 1952 (1962'). Molto opportunamente il van Straaten si è limitato alle testimonianze in cui compare espressamente il nome di Panezio, e quindi sicuramente attendibili. La bella sintesi del Pohlenz, dedicata alla Stoa, su Panezio (cosi come su Posidonio) non è, purtroppo, sufficientemente fondata: infatti tende a gonfiare l'autore (come del resto fanno molti studiosi di Panezio), facendo risalire a lui dottrine che non sono sicuramente attestate come sue e traendo una serie di acritiche illazioni.
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PANEZIO
nell'ambito dello Stato e della politica andava distruggendosi e perdendosi; Panezio, a Roma, vide invece ciò che in questo ambito si era costruito e andava sempre più affermandosi. E cosi egli riguadagnò quel forte senso politico, che già era stato il tratto distintivo dei Greci dell'età classica, e si imbevve di quel forte senso pratico che costituiva la cifra caratteristica della romanità. L'uno e l'altro elemento incisero fortemente sulla visione della vita del filosofo. c) Inoltre, la attenta e appassionata rilettura di Platone e dei primi Accademici, cosi come quella di Aristotele e di alcuni Peripatetici, fece sentire a Panezio la necessità di accogliere alcune tesi dell'Accademia e del Peripato, che, in fondo, a suo avviso, potevano considerarsi Scuole derivanti, come la Stoa, dalla medesima matrice, cioè da Socrate. d) Panezio, pertanto, inaugura nel Portico una tendenza ecletticheggiante che tiene conto delle critiche scettiche, del nuovo spirito della romanità, delle dottrine di Platone e del Peripato. Tuttavia, tale tendenza non degenera affatto in un eclettismo senza anima, perché lo spirito dello stoicismo resta in essa fondamentalmente dominante e capace di imprimere la propria forma alle dottrine nuove che sussume, pur adattandosi alle nuove circostanze. Panezio apre, dunque, una nuova stagione nella storia del Portico, per indicare la quale gli storici della filosofia hanno coniato l'espressione « medio-stoicismo », ossia stoicismo che si pone fra la primitiva stagione della Stoa e l'ultima che si svolgerà a Roma, con caratteri nuovi, ormai in età cristiana 3 • • La denominazione fu introdotta da A. Schmekel, Die Philosophie der mittleren Stoa, Berlin 1892. Il Pohlenz la giudica inopportuna e la respinge, argomentando che l'antichità ha chiaro il concetto di una « Accademia di mezzo », ma non di una « Stoa di mezzo » e che, per di più, non c'è un gruppo di pensatori compatto che motivi la denominazione in parola. Peraltro il Pohlenz deve riconoscere quanto segue: « ~ indubbio che con Panezio comincia nella storia della Stoa una fase nuova, la quale
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2. I n n ovazioni n e Il e d o t trine fisiche d e 11' a ntica Stoa A giudicare dalle testimonianze pervenuteci, non sembra che Panezio si sia occupato di problemi logici, né che abbia sistematicamente ripensato tutti i problemi della fisica. In questo ambito, tuttavia, egli ha apportato alcune correzioni ai dogmi della Scuola, che sono di un certo rilievo. Probabilmente per sfuggire alle critiche scettiche, Panezio abbandonò il dogma della conflagrazione universale e accolse l'idea peripatetica dell'eternità del mondo 4 • Naturalmente, questo doveva comportare, di riflesso, il ridimensionamento di alcuni dei principali concetti fisici. Il mondo non poteva più essere inteso come un grande essere vivente che nasce, si sviluppa e poi muore; quindi la fondamentale concezione vitalistica dell'antica Stoa doveva mutare significato. E, negata l'ekpyrosis, cambiava anche la funzione di Dio come fuoco artefice, giacché egli cessava di risolvere in sé e poi di rigenerare da sé tutte le cose periodicamente; quindi la funzione di Dio finiva per diventare quella di reggitore più che non quella di artefice del cosmo 5 • Ma difficilmente Panezio dovette rendersi conto di queste implicanze che la neguione della ekpyrosis comportava, tanto più che egli dovette assumere in merito un atteggiamento piuttosto sfumato, talora negando a sua volta in età imperiale sarà sostitUita da un mutato atteggiamento dello spirito: e perciò possiamo parlare di un periodo di mezzo nella storia della Scuola. In esso troviamo presenti le correnti più diverse. Ecco perché faremo meglio .ad evitare il termine "Media Stoa" » (La Stoa, I, p. 388). Ma, come è evidente, quanto il Pohlenz concede è più che sufficiente a motivare il mantenimento della denominazione introdotta dallo Schmekel, tanto più che l'espressione "periodo di mezzo della Stoa", preferita dal Pohlenz, vuoi dire, in ultima analisi, la stessa cosa. • Cfr. van Straaten, frr. 64-69. 5 Cfr., a questo propòSito, le interessanti osservazioni di B. N. Tatakis, Panétius de Rhodes, le fondateur du moyen sto'icisme, sa vie et son oeuvre, Paris 1931, pp. 102-110.
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PANEZIO
l'ekpyrosis, talora, invece, limitandosi a sollevare dubbi circa la medesima 6 • Anche nei confronti della mantica, cosi cara all'antica Stoa, Panezio assunse un atteggiamento critico, che le testimonianze pervenuteci talora ci dicono essere di netto rifiuto 7 , talora di guardingo dubbio 8 • Anche questa presa di posizione doveva avere ripercussioni non lievi sui principi; in particolare, essa comportava, se non la negazione, almeno una notevole attenuazione della convinzione della vecchia Stoa secondo cui ogni evento è strutturalmente legato con tutti gli altri, di guisa che ciascuno ha ripercussioni su tutti gli altri e viceversa 9 • Infine, in questo stesso ordine di pensieri si colloca anche la recisa negazione di Panezio dell'astrologia 10 , la quale doveva analogamente ridimensionare il concetto stoico del Destino. 3.
Dottrine psicologiche
Anche nella psicologia Panezio apportò sensibili innovazioni, sotto l'influsso sia di Aristotele, sia, anche, di Platone 11 • In primo luogo, sembra che egli abbia ·accentuato le distinzioni fra la componente puramente fisica dell'uomo (physis) e l'anima (psyché). Alla componente fisica egli assegnò le funzioni puramente biologiche della nutrizione, della crescita, della riproduzione e gli impulsi a queste connessi; all'anima egli assegnò i cinque sensi e l'egemonico. (Pertanto le • Cfr. van Straaten, frr. 64 e 69. 7 Cfr. van Straaten, frr. 68 e 73. • Cfr. van Straaten, frr. 70 e 71. • Cfr. Tatakis, Panétius ... , pp. 110 sgg. •• Cfr. van Straaten, fr. 74. " Sulla psicologia di Panezio si veda Tataki11, Panétius... , pp. 120 sgg.; e Rist, Stoic Philosophy, pp. 179-186.
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IL MEDIO STOICISMO
« parti » dell'anima da otto vengono ridotte a sei - i cinque sensi appunto, più l'egemonico -; la funzione della riproduzione viene tolta all'anima e assegnata alla componente fisica e la fonazione non viene più concepita come funzione di una parte a sé stante dell'anima 12 ). Inoltre, egli contrappose, nell'anima, i cinque sensi all'egemonico e, soprattutto, all'interno dell'egemonico egli ammise due forze pure contrapposte fra loro, l'irrazionale e la ragione. Riferisce Cicerone:
Due sono le forze naturali dell'animo: la prima consiste nell'appetito, che in greco si dice ormé, che trascina l'uomo da una parte e dall'altra; l'altra consiste nella ragione, che insegna e spiega che cosa si debba fare e che cosa si debba evitare 13 • E ancora: I moti dell'animo sono di due specie: alcuni sono propri della ragione, altri dell'appetito; la ragione si esplica soprattutto nella ricerca del vero, l'appetito spinge ad agire 14 •
Questa distinzione è evidentemente introdotta per dar ragione dei conflitti morali, che, con la sua psicologia rigidamente razionalistica, la vecchia Stoa non riusciva a spiegare. A fondamento di questa distinzione fra forze irrazionali e forze razionali dell'a>nima sta una conce:z;ione che rileva e accentua la natura composta dell'anima. L'anima è costituita da due elementi, vale a dire dall'aria e dal fuoco 15 • Le forze irrazionali dipendono dall'aria, le razionali dal fuoco. È ovvio quindi che Panezio non poteva seguire Platone e Aristotele nella concezione dell'immortalità dell'anima. Egli, infatti, ragiona nel modo seguente. L'anima nasce, e quindi deve anche morire: infatti è necessario che tutto ciò che 12 13 14 15
Cfr. van Straaten, frr. 84-86 a. Cicerone, De officiis, I, 28, 101 ( = van Straaten, fr. 87). Cicerone, De ofliciis, I, 36, 132 ( = van Straaten, fr. 88). Cfr. Cicerone, Tusc. disput., I, 18, 42 ( = van Straaten, fr. 82).
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PANEZIO
nasce muoia. Inoltre essa è soggetta ad affezioni e a patimenti, e, come tutto ciò che è soggetto a patimenti, è corruttibile, e pertanto è impensabile una sua sopravvivenza eterna 16 • Ma, per capire l'immortalità, Panezio avrebbe dovuto riguadagnare il concetto di spirituale e di soprasensibile e avrebbe dovuto capire che l'anima è appunto una entità spirituale e soprasensibile. Invece egli la concepisce come aria infuocata e spiega la morte come uno spegnetsi del fuoco e un raffreddarsi del pneuma. Smarriti i guadagni della « seconda navigazione», come ben sappiamo e come continuamente veniamo puntualmente riconfermando, a livello concettuale l'immortalità dell'anima non ha senso. Il cosiddetto « dualismo » della psicologia paneziana è un dualismo che non va molto oltre l'antitesi di freddo e caldo (aria e fuoco): è cioè un dualismo risucchiato per intero nel dogma del monismo materialistico di fondo. 4.
E ti c a e p o l i t i c a
La notevole esperienza degli uomini, più ancora che la convinzione che l'anima e il corpo sono strettissimamente legati, suggerl a Panezio una rivalutazione degli « indifferenti ». Riferisce espressamente Diogene Laerzio: Panezio e Posidonio sostengono [ ... ] che la virtù non è suf•• Cicerone, Tusc. disput., 1, 32, 79 ( = van Straaten, fr. 83 ). Il passo ciceroniano, per la verità, non dice che Panezio abbia sostenuto la tesi che l'anima muore immediatamente insieme col corpo. R. Hoven, nel recente già citato lavoro Stolcisme et Sto"iciens face au problème de l'au-delà, pp. 51 sgg., ritiene che Panezio possa aver professato la medesima dottrina dell'antica Stoa. Infatti Cicerone lo contrappone a Platone, non agli altri Stoici, ed è in questa contrapposizione che assume un senso specifico la tesi di Panezio. (In altri termini: se paragonata con la tesi platonica, anche la tesi della vecchia Stoa circa l'anima risulta affermare la mortalità dell'anima). In ogni caso, per Panezio non dovette avere molta importanza quando l'anima muoia; egli dovette insistere soprattutto sul fatto che muoia.
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IL MEDIO STOICISMO
fidente, ma che occorrono anche buona salute, abbondanza di mezzi di vita e forza 17• Per la verità, questa è un'idea già sostenuta, come abbiamo visto, da Aristotele nell'Etica a Nicomaco 18 • P~mezio non intendeva con ciò intaccare il grande principio della Stoa, che l'autentico bene dell'uomo è la virtù, cioè il bene morale; egli voleva piuttosto realisticamente richiamare l'attenzione sul fatto che, se quelle cose, quando siano possedute, agevolano la virtù, e, quando non siano possedute, la ostacolano, allora non possono essere considerate puramente indifferenti. Ma, a parte le intenzioni dell'autore, questa risulta una posizione di compromesso, che non poteva non scuotere la purezza della originaria posizione stoica, e non incrinare l'affermazione dell'assolutezza del bene morale. In base a quanto ora s'è detto, ben si spiega l'atteggiamento critico che Panezio assunse nei confronti del saggio, o meglio del mito stoico del saggio. Seneca ci riferisce che, richiesto da un giovane se il saggio potesse o no amare, rispose: Del saggio parleremo un'altra volta: per ora diciamo che io e tu, che dal saggio siamo ancora lontani, dobbiamo stare attenti a non !asciarci prendere da una passione agitata e violenta che ci asserve ad altri ed è assolutamente spregevole per se stessa 19 • Orbene, quell'espressione ~<del saggio parleremo un'altra volta » significa: quel tal saggio, di cui tanto si parla, non esiste; perciò non occupiamocene, occupiampci di noi, di noi uomini come siamo, di noi che aspiriamo alla saggezza, ma saggi in quel senso assoluto non siamo né potremo mai essere. 17 Diogene Laerzio, vn, 128 ( = van Straaten, fr. 110 [traduzione di M. Gigante]). 11 Cfr. il volume precedente, p. 355. " Seneca, Epist., 116, 5 ( = van Straaten, fr. 114 [traduzione di B. Giu· li ano, con lievi ritocchi] ).
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PANEZIO
E cosl si spiega perfettamente come il nostro filosofo abbia posto tutto il suo interesse non già nello studio delle azioni perfette, cioè dei katorthomata, ma nello studio dei doveri, dei kathekonta, delle azioni intermedie, e come proprio l'opera Sui doveri sia stata il suo capolavoro. Di quest'opera, purtroppo andata perduta, possiamo ricostruire alcune dottrine fondamentali attraverso il De olficiis di Cicerone, che di quella è imitazione 20 • Anche nella determinazione delle virtù Panezio si scostò in parte dall'antica Stoa. Egli sembra riprendere la distinzione fra virtù teoretica e virtù pratica, ma senza rifarsi ai moduli aristotelici. Virtù teoretica è il sapere, virtù pratiche sono: la giustizia, la grandezza d'animo e la temperanza 21 • Queste virtù si impiantano su quattro tendenze fondamentali dell'uomo: il desiderio di puro sapere, il desiderio di conservare sé e la comunità, il desiderio di non dipendere da nessuno e da nulla, il desiderio di moderazione. Le virtù sono, precisamente, l'attuazione e l'esplicazione di questi desideri conformemente a ragione 22 • Panezio non tematizzò la superiorità della virtù pratica su quella teoretica, come farà invece Cicerone, sfruttando la stessa impostazione paneziana 23 • Tuttavia egli valorizzò la vita pratica, portò nella Stoa un vivo senso della socialità e un forte senso dello Stato, che aveva assorbito dai Romani, e, in qualche modo, corresse anche il vago cosmopolitismo dei predecessori. 5. Ripudio dell'apatia
Un punto ancora del pensiero di Panezio va rilevato, e precisamente la negazione dell'apatia. Era una negazione, que:ao Almeno - pare certo - nei primi due h"bri. •• Cfr. Cicerone, De officiis, I, .5, 1.5-17 ( van Straaten, fr. 103). 22 Cfr. Cicerone, De officiis, I, 4, 11-14 ( van Straaten, fr. 98). 22 Cfr. Cicerone, De officiis, I, 1.52 sgg.
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IL MEDIO STOICISMO
sta, che probabilmente portava ai limiti di rottura con lo spirito stoico. Come si spiega? Epicuro aveva predicato l'aponia e l'atarassia; gli Stoici antichi l'apatia; e l'apatia aveva predicato anche Pirrone. Erano uomini, questi, che avevano vissuto il crollo degli ideali di un'intera età e che vedevano o credevano di vedere solo distruzioni attorno a sé e, pertanto, in quell'atteggiamento etico trovavano l'unko mezzo di difesa dell'io, che doveva chiedere tutto solo a sé. Panezio .vide invece, a Roma, come abbiamo già detto, rivivere gli antichi ideali civici; vide la realtà dello Stato forte e vitale; vide uomini agire e portare a giusto fine le loro azioni; vide che il successo può arridere anche al giusto. Egli stesso dovette compiacersi del proprio successo, a Roma e ad Atene. Per questo, e forse anche in conseguenza di un felice temperamento datogli da natura, egli senti di dover rompere quella « impassibilità » stoica, che è mortificazione della vita. Scrisse una prima opera per insegnare come affrontare e sopportare il dolore, fortificando il fisico e lo spirito e per mostrare come evitare che il dolore ostacoli il compimento del dovere. Ma, ciò che è più indicativo, scrisse un'opera dedicata addirittura all'euthumia, cioè alla contentezza e alla gioia di vivere: una gioia che scaturisce dal vivere in piena armonia con il dovere, ossia in pace con sé e con le cose 24 •
6. L' u m a n e s i m o d i della sua filosofia
P a n ezio
e
il
s i g n if i c a t o
Si è parlato più volte da parte degli studiosi di « umanesimo » paneziano, ed è certamente vero che Panezio rappresenta il momento umanistico dello stoicismo, per quanto ciò 04 Cfr. Pohlenz, La StOfl, 1, pp. 418 sg. e soprattutto A. Grilli, Il problema della vita contemplativa nel mondo greco-romano, Milano-Roma 19S3, pp. 137·161.
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PANEZIO
possa sembrare paradossale. Questo umanesimo, più che in qualsiasi altro punto della sua dottrina, è ben visibile nella correzione apportata alla formula della moralità « vivere secondo natura»;· formula che viene cosi trasformata: «vivere secondo le disposizioni dateci dalla natura » 25 • Il compito morale viene in questo modo personalizzato e quindi reso più umano, in quanto permette a ciascuno di realizzarsi in modo proprio, appunto a seconda delle differenti disposizioni poste in lui dalla natura 26 • In questo taglio più umano dello stoicismo e nella connessa valorizzazione dei « doveri » sta l'importanza storica di Panezio. Attraverso Panezio il concetto di « dovere » entra a Roma, e attraverso Cicerone, che lo riprende da Panezio, esso viene tramandato a tutto l'Occidente come una conquista spirituale definitiva 27•
• Oemente, Strom., II, 21, 129 ( = van Straaten, fr. 96). • Cfr., su questi punti, gli approfondimenti del Rist, Stoic Philosophy, pp. 186 sg. 71 Cfr. Tatakis, Panétius... , p. 226.
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II. IL MEDIO STOICISMO DI POSIDONIO
l.
La questione posidoniana
Il capitolo concernente Posidonio (sia nell'ambito della evoluzione del pensiero della Stoa, sia nel più vasto ambito dell'evoluzione del pensiero antico) è, oggi, certamente uno dei più problematici e difficili da scrivere. Ciò è dovuto a due ragioni di segno contrario che, messe insieme, rendono la ricostruzione del pensiero del filosofo di Apamea complessa all'inverosimile. In primo luogo, non possediamo più alcuna opera di Posidonio e i frammenti e le testimonianze in cui il nome del nostro filosofo sia espressamente menzionato non sono abbondanti e soprattutto non sono decisivi. Per contro, e specialmente da parte di studiosi di lingua tedesca, su Posidonio si è detto e scritto troppo: incredibilmente più di quanto le testimonianze sicure non permettano. Dapprima si pretese di considerare come direttamente ispirati al pensiero posidoniano il primo libro delle T usculane, il Somnium Scipionis di Cicerone e il De facie lunae di Plutarco e perfino il canto vr dell'Eneide 1• E anche quando queste tesi risultarono acritici presupposti, si continuò, anche da
1 Si vedano, a questo proposito, le indicazioni e le puntuali discussioni di K. Reinhardt nella monografia Poseidonios von Apameia der Rhodier genannt (pubblicata nella R.ealencyclopiidie der classischen Altertumswissen· schaft, Pauly-Wissowa, XXII, coll. 558-826 e anche disponibile come estratto [Stuttgart 1954]); cfr. coll. 570-624.
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POSIDONIO
parte di illustri studiosi, a considerare ispirati direttamente a Posidonio, e quindi frammenti di Posidonio, numerosi passi di filosofi ellenistico-romani, per la sola ragione che quanto in essi era contenuto corrispondeva ad aprioristiche ricostruzioni del suo pensiero 2 • Risultato di tutto questo è un bilancio poco confortante: sono mancate fino a poco tempo fa edizioni metodicamente corrette dei frammenti genuini 3 e sono mancate, per conseguenze, ricostruzioni del profilo spirituale del nostro autore capaci di raccogliere unanimi consensi 4 • · Nel nostro &ecolo sono state, bensl, pubblicate opere di vasto respiro e di larga risonanza sul nostro filosofo; tuttavia le tesi che vi sono sostenute, più brillanti e fantasiose che non storicamente e solidamente fondate, sono ormai cadute in discredito. Cosi sono state denunciate le debolezze della tesi dello Jaeger, che vorrebbe vedere in Posidonio il precursore del neoplatonismo e il creatore del concetto di « intermediario » 5 ; sono stati messi in rilievo gli apriorismi e la arbitrarietà interpretative dei poderosi lavori di Reinhardt, che disegnarono la suggestiva immagine di un Posidonio creatore di una filosofia vitalistica imperniata sul concetto di vis vitalis e di simpatia cosmica 6 e, analogamente, non hanno trovato molto ere• Si veda M. Laffranque, Poseidonios d'Apa111ée, Paris 1964, cap. 1, pp. 1-44, dove si trova lo status quaestionis. Cfr. inoltre: J,F. Dobson, T be Posidoniu'S Myth, in « Classical Quarterly ,., 12 (1918), pp. 179 sgg. • La vecchia edizione di J. Bake (1810) è stata finalmente sostituita da quelle di L. Edelstein e I.G. Kidd, Posidonius, vol. 1, The Fragments, Cambridge University Press 1972 e da quella di W. Theiler, Poseidonios, Die Fragmente, 2 voli., W. De Gruyter, Berlin-New York 1982. (li secondo volume contiene un commentario assai nutrito). • Cfr. Rist, Stoic Philosophy, p. 201. ' W. Jaeger, Nemesios von Emesa, Quellenforschungen zum Neuplatonismus und seinen Anfiingen bei Poseidonios, Berlin 1914. • K. Reinhardt, Poseidonios, Miinchen 1921; Id., Kosmos und Sympathie, Neue Untersuchungen uber Poseidonios, Miinchen 1926; Id., Poseidonios uber Ursprung und Entartung, Heidelberg 1928 (Orient und Antike, 6); Id., Poseidonios von Apameia, citato alla nota l.
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IL MEDIO STOICISMO
dito i lavori dello Heinemann 7 • Ed è un vero peccato che il Pohlenz, nella sua bella sintesi sulla Stoa, abbia non solo accettato Reinhardt, ma addirittura abbia cercato di ulteriormente inverarlo, compromettendo questo capitolo della sua opera 8 • Il lettore ha coslla sorpresa, quando controlla le fonti a cui Pohlenz rimanda, di non trovarvi quasi mai menzionato il nome di Posidonio, e eli non trovare, spesso, nemmeno spiegato dal Pohlenz come o perché una data fonte vada riferita a Posidonio 9 • Fortunatamente su molti di questi equivoci ha gettato luce il recente ampio e documentatissimo lavoro di Marie Laffranque 10 , la quale ha richiamato con molta fermezza gli studiosi alla necessità di limitarsi a quei soli frammenti in cui Posidonio sia citato espressamente per nome, e ha tentato di ricostruire il nuovo profilo del filosofo che per conseguenza ne emerge 11 • Dal punto di vista critico, il lavoro della Laffranque è risultato di importanza decisiva; meno convincente è risultata invece la ricostruzione positiva del profilo spirituale di Posidonio, che la studiosa offre. Ma, per questa, occorre, in ogni ceso, attendere i frutti che matureranno dalle nuove edizioni sistematiche dei frammenti di Edelstein-Kidd e di Theiler. La ricostruzione sintetica che tracceremo è, dunque, da considerarsi necessariamente provvisoria.
7 I. Heinemann, Poseidonios' metaphysische Schriften, 2 voli., Breslau 1921 e 1928 (riproduzione anastatica, Hildesheim 1968). • Pohlenz, La Stoa, I, pp. 421-493.
• E paradigmatica, a questo riguardo, la raccolta di frammenti, in traduzione tedesca, compilata dal Pohlenz, Stoa und Stoiker: Die Grunder, Panaitios, Poseidonios, Ziirich 1950, pp. 257-357. 10 Vedi 59pra, nota 2. 11 L'acritico criterio secondo cui troppo spesso gli studiosi si sono regolati è cosl riassunto, schematicamente, dalla Laffranque: «Qui c'è un'influenza non identificata, qui c'è traccia di un autore sconosciuto; forse è un autore stoico; o piuttosto della Media Stoa. E chi sarà costui, 1e non Posidonio? » (Poseidonios, p. 7).
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POSIDONIO
Caratteristiche donio 2.
dello
stoicismo
di
Posi-
Posidonio 12 prosegui il nuovo corso che il maestro Panezio impresse alla Stoa; tuttavia non gli successe in qualità di scolarca nella direzione della Stoa, ma preferl aprire una Scuola a Rodi, forse per desiderio di maggiore indipendenza o per altri motivi che ci sfuggono. Posidonio condivise l'idea fondamentale del maestro che è poi quella che contribui in modo decisivo a creare la nuova temperie della Stoa - secondo cui la verità non era necessariamente ed esclusivamente racchiusa nei dogmi del Portico, e che, dunque, potevano venire dagli insegnamenti delle altre Scuole opportune integrazioni e correzioni ai dogmi stoici. Posidonio apri quindi il Portico agli influssi platonici e anche aristotelici, e non esitò a correggere Crisippo con Platone, pur tenendo ferma la visione di fondo della vita che era propria della Stoa. Forse Posidonio risenti anche degli influssi dell'Oriente: la sua città natale, Apamea, in Siria, era situata in un punto 12 Posidonio nacque nella città orientale di Apamea, in Siria, fra il 140 e 130 a. C. (dr. i documenti in base ai quali si ricostruisce la data in Laffranque, Poseidonios, pp. 46 sg.). Compl i suoi studi ad Atene, dove divenne discepolo di Panezio. Nell'86 a. C. soggiornò a Roma, inviato dai Rodiesi come ambasciatore. Entrò in contatto coi circoli aristocratici romani con i quali intrattenne buoni rapporti. Delle date dei suoi viaggi in Oriente e in Occidente nulla sappiamo. Le imponenti conoscenze acquisite da Posidonio nei suoi studi e nei suoi vi11ggi, unite al suo fascino intellettuale e alla sua abilità di maestro, garantirono alla Scuola stoica di Rodi un successo che oscurò il Portico ateniese. I nobili Romani si diressero, per completare i loro studi, appunto a Rodi e non ad Atene. Nel 78/77 a. C. Cicerone frequentò le lezioni di Posidonio. Nel 67 e nel 62 lo visitò Pompeo. Morl poco dopo il 51 a. C. Della sua imponente opera di storico, di scienziato e di filosofo, come già abbiamo detto, non ci restano che frammenti. Dei titoli delle opere di Posidonio citate dagli autori antichi si veda l'elenco in Laffranque, Poseidonios, pp. 100 sg.; per una puntuale e ampia ricostruzione di tutto ciò che possiamo sapere sulla vita e sulla formazione di Posidonio, cfr. sempre la Laffranque, pp. 45-97.
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IL MEDIO STOICISMO
di confluenza di due civiltà. ~ certo, in ogni caso, che egli si formò nella cultura occidentale, specialmente ad Atene 13• Ma il nostro filosofo non si accontentò di ascoltare le lezioni dei maestri e di leggere libri; egli volle conoscere luoghi, paesi, uomini, usi e costumi diversi e viaggiò moltissimo sia in Oriente sia in Occidente, tanto che viene, e a ragione, considerato il più grande esploratore dell'antichità. Viaggiò in Asia Minore, in Palestina, in Egitto, in Italia, in Gallia, in Spagna 14• Fu altresl instancabile e formidabile studioso di scienze empiriche: si occupò di geografia, di etnologia, di matematica, di astronomia, di meteorologia, di storia. Del significato di Posidonio scienziato diremo per ultimo; ora cerchiamo di individuare i punti principali in cui il filosofo corresse i dogmi speculativi del Portico.
3.
Fisica
Nel leggere alcune testimonianze concernenti la fisica. e la teologia di Posidonio, si ha, di primo acchito, l'impressione che il filosofo non abbia mutato i dogmi di fondo della Scuola. Ario Didimo riferisce: Posidonio affermò che la sostanza e la materia dell'universo è priva di qualità e informe, in quanto per se stessa non ha né una propria figura determinata, né qualità, ma è sempre in una figura e in una qualità. La sostanza, che è realmente, differisce dalla materia solo logicamente 15 • In questa testimonianza il monismo e l'unità antologica dei principi passivo e attivo sono rigorosamente affermati. Del " Or. Laffranque, Poseidonios, pp. 49 sgg. •• Per i viaggi di Posidonio cfr. Laflranque, Poseidonios, pp. 78 sgg. •• Ario Didimo, fr. 20 ( = Diels, Doxographi graeci, p. 458, 8 sgg. = Edelstein...Ki.dd, fr. 92 = Theiler, fr. 267 [traduzione di L. Torraca].
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POSJDONJO
tutto convergente è la testimonianza di Stobeo: Posidonio ritiene dio un pneuma intelligente e igneo, privo di una forma, ma capace di trasformarsi in ciò che vuole e di rendersi simile ad ogni cosa 16• In questa testimonianza è messo in evidenza, per quanto concerne il principio attivo, quello che nella precedente testimonianza vien rilevato relativamente al principio passivo. Ma l'impressione muta non appena si prendano in considerazione altre testimonianze, solo di recente spiegate in modo adeguato. Riferisce Aezio: Posiàonio assegnava al Fato il terzo posto dopo Zeus. Diceva infatti che al primo posto viene Zeus, al secondo la Natura e al terzo il Fato 17 • Orbene, sappiamo che la dottrina codificata della Stoa identificava, invece, Dio, Natura e Fato 18 • In che senso, dunque., Posidonio li ha divisi? Il Rist 19 ha di recente richiamato, in connessione al frammento letto, alcuni passi di Diogene Laerzio, che lo potrebbero chiarire. Dice Diogene: Il cosmo è ordinato e diretto da mente e provvidenza, come dice Crisippo nel quinto libro Della Provvidenza e Posidonio nel terzo Degli dei, in quanto la mente penetra in ogni parte del cosmo, come l'anima in noi. Ma in alcune parti penetra di più, in altre di meno. In alcune parti infatti penetra come capacità e facoltà (I~L~). come le ossa e i nervi; in altre come vera e propria mente, come la parte principale e guida dell'anima. Cosl l'intero cosmo, in quanto vivente e animato e razionale, ha il suo principio guida " Aezio, Plac., 1, 7, 19 ( = Diels, Doxograpi graeci, p. 302, 22 sgg. = Edelstein-Kidd, fr. 101 = Theiler, fr. 349 [traduzione di L. Torraca]. " Aezio, Plac., I, 28, 5 ( = Diels, Doxograpbi graeci, p. 324, 11 sgg. = Edelstein-Kidd, fr. 103 = Theiler, fr. 382 a [traduzione di L. Torraca]. Il ar. von A,rnim, S. V.F., II, frr. 912 sgg. " ar. Rist, Stoic Philosophy, pp. 202 sgg.
