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L'Autore e la sua produzione sàenti/ica
Giovanni Reale è professore ordinario, titolare della cattedra di Storia della filosofia antica presso la Facoltà di lettere e filosofia dell'Università Cattolica di Milano. l suoi studi e la sua produzione scientifica spaziano su tutto l'arco della filosofia antica. Nell'ambito dei Presocratici ha approfondito soprattutto gli Eleati (Senofane, Parmenide, Zenone e Melisso), curando dapprima gli aggiornamenti sistematici de La filosofia dei Greà nel suo sviluppo storico, I, 3 di E. Zeller - R. Mondolfo, La Nuova Italia, Firenze 1967, e pubblicando in seguito una edizione dei frammenti di Melisso che arricchisce considerevolmente la raccolta di Diels-Kranz, con ampia monografia introduttiva e commentario storico-filologico e filosofico (il primo che finora sia stato fatto): Me/isso, Testimonianze e /rammenti, La Nuova Italia, Firenze 1970 (Biblioteca di Studi Superiori, 50). A Platone ha dedicato costante studio. Ha tradotto e commentato una serie di dialoghi per la collana «ll Pensiero» dell'Editrice La Scuola di Brescia: Critone, 1961 (1987 13 ); Menone, 1962 (1986 11 ); Euti/rone, 1964 (1987 7); Gorgia, 1966 (1985 7); Protagora, 1969 (1984 5 ); Fedone, 1970 (1986 10 ). Di recente ha pubblicato l'ampio volume: Per una nuova interpretazione di Platone. Rilettura della metafisica dei grandi dialoghi alla luce delle "Dottrine non scritte", Vita e Pensiero, 19875 (la prima edizione è del 1984). Quest'opera è stata insignita del «Premio Fiuggi per la saggistica filosofica 1986». Ha tradotto dal tedesco e introdotto: Platone e i fondamenti della metafisica di H. Kriimer, 1982, 19872 ; La metafisica della storia in Platone di K. Gaiser, 1988 (due opere composte dagli autori su invito di G. Reale), nonché Th. A. Szlezak, Platone e la scrittura della filosofia, 1988; tutte opere pubblicate da Vita e Pensiero. Su Aristotele ha scritto numerosi saggi in riviste e in miscellanee e ha pubblicato i seguenti volumi: Il concetto di filosofia prima e l'unità della Metafisica di Aristotele, Vita e Pensiero, Milano 1961 (l'opera ha avuto una seconda edizione nel 1965, una terza nel 1967 e una quarta nel 1985 e di recente è stata tradotta in lingua inglese da John R. Catan (State University of New York Press,
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Albany 1980); Introduzione a Aristotele, Laterza, Bari 1974 (1986 4), tradotta in spagnolo da V. Bazterrica (Herder, Barcelona 1985). Per la collana «Filosofi antichi» dell'Editore Loffredo ha tradotto La Metafisica, 2 voll., Napoli 1968 (19782 ), con un'ampia introduzione e un commentario storico-filosofico, il primo sistematico in lingua italiana (la traduzione senza commentario è stata edita anche presso Rusconi, Milano 1978; 19842 ). Nel 1974, per la medesima collana dell'Editore Loffredo, ha curato la prima traduzione italiana del Trattato sul Cosmo per Alessandro, con testo greco a fronte, introduzione e commentario sistematico, suggerendo, sulla base di nuovi argomenti e documenti, l'ipotesi di lavoro che l'opera possa appartenere ad Aristotele, o comunque al primo Peripato. Nell'ambito della filosofia postaristotelica ha approfondito un momento particolarmente importante della storia del Peripato nel volume Teofrasto e ia sua aporetica metafisica, La Scuola, Brescia 1964, opera che contiene anche la traduzione (la prima in lingua italiana) della Metafisica di Teofrasto, con commentario (l'opera è stata integralmente tradotta da J. Catan ed è stata in parte già' edita in appendice al Concetto di filosofia prima, come è stato fatto anche nella quarta edizione italiana di quest'opera). Ha inoltre ristudiato a fondo la figura di Pirrone in un saggio dal titolo: Ipotesi per una rilettura della filosofia di Pirrooe di Elide (in AA.VV., Lo scetticismo antico, Bibliopolis, Napoli 1981, pp. 243-336). Nell'ambito della filosofia dell'età imperiale si è occupato di Filone di Alessandria, oltre che con ricerche specifiche, promuovendo la prima traduzione italiana sistematica di tutti i trattati del commentario allegorico alla Bibbia, pubblicati presso l'editore Rusconi, Milano 1978-1988 in vari volumi. Ha curato altresì l'Introduzione, le Prefazioni e le Parafrasi a tutto quanto ci è pervenuto di Epitteto (nel volume Epitteto, Diatribe, Manuale, Frammenti, Rusconi, Milano 1982). Ha pubblicato una monografia su Proclo dal titolo L'estremo messaggio spirituale del mondo antico nel pensiero metafisica e teurgico di Proclo, edita come saggio introduttivo in: Proclo, I Manuali, Rusconi, Milano 1985 (pp. v-ecxxm). Inoltre, insieme a Dario Antiseri ha firmato una vasta sintesi in tre volumi: Il pensiero occzdentale dalle origini ad oggi, La Scuola, Brescia 1983, opera già più volte riedita e già tradotta in spagnolo da ].A. Iglesias per l'editrice Herder (Barcelona 1988).
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GIOVANNI REALE
STORIA DELLA FILOSOFIA ANTICA Il. PLATONE E ARISTOTELE Sesta edizione
_ ~~ VITA E PENSIERO ~ Pubblicazioni della Università Cattolica
1r
Milano 1988
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Prima edizione: ottobre 1975 Seconda edizione: gennaio 1976 Terza edizione: gennaio 1979 Quarta edizione: ottobre 1981 Ristampa della quarta edizione: marzo 1984 Quinta edizione (con rifacimento della prima parte e con nuova veste grafico-editoriale): gennaio 1987 Sesta edizione: settembre 1988
N.B. Le nuove edizioni, con le modifiche apportate, sono pubblicate con contributi del «Dipartimento di filosofia» e del «Centro di Ricerche di Metafisica» dell'Università Cattolica.
© 1975 Vita e Pensiero - Largo Gemelli, l - 20123 Milano ISBN 88-343-2579-6
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SOMMARIO
Avvertenza
XIII
Parte prima PLATONE E LA SCOPERTA DELLA CAUSA SOPRASENSIBILE LA « SECONDA NAVIGAZIONE »
Sezione prima / Il grande impatto fra la cultura della « scrittura » e la cultura della « oralità » e i differenti modi di comunicazione del messaggio filosofico di Platone La mediazione tentata da Platone fra « scrittura » e oralità » e il rapporto strutturale fra « scritto » e « non scritto » l. Perché è necessario superare il criterio tndizionale e acquisirne uno nuovo per intendere il pensiero di !Platone - 2. Il giudizio dato da Platone sugli scritti nel « Fedro » - 3. Le autotestimonianze contenute nella «Lettera VII » - 4. I tratti essenziali delle « Dottrine non scritte » di Platone pervenuteci attraverso la tradizione indiretta - 5. Come va inteso il termine «esoterico » riferito a.J pensiero non scritto di !P-latone - 6. Significato, portata e finalità degli scritti platonici- 7. Il «soccorso» che la tradizione indiretta porta agli scritti platonici 1.
«
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7
VI
SOMMARIO
II. I grandi problemi che hanno travagliato gli interpreti di Platone e le loro più plausibili soluzioni alla luce dei nuovi studi l. La questione de1l'unità e del sistema nel pensiero di Platone - 2. La questione dell'ironia e della sua funzione nei dialoghi platonici - 3. La questione cruciale della evoluzione del pensiero di ·Platone - 4. « Mito » e « logos » iiil Platone - 5. ·La poliedricità e la polivalenza della filosofia platonica
36
Sezione seconda / La componente metafisicodialettica del pensiero platonico I. La « seconda navigazione » come passaggio dalla ricerca fisica dei Presocratici al piano metafisica l. L'incontro con i Fisici e la verifica dell'inconsistenza della loro dottrina - 2. L'incontro con Anassagora e la verifica deJl'.jmuffi.cienza della teoria dell'Intelligenza cosmica come era stata da lui proposta - 3. La grande metafora della « seconda navigazione» come simbolo dell'accesso al soprasensibile - 4. Le due tappe della «seconda navigazione »: la teoria delle Idee e la dottdna dei Principi 5. I tre grandi punti focali della filosofia di Platone: teorie delle Idee, dei Principi e del Demiurgo
n. La teoria platonica delle Idee e alcuni problemi ad essa connessi l. Alcune precisazioni sul termine « Idea » e sul suo significato - 2. I caratteri metafisico-ontologici delle Idee 3. Il supremo carattere metafisica della «unità» delle Idee - 4. H dualismo platonico come espressione della trascendenza - 5. Il grande problema del rapporto fra mondo delle Idee e mondo sensibile Le « Dottrine non scritte » dei Principi primi e supremi e i grandi concetti metafisici ad esse connessi l. I Principi primi identificati con l'Uno e con la Diade di grande e piccolo - 2. L'essere come sintesi (mescolanza) dei due Prindpi - 3. La divisione categoriale del reale -
59
74
III.
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102
VII
SOMMARIO
4. Numeri ideali e struttura numerica del reale - 5. Le realtà matematiche La metafisica delle Idee alla luce della protologia delle Dottrine non scritte » e le allusioni che Platone fa alla dottrina dei Principi l. Gli interessi pagati da Platone nella « Repubblica » intorno al Bene e il debito lasciato aperto - 2. Il « Parmenide » e il suo significato - 3. L'antologia dei generi supremi nel « Sofista » e la metafora del « parricidio di Parmenide » - 4. Le grandi tesi metafisiche del « Filebo »: la struttura bipolare del reale, i quattro generi sommi, e la suprema Misura come Assoluto IV.
«
v. La dottrina del Demiurgo e la cosmologia l. La posizione del mondo fisico nell'ambito del reale se-
123
152
condo Platone - 2. Il Demiurgo e il suo ruolo metafisica 3. Il principio materiale del mondo sensibile, il suo ruolo metafisica e i suoi nessi con la Diade - 4. L'« Uno » come cifra emblematica deH'agire e dell'operare del Demiurgo - 5. L'attività creazionistica del Demiurgo platonico intesa in dimensione ellenica - 6. Il Demiurgo (e non l 'Idea del Bene) è il Dio di Platone VI.
La gnoseologia e la dialettica
187
l. ,L'anamnesi, radice e condizione della conoscenza nel
Menone » - 2. Riconferme della dottrina dell'anamnesi nei dialoghi successivi - 3. I gradi della conoscenza delineati nella «Repubblica»- 4. La dialettica- 5. L'impianto protologico della dialettica impemiato sull'uno e sui molti
«
vn. La concezione dell'arte e della retorica l. L'arte come allontanamento dall'essere e dal vero La retorica come mistificazione del vero
2:
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209
SOMMARIO
VIII
Sezione terza l La componente etico-religioso-ascetica del pensiero platonico e i suoi nessi con la protologia delle «Dottrine non scritte » Rilevanza della componente mistico-religioso-ascetica del platonismo
1.
II. L'immortalità dell'anima, i suoi destini ultraterreni e la sua reincarnazione l. Le prove dell'immortalità dell'anima - 2. I destini escatologici dell'anima - 3. La metempsicosi
m. La nuova morale ascetica l. Il dualismo antropologico e il significato dei paradossi ad esso connessi - 2. La sistemazione e la fondazione della nuova tavola dei valori - 3. L'antiedonismo platonico 4. La purifìcazione dell'anima, la virtù e la conoscenza IV
La mistica di philia e di eros
219
223
245
261
l. L'amicizia (phiHa) e il «Primo Amico» - 2. L'« amor
platonico » v. Platone profeta?
270
VI. La componente etico-religiosa del pensiero platonico e i suoi rapporti con la protologia delle « Dottrine non scritte »
272
Sezione quarta l La componente politica del platonismo e i suoi nessi con la protologia delle « Dottrine non scritte » Importanza e significato della componente politica def platonismo l. Le affermazioni della Lettera VII - 2. Differenza fra la concezione platonica e la moderna concezione della politica 1.
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285
SOMMARIO
IX
n. La « Repubblica» o la costruzione dello Stato ideale l. Prospettive di lettura della Repubblica - 2. Lo Stato
291
perfetto e il tipo di uomo ad esso corrispondente - 3. Il sistema di comunanza di vita dei guerrieri e l'educazione della donna nello Stato ideale - 4. Il filosofo e lo Stato ideale - 5. L'educazione dei filosofi nello Stato ideale e la « conoscenza massima » - 6. Gli Stati corrotti e i tipi umani ad essi corrispondenti - 7. Lo Stato, la felicità terrena e quella ultraterrena - 8. Lo Stato nell'interiore dell'uomo ur. L'uomo di Stato, la legge e le costituzioni l. Il problema del Politico - 2. Le forme di costituzioni possibili - 3. Il « giusto mezzo » e l'arte politica
332
IV.
Lo « Stato secondo » delle « Leggi » l. La finalità delle Leggi e il loro rapporto con la Repubblica - 2. Alcuni concetti fondamentali delle Leggi
339
v. La componente politica del pensiero platonico e i suoi rapporti con la protologia delle « Dottrine non scritte »
344
Sezione quinta
l
Conclusioni sul pensiero platonico
1. Il « mito della caverna » come simbolo del pensiero platonico in tutte le sue valenze fondamentali
353
II. Alcuni vertici del pensiero di Platone rimasti punti di riferimento nella storia del pensiero occidentale
362
Parte seconda ARISTOTELE E LA SISTEMAZIONE DEL SAPERE FILOSOFICO
Sezione prima l Rapporti fra Aristotele e Platone Prosecuzione della « seconda navigazione » Premessa critica: il metodo storico-genetico e l'interpretazione moderna del pensiero aristotelico
1.
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379
x
SOMMARIO
Le tangenze di fondo fra Platone e Aristotele: l'inveramento della «seconda navigazione»
388
m. Le differenze di fondo fra Platone e Aristotele
396
11.
Sezione seconda
l
La metafisica e le scienze teoretiche
La metafisica l. Concetto e caratteristiche della metafisica - 2. Le quat-
I.
403
tro cause - 3. L'essere e i suoi significati e il senso della formula « essere in quanto essere » - 4. La tavola aristotelica dei significati dell'essere e la sua struttura - 5. Precisazioni sui significati dell'essere - 6. La questione della sostanza in generale - 7. La questione della « ousia » in generale: la forma, la materia, iJ ·sinolo e le note definitorie del concetto di sostanza - 8. La « forma » aristotelica non è l'universale - 9. L'atto e la potenza - 10. Dimostrazione dell'esistenza della sostanza soprasensibile - 11. Natura del Motore Immobile - 12. Unità e molteplicità del Divino 13. Dio e il mondo n. La fisica l. Caratterizzazione della fisica aristotelica - 2. Il muta-
451
mento e il movimento - 3. Lo spazio e il vuoto - 4. Il tempo - 5. L'infinito - 6. La « quinta essenza» e la divisione del mondo sublunare e celeste
m. La psicologia
466
l. Il concetto aristotelico dell'anima - 2. ,La tripartiziOne
dell'anima - 3. L'anima vegetativa - 4. L'anima sensitiva 5. L'anima razionale IV.
482
La matematica Sezione terza
l
Le scienze pratiche: etica e politica
L'etica l. Rapporti fra etica e politica - 2. Il bene supremo del-
I.
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489
XI
SOMMARIO
l'uomo: la felicità - 3. Deduzione delle «virtù» dalle «parti dell'anima» - 4. Le virtù etiche - 5. Le virtù «dianoetiche » - 6. La perfetta felicità - 7. L'amicizia e la .felicità - 8. Il piacere e la felicità - 9. Psicologia dell'atto morale La politica l. Concetto di Stato - 2. L'amministrazione della famiglia 3. Il cittadino- 4. Lo Stato e le sue possibili forme - 5. Lo Satto ideale II.
522
Sezione quarta / La fondazione della logica, la retorica e la poetica 1.
La fondazione della logica l. Concetto di logica o « analitica » - 2. H disegno generale degli scritti logici e la genesi della 'logica aristotelica - 3. Le categorie, i termini, la definizione - 4. Le proposizioni (il De Interpretatione) - 5. Il sillogismo - 6. H sillogismo scientifico o dimostrazione - 7. La conoscenza immediata - 8. I principi della dimostrazione - 9. I sillogismi dialettici, i sillogismi eristici e i paralogsmi - 10. La logica e la realtà
543
La retorica l. La genesi platonica della retorica aristotelica - 2. La
569
11.
definizione della retorica e i suoi rapporti con la dialettica, con l'etica e con la politica - 3. I diversi argomenti di persuasione - 4. L'entimema, l'esempio e le premesse del sillogismo retorico I tre generi di retorica - 6. La topica della retorica - 7. Conclusioni sulla Retorica
5:
La politica l. Il concetto di scienze produttive - 2. La mimesi poetica - 3. Il bello - 4. ·La catarsi 111.
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584
XII
SOMMARIO
Sezione quinta / Conclusioni sulla filosofia aristotelica 1.
La fortuna della filosofia aristotelica
n. Vertici e aporie della filosofia aristotelica
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597 600
A mia moglie Paola
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AWERTENZA
Questo secondo volume della Storia della filosofia antica contiene la trattazione di Platone e di Aristotele, e quindi dei più cospicui vertici raggiunti dal pensiero dei Greci. A questi due autori abbiamo sempre dedicato numerose e ampie ricerche, ma di Platone siamo giunti ad avere una visione globale che ci soddisfa pienamente solo negli anni Ottanta, e in particolare con il volume Per una nuova interpretazione di Platone. Rilettura della metafisica dei grandi dialoghi alla luce delle "Dottrine non scritte" (edizione parziale 1984; edizione per intero rt/atta ed ampliata 1986; in questo stesso anno abbiamo pubblicato anche una terza e una quarta edizione e nel 1987 una quinta edizione presso Vita e Pensiero, in versione definitiva). A tale visione globale siamo pervenutt~ oltre che con una serie di lavori fatti in passato, soprattutto dopo il volume che H. Kriimer ha composto dietro nostro invito: Platone e i fondamenti della metafisica, e che noi stessi abbiamo tradotto e pubblicato, presso Vita e Pensiero, nel 1982 (1987 2). Per completare questo volume, abbiamo dovuto tradurre anche tutte le principali testimonianze sulle platoniche «Dottrine non scritte» tramandateci dalla tradizione indiretta (alcune per la prima volta in lingua italiana), e, di conseguenza, siamo stati indotti a ristudiare questa problematico, con la sistematica rivalutazione di questa tradizione e con una serie di esami analitici e puntuali. Ricordiamo che Kriimer è ulteriormente ritornato su questa !ematica nel volume La nuova immagine di Platone, Bibliopolis, Napoli 1986. Inoltre, egli ha puntualmente esaminato il nostro volume su Platone, esprimendo il giudizio della scuola di Tubinga intorno al medesimo, nell'articolo: Mutamento di paradigma nelle ricerche su Platone. Riflessioni intorno al nuovo libro su Platone di Giovanni
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XVI
AVVERTENZA
Reale, in «Rivista di Filosofia neoscolastica», 78 (1986), pp. 341-352, ora ripubblicato anche come Appendice seconda nella quinta edizione del nostro volume (pp. 705-720). Inoltre, nel1985 Th. Szlezak ha pubblicato il volume Platon und die Schriftlichkeit der Philosophie (De Gruyter, Berlin), che rovescia il modello tradizionale della lettura di Platone, e, pur muovendo da un differente punto di partenza, giunge a conclusioni ermeneutiche perfettamente convergenti con le conclusioni di fondo della Scuola di T ubinga, ossia con le ricerche di H. Kriimer e di K. Gaiser. Szlezak parte dalle grandi pagine conclusive del Fedro, nelle quali Platone fa una sistematica critica di ogni /orma di scrittura (e quindi anche della /orma dialogica dei propri scrittt) e /a vedere come esse contengano quei canoni basilari secondo i quali va riletto tutto quanto Platone ci ha lasciato per iscritto. Ogni dialogo di Platone ha bisogno di un «soccorso» che porta su un piano più elevato, in funzione di «cose di maggior valore». E non solo una parte di un dialogo ha bisogno del soccorso di un'altra parte del medesimo dialogo, che chiama in causa appunto «cose di maggior valore», ma spesso un dialogo ha bisogno del soccorso di cose di maggior valore che sono state dette in altro dialogo, e la totalità dei dialoghi, per i fondamenti supremi, rimanda all'oralità dialettica. Platone ha potuto concepire, strutturare e comporre i suoi dialoghi in questo modo, e ha potuto prendere nei loro confronti l'atteggiamento che ha preso, proprio sulla base delle verità ultimative guadagnate nella dimensione dell'oralità. E, in questo senso, si comprende perfettamente ciò che Platone ci dice, appunto nel Fedro, ossia che è filosofo solo colui che non mette nei suoi scritti le cose supreme di maggior valore. Abbiamo già tradotto e pubblicato il volume presso Vita e Pensiero (1988) con il titolo Platone e la scrittura della filosofia. Analisi di struttura dei dialoghi della giovinezza e della maturità alla luce di un nuovo paradigma ermeneutico, con una nostra Introduzione in cui discutiamo ampiamente i fondamenti ermeneutici dell'opera. Lo stesso Gaiser nel 1984 ha pubblicato il volume Platone come scrittore filosofico. Saggi sull'ermeneutica dei dialoghi platonici (Bibliopolis, Napolz) e nel1986 ci ha consegnato il volume La metafisica della storia in Platone (che noi stessi a nome del «Centro di Ricerche di Metafisica» gli abbiamo richiesto), che presenta con numerosi ritocchi e con aggiornamenti le importanti analisi da lui in precedenza già /atte su questo tema in funzione del nuovo modello di interpretazione di Platone, ossia con la rilettura dei dialoghi alla luce delle «Dottrine
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AVVERTENZA
XVII
non scritte». Lo abbiamo tradotto e pubblicato presso Vita e Pensiero ne/1988, con ampia Introduzione. Ricordiamo anche il cospicuo volume di V. Hosle, Wahrheit und
Geschichte. Studien zur Struktur der Philosophiegeschichte unter paradigmatischer Analyse der Entwicklung von Parmenides bis Piaton, Stuttgart-Bad Cannstatt 1984, che largamente recepisce e mette a /rutto il nuovo tipo di lettura di Platone. Ricordiamo, infine, che anche in Francia sta diffondendosi il nuovo paradigma ermeneutico. Una studiosa legata alla scuola di P. Hadot, M.D. Richard, ha pubblicato un ben documentato volume dal titolo
L'enseignement oral de Platon. Une nouvelle interpretation du platonisme, Paris 1986, con la prima traduzione francese delle testimonianze della tradizione indiretta sulle dottrine non scritte di Platone (e proprio in Francia - ricordiamo/o - L. Robin all'inizio del secolo aveva intravisto il nuovo paradigma nell'opera La théorie platonicienne des Idées et des Nombre d'après Aristate, 1908, che però rimase allora senza sviluppt). Gli anni Ottanta, dunque, segnano un progressivo ampliarsi ed imporsi di un nuovo modello di lettura di Platone, e ci è parso che i tempi siano ormai maturi per acquisire e presentare anche a livello di sintesi il nuovo modello di interpretazione, per i motivi che avremo modo di spiegare, e di cui, comunque, il/ettore potrà trovare nel nostro volume Per una nuova interpretazione di Platone tutti gli approfondimenti speafici ed analitici. D'altro canto, già alla fine degli anni Cinquanta Albin Lesky nella sua bella Storia della letteratura greca scriveva, senza mezzi terminz~ che, malgrado Platone abbia creato con i suoi dialoghi qualcosa di ineguagliato nella letteratura greca, li giudicò, in quanto parola scritta, qualcosa di inferiore al vivo logos del docente che feconda l'anima del discente, e nella Lettera VII ci disse espressamente che sul fine supremo della propria filosofia non avrebbe mai scritto nulla. Pertanto, afferma Lesky, «bisogna tenere per /ermo che questi dialoghz~ pieni di profonda gravità morale e dell'autentico eros del ricercatore, sotto un altro aspetto avvolgono la parte essenziale della filosofia platonica come una semplice sovrastruttura» (p. 663 dell'edizione italiana). E precisa: «Platone affermava [.. .] che i suoi scritti non contenevano tutta la sua dottrina. Ciò che egli scrisse dopo il primo ritorno dalla Sicilia va visto sullo sfondo de/lavoro dell'Accademt'a» (p. 686). Tesi, questa, che, come vedremo (cfr. pp. 15 s.), già Nietzsche aveva ben intuito, ma che solo
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XVIII
AVVERTENZA
ai nostri giorni sta sistematicamente imponendosi, e che in concreto dt~ mostreremo. Il fulcro della scoperta metafisica del soprasensibile (che Platone ha presentato come frutto della sua «seconda navigazione») rimane per not~ come nelle prime ediziont~ il punto da approfondire per capire Platone; ma, con il nuovo modello interpretativo che presentiamo, questa scoperta si chiarisce ulteriormente e nei modi che ampiamente spiegheremo. Questo guadagno del soprasensibile costituisce, a nostro avviso, non solo la tappa fondamentale del pensiero antico - che, come vedremo, si caratterizzerà proprio nei modi in cui accetterà, e poi smarrirà e infine riguadagnerà il senso di essa -, ma, più in generale, costituisce una pietra miliare nel corso della filosofia occidentale, per i motivi che avremo modo di puntualizzare nel corso della trattazione: ed è per questa ragione che ci siamo addentrati, nell'esporre l'antologia platonica, in una serie di temi e di problemi, che normalmente, in lavori di sintesi come il nostro, non vengono affrontati. Abbiamo presentato, infattt~ un Platone, per così dire, a tre dimensioni, perché ci è parso che le tre fondamentali interpretazioni proposte nel corso dei secoli rivelino tre effettive facce del nostro filosofo, tre componenti essenziali del suo pensiero: quella teoretica, quella mistico-religiosa e quella politica; e ciascuna di queste componenti assume il significato peculiarmente e squisitamente platonico, appunto in base alla «seconda navigazione». Ma abbiamo mostrato come solo alla luce delle «Dottrine non scritte» tramandateci dalla tradizione indiretta queste tre componenti (e in particolare la stessa «seconda navigazione») acquistino senso compiuto e come solo in questo modo si guadagni quell'immagine unitaria del pensiero di Platone, che tanto si è ricercata. L'interpretazione di Aristotele che proponiamo dipende, in larga misura, dall'interpretazione di Platone. A nostro avviso Aristotele, se viene letto senza pregiudizt~ risulta, nei nuclei essenziali del suo pensiero, non l'antitesi, bensì un certo inveramento di Platone. L'immagine dell'antitest~ così ben rappresentata da Raffaello nella sua «Scuola di Atene» (che riportiamo nella sovracoperta con il corrispettivo «cartone» nel retro), la quale raffigura Platone con la mano indicante il cielo (ossia la metafisica trascendenza) e Aristotele con la mano puntata verso la terra (ossia verso i fenomeni del mondo empirico), è, in realtà, l'immagine dell'interpretazione che l'Umanesimo e il Rinascimento avevano dato dei due filosofi, ossia l'immagine del conflitto fra lo spiri-
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AVVERTENZA
XIX
tualismo delle humanae litterae (di cui Platone era stato eretto ad emblema) e il naturalismo della scienza (di cui Aristotele era stato eretto a simbolo). Vedremo, invece, che Aristotele fu l'unico dei pensatori vicini a Platone che sviluppò - almeno in parte - la sua «seconda navigazione» e addirittura la portò innanzi per un certo tratto. Naturalmente, la nuova interpretazione di Platone implicherebbe ulteriori sviluppi e approfondimenti dei rapporti fra il sistema aristotelico e quello platonico, che però non possono essere /atti in una sintesi come questa nostra, in quanto riguarderebbero la comprensione delle polemiche di Aristotele contro Platone e le precise radici di dottrine aristoteliche nelle «Dottrine non scritte» di Platone. D'altra parte, l'interpretazione sistematico-unitaria di Aristotele che abbiamo sempre sostenuto converge in maniera paradigmatica con la nuova interpretazione sistematicounitaria di Platone, e per questo abbiamo ritenuto inutili ulteriori modifiche e aggiunte. La lettura sistematico-unitaria delle opere esoteriche di Aristotele (le uniche pervenutecz), dopo essere stata contestata a partire da/1923, è ormai tornata a reimporsi non solo come lecita, ma come l'unica possibile, per le ragioni che avremo modo di ribadire. In chiave unitaria e sistematica rileggeremo dunque Aristotele, e scenderemo anche all'analisi di alcuni punti dottrinali particolarz~ che solitamente si riservano alle trattazioni monogra/iche, perché solo in questo modo possono emergere i due segni distintivi del suo pensiero, vale a dire il modo in cui egli cerca di superare e inverare le istanze socratico-platoniche e il modo in cui crea il sistema del sapere filosofico, anche formalmente. Ricordiamo, infine, che per la maturazione delle tesi su Aristotele sostenute in questo volume è stato per noi decisivo il volume Il concetto di filosofia prima e l'unità della Metafisica di Aristotele, Vita e Pensiero, Milano 1961 (1985 4; traduzione inglese di]. Catan, State University o/ New York Press, Albany 1980) e il lavoro di traduzione e di commento della Metafisica di Aristotele (2 voli., Loffredo, Napoli 1968, 19782). Segnaliamo allettare interessato altresì due opere sul pensiero dello Stagirita che abbiamo pubblicato e che possono essere un complemento di questa sintesi. Per la collana «l Filoso/i» dell'editore Laterza abbiamo pubblicato una Introduzione a Aristotele (Bari 1974; 19864; traduzione spagnola di V. Bazterrica, Editoria! Herder, Barcelona 1985), che, se riprende (per solito in modo ristretto) parti di questa Storia, per altro verso offre una serie di integrazioni sulla formazione di Aristotele,
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AVVERTENZA
sugli scritti essoterici, sulla fortuna di Aristotele, nonché un'ampia bibliografia. Per la collana «Filoso/i antichi» dell'editore Lo/fredo abbiamo pubblicato la prima versione italiana (con testo greco a fronte, monografia introduttiva, commentario critico, bibliografia ragionata completa e col pnino indice integrale dei termini grecz) de/Trattato sul Cosmo per Alessandro (Napoli 1974), che (sia pure in via di ipotesi di lavoro, ma già accuratamente verificata anche nei particolarz) ,·vendichiamo ad Aristotele come opera scritta in stile essoterico per le lezioni che egli tenne ad Alessandro, allorché fu chiamato alla corte macedone come precettore del pn·ncipe. A tutti questi lavon· n·mandiamo il/ettore che desiden· ulterion· motivazioni delle interpretazioni di Aristotele che qui presentiamo, così come per gli approfondimenti dell'interpretazione che proponiamo di Platone rimandiamo al volume Per una nuova interpretazione di Platone, che è essenziale per capire tutte le innovazioni che dalla quinta edizione in poi abbiamo introdotto in questa nostra Storia della filosofia antica.
*** Per la veste editoriale delle nuove edizioni ringraziamo vivamente il dott. S. Raiteri per le ragioni che spieghiamo nell'Avvertenza al primo volume. GIOVANNI REALE
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PLATONE E ARISTOTELE
« [ ... ] se v'è chi meriti il nome di maestro del genere umano, sono precisamente Platone e Aristotele >>.
Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia
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È questo il celebre <<Mosaico dei fUosofi>> conservato al Museo Nazionale di Napoli, copia romana del I secolo d.C. di un originale greco. K. Gaiser ha dimostrato che raffigura l'Accademia e che Platone è la terza figura partendo da sinistra, mentre Aristotele è la settima. Si veda il volume: Das Philosophenmosazk in Neapel. Eine Darstellung der platonischen Akademie, Heidelberg 1980, e il breve saggio riassuntivo: Il Mosaico dei Filosofi di Napoli: una raffigurazione dell'Accademia platonica, Firenze, L. Olschki, 1981.
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PARTE PRIMA
BLATONE E LA SCOPERTA DELLA CAUSA SOPRASENSIBILE LA « SECONDA NAVIGAZIONE »
« [ ... ] -ròv l.ieu-repov 7tÀ.ouv É7tt -r'i]v -ri'ic; a~-ri.txc; ~-i)"t"T]OW TI 7tE7t(JIIY(l.!i"t"EU(l.C.U ~OUÀ.EL CTOL, ~epT], É7tLOEL~W 7tOL-i]CTW(l.C1L, KE~T]c;; >>.
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« [ ... ] la seconda navigazione che intrapresi per andare alla ricerca di questa causa, vuoi, disse, che te la esponga, o Cebete? ». Platone, Fedone, 99 c-d
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SEZIONE PRIMA
IL GRANDE IMPATTO FRA LA CULTURA DELLA «SCRITTURA,. E LA CULTURA DELLA « ORALITA » E I DIFFERENTI MODI DI COMUNICAZIONE DEL MESSAGGIO FLLOSOFICO IN PLATONE
« MyE't!lL 8'1:1-tL :twxpci.-tTJ<; l:lva;p EtliE xvxvov VEO't-
-tòv tv n~ç y6va;rnv EXEW, 8v xa;t 1ta;pa;xpij~a; 1t'tEpOq>VTJO'!lV't!1 Ò:V!11t'tijV!lL i)liv x),.ci.y!;a;V't!l· X!lt ~Elt' i)~Épa;v ITÀ.ci-twva; «v't~ O'VO'-tijva;L, -tòv liÈ 'tOV'tOV tl1tt~V ttV!lL 'tÒV opvw ».
«Si na"a che Socrate ahbia sognato di avere sulle ginocchia un piccolo cigno, che subito mise ali e volò via e dolcemente cantò e che il giorno dopo, presenta/osi a lui Platone come alunno, abbia detto che il piccolo cigno era appunto lui ». Diogene Laerzio, 111, .5
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EXC VD E B AT
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« SCRITTURA» « ORALITÀ » E IL RAPPORTO STRUTTURALE FRA « SCRITTO » E « NON SCRITTO »
I. LA MEDIAZIONE TENTATA DA PLATONE FRA
E
l. Perché è necessario superare il criterio tradizionale e acquisirne uno nuovo per intendere il pensiero di Platone
Che Platone 1 costituisca il vertice più cospicuo raggiun' Platone nacque ad Atene nel 427 a. C. Il suo vero nome fu Ari· stocle (dal nome del nonno), e Platone fu un soprannome. Diogene Laerzio 111, 4 ci riferisce: « Aristone lottatore argivo fu il suo maestro di ginnastica, da cui ricevette il nome di Platone per il suo vigore fisico; prima si chiamava Aristocle dal nome del nonno, come dice Alessandro nella Successione dei filosofi. Sostengono altri che egli prese il nome di Platone per l'ampiezza del suo stile; o perché era vasta la sua fronte, come dice Neante ». (Si ricordi che, in greco, rt"ì..ci-.oc; significa ampiezza, larghezza, estensione, e da questo termine deriva appunto Platone). Il padre vantava fra i suoi antenati il re Codro, la madre vantava una parentela con Solone. E quindi ovvio che Platone vedesse, fin da giovane, nella vita politica il proprio ideale: la nascita, l'intelligenza e le attitudini personali, tutto lo spingeva in quella direzione. E questo un dato biografico, anzi esistenziale, assolutamente essenziale, che inciderà, e a fondo, nella sostanza stessa del suo pensiero. Aristotele (Metafisica, A 6) ci riferisce che Platone fu dapprima discepolo dell'eracliteo Cratilo e poi di Socrate (l'incontro di Platone con Socrate avvenne probabilmente attorno ai vent'anni). E certo, però, che Platone frequentò Socrate, dapprima, con lo stesso intento con cui lo frequentò la maggior parte degli altri giovani, cioè non per fare della filosofia lo scopo della propria vita, ma per meglio prepararsi, attraverso la filosofia, alla vita politica. Gli eventi indirizzarono poi in altro senso la vita di Platone. Un primo contatto diretto con la vita politica Platone dovette avere nel 404-403, quando l'aristocrazia prese il potere e due dei suoi congiunti,
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PLATONE E LA SCOPERTA DEL SOPRASENSIBILE
to dal pensiero antico è, ormai, una convinzione ben acquisita. Anzi, se si rimane nell'ambito del pensiero antico, si costata in maniera sorprendente il fatto che la filosofia platonica costituisce addirittura l'asse portente più significativo del modo di pensare dei Greci. Aristotele stesso, come mostreCarmide e Crizia, ebbero parti di primo piano nel governo oligarchico: ma dovette indubbiamente trattarsi di una esperienza amara e deludente, a causa dei metodi faziosi e violenti che Platone vide mettere in atto proprio da coloro in cui aveva nutrito fiducia. Ma il disgusto per i metodi della politica praticata in Atene dovette raggiungere il culmine nel 399, quando Socrate fu condannato a morte. E della condanna di Socrate furono responsabili i democratici (che tosto avevano ripreso il potere). E così Platone si convinse che per il momento era bene per lui tenersi lontano dalla politica militante. Dopo il 399 Platone fu a Megara con alcuni altri Socratici, ospite di Euclide (probabilmente per evitare possibili persecuzioni che potevano venirgli per aver fatto parte del circolo socratico). Ma a Megara non dovette fermarsi molto a lungo. Diogene Laerzio ci informa: « [ ... ] andò a Cirene da Teodoro, il matematico, indi in Italia dai Pitagorici Filolao ed Eurito. E di qui in Egitto dai profeti [ ... ] . Platone aveva anche deciso d'incontrarsi con i Magi, ma le guerre d'Asia lo costrinsero a rinunciarvi » (m, 6-7). Di questi viaggi a Cirene e in Egitto non abbiamo conferme nella Lettera VII, mentre sappiamo con certezza del viaggio in Italia, nel 388 a. C., sui quarant'anni, e poi dei successi vi. A spingerlo in Italia dovette certamente essere il desiderio di conoscere le comunità dei Pitagorici (conobbe infatti Archita, come sappiamo dalla Lettera VII, 338 c). Durante questo viaggio, Platone fu invitato in Sicilia, a Siracusa, dal tiranno Dionigi 1. E certamente Platone sperava di inculcare nel tiranno l'ideale del re-filosofo (che già egli aveva esposto nel Gorgia, opera che molto probabilmente precede il viaggio). A Siracusa Platone venne ben presto in urto col tiranno e con la corte (proprio sostenendo quei principi espressi nel Gorgia); e, invece, strinse un forte vincolo di amicizia con Dione, parente del tiranno, in cui Platone credette di trovare un discepolo capace di diventare re-filosofo. Dionigi si irritò con Platone al punto - dice Diogene Laerzio (m, 19) - da farlo vendere come schiavo da un ambasciatore spartano ad Egina (ma forse, più semplicemente, costretto a sbarcare ad Egina, che era in guerra con Atene, Platone fu trattenuto come schiavo). Ma, fortunata~ente, fu riscattato da Anniceride di Cirene che si trovava ad Egina (Diogene Laerzio, m, 20). Al ritorno ad Atene fondò l'Accademia (in un ginnasio sito nel parco dedicato all'eroe Accademo, donde il nome Accademia) e il Menone è verosimilmente il primo proclama della nuova Scuola. L'Accademia si affermò ben presto e richiamò giovani e anche uomini illustri in grande numero.
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«SCRITTURA •
E
«
ORALITÀ •
SECONDO PLATONE
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remo, dipende in maniera strutturale da Platone, e dopo l'età ellenis~ica, come vedremo nel quarto volume, per circa sei secoli tutto ciò che di più significativo è venuto dai Greci dipende da ripensamenti e da sviluppi del pensiero di Platone, direttamente o indirettamente. Senza contare, poi, l'inNel 367 Platone si recò una seconda volta in Sicilia. Era morto Dionigi 1 e gli era succeduto il figlio Dionigi II, che, a dire di Dione, ben più del padre avrebbe potuto favorire i disegni di Platone. Ma Dionigi n si rivelò della stessa risma del padre. Esiliò Dione, accusandolo di tramare contro di lui, e trattenne Platone quasi come un prigioniero. Solo perché impegnato in una guerra, Dionigi lasciò, infine, che Platoll
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PLATONE E LA SCOPERTA DEL SOPRASENSIBILE
flusso che Platone nella tarda antichità ha esercitato sui Padri della Chiesa, i quali proprio da lui hanno tratto le più importanti categorie metafisiche per elaborare ed esprimere razionalmente il grande messaggio spirituale contenuto nella fede dei Cristiani. Insomma, la filosofia di Platone è stata, per usare una terminologia moderna, di gran lunga la più « influente » e la più stimolante, per oltre un millennio. Quale è la ragione di fondo di tutto questo? La risposta a tale domanda risulta semplice, perché, in un certo senso, Platone stesso ce l'ha data, come vedremo. Egli ha insegnato a guardare la realtà con nuovi occhi (ossia con la vista dello spirito e dell'anima 2 ) e a interpretarla in una nuova dimensione e con un nuovo metodo, che raccoglie tutte le istanze via via poste dalla precedente speculazione, le fonde e unifica, portandosi su un nuovo piano di indagine guadagnato con quella che egli stesso denominò la « seconda navigazione » (oEU'tEpoc; 1tÀ.ouc;) 3, che è una metafora veramente emblematica, cui abbiamo già più volte fatto cenno nel primo volume, e che ora è venuto il momento di spiegare. Tuttavia, prima di affrontare questo problema, è necessario risolvere una serie di complesse questioni preliminari di carattere metodologico ed epistemologico, che per il nostro filosofo si impongono più che per tutti gli altri pensatori antichi. La prima delle questioni da affrontare è quella di comprendere quale sia stato il criterio con cui tradizionalmente (a partire dagli inizi dell'Ottocento) si è letto e interpretato Platone, e per quali motivi questo criterio si sia ampiamente logorato e come, ormai, se ne stia imponendo in larga misura uno nuovo e alternativo. ' Simposio, 219 a; Repubblica, v n, 519 b. ' Pedone, 99 c-d.
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« SCRITTURA » E « ORALITÀ » SECONDO PLATONE
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Il criterio tradizionale può essere riassunto in un ragionamento molto semplice. a) Lo scritto è, in generale, l'espressione più piena e più significativa del pensiero del suo autore; e in particolare questo è vero nel caso di Platone, che era dotato di capacità straordinarie sia come pensatore sia come scrittore. b) Per di più, di Platone ci sono pervenuti tutti gli scritti che gli antichi citano come suoi e che sono considerati au· tentici (caso praticamente unico per autori di età classica). c) Pertanto, da tutti i suoi scritti, ·che sono a nostra disposizione, è possibile ricavare con sicurezza tutto il suo pensiero. Questo ragionamento, che per tanto tempo ha convinto la stragrande maggioranza degli studiosi, risulta oggi infondato ed errato proprio nella sua premessa maggiore, e regge solamente nel secondo punto, che resta tuttora pienamente confermato; ma, crollando la premessa maggiore, crollano per intero anche le conclusioni, e quindi l'intero ragionamento. In effetti, due fatti cospicm, emersi oggi in primo piano, smentiscono il primo punto. a) Nelle autotestimonianze del Fedro Platone dice espressamente che il filosofo non mette per iscritto le cose « di maggior valore » ("tà. "ttl..f.LW"tEpa) 4 , che sono proprio quelle che fanno di un uomo un filosofo; e conferma questo largamente nella Lettera VII. b) Esiste una tradizione indiretta che attesta l'esistenza di « Dottrine non scritte » di Platone, e ne riferisce i principali contenuti. Dunque, sia Platone con le esplicite affermazioni fatte nei suoi scritti, sia i suoi discepoli con le testimonianze che ci hanno tramandato sull'esistenza e sui contenuti principaH delle « Dottrine non scritte » comprovano, in maniera irrefutabile, il fatto che gli scritti non sono stati per Platone l'espressione piena e la comunicazione più significativa del ' Fedro, 278 d.
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PLATONE E LA SCOPERTA DEL SOPRASENSIBILE
suo pensiero, e che, di conseguenza, anche se noi possediamo tutti gli scritti di Platone, da tutti questi scritti non possiamo ricavare tutto il suo pensiero, e pertanto la lettura e l'interpretazione dei dialoghi vanno affrontate in una nuova ottica. Esaminiamo, in primo luogo, questi due importanti fatti, emersi in piena luce dai più .recenti studi, che impongono la necessità di introdurre un nuovo e più adeguato criterio per leggere e intendere Platone 5 • ' La necessità di introdurre un nuovo criterio e un nuovo modello per leggere e intendere Platone (parzialmente iniziato da Robin, Heinrich Gomperz e soprattutto da J. Stenzel) è stata presentata in maniera sistematica per la prima volta dalla Scuola di Tubinga, in modo particolare con le seguenti opere: H. Kramer, Are/e bei Platon und Aristoteles. Zum Wesen und zur Geschichte der platonischen Ontologie, Heidelberg 1959 (Amsterdam 1967'); K. Gaiser, Platons Ungeschriebene Lehre. Studien zur systematischen und geschichtlichen Begrundung der Wissenschaften in der Platonischen Schule. Con l'aggiunta: Testimonia Platonica. Quellentexte zur Schule und mundlichen Lehre Platons, Stuttgart 1963 (1968'); H. Kramer, Platone e i fondamenti della metafisica. Saggio sulla teoria dei principi e sulle dottrine non scritte di Platone con una raccolta dei documenti fondamentali in edizione bilingue e bibliografia. Introduzione e traduzione di G. Reale. Milano 1982 (1987': quest'opera è stata composta da Kriimer dietro nostro invito); K. Gaiser, Platone come scrittore filosofico, Napoli 1984; sempre di Gaiser, La metafisica della storia in Platone, introduzione e traduzione di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano 1988. Si vedano inoltre: Th. A. Szlezak, Platon und die Schriftlichkeit der Philosophie, Ber-lin 198.5 (introduzione e traduzione di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano 1988); G. Reale, Per una nuova inter<pretazione di Platone. rulettura della metafisica dei grandi dialoghi alla luce delle "Dottrine non scritte", Milano 19875 (la prima edizione è del 1984, ma pubblicata come abboDJo provvisorio e parziale). L'opera di L. Robin, cui sopra facciamo riferimento, è la celebre La Théorie Platonicienne des Idées et des Nombres d'après Aristote, Paris 1908 (Hildesheim 1963); di Stenzel si veda soprattutto: Zahl und Gestalt bei Platon und Arirtoteles, Leipzig-Berlin 1924 (Dannstadt 19.593); di Heinrich Gomperz è interessantissimo il breve articolo (ma con prospettiva assai lungimirante): Platons philosophisches System, in AA.VV., Proceedings of the Seventh International Congress of Philosophy, London 1931, pp. 426-431 (ri9tampato in versione inglese in Gomperz, Philosophical Studies, iBoston 1953, pp. 119124). Molto interessante, per la pro9petdva che qui ci riguarda, è: J. N. Find.lay, Plato. The Written and UnwriJten Doctrines, London 1974. ar.
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«SCRITTURA» E « ORALITÀ » SECONDO PLATONE
2. I l giudizi o d a t o scritti nel «Fedro»
da
Platone
sugli
Il modello che ha costituito il punto di riferimento della maggior parte degli studi moderni su Platone è venuto in parte a formarsi nel corso del Settecento, ma è stato F. D. Schleiermacher a consolidarlo ed a imporlo agli inizi dell'Ottocento 6 • La tesi ermePf>utica di fondo di questo modelinoltre: C.J. de Vogel, Rethinking Plato and Platanism, Leiden 1986. Tutta la bibliografia sul tema si trova in Kriimer, Platone ... , pp. 418 sgg. Fra gli studiosi che hanno in diversi modi contribuito ad una articolazione del modello dell'interpretazione tradizionale, tre meritano una particolare menzione: D. Ross, Plato's Theory of Ideas, Oxford 1951 (1953'); Ph. Merlan, From Platonism to Neoplatonism, The Hague 1953 (1968'; rist. 1975) e Idem, numerosi articoli ora raccolti in: Kleine philosophische Schriften, Hildesheim-New York 1976; C. ]. De Vogel, numerosi saggi ora raccolti in: Philosophia. Part 1: Studies in Greek Philosophy, Van Gorcum, Assen 1970, pp. 153-292. Si tratta di opere da rileggere con molta attenzione; alla luce del nuovo paradigma risultano particolarmente interessanti. Un particolare rilievo meritano, a nostro avviso, gli ultimi saggi su Platone pubblicati da H. G. Gadamer, e in particolare: Platons ungeschriebene Dialektik, in AA.VV., Idee und Zahl. Studien zur platonischen Philosophie, Heidelberg 1968, pp. 121-147, più volte riedito, e ora anche tradotto in italiano: H. G. Gadamer, Studi platonici, 2 voli., Marietti, Casale Monferrato 1983/84 (a cura di G. Moretto , vol. 2, pp. 121-147 (questi due volumi contengono tutti gli scritti di Gadamer su Platone). Ricordiamo, infine, che la numerazione dei Testimonia Platonica che riporteremo è quella ormai classica di Gaiser; accanto a questa citeremo, però, anche quella di Kriimer, che si trova in Platone ... , pp. 358 sgg., che a fronte dei testi greci riporta anche la nostra traduzione. ' Di F. Schleiermacher si vedrà soprattutto l'Einleitung alla grandiosa serie di traduzioni delle opere di Platone (1804 sgg.), che oggi si può trovare ripubblicata anche in K. Gaiser (curatore), Zehn Beitriige zum Platonverstiindnis, Hildesheim 1969, pp. 1-32. Per la comprensione di questa Einleitung sono fondamentali le pagine di Kriimer, Platone ... , pp. 33-149 e Reale, Platone ... , pp. 71-87 e passim. Ricordiamo che la tesi di Schleiermacher costituisce un vero rr.odello ermeneutico solo nella misura in cui prospetta e difende in maniera sistematica l'autarchia degli scritti platonici; tutto il resto rientra, invece, nella complessa articolazione di questo modello, che nell'età moderna ha avuto una grande quantità di complesse varianti, pur rimanendo sempre fisso il punto dell'autarchia degli scritti. Ricordiamo ancora che le molte critiche fatte (nel corso dell'800
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PLATONE E LA SCOPERTA DEL SOPRASENSIBILE
lo si incentra sulla convinzione della autonomia degli scritti platonici, e quindi sulla pretesa di monopolio accampata a favore di essi a danno totale (o comunque assai cospicuo) della tradizione indiretta, compresa quella risalente ai discepoli diretti che hanno spesso ascoltato Platone e hanno vissuto a lungo con lui nell'Accademia. Per contro, questa convinzione viene smentita da Platone stesso nel Fedro e nella Lettera VII, dove egli spiega, in maniera più precisa, come gli scritti vadano intesi in maniera delimitata, per la ragione che essi non sono in grado di comunicare al lettore alcune cose essenziali, sia dal punto di vista del metodo, sia dal punto di vista del contenuto. Il fatto che il modello di cui stiamo parlando abbia convinto gli studiosi per lungo tempo e in maniera massiccia, malgrado le autotestimonianze di Platone, che implicano conclusioni opposte, non deve stupire. L'età moderna è la più tipica espressione di una cultura globalmente basata sull'Il scrittura, considerata come il medium per eccellenza di ogni forma di sapere. Solo negli ultimi decenni è nato e si è largamente diffuso un differente tipo di cultura, fondato sui vari tipi di comunicazione audiovisiva dei mass-media, che solleva grossi problemi sulla funzione e sulla natura della comunicazione stessa. Oggi viviamo, dunque, in un periodo di tempo in cui si sta verificando l'impatto fra due culture; e, questo, ci rende sensibili nel capire una situazione, in un certo senso analoga (anche se per molti aspetti differente), in cui è venuto a trovarsi Platone, sul cui sfondo soltanto risulta ben comprensibile il suo giudizio sulla scrittura. In effetti, Platone visse in un momento in cui la dimensione della « oralità », che aveva costituito l'asse portante della cultura antica, stava perdendo il suo e nella prima metà del '900) a Schleiermacher non riguardavano la tesi di base, bensì le sue complesse articolazioni. Per la dimostrazione di questo rimandiamo al nostro Platone ... , passim.
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«SCRITTURA» E « ORALITÀ » SECONDO PLATONE
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peso a favore della dimensione della « scrittura», che stava diventando predominante. Anzi, Platone sperimentò l'impatto fra le due culture in una maniera assai forte e, in certo senso, addirittura estrema: da un lato, ebbe come maestro Socrate, che impersonò, in maniera paradigmatica e in senso globale, il modello della cultura basata sulla « oralità »; dall'altro, colse in maniera forte le istanze dei sostenitori della cultura basata sulla « scrittura », ed egli stesso possedette doti di scrittore che sono fra le più grandi dell'antichità e di tutti i tempi. Noi, dunque, oggi siamo in grado di capire molto meglio di quanto .fosse possibile in passato il senso che può avere l'impatto fra due differenti culture, e quindi di capire perché un cosl grande scrittore potesse essere convinto della limitata portata della funzione comunicativa della « scrittura»; e pertanto siamo finalmente in gr.ado di interpretare le sue « autotestimonianze » contenute nel Fedro in modo esatto, mentre in passato si è cercato in vario modo di ridurne lo spessore ermeneutico e mutarne il significato. Per la verità, anche in passato qualcuno aveva capito che le autotestimonianze del Fedro andavano prese molto sul serio; ma si è trattato di casi isolati, mentre la comunità degli studiosi ha seguito altra strada. Forse l'esempio più bello e più significativo ci viene offerto nientemento che da F. Nietzsche. Proprio prendendo posizione contro la tesi di Schleiermacher, il quale sosteneva appunto che gli scritti sono il mezzo per portare alla scienza colui che ancora non la possedeva, e quindi costituiscono il mezzo che si avvicina nel miglior modo possibile all'insegnamento orale, Nietzsche scriveva: « L'intera ipotesi [scii.: di Schleiermacher] sta in contraddizione con la spiegazione che si trova nel Fedro, ed è sostenuta mediante una falsa interpretazione. Infatti Platone dice che lo scritto ha il suo significato solo per colui che già sa, come mezzo di richiamo alla memoria. Perciò lo scritto più perfetto deve imitare la forma dell'insegna-
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PLATONE E LA SCOPERTA DEL SOPRASENSIBILE
mento orale: proprio al fine di ricordare il modo in cui colui che conosce è diventato conoscente. Lo scritto deve essere ' un tesoro per il richiamo alla memoria ' per chi scrive e per i filosofi suoi compagni. Invece per Schleiermacher lo scritto deve essere il mezzo, che è il migliore in secondo grado, per portare colui che non sa al sapere. La totalità degli scritti ha dunque una propria finalità generale di insegnamento e di educazione. Ma, secondo Platone, 1o scritto in generale non ha una finalità di insegnamento e di educazione, ma soltanto la finalità di richiamare alla memoria per colui che è già educato e possiede conoscenza. La spiegazione del passo del Fedro presuppone l'esistenza dell'Accademia, e gli scritti sono mezzi per richiamare alla memoria per coloro che sono membri dell'Accademia» 7 • Nietzsche aveva perfettamente ragione, e gli studi più recenti dimostrano questo in tutti 1 particolari; anzi, il passo del Fedro dice addirittura che il filosofo è veramente tale solo se e nella misura in cui non affida agli scritti, ma alla sola oralità, « le cose di maggior valore ». Ecco il ragionamento di Platone molto ben articolato, che si scandisce come segue 8 • a) La scrittura non accresce la sapienza degli uomini, bensì accresce l'apparenza del sapere (ossia l'opinione): inoltre, non rafforza la memoria, ma offre solo mezzi per « richiamare alla memoria » cose che già si sanno. b) Lo scritto è inanimato, e non è capace di parlare in 7 F. Nietzsche, Gesammelte Werke. Vierter Band: Vortriige, Schriften und Vorlesungen 1871-1876, Musarion Ausgabe, Miinchen, p. 370. Nietzsche critica anche altre tesi di Schleiermacher, ma è proprio la critica di questo punto, che dimostra la sua straordinaria e lungimirante comprensione del problema di fondo. ' Fedro, 274 b-278 e. Si troverà la mia traduzione con testo greco a fronte in Kramer, Platone ... , pp. 336-347; per una interpretazione e un commento analitico si veda: Kramer, Platone ... , pp. 36 sgg.; Szlezak, Platon ... , pp 7-48; Reale, Platone ... , pp. 89-106; cfr. anche Gaiser, Platone come scrittore ... , pp. 77-101.
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« SCRITTURA»
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« ORALITÀ
» SECONDO PLATONE
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modo attivo; esso, inoltre, è incapace di aiutarsi e difendersi da solo contro le critiche, ma richiede sempre l'intervento attivo del suo autore. c) Molto migliore e molto più potente del discorso consegnato alla scrittura è il discorso vivente e animato mantenuto nella dimensione della oralità e mediante la scienza impresso nell'anima di chi impara; il discorso scritto è come una « immagine », ossia una copia, di quello attuato nella dimensione dell'oralità. d) La scrittura implica gran parte di « gioco », mentre l'oralità implica una notevole «serietà»; e per quanto quel gioco in certi scritti possa essere molto bello, molto più bello risulta l'impegno che l'oralità dialettica richiede intorno agli stessi temi di cui trattano quegli scritti, e molto più validi sono i risultati che essa raggiunge. e) Lo scritto, per essere condotto a regola d'arte, implica una conoscenza del vero dialetticamente fondata, e, ad un tempo, una conoscenza dell'anima di colui a cui è diretto, e quindi la conseguente strutturazione del discorso (che dovrà essere semplice o complesso, a seconda delle capacità di recepirlo dell'anima cui è rivolto); tuttavia lo scrittore deve rendersi ben conto che nello scritto non ci possono essere grande saldezza e chiarezza, appunto perché in esso vi è molta parte di gioco; lo scritto non può insegnare e fare imparare in maniera adeguata, ma può solo aiutare a richiamare alla memoria cose che già si sanno. Infatti, solamente alla oralità dialettica s1 collegano la chiarezza, la compiutezza e la serietà. f) Scrittore e filosofo è colui che compone opere, sapendo come sta il vero, e che, pertanto, è capace di soccorrer/e e di difenderle quando occorre, ed è quindi in grado di dimostrare in che senso le cose scritte sono di « minor valore » ('tà q>cxGÀ.cx) rispetto alle cose di « maggior valore » ('tà 'tLIJ.LW'tEpcx) che egli possiede, ma che non ha
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PLATONE E LA SCOPERTA DEL SOPRASENSIBILE
intenzione di affidare agli scritti, ma le riserba alla oralità. Ecco due dei più significativi passi del Fedro, che illustrano perfettamente il senso di « mezzo ipomnematico » che Platone dava agli scritti e la portata limitata nella forma e nei contenuti che loro attribuiva: Socrate - E allora, chi ritenesse di poter tramandare un'arte con la scrittura, e chi la ricevesse convinto che da quei segni scritti potrà trarre qualcosa di chiaro e di saldo, dovrebbe essere colmo di grande ingenuità e dovrebbe ignorare veramente il vaticinio di Ammone, se ritiene che i discorsi messi per iscritto siano qualcosa di più di un mezzo per richiamare alla memoria ( U1tOJ.LVfjcra.t) di chi sa le cose su cui verte lo scritto. Fedro - Giustissimo 9 • Socrate - E per quanto riguarda i discorsi, abbiamo scherzato abbastanza. Ma tu va da Lisia e digli che noi due, discesi alla fonte e al santuario delle Ninfe, abbiamo ascoltato dei discorsi che ci ordinavano di dire a Lisia e a chiunque altro componga discorsi, e ad Omero e a chiunque altro abbia composto poesia senza musica o con musica, e, in terzo luogo, a Solone, e a chiunque in discorsi politici che chiama leggi, ha composto opere scritte, che, se ha composto queste opere sapendo come sta il vero, ed è in grado di soccorrer/e ( ~oT}i}Ei:v) quando viene a difendere le cose che ha scritto, e quandò parla sia in grado di dimostrare le debolezze ( cpa.v.À.a.) degli scritti, ebbene, un uomo del genere va chiamato non col nome che quelli hanno, ma con un nome derivato da ciò cui egli si è dedicato con serietà. Fedro - E quale è questo nome che tu gli dai? Socrate - Chiamarlo sapiente, o Fedro, mi pare troppo, e che tale nome convenga solamente a un Dio; ma chiamarlo filosofo, ossia amante di sapienza, o con qualche altro nome di questo tipo, gli si adatterebbe meglio e sarebbe più adeguato. Fedro - E non sarebbe per nulla fuori luogo. Socrate - Invece, colui che non possiede cose che siano di maggior val or~ ('t'LJ.LLW't'Epa.) rispetto a quelle cose che ha composto o scritto, rivoltandole in su e in giù per molto tempo, in-
' Fedro, 275 c-d.
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«SCRITTURA» E « ORALITÀ » SECONDO PLATONE
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collando una parte con l'altra o togliendo, non lo chiamerai, a giusta ragione, poeta, o compositore di discorsi, o scrittore di leggi? Fedro - Come no? 10 •
3. L e aut o t es t i m o n i a n z e c o n t e n u t e n e lla «Lettera VII» In che cosa precisamente consistano quelle « cose di maggior valore » ('t'à 't'LIJ.LW't'EP!l) che il filosofo non affida agli scritti, lo si ricava chiaramente da una serie di indizi convergenti che si trovano nel Fedro. Si tratta proprio di quelle cose che sole sono in grado di « portare soccorso » (f3oTJilEi:'ll) 11 agli scritti in maniera ultimati va e da cui soltanto dipende la solidità, la chiarezza e la compiutezza del ragionamento, e in ultima analisi coincidono, nel senso più alto, con i Principi primi e supremi. Ma, mentre Platone dice questo mediante accenni di vario genere nel Fedro, lo afferma invece nella maniera più esplicita nell'excursus contenuto nella Lettera VII 12 • Le autotestimonianze contenute in questo excursus sono veramente esemplari e sono presentate in una maniera ben congegnata, che si scandisce nei seguenti punti. a) In primo luogo, Platone spiega in che cosa consistesse la « prova », alla quale egli sottopooeva coloro i quali si accostavano alla filosofia, al fine di accertare se essi fossero o no in grado di praticarla in modo corretto. h) Subito dopo, illustra i pessimi risultati dati dalla « prova » messa in atto nei confronti del tiranno Dionigi di •• Fedro, 278 b-e. " Febro, 278 c. " Lettera VII, 340 b-345 c. Si troverà la mia traduzione con testo greco a fronte in Kramer, Platone ... , pp. 346-357; per un commento si veda Kramer, Platone ... , pp. 44 sgg.; pp. 105-113; Szlezak, Platon ... , pp. 386-405; Reale, Platone ... , pp. 105-121.
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Siracusa, che aveva insistito per farlo ritornare alla sua corte, appunto per .apprendere da lui la filosofia. Orbene, Dionigi, dopo aver ascoltato una sola lezione orale di Platone, ritenne di poter mettere per iscritto addirittura ciò che riguarda « le cose più grandi », ossia proprio quelle cose intorno alle quali Platone negava fermamente la convenienza e l'utilità dello scritto, per le ragioni che esse richiedono una serie di discussioni fatte con costanza e in stretta comunione fra chi insegna e chi impara; ed è proprio attraverso questa costante applicazione e comunione di ricerca e di vita che si perviene alla verità, che, come scintilla, si accende nell'anima, e poi da sé si alimenta. Scrivere su queste cose, che sono appunto « le più grandi », non serve, perché quei pochi che ne potrebbero trarre vantaggi sono capaci da soli di trovare il vero, appunto nella comunione di vita e di ricerca, con brevi indicazioni date a loro; anzi, risulta assai dannoso per le reazioni che provocherebbe in moltissimi uomini, i quali non capirebbero quelle cose e le deriderebbero e disprezzerebbero, oppure si riempirebbero di presunzione, credendo di aver capito ciò che non sono in grado in alcun modo di capire. c) Per far meglio comprendere queste ragioni, Platone si richiama ad alcuni argomenti gnoseologici di fondo, al fine di dimostrare quanto sia complessa la via che porta alla verità, e come, di conseguenza, i più si perdano per questa via, in vario modo. So"Iamente quei pochi che posseggono una buona natura possono percorrere questa via in tutti i sensi e giungere alla conoscenza « di ciò che ha buona natura ». Ma, per gli uomini che hanno questa natura affine alle cose che si ricercano, lo scritto non è necessario; mentre, per gli altri uomini che non hanno « buona natura », è del tutto inutile scrivere su cose che sono superiori alle loro capacità, perché nemmeno Linceo, a uomini di questo tipo, saprebbe infondere la vista. d) In conclusione, chi ha preteso di scrivere su quelle
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« SCRITTURA» E « ORALITÀ » SECONDO PLATONE
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cose più alte, ossia sui « Principi primi e supremi della realtà », come ha cercato di fare Dionigi (e altri come lui), non lo ha fatto per buone ragioni, ma solo per cattivi scopi. Ecco alcuni dei passi più significativi dell'excursus della Lettera VII, i quali impongono veramente un modello del tutto particolare per rileggere Platone: Questo, però, posso dire su tutti quelli che hanno scritto o che scriveranno: tutti coloro che affermano di sapere quelle cose di cui mi do pensiero, sia per averle udite da me, sia per averle udite da altri, sia per averle scoperte da soli: ebbene, non è possibile, a mio parere, che costoro abbiano capito alcunché di questo oggetto. Su queste cose non c'è un mio scritto né ci sarà mai (ouxouv ÈJ,.t.6"V yE 1tEPL a.in:Gw ~CT'tW cruyypa.J,.t.(,.t.r:J. oMiÈ (,.t.TJ1tO'tE yÉ"VT]'tr:J.L ).
La conoscenza di queste cose non è affatto comunicabile come le altre conoscenze, ma dopo molte discussioni fatte su queste cose, e dopo una comunanza di vita, improvvisamente, come luce che si accende da una scintilla che si sprigiona, essa nasce nell'anima e da se stessa si alimenta. Tuttavia, questo io so: che, se dovessero essere messe per iscritto o essere dette, lo sarebbero nel miglior modo possibile da me, e che se fossero scritte male io me ne addolorerei moltissimo. Se, invece, io credessi che si dovessero scrivere e si potessero comunicare in modo adeguato ai più, che cosa io avrei potuto fare nella mia vita di più bello che scrivere una dottrina grandemente giovevole agli uomini e portare alla luce per tutti la natura delle cose? Ma io non credo che una trattazione e una comunicazione su questi argomenti sia un beneficio per gli uomini, se non per quei pochi i quali da soli sono capaci di trovare il vero con poche indicazioni date loro, mentre gli altri si riempirebbero, alcuni, di un ingiusto disprezzo, per nulla conveniente, altri invece, di una superba e vuota presunzione, convinti di aver imparato cose magnifiche 13 • Perciò ogni uomo che sia serio si guarda bene dallo scrivere di cose serie, per non gettarle in balìa all'avversione e alla incapacità di capire degli uomini. In breve, da tutto questo si " Lettera VII, 341 c-e.
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deve concludere che, allorché si vedano opere scritte di qualcuno, siano leggi di legislatore o scritti di qualohe altro genere, le cose scritte non erano per questo autore le cose più serie (CT1touoaL6't'a't'a), se egli è serio, perché queste stanno riposte nella parte più bella di lui; se, invece, mette per iscritto quelli che per lui costituiscono veramente i pensieri più seri, «allora di certo » non gli Dei ma i mortali «gli hanno fatto perdere il senno » 14 • Dunque, su ciò che abbraccia « l'intero » ('t'ò oÀ.o'V), ossia il tutto, « le cose più grandi » ('t'à. !J.ÉYLCT't'a), « il falso e il vero di tutto l'essere » ('t'ò ~Euooc; a!J.a xat àÀ.TJBÈc; 't'i'jc; oÀ.'Y}c; oùcrCac;), «le cose più serie» ('t'à. rnouoaLo't'a't'a), ossia « i Principi supremi della realtà » ('t'à. 1tEpt cpucrEwc; lixpa xat 7tpw't'a) 1\ Platone non ha voluto scrivere, e ha desiderato che nessuno dei suoi scrivesse. Per i più, a suo avviso, lo scritto su questi argomenti sarebbe stato di danno, per i motivi che abbiamo spiegato; invece, per i pochi che erano all'altezza di capirlo sarebbe stato inutile, oltre che per i motivi già spiegati, anche per il fatto che le verità supreme si riassumono in poche proposizioni (È'V ~paxu't'ci't'ot.~;), di modo che, chi le ha capite le fissa bene nella propria anima e non le dimentica più. E, allora, la funzione ipomnematica (ossia del richiamare alla memoria), che per Platone è la vera e propria funzione esercitata dagli scritti, in questo caso risulta del tutto inutile: [ ... ] non c'è pericolo che uno dimentichi queste cose, una volta che siano state ben comprese d:tll'anima, dato che si riducono a brevissime proposizioni (È'V ~paxu't'ci't'oLc;) 16 •
" Lettera VII, 344 c-d. " Queste espressioni tanto significative si trovano nella Lettera VII, alle seguenti pagine: 341 a; 341 h; 344 h; 344 c; 344 d. 16 Lettera VII, 344 d-e.
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« SCRITTURA » B « ORALITÀ » SECONDO PLATONE
2.3
4.
I t r a t t i e s s e n z i a l i d e Il e « D o t t r i n e non scritte» di Platone pervenutici attraverso la tradizione indiretta Ciascuno avrà certamente ben compreso l'importanza veramente cospicua che la tradizione indiretta viene ad assumere, in quanto essa ci porta a conoscenza proprio dei tratti essenziali di quelle dottrine che Platone ha riserbato alla dimensione della «oralità » all'interno dell'Accademia. Aristotele stesso ci ha detto che questi insegnamenti che Platone comunicava solo mediante l'« oralità » venivano chiamati «Dottrine non scritte» (liypacpa o6yJ.La'ta) 17 • E Simplicio, citando Alessandro di Afrodisia, ci riferisce: Alessandro dice: « Secondo Platone, i Principi di tutte le cose e delle Idee medesime sono l'Uno eIa Diade indeterminata, che egli chiamava grande-e-piccolo, come anche nei libri Intorno al Bene Aristotele ricorda». Ma si potrebbe apprendere questo anche da Speusippo e da Senocrate e dagli altri che assistettero al corso Intorno al Bene di Platone. Infatti tutti misero per iscritto e conservarono l'opinione di Platone, e dicono che egli fa uso di questi Principi 18 •
E sempre Simplicio menziona anche « Eraclide », « Estieo » e « altri discepoli » 19 , che misero per iscritto il pensiero « non scritto » di Platone. Ma c'è di più. Platone, mentre si è rifiutato di mettere per iscritto queste sue dottrine orali, ha accettato ·di portarle in pubblico al di fuori dell'Accademia almeno in una lezione, o in un ciclo di lezioni orali, il cui esito fu, però, esat-
=
" Aristotele, Fisica, ~ 2, 209 b 11-17 (Gaiser, Test. Plat., 54 A Kriimer, 4). " Simplicio, In Arist. Phys., p. 151, 6-9 Diels (Gaiser, Test. Plat., 8 = Kriimer, 2). 19 Simplicio, In Arist. Phys., p. 453, 22-30 Diels (Gaiser, Test. Plat., 23 B = Kramer, 3 ).
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tamente quello che egli sostiene che avrebbero provocato suoi eventuali scritti su tali argomenti; infatti, suscitò incomprensioni, e quindi disprezzo e biasimo, come ci dice questa importantissima testimonianza: Come Aristotele soleva sempre raccontare, questa era l'impressione che provava la maggior parte di coloro che ascoltarono la conferenza di Platone Intorno al Bene. Infatti ciascuno vi era andato, pensando di poter apprendere uno di questi che sono considerati beni umani, come la ricchezza, la salute e la forza e, in generale, una meravigliosa felicità. Ma quando risultò che i discorsi vertevano intorno a cose matematiche, numeri, geometria e astronomia, e, da ultimo, si sosteneva che esiste un Bene, una Unità, io credo che questo sia sembrato qualcosa del tutto paradossale. Di conseguenza alcuni la disprezzarono, altri la biasimarono 20 •
Dunque, sulla esistenza di precise « Dottrine non scritte » di Platone c'è una sicurezza incontrovertibile. Ma come è possibile giustificare e salvare gli scritti dei suoi allievi su queste dottrine, dal momento che Platone ha pronunciato un categorico verdetto contro tutti gli scritti del passato e del futuro su questi argomenti? La risposta al problema non è difficile, come potrebbe sembrare di primo acchito. Infatti, Platone non dice che le sue « Dottrine non scritte» non siano di per sé scrivibili (anzi, dice chiaramente che proprio lui avrebbe potuto scriverle nella maniera migliore); ma dice che era inutile, anzi dannoso esporle ad un pubblico inadatto e incapace di comprenderle. E, soprattutto, boccia tutti quegli scritti sulle sue dottrine orali prodotti da coloro che, come il tiranno Dionigi, non avevano idoneità, preparazione e conoscenze adeguate 21 • Orbene, fra coloro che non hanno capito queste dottri20 Aristosseno, Harm. elem., n, 39-40 Da Rios (Gaiser, Test. Plat., 7 Kramer, 1). 21 Lettera VII, 340 b-d; 341 c-e; 344 d
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«SCRITTURA» E
« ORALITA » SECONDO PLATONE
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ne non si possono affatto includere i suoi migliori discepoli, che sono proprio quelli di cui ci sono pervenuti scritti e testimonianze in materia. Ed è Platone stesso che di questi suoi discepoli ci dà il giudizio positivo più chiaro e più netto, dicendoci che essi hanno compreso bene le dottrine in questione; e li contrappone ai tipi come Dionigi, come risulta da queste sue precise affermazioni: Orbene, se [Dionigi] le ritenev'l scempiaggini, allora verrà ad essere in contrasto con molti testimoni che sostengono il contrario e che su queste cose potrebbero essere giudici molto più autorevoli di Dionigi 22 •
Allora è chiaro che i discepoli che hanno scritto sulle « Dottrine non scritte » del Maestro non hanno cercato di
fare ciò che Platone riteneva oggettivamente e strutturalmente impossibile, ma semplicemente hanno fatto ciò che egli riteneva inefficace, inutile e per di più pericoloso per l'incomprensione dei più. Insomma, le proibizioni di Platone di scrivere su certe dottrine non erano di carattere puramente teoretico, ma risultavano radicate in convinzioni di carattere prevalentemente etico-educativo e pedagogico, assorbite da Socrate; e quindi si fondavano sulla convinzione della supremazia della dimensione della « oralità » su quella della « scrittura ». Ma i discepoli di Platone erano, ormai, lontani da Socrate quanto bastava per non sentirsi vincolati radicalmente a quelle convinzioni, e quindi per ritenere di poter mettere per iscritto tutta quanta la filosofia, senza operare restrizioni o limitazioni di ambiti. Tanto più che la cultura della scrittura stava prendendo il netto sopravvento, e chi non era stato diretto discepolo di Socrate non poteva sentire quegli effetti di impatto fra due culture, che, invece, sentì Platone. E, in ogni caso, la maggior parte dei migliori
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Lettera VII, 345 b.
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PLATONE E LA SCOPERTA DEL SOPRASENSIBILE
discepoli di Platone non mise per iscritto le « Dottrine non scritte » per diffonderle fra un pubblico inadatto e inadeguato, come fecero tutti coloro che Platone biasima, ma probabilmente per farle circolare solo all'interno del gruppo degli Accademici. Ma c'è di più. I discepoli di Platone, trasgredendo il gran divieto di scrivere sulle sue « Dottrine non scritte » nel senso che abbiamo spiegato, ci hanno tramandato quelle chiavi che ci permettono di aprire quelle porte, che dopo un paio di generazioni sarebbero rimaste per sempre e per tutti rinchiuse, e quindi hanno fatto un grande servizio ai posteri e alla storia. Pertanto, la tradizione indiretta deve essere considerata un documento fondamentale accanto ed insieme ai dialoghi, come vedremo 23 •
5. Come va inteso il termine «esoterico» riferito al pensiero non scritto di Platone Da tempo gli studiosi hanno introdotto per designare queste « Dottrine non scritte» il termine « esoterico », distinguendo, quindi, un Platone « esoterico » da un Platone « essoterico ». Per « essoterico » si intende quel pensiero che Platone destinava con i suoi scritti anche a coloro che erano « fuori » della Scuola (essoterico deriva da [;w, che significa fuori). Per « esoterico » si intende, invece, quel pensiero che Platone riservava alla sola cerchia degli scolari all'interno ossia dentro la Scuola (esoterico deriva da ECTW, che vuol dire dentro). Ma in passato «esoterico» era inteso in >Tiodo assai vago, ed indicava genericamente una dot" Cfr. Reale, Platone ... , passim.
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«SCRITTURA» E « ORALITÀ » SECONDO PLATONE
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trina destinata a rimanere ricoperta da una misteriosa segretezza, quasi come una sorta di metafilosofia per iniziati 24 • Contro questo modo di intendere il Platone « esoterico » già Hegel una volta per tutte ci sembra aver fatto giustizia, in questa pagina a nostro avviso esemplare: « Una [ ... ] difficoltà nascerebbe dalla distinzione che si suoi fare fra filosofia essoterica ed esoterica. Il Tennemann afferma: " Platone si valse del diritto, che spetta ad ogni pensatore, di comunicare soltanto quella parte delle sue scoperte che riteneva opportuno, e comunicarla soltanto a coloro che credeva in grado di accoglierla. Anche Aristotele ebbe una filosofia esoterica e una filosofia essoterica, con questa differenza però, che in lui la distinzione riguardava soltanto la forma, in Platone la materia". Sciocchezze! Sembrerebbe quasi che il filosofo sia in possesso dei suoi pensieri come delle cose esteriori: invece l'idea filosofica è tutt'altra cosa, è essa che possiede l'uomo. Allorché i filosofi parlano di argomenti filosofici, debbono esprimersi secondo le loro idee e non possono tenersele chiuse in tasca. Se anche con qualcuno essi si esprimono in maniera estrinseca, tuttavia nei loro discorsi è sempre contenuta l'idea, per poco che la cosa di cui si tratta abbia contenuto. Per consegnare un oggetto esterno non ci vuole gran che, ma per comunicare idee ci vuole capacità, e questa resta sempre alcunché di esoterico, sicché non si ha mai puramente l'essoterico dei filosofi » 25 • Ora, il Platone delle « Dottrine non scritte » è un Pia-
" In epoca moderna ha diffuso questa concezione soprattutto W. Tennemann, System der platonischen Philosophie, Leipzig 1792-1795, e proprio a lui si riferisce Hegel, nel passo che riportiamo subito appresso. " G.W.F. Hegel, Vorlesungen iiber die Geschichte der Philosophie, in: Samtliche W erke... herausgegeben von H. Glockner, Vierte Auflage der Jubilaumsausgabe, Stuttgart-Bad Cannstatt · 1965, vol. 18, pp. 179 sg. (traduzione italiana di E. Codignola e G. Sauna, La Nuova Italia, Firenze, vol. n, pp. 161 sg.).
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PLATONE E LA SCOPERTA DEL SOPRASENSIBILE
tone « esoterico », ma in un senso del tutto differente. Spiega Gaiser: « chiamando [ ... ] " esoterica " questa teoria dei principi di Platone [espressa nelle « Dottrine non scritte »], vogiio dire che Platone intendeva parlare di queste cose solo nella cerchia ristretta dei discepoli, che, dopo una lunga ed intensa preparazione matematico-dialettica, erano capaci di appropriarsene in modo adeguato. Non si deve intendere, per contro, una segretezza artificiosa, quale si può riscontrare in conventicole di culto religioso, o in leghe settarie, o in gruppi di élite» 26 • Insomma: « esoterico » deve essere inteso nel senso di « intra-accademico », ossia come qualificante «dottrine professate all'interno dell'Accadeinia », e riservate ai discepoli dell'Accademia stessa. Dunque, il senso peculiare della dimensione « esoterica » platonica è quello stesso che caratterizza la scelta della oralità dialettica per esprimere la dottrina dei Principi p_rimi. La via d'accesso all'esoterico coincideva con quel durissimo tirocinio educativo di cui parlano espressamente anche la Repubblica e le Leggi v. La Repubblica parla addirittura (come vedremo) di un tirocinio che dura fino ai cinquant'anni. D'altra parte, i Principi supremi che ridanno il senso ultimativo delle cose, sono veramente accessibili all'uomo solo mediante un tirocinio lunghissimo, ossia camminando per la « lunga via dell'essere », senza speranze di trovare comode scorciatoie. Inteso in questo preciso senso, il termine « esoterico » applicato alle « Dottrine non scritte » di Platone si sottrae per intero alle critiche di Hegel. Anzi, per Platone si verifica proprio quello che Hegel dice, e cioè che « allorché i filosofi parlano di argomenti filosofici, debbono esprimersi ,. K. Gaiser, La teoria dei Principi in Platone, in « Elenchos », (1980), p. 48; ora in Gaiser, La metafisica della storia ... , p. 192. 27 Cfr. Repubblica, libri VI e VII, passim; Leggi, XII, 960 b sgg.
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«SCRITTURA» E « ORALITÀ » SECONDO PLATONE
secondo le loro proprie idee e non possono tenersele chiuse in tasca. Se anche con qualcuno essi si esprimono in maniera estrinseca, tuttavia nei loro discorsi è sempre contenuta l'idea, per poco che la cosa di cui si tratta abbia contenuto ». E infatti Platone, come vedremo, nei suoi scnttl essoterici diretti a un vasto pubblico al di fuori della Scuola, pur esprimendosi su particolari problemi in maniera in un certo senso estrinseca, ha manifestato le sue concezioni per allusioni e con continui rimandi. Insomma in Platone non c'è mai il puramente essoterico. Però, se non ci fosse la tradizione indiretta, noi non potremmo comprendere e ricostruire l'esoterico che c'è nei dialoghi, perché risulta variamente intrecciato con l'essoterico e piuttosto velato dalle troppo complesse allusioni e dai vari rimandi.
6. S i g n i f i c a t o , p o r t a t gli scritti platonici
;1
e
finalità
de-
Sulla base di quanto è stato sopra detto, è evidente che si impone la necessità di rivisitare gli scritti platonici secondo una nuova ottica e che per l'antico problema «che cos'è e che cosa significa lo scritto platonico » si profilano differenti soluzioni, più articolate, più complesse ed anche più costruttive 28 • In primo luogo, dobbiamo ricordare che la forma dialogica in cui sono redatti quasi tutti gli scritti di Platone, ha la sua matrice nella forma del filosofare socratico. Per Socrate filosofare significa esaminare, provare, curare e purificare l'anima: e questo, a suo avviso, può realizzarsi solamente tramite il dialogo vivo (ossia nella dimensione della « oralità »), che mette immediatamente a confronto anima con anima e permette di attuare il metodo ironico" Per la bibliografia su questo tema si veda il volume v, s.v.
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maieutico. Ma fra il rifiuto totale di scrivere da parte di Socrate e la scelta conseguente della oralità dialettica come unica valida (da un lato) e il rigido trattato sistematico dei Naturalisti o lo scritto retorico dei Sofisti (dall'altro), Platone ritenne possibile battere una via di mezzo, ossia credette di poter operare una mediazione che fosse (sia pure parzialmente, e nei limiti che abbiamo chiarito) valida. In effetti, poteva ben esserci uno scritto in prosa (un cn)yypa!J.IJ.a) 'Z'I, che, rinunciando alla rigidità dell'esposizione dogmatica e al discorso di parata dei sofìsti e dei retori, cercasse di riprodurre lo spirito socratico, senza sacrificarlo interamente. Si trattava, allora, di cercare di riprodurre nello scritto il discorso « socratico », imitandone la peculiarità, ossia riproducendone il reinterrogare senza posa, con tutte le impennate del dubbio, con gli improvvisi squarci che maieuticamente spingono a trovare la verità, senza rivelarla mai interamente in senso sistematico, ma sollecitando l'anima a trovarla, con le drammatiche rotture, che strutturalmente aprono ulteriori prospettive di ricerche: insomma, facendo uso appunto di tutta una dinamica squisitamente socratica. Nacque, così, il dialogo socratico, che divenne addirittura un genere letterario, adottato dai discepoli di Socrate e poi anche da filosofi successivi, del quale Platone può essere stato l'inventore, e del quale fu, comunque, certamente il rappresentante di gran lunga superiore a tutti gli altri, e, anzi, l'unico vero rappresentante, giacché in lui soltanto è riconoscibile l'autentica natura del filosofare socratico, che negli altri scrittori decade a manierismo. Però anche sul dialogo così concepito pesa il giudizio dato da Platone stesso nel Fedro, sopra esaminato. Questo significa che, per Platone, le verità supreme della filosofia, ossia le cose di mag" Sul significato di questo termine e sul suo riferimento ai dialoghi di Platone si veda Szlezak, Platon ... , pp . .376-385.
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« SCRITTURA» E « ORALITÀ » SECONDO PLATONE
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gior valore, non possono essere affidate alla « scrittura » in nessuna sua forma, neppure in quella dialogica, ma solo all' oralità dialettica. Pertanto i dialoghi raggiungono alcune finalità, ma non tutte le finalità (e proprio non quelle ultimative) alle quali Platone mirava come filosofo. In sintesi possiamo dire quanto segue. a) Nei primi dialoghi, che sono i più vicini allo spmto socratico, Platone si ripropone scopi protrettici, educativi e morali, analoghi a quelli che lo stesso Socrate si proponeva con il suo filosofare morale. La purificazione dell'anima dalle false opinioni, la preparazione maieutica alla verità e la discussione educativa sono certamente delle costanti che si ritrovano in tutti gli scritti platonici, ma che nei dialoghi giovanili sono certamente in primissimo piano e costituiscono gli obiettivi principali. Successivamente esse si attenuano, però permangono come una costante. b) I dialoghi platonici non hanno mai come obiettivo quello di rispecchiare colloqui realmente avvenuti, ma rappresentano modelli di colloqui ideali, ossia modelli di comunicazione filosofica coronata da successo, oppure conclusasi con l'insuccesso. Questa idealizzazione del colloquio implica uno stagliarsi più preciso di una metodologia, la quale viene ad assumere chiaramente una funzione regolativa, probabilmente con nessi molto precisi rispetto alle discussioni che si svolgevano nell'Accademia. In particolare, i dialoghi presentano discussioni dialettiche magistralmente orchestrate, in cui il metodo dell' elenchos, ossia il metodo della ricer~a della verità tramite la confutazione dell' avversario, talora raggiunge addirittura la perfezione. c) Nell'esposizione delle dottrine contenute nelle « autotestimonianze » del Fedro e della Lettera VII abbiamo già visto come Platone assegnasse allo scritto una precisa funzione « ipomnematica ». Lo scritto, pertanto, doveva fissare e mettere a disposizione dell'autore e degli altri un materiale concettuale guadagnato per altra via, vale a dire in di-
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scussioni precedentemente fatte e quindi nella antecedente dimensione della oralità. Questa funzione « rammemorativa » emerge in primo piano, dal momento in cui i dialoghi platonici acquistano uno spessore dottrinale considerevole, e quindi soprattutto in quell'arco di dialoghi che va dalla Repubblica (e in parte anche dai dialoghi immediatamente precedenti) alle Leggi. Ricordiamo inoltre che, come abbiamo già mostrato, gli scritti sono utili per « rammemorare » una serie di dottrine, ma, per i motivi che abbiamo sopra spiegato, non le dottrine ultimative concernenti i Principi supremi della realtà. Tuttavia a queste dottrine supreme destinate a rimanere non scritte, perché non bisognose di mezzi rammemorativi (in quanto si riassumono in « brevissime proposizioni », le quali, una volta che siano state ben comprese, non si possono più dimenticare), gli scritti fanno precisi riferimenti, almeno con vari rimandi e per cenni. Si tratta, dunque, di allusioni che ben si possono chiamare « allusioni ipomnematiche », valide per chi conoscesse la dottrina guadagnata mediante un aitro mezzo di comunicazione, ma nulla più :JJ. d) A parole Platone nega al discorso scritto la capacità di « comunicare » efficacemente delle dottrine, riservando questa capacità al discorso orale. Tuttavia le funzioni ipomnematiche non risulterebbero evidentemente possibili, se davvero la funzione comunicativa nello scritto fosse del tutto assente. Malgrado le recise affermazioni che leggiamo nel Fedro, è chiaro, dunque, che lo scritto platonico è anche uno strumento di comunicazione filosofica. Anche se il suo autore lo nega espressamente a parole, tuttavia di fatto, almeno nella misura in cui ha scritto e nel modo in cui ha scritto, finisce con l'ammetterlo, e anzi con il dimostrarlo. 30 Queste allusioni sono molto numerose. Alcune delle più significative sono raccolte in Kramer, Platone ... , Appendice Il, pp. 358 ss. (sotto il titolo: «I rimandi degli scritti platonici al "non scritto"»), con testo greco e mia traduzione a fronte. Cfr. anche Reale, Platone .. , passim.
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«SCRITTURA» E « ORALITÀ » SECONDO PLATONE
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e) Inoltre, « i procedimenti didattici dello scrittore Platone danno avvio ad un processo conoscitivo che giunge a termine non già negli scritti, bensl nell'attività dell'insegnamento orale dell'Accademia» 31 • Pertanto, noi «possiamo comprendere i dialoghi platonici nella loro totalità solo se ci rendiamo conto che essi rimandano nei particolari e in generale ad una giustificazione di vasta portata che non è esplicita nell'opera scritta, ma che è presupposta in ogni sua parte » 32 • Il cerchio in cui Platone sembra chiudere il lettore con lo scritto, proprio attraverso i ragg! del medesimo, in realtà rimanda più volte ad un « non scritto », che costituisce come un più ampio cerchio, che ingloba il cerchio dello scritto e lo delimita. /) Una riconferma di questa prospettiva viene dal recente contributo di Szlezak, il quale, partendo proprio dall'~same dei dialoghi e restando nel loro ambito (e quindi senza entrare nel merito delle « Dottrine non scritte » tramandateci dalla tradizione indiretta), dimostra che il « soccorso » orale che va portato allo scritto e di cui parla il Fedro, costituisce proprio la struttura portante di tutti gli scritti platonici, già a partire da quelli della giovinezza. Platone « concepisce lo scritto filosofico fin da principio come scritto non-autarchico, ossia come scritto che dal punto di vista del contenuto va trasceso, se lo si vuole intendere pienamente. Il libro del filosofo deve avere la giustificazione dei suoi argomenti al di là di sé » 33 • Le analitiche dimostrazioni fornite da Szlezak sono particolarmente interessanti, perché dimostrano come questo « soccorso » si debba realizzare a differenti livelli, e per giunta in una maniera molto estesa. Ad alcuni livelli, questi « soccorsi » sono portati " Kramer, Platone ... , p. 148. " Gaiser, Platone come scrittore ... , p. 46. 33 Szlezak, Platon ... , p. 66; cfr. anche pp. 328 sgg.
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PLATONE E LA SCOPERTA DEL SOPRASENSIBILE
nelle parti successive del medesimo scritto; ad altri livelli implicano dottrine che si trovano presenti in altri dialoghi; ma il soccorso che porta ai fondamenti ultimativi non si trova nei dialoghi, ed è esattamente quello che Platone non ha voluto mettere per iscritto, e che la tradizione indiretta ci ha tramandato.
7. Il «soccorso» che la tradizione indiretta porta agli scritti platonici Che la tradizione indiretta possa portare una serie di « soccorsi » ai dialoghi platonici si è incominciato a comprendere a partire dagli inizi del nostro secolo, ma limitatamente agli ultimi dialoghi. Invece le più avanzate ricerche degli ultimi anni hanno mostrato in maniera sempre crescente come anche molti passi oscuri dei dialoghi intermedi risultino perfettamente comprensibili solo con il « soccorso » delle « Dottrine non scritte ». Pertanto, si deve concludere che, a partire dalla fondazione dell'Accademia, Platone avesse già un quadro delle « Dottrine non scritte » e una precisa concezione dei rapporti fra « scrittura » e « oralità ». Di conseguenza, tutti i dialoghi più significativi di Platone, da sempre ritenuti punti di riferimento essenziali per poter ricostruire il suo pensiero, sottintendono il quadro teoretico generale delle « Dottrine non scritte ». E allora, il « soccorso » che la tradizione indiretta porta ai dialoghi platonici consiste in questo: tenendo presenti le « Dottrine non scritte » che stanno sullo sfondo, le parti centrali di molti di essi, che in passato erano rimaste senza precise spiegazioni o che erano state spiegate solo in modo parziale oppure forzato, diventano chiare e perfettamente intelligibili, e su precise basi oggettive e storiche, ossia nella misura in cui coloro che avevano udito direttamente Platone ce ne forniscono la chiave.
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«SCRITTURA» E
« ORALITÀ » SECONDO PLATONE
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In conclusione: nell'ambito del nuovo modello interpretativo la perdita dell'autarchia dei dialoghi, dovuta alla valorizzazione della tradizione indiretta, non significa perdita del loro valore, ma, al contrario, significa un incremento del medesimo, perché risultano illuminati nelle zone d'ombra, e, quindi, risultano più chiari, più ricchi di istanze e di tensioni, e protesi verso più ampi orizzonti. Inoltre, quel plus rivelatoci dalla tradizione indiretta si riduce ad un discorso molto breve. Il discorso sui « fondamenti ultimativi » tramandatoci dalla tradizione indiretta è, infatti, un discorso sempre molto breve: è come il tratto ultimo della salita di una vetta, che è il più breve, ma il più impegnativo ad un tempo. Gli scritti platonici fanno salire per tutta la montagna, ma non ci fanno guadagnare la vetta; la tradizione indiretta, invece, ci mette in condizione di guadagnare anche la vetta 34 •
,. ti. esattamente quello che, sulla via aperta dalla Scuola di Tubinga, abbiamo fatto nel nostro Platone ... , passim.
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II. I GRANDI PROBLEMI CHE HANNO TRAVAGLIATO GLI INTERPRETI DI PLATONE E LE LORO PIÙ PLAUSIBILI SOLUZIONI ALLA LUCE DEI NUOVI STUDI
l.
ma
L a q u e s t i o n e d e Il' u n i t à e d e l nel pensiero di Platone
sist e-
Seguendo le linee di questo nuovo modello di interpretazione di Platone, si può risolvere tutta una serie di problemi finora rimasti insoluti. Il più grosso dei problemi, che ha travagliato gli interpreti di Platone dall'antichità ad oggi, consiste nella ricostruzione dell'unità del pensiero platonico e nel guadagno di una visione sintetica e organica che faccia ordine in quel complesso materiale concettuale che ci offrono i dialoghi, in cui si intersecano molteplici prospettive di vario genere, istanze aporetiche e problematiche, rimandi a differenti dimensioni, mascheramenti ironici spesso sconcertanti, provocazioni sorprendenti. Leibniz, che visse in un'epoca in cui la plurisecolare interpretazione neoplatonica (che si era retta prevalentemente sulle basi di una lettura allegorica dei dialoghi) era ormai in via di radicale dissoluzione, scriveva: « Se qualcuno riducesse Platone a sistema, costui renderebbe un grande servizio al genere umano » 1• È proprio questo, in verità, il grande enigma che bisogna risolvere, per poter penetrare il pensiero platonico e in' G. W. Leibniz, Die philosophischen Schriften, edizione C. vol. m, Berlin 1887 (1978'), p. 637.
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J.
Gerhardt,
I GRANDI PROBLEMI INTERPRETATIVI DI PLATONE
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tenderlo a fondo. Ebbene, la tradizione indiretta, nella misura in cui ci rivela quali fossero per Platone i fondamenti supremi del reale e ci indica i nessi che legano tutte le realtà ai Principi supremi, colma in buona parte questa lacuna che i dialoghi presentano, e quindi aiuta a risolvere l'enigma. In effetti, da quanto si ricava dalle testimonianze che ci sono pervenute, non c'è dubbio che Platone mirasse a presentare un sistema, atto ad abbracciare il reale nella sua interezza e nelle sue parti essenziali. E, per quanto queste testimonianze risultino incomplete e molto sintetiche, esse ci permettono, tuttavia, di ricostruire i tratti essenziali e i nessi strutturali di tale sistema. Ma, poiché questa scoperta rende di colpo obsoleta tutta una serie di interpretazioni che sono state date di Platone (e in modo particolare quelle in chiavi scetticheggianti, problematicistiche, esistenzialistiche e antimetafisiche), è necessario precisare in quale senso vada inteso il termine « sistema » riferito al pensiero di Platone. Non bisogna intenderlo in senso hegeliano o neoidealistico, bensì in quel senso che, fin dalle sue origini, con i Presocratici la filosofia greca ha rivelato come tratto definitorio e come connotato essenziale del pensiero filosofico. Spiegare significa uni-ficare, in funzione di concetti~base, che implicano uno strutturale legame fra di loro, e che fanno capo ad un concetto supremo che li ingloba. Dunque, « sistema » è una organica connessione di concetti, in funzione di un concetto-chiave (o di alcuni concetti-chiave). E, naturalmente, inteso in questo modo, il « sistema » non ha nulla a che vedere con irrigid~menti sistematistici e chiusure dogmatiche, ma si presenta come un progetto dell'asse portante principale delle ricerche e degli assi portanti connessi e delle loro implicanze 2 • ' Si veda, per avere un'idea di come la questione del « sistema » sia m generale fraintesa, E. N. Tigerstedt, lnterpreting Plato, Uppsala 1977
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PLATONE E LA SCOPERTA DEL SOPRASENSIBILE
Ci sembra esatto ciò che Kramer ha precisato a questo riguardo: « [ ... ] il progetto era ritenuto elastico e flessibile ed era fondamentalmente aperto ad ampliamenti, sia nel suo insieme sia nei particolari. Si può pertanto parlare di una istanza non dogmatica ma euristica e rimasta in alcuni particolari addirittura a livello di abbozzo, e quindi di un sistema aperto; non però certamente di un antisistema di frammenti di teorie senza precise connessioni. Invece è da tenere sicuramente in conto la tendenza alla totalizzazione t ad un progetto generale coerente e consistente» 3 • Gaiser, a sua volta, ribadisce in modo analogo: «Con la qualifica di " sistematica " voglio dire che con questa teoria si intendeva e si operava una composizione completa, una sintesi universale, un coglimento speculativo sinottico delle singole conoscenze acquisite in tutti i possibili ambiti del reale. Questa qualifica però non vuoi dire che si trattasse di un complesso di proposizioni rigidamente conchiuso, scolastico, stabilito una volta per tutte. Fino ad oggi vi è nelle singole scienze, e ciò vale per l'ontologia nel suo insieme, il tipo del sistema vivente-dinamico, che in tanto è " aperto ", in quanto cerca di rappresentare la realtà in modo sempre e solamente ipotetico e dialettico. Il sistema platonico pertanto, se compreso correttamente, non esclude, anzi comporta un costante sviluppo ulteriore: anche se la concezione fondamentale, pari ad un nucleo di cristallizzazione, rimase per lungo tempo immutato, era sempre possibile integrare nuove singole conoscenze nel sistema complessivo » 4 • Dunque, la tradizione indiretta, rivelandoci i tratti essenziali delle « Dottrine non scritte », e quindi offrendoci quel plus che manca nei dialoghi, ci fa conoscere proprio quell'asse portante principale (quel concetto supremo o quei ' Kriirner, Platone ... , pp. 177 s. ' Gaiser, La teoria ... , pp. 48 s.; La metafisica della storia ... , pp. 192 s.
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concetti supremi) che organizza e uni-fica in maniera cospicua i vari concetti presentati dai dialoghi. Ma questo lo vedremo con ampiezza più avanti.
2. L a q u e s t i o n e d e Il ' i r o n i a e d e Il a s u a funzione nei dialoghi platonici
Ciò che Leibniz diceva a proposito del problema della ricostruzione del sistema platonico, veniva ribadito da Goethe a buona ragione, e con parole simili, per la questione dell'ironia: «Certamente, chi ci sapesse spiegare che cosa uomini come Platone hanno detto sul serio, per scherzo, o in modo semischerzoso, e che cosa hanno detto per convinzione oppure semplicemente per modo di dire, ci renderebbe uno straordinario servizio e porterebbe un contributo infinitamente grande alla nostra cutlura » 5 • In realtà, Platone insieme al dialogo socratico doveva necessariamente sussumere anche l'« ironia » ed introdurla nei suoi scritti come un costitutivo essenziale, con tutte le difficoltà e con tutti i problemi che essa comporta. In Socrate l'ironia consisteva in un abile gioco portato avanti soprattutto con la maschera dell'ignoranza in tutte le sue poliformi e policrome varianti, al fine di smascherare l'effettiva ignoranza del saccente interlocutore. Come è ben noto, nel vario gioco delle simulazioni Socrate arrivava addirittura a fingere di accogHere idee e metodi dell'avversario come se fossero propri, li esasperava al fine di poter facilmente far emergere i punti deboli e confutarli, facendo uso, talora, della stessa logica che era propria di quei metodi 6 • Orbene, m Platone si ritrovano ambedue questi aspetti dell'ironia ' ]. W. Goethe, Plato, als Mitgenosse einer christlichen Offenbarunl, in: Goethes Werke, XXXII (nella collana « Deutsche National•Litteratur. Historisch-kritische Ausgabe >> 113. Bd.), p. 140. ' Cfr. volume I, pp. 358-362.
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Il primo, però, che è alquanto accentuato nei primi dialoghi, va via via riducendo il suo mordente e la sua portata, nella misura in cui i dialoghi si .arricchiscono di contenuti di dottrina e nella misura in cui il momento costruttivo, in essi, sopravanza il momento aporetico. Il secondo, invece, tende ad ampliarsi e a farsi sempre più complesso, fino a raggiungere le punte massime anche in dialoghi molto importanti, come ad esempio nel Parmenide. Ed è proprio questo aspetto dell'ironia platonica che rende certi dialoghi difficili da interpretare, perché il filosofo non fa riconoscere espressamente la finzione ironica come tale e muta maschera senza mai farla cadere. L'ironia platonica ha un profondo valore metodologico, che ha le sue radici nella maieutica socratica: il lettore dei dialoghi viene coinvolto nelle invenzioni e nel gioco delle finzioni allo scopo di ottenere un suo impegno totale, che ha per fine il far scaturire dal di dentro la scintiHa del vero. Dunque, l'ironia platonica non ha nulla a che vedere, come J aspers ha giustamente rilevato nella sua ricostruzione del pensiero platonico, con la visione nichilista, che persegue la via della mera negazione, e che coincide con il ridicolo che colpisce ed annienta. Per contro, l'ironia platonica implica il possesso di un positivo, che non viene espresso direttamente, al fine di evitare il fraintendimento di chi non è in grado d'intendere. « L'ironia filosofica - scrive Jaspers - è invece espressione della certezza di un contenuto originario. Perplessa di fronte alla univocità del bisogno razionale e alla molteplicità di significati che hanno i fenomeni, essa vorrebbe cogliere il vero, non parlando ma suscitando. Vorrebbe dare un segno della verità nascosta, mentre l'ironia nichilista è vuota. Nel vortice dei fenomeni vorrebbe condurre con uno svelamento autentico alla presenza ineffabile della sua verità, mentre la vuota ironia attraverso il vortice ci fa cadere nel nulla. L'ironia filosofica è pudore di ogni verità diretta. Essa vieta ogni fraintendimento tota-
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le immediato». Con la sua ironia - dice ancora Jas.pers « sembra che Platone abbia voluto dire: coloro i quali non possono intendere debbono fraintendere » 7 • Ebbene, accogliendo il nuovo modello interpretativo, non pochi dialoghi cessano di essere enigmi, e si comprende che cosa Platone ha detto davvero sul serio e per convinzione. Le precise indicazioni che si ricavano dalla tradizione indiretta gettano molta luce, come vedremo, su molti dialoghi, e soprattutto su parti enigmatiche dei dialoghi (che obiettivamente talora raggiungono i limiti della indecifrabilità), ed offrono la chiave per intendere il gioco ironico e far cadere la maschera, e, quindi, per identificare fattivamente il messaggio fìlosofìco platonico. In ogni caso, l'interpreta:done panironica dei dialoghi platonici, in cui alla fìne l'ironia travolge tutto e anche se stessa, alla luce della rivalutazione della tradizione indiretta non è più proponibile, mentre il gioco ironico svela, alfìne, la sua serietà fìlosofìca ed i suoi fìni costruttivi.
3. La questione cruciale luzione» del pensiero di
della «evoPlatone
A proposito della questione cruciale dell'evoluzione del pensiero platonico scriveva Theodor Gomperz alla fìne dell'Ottocento: « Accordiamoci per un momento il lusso di un bel sogno. Supponiamo che uno degli intimi di Platone, per esempio suo nipote Speusippo [ ... ] , avesse fatto quello che non gli avrebbe richiesto più di un quarto d'ora dei suoi ozi e che lo avrebbe reso inestimabilmente benemerito della storia della fìlosofìa: che avesse, cioè, segnato su una tavo7 K. Jaspers, Die grossen Philosophen, Miinchen 1957, pp. 267 sg. (traduzione italiana di F. Costa: I grandi filosofi, Longanesi, Milano 1973, pp. 357 sg.).
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letta l'elenco, per ordine di data, degli scritti di suo zio, e che una copia di tale elenco fosse pervenuta fìno a noi. Possederemmo, in tal caso, l'ausilio migliore per lo studio dello svolgimento spirituale di Platone » 8 • Gomperz rileva che questo non supplirebbe alla mancanza di un diario, di un ricco epistolario, di ragguagli sulle sue conversazioni; per di più, il punto di vista direttivo che concerne lo sviluppo cronologico e quello che concerne la continuità dei contenuti dottrinali si contenderebbero pur sempre il primato; tuttavia, un catalogo di quel genere risulterebbe risolutivo dei più grossi problemi, dato che il pensiero di Platone è un continuo processo di avanzamento. Ebbene, oggi questa convinzione, sulla base di quanto abbiamo sopra detto circa i rapporti fra « scrittura » e « oralità » in Platone, risulta in parte superata, e in ogni caso ridimensionata in maniera strutturale. Ma per capire bene questo problema e le soluzioni che oggi vanno vieppiù imponendosi, è necessario che precisiamo alcuni suoi tratti essenziali. Il concetto di « evoluzione » del pensiero di Platone è stato introdotto da Hermann nel 1839 9 , in un'opera che ha segnato una svolta essenziale negli studi platonici, articolando in maniera nuova il modello interpretativo che era stato proposto da Schleiermacher. La tesi trovò consensi eccezionali e la concezione dell'evoluzione del pensiero platonico divenne un vero e proprio canone ermeneutico, anche per il fatto che essa ricevette alcune importanti conferme sulla base dell'applicazione del metodo dell'analisi stilistica e della statistica linguistica e con l'ausilio dei raffinati metodi della moderna filologia. ' Th. Gomperz, Griechische Denker, Leipzig 1896-1897; traduzione italiana di L. Bandini: Pensatori greci, vol. m, La Nuova Italia, Firenze 1953', p. 49. ' K. F. Hermann, Geschichte und System der platonischen Philosophie, Heidelberg 1839.
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Si è partiti dalle Leggi, che sappiamo per certo essere state l'ultimo scritto di Platone, e, con una accurata determinazione delle caratteristiche stilistiche di quest'opera, si è cercato di stabilire quali altri scritti corrispondessero a queste caratteristiche, e si è di conseguenza potuto concludere (avvalendosi anche di criteri collaterali di vario genere) che gli scritti dell'ultimo periodo sono, in ordine, probabilmente i seguenti: T eeteto, Parmenide, Sofista, Politico, Filebo, Timeo, Crizia, Leggi. Si è ulteriormente potuto stabilire che la Repubblica appartiene alla fase centrale della produzione platonica, che è preceduta dal Simposio e dal Pedone e che è seguita dal Fedro. Si è potuto altresì accertare che un gruppo di dialoghi rappresenta il periodo di maturazione e di passaggio dalla fase giovanile alla fase più originale: il Gorgia appartiene verosimilmente al periodo immediatamente anteriore al primo viaggio in Italia e il Menone a quello immediatamente seguente. A questo periodo di maturazione risale probabilmente anche il Cratilo. ll Protagora è forse il coronamento della prima attività. Gli altri dialoghi, soprattutto quelli brevi, sono certamente scritti giovanili, come, del resto, è confermato dalla tematica squisitamente socratica che in essi viene discussa. Alcuni di essi possono essere stati ritoccati in età matura. Ed ecco le conclusioni che se ne potrebbero ricavare dal punto di vista teoretico e dottrinale, e che illustrano lo schema che in passato anche noi abbiamo sostenuto. Dapprima, Platone trattò una problematica prevalentemente etica (etico-politica), muovendo esattamente dalla posizione alla quale era pervenuto Socrate. In seguito, e proprio approfondendo in tutte le direzioni la problematica etico-politica, egli comprese la necessità di rivalutare le istanze della filosofia della physis: comprese che la giustificazione ultima dell'etica non può venire dall'etica stessa, ma solo da una conoscenza dell'essere e del cosmo di cui l'uomo è parte. Ma il ricupero delle istanze onto-cosmologiche
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dei Fisici avvenne in modo originalissimo, e, anzi, mediante una autentica rivoluzione di pensiero, ossia con la scoperta del soprasensibile (dell'essere soprafisico). La scoperta dell'essere soprasensibiie e delle sue categorie mise in moto un processo di revisione di una serie di antichi problemi e ne fece nascere altresì tutta una serie di nuovi, che Platone mise a tema e approfondì via via, nei dialoghi della maturità e della vecchiaia, in modo instancabile. Il guadagno del concetto del soprasensibile diede nuovo senso alla socratica psyché e alla socratica « cura dell'anima »; diede altro senso all'uomo e ai suoi destini, altro senso alla Divinità, al cosmo e alla verità. Dall'alto degli orizzonti raggiunti con la scoperta del soprasensibile Platone poté comporre l'antitesi fra Eraclito e Parmenide, poté fondare l'intuizione teleologica di Anassagora, poté sciogliere molte aporie dell'Eleatismo, poté dare nuovo senso al Pitagorismo. Nella maturità le istanze eleatiche si fecero, anzi, così urgenti, che non solo ispirarono interi dialoghi come il Parmenide, ma portarono addirittura, come già abbiamo detto, ad una sostituzione di Socrate come protagonista: nel Sofista e nel Politico, infatti, il vero protagonista sarà uno Straniero di Elea. Nella fase della vecchiaia, infine, emersero in primo piano le istanze pitagoriche (peraltro dal Gorgia in poi sempre presenti e in vario modo operanti), al punto che, nella grande sintesi finale cosmo-antologica del Timeo, come protagonista Platone scelse appunto il pitagorico Timeo. Secondo la maggioranza degli studiosi, infine, le « Dottrine non scritte » (e anche per quegli studiosi che per primi le avevano rivalutate) avrebbero concluso la parabola evolutiva di Platone. Questa parabola-tipo che abbiamo brevemente schizzato, naturalmente ha una serie di varianti (e anche assai notevoli) nei vari interpreti. In particolare è da notare che molti studiosi hanno creduto di poter rintracciare nei dialoghi posteriori alla Repubblica espressioni di crisi, di superamenti,
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I GRANDI PROBLEMI INTERPRETATIVI DI PLATONE
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di « autocritiche », di « autocorrezioni » di vario genere del pensiero originario platonico, soprattutto per quanto concerne la dottrina centrale, ossia la dottrina delle Idee. Ed è anche da rilevare come il problema dei rapporti fra evoluzione e sistema sia stato variamente risolto, per lo più con la tendenza a dare la preminenza all'evoluzione proprio come canone ermeneutico a scapito del sistema, vale a dire a scapito dell'unità del pensiero platonico 10 • Ora, se si accetta il nuovo modello interpretativo, la ricostruzione genetica del pensiero platonico, unitamente a tutte le pretese che essa accampa, riceve un drastico ridimensionamento, perché vengono messi seriamente in crisi proprio i presupposti sui quali essa si basa. Sarà opportuno ricordare per sommi capi i punti focali di tale questione. a) In primo luogo è da rilevare che lo studio in chiave genetica dei dialoghi platonici può raggiungere risultati attendibili per quanto riguarda l'aspetto di Platone scrittore, ma non ad un tempo anche quello di Platone pensatore. Infatti lo scrittore Platone è !ungi dal coincidere sistematicamente e globalmente con il pensatore Platone, come da quanto sopra si è detto risulta, e come puntualmente emergerà anche dagli ulteriori rilievi che seguono. b) L'interpretazione genetica applica, senza per nulla dimostrarlo, il principio secondo il quale Platone possiederebbe solamente quel livello di dottrina e di consapevolezza teoretica che esprime nei dialoghi via via scritti. c) Le diverse finalità e i diversi obiettivi che ispirano i vari dialoghi impongono, per ragioni strutturali, differenti livelli di trattazione dottrinale, ossia un più o un meno in quantità e qualità di dottrine, che producono uno spiazzamen10 Oltre al lavoro di Hermann, citato alla nota precedente, sono stati decisivi i lavori di L. Campbell e soprattutto la cospicua opera di W. Lutoslawski, The Origin and Growth o/ Plato's Logic, London 1905' (1897'). Il più recente lavoro sul tema è: H. Thesleff, Studies in P/atonie Chronology, Helsinki 1982.
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mento notevole nel gioco delle inferenze su cui si basa il metodo genetico. Certi dialoghi, per esempio, presentano un minor contenuto dottrinale, semplicemente per H fatto che essi si propongono fini più limitati rispetto ad altri, e per di più adattandoli alla misura dei personaggi. d) Nel Fedro, inoltre, Platone dice chiaramente, come sopra abbiamo veduto, che il momento di elaborazione orale deHa dottrina veniva prima, e che solo in un secondo momento le dottrine guadagnate attraverso la discussione orale (o almeno alcune di esse) venivano fissate, a scopo ipomnematico, negli scritti. A questo proposito, inoltre, è facile rilevare una mobilità di limiti fra scritto e non scritto. Con il passare degli anni, infatti, Platone si è spinto a mettere per iscritto sempre di più e si è arrestato solamente di fronte a quelle «cose di maggior valore », ossia a quelle dottrine che, per le ragioni sopra spiegate, avrebbero dovuto restare « non scritte » in modo definitivo. e) Inoltre, a queste « Dottrine non scritte » egli ha fatto una serie di rimandi, che in molti dialoghi, per i lettori e per gli interpreti che non siano indebitamente prevenuti, risultano inequivoci. /) Le conclusioni sono, dunque, evidenti. Platone, quando componeva i dialoghi, si muoveva in un orizzonte di pensiero più ampio di quello che via via fissava per iscritto. La corretta rivalutazione della tradizione indiretta permette di ricostruire, in buona misura, questo orizzonte di pensiero. E una volta accertato che il nucleo essenziale delle « Dottrine non scritte » risale ad un'epoca molto anteriore rispetto a quanto si pensasse in passato, risulta evidente che la questione dell'evoluzione del pensiero platonico va impostata in modo del tutto nuovo, e precisamente sulla base dei rapporti fra opera scritta e insegnamento orale, vale a dire sulla base dei rapporti fra le due tradizioni pervenuteci, tenendo conto altresì di tutte le circostanze sopra indicate.
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I GRANDI PROBLEMI INTERPRETATIVI DI PLATONE
g) Bisognerà, in ogni caso, distinguere differenti livelli della parabola evolutiva: quello di Platone pensatore; quello di Platone scrittore in generale; quello della struttura dei rapporti fra scrittura ed oralità, che in una certa misura via via si restringono.
4.
«Mi t o »
e
«lo gos »
in
Platone
Un altro problema di enorme portata, accanto a quelli che abbiamo sopra esaminato, è costituito dal fatto che Platone rivaluta il « mito » accanto al « logos », e, a partire dal Gorgia fìno ai tardi dialoghi, gli attribuisce una importanza assai notevole. Come si spiega questo fatto? Come mai la fìlosofìa torna a sussumere il mito, dal quale aveva cercato in vario modo di affrancarsi? È forse, questa, una involuzione, una parziale abdicazione della fìlosofìa alle proprie prerogative, una rinuncia alla coerenza, o, in ogni caso, un sintomo di sfiducia in sé? In breve, che senso ha il mito in Platone? A questo problema è stato risposto in modi diversissimi. Le soluzioni estreme sono venute da Hegel e dalla Scuola di Heidegger. Hegel scriveva in proposito: « Il mito è una forma di esposizione che, in quanto più antica, suscita sempre immagini sensibili che sono adatte per la rappresentazione, non per il pensiero; ma questo attesta l'impotenza del pensiero, che non sa ancora reggersi di per sé, e quindi non è ancora pensiero libero. Il mito fa parte della pedagogia del genere umano, poiché eccita ed attrae ad occuparsi del contenuto; ma siccome in esso il pensiero è contaminato da forme sensibili, non può esprimere ciò che vuole esprimere il pensiero. Quando il concetto si è fatto maturo, non ha bi-
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PLATONE E LA SCOPERTA DEL SOPRASENSIBILE
sogno di miti» 11 • Dunque, il mito platonico apparterrebbe alla forma esteriore e alla rappresentazione; dal mito andrebbe sempre sceverato il concetto filosofico, che col mito si mescola solo perché ancora in parte non maturo. Pertanto il mito in Platone avrebbe un valore (filosoficamente) negativo. A conclusioni diametralmente opposte è giunta invece la Scuola di Heidegger, che ha additato nel mito la più autentica espressione della metafisica platonica; il logos, che pur campeggia nella teoria delle Idee, si rivela capace di cogliere l'essere, ma incapace di spiegare la vita: il mito viene in soccorso proprio per spiegare la vita, e, in certo senso, supera il logos e si fa mito-logia. Nella mito-logia sarebbe da ricercarsi il senso più autentico del platonismo 12 • E fra questi due estremi, naturalmente, si colloca una gamma assai varia di soluzioni intermedie 13 • A nostro avviso, il problema è solubile solo se si scoprono le precise ragioni che hanno portato Platone a riproporre il mito. E queste ragioni sono individuabili nella dvalutazione di alcune tesi di fondo dell'Orfismo e ddla tendenza mistica del medesimo, e, in generale, nel prepotente affermarsi della componente religiosa, a partire dal Gorgia. Il mito, insomma, in Platone rinasce non solo come espressione di fantasia, ma piuttosto anche come espressione di quella che potremmo chiamare fede (Platone usa nel Fedone li termine speranza, ÈÀ.1tCç) 14 • Il discorso filosofico platonico su certe tematiche escatologiche, in effetti, dal Gorgia in poi, nella maggior parte dei dialoghi, diventa una forma di fede ragionata: H mito cerca una chiarificazione nel logos, e il logos un completamento " Hegel, Vorlesungen iiber die Geschichte der Philosophie, cit., pp. 188 sg. ( trad. i t., ci t., pp. 171 sg.). " Cfr. W. Hirsch, Platons Weg zum Mythos, Berlin 1971. " Si veda la bibliografia nel volume v, s. v. " Fedone, 67 b-e; 68 a; 114 c.
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nel mito. Alla forza della « fede » che si esplica nel mito, Platone affida, talora, il compito di trasportare e di elevare lo spirito umano in ambiti e sfere di superiori visioni, aUe quali la pura ragione dialettica, da sola, fatica ad accedere, ma delle quali può tuttavia prendere mediatamente possesso; talaltra, invece, Platone affida alla forza del mito il compito, quando la ragione sia giunta ai suoi limiti estremi, di superare intuitivamente questi limiti e cosl di coronare e completare questo sforzo della ragione, elevando lo spirito ad una visione o almeno ad una tensione trascendente. E alle razionalistiche negazioni del valore del mito usato in questo senso, ecco che cosa espressamente risponde Platone, rivolgendosi a Callide e ai campioni della sofistica iper-razionalistica: A te parrà che questa [sci!.: il mito dell'oltretomba] sia una leggenda, di quelle che narrano le vecchierelle, e la disprezzerai; e, invero, il di.sprezzare queste cose non sarebbe assurdo, se cercando [sci!.: con la pura ragione] potessimo trovarne altre migliori e più vere. Ma vedi bene che voi tre, che siete i più sapienti dei Greci, tu e Polo e Gorgia, non sapete dimostrare che si debba vivere una vita diversa da questa, che è vita che ci appare utile anche laggiù 15 •
Inoltre è da notare questo in modo particolare: il mito di cui Platone fa uso metodico è essenzialmente diverso dal mito pre-filosofico che non conosceva ancora il logos. Si tratta di un mito che non solo, come dicevamo, è espressione di fede più che di stupore fantastico, ma è altresl un mito che non subordina a sé il logos, ma fa da stimolo al logos e lo feconda nel senso che abbiamo spiegato, e perciò è un mito che, in un certo senso, arricchisce il logos. Insomma è un mito che, mentre viene creato, viene dal logos spogliato dei suoi elementi meramente fantastici per mantenerne sola" Gorgia, 527 a-b.
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mente i poteri allusivi e intuitivi. Ma ecco l'esemplificazione più chiara di ciò che abbiamo affermato, in un passo del Pedone, che fa seguito immediatamente alla narrazione di uno dei più grandiosi miti escatologici con cui Platone ha cercato di raffigurare le sorti delle anime nell'aldilà: Certamente, sostenere che le cose siano veramente cosi come io le ho esposte, non si conviene ad un uomo che abbia buon senso; ma sostenere che o questo o qualcosa simile a questo debba accadere delle nostre anime e delle loro dimore, dal momento che è risultato che l'anima è immortale: ebbene, questo mi pare che si convenga e che metta conto di arrischiarsi a crederlo, perché il rischio è bello! E bisogna che, con queste credenze, noi facciamo l'incantesimo a noi medesimi: ed è per questo che io da un pezzo protraggo il mio mito 16 •
Ma H problema è ancora più complesso, in quanto il mito in Platone presenta anche altri significati, oltre quello illustrato, che risulta soprattutto connesso a problematiche escatologiche. Un secondo e cospicuo significato è, infatti, quello di narrazione probabile che verte su tutte le cose sottoposte alla generazione. Il logos nella sua purezza può applicarsi solo all'essere indivenibile; invece all'essere che diviene non si potrà applicare il logos, ma l'opinione veritativa, appunto il mito probabile. In effetti, precisa Platone, fra la conoscenza e le cose di cui abbiamo conoscenza c'è una affinità strutturale. I ragionamenti e i discorsi che riguardano l'essere stabile e saldo sono essi pure stabHi e immutabili e colgono la pura verità; invece i ragionamenti e i discorsi che riguardano la realtà che si genera sono verosimili e fondati sulla credenza. Ed ecco il punto su cui va posta adeguatamente l'attenzione: proprio in quanto il cosmo diveniente è una « immagine » del puro essere, che è « modello originario»,
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Pedone, 114 d.
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esso risulta in una certa maniera conoscibile; e proprio su questo suo essere « immagine » si fonda la differente portata conoscitiva rispetto al modello 17 • Le conclusioni di Platone sono, pertanto, le seguenti: ~ntorno all'universo fisico (che non è puro essere, ma sua immagine) non è possibile fare ragionamenti veritativi in senso assoluto, ma è possibile fare solamente alcuni ragionamenti verosimili. La natura umana, in questo ambito, deve, pertanto, accontentarsi del «mito », nel senso di « narrazione probabile », perché non è possibile andare oltre, per la natura stessa dell'oggetto di indagine: Dunque, o Socrate, se dopo molte cose dette da molti intorno agli Dei e all'origine dell'Universo, non riusciamo a presentare dei ragionamenti in tutto e per tutto concordi con se medesimi e precisi, non ti meravigliare. Ma se presenteremo ragionamenti verosimili non meno di alcun altro, allora dobbiamo accontentarci, ricordandoci che io che parlo e voi che giudicate abbiamo una natura umana: cosicché, accettando intorno a queste cose il mito (narrazione) probabile ( 'tÒ'V ELXO't!I !J.vi}ov ), conviene che non andiamo ancora più in là 18 •
Di conseguenza, tutta la cosmologia e tutta la fisica sono « mito » in questo senso. Ma ci sono ancora .altri significati che il mito ha in Platone. Talora il nostro filosofo lo presenta addirittura come uno scongiurare di carattere tipicamente magico. E giustamente è stato rilevato che con questo « egli intende caratterizzare la particolare forza persuasiva del discorso poetico-mitico, che è in grado di raggiungere non solo gli strati razionali, ma anche quelli emotivi dell'anima» 19 • E addirittura, in certi casi, Platone intende per mito " Cfr. Timeo, 29 b-e. Si veda Reale, Platone ... , pp. 519-521. " Timeo, 29 c-d. " Gaiser, Platone come scrittore ... , p. 44; su questo carattere del mito cfr. Pedone, 114 d (vedi il testo sopra riportato); Leggi, x, 903 b.
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PLATONE E LA SCOPERTA DEL SOPRASENSIBILE
ogni specie di esposizione narrativa di temi filosofici, che non sia fatta in pura forma dialettica (e quindi tutti i suoi dialoghi, o larga misura dei medesimi) 20 • H lettore avrà ben capito che l'importanza del mito per Platone è assai grande. Se volessimo riassumere con un minimo comun denominatore le cose che abbiamo precisato, potremmo dire che per il nostro filosofo il parlare per miti (JJ.u~oÀ.oyEi:v) è un esprimersi per immagini, che a vari livelli resta valido, in quanto noi pensiamo, oltre che per concetti, anche per immagini. Il mito platonico nella sua più elevata forma e potenza è un pensare-per-immagini e non solo in dimensione fisicocosmologica, ma anche in dimensione escatologica e addirittura metafisica, come avremo modo di vedere. Il JJ.U~oÀ.oyEi:v diventa, in questo modo, una delle cifre emblematiche dello spirito umano, cui Platone, di fatto, ha dato un ampio rilievo.
5. La poliedricità e la d e Il a filosofia platonica
poli valenza
Nell'esporre e intendere la filosofia di Platone gli interpreti hanno in generale seguito due strade opposte. Alcuni l'hanno esposta in una maniera sistematica ispirandosi agli schemi invalsi da Aristotele in poi, o, addirittura, allo schema hegeliano (come ad esempio lo Zeller, il quale impostò la sua trattazione del platonismo secondo lo schema dialettico triadico Idea-Natura-Spirito). Altri per contro, dopo la scoperta dei criteri che permisero di fissare una successione sia pure approssimativa dei più importanti dialoghi, e con la convinzione che il pensiero platonico abbia subito una profonda evoluzione, di cui abbiamo detto, pre20
Cfr. Fedro, 276 e.