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nell'etere (secondo Antipatro di Tiro nell'ottavo libro Del cosmo), nel cielo (secondo Crisippo nel primo libro Della provvidenza e Posidonio nell'opera Degli dèi), nel sole (secondo Cleante) 211• Sempre Diogene ci informa: Il cosmo è uno solo e finito ed è di forma sferica, perché una tal forma è la più adatta al movimento, come afferma Posidonio nel quinto libro della Fisica 21 • Infine, Diogene scrive: Posidonio nel terzo libro Dei fenomeni celesti dimostra che la superficie esiste non solo nel pensiero, ma anche nella realtà 22• Da questi passi si potrebbe desumere che Posidonio identificasse Dio col cielo, e precisamente con la superficie sferica che circonda il cosmo, dato che questa è una realtà fisicamente e non solo concettualmente individuata (come si può desumere dall'ultimo dei passi letti). Di questa esegesi il Rist 23 indica una riconferma in un passo di Plutarco, da cui si può desumere che Posidonio. identificava l'anima del mondo con la forma (idea) del mondo 24• Se cosi fosse, allora Dio si identificherebbe con il cielo, cioè col principio attivo, che è l'anima del mondo; la Natura col principio passivo, cioè col principio materiale, o meglio con il corpo del mondo; il Fato corrisponderebbe, invece, a quella che Platone chiamava causa errante o necessità del principio materiale 25 • Per conseguenza, sarebbe presente in 20 Diogene Laerzio, VII, 138 sg. ( = Edelstein-Kidd, frr. 21, 23 = Theiler, frr. 345, 347 [traduzione di M. Gigante]). 21 Diogene Laerzio, vu, 140 ( =Edelstein-Kidd, fr. 8 = Theiler, fr. 260) 22 Diogene Laerzio, VII, 135 ( =Edelstein-Kidd, fr. 16 = Theiler, fr. 311). 21 Rist, Stoic Philosophy, pp. 205 sgg . .. Cfr. Plutarco, De an. procr. in Tim., 22, 1023 b ( = Edelstein-Kidd, fr. 141 a = Theiler, fr. 391 a). 25 ·In tal caso, però, il Fato non si identificherebbe più con la Provvidenza, la quale però continua a coincidere, anche per Posidonio, con Dio. Cfr., a questo riguardo, Laffranque, Poseidonios, pp. 329 sgg.
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POSIDONIO
Posidonio una tendenza a distinguere Dio dal mondo, nella misura, almeno, in cui il materialismo di fondo lo permette~ Per quanto riguarda i concetti di vis vitalis e di simpatia abbiamo già detto che il Reinhardt ne ha indebitamente ingrandito il significato e la portata: infatti essi erano già un patrimonio dell'antica Stoa. Posidonio ritiene tutto il cosmo vivente, come lo ritenne l'antica Stoa, fa uso del concetto di simpatia per spiegar~ alcuni fenomeni, come le maree e come la divinazionF; tuttavia è lungi dal giungere a una intuizione vitalistica in senso moderno e a uno sfruttamento radicale della simpatia: i frammenti rimastici, per lo meno, sono lungi dal suffragare la tesi reinhard tiana 26 •
4.
Antropologia e morale
Sulle orme di Panezio, Posidonio continuò e approfondl. la polemica contro la psicologia di Crisippo, che aveva negato, come ben sappiamo, l'esistenza di una componente arazionale nell'anima ed aveva ridotto la passione ad un puro errore di giudi2lio della ragione. Ma, se cosl fosse, il tumulto delle passioni nell'animo umano rimarrebbe inspiegabile. Posidonio non esita pertanto a rifarsi alla psicologia di Platone e ad affermare la tripartizione dell'anima umana, ammettendo, accanto all'anima razionale, l'anima appetitiva e l'anima irascibile. Più che di « parti », Posidonio parla di « forze ». Ma la correzione più vistosa di Platone è data dalla materializz·azione dell'anima: egli, infatti, secondo la dottrina stoica, fa provenire queste forze dal cuore 77 •
"' Cfr. anche Pohlenz, La Stoa, I, pp. 438 sgg., che dà una interpretazione del tutto simile a quella del Reinhardt; del Reinhardt si veda Kosmos und Sympathie, passim. ~ Cfr. Laffranque, Poseidonios, p. 429.
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IL MEDIO STOICISMO
Posidonio si vieta coslla comprensione dell'essenziale significato metafisico della dottrina platonica dell'anima. Tuttavia, la tesi platonica delle tre forze dell'anima gli giova per interpretare l'agire umano in modo più corretto di Crisippo. Sollecitate dai sensi, la forza appetitiva e la forza irascibile dell'anima possono distorcere la ragione e indurla a dare assensi indebiti, e perciò possono deviarla dal giusto telos e farla errare. Per conseguenza, il compito dell'uomo resta meglio determinato: egli deve rafforzare la sua ragione, che è il demone buono, in modo da poter vincere e dominare sempre le forze irrazionali, che sono il demone cattivo che alberga in lui. Scrive Posidonio in riferimento a Crisippo, come ci testimonia Galeno: « La causa delle passioni e cioè di una vita incoerente e infelice, è il non seguire in tutto il demone che le è congenito e che ha la stessa natura di chi regge tutto l'universo, ma il lasciarsi trasportare declinando assieme a quello peggiore e dallo aspetto animalesco. Ma quelli [scil.: i seguaci di Crisippo] trascurando ciò non danno in questo campo una ragione migliore delle passioni, né rettamente pensano su ciò che riguarda la felicità e l'accordo con la natura. Infatti non vedono che la prima cosa in essa è il non lasciarsi trasportare da ciò che di irrazionale, malefico ed ateo vi è nell'anima». Cosi Posidonio mostrò chiaramente fino a che punto Crisippo ed i suoi errano ragionando non solo delle passioni, ma anche del fine. Non infatti come quelli dicono, ma come insegnò Platone, è il vivere secondo natura 28 •
Vivere secondo natura significa seguire la ragione, la quale è della medesima natura del principio che regge l'universo, e per questo è qualificata divina, ed è detta il Demone buono in noi; significa dominare l'irrazionale, che è l'opposto della ragione e perciò viene qualificato come l'elemento malefico e ateo, il Demone cattivo.
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21 Galeno, De plac. H i pp. et Plat., v, 6, p. 448 ( = von Arnim, S.V.P., fr. 460 = Edelstein-Kidd, fr. 187 = Theiler, fr. 417).
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POSIDONIO
Come nella teologia, anche nella psicologia posidoniana si profila un certo dualismo, peraltro infondato ontologicamente, stante la concezione materialistica dell'anima. È bensl vero che Seneca riferisce questa affermazione di Posidonio: La più alta attività che l'uomo deve svolgere è la virtù: ma aà essa si attacca la carne inutile e corruttibile, come dice Posidonio, buona solo a ricevere cibi 29 •
Tuttavia non possiamo dare troppo peso a tale affermazione. Infatti vale quanto nota la Laffranque: «O Posidonio parafrasa un altro autore, per esempio Platone, oppure, a rigore, Crisippo; o essa non esprime che una figura di stile, una antitesi destinata a sottolineare la differenza, così grande in effetti nella sua concezione, fra l'egemonico e tutto il resto dell'uomo» 30 • Una riprova di questo si può desumere anche dal fatto che Posidonio enumerò fra i beni alcuni «indifferenti». Riferisce Diogene: Come infatti proprietà del. caldo è riscaldare, non raffreddare, cosl anche proprietà del bene è giovare, non danneggiare; la ricchezza e la salute offrono più danno che vantaggio, dunque né la ricchezza è un bene, né la salute. Inoltre essi dicono che non è un bene ciò di cui si può fare buono e cattivo uso; poiché sia della ricchezza sia della salute si può fare uso buono e cattivo, né la ricchezza è un bene né la salute. Posidonio tuttavia enumera anche queste ultime tra i beni 31 •
E un poco oltre: Panezio e Posidonio sostengono tuttavia che la virtù non è sufficiente, ma che occorrono anche buona salute, abbondanza di mezzi di vita, e forza 32 • 29 Seneca, Epist., 92, 10 ( = Edelstein-Kidd, fr. 184 = Theiler, fr. 449 [traduzione di B. Giuliano]). · 30 Laffranque, Poseidonios, p. 431. 31 Diogene Laerzio, VII, 103 ( = Edelstein-Kidd, fr. 171 = Theiler, fr. 425 a). 32 Diogene Laerzio, vii, 128 ( = Edelstein-Kidd, fr. 173 = Theiler, fr. 425 c).
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IL MEDIO STOICISMO
Qui Posidonio segue evidentemente Aristotele, adottando lo stesso punto di vista del suo maestro Panezio che abbiamo illustrato sopra: salute, vigoria e simili sono beni, in quanto sono condizioni che favoriscono l'esercizio della virtù. Questa rivalutazione degli « intermedi », tuttavia, non si spinge fino ad intaccare il grande principio stoico che solo il bene morale è H vero e supremo bene ·e che il dolore fisico non è vero male, come risulta dalla celebre testimonianza di Cicerone, che riportiamo: Posidonio l'ho visto anch'io parecchie volte di persona, ma voglio riportare di lui quello che raccontava Pompeo. Ritornava dalla Siria, Pompeo, e quando arrivò a Rodi volle andare a sentire Posidonio. Gli dissero che era molto grave - aveva un violento attacco di artrite - però lui volle andare a trovarlo ugualmente, quel grandissimo filosofo. Quando fu arrivato da lui e l'ebbe salutato, gli fece i suoi elogi e gli disse che gli dispiaceva di non poterlo sentire. Allora Posidonio: «no, no: non permetterò mai che, per colpa di un dolore fisico, un uomo come te abbia fatto la strada per niente». E cosl Posidonio disteso sul letto, raccontava Pompeo, discusse con profondità ed eloquenza appunto la tesi che non c'è nessun bene all'infuori del bene morale; e nei momenti in cui il dolore era più cocente ripeteva: « tanto non la spunti, dolore! Sei gravoso, sl, ma non ammetterò mai che sei un male » 33 •
5.
Le sorti dell'anima
Si è molto parlato di una escatologia posidoniana, di una derivazione dell'anima dal sole, e poi di un ritorno di essa, dopo la morte del corpo, prima alla luna, con fruizione di una specie di pura vita contemplativa, e poi al sole. Purtroppo si tratta di ricostruzioni fondate su indebite attribuzioni a 33 Cicerone, Tusc. disp., 11, 25, 61 ( = Edelstein-Kidd, test. 38 Theiler, test. 18 [traduzione di A. Di Virginio, con lievi ritocchi]).
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POSIDONIO
Posidonio di testimonianze in cui il nome del nostro filosofo non è affatto citato e che invece hanno altra origine 34 • Di certo c'è solo la- testimonianza di Cicerone: Che i moribondi siano dotati di qualità profetiche lo conferma Posidonio [ ... ] . Egli ritiene inoltre che i sogni si manifestino agli uomini, per influsso divino, in tre modi: in primo luogo perché l'anima da sola è capace di prevedere il futuro, in quanto legata da vincoli di parentela con la divinità; in secondo luogo perché nell'aria ha sede un numero infinito di anime immortali nelle quali sono, in certo qual modo, impresse le impronte della verità; da ultimo, perché gli dèi stessi scendono a parlare con gli uomini mentre dormono 35 • Questa concezione delle anime che sono nell'aria è conforme al credo della Stoa che ben conosciamo. La qualifica di immortale non può che voler dire di lunga vita. Infatti Posidonio, contro il maestro Panezio, reintroduce la conflagrazione cosmica 36 , e la durata delle « anime ·immortali » doveva in ogni caso, nel contesto del suo pensiero, terminare col grande anno, cioè con l'anno cosmico in cui ha luogo l'ekpyrosis. La presunta escatologia solare posidoniana, tra l'altro, contrasterebbe assurdamente col fatto che il nostro filosofo identifica Dio e il principio reggitore dell'universo non con il sole, come abbiamo visto, ma con l'ouran6s, con la sfera che circonda e racchiude il mondo.
34 Cfr. R. Miller Jones, Posidonius and Salar Eschatology, in «Classica! Philology », 27 (1932), pp. 113 sgg., e Laffranque, Poseidonios, pp. 519-527. 35 Cicerone, De divin., 1, 30, 64 ( = Edelstein-Kidd, fr. 108 = Theiler, fr. 373 a). 36 Diogene Laerzio, vn, 142, dice chiaramente che della genesi e della dissoluzione del cosmo Posidonio trattava nel primo libro Del cosmo. E da Aezio sappiamo che Posidonio sosteneva « che il vuoto esterno del cosmo non è infinito, ma quanto è sufficiente alla dissoluzione» (n, 9, 3, Diels, Doxographi graeci, p. 338, 18 sgg.); dr. Edelstein-Kidd, frr. 99 a, 97 a-b e Theiler, frr. 302 e 304.
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IL MEDIO STOICISMO
6. Conci u s ioni su P o s idonio Per comprendere appieno la figura di Posidonio, bisognerebbe mettere a punto anche i contributi da lui dati nell'ambito delle varie scienze; ma questo esulerebbe dagli ambiti della nostra opera, che si limita ai problemi filosofici. I contributi dati da Posidonio alle discipline storiche, geografiche, meteorologiche, matematiche il lettore li potrà trovare attentamente ricostruiti, per quanto lo permettano le testimonianze pervenuteci, nell'opera della Laffranque 'Zl • . Un rilievo essenziale va tuttavia fatto a questo proposito. Queste scienze particolari non furono coltivate da Posidonio, contrariamente a quanto ci hanno abituato a credere alcuni studiosi della Scuola tedesca, come momenti particolari di una grande costruzione teoretica e quasi a modo di inveramento empirico di un grande disegno filosofico 38 • Probabilmente, come emerge dallo studio della Laffranque, è vero il contrario; sono spesso le istanze scientifiche a dare una certa curvatura alla filosofia posidoniana o ad immettere in essa determinate istanze; in ogni caso resta certo che alcune di quelle scienze dovettero essere coltivate da Posidonio a livello squisitamente tecnico 39 • Forse la maggiore originalità filosofica di Posidonio consiste proprio nell'aver cercato di mettere la dottrina stoica al passo con il progresso che le scienze avevano compiuto dopo la fonda2ione del Portico 40 • E questo spiegherebbe il rapido declino della fama del filosofo, legata ad una situazione storica particolare. Già nel basso Medio Evo non si parla più di Posidonio; gli Arabi lo ignorano e l'età moderna non si occupa di lui. Solo i filologi e ~ Laffranque, Poseidonios, pp. 109-284. • Cfr. soprattutto Pohlenz, La Stoa, I, pp. 433 sg., 444 sgg., 493. 30 Laffranque, Poseidonios, passim . .., Laffranque, Poseidonios, pp. 516 sa.
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POSIDONIO
gli storici della filosofia degli ultimi due secoli lo hanno rimesso in primo piano nell'ambito della storia della cultura dell'età ellenistica. :S certo che Posidonio, come ormai tutti riconoscono, quanto a varietà di conoscenze e vastità di sapere, fu la mente più universale che la Grecia ebbe, dopo Aristotele. E dell'eccezionalità del personaggio i contemporanei ben si accorsero, tanto è vero che ad ascoltare le sue lezioni vennero a Rodi da tutte le parti della Grecia, e perfino da Roma: e vennero addirittura, come già abbiamo detto, personaggi come Cicerone e, per ben due volte, perfino il grande Pompeo.
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PARTE QUARTA
W SCETTICISMO E L'ECLETTISMO DALLE ORIGINI ALLA FINE DELL'ETA PAGANA
« 'E-rE'(i 3~ où3~ (3jLEV' iv (3u&cj) ycìp ~ ~~&Etct t.
«In realtà noi nulla conosciamo, perché la verità è nell'abisso ». Democrito (Diels-Kranz, fr. 117)
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SEZIONE PRIMA
LO SCETI'ICISMO PIRRONIANO E LO SCETI'ICISMO ACCADEMICO
•IL'Il3bJ 6ptl;e:w,
~'linpoc:r&e:n!v t.
«Non definire nulla, o piuttosto non aderire a nes· suna opinione ». Timone (Diels, fr. 80) t TiÀO~ 3~ ol c:rxmTIXO( q»otCJI -rljv in:ox-l)v, "fj CJXI(iç Tp67tOV motXOÀou&e:i -lj li-ror.por.f;(or. t.
« Il fine degli Scettici è la sospensione del giudizio, cui segue a guisa d'ombra l'imperturbabilità».
Diogene Laerzio,
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IX,
107
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I. LA SCEPSI MORALE DI PIRRONE E IL PIRRONISMO
l.
Nascita del movimento scettico
Prima ancora che Epicuro e Zenone fondassero le loro Scuole, Pirrone, dalla nativa città di Elide, a partire dal 323 a. C. (o poco dopo), diffondeva il suo nuovo verbo scettico, e dava cosl inizio ad un movimento di pensiero destinato ad avere notevoli sviluppi nel mondo antico, e anzi destinato, cosl come il Giardino e la Stoa, a creare un nuovo modo di pensare e un nuovo atteggiamento spirituale che nella storia delle idee dell'Occidente resteranno dei punti fissi di riferimento 1• Pirrone non fondò una vera e propria Scuola,
' Pirrone nacque ad Elide, forse fra il 365 e il 360 a. C., nella città in cui Pedone aveva fondato una Scuola socratica di cui abbiamo sopra parlato (cfr. vol. I, pp. 427 sgg. e vol. III, pp. 80 sgg.). All'inizio visse una vita povera ed esercitò, per vivere, la pittura. Poi passò alla filosofia, ascoltando, dapprima, maestri delle Scuole socratiche, specie della Scuola megarica, e, poi, Anassarco di Abdera, che gli fece conoscere Democrito. Insieme ad Anassarco, Pirrone prese parte alle spedizione di Alessandro in Oriente (334-324 a. C.): un avvenimento, questo, che dovette incidere profondamente nel suo animo, come vedremo. Intorno al 324/323 a. C., Pirrone tornò ad Elide, dove visse e insegnò la sua nuova visione della vita, con successo. Mori fra il 275 e il 270 a. C. Egli non scrisse nulla (eccetto un carme in onore di Alessandro). Fortunatamente già il suo discepolo Timone fissò in scritti le dottrine pirroniane, e a Timone attinsero gli antichi. • Tutte le testimonianze antiche su Pirrone sono state raccolte, tradotte ed egregiamente commentate da F. Decleva Caizzi, Pirrone, Testimonianze, Bibliopolis, Napoli 1981. ! questo, oggi, lo strumento più prezioso per lo studio del nostro filosofo. Su Pirrone e lo scetticismo cfr. V. Brochard, Les Sceptiques grecs, Paris 1953' (1887', 1923'); A. Goedeckemeyer, Die Geschichte
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LO SCETTICISMO PIRRONIANO E LO SCETTICISMO ACCADEMICO
non raccolse discepoli e non volle neppure fissare negli scritti la sua parola. Volle invece riprendere l'esempio di Socrate, convinto che attraverso la parola e anzi nemmeno attraverso la parola, ma soprattutto attraverso la testimonianza della vita si dovesse e si potesse comunicare il più autentico messaggio della saggezza filosofica. I suoi discepoli si legarono a lui al di fuori degli schemi tradizionali; più che di veri e propri discepoli, si trattò di estimatori, di ammiratori e di imitatori: si trattò di uomini che nel maestro cercarono soprattutto un nuovo modello di vita, un paradigma esistenziale cui fare costante riferimento, una prova sicura che, malgrado i tragici eventi che sconvolgevano i tempi, malgrado il crollo dell'antica tavola dei valori etico-politici, la felicità e la pace dello spirito erano tuttavia raggiungibili, anche se si riteneva impossibile costruirne e proporne una nuova. Proprio in questo sta la novità che contraddistingue il messaggio di Pirrone non solo, ovviamente, da quello dei filosofi precedenti, i quali miravano alla soluzione di altri problemi, ma altresl da quello dei filosofi della sua epoca, dai fondatori del Giardino e del Portico, i quali miravano alla soluzione dello stesso problema di fondo, ossia il problema della vita: sta nella convinzione che sia possibile vivere « con arte » una vita felice, anche senza la verità e senza i valori, almeno cosi come erano stati concepiti e venerati in passato. Il Giardino e il Portico, che sorsero pochi lustri dopo, quando già
des griechischen Skeptizismus, Leipzig 1905 (Aalen 1968); L. Robin, Pyrrhon et le scepticisme grec, Paris 1944; M. Dal Pra, Lo scetticismo greco, Milano-Roma 1950 (2" edizione, in 2 voli., Laterza, Bari 1975). Su Pirrone in particolare è assai stimolante M. Conche, Pyrrhon ou l'apparence, Editions de Mégare, Villers sur Mer 1973. Cfr., inoltre, Lo scetticismo antico ( « Atti del convegno organizzato dal Centro di studio del pensiero antico del CN.R., Roma 5-8 novembre 1980 » a cura di G. Giannantoni), 2 voli., Bibliopolis, Napoli 1981, e in particolare G. Reale, Ipotesi per una rilettura della filosofia di Pirrone di Elide, ivi, vol. I, pp. 243-336, dove si troveranno le motivazioni analitiche degli asserti qui presentati in sintesi.
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LA SCEPSI MOilALE DI PillRONE
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il verbo di Pirrone cominciava a diffondersi lentamente, pur concordando nell'attribuire al saggio una serie di caratteri essenziali già chiaramente individuati da Pirrone, assunsero tuttavia una posizione diametralmente opposta a quella di Pirrone, proclamando, con estrema fermezza, che al saggio sono indispensabili dogmi e certezze, e quindi ribadirono la convinzione profondamente greca che l'essere e la verità esistono e sono raggiungibili dall'uomo e che la regola del vivere felici può scaturire solo da questo raggiungimento, e, dunque, dalla ricostruzione di una precisa tavola di valori. Come è giunto Pirrone al rovesciamento di questa convinzione, cosi tipica del razionalismo dei Greci? E come ha potuto dedurre una « regola di vita » e costruire una « saggezza », rinunciando all'essere e alla verità e dichiarando ogni cosa vana apparenza? Una risposta a questi problemi può essere data solo tenendo conto di tre fattori essenziali: a) il preciso momento storico in cui maturò il pensiero di Pirrone, e, in particolare, la partecipazione del nostro filosofo alla grande spedizione di Alessandro; b) l'incontro con l'Oriente, che gli rivelò un tipo di « saggezza » del tutto sconosciuto ai Greci; c) i maestri e le correnti filosofiche greche da cui egli desunse gli strumenti concettuali per l'elaborazione e per la formulazione del suo pensiero. Esaminiamo, dunque, ciascuno di questi fattori singolarmente e cerchiamo di determinare quale possa essere stata la loro incidenza e la loro importanza.
2.
Pirrone e la rivoluzione di Alessandro
Abbiamo già sopra chiarito che cosa significarono per il Greco la spedizione di Alessandro nonché la conquista dell'Oriente e, in genere, la rivoluzione dell'assetto politico e ideologico del mondo antico da lui operato. Significarono - ricordiamolo in breve- ncrollo delle Gittà-stato, la distruzione del-
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LO SCETTICISMO PIRltONIANO B LO SCETTICISMO ACCADEMICO
la libertà grecamente intesa, la rottura dell'identificazione di uomo e cittadino, la parificazione fra Greci e barbari, l'affermazione del cosmopolitismo, la scoperta e l'esaltazione dell'individuo, la diffusione della cultura ellenica con la conseguente assimilazione di elementi propri di altre culture, e, in particolare, di quelle dell'Oriente 2 • Orbene, Pirrone fu, fra tutti i fondatori delle nuove Scuole, quello che in modo -più diretto e più-immediato visse questo momento di radicale rottura della vita spirituale dell'antichità, in quanto partecipò, insieme al filosofo Anassarco di Abdera 3 , alla grande spedizione di Alessandro ed assistette di persona allo svolgersi dei grandi eventi, proprio al fianco della eccezionale personalità del protagonista, il quale, con una volontà che non conosceva limiti e con una audacia che pareva inumana, andava distruggendo ciò che era ritenuto indistruttibile, faceva crollare le più antiche e radicate opinioni dei Greci e apriva alla storia sconcertanti prospettive. Non è dunque sorprendente il fatto che proprio il pensiero di Pirrone, più di quello degli altri filosofi, abbia risentito del violento impatto con queste nuove realtà. Come la grande spedizione di Alessandro cui Pirrone partecipò, costituisce un avvenimento- per cosl dire- di rottura, cosl, analogamente, anche il pensiero pirroniano rappresenta - come
2
Cfr. sopra, pp. 11 sgg.
• Le testimonianze e i frammenti di Anassarco si trovano raccolti in Diels-Kranz, n. 72, n, pp. 235-240 e si trovano tradotti in Gli Atomisti
di Alfieri, pp. 339 sgg. Diogene Laerzio, IX, 58 ( = Diels-Kranz, 72 A l) scrive di Anassarco: « Egli fu scolaro di Diogene di Smirne, e questi discepolo di Metrodoro di Chio, il quale diceva di non saper neppure questa stessa cosa, di nulla sapere; e Metrodoro era stato scolaro di Nessa di Chio; ma altri dicono di Democrito» (traduzione di V.E. Alfieri). Era in piena fama, ci dice sempre Diogene, nella Olimpiade 110, cioè nel 340-337 a. C. Fu famosissimo il detto suo con cui accolse l'ordine del tiranno Nicocreonte di pestarlo in un mortaio di ferro con pestoni di ferro: «pesta pure il sacco di Anassarco, tu non pesti Anassarco » (Diogene Laerzio, IX, 59 = Diels-Kranz,
72 A i).
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LA SCEPSI MORALE DI PIRRONE
469
è stato ben rilevato - « una filosofia di rottura », vale a dire un pensiero che segna esso pure un repentino passaggio da un mondo ad un altro: Pirrone si situa nel preciso momento in cui la coscienza perde alcune verità e non riesce ancora a trovarne. altre, e dunque, come è stato efficacemente detto, si situa « al momento zero della verità » 4 •
L'incontro con l'Oriente e l'influsso dei Gimnosofisti 3.
Fra le varie esperienze che Pirrone ebbe al seguito di Alessandro e che lo influenzarono in vario modo, una fu di importanza eccezionale e, in certa misura, forse determinante: l'incontro con i « Gimnosofisti », che erano una sorta di saggi dell'India, che vivevano una vita di tipo monastico, tutta tesa al superamento dei bisogni umani, all'esercizio di rinuncia delle cose e alla conquista dell'impassibilità. Questi Gimnosofisti fecero notevole impressione S'li tutto il seguito di Alessandro: sappiamo - tra l'altro - che Onesicrito credette di ritrovare rispecchiato in loro, in certa misura, l'ideale della filosofia cinica 5 • Orbene, l'influsso· dei Gimnosofisti su Pirrone fu già rilevato con precisione dagli antichi. Riferisce Diogene Laerzio: [Pirrone] ebbe la possibilità di avere rapporti con i Gimnosofisti in India e con i Magi. Di qui attinse maggiore stimolo per le sue convinzioni filosofiche e pare che egli si aprl la via più nobile nella filosofia, in quanto introdusse ed adottò i principi dell'acatalessia (cioè della irrappresentabilità o incomprensione delle cose} e • M. Conche, Pyrrhon ... , p. 9. Questo autore rilegge Pirrone in una chiave che risente molto della filosofia heideggeriana e spesso fa dire al filosofo quanto i documenti non dicono. Ma si tratta di una lettura assai acuta, che, se utilizzata con criterio, aiuta meglio di molte altre a scio· gliere gli enigmi del nostro filosofo. 5 Cfr. sopra, pp. 46 sg.
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LO SCETTICISMO PIRllONIANO E LO SCETTICISMO ACCADEMICO
dell'epoché (cioè della sospensione del giudizio): questo primato gli viene attribuito da Ascanio di Abdera 6 •
E ancora: Si ritirava dal mondo e cercava la solitudine tranquilla, cosi che raramente si mostrava a quelli di casa. Si comportava cosi, perché aveva udito un Indiano rimproverare Anassarco, dicendogli che mai avrebbe potuto istruire qualcuno ad essere migliore, dal momento che egli stesso frequentava le corti regali e ossequiava i re 7 •
Ma c'è di più. Gli storici ci riferiscono anche un episodio concernente uno di questi Gimnosofisti, di nome Calano, che ebbe grande eco. Calano si diede volontariamente la morte, gettandosi tra le fiamme e sopportando con impassibilità gli spasimi delle ustioni. Calano, dunque, dimostrava che, se è possibile accogliere con impassibilità anche quelli che sono considerati i peggiori dei mali, questi non debbono avere di per sé quella « realtà » e quella « natura » che vengono loro comunemente attribuite e che, in ogni caso, il saggio può essere in grado di porsi al di sopra di essi. Ecco la narrazione del fatto, fornitaci da Plutarco. Calano, che per un breve periodo di tempo fu tormentato da dolori di ventre, chiese che gli erigessero un rogo colà. Vi si recò poi a cavallo, pregò e versò le libagioni funebri su se stesso, si tagliò una ciocca di capelli e l'offri agli dèi, come si usa nei sacrifici, e montò sul rogo, salutando i Macedoni che erano presenti ed esortandoli a trascorrere piacevolmente quella giornata e a banchettare insieme al re, che presto, disse, avrebbe rivisto Babilonia. Ciò detto, si sdraiò e si velò il capo. Il fuoco si avvicinò, ma egli non si mosse: come si era coricato, così rimase, immolandosi da sé secondo l'ttsanza Jei sapienti del sU'o paese 8 •
Pirrone nella testimonianza di Calano vide la dimostrazione al vivo di quell'idea che, come abbiamo visto, era desti• Diogene I..aerzio, IX, 61 ( = Decleva Caizzi, test. l A). 7 Diogene I..aerzio, IX, 63 ( = Decleva Caizzi, test. 10). 1 Plutarco, Vita di Alessandro, 69 (traduzione di C. Carena).
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LA SCEPSI MORALE DI PIRllONE
nata a trionfare nell'età ellenistica, e cioè che il saggio può essere felice anche fra i tormenti. Certamente l'incontro con i Gimnosofisti e con Calano dovette contribuire, congiuntamente e contemporaneamente al crollo dei valori classici della grecità che Alessandro stava provocando, a maturare in Pirrone la convinzione « dell'irrealtà di tutto ciò che sembra "reale" » 9 , cioè l'idea fondamentale del suo scetticismo. 4.
L'influsso dei Megarici e degli Atomisti
Gli eventi di cui abbiamo finora detto dovettero contribuire in maniera determinante nel far nascere nel nostro filosofo la nuova visione della vita a livello di intuizione emozionale; invece gli strumenti concettuali per la formulazione della medesima vennero a Pirrone dalle Scuole filosofiche greche, e in modo particolare dalla Scuola atomistica e dalla Scuola megarioa. I contatti di Pirrone con l'atomismo avvennero tramite Anassarco, che, come abbiamo già detto, gli fu compagno nella spedizione di Alessandro e che le nostre fonti ci permettono di collegare senza alcun dubbio alla Scuola di Democrito 10 • Scrive Diogene Laerzi.o: Anassarco nacque ad Abdera. Fu alunno di Diogene di Smirne, il quale a sua volta fu alunno di Metrodoro di Chio, che era solito dire che non sapeva nulla, neppure che non sapeva nulla. Dicono che Metrodoro sia stato alunno di Nessa di Chio, ma corre anche la versione che sia statò alunno di Democrito 11 •
Del resto, sappiamo anche che Pirrone menzionava spessissimo Democrito 12• ' Conche, Py"bon ..., p. 21. L'influsso dell'Oriente su Pirrone si può ritenere un punto ormai acquisito dalla storiogrefia filosofica moderna. 10 Cfr. sopra, la nota 3. 11 Diogene Laerzio, IX, '8 ( = Diels-Kranz, 72 A l). 12 Diogene Laerzio, IX; 67 ( Decleva Caizzi, ·test. 20).
=
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LO SCETTICISMO PIRRONIANO E LO SCETTICISMO ACCADEMICO
La testimonianza letta, confermata da molte altre, ci dice che già il maestro di Anassarco faceva affermazioni di sapore scettico, e Sesto Empirico, accomunando col maestro anche il discepolo, scrive: E non pochi erano [ ... ] quelli che dicevano che anche Metrodoro e Anassarco [ ... ] negarono l'esistenza del criterio di giudizio; anzitutto Metrodoro, perché disse: «Nulla sappiamo, e non sappiamo neppure questa stessa cosa, che nulla sappiamo» 13 • Ma nelle opere dello stesso Democrito abbondavano critiche ai sensi e alla conoscenza sensibile che potevano essere sfruttate in senso scettico e che, in effetti, divennero assai care agli Scettici. Ecco alcuni eloquenti frammenti di Democrito, riportatici da Sesto Empirico: Nel libro Delle forme [Democrito] dice: «L'uomo deve rendersi conto, per mezzo del presente criterio, ch'egli è [per opera delle apparenze sensibili] tenuto lontano dalla verità» 14 • E più oltre: «Anche questa considerazione appunto dimostra che noi non sappiamo nulla conforme a verità intorno a nessuna cosa, ma che l'opinione è in ciascuno [una sorta di] conformazione [scii.: conformazione che gli atomi dell'anima assumono a contatto con quelli delle cose percepite, e quindi variabili] » 15 • E ancora: «E pei:tanto sarà manifesto che vi è grande difficoltà a conoscere conforme a verità come sia costituito ogni oggetto » 16 • Democrito talora rifiuta le apparenze sensibili e dice che nulla in esse ci appare conforme a verità, ma solo conforme a opinione, e che il vero negli oggetti consiste in ciò ch'essi sono atomi e vuoto. Infatti egli dice: «opinione il dolce, opinione l'amaro, opinione il caldo, opinione il freddo, opinione il colore; verità gli ato13 Sesto Empirico, Contro i matem., vn, 87 sg. ( = Diels-Kranz, 70 A 25; cfr. anche 70 B l [traduzione di V .E. Alfieri]). 1• Sesto Empirico, Contro i matem., VII, 137 ( = Diels-Kranz, 68 B 6). 15 Ibidem ( = Diels-Kranz, 68 B 7). 16 Ibidem(= Diels-Kranz, 68B8).
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LA SCEPSI MORALE DI PIUONE
mi e il vuoto»; vale a dire: si ritiene e si opina che esistano le qualità sensibili, ma in verità non esistono queste, sibbene soltanto gli atomi e il vuoto. Nei suoi Libri probativi, poi, benché avesse promesso di attribuire valore di credibilità alle sensazioni, nulladimeno si trova che egli condanna queste: «Noi in realtà non conosciamo nulla che sia invariabile, ma solo aspetti mutevoli secondo la disposizione del nostro corpo e di ciò che penetra in esso o gli resiste » 17•
E altrove dice: «Che dunque noi non conosciamo conforme a verità come sia o come non sia costituito ciascun oggetto, è stato in più luoghi dimostrato» 18 • In modo particolare, piacque agli Scettici l'affermazione democritea: In realtà nulla noi conosciamo, perché la verità è nell'abisso 19• Ora, è vero che Democrito diceva tutto questo riferendosi esclusivamente alla conoscenza sensoriale e che (come a suo luogo abbiruno visto) 20 riteneva di raggiungere la verità «nel suo profondo» tramite la conoscenza· intellettiva; tuttavia (e anche questo lo abbiamo visto) Democrito presuppose l'esistenza della conoscenza intellettiva, senza riuscire a giustificarla teoreticamente, sicché era pressoché ·inevitabile che (prima che Epicuro riformasse in maniera puramente sensistica la gnoseologia atomistica, come abbiamo visto) le critiche alla conoscenza sensibile finissero per assumere un peso tale da alimentare largamente le istanze scettiche. Anche dalla dialettica dei Megarici Pirrone dovette desumere elementi scettici; infatti, come abbiamo sopra detto, l'originario principio positivo affermato da Euclide, ossia l'unità dell'Essere e del Bene, che essi intendevano difendere con la Sesto Empirico, Contro i matem., vu, 135 ( Ibidem. ( = Diels-Kranz, 68 B 10). " Diels-Kranz, 69 B 117. "" Cfr., vol. I, pp. 171-184. 17
= Diels-Krenz,
11
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68 B 9.
474
LO SCETTICISMO PIRRONIANO E LO SCETTICISMO ACCADEMICO
loro confutazione e distruzione delle tesi di fondo del pluralismo, venne reso sempre meno esplicito e, talora, addirittura taciuto 21 • Dall'atomismo e dal megarismo, dunque, Pirrone poté trarre una serie di concetti e di deduzioni che, al servizio di quella nuova intuizione del senso della vita e delle cose emozionalmente colta e maturata durante la spedizione di Alessandro, generò il suo scetticismo.
5.
Il
rovesciamento
radicale
dell'antologia
Abbiamo visto come Epicuro e Zenone abbiano tentato un sistematico rovesciamento della platonica « seconda navigazione » per poter fondare « fisicamente » i loro sistemi. Pirrone è ancor più radicale, in quanto, oltre che gli esiti della « seconda navigazione», respinge anche quelli che, svolgendo l'immagine platonica, potremmo chiamare «prima navigazione», cioè gli esiti della « navigazione» tentata dai filosofi naturalisti, come subito vedremo. Insomma, egli nega sia la « fisica » sia la « metafisica», e, in generale, nega ogni forma di antologia in quanto tale. Il ripudio dell'ontologia in senso «fisico», ossia presocratico, è chiaramente attestato da questo frammento di Timone: O vecchio, o Pirrone, come e dove trovasti scampo dalla servitù alle vane e false opinioni dei Sofi.sti, e spezzasti le catene di tutti gli inganni e l'incanto delle loro ciance? Né ti curasti di investigare quali venti corrano nell'Ellade, né da che si formi ogni cosa e in che si risolva 22 •
Il ripudio dell'antologia platonica dell'Idea e della forma e della sostanza aristotelica è altrettanto netto. L'Idea plato21
22
Cfr., sopra, pp. 6'5-79. Timone, fr. 48 Diels = Decleva Caizzi, test. 60.
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475
LA SCEPSI MORALE DI PIRRONE
nica e la forma aristotelica, sia pure in differente modo, come abbiamo veduto, fondano la natura delle cose, la loro intelligibilità e, quindi, la possibilità della loro conoscenza, nonché la stabilità e l'eternità dei valori 23 • Tutte le cose, insomma, nell'antologia platonico-aristotelica, hanno una « stabilità nell'essenza» 24, e pertanto posseggono una differenziazione, una misura e una discriminazione oggettiva. Al contrario, secondo Pirrone le cose non hanno alcuna differenza, né misura, né discriminazione 25• Ne segue che, come vedremo 26 , non esistono valori, e niente è per natura brutto o bello, buono o cattivo, giusto o ingiusto e tutto indifferentemente si equivale (e anche non si equivale), giacché, per il nostro filosofo, niente è più questo che quello -o. Potremmo dunque dire che Pirrone respinge le istanze di ogni forma di antologia in quanto tale. Infatti, mentre il cammino dell'antologia va dalle apparenze aJJ'essere (sia per i Fisici 28 sia per i Metafisici 29 ), all'opposto Pirrone si ritrae dall'essere alle apparenze, negando recisamente che ci sia l'essere, e quindi che sia possibile qualsiasi giudizio sull'essere e riconoscendo per conseguenza soltanto l'apparire. Dunque, secondo Pirrone, non domina l'essere, ma l'apparire: Il fenomeno domina sempre, dovunque appaia 30 • Or. il vol. II, ptZSsim e in particolare pp. 33 sgg. e 285 sgg. Platone, Crlltilo, 385 e. • Aristocle, &. 6 Heiland ( Decleva Caizzi, test. 53). 16 Or., più avanti, il S 7. '~~ Diogene Laerzio, IX, 61 ( Decleva Caizzi, test. 1). • Cir., per esempio, vol. 1, pp. 119 sgg., 146 sgg. 29 Or. per esempio, vol. II, pp. 196 sgg. "" Timone, &. 69 Diels ( = Decleva Caizzi, testt. 63 A e 63 B). Or. le osservazioni che a questo proposito fa il Conche, Py"hon..., pp. 21 sgg. 21
16
= =
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476
LO SCBTTICISMO PIRRONIANO E LO SCETTICISMO ACCADEMICO
Un ultimo confronto con la posizione aristotelica chiarirà appieno la novità della posizione pirroniana. Scriveva Aristotele nella Metafisica: E in verità, ciò che dai tempi antichi, così come ora e sempre, costituisce l'eterno oggetto di ricerca e l'eterno problema: che cos'è l'essere, equivale a questo: che cos'è la sostanza [ ... ] ; perciò anche noi, principalmente, fondamentalmente e unicamente, per cosl dire, dobbiamo esaxninare ~e cos'è l'essere in questo senso 31 •
Come supremo principio dell'essere, inoltre, Aristotele ave\ta posto il principio di non contraddizione, che sostanzialmente era già stato individuato da Parmenide nell'affermazione dell'impossibilità che l'essere non sia 32 • Dunque, è impossibile che una stessa cosa sia e non sia 33• E al principio di non contraddizione Aristotele aveva connesso strettamente il principio del « terzo escluso», secondo il quale è impossibile che fra i contraddittori ci sia un termine medio, per cui una cosa o è o non è e tertium non datur 34• Ebbene, Pirrone sopprime il problema dell'essere e della sostanza alle radici, e con l'essere sopprime interamente anche la validità di quei principi. Infatti, l'affermazione dell'assoluto dominio delle apparenze significa appunto la negazione dell'essere e della sostanza, mentre l'affermazione che ogni cosa « non è più questo che quello » significa la negazione dei principi dell'essere. Del resto, con un linguaggio inequivoco, come meglio vedremo più avanti, Pirrone non esita ad affermare che «ogni cosa è non più di quanto non è», che « ogni cosa è e non è », che ogni cosa « né è né non è » 35 •
"' Aristotele, Metafisica, Z l, 1028 b 1-7. 32 Cfr. Diels-Kranz, 28 B 2, 6, 7, 8 passim. '" Cfr. Aristotele, r 3 e sgg. (e il nostro commento, Metafisica, vol. I, pp. 332 sgg.). "'Cfr. Aristotele, f7, passim. "' Aristocle, fr. 8 Heiland ( Decleva Caizzi, test . .53).
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6. Il pirronismo come sistema pratico di saggezza e le sue tre regole fondamentali Ma come e che cosa può costruire Pirrone su questo azzeramento dell'essere e dei suoi principi? I Sofisti, che negarono l'Essere e la Verità, spostarono la loro fiducia sull'uomo: Protagora, come abbiamo visto, proclamò criterio e misura l'uomo e il suo logos 36 ; Gorgia, che negò valore anche allogos, proclainò come criterio la parola e affermò l'onnipotenza della parola~. Ma Pirrone non ha più fiducia nemmeno nell'uomo (e q~indi nemmeno nellogos e nella parola) perché ne sente la nullità. (Del resto, travolto interamente l'essere, restano travolti anche l'uomo, il suo logos e la sua parola). Ci viene riferito che gli piacevano particolarmente i versi di Omero in cui si canta la fragilità, la pochezza, la miseria e la nullità dell'uomo. Scrive Diogene Laerzio: Filone ateniese, suo intimo amico, diceva che Pirrone menzionava spessissimo Democrito, ma poi anche Omero, che egli ammirava e di cui era solito citare il verso: Quale la stirpe delle foglie, tale anche quella degli uomini.
E lo lodava anche perché soleva paragonare gli uomini alle vespe, alle mosche e agli uccelli. E citava volentieri anche i seguenti versi: Dunque, amico, pure tu muori.' Perché cosl piangi il tuo [destino? Morì anche Patroclo che era molto più valoroso di te.
e tutti i passi che alludono all'instabilità della condizione umana, all'inutilità dei propositi e alla fanciullesca follia dell'uomo 38 • pp. 230 sgg. pp. 242 sgg., e in particolare 251 sgg. • Diogene Laerzio, IX, 67 ( = Decleva Caizzi, test. 20). I due versi di Omero citati SCIIlO tratti da Iliade, VI, 146 e XXI, 106 sg. 36 31
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Allora, se criterio non è più l'essere e se criterio non può essere nemmeno l'uomo, dove cercheremo il criterio? La risposta di Pirrone è: da nessuna parte. Il criterio è la rinuncia al criterio, o meglio la rinuncia ad ambèdue quei tipi di criterio, rinuncia da cui dipende una serie di conseguenze che subito vedremo e, al limite, il raggiungimento di un criterio completamente diverso da quelli. La risposta di Pirrone è contenuta in una testimonianza preziosa del peripatetico Aristocle, che la attinge direttamente dal]e opere di Timone, immediato discepolo di Pirrone. Riferisce dunque Aristocle: [Pirrone] non ha lasciato nulla di scritto, ma il suo discepolo Timone dice che colui che vuole essere felice deve considerare queste tre cose: l) in primo luogo, quale è la natura delle cose; 2) in secondo luogo, in quale modo dobbiamo disporci nei confronti di esse; 3) in terzo luogo, che cosa risulterà a coloro che si trovano in questa disposizione. l) Orbene, egli dice che Pirrone mostra che le cose sono ugualmente indifferenti, immisurabili e indiscriminabili e per questo né le nostre sensazioni né le nostre opinioni possono essere vere oppure false. 2) Per conseguenza, non bisogna accordare ad esse fiducia, ma bisogna essere senza opinione, senza inclinazione, senza agitazione, affermando di ciascuna cosa che è non pizì di quanto non è, oppure che è e che non è, oppure che né è né non è. 3) Coloro che si mettono in questa disposizione conseguiranno, dice Timone, in primo luogo l'afasia, e poi l'atarassia 39 •
Questo passo contiene, per cosi dire, nei tre punti che sono cosllucidamente stabiliti, lo statuto dello scetticismo pirroniano e quindi la matrice dalla quale scaturiranno tutte le forme dello scetticismo posteriore. Ma, prima di passare all'analisi dei tre punti, conviene sottolineare il significato e la portata della premessa, in cui si dice che la considerazione di questi tre punti deve essere fatta da « colui che vuole essere felice ». Il momento eudemonistico prevale dun., Aristocle, fr. 6 Heiland (= Decleva Caizzi, test . .53).
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que nettamente nel pensiero di Pirrone. Gli sviluppi metodologico-dialettico-polemici sembrano estranei al pensiero del nostro filosofo. I tre principi cardinali dello scetticismo pirroniano esprimono, pertanto, un sistema pratico di saggezza, e in questo spirito vanno dunque letti e interpretati. 7. La natura delle cose come indifferenziata apparenza e la natura del divino e del bene
Dei tre capisaldi del pirronismo, che sono fissati nel passo sopra letto, il più difficile da interpretare è il primo, che è però il più importante. La difficoltà sta in questo: Pirrone vuoi dire che le cose in se stesse sono indifferenti, immisurabili ed indiscernibili, oppure che sono tali non in se stesse, ma solo per noi? L'indifferenza delle cose è oggettiva o soggettiva? La maggior parte degli interpreti (in gran parte sotto l'influenza dello scetticismo posteriore) ha creduto che Pirrone intendesse dire semplicemente che noi uomini non abbiamo strumenti adeguati (sensi e ragione) per giungere a cogliere le differenze, le misure e le determinazioni delle cose c. Ma, in realtà, il testo pare affermare il contrario. Non dice, cioè, che, poiché sensi e opinioni sono inadeguati, le cose per noi risultano indifferenziate, immisurate e indiscriminate; ma dice, all'opposto, che le cose stesse (-rà: 7tp!ly!J.at-rat) sono indifferenti immisurate e indiscriminate e che proprio in conseguenza di questo (8~a oratu-rat) sensi e opinioni non possono né dire il vero né dire il falso. Insomma, sono le cose che, essendo come s'è detto, rendono sensi e ragione incapaci di verità e di falsità, e non viceversa. È, questa, una conseguenza necessaria che scaturisce dalla negazione dell'essere, dell'eidos e 411 Or. Dal Pra, .Lo scettismo greco, 1, pp. 61-64; cfr. la nostra discussione in: Ipotesi per una rilettura..., passim (cfr., sopra, nota 1).
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della sostanza, è, cioè, la posizione che scaturisce dalla nega_ zione dell'antologia platonico-aristotelica. Una chiara conferma la troviamo in un passo di Diogene Laerzio, cui abbiamo già fatto cenno: Pirrone diceva che niente è bello né brutto, niente è giusto né ingiusto, e similmente applicava a tutte le cose il principio che nulla esiste in verità e sosteneva che tutto ciò che gli uomini fanno accade per convenzione e per abitudine, e che ogni cosa non è più questo che quello 41 • I valori etici e in genere tutti i valori, cosl come tutte le cose, non hanno una loro statura antologica, appunto perché nulla esiste in verità (!Ll)8Èv elv~X~ -cii CÌì..lJ&d~). Invece dell'essere (elv~XL), quindi, si pone, come determinante la convenzione (il nomos) e il costume (l'ethos). Aristotele aveva indicato la sostanza come essere per eccellenza e aveva definito la sostanza come T68e Tt, ossia come « un qualcosa di determinato », come abbiamo visto 42 ; per. contro Pirrone, riprendendo le medesime espressioni, rovescia la posizione aristotelica: «ciascuna cosa non è più questo che quello » (où yà:p !J.iÀÀov T68e ~ T68e: dviX~ Ex~X!J"t'ov) 4 • Non contraddicono questa interpretazione, anzi la riconfermano, due celebri frammenti di Timone. Dice il primo: Non affermo che il miele è (~a-r() dolce, ma riconosco che appare (q~otlvc-.otL) dolce 44 •
Il che significa che in sé il miele, essendo come ogni cosa indeterminato, è inqualificabile, mentre qualificabile è solo l'apparire. Non vuoi dire - si badi - che esiste un miele come cosa in sé dotato di una sua natura, ma da noi
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•• Diogene Laerzio, IX, 61 ( Decleva Caizzi, test. l A). 42 ar. vol. II, pp. 287. o ar. Diogene Laerzio, IX, 61 e 76 ( Decleva Caizzi, testt. l A e 54) . .. Diogene Laerzio, IX, 105 ( Timone, fr. 74 Diels).
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non raggiungibile; il miele non ha una sua natura, e il suo apparire, se da me è qualificabile come dolce, da un altro (cui il miele non piace) può essere qualificato in altro modo. L'essere, insomma, non è pronunciato perché non c'è; è pronunciato solo l'apparire. All'essere, per conseguenza, come già abbiamo detto, si sostituisce appunto l'apparire (il cpat(vea&atL) o l'apparenza (il cp«LV61J.evov ), che diviene cosl onnipotente, come espressamente dice un altro significativo frammento di Timone: Il fenomeno domina sempre, dovunque appaia <~S.
Questo« fenomeno» o« apparenza», come avremo modo di vedere, dagli Scettici posteriori è stato trasformato nel fenomeno inteso come apparenza di un qualcosa che è al di là dell'apparire, ossia di una «cosa in sé», e da questa trasformazione sono state tratte numerose deduzioni che, per la verità, non sembrano essere presenti in Pirrone. Ha scritto un recente, acuto interprete di Pirrone: « [ ... ] il pirronismo (checché sia delle forme posteriori di scetticismo) non deve in alcun modo essere interpretato con l'aiuto della nozione di "fenomeno". Non bisogna confondere, in effetti, il fenomeno e l'apparenza pura. Il fenomeno manifesta qualche cosa d'altro, rinvia ad un al di là del fenomeno, a un non-manifestato. Esso suppone dunque l'opposizione di ciò che appare e di ciò che non appare, dell'immediato e del mediato, dell'evidente e del nascosto (adelon). Esso si iscrive nella scissione della sfera totale fra ciò che si mostra e ciò che si nasconde, ed esso è da un lato come ciò che rinvia aH'altro late. Una siffatta scissione si ritrova, in generale, fra i dogmatici (sia che essi appartengano alla linea di Democrito o a quella di Platone), ma si ritrova altresl fra gli Scettici [posteriori] contaminati dal dogmatismo (nella lotta stessa che • Timone, fr. 69 Diels ( = Decleva Caizzi, testt. 63 A e 63 B).
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questi hanno sostenuto contro di esso). Sia nel caso che il non immediato, l'essente nel suo essere e nella sua verità, sia alla fine svelabile e si offra in definitiva al pensiero, sia nel caso che l'essere rimanga ostinatamente nascosto e la verità inaccessibile, la scissione è presupposta. L'interpretazione classica ha costantemente attribuito a Pirrone la distinzione del fenomeno e dell'essere, proprio quella distinzione che, mediante la nozione della non-differenza delle cose, Pirrone ha inteso, precisamente, annullare [ ... ]. Il pirronismo non confonde il fenomeno e l'apparenza, e la distinzione fra apparente e nascosto non è pirroniana. Infatti la non differenza delle cose significa l'abolizione del loro "essere" e la loro risoluzione in apparenze. Ciò che Pirrone vuole, è pensare l'unità della sfera totale, cosa che a Parmenide non era riuscita, grazie non alla idea dell'essere, ma all'idea di apparenza, come apparenza pura e universale » 46 • Ora, è vero che la distinzione fra ciò che appare e ciò che è nascosto, fra fenomeno e cosa, sembra effettivamente essere posteriore a Pirrone. Ma è altrettanto vero che Pirrone non è giunto tanto avanti da risolvere tutto nell'apparenza pura e universale. Infatti la risoluzione di tutte le cose nella pura apparenza senza alcun residuo avrebbe portato non già al dubbio assoluto, bensl alla certezza assoluta, perché, se tutto si risolve nell'apparire, le c_ose sono cosl appunto come appaiono e non diversamente. In effetti c'è un frammento di Timone che dimostra chiaramente come la posizione di Pirrone sia assai complessa. Viene domandato a Pirrone: O Pirrone, questo il mio cuore desidera di apprendere da te, come mai tu, pur essendo uomo, ancora cosl facilmente conduci la vita tranquilla, tu che solo sei guida agli uomini, simile a un Dio .o.
• Conche, Pyrrhon..., p. 49. • Timone, fr. 67 Diels ( = Decleva Caizzi, testt. 61 A e 61 B). ·
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Risponde Pirrone: Io ti dirò in verità come mi sembra che sia, prendendo come retto canone questa parola di verità: che vive eternamente una natura del divino e del bene, da cui deriva all'uomo la vita più eguale (lcma:roç
~(oc;) 48.
Orbene, se si prende Timone (in quanto unico discepolo immediato di Pirrone che di lui abbia parlato) come fonte privilegiata non ci si può certamente sbarazzare di queste af. ferma:Dioni, ritenendole sue personali deduzioni; altrimenti lo stesso giudizio dovrebbe valere anche per la testimonianza principale, da cui siamo partiti 49 • Ma allora come intendere questa « natura del divino e del bene » (-rou &etou IJlOaL<; -re xcd -r&yat&ou), e il conseguente « retto canone »? 50 • Ha notato a questo proposito il Bréhier: « Un accento religioso di questo genere ha qualcosa di enigmatico; il Dio che Pirrone venera non è una provvidenza del mondo né degli uomini come il Dio degli Stoici; è solamente come l'essere perfettamente stabile davanti al quale svaniscono gli aspetti diversi e fuggevoli del reale » 51 • (E che Pirrone abbia creduto in un Dio è, per altro verso, confermato anche dal fatto, che ci viene espressamente riferito, che i suoi concittadini lo scelsero come sommo sacerdote) 52 • Ma come conciliare queste affermazioni con tutte le altre sopra esaminate?
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• Sesto Empirico, Contro i matem., XI, 20 ( Timone, fr. 68 Diels test. 62) . . ., Conche, Pyrrhon ... , pp. 88 e sgg. vorrebbe appunto respingere questa testimonianza, giacché si tratta di affermazioni che Timone fa p;onunciare a Pirrone; ma anche nella testimonianza di Aristocle le cose non stanno in modo diverso. In realtà il Conche insiste sull'ateismo pirroniano motivandolo non sulla base dei testi, bensl sulla base delle sue convinzioni heideggeriane. 50 Cfr. sopra, nota 48. 51 E. Bréhier, Histoire de la philosophie, Paris 1963, 1, 2, p. 373. 12 Or. Diogene Laerzio, IX, 64 ( = Decleva Caizzi, test. 11).
= Decleva Caizzi,
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Due ipotesi si possono fare per rispondere al problema. La prima è che Pirrone risenta l'influsso delle dottrine dei Megarici, dei quali fu discepolo. Anche i Megarici, con la loro dialettica, tentavano di ridurre la molteplicità delle cose, il movimento ed il divenire ad apparenza, ma questo facevano appunto per guadagnare la realtà dell'Uno-Bene, che era il loro Dio o il loro Divino, come risulta chiaro soprattutto dai frammenti di Euclide. La seconda è che Pirrone risenta altresl dell'influsso di dottrine orientali, peraltro da noi incontrollabili. Ma anche •stando semplicemente alla prima di queste ipotesi, la posizione di Pirrone si può spiegare. Le cose, secondo il nostro filosofo, risultano mere apparenze non già in funzione del presupposto dualistico dell'esistenza di « cose in sé » a noi come tali inaccessibili, bensl in funzione della contrapposizione appunto a quella « natura del divino e del bene » di cui parla il frammento di Timone 53 • Misurato con il metro di questa « natura del divino e del bene » tutto appare a Pirrone come irreale e come tale è da lui anche vissuto praticamente, come vedremo. L'analogia fra questa posizione radicale di Pirrone e quella megarica spiega anche le analogie fra le rispettive posizioni pratiche di fronte alle cose: abbiamo visto infatti che i Megarici predicavano la apatia intesa come un ne sentire quidem, come ci riferisce Seneca 54 ; e Pirrone, vedremo, predica la medesima dottrina (radicalizzandola) e anche per lui, come attesta Cicerone, la posizione del sapiente è l'apatia intesa come un ne sentire quidem 55• Se cosl è, non si può negare l'esistenza di un sottofondo religioso che ispira lo scetticismo pirroniano. L'abisso che egli scava fra l'unica « natura del divino e del bene » e tutte le altre 53
Cfr., sopra, nota 48 .
.. Or. Seneca, Epist., 9,1-3 (=·Di:iring,fr.195=Giannantoni,n0,33). 55
Cfr. Cicerone, Acad. pr., n, 42, 130 ( = Decleva Caizzi, test. 69 A).
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cose, implica una visione quasi mistica delle cose e una valutazione della vita di un rigore estremo, appunto perché non concede alle cose del mondo alcun significato autonomo, mentre concede realtà al divino e al bene. Questa interpretazione ci permette di spiegare il motivo per cui Cicerone non ha mai considerato Pirrone uno scettico, bensì un moralista che professava una dottrina estremistica, secondo la quale la virtù era il solo e unico bene, rispetto a cui tutto il resto non metteva alcun conto di essere perseguito (è assai indicativo il fatto che Cicerone menzioni sempre Pirrone insieme ad Aristone, che fu il più rigoroso degli Stoici e che è noto per aver energicamente negato la accomodante ammissione degli « intermedi » fra bene e male, cioè fra virtù e vizio). Ma ecco due passi ciceroniani assai eloquenti, in cui, del resto, non è difficile trovare una precisa eco di alcune delle affermazioni lette nel passo di Aristocle: Dato che Aristone e Pirrone stimarono ciò senza alcuna importanza, al punto da dire che non c'è assolutamente nessuna differenza fra godere ottima salttte e at/ere la più grave malattia, ben a ragione già da tempo è cessata ogni disputa contro di loro. Vollero infatti far consistere tutto nella virtù, tanto da privarla di ogni facoltà di scelta senza peraltro concederle un punto di origine o di appoggio; così facendo, abolirono la virtù stessa a cui attribuivano sì grande valore 56 • Pertanto - a mio parere - coloro che considerarono termine estremo del bene il vivere onestamente sbagliarono tutti, ma chi più chi meno: più di tutti naturalmente Pirrone, che, una volta stabilita ]a virtù, non lascia 1zulla affatto verso cui si abbia inclinazione; poi Aristone, che non osò non ]asciar nulla e introdusse degli impulsi per cui il sapiente avesse indinazione per qualche cosa, qualunque gli passasse per la mente e per cosl dire gli si presentasse dinanzi. Questi certo meglio di Pirrone, perché concesse qual56 Cicerone, De fin., 11, 13, 43 ( = Decleva Caizzi, test. 69 B). Su Aristone dr. A.M. loppolo, Aristone di Chio e lo stoicismo antico, Bibliopolis, Napoli 1980.
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che specie di inclinazione naturale; peggio degli altri, perché si scostò profondamente dalla natura '!il.
Dunque, per Cicerone, Pirrone professa una dottrina estremistica, che non lascia sussistere nulla verso cui si abbia inclinazione e considera tutte le cose senza differenza, e che, per conseguenza, si autodistrugge, in quanto non salva, nella generale distruzione, l'unica cosa (la virtù) cui dà valore. E il fatto che Cicerone non chiami « scettica » questa posizione è ben spiegabile: l'Accademia scettica non ammetteva la sua dipendenza da Pirrone, mentre Enesidemo, che ripropose un neoscetticismo, ripensando Pirrone secondo una nuova prospettiva (di cui diremo nel quarto volume di quest'opera), se, come alcuni ritengono, fu contemporaneo di Cicerone, restò a lui sconosciuto (non si può nemmeno escludere che Enesidemo sia, come alcuni pensano, posteriore a Cicerone). Il preciso e sistematico collegamento di Pirrone con lo scetticismo avvenne dunque solo con Enesidemo, il che spiega fra l'altro - non solo la posizione di Cicerone, ma anche il fatto, assai indicativo, che un seguace di Pirrone, di nome Numenio, abbia addirittura affermato che il maestro « dogmatizzava » 58 • 57 Cicerone, De fin., IV, 16, 43 ( = Decleva Caizzi, test. 69 C). Ecco ancora un passo della stessa opera (v, 8, 23 = Decleva Caizzi, test. 69 1): « Le teorie, ormai disapprovate e scartate, di Pirrone, Aristone ed Erillo, dato che non possono rientrare nd cerchio che abbiamo tracciato, non ci fu affatto bisogno di citarle. Giacché tutto questo problema del termine estremo e per cosi dire dei limiti del bene e dd male parte da ciò che abbiamo definito come connesso e appropriato a natura e che costituisce il primo oggetto verso cui si esercita la naturale inclinazione: quindi i primi due lo aboliscono completamente affermando che per quelle cose in cui non interviene la nozione di onesto o disonesto non c'~ ragione per stabilire delle preferenze e che fra loro non esiste differenza alcuna, e cosi pure Erillo, se ha pensato che nulla è bene all'infuori del sapere, ha abolito ogni motivo per prendere una deliberazione e la facoltà di trovare il dovere » ( traduzione N. Marinone). 5I ar. Diogene Laerzio, IX, 68 ( = Decleva Caizzi, test .. 42); questo scolaro aveva nome Numenio (dr. anche ivi, 102 Decleva Caizzi, test. 44).