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PROBLE~I
INTERPRETATIVI DI PLATONE
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ferirono esporre dialogo per dialogo. Ma il primo metodo finisce indubbiamente per essere un letto di Procuste, in quanto costringe ad amputare troppe parti del pensiero di Platone per poterle sistemare. Il secondo finisce, invece, per essere essenzialmente dispersivo, e al limite elude anziché risolvere il problema della lettura di Platone: infatti, per essere chiarificatrice, la lettura di un filosofo deve individuare alcune chiavi, alcune cifre, e, insomma, alcune costanti, e l'idea-base attorno a cui ruotano. Noi cercheremo di seguire una terza strada che corre in mezzo alle altre due, tentando di ricuperare il « sistema » nel senso sopra precisato. Platone ha via via rivelato, nel corso dei secoli, facce diverse: forse è proprio questa diversità di facce che può svelare il suo pensiero. a) Si cominciò, a partire già dai filosofi dell'Accademia, col leggere Platone in chiave metafisica e gnoseologica} additando nella teoria delle Idee e dei Principi supremi il fulcro del platonismo. b) Successivamente, col Neoplatonismo, si credette di trovare il più autentico messaggio platonico nella tematica religiosa} nell'ansia del divino e in genere nella dimensione mistica, massicciamente presenti nella maggior parte dei dialoghi. c) E sono state queste due interpretazioni che, in vario modo, si sono prolungate fino ai tempi moderni, finché, nel nostro secolo, ne sorse una terza, originale e suggestiva, che additò nella !ematica politica} o meglio etico-politico-educativa, l'essenza del platonismo: tematica, questa, quasi del tutto trascurata in passato, o almeno trascurata nella sua giusta valenza. Noi crediamo che il vero Platone non sia ritrovabile in nessuna di queste tre prospettive singolarmente assunte come unicamente valide} ma che sia piuttosto ritrovabile in tutte e tre insieme le direzioni e nella dinamica che è loropropria: 'le tre proposte di lettura, infattli, illuminano, come dicevamo, tre effettive facce della poliedrica e polivalente speculazione platonica, tre dimensioni o tre componenti o-
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PLATONE E LA SCOPERTA DEL SOPRASENSIBILE
tre linee di forza, che costantemente emergono, variamente accentuate o angolate, dai singoli scritti nonché dall'insieme di essi. È certo che la teoria delle Idee con tutte le sue implicanze metafisiche, logiche e gnoseologiche, specie nei dialoghi della maturità e della vecchiaia, è al centro della speculazione platonica. Ma è altrettanto vero che Platone non è l'astratto metafisica: la metafisica delle Idee ha anche un senso profondamente religioso, e lo stesso processo conoscitivo è presentato come conversione, e l'Amore che eleva alla suprema Idea è presentato come forza di ascesa che conduce alla mistica contemplazione. Ed è vero, infine, che Platone non ha posto nella contemplazione lo stadio in cui il filosofo deve concludere il suo tragitto, giacché prescrisse al filosofo di tornare, dopo aver visto il vero, a salvare anche gli altri, e ad impegnarsi politicamente per la costruzione di uno Stato giusto, nella cui dimensione soltanto è poss~bile una vita giusta: e nell'impegno politico egli, nella Lettera VII, come vedremo, ha espressamente additato la passione fondamentale della sua vita. Secondo queste tre dimensioni, pertanto, noi esporremo e interpreteremo il pensiero platonico. Tuttavia, il punto-chiave, ossia l'asse portante attorno al quale si articolano queste tre dimensioni, resta quello protologico che viene rivelato dalle « Dottrine non scritte ». E la protologia consegnata alla dimensione della oralità e riferitaci dalla tradizione indiretta, in un certo senso, costituisce una quarta dimensione; tuttavia, in un altro senso, si colloca su un differente piano, e, quindi, non risulta di pari grado accanto alle altre: essa costituisce, piuttosto, il tratto finale (come vedremo) della metafisica, ma, ad un tempo, anche il vertice della dimensione etico-religiosa e della dimensione politica. Dunque, la protologia è il vertice unitario generale, ossia ciò che fa del complesso pensiero platonico un « sistema », dandogli unità di struttura. Pertanto, parleremo
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I GRANDI PROBLEMI INTERPRETATIVI DI PLATONE
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in modo ampio della protologia del « non scritto » sia come secondo tratto e vertice della metafisica, sia come vertice delle altre due componenti, e quindi come sfondo di tutti i temi, riguadagnando, in questo modo, quell'unità che dà il senso supremo del pensiero platonico.
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Busto di Platone, il cui modello originario risale al IV secolo a.C. (si presume allo scultore Silanione), di cui ci sono pervenute numerose copie.
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SEZIONE SECONDA
LA COMPONENTE METAFISICO-DIALETTICA DEL PENSIERO PLATONICO
« D~Ev
ouv [ ... ] SUo EtSTJ -.wv 5v-.wv, -.ò
llÈV 6pa-.6v, -.ò Sè 1hSÉç ». « [ ... ] poniamo dunque [ ... ] due specie di esseri: una visibile e l'altra invisibile ». Platone, Fedone, 79 tt
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Questa foto riproduce gran parre della pagina del Pedone contenente la celebre metafora della «seconda navigazione» (il punto cardine del platonismo). È tratta dalla celebre edizione di H. Stephanus del 1578, la cui paginatura e la cui paragrafatura (indicata al centro della colonna che divide il testo greco dalla traduzione latina) vengono riprodotte in tutte le edizioni moderne come punto di riferimento. (Si veda il frontespizio di questa edizione a p. 6).
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l.
LA « SECONDA NAVIGAZIONE» COME PASSAGGIO DALLA
RICERCA FISICA DEI PRESOCRATICI AL PIANO METAFISICO
l. L'incontro con i Fisici e la verifica dell'inconsistenza della loro dottrina
Uno dei passi più famosi e più grandiosi che Platone ci ha lasciato nei suoi scritti, è senza dubbio quello centrale del Pedone 1• Da tempo gli studiosi lo hanno riconosciuto, rilevando come esso costituisca addirittura la prima descrizione nella letteratura europea « di una storia spirituale tracciata attraverso le sue varie fasi, cosl come la prima [ ... ] chiara affermazione della visione teleologica o ideale» 2 ; ma si potrebbe dire, in modo ancora migliore, che esso costituisce la prima razionale prospettazione e dimostrazione dell'esistenza di una realtà soprasensibile e trascendente. A nostro avviso, si potrebbe addirittura affermare che questo passo costituisce, per le ragioni che meglio spiegheremo più avanti, la « magna charta » della metafisica occidentale. 1 Cfr. Fedone, 96 a-102 a. Per una dettagliata analisi rimandiamo al nostro Platone ... , pp. 147-177, dove presentiamo la più ampia e dettagliata analisi che finora di questo passo sia stata fatta. ' W. Goodrich, On Phaedo 96 a-102 a and on the BEV'tEpo.; 'ltMVc; 99 D, in «Classica! Review », 17 (1903), pp. 381-484 e 18 (1904), pp.
5-11.
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PLATONE E LA SCOPERTA DEL SOPRASENSIBILE
Esaminiamolo ne1 suoi concetti-base e nei suoi passaggi-chiave. Le questioni metafisiche più importanti e le possibilità della loro soluzione risultano legate ai grandi problemi della generazione, della corruzione e dell'essere delle cose, e in particolare sono connesse con la individuazione della « causa » che sta a loro fondamento. Il problema di fondo, dunque, è il seguente: perché le cose si generano, perché si corrompono, perché sono. Ebbene, Platone dice (per bocca di Socrate) di essere partito da giovane proprio da questi problemi di fondo, cercando di acquisire quella sapienza che concerne « l'indagine sulla natura », ossia quel tipo di indagine perseguito dai primi filosofi, esaminando più volte da un capo all'altro le soluzioni che questi filosofi avevano fornito a tale questione. Sulla base del metodo di questo tipo di ricerca, le risposte a tali problemi risultano essere di carattere puramente fisico. Per esempio, la vita si genererebbe a causa dei processi cui sottostanno il caldo e il freddo; il pensiero, inoltre, sarebbe prodotto dal sangue (come riteneva ad esempio Empedocle), oppure dall'aria (come ritenevano ad esempio Anassimene e Diogene di Apollonia), o dal fuoco (come riteneva ad esempio Eraclito), oppure dal cervello inteso come organo fisico (come pensava ad esempio Alcmeone). E del tutto analoghe sono le risposte che i Fisici danno ai vari problemi concernenti la corruzione e in generale riguardanti i vari fenomeni del cielo e della terra. Ma i ripetuti esami dei vari tipi di risposte fornite per questi problemi, secondo Platone danno un risultato del tutto deludente: ciò che prima si credeva di sapere con chiarezza viene ad oscurarsi, proprio in conseguenza di queste ricerche. I filosofi della Natura fanno perfettamente capire, e in maniera ingrandita, l'inconsistenza dei fondamenti di carattere naturalistico (sui quali si basa anche l'opinione comune) e le contraddizioni dei medesimi; e proprio questo
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LA
« SECONDA
NAVIGAZIONE
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ingrandimento manifesta l'incapacità di una siffatta convinzione di spiegare le cose in modo adeguato.
2. L'i n c o n t r o c o n A nassa gora e l a v erifica dell'insufficienza del.Ja teoria dell'Intelligenza cosmica come era stata da lui proposta Prima di affrontare il nuovo dpo di indagine che porta alla soluzione dei problemi sollevati, Platone esamina la concezione dell'« Intelligenza » presentata da Anassagora, che avrebbe potuto fornire un grandissimo contributo per la soluzione proprio di quei problemi, ma che è fallita interamente per i motivi che vedremo. In effetti, Anassagora ebbe ragione nell'affermare che l'Intelligenza è causa di tutto, ma non riuscì a dare a questa sua affermazione un adeguato fondamento e una necessaria consistenza, perché il metodo della ricerca dei Naturalisti che egli seguiva, non lo poteva permettere. Ecco le motivazioni assai importanti addotte da Platone. Affermare che l'Intelligenza ordina e causa tutte le cose, significa affermare che essa dispone tutte le cose nella migliore maniera possibile. Questo implica che l'« I ntelligenza » e il « Bene » siano strutturalmente connessi, e che non si possa parlare della prima senza parlare del secondo. Pertanto, porre l'Intelligenza come causa, implica eo ipso porre il meglio (il Bene) come condizione del generarsi, del perire e dell'essere delle cose. In particolare, Anassagora, sostenendo la tesi dell'Intelligenza ordinatrice, avrebbe dovuto spiegare il criterio del meglio in funzione del quale essa opera; e in base a questo criterio avrebbe dovuto spiegare le condizioni, ossia il modo di agire, di subire e di essere della terra, del sole, della luna e degli astri, i loro mo-
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PLATONE E LA SCOPERTA DEL SOPRASENSIBILE
vimenti e i rapporti di questi movimenti, e, insomma, i vari fenomeni. In breve, avrebbe dovuto spiegare come i vari fenomeni siano strutturati in funzione del meglio, e quindi con una precisa conoscenza del meglio e del peggio. Ma Anassagora non ha fatto questo. Ha introdotto l'Intelligenza, ma non le ha attribuito il ruolo sopra indicato; e, invece che al « megNo », ha continuato ad assegnare il ruolo di causa agli elementi fisici (aria, etere, acqua e cosl di seguito). Ma, se questi elementi fisici sono necessari per produrre la costituzione dei fenomeni dell'universo, non sono però la « vera causa » e non possono essere confusi con questa. Insomma: Anassagora commise lo stesso errore che commetterebbe chi sostenesse che Socrate fa tutto ciò che fa con l'intelligenza, ma poi volesse spiegare la « causa » per cui egLi è andato ed è rimasto in carcere, rifacendosi ai suoi organi locomotori, alle sue ossa, ai suoi nervi, e cosl di seguito, e non alla vera causa, che è stata la scelta del « giusto » e del « meglio » fatta con l'Intelligenza. È evidente che, se Socrate non avesse gli organi fisici, non potrebbe fare le cose che vuole fare; tuttavia egli agisce mediante gli organi, ma non a causa degli organi. La « vera causa », ossia la « causa reale » (-.ò al:-.tov -.Q ov-.t}, è la sua « intelligenza » che opera in funzione del meglio. Dunque, Intelligenza ed elementi fisici non sono sufficienti per « legare » e per « tenere insieme » le cose: pertanto, occorre guadagnare un'altra dimensione che ci porti alla conoscenza della « vera causa » (-.ò al:-.tov -.Q ov-.t}, ossia appunto a ciò cui l'Intelligenza si riferisce. È, questa, la dimensione dell'intelligibile che si può guadagnare soltanto con un tipo di metodo differente da quello seguito dai Fisici, e che ora Platone indica con la grande metafora della « seconda navigazione », che rappresenta il più grandioso simbolo del filosofare. Ecco i:l testo esemplare:
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LA
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- Questo [·scii.: il collegare l'Intelligenza con gli elementi fisici e non con il meglio] vuol dire non essere capace di distinguere che altra è la vera causa e altro è ciò senza il quale la causa non potrebbe mai essere causa. E mi sembra che i più, andando a tastoni come nelle tenebre, usando un nome che non gli conviene, chiamino in questo modo il mezzo, come se fosse la causa stessa. Ed è quello il motivo per cui qualcuno, ponendo intorno alla terra un vortice, suppone che la terra resti ferma per effetto del movimento del cielo, mentre altri le pone di sotto l'aria come sostegno, come se la terra fosse una madia piatta. Ma quella forza per la quale terra, aria e cielo ora hanno la migliore posizione che potessero avere, questo né cercano, né credono che abbia una potenza divina, ma credono di aver trovato un Atlante più potente, più immortale e più capace di tenere l'universo, e non credono affatto che il bene e il conveniente siano ciò che veramente lega e tiene insieme. Io mi sarei fatto col più grande piacere discepolo di chiunque, per poter apprendere quale sia questa causa; ma, poiché rimasi privo di essa e non mi fu possibile scoprirla da me né apprenderla da altri; ebbene, vuoi che ti esponga, o Cebete, la seconda navigazione ( OEU'tEpoc; 1tÀ.ovc;) che intrapresi per andare alla ricerca di questa causa? - Altro che, se vog1io, rispose 3 •
3. La grande metafora della «seconda navigazione» come simbolo dell'accesso al soprasensibile « Seconda navigazione » è una metafora desunta dal linguaggio marinaresco, ed il suo significato più ovvio sembra essere quello fornitoci da Eustazio, il quale, riferendosi a Pausania, ci spiega: « si chiama " seconda navigazione '' quella che uno intraprende quando, rimasto senza venti, naviga con i remi » 4 • La « prima navigazione » fatta con le ve' Fedone, 99 b-d. ' Eustazio, In Odyss., p. 1453. Questa bellissima immagine della seconda navigazione {OEV'tEpoc; 7tÀ.ovc; ), che, proprio nel senso metaforico
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PLATONE E LA SCOPERTA DEL SOPRASENSIBILE
le al vento corrisponderebbe, quindi, a quella compiuta seguendo i Naturalisti e il loro metodo; la « seconda navigazione » fatta con i remi, e quindi assai più faticosa ed impegnativa, corrisponde al nuovo tipo di metodo, il quale porta alla conquista della sfera del soprasensibile. Le vele al vento dei Fisici erano i sensi e le sensazioni, i remi della « seconda navigazione » sono i ragionamenti e i postulati: e appunto su questi si fonda il nuovo metodo. Ed ecco il nuovo metodo: E Socrate allora disse: «Dopo questo, poiché ero stanco di indagare le cose in tal modo, mi parve di dover star bene attento che non mi capitasse quello che càpita a coloro che osservano e studiano il sole quando c'è l'eclisse, perché alcuni si rovinano gli occhi, se non si accontentano di studiare la sua immagine rispecchiata nell'acqua, o in qualche altra cosa del genere. A questo pensai, ed ebbi paura che anche l'anima mia si accecasse completamente, guardando le cose con gli occhi e cercando di coglierle con ciascuno degli altri sensi. E, perciò, ritenni di dovermi rifugiare in ragionamenti e considerare in questi la verità delle cose che sono. Forse il paragone che ora ti ho fatto non calza, giacché io non ammetto di certo che chi in cui Platone l'ha usata, noi l'abbiamo assunta come chiave di volta per l'interpretazione del pensiero di Platone, e anche del prima e del dopo Platone, è stata da numerosi critici molto apprezzata. In genere è stata ben compresa, con la sola eccezione (finora) di A. A. Long, il quale scrive: <> di cui parla questo testo sono esattamente quelle che introducono le Idee, e quindi il metasensibile, come, del resto, l'intero Pedone conferma, e come i testi che riportiamo comprovano in maniera chiarissima e fuori da ogni dubbio. Veda il lettore le analisi che abbiamo presentato in Platone ... , pp. 147-167 (si veda anche la nostra precedente traduzione con commento del Pedone, Editrice La Scuola, Brescia [ 1970; 1986'"], passim).
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considera le cose alla luce di ragionamenti le consideri in immagini più di chi le considera nella realtà. Comunque, io mi sono avviato in questa direzione e, di volta in volta, prendendo per base quel postulato che mi sembri più solido, giudico vero ciò che concorda con esso, sia rispetto alle cause, sia rispetto alle altre cose, e ciò che non concorda giudico non vero » 5 • Il messaggio di Platone, in questo modo, diventa molto chiaro: il tipo di metodo dei Naturalisti fondato sui sensi non chiarisce, ma oscura la conoscenza; il nuovo tipo di metodo, pertanto, dovrà fondarsi sui logoi, e mediante essi dovrà cercare di cogliere la verità delle cose. Ed ecco in che cosa consiste questa « verità delle cose »: - [ ... ] Ti voglio spiegare più chiaramente le cose che dico, perché credo che tu ora non mi intenda. - No, per Zeus, rispose Cebete, non troppo! - Eppure, disse Socrate, con questo non dico nulla di nuovo, ma dico quelle cose che sempre, in altre occasioni e anche nel precedente ragionamento, ho continuato a ripetere. Mi accingo infatti a mostrarti quale sia quella specie di causa che io ho elaborato e, perciò, torno nuovamente su quelle cose di cui molte volte si è parlato, e da esse incomincio, partendo dal postulato che esista un Bello in sé e per sé, un Buono in sé e per sé, un Grande in sé e per sé e così di seguito [ ... ] . - Ailora guarda, disse, se le conseguenze che da questi postulati derivano ti sembrano essere le stesse che sembrano a me. A me sembra che, se c'è qua/cos'altro che sia bello oltre al Bello in sé, per nessun'altra ragione sia bello, se non perché partecipa di questo Bello in sé, e così dico di tutte le altre cose. Sei d'accordo su questa causa? - Sono d'accordo, rispose. - Allora io non comprendo più e non posso pm conoscere le altre cause, quelle dei sapienti; e, se qualcuno mi dice che una cosa è bella per il suo colore vivo o per la figura fisica o per altre ragioni del tipo di queste, io, tutte queste cose, le saluto e le mando a spasso, perché, in tutte queste cose, io per5
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do la testa, e solo questo tengo per me semplicemente, rozzamente e forse ingenuamente: che nessun'altra ragione fa essere quella cosa bella, se non la presenza o la comunanza di quella Bellezza in sé, o quale altro sia il modo in cui ha luogo questo rapporto: giacché sul modo di questo rapporto io non voglio ancora insistere, ma insisto semplicemente nell'affermare che tutte le cose belle sono belle per la Bellezza. Questa mi pare sia la risposta più sicura da dare a me e agli altri; e, afferrandomi ad essa, penso di non poter mai cadere, e che sia sicuro, e per me e per chiunque altro, rispondere che le cose belle sono belle per la Bellezza. Non pare anche a te? - Mi pare. - E non ti pare, anche, che tutte le cose grandi siano grandi per la Grandezza, e che le maggiori siano maggiori sempre per la Grandezza, e che le cose minori siano minori per la Piccoleua? - Sl. - Perciò, se qualcuno afferma che un tale è più grande di un altro per la testa e che il più piccolo è più piccolo ugualmente per questo, non potresti ammetterlo, ma gli diresti francamente che tu non ammetti che una cosa sia più grande di un'altra per nessun'altra ragione se non per la Grandeua, e che per questa causa essa è più grande, precisamente per la Grandezza; e che il più piccolo per nessun'altra causa è più piccolo se non per la Piccolezza, e che per questa causa è più piccolo, precisamente per la Piccolezza. E diresti questo, temendo che, se tu dicessi che qualcuno è più grande o più piccolo per la testa, non ti si obiettasse, in primo luogo, che è impossibile che per la medesima cosa il maggiore sia maggiore e il minore minore, e, poi, che è altresl impossibile che per la testa, che è piccola, il maggiore sia maggiore, giacché sarebbe veramente un portento che una cosa fosse grande per causa di una cosa che è piccola. O non temeresti tu queste obiezioni? - Sl, disse Cebete ridendo. - E non temeresti anche, soggiunse Socrate, di affermare che il dieci è più dell'otto per il due e che per questa causa supera l'otto, e non invece per la Pluralità e a causa della Pluralità? E che il bicubito è maggiore del cubito per la metà e non invece per la grandezza? Si tratta pur sempre dello stesso timore di prima. - Certamente, rispose.
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- E allora, non ti guarderesti bene dal dire che, aggiungendo l'uno all'uno ovvero dividendo l'uno, l'aggiunzione o la divisione sia la causa che fa diventare l'uno due? E non grideresti a gran voce che tu non sai come possa in altro modo generarsi alcuna cosa, se non partecipando di quella essenza che è propria di quella realtà della quale essa partecipa, e che, nel caso in questione, tu non hai altra causa per spiegare il nascere del due se non questa, cioè la partecipazione alla Dualità, e, inoltre, che debbono partecipare di questa Dualità le cose che vogliono diventare due come dell'Unità ciò che vuole essere uno, e saluteresti e manderesti a spasso queste divisioni, queste aggiunzioni e tutte le altre ingegnose trovate, lasciando che le usino nelle loro risposte coloro che sono più sapienti di te, mentre tu, come si dice, temendo la tua ombra e la tua inesperienza, risponderesti nel modo che s'è detto, appoggiandoti alla saldezza di questo postulato? 6 •
4. L e due tappe de·lla «seconda navigazione»: la teoda delle Idee e la dottrina dei Principi Il guadagno della « seconda navigazione », come abbiamo visto, è la scoperta di un nuovo tipo di « causa » consistente nelle realtà puramente intelligibili. Ciò che consegue dal postulare l'esistenza di queste realtà è la spiegazione di tutte le cose appunto in funzione di tali realtà, e l'esclusione che ciò che è sensibile e fisico possa essere considerato allivello della « vera causa », e quindi la riduzione del sensibile al livello di mezzo e di strumento con cui si realizza la « vera causa ». Di conseguenza, si spiegheranno le cose belle non con gli elementi fisici (colore, figura e simili), ma in funzione della Bellezza-in-sé; si spiegheranno le cose grandi e piccole non con alcune parti delle cose fisiche messe a confronto, ma in funzione della Grandezza-in-sé e della • Pedone, 100 a-101 d.
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Piccolezza-in-sé; si spiegherà che il dieci è più dell'otto non per il due, ma per la Pluralità; e si spiegheranno i modi con cui si ottengono il due e l'uno non mediante le operazioni fisiche di « divisione » e di « aggiunzione », bensl mediante la partecipazione alla Dualità ed all'Unità, come abbiamo letto nel lungo passo riportato sopra. In generale, dunque, la prima tappa della «seconda navigazione » consiste nel prendere per base il postulato più solido, che consiste nell'ammettere le realtà intelligibili come « vere cause », e nel ritenere, di conseguenza, come vere quelle cose che concordano con questo postulato e come non vere quelle cose che non concordano con esso (e, quindi, nel respingere tutte quelle realtà fisiche che vengono erroneamente addotte come «vere cause»). A questo punto termina la prima tappa della « seconda navigazione », e proprio con il positivo accenno allusivo all'Uno nella nuova dimensione, ossia con un richiamo a quello che vedremo essere il punto focale delle « Dottrine non scritte ». Ma molto più forte è il richiamo alla protologia, che Platone fa nel discorso che segue subito appresso. Se qualcuno attaccherà il postulato medesimo su cui poggia la teori-a delle Idee che cosa si dovrà fare? Si dovranno esaminare, prima di rispondere, ossia prima di confutare le obiezioni, tutte le conseguenze che derivano dal postulato, al fine di accertare se concordino o no fra di loro. E, al fine di giustificare il postulato, si dovrà ricercare un postulato ancora più elevato, e si dovrà procedere in questo modo fino a che non si sia ottenuto il postulato adeguato, ossia quel preciso postulato che non ha più bisogno di alcun altro postulato: [ ... ] Se, poi, qualcuno volesse fermarsi al postulato medesimo, lo lasceresti parlare e non gli risponderesti fino a che tu non avessi considerate tutte le comeguenze che da esso cleri-
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vano, per vedere se esse concordano o no fra di loro; e quando, poi, dovessi render conto del postulato medesimo, tu dovresti darne ragione procedendo alla stessa maniera, cioè ponendo un ulteriore postulato ( \méi}EcrLc;), quello che ti sembri il migliore fra quelli che sono più elevati, via via fino a che tu non pervenissi a qualcosa di conveniente (È1tL 't L txcx:v6v) 7 • E al di sopra delle Idee la tradizione indiretta ci riferisce che Platone poneva, appunto, i Principi primi e supremi. Ma è Platone stesso che, nel nostro testo, nel passo che segue immediatamente a quello letto, usa proprio il termine «Principio » (àpx1)), nell'unica maniera allusiva che la sua scelta di non mettere per iscritto tale dottrina, gli permettesse, ossia dando al discorso un significato molto generale, e tuttavia molto indicativo: E non farai confusione, come fanno coloro che di tutte le cose discutono il pro e il contro, e che mettono in discussione, insieme, il principio (àpx1)) e le conseguenze che da esso derivano, se vuoi scoprire qualcosa degli esseri! Infatti, di questo essi non parlano e non si danno premura, perché essi, con la loro sapienza, pur mescolando insieme ogni cosa, sono ugualmente capaci di piacere a se stessi. Ma tu, se sei un filosofo, farai, credo, quello che dico 8 • E, come se non bastasse, l'intero procedimento argomentativo del dialogo, che è basato appunto sui postulati delle Idee, conclude ribadendo, in maniera impressionante, quanto segue: - Veramente, disse Simmia, neppure io ho motivo di non credere, in base a quello che si è detto, ma per la vastità dell'argomento di cui discutiamo e per la sfiducia che nutro nella debolezza umana, mi sento costretto a mantenere ancora, dentro di me, un po' di diffidenza circa le cose che sono state dette. Pedone, 101 d-e. ' Pedone, 101 e-102 a.
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- Non solo dici bene, o Simmia, ma fai anche bene a dirlo, rispose Socrate. E anche i postulati ( u1to~lcmç) che prima abbiamo posti, anche se a voi sembrano essere degni di fede, dovranno tuttavia essere riesaminati con maggior precisione. E se li approfondirete quanto conviene (txCivwç), come credo, li comprenderete nell11 misura in cui un uomo li possa comprendere. E, se questo vi risulterà chiaro, allora non dovrete cercare niente più oltre 9 •
Evidentemente, solamente i Principi supremi possono costituire ciò che, una volta guadagnato, non richiede che si ricerchi nulla più in alto. Nei passi letti, Platone indica esattamente quale sia quel piano, che per sua scelta etico-pedagogico-morale ha voluto mantenere nella dimensione della oralità, ossia quelle « cose di maggior valore », che il filosofo, proprio perché è tale, non mette nei suoi scritti. Il penultimo dei passi sopra letti, dopo aver parlato del « Principio » e del come esso vada trattato, conclude proprio con l'esplicitazione del termine « filosofo », dicendo in maniera addirittura emblematica: « Ma se sei filosofo farai, credo, quello che dico ». E il filosofo (come abbiamo visto nel Fedro) è colui che affida non allo scritto, ma alla sola oralità, le cose di maggior valore, ossia la dottrina dei Principi primi e supremi, cui qui si fa rimando.
5. I tre grandi punti focali della filosofia di Platone: teorie delle Idee, dei Principi e del Demiurgo Il passo centrale del Fedone che abbiamo riassunto e interpretato presenta veramente il progetto che abbraccia l'intero quadro della metafisica platonica; e in modo parti• Pedone, 107 a-b.
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colare mette bene in evidenza i tre punti focali della metafisica e quindi di tutto il pensiero di Platone. Questi tre punti focali sono appunto a) la teoria delle Idee, b) la teoria dei Principi primi e c) la dottrina del Demiurgo. La teoria delle Idee viene espressamente fondata con una esemplare inferenza metempirica; la teoria dei Principi viene richiamata con massicce allusioni; la dottrina del Demiurgo viene ampiamente espressa mediante la questione dell'Intelligenza che ordina e governa il cosmo, con l'indicazione del modo in cui (a differenza di quanto ha fatto Anassagora) va fondata, ossia in connessione con il Bene che è il Principio primo e supremo. Ma la comprensione di questi tre punti focali, e quindi del senso globale del pensiero platonico, è assai difficile, e Platone ha avvertito di questo i lettori delle sue opere nella maniera più esplicita. a) Della teoria delle Idee, egli ha scritto che i più trovano molte difficoltà a comprenderla, e che quindi sostengono che esse non ci sono, o che, se ci sono, sono incomprensiaHa natura umana. Deve essere di natura veramente eccezionale quell'uomo capace di capirle e di comunicarle agli altri. Ecco le precise parole che egli ha messo in bocca a Parmenide, come protagonista del dialogo omonimo: - Eppure, o Socrate, disse Parmenide, le Idee implicano necessariamente queste difficoltà, e molte altre ancora oltre queste, se tali Idee degli esseri ci sono, e si definisce ciascuna Idea come qualcosa in sé; cosicché, chi ascolta trova difficoltà, e obietta che queste Idee non ci sono, oppure che, se anche ci fossero veramente, sarebbe assai necessario che esse fossero inconoscibili alla natura umana; e chi dicesse questo, sembrerebbe dire qualcosa di concreto, e, come poco fa si diceva, sarebbe, in maniera straordinaria, difficile da persuadere. E dovrebbe essere un uomo di natura veramente eccellente colui che potesse essere in grado di comprendere che c'è di ciascuna cosa un genere e una essenza in sé e per sé; ma dovrebbe essere un uomo ancor più mirabile colui che fosse in grado di trovare e di inse-
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gnare ad un altro tutte queste cose dopo aver fatto un esame in modo adeguato.
- Sono d'accordo con te, o Parmenide, disse Socrate, infatti tu parli certamente secondo il mio pensiero 10 • b) Della teoria dei Principi già sappiamo che cosa pensasse Platone: solo pochi la comprendono, e questi pochi la comprendono soprattutto nella dimensione della oralità dialettica. Lo scritto, per questi pochi che la capiscono, sarebbe inutile, e, per la maggioranza degli uomini, sarebbe dannoso, per le incomprensioni e le conseguenze che questo comporta. Pertanto, scrive Platone:
Su queste cose non c'è un mio scritto e non ci sarà mai 11 • c) Sulla concezione del Demiurgo Platone ha espresso convinzioni del tutto analoghe a quelle espresse per la teoria delle Idee:
Ma il Fattore e il Padre di questo universo è molto difficile da trovare ed è impossibile parlarne a tutti
12 •
Ed è impossibile parlarne a tutti non per le ragioni esoteriche che valgono per la teoria dei Principi e che ormai ben conosciamo, ma per il motivo che, con il problema del Demiurgo, si entra nella questione della credenza o non credenza nell'esistenza di un Dio, su cui da sempre l'uomo si è dibattuto. C'è sempre stato (e probabilmente sempre ci sarà) il « terribile» uomo di turno (lo scienziato di turno) che nega un'Intelligenza divina ordinatrice dell'universo; e, peroiò, è necessario che chi crede in essa non si limiti a ripetere le convinzioni dei predecessori favorevoli all'esistenza di una divina Intelligenza, ma affronti con loro il ri10 Parmenide, 134 e-135 b. " Lettera VII, 341 c. " Timeo, 28 c.
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schio delle opposizioni e dei biasimi. Ecco che cosa ci dice Platone nel Filebo: Socrate - O Protarco, tutte le cose nel loro insieme e quello che è detto l'intero, dobbiamo affermare che li reggano la forza dell'irrazionale e del casuale e del fortuito, o al contrario, come i nostri predecessori dicevano, che li governino un Intelletto e una mirabile saggezza ordinatrice? Protarco - Non è lo stesso, o mirabile Socrate. Infatti, quello che tu dici ora, non mi pare che sia affatto una cosa santa. Invece, affermare che un Intelletto ordina tutte le cose, è degno dello spettacolo del cosmo, del Sole, della Luna, degli astri e di tutta la rivoluzione celeste, e io non potrei mai dire né pensare diversamente su queste cose. Socrate - Vuoi, dunque, che noi concordiamo con i nostri predecessori nel dire che queste cose stanno cosl, e che non solo siamo convinti che si debbano ripetere senza pericolo le affermazioni degli altri, ma che anche noi corriamo con loro il rischio e partecipiamo con loro del biasimo, allorché un uomo portentoso affermi che queste cose non stanno così, ma sono senza ordine? Protarco - E come dovrei non volerlo? 13 •
Nella nostra esposizione seguiremo, dunque, questo ordine: parleremo prima delle Idee, quindi dei Principi e infine del Demiurgo, che presuppone le une e gli altri. Preghiamo il lettore di seguire con attenzione ciò che diremo in materia, per il motivo che dalla comprensione di questi temi dipende la comprensione non solo della metafisica di Platone, ma anche delle altre dimensioni del suo pensiero nel loro significato fondamentale 14 •
" Filebo, 28 d-29 a. " Ricordiamo al lettore che, per una dettagliata documentazione di tutto ciò che diciamo, si dovrà leggere il nostro Platone, passim.
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II. LA TEORIA PLATONICA DELLE IDEE E ALCUNI PROBLEMI AD ESSA CONNESSI
l. Alcune precisazioni sul «Idea» e sul suo significato
In primo luogo, per affrontare il problema che ci accingiamo a trattare, va tenuto presente che con il vocabolo « Idea » si traducono generalmente i termini greci UìÉa e ~!ooc;. Purtroppo la traduzione (che in questo caso è una traslitterazione) non è felice, perché, nel linguaggio moderno, « Idea » ha assunto un senso che è estraneo a quello platonico. La traduzione esatta del termine sarebbe « forma», per le ragioni che ben comprenderemo nelle pagine che seguono. Infatti, noi moderni con « Idea » intendiamo un concetto, un pensiero, una rappresentazione mentale, qualcosa insomma che ci riporta sul piano psicologico e noologico; Platone, per contro, con « Idea » intendeva, in un certo senso, qualcosa che costituisce l'oggetto specifico del pensiero, vale a dire ciò a cui il pensiero si rivolge in maniera pura, ciò senza cui il pensiero non sarebbe pensiero: insomma, l'Idea platonica non è affatto un puro ente di ragione, bensl un essere, anzi quell'essere che è assolutamente, il vero essere, come vedremo con ampiezza. Inoltre, è da notare quanto segue. I termini toÉa ed ~!ooc; derivano ambedue da toE~'II, che vuoi dire « vedere », e nella lingua greca anteriore a Platone venivano impiegati soprattutto per designare la forma visibile delle cose, ossia
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la forma esteriore e la figura che si coglie con l'occhio, quindi il « veduto » sensibile. Successivamente, idea ed eidos sono passati ad indicare, per traslato, la forma interiore, ossia la natura specifica della cosa, l'essenza della cosa. Questo secondo uso, raro prima di Platone, diventa invece stabile nel linguaggio metafisica del nostro filosofo. Platone, dunque, parla di Idea e di Eidos soprattutto per indicare questa forma interiore, questa struttura metafisica o essenza delle cose di natura squisitamente intelligibile (e usa come sinonimi altresl i termini oùO'i.a., cioè sostanza o essenza, e perfino q>UO'tç, nel senso di natura intelligibile, intima realtà delle cose) 1• Orbene, il problema che ora dobbiamo cercare di comprendere è appunto questo: come mai un termine che significa, originariamente, l'oggetto di un vedere, abbia potuto giungere a esprimere la più alta forma metafisica dell'essere. Capire a fondo le ragioni che hanno portato Platone alla creazione della teoria delle Idee, significa capire proprio quel nesso sintetico che per il greco strutturalmente unisce « vedere »-« forma »-« essere». Cerchiamo, dunque, di comprendere questo nesso sintetico, pecuiiarmente ellenico. È stato più volte rilevato dagli studiosi come la civiltà spirituale greca sia stata una civiltà della « visione » e quindi della « forma » che è oggetto di visione, e come per molti versi essa sia antitetica, ad esempio, alla civiltà ebraica, la cui cifra predominante, invece, è stata l'« ascoltare » e l'« udire » (ascoltare la « voce » e la « parola » di Dio e dei profeti). Questo rilievo è esatto ed è della massima importanza ai fini della comprensione storico-filosofica della teoria platonica delle Idee, giacché, in ambito filosofico, tale teoria costituisce, in un certo senso, l'espressione più signi' Sulla dottrina delle Idee, per quanto concerne la sua genesi e il suo significato filosofico, la letteratura critica è assai cospicua. La si vedrà nel volume v, s. v.
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ficativa e più alta di quella generale peculiarità greca. Già Democrito aveva usato il termine HìÉa: per designare l'atomo, inteso nel senso di forma geometrica indivisibile e concepito come invisibile agli occhi fisici e coglibile solo con la mente. L'atomo-idea di Democrito è, però, il « pieno » differenziato e determinato quantitativamente; è visibile, sì, ma solamente dall'intelletto e non dai sensi, e tuttavia di carattere fisico. La « forma » degli Atomisti è, pertanto, materialità pura, in quanto, come abbiamo detto, è determinata e differenziata solo quantitativamente. Dunque, si può dire che prima « dell'Idea platonica, che è qualità, immaterialità e finalità, vi è l'idea democritea che è quantità, materialità e necessità » 2 • Ma anche Anassagora si era spinto in questa direzione in modo analogo. La sua ammissione di semi (omeomerie), infiniti di numero, ne è la prova. Questo insieme di omeomerie, infatti, è un mondo « formato », in cui, come è stato giustamente rilevato, « è cristallizzata e per così dire sublimata ogni forma, in quanto le infinite differenze del reale non soltanto vi sono giustificate nella loro innumerevole varietà, ma addirittura dimostrate infinitamente più vere di quanto sembrino [ ... ] » 3 • In un celebre frammento, Anassagora usa espressamente il termine toÉa:, parlando di « semi » che hanno « forme (t&Éa:c;), colori e gusti di ogni genere » 4 • Anche questo « originario qualitativo » è coglibile nella sua purezza solo col pensiero e non con i sensi, ma non porta fuori dalla sfera del fisico. Ancora una volta, restiamo, dunque, nella sfera del materiale, come abbiamo già visto nel caso degli Atomisti. ' Su questo tema resta fondamentale il volume: V. E. Alfieri, Atomos Idea. L'origine del concetto dell'atomo nel pensiero greco, Firenze 1953 (Galatina 1979'), p. 54 (60'). 3 G. Calogero, Storia della logica antica, Laterza, Bari 1967, p. 269. ' Diels-Kranz, 59 B 4 (si veda, a questo proposito, quanto diciamo nel volume r, pp. 163 sgg.).
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Il salto fondamentale di Platone è quello reso possibile dalla « seconda navigazione »: le forme o Idee platoniche sono l'originario qualitativo immateriale, e, quindi, sono realtà di carattere non fisico ma metafisica. Scrive giustamente FriedHinder: « Platone possedeva [ ... ] l'occhio plastico dell'Elleno, un occhio di ugual natura di quello con cui Policleto ha visto il canone [ ... ]; ed anche della stessa natura di quello che il matematico greco volgeva alle pure forme geometriche. Potrebbe sembrare che Platone fosse consapevole di questo dono, che fra tutti i pensatori gli è toccato maggiormente in sorte [ ... ] » 5 • La prova di questa consapevolezza sta nel fatto che proprio a Platone risalga la creazione delle espressioni « la vista della mente », « la vista dell'anima », per indicare la capacità dell'intelletto di pensare e di cogliere l'essenza 6 • L'analogia è dunque chiara: le cose che con gli occhi del corpo cogliamo, sono forme fisiche; le cose che cogliamo con « l'occhio dell'anima » sono, invece, forme non fisiche: la vista dell'intelligenza coglie forme intelligibili, che sono, appunto, pure essenze. Le « Idee» sono, dunque, quelle eterne essenze del bene, del vero, del bello, del giusto, e cosl via, che l'intelletto, quando si protende al massimo delle sue capacità, e si muove nella pura dimensione dell'intelligibile, riesce a « fissare », a « guardare ». E questa analogia porta a capire bene il problema di cui stiamo trattando. In effetti per Platone c'è una metafisica connessione fra la visione dell'occhio dell'anima e ciò a cagione di cui c'è questa visione. Il vedere intellettivo implica come sua ragion d'essere il veduto inteltettivo, ossia l'Idea. Per questo motivo l'Idea implica un radicale nesso sintetico, come sopra dicevamo, ossta appunto un'unità strutturale fra ' P. Friedliinder, Platon, vol. I, Berlin 1964', p. 13 (traduzione italiana di D. Faucci, La Nuova Italia, Firenze 1979, p. 15). • Cfr. Simposio, 219 a; Repubblica, VII, 519 b.
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visione-veduto-forma-essere. Pertanto, nella teoria delle Idee Platone esprime veramente una delle cifre spirituali supreme della Grecità.
2. I caratteri delle Idee
metafisico-ontologici
Le Idee rappresentano la figura speculativa del pensiero di Platone che ha avuto maggior successo, che ha stimolato il maggior numero di ripensamenti teoretici e che ha ispirato alcuni dei più grandi pensatori proprio in alcun punti centrali delle loro dottrine, con tutta una serie di conseguenze facilmente immaginabili, che non hanno semplificato, ma hanno complicato la comprensione di esse. I caratteri basilari delle Idee - stando suila base oggettiva dei testi - si possono riassumere nei sei seguenti, che vengono richiamati ripetutamente in molti scritti, e che costituiscono dei punti di riferimento veramente irrinunciabili: l) l'intelligibilità (l'Idea è per eccellenza oggetto dell' intelletto e coglibile solo daU 'intelletto); 2) l'incorporeità (l'Idea appartiene ad una dimensione totalmente diversa dal mondo corporeo sensibile); 3) l'essere in senso pieno (le Idee sono l'essere che veramente è); 4) l'immutabilità {le Idee sono sottratte a qualsiasi forma di cambiamento, oltre che al nascere e al perire); 5) la perseità {le Idee sono in sé e per sé, ossia assolutamente oggettive) ; 6) l'unità (le Idee sono, ciascuna, una unità, unificante la molteplicità delle cose che di esse partecipano). L'esame sintetico di questi sei caratteri 7 , oltre che farci 7
Cfr. Reale, Platone ... , pp. 169-221.
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intendere la statura metafisica delle Idee, ci farà capire bene alcune delle ragioni di fondo per cui, pur offrendo una spiegazione della realtà sensibile ad un livello assai elevato, richiedano, esse stesse, una ulteriore giustificazione, e quindi una spiegazione ultimativa. In base a quanto si è detto, risulta chiaro che il primo dei caratteri che definisce la statura metafisica delle Idee, è quello della « intelligibilità », cui è strettamente connesso quello della « incorporeità », e con cui coincide in larga misura. In effetti, il nuovo metodo caratteristico della « seconda navigazione», che Platone contrappone a quello dei Naturalisti che era basato prevalentemente sui sensi e sul sensibile, si fonda sui ragionamenti e sulla realtà che si coglie solo con i ragionamenti, e questa è appunto la realtà intelligibile delle Idee. L'intelligibilità, dunque, esprime un carattere essenziale delle Idee, che le contrappone al sensibile, che le impone come una sfera di realtà sussistente al di sopra del sensibile medesimo, e che appunto per questo risulta coglibile solo con l'intelligenza che sappia distaccarsi adeguatamente dai sensi. Leggiamo il passo più significativo del Pedone a questo riguardo: - E se mai c'è un mezzo attraverso cui qualcuno degli esseri si manifesta all'anima, questo non è forse il ragionamento? - Sl. - Allora, l'anima non ragiona forse nel modo migliore, quando nessuno di questi sensi la turbi, né la vista, né l'udito, né il piacere, né il dolore, ma quando si raccolga sola in se stessa lasciando il corpo, e, rompendo il contatto e la comunanza col corpo nella misura in cui ciò è possibile, miri con ogni sua forza all'Essere! - È cosl. - E allora, anche in questo caso, l'anima del filosofo non ha forse disprezzo del corpo e non rifugge da esso e non cerca di rimanere sola per se stessa?
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- È chiaro. - E che cosa diremo, o Simmia, di quest'altra questione? Diciamo noi che il Giusto è qualcosa per se stesso, oppure no? Sì, lo diciamo, per Zeus! E, similmente, anche il Bello e il Buono? E come no? E hai mai visto qualcuna di queste cose con gli occhi? No, affatto, rispose. E le hai mai colte, forse, con altro senso del corpo? Non parlo solo delle cose nominate sopra, ma anche della Grandezza, della Salute, della Forza, e, in una parola, di tutte le altre cose nella loro essenza, ossia di ciò che ciascuna di quelle cose è veramente. Ebbene: forse che si conosce ciò che in esse c'è di più vero mediante il corpo, o, viceversa, solamente chi di noi è preparato a considerare con la sola mente ciascuna cosa di cui fa ricerca, solamente costui può avvicinarsi maggiormente alla conoscenza di ciascuna di queste cose? - Certamente. - E non è forse vero che potrà fare questo nella maniera più pura colui il quale, per quanto è possibile, si accosta a ciascuna realtà con la ragione stessa senza appoggiarsi nel suo ragionare alla vista e, senza prendere a compagno del pensiero alcun altro senso del corpo e valendosi della pura ragione in sé e per sé, cerca di raggiungere ciascuno degli esseri nella sua purezza in sé e per sé, separandosi il più possibile dagli occhi e dagli orecchi e, in una parola, da tutto il corpo, in quanto esso turba l'anima e non le lascia acquistare verità e sapienza, quando ha comunione con essa? Non è forse costui, o Simmia, colui che, più di chiunque altro, potrà attingere la verità? - Quello che dici, o Socrate, è straordinariamente vero, rispose Simmia 8 •
È, questa, la cospicua distinzione del piano meta-fisico dal piano fisico, fatta, nella maniera più netta, per la prima volta nella storia del pensiero occidentale. La distinzione dei due piani (o delle due « regioni » o sfere) della realtà, quello dell'intelligibile e quello del sensibile, costituisce
' Fedone, 65 c-66 a.
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veramente la via maestra di tutto il pensiero platonico; e quindi non c'è da meravigliarsi che tutti gli scritti vi facciano riferimenti impliciti o espliciti, come avremo modo di verificare ulteriormente e ripetutamente. Ma qui vogliamo ancora insistere su un punto, cui abbiamo fatto riferimento già sopra. L'intelligibile, appunto in quanto non è coglibile dai sensi, che colgono solamente il corporeo, bensì solamente dall'intelligenza, che trascende la dimensione del fisico e del corporeo, è, per sua natura, « incorporeo »: [ ... ] infatti le cose incorporee ( CÌ
E così, con Platone, il termine « incorporeo » assume quel significato e quella valenza concettuale, che ancora oggi noi gli attribuiamo. Ed è esattamente la « seconda navigazione » che ha reso possibile la scoperta di questa dimensione dell'essere. Ma, poiché questo è un punto assai poco conosciuto, è bene ricordare che il termine « incorporeo » è stato usato anche da altri pensatori prima che da Platone, ma in altra prospettiva, ossia nella dimensione naturalistica. Di Anassimene ci viene riferito che diceva l'« aria » (che per lui era principio di tutte le cose) « vicina all'incorporeo », perché « fonte infinita e ricca, che non viene mai meno » 10 • E l'eleatico Melissa intendeva il suo essere incorporeo, dicendo: « Se, dunque, l'essere è, esso deve essere uno. E, essendo uno, non deve avere corpo»; e ancora: «Essendo uno, deve non avere corpo; infatti, se avesse spessore, avrebbe parti, e, quindi, non sarebbe più uno » 11 • ' Politico, 286 a (cfr. inoltre: Pedone, 85 e; Filebo, 64 h; Sofista, 246 b, 247 d; Epinomide, 981 b). 10 Diels-Kranz, 13 B 3; cfr. vol. 1, p. 69. " Diels-Kranz, 30 B 9; cfr. vol. 1, p. 145.
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Orbene, nei Presocratici (anzi, in questo caso, dovremmo dire nei Preplatonici) il termine « incorporeo » indica il non avere una determinata forma (evidentemente, forma in senso fisico); tanto è vero che « l'incorporeo» è connesso con « l'infinito », il quale, appunto, non ha limiti, né confini, né determinazione, e perciò è privo di ogni forma 12 • Platone innova invece radicalmente questo significato: l'incorporeo, per lui, diventa una « forma » intelligibile (ossia meta-sensibile, meta-fisica), e quindi un essere de-terminato che agisce da causa de-terminante, un essere de-limitato che agisce da causa limitante, ossia la causa vera e reale, come si dice nel Fedone. Altra caratteristica definitoria della statura metafisica delle Idee è quella incentrata sull'essere. Ripetutamente le Idee sono qualificate da Platone come il vero essere, come ciò che è essere in senso pieno, insomma come essere assoluto 13 • Questo carattere ha strettissimi rapporti con i due già esaminati e con quelli che sotto esamineremo, e costituisce .come il nesso che li collega tutti strettamente. L'« essere » delle Idee è quel tipo di essere che è puramente intelligibile e incorporeo, che non nasce né perisce in alcuna maniera, ed è, quindi, in sé e per sé in senso globale: - [ ... ] La realtà in sé ( aù'ti] 'Ìl oùcrt:a), quella realtà del cui essere (EtvaL) noi diamo conto formulando domande e dando risposte, si trova sempre nelle medesime condizioni, o a volte in un modo e a volte in un altro? L'Uguale in sé, il Bello in sé e ciascun'altra cosa che è in sé, insomma l'Essere ('tè cv), può mai subire in sé mutazione alcuna, di qualsiasi genere essa sia? 12 Su questo tema rimane fondamentaie H. Gomperz, AE!lMATOI:, in « Hermes >>, 67 (1932), pp. 155-167. " Ricordiamo soprattutto le espressioni -.ò 'lta.'VnÀ.W<; O'V (dr. Repubblica, v' 477 a; Sofista, 248 E), 'tÒ C'V O'V'tWc; e ovcrl.a. O'V'tWc; ova-a. (Fedro, 247 c-e). Ma Platone ne usa :numerose altre analoghe, molto spesso.
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Oppure ciascuna di queste cose che è in sé, essendo e uniforme ed in sé e per sé, si trova sempre nella medesima condizione e non può subire mai, per nessuna ragione e in nessun modo, alcuna alterazione? - :È necessa1:io, o Socrate, che rimanga sempre nella medesima condizione, rispose Cebete. - E che diremo delle molte cose belle, come ad esempio uomini, vestimenti, e di tutte le altre cose di questo genere, che designamo come ' belle ' o come ' uguali ', e di tutte 1e altre cose che designamo con Io stesso nome che hanno le cose in sé? Permangono sempre nella medesima condizione, o, proprio al contrario delle cose in sé, non sono mai identiche né rispetto a se medesime né rispetto alle altre e, in una parola, non sono mai in alcun modo nelle medesime condizioni? - :È proprio cosl, disse Cebete. Non permangono mai nelle medesime condizioni. - E non è forse vero che, mentre queste cose mutevoli tu le puoi vedere o toccare o percepire con gli altri sensi corporei, quelle, invece, che permangono sempre identiche non c'è altro mezzo con cui si possano cogliere, se non col puro raziocinio e con la mente, perché queste cose sono invisibili e non si possono cogliere con la vista? - Verissimo, rispose, è quello che dici. - Poniamo dunque, se vuoi, egli soggiunse, due specie di esseri ( ELOTJ "tWV ov"twv ): una visibile e l'altra invisibile. - Poniamole, rispose. E che l'invisibile permanga sempre ne1Ia medesima condizione e che il visibile non permanga mai nella medesima condizione. Poniamo anche questo, disse 14 •
ouo
E anche qui, è particolarmente interessante la precisa affermazione dell'esistenza di due piani dell'essere (ovo ELOTJ "tWV ov"twv): quello dell'essere fisico (l'essere visibile, ossia sensibile) e quello dell'essere sopra-fisico o meta-fisico (ossia l'essere non visibile, non sensibile). Ma è molto interessante anche quest'altro passo del Pedone, in cui Platone " Fedone, 78 d-79 a.
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presenta il carattere dell'essere come il « sigillo », che caratterizza le Idee e ne esprime l'assolutezza antologica: [ ... ] Infatti il ragionamento che stiamo facendo non vale solo per l'Uguale in sé, ma anche per il Bello in sé, per il Buono in sé, per il Giusto in sé, per il Santo in sé e per ciascuna delle altre cose, come io dico, alle quali noi, domandando nelle nostre domande e rispondendo nelle nostre risposte, poniamo il sigillo dell'" essere in sé" (aÒ'tÒ o ECT'tL) 15 •
Si legga anche il celebre passo del Fedro, che parla del mondo delle Idee come di un « Iperuranio », e che riportiamo più avanti 16 , perfettamente convergente con quelli finora letti. Infine, ricordiamo che nella Repubblica la tematica dell'essere diventa centralissima, con considerevoli amplificazioni anche a livello gnoseologico: solo il vero essere è veramente conoscibile; il mondo sensibile, che è un essere misto a non-essere, è solamente opinabile, mentre del nonessere c'è solo la pura ignoranza 17 • Non c'è dunque da meravigliarsi, che Platone chiami la stessa ricerca fatta dal filosofo come una «brama dell'essere», come uno studio capace di mostrare «quell'essere che sempre è e non muta per generazione o per corruzione», come un condurre l'anima « da un giorno che è notte ad un vero giorno », ossia come « una ascesa all'essere »; e addirittura che qualifichi le scienze che preparano l'anima alla dialettica (e quindi alla vera filosofia) come « un argano che trae l'anima dal divenire all'essere », senza parlare, poi, di altre celebri immagini della Repubblica, delle quali avremo occasione di trattare più avanti, come la similitudine della linea e il mito della caverna 18 • Questo carattere di essere assoluto proPedone, 75 c-d. Cfr., sotto, pp. 96 sg. Cfr. Repubblica, v, 478 e-479 d. Cfr. Pedone, 66 c; Repubblica, VI, 485 a-b; tre, VI, 509 d sgg.; VII, 514 a sgg. " " " "
VII,
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521 c-d; cfr., inol-
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prio delle Idee si chiarisce perfettamente con lo stesso ragionamento che abbiamo fatto sopra. Per spiegare veramente il divenire, le Idee non devono divenire esse stesse, ma devono avere in proprio quell'essere, che il divenire, non avendolo in proprio, deve mutuare e ricevere. (Il divenire, come tale, non è essere, ma solo ha dell'essere; infatti esso implica sempre anche non-essere, e, perciò, quanto esso ha di essere lo deve avere per partecipazione ad altro). Con ciò si apriva la via per un recupero sia di Eraclito sia di Parmenide, e per una mediazione fra eraclitismo ed eleatismo. Il mondo del divenire è il mondo sensibile, il mondo dell'essere e dell'immobile è il mondo intelligibile. In altri termini: è il mondo delle cose sensibili che ha quei caratteri che Eraclito, e soprattutto gli Eraclitei, attribuivano a tutto il reale; mentre è il mondo delle Idee che ha quei caratteri che Parmenide e gli Eleati attribuivano a tutto il reale. Platone compone l'antitesi fra le due Scuole proprio con la distinzione dei due diversi piani della realtà: non tutta la realtà è come volevano gli Eraclitei, bensl solo la realtà sensibile; e analogamente non tutta la realtà è come volevano gli Eleati, ma solo la realtà intelligibile, le Idee. La dimensione dell'essere (naturalmente reinterpretato in maniera adeguata) di cui parlava Parmenide è la « causa » (la « vera causa »), il divenire di cui parlavano gli Eraclitei è invece il « causato ». E veniamo ai caratteri della « immutabilità » e della « perseità » delle Idee, che costituiscono una esplicazione e una determinazione specifica del carattere di « essere puro ». Platone connette strettamente questi due caratteri, che risultano molto importanti ai fini di intendere il suo pensiero. Proprio da essi, in realtà, e in modo particolare dalla perseità, sono nate grosse critiche contro Platone, che risalgono addirittura ad Aristotele, e che ancora oggi (sia pure in modo variamente sfumato) vengono ripetute. In
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realtà, l'oggettività assoluta delle Idee nel contesto platonico ha un significato assai più complesso e teoreticamente assai più consistente. Infatti, Platone aveva maturato e fissato la sua teoria delle Idee in opposizione a due forme di relativismo, fra loro strettamente collegate. a) La prima forma di relativismo è quella di origine eraclitea (cui fa riferimento, ma in modo fortemente riduttivo, lo stesso Aristotele 19 ), la quale, proclamando il perenne flusso e la radicale mobilità di tutte le cose, giungeva, di fatto e di diritto, a disperdere ciascuna cosa in una molteplicità irriducibile di mobili stati relativi, e quindi finiva con il renderla inafferrabile, inconoscibile, inintelligibile. b) La seconda fol'ma di relativismo è quella sofisticoprotagorea, che riduceva ogni realtà ed ogni azione a qualcosa di puramente soggettivo, e faceva del soggetto medesimo la misura, ossia il criterio di verità di tutte le cose 20 • Cerchiamo di approfondire questi due caratteri di « immobilità » e di « perseità » delle Idee sulla base di testi precisi. a) Mutano e cambiano le singole cose belle, ossia le cose empiriche ed i particolari sensibili, ma non muta, né può mutare, il Bello-in-sé. Un mutamento dell'Idea significherebbe un suo assurdo allontanarsi da sé e un suo divenire altro da sé: la cosa sensibile potrà, sl, da bella diventare brutta, mQ appunto in quanto è cosa empirica e sensibile; invece il Bello-in-sé, che è la causa (la « vera causa ») del bello sensibile, non può affatto diventare brutto. In effetti, un mutamento dell'Idea stessa di Bello, ossia il suo divenire non-bella, implicherebbe la distruzione totale anche di ogni bellezza partecipata, e quindi lo scomparire anche di ogn bellezza empirica, perché compromessa la causa, nmaAristotele, Metafisica, A 6, 987 a-b; M 4, 1078 b-1079 a. Ossia chi, come Protagora, poneva l'uomo come « misura » di tutte le cose (cfr. volume I, pp. 230 sgg.). 19
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ne eo ipso compromesso anche il causato. In altri termini: dichiarando l'Idea immutabile, Platone ha voluto affermare il concetto che la vera causa che spiega ciò che muta, non può mutare essa stessa, altrimenti non sarebbe la « vera causa », ossia non sarebbe la ragione ultimativa. Si ricordi che espressamente le Idee sono state introdotte, come abbiamo sopra visto, come quel postulato che è necessario introdurre, al fine di superare quelle contraddizioni in cui si cade spiegando H sensibile con il sensibile, e quidi il mutevole con il mutevole. Ed ecco come i caratteri della immutabilità e perseità delle Idee emergono proprio nel contesto della polemica contro l'Eraclitismo, condotta da Platone nel Cratilo: Socrate - Allora, ancora questo dobbiamo esam1nare, affinché questi molti nomi che tendono alla medesima cosa non ci traggano in inganno: se, in realtà, coloro che posero i nomi, li posero pensando che tutte le cose sempre si muovono e scorrono - e pare anche a me che pensassero proprio questo -; senonché, può darsi che non sia cosi, ma che essi stessi, caduti come in un vortice, vengano travolti, e, trascinando anche noi, ci gettino dentro. Esamina dunque, o meraviglioso Cratilo, quello che io sogno spesso. Dobbiamo dire che sono qualche cosa in se stesso il Bello, il Buono, e così ciascuno degli esseri, o no?
Cratilo - A me sembra di sl, o Socrate. Socrate - Dobbiamo dunque esaminare quel « in se stesso » ( aù-ré): e non se è bello un volto o qualche cosa di questo tipo: tutte cose, queste, che sembrano fluire; bensì « in se stesso », diciamo, il Bello non è sempre tale e quale è?
Cratilo - Necessariamente. Socrate - Ma, allora, è possibile denominarlo giustamente « in sé», se sempre ci scappa via, e dire prima di tutto che esso è, e poi che è tale; o è necessario che, nello stesso momento in cui ne parliamo, diventi immediatamente altro e ci scappi via e non sia più in questo modo? Cratilo - È necessario. Socrate - E, dunque, come potrebbe essere qualcosa ciò che non sta mai allo stesso modo? Infatti, se per il momento
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resta fermo nello stesso modo, almeno in quel tempo è evidente che non passa via; e se resta sempre allo stesso modo, ed è « in se stesso », come potrebbe mutarsi e muoversi non allontanandosi affatto dalla sua propria Idea? Cratilo - In nessun modo. Socrate - Ma neppure potrebbe essere conosciuto da nessuno. Infatti nello stesso momento in cui chi sta per conoscerlo gli si avvicina, esso diverrebbe altro e di altra specie; cosicché non si potrebbe più conoscere né che cosa sia né come sia. E certamente nessuna conoscenza conosce ciò che conosce, se questo in nessun modo sta fermo. Cratilo - È come dici 21 •
E anche nei passi del Pedone che abbiamo già letto nel precedente paragrafo, questo concetto viene perfettamente ribadito.
b) Ed ecco come la « perseità », nel senso di saldezza e stabilità delle Idee, emerge dalla polemica contro il relativismo sofistico-protagoreo (cui Platone associa anche l'opposta forma dell'Eleatismo, secondo il quale tutte le cose sono nel medesimo modo insieme e sempre, e quindi non sono differenziate oggettivamente, ma sono con-fuse insieme): Socrate - Suvvia, vediamo, o Ermogene, se anche gli esseri a te sembra che stiano cosl: la loro essenza è relativa a ciascuno di noi per conto proprio, come Protagora riteneva, dicendo che l'uomo è « misura di tutte le cose », come se le cose quali sembrino essere a me, tali anche siano per me, e quali sembrino essere a te, tali siano per te; o ti sembra, piuttosto, che esse abbiano una certa stabilità dell'essenza? Ermogene - Già una volta, o Socrate, trovandomi in difficoltà, mi lasciai trascinare, proprio a queste cose che Protagora dice; ma non mi sembra davvero che la cosa stia cosl. Socrate - Ma come, proprio a questo ti sd lasciato trascinare, cosl da sembrarti che non ci sia un uomo brutto e cattivo? Ermogene - Oh no, per Zeus; anzi, molte volte questo mi " Crati/o, 439 b·440 a.
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è capitato, ossia di dover credere che alcuni uomini del tutto cattivi ci siano, e molto numerosi. Socrate - E uomini del tutto buoni non ti è mai sembrato che ce ne siano? Ermogene - Sl, ma molto pochi. Socrate - Però ti è sembrato che ce ne siano. Ermogene - Sl. Socrate - Orbene, come stabilisci proprio questo? Forse cosl: che gli uomini molto buoni siano molto assennati, e gli uomini molto cattivi siano molto dissennati? Ermogene - Cosl mi sembra. Socrate - E allora è possibtie, se Protagora diceva il vero e proprio questa è la verità, ossia che quali le cose sembrino a ciascuno tali anche esse siano, che alcuni di noi siano assennati e altri dissennati? Ermogene - No certo. Socrate - Anche questo, io credo, sicuramente ti sembrerà, e cioè che se c'è assennatezza e dissennatezza, non è possibile che Protagora dica il vero: infatti nessun uomo, in verità, potrebbe mai essere più assennato di un altro, se ciò che a ciascuno sembra vero, per ciascuno sia vero. Ermogene - ~ cosl. Socrate - Ma neppure seguendo Eutidemo, io credo che a te sembri che tutte le cose siano nel medesimo modo insieme e sempre; infatti, neppure in questa maniera gli uomini porrebbero essere gli uni buoni, gli altri cattivi, se fossero al medesimo modo, per tutti e sempre, virtù e vizio. Ermogene - Dici il vero. Socrate - Dunque se né per tutti tutte le cose sono nel medesimo modo insieme e sempre, né ogni cosa è per ognuno in modo proprio, è evidente che le cose in se stesse hanno una propria essenza stabile, non sono per rapporto con noi, né sono trascinate da noi in su e in giù con la nostra immaginazione, bensì sono per se stesse in rapporto con la loro essenza, come sono per natura 22 • In conclusione, meditando queste due forme di relativismo, Platone ha concepito e fissato due caratteri fonda"' Cratilo, 385 e-386 e.
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mentali delle Idee, appunto l'immutabilità e la perseità, ossia la loro stabile oggettività: le Idee hanno una realtà che non è trascinata nel divenire e che non è relativa al soggetto, una realtà che non è travolta dal perenne mutamento e non è manipolabile a capriccio dal soggetto, ma implica strutturale fermezza e stabilità. Se cosl non fosse, tutte le nostre conoscenze e valutazioni (e in particolare le nostre valutazioni morali) sarebbero prive di qualsiasi significato, e il nostro parlare non avrebbe alcun senso. In una parola, l'immutabilità e l'in sé e per sé delle Idee implicano la foro assolutezza.
3. Il supremo carattere metafisica della «unità» delle Idee L'ultimo carattere delle Idee sul quale mette conto porre particolare attenzione (il sesto fra quelli che abbiamo sopra elencati), perché riveste una importanza veramente eccezionale (malgrado il fatto che nell'ambito degli studi ispirati al paradigma tradizionale sia stato in larga misura trascurato, o comunque sottovalutato), è quello della «unità». Ciascuna Idea è una « unità », e, come tale, spiega le cose sensibili che di essa partecipano, costituendo in questo modo una molteplicità uni-ficata. E, proprio per questo motivo, la vera conoscenza consiste nel saper uni-ficare la molteplicità in una visione sinottica, raggruppante la molteplicità sensoriale nell'unità dell'Idea dalla quale dipende. Si noti come, per Platone, la natura stessa del filosofo si manifesti proprio nel saper cogliere e possedere questa unità, come ci dice espressamente ln questo importante passo della Repubblica: - Ed i veri filosofi, domandò, quali dici che siano? - QuelH, rispose, che amano contemplare la verità.
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- Anche questo è esatto, disse; ma come intendi dire? - Non sarebbe affatto facile, risposi io, dirlo ad un altro; ma credo che tu considererai questo con me. - Che cosa? - Poiché il Bello è contrario ai Brutto, essi sono due. - Come no? Allora, dal momento che sono due, ciascuno di essi è uno? Anche questo. E sul Girusto e sull'Ingiusto, sul Bene e sul Male e su tutte le altre Idee vale lo stesso discorso, e cioè che ciascuna di esse è una, ma che presentandosi dovunque per la comunanza con azioni, con corpi e con altre , ognuna appare multipla 23 •
E proprio qui sta ciò che discrimina l'uomo comune, che si limita al sensibile, dal filosofo; il primo si abbarbica al molteplice respingendo l'unità, e inoltre: [ ... ] non sopporterebbe in nessun modo, se altri dicessero che Uno è il ,Bello, il Giusto e così di seguito [ ... ] 24 • {. .. ] vanno errando nella molteplicità, e non sono filosofi 25 •
Il filosofo, invece, è proprio colui che sa vedere l'insieme e sa cogliere la molteplicità nell'unità. Platone riassume il suo pensiero in questa massipla stupenda: Chi sa vedere l'insieme (avv01t't"LX6c;) è dialettico, chi no, no 26 •
Tale caratteristica definitoria delle Idee risultava talmente importante, che gli Accademici .fondarono su di essa una delle argomentazioni intese a dimostrare l'esistenza " " " "
Repubblica, v, 475 e-476 a. Repubblica, v, 479 a. Repubblica, VI, 484 b. Repubblica, vn, 537 c
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delle Idee, e la denominarono appunto « la prova derivante dall'unità del molteplice », che può essere formulata nel modo che segue: se ci sono molti uomini e ciascuno di essi è appunto uomo, e quindi se c'è un qualcosa che si predica di ciascuno e di tutti gli uomini senza essere identico a ciascuno di essi, allora è necessario che ci sia qualcosa al di là di ciascuno di essi, separato da essi ed eterno, e che appunto in quanto tale si possa predicare di tutti gli uomini differenti per numero, in modo identico. E precisamente questo « uno che è oltre i molti », e che li trascende ed è eterno, è l'Idea 27 • Ma le complesse implicanze di questo carattere fondamentale delle Idee potranno venire esaminate solo più avanti, in connessione con la problematica protologica.
4. I l d u a l i s m o p l a t o n i c o c o m e sione della trascendenza
e s p re s -
Dopo quanto abbiamo detto, sembrerebbe inevitabile parlare di concezione « dualistica » della realtà in Platone: le realtà empiriche sono sensibili, mentre le Idee sono intelligibili; le realtà fisiche sono miste a non-essere, mentre le Idee sono essere in senso puro e totale; le realtà sensibili sono corporee, mentre le Idee sono incorporee; le realtà sensibili sono corruttibili, mentre le Idee sono realtà stabili ed eterne; le cose sensibili sono relative, mentre le Idee sono assolute; le cose sensibili sono molteplici, mentre le Idee sono unità. In effetti, molti studiosi, ripetendo " Aristotele, Metafisica, A 9, 990 h 13; Alessandro di Afrodisia, In Arist. Metaph., p. 80, 9 sgg. Hayduck ( = Aristotele, De ideis, fr. 3 Ross). Per una dettagliata analisi di questo argomento si vedano: E. Berti, LA filosofia del primo Aristotele, Padova 1962, pp. 208 sgg.; W. Leszl, Il « De ideis » di Aristotele e la teoria platonica delle Idee, Firenze 1975, pp. 141 sgg.
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o sviluppando in vario modo le critiche mosse da Aristotele, contestano pesantemente questo « dualismo » sostenendo che la « separazione » delle Idee dalle realtà sensibili, ossia la loro « trascendenza », compromette la loro funzione di « cause ». Ma questo è, in realtà, un puro pregiudizio teoretico, da evitare rigorosamente, se si vuole bene intendere Platone. Intanto, va rilevato che le Idee hanno tanto di « immanenza » quanto hanno di « trascendenza »; cosa, questa, che troppo spesso viene trascurata o sottaciuta. Per Platone, la trascendenza delle Idee è proprio la ragion d'essere (ossia la fondazione) della loro immanenza. Le Idee non potrebbero essere la causa del sensibile (ossia la « vera causa ») se non trascendessero il sensibile medesimo; e, appunto trascendendolo antologicamente, possono fondare la sua struttura antologica immanente. Insomma, la trascendenza delle Idee è proprio ciò che qualifica il ruolo che esse svolgono di « vera causa ». Confondere questi due loro aspetti, o comunque livellarli sul medesimo piano, significa dimenticare per intero la « seconda navigazione » e i suoi esiti. È, in ogni caso, interessante notare che il primo aspetto delle Idee che Platone rileva è proprio quello dell'immanenza. I primi dialoghi presentano, infatti, l'aspetto dell'Idea come ciò che permane identico nelle cose, come ciò che fa sl che ciascuna cosa sia ciò che è e non altro, ciò che fissa le cose nella loro natura e le rende, di conseguenza, intelligibili. Successivamente Platone, specie a partire dal Fedone, dove mette a tema la sua « seconda navigazione» e gli esiti ad essa connesi, sviluppa, oltre al motivo dell'immanenza, il motivo che, con le dovute precisazioni teoretiche, può essere chiamato, nella maniera più corretta, della « trascendenza » 28 • Se le Idee si contrappongono alle 28
Un eccellente elenco delle espressioni con cui Platone indica l'im-
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cose empiriche come l'intelligibile al sensibile, l'essere al divenire, l'incorporeo al corporeo, l'immobile al mobile, l'assoluto al relativo, l'unità alla molteplicità, allora è chiaro che esse rappresentano una dimensione diversa della realtà, un nuovo e superiore piano della realtà medesima. Sulla esistenza di due differenti piani dell'essere Platone è molto esplicito, come in alcuni passi sopra riportati abbiamo letto, e come egli ribadisce solennemente anche nel Timeo, in un bel passo che mette conto leggere: C'è forse un Fuoco in sé e per sé solo? E tutte le altre realtà che chiamiamo con questi nomi sono ciascuna in sé e per sé? O le cose che anche vediamo, e quante altre ne percepiamo mediante il corpo sono le sole che hanno tale verità, e non ce ne sono altre oltre queste in nessun luogo e in nessun modo, ma invano diciamo tutte le volte che c'è una fol'ma intelligibile di ciascuna cosa, mentre essa non è niente tranne che parole? Se lasciamo tale questione senza esame e senza giudizio, non è opportuno affermare con sicurezza che la cosa sta cosl. E nemmeno conviene inserire nella lunghezza del discorso un'altra lunghezza di una aggiunta accidentale. Ma se si riuscisse a trovare in brevi parole una grande distinzione ben definita, questa sarebbe la cosa più opportuna. Ecco, dunque, quale è il mio parere. Se intelligenza e opinione sono due generi diversi, allora esistono veramente queste cose in sé, fol'me da noi non coglibili con i sensi e solo pensabili. Se, invece, come sembra ad alcuni, l'opinione vera differisce in nulla dall'intelligenza, allora bisogna porre come certissime tutte le cose che percepiamo per mezzo del corpo. Ma bisogna dire che queUi sono due generi diversi di conoscenza, perché si generano separatamente e sono differenti. Infatti uno di essi si genera per mezzo dell'insegnamento, l'altro per effetto della persuasione. E l'uno si accompagna sempre al ragionamento veritiero, l'altro, invece, è Irrazionale. E l'uno non si piega alla persuasione, l'altro muta per manenza delle Idee e di quelle con cui ne indica la trascendenza è stato fornito da D. Ross, Plato's Theory of Ideas, cit., pp. 228 sgg., ed è stata da noi riportata in Platone ... , pp. 199 sg., nota 61.
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opera della persuasione. E di quest'ultima bisogna dire che tutti gli uomini partecipano, mentre dell'intelligenza partecipano gli Dei, e il genere degli uomini in piccola misura. Se, dunque, le cose stanno in questo modo, bisogna ammettere che vi è una forma di realtà che è sempre allo stesso modo, ingenerata ed imperitura, e che accoglie dal di fuori altra cosa, né essa passa mai in altra cosa, e non è visibile né è percepibile con altro senso. Ed è questo, appunto, che all'intelligenza toccò in sorte di contemplare. E bisogna ammettere che di nome uguale ed ad essa somigliante vi è una seconda forma di realtà, sensibile, generata e in continuo movimento, che si genera in un luogo e che nuovamente di là perisce. E questa si comprende con l'opinione accompagnata dalla sensazione 29 •
Chi ci ha seguito fino a questo punto, crediamo che disponga ormai di tutti gli elementi che occorrono per trarre le conclusioni sull'autentico significato della teoria delle Idee, che costituisce il primo e assai cospicuo guadagno della prima tappa della « seconda navigazione ». Con le Idee Platone, come più volte abbiamo rilevato, ha scoperto il mondo dell'intelligibile come la dimensione incorporea e metempirica dell'essere. E questo mondo dell'intelligibile incorporeo trascende, sì, il sensibile, ma non nel senso di una assurda « separazione », bensì nel senso di metempirica causa (ossia di « vera causa »); e quindi è la vera ·ragion d'essere del sensibile. In conclusione, il dualismo di Platone non è altro se non il dualismo di chi ammette l'esistenza di una causa soprasensibile come ragion d'essere del sensibile medesimo, ritenendo che il sensibile, a motivo defla sua auto-contraddittorietà, non possa avere una globale ragion d'essere di se medesimo. Pertanto, il « dualismo» metafisica di Platone non ha assolutamente nulla a che vedere con il ridicolo dualismo di chi ipostatizza il sensibile, e poi contrappone l'ipostatizzazione al sensibile medesimo. ,. Timeo, 51 b-52 a.
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Infine, bisogna rilevare che Platone presenta, oltre a questa, un'altra forma di dualismo, che concerne i Principi supremi, che sono appunto due; ma di questo potremo parlare solo più avanti, a motivo della complessità dei problemi che essi implic~mo, e che vanno adeguatamente trattati in maniera analitica al fine di comprendere quest'altra forma di dualismo ;)J. Tornando al « dualismo » inteso come espressione della trascendenza, dobbiamo ancora richiamare un punto importante, concernente in modo particolare il famoso, grande mito dell'« Iperuranio », intorno al quale sono sorti non pochi equivoci. In realtà, il « mito » non è astratto logos, e va correttamente inteso per quello che è, ossia come espressione metaforica e come simbolo, come un parlare per immagini. Ma leggiamo il passo del Fedro, divenuto famosissimo, in cui Platone parla appunto dell'Iperuranio: Il luogo sopraceleste ( lperuranio) nessuno dei poeti di quaggiù lo cantò mai, né mai lo canterà in modo degno. La cosa sta in questo modo. In effetti, bisogna avere realmente il coraggio di dire il vero, specialmente se si parla della verità. Infatti l'essere che realmente è ( oùcr~a ov-.wç oùcra ), incolore e privo di figura e non visibile, che può essere contemplato solo dal pilota dell' anima ossia dall'intelletto, e intorno a cui verte il genere della conoscenza vera, occupa tale luogo. Ebbene, poiché la ragione di un dio è nutrita da intelligenza e da pura conoscenza, anche quella di ogni anima cui prema di conoscere ciò che le conviene vedendo dopo un certo tempo l'essere, si allieta, e, contemplando la verità, se ne nutre e gode, fino a che la rotazione circolare non l'abbia riportata al medesimo punto. Nel giro che essa compie vede la Giustizia stessa, vede la Saggezza, vede la Scienza, non quella cui è unito il divenire, né quella che è diversa in quanto si fonda sulla diversità di quelle cose che noi chiamiamo es·seri [ = esseri fenomenici] , ma quella che è scienza di ciò che è veramente essere. E dopo che ha contemplato tutti gli altri esseri 30
Vedremo che questa forma di dualismo ha una precisa struttura
« bipolare»; cfr., sotto, pp. 109 sgg.
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che veramente sono e se ne è saziata, di nuovo penetra all'interno del cielo, e torna a casa 31 • « Iperuranio » significa « luogo sopra il cielo », e quin-
di è una immagine che, se correttamente intesa in ciò che vuol esprimere, indica un luogo che non è affatto un luogo in senso fisico, bensì un luogo meta-fisico, vale a dire la dimensione del soprasensibile. Il « cielo » è il « visibile » (e quindi il sensibile); il « sopra-cielo » è il « sopra-visibile » (ossia il sopra-sensibile, il metafisica, appunto). Ma si noti ancora come, nel mito dell'Iperuranio, chiaramente per evitare fraintendimenti, le Idee che occupano quel « luogo » siano subito descritte come aventi caratteri tali, che con il « luogo » fisico non hanno nulla a che vedere: sono senza figura, senza colore, invisibili, ecc., e sono coglibili da noi solamente con quella parte che ha il governo dell'anima, cioè solamente con l'intelligenza. In conclusione, con la teoria delle Idee, come più volte abbiamo già rilevato, Platone ha inteso dire questo: il sensibile si spiega solamente con la dimensione del soprasensibile, il corruttibile con l'essere incorruttibile, il mobile con l'immobile, il relativo con l'Assoluto, il molteplice con l'Uno.
5. Il grande problema del rapporto fra mondo delle Idee e mondo sensibile Il problema del rapporto fra l'uno e i molti, che si imimpone ai fini di poter comprendere i rapporti sussistenti fra le differenti Idee e per spiegare la loro derivazione da un pr1ncipio primo, si ripropone anche al livello della spie-
" Fedro, 247 c-e; cfr. Repubblica, pp. 204 sg.).
VI,
509 d (vedasi Reale, Platone ...•
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gazione dei rapporti sussistenti fra le Idee medesime e le cose sensibili. A questo proposito va ricordato che l'interpretazione dei rapporti fra il mondo delle Idee e il mondo sensibile fu soggetta a fraintendimenti già da parte di alcuni contemporanei e perfino da parte di alcuni discepoli di Platone, tanto è vero che nel Parmenide egli prende di mira ed in parte confuta alcune interpretazioni che ricordano quelle che vengono sostenute addirittura nella Metafisica di Aristotele. In effetti, Platone nei suoi scritti presenta differenti prospettive al riguardo, affermando che tra sensibile e intelligibile c'è a) un rapporto di mimesi (JJ.LIJ.TJCTLc;) o di imitazione, b) oppure di metessi (JJ.É~E~~c;) o di partecipazione, c) oppure di koinonia (xowwvL(X} o di comunanza, d) oppure ancora di parousia ('lt(XpovO"L(X) o di presenza 32 • E su questi termini si è fatto un gran discutere, andando oltre il giusto segno e la giusta misura. Ma Platone nel Fedone ha detto esplicitamente che questi termini dovevano esser intesi come semplici proposte sulle quali egli non intendeva affatto insistere, e alle quali non intendeva dare la consistenza di una risposta ultimativa, perché questa implicava il pervenire alla teoria dei Principi; ciò che gli premeva era semplicemente di stabilire che l'Idea è la vera causa del sensibile. Egli intendeva, insomma, fermarsi al primo livello che si raggiunge con la prima tappa della « secondG navigazione ». In effetti, per raggiungere la risposta ultimativa, avrebbe dovuto chiamare in causa la protologia delle « Dottrine non scritte ». Tenendo presente tutto questo, quei termini platonici di cui abbiamo sopra detto, si chiariscono abbastanza bene, nel modo che segue, naturalmente restando al livello guadagnato dalla prima tappa della « seconda navigazione », e anche a questo livello lasciando un grosso problema an" Cfr. Fedone, 100 c-d; dr. anche 74 d.
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cara aperto, come vedremo. a) Il sensibile è mimesi dell'intelligibile perché lo imita, pur senza mai riuscire ad eguagliarlo (ne] suo divenire continuo s'avvicina, crescendo, al modello ideale e poi se ne allontana corrompendosi). b) Il sensibile, nella misura in cui realizza la propria essenza, partecipa, cioè ha parte dell'intelligibile (e, in particolare, è proprio per questo suo aver parte dell'Idea che è, ed è conoscibile). c) Si può dire che il sensibile abbia una comunanza, cioè una tangenza, con l'intelligibile, giacché questo è causa e fondamento di quello: quanto il sensibile ha di essere e di conoscibilità lo desume dall'intelligibile, e, nella misura in cui ha questo essere e questa intelligibilità, ha « comunanza » con ]'intelligibile. d) Infine, si può ~nche dire che l'intelligibile è presente nel sensibile, nella misura in cui la causa è nel causato, il principio è nel principiato, la condizione è nel condizionato. In questo modo la terminologia platonica diviene chiara. E chiaro diviene il celebre termine « paradigma », ossia « modello », con cui Platone designa il ruolo delle Idee nei confronti dei sensibili che le « imitano » e che ne sono quasi « copie ». Platone esprime col termine « paradigma » quella che, con linguaggio moderno, si potrebbe chiamare la « normatività antologica » dell'Idea, cioè il come le cose devono essere, ossia il dover essere delle cose. L'Idea di santo è « paradigma » perché esprime come le cose o le azioni debbano essere fatte ed essere per venir dette sante; l'ldea di bello è « paradigma » perché esprime come le cose debbano essere formalmente strutturate per essere e venir dette belle, e cosi via 33 • In questa concezione restava aperto, oltre al problema protologico del rapporto dell'Uno e dei Molti, anche quel problema che la mappa metafisica del Pedone presenta co33 Cfr. Eutifrone, 6 d-e, e la nostra introduzione e il nostro commento a questo dialogo (Editrice La Scuola, Brescia 1984').
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me essenziale (e da cui addirittura parte la «seconda navigazione »), ma che poi lascia irrisolto: il rapporto fra le cose e le Idee non può venir concepito come immediato, e pertanto occorre un mediatore, ossia un principio che operi la imitazione, assicuri la partecipazione, metta in atto la presenza e fondi la comunanza. È, questo, il grande problema dell'Intelligenza ordinatrice e della sua funzione. Evidentemente, come vedremo meglio più avanti, Platone possedeva una perfetta soluzione del problema già quando scriveva il Pedone, tanto è vero che la anticipò in numerosi dialoghi immediatamente posteriori al Pedone, a partire dalla Repubblica, ma la formulò con maggiore ampiezza, secondo uno schema divenuto classico, nel Timeo. La mediazione fra il sensibile e l'intelligibile è opera di una Intelligenza suprema, che viene associata all'immagine divenuta classica del « Demiurgo », ossia l'immagine di un Artefice il quale plasma il Principio materiale (una spazialità indeterminata, una sorta di sostrato o di eccipiente informe), in funzione del « modello » delle Idee, facendo sl che ciascuna cosa assomigli, imiti, il più perfettamente possibile, il suo « paradigma ideale ». Ma, se non si tengono presenti le larghe infiltrazioni di carattere protologico, non si arriva a fondo nella soluzione di questo problema. Platone chiamerà in causa, soprattutto nel Pilebo, le categorie metafìsiche del limite, dell'illimite, della loro mescolanza e della causa della mescolanza, per spiegare l'opera esercitata dalle Idee sulla chora indeterminata (sul sostrato di tipo materiale), e quindi per spiegare che le cose nascono da questa « mescolanza», ad opera della causa operante la mescolanza, la quale è appunto l'Intelligenza demiurgica. E questa operazione è, in ultima analisi, l'azione determinante esercitata daN'Uno sull'indeterminato molteplice ad opera dell'Intelligenza; e la « mescolanza » che ne deriva è l'unità-nella~molteplicità, come vedremo. Del resto, nello stesso Timeo Platone ci rivela espressamente quanto segue:
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[ ... ] Dio possiede la scienza e ad un tempo la potenza per mescolare molte cose in unità (-rà 1toÀ.À.à Etç ~v) e di nuovo per scioglierle dall'unità in molte (Éç ÈvÒç Etç 1tO.À.À.ci); ma nessuno degli uomini ora sa fare né l'una né l'altra cosa, né mai lo saprà in avvenire 34 •
Chiunque ci abbia fin qui seguito avrà compreso in maniera adeguata che, per poter risolvere i vari problemi che la teoria delle Idee solleva e che abbiamo messo a tema, bisogna affrontare e risolvere a tutto tondo proprio il grande problema della protologia ossia della metafisica non scritta di Platone. E appunto a questo dobbiamo ora dedicare la nostra attenzione.
,. Timeo, 68 d.
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III. LE « DOTTRINE NON SCRITTE
»
DEI PRINCIPI PRIMI E
SUPREMI E I GRANDI CONCETTI METAFISICI AD ESSE CONNESSI
l. I Principi primi identificati con l'Uno e con la Diade di grande-e-piecolo È venuto, ora, il momento di affrontare quel « postulato » supremo, di cui parla la mappa metafisica tracciata da Platone nel Pedone e che la Repubblica (considerandolo come vertice di tutti i postulati) pone al di sopra dei postulati stessi 1, che coincide con quelle « cose di maggior valore » di cui parla il Fedro, ossia con i Principi primi e supremi riservati alla oralità dialettica. A queste « Dottrine non scritte » abbiamo già fatto sopra più volte riferimento; e qui dovremo tracciarne in sintesi le linee essenziali, perché solo alla luce di esse l'antologia delle Idee (e di conseguenza l'intero pensiero di Platone) può acquistare senso compiuto. Un buon avvio alla· comprensione preliminare del discorso protologico, può essere fornito da un rilievo generale concernente una caratteristica essenziale del modo di pensare dei Greci. Una convinzione basilare, che innerva tutta la filosofia precedente a Platone, consiste nella convinzione secondo la quale spiegare significa unificare. Questa convinzione sorregge, in primo luogo, il discorso di tutti ' Fedone, 101 e; Repubblica, vr, 510 h; 511 b.
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i Fisici, i quali procedono a spiegare la molteplicità dei fenomeni riguardanti il cosmo, appunto riducendola all'unità di un principio, o di alcuni principi, unitariamente concepiti, e raggiunge l'espressione estrema (ma proprio per questo assai istruttiva) nelle dottrine degli Eleati, i quali risolvono nell'unità la totalità dell'essere, sfociando in un vero e proprio monismo radicale. Ma tale convinzione sorregge anche il discorso socratico, imperniato per intero sulla domanda « che cos'è », la quale implica in generale la riduzione sistematica di ciò che è oggetto di discussione ad una unità. E in particolare, nell'ambito dell'etica (cui Socrate dedicò il suo interesse principale) ciò che stiamo illustrando si rende evidentissimo: tutte le complesse manifestazioni caratterizzanti la vita morale e politica venivano ridotte appunto all'unità della virtù, la quale, a sua volta, veniva ridotta, come è ben noto, a scienza (le molte virtù si spiegavano con la riduzione ad una unica essenza, consistente appunto nella unità della vera conoscenza 2). Orbene, la dottrina stessa delle Idee di Platone, nel suo complesso, è nata esattamente da una analoga convinzione e da una cospicua accentuazione dell'importanza della funzione della visione sinottica, cui approda l'operazione metodica della « unificazione » del molteplice che si intende spiegare. La pluralità delle cose sensibili si spiega, precisamente, mediante la riduzione sinottica all'unità dell'Idea corrispondente. Senonché - come sopra abbiamo già precisato -, la teoria delle Idee mette capo ad una ulteriore pluralità, sia pure sul nuovo piano metafisica dell'intelligibile. Infatti, se i molti uomini sensibili sono unificati e spiegati dalla corrispondente Idea di uomo, i molti alberi dall'Idea di albero, le molte manifestazioni del bello dall'Idea di bello, e se cosl è per tutte quante le realtà empiriche che noi indichiamo con lo stesso nome, allora è evidente che la ' Cfr. volume
I,
pp. 311 sgg.
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molteplicità sensibile risulta semplificata e risolta dalle Idee intelligibili; ma la molteplicità intelligibile} a sua volta} non viene di per sé risolta. Si tenga inoltre presente che Platone ammette Idee non solo per quelle cose che chiamiamo realtà sostanziali (uomo, animali, vegetali, ecc.), ma anche per tutte le qualità e per tutti gli aspetti delle cose raggruppabili sinotticamente (bello, grande, doppio, e cosl via), sicché il pluralismo del mondo defle Idee (ossia il pluralismo delle realtà intelligibili) risulta veramente assai cospicuo, come già Aristotele ·sottolineava in maniera molto marcata 3 • È evidente, allora, che la teoria delle Idee non poteva costituire il livello di spiegazione ultimativa. Infatti, il « molteplice » sensibile si spiega con un « molteplice » intelligibile; ma questo, a sua volta, appunto in quanto « molteplice », richiede una ulteriore spiegazione; di conseguenza, si impone la necessità di risalire ad un secondo livello di fondazione metafisica. Ebbene, nei suoi dialoghi e per quei lettori che si limitavano alla lettura dei medesimi, Platone ha ritenuto che il primo livello di fondazione metafisica fosse sufficiente, giacché, una volta guadagnata la teoria delle Idee, le varie dottrine che egli affidava agli scritti risultavano abbastanza giustificate. Ma con gli allievi e all'interno dell'Accademia, al fine di risolvere i problemi che la teoria stessa delle Idee sollevava, egli fece oggetto di discussione, ed in maniera assai considerevole, proprio il secondo livello di fondazione. Si realizzava, in questa maniera, anche l'ultimo tratto della « seconda navigazione » e si attuava il suo momento conclusivo, appunto secondo il piano tracciato nella mappa metafisica del Pedone. Lo schema di ragionamento che sorregge la duplicità di livello di fondazione metafisica è il seguente. Come la sfera del molteplice sensibile dipende dalla sfera delle Idee, cosl, analogamente, la sfera della mol' Cfr. Aristotele, Metafisica, M 4, 1078 b-1079 a.
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teplicità delle Idee dipende da una ulteriore sfera di realtà, da cui derivano le Idee, e questa è la sfera suprema e prima in senso assoluto. Questa sfera è costituita, pertanto, dai
Principi primi (che sono l'Uno e la Diade indefinita, di cui parleremo subito sotto). Platone li chiamava espressamente, come sappiamo, 'tà. lixpa. xa.t 1t p w't a. \ ed è proprio per questo motivo che noi proponiamo di chiamare protologia (discorso intorno ai Principi primi) la dottrina che di essi si occupa. Questa dottrina contiene la fondazione ultimativa, perché spiega quali siano i Principi da cui scaturiscono le Idee (che a loro volta spiegano le restanti cose), e pertanto fornisce la spiegazione della totalità delle cose che sono. È chiaro, dunque, in che senso ontologia delle Idee e protologia o teoria dei Principi costituiscano due distinti livelli di fondazione, due piani successivi dell'indagine metafisica, vale a dire due tappe della « seconda navigazione ». Ecco tre delle testimonianze basilari: Poiché, quindi, le Forme [ = Idee] sono cause delle altre cose [primo livello], Platone ritenne che gli elementi costitutivi delle Forme fossero gli elementi di tutti gli esseri. Come elemento materiale delle Forme [ = Idee] egli poneva il Grande-e-piccolo, e come causa formale l'Uno [secondo livello] 5 • E anche Platone, nel riporta·re le cose ai principi, potrebbe sembrare che tratti delle cose sensibili collegandole alle Idee [primo livello], e queste, a loro volta, ai numeri, e che da questi risa·lga ai principi [secondo livello], e che poi discenda attraverso la generazione, fino alle cose di cui si è detto 6 • Risulta dunque chiaro, da quanto si è detto, che i principi dei corpi coglibili col solo pensiero debbono essere incorpo• Lettera VII, 344 d. ' Aristotele, Metafisica, A 6, 987 b 18-21 (Gaiser, Test. Plat., 22 A Kriimer, 9). ' Teofrasto, Metafisica, 6 b 11-16 (Gaiser, Test. Plat., 30 = Kriimer, 8).
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rei. Se, pertanto, ci sono enti incorporei che esistono anteriormente ai corpi, non per questo essi sono senz'altro necessariamente elementi delle cose che esistono e principi primi. Consideriamo, ad esempio, come le Idee, che secondo Platone sono incorporee, preesistano ai corpi, e come ciascuna cosa che si genera si generi sulla base di rapporti con esse [primo livello]. Orbene, ciononostante, esse non risultano principi primi delle cose, dal momento che ciascuna Idea considerata singolarmente si dice che è una, mentre considerata insieme ad un'altra o a più altre, è detta due, tre, quattro, cosicché deve esistere qualcosa che è ancora al di sopra della loro realtà, ossia il numero, per partecipazione al quale l'uno, il due, il tre o un numero maggiore si predica di esse. [ ... ] I principi degli esseri sono dunque due, la prima unità, per partecipazione alla quale tutte le unità che si contano sono concepite appunto come unità e la dualità indeterminata per partecipazione alla quale tutte le dualità determinate sono appunto dualità [secondo livello] 7 •
Il problelna metafisica per eccellenza è, per i Greci, come sopra dicevamo, il seguente: « perché ci sono i molti? », ovvero « perché e come dall'Uno derivano i molti? » 8 • E la novità che Platone apporta a livello di protologia, sta, appunto, proprio in questo tentativo di « giustificazione » radicale e ultimativa della molteplicità in generale in funzione dei Principi dell'Uno e della Diade indefinita e della loro struttura bipolare. La « Diade » o « Dualità indeterminata » non è, ovviamente, il numero due, così come l'Uno nel senso di Principio non è il numero uno. Ambedue questi Principi hanno statura metafisica, e quindi sono meta-matematici. In par' Sesto Empirico, Contro i Matematici, x, 258 e 262 (Gaiser, Test. Plat., 32 = Kramer, 12). ' Eraclito, ricordiamolo, diceva proprio questo: « [ ... ] da tutte le cose l'uno e dall'uno tutte le cose » (Diels-Kranz, 22 B 11 ), frammento che nel primo volume abbiamo scelto addirittura come epigrafe della trattazione della filosofia presocratica alle sue origini (dr. vol. I, p. 51), e più volte fece richiamo all'Uno.
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ticolare rileviamo che la « Diade », è Principio e radice della molteplicità degli esseri. Essa è concepita come dualità di grande-e-piccolo nel senso che è infinita grandezza e infinita piccolezza, in quanto è tendenza all'infinitamente grande e all'infinitamente piccolo. È appunto per questa duplicità di direzione (infinitamente grande e infinitamente piccolo) che essa viene chiamata «Diade infinita» o « indefinita », e, di conseguenza, è altresl qualificata come dualità di molto-e-poco, di più-e-meno, di maggiore-e-minore, e come strutturale diseguaglianza. Con una terminologia più specifica e tecnica, anche se non usata espressamente da Platone, potremmo dunque dire che la Diade è una sorta di « materia intelligibile », almeno ai più alti livelli (esclusa, cioè, la sfera cosmologica, nella quale la Diade diventa materia sensibile, come vedremo). Essa è una molteplicità in-determinata e in-definita, la quale, fungendo come sostrato all'azione dell'Uno, produce la molteplicità delle cose in tutte le sue forme; e, dunque, oltre che Principio di pluralità orizzontale, è Principio anche della gradazione gerarchica del reale. Il problema da cui siamo partiti, dunque, si risolve in questo modo: la pluralità, la differenza e la gradazione degli enti nascono dall'azione dell'Uno che determina il Principio opposto della Diade, che è una molteplicità indeterminata. I due Principi sono, pertanto, ugualmente originari. L'Uno non avrebbe efficacia produttiva senza la Diade, anche se risulta gerarchicamente superiore alla Diade. Per l'esattezza dobbiamo dire che sarebbe di per sé impreciso parlare di due Principi, se si intendesse il due in senso aritmetico. Infatti, essendo i numeri posteriori ai Principi e da essi derivati, non si possono applicare ai Principi se non in senso metaforico. Dunque, si dovrà parlare di due Principi, intendendo il « due » in senso prototipico. Sarebbe più esatto parlare, in questo caso, non di dualismo, bensì di « polarismo » o di « bipolarismo », in quanto un Principio esige l'altro in maniera strutturale.
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2. L 'e s s e r e c o m e dei due Principi
sin t esi
( m e sco l a n z a )
L'azione dell'Uno su1la Diade è una sorta di de-limitazione, de-terminazione e de-finizione dell'illimitato, dell'indeterminato, e dell'indefinito, o, come pare che Platone abbia anche detto, di egualizzazione del disegu~le 9 • Gli enti che derivano dall'attività dell'Uno sulla Diade sono pertanto una sorta di sintesi che si manifesta come unità-ne/fa-molteplicità, che è una de-finizione e de-terminazione dell'indefinito e indeterminato. È questo il fulcro della rprotologia platonica: l'essere è prodotto da due principi originari, e quindi è una sintesi, un misto di unità e molteplicità, di determinante e indeterminato, di limitante e illimitato. E su questo tema Platone si spingerà addirittura a presentare uno scorcio negli scritti, in particolare nel Filebo. Sullo status dell'Uno concepito come al di sopra dell'essere la documentazione della tradizione indiretta è scarsa. Ne parla una testimonianza, dicendo che l'Uno è « melius ente » 10 , ma Platone si spinge a darci il più cospicuo assaggio di questo punto proprio nel maggiore dei suoi scritti. Pertanto sul s1gnificato dello status metafisica dell'Uno (che coincide col Bene) inteso come al-di-sopra-dell'essere ritorneremo più avanti, interpretando le affermazioni platoniche che si trovano nella Repubblica, dove espressamente si definisce il Bene come É1tÉXELva. ·dj c; ovcrlcx.c; 11 • Invece sullo status della Diade come non-essere, ossia come al di sotto dell'essere, ci viene detto: Cosicché siffatta cosa viene detta instabile, informe, indefi• Cfr. Kriimer, Platone ... , pp. 155 sg. e i documenti a p. 156, nota 6. 10 Proclo, In Plat. Parm., pp. 38 sgg. Klibansky-Labowsky, parte pervenutaci solo nella traduzione di Guglielmo di Moerbeke (Gaiser, Test. Plat., 50). 11 Repubblica, vr, 509 b.
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nita e non essere in virtù della negazione dell'essere. Con questa non ha nulla e che fare né il principio né l'essenza, ma si muove in una situazione di disordine 12 •
Ma su un punto è necessario che insistiamo. Questa concezione dei due Principi supremi legati da nesso bipolare e la conseguente concezione dell'essere (a tutti i livelli, dal più alto al più basso) come una « mescolanza » di struttura sempre bipolare, rispecchiano in maniera perfetta, in dimensione metafisica, la caratteristica tipica del pensare dei Greci a tutti i livelli, in particolare a livello teologico, filosofico e morale. Se si esamina l'espressione più compiuta della teologia greca, quale è contenuta nella T eogonia di Esiodo, si noterà che fin dall'origine gli Dei e le forze cosmiche si dividevano in due sfere opposte, facenti capo a Caos e a Gaia, aventi rispettivamente, come è stato ben rilevato, le caratteristiche della « amorfità » e della « forma », le quali, appunto, con questa opposizione riassumono la totalità della realtà. Anche nella seconda fase della teogonia, ossia con l'avvento del regno di Zeus e quindi degli Dei olimpici, questa concezione di fondo risulta ben evidente. I Titani sconfitti da Zeus vengono precipitati nel Tartaro, che è il « contro-mondo polarmente opposto » all'Olimpo. Ma c'è di più. Ciascuno degli Dei risulta come un misto di forze aventi carattere polarmente opposto. Apollo, per esempio, ha addirittura come simboli tipici la dolce lira e l'arco con le frecce crudeli; Artemide è vergine e, insieme, protettrice delle partorienti, e cosl via. Inoltre, ogni divinità ha un'altra divinità polarmente contrapposta, come ad esempio Apollo ha polarmente contrapposto Dioniso; Artemide ha come polarmente contrapposta Afrodite, e cosl di seguito 13 • " Simplicio, In Arist. Phys., p. 248, 13-16 Diels (Gaiser, Test. Plat .. 31 = Kriimer, 13). " Si veda P. Philippson, Untersuchungen uber den griechischen
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Paula Philippson, perciò, ha giustamente affermato che « la forma polare » è la struttura di base della teogonia
greca e del' modo greco di pensare in generale. Leggiamo le sue conclusioni sull'argomento, che si attagliano in maniera perfetta all'ordine di pensieri che stiamo svolgendo e comprovano in modo eloquente, a nostro parere, la tesi che stiamo sostenendo. «La forma polare del pensiero vede, concepisce, modella e organizza il mondo, come unità, in coppie di contrari. Esse sono la forma in cui il mondo si presenta allo spirito greco, in cui questo trasforma e concepisce in ordinamenti e come ordinamenti la molteplicità del mondo. Queste coppie di contrari della forma polare del pensiero sono fondamentalmente differenti dalle coppie di contrari della forma di pensiero monistica o di quella dualistica, nell'ambito delle quali esse si escludono, oppure, combattendosi a vicenda, si distruggono, o, infine, conciliandosi, cessano di esistere come contrari [ ... ] . Nella forma di pensiero polare invece i contrari di una coppia non sono soltanto tra loro indissolubilmente collegati, come i poli dell'asse di una sfera, ma essi, nella loro più intima esistenza logica, precisamente cioè polare, sono condizionati alla loro opposizione: perdendo H polo opposto, essi perderebbero il loro stesso senso. Tale senso consiste appunto nel fatto che essi, come contrari - allo stesso modo dell'asse che li separa e tuttavia li collega - sono parti di una unità più grande che non è definibile esclusivamente in base a loro: per esprimersi in termini geometrici, essi sono punti di una sfera perfetta in sé. Questa forma polare del pensiero informa necessariamente ogni obiettivazione del pensiero greco. Perciò anche la visione greca del divino è formata nel suo segno » 14 • Mythos, Ziirich 1944; traduzione italiana con il titolo: Origini e forme del mito greco, Boringhieri, Torino 1983, passim. •• Philippson, Origini ... , pp. 65 sg.
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La concezione bipolare di cui stiamo parlando, costituisce davvero un asse portante del pensiero greco, come lo stesso Aristotele ha riconosciuto nella maniera più esplicita addirittura per il pensiero filosofico: Inoltre, una delle due serie dei contrari è privazione, e tutti i contrari si possono ricondurre all'essere e al non essere, all'uno e ai molti; per esempio, la quiete all'uno e il movimento al molteplice. Ora, quasi tutti i filosofi sono d'accordo nel ritenere che gli esseri e la sostanza siano costituiti da contrari; infatti tutti pongono come principi i contrari. Alcuni pongono come principi dispari e pari, caldo e freddo, altri ancora limite e illimite, altri, infine, amicizia e discordia. E anche tutti gli altri contrari si riducono manifestamente all'uno e ai molti (presupponiamo questa riduzione già operata da noi altrove); quindi anche i principi degli altri filosofi si riducono interamente a questi due generi 15 •
Naturalmente, oltre che sul pensiero filosofico, noi potremmo richiamare l'attenzione anche sul pensiero morale dei Greci, soprattutto come esso era espresso nei Sette Savi e nei poeti gnomici, in cui questa polarità e sintesi strutturale di principi opposti risulta evidente. Le massime « usa misura », «nulla di troppo », « il meglio sta nel mezzo », « la misura è la cosa migliore », presuppongono in maniera precisa ed essenziale un « limite » opposto ad un « illimite » (quest'ultimo costituito dall'eccesso e dal difetto), ossia una visione sintetica polarmente connotata. Tesi, questa, che lo stesso Aristotele sfrutterà ampiamente nella sua celebre dottrina delle « virtù etiche ». In conclusione, la teoria platonica dei Principi, proprio con le caratteristiche che abbiamo sopra illustrato, rappresenta davvero la dottrina filosofica più alta e il modo più tipico e più profondo del pensare in generale dei Greci e del
" Aristotele, Metafisica,
r
l, 1004 h 27 - 1005 a 2.
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PLATONE E LA SCOPERTA DEL SOPRASENSIBILE
loro stesso immaginare e sentire, e, pertanto, esprime veramente la cifra suprema della spiritualità della Grecità. 3.
La
divisione
categoriale
del
reale
Dai due Principi supremi, dunque, derivano i Numen ideali, così come le Idee, che hanno struttura numerica, e, di conseguenza, tutte le cose. Tuttavia Platone non si è limitato a questa deduzione, e, a guisa di riprova, ossia come argomentazione di rincalzo essenziale, ha presentato anche uno schema genera'le di divisione categoriale dell'intera realtà allo scopo di dimostrare come tutti gli esseri siano effettivamente riportabili ai due Principi, in quanto derivano dalla loro mescolanza. Si tratta di una argomentazione di importanza teoretica e storica notevolissima, perché, oltre a chiarire la linea di fondo delle « Dottrine non scritte », sta anche alla base della successiva dottrina delle categorie di Aristotele (che da essa trae una ispirazione di fondo, anche se la piega in una differente direzione). Questa divisione categoriale è attestata da buone fonti 16 , ed anche in modo piuttosto esteso, e fa anche comparse abbastanza scoperte negli stessi dialoghi. Ecco lo schema sinottico: l) esseri per sé
Gli esseri si suddividono in:
(esempi: uomo, cavallo, terra, acqua, ecc.) 2) esseri che sono in rap-
porto ad altro. Si suddividono in:
2a) opposti contrari (esempi: uguale-disuguale, immobile-mosso, convenientesconveniente, ecc.) 2b) correlativi (esempi: grande-piccolo, alto-basso, destro-sinistro, ecc.)
" Soprattutto da Sesto Empirico, Contro i Matematici, x, 263 sgg. (Gaiser, Test. Pat., 32 = Kriimer, 12); Simplicio, In Arist. Phys., pp. 247,
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Può sorprendere, di primo acchito, la distinzione fra contrari (2a) e correlativi (2b), dato che ambedue sono esseri-in-relazione-ad-altro. Ma i primi si distinguono nettamente dai secondi: infatti i contrari non possono coesistere insieme, e la scomparsa di uno dei contrari coincide con il prodursi dell'altro (si pensi ad esempio alla vita e alla morte, al mobile e all'immobile); per contro i correlativi sono caratterizzati dal coesistere e dallo scomparire insieme (non c'è l'alto se non c'è il basso, non c'è il destro senza il sinistro, e così di seguito). Inoltre, i primi non ammettono un termine medio (non c'è un medio fra vivo e morto, fra mobile e immobile); i secondi, invece, lo ammettono (fra il grande e il piccolo c'è di mezzo l'uguale, fra il più e il meno c'è di mezzo il sufficiente, fra l'acuto e il grave c'è di mezzo l'armonico). Infine è da rilevare che questa distinzione categoriale, e quindi queste diverse categorie, non sono pure distinzioni logiche ed astratte, bensì conoscenze della struttura stessa dell'essere. E lo stesso vale, ovviamente, anche per gli opposti correlativi, sia a livello generale, sia a livello particolare. Ci troviamo, di conseguenza, di fronte a Idee generalissime. Il procedimento di questa distinzione categoriale degli esseri si basa su uno schema di rapporti, tipico del mondo ideale, che sale dalle speci ai generi, ossia verso il sempre più universale, secondo la scansione che segue. l ) Gli « esseri per sé » (o sostanziali) cadono sotto il genere dell'Unità. Infatti gli esseri in sé o sostanziali sono esseri perfet·tamente differenziati, definiti e determinati, e ogni cosa è differenziata, definita e determinata appunto nella misura in cui è una (ossia per l'adeguata azione dell'Uno).
30 sg. Diels (Gaiser, Test. Plat., 31 = Kramer, 13); vari passi da Divisiones Aristoteleae (Gaiser, Test. Plat., 43 e 44 = Kramer, 27-31).
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PLATONE E LA SCOPERTA DEL SOPRASENSIBILE
2a) Gli esseri che sono fra loro in rapporto di « opposizione di contrarietà », ossia i contrari, rientrano nei generi dell'« uguale» e del «disuguale» (diverso). H primo dei membri di questa serie non soggiace al « più e meno », mentre il secondo vi soggiace. Ad esempio, mentre ciò che è immobile non può essere più o meno immobile, e analogamente il conveniente non può essere più o meno conveniente, ciò che è mosso può essere più o meno mosso, cosl come ciò che è sconveniente può essere più o meno sconveniente. Ulteriormente l'« uguale » si riporta all'Uno, per il motivo che l'Uno rappresenta l'uguale a se medesimo in maniera primaria. Il « disuguale », invece, in quanto implica il più e il meno, implica anche l'eccesso e il difetto, e, dunque, è riportabile al Principio della Diade indefinita. 2b) Gli esseri che costituiscono coppie di «correlativi »
implicano un riferimento all'« eccesso e difetto >>, essendo la loro relazione reciproca non definita strutturalmente, in quanto ciascun termine può crescere o decrescere, e quin· di diventare « più o meno ». Per esempio, nella coppia « grande e piccolo » il primo termine può essere « più o meno » del come è in un dato momento, e cosl anche il secondo. Lo stesso vale per l'« alto e basso » e per gli altri correlativi. Infatti, questo tipo di rapporto si basa sulla indeterminatezza dei due termini. Questi esseri sono posti sotto il genere dell'« eccesso-e-difetto». E l'« eccesso-e-difetto», come sappiamo, si riporta al Principio della Diade indefinita. È appena il caso di rilevare che la riduzione ai Principi sopra precisata non implica che alcuni enti dipendano solamente dal primo principio e che altri dipendano solamente dal secondo, perché tutto ciò che è posteriore ai Principi implica mescolanza e sintesi di ambedue. Essa implica, piuttosto, che in alcuni enti prevalga l'azione del primo Principio (ossia dell'Uno), mentre in altri enti prevalga l'azione
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del secondo (ossia della Dualità indeterminata). In ogni caso, l'unità resta il costitutivo antologico fondamentale, anche nel suo differente grado di prevalenza sul Principio opposto 17 •
4. Numeri del reale
id eali e
s t r u t tura
numeri c a
Un altro punto, che è stato sempre di grave ostacolo alla comprensione della protologia platonica, è costituito dalia dottrina dei Numeri ideali e dalla tipica riduzione platonica delle Idee a Numeri, ossia dalla concezione delle Idee come Idee-Numeri. Sappiamo che questa connessione fra le Idee e i Numeri ideali non ebbe luogo in coincidenza con la scoperta della teoria delle Idee, ma successivamente 18 • Verosimilmente ebbe luogo insieme aHa formulazione sistematica e globale della teoria dei Principi, ossia quando Platone fu in grado di fornire la fondazione protologica della sua antologia delle Idee. Un primo chiarimento eviterà una serie di confusioni e di equivoci. I Numeri ideali dei quali stiamo occupandoci non sono quelli matematici, ma quelli metafisici: sono, cioè, ad esempio, il Due come essenza della dualità, il Tre come essenza della trialità, e così .di seguito. I Numeri ideali sono, quindi, le essenze dei numeri matematici e come tali sono " II primo studioso che ha debitamente spiegato e rivalutato questa dottrina è stato P. Wilpert, Zwei aristotelische Friihschriften iiber die Ideenlehre, Regensburg 1949. Si vedano, inoltre: Kriimer, Arete... , pp. 282-379; 438 sgg.; Kriimer, Platone ... , pp. 159 sg.; Gaiser, Platons ... , pp. 24 sg.; 73-88; 177 sg.; Gaiser, Quellen.kritische Probleme der indirekten Platoniiberlieferung, in: AA.VV., Idee und Zahl. Studien zur platonischen Philosophie, Heidelberg 1968, pp. 31-84 e specialmente pp. 63 sgg.; Reale, Platone ... , pp. 261 sgg. " Cfr. Aristotele, Metafisica, M 7, 1078 b 7-12; dr. quanto diciamo in Platone ... , pp. 244 sg.
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PLATONE E LA SCOPERTA DEL SOPRASENSIBILE
perciò « inoperabili », ossia non sottoponibili ad operazioni aritmetiche. Essi hanno quindi uno status metafisica, differente da quello dei numeri matematici, appunto per il motivo che non rappresentano semplicemente dei numeri, ma costituiscono l'essenza dei numeri. Di conseguenza, non ha senso, per esempio, sommare l'essenza del due con l'essenza del tre, e sottrarre l'essenza del due dall'essenza del tre, e cosl di seguito. I Numeri ideali costituiscono, pertanto, dei supremi modelli ideali. Inoltre, i Numeri ideali sono presentati come « primi generati », perché (come è stato ben rilevato dagli studiosi), essi rappresentano in forma originaria, e cioè paradigmatica, quella struttura sintetica di unitànella-molteplicità che caratterizza tutti i differenti piani del reale e tutti gli enti a tutti i livelli. L'essenza del Numero ideale consiste in una determinazione e delimitazione specifica prodotta dall'Uno sulla Diade che è una molteplicità indeterminata e illimitata di grande-e-piccolo. Precisato questo, possiamo chiarire una serie di punti chiave per la comprensione di questa difficile dottr1na. a) Fra Idee e Numeri c'è una stretta connessione, ma non una identificazione antologica totale. b) Ciascuna Idea non si riduce ad un preciso Numero. Platone non segue una via di carattere aritmologico o aritmosofico, e non risulta condizionato da una sorta di mistica numerica. Questa dottrina appartiene ai Pitagorici e soprattutto ai Neopitagorici, mentre la via seguita da Platone risulta di carattere fortemente razionalistico. c) Questa dottrina platonica non può essere interpretata sulla base del concetto moderno di numero intero, esprimente una determinata quantità, oltre che come pura astrazione concettuale. O. Top1itz ha dimostrato che per i Greci il numero va sempre pensato non tanto come numero intero, ossia come una sorta di grandezza compatta, bensl come un rapporto articolato di grandezze e di frazioni di grandezze, di logoi, di analoghiai. Se cosl è, il logos greco risul-
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ta essenzialmente collegato con la dimensione numerica, e significa pe,rtanto fondamentalmente «rapporto». Di conseguenza, per i Greci risulta del tutto naturale tradu"e fe « relazioni » in « numeri », e indicare con numeri le relazioni, appunto per questa connessione sussistente fra numero e rapporto 19 • Sulla base di queste precisazioni, ecco quale è la soluzione della difficoltà intorno a cui stiamo discutendo. Ciascuna Idea risulta collocata in una precisa posizione nel mondo intelligibile, a seconda della sua maggiore o minore universalità e a seconda della forma più o meno complessa dei rapporti che essa intrattiene con altre Idee (che stanno aJl di sopra o al di sotto di essa). Questa trama di rapporti, dunque, può essere ricostruita e determinata mediante la dialettica, e, per le ragioni spiegate, può essere espressa «numericamente» (dato, appunto, che il numero esprime un rapporto). Dunque, nella concezione del numero· come « rapporto » (logos) sta la chiave per poter leggere e intendere questo punto veramente delicatissimo delle « Dottrine non scritte ». d) I Numeri ideaH non moltiplicano gli enti aH'invs;:rosimile, senza una adeguata ragione. Aristotele, in effetti, ci dice espressamente che Platone nella generazione dei numeri ideali « si spingeva fino alla Decade » 20 • Pertanto, egli subordinava alla Decade e ad essa collegava i processi deduttivi di tutti gli altri numeri. Pr<;>babilmente egli riduceva i numeri interi (ma anche questi concepiti in modo articolato) alla Decade, e intendeva tutti gli altri numeri come logoi, nel senso sopra precisato. " O. T
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Anche questa dottrina, cosi come la dottrina dei Principi primi, lungi dal rappresentare deviazioni del pensiero di Platone, o fraintendimenti dei discepoli, rappresenta un vertice metafisica, che rivela in maniera teoretica una delle cifre più emblematiche dello spirito dei Greci. Friedlander, per spiegare la teoria delle Idee dei dialoghi e la dimensione « visiva » che essa implica, ha scritto (come abbiamo già ricordato) che « Platone possedeva [ ... ] l'occhio plastico dell'Elleno, un occhio di ugual natura di quello con cui Policleto ha visto il canone [ ... ] ed anche della stessa natura di quello che il matematico greco volgeva alle pure forme geometriche » 21 • Ebbene, proprio questo, a nostro avviso, vale, e ancora di più, per la riduzione delle Idee a Numeri, come l'arte dei Greci ci dimostra in maniera perfetta. Infatti l'architettura e la scultura si fondavano, in Grecia, su un « canone » (corrispondente al nomos, ossia alla legge che regolava la musica), il quale esprimeva (contrariamente a quelli vigenti nell'ambito delle altre civiltà) una « regola di perfezione » essenziale, che gli Elleni indicavano in una proporzione perfetta esprimibile in maniera esatta con numeri. Du·nque, la « forma ( = Idea) », che in vario modo viene realizzata nelle arti plastiche, per i Greci era riducibile a proporzione numerica e a numero. Anzi la perfezione della figura e della forma ritratta nella scultura era collegata oltre che con i rapporti numerici deHe parti fra di loro e delle parti con il tutto, anche con le figure geometriche. Si ricordi, ad esempio, la celebre rappresentazione diventata classica e designata con l'espressione homo quadratus (in greco tivl)p "t'E"t'ptiywvoç), che includeva in modo perfetto l'uomo in un quadrato e questi in un cerchio, con centro nell'ombelico. Anche nell'arte va-scolare esistevano canoni espressi in proporzioni numeriche, che regolavano i rapporti fra al21
Friedliinder, Platon ... , p. 13 (trad. it., p. 15).
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tezza e larghezza, e andavano da'l più semplice ad altri più complessi che rispecchiavano la proporzione della sezione aurea, largamente utilizzata anche nelle costruzioni degli edifici e delle statue 22 • Ed ecco, allora, le conclusioni cui volevamo pervenire. L'occhio plastico del Greco non vedeva la Forma o Figura (Idea) come qualcosa di u:ltimativo; ma vedeva, al di là di essa, qualcosa di ulteriore, vale a dire il numero e il rapporto numerico. Si pensi, ora, di trasferire tutto questo sul piano raggiunto dalla « seconda navigazione » di Platone; si guadagnerà, in questo modo, la perfetta corrispondenza a livello metafisica di ciò che gli artisti greci hanno espresso con le loro creazioni. Le Idee, che esprimono le forme spirituali e le essenze delle cose, non sono la ragione ultimativa delle cose, ma suppongono un alcunché di ulteriore, che consiste, appunto, nei Numeri e nei rapporti numerici, e, quindi, nei Principi supremi da cui derivano gli stessi Numeri e gli stessi rapporti numerici.
5.
Le
reahà
matematiche
Abbiamo sopra precisato che i Numeri ideali (cosl come le Idee, le quali, avendo una struttura numerica, sono tutte quante qualificabili come Idee-numeri) sono molto differenti dai numeri e dagli oggetti matematici in generale, i quali occupano un posto antologicamente « intermedio » {IJ.E'ta.!;u) ossia un posto che sta a mezzo fra gli enti ideali e gli enti sensibili. Ecco una testimonianza molto importante di Aristotele:
" Su questi temi si vedano le eccellenti pagine di W. Tatarkiewicz, History of Aesthetics, vol. 1: Ancient Aesthetics, The Hague-Paris-Warszawa 1970 (traduzione italiana Einaudi, Torino 1979), passim.
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PLATONE E LA SCOPERTA DEL SOPRASENSIBILE
Inoltre, Platone afferma che, accanto ai sensibili e alle Forme [ = Idee], esistono gli enti matematici intermedi (llE"ta!;,u) fra gli uni e le altre, i quali differiscono dai sensibili perché immobili ed eterni, e differiscono dalle Forme perché ve ne sono molti simili, mentre ciascuna Forma è solamente una e individua 23 • È questa una dottrina che di primo acchito sorprende,
ma che, in realtà, rientra perfettamente nel quadro generale del pensiero platonico. Questi enti matematici sono « intermedi », in quanto, da un lato, sono immobili ed eterni, appunto come lo sono le Idee (e i Numeri ideali), e, dall'altro, ve ne sono molti della medesima specie. Hanno quindi, ad un tempo, un carattere fondamentale delle Idee e un carattere che è tipico deHe cose sensibili, e per questo sono, appunto, « intermedi ». Platone li ha introdotti per i seguenti motivi. a) I numeri su cui opera l'aritmetica, cosi come le grandezze su cui opera la geometria, non sono sensibili, bensl intelligibili, come dimostrano le scienze che di essi si occupano. b) D'alt.ro canto, i numeri e le grandezze di cui si occupano l'aritmetica e la geometria non possono essere i Numeri ideali, né le Grandezze ideali, perché le operazioni aritmetiche implicano molti numeri uguali e le operazioni e dimostrazioni geometriche implicano numerose figure uguali e molteplici figure che sono variazioni della medesima essenza (ed esempio molti triangoli uguaoli e molti di tutte le fogge di cui si parla nelle dimostrazioni), mentre ciascuno dei Numeri ideali è unico, cosl come è unica ciascuna Figura ideale. Se si tiene presente questo, si s.piegano bene le conclusioni platoniche circa l'esistenza di enti matematici aventi caratteri « intermedi » fra il mondo intelligibile e il mondo sensibile. Gli enti matematici sono come le rea1tà intelligi23 Aristotele, Metafisica, A 6, 987 b 14-18 (Gaiser, Test. Plat., 22 A Kramer, 9). Sul problema si veda, nel volume v, la bibliografia s. v.
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bili, perché sono immobili ed eterni, mentre sono analoghi alle realtà sensibili, perché ve ne sono molti della medesima specie. Il cespite teoretico di questa dottrina è da ticercarsi nella convinzione radicatissima in Platone della corrispondenza struttura1mente perfetta fra conoscere ed essere (« rla stessa cosa è il conoscere e l'essere »24 ), per cui ad un determinato livello di conoscen2la di un determinato tipo deve necessariamente far riscontro un corrispettivo livello di essere. Pertanto, al livello di conoscenza matematica, che è superiore al livello di conoscenza sensibile, ma inferiore ~l livello di conoscenza dialettica, deve far riscontro un piano avente le rispettive connotazioni antologiche (nel nostro caso, si tratta dei molti numeri simili richiesti dalle operazioni, delle molte figure simili - i molti quadrati, i molti triangoli, e così via - richieste dalle operazioni e dimostrazioni geometriche). Questa « Dottrina non scritta » è essenziale per comprendere l'impianto gnoseologico platonico che si riscontra nei dialoghi (in particolare neHa Repubblica), sicché essa costituisce un tassello fondamentale del sistema. Essa, inoltre, fornisce un ottimo avvio alla conoscenza della rearltà medesima. E questo spiega perfettamente il grande ruolo conoscitivo che Platone attribuiva alla matematica nell'Accademia, al fine di preparare la mentalità dialettica. A buona ragione, dunque, Gaiser afferma quanto segue: « [ ... ] proprio perché le realtà matematiche in senso stretto stanno nel mezzo della struttura dell'essere e qui manifestamente riuniscono in sé le opposte proprietà di ciò che è subordinato e di ciò che è sovraordinato, nell'ambito degli oggetti matematici è possibirle vedere allo stesso modo un Modello dell'intera realtà » 25 • Naturalmente, si tratterà di " È il famoso frammento di Parmenide, Diels-Kranz, 28 B 3. 25
Gaiser, Platons ... , p. 89.
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un « modello » in senso analogico, in quanto matematica e metafisica rimangono ben distinte. Infatti, « la struttura dell'essere medesimo non è in modo speciale di tipo matematico; e considerate nel loro complesso le leggi matematiche non hanno il loro fondamento nell'ambito matematico, ma, in senso ultimativo, nei principi generali dell'essere» 26 • Insomma: Platone non ha matematizzato la metafisica, ma, al contrario, ha meta.fisicamente fondato, e, di conseguenza, ha metafisicamente utilizzato in chiave analogica la matematica.
26
Gaiser, Platons ... , p. 299.
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IV. LA METAFISICA DELLE IDEE ALLA LUCE DELLA PROTOLOGIA DELLE
« DOTTRINE NON SCRITTE » E LE ALLUSIONI
CHE PLATONE FA ALLA DOTTRINA DEI PRINCIPI
l. Gli interess·i pagati da Platone nella «Repubblica» intorno al Bene e il debito lasciato aperto
Nel passo di Hegel che sopra abbiamo letto\ si dice (e a buona ragione) che il filosofo non è in possesso dei propri pensieri come di cose esteriori, ma, al contrario, è posseduto da essi, e non può non esprimerli; pertanto, qualsiasi sia il suo modo di esprimersi, in esso risultano comunque contenuti i concetti di fondo. E appunto questo si è verificato anche nel caso di Platone: infatti, anche nei suoi scritti (oltre che nella dimensione deH'oralità), pur mantenendo la precisa determinazione di tacere alcune cose (o quantomeno di non esprimerle expressis verbis), egli ha fatto una serie di rimandi e di allusioni ad esse, e addirittura in una maniera sempre crescente, appunto per il motivo che nessun filosofo possiede le verità di fondo come cose estertort, e nessun filosofo le può mettere da parte e nascondere, perché ne è totalmente posseduto.
Resta, tuttavia, il fatto che noi oggi possiamo capire bene queste forti allusioni e questi continui rimandi solo sulla base dei « soccorsi » che sono apportati dalla tradizione indiretta. Konrad ~iser ha coniato una bellissima im' Cfr., sopra, p. 27.