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8. L'atteggiamento che l'uomo deve assumere nei confronti delle cose: l'astensione dal giudizio e l'indifferenza
Se le cose sono indifferenti, immisurabili e indiscernibili e se, per conseguenza, senso e ragione non possono dire né vero né falso, l'unico atteggiamento corretto che l'uomo può tenere è quello di non dare alcuna fiducia ai sensi né alla ragione, ma restare adoxastos, vale a dire rimanere senza opinione, ossia astenersi dal giudizio (l'opinare è sempre un giudicare), e, per conseguenza, restare senza alcuna inclinazione (non inclinare verso una cosa piuttosto che verso un'altra), e restare senza agitazione, ossia non lasciarsi scuotere da alcuna cosa, ossia restare indifferenti. Questa astensione dal giudizio venne successivamente espressa con il termine « epoché » che è di derivazione stoica. Come è stato di recente messo bene in rilievo, Zenone affermava la necessità per il saggio di non dare l'·assenso, ossia di « sospendere il giudizio » (epoché) di fronte a ciò che è incomprensibile (e di dare l'assenso solo a ciò che è evidente); Arcesilao e Carneade (come vedremo), in polemica con gli Stoici, sostengono che il saggio deve « sospendere il giudizio» su ogni cosa, perché nulla è evidente. Il termine « epoè:hé » fu quindi ripreso anche dal neopirroniano Enesidemo per esprimere il concetto dell'astensione dal giudizio, divenne un termine tecnico e venne quindi riferito anche a Pirrone. Sembra corretto, dunque, concludere che Pirrone parlava di « assenza di giudizio » o « mancanza di giudizio » (che, come vedremo, porta all'afasia) e che il termine « epoché » è posteriore. Questa posizione di totale astensione dal giudizio è di una coerenza adamantina rispetto al principio che nega alle cose l'essere e l'essenza e quindi nega la legge fondamentale dell'essere, ossia la non-contraddizione. Scriveva Aristotele, riferendosi ai negatori della suprema
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legge dell'essere: È evidente che la discussione con tale avversario non può vertere su nulla, perché egli non dice nulla: infatti, egli non dice né che la cosa sta cosl, né che non sta cosl, ma dice che sta cosl e non cosl, e poi, daccapo, egli nega e l'una e l'altra affermazione, e dice che la cosa né sta cosl né non cosl 59 •
Ebbene, la posizione che Pirrone assume è esattamente questa: Bisogna essere senza opzntone [ ... ] affermando di ciascuna cosa che è non più di quanto non è, oppure che è e che non è, oppure che né è né non è. Coloro che si mettono in questa disposizione conseguiranno in primo luogo l'afasia [ ... ] 60 •
Sono parole che, se anche storicamente non sono una risposta ad Aristotele, rappresentano, tuttavia, l'ideale antitesi delle sue affermazioni 61 • È chiaro che ciò che sul piano teoretico è la mancanza di giudizio, sul piano pratico è l'indifferenza per le cose, appunto per la ragione che nulla è più questo che quello. Ed ecco come, nella sua vita, Pirrone compie con assoluta indifferenza quelle cose che per un Greco erano servili e ignobili, ma che per lui sono appunto indifferenti: Visse piamente insieme con la sorella, che era ostetrica, secondo la testimonianza di Eratostene nella sua opera Ricchezza e " Aristotde, Metafisica, r 4, 1008 a 30-33. '" Aristocle, presso Eusebio, Praep. evang., XIV, 18, 3 sg. ( Decleva Caizzi, test • .53). •• Il Conche, Pyrrhon ... , p. 35, ritiene addirittura che fra il 334 e il 332 a. C. Pirrone abbia potuto udire Aristotele ad Atene; ma questo non pare possibile, perché in questi anni Pirrone doveva già essere al segulto di Alessandro. :E: invece plausibile quanto Conche rileva: « Nulla vieta, in ogni caso, che Pirrone abbia avuto notizia dei corsi di Aristotde ad Asso, sia ad Atene, sia durante la spedizione di Alessandro, tramite Callistene [nipote di Aristotele, che partecipò alla spe(b:nnc l. che precisamente ad Asso era stato .. •·mento delle antitesi che noi rile· allievo di suo zio» (p. 35). T\· · viamo fra Aristotde e Pirrone cfr. quanto il Conche rileva, pp. 36 sgg.
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povertà, ove anche si narra che talvolta Pirrone portava a vendere al mercato, secondo i casi, uccellini o maialetti e faceva le pulizie di casa con perfetta indifferenza. Si dice anche che un'altra prova di indifferenza la dava lavando lui stesso un porcellino 62 • Naturalmente, sorge spontanea l'obiezione che tale indifferenza non può andare oltre certi limiti: per esempio non può essere mantenuta di fronte alle cose ritenute pericolose. Scriveva Aristotele: Infatti, perché colui che ragiona in quel modo [ossia nega il principio di non-contraddizione] va veramente a Megara e non se ne sta a casa tranquillo, accontentandosi semplicemente di pensare di andarci? E perché al momento buono, q:.Jando capiti, non va difilato in un pozzo o in un precipizio, ma se ne guarda bene, come se fosse convinto che il cadervi dentro non sia affatto cesa buona e non buona? È chiaro, dunque, che egli ritiene la prima cosa migliore e l'altra peggiore 63 • Ma Pirrone, cercando di essere coerente nella sua vita con il suo pensiero, faceva esattamente questo. Ecco che cosa ci viene riferito da Diogene Laerzio: La sua vita fu coerente con la sua dottrina. Lasciava andare ogni cosa per il suo verso e non prendeva alcuna precauzione, ma si mostrava indifferente verso ogni pericolo che gli occorreva, fossero carri o precipizi o cani, e assolutamente nulla concedeva all'arbitrio dei sensi. Ma, secondo la testimonianza di Antigone di Caristo, erano i suoi amici, che solevano sempre accompagnarlo, a trarlo in salvezza dai pericoli 64 • Ed ecco un'altra testimonianza non meno significativa: Non perdeva mai la sua compostezza, cosl che se qualcuno lo piantava nel mezzo del discorso, egli lo finiva per conto suo, benché in giovinezza fosse stato piuttosto facilmente irritabile [ ... ] . 62 Diogene Laerzio, IX, 66 ( = Decleva Caizzi, test. 14). '" Aristotele, Metafisica, r 4, 1008 h 14-19 . .. Diogene Laerzio, IX, 62 (Decleva Caizzi, test. 6).
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Quando una volta Anassarco cadde in un pantano, Pirrone continuò la sua strada senza aiutarlo. Qualcuno gli rimproverò un tal comportamento, ma Anassarco stesso lodò la sua indifferenza e la sua impassibilità 65, Siamo giunti qui indubbiamente oltre i limiti del sentire greco.
9. Il conseguimento dell'afasia, dell'atarassia e dell'apatia Più volte, nella Metafisica, Aristotele ribadisce il concetto che chi nega il supremo principio dell'essere, per essere coerente con questa negazione dovrebbe tacere e non esprimere assolutamente nulla 66 • E tale è precisamente la conclusione che trae P.irrone proclamando l'« afasia» 67 • Ora, l'afasia non è il non parlare in assoluto ossia l'assoluto silenzio, ma il non parlare, ossia il tacere sulla natura e sull'essere delle cose, il non giudicare è o non è di nulla. L'&fasia resterà poi un atteggiamento tipico di tutto lo scetti· cismo. Sesto Empirico la definisce come segue: Circa l'afasia diciamo cosl [ ... ] . In senso generico, « fasi » è una voce significante affermazione o negazione, come «è giorno», « non è giorno » [ ... ] . Dunque afasia vale rinunzia alla fasi, nel suo significato comune, e in essa diciamo essere comprese l'affermazione e la negazione; di modo che afasia è una nostra affezione interna, per cui diciamo di non affermare né negare da. Il distacco dalle cose, che raggiunge il momento culminante nell'afasia, comporta l'atarassia 69 , vale a dire la man" " " '" 69
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Diogene Laerzio, IX, 63 ( Decleva Caizzi, test. 10). Cfr. Aristotele, Metafisica, r 4-6. Aristocle, fr. 6 Heiland (= Decleva Caizzi, test. 53). Sesto Empirico, Schizzi pirroniani, I, 192 (traduzione di O. Tescari). Or. Aristocle, fr. 6 Heiland (= Decleva Caizzi, test. 53).
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canza di turbamento, la quiete interiore, « la vita più uguale»"'. Ed ecco come Pirrone la realizza nella sua vita: Mentre i suoi compagni di viaggio su una nave si erano incupiti a causa di una tempesta, egli rimaneva tranquillo e riprendeva animo, additando un porcellino che continuava a mangiare e aggiungendo che una tale imperturbabilità (chupcc;tot) era esemplare per il comportamento del sapiente 71 • Riferisce Diogene: Si narra inoltre che quando per qualche ferita gli furono applicati medicamenti corrosivi o dovette subire tagli o cauterizzazioni, non contrasse neppure le ciglia 72 • È difficile non riconoscere, in questi esempi, gli influssi dei Gimnosofisti e di Calano. Riferisce Cicerone:
Secondo Aristone il bene consiste nel non essere in queste cose [intermedie fra virtù e vizio] mosso né da una parte né dall'altra e che da lui vien chiamato adiaforia. Ma Pirrone dice che il saggio non le sente neppure e chiama questo apatia 73 • Anche Diogene Laerzio conferma: Il fine degli scettici è l'apatia 74 • L'apatia pirroniana è dunque l'insensibilità. Ecco come il Conche ha chiarito l'apatia pirroniana: «Come può l'uomo essere im-passibile (apathés), in-sensibile? La parola non dice forse che non solo non si è turbati, ma che non si sente nemmeno? E perché no? Non è evidente che l'uomo deve giungere a riformare la sua sensibilità totale? Si tratta, come Cicerone ha detto a ragione, non solo di essere indifferenti e senza ar., sopra, nota 48. Posidonio, presso Diogene Laerzio, IX, 68 ( = Edelstein-Kidd, fr. 287 = Theiler, fr. 453 Db = Decleva Caizzi, test. 17 A). 72 Diogene Laerzio, IX, 67 ( = Decleva Caizzi, test. 16). 73 Cicerone, Acad. pr., n, 42, 130 ( = Decleva Caizzi, test. 69 A). 74 Diogene Laerzio, IX, 108. 70
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turbamento, ma di non sentire neppure (ne sentire quidem). E come è possibile ciò? È possibile per mezzo di una modificazione nel modo di ·ricevere le impressioni: invece di farne cose buone o cattive, senza emettere giudizio !asciarle semplicemente a se medesime. Mi si lancia un'ingiuria: ridurla ad una serie di suoni che vanno a perdersi nell'atmosfera. Su un viso passa un segno di disprezzo: non vedere là che un gioco di muscoli del viso di un essere che muore, o, più radicalmente, non vedere là se non una serie di impressioni che tosto si perdono senza lasciare tracce - a condizione che la mia memoria non faccia di nulla un qualcosa. Abitualmente noi non ci fermiamo alle impressioni come a semplici apparenze, noi riteniamo, aggiungiamo, interpretiamo. Ed ecco ciò che noi allora sentiamo: non soltanto le semplici impressioni medesime, ma gli effetti che producono su di noi degli esseri con le loro proprietà. L'insensibilità pirroniana è indubbiamente ottenuta mediante un ritorno alla sensazione pura. È una insensibilità al mondo dell'oggetto, alle cause, agli enti e alle loro imprese su di noi, attorno a noi, perché l'universo degli enti e dell'essere, costruito da noi ed eretto di fronte a noi dal nostro giudizio medesimo, si trova ora smembrato e disfatto. La sensibilità a tutte le attrattive o offese, conflitti e agitazioni del mondo dell'oggetto, fa posto a una sensibilità alle impressioni pure, mute, e, per quanto possibile, senza aspettativa e senza memoria. Allora piacere e dolore, affezioni di tutti i generi, vengono sentiti meno intensamente: perdono quella concentrazione che dà loro lo spirito; contemporanei esatti dell'impressione pura e dell'apparenza, sono indeboliti da una specie di disseminazione temporale, e di diluizione. Pirrone, che subisce gli interventi chirurgici senza battere ciglio, doveva possedere quest'arte mentale di ridurre il dolore. Un uomo che sente diversamente dagli altri uomini, che apporta una insensibilità a ciò che si aveva l'abitudine di sentire, dunque una sensibilità nuova, non si potrebbe comprendere, partendo dall'idea di uomo fino
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allora corrente. Pirrone, dice giustamente Robin, "ci mette di fronte ad un uomo fino ad allora sconosciuto in Grecia". Non soltanto una dottrina ma un uomo, cioè un principio d'azione e d'inazione, una sensibilità, una vita » 75 • Sono, queste, delucidazioni acute ed esatte. Tuttavia vorremmo ricordare quanto già abbiamo sottolineato sopra, e cioè che vi è un antecedente dell'apatia pirroniana in quella megarica. Certo, l'apatia è un punto di arrivo, e Pirrone stesso, talvolta, non riusd ad essere insensibile, come ci viene tramandato: Ma una volta perdette la calma per un'ingiuria arrecata a sua sorella - che si chiamava Filista - ed a chi lo riprendeva disse che una donna non è una buona pietra di paragone per l'indifferenza. Un'altra volta fu messo in agitazione dall'assalto di un cane e replicò a chi lo rimproverava che era difficile spogliare completamente l'uomo (6Àoax;e:pwç h3"'uvatl -rov 4v&p(l)nov) soggiungendo che contro le cose bisogna, in primo luogo, se è possibile, lottare con i fatti, se no con la ragione 76• In questa risposta è indubbiamente contenuta la cifra del filosofare pirroniano. Questo « spogliare completamente l'uomo» non ha come fine l'annullamento totale dell'uomo, ossia il non-essere assoluto, ma, al contrario, coincide con la realizzazione di quella « natura del divino e del bene da cui deriva all'uomo la vita più eguale », di cui parla il frammento di Timone, ossia la realizzazione di quella vita che non sente il peso delle cose, le quali, rispetto a quella natura, non sono che indifferenti, immisurate e indiscriminate apparenze. Lo « spogliare completamente l'uomo » è la realizzazione di quel ne sentire quidem, è il vivere quella « vita egualissima » (ta6"t'ot"t'oc; ~Eoc;), che scaturisce dalla «natura del divino e 75 Conche, Pyrrhon .. :, pp. 63 sg. •• Diogene Laerzio, IX, 66 ( = Decleva Caizzi, test. 15 A). [Abbiamo lievemente ritoccato la traduzione di M. Gigante, che rende l'espressione che abbiamo sopra riportato in greco « deporre completamente l'umana debolezza ,., mentre il senso delle parole di Pirrone è ancora più radicale].
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del bene che vive eterna», nella misura in cui è superamento delle labili apparenze e annullamento di tutti i loro fuggevoli e contraddittori effetti su di noi. Il successo che Pirrone raccolse è assai indicativo: esso dimostra, infatti, che non ci troviamo di fronte ad un caso sporadico né ad un sentire estraneo alla sua epoca dovuto solamente o prevalentemente agli influssi dell'Oriente, ma che, al contrario, ci troviamo di fronte ad un uomo che fu tosto considerato come un modello, e quindi ad un interprete degli ideali della sua epoca. Molti dei tratti del saggio stoico ripetono i tratti del saggio scettico; Epicuro stesso ammirava il modo di vivere di Pirrone e spesso chiedeva a Nausifane notizie su di lui. E nella sua patria Pirrone ebbe stima e onori al punto « da essere eletto sommo sacerdote » n, come abbiamo già detto, e già Timone lo cantò come « simile a un dio » 78 • I successori di Pirrone, con particolare
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riguardo a Timone Fra i discepoli di Pirrone due sono soprattutto degni di menzione: Nausifane di Teo 79 , proveniente dalla Scuola democritea, e Timone di Fliunte 80 • Diogene Laerzio, IX, 64 ( = Decleva Caizzi, test. 11). Timone, fr. 67 Diels ( = Decleva Caizzi, testt. 61 A e 61 B). 79 Cfr., sopra, quanto abbiamo detto di questo filosofo, pp. 167 sg . ., Timone nacque a Fliunte fra il 325 e il 320 a. C. (dr. in Brochard, Les sceptiques grecs, p. 97, nota 7, gli elementi in base ai quali si calcola tale data). Fu dapprima un danzatore, poi passò alla filosofia e ascoltò il megarico Stilpone. In un secondo momento divenne discepolo di Pirrone a Elide, dove restò alcuni lustri. Successivamente (riferisce Diogene, IX, 110) «costretto dalla necessità di procurarsi i mezzi per vivere, migrò nell'Ellesponto e nella Propontide. A Calcedonia, esercitando la professione di sofista, suscitò sempre maggiore ammirazione, e di Il, dopo essersi arricchito, se ne venne ad Atene, dove visse fino alla morte, eccetto un breve periodo che trascorse a Tebe ». Morl fra il 235 e il 230, sui novant'anni (ivi, 112). Scrisse 77
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Il primo di questi filosofi è importante perché, secondo alcuni testimoni, fu maestro di Epicuro, come già sappiamo. Pirrone, dunque, tramite Nausifane, può già aver esercitato influssi sul fondatore del Giardino. Il secondo, invece, è importante per aver fissato l'insegnamento di Pirrone in scritti. Stabilire se fra Timone e Pirrone ci siano differenze di pensiero e quali siano è pressoché impossibile. Aristocle, come già sappiamo, considerò Timone fedele interprete del maestro, e noi non abbiamo fondati motivi per mettere in dubbio questa fedeltà. Del resto, dai frammenti pervenutici non risulta che Timone possedesse quel particolare vigore speculativo, dal quale soltanto avrebbe potuto scaturire un ripensamento originale del maestro. Non solo, ma l'ammirazione e anzi la venerazione che Timone nutriva nei confronti del pensiero di Pirrone mostrano chiaramente che egli ne era pienamente pago 81 • Questo non toglie, naturalmente, che Timone apportasse dei contrib~ti su altri piani, anche importanti. In primo luogo, lo stesso fatto del mettere per iscritto un pensiero, che nel maestro aveva trovato solo espressione verbale ed esistenziale, comportava la necessità di dare ad esso una più precisa sistemazione e una rigorizzazione. E il sunto del pensiero scettico che Aristocle desunse dalle opere di Timone rivela notevole chiarezza e coerenza. In secondo luogo, fiss.ando per iscritto il pensiero del maestro, Timone fu anche costretto a misurarlo, per cosi dire~ con quello degli altri filosofi, e quindi a compiere un'operazione culturale, che doveva dare allo scetticismo un nuovo, un dialogo dal titolo Pitone (in cui narrava il suo incontro con Pirrone e la sua conversione al pirronismo), i Silli (di cui diremo nel testo), il poema Le apparenze, un trattato Sulle sensazioni e un libro di polemica Contro i Fisici. Una buona raccolta dei frammenti pervenutici è quella curata da H. Diels, Poetarum philosophorum fragmenta, Berlin 1901, pp. 173-206; dr. G. Voghera, Timone di Filiunte e la poesia sillografica, Padova 1904. •• Cfr. Diels, frr. 8, 9, 10, 11, 32, 48, 67.
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più ampio respiro. Naturalmente, la posizione dello scetticismo è cosi radicale che non ammette possibilità di mediazione con altre posizioni .di pensiero, sicché il confronto fra lo scetticismo e le altre filosofie doveva non tanto dare origine ad un incontro, quanto piuttosto ad uno scontro. Lo scettico, nei confronti dei filosofi che propongono positive visioni della realtà non può che avere un atteggiamento di rifiuto radicale: ogni affermazione positiva, per lo scettico, è dogma decettivo. ·Nella polemica che ingaggiò contro i «dogmatici», Timone utilizzò, anziché le astratte armi logico-dialettiche, quelle più concrete della satira e dell'irrisione, sfruttando una certa vena poetica di cui era dotato (e forse anche una certa abilità che aveva acquisito vivendo, negli anni della sua giovinezza, in qualità di ballerino con una compagnia di saltimbanchi, che del far ridere facevano mestiere). Nacquero, in tal modo, quei Silli (che furono 1a sua opera più letta e ammirata nell'antichità), che erano composizioni poetiche in cui la satira dei filosofi dogmatici era perseguita, oltre che con frecciate ironiche e lazzi, con gustosa parodia di versi omerici 82 • Gli studiosi sono riusciti a ricostruire, sia pure su basi largamente congetturali, tre scene dei Silli, assai gustose 83 • Una prima scena presentava una grande battaglia di filo12 Il Voghera (Timone ... , p. 11) cosi definisce i Silli: «La poesia sillografica è [ ... ] poesia satirica. Nettamente la determinano speciali caratteri di contenuto e di forma: di contenuto, perché [ ... ] essa è satira specialmente del dogmatismo filosofico; di forma, perché consta di versi che sono parodia di quelli di altri poeti, primo fra questi Omero ». Sillo (alno~) deriva da tlloç ( = òcp&o0..!-'-6ç, occhio), e indica l'atto di muovere gli occhi per deridere qualcuno, donde il significato traslato di irrisione e poesia irrisoria (dr. Voghera, Timone ... , pp. 9 sgg.). Del Voghera (ivi, p. 15) è anche l'ipotesi, che sopra abbiamo riferito, che il gusto dell'irridere venisse dall'esperienza giovanile di Timone con i saltimbanchi. '" La ricostruzione più plausibile è quella del Diels, Poetarum philosophorum fragmenta, pp. 182 sgg.
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sofi, parodiando versi omerici dell'Iliade, nella quale, di fronte ad un grande pubblico che assisteva con alti schiamazzi, si fronteggiavano dogmatici e antidogmatici. Eris, Dea della discordia incitava alla battaglia, che era una furibonda logomachia dalla quale usciva come vero vincitore il solo Pirrone. Una seconda scena rappresentava una pesca, in cui i pescatori erano Zenone e gli Stoici e forse anche gli Epicurei, mentre i pesci erano i filosofi dell'Accademia (con alla testa Platone), alcuni filosofi di Scuole socratiche, e, alla retroguardia, lo stesso Pirrone. Zenone (detto « vecchia fenicia ») invano cercava di irretire i pesci; infatti la rete (simbolo dei suoi capziosi argomenti) veniva trascinata dai pesci e dalla corrente: E vidi una vecchia fenicia ghiotta tumida di fumoso orgoglio bramosa di tutto. Le fibre del suo tessuto troppo sottile sono andate alla malora: la sua intelligenza era inferiore a quella di un piffero 84 •
La terza scena era una discesa agli inferi e doveva essere una parodia del canto XI dell'Odissea. L'evocazione delle ombre dei filosofi dava modo a Timone di lanciare contro di loro i suoi pungenti lazzi, 'nel modo più gustoso. I filosofi del passato che nelle loro opere espressero dubbi sulle possibilità della conoscenza del vero, o che comunque fecero affermazioni che in qualche modo potessero dar ragione allo scetticismo, venivano trattati con garbo da Timone 85 , gli altri venivano invece in vario modo vituperati e sbeffeggiati. Platone- tra l'altro- veniva accusato di plagio, per aver tratto il contenuto del Timeo da un libro pitagorico che aveva Diels, fr. 38 (traduzione di M. Gigante, con un ritocco). Un trattamento fra tutti privilegiato è riserbato a Senofane; dr. Diels, fr. 59. Con approvazione sono ricordati gli Eleati, per le critiche che essi muovono alla conoscenza sensibile; dr. Diels, frr. 44 e 45. Si veda anche il trattamento riguardoso serbato a Democrito; cfr. Diels, fr. 46. 84
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comprato 86 • La grande speculazione aristotelica veniva qualificata da Timone come «penosa futilità» 87 • Né Timone &i mostrava più tenero con filosofi suoi contemporanei. Violentissimi erano i suoi attacchi contro gli Stoici 88 e contro gli Epicurei 89 • Lo stesso Arcesilao non veniva risparmiato, ma, questa volta, per motivi diversi: Timone non gli perdonava (come vedremo nel prossimo capitolo) di non riconoscere il grosso debito che egli aveva nei confronti di Birrone; solo dopo la morte di Arcesilao, Timone depose le sue ire contro di lui· 90• In conclusione, l'importanza di Timone sta nell'aver egli messo per iscritto le dottrine del maestro, nell'averle sistemate, nell'aver tentato di metterle a confronto con quelle degli altri filosofi e, quindi, nell'averle messe in cirrolazione. Se Timone non fosse esistito, la storia dello scetticismo, probabilmente, non sarebbe stata quella che fu, e il patrimonio pirroniano sarebbe forse andato in gran parte disperso. Secondo alcune fonti 91 , con Timone la Scuola finisce e tace fino al I secolo a. C. Altre fonti danno invece una lista di nomi che attesterebbe la continuità della Scuola fino a Sesto Empirico e Saturnino 92 • Ma se anche cosi fosse, i rappresentanti della Scuola dopo Timone fino a Enesidemo resterebbero solamente nomi vuoti, privi di ogni significato. Con Enesidemo si inaugura, in realtà, una nuova fase dello scetticismo e di essa diremo nel quarto volume.
qr.
Diels, fr. 54 (cfr. anche frr. 19 e 62). D1els, fr. 36. • Cfr.'Qiels, frr. 13, 14, 38, 39, 65, 66. 19 Cfr. Diels, frr. 7 e 51. .. Cfr. Diefs; frr. 31, 32, 34. Dopo la morte di Arcesilao Timone compose un Banchetto funebre in suo onore, di cui Diogene Laerzio, IX, 115 (= Diels, fr. 73) scrive: « Pur attaccando Arcesilao nei Silli lo lodè'! tuttavia nell'opera intitolata Banchetto funebre di Arcesilao ». " Menodoto, presso Diogene Laerzio, xx, 115. 92 Si veda quanto diciamo nel vol. v, pp. 529 e 452 sg. 16
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II. TENDENZE SCETTICHE NELL'ACCADEMIA CON ARCESILAO
l.
La
« seconda
Accademia»
Lo scetticismo non si esaurisce con il circolo fiorito intorno a Pirrone: mentre Timone fissava e sviluppava nei suoi scritti le linee maestre del pirronismo, nell'Accademia platonica Arcesilao 1 inaugurava una nuova fase della Scuola, assumendo posizioni per molti aspetti vicine a quelle di Timone e di Pirrone. Di questa fase dell'Accademia dobbiamo ora occuparci, giacché essa costituisce l'anello ideale che unisce il primo e il secondo scetticismo pirroniano, e porta innanzi le istanze scettiche anche quando il pirronismo momentaneamente tace. Sfortunatamente le nostre fonti su Arcesilao sono scarse e sono altresl suscettibili di diverse interpretazioni, sicché la ricostruzione delle motivazioni della improvvisa svolta che ' Arcesilao nacque intorno al 315 a.C. a Pitane nell'Eolide (cfr. Brochard, Les sceptiques grecs, p. 100, nota 1). Venuto ad Atene, forse all'inizio del secolo 111, frequentò dapprima il Peripato e ascoltò Teofrasto (Diogene Laerzio, IV, 29); quindi passò all'Accademia e fu discepolo di Crantore, prima, e poi di Polemone e di Cratete. Studiò, inoltre, la dialettica della Scuola megarica e forse conobbe Pirrone. Successe a Cratete nella direzione dell'Accademia, dove tenne lezione con molto successo. Scrive Diogene Laerzio (Iv, 37): «Era straordinariamente inventivo nell'affrontare felicemente le obiezioni, nel riportare il corso della discussione sul tema proposto e nell'adattarsi ad ogni situazione. Aveva una impareggiabile forza di persuasione: perciò parecchi accorrevano a sentire le sue lezioni, benché temessero il suo spirito pungente. Ma sopportavano di buon grado le sue punzecchiature, perché era molto buono e riempiva di speranze i suoi uditori ». Mori intorno al 240 a. C.
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egli impresse all'Accademia e del puntuale articolarsi di quelle motivazioni è in larga misura congetturale 2 • In primo luogo, è indubbio che Arcesilao si possa definire Scettico. La accesa avversione di Timone nei confronti di Arcesilao 3 ne è conferma: Timone sentiva la nuova posizione dell'Accademia come una autentica invasione del proprio campo. Del resto, sia pure a denti stretti, almeno in un'opera, egli fu costretto ad approvare Arcesilao •. E, al di là di tutte le polemiche, Sesto riconosce espressamente di non vedere differenze essenziali fra Arcesilao e lo scetticismo: Arcesilao [ ... ] pare a me che partecipi proprio dei ragionamenti pirroniani, tanto da essere unico l'indirizzo suo e il nostro. E invero, né si trova ch'egli si pronunci intorno all'esistenza né intorno alla non esistenza delle cose, né giudica preferibile, rispetto alla credibilità o non credibilità, una cosa a un'altra, ma in tutto sospende il suo giudizio 5•
Inoltre è chiaro che Arcesilao giunse allo scetticismo per influsso del pirronismo. In Socrate e in Platone vi sono sicuramente tratti aporetici, posizioni di dubbio, improvvise sospensioni di giudizio: ma sono quasi sempre ironicamente e maieuticamente finalizzate al ritrovamento della verità, o, in ogni caso, alla preparazione mediata ·di questo ritrovamento. E in Socrate e in Platone il dubbio è sempre mezzo e mai fine. Certamente un Accademico poteva stralciare dai dialoghi platonici tutto un catalogo di espressioni, momenti e passaggi dubitativi: ma questi, in ogni caso, non avrebbero potuto 2 Cfr. Brochard, Les sceptiques grecs, pp. 99-122; Goedeckemeyer, Die Geschichte des griechischen Skeptizismus, pp. 30-47; Dal Pra, Lo scetticismo greco2 , I, pp. 115 sgg. Ancora molto utile è L. Credaro, Lo scetticismo degli Accademici, 2 voli., Roma 1889-1893. • Cfr. Diogene Laerzio, IX, 114. • Cfr. Diogene Laerzio, IX, 115. • Sesto Empirico, Schizzi pi"oniani, I, 232.
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assumere un significato scettico nel senso di cui ora ragioniamo, se non prescindendo da tutta la parte costruttiva e positiva, che è tutt'altro che di poco momento in Socrate, ed è addirittura massiccia in Platone. La spinta per operare questo annullamento non poteva venire che dall'esterno, cioè da istanze nuove rispondenti a una logica decisamente eterogenea rispetto a quella del socratismo e del platonismo. Arcesilao, dunque, si ispirò alle istanze dello scetticismo pirroniano e le fuse con quegli elementi del socratismo e del platonismo di cui abbiamo ora detto, facendo perdere ad essi per intero il loro significato originario. Ed è assai indicativo il fatto che Arcesilao ritenesse di dover respingere addirittura l'unica certezza che Socrate vantava, cioè il sapere di non sapere: Arcesilao negava perfino di sapere di non sapere 6 • Tale inversione di rotta era il prezzo che l'Accademia pagava per entrare nel vivo delle discussioni filosofiche della nuova età, ma era anche la rinuncia alla fedeltà rispetto al proprio passato 7 •
2. Impostazione dialettica dello scetticismo di Arcesilao
Il metodo ironico-confutatorio, che Socrate e Platone usavano per cercare il vero, fu da Arcesilao largamente utilizzato nel nuovo senso scettico e fu da lui diretto in modo massiccio e implacabile soprattutto contro gli Stoici, particolarmen• Cicerone, Acad. post., I, 12, 45. 7 E pertanto impossibile affermare, con il Brochard (Les sceptiques grecs, p. 97), che «se Pirrone non fosse esistito, l'Accademia sarebbe stata press'a poco quella che è stata» (cfr. anche Robin, Pyrrhon ... , pp. 42 sgg.), appunto perché le deduzioni scettiche, che Arcesilao trae dal socratismo e dal platonismo, sono contro Io spirito di Socrate e di Platone e presuppongono lo spostamento su un altro piano. E vero, invece, che, inserendosi nella tradi· zione accademica, lo scetticismo da etico che era, diventa dialettico.