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PLATONE E LA SCOPERTA DEL SOPRASENSIBILE
magine, che esprime molto bene il senso e la struttura del modo di parlare e di esprimersi per iscritto di Platone: « Il lettore [ ... ] deve sforzarsi di cogliere in questi scritti la verità non diversamente da come si sforza di intendere le sentenze degli oracoli. Si può applicare ai dialoghi platonici quel che Eraclito ha detto del Dio di Delfi: 'Non afferma, né nasconde, ma lascia intendere per cenni ' (cv-tE À.ÉyEL, cv-tE xptnt'tEL, à).).à crrn.r.aL'JEL ). Sono testi il cui significato si dischiude al lettore solo attraverso l'interpretazione e uno sforzo personale di assimilazione » 2 • E, naturalmente, si tratta di uno sforzo ,personale non solo portato avanti su basi soggettive, bensì su un fondamento oggettivo, ossia appunto alla luce di quello che la tradizione indiretta ci ha tramandato sulle « Dottrine non scritte », che ci aiuta molto a capire quel « dire » e « non dire », ma « alludere » con una serie di rimandi, che in tal modo diventano esemplari. Incominciamo dall'esempio più significativo, che è costituito dalla Repubblica, il capolavoro che riassume i guadagni di tutti gli scritti platonici anteriori, e getta le basi dei successivi. Ùl Repubblica nei suoi libri centrali contiene una trattazione I ntorno al Bene che entra direttamente proprio nel cuore delle tematiche riservate per la loro trattazione esplicativa globale al ciclo di lezioni tenute da Platone all'interno dell'Accademia e quindi alla dimensione della oralità. La tangenza fra lo scritto e il non scritto in questi Hbri risulta quindi basilare, e il gioco del non affermare né nascondere, ma dire mediante tutta una serie di allusioni, diventa veramente paradigmatico. Infatti Platone, dopo aver spiegato che, per capire a fondo la natura della giustizia e della virtù, bisogna raggiungere la giusta misura, e anzi la misura completa (ossia la misura suprema), e che quindi ' Gaiser, Platone come scrittore ... , p. 89; il frammento citato di Eraclito è in Diels-Kranz, 22 B 93.
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METAFISICA DELLE IDEE IN OTTICA PROTOLOGICA
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è necessario andare oltre a quello che ha detto nei pr1m1 cinque libri, precisa che è proprio questa la « conoscenza massima», per raggiungere la quale è necessario percorrere una «lunga via», che implica grande impegno e cospicua fatica. Tale « conoscenza massima ». che è il guadagno della massima precisione ed esattezza} è la conoscenza dell'Idea del Bene} da cui la giustizia e le virtù (e in genere ogni cosa) derivano il loro essere utili e giovevoli. Da essa, quindi, deriva ogni valore assiologico. Di conseguenza, è proprio sulla definizione di questa Idea, ossia sulla definizione delfessenza del Bene in sé e per sé} che i Hbri centrali della Repubblica dovrebbero concentrarsi. Invece, Platone rimanda ad altra volta e ad un differente piano. Dapprima, dice all'interlocutore che la dottrintcl sul Bene l'ha « sentita » da lui « non poche volte », anzi addirittura « molte volte »; e siccome nessun dialogo anteriore al.Ja Repubblica parla dell'Idea del Bene, le « molte volte » in cui Platone ne ha parlato si riferiscono ovviamente alla « oralità » (all'aver sentito » appunto in questa dimensione). Ecco il passo molto significativo: - Ti ricordi, dissi, che dopo aver distinto le tre forme dell'anima, ne abbiamo dedotto, a proposito della giustizia e della temperanza e della fortezza e della saggezza, che cosa sia ciascuna? - Se non me lo ricordassi, disse, non meriterei di sentire le rimanenti cose. E anche ciò che è stato detto prima di queste cose? - Che cosa? - Dicevamo, ad un certo punto, che per poterle vedere nel modo più bello, si doveva fare un altro giro più lungo compiuto il quale ci sarebbero risultate evidenti, ma che era altresl possibile connettere a ciò che si era detto prima conseguenti dimostrazioni. E voi avete detto che questo era sufficiente, e in questo modo sono state dette le cose di allora, come mi pareva, con difetto di esattezza; se però per voi sono state dette in maniera sufficiente, questo lo potrete dire voi.
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PLATONE E LA SCOPERTA DEL SOPRASENSIBILE
- Per me, disse, sono state dette in giusta misura (IJ.E-rpCwc;); e così pareva anche agli altri. - Ma o amico, dissi, una misura (!J.É-rpo'll) di cose di questo
genere, la quale lasci indietro una qualsiasi parte dell'essere, non risulta veramente una giusta misura (IJ.E-rpCwc;): infatti nulla di incompiuto può essere misura ((..Li-rpo'll) di nulla. Eppure talora sembra a qualcuno che questo sia sufficiente e che non si debba cercare più oltre. - E veramente, disse, molti si trovano in queste condizioni per loro indolenza. Naturalmente, disse. - Per la via più lunga, dunque, o amico, disse, costui dovrà andare, e dovrà faticare nell'apprendimento non meno che negli esercizi ginnici; se no, come ora dicevamo, non verrà mai a capo di quella conoscenza massima, che a lui conviene in grado supremo ( -rov !J.EyCcrnv -rE xcxt !J.aÀ.Lcr-rcx 1tpo~xo'll-roc; !J.CX8i)!J.CXne;) . . - E non sono queste le cose massime (!J.ÉYLCT-rcx), disse, ma c'è qualcosa che è ancora maggiore della giustizia e delle cose che abbiamo trattato? - C'è qualcosa ancora maggiore, dissi, e di queste medesime cose non bisogna considerare come ora solamente lo schizzo, e invece non bisogna trascurare la più perfetta esecuzione. O non sarebbe ridicolo sforzarsi per altre cose di scarso valore e far di tutto affinché riescano in grado sommo precise e senza difetti, e delle cose medesime non ritenere che debba essere massima anche la precisione? - Certamente, disse, ma riguardo a questa conoscenza massima e ciò su cui tu dici che verte, credi forse che ci sia qualcuno che ti lascerà andare, senza domandarti che cosa sia? - No di certo, dissi, ma interroga anche tu. In ogni modo l'hai già sentito non poche volte; ma ora non ci rifletti, o stai pensando di darmi fastidio, facendo obiezioni. E io sono piuttosto convinto di questo: i n fa t t i c h e l ' I d e a d e l B e n e (i) -rov ciycx8ov UUcx) s i a l a c o n o s c e n z a m a s si ma (!J.ÉYLCT"t"O'II !J.a~!J.CX), servendosi della quale le cose giuste e le altre diventano utili e giovevoli, l'hai sentito dire molte volte. Ed anche ora tu sai abbastanza che io voglio dire questo, ed oltre a questo che noi non conosciamo questa Idea a sufficienza. E se noi non la conosciamo, •posto anche che conoscessimo, ma senza di questa, al più alto grado possib1le tutte le al-
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tre cose, tu sai che per noi da questo non deriverebbe nessun vantaggio, e così anche se possedessimo qualsiasi cosa senza il Bene. O credi che ci sia un vantaggio ad avere ogni possesso, se questo possesso non è buono? O che si possa intendere tutte le altre cose senza il Bene, e non intendere per nulla il Bello e il Bene? - Per Zeus, io no, disse 3 •
Ma, evidentemente, questo rimando al «sentito» non è sufficiente, perché con H Bene si tocca proprio il cuore delle dottrine presentate nella Repubblica, e, di conseguenza, Platone deve rivelare quanto basta, almeno in una certa misura, per dare un senso al suo scritto incentrato proprio su questo argomento. E la via scelta da Platone è stata veramente bellissima. La dottrina completa ed esauriente Intorno al Bene rim-ane come un grosso « conto » o « debito » da pagare in altra sede; qui, nei libri centrali della Repubblica, verranno pagati solo gli interessi, ma in misura proporzionale Tispetto· al debito, che verrà saldato un'altra volta, in altra sede. Anzi, giocando con gr-ande abilità artistica, sulla duplice valenza del termine 't"6xoç che vuoi dire « interesse » e « frutto », lo associa con Exyovoç, che vuoi dire « discendente », ossia « figlio » e quindi « f.rutto » in senso analogico, per dire che ciò che egli presenta è appunto un interesse-frutto del Bene, e quindi suo « figlio », che rispecchia in maniera rimpicciolita il padre, come l'interesse è in proporzione al capitale (per usare un termine moderno). Ecco le precise parole di Platone: - No, per Zeus, o Socrate, disse Glaucone, non ti allontanare ora che sei quasi alla fine. Infatti, a noi basterà che tu tratti anche del Bene, cosl come hai parlato della giustizia, della temperanza e della virtù. - Anche a me, dissi io, basterebbe, caro amico, e molto. Ma temo che non ne sarò capace, e col metterei impegno, espo' Repubblica,
VI,
504 a-505 b.
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PLATONE E LA SCOPERTA DEL SOPRASENSIBILE
nendomi ad ignominia, mi attirerò derisione. Ma, o carissimi, che cosa sia il Bene in sé, /asciamolo stare per ora. Infatti, mi pare una impresa superiore al tentativo che qui potremmo fare ora, il giungere a quello che io ho in mente. Ma quello che mi pare essere come il figlio ([xyovoc;) del Bene e a lui somigliantissimo, lo voglio dire, se è gradito anche a voi, e se no, lascia-
mo stare. - Ma parla, disse; la spiegazione del padre la pagherai un'altra volta. - Vorremmo bene, dissi, io poter pagarvela e voi riscuoter/a, e non come ora /imitarci solamente agli interessi (-.6xouc;). Ma, intanto, prendetevi questo interesse e questo figlio (-.6xov "tE xa.t [xyovov) del Bene. State però attenti che io non vi inganni senza volerlo, dandovi un conto falso dell'interesse.
- Staremo attenti, disse, nella misura del possibi•le; ma tu, soltanto, parla! 4 • 11 « figlio » del Bene (ossi~ l'interesse del capitale originario) viene rappresentato nel Sole in una pagina che, sotto molti aspetti, è diventata una delle più famose o addirittura la più famosa, perché presenta la similitudine più cospicua e più bella, la quale, per via di immagini, rivela sul Bene tutto ciò che Platone ha voluto consegnare agli scritti 5 • Il paragone è congegnato da Platone nel modo che segue. a) L'Artefice dei sensi (il Demiurgo dei sensi) ha fog-
giato nella maniera più preziosa la facoltà del vedere e quella corrispondente dell'essere visibile, in quanto fra la vista ed il visibile ha introdotto un terzo elemento per collegarli. Ciascuno degli altri sensi risulta accoppiato direttamente con il suo oggetto, mentre la vista ed il visibile sono congiunti da un legame di maggior valore, ossia dalla luce. Orbene, la fonte della luce è il Sole. Ma la vista non coincide con il Sole; e tuttavia, fra gli organi dei sensi, essa risulta più simile al sole, e dal Sole deriva .Ja propria capacità ed il • Repubblica, ' Repubblica,
VI, VI,
506 d·507 a. 507 a-509 c.
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proprio potere. Inolte, come il Sole produce la facoltà di vedere che è propria della vista, cosl è da essa veduto. Dunque, la vista riceve la sua facoltà dal Sole, e proprio per questo essa può vedere anche il Sole. b) Ora, il Bene può essere illustrato per analogia con il Sole, che appunto per questo è stato presentato come « figlio » del Bene. Infatti nella sfera dell'intelligibile il Bene sta, in relazione con 'l'intelligibile e con l'intelletto, in una funzione e in una proporzione analoga a quella in cui il Sole nella sfera del sensibile sta in relazione alla vista e al visibile. Quando gli occhi guardano le cose neH'oscuro chiarore della notte, vedono poco o nulla; invece, quando guardano le cose illuminate dal Sole, le vedono con chiarezza e la vista assume il suo ruolo adeguato. E cosl accade anche per l'anima, la quale, allorché fissa ciò che è mescolato a tenebre, ossia ciò che nasce e muore, allora è capace solo di opinare e congetturare, e sembra quasi che non abbia intelletto, mentre, allorché contempla ciò che la verità e l'essere illuminano, ossia il puro intelligibile, assume la sua statura e H suo ruolo adeguato. Allora, ecco come, per analogia con il Sole (il « figlio » ), il Bene (il « padre ») svolga la propria funzione es·senziale e che cosa derivi da questa. L'Idea del Bene dà alle cose conosciute la verità, e a chi le conosce la facoltà di conoscerne la verità; e, in quanto tale, l'Idea del Bene risulta essa stessa conoscibile. E come la vista e il veduto non sono il Sole, ma sono affini al Sole, cosl anche la conoscenza e la verità non sono il Bene, bensl sono affini al Bene. Inoltre, come il Sole sta al di sopra della vista e del veduto, cosl il Bene sta al di sopra della conoscenza e della verità. Il Bene risulta, quindi, una bellezza straordinaria, in quanto supera la bellezza della conoscenza e della verità. c) Ma il paragone con il Sole offre ulteriori indicazioni. Come il Sole non soltanto dà alle cose la capacità di essere
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viste, ma ne causa la generazione, la crescita ed il nutrimento, pur non essendo esso stesso implicato nd1a generazione, analogamente il Bene non solo causa la conoscibilità delle cose, ma causa altresì l'essere e l'essenza, non essendo un «essere» o una «essenza», bensì essendo superiore all'essenza per dignità e per potenza.
Ecco il testo, nella sua parte conclusiva veramente celeberrimo: - Questo, pertanto, dissi, ritieni pure che sia quello che io dico figlio del Bene, che il Bene generò analogo a se stesso: ciò che è il Bene nel mondo intelligibile rispetto all'intelletto e agli intelligibili, così è il Sole nel visibile rispetto alla vista e ai visibili. - Come, disse, spiegami ancora. - Gli occhi, dissi', tu sai che quando uno non li rivolge più a quelle cose sui cui colori si estende la luce del giorno, ma a quelle su cui si estendono solo i chiarori della notte offuscano la vista e sembrano simili ai ciechi, come se non ci fosse m essi una vista pura. - E come!, disse. - Ma quando, io credo, li volga alle cose illuminate dal Sole, vedono chiaramente, e risulta chiaro che in questi occhi la vista è pura. - Ebbene? - In questo modo, dunque, pensa che sia anche la condizione dell'anima, quando si rivolge a ciò che la verità e l'essere illuminano, lo intende e lo conosce e risulta dotata di intelligenza; quando si rivolge invece a ciò che è mescolato con tenebra, a ciò che nasce e perisce, allora può solo opinare e resta ottusa, cambiando in su e in giù le opinioni, e assomiglia a chi non ha intelletto. Assomiglia, in effetti. - Questo, dunque, che fornisce la verità alle cose conosciute e al conoscente la facoltà di conoscerle, devi dire che è l'Idea del Bene. Ed essendo essa causa di conoscenza e di verità, ritieni/a conoscibile. E poiché sono belle e l'una e l'altra, la conoscenza e la verità, se riterrai quello come diverso da queste
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e ancor più bello, riterrai giustamente. E mentre la scienza e la verità, allo stesso modo che la luce e la vista è giusto ritenerle simili al Sole ma non ritenerle Sole, così anche qui, ritenerle simili al Bene ambedue è giusto, ma ritenere che o l'una o l'altra siano il Bene non è giusto, ma la condizione del Bene va giudicata ancora maggiore. - Di straordinaria bellezza, tu parli, disse, se essa procura scienza e verità, ma essa stessa per bellezza è al di sopra di queste. Infatti tu non dici certamente che esso sia il piacere! - Zitto!, dissi. Ma considera la sua immagine in questo modo. - In che modo? - Il Sole dirai, non soltanto, io credo, che fornisce ai visibili la capacità di essere veduti, ma anche la generazione e la crescita e il nutrimento, pur non essendo esso generazione. - E come lo sarebbe? - E così anche ai conoscibili dirai che proviene dal Bene non solo l'essere conosciuti, ma che anche l'essere e l'essenza provengono loro da questo, pur non essendo il Bene sostanza, ma ancora al di sopra della sostanza (É1tÉXEL'IIa -ri'jc; oùcrt:ac;), essendo superiore in dignità e in potere. E Glaucone molto comicamente: Apollo!, disse, che divina superiorità! 6 •
Ed ecco in che senso questi passi letti, di importanza storica eccezionale, contengono solamente gli « interessi » del capitale originario, H « figlio » e non il Padre. Platone si rifiuta di rivelare l'essenza del Bene, che però dice di avere in mente, ossia di conoscere. Inoltre, dice solo che il Bene è causa dell'essere e della verità (e quindi della conoscenza della medesima), e anche del valore di ogni cosa, ma non rivela il perché. E, infine, dice che il Bene è al di sopra dell'essere, ma tace il perché. Pertanto rivelare il « che » significa rivelare il figlio e pagare gli interessi; rivelare il « perché » significherebbe rivelare il padre e paga're H grosso
' Repubblica, vn, 508 b-509 c.
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debito I ntòrno al Bene; però, per fare questo, sarebbe necessario rivelare l'essenza del Bene stesso 7 • Ma il « padre » e il capitale originario noi lo conosciamo solo attraverso la tradizione indiretta. L'essenza del Bene è l'Uno, il quale de-limita e de-termina a vari livelli il Principio opposto deHa molteplicità indeterminata, producendo in questo modo l'essere (che è sempre una de-terminazione e de-limitazione dell'indeterminato), la conoscibilità di ogni cosa (è conoscibile sempre e solo ciò che è determinato e delimitato), lo stesso intelletto (che nella sua natura e funzione è uni-ficante), e anche il valore di ogni cosa (dato che il valore è ordine, armonizzazione, proporzione, unità-nella-molteplicità). E l'Uno è superiore all'essere, perché è la causa (l'essere è un « misto » derivante dall'Uno, che determina un Principio opposto). Tutte queste risposte (conoscenza del perché) si incentrano, dunque, sulla definizione del Bene come Uno. E Platone, raggiungendo in questo passo uno dei grandi vertici della sua abilità di scrittore, ce le dice simbolicamente e per immagine (ma confermandolo anche in vario modo), e proprio con quel tipico non rivelare e non tacere ma alludere dell'oracolo. lnrfatti, come ci viene tramandato 8 , i Pitatagorici chiamavano, per simbolo, con il nome di Apollo proprio l'« Uno», basandosi sull'alfa (a) privativa e sul pollon (7toÀ)..6v, che vuoi dire molto) e quindi intendendo il termine Apollo come « privazione »-dei-« molti », ossia come supremo «Uno». E Platone conclude il suo grande passo, dicendo appunto: APOLLO,
che divina superiorità!
7 Si veda la mappa di questi problemi che abbiamo tracciato in Platone ... , pp. 312 sgg. (con le rispettive soluzioni analitiche). ' Plotino, Enneadi, v, 5, 6.
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Espressione che viene a significare: UNO
(A-pollon), che divina superiorità!
E per essere capito in ciò che voleva dire con questa allusione veramente emblematica, Platone ha costellato di una serie di riferimenti all'Uno tutti i punti chiave del suo discorso. E allora diventa facile capire quel momento conclusivo della dialettica, che consiste nel « definire » l'Idea del Bene con una definizione che la « astrae » da tutte le altre Idee (basandosi proprio su quel caratteristico non affermare e non tacere, ma parlare per forti allusioni che innerva i due passi sul Bene che abbiamo letto): il Bene è l'Uno, e l'Uno è la Misura suprema di tutte le cose, come la tradizione indiretta e anche i dialoghi successivi largamente confermano 9 •
2.
I l « P arme n i d e » e i l su o significa t o
Un altro dialogo che guadagna molta chiarezza dalla nuova interpretazione di Platone è il Parmenide, che è uno dei più celebri, e, ad un tempo, il più sopravvalutato o sottovalutato. Infatti sono state presentate numerose interpretazioni che vanno da qudle che in esso vedono la più cospicua summa della metafisica e della dialettica di Plato' Per un approfondimento si veda H. Kriimer, Vber den Zusammenhang von Prinzipienlehre und Dialektik bei Platon. Zur Definition des Dialektikers Politeia 534 B/C, in « Philologus » 110 (1966), pp. 35-70 (ora nel volume curato da J. Wippern, Das Problem der Ungeschriebenen Lehre Platons. Beitriige zur Verstiindnis der platonischen Prinzipienlehre, Darmstadt 1972, pp. 394-448); H. Kriimer, EIIEKEINA THl: OYl:IAl:. Zu Platon Politeia 509 B, in « Archiv fiir Geschichte der Philosophie », 51 (1969), pp. 1-30; Kriimer, Platone ... , pp. 184-198; Szlezak, Platon ... , pp. 271-326; Reale, Platone ... , pp. 293-333.
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ne a quelle che in esso vedono invece una semplice esercitazione scolastica, e addirittura con un abbondante « sterpame logico »; e quasi tutte sono cadute negli eccessi del troppo o del troppo poco 10 • Lo schema corretto per una rilettura del Parmenide risulta, invece, H seguente. Platone in questo dialogo si spinge molto avanti nel 'Parlare di ciò che riguarda il vertice della metafisica, ossia i Principi, di cui rivela addirittura la struttura bipolare; tuttavia, egli non rivela affatto la dialettica nella sua interezza, e soprattutto non rivela, se non molto parzialmente, l'essenza di questi Principi, ed i loro nessi fondativi. In particolare, Platone tace addirittura i nessi fondativi assiologici (non parla affatto del Bene). E questo risulta in perfetta coerenza con i personaggi scelti (cioè gli Eleati) e con i loro interessi, che non affrontavano la problematica del Bene. Se si esamina attentamente lo schema teoretico del dialogo e se lo si riduce alle sue linee essenziali, si nota che esso riprende con esattezza le linee della mappa mtafisica del Fedone: dal piano del sensibile si deve passare a quello dell'intelligibile, guadagnando, prima, la dottrina delle Idee e, poi, quella dei Principi. l) Nella prima parte, divenuta celeberrima, v1ene fornita l'interpretazione e il quadro generale della dialettica zenoniana. In breve, in essa si spiega come i celebri argomenti zenoniani intendessero essere una prova di rincalzo alle tesi di Parmenide. Questi affermava che il Tutto è Uno (ossia affermava l'unità e l'unicità dell'essere); e gli avversari dalla affermazione « l'Uno è » ricavavano tutta una serie di conseguenze assurde, contrarie alla tesi in maniera sistematica, e, quindi, tali da distruggerla. Orbene, nel suo •• Si veda la gamma delle interpretazioni che tracciamo in Platone ... , pp. 335 sgg.
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scritto, Zenone restituiva la pariglia agli avversari di Parmenide, mostrando come l'ipotesi di tali avversari, i quali sostenevano all'opposto che « i molti sono » (e quindi che l'Uno non è), comportasse conseguenze ancora più assurde rispetto a quelle comportate dalla tesi di Parmenide. Di conseguenza, la prova della impossibilità della tesi « pluralistica », opposta a quella « monistica » di Parmenide, risultava una conferma dialettica del monismo medesimo 11 • 2) NeHa seconda parte, Socrate presenta la teoria delle Idee, le quali sono strutturalmente molteplici. Il dialogo tidifende, quindi, la molteplicità, ma spostandosi su un altro piano rispetto ai Pluralisti avversari degli Eleati. Questi ultimi, infatti, si muovevano sul piano del sensibile, mentre Platone, nel nostro scritto, si muove sul piano guadagnato con la « seconda navigazione », ossia sul piano dell'intelligibile. Ora, come già sappiamo, tutte le contraddizioni del molteplice sensibile sono risolte e superate appunto con la dottrina delle Idee. La partecipazione delle cose alle Idee spiega, dunque, tutte le contraddizioni che si riscontrano nell'ambito del molteplice sensibile. Sarebbe, pertanto, cosa assai grave se le contraddizioni rilevate nell'ambito del molteplice sensibile si ripresentassero nella stessa forma o in forma analoga su'l nuovo piano delle Idee, ossia anche nell'ambito della pluralità intelligibile. È proprio su questo problema che Platone richiama fermamente l'attenzione Questa sfida socratica provoca l'intervento dello stesso Parmenide, il quale si assume di persona l'onere della confutazione. Si noti che, a questo punto, la dialettica eleatica si sposta, con una vera e propria metabasi, sul piano guadagnato dalla platonica « seconda navigazione ». Tuttavia, alprimo giro, la dialettica di Parmenide si limita a rilevare aporie, ossia difficoltà e contraddizioni incluse nella stessa " Parmenide, 126 a·128 e.
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teoria delle Idee (mentre nella terza parte si dispiegherà in tutta la sua potenza e portata, spingendosi fino al livello dei Principi supremi). Le aporie sollevate da Parmenide contro la teoria delle Idee sono sette, e alcune di esse erano evidentemente già molto diffuse all'epoca della composizione del dialogo (alcune delle principali ritornano anche nella Metafisica di Aristotele e sono per questo diventate famosissime). Si potrebbe dire che, in generale, queste critiche, e proprio quelle che appaiono come le più terribili, in realtà nascono da un clamoroso errore di fondo: esse trattano ,le Idee, che sono da Platone introdotte come «cause», alla stregua stessa delle cose di cui sono cause, ossia abbassano la causa allo stesso livello dei causati, con tutte le conseguenze che questo errore comporta, in particolare con totale incomprensione della trascendenz.a deHe Idee in senso meta-fisico. La risposta di Platone è contenuta nella terza parte; ma egli già alla fine della seconda fornisce le seguenti osservazioni importanti: a) ci vuole uno spirito privilegiato per capire la teoria delle Idee (ossia che essa è ben !ungi dall'essere conosciuta da molti) e che ce ne vuole uno ancor più privilegiato per saperla insegnare e per saperla comunicare agli altri; b) la teoria delle Idee suscita aporie, però, se la si elimina, si eliminano lo stesso pensare e la la stessa dialettica; ma con ciò finirebbe la filosofia 12 • 3) Si apre, così, la terza parte del dialogo (la più lunga e la più complessa) 13 • Questa parte ha una sorta di prologo di carattere metodologico e programmatico, che disvela gran parte degli intendimenti perseguiti da Platone. Intanto, si dice che la condizione per non cadere in quelle aporie che abbiamo esaminato e quindi per risolverle, è l'esercizio dialettico (quell'esercizio di lunga durata e di grande impegno " Parmenide, 128 e-135 c. Parmenide, 135 c-166 c.
13
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che Platone prescriveva nell'Accademia). E non sarà certamente il vecchio esercizio dialettico condotto sul piano fisico dagli Eleati, ma un nuovo esercizio condotto sul piano guadagnato da quella che il Pedone chiama la « seconda navigazione» e che ben conosciamo, ossia la dialettica a livello del mondo intelligibile. Lo schema dicotomico della dialettica di Zenone va dunque ripreso, sul nuovo piano, e quindi operando una autentica metabasi, già in parte guadagnata con la teoria delle Idee. Si deve porre l'ipotesi dell'esistenza di una Idea, e poi vedere che cosa ne consegua, considerandola in rapporto a sé e in rapporto al suo contrario; quindi si deve porre anche l'ipotesi che quell'Idea non esista e si deve verificare in modo analogo che cosa ne consegua considerandola in rapporto a sé e in rapporto al suo opposto. Questo dovrà farsi non solo per l'Uno e per i Molti, ma altresì per le Idee di simile e di dissimile, di movimento e di quiete, di essere e di non-essere, e così via. Parmenide, dunque, dopo aver accettato di discutere, incomincia dall'ipotesi su cui è basata la sua stessa filosofia (che Platone intende in senso ngorosamente monistico ), ossia dall'ipotesi « se l'Uno è ». Di questa ipotesi, dunque, in base allo schema generale proposto, verranno esaminate le conseguenze dialettiche, concernenti appunto l'Uno stesso e l'Altro dall'Uno, e poi ancora le conseguenze che derivano per ciascuno di essi, considerati sia in sé sia reciprocamente; quindi verrà e~minata l'ipotesi opposta, seguendo la stessa scansione logica. Si avranno in tal modo otto ipotesi, presentate come corni antitetici di quattro antinomie. L'esame dialettico di ciascuna di queste otto ipotesi mette capo a risultati positivi e a risultati negativi che si alternano, ossia che dell'Uno non si può dire nulla e che si può dire tutto; anche deH'Altro dall'Uno, analogamente, non si può dire nulla e si può dire tutto. Ad una superficiale lettura, potrebbe parere che il faticosissimo esercizio si debba concludere con un laboriosissimo zero, cioè in ma-
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niera totalmente negativa. Ma, in verità, non è cosl. In assoluto non reggono le ipotesi che suppongono una contrapposizione e una radicale scissione dell'Uno e dell'Altro dall'Uno, oppure che negano l'Uno o l'Altro dall'Uno. Reggono, e danno luogo ad aporie comunque superabili, quelle che suppongono uno strutturale rapporto fra l'Uno e l'Altro dall'Uno (i molti). In particolare, Platone scopre almeno qualcuna delle sue carte più significative, parlando dell'Uno che « partecipa » dell'Altro, inteso come infinita molteplicità, e alludendo alla funzione di limite dell'Uno. Il nocciolo teoretico del dialogo, dunque, risulta essere il seguente: la concezione monistica degli Eleati non regge, perché cade in aporie insuperahili; non regge neppure una posizione semplicemente pluralistica (come ad esempio quella atomistica). Ma fra monismo e pluralismo esiste una via sintetica di mezzo, che è quella che ammette una struttura polare, o meglio bipolare del reale, struttura che fa capo a due Principi - l'Uno e il Molteplice indefinito (Diade) tali che uno non è senza l'altro e viceversa, ossia a due Prindpi che risultano indissolubilmente legati. In particolare, siffatta concezione dei due Principi supremi e della loro strutturale partecipazione getta una 'luce tutta diversa sulla teoria delle Idee. Il rapporto fra le Idee e le cose sensibili va riesaminato alla luce della generale struttura bipolare dell'Unità e della Molteplicità. E con questa concezione il piano su cui si basano le aporie della seconda parte resta interamente rovesciato. Pertanto, se viene interpretato in questo modo, il Parmenide -che da sempre è stato una specie di pomo della discordia per quanto concerne l'esegesi di Platone, in quanto risulta effettivamente lo scritto carico di elementi e di toni più esoterici, a motivo dei contenuti e degli stessi personaggi chiamati in causa - nel suo messaggio di fondo diventa assai significativo e veramente chiaro.
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3. L'antologia dei generi supremi nel «Sofista» e la metafora del «parricidio di Parmenide» Il Sofista è diventato molto famoso nella storia dell'antologia più che per la sua tematica di fondo, riguardante la natura e l'arte del « sofista » (che viene radicalmente differen:lliata da quella del filosofo), per il « luogo classico » in cui si discute dell'essere e di alcune Idee supreme e si capovolge una tesi di fondo dell'Eleatismo compiendo un « parricidio di Parmenide », come sotto vedremo. Per questi motivi il dialogo è stato largamente sopravvalutato, in quanto si è creduto che qui Platone trattasse i concetti metafisici ultimativi e supremi. Per la verità, a indurre gli interpreti in questo errore è stato per primo Piotino, il quale in celebri pagine delle Enneadi ha presentato le Idee trattate nel Sofista come una lista esaustiva degli universali supremi e quindi come la tavola della categorie del mondo intelligibile 14 • Invece, come è emerso dagli studi moderni più attenti, Platone dice chiaramente di scegliere solo « alcune » delle Idee che sono considerate le più grandi. Pertanto, Platone fa una precisa « scelta » di quelle Idee ·che gli interessano per svolgere lo specifico tema del « sofista », e dunque la trama della totalità delle Idee è lasciata fuori dalla trattazione. Chiarito questo, vediamo quale sia il nesso dialettico che collega questi generi generalissimi (o Metaidee) scelti nel Sofista per Io svolgimento del suo peculiare argomento. Platone parte dalle tre seguenti Idee: « Essere », « Quiete » e « Movimento ». Fra queste ultime due sussiste un rapporto negativo, perché non partecipano l'una dell'altra. Invece l'Idea dell'Essere ha rapporti di partecipazione positiva con ambedue le altre, in quanto la Quiete « è » e an1'
Platino, Enneadi,
VI,
1-3.
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che il Movimento « è ». Ma queste tre Idee, proprio per essere tre, devono essere ciascuna diversa dall'altra, e, ad un tempo, ciascuna identica a se medesima. Allora, si hanno altre due Idee generali, l'« Identico » e il « Diverso ». Abbiamo ottenuto, in questo modo, cinque Idee generalissime. Ed ecco il nesso dialettic~ che le collega, che il Taylor mette assai ben a fuoco in maniera sintetica nel modo che segue: «Movimento non è dposo, né riposo è movimento. Ma ambedue sono e sono identici a se stessi, e quindi u partecipano " [ ... ] di essere e identità, ed anche, poiché ciascuno è differente dall'altro, di differenza. Quindi possiamo dire, per esempio, che il movimento è: è movimento; ma anche che non è: non è riposo. Ma alla medesima stregua possiamo dire che il movimento " partecipa " dell'essere e quindi è: c'è una wsa che è il movimento; eppure movimento non è identico ad essere, e in questo senso possiamo dire che esso non è, vale a dire che è non essere. Col medesimo procedimento si dimostra che è possibile affermare il " non essere " di tutte le cinque idee di cui sopra, perfino dell'essere stesso, dato che ciascuna di esse è differente da ciascun'altra, e quindi non è alcuna delle altre » 15 • Ecco, allora, che è stato scoperto ciò che si cercava. Noi parliamo di « non-essere » in due sensi molto differenti: a) talora lo intendiamo come il contraddittorio dell'essere (ossia come negazione dell'essere); b) talora, invece, lo intendiamo non come il contrario ma come il diverso dall'essere. a) Nel primo senso il non-essere non può esistere (perché non può esistere ciò che è negazione dell'essere); b) invece, nel secondo senso può esistere, perché possiede una sua natura specifica (la natura dell'alterità). Si compie, in questo modo, quello che Platone stesso ha chiamato il « parricidio » di Parmenide. Infatti Platone " A. E. Taylor, Plato, London 19496 , p. 389 (trad. it. di M. Corsi, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 604 ).
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si traveste, in questo dialogo, da Straniero di Elea (cioè da Eleate), per poi trasgredire il supremo comandamento di Parmenide, secondo cui il non-essere non è. E, invece, dice testualmente Platone-Straniero di Elea: il non-essere è, se viene inteso appunto nel senso di « Diverso ». Ecco la pagina in cui Platone presenta il « parricidio » di Parmenide: Straniero - Ma di questo io ti prego ancora di più. T eeteto - Di che cosa? Straniero - Che tu non ritenga che io sia diventato una sorta di parricida. Teeteto - Perché? Straniero - Per difenderci, per noi sarà necessario sottoporre a prova il discorso del nostro padre Parmenide e forzare il non-essere sotto un certo rispetto ad essere, e l'essere, a sua volta, sotto un certo rispetto a non essere. Teeteto - Questo, mi pare, è il punto su cui dovremo dar battaglia nei nostri ragionamenti. Straniero - E come non lo vedrebbe, come si suole dire, anche un cieco? Infatti, fino a quando queste cose non vengano né confutate né approvate, difficilmente, allorché si venga a parlare di ragionamenti falsi o di opinioni o di immagini o di copie o di imitazioni o di parvenze o anche delle arti che si occupano di queste cose, si sarà in grado di non apparire ridicoli, giacché si è costretti a dire cose che risultano in contraddizione con se medesime. T eeteto - Verissimo! Straniero - Dunque, per queste ragioni, dobbiamo avere il coraggio, ora, di attaccare il discorso paterno; se no, dovremo assolutamente lasciar correre, se c'è qualche ritegno che ci trattiene dal fare questo. Teeteto - Ma nulla ci trattenga dal fare questo, in nessuna maniera! 16 •
Ed ecco la pagina (che è divenuta veramente celeberrima nella storia dell'ontologia), in oui ha luogo il « parricidio » di Parmenide appunto sul piano ontologico: 16
Sofista, 241 d-242 a.
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Straniero - Dunque, come sembra, la contrapposizione di una parte della natura del diverso e della natura dell'essere, fra di loro antitetiche, non è, se è lecito dirlo, meno realtà dell'essere in sé, giacché essa indica non un contrario di quello, bensì semplicemente un diverso da quello. Teeteto - È molto chiaro. Straniero - E, allora, come la dovremo chiamare? Teeteto - È evidente che il non-essere, che noi cerchiamo a motivo del sofista, è appunto questo.
Straniero - Dunque, come tu hai affermato, il diverso non è affatto difettoso di essere rispetto a nessuno degli altri generi? E bisogna avere il coraggio di affermare che il non-essere possiede in modo stabile la propria natura. E come abbiamo visto che il grande è grande e il bello è bello, e che il non grande è non-grande e il non-bello è non-bello, così anche il non-essere per la medesima ragione era ed è non-essere, ossia una unità di Idea che rientra nel noTJero dei molteplici esseri? O abbiamo ancora qualche dubbio, o Teeteto, nei confronti di esso? Teeteto - Nessun dubbio. Straniero - Sai, allora, che noi abbiamo disubbidito a Parmenide, andando molto al di là del suo divieto? Teeteto - Perché? Straniero - Noi, spingendoci nella ricerca ancor pm avanti di quanto egli ci ha vietato di indagare, ne abbiamo fornito una dimostrazione. Teeteto- In che modo? Straniero - Perché egli dice in un certo Iuogo: « Infatti questo non imporrai mai: che il non-essere sia Ma tu da questa via di ricerca trattieni il pensiero ». Teeteto - Dice davvero cosl. Straniero - I n vece noi abbiamo non solo mostrato che il non-essere è, ma abbiamo anche mostrato quale sia la forma del non-essere. Infatti, dopo aver mostrato che la natura del diverso è e che è suddivisa in tutte le cose che sono fra loro in rapporti reciproci, abbiamo avuto il coraggio di dire che ciascuna parte di essa che è contrapposta all'essere, proprio questa è veramente il non-essere. Teeteto - E veramente, o Straniero, mi sembra che noi abbiamo detto cose verissime. Straniero - Dunque, non si deve dire che !loi, mentre di-
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mostriamo il non-essere come contrario dell'essere, osiamo tuttavia dire che esso è. Infatti, già da un pezzo noi abbiamo dato addio ad un contrario dell'essere, sia che esso sia, sia che esso non sia, sia che se ne possa dare ragione, sia che esso sia del tutto irrazionale. Invece, ciò che noi ora abbiamo detto, ossia che il non-essere è, o qualcuno dovrà cercare di persuaderei che noi non diciamo bene, confutandoci; oppure, fintanto che non ne sarà capace, bisogna che anche lui dica come diciamo noi, ossia che i generi si mescolano fra di loro, e che l'essere e il diverso penetrano attraverso tutti i generi e l'uno nell'altro, e e che il diverso, partecipando dell'essere, non è però, a motivo di questa partecipazione, ciò di cui partecipa, bensì è diverso; e poiché è diverso dall'essere, è evidente che è necessario che esso sia non-essere. E poiché l'essere, dal canto suo, è partecipe del diverso, dovrà essere diverso dagli altri generi; ma, poiché è diverso da tutti quei generi, non è né ciascuno di essi né tutti gli altri presi insieme, all'infuori di sé. Di conseguenza l'essere, a sua volta, per innumerevoli cose in innumerevoli casi indiscutibilmente non è, e così anche gli altri generi, ciascuno preso a sé e tutti insieme, per molti rispetti sono, e invece per molti rispetti non sono. Teeteto - È vero 17 •
J.l « parricidio » di Parmenide non avviene, però, solamente nella prospettiva antologica, ossia in base alla discussione dei concetti di essere e di non-essere, e in particolare a motivo dell'ammissione di quest'ultimo, come normalmente si ritiene. Platone, infatti, chiama in causa anche la tematica henologica dell'Uno e dei Principi primi, e prospetta altresì la necessità di ammettere la struttura gerarchica dell'essere. Del resto, già nel dialogo Parmenide, ponendo in bocca al grande Eleate quel cospicuo esercizio dialettico, che, come abbiamo veduto, mette capo alla evidenziazione di questo « polarismo », Platone aveva costretto Parmenide stesso a « uccidere » se medesimo, appunto con la evidenziazione di questo « polarismo », che ribalta radicalmente il " Sofis:a, 258 a-259 b.
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monismo eleatico. Ma ecco come, subito dopo aver parlato proprio del « parricidio » di Parmenide », Platone sottoponga ad un assalto le « conclusioni » del padre. Egli non parte daHa discussione intorno al non-essere, bensì proprio dalla discussione intorno all'essere medesimo e alla sua struttura, e in particolare intorno al.Ja insostenibilità della concezione dell'essere-uno in senso monistico-eleatico: Straniero - Mi sembra che con facile contentatura Parmenide discorresse con noi, e così anche chiunque si sia talora messo alla prova di definire gli esseri, quanti e quali siano 18 •
Ed ecco le aporie da cui Parmenide non esce, identificando l'Essere con l'Uno e il Tutto. a) «Essere» e « Uno » sono due nomi; ma, ammettere due nomi, dal momento che si ammette solo l'Uno e nient'altro, è contraddittorio. Ma diventerà addirittura assurdo ammettere che un nome sia, perché, se esso è differente (in quanto nome) dalla cosa che esprime, insieme ad essa costituirà un due (una cosa è il nome e una seconda cosa è ciò che il nome indica). Di conseguenza, il monismo assoluto, per essere coerente, dovrà inglobare nell'unità anche il nome. b) Ma ·la posizione degli Eleati implica ulteriori complicazioni, nella misura in cui essi fanno coincidere l'Uno con il Tutto. Infatti Parmenide, identificando il Tutto con una sfera, viene ad attribuirle, per necessaria conseguenza, un centro e degli estremi, e quindi delle « parti ». Senonché, ciò che ha parti, può partecipare dell'Uno, ma non può essere l'Uno di per sé; infatti, l'Uno in quanto tale è indivisibile, e quindi è al di sopra delle parti. Né con Parmenide si può identificare in generale Essere, Uno e Tutto, perché ciascuno di essi ha una propria e distinta natura: l'Essere " Sofista, 242 c.
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partecipa dell'Uno, e quindi non è l'Uno; e il Tutto è qualcosa di più dell'Uno, in quanto ingloba sia l'Essere, sia l'Uno 19 • Questo testo contiene il « parricidio » di Parmenide sul piano dell'henologia nella nuova dimensione raggiunta da Platone, e rivela quanto segue. a) L'Uno in senso primario è assolutamente indivisibile, cioè assolutamente semplice. b) Ciò che ha parti può avere unità, ma solo per partecipazione all'Uno. c) L'Essere partecipa dell'Uno, ma non coincide con l'Uno (l'Uno è al di sopra dell'Essere, e dall'Uno dipende l'Essere). d) L'intero non coincide né con l'Uno né con l'Essere, ma costituisce, in un certo senso, l'orizzonte che li include. e) E poiché l'Essere non coincide con l'Intero, perché implica l'Uno fuori di sé, di cui partecipa, l'Essere non è di per sé la completezza e includerà il Non-essere (nel senso, ben si intende, chiarito dal nostro dialogo, ossia la diversità); in particolare, l'Essere non è l'Uno. Si tratta, come si vede, di alcuni spunti protologici di primaria importanza, anche se Platone li stempera in vario modo, con quei toni di « gioco » che lo scritto in quanto tale per lui richiedeva 20 •
4. L e g r a n d i t e s i m e t a f i s i c h e d e l « F i lebo»: la struttura bipolare del reale, i quattro generi sommi, e la suprema Misura come Assoluto Gli spunti protologici si ampHano in maniera con~ide revole nel File bo, come già gli antichi ·avevano rilevato 21 , e come ormai da tempo gli studiosi moderni più attenti han•• Cfr. Sofista, 242 d-245 d. "' Per una analisi dettagliata cfr. Reale, Platone ... , pp. 359-379. " Così aveva fatto Porfirio, come ci riferisce Simplicio, In Arist. Phys., pp. 453, 30 sg. Diels (Gaiser, Test. Plat., 23 B = Kriimer, 11).
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no riconosciuto 22 • Tre sono gli squarci protologici più significativi: in primo luogo, Platone rileva la struttura bipolare del reale (Uno-Molti) e, in connessione con questo tema incentrato soprattutto sulle Idee, spiega la struttura numerica delle Idee medesime; in secondo luogo, egli ampHa questo discorso, estendendolo a tutta la sfera cosmologica e antropologica, rilevando in questo modo i quattro generi supremi del reale; in terzo luogo, ribadisce, mediante una serie di allusioni molto spinte e in certa misura addirittura esplicite, l'essenza del Bene come Uno e come suprema Misura. Incominciamo dal primo punto 23 • Dopo aver ribadito l'importanza della questione dei rapporti dell'Uno e dei Molti, e dopo aver ulteriormente rilevato che l'identità dell'Uno e dei Molti stabilita dal ragionamento si trova ovunque e sempre, in tutte le cose di cui si parla, Platone precisa che questa conoscenza dei rapporti dell'Uno e dei Molti coincide sostanzialmente con una « divina rivelazione », che gli antichi ci hanno trasmesso, secondo la quale tutte le cose che si dicono « essere » sono sempre costituite appunto dall'« uno » e dai « molti » e contengono in sé il limite e l'illimitatezza. In altri termini: la struttura bipolare è l'asse portante di tutta la realtà, e quindi anche del pensare. Ma ecco in che cosa consiste, più precisamente, questa rivelazione e questo « dono degli Dei agli uomini»: l'essere in quanto tale contiene in sé il limite e l'illimite (il « peras » e l'« apeiron »), che risultano, dunque, componenti essenziali, di pari necessità. Questa affermazione vale per ogni e qualsiasi essere, a cominciare dalle Idee medesime. 22 J. Stenzel, Studien zur Entwicklung der platonischen Dialektik von Sokrates zu Aristoteles, Darmstadt 1961' (la prima edizione è del 1917). " Filebo, 16 c sgg.
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Quali che siano gli oggetti in discussione, è necessa•rio, per conoscerli, che si ritrovi l'unità dell'Idea; quindi è necessario esaminare attentamente questa Idea, per vedere se essa contenga, a sua volta, due o più Idee, e poi, ulteriormente, se ciasouna di queste Idee si suddivida in altre Idee, fino a giungere alle Idee non più divisibili ulteriormente. Fino a quando si rimane nell'ambito delle Idee, il numero delle Idee contenuto in una data Idea generale è sempre determinato. Ma, allorché si giunge alle Idee non ulteriormente divisibili, non è più possibile procedere nella divisione dialettica, e, allora, si passa alla molteplicità degli individui empirici, nel modo che sotto spiegheremo. La divisione delle Idee, pertanto, dà sempre origine ad una quantità limitata di Idee in essa incluse. Il compito peculiare della dialettica è, appunto, quello di stabilire quali e quante queste siano. E proprio qui sta la più cospicua delle novità del Filebo, messa ben in luce a partire da Stenzel, ossia il collegamento della struttura diairetica delle Idee al numero. Emerge, come abbiamo già rilevato, la dottrina delle Idee-numeri, nel senso che sopra abbiamo precisato. Di ogni Idea generale è possibile stabilire la struttura, rintracciando, per divisioni, le Idee particolari in cui si scandisce, e quindi tradurre questa struttura diairetica in un numero (questo significa, infatti, determinare quali e quante siano le Idee contenute in una Idea-genere). Infine, dopo questo procedimento, sarà possibile passare alla molteplicità indeterminata degli individui. Questo significa che non è possibHe passare immediatamente da una Idea generale (unità) alla molteplicità degli individui empirici, che sono molteplicità indeterminata, se non mediante la scansione antologica e logica dell'Idea nelle varie Idee da cui risulta costituita, e la determinazione del loro numero (ossia quali e quante siano). Solo una volta giunti alle Idee indivisibili, sarà possibile il passaggio ai corrispondenti innumerevoli individui empirici. Dunque, al di sotto dell'Idea infima non
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pm ulteriormente divisibile, c'è l'apeiron sensibile. Perciò l'Idea, a sua volta, esplica, proprio sulla base della sua struttura numerica, una funzione detel'minante di unità rispetto ai sensibili, come meglio vedremo più avanti, ma come già questo testo dice con chiarezza: Socrate - [ ... ] Come se si prende un qualunque uno (Év), questo, come noi diciamo, non si deve considerare immediatamente in riferimento alla natura dell'illimitato (È'lt'à'ltELpou
Passiamo al secondo dei punti che abbiamo sopra indicato 25 • Platone riprende le argomentazioni metafisiche svolte, e ne trae alcune conclusioni della massima importanza. Infatti i concetti l) di « illimite » e 2) di « limite » vengono ripresi con valenza antologico-cosmologica. Si afferma che ciò che esiste in generale implica, precisamente, questi due fattori in maniera sistematica. Ma, oltre a questi due generi, bisogna, al fine di comprendere la struttura antologica della realtà fisica, aggiungere 3) la « mescolanza » di limite ed illimite, come terzo genere, e infine, importantissima, 4) l'ulteriore « causa della mescolanza ». Questi quattro generi sommi vengono connessi con la protologia non scritta in una maniera addirittura emblematica. l) L'apeiron (o « in-determinato », « in-definito », « illimitato ») consiste in « un procedere sempre avanti e non rimanere fermo» nelle due opposte direzioni, come ci fa ben " Filebo, 18 a-b. " Filebo, 28 c-31 a.
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capire l'esempio del caldo e del freddo addotto da Platone, che implica un sempre avanti nel più caldo e un sempre avanti nel più freddo in opposta direzione. Anzi, la scelta del « più e meno » come segno distintivo della natura dell'illimitato è particolarmente eloquente: Platone intende un procedere sempre avanti nel « più » e un procedere sempre avanti (in senso opposto) nel «meno», ossia un procedere all'infinito nei « due » opposti estremi, in senso diadico. Dunque, è evidente il richiamo al Principio della Diade del grande-e-piccolo delle « Dottrine non scritte », che esprime appunto una illimitatezza (Diade indefinita) nel duplice senso di un procedere verso una in-finita grandezza e verso una in-finita piccolezza. Anzi Platone indica proprio esplicitamente il più grande e più piccolo come esempio illustrativo conclusivo paradigmatico, come evidente richiamo aBusivo esattamente alla Diade indefinita del piùgrande-e- più-piccolo. 2) Il peras (o «limite») implica tutto ciò che ha rapporto con le Idee e in particolare con la loro struttura numerica e la capacità di de-terminare l'in-determinato appunto con la mediazione numerica. Platone richiama i caratteri di quantità, di giusta misura, di uguaglianza, di numero in rapporto a numeri, di misura in rapporto a misura. In particolare, egli rileva che H limite è ciò che fa cessare i rapporti di opposizione dell'indeterminato e dell'illimite, appunto introducendo numero e in questo modo commisurando e proporzionando, e ribadisce anche che esso è ciò che elimina l'eccesso, appunto producendo misura e proporzione. Evidentemente, si tratta dei vari modi in cui l'Uno a vari livelli e in varia maniera svolge la sua funzione principiativa, determinante e ultimativa. E qui Platone si spinge addirittura a dire espressamente che il limite « è l'Uno per natura » (Ev cpvcrEL ). 3) Il misto di illimite e di limite risulta essere, di conseguenza, ciò che è commisurato e proporzionato (l'effetto
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dell'azione del peras sull'apeiron), come ad esempio la salute, la vigoria fisica, la musica, le stagioni, tutte le cose beHe e in particolare quelle che hanno luogo nelle nostre anime. E Platone preci~, ulteriormente, che il misto è «un andare verso l'essere » (yivEcrLc; Etc; oucrCocv), ossia un assumere l'Uno da parte dell'indeterminato molteplice, e pertanto è quell'unità che deriva dalle m1sure prodotte dal peras sull'apeiron, e dunque una unità-nella-molteplicità. 4) Mentre nel mondo delle Idee questa « mescolanza » è eterna (ha luogo da sempre e per sempre), in quQnto a livello del mondo intelligibile per la stessa struttura bipolare dei Principi non è richiesta una causa ulteriore che garantisca la mescolanZQ strutturale di limite e di illimite, nel mondo del divenire e in tutto ciò che implica « generazione » occorre una causa efficiente produttrice di questa « mescolanza », e questa è l'Intelligenza a tutti i suoi livelli. In particolare, la mescolanza del cosmo fisico in generQle e delle cose in esso contenute in particolare implica una Intelligenza cosmica, ossia il Demiurgo (l'Artefice) universale, così come le arti e i prodotti dell'attività dell'uomo implicano l'intelligenza dell'uomo. Ma di questo complesso e importante problema ci occuperemo in maniera specifica nel prossimo capitolo. Siamo così giunti al terzo 26 dei punti che abbiamo sopra indicato, il quale è contenuto nelle conclusioni del dialogo. Dopo averci prima detto (nei passi che abbiamo interpretato), con una serie veramente massicciQ di allusioni, che il Bene è l'Uno, in questo squarcio metafisico conclusivo Platone si spinge addirittura a precisare che al vertice di tutti i valori sta la Misura, e che da essa derivano tutti quanti i valori. Già il Pohlenz rilevava molto bene, a questo riguardo: « [ ... ] per Misura Platone intende in realtà l'Asso" Filebo, 64 a sgg.
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luto, e sceglie questa determinazione perché l'Assoluto include in sé non solo il Bene in senso finalistico, ma anche il Bello, e quindi un principio d'ordine e di proporzione, e costituisce la causa prima del loro concreto esistere e la norma della loro esatta mescolanza» -n. Ebbene, noi sappiamo dalla tradizione indiretta che la Misura suprema è la natura stessa dell'Uno (in senso metafisica), come abbiamo visto confermato per allusioni nella Repubblica 28 e come nel Filebo Platone torna a dire mediante ulteriori allusioni spinte quasi alla rivelazione, appunto ponendo la Misura (!J.É-rpov) al vertice di tutti i valori. E davvero, in questo modo, risulta riconfermato in tutti i sensi che Platone, nei suoi scritti, come l'Oracolo di Delfi, « né afferma, né nasconde, ma lascia intendere per cenni » 29 • Ma l'esplicitazione di questi cenni (nel Filebo fortissimi) ci risulta ancora oggi possibile proprio mediante l'aiuto e il « soccorso » fornitoci dalla tradizione indiretta; e ci risulta possibile, se non per intero, almeno nei suoi tratti essenziali in una maniera veramente cospicua 30 • È appunto questo il modo più significativo e più costruttivo di leggere e intendere Platone, che in larga misura ormai sta imponendosi ai livelli più elevati delle ricerche in atto ai nostri giorni.
27 M. Pohlenz, Der hellenische Mensch, GQttingen 1947; traduzione italiana di B. Prato: L'uomo greco, La Nuova Italia, Firenze 1962, p. 422. " Repubblica, VI, 504 a-506 b. 29 Diels-Kranz, 22 B 93. 30 Cfr. Reale, Platone ... , pp. 405-421 e 471-507, dove presentiamo la più dettagliata analisi di questi problemi.
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V. LA DOTTRINA DEL DEMIURGO E LA COSMOLOGIA
l. La posizione del mondo fisico nell'ambito del reale secondo Platone
Il concetto basilare da guadagnare, per poter comprendere la dottrina del Demiurgo e la cosmologia (uno dei vertici del pensiero platonico), consiste nella struttura gerarchica del reale, che costituisce uno di quegli assi portanti più cospicui i quali garantiscono l'unità e la corretta comprensione globale del pensiero di Platone. Ai Principi primi e supremi dell'Uno e della Diade, secondo Platone, fanno seguito l) il piano delle Idee, 2) quindi il piano « intermedio » degli enti matematici, 3) e infine il piano del mondo sensibile. Ciascuno di questi piani si articola in ulteriori distinzioni, e precisamente: l) il piano delle Idee ha al vertice i Numeri e le Figure ideali, cui seguono le Idee più universali (che qualche studioso ha giustamente proposto di chiamare Metaidee) e poi le Idee più specifiche e particolari; 2) il piano degli enti matematici include gli enti geometrici piani e solidi, gli enti concernenti l'astronomia pura e quelli concernenti la musicologia, nonché le anime; 3) il piano del mondo fisico include tutte le realtà sensibili. È appena il caso di ricordare che parliamo di « piani » usando una espressione fisica che, naturalmente, va presa come una immagine per alludere ad una struttura metafisica,
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ossia ad un ordinamento gerarchico. Ecco uno schema illustrativo:
PRINCIPI PRIMI E SUPREMI:
« UNO » E « DIADE INDETERMINATA »
Numeri e Figure ideali ) Idee generalissime o Metaidee Idee particolari
piano delle Idee
~
piano degli enti matematici
oggetti oggetti oggetti ) oggetti { oggetti
dell'aritmetica della geometria piana della stereometria dell'astronomia pura della musicologia
a questo piano si riportano anche l'Anima del mondo e le anime in generale piano del mondo fisico sensibile
Il rapporto sussistente fra i piani è di dipendenza antologica unilaterale e non biunivoca: il piano inferiore non può essere (né può essere pensato) senza quello superiore; ma non viceversa. È questo il rapporto di « anteriorità » e « posteriorità » secondo la natura e secondo la sostanza, per dirla con un'espressione di Aristotele, il quale scrive: Alcune cose si dicono anteriori e posteriori secondo la natura e secondo la sostanza: tali sono tutte quelle cose che possono esistere indipendentemente da altre, mentre queste altre non possono esistere senza di quelle: distinzione, questa, di cui si avvaleva Platone 1• ' Aristotele, Metafisica, tJ. 11, 1019 a 1-4.
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La formula platonica tecnica era la seguente: ciò che dipende può essere tolto senza che, con questo, venga tolto anche ciò da cui dipende. Questo significa che ci troviamo di fronte ad un tipo di dipendenza metafisica dei successivi piani dell'essere l'uno dall'altro, che implica, per così dire, un ispessimento ad ogni tappa successiva del Principio diadico, che non viene dedotto né sistematicamente spiegato, ma semplicemente presentato come tale, e quindi dato come originario. In questo senso, la causazione che il piano più alto svolge è necessaria, ma non sufficiente, perché essa spiega solo l'aspetto metafisicamente formale del piano successivo (tutto ciò che si riferisce al suo ordinamento e alla sua unitarietà), ma non la sua differenza (tutti i suoi aspetti di molteplicità e pluralità), che dipende dal Principio diadico. È, questo, un rilievo di grande importanza, perché esclude chiaramente gli schemi e le implicanze del panteismo e dell'immanentismo 2 • Qualche ulteriore rilievo chiarirà meglio questa complessa struttura della metafisica platonica. l) Abbiamo sopra visto come dai due supremi Ptincipi dirivino i Numeri ideali, e quindi tutte le Idee (che, come sappiamo, hanno una struttura numerica), tramite un processo di delimitazione (o di egualizzazione) da parte dell'Uno sulla moltepl'icità indeterminata della Diade. 2) Il piano « intermedio » degli enti matematici era spiegato da Platone come segue. a) I numeri matematici erano dedotti da monadi (unità particolari) e dalla pluralità di « molto e poco». b) Le figure geometriche e stereometriche erano dedotte da una particolare specie di punto che Platone chiamava « linea indivisibile » (punto matematico avente una posizione), che fungeva da prindpio formale, mentre come principio materiale egli poneva il « corto e lun2 Su questo problema si veda Reale, Platone ... , pp. 427 sgg.
Kriim~r,
Platone ... , pp. 164 e 176 sg.;
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go » per la linea, il « largo e stretto » per la 'superficie e l'« alto e basso » per il solido. Si tratta, evidentemente, di specifiche differenziazioni del Principio supremo dell'originaria Dualità di grande-e-piccolo, che via via contengono un ispessimento in materialità (intelligibile) e molteplicità (sia pure sempre a livello intelligibile). 3) Passando al successivo piano antologico, assistiamo al nascere del cosmo fisico: e, qui, il principio materiale assume addirittura un ispessimento ed una robustezza tale da produrre la dimensione del sensibile e da generare il mondo del divenire (come vedremo più avanti). Ma - e questo è il punto più importante da individuare - anche il piano del sensibile risulta un « intermedio », secondo una differente ottica. Infatti, gli enti matematici sono « intermedi » fra due dilferer;,ti generi di essere, ossia fra un essere eterno che non diviene in nessun senso (non nasce, non perisce, non cresce, non diminuisce, non muta) e un essere che si genera e diviene in tutti i sensi. Come abbiamo già sopra precisato, gli enti matematici sono molteplici come i sensibili; per giunta, sono intermedi anche come intermediari, in quanto rendono possibile e spiegano il modo di articolarsi dell'intelligibile nel sensibile (come vedremo meglio più avanti). Per contro, il mondo sensibile è « intermedio », se considerato in funzione di una ottica che includa anche il non-essere fra i gradi della scala gerarchica, come il seguente schema illustra in maniera sintetica e sinottica: l) Essere intelligibile ed eterno: Idee, enti matematici (essere in senso pieno) 2) essere che nasce, perisce e diviene (essere in selliSo solo
parziale e non pieno) 3) non-essere
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È appunto collocandosi in questa ottica che Platone nella Repubblica qualifica il mondo fisico, che è essere in divenire, come « intermedio » fra essere puro e non-essere. Perché Platone ha parlato in questo modo? Parmenide non aveva dubbi: ciò che è molteplice e relativo, muta e diviene, e quindi non-è; e non-è nel senso forte del termine, ossia è nulla. Per conseguenza, nel nonessere e nel nulla brancola la « opinione » o doxa, che è propria dei mortali, la quale, credendo al divenire dell'essere, condanna questo a non essere. Ma, come già a proposito del mondo ideale (che pure era stato identificato con l'essere assoluto e quindi interpretato con una categoria di estrazione eleatica) Platone aveva riformato il verbo di Parmenide e aveva introdotto un non-essere come « diverso » per poter spiegare la molteplicità ideale, cosl anche a proposito del mondo sensibile egli è costretto a riformare (e non meno radicalmente) il verbo di Parmenide e a concedere ai fenomeni, per poterli spiegare, una loro realtà e un loro essere. Già vedemmo come il tentativo di Parmenide di dar conto dei fenomeni si frantumasse nelle sue mani, perché, nell'istante stesso in cui egli tentava di far rientrare i fenomeni nell'alveo dell'essere, non li salvava, ma li distruggeva interamente (l'essere eleatico, applicato ai fenomeni, li assolutizzava, li immobilizzava, li risolveva nell'assolutamente identico) 3 • Per contro, Platone (e proprio in conseguenza della sua « seconda navigazione ») comprende che l'essere del mondo sensibile e fenomenico sussiste, ma risulta strutturalmente altro dal « vero essere », dall'« essere che assolutamente è». È chiaro, per Platone, che quello del mondo sensibile è un essere in qualche modo lacerato, diviso, condizionato dal non-essere; ma è, per lui, altresl chiaro che non si tratta in alcun modo dell'assoluto non-essere, ossia del
3
Cfr. volume r, pp. 127 sgg.
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nulla, o comunque di qualcosa di totalmente privo della cifra metafisica dell'essere. Ed è ahrettanto chiaro, per Platone, che, se la vera conoscenza (la verità) riguarda solo il mondo ideale e il vero essere, l'opinione (la doxa) verte intorno a qualcosa che in qualche mi'iura è (nella misura in cui rispecchia alcunché di vero), e che essa non si può riferire al non-essere in senso assoluto, perché del non-essere non c'è conoscenza, ma ignoranza 4 • Ed ecco, allora, la risposta platonica al problema: l'essere del sensibile è un « intermedio » (1-J.E'ta;u) fra il puro essere e il non-essere. Pertanto, il mondo sensibile, che è il mondo del divenire, non è l'essere (l'essere vero e assoluto), ma ha essere, e lo ha per la sua partecipazione al mondo delle Idee (ossia al vero essere): ha un essere, per cosl dire, mutuato. Leggiamo il passo che esprime questa concezione, che è fondamentale per poter intendere correttamente Platone. Dopo aver precisato, sulla base di una analisi delle forme di conoscenza, come l'opinare non possa riferiorsi né all'essere né al non-essere (perché dell'essere c'è scienza e non opinione e del non-essere c'è ignoranza) ma si riferisca a qualcosa di « intermedio », scrive il filosofo: - G resterebbe ancora da trovare, come sembra, ciò che partecipa di ambedue, ossia dell'essere e del non-essere, e che non si potrebbe giustamente chiamare con nessuno dei due nomi, affinché, allorché si presenti, si possa giustamente dire che è l'opinabile, attribuendo agli estremi le collocazioni estreme e agli intermedi quelle intermedie. O non è così? - È cosl. - In base a questo, di.rò io, mi dica e mi risponda quel brav'uomo che non crede ad un Bello in sç o ad alcuna Idea del bello che permanga allo stesso modo, ma ammette solamente le molte cose belle [ = i molti fenomeni belli empirici]; ' Cfr. Repubblica, v, 477 a sgg.
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risponda quell'amante di spettacoli [sci!.: meramente fenomenici], che non sopporta in alcun modo che uno dica che il Bello è Uno, e così il Giusto e anche le altre cose [ = le altre Idee]. Di queste molte cose belle [fenomeniche] o bravo uomo, gli diremo, ce n'è forse qualcuna che non potrà apparire anche brutta? E delle cose giuste [fenomeniche] ce n'è qualcuna che non potrà apparire anche ingiusta? E delle cose sante [·fenomeniche] ce n'è qualcuna che non potrà apparire anche empia? - No, rispose, ma è necessario che tali cose belle [fenomeniche] possano in qualche modo sembrare anche brutte, e così anche quelle altre cose che mi domandi. - E che cosa pensi delle molte cose [fenomeniche] doppie? Le cose doppie ti sembra che siano meno mezze che doppie? -No. - E cosl le grandi e le piccole, le leggere e le pesanti, dovranno forse essere chiamate così, invece che con il nome contrario? - No, disse, ma sempre a ciascuna competeranno e l'uno e l'altro dei due contrari. - Ma, allora, ciascuna di queste molte cose [fenomeniche] è, o, invece, non è ciò che uno dice che essa è? - Questa domanda assomiglia ai giochi a doppio senso che si fanno nei banchetti, disse, e aU'indovinello dei ragazzi sull'eunuco e sul colpo inferto al p~pistrello, in cui birsogna indovinare con che cosa lo colpisce e dove lo colpisce 5 : infatti, anche queste cose sono a doppio ·senso, e di nessuna di esse si può con certezza pensare che sia o non sia, né che sia ambedue le cose, né che sia nessuna delle due cose. - Allora, dissi io, sapresti come trattarle o dove porle in posizione migliore di quella intermedia fra l'essere e il non essere (J..LE'taçù oùcrt:ac; 'tE xat 'tou !J.TJ EtvaL)? Infatti non ti risulteranno più oscure del non-essere, perché non sono non-essere ' L'indovinello suonava all'incirca cosl: c'è un uomo che non è uomo che tira una pietra che non è una pietra ( = pomice), ad un uccello che non è un uccello ( = pipistrello), su una pianta che non è una pianta ( = canna). Il richiamo di questo indovinello suggerisce in maniera splendida la fondamentale ambiguità del J..LE-tal;v, del sensibile che è insie. me essere e non-essere e non è né essere (puro) né non-essere.
(= eunuco),
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in maggior grado, né più chiare dell'.essere, perché non sono essere in maggior grado. - Verissimo, disse. - Abbiamo dunque trovato, come sembra, che le molte opinioni dei molti intorno al bello e al resto si aggirano come zntermedi fra il non-essere e l'essere in senso puro 6 •
2. I l D e m i urgo si c o
e il
suo
ruolo
m e t a f i-
Se si intende bene il senso della importante pagina che abbiamo letto, si capiscono anche le ragioni per le quali Platone non ha potuto spiegare il cosmo fisico per semplice deduzione dai Principi primi e supremi e dal mondo delle Idee, ma ha giudicato necessario introdurre l'Intelligenza divina come originaria causa metafisica 7 • Infatti, a suo avviso, l'essere nella dimensione del divenire implica la causa specifica dell'Intelligenza produttrice, e tutto ciò che essa postula. Ecco come (nello stupendo preludio teoretico al gran• Repubblica, v, 478 e-479 d. È opportuno rilevare che il non-essere, di cui Platone parla in questa pagina, potrebbe sembrare il nulla (il non-essere in senso assoluto) .. Tuttavia il testo e il contesto lasciano credere che Platone indichi, piuttosto, il Principio materiale opposto (la Diade sensibile), che, come sappiamo, viene assimilato al non-essere, dato che, per il nostro filosofo, l'essere è un << misto», che dipende dalla de-terminazione e delimitazione dell'indeterminato e illimitato (e tale è invece la Diade di grande-e-piccolo, che è appunto il-limitata). Si notino, peraltro, i cenni allusivi (che abbiamo rilevato con i corsivi) all'Uno (che si esplica nelle Idee) in opposizione alle cose fenomeniche-sensibili doppie e grandi e piccole (allusione alla Diade di grande-e-piccolo di cui partecipano); e si faccia attenzione anche all'affermazione iniziale che l'essere sensibile intermedio « partecipa di ambedue», ossia «dell'essere e de! non-essere»; ma è evidente che il « partecipare >> al non-essere è possibile solo se è un qualcosa (appunto l'in-determinato e l'il-limitato). In conclusione, questa pagina risulta molto più chiara, se a <<essere» e «non-essere» si danno quei significati specifici, che Platone ~ella sua metafisica dà ad essi e che rispecchiano in maniera perfetta la sua protologia. ' Su questo tema si troverà un'ampia trattazione in Reale, Platone ... , pp. 425-622, cui faremo qui richiamo più volte.
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de discorso cosmologico del Timeo 8 ) Platone riassume il suo pensiero in quattro assiomi. l) L'essere che è sempre (l'essere intelligibile) non è soggetto alla generazione e al divenire, perché permane sempre nelle medesime condizioni; esso viene colto con l'intelligenza, attraverso il ragionamento. 2) Il divenire, che continuamente si genera, non è mai un vero essere, proprio perché è in continuo mutamento; esso è oggetto di opinione, ossia è colto mediante la percezione sensoriale, distinta dalla ragione. 3) Tutto ciò che è soggetto al processo della generazione richiede una causa, perché, per generarsi, ogni cosa ha bisogno di una causa, che ne produca appunto la generazione. Questa causa è un Demiurgo, un Artefice, vale a dire una causa efficiente. 4) Il Demiurgo, ossia l'Artefice, produce sempre qualcosa, previamente guardando ad alcunché come punto di riferimento, ossia prendendo questo come modello. Ma l'Artefice potrebbe rifarsi a due differenti tipi di modelli: a) a ciò che esiste sempre e allo stesso modo (ossia al tipo di essere di cui si è detto nel primo assioma), b) oppure a qualcosa che è soggetto a generazione (ossia a quel dpo di realtà di cui si è detto nel secondo assioma). Se l'Artefice prende come modello l'essere eterno, ciò che produce è bello; se, invece, prende come modello qualcosa di generato, ciò che produce non è bello. Ecco il testo:
• La ricca bibliografia pubblicata negli ultimi decenni sul Timeo (che è stato per molto tempo il dialogo più l>!tto e più influente di Platone) si troverà in: H. Cherniss, Plato (1950-1957), « Lustrum » 4 (1959), pp. 208-227; L. Brisson, Platon 1958-1975, « Lustrum » 20 ( 1977), pp. 286 sg.; L. Brisson, Platon 1975-1980, « Lustrum », 25 (1983), pp. 295 sgg. (con i relativi rimandi). La più estesa trattazione dell'impianto metafìsico del dialogo si troverà in: Reale, Platone ... , pp. 509-622; ivi, pp. 509 sgg. si troveranno altre importanti indicazioni bibliografiche.
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Secondo la mia opinione, in primo luogo bisogna distinguere le cose che seguono. [l] Che cos'è ciò che è sempre e non ha generazione? [2] E che cos'è ciò che si genera perennemente e non è mai essere? { l ] Il primo è ciò che è concepibile con l'intelligenza mediante il ragionamento, perché è sempre nelle medesime condizioni.
[ 2] 11 secondo, al contrario, è ciò che è opinabile mediante la percezione sensoriale irrazionale, perché si genera e perisce, e non è mai pienamente essere. [ 3] Inoltre, ogni cosa che si genera, di necessità viene generata da qualche causa. Infatti, è impossibile che ogni cosa abbia generazione, senza una causa. [ 4] E quando l'Artefice ( OTJ!J.LOUpy6~) di qualsivoglia cosa, guardando sempre a ciò che è allo stesso modo e servendosene come di esemplare ne porta in atto l'Idea e la potenza, è necessario che, in questo modo, riesca tutta quanta bella; quella cosa, invece, che l'Artefice porta in atto servendosi di un esemplare generato, non sarà bella 9 •
Sulla base di questi quattro assiomi Platone costruisce l'impianto metafisica e cosmo-antologico dell'intera trattazione cosmologica del Timeo, e, ad un tempo, fonda la struttura gnoseologica e la giustificazione della metodologia adottata. Poiché l'oggetto della discussione su cui verte il Timeo è il cosmo, bisogna stabilire, prima di tutto, se esso sia un « essere che è sempre », ossia un essere di quel tipo di cui ci ha parlato i1l primo assioma, ovvero se sia una « realtà generata », vale a dire quel tipo di realtà di cui parla il secondo assioma. Orbene, tutte le cose che costituiscono questo mondo sono percepibili con i sensi. Ma tutto ciò che è percepibile con i sensi ed è opinabile, come è stabilito nel secondo assioma, è per sua natura generato e diveniente. In base al terzo assioma, inoltre, questo mondo, in quanto è generato, deve essere generato da una causa. Ma il trovare ' Timeo, 27 e-28 b.
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questa causa dell'universo in maniera adeguata è difficile; e quando si sia trovata, risulta difficile farla capire a tutti gli uomini (per motiv·i che abbiamo già sopra spiegato). Infine, in base al quarto assioma si può ben stabilire quale sia il modello al quale ha guardato il Demiurgo che ha costruito questo mondo. Infatti, tale assioma ha stabilito che, se questo mondo è bello, necessariamente il Demiurgo ha guardato, nel costruirlo, ad un modello eterno; se, invece, non fosse bello (ma solo in questo caso), il Demiurgo si sarebbe avvalso di un modello generato. Ma è chiaramente dimostrabile che il mondo è bello; e dunque, proprio per questo, il Demiurgo necessariamente ha guardato ad un modello eterno. Anzi, essendo il mondo la più bella delle realtà generate, il suo Demiurgo è, di conseguenza, il più buono degli artefici, ossia, come vedremo, è l'Artefice che ha imitato e realizzato il Bene nel maggior grado possibile. Ecco le parole di Platone: Ora, per quanto concerne tutto il cielo o il mondo, o se si trova qualche altro nome adeguato lo si chiami con questo, bisogna considerare ciò che fin da principio si deve esaminare riguardo ad ogni cosa: [l] se fu sempre, non avendo mai alcun principio di generazione, oppure [ 2] se fu generato incominciando da un qualche principio. [ 3] Esso fu generato. Infatti è visibile ed ha un corpo; ma tutte le cose di questo tipo sono sensibili, e si apprendono con l'opinione mediante la sensazione, ed è risultato che sono generate e sono in divenire. [ 4] E di ciò che è generato abbiamo detto che è necessario che sia generato da una causa. Ma il Fattore e il Padre di questo universo è molto difficile da trovare ed è impossibile parlarne a tutti. E questo si deve indagare dell'universo: nel guardare a quale degli esemplari chi ha fabbricato l'Universo lo abbia realizzato: se all'esemplare che è sempre nello stesso modo e identico o a quello che è generato. Ma se questo mondo è bello e l'Artefice è buono (àycdMc;), è evidente che Egli ha guardato all'esemplare eterno; e se invece l'Artefice non è tale, ciò che non è neppure permesso a qualcuno di dire, ha guardato all'esemplare generato. Ma è evidente a tutti che Egli guardò all'esemplare eter-
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no: infatti l'Universo è la più bella delle cose che sono state generate ( xciÀ.ÀLCT't'O<; 't'W\1 yEyo'J6't'W\I ), e l'Artefice è la migliore delle cause (cl.pLCT't'O<; 't'W\1 CXL't'LW\1) 10 • Dunque, esiste un essere puro coglibile solo con l'intelligenza, e proprio a questo il Demiurgo guarda come a modello, per realizzare il mondo sensibile e diveniente. Pertanto, il cosmo sensibile è una « immagine » di una realtà metasensibile, realizzata dal Demiurgo: Se, pertanto, l'Universo è stato generato cosl, fu realizzato dell'Artefice, guardando a ciò che si comprende con la ragione e con l'intelligenza e che è sempre allo stesso modo. Stando cosl le cose, è assolutamente necessario che questo cosmo sia immagine di qualche cosa 11 •
Questa concezione del puro essere come « modello » e del divenire come « immagine » di quel modello e la necessità di una causa efficiente (il Demiurgo o l'Artefice) per fondare e giustificare questo rapporto, costituiscono un fondamentale asse portante della dottrina scritta di Platone, che proprio nel Timeo trova la sua espressione più matura e più completa. E appunto su questo impianto metafisica poggia l'impianto gnoseologico di tutta intera la trattazione cosmologica: il modello originario, in quanto puro essere, è oggetto di scienza, che raggiunge verità incontrovertibili; l'immagine di questo modello (e quindi il nostro cosmo fisico, che è appunto immagine) è oggetto di opinione, e questa può essere ben fondata, ma non raggiunge sicurezze epistemologiche, e quindi è « mito » nel senso di narrazione plausibile, come abbiamo già sopra precisato.
10 Timeo, 28 b-29 a. " Timeo, 29 a-b.
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3. Il Principio materiale del mondo sensibile, il suo ruolo metafisica e i suoi nessi con la Disde
L'importante distinzione metafisica fra l'essere intelligibile, immutabile ed eterno delle Idee, inteso come « paradigma » o « modello » e l'essere sensibile in continuo divenire, inteso come « immagine » di quello, richiede, per essere giustificata e fondata, un Principio materiale avente funzione di eccipiente e di sostrato dell'immagine medesima. In effetti, Platone aveva dett.J nel Filebo, con notevole precisione (come sopra abbiamo visto), che tutta la realtà - a tutti i livelli - è un « misto », che implica una congiunzione sintetica bipolare di due principi opposti (limite/illimite); ma aveva anche precisato che, mentre nella sfera dell'intelligibile il « misto » è strutturale e ab aeterno, nella sfera del sensibile il « misto » richiede una causa che lo realizzi (appunto l'Intelligenza demiurgica). Evidentemente, il motivo del necessario intervento dell'Intelligenza demiurgica dipende dal fatto che, mentre nella sfera dell'inteLligibile i due Principi opposti che for.mano il « misto » sono ambedue appunto di carattere intelligibile, nella sfera del sensibile non è invece così: infatti il Principio materiale assume uno spessore tale da introdurre appunto la dimensione del sensibile, e di conseguenza risulta di una natura tale che, malgrado la tendenza a cong1ungersi al Principio opposto e la disponibilità a lasciarsi dominare da esso in larga misura, solo l'intervento di una Intelligenza demiurgica può operare la mediazione. Inoltre, appunto per questo plus che la dimensione sensibile comporta, il Principio materiale che costituisce il mondo sensibile non può essere ridotto totalmente alla struttura del Principio ideale, e proprio per questo motivo dà origine ad un essere-in-dive-
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nire (ad una forma d'essere intermedia fra puro essere e non-essere) 12 • Ma ci sono ancora due punti importanti che vanno ben rilevati, al fine di comprendere questa complessa concezione di Platone. a) Il Principio materiale risulta partecipe (tramite l'Intelligenz.a demiurgica) in modo assai complesso dell'intelligibile, per il motivo che tale partecipazione, che consiste nella ricezione dell'impronta delle immagini derivanti dalle Idee, avviene in modo « ineffabile e meravig.lioso » (""tp67tov ""t"Wà. OUCTcppa.CT"'t0\1 Xa.L i}a.uiJ.a.CT""té\1) 13 , OSSia attraverso una complessa mediazione di carattere numerico e geometrico, come (almeno in parte) avremo modo di vedere. b) Inoltre, è da tenere ben presente quello che abbiamo già implicitamente rilevato, ossia che ciò che il Principio materiale recepisce e con cui si « mescola » non sono le Idee medesime in modo diretto, ma sono le « immagini di quelle realtà che sono sempre », « imitazioni degli esseri eterni », e quindi immagini o apparenze di altre realtà 14 , ossia le immagini delle Idee, ottenute con la mediazione degli enti matematici. Ma vediamo, prima di tutto, quali sono i caratteri essenziali del Principio materiale sensibile e quali i suoi rapporti con la Diade delle « Dottrine non scritte ». l) Platone sottolinea in maniera molto marcata che il genere della realtà intelligibile « che è sempre allo stesso modo, ingenerato e imperituro» e che come tale funge da modello, proprio per la sua struttura antologica non accoglie dal di fuori altra cosa, né esso « passa mai in altra cosa ». E, per converso, ribadisce che la realtà sensibile, che è copia o im" Cfr. sopra, la nota 6. " Timeo, 50 c. " Cfr. Timeo, 50 c, 51 a, 52 c.
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magine sensibile del modello intelligibile ed è generata ed in movimento continuo, «nasce in qualche luogo e nuovamente di là perisce >>. Di conseguenza, bisogna ammettere un altro genere di realtà: la « spazialità » o chora (xwpct), che fornisce il « l'uogo » (-ré1toc;) o ~la « sede » (i€opct) a tutte le realtà che nascono e periscono, appunto per il motivo che ciò che nasce e perisce, nasce in un qualche luogo, nel quale e dal quale, poi, perisce. Ecco alcune precise affermazioni: [l] Bisogna ammettere che vi è un genere di realtà che è sempre allo stesso modo, ingeneràta e imperitura, e che non accoglie dal di fuori altra cosa, né essa passa mai in altre cose, e non è visibile né percepibile dai sensi, e che solo l'intelligenza può cogliere. [ 2] E bisogna ammettere che di nome uguale e ad essa somigliante vi è una seconda forma di realtà, che è sensibile, generata, in continuo movimento, che nasce in qualche luogo (-ré1toc;), e di là perisce, e questa si comprende con l'opinione accompagnata dalla sensazione. [ 3] E a sua volta bisogna ammettere che c'è un terzo genere, quello dello spazio (xwpct}, che è sempre e non è soggetto a corruzione, che fornisce una sede (EOpct) a tutte le cose che sono soggette a generazione; e questo è coglibile senza i sensi con un ragionamento spurio e a mala pena oggetto di persuasione 15 •
Orbene, rileva ulteriormente Platone, proprio riferendoci a questa realtà, noi tendiamo a darle un rilievo superiore alla sua natura, estendendola a tutti gli esseri, ed erroneamente le attribuiamo una funzione onnicomprensiva. Infatti, sosteniamo che una cosa, per essere, deve trovarsi appunto « in qualche luogo », e che « ciò che non è in terra o in qualche " Timeo, 51 e-52 b. Si noti come Platone, qui, specifichi quello che nel passo sopra letto della Repubblica era indicato con ignoranza, ossia non-conoscenza del non-essere (che corrisponde al Principio materiale qui trattato). Infatti esso a) non è conoscibile con i sensi; h) è coglibile solo con un ragionamento spurio ossia «bastardo» (À.oyLCTJ-LGi 'tL\IL v6~4)); c) è a mala pena credibile. In effetti, si conosce (sia sensibilmente sia razionalmente) ciò che è de-terminato, mentre il Principio materiale è in-determinato, per cui è coglibile solo con un «ragionamento basrardo ».
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luogo nel cielo non è nulla » 16 • Invece, la verità è questa: le cose che occupano spazio sono solamente le realtà che si generano, ossia le realtà sensibili, e quindi non le realtà intelligibili in sé e per sé. Pertanto, le cose che occupano spazio sono solamente le imitazioni o immagini delle Idee, non le Idee medesime. Dunque, lo status antologico delle immagini realizzantesi nel sensib1le (che coincide perfettamente con quello del « misto » di cui parla il File bo) implica a) ciò di cui è apparizione o manifestazione e quindi immagine e a cui fa riferimento come a modello (vale a dire le Idee), e b) un sostrato, ossia una base su cui si appoggia, che è appunto la « spazialità » di cui stiamo parlando, e che si rende necessaria come sede di ciò che nasce. E perciò, in quanto tale, la chora « è sempre e non è soggetta a corruzione », in quanto è la condizione necessaria perché possa esserci ogni cosa che si genera (è ciò che, se veni5se tolto, toglierebbe ogni forma di generazione) 17. 2) Oltre alla connotazione concettuale della « spazialità » (xwpa), Platone, per caratterizzare il Principio materiale sensibile, presenta anche quella di « ricettacolo » di tutto ciò che si genera (tmooox1), 'ltClVOEXÉc;). Il « ricettacolo » è una
realtà che permane sempre identica nella sua struttura amorfa. Infatti, riceve tutte le cose ed è variamente plasmabile, appunto perché è una realtà amorfa (priva di una struttura formale in proprio), e non assume mai le forme, che via via riceve, in maniera definitiva, e, per questo, può continuare ad assumerne via via continuamente altre. Esso è paragonabile al materiale da impronta, che è plasmabile via via in differenti forme, e appare appunto sotto quelle forme. Le cose che entrano ed escono dal ricettacolo sono immagini delle " Timeo, 52 b. " Timeo, 52 c; dr. Reale, Platone ... , pp. 543 sgg.
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realtà eterne (imitazioni dei paradigmi delle Idee), ed entrando in esso lo plasmano e vi imprimono una impronta, così come un metallo (come ad esempio l'oro) e il materiale da impronta vengono plasmati dalle forme che ricevono. Ecco il testo, veramente assai interessante: Bisogna dire che essa [sci!.: la natura che riceve tutti i corpi] è sempre una medesima cosa, perché non esce mai dalla propria natura. Infatti essa riceve sempre tutte le cose, e non ha preso mai in nessun caso e in nessuna maniera nessuna forma simile ad alcuna delle cose che entrano in essa. Infatti, per natura essa sta come materiale da impronta in ogni cosa, mossa e modellata dalle cose che entrano in essa, e appare per causa di esse ora in un modo e ora in un altro. E le cose che entrano e che escono sono imitazioni delle cose che sono sempre, improntate da esse in un certo modo difficile da spiegarsi e meraviglioso 18 • Platone insiste molto suMa struttura informe del ricettacolo. Ciò che riceve l'impronta, così come la riceve appunto il ricettacolo, risulta adeguatamente preparato a questo, proprio e solo se è privo di ogni forma, per il mo~ivo che, se avesse qualche forma, non potrebbe accogliere e riprodurre in modo adeguato le forme opposte a quelle che avrebbe in proprio. Insomma, al fine di accogliere tutte le forme in modo conveniente, il ricettacolo deve non averne nessuna. 3) Un'ulteriore e assai interessante connotazione concettuale del Principio materiale sensibile è quella che indica il medesimo come fonte della generazione, ossia come una realtà che si muove e si agita in maniera disordinata e irregolare, rec1c1nte in sé caratteri rudimentali e tracce degli elementi (acqua, aria, terra e fuoco), e quindi implicante anche forze e affezioni senza ordine e senza equilibrio e fra di loro scon" Timeo, 50 b-e; cfr. Reale, Platone ... , pp. 536-543.
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nesse. Dunque, il Principio materiale è come un fascio di forze, di scuotimenti e di movimenti disordinati e caotici. Ecco due dei testi più chiari: Dio[ ... ] prendendo quanto era visibile [scii.: sensibile] e non stava in quiete, ma si trovava in modo confuso e disordinato, lo portò da·l disordine all'ordine [ ... ] 19 • E la nutrice della generazione (-rLi}1)v1} yEvÉaEwc;) inumidita ed infuocata, accogliendo in sé le forme di terra e di aria, e ricevendo tutte le altre affezioni che a queste conseguono, appariva multiforme a vedersi. E poiché era piena di forze né somiglianti tra loro né equilibrate, in nessuna parte essa era in equilibrio, ma oscillando da ogni parte irregolarmente, era scossa da esse, e muovendosi a sua volta le scuoteva. Le cosd mosse, poi, separandosi continuamente venivano trasportate alcune da una parte altre dall'altra, così come nella pulitura del frumento, quando, scosse e ventilate dai vagli e dagli altri strumenti, le parti dense e gravi si raccolgono da una parte, e le rare e leggere si collocano da un'altra parte. Così, allora, essendo quei quattro generi scossi dal ricettacolo, che si muoveva esso stesso come uno strumento scuotitore, avveniva che le parti più disuguali in massimo grado si separavano moltissimo tra di loro, e le parti simili in massimo grado si comprimevano nel medesimo luogo, e perciò occupavano un luogo le une diverso dalle altre, anche prima che si generasse da esse l'universo ordinato. E prima di questo tutte le cose si trovavano senza ragione e senza misura. Ma quando Dio intraprese a ordinare l'Universo, il fuoco in primo luogo e la terra e l'aria e l'acqua avevano bensì alcune tracce (Ì:XV'll) di sé, ma si trovavano in quella condizione in cui è naturale si trovi ogni cosa, quando un Dio è assente [ ... ] 20 •
4) Da ultimo va rilevato che, proprio come prima connotazione del Principio materiale (eh~ in un certo senso ingloba in qualche modo in maniera generica le tre che abhiamo " Timeo, 30 a. " Timeo, 52 d-53 b; cfr. Reale, Platone ... , pp. 546 sgg.
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illustrato) Platone richiama i concetti di « necessità » (&.vayXTJ) e di « causa mutevole » (7tÀ.
Per « necessità » Platone intende qui la mancanza totale di finalismo (la mera disteleologia), vale a dire alcunché di indeterminato e di anomalo e quindi il casuale, il disordine in senso globale. E appunto questo significa l'espressione « causa errante », ossia causa che agisce .1 caso e in modo anomalo. Ed ora che abbiamo precisato quello che Platone dice espressamente nel Timeo, e quindi nello scritto, intorno al Principio materiale, ci dobbiamo domandare quale sia il nesso che lo collega alla Diade indefinita di cui parlano le « Dottrine non scritte », cui la tradizione indiretta lo connette m maniera esplicita e precisa 22 • 21 Timeo, 47 e-48 h; cfr. Reale, Platone ... , pp. 531-535. " Cfr. Aristotele, Fisica, ~ 2, 209 h 11-17 (Gaiser, Test. Plat., 54 A Kramer, 4); Aristotele, Metafisica, A 6, 987 h l sgg.; 988 a lOsgg. (Gaiser, Test. Plat., 22 A = Kramer, 9); Teofrasto, Metafisica, 6 a 23-h 5 {Gaiser, Test. Plat., 30 = Kramer, 8); Simplicio, In Arist. Phys., p. 248, 5-15 Diels (Gaiser, Test. Plat., 31 = Kramer, 13); Simplicio, In Arist.
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L'espressione Diade indefinita di grande-e-piccolo esprime in maniera sintetica la natura del Principio materiale, che consiste in un tendere in maniera in-determinata e il-limitata nella doppia direzione del grande e del piccolo in vari modi. Questo tendere al grande e al piccolo, ossia al più e al meno in tutti i sensi, all'infinito, evidentemente, vale per tutto ciò che a tutti i livelli tende al più e al meno, all'eccesso e al difetto, alla dismisura nelle opposte direzioni. Pertanto, la chora del Timeo (e tutto ciò che del Principio materiale il dialogo dice) rappresenta solamente una parte della Diade, o meglio un aspetto, o, per dirlo in maniera ancora più precisa, il livello più basso della medesima (il livello sensibile). Dunque, la chora rientra nella Diade, ma non la esaurisce affatto. Evidentemente, la teoria che leggiamo nel Timeo doveva occupare un posto importante anche nelle lezioni di Platone, e forse proprio con tutti e quattro i caratteri che abbiamo richiamato; tuttavia essa si limitava soltanto a quanto riguarda i fenomeni sensibili, e quindi doveva risultare solo come una parte della visione globale. Infatti la Diade, in quanto tale, abbraccia un quadro assai più esteso, dato che rientra nella spiegazione dell'intera realtà a tutti i livelli. In conclusione, possiamo dire con sicurezza che ciò che Platone ci riferisce intorno al Principio materiale nel Timeo (e in generale nei vari dialoghi) non è esaustivo, e che, pertanto, è necessario risalire ai vertici di astrazione metafisica raggiunti nelle « Dottrine non scritte », i cui tratti essenziali ci sono stati conservati dalla tradizione indiretta. Evidentemente, i'l Principio anti-tetico al Bene-Uno si differenzia nei diversi gradi dell'essere, e in particolare nelle tre grandi sfere: l) quella ideale, 2) quella intermedia, 3) quella sensibile. Nella sfera ideale il Principio antitetico produce specialmente la differenziazione e la graduazione gerarchiPhys., pp. 430,34-431,16 Diels (Gaiser, Test. Plat., 55 B); cfr. Reale, Platone ... , pp. 549-559.
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ca; nella sfera intermedia esso produce anche la molteplicità delle medesime realtà in senso orizzontale e sempre a livello intelligibile; invece il novum, che esso introduce nella sfera del sensibile, consiste appunto nel dare origine alla dimensione del sensibile medesimo, con tutte le sue implicanze, rispetto ai.le dimensioni dell'intelligibile. Aristotele stesso nella Metafisica più volte fa menzione del problema dell'esistenza di una materia intelligibile oltre alla materia sensibile, collegando la questione della materia intelligibile proprio alla problematica platonica delle Idee e degli enti matematici. Evidentemente, questo tema essenziale delle «Dottrine .non scritte» aveva esercitato su di lui un influsso veramente notevole, al punto che si è sentito obbligato a chiamarlo in causa più di una volta 23 • Un ultimo importante punto va ancora chiarito. La tradizione indiretta ci riferisce che Platone riportava all'Uno la causa del Bene e alla Diade quella del Male. Tuttavia non ci dice espressamente che a tutti i livelli la Diade fosse considerata come tale. In effetti, sarebbe difficile spiegare come ai livelli intelligibili, dove la Diade agisce come principio di differenza, di gradazione e di molteplicità, possa essere causa di male in senso vero e proprio, e soprattutto di che tipo di male. O meglio, l'unica prospettiva secondo la quale la Diade può considerarsi causa del male nella sfera degli intelligibili è quella generalissima, nella misura in cui da essa dipendono le Idee negative delle varie coppie di contrari. Pertanto, a livello intelligibile, la Diade è causa del negativo (e in questo senso del male) solamente in senso paradigmatico e astratto. Invece, ben si capisce in che senso la Diade sensibile debba essere considerata causa dei mali in senso concreto; e torna chiarissimo ciò che il nostro filosofo ci di" Cfr. Aristotele, Metafisica, Z 10, 1036 a 9-12; Z 11, 1037 a 5-13; H 6, 1045 a 33-35; K l, 1059 b 14-21 e il nostro commentario alla Metafisica a questi luoghi. Si veda in particolare: H. Happ, Hyle. Studien zum aristotelischen Materie-Begriff, Berlin-New York 1971, pp. 581-615.
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ce nel T eeteto, e cioè che non è possibile che il male abbia sede presso gli Dei (ossia nella sfera degli intelligibili), ma che esso si aggira attorno alla natura mortale, in questo mondo 24 • Dunque, il Principio antitetico all'Uno-Bene è causa di male prevalentemente (almeno in maniera concreta e specifica) al suo livello più basso: a livello sensibile la Diade non viene dominata totalmente dall'intelligibile e dal razionale, e lascia, quindi, delle falle aperte ad un dis-ordine e ad una dis-misura di uno spessore ben diverso rispetto a quello che si verifica nella sfera degli intelligibili, dove la Diade causa, in ultima analisi, solo antitesi, differenza, molteplicità e abbassamento di grado, a livello metafisica, mentre nella sfera del sensibile la Diade mantiene aperte le conseguenze negative del divenire, della caducità antologica, della insufficienza gnoseologica e della problematicità assiologica, msomma tutti i caratteri legati alla sfera del sensibile.
4. L ' « Un o » c o m e c i fra emblema t i c a dell'agire e dell'operare del Demiurgo Come opera esattamente il Demiurgo su questo Principio materiale, plasmandolo secondo il mondo delle Idee? Platone stesso ce lo ha chiaramente rivelato, precisando che il Demiurgo, in quanto è il « buono » in grado sommo (ossia l'« ottimo » ), opera attuando il Bene in sommo grado, con il portare nel disordine l'ordine: Egli era buono ( tiyalMç), e in un buono non nasce nessu· na invidia per nessuna cosa. Essendo, dunque, lungi dall'invidia, Egli volle che tutte le cose diventassero il più possibile si· " Cfr. Teeteto, 176 a-b. La testimonianza pitl famosa delle << Dottrine non scritte >>, in cui Platone collegava la Diade del grande-e-piccolo con la <
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mili a sé [ ... ]. Infatti Dio, volendo che tutte le cose fossero buone ( àyaM ), e che nulla, nella misura del possibile, fosse cattivo, prendendo quanto era vi-sibile e che non stava in quiete, ma che si trovava confusamente e disordinatamente, lo portò dal disordine (Èx -.fjc; à'ta;t:ac;) all'ordine (Ei.c; -.àçw), giudicando questo totalmente migliore di quello. Infatti non è lecito a chi è ottimo ('tcll àpLCT't~) di fare se non ciò che è bellissimo ( 'tÒ xàÀ.À.LCT't0'\1)
25 •
E nel fare questo, il Demiurgo si è basato sull'Uno (che, come sappiamo, è, per Platone, l'essenza stessa del Bene), e quindi ha operato realizzando l'unità-nella-molteplicità nei modi più vari e più cospicui, mediante la misura e i rapporti numerici e geometrici. In effetti, ci dice Platone, senza l'intervento di Dio tutte le cose (tutte le cose che rientrano nel Principio materiale) si trovano « senza ordine e senza misura » (àMywc; xat IÌ!J.É'tpwc;). E l'ordinare l'universo consiste proprio nel produrre i logoi, i rapporti numerici, la misura e quindi nel plasmare e modellare « secondo forme e numeri » (ELOECTL xat àpLB~J.oi:c;); e proprio questo produce cose bellissime e ottime (xàÀ.À.LCT'ta xat &pLcr-.a). E, allora, ciò che il Demiurgo produce è un bene che si infonde nel Principio materiale mediante rapporto numerico (à'llaÀ.oyla ), e col proporzionare le cose in disordine secondo rapporti numerici (CTV'IITJPIJ.écrBaL -.av-.a à'llà. À.6yo'11). In altri termini, l'attività del Dio-Demiurgo consiste nel portare in quelle cose che si trovavano in condizione priva di ordine (à-.àx-.wc;) la misura o com-misura (CTV!J.IJ.E'tpCa), e quindi nel portare in esse ordine e proporzione generale e particolare, in modo da condurle ad essere in adeguato rapporto con la misura (èhtTJ ou'\la'tÒ'\1 Tl'll à'llàÀ.oya xat crVIJ.!J.E'tpa EL'IIaL). E proprio poche righe prima di queste affermazioni, Platone ci dice (in un passo su cui ancora più avanti torneremo) che la scienza e la potenza di Dio consistono proprio " Timeo, 29 e-30 a.
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nel mescolare « i molti in uno » (..-à 1tONÀ.à EÌ.c; Ev) e nel sciogliere le cose « dall'uno in molti (Èç Èvòc; dc; 1toÀ.À.a) 26 • Dunque, è esattamente facendo riferimento all'Uno (e ai vari modi in cui l'Uno si esplica e realizza a vari livelli) che, con insistenza, Platone ha caratterizzato in generale e in particolare l'attività e le opere del Demiurgo, come abbiamo detto. Riassumiamo in sintesi questa ripetuta insistenza sull'« Uno» come oitra caratterizzante l'attività e l'opera dell'Intelligenza demiurgica. l)· Il mondo è ·perfetto, perché è realizzato come uno (Ev). E per essere perfetto deve essere uno, perché uno è il modeHo in quanto tale; e il cosmo è l'immagine di questo modello (una immagine di un unico modello) 27 • 2) L'unità del cosmo, inoltre, è garantita dal particolare legame che il Demiurgo ha stabilito fra i quattro elementi, che è un tipo di legame che fa delle cose legate un « uno in grado supremo » (o·n !J.aÀ.LCT'ttx Ev). E appunto su questa base del rapporto numerico (civaÀ.oyt:a), che porta tutte le cose all'unità (fv-1t!iv..-a), il Demiurgo fonda l'amicizia (cpLÀ.Ltx), ossia la comunione di tutte le cose fra di loro 28 • 3) Inoltre, il cosmo è costituito come un uno-tutto, ossia come un « uno »-« intero » (Ev-oÀ.ov), proprio perché si basa su un calcolo numerico, che ingloba in un uno-intero la totaNtà degli interi, senza lasciare fuori nulla 29 • 4) Anche la forma sferica del cosmo realizza perfettamente l'unità, perché la sfera è una forma che include in sé tutte le forme (crxii!J.tx ..-ò 1tEpLELÀ.TJcpòc; f:v aù..-Q 1t
" " " "'
Timeo, Timeo, Timeo, Timeo,
53 a-b, 56 c, 68 d-69 b. 30 b-31 a; cfr. Reale, Platone ... , pp. 572 sgg. 31 b-32 c; cfr. Reale, Platone ... , pp. 575 sgg. 32 c-33 b; cfr. Reale, Platone ... , pp. 578 sg.
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stesso modo (e quindi sintetizza stabilità e movimento). E questo vale anche per l'essere autarchico, che fa il mondo uno, in quanto fa sì che esso non abbia bisogno di niente altro 30 • 5) Anche il tempo, creato insieme al cosmo, realizza una unità nel suo scorrimento, in quanto il tempo imita l'eternità che è un permanere nell'unità (Èv ÉvC}. E questa imitazione dell'unità dell'eternità avviene mediante il numero (xtx·t' à.pL9~6v) 31 • 6) Ma proprio nella creazione (produzione) dei quattro elementi materiali sensibili, il Demiurgo, realizzando l'immagine dei modelli ideali, esplica una complessa articolazione di forme e numeri (EtOEO'L xtx1. à.pL9~oi:ç) che de-limitano il Principio materiale sensibile, come vedremo. E questo è un perfetto modo di realizzare l'unità-nella-molteplicità 32 • 7) lnfìne l'anima stessa, che l'Intelligenza demiurgica ha creato al fìne di realizzare perfettamente il modello dell'intelligibile nel sensibile, è una (una Idea, ~Ctx 1.oÉtx ), e precisamente una unità che è costituita con la mescolanza di tre realtà (Èx 't'pLwv Ev ), e un « intero » (oÀ.ov) strutturato secondo dimensioni geometriche e numeriche armoniche, che realizzano il Bene, ossia l'Unità, la Misura, l'Ordine in modo perfetto 33 , come ora spiegheremo meglio.
5. L'attività creazionistica del Demiurgo platonico intesa in dimensione ellenica In questo produrre l'unità-nella-molteplicità, e quindi
"' Timeo, 33 b-34 a; dr. Reale, " Cfr. il paragrafo che segue e " Cfr. il paragrafo che segue e 33 Cfr. il paragrafo che segue e
Platone ... , pp. 579 sgg. le note 36-38. le note 39-40. le note 41-44.
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nel produrre il « misto » 34 dell'essere cosmologico e le strutture che lo rendono possibile, si esplica l'attività creatrice del Demiurgo nel più alto grado possibile nella dimensione del pensiero degli Elleni, che è una forma di semi-creazionismo (sia pure cospicua), se paragonata con quella del Dio biblico. Infatti, mentre la creazione del Dio biblico è assoluta, in quanto non presuppone nulla ed è pertanto un produrre ex nihilo, l'attività creatrice del Demiurgo platonico non è assoluta, in quanto presuppone, proprio per produrre, l'esistenza di due realtà aventi fra loro un nesso metafisica bipolare: quella dell'essere che è sempre allo stesso modo, che funge da esemplare e quella del Principio materiale sensibile, caratterizzato dal più-e-meno, dal diseguale, dal disordine e dall'eccesso. Portare questa realtà dis-ordinata all'ordine è appunto portare il non-essere verso l'essere, ossia «creare» un essere generato, che nel miglior modo possibile realizzi sensibilmente l'essere ingenerato (e appunto questo è il « creazionismo » in senso ellenico). Ma per capire bene questo, dobbiamo tenere ben presenti alcuni concetti che già conosciamo, e riassumere in maniera sinottica le cose che abbiamo detto e completarle. a) Le mediazione fra la sfera dell'essere eterno e quella della realtà sensibile, e quindi la « creazione » (passaggio dal non-essere verso l'essere), implica, secondo Platone, una complessa articolazione numerica e geometrica, perché, a suo avviso, solo attraverso questa è possibile calare nel sensibile l'intelligibile. Ma questa trama di articolazioni numeriche e geometriche resterebbe incomprensibile, se non si tenessero ben presenti la struttura metafisica-numerica delle Idee platoniche e i nessi numerici (à.pL9!-LoL, MyoL) che collegano in particolare e in generale ciascuna Idea con tutte le altre, os" Timeo, 47 e-48 a, dice a tutto tondo che questo mondo è nato esattamente dalla mescolanza di necessità e di intelligenza: 1-1 E 1-1 E~ y 1-1 É \1 T} yàp OV\1 'h nvliE -rov x6CT!-10V yÉ\IECT~c; Èl; à \1 y x T} c; 'rE xaL \1 o ij
a
CTVCT'raCTEWç ÈyEwi}l)T).
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sia la complessa questione delle Idee-Numeri, che sopra abbiamo illustrato. b) Questa complessa trama metafisica-numerica a puro livello ideale implica, inoltre, una sfera intermedia mediatrice. Gli enti matematici, con la trama numerica e geometrica che riproducono, formano esattamente la struttura mediatrice (e per questo sono detti appunto « intermedi ») fra i Numeri Ideali, le Idee o Forme eterne, da un lato, e le cose sensibili, dall'altro. In effetti, gli « enti matematici » sono la necessaria mediazione fra ciascuna Forma o Idea che è « una » sola (Ev EXt1cr-.ov IJ.Ovov) e la moltiplicazione della medesima in una pluralità. E, appunto per questo, gli enti matematici intermedi sono « immobili ed eterni» come le Forme; ma ve ne sono « molti simili ». Dunque, il passaggio fra le Idee e le cose corrispondenti, che è un passaggio che avviene fra Uno (tv) e molti (1toÀ.À.a), viene spiegato con l'introduzione di molti enti eterni simili fra loro (citOLt1 x11t cixLvT)-.11-'ltOÀ.À.' lh-.t1 OIJ.OLt1), in modo che fra la Forma-uno ingenerata e incorruttibile (da un lato) e i corrispondenti molti enti simili generati e corruttibili (dall'altro lato), si pongano come intermedi i molti enti simili ingenerati ed eterni, che sono appunto gli «enti matematici » 35 • Ed è questo che ben spiega, di conseguenza, H dispiegarsi della struttura bipolare del rea•le in generale, e in particolare i complessi nessi fondativi sussistenti fra la trascendenza del mondo delle Idee ri5petto al mondo sensibile e la partecipazione di questo a queUo, e il superamento radicale delle obiezioni alla teoria delle Idee e in particolar modo il superamento delle difficoltà incentrate sulla loro trascendenza. Soffermiamoci su tre dei p un ti che caratterizzano nella maniera più perfetta l'attività creatrice in senso ellenico del Demiurgo, che consiste nel portare l'Uno nei Molti mediante " Aristotele, Metafisica, A 6, 987 b 14-18 (Gaiser, Test. Plat., 22 A = Kriimer, 9).
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gli enti matematici e la dimensione numerica: l) la creazione del tempo, 2) la creazione degli elementi e 3) la creazione dell'anima. l) Incominciamo dall'esame della creazione del tempo. L'esemplare cui il Demiurgo si riferisce nella creazione del cosmo è eterno (il Vivente eterno, ossia l'Idea globale del cosmo che implica l'essenza della vita). Ora, l'eterno è un permanere nell'unità (Èv Évi.). E, allora, come è possibile imitare questo permanere nell'unità, che è carattere essenziale dell'eternità? Proprio la mediazione del numero rende possibile la risposta. L'immagine dell'eternità è lo scorrimento della medesima, ossia lo scorrimento dell'unità, secondo una scansione numerica, che si realizza nel giorno e neHa notte, nel mese e nell'anno, e quindi si muove ciclicamente secondo il numero. Da questo movimento ciclico numericamente determinato nascono l'« era » e il « sarà » del tempo. E proprio per questo l'« era » e il « sarà » non si possono correttamente riferire agli enti eterni, per i quali vale solo l'« è », perché « era » e « sarà » non sono se non la copia mobile numerata dell'« è» dell'eterno, che permane nell'uno 36 • Ecco il punto più significativo dell'importante testo: Ora abbiamo notato che la natura del Vivente è eterna, e che questa non era possibile adattarla perfettamente a ciò che è generato. Pertanto Egli pensò di produrre una immagine mobile dell'eternità, e mentre costituisce l'ordine del cielo, dell'eternità che permane nell'unità ( Èv ÉvC) fa un'immagine eterna che procede secondo il numero ( xa.'t' cipd)J.LOV ), che è appunto quella che noi abbiamo chiamato tempo 37
Dunque, per Platone « il tempo fu generato insieme con "' Cfr. Timeo, 37 d-39 d. " Timeo, 37 d 3-7.
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il cielo », e « secondo il modello » 38 ; e così, riproducendo questo modello secondo la scansione e la trama numerica, il tempo e H cielo, fatti insieme, sono e saranno sempre (il tempo perirebbe insieme al cielo, se, per ipotesi, il cielo perisse; e, naturalmente, anche viceversa). Pertanto, Platone formula una tesi veramente dirompente, e che gli stessi suoi discepoli non sapranno recepire in maniera adeguata, o intendendola in chiave allegorico-didattica, o confutandola, come fece Aristotele. La netta distinzione fra l'eterno e il tempo, e la precisazione che non è corretto applicare all'eterno « era » e « sarà », risolvono in partenza tutta una serie di difficoltà, che nella storia del pensiero occidentale sono state sollevate a vari livelli e a varie riprese. 2) Più complessa e articolata risulta l'operazione produt-
trice dei quattro el'ementi: acqua, aria, terra e fuoco. Come sopra abbiamo già rilevato, all'origine acqua, aria, terra e fuoco avevano solamente « qualche traccia di sé » all'interno del plesso del Principio materiale, ossia erano in uno stato di totale disordine. Dio li produce (li « crea » in senso ellenico) e li costituisce, in modo bello e buono, operando attraverso forme e numeri, e quindi producendo un « misto » fra il Principio materiale e ciò che delle Idee dei quattro elementi è realizzabile nel Principio materiale medesimo mediante forme geometriche e numeri. Ecco un testo esemplare, in parte già letto: E prima di questo tutte le cose si trovavano senza ragione Ma quando Dio incominciò a ordinare l'Universo, il fuoco in primo luogo e la terra e l'aria e l'acqua, avevano bensì qualche traccia di sé, ma si trovavano in quella condizione in cui è naturale si trovi ogni co-
( àÀ.éywç) e senza misura ( à~É"t"pwç).
38
Timeo, 38 b 6-8: importante notare le forti espressiOni: xp6voc;
•.. !J.E'T' oùpavov yÉyovEv e inoltre: xa'Tà 'TÒ 1tapaliELY!J.a.
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sa, quando Dio è assente. Queste cose, dunque, che allora si trovavano in questo stato, egli in primo luogo le modellò con forme e con numeri (EÌ:OEO'L 'tE xat àpd}IJ.o~<;). Che Dio abbia costituito queste cose nel modo più bello e migliore che fosse possibile, muovendo da una loro condizione che non era affatto così, anche questo per ogni cosa resti saldo come detto una volta per tutte 39 • Nel costituire i quattro elementi, il Demiurgo prende le mosse daUe due forme più belle di triangoli: dai triangolo rettangolo isoscele e da quello che si ottiene dividendo in due il triangolo equilatero con una perpendicolare (oppure dividendo il medesimo triangolo in sei triangoli, tracciando una perpendicolare da ogni vertice r1spetto al lato opposto). In base al triangolo isoscele viene formato dal Demiurgo uno solo dei quattro elementi, nel modo seguente. Coordinando quattro triangoli isosceli con gli angoli retti, congiunti attorno ad un centro, si ottiene un quadrato, e combinando sei quadrati in maniera opportuna si ha un cubo; e questo costituisce la struttura atomica che configura l'elemento terra. Combinando, invece, sei triangoli del secondo tipo, si ha un triangolo equilatero, che opportunamente moltiplicato e combinato in una maniera esatta (che Platone indica, ma che qui non possiamo precisare, perché il discorso dovrebbe ampliarsi eccessivamente), dà origine a) al tetraedro (piramide regolare a base equilatera), che costituisce la struttura del fuoco; b) all' ottaedro, che costituisce la struttura dell'aria; c) all'icosaedro, che costituisce la struttura dell'acqua. Evidentemente, questi solidi regolari di struttura geometrica che costituiscono i quattro elementi, non sono di per sé visibili a motivo della loro piccolezza (essendo come degli atomi), mentre diventano visibili, riunendosi insieme in grande numero. In conclusione, la creazione e quindi la razionalità dei " Timeo, 53 a-b.
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corpi sensibili e del corporeo sensibile in generale dipendono esattamente dalla struttura geometrica e matematica. Il corporeo fisico-sensibile rispecchia la struttura del corporeo intelligibile (geometrico), ossia è la «mescolanza di una combinazione di necessità e di intelligenza » «~. Punto, Hnea, superficie, struttura tridimensionale, sul piano degli enti intermedi e ideali sono puramente intelligibili; invece, sinteticamente combinati o « mescolati » .:on il Principio materiale sensibile, danno origine ai corpi che vediamo e tocchiamo, mediante una penetrazione capillare che « imbriglia » il Principio materiale sensibile, di per sé caotico, fin nei minimi particolari, secondo la struttura atomistica sulla base dei solidi geometrici regolari. 3) Ancor più complessa risulta l'operazione della creazione dell'anima del mondo (e delle anime in generale). Essa viene prodotta mediante una duplice « mescolanza », una, per cosl dire, in senso verticale e una in senso orizzontale. Con la mescolanza in senso verticale, il Demiurgo produce tre intermedi in questo modo: a) un Essere intermedio fra l'Essere indivisibile e l'Essere divisibile, b) una Identità intermedia fra Ide,ntità indivisibile ~ Identità divisibile e c) una Differenza intermedia fra Differenza indivisibile e Differenza divisibile. Con la mescolanza che abbiamo chiamato orizzontale, invece, H Demiurgo opera sulle tre realtà intermedie (Essere intermedio, Identità intermedia e Differenza intermedia) in modo da formare 'Jna unità, derivante dalle tre realtà (Èx 't"pLwv Ev) 41 • Platone insiste, inoltre, sulla struttura geometrico-dimensionale dell'anima del mondo (in un senso ideale di linea
'" Cfr., sopra, la nota 34. Per un approfondimento di questo tema cfr. Reale, Platone ... , pp. 563-571. " Cfr. Timeo, 34 b-35 b; si veda Reale, Platone ... , pp. 585-598, con le indicazioni ulteriori che ivi diamo.
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e superfice, che plasmano la figura globa~e del cosmo), la quale dal mezzo di esso si estende da ogni parte e avvolge tutt'intorno i:l mondo medesimo, in cerchio, dal di fuori. E, oltre che sulla struttura dimensionale dell'anima, egli insiste anche sulla struttura numerica, mostrando éome questa struttura numerica coincida con quella musicale, e come appunto per questo i movimenti che l'anima imprime al mondo siano armonici (i movimenti che in questo modo l'anima imprime, riconducono nell'ordine armonico i movimenti caotici del Principio materiale) 42 • Con l'intelligenza infusagli dal Demiurgo l'Anima del mondo ha la funzione di realizzare in concreto H grande disegno del Demiurgo, e tramite il Demiurgo essa partecipa del mondo ideale. Con la sua struttura geometrica dimensionale e matematica essa fonda il passaggio fra Idee e mondo corporeo sensibile, e quindi riassume analogicamente l'intera realtà, costituendo il vero anello fra il mondo metafisica e il mondo fisico 43 • Ricordiamo che H Demiurgo crea anche tutte le stelle e gli astri come viventi divini ed eterni, con corpi sferici fatti prevalentemente di fuoco, e tutti quanti dotati di anime intelligenti, strettamente connessi all'intelligenza dell'anima del mondo. E, inoltre, Egli crea le anime degli uomini in maniera del tutto analoga. Nella « mescolanza » con cui crea queste anime, egli utilizza ciò che rimane di quei tre elementi con cui crea l'anima dell'universo, mescolandoli « pressoché nello stesso modo », e in questo modo le rende immortali 44 • Dunque, in tutti i sensi il creazionismo del Demiurgo si attua come un portare ordine nel dis-ordine in ogni parte con esattezza secondo rapporti numerici e geometrici per-
" Cfr. Timeo, 34 a-36 d. " L'espressione coniata dai Rinascimentali anima copula mundi si attaglierebbe in modo perfetto alla concezione platonica. "' Cfr. Timeo, 40 a-b; 41 d-42 a.
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fettamente proporzionatij e questo significa appunto portare l'Uno-nei-molti nei migliori dei modi possibili 45 •
6. I l D e m i u r go ( e n o n l ' I d e a d e l Be n e ) è il Dio di Platone Il Dio supremo, per Platone, è il Demiurgo (vale a dire l'Intelligenza suprema), che, come ci dict> il Timeo, è « il migliore degli esseri intelligibili » e « la migliore delle cause » 46 • L'Idea del Bene, invece, è « il Divino » ("t"ò i}ei:o'V). In altri termini, H Dio platonico è « colui che è buono » in senso personale, mentre « l'Idea del Bene » è il Bene in senso impersonale 47 • Per capire questo, vanno rilevati due punti essenziali. a) Il Dio per i Greci ha al di sopra di sé, dal punto di vista gerarchico, una regola o alcune regole supreme, cui deve riferirsi ed attenersi. E proprio in questo senso, anche il Dio platonico, che è la suprema Intelligenza, ha al di sopra di sé gerarchicamente una regola o delle regole, cui deve attenersi e cui deve ispirarsi nella sua attività. Dunque, in questa ottica, il Bene è la suprema regola (e il mondo delle Idee nel suo complesso costituisce come la totalità delle regole) cui Dio si ispira e si attiene, al fine di portarlo in atto a tutti i " Per completezza, ricordiamo che il creazionismo del Demiurgo si esplica anche nei confronti delle Idee d;!gli arte/acta, ossia delle Idee degli oggetti artificiali, come Platone ci dice nel libro x della Repubblica. Pertanto, il Demiurgo presuppone l'esistenza delle Idee generali e di quelle delle realtà naturali (alle quali fa riferimento e si ispira, come a modelli, nella costruzione del cosmo), ma <> (in senso ellenico) tutte quelle cui si ispirano gli uomini, come a modelli, nella produzione di tut· ti gli oggetti delle loro ad. Per un approfondimento del problema e per una interpretazione e un commento dei testi relativi ad esso cfr. Reale, Platone ... , pp. 439-453 . ... Timeo, 37 a, 29 a. " Cfr. Reale, Platone ... , pp. 463-470, 605 sgg.
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livelli; e appunto per questo Egli è il Buono e l'Ottimo per eccellenza, ossia l'ente più vicino al Bene, in quanto è l'Intelligenza che esplica e attua il Bene in senso globale. b) P armeni de ha introdotto nel pensiero greco la concezione secondo cui l'intelligenza è possibile solo se ha l'essere come suo fondamento, e se si esprime nell'essere e per l'essere. Dunque, anche una Intelligenza suprema, appunto in quanto intelligenza, per il Greco non produce il proprio fondamento, ma lo presuppone. E preci,samente in questo senso, anche per Platone l'Intelligenza suprema implica come suo fondamento il Bene (e in generale l'essere delle Idee e i Principi primi e supremi). Dunque, Dio è Buono per eccellenza, appunto perché opera in funzione dell'Idea del Bene, ossia deH'Uno e della suprema Misura, attuandoli perfettamente, nella misura del possibile. Pertanto, Dio agisce nel modo migliore ordinando, com-misurando il disordine, che deriva dal Principio materiale antitetico al Bene, nell'ottica della struttura bipolare che ben conosciamo, ossia uni-ficando il molteplice. E Dio volle 48 che tutte le cose divenissero il più possibile simili a Lui, che realizza in grado supremo il Bene-Uno, appunto imprimendo in esse il Bene, la Misura, e l'Ordine. E dunque, Dio, come Colui che realizza la Misura suprema, è Colui che realizza l'unità-nella-molteplicità, ossia che lega l'Uno e i Molti e i Molti e l'Uno in maniera perfetta. Il Timeo ce lo dice, di fatto, continuamente; ma ce lo ribadisce anche concettuaLmente ed espressamente molto bene, in un passo cui abbiamo già fatto cenno, e che è opportuno qui riportare quasi come una sigla concLusiva: Dio possiede in misura adeguata la scienza e ad un tempo la potenza per mescolare molte cose in unità ('ttX 7toÀ.À.à EÌ.c; itv) e di nuovo scioglierle dall'unità in molte ( Èç Évòc; ELe; 1toÀ." Cfr. Timeo, 29 e, 41 b.
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À.a); ma non c'è nessuno degli uomini che sappia fare né l'una né l'altra cosa, né ci sarà in avvenire 49 •
Naturalmente non c'è nessuno degli uomini che, per conto proprio, ossia prendendo se medesimo come misura di tutte le cose (come diceva Protagora), sappia o possa fare (sia pure in modo differente) neppure alla lontana quello che fa Dio. L'uomo, dunque, se vuole agire bene, deve fare quello che Dio stesso dopo aver creato gli Dei ha indicato loro come modello, ossia imitare la potenza da lui attuata nella creazione delle cose, vale a dire realizzare l'unità-nella-molteplicità, e in tal modo produrre ordine e armonia. E questo è appunto il modo in cui Platone ha inteso anche la giustizia e la virtù, ossia come manifestazioni di quel nesso metafisico che unifica tutta la realtà. Ed è davvero una interpretazione di ciò che lega tutte le cose (dell'amicizia e della comunanza, che fanno uno il Tutto) proposta al più alto grado in dimensione ellenica 50 •
" Timeo, 68 d. Si veda il discorso che il Demiurgo fa agli Dei creati, 1n Timeo, 41 a-d. La sua «potenza» che egli invita questi Dei a invitare, è quella di tradurre l'uno-nei-molti. Già nel Gorgia, 507 e-508 b Platone diceva che cielo, terra, Dei e uomini <<sono tenuti insieme dall'ordine, dalla saggezza e dalla rettitudine >>, e che è appunto questo che fa del mondo un << cosmo » e non << disordine e sregolatezza >>. Proprio in tale senso la tradizione indiretta riassumeva l'attività demiurgica, dicendo che il Dio platonico << sempre geometrizza>> (Plutarco, Quaest. conv., VIII 2). E appunto questo è il portare l'unità-nella-molteplicità. (Riportiamo il passo del Timeo, 41 a-ò, sotto, p. 367 e iJ passo del Gorgia, 507 e-508 b, sotto, p. 277). 50
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VI. LA GNOSEOLOGIA E LA DIALETTICA
l. L'anamnesi, radice e condizione della conoscenza n e l «Menone»
Abbiamo parlato del mondo dell'inteHigi:bile, della sua struttura e del modo in cui esso si riverbera sul sensibile. Resta ora da esaminare in quale modo l'uomo possa accedere conoscitivamente all'intelligibile. E, in generale, resta da rispondere ai seguenti problemi: come avviene e che cos'è la conoscenza? La conoscenza dell'intelligibile in che cosa differisce da quella del sensibile? H problema della conoscenza era stato agitato un po' da tutti i filosofi precedenti, ma non si può dire che qualcuno lo avesse impostato in forma specifica e definitiva. Platone è il primo a porlo in tutta la sua chiarezza, anche se, ovviamente, le soluzioni che propone negli scritti risultano, come sempre, aperte, e solo nelle « Dottrine non scritte » raggiungono il vertice supremo. La prima risposta al problema della conoscenza si trova nel Menone 1• Gli Eristi avevano tentato di bloccare capziosamente la questione, sostenendo che la ricerca e la conoscenza sono impossibili: infatti, non si può cercare e conoscere ciò che non si conosce, perché, se anche lo si trovasse, non lo si ' Per un commento analitico del dialogo rimandiamo alla nostra edizione, La Scuola, Brescia 1986".
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potrebbe riconoscere, mancando il mezzo per poterlo riconoscere; e neppure ha senso cercare ciò che si conosce, perché già lo si conosce: E in quale maniera ricercherai, o Socrate, questo che tu non sai affatto che cosa sia? E quale delle cose che non conosci ti proporrai di indagare? O, se anche tu ti dovessi imbattere proprio in essa, come farai a sapere che è quella, dal momento che non la conoscevi? 2 • È proprio per superare questa aporia che Platone trova
una nuovissima via: la conoscenza è anamnesi, cioè una forma di « ricordo », un riemergere di ciò che esiste già da sempre nell'interiorità della nostra anima. Vediamo di spiegare questa dottrina platonica, così spesso fraintesa. Si dice, infatti, da molti studiosi che essa non è che mito e niente affatto dottrina di carattere dialettico e teoretico e quindi è poco più che favola. In realtà la questione è ben !ungi dall'essere così riducibile ed eliminabile. Il Menone presenta la dottrina in una duplice maniera: una mitica e una dialettica, e bisogna esaminarle ambedue per non rischiare di tradire il pensiero platonico. La prima maniera, di carattere mitico-religioso, si rifà alle dottrine orfico-pitagoriche dei sacerdoti, secondo le quali, come sappiamo, l'anima è immortale ed è più volte rinata: la morte non è che il termine di una delle vite dell'anima in un corpo; la nascita non è che il ricominciare di una nuova vita, che viene ad aggiungersi alla serie delle precedenti. L'anima, pertanto, ha visto e conosciuto tutta la realtà nella sua globalità: la realtà dell'aldilà e la realtà dell'aldiqua. Se così è, conclude Platone, è facile capire come l'anima possa conoscere ed apprendere: essa deve semplicemente trarre da se medesima la verità che sostanzialmen2 Menone, 80 d (la traduzione dei passi del Menone è nostra; cfr. nota precedente).
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te possiede, e possiede da sempre: e questo « trarre da sé » è un « ricordare ». Ecco il celebre passo del Menone: E poiché, dunque, l'anima è immortale ed è più volte rinata, e poiché ha veduto tutte le cose, e quelle di questo mondo e quelle dell'Ade, non vi è nulla che non abbia imparato; sicché non è cosa sorprendente che essa sia capace di ricordarsi e intorno alla virtù e intorno alle altre cose che anche in precedenza sapeva. E poiché la natura tutta è congenere, e poiché l'anima ha imparato tutto quanto, nulla vieta che chi si ricordi di una cosa ciò che gli uomini denominano apprendimento - costui scopra anche tutte le altre, purché sia forte e non si scoraggi nel ricercare: infatti, il ricercare e l'apprendere sono in generale un ricordare. Non bisogna, dunque, prestar fede a quel discorso eristico: esso, infatti, d renderebbe neghittosi, e suona gradito agli orecchi degli uomini inetti; questo nostro, invece, rende operosi e stimola alla ricerca 3 •
Orbene, se Platone si limitasse a dire questo, avrebbero perfettamente ragione quanti lamentano il carattere meramente mitologico, e quindi la non validità in sede strettamente speculativa, della «reminiscenza »: ciò che infatti si fonda sul mito - e così formulata la reminiscenza si fonda su un mito - non può avere altro valore che di mito. Ma, subito appresso, nel Menone, le parti vengono esattamente rovesciate: quella che era conclusione diventa interpretazione speculativa di un dato di fatto sperimentato e accertato, mentre quello che prima era presupposto mitologico avente funzione di fondamento diventa invece conclusione. Infatti, dopo l'esposizione mitologica, Platone fa un « esperimento maieutico », che ha una straordinaria portata dimostrativa. Interroga uno schiavo assolutamente ignaro di geometria, e riesce a fargli risolvere, solamente interrogandolo socraticamente con metodo maieutico, una complessa questione di geometria (in sostanza implicante la conoscenza del ' Menone, 81 c-d (cfr. il nostro commento, pp. 39 sgg.).
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teorema di Pitagora). Dunque - così argomenta allora Platone - poiché lo schiavo non aveva prima imparato geometria, e poiché non gli è stata fornita da nessuno la soluzione, dal momento che egli l'ha saputa guadagnare da solo (sia pure con l'ausilio del metodo dialettico), non resta che concludere che egli l'ha tratta dal di dentro di se stesso, dalla propria anima, ossia che se ne è « ricordato » 4 • E qui, come è chiaro, la base dell'argomentazione, !ungi dall'essere un mito, è una constatazione e una prova di fatto, ossia che lo schiavo, come ogni uomo in generale, può trarre e ricavare da se medesimo verità che prima non conosceva e che nessuno gli ha insegnato. Ulteriormente, poi, dall'esserci la verità nell'anima, Platone deduce l'immortalità e la perennità della medesima: se l'anima possiede in proprio verità che non ha appreso in precedenza nella vita attuale, che sono velate ma che possono essere ridestate alla coscienza, vuoi dire che essa le ha possedute in proprio già prima della nascita dell'uomo in cui ora si trova, da sempre: l'anima, allora, è immortale, anzi, in un certo senso permanente nell'essere, così come la verità. Ecco la conclusione che Platone fa trarre da Socrate dopo aver fatto costatare a tutti, mediante l'esperimento maieutico, che lo schiavo incolto, guidato solamente da opportune domande, aveva saputo risolvere un difficile problema di geometria e raggiungere la verità: Socrate - Dunque egli [lo schiavo] conoscerà senza che nessuno gli insegni, ma solo che lo interroghi, traendo egli stesso la scienza da se medesimo. Menone- Sl. Socrate - E questo trarre la scienza di dentro a se medesimi non è ricordare? Menone - Certamente. ' Cfr. Menone, 82 b - 86 c (si veda il commento e l'approfondimento di questo punto nella nostra edizione, pp. 45·60).
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Socrate - E la scienza che ora egli possiede, o la imparò un tempo o la possedette sempre. Menone- Sl. Socrate- Dunque, se la possedette sempre, fu anche sempre conoscente; e se, invece, l'apprese un tempo, non poté certo averla appresa nella presente vita. Oppure gli insegnò qualcuno geometria? Costui, infatti, farà lo stesso per tutta la geometria, e per tutte quante le altre scienze. C'è, forse, qualcuno che gli abbia insegnato tutto? A buon diritto tu devi saperlo: non per altro, perché è nato ed è stato allevato in casa tua. Menone- Ma lo so che nessuno gli ha mai insegnato. Socrate - Ed ha o non ha queste conoscenze? Menone - Necessariamente, o Socl'ate, appare. Socrate - E allora, se non le ha acquistate nella presente vita, non è già evidente che le ebbe e le apprese in un altro tempo? Meno ne - È chiaro. Socrate - E non è forse questo il tempo in cui egli non era uomo? Menone- Sì. Socrate - Se, allora, e nel tempo in cui è uomo e nel tempo in cui non lo è, vi sono in lui opinioni veraci, le quali, risvegliate mediante l'interrogazione, diventano conoscenze, l'anima di lui non sarà stata in possesso del sapere sempre, in ogni tempo? È evidente, infatti, che nel corso di tutto quanto il tempo, talora è e talora non è uomo. Menone - È chiaro. Socrate - Se, dunque, sempre la verità degli esseri è nella nostra anima, l'anima dovrà essere immortale. Sicché bisogna mettersi con fiducia a ricercare ed a ricordare ciò che attualmente non si sa (questo è infatti ciò che non si ricorda) 5 •
Gli studiosi hanno spesso ripetuto che la dottrina della
anamnesi è nata in Platone da influssi orfìco-pitagorici; ma, dopo quanto abbiamo spiegato, è chiaro che almeno altrettanto peso ebbe, nella genesi della dottrina, la maieutica socratica. È evidente, infatti, che, per potere maieuticamente far sorgere la verità dall'anima, la verità deve sussistere nell'ani' Menone, 85 d- 86 b.
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ma. La dottrina dell'anamnesi viene così a presentarsi, oltre che come un corollario della dottrina della metempsicosi orfico-pitagorica, altresì come la giustificazione e l'inveramento (ossia la fondazione metafisico-gnoseologica) della possibilità stessa della maieutica socratica.
2. R i c o n ferme d e Il a namnesi nei dialoghi
d o t t r i n a d e Il ' asuccessivi
Una ulteriore riprova dell'anamnesi Platone ha fornito nel Pedone 6 , rifacendosi soprattutto alle conoscenze matematiche (che ebbero enorme importanza nel determinare la scoperta dell'intelligibile) 7 • Platone argomenta, in sostanza, come segue. Noi costatiamo con i sensi l'esistenza di cose uguali, maggiori e minori, quadrate e circolari, e di altre analoghe. Ma, ad un'attenta riflessione, noi scopriamo che i dati che ci fornisce l'esperienza - tutti i dati, senza eccezione di sorta - non si adeguano mai, in modo perfetto, alle corrispondenti nozioni che, pure, noi possediamo indiscutibilmente: nessuna cosa sensibile è mai « perfettamente » uguale ad un'altra, nessuna cosa sensibile è mai « perfettamente » e « assolutamente » quadrata o circolare, eppure noi abbiamo queste nozioni di uguale, di quadrato e di circolo « assolutamente perfetti ». Allora bisogna concludere che fra i dati dell'esperienza e le nozioni e le conoscenze che noi abbiamo esiste un dislivello: queste ultime contengono un qualcosa di più rispetto a quelli. E donde può mai derivare questo plus? Se, come si è visto, non deriva e non può strutturalmente provenire dai
• Cfr. Fedone, 73 c sgg. ' Rimandiamo, su questo argomento, alle chiare pagine di Le sens du platonisme, Paris 1967, pp. 115 sgg.
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J.
Moreau,
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sensi, cioè dal di fuori, non resta che condudere che viene dal di dentro di noi. Orbene, non può venire dal di dentro di noi come creazione del soggetto pensante: il soggetto pensante non « crea » questo plus, lo « trova » e lo « scopre »; ed esso, anzi, si impone al soggetto medesimo, assolutamente. Dunque, i sensi ci danno solo conoscenze imperfette; la nostra mente (il nostro intelletto, il nostro spirito) in occasione di questi dati, scavando e quasi ripiegandosi su di sé e facendosi intima a sé, trova le corrispondenti conoscenze perfette. E poiché non le produce, non resta se non la conclusione che essa le ritrovi in sé e le ricavi da sé come un « originario possesso », « ricordandole ». In tal modo, le matematiche rivelano che la nostra anima è in possesso di conoscenze perfette, che non derivano dalle cose sensibili, e che rispecchiano, anzi, modelli o paradigmi cui le cose tendono, pur senza riuscire a raggiungere, come sappiamo dall'esposizione fatta della dottrina ontologico-metafìsica. E il medesimo ragionamento Platone ripete a proposito delle varie nozioni estetiche ed etiche (buono, beNo, giusto, santo, etc.), che noi possediamo e di cui facciamo uso nei nostri giudizi e che, manifestamente, non ci derivano solo dall'esperienza sensibile, perché sono più perfette dei dati che ci sono .forniti dall'esperienza, e che, quindi, contengono quel plus, che non si può giustificare se non nella maniera detta, cioè come scaturente ad un originario e puro possesso della nostra anima, che viene riguadagnato in maniera esplicita come reminiscenza. Ecco il passo del Pedone che contiene il momento risolutivo del ragionamento: - E allora, soggiunge Socrate, a proposito di quegli uguali che riscontriamo nei legni e in quelle altre cose uguali di cui poco fa ragionavamo, dimmi: ti paiono uguali cosl come l'uguale in sé, oppure sono per qualche rispetto manchevoli per poter
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essere tali quale è l'uguale in sé? Oppure non sono per nessun rispetto manchevoli? - Sono manchevoli, e di molto, rispose. - E allora si·amo d'accordo che quando qualcuno, vedendo qualche cosa, ragiona così: «questa che io ora vedo è qualche cosa che vuole essere come un'altra, cioè come uno degli esseri che sono per sé, ma rispetto ad esso è manchevole e non riesce ad essere come quello ed è inferiore a quello»; ebbene, siamo d'accordo che chi ragion"<~ in questo modo necessariamente deve aver prima visto ciò al quale dice che la cosa assomiglia, sì, ma assomiglia in modo difettoso? - Necessariamente. - E allora? Non è qualcosa del genere quello che avviene anche in noi a proposito delle cose uguali (empiriche) e dell'uguale in sé? - Sì, certamente. - Dunque, è necessario che noi abbiamo veduto l'uguale in sé prima di quel momento in cui, avendo visto per la prima volta cose eguali, abbiamo pensato che esse tendono, sì, tutte quante ad essere come l'uguale in sé, ma, rispetto ad esso, sono difettose. - È così. - Ma anche in questo siamo d'accordo: che noi per la conoscenza di quello non siamo partiti e non possiamo partire da altro, se non da un vedere o da un toccare o da qualunque altra percezione sensoriale tu voglia, giacché non fa differenza. - Sì, rispetto a quello che il nostro ragionamento vuoi dimostrare, non fa differenza, o Socrate. - Però dalle sensazioni bisogna che in noi nasca il pensiero che tutte le cose uguali che percepiamo mediante le sensazioni, tendono ad essere come l'uguale in sé, ma rispetto ad esso sono difettose. O dobbiamo dire diversamente? - No, così. - Allora, prima che noi incominciassimo a vedere, a udire e ad adoperare gli altri sensi, dovevamo pure avere appreso, in qualche modo, la conoscenza dell'uguale in sé, di ciò che esso è, per essere in grado di riferire a quello le cose uguali sensibili, e accorgerci che tutte queste hanno desiderio di essere come quello, ma rimangono inferiori ad esso. - Necessariamente, in base a quello che si è detto innanzi, o Socrate.
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- E non è forse vero che incominciamo subito a vedere e a udire e a usare gli altri sensi non appena siamo nati? - Certo! - E non abbiamo anche detto che, prima ancora di avere sensazioni, bisognava che noi avessimo appreso la conoscenza dell'uguale in sé? - Sì. - Dunque, prima di nascere, come sembra, è necessario che noi fossimo in possesso di quella conoscenza. - Sembra. - Orbene, se, avendo appresa prima della nascita questa conoscenza, nascemmo possedendola, noi conoscevamo, prima che nascessimo e subito dopo nati, non solo l'uguale, il maggiore e il minore, ma anche tutte le altre realtà di questo genere. Infatti, il ragionamento che ora stiamo facendo non vale solo per l'uguale in sé, ma anche per il bello in sé, per il buono in sé, per il giusto in sé, per il santo in sé e per ciascuno degli altri esseri, come io dico, ai quali noi, domandando nelle nostre domande e rispondendo nelle nostre risposte, poniamo il sigillo dell'« essere in sé ». Pertanto, è necessario che noi abbiamo appreso le nozioni di tutte queste cose prima di nascere 8 •
La reminiscenza suppone strutturalmente un'impronta impressa nell'anima dall'Idea, una metafisica originaria « visione» del mondo ideale che resta sempre, anche se velata, nell'anima di ognuno di noi 9 • Platone ha poi costantemente mantenuto la teoria della reminiscenza e l'ha espressamente ribadita nel Fedro (che è posteriore alla Repubblica), così come nel tardo Timeo. Nel Fedro leggiamo: Bisogna che l'uomo conosca mediante ciò che diciamo Idea, che procede dalla molteplicità delle sensazioni all'unità (Etc; ~v) guadagnata cori il ragionamento: e questa è la reminiscenza • Pedone, 74 d- 75 d. ' Sul significato dell'anamnesi platonica si leggeranno con profitto le pagine di M. F. Sciacca, ispirate all'a-priori oggettivo in senso rosminiano, in: Platone, Milano 1967, vol. I, pp. 38 sgg.
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( civcl,!J.VT)CT~ç) di quelle cose che una volta la nostra anima ha ve-
duto, trovandosi al seguito di un Dio e sdegnando le cose che noi ora diciamo essere, teneva il capo sollevato verso ciò che è veramente 10 • Come si è detto, in effetti, ogni anima dell'uomo per natura ha contemplato gli esseri, altrimenti non sarebbe giunta 1n questa vita; ma non è facile ad ogni anima dalle cose di qui ricordarsi (civa.!J.LIJ.vtJcrxEcri}a.L) delle cose di lassù [ ... ] 11 • E nel Timeo il Demiurgo, subito dopo aver creato le anime destinate poi ad essere incarnate in corpi umani, e dopo averle affidate agli astri (affinché tramite essi passassero nei corpi), mostra loro l'originaria verità: quella verità che, entrando poi nei corpi, l'anima oblitera, ma non interamente:
Dopo averne fatto elementi con cui aveva in anime, tante quante scun astro, e postele in
un tutto [scil.: di quanto restava degli costituito l'anima dell'universo] lo divise erano gli astri e distribuì ciascuna in ciatal modo come su un veicolo, mostrò loro
la natura dell'universo (-.;l}v nu 7ta.v-.;òç cpucrL'\1 EOELçEv) e disse loro le leggi fatali 12 •
Così come l'abbiamo esposta ed interpretata, la dottrina platonica della conoscenza come reminiscenza delle Idee diventa qualcosa di assai meno fantasioso di quanto certe sprovvedute interpretazioni non abbiano indotto a pensare. Qualche studioso ha ravvisato nella reminiscenza delle Idee la prima scoperta occidentale dell'a-priori. Questa espressione, una volta chiarito che non è platonica, può senza dubbio essere usata, a patto che si intenda non l'a-priori di tipo kantiano e neo-kantiano o in genere idealistico 13 , che è un a-
° Fedro,
2~9 b-e. Fedro, 249 e-250 a. " Timeo, 41d-e. " Come pretende P. Natorp, Platos Ideenlehre, Leipzig 1903 (e la corrente di ispirazione neo-kantiana, su cui il lettore troverà ampia informa1
11
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priori soggettivo (sia pure in senso trascendentale), bensì un a-priori oggettivo, l'a-priori che il platonico Rosmini ha rivendicato contro Kant. Le Idee sono infatti realtà oggettive assolute, che, mediante l'anamnesi, si impongono come oggetto della mente. E poiché la mente nella reminiscenza coglie e non produce le Idee, e le coglie indipendentemente dall'esperienza, anche se con il concorso dell'esperienza (noi dobbiamo vedere le cose sensibili uguali per « ricordarci » dell'Uguale-in-sé, e così di seguito), possiamo ben parlare di scoperta dell'a-priori ossia della prima concezione dell'a-priori nella storia della filosofia occidentale 14 •
3. I gradi della conoscenza nella «Repubblica»
delineati
È evidente, tuttavia, che, più che la conoscenza, l'anamnesi spiega la « radice » o la « possibilità » della conoscenza, in quanto spiega sostanzialmente solo questo: il conoscere è possibile perché abbiamo nell'anima un'intuizione originaria del vero. Le tappe e i modi specifici del conoscere restano ulteriormente da determinare, e Platone li ha determinati nella Repubblica e nei dialoghi dialettici. Nella Repubblica Platone parte dal principio già a noi noto che la conoscenza è proporzionale all'essere, di guisa che solo ciò che è massimamente essere è perfettamente conoscibile, il non-essere è assolutamente inconoscibile. Ma, poiché noi sappiamo che esiste anche una realtà intermedia fra essere e non-essere, cioè il sensibile, che (come
zione e discussione in A. Levi, Sulle interpretazioni immanentistiche delta filosofia di Platone, Torino s. d. [ma pubblicato nel 1920]). " Al lettore che voglia approfondire la questione dell'anamnesi in tutti i suoi aspetti, indichiamo la voluminosa opera di C. E. Huber, Anamnesis bei Plato, Miinchen 1964. Per i recenti studi si veda vol. v, s.v.
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sopra abbiamo visto) è un misto di essere e non-essere, allora Platone conclude che di questo intermedio c'è appunto una conoscenza intermedia fra scienza e ignoranza, una conoscenza che non è vera e propria conoscenza e ha nome « opinione», doxa. Ecco il passo della Repubblica che esprime assai bene questi concetti: - { ... ] Colui che conosce, conosce qualche cosa, oppure niente? Risponderò, disse, che conosce qualche cosa. - Forse una cosa che è, oppure che non è? - Una cosa che è: infatti, come potrebbe essere conosciuta una cosa che non è? - Abbiamo dunque acquisito in modo sufficiente questo punto, anche se lo considerassimo da molti punti di vista, ossia che ciò che interamente è è interamente conoscibile, e che ciò che non è in alcun modo è del tutto inconoscibile?
- In modo del tutto sufficiente. - E aHora, se qualcosa si trovasse in modo da essere e da non essere, non si troverebbe intermedio fra ciò che pienamente è e ciò che non è affatto? - È intermedio.
- Dunque, se, per ciò che è, abbiamo detto che c'è la conoscenza, e per ciò che non è, che c'è necessariamente l'ignoranza, per questo che è intermedio bisognerà cercare qualcosa di intermedio fra l'ignoranza e la scienza, se qualcosa di questo genere ci può essere? Certamente. Orbene, noi diciamo che l'opinione sia di qualche cosa? E come no? Con facoltà diversa da quella della scienza, oppure con la medesima? - Diversa. - Dunque, ad altro è ordinata l'opinione e ad altro la scienza, ciascuna delle due secondo la propria facoltà? - È così 15 •
Le forme del conoscere sono dunque due: la più bassa è " Repubblica, v, 476 e- 477 b.
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la doxa (oéça.), la più alta è l'episteme (È1tLO"'tTJ!.LTJ) o scienza: la prima riguarda il sensibile, la seconda il soprasensibile. L'opinione, tuttavia, per Platone è spesso decettiva. Essa può bensì essere anche verace e retta, ma non può mai avere in sé la garanzia della propria correttezza e resta sempre labile, come è labile il sensibile cui essa si riferisce. Per fondare l'opinione e renderla stabile, occorrerebbe, come Platone dice nel Menone, legarla col ragionamento causale, cioè fissarla con la conoscenza della causa (dell'Idea): ma, allora, essa cesserebbe di essere opinione e diventerebbe scienza o episteme, e pertanto passeremmo senz'altro dal sensibile al soprasensibile 16 • Ma Platone specifica ulteriormente che tanto la doxa quanto l'episteme hanno ciascuna come due gradi: la doxa si divide in immaginazione (Elxa.O"t:a.) e in credenza (1ttO"'tLc;), mentre la scienza si divide in una forma di conoscenza mediana (oLavoLa.) e in pura intellezione (véTJO"Lc;). Stante il principio sopra illustrato, ciascun grado e forma di conoscenza si riferisce ad un corrispettivo grado e ad una corrispettiva forma di realtà e di essere. L' eikasia e la pistis corrispondono a due gradi del sensibile, e, rispettivamente, si riferiscono la prima alle ombre e alle immagini sensibili delle cose, la seconda alle cose e agli oggetti sensibili stessi. La dianoia e la noesis si riferiscono, a loro volta, a due gradi dell'intelligibile: la dianoia è la conoscenza delle realtà matematico-geometriche, la noesis è la pura dialettica delle Idee. La dianoia (conoscenza mediana, come qualcuno opportunamente traduce il termine) può ancora avere a che fare anche con elementi visivi (per esempio le figure che si tracciano nelle dimostrazioni geometriche), ma è caratterizzata soprattutto dal coglimento degli enti matematici che, come sappiamo, sono antologicamente « intermedi ». La noesis è co" Cfr. Menone, 97 a sgg.
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PLATONE E LA SCOPERTA DEL SOPRASENSIBILE
glimento, mediante la dialettica, delle Idee e del Principio supremo e assoluto (ossia dell'Idea del Bene) con tutti i loro nessi fondativi e partecipativi 17 • Possiamo raffigurare visivamente le forme e i gradi della conoscenza e le rispettive forme e gradi della realtà, secondo quanto indica lo stesso Platone 18 , con la celebre immagine della linea, come segue: Piani del conoscere
Piani dell'essere
ELXCXO'LCX
(eikasia) o immaginazione
o6çcx (doxa) o opinione
È1tLO'"tl)IJ.TJ
(episteme) o scienza
mondo sensibile
1tCcr·n<;
\
(pistis) o credenza
oggetti sensibili
o~a:vo~cx
oggetti matematici (gli enti « intermedi » delle « Dottrine non scritte »)
(dianoia) o conoscenza mediana
l
VOTJO'~<;
( noesisi) o intellezione
4.
immagini sensibili
l
mondo
inte!lig;bile
Idee e Idea del Bene
La dialet tica
Naturalmente, gli uomini comuni si fermano ai pnm1 due gradi della prima forma del conoscere, cioè all'opinare; i matematici salgono alla dianoia; solo il filosofo accede alla 17 Cfr. quanto diciamo ai paragrafi 4 e 5, passim. " Cfr. Repubblica, VI, 509 c sgg.
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LA GNOSEOLOGIA E LA DIALETTICA
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noesis e alla suprema scienza. L'intelletto e l'intellezione, lasciate le sensazioni e il sensibile e ogni elemento legato al sensibile, colgono, con un procedimento che è insieme discorsivo e intuitivo, le pure Idee, i loro nessi positivi e negativi, cioè tutti i loro legami di implicanza e di escludenza, e risalgono da Idea a Idea, fino al coglimento della suprema Idea (che è il Principio primo e supremo, ossia il Bene/Uno) e quindi dell'Incondizionato. E questo procedimento per cui l'intelletto passa dal sensibile all'intelligibile e quindi trascorre da Idea a Idea è la « dialettica », cosicché il filosofo è il « dialettico ». E si capisce, pertanto, come, dalla Repubblica in poi, Platone abbia cercato di approfondire in tutti i modi questo concetto di dialettica anche nei suoi scritti oltre che nelle sue lezioni (e perciò i dialoghi posteriori alla Repubblica si chiamano dialettici). Ora, ci sarà una dialettica ascensiva, che è quella che libera dai sensi e dal sensibile, porta alle Idee e poi, da Idea a Idea, alla suprema Idea con procedimento sinottico (che via via abbraccia la molteplicità nell'unità). Su questo aspetto della dialettica si sofferma soprattutto la Repubblica: Pertanto [ ... ] il solo metodo dialettico procede per questa via, togliendo le ipotesi ( Ù1toi}ÉO"EL<;) fino a raggiungere il Principio (E1t' a.\rdrv -.i]v cipx'l]v ), per conferire solidità, e solleva e porta in alto l'occhio dell'anima invischiato in un pantano barbaro, facendo uso delle arti di cui abbiamo trattato [scii.: le matematiche] come ausiliarie nell'aiutare alla conversione 19 • E, anche, non chiami tu dialettico chi sa rendere ragione dell'essenza di ciascuna cosa, e chi non ne è capace, in quanto non ne sa dar conto né a sé né agli altri, per questa ragione non dirai che di questo non ha intelligenza? - Ma come, rispose, lo potrei dire? - E, allora, così sarà anche per il Bene: chi non è capace di definire l'Idea del Bene con il ragionamento, astraendola da 19
Repubblica,
VII,
533 c-d.
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PLATONE E LA SCOPERTA DEL SOPRASENSIBILE
tutte le altre, e come in battaglia passando attraverso tutte le pro-
ve, desideroso di provarla non secondo opinione, non affronti queste cose con un ragionamento che non croHa, tu dirai che chi si trova in tale condizione non conosce né il Bene in sé, né nessun'altra cosa buona, ma, se anche ne apprenda una qualche immagine, non dirai forse che la coglie con l'opinione e non con la scienza, e che dormendo e sognando in questa vita, prima di potersi risvegliare qui, scendendo neli' Ade terminerà il suo sonno? 20 • E ci sarà, poi, anche una dialettica discensiva, la quale, compiendo il cammino opposto, parte dall'Idea suprema, o da Idee generali e, procedendo per divisione (procedimento diairetico ), cioè distinguendo via via Idee particolari contenute nelle generali sulla base delle articolazioni in cui si esplicano, giunge alle Idee che non includono in sé ulteriori Idee e quindi perviene a stabilire il posto che una data Idea occupa nella struttura gerarchica del mondo ideale e perciò a comprendere la complessa trama di rapporti numerici che collega le parti e il tutto. Ma per comprendere bene quanto abbiamo detto, ossia questi due procedimenti della dialettica e i loro nessi, sono necessarie alcune dettagliate precisazioni.
5.
L'impianto protologico della dialettica imperniato sull'uno e sul molti Quanto abbiamo detto non giunge ancora al fondamento e all'impianto protologico della dialettica, ossia a quei nessi fondativi e globali che costituiscono la trama della dialettica medesima in generale e in particolare. Tre punti meritano uno specifico rilievo. a) In primo luogo, bisogna tenere ben presente il fatto 20
Repubblica,
vn,
534 b-d.
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che il procedimento sinottico e quello diairetico si intersecano in vario modo e a catena, di guisa che l'uno risulta comprensibile solamente in connessione con l'altro, e viceversa. b) In secondo luogo, è da tenere ben presente il fatto che i nessi fondativi consistono esattamente nei rapporti Uno/molti, e che le scansioni dei due procedimenti dialettici sono quelle che portano via via ad abbracciare la molteplicità nell'unità, fino a pervenire all'unità suprema; e quelle che portano a scomporre diaireticamente l'unità nella molteplicità in modo da comprendere come l'uno si esplichi nei molti. c) Insomma, la dialettica nel suo senso globale porta alla comprensione perfetta di quella cosa « mirabile » di cui parla il Filebo, ossia a capire come « i molti siano l'uno e l'uno sia i molti», e, nel suo grado supremo, è esattamente quella conoscenza che il Demiurgo (l'Intelligenza divina) possiede in maniera perfetta, vale a dire: la scienza [. .. ] per mescolare molte cose in unità e di nuovo scioglierle dall'unità in molte 21 •
Ecco tre passi basilari, che portano in primo piano i tre punti che abbiamo rilevato: Socrate - A me sembra che in tutte le altre cose noi abbiamo fatto veramente giochi; ma tra alcune di queste cose dette a caso, riguardo a due forme di procedimenti non sarebbe spiacevole che qualcuno fosse in grado di cogliere con arte la loro potenza. Fedro - Quali sono? Socrate - ricondurre ad un'unica Idea, cogliendo con uno sguardo d'insieme le cose disperse e molteplici allo scopo di chiarire, definendo ciascuna cosa, intorno alla quale di volta in volta si voglia insegnare [. .. ].
" Timeo, 68 d.
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Fedro - E dell'altra forma di procedimento, che cosa dici, o Socrate? Socrate - Consiste in senso opposto nel saper dividere secondo le Idee, in base alle articolazioni che hanno per natura, e cercare di non spezzare nessuna parte, come invece suole fare un cattivo macellaio [ ... ] . Fedro - Dici cose verissime. Socrate - E di queste forme di procedimento, proprio io sono un amante, o Fedro, ossia delle divisioni e delle riunificazioni, al fine di essere in grado di parlare e di pensare. E se riterrò qualcun altro capace per sua natura di vedere l'uno e i molti, io correrò dietro alle sue orme, come a quelle di un dio 22 • Straniero - Il dividere per generi e non ritenere diversa una Idea che è identica, e non ritenere identica una Idea che è diversa, non diremo che questo sia ciò che è proprio della scienza dialettica? Teeteto - Sì, lo diremo. Straniero - Dunque, chi è capace di fare questo, discerne adeguatamente [la] l'idea che si stende da molte parti attraverso molte altre, ciascuna delle quali rimane una unità separata, e inoltre [lb] molte diverse tra loro, abbracciate dal di fuori da un'unica ; [2a] e d'altra parte una unica attraverso molti interi raccolta in unità, e inoltre [ 2b] molte del tutto distinte e separate. E questo è saper distinguere per generi, e capire in quale modo ciascuno può comunicare, e in quale no 23 • Noi affermiamo che l'identità dell'uno e dei molti stabilita nei ragionamenti ricorre dovunque e sempre in ciascuna delle cose che si dicono, ora e in passato. E questo non cesserà mai, né ha avuto principio ora, ma una cosa di questo genere, come mi sembra, in noi è una proprietà dei ragionamenti medesimi, immortale e non soggetta a vecchiaia 24 •
A questa assai complessa indi:viduazione dei nessi Unomolti e molti-Uno si riduce, nelle sue ultime istanze, la defi22 Fedro, 265 c· 266 b. " Sofista, 253 d-c. " Filebo, 15 d.
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nizione dei rapporti positivi e negativi sussistenti fra le Idee, e la determinazione di quali Idee abbiano fra loro comunanza, e di quali, invece, risultino fra loro incomunicabili. Il Sofista presenta un esempio specifico con una scelta di alcune delle supreme Idee, e lo stesso Parmanide presenta solamente uno scorcio, anche se assai importante, e un vertice sotto un determinato profilo. La mappa globale della dialettica non è stata presentata da Platone nei suoi scritti. La Repubblica ha presentato solo ampi cenni del come si pervenga all'essenza d~l Bene (ossia dell'Uno), procedendo da Idee a Idee fino a quelle gerarchicamente più elevate, e alludendo (sia pure in maniera alquanto marcata) come si pervenga all'Idea del Bene (all'Uno), « astraendola », ossia separandola da tutte le altre (e proprio da quelle supreme). I dialoghi dialettici hanno presentato alcune cospicue sezioni diairetiche e hanno illustrato alcuni nessi fra alcune Idee di base; ma solamente nella dimensione della oralità Platone ha presentato il quadro completo della dialettica nei suoi nessi essenziali in parte tramandatici dalla tradizione indiretta. Il passaggio dall'Uno ai Molti - ricordiamolo - ha luogo sulla base di un rapporto bipolare dell'Uno rispetto alla Diade (il Principio opposto di molteplicità indeterminata), mediante l'azione de-terminante di quello su questa. a) La prima tappa, in senso gerarchico, è segnata dai Numeri ideali (che si riducono alla Decade), i quali rappresentano l'Unitànella-molteplicità nella maniera più elevata e in un senso prototipico e paradigmatico; b) dai Numeri ideali si passa alle Idee generalissime c) e poi alle Idee particolari, fino a giungere d) a quelle non più ulteriormente divisibili, al di sotto delle quali ci sono e) i molteplici sensibili corrispettivi. Tutte quante le Idee risultano essere connesse ai Numeri nel senso che abbiamo spiegato, ossia nel senso che il Numero (àpd)[.!.6c;) significa un preciso rapporto (Myoc;); e quindi la complessa trama che ogni Idea implica con le altre e i
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nessi che ciascuna Idea comporta con quelle superiori e inferiori è determinabile appunto nel senso greco del « numero » (nel senso che potremmo qualificare come arithm6slogos). E proprio la struttura bipolare (Uno/Diade, limite/illimite) di tutto l'essere comporta, di conseguenza, la struttura metafisica-numerica di tutto il reale. Ed ecco come nel Filebo Platone ci offra uno degli squarci più cospicui su questi nessi dialettici, presentandolo addirittura come un « dono degli Dei agli uomini »: Socrate - Un dono degli Dei agli uomini, almeno a me pare, da qualche luogo divino fu gettato ad opera di qualche Prometeo, insieme con un luminosissimo fuoco. E gli antichi, che erano migliori di noi e che stavano più vicini agli dèi, ci hanno trasmesso questo oracolo: che le cose che si dice che sempre sono, sono costituite di uno e di molti, ed hanno per natura in se stesse limite e illimitatezza. Dunque, poiché queste cose sono ordinate in questo modo, bisogna che noi cerchiamo ogni cosa, dopo aver posto ogni volta sempre un'unica Idea per ogni cosa infatti, noi la troveremo insita -; se poi l'abbiamo colta, dopo una dobbiamo esaminare se ve ne siano due, e se no tre o qualche altro numero, e di nuovo allo stesso modo per ciascuna di quelle unità, finché si veda non solo che l'uno iniziale è uno e molti e illimitati, bensl anche quanti è. E l'Idea dell'illimitato non bisogna riferirla alla molteplicità, prima che si sia individuato tutto quanto il numero di essa, quello che sta a mezzo tra l'illimitato e il numero, ed è solo allora che si può lasciare andare ciascuna unità di tutte le cose nell'illimitato. Gli dèi, dunque, come ho detto, ci hanno tramandato di indagare, di apprendere e di insegnare gli uni agli altri in questo modo. Invece, oggi, i sapienti tra gli uomini trattano l'uno come càpita, e i molti più in fretta o più lentamente di quanto si deve, passando immediatamente dall'una all'illimitato, mentre sfuggono a loro le cose che sono intermedie. Eppure è per queste cose che si distinguono i ragionamenti condotti fra di noi in modo dialettico, o all'opposto in modo eristico 25 • " Filebo, 16 c- 17 a.
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Un solo punto resta da rilevare per concludere. Come l'Uno de-termina e de-limita il Principio opposto (Diade illimitata e in-determinata) esplicandosi nei Numeri ideali e nella trama numerica ideale, che sono la più perfetta e idealmente articolata unità-nella-molteplicità, così, analogamente, le Idee e la trama del mondo ideale determinano la Diade sensibile con la mediazione degli enti matematici « intermedi » fra essere intelligibile e essere sensibile operata dall'Intelligenza divina (Demiurgo), nel modo che abbiamo veduto. In effetti, l'Idea si può moltiplicare nella sua « unità » e calare nel sensibile, appunto mediante gli enti matematici che sono eterni come le Idee, ma, ciascuno, molteplici come i sensibili; e in questo modo possono determinare il Principio materiale in maniera capillare, in modo che rispecchi nel miglior modo possibile il mondo intelligibile. Di conseguenza, la cifra emblematica della dialettica platonica diventa assai chiara, e richiamando le cose dette la possiamo riassumere nel modo seguente: dal sensibile porta all'intelligibile (dal piano fisico al metafisica), raccogliendo la molteplicità del sensibile a vari livelli nelle unità dell'intelligibile, ossia nelle Idee (primo livello della « seconda navigazione »); quindi percorre in tutti i sensi la molteplicità di struttura piramidale degli intelligibili, cogliendo in tutti i sensi l'unità-nella-molteplicità (e, per converso, l'esplicarsi dell'unità nella molteplicità), vale a dire la struttura di arithmos-logos dell'intelligibile in tutti i sensi, fino a giungere alle supreme Idee, e infine all'astrazione ultimativa dell'Unità assoluta. Evidentemente, Platone ha portato il Pitagorismo alle estreme conseguenze sul piano metafisica da lui guadagnato. Ma, così come egli riconobbe in Parmenide un padre con la metafora emblematica del « parricidio di Parmenide », se nei dialoghi dialettici, invece della maschera di uno « Straniero di Elea » avesse assunto la maschera di un Pitagorico, avrebbe dovuto, con una metafora altrettanto emblematica,
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operare un « parricidio di Pitagora », in quanto egli sposta
il numero dal piano puramente quantitativo al piano metafìsico e assiologico, operando una metahasi dal piano puramente aritmetico ancora legato alla visione dei Fisici ad un piano metafisico straordinariamente nuovo 26 •
" Cfr. Reale, Platone ... , passim.
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VII. LA CONCEZIONE DELL'ARTE E DELLA RETORICA
l. L 'art e c o m e a 11 o n t a n a m e n t o sere e dal vero
d a 11 ' es-
In stretta connessione con la tematica metafisica e dialettica va vista la problematica platonica dell'arte, giacché solo in tale connessione essa risulta pienamente intelligibile. Platone, infatti, nel determinare l'essenza, la funzione, il ruolo e il valore dell'arte si preoccupa solamente di questo: di stabilire cioè quale valore di verità essa abbia, ossia l) se e in quale misura essa avvicini al vero; 2) se renda migliore l'uomo; 3) se socialmente abbia valore educativo oppure no. E le sue risposte, come è noto, sono del tutto negative: l) l'arte non disvela ma vela il vero, perché non conosce; 2) non migliora l'uomo ma lo corrompe, perché è menzognera; 3) non educa ma diseduca, perché si rivolge alle facoltà arazionali dell'anima, che sono le parti inferiori di noi. Vediamo di intendere un po' a fondo le ragioni di questa condanna, che è rimasta in tutti i dialoghi pressoché senza appello. Già nei primi scritti Platone assume un atteggiamento negativo di fronte alla poesia, considerandola decisamente inferiore alla filosofia. Il poeta non è mai tale per scienza e per conoscenza, ma per irrazionale intùito. Il poeta, quando compone, è ispirato, è « fuori di sé », è « invasato », e quindi inconsapevole: non sa dar ragione di ciò che fa, né sa insegnare ad altri ciò che fa. Il poeta è poeta per
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l)EC~ j..I.OLp~. cioè per sorte divina, non per virtù di conoscenza 1• Ecco il passo del Fedro, che è il più significativo a questo riguardo:
[ ... ] Terzo è l'invasamento e la mania che viene dalle muse, che impadronendosi di un'anima tenera e pura, la desta e la trae fuori di sé nella ispirazione bacchica in canti e in altre poesie, e adornando innumerevoli opere degli antichi, istruisce i posteri. Ma colui che giunge alle porte della poesia senza la mania delle Muse, pensando che potrà essere valido poeta a causa dell'arte, rimane incompleto, e la poesia di chi rimane in senno viene oscurata da quella di coloro che sono posseduti da mania 2 •
Più precise e determinate sono le concezioni dell'arte che Platone esprime nel libro decimo della Repubblica. L'arte, in tutte le sue espressioni (cioè sia come poesia, sia come arte pittorica e plastica), è, dal punto di vista ontologico, una mimesi, vaie a dire una « imitazione » di cose e avvenimenti sensibili. Sia la poesia che le arti figurative in generale descrivono uomini, cose, fatti e vicende di vario genere, cercando di riprodurli con parole, colori, rilievi plastici. Ora, noi sappiamo che le cose sensibili sono, dal punto di vista ontologico, non il vero essere, ma l'imitazione del vero essere: sono pertanto una « immagine » dell'eterno « paradigma » dell'Idea, e perciò distano dal vero nella misura in cui la copia dista dall'originale. Ebbene, se l'arte, a sua volta, è imitazione delle cose sensibili, allora ne consegue che essa viene ad essere una imitazione di una imitazione, una copia che riproduce una copia, e quindi viene ad essere lontana dal vero ancor più di quanto lo siano le cose sensibili: essa rimane « tre gradi lontana dalla verità ». Ecco le crude parole di Platone al riguardo:
' Cfr. Ione, passim; Menone, 99 d sgg.; Fedro, 244 a sgg. e, soprattutto, 245 a sgg. ' Fedro, 245 a.
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[ ... ] Per quale dei due scopi in ogni caso particolare è fatta la pittura? Forse allo scopo di imitare l'essere come è, oppure allo scopo di imitare l'apparenza come appare, ed essendo imitazione della parvenza o della verità? - Della parvenza, disse. - L'arte imitativa, dunque, è lontana dal vero, e, come sembra, realizza ogni cosa, in quanto non tocca se non una piccola parte di ciascuna, e, questa, solo come una immagine 3 •
Dunque, l'arte figurativa imita la mera parvenza e così i poeti parlano senza sapere e senza conoscere ciò di cui parlano, e il loro parlare è, dal punto di vista del vero, un gioco, uno scherzo: - Allora, l'imitatore non avrà né scienza né retta opinione di ciò che imita, rispetto al bello e al brutto. - Non sembra. - Amabile è dunque l'imitatore nella poesia, quanto alla sapienza delle cose che fa! - Non troppo! - E tuttavia egli imiterà, senza sapere, per ciascuna cosa, sotto quali aspetti sia buona o cattiva; ma come pare, come sembri bella ai più che non sanno nulla, cosl la imiterà. - E che altro? - Ebbene, su questo, come sembra, siamo d'accordo quanto basta, ossia che l'imitatore non sa nulla di valido sulle cose che imita, e che l'imitazione è un gioco e non una cosa seria, e che quelli che compongono la poesia tragica, in giambi e in esametri, sono imitatori nel maggior grado che si possa essere. - Proprio cosl 4 •
Per conseguenza, Platone è convinto che l'arte si rivolga non alla parte migliore, ma alla parte meno nobile della nostra anima: {. .. ] La pittura, e in generale l'arte dell'imitazione, da un la' Repubblica, x, 598 b. ' Repubblica, x, 602 a-b.
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to compie l'opera sua restando lontano dalla verità, dall'altro si rivolge a ciò che c'è in noi più lontano dall'intelligenza, e gli si fa amica e compagna per nulla di sano né di vero 5 •
L'arte è dunque corruttrice e va in larga misura bandita, o addirittura eliminata dallo Stato perfetto, a meno che essa non si sottometta alle leggi del bene e del vero 6 • Su questa concezione si è molto scritto e detto e qualcuno ha creduto, urtato dalla sua crudezza, di doverla temperare e ridimensionare, invocando il fatto che Platone apprezza invece in grado sommo la bellezza e l'Idea di Bello alla quale attribuisce addirittura il privilegio di essere, essa sola, « visibile » fra tutte le realtà intelligibili. E si è più volte fatto richiamo a quei passi del Simposio e del Fedro, che sono veri inni alla bellezza. In verità, questo associare il problema dell'arte al problema della bellezza è storicamente poco corretto, almeno nel contesto platonico. Infatti, il nostro filosofo collega la bellezza non tanto all'arte quanto all'eros e all'erotica, che, come vedremo, hanno altro senso e altra funzione. Perciò è perfettamente inutile tentare, avvalendosi delle acquisizioni della moderna estetica, di trovare in Platone ciò che non c'è, o di piegare le sue affermazioni in un altro senso. La verità è che, per Platone, l'arte non ha una sfera e un valore propriamente autonomi: essa vale solamente se e nella misura in cui possa o sappia mettersi al servizio del vero 7 • 5 Repubblica, x, 603 a-b. ' Cfr. Repubblica, libri n e x. 7 Una analisi dell'Idea del bello, considerata in sé e per sé, è stata fatta da Platone nell'Ippia maggiore; ma il dialogo è stato per lo più trascurato, perché giudicato inautentico. Si veda, per contro, quanto rileva una nostra allieva, M.T. Liminta, nel saggio: Il problema della bellezza. Autenticità e significato dell'Ippia maggiore di Platone, Celuc, Milano 1974, la quale, tra l'altro, spiega puntualmente le ragioni per cui Platone respinse l'autonomia puramente estetica del bello (e quindi anche dell'arte).
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Paradigmatico, a questo riguardo, è ciò che Platone dice a proposito di alcuni versi che ispirano il timore della morte e che egli propone di depennare dall'Iliade e daH'Odissea nel progetto della sua Città perfetta: Pregheremo Omero e gli altri poeti di non indignarsi se noi cancelleremo questi versi e tutti gli altri di questo genere: non certo perché non sono poetici e, per i più, gradevoli ad udirsi, ma perché quanto più sono poetici tanto meno devono essere ascoltati dai fanciulli e dagli uomini che devono essere liberi [ ... ] 8 •
Dunque, è evidente che Platone non nega affatto all'arte una sua magia e un suo potere, ma nega ogni validità a questo potere, quando sia abbandonato a sé, appunto in modo autonomo, e quando non sia assoggettato agli immutabili ' precetti del logos veritativo. Insomma, Platone non negò il potere dell'arte, ma negò che l'arte dovesse valere solo per se stessa: l'arte o serve il vero o serve il falso e tertium non datur. Dunque, se vuole « salvarsi » dal punto di vista veritativo, l'arte deve assoggettarsi alla filosofia, che sola è capace di raggiungere il vero, e il poeta deve sottostare alle regole e alla dialettica del filosofo. E noi moderni, che proclamiamo l'assoluta libertà dell'arte e riteniamo dogma intangibile quello dell'arte per l'arte, potremmo addurre contro Platone numerose acquisizioni dell'estetica e potremmo dimostrare il positivo che è proprio dell'arte come arte, sotto vari a&petti. Tuttavia, malgrado questo, non possiamo dire che nella istanza platonica non ci sia nulla di vero. In effetti è ben difficile negare che, affrancatasi dal vero metafisica e etico, l'arte abbia rischiato spesso di ridursi a vacuo gioco; o che abbia finito, talora, per rivolgersi alla sollecitazione deHa parte peggiore di n01, • Repubblica,
III,
387 b.
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e, insomma, che abbia spesso contribuito a disperderci nelle vane parvenze, appunto come Platone ha indicato, sia pure cadendo in eccessi quasi iconoclastici.
2. L a r e t o r i c a c o m e m i s t i f i c az i o n e d e l vero Nell'antichità classica la retorica aveva un'importanza grandissima, come abbiamo visto trattando dei Sofisti. Essa non era, come per noi moderni, qualcosa che ha a che fare con l'artificio letterario e che quindi si colloca ai margini della vita, ma era forza civile e politica di primissimo ordine: tant'è che i Sofìsti, intendendo essere maestri ed educatori etico-politici delle nuove generazioni, si presentarono come retori, e come maestri di retorica 9 • Platone sentì ben presto la necessità di fare esattamente i conti con la retorica e di stabilire quale ne fosse l'essenza e il valore di verità. E la sua risposta fu chiarissima: la retorica è da condannare per ragioni del tutto analoghe a quelle per cui l'arte è da condannare. La retorica (l'arte dei politici ateniesi e dei loro maestri) è mera piaggeria, è lusinga, è adulazione, è contraffazione del vero. Come l'arte pretende di ritrarre e di imitare tutte le cose senza averne vera conoscenza, ma imitandone le mere parvenze, così la retorica pretende di persuadere e di convincere tutti su tutto senza avere alcuna conoscenza. E come l'arte crea meri fantasmi, così la retorica crea vane persuasioni e illusorie credenze. Il retore è colui che, pur non sapendo (e al limite perfino vantandosi di non sapere), ha l'abilità, nei confronti dei più, di essere più persuasivo di chi vera• Cfr. nel
I
volume la sezione sui Sofisti, passim (pp. 217 sgg.).
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mente sa, perché gioca sui sentimenti e sulle passioni e fa leva non sulla verità ma solo sulle parvenze della verità 10 • La retorica (come l'arte) si rivolge, quindi, alla parte peggiore dell'anima, alla parte che è suscettibile di emozione, che è sensibile al piacere e alla lusinga del piacere, alla parte credula e instabile 11 • Pertanto il retore è lontano dal vero quanto l'artista e, anzi, ancor più dell'artista, perché volutamente dà ai fantasmi del vero le parvenze del vero e rivela quindi una malizia che l'artista non ha, o ha solo in parte. E come alla poesia va sostituita la filosofia, così alla retorica va sostituita la « vera politica », che, vedremo, coincide con la filosofia. Poeti e retori stanno al filosofo, così come le parvenze stanno alla realtà e come i fantasmi della verità stanno alla verità. Questo aspro giudizio sulla retorica, che come abbiamo detto è pronunciato nel Gorgia, viene alquanto ammorbidito nel Fedro, dove si riconosce all'arte dei discorsi, ossia alla retorica, un diritto all'esistenza a patto che essa si sottometta alla verità e alla filosofia: Socrate - Ma, o amico, abbiamo forse detto male dell'arte dei discorsi più del dovuto? Forse essa ci potrebbe dire: « Che cosa mai, o mirabili, dite stoltamente? Io non costringo nessuno che non conosca il vero ad imparare a parlare; ma, se il mio consiglio vale qualcosa, solo dopo aver acquistato il vero prenda me. Questa, dunque, è la cosa di grande importanza: che senza di me, chi conosce le cose vere non sarà in grado di persuadere secondo arte ». Fedro- E non dirà cose giuste, dicendo queste cose? Socrate - Sì, se i discorsi che si presentano testimonieranno che essa sia un'arte. In effetti, mi sembra già di udire akuni discorsi che si presentano a testimoniare che essa mente e che non è un'arte, bensì una pratica priva di arte. Una vera arte del 1° Cfr. la prima parte del Gorgia, con il nostro commento, pp. 17-46. " Cfr. Gorgia, 463 b sgg.
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dire che non tocchi la verità, dice lo Spartano, non c'è, e non ci potrà mai essere 12 •
E per accedere alla verità, naturalmente, occorrerà apprendere, in primo luogo, la dottrina delle Idee e la dialettica (sia nel suo momento ascensivo che porta dal molteplice all'uno, sia nel suo momento discensivo e diairetico che insegna a dividere le Idee secondo le articolazioni che sono loro proprie) 13 • In secondo luogo, occorrerà conoscere l'anima, perché all'anima si dirige l'arte del persuadere 14 • Solo conoscendo la natura delle cose e la natura dell'anima umana sarà possibile çostruire una vera arte retorica, ossia una vera arte di persuadere con i discorsi. Come è evidente dopo tutto quello che abbiamo rilevato, la « seconda navigazione », con la scoperta della dimensione metafisica, ha rivoluzionato tutto il mondo spirituale del Greco, che nel poeta e nel retore, prima di Platone, vedeva i suoi maestri di vita e di virtù.
12
Fedro, 260 d-e.
" Cfr. Fedro, 263 h sgg. " Cfr. Fedro, 270 h sgg.
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SEZIONE TERZA
LA COMPONENTE ETICO-RELIGIOSO-ASCETICA DEL PENSIERO PLATONICO E I SUOI NESSI CON LA PROTOLOGIA DELLE « DOTTRINE NON SCRITTE »
« ou yci.p 'to~ Dau,_ui~o4J.' iì.v Et Eup~'ltLSTJc; tH.TJtii Év 'tO~O'SE À.ÉyE~, À.Éywv· 'tLc; S' olSEv, EL 'tÒ ~ijv IJ.ÉV ÉO''t~ xa'tDavEi:v, 'tÒ xa'tDavEi:v SÉ l;ijv; xat "IÌIJ.E~c; 'tijJ liv't~ ta-wc; 'tÉDvalJ.EV ».
« E io non mi meraviglierei se Euripide affermasse il vero là dove dice: Chi può sapere se il vivere non sia morire e il morire non sia vivere? e che noi, in realtà, forse siamo morti». Platone, Gorgia, 492 e
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Testa-ritratto di Platone, conservata nei Musei Vaticani (Galleria geografica). I tratti scultorei connessi con le precedenti sono evidenti.
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I. RILEVANZA DELLA COMPONENTE
MISTICO-RELIGIOSO-ASCETICA DEL PLATONISMO
Platone non è solo il metafisica e il dialettico: chi lo ha interpretato esclusivamente in questa chiave lo ha semplicemente ridotto allo scheletro. Già gli antichi ben s'accorsero che la filosofia di Platone era tutta impregnata di uno spirito fortemente religioso, che era inesauribile fonte rper gli spiriti assetati del divino. Alcuni la intesero addirittura quasi come mistica iniziazione: molti neoplatonici giunsero a considerare i dialoghi né più né meno che come responsi di un oracolo, divine rivelazioni 1 • ' Ecco una pagina sommamente eloquente di un Neoplatonico, che dice assai bene come gli ultimi Greci intesero il pensiero di Platone: « Io ritengo [ ... ] che, da una parte, la filosofia di Platone e il suo principio stesso abbiano acceso la propria luce per boniforme volontà di superiori Iddii [ ... ] e ritengo che questa filosofia dopo alterna vicenda abbia avuto consummazione, e poi, quasi in se stessa ritrattasi e resa invisibile ai molti che fanno professione di filosofi e che studiano d'intraprendere la caccia del vero, in un momento successivo di nuovo sia uscita alla luce. Ma ritengo d'altra parte che l'arcana dottrina, particolare ai misteri divini (dottrina assisa in trono santo per purezza, che ha avuto eterna sussistenza presso gli Iddii stessi), per opera d'un uomo soltanto abbia fatto, da questo divino regno, manifestante apparizione a chi in temporale vicenda è in grado di provarne il gusto. E non è certo errata mia affermazione, quando chiamo costui guida e interprete di misteri santissimi; quelle veraci inizi azioni nelle quali trovano consummazione iniziatica le anime separate dallo spazio terreno; guida poi e interprete alle complete e immote visioni di cui hanno parte anime desiosamente agognanti [ ... ] esistenza beata e felice. E ritengo ancora che in modo veramente augusto e avvolto nuovamente nel silenzio e nel segreto, brillò quel~ la luce di primiera filosofia, quasi in venerandi santuari, e quasi, con piena
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Ma, sia pure con diverso linguaggio, l'entusiasmo per il mistico Platone fu rinnovato (per tralasciare i medioevali che non conoscevano direttamente il nostro filosofo) dagli umanisti del circolo del Ficino, e poi da molti interpreti e da traduttori moderni e perfino contemporanei: e non certo senza fondamento, come subito vedremo. La dimensione mistica, latente nei primi dialoghi ed in alcuni quasi del tutto assente, esplose, per cosl dire, per la prima volta, nel grandioso affresco del Gorgia e coincise con un momento di crisi nella vita di Platone, che lo portò a meditare a fondo il senso della « vita orfica » e della « vita pitagorica », e lo spinse non solo ad accettarlo, ma ad approfondirlo e poi a mostrarne, via via, tutte le implicanze e tutte le conseguenze 2 • Per la prima volta nel Gorgia Platone affronta tutti i problemi di fondo relativi alla vita dell'uomo, la quale gli si presenta drammaticamente, come in nessuno degli scritti precedenti, in tutte le sue più stridenti e tragiche contraddizioni: Socrate il giusto è stato ucciso e l'ingiusto sembra invece trionfare; il virtuoso e giusto è in balla dell'ingiusto e ne soffre i soprusi; il vizioso e l'ingiusto sembrano invece felici e soddisfatti delle loro prepotenze; il politico giusto soccombe, quello senza scrupoli si impone; dovrebbe trionfare il bene e invece è il male che sembra avere sopravvento. Da che parte è la verità? Callide, uno dei protagonisti del dialogo, che dà voce alle tendenze più estremistiche che erano maturate in quell'epoca (come abbiamo visto parlando degli epigoni dei Sofisti), non esita a proclamare, con la più sfrontata impudenza, che la verità è dalla parte del più forte, cioè di colui che sa farsi beffa di tutto e di tutti, sa godere di ogni piacere, sa soddisfare tutte le passioni, sa saziare sicurezza, stabilita nei penetrali di santissimi luoghi inaccessibili » (Proclo, La teologia platonica, cap. l; traduzione di E. Turolla, Bari 1957, pp. 3 sg.). 2 Specialmente nel Pedone, ma poi anche negli scritti successivi.
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LA COMPONENTE MISTICQ-RELIGIOSA DEL PLATONISMO
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ogni desiderio e sa procurarsi i mezzi che servono all'uopo; la giustizia è un'invenzione dei deboli, la virtù una sciocchezza, la temperanza un'assurdità: chi si astiene dai piaceri, si modera e tempera le sue passioni è uno stolto, perché la vita che costui vive è in realtà uguale alla morte 3 • Ed è proprio in risposta a questa visione estrema che Platone, procedendo oltre Socrate, ritrova la verità dell'insegnamento orfìco-pitagorico. Callide e tutti coloro (pseudosofisti e uomini politici del tempo) di cui Callide è simbolo, dicono che la vita del virtuoso, che mortifica gli istinti, è vita senza senso e quindi morte 4 • Ma che cos'è la vita? E che cos'è la morte? Non potrebbe forse essere morte questa che chiamiamo vita, ed essere, invece, vera vita quella che incomincia con la morte? 5 È chiaro, allora, che, per Platone, diventa risolutiva proprio la risposta a quel problema che Socrate aveva volutamen!e lasciato insoluto, ossia al problema delle sorti escatologiche dell'anima. Se l'anima fosse mortale e se, con la morte del corpo, anche lo spirito dell'uomo si risolvesse nel nulla, allora la dottrina di Socrate non basterebbe a confutare quella di Callide. Non basta dunque dire, per Platone, che l'uomo è la sua psyché, come diceva Socrate, ma bisogna ulteriormente stabilire se tale psyché sia o non sia immortale. Solo la risposta a questo problema risulta veramente decisiva 6 • La dottrina dell'immortalità, per conseguenza, emerge in primo piano e conferisce un nuovo volto all'etica e alla politica. Vivere per il corpo (come fa la maggior parte degli uomini) significa vivere per ciò che è destinato a morire; vivere per
3 Cfr. Gorgia, 482 c sgg. • Cfr. Gorgia, 492 d sg. • Cfr. Gorgia, 492 e sgg. • Cfr. Pedone, 70 a sgg.
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l'anima significa, invece, vivere per ciò che è destinato ad essere sempre, e quindi significa vivere purificando l'anima tramite un progressivo distacco dal corporeo. Se il giusto, in questa vita, è vittima delle soperchierie degli ingiusti al punto da essere preso a schiaffi impunemente, ebbene, egli soffre nel corpo e, al limite, può perdere il corpo; ma, perdendo il corpo, come abbiamo già rilevato, perde ciò che è mortale, mentre salva l'anima per l'eternità 7 • Questa visione della vita non è una semplice ripresa e una rielaborazione quantitativa, diciamo così, di temi orfico-pitagorici: essa acquista tutto un nuovo significato dopo la « seconda navigazione », cioè dopo la scoperta del mondo intelligibile. L'esistenza di un'anima immortale, che sola può dar senso alla visione della vita che abbiamo descritto, non resta più una mera credenza, non resta più soltanto una fede e una speranza, ma viene razionalmente dimostrata. Nell'orfismo essa era semplice dottrina misteriosofica; in quei Presocratici che avevano accettato la visione orfica restava presupposto in contrasto con i loro principi fisici; in Platone si fonda invece e si impianta perfettamente sulla metafisica, cioè sulla dottrina del soprasensibile, di cui diventa quasi corollario: l'anima è la dimensione intelligibile e immateriale dell'uomo, ed è eterna come eterno è l'intelligibile e l'immateriale. È evidente, dunque, che le prove dell'immortalità dell'anima rivestono una grandissima importanza, perché, con esse, Platone procede oltre il socratismo e l'orfismo e media sinteticamente le istanze razionalistiche del primo e quelle mistiche del secondo. Dall'analisi di queste prove dobbiamo pertanto iniziare.
7
Cfr. Gorgia e Fedone, passim.
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Il. L'IMMORTALITÀ DELL'ANIMA, I SUOI DESTINI ULTRATERRENI E LA SUA REINCARNAZIONE
l.
Le prove dell'immortalità dell'anima
Il Pedone fornisce a favore dell'immortalità dell'anima tre prove 1• Lasciando la prima, cui è dato da Platone stesso scarso valore e che, dopo aver chiamato in causa categorie di carattere fisico e in particolare di estrazione eraclitea, alla fine fa leva sulla reminiscenza (analogamente a quanto abbiamo già visto a proposito del Menone) 2 , vogliamo esaminare le altre due, di cui almeno una è fra le più convincenti delle tante prove che la successiva metafisica ha tentato di fornire in merito. L'anima umana - dice dunque Platone - è capace (secondo che si è sopra veduto) di conoscere le cose immutabili ed eterne; ma, per poter cogliere queste cose, essa deve avere, come conditio sine qua non) una natura a loro affine: altrimenti quelle rimarrebbero al di fuori della capacità di questa; e dunque 1 come quelle sono immutabili ed eterne, cosl anche l'anima deve essere immutabile ed eterna. Questa è in sintesi la prova; ma, poiché a nostro avviso è quella più
' Le prove nel Pedone sono tre, come ha dimostrato in modo solidissimo H. Bonitz, Vie im Phadon enthaltenen Beweise fiir die Unsterblichkeit der menschlichen Seele, dapprima pubblicato in « Hermes » e ora in Platonische Studien, ultima edizione Hildesheim 1968, pp. 293-323 (gli studiosi che parlano di quattro o più prove nel Pedone, ignorano la documentazione del Bonitz). ' La si può vedere brevemente esposta nella Introduzione alla nostra tra· duzione del Pedone, pp. xxxviii sgg.
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pregnante, vogliamo analiticamente determinarla. Come sappiamo, esistono due piani di realtà: a) le realtà visibili, cioè percepibili e sensibili e b) le realtà invisibili e intelligibili. Le prime - sappiamo - sono quelle che non permangono mai nelle medesime condizioni, le seconde sono invece quelle che permangono immutabili. Domandiamoci ora a quale tipo di realtà vadano assimilate le due parti o le due componenti che costituiscono l'uomo, vale a dire il corpo e l'anima. Non c'è dubbio che il corpo è affine alla realtà visibile, l'anima all'invisibile e all'intelligibile; e, poiché il visibile è mutabile e l'intelligibile è immutabile, l'anima dovrà essere immutabile. E infatti, quando l'anima si appoggia alle percezioni sensibili, queste la fanno errare e confondere, perché sono mutevoli come gli oggetti cui esse si riferiscono; invece, quando si eleva al di sopra dei sensi e si raccoglie in sé sola, allora non erra più, e trova nelle pure Idee e negli intelligibili il suo oggetto adeguato e scopre, appunto conoscendoli, di essere loro affine, e rimane immutabile pensando le cose immutabili. (E una ulteriore riconferma di ciò sta anche in questo: quando anima e corpo stanno insieme, è l'anima che domina e governa; mentre il corpo ubbidisce ed è dominato dall'anima; ma è caratteristica del divino il comandare e del mortale l'essere comandato; dunque l'anima anche da questo punto di vista - è affine al divino, mentre il corpo è affine al mortale 3 ). Data l'importanza di questa prova, vogliamo leggerla nella precisa formulazione platonica: - Poniamo dunque, se vuoi, egli soggiunse, due specie di esseri: una visibile e l'altra invisibile. - Poniamole, rispose. - E che l'invisibile permanga sempre nella medesima condizione e che il visibile non permanga mai nella medesima condizione. • Cfr. il nostro commento al Pedone, pp. 85-92.
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- Poniamo anche questo, disse. - Ebbene, che altro c'è in noi, riprese Socrate, se non, da un lato, il corpo e, dall'altro, l'anima? - Non c'è altro, disse. - E il corpo a quale delle due specie di cose diremo che è più simile e più affine? - È chiaro a tutti che è più simile e più affine alla specie visibile. - E l'anima è visibile o è invisibile? - Agli uomini, almeno, o Socrate, non è visibile, disse. - Ma noi non stiamo ora parlando di cose visibili o invisibili alla natura umana? O tu pensi a qualche altra natura? - Si, alla natura umana. - Che cosa diciamo, dunque, dell'anima? Che è visibile o che non è visibile? - - Che non è visibile. - Allora è invisibile. - Si. - Dunque, l'anima è più simile all'invisibile che non il corpo; questo, invece, è più simile al visibile. - Di necessità, o Socrate. - E non dicevamo poco fa anche questo: che, cioè, quando l'anima si avvale del suo corpo per fare qualche indagine, servendosi della vista o dell'udito o di altra percezione sensoriale (infatti far ricerca per mezzo del corpo significa far ricerca per mezzo dei sensi), allora essa è tratta dal corpo verso le cose che non permangono mai identiche ed erra e si confonde e barcolla come ubriaca, perché tali sono appunto le cose cui si attacca? - Certamente. - Ma quando l'anima, restando in sé sola t: per sé sola, svolge la sua ricerca, allora si eleva a ciò che è puro, eterno, immortale, immutabile, e, avendo natura affine a quello, rimane sempre con quello, ogni volta che le riesca essere in sé e per sé sola; e, allora, cessa di errare e in relazione a quelle cose rimane sempre nella medesima condizione, perché immutabili sono quelle cose alle quali si attacca. E questo stato dell'anima si chiama intelligenza. - Perfetto!, disse. Ciò che tu dici è bello e vero, o Socrate. - Orbene, in base alle cose dette prima e a quelle che abbiamo dette ora, a quale delle due specie a te pare che l'anima assomigli di più? - A me pare, o Socrate, che chiunque, anche il più duro di mente, debba ammettere, messo cosl sulla strada, che l'anima, sotto
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ogni rispetto, è più simile a ciò che è immutabile che non a ciò che non è immutabile. - E il corpo? - All'altro. - Considera ora la questione anche da quest'altro punto di vista. Quando anima e corpo sono uniti insieme, la natura impone al corpo di servire e di lasciarsi governare e all'anima di dominare e di governare. Orbene, anche per questo rispetto, quale dei due ti pare simile a ciò che è divino e quale a ciò che è mortale? O non ti pare che ciò che è divino debba governare e comandare, e ciò che è mortale debba essere governato e servire? -A me pare. - Dunque l'anima a quale dei due assomiglia? - È chiaro, o Socrate, che l'anima assomiglia a ciò che è divino e che il corpo assomiglia a ciò che è mortale. - E ora osserva, o Cebete, se dalle cose che abbiamo dette non consegue che l'anima sia in sommo grado simile a ciò che è divino, immortale, intelligibile, uniforme, indissolubile, sempre identico a se medesimo, mentre il corpo è in sommo grado simile a ciò che è umano, mortale, multiforme, inintelligibile, dissolubile e mai identico a se medesimo. Abbiamo qualcosa da dire contro queste conclusioni, o Cebete? O non è cosl? - No, non abbiamo nulla da dire 4 •
L'ultima prova che fornisce il Pedone è derivata da alcune caratteristiche strutturali delle Idee. Le Idee contrarie non possono combinarsi fra loro e stare insieme, perché, appunto in quanto contrarie, si escludono a vicenda. Ma non possono (per conseguenza) nemmeno combinarsi e stare insieme le cose sensibili che partecipano essenzialmente di queste Idee. Se cosl è, allorché una Idea entri in una cosa, necessariamente l'Idea contraria che era nella cosa scompare e cede il posto (non solo l'Idea di grande e quella di piccolo non si possono combinare fra loro e si escludono nettamente a vicenda quando siano in sé e per sé considerate, ma si escludono a vicenda altresl il grande e il piccolo che sono nelle cose: sopraggiungendo l'uno, l'altro scompare e cede • Pedone, 79 a- 80 b.
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il posto). E la medesima cosa si verifica non solo per i contrari in sé, ma anche per tutte quelle Idee e cose che, pur non essendo fra loro contrarie, hanno in sé i contrari quali loro attributi essenziali: non solo caldo e freddo si escludono nel modo che si è sopra detto, ma anche fuoco e freddo, neve e caldo. Il fuoco non ammetterà mai in sé l'Idea del freddo e la neve non ammetterà mai in sé l'Idea del caldo; al sopravvenire del caldo la neve deve dileguarsi e cedere il posto, e al sopravvenire del freddo il fuoco deve dileguarsi e cedere il posto. Ora veniamo all'anima ed applichiamo ad essa quanto si è ora stabilito. L'anima ha come carattere essenziale la vita e l'Idea di vita: è essa, infatti, che porta la vita nel corpo e la mantiene (e questo - è bene tenerlo presente - per il Greco è ancor più ovvio che per noi, perché, anche dal punto di vista strettamente linguistico, psyché richiama la nozione di vita e significa anche, in molti contesti, semplicemente vita). E, poiché la morte è il contrario della vita, in base al principio stabilito, l'anima, avendo come carattere essenziale la vita, non potrà strutturalmente accogliere in sé la morte, e dunque sarà immortale. Pertanto, al sopraggiungere della morte, si corromperà il corpo e l'anima se ne andrà altrove. In conclusione: l'anima, che implica per sua essenza la vita, non può accogliere, appunto per questa ragione di carattere strutturale, la morte, perché Idea di vita e Idea di morte si escludono totalmente: l'espressione « anima morta » è una pura assurdità, è una contraddizione in termini, come « neve-calda », « fuoco-freddo ». Pertanto anima = Idea di vita = ciò che per sua natura è e dà vita = incorruttibile = immortale = eterna 5 • Un'ulteriore prova a favore dell'immortalità dell'anima Platone ha fornito anche nella Repubblica. Il male è ciò che corrompe e distrugge (mentre il bene è ciò che giova e av• Pedone, 102 b- 107 b.
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vantaggia). E ogni cosa ha un male peculiare (cosi come ha un bene peculiare), ed è e può essere distrutta solamente da questo male che le è proprio e non dal male delle altre cose. Orbene, se noi potessimo trovare qualcosa che abbia, si, il suo male che la rende cattiva, ma che, ciononostante, non la possa dissolvere né distruggere, noi dovremmo concludere che tale realtà è strutturalmente indistruttibile, giacché, se non la può distruggere il suo proprio male, a fortiori non la potrà distruggere il male delle altre cose. Ebbene, tale è appunto il caso dell'anima. Essa ha il suo male, che è il vizio (ingiustizia, dissennatezza, empietà etc.); ma il vizio, per quanto grande sia, non distrugge l'anima, la quale continua a vivere anche se malvagissima, proprio all'opposto di quanto avviene per il corpo, che, quando è guastato dal suo male, si corrompe e muore. Dunque, se l'anima non può essere distrutta dal male del corpo, perché il male del corpo (stante il principio stabilito) è alieno all'anima e come tale non la può intaccare; e se non può nemmeno essere distrutta dal suo proprio male, per quanto forte esso sia, allora essa è indistruttibile. Ecco le conclusioni del ragionamento platonico: - [ ... ] quando la corruzione sua propria e il male suo proprio [sci!.: l'ingiustizia e il vizio] non sono atti ad uccidere e distruggere l'anima, difficilmente il male che è ordinato per la distruzione di un'altra cosa potrà distruggere l'anima o altra cosa che non sia quella per la quale è ordinato. - Difficilmente, disse, com'è naturale. - Quando pertanto una cosa non perisce di alcun male né proprio né estraneo, è evidente essere necessario che quella cosa sia sempre; e se è sempre è immortale. - E necessario, disse lui 6 •
Infine nel Fedro l'immortalità dell'anima è desunta dal concetto di psyché intesa come principio di movimento (dire ' Repubblica, 610 e-611 a (traduz. Fraccaroli fino al cap. m).
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vita significa dire movimento; quindi il concetto di anima come principio di movimento non è che una derivazione corollaria del concetto di anima come principio di vita): e il principio del movimento, in quanto è tale, non può mai venir meno. Ecco la pagina del Fedro in cui è svolta questa dimostrazione: Ogni anima è immortale. E invero ciò che sempre è in movimento è immortale; ciò invece che muove altro ed è mosso da altro, quando ha cessazione di moto ha cessazione di vita. E certo, soltanto ciò che muove _se stesso non cessa mai dal muoversi, poiché non può alienarsi da se stesso; e anzi esso è causa e principio di movimento alle altre cose, in quanto si muovono. Principio è il medesimo che non generato. È infatti necessario che tutto ciò che si genera venga generato dal principio, ma questo non può esser generato da nulla. Poiché se il principio venisse generato da alcunché non sarebbe generato dal principio. E dappoiché non è generato, di necessità è anthe incorruttibile. Poiché se il principio perisce, né esso potrà mai da altra cosa, né altra cosa potrà mai da esso generarsi, se è vero che ogni cosa ha da prendere origine da un principio. Così, dunque, principio del movimento è ciò che muove se stesso. E questo non può né perire né nascere, o tutto il cielo e tutto il creato in uno precipitando si arresterebbero e non ci sarebbe mai più donde potessero riprendere le cose in movimento. E poiché ciò che è mosso da se medesimo s'è manifestato immortale, per la natura dell'anima non ci si periti di far questa medesima affermazione. E infatti ogni corpo al quale il moto vien comunicato dall'esterno, è senz'anima e ogni corpo al quale, invece, vien dato dal di dentro, da se stesso, è animato, come se appunto in questo consista la natura dell'anima. E se ciò è cosi - ed è cosi - ossia che non c'è nessuna cosa che si muova da sé se non l'anima, di necessità l'anima sarà ingenerata ed immortale 7 •
Nei dialoghi anteriori al Timeo le anime sembrerebbero essere senza nascita, oltre che senza termine. Invece nel Timeo, come già abbiamo avuto modo di dire, le anime sono generate dal Demiurgo: esse hanno dunque una nascita, ma, per preciso statuto divino, non sono soggette a morte, ' Fedro, 245 c- 246 a.
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così come non è soggetto a morte tutto ciò che è direttamente prodotto dal Demiurgo 8 • Al di là della formulazione tecnica delle varie prove, che possono suscitare perplessità e discussioni numerose e di vario genere, un punto resta acquisito, per chiunque creda nella possibilità della metafisica: l'esistenza e l'immortalità dell'anima hanno senso unicamente se si ammette un essere soprasensibile, metempirico, che Platone chiamava mondo delle Idee, ma che non significa, in ultima analisi, se non questo: l'anima è la dimensione intelligibile, metempirica, incorruttibile dell'uomo. Con Platone l'uomo ha scoperto di essere a due dimensioni. E l'acquisizione sarà irreversibile, perché anche coloro che negheranno una delle due dimensioni daranno alla dimensione fisica, che crederanno di dover mantenere, un significato tutto diverso da quello che essa aveva quando l'altra era ignorata. L'anima, in cui Socrate (superando la visione omerica e presocratica e gli aspetti irrazionali della visione orfica) additava il « vero uomo », identificandola con l'io consapevole, intelligente e morale, riceve con Platone la sua adeguata fondazione antologica e metafisica e una precisa collocazione nella visione generale della realtà.
2.
I destini escatologici dell'anima
L'immortalità dell'anima (che, come abbiamo con ampiezza visto, è tesi che Platone guadagna a livello di logos) pone l'ulteriore problema della sua sorte dopo il suo scioglimento dal corpo. Ma a questo problema il logos da solo non è in grado di rispondere, ed è a questo punto che Platone chiede soccorso ai miti.
' Cfr. sopra, pp. 122 sgg.; cfr. anche p. 367.
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Si è spesso notato come i miti escatologici siano differenti e, per certi aspetti, fra loro in contraddizione. In realtà, essi risultano tali solo se vengono letti secondo la logica dellogos e non secondo la loro peculiare logica, che, come già abbiamo sopra ricordato, è quella di portare a credere, mediante rappresentazioni allusive differenti, una verità unica di fondo, la quale è meta-logica ma non anti-logica, non è risolvibile nel logos ma è in qualche modo sorretta dal logos stesso. La verità di fondo che i miti intendono suggerire e portare a credere è una sorta di « fede ragionata », come abbiamo visto nella sezione introduttiva. In sintesi, essa è la seguente. L'uomo è sulla terra come di passaggio e la vita terrena è come una prova. La vera vita è nell'aldilà, nell'Ade (l'invisibile). E nell'Ade l'anima viene «giudicata» in base al solo criterio della giustizia e dell'ingiustizia, della temperanza e della dissolutezza, della virtù e del vizio. Di altro i giudici dell'aldilà non si curano: e non conta assolutamente nulla se l'anima sia stata anima del Gran Re o del più umile dei suoi sudditi: contano solo i segni di giustizia e di ingiustizia che essa reca in sé. E la sorte che tocca alle anime può essere triplice: a) se avrà vissuto in piena giustizia, riceverà un premio (andrà in luoghi meravigliosi nelle Isole dei Beati, o in luoghi ancora superiori e indescrivibili), h) se avrà vissuto in piena ingiustizia al punto da essere diventata inguaribile, riceverà un eterno castigo (sarà precipitata nel Tartaro), e c) se avrà contratto solamente ingiustizie sanabili, cioè avrà vissuto in parte giustamente e in parte ingiustamente, pentendosi altresì delle proprie ingiustizie, allora sarà solo temporaneamente punita (poi, espiate le sue colpe, riceverà quel premio che merita). Siccome si tratta di uno dei punti più delicati del pensiero di Platone, che molta critica (razionalistica, idealistica o positivistica) tende a sottovalutare o addirittura ad eliminare, !addove, per espressa dichiarazione del nostro filosofo, esprime in-
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vece una verità essenziale 9 , riteniamo opportuno illustrarlo in modo circostanziato, sulla base di quanto è detto nel Gorgia e nel Fedone, che sono i due dialoghi che maggiormente si diffondono sull'argomento (la Repubblica e il Fedro, come vedremo 10 , riconfermano tale verità, ma ne illustrano un altro aspetto). Innanzitutto dobbiamo dire del « giudizio » che decide le sorti dell'anima nell'aldilà. Al tempo di Crono, narra Platone, e anche nei primi tempi del regno di Zeus, il giudizio avveniva prima di morire ed esso rischiava, talora, di essere mal dato: la bellezza dei corpi, le ricchezze, gli onori, le testimonianze dei parenti potevano in certi casi mascherare le brutture dell'anima e fuorviare i giudici, che giudicavano essi pure avendo ancora i corpi e quindi con le anime condizionate da essi. Ed ecco, allora, quale fu la suprema decisione di Zeus: In primo luogo dovrà essere tolta agli uomini la possibilità di prevedere la propria morte, dato che ora la prevedono; perciò ho già ordinato a Prometeo che tolga questa possibilità agli uomini. Inoltre, dovranno essere giudicati spogli di tutti questi rivestimenti, dopo la morte. E anche il giudice dovrà essere spoglio di ogni cosa: il giudizio dovrà essere fatto dall'anima stessa del giudice, direttamente sull'anima stessa del giudicato, subito dopo la morte di questi: senza l'accompagnamento di tutti i parenti e dopo che abbia lasciato sulla terra tutti quegli altri ornamenti, affinché la sentenza sia giusta. Ed io, avendo saputo questo ancor prima di voi, ho costituito a giudici i miei tre figli: due dell'Asia, Minosse e Radamante, e uno dell'Europa, Eaco. Costoro, dunque, quando gli uomini saranno morti, li giudicheranno sul prato dal cui trivio si dipartono le due vie: l'una diretta alle Isole dei Beati, l'altra diretta al Tartaro. E Radamante giudicherà quelli dell'Asia ed Eaco quelli dell'Europa. A Minosse darò il privilegio di essere arbitro supremo, nel caso che gli altri due si trovino in dubbio, affinché il giudizio sulla destinazione degli uomini sia il più giusto 11 • ' Cfr. Gorgia, 523 a; 527 a. Cfr. il paragrafo che segue. " Gorgia, 523 d- 524 a.
'°
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Due affermazioni colpiscono in modo particolare nel passo letto. In primo luogo è da rilevare che il supremo giudizio è fatto da un'anima spoglia del corpo su un'anima egualmente spoglia del corpo, ossia in dimensione puramente spirituale; e nell'anima, precisa subito dopo Platone, « resta tutto ben visibile, quando essa si sia spogliata del corpo, e le· sue caratteristiche costituzionali e le affezioni che l'uomo le ha procurato, mediante il suo modo di comportarsi in ciascuna circostanza »: è un giudizio, insomma, interamente calato nell'interiorità. L'altra affermazione da rilevare è che Zeus costituisce a giudici tre figli suoi. E non è chi non veda la sorprendente analogia con l'affermazione evangelica: « Il Padre non giudica nessuno, ma affida il giudizio al Figlio » 12 • Il giudizio, come abbiamo già detto, premia i giusti (soprattutto J filosofi, che non si dispersero nelle vane faccende della vita, ma si curarono solo della virtù) con una vita felice nelle Isole dei Beati e punisce i malvagi con la pena dell'Ade. Ed ecco quanto in merito a queste pene scrive Platone: Ora avviene che ogni uomo che sconti una pena rettamente inflittagli diventi migliore ed abbia vantaggio e serva di esempio agli altri, affinché gli altri, vedendolo soffrire ciò che soffre, siano colti da timore e diventino migliori. E coloro che traggono giovamento, scontando la pena inflitta loro dagli Dei e dagli uomini, sono quanti commettono colpe sanabili. Comunque, il vantaggio viene loro solamente attraverso dolori e sofferenze, sia qui sulla terra, sia nell'Ade: infatti dall'ingiustizia non ci si può liberare in modo diverso. Ma coloro che commisero le ingiustizie più grandi,
e che a causa di queste ingiustizie divennero insanabili, servono unicamente da esempio agli altri; e mentre costoro a sé non recano nessun giovamento, appunto perché insanabili, ne traggono invece giovamento gli altri, cioè coloro che li vedono soffrire i patimenti più grandi, più dolorosi e più spaventosi, per l'eternità, a causa delle loro colpe: sono veri e propri esempi sospesi là nel carcere dell'Ade, spettacolo e ammonimento agli ingiusti che continuano a giungere 13 • 12
13
Giovanni, v, 22. Gorgia, 525 b-e.
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Passo, questo, che, al di là di certe oscurità, contiene una delle più potenti intuizioni del nostro filosofo: l'intuizione della funzione purificatrice del dolore e della sofferenza. Ed ecco la pagina del Fedone che rappresenta nel modo più compiuto le sorti delle anime nell'aldilà: Così è fatto, dunque, l'al di là. E dopo che i morti pervengono là, dove ciascuno è condotto dal démone suo, vengono, in primo luogo, giudicati e vengono distinti quelli che sono vissuti bene e santamente da quelli che no. E coloro che risulta che sono vissuti né bene né male, arrivati alle rive dell'Acheronte, salgono sti barche che sono lì pronte per loro: su queste giungono alla palude, e, qui giunti, rimangono a purificarsi e ad espiare le loro colpe, se mai ne avessero commesse, e ricevono il premio delle loro opere, ciascuno secondo il proprio merito. Coloro, invece, che risultano essere insanabili per la gravità delle loro colpe, perché hanno compiuto molti e gravi sacrilegi o iniqui delitti contro le leggi o altre azioni nefande del tipo di queste; ebbene, costoro, il giusto destino che a loro conviene scaglia nel Tartaro, di dove non ritorneranno mai più. Invece coloro che risultano aver commesso colpe sanabili, anche se grandi, come ad esempio coloro che sotto la spinta dell'ira hanno commesso azioni violente contro il padre o contro la madre e poi si sono pentiti di questo per tutta la vita, o che si sono macchiati di omicidio in modo simile a quelli, debbono cadere nel Tartaro, ma, dopo che sono caduti e sono rimasti un anno colà, l'onda li rigetta fuori: gli omicidi lungo il Cocito e i violenti contro il padre o contro la madre lungo il Piriflegetonte; dopo che sono trascinati dalla corrente fino alla palude Acherusiade, quivi mandano grida e chiamano, gli uni, quelli che essi hanno ucciso, gli altri, quelli contro i quali hanno fatto violenza, e, invocandoli, li supplicano e li pregano di permettere loro di uscire fuori nella palude e di accoglierli: e, se riescono a convincerli, escono fuori dai fiumi, e pongono fine ai loro mali; se no, di nuovo sono trascinati nel Tartaro, e di là di nuovo nei fiumi; e non cessano di subire tali patimenti, prima di aver persuaso coloro cui fecero male: infatti questa è la pena imposta loro dai giudici. Infine, coloro che risultano aver vissuto una vita in grande santità, subito liberati da questi luoghi sotterranei e affrancati da essi come da carceri, salgono in alto, in una pura dimora, e là abitano sulla vera terra. E tra questi, coloro che si sono purificati quanto occorre con l'esercizio della filosofia vivono compie-
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tamente sciolti da ogni legame col corpo per tutto il tempo futuro e vanno in abitazioni ancora più belle di queste, che non è facile descrivere 14 • Sul valore di verità di cui questi miti sono portatori abbiamo già detto. E abbiamo già detto, anche, del modo in cui Platone demitizza il loro aspetto fantastico, nel momento stesso in cui li costruisce. Converrà tuttavia rileggere il passo in cui il nostro filosofo mette in guardia il lettore dal prendere alla lettera il mito e insieme ne riafferma la trascendente capacità allusiva, perché tale passo contiene l'unica corretta chiave di lettura di tutta la mito-logia platonica: Certamente, sostenere che le cose siano veramente così come io le ho esposte, non si conviene ad un uomo che abbia buon senso; ma sostenere che o questo o qualcosa simile a questo debba accadere delle nostre anime e delle loro dimore, dal momento che è risultato che l'anima è immortale: ebbene, questo mi pare che si convenga, e che metta conto di arrischiarsi a crederlo, perché il rischio è bello! E bisogna che, con queste credenze, noi facciamo l'incantesimo a noi medesimi: ed è per questo che io, da un pezzo, protMggo questo mio mito. E per questi motivi, deve avere ferma fiducia riguardo alla sua anima l'uomo che, durante la sua vita, rinunciò ai piaceri e agli ornamenti del corpo, giudicandoli estranei e pensando che facessero solo del inale, e, invece, si curò delle gioie dell'apprendere, e, avendo ornato la sua anima non di ornamenti estranei ma di ornamenti che sono a lei propri, cioè di sapienza, giustizia, fortezza, libertà e verità, cosl aspetta l'ora del suo viaggio nell'Ade, pronto a mettersi in viaggio quando verrà il suo giorno 15 • 3.
La metempsicosi
Questa concezione dell'aldilà, di per sé assai chiara e lineare, si intreccia con la dottrina orfìco-pitagorica della metempsicosi, senza però combaciare con essa in modo perfetto. ,. Pedone, 113 d- 114 c. 15 Pedone, 114 d- 115 a.
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Intanto, è bene rilevare che la dottrina della reincarnazione delle anime in Platone assume due forme e due significati molto diversi fra loro. La prima forma è quella che ci viene presentata nel modo più dettagliato ancora nel Pedone. Quivi si dice che le anime che hanno vissuto una vita eccessivamente legata ai corpi, alle passioni, agli amori e ai godimenti di essi, non riescono a separarsi, con la morte, interamente dal corporeo, diventato ad essi connaturato. Queste anime vagolano per un certo tempo, per paura dell'Ade, attorno ai sepolcri come fantasmi, fino a che, attratte dal desiderio del corporeo, non si leghino nuovamente ai corpi e non solo di uomini ma anche di animali, a seconda della bassezza del tenore di vita morale tenuto nella precedente vita. Ecco la celebre pagina del Pedone in cui Platone esprime questa credenza: - Ma certamente si distaccherà [sci!.: l'anima che è vissuta asservita al corporeo], io credo, tutta pervasa di quel corporeo che l'attaccamento e l'intima unione col corpo, a causa della continua unione col corpo e della preoccupazione continua che ebbe per esso, le ha reso connaturale. - Certamente. - E questo corporeo, o amico, bisogna pur credere che sia pesante, terreno e visibile: e un'anima cosl ridotta è come appesantita ed è trascinata nuovamente verso il mondo visibile, per paura dell'invisibile e dell'Ade, come si racconta, e se ne va vagando intorno ai monumenti funebri e ai sepolcri, presso i quali furono viste spettrali ombre di anime: fantasmi sotto i quali si presentano queste anime che non si sono liberate e purificate e che ancora sono partecipi del visibile e quindi si vedono ancora. - È verosimile, o Socrate. - Certo che è verosimile, o Cebete! E verosimile è anche che queste anime non siano quelle dei buoni, ma quelle dei cattivi, le quali sono costrette ad andare errando attorno a questi luoghi, scontando la pena della loro passata esistenza malvagia. E se ne vanno errabonde fino al momento in cui il desiderio di quel corporeo che è in loro non le leghi di nuovo ad un corpo. E, come è verosimile, si legano a corpi, che hanno costumi quali esse praticarono nella loro vita passata.
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- Che cosa significa questo che dici, o Socrate? - Ecco: quelle che si abbandonarono ai piaceri del ventre e alle violenze e all'ubriachezza e non ebbero alcun ritegno, è verosimile che entrino in forme di asini e di altre bestie del genere. Non credi tu? - È del tutto verosimile quello che dici. - Invece quelle che preferirono ingiustizie, tirannidi e rapine, è verosimile che entrino in forme di lupi, avvoltoi o nibbi. O in quali altre specie di animali diciamo che queste anime debbono entrare? - Certamente in queste, disse Cebete. - E, anche per le altre anime, non è chiaro dove ciascuna di esse debba andare, a seconda della somiglianza delle abitudini che ebbe nella sua vita? - Chiaro, disse. E come no? - E allora, non saranno i più felici, disse, e non andranno nei luoghi migliori coloro che praticarono la virtù comune, la virtù del buon cittadino, quella che chiamano temperanza e giustizia: quella che nasce dal costume e dall'esercizio, senza filosofia e senza lume di conoscenza? - E in che modo saranno i più felici costoro? - Perché è probabile che costoro trapassino in un genere di ani~ali socievoli e mansueti come loro, per esempio in api, in vespe o in formiche, oppure anche, di nuovo, nel genere umano, e che si rigenerino da costoro uomini probi. - È probabile. - Ma alla stirpe degli Dei non è concesso giungere a chi non abbia coltivato filosofia e non se ne sia andato dal corpo completamente puro, ma è concesso solamente a colui che fu amante del sapere 16 •
Si parla qui di un ciclo di vite che intercorre per le anime dei malvagi dopo la morte, prima di giungere all'Ade? Oppure non si tratta se non di un modo diverso di rappresentare il destino escatologico (la punizione) del malvagio? È difficile rispondere. È però certo, in ogni caso, che Platone restò fedele a questa sua credenza, dato che la ribadisce anche nel tardo Timeo. 16
Pedane, 81 c- 82 c.
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Il Demiurgo, come sappiamo 17 , compose le anime destinate a incarnarsi in corpi e a diventare uomini, e stabill per essi questa sorte: E chi vivesse bene il tempo assegnato, tornato nuovamente nell'abitazione dell'astro proprio, vi condurrebbe la vita felice e consueta: ma chi a ciò fallisse, nel secondo nascimento trapasserebbe in natura di donna; e se neppure allora cessasse la sua malvagità, secondo il modo della sua corruzione si muterebbe ogni volta in qualche natura ferina, a somiglianza delle cattive inclinazioni che in lui si fossero generate, né mutandosi cesserebbe dai travagli prima che, lasciandosi dominare dal periodo del medesimo e simile, che si svolge in se stesso, e superando con la ragione la molta congerie, anche dopo in esso ingenerata, di fuoco e d'acqua e d'aria e di terra, tumultuosa e irragionevole, fosse pervenuto al genere della prima e ottima indole 18 •
Ma nella Repubblica Platone parla di un secondo genere di reincarnazione delle anime, notevolmente diverso da questo. Le anime sono in numero limitato, sicché, se tutte quante avessero, nell'aldilà, un premio o un castigo eterni, ad un certo momento non ne resterebbe più nessuna sulla terra. Per questo evidente motivo Platone ritiene che il premio e il castigo ultraterreni per uria vita vissuta sulla terra debbano avere una durata limitata e un termine fisso. E poiché una vita terrena dura al massimo cento anni, Platone, evidentemente influenzato dalla mistica pitagorica del numero dieci, ritiene che la vita ultraterrena debba avere una durata di dieci volte cento anni, ossia di mille anni (per le anime che hanno commesso crimini grandissimi e insanabili, la punizione continua anche oltre il millesimo anno). Trascorso questo ciclo, le anime devono ritornare ad incarnarsi. Nel celebre mito di Er, con cui si chiude la Repubblica, si narra, in alcune pagine mirabili, il ritorno delle anime su questa terra. " Si veda, sopra, pp. 182 sg. e 367. Timeo, 42 b-d (traduz. di C. Giarratano).
18
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Terminato il loro viaggio millenario, le anime convengono su una pianura, dove viene determinato il loro destino futuro. E a questo riguardo Platone opera una autentica rivoluzione della tradizionale credenza greca, secondo la quale sarebbero gli Dei e la Necessità a decidere il destino dell'uomo. I « pa· radigmi delle vite » 19 , dice al contrario Platone, stanno in grembo alla Moira Lachesi, figlia di Necessità; ma essi non sono imposti, bensl solo proposti alle anime, e la scelta è interamente consegnata alla libertà delle anime stesse. L'uomo non è libero di scegliere se vivere o non vivere, ma è libero di scegliere come vivere moralmente, ossia se vivere secondo la virtù o secondo il vizio: E raccontò Er che, come giunsero quivi, dovettero andar da Lachesi; e che un profeta, prima di tutto, le dispose in ordine, e prendendo poi dalle ginocchia di Lachesi le sorti e i paradigmi delle vite, salito sopra un alto pulpito disse: Questo dice la ver· gine Lachesi figlia della Necessità: Anime effimere, è questo il principio d'un altro periodo di quella vita che è un correre alla morte. Non sarà il demone a scegliere voi, ma sceglierete voi il vostro demone. E il primo tratto a sorte scelga primo la vita nella quale poi dovrà di necessità essere legato. La virtù non ha padrone: secondo che ciascuno la onora o la dispregia, avrà più o meno di lei. La colpa è di chi sceglie: Dio non ne ha colpa 20 •
Detto questo, il profeta di Lachesi getta a sorte i numeri per stabilire l'ordine con cui ciascuna anima deve recarsi a scegliere: il numero che tocca a ciascuna anima è quello che le cade più vicino. Quindi il profeta stende sul prato i paradigmi delle vite (paradigmi di tutte le possibili vite umane e anche animali), in numero molto superiore a quello delle anime presenti. Il primo cui tocca la scelta ha a disposizione molti più paradigmi di vita che non l'ultimo; ma questo non condiziona in maniera irreparabile il problema della scelta. " Repubblica, x, 618 a. "' Repubblica, x, 617 d-e.
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Rileva espressamente il profeta di Lachesi: Anche all'ultimo che giunga e scelga con giudizio e viva conseguentemente è proposta una vita da contentarsene: né sia negligente colui che comincia la scelta, né chi è ultimo si perda di coraggio 21 • La scelta fatta da ciascun'anima viene poi suggellata dalle altre due Moire, Cloto e Atropo, e diventa, cosi, irreversibile. Le anime bevono, quindi, la dimenticanza nelle acque del fiume Amelete e poi scendono nei corpi, in cui realizzano la vita scelta. Abbiamo detto che la scelta dipende dalla libertà delle anime, ma sarebbe più esatto dire dalla conoscenza, o dalla
scienza della vita buona e di quella cattiva, cioè dalla filosofia, che per Platone diventa, dunque, forza che salva nell'aldiqua e nell'aldilà, per sempre. L'intellettualismo etico è qui spinto a conseguenze estreme: Poiché, se uno sempre, quando giunga alla vita di qua, si dia a filosofare sanamente, e la sorte della scelta non gli tocchi tra gli ultimi, c'è per lui probabilità, giusto quanto Er riferiva di quel mondo, non solo di esser felice in questa terra, ma che anche il viaggio di qui a là e di nuovo a qui non- sarà sotterraneo e malagevole, ma piano e per il cielo 22 • Il valore che Platone dà a questo mito è esattamente quello che dà ai miti del Pedone e agli altri: il valore di « incantesimo » al dubbio e di soccorso alla fede 23 • Del resto le parole con cui esso si chiude suonano inequivoche: E cosl, o Glaucone, si è salvato dalla dimenticanza mito e non perl; ed esso potrebbe salvare anche noi, se gliamo prestar fede: cosl passeremo felicemente il fiume non ci contamineremo l'anima nostra. Se dunque daremo 21
22 23
Repubblica, x, 619 b. Repubblica, x, 619 d-e.
Cfr. sopra, nota 15.
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questo gli voLete e retta a
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me, ritenendo l'anima immortale e capace di reggere a tutti i beni e a tutti i mali, ci atterremo sempre alla via che mena all'alto e in tutti i modi praticheremo la giustizia insieme alla temperanza, per serbarci cosl amici con noi stessi e con gli Dei, tanto mentre rimaniamo qui su questa terra, quanto dopo che ne avremo avuto i premi che i vincitori vanno a raccogliere, e per poter essere felici e quaggiù e nel viaggio millenario di cui abbiamo, ragionato 24 •
Infine è da rilevare come Platone abbia riproposto nel Fedro una visione dell'aldilà ancora più complessa 25 • Le ragioni sono probabilmente da ricercare nel fatto che nessuno dei miti sinora esaminati spiega la causa della discesa delle anime nei corpi, le primigenie origini delle anime stesse, e le ragioni della loro affinità con il divino. Originariamente l'anima era presso gli Dei e viveva al seguito degli Dei una vita divina, ed è caduta in un corpo sulla terra per una colpa. L'anima è come un carro alato tirato da due cavalli con l'auriga. Mentre i due cavalli degli Dei sono egualmente buoni, i due cavalli delle anime degli uomini sono di razza diversa: uno è buono, l'altro cattivo e la guida risulta difficile (l'auriga simboleggia la ragione, i due cavalli le parti alogiche dell'anima, di cui avremo modo di parlare più avanti). Le anime procedono al seguito degli Dei, volando per le strade del cielo, e la loro meta è quella di pervenire periodicamente, insieme agli Dei, fino alla sommità del cielo, per contemplare ciò che sta al di là del cielo, l'Iperuranio (il mondo delle Idee), o, come anche Platone dice, «la pianura della Verità». Ma, a differenza che per gli Dei, per le nostre anime è ardua im· presa il poter contemplare l'Essere che è al di là del cielo, e il potere pascersi nella «pianura della Verità», soprattutto a causa del cavallo di razza cattiva, che tira in basso. Cosi avviene che alcune anime riescono a vedere l'Essere, o almeno " Repubblica, x, 621 b-d. Cfr. Fedro, 246 a- 249 d.
25
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una parte solo di esso, e per questo motivo continuano a vivere con gli Dei. Invece altre anime non riescono a giungere alla «pianura della Verità»: si ammassano, fanno ressa, e, non riuscendo a salire l'erta che porta alla sommità del cielo, si scontrano e si calpestano; nasce una zuffa, in cui le ali si spezzano, e, fattesi per conseguenza pesanti, queste anime precipitano sulla terra: E questa è la legge di Adrastea, e cioè che l'anima la quale essendo al seguito di un Dio abbia visto qualcuna delle verità, [sci!.: le Idee] rimanga incolume fino all'altro giro, e che se può sempre far ciò, sempre rimanga illesa. Ma se per manco di vigore intellettuale non abbia veduto nulla, e se in forza di qualche accidente riempitasi di oblio e di malizia sia divenuta pesante, e pel suo peso abbia lasciato cadere le ali e sia precipitata in terra, allora è legge che non venga immessa in nessuna natura di bestia, durante la prima generazione [ ... ] 26 •
Dunque, finché un'anima riesce a vedere l'Essere e a pascersi nella « pianura della Verità » non cade in un corpo sulla terra, e, di ciclo in ciclo, continua a vivere in compagnia degli Dei e dei demoni. (Quanto duri il ciclo del giro del cielo, Platone non lo dice, forse per suggerire che è questa la vita fuori del tempo). La vita umana alla quale l'anima, cadendo, dà origine, è moralmente più perfetta a seconda che essa più abbia veduto nell'Iperuranio e moralmente meno perfetta a seconda che meno abbia veduto. Alla morte del corpo, l'anima viene giudicata e per un millennio, come già sappiamo. dalla Repubblica, godrà premi o sconterà pene, corrispondenti ai meriti o demeriti della vita terrena. E dopo il millesimo anno ritornerà a reincarnarsi. Ma, rispetto alla Repubblica, nel Fedro c'è una ulteriore novità. Passati diecimila anni, tutte le anime rimettono le ali e ritornano presso gli Dei. Quelle anime che per tre vite consecutive hanno vissuto secondo filosofia, fanno eccezione, e 26
Fedro, 248 c (traduz. di G. Galli qui e avanti).
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godono di una sorte privilegiata, in quanto rimettono le ali dopo tremila anni. È chiaro quindi che, nel Fedro, il luogo in cui le anime vivono con gli Dei (e a cui fanno ritorno ogni diecimila anni) e il luogo in cui godono il premio millenario per ogni vita vissuta sono del tutto differenti. Ecco il passo del Fedro, in cui Platone esprime questa · complessa visione: A quel luogo, poi, donde è mossa [ = il luogo in cui viveva con gli Dei], ciascuna anima non giunge prima di diecimila anni; poiché non rimette le ali prima di tale tempo; eccetto quella di chi abbia filosofato con tutta sincerità o abbia amato fanciulli secondo filosofia: queste ultime anime, al terzo volgere di mille anni, se abbiano scelto per tre volte di seguito tale maniera di vita, rimettono le ali e spiccano il volo per tremila anni. Le altre, quando han terminato la prima vita, compaiono in giudizio, e quando sono state giudicate, le une scendono alle carceri sotterra per scontarvi la pena e le altre, dalla giustizia fatte leggere e sollevate ad un luogo del cielo [che non è l'originario luogo da cui le anime provengono], quivi passano la vita in modo corrispondente a quella che hanno vissuto sotto forma umana. Nel millesimo anno le une e le altre vengono all'assegnazione e alla scelta della vita ulteriore e ciascuna prende quella che vuole; allora un'anima di uomo può prendere vita di animale e quegli che già era stato uomo può, da animale, tornare ad essere uomo. Poiché l'anima che non abbia mai visto la verità non può prendere questa figura -o.
Queste complicazioni si semplificano nel Timeo, a motivo della esplicitazione della figura del Demiurgo, il quale, come abbiamo visto 28 , crea direttamente le anime, le colloca nelle stelle, mostra loro originariamente la verità e affida agli « Dei creati » il compito di rivestirle di corpi mortali. Ma l'introduzione di questa fondamentale figura speculativa, nonché l'affermazione del principio che il Demiur" Fedro, 248 e-249 b. 28 Cfr., sopra, pp. 182 sg.
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go compie ogni sua opera a cagione di bene, doveva fatalmente comportare anche una modificazione dell'affermazione che l'anima si trova in un corpo per una caduta e quindi a causa di un male: doveva portare ad interpretare anche questo suo essere in un corpo in modo positivo. Ma Platone non ha sviluppato espressamente questo tema e ha solo semplificato, come abbiamo letto nel passo del Timeo sopra riportato 29 , la sua escatologia, mantenendo il ciclo delle reincarnazioni come espiazione di una vita moralmente cattiva e ponendo il ritorno alla stella, cui originariamente il Demiurgo aveva assegnato l'anima, come premio di una vita buona. Dal Gorgia al Timeo resta comunque fermo, pur nel fluuuare delle rappresentazioni, questo principio fondamentale: ciò che dà senso a questa vita è il destino escatologico dell'anima, cioè l'altra vita; l'aldiqua ha un significato solo se rapportato ad un aldilà.
" Cfr. sopra, p. 238 e nota 18.
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III. LA NUOVA MORALE ASCETICA
l. Il dualismo antropologico e il significato dei paradossi ad esso connessi
Abbiamo spiegato, nella precedente sezione, come il rapporto fra le Idee e le cose non sia « dualistico » nel senso usualmente inteso, dato che le Idee sono la «vera causa», ossia il fondamento metafisica delle cose 1 • Invece è dualistica (in certi dialoghi in senso totale e radicale) la concezione platonica dei rapporti fra anima e corpo. Infatti nella concezione dei rapporti fra anima e corpo si introduce, oltre la componente metafisico-ontologica, la componente religiosa dell'orfismo, la quale trasforma la strutturale distinzione fra anima ( = soprasensibile) e corpo ( = sensibile) in strutturale opposizione. Per questo motivo il corpo è inteso non tanto come il ricettacolo dell'anima, che ad essa deve la vita e le sue capacità, e quindi come uno strumento a servizio dell'anima quale lo intendeva Socrate, quanto piuttosto come « tomba» e « carcere » dell'anima, ossia come luogo di espiazione dell'anima. Leggiamo nel Gorgia: E io non mi meraviglierei se Euripide affermasse il vero là dove dice: « Chi può sapere se il vivere non sia morire e morire non sia vivere? » e che noi, in realtà, forse siamo morti. Io ho già sentito dire, ' Cfr. sopra, pp. 92 sgg.
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infatti, anche da uomini sapienti, che noi, ora, siamo morti e che il corpo è per noi una tomba [ ... ] 2
Noi finché abbiamo un corpo siamo morti, perché noi siamo fondamentalmente la nostra anima, e l'anima, finché è in un corpo, è come in una tomba, e quindi mortificata; il nostro morire (col corpo) è vivere, perché, morendo il corpo, si libera l'anima dal carcere. Il corpo è radice di ogni male, è fonte di insani amori, passioni, inimicizie, discordie, ignoranza e follia: ed è appunto tutto questo che mortifica l'anima. Questa concezione negativa del corpo si attenua alquanto nelle ultime opere di Platone, ma non scompare mai del tutto. Detto questo, è peraltro necessario rilevare subito che l'etica platonica è solo in parte condizionata da questo esasperato dualismo; infatti i suoi teoremi e corollat~i di fondo poggiano sulla distinzione metafisica di anima (ente affine all'intelligibile) e corpo (ente sensibile) ben più che sulla contrapposizione misteriosofica di anima (demone) e corpo (tomba e carcere). Da quest'ultima derivano la formulazione estremistica e l'esasperazione paradossale di alcuni principi, i quali restano, in ogni caso, validi anche sul puro piano antologico. La « seconda navigazione » resta in sostanza il vero fondamento dell'etica platonica. Precisato questo, esaminiamo subito i due paradossi più noti dell'etica platonica, che sono stati così spesso fraintesi, perché si è guardato più alla loro esteriore coloritura misteriosofica, che alla loro sostanza metafisica: alludiamo ai due paradossi della « fuga dal corpo » e della « fuga dal mondo ». Il primo paradosso è sviluppato soprattutto nel Fedone. L'anima deve adoperarsi a fuggire il più possibile dal corpo, e perciò il vero filo-sofo desidera la morte e la vera filosofia è esercizio di morte. Il senso di questo paradosso è molto chiaro. Se il corpo è di ostacolo all'anima col suo peso sen2
Gorgia, 492 e.
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sibile e se la morte non è altro che scioglimento dell'anima dal corpo, allora la morte costituisce, in qualche modo, l'attuazione completa di quella liberazione che, nella sua vita, il filosofo persegue con la conoscenza. In altri termini: la morte è un episodio che antologicamente riguarda unicamente il corpo; essa non solo non danneggia l'anima, ma le arreca grande beneficio, permettendole di vivere una vita più vera, una vita tutta raccolta in se medesima, senza ostacoli e veli, e interamente congiunta con l'intelligibile. Questo significa che la morte del corpo dischiude la vera vita dell'anima. Pertanto il senso del paradosso non cambia rovesciandone la formulazione, anzi si identifica meglio: il filosofo è colui che desidera la vera vita ( = morte del corpo) e la filosofia è esercizio di vera vita, della vita nella pura dimensione dello spirito. La fuga dal corpo è il ritrovamento dello spirito. Ecco come Platone chiarisce nel Pedone il senso di questo paradosso, in questa pagina esemplare: Sembra che ci sia un sentiero che ci porti, mediante il ragionamento, direttamente a questa considerazione: che, cioè, fino a quando noi possediamo il corpo e la nostra anima resta invischiata in un male siffatto, noi non raggiungeremo mai in modo adeguato ciò che ardentemente desideriamo, vale a dire la verità. Infatti il corpo ci procura innumerevoli preoccupazioni per la necessità del nutrimento; e poi le malattie, quando ci piombano addosso, ci impediscono la ricerca dell'essei·e. Inoltre, esso ci riempie di amori, di passioni, di paure, di fantasmi di ogni genere e di molte vanità, di guisa che, come suoi dirsi, veramente, per colpa sua, non ci è neppure possibile fermare il nostro pensiero su alcuna cosa. Infatti guerre, tumulti e battaglie non sono prodotti da null'altro se non dal corpo e dalle sue passioni. Tutte le guerre nascono per brama di ricchezze, e le ricchezze noi dobbiamo di necessità procacciarcele a causa del corpo, essendo asserviti ai bisogni del corpo. E così noi siamo distolti dalla filosofia, per tutte queste ragioni. E la cosa peggiore di tutte è che, se riusciamo ad avere dal corpo un momento di tregua e riusciamo a rivolgerei alla ricerca di qualche cosa, ecco che, improvvisamente, esso si caccia in mezzo alle nostre ricerche e, dovunque, provoca turbamento e confusione e ci stordisce, sì che, per colpa sua, noi non
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possiamo vedere il vero. Ma risulta veramente chiaro che, se mai vogliamo vedere qualcosa nella sua purezza, dobbiamo staccarci dal corpo e guardare con la sola anima le cose in se medesime. E allora soltanto, come sembra, ci sarà dato di raggiungere ciò che vivamente desideriamo e di cui ci diciamo amanti, vale a dire la conoscenza suprema: cioè quando noi saremo morti, come dimostra il ragionamento, mentre, fin che si è vivi, non è possibile. Infatti, se non è possibile conoscere nulla nella sua purezza mediante il corpo, delle due l'una: o non è possibile raggiungere il sapere, o sarà possibile solo quando si sarà morti: infatti, solamente allora l'anima sarà sola per se stessa e separata dal corpo, prima no. E nel tempo in cui siamo in vita, come sembra, noi ci avvicineremo tanto più al sapere quanto meno avremo relazioni col corpo e comunione con esso, se non nella stretta misura in cui vi sia imprescindibile necessità, e non ci lasceremo contaminare dalla natura del corpo, ma dal corpo ci manterremo puri, fino a quando Dio stesso non ci abbia sciolto da esso. E, cosl, liberati dalla stoltezza che ci viene dal corpo, come è verosimile, ci troveremo con esseri puri come noi e conosceremo, nella purezza della nostra anima, tutto ciò che è puro: questa è forse la verità. Infatti, « a chi è impuro non è lecito accostarsi a ciò che è puro» 3 • Anche il significato del secondo paradosso, quello della «fuga dal mondo», è chiaro. Del resto è Platone stesso che ce lo svela nel modo più esplicito, ~piegandoci che fuggire dal mondo significa diventare virtuoso e cercare di assimilarsi a Dio. Ecco le sue parole: Il male non può perire, ché ha pur da esserci sempre qualche cosa di opposto e contrario al bene; né può aver sede fra gli Dei, ma deve di necessità aggirarsi su questa terra e intorno alla nostra natura mortale. Ecco perché anche ci conviene adoperarci di fuggire di qui al più presto per andare lassù. E questo fuggire è un assomigliarsi a Dio per quel che a uomo è possibile,· e assomigliarsi a Dio è acquistar giustizia e santità e insieme sapienza 4 • Passo, questo, che può ulteriormente chiarirsi, se mai ve ' Fedone, 66 b-67 b. ' Teeteto, 176 a-b (traduz. di M. Valgimigli).
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ne fosse bisogno, con un parallelo passo delle Leggi: Quale condotta è amica e ossequente a Dio? Una sola ed è fondata su questo antico detto, che il simile ama il stio simile, quando conservi la giusta misura; laddove le cose che escono dalla giusta misura non si piacciono tra di loro, né amano quelle che la conservano. Ora per noi la misura di tutte le cose è Dio soprattutto; assai più che non lo sia, come si sostiene, alcun uomo. Chi pertanto vorrà essere amico d'un tal essere, è necessario che anche lui cerchi di divenire quanto più è possibile quale è Dio. Seguendo questo principio, chi di noi è temperante, è caro a Dio, perché a lui simile; chi per contro è intemperante, è dissimile e discordante da lui, ed è ingiusto; e cosl per le altre qualità vale lo stesso principio 5• Come si vede, i due paradossi hanno un significato identico: fuggire dal corpo vuoi dire fuggire dal male del corpo mediante virtù e conoscenza; fuggire dal mondo vuoi dire fuggire dal male del mondo, sempre mediante virtù e conoscenza; seguire virtù e conoscenza vuoi dire farsi simili a Dio, che è « misura » di tutte le cose.
La sistemazione e la fondazione della nuova tavola dei valori
2.
Già Socrate, come vedemmo, aveva operato una rivoluzione dei valori, che, probabilmente, resta la più radicale dell'antichità, sulla base della sua fondamentale scoperta della psyché come essenza dell'uomo. I veri e autentici valori sono solo quelli dell'anima, ossia virtù e conoscenza. I valori del corpo e i valori esteriori passano in secondo pi'
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Ora, la nuova statura metafisica attribuita da Platone all'anima dà una definitiva fondazione alla tavola socratica dei valori. E se, in un primo momento, Platone polarizzò quasi tutta la sua attenzione sui valori dell'anima, come se fossero gli unici valori, a poco a poco, sollecitato soprattutto dai suoi interessi politici, mitigò la svalutazione degli altri valori, e così poté giungere alla deduzione di una vera e propria « tavola dei valori », la prima sistematica e completa che l'antichità ci abbia tramandato. l) Il primo e più alto posto spetta agli Dei, e dunque ai valori che potremmo chiamare religiosi. 2) Subito dopo gli Dei viene l'anima, che, nell'uomo, è la parte superiore e migliore, con i valori che ad essa sono peculiari della virtù e della conoscenza, ossia con i valori spirituali. 3) Al terzo posto viene il corpo con i suoi valori (i valori vitali, oggi si direbbe). 4) Al quarto posto vengono i beni di fortuna, le ricchezze e i beni esteriori, in generale.
Come risulta evidente anche ad una prima lettura di questa tavola, il posto che ciascuno dei valori occupa corrisponde esattamente al posto che, nella antologia generale di Platone, occupa ciascuno degli esseri cui essi si riferiscono. E come il sensibile è interamente dipendentè dal soprasensibile, al punto che è solo in funzione dell'essere soprasensibile, così anche i valori legati al sensibile sono e valgono solo in funzione dei valori metasensibili. In particolare va rilevato che i valori che occupano il terzo e H quarto posto sono tali solo se subordinati al superiore valore dell'anima. Qualora essi vengano preposti o comunque opposti ai valori dell'anima, divengono negativi, e quindi divengono disvalori. Ecco un passo delle Leggi, che è poco noto, ma che merita di essere meditato, perché contiene l'ultima parola di Platone
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in merito: Di tutti i beni che ognuno possiede, il più divino, dopo gli Dei è l'anima, ch'è il bene più individuale. In ogni uomo vi sono due parti: l'una superiore e migliore, che comanda; l'altra inferiore e meno buona, che serve; ora la parte che in lui comanda, bisogna che ognuno l'onori sempre a preferenza di quella che serve. Cosicché, dicendo che ognuno alla propria anima deve dare il secondo posto nella sua estimazione, dopo gli dèi, che sono i nostri signori, e gli esseri che ad essi sono vicini io do un giusto precetto. Non v'è, per così dire, alcuno fra noi, che onori la propria anima come si conviene, pur credendo il contrario [segue un elenco di azioni che non onorano l'anima, fra cui scegliamo i due esempi più indicativi]. Né per certo quando si preferisce la bellezza alla virtù, altro si fa con questo che disonorare l'anima nella maniera più reale e più assoluta; giacché questa preferenza viene a dire che il corpo è più pregevole dell'anima, il che è falso; nulla infatti di ciò che è terrestre è più pregevole delle cose celesti; e chi dell'anima ha un'altra opinione, ignora quanto sia ammirabile questo bene ch'egli trascura. Né certo, quando un uomo ama acquistare ricchezze in maniera non bella, o non prova ripugnanza acquistandole, onora con tali doni la sua anima; la colma anzi d'afflizione; imperocché egli vende ad un tempo l'onore e la bellezza di essa per poco oro; mentre tutto l'oro ch'è sulla terra e sotto la terra non è paragonabile con la virtù [ ... ]. Il terzo posto poi ognuno comprenderà che, secondo l'ordine naturale, spetta al corpo. Ma quanto alla stima del corpo, bisogna esaminare quale è vera e quale è falsa; e questo è compito del legislatore. Ora mi sembra che in proposito egli dichiari che degno di stima è il corpo, non perché sia bello, o forte, o dotato di velocità, o grande, e neppure perché sia sano - benché così paia a molti - , né certamente per le qualità opposte: un giusto mezzo fra tutte queste qualità è la cosa più savia e nello stesso tempo di gran lunga più sicura; ché le prime rendono l'anima tronfia e orgogliosa, le altre la rendono umile e vile [ ... ] . Lo stesso è del possesso del danaro e delle sostanze [che occupa l'ultimo posto], e va quindi apprezzato alla stessa stregua. L'eccesso infatti di dar,aro o di sostanze è causa per gli stati e pei privati di sedizioni e d'inimicizie; la mancanza il più delle volte è causa di servitù 7 • 7
Leggi, v, 726 a- 729 a; dr. anche v, 743 e.
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3.
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L'antiedonismo
platonico
E il piacere? Trova posto in questa « tavola di valori », o non trova in essa collocazione di alcun genere? Già Socrate, come vedemmo, negò al piacere una validità autonoma e la Scuola di Aristippo, erigendo il piacere a bene supremo, tradl Socrate, mentre Antistene, qualificando il piacere senz'altro come male, radicalizzò il pensiero di Socrate in senso cinico. La posizione di Platone, a questo riguardo, registra una evoluzione che va da una radicalizzazione in senso ascetico della posizione di Socrate, ad un ricupero, approfondito e antologicamente chiarito, della posizione socratica. In dialoghi come il Gorgia e il Pedone (e in parte nella stessa Repubblica) - in cui, oltre alla distinzione metafisica anima-corpo, gioca un suo ruolo anche il dualismo misteriosofico orfico, e in cui il corpo è visto anche come carcere dell'anima - è chiaro che il piacere, che è legato ai sensi, .non può se npn essere radicalmente svalutato, e visto, in un certo senso, come antitesi del bene, in quanto asserve l'anima al sensibile e ad esso la lega. Insomma, il disprezzo dualistico del corpo comporta, di conseguenza, il disprezzo di tutti i piaceri e di tutti i godimenti del corpo. Ecco uno dei testi più significativi: E l'anima del vero filosofo, non ritenendo di dover contrastare questa liberazione [dal corpo], si astiene dai piaceri, dai desideri e dalle paure il più possibile, considerando che colui che si lascia prendere oltre misura dai piaceri o dai timori o dai dolori o dalle passioni non riceve un male cosl grande come se si ammalasse, o consumasse parte delle sue sostanze per soddisfare alle sue passioni, ma riceve il male più grande che si possa immaginare, e non se ne rende conto. - E quale è questo male, o Socrate?, disse Cebete. - È che l'anima dell'uomo, provando un forte piacere o un forte dolore a causa di qualche cosa, è spinta per questo a credere che ciò che le fa provare queste sue affezioni sia concretissimo e verissimo, mentre non è cosl. Ora, questo ci accade specialmente con le cose visibili. O no?
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LA NUOVA MORALE ASCETICA
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- Certamente. - E non è forse per queste sue affezioni che l'anim~ ~ soprattutto legata al corpo? - E perché? - Perché ogni piacere e ogni dolore, come se avesse un chiodo, inchioda e conficca l'anima nel corpo e la fa diventare quasi corporea e le fa credere che sia vero ciò che il corpo dice essere vero. E da questo avere le stesse opinioni del corpo e da questo suo godere degli stessi godimenti del corpo, io penso, è costretta anche ad acquistare gli stessi modi e le stesse tendenze de! corpo, e quindi a diventare tale da non poter giungere pura all'Ade; ma uscirà dal corpo tutta piena di desiderio corporale, cosicché cadrà subito nuovamente in un altro corpo, e, come se fosse semenza, ivi germoglierà, e, per questo, non potrà mai avere in sorte la partecipazione all'essere divino, puro, uniforme. - È verissimo, o Socrate, disse Cebete 8 •
Un ammorbidimento di questa conce2lione si registra già nella Repubblica, dove, sulla base della distinzione delle varie funzioni o parti dell'anima (su cui torneremo in modo approfondito più avanti), il piacere viene inteso, sia pure con qualche oscillazione, come prerogatliva dell'anima più che non del corpo. E poiché sono tre le parti dell'anima, la concupiscibile, l'irascibile e la razionale, tre saranno anche le specie di piaceri: i piaceri legati alle cose materiali e alle ricchezze (propri dell'anima concupiscibile), i piaceri legati all'onore e alla vittoria (propri dell'anima irascibile) e i piaceri della conoscenza (propri dell'anima razionale). I piaceri della terza specie sono di gran lunga superiori, in primo luogo perché di gran lunga superiore è la facoltà razionale dell'anima cui essi si riferiscono e, in secondo luogo, perché di gran lunga superiori sono gli oggetti che procurano i piaceri della ragione rispetto a quelli che procurano il piacere delle altre parti dell'anima. Anzi, solo i piaceri della terza specie sono « autentici », mentre le altre due specie di piaceri sono « spurie ». Infatti, in generale, il piacere è come il « riempirsi » o il « ri• Pedone, 83 b-e.
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colmarsi » di un vuoto; ma né il corpo e le parti inferiori dell'anima sono tali da trattenere ciò che ricevono né i loro oggetti sono tali da saziare, perché non sono il vero essere, mentre la parte superiore, colmandosi e riempiendosi del vero essere, in sommo grado gode: - Dunque ciò che si riempie di cose che hanno più di essere, essendo esso stesso più partecipe dell'essere, si riempie più veramente che non ciò che essendo meno essere si nutre di cose che sono anche meno essere. -E come no? - Se pertanto il riempirsi di ciò che per natura si conviene è piacevole, ciò che veramente più si riempie di ciò che veramente è, più veramente e sostanzialmente ci farà godere di piacere vero, e ciò che riceve in sé ciò che è meno, meno veramente e saldamente potrà riempirsi e parteciperà d'un piacere meno sicuro e meno vero. - È del tutto necessario, disse lui 9 • Tuttavia, anche i piaceri « spuri » delle due parti inferiori dell'anima, se sono condannabiii allorché hanno il sopravvento, sono invece accettabili se infrenati dalla ragione: - Che dunque?, dissi io: vogliamo affermare coraggiosamente che anche di tutti i desideri della parte che ama il guadagno [ = la parte concupiscibile dell'anima] e la vittoria [ = la parte irascibile], quelli che van dietro alla scienza e alla ragione e col loro aiuto cercano i piaceri che addita la saggezza e li raggiungono, raggiungeranno i più veri (ed è dato ad essi di raggiungerne di veri, perché la verità è la loro guida), e i più conformi a loro, se dobbiamo credere che il meglio per ciascuno è anche ciò che gli è più conforme? - Ma sì, disse lui, ciò che gli è più conforme. - Se pertanto tutta l'anima si lascia guidare dalla facoltà che ama il sapere e non si ribella, avviene che ogni sua parte e nelle altre cose compie il proprio ufficio e si serba anche giusta, e parimenti raccoglie, ciascuna, i piaceri suoi propri e i migliori e per quanto è possibile più veri 10 • • Repubblica, •• Repubblica,
IX, IX,
585 d- e. 586 d- e.
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Ma nell'Accademia sorse ben presto una vivace polemica intorno alla natura del piacere, che mise capo a due opposte soluzioni. Da un lato, alcuni Accademici negarono che il piacere potesse in alcun modo identificarsi col bene; dall'altro, come vedremo, Eudosso rivalutò il piacere e lo identificò addirittura con il bene, adducendo, a prova della sua tesi, il fatto che sia gli uomini che gli animali tendono egualmente al piacere e fuggono dal dolore 11 • Platone intervenne nella disputa col suo Filebo, tentando una composizione della polemica. La soluzione mediatrice che egli propose, a ben vedere, più che una modificazione dei presupposti filosofici della sua etica, è piuttosto una eliminazione degli eccessi dovuti al dualismo misteriosofico di genesi orfica, e quindi è un tentativo di rendere i corollari etici più coerenti con le premesse metafisiche. All'uomo, che è un'anima in un corpo, non s'addice una vita di pura intelligenza, che è indubbiamente la vita più divina, ma, proprio perché tale, è vita più che umana, è vita degli eterni Dei. Ma all'uomo non s'addice nemmeno una vita di puro piacere, che è vita puramente animale. Ecco le conclusioni del Filebo, che dimostrano chiaramente come l'etica del Gorgia e del Pedone sia ridimensionata, ma niente affatto rinnegata: Il primo [posto] davvero no [non lo daremo al piacere], nemmeno se glielo danno ·tutti i bovi, tutti i cavalli, e tutte le altre bestie, con l'atto stesso di perseguire il piacere. Ad essi dando retta, nel modo che gli indovini agli uccelli, giudica la gran massa [degli uomini] che i piaceri siano i più utili a viver bene, e crede che gli amori dei bruti siano testimoni di maggior peso che i ragionamenti concepiti nello spirito della Musa filosofa 12•
All'uomo s'addice una vita «mista »-di intelligenza e di piacere. Ma, in primo luogo, è da notare che i piaceri che 11
12
Di Eudosso parleremo nel volume 111. Filebo, 67 h (traduz. di M. Faggella).
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Platone sussume nella « vita mista » sono solo i « piaceri puri », vale a dire i piaceri delle attività spirituali e delle percezioni; in secondo luogo, è da notare che la regia rimane interamente affidata all'intelligenza e solo ad essa: Socrate - [ ... ] lo, poiché avevo presente ciò che si è testé discusso, ed ero ostile a quella tesi [secondo cui il piacere è il bene], che non è di Filebo solo, ma d'altri mille, affermai che l'intelligenza è molto migliore, e più giovevole del piacere alla vita umana. Protarco - Cosl hai detto. Socrate - Ma sospettando che ci fossero ancora molti beni, premisi che se ce ne fosse apparso un altro, avrei lottato contro il piacere per dare all'intelligenza il secondo posto; cosl il piacere. avrebbe perduto pure il secondo onore. Protarco - Ricordo che hai detto questo. Socrate - Ma in seguito ci è apparso nel modo più sufficiente che né l'uno né l'altro era sufficiente. Protarco - Verissimo. Socrate - Ora, siccome in questo ragionamento, il piacere e l'intelligenza si sono mostrati privi di capacità di bastare a se stessi e di forza sufficiente e perfetta, né l'uno né l'altro s'è visto che sono il bene. Protarco - Giustissimo. Socrate - Ma, come uscl fuori un terzo, migliore d'ognuno dei due, si notò che l'intelligenza è mille volte più familiare, più affine a quell'ideale di t-incitore, di quel che 1ton sia il piacere 13 • E anche nelle Leggi, dove Platone nei confronti del piacere usa un linguaggio che, di primo acchito, parrebbe addirittura anticipare quello di Epicuro, le cose non mutano. Nel libro quinto leggiamo infatti quanto segue: E cosl rispetto alla condotta, che bisogna tenere, e alle qualità individuali, che ciascuno deve avere, noi abbiamo dianzi esposto su per giù tutti i precetti che hanno carattere divino; ma non abbiamo ancora esposto quelli che rivestono carattere umano; il che bisogna pur fare, perché noi parliamo ad uomini, non a " Filebo, 66 e- 67 a.