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te contro Zenone 8 • Si trattav·a di confutare la Stoa con le sue stesse armi e ridurla al silenzio. In particolar modo, ArcesHao sottopose a serrata critica il criterio stoico della verità, che i filosofi del Portico identificavano, come sappiamo, con la rappresentazione catalettica. Il nerbo della sua critica consisteva in questo: Se l'apprensione è l'assenso della rappresentazione catalettica, è insussistente, in primo luogo, perché l'assenso non ha luogo in relazione alla rappresentazione, berisl in relazione alla ragione (infatti gli assensi sono giudizi), in secondo luogo perché non si trova alcuna rappresentazione vera che sia tale da non poter essere falsa 9 • Se cosl è, allorché noi assentiamo, rischiamo di assentire a qualcosa che può essere anche falso. Quello che nasce dall'assenso non può dunque essere mai certezza e verità, ma solo opinione. E allora delle due l'una: o il saggio stoico dovrà accontentarsi di opinioni, o, se ciò è per il saggio inaccettabile, dato che saggio è solo chi possiede la verità, il saggio dovrà sospendere l'assenso, essere «acatalettico»: Poiché tutte le cose sono inapprensibili, per il motivo che non esiste il criterio stoico, allora, se il saggio darà il suo assenso, avrà mera opinione: infatti, poiché non c'è nulla di apprensibile, se il saggio darà l'assenso a qualcosa, lo darà a ciò che è inapprensibile, e l'assenso a ciò che è inapprensibile è appunto l'opinione. Di conseguenza, se il saggio è uno di coloro che dà l'assenso, il saggio è uno di coloro che hanno semplice opinione. Ma il saggio non è uno che ha semplici opinioni (infatti per gli Stoici l'opinione è insipienza e causa di errori); dunque il saggio non è uno di eoloro che danno l'assenso. Ma se è cosl, il saggio dovrà astenersi dal dare l'assenso su tutte le cose. Ma astenersi dal dare l'assenso non è altro che sospendere il fl.iudizio: dunque il saggio sospenderà il giudizio su tutte le cose 10 •
• Cicerone, Acad. post., 1, 12, 44 sg. • Sesto Empirico, Contro i matem., VII, 154. 10 Sesto Empirico, Contro i matem., VII, 156 sg.
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3.
L'epoché di Arcesilao
La« sospensione del giudizio», che lo Stoico raccomandava solo nei casi di mancanza di evidenza, viene cosl generalizzata da Arcesilao, una volta stabilito che non c'è mai assoluta evidenza. Sull'epoché Arcesilao dovette effettivamente insistere in modo del tutto particolare: Arcesilao dice che il fine è la sospensione del giudizio [ ... ] ; e, inoltre, che beni sono le singolari sospensioni del giudizio, mali le singolari affermazioni 11 • Abbiamo già rilevato che l'epoché come termine, se non come concetto, sembra essere invenzione di ArcesHao e non di Pirrone, guadagnata appunto nel contesto di questa polemica antistoica 12 • Come abbiamo visto, però, Pirrone parlava già di « astensione dal giudizio » e di « adoxfa ». Arcesilao ha dunque approfondito e sviluppato il concetto pirroniano e lo ha abilmente applicato nella polemica antistoica. L a d o t trina d e 11' « eu l o go n » o d e l « r agi onevole »
4.
Naturalmente gli Stoici dovettero vivacemente reagire e dovettero controbiettare che la sospensione radicale dell'assenso implicava l'impossibilità di risolvere il problema della vita (l'unico problema, che, come ben sappiamo, interessava alla filosofia dell'epoca) e rendeva impossibile qualsiasi azione. E Arcesilao dovette rispondere con l'ar" Sesto Empirico, Schizzi pirroniani, 1, 232 sg. " Sul problema cfr. P. Coussin, L'origine et l'évolution de l'époché, in "Revue des études grecques », 42 (1929), pp. 373-397; cfr. anche, del medesimo autore, Le stolcisme de la nouvelle Académie, in « Revue d'histoire de la philosophie », 1929, pp. 241-276.
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gomento dell'eulogon o del« ragionevole ».Ecco l'argomento: Ma poiché dopo ciò bisogna anche occuparsi di ciò che concerne la condotta della vita, la quale non si può dare senza un criterio di verità, dal quale anche la felicità, ossia il fine della vita, trae la propria credibilità, Arcesilao afferma che chi sospende il suo assenso su tutto regolerà le sue scelte e i suoi rifiuti. e in generale le sue azioni col criterio del ragionevole o plausibile ('fii) cò~6ycp); e procedendo secondo questo criterio compirà azioni rette (xac-rop&<:,!J.otTrL): infatti la felicità si raggiunge mediante saggezza, e la saggezza (tpp6V'7jatt;) sta nelle azioni rette, e l'azione retta è quella che, una volta compiuta, ha una giustificazione ragionevole o plausibile. Dunque, chi si attiene al plausibile agirà rettamente e sarà felice 13 •
:1;: da rilevare, a proposito di questo passo, come la terminologia fortemente stoica riveli chiaramente che, più che di un argomento positivo, si tratta di un ragionamento dialettico contro gli Stoici. Il suo senso pare debba essere il seguente. Non è vero che, sospendendo il giudizio, l'azione morale resta impossibile. Infatti gli stessi Stoici, per spiegare le comuni azioni morali, come abbiamo visto, avevano introdotto i kathekonta, considerandoli azioni che hanno una loro plausibile e ragionevole giustificazione. E mentre solo il saggio era capace di azioni morali perfette, tutti erano invece capaci di compiere i kathekonta. Ma, allora, ecco dimostrato che l'azione morale è possibile anche senza il ritrovamento della V erità e senza la certezza assoluta, dato che i kathekonta sono possibili anche senza la verità e la certezza assoluta. Anzi e questo parrebbe il senso dell'argomento letto- il ragionevole o plausibile basta addirittura per compiere « azioni rette » (katorthomata). Infatti chi compie azioni ragionevoli è felice, ma la felicità implica saggezza (phronesis), e dunque le azioni fatte col criterio del ragionevole sono sagge e sono pertanto •• Sesto Empirico, Contro i matem., vn, 158.
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vere azioni rette. E con questo si dimostra, con le armi stesse degli Stoici, essere sufficiente il ragionevole e assurde le pretese del Saggio e della sua morale superiore 14 •
5. Il preteso «dogmatismo esoterico» di Arcesilao Ad Arcesilao, infine, viene attribuito un dogmatismo esoterico, accanto allo scetticismo essoterico. Egli, in altre parole, avrebbe fatto professione di scetticismo all'esterno e di dogmatismo platonico all'interno dell'Accademia con i discepoli più intimi. Ecco la testimonianza di Sesto Empirico, che ad alcuni è sembrata decisiva: Che se si deve prestar fede anche a quello che di lui si racconta, dicono che, a prima vista, si mostrava un Pirroniano, ma, in verità, era un Dogmatico; e poiché metteva alla prova i compagni per mezzo dell'aporetica, per vedere se avessero buona disposizione ad apprendere i dogmi di Platone, pareva un aporetico, mentre con i compagni da natura ben disposti, metteva mano alla dottrina di Platone. Onde, anche, narrano che Aristone dicesse di lui: «davanti Platone, dietro Pirrone, in mezzo Diodoro», appunto perché adoperava la dialettica di Diodoro, ma era senz'altro un Platonico 15 • In realtà Sesto stesso, come è evidente, non presta fede alla diceria e la riporta subito dopo aver det~ chiaramente che, per lui, Arcesilao è uno Scettico 16 • D'altro canto, è da rilevare che la testimonianza di Diogene Laerzio, che riferisce lo stesso detto dello Stoico Aristone,
I,
" Cfr. Robin, Pyrrhon ... , pp. 61 sgg. e Dal Pra, Lo scetticismo greco, pp. 147 sgg. 15 Sesto Empirico, Schizzi pirroniani, I, 234. " Cfr. Sesto Empirico, Schizzi pirroniani, I, 232 sgg.
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si presta a tutt'altra interpretazione: Secondo alcuni, in dipendenza dalla sospensione del giudizio su ogni argomento, non scrisse neppure un libro [ ... ] . Tuttavia, secondo l'opinione di altri, fu anche emulo di Pirrone. Si dedicò anche allo studio della dialettica, seguendo il metodo della scuola di Eretria. È per questo che Aristone diceva di lui: « Davanti Platone, dietro Pirrone, in mezzo Diodoro» 17• Il mordace detto dello Stoico Aristone, che è una parodia del verso dell'Iliade in cui si descrive la Chimera 18 , voleva dire questo: la faccia con cui si presentava Arcesilao era quella di un platonico (in quanto continuatore e capo della Scuola di Platone); dietro alla faccia, cioè nella sostanza, era un pirroniaho; nel mezzo, cioè negli strumenti che usava, era un dialettico megarico (la Scuola di Eretria - ricordiamolo - aveva preso il proprio metodo dai Megarici) 19 • Tale esegesi è confermata dalla testimonianza dello Scettico Timone (contemporaneo di Arcesilao ), il quale con la sua pungente ironia, sottolinea i legami di Aroesilao con Pirrone e con i Megarici: Con Menedemo sotto il petto a guisa di piombo, correrà verso Pirrone- tutta carne- o verso Diodoro 20 • E ancora: Andrò a nuoto da Pirrone o dal tortuoso Diodoro 21 • Come è nata, allora, la diceria intomo al « dogmatismo esoterico » di Arcesilao? Diogene Laerzio, IV, 32 sg. Iliade, VI, v. 181. 19 Cfr., sopra, pp. 80-82. "" Timone, fr. 31 Diels. 2 ' Timone, fr. 32 Diels. 17 11
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Possediamo documenti che ci permettono di stabilire che essa è nata, per cosi dire, da opposte sponde. Da un lato, alcuni avversari accusarono Arcesilao di essere uno sleale, ossia uno Scettico solo per convenienza, e di restare in realtà un dogmatico. Dall'altro lato, allorché l'Accademia ritornò, come vedremo, al dogmatismo, cercò di ridimensionare la fase scettica, appunto accreditando la tesi del « dogmatismo esoterico». L'accusa degli avversari ci è riportata da Numenio, che, peraltro, espressamente la dichiara non credibile: In realtà Arcesilao era un pirroniano, eccetto che nel nome; non era Accademico se non perché era detto tale. Infatti non credo a Diocle di Cnido, il quale dice, nei suoi libri intitolati Diatribe, che Arçesilao, per timore dei seguaci di Teodoro e di Bione, che ·attaccavano coloro che filosofavano e non esitavano a confutarli con ogni mezzo, per evitare le difficoltà, si guardò bene dall'affermare alcun dogma apertamente, gettando davanti a sé la « sospensione del giudizio » come fa la seppia con la sua sostanza nera 22 •
Si noti che sia Sesto sia Numenio, pur riportando la notizia del« dogmatismo esoterico »,non credono che sia vera. Invece Cicerone, che è portavoce dell'Accademia eclettica, sembra accreditare la notizia, ma non è assolutamente in grado di dire in che cosa consistessero questi « dogmi occulti » 23 • Ora è evidente che, se davvero ci fossero stati, nessuno meglio di lui avrebbe potuto essere in grado di conoscerli e riferirli. La verità è che faceva comodo a certi Accademici, per poter sostenere l'unità della propria tradizione, credere a questi « dogmi occulti», per poter colmare quel vistoso Jato, che era costituito dalla fase scettica. Perciò Cicerone non fa che ripetere 22 Numenio, presso Eusebio, Praep. evang., XIV, 6, 6 ( = fr. 25 des Plaoes). 23 Cfr. Cicerone, Acad. pr., n, 18, 60; dr. anche Agostino, Contra Acad., III, § 43.
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una tesi che aveva sentito dai suoi maestri, ma senza essere in grado di provarla. L'impossibilità di attribuire ad Arcesilao « dogmi occulti », infine, ·emerge non solo dai documenti e dalle circostanze sopra esaminati, ma anche dall'esame obiettivo della progressiva perdita del nucleo metafisico del platonismo che caratterizza l'Accademia antica a partire già da Speusippo e che tocca il limite con Cratete, Polemone e Crantore 24 , i qua1i furono maestri di Arcesilao. Per poter professare e insegnare « dogmi occulti», Arcesilao avrebbe dovuto recuperare quel senso della « seconda navigazione » che i suoi maestri avevano perduto e che per molto tempo ancora, come vedremo, l'Accademia sarà incapace di tiguadagnare.
6. A p or e t i ci t à e li m i t i d e 11 o s c e t t i ci s m o d i Arcesilao
Lo scetticismo di Arcesilao differisce notevolmente da quello pirroniano sia per i motivi da cui nasce, sia per la sua consistenza speculativa, sia per la temperie spirituale che crea attorno a sé. Lo scetticismo di Pirrone, come abbiamo visto, è uno scetticismo che nasce per risolvere il problema della vita e della felicità: nasce da un sentimento della vita che vede nella rinuncia, nell'imperturbabilità e nell'impassibilità il segreto della felicità. La formulazione e lo sviluppo delle dottrine pirroniane, come abbiamo visto, non sono se non la formulazione e la motivazione di quei presupposti e di quei corollari che conseguono a quella fondamentale intuizione del senso della vita. Invece lo scetticismo accademico inaugurato da Arcesilao risulta svuotato di quella carica e si impoverisce in senso •• Cfr., sopra, pp. 116-120.
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«dialettico», in quanto tende a diventare puro elenchos, mera confutazione dell'avversario stoico. In sostanza lo scetticismo di Arcesilao finisce per ridursi, in ultima analisi, ad un tentativo di rovesciamento dei dogmi della Stoa, senza alcuna capacità di proporre positive alternative di alcun genere. Lo scetticismo di Arcesilao è di breve respiro e di limitata vita: vive solo nella misura in cui distrugge l'avversario 25 , e poi, ucciso l'avversario, con lui cade esanime sul campo deserto.
• Si vedano le osservazioni (a nostro avviso esatte) che il Dal Pra faceva nella prima edizione de Lo scetticismo greco, p. 117 (nella nuova edizione sono state eliminate).
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III. ULTERIORI AFFERMAZIONI DELLO SCETTICISMO NELLA ACCADEMIA CON CARNEADE
l.
La «terza Accademia » 1
Per circa mezzo secolo l'Accademia si mosse pigramente lungo la via aperta da Arcesilao 2 • A darle un nuovo impulso fu Carneade, uomo dotato di notevole ingegno e fornito di una eccezionale capacità dialettica unita ad una abilità retorica sorprendente 3 • Anche Carneade non scrisse nulla e affidò il suo magistero interamente alla parola; tuttavia non furono ragioni di tipo socratico né ragioni di tipo pirroniano che motivarono questo atteggiamento, ma piuttosto la natura intrinseca del suo stesso pensiero, che era puramente negativo e distruttivo, nonché il modo dialettico ed eristico con cui questo pensiero si esplicava: infatti, messo per iscritto, quanto ' Adottiamo la distinzione dei periodi dell'Accademia riferita da Sesto Empirico, Schizzi pi"omani, I, 220. 2 Cfr. Dal Pra, Lo scetticismo greco•, I, pp. 165 sg. 3 Carneade nacque a Cirene intorno al 219 a. C. (dr. i documenti da cui si ricava la data in Brochard, Les sceptiques grecs, p. 124, nota 2). Recatosi ad Atene, studiò a fondo il pensiero filosofico delle Scuole allora in auge e in particolar modo il pensiero di Crisippo, ma in chiave critica. Le sue preferenze si orientarono infatti, ben presto, verso l'Accademia, di cui divenne seguace, e, morto Egesino, divenne scolarca. Cicerone (Acad. post., I, 12, 46) ricorda la sua grande cultura filosofica con ammirazione (dr. anche Diogene Laerzio, IV, 62). Nel 156/155 fu mandato come ambasciatore a Roma, insieme ai due altri scolarchi delle maggiori Scuole ateniesi (Critolao, scolarca del Liceo e Diogene di Babilonia, scolarca del Portico). A Roma Carneade riscosse successo e ammirazione, tenendo, in due giorni diversi, due discorsi di tenore opposto intorno alla giustizia, e offrendo in tal modo un saggio esemplare della sua dialettica (cfr. Plutarco, Gato major, 22). Morl quasi novantenne nel 129 a. C. (cfr. Cicerone, Acad. pr., 11, 6, 16).
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CARNEADE
Carneade diceva avrebbe perso tutto il fascino che gli derivava dall'abile e suadente parola parlata. Il metodo carneadeo seguiva sostanzialmente due linee direttive. Da un lato, secondo il procedimento dialettico, già adottato da Arcesilao, cercava di ridurre gli avversari all'assurdo, utilizzando gli elementi desumibili dal loro stesso pensiero, con abili giochi di interna contrapposizione. Dall'altro, egli utilizzava altresl il tipico procedimento sofistico basato sulla contrapposizione di opposte tesi e opposte ragioni, anche desunte da opposti sistemi. Il celebre saggio di dialettica che diede a Roma 4 fra l'attonito stupore dei vecchi e l'entusiastica sorpresa dei giovani, fu appunto improntato a questo secondo principio: il primo giorno Carneade sostenne sulla giustizia determinate tesi confortate da determinate motivazioni, il secondo giorno sostenne tesi esattamente opposte con le relative motivazioni opposte. Vittime di questa dialettica furono, ancora una volta, gli Stoici, e soprattutto Crisippo, che aveva riportato il Portico a nuovo successo. Anzi è possibile addirittura dire che, tolta la polemica antistoica, di Carneade non resta quasi nulla. Egli stesso lo ha onestamente confessato, secondo quanto riferisce Diogene: Lesse con molta cura le opere degli Stoici e particolarmente quelle di Crisippo, anzi contraddiceva con tanta equità alle loro tesi e conseguiva tanto successo che soleva dire: «nulla io sarei se non fosse esistito Crisippo » 5 • E di Crisippo e dello stoicismo Carneade criticò tutto l'arco del sistema, dalla logica alla fisica, all'etica. Dell-a logica criticò la dottrina della rappresentazione catalettica, la dottrina della dimostrazione e la dialettica; della fisica criticò so• Cfr. nota precedente. • Diogene Laerzio, IV, 62.
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prattutto la parte riguardante l'esistenza di Dio, la sua natura,
il politeismo, la dottrina della Provvidenza, la credenza nella mantica, nonché la dottrina del destino; e dell'etica criticò il fondamento stesso, come sotto vedremo, nonché la dottrina del sommo bene e della giustizia 6 • · Queste critiche, per quanto sottili e ingegnose, restano fondamentalmente vuote, perché distruggono senza costruire. Esse non aprono nuove vie al pensiero né sottintendono alcun messaggio che non sia la semplice negazione dell'avversario. Pertanto tali critiche in una Storia della filosofia antica, intesa come storia dei grandi problemi speculativi del pensiero greco-romano, rivestono importanza relativa e suonano prevalentemente come accademiche nel senso moderno e negativo del termine, ossia come scolastiche, in quanto scadono, in larga misura, a livello di conflitci fra diverse correnti. Ci limiteremo, pertanto, a cogliere ciò che in esse è essenziale.
2.
C ri t i c a d e l cri t e ri o s t o i c o d e 11 a v eri t à
In primo luogo, diciamo della critica del criterio di verità. Secondo Carneade non esiste alcun criterio di verità in generale: Carneade, per quanto concerne il criterio della verità, si oppose non solò agli Stoici, ma a tutti i filosofi a lui precedenti. Infatti il suo primo argomento diretto ad un tempo contro tutti i filosofi è quello in base al quale stabilisce che non esiste in assoluto alcun criterio di verità: non il pensiero, non la '!ensazione, non la rappresentazione, né alcun'altra delle cose che sono; infatti tutte queste cose in complesso ci ingannano 7 •
• Si potrà trovare una buona esposizione di questi argomenti in Brochard, Les sceptiques grecs, pp. 127 sgg. e Dal Pra, Lo scetticismo greco, I, pp. 174-270. · Sesto Empirico, Contro i matem., VII, 159.
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Posto che un criterio esista, dovrebbe consistere o nella sensazione, o nella rappresentazione (e in particolare nella rappresenta21ione catalettica), o nella ragione. Orbene, i sensi non possono offrirei alcuna garanzia di verità, perché spesso ci ingannano (il bastone ci appare spezzato nell'acqua, il collo della colomba ci appare multicolore, mentre in realtà ha un solo colore, e cosl via) 8 • E nemmeno l'apprensione e la rappresentazione com·prensiva sono garanzia di verità. Infatti non la rappresentazione come rappresentazione può essere criterio, ma solo la rappresentazione vera, cioè la rappresentazione corrispondente all'oggetto di cui è rappresentazione. Ma nessuna rappresentazione è tale da garantire la propria verità (ossia la propria corrispondenza all'oggetto); infatti le rappresentazioni vere e quelle false non differiscono fra loro come rappresentazioni; o, per dirla in altri termini, accanto alle rappresentazioni vere ve ne sono sempre delle false che, pur essendo tali, non hanno contrassegni speciali che le distinguano dalle prime 9 • Per conseguenza, nessuna rappresentazione si presenterà a noi fornita di caratteri tali da meritare l'assenso 10• Infine non offre garanzia di verità nemmeno la ragione in quanto tale, perché essa deriva da:lla rappresentazione e ne dipende 11 • L'atteggiamento corretto sarà, dunque, quello di negare ogni nostro assenso alle rappresentazioni e sospendere il nostro giudizio. L'epoché, anche per Carneade, rimane pertanto la parola ultima.
• Cfr. Cicerone, Acad. post., II, 25, 79. ' Cfr. Sesto Empirico, Contro i matem., vn, 159 sgg., 411 sgg. 10 Cfr. Cicerone, Acad. pr., II, 31, 99. 11 Cfr. Sesto Empirico, Contro i matem., VII, 165.
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3.
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La dottrina del « pithan6n » o del
«pro-
ba bile» Si capisce che, mancando un criterio generale della verità, scompare anche ogni possibilità di ritrovare qualsiasi particolare verità. Ma non per questo scompare anche la necessità dell'azione. È appunto per risolvere il problema della vita che Carneade escogita la sua celebre dottrina del « probabile » (7tt.&cxv6v), che ci è chiaramente riferita da Sesto nel passo che segue: Cosl ragionava Carneade, contrastando con gli altri filosofi, per dimostrare l'inesistenza del criterio. Richiesto, però, anch'egli di qualche criterio per la condotta della vita e l'acquisto della felicità, è costretto, in certo modo, a prendere egli pure, per conto suo, posizione a questo riguardo, assumendo l) la rappresentazione probabile, 2) quella probabile e insieme non contraddetta e 3) quella esaminata da ogni parte 12 • l) La rappresentazione, rispetto all'oggetto, è o vera o falsa; invece, rispetto al soggetto, appare vera oppure falsa. Atteso che il vero . oggettivo sfugge all'uomo, non resta che attenersi a ciò che appare vero. Pertanto la rappresentazione che appare vera con sufficiente evidenza è criterio di verità. Orbene la rappresentazione che appare vera è il probabile 13 • 2) Poiché le rappresentazioni sono sempre fra loro congiunte e collegate, un più elevato grado di probabilità offre quella rappresentazione che s'accompagna alle altre che le sono connesse in maniera tale da non essere contraddetta da 12 Sesto Empirico, Contro i matem., VII, 166. Riportiamo qui, e sotto, la versione di O. Tescari, modificando, però, la traduzione dei termini tecnici, che dal Tescari non sono resi in modo preciso (la traduzione di questi passi dell'opera Contro i matematici si trova in nota alla traduzione degli Schizzi pi"oniani, pp. 66 sgg.). •• Cfr. Sesto Empirico, Contro i matem., VII, 166-175.
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CARNEADE
nessuna di queste (per esempio, se da lontano percepisco la figura di un uomo che mi pare di riconoscere, ho una rappresentazione che mi pare vera; ma se io noto che tutto il complesso di rappresentazioni ad essa connesse, quali l'abbigliamento, il gesto, la statura, il tratto generale etc., non smentiscono la rappresentazione in parola, allora ho la rappresentazione persuasiva e non contraddetta, che possiede, ovviamente, un grado maggiore di probabilità) 14 • 3) Infine, la rappresentazione persuasiva non contraddetta ed esaminata da ogni parte è quella che, alle caratteristiche
delle due precedenti, aggiunge altresì la garanzia di un metodico esame completo di tutte le rappresentazioni connesse: Nella rappresentazione esaminata da ogni parte sottoponiamo attentamente ad esame ciascuna delle rappresentazioni concorrenti, a quel modo che si fa nelle assemblee popolari, quando il popolo esamina ciascuno di coloro che si presentano per essere eletti a governare o a giudicare, per vedere se è degno che gli venga affidato l'ufficio di governatore o di giudice 15 •
E qui abbiamo un grado ancor maggiore di probabilità: Per la qual cosa a quel modo che nella vita, quando indaghiamo intorno ad un fatto di scarsa importanza, interroghiamo un solo testimonio, quando il fatto è d'importanza massima, più di un testimonio, e, se la cosa ci tocca più da vicino, sottoponiamo, anche, ad esame ciascuno dei testimoni, in base alla deposizione degli altri, così, dice Carneade, nelle cose di nessuna importanza adoperiamo, come criterio, la rappresentazione soltanto probabile, in quelle di qualche importanza la non contraddetta, in quelle che concernono la felicità, la rappresentazione esaminata da ogni parte 16 •
Nelle circostanze in cui occorrerà decidere con urgenza, ci dovremo accontentare della prima rappresentazione, se avremo •• Cfr. Sesto Empirico, Contro i matem., VII, 176-181. " Sesto Empirico, Contro i matem., vn, 182 . .,. Sesto Empirico, Contro i matem., VII, 184.
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pm tempo cercheremo di avere la seconda, e se avremo a disposizione tutto il tempo per procedere all'esame completo, la terza 17• Sulla base di questa dottrina si è parlato di probabilismo carneadeo e si è considerato questo probabilismo una via di mezzo fra scetticismo e dogmatismo 18 • Senonché, di recente, la critica ha mostrato che la dottrina del probabile di Carneade, più che come professione di dogmatismo mitigato, va intesa come argomentazione dialettica volta a rovesciare il dogmatismo degli Stoici, analogamente a quanto abbiamo visto a proposito della dottrina del ragionevole o del plausibile di Arcesilao 19 • A favore di questa nuova esegesi sta un argomento assai forte, e cioè che, cosi rome l'eulogon (ragionevole), anche il pithan6n (probabile) è un concetto squisitamente stoico. Ecco le definizioni stoiche:
! ragionevole (eulogon) un giudizio che ha parecchie possibilità di esser vero. Esempio: domani sarò vivo 20 • ! giudizio probabile quello che induce all'assenso. Esempio: «chi ha generato una cosa ne è madre».· Questo tuttavia non è necessariamente vero, perché la g~llina non è madre dell'uovo 21 • Da queste definizioni risulta evidente che Arcesilao ha sfruttato l'eulogon, Carneade, invece, il pithan6n: il primo per mostrare che il saggio stoico, contro le proprie pretese, non esistendo un criterio assoluto di verità, in realtà si regoCfr. Sesto Empirico, Contro i matem., vn, 185-189. Per le vecchie posizioni della critica al riguardo, cfr. Zeller, Die Philosophie der Griechen, m, l, pp. 531 sgg.; più sfumato il Brochard, Les sceptiques grecs, pp. 127 sgg. 19 Cfr. Couissin, Le sto"icisme de la nouvelle Académie, pp. 259 sgg.; Robin, Py"hon ... , pp. 95 sgg.; Dal Pra, Lo scetticismo greco", I, pp. 270 sgg. 21 Diogene Laerzio, VII, 76. 21 Diogene Laerzio, vn, 75. 17
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lava con non altro criterio se non con l'eulogon, il secondo per mostrare, del pari, che il saggio stoico, dal momento che non esisteva il criterio assoluto di verità, come tutti gli uomini comuni si regolava secondo il criterio del probabile. Se non esiste rappresentazione comprensiva, tutto è incomprensibile (acatalettico) e la conseguente posizione da assumere è: a) o l'epoché, cioè la sospensione dell'assenso e del giudizio, b) oppure l'assenso dato a ciò che è tuttavia incomprensibile. Se teoreticamente la prima posizione è quella corretta, è invece la seconda che, praticamente, come uomini, noi siamo costretti, per vivere, ad abbracciare. Né gli Stoici possono fare eccezione: pertanto il loro agire sarà fondato non sul fantomatico criterio assoluto della verità, bensl sul criterio della probabilità, che è un criterio non oggettivo ma soggettivo, e in ogni caso l'unico di cui l'uomo disponga. A conferma di questa interpretazione dialettica dell'argomentazione carneadea sta l'ulteriore fatto che anche la distinzione e la formulazione dei tre gradi della probabilità vengono fatte usando una terminologia che è di origine stoica 22 •
4.
V a Iuta zio n e
d eIIa
posizione
di
Ca rneade
Dunque, Carneade non ha mitigato lo scetticismo dell'Accademia, ma, semmai, lo ha sviluppato e articolato più sistematicamente, e non in senso positivo, ma solo in senso negativo, con il preciso intento di smantellare ogni aspetto della dottrina stoica. Come già lo scetticismo di Arcesilao, cosl anche quello di Carneade distrugge senza costruire alcunché, e, per questo motivo, ha vita alquanto .effimera. Il carattere quasi esclusivamente dialettico di questo scetticismo, ossia l'avere 22
Cfr. Couissin, Le stoicisme de la nouvelle Académie, pp. 264 sgg.; I, pp. 270-281.
Dal Pra, Lo scetticismo greco',
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come fine principale lo smantellamento dei dogmi della Stoa, comporta fatalmente la conseguenza che esso si esaurisca pressoché totalmente in quest'opera di smantellamento. Dopo Carneade l'Accademia non solo resta a mani vuote perché non ha più contenuti in cui credere, ma non ha più nemmeno strumenti per ricostruirli, perché la distruzione dello stoicismo è stata perseguita con le stesse armi logiche dello stoicismo 23 • Aggiungeremo ancora un rilievo che tocca la posizione morale di Carneade (cosl come tocca quella di Arcesilao) come scolarca dell'Accademia, cioè di una Scuola che non solo non rinuncia a se stessa, ma vuole competere con tutte le altre: in sostanza Carneade e l'Accademia scettica filosofano coll'assurda pretesa che la distruzione del credo delle altre Scuole sia ragione sufficiente per motivare l'esistenza di una Scuola, mentre sul credo del nulla nulla si sostiene. Il grande successo di Carneade si spiega fondamentalmente con la sua abilità e con il gusto che i Greci avevano sempre avuto e che ancora mantenevano per la dialettica, anche nelle sue effervescenze eristiche, e anche quando essa si presentava come puramente distruttiva. Cosl, mentre il pirronismo è uno scetticismo del
23 Il Dal Pra, nella prima edizione de Lo scetttctsmo greco (p. 217), valutava, a nostro avviso molto bene, la posizione di Carneade come segue: « L'atteggiamento scettico è una posizione limite, che non può determinarsi altro che come negazione. La stessa critica dello stoicismo non può assumere che un valore ipotetico; non si può conferirle un valore assoluto, senza riportarla sui terreno del dogmatismo stoico. Come pura critica, lo scetticismo è dunque sul punto di porsi come rinuncia alla filosofia, dal momento che esso ripudia ogni dogmatismo e d'altra parte non vede che l'istanza filosofica possa altrimenti risolversi che con delle soluzioni dogmatiche. Lo scetticismo non vive dunque di vita propria, ma si presenta come parassita, per sua stessa costituzione, destinato a morire coll'organismo in cui risiede e che distrugge. Questo il limite della posizione di Carneade; essa si abbarbica allo stoicismo, fino a distruggerlo; e poi? Carneade non va oltre lo stoicismo, se non in quanto distrugge lo stoicismo; ma non c'è davanti al fondatore della nuova Accademia se non un orizzonte vuoto; e vuota è, in verità, anche la distruzione dello stoicismo, in quanto essa non può assumere alcun significato costruttivo».