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Dei. Or dunque, piaceri, dolori, desiderii sono cose per loro natura profondamente umane, a cui ogni mortale dev'essere per necessità vivamente attaccato e come sospeso. Cosicché, facendo l'elogio della vita più bella, non basta mostrare che essa col suo aspetto esteriore vale più d'ogni altra a conferire una buona reputazione, ma bisogna anche mostrare che, se vogliamo gustarla e non ce ne allontaniamo nell'età giovanile, essa vale più d'ogni altra anche in quello che tutti cerchiamo, ossia nel farci goder di più e soffrir di meno durante tutta la vita. E che questo sia vero, potrà subito chiaramente accorgersene ogni uomo, sol che voglia rettamente gustarla. Quale poi sia la retta maniera di gustarla bisogna chiederlo alla ragione, esaminando se ciò che noi diciamo è conforme a natura, ovvero fuori di essa. Bisogna pertanto considerare la vita più gioconda e la vita più penosa mettendole a raffronto nel seguente modo. Noi vogliamo il piacere, ma non preferiamo, né vogliamo il dolore; non vogliamo lo stato neutro invece del piacere, ma lo preferiamo al dolore; noi vogliamo minor dolore con maggior piacere, ma non vogliamo minor piacere con maggior dolore; quanto allo stato in cui piacere e dolore si bilanciano, non si può nettamente affermare che noi lo vogliamo. In tutti questi casi giovano poi rispetto alla volontà, per determinare in ciascuno d'essi la scelta, così l'abbondanza come la grandezza, l'intensità, l'eguaglianza; e così pure le condizioni contrarie a tutte queste. Tale essendo necessariamente l'ordine delle cose, quella vita in cui i piaceri e i dolori sono molti, grandi e intensi, ma prevalgono i piaceri, noi la vogliamo; se avviene il contrario, non la vogliamo; e così quella vita in cui gli uni e gli altri sono pochi, piccoli e calmi, ma prevalgono i dolori, non la vogliamo; se avviene il contrario, la vogliamo; se poi nella vita piaceri e dolori si equilibrano, come sopra dicevamo, bisogna pensare che tale vita noi la vogliamo, qualora prevalga ciò che ci è gradito; qualora invece prevalga ciò che ci è inviso, non la vogliamo. Bisogna pensare che tutti gli stati della nostra vita sono per natura racchiusi entro questi limiti, e considerare nello stesso tempo quali sono quelli che naturalmente noi preferiamo. Che se diciamo di volere alcuna cosa al di fuori di questi limiti, parliamo così per una certa ignoranza e inesperienza dei reali stati della vita 14 •
Ma, subito dopo aver riconosciuto questo (che tra l'altro ,. Leggi,
v, 732 d- 733 d.
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- si badi è riconoscimento motivato dall'impostazione popolare delle Leggi), Platone conclude che fa vita che garantisce maggior piacere è solo la vita virtuosa, come in tutti i precedenti dialoghi: Ora la nostra volontà di scelta non mira a quegli stati dove prevale il dolore: noi giudichiamo più piacevole quella vita nella quale invece esso è minore. Ora benché la vita temperante in confronto della intemperante e, possiamo aggiungere, la vita prudente in confronto della dissennata e la coraggiosa in confronto della vita piena di viltà contengano piaceri e dolori meno numerosi, più piccoli e più rari, tuttavia, siccoine le une prevalgono sulle altre in fatto di piaceri, e queste su quelle in quanto a dolori, ne ronsegue che la vita coraggiosa è superiore alla vita piena di viltà e la vita prudente alla dissennata; di maniera che la vita temperante, la vita coraggiosa, la vita prudente e la vita sana sono più piacevoli della vita piena di viltà, della vita dissennata, della vita intemperante e della vita ammalata; insomma la vita congiunta con le buone qualità di corpo e d'anima è più piacevole della vita congiunta con le cattive qualità, ed è per di più superiore in tutto il resto, come bellezza, rettitudine, virtù, buona reputazione; epperò essa fa sì che chi l'abbraccia viva in tutto e per tutto più felicemente di chi abbraccia la vita opposta 15 •
4. L a purifica zio n e d e Il 'a n i m a , l a v i r t ù e l a conoscenza
Socrate aveva posto nella « cura dell'anima » il supremo compito morale dell'uomo. Platone ribadisce il comandamento socratico, ma vi aggiunge una mistica coloritura, precisando che «cura dell'anima » significa « purificazione dell'anima ». Questa purificazione si realizza quando l'anima, trascendendo i sensi, si impossessa del puro mondo dell'intelligibile e dello spirituale, ad esso congiungendosi, come a ciò che le 15
Leggi, v, 734 c- e.
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è congenere e connaturale. Qui la purificazione, ben diversamente dalle cerimonie iniziatrici degli Orfici, coincide con il processo di elevazione alla suprema conoscenza dell'intelligibile. Ed è proprio su questo valore di purificazione riconosciuto alla scienza e alla conoscenza (valore che in parte già gli antichi Pitagorici, come vedemmo, avevano scoperto) che bisogna riflettere per comprendere la novità del « misticismo » platonico: esso non è estatica e alogica contemplazione, ma catartico sforzo di ricerca e di progressiva ascesa alla conoscenza. E si capisce così perfettamente come, per Platone, il processo della conoscenza razionale sia ad un tempo processo di con-versione morale: nella misura in cui il processo della conoscenza ci porta dal sensibile al soprasensibile, ci converte dall'uno all'altro mondo, ci porta dalla falsa alla vera dimensione dell'essere. Dunque, l'anima si cura, si purifica, si converte e si eleva conoscendo. E in questo sta la virtù. Ecco un significativo passo del Fedone, in cui virtù, sapere e purificazione sono identificati, e la filosofia è fatta coincidere con la vera iniziazione ai misteri: O caro Simmia, guarda che non sia questo il giusto scambio nei riguardi della virtù, cioè lo scambiare piaceri con piaceri, dolori con dolori e paure con paure, i più grandi con i più piccoli, così come se fossero monete; e sta bene attento che l'unica moneta autentica, quella con la quale si devono scambiare tutte queste cose, non sia piuttosto il sapere, e che solo ciò che si compra e si vende a prezzo di sapere e col sapere sia veramente coraggio, temperanza, giustizia e che, insomma, la virtù sia solo quella accompagnata dal sapere, sia che vi si aggiungano sia che non vi si aggiungano piaceri, timori e tutte le altre passioni come queste! Quando queste cose sono separate dal sapere e scantbiate .fra di loro, bada che la virtù che ne deriva n011 sia che una vana parvenza, una virtù veramente servite, che no.>z ha nulla di buono e di genuino; e che la virtù vera non sia se non una purificazione da ogni passione, e che la temperanza, la giustizia, il coraggio e il sapere medesimo non siano altro che una specie di purifh·azione. E certamente non furono degli sciocchi coloro che istituirono i misteri: e in verità già dai tempi antichi ci hanno velatamente
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rivelato che colui il quale arriva all'Ade senza essersi iniziato e senza essersi purificato, giacerà in mezzo al fango; invece, colui che si è iniziato e si è purificato, giungendo colà, abiterà con gli Dei. Infatti, gli interpreti dei misteri dicono che « i portatori di ferule sono molti, ma i Bacchi sono pochi». E costoro, io penso, non sono se non coloro che praticarono rettamente filosofia 16 • E non solo il Pedone} ma gli stessi libri centrali della Repubblica} ribadiscono queste tesi: la dialettica è conversione all'essere, è iniziazione al Bene supremo. Delle singole virtù diremo esponendo la Repubblica. Qui rileviamo ancora come, in questa fusione di misticismo e razionalismo, Platone riassuma in pieno l'[ntellettualismo socratico. Vedremo infatti che, se egli fa posto nell'anima a forze alogiche per poter spiegare più adeguatamente il comportamento umano, lascia tuttavia alla ragione l'indiscussa supremazia. E addirittura ribadisce, ancora negli ultimi due dialoghi, il paradosso socratico che nessuno pecca volontariamente, riconoscendo, in tal modo, onnipotente forza alla conoscenza 17 •
Pedone, 69 a-d. Cfr. Leggi, v, 731 c: « [ ... ] bisogna prima di tutto sapere che l'uomo ingiusto non è volontariamente tale»; ivi, IX, 860 d-e: « [ ... ] tutti i cattivi sono in ogni caso involontariamente cattivi; se questo è vero, la conseguenza necessaria che ne deriva è questa. [ ... ] L'uomo ingiusto è cattivo, e il cattivo è tale involontariamente; ora è affatto illogico ammettere che involontariamente si compia un atto volontario; chi pertanto ammette che l'ingiustizia è involontaria, riterrà che l'ingiusto co=ette ingiustizia involontariamente»; Timeo, 86 e: « [ ... ] malvagio nessuno è di sua volontà, ma il malvagio diviene malvagio per qualche prava disposizione del corpo e per un allevamento senza educazione, e queste cose sono odiose a ciascuno e gli capitano contro sua voglia ». 16
17
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IV. LA MISTICA DI PHILIA E DI EROS
l.
L'amicizia (phill:a) e il «Primo Amico»
Abbiamo già visto come Socrate avesse elevato l'indagine sull'amicizia a livello di problema filosofico. Platone riprende da Socrate l'impostazione del problema, ma, nella soluzione, procede assai oltre Socrate, ancora una volta sulla base dei risultati della « seconda navigazione ». Comunemente si considerano globalmente le trattazioni platoniche dell'amicizia (philia) e dell'amore (eros), ma ciò è errato, perché esse non coincidono, pur avendo molto in comune. Nella greca philia prevale l'elemento razionale, o per lo meno è assente quella passione e quella « divina mania » che è invece caratteristica peculiare di eros, ed è per questo che Platone studia, separatamente, la prima nel Liside e il secondo nel Convito, e, in parte, anche nel Fedro. Al di là delle aporie di cui è disseminato il Liside, si ricava, con una certa chiarezza, quanto segue 1 • L'amicizia non nasce né fra simili né fra dissimili; l'amicizia non nasce fra buono e buono né fra cattivo e buono (o fra buono e cattivo). È piuttosto l'intermedio (né buono né cattivo) che è amico del buono. E l'intermedio è amico del buono a causa del male che c'è in lui (naturalmente deve trattarsi di un male che non condizioni interamente l'intermedio) ' Per una accurata esegesi del Liside rimandiamo al lavoro di una nostra allieva M. Lualdi, Il problema della philia e il Liside platonico, Celuc, Milano 1974.
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e a causa del desiderio del bene, che gli manca ma che in qualche modo gli è proprio, essendo appunto intermedio (l'intermedio, si badi, può essere definito, oltre che come ciò che non è né cattivo né buono, anche come ciò che è, insieme, e cattivo e buono). Ma l'amicizia per Platone non si svolge in senso puramente orizzontale, per cosi dire, ma si erge in senso verticale, ossia trascendente. Ciò che noi cerchiamo nelle umane amicizie rimanda sempre a qualcosa di ulteriore e ogni amicizia assume un senso solo in funzione di un « Primo Amico » (7tpW't'OV cp(ì..ov).
Ecco il passo più significativo del dialogo: - Ed è allora necessario che s'esauriscano coslle nostre forze procedendo all'infinito [di cosa amica in cosa amica, di amicizia in amicizia]? o giungeremo invece a un certo principio che non ci rimanderà più ad un'altra cosa cara posta più in là? Ma quel principio sarà né più né meno che il Primo Amico1 in vista del quale diciamo che tutte l'altre cose sono amiche. - Necessariamente. - Per questo appunto, continuai, tutte l'altre cose che noi chiamiamo amiche, in vista di quel Primo, ci sono care e amiche, e quasi fantasmi di Lui ci attirano in inganno. E quel Primo invece è veramente l'Amico 2 •
E nel contesto del dialogo emerge chiaramente che questo « Primo Amico » è non altro che il Bene primo e assoluto.
L'amicizia che lega uomo a uomo è autentica, per Platone, solo se si rivela mezzo per salire al Bene. Analoghe sono le conclusioni che Platone trae nelle sue analisi intorno all'amore, di cui ora dobbiamo dire in sintesi.
2 Liside, 219 c- d (traduzione di E. Turolla, Platone, I Dialoghi, L'Apologia e le Epistole, Rizzoli, Milano 1953).
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LA MISTICA DI PHILIA E DI EROS
2.
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L'« amor p la tonico »
Abbiamo già visto come la tematica della bellezza non sia collegata da Platone con la tematica dell'arte (la quale è imitazione di mera parvenza, e non rivelatrice della intelligibile bellezza), bensl con la tematica dell'eros e dell'amore, che viene inteso come forza mediatrice fra sensibile e soprasensibile, forza che dà ali ed eleva, attraverso i vari gradi della bellezza, alla metempirica Bellezza in sé. E poiché il Bello, per il Greco, coincide col Bene, o è comunque un aspetto del Bene, cosl Eros è forza che eleva al Bene: l'erotica platonica, lungi dall'essere in contrasto con il misticismo e l'ascetismo platonico, è un aspetto.fondamentale e squisitamente ellenico di esso. L'analisi di Amore è fra le più splendide che Platone ci abbia dato 3 • Amore non è né bello né buono, ma è sete di bellezza e di bontà. Amore non è quindi un Dio (Dio è solo e sempre bello e buono), ma nemmeno un uomo. Non è mortale e neppure immortale: egli è uno di quegli esseri demoniaci « intermedi » fra uomo e Dio. Ecco come sono descritti questi esseri demoniaci: Interpretano e trasmettono agli Dei gli umani desideri; cosl pure a gli uomini i divini voleri. E di quelli, le preghiere e i sacrifici; di questi, i comandamenti e il ricambio dei sacrifici. In mezzo tra l'uno e l'altro mondo, colmano intero l'immenso vuoto che separa i due mondi; e l'universo per tal modo risulta un'unità complessa e coerente. Per opera di questi esseri superiori, si svolge tutta l'arte che predice l'avvenire; tutto il complesso delle funzioni e delle pratiche sacerdotali: sacrifici iniziazioni incantamenti; l'arte profetica nella sua totalità, e la magia. La divinità [ ... ] non ha mai diretto rapporto col genere umano; soltanto per mezzo di de' Sul tema dell'amore si vedranno, per eventuali approfondimenti: G. Krueger, Einsicht und Leidenschaft, Frankfurt 1939 (1963'); G. Calogero, Il Simposio di Platone, Bari 1946'; L. Robin, La théorie platonicienne de l'amour, Paris 1968'; nonché Stenzel, Platone educatore, pp. 142 sgg. e Jaeger, Paideia, n, pp. 299 sgg. Cfr. altra bibliografia nel volume v, s.v.
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moni ha relazione con noi; ogni suo colloquio con gli uomini, così nella veglia come nel . sonno, avviene per il loro tramite. E si dice appunto che chi ha conoscenza sicura di questo è un uomo in rapporto con potenze superiori, un uomo demoniaco [ ... ] E questi demoni sono molti e d'ogni genere. Uno è anche Amore 4 •
E il Demone Amore è stato generato da Penia (che vuoi dire povertà) e da Poros (che vuoi dire espediente, risorsa, acquisto) nel giorno natale di Afrodite. Ed è per questo che Amore ha doppia natura: Siccome dunque Amore è figlio di Penia e di Poros ecco qual è la sua condizione. Intanto, è povero sempre; e non è affatto delicato e bello, come per lo più si crede; bensì, duro, ispido, scalzo, senza tetto; giace per terra sempre, e nulla possiede per coprirsi; riposa dormendo sotto l'aperto cielo nelle vie e presso le porte. Insomma riferisce chiara la natura di sua madre, dimorando sempre insieme con povertà. Da parte di padre invece, Amore insidia con accorti espedienti i belli nel corpo e nell'anima; è valoroso, audace. È veemente. Cacciatore possente è Amore, intreccia sempre astuzie e intrighi; ansioso di possedere perspicace visione e ricco d'espedienti per procurarsela. Amante per tutta la vita di sapienza, filosofo cioè. Potente incantatore, esperto di filtri, sofista. E la sua natura non è né mortale né immortale; ma, un momento, nel medesimo giorno quand'ogni espedientè bene gli procede, è tutto in fiore e tutta vita, un momento successivo Amore muore, e torna poi in vita grazie alla paterna natura; ma, quanto è riuscito a procurarsi-, a poco à poco via sempre gli sfugge. Insomma Amore non è mai del tutto povero; né, d'altra parte, del tutto ricco. Si trova in mezzo fra ignoranza e sapienza 5•
Amore è dunque filo-sofo nel senso più pregnante del termine. La sophza, cioè la sapienza, è posseduta solo da Dio; l'ignoranza è propria di colui che è totalmente alieno da sapien• Simposio, 202 e-203 a (questo brano del Simposio e quelli che seguono sono riportati nella traduzione di E. Turolla, che, anche se eccede, talora, in preziosità, rende tuttavia l'atmosfera mistica e il tono entusiastico, che in altre traduzioni vanno persi). ' Simposio, 203 c-e.
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za; la filo-sofia è propria, invece, di chi non è né ignorante né sapiente, non possiede il sapere ma vi aspira, è sempre in cerca, e ciò che trova gli sfugge e lo deve cercare oltre, appunto come fa l'amante. Quello che gli uomini comunemente chiamano amore non è che una piccola parte del vero amore: amore è desiderio del bello, del bene, della sapienza, della felicità, della immortalità, dell'Assoluto. L'Amore ha molte vie che portano a vari gradi di bene (ogni forma di amore è desiderio di possedere il bene sempre): ma vero amante è colui che le sa percorrere tutte, fino a giungere alla suprema visione, fino a giungere alla visione di ciò che è assolutamente bello. Il più basso grado nella scala dell'amore è l'amore fisico, che è desiderio di possedere il corpo bello al fine di generare nel bello un altro corpo: e già questo amore fisico è desiderio di immortaLità e di eternità, [ ... ] perché la generazione, pur in mortale creatura, è perennità e immortalità 6• Poi v'è il grado degli amanti che sono fecondi non nei corpi ma nelle anime, che portano germi che nascono e crescono nella dimensione dello spirito. E fra gli amanti nella dimensione dello spirito si trovano, via via sempre più in alto, gli amanti delle anime, gli amanti delle arti, gli amanti della giustizia e delle leggi, gli amanti delle pure scienze. E, infine, al sommo della scala d'amore, c'è la folgorante visione dell'Idea del Bello, del Bello in sé, dell'Assoluto. Leggiamo le meravigliose pagine in cui Platone descrive la scala dell'amore, che porta dal bello corporeo all'Idea pura del Bello: sono fra le più alte della letteratura di tutti i tempi. A questa parte della dottrina d'amore, potresti anche tu forse, Socrate, essere iniziato. Vi sono tuttavia le iniziazioni perfette e ' Simposio, 206 e.
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supreme; vi è la finale visione. E tutto questo preludio è fatto in vista di quella, se pur se ne persegue per retta via la ricerca. Certo non so se sarai capace di questa suprema iniziazione Dirò in ogni caso, continuava, e non lascerò nulla d'intentato. Se le forze ti reggono, fa ogni sforzo per seguirmi. Dunque, disse, chi vuoi dedicarsi con giusto metodo, per volgersi a sl grande operazione, deve, quando ancora è giovinetto, cominciare a perseguir bellezza in sembianti e in corporee forme. E dapprima, se retta è la guida che conduce, deve rivolgere il suo amore a una sola persona le cui sembianze siano belle. E quivi dar generazione a parole di discorsi belli. Successivamente, intervenendo riflessione, pensare che bellezza, aleggiante nel volto e nelle membra d'un uomo, è sorella di bellezza aleggiante nel volto e nelle membra di qualsiasi altro uomo; pensare che se meta del cammino deve essere bellezza in sua specie universa, errore grande sarebbe non ritenere unica e identica, bellezza che in tutte le sembianze traspare. [ ... ] In conseguenza, sarà innamorato d'ogni bellezza che in sembianti e in corporee forme traluce. E quest'amore d'un solo, questa eccessiva passione dovrà rallentare alfine. Oh! comprendere· che piccola cosa è questa passione e di poco conto degna! Ma poi deve considerar che bellezza, quando dalle anime traspare, è di tanto più pregiata e più alta di quella che traspare da corporee forme. Ne consegue che, se il fiore di vita sarà tenue in qualcuno, purché questi nell'anima sia bello e gentile; a chi ama quest'anima bella, quest'anima tutto per lui sarà. E l'amerà; e n'avrà cura; e curerà di generare altre parole e ragionamenti capaci d'elevare anime giovinette. Questo studio lo porterà necessariamente a contemplare una bellezza che ha sua sede nelle azioni e nel costume. Potrà veder cosl che un legame segreto tutto ciò unisce e raccoglie, e ben piccola cosa gli sembrerà allora bellezza in corporee forme e in sembianti. Ma dopo le azioni, egli dovrà pervenire alle cognizioni e alle scienze. E ne vedrà allora la bellezza! Ecco, il suo sguardo sta volgendosi ormai a una zona vasta su cui bellezza regna. Oh! non più a bellezza d'un solo, come umile servo, presterà servigio; non più ama la bellezza d'un certo uomo; la bellezza d'un'unica azione; non sotto questo giogo sarà vile e uomo da nulla; non più misera e povera ne sarà la parola; ma ormai, rivolto allo sterminato oceano di bellezza, e in quello contemplando, potrà dare alla luce ragioni e discorsi innumeri, stupendi e magnanimi, tutti concepiti per inesausto impulso
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verso sapienza. Verrà il momento in cui, fatto forte e a questa luce cresciuto, potrà arrivare a scorgere un'unica scienza misteriosa e segreta: scienza il cui oggetto è Bellezza per tale modo conquistata. E tu, continuava Diotima, devi cercar per quanto ti è possibile di stare attento a ciò che ti dico. Chi fino a tale altezza della scienza d'amore sia stato a passo a passo condotto, contemplando in ordine successivo e con giusto metodo tutte le cose belle, giunge finalmente a consummazione dell'amorosa scienza. E allora, per subitanea visione, qualche cosa stupendamente bella, nella sua oggettiva natura, egli contemplerà. Era questa Bellezza, ragione prima e meta di tutti i precedenti esercizi faticosi. Sempre ella è; non diviene, non perisce; non s'accresce, non diminuisce. Non, in un senso, è bella; in altro senso, brutta, cosl che a taluni appare bella; ad altri brutta. Ancora. Non si dovrà pensare questa Bellezza fornita di volto, di mani, nulla di ciò che al corpo s'appartiene. Non certo ella è discorso; cognizione ella non è. Non esiste in qualche altra cosa; non in esseri viventi; non la terra non il cielo non qualsiasi altro elemento. Questa Bellezza, da sé, con sé, per sé, nella pura oggettività sua, in unico aspetto per l'eternità. Invece le altre cose belle, tutte di quella sola Bellezza per misterioso modo hanno partecipazione. Ma le cose belle nascono e periscono: Bellezza nulla soffre; per nulla più grande o più piccola diventa. Quando da queste bellezze partecipate e terrene, in quanto s'intenda rettamente che cosa sia amor di giovinetti, procedendo per tramite ascendente, si comincia a scorgere quella Bellezza suprema, ecco si tocca allora momento consummante. Il giusto metqdo insomma di procedere a iniziazione amorosa, sia per proprio conto, sia facendosi da altri condurre, è appunto questo. Prender, sl, inizio da queste cose qui in terra belle; ma avere in ogni istante, per suprema meta, quella Bellezza assoluta, e salire su. E sarà come per gradini d'una scala ascendenti. Dalle sembianze di uno, alle sembianze di due; e dalle sembianze di due a tutte le corporee sembianze da bellezza informate; poi, da queste sembianze corporee, alla beltà d'azioni e di costumi; e dalla beltà d'azioni e di costumi, alla beltà di cognizioni. Dalle cognizioni finalmente giungere, quale a termine, a quella cognizione suprema, non più cognizione d'altra estranea cosa, ma cognizione di quella Bellezza. Ecco; e l'uomo è giunto al termine: conosce il Bello nella
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sua pura oggettività; quel bello che esiste nell'Essere. Eccoti, Socrate, amico mio caro, diceva la donna straniera di Mantinea, eccoti il punto essenziale della vita; quivi. ben più che in altro punto, si deve tentar di vivere la propria esistenza; quivi, per contemplare, nella sua pura oggettività, impartecipata intelligibile Bellezza. E se mai una volta la potrai contemplare, oh!, allora, non c'è prezioso gioiello, non c'è vestimento, non c'è bellezza di fanciulli e di giovinetti, nulla, che a quella s'avvicini; quei fanciulli e quei giovinetti, che ora tu guardi e tutto ne sei percosso; e pronto sei, tu e altri molti, a contemplarne perdutamente il volto; a star con loro sempre per tutti i tempi, se ti fosse concesso, senza cibo, senza bevanda. Immota contemplazione di chi con quelli sempre soggiorna. E allora, cosa credi che potrebbe avvenire, se fosse concesso a taluno di vedere quell'intelligibile impartecipata Bellezza? Quella totalmente schietta, nella sua infinita purezza, e immista? E non sarà allora oppressa da corporea salma, da colori e da tutta l'infinita mortale vanità. La bellezza stessa di Dio, nelia sua oggettività, nella semplicità assoluta contemplare. Ma puoi pensare, aggiungeva, che brutta sia la vita d'un uomo che riesce a volger lo sguardo lassù? D'un uomo che contemplando, valendosi di facoltà conveniente, lassù, con quella Bellezza insieme dimora? Non t'accorgi, continuava, che mentre egli ha lo sguardo lassù rivolto; mentre, con quella facoltà con cui sola deve essere contemplata, contempla Bellezza; a quest'uomo unico sarà concesso di dare alla luce, non fantasmi di virtù, ma cose vere? Oh! non a fantasmi, ma alla verità stessa egli è congiunto. E a quest'uomo, generatore di virtù vera; a questo uomo, capace di nutrire virtù e di sostentarla, a lui solo è concesso di godere dell'amicizia di Dio. A lui, più che ad ogni altro, diventare immortale 7 •
Nel Fedro Platone approfondisce ulteriormente il problema della natura sintetica e mediatrice dell'amore, ricollegandolo con la dottrina della reminiscenza. L'anima, come sappiamo, nella sua originaria vita al seguito degli Dei, ha visto l'Iperuranio e le Idee; poi, perdendo le ali e precipitando nei corpi, ha tutto dimenticato. Ma, sia pure a fatica, ' Simposio, 210 a-212 a.
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LA MISTICA DI PIDLfA E DI EROS
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filosofando, l'anima «ricorda» quelle cose che un tempo vide. Questo ricordo, nello specifico caso della Bellezza, avviene in un modo del tutto particolare, perché, sola fra tutte le altre Idee, la Bellezza ha avuto la sorte privilegiata di essere « straordinariamente evidente e straordinariamente amabile » 8 • Questo tralucere della ideale Bellezza nel bello sensibile, infiamma l'anima, che è presa dal desiderio di levarsi a volo, per ritornare là donde è discesa. E questo desiderio è appunto Eros, che, con l'anelito trascendente del soprasensibile fa rispuntare all'anima le sue antiche ali. Ma chi è ancor fresco di iniziazione, chi è uno di coloro che un tempo molto contemplarono, se scorge un volto di fattura divina che imiti il bene e il bello, oppure una ideale immagine di corpo, dapprima ha un brivido e qualcuno dei timori d'allora lo invade; di poi seguitando a guardare, sente venerazione come per un Dio [ ... ] . E dopo che ha visto, con repentino trapasso dal brivido lo prende insolito sudore e ardore; poiché ricevendo attraverso gli occhi l'effluvio del bello, rimane infiammato, e di esso la natura dell'ala si abbevera; quando, poi, egli s'è riscaldato, sciogliesi ciò che sta intorno alle gemme e che da lungo tempo, rappreso dall'aridità, impediva loro di germogliar dalla radice lo stelo dell'ala sotto la intera figura dell'anima: poiché un tempo l'anima era tutta alata 9 •
L'amore è nostalgia dell'Assoluto, trascendente tensione al metempirico, forza che ci spinge a ritornare all'originario nostro essere-presso-gli-Dei.
• Fedro, 2.50 d- e. • Fedro, 2.51 a· b.
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V. PLATONE PROFETA?
Certe acritiche esaltazioni neoplatoniche di Platone fanno indubbiamente sorridere il lettore moderno. E fa sorridere anche il fatto che, come si narra, davanti all'effigie di Platone, nell'Accademia fiorentina, Ficino tenesse perennemente una fiaccola accesa. E all'uomo contemporaneo, cosi intriso di ateeggiante incredulità, viene forse addirittura un moto di stizza (per lasciare gli innumerevoli esempi che si potrebbero fare e !imitarci a uno dei più eloquenti) di fronte ad una dedica come questa, fatta da Acri (uno dei più insigni traduttori di Platone dei tempi moderni): « Questi libri [sci!.: i dialoghi· platonici da lui tradotti] del pagano profeta di Cristo pongo ai piedi del vicario di Cristo con animo umile » 1 • In effetti, sono innegabili, nel platonismo, spunti e affermazioni che possono essere intesi come presentimenti del Cristianesimo. Ecco ad esempio un passo, che rovescia il sentire morale dei Greci e anticipa, quasi, il precetto evangelico: se ti colpiscono con uno schiaffo, volgi l'altra guancia: E tra tanti ragionamenti che si sono fatti [ ... ] questo solo resta saldo: che bisogna guardarsi dal commettere ingiustizia più che dal riceverla, che l'uomo deve preoccuparsi non di apparire buono ma di esserlo veramente, e in privato e in pubblico. E se qualcuno commette qualche ingiustizia, deve essere punito, e questo è il bene che viene secondo, dopo l'essere giusto: il diventare ' Cfr. Platone, Dialoghi, volgarizzati da F. Acri, Milano, .3' edizione, p. 5.
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PLATONE PROFETA?
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giusto scontando la pena e subendo il castigo. E ogni tipo di lusinga, rivolta a sé o rivolta agli altri, rivolta a pochi o rivolta a molti, va tenuta ben lontana [ ... ].Ascolta dunque eseguimi là dove, una volta giunto, sarai felice, e mentre vivi e quando sarai morto, come il ragionamento dimostra. E lascia pure che gli altri ti disprezzino, considerandoti un folle, e che ti offendano, se vogliono. E, si, per Zeus, lascia pure, restando impavido, che ti colpiscano con quello schiaffo ignominioso, perché, se sarai veramente onesto e buono ed eserciterai virtù, non potrai patire nulla di male 2 • Ma - per lasciare vari esempi meno eloquenti - vogliamo citare un solo passo della Repubblica, assolutamente sconcertante: Essendo così, il giusto sarà flagellato, torturato, legato; gli si bruceranno gli occhi e, da ultimo, dopo aver sofferto ogni male, sarà crocifisso [ ... ] 3 • E se, di fronte a tale testo, l'Acri scrive: «qui per oscuro modo è vaticinato l'Uomo-Dio» 4 , ognuno può giudicare che 'ciò non è detto senza fondamento di verosimiglianza. E lo scienziato, come puro scienziato, certamente non ha strumenti per pronunciarsi a favore, o, se si vuole, li ha piuttosto per pronunciarsi contro. Ma chi crede sa che lo Spirito spira dove vuole. E perché non può dunque aver spirato sul greco e pagano Platone?
Gorgia, 527 b-d; cfr. anche quanto rileviamo, sopra, pp. 233 sgg. ' Platone, Repubblica, n, 361 e-362 a. II testo greco, per essere esatti, ha il termine avauxw!iuÀ.EUDT)O'E"t'CJ.~, che significa «sarà impalato». Tuttavia la traduzione di Acri (e di altri studiosi) con «sarà crocifisso» è plausibile. Infatti, all'epoca di Platone i Greci non conoscevano la « crocifissione» vera e propria, ma appunto l'« impalamento », che è precisamente quel tipo di pena da cui è derivata la « crocifissione». E, d'altra parte, gli stessi Ebrei introdussero la « crocifissione » in luogo dell'« impalamento » attraverso i Romani. ' Acri, Platone, Dialoghi, p. 9. 2
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VI. LA COMPONENTE ETICO-RELIGIOSA DEL PENSIERO PLATONICO E SUOI RAPPORTI CON LA PROTOLOGIA DELLE
« DOT-
TRINE NON SCRITTE»
L'esposizione che abbiamo fatto delle tematiche e delle dottrine essenziali della componente etico-religiosa del pensiero di Platone si fonda per intero sugli scritti. Abbiamo voluto mantenere questo tipo di esposizione, e quindi indicare per ultime le connessioni di esse con la protologia, proprio al fine di rendere evidente quanto sopra dicevamo, ossia la funzione di vertice della protologia, e, di conseguenza, il delinearsi in maniera sempre più netta della compattezza teoretica del pensiero di Platone e della solidità degli assi portanti che unificano le varie componenti in cui esso si articola (e quindi ne fanno un « sistema » nel senso che sopra abbiamo precisato), appunto se si considerano in senso globa:le in ottica protologica le stesse tematiche che Platone ha trattato in larga misura nei suoi scritti. Ecco quali sono alcuni punti essenziali, che meritano di essere rilevati in maniera particolare. l) In primo luogo, la struttura bipolare di tutta la realtà fa capire come non si possa restringere e confinare all'epoca del Timeo la composizione e la struttura sintetica bipolare dell'anima, e in particolare proprio della sua stessa parte razionale. Infatti già dalla Repubblica emerge chiaramente che Platone concepiva l'anima, appunto nella sua vera natura ('t"ii àÀ.T)~Ecr"t'a"t'lJ cpvcrEL), ossia nella sua dimensione razionale, come un «misto» ossia come un composto di molti
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MORALE ASCETICA E PROTOLOGIA
elementi (crvvikt6v 't'E Éx 1toÀ.À.wv), e in particolare come un composto in funzione di una bellissima sintesi (xa.À.À.LCT't'll crvv~ÉCTEL). Evidentemente, già all'epoca della Repubblica Platone riteneva solamente questa dimensione razionale dell'anima come immortale; in effetti, è questa che egli qualifica come « di natura divina » 1 • 2) Inoltre, torna e reimporsi una interpretazione in senso protologico del grande mito della « biga alata », presentato da Platone come immagine metafisica ed emblematica dell'anima 2 • In effetti, se il cocchiere della « biga alata » rappresenta indubbiamente la razionalità dell'anima nel suo fondamento, la coppia di cavalli tendente potenzialmente in due direzioni opposte e che solo il cocchiere può dominare o piegare in modo ordinato, difficilmente rappresenta l'anima concupiscibile e l'anima irascibile. Di fatto, la pariglia di cavalli della «biga alata » viene così interpretata comunemente e appunto così parrebbe di primo acchito; ma questo non spiega alcuni importanti elementi, che costituiscono vere e proprie anomalie, e che risultano risolvibili solamente in ottica protologica. In primo luogo, Platone concepisce come « biga alata » anche Ie anime degli Dei; ma è ben evidente che le anime degli Dei non hanno alcun bisogno delle componenti irascibili e concupiscibili, che caratterizzano, invece, l'anima umana 3 • Inoltre, se il concupiscibi:le e l'irascibile costituiscono le parti mortali dell'anima, non possono rimanere strutturalmente congiunti all'anima razionale nell'Iperuranio, ossia nell'ambito del mondo intelligibile. In tempi moderni già Robin aveva giustamente richiamato l'attenzione su questi punti, indicando nei due cavalli che ' Si veda Repubblica, x, 611 b-e (cfr. anche Fedro, 246 a sgg. 3 Cfr. Fedro, 246 a-b.
IX,
589 c·d, 590 c-d).
2
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tendono ad opposte direzioni una significativa immagine « di una diade del grande e del piccolo », ossia di « una ineguaglianza e una dissomiglianza, una molteplicità, un più o meno » 4 • Robin, inoltre, precisava quanto segue: « [ ... ] questa dualità non è in se stessa un pericolo, fìno a quando l'ineguaglianza è sottomessa all'ordine: essa non diviene un pericolo se non nelle anime in cui questa subordinazione è distrutta, e cioè, in termini mitici, dal momento in cui l'auriga non è più padrone dei suoi cavalli; la caduta dell'anima è, dunque, effetto della Necessità (intesa nel senso di Principio diadico), per il motivo che la Necessità è un principio di disordine. Così i due cavalli del Fedro sembrano rappresentare esattamente l'essenza del Diverso e la causa necessaria talvolta dominata dalla ragione, tal altra ribelle ad essa» 5 • Intesa in questo senso, la componente alogica espressa dalla dualità dei cavalli diviene perfettamente coerente con i capisaldi metansici generali, esprimendo in maniera sorprendente e veramente efficace appunto la presenza e la funzione della Diade nella dimensione dell'anima, nella sua costituzione e neBa sua struttura 6 • 3) Ma anche il concetto di virtù (àpE"tTJ), diviene, in ottica protologica, assai più chiaro. Già a p~rtire dal Gorgia Platone mette molto bene in lu' L. Robin, La théorie platonicienne de l'amour, Paris 1968', pp. 134 sg. (traduzione italiana di D. Gavazzi Porta, Milano 1973, p. 184). ' Robin, La théorie ... , p. 135 (trad. ital. p. 185). • A nostro avviso, il discorso andrebbe ampiamente approfondito. Infatti la precisazione che Platone fa sulla pariglia dei cavalli dell'anima umana, rilevando che l'uno è bello e buono come i genitori da cui deriva e l'altro l'opposto cosi come i genitori da cui deriva, diventa molto chiara, se connessa con quanto Platone dice nel Timeo, dove egli parla della Identità e della Diflerenza come di ·due dei tre elementi componenti l'anima razionale, i quali derivano esattamente da Identità indivisibile e Identità divisibile e da Differenza indivisible e Differenza divisibile. Questo discorso, però, richiederebbe un ampio svolgimento; ma in questa sede abbiamo ritenuto opportuno !imitarci alle linee di fondo della questione.
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ce la struttura ontologico-assiologica della giustlzla e della virtù in generale come ordine e come armonia (xoO"(loc;, "t'açLc;) dell'anima e quindi come superamento del dis-ordine, della sregolatezza e dell'eccesso, con evidenti richiami ai nessi protologici. La virtù, precisa Platone, è un ordine portato nell'anima analogo a quello che producono gli artefici (i « demiurghi » ), i quali fanno in modo che gli elementi sui quali operano, acquistino una determinata forma, adattando l'uno all'altro nella maniera più conveniente, fino ad ottenere un tutto ordinato e perfetto. Leggiamo H significativo testo: Socrate - E vediamo allora, esaminando con calma, se qualcuno di costoro sia stato quale dico io. Ebbene: l'uomo buono, il quale dice le cose che dice, avendo come scopo il meglio, non parlerà affatto a caso, ma solo avendo di mira qualche cosa! E così anche tutti gli altri artefici si applicano, ciascuno alla propria opera, non scegliendo a caso i materiali, ma in modo che ciò che essi producono acquisti una determinata forma. Per esempio, guarda i pittori, gli architetti, gli ingegneri navali e tutti gli altri artefici, o chiunque tu voglia di loro: noterai che ciascuno mette ciascuna cosa in un dato ordine e fa in modo che l'una cosa convenga e si adatti all'altra, fino a che il tutto risulti qualcosa di perfettamente ordinato. E come gli artefici, cosl anche coloro che abbiamo menzionato poco fa, cioè coloro che si dedicano alla cura del corpo, i maestri di ginnastica e i medici, regolano e rendono armonico il corpo. Siamo d'accordo che la cosa sta a questo modo o no? CaUicle - Sia pure. Socrate - Una casa, dunque, che ha ordine e armonia, potrà essere una buona casa, mentre quella che ha disordine cattiva. Callide - SL Socrate - E allora, non è cosl anche per una nave? Callide - SL Socrate - E possiamo affermare la stessa cosa anche per corpi? Callide - Certamente. Socrate - E l'anima? Sarà buona quando ha in sé disordine o quando ha in sé ordine e armonia?
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Callide - In base alle cose dette prima, è necessario ammettere anche questo. Socrate - E allora, come si chiama l'effetto derivante dall'ordine e dall'armonia nel corpo? Callide - Vuoi forse dire la salute e la forza? Socrate - Precisamente. E come si chiama ciò che nell'anima nasce dall'ordine e dall'armonia? Cerca di trovare e di dire un nome cosi come l'hai trovato a proposito del corpo. Callide - E perché non lo dici tu, o Socrate? Socrate - Se preferisci, lo dirò io. Tu, però, se ti sembra che io dica bene, dammi la tua approvazione, e, se no, non darmi la tua approvazione e confutami. Orbene a me pare che per l'ordine del corpo la parola giusta sia salutare: di qui nasce la salute nel corpo e ogni altra virtù fisica. È cosi o non è cosi? Callide - È cosi. Socrate - E per l'ordine e l'armonia dell'anima la parola giusta è legittimità e legge: di qui derivano gli uomini osservanti della legge e dei costumi ordinati. E in questo consiste la giustizia e la saggezza. Sei d'accordo anche tu o no? Callide - Sia pure 7 •
E poco più avanti, il nostro filosofo si spinge addirittura ad un richiamo assai allusivo alla « uguaglianza geometrica », il quale suona in una maniera veramente emblematica, a motivo dei suoi nessi con la protologia, che ben conosciamo. Proprio questa uguaglianza è il fondamento del « legame » e della « comunione », o della « amicizia » universale; e come tale uguaglianza è legge cosmica in generale, così analogamente, essa è anche fondamento della virtù umana in particolare.
Ecco il testo, veramente importante: Sono queste, dunque, le cose che io affermo; e dico, anche, che esse sono vere. E se sono vere, chi vuole essere felice - come è evidente - dovrà perseguire ed esercitare la temperanza e dovrà fuggire la dissolutezza, con tutte le forze, e, soprattutto, dovrà provvedere di non avere bisogno di essere castigato, e se 7
Gorgia, 503 d- 504 d.
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ne avrà bisogno, o lui o altri dei suoi familiari o un privato o anche una Città, gli dovrà essere inflitta la pena e il castigo, se vuole esser felice! Questo mi sembra essere lo scopo in funzione del quale l'uomo deve vivere. E a questo scopo deve tendere tutte le energie sue e quelle della città: che giustizia e temperanza siano presenti in chi vuole essere felice. In questo modo egli deve comportarsi e non deve permettere che i suoi appetiti si sfrenino per poi cercare di soddisfar/i - male inUerminabibile! - vivendo, cosi, una vita da ladro. Infatti, quest'uomo non potrebbe essere amico né ad altro uomo né a Dio, perché non ha nulla in comune con essi, e dove non c'è comunione non ci può essere neppure amicizia. E i sapienti dicono, o Callide, che cielo, terra, Dei e uomini sono tenuti insieme dalla comunanza, dall'amicizia, dall'ordine, dalla temperanza e dalla rettitudine: ed è proprio per tale ragione, o amico, che essi chiamano questo tutto cosmos, e non, invece, disordine o sregolatezza. Ora, mi sembra che tu non ponga mente a queste cose, pur essendo tanto sapiente, e mi sembra che ti sia sfuggito che l'uguaglianza geometrica (1} i.o-6-.T}c; 1} YEWJ.LE'tPLXTJ) ha un grande potere fra gli Dei e fra gli uomini. Tu credi, invece, che si debba perseguire l'eccesso e trascuri la geometria! 8 • E nella Repubblica, come vedremo, questo ordine (questa uguaglianza geometrica, e quindi proporzionale), verrà addirittura esplicitato, e con espressioni veramente inequivoche, come un realizzarsi dell'unità-~ella-molteplicità, ossia dell'Uno-nei-molti, perfettamente interpretabili e comprensibili solo in senso protologico ed henologico. La struttura della vita risulta, quindi, l'esatto corrispettivo, sul piano etico, della struttura metafisica di tutta quanta la realtà. Il far ordine nel disordine significa a tutti i livelli (e quindi anche a quello etico) un portare unità neNa molteplicità. Appunto in quanto tale, esso implica la suprema ' Gorgia, 507 c - 508 a. Si veda quanto dicevamo, a questo riguardo, nella nostra Introduzione e nel nostro commento al Gorgia, Editrice La Scuola, 1985', pp. LI sgg. e 173, da integrare con quanto ora diciamo e in particolare con le importanti analisi di Kriimer, nel luogo indicato nella nota che segue.
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conoscenza del Bene (ossia dell'Uno), ed è proprio questa la « forma » di cui parla il Gorgia, che deve essere calata nella realtà morale, per produrre un ordine adeguato 9 • 4) Anche la grande metafora etica della « fuga del mondo » acquista un mordente teoretico assai più marcato in ottica protologica 10 • La «fuga dal mondo» è la fuga dal male. Orbene, Platone connette il male appunto con la Diade, nel modo che abbiamo sopra precisato. Sicché il fuggire dal mondo e dal male, acquistando virtù (giustizia, santità, sapienza), significa sottrarsi alla preminenza del Principio antitetico (la molteplicità, il disordine), e optare a favore del Principio del Bene (ossia dell'Uno) in tutti i sensi. Significa, in altri termini, impostare sulla base di questo nesso bipolare incentrato sulla preminenza del Bene-Uno tutta quanta la vita, e svolgere, di conseguenza, tutte le attività umane. 5) E altresì la celebre dottrina della « assimilazione a Dio » viene ad assumere, in ottica protologica, la determinazione concettuale più perbinente. Assimilarsi a Dio significa, infàtti, fare ordine nella vita, calando nella realtà, come Platone precisa nella Repubblica, l'ordine di quelle realtà che sono sempre allo stesso modo, e che sono strutturate secondo un rapporto numerico in senso ellenico (xa"à À.6yov). In effetti, è proprio la struttura del logos-arithm6s che può portare ordine nel disordine, misura nella dismisura, vale a dire unità-nella-molteplicità 11 • Orbene, il Demiurgo, ossia il Dio supremo, è Colui che porta ordine nel disordine, appunto collegando l'Uno e i Molti nel modo migliore, come abbiamo sopra già precisato. • Su questo tema è fondamentale l'esame condotto da Krlimer in Arete ... , pp. 57-83. 10 Cfr., sopra, pp. 246 sgg. " Cfr. Repubblica, vi, 500 b sgg.; riportiamo il passo, sotto, pp. 312 sg.
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Dunque, la Misura suprema di tutte le cose è il Bene come Uno, e questo è il Divino in senso impersonale, ossia la regola suprema cui Dio stesso (il Demiurgo, il Dio persona) si attiene. Ma il Dio-persona è Colui che realizza la Misura e l'Uno in maniera perfetta, e, in questo senso, Egli è Misura in senso personale. L'uomo lo deve imitare il più possibile, cercando, come Lui, di realizzare nel modo migliore nella vita privata così come nella vita pubblica, e in generale in tutte le forme del suo agire, appunto l'unità-nella-molteplicitià 12 • 6) Anche la dottrina dell'Eros rivela forti connessioni con la protologia, sotto differenti aspetti. In primo luogo (per !imitarci solamente ad alcuni nessi essenziali) rileveremo come i genitol'i da cui è nato Eros, e quindi la natura sintetica e mediatrice dell'Eros medesimo, risultino veramente emblematici 13 • La madre di Eros, che è Penia, la Dea della Povertà, simboleggia la Diade (una delle sue esplicazioni): è, infatti, quella forza che, insieme, risulta mancante, e, a suo modo, ad un tempo aspirante ad un possesso (e quindi - potremmo dire - ad essere de-limitata e de-terminata e perciò uni-ficata); e proprio per questo motivo, nel giorno in cui si festeggiava la nasçita di Afrodite, Penia riuscl a catturare Poros e a congiungersi con lui e ad essere da lui fecondata. Invece il padre Poros corrisponde al Principio de-terminante e de-limitante, e quindi uni-ficante (precisamente ad una delle sue esplicazioni). E la natura sintetico-dinamica e mediatrice di Eros, che eternamente tende ad acquisiZJioni ulteriori e più alte, esprime il rapporto bipolare e dinamico che caratterizza l'intera realtà (e quindi specificamente l'uomo, in una maniera particolare); e pertanto esprime la tendenza crescente a tutti i livelli della Molteplicità fecondata verso il Pl'incipio del Bene (e quindi verso " Cfr. Reale, Platone ... , pp. 620 sgg. " Cfr. Simposio, 203 b sgg.
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l'Unità), che si realizza a tali livelli nel suo riprodursi perennemente, e in questo modo nell'attuare la stabilità del permanere dell'essere. Ricordiamo - almeno di passaggio - che Platone, con la sua straordinaria abilità di non dire mai in modo esplicito le verità ultimative e tuttavia di comunicarle mediante forti allusioni, nel Simposio, pone in bocca ad Aristofane (e quindi con uno squis.ito proporre mediante il gioco della commedia le verità più serie) l'affermazione che l'essenza dell'amore sta nel fare « di due, uno », al fine di sanare, in questo modo, la natura umana nelle sue carenze, e quindi di « saldare in una unità » gli uomini, in modo che, da « due » che sono (in varia maniera), diventino uno. È, qÙ:esta, una espressione veramente superba, e dal punto di vista artistico magnifica, della congiunzione emblematica della Diade e dell'Uno, condotta appunto con il tono del gioco della commedia, messo in bocca al più grande dei commediografi della Grecia. E proprio con colori aristofaneschi presentati in una maniera superba, Platone presenta miticamente l'originario modo di essere degli uomini in .forma di sfera, ossia in forme di coppie congiunte in una unità come un intero, poi tagliati in due dagli Dei, per limitare il loro eccessivo e pericoloso vigore e potere. Proprio in conseguenza di questo, ciascuna « metà » derivata dal taglio dell'intero, cerca di ritrovare l'altra « metà » e di ricongiungersi ad essa, appunto per ritornare all'originaria « interezza ». Pertanto, ciò che nell'amore degli uomini in vario modo si manifesta è la brama della Dualità (delia Diade) all'Interezza (ossia all'Unità). E di conseguenza l'amore è una brama di perseguire l'Uno a tutti i livelli, fino a quello più elevato e supremo 14 • 7) Infine, in connessione con la protologia acquista una adeguata spiegazione anche la tesi platonica che H Bello è la " Cfr. Simposio, 189 c - 193 d. Condurremo in altra sede una tratta· zione analitica di questa problematica.
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sola fra le Idee che abbia avuto il privilegio di essere «visibile ». In effetti, poiché il Bello, cosl come il Bene, è un modo di esplicarsi dell'Uno, appunto attraverso l'ordine e la misura, ne consegue che il Bello ci fa vedere l'Uno nei suoi rapporti proporzionali e numerici in cui si esplica, oltre che a livello intelligibile, anche nella dimensione sensibile del « visibile ». Proprio in quanto tale, il Bello attira, e dall'armonia sensibile innalza a quella intelligibile a tutti i livelli. Dunque, mediante la Bellezza è l'Uno stesso che attira, facendosi « vedere » nei rapporti di proporzione, ordine e armonia. E appunto in questo modo fa rinascere le ali all'anima, per riportarla ai più alti livelli, ossia per ricondurla là da dove è discesa 15 •
" Cfr. Fedro, 250 c sgg.
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PLATONIS OPERA
RECOGNOVIT BJlEVIQVE ADSOTATIONE CRITICA JNSTRVXJT
IOANNES BURNET DI VJIJVaiSITA1'B AlfDREA"A UTTERARVK CiRABCARVII PROP&ISOil COLL&GIJ llltRTOifEifSIS OLIK IOCIV8
TOMVS l TETRALOGIAS
l-II
CONTINENS
OXONII E TYPOGRAPHEO CLARENDONIANO È il frontespizio dell'edizione critica moderna di tutto Platone, pubblicata da John Bumet in 5 voll. fra il1900 e il1907 (e più volte riedita). Per il conteggio e le citazioni delle righe del testo resta il punto di riferimento, a completamento delle citazioni delle pagine e dei paragrafi dell'edizione Stephanus.
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SEZIONE QUARTA
LA COMPONENTE POLITICA DEL PLATONISMO E I SUOI NESSI CON LA PROTOWGIA DELLE « OOTIRINE NON SCRITIE »
« ot[J.a~ IJ.E"t' ÒÀ.Lywv 'ADT}va.:wv, i:va IJ.TJ Et'ltw [J.6voc;, É'lt~XE~pEi:v "tTI wc; à.À.TJDWc; 'ltOÀ.~"t~XTI "tÉXVIJ xaL 'ltpa"t"tEW "tà. 'ltOÀ.~"t~xà. [J.6voc; "tWV vvv ».
«Io credo di essere tra quei pochi Ateniesi, per non dire il solo, che tenti la vera arte politica, e il solo tra i contemporanei che la eserciti». Platone, Gorgia, 521 d
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-
j:
Testa-ritratto di Platone, originariamente inclusa in un'erma insieme a Socrate, ora separata e conservata nei Musei Vaticani (Galleria geografica).
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l. IMPORTANZA E
SIGNIFICATO
DELLA COMPONENTE POLITICA DEL PLATONISMO
l.
Le affermazioni della «Lettera VII»
La componente politica del platonismo è stata compresa, in tutta la sua rilevanza e in tutta la sua portata, solamente nel nostro secolo. In primo luogo, fu rivendicata la autenticità della Lettera VII 1 , in cui Platone dice espressamente, tracciando la propria autobiografia, che la politica fu la passione dominante della sua vita. Il Wilamowitz Moellendorff, poi, nella sua biografia platonica ormai classica 2 , mettendo a frutto il contenuto della Lettera VII, verificò che effettivamente, in tutto l'arco della sua vita, Platone alimentò questa passione politica. Infine, lo Jaeger compl il passo decisivo: egli cercò di dimostrare (e vi riuscì, sia pure cadendo in alcuni eccessi) che il problema politico costituisce non solo l'interesse centrale dell'uomo Platone, ma la sostanza della stessa filosofia platonica 3 • E a questa tesi altri studiosi hanno già aderito 4 • ' Sulle Lettere di Platone indichiamo al lettore due volumi: uno ormai classico: G. Pasquali, Le lettere di Platone, Firenze 1938 (19672 ) e uno recente: M. lsnardi Parente, Filosofia e politica nelle lettere di Platone, Napoli 1970. Per una analisi dettagliata della Lettera VII cfr. L. Edelstein, Plato's Seventh Letter, Leiden 1966 (dr. bibliografia in vol. v, s.v.). 2 U. von Wilamowitz-Moellendorff, Platon, Berlin 1959' (la prima edizione è del 1918). 3 Jaeger, Paideia, u, pp. 129-647. • Ricordiamo in particolare K. Hildebrandt, Platon, Berlin 1933 (tradotto in italiano da G. Colli, Torino 1947). Non hanno rapporti con questa corrente esegetica i volumi venuti dall'Inghilterra e dall'America che polemizzano accanitamente contro Platone, considerato un nemico della demo-
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Socrate non aveva mai partecipato attivamente alla vita politica: e non solo non sentiva il bisogno di occuparsi di essa, ma la considerava come qualcosa di avverso alla sua natura. Per contro Platone, sia per nobiltà di nascita, sia per tradizione familiare, sia per spirituale ed intima vocazione, si sentl fin da giovane fortemente attratto dalla vita politica. Ecco le affermazioni esplicite della Lettera VII: Da giovane [ ... ] provai un'esperienza comune a molti, fermamente deciso a una cosa: appena in grado di disporre della mia volontà, dedicarmi subito alla vita politica 5• Ma dal partecipare alla vita politica lo trattenne, ben presto, la profonda corruzione degli uomini di governo e del loro costume e delle stesse leggi, che egli scoprì essere ingiuste in Atene, ma anche fuori di Atene. Ed ecco allora le sue conclusioni: Io osservavo tutti questi fatti [si riferisce ad una serie di episodi di corruzione politica che culminarono nella condanna a morte di Socrate], osservavo pure gli uomini che agiscono sulla scena politica, cosl anche le leggi e le costumanze. E quanto più procedevo con la mia osservazione, e nello stesso tempo quanto più maturavano gli anni della mia vita, tanto m'appariva più manifesta un'immensa difficoltà per chi volesse governar come si deve uno stato. L'azione politica era impossibile, a prescindere da persone amiche e da collaboratori sicuri. E non era cosa agevole trovarne di questi collaboratori, tanto tra quelli che già erano nostri amici (la mia patria non essendo più governata secondo le costumanze degli antenati e secondo le prime istituzioni); cosl pure difficile, anzi impossibile, acquistarne di nuovi. Si aggiunga ancora che legislazione, costumanze, tutto, con incredibile rapidità,
crazia, come quelli di K. R. Popper, The Open Society and its Enemies, London 1945 (più volte riedito) e di A. H. S. Crossman, Plato Today, New York 1937 (contro queste tesi cfr. R. B. Levinson, In Defense of Plato, Cambridge [Mass.] 1953). 5 Lettera VII, 324 b- c (la traduzione dei passi della Lettera VII che riportiamo è di E. Turolla).
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si dissolveva; e il processo era rapidissimo. In conseguenza, non ostante il mio trasporto iniziale verso la vita politica, proprio io, osservando quanto avveniva e vedendo bene come tutto in ogni luogo, in ogni modo, tutto era portato in un suo processo inevitabile d'involuzione: ebbene allora, di fronte a questa situazione, fui colto da un senso di vertigine e non pensai certo a distogliere il mio sguardo dagli eventi, in attesa che un giorno il corso ne diventasse migliore (e non solo questi singoli eventi, ma soprattutto migliore lo spirito delle singole costituzioni); ma differivo sempre il momento opportuno per agire. E cosl finii per comprendere in unico sguardo ogni città affermando che senza eccezione tutte soffrono per governi non convenienti. La legislazione infatti presenta da per tutto condizioni che si possono dire disperate; sarebbero necessari sistemi di riforme eccezionali, con l'aiuto anche di un concorso favorevole di fortuna. Insomma fui ineluttabilmente addotto ad apprezzar la buona filosofia e a concludere che salò dall'opera di lei è possibile sperar di vedere un giorno giusta la politica degli stati e giusta la vita dei cittadini. Oh! certo le sciagure e le sventure non avranno termine per il genere umano se non nel giorno in cui i veri e puri filosofi potranno pervenire a reggere il potere; nel giorno in cui le classi dirigenti nei vari stati verranno infiammate, per qualche grazia che Dio conceda, da amor verace di sapienza, costituite insomma da filosofi 6•
Questa è la convinzione che Platone ha maturato, come subito dopo ci dice, negli anni in cui venne per la prima volta in Italia, cioè, all'incirca, verso i quarant'anni, al momento della composizione del Gorgia. Questo dialogo, che è una esplosione di misticismo, è altresl esplosione di passione politica e un proclama di una nuova concezione della politica 7 • Arte politica e concetto di Stato vanno ridimensionati in funzione delle istanze del socratismo. Mentre la vecchia politica e il vecchio Stato avevano il loro strumento più potente nella « retorica » (nel senso classico del termine che ben conosciamo), la nuova, vera politica e il nuovo Stato do• Lettera VII, 325 c- 326 b. 7 Per un approfondimento di questa interpretazione del Gorgia rimandiamo alla nostra edizione, e, in particolare, all'Introduzione, pp. XI-LVIII.
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vranno avere invece il loro strumento nella filosofia, perché questa rappresenta l'unica sicura via di accesso ai valori di giustizia e di bene, che sono la vera base di rJgni autentica politica e dunque del vero Stato. E perciò Platone non esita a mettere in bocca a Socrate (con cui egli ormai si identifica) questa sfida: Io credo di essere tra quei pochi Ateniesi, per non dire il solo, che tenti la vera arte politica, e il solo tra i contemporanei che la eserciti 8 •
2. Differenza fra la concezione platonica e la moderna concezione della politica È chiaro, dunque, da quello che abbiamo rilevato, che tutta l'opera di Platone « filosofo » vuoi essere, insieme, opera di « politico » nel senso veduto. D'altra parte, i titoli stessi delle opere che seguiranno il Gorgia lo confermano: il capolavoro centrale del pensiero platonico è la Repubblica, a mezzo dei dialoghi dialettici si colloca il Politico, l'ultima vasta opera cui Platone lavorò negli anni della vecchiaia sono le Leggi. E, del resto, sono noti i reiterati tentativi che Platone fece presso i tiranni di Siracusa Dionigi 1 e Dionigi II per realizzare gli ideali politici che era venuto maturando 9 ; contemplare il V ero e dirigere l'Accademia non gli bastava: era profondamente convinto che il Vero e il Bene contemplati dovessero calarsi nella realtà al fine di migliorarla, dovessero diventare politicamente fattivi (ma di ciò diremo più oltre). Ma prima di esaminare quale sia la ricostruzione della Città ideata da Platone è indispensabile premettere un chiarimento circa la differenza radicale che corre tra la concezione ' Gorgia, 521 d. • Platone ce li narra, puntualmente, proprio nella Lettera VII; cfr. sopra la nota biografica, pp. 7 sgg.
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IMPORTANZA DELLA COMPONENTE POLITICA DEL PLATONISMO
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platonica della politica e la moderna concezione della politica, il che gioverà ad evitare tutta una serie di equivoci. Platone è profondamente convinto che ogni forma di politica, se vuole essere autenticamente tale, deve mirare al bene dell'uomo; ma dal momento che l'uomo è fondamentalmente la sua anima, mentre il suo corpo non è che la sua transeunte e fenomenica larva, è chiaro che il vero bene dell'uomo è il suo bene spirituale 10 • Così è segnata la linea di demarcazione che divide la vera e la falsa politica: la vera politica deve avere di mira la « cura dell'anima » (cura dell'uomo vero), mentre la falsa politica mira al corpo, al piacere del corpo e a tutto ciò che è relath·o alla dimensione inautentica dell'uomo. E, poiché non esiste altro mezzo per« curare l'anima »se non la filosofia, di qui deriva l'identificazione di politica e filosofia, nonché l'identificazione (ritenuta tanto paradossale, ma nel contesto platonico tanto ovvia) di politico e filosofo 11 • D'altra parte, non erano solamente i presupposti del sistema platonico che portavano a queste conclusioni: il Greco fu sempre convinto (almeno fino all'età di Platone e di Aristotele) che lo Stato e la legge dello Stato costituissero il paradigma di ogni forma di vita, come già ben sappiamo; l'individuo era sostanzialmente cittadino, e il valore e le virtù dell'uomo erano il valore e le virtù del cittadino: la polis era non l'orizzonte relativo ma assoluto della vita dell'uomo. Perciò, se agli elementi sopra esaminati si aggiungerà anche questo, si comprenderà come le conclusioni platoniche fossero addirittura inevitabili. La nostra concezione della politica sta, invece, agli antipodi di quella platonica. Lo Stato ha da tempo rinunciato ad essere fonte di tutte le norme che regolano la vita dell'indiCfr. Gorgia, passim. Vedremo che Platone disegna il suo Stato ideale, nella Repubblica, addirittura come un ingrandimento dell'anima. '0
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viduo, perché da tempo «individuo» e «cittadino» hanno cessato di identificarsi. Lo Stato ha, inoltre, da tempo rinunciato ad appropriarsi di quelle sfere di vita interiore dei cittadini che maggiormente interessavano a Platone, lasciando alla coscienza degli individui le libere decisioni, in quegli ambiti. Oggi, poi, l'economia e la comune aspirazione al benessere condizionano cosi radicalmente e prassi e teoria politica, che queste, spesso, si limitano a voler essere proprio quel sistema di incremento di beni e di benessere materiale, in cui Platone vedeva la fonte di ogni male 12 • Noi siamo, insomma, i figli di Machiavelli e per certi aspetti siamo perfino al di là di Machiavelli: il nostro è un realismo politico che segna il capovolgimento più radicale di quell'idealismo politico che Platone ha teorizzato. Queste osservazioni, che abbiamo fatto a livello di analisi di struttura, e senza emettere quindi giudizi di valutazione, mentre intendono contribuire alla comprensione storica della concezione platonica, vogliono altresl sollevare un dubbio critico. Certo, Platone era condizionato in due sensi: dai presupposti del suo sistema e da una determinata visione storicosociale-culturale dello Stato, gli uni e l'altra irripetibili. Tuttavia, al di sopra di questi condizionamenti, egli ha additato una verità, che oggi più che mai suona come un monito: una politica che abdichi, nel regolare la .vita associata degli uomini, alle istanze delle dimensioni dello spirito e si strutturi pressoché esclusivamente secondo le leggi della dimensione materiale dell'uomo non può reggere: le esigenze dello spirito, negate o compresse, prima o poi inesorabilmente tornano ad imporsi. Ma procediamo ad una chiarificazione più particolare di questi concetti.
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Cfr. Pedone, 66 c; Repubblica,
IV,
421 e- 422 a.
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II. LA «REPUBBLICA» O LA COSTRUZIONE DELLO STATO IDEALE
l.
Prospettive di lettura della «Repubblica» Le precisazioni che abbiamo testé fatto dovrebbero darci
il senso della corretta prospettiva di lettura della Repubblica, ossia di quel capolavoro che costituisce, per molti aspetti, la summa del platonismo. Chiedersi, come alcuni hanno fatto, se essa sia opera di politica oppure di etica significa porre uno pseudoproblema, che nasce, come già abbiamo accennato, da un modo di intendere politica ed etica che è proprio dei tempi moderni ma che non è né di Platone, né in generale dell'uomo greco classico. Sono proprio questi problemi mal posti che hanno ritardato cosl a lungo il ricupero e la valorizzazione della componente politica del platonismo. Leggiamo, per esemplificare e per chiarire specificamente quanto nel precedente paragrafo abbiamo detto genericamente, alcune affermazioni di uno dei più grandi platonisti moderni, le quali chiariscono assai bene i termini del problema che stiamo dibattendo: « Ci si è chiesti talvolta se la Repubblica debba esser considerata come un contributo all'etica o alla politica. Il suo oggetto è la "giustizia" o lo "Stato ideale"? La risposta è che dal punto di vista di Socrate o di Platone non vi è distinzione, tranne che di semplice convenienza, fra morale e politica. Le leggi del diritto sono le stesse per le classi e le città come per gli individui. Ma si deve aggiungere che queste leggi sono anzitutto leggi di moralità personale/ la politica è fondata sull'etica, non l'etica sulla politica. La questione fondamentale sollevata dalla Repubblica e alla quale
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viene risposto al termine del dialogo è strettamente etica » 1 • E ancora: « La Repubblica, che si apre con le osservazioni di un vecchio sull'avvicinarsi della morte e sul timore per ciò che può venire dopo la morte, e finisce con un mito del giudizio finale, ha come tema centrale un problema più intimo di quello della forma migliore di governo o del più conveniente sistema di riproduzione; il suo problema è: come si rende un uomo degno o indegno dell'eterna salvezza? Comunque la si consideri, l'opera è intensamente rivolta verso il mondo "ultraterreno". L'uomo ha un'anima che può attingere l'eterna beatitudine, ed è questa beatitudine che importa soprattutto conquistare nella vita. Le istituzioni sociali o l'educazione che lo mettono in grado di conquistarla sono le istituzioni o l'educazione giusta; tutto il resto è ingiusto. Il "filosofo" è l'uomo che ha trovato la via che porta a questa beatitudine » 2 • Ora si noti come siffatti giudizi (che, più o meno variati, hanno fatto testo fino alla metà del nostro secolo) si autocontraddicano. All'inizio del passo riportato si riconosce che per Socrate e Platone fra etica e politica « non vi è distinzione », il che, già di per sé, porterebbe a capovolgere le conclusioni del Taylor, o, quantomeno, ad ammettere che la Repubblica è opera di politica almeno tanto quanto lo è di etica. Ma ecco quanto il medesimo studioso è costretto ad affermare: «Al tempo stesso però nessun uomo vive in sé e per sé, e l'uomo che fa progredire se stesso verso la beatitudine è inevitabilmente animato da spirito missionario per l'intera comunità. Perciò il filosofo non può essere giusto verso di sé senza essere un re-filosofo; non può ottenere la salvezza senza portarla alla sua società. Questo è il modo in cui la Repubblica concepisce la relazione fra l'etica e la scienza dello Stato » 3 • Questo significa che la Repubblica, proprio per essere opera etica, ' A. E. Taylor, Platone, pp. 412 sg. Taylor, Platone, pp. 413 sg. 3 Taylor, Platone, p. 414. 2
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deve essere opera politica, perché, per Platone, l'uomo può esplicarsi moralmente solo se si esplica politicamente, in quanto l'uomo non è ancora concepito da lui (come già abbiamo rilevato) come « individuo » distinto dal « cittadino », ossia dal membro di una società politica. (Del resto lo stesso Jaeger, che ha proposto la rilettura di tutto Platone in chiave politica, ha ben dimostrato che la « politica » platonica non è altro che questo e che lo Stato platonico non è altro che l'immagine ingrandita dell'uomo: formare il vero Stato, per Platone, significa formare il vero uomo 4 ). Un secondo tipo di problemi risulta altrettanto dannoso ai fini della comprensione della Repubblica e dello spirito che la anima. Alludiamo ai problemi suscitati da quelle interpretazioni che potremmo denominare « politicistiche », le quali hanno, sì, riconosciuto la natura politica del discorso platonico, ma l'hanno intesa avvalendosi delle categorie della moderna politica come di canoni di esegesi, di raffronto critico e di giudizio di valore 5 • Queste interpretazioni commettono lo stesso errore di quelle sopra menzionate, in quanto ritengono che « Stato » e « politica » possano avere solo l'accezione che hanno oggi, e per giunta fraintendono in modo assai più grave la natura del discorso platonico, riducendolo ad una dimensione assai più ristretta, come subito vedremo. Per esempio, si è parlato di un « comunismo » e di un « socialismo » platonico, soprattutto a proposito della necessità di mettere in comune tutti i beni (compresi la famiglia e i figli) proclamata da Platone per quella classe destinata a custodire lo Stato, mentre codeste dottrine platoniche col comunismo hanno tangenze solo accidentali ed hanno, come vedremo, fondamenti teoretici e motivazioni spirituali che col comunismo moderno non hanno nulla a che vedere. • Jaeger, Paideia, n, passim. ' Cfr. in particolare le opere del Popper e del Crossman citate alla nota 4 del capitolo precedente.
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Per opposto verso, non sono mancati, soprattutto in Germania, tentativi di ritrovare nella Repubblica tratti propri del nazismo. Da questo clima è nata la celebre opera di Karl Popper (che ha avuto larghissima diffusione specialmente nei paesi anglo-sassoni), in cui la concezione dello Stato di Platone non solo è qualificata come conservatrice e reazionaria, ma come pesantemente totalitaristica e Platone è additato come il primo grande nemico della società aperta (la triade poppetiana dei grandi nemici della « società aperta » è costituita, oltre che da Platone, da Hegel e da Marx), ossia di quella società basata sulla libera scelta e sulle libere decisioni degli individui, di quella società aperta al futuro, capace, con la ragione, di farsi strada nell'ignoto e nell'incerto e di costruire via via la propria sicurezza e libertà. Platone sarebbe, invece, fautore di una « società chiusa », irrigidita in strutture immobili, e in cui le istituzioni (ivi incluse le caste) sono sacrosanti tabù. Lo Stato platonico, ~insomma, sarebbe la negazione della libertà. In breve, Platone sarebbe il nemico della società democratica e della democrazia 6 • Dall'opera di Popper è nata tutta una letteratura, e non pochi furono gli studiosi che,· confutando l'interpretazione totalitaristica di Platone, sottolinearono temi e spunti di spirito liberale e democratico presenti o operanti negli scritti del nostro filosofo 7 • Come si vede, se si pretende di leggere la Repubblica in funzione delle categorie delle moderne ideologie politiche, vi si può trovare tutto e il contrario di tutto, sia il totalitarismo (di destra o di sinistra) sia la sua negazione: è certo, in ogni caso, che, in questa maniera, si tradisce il significato più • L'opera del Popper è ora a disposizione anche in lingua italiana, pubblicata dall'editore Armando di Roma. 7 Cfr. specialmente l'opera del Levinson, In Defense of Plato, e i vari saggi di diversi autori raccolti e pubblicati da R. Bambrough, Plato, Popper and Politics, Cambridge- New York 1967.
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autentico del discorso politico di Platone, che non è soltanto ideologia, ma è soprattutto filosofia, metafisica e perfino escatologia dello Stato. Dunque la corretta prosp.ettiva di lettura della Repubblica, sgombrato il terreno dagli equivoci di cui abbiamo detto, resta quella sopra indicata: Platone vuol conoscere e formare lo Stato perfetto per conoscere e per formare l'uomo perfetto. L'uomo è la sua anima, aveva detto Socrate 8 • E Platone ribadisce questa affermazione non solo nei dialoghi« mistici », ma proprio nella Repubblica egli la porta alle conseguenze estreme: lo Stato, come vedremo, è l'ingrandimento dell'anima, e fra anima e Stato vedremo stabilirsi questa reciproca correlazione: se è vero che lo Stato è una proiezione dell'anima ingrandita, è altrettanto vero che, alla fine, risulta che la sede autentica del vero Stato e della vera politica è proprio l'anima e la vera Città risulta essere la « città interiore», che non è fuori ma dentro l'uomo 9 •
2. L o Sta t o perfetto e i l t i p o d i uomo a d esso corrispondente
Il problema da cui Platone prende le mosse per la costruzione del suo Stato ideale scaturisce dal bisogno di rispondere in maniera ultimativa alle critiche dissolutrici che la sofistica (specie nella sua corrente degenere dei politici sofisti, di cui fu esponente Trasimaco, che in modo emblematico figura fra i personaggi della Repubblica) aveva mosso contro la giustizia, e delle quali abbiamo già detto a suo luogo 10 • Nessuno degli argomenti tradizionali era in grado di rispondere a queste critiche, perché nessuno toccava il fondo della questione. Ed • Cfr., nel volume I, l'intera sezione dedicata a Socrate, pp. 285 sgg. ' Cfr., più avanti, pp. 327 sgg. 10 Si veda il volume I, pp. 274 sgg.
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ecco, allora, la necessità di porre la domanda in modo radicale e di rispondere ad essa in modo altrettanto radicale: che cos'è la giustizia (qual è la sua essenza o natura)? Qual è il valore che essa ha per l'uomo? La giustizia ha una validità interiore, oppure solo una utilità meramente esteriore, convenzionale, !egalitaria? Orbene, poiché la giustizia ha sede nell'individuo così come nello Stato, nel primo in piccolo nel secondo in grande, sarà opportuno esaminarla là dove essa si trova in grande, proprio per meglio comprenderla anche là dove si trova in piccolo. Ecco il passo in cui Platone esprime questo concetto e che costituisce una delle principali chiavi di lettura dell'intera Repubblica: - Risposi pertanto [ ... ] che la ricerca cui ci accingevamo [sci!.: risolvere i problemi posti intorno alla giustizia] non era lieve, ma che richiedeva, a creder mio, vista acuta. Ora, poiché noi non siamo da tanto, mi pare, soggiunsi, che la ricerca possa essere fatta a questo modo: come se, per esempio, qualcuno ordinasse a persone di vista corta di leggere da lontano delle lettere piccole, e uno si ricordasse che le stesse lettere si trovano anche altrove più grandi e in uno spazio più grande: una fortuna, io credo, parrebbe a costui poter andare a leggere prima quelle e poi esaminare queste più piccole se siano le stesse. - Certamente, disse Adimanto: ma che cosa ci vedi di tal genere, caro Socrate, nell'indagine intorno alla giustizia? - Te lo dirò, dissi io. C'è la giustizia del singolo individuo, e c'è anche quella dello Stato tutto intero? - Precisamente, disse lui. - Ma la città è più grande del singolo individuo? - Più grande, confermò. - Probabilmente dunque anche più giustizia ci dovrebbe essere in ciò che è più grande e più facile a discernersi. Pertanto, se volete, cercheremo nella città prima di tutto che cosa essa sia; quindi allo stesso modo la studieremo in ciascun singolo cercando nella natura del più piccolo la conformità col maggiore. - A me pare, disse lui, che tu dica bene. - E se, dissi io, considerassimo la città nel suo nascere, anche la giustizia di essa la vedremmo nascere e cosl l'ingiustizia.
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- Probabilmente, disse lui. - E mentre è nel suo divenire non si può sperare di veder
meglio quello che cerchiamo? -E di molto. - Credete dunque che convenga provare di venirne a capo? lo reputo però che questa non sia piccola impresa: pensateci pertanto. - Ci si è pensato di già, disse Adimanto: fa perciò quello che hai da fare 11 • Perché e come nasce lo Stato? Perché ciascuno di noi non è « autarchico », ossia perché non basta a se medesimo 12 • Il cespite dello Stato è dunque il nostro bisogno. E i nostri bisogni sono molteplici, di guisa che ciascuno di noi necessita non già di uno o di pochi, ma di molti altri uomini che provvedano a questi bisogni. Nascono cosi le differenti professioni, che solo uomini diversi possono adeguatamente esercitare. Ciascun uomo, infatti, non nasce del tutto simile agli altri, bensi con differenze naturali e, quindi, atto a fare lavori differenti 13 • Ma lo Stato, oltre che della classe addetta alle professioni di pace, che mirano a soddisfare gli essenziali bisogni della vita, ha pure bisogno di una classe di custodi e di guerrieri. Infatti, col crescere dei bisogni, la Città deve annettersi nuovi territori o, anche, semplicemente difendersi da coloro che volessero, per ragioni analoghe, impossessarsi di territori che appartengono ad essa 14 • Ora, i custodi della Città, per lo stesso principio sopra esposto, al fine di poter ben compiere la loro opera, dovranno essere dotati, innanzitutto, di una appropriata indole: il custode dovrà essere come un cane di buona razza, dotato ad un tempo di mansuetudine e di fierezza; dovrà essere agile e forte nel fisico, irascibile e valoroso e amante 11 12 13 14
Repubblica, II, 368 c-369 b ( traduz. Fraccaroli fino al § 9). Repubblica, II, 369 b. Repubblica, II, 369 c sgg. Cfr. Repubblica, n, 373 c sgg.
ar. ar.
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di sapere nell'anima 15 • Inoltre, se per la prima classe di cittadini non era necessaria una speciale educazione, essendo le usuali professioni agevoli da apprendere, per la classe dei custodi dello Stato è indispensabile una accuratissima educazione. La cultura (poesia e musica) e la ginnastica saranno gli strumenti più idonei per educare il corpo e l'anima del custode. È, questa, l'antica paideia ellenica, che Platone, però, riforma in modo ben preciso 16 • La poesia di cui si nutrirà l'anima dei giovani nella Città perfetta dovrà essere purificata da tutto ciò che è moralmente indecente e indecoroso e da tutto ciò che è falso, soprattutto per quanto concerne le narrazioni intorno agli Dei 17 • Analogamente, per quanto concerne la musica, si elimineranno le armonie molli che rendono l'anima effeminata e si conserveranno solo quelle capaci di infondere coraggio in guerra e spontaneità nelle opere di pace; e cosi si sceglieranno solo i ritmi appropriati e semplici 18 • Anche la ginnastica dovrà essere appropriata e semplice, e non cadere in alcuna forma di eccesso 19 • Essa seguirà all'educazione dell'anima, giacché l'anima buona con la sua «virtù» può rendere anche il corpo buono, non viceversa 20 • E lo scopo ultimo della ginnastica dovrà essere, non solo e non tanto l'irrobustimento del corpo, quanto l'irrobustimento di quell'elemento della nostra anima da cui deriva il coraggio 21 • L'educazione musicale, dunque, forma e irrobustisce la parte razionale dell'anima; l'educazione ginnica, tramite il corpo, forma e irrobustisce la parte irascibile dell'anima; l'una e l'altra insieme producono accordo e armonia perfetta nell'uomo. " Cfr. 16 Cfr. 17 Cfr. 18 Cfr. " Cfr. 20 Cfr. 21 Cfr.
Repubblica, II, 375 a sgg. Repubblica, II, 376 d sgg. e m, passim. Repubblica, II, 377 b; III, 398 a. Repubblica, III, 398 c sgg. Repubblica, m, 403 c sgg. Repubblica, m, 403 d. Repubblica, m, 410 b sgg.
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La distinzione delle classi non è ancora completa. Infatti, nell'ambito dei custodi, bisognerà distinguere quelli che dovranno ubbidire e quelli che dovranno comandare. Saranno, questi ultimi, i reggitori dello Stato, e dovranno essere, precisamente, coloro che maggiormente avranno amato la Città e che per tutta la vita avranno compiuto con il maggior zelo l'utile e il bene di essa (costoro, come vedremo, sono i veri filosofi, i quali costituiscono la terza classe) 22 • Queste tre classi sociali, assai celebri e discusse, non hanno nulla a che vedere con le caste, in quanto non sono chiuse ma aperte, sia pure in modo alquanto moderato. Infatti, se è vero che alla base della distinzione in classi sta una differente indole umana, è altrettanto vero che da genitori di una data indole possono, anche se raramente, nascere figli di natura e indole differente, e, allora, costoro saranno fatti passare nella classe che ha la corrispondente indole, sia dalla più bassa alla più alta, sia viceversa 23 • Alla prima classe, quella dei contadini, artigiani e mercanti, è concesso il possesso di beni e di ricchezze (non troppe, ma nemmeno troppo poche). Invece ai difensori dello Stato non sarà concesso alcun possesso di beni e di ricchezze; essi avranno abitazioni e mense comuni e riceveranno i viveri dagli altri cittadini come compenso della loro attività. Questa limitazione si rende necessaria per il superiore bene e per la felicità dello Stato: nello Stato perfetto, infatti, non può essere particolarmente felice una classe soltanto, giacché per l'equilibrata felicità dello Stato nella sua interezza ogni classe deve partecipare alla felicità solo per quel tanto che acconsente la natura 24 • I custodi, inoltre, dovranno vigilare che nello Stato cosl costruito non si introducano mutamenti, che lo portereb" Cfr. Repubblica, III, 412 b sgg. Cfr. Repubblica, III, 415 a-d; IV, 423 c-d. •• Cfr. Repubblica, IV, 419 a sgg. 23
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bero in rovina. Dovranno vigilare affinché nella prima classe non penetri troppa ricchezza (che produce ozio, lusso e amore di cose nuove) ma nemmeno povertà (che produce vizi opposti, oltre al desiderio di novità), affinché lo Stato non diventi troppo grande o troppo piccolo, affinché le indoli e le nature degli individui corrispondano alle funzioni che esercitano, affinché si proceda all'adeguata educazione dei giovani migliori, affinché non si mutino le leggi che governano l'educazione e non muti l'ordinamento dello Stato 25 • Ora che lo Stato ideale è stato abbozzato, è possibile vedere quale sia la natura e il valore della giustizia. E, per individuare esattamente la giustizia, è necessario determinare le quattro virtù fondamentali (le note virtù cardinali, ossia, oltre la giustizia, anche la sapienza, la fortezza e la temperanza. Lo Stato perfetto le dovrà possedere tutte quante, necessariamente. Lo Stato che abbiamo descritto possiede la sapienza (a-ocp(a) perché ha buon consiglio (EÙ~ovÀ.(a), e il buon consiglio è una scienza (ÈmO''tTJI..LT}) diversa dalle scienze e tecniche particolari, perché ha come oggetto il corretto modo di comportarsi dello Stato nei confronti di se stesso e nei confronti degli altri Stati, ed è posseduta solamente dai custodi perfetti, ossia dai governanti. Lo Stato è dunque sapiente per la classe dei suoi governanti 26 • La fortezza o coraggio (à.vopECa) è la capacità di conservare con costanza l'opinione retta in materia di cose pericolose e non pericolose, senza lasciarsi vincere dai piaceri o dai dolori o dalle paure o dalle passioni. La fortezza è la virtù propria soprattutto dei guerrieri e lo Stato è forte per la classe dei suoi guerrieri 27 • La temperanza (a-wcppoa-u'JT}) è una specie di ordine, di dominio o disciplina (Èyxpà.'tELa) dei piaceri e dei desideri. " Cfr. Repubblica, 26 Cfr. Repubblica, 27 Cfr. Repubblica,
IV, IV, IV,
423 c sgg. 428 b sgg. 429 a sgg.
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È la capacità di sottomettere la parte peggiore alla parte mi-
gliore. Questa virtù si trova, sl, particolarmente nella terza classe di cittadini, ma non è esclusiva di essa e si estende a tutto lo Stato, facendo in modo che le classi inferiori si accordino completamente con le superiori e armonizzino perfettamente con esse. Lo Stato temperante, dunque, è quello in cui i più deboli s'accordano con i più forti, gli inferiori con i superiori in piena armonia 28 • Ed eccoci, infine, alla giustizia ( ~txcxwrruv'Y) ). Essa coincide con il principio stesso su cui è stato costruito lo Stato ideale, ossia col principio secondo cui ciascuno deve fare solo quelle cose che per natura e quindi per legge è chiamato a fare. Quando ciascun cittadino e ciascuna classe attende alle proprie funzioni nel modo migliore, allora la vita dello Stato si svolge in modo perfetto e si ha, appunto, lo Stato giusto 29 • Se, come all'inizio abbiamo visto, lo Stato non è che l'ingrandimento dell'uomo e della sua anima, alle tre classi sociali dello Stato dovranno corrispondere tre forme o facoltà nell'anima: Ora non è forse [. .. ] assolutamente necessario per noi convenire che in ciascuno di noi vi sono le stesse specie e caratteri che sono pure nello Stato? Essi in verità non sono giunti nello Stato da altra parte 30 •
Ma ecco la prova su cui Platone fonda la triplice distinzione delle facoltà dell'anima. In noi costatiamo tre differenti attività: a) pensiamo, b) ci infiammiamo ed adiriamo, c) desideriamo i piaceri della generazione e della nutrizione. Ora non è possibile che noi compiamo queste tre attività con una medesima facoltà, perché Cfr. Repubblica, IV, 430 d sgg. Cfr. Repubblica, IV, 432 b sgg. "' Repubblica, IV, 435 e. 28 29
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[ ... ] la stessa cosa non sarà mai in grado di fare o di patire insieme cose contrarie nella stessa sua parte e nello stesso rapporto 31 •
In effetti, proprio cosl si comportano le tre attività di cui abbiamo detto: fanno e patiscono cose contrarie in rapporto alla medesima cosa. Di fronte agli stessi oggetti noi costatiamo che c'è in noi una tendenza che ci spinge ad essi e che è desiderio, un'altra che invece ci trattiene da essi e sa dominare il desiderio e che è ragione. Ma c'è anche una terza tendenza, che è quella per cui ci adiriamo, e .che non è né ragione né desiderio. Essa è altra dalla ragione, perché è passionale, ma è anche altra dal desiderio perché è in contrasto col desiderio (per esempio quando ci adiriamo per aver ceduto al desiderio come a forza che ci ha fatto violenza). Dunque, come tre sono le classi dello Stato, cosl tre sono le parti dell'anima: la razionale ( ÀoyLo-·nx6v ), l'irascibile ( &ufLoeL8éc;) e l'appetitiva ( bn&ufL1J't'Lx6v ); l'irascibile, per sua natura, sta dalla parte della ragione pur non essendo ragione, ma può allearsi anche alla parte più bassa dell'anima, se viene guastata da cattiva educazione. Questa corrispondenza fra le classi dello Stato e le facoltà dell'anima comporterà una conseguente corrispondenza delle virtù dello Stato con le virtù del cittadino. Ecco la pagina paradigmatica in cui Platone fissa, in analogia con le virtù della Città, le virtù cardinali dell'uomo: - Anche l'uomo dunque, io credo, o Glaucone, diremo che è giusto allo stesso modo che pure la Città è giusta. - Anche qnesto è necessario. - Ma questo non l'abbiamo scordato in alcun modo, e cioè che quella era giusta, perché tre essendo in essa le classi ciascuna vi svolgeva la parte sua. - Non l'abbiamo, disse, scordato, io crederei. - Cosl pure dovremo ricordarci che ciascuno di noi, le cui " Repubblica,
IV,
436 b.
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facoltà faranno ciascuna il loro dovere, questi sarà giusto e farà il suo dovere. - E dovremo, disse lui, ricordarcelo bene. - Alla parte razionale conviene dunque comandare, come quella che è sapiente ed ha la sovrintendenza di tutta quanta l'anima e alla parte irascibile l'essere soggetta e ausiliaria di questa? - Certamente. - E, come dicevamo, non sarà la contemperanza della musica e della ginnastica a porle d'accordo, stimolando l'una e nutrendola con bei discorsi e con insegnamenti, e rilassando l'altra e ammonendola con l'armonia e con il numero? - Evidentemente, disse lui. - Ora queste due facoltà cosl allevate ed esperte veramente dell'ufficio che è loro ,proprio ed educate devono presiedere alla facoltà concupiscente, la quale in ciascuno è la parte maggiore dell'anima e per natura insaziabile di possedere, e devono custodirla affinché non accada che col saziarsi dei cosiddetti piaceri del corpo, divenuta grande e gagliarda, essa non solo non svolga più il suo ufficio, ma tenti altresl di assoggettare e dominare anche quelle specie che non sono di sua spettanza, e cosl sconvolga la vita di tutte. - Precisamente, disse lui. - E queste due dunque, dissi io, forse non custodirebbero nel più bel modo dai nemici esterni tutta intera l'anima ed il corpo, l'una consigliando, l'altra combattendo, obbedendo però questa a chi comanda e compiendo con la fortezza ciò che fu deciso dal consiglio? - È cosi. - E forte noi chiameremo un individuo per questa parte dell'anima, quando la sua facoltà irascibile ( ~ufLoe:L8€ç) sappia mantenere attraverso ai dolori e ai piaceri ciò che dalla ragione gli fu detto essere temibile e non temibile. - Giusto, disse. - E sapiente Ì10i chiameremo un individuo per quella parte appunto che in lui governa e dà questi comandi, avendo essa pure [scil.: cosl come i reggi tori dello Stato] in se stessa la scienza di ciò che giova a ciascuna parte e a tutto il complesso delle tre. - Precisamente. - E allora? Noi chiameremo un individuo temperante per !'.amicizia e l'accordo di queste parti stesse, quando e quella che comanda e le due che obbediscono siano d'accordo che la ragione debba comandare e non si ribellino ad essa?
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- La temperanza infatti, disse lui, non è altro se non questo e nella Città e nell'individuo 32 • È chiaro, allora, che, essendo la giustiZia quella disposizione della facoltà dell'anima la quale fa sì che ciascuna compia la funzione che le è propria ('t!X Ea.u'tov 1tpanEw) e per conseguenza a seconda della sua natura domini o si lasci dominare, essa risulta qualcosa che riguarda non già l'attività esteriore ma quella interiore, ossia la vita dell'anima stessa. E con ciò è risolto anche il problema del valore della giustizia. Essa è secondo natura, ed è, come la virtù in genere, salute, bellezza, stato di benessere dell'anima, mentre l'ingiustizia e il vizio sono la bruttezza e la malattia dell'anima. E come lo Stato felice è solo quello che compie ordinatamente le sue funzioni secondo la giustizia e le altre virtù, così l'anima felice è solo quella che esplica le sue attività ordinatamente secondo la giustizia e le altre virtù, vale a dire secondo quella che è la sua vera natura (xa.'t!X cpvuw) 33 •
3. Il sistema di comunanza di vita dei guerrieri e l'educazione della donna nello Stato ideale
Prima di trattare degli Stati degeneri Platone approfondisce due gruppi di questioni, il primo dei quali consiste in una serie di conseguenze che derivano dall'aver posto il principio che la classe dei custodi dello Stato deve avere ogni cosa in comune, e, dunque, oltre alle abitazioni e alla mensa, anche le donne, i figli, l'allevamento e l'educazione della prole 34 • Repubblica, IV, 441 d-442 d. ar. Repubblica, IV, 444 d. " Cfr. Repubblica, v, 449 c sgg. 32
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Una prima conseguenza che Platone trae è di affidare alle donne dei custodi le medesime mansioni che vengono affidate agli uomini e quindi di educare le donne colla stessa paideia ginnico-musicale di cui si è sopra detto. La riforma che Platone propone è veramente rivoluzionaria per i suoi tempi, dato che, in genere, il Greco rinchiudeva la donna nell'ambito delle mura domestiche, le affidava l'amministrazione della casa e l'allevamento della prole e la teneva lontana dalle attività di cultura e da quelle ginniche, dalle attività belliche e da quelle politiche. Ecco il ragionamento in base al quale Platone opera il rovesciamento concettuale del ruolo della donna greca: -Non vi è dunque, o amico, alcun ufficio dell'amministrazione dello Stato proprio della donna, perché donna, né dell'uomo, perché uomo, ma le disposizioni di natura sono distribuite ugualmente nei due sessi, e di tutte le mansioni la donna partecipa per natura cosl come ne partecipa l'uomo, soltanto essa è in confronto dell'uomo in tutte più debole. - Certamente. - Allora imporremo forse tutti gli uffici agli uomini, e alle donne nessuno? -Ma come? - Ma c'è, credo, come diremo, una donna che ha attitudini mediche e una che non le ha, e una donna che ha naturali attitudini alle arti delle Muse e un'altra che non le ha. - E come no? - E ci sarà una donna che ha disposizioni alla ginnastica e alla guerra ed un'altra pacifica e nemica della ginnastica? - Crederei. - E poi anche una donna è amica della sapienza e una némica della sapienza. E una coraggiosa e una non coraggiosa? - Si dà anche questo. - C'è dunque anche la donna idonea a far da custode e quella non idonea. Ora, non abbiamo noi scelto una tale disposizione naturale anche per gli uomini che destinavamo ad essere custodi? - Tale appunto. - Ebbene, anche nella donna come nell'uomo c'è la stessa
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disposizione per la custodia dello Stato, tranne che l'una è più debole, l'altro piì1 forte 35 • Se così è, questa identica disposizione che c'è nella donna e nell'uomo andrà educata in modo identico: le donne, come gli uomini, si eserciteranno nude nelle palestre, cinte di virtù anziché di vesti e, senza doversi occupare di altro, prenderanno parte alla custodia dello Stato ed anche alla guerra (si avrà solo riguardo di affidare ad esse le mansioni meno pesanti, stante la loro minor vigoria rispetto agli uomini) 36 • Una seconda conseguenza, che deriv:\ immediatamente dalla precedente, è l'eliminazione dell'istituto della famiglia per le classi dei custodi, dato che le donne (così come gli uomini) di altro non dovranno occuparsi se non della custodia dello Stato (la famiglia viene invece mantenuta; così come la proprietà, per la classe più bassa). Le donne dei custodi, dunque, saranno comuni e comuni saranno anche i figli 37 • Le nozze saranno regolate dallo Stato e dichiarate sacre e si farà in modo che le migliori donne s'accoppino con i migliori uomini, così che la razza si riproduca nel modo migliore possibile. Inoltre lo Stato userà tutti gli accorgimenti che saranno opportuni per far in· modo che le ottime si congiungano agli ottimi quante più volte è possibile. E si alleveranno i figli di queste coppie, mentre i figli delle coppie peggiori no, senza, però, che ciò venga risaputo. E si fingerà di decidere gli accoppiamenti per estrazione a sorte, ma tali estrazioni saranno manipolate in modo da sortire l'effetto desiderato 38 • I figli saranno subito sottratti alle madri; madri e padri non dovranno riconoscere i figli. Inoltre solo gli uomini tra i trenta e i cinquantacinque anni e le donne fra i venti e i quaRepubblica, v, 455 d- 456 a. Cfr. Repubblica, v, 457 a. v Cfr. Repubblica, v, 457 c- d. 38 Cfr. Repubblica, v, 458 e sgg. 35 36
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ranta avranno diritto di generare figli. Se un figlio verrà concepito in accoppiamenti di uomini e donne non in regola con l'età, non lo si lascerà nascere, o, se nascerà, verrà esposto e non verrà allevato 39 • Tutti i bambini che nasceranno fra il settimo e il decimo mese a partire dal giorno in cui un uomo e una donna avranno celebrato le nozze dovranno essere considerati da costoro figli e figlie. A loro volta, questi ultimi chiameranno padri e madri tutti gli uomini e tutte le donne che avranno contratto nozze fra il decimo e l'ottavo mese anteriore alla loro nascita. Per conseguenza, si chiameranno fra di loro fratelli e sorelle tutti i nati nel periodo in cui i loro padri e le loro madri procreavano 40 • Sono queste le leggi dello Stato platonico che, come è ovvio, hanno suscitato le più vivaci reazioni e da molti sono state giudicate semplicemente assurde. Ma prima di procedere ad una valutazione di esse occorre capire l'intento che le anima. Platone vuoi togliere ai custodi una loro famiglia particolare, per offrirne loro una grandissima. Infatti, non solo il possesso di beni materiali divide gli uomini, ma anche il possesso di quel peculiare bene che è la famiglia sollecita in vario modo l'egoismo umano. Pertanto, se metteremo in comune anche la famiglia, i custodi non avranno più nulla di cui dire « è mio », o meglio di tutto potranno dire « è mio», perché assolutamente tutto sarà in comune, ad eccezione del corpo. Ecco il passo più significativo al riguardo, che è indispensabile meditare, se si vuoi comprendere il senso particolare del comunismo platonico: - E c'è un male maggiore nello Stato di quello che lo smembra e di uno ne fa molti? o un maggior bene di quello che possa legarlo insieme e farlo uno? 39 Cfr. Repubblica, v, 460 h sgg . .., Cfr. Repubblica, v, 461 d.
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-Non c'è. - Ora, la comunanza del piacere e del dolore non lo collega forse insieme, qualora i cittadini, per quanto è possibile, si rallegrino e si rattristino tutti in modo simile per gli stessi acquisti e per le stesse perdite? - Precisamente, disse. - E il far diventare privato questo sentimento non Io discioglie quando gli uni siano addoloratissimi e gli altri festosissimi per gli stessi casi dello Stato o dei cittadini che sono nello Stato? -E come no? - E forse che una siffatta conseguenza non nasce da questo che nello Stato non suonano ad una voce queste parole mio e non mio, e parimenti anche circa l'altrui? - Non c'è dubbio. - E quella Città invece in cui il maggior numero di cittadini per la stessa cosa e nello stesso senso adopera questa parola mio e non mio, non è ottimamente governata? - Proprio davvero. - E non è anche quella che somiglia di più ad un solo uomo? Per eserp.pio, quando un dito di uno di noi sia ferito, tutta la comunanza che le parti del corpo hanno con l'anima, accordata in un solo ordinamento che le è dato da ciò che in essa ha il comando, se ne accorge, e mentre è malata una parte si conduole tutta quanta, e cosl diciamo che l'uomo ha male al dito. E di qualsiasi altra parte dell'uomo è lo stesso discorso, per il dolore se una parte s'ammala, per il piacere se risana. - Lo stesso, disse. - E, ciò che domandavi, vicinissima a costui sta di casa la città che sia ottimamente governata. E quando a un cittadino, penso io, tocchi qualsiasi cosa o di bene o di male, una tale città più che alcun'altra dirà che è a se stessa che è toccato, e tutta quanta con lui insieme sarà lieta o insieme sarà triste ~~. È chiaro, in base a queste affermazioni, che il comunismo platonico non ha nulla a che vedere con il collettivismo moderno, sia per ragioni storiche che per ragioni teoretiche. Il collettivismo moderno, dal punto di vista storico, suppone la rivoluzione industriale, il capitalismo, il proletariato della grande •• Repubblica, v, 462 a-e.
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città e si applica prevalentemente alla sfera economica; dal punto di vista teoretico, poi, esso germina da una concezione materialistica dell'uomo. Il comunismo platonico, invece, nasce da tutt'altre istanze, e precisamente dall'esigenza di avere le classi dei custodi. totalmente disponibili per il governo e per la difesa dello Stato e lascia completamente fuori la classe lavoratrice, che, sola, produce e amministra tutta la ricchezza. Inoltre le motivazioni teoretiche di questo comunismo sono decisamente spiritualistiche e quasi ascetiche. I custodi della Città platonica, dice assai bene il Taylor, « sono molto più nella posizione di un ordine monastico militare del Medioevo che non in quella di una burocrazia collettivistica» 42 • E analogamente lo Jaeger annota: «La Chiesa, più tardi, di fronte alla propria classe dominante, il clero, risolse lo stesso problema col celibato obbligatorio dei preti. Ma per Platone, che del resto per parte sua visse celibe, la soluzione non poteva essere questa, non solo per la ragione negativa, che il matrimonio non era ancora per lui inferiore moralmente al celibato, ma perché la minoranza dominante nel suo stato rappresenta, fisicamente e spiritualmente, l'élite della popolazione, ed è necessario che proprio da essa venga la nuova élite. Cosl il motivo del divieto di ogni possesso individuale, anche del possesso di una moglie, si combina col principio della selezione razziale, nel condurre alla teoria della comunanza di donne e figli, per i guerrieri » 43 • In ogni caso, per tornare alla questione di fondo, resta vero che, per quanto fosse nobile il fine che Platone perseguiva (unificare una Città come una grande famiglia, tagliando alla radice tutto ciò che fomenta gli egoismi umani), i mezzi che ha additato non solo risultano inadeguati, ma decettivi. In tutte queste dottrine, a ben vedere, l'errore di fondo resta unico, e consiste nel considerare la razza più 42 Taylor, Platone, p. 432. "" Jaeger, Paideia, n, p. 418.
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importante dell'individuo, la collettività più del singolo. Platone, come tutti i Greci prima di lui (e anche dopo di lui, fino al sorgere delle correnti ellenistiche), non ebbe chiaro il concetto di uomo come individuo e come irripetibile singolo, e non poté quindi capire che proprio in questo essere una individualità singola e irripetibile sta il valore supremo dell'uomo 44 •
4.
Il fil oso f o e l o Sta t ò i d e a l e
Nel quadro dello Stato ideale fin qui ricostruito manca ancora la parte più qualificante, vale a dire la caratterizzazione specifica dei « governanti » o « reggitori » supremi dello Stato e della loro peculiare paideia o educazione. È precisamente la concezione della natura dei governanti che rivela, oltre che il fondamento teoretico, anche la condizione della realizzabilità dello Stato platonico. La tesi è a noi già nota e può riassumersi in questo modo: condizione necessaria e anche sufficiente perché si realizzi lo Stato ideale è che i governanti diventino filosofi o i filosofi governanti. Non solo, dunque, è il filosofo che progetta teoreticamente lo Stato perfetto, ma è altresi il filosofo, che, solo, lo può realizzare, lo può fare entrare nella storia. Ecco la celebre affermazione platonica: - Ma sta attento a quello che dico. - Parla, disse. - Se, dissi io, o i filosofi non siano re nella loro città, o quelli che ora si dicon re e magnati non si diano onestamente e convenientemente a filosofare, e l'una cosa e l'altra non coincidano nella stessa persona, cioè la potenza politica e la filosofia, e se quei molti che ora tendono separatamente all'una o all'altra cosa ... Come vedremo più avanti (pp. 329-331), Platone giunge, per intuizione, ad alcune asserzioni che, se consapevolmente approfondite, avrebbero potuto portare alla scoperta dell'individuo e del suo valore; ma egli utilizzò quelle asserzioni in direzione opposta.
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non ne siano eliminati assolutamente, non ci sarà, caro Glaucone, riposo dai mali per lo Stato, e credo neanche per il genere umano, non prima che germogli nel mondo del possibile e veda la luce del sole quell'ordinamento che ora nel discorso abbiamo descritto ~5 • Affermazione solennemente ribadita ed estesa, per quanto concerne la sua possibilità, oltre che al presente, al passato e al futuro: - Dicevamo, costretti dalla verità, che né Stato né Governo e cosl neanche uomo potrebbe mai divenire perfetto, prima che a cotesti pochi filosofi e non cattivi, ma ora creduti inutili, non capiti addosso pe1' buona fortuna la necessità, vogliano o non vogliano, di prendersi cura dello Stato, e alla città di obbedir loro; ovvero ai figli dei m agnati o dei re d'adesso, o a questi stessi, qualche ispirazione divina non infonda amor ve1'o di filosofia vera.
Che poi l'una di queste cose o tutt'e due sia impossibile che avvengano, io dico che non v'è ragione alcuna di affc;-rmarlo; o se no, avrebbero ragione di ridere di noi che stiamo chiacchierando di pii desideri. O non è così? - Cosl certo. - Sia pertanto ai filosofi perfetti questa necessità di governare lo Stato capitata o no nell'infinito tempo che è passato, o anche ora capiti in qualche paese barbarico lontano e fuori della nostra esperienza, o voglia capitare in avvenire, questo almeno siamo pronti a sostenere, che lo Stato descritto ci fu, c'è e ci sarà, ogni volta che questa Musa della filosofia abbia la città in suo potere. Infatti né è impossibile che avvenga, né noi diciamo cose impossibili; che però siano difficili, anche noi lo ammettiamo. - Pure a me, disse lui, pare cosl <46. Quale sia il significato di questa affermazione (che Platone introduce con circospezione, affinché la sua apparente paradossalità non ne pregiudichi il valore di verità, ma ad un tempo con estrema decisione) è ormai abbastanza facile da individuare, se si tengono presenti il concetto di filosofia sopra esposto e, in particolar modo, gli esiti della « seconda 45
46
Repubblica, v, 473 c- d. Repubblica, VI, 499 h- d.
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navigazione ». Porre il filosofo come costruttore e come reggitore dello Stato significa porre il Divino e l'Assoluto come suprema misura e quindi fondamento dello Stato. Il filosofo, dopo aver raggiunto il divino, lo contempla e lo imita, plasma se ·stesso in conformità di quello, e, per conseguenza, posto a capo della Città, plasma e conforma anche la Città sullo stesso metro. Ecco un passo fondamentale della Repubblica, in cui Platone mette a tema questo concetto in modo espresso: - O Adimanto, per chi ha veramente il suo pensiero rivolto a ciò che è [ = all'essere soprasensibile] non c'è neanche tempo di guardare in giù all'affaccendarsi degli uomini e combattendo con essi riempirsi d'invidia e di malanimo, ma mirando e contemplando cose ben ordinate e sempre identiche che non si fanno tra loro né patiscono ingiuria, ma sono sempre al posto loro e secondo ragione, queste egli imita e, quanto meglio può, ad esse si conforma. O credi tu che ci sia modo che quando uno ha familiarità con una cosa e l'ha in grande ammirazione, non la imiti? - È impossibile, di~se. - Con ciò pertanto che è divino ed ordinato conversando sempre il filosofo, ordinato e divino diventa egli pure per quanto è possibile ad uomo; ma in tutte le cose c'è sempre di che ridire. - Precisamente. - Se dunque, dissi io, gli fosse fatta necessità, ciò che ivi egli vede [ = il divino] di ingegnarsi di adattarlo ai costumi degli uomini e nella vita pubblica e nella vita privata, e non limitarsi solo a plasmarne se stesso, credi forse che egli sarà un cattivo artefice di temperanza e di giustizia e di tutte insieme le virtù cittadine? - Menomamente, disse lui. - Ma quando la gente si accorga che noi di lui diciamo il vero, se la piglieranno forse ancora coi filosofi e ci vorranno ancora negar fede se diciamo che lo Stato non potrebbe mai esser felice altrimenti che qualora ne traccino il piano quei pittori che adoperano un modello divino? - Non se la piglieranno, disse lui, se pur capiscono. Ma in che modo sarà poi questo piano? - Prendendo, dissi io, la Città e gli usi degli uomini come fosse una tavola, innanzi tutto dovrebbero renderla pulita, il che non è del tutto facile: ma intanto credi che subito in questo si distin-
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guerebbero dagli altri, nel non volere por mano né a individuo né a città, né volerne scrivere le leggi, prima di riceverla pulita o di farla pulita essi stessi. - Ed è giusto, disse. - Dopo di ciò credi che potranno tracciare lo schema della costituzione? - E perché no? - Quindi, credo, nell'eseguirlo dovran frequentemente guardare e da questa parte e da quella, e a ciò che è giusto per se stesso e bello e assennato e tutto il resto di tal genere, e a ciò che viceversa possono porre negli uomini, mescolando e temperando di tante tendenze il colore umano, inducendo/o da quello che Omero chiamò, quando lo trovava tra gli uomini, divino e simile agli Dei. - Bene, disse. - E parte, credo, dovranno cancellare, parte dipingere di nuovo, finché riescano a fare i costumi umani, quanto più è fattibile, cari a Dio 47 •
Il discorso platonico raggiunge, poi, la massima chiarezza desiderabile, proclamando la suprema Idea del Bene ossia il Bene in sé come supremo « modello » o « paradigma » di cui il filosofo si deve avvalere per regolare la propria vita e la vita dello Stato 48 • E con questo lo Stato platonico raggiunge la stia piena definizione: esso vuole essere l'ingresso del Bene nella comunità degli uomini, per tramite di quei pochi uomini (i filosofi, appunto), che alla contemplazione del Bene medesimo hanno saputo elevarsi. E. poiché, come abbiamo veduto, l'Idea del Bene è il Divino al più alto grado, lo Stato platonico risulta, per conseguenza, il tentativo di organizzare la vita associata degli uomini sulla base del più elevato fondamento teologico. Il Divino diventa cosl, oltre che fondamento dell'essere e del cosmo e della vita privata degli uomini, anche il fondamento della vita degli uomini in dimensione politica, il vero cardine della polis 49 • ., Repubblica, VI, 500 b- 501 c. '" Cfr. Repubblica, VI, 505 a; VII, 540 a-b (riportiamo questo passo a p. 315). •• Cfr. Repubblica, libri VI e VII, passim.
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Scrive, a questo proposito, lo Jaeger: «La massima opera platonica [ ... ] è un Tractatus theologico-politicus, nel più proprio senso del termine. Il mondo greco non ha mai conosciuto, per intimo che possa essere stato in esso il legame tra religione e stato, una signoria sacerdotale fondata su dogmi. Ma con lo stato platonico, l'Ellade si è creata un ideale ardito, e di lei degno, da contrapporre alle teocrazie sacerdotali dell'oriente: l'ideale di una signoria di filosofi, costruita sulla capacità dell'intelletto indagatore dell'uomo di giungere alla conoscenza del Bene divino » 50 • E questo, in realtà, è il vero statuto della platonica Città ideale. 5. L'educazione dei filosofi nello Stato ideale e la «conoscenza massima» In uno Stato, quale è quello vagheggiato da Platone, diventa della massima importanza la selezione dei giovani dotati di autentica natura filosofica (ossia dei giovani in cui predomina la parte razionale dell'anima sulle altre due) e la loro educazione. Per quanti sono destinati a diventare reggitori-filosofi l'educazione ginnico-musicale, che vedemmo stabilita per i custodi in generale, non costituisce se non un momento propedeutico. Infatti questo tipo di educazione è in grado di rendere l'uomo armonico e ben ordinata la sua vita, ma non è in grado di portare alla conoscenza delle cause da cui dipendono quell'ordine e quell'armonia. Potremmo dire, in breve, che la paideia ginnico-musicale produce gli effetti del Bene, ma non la conoscenza del Bene. Invece è proprio questa la meta dell'educazione filosofica: giungere alla « conoscenza massima » (1-liYLO''t'0'\1 (..Lct~ruux), vale a dire al possesso conoscitivo del « Bene in sé » 51 • "' Jaeger, Pi:zideia, II, p. 518. 51 Cfr. Repubblica, VI, 504 d sgg.
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Per giungere alla « conoscenza massima » non vi sono scorciatoie, ma vi è solo la « lunga strada » 52 , la strada che dal sensibile porta al soprasensibile, dal corruttibile all'incorruttibile, dal divenire all'essere, che non è altro se non la rotta della « seconda navigazione ». La lunga strada dell'essere passa attraverso la matematica, la geometria piana e solida, l'astronomia e la scienza della armonia: tutte queste scienze, infatti, costringono l'anima ad avvalersi dell'intelligenza e la portano a contatto con una parte dell'essere privilegiato (gli enti e le leggi matematico-geometriche). Ma il tratto di gran lunga più impegnativo e arduo della lunga strada è costituito dalla dialettica, con cui l'anima si scioglie completamente dal sensibile per raggiungere l'essere puro delle Idee, e, procedendo attraverso le Idee, giunge alla visione del Bene, alla « conoscenza massima » 53 • In breve potremmo dire che metodo e contenuto della paideia dei governanti e reggitori dello Stato sono esattamente il metodo e il contenuto della filosofia platonica, che sopra abbiamo esposto. Alcune notazioni platoniche vanno tuttavia ancora rilevate. I primi insegnamenti matematici dovranno essere proposti quasi sotto forma di gioco e non imposti, perché solo cosl essi risulteranno efficaci e capaci di rivelare la natura dei giovani: - La scienza dei computi, pertanto, e quella della geometria e ogni disciplina preparatoria che deve essere insegnata prima della dialettica, dobbiamo proporla loro mentre sono ancora fanciulli, senza però farne quasi un sistema di dottrine da impararsi per obbligo. - E perché? - Perché, dissi io, l'uomo libero non deve apprendere alcuna scienza in modo da schiavi. Se infatti le fatiche del corpo soppor"Cfr. Repubblica, rv, 435d; vr, 503e-504e. Il senso di questa lunga strada è stato ben chiarito da Jaeger, Paideia, n, pp. 483 sgg. " Cfr. Repubblica, vr, 525 d sgg.
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tate per forza non rendono questo in nulla peggiore, nell'anima invece nessun insegnamento forzato può durare. - È vero, disse. - Non con la violenza pertanto, o caro, dissi io, hai da educare i fanciulli negli studi, ma coi giochi,. affinché tu sia in grado
di meglio discernere a che cosa ciascuno sia nato 54 •
A vent'anni, coloro che si saranno segnalati in questi studi, nelle fatiche e nella capacità di affrontare i pericoli di vario genere, saranno educati a comprendere le affinità sussistenti fra le discipline apprese nel precedente ciclo e a comprendere il superiore legame di affinità fra queste discipline e la natura dell'essere (Tou l5vTo<; cpucnc;) 55 • Durante questo secondo ciclo, che dura dai venti ai trent'anni, si dovrà accertare quali siano i giovani dotati di natura dialettica: Ed è questa la prova massima dell'attitudine o inettitudine alla dialettica: chi sa vedere l'insieme è dialettico, e chi no, non è dialettico 56 • La natura del dialettico è dunque la capacità di vedere t>insieme ( GuvmJnc; ), vale a dire quella capacità che Platone stesso definisce come il tendere dell'anima « all'intero ( oì.ov) e al tutto (1tétv) » 57 • A trent'anni, coloro che avranno rivelato natura dialettica verranno messi alla prova per accertare [ ... ] chi sia capace, facendo a meno degli occhi e degli altri organi del senso, di salire insieme con la verità fino a ciò che è veramente 58 • Nella dialettica, coloro che supereranno il cimento, verranno educati per cinque anni 59 • " Repubblica, VII, 536 d - 537 a. " Repubblica, VII, 537 c. 56 Ibidem. 57 Repubblica, vr, 486 a. " Repubblica, vn, 537 d. 59 Cfr. Repubblica, VII, 539 e.
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Dai trentacinque ai cinquant'anni, dovranno ritornare a cimentarsi con la realtà empirica, assumendo comandi militari e cariche varie. A cinquant'anni soltanto termina la paideia dei reggitori: E arrivati ai cinquanta, quelli che si siano conservati e si siano segnalati in tutto e per tutto e negli studi e nelle opere si devono condurre al termine ultimo e costringerli volgendo in su il lume dell'anima a guardare proprio ciò che dà la luce ad ogni cosa, affinché, veduto che abbiano il bene in se stesso, servendosi di quello come di esemplare, abbiano a porre in ordine per il resto della vita la città e i privati e se stessi, ciascun per la sua parte,
il più del tempo occupandosi di filosofia, ma quando venga la lor volta sobbarcandosi altresl alle cure politiche, e sostenendo ciascuno per il bene del comune gli uffici pubblici, non perché ciò sia una bella cosa, ma perché è una cosa necessaria; e cosl, educati continuamente altri simili, e !asciatili in cambio loro alla custodia dello Stato, vadano ad abitare le Isole dei beati [ ... ] 60 • E come per le classi dei custodi guerrieri Platone non fa distinzione fra uomo e donna, ritenendo che, a parità di doti, uomini e donne debbano ricevere la medesima educazione ed esercitare le stesse funzioni nello Stato, cosl coerentemente egli ribadisce lo stesso principio anche per la classe dei governanti: - Dei governanti veramente belli, disse lui, caro Socrate, ci hai eseguiti come farebbe uno statuario. - E anche delle governanti, dissi io, caro Glaucone. Infatti non credere che quello che ho detto l'abbia detto per gli uomini più che per le donne, quante almeno ne nascono di adatte per indole.
- Ed è giusto, disse, se devono avere tutto in comune alla pari con gli uomini, come abbiamo veduto 61 • È questa, senza dubbio, la rivalutazione più radicale e più audace della donna che sia stata fatta nell'antichità. 60 Repubblica, VII, 540 a- b. •• Repubblica, vn, 540 c.
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Un ultimo punto è da rilevare. Il filosofo, giunto alla contemplazione del Bene e dell'essere supremo, desidererebbe senz'altro vivere il resto della vita contemplando. Ma ciò non gli è concesso per un preciso debito da lui contratto nei confronti dello Stato: egli è giunto a quelle altezze dove solo pochi giungono e ha realizzato la sua natura grazie alla paideia e alle cure dello Stato, perciò è giusto che egli ritorni ad occuparsi degli altri, per arrecare loro quei vantaggi che essi soli, avendo raggiunto la visione del Bene, possono arrecare. Lo Stato non può permettere che una sola sua classe abbia il privilegio di una straordinaria felicità, ma deve far sl che le classi si arrechino reciproco vantaggio, a seconda delle loro capacità 62 • Il supremo « potere politico », nella visione platonica, diviene, dunque, il supremo e necessario « servizio » di colui che, contemplato il Bene, lo cala nella realtà e, attraverso la prassi politica, lo dispensa agli altri.
6. Gli Sta t i c or rotti e i corrispondenti
t
i p i umani a d essi
La costruzione dello Stato perfetto e l'analisi del tipo umano ad esso corrispondente voleva dimostrare, come abbiamo veduto, che esiste una strutturale corrispondenza fra virtù e felicità, e che la seconda non è se non il naturale e necessario effetto della prima. Ma Platone non si accontenta della prova diretta, e nei libri ottavo e nono della Repubblica, egli fornisce altresì una sorta di controprova, procedendo all'analisi delle forme di costituzioni degeneri e dei tipi umani ad esse corrispondenti, al fine di dimostrare che, nella misura in cui esse scadono in virtù, scadono altresì in felicità. Anche tutta questa parte delle analisi platoniche risulta 62
Cfr. Repubblica, vn, 520 e- 521 b.
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sorretta dal principio della perfetta corrispondenza fra l'anima e i costumi dell'individuo e le istituzioni dello Stato: i governi e le costituzioni, egli dice, « non provengono da una quercia o da una rupe», bensl «dai costumi morali che vi sono negli Stati » 63 • Le forme corrotte di governo sono, in ordine, le seguenti: l) la timocrazia, che è una forma di governo che poggia sul riconoscimento dell'onore (che in greco si dice appunto ·r'L(.Loç, donde il nome timo-crazia) quale supremo valore; 2) la oligarchia, che è una forma di governo fondata sulla ricchezza intesa come supremo valore (e quindi gestita da quei pochi che detengono le ricchezze); 3) la democrazia, che Platone intende nel senso peggiorativo di demagogia; 4) la tirannide, che per il nostro filosofo rappresenta un vero flagello dell'umanità. Lo Stato ideale descrittoci da Platone è una « aristocrazia » nel senso più forte e più pregnante del termine, vale a dire uno Stato custodito e retto dai migliori per natura e per educazione, fondato sulla virtù come valore supremo, e quindi caratterizzato dal prevalere della parte razionale dell'anima nei suoi cittadini. La « timocrazia » (che Platone identificava sostanzialmente col regime politico spartano) rompe già questo essenziale equilibrio dello Stato perfetto, perché sostitUisce alla virtù l'onore, cercando, per cosl dire, l'effetto senza la causa. In questa forma di Stato .la molla della vita pubblica è la sete di onori, e quindi l'ambizione, mentre nella vita privata si fa già strada la sete di denaro, abilmente celata e mascherata. Nell'anima del cittadino di questo Stato avviene già uno squilibrio fra le varie facoltà, fra la parte razionale e le due parti arazionali, finché la parte mediana (la « focosa » o « irascibile ») non finisce per avere il sopravvento 64 • 63 Repubblica, VIII, 544 d-e . .. Cfr. Repubblica, VIII, 545 d sgg.
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L'« oligarchia » è per Platone, come abbiamo già accennato, essenzialmente una « plutocrazia ». Essa segna una ulteriore decadenza dei valori, perché alla signoria della virtù si sostituisce quella della ricchezza, che è un bene puramente esteriore. Solo i ricchi gestiscono la cosa pubblica; la virtù e i buoni vengono eclissati e vengono senz'altro spregiati la povertà e il povero. Diventa pertanto fatale il conflitto fra ricchi e poveri, e resta un conflitto senza possibilità di mediazione (per la mancanza di un comune valore che sia superiore a ricchezza e a povertà, essendo la virtù trascurata sia dai ricchi sia dai poveri). E cosl, spendendo la vita a fare denaro, l'uomo di questo Stato rompe ulteriormente l'equilibrio della sua anima, e finisce per lasciare dominare la parte inferiore, la concupiscibile 65 • La « democrazia » che Platone descrive è lo stadio che, nella corruzione, precede e prepara la tirannide. Come già sopra abbiamo detto, il lettore moderno non deve lasciarsi trarre in inganno dal nome, giacché quello che il nostro filosofo ha in mente è la demagogia e l'aspetto demagogico della democrazia. L'insaziabilità di ricchezza e di denaro porta, a poco a poco, nell'oligarchia, a non curarsi di nient'altro che non sia la ricchezza. I giovani, cresciuti senza una educazione morale, incominciano a spendere senza misura (il senso del risparmio del padre per essi non ha valore, perché trovano ricchezze già ammassate) e si abbandonano indiscriminatamente a tutti i generi di piaceri (perché ormai non hanno più il senso della misura, che può derivare solo da superiori valori). In tal modo i ricchi detentori del potere si indeboliscono, oltre che moralmente, anche fisicamente,. fino al momento in cui i sudditi poveri acquistano coscienza di ciò e, alla prima occasione propizia, prendono il sopravvento e instaurano il governo del popolo, proclamando l'eguaglianza dei cittadini (assegnando l'eguaglianza sia agli eguali sia ai 65
Cfr. Repubblica, vm, 550 c sgg.
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diseguali, dice Platone) e distribuendo le magistrature col sistema dell'estrazione a sorte. Lo Stato si riempie di « libertà »: ma è una libertà che, non essendo agganciata ai valori, degenera in licenza. Ognuno vive come gli pare, e, se vuole, può anche non partecipare alla vita pubblica. La giustizia si fa assai tollerante e mite; le stesse sentenze emesse, spesso, non hanno esecuzione. Chi vuoi far carriera politica non occorre che abbia adeguata natura, educazione e competenza, ma basta che « affermi d'essere un amico del popolo » 66 • In questo Stato in cui la libertà è licenza, anche l'individuo reca i corrispondenti caratteri. Per i giovani diventano sovrani i desideri e i piaceri, i quali [ ... ] finiscono per occupare la rocca dell'anima, trovandola vuota di dottrine e costumi belli e di ragionamenti veri, che sono eccellenti sentinelle e guardie negli intelletti degli uomini cari agli D e1. 61 . I « ragionamenti impostori » sbarrano l'ingresso e tolgono ogni possibilità di accesso ai discorsi dei più anziani che vogliono « portar soccorsi o anche ambasciate ». E cosl con questi « ragionamenti » viene bandito il rispetto, qualificato come scempiaggine, viene espulsa con insulti la temperanza col nome di mancanza di virilità, la moderazione e la regola nello spendere vengono considerate spilorceria. E analogamente vengono esaltate le opposte qualità negative: la tracotanza vien detta buona educazione, l'anarchia vien detta libertà, la dissipazione del pubblico denaro vien detta liberalità e l'impudenza coraggio. E coslla vita di questo giovane diviene senza ordine e senza legge, interamente consegnata ai piaceri 68 • 66 67
68
Cfr. Repubblica, VIII, 555 b sgg. Repubblica, VIII, 560 b. Cfr. Repubblica, vm, 560 c sgg.
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Dalla democrazia (intesa nel senso sopra veduto) deriva direttamente la tirannide, e proprio a causa della insaziabilità di libertà. L'eccesso di libertà (che è licenza) fa cadere nel suo opposto, ossia nella servitù. Ecco una pagina, davvero esemplare, in cui Platone descrive il passaggio dalla democrazia alla tirannide (i toni volutamente caricati e il sottile gioco ironico la rendono ancor più efficace): - Forse che press'a poco allo stesso modo dall'oligarchia nasce la democrazia e dalla democrazia la tirannide? - In che modo? - Ciò che si proponevano, dissi io, nell'oligarchia come sommo bene, e per mezzo del quale l'oligarchia era costituita, era la ricchezza; non è vero?
- SL
- E la insaziabilità delle ricchezze e la trascuranza d'ogni altra cosa, pur di far denari, mandava in rovina quel reggimento. - È vero, disse. - E anche la democrazia non pone per termine un bene, e l'insaziabilità di questo bene non perde anche questo governo? - Che bene è che tu dici essa si proponga? - La libertà. Poiché questo in una città governata popolarmente sentirai sempre dire: che è la più bella cosa che essa abbia, e che perciò soltanto in questa città val la pena che viva, chi per natura sia uomo libero. - Si sentono infatti spesso, disse lui, di queste parole. - E forse che, dissi io, ciò che stavo appunto per dire, l'eccesso di cotesta e la trascuranza del resto non sono cagione del mutarsi anche di questo governo, e non preparano il bis-ogno di tirannide? - In che modo? - Quando, io credo, una città retta a popolo e assetata di libertà sia in balìa di cattivi coppieri, e bevendola pura più che non le convenga se ne ubbriachi, allora i reggitori, che non siano affatto compiacenti e non concedano la più ampia libertà, essa li punisce accusandoli di traditori e di tendenti a oligarchia. - Fanno effettivamente questo, disse. - Quelli poi che sono obbedienti ai magistrati li strapazza come anime di schiavi e buoni a nulla, e loda ed onora i magistrati
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che sono uguali ai cittadini e i cittadini che sono uguali ai magistrati e in privato ed in pubblico. Forse che in una tale città non è necessario che la passione della libertà vada sopra ogni altra cosa? -E come no? - E che si insinui, dissi io, anche nelle case private, e che il contagio dell'anarchia finisca ad estendersi anche agli animali? - Come, disse lui, possiamo dire questa cosa? - Per esempio, il padre si abitua a trattare il figlio alla pari e a temerlo, e cosi il figlio il padre e a non avere né rispetto né paura dei suoi genitori, per mostrare d'essere libero: e il forestiero a pareggiarsi al cittadino, e lo straniero altresl. - Avviene questo infatti, disse. - Questo, dissi io, ed altre tali piccole cose: il maestro in cotesta città teme gli scolari e li adula, e gli scolari s'infischiano dei maestri, e degli educatori parimenti e, in una parola, i giovani si modellano ad immagine dei vecchi e tengono loro testa e nel dire e nel fare, e i vecchi lasciandosi andare a' versi dei giovani si mostrano pieni di festività e di facezie, imitando i giovani per non parere spiacevoli o dispotici. - Precisamente, disse lui. - Ma l'estremo, dissi io, al quale giunge la libertà della folla, o mio caro, in cotesta città, è quando persino schiavi e schiave comperati sul mercato non siano meno liberi dei loro compratori. Nelle donne poi verso gli uomini e negli uomini verso le donne quanta sia diventata la parità di trattamento e la libertà, dimenticavamo quasi di dirlo. - E perché, con Eschilo, disse lui, non vorremo noi dire « Quella parola che ti corre al labbro »? - Appunto, dissi io, ed io la dico. Le bestie stesse infatti che sono sottoposte all'uomo quanto siano ivi più libere che altrove, nessuno lo crederebbe se non ne avesse fatto esperienza. Infatti veramente, come dice il proverbio, le cagne sono quale è la padrona, e cosi anche i cavalli e gli asini, avvezzi a camminare affatto liberamente e dignitosamente per le vie, urtano chiunque venga loro incontro se non si levi di Il; e le altre cose tutte similmente sono in piena libertà. - Tu mi conti, disse, il sogno mio; poiché questo tocca spesso anche a me, quando vado in campagna. - Or la somma, dissi io, di tutte queste cose messe insieme non vedi come fa sensibile l'anima dei cittadini, cosi che se uno accenni alla menoma ombra di autorità se ne irritano e non
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la sopportano? Finiscono infatti, tu lo sai, a non darsi pensiero neppur delle leggi, siano esse scritte o non scritte, acciò appunto non ci sia sopra di loro per nessun rispetto nessun padrone. - Lo so, disse, troppo bene. - Questo, dissi io, pertanto, amico caro, e così bello e baldanzoso è il principio dal quale nasce la tirannide, almeno mi pare. - Baldanzoso, davvero, disse lui. Ma e il seguito com'è? - Quello stesso morbo, dissi io, che s'infiltrò nell'oligarchia e la mandò alla malora, questo stesso anche in questo reggimento, ma più violento per via della licenza, come vi si ingeneri, sopraffà la democrazia. E in realtà l'andare agli eccessi suole produrre in cambio un grande cambiamento in contrario, sia nelle stagioni sia nelle piante e nei corpi, e così anche nei governi non meno. - È naturale, disse lui. - È naturale infatti che eccessiva libertà non si muti in altro che in eccessiva servitù, sia per l'individuo sia per lo Stato. - È veramente naturale. - Naturalmente quindi, dissi, non da alcun altro reggimento la tirannide nasce e prende piede, se non dalla democrazia, e cioè dalla libertà estrema la servitù più piena e più aspra 69 • Il morbo che corrompe la democrazia è da ricercare nella categoria degli oziosi che amano spendere. I più animosi di questi trascinano gli altri, e, approfittando della libertà, spadroneggiano con la parola e con l'azione e non tollerano chi parla in altro senso. Con vari metodi essi cercano di togliere ai ricchi le loro sostanze, facendo in modo che anche il popolo ne tragga benefici, ma tenendo per sé la parte più cospicua. E quando fra costoro nasca un uomo che spicchi e riesca a diventare capo riconosciuto dal popolo (un demagogo), costui ben presto diventerà tiranno, ossia non appena accusi ingiustamente gli avversari, li bandisca dalla città, o addirittura H uccida. A questo punto a costui non resta altra scelta: o lasciarsi uccidere, vittima della vendetta degli avversari, o trasformarsi da capo in tiranno appunto, e cosl diventare «da uomo lupo». E dapprima si mostrerà sorri.. Repubblica, vm, 562 a- 564 a. (La traduzione del Fraccaroli, che abbiamo lasciato intatta, è particolarmente gustosa e appropriata).