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CARNEADE
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tutto privo di elementi sofistici, lo scett1c1smo accademico sussume numerosi elementi sofistici, e perfino retorici (si ricordino i due opposti discorsi sulla giustizia tenuti da Carneade a Roma, che r:ipropongono metodi protagorei e gorgiani). Sono, in ogni caso, elementi formali che, se rendono lo scetticismo accademico metodologicamente più scaltrito di quello pirroniano, non lo aiutano, tuttavia, a darsi un contenuto. Lo scetticismo accademico è, in ultima analisi, l'esasperazione della componente negativa dello scetticismo pirroniano, cioè di quella componente che resta, se si toglie quel nuovo sentimento della vita che costi·tuiva l'autentica motivazione delle istanze dello scetticismo pirroniano, e che risulta invece assai debole nello scetticismo accademico 24 •
" Per gli esponenti della Accademia scettica fra Carneade e Filone, dr. le indicazioni che diamo nel vol. v, pp. 442-444.
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SEZIONE SECONDA
L'ECLETIISMO DELL'ACCADEMIA E CICERONE
« Non enim sumus i quibus nihil verum esse videatur, sed i qui omnibus veris falsa quaedam adiuncta esse dicamus tanta similitudine ut in is nulla insit certa iudicandi et adsentiendi nota. Ex quo exsistit et illud, multa esse probabilia, quae quamquam non perciperentur, tamen, quia visum quendam haberent insignem et inlustrem, his sapientis vita regeretur ».
«Non siamo di quelli che negano in assoluto la esistenza della veritlJ: d limitiamo a sostenere che ad ogni veritlJ è unito qualcosa che vero non è, ma tanto simile ad essa che quest'ultima non pulJ offrirei alcun segno distintivo che ci permetta di formulare un giudizio e di dare il nostro assenso. Ne deriva che d sono molte conoscenze probabili le quali, bencM non possano essere compiutamente accertate, appaiono cosl nobili ed elevate da poter fungere da guida per il saggio ». Cicerone, De natura deorum,
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I. LE RAGIONI E LE CARATTERISTICHE DELL'ECLETTISMO
Le correnti spirituali dell'età ellenistica che finora abbiamo esaminato hanno tutte quante una loro ben precisa fisionomia, hanno motivazioni ben determinate, hanno un significato storico di primaria importanza ed anche un valore che non si esaurisce nell'ambito dei secoli in cui fioriscono. Resta ancora da dire di una corrente, se cosi si può chiamare, di cui abbiamo già anticipato qualche carattere soprattutto parlando della media Stoa di Panezio e di Posidonio. Alludiamo all'eclettismo, cioè a quella tendenza che, a partire dal secondo secolo a. C., si fa sempre più forte, fino a diventare dominante nel primo secolo a. C., e ancora più tardi. Eclettismo è termine derivato dal greco ek-leghein (hÀéyuv), che significa trascegliere e riunire prendendo da varie parti. Esso è stato pertanto scelto molto felicemente, perché indica a perfezione il tratto caratteristico di questa tendenza che, ad un certo momento, contagia non poco tutte le Scuole: marginalmente l'epicureismo, ·accentuatamente lo stoicismo, pesantemente l'Accademia, e !in certa misura anche il Peripato 1• ' Naturalmente la denominazione è dowta alla moderna storiografia. I filosofi che noi chiamiamo « eclettici », si autodenominavano col nome tradizionale della Scuola cui appartenevano. Di Scuola eclettica parla bensl Diogene Laerzio, ma in riferimento solamente a quella fondata dall'oscuro Potamone Alessandrino, « il quale scelse di ciascuna scuola le massime che gli piacquero» (1, 21). Un punto fondamentale è da rilevare a questo pro-
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L'ECLETTISMO DELL'ACCADEMIA
Le cause che produssero questo fenomeno sono numerose: l'esaurimento della carica vitale delle singole Scuole, la unilaterale polarizzazione della loro problematica, l'erosione di molte barriere teoretiche, operata dallo scetticismo, il probabilismo diffuso dall'Accademia, l'influsso dello spirito pratico romano e la rivalorizzazione del senso comune. Esaminiamo ciascuna di queste cause in maniera analitica. l) Oltre all'epicureismo, allo stoicismo e allo scetticismo, l'età ellenistica, in epoca pagana, non produce più nulla di nuovo nel campo del pensiero filosofico. Epicuro aveva fondato il Giardino nel 307/306 ad Atene, Zenone aveva fondato il Portico nel 301/300 e prima ancora che nascessero il Giardino e il Portico, intorno al 323 Pirrone s'era fatto banditore del verbo scettico. Già sul finire del secolo quarto a. C., dunque, le nuove filosofie di cui si nutrl tutta l'età ellenistico-romana avevano visto la luce. Nel secolo terzo prosegui l'intensa parallela elaborazione di queste dottrine; basti pensare all'importanza dell'opera di Crisippo nella rielaborazione e nel consolidamento della dottrina stoica e al contributo di Timone alla sistemazione e alla diffusione dello scetticismo e al significato dell'inversione di rotta che Arcesilao impresse all'Accademia. Ma, a partire dal secondo secolo e ancor più nel corso del primo secolo a. C., in tutte le Scuole ~ilosofiche si manifesta quel processo di lisi che insensibilmente le corrode e che a poco a poco le svuota del significato originario e, soprattutto, le svuota dell'energia creativa, che è il vero sostegno di ogni sistema, e ad essa sostituisce lo sterile gioco della scolastica ripetizione. Orbene, è chiaro che, in queste precise condizioni, non solo ciascuno dei sistemi perde posito: Eclettici in senso vero e proprio non sono tutti quanti 1 pensatori che denotano influssi eclettici, ma solamente quei pensatori in Cui manchi una unitaria ispirazione di fondo capace di fare da contrappeso a quegli influssi.
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RAGIONI E CARATTERISTICHE
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via via la capacità di mantenere salde e incrollabili le barriere ideali contro le infiltrazioni delle idee provenienti dagli altri sistemi, ma è addirittur:a portato a cercare punti d'appoggio, motivi di conferma, o ampliamenti teoretici e innovazioni appunto negli altri sistemi, in senso eclettico. 2) Alla rapida erosione delle barriere ideali che all'origine dividevano i nuovi sistemi ellenistici dovette contribuire anche la comune polarizzazione etica della problematica filosofica e la riduzione della logica e della fisica a meri supporti dell'etica. In sostanza, tutte le correnti filosofiche ellenistiche, come abbiamo veduto, non ricercarono altro che l'atarassia, la pace dello spirito. E le risorse per raggiungere questa pace, tutte le Scuole ellenistiche le trovarono non in principi e in valori trascendenti, e neppure nelle cose e nel mondo esterno, ma solamente nel soggetto, in un particolare atteggiamento dello spirito, che in modo identico faceva dire, all'Epicureo, allo Stoico e allo Scettico, che il saggio può essere felice anche fra le fiamme. E fu proprio questa polarizzazione etica della problematica filosofica uno dei fattori che contribui a rendere sempre meno sensibili le opposizioni squisitamente teoretiche fra le parti avverse e che favori gli accomodamenti eclettici.
3) Ma da vero e proprio deterrente contro tutte le barriere ideali agì lo scetticismo con le sue critiche dissolvitrici di ogni dogma. Timone aveva già incominciato a criticare tutti i sistemi. E se gli Accademici presero di mira prevalentemente gli Stoici, ciò avvenne perché questi costituivano il più temibile avversario del tempo; tuttavia non mancarono di dirigere strati anche contro altre Scuole. E cosllo scetticismo, sia pirroniano sia accademico, finl per ridurre tutti i sistemi ad uno stesso denominatore comune di non validità e di non verità. Ma, a questo punto, come ha perfettamente rilevato lo Zeller, lo scetticismo, che mostrava come né questo - né quello valesse,
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L'ECLETTISMO DELL'ACCADEMIA
perché è impossibile provare la verità sia dell'uno sia dell'altro, poteva essere esattamente rovesciato e inteso come giustificazione sia di questo - sia di quello: infatti, se tutte le posizioni teoretiche sono egualmente non vere, si possono, allo stesso titolo, egualmente tutte respingere, oppure tutte accogliere, appunto mancando la verità assoluta come criterio discriminante 2 • 4) Lo stesso criterio del « ragionevole » di Arcesilao e del « probabile » di Carneade offrirono una piattaforma su cui
l'eclettismo doveva còstituirsi. Carneade dovette presentare il suo « probasbilismo » originariamente in senso ironico-dialettico, come vedemmo, ossia principalmente allo scopo di rovesciare la posizione dell'avversario stoico. Ma tosto, attenuatosi l'obiettivo polemico, e ammorbiditasi la stessa posizione dell'avversario, il probabilismo fu inteso dall'Accademia in senso positivo, come ciò che è vicino al vero o ne tiene le veci, come tosto vedremo. Ed è proprio sulla categoria del probabile che l'Accademia, dopo Carneade, costruisce il suo eclettismo. 5) Infine, fu di notevole incidenza, nel consolidarsi delle tendenze eclettiche, l'introdursi e il diffondersi della filosofia greca a Roma. E a Roma la filosofia fu accolta solo nella misura in cui poteva essere suscettibile di applicazioni pratiche ed educative, cioè nella misura in cui poteva completare la cultura e la formazione spirituale dell'uomo. A questo scopo, evidentemente, una filosofia che unificasse (o, almeno, che credesse di unificare) le istanze delle varie Scuole, si presentava come l'optimum. E in effetti Panezio, che, come abbiamo visto, introdusse nella Stoa aperture eclettiche, esplicò gran parte della sua attività a Roma. A Roma, come vedremo, Filone di Larissa cambia l'indirizzo dell'Accademia con uno scritto che fa indignare perfino il suo discepolo Antioco di Ascalona, già ' Cfr. Zeller, Die Philosophie der Griechen, m, l, p. 549.
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RAGIONI E CARATTElliSTICHE
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decisamente avviato al dogmatismo eclettizzante. E a Roma nasce quella che può considerarsi la forma più tipica dell'eclettismo, vale a dire la filosofia di Cicerone. 6) Per giustificare la scelta delle varie dottrine da accogliere, l'eclettismo trova un suo principio (come ha ben messo in rilievo ancora lo Zeller ): il principio della coscienza e della consapevolezza interiore. Accade qualcosa di analogo a ciò che accadrà nella Scuola scozzese per reazione allo scetticismo di Hume: si rivaluta il senso comune, il consenso. E se, nota sempre lo Zeller, per questa via non si fonda una conoscenza della verità ma la credenza nella probabilità; ebbene, dopo la crisi dello scetticismo, questa fede nel probabile è ritenuta soddisfacente. E cosi, dal dubbio si esce appunto facendo appello alla coscienza di ciascuno e di tutti; si esce accertando che vi sono convinzioni su cui i più convergono, costatando, come dirà Cicerone, che esiste un consensus gentium 3• 7) Come abbiamo già detto, essendo non semplicemente accidentali ma strutturali le ragioni che produssero il fenomeno dell'eclettismo, tutte le Scuole ne furono contagiate. L'epicureismo ne risenti poco, a causa dell'impostazione chiusa a qualsiasi discussione e possibilità di modificazione data dal maestro. Moderatamente ne risenti il Peripato aristotelico. Più accentuatamente ne risenti la Stoa, che, peraltro, seppe sempre conservare l'originario autentico spirito che la sorreggeva. Invece, la totale disponibilità all'istanza eclettica si ebbe con l'Accademia, che, ancora una volta, inverti la rotta ripudiando il radicale scetticismo. Del resto era nella logica delle cose che proprio l'Accademia dovesse diventare la tribuna del verbo eclettico: già con Arcesilao essa aveva rinunciato alla fedeltà al proprio patrimonio spirituale e al proprio passato e quindi non 3
Cfr. Zeller, Die Philosophie der Griechen, m, l, pp. 560 sgg.
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L'ECLETTISMO DELL'ACCADEMIA
aveva nulla da conservare come ragione della propria esistenza: tanto più che lo scetticismo dialettico che essa aveva abbracciato, così come si era venuto configurando, secondo quanto sopra abbiamo notato, era fatalmente portato a sbocchi eclettici. Vediamo, in sintesi, alcune delle idee fondamentali dell'eclettismo accademico.
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Il. FILONE DI LARISSA E LA QUARTA ACCADEMIA
l.
Le cinque
Accademie
Accingendosi ad indicare le differenze che intercorrono fra la filosofia scettica e quella accademica, Sesto Empirico scrive: Di Accademie, come dicono i più, ce ne sono state tre: la prima e più antica fu quella di Platone, la seconda, o di mezzo, quella di Arcesilao, uditore di Polemone, la terza e nuova, quella di Carneade e Clitomaco. Alcuni ne aggiungono una quarta, quella di Filone e Carmide, e altri ne contano una quinta, quella di Antioco 1• È chiaro, da queste precise affermazioni, che già gli antichi si accorsero perfettamente che con Filone e con Antioco l'Accademia aveva cessato di essere quella di prima e che la linea di Filone e quella di Antioco erano differenti da quelle di Arcesilao e di Carneade. La distinzione di ulteriori fasi dell'Accademia dopo il momento scettico, ha, in realtà, una sua precisa giustificazione: infatti è obiettivamente impossibile mettere sul medesimo piano scetticismo dialettico ed eclettismo, anche se il secondo deriva in gran parte dal primo 2 • ' Sesto Empirico, Schizzi pirroniani, I, 220. Cicerone (De oratore, m, 18, 67; Acad. post., I, 12, 46; De finibus, v, 3, 7) distingueva solo due Accademie e si riconosceva come seguace della « nuova ». Egli non poteva quindi avere quel distacco « storico », che gli potesse permettere di riconoscere che, in realtà, come vedremo, la storia dell'Accademia era assai più complessa. 2
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2.
L'ECLETTISMO DELL'ACCADEMIA
La novità di Filone
Quali sono le novità di Filone di Larissa e della « quarta Accademia »? Intanto, conviene notare che Filone, successore di Clitomaco, iniziò il suo insegnamento seguendo la linea di Carneade. Il mutamento di rotta venne con due libri che egli pubblicò a Roma (intorno all'87 a. C.), dove si era recato in seguito allo scoppio della prima guerM ~tridatica, e dove aveva aperto con successo una Scuola 3 • E il mutamento dovette essere notevole, se il discepolo Antioco di Ascalona, che lesse quelle opere ad Alessandria, se ne scandalizzò e reagl con indignazione, sorpreso del brusco mutamento di pensiero del maestro, da cui egli ·aveva già rescisso i legami per le ragioni che vedremo 4 • La novità introdotta da Filone dovette indubbiamente essere quella di cui fa cenno Sesto Empirico nel seguente passo: Filone afferma che, quanto al criterio stoico, cioè alla rappresentazione catalettica, le cose sono incomprensibilii ma qttanto alla natura delle cose stesse, comprensibili 5•
Il passo è suscettibile di due interpretazioni diverse: a) una restrittiva e b) una estensiva. a) Secondo la prima esso direbbe questo: il criterio di verità stoico (la rappresentazione 3 Filone nacque a Larissa intorno alla metà del n secolo a. C. Ree. tosi ad Atene, entrò nell'Accademia, dove fu discepolo di Clitomaco e, alla morte di questi, divenne scolarca (intorno al 110 a. C.). In seguito allo scoppio della guerra di Mitridate contro i Romani, Filone lascib Atene e si rifugib a Roma, dove, probabilmente, rimase fino alla morte. Il suo insegnamento fu molto apprezzato a Roma e molti illustri Romani frequentarono le sue lezioni: Cicerone, che fu suo discepolo, lo chiamb « magnus vir,. (Acad. post., I, 4, 13) e lo apprezzb notevolmente, tanto da considerarsi suo continuatore (cfr. Cicerone, Ad famil., IX, 8). 4 Cicerone, Acad. pr., n, 4, 11, dice addirittura che Antioco, che pure era uomo mansuetissimo, alla lettura di quei libri rimase « stomacato •· 5 Sesto Empirico, Schizzi pi"oniani, I, 235 sgg.
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FILONE DI LARISSA
comprensiva) non regge e, poiché non regge il criterio stoico, che è il più raffinato, nessun criterio regge; ciò non implica tuttavia che le cose siano oggettivamente incomprensibili; esse sono, semplicemente, da noi incomprese. b) Secondo un'interpretazione estensiva il passo potrebbe, invece, dire questo: il criterio stoico della verità non regge, ma può esserci un altro criterio che regge (per esempio quello platonico), perché quanto alla loro natura le cose sono suscettibili di comprensione, sono intelligibili 6 • . Se stiamo alle testimonianze di Cicerone, che a Filone è vicinissimo 7 , l'interpretazione corretta del passo sembra essere la prima. Ma anche stando a questa interpretazione restrittiva, Filone si colloca fuori dallo scetticismo. Infatti, dire che le cose sono comprensibili quanto alla loro natura, sign·ifica fare una affermazione la cui pretesa intenzionalità ontalogica, secondo i canoni scettici, è «dogmatica». Significa, infatti, ammettere una verità antologica, anche se si nega la possibilità del suo corrispettivo logico e gnoseologico •. Lo Scettico non può dire: la verità esiste, sono io che non la conosco; ma può solo dire: io non so se la verità esista, so in ogni caso che non la conosco.
3. Dal probabilismo' dialettico lismo positivo
al
probabi-
A questa innovazione Filone dovette essere stato spinto, come gli storici della filosofia hanno da tempo ben notato, da una obiezione che venne .mossa da Antioco alla dottrina di • Cfr., per un approfondimento, Dal Pra, Lo scetticismo greco2 , I, 306 e sgg. 1 Ma, per Ja verità, con molte simpatie per Arcesilao e Carneade; cfr. Cicerone, Acad. pr., passim. 1 Non ha quindi fondamento la tesi del Brochard, secondo cui Filone sarebbe discepolo fedele di Carneade (Les sceptiques grecs, p. 204).
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L'ECLETTISMO DELL'ACCADEMIA
Carneade e che aveva posto questa in posizione di scacco matto. Carneade aveva detto: a) ci sono rappresentazioni false (che quindi non danno luogo ad alcuna certezza), b) non ci sono rappresentazioni vere che si distinguano perfettamente da quelle false per un carattere specifico (e quindi non si possono distinguere rappresentazioni certe e non certe). Ma Antioco obiettò quanto segue: la prima proposizione contraddice la seconda e viceversa; di guisa che, se si accetta la prima, cade la seconda, e, se si accetta la seconda, cade la prima; in ogni caso, resta scossa alla base la posizione carneadea. Ecco la testimonianza di Cicerone: Non hai tralasciato, o Lucullo, quella critica di Antioco (e non fa meraviglia, perché, in primo luogo, essa è nobile), dalla quale Antioco soleva dire che Filone fu estremamente turbato. Infatti, assumendosi, in primo luogo, che alcune rappresentazioni sono false e, in secondo luogo, che le rappresentazioni false non differiscono da quelle vere, non ci si accorge che con dò si dà senz'altro per concesso il presupposto secondo cui ci sarebbero alcune differenze nelle rappresentazioni, proposizione che è annullata dall'altra, che nega che le rappresentazioni vere siano diverse dalle false; e niente è più contraddittorio. Sarebbe cosl, se eliminassimo del tutto il vero. Ma,cosl non facciamo, perché appunto discerniamo tanto il vero quanto il falso 9 •
Il seguente passo di Cicerone, se non riporta alla lettera parole di Filone, è molto probabilmente a lui ispirato: Sebbene ogni conoscenza sia circondata da molte difficoltà e vi sia nelle cose tanta oscurità e nei nostri giudizi tanta debolezza, che non senza ragione uomini dottissimi e antichissimi diffidarono di poter scoprire ciò che desideravano, tuttavia né quelli desistettero, né noi lasceremo, affaticati, l'impegno della ricerca. E le nostre dispute non mirano ad altro che, dicendo e ascoltando da una parte e dall'altra, trar fuori ed esprimere qualcosa che sia vera o che si avvicini il più possibile al vero. Né c'è altra differenza fra noi e quelli che pensano di sapere, se non che essi non 9
Cicerone, Acad. pr.,
11,
34, 111.
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FILONE DI LARISSA
dubitano che sia vero ciò che difendono, mentre no1 rtteniamo molte cose probabili che possiamo facilmente seguire, ma a stento affermare 10 • ·Ed ecco, allora, la risposta di Filone, che anche Cicerone fa sua: non bisogna sopprimere totalmente la verità e bisogna ammettere la distinzione di vero e falso; tuttavia non abbiamo un criterio che ci porti a questa verità e quindi alla certezza, ma abbiamo solamente apparenze, che ci danno la probabilità. Noi alla percezione certa del vero oggettivo non perveniamo, ma ad essa ci avviciniamo con l'evidenza del probabile. Nasce cosl un nuovo concetto del« probabile», che non è più quello ironico-dialettico con cui Carneade confutava gli Stoici, perché esso viene caricato di una valenza decisamente positiva, assente nel contesto carneadeo. Infatti, l'ammissione dell'esistenza della verità dona una intenzionalità ontologica al probabile, che, per conseguenza, diventa ciò che per noi sta in luogo del vero e si distingue dal non-probabile, appunto nella misura in cui al vero si avvicina. Insomma: Filone ha capito che senza t'ammissione del vero non ha senso neppure il probabile, o, se si vuole, che il probabile c'è, perché c'è il vero. Delle due proposizioni stoiche: a) c'è il vero, b) c'è un criterio per cogliere il vero, Carneade nega e l'una e l'altra; Filone solo la seconda. Ma l'ammissione della prima cambia senso alla negazione della seconda, e soprattutto modifica la valenza del« probabile», che, posto accanto ad un vero oggettivo, ne diventa in qualche modo il positivo riflesso. 4.
Origine
de Il 'evidenza
Da tempo gli storici della filosofia hanno segnalato alcune espressioni, che Cicerone usa pare rifacendosi a concezioni
° Cicerone,
1
Acad. pr., n, 3, 7-8.
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L'ECLETTISMO DELL'ACCADEMIA
di Filone, le quali parrebbero alludere, quasi, ad un sapere innato. Filone avrebbe dunque ammesso, a quanto sembra, un vero « impressum in animo atque in mente », che, per·altro, noi non possiamo percepire e comprendere a livello di assoluta certezza 11 • Filone poté forse ispirarsi a PLatone; anche se, evidentemente, non poté far sua l'anamnesi platonica. Per meglio dire: questo vero impressum in animo atque in mente potrebbe essere quanto Filone poteva accogliere da Platone, senza aver operato previamente un recupero della« seconda navigazione», con cui l'anamnesi è in strutturale connessione, come a suo luego abbiamo con ampiezza veduto. Se cosl è, non si può dar torto allo Zeller, il quale scrive che, di fronte a tale dottrina, noi non possiamo pensare ad altro «se non a quel sapere immediato, che gioca un cosl grande ruolo nel suo discepolo Cicerone» 12 • E se Filone non poteva attribuire a questa conoscenza impressa nell'animo e nella mente valore di certezza veritativa, era perché si trovava fra la negazione della possibilità del criterio stoico della verità e l'impossibilità, per le ragioni dette, di recuperare il criterio platonico. E, cosl a mezza strada, egli poté ben credere, in buona fede, di poter sostenere che una sola Accademia era esistita 13 : il parametro sopra esaminato della verità oggettivamente esistente e soggettivamente non raggiungibile a livello di assoluta certezza gli permetteva di credere di poter mettere insieme Platone e Carneade, mentre era ben al di qua di Platone e ormai nettamente al di là di Carneade, in posizione ormai decisamente eclettica.
" Cfr. Cicerone, Acad. pr., II, 11, 34. 12 Zeller, Die Philosopbie der Griechen, III, l, p. 617. •• Cicerone, Acad. post., I, 4, 13.
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FILONE DI LAKISSA
5. Etica
Sulla base della rivalutazione nettamente positiva del probabile è evidente come Filone potesse proporre un'etica ben diversa da quella di Arcesilao e di Carneade, e come potesse addirittura spingersi a proporre concreti precetti di morale. Egli divideva l'etica in sei partli, e paragonava il filosofo morale al medico. Il medico, in primo luogo, deve convincere il malato ad accettare il rimedio proposto; e cosl il filosofo deve convincere l'uomo ad accettare la filosofia. Poi il medico deve confutare eventuali errate convinzioni ingenerate nei malati da cattivi consiglieri; e cosl il filosofo deve confutare le false dottrine e le fallaci opinioni. Quindi il medico mostra le cause delle malattie, mentre il filosofo mostra le cause dei mali morali e, positivamente, mostra in che cosa consista il sommo bene. Ancora, come il medico ha come scopo. finale la guarigione e la salute del paziente, cosl il filosofo ha come scopo finale la felicità. Da ultimo, il medico tende a conservare la salute, e, analogamente, il filosofo prescrive regole generali e particolari per mantenere la felicità 14 • Una novità è da rilevare nell'etica di Filone. Egli, sapendo bene che la maggior parte degli uomini non si accosta alla filosofia e non legge i libri di filosofia._ si preoccupa di fornire, nell'ultimo libro della sua opera morale, alcuni precetti e indicazioni brevi e accessibili ai più, utili alla buona condotta della vita comune. Il Brochard, che per il resto non riesce a cogliere le novità di Filone, su questo punto ha saputo mettere perfettamente a fuoco il peculiare contributo del filosofo, sottolineando come, in questo preoccuparsi dell'uomo comune, Filone faccia un passo avanti rispetto all'etica stoica: « [ ... ] gli Stoici non avevano per la media degli uomini, per gli umili e per i semplici, questi riguardi e questa benevolenza che Filone testimonia per •• Stobeo, Anthol.,
II,
40.
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L'ECLETTISMO DELL'ACCADEMIA
essi, consacrando loro un intero libro. Essi si accontentavano di qualificarli come insensati, e li disdegnavano. È forse la prima volta che, con Filone, la filosofia si è ricordata che nel mondo esistono anche altri uomini che non sono i filosofi e i saggi» 15 •
" Brochard, Les sceptiques grecs, p. 207.
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III. ANTIOCO D'ASCALONA E LA QUINTA ACCADEMIA
l.
La posizione di Antioco
Antioco, che fu a lungo discepolo di Filone, si era staccato dallo scetticismo carneadeo prima che il maestro partisse per Roma e che, come abbiamo visto, mutasse con i due libri scritti a Roma le posizioni scettiche dell'Accademia. Furono aru:i essenziali, come abbiamo già visto, le stesse critiche di Antioco al fine di smuovere l'originario scetticismo di Filone. Ma, mentre Filone si limitò ad affermare l'esistenza del vero oggettivo
senza avere il coraggio di dichiararlo senz'altro anche conoscibile dall'uomo e ponendo in luogo della certezza la probabilità positiva, Antioco fece il gran passo con cui si chiuse definitivamente la storia dell'Accademia scettica, dichiarando la
verità non solo esistente, ma anche conoscibile e sostituendo alla probabilità la certezza veritativa 1• ' Antioco nacque ad Ascalona (Strabone, XVI, 2, 29) fra la fine degli anni trenta e l'inizio degli anni venti del II secolo a. C. (cfr. G. Luck, Der Akademiker Antiochos, Bern-Stuttgart 1953, p. 13). Fu a lungo discepolo di Filone (dr. Cicerone, A.cad. pr., II, 22, 69). Non sappiamo se, abbandonata Atene insieme a Filone, sia stato con lui a Roma. Sappiamo, invece, che fu ad Alessandria fra 1'87 e 1'84 a. C., insieme • Lucullo. Fece in seguito ritorno ad Atene e divenne capo degli Accademici. Nel 79 a. C. Cicerone (durante la dittatura di Silla) si recò ad Atene, dove segul, per alcuni mesi, le lezioni di Antioco (dr. Cicerone, Brut., 91, 315). In seguito, Antioco segul Lucullo, in occasione della seconda guerra mitridatica in Siria, e nel 69 a. C. assisté alla battaglia di Tigranocerta. Morl poco dopo (dr. Plutarco, Luc., 28; Cicerone, Acad. pr., II, 19, 61). Cicerone, pur piegando dali• parte di Filone, fu sincero ammiratore di Antioco (dr. A.cad. pr., n, 2, 4; 35, 113). Nessuna opera di Antioco ci è pervenuta. Le testimo-
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Sulla base di tali affermazioni egli poteva ben presentarsi come il restauratore del vero spirito dell'Accademia: uno spirito che era in antitesi con quello che ispirava le tendenze inaugurate da Arcesilao e da Carneade e che, contro il parere di Filone, egli non riteneva in alcun modo con esso conciliabile né mediabile. Tuttavia alle aspirazioni di Antioco non corrisposero effettivi risultati. Nell'Accademia di Antioco non rinacque affatto Platone, ma un intruglio eclettico di dottrine veramente acefalo, senza anima e senza autonoma vita. Intanto, egli era convinto che platonismo e aristotelismo fossero una identica filosofia e che esprimessero semplicemente gli stessi concetti con nomi e con linguaggio differenti 2 • Ma, ciò che è maggiormente indicativo, Antioco giunse addirittura a dichiarare la stessa filosofia degli Stoici sostanzialmente identica a quella platonico-aristotelica e differente solo nella forma. E certe innegabili novità degli Stoici furono da lui giudicate non altro che miglioramenti, completamenti e approfondimenti di Platone, al punto che Cicerone poté scrivere: Antioco, il quale era chiamato Accademico, era in verità, se solo avesse cambiato pochissime cose, un vero Stoico 3 •
Sesto conferma: Antioco introdusse la Stoa nell'Accademia, talché si disse di lui che nell'Accademia trattava la filosofia stoica: dimostrava, infatti, che in Platone ci sono i dogmi degli Stoici 4 •
Antioco pretese di portare a compimento l'opera di restaurazione della vecchia Accademia, recuperando Crisippo e nianze in cui il nostro filosofo è espressamente nominato sono racmlte dal Luck nel volume sopra citato, pp. 73-94. 2 Cfr. Cicerone, Acad. post., I, 4, 17; 6, 22; Id., Acad. post., II, 5, 1.5; Id., De finibus, v, 3, 7; .5, 14; 8, 21. • Cicerone, Acad. pr., II, 43, 132. • Sesto Empirico, Schizzi pi"oniani, I, 235.
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ANTIOCO D'ASCALONA
non Pl·atone, tant'è che non esitò a respingere la gnoseologia platonica e dunque anche la dottrina delle Idee sulla quale quella si fonda, come risulta da questo passo di Cicerone: Platone [ ... ] volle che ogni giudizio della verità e la verità stessa, separata dalle opinioni e dai sensi, sia propria del pensiero e della mente. Orbene, quale di queste dottrine approva il nostro Antioco? [ ... ] Egli non si scosta mai neppure di un passo da Crisippo 5• Ora, qualsiasi pretesa di recuperare Platone senza accogliere la dottrina delle Idee è assurda, e il lettore di questa Storia della filosofia antica ne può ben valutare le ragioni: la dottrina delle Idee, che è il guadagno della « seconda navigazione», costituisce la base su cui poggia tutto il platonismo, cosl come la base dell'aristote1ismo è costituita dalla dottrina della sostanza soprasensibile. Pertanto, ciò che di Platone e di Aristotele Antioco reé:uperò fu qualcosa di estremamente anodino e, appunto per questo, conciliabile ad libitum con lo stoicismo. Lo spirito di Platone, per rinascere a nuova vita, doveva attendere ancora.
2.
Critica dello
scetticismo
accademico
Antioco, che, per un certo tempo, alla Scuola del primo Filone aveva udito le idee scettiche dell'Accademia, si trovava nelle migliori condizioni per criticarle, conoscendole bene dall'interno, nelle loro intime motivazioni. Egli rileva sostanzialmente come i due obiettivi fondamentali, la cui possibilità di raggiungimento tutti gli Scettici avevano contestato, ossia il criterio della verità e la dottrina del sommo bene, siano in realtà irrinunciabili per chiun-
• Cicerone, Acad. pr., n, 46, 142 sg.; cfr. Acad. post., I, 8, 30 sgg.
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L'ECLETTISMO DELL'ACCADEMIA
que intenda presentarsi come filosofo e pretenda di avere qualcosa da dire agli uomini. Lo Scettico, col suo dubbio sulle nostre rappresentazioni (cioè sul criterio della verità), rovescia ciò su cui l'umana esistenza si basa. Da un lato, negato il valore della rappresentazione, rimane compromesso anche il valore della memoria e dell'esperienza (che dalle rappresentazioni dipendono) e quin· di rimane compromessa la possibilità stessa delle diverse arti (che nascono dalla memoria e dall'esperienza). Dall'altro lato, negato il valore del criterio, cade qualsiasi possibilità di determinare che cosa sia il bene, cade la possibilità di stabilire che cosa sia la virtù e, quindi, cade la possibilità di fondare una autentica vita morale. Senza una salda certezza e una salda convinzione circa il fine della vita umana e circa i compiti essenziali da assolvere, l'impegno morale si vanifica. Né, secondo Antioco, ci si può trincerare nell'ambito del mero probabile, perché, senza il criterio distintivo del vero, sarà impossibile ritrovare anche quello del probabile. Infatti, se fra rappresentazioni vere e false non è possibile operare una distinzione, mancando esse di una differenza specifica, non sarà nemmeno possibile stabilire quale rappresentazione sia vicina o prossima al vero o meno lontana da esso. Pertanto, per salvare il probabile, si dovrà reintrodurre il vero, perché, per stabilire se una cosa sia più o meno vicina o lontana dal vero, occorre sapere che cosa sia il vero. E neanche sarà possibile sospendere in qualsiasi caso l'assenso. Infatti, l'evidenza di certe percezioni naturalmente comporta l'assenso e, iil ogni caso, senza l'assenso noi non potremmo avere né memoria, né esperienza e, in generale, noi non potremmo compiere alcuna azione e per conseguenza tutta la vita si bloccherebbe. Né, ancora,.si potrà far colpa ai sensi di ingannarci. Quando gli organi sensoriali non siano guasti e le condizioni esterne siano adeguate (come già Aristotele aveva sottolineato), i sensi non ci ingannano e quindi non ci ingannano le rappresentazio-
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ANTIOCO D'ASCALONA
ni. E non vale richiamare, come argomenti in contrario, i sogni, le allucinazioni e simili: queste rappresentazioni, infatti, non sono fornite della medesima evidenza rispetto alle normali rappresentazioni sensoriali. Anche la validità dei concetti, delle definizioni e delle dimostrazioni è innegabile: lo attesta l'esistenza stessa delle arti, inconcepibili senza di essi. Al limite, lo dimostrano gli stessi ragionamenti degli Scettici, che possono avere un senso solo nella misura in cui hanno un senso concetti e dimostrazioni 6 • Infine, abbiamo già visto il dilemma con cui Antioco mise in crisi Filone, costringendolo ad abbandonare Carneade. Non si può ammettere ad un tempo: a) che alcune rappresentazioni siano false e b) che fra rappresentazioni vere e rappre-sentazioni false non esista una differenza specifica che le contraddistingua: se si ammette la prima affermazione, cade la seconda; se si sostiene la seconda, crolla la prima 7 • Insomma, secondo Antioco, messo alle strette, lo scetticismo deve a poco a poco riconoscere inesorabilmente le verità negate.
3.
Logica, fisica ed etica
Purtroppo, se Antioco si mostra acuto nella critka allo scetticismo (e ciò che sopm abbiamo riferito è solo un saggio dei numerosi argomenti da lui addotti), si mostra invece quanto mai deludente nella proposta della alternativa positiva che dovrebbe riempire il vuoto aperto dallo scetticismo. In logica egli non si scosta sostanzialmente dagli Stoici, e in particolare da Crisippo •. ' Cfr. Cicerone, Acad. pr., II, 6-1.5 e passim. Cfr. il capitolo precedente, § 3. • Cfr. Cicerone, Acad. pr., II, 46, 142 sg. 7
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L'ECLETTISMO DELL'ACCADEMIA
Anche in fisica Antioco ripropone idee stoiche. Egli parla infatti del duplice principio attivo e passivo della realtà, del cosmo in senso monistico, del principio divino immanente che anima il mondo, della Provvidenza. Ma quel che più stupisce è la sua amena pretesa che queste siano anche sostanzialmente le convinzioni di Platone e di Aristotele 9 • Né le cose migliorano, quando si passa all'etica. L'uomo deve vivere seguendo la natura, anzi conformemente alla sua natura, che consiste nella ragione. In ciò sta la virtù, che è il sommo bene 10 • Hanno però torto gli Stoici nel sottovalutare il corpo e quanto è connesso al corpo: basta, sl, la virtù alla felicità, ma non alla perfetta felicità; hanno dunque in parte ragione anche i Peripatetici nel ritenere che alla perfetta felicità concorrano anche i beni materiali 11 • Inoltre Antioco attenua i paradossi dell'etica stoica 12 e tempera la pretesa che il saggio sia impassibile. È questo un tipico esempio di eclettismo dogmatico, che accosta idee di estr.azione diversa, senza saperle sintetizzare; giustappone e sovrappone, ma non unifica. Perciò l'Accademia restaurata non poteva aver lunga vita né ·andare molto lonta;w: in realtà Antioco non aveva saputo far rinascere la vecchia Accademia e non aveva fatto altro che mascherare, sotto le proprie, le insegne del Portico 13 •
' Si veda soprattutto Cicerone, Acad. post., passim. Cfr. Cicerone, De fin., v, 9, 26. 11 Cfr. Cicerone, Acad. pr., II, 43, 134 sgg.; De fin., v, 24, 72. 12 Cfr. Cicerone, Acad. pr., II, 43, 133 sgg. 13 Su Antioco.è da vedere la recente eccéilente ricostruzione di J. Glukker, Antiochus and the Late Academy, Gottingen 1978. Per i rapporti fra Antioco e il medioplatonismo dr. quanto diciamo nel vol. IV, pp. 309 sgg. 10
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IV. CICERONE E L'ECLETTISMO ACCADEMICO A ROMA
l.
La posizione filosofica di Cicerone
Come Filone e Antioco sono i più tipici rappresentanti dell'eclettismo in Grecia, così Cicerone è il più caratteristico rappresentante dell'eclettismo a Roma. Antioco si colloca decisamente a destra di Filone, diremmo con metafora moderna, mentre Cicerone prosegue piuttosto la linea di Filone. Il primo elabora un eclettismo decisamente dogmatico, il secondo un eclettismo cautamente e moderatamente scetticheggiante. Non c'è peraltro dubbio che, dal punto di vista speculativo, Cicerone resti al di sotto sia dell'uno che dell'altro, non presentando alcuna novità che sia paragonabile alle formulazioni del probabilismo positivo del primo o alla sagace critica antiscettica del secondo 1• 1 Cicerone nacque nel 106 a. C. ad Arpino. Si accostò fin da giovane alla filosofia, che coltivò con interesse e costanza. Tuttavia l'amore della filosofia fu lungi dall'assorbire per intero tutte le energie e gli interessi di Cicerone. Egli, infatti, si senti prevalentemente portato alla vita pubblica, alla vita forense e -alla vita politica. Perciò la sua scelta di fondo fu per la retorica, per l'oratoria. La sua carriera oratoria inizia già nell'81 e nel 76/75 inizia la sua attività politica, con la sua elezione a questore. Da allora in poi Cicerone legò spesso il suo nome a clamorosi processi e a importanti avvenimenti politici. Morl nel 43 a. C., ucciso dai soldati di Antonio. Dei suoi maestri di filosofia abbiamo già detto, e diremo ancora nel testo. Le numerose opere filosofiche di Cicerone pervenuteci furono da lui scritte nell'ultimo periodo della sua· vita. Nel 46 scrisse i Paradoxa Stoicorum; nel 45 gli Academica (due dialoghi intitolati a Catulo e a Lucullo, di cui fece una seconda redazione, in cui comparivano come interlocutori Attico e Varrone: degli Academica priora ci è rimasto il libro n
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L'ECLETTISMO DELL'ACCADEMIA
Se, in sede di storia della filosofia antica, ci occupiamo di Cicerone è per motivi più culturali che strettamente speculativi. In primo luogo, Cicerone offre, in certo senso, il più bel paradigma di pensiero eclettico, che è come dire il più bel paradigma della più povera delle filosofie, e, in certo senso, la più antispeculativa delle speculazioni. In secondo luogo, Cicerone è di gran lunga il più efficace, il più vasto e il più cospicuo ponte attraverso il quale la filosofia greca si è riversata nell'area della cultura romana e, poi, in tutto l'Occidente: e anche questo è un merito non teoretico, ma di mediazione, di diffusione e di divulgazione culturale. Il che non toglie che Cicerone abbia intumoni felici e anche acute su problemi particolari, specie su problemi morali (il De officiis è, probabilmente, la sua opera più vitale), e anche analisi penetranti: ma si tratta di intuizioni e di analisi che si collocano, per cosl dire, a valle della filosofia; sui problemi che stanno a monte egli ha poco da dire, come del resto hanno poco da dire tutti i rappresentanti della filosofia romana. Già i maestri frequentati da Cicerone indicano chiaramente la geografia del suo pensiero: da giovane udll'epicureo Fedro e, più tardi, anche Zenone epicureo; sentl anche le lezioni dello stoico Diodoto, conobbe a fondo il pensiero di,Panezio e allacciò stretti rapporti di amicizia con Posidoniò; fu influenzato da Filone di Larissa in modo decisivo e, inoltre, udl per un certo tempo anche le lezioni di Antioco di Ascalona. Lesse [Lucullus], degli Academica posteriora il libro I e frammenti). Del 45 è anche il De finibus bonorum et malorum. Nel 44 furono pubblicate le Tusculanae disputationes e il De natura deorum e nel 44 fu scritto il De olficiis. A queste opere vanno inoltre aggiunte: il De fato, il De divinatione, il Cato maior de senectute e il Laelius de amicitia. Da ricordare, infine, sono le opere politiche De re publica e De legibus. Del De re publica ci sono giunti i primi due libri, non completi, frammenti del 111, del IV, del v e gran parte del libro vi, che già nell'antichità ebbe vita autonoma col titolo Somnium Scipionis. Per la sua praticità utilizzeremo l'edizione bilingue a cura del Centro Studi Ciceroniani pubblicata presso l'Editore Mondadori, Milano. Diamo ulteriori dettagliate indicazioni nel vol. v, pp. 339-344.
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.54.5
CICERONE
Platone, Senofonte, l'Aristotele essoterico, alcuni filosofi della vecchia Accademia e del Peripato, ma sempre con i parametri della filosofia del suo tempo. Da tutti prese, e in tutti cercò conferme su determinati problemi, eccettuati forse i soli Epicurei, coi quali polemizzò accesamente 2 • Egli stesso si autodefinl espressamente come Accademico e come Accademico della corrente filoniana: anche per lui, infatti, la probabilità positiva è alla base della filosofia. Nell'operare la fusione eclettica delle varie correnti, dunque, Cicerone non diede contributi essenziali, perché tale fusione era già stata operata dai maestri che egli aveva udito. Cicerone si limitò a riproporla in termini latini e ad amplificarla non qualitativamente, giacché questo non era possibile, ma solo quantitativamente.
2.
Il
probabilismo
eclettico ciceroniano
Dicevamo sopra che Cicerone respinge il tipo di eclettismo di Antioco e assume, invece, una posizione simile a quella di Filone: il dogmatismo di Antioco gli sembrava alquanto incauto, mentre il probabilismo filoniano lo appagava pienamente. Come avevano fatto i Neoaccademici, Cicerone adotta il metodo della discussione del pro e del contro su ogni questione. Questo metodo gli offre grandi vantaggi: in primo luogo, gli offre la possibilità di far conoscere le varie posizioni dei filosofi in materia, facendo largo sfoggio della sua erudizione; in secondo luogo, gli offre la possibilità di valutare la consistenza delle opposte tesi; in terzo luogo, il raffronto gli offre la possibilità di scegliere la soluzione più probabile; e, infine, 2 Cfr. Zeller, Die Philosophie der Griechen, m, l, 672 sg. e Goedeckemeyer, Die Geschichte des griechischen Skeptizismus, pp. 130 sgg., dove si troveranno tutte le indicazioni delle fonti.
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L'ECLETTISMO DELL'ACCADEMIA
da buon oratore e avvocato, trova che questo metodo costituisce un perfetto esercizio di eloquenza. Dunque, il raffronto non deve portare alla sospensione del giudizio, bensl al ritrovamento del probabile e del verosimile e anche all'esercizio retorico. Ecco le precise parole del nostro filosofo che mettono bene a fuoco questo punto: A me è sempre piaciuta la consuetudine dei Peripatetici e degli Accademici di discutere in ogni problema il pro e il contro: non soltanto perché questo sistema è l'unico adatto per scoprire in ogni questione l'elemento di verosimiglianza, ma anche per l'ottimo esercizio che ciò costituisce per la parola 3 • Ma il passo ci permette di fare anche un'altra riflessione. Cicerone pone e risolve i problemi filosofici sempre in chiave culturalistica e mai direttamente, cioè in maniera puramente speculativa. Le questioni che egli imposta sono quelle che già altri hanno sollevato e anche le soluzioni che sceglie sono per lo più quelle già proposte in tutto o in parte da altri. E cosl si spiega perfettamente come il suo moderato scetticismo, per sua stessa confessione, non derivi tanto dalle difficoltà che intrinsecamente sollevano i problemi della conoscenza e del criterio della verità (per esempio gli errori dei sensi, e simili), quanto dalle difficoltà che scaturiscono dal dissenso circa le soluzioni di quei problemi proposte dai vari filosofi. E allora è anche chiaro come, nella misura in cui il dissenso dei filosofi sconcerta Cicerone, lo conforti in pari modo il consenso, quando ci sia, al punto che egli non esita a fare di tale consenso un criterio di probabilità. Il vero, dunque, è irraggiungibile, come prova il dissenso dei filosofi; tuttavia resta il probabile e il verosimile, che sono se non il vero stesso, ciò che tuttavia al vero più si avvicina. Dice Cicerone nel De natura deorum: Non siamo di quelli che negano in assoluto l'esistenza della • Tusc. disput.,
II,
3, 9 (traduzione di A. Di Virginio).
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CICEllONE
verità: ci limitiamo a sostenere che ad ogni verità è unito qualcosa che vero non è, ma tanto simile ad essa che 'quest'ultima non può offrirei alcun segno distintivo che ci permetta di formulare un giudizio e di dare il nostro assenso. Ne deriva che ci sono delle conoscenze probabili le quali, benché non possano essere compiutamente accertate, appaiono cosl nobili ed elevate da poter fungere da guida per il saggio 4• Nel De ofliciis Cicerone ribadisce: Mi si chiede però, e proprio da uomini di lettere e colti, se io creda di agire con sufficiente coerenza, quando, mentre osservo che nulla può essere conosciuto con certezza, tuttavia e soglio disputare di altre questioni e in questo stesso momento cerco di dare regole sul dovere. A costoro vorrei che fosse abbastanza noto il mio pensiero. Giacché io non sono di quelli il cui animo vaga nell'incertezza e non ha mai un principio da seguire. Quale sarebbe infatti la nostra mente, o, piuttosto, la nostra vita, quando fosse tolta ogni norma non solo di ragionare, ma anche di vivere? Come gli altri affermano la certezza di alcune e l'incertezza di altre cose, noi invece, dissentendo da loro, sosteniamo la probabilità di alcune cose e l'improbabilità di altre. Che cosa, dunque, mi può impedire di seguire ciò che mi sembra probabile e di disapprovare ciò che mi sembra improbabile, e di fuggire cosl, evitando la presunzione di recise affermazioni, la temerarietà, che è lontanissima dalla vera sapienza? 5 • E a questo « probabile » si perviene non legandosi dogmaticamente ad alcuna Scuola, ma restando liberi di scegliere ecletticamente ciò che pare più verosimile. Nelle Tusculanae leggiamo: Esiste libertà di pensiero, e ognuno può sostenere ciò che gli pare; per me, io mi atterrò al mio principio, e cercherò sempre in ogni questione la probabilità massima, senza essere legato alle leggi di nessuna scuola particolare che debba per forza seguire nella mia speculazione 6 • • De nat. deorum, 1, 5, 12 (traduzione di U. Pizzani); cfr. Acad. pr., n, 31, 98 e sgg. 1 De officiis, n, 2, 7-8 (traduzione di Q. Cataudella). • Tusc. disp., IV, 4, 7.
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L'ECLETTISMO DELL'ACCADEMIA
Il probabilismo di Cicerone è in tal modo strutturalmente congiunto col suo eclettismo: l'uno sta a fondamento dell'altro e viceversa ed ambedue hanno radice, più che teore.tica, culturale e storica. Il che ben spiega, tra l'altro, come, a seconda dei problemi che Cicerone tratta, il probabile si assottigli fino a diventare dubbio, oppure, per contro, si consolidi fino a diventare quasi certezza.
3.
Logica:
il cri te rio della verità
Anche Cicerone, come tutti i filosofi deL suo tempo, ritiene che il compito precipuo della filosofia consista nello stabilire il fine dell'uomo, cioè la natura del sommo bene, e clk!, per poter far questo, occorra stabilire quale sia il criterio del vero: Queste sono le questioni massime in filosofia: il criterio della verità e il fine dei beni, né può essere sapiente chi ignori o il principio del conoscere o il termine dell'appetizione, cosl da non sapere da dove si debba partire o dove si debba arrivare 7
Iniziamo dall'esame del criterio del vero, che è il punto di partenza. In primo luogo, Cicerone accoglie la testimonianza dei sensi. Non l'accoglie a livello di certezza assoluta, ossia a livello di certezza tale da meritare l'assenso totale, ma a livello di probabilità (si ricordino la posizione di Filone e quella di Antioco). L'evidenza dei sensi e dell'esperienza è, dunque, un primo criterio: chi nega queste evidenze sovverte la possibilità stessa della vita 8 • Un secondo criterio Cicerone lo trova nel senso comune, nel consenso universale degli uomini (nonché nel consenso dei 7 1
Acad. pr., II, 9, 29. Cfr. Acad. pr., 11, 31, 99.
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549
CICERONE
dotti). Egli usa anzi espressioni che decheggiano una certa forma di innatismo 9 , che si rifà, molto alla lontana, all'innatismo platonico e, più da vicino, alla dottrina della« prolessi » che, come abbiamo visto, è comune sia al Giardino sia al Portico. Cosl Cicerone- per !imitarci all'ambito che maggiormente interessa - ammette non solo che la natura umana ci abbia dato semina innata delle virtù 10, cioè naturali disposizioni alla virtù, ma che abbia altresl ingenerato sine doctrina notitias parvas rerum maximarum 11 , per raggiungere le medesime virtù. Ed è precisamente questo generico innatismo la vera motivazione che gli fa ritenere come probante il senso comune e il consenso di tutti gli uomini. Naturalmente, Cicerone non ci sa dire di più a questo proposito: risale dal senso comune e dal consenso universale a nozioni dateci naturalmente, cioè innate, e con questo crede di aver raggiunto un criterio dotato di evidenza tale da non aver bisogno di ulteriore fondazione.
4.
Fisica,
t
e o l o g i a e p si c o l o g i a
Per i problemi . « fisici », cioè per il grosso dei problemi cosmo-antologici che le filosofie ellenistiche includevano nella dottrina della physis, Cicerone mostra pochissimo interesse; e ciò è ben conforme al sentire squisitamente romano, il quale solo se vede una precisa valenza pratica si interessa ai problemi speculativi. Naturalmente, egli fa eccezione per i problemi di Dio e dell'anima, che sono strettamente legati all'etica, nel senso che condizionano, in ultima analisi, il senso ultimo della medesima. Per quanto concerne la soluzione dei problemi metafisica• Cfr. Zeller, Die Philosophie der Griechen, III, l, 683. Tusc. disput., III, l, 2. " De finibus, v, 21, 59. '0
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L'ECLE'I"l'ISMO DELL'ACCADEMIA
ontologico-cosmologici egli nutre uno scetticismo molto più spinto che per tutto il resto: non li sa risolvere e, soprattutto, non gli interessano esistenzialmente. Perciò gli è anche più comodo affermare che sulla natura delle cose è molto più facile dire come non sia la verità che non come sia, e che tutto è circonfuso di tenebre che non si possono squarciare: Tutte queste cose ci restano nascoste, occultate e circonfuse di dense tenebre, al punto che nessun acume di umano ingegno è cosi grande, da saper penetrare nel cielo o entrare dentro la terra 12• Tuttavia egli prudentemente non ritiene che siano da bandire del tutto le questioni fisiche, perché la considerazione della natura è, in ogni caso, cibo e sostentamento della mente, forza che ci sorregge e che ci porta in alto e, portandoci cosl in alto, ci permette di guardare con nuova ottica le cose umane e quindi di ridimensionarle: considerando le cose celesti e sublimi si comprende come le cose terrestri siano piccole e meschine. Senza contare, poi, la gioia spirituale che noi proviamo allorché ci imbattiamo, se non nell'irraggiungibile vero, in qualcosa di verosimile: Non penso [ ... ] che si debbano bandire queste questioni dei fisici. Infatti la considerazione e la contemplazione della natura è come naturale pascolo degli animi e degli ingegni. Ci innalziamo, ci semora di diventare più grandi, disprezziamo le cose umane, e pensando alle cose superiori e celesti, disprezziamo queste nostre come piccole e vili. La stessa indagine di cose grandissime e occultissime ci dà diletto. Se poi accade che qualcosa ci sembri verosimile, allora l'animo si riempie di piacere umanissimo 13 • Come si vede, è sempre in chiave etica e antropologica che Cicerone affronta i problemi 14 • 12 Acad. pr., " Acad. pr., •• Ibidem.
II, II,
39, 122. 41, 127.
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.5.51
CICEltONE
Sull'esistenza di Dio Cicerone non sembra, invece, nutrire dubbi. Il consenso di tutti i popoli è per lui la prova più solida: Quanto all'esistenza degli dei, la prova più solida che se ne possa addurre è questa, a quel che pare: non c'è popolo, per quanto barbaro, non esiste uomo al mondo, per selvaggio che sia, che non abbia nella mente almeno un'idea della divinità. Sugli dei molti hanno delle convinzioni errate, e questo fatto normalmente è dovuto all'influenza corruttrice dell'abitudine: ma tutti quanti credono nell'esistenza di una forza e di una natura divina, e questa convinzione non è effetto di un precedente scambio di idee fra gli uomini e di un accordo generale, né ha trovato appoggio in istituzioni o leggi: ora, in ogni questione, il consenso dei popoli si deve considerare legge di natura 15 •
E cosl Cicerone non ha dubbi sulla Provvidenza: sia le cose esterne dimostrano di essere state finalizzate in funzione dell'uomo, sia la forma e la struttura dell'uomo stesso e dei suoi organi riconfermano una organizzazione finalistica. E dire organizzazione finalistica è dire Provvidenza 16• Nulla ripugna a Cicerone più della concezione meccanicistica propria dell'atomismo epicureo: un casuale e meccanico accozzamento delle lettere dell'alfabeto non potrà mai - dice sensatamente Cicerone- generare gli Annali di Ennio 17 • Più incerto si mostra, invece, Cicerone quando deve prendere posizione circa la natura di Dio. Egli, intanto, crede '5
Tusc. disput.,
I,
13, 30.
" Cfr. De nat. deor., passim. 17 Nel De nat. deor., u, 37, 93 si legge: «Come non provare mereviglia, a questo punto, se qualcuno ritiene che corpi solidi ed invisibili siano trascinati dalla forza del loro peso e che dalla loro fortuita unione sia derivato il mondo con tutti i suoi splendori e le sue bellezze? Chi fosse disposto ad ammettere WMl cosa del genere non vedo perché non dovrebbe anche ritenere che, se si raccogliessero da qualche parte in un numero molto elevato di esemplari le ventuno lettere dell'alfabeto foggiate in oro o in altro materiale e le si gettassero a terra, dovrebbero ricostituirsi tutti gli Annali di Ennio ormai pronti per la lettura: un risultato che il caso non riuscirebbe forse a realizzare neppure limitatamente ad un solo verso ».
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L'ECLETTISMO DELL'ACCADEMIA
all'unità di Dio. Ma come concepiremo, dal punto di vista antologico, questo Dio-uno? Chi fin qui ci ha seguito non può aver dubbi sul fatto che alla domanda non potremo avere se non risposte ambigue e oscillanti fra spiritualismo e materialismo. E, questo, non già per ragioni contingenti, ma per motivi strutturali. O si recuperavano i risultati della « seconda navigazione » platonica e il senso del trascendente, oppure le affermazioni sulla spiritualità di Dio dovevano rimanere senza alcun senso teoretico. Nelle Tusculanae leggiamo: E la divinità stessa, quale noi ce la rappresentiamo, non può essere concepita che come uno spirito indipendente, libero (mens saluta quaedam et libera), e privo di ogni elemento corruttibile: uno spirito che tutto sente e tutto muove, ed è a sua volta dotato di eterno movimento 18•
Ma l'espressione « mens saluta quaedam et libera» non ci deve trarre in inganno, perché questa mens soluta et libera non può essere pensata da Cicerone in funzione della categoria del soprasensibile, tant'è che egli finisce per accettare l'ipotesi stoica che si tratti di aria e fuoco, oppure anche dell'aristotelico etere 19• Analogamente egli" non dubita dell'immortalità dell'anima, giacché è la natura stessa che ha posto in noi questa convinzione, tanto è vero che tutti si preoccupano di quello che sarà dopo la morte 20 • Questo è per Cicerone il più valido argomento a favore dell'immortalità, anche se non esita a riprendere, di rincalzo, le tradizionali prove di estrazione platonica 21 • L'anima è ciò che ci congiunge a Dio ed è quasi il punto di tangenza che l'uomo ha con Dio: Niente di quello che sta sulla terra può spiegare l'origine dell'anima, perché in essa non c'è nulla che sia misto o composto, 10 Tusc. disput., I, 27, 66. " Cfr. Tusc. disput., I, 26, 65. "" Tttsc. disput., I, 14, 31. 21 Cfr. Tusc. disput., I, 12, 50 sgg.
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CICERONE
nulla che si possa considerare derivato o formato dalla terra, nulla che abbia la natura dell'acqua, dell'aria o del fuoco. In effetti, nella composizione di questi elementi, non rientra nulla che abbia la proprietà della memoria, dell'intelligenza, del pensiero, che possa ritenere il passato, prevedere il futuro, abbracciare il presente: questi sono attributi esclusivamente divini, e non si potrà mai trovare per loro altra provenienza che non sia la divinità. L'anima, insomma, ha un'essenza e una natura del tutto speciali, e ben distinte da quelle degli altri elementi comuni e a noi noti. Pertanto, qualunque sia la natura di quell'entità che sente, che conosce, che vive, che agisce, essa deve essere necessariamente celeste e divina, e di conseguenza eterna. E la divinità stessa, quale noi ce la rappresentiamo, non può essere concepita che come uno spirito indipendente, libero, e privo di ogni elemento corruttibile: uno spirito che tutto sente e tutto muove, ed è a sua volta dotato di eterno movimento. Di questa specie e di questa medesima natura è l'anima umana 22 • Naturalmente, anche a proposito del problema della natura dell'anima si notano le stesse incertezze e le stesse oscillazioni che abbiamo notato a proposito del problema della natura di Dio. E la radice di queste incertezze è la medesima: la natura dell'anima è filosoficamente determinabile solo in funzione della categoria del ·soprasensibile; altrimenti si cade inesorabilmente nel materialismo. E, infatti, poco prima del passo sopra letto, Cicerone scrive: E certo, se la divinità è aria o fuoco, come lei è fatta l'anima dell'uomo: quella sostanza celeste non ha in sé né terra né liquido, e questi due elementi sono egualmente assenti dall'anima umana. Se poi esiste una quinta essenza, quella introdotta da Aristotele, essa rientra sia nella divinità sia nell'anima 23 • Ma aria, fuoco e la stessa quinta essenza sono, appunto, sempre e solo materia.
22
23
Tusc. disput., Tusc. disput.,
I, 1,
27, 66. 26, 65.
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·L'ECLETTISMO DELL'ACCADEMIA
5. E tic a La parte della filosofia che di gran lunga più interessa Cicerone, come abbiamo già più di una volta rilevato, è l'etica (e non è quindi senza ragione che le sue due opere più vive siano quella Sul fine dei beni e dei mali e soprattutto quella Sui doveri): più che mai è vero per Cicerone che non la aristotelica pura attività contemplativa, ma la attività pratica e ~ociale è regina. Ecco un passo molto eloquente: Ritengo siano più conformi alla natura. quei doveri che promanano dal .sentimento sociale, che non quelli che promanano dalla sapienza, e questo può essere affermato dal seguente argomento, che, se a un uomo sapiente toccasse una condizione di vita tale che, affluendo a lui le ricchezze più varie, egli potesse dedicarsi in piena tranquillità allo studio e alla contemplazione di tutte quelle cose che sono degne di essere conosciute, tuttavia, se la solitudine fosse cosl grande che non potesse vedere nessun uomo, egli preferirebbe morire [ ... ] . Infatti, la conoscenza e la contemplazione (della natura) sarebbero in certo modo manchevoli e imperfette, se non dovesse seguir loro alcuna attività concreta; e questa attività si manifesta specialmente nell'assicurare l'utilità degli uomini; riguarda, dunque, la società del genere umano; perciò questa deve essere anteposta alla scienza 24 • Ma, anche in questo ambito specifico, si cercano invano delle novità di fondo in Cicerone. Egli discute le etiche dei sistemi epicureo, stoico, accademico e peripatetico; respinge in blocco la morale epicurea e procede ad eclettici accomodamenti fra le altre. Da un lato, egli è portato ad ammirare soprattutto la morale stoica, d'altro lato fa concessioni alla morale accademica e a quella peripatetica (che egli considera sostanzialmente identiche). Cicerone non può, infatti, accettare il principio stoico che solo il sapiente è buono e tutti gli altri sono viziosi, perché, egli rileva, la sapienza ddlo stoico sapien~ te è tale che« alcun mortale ancora non ha raggiunto», e per.. De ofliciis, I, 43, 153 (nel passo omesso dopo i puntini Cicerone parla della superiorità della sopbia sulla pbronesis, ma autocontraddicendosi in modo impressionante!).