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Ùente e gentile; ma tosto sarà costretto a gettare la maschera. Dovrà suscitare continue guerre, perché vi sia bisogno di un duce, Quindi «purgherà» lo Stato, eliminando tutti quegli elementi che in qualche modo lo disturbano: e saranno proprio i migliori ad essere eliminati. E il tiranno finirà per vivere tra gente dappoco, e, da ultimo, finirà con l'essere odiato anche da coloro che lo hanno portato al potere: E il popolo, come suoi dirsi, per evitare il fumo del servire ad uomini liberi, sarebbe cosl caduto nel fuoco della signoria dei suoi servi, invece di quella troppa e inopportuna libertà mettendosi in dosso la servitù peggiore e più amara, quella di essere schiavo degli schiavi 70 •
In regime di tirannia non è tirannico solo colui che sta al vertice dello Stato, ma lo sono anche i cittadini. E la caratteristica del cittadino tirannico è la seguente: la sfrenata libertà, che è in realtà anarchia e licenza, cui egli s'abbandona, lascia libero corso a quei desideri e amori selvaggi ed eslegi, a quei terribili desideri che sono presenti in ciascuno di noi, ma che l'educazione e la ragione hanno domato e che affiorano solo nei sogni 71 • 70 Repubblica, VIII, 569 b- c. " Riportiamo un passo ·che illustra questo punto, dove Platone tocca una serie di temi, che, sia pure a livello intuitivo, anticipano alcuni principi della psicoanalisi: « I desideri, quali e quanti sono, non mi pare che li abbiamo ancora sceverati a sufficienza; e fin tanto che questo sia in difetto, l'indagine di quello che cerchiamo resterà sempre oscura. - E siamo, disse lui, per questo ancora a tempo? -Certamente: e nota che cosa di essi io voglio vedere, che è questo: dei piaceri e desideri non necessari alcuni io li considero come illeciti, e questi si può dire che si trovino in ciascuno di noi, ma repressi dalle leggi e dai desideri migliori con l'aiuto della ragione, in alcuni uomini o vengono del tutto eliminati o rimangono deboli e pochi, mentre in altri son più forti e più numerosi. - E questi desideri di cui parli quali sarebbero? - Quelli, dissi io, che si destano nel sonno quando il resto dell'anima dorme, cioè la parte razionale e mansueta e reggitrice di essa, e la parte bestiale invece e selvaggia, piena o di cibo o di bevanda, comincia a calcitrare e scotendo il sonno cerca di andare a soddisfare le sue inclinazioni: tu sai come in tale stato essa osi di fare qualsiasi cosa, come quella che è libera e sciolta d'ogni ritegno e d'ogni riflessione. Infatti non si perita di tentar l'incesto,
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Preda di questi desideri, egli scuote da sé ogni residuo di temperanza, non arretra più di fronte a nulla e vuoi dominare non solo sugli uomini ma anche sugli Dei, e tocca il fondo quando si abbandona del tutto all'ebrezza del vino, ai piaceri del sesso e alla depressione psichica: E tirannico [ ... ] diventa interamente l'uomo, qualora o per natura o per abito di vita o per tutti e due si abbandoni all'ebrezza, alle brame dell'eros e alla cupa malinconia n. È chiaro che uomini siffatti sono incapaci di rapporti con altri uomini, sono capaci solo di comandare o di ubbidire, e diventano estranei alle persone con cui si incontrano non appena abbiano ottenuto ciò che vogliono da esse:
Vivono pertanto tutta la vita senza essere mai amici di nessuno, ma sempre o padroneggiando o servendo altri: infatti la natura tirannica è incapace di gustare la vera libertà e l'amicizia 73 • come s'immagina di far già, con la propria madre, o con altro qualsiasi degli uomini o degli Dei o delle bestie, né di macchiarsi di qualsiasi delitto di sangue, né ha in orrore alcun alimento: in una parola nulla c'è che le manchi né di pazzia né d'impudenza. - Dici verissimo. - Quando però, credo io, uno si governi igienicamente e temperantemente e vada a dormire dopo avere svegliato la sua parte razionale e averla cibata di bei discorsi e considerazioni ed esser giunto a riflettere sopra se stesso, e la parte appetitiva non l'abbia affamata treppo né saziata, affinché essa s'addormenti, e con la sua gioia o la sua tristezza non rechi disturbo alla parte migliore, ma la lasci di per sé sola e pura indagare e aspirare a raggiungere qualche cosa che non sappia o delle passate o delle presenti o delle future - e similmente la parte irascibile l'abbia ammansata e non dorma col cuore agitato per essere adirato contro qualcuno -, ma acquetate quelle due specie e scossa la terza in cui abita il senno, in tale stato si metta a riposare, credi pure che in questo stato egli attinge più che mai la verità, e che meno che mai mostruose gli si presteranno alla fantasia le immagini dei sogni. - In tutto e per tutto, disse, credo sia cosl. - Nel dire queste cose per altro ci siam lasciati andare troppo fuori di strada: ma quello che vogliamo constatare è questo, che dunque dentro ciascheduno di noi vi è una specie d'appetiti, terribile, delittuosa, selvaggia, anche in quelli che sembrano essere più per bene, e che questo si manifesta nel sogno • (Repubblica, IX, 571 a- 572 b). n Repubblica, IX, 573 c. 73 Repubblica, IX, 576 a.
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Cosi la tirannide è lo Stato della assoluta servitù: e, questa, non è solo servitù dei sudditi al tiranno, ma è servitù totale (e nel tiranno e nei sudditi) della ragione ai bassi istinti: la servitù esteriore non è se non la conseguenza e la manifestazione della servitù interiore.
7. Lo Stato, la felicità terrena e quella ultraterrena
Abbiamo già detto, sopra, come Platone costruisca lo Stato ideale allo scopo di vedere riprodotta in grande l'anima dell'uomo, la sua virtù e il suo vizio, e quindi la sua felicità e infelicità. Già con Socrate la felicità era stata interiorizzata nella psyché ed era stata fatta coincidere con l'areté. E la Repubblica platonica, sotto un certo aspetto, è una gigantesca riprova di questa tesi, approfondita in tutti i suoi aspetti. Lo Stato ideale e l'uomo regio o aristocratico ad esso corrispondente sono caratterizzati dal dominio incontrastato della· razionalità, con cui sostanzialmente coincidono la virtù (la virtù è fondamentalmente razionalità) e anche la Hbertà (la libertà è la libertà della ragione dagli istinti e dagli impulsi alogici, che si rivela nel dominio che essa esercita su questi): e non solo la ragione domina nei capi di Stato, ma domina anche nella classe dei custodi-guerrieri, nella misura in cui essa regola l'anima irascibile generandovi la virtù del coraggio, e nella classe inferiore nella misura 'in cui regola l'anima concupiscibile generandovi temperanza. È questo lo Stato sano e, come tale, felice. Nello Stato e nell'uomo timocratico la razionalità cede alla parte irascibile dell'anima. Si genera cosi una prima rottura dell'equilibrio che vede un sopravvento dell'ambizione e della sete di onore sulla virtù. Nello Stato e nell'uomo oligarchico la razionalità cede, ulteriormente, anche all'anima concupiscibile e allora domina la sete di guadagno
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e di piaceri anche superflui. Nello Stato e nell'uomo tirannico, infine, rotto ormai interamente l'equilibrio dell'anima, emergono e dominano addirittura i desideri più sfrenati e bestiali. Col progressivo regresso della razionalità, si fanno strada, nello Stato e nell'anima, la malattia, la rovina spirituale e quindi l'infelicità, che raggiungono il loro limite estremo nello Stato e nell'uomo tirannico. La superiore felicità dell'uomo che vive secondo la politica dello Stato perfetto, cioè che vive la vita filosofica, emerge anche da ulteriori considerazioni ~intorno al piacere, di cui abbiamo già sopra riferito. La felicità non può consistere se non nella forma più alta di piacere, che è quello della parte razionale dell'anima. Questo piacere è anche il più vero (anzi l'unico vero), perché l'oggetto che lo procura è l'oggetto più vero, è l'essere e l'eterno contemplato dall'anima. La vita filosofica nello Stato ideale è la vittoria dell'elemento divino sull'elemento bestiale che è nell'uomo, è la costruzione dell'uomo divino 74 • E a suggello di questa tesi, Platone, nel libro finale della Repubblica, adduce un ultimo argomento, che vuoi èssere come una controprova definitiva, una verifica ultimativa: il tempo che intercorre fra nascita e morte è breve e il premio alla virtù in questa vita è solo relativo; la vera ricompensa· alla virtù è nell'aldilà 75 • Sicché la vita secondo la politica dello Stato ideale garantisce la felicità nell'aldiqua cosl come nell'aldilà, in vita e dopo morte, ossia per sempre. Il grandioso mito escatologico di Er che chiude la Repubblica ridà cosl il senso ultimo della politica platonica: la vera politica è quella che ci salva non solo nel tempo ma nell'eterno e per l'eterno 76 •
" Cfr. Repubblica, rx, 589 d; 590 d- e. Cfr. Repubblica, x, 608 c sgg. 76 Cfr. Repubblica, x, 618 c sgg.
75
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8.
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Lo Stato nell'interiore dell'uomo
La Repubblica platonica esprime un mito e un'utopia oppure un ideale e un dover essere? Alla domanda è ormai facile rispondere: nella costruzione platonica vi sono indubbiamente aspetti e momenti utopici e mitici, ma sono, se non marginali, quantomeno inessenziali. La Repubblica platonica esprime fondamentalmente un ideale realizzabile (anche se storicamente lo Stato perfetto non esiste) nell'interiore dell'uomo, vale a dire nella sua anima. Se il vero Stato non esiste fuori di noi, Io possiamo tuttavia costruire in noi stessi, seguendo nel nostro intimo la vera politica. Ecco la pagina in cui Platone esprime questo concetto con tutta chiarezza: - Pertanto chi abbia senno passerà la sua vita indirizzando ogni sua attività a questo scopo, innanzitutto onorando quelle conoscenze che renderanno tale [scil.: virtuosa] la sua anima e disprezzando le altre. - È chiaro, disse. - Oltre a ciò, dissi io, quanto ·allo stato e al nutrimento del corpo, non li abbandonerà al piacere bestiale e irrazionale e quindi non vivrà in quella direzione, ma neanche guarderà alla salute, né darà gran peso all'essere forte, sano e bello, se da queste cose non sarà reso anche saggio, ma si mostrerà sempre preoccupato di curare l'armonia nel corpo per accordarla alla musica dell'anima. - Perfettamente, disse lui, se vorrà essere musico davvero. - Dunque, dissi, anche nell'acquisto delle ricchezze serberà ordine e armonia? E non lasciandosi turbare dalla ammirazione del volgo, non vorrà accrescere la loro massa infinitamente, per prepararsi dei mali senza fine? - Non lo credo, disse lui. - Ma tenendo l'occhio, dissi, a quella città che ba in se stesso e badando bene che sovrabbondanza o scarsezza di averi non siano per lui causa di turbamento alcuno in quell'ordine, si dirigerà secondo questa norma nell'accrescimento della ricchezza o nel consumo, per quanto ne sia capace. - Ciò è ben chiaro. - Ma per quanto riguarda gli onori, per le stesse considerazio-
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ni, di alcuni prenderà parte e ne assaggerà volentieri, di quelli cioè che possa credere che lo renderanno migliore, ma quelli invece che potessero guastare quel tipo di vita che si è costituito li fuggirà e in privato e nella vita pubblica. - Non si metterà dunque, disse, in mezzo agli affari politici, se questo gli preme. - Corpo d'un cane, dissi io, si metterà, e molto anzi, nella città che è veramente sua propria: peraltro, forse non nella sua patria, se non lo aiuti in ciò una fortuna divina. - Capisco, disse: vuoi dire in quella città che abbiamo fondato e ideato, quella che non esiste che nei nostri discorsi; poiché sulla terra io non credo si trovi in alcun luogo. - Ma, dissi io, in cielo forse ne è riposto l'esemplare per chi voglia veàerlo e, veduto che l'abbia, conformarvi se stesso. E'poco importa che ci sia o quando possa esserci; infatti di qttesta città sola e di nessun'altra egli potrebbe occuparsi. - È naturale, disse n.
Solo in tempi recenti si è ben compreso il senso di questa pagina, che è, per molti aspetti, decisiva, e meglio di tutti lo ha compreso lo Jaeger, il quale scrive: « Interpreti antichi e moderni, che si aspettavano di trovare nella Repubblica un manuale di scienza politica concernente le varie forme costituzionali esistenti, hanno più e più volte tentato di scoprire qua e là su questa terra lo Stato platonico e lo hanno identificato in questa o in quella forma reale di Stato che sembrasse avvicinarglisi nella struttura. Ma l'essenza dello Stato di Platone non sta nella struttura esterna - se pur ne abbia una ma nel suo nucleo metafisica, nell'idea di realtà assoluta e di valore, su cui è costruito. Non è possibile realizzare la repubblica di Platone imitandone l'organizzazione esterna, ma sdlo adempiendone la legge di hene assoluto che ne costituisce l'anima. Perciò colui che è riuscito ad attuare quest'ordine divino nella sua anima individuale ha portato alla realizzazione dello Stato platonico un contributo più grande di colui che eài17 Repubblica, IX, 591 c- 592 b. (Ci siamo scostati in più punti dalla traduzione del Fraccaroli).
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LA COSTRUZIONE DELLO STATO IDEALE
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fica una città intera esternamente somigliante allo schema politico di Platone, ma priva della sua essenza divina, l'Idea del Bene, la fonte della sua perfezione e beatitudine » 78 • Va da sé che, nello Stato storico, fatalmente, il cittadino che vive la politica della Città ideale, diventa estraneo, e che tanto più lo diventa quanto più la sua vita si conformi alla politica ideale. Nasce qui per la prima volta, senza dubbio, l'idea del cittadino di due Città, della città terrestre e di quella divina, un dualismo politico, dunque. Lo Jaeger ritiene che tale idea sia « il prodotto del dissolvimento interiore della unità greca di individuo e città » 7\ e che sia nient'altro che « la raggiunta consapevolezza della situazione reale dell'uomo filosofico quale gli [scil.: a Platone] si era venuta configurando tipicamente nella vita e nella morte di Socrate » 80 • In realtà questo è vero solo in parte. Intanto è da notare che la visione oltremondana che Platone desunse dall'orfismo giocò un ruolo non meno importante della vita e della morte di Socrate nel portarlo a quelle conclusioni. Ma soprattutto è da rilevare come Platone non sembri essere stato affatto consapevole della portata della affermazione di cui discutiamo, tanto è vero che non prosegul per questa strada e non trasse da questa sua poderosa intuizione le conseguenze che si imponevano, e ritornò addirittura indietro. Nelle successive opere politiche di Platone (il Politico e le Leggi) l'unità greca di individuo e Stato ritorna sovrana: la rottura definitiva di tale unità avverrà solo nel pensiero ellenistico.
" Jaeger, Paideia, n, p. 621. 79 Jaeger, Paideia, n, p. 622. "'Ibidem.
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III. L'UOMO DI STATO, LA LEGGE SCRITTA E LE COSTITUZIONI
l.
Il problema del «Politico»
Che cosa poteva ancora dirci il nostro filosofo, in materia di politica, dopo la grandiosa costruzione dello Stato ideale? La risposta è semplice, se si tengono presenti, in modo particolare, le finalità dell'Accademia. La Scuola che Platone aveva fondato mirava ad educare, essenzialmente, uomini politici, uomini formati in modo nuovo per uno Stato nuovo. L'attuazione storica dell'ideale disegnato nella Repubblica era impossibile e Platone stesso, in modo esplicito, lo dichiarò realizzabile solo in dimensione spirituale (nella nostra anima). D'altra parte, come abbiamo già rilevato, non erano ancora maturi i tempi per approfondire l'intuizione delle due Città (terrena e celeste) e dell'uomo come cittadino di due Città. Era quindi necessario che il filosofo fornisse, oltre al modello dello Stato ideale, punti di riferimento più realistici, indicazioni storicamente più attuabili, e che quindi riproponesse la problematica politica con altra ottica. Appunto per rispondere a queste esigenze, Platone maturò il disegno dello « Stato secondo », ossia dello Stato che viene dopo quello ideale: uno Stato che tiene conto, a differenza del primo, non solo del come f>uomo deve essere, ma del come egli effettivamente è: uno Stato, insomma, più facile da calare nella storia. Il Politico segna la prima tappa in questo lavoro di mediazione dell'ideale politica con la realtà storica, che culmina
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L'UOMO DI STATO E LE COSTITUZIONI
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con le Leggi. Nel ricercare la definizione dell'uomo di Stato e dell'arte dello statista, Platone, nel Politico, considerando gli uomini e gli Stati così come effettivamente sono, si domanda se sia meglio porre l'uomo di Stato al di sopra della legge, o, viceversa, porre la legge come sovrana. È chiaro che nello Stato ideale della Repubblica questo dilemma non ha ragion d'essere, perché in esso l'uomo di Stato (il filosofo) e la legge non possono strutturalmente trovarsi in contrasto, in quanto la legge non è altro che il modo in cui l'uomo di Stato realizza nella Città il bene contemplato nell'Assoluto. Ma nello Stato storico le cose non possono andare a questo modo: uomini di Stato quali dovrebbero essere per realizzare questo ideale non esistono; di qui nasce il problema sopra prospettato. Platone, si badi bene, nel Politico, non rinuncia al suo ideale, e ribadisce la tesi che la forma migliore di governo sarebbe quella di un uomo che governasse « con virtù e scienza » 1 al di sopra della legge, che è sempre astratta e impersonale e quindi spesso non adeguata; ma, nello stesso tempo, riconosce che uomini dotati di questa virtù e conoscenza non solo sono eccezionali, ma, di fatto, inesistenti, sicché, nello Stato storico, la supremazia deve essere della legge, e bisogna di necessità elaborare costituzioni scritte inviolabili: Il Forestiero - Così, affermiamo, sono nati il tiranno, il re, l'oligarchia, l'aristocrazia, e la democrazia, perché gli uomini non hanno saputo sopportare il governo di quell'uno, e hanno diffidato che mai ne fosse potuto nascere alcuno degno di tale carica, il quale volesse e fosse capace, governando con virtù e scienza, di distribuire equamente a tutti quello che è giusto e santo, per paura che piuttosto potesse, volendo, calpestare e uccidere, e fare danno a chiunque di noi. Poiché, se nascesse un re quale noi lo diciamo, lo si avrebbe caro, ed egli reggerebbe felicemente quella che è sola retta e vera forma di governo. Socrate il Giovine- Come no? Il Forestiero - Ora, quando non nasce, come crediamo, un ' Politico, 301 d.
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re 1tella città} come nasce negli alveari} queWuno che sovrasti di corpo ed anima} è necessario che ci aduniamo insieme} e formuliamo statuti scritti} correndo} per quel che sembra, sulle orme della più vera forma di governo 2 •
2.
Le forme di costituzioni possibili
Il realistico riconoscimento del principio di cui abbiamo detto sopra comportava una rivalutazione delle diverse forme di costituzione, che nella Repubblica erano presentate come forme patologiche dello Stato. Nel Politico si dimostra, invece, che esse sono necessarie e che hanno una loro validità, appunto perché non può esistere la perfetta forma di governo, la quale, come abbiamo visto, richiederebbe l'impossibile esistenza di un uomo straordinario. Le costituzioni storiche sono « imitazioni » di quella ideale 3 • Se è un uomo solo che governa e imita il politico ideale, si ha la monarchia. Se invece è la moltitudine dei ricchi che governa e imita il politico ideale, si ha l'aristocrazia. Se invece è il popolo intero che governa e cerca di imitare il politico ideale, si ha la democrazia. Queste tre forme di costituzione sono giuste nella misura in cui chi governa rispetta le leggi e le consuetudini. Se, invece, la legge non viene rispettata, allora nascono tre corrispondenti forme corrotte di costituzione: la monarchia diventa tirannide,· l'aristocrazia diventa oligarchia e la democrazia diventa democrazia corrotta (noi diremmo oggi demagogia). Fra queste costituzioni storiche quale è la migliore, o, meglio, la meno peggiore (dato che si tratta in ogni caso di « imitazioni ») e quale la peggiore? Quale è la più sopportabile e quale la più insopportabile? Ecco la risposta di 2 Politico, 301 c- e (la traduzione di questo e degli altri passi del Politico che riporteremo è di M. Faggella, con alcuni ritocchi). 3 Cfr. Politico, 300 c sgg.
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Platone: Il Forestiero - A noi che allora cercavamo la forma retta [ scil.: la costituzione ideale] questa particolare divisione [ scil.: la divisione secondo la legge o contro la legge] non c'era utile [ ... ]. Ma ora che abbiamo tolto di mezzo quella, e posto le altre per necessarie, il criterio dell'illegalità e della legalità le divide ognuna in due parti. Socrate il Giovine - Risulta, in base al ragionamento tenuto ora. Il Forestiero - Dunque la monarchia, fissata a buoni scritti, che sr.no chiamati leggi, è la migliore di tutte e sei; ma senza leggi è cattiva, e la più insopportabile a viverci. Socrate il Giovine - Temo di sl. Il Forestiero - Quella poi dei non molti, come il poco che si trova in mezzo fra l'uno e il molto, la terremo per intermedia fra l'una e l'altra; e quella della moltitudine, diremo che, sotto ogni rispetto, è fiacca, e non combina gran che di buono né di dannoso, a paragone delle altre forme, perché in essa son sminuzzati i poteri in piccole frazioni, tra molti. Perciò, di tutte le varie forme legali, è questa la più infelice, di tutte quante sono contro la. legge, la migliore; e se sono sfrenate tutte, è nella democrazia che mette maggior conto di vivere; invece se sono bene ordinate, è in essa che meno giova di vivere: nella prima infatti è il primo e maggior benessere, eccetto, naturalmente, la settima rscil.: quella ideale]. Perché da tutte le altre forme è da separare questa ultima, come un dio dagli uomini 4 • 3.
Il «giusto mezzo» e l'arte politica
Nella Repubblica la scienza del politico coincideva con la conoscenza suprema del Bene e delle Idee e quindi con la filosofia. Nel Politico essa viene definita in modo più specifico e più realistico, conformemente alla tendenza generale del dialogo. Vi sono due modi di procedere nella misurazione, che si avvalgono di due criteri fondamentalmente diversi. Vi è la mi• Politico, 302 e- 303 b.
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surazione che si basa sulla reciproca relazione di grandepiccolo, lungo-corto, eccesso-difetto, ed è una misurazione di carattere matematico. Vi è però anche la misurazione « secondo l'essenza che è necessaria alla generazione» 5 , ossia la misurazione che si basa sul « giusto mezzo » o sulla « giusta misura » (-rò (lÉTptov) 6 , vale a dire sulle Idee o essenze delle cose e, questa, è una misurazione che potremmo chiamare assiologica, perché fa riferimento a valori ideali (a qualità) e non a mere quantità. ~'introduzione di questo secondo genere di misurazione costituisce, come è ovvio, un chiaro superamento del pitagorismo del tutto analogo a quello operato nei confronti dell1eleatismo con fintroduzione del «non essere» come «diverso», come Platone ha cura di rilevare espressamente: Il Forestiero - Ora, forse, allo stesso modo che nel Sofista si fu costretti a riconoscere che il non essere è, poiché ci sboccava in questo il ragionamento, così, anche ora, non bisognerà costringere il più e il meno, alla loro volta, ad essere misurabili non soltanto nei loro reciproci rapporti ma anche riguardo alla produzione della giusta misura? Perché non è possibile che possa esserci né politico né alcun altro indiscutibilmente competente nel suo operare, se non s'è ammesso questo. Socrate il Giovine - Dunque ora si deve fare lo stesso, il meglio che ci è possibile! Il Forestiero - E questa, Socrate, è un'impresa più grande ancora dell'altra. E anche quella ci ricordiamo quant'era lunga! Ma almeno sarà legittimo fare al riguardo questa supposizione. Socrate il Giovine - Quale? Il Forestiero - Che ad un certo momento si avrà bisogno di ciò che fu detto ora per la dimostrazione dell'esattezza assoluta. Che poi, riguardo alla tesi d'ora, la cosa sia dimostrata bene e a sufficienza, mi pare che ci aiuti a provarlo stupendamente questo argomento: che bisogna ritenere che tutte le arti egualmente esistano, e che il più ed il meno debbano misurarsi non solo nei rapporti reciproci} ma anche in rapporto alla produzione della giusta misura. ' Politico, 283 d. • Politico, 283 e.
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Perché, se questa esiste, esisteranno pure le arti, e posto che le arti esistano, deve esistere pure questa: non esistendo sia l'uno o l'altro di questi termini, neppure l'altro potrà esistere. Socrate il Giovine - Questo è esatto. Ma che ne segue? Il Forestiero - È evidente che distingueremo l'arte del misurare, secondo quello che è stato detto, cosi, in due parti: ponendo cioè in un solo settore di essa tutte le arti che misurano il numero, la lunghezza, l'ampiezza, la profondità, lo spessore rispetto ai loro contrari, in un'altra quante altre effettuano queste misure nei rapporti con la giusta misura, col conveniente, coil'opportuno, col doveroso e con tutto quello che tende al mezzo, rifuggendo dagli estremi 7 •
Applicando questa fondamentale distinzione (che è applicabile in generale a tutte le arti) in modo specifico all'arte del politico, diremo che essa ha come oggetto il giusto mezzo, il doveroso, l'opportuno, il conveniente nelle sfere più importanti della vita della Città 8 • L'attività del politico viene perfettamente a distinguersi, in questo modo, da una serie di attività che sono connesse alla politica, ma che si rivelano essere in realtà sussidiarie e subordinate alla politica. Cosl la retorica si distingue dalla politica, perché, mentre la prima è attività di persuasione, la seconda è invece attività che decide se sia o no conveniente persuadere (o usare la forza) e perciò risulta non solo diversa, ma anche superiore. Analogo ragionamento vale per l'arte della guerra, la quale si occupa di fare e vincere la guerra, ma non di decidere se sia o no conveniente fare la guerra piuttosto che mantenere la pace, decisione che è di pertinenza appunto della politica. Anche l'attività dei giudici è diversa dalla politica e subordinata ad essa, perché la prima si limita ad applicare le leggi, mentre l'attività del politico le stabilisce 9 • Ma la giusta misura o il giusto mezzo il politico perse7 Politico, 284 b-e. • Cfr. Politico, 305 d. • Cfr. Politico, 304 a sgg.
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gue soprattutto nell'attuazione del suo compito fondamentale, che è quello di costruire l'unità dello Stato partendo da elementi eterogenei e addirittura opposti e dando loro un'unica forza e un unico suggello. Infatti gli uomini si possono dividere secondo due opposti temperamenti e due opposte virtù: da un lato i miti o temperanti, dall'altro gli audaci, valorosi e forti. Il politico deve saper armonizzare appunto questi opposti temperamenti, come se componesse una tela o un tessuto utilizzando fili morbidi e fili duri. E nel tessere questa tela, fisserà la parte divina dell'uomo (ossia l'anima) con un« nodo» divino e la parte animale (il corpo) con un nodo umano. Il nodo divino è la conoscenza dei valori supremi, la quale ammansisce le anime audaci e rende assennate le anime mansuete e unisce le une e le altre in rapporto al bello e al buono in una sola opinione. Il nodo umano consiste invece nel far in modo che, mediante matrimoni opportunamente combinati, le opposte nature si congiungano, cosi che gli opposti temperamenti vengano a temperarsi anche dal punto di vista biologico 10 • Ed ecco le conclusioni del dialogo: Questo, difatti, è il fine della tela dell'azione politica: la buona tessitura dell'indole dei valorosi e dei temperanti, quando con vincoli di concordia e di amore l'arte regia ne fa comune la vita, portando a fine la più stupenda e la più nobile delle tele, e avvolgendovi tutti gli uomini negli stati, liberi e servi insieme, li tiene uniti in quest'orditura, e, per quanto è dato ad una città di essere felice, la governa e amministra in guisa da non omettere proprio nulla che possa contribuire allo scopo 11 •
° Cfr. Politico, 306 a sgg. " Politico, 311 h- c.
1
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IV. LO « STATO SECONDO» DELLE « LEGGI
~
l. La finalità delle «Leggi» e il loro rapporto con la «Repubblica»
Le Leggi sono l'ultima opera di Platone ed anche il suo testamento politico. Esse non solo tracciano un disegno generale di Stato, ma si addentrano nei particolari, fornendo un modello di legislazione di una Città pressoché completo. Perché Platone si sia sottoposto alle estenuanti fatiche che la stesura di quest'opera dovette senza dubbio comportare, date le imponenti conoscenze anche di carattere giuridico che essa implica, è stato messo bene in chiaro dalle moderne ricostruzioni storiografiche, e già lo abbiamo in parte spiegato. Scrive ad esempio il Taylor: « [ ... ] Nel IV secolo l'Accademia, come gruppo riconosciuto di esperti in giurisprudenza, fu continuamente sollecitata di prestare la medesima opera [di redigere 1eggi]. Si dice che a Platone stesso fosse richiesto di legiferare per Megalopoli e che, benché egli avesse declinato l'invito, parecchi suoi associati si prestassero a quel compito per molte nuove città. Era perciò auspicabile che coloro cui poteva darsi che fosse rivolto l'invito a legiferare avessero sottomano un esempio del modo in cui il compito andava affrontato; le Leggi intendono appunto fornire un tale esempio » 1 • Considerate sotto questo profilo, le Leggi sono indubbiamente opera di grande importanza e, per più di un aspetto, di grande valore, ma, proprio per le loro finalità pratiche, ' Taylor, Platone, pp. 718 sg.
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non sono la summa di tutte le istanze politiche di Platone, ma solo la summa di quanto in quelle istanze Platone giudicava immediatamente realizzabile. Così la concezione del re-filosofo e dello Stato retto da un tale uomo resta l'ideale espressamente ribadito, anche se ad un tempo si riconosce, come già nel Politico, la necessità di ripiegare su una concezione più realistica ponendo come sovrane le leggi: Che se per divina sorte nascerà un giorno un uomo capace per sua natura di soddisfare a queste condizioni [sci!.: di conoscere ciò che è utile alla convivenza politica degli uomini, e di volere e potere agire sempre nel modo migliore quando l'abbia conosciuto], non avrà punto bisogno di leggi che esercitino l'imperio su di lui. Né la legge infatti, né alcun ordinamento vale più della scienza; né risponde all'ordine delle cose che l'intelligenza sia schiava o soggetta ad alcuno, ma che comandi su tutto, posto che poggi sul vero e sia effettivamente libera, conformemente alla sua natura. Ma oggi tale in verità non è affatto, se non in ben piccola misura; e perciò bisogna adottare il secondo partito, quello, cioè, di ricorrere all'ordine e alla legge, i quali vedono e contemplano ciò che per lo più suole avvenire, ma non possono vedere e contemplare tutto 2•
Ed espressamente ribadita è la superiorità della vita comunitaria e quindi implicitamente ribaditi anche i presupposti teoretici che il platonico « comunismo » implica: Or dunque, il primo Stato, la migliore costituzione e le leggi migliori sono là dove si segue in tutto lo Stato, nella maniera più generale che sia possibile, l'antico proverbio il quale dice che le cose degli amici sono veramente in comune. Sia dunque che avvenga oggi in qualche luogo, sia che avverrà un giorno, che le donne siano comuni, comuni i figli, comuni tutti i beni; che con ogni mezzo sia interamente bandito dalla vita ciò che dicesi privato; che, per quanto è possibile, anche le cose per loro natura private, come occhi orecchi e mani, si riesca a renderle in certo qual modo comuni, cosicché sembri di vedere, udire e agire in 2
Leggi,
IX,
875 c- d.
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LO « STATO SECONDO>> DELLE « LEGGI
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comune; che inoltre tutti quanti i cittadini lodino e biasimino, quanto più è possibile, in comune, e provino gioie e dolori per le medesime cose: in breve, se vi sono leggi che rendono, quanto maggiormente è possibile, uno lo Stato, nessuno, che alla straordinaria virtù di queste leggi voglia assegnare un altro fine, potrà mai assegnarne uno migliore o più giusto. In uno Stato siffatto, se, dove che sia, esiste, e Dei e figli di Dei in più d'uno lo abitano, la vita, che in tal modo essi trascorrono, è una vita piena di letizia e di felicità; e perciò non bisogna cercare altrove il modello d'uno Stato, ma tenendo l'occhio fisso a questo, cercare con tutte le forze quello che, quanto più è possibile, gli assomigli 3 •
2.
A l c un i c o n c e t t i fon d a m e n t a l i d e Il e « L e g g i»
Lo Stato delle Leggi è, dunque, quasi una copia del modello originale e per questo « viene come secondo » 4 dopo l'originale «che è primo» 5 • Per questo motivo, una esposizione delle Leggi può acquistare il suo giusto rilievo solo scendendo nei particolari, cosa che può essere fatta solo in sede di trattazione monografica. In questa sede ci dobbiamo accontentare di sottolineare due punti importanti. La costituzione che Platone propone nelle Leggi come più adeguata è una « costituzione mista », che unisce i pregi della monarchia con quelli della democrazia e ne elimina i difetti: Tra le forme di governo ve ne sono due che sono come le madri, in quanto si può giustamente dire che da esse derivano le altre. Di queste due forme l'una può a ragione chiamarsi monarchia, l'altra democrazia; della prima la più alta espressione trovasi in Persia, della seconda presso di noi; le altre, quasi tutte, come dicevo, derivano da queste due, per effetto di svariate combinazioni. Orbene, perché in uno Stato t'i sia libertà e concordia, accompagnate da saggezza, è assolutamente necessario che il governo partecipi dell'una e dell'altra di queste f01·me [ ... ]. Lo 3 Leggi, v, 739 b-e. • Leggi, v, 739 a; 739 e. • Leggi, v, 739 b.
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Stato che ha avuto un eccessivo amore per la monarchia, come quello che l'ha avuto esclusivamente per la libertà, non hanno saputo né l'uno né l'altro serbare la giusta misura [ ... ] 6 •
Infatti, in Persia a poco a poco il popolo è stato spinto alla completa servitù (e quindi è nata una forma di assolutismo tirannico); in Grecia il popolo è stato spinto alla totale libertà (e quindi la democrazia è diventata demagogia). La libertà assoluta (anarchia) vale meno di una libertà temperata e ben regolata 7 • La libertà temperata dall'autorità è dunque la« giusta misura » ed è il fine che si propone la costituzione mista. Anche circa l'eguaglianza Platone torna a riflettere. Egli nota che, anche in questo caso, bisogna trovare la « giusta misura », e la giusta misura non è data dall'astratto egualitarismo, bensl dalla eguaglianza proporzionale: Servi e padroni non saranno mai amici, e nemmeno uomini dappoco e uomini di valore, cui la legge conferisca i medesimi onori; infatti l'uguaglianza fra ineguali diventa ineguaglianza, se manca la giusta misura; ed è a causa appunto dell'uguaglianza e deltineguaglianza che le sedizioni pullulano negli Stati. In realtà l'antica massima che l'uguaglianza genera amicizia, rispondente com'è a verità, dice cosa molto giusta e conforme al buon ordine; senonché, siccome non è ben chiaro quale sia l'uguaglianza capace di produrre tale effetto, la cosa ci mette in grande imbarazzo. Vi sono infatti due specie d'uguaglianze che portano lo stesso nome, ma che di fatto in molti casi sono quasi opposte: una consiste nell'uguaglianza di misura, di peso e di numero, e qualunque Stato, qualunque legislatore può introdurla nella distribuzione degli onori, dandole per guida la sorte; ma ve n'è un'altra, ed è la vera e perfetta uguaglianza, che non a ognuno riesce facile conoscere. Essa è il giudizio di Giove, e ben poca se ne trova ordinariamente fra gli uomini, ma tutto quel po' che di essa si trova, sia nelle pubbliche amministrazioni sia fra i privati, produce ogni bene; essa infatti assegna di più al più grande, di meno al minore, dando all'uno e all'altro in misura corrispondente alla • Leggi, III, 693 d- e. 7 Cfr. Leggi, III, 698 a- b.
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1.0 « STATO SECONDO>> DELLE << LEGGI >>
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loro natura; e cosi conferisce onori sempre maggiori a coloro che possiedono maggiori virtù, e a coloro che si trovano nel caso opposto in fatto di virtù e di educazione, dà proporzionalmente ciò che ad essi può spettare. In questo appunto consiste sempre per noi la giustizia sociale, alla quale [ ... ] dobbiamo tendere, avendo l'occhio fisso a questa specie d'uguaglianza, nel costituire lo Stato che adesso fondiamo; e chi in avvenire penserà di fondarne qualche altro, deve avere di mira questo medesimo scopo, non già l'interesse di pochi o d'uno solo, ovvero la signoria del popolo, ma sempre la giustizia, ossia, come dianzi abbiamo detto, stabilire fra ineguali l'uguaglianza che ha fondamento nella natura 8 •
In generale, la «giusta misura» domina da un capo all'altro delle Leggi, e, anzi, di essa Platone rivela espressamente il fondamento, ancora una volta squisitamente teologico, affermando che, per noi uomini, « la misura di tutte le cose è Dio» 9 •
8 9
Leggi, Leggi,
VI, IV,
757 a · d. 716 C.
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V. LA COMPONENTE POLITICA DEL PENSIERO PLATONICO E I SUOI RAPPORTI CON LA PROTOLOGIA DELLE
« DOTTRINE NON
SCRITTE»
Dopo l'ampia esposizione che abbiamo fatto delle tematiche che costituiscono la componente pol.itica del pensiero platonico, si impone, sulla base di ciò che abbiamo spiegato nelle parti precedenti, il problema conclusivo: quali rapporti hanno le dottrine politiche, che Platone affida in cosllarga misura ai suoi scritti e su cui incentra addirittura il suo capolavoro, con le « Dottrine non scritte », ossia con le dottrine dei Principi primi e supremi? Ora, dopo le spiegazioni che abbiamo già dato sui precisi nessi che ci sono fra i fondamenti metafisici ddla Repubblica e la protologia, la risposta al problema diventa facile. Sappiamo che il Bene è « causa di tutte le cose rette e belle» 1 ; e sappiamo che, pertanto, H vero politico, avendo visto e contemplato il Bene in sé, deve servirsi di esso come di « modello» al fine di dare « ordine a:llo Stato », e altresì per far ordine in se medesimo come privato cittadino 2 • Sappiamo, inoltre, che il Bene è l'Uno, il quale è Misura di tutte le cose. E l'Uno-Bene è causa di tutte le cose rette e buone, perché porta unità, ordinamento e stabHità, e quindi giusta misura in tutte le cose. Infatti, tutte le cose sono buone, ap-
' Repubblica, ' Repubblica,
VII, VII,
517 c. 540 a-b.
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POLITICA E PROTOLOGIA
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punto perché « definite » e «'ordinate », e come tali implicano stabilità, ossia unità-nella-molteplicità 3 •
Dunque, il vero politico ordina e proporziona, portando a tutti i ~ivelli proprio l'unità-nella-molteplicità. Di conseguenza, la Città buona sarà quella in cui predomina l'unità a tutti i livelli, mentre la Città non buona sarà quella in cui predomina la molteplicità, il Principio antitetico all'Uno. Ecco un testo molto significativo, in cui Platone non solo impernia il suo ragionamento sui Principi Uno/ Molti, ma addirittura collega il Molto con il Due (con la più evidente allusione alla Diade): - Contento tu, dissi io, se ritieni che meriti dare il nome di Città ad alcun'altra tranne che a questa che stavamo costruendo. - Ma perché? disse. - Le altre occorre chiamarle con un nome maggiore: infatti, ciascuna delle altre è moltissime città e non una Città, rome si dice per scherzo. In primo luogo, sono due in ogni caso, nemiche l'una all'altra, l'una dei poveri e l'altra dei ricchi. E in ciascuna di queste due ce ne sono poi moltissime, e se tu le tratti come se fossero una, ti sbaglieresti interamente; se, invece, le tratti come molte, dando agli uni le cose degli altri, e le ricchezze e la potenza e le persone stesse, ti farai sempre molti alleati e pochi nemici. E fino a che la tua Città venga governata con saggezza, come ora è stato stabilito, sarà la massima, non dico per fama, ma la massima veramente, anche se disponga solo di mille difensori. Infatti una cosl grande Città una non la troverai fra i Greci né fra i Barbari; ne troverai invece molte che sembrino tali, e anche molte volte maggiori di questa. O la pensi diversamente? - No, per Zeus, disse 4 • ' Su questo tema e sui suoi nessi con le << Dottrine non scritte » si ve· dano: Aristotele, Etica Eudemia, A 8, 1218 a 15-28 (Kriimer, 25); Giam· blico, Protrettico, cap. 6, pp 37, 26 sgg. Pistelli = Aristotele, Protrettico, fr. 5 Ross (Gaiser, Test. Plat., 34 = Kriimer, 26). ' Repubblica, IV, 422 e- 423 b. All'inizio della parte decisiva di questo
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PLATONE E LA SCOPERTA DEL SOPRASENSIBILE
Platone esprime, poi, questo concetto, addirittura in una maniera in un certo senso più marcata, e con alcune espressioni di una efficacia davvero straordinaria, affermando esplicitamente che « il massimo bene » per una Città è ciò che la lega insieme e la fa « una », mentre « il massimo male » è ciò che ne divide l'unità, e quindi la fa diventare « molte invece di una ». Ecco il passo che costituisce davvero non solo una allusione, ma quasi uno squarcio esplicito sui concetti esoterici: Non è questo, allora, il punto da cui dobbiamo incominciare per trovarci d'accordo, ossi'a il domandarci quale possiamo dire che sia il massimo bene ( 't'Ò p.ÉyLCT't'0\1 àyatMv) per l'ordinamento deJ.la Città, al quale il legislatore deve mirare nel porre le leggi, e quale il massimo male (~J.Éyt.CT't'0\1 xax6v), e quindi vedere se ciò che ora si è trattato si accordi con l'orma del Bene ( 't'Ò 't'OU àya~ou i:xvoc;), e non si accordi con quella del male? - Precisamente, disse. - E potremo avere un male maggiore nella Città di quello che la divide e invece di una (lÌ V't'L IJ.Liic;) ne fa molte (1toÀ.À.àc;)? O un Bene ( àyalMv) maggiore di quello che la leghi insieme e la faccia una (o li v CTVVOTI xat 1tOLTI IJ.La\1)? - Non l'abbiamo 5 •
passo si parla di « moltissime città e non una città>> e si aggiunge: «come si dice per scherzo>>. È, questo, un punto per lo più frainteso. Infatti, il greco 'tÒ 'tW'\1 'ltcu!;6v'tW'II viene interpretato « come avviene al gioco delle 'ltÒ)vw; », una specie di gioco i cui vari pezzi si sarebbero chiamati appunto 'ltÒÀ.w;. Invece, il senso esatto è « come si dice per scherzo ». E lo scherzo sarebbe questo: où 'ltÒÀ.Lc; aÀ.À.à 'ltÒÀ.ELc;, o 'ltOÀ.Ei:c;, inteso come acsusativo plurale epico di 'ltoMc;. Fraccaroli (Platone, La Repubblica, Firenze 1932, p. 171, nota 1), che riportava tale interpretazione, la respingeva per questi motivi: «Questa seconda interpretazione peraltro è meno probabile, perché non si vede affatto quale possa essere l'applicazione di un tale proverbio». Invece, nell'ottica dell'interpretazione che qui sosteniamo, viene ad assumere un significato perfetto, incentrandosi esattamente sulla tematica dell'uno e dei molti, ed esprimendo con perfetta allusione scherzosa le verità protologiche ultimative. ' Repubblica, v, 462 a-b.
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POLITICA E PROTOLOGIA
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Quest'ultimo passo introduce espressamente proprio la complessa tematica della comunanza degli uomini, delle donne, dei figli e dei vari beni, che già sopra abbiamo spiegato con argomenti di diverso genere, ma che sul piano henologico delle « Dottrine non scritte » diventa ancora più chiaro. Infatti, la comunanza degli uomini, delle donne, dei figli e dei beni, è concepita e presentata da Platone come una delle forme più elevate della unificazione, ossia della realizzazione dell'unità fra gli uomini: nulla, nello Stato perfetto, dovrà dividersi nel mio, nel tuo e nel suo, e quindi disperdersi nella molteplicità (nel disordine degli egoismi) che ne deriva in vari sensi; tutto dovrà, invece, congiungersi nel « nostro », che porta unità nella molteplicità in senso globale. Si capisce perfettamente, di conseguenza, come l'uomo giusto per eccellenza, che fa solo ciò che gli compete (ossia che attua la giustizia nella sua essenza, che consiste nel -tà Éav-tou 1tpanEL'V), secondo l'ottica henologica della protologia che ormai ben conosciamo, venga detto da Platone (e addirittura proprio per iscritto!) colui che lega e armonizza le sue varie facoltà e tutto ciò che ad esse si collega, in modo da « diventare uno di molti ». Sicché l'essenza metafisica del giusto e della giustizia consiste nel fare unità nella molteplicità; e « sapienza » risulta essere la scienza su cui questo uni-ficare si fonda strutturalmente. Ecco il testo veramente programmatico: - Invero, come sembra, la giustizia era qualcosa di siffatto, ma non riguardante l'azione esterna delle facoltà dell'individuo, ma quella interna, che concerne lui stesso e le cose che gli competono: ossia non permettere che ciascuna cosa dentro di lui compia uffici che sono propri di altre, né che i generi differenti che sono nell'anima si immischino .t'uno negli affari dell'altro a vicenda, ma disposte veramente bene le cose che gli competono, preso comando, fatto ordine in se stesso, e diventato amico di sé e accordate le tre parti dell'anima come se fossero tre suoni di armonia, l'alto il basso e il medio, e se ce ne sono altri intermedi a questi, e legate insieme tutte queste cose e diventato in-
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PLATONE E LA SCOPERTA DEL SOPRASENSIBILE
teramente uno di molti (Evti yEv61J.Evov Èx 1tOÀÀ.wv), temperato e armonizzato, così ormai operi, allorché deve operare, o per l'ac-
quisto di ricchezze, o per la cura del corpo, o per qualcosa riguardante la vita pubblica o per i commerci privati, in tutte queste cose giudicando e chiamando azione giusta e bella quella che conservi questo stato e cooperi al medesimo, e sapienza la conoscenza che sovrintende a queste azioni, e invece azione ingiusta quella che dissolve quest'ordine e così ignoranza la falsa opinione che sovrintende ad essa. - In tutti i sensi, disse, o Socrate, affermi il vero.
- Bene, dissi; se allora affermassimo di aver trovato 'l'uomo giusto e la giustizia che ci deve essere in lui, non credo che sembreremmo affatto dire il falso. - No, per Zeus, disse. - Lo diciamo, allora? - Diciamolo! 6 • Dunque, non solo la comunità civile realizza il Bene attuando l'Unità, ma anche ciascun uomo singolarmente considerato attua in sé il Bene realizzandosi in modo unitario, uni-ficando le sue potenzialità e attività. Infatti, un uomo solo non può realizzare bene molte arti e quindi esplicare molte attività, ma solamente « una sola » (uno, una sola). La virtù stessa, nella sua essenza, è detta una sola, mentre il vizio è detto « infinito » nelle sue forme (appunto come è infinita la Diade). E in tutta la loro gamma le costituzioni politiche procedono, dalla più alta alla più bassa, proprio con un progressivo predominare della « molteplicità », che comporta diseguaglianza, disordine ed eccesso, i quali via via prevalgono sull'Unità 7 • Non meno evidenti sono i nessi che la problematica politica, anche nella maniera in cui viene esposta nel Politico e nelle Leggi, ha con le « Dottrine non scritte ».
• Repubblica, IV, 443 d - 444 a. ' Kramer, Arete ... , pp. ~3-118 (dr. anche pp. 118-145).
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POLITICA E PROTOLOGIA
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Nel Politico} come abbiamo visto, vengono sviluppati i concetti di « giusto mezzo » e « giusta misura », che sono appunto unità-nella-molteplicità. Di conseguenza, una fondazione ultimativa di questi concetti implica una precisa dimostrazione dell'esattezza assoluta} ossia della Misura suprema, che è l'Uno; e quindi rimanda alla dimensione della oralità dialettica in maniera molto precisa. Aristotele stesso, proprio in un dialogo intitolato Politico} e quindi ispirantesi all'omonimo Politico di Platone, ci dice espressamente quanto segue: [ ... ] il Bene è la Misura perfettissima 8 .
E la Misura perfettissima è appunto l'Uno. È proprio questa capacità di produrre l'unità-nella-molteplicità, che permette al politico di realizzare la « mescolanza », ossia quel grande « tessuto » che costituisce la società politica, mescolando appunto gli estremi, e annodandoli con vincoli, in rapporto al Bello e al Bene, ossia in rapporto alla giusta misura, vale a dire in funzione della Misura perfettissima. E appunto con questo messaggio (la realtà politica come mescolanza degli opposti in funzione della Misura) il dialogo si conclude nel passo già sopra riportato. Nelle Leggi} e proprio in tutti i brani che abbiamo letto, emergono questi stessi concetti della « costituzione mista » e del « medio fra gli estremi », che hanno nessi strutturali essenziali con la protologia. Il giusto mezzo e l'ordine (come ormai ben sappiamo) sono una unità-nella-molteplicità, e quindi un modo di essere uno derivante dall'Unità originaria. E la giusta misura, che ispira fortemente tutte le Leggi} trova una espressione emblematica in quella affermazione che
' Aristotele, Politico, fr. 2 Ross; dr. Reale, Platone ... , pp. 379-385.
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ben conosciamo, secondo la quale « Dio è la misura di tutte le cose » 9 • E ricordiamo, per concludere, che Dio è misura di tutte le cose, perché, appunto, possiede la scienza e la potenza di sciogliere l'Uno in Molti e di riportare i Molti all'Uno, come Platone non solo ci dice nel Timeo, ma come torna a ricordarcelo anche nelle Leggi, dove ribadisce che il governo divino del mondo avviene plasmando [ ... ] molte cose da una e da molte una 10 •
E questa è davvero una sigla aurea, vale a dire un suggello conclusivo del pensiero di Platone.
' Leggi, IV, 716 c. 10 Il passo del Timeo, da noi già più volte richiamato, è 68 d; il passo delle Leggi è x, 903 e - 904 a, del quale Gaiser ha dato eccellenti spiegazioni in: Platone come scrittore ... , pp. 146 sgg. Per capire bene il passo, è necessario leggere e meditare l'intero brano 902 d-904 d.
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SEZIONE QUINTA
CONCLUSIONI SUL PENSIERO PLATONICO
8EÒ<; !J.ÈV 't'lÌ 'ltOÀ.À.!Ì Etc; ~V avyxEpt1WUVt1L miì..w E~ Èvòc; Etc; 'ltOÀ.À.à OLt1À.UELV tx11vWc; E'ltLI1't'ri!J.EVOc; a!J.t1 )((1~ 0Wt1't'Òc;, civ8pW'ItWV OÈ oVSELc; oùot't'Ept1 't'olhwv tx11vòc; oihE El1't'L vuv oihE Etc; 11V8Cc; 'ltO't'E El1't't1L ». << [ ••• )
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<< [ ••• ] Dio possiede la scienza e ad un tempo la potenza per mescolare molte cose in unità e di nuovo per scioglier/e dall'unità in molte; ma nessuno degli uomini ora sa fare né l'una né l'altra cosa, né mai lo saprà in avvenire». Platone, Timeo, 68 d
(( ò oi) ~EÒc; 1ÌIJ.~V 'ltriV't'WV XPTJIJ.Ii't'WV !J.É't'pov liv ELTJ IJ.riÀ.LI1't't1, )((1~ 'ltOÀ.Ù !J.&ì..ì..ov i) 'ltOU 't'Le;, wc; cpt111LV, iiv~pw'ltoc; >>. « per noi la misura di tutte le cose è Dio soprattutto; assai più che non lo sia, come si sostiene, alcun uomo». Platone, Leggi, IV, 716 c
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I. IL «MITO DELLA CAVERNA» COME SIMBOLO DEL PENSIE-
RO PLATONICO IN TUTTE LE SUE VALENZE FONDAMENTALI
Al centro della Repubblica si colloca un celeberrimo mito platonico, detto « della caverna » 1• Il mito è stato via via visto come simboleggiante la metafisica platonica, la gnoseologia e la dialettica platonica, e anche l'etica e la mistica ascesa platonica; in realtà, esso simboleggia tutto questo e anche la politica platonica, e oggi siamo in grado di riconoscere anche le forti allusioni di carattere protologico che esso presenta in una maniera molto poetica: è il mito che esprime tutto Platone, e con esso, quindi, concludiamo l'esposizione e l'interpretazione del suo pensiero. Immaginiamo degli uomini che vivano in una abitazione sotterranea, in una caverna che abbia l'ingresso aperto verso la luce per tutta la sua larghezza, con un ripido andito d'accesso; e immaginiamo che gli abitanti di questa caverna siano legati alle gambe e al collo in modo che non possano girarsi, e che quindi possano guardare unicamente verso il fondo della caverna. Immaginiamo, poi, che appena fuori della caverna vi sia un muricciolo ad altezza d'uomo e che dietro questo (e quindi interamente coperti dal muricciolo) si muovano degli uomini che portano sulle spalle statue e oggetti lavorati in pietra, in legno e in altri materiali, raffìguran1 Repubblica, vn, 514 a sgg. Sugli influssi di questo mito su autori antichi e moderni e sulle cospicue rielaborazioni che sono state fatte di esso, si veda: K. Gaiser, Il paragone della caverna. Variazioni da Platone ad oggi, Bibliopolis, Napoli 1985.
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PLATONE E LA SCOPERTA DEL SOPRASENSIBILE
ti tutti i generi di cose esistenti. Immaginiamo, ancora, che dietro questi uomini arda un grande fuoco, e, in alto, il sole. Infine, immaginiamo che la caverna abbia un'eco e che gli uomini che passano al di là del muro parlino fra loro di guisa che dal fondo della caverna le loro voci rimbalzino, riproducendosi per effetto dell'eco. Ebbene, se così fosse, quei prigionieri non potrebbero vedere altro che le ombre delle statuette che si proiettano sul fondo della caverna e udrebbero l'eco delle voci: ma essi crederebbero, non avendo mai visto altro, che quelle ombre fossero l'unica e vera realtà e crederebbero, anche, che le voci dell'eco fossero le voci stesse prodotte da quelle ombre. Ora, supponiamo che uno di questi prigionieri riesca a sciogliersi con fatica dai ceppi; ebbene, costui con fatica riuscirebbe ad abituarsi alla nuova visione che gli apparirebbe; e, abituatosi, vedrebbe le statuette muoversi al di sopra del muro, e capirebbe che queste sono ben più vere di quelle cose che prima vedeva e che ora gli appaiono come ombre. E supponiamo che qualcuno tragga il nostro prigioniero fuori dalla caverna e al di là del muro; ebbene, egli resterebbe prima abbagliato dalla gran luce, e poi, abituandosi, imparerebbe a vedere le cose stesse, prima nelle loro ombre e nei loro riflessi nell'acqua, e poi le vedrebbe in se medesime, e, infine, vedrebbe il sole, e capirebbe che solo queste sono le realtà vere e che il sole è la causa stessa di tutte le altre cose. Riportiamo il testo per intero, perché è veramente basilare: - Dopo questo, dissi, paragona ad una condizione di questo genere la nostra natura rispetto alla nostra educazione spirituale e alla mancanza di educazione. Immagina di vedere degli uomini rinchiusi in una abitazione sotterranea a forma di caverna che abbia l'ingesso aperto verso la luce con un'ampiezza estendentesi per tutta la caverna medesima; inoltre che si trovino qui fin da fanciulli con le gambe e con il collo in catene in maniera da dover star fermi e guardare solamente davanti a sé, incapaci di
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volgere intorno la testa a causa delle catene, e che, dietro di loro e più lontano, arda una luce di fuoco; e, infine, che fra il fuoco e i prigionieri ci sia, in alto, una strada, lungo la quale immagina di vedere costruito un muricciolo, come quella cortina che i giocatori pongono tra sé e gli spettatori, sopra la quale fanno vedere i loro spettacoli di burattini. - Vedo, disse. - Immagina, allora, di vedere, lungo questo muricciolo, degli uomini portanti attrezzi di ogni genere, che sporgono al di sopra del muro, e statue ed altre figure di viventi fabbricati in pietra e in legno e in tutti i modi; e inoltre, come è naturale, che alcuni dei portatori parlino e che altri stiano in si·lenzio. - Parli di cosa ben st·rana, disse, e di ben strani prigionieri. - Sono simHi a noi, dissi. Infatti, credi, innanzitutto, che vedano di sé e degli altri qualcos'altro, tranne che le ombre che il fuoco proietta sulla parte della caverna che sta di fronte a loro? - E come potrebbero, disse, se sono costretti a tenere la testa immobile per tutta la vita? - E degli oggetti portati? Non vedranno, pure, la sola ombra? -E come no? - Se, dunque, fossero in grado di d1scorrere tra di loro, non credi che riterrebbero come realtà appunto queJ.le che vedono? - Necessariamente. - E se il carcere avesse anche un'eco proveniente dalla parete di fronte, ogni volta che uno dei passanti profferisse parola, credi che essi riterrebbero che ciò che profferisce parole sia altro se non l'ombra che passa? - Per Zeus, no, disse. - In ogni caso dunque, d1ssi, riterrebbero che il vero non possa essere altro se non le ombre di quelle cose artificiali. - Per forza, disse. - Considera ora, dissi, quale pot·rebbe essere la loro liberazione e la loro guarigione daJ.le catene e dall'insensatezza, e se non accadrebbero loro queste cose: qualora uno fosse sciolto, e subito costretto ad alzarsi e a girare il collo e a camm1nare e levare lo sguardo in su verso la luce, e, facendo tutto questo, provasse dolore, e per il bagliore fosse incapace di riconoscere quelle cose delle quali prima vedeva le ombre, che cosa credi che egli risponderebbe, se uno gli dicesse che prima vedeva solo vane ombre, e che ora, invece, essendo più vicino alla realtà e rivolto
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a cose che hanno più essere, vede più rettamente, e, mostrandogli ciascuno degli oggetti che passano, lo costringesse a rispondere facendogli la domanda «che cos'è? ». Ebbene, non credi che egli si troverebbe in dubbio, e che riterrebbe le cose che prima vedeva più vere di quelle che gli si mostrano ora? - Molto, disse. - E se uno, poi, lo sforzasse a guardare la luce medesima, non gli farebbero male gli occhi, e non fuggirebbe, voltandosi indietro verso quelle cose che può guardare, e non riterrebbe queste cose veramente più chiare di quelle mostrategli? - È cosl, disse. - E se di là, dissi, uno lo traesse a forza per la salita aspra ed erta, e non lo lasciasse prima di averlo portato alla luce del sole, forse non soffrirebbe e non proverebbe una forte irritazione per essere trascinato, e, dopo che sia giunto alla luce con gli occhi pieni di bagliore, non sarebbe capace di vedere nemmeno una delle cose che ora sono dette vere? - Certo, dise, almeno non subito. - Dovrebbe invece, credo, farvi abitudine, per riuscire a vedere le cose che sono al di sopra. E, dapprima, potrà vedere più facilmente le ombre, e, dopo queste, le immagini degli uomini e delle altre cose riflesse nelle acque, e, da ultimo, le cose stesse. Dopo queste cose, potrà vedere più fadlmente quelle che sono nel cielo e il cielo stesso di notte, guardando la luce degli astri e della luna, invece che di giorno il sole e la luce del sole. - Come no? - Per ultimo, credo, potrebbe vedere il sole, e non le sue immagini nelle acque o in un luogo estraneo ad esso, ma esso stesso di ·per sé nella sede che gli è propria, e considerarlo cosl come esso è. - Necessariamente, disse. - E, dopo questo, potrebbe trarre su di esso le conclusioni, ossia che è proprio lui che produce le stagioni e gli anni e che governa tutte le cose che sono nella regione visibile, e che, in certo modo, è causa anche di tutte quelle cose che lui e i suoi compagni prima vedevano. - È evidente, disse, che, dopo le precedenti, giungerebbe proprio a queste conclusioni. - E aUora, quando si ricordasse della precedente dimora, della sapienza che qui credeva di avere e dei suoi compagni di
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IL MITO DELLA CA VERNA
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prigionia, non crederesti che sarebbe felice del cambiamento, e che proverebbe compassione per quelli? - Certamente. - E se fra quelli c'erano onori ed encomi e premi per chi mostrasse la vista più acuta nell'osservare le cose che passavano, e ricordasse maggiormente quaH di esse fossero solite passare per prime o per ultime o insieme, e quindi mostrasse grandissima capacità nell'indovinare che cosa stesse per arrivare, credi che costui potrebbe provare ancora desiderio di questo, o che invidierebbe coloro che sono onorati o che hanno potere presso quelli, o che accadrebbe, invece, quello che dice Omero, e che di molto preferirebbe « vivere sopra la terra a servizio di un altro uomo senza ricchezze », e patire qualsiasi cosa, anziché ritornare ad avere quelle opinioni e vivere in quel modo? - È cosi, disse; io credo che egli soffdrebbe qualsiasi cosa, piuttosto che vivere in questo modo. - E rifletti anche su questo, dissi, se costui, di nuovo ridisceso nella caverna, tornasse a sedere al posto che prima aveva, si troverebbe con gli occhi pieni di tenebre, giungendovi all'improvviso dal sole? - Evidentemente, disse. - E se egli dovesse di nuovo tornare a conoscere quelle ombre, gareggiando con quelli che sono rimasti sempre prigionieri, fino a quando rimanesse con la vista offuscata e prima che i suoi occhi ritornassero allo stato normale, e questo tempo dell'adattamento non fosse affatto breve, non farebbe forse ridere, e non si direbbe di lui che, per essere salito sopra, ne è disceso con gli occhi guasti, e che non mette conto di cercare di sal1re su? E chi cercasse di scioglierli e di portarli su, se mai potessero afferrarlo nelle loro mani, non lo ucciderebbero? - Certamente, disse 2 • Che cosa simboleggia, con esattezza, questo « mito della caverna »?
a) lnnanzitutto, simboleggia i vari gradi antologici dena realtà, ossia i piani dell'essere sensibile e soprasensibile, con le loro suddivisioni: le ombre della caverna sono le mere ' Repubblica,
vn, 514 a- 517 a.
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parvenze sensibili delle cose, mentre le statue e gli artefatti simboleggiano tutte le cose sensibili; il muro rappresenta lo spartiacque che divide le cose sensibili dalle soprasensibili. Al di là del muro, le cose vere e gli astri simboleggiano le realtà nel loro vero essere, ossia le Idee; il sole, poi, simboleggia l'Idea del Bene. E le ombre e le im~agini riflesse delle cose vere, che per prime il prigioniero vede al di là del muro, che cosa esprimono? Va rilevato che le ombre dirette e le immagini riflesse nell'acqua, fuori dalla caverna e al di là del muro, sono appunto ombre e immagini delle vere realtà prodotte dalla luce del sole, e, quindi, sono completamente differenti dalle ombre che i prigionieri vedono~riO~do della caverna, che sono, al contrario di queste, prodotte dalle statue e dagli oggetti artificiali e dalla luce del fuoco. In altri termini, esse stanno veramente « a mezzo » fra le Idee e le cose che le riproducono, e pertanto esprimono molto bene gli « enti intermedi », che sono appunto antologicamente « intermedi », come ben sappiamo. E le stelle e gli astri, che, evidentemente, stanno ancora al di sopra delle singole cose vere, che cosa simboleggiano? La risposta si è fatta ormai chiara e, con Kramer, è ormai possibile dire che non si sbaglia « se si riconoscono, qui, le Metaidee di identità e di diversità, di uguaglianza e di diseguaglianza, di pari e dispari [ ... ] » 3 • Pertanto, le cose reali simboleggiano le singole Idee specifiche, le stelle e gli astri le Metaidee e i Numeri ideali, mentre il sole simboleggia l'Idea del Bene-Uno. b) In secondo luogo, il mito simboleggia i piani della conoscenza nei suoi due differenti livelli e nei vari gradi di questi. La visione delle ombre nella caverna simboleggia l'Et3
Kramer, Platone ... , p. 194; dr. anche Gaiser, Il paragone ... , p. 16.
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IL MITO DELLA CAVERNA
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xa.o-Ca. o immaginazione, mentre la visione delle statue e degli artefatti simboleggia la 1tCo-·nç o credenza. Il passaggio dalla visione delle statue alla visione dei corrispondenti oggetti veri, che avviene, dapprima, mediante i riflessi e le immagini delle medesime, e quindi degli enti matematici, simboleggia la OL!ivoLa., ossia la conoscenza mediana o intermedia, che è strutturalmente legata alle scienze matematiche. La visione più elevata che inizia con la percezione degli enti reali, e che, attraverso la visione delle stelle e degli astri e della luna durante la notte, giunge alla visione del sole e della piena luce del giorno, simboleggia il grande tragitto della dialettica nelle sue tappe essenziali, ossia nel suo procedere e nel suo giungere da Idea a Idea fino alle Idee supreme e, per astrazione da queste, all'Idea stessa del Bene, al Principio del Tutto.
c) In terzo luogo, il mito della caverna simboleggia anche l'aspetto ascetico, mistico e teologico del platonismo: la vita nella caverna simboleggia la vita nella dimensione dei sensi e del sensibile, mentre la vita nella pura luce simboleggia la vita nella dimensione dello spirito. La liberazione dalle catene e la «conversione », ossia il girarsi con il viso dalle ombre alla luce, simboleggia il volgersi dal sensibile all'intelligibile. Infine, la suprema visione del Sole e della luce in sé simboleggia la visione del Bene e quindi la conoscenza e la fruizione dell'Uno e della Misura suprema di tutte le cose e quindi del Divino in assoluto, con la conseguente decisione di ispirarsi ad esso in tutte le attività della vita. Si noti, in particolare, come Platone indichi la liberazione dalla visione delle ombre verso la luce come un « girare il collo » che fa il prigioniero della caverna (1tEpLayew -tòv a.ùxÉva.), proprio per poter levare lo sguardo verso la luce
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PLATONE E LA SCOPERTA DEL SOPRASENSIBILE
(1tpòc; -rò cpwc; àva.~À.É1tEW)
E questa immagine emblematica del girare il capo dalla parte opposta viene ripresa e sviluppata poco dopo e qualificata come « conversione » (1tEpta.ywyi)) dell'anima dal divenire all'essere, come condizione necessaria per giungere a vedere l'essere nel suo massimo splendore, e quindi il Bene, che è il Principio di Tutto 5 • Questa metafora della « conversione » è stata ripresa e sviluppata dai Cristiani in senso religioso, come già Jaeger ha molto ben rilevato, affermando che qualora « si ponga il problema, non già del fenomeno di ' conversione ' come tale, ma dell'origine del concetto cristiano di conversione, si deve riconoscere in Platone l'autore primo di questo concetto. Il trasferimento del vocabolo all'espressione religiosa cristiana ebbe luogo sul terreno del primitivo platonismo cristiano » 6 • Ma la valenza religiosa e ascetica (naturalmente in senso ellenico) è già largamente presente in Platone, e il « convertirsi » nel senso globale del « voltarsi » dell'anima dalle illusioni alla verità, con tutto ciò che ne consegue, già in Platone risulta veramente emblematico, come dimostra proprio questo mito della caverna in modo straordinario. 4•
d) Il mito della caverna esprime anche la concezione politica squisitamente platonica. Platone parla, infatti, altresì di un « ritorno » nella caverna di colui che si era liberato dalle catene, di ·Un ritorno che ha come scopo la liberazione dalle catene di coloro in compagnia dei quali egli prima era stato schiavo. E questo « ritorno » è indubbiamente il ritorno del filosofo-politico, il quale, se seguisse il suo solo desiderio, resterebbe a contemplare il vero; e invece, superando il suo desiderio, scende per cercare di salva·re anche gli altri (il ve' Repubblica, VII, 515 c. ' Repubblica, VII, 518 d sgg. • Jaeger, Paideia ... , II, pp. 512 sg., nota 82.
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ro politico, secondo Platone, non ama il comando e il potere, ma usa comando e potere come servizio alla Città, per attuare il bene). Ma, a chi ridiscende, che cosa potrà mai capitare? Egli, passando dalla luce all'ombra, non vedrà più, se non dopo essersi riabituato al buio; faticherà a riadattarsi ai vecchi usi dei contubernali, rischierà di non essere da loro capito e di essere preso per folle, e, suscitando profonde avversioni, potrà perfino rischiare di essere ucciso. L'allusione è certamente a Socrate, ma il giudizio va indubbiamente molto al di là del caso di Socrate. Platone intende dire questo: guai a squarciare le illusioni che fasciano gli uomini; essi non tollerano le verità che rovesciano i loro comodi sistemi di vita basati sulle parvenze e sulla parte più fuggevole dell'essere, e temono quelle verità che fanno appello alla totalità dell'essere e all'eterno, e chi porta a loro un messaggio di verità antologicamente rivoluzionaria può essere messo a morte, come fosse un ciurmadore! Così avvenne per Socrate, « l'unico vero politico » della Grecia, come lo chiama Platone, e così fu e sarà o potrà essere per chiunque si presenti « politico » in quella dimensione globale.
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II. ALCUNI VERTICI DEL PENSIERO DI PLATONE RIMASTI PUNTI DI RIFERIMENTO NELLA STORIA DEL PENSIERO OCCIDENTALE
l) Uno dei vertici del pensiero platonico - che è rimasto nella storia del pensiero occidentale forse il punto di riferimento più significativo e più stimolante, non solo nell'età antica, ma anche nell'età moderna - è costituito dalla teoria delle Idee. Facciamo alcuni esempi significativi. Aristotele, pur facendola oggetto di una mass1cc1a cnuca di carattere teoretico, trae da essa ispirrazione basilare, proprio per la sua concezione della « forma » che struttura e plasma la materia. Con il Medioplatonismo le Idee diventeranno i pensieri dell'Intelletto divino, e in questo senso le intenderanno anche i Padri della Chiesa. E da ambedue queste inte11pretazioni trarranno importanti spunti gli Scolastici. Per l'età moderna ricorderemo due esempi, che sono i più significativi: Kant interpreterà le Idee come le supreme forme della Regione, e, pur negando un loro valore conoscitivo, attribuirà ad esse un uso « regolativo » strutturale di grande importanza; Hegel, poi, giudicherà la teoria delle Idee come «la vera grandezza speculativa » di Platone e addirittura come una vera e propria « pietra miliare » nella storia della filosofia, e perfino nella « s·toria universale ». Si potrebbe affermare, con buoni fondamenti, che una storia dell'interpretazione e dei ripensamenti teoretici della teoria delle Idee coprirebbe un'ampia area della storia della filosofia occidentale, proprio in alcuni punti essenziali. In
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effetti, l'asse portante principale del pensiero che Platone ha presentato nei suoi dialoghi (ossia nella dimensione della « scrittura » ), è proprio la metafisica delle Idee, e su di essa tutti i lettori si sono incentrati, in tutte le epoche, per ripensare Platone. 2) Dal punto di vista strettamente teoretico, e per i motivi che abbiamo sopra spiegato, il vertice più cospicuo del pensiero platonico è costituito dalla teoria dei Principi (da cui dipende la stessa teoria delle Idee), che Platone ha affidato soprattutto alla « oralità », ma a cui, con rimandi e allusioni talora anche assai forti, ha fatto precisi riferimenti anche nei suoi scritti. Tale dottrina porta (come appunto per allusione si dice espressamente addirittura nella Repubblica) proprio al « principio del Tutto » (""t"ov 7t!X."V't"Òc; àpxi)) \ e quindi alla spiegazione metafisica globale del reale in tutti i suoi aspetti. Nell'ottica dell'interpretazione moderna di Platone la teoria dei Principi è stata ricuperata e compresa nella sua portata solamente in tempi recenti, per i motivi che abbiamo sopra spiegato; ma, dal punto di vista storico, almeno nell'ambito del pensiero antico, ha suscitato influssi veramente assai cospicui. Già nel 1912 W. Jaeger riconosceva che la filosofia platonica, cui Aristotele fa riferimento nella sua Metafisica, non è quella dei dialoghi, bensi quella delle « Dottrine non scritte» 2 • E in effetti, in aSJSai larga misura, sia per le sue polemiche sia per i ripensamenti teoretici, Aristotele deve moltissimo alle « Dottrine non scritte». I Neoplatonici, poi, prenderanno proprio di qui le mosse per il ripensamento teoretico e per gli sviluppi sistematici ' Repubblica, VI, 511 b. W. Jaeger, Studien zur Entstehungsgeschichte der Metaphysik des Aristoteles, Berlin 1912, p. 141. 2
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della filosofia di Platone. L'Uno-Bene, che è il fondamento del pensiero di tutti i Neoplatonici (e di cui parleremo con ampiezza nel quarto volume), è proprio il « Principio del Tutto » di Platone, con questa differenza: in Platone si tratta di un Principio supremo di struttura bipolare (l'Uno agisce sulla Diade, che risulta gerarchicamente subordinata, ma coessenziale e coeterna), mentre nei Neoplatonici si tratta di un Principio di struttura monopolare e assoluto, nel senso che tutto deriva da esso, compresa la stessa Diade, con tutto ciò che ne consegue. 3) Una conquista di Platone, che è strettamente connessa con le precedenti e ne sta alla base, è la concezione della struttura gerarchica del reale. Le conclusioni del Fedone, mantenute poi sempre va'lide da Platone, sono quelle su cui abbiamo sopra più volte insistito: « poniamo [ ... ] due specie di esseri: una visibile e l'altra invisibile» (i}w!J.EV [ ... ]
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3•
Sul significato di fondo di questo « dualismo », che è quello legato alla trascendenza, torneremo subito sotto; qui vogliamo, invece, richiamare l'attenzione più che su questa distinzione di base fra il fisico e il soprafisico, sulla complessa articolazione di questa distinzione (che sopra abbiamo illustrato), che parte dai Principi primi e supremi, cui seguono la sfera delle Idee gerarchicamente strutturata, e poi ulteriormente la sfera degli enti matematici pure gerarchicamente strutturata, e, da ultimo, la sfera delle realtà sensibili. Ciascuna di queste sfere si articola, appunto, secondo una struttura gerarchica (con l'emergente e particolare importanza di quella della sfera delle Idee, che si articola in Numeri ideali, Idee generalissime o Metaidee, Idee particolari), con una dipendenza strutturale del piano inferiore da quello superiore (e non viceversa), e in vario modo con una d1penden' Pedone, 79 a.
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za mediata di tutte le realtà a tutti i livelli dal Principio primo. Questa concezione della struttura gerarchica del reale ha avuto una importanza veramente assai notevole. I successori immediati di Platone non si possono capire se non su questo sfondo. Lo stesso Aristotele, come vedremo in questo volume, introduce tale concezione nella sua teoresi e addirittura come uno degli assi portanti di base della sua metafisica. I Neoplatonici, poi, come vedremo nel quarto volume, la porteranno in modo sistematico alle conseguenze estreme, con i più ampi sviluppi in Proclo. 4) Abbiamo più volte fatto uso dei termini di «Divino » e di « Dio » nell'esporre il pensiero platonico e qui è venuto il momento di riassumere quanto abbiamo detto e di determinare quale sia propriamente il senso della teologia platonica. Qualcuno ha affermato che Platone è stato il fondatore della teologia occidentale 4 • E l'affermazione è esatta, se la si intende nel suo giusto senso. La « seconda navigazione », cioè la scoperta del soprasensibile, doveva dare a Platone per la prima volta la possibilità di vedere il divino appunto nella prospettiva del soprasensibile, come poi farà ogni successiva evoluta concezione del divino. In effetti, anche noi oggi riteniamo fondamentalmente come equivalente credere al divino e credere al soprasensibile, da un canto, e negare il divino e negare il soprasensibile, dall'altro. Sotto questo profilo, Platone è indubbiamente il creatore della teologia occidentale, nella misura in cui ha scoperto la categoria (l'immateriale) secondo cui soltanto può e deve pensarsi il divino (le successive posizioni degli Stoici e degli Epicurei, che ammetteranno Dei materiali, come vedremo, presentano un groviglio di aporie, rese più stridenti proprio dal fatto che ' Cfr. Jaeger, Paideia ... ,
11,
pp. 492 sg.
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riprendono posizioni e categorie pre-socratiche, che fatalmente dopo Platone e Aristotele non potevano più mantenere l'originario senso). Tuttavia occorre subito aggiungere che Platone, pur avendo guadagnato il nuovo piano del soprasensibile e pur avendo impiantato su di esso la problematica teologica, ripropone la visione (che ormai ben conosciamo, e che resterà una costante di tutta la filosofia greca), secondo la quale il divino è stru tturalmen te molteplice. Intanto, nella teologia platonica, noi dobbiamo distinguere il «Divino» impersonale da Dio personale. Divino è il mondo ideale, in tutti i suoi piani, e, in particolare, divina è l'Idea del Bene (l'Uno), ma non è Dio-persona. Dunque, al sommo della gerarchia dell'intelligibitle c'è un Ente divino (impersonale) e non un Dio (personale), così come Enti divini (impersonali) e non Dei (personali) sono le Idee. Caratteri di persona, cioè di Dio, ha invece il Demiurgo, che conosce e vuole: ma egli è inferiore al mondo delle Idee nel suo complesso, giacché non lo crea, ma gnoseologicamente e normativamente ne dipende (pur trovandosi al vertice, subito dopo l'Idea del Bene). Il Demiurgo non crea nemmeno il Principio materiale, che preesiste esso pure, come abbiamo visto. Dei creati dal Demiurgo sono, poi, anche gli astri e il mondo (concepiti come intelligenti e animati), e forse alcune div1nità di cui parlava l'antico politdsmo e che Platone sembra mantenere (o quantomeno non sembra respingere in maniera categorica e globalmente). Divina è l'anima del mondo, divine sono le anime delle stelle e le anime umane, accanto alle quali ·vanno annoverati anche i démoni protettori e i démoni mediatori, di cui l'esempio più tipico è Eros. Tuttavia, se si prende sul serio il concetto di creazione (sia pure nel senso del semicreazionismo ellenico), tutti gli altri Dei vengono a dipendere strutturalmente dal primo, e quindi, sia pure alla lontana, almeno a livello esigenziale,
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Platone ha imboccato una strada che si avvia verso una forma di monoteismo, almeno nella misura ellenica. Le famose parole che il Demiurgo (Dio « creatore » appunto in senso ellenico) rivolge agli Dei creati, si impongono, in un certo senso, quasi come emblematiche, proprio nel senso che abbiamo indicato: « O Dei figli di Dd, io sono Artefice e Padre di opere che, generate per mezzo mio, non sono dissolubili, se io non voglio. Infatti, tutto ciò che è legato può dissolversi, ma voler dissolvere ciò che è stato connesso in maniera bella e in buona condizione, è da malvagio. Per queste ragioni e poiché siete stati generati, non siete totalmente indissolubili. Ma non sarete disciolti e non vi toccherà un destino di morte, poiché avete a vostro vantaggio la mia volontà, che è un legame ancora maggiore e più forte di quello dal quale siete stad legati allorché siete nati. Ora, dunque, imparate ciò che vi dico e vi dimostro. Restano ancora da generare tre generi di mortali. E se questi non vengono generati, il mondo sarà incompleto: infatti non avrà in se medesimo tutti i generi viventi. Eppure deve averli, se deve essere perfetto in maniera conveniente. Ma se questi si generassero ed avessero vita per opera mia, diventerebbero uguali agli Dei. Perché, dunque, siano mortali e questo universo sia veramente completo, occupatevi voi, secondo natura, della costituzione dd viventi, imitando la potenza che attuai nella vostra generazione. E per quanto riguarda quella parte dei viventi che conviene abbia il nome in comune con gli immortali e che è detta divina e che governa in coloro che vogliono seguire giustizia e voi, ne fornirò la semenza, fornendo cosl il principio. Per il resto voi, intessendo il mortale con l'immortale, producete gli animali e generateli, e fornendo loro il nutrimento allevateli, e quando periscono riceveteli nuovamente » 5 •
Al di sopra del Dio platonico, come sopra abbiamo chiarito, resta il Divino in senso supremo (l'Uno-Bene e i Principi, e, in una certa misura, le Idee considerate nella loro globalità, anche se, gerarchicamente, il Demiurgo è il mag' Timeo, 41"a-d.
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giare di tutti gli enti 6 e antologicamente e metafisicamente subordinato solo ai Principi primi e supremi). Aristotele, come vedremo, invertirà la gerarchia, ponendo al vertice proprio un Dio avente carattere di intelligenza personale, e quindi, in questo senso, si spingerà oltre Platone, sia pure in maniera parziale e problematica; ma le cinquantacinque intelligenze motrici delle sfere celesti che egli introduce (di cui parleremo più avanti), sono Dei a Lui inferiori, e a Lui coeterni, mentre Platone su questo punto sembra essersi spinto più avanti, presentando tutti quanti gli Dei come creati dal Demiurgo. 5) Come abbiamo già sopra ricordato, Platone ha raggiunto la concezione di « creazionismo » più avanzata in dimensione ellenica 7 • Ricordiamo che nei confronti di questo problema si sono verificate (e si verificano tuttora) forti ;reazioni e prevenzioni da parte di molti interpreti, i quali risultano condizionati da avversioni di vario genere contro la tematica della « creazione» divina. Tali prevenzioni hanno ingenerato non poche confusioni, o comunque hanno indotto a mettere in parentesi e a collocare questa problematica al margine deH'interpretazione di Platone. Anzi, alcuni ritengono che non sia possibile parlare di « creazione » in nessun senso, in riferimento ad autori Greci, se non andando contro il modo stesso di pensare proprio degli Elleni. Invece, Platone parla proprio di una attività demiurgica nel senso di un portare dal non essere all'essere (be 't'ov 1-L'ÌI ov'toc; Ei.c; 'tÒ ov) 8 e dice con tutta chiarezza che il Demiurgo produce l'universo, i viventi, i vegetali, i minerali, e, addirittura, non solo le cose che si generano, ma anche « le co' Cfr. Timeo, 37 a; cfr. anche, ivi, 29 a. ' Su questo argomento si veda Reale, Platone ... , pp. 425-622. ' Cfr. Simposio, 205 b; Sofista, 219 b, 265 b, 266 b.
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se da cui derivano le cose che si generano »9 , ossia gli elementi (acqua, aria, terra e fuoco). Ma ecco come va inteso questo aspetto del pensiero platonico. L'essere è un «misto », e, di conseguenza, la creazione del Demiurgo è la creazione di un misto, ossia un far passare dal disordine all'ordine, perché l'essere è appunto questo ordinamento di un d1sordine (uni-ficazione di una molteplicità illimitata). Ma su questo punto Platone si spinge molto avanti, in una maniera veramente stupefacente. Anzi, come abbiamo già detto, procede di gran lunga più avanti rispetto a tutti i Greci a lui anteriori e posteriori, pur restando nella dimensione e/fenica. In effetti, si limita non solo a dire che il Demiurgo combina ndla mescolanza elementi precostituiti, ma addirittura afferma con precisione che egli costituisce i medesimi. In altri termini: il Demiurgo plasma sia gli elementi materiali da cui le cose derivano, sia quegli elementi formali che permettono di realizzare nel mondo sensibile il mondo ideale, e in questo modo attua il Bene (l'Uno) nel più elevato grado possibile, in particolare mediante i numeri e le strutture matematiche e geometriche, come abbiamo sopra mostrato. 6) Platone, come abbiamo visto, ha identificato il filosofo con il « dialettico », e ha definito dialettico colui che è capace di guardare la realtà in un'ottica sinottica, ossia chi è capace di vedere l'« intero», vale a dire di raccogliere insieme la pluralità nell'unità, i molti nell'uno. E proprio il concetto di dialettica ha avuto uno dei più cospicui sviluppi nella storia del pensiero occidentale, i quali se si spingono assai oltre gli orizzonti di Platone, soprattutto con Hegel (e con pensatori in vario modo da lui di' Sofista, 266 b.
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pendenti), hanno i presupposti e i precedenti proprio in Platone. In effetti, la diàlettica ha le sue origini nell'ambito del pensiero eleatico, soprattutto con Zenone, ma nell'ambito del pensiero antico raggiunge i suoi vertici proprio con Platone. Aristotele stesso, come vedremo, la ridurrà nell'ottica della sua logica. Ma essa riprenderà un più ampio respiro con i Neoplatonici, con interessanti e assai cospicui sviluppi, ma non con la grandiosa e pa,radigmatica linearità ed essenzialità che ha in Platone. Come abbiamo visto, al di sopra delle differenti interpretazioni che si possono dare della dialettica platonica, emerge la sua precisa fisionomia come fondata proprio sui Principi primi e supremi e sulla conseguente struttura bipolare del reale, ossia quel procedimento conoscitivo che è capace di raccogliere sinotticamente i molti (1toÀ.À.ci) in uno (Ev), e, parallelamente, di scomporre l'uno in molti, mediante una scansione diairetica, come abbiamo sopra spiegato e documentato. La dialettica con il procedimento sinottico e con quello diairetico diventa veramente, per Platone, la cifra suprema del pensare e il fondamento di ogni capacità e potenza dell'operare, e, in questo senso, anche la caratteristica essenziale dell'Intelletto divino e del suo operare 10 • 7) E precisamente in questo senso, l'« assimilazione a Dio » (Ò!J.OLW
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la conoscenza e la capacità di realizzare l'unità-nella-molteplicità, che Dio possiede in maniera paradigmatica. Ed è proprio questo guadagno in conoscenza, in potenza e in attività pratica, la linea di forza più significativa di tutto il pensiero platonico, in tutte le sue componenti, metafisiche, gnoseologiche, etico-religiose e politiche. Insomma, l'imitare Dio è H giungere a conoscere, come Lui, quale sia la Misura di tutte le cose, e, sempre come Lui, portarla praticamente in atto in tutte le cose. 8) La grandezza della concezione dell'uomo di Platone consiste nella grande prospettazione della natura dell'uomo a due dimensioni, materiale e spiritua•le. Ma a questo riguardo, le aporie in cui egli si dibatte sono cospicue, nella misura in cui contrappone in maniera dualistica esasperata anima e corpo (come non contrappone, invece, Idea a cosa: l'anima è la prigioniera del corpo, mentre l'Idea, lungi dall'essere prigioniera della cosa di cui è Idea, è causa, ragione e fondamento della cosa stessa) e vede nel corpo un male e una pura larva dell'uomo; concezione, questa, che porta ad eccessi di dgodsmo, che rasentano, a volte, il parossismo. Di più, alla scoperta, pure proclamata a livello intuitivo nel Pedone, che la vita è sacra e non può essere per alcuna ragione soppressa, poiché essa non è possesso nostro ma degli Dei, Platone viene meno nella Repubblica nel modo che abbiamo veduto, cioè proclamando la necessità di sopprimere i malformati, i malati cronici e inguaribili. Ammissione, questa, tanto più sconcertante, per il fatto che Platone non ha cessato di dirci che l'uomo è la sua anima e che i mali del corpo non intaccano l'anima. Ma l'assolutezza della vita umana è adeguatamente fondabile solo se la si connette direttamente all'Assoluto e la si aggancia ad esso: cosa, questa, che non riuscì a nessun Greco, per le ragioni che avremo modo più oltre di illustrare. 9) Un altro cospicuo guadagno di Platone sta nello stra-
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ordinario peso rivelativo che egli ha saputo dare alla Bellezza: il Bello, a suo avviso, è rivdativo del Vero addirittura in maniera eccezionale, perché è una « chiara immagine » dell'Intelligibile (del Bello in sé, e quindi del Bene, ossia del Principio di tutte le cose). Ma per capire bene Platone su questo punto, è necessario ricordare che per lui (e cosl sarà per i Neoplatonici) non è l'arte la via di accesso alla fruizione del Bello, ma è Eros (Eros in senso ellenico), e quindi l'erotica con la sua scala ascendente (è l'« amor platonico », per dirla con una espressione divenuta emblematica). Dunque, non l'arte ma l'erotica (l'« amor platonico ») implica un'esperienza conoscitiva, fondata su quella dimensione dello spirito umano, che proprio attraverso il Bello porta all'Assoluto. Ma c'è un altro punto fondamentale da comprendere, se si vuole bene intendere Platone nella trattazione di questa tematica. Il BeHo è l'unica delle Idee trascendenti accessibile, sl, tramite i sensi, ma solamente tramite quello che per lui è il più elevato, ossia tramite la vista, e non anche tramite l'udito, che pure è rivelatore del bello ad esempio della musica (con tutte le conseguenze che ne derivano). Su questo punto Platone è una espressione addirittura paradigmatica della civiltà ellenica, nell'ambito della quale il « vedere » ha avuto una netta e strutturale predominanza gerarchica sull'« udire », che, invece, ebbe preminenza neH'ambito di altre culture, come sopra abbiamo precisato. Questo ci fa ben comprendere la rilevanza straordinaria che per il Greco ebbero la forma e la figura (e quindi l'idea e l'eidos, che significano appunto forma e figura, e che in Platone raggiungono addirittura quello straordinario ruolo metafisica che ben conosciamo). In particolare, per il nostro filosofo, il Bene è l'Uno e la Misura suprema; e il Bello (cosl come il Bene) si esplica mediante numeri e misura, ossia come unità-nella-molteplicità; ed è appunto questo che nel bello sensibile noi «vediamo»: l'esplicarsi dell'unità nella
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molteplicità secondo ordine e armonia, che si manifestano a vari livelli e in varie maniere. Insomma, il Bello (prima sensibile, e poi intelligibile) è rivelativo del Bene, perché è rivelativo dell'Uno e del suo vario e molteplice esplicarsi al più alto livello. 10) Tutte le cose che abbiamo detto sono i frutti più significativi di quella che Platone ha chiamato la sua « seconda navigazione » e su cui ci siamo ampiamente soffermati, o che, con metafora altrettanto forte, ha chiamato anche « conversione» dell'anima, « liberazione dalle catene », come abbiamo visto. Possiamo, in conclusione, affermare che la platonica « se<:onda navigazione » costituisce una conquista che segna, in un certo senso, come abbiamo già rilevato all'inizio, la tappa più importante nella storia della metafisica. Infatti, tutto il pensiero occidentale sarà condizionato, in modo decisivo, proprio da questa distinzione, sia in quanto o nella misura in cui l'accetterà (e questo è ovvio), sia, anche, in quanto o nella misura in cui non l'accetterà; infatti, in quest'ultimo caso dovrà giustificare polemicamente la non accettazione di ta1e distinzione, e da questa polemica rimarrà pur sempre dialetticamente condizionato. È dopo la « seconda navigazione » platonica (e solo dopo di essa) che si può parlare di corporeo e incorporeo, sensibile e soprasensibile, empirico e metempirico, fisico e soprafisico. Ed è alla luce di queste categorie (e solo alla luce di queste categorie) che i Fis·ici anteriori risultano essere materiaHsti, e natura e cosmo fisico non risultano più la totalità delle cose che sono, ma solo la totalità delle cose che appaiono. La filosofia ha guadagnato il mondo intelligibile, la sfera delle realtà che non sono sensibili, ma solamente pensabili. Contro tutti i prede<:essori e contro molti contemporanei, Platone non s'è stancato, per tutta la vita, di ribadire questa sua fondamentale scoperta davvero rivoluzionaria:
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vi sono assai più cose di quante la vostra filosofia limitata alla dimensione del fisico non conosca! E proprio questo, a nostro avviso, è quel « possesso per il sempre » che Platone ha tramandato ai posteri. L'Occidente, per la prima volta, alla domanda «perché esiste l'essere e non piuttosto il nulla? », con Platone, ha saputo rispondere, e proprio in funz.ione della sua « seconda navigazione »: perché l'essere è un bene; e, in generale, le cose tutte esistono, perché sono un positivo, perché sono come è bene che siano, nel senso che abbiamo precisato. Il positivo, l'ordine e il Bene sono il fondo dell'essere.
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PARTE SECONDA
ARISTOTELE E LA SISTEMAZIONE DEL SAIPERE FIILOSOFICO
« \ntoÀ.t:1!-L~tivo1J.Ev 81) 'ltpw-rov p.Èv 'lttiV'tCl 'tÒV CToc:pÒv Wç E8ÉXE'tt:1~ ~.
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« Noi riteniamo, in primo luogo, che il sapiente conosca tutte le cose per quanto ciò è possibile ~. Aristotele, Metafisica, A 2, 982 a 8-9
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SEZIONE PRIMA
RAPPORTI FRA ARISTOTELE E PLATONE PROSECUZIONE DELLA « SECONDA NAVIGAZIONE»
« E( yE àtli~ov J.J.TJ!ttv ÈCT-cw, oùliÈ yÉvECTW liUV!l't6V ».
ELV!l~
« Se non ci fosse nulla di eterno, non potrebbe esserci neppure il divenire ». Aristotele, Metafisica, B 4, 999 b 5 sg.
« 'Ap~CT-co-cÉÀ.T]c; [ ..• ] 'YVTJCT~W't!l'toc; -cwv IIM.-cwvoc;
J.l.(lil-r)-cwv ». « Aristotele fu il più genuino dei discepoli di Platone ». Diogene Laerzio, v, l
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La foto che abbiamo riprodotto a p. 376 ritrae la testa-ritratto di Aristotele (che, nel suo modello, pare risalire a Lisippo o alla sua scuola, in un periodo in cui Aristotele era ancora in vita) conservato a Vienna nel Kunsthistorisches Museum. Allo stesso modello si rifà anche questa testa-rittatto, conservata nel Museo Nazionale delle Terme di Roma.
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I. PREMESSA CRITICA: IL METODO STORICO-GENETICO E
L'INTERPRETAZIONE MODERNA DEL PENSIERO ARISTOTELICO
Prima di parlare della Scuola di Platone e dei primi scolarchi dell'Accademia è opportuno, a nostro avviso, parlare di Aristotele 1 : infatti, non solo nella prima Accademia l'ere' Aristotele (come sappiamo dal cronografo Apollodoro, presso Diogene Laerzio, v, 9) nacque nel primo anno della XCIX Olimpiade, cioè nel 384/383 a.C., a Stagira, al confine macedone. La cittadina era stata già da moltissimo tempo colonizzata dagli Ioni e vi si parlava un dialetto ionico. Il padre di Aristotele, che aveva nome Nicomaco, era valente medico e fu al servizio del re Aminta di Macedonia (padre di Filippo il Macedone). ~ quindi da presumere che, almeno per un certo periodo di tempo, il giovane Aristotele con la famiglia abbia dimorato a Pella, dove era la reggia di Aminta, e che possa aver anche frequentato la corte. Se e fino a che punto Nicomaco abbia potuto insegnare al figlio l'arte medica non è possibile sapere, dato che egli morì quando Aristotele era ancora molto giovane. Con certezza sappiamo che, a diciotto anni, cioè nel 366/365, Aristotele venne ad Atene al fine di perfezionare la sua formazione spirituale e che entrò quasi subito nell'Accademia platonica. Fu certamente alla scuola di Platone che Aristotele maturò e consolidò la propria vocazione filosofica in modo definitivo, tant'è che rimase nell'Accademia per ben vent'anni, ossia fino a che Platone rimase in vita. Quale sia stato il ruolo preciso di Aristotele nell'ambito della Scuola platonica noi non sappiamo con precisione: certamente egli tenne lezioni di retorica, ma oltre queste dovettero essere fondamentali i contributi da lui dati nelle numerose discussioni intorno a tutto l'arco dei temi di cui si occupava l'Accademia (ed erano discussioni ingaggiate non solo con Platone e con Accademici, ma con tutti i più insigni personaggi di diversa formazione che furono ospiti dell'Accademia, a cominciare dal celebre scienziato Eudosso, il quale probabilmente, proprio nei primi anni in cui Aristotele frequentò l'Accademia, fu il personaggio più influente, essendo Platone, in quel periodo, in Sicilia). ~ certo che, nell'arco dei vent'anni passati nell'Accademia, che sono gli anni decisivi nella vita di un uomo, Aristotele acquisl i principi platonici nella loro
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ARISTOTELE E LA SISTEMAZIONE DEL SAPERE- FILOSOFICO
dità platonica non venne accresciuta, ma venne gravemente compromessa e sottoposta ad un vero e proprio smantellamento, con conseguenze, come vedremo, gravissime; Aristasostanza e li difese in alcuni scritti, e, insieme, li sottopose a stringenti critiche, tmtando di piegarli in nuove direzioni. (Non è certamente casuale che un giovanissimo Aristotele compaia come personaggio nel Parmenide platonico, dialogo che, come sappiamo, risponde già a certe critiche rivolte contro la teoria delle Idee: infatti alcune delle critiche alla teoria delle Idee che leggiamo nella Metafisica aristotelica ricordano analoghe critiche che si leggono nel Parmenide). Alla morte di Platone (347) quando ormai si avviava verso il « mezzo del cammin di nostra vita », Aristotele non si sentl di rimanere nell'Accademia, perché la direzione della Scuola era stata presa da Speusippo (il quale capeggiava la corrente più lontana da quelle che erano le convinzioni da lui maturate) e pertanto se ne andò da Atene e si recò in Asia Minore. Si aprl, in questo modo, una fase importantissima nella vita di Aristotele. Con un celebre compagno dell'Accademia, Senocrate, egli prese dimora dapprima ad Asso (che si trova sulla costa della Troade) dove fondò una Scuola insieme ai platonici Erasto e Corisco, che erano originari delIa città di Scepsi, ed erano divenuti consiglieri di Ermia, abile uomo politico, signore di Atarneo e di Asso. Ad Asso Aristotele rimase circa tre anni. Passò quindi a Mitilene nell'isola di Lesbo, probabilmente spinto da Teofrasto (destinato a diventare più tardi successore di Aristotele stesso), che era nato in una località della stessa isola. Sia la fase dell'insegnamento di Asso, sia la fase di Mitilene sono fondamentali: è probabile che ad Asso lo Stagirita abbia tenuto corsi sulle discipline più propriamente filosofiche, e che a Mitilene abbia fatto invece ricerche di scienze naturali inaugurando e consolidando quella preziosa collaborazione con Teofrasto, che tanta parte avrà nei destini del Peripato. Col 343/342 a. C. inizia un nuovo periodo nella vita di Aristotele. Filippo il Macedone lo chiama a corte e gli affida l'educazione del figlio Alessandro, cioè di quel personaggio destinato a rivoluzionare la storia greca, e che allora aveva tredici anni. Ricordiamo che già il padre di Aristotele era stato legato alla corte macedone, e che quindi Filippo poteva anche aver conosciuto da ragazzo Aristotele stesso, e che in ogni caso certamente Ermia, che aveva legato la sua politica a quella macedone, aveva parlato al sovrano di Aristotele in termini lusinghieri. Purtroppo sappiamo pochissimo dei rapporti spirituali che si stabilirono fra i due eccezionali personaggi (uno dei più grandi filosofi e uno dei più grandi uomini politici di tutti i tempi) che la sorte volle legare. ~ certo che, se Aristotele potè condividere l'idea di unificare le città greche sotto lo scettro macedone, non capi, in ogni caso, l'idea di ellenizzare i barbari e di parificarli con i Greci. Il genio politico del discepolo, in questo ambito, dischiuse prospettive storiche assai più nuove e più audaci di quelle che le categorie politiche del filosofo non permet-
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L'INTERPRETAZIONE MODERNA DEL PENSIERO ARISTOTELICO
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tele, per contro, dapprima come Accademico vero e proprio, poi come Accademico dissidente, infine come fondatore di una propria Scuola in antitesi con l'Accademia (con l'Accademia coressero di comprendere, dato che erano categorie sostanzialmente conservatrici e sotto un certo profilo anche retrive. Alla corte macedone Aristotele restò forse fino a quando Alessandro sall al trono, cioè fin verso il 336 (ma è anche possibile che dopo il 340 egli sia tornato a Stagira, essendo ormai Alessandro attivamente impegnato nella vita politica e militare). Finalmente, nel 335/334 Aristotele tornò ad Atene e prese in affitto alcuni edifici vicini ad un tempietto sacro ad Apollo Lido, donde venne il nome di « Liceo » dato alla Scuola. E poiché Aristotele impartiva i suoi insegnamenti passeggiando nel giardino annesso agli edifici, la Scuola fu detta anche « Peripato » (dal greco peripatos = passeggiata), e « Peripatetici » furono detti i suoi seguaci. Il Peripato si contrappose cosl all'Accademia, e, per un certo periodo di tempo, la eclissò interamente. Furono questi gli anni più fecondi nella produzione di Aristotele: gli anni che videro la grande sistemazione dei trattati filosofici e scientifici che ci sono pervenuti. Nel 323 a.C., morto Alessandro, ci fu in Atene una forte reazione antimacedone, nella quale fu coinvolto anche Aristotele, reo di essere stato maestro del grande sovrano (formalmente fu incriminato di empietà per aver scritto in onore di Ermia un carme che era invece degno di un dio). Per sfuggire ai nemici, si ritirò a Calcide, dove aveva dei beni materni, lasciando Teofrasto alla direzione del Peripato. Morl nel 322, dopo pochi mesi di esilio. Gli scritti di Aristotele, come è noto, si dividono in due grandi gruppi: gli essoterici (che erano composti per lo più in forma dialogica ed erano destinati al grosso pubblico), e gli scritti esoterici (che costituivano invece ad un tempo il frutto e la base dell'attività didattica di Aristotele e non erano destinati al pubblico, ma solo ai discepoli e quindi erano patrimonio esclusivo della scuola). Il primo gruppo di scritti è andato completamente perduto e non ci rimangono di essi che alcuni titoli e alcuni frammenti. Forse il primo scritto essoterico fu Il Grillo o Della Retorica (in cui Aristotele difendeva la posizione platonica contro Isocrate), mentre gli ultimi furono il Protrettico e Della filosofia. Altri scritti giovanili degni di menzione sono: Intorno alle Idee, Intorno al Bene, I'Eudemo o Dell'anima. Su tali opere oggi si è fissata particolarmente l'attenzione degli studiosi, e di esse si è riusciti a ricuperare un certo numero di frammenti. Altri scritti del primo periodo sono per noi solamente vuoti titoli. La più completa, accurata, informata ed equilibrata ricostruzione di questi scritti è stata data da E. Berti, La filosofia del primo Aristotele, Padova 1962: ivi il lettore troverà indicata e discussa tutta la letteratura concernente l'argomento. (Cfr. anche: M. Untersteiner, Aristotele. Della Filosofia, Roma 1963). Nel novero di queste opere, a nostro avviso, forse rientra anche il Trattato sul cosmo per Alessandro, che
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me era stata ridotta da Speusippo e da Senocrate), tentò una verifica sistematica del discorso platonico, pervenendo a risulAristotele scrisse probabilmente alla corte macedone (per il suo insegnamento all'insigne discepolo) con lo stesso stile elegante e il metodo usato nelle opere destinate al grosso pubblico (cfr. Reale, Aristotele, Trattato sul cosmo, Napoli [Loffredo] 1974). Per contro, ci è pervenuto il grosso delle opere di scuola, che trattano tutta la problematica filosofica e alcune branche delle scienze naturali. Ricordiamo in primo luogo le opere più propriamente filosofiche. Il Corpus aristotelicum, nell'ordinamento attuale, si apre con J'Organon, che è il titolo con cui, a partire dalla tarda antichità, è stato designato l'insieme dei trattati di logica, che sono: Categorie, De lnterpretatione, Analitici Primi, Analitici Secondi, Topici, Confutazioni Sofistiche. Seguono le opere di filosofia naturale e cioè: La Fisica, Il Cielo, La generazione e la corruzione, La Meteorologia. Connesse a queste sono le opere di psicologia costituite dal trattato Sull'anima e da un gruppo di opuscoli raccolti sotto il titolo di Parva naturalia. L'opera più famosa è costituita dai quattordici libri della Metafisica. Vengono quindi i trattati di filosofia morale e politica: l'Etica Nicomachea, la Grande Etica, l'Etica Ettdemia, la Politica. Infine sono da ricordare la Poetica e la Retorica. (Fra le opere riguardanti le scienze naturali ricorderemo l'imponente Storia degli animali, Le parti degli animali, Il moto degli animali, La generazione degli animali: sono opere che riguardano la storia della scienza più che la storia dei problemi filosofici). Per quanto concerne l'elenco di tutti i titoli delle opere aristoteliche tramandatici negli antichi cataloghi e i vari problemi ad essi connessi rimandiamo all'eccellente lavoro di P. Moraux, Les listes anciennes des ouvrages d'Aristate, Louvain 1951. Il complesso degli scritti aristotelici fu lasciato da Teofrasto in eredità a Neleo, figlio di quel Corisco cui Aristotele si era legato di profonda amicizia nel periodo di Asso. I discendenti di Neleo nascosero nella cantina della casa questi scritti, che ivi giacquero, fino a quando un bibliofilo di nome Apellicone (che militava nelle file di Mitridate) non li acquistò. Dalle mani di Apellicone essi passarono in quelle di Silla, che durante la prima guerra contro Mitridate li confiscò e li portò a Roma, dove si continuò il lavoro di trascrizione già iniziato da Apellicone. Finalmente Andronico di Rodi, intorno alla metà del I secolo a. C., riuscl ad approntare e pubblicare una edizione adeguata delle opere aristoteliche: Andronico era ormai il decimo successore di Aristotele nel Peripato (cfr. Strabone, XIII, 54, p. 608 e Plutarco, Vita di Silla, 26). E da allora in poi, dapprima attraverso i grandi commentatori greci, poi attraverso i filosofi arabi, poi attraverso i medievali e poi ancora attraverso i rinascimentali, queste opere divennero di gran lunga le più lette, meditate, commentate e ripensate fra tutte quelle !asciateci dall'antichità. La citazione delle opere di Aristotele viene fatta sulla base dell'edizione classica di L Bekker, Aristotelis Opera, Berlin 1831 (ristampa a cura di O. Gi-
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tati che sono, in molti casi, autentici « inveramenti » delle istanze platoniche. Già Diogene Laerzio scriveva che « Aristotele.fu il più genuino dei discepoli di Platone » 2 e il giudizio, a nostro avviso, contrariamente a quanto credono molti moderni, è esatto. Naturalmente si tratta di dare a « discepolo» e a« genuino» un significato corretto: genuino discepolo di un grande maestro non è certamente colui che ripete il maestro limitandosi a conservarne intatta la dottrina, ma colui che, muovendo dalle aporie del maestro, cerca di superarle nello spirito del maestro, oltre il maestro. E precisamente questo fece Aristotele nei confronti di Platone. Ma, prima di approfondire questo punto, occorre preliminarmente impostare e risolvere una questione di carattere metodologico e critico. Nel 1923 Werner Jaeger, in un'opera che sembrò sovvertire radicalmente l'impostazione che da secoli era stata data agli studi aristotelici 3 , sostenne la seguente tesi. Il metodo sistematico-unitario con cui si è sempre letto Aristotele è errato perché antistorico: non tien conto, cioè, della genesi storica e dello sviluppo del suo pensiero, che non è quel masso monolitico e compatto che si è creduto, ma procede da una posizione iniziale di platonismo, e prosegue con una critica sempre più serrata al platonismo e alle Idee trascendenti, per giungere ad una posizione metafisica imperniata sull'interesse per le forme e le entelechie imgon, Berlin 1960 sgg.); la lettera greca maiuscola indica il numero del libro (gli antichi dividevano le loro opere in libri), il numero arabico che subito segue indica il capitolo, mentre il numero successivo indica la pagina; le lettere a e b indicano le colonne, rispettivamente, di sinistra e di destra (dato che l'edizione Bekker presenta due colonne per pagina); infine i numeri successivi alle lettere indicano le righe cui si fa riferimento. Per la bibl. cfr. v, s.v. ' Diogene Laerzio, v, l. ' W. Jaeger, Aristate/es. Grundlegung einer Geschichte seiner Entwicklung, Berlin 1923 (trad. it. di G. Calogero: Aristotele. Prime linee di una storia della sua evoluzione spirituale, Firenze 1935, più volte ristampata).
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manenti e, infine, ad una posizione, se non di ripudio, almeno di disinteresse per la metafisica, a favore delle scienze empiriche e dei dati empiricamente accertati e classificati. Insomma, la stol'lia spirituale di Aristotele sarebbe la storia di una sconversione dal platonismo e dalla metafisica, e, quindi, di una conversione all'empirismo e al naturalismo. Ma, cosl formulata, la tesi non rivela ancora tutta la sua portata. Infatti, secondo lo Jaeger, espressione del momento platonico del pensiero di Aristotele non sarebbero solamente le opere essoteriche, che (come abbiamo visto nella nota biografica) furono composte e pubblicate quando Aristotele era ancora membro ufficiale dell'Accademia, ma altresì intere parti delle opere esoteriche. Queste opere, che come sappiamo costituivano il materiale di scuola di Aristotele, cioè il materiale che serviva per le lezioni e per i corsi, sarebbero state composte in fasi successive, già a partire dal periodo trascorso dal filosofo ad Asso. Esse sarebbero nate da alcuni nuclei originari, cui sarebbero venute via via ad aggiungersi parti sempre nuove, in cui lo Stagirita riprospettava i problemi da punti di vista nuovi. Pertanto, le opere di Aristotele che noi oggi leggiamo sarebbero nate da successive stratificazioni e non solo non avrebbero una unità letteraria, ma non avrebbero neppure una omogeneità speculativa, ossia una unità di carattere filosofico e dottrinario. Esse conterrebbero, infatti, prospettazioni di problemi e soluzioni risalenti a momenti dell'evoluzione del pensiero aristotelico non solo distanti fra loro quanto al tempo ma anche quanto all'ispirazione teoretica e quindi fra loro in contrasto e talora in netta contraddizione. In funzione di questa idea conduttrice lo Jaeger ricostrul alcune delle opere essoteriche sulla base di alcuni frammenti, smembrò le opere di scuola cercando di isolare le varie stratificazioni e venne cosl a delineare un Aristotele che da idealista platonico diventa alla fine empirista. L'abilità, l'ingegno e la cultura dello Jaeger garantirono al libro un successo
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grandissimo, tanto che alcuni non esitarono ad accoglierne le conclusioni come pressoché definitive. Senonché il metodo storico-genetico dello Jaeger, non appena venne applicato da altri studiosi, cominciò a dare risultati differenti rispetto a quelli cui egli era pervenuto e portò addirittura ad un capovolgimento del significato della presunta parabola evolutiva dello Stagirita. Nel corso di mezzo secolo, applicando il metodo genetico jaegeriano, s'è potuto dimostrare tutto e il contrario di tutto, e tutte le conclusioni tratte circa le stratificazioni e le evoluzioni delle opere di scuola sono state così ridotte a zero 4 • Non c'è dunque da stupirsi del fatto che le file dei seguaci del metodo jaegeriano stiano vieppiù assottigliandosi, e resistano soltanto in arroccamenti di provincia. Infatti il metodo genetico è destinato a fallire per i seguenti motivi. a) Le opere di scuola non furono mai concepite e scritte come libri da pubblicare, ma costituirono il sostrato dell'attività didattica e perciò non solo non sfuggirono mai dalle mani del loro autore, ma restarono sempre, per così dire, plastiche. b) Per conseguenza, è assurdo pensare di poter distinguere stratificazioni cronologicamente determinabili: i rimaneggiamenti successivi, cui senza dubbio esse furono sottoposte da parte del loro autore, non potevano lasciare tracce sicuramente riconoscibili, a causa appunto della plasticità del materiale. c) Il metodo storico-genetico, per essere davvero storico, dovrebbe costruire su dati di fatto incontrovertibili, su • Questo diciamo tenendo presenti proprio gli studiosi che non sono caduti in tesi estremistiche e paradossali, come ad esempio Ziircher nell'opera Aristate/es' Werk und Geist, Paderborn 1952 (di cui diamo ampiamente conto nel saggio: ]. Ziircher e zm tentativo di rivoluzione 1zel campo degli studi aristotelici, nel volume miscellaneo Aristotele nella critica e negli studi contemporanei, Milano 1956, pp. 108-143), il quale addirittura pretendeva che le opere aristoteliche come noi le leggiamo fossero per l'ottanta per cento rifacimenti di Teofrasto!
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date ben sicure e ben accertate; invece gli uni e le altre mancano completamente per quanto concerne le opere di scuola di Aristotele. d) Il metodo storico-genetico non risolve affatto le difficoltà che la lettura del Corpus aristotelicum pone, ma le moltiplica all'inverosimile. e) Cosl, in conclusione, si può dire che il metodo genetico non ha raggiunto quasi nessuno degli obiettivi che si riproponeva a proposito della interpretazione delle opere di scuola: ha promosso una grande rinascita di studi sullo Stagirita, ha dimostrato l'informalità letteraria di tali scritti, ha affinato enormemente le tecniche di ricerca e di esegesi dei testi, ma non ha saputo ricostruire quella « storia dell'evoluzione spirituale » del filosofo, cui mirava. f) È giusto, invece, riconoscere che il metodo inaugurato da J aeger ha dato ottimi risultati nella trattazione dei problemi di fondo che sollevano le opere essoteriche di Aristotele, di cui sì stanno ricuperando molti frammenti, talora consistenti. Ma anche i frammenti di queste opere non provano la tesi di Jaeger; provano, invece, che-già nel periodo trascorso nell'Accademia Aristotele venne maturando alcune delle conquiste, che poi nelle opere esoteriche ebbero tutto il loro risalto 5 •
In questa Storia della filosofia antica non potremo occuparci dei frammenti scoperti delle opere essoteriche (ciò potrebbe essere fatto solamente in sede di analisi monografica) 6 ; diremo tuttavia che, in esse, Aristotele rivela già, in nuce, la propria cifra spirituale; si rivela cioè come quel discepolo che ' Si veda, a questo proposito, soprattutto il volume del Berti, La filosofia del primo Aristotele, già citato, sopra, alla nota l. • Per una breve caratterizzazione dei principali di questi scritti si veda Reale, Introduzione a Aristotele, Laterza, Bari 1986', pp. 12 sgg. Si veda anche Reale, Aristotele, Trattato sul cosmo ... Per un approfondimento dei medesimi si veda anche l'ormai classica opera di E. Bignone, L'Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro, 2 voli., La Nuova Italia, Firenze 1936 (1973').
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ripensa e non ripete il maestro, e cerca di andare oltre lui, ma nello spirito di lui. Per quanto concerne, invece, le opere esoteriche, su cui fonderemo la nostra esposizione, noi assumeremo, come dato ormai riacquisito, dopo il fallito tentativo di intenderle in chiave genetka, la tesi che esse abbiano un senso unitario, quale che ne sia stata la genesi (cioè anche nel caso che parti di esse risalgano al periodo di Asso o addirittura dell'Accademia e che altre parti siano state da Aristotele fatte e rifatte in tempi successivi). Esse manifestano una unità di fondo e una omogeneità speculativa, che solo colui che le legge pretendendo a tutti i costi di scorgervi chimeriche parabole evolutive può negare. Del resto, come è stato ben detto di recente, nessun filosofo potrebbe essere compreso, se non si assumesse che egli è in ogni momento responsabile della sua opera, quando non abbia negato espressamente parte di essa 7 • Il modo con cui i seguaci del metodo storico-genetico interpretano Aristotele presuppone proprio la negazione di questo principio: negazione che, al limite, implica, a ben riflettere, la negazione che Aristotele ·sia un autentico filosofo 8 •
7 Cfr. P. Aubenque, Le problème de l'etre chez Aristate, Paris 1962, pp. 9 sg. • Per la giustificazione adeguata di quanto abbiamo asserito rimandiamo al nostro volume: Il concetto di filosofia prima e l'unità della Metafisica di Aristotele, Vita e Pensiero, Milano 19854 •
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Il. LE TANGENZE DI FONDO FRA PLATONE E ARISTOTELE: L'INVERAMENTO DELLA
«
SECONDA NAVIGAZIONE»
Non si può capire Aristotele se non iniziando con lo stabilire quale sia la precisa posizione che egli assunse, dal punto di vista metafisico e nell'ottica teoretica in generale, nei confronti di Platone. E, in effetti, quasi tutti gli storici della @osofia, anche anteriormente all'opera dello Jaeger, iniziavano l'esposizione del pensiero aristotelico con il tema: « critica di Aristotele alla teoria delle Idee ». Tuttavia, l'iniziare proprio da questo tema una esposizione di Aristotele, se da un certo punto di vista è veramente necessario, da un altro punto di vista può indurre in una serie di errori in cui molti studiosi sono caduti. In effetti, per mantenere il giusto equilibrio, è necessario articolare tale questione in maniera conveniente, sia sotto il profilo storico, sia sotto il profilo filosofico; ma questo, per una serie di ragioni, risulta difficile. In primo luogo, è necessario rendersi ben conto che le massicce e continue critiche che Aristotele muove a Platone, non sono rivolte solamente alla teoria delle Idee, bensì ed ambedue quelle che abbiamo visto essere le tappe della « seconda navigazione », ossia mirano, ad un tempo, sia contro la dottrina dei Principi, sia contro la teoria delle Idee. Anzi, in una certa misura, risultano perfino più frequenti le discussioni sulle tematiche protologiche connesse con la teoria dei Principi e su di essa fondate. Jaeger, nel
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suo primo libro su Aristotele \ aveva addirittura affermato che le critiche che lo Stagirita fa a Platone non si riferiscono alle dottrine dei dialoghi, bensì alle dottrine connesse alle lezioni che Platone teneva nell'Accademia (e, quindi, alle « Dottrine non scritte » ). Lo studioso tedesco, non ha, poi, approfondito questa tesi, ed ha imboccato altre vie, di cui sopra abbiamo riferito; ma, oggi, questa tesi risulta confermata pressoché per intero. Ebbene, la posizione che Aristotele assume nei confronti della dottrina dei Principi e della teoria delle Idee, se non viene considerata nelle sue assai articolate implicanze e nelle sue complesse conseguenze, potrebbe sembrare, almeno di primo acchito e stando alle apparenze polemiche, del tutto negativa, addirittura in maniera globale e categorica, mentre, in realtà, non è così, come vedremo. Inoltre, è necessario comprendere e adeguatamente rilevare che le pesanti critiche mosse dallo Stagirita contro la teoria delle Idee, se vengono isolate dal contesto della metafisica aristotelica e dal nuovo paradigma teoretico che essa propone e quindi interpretate al di fuori dei complessi nessi storici che le sorreggono, fanno cadere in un inevitabile errore di prospettiva (come a molti studiosi è accaduto), in quanto possono indurre a credere che Aristotele, respingendo la dottrina dei Principi e la teoria delle Idee, respinga altresì (e di conseguenza) la platonica « seconda navigazione » pressoché per intero. La verità risulta invece, oggettivamente, assai diversa. Aristotele ha, sì, criticato pesantemente la dottrina dei Principi e la teoria delle Idee, e negato che esistano il Principio dell'Uno-Bene e tutte le Idee o Forme trascendenti; tuttavia - e questo è il punto principale, che è indispensabile capire molto bene - con ciò egli non ha affatto inteso ' Cfr. Jaeger, Studien zur Entstehungsgeschichte der Metaphysik des Aristate/es, cit., p. 141; cfr., sopra, p. 363.
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negare che esistano alcune realtà soprasensrbili. Egli ha voluto dimostrare, invece, questo: la realtà soprasensibile non è quale Platone pensava che fosse (o, almeno, lo è solamente in parte e in un'ottica differente). Poiché, dunque, come abbiamo rilevato, questo è un punto veramente fondamentale, dobbiamo chiarirlo ulteriormente e puntualizzarlo. Nell'Uno-Bene trascendente Platone aveva indicato il Principio di tutta la realtà. Per contro, Aristotele ha negato l'esistenza dell'Uno-Bene trascendente; tuttavia, ha ribadito l'esistenza di una realtà trascendente in modo fermo e preciso. Anzi, proprio a questa realtà, concepita nel suo vertice supremo come Intelligenza suprema, e precisamente come Pensiero di Pensiero, ha attribuito una funzione generale di Principio come Motore immobile di tutte le cose, affermando espressamente che « da cosiffatto Principio dipendono il cielo e la natura » 2 , e quindi tutte le realtà. Nelle Idee soprasensibili, inoltre, Platone aveva indicato la « causa » delle cose sensibili. In quanto sono cause delle cose, le Idee hanno immanenti rapporti con le cose, e, ad un tempo, proprio per il loro statuto di cause metafisiche, sono altro dalle cose sens~bili, ossia sono meta-sensibili, trascendenti. In quale modo le Idee potessero essere, ad un tempo, immanenti e trascendenti, Platone, nei suoi scritti, non volle mai spiegarlo a fondo, tranne che, almeno in una certa misura, nei dialoghi dialettici, e in particolare nel Timeo 3 , la cui narrazione, però, venne intesa da Aristotele in un'ottica assai parziale e secondo le sue nuove categorie. In ogni caso, Platone non aveva interessi specifici e particolari per i fenomeni fisici come tali 4 • Egli si preoccupò assai più di in-
Metafisica, A 7, 1072 b 13 sg.: be 'tO~I1U'tTJt; f1p11 apxijç i]p"tTJ'tl1~ x11t i} cpucnç. ' Cfr. Reale, Platone ... , pp. 509-622 • Platone concepiva l'indagine dei fenomeni naturali e quindi le 2
o aòp11vòç
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dagare la struttura del mondo ideale come tale che non le sue specifiche relazioni con il sensibile, e in particolare le strutture di questo. E la maggior parte dei discepoli dell'Accademia impostarono le loro discussioni secondo l'angolatura e l'aspetto trascendente dei Principi e delle Idee, cercando di dedurre i nessi fondativi e cercando di stabilire come tutte le realtà si deducano dai Principi primi. In questo modo, essi finirono, in un certo senso, con il lasciare in ombra quei fenomeni e quel mondo fisico, per spiegare i quali i Principi e le Idee erano stati introdotti, e per i quali Aristotele nutriva massimo interesse. Per conseguenza, si spiega perfettamente l'energica reazione di Aristotele. Se i Principi e le Idee sono soprasensibili e trascendenti, allora essi non servono affatto a quello scopo per cui sono stati introdotti: essi, proprio in quanto trascendenti, non possono essere né causa dell'esistenza, né causa della conoscenza delle cose sensibili, perché la causa essendi et cagnoscendi delle cose deve essere nelle cose e non fuori di esse. Tutte le numerose critiche aristoteliche (che il lettore potrà vedere nel nostro commentario alla Metafisica 5 ) teoreticamente si riducono ad un nucleo fondamentale, che può riassumersi nel modo che segue: in luogo del Principio trascendente dell'Uno-Bene, bisognerà introdurre il Bene inteso come causa finale di tutta la realtà (come « ciò a cui ogni
scienze fisiche come strutturalmente legati alla narrazione mtttca (perché legati al divenire), come abbiamo già spiegato; e, pertanto, giudicava queste indagini come un gioco, anche se elevatissimo. Cfr. Reale, Platone ... , pp. 519-523. ' Cfr. G. Reale, Aristotele, La Metafisica, traduzione, introduzione e commento, 2 voli., Loffredo Editore, Napoli 1968 (1978'); si vedano soprattutto A 6 e A 9 con il commento (vol. l, pp. 174-182 e 189-212), nonché i libri M e N, passim, e larga parte del libro Z (di quest'opera abbiamo anche pubblicato una editio minor, presso l'Editore Rusconi, Milano 1978; 1984', ma senza il commentario, per il quale occorrerà riferirsi necessariamente all'roizione maggiore che abbiamo pubblicato presso Loffredo).
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cosa tende ») 6 ; in luogo delle Idee trascendenti bisognerà introdurre le Forme o essenze immanenti, intendendole come struttura intelligibile di tutto il reale, e del sensibile in modo particolare. Lasciamo da parte il problema se questa critica sia del tutto meritata da Platone, e quindi se colga completamente nel segno; ciò che ci interessa è, invece, una questione più importante: l'interpretazione del Bene nell'ottica della causa finale e l'immanentizzazione delle Idee, intese come forme inteUigibili dei sensibili, si può forse dire che significhino la rinuncia, da parte dello Stagirita, della convinzione della esistenza del soprasensibue? È proprio questo l'errore che molti hanno commesso, credendo, appunto, che le forme immanenti fossero l'unico succedaneo del soprasensibile in generale e delle Idee in particolare, mentre, in realtà, i succedanei della teoria dei Principi e delle Idee, in Aristotele, sono due dottrine fra loro ben distinte: l) una è quella a cui abbiamo già più volte fatto riferimento, ossia appunto la concezione della struttura intelligibile immanente del sensibile; 2) l'altra è, invece, una nuova e in un certo senso più alta concezione del soprasensibile, incentrata non sull'Intelligibtle trascendente, bensì sull'Intelligenza trascendente. Anticipando quanto dovremo a lungo discutere, possia mo dire che Aristotele giunse alla nuova concezione del soprasensibile, proprio a seguito della critica della teoria dei Principi e delle Idee trascendenti; infatti, ripensando la metafisica platonica in modo capillare, ne ha ricuperato largamente il messaggio sotto altro profilo. Ecco una mappa riassuntiva assai significativa. Dopo aver ridimostrato, in nuova ottica, la grande verità che Platone aveva guadagnato con la sua « seconda na' Etica Nicomachea, A l, 1094 a 3: [ ... ] -.&:yaMv, oiJ miv-.' Eq>~"taL. Cfr. anche Metafisica, A 7, 1072 b l ~gg.
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vigazione », ossia che il sensibile non esisterebbe, se non ci fosse il soprasensibile, Aristotele giunse ad individuare il soprasensibile nelle seguenti realtà: a) Dio o Motore immobile primo; h) realtà analoghe al Motore primo, ma a lui gerarchicamente inferiori; c) precisamente, realtà con struttura gerarchica, ossia realtà che sono una successiva all'altra (e quindi gerarchicamente inferiori una all'altra); d) anime intellettive che sono negli uomini. Il Motore primo è Pensiero che pensa se stesso; anche le altre supreme realtà sono Intelligenze; intelletto o pensiero che « vien dal di fuori » sono anche le anime razionali degli uomini 7 • Dunque, come dicevamo, alla concezione platonica del soprasensibile inteso prevalentemente come realtà intelligibile, Aristotele sostituisce una concezione del soprasensibile inteso prevalentemente come Intelligenza. In questo senso si può dire che in Aristotele, al limite, è possibile trovare perfino qualcosa di più che in Platone (almeno secondo un certo paradigma metafìsico), vale a dire una tendenza ad una maggiore coerenza e consistenza (e proprio negli ambiti dischiusi dalla « seconda navigazione ») che non in Platone: il soprasensibile in senso globale è il mondo della Intelligenza (il supremo Bene è la stessa suprema Intelligenza); il grande mondo delle Idee diventa la trama intelligibile del sensibile; il Principio materiale, da prevalente, scomposta e irrazionale necessità, diventa, in maniera più marcata (ma seguendo una linea già tracciata da Platone 8 ), potenzialità e anelito alla forma intelligibile, che sussiste solo in virtù della forma e per la forma. Dunque, i fenomeni acquistano più concretezza e sono « salva' Cfr. Reale, Platone ... , pp. 252-255. ' Cfr. Reale, Platone ... , pp. 534 s&.
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ti »: però sono salvati appunto nella forma; e l'intero universo (come vedremo) si presenta come una grandiosa scala che dalla forma ancorata alla materia sale via via, secondo piani gerarchicamente superiori l'uno all'altro, in maniera perfetta, fino alla più pura delle Forme immateriali che è l'Intelligenza 9 • Inoltre (e anche questo va ben rilevato, perché non viene solitamente compreso) si potrebbe addirittura dire che in Aristotele, dal punto di vista speculativo, c'è, in un certo senso teoretico, un platonismo più robusto e metafisicamente più fecondo che non negli altri Accademici di cui ci sono pervenute testimonianze, come vedremo in maniera dettagliata nel terzo volume. Eudosso, ad esempio, per risolvere i problemi• sollevati dal trascendentismo platonico, propose l'ipotesi della « mescolanza » delle Idee con le cose, contro la quale lo stesso Aristotele reagl violentemente. Speusippo eliminò le Idee, mantenendo solamente le realtà matematiche. Senocrate cercò di ricuperare ciò che si stava perdendo, ma con scarso successo (assumendo una tipica posizione di epigono). Pertanto, Aristotele, con la sua dottrina dell'Intelligenza trascendente, in un certo senso mostra di essere teoreticamente più platonico degli altri Accademici, perché, pur negando l'esistenza di un Principio primo inteso come impersonale Uno-Bene, lo riafferma appunto come Intelligenza suprema, raggiungendo vertici speculativi rispetto ai quali gli altri Accademici risultano essere decisamente al di sotto. Inoltre, anche con la teoria delle forme immanenti Aristotele rimane più platonico degli altri Platonici, per il motivo che, mentre nega la trascendenza delle Idee, mantiene il teorema platonico della priorità metafisica della forma, • Si veda il nostro commentario alla Metafisica, passim, e in particolare quello ai libri Z H 8-
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pur facendo della forma la trama intelligibile del sensibile in larga misura; e, inoltre, mantiene la fondamentale concezione eidetica, gravemente compromessa da alcuni esponenti dell'Accademia (in particolare da Speusippo), come avremo modo di vedere con ampiezza. In questa ottica, l'affermazione di Diogene Laerzio che Aristotele .fu il più genuino, ossia il più legittimo (yvr)O'LW't'a't'o<;) 10 dei discepoli di Platone, ci sembra veramente emblematica, e appunto in questo senso noi presenteremo la nostra interpretazione della filosofia dello Stagirita.
•• Diogene Laerzio, v, l. ar. sopra, p. 377, le epigrafi con cui abbiamo caratterizzato la Sezione prima, connettendo questa affermazione di Diogene con l'affermazione veramente emblematica di Aristotele: «se non ci fosse nulla di eterno, non potrebbe esserci neppure il divenire » (Metafisica, B 4, 999 h 5 sg.}.
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III. LE DIFFERENZE DI FONDO FRA ARISTOTELE E PLA
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Allora è chiaro in che senso abbiamo potuto affermare che Aristotele compie e perfeziona la platonica « seconda navigazione »: la scoperta del soprasensibile non solo viene mantenuta, ma viene fortemente potenziata. Le opposizioni fra Aristotele e Platone sono in altra direzione. In primo luogo, manca nel discepolo l'afflato mistico e religioso, cui l'ala poetica dava in Platone particolare risalto e risonanza e manca la connessa dimensione e tensione escatologica: ma tutto questo esula, in gran parte, dalla sfera propriamente filosofica e metafisica, o meglio è qualcosa che ad essa si aggiunge. A questo proposito, peraltro, è necessaria una precisazione. L'afflato mistico-religioso e le credenze escatologiche sui destini dell'anima sono ancora presenti, e addirittura con punte assai accese, nel primo Aristotele, vale a dire nelle opere essoteriche, mentre cadono quasi del tutto nelle opere esoteriche. Ecco ad esempio una esplicita testimonianza di Proclo al riguardo: E anche Aristotele approvò questo procedimento e, occupandosi dell'anima da un punto di vista fisico nella trattazione Sull'anima, non fece menzione né della discesa dell'anima né delle sue sorti, ma nelle opere dialogiche [cioè negli essoterici] trattò specificamente di queste questioni [ ... ] 1• 1
Proclo, In. Plat. Tim., 338 c-d ( = Aristotele, Eudemo, fr. 4 Ross). La
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LE DIFFERENZE DI FONDO FRA ARISTOTELE E PLATONE
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Ed ecco quanto, ulter,iormente, il medesimo autore ci riferisce: Parla altresl il divino Aristotele della causa per la quale l'anima dall'aldilà venendo in questo mondo, dimentica le visioni che ha contemplato nell'aldilà mentre poi, andando via da questo mondo, ricorda nell'aldilà le esperienze e le passioni provate in questo mondo; e bisogna accettare il ragionamento. Dice infatti ancora che coloro che dalla salute passano alla malattia dimenticano persino di aver imparato a leggere e a scrivere, mentre a nessuno, passando al contrario dalla malattia alla salute, capitò mai di subire una cosa del genere. lnvero per le anime la vita senza il corpo, che è quella conforme alla loro natura, assomiglia alla salute, mentre la vita entro un corpo, che è quella contraria alla loro natura, alla malattia. Nell'aldilà, infatti, le anime vivono conformemente alla loro natura, in questo mondo contrariamente alla loro natura. Cosicché verisimilmente accade che esse, venendo dall'aldilà, dimentichino le cose dell'aldilà, mentre invece, andando via da questo mondo nell'aldilà, ricordino le cose accadute loro qui 2 • Nel Protrettico, poi, Aristotele, andando perfino oltre Platone, assimilava il corpo non solo alla tomba dell'anima, ma addirittura ad un orrendo supplizio dell'anima: E deriva altresl che sia vero ciò che si trova presso Aristotele, e cioè che noi siamo soggetti a un supplizio analogo a quello di coloro che in altri tempi, quando cadevanç> nelle mani dei pirati Etruschi, erano uccisi con meditata crudeltà: i loro corpi ancor vivi erano infatti congiunti a cadaveri facendo combaciare con la massima esattezza possibile fronte a fronte le varie parti. Cosl le nostre anime sono riunite con i corpi, come i vivi sono congiunti con i morti 3 • Ebbene, è esattamente questa componente mistico-religioso-escatologica che, nell'evoluzione del pensiero aristatetraduzione dei frammenti degli essoterici che riportiamo è di G. Giannantoni, in Aristotele, Opere, Laterza, Bari 1973. 2 Proclo, In Plat. Remp., 11, p. 349, 13-26 Kroll ( = Aristotele, Eudemo, fr. 5 Ross). 3 Agostino, Contr. ]ulian. Pelag., IV, 15, 78 ( = Aristotele, Protrettico, fr. 10 b Ross).
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lico, è lasciata cadere: ma, come abbiamo veduto, si tratta di quella componente platonica che affonda le sue radici nella religione orfica e che si alimenta più di fede che di antologia e di dialettica. E lasciando cadere questa componente negli esoterici, Aristotele ha indubbiamente inteso procedere ad una rigorizzazione del discorso puramente teoretico, cercando di tener ben distinto ciò che si fonda solo sul logos da ciò che si fonda su credenze religiose. Una seconda differenza di fondo fra Platone e Aristotele sta in questo: Platone ebbe interesse per le scienze matematiche ma non per le scienze empiriche (eccezion fatta per la medicina), e, in generale, egli non ebbe alcun interesse per i fenomeni empirici per sé considerati; Aristotele, invece, ebbe grandissimo interesse per quasi tutte le scienze empiriche (e scarso amore per le matematiche) e per i fenomeni anche considerati in quanto tali, ossia come puri fenomeni, e quindi si appassionò altresì nella raccolta e nella classificazione dei dati empirici, anche al di qua della loro considerazione in funzione di categorie filosofiche. Ma, a ben vedere, questa componente, che è assente in Platone e presente in Aristotele, non deve trarre in inganno: essa prova soltanto che Aristotele aveva, oltre che interessi puramente speculativi, anche interessi per le scienze empiriche che il maestro non aveva, e quindi differenzia, sì, maestro e discepolo, ma dal punto di vista antropologico, e non necessariamente dal punto di vista speculativo. I dotti dell'Umanesimo e del Rinascimento (e poi molti studiosi moderni) caddero proprio in questo equivoco. Il dipinto di Raffaello raffigurante la Scuola di Atene offre una splendida rappresentazione visiva di questa interpretazione, effigiando Platone con la- mano indicante il cielo, ossia il trascendente, e Aristotele invece con la mano indicante la terra, ossia l'empirica e immanente sfera dei fenomeni. In realtà vedremo essere vero esattamente l'opposto: Aristotele, malgrado tutto l'amore che ebbe per i fe-
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nomeni, non si stancò di ripetere che, dal punto di vista speculativo, essi si « salvano » solo con il metafenomenico, solo se messi in relazione con una causa immateriale, immobile e trascendente 4 • Potremmo brevemente riassumere le differenze fin qui rilevate in questo modo: Platone, oltre che filosofo, è anche un mistico (e un poeta); Aristotele, invece, oltre che filosofo è anche uno scienziato. Tuttavia questo plus di segno opposto che differenzia marcatamente i due uomini, li differenzia appunto nei loro interessi umani extrafilosofici, per cosl dire, e non già nel nucleo speculativo del loro pensiero. Infine, un'ultima differenza va rilevata. L'ironia e la maieutica socratiche, fondendosi con una forza poetica di eccezione, hanno dato origine in Platone ad un discorso sempre aperto, ad un filosofare come ricercare senza posa. L'opposto spirito scientifico di Aristotele doveva necessariamente portare a una sistemazione organica delle varie acquisizioni, ad una distinzione dei temi e dei problemi secondo la loro natura ed anche ad una differenziazione dei metodi con cui si affrontano e risolvono i diversi tipi di problemi. E così alla platonica mobilissima spirale che tendeva a coinvolgere e a congiungere insieme sempre tutti i problemi doveva succedere una sistemazione stabile e una volta per tutte fissata dei quadri della problematica del sapere filosofico (e saranno proprio i quadri che segneranno le vie maestre sulle quali correrà tutta la successiva problematica del sapere filosofico: metafisica, fisica, psicologia, etica, politica, estetica, logica). Ma, anche sotto questo rispetto, la differenza è assai meno radicale di quanto di primo acchito possa sembrare. Infatti Platone fu costretto dallo stesso peso delle sue scoperte a • È significativo il fatto che opere come la Fisica, Il Cielo, La generazione e la corruzione, Il movimento degli animali, facciano capo al Motore immobile come a ragione ultima dei vari fenomeni naturali da esse trattati.
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fissare, se non dogmi, almeno punti fermi e a sacrificare la mobilità della sua poesia al rigore incalzante del logos, e quindi a mitigare alquanto la tensione aporetica. E Aristotele stesso, dal canto suo, ave lo si legga in modo adegiiato, non solo non elimina l'aporia, ma la istituzionalizza, per cosi dire, e proclama la coscienza dell'aporia una condizione necessaria per l'accesso alla verità: l'aporia è come un nodo e la soluzione di essa è come lo scioglimento del nodo e il nodo non lo può sciogliere se non chi lo conosce o lo riconosce come tale. Anche qui, dunque, le differenze sono state ingigantite da un'ottica errata: non si è sempre tenuto in debito conto che il diversissimo modo in cui i due filosofi esprimono ,i loro pensieri (l'uno avvalendosi del mobile dialogo condotto oltre che dal logos dalla forza della poesia, l'altro avvalendosi di un asciutto e addirittura arido discorso denso di concetti) spesso può far apparire (o fa effettivamente apparire) quei pensieri più diversi di quanto non siano oppure semplicemente diversi anche quando non lo sono. In conclusione, i rapporti fra Platone e Aristotele non sono di antitesi: sono invece, per usare una terminologia hegeliana che qui si attaglia in modo perfetto, come già sopra abbiamo detto, rapporti tali che portano il discepolo ad un superamento del maestro, che è inveramento della sua conquista di fondo. E oltre all'inveramento in Aristotele c'è anche un completamento, che porta a quella sistemazione del sapere filosofico di cui s'è già fatto cenno, dalla quale emergeranno i quadri del sapere filosofico che sorreggeranno la speculazione occidentale per interi secoli.
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SEZIONE SECONDA
LA METAFISICA E LE SCIENZE TEORETICHE
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« Le scienze teoretiche sono di gran lunga pre/eribili
alle altre scienze, e, questa (la metafisica), a sua volta, è di gran lunga preferibile alle altre scienze teoretiche ».
Aristotele, Metafisica, E l, 1026 a 22 sg.
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ARISTOTELIS MET APHYSICA RECOGNOVIT BR.EVIQUE ADNOTATIONE CRITICA INSTRUXIT
vV.
J AEGER
OXONII E TYPOGRAPHEO CLARENDONIANO
È il frontespizio della più recente e celebre edizione critica della Metafisica di Aristotele, che Werner Jaeger ha pubblicato nell957 nella celebre «Scriptorum Classicorum Bibliotheca Oxoniensis».
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l. LA METAFISICA
l.
Concetto e caratteristiche della metafisica
Aristotele ha distinto le scienze in tre grandi branche: a) scienze teoretiche, cioè scienze che ricercano il sapere per se medesimo, b) scienze pratiche, cioè scienze che ricercano il sapere per raggiungere attraverso esso la perfezione morale e c) scienze poietiche o produttive, vale a dire scienze cht: ricercano il sapere in vista del fare, cioè allo scopo di produrre determinati oggetti. Le più alte per dignità e valore sono le prime, che sono costituite dalla metafisica, dalla fisica (in cui è inclusa anche la psicologia) e dalla matematica 1• Dalle scienze teoretiche e, anzi, dalla più alta di esse converrà iniziare la nostra esposizione, giacché è da essa e iri funzione di essa che tutte le altre scienze acquistano il giusto significato prospettico. Che cos'è la metafisica? Iniziamo con un chiarimento del termine. :B noto che « metafisica » non è termine aristotelico (forse è stato coniato dai Peripatetid, se non è addirittura nato in occasione della edizione delle opere di Aristotele fatta da Andronico di Rodi nel primo secolo a. C.) 2 • Aristotele usava, per lo più, la espressione filosofia prima o anche teologia in opposizione
' Cfr. Metafisica, E l, passim. ' Cfr. Reale, Aristotele, La Metafisica, vol. 1, pp. 3 sgg. e le indicazioni bibliografiche date ivi. Da questa nostra traduzione desumiamo tutti i passi che riportiamo nel corso di questo capitolo e dei successivi.
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ARISTOTELE E LA SISTEMAZIONE DEL SAPERE FILOSOFICO
alla filosofia seconda o fisica, ma il termine metafisica è certamente più pregnante, o meglio fu sentito come più pregnante e fu preferito dalla posterità e, cosl, fu definitivamente consacrato. La metafisica aristotelica è infatti, come subito vedremo, la scienza che si occupa delle realtà che stanno al di sopra di quelle fisiche, delle realtà trans-fisiche o sopra-fisiche, e, come tale, si oppone alla fisica. E metafisica fu denominato definitivamente e costantemente, sulla scorta di quello aristotelico, ogni tentativo del pensiero umano di sorpassare il mondo empirico per raggiungere una realtà metempirica. Premesso questo chiarimento di carattere generale, dobbiamo caratterizzare in maniera puntuale le precise valenze che Aristotele diede a quella scienza che egli chiamò « filosofia prima » e i posteri « metafisica ». Le definizioni che il filosofo diede di essa sono ben quattro: a) la metafisica indaga le cause e i principi primi o supremi 3, b) la metafisica indaga l'essere in quanto essere 4, c) la metafisica indaga la sostanza 5 , d) la metafisica indaga Dio e la sostanza soprasensibile 6 • Chi ci ha fin qui seguito non faticherà a comprendere il senso sia storico sia teoretico delle quattro definizioni della metafisica: esse danno forma ed espressione perfetta precisamente a quelle linee di forza secondo cui si era sviluppata tutta la precedente speculazione da Talete a Platone, linee di forza che ora Aristotele riunisce in una potente sintesi. a) In primo luogo: tutti i filosofi della natura monisti non altro ricercarono che l'arché, cioè il principio o la causa prima; le cause e i principi primi ricercarono anche i Fisici pluralisti e le « cause vere » ricercò lo stesso Pla-
3 Cfr. soprattutto Metafisica, libri A, a, B. • Cfr. specialmente Metafisica, libro r (nonché i libri E 2-4; K 3). • Cfr_ soprattutto Metafisica, Z, H, 0, passim. • Cfr. soprattutto Metafisica, E l e tutto il libro A.
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LA METAFISICA
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tone con la sua teoria delle Idee: pertanto, la determinazione aristotelica della metafisica come « aitiologia » o « eziologia » (ricerca di cause e principi) è perfettamente in linea con tutto quanto il pensiero precedente. b) In secondo luogo, Parmenide e la sua Scuola indagarono l'essere, il puro essere, e Platone, sviluppando l'istanza eleatica, costrul tutta un'antologia (delle Idee) assai elaborata (senza contare che la stessa dottrina della physis è una dottrina dell'essere o una antologia, perché la physis è la vera realtà, cioè il vero essere}: pertanto, la determinazione della metafisica come «antologia» era inevitabile. c) Anche la terza determinazione della metafisica (che potremmo chiamare « usiologia ») si spiega bene: una volta superato il monismo eleatico e accertato che esistono molti esseri, diverse forme e diversi generi di realtà, era necessario che si stabilisse quale fosse l'essere fondamentale, quale fosse l'ousfa o sostanza, ossia era necessario che si stabilisse quali cose dovessero considerarsi « essere » nel senso più forte e più vero della parola (ousia o sostanza indica appunto l'essere più vero). d) Da ultimo, anche la determinazione della metafisica come « teologia » si spiega perfettamente: abbiamo visto che tutti i Naturalisti indicarono come Dio (o come il Divino) i loro principi; la stessa cosa, a un più alto livello, fece Platone identificando il Divino con le Idee, e la stessa cosa non poteva non fare anche Aristotele. Ma non solo - si noti - le quattro definizioni aristoteliche di metafisica sono in armonia con la tradizione speculativa che precede lo Stagirita, ma sono anche perfettamente in armonia fra di loro: l'una porta strutturalmente all'altra e alle altre e ciascuna a tutte le altre, in perfetta unità 7 • 7 Per la precisa documentazione di questi punti e di quanto diciamo in tutto il corso del paragrafo, cfr. Reale, Il concetto di filosofia prima ... , passim.
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ARISTOTELE E LA SISTEMAZIONE DEL SAPERE FILOSOFICO
Vediamo da vicino. Chi fa ricerca delle cause e dei principi primi di necessità deve incontrare Dio: Dio è, infatti, la causa e il principio primo per eccellenza; dunque, la ricerca aitiologica sbocca strutturalmente nella teologia. Ma anche partendo dalle altre definizioni si perviene alle identiche conclusioni: chiedersi che cosa sia l'essere vuoi dire chiedersi se esista soltanto l'essere sensibile o anche un essere so prasensibile e divino (essere teologico). E, ancora, il problema « che cos'è la sostanza » implica anche il problema «quali tipi di sostanze esistano», se solo le sensibili oppure anche le soprasensibili e divine, quindi il problema teologico. In base a questo, ben si comprende come Aristotele abbia senz'altro utilizzato il termine teologia per indicare la metafisica, in quanto alla dimensione teologica portano, strutturalmente, le tre altre. La ricerca di Dio non è solo un momento dell'indagine metafisica, ma è il momento essenziale e definitorio. Lo Stagirita, del resto, dice, con tutta chiarezza, che se non ci fosse una sostanza soprasensibile non ci sarebbe nemmeno una metafisica: Se non sussistesse altra sostanza oltre quelle sensibili, la fisica sarebbe la prima scienza 8 • E si capisce bene per quale ragione: se non ci fosse il soprasensibile, le cause e i principi sarebbero solo quelli sensibili, ossia quelli fisici; se non ci fosse l'essere soprasensibile, tutto l'essere si ridurrebbe all'essere naturale, cioè fisico; se non ci fossero sostanze soprasensibili, esisterebbero solamente sostanze naturali, cioè fisiche. Insomma: se non ci fosse una realtà soprasensibile, non resterebbero se non natura e cause naturali e la più alta scienza sarebbe non altra che quella della natura e delle cause naturali, cioè la fisica. • Cfr. Metafisica, E l, 1026 a 27-29 e K 7, 1064 b 9- 14.
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LA METAFISICA
Dalla « seconda navigazione » platonica è dunque nata, fondamentalmente, la nuova scienza, che, come quella che vuoi raggiungere la sostanza o l'essere soprafisico, di fatto e di diritto merita l'appellativo di meta-fisica 9 • Abbiamo detto sopra che le scienze teoretiche sono superiori a quelle pratiche e a quelle produttive e che, a sua volta, la metafisica è superiore alle altre due scienze teoretiche. La metafisica è la scienza assolutamente prima, la più alta e la più sublime 10 • Ma a che serve?, si domanderà qualcuno. Porsi questa domanda significa porsi dal punto di vista antitetico a quello di Aristotele. La metafisica è la più alta scienza, egli dice, proprio perché non è legata alle necessità materiali. La metafisica non è una scienza che sia diretta a scopi pratici o empirici. Le scienze che hanno tali scopi sono a questi asservite, non valgono in sé e per sé, ma solamente nella misura in cui mandano ad effetto quelli. Invece la metafisica è scienza che vale • Se anche non è di conio aristotelico, il termine è tuttavia, nello spirito, perfettamente aristotelico. In Metafisica, r 3, 1005 a 33 sg. Aristotele qualifica colui che si occupa di tale conoscenza come << qualcuno che è ancor al di sopra del fisico>> ('tOV cpucnxov 't~ç civw'tÉpw), in quanto il fisico si occupa della natura, la quale costituisce solamente un genere dell'essere (mentre al di sopra di questo esiste un altro genere di essere). Si veda anche Metafisica A 8, passim (dove sono criticati i Fisici, appunto a motivo del fatto che essi ammisero solo un genere dell'essere); E l e A passim. 1° Cfr. Metafisica, E l, 1026 a 18-23: «Tre sono di conseguenza le branche della filosofia teoretica: la matematica, la fisica e la teologia [ metafisica]. Non è dubbio, infatti, che se mai il divino esiste, esiste in una realtà di quel tipo. E non è dubbio, anche, che la scienza più alta deve avere come oggetto il genere più alto di realtà. E mentre le scienze teoretiche sono di gran lunga preferibili alle altre scienze, questa è, a sua volta, di gran lunga preferibile alle altre due scienze teoretiche »; A 2, 983 a 4-10: «Essa [la metafisica], infatti, fra tutte le scienze è la più divina e più degna di onore. Ma una scienza può essere divina solo in questi due sensi: o percM essa è scienza che Dio possiede in grado supremo, o, anche, perchl! essa ha come oggetto le cose divine. Ora solo la sapienza [ metafisica] possiede ambedue questi caratteri: infatti, è convinzione a tutti comune che Dio sia una causa e un principio, e, anche, che Dio, o esclusivamente o in grado supremo, abbia questo tipo di scienza ».
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in sé e per sé, perché ha in se medesima il suo scopo, e in tal senso è scienza « libera » per eccellenza 11 • Ma, si obietterà, come mai nasce, e quale è la sua ragion d'essere? La metafisica, risponde Aristotele, nasce non da altro che dalla meraviglia e dallo stupore che l'uomo prova di fronte alle cose: nasce, perciò, da un puro amore di sapere, nasce da quel bisogno, che è radicato nella natura dell'uomo, di conoscere il perché ultimo; infatti, a prescindere da qualsiasi vantaggio pratico che tale sapere può arrecare, l'uomo lo ama solo per se medesimo. La metafisica è, dunque, scienza tesa ad appagare non altro che questa umana esigenza del puro conoscere. E, questa, è la più vera ed autentica difesa e giustificazione della metafisica e con essa della filosofia in genere, almeno della filosofia classicamente intesa, che, come si è puntualmente veduto già nel corso del precedente volume, è filosofia puramente speculativa, ossia contemplativa. Sono chiare, ora, tutte le ragioni per cui - come già abbiamo detto - Aristotele ha chiamato la metafisica scienza « divina ». Dio non può avere se non questo tipo di scienza che ha in se medesima il suo unico scopo. Dio la possiede interamente, perfettamente e continuativamente; noi, invece, parzialmente, imperfettamente, e in modo discontinuo. Ma, sia pure entro questi limiti, l'uomo ha un punto di contatto con Dio. L'uomo che fa metafisica si avvicina dunque a Dio e, in questo, Aristotele ha additato la massima felicità dell'uomo. Dio è beato conoscendo e contemplando se medesimo; l'uomo è beato conoscendo e contemplando i principi supremi delle cose, e, quindi, Dio in primis et ante omnia. In questa conoscenza, l'uomo realizza perfettamente la sua natura e la sua essenza, che, appunto, consistono nella ragione e nell'in-
" Cfr. Metafisica, A 2, passim, anche per i concetti che seguono.
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telligenza. E, come vedremo nell'etica, realizza in questo modo anche la sua più autentica felicità. In tal senso, Aristotele ha potuto dire: Tutte le altre scienze saranno più necessarie per gli uomini, ma superiore a questa nessuna 12 • È una affermazione, questa, che può anche correttamente rovesciarsi in quest'altra: le altre scienze saranno più necessarie in funzione delle realizzazioni di particolari fini pratici e pragmatici, ma la metafisica resta in ogni caso la più necessaria, perché, in essa e con essa, l'uomo realizza la sua natura di essere razionale, la sua più alta areté, e appaga il più profondo, originario e imprescindibile bisogno che da questa sua natura scaturisce: il puro bisogno di sapere.
2.
Le quattro cause
Esaminate e chiarite le definizioni di metafisica dal punto di vista formale, passiamo ora ad enuclearne il contenuto. Abbiamo detto che la metafisica è, in primo luogo, presentata da Aristotele come ricerca delle cause prime. Dobbiamo pertanto stabilire quali e quante siano queste « cause». Aristotele ha precisato come le cause debbano necessariamente essere finite quanto al numero, ed ha stabilito che, per quanto riguarda il mondo del divenire, si riducono alle seguenti quattro (già intravviste - sia pur confusamente -, a suo dire, dai suoi predecessori): l) causa formale, 2) causa materiale, 3) causa efficiente e 4) causa finale 13 • Le prime due non sono altro che la forma o essenza e la materia, che costituiscono tutte quante le cose, e di cui dovremo parlare con maggior ampiezza più avanti. (Si ricordi 12 Metafisica, A 2, 983 a 10 sg. " Metafisica, A 3-10.
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che « causa » e « principio », per Aristotele, significano ciò che fonda, ciò che condiziona, ciò che struttura) 14 • Ora si badi: materia e forma, se consideriamo l'essere delle cose staticamente, bastano a spiegarlo; se, invece, lo consideriamo dinamicamente, cioè nel suo svolgimento, nel suo divenire, nel suo prodursi e nel suo corrompersi, allora non bastano più. È evidente, infatti, che, se consideriamo ad esempio un dato uomo staticamente, egli si riduce non ad altro che alla sua materia (carne ed ossa) e alla sua forma (anima); ma se lo consideriamo dinamicamente e domandiamo: « come mai è nato », « chi lo ha generato », « perché si sviluppa e cresce », allora occorrono due ulteriori ragioni o cause: la causa efficiente o motrice, cioè il padre che lo ha generato, e la causa finale, ossia il telos o lo scopo cui tende il divenire dell'uomo. Esaminiamo, in breve, ciascuna di queste quattro cause. l) La causa formale è, come abbiamo detto, la forma o essenza (dooc;, 'tÒ 'tC Tiv EtvaL) delle cose: l'anima per gli animali, quei dati rapporti formali per le diverse figu·re geometriche (per la circonferenza, ad esempio, il preciso luogo dei punti equidistanti da un punto detto centro), una determinata struttura per i diversi oggetti dell'arte, e così di seguito. 2) La causa materiale o materia (i.J)..T)) è il « ciò di cui » ('tò Èç où, id ex quo) è fatta una cosa: per esempio, la materia degli animali sono la carne e le ossa, la materia della sfera di bronzo è il bronzo, della tazza d'oro è l'oro, della statua di legno è il legno, della casa sono i mattoni e la calce, e così di seguito. 3) La causa efficiente o motrice è ciò da cui provengono il mutamento e il movimento delle cose: il padre è causa efficiente del figlio, la volontà è causa efficiente di varie azioni ,. Cfr. Reale, Il concetto di filosofia prima ... , pp. 34 sgg.
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LA METAFISICA
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dell'uomo, il colpo che imprimo a questa palla è causa efficiente del movimento di questa palla, e cosl via. 4) La causa finale costituisce il fine o lo scopo delle cose e delle azioni; essa costituisce ciò in vista di cui o in funzione di cui (Tò où ~vexa., id cuius gratia) ogni cosa è o diviene; e questo, dice Aristotele, è il bene ( &yoc&6v) di ciascuna cosa. L'essere e il divenire delle cose, dunque, richiedono in generale queste quattro cause. Sono queste le cause prossime; ma, oltre queste, occorrono le ulteriori cause date dai movimenti dei cieli e la causa suprema del primo Motore Immobile, di cui diremo in seguito 15 •
3. L'e s sere e i su o i significa t i e i l se n so d e li a formula «essere in quanto essere» Abbiamo visto che, oltre che come dottrina delle cause, la metafisica è definita da Aristotele come dottrina dell'« essere» o, anche, dell'« essere in quanto essere». Vediamo, pertanto, che cosa sia l'essere ( ov, dvoc~) e l'essere in quanto essere ( Cìv ov ), nel contesto della speculazione aristotelica. Che cos'è, dunque, l'essere? Parmenide e l'eleatismo avevano creduto che l'essere non potesse che essere assolutamente identico, ossia (in termini aristotelici) che non potesse che intendersi in un unico significato, cioè univocamente. Ora, l'univocità, nel caso particolare dell'essere, comporta anche l'unicità; e, infatti, attraverso Zenone, Melissa e la Scuola di Megara, l'eleatismo si cristallizzò nella dottrina dell'Essere-Uno con l'assorbimento integrale di tutta quanta la realtà in questo Essere-Uno, e portò all'immobilizzazione del Tutto. Ora Aristotele individua perfettamente la radice dell'errore degli Eleati e, in polemica con essi, formula il suo grande principio della
n
15
Cfr. Metafisica, A 4-5 e 6-8.
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ARISTOTELE E LA SISTEMAZIONE DEL SAPERE FILOSOFICO
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originaria molteplicità dei significati dell'essere che costituisce la base della sua antologia. L'essere non ha significato univoco, ma polivoco (l' ov non si dice p.ova.xwç, ma 1toÀ.À.a.xwç)
16.
A questo guadagno essenziale, secondo Aristotele, non seppero giungere, nonostante le loro critiche a Parmenide, né Platone né i Platonici. Platone e i Platonici tentarono, sì, una deduzione del molteplice; ma, nel far questo, restarono ancora vittime del presupposto eleatico; in particolare, essi intesero il loro Essere come genere trascendente, come universale sostanziale, sussistente in sé e per sé oltre le cose: per questo motivo doveva sfuggire ad essi il vero ricupero del molteplice e del divenire. E così i Platonici non poterono veramente superare Parmenide 17 , Ed ecco, allora, come puntualmente Aristotele caratterizza l'essere. a) Come s'è detto, l'essere non può intendersi univocamente al modo degli Eleati, né come genere trascendente o universale sostanziale al modo dei Platonici. b) L'essere esprime originariamente una « molteplicità » di significati. Non per questo, però, è un mero «omonimo», cioè un « equivoco ». Tra univocità e equivocità pura c'è una via di mezzo, e il caso dell'essere sta appunto in questa via di mezzo. Ecco il celebre passo in cui Aristotele enuncia questa sua dottrina: L'essere si dice in molteplici significati, ma sempre in riferimento ad una unità e ad una realtà determinata. L'essere, quinçli, non si dice per mera omonimia, ma nello stesso modo in cui diciamo « sano » tutto ciò che si riferisce alla salute: o in quanto la •• Cfr. Fisica, A 2-3. (Rimandiamo, per un approfondimento della questione, al nostro saggio: L'impossibilità di intendere univocamente l'essere e la tavola dei significati di esso secondo Aristotele, in « Rivista di filosofia neoscolastica », LVI [1964], pp. 289- 326). " Cfr. Metafisica, N 2, passim.
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conserva, o in quanto la produce, o in quanto ne è sintomo, o in quanto è in grado di riceverla; o anche nel modo in cui diciamo « medico » tutto ciò che si riferisce alla medicina: o in quanto possiede la medicina o in quanto ad essa è per natura ben disposto, o in quanto è opera della medicina; e potremmo addurre ancora altri esempi di cose che si dicono nello stesso modo di queste. Cosl, dunque, anche l'essere si dice in molti sensi, ma tutti in riferimento ad un unico principio [ ... ] 18 • Lasciamo, per ora, la questione dell'individuazione di questo principio e proseguiamo nella caratterizzazione generale del concetto di essere. c) L'essere, in conseguenza di quanto s'è stabilito, non potrà essere un « genere » e meno che mai una « specie ». Si tratta, dunque, di un concetto trans-generico oltre che transspecifico, vale a dire più ampio ed esteso del genere, oltre che della specie. I medievali diranno che è un concetto analogico, ma Aristotele non usa questo termine nei confronti dell'essere: lo si potrebbe certo usare, ma solo tenendo presente che l'analogicità dell'essere aristotelico è diversa dalla analogicità dell'essere medioevale e che essa è definita dalle caratteristiche ben precise che subito appresso spieghiamo. d) Se l'unità dell'essere non è una unità né di specie né di genere, che tipo di unità è? L'essere esprime significati diversi, ma aventi tutti una precisa relazione con un identico principio o una identica realtà, come bene illustrano gli esempi di « sano » e « medico », nel passo sopra letto. Dunque, le varie cose che sono dette « essere », esprimono, sl, sensi diversi dell'essere ma ad un tempo implicano tutte quante il riferimento a qualcosa di uno. e) Che cos'è questo qualcosa di uno? È la sostanza. Aristotele lo dice con tutta chiarezza a conclusione del passo che sopra abbiamo in parte già letto: Cosl, dunque, anche l'essere si dice in molti sensi, ma tutti " Metafisica,
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in riferimento ad un unico principio: alcune cose sono dette esseri perché sono sostanze, altre perché sono affezioni della sostanza, altre perché sono vie che portano alla sostanza, oppure perché corruzioni o privazioni o qualità o cause produttrici o generatrici sia della sostanza, sia di ciò che si riferisce alla sostanza, o perché negazioni di qualcuna di queste, ovvero della sostanza 19 •
In conclusione, il centro unificatore dei significati dell'essere è l'ousia, la sostanza. L'unità deriva, ai vari significati dell'essere, dal fatto di essere detti in relazione alla sostanza. Da tutto questo risulta chiaro che l'antologia aristotelica dovrà, sì, distinguere e precisare quali siano i vari significati dell'essere; ma essa non potrà ridursi affatto a mera fenomenologia o descrizione fenomenologica dei diversi significati dell'essere, perché i vari significati che fessere può assumere implicano tutti un riferimento fondamentale alla sostanza: tolta la sostanza sarebbero tolti tutti i significati dell'essere. Allora, è chiaro che l'antologia aristotelica dovrà, fondamentalmente, incentrarsi sulla sostanza che è quel principio in relazione al quale tutti gli altri significati sussistono. E in questo senso possiamo dire che l'antologia aristotelica è, fondamentalmente, una usiologia. Le precisazioni fatte devono mettere in guardia il lettore nell'interpretare la celebre formula «essere in quanto esset:e » (élv Ti ov). Questa formula non può significare un astratto uniforme e univoco ens generalissimum, come molti credono. Vedemmo, infatti, che l'essere non solo non è una specie ma neppure un genere, e che esprime un concetto transgenerico e transpecifico. Dunque, la formula « essere in quanto essere » non potrà che esprimere la molteplicità stessa dei significati dell'essere e la relazione che formalmente li lega e che fa sì, appunto, che ciascuno sia essere. Allora l'« essere in quanto essere » significherà la sostanza e tutto ciò •• Metafisica,
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che in molteplici modi si riferisce alla sostanza 20 • In ogni caso, resta fuori discussione che, per Aristotele, la formula « essere in quanto essere » perde ogni significato fuori del contesto del discorso sulla molteplicità dei significati dell'essere: chi ad essa attribuisce il senso di essere generalissimo o di puro essere, al di qua o al di sopra delle molteplici determinazioni dell'essere, resta vittima dell'arcaico modo di ragionare degli Eleati e tradisce completamente il significato della riforma aristotelica 21 •
4. La tavola aristotelica dei significati dell'essere e la sua struttura
Guadagnati il concetto di essere e il princ1p10 della originaria e strutturale molteplicità dei significati dell'essere, dobbiamo ora esaminare quanti e quali siano questi significati, dato che Aristotele traccia una precisa « tavola ». Ecco la numerazione e la delucidazione dei significati dell'essere 22 • a) L'essere si dice, da un lato, nel senso dell'accidente, ossia come essere accidentale o casuale ( òv xcn·c% aufl.~E~Yjx6ç ). Per esempio, quando diciamo «l'uomo è musico », oppure « il giusto è musico », indichiamo casi di essere accidentale: infatti l'essere musico non esprime l'essenza dell'uomo, ma 20 Cfr. il nostro saggio citato alla nota 16 e il nostro commentario ai libri f, E e K della Metafisica. " Per un approfondimento dei problemi si vedrà: J. Owens, The Doctrine of Being in the Aristotelian Metaphysics, Toronto 1963'. " Cfr. Metafisica, D. 7, E 2-4 e le ulteriori indicazioni che diamo nel nostro saggio citato alla nota 16 e la nostra Introduzione alla Metafisica, pp. 30 sgg. Ricordiamo che la prima messa a punto della tavola aristotelica dei significati dell'essere è stata fatta da F. Brentano in un'opera ormai classica: Von der mannigfachen Bedeutung des Seienden nach Aristoteles, Freiburg 1862; Darmstadt 19602 •
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solamente ciò che all'uomo accade di essere, un puro accadere, un mero accidente. b) Opposto all'essere accidentale è l'essere per sé (ov xai}' a\.rc6). Esso indica non ciò che è per altro, come l'essere accidentale, ma ciò che è essere per sé, cioè essenzialmente. Come esempio di ens per se Aristotele indica, per lo più, la sola sostanza; ma, talora, anche tutte le categorie: oltre la essenza o sostanza, la qualità, la quantità, la relazione, l'agire, il patire, il dove e il quando. In effetti (a differenza di quanto si verifica nella speculazione medievale) in Aristotele le categorie altre dalla sostanza sono qualcosa di assai più solido rispetto al puro accidentale (che esprime il puro fortuito), in quanto, sia pure subordinatamente alla sostanza, sono, come subito appresso vedremo, fondamento in secondo ordine degli altri significati dell'essere. c) Come terzo viene elencato il significato dell'essere come vero, cui viene contrapposto il significato del nonessere come falso. È, questo, l'essere che potremmo chiamare «logico»: infatti l'essere come vero indica l'essere del giudizio vero, mentre il non-essere come falso indica l'essere del giudizio falso. È, questo, un essere puramente mentale, ossia un essere che ha sussistenza solo nella ragione e nella mente che pensa. d) Ultimo elencato è il significato dell'essere come potenza e come atto. Diciamo, per esempio, che è veggente, sia chi ha la potenza di vedere, cioè chi può vedere (ossia colui che ha la capacità di vedere, ma, momentaneamente, poniamo, ha gli occhi chiusi), sia chi vede in atto; oppure diciamo che è sapiente, sia chi può fare uso del proprio sapere (per esempio chi sa l'aritmetica, ma non sta attualmente computando), quanto chi ne fa uso in atto. Analogamente, noi diciamo anche che è in atto una statua già scolpita, e che è invece in potenza il blocco di marmo che l'artefice sta scalpellando; e in questo stesso senso diciamo che è frumento la pianticella di frumento in
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erba, nel senso che è frumento in potenza, mentre della spiga matura diciamo che è frumento in atto. L'essere secondo la potenza e secondo l'atto, precisa Aristotele, si estende a tutti i significati dell'essere sopra distinti: ci può essere un essere accidentale in potenza ovvero in atto, ci può essere l'essere di un giudizio vero o falso in potenza ovvero in atto e, soprattutto, ci possono essere una potenza e un atto secondo ciascuna delle diverse categorie. (Ma di ciò diremo con più ampiezza un poco più avanti). La tavola dei significati dell'essere consta, dunque, di quattro significati. Ma sarebbe più esatto dire di quattro gruppi di significati. Già si è visto, infatti, implicitamente, ma lo espliciteremo subito più avanti, che l'essere non si intende in modo univoco neppure nell'ambito di ciascuno dei quattro significati. Per ridurre a schema le cose dette e per concludere, diremo che i significati dell'essere sono i seguenti quattro, ordinati procedendo dal significato più forte a quello più debole: a) h) c) d)
essere essere essere essere
secondo le diverse figure di categorie; secondo l'atto e la potenza; come vero e falso; come accidente o essere fortuito.
I significati del non-essere sono, invece, solamente tre: a) non-essere secondo le diverse figure di categorie; h) non-essere come potenza ( =non-essere-in-atto); c) non-essere come falso. L'essere accidentale non ha un corrispettivo non-essere, come hanno gli altri tre significati dell'essere, perché di per sé è già, per Aristotele, « qualcosa di vicino al non-essere » 23 , cioè quasi un non-essere. 23
Metafisica, E 2, 1026 b 21.
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5.
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Precisazioni sui significati dell'essere
Abbiamo notato, sopra, come i quattro significati dell'essere siano, in realtà, quattro gruppi di significati: infatti ciascuno di essi raggruppa, ulteriormente, significati simili, ma non identici, vale a dire non univoci ma analogici.
a) In primo luogo, le differenti figure di categorie non ridanno significati identici o univoci dell'essere; l'essere ridato da ciascuna « figura di categorie », in altri termini, costituisce un significato diverso da quello di ciascuna delle altre. Di conseguenza, l'espressione « l'essere secondo le figure delle categorie » designa tanti diversi significati di essere, quante, appunto, esse sono 24 • Aristotele dice espressamente che l'essere appartiene alle diverse categorie non nello stesso modo né nello stesso grado: L'è si predica di tutte le categorie, ma non nello stesso modo, bensl della sostanza in modo primario e delle altre categorie in modo derivato 25 •
E ancora: Bisogna dire o che le categorie sono esseri solo per omonimia, ovvero che sono esseri solo se si aggiunge o toglie ad essere una data qualificazione, come, ad esempio, quando si dice che anche il non-conoscibile è conoscibile. In effetti, il giusto sta nell'affermare che le categorie si dicono esseri né in senso equivoco né in senso univoco, ma si dicono esseri nello stesso modo che il termine medico, i cui diversi significati implicano tutti riferimento ad una medesima ed unica cosa, ma non significano una medesima ed unica cosa, e, cionondimeno, non sono puri omonimi: medico, 24 Sono otto, se si sta all'elenco della Metafisica e della Fisica, dieci se si sta invece all'elenco delle Categorie e dei Topici (ma la nona categoria è riducibile alla quarta e la decima alla settima; si veda sotto la tavola). 25 Metafisica, Z 4, 1030 a 21-23.
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infatti, designa un corpo, una operazione o uno strumento né per omonimia né per sinonimia, ma in virtù di un riferimento ad una unica cosa 26 • Quest'ultima realtà è, ovviamente, la sostanza. Come si vede, quello che vale in generale per i diversi significati dell'essere, vale, poi, in particolare per le categorie: le restanti categorie sono esseri solo in rapporto alla prima e in virtù di essa. Ma, allora, si chiederà, oltre all'unità che è propria di tutti i significati dell'essere, qual è lo specifico legame che unisce le diverse « figure di categorie » in un unico gruppo, che è appunto il gruppo delle« categorie»? La risposta è la seguente: le figure delle categorie ridanno i significati primi e fondamentali dell'essere: sono, cioè, l'originaria distinzione su cui si appoggia necessariamente la distinzione degli ulteriori significati. Le categorie rappresentano, dunque, i significati in cui originariamente si divide l'essere 27 , sono le supreme divisioni dell'essere, o, come anche Aristotele dice, i supremi « generi » dell'essere 28 • E in tal senso ben si comprende come Aristotele abbia indicato nelle categorie il gruppo dei significati dell'essere «per sé », appunto perché si tratta dei significati originari. Come ha dedotto Aristotele le categorie e la loro tavola? È, questo, un problema complessissimo, finora non risolto e probabilmente insolubile. Dovettero contribuire ricerche logiche, linguistiche, ma soprattutto dovette essere decisiva l'analisi fenomenologica e antologica 29 • Metafisica, Z 4, 1030 a 32 ·h 3. Cfr. Metafisica, Z 3, 1029 a 21. 28 Cfr. la massiccia documentazione addotta dal Brentano, in Von der mannigfachen Bedeutung ... , pp. 98 sgg. e passim. 29 Sul problema, dibattutissimo nello scorso secolo, si vedranno i seguenti studi, ormai classici: F. A. Trendelenburg, Geschichte der Kategorienlehre, Berlin 1846 (pp. 196-380); H. Bonitz, Ueber die Kategorien des Aristoteles, in « Sitzungsberichte der Kaiserlichen Akad. d. Wissensch. Philos.26
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Ecco la tavola delle categorie: [l] Sostanza o essenza (OUO'LCX, 't L ÈO''tL, 'tÒ 't L Tjv E!VCXL) [2] Qualità (1tOLOV) [3] Quantità (1to.:r6v) [4] Relazione (1tp6c; 't L) [5] Azione o agire (1tOLEi:v) [6] Passione o patire (mia-xEw) [7] Dove o luogo (1tov) [8] Quando o tempo (1to'tÉ) [9] Avere (EXELV) [lO] Giacere (XEi:~aL) b) Anche l'essere secondo la potenza e l'atto non ha un solo significato. Anzitutto è chiaro che con l'espressione «essere secondo la potenza e l'atto» si indicano due modi di essere diversissimi e in certo senso opposti. Aristotele, infatti, chiama l'essere della potenza addirittura non-essere, nel senso che, rispetto all'essere-in-atto, l'essere in potenza è non-essere-in-atto. L'espressione, peraltro, non deve trarre in inganno, giacché Aristotele ritiene di aver guadagnato un concetto essenziale ai fini della spiegazione della realtà e dell'essere, proprio con la scoperta dell'essere potenziale, come risulta dalla polemica con i Megarici. L'esperienza dice, infatti, che oltre al modo di essere in atto c'è il modo di essere in potenza: cioè quel modo di essere che non è atto hist. Klasse », Bd. 10, Heft 5, Wien 1853, pp. 591-645; O. Apelt, Die Kategorienlehre des Aristoteles, in Beitriige zur Geschichte der griech. Philos., Leipzig 1891, pp. 101-216 e il già più volte citato volume del Brentano, passim. Trendelenburg sostiene che Aristotele dedusse le categorie dalla grammatica, O. Apelt parla piuttosto di una deduzione logica, Bonitz e Brentano propendono invece per una deduzione ontologica. Il lettore italiano trova un'ampia discussione di queste tesi nel nostro saggio: Filo conduttore grammaticale e filo conduttore antologico nella deduzione delle categorie aristoteliche, in «Rivista di filosofia neoscolastica », XLIX (1957), pp. 423-457 (da correggere il refuso ivi sfuggito, passim, Trendelemburg in luogo di Trendelenburg).
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ma è capacità di essere in atto: chi nega che ci sia altro modo di essere oltre quello dell'atto, viene a bloccare la realtà in un immobilismo attualistico escludente qualsiasi forma di divenire o di movimento. È chiaro, dunque, perché Aristotele dia alla distinzione essere-in-potenza e essere-in-atto grandissimo rilievo 30 • Ma - e questo è il punto al quale ci preme di pervenire - l'essere potenziale e l'essere attuale, anche presi singolarmente, non hanno un unico significato, ma, ancora una volta, ne rivestono molteplici. Infatti l'atto e la potenza si estendono a tutte quante le categorie e assumono altrettanti significati diversi, quante sono le categorie. Questo significa che c'è una forma di essere in atto e di essere in potenza secondo la sostanza, una diversa forma di essere in atto e di essere in potenza secondo la qualità, un'altra forma ancora diversa di atto e di potenza secondo la quantità, e cosl di seguito. A parte le numerose questioni, cui queste affermazioni potrebbero dar adito, ma delle quali non è questo il luogo di dire, un punto resta chiarissimo: l'essere come potenza e l'essere come atto (che sono raccolti in un solo gruppo, perché si comprendono e si calibrano solo in funzione l'uno dell'altro) non esistono fuori o oltre le categorie, ma sono modi di essere che si appoggiano all'essere stesso delle categorie, si estendono secondo tutta la tavola delle categorie e sono diversi secondo che si appoggino alle diverse figure delle categorie. c) Anche il terzo significato dell'essere, l'essere come
vero e come falso, si intende in differenti modi, esso "' Cfr. soprattutto Metafisica, libro El, passim. Per un puntuale esame della dottrina rimandiamo al nostro saggio: La dottrina aristotelica della potenza, dell'atto e dell'entelechia nella Metafisica, in Studi di filosofia e di Jtoria della filosofia in onore di Francesco 0/giati, Milano 1962, pp. 145-207.
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pure, si appoggia all'essere delle categorie. Ma, siccome di esso non si occupa la metafisica, bensl la logica, non ci soffermeremo qui ad illustrarlo. d) Da ultimo ci resta da dire dell'essere accidentale. Premettiamo che la questione dell'accidente (e per conseguenza dell'essere accidentale) è assai complessa, in quanto il termine « accidente », in Aristotele, è fra i più fluttuanti. In ogni modo, quando lo Stagirita parla di essere accidentale ( av Xot't'ci C1U!L~E~TJX6ç) intende sempre l'essere fortuito o casuale, vale a dire un essere che dipende da altro essere, al quale, però, non è legato da alcun vincolo essenziale. È dunque un tipo di essere che non è sempre e nemmeno per lo più ma solo talora} fortuitamente} casualmente 31 • Spesso si è confuso l'essere categoriale e l'essere accidentale, ma questo è un grave errore. Non deve trarre in inganno il fatto che Aristotele stesso (ma soprattutto la speculazione posteriore) chiami « accidenti », talora, le stesse categorie. Vedremo, in effetti, che, fra le categorie, solo la prima è un essere autonomo, e che le altre suppongono questa prima e ad essa strutturalmente ineriscono. In tal senso, tutto ciò che non è sostanza non può essere per sé in senso stretto e, perciò, è accidente. Ma quando Aristotele parla di «essere accidentale», non ha di mira il semplice inerire ad altro o essere in altro, bensl il casuale, fortuito, occasionale congiungersi ad altro ed essere in altro. L'essere accidentale è ciò che può non essere, è ciò che non è né sempre né per lo più. Orbene: è ovvio che delle categorie ossia dell'essere categoriale come tale non si può affatto dire che è essere casuale, né si può dire che può sia essere che non essere, o che non è né sempre né per lo più. L'essere (almeno quello sensibile) è impensabile senza le ca31 Su questi due ultimi significati dell'essere cfr. Metafisica, E 2-4 e il nostro commento, vol. I, pp. 506-516.
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tegorie; il che significa che, in quanto tali, esse sono necessarie. Un esempio servirà a chiarire il pensiero e a concludere. Non è affatto necessario che un uomo sia pallido o adirato: che l'uomo abbia queste qualità è accidentale, è fortuito, è casuale, nel senso che esse potrebbero indifferentemente essere o non essere; però è necessario che l'uomo abbia qualità (non importa se queste o altre). L'esempio può ripetersi per ogni categoria. Può essere casuale il fatto che una cosa abbia una data misura, ma non è casuale e non è accidentale che abbia una misura (una cosa sensibile senza una quantità non è pensabile). Può essere accidentale che qualcosa si trovi in un dato luogo, ma non è puramente accidentale il suo essere in un luogo. E cosl gli esempi si potrebbero moltiplicare. In conclusione: l'accidente vero e proprio e l'essere accidentale non possono che fondarsi (come del resto anche gli altri significati dell'essere) sulle categorie, ma se ne distinguono totalmente, in quanto la categoria è necessaria, mentre l'accidente è l'affezione o l'accadimento meramente fortuito che ha luogo secondo ogni categoria. Insomma: l'essere accidentale è la contingente affezione o il contingente evento che si realizza secondo le diverse (necessarie) figure delle categorie. Ricapitoliamo i risultati della discussione di questo paragrafo. Si è dimostrato che i quattro significati dell'essere sono, in realtà, quattro gruppi di significati, facenti capo, tutti quanti, al primo, cioè alle categorie. L'essere come potenza e a;to ha luogo secondo le diverse categorie e solo secondo esse; esso non sussiste fuori di esse o oltre esse. L'essere come vero, che consiste nell'operazione mentale del congiungere e del dividere, non può che basarsi sulle categorie, che sono, appunto, ciò che viene unito o disgiunto. Infine anche l'essere accidentale si fonda sull'essere categoriale e non è che un'accidentale affezione o un accadimento secondo le varie figure delle categorie. Dunque: tutti
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i significati dell'essere presuppongono l'essere delle categorie; ma - e questo è un punto già più volte emerso e che ora è venuto il momento di approfondire - le varie categorie, a loro volta, non stanno tutte sul medesimo piano; fra la sostanza e le altre categorie c'è una differenza radicale, una differenza in qualche modo assimilabile a quella che c'è fra le categorie in generale e gli altri significati dell'e.rsere. Tutti i significati dell'essere presuppongono l'essere delle categorie; a sua volta, l'essere delle categorie dipende interamente dall'essere della prima categoria, ossia dalla sostanza. Se, dunque, tutti i significati dell'essere suppongono l'essere delle categorie, e se, a sua volta, l'essere delle categorie suppone l'essere della prima e su questo interamente si fonda, è evidente che la domanda radicale sul senso dell'essere andrà incentrata sulla sostanza. Perciò ben si comprendono le precise affermazioni di Aristotele: E in verità, ciò che dai tempi antichi, cosl come ora e sempre, costituisce l'eterno oggetto di ricerca e l'eterno problema: « che cos'è l'essere », equivale a questo: « che cos'è la sostanza » [ ... ] ; perciò anche noi, principalmente, fondamentalmente e unicamente, per cosl dire, dobbiamo esaminare che cos'è l'essere inteso in questo significato 32 •
Si deve dunque condudere che il senso ultimo dell'essere è disvelato dal senso della sostanza. Che cos'è, allora, la sostanza?
6.
L a q u e s ti o n e d e l I a sostanza
Diciamo subito che il problema della sostanza è il più delicato, il più complesso e, in un certo senso, anche il più sconcertante, per chiunque voglia intendere la metafisica ari32
Metafisica, Z l, 1028 b 2-7.
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stotelica, rinunciando alle soluzioni sommarie, cui le sistemazioni manualistiche ci hanno abituati 33 • Innanzitutto va chiarito che la questione generale della sostanza involge due problemi essenziali strettamente connessi, dei quali uno si svolge ulteriormente in due direzioni. Chiariamo preliminarmente questi problemi. I predecessori di Aristotele avevano dato alla questione della sostanza soluzioni del tutto antitetiche: alcuni avevano visto nella materia sensibile l'unica sostanza; Platone aveva invece indicato in enti soprasensibili la vera sostanza, mentre la comune convinzione sembrava additarla nelle cose concrete. Aristotele affronta ex novo la questione strutturandola in maniera esemplare. Dopo aver ridotto il problema antologico generale al suo nucleo centrale, cioè alla questione dell'ousia, egli dice, con tutta chiarezza, che il punto di arrivo starà nel determinare quali sostanze esistono: se solamente le sensibili (come vogliono i Naturalisti) o anche le soprasensibili (come vogliono i Platonici). Si badi: questo è il problema dei problemi e la quaestio ultima, la domanda per eccellenza della metafisica aristotelica così come di ogni metafisica in generale. Si tratta, in ultima analisi, di decidere della validità o meno dei risultati della « seconda navigazione » di Platone 34 • Ma, per poter risolvere questo specifico problema, Aristotele vuole prima risolvere il problema che cos'è la sostanza in generale. Ecco, quindi, l'altro problema dell'usiologia aristotelica: che cos'è la sostanza in generale? È la materia? È la forma? È il composto? Questo problema generale va risolto prima dell'altro, per correttezza metodo33 Quanto qui diciamo in sintesi il lettore lo potrà trovare più ampiamente documentato nella Introduzione alla Metafisica, pp. 45 sgg. (cfr. anche G. Reale, La polivocità della concezione aristotelica della sostanza, in Scritti in onore di Carlo Giacon, Padova 1972, pp. 17-40) e soprattutto nel commento ai libri Z e H, passim. "' Cfr. Z 2, passim.
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logica: si potrà, infatti, con precisione assai maggiore, dire se esiste solo il sensibile o anche il soprasensibile, se si sarà, prima, stabilito che cosa sia, in genere, la ousia. Se, per esempio, risultasse che ousia è solo la materia o il concreto composto di materia e forma, è chiaro che la questione della sostanza soprasensibile resterebbe eo ipso tolta; mentre, se risultasse che ousia è anche altro o addirittura prevalentemente altro dalla materia, allora la questione del soprasensibile si presenterebbe sotto tutt'altra luce. E su che cosa si baserà Aristotele per trattare della sostanza in generale? Ovviamente su quelle sostanze che nessuno contesta: le sostanze sensibili. Scrive espressamente il filosofo: Tutti ammettono che alcune delle cose sensibili sono sostanze; pertanto dovremo svolgere la nostra indagine partendo da queste. Infatti è di grande utilità procedere a gradi verso ciò che è più conoscibile. In effetti, tutti acquistano il sapere in questo modo: procedendo attraverso le cose che sono meno conoscibili per natura [ = le cose sensibili] verso quelle che sono più conoscibili per natura [ = le cose intelligibili] 35 •
In conclusione, dei due problemi dell'usiologia aristotelica, il primo «che cos'è la sostanza in generale » è preliminare al secondo « quali sostanze esistono » (problema teologico); inoltre il primo problema (preliminare) non può risolversi che basandosi sulla sostanza sensibile, che è l'unica che si conosce, prima di accertare se vi sia o no anche una sostanza soprasensibile 36 • 35 Z 3, 1029 a 33 sgg. Per Aristotele è per natura primo l'intelligibile, il quale è ciò che è antologicamente primo; per noi, invece, è primo il sensibile, il quale è ciò che è antologicamente secondo, perché ciò da cui noi muoviamo per conoscere sono i sensi e il sensibile, e all'intelligibile giungiamo solo attraverso e dopo il sensibile. ,. Cfr. anche Metafisica, Z 2, passim; Z 11, 1037 a 10-17; Z 16, 1040 b 34-1041 a 3; Z 17, 1041 a 6-9.
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7. La questione della « ous1a » in generale: la forma, la materia, il sinolo e le note definitorie del concetto di sostanza
Ed ora domandiamoci finalmente: che cos'è la ousta tn generale? Aristotele, come abbiamo già ricordato, trovava nei predecessori risposte contrastanti: per i Naturalisti sostanza era la materia o il sostrato materiale, per i Platonici la forma e l'universale; secondo il senso comune invece sembra essere sostanza l'individuo e la cosa concreta. Chi ha ragione? La risposta dello Stagirita è: tutti e nessuno ad un tempo; la risposta al problema non può essere semplice, ma deve essere necessariamente complessa. Quanto abbiamo premesso, avrà probabilmente già orientato il lettore circa la risposta aristotelica al problema posto. Lo Stagirita dice che per ousia possono intendersi, a diverso titolo, sia l) la forma, sia 2) la materia, sia 3) il sinolo o composto di materia e forma. Con ciò Aristotele riconosce a ciascuno dei suoi predecessori una parte di ragione e indica il loro torto nella unilateralità. Vediamo di illustrare brevemente i tre significati. l) Sostanza e m un senso la forma (elooc;, J.I.Opqn1). « Forma », secondo Aristotele, non è ovviamente la estrinseca forma o la figura esteriore delle cose (o lo è solo subordinatamente), ma è l'intima natura delle cose, il che cos'è o l'essenza intima ( -rò -r( ~v dvocL) delle medesime. La forma o essenza dell'uomo, per esempio, è la sua anima, ossia ciò che fa di lui un essere vivente razionale; la forma o essenza dell'animale è l'anima sensitiva e quella della pianta l'anima vegetativa. Ancora, l'essenza del cerchio è ciò che fa sì che esso sia quella data figura con quelle date qualità; e lo stesso può ripetersi per le diverse altre cose. Quando noi definiamo le cose, ci riferiamo alla loro forma o essenza e
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in generale le cose sono conoscibili solo nella loro essenza 37 • 2) Tuttavia, se l'anima razionale non informasse un corpo, non avremmo un uomo, e se l'anima sensitiva non informasse una certa materia, non avremmo un animale; e, ancora, se l'anima vegetativa non informasse altra materia, non avremmo le piante. Cosl dicasi - e la cosa risulterà anche più evidente - per tutti gli oggetti prodotti dall'attività dell'arte: se non si realizzasse nel legno l'essenza o forma del tavolo, essa non avrebbe alcuna concretezza, e lo stesso deve ripetersi per tutti gli altri casi. In questo senso, anche la materia risulta fondamentale per la costituzione delle cose, e pertanto potrà dirsi - almeno entro certi limiti sostanza delle cose. È chiaro, peraltro, che questi limiti sono ben definiti: infatti, se non ci fosse la forma, la materia sarebbe indeterminata e non basterebbe affatto a costituire le cose. 3) In base a quanto abbiamo detto, risulta pienamente chiarito anche il terzo significato: quello di sinolo (cruvoÀ.ov). Sinolo è la concreta unione di forma e di materia. Tutte le cose concrete sono non altro che sinoli di forma e di materia. Dunque, tutte le cose sensibili, senza distinzione, possono considerarsi nella loro forma, nella loro materia, nel loro insieme; e sostanza (ousfa) sono, a diverso titolo (nel senso veduto), e la forma e la materia e il sinolo 38 • Abbiamo detto che a diverso titolo Aristotele attribuisce la qualifica di sostanza alla forma, al sinolo e alla materia. Orbene, lo Stagirita, svolgendo il problema della sostanza in generale in una seconda direzione, ha anche cercato di determinare quali siano questi « titoli » in base ai quali qualcosa ha diritto ad essere considerato sostanza. Questa seconda
" Cfr. Metafisica, Z 4-12 e H 2-3 con il nostro commento, vol. I, pp. 572-621 e vol. n, pp. 19-30. 38 Cfr. Metafisica, Z H, passim.
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direzione, nei testi, non è sempre esplicitamente distinta dalla prima e spesso si intreccia in vario modo con essa; e tuttavia è essenziale distinguerla, per capire a fondo il pensiero aristotelico. Lo Stagirita sembra stabilire i caratteri definitori della sostanza in numero di quattro, anzi di cinque, se si computa anche un carattere che sta però su un piano un poco diverso dagli altri. l) In primo luogo, può chiamarsi sostanza solamente ciò che non inerisce ad altro e non si predica di altro, ma che è sostrato di inerenza e di predicazione di tutti gli altri modi di essere. 2) In secondo luogo, sostanza può essere solamente un ente che può sussistere di per sé o separatamente dal resto (un XWPLCT'tov), dotato di una forma di sussistenza autonoma. 3) In terzo luogo, può chiamarsi sostanza solo ciò che è un alcunché di determinato ('t6oE 'tL): non può quindi essere sostanza un attributo generale, né alcunché di universale e astratto. 4) In quarto luogo, sostanza deve essere un qualcosa di intrinsecamente unitario (Ev) e non un mero aggregato di parti o una qualsivoglia molteplicità non organizzata. 5) Infine va ricordata la caratteristica dell'atto o dell'attualità (ÉvÉpyELCl, ÉV'tf4À.ÉXELa): è sostanza solo ciò che è atto o in atto. E questa caratteristica, che come abbiamo detto sta un poco a sé, è importantissima. Ora riesaminiamo e commisuriamo a queste note definitorie delle caratteristiche della sostanzialità la materia, la forma e il sinolo, vale a dire quelli che abbiamo detto essere - a diverso titolo - significati dell'ousfa. In che misura materia, forma e sinolo realizzano quelle note?
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La materia possiede senza dubbio (l) il primo dei caratteri: essa non inerisce ad altro né si predica di altro; ad essa inerisce e di essa si predica, in qualche modo, tutto il resto: la stessa forma inerisce e in certo senso si riferisce alla materia. La materia, tuttavia, non possiede alcuno degli altri caratteri della sostanzialità. Essa (2) non sussiste affatto di per sé, perché non c'è materia che non possegga già la forma; (3) non è affatto un qualcosa di determinato perché tale può essere solo ciò che ha una forma; (4) non è nemmeno qualcosa di unitario, perché l'unità deriva dalla forma; (5) infine non è in atto, ma è solo in potenza. Diremo, quindi, che la materia è sostanza solamente in senso assai debole e improprio. Il che ben spiega come mai Aristotele neghi, talora, che la materia sia sostanza e, talaltra, invece, lo riaffermi: essa ha solamente il primo dei caratteri della sostanzialità e non gli altri. Invece la forma e il sino/o, anche se in maniera non identica, hanno tutti i caratteri della sostanzialità. La forma ( l ) non deve il suo essere ad altro e non si predica di altro: è vero - si badi - che la forma inerisce alla materia e che si riferisce in certo senso alla materia, ma, appunto, in un senso del tutto eccezionale (inerisce alla materia come ciò che informa la materia ed ha più essere - come tosto vedremo - che non la materia; gerarchicamente è la materia che dipende dalla forma, non viceversa). (2) La forma può separarsi dalla materia in due sensi: a) è la forma che dà essere alla materia e non viceversa e quindi la forma è, in generale, almeno concettualmente, sempre separabile; b) vi sono sostanze che si esauriscono interamente nella forma e che non hanno materia e, in questi casi, la forma è assolutamente separata. (3) La forma è un qualcosa di determinato ("t60E "tL), come ripetutamente Aristotele ribadisce: e, anzi, la forma è qualcosa di determinato e anche determinante, perché è ciò che fa sl che le cose siano ciò che sono e non altro. (4) La forma
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è unità per eccellenza, anzi è principio che dà unità alla materia che informa. (5) Infine la forma è atto per eccellenza, è principio che dà atto, al punto che Aristotele usa spesso forma e atto come sinonimi. E il sinolo? Anche il composto di materia e forma possiede i caratteri suindicati, e di conseguenza: infatti il sinolo è appunto l'insieme e di materia e di forma. Il sinolo, che è la concreta cosa individua, (l) è sostrato di inerenza e di predicazione di tutte le determinazioni accidentali; (2) sussiste di per sé e indipendentemente in modo pieno; (3) è un -r68e TL in senso concreto; (4) è una unità, in quanto ha tutte le. sue parti materiali unificate dalla forma; (5) è in atto perché le sue parti materiali sono attualizzate dalla forma. La materia- si è visto- è assai meno sostanza della forma e del sinolo; e fra la forma e il sinolo c'è una ulteriore differenziazione per quanto concerne il loro grado di sostanzialità? La questione è piuttosto complessa. In certi passi Aristotele sembra considerare il sinolo o il concreto individuo come sostanza per eccellenza, in altri passi, invece, sembra considerare tale la forma. Ma in ciò non c'è contraddizione, come invece, di primo acchito, potrebbe sembrare. In effetti, a seconda del punto di vista dal quale ci si collochi, si deve rispondere nel primo ovvero nel secondo modo. Dal punto di vista empirico e costatativo è chiaro che il sinolo o il concreto individuo sembra essere sostanza per eccellenza. Non cosi, invece, dal punto di vista strettamente speculativo e metafisica: infatti la forma è principio, causa e ragion d'essere, vale a dire fondamento, e rispetto ad essa il sinolo è invece principiato, causato e fondato; ebbene, in questo senso, la forma è sostanza per eccellenza e al più alto titolo. Insomma: quoad nos, sostanza per eccellenza è il concreto; in sé e per natura è invece sostanza per eccellenza la forma. D'altro canto, questo risulta pienamente riconfermato,
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se si pensa come il sinolo non possa esaurire la sostanza in quanto tale: se il sinolo esaurisse il concetto di sostanza in quanto tale, nulla che non fosse sinolo sarebbe sostanza, e, in tal modo, Dio e in genere l'immateriale e il soprasensibile non sarebbero sostanza! La forma può dirsi, invece, sostanza per eccellenza: Dio e le intelligenze motrici delle sfere celesti sono pure forme immateriali, mentre le cose sensibili sono forme informanti la materia. La forma è essenziale agli uni e agli altri enti, sia pure in diversa maniera 39 • E per concludere diremo che, in tal modo, il senso dell'essere è pienamente determinato. L'essere nel suo significato più forte è la sostanza; e la sostanza in un senso (improprio) è materia, in un secondo senso (più proprio) è sinolo, e in un terzo senso (e per eccellenza) è forma: essere è quindi la materia; essere, in più alto grado, è il sinolo; ed essere è, nel senso più forte, la forma. In tal modo si comprende perché Aristotele abbia chiamato la forma addirittura « causa prima dell'essere » 40 , appunto in quanto essa risulta informare la materia e fondare il sinolo.
8.
L a « forma » ari sto t e l i c a n o n è l'un i v e r sa l e
Prospettata nel modo che abbiamo sopra proposto, la dottrina aristotelica della sostanza appare assai meno aporetica di quanto, soprattutto dallo Zeller 41 , e, con lui, da molti degli studiosi moderni, non si sia preteso. La distinzione dei molteplici significati dell'ousia non è affatto proposta su un piano di ricerca meramente linguistica e per soddisfare ad istanze linguistiche, ma è fatta su un piano 39 Cfr. i puntuali riferimenti che diamo nella Introduzione alla Metafisica, vol. I, pp. 51 sgg., nonché il commentario al libro Z, passim. "' Metafisica, Z 17, 1041 b 28. •• Zeller, Die Philos. d. Griechen, II, 2, pp. 344 sgg. (questa parte dell'opera zelleriana non è ancora stata tradotta in lingua italiana).
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di analisi ontologica e per soddisfare all'esigenza di comprensione della realtà nei suoi molteplici aspetti. E così lo Zeller non ha potuto intendere che, a proposito dei tre significati di ousia e in particolare dei due principali (sinolo e forma), non si deve - per ragioni strutturali - fare un discorso in termini di aut-aut, come se a tutti i costi dovesse restare in campo uno solo dei significati, ma si deve fare invece un discorso in termini di et-et, come abbiamo veduto: la metafisica aristotelica non è portata, come la successiva, alla reductio ad unum a tutti i costi, ma è piuttosto rivolta a distinguere i vari aspetti della realtà, e quando li ha distinti non solo non procede ad ulteriori unificazioni, ma li dichiara irriducibili, e appunto come tali li considera espressione della poliedricità strutturale della realtà. Così si risolve agevolmente un'altra difficoltà sollevata dallo Zeller. È difficile - egli dice - pensare come indivenibili le forme del diveniente, come le vorrebbe concepire Aristotele. In verità Aristotele batte con molta energia su questo punto della indivenibilità dell' eidos. Ebbene, come può Aristotele affermare l'eidos indivenibile, senza ricadere nella tesi della « trascendenza delle forme » da lui rimproverata insistentemente ai Platonici? Semplice: l'indivenibilità dell'eidos aristotelico non è altro che l'indivenibilità della causa o della condizione o del principio metafisica, rispetto al causato, al condizionato e al principiato empirico 42 • Vogliamo, infine, concludere sulla sostanza, soffermandoci su un punto spesso trascurato e di cui, d'altra parte, l'impostazione zelleriana, alla quale i più si fermano, doveva fatalmente impedire la comprensione. Diciamo del rapporto fra la forma e l'universale. Aristotele dimostra che, mentre materia, forma e sinolo hanno titolo per essere considerati ousia, così come s'è veduto, l'universale, che i Platonici elevavano al rango di sostanza per eccellenza, non ha asso., Cfr. Metafisica, Z 7-9 {e il nostro co=ento, vol.
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pp. 589-606).
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lutamente alcun titolo per essere considerato sostanza, perché non ha nessuno dei caratteri che sopra s'è visto essere propri della sostanzialità 43 • Ma, si dirà, non è un universale l'eidos aristotelico? La risposta è inequivocabilmente negativa. Più volte Aristotele qualifica il suo eidos come un .. 6 8 e .. t, espressione che indica il determinato che si oppone all'universale astratto; e, del resto, vedemmo come tutti i caratteri della sostanzialità competano all'eidos. L'eidos aristotelico è un principio metafisico, una condizione ontologica: in termini moderni diremmo una struttura antologica. Riportiamo a prova solo un passo - il più significativo -, quello posto a chiusura del libro dedicato alla sostanza. Dopo aver detto che la sostanza è « un principio ed una causa », Aristotele mostra come si debbano ricercare tale principio e tale causa. La cosa o il fatto di cui si cercano il principio e la causa devono essere preventivamente noti, e la ricerca va impostata cosi: perché questa cosa o questo fatto sono cosi e cosi? Il che significa dire: perché la materia è (o costituisce) questo determinato oggetto? Ecco come Aristotele puntualizza il problema: Questo materiale è una casa: perché? Perché è presente in esso l'essenza di casa. E si ricercherà così: perché questa data cosa è uomo? Oppure, perché questo corpo ha queste caratteristiche? Pertanto nella ricerca del perché, si ricerca la causa della materia, vale a dire la forma per cui la materia è una determinata cosa: e questa è appunto la sostanza 44 •
Ma ecco l'esempio più eloquente con cui Aristotele suggella la sua ricerca: Ciò che è composto di qualche cosa in modo tale che il tutto costituisce una unità non è come un mucchio, ma come una sillaba. E la sillaba non è solo le lettere da cui è formata, né BA è identica a B e A, né la carne è semplicemente fuoco e terra: "' Cfr. Metafisica, Z 13-16 (e il nostro commento, vol. .. Metafisica, Z 17, 1041 h 5-9.
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I,
pp. 621-634) .
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infatti, una volta che i composti, cioè carne e sillaba, si siano dissolti, non esistono più, mentre le lettere, il fuoco e la terra continuano ad essere. Dunque, la sillaba è un qualcosa che non è riducibile unicamente alle lettere, ossia alle vocali e consonanti, ma è un qualcosa di diverso da esse. E così la carne non è solamente fuoco e terra, o caldo e freddo, ma anche un qualcosa di diverso da questi. Ora, se anche questo qualcosa dovesse essere, esso pure, un elemento o un composto di elementi, si avrebbe quanto segue: se fosse un elemento, varrebbe lo stesso discorso di prima (la carne sarebbe costituita da questo elemento con fuoco e terra e da qualcosa di diverso, cosicché si andrebbe all'infinito); se fosse, invece, un composto di elementi, sarebbe, evidentemente, composto non di uno solo ma di più elementi (altrimenti saremmo ancora nel primo caso), cosicché si dovrebbe ripetere anche a questo proposito il discorso fatto a proposito della carne e della sillaba. Perciò si potrà ben ritenere che questo qualcosa non sia un elemento, ma sia la causa per cui questa data cosa è carne, quest'altra cosa è sillaba, e così dicasi per tutto il resto. E, questo, è la sostanza di ogni cosa: infatti esso è causa prima dell'essere 45 • Come si vede, l' ousia-eidos di Aristotele, come immanente struttura antologica della cosa, non può affatto confondersi con l'universale astratto. L'universale è invece il genere ( yévoç), che non ha una sua realtà ontologica separata. L'anima dell'uomo come eidos è un principio che informa un corpo e ne fa un uomo, e ha una sua realtà ontologica; invece l'animale, inteso come genere animale, è solo un termine comune astratto che non ha realtà in sé e non esiste se non nell'uomo o in altra forma di animale. È, peraltro, da rilevare che l'eidos aristotelico ha due aspetti: uno di questi è quello antologico già visto, l'altro è l'aspetto che potremmo chiamare logico. Lo Stagirita non ha studiato e messo a punto i due aspetti e le relative differenze, ma è passato, nei vari casi, dall'uno all'altro inconsapevolmente. Noi notiamo, anche per ragioni linguistiche, meglio di lui la differenza, perché, di volta in volta, siamo "' Metafisica, Z 17, 1041 b 11·28; cfr. anche H 2, 1043 h 10 sgg.
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costretti a tradurre eidos in due modi diversi: talora con forma e talaltra con specie. Per quanto concerne l'aspetto antologico dell'eidos, vale a dire la forma, Aristotele ha ragione di dire che non è un universale. Ma l'eidos nel senso logico di specie? Evidentemente la specie non è altro che l' eidos in quanto pensato dalla mente umana. E quindi si potrebbe ben dire che, in quanto struttura antologica o principio metafisica, l'eidos non è un universale; invece, in quanto vien pensato e astratto dalla mente umana, diventa universale. Ma, ripetiamo, Aristotele, preoccupato di ribadire il primo punto, non ha messo in rilievo il secondo. (Tanto più che, ai suoi occhi, l'eidos anche considerato come specie è la « differenza » specifica che dà concretezza al genere, appunto « differenziandolo » e quindi riscattandolo dalla sua astratta universalità 46 , come vedremo anche nella logica). In ogni caso, queste difficoltà non debbono distogliere lo sguardo da quello che s'è prima detto circa la statura antologica e reale dell'eidos. L'eidos non solo non è un universale, ma è più essere della materia e più essere del sinolo, in quanto è principio che, strutturando la materia, fa sussistere il sinolo stesso 47 •
9.
L'atto e la potenza
Le dottrine esposte vanno ancora integrate con alcune precisazioni riguardanti la potenza e l'atto riferiti alla sostanza 411 • La materia è potenza, cioè potenzialità, nel senso " Cfr. Metafisica, Z 12, passim. Cfr. Metafisica, Z 3, 1029 a 3-7: «Chiamo materia ad esempio il bronzo, forma la struttura e la configurazione formale, sinolo ciò che da queste risulta, cioè la statua. Orbene, se la forma è anteriore e maggiormente essere ( 1rp6-n:pov xcxl !Lillov ISv ) rispetto alla materia, per la medesima ragione essa sarà anteriore anche al composto ». 48 Cfr., sopra, la nota 30. 47
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che è capacità di assumere o di ricevere la forma: il bronzo è potenza della statua, perché è effettiva capacità e di ricevere e di assumere la forma della statua; il legno è potenza dei vari oggetti che col legno si possono fare, perché è concreta capacità di assumere le forme dei vari oggetti. La forma si configura, invece, come atto o attuazione di quella capacità. Il composto o sinolo di materia e forma, sarà, se lo si considera come tale, prevalentemente atto; se lo si considera nella sua forma, sarà senz'altro atto o entelechia e, se lo si considera nella sua materialità, sarà invece misto di potenza e di atto. Tutte le cose che hanno materia hanno quindi sempre, come tali, maggiore o minore potenzialità 49 • Invece se, come vedremo, ci sono esseri immateriali, cioè pure forme, saranno atti puri, scevri di potenzialità 50 • L'atto, come già abbiamo accennato, è chiamato da Aristotele anche entelechia: talora sembra che fra i due termini ci sia una certa diversità di significato, ma, per lo più, e in particolare nella Metafisica, i due termini sono sinonimi. Dunque, atto ed entelechia dicono realizzazione, perfezione attuantesi o attuata. L'anima, quindi, in quanto essenza e forma del corpo, è atto ed entelechia del corpo; e, in genere, tutte le forme delle sostanze sensibili sono atto ed entelechia. Dio, vedremo, sarà entelechia pura (e cosl anche le altre Intelligenze motrici delle sfere celesti). L'atto, dice ancora Aristotele, ha assoluta « priorità » e superiorità sulla potenza: la potenza infatti non si può conoscere, come tale, se non riportandola all'atto di cui è potenza. Inoltre l'atto (che è forma) è condizione, regola e fine della potenzialità. Infine, l'atto è superiore alla potenza, perché è il modo di essere delle sostanze eterne 51 • •• Cfr. Metafisica, H 2. 50 Cfr. Metafisica, A 6-8. 51 Cfr. Metafisica, 0 8, passim. Questo teorema della priorità dell'atto
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La dottrina della potenza e dell'atto è, dal punto di vista metafisica, di grandissima importanza. Con essa Aristotele ha potuto risolvere le aporie eleatiche del divenire e del movimento: divenire e movimento scorrono nell'alveo dell'essere, perché non segnano un passaggio dal non-essere assoluto all'essere, bensl dall'essere in potenza all'essere in atto, cioè da essere a essere 52 • Inoltre con essa egli ha risolto perfettamente il problema dell'unità della materia e della forma: la prima essendo potenza, la seconda atto o attuazione della medesima 53 • Infine, lo Stagirita di essa si è servito, almeno in parte, per dimostrare l'esistenza di Dio e intenderne la natura 54 • Ma anche nell'ambito di tutte le altre scienze i concetti di potenza e di atto hanno in Aristotele un ruolo rilevantissimo. E cosl siamo giunti all'ultima delle questioni della metafisica: quella della sostanza soprasensibile, che è la questione decisiva.
sulla potenza è molto importante, e, come vedremo, costituisce uno dei principi su cui fa perno l'inferenza metempirica del Motore Immobile. Ecco il passo della Metafisica (0 8, 1050 a 4 sgg.) in cui viene illustrata la priorità antologica dell'atto sulla potenza: «Ma l'atto è anteriore anche per la sostanza. In primo luogo, perché le cose che nell'ordine della generazione sono ultime, nell'ordine della forma e della sostanza sono prime: per esempio l'adulto è prima del fanciullo e l'uomo è prima dello sperma: l'uno, infatti, possiede la forma attuata, l'altro, invece, no. In secondo luogo, è anteriore perché tutto ciò che diviene procede verso un principio, ossia verso lo scopo (o fine): infatti Io scopo costituisce un principio e il divenire ha luogo in funzione del fine. E il fine è l'atto, e in grazia di questo si acquista anche la potenza: infatti gli animali non vedono al fine di possedere la vista, ma posseggono la vista ?! fine di vedere [ ... ] . Inoltre, la materia è in potenza perché può giungere alla forma; e quando, poi, sia in atto, allora essa è nella sua forma [ ... ]. Ma l'atto è anteriore alla potenza secondo la sostanza anche in più alto senso: infatti gli esseri eterni sono anteriori ai corruttibili quanto alla sostanza, e nulla di ciò che è in potenza è eterno». 52 Cfr. per esempio Metafisica, K 9; cfr., più avanti, pp. 310-314. 53 Cfr. Metafisica, H 6, passim. " Cfr. Metafisica, A 6-9.
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10. Dimostrazione dell'esistenza della sostanza soprasensibile
Esistono sostanze soprasensibili, oppure esistono solamente sostanze sensibili? Aristotele ha cercato di rispondere con precisione al problema (che, come sappiamo, era il problema sollevato dalla « seconda navigazione » platonica) e non solo, come già abbiamo accennato, ha riconfermato gli esiti della medesima, ma è addirittura riuscito a guadagnare posizioni, che, sia nella chiarezza dell'impostazione metodica sia nelle conclusioni, vanno oltre Platone. Diciamo subito che, per lo Stagirita, esistono tre generi di sostanze gerarchicamente ordinate; due sono di natura sensibile: l) il primo è costituito dalle sostanze sensibili che nascono e periscono, 2) il secondo è costituito dalle sostanze sensibili ma incorruttibili. Queste sostanze « se:-tsibili » ma « incorruttibili » sono non altro che i cieli, i pianeti c le stelle, che, secondo Aristotele, sono incorruttibili, perché strutturati di materia non corruttibile (l'etere, quinta essenza), capace solo di mutamento o movimento locale e quindi non passibile di alterazione, né di aumento o diminuzione e, meno che mai, di generazione e corruzione. Invece la sostanza sensibile corruttibile è sottoposta a tutti i tipi di mutamento, appunto perché la materia di cui è costituita include la possibilità di tutti i contrari: per questo le cose di questo mondo (sublunari), oltre a muoversi, sono soggette ad aumenti e diminuzioni, ad alterazioni, a generazione e corruzione. Al di sopra di queste, ci sono, poi, 3) le sostanze immobili, eterne e trascendenti il sensibile, che sono Dio o Motore immobile e le altre sostanze motrici delle varie sfere di cui consta il cielo, come vedremo. I primi due generi di sostanze sono costituiti di materia e forma: dei quattro elementi (terra, acqua, aria e fuoco) quelle sensibili corruttibili, di etere puro, come già s'è detto, quelle incorruttibili. La sostanza soprasensibile è,
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invece, forma pura assolutamente scevra di materia. Dei primi due generi di sostanze si occupano la fisica e l'astronomia; il terzo genere di sostanza costituisce l'oggetto peculiare della metafisica, come sappiamo. Ci resta pertanto da esaminare, in brevt., il procedimento attraverso il quale Aristotele dimostra l'esistenza della sostanza soprasensibile, quale ne sia la natura, se sia unica o se ve ne siano molteplici, e quale sia il rapporto fra tale sostanza e il mondo. L'esistenza del soprasensibile viene dimostrata nel modo che segue. Le sostanze sono le realtà prime, nel senso che tutti gli altri modi di essere, come abbiamo ampiamente visto, dipendono dalla sostanza. Se, quindi, tutte le sostanze fossero corruttibili, non esisterebbe assolutamente nulla di incorruttibile. Ma - dice Aristotele - il tempo e il movimento sono certamente incorruttibili. Il tempo non si è generato né si corromperà: infatti, anteriormente alla generazione del tempo, avrebbe dovuto esserci un« prima», e posteriormente alla distruzione del tempo avrebbe dovuto esserci un « poi ». Ora, « prima » e « poi » altro non sono che tempo. In altri termini: per le ragioni viste, c'è sempre tempo prima o dopo qualsiasi supposto inizio o termine del tempo; dunque, il tempo è eterno. Lo stesso ragionamento vale anche per il movimento, perché, secondo Aristotele, il tempo non è altro che una determinazione del movimento; dunque, non c'è tempo senza movimento, e, quindi, l'eternità del primo postula l'eternità anche del secondo. Ma a quale condizione può sussistere un movimento (e un tempo) eterno? Lo Stagirita risponde (in base ai principi da lui stabiliti studiando le condizioni del movimento nella Fisica): solo se sussiste un Principio primo che sia causa di esso. E come deve essere questo principio per essere causa di esso? In primo luogo, dice Aristotele, il Principio deve essere
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eterno: se eterno è il movimento, eterna ne deve essere la causa. O, in altri termini: per essere idonea a spiegare un movimento eterno, la causa non può essere che eterna. In secondo luogo, il Principio deve essere immobile: solo l'immobile, infatti, è causa assoluta del mobile. Nella Fisica, Aristotele ha dimostrato questo punto con rigore. Tutto ciò che è in moto, è mosso da altro; quest'altro, se è a sua volta mosso, è mosso da altro ancora. Una pietra, ad esempio, è mossa da un bastone, il bastone, a sua volta, muove mosso dalla mano, e la mano dall'uomo. Insomma, per spiegare ogni movimento bisogna far capo ad un principio di per sé non ulteriormente mosso, almeno rispetto a ciò che muove. Sarebbe assurdo, infatti, pensare di poter risalire di motore in motore all'infinito, perché un processo all'infinito è sempre impensabile, in questi casi. Ora, se così è, non solo devono esserci principi o motori relativamente mobili, cui fanno capo i singoli movimenti, ma - e a fortiori - deve esserci un Principio assolutamente primo e assolutamente immobile, cui fa capo il moto dell'universo tutto. In terzo luogo, il principio deve essere del tutto scevro di potenzialità, cioè atto puro. Se, infatti, avesse potenzialità, potrebbe anche non muovere in atto; ma ciò è assurdo, perché, in tal caso, non ci sarebbe un movimento eterno dei cieli, cioè un movimento sempre in atto. In conclusione: poiché c'è un movimento eterno, è necessario che ci sia un Principio eterno che lo produca, ed è necessario che tale Principio sia a) eterno, se eterno è ciò che esso causa, b) immobile, se la causa assolutamente prima del mobile è l'immobile e c) atto puro, se è sempre in atto il movimento che esso causa 55 • È, questo, il Motore immobile, che è non altro se-non la sostanza soprasensibile di cui eravamo in cerca. 55
Cfr. Metafisica, A 6-7.
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Ma, in quale modo può, il Primo Motore, muovere restando assolutamente immobile? C'è, nell'ambito delle cose che noi conosciamo, un qualcosa che sappia muovere, senza muoversi esso medesimo? Aristotele risponde additando come esempio di cose siffatte l'oggetto del desiderio e dell'intelligenza. L'oggetto del desiderio è ciò che è bello e buono; ora il bello ed il buono attraggono la volontà dell'uomo senza muoversi essi stessi in alcun modo; cosl anche l'intelligibile muove l'intelligenza senza muoversi esso stesso. E di questo tipo è anche la causalità esercitata dal Primo Motore, cioè dalla sostanza prima: il Primo Motore muove come l'oggetto di amore attrae l'amante (wc; &pwfJ.e:vov xLve:i:) 56 , e, come tale, resta immobile assolutamente. Come è evidente, la causalità del Primo Motore, non è una causalità di tipo efficiente, del tipo di quella esercitata da una mano che muove un corpo, o dallo scultore che incava il marmo, o dal padre che genera il figlio. Dio, invece, attrae; e attrae come oggetto d'amore, vale a dire a guisa di fine; la causalità del Motore immobile è quindi, propriamente, una causalità di tipo finale. Gli interpreti hanno a lungo discusso su questa questione, con diverso esito. C'è stato, ad esempio, chi ha preteso - scavando in vario modo nei testi aristotelici ed esplicitando i presupposti di certe asserzioni - di trovare in Aristotele, e più che implicitamente, il concetto di creazione, e dunque una vera e propria causalità efficiente del Motore immobile 57 • Ma, in realtà,
Metafisica, A 7, 1072 b 3. Cosl ad esempio F. Brentano, Ueber den Creationismus des Aristate/es, in « Sitzungsberichte der Akademie der Wissensch. in Wien. Philos.hist. Klasse », Bd. 101, 1882, pp. 95·126; Idem, Aristoteles und seine Weltanschauung, Leipzig 1911 (Darmstadt 1967), e, sempre dello stesso, Die Psychologie des Aristoteles, Mainz 1867 (Darmstadt 1967), pp. 234-250 (l'appendice intitolata: Von dem Wirken, insbesondere dem schopferischen Wirken des Aristotelischen Gottes). 56 57
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i testi aristotelici e i loro contesti non autorizzano tale esegesi: del resto il teorema della creazione non è stato guadagnato dalla speculazione greca ed è, invece, proprio solamente della successiva speculazione medievale. Pare corretto, invece, dire, con il Ross: « [ ... ] Dio è causa efficiente in grazia del suo essere causa finale, ma in nessun altro modo » 58 • Il mondo, anche se è tutto influenzato da Dio, dall'attrazione che Egli esercita come supremo fine, quindi dall'anelito del perfetto, non ha avuto un cominciamento. Non c'è stato un momento in cui c'era il caos (o il non-cosmo), proprio perché, se così fosse, sarebbe contraddetto il teorema della priorità dell'atto sulla potenza: prima, cioè, sarebbe il caos, che è potenza, poi sarebbe il mondo che è atto. Ma questo è tanto più assurdo, in quanto Dio è eterno: essendo eterno Dio da sempre ha attratto come oggetto d'amore l'universo, che, dunque, da sempre ha dovuto essere quale è 59 •
11.
Natura del Motore Immobile
Questo Principio, dal quale « dipendono il cielo e la natura », è Vita. E quale vita? Quella che più di tutte è eccellente e perfetta: quella vita che a noi è possibile solo per breve tempo: la vita del puro pensiero, la vita dell'attività contemplativa. Ecco lo stupendo passo in cui Aristotele fatto estremamente raro per lui - si commuove, e in cui il suo linguaggio si fa quasi poesia, canto, lirica: Da un tale principio, dunque, dipendono il cielo e la natura. Ed il suo modo di vivere è il più eccellente: è quel modo di vivere che a noi è concesso solo per breve tempo. E in quello stato egli è sempre. A noi questo è impossibile, ma a lui non è impossibile, 58 D. Ross, Aristotle, London 1923; traduzione italiana a cura di A. Spinelli, Bari 1946, p. 269. 59 Cfr. Metafisica, A 6, passim.
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poiché l'atto del suo vivere è piacere. E anche per noi veglia, sensazione e conoscenza sono in sommo grado piacevoli, proprio perché sono atto e, in virtù di questo, anche speranze e ricordi [ ... ] . Se, dunque, in questa felice condizione in cui noi ci troviamo talvolta, Dio si trova perennemente, è meraviglioso; e se egli si trova in una condizione superiore, è ancor più meraviglioso. E in questa condizione egli effettivamente si trova. Ed egli è anche Vita, perché l'attività dell'intelligenza è Vita, ed egli è appunto quell'attività. E la sua attività, che sussiste di per sé, è vita ottima ed eterna. Diciamo, infatti, che Dio è vivente, eterno ed ottimo; cosicché a Dio appartiene una vita perennemente continua ed eterna: questo, dunque, è Dio 60 •
Ma che cosa pensa Dio? Dio pensa la cosa più eccellente. Ma la cosa più eccellente è Dio stesso. Dio, dunque, pensa se stesso: è attività contemplativa di se medesimo: è pensiero di pensiero ( v6l)atç vo~ae:O>ç ). Ecco le precise affermazioni del filosofo: Il pensiero che è pensiero per sé, ha come oggetto ciò che è di per sé più eccellente, e il pensiero che è tale in massimo grado ha per oggetto ciò che è eccellente in massimo grado. L'intelligenza pensa se stessa, cogliendosi come intelligibile: infatti, essa diventa intelligibile intuendo e pensando sé, cosicché intelligenza ed intelligibile coincidono. L'intelligenza è, infatti, ciò che è capace di cogliere l'intelligibile e la sostanza, ed è in atto quando li possiede. Pertanto, più ancora che quella capacità, è questo possesso ciò che di divino ha l'intelligenza, e l'attività contemplativa è ciò che c'è di più piacevole e di più eccellente 61 •
Ancora: Se, dunque, l'Intelligenza divina è ciò che c'è di più eccellente, pensa se stessa, e il suo pensiero è pensiero di pensiero 62 •
Dio, dunque, è eterno, immobile, atto puro scevro di potenzialità e di materia, vita spirituale e pensiero di pen60 Metafisica, A 7, 1072 b 13-18 e 24-30. " Metafisica, A 7, 1072 b 18-24. 62 Metafisica, A 9, 1074 b 34-35.
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siero. Tale essendo, ovviamente, «non può avere alcuna grandezza », ma deve essere « senza parti ed indivisibile ». E deve altresì essere « impassibile ed inalterabile » 63 • Unità e molteplicità del Divino
12.
Aristotele ha però creduto che Dio non bastasse, da solo, a spiegare il movimento di tutte le sfere delle quali egli pensava che il cielo fosse costituito. Dio muove direttamente il primo mobile - il cielo delle stelle fisse -; ma fra questa sfera e la Terra vi sono molte altre sfere concentriche, digradanti e rinchiuse l'una nell'altra. Chi muove tutte queste sfere? Le risposte potrebbero essere due: o sono mosse dal moto derivante dal primo cielo, che si trasmette meccanicamente dall'una all'altra; ovvero sono mosse da altre sostanze soprasensibili, immobili ed eterne, che muovono in modo analogo al Primo Motore. La seconda soluzione è quella abbracciata da Aristotele. In effetti, la prima non poteva quadrare con la concezione della diversità dei vari moti delle differenti sfere. I moti delle varie sfere erano, infatti, secondo le vedute astronomiche di allora, diversi e non uniformi, al fine di poter produrre, combinandosi in vario modo, il moto dei pianeti (che non è un moto perfettamente circolare). Pertanto non si vedrebbe come dal moto del primo cielo potrebbero derivare differenti moti, né come dalla attrazione uniforme di un unico Motore potrebbero derivare moti circolari diretti in senso opposto. Ecco per quali ragioni Aristotele introdusse la molteplicità dei motori, che pensò come sostanze soprasensibili, capaci di muovere in modo analogo a Dio, vale a dire come cause finali (cause finali relativamente alle singole sfere). 63
Cfr. Metafisica, A 7, 1973 a 5-13.
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In base, poi, ai calcoli dell'astronomo del suo tempo, Callippo, e operando alcune correzioni che personalmente riteneva necessarie, Aristotele stabill in misura di cinquantacinque il numero delle sfere, ammettendo, peraltro, una possibile diminuzione di esse a quarantasette. E se tante sono le sfere, altrettante dovranno essere le sostanze immobili ed eterne che producono i movimenti di quelle. Dio o Primo Motore muove direttamente la prima sfera, e solo indirettamente le altre; altre cinquantacinque sostanze soprasensibili muovono le altre cinquantacinque sfere 64 • È, questa, una forma di politeismo? Per Aristotele, così come per Platone, e in genere per il Greco, il Divino designa un'ampia sfera, nella quale, a diverso titolo, come i lettori di questa nostra Storia della filosofia antica ormai ben sanno, rientrano molteplici e differenti realtà. Il Divino già per i Naturalisti includeva, strutturalmente, molti enti. Lo stesso vale per Platone: divine sono, per Platone, le Idee del Bene e del Bello e, in generale, tutte le Idee; divino è il Demiurgo; divine sono le anime; divini sono gli astri e divino è il mondo. Analogamente, per Aristotele, divino è il Motore Immobile, divine sono le sostanze soprasensibili ed immobili motrici dei cieli, divini sono gli astri, le stelle, le sfere e l'etere che le costituisce, e divina è anche l'anima intellettiva degli uomini. Divino, insomma, è tutto ciò che è eterno e incorruttibile. Il Greco (e in quest'opera abbiamo ampiamente dimostrato anche questo punto) non ha sentito l'antitesi unità-molteplicità del divino: e non è quindi puramente contingente il fatto che mai la questione sia stata esplicitamente messa a tema in questi termini. Premesso quindi che, data la forma mentis del Greco, l'esistenza di cinquantacinque sostanze soprasensibili oltre la prima, cioè oltre il Motore Immobile, doveva sembrare cosa assai meno strana che a noi; ebbene, pur premesso questo, .. Cfr. Metafisica, A 8, passim.
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dobbiamo dire che è innegabile un tentativo di unificazione da parte di Aristotele. Innanzitutto egli ha esplicitamente chiamato col termine Dio in senso forte solo il Primo Motore. Nello stesso luogo dove è esposta la dottrina della pluralità dei motori, Aristotele ribadisce l'unicità del Motore Primo - Dio in senso vero e proprio - e da questa unicità deduce anche l'unicità del mondo. E il libro teologico della Metafisica, come è noto, si chiude con la solenne affermazione che le cose non vogliono essere mal governate da una molteplicità di principi, suggellata, quasi per dare maggior solennità, dal significativo verso di Omero: il governo di molti non è buono, uno solo sia il comandante 65 • È chiaro, allora, che le altre sostanze immobili che muovono le singole sfere celesti, Aristotele non può che averle concepite come gerarchicamente inferiori al Primo Motore Immobile. E, in effetti, la loro gerarchia risulta essere la stessa di quella data dall'ordine delle sfere che muovono gli astri. Perciò i motori delle cinquantacinque sfere sono inferiori al Primo Motore e, ulteriormente, sono gerarchizzati l'uno rispetto all'altro 66 • Il che ben spiega come possano essere sostanze individue diverse l'una dall'altra: sono forme pure immateriali, una inferiore all'altra. Tuttavia esse sono, in qualche modo, Dei inferiori. In Aristotele c'è dunque un monoteismo esigenziale ben più che effettivo. Esigenziale, perché egli ha cercato di staccare nettamente il Primo Motore dagli altri, ponendolo su un piano tutto diverso, sl da poterlo legittimamente chiamare unico e da questa unicità dedurre la unicità del mondo. Ma questa esigenza si infrange, perché le cinquantacinque Omero, Iliade, n, v. 204. Cfr. Metafisica, A 8, 1073 b 1-3: «Dunque, che ci siano queste sostanze, e che, di queste, una venga prima e l'altra segua nello stesso ordine gerarchico (xa'tà 'tTJV aÙ't'ÌjV 'tti#v) dei movimenti degli astri, è evidente». 65
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sostanze motrici sono parimenti eterne sostanze immateriali che non dipendono dal Primo Motore quanto all'essere. Il Dio aristotelico non è creatore delle cinquantacinque intelligenze motrici: e di qui nascono tutte le difficoltà di cui ragioniamo. Lo Stagirita, poi, ha lasciato completamente inspiegato il preciso rapporto sussistente fra Dio e queste sostanze, e, anche, fra queste sostanze e le sfere che esse muovono. Il Medioevo trasformerà queste sostanze nelle celebri « intelligenze angeliche » motrici, ma potrà operare questa trasformazione appunto in virtù del concetto di creazione.
13.
Dio e il mondo
Dio (e parlando di Dio alludiamo al Primo Motore), come vedemmo, pensa e contempla se medesimo. Pensa anche il mondo e gli uomini che sono nel mondo? Aristotele non ha fornito una chiara soluzione al problema, e sembra, almeno in una certa misura, propendere per la negativa. Che ci sia il mondo e quali siano i principi universali del mondo è conoscenza che certamente il Dio aristotelico possiede. D'altra parte, se Dio è esso stesso principio supremo, è chiaro, anche, che dovrà conoscersi come tale: conoscerà, cioè, se medesimo, anche come oggetto di amore e di attrazione dell'universo tutto. È certo, però, che gli individui in quanto tali, ossia nelle loro limitazioni, deficienze e povertà, non sono da Dio conosciuti: questa conoscenza dell'imperfetto, agli occhi di Aristotele, rappresenterebbe una diminutio per Dio. Ecco i testi più eloquenti: Inoltre, sia nell'ipotesi che la sua [ = della intelligenza di Dio] sostanza sia la capacità di intendere, sia nell'ipotesi che la sua
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sostanza sia l'atto dell'intendere, che cosa pensa? O se medesima, oppure qualcosa di diverso, o pensa sempre la medesima cosa, o qualcosa di sempre diverso. Ma è o non è cosa ben differente il pensare ciò che è bello, ovvero una cosa qualsiasi? O non è assurdo che essa pensi certe cose? È pertanto evidente che essa pensa ciò che è più divino e più degno di onore e che l'oggetto del suo pensare non muta: il mutamento, infatti, è sempre verso il peggio, e questo mutamento costituisce pur sempre una forma di movimento 67 •
E subito appresso, dimostrando che l'intelligenza divina è per sua natura atto, lo Stagirita soggiunge: In primo luogo [. .. ] se non è pensiero in atto, ma in potenza, logicamente la continuità del pensare per essa costituirebbe una fatica. Inoltre, è evidente che qualcos'altro sarebbe più degno di onore che non l'Intelligenza: ossia l'Intelligibile. Infatti, la capacità di pensare e l'attività di pensiero appartengono anche a colui che pensa la cosa più indegna: sicché, se questa è, invece, cosa da evitare - è meglio, infatti, non vedere certe cose, che vederle -, ciò che c'è di più eccellente non potrebbe essere il pensiero. Se, dunque, l'Intelligenza divina è ciò che c'è di più eccellente, pensa se stessa, e il suo pensiero è pensiero di pensiero 68 •
Da questi passi sembra, dunque, doversi concludere che gli individui empirici, secondo Aristotele, sono indegni, appunto nella loro empiricità e particolarità, del pensiero divino. Un'altra limitazione del Dio aristotelico - che ha lo stesso fondamento della precedente: il non aver creato il mondo, l'uomo, le singole anime - consiste nel fatto che egli è oggetto d'amore, ma non ama (o, al più, ama solo se medesimo). Gli individui, in quanto tali, non sono affatto oggetto dell'amore divino: Dio non si piega verso gli uomini e meno che mai si piega verso il singolo uomo. Ciascuno degli uomini, come ciascuna cosa, tende in vario modo a Dio, ma " Metafisica, A 9, 1074 b 21-27. Metafisica, A 9, 1074 b 28-35.
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Dio, come non può conoscere, così non può amare nessuno dei singoli uomini 69 • Occorreva, perché si andasse oltre, che venisse guadagnato il teorema della creazione: ma la speculazione greca non giungerà a tale guadagno, nemmeno con il Neoplatonismo 7a.
69 In altri termini: Dio è solo amato e non, anche, amante; egli è oggetto e non anche soggetto di amore. Anche per Aristotele, così come per Platone, è impensabile che Dio (l'Assoluto) ami qualcosa (qualcosa di altro da sé), dato che amore è semp;c tendenza a possedere qualcosa di cui si è privi, e Dio non è privo di nulla. (È totalmente sconosciuta al Greco la dimensione dell'amore come dono gratuito di sé). Inoltre Dio non può amare, perché è intelligenza pura e, secondo Aristotele, l'intelligenza pura è impassibile e come tale non ama (cfr. il passo del De anima che riportiamo a pp. 480 sg.). 70 Per un approfondimento di tutti i problemi concernenti la metafisica aristotelica il lettore troverà tutte le indicazioni occorrenti nella ricchissima bibliografia redatta dall'Owens, The Doctrine of Being ... , pp. 425-446, nella bibliografia ragionata che abbiamo aggiunto alla seconda e terza edizione del nostro volume Il concetto di filosofia prima e l'unità de/l,; Metafi
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II. LA FISICA
l.
.
Caratterizzazione della fisica aristotelica
La seconda scienza teoretica per Aristotele è la fisica o « filosofia seconda », la quale ha come oggetto di indagine la realtà sensibile, intrinsecamente caratterizzata dal movimento, cosl come la metafisica aveva ad oggetto la realtà soprasensibile, intrinsecamente caratterizzata dalla mancanza assoluta di movimento 1 • La distinzione di una problematica metafisica e di una problematica fisica, dopo le acquisizioni della « seconda navigazione » platonica, si imponeva strutturalmente: se due sono i piani della realtà, o, per esprimerci in termini più aristotelici, se esistono due diversi generi di sostanze strutturalmente distinti, il genere soprasensibile e il genere sensibile, allora necessariamente diverse dovranno essere altreslle scienze aventi queste due diverse realtà come oggetto di indagine. La distinzione fra metafisica e fisica comporterà il definitivo superamento dell'orizzonte della filosofia dei Presocratici e comporterà un radicale mutamento dell'antico senso di physis, che, anziché significar~ la totalità dell'essere, verrà ora a significare l'essere sensibile, e natura vorrà dire prevalentemente natura sensibile 2 (ma un sensibile in cui la forma resta il principio dominante) 3 • ' Cfr. Metafisica, E l, 1025 a 28 sgg. Si veda la posizione che Aristotele assume nei confronti della presocratica filosofia della physis in Metafisica, A 8, passim. 3 Sull'aristotelico concetto di natura si vedrà specialmente il secondo 2
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ARISTOTELE E LA SISTEMAZIONE DEL SAPERE FILOSOFICO
Il lettore moderno, per la verità, può essere tratto in inganno dalla parola fisica; per noi, infatti, la fisica si identifica con la scienza della natura galileianamente intesa, vale a dire quantitativamente intesa. Aristotele, invece, è agli antipodi: la sua non è una scienza quantitativa della natura, ma una scienza qualitativa; paragonata alla fisica moderna, quella di Aristotele risulta, più che una scienza, una antologia o metafisica del sensibile. Ci troviamo, insomma, di fronte a una considerazione squisitamente filosofica della natura: e sarà questo tipo di considerazione, del resto, che si protrarrà fino alla rivoluzione galileiana. Non sarà, dunque, motivo di stupore il fatto che si trovino nei libri di Metafisica abbondanti considerazioni fisiche (nel senso precisato) e, viceversa, nei libri di Fisica abbondanti considerazioni di carattere metafisica, giacché gli ambiti delle due scienze sono strutturalmente intercomunicanti: il soprasensibile è causa e ragione del sensibile e al soprasensibile termina sia l'indagine metafisica sia (anche se in senso diverso) la stessa indagine fisica; e, per giunta, anche il metodo di studio che viene applicato nelle due scienze è identico. Del resto, l'esposizione che segue - che per ragioni di spazio si limiterà solo ad alcuni dei temi di fondo, quelli qualificanti - lo dimostrerà adeguatamente. 2. Il m u t a m e n t o e i l m o v i m e n t o
Abbiamo detto che la caratteristica essenziale della natura è data dal movimento, e all'analisi del movimento e delle sue cause Aristotele dedica, per conseguenza, gran parte della Fisica 4 • libro della Fisica, di cui O. Hamelin ha dato un buon commentario: Aristole, Physique II, Traduction et commentaire, Paris 1931'. Sul tema dr. anche le chiare pagine di A. Mansion, Introduction à la Physique Aristotélicienne, Louvain-Paris 1945', pp. 92 sgg. e passim. • Cfr. Fisica, libri E Z H 0; ma anche i libri che precedono toccano in larga misura il movimento o concetti ad esso strettamente collegati.
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LA FISICA
Che cos'è il movimento? Già sappiamo come il movimento sia divenuto problema filosofico solo dopo che esso era stato negato dagli Eleati quale apparenza illusoria. Sappiamo anche come già dai Pluralisti esso sia stato recuperato e in parte giustificato. Tuttavia nessuno, nemmeno Platone, finora, aveva saputo stabilire quale fosse la sua essenza e il suo statuto antologico. Gli Eleati avevano negato divenire e movimento perché, in base alla loro tesi di fondo, questi supporrebbero l'esistenza di un non-essere (ciò che diviene in generale passa da uno stato ad un altro, e ciascuno di questi stati non è quello precedente e non è quello seguente; nascere e morire parrebbero pertanto passaggio dal non-essere assoluto all'essere e dall'essere al non-essere assoluto) mentre il non essere non esiste in alcun modo. La soluzione dell'aporia è raggiunta da Aristotele nella maniera più brillante. Intanto, il movimento è un dato di fatto originario, quindi non si può revocare in dubbio. Ma come si giustifica? Sappiamo (dalla metafisica) che l'essere ha molti significati e che un gruppo di questi significati è ridato dalla coppia essere come potenza e essere come atto. Rispetto all'essere-in-atto l'essere-in-potenza può essere detto non-essere, precisamente non-essere-in-atto; ma è chiaro che si tratta di un non-essere relativo, giacché la potenza è reale, perché è reale capacità ed effettiva possibilità di pervenire all'atto. Orbene, venendo al punto che ci interessa, il movimento o il mutamento in genere è precisamente il passaggio dall'essere in potenza all'essere in atto (il movimento è l'atto o l'attuazione di ciò che è in potenza in quanto tale, dice Aristotele 5 ). Dunque, il movimento non suppone affatto il non-essere parmenideo, perché si svolge nell'alveo dell'essere ed è passaggio da essere (potenziale) ad essere (attuale): e con questo il movimento ' Cfr. ovv~X't'ov
Ti
Fisica,
r
l, 201 a 10-11 e Metafisica, K 9, 1065 b 33: i) 't'oli
ovv~X't'ÒV ÉV't'EÀ.ÉXE!.Cl x(VT)cr(c; ÉO''t'W.
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perde definitivamente quel carattere che potremmo denominare nullificante, per cui gli Eleati si credevano costretti ad eliminarlo, e resta fondamentalmente spiegato. Ma Aristotele fornisce ulteriori approfondimenti circa il movimento che sono di capitale importanza, giungendo a stabilire quali siano tutte le possibili forme di movimento e quale sia la loro struttura antologica. Rifacciamoci ancora alla distinzione originaria dei diversi significati dell'essere. Abbiamo visto che potenza e atto riguardano le varie categorie e non solo la prima. Per conseguenza, anche il movimento, che è passaggio dalla potenza all'atto, riguarderà le varie categorie (tutte le categorie o le principali) 6 • E cosl dalla tavola delle categorie è possibile dedurre le varie forme di mutamento. Alcune delle categorie, in effetti, non ammettono mutamento. Cosl è ad esempio per la categoria della relazione, perché basta che si muova uno dei due termini della relazione perché anche l'altro, pur rimanendo immutato, muti il significato relazionale (e quindi se ammettessimo movimento secondo la relazione noi ammetteremmo l'assurdo di un movimento senza movimento per il secondo termine); le categorie dell'agire e del patire sono già di per sé movimenti e non è possibile movimento di movimento; infine anche il quando o tempo, come già vedemmo, è un'affezione del movimento. Restano le categorie l) della sostanza, 2) della qualità, 3) della quantità, 4) del luogo, ed è proprio secondo queste categorie che avviene il mutamento. Il mutamento secondo la sostanza è la gene• Cfr. Fisica, f 1-2. La dottrina è ripresa con testuali parole della Fisica anche in Metafisica, K 9, 1066 b 5 sgg.: «L'essere o è solamente in atto o è in potenza, oppure è, insieme, in atto e in potenza: e, questo, si verifica sia per la sostanza, sia per la qualità, sia per le restanti categorie. Non esiste alcun movimento che sia fuori dalle cose: infatti, il mutamento ha luogo sempre secondo le categorie dell'essere, e non c'è nulla che sia comune a tutte e che non rientri in una singola categoria. Ciascuna delle categorie, in tutte le cose, esiste in due modi diversi [ ... ], sicché ci dovranno essere tante forme di movimento e di mutamento quante sono le categorie dell'essere».
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razione e la corruzione; il mutamento secondo la qualità è l'alterazione; il mutamento secondo la quantità è l'aumento e la diminuzione e il movimento secondo il luogo è la traslazione. Mutamento è termine generico che va bene per tutte e quattro queste forme, movimento è invece termine che designa le ultime tre e particolarmente l'ultima 7 • In tutte le sue forme il divenire suppone un sostrato (che è poi l'essere potenziale), che passa da un opposto all'altro opposto: nella prima forma da un contraddittorio all'altro contraddittorio e nelle altre tre forme da un contrario all'altro contrario. La generazione è un assumere la forma da parte della materia, la corruzione un perdere la forma; l'alterazione è un cangiamento della qualità, mentre l'aumento e la diminuzione sono un passaggio da piccolo a grande e viceversa; il movimento locale è passaggio da un punto ad un altro punto. Solo i composti (i sinoli) di materia e forma possono mutare, perché solo la materia implica potenzialità: la struttura ilemorfica della realtà sensibile che necessariamente implica materia e potenzialità è dunque la radice di ogni movimento 8 • Queste considerazioni ci riportano, cosl, al problema delle quattro cause a noi già note. Materia e forma sono cause intrinseche del divenire. Causa esterna è, invece, l'agente o causa efficiente: nessun mutamento ha luogo senza questa causa, perché non ci può essere passaggio da potenza ad atto senza che ci sia un motore già in atto. Infine occorre la causa finale, che è lo scopo e la ragione del divenire. La causa finale indica sostanzialmente il senso positivo di ogni divenire che, agli occhi di Aristotele, è fondamentalmente un progredire verso la forma e un realizzare la forma. Lungi dall'essere l'ingresso del nulla, il divenire appare ad Aristotele come la via che porta alla pienezza dell'essere, cioè la via che le co_se percorro' Cfr. Fisica, E 1-2. ' Cfr. Fisica, A 5 sgg.; cfr. anche E 1-2.
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no per attuarsi, per essere pienamente ciò che sono, per realizzare la loro essenza o forma (e in tal senso ben si comprende perché la physis aristotelica sia, in ultima analisi, questa forma) 9 • A questo proposito va notato che la teleologia aristocelica resta monca, non già per le limitazioni che egli espressamente opera in famosi passi della Fisica 10 , ma per l'irrisolta aporia metafisica di fondo, per cui il mondo esiste non per un disegno dell'Assoluto, ma per un quasi meccanico e fatale anelito di tutte le cose alla perfezione, che dallo Stagirita è intuito e affermato, ma non è rigorosamente giustificato. Sulla ragione di fondo del finalismo universale l'ultimo Platone, con la dottrina del Demiurgo del Timeo, aveva visto più a fondo: e, in effetti, o si ammette un Essere che progetta il mondo e che lo fa essere in funzione del bene e del meglio, oppure il finalismo universale non regge.
3.
Lo spazio e il vuoto
Connessi al concetto del movimento sono i concetti di spazio, di vuoto e di tempo 11 • Gli oggetti non sono nel non-essere, che non esiste, ma sono in un dove, ossia in un luogo, che dunque è qualcosa che è. E che il luogo esista e sia dunque una realtà non è dubbio, se si pone mente al fatto dello spostamento reciproco dei corpi (nel recipiente dove ora c'è l'acqua, quando essa esce, entra l'aria, e, in genere, un corpo diverso viene sempre ad occupare il medesimo luogo che era occupato dal corpo che vien tolto, sostituendosi ad esso): 9 Cfr. Fisica, B, in particolare capp. 7-8; si veda a questo proposito Mansion, Introduction à la Physique, pp. 251-281. 1° Fisica, B 4-6, su cui cfr. Mansion, Introduction à la Physique, pp. 292-314. " Fisica, libro .i, passim.
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Sicché è chiaro che il luogo è pur qualcosa e che quella parte di spazio verso cui e da cui si verifica il mutamento dei due elementi, è qualcosa di diverso da entrambi 12 •
Inoltre, l'esperienza mostra che esiste un «luogo naturale » cui ciascuno degli elementi tende, quando non trovi ostacolo: fuoco e aria tendono verso l'alto, terra e acqua verso il basso. Alto e basso non sono qualcosa di relativo a noi, bensl qualcosa di oggettivo, sono determinazioni naturali: L'alto non è qualsivoglia cosa, ma là dove si portano il fuoco e il leggero; e, parimenti, il basso non è una qualsivoglia cosa, ma là dove vanno le cose pesanti e fatte di terra [ ... ] 13 •
Che cos'è allora il luogo? Una prima caratterizzazione Aristotele la guadagna distinguendo il luogo che è comune a molte cose e il luogo che è proprio di ciascun oggetto: Il luogo, da una parte, è quello comune nel quale sono tutti i corpi, dall'altra è quello particolare in cui immediatamente un corpo è [ ... ], e se il luogo è ciò che immediatamente contiene ciascun corpo, esso sarà, allora, un certo limite [ ... ] 14 •
Ulteriormente, Aristotele precisa che [ ... ] il luogo è ciò che contiene quell'oggetto di cui è luogo e che non è nulla della cosa medesima che esso contiene 15 •
Unendo le due caratterizzazioni si avrà che il luogo è [ ... ] il limite del corpo contenente, in quanto esso è contiguo al contenuto 16 • 12 Fisica, t:. l, 208 h 6-8. La traduzione che riportiamo, qui e nelle pagine che seguono, è di A. Russo (Aristotele, La Fisica, Laterza, Bari 1968; ora anche in Aristotele, Opere, Bari 1973). 13 Fisica, t:. l, 208 h 19-21. •• Fisica, t:. 2, 209 a 31-h 2. 15 Fisica, t:. 4, 210 h 34 - 211 a l. •• Fisica, t:. 4, 212 a 6.
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Da ultimo Aristotele precisa ancora che il luogo non va confuso col recipiente: il primo è immobile mentre il secondo è mobile; si potrebbe in certo senso dire che il luogo è il recipiente immobile mentre il recipiente è un luogo mobile: E come il vaso è un luogo trasportabile, cosi anche il luogo è un vaso che non si può trasportare. Perciò, quando qualcosa che è dentro un'altra, si muove e cambia in una cosa mossa, come una navicella in un fiume, essa si serve di ciò che contiene come di un vaso piuttosto che come di un luogo. Il luogo, invece, vuole essere immobile: perciò, piuttosto l'intero fiume è luogo, perché l'intero è immobile. Dunque il luogo è il primo immobile limite del contenente 17 •
Definizione, questa, che diverrà famosissima, e che i medievali fisseranno nella celebre formula: terminus contine~tis immobilis primus . . E da questa definizione del luogo segue che non è pensabile un luogo fuori dell'universo, né un luogo in cui è l'universo: Ma se si prescinde dall'intero universo, non c'è alcuna altra cosa al di fuori del tutto, e perciò tutte le cose sono nel cielo: ché il cielo, s'intende, è il tutto! Il luogo, invece, non è il cielo, ma, per cosi dire, l'estremità del cielo, ed è [immobile limite] contiguo al corpo mobile: e per questo la terra è nell'acqua, questa nell'aria, questa, a sua volta, nell'etere, l'etere nel cielo: ma il cielo non è affatto in un'altra cosa 18 •
E così il movimento del cielo come totalità sarà possibile solo nel sensc della circolarità su se medesimo, non essendoci posto per una traslazione. In un luogo è - si noti tutto ciò che si muove (e si muove tendendo a raggiungere il suo luogo naturale); ciò che è immobile non è in un luogo: Dio e le altre intelligenze motrici non abbisognano strutturalmente del luogo. " Fisica, A 4, 212 a 14-21. Fisica, A 5, 212 h 16-22.
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Dalla definizione data di luogo, segue anche l'impossibilità del vuoto. Il vuoto era stato inteso come « luogo in cui non c'è nulla » o « luogo in cui non c'è alcun corpo » 19 • Ma è ovvio che luogo in cui non c'è nulla, stante la definizione data di luogo come terminus continentis, è una contraddizione in termini. E così resta tolto il presupposto cardine su cui gli Abderiti avevano costruito la dottrina degli atomi e la concezione meccanicistica dell'universo. 4.
Il tempo
Al concetto di tempo Aristotele ha poi dedicato profonde analisi che anticipano addirittura alcuni concetti che S. Agostino svilupperà e renderà celebri 20 • Ecco il punto focale della dottrina aristotelica del tempo: Che esso [sci!.: il tempo] non esista affatto o che la sua esistenza sia oscura e appena riscontrabile, lo si potrebbe sospettare da quanto segue. Una parte di esso è stata e non è più, una parte sta per essere e non è ancora. E di tali parti si compone sia il tempo nella sua infinità, sia quello che di volta in volta viene da noi assunto. E sembrerebbe impossibile che esso, componendosi di non enti; possegga una essenza. Oltre a ciò è necessario che, se c'è un tutto divisibile in parti, dal momento che esso c'è, ci siano anche o tutte le parti o alcune. Ma del tempo alcune parti sono state, altre sono per essere, ma nessuna è, sebbene esso sia divisibile in parti. Si tenga anche presente che l'istante non è una parte: infatti la parte ha una misura, e il tutto deve risultare composto di parti, mentre il tempo non sembra essere un insieme di istanti 21 • 19 Fisica, il 7, 213 b 21 e 33. Ecco come Aristotele spiega l'origine di questa convinzione: « [ ... ] È opinione che il vuoto sia un luogo in cui non c'è nulla. E la causa di ciò è nel fatto che si crede che l'ente sia un corpo e che ogni corpo sia in un luogo, e che il vuoto sia il luogo nel quale non c'è alcun corpo; sicché, se in un luogo non c'è un corpo, ivi c'è vuoto». "' Alla dottrina aristotelica del tempo ha dedicato un esame esauriente J. M. Dubois, Le temps et l'instant selon Aristate, Paris 1967. " Fisica, 1110, 217 b 32 - 218 a 8.