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CICERONE
ciò egli propone di considerare ciò che è nella consuetudine e nella vita comune, non quello che è nelle pure aspirazioni e nei puri desideri 25 • Anche per lui il principio fondamentale della morale è
seguire la nostra natura individuale nel rispetto della generale natura umana 26 • Questo richiamo alla natura dell'uomo, che è anima e corpo, permette a Cicerone di temperare la morale stoica e rivendicare. anche i diritti del corpo, giacché è necessario vivere biologicamente, cioè soddisfare alle esigenze del corpo, proprio per poter ulteriormente soddisfare alle esigenze della ragione. E, cosi, per questo aspetto, egli si schiera dalla parte dei Peripatetici, come già Panezio e Posidonio avevano in parte fatto. Ma poi torna agli Stoici nel riportare la virtù interamente alla ragione, dissentendo dalla tipica concezione aristotelica della virtù etica come via di .mezzo fm opposte passioni. E come gli Stoici, egli ritiene la virtù autosufficiente e bastevole per la vita felice. E sembra allearsi con gli Stoici anche nel concepire il saggio come privo di passioni e imperturbabile. Infine, anche le rivendicazioni dell'umana libertà nell'opera Sul Fato vanno ben poco oltre la pura affermazione di una libertà intuitivamente colta: i moti volontari dell'anima non hanno cause esterne ma dipendono da noi, nel senso che ne è causa la natura stessa della nostra anima. E quando Cicerone dai principi scende ali' analisi dei doveri intermedi (quelli che gli Stoici chiamavano kathekonta ), allora riversa· tutta la sua assennatezza pratica; ma qui siamo, ormai, non più nel campo della filosofia in senso stretto, ma piuttosto in quello della fenomenologia morale. E d'altronde è inevitabile che tutte le notazioni e-i rilievi originali che 81 ritrovano in Cicerone nell'ambito delle analisi morali non De amicitia, 5, 18. Cfr. De officiis, I, 31, 110.
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L'ECLETTISMO DELL'ACCADEMIA
vadano oltre il piano fenomenologico e restino teoreticamente informi. Le ambigue risposte ai problemi antologici e antropologici dell'eclettismo non gli permettono, proprio per ragioni strutturali, di spingersi oltre. Come giustamente ha detto il Marchesi 'Z1, « Cicerone non ha dato nuove idee al mondo [ ... ] . Il suo mondo interiore è povero per la ragione che dà ricetto a tutte le voci ». Il suo contributo maggiore sta, dunque, nella diffusione e divulgazione della cultura antica e, in questo ambito, egli è veramente una figura essenziale nella storia spirituale dell'Occidente. « Anche qui - è ancora il Marchesi che scrive - si manifesta· la forza divulgatrice e animatrice dell'ingegno latino: perché nessun Greco sarebbe stato capace di diffondere, come ha fatto Cicerone, il pen~iero 8Ieco per il mondo» 28 • C. Marchesi, Storia della letteratura latina, Milano 1971&, 1, p. 317. Uomo di vaste ·conoscenze filosofiche, fu anche Varrone Reatino (116-27 a.C.). Egli fu propriamente un enciclopedico (già i suoi contemporanei lo giudicarono 11 più colto dei Romani). Plù che di una filosofia di Varrone si può parlare di implicanze filosofiche della sua cultura generale. Contrariamente a Cicerone, che come abbiamo visto segue Filone, egli si schiera dalla parte di Antioco e gli resta in larga misura fedele. La sua concezione dell'anima come pneuma e del Divino come anima del mondo sono in perfetta sintonia appunto con l'eclettismo stoicizzante antiocheo. Anche le sue idee morali non presentano novità di rilievo. La dottrina filosofica per cui egli è più noto consiste nella distinzione delle tre forme di teologia (una distinzione che ha radici molto antiche): a) la teologia favolosa o mitica propria dei poeti, h) la teologia naturale propria dei filosofi e c) la teologia civile, che si esprime nelle crédenze e nei culti delle Città. ~ fuori dubbio che Varrone ritenga la seconda forma di teologia come la più vera. Tuttavia, il Boyancé rileva quanto segue: « [. .. ] da tempo alcuni filosofi si sforzavano di dare un posto alla teologia dei poeti e delle Città. Si trattava della tradizione storica dei Greci e di Roma e Varrone aveva un rispetto tutto romano di questa tradizione. L'erudito, in lui, rispettoso in particolare della storia delle parole, credeva di poter fondare la verità dei filosofi. [ ... ] Tutto ciò non avveniva in Varrone senza esitazioni, dubbi e scacchi, di cui aveva consapevolezza. Ma egli era sostenuto dal fervore delle sue convinzioni e dalla vastità delle sue conoscenze [ ... ] » (Les implications pbilosopbiques des recberches de Varron sur la religion romaine, in «Atti del Congresso Internazionale di Studi Varroniani », Rieti 1976, I, p. 161). Qr., per ulteriori indicazioni bibliografiche, il vol. V, p. 568. 27
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CONCLUSIONI SUI SISTEMI FILOSOFICI DELL'ETA' ELLENISTICA « Epicurus quoque ait sapientem, s1 1n Phalaridis tauro peruratur, exclamaturum: "d u l c e es t, a d me nihil pertinet" [ ... ] "dulce esse torreri",., «Anche Epicuro dice che il sapiente, se verr~ arso nel toro di Falaride, grider~: " è c o s a d o l c e , non mi riguarda"[ ... ] "è dolce ardere f r a l e f i a m m e " ». Seneca, Epistola 66, 18 ( = Epicuro, Usener, fr. 601)
• (o\ d.1tb 'tijt; l:TOiit; ) !L1J3n x(o)Mew cpotal 7tpbt; eU3otL(LOVlotV TÒ! !/;(o)-8-ev, d.).).' e l VIX L T Ò V G7t OU • 3otiov (LotxcipLov, xciv o ~ot>.cipL3ot; TIXUpOt; l!xn XotL6(L&:VOV •• « Gli Stoici dicono che le cose esterne non sono di impedimento alla felicità, ma che i l saggi o è felice anche se il toro di Falaride l o s t i a b r u ci a n d o ». Crisippo (von Arnim, S.V.P., III, fr. 586) t ~otal 3è: Xotl G'rj'ltTLXWV cpotp(LcXX(o)V Xotl TO!J.WV Xotl xotuae(o)v È7tt TLVOt; l!>.xout; otf>Tijl 7tpoaevex.&i:vT(o)V, d.>.>.òc !L1J3È: TÒ!t; 6cpput; auvotyotycivt. « Si narra che quando per qualche ferita a Pirrone furono applicati medicamenti corrosivi o dovette subire tagli e cauterizzazioni, n o n c o n t r a s s e n e p p u r e l e ci g l i a ».
Diogene Laerzio,
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IX,
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I. I PREGIUDIZI CHE IMPEDIRONO LA CORRETTA COMPRENSioNE E L'ADEGUATA VALUTAZIONE DEI SISTEMI ELLENISTICI
Sulloa filosofia delle Scuole dell'età ellenistica fiorite nell'arco di tempo che va dalla morte di Aristotele fino alla nascita del neoplatonismo, hanno gravato per lungo tempo pesanti pregiudizi di varia natura, che ne hanno condizionato e talora addirittura compromesso la giusta comprensione. Queste correnti di pensiero sono state spesso designate in blocco come «filosofie postaristoteliche »,in senso negativo, come a dire filosofie di epigoni, filosofie che, commisurate alle altezze speculative cui si era spinto lo Stagirita, risultavano di qualità decisamente inferiore. Esse sono state, pertanto, interpretate come prodotti di uno spirito e di unoa cultura ormai stanchi, e quindi come espressione di decadenza. Inoltre si è insistito nel riportare a differenti fonti le varie componenti di queste filosofie, sminuendo in tal maniera la loro originalità. E, infine, si è insistito sulle loro contraddizioni interne, sminuendo coslla loro validità. Nel nostro secolo sono onnai caduti ad uno ad uno tutti i pregiudizi che distorcevano l'esatta comprensione del significato di queste Scuole filosofiche ed è in atto una radicale rivalutazione di esse. Vediamo, in primo luogo, di individuoare in modo specifico questi pregiudizi. a) Una prima causa, di incalcolabile portata, che ha compromesso a lungo la comprensione e la corretta valutazione
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CONCLUSIONI
del pensiero delle Scuole ellenistiche è dovuta allo smarrimento della maggior parte della loro imponente produzione. Di nessuno dei fondatori di queste Scuole possediamo opere intere, ma solo frammenti, e per lo più frammenti indiretti. Possediamo opere integrali solo degli epigoni, che però non suppliscono se non in parte alla mancanza delle prime, per le ragioni che a suo luogo abbiamo rilevato. · Di Epicuro possediamo tre lettere e due raccolte di massime, che però sono epitomi che ridanno per sunto un pensiero che doveva essere ben più puntualmente motivato nelle opere scientifiche, mentre i frammenti che di queste ci sono pervenuti sono per lo più brevi. L'unica opera completa della Scuola epicurea pervenutaci è il De rerum natura di Lucrezio, che però è opera di poesia, piena di fermenti e risonanze particolari. Degli Stoici antichi possediamo numerose testimonianze indirette e pochissimi frammenti diretti; degli Stoici della media Stoa possediamo ugualmente solo testimonianze indirette; invece possediamo opere integrali degli Stoici romani: ma queste sono ormai espressione di uno spirito in parte trasformato e per giunta di una problematica ridotta per lo più all'etica. Analogo è il discorso sugli Scettici. Pirrone non scrisse nulla; di Timone possediamo solo frammenti; l'imponente opera di Sesto Empirico pervenutaci è espressione del pensiero dell'ultima stagione dello scetticismo, che, rispetto al pensiero scettico delle origini, ha spostato il suo interesse più verso i problemi metodologici che non verso i problemi etici. Solo testimonianze indirette abbiamo dell'Accademia scettica, e cosi anche dell'Accademia eclettica, eccezion fatta per Cicerone. Ma c'è di più. Gli stessi frammenti e le stesse testimonianze dei filosofi delle Scuole ellenistiche pervenutici sono stati raccolti e sistemati solo in epoca recente. Gli Epicurea di Usener, che raccolgono i frammenti e le testimonianze del fondatore del Giardino, sono del1887 e gli Stoicorum veterum fragmenta sono stati pubblicati all'ini-
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PREGIUDIZI NEI CONFRONTI DEI SISTEMI ELLENISTICI
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zio del Novecento (1903-1905). Sistematiche raccolte delle testimonianze degli antichi Scettici, degli Accademici scettici ed eclettici mancano tuttora. Per conseguenza, anche le ricostruzioni storiografiche puntuali e originali del pensiero di queste Scuole si sono avute solo sul finire del secolo scorso e soprattutto nel nostro secolo. E cosi solo lentamente ci si sta liberando dalla acritica convinzione che, in fondo, se ci sono pervenute solamente opere integrali di Platone, di Aristotele e di Plotino, e non degli antichi Epicurei, degli antichi Stoici e degli antichi Scettici, questo dipende dal loro intrinseco valore, oltre che dal caso. b) Strettamente collegato alle circostanze sopra chiarite ~ il pregiudizio che potremmo chiamare« teoreticistico »,che nella comprensione e nella valutazione delle Scuole ellenistiche cosi come in generale di tutta la filosofia antica, ha assunto Platone e Aristotele come parametri esclusivi. Del primo ci sono giunte tutte le opere; del secondo il grosso delle opere esoteriche; dei Presocratici, cosi come dei fondatoci delle Scuole ellenistiche, ci sono giunti solo frammenti. Inoltre i Presocratici furono letti, e in gran parte lo sono tuttora, secondo i canoni fissati da Aristotele nel primo libro della Metafisica, che di essi propone la prima sistemazione. Perciò era quasi fatale che la verticale teoretica platonico-aristotelica apparisse la cifra unica del filosofare greco. E anche le varie rinascite delle proposte filosofiche dei Greci sono state sempre e solo rinascite di Platone e di Aristotele: sicché quella convinzione sembrò a lungo un dogma incrollabile. Ma, in realtà, l'influsso che Platone e Aristotele ebbero in Grecia e sui Greci, prima del neoplatonismo, non fu in alcun modo paragonabile all'influsso che essi ebbero nei primi secoli dell'età cristiana, nel Medioevo, nel Rinascimento e nell'età moderna. Come abbiamo cercato di dimostrare, Platone e Aristotele non furono capiti a fondo nemmeno nelle
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CONCLUSIONI
loro Scuole e già la generazione successiva non li intendeva quasi più. L'Aristotele esoterico, poi, rimase addirittura pressoché sconosciuto fino all'edizione di Andronico di Rodi. E anche quanto di Platone e di Aristotele poté circolare nei tre ultimi secoli dell'èra pagana fu inteso solo nel senso del filosofare proprio dell'età ellenistica. Invece, senza paragone superiore fu l'influsso che ebbero le Scuole ellenistiche nella vita .spirituale dei Greci: influsso che varcò interi secoli, duran~o ininterrottamente circa mezzo millennio. È quindi storicamente errato pretendere di leggere l'intero arco della filosofia antica esclusivamente in funzione di parametri platonici e aristotelici. In Platone e in Aristotele predominano infatti n~ttamente le componenti antologica e logico-gnoseologica, mentre l'etica è .una conseguenza che da queste componenti scaturisce: la visione dell'essere domina e regola in notevole misura la visione della vita. Viceversa, nei sistemi filosofici dell'età ellenistica si verifica la situazione esattamente opposta: predomina assolutamente la componente etica, mentre le componenti antologica e logicognoseologica vengono per lo più indagate quali condizioni che quelle date etiche suppongono per potersi fondare e reggere: la visione della vita domina e regola in notevole misura la visione dell'essere. · È bensl vero che Io smarrimento della componente teoretica e della sua funzione regolativa (e in particolare l'oblio della platonica « seconda navigazione» e dei guadagni aristotelici ad essa connessi), su cui abbiamo più volte richiamato l'attenzione del lettore nel corso dell'opera, costituisce un limite notevolissimo; tuttavia, in sede ermeneutica, questo non può essere inteso se non come rilievo di struttura, e non come presupposto giudizio di valore assolutamente condizionante. Infatti se nel leggere i Eilosofi dell'età ellenistica non si coglie e non s'accetta la peculiare angolazione della loro prospettiva del filosofare e ci si ostina nel voler trovare il momento teore-
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Plll!GIUDIZI NEI CONFI.ONTI DEI SISTEMI ELLENISTICI
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tico predomin·ante e autonomo, questi filosofi restano in gran parte muti. Ed è altresl vero che, in sede di valutazione, si potrà e anzi si dovrà poi criticare quel rovesciamento della prospettiva filosofica e si potrà e dovrà rilevare tutta la serie di aporie e di contraddizioni alle quali essa dà luogo; ma ciò non toglie che in pri~is et ante omnia occorra coglierne il senso e le ragioni. E se ci si pone nella corretta ottica, questi sistemi dell'età ellenistica diventano incomparabilmente più ricchi, più vivi e più veri di quant.o per lunghi secoli non si sia creduto. c) Un altro pregiudizio che ha a lungo ostacolato la corretta lettura della filosofia delle Scuole ellenistiche, è quello che potremmo denominare« classicistico». È indubbio che lo spirito greco dell'età classica è dominato da un senso dell'armonia, 'del limite e della misura, che, probabilmente, è unico nella storia spirituale dell'Occidente. Ed è altrettanto indubbio che il senso dell'armonia e della greca misura nell'età ellenistica muta e assume proporzioni che, in alcuni momenti, sono o paiono essere di rottura rispetto a quello dell'età classica. Del resto lo abbiamo più volte rilevato: contrariamente alla filosofia classica, la filosofia dell'età ellenistica è apertissima agli influssi dell'Oriente, influssi che assorbe e grecamente ricompone, ma ricostituendo via via nuovi e diversi equilibri, che in base ai parametri classici possono essere o sembrare squilibri. Pirrone, fondatore della scepsi, aveva imparato molto dai maghi e dai fachiri dell'Oriente, seguendo la spedizione di Alessandro. Zenone, fondatore del Portico, era un semita, e aveva portato seco dalla nativa patria elementi del patrimonio spirituale ebraico che seppe far fruttificare; anche Crisippo, secondo fondatore della Stoa, era di origine semitica. Sul medio-stoicismo è poi evidente l'influsso dello spirito della romanità e più ancora questo influsso è evidente sull'eclettismo.
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CONCLUSIONI
Lo stesso Epicuro, che era di sangue greco, anzi ateniese, rompe col sentire classico in modo clamoroso, negando quella componente politica e civica che per la classicità era stata l'asse portante di tutti i valori, e rovesciando quindi la classica tavola dei valori. Ma è proprio questo il punto da acquisire: il pensiero filosofico dell'età ellenistica è un pensiero rivoluzionario, che sovverte la maggior parte dei valori che iJ Greco aveva ritenuto intangibili. Ma è un pensiero che sa raggiungere un suo equilibrio, una sua misura, un suo peras, grMie ad una pressoché illimitata fiducia nel logos. d) Altro impedimento alla corretta comprensione della
filosofia delle Scuole dell'età ellenistica può derivare da una eccessiva sottolineatura degli elementi che esse riprendono dai Presocratici, dai Socratici minori e, più limitatamente, dall'Accademia e dal Peripato. ~ verissimo che, scavalcando Aristotele e Platone, le Scuole ellenistiche riprendono le istanze delle scuole socratiche minori, e, al di là di esse, categorie della speculazione fisica presocratica. Epiooro riprende .l'edonismo dei Cirenaici e l'atomismo degli Abderiti; Zenone riprende l'idea cinica dell'autosufficienza della virtù e il ripudio dei cosiddetti beni fisici ed esteriori ·e altresl l'idea eraclitea del logos-fuoco; Pirrone e soprattutto gli Scettici posteriori riprendono in chiave dissolutrice la dialettica dei Megarici, ed alcuni elementi della sofistica. Ma è altrettanto vero che alla base di queste riprese stanno intuizioni originali e fecondissime, che in larga misura trasfigurano gli elementi desunti dalla precedente speculazione, facendo loro assumere nuove valeme e nuovi significati. Infatti, da un canto, le categorie della presocratica physis sono riprese, oltre che nel loro significato ontologico, anche e soprattutto nel loro inedito significato deontologico, cioè allo scopo di fondare un'etica, laddove nei Presocratici esse
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PREGIUDIZI NEI CONFRONTI DEI SISTEMI ELLENISTICI
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servivano esclusivamente ad una ricostruzione del cosmo fine a se stessa. D'altro canto, gli ideali etici delle Scuole socratiche minori sono ripresi, si, ma corretti, fra l'altro, in uno dei punci più qualificanti: contrariamente alle Scuole socratiche, infatti, le Scuole ellenistiche ritengono che il momento teoretico antologico e logico-gnoseologico sia irrinunciabile, anche se non lo ritengono fine a se stesso, ma solo fondamento dell'etica.
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II. SIGNIFICATO DELLA FILOSOFIA DELL'ETÀ ELLENISTICA
Sgombrato il terreno dai principali pregiudizi, è cosl più facile formulare una più corretta valutazione circa il significato della filosofia delle Scuole ellenistiche. La filosofia delle Scuole ellenistiche volle essenzialmente essere, e fu in effetti, una filosofia della vita, una filosofia che voleva insegnare l'arte del vivere, cioè non una sophia in senso aristotelico, ma una phr6nesis, una saggezza, una conoscenza finalizzata all'attività pratica morale. Una attenta analisi di struttura delle posizioni delle varie Scuole, come abbiamo visto con ampiezza, rivela infatti una sporgenza dell'etica sull'ontologia e sulla logica, non solo di carattere quantitativo, ma anche di carattere qualitativo. Quantitativamente l'etica sporge sulla fisica e sulla logica perché costituisce l'oggetto di maggiore interesse, mentre qualitativamente l'etica sporge per la novità, per la libertà rispetto alle stesse premesse logico-antologiche e per la genialità. Le etiche dei sistemi dell'età ellenistica non derivano direttamente dai dogmi antologici e logici che pur sono invocati come fondamenti, come abbiamo cercato di dimostrare, ma derivano fondamentalmente da originarie intuizioni del senso e del significato della vita. Per dirla con una terminologia moderna, come tale anacronistica ma assai chiarificatrice se opportunamente intesa, alla base dei sistemi ellenistici (come del resto alla base di ogni forma di filosofia intesa come filosofia e arte del vivere) ·sta un immediato sentimento deHa vita, una visione
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SIGNIFICATO DBLLA FILOSOFIA DBLL'BTÀ BLLBNISTICA
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della vita intuitivamente colta e poi razionalmente svolta, fondata e motivata. Esprimendoci in termini scheleriani, diremo che il nucleo fondamentale da cui sia lo scetticismo, sia l'epicureismo .sia lo stoicismo si sviluppano è una intuizione emozionale dei valori. Diremo di più. La nota tesi che Jean Piaget ha creduto di poter sostenere per tutta la filosofia senza distinzione, si attaglia invece in modo perfetto ai sistemi dell'età ellenistica. Sono forme di saggeua, ossia di fede ragionata, sono prese di posizione vitali razionalmente sviluppate: sono sintesi ragionate fra le originarie intuizioni del senso della vita e dei valori e le condizioni dell'essere e del sapere. Epicuro scopre per intuizione emozionale il senso della vita nel piacere catastematico, cioè nella aponia fisica e nella imperturbabilità dello spirito, e poi svolge quest'intuizione e cerca di fondarla razionalmente con l'atomismo e col sensismo. Zenone scopre intuitivamente il senso della vita nel:la virtù come ,retta e autosufficiente attuazione dellogos, e poi costruisce un sistema dellogos in senso ontologico e logico. Pirrone scopre per intuizione emozionale il senso della vita come rinuncia e indifferenza a contatto con il mondo dell'Oriente, e poi sorregge questa sua intuizione con le opportune motivazioni logiche di carattere scettico. Questo punto che abbiamo ora precisato (e si noti che abbiamo semplificato il problema riducendolo all'essenziale, ma il lettore deve rigorosamente evitare di intendere in modo semplicistico) dà ragione anche della vitalità veramente eccezionale che ebbero questi sistemi, sia nella diffusione, sia nella intensità delle convinzioni che seppero comunicare, sia nella durata che, come più volte dicemmo, raggiunge e supera il mezzo millennio. Sono, infatti, filosofie che hanno il vigore e la forza di fedi laiche, di fedi immanenti, di fedi circoscritte alla physis, cioè alla natura, e che negano la sopranatura, ma che mantengono pur sempre la forza che è
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CONCLUSIONI
propria di ogni fede. E spiega, anche, per quale motivo tutti i fondatori di queste Scuole furono innalzati dai seguaci ad altezze sovrumane e dichiarati simili a Dei: sono i santi laici di fedi immanenti, sono i paradigmi incarnati del modo di vivere perfetto, del modo di vivere che dà la felicità totale.
:B vana ogni filosofia che non sappia medicare qualche passione dell'animo umano, diceva Epicuro. E su questo concetto tutti i filosofi dell'età ellenistica concordano. In sostanza, queste Scuole filosofiche hanno compreso, come poche altre, che sono appunto le affezioni dell'animo che determinano la felicità dell'uomo. E concordemente queste Scuole hanno anche compreso che le passioni non si curano né si leniscono sfogandole; ché, anzi, lo sfogo le amplifica e rinvigorisce; e hanno compreso che, di conseguenza, lo sfogo delle passioni non può dare la felicità, appunto perché 1a passione sfogata genera ulteriori e più impellenti passioni, o, al più, concede solo una breve tregua che prepara un ulteriore scatenarsi di esse, ma mai la pace dell'anima. E allora il rimedio non può che consistere in un radicale ridimensionamento delle passioni, o addirittura nella eliminazione e nello svuotamento totale delle medesime. La serenità e la tranquillità dello spirito consistono proprio in questo toglimento delle passioni, e la felicità è la pace dello spirito. Certo, vien da chiedersi se questa pace che propongono Stoici, Epicurei e Scettici, non sia una pace di morte piuttosto che una pace della vita. Ma qui entreremmo in merito alle aporie di questi sistemi, di cui abbiamo già detto e su cui non vogliamo ripeterei. :B comunque da rilevare come le aporie nascano dal conflitto fra l'illimitata fiducia nellogos professata da questi sistemi, che esigerebbe premesse spiritualistiche, e i loro presupposti materialistici e immanentistici, come abbiamo più volte rilevato. Giungiamo cosi al punto che a nostro avviso è essenziale nella filosofia delle Scuole ellenistiche. Gli Epicurei non ere-
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SIGNIFICATO DELLA FILOSOFIA DELL'ETÀ ELLENISTICA
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dono in un aldilà e proclamano tenacemente la mortalità dell'anima. Gli Scettici, naturalmente, eliminano in tronco il problema. Gli Stoici ammettono una sopravvivenza a termine dell'anima (fino alla conflagrazione universale come limite estremo), ma non le danno un significato moralmente rilevante, in quanto negano che il senso dell'aldiqua dipenda dall'aldilà: anzi, per essi la vera vita è solo la vita che viviamo nell'aldiqua. Dunque, la sorte dell'uomo si gioca tutta sulla terra: qui è l'inferno e qui il paradiso, nel senso che qui sono tutta l'infelicità e tutta la felicità possibili. Ebbene, la tesi su cui tutti questi filosofi concordano è la seguente. Tutte le risorse che portano alla felicità stanno nell'uomo, nell'uomo inteso come individuo. Crollata la polis e con essa tutti i valori civili, la struttura sociale era profondamente mutata. L'uomo greco classico non credeva di poter vivere fuori della polis e della relativa struttura sociale; l'uomo ellenistico vuoi dimostrare invece che l'uomo può bastare a sé come individuo, può essere del tutto autosufficiente. Inoltre, dopo la grande avventura di Alessandro, nel periodo di instabilità politica che succede ad essa, l'uomo ellenistico capisce a fondo anche l'inessenzialità dei beni esteriori, dei possessi materiali, che possono essere ad ogni momento distrutti e tolti all'improvviso. Dunque una vita, per poter essere felice, non deve aver bisogno di essi. Lungi dal darci la pace deHo spirito, i beni esteriori ci recano preoccupazioni, ansie e turbamenti. Cosl, concordemente, i filosofi dell'età ellenistica concludono che tutte le cose esteriori sono prive di autentico valore,. o hanno un valore scarsissimo. Ricco non è chi possiede molto, ma chi ha saputo liberarsi dal bisogno di possedere. La vera ricchezza è una ricchezza dell'animo, cioè interiore all'individuo, una ricchezza che nessuno può sottrarre, perché è possesso struttur~le e inalienabile dell'io. Infine, le Scuole ellenistiche compresero che non erano essenziali nemmeno i beni del corpo, quali salute, bellezza,
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robustezza e simili, perché si può essere felici, cioè avere la pace dell'animo, anche senza di essi. Dunque, l'uomo, per essere felice, non ha bisogno né di un Dio che dall'alto lo aiuti, né di un'anima immortale e di una vita nell'aldilà, né di una società politicamente organizzata che lo tuteli, né delle cose esteriori (quali possedimenti e ricchezze) che lo rassicurino, e, al limite, nemmeno di particolari doti fisiche. L'uomo ha bisogno unicamente della sua ragione, del logos che rettamente ragioni, del logos che gli mostri come la via che porta alla pace dello spirito, che è la vera felicità, sta appunto nella rinuncia, operata nella misura del possibile, di tutte quelle cose che non dipendono da noi, e nel ripiegamento su di noi e sulle cose che dipendono da noi, nella inespugnabile fortezza del nostro lo go s. L'uomo ideale di queste Scuole, è l'uomo che sa porre se medesimo al di ·sopra di tutte le cose: è l'uomo che si è profondamente convinto che il vero bene e il vero male non derivano dalle cose ma unicamente dall'opinione che ci si fa delle cose. Gli Dei, gli altri uomini, le cose tutte e perfino il destino in realtà ci toccano solo se e nella misura in cui l'opinione che di essi ci facciamo rende questo possibile. La giusta valutazione delle cose ci rende invulnerabili. L'io inteso come logos e come 1,'etta ragione è dunque il vero Assoluto di queste filosofie. E una riprova di ciò si ha nelle reiterate affermazioni fatte da tutte le Scuole ellenistiche che il saggio non ha nulla da invidiare a Zeus, ma è un mortale che vive vita divina. E pur ten~ndo presenti le numerose aporie cui queste posizioni di pensiero danno luogo, e su cui abbiamo via via richiamato l'attenzione del lettore, non è possibile misconoscerne la grandezza. Al di là dei secoli che hanno direttamente influenzato, queste Scuole riserbano un loro messaggio anche per l'uomo di oggi: per l'uomo che si è smarrita nelle «strutture»,
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SJGNIPICATO DELLA PILOSOPIA DELL'ETÀ ELLENISTICA
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per l'uomo che si è asservito alle cose e alle leggi delle cose, per l'uomo che credeva di diventar felice possedendo il mondo e gli oggetti con la « scienza », e invece rischia di esserne fagocitato. Il loro messaggio ci dice che la rotta seguita dall'uomo moderno va esattamente invertita. Infatti rimane verissimo il principio che assai più che le cose e il possesso delle cose, incide sulla nostra fdicità l'opinione che noi ci facciamo di esse, e che il vero dominio non è il dominio del mondo e delle cose ma è il dominio di noi stessi e che, in ogni caso, non è possibile dominare le cose senza dominare noi stessi.
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Stampato nella Tipolitografia Queriniana, Brescia gennaio 1987
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La bellissima figura riprodotta in copertina è un particolare di destra in basso della ben nota "Scuola di Atene" di Raffaello, che si trova nelle Stanze Vaticane. Essa rappresenta in maniera veramente superba Diogene il Cinico, nel tipico abbigliamento ridotto allo stretto essenziale, con la ciotola a fianco, e nella tipica posizione. Così seduto e un poco sdraiato sui gradini, sembra quasi in quell'atteggiamento in cui si trovava mentre prendeva il sole nel Craneo, ossia (come ci viene riferito), allorché il grande Alessandro, sopraggiungendo, gli disse: "Chiedimi quello che vuoi", e Diogene gli rispose: "Lasciami il mio sole" (cfr. p. 35). In verità, Diogene esprime in modo veramente emblematico un atteggiamento tipico del ftlosofo dell'età ellenistica (il quale tendeva con tutte le sue forze a portare i bisogni umani all'essenziale), anche se lo portava alle conseguenze estreme. Infatti, Epicuro stesso insegnò che solo ciò che strettamente basta è tutto ciò che occorre, e non ci vuole nulla di più; in realtà, per colui cui sembra poco ciò che strettamente basta, nulla mai basterà; costui vorrà sempre di più, e, quindi, sarà sempre infelice. Gli Stoici, poi, ridurranno a "indifferenti" moltissimi di quelli che gli uomini comuni giudicano essere beni essenziali e irrinunciabili. Così come viene rappresentato da Raffaello, Diogene diviene veramente il simbolo e l'emblema di tutta un'epoca. Nel retro di copertina viene riprodotto il corrispettivo particolare tratto dall'originale abbozzo del "Cartone per la Scuola di Atene" di Raffaello, conservato nella Pinacoteca della Biblioteca Ambrosiana. - La fotografia a colori del particolare della "Scuola di Atene" è stata eseguita, appositamente per quest'opera e con le tecniche più moderne, tramite i Musei Vaticani. - La fotografia del particolare del grande "Cartone per la Scuola di Atene" riprodotta nel retro di copertina è stata eseguita dai tecnici della casa editrice "Silvana Editoriale d'Arte" (che ha fornito il materiale tecnico occorrente a "Vita e Pen-
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siero"). Si potranno trovare le fotografie del Cartone nella sua completezza e in tutti i suoi particolari nello splendido volume: K. Oberhuber - L. Vitali, Raffaello, Il Cartone per la Scuola di Atene ("Fontes Ambrosiani in lucem editi cura et studio Bibliothecae Ambrosianae", XLVII), Silvana Editoriale d'Arte, Milano 1972.
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