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Che cos'è allora il tempo? Aristotele cerca di risolverne il mistero in funzione di due punti di riferimento: il movimento e l'anima: se si prescinde sia dall'uno sia dall'altra, sfugge la natura del tempo. Intanto, il tempo non è movimento e mutamento ma implica essenzialmente movimento e mutamento: L'esistenza del tempo [ ... ] non è [ ... ] possibile senza quella del cangiamento; quando, infatti, noi non mutiamo nulla entro il nostro animo o non avvertiamo di mutar nulla, ci pare che il tempo non sia trascorso affatto 22 •
E poiché il tempo implica così strettamente il movimento, può essere ritenuto una affezione o una proprietà di esso. E quale proprietà? Il movimento, che è sempre movimento attraverso uno spazio continuo, è esso stesso, per conseguenza, continuo, e continuo dovrà quindi essere anche il tempo, perché la quantità del tempo trascorso è sempre proporzionata al movimento. E nel continuo si distinguono il prima e il poi, che per conseguenza hanno un corrispettivo nel movimento e quindi nel tempo: Quando abbiamo determinato il movimento mediante la distinzione del prima e del poi, conosciamo anche il tempo, e allora noi diciamo che il tempo compie il suo percorso, quando abbiamo percezione del prima e del poi nel movùnenio 23 •
Ed ecco così la celebre definizione del tempo: Tempo è il numero del movimento secondo il prima e il poi 24 •
Orbene, la percezione del prima e del poi, e quindi del numero del movimento, necessariamente suppone l'anima: Fisica, A 11, 218 b 21-23. Fisica, A 11, 219 a 22-25 . .. Fisica, A 11, 219 b 1-2: -roih-o ycip 22
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Quando [ ... ] noi pensiamo le estremità come diverse dal medio e l'anima ci suggerisce che gli istanti sono due, il prima, cioè, e il poi, allora noi diciamo che c'è tra questi due istanti un tempo, giacché il tempo sembra essere ciò che è determinato dall'istante: e questo rimanga come fondamento 25 • Ma se l'anima è il principio spirituale numerante, e quindi la condizione della distinzione del numerato e del numero, allora l'anima diviene conditio sine qua non dello stesso tempo e ben si capisce l'aporia che Aristotele solleva in questo passo di incommensurabile importanza storica: Si potrebbe [ ... ] dubitare se il tempo esista o meno senza la esistenza dell'anima. Infatti se non si ammette l'esistenza del numerante, è anche impossibile quella del numerabile, sicché, ovviamente, neppure il numero ci sarà. Numero, infatti, è o ciò che è stato numerato o il numerabile. Ma se è vero che nella natura delle cose soltanto l'anima o l'intelletto che è nell'anima hanno la capacità di numerare, risulta impossibile l'esistenza del tempo senza quella dell'anima [ ... ] 26 • È un pensiero, questo, fortemente anticipatore della prospettiva agostiniana e delle concezioni spiritualistiche del tempo, che solo di recente ha richiamato l'attenzione che meritava. Aristotele ha poi precisato che, per misurare il tempo occorre una unità di misura, cosi come occorre una unità di misura per misurare qualunque altra cosa. Questa deve essere ricercata nel movimento uniforme e perfetto; e poiché movimento uniforme e perfetto è solo quello circolare, ne viene per conseguenza che l'unità di misura è il movimento delle sfere e dei corpi celesti 27 • Dio e le intelligenze motrici, cosi come sono fuori dello spazio, in quanto immobili sono fuori anche del tempò. " Fisica, A 11, 219 a 26-30. 26 Fisica, A 14, 223 a 21-26. 27 Per l'approfondimento di questi problemi dr. il volume dd Dubois, Le temps et l'instant selon Aristate, pp. 259 ~gg.
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5.
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L'i n fin i t o
Infine, dobbiamo dire del concetto di infinito 28 • Aristotele nega che esista un infittito in atto. E quando parla di infinito, egli intende soprattutto un corpo infinito e gli argomenti che egli adduce contro l'esistenza di un infinito in atto sono appunto contro l'esistenza di un corpo infinito. L'infinito esiste solo come potenza o in potenza. Infinito in potenza è, ad esempio, il numero, perché è possibile aggiungere a qualsivoglia numero sempre un ulteriore numero senza che si arrivi ad un limite estremo al di là del quale non si possa più andare; infinito in potenza è anche lo spazio, perché è divisibile all'infinito, in quanto il risultato della divisione è sempre una grandezza che, come tale, è ulteriormente divisibile; infinito potenziale, infine, è anche il tempo, che non può esistere tutto insieme attualmente, ma si svolge e si accresce senza fine. Ed Aristotele non ha neppure lontanamente intravvisto l'idea che infinito potesse essere l'immateriale, appunto perché egli collegava l'infinito con la ca.tegoria della quantità, la quale vale solo per il sensibile. E si spiega anche come egli finisse per suggellare definitivamente l'idea pitagorica (e in genere propria di quasi tutta la grecità), secondo cui il finito è perfetto e l'infinito imperfetto. Dice Aristotele in una pagina paradigmatica: Infinito è [ ... ] ciò al di fuori di cui, se si assume come quantità, è sempre possibile assumere qualche altra cosa. Ciò, invece, al di fuori di cui non c'è nulla, è perfetto ed intero. Ché noi cosl definiamo l'intero: ciò di cui non manca nulla, ad esempio l'uomo intero e lo scrigno. E come è nel particolare, così è anche nel più autentico significato logico, che, cioè, l'intero è ciò al di fuori del quale non c'è nulla; ma ciò al di fuori di cui c'è qualcosa che ad esso manca, non è il tutto, qualunque cosa gli manchi. Invece l'intero e il perfetto sono o la medesima cosa in tutto e ,. Cfr. Fisica, f 4-8.
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per tutto o qualcosa di simile per natura. Ma nessuna cosa che non abbia un fine è perfetta, e il fine è limite 29 • Questo fa capire assai bene la ragione per cui necessariamente Aristotele dovesse negare a Dio l'infinitudine. Più che mai, dopo questa teorizzazione dell'infinito come potenzialità e imperfezione, l'antica intuizione dei Milesi, di Melisso e di Anassagora, che vedeva l'Assoluto come infinito, doveva essere obliterata: essa doveva restare eccentrica rispetto al pensiero di tutta la grecità, e per poter rinascere doveva attendere la scoperta di ulteriori orizzonti metafisici. 6. L a « qui n t a es senza » e l a d i v i si o n e d e l mondo sublunare e celeste Aristotele ha distinto la realtà sensibile in due sfere fra loro nettamente differenziate: da un lato il mondo cosiddetto sublunare e dall'altro il mondo sopralunare o celeste, come abbiamo già accennato in sede di metafisica. Qui dobbiamo chiarire ulteriormente le ragioni della differenziazione. Il mondo sublunare è caratterizzato da tutte quante le forme di mutamento, fra le quali predominano la generazione e la corruzione. Invece i cieli sono caratterizzati dal solo movimento locale, e precisamente dal movimento circolare. Nelle sfere celesti e negli astri non può aver luogo né generazione né corruzione, né alterazione, né aumento, né diminuzione (in tutte le età gli uomini hanno sempre visto i cieli cosl come noi li vediamo: dunque è la stessa esperienza che dice che non sono mai nati e, cosl come non sono mai nati, sono anche indistruttibili). La differenza fra mondo sopralunare e quello sublunare, che pur sono ugualmente sensibili, sta non in altro che nella diversa materia di cui sono costituiti: ., Fisica, f 6, 207 a 7-15.
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E se c'è qualcosa di eternamente mosso, neppure esso può essere mosso secondo potenza, se non da un punto ad un altro (come appunto si muovono i cieli). E nulla vieta che ci sia una materia propria di questo tipo di movimento. Per questo, il sole, gli astri e tutto il cielo sono sempre in atto: e non c'è da temere che essi ad un certo momento si fermino, come temono i Fisici. Né essi si stancano di compiere il loro percorso, perché il loro movimento non è, come quello delle cose corruttibili, connesso con la potenza dei contrari, il che renderebbe faticosa la continuità del movimento 30 • E questa materia che è potenza dei contrari è data dai quattro elementi (terra, acqua, aria e fuoco), che Aristotele, contro l'eleatizzante Empedocle, considera trasformabili l'uno nell'altro, appunto per dar ragione, più a fondo di quanto non facesse Empedocle, della generazione e della corruzione. Invece, l'altra materia che possiede solo la potenza di passare da un punto ad un altro, e che quindi è suscettibile di ricevere il solo movimento locale, è l'etere, detto cosl perché corre sempre (ti E t i} E 'L "') 31 • Esso fu anche denominato «quinta essenza», perché s'aggiunge alle quattro essenze degli altri elementi (acqua, aria, terra, fuoco) 32 • E mentre il movimento caratteristico dei quattro elementi è rettilineo (si muovono dall'alto ai basso gli elementi pesanti, dal basso "' Metafisica, 0 8, 1050 b 20-27. Cfr. Il Cielo, A 3, 270 b 16 sgg. In questo passo, dopo aver detto che l'etere «non s'accresce né diminuisce e non è soggetto ad invecchiamento o ad altre affezioni », Aristotele precisa, fra l'altro: «Ed anche il suo nome [sci!.: etere] pare che dagli antichi si sia tramandato fino ai nostri giorni, concependolo essi nel modo che anche noi diciamo [ ... ]. Perciò, considerando il corpo primo come un'altra sostanza oltre a terra, fuoco, aria e acqua, essi chiamarono il luogo eccelso etere (or.t&ljp ), e gli han dato questo nome perché esso corre sempre (&el &e iv) nell'eternità del tempo». Cfr. anche Meteorologici, A 3, 339 b 16 sgg. [La traduzione del passo riportato è di O. Longo]. 32 È da notare che se tale denominazione è assente negli esoterici, risulta invece essere stata già presente negli essoterici; inoltre si trova già nell'Epinomide (dialogo attribuito a Platone), 981 c. Sul problema si veda: Reale, Aristotele, Trattato sul cosmo, pp. 102 sgg. 31
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all'alto quelli leggeri), quello dell'etere è invece circolare (l'etere non è dunque né pesante né leggero). L'etere è ingenerato, incorruttibile, non soggetto ad accrescimento e ad alterazione né ad altre affezioni che implichino questi mutamenti, ed è per questo motivo che incorruttibili sono anche i cieli che di etere sono costituiti. Questa dottrina di Aristotele verrà poi accolta anche dal pensiero medievale, e solo all'inizio dell'età moderna cadrà la distinzione fra mondo sublunare e mondo sopralunare, insieme al presupposto sul quale reggeva. Abbiamo detto all'inizio che la fisica aristotelica (e anche gran parte della sua cosmologia) è in verità una metafisica del sensibile e quindi non si stupirà il lettore che la Fisica sia ricolma di considerazioni metafisiche e che addirittura culmini con la dimostrazione dell'esistenza di un Motore primo immobile: convinto radicalmente che « se non ci fosse l'eterno non esisterebbe neppure il divenire » 33 , lo Stagirita ha coronato le sue indagini fisiche dimostrando puntualmente l'esistenza di questo principio. Ancora una volta si manifesta come assolutamente determinante l'esito della « seconda navigazione » platonica 34 •
33 Metafisica, B 4, 999 h 5 sg.; cfr. Fisica, 0, passim. "" Una nuova (anche se per molti aspetti discutibile) interpretazione dell& fisica aristotelica è stata di recente data da W. Wieland, Die aristatelische Physik, Gottingen 1962. La indichiamo come stimolante antitesi della nostra esegesi.
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III. LA PSICOLOGIA
l.
Il concetto aristotelico dell'anima
La fisica aristotelica non indaga solamente la natura in generale e i suoi principi, l'universo fisico e la sua struttura, ma altresì gli esseri che sono nell'universo, quelli inanimati, quelli animati senza ragione, e gli esseri animati e dotati di ragione (l'uomo). Agli esseri animati lo Stagirita dedica una particolarissima attenzione, componendo una ingente quantità di trattati, fra i quali spicca per profondità, originalità e valore speculativo il celebre trattato Sull'anima 1, che ora dobbiamo prendere in esame (la maggior parte degli altri trattati contiene dottrine che interessano più la storia della scienza che non la storia della filosofia 2 ). Gli esseri animati si differenziano dagli esseri inanimati perché posseggono un principio che dà loro la vita-, e questo principio è l'anima. Ma che cos'è l'anima? Aristotele, per rispondere alla domanda, si rifà alla sua concezione metafisica ilemorfica della realtà. Tutte le cose l Per la lettura approfondita di quest'opera indichiamo: F.A. Tren· delenburg, Aristotelis De anima libri tres, Berlin 18772 (il cui commentario resta fondamentale; è stato ristampato a Graz nel 1957); G. Rodier, Aristate, Traité de l'ame, Paris 1900; J. Tricot, Aristate, De l'ame, Paris 1947; D. Ross, Aristotle, De Anima, Oxford 1961; G. Movia, Aristotele, L'anima, Napoli 1979. ' Questi trattati sono ora disponibili in due traduzioni italiane: Aristotele, Opere biologiche, a cura di D. Lanza e M. Vegetti, UTET, Torino 1971 e Aristotele, Piccoli trattati di storia naturale, a cura di R. Laurenti, in Aristotele, Opere, Laterza, Bari 1973.
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in generale sono sinolo di materia e di forma e la materia è potenza mentre la forma è entelechia o atto. Questo vale, naturalmente, anche per gli esseri viventi. Ora, osserva lo Stagirita, i corpi viventi hanno vita ma non sono vita e, dunque, sono come il sostrato materiale e potenziale di cui l'anima è forma e atto. Scrive Aristotele: È necessario, dunque, che l'anima sia sostanza come forma di un corpo fisico che ha vita in potenza. Ma la sostanza come forma è entelechia [ = atto]. L'anima dunque è entelechia di un corpo cosiffatto 3 •
Dunque, l'anima è entelechia prima (È'J'tEÀ.ÉXELa. i} 7tpW't1}) di un corpo fisico che ha la vita in potenza 4 • Se si deve dare una definizione che sia valida per ogni anima, bisognerà dire che essa è l'entelechia prima di un corpo naturale organico 5 • È chiaro, intanto, già da questa semplice definizione, come la psyché aristotelica si presenti con caratteri nuovi rispetto sia alla psyché dei Presocratici, perché questa era identificata per lo più con il principio fisico, o comunque ridotta ad un aspetto di esso, sia, anche, rispetto alla psyché platonica, che era concepita come dualisticamente contrapposta al corpo, al punto da essere vista come totalmente altra dal corpo e incapace di armonica conciliazione con esso, giacché il corpo era visto come carcere e luogo di espiazione dell'anima. (Dopo il Pedone Platone intenderà l'anima come principio di movimento, temperando ma non superando del tutto la sua posizione originaria). Aristotele prende una posizione intermedia, unificando i primi due punti di vista e tentando una sintesi mediatrice, come del resto egli cerca di fare nella
' L'anima, B l, 412 a 19-22. La traduzione di questo passo e degli altri che riporteremo è nostra (tranne quella del passo di cui diremo alla nota 23 ). ' L'anima, B l, 412 a 27-28. 5 L'anima, B l, 412 b 4-6.
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soluzione di tutti i problemi speculativi. Hanno ragione i Presocratici nel vedere l'anima come qualcosa di intrinsecamente unito al corpo, ma ha ragione Platone nel vedere in essa una natura ideale: non si tratta però di una realtà a sé stante e non conciliabile col corpo, ma si tratta della forma, dell'atto o dell'entelechia del corpo: si tratta di quel principio intelligibile che, strutturando il corpo, lo fa essere ciò che deve essere. E con questo è salvata l'unità dell'essere vivente. Ma la sostanziale scoperta platonica della trascendenza, così come viene salvata nella metafisica con la dottrina del Motore Immobile, non va perduta nemmeno nella psicologia, giacché Aristotele non considera l'anima assolutamente immanente. Il pensare puro, lo speculare che porta a conoscere l'immateriale e l'eterno, che porta l'uomo, sia pure per brevi momenti, quasi ad una tangenza con il divino, non può evidentemente non essere la prerogativa di qualcosa in noi che sia congenere o affine al conosciuto, come una volta per tutte Platone aveva dimostrato nel Pedone. E così Aristotele, sia pure a prezzo di aporie lasciate insolute, non esita ad affermare la necessità che una parte dell'anima sia « separabile » dal corpo. Ecco i passi più significativi in proposito: Non c'è dubbio, dunque, che l'anima non è separabile dal corpo, o almeno non lo sono alcune sue parti, se essa è per sua natura divisibile: infatti l'entelechia di alcune parti di essa sono l'entelechia delle parti del corpo corrispond~ti. Ma nulla vieta che almeno alcune altre parti siano separabili, per il motivo che non sono entelechie di alcun corpo 6 • Per quanto riguarda l'intelletto e la facoltà speculativa, nulla, in certo senso, è chiaro: sembra però che si tratti di un genere di anima diverso e che esso solo possa essere separato dal corpo come l'eterno dal corruttibile. Invece le altre parti dell'anima è chiaro [ ... ] che non sono separabili 7 • • L'anima, B l, 413 a 4·7. 7 L'anima, B 2, 413 b 24-29.
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Anche nella Metafisica si dice con tutta chiarezza: Se, poi, rimanga qualcosa anche dopo [la corruzione] , è problema che resta da esaminare. Per alcuni esseri nulla lo vieta: per esempio, per l'anima, non tutta l'anima, ma solo l'intellettiva; tutta sarebbe impossibile 8 • Come si vede, i risultati della « seconda navigazione » trovano qui ulteriore e piena conferma.
2.
L a t ripartizione d e Il' a n i m a
Ma, per capire a fondo il senso di queste affermazioni, dobbiamo prima esaminare la dottrina generale dell'anima, e il senso della celebre triplice distinzione delle « parti » o « funzioni » dell'anima. Già Platone, a partire dalla Repubblica, aveva parlato di tre parti o funzioni della psyché, distinguendo un'anima concupiscibile, un'anima .irascibile, un'anima intellettiva; ma tale tripartizione, nata fondamentalmente dall'analisi del comportamento etico dell'uomo e introdotta per spiegare il medesimo, ha ben poco in comune con la tripartizione aristotelica, che è nata invece dall'analisi generale dei viventi e delle loro funzioni essenziali e quindi su terreno biologico oltre che psicologico. Poiché i fenomeni della vita così ragiona Aristotele - suppongono determinate operazioni costanti nettamente differenziate (al punto che alcune di esse possono sussistere in alcuni esseri, senza che vi siano anche le altre), allora anche l'anima, che è principio di vita, deve avere delle capacità o funzioni o parti che presiedono a queste operazioni e le regolano. E poiché i fenomeni e le funzioni fondamentali della vita sono: a) di carattere vegetativo, come nascita, nutrizione, crescita, b) di carattere sensitivo motorio, come sensazione e movimento, c) di carattere intellettivo, come • Metafisica, A 3, 1070 a 24-26.
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conoscenza, deliberazione e scelta; ebbene, così essendo, per le ragioni sopra chiarite, Aristotele introduce la distinzione di a) anima vegetativa, b) anima sensitiva e c) anima intellettiva o razionale. Scrive lo Stagirita: Le facoltà dell'anima di cui abbiamo detto si trova no [ ... ] presso alcuni esseri tutte quante, presso altri solo alcune di esse, presso altri ancora se ne trova una sola 9 •
Orbene, le piante posseggono solo l'anima vegetativa, gli animali la vegetativa e la sensitiva, gli uomini e la vegetativa e la sensitiva e la razionale. Per possedere l'anima razionale l'uomo deve possedere le altre due e così per possedere l'anima sensitiva l'animale deve possedere la vegetativa; invece è possibile possedere l'anima vegetativa senza le successive: È dunque chiaro che la nozione di anima è una come la nozione di figura: infatti né in geometria c'è una figura oltre il triangolo e alle figure che ad esso seguono, né, nel nostro caso, c'è un'anima oltre quelle ricordate. Si potrebbe formulare per le figure una definizione comune, la quale varrà per tutte, ma non sarà propria di nessuna specifica figura. Lo stesso dicasi per le anime di cui abbiamo parlato. Perciò è ridicolo cercare una definizione comune (sia per questo sia per altri oggetti), la quale non sarà definizione propria di nessuno, e non far riferimento alla specie propria e indivisibile, trascurando una definizione di questo tipo. (Avviene per l'anima ciò che avviene per le figure: infatti nel susseguente è sempre contenuto in potenza l'antecedente, sia nell'ambito delle figure, sia nell'ambito degli esseri animati: per esempio nel quadrato è contenuto il triangolo, nell'anima sensitiva è contenuta la nutritiva). Per conseguenza bisogna cercare in particolare quale sia l'anima di ciascuno [scil.: dei diversi tipi di viventi], quale l'anima della pianta, quale quella dell'animale o dell'uomo. Si deve poi esaminare anche per quale ragione le anime abbiano quest'ordine di successione: infatti, senza la facoltà nutritiva non esiste la sensitiva, mentre la facoltà nutritiva esiste separata dalla sensitiva nelle piante. Inoltre senza il tatto non sussiste nessuna delle altre • L'anima, B 3, •'14 a 29-31.
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sensazioni, mentre il tatto esiste senza le altre sensazioni: infatti molti animali non posseggono né vista, né udito, né odorato. E fra gli esseri che hanno sensibilità alcuni hanno facoltà di locomozione, altri no; infine pochissimi hanno facoltà di ragionare e pensare. Fra gli esseri corruttibili, quelli che hanno facoltà di ragionare hanno anche tutte le altre facoltà; invece quelli che posseggono una di queste due facoltà non hanno tutti la facoltà di ragionare, e anzi alcuni non hanno neppure l'immaginazione, mentre altri vivono solo di questa. Per quanto riguarda l'intelletto speculativo il discorso è diverso 10 • Fra le tre anime, dunque, c'è distinzione più che non separazione: « [ ... ] la divisione che l'anima ammette- scrive il Ross - non è quella in parti qualitativamente differenti, ma in parti ciascuna delle quali ha la qualità del tutto. L'anima di fatto, benché Aristotele non lo dica, è omeomera, come un tessuto e non come un organo. E benché usi spesso l'espressione tradizionale di "parti dell'anima", la parola che preferisce è "facoltà" » 11 • Osservazione esatta, che, peraltro, vedremo, se chiarisce alcune cose, accentua l'aporeticità di certe altre: in particolare rende aporetico il rapporto dell'anima intellettiva con le altre. Del resto, nel passo letto, è Aristotele stesso che sottolinea come per l'ihtelletto speculativo il discorso sia diverso. Vediamo singolarmente le tre funzioni dell'anima.
3.
L' a n i m a v e g e t a t i v a
L'anima vegetativa è il principio più elementare della vita, e, poiché i fenomeni più elementari della vita sono, come già accennammo, la generazione, la nutrizione e la crescita, cosl l'anima vegetativa è principio che governa la generazione, la nutrizione e la crescita. È cosl nettamente '0
L'anima, B 3, 414 b 20 - 415 a 12.
11
Ross, Aristotele, p. 198.
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superata la spiegazione dei processi vitali che davano i Naturalisti. Causa dell'accrescimento non sono il fuoco né il calore, né in genere la materia: il fuoco e il caldo sono, al più, con-cause, non la vera causa. In ogni processo di nutrizione e di accrescimento è presente come una regola che proporziona grandezza e accrescimento, che il fuoco di per sé non può produrre, e che dunque sarebbe inspiegabile senza qualcos'altro oltre il fuoco, cioè senza l'anima. E cosi anche il fenomeno della nutrizione per conseguenza cessa di essere spiegato come meccanico gioco di rapporti fra elementi simili ed elementi simili (come alcuni sostenevano) oppure fra certi elementi contrari: la nutrizione è l'assimilazione del dissimile, resa possibile sempre dall'anima mediante il calore: Poiché vi sono tre fattori - ciò che è nutrito, ciò di cui è nutrito, e ciò che nutre -, ciò che nutre è l'anima prima, ciò che è nutrito è il corpo che la possiede, ciò di cui esso è nutrito è il nutrimento 12 • Infine, l'anima vegetativa presiede alla riproduzione, che è lo scopo di ogni forma di vita finita nel tempo. Infatti ogni forma di vita, anche la più elementare, è fatta per l'eternità e non per la morte. Scrive Aristotele: L'operazione che per i viventi è più naturale di tutte (per quei viventi che sono perfettamente sviluppati e non hanno difetti e non hanno una generazione spontanea) è quella di produrre un altro essere uguale a sé: un animale un animale, una pianta una pianta, al fine di partecipare, per quanto è possibile, all'eterno e al divino: infatti è a quello che tutti aspirano ed è quello il fine per cui compiono tutto ciò che per natura compiono [ ... ] . Poiché, dunque, i viventi non possono partecipare dell'eterno e del divino con continuità, per la ragione che nessuno degli esseri corruttibili può permanere identico e numericamente uno, allora ciascuno ne partecipa nella misura in cui gli è possibile partecipare, l'uno di " L'anima, B 4, 416 b 20-23.
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più e l'altro di meno, e permane non lui, ma un altro simile a lui, non uno di numero, ma uno di specie 13 • Anche il più modesto dei vegetali, dunque, riproducendosi, cerca l'eterno, e l'anima vegetativa è il principio che, al più basso livello, rende possibile questo perpetuarsi in eterno.
4. L'anima sensitiva Gli animali, oltre alle funzioni esaminate nel precedente paragrafo, posseggono sensazioni, appetiti e movimento: pertanto, occorrerà ammettere un ulteriore principio che presieda a queste funzioni, e questo è appunto l'anima sensitiva. Incominciamo dalla prima funzione dell'anima sensitiva, cioè dalla sensazione, che, in certo senso, fra le tre sopra distinte, è quella più importante e certamente la più caratterizzante. I predecessori avevano spiegato la sensazione, alcuni come una affezione o passione o alterazione che il simile subisce ad opera del simile (si vedano ad esempio Empedocle e Democrito), altri come un'azione che il simile subisce ad opera del dissimile. Aristotele prende spunto da questi tentativi, ma procede assai oltre. La chiave per interpretare la sensazione è cercata ancora una volta nella dottrina metafisica della potenza e dell'atto. Noi abbiamo facoltà sensitive che non sono in atto, ma in potenza, cioè capaci di ricevere sensazioni. Esse sono come il combustibile, il quale non brucia se non a contatto col comburente. E coslla facoltà sensitiva, da semplice capacità di sentire diventa sentire in atto a contatto con l'oggetto sensibile: Tutte le cose patiscono e sono mosse da un agente che è in " L'a'Zima, B 4, 415 a 26- b 7.
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atto. Perciò, da un lato, è possibile che patiscano ad opera del simile e, dall'altro, è possibile che patiscano anche ad opera del dissimile, COJ:!lt! s'è detto: infatti patisce il dissimile, ma, dopo che ha patito, è slinile 14 • La facoltà sensitiva è in potenza ciò che il sensibile è già in atto, come s'è detto. Essa, dunque, patisce in quanto non è simile, ma, quando ha patito, diventa simile ed è come quello 15 •
Esatta è dunque l'esegesi che propone il Ross: «La sensazione non è una alterazione del tipo di una semplice sostituzione di uno stato con il suo opposto, ma del tipo di una realizzazione di potenza, di un avanzamento di qualcosa "verso se stessa e verso l'attualità" » 16 • Ma - si chiederà - che cosa vuoi dire che la sensazione è un farsi simile al sensibile? Non si tratta, evidentemente, di un processo di assimilazione del tipo di quello che ha luogo nella nutrizione; nella assimilazione della nutrizione, infatti, viene assimilata anche la materia, invece nella sensazione viene assimilata solamente la forma~ Scrive espressamente Aristotele: In generale per ogni sensazione, bisogna tener presente che il senso è ciò che ha capacità di .ricevere le forme sensibili senza la materia, come la cera riceve l'impronta dell'anello senza il ferro o l'oro, riceve cioè l'impronta dell'oro o del ferro, ma non in quanto oro o ferro. Similmente il senso patisce ad opera di ciascun ente che ha calore o sapore o suono, ma non in quanto ognuno di questi enti è detto tale cosa particolare, ma in quanto esso ha una data qualità, e in virtù della forma 17 •
Lo Stagirita passa quindi in esame i cinque sensi e i sensibili che sono propri di ciascuno di questi sensi. Quando 1• L'anima, B5, 417a 17-20. " L'anima, B 5, 418 a 3-6 16 Ross, Aristotele, p. 202; cfr. L'anima, B5, 417b6 sg. 17 L'anima, B 12, 424 a 17-24. (Per un approfondimento di questo punto cfr. Trendelenburg, Aristotelis De Anima, pp. 337 sgg.).
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un senso coglie il sensibile proprio, allora la relativa sensazione è infallibile. Oltre ai sensibili propri ci sono anche i sensibili comuni, che, come ad esempio moto, quiete, figura, grandezza, non sono percepiti da nessuno dei cinque sensi in particolare, ma possono essere percepiti da tutti: lnvero non può esserci un organo sensoriale proprio dei sensibili comuni, dei quali noi abbiamo percezione mediante ciascun senso per accidente: intendo dire del movimento, della quiete, della figura, della grandezza, del numero e dell'unità. Tutte queste cose noi le apprendiamo come segue: la grandezza mediante il movimento (e per conseguenza anche la figura, infatti la figura è una grandezza), ciò che è in quiete mediante la mancanza di movimento, il numero mediante la negazione di continuità e mediante i sensibili propri (infatti ogni senso percepisce un unico sensibile), cosicché è evidente che non può esserci un senso proprio per qualsivoglia di queste cose [ ... ] 18 • Tenendo presenti queste precisazioni, si può parlare di un « senso comune» (e Aristotele in effetti ne parla), che è come un senso non specifico o, meglio ancora, è il senso che agisce in maniera non specifica. In primo luogo, proprio nel passo letto, si vede bene come la sensazione colga in modo aspecifico i sensibili comuni. Inoltre, si può indubbiamente parlare di senso comune a proposito del sentire di sentire o del percepire il sentire, o anche quando distinguiamo o compariamo fra loro i sensibili. In base a queste distinzioni Aristotele stabilisce che i sensi sono infallibili, quando colgono gli oggetti che sono loro propri, ma lo sono solo in questo caso. Ecco un passo assai celebre in cui è formulata questa dottrina: La percezione dei sensibili propri è vera, oppure comporta un errore minimo. In secondo luogo viene la percezione dell'oggetto cui queste qualità sensibili ineriscono: in questo caso è già possibile ingannarsi: infatti non ci si inganna sul fatto che il sen" L'anima, f l, 425 a 14-20.
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sibile sia bianco, ma nel determinare se il bianco sia questa cosa oppure un'altra. In terzo luogo, viene la percezione dei sensibili comuni [ ... ] ad esempio il movimento e la grandezza; è soprattutto su questi che il senso può ingannarsi 19 •
Dalla sensazione derivano la fantasia, che è produzione di immagini, e la memoria, che è conservazione delle medesime (e dall'accumularsi di fatti mnemonici deriva ulteriormente l'esperienza). Le altre due funzioni dell'anima sensitiva che abbiamo menzionato all'inizio del paragrafo sono l'appetito e il movimento. L'appetito nasce in conseguenza della sensazione:
Le piante hanno solo la facoltà nutritiva, altri esseri invece, oltre questa, anche la sensitiva. Ma se hanno la sensitiva, hanno anche l'appetitiva; infatti l'appetito è desiderio e ardore e volontà, e tutti gli animali hanno almeno un senso, ossia il tatto; ma chi ha sensazione, sente piacere e dolore e piacevole e doloroso, e chi prova questi ha altresl desiderio: infatti, il desiderio è appetito del piacevole a~. Il movimento degli esseri viventi, infine, deriva dal desiderio: « Il motore è unico: la facoltà appetitiva» 21 e precisamente il desiderio, che è « una specie di appetito » 22 • E il desiderio è messo in moto dall'oggetto desiderato che l'animale coglie mediante sensazioni o di cui comunque ha rappresentazione sensibile. Appetito e movimento dipendono dunque strettamente dalla sensazione. 5.
L'anima razionale
Come la sensibilità non è riducibile alla semplice vita vegetativa e al principio della nutrizione ma contiene un plus, " L'anima, f 3, 428 b 18-25. "' L'anima, B 3, 414 a 32 · b 6. '' L'anima, r 10, 433 a 21. 22 L'anima, r 10, 433 a 25-26.
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che non si può spiegare se non si introduce l'ulteriore principio dell'anima sensitiva, cosl il pensiero e le operazioni ad esso connesse come la scelta razionale sono irriducibili alla vita sensi ti va e alla sensibilità, ma contengono un plus, che non si spiega se non introducendo un ulteriore principio: l'anima razionale. Di questa dobbiamo ora dire. L'atto intellettivo è analogo all'atto percettivo, in quanto è un ricevere o assimilare le forme intelligibili, cosl come quello era un assimilare la forma sensibile, ma differisce profondamente dall'atto percettivo, perché non è mescolato al corpo e al corporeo. Ed ecco come Aristotele caratterizza l'intelletto, in una delle più alte pagine che siano uscite dalla sua penna, in cui l'antica intuizione di Anassagora prende definitivamente forma in grazia delle categorie guadagnate con la « seconda navigazione », e viene per conseguenza acquisita come una conquista irreversibile: Circa la parte dell'anima, con cui essa conosce e pensa - sia essa qualcosa di separato, oppure di non separabile spazialmente ma solo idealmente - bisogna vedere quale caratteristica essa possiede, e come mai si produce il pensare. Ora, se il pensare è come il sentire, dev'essere un subire alcunché da parte del pensato, o qualche altra cosa del genere. Ma allora, a rigore, esso non deve subir nulla, ma soltanto accogliere la forma, e diventare in potenza simile alla cosa ma non già di fatto la stessa cosa: insomma la relazione del pensante al pensato dev'essere simile a quella del senziente al sentito. Occorre, di conseguenza, che l'intelletto, in quanto pensa tutto, sia scevro di ogni mescolanza, come appunto Anassagora dice che dev'essere affinché possa «dominare» il che vuoi dire: affinché possa conoscere. Qualunque cosa estranea, che si presentasse in mezzo, opererebbe infatti come un ostacolo e una preclusione: quindi l'intelletto non può avere proprio nessuna natura, se non appunto questa, dell'essere potenzialità. Quel che dunque, nell'anima, chiamiamo Nous (e intendo, con questo nome, ciò con cui l'anima pensa e opina) non è, in atto, nessuna delle realtà esistenti, prima del suo effettivo pensare. E perciò non è ragionevole che esso sia commisto col corpo: perché subito acquisterebbe una certa qualità, e sarebbe freddo o caldo, oppure sarebbe uno strumento di una certa specie, come è l'organo del
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senso. Ora, invece, non è nulla di questo. E hanno ragione quelli che dicono che l'anima è il luogo delle forme ideali: salvo che ciò non va detto di tutta l'anima, ma solo di quella pensante, e che le forme ideali non vi esistono in atto ma solo in potenza. E che l'immunità dal subire azione non sia uguale nel caso della facoltà intelligente e di quella senziente, è chiaro se si considerano gli organi di senso, e la sensazione stessa. Se infatti, in ciò che vien percepito sensibilmente, la percepibilità è troppo intensa, il senso non può sentire: cosl, i suoni troppo forti non vengono distinti, e lo stesso vale per i colori troppo luminosi, e per gli odori troppo violenti. Ma quando l'intelletto pensa un pensiero che sta al più alto livello della pensabilità, non perciò esso ha minore capacità di pensare le cose di minor conto, anzi ne ha di più. Ché l'organo del senso non sta senza il corpo, mentre l'intelligenza sta per conto suo. E quando, in tal modo, l'intelligenza diventa tutte le cose, così come accade a colui che vien chiamato sapiente quando trasforma la sua capacità in atto (e ciò ha luogo quando questo suo attuarsi dipende solo da lui stesso), anche allora essa è, in certo modo, in potenza, per quanto non nello stesso senso in cui lo era prima di aver appreso e di aver scoperto. Cosl allora l'intelletto può pensare da se medesimo 23 •
Anche il conoscere intellettivo, cosl come quello percettivo, è spiegato da Aristotele in funzione delle categorie metafisiche di potenza e atto. L'intelligenza è, di per sé, capacità e potenza di conoscere le pure forme; a loro volta, le forme sono contenute in potenza nelle sensazioni e nelle immagini della fantasia; occorre pertanto qualcosa che traduca in atto questa doppia potenzialità, in modo che il pensiero si attualizzi cogliendo in atto la forma, e la forma contenuta nella immagine diventi concetto in atto colto e posseduto. In questo modo sorse quella distinzione divenuta fonte di innumerevoli problemi e discussioni sia nell'antichità sia nel Medioevo fra intelletto potenziale e intelletto attuale, o, 23 L'anima, f 4, 429 a 10 - b 10: la traduzione di questa pagina, particolarmente efficace, è di Calogero (Storia della logica antica, Bari 1967, p. 289).
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per usare la terminologia che diverrà tecnica (ma che non c'è in Aristotele se non potenzialmente) fra intelletto possibile e intelletto attivo. Leggiamo la pagina che contiene questa distinzione, perché essa resterà per secoli un costante punto di riferimento: E poiché in tutta quanta la natura c'è qualcosa che è materia e che è proprio di ciascun genere di cose (e questo è ciò che è in potenza tutte quelle cose) e qualcos'altro che è causa efficiente, in quanto tutte le produce, come fa per esempio l'arte con la materia, è necessario che anche nell'anima vi siano queste differenziazioni. E c'è dunque un intelletto potenziale in quanto diventa tutte le cose e c'è un intelletto agente in quanto tutte le produce, che è come uno stato simile alla luce: infatti anche la luce in un certo senso rende i colori in potenza colori in atto. E questo intelletto è separato, impassibile e non mescolato e intatto per sua essenza: infatti l'agente è sempre superiore al paziente e il principio è superiore alla materia [ ... ] . Separato [sci!.: dalla materia], esso è solamente ciò che appunto è, e questo solo è immortale ed eterno [ ... ] 24 •
Due affermazioni contenute nel passo debbono essere messe in rilievo. In primo luogo, il paragone con la luce: come i colori non sarebbero visibili e la vista non li potrebbe vedere, se non ci fosse la luce, cosl le forme intelligibili che sono contenute nelle immagini sensibili resterebbero in queste allo stato potenziale e l'intelletto potenziale non potrebbe a sua volta coglierle in atto, se non ci fosse come una luce intelligibile, che permetta all'intelletto di « vedere » l'intelligibile e a questo di essere veduto in atto. È un'immagine, ed è anzi quella stessa immagine con cui Platone aveva raffigurato la suprema Idea del Bene: ma, per spiegare la più alta delle facoltà umane, Aristotele non poteva disporre se non di una analogia, appunto perché tale facoltà è irriducibile a qualcosa di ulteriore e rappresenta un punto limite invalicabile.
"' L'anima, f 5, 430 a 10-23.
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L'altra affermazione è che questo intelletto attivo è « nell'anima ». Cadono, quindi, le interpretazioni sostenute già dagli antichi interpreti, secondo cui l'intelletto agente è Dio (o comunque un Intelletto divino separato), il quale, tra l'altro, come vedemmo a suo luogo, ha caratteri strutturalmente inconciliabili con quelli dell'intelletto agente. Ed è vero che Aristotele afferma che « l'intelletto viene dal di fuori e solo esso è divino » 25 , mentre le facoltà inferiori dell'anima sono già in potenza nel germe maschile e attraverso esso passano nel nuovo organismo che si forma nel seno materno; ma è altrettanto vero che, pur venendo « dal di fuori », esso rimane nell'anima (É'II "tij wuxii) 26 per tutta la vita dell'uomo. L'affermazione che l'intelletto viene dal di fuori signHica che esso è irriducibile al corpo per sua intrinseca natura, e che dunque è trascendente il sensibile. Significa che in noi c'è una dimensione metempirica, soprafisica e spirituale. E questo è il divino in noi. Ma se l'intelletto agente non è Dio, esso rispecchia i caratteri del divino e soprattutto la sua assoluta impassibilità: Ma l'intelletto sembra che sia in noi come una realtà sostanziale e che non si corrompa. Infatti, se si corrompesse, dovrebbe corrompersi per l'indebolimento della vecchiaia. Ora accade invece ciò che accade agli organi sensoriali: se un vecchio ricevesse un occhio adeguato, vedrebbe alla stessa maniera di un giovane. Pertanto la vecchiaia non è dovuta ad una affezione che patisce l'anima, ma il soggetto in cui l'anima si trova, come avviene negli stati di ubriachezza e nelle malattie. L'attività del pensare e dello speculare illanguidisce quando un'altra parte all'interno del corpo si guasta, ma essa è di per sé impassibile ( !ÌTCa~Éç). Il ragionare, l'amare o l'odiare non sono affezioni dell'intelletto, ma del soggetto che possiede l'intelletto, appunto in quanto possiede l'intelletto. Perciò una volta che questo soggetto sia perito, non ricorda 25 La generazione degli animali, B 3, 736 b 27-28 . .. L'anima, f 5, 430 a 13.
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e non ama: infatti ricordare e amare non sono propri dell'intelletto ma del composto che è perito e l'intelletto è certamente qualcosa di più divino e impassibile 27 • E come, nella Metafisica, Aristotele, una volta guadagnato il concetto di Dio con i caratteri che vedemmo, non ha potuto risolvere le numerose aporie che quel guadagno comportava, così, anche questa volta, guadagnato il concetto dello spirituale che è in noi, non ha potuto risolvere le numerose aporie che ne conseguivano. Questo intelletto è individuale? Come può venire «dal di fuori »? Che rapporto ha con la nostra individualità e col nostro io? E quale rapporto ha col nostro comportamento morale? È completamente sottratto a qualsiasi destino escatologico? E che senso ha il suo sopravvivere al corpo? Alcuni di questi interrogativi non sono stati neppure sollevati da Aristotele, e sarebbero stati comunque destinati a non avere strutturalmente risposta: per essere messi a tema, e soprattutto per essere adeguatamente risolti, essi avrebbero richiesto il guadagno del concetto di creazione, che, come sappiamo, è estraneo non solo ad Aristotele, ma a tutta la grecità. Ai problemi escatologici, come vedemmo, Aristotele aveva dedicato la sua attenzione · nelle opere giovanili. Invece nelle opere esoteriche egli lasciò cadere la componente mistico-religiosa (che negli scritti giovanili aveva mutuato da Platone), e, insieme ad essa, anche quei problemi. Si tratta, in effetti, di problemi che la sola ragione non sa risolvere e ai quali può rispondere pienamente solo una fede religiosa.
27
L'anima, A 4, 408 b 18-29.
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IV. LA MATEMATICA
Alle scienze matematiche Aristotele non dedicò speciali attenzioni: per esse egli nutriva interessi assai inferiori rispetto a Platone, il quale delle matematiche aveva fatto quasi una via di accesso obbligata alla metafisica delle Idee, e sul portone della sua Accademia aveva scritto: «non entri chi non è geometra». Tuttavia lo Stagirita anche in questo ambito seppe dare un suo contributo peculiare e rilevante nel determinare, per la prima volta in modo corretto, quale sia lo statuto antologico degli oggetti di cui si occupano le scienze matematiche. Questo contributo merita quindi di essere ricordato in maniera precisa. Platone e molti Platonici avevano inteso i numeri e gli oggetti matematici in genere come entità ideali separate dai sensibili. Altri Platonici avevano cercato di mitigare questa ardua concezione, immanentizzando gli oggetti matematici nelle cose sensibili, mantenendo però ferma la convinzione che si trattasse di realtà intelligibili distinte dai sensibili. Aristotele confuta ambedue queste concezioni, giudicandole una più assurda dell'altra e quindi assolutamente inaccettabili 1 • Che cosa sono, allora, i numeri e gli enti matematico-geometrici, se non sono enti intelligibili dotati di sussistenza propria? ' Cfr. Metafisica, M 2, passim.
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Ecco la soluzione aristotelica. Gli oggetti matematici non sono né entità reali, né, tanto meno, qualcosa di irreale. Essi sussistono potenzialmente nelle cose sensibili e la nostra ragione li separa mediante l'astrazione. Essi sono, dunque, enti di ragione che in atto sussistono solo nella nostra mente in virtù della nostra capacità di astrazione (ossia che sussistono come « separati » solo nella e per la mente) e in potenza sussistono nelle cose come loro proprietà 2 • Spieghiamo meglio. Le cose sensibili hanno molteplici proprietà e determinazioni. Noi possiamo considerare tutte queste proprietà, ma possiamo altresl por mente ad alcune di queste, soltanto prescindendo dalle altre. Cosi, per esempio, possiamo considerare le cose sensibili solamente in quanto hanno la caratteristica di essere in movimento, prescindendo da tutto il resto; ma non per questo, ovviamente, è necessario che esista il movimento come realtà in sé e per sé separata dal resto: basta, appunto, la nostra facoltà di astrarre e la capacità che la nostra mente ha di considerare quella caratteristica delle cose sensibili a prescindere da tutte le altre. Analogamente, seguendo questo stesso procedimento, noi possiamo prescindere anche dal movimento, e possiamo riguardare le cose sensibili solamente in quanto corpi a tre dimensioni. E poi, ancora, possiamo, procedendo nel processo di astrazione, considerare le cose solo secondo due dimensioni) cioè come superfici, prescindendo da tutto il resto. Ulteriormente noi possiamo considerare le cose solo come lunghezze e poi come unità indivisibili, aventi però posizione nello spazio, ossia solo come punti. Infine, noi possiamo considerare le cose anche come unità pure, ossia come entità indivisibili e senza posizione spaziale, ossia come unità numeriche. È chiaro, per conseguenza, che gli oggetti della geome2
Cfr. Metafisica, M 3, 1078 a 25 sgg.
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tria e dell'aritmetica hanno il loro fondamento nelle caratteristiche delle cose sensibili, e che, dunque, esistono come affezioni delle cose. Ma così come li considerano i geometri e i matematici esistono solo per via di astrazione. Ecco il testo più significativo in merito: Pertanto, poiché si può dire in generale e con verità che non solo le cose separate esistono, ma che anche le cose non-separate esistono (per esempio si può dire che il mobile esiste), cosl si potrà dire, in generale e con verità, anche che gli oggetti matematici esistono, e proprio con quei caratteri di cui parlano i matematici. E come si può dire, in generale e con verità, che anche le altre scienze riguardano non ciò che è accidente del loro oggetto (per esempio non il bianco, se il bianco è sano e se la scienza in questione ha come oggetto il sano), ma che riguardano l'oggetto che è peculiare a ciascuna di esse (per esempio il sano, se la scienza in questione ha come oggetto il sano; e l'uomo, se la scienza in questione ha come oggetto l'uomo), così si dovrà dire anche per la geometria: anche se gli oggetti di cui essa tratta hanno la caratteristica di essere sensibili, essa non li considera tuttavia in quanto sensibili. Cosl le scienze matematiche non saranno scienze di cose sensibili, ma non saranno neppure scienze di altri oggetti separati dai sensibili. Molti attributi competono di per sé alle cose, in quanto ciascuno di questi attributi inerisce ad esse: ci sono, per esempio, caratteristiche che sono peculiari dell'animale in quanto femmina, oppure in quanto maschio, anche se non esistono una femmina o un maschio separati dall'animale. Pertanto ci saranno, anche, caratteristiche peculiari delle cose considerate solamente in quanto lunghezze e superfici [ ... ] . Il ragionamento fatto sopra varrà anche per l'armonica e per l'ottica: infatti né l'una né l'altra considerano il proprio oggetto come vista o come suono, ma lo considerano in quanto linee e in quanto numeri: questi, infatti, sono proprietà peculiari di quelle. E la stessa cosa dicasi anche per la meccanica 3 • È esattamente questa interpretazione degli oggetti matematici come astrazioni della mente che ha permesso ad Aristotele di restare immune dal matematismo in cui rischiò di 3
Metafisica, M 3, 1077 b 31 sgg.
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cadere l'ultimo Platone e di sviluppare, invece, l'aspetto eidetico dell'antologia platonica, come vedemmo. Ed è questa stessa interpretazione che gli permise di cogliere perfettamente l'errore di fondo del pan-matematismo in cui caddero, come vedremo, alcuni Accademici, dissolvendo in esso gran parte degli stessi guadagni della « seconda navigazione » 4 •
• Per quanto riguarda le critiche che Aristotele muove agli Accademici si vedano soprattutto i libri M e N della Metafisica, passim.
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ARISTOTELES GRAECE EX
RECENSIONE
IMMANUELIS BEKKERI.
EDIDIT
ACADEMIA REGIA BORUSSICA.
VOLUMEN PRIUS.
BEROLINI APUD GEORGIUM REIMERUM .A.
1831.
EX OPFICINA ACADEIIII(A.
È questo il frontespizio della cdebre edizione critica moderna di tutte le opere di Aristotele, pubblicata da I. Bekker a partire dal1831, e che rimane il punto di riferimento per www.scribd.com/Baruhk le citazioni, come abbiamo indicato sopra, p. 383, nota l.
SEZIONE TERZA
LE SCIENZE PRATICHE: ETICA E POLITICA
« [ ... ] i) -rov DEov tvtpyELc.t, J..Lc.txapL6-rTJ-rL SLa
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È questa un'altra delle numerose varianti della testa-ritratto di Aristotele, ispirantesi al medesimo modello di cui abbiamo detto sopra, p. 378, e conservata essa pure nel' Museo Nazionale delle Terme di Roma.
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l. L'ETICA
l.
Rapporti fra etica e politica
Dopo le scienze teoretiche, nella sistemazione aristotelica del sapere, vengono, come seconde, le scienze pratiche, come abbiamo sopra visto. Esse sono gerarchicamente inferiori alle prime, in quanto in esse il sapere non è più fine a se medesimo in senso assoluto, ma è subordinato, e, quindi, 'in certo senso, asservito all'attività pratica. Queste scienze pratiche riguardano infatti la condotta degli uomini, nonché il fine che attraverso questa condotta essi vogliono raggiungere, sia considerati come individui, sia considerati come facenti parte di una società, soprattutto della società politica. Anzi, Aristotele chiama in generale « politica » 1 (ma anche « filosofia delle cose dell'uomo » 2 ) la scienza complessiva dell'attività morale degli uomini sia come singoli sia come cittadini; poi suddivide questa « politica » (o « filosofia delle cose dell'uomo » ), rispettivamente, in etica e in politica propriamente detta (teoria dello Stato). In questa subordinazione dell'etica alla politica ha chiaramente inciso, in modo determinante, la dottrina platonica che ampiamente abbiamo sopra illustrato, la quale del resto, come sappiamo, dava forma paradigmatica a quella concezione tipicamente ellenica che non riusciva a intendere l'uomo se non come cittadino e poneva la Città completamente al di ' Cfr., per esempio, Etica Nicomachea, A 3, all'inizio. ' Etica Nicomachea, K 10, 1181 b 15.
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sopra e della famiglia e del singolo individuo: l'individuo era in funzione della Città e non la Città in funzione dell'individuo. Dice espressamente Aristotele: Se infatti identico è il bene per il singolo e per la città, sembra più importante e più perfetto scegliere e difendere quello della città; certo esso è desiderabile anche quando riguarda una sola persona, ma è più bello e più divino se riguarda un popolo e le città 3 • Dunque, alla politica compete una funzione architettonica, ossia di comando: ad essa compete determinare « quali scienze sono necessarie nella Città, e quali ciascuno deve apprendere e fino a che punto» 4 • È ben vero, però, che, come qualche studioso ha rilevato, man mano che Aristot~le procede nella sua Etica, il rapporto fra individuo e Stato minaccia di rovesciarsi « ed alla fine dell'opera parla come se lo Stato avesse una semplice funzione ancillare rispetto alla vita morale dell'individuo, fornendo l'elemento di compulsione per rendere i desideri dell'uomo asserviti alla sua ragione» 5 • Tuttavia questo fatto, che pure è di per sé importantissimo, non viene portato da Aristotele a livello di consapevolezza critica, e meno che mai vengono da lui tratte quelle conseguenze che, al limite, avrebbero rotto l'impostazione generale della « filosofia delle cose dell'uomo ». I condizionamenti storico-culturali hanno avuto più peso delle conclusioni speculative e la polis è rimasta per lo Stagirita, fondamentalmente, l'orizzonte racchiudente i valori dell'uomo.
3 Etica Nicomachea, A 2, 1094 b 7-10. La traduzione dei passi che riporteremo è di A. Plebe, Aristotele, Etica Nicomachea, Laterza, Bari 1957, ora anche in Aristotele, Opere, Bari 1973. (Tenga presente il lettore che, per non creare difficoltà di consultazione, riportiamo la stessa divisione in capitoli adottata dal Plebe, il quale la desume poco opportunamente dal Voilquin, mentre la paginazione resta quella del Bekker). • Etica Nicomachea, A 2, 1094 a 28 - b 2. ' Ross, Aristotele, p. 280.
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2.
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Il bene supremo dell'uomo:
~a
felicità
Nelle sue varie azioni l'uomo tende sempre a precisi fini, che si configurano come beni. Cosl inizia l'Etica Nico-
machea: Ogni arte e ogni ricerca e similmente ogni azione e ogni proposito sembrano mirare a qualche bene: perciò a ragione il bene è stato definito: ciò a cui ogni cosa tende 6 •
Orbene, vi sono fini e beni che noi vogliamo in vista di ulteriori fini e beni e che, pertanto, sono fini e beni relativi; ma, poiché è impensabile un processo che porti da fine a fine e da bene a bene all'infinito (tale processo distruggerebbe addirittura i concetti stessi di bene e di fine, i quali implicano strutturalmente un termine), noi dobbiamo pensare che tutti i fini e i beni cui tende l'uomo siano in funzione di un fine ultimo e di un bene supremo. Precisa lo Stagirita: Se poi vi è un fine delle nostre azioni che noi vogliamo di per se stesso, mentre gli altri li vogliamo solo in vista di quello, e non desideriamo ogni cosa in vista di un'altra cosa singola (cosi, infatti, s'andrebbe all'infinito, cosicché la nostra tendenza sarebbe vuota ed inutile), in tal caso è chiaro che questo dev'essere il bene e il bene supremo 7 •
Qual è questo bene supremo? Aristotele non ha dubbi: tutti gli uomini, senza distinzione, ritengono che tale bene sia l'eudaimonia, ossia la felicità: Quanto al nome d'esso, la maggior parte è pressoché d'accordo: felicità lo chiamano sia la moltitudine sia le persone raffinate, le quali suppongono che l'esser felici consista nel viver bene e nell'aver successo 8 • • Etica Nicomachea, A l, 1094 a 1·3. 7 Etica Nicomachea, A 2, 1094 a 18-22. • Etica Nicomachea, A 4, 1095 a 17-20.
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ARISTOTELE E LA SISTEMAZIONE DEL SAPERE FILOSOFICO
Dunque, la felicità è il fine al quale consapevolmente tendono tutti gli uomini. Ma che cos'è la felicità? Vediamo da vicino questo punto, che è essenziale. La moltitudine degli uomini ritiene che la felicità consista nel piacere e nel godimento. Ma una vita dedicata ai piaceri è una vita che rende « simili agli schiavi » ed è una « esistenza degna delle bestie » 9 • Le persone più evolute e più colte pongono il bene supremo e la felicità nell'onore. E l'onore ricercano soprattutto coloro che si dedicano attivamente alla vita politica. Senonché non può ·essere, questo, il fine ultimo che noi cerchiamo, perché, nota Aristotele, è qualcosa di esterno: Esso infatti sembra dipendere più da chi conferisce l'onore che da chi è onorato: noi invece riteniamo che il bene sia qualcosa di individuale e di inalienabile 10 • Inoltre, gli uomini ricercano l'onore non per sé, ma piuttosto come riprova e riconoscimento pubblico della loro bontà e della loro virtù, che dunque risultano essere qualcosa di più importante dell'onore. Se il tipo di vita dedito al piacere e quello dedito alla ricerca degli onori, pur essendo inadeguati per le ragioni vedute, hanno una loro apparente plausibilità, Io stesso non si può dire del tipo di vita speso ad ammassare ricchezze, il quale, a giudizio del nostro filosofo, non ha neppure questa apparente plausibilità: La vita [ ... ] dedita al commercio è qualcosa di contro natura, ed è evidente che la ricchezza non è il bene che ricerchiamo; infatti essa è solo in vista del guadagno ed è un mezzo per qualcosa d'altro 11 •
' Etica Nicomachea, A 5, 1095 h 19 sgg. Etica Nicomachea, A 5, 1095 h 24-26. " Etica Nicomachea, A 5, 1096 a 5-7. 10
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Infatti, piaceri e onori sono ricercati per se stessi, non, invece, le ricchezze: la vita spesa per ammassar ricchezze è, dunque, la più assurda e la più inautentica, perché è spesa per ricercare cose che, al più, valgono come mezzi non come fini. Ma il bene supremo dell'uomo non può neppure essere ciò che Platone e i Platonici hanno indicato come tale, vale a dire l'Idea del Bene, ossia il trascendente Bene-in-sé: Se infatti il bene fosse uno e qualcosa di predicabile in comune e sussistente separato di per sé [come è appunto l'idea del Bene], è evidente che non sarebbe realizzabile né acquistabile per l'uomo; ma è proprio ciò che invece noi cerchiamo 12 • Non può, dunque, trattarsi di un Bene trascendente bensl di un Bene immanente, non di un bene già una volta per tutte realizzato, bensl di un bene realizzabile e attuabile dall'uomo e per l'uomo. (Il bene, per Aristotele, non è una realtà unica e univoca, ma, cosl come abbiamo visto a proposito del concetto di essere, è qualcosa di polivoco, diverso nelle diverse categorie e diverso anche nelle diverse realtà rientranti in ciascuna categoria, eppure sempre legato da un rapporto di analogia). Ma qual è il bene supremo realizzabile dall'uomo? La risposta di Ari~totele è ·in perfetta armonia con la concezione squisitamente ellenica dell'areté, che ormai ben conosciamo, e prescindendo dalla quale sarebbe vano sperare di comprendere l'intera costruzione etica del nostro filosofo. Il bene dell'uomo non potrà che consistere nell'opera che gli è peculiare, cioè in quell'opera che egli ed egli solo sa svolgere, cosl come in generale il bene di ciascuna cosa consiste nell'opera che è peculiare a quella cosa. L'opera dell'occhio è il vedere, l'opera dell'orecchio è l'udire, e cosl via. E l'opera dell'uomo? a) Essa non può essere il semplice vivere, dato che il vivere è proprio di tutti gli esseri vegetativi. " Etica Nicomachea, A 6, 1096 b 32-35.
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b) E non può essere nemmeno
il sentire, dato che il sentire
è comune anche agli animali. c) Non resta dunque che l'opera peculiare dell'uomo sia la ragione e l'attività dell'anima secondo ragione. Il vero bene dell'uomo, dunque, consiste in questa opera, o attività di ragione, e, più precisamente, nella perfetta esplicazione e attuazione di questa attività. Questa è dunque la « virtù » dell'uomo e qui andrà ricercata la felicità. Ma leggiamo l'intera pagina dell'Etica Nicomachea che svolge questi concetti, perché essa è una delle più illuminanti, oltre che della mentalità aristotelica, altresl di tutto il pensiero morale della grecità: Se pur il dire che la felicità è il sommo bene sembra qualcosa di ormai concordato, tuttavia si sente il bisogno che sia ancor detto qualcosa di più preciso, intorno alla sua natura. Potremo riuscirei rapidamente, se esamineremo l'opera (~pyov) dell'uomo. Come infatti per il flautista, il costruttore di statue, ogni artigiano e insomma chiunque ha un lavoro ed un'attività sembra che il bene e la perfezione risiedano nella sua opera, cosl potrebbe sembrare anche per l'uomo, se pur esiste qualche opera a lui propria. Forse dunque all'architetto e al calzolaio vi sono opere ed attività proprie, mentre non ve n'è alcuna propria dell'uomo, bensl esso è nato inattivo? O piuttosto, come sembra esservi un'opera propria dell'occhio, della: mano, del piede e insomma di ogni membro, cosl oltre a tutte queste si deve ammettere un'opera propria dell'uomo? E quale sarebbe dunque questa? Non già il vivere, giacché questo è comune anche alle piante, mentre invece si ricerca qualcosa che gli sia proprio. Bisogna dunque escludere la nutrizione e la crescita. Seguirebbe la sensazione, ma anche questa appare essere comune al cavallo, al bue e ad ogni animale. Resta dunque una vita attiva propria di un essere razionale. E di essa si distingue ancora una parte obbediente alla ragione, un'altra che la possiede e ragiona. Potendosi dunque considerare anche questa in due maniere, bisogna considerare quella in reale attività: questa infatti sembra essere superiore. Se propria dell'uomo è dunque l'attività dell'anima secondo ragione, o non senza ragione, e se diciamo che questa è l'opera del suo genere e in particolare di quello virtuoso, come vi è un'opera del citaredo e in particolare del citaredo virtuoso e insomma ciò si verifica sempre, tenendo conto della virtù che viene ad aggiungersi all'azione (del
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citaredo è proprio il suonar la cetra, del citaredo virtuoso il suonarla bene): se è così, noi supponiamo che dell'uomo sia proprio un dato genere di vita, e questa sia costituita dall'attività dell'anima e dalle azioni razionali, mentre dell'uomo virtuoso sia proprio ciò, compiuto però secondo il bene e il bello, in modo che ciascun atto si compia bene secondo la propria virtù. Se dunque è così, allora il bene proprio dell'uomo è l'attività dell'anima secondo virtù, e se molteplici sono le virtù, secondo la migliore e la più perfetta. E ciò vale anche per tutta una vita completa. Infatti una sola rondine non fa primavera, né un solo giorno; così neppure una sola giornata o un breve tempo rendono la beatitudine o la felicità 13 •
La bella pagina che abbiamo letto mostra in maniera esemplare, oltre quanto sopra abbiamo rilevato, la sostanziale adesione di Aristotele alla dottrina socratico-platonica che additava l'essenza dell'uomo nell'anima, e precisamente nella parte razionale dell'anima, nello spirito. Noi siamo la nostra ragione e il nostro spirito. L'uomo buono, dice espressamente Aristotele, [ ... ] agisce per la parte razionale di se stesso, che sembra costituire ciascuno di noi 14 •
E ancora: È dunque chiaro che ciascuno è soprattutto intelletto e che la persona moralmente conveniente ama soprattutto esso 15 •
E infine: E se essa [l'anima razionale e in particolare la parte più elevata di essa, cioè l'intelletto] è la parte dominante e migliore, sembrerebbe che ciascuno di noi consista proprio in essa 16 •
E poiché questo è il fondamento stesso, come vedemmo, dell'etica socratico-platonica, non deve stupire se Aristotele, " •• " ••
Etica Etica Etica Etica
Nicomachea, Nicomachea, Nicomachea, Nicomachea,
A 7, 1097 b 22 - 1098 a 20. I 4, 1166 a 16-17. I 8, 1169 a 2-3. K 7, 1178 a 2-3.
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accettando il fondamento, finisca per concordare con Socrate e con Platone, molto più di quanto si creda comunemente. Gli autentici valori, anche per lo Stagirita (come sopra abbiamo già implicitamente messo in rilievo), non potranno essere né quelli esteriori (come le ricchezze), che toccano solo tangenzialmente l'uomo, né quelli corporali (come i piaceri), che non riguardano l'io vero dell'uomo, ma solo quelli dell'anima, giacché nell'anima consiste il vero uomo. Dice esplicitamente lo Stagirita: Avendo dunque ripartito i beni in tre gruppi: quelli cosiddetti esteriori, quelli dell'anima e quelli del corpo, quelli relativi all'anima diciamo che sono i principali e i più perfetti 17 •
In conclusione si può dire che i veri beni dell'uomo sono i beni spirituali, che consistono nella virtù della sua anima, e non altro che in questi sta la felicità. Quando parliamo di virtù umana, noi non intendiamo ftlffatto la virtù del corpo precisa in modo inequivoco Aristotele -, bensì quella dell'anima; e diciamo che la felicità consiste in un'attività che è propria dell'anima. La socratica « cura dell'anima » resta, dunque, anche per
Aristotele, la via, l'unica via che conduce alla felicità. A differenza di Socrate e soprattutto di Platone, tuttavia, Aristotele ritiene indispensabile essere sufficientemente dotato anche di beni esteriori e di mezzi di fortuna; infatti se essi, con la loro presenza, non possono dare la felicità, la possono tuttavia guastare o compromettere (almeno in parte) con la loro assenza. E a questa parziale rivalutazione dei beni esteriori si associa anche una certa rivalutazione del piacere, che per Aristotele corona la vita virtuosa, ed è come il necessario conseguente di cui la virtù è come l'antecedente, come vedremo. Ma queste affermazioni sono più dettate dal buon senso 17
Etica Nicomachea, A 8, 1098 b 12-15.
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(e dal buon senso grecamente determinato) che non dal realismo aristotelico, di cui ben conosciamo la natura. Infatti egli non esita a fare affermazioni come queste: Sembra tuttavia che la felicità abbia bisogno anche dei beni esteriori; in quanto è impossibile, o non è facile, compiere le belle azioni senza mezzi di aiuto. Infatti molte cose vengon compiute, come attraverso mezzi di esecuzione, attraverso gli amici, la ricchezza e la potenza politica. E se poi si è privati di alcuni di questi mezzi, ci si rovina la felicità, come se si manca di un buon casato, di una buona prole, della bellezza fisica. Infatti non può essere del tutto felice chi è del tutto brutto di forma, oppure di oscura nascita, o solo nella sua vita e senza figli; e meno ancora forse, se ha dei figli o degli amici scellerati, o se li ha buoni ma li vede morire. Perciò, come dicemmo, sembra che la felicità richieda anche tale benessere esteriore 18 •
Di più, Aristotele è convinto che anche le sventure compromettano la felicità, non le comuni sventure, ma le grandi sventure, ossia quelle dalle quali non ci si possa riprendere in breve tempo. Perciò, egli dice, nessuno potrà essere veramente. felice « se farà la fine di Priamo » 19 • Ma, se cosl è, neppure Socrate potrebbe esser detto felice, neppure quel Socrate che visse tutta la vita cercando e attuando la virtù. Evidentemente, l'esperienza della vita e soprattutto della morte felice di Socrate, che in piena serenità di spirito bevve la cicuta, cosciente di aver attuato pienamente il suo destino, non è tenuta presente da Aristotele; e in effetti essa contrasta con le asserzioni che abbiamo letto. Del resto, ciò che lo stesso Aristotele ci dirà sulla vita contemplativa ridimensiona radicalmente queste concessioni al senso comune 20 •
" Etica Nicomachea, A 8, 1099 a 31 - b 7. " Etica Nicomachea, A 10, 1101 a 7-8. 20 Cfr. più oltre, pp. 362 sgg.
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3. Deduzione dell'anima»
delle
« virtù »
dalle
« parti
La fdicità consiste, dunque, in una attività dell'anima secondo virtù. È chiaro, allora, che qualsiasi ulteriore approfondimento del concetto di «virtù» dipende da un approfondimento del concetto di anima. Ora, noi abbiamo veduto che l'anima si distingue, secondo Aristotele, in tre parti, due irrazionali, cioè l'anima vegetativa e l'anima sensitiva, e una razionale, l'anima intellettiva. E come ciascuna di queste parti ha una sua attività peculiare, cosl ha una sua peculiare virtù o eccellenza. Tuttavia la virtù umana è solo quella in cui entra l'attività della ragione. Infatti, l'anima vegetativa è comune a tutti i viventi: La virtù di una tale facoltà appare quindi cosa comune a tutti gli esseti e non specificatamente umana 21 •
Diverso è, invece, il discorso per quanto concerne l'anima sensitiva e concupiscibile, la quale, pur essendo di per sé irrazionale, tuttavia partecipa in certo modo della ragione: Nondimeno forse bisogna supporre che anche nell'anima ci sia qualcosa contro la ragione, che si oppone e resiste ad essa. In che maniera vi sia quest'opposizione, ciò non importa. Anche questo elemento tuttavia sembra partecipare della ragione [ ... ] : giacché esso obbedisce alla ragione, se appartiene ad un uomo continente. E se è di un uomo moderato e coraggioso, esso è forse ancor più docile; ogni cosa è. infatti in lui in armonia con la ragione. Quindi la parte irrazionale appare di due sorta: l'una cioè, vegetativa, non partecipa per nulla della ragione; quella concupiscibile, invece, ed in generale appetitiva, vi partecipa in certo modo, in quanto è obbediente e ottemperante alla ragione 22 • È chiaro, allora, che vi è una virtù di questa parte del21
22
Etica Nicomachea, A 13, 1102 b 2·3. Etica Nicomachea, A 13, 1102 b 23·31.
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l'anima che è specificamente umana e che consiste nel dominare, per cosl dire, queste tendenze e questi impulsi che sono di per sé smodati, e questa lo Stagirita chiama « virtù etica ». Infine, poiché c'è in noi anche un'anima puramente razionale, allora vi dovrà essere altresl una virtù peculiare di questa parte dell'anima, e questa sarà la « virtù dianoetica », ossia la virtù razionale.
4.
Le vi r t ù e t i che
Iniziamo dall'esame della virtù etica, anzi delle virtù etiche, dato che esse sono numerose, cosl come numerosi sono gli impulsi e i sentimenti che la ragione deve moderare. Le virtù etiche derivano in noi dall'abitudine: noi per natura siamo potenzialmente capaci di formarle, e mediante l'eser: cizio appunto noi traduciamo questa potenzialità in attualità. Compiendo via via atti giusti, noi diventiamo giusti, cioè acquistiamo la virtù della giustizia, che poi resta in noi, stabilmente, come un habitus, che successivamente ci farà agevolmente compiere ulteriori atti di giustizia. Compiendo via via atti di coraggio, noi diventiamo coraggiosi, cioè acquistiamo l'habitus del coraggio, che poi ci porterà agevolmente a compiere atti coraggiosi. E cosl di seguito. Insomma, per Aristotele, le virtù etiche si apprendono nello stesso modo in cui si apprendono le varie arti, che sono esse pure abiti: Come ad esempio costruendo case diventiamo architetti e suonando la cetra diventiamo citaredi, cosl altrettanto compiendo cose giuste diventiamo giusti, compiendo cose moderate, diventiamo moderati, facendo cose coraggiose, coraggiosi 23 •
23
Etica Nicomachea, B l, 1103 a 33 - h 2.
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Questo discorso, per quanto sia chiarificatore, non porta però ancora al centro della questione: ci dice, cioè, come acquistiamo e poi possediamo queste virtù, ma non ci dice ancora in che cosa consistano le virtù. Qual è la natura comune a tutte le virtù etiche? Lo Stagirita risponde con puntualità: non c'è mai virtù quando c'è eccesso o difetto, ossia quando c'è il troppo o il troppo poco; virtù implica, invece, la giusta proporzione, che è la via di mezzo fra i due eccessi. Ecco le precise parole del nostro filosofo: In ogni cosa, sia essa omogenea oppure divisibile, è possibile distinguere il più, il meno e l'uguale, e ciò o in relazione alla cosa stessa o in relazione a noi: l'uguale è una via di mezzo tra l'eccesso e il difetto. lo chiamo dunque posizione di mezzo di una cosa quella che dista ugualmente da ciascuno degli estremi, ed essa è una sola ed identica in tutte le cose; e chiamo posizione di mezzo rispetto a noi ciò che non eccede né fa difetto; essa però non è unica, né uguale per tutti. Ad esempio, ponendo il dieci come quantità eccessiva e il due come quantità difettiva, il sei si considera come il mezzo rispetto alla cosa: questo è infatti il mezzo secondo la proporzione numerica. La posizione di mezzo riguardo a noi non va invece interpretata cosl: infatti se per qualcuno il mangiare dieci mine è troppo e il mangiarne due è poco, il maestro di ginnastica non per questo ordinerà di mangiare sei mine; infatti per chi deve ricevere questa razione, essa può essere pure molta oppure poca: per Milone [che era un atleta eccezionale] infatti è poca, per un principiante di ginnastica è molta. Altrettanto è da dirsi per la corsa e la lotta. Cosl dunque ogni persona che ha scienza evita l'eccesso e il difetto, mentre cerca il mezzo e lo preferisce, e questo mezzo è stabilito non in relazione· alla cosa, bensì in relazione a noi 24 •
Ma - si chiederà - « eccesso», « difetto » e « giusto mezzo » di cui si parla a proposito delle virtù etiche, che cosa riguardano? Riguardano - precisa Aristotele - sentimenti, passioni e azioni: " Etica Nicomachea, B 6, 1106 a 26- b 7.
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)OI
Ad esempio del timore, dell'ardire, del desiderio, dell'ira, della pietà e in genere del godere e dell'addolorarsi v'è un troppo e un troppo poco ed entrambi non vanno bene; ma se noi proviamo quelle passioni quando si deve, in ciò che si deve, verso chi si deve, allo scopo e nel modo che si deve, allora saremo nel mezzo e nell'eccellenza, che son propri della virtù; e similmente anche per le azioni v'è un eccesso, un difetto ed un mezzo. La virtù dunque riguarda le passioni e le azioni, nelle quali s'incontra l'errore dell'eccesso e il biasimo del difetto, mentre il mezzo è lodato ed ha successo: e queste due cose son proprie della virtù. Dunque la virtù è una certa medietà, che ha come scopo il giusto mezzo 25• In conclusione: la virtù etica è precisamente medietà tra due vizi, di cui l'uno è per difetto, l'altro per eccesso. È ovvio, per chi ha ben compreso questa dottrina di Aristotele, che la medietà non solo non è la mediocrità, ma ne è l'anti'tesi: il « giusto mezzo », infatti, è nettamente al di sopra degli estremi, rappresentando, cosl per dire, il loro superamento, e quindi, come ben dice Aristotele, un «culmine», cioè il punto più elevato dal punto di vista del valore, in quanto segna l'affermazione della ragione sull'irrazionale: Perciò secondo la sua essenza e secondo la ragione che stabilisce la sua natura, la virtù è una medietà, ma rispetto al bene e alla perfezione, essa è al punto più elevato 26 • C'è, qui, quasi una sintesi di tutta quella saggezza greca che aveva trovato espressione tipica nei poeti e nei sette savi, la quale aveva più volte additato nella via media, nel nulla di troppo, nella giusta misura, la suprema regola dell'agire morale: regola che è come una cifra paradigmatica del modo di sentire ellenico. E c'è, anche, l'acquisizione della lezione pitagorica che additava nel limite (il péras) la perfezione, e soprattutto c'è un preciso sfruttamento del concetto di « giu25 26
Etica Nicomachea, B 6, 1106 h 18-28, Etica Nicomachea, B 6, 1107 a 6-8.
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sta misura», che tanta importanza ebbe soprattutto nell'ultimo Platone. Questa dottrina della virtù etica come « giusto mezzo » fra gli estremi è illustrata da un'ampia analisi delle principali virtù etiche (o, meglio, di quelle che il Greco di allora considerava tali), naturalmente non dedotte secondo un preciso filo conduttore, ma empiricamente e quasi rapsodicamente elencate. La virtù del coraggio è il « giusto mezzo » fra gli eccessi della temerarietà e della viltà; il coraggio è dunque la giusta misura imposta al sentimento di paura che, se privo del controllo razionale, può degenerare sia, per difetto, in viltà, sia, per eccesso, in incontrollata audacia. La temperanza è il « giusto mezzo » fra gli eccessi della intemperanza o dissolutezza e l'insensibilità; la temperanza è dunque il giusto atteggiamento che la ragione ci fa assumere di fronte a determinati piaceri. La liberalità è il« giusto mezzo »fra l'avarizia e la prodigalità; essa è pertanto il giusto atteggiamento che la ragione ci fa assumere nei confronti dell'azione dello spender denaro. E cosl di seguito. Nell'Etica Eudemia Aristotele fornisce il seguente elenco di virtù e vizi: [ l ] la mansuetudine è la via di mezzo fra iracondia e impassibilità; [2] il coraggio è la via di mezzo fra temerarietà e viltà; [ 3] la verecondia è la via di mezzo fra impudenza e timidezza; [ 4] la temperanza è la via di mezzo fra intemperanza e insensibilità; [5] l'indignazione è la via di mezzo fra invidia e eccesso opposto che non ha nome; [ 6] la giustizia è la via di mezzo fra guadagno e perdita; [ 7] la liberalità è la via di mezzo fra prodigalità e avarizia; [ 8] la veracità è la via di mezzo fra millanteria e auto-deprezzamento; [ 9] l'amabilità è la via di mezzo fra ostilità e adulazione;
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[lO] la serietà è la via di mezzo fra compiacenza e superbia; [ 11 ] la magnanimità è la via di mezzo fra vanità e piccineria d'animo; [ 12] la magnificenza è la via di mezzo fra fastosità e meschineria 27 • In tutte queste manifestazioni la virtù etica è la giusta misura che la ragione impone a sentimenti o ad azioni o ad atteggiamenti che} senza il controllo della ragione} tenderebbero verso funo o faltro eccesso. Fra tutte le virtù etiche, lo Stagirita non esita ad additare la giustizia come quella più importante (e all'analisi di essa egli dedica un intero libro) 28 • In un primo senso, la giustizia è il rispetto della legge dello Stato, e poiché la legge dello Stato (dello Stato greco) copre tutta l'area della vita morale, la giustizia è, in questo senso, in qualche modo comprensiva di tutta quanta la virtù. Scrive Aristotele: E per questo spesso la giustizia sembra essere la più importante delle virtù, e che né la stella della sera né quella del mattino siano cosl ammirabili; e nel proverbio diciamo: nella giustizia è insieme compresa ogni virtù 29 •
Ma il senso più proprio della giustizia (che è quello più attentamente analizzato da Aristotele) consiste -1la giusta misura con cui si ripartiscono i beni} i vantaggi e i guadagni (o i loro contrari). E in tal senso la giustizia è « medietà » non come lo sono le altre virtù, [ ... ] bensl perché essa è la caratteristica del giusto mezzo, mentre l'ingiustizia lo è degli estremi 30 •
In generale, le molte e fini analisi sui vari aspetti delle singole virtù etiche fatte da Aristotele rimangono, per lo più, Cfr. Etica Eudemia, B 3. Cfr. Etica Nicomachea, libro E, passim. ,. Etica Nicomachea, E l, 1129 b 27-30. 30 Etica Nicomachea, E 5, 1133 b 32 - 1134 a l.
27 28
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su un piano puramente fenomenologico; anzi, si può dire che, spesso, le convinzioni morali della società cui apparteneva Aristotele prendono decisamente la mano al filosofo, come ad esempio nel caso della descrizione della magnanimità, che dovrebbe essere una specie di ornamento delle virtù, ma che, invece, risulta una pesante ipoteca che il gusto del tempo pone sulla dottrina aristotelica 31 •
5.
Le virtù « dianoetiche »
Al di sopra delle virtù etiche, secondo Aristotele, ci sono altre virtù che, come già abbiamo accennato, sono le virtù della parte più elevata dell'anima, cioè dell'anima razionale, e che son quindi dette virtù dianoetiche, cioè virtù della ragione. E poiché due sono le parti o funzioni dell'anima razionale, l'una che conosce le cose contingenti e variabili, l'altra che conosce le cose necessarie e immutabili, allora vi saranno logicamente sia una perfezione o virtù della prima funzione, sia una perfezione o virtù della seconda funzione dell'anima razionale 32 • Queste due parti dell'anima razionale sono, in sostanza, la ragion pratica e la ragion teoretica, e le rispettive virtù saranno le forme perfette con cui si colgono la verità pratica e la verità teoretica. La tipica virtù della ragion pratica è la « saggezza» (phr6nesis), mentre la tipica virtù della ragion teoretica è la« sapienza» (sophfa). La saggezza consiste nel saper correttamente dirigere la vita dell'uomo, cioè nel saper deliberare intorno a ciò che è bene o male per l'uomo. (Essa, dice Aristotele, è« una disposizione pratica, accompagnata da ragione verace, intorno a ciò che è bene e male per l'uomo» 33 ). È da notare, al fine dell'e" Cfr. Etica Nicomachea, A 3 sgg. " Cfr. Etica Nicomachea, Z l. " Etica Nicomachea, Z 5, 1140 b 4-6.
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satta comprensione della dottrina aristotelica, che la phr6nesis o saggezza aiuta a deliberare correttamente intorno ai veri scopi dell'uomo nel senso che addita i mezzi idonei al raggiungimento dei veri fini, ci aiuta, cioè, ad individuare ed a conseguire quelle cose che conducono a quei fini; però essa non indica né determina i fini stessi. I veri fini e il vero scopo sono colti dalla virtù etica che indirizza il volere in modo corretto. Dice esattamente Aristotele: L'opera umana si compie attraverso la saggezza e la virtù etica: infatti la virtù rende retto lo scopo, mentre la saggezza rende retti i mezzi 34• È chiaro, quindi, che le virtù etiche e la virtù dianoetica della saggezza sono legate fra di loro a doppia mandata: infatti, dice Aristotele: a) Non è possibile essere virtuosi senza la saggezza, né b) essere saggi senza la virtù etica 35 •
a) In verità, se la virtù etica, come vedemmo, «è un abito
della scelta consistente nella medietà rispetto a noi stessi, determinata dalla ragione e come l'uomo saggio la definirebbe» 36 , è chiaro che essa non si può avere senza questa ragione, o meglio senza questa retta ragione, e questa retta ragione è solo quella del saggio, cioè quella appunto che è conforme a saggezza. Del resto è evidente, in base a quanto s'è detto, che se solo la saggezza ci indica i fini per raggiungere il bene, qualora, per ipotesi, noi raggiungessimo il bene senza saggezza, noi lo raggiungeremmo solo per una sorta di naturale inclinazione, ossia in modo irriflesso; ma questa non potrebbe essere autentica virtù. La saggezza resta cosl la condizione necessa"' Etica Nicomachea, Z 12, 1144 a 6-9. 35 Etica Nicomachea, Z 13, 1144 b 31-33. "' Etica Nicomachea, B 6, 1006 b 36 - 1007 a 2 (ci scostiamo dalla traduzione del Plebe).
.
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ria (anche se non sufficiente) di ciascuna e di tutte le virtù etiche, e costituisce anche l'elemento che, in certo modo, tutte le unifica 37 • b) D'altra parte è anche vero, per converso, che non ci può essere saggezza senza virtù etica; infatti, la saggezza non è semplice accortezza, capacità in generale di trovare e conseguire i mezzi per raggiungere qualsivoglia scopo, ma solamente quella specifica capacità di trovare i giusti mezzi che portano allo scopo più alto dell'uomo, al bene morale. La saggezza è solamente l'accortezza che si ha nelle cose morali 38 • Questo doppio legame, come da tempo gli studiosi hanno rilevato, finisce per far cadere in un circolo. Scriveva già lo Zeller: « la virtù, in fondo, è il mantenere il giusto mezzo, e questo può essere determinato soltanto dalla saggezza; se le cose stanno cosl, il compito della saggezza non consiste soltanto nella ricerca del mezzo per raggiungere fini etici: senza di essa non è possibile neppure determinare esattamente quei fini e d'altra parte l'accortezza merita il nome di saggezza solo quando si dedica a realizzare fini etici » 39 • È un'aporia che deriva da altre aporie che stanno più a monte e di cui diremo alla fine. L'altra virtù dianoetica, la più elevata, è, come si è detto, la sapienza (sophia). Essa è costituita sia dal coglimento intuitivo dei principi tramite l'intelletto, sia dalla conoscenza discorsiva delle conseguenze che derivano da quei principi. La sapienza è una virtù più alta della saggezza, per il motivo che, mentre la saggezza riguarda l'uomo, e quindi quanto c'è di mutabile nell'uomo, la sapienza riguarda ciò che è al di sopra dell'uomo: l'uomo è il migliore degli esseri viventi, ., Cfr. Etica Nicomachea, Z 13. Cfr. Etica Nicomachea, Z 12. "' Zeller-Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppp storico, Parte n, vol. 6, a cura di A. Plebe, p. 72 (abbiamo apportato un lieve ritocco alla traduzione). 31
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tuttavia dice Aristotele: Vi sono altre cose molto più divine dell'uomo per. natura, come, per restare alle più visibili, gli astri di cui si compone l'universo. Da ciò che si è detto è chiaro che la sapienza è insieme scienza e intelletto delle cose più eccelse per natura 40 • In altri termini: la sapienza coincide con le scienze teoretiche e anzi coincide, in modo speciale, con la più alta di esse, vale a dire con la metafisica.
6.
L a perfetta felicità
Poiché, come si è visto all'inizio, la felicità è un'attività conforme a virtù, è ormai chiaro in che cosa essa consisterà. In primo luogo, essa consisterà nell'attività dell'intelletto conforme alla sua virtù: l'intelletto, infatti, è ciò che è più elevato in noi e l'attività dell'intelletto è attività perfetta, è aut~ sufficiente, è attività che ha in sé il proprio fine, in quanto essa tende al conoscere per se stesso. Nell'attività della contemplazione intellettiva l'uomo raggiunge il vertice delle sue possibilità e attualizza quanto di più alto è in lui. Scrive Aristotele: Se [ ... ] l'attività dell'intelletto, essendo contemplativa, sembra eccellere per dignità e non mirare a nessun altro fine all'infuori di se stessa ed avere un proprio piacere perfetto (che accresce l'attività) ed essere autosufficiente, agevole, ininterrotta per quanto è possibile all'uomo e sembra che in tale attività si trovino tutte le qualità che si attribuiscono all'uomo beato: allora questa sarà la felicità perfetta dell'uomo, se avrà la durata intera della vita. Infatti in ciò che riguarda la felicità non può esservi nulla di incompiuto. Ma una tale vita sarà superiore alla natura dell'uomo; infatti non in quanto uomo egli vivrà in tal maniera, bensl in quanto in lui v'è qualcosa di divino; e di quanto esso eccelle "' Etica Nicomachea, Z 7, 1141 a 34 - b 2 (ci scostiamo dalla versione del Plebe per accogliere quella del Gauthier, ad h. l.; cfr. nota 63).
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sulla struttura composta dell'uomo, di tanto eccelle anche la sua attività su quella conforme alle altre virtù. Se dunque in confronto alla natura dell'uomo l'intelletto è qualcosa di divino, anche la vita conforme ad esso sarà divina in confronto alla vita umana. Non bisogna però seguire quelli che consigliano che, essendo uomini, si attenda a cose umane ed, essendo mortali, a cose mortali, bensì, per quanto è possibile, bisogna farsi immortali e far di tutto per vivere secondo la parte più elevata di quelle che sono in noi; se pur infatti essa è piccola per estensione, tuttavia eccelle di molto su tutte le altre per potenza e valore 41 • Al secondo posto andrà invece collocata la vita conforme alle virtù etiche. Infatti esse riguardano la struttura composta dell'uomo, e, come tali, non possono che dare una felicità umana. Per contro, la felicità della vita contemplativa porta in qualche modo al di là dell'umano, realizza, per cosi dire, una tangenza con la divinità, la cui vita può solo essere vita contemplativa. Scrive testualmente Aristotele: Cosicché l'attività del dio, che eccelle per beatitudine, sarà contemplativa. Quindi anche tra le attività umane quella che è più congenere a questa, sarà quella più capace di render felici. Prova di ciò è anche il fatto che gli altri esseri viventi non partecipano della felicità, perché sono completamente privi di questa attività. Invece per gli dei tutta la vita è beata, e per gli uomini lo è in quanto vi è in essi un'attività simile a quella; ma nessuno degli altri esseri viventi è felice, perché non partecipa per nulla della speculazione. Per quanto dunque si estende la speculazione, di tanto si estende anche la felicità, e in quelli in cui si trova maggior speculazione v'è anche maggior felicità: e ciò accade non per caso, ma per via della speculazione: essa infatti ha valore di per se stessa. Così la felicità è una specie di speculazione 42 • È questa la formulazione più perfetta di quell'ideale che
i vecchi filosofi della natura avevano cercato di realizzare nella loro vita, che Socrate aveva già iniziato a esplicitare 41 Etica Nicomach('a, K 7, 1177 b 19- 1178 a 2 . ., Etica Nicomachea, K 8, 1178 b 21·32.
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dal punto di vista concettuale, e che Platone aveva già teorizzato. Ma in Aristotele c'è in più la messa a tema della tangenza della vita contemplativa con la vita di Dio, che mancava in Platone, perché mancava, come abbiamo veduto, il concetto di Dio come Mente assoluta e Pensiero di pensiero. Cosi, il precetto platonico che l'uomo deve quanto più è possibile « assimilarsi a Dio », acquista un più preciso significato: assimilarsi a Dio significa contemplare il vero così come Dio lo contempla, o, come l'Etica Eudemia esplicita, contemplare lo stesso Dio, che è la suprema razionalità: Bisogna dunque, qui come nelle altre cose, vivere conformandosi al principio regolatore e conformandosi alla disposizione e all'attività del principio regolatore, cosl come lo schiavo deve vivere conformandosi al principio del padrone, e ciascuno di noi al principio a lui proprio. Ma, poiché l'uomo è per natura composto di una parte governante e di un'altra governata, ciascuno di noi dovrà vivere conformemente alla propria parte governante (essa però è in duplice senso: infatti diversamente governano la scienza medica da un lato e la salute dall'altro: la prima esiste in vista della seconda). Cosl è riguardo alla facoltà contemplativa; Dio infatti non è un governante imperativo, ma è fine in vista del quale la saggezza comanda [ ... ], poiché Dio non ha bisogno di nulla. Perciò quella scelta e possesso di beni naturali che conferirà maggiormente la contemplazione di Dio (siano essi beni corporei, o di ricchezze, o di amici, o di altre cose), sarà la migliore; e questo è dunque il miglior criterio di riferimento; invece qualsiasi cosa che, o per difetto o per eccesso, impedisce di servire e contemplare Dio, sarà cattiva. L'uomo ha questa facoltà nell'anima, e questo è il miglior criterio regolatore dell'anima, quello cioè di sentire il meno possibile la parte irrazionale dell'anima in quanto tale 43 • 7.
L' a m i ci z i a e l a felici t à
Aristotele ha dedicato ben due libri dell'Etica Nicomachea alla trattazione dell'amicizia. La cosa si spiega per diverse "' Etica Eudemia, 8 3, 1249 b 6-23.
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ragioni fondamentali. In primo luogo, l'amicizia è per Aristotele strutturalmente legata alla virtù e alla felicità, quindi ai problemi centrali dell'etica 44 • In secondo luogo, la problematica dell'amicizia, da Socrate e soprattutto da Platone, come abbiamo veduto, era già stata a fondo dibattuta ed aveva acquistato una notevole consistenza filosofica. In terzo luogo, la struttura della società greca dava un rilievo all'amicizia decisamente superiore a quello che le danno le moderne società, sicché anche da questo punto di vista ben si spiega la particolare attenzione che ad essa ha dedicato lo Stagirita. Tre sono le cose che l'uomo ama e per cui fa amicizia: l'utile, il piacevole e il buono. A seconda che un uomo cerchi in un altro l'utile, il piacevole o il buono, nasce una amicizia di specie diversa. Dunque, se tre sono i valori che si ricercano, tre dovranno essere anche le forme di amicizia: Tre dunque sono le specie di amicizie, come tre sono le speçie di qualità suscettibili d'amicizia: e a ciascuna di esse corrisponde un ricambio di amicizia non nascosto. E coloro che si amano reciprocamente si voglionu reciprocamente del bene, riguardo a ciò per cui si amano. Quelli dunque che si amano reciprocamente a causa dell'utile non si amano per se stessi, bensl in quanto deriva loro reciprocamente un qualche bene; similmente anche quelli che si amano a causa del piacere. Infatti essi amano le persone facete non perché queste abbiano date qualità, ma perché sono piacevoli. Quindi coloro che amano a causa dell'utile amano per via del bene che proviene a loro e quelli che amano a causa del piacere amano per via di ciò che di piacevole proviene a loro e non in quanto la persona amata è quella che è, bensl in quanto essa è utile o piacevole. Perciò queste amicizie sono accidentali; infatti colui che è amato non viene amato per via di quello che è, ma in quanto procura chi un bene chi un piacere. Quindi simili amicizie sono facilmente caduche, poiché le persone non restano sempre uguali: se infatti esse non sono più piacevoli o utili, cessano di essere in amicizia ~ 5 • .. Cfr. Etica Nicomachea, libri 0 e I. " Etica Nicomachea, 0 3, 1156 a 6-21.
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L'amicizia perfetta è quella dei buoni e dei simili nella virtù. Costoro infatti si vogliono bene reciprocamente in quanto sono buoni, e sono buoni di per sé; e coloro che vogliono bene agli amici proprio per gli amici stessi sono gli autentici amici (infatti essi sono tali di per se stessi e non accidentalmente); quindi la loro amicizia dura finché essi sono buoni, e la virtù è qualcosa di stabile 46 •
Dunque, le prime due forme di am1c1z1a sono le meno valide: anzi, sotto un certo rispetto, sono forme di amicizia estrinseche e illusorie, perché, per dirla in termini moderni, con esse l'uomo ama l'altro uomo non per quello che è bensì solamente per quello che ha; l'amico, in larga misura, viene strumentalizzato ai vantaggi (ricchezza, piacere) che ci offre. L'autentica forma di amicizia è solamente la terza, perché solo con essa l'uomo ama un altro uomo per quello che egli è, ossia per la sua bontà intrinseca di uomo. Così essendo, è chiara la ragione per cui Aristotele collega l'amicizia alla virtù: la vera forma di amicizia è il legame che l'uomo virtuoso stringe con l'uomo virtuoso a motivo della virtù stessa. E la virtù è, come abbiamo visto, ciò per cui e in cui l'uomo attua pienamente la sua natura e il suo valore di uomo, sicché la vera forma d'amicizia è proprio il legame di uomo con uomo secondo il valore stesso dell'uomo. Sicché Aristotele può ben appellarsi, per risolvere il problema dell'amicizia, al principio cui si appella (come vedremo) per risolvere il problema delle scelte morali di fondo: Sembra che la virtù e il virtuoso siano la misura di ciascuna cosa 47 •
Alcuni interpreti di Aristotele hanno creduto di trovare nella dottrina dell'amicizia un correttivo di quell'egoismo, o, se si vuole, di quell'egocentrismo che, in ultima analisi, ri46
41
Etica Nicomachea, O 3, 1156 h 7-12. Etica Nicomachea, I 4, 1166 a 12-13.
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sulta essere la caratteristica di fondo del sistema etico dello Stagirita. Per la verità cosl non è: infatti chiaramente egli afferma che anche nelle amicizie secondo virtù l'amico cerca nell'amico il proprio bene. L'amicizia come dono gratuito di sé all'altro è una concezione totalmente estranea ad Aristotele: anche nel suo più alto grado l'amicizia è intesa come un rapporto di dare e avere che, sia pure a livello spirituale, deve in qualche modo pareggiare: E amando l'amico si ama il proprio bene, infatti la persona buona quando diviene amica diventa un bene per colui al quale è amica. Ciascuno dei due quindi ama il proprio bene e rende un ricambio equo nella buona volontà e nel piacere: infatti si dice che l'equità sia uno spirito amichevole. E ciò accade soprattutto nell'amicizia dei buoni 48 •
Aristotele, anzi, non esita ad affermare espressamente che l'amicizia per gli altri nasce « dal senso di amicizia verso se stessi » 49 e che « ciascuno vuoi bene a se stesso » 50 • Senonché, poiché in noi esistono una parte peggiore e una migliore, ci sono, per conseguenza, due modi diversi di amare sé: c'è il modo deteriore di amare la parte più bassa di sé e di volere per sé quanto più possibile di ricchezze e di piaceri, e c'è, per contro, il modo superiore di amare la parte più elevata di sé e i beni relativi a questa parte. Normalmente si chiama egoista chi ama la parte inferiore di sé e chi vuole avere per sé il più possibile di ricchezze e di piaceri; ma Aristotele osserva che « egoista » è anche chi ama la parte superiore di sé e vuole per sé il più possibile dei beni spirituali: la differenza sta nel fatto che il primo è egoista in senso deteriore e quindi negativo, il secondo è invece egoista in senso superiore e quindi positivo. Ecco un testo fondamentale .. Etica Nicomachea, 0 5, 1157 h 33 - 1158 a l. ., Etica Nicomachea, I 4, 1166 a 2-11. 50 Etica Nicomachea, 0 7, 1159 a 12.
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al riguardo: Che dunque i più sogliano chiamare egoisti quelli che attribuiscono a se stessi le cose suddette [ricchezze e beni materiali], è chiaro; se infatti qualcuno s'industriasse di compiere egli più di tutti le azioni giuste o quelle moderate o quelle in ogni modo secondo le virtù e insomma si procurasse sempre il decoro, nessuno direbbe che un tal uomo è egoista, né lo biasimerebbe. Eppure un tal uomo potrebbe sembrare particolarmente egoista; egli attribuisce infatti a sé le cose più belle e sommamente buone, e gode della parte più elevata di sé ed obbedisce ad essa in tutto; come infatti lo Stato ed ogni altro sistema organizzato sembrano essere costituiti soprattutto della loro parte più elevata, cosl è anche per l'uomo: ed è quindi soprattutto egoista chi ama questa sua parte più elevata e gode di essa. Ed un uomo è detto continente o incontinente a seconda che il suo intelletto domini oppure no, come se ciascuno s'identificasse con il suo intelletto, e sembra che abbiamo agito proprio noi e volontariamente soprattutto in quelle azioni compiute secondo ragione. È dunque chiaro che ciascuno è soprattutto intelletto e che la persona moralmente conveniente ama soprattutto esso. Quindi soprattutto costui sarebbe egoista, ma di una specie diversa da quella biasimata e tanto differente da essa quanto lo è il vivere secondo ragione dal vivere secondo passione, e l'aspirare al decoroso dall'aspirare a ciò che sembra essere utile 51 •
In questo contesto si capisce quindi assai bene in che senso Aristotele consideri l'amicizia come necessaria alla felicità: essa rientra nel novero di quegli stessi beni superiori, dal possesso dei quali dipende la vera felicità. Inoltre, se è vero che l'uomo buono tende più a fare il bene che non a riceverlo, è anche vero che, proprio per questo, ha bisogno di persone cui fare il bene. Infine l'uomo, come essere strutturalmente politico, ossia fatto per vivere in società con altri (di ciò parleremo in modo più preciso esponendo la concezione politica di Aristotele), per sua stessa natura ha bisogno
51
Etica Nicomacbea, I 8, 1168 b 23 - 1169 a 6.
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di altri, proprio per poter godere dei beni: per un uomo assolutamente isolato nessun bene sarebbe godibile. Ecco il testo in cui in modo esemplare Aristotele esprime questi concetti: V'è anche una questione intorno all'uomo felice, s'egli abbia bisogno di amici oppure no. Dicono infatti che non abbiano bisogno di amici gli uomini beati e autosufficienti: essi infatti posseggono ciò che è bene, quindi, essendo autosufficienti, non hanno bisogno di nessuno, mentre l'amico, essendo un altro se stesso, dovrebbe procurare ciò che da sé solo non si può ottenere. Di qui il detto: « se aiuta il dio, a che serve l'amico? ». Ma sembra strano che quelli che attribuiscono ogni bene all'uomo felice, non gli concedano .amici, cosa che sembra essere il più grande dei beni esterni. Se invero è proprio dell'amico piuttosto fare il bene che riceverlo, e se è proprio dell'uomo buono e della virtì1 il beneficare, ed è più bello far del bene agli amici che agli estranei, allora l'uomo virtuoso avrà bisogno di persone che ricevono i benefici. Perciò si ricerca anche se si abbia più bisogno di amici nella fortuna o nella sfortuna, in quanto lo sfortunato ha bi<>ogno di chi lo benefichi, il fortunato ha bisogno di persone ch'egli possa beneficare. Ed è probabilmente assurdo anche il fare del beato un uomo solitario; nessuno infatti sceglierebbe di avere tutti i beni per sé solo; l'uomo infatti è un essere politico e portato naturalmente alla vita in società. E questa caratteristica v'è anche nell'uomo felice; egli infatti possiede i beni naturali. Ed è chiaro che è meglio passare il giorno con persone amiche e convenienti che con persone estranee e qualsiasi; perciò l'uomo felice ha bisogno di amici 52 •
8.
Il p i a c ere e l a felicità
Già nell'ambito delle Scuole socratiche e all'interno della stessa Accademia platonica, come già abbiamo detto, s'erano accese vivaci discussioni sul piacere e sui suoi rapporti con la felicità e da esse erano emerse opposte conclusioni. Ari52
Etica Nicomachea, I 9, 1169 b 3-22.
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stotele discute a fondo queste conclusioni e assume una posizione assai originale nei confronti di esse e, in certo senso, capace di mediare le opposte istanze. Per Aristotele il piacere non è un mutamento (un riempimento, un completamento, una integrazione o reintegrazione), né in generale un movimento, bensl una attività in ogni momento perfetta: L'atto del vedere, come sembra, è perfetto in ogni momento (infatti esso non manca di nulla che gli si aggiunga in più per rendere perfetta la sua forma): tale sembra essere anche il piacere. Esso infatti è una totalità intera e in nessun periodo di tempo si potrebbe trovare un piacere, la cui forma diventi più perfetta se se ne prolunga il tempo 53 • Anzi, più propriamente ancora, per Aristotele il piacere si accompagna ad ogni attività (sia essa attività sensibile, attività pragmatica o teoretica) e la perfeziona: Il piacere poi perfeziona l'attività non come una disposizione conseguita, bensl come un perfezionamento che vi si aggiunge, come ad esempio la bellezza per quelli che sono nel fiore della giovinezza; vi sarà dunque piacere nell'attività finché sia l'oggetto pensabile o sensibile sia ciò che discerne o contempla siano come devono essere [ ... l 54 • È chiaro dunque quale sia la novità del pensiero aristotelico al riguardo. Quando noi agiamo o conosciamo, sia sensibilmente sia intellettivamente, noi traduciamo in atto, ossia realizziamo, determinate nostre potenzialità, e queste nostre attività raggiungono (attuano) il loro scopo relativamente all'oggetto che è loro proprio. Proprio perché le nostre attività sono questo oggettivo realizzarsi di potenzialità, costituiscono qualcosa di oggettivamente positivo, e il piacere ad esse si accompagna come risonanza soggettiva di quel positivo oggettivo. La stessa vita in generale, che è appunto una Etica Nicomachea, K 4, 1174 a 14-19 . .. Etica Nicomachea, K 4, 1174 b 31 - 1175 a l.
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attività e una realizzazione di un positivo, si accompagna, come tale, a un piacere. L'aspirazione al piacere, dunque, è, per Aristotele, del tutto naturale, perché naturalmente s'accompagna al vivere e ad ogni attività che del vivere è propria a guisa di « perfezione » di quelle attività, nel senso che si è precisato. Ogni attività, dunque, ha un suo piacere; quindi ogni piacere, nel suo genere, è appunto vero piacere. Tuttavia, come vi sono attività convenienti e buone e attività sconvenienti e cattive, cosi vi sono piaceri convenienti e buoni e piaceri sconvenienti e non buoni. Per qualificare il piacere, ossia per stabilire un criterio discriminante e quindi una gerarchia dei medesimi, Aristotele si rifà, ancora una volta, alla virtù e all'uomo virtuoso: In tutti questi casi ci sembra che la cosa sia come appare all'uomo virtuoso. Se è giusto dir cosl, come sembra, allora la misura di ciascuna cosa saranno la virtù e l'uomo buono in quanto tale, e veri piaceri saranno quelli che a lui sembrano tali e piacevoli le cose di cui egli gode. E uno non deve per nulla meravigliarsi se a qualcuno sembrano piacevoli le cose che a lui sono disgustose; infatti negli uomini sorgono molte corruzioni e impurità; e queste cose non sono veramente piacevoli, bensl lo sono solo a costoro e a quelli che hanno tal disposizione 55 •
Ma all'uomo buono i piaceri appaiono buoni o catt1v1 per ben precise ragioni di fondo. Infatti esiste un criterio antologico per discriminare i piaceri superiori da quelli inferiori: i primi sono quelli legati alle attività teoretico-contemplative dell'uomo, i secondi sono invece quelli legati alla vita vegetativo-sensibile dell'uomo. E, in ogni caso, dal momento che la felicità è legata, come abbiamo veduto, alla attività teoretico-contemplativa, dovranno essere tenuti veramente in pregio soltanto i piaceri che a questa attività sono legati. 55
Etica Nicomachea, K 5, 1076 a 15·22.
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9.
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Psicologia dell'atto morale
Socrate, come a suo luogo abbiamo ampiamente visto, aveva ridotto le virtù a scienza e a conoscenza e aveva negato che l'uomo potesse volere e fare volontariamente il male. Platone aveva in larga parte condiviso questa concezione, e, per quanto avesse individuato nell'animo umano forze irrazionali, ossia l'anima concupiscibile e l'anima irascibile capaci di opporsi all'anima razionale, aveva pur sempre creduto che la virtù umana consistesse nel dominio della ragione e nel soggiogamento di quelle forze alla ragione dovuto alla forza della ragione stessa, sicché anche per lui la virtù restava, in ultima analisi, ragione. Aristotele tenta di superare questa interpretazione intellettualistica del fatto morale. Da buon realista quale era, egli si era ben accorto che altro è conoscere il bene, e altro è attuarlo e realizzarlo e farlo, per così dire, sostanza delle proprie azioni, e aveva cercato di determinare più da vicino quali fossero i complessi processi psichici che l'atto morale presuppone. In primo luogo, egli chiarisce che cosa si intenda per « azioni involontarie »e« azioni volontarie ». Involontarie sono quelle azioni che si compiono forzatamente, oppure per ignoranza delle circostanze; volontarie, per conseguenza, sono invece quelle azioni « in cui il principio risiede in chi agisce, se conosce le circostanze particolari in cui si svolge l'azione» 56 • Ma se, fino a questo punto, tutto appare logico, improvvisamente la prospettiva muta, giacché Aristotele fa rientrare fra le azioni volontarie altresl quelle dettate dall'impetuosità, dall'ira e dal desiderio, e quindi chiama volontarie anche le azioni dei bambini e perfino quelle degli altri animali (in quanto hanno origine in essi e quindi dipendono da essi). 56
Etica Nicomachea,
r
l, 111 a 22-24.
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È chiaro, dunque, che « volontarie », in questo senso, sono le azioni semplicemente spontanee, che hanno la loro origine nei soggetti che le compiono, e non coincidono con quelle che noi moderni chiamiamo con lo stesso nome. Lo Stagirita prosegue nella sua analisi mostrando come gli atti umani, oltre che « volontari » nel senso chiarito, siano determinati da una« scelta» (prohairesis), e precisa che questa sembra essere « cosa essenzialmente propria della virtù e più atta che non le azioni a giudicare i costumi » 57 • Infatti, la scelta non può essere del bambino o dell'animale, ma solamente dell'uomo che ragiona e riflette. La « scelta » implica infatti sempre ragionamento e riflessione e, precisamente, quel tipo di ragionamento e di riflessione che riguarda quelle cose e quelle azioni che dipendono da noi e che sono nell'ordine dei realizzabili. Questo tipo di ragionamento e di riflessione viene chiamato da Aristotele « deliberazione ». La differenza fra la« deliberazione »e la « scelta » sta in questo: la deliberazione stabilisce quali e quanti siano .le varie azioni e i vari mezzi che bisogna mettere in atto per raggiungere certi fini: stabilisce, cioè, tutta la serie delle cose da realizzare per arrivare al fine, da. quelle più remote fino a quelle più prossime e immediate; la scelta agisce su quest'ultime e le scarta se irrealizzabili, le mette in atto se le trova realizzabili. Perciò scrive Aristotele:
L'oggetto della deliberazione e quello della scelta sono la stessa cosa, eccetto il fatto che ciò che si sceglie è già stato determinato. Infatti oggetto della scelta è ciò che è già stato giudicato con la deliberazione. Ciascuno infatti cessa dal ricercare come dovrà agire, quando abbia ricondotto a se stesso il principio della azione e l'abbia ricondotto a quella parte di sé che comanda: essa infatti è quella che decide 58 • " Etica Nicomachea, r 2, 1111 b sg. Etica Nicomachea, r 3, 1113 a 2-7 (ci scostiamo dal Plebe nell'interpretazione del termine 1çpoaLpECTLç, che, a nostro avviso, non è opportuno sa
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Qui si è creduto, da parte di molti studiosi, di rinvenire quella che noi chiamiamo volontà, in quanto la scelta è appetito o desiderio deliberato, e quindi non è né solo desiderio o appetito, né solo ragione. Purtroppo, non appena si cerchi di approfondire meglio la posizione aristotelica, essa si rivela estremamente ambigua e sfuggente. Intanto, lo Stagirita nega espressamente che la « scelta » possa identificarsi con la « volontà » ( boulesis ), perché la volontà riguarda solo i fini, mentre la scelta (cosl come la deliberazione) riguarda i mezzi. E allora, se è vero che la scelta è ciò che ci rende padroni delle nostre azioni, ossia responsabili, non è tuttavia ciò che ci rende veramente buoni, giacché tali possono essere solamente i fini che noi ci proponiamo e la scelta (cosl come la deliberazione) riguarda solo i mezzi. Allora il principio primo da cui dipende la nostra moralità sta piuttosto nella volizione del fine.
Che cos'è questa volizione del fine? Delle due l'una: a) o è tendenza infallibile al bene, a ciò che è veramente
bene, b) oppure è tendenza a ciò che ci appare bene. a) Nel primo caso, è evidente che la scelta non retta non sarà volontaria, ma sarà, come diceva Socrate, una forma di ignoranza, un errore, uno sbaglio. b) Nel secondo caso, bisognerebbe concludere che « ciò che è voluto non è voluto per natura, ma a seconda che a ciascuno pare; e poiché a uno pare una cosa, a uno un'altra, se cosl fosse, ciò che è voluto sarebbe insieme cose contrarie » 59 : il che significherebbe che nessuno potrebbe più essere chiamato buono o cattivo, o, che fa lo stesso, che sarebbero buoni tutti, appunto perché tutti farebbero ciò che loro appare bene. Dal dilemma Aristotele crede di poter uscire nel modo che segue: rendere con proponimento, ed è meglio tradurre con scelta, che è vocabolo molto più chiaro). •• Etica Nicomachea, r 4, 1113 a 20-21.
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Bisogna allora dire che assolutamente e secondo verità l'oggetto della volontà è il bene, però a ciascuno di noi oggetto della volontà è ciò che sembra bene: per chi è virtuoso ciò che è veramente bene, per chi è vizioso quello che capita; come anche pei corpi, a quelli che sono ben disposti son sane le cose che sono veramente tali, a quelli malati invece lo sono le altre cose: e altrettanto è delle cose amare, di quelle dolci, di quelle calde, di quelle pesanti, e cosi via. Chi è virtuoso, infatti, giudica rettamente ogni cosa ed in ciascuna gli appare il vero. In realtà le cose adatte a ciascuna disposizione sono belle e piacevoli, e forse l'uomo virtuoso differisce dagli altri soprattutto perché vede la verità in tutte le cose, essendo egli il canone e la misura di esse. Nella maggioranza degli uomini, invece, sembra sorgere l'inganno attraverso il piacere, che sembra bene, pur non essendolo. Perciò essi scelgono come bene ciò che è piacevole, e sfuggono com'e male ciò che è doloroso 60 •
Ma, se cosl è, ci muoviamo in un circolo (un circolo del tutto analogo a quello segnalato a proposito dei rapporti fra virtù etiche e saggezza): per diventare e essere buono debbo volere i fini buoni, ma questi li riconosco solo se sono buono. La verità è che Aristotele ha capito benissimo che noi siamo responsabili delle nostre azioni, causa dei nostri stessi abiti morali, causa del modo stesso in cui moralmente ci appaiono le cose, ma non ha saputo dire perché è cosl e che cosa in noi sta alla radice di tutto questo. Non ha} cioè} saputo correttamente determinare la vera natura della volontà e del libero arbitrio; e cosl si spiega come, pur criticando Socrate, ricada talora su posizioni socratiche, affermando, per esempio, che l'incontinente sbaglia perché al momento in cui commette azione incontinente non ha perfetta conoscenza, e affermando che la conoscenza è determinante rispetto all'agire morale 61 • E si spiega anche come Aristotele arrivi addirittura a dire che, una volta diventati viziosi, non si può più non '" Etica Nicomachea, r 4, 1113 a 23-b 2. •• Cfr. Etica Nicomachea, H l sgg.
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essere tali, anche se era possibile in un primo tempo non diventarlo 62 • Tuttavia è giusto riconoscere che, pur senza adeguato successo, Aristotele ha meglio di tutti i predecessori intravisto che c'è in noi qualcosa da cui dipende l'essere buoni o cattivi, che non è mero desiderio irrazionale, ma non è neppure ragione pura; ma, poi, questo qualcosa gli è sfuggito di mano senza che egli riuscisse a determinarlo. Del resto, dobbiamo obiettivamente riconoscere che non vi riuscirà nessun Greco e che l'uomo occidentale capirà che cosa siano la volontà e il libero arbitrio solo attraverso il Cristianesimo 63 •
Cfr. Etica Nicomachea, r 5. Per una approfondita meditazione delle Etiche aristoteliche indichiamo: Aristate, L'éthique à Nicomaque, Introduction, traduction et commentaire par R. A. Gauthier et J. Y. Jolif, Louvain-Paris 19702 (2 voll. in 2 tomi ciascuno). In queste opere si troverà inoltre tutta la bibliografia generale e particolare concernente i vari problemi dell'etica aristotelica. 62 63
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Il. LA POLITICA
l.
Concetto di Stato Abbiamo sopra visto che, secondo lo Stagirita, per quanto
il bene singolo dell'individuo e il bene dello Stato siano della medesima natura (per il motivo che consistono, in ambedue i casi, nella virtù), tuttavia il bene dello Stato è più importante, più bello, più perfetto e più divino. La ragione di questo va ricercata nella natura stessa dell'uomo, la quale dimostra con chiarezza che egli non è assolutamente capace di vivere isolatamente, e che ha bisogno, proprio per essere se medesimo, di avere rapporti con i suoi simili in ogni momento della sua esistenza. In primo luogo, la natura ha distinto gli uomini in maschio e femmina, che si uniscono a formare la prima comunità, vale a dire la famiglia, per la procreazione e per il soddisfacimento dei bisogni elementari (nel nucleo familiare rientrerebbe, per Aristotele, anche lo schiavo che, come vedremo, sarebbe tale per natura). Ma, poiché le famiglie non bastano ciascuna a se medesima, sorge il villaggio, che è una più ampia comunità intesa a garantire in modo sistematico il soddisfacimento dei bisogni della vita. Ma se famiglia e villaggio sono sufficienti a soddisfare i bisogni della vita in generale, non bastano ancora a garantire le condizioni della vita perfetta, cioè della vita morale. Questa forma di vita, che ben possiamo chiamare spirituale, può essere garantita solo dalle leggi, dalle magistrature e, in ge-
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LA POLITICA
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nere, dalla complessa organizzazione di uno Stato. È nello Stato che l'individuo, per effetto delle leggi e delle istituzioni politiche è portato ad uscire dal suo egoismo, e a vivere non secondo ciò che è soggettivamente buono, bensl secondo ciò che è veramente e oggettivamente buono. Cosl lo Stato, che è ultimo cronologicamente, è invece primo antologicamente, perché si configura come il tutto di cui la famiglia e il villaggio sono le parti, e dal punto di vista antologico il tutto precede le parti, perché è il tutto e solo il tutto che dà senso alle parti. Cosl solo lo Stato dà senso alle altre comunità e solo esso è autosufficiente 1 • Ecco la pagina, assai celebre, in cui lo Stagirita svolge questo concetto: La comunità perfetta di più villaggi costituisce ormai la città, che ha raggiunto quello che si chiama il livello dell'autosufficienza e che sorge per rendere possibile la vita e sussiste per produrre le condizioni di una buona esistenza. Perciò ogni città è un'istituzione naturale, se lo sono anche i tipi di comunità che la precedono, in quanto essa è il loro fine e la natura di una cosa è il suo fine; cioè diciamo che la natura di ciascuna cosa è quello che essa è quando si è conclusa la sua generazione, come avviene per l'uomo, il cavallo, la casa. Ora, Io scopo e il fine sono ciò che vi è di meglio; l'autosufficienza è un fine e quanto vi è di meglio. Da ciò dunque è chiaro che la città appartiene ai prodotti naturali. che l'uomo è un animale che per natura deve vivere in una città e che chi non vive in una città, per la sua propria natura e non per caso, o è un essere inferiore o è più che un uomo: è il caso di chi Omero chiama con scherno « senza patria, senza leggi, senza focolare ». E chi è tale per natura è anche desideroso di guerra, in quanto non ha legami ed è come un pezzo da gioco posto a caso. Perciò è chiaro che l'uomo è animale più socievole di ogni ape e di ogni altro animale che viva in greggi. Infatti, secondo quanto sosteniamo, la natura non fa nulla invano e l'uomo è l'unico animale che abbia la favella: la voce è semplice segno del piacere e del dolore e perciò l'hanno anche gli animali, in quanto la loro natura giunge fino ad avere e a significare agli altri la sensazione ' Cfr. Politica, A l.
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del piacere e del dolore. Invece la parola serve ad indicare l'utile e il dannoso, e perciò anche il giusto e l'ingiusto: e questo è proprio dell'uomo rispetto agli altri animali, in quanto egli è l'unico ad avere nozione del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto e delle altre virtù: la comunità di uomini costituisce la famiglia e la città. E nell'ordine naturale la città precede la famiglia e ciascuno di noi. Infatti il tutto precede necessariamente la parte, perché tolto il tutto, non ci sarà più né piede né mano, se non per omonimia, che si ha, per esempio, quando si parla di una mano di pietra; ma questa in realtà è una mano morta. Ma tutte le cose sono definite dalla funzione che compiono e dalla loro potenza, sicché non possedendo più né l'una né l'altra, non potranno più essere dette le stesse di prima se non per omonimia. È dunque chiaro che la città è per natura e che è anteriore all'individuo perché se l'individuo, preso da sé, non è autosufficiente, sarà rispetto al tutto nella stessa relazione in cui lo sono le altre parti. Perciò chi non può entrare a far parte di una comunità, chi non ha bisogno di nulla, bastando a se stesso, non è parte di una città, ma o è una belva o un dio 2 • È forse questa la più radicale difesa dello Stato che nel-
l'antichità sia stata fatta contro i tentativi di alcune correnti della sofistica di ridurre la polis a semplice frutto di artificiosa convenzione e contro le negazioni estremistiche dei Cinici. Evidentemente Aristotele, nella sua rivendicazione della naturalità dello Stato, va abbondantemente oltre il giusto segno: ma non bisogna dimenticare il peso che, in questo, ancora una volta ebbero le condizioni politiche, sociali e culturali della Grecia del suo tempo: gli Elleni, come da tempo gli studiosi hanno ben notato, non avendo una Chiesa, o qualcosa che in qualche modo ad essa corrispondesse, erano fatalmente portati a riconoscere un unico tipo di società che avesse scopi metabiologici e spirituali e a identificare questa con lo Stato, con la polis. È vero che, con più esattezza, come è stato detto, Aristotele avrebbe dovuto definire l'uomo 2 Politica, A 2, 1252 b 27- 1253 a 29. La traduzione dei passi che riportiamo è di C. A. Viano, Politica e Costituzione di Atene di Aristotele, Torino 1955 (rist. 1966).
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come « animale sociale », invece che come « animale politico »; ma è altrettanto vero che, per fare questo, egli avrebbe dovuto poter distinguere la società dallo Stato, e da questa distinzione egli era talmente lontano che, come meglio diremo più avanti, non fu nemmeno in grado di capire che ci potessero essere altre corrette forme di Stato che non fossero la Città, la polis di tipo ellenico, tanto radicato nel sentire greco era il suo modo di pensare lo Stato e la cosa pubblica!
2.
L'a m m i n i strazi o n e d e 11 a famiglia
La famiglia, che è l'originario nucleo di cui è composta la Città, è costituita da quattro elementi: a) dai rapporti marito-moglie, b) dai rapporti padre-figli, c) dal rapporto padrone-servi, d) dall'arte di procacciarsi le cose che servono e in particolare le ricchezze (la cosiddetta crematistica). Aristotele si sofferma specialmente sul terzo e sul quarto elemento. Poiché l'amministrazione domestica deve acquistare determinate proprietà e per far questo richiede strumenti adeguati, sia inanimati sia animati, allora l'operaio e lo schiavo pensa Aristotele - sono indispensabili. L'operaio è « come uno strumento che precede e condiziona gli altri strumenti » e serve alla produzione di determinati oggetti e di beni d'uso. Invece lo schiavo non serve alla produzione di qualcosa, ma più in generale « è un operaio che serve a ciò che concerne l'azione», è «uno strumento che serve all'azione» 3 , cioè alla condotta della vita. Ma su quale fondamento si può ammettere un istituto come quello della schiavitù, cioè un istituto che stabilisce che un uomo possa essere «possesso vivente» di un altro uomo? Abbiamo visto che da parte di alcuni Sofisti e di alcuni So3
Per tutte queste espressioni cfr. Politica, A 4, passim.
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cratici minori era stata messa in crisi o quanto meno incrinata la convinzione della liceità della schiavitù. Aristotele, invece, si fa difensore a tutti i costi proprio della « naturalità » della schiavitù. Per la verità, i principi metafisici del suo sistema, correttamente applicati, avrebbero portato a conclusioni esattamente contrarie a queste: ma qui il filosofo si lascia a tal punto condizionare dai pregiudizi e dalle convinzioni del tempo, da piegare nel modo più artificioso i suoi stessi principi fino a farli corrispondere a quelle convinzioni. Egli parte dal presupposto che come l'anima e l'intelletto per natura comandano sul corpo e sull'appetito, cosl quegli uomini in cui predominano l'anima e l'intelletto debbono comandare su quelli in cui non predominano. E intanto, poiché era allora convinzione che nel maschio predominassero l'anima e la ragione più che nella femmina, così egli conclude che il maschio è per natura migliore, la femmina peggiore, l'uno atto al comando, l'altra ad obbedire 4 • E, a più forte ragione, per natura dovranno es:,ere ritenuti peggiori e quindi capaci solo di obbedire, e dunque schiavi, tutti quegli uomini che la natura ha dotato di robusti corpi e di deboli intelletti. Ecco le precise parole del nostro filosofo: Tutti gli uomini che differiscono dai loro simili tanto quanto l'anima differisce dal corpo e l'uomo dalla belva (e sono in questa condizione quelli il cui compito implica l'uso del corpo, che è ciò che essi hanno di meglio), sono schiavi per natura e per essi il partito migliore è sottomettersi all'autorità di qualcuno, se ciò vale per gli esempi che sopra abbiamo arrecato. È schiavo per natura chi appartiene a qualcuno in potenza (e per ciò diventa possesso di qualche altro in atto) e partecipa alla ragione soltanto per quel che spetta alla sensibilità immediata, senza possederla • Politica, A 5, 1254 b 13-14.
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propriamente, mentre gli altri animali non hanno neppure il grado di ragione che compete alla sensibilità, ma obbediscono alle passioni. Ed il loro modo di impiego differisce di poco, perché gli uni e gli altri, gli schiavi e gli animali domestici, si utilizzano per i servizi necessari al corpo 5 • Dove risulta immediatamente evidente la sproporzione fra le premesse e le conclusioni, oltre che una buona dose di scorrettezza nelle premesse medesime. La nota che differenzia l'uomo dall'animale è la ragione, e questa è la differenza essenziale e determinante; ora, il fatto che alcuni uomini abbiano di più o di meno di ragione, non ne può mutare l'essenza o la natura: la natura dell'uomo resta tale ~inché c'è ragione, poca o tanta che sia (la quantità non incide, in questo caso, sulla qualità). Senza contare, poi, che la differenza di intelligenza che Aristotele pretende rilevare tra uomo e uomo è ben !ungi dall'essere della portata di quella che nel brano letto viene affermata. Naturalmente, anche con queste forzature dei principi e dei dati, Aristotele fatica non poco nell'accordare questi suoi ragionamenti con la realtà storica da cui pure egli era stato condizionato. Infatti, gli schiavi provenivano, assai spesso, dalle conquiste di guerra (erano quindi prigionieri). Ma una guerra può essere ingiusta, il prigioniero può essere di alto rango e, in caso di guerre di Greci contro Greci, può essere un Greco in tutto e per tutto uguale« per natura » a chi lo ha fatto prigioniero. In tutti questi casi la schiavitù non è giustificabile « per natura ». E allora? La soluzione di Aristotele è la seguente: per natura inferiore è il« barbaro »e perciò anch'egli con Euripide dice: che i Greci comandino sui barbari è naturale 6 . Ma ognuno chiaramente vede che il rimedio peggio' Politica, A 5, 1254 b 16-26. • Euripide, Ifigenia in Aulide, v. 1400; cfr. Politica, A 2, 1252 b 8.
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ra il male, nel senso che rende ancor più urtante la posizione del filosofo, che, per salvare l'uguaglianza dei Greci, abbraccia il pregiudizio tipicamente ellenico secondo cui il Greco è per natura superiore al barbaro, che era un pregiudizio di carattere assolutamente razzistico e, come tale, fondamentalmente irrazionale. Per quanto concerne la crematistica 7 , Aristotele distingue tre modi per procacciarsi beni e ricchezze: a) un modo naturale e immediato che ha luogo tramite le attività della caccia, della pastorizia e della coltura dei campi; b) un modo intermedio, cioè mediato, consistente nello scambio di beni con beni equivalenti (baratto) e c) un modo non naturale consistente nel commercio tramite il danaro, che fa uso di tutti gli accorgimenti per aumentare senza limite le ricchezze. Ora, questa terza forma di crematistica è condannata da Aristotele, poiché non esiste un limite all'accrescimento delle ricchezze; e cosl chi si dà ad essa perde il senso e lo scopo ultimo della sana economia, che è quello di soddisfare reali bisogni e non di accumulare ricchezze, e finisce per scambiare ciò che è semplice mezzo con ciò che è fine. Dice con sagge parole Aristotele: Ad alcuni sembra che questo sia il compito dell'economia [sci!.: accrescere continuamente le ricchezze] e si continua acredere che essa debba salvaguardare o aumentare all'infinito la consistenza del patrimonio pecuniario. La causa di questo atteggiamento è l'affaticarsi intorno a quelle cose che permettono di vivere, senza preoccuparsi di vivere bene, e poiché il desiderio di affermare la propria vita non ha limiti, si desiderano mezzi produttivi illimitati 8 • La sana economia cerca invece di procacciare, nei primi due modi, quanto basta a soddisfare i bisogni naturali, che hanno un limite fissato da natura. È logico, pertanto, che Cfr. Politica, A 8 sgg. ' Politica, A 9, 1257 b 38 - 1258 a 2.
7
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egli condannasse l'usura, e, quindi, ogni forma di investimento di danaro inteso a produrre altro danaro 9 • E per quanto in queste posizioni si presupponga una situazione socio-economica opposta alla nostra, non per questo è meno vera la istanza di fondo che esse fanno valere: quando il danaro da mezzo diviene fine, si capovolge il senso del vivere: si usa la vita per produrre danaro invece che il danaro per vivere.
Il cittadino
3.
Dall'esame della famiglia Aristotele (dopo serrate critiche al comunismo platonico) 10 passa a quello dello Stato, senza approfondire le questioni relative al villaggio (che, come abbiamo visto, era il secondo degli elementi costitutivi di esso). E, anzi, presenta la questione secondo una diversa angolatura. Siccome lo Stato è fatto di cittadini, si tratta di stabilire chi sia il cittadino. Per essere cittadino in una Città, non basta abitare nel territorio della Città, né godere del diritto di intentare una azione giudiziaria e neppure basta essere discendenti di cittadini. Per essere cittadino occorre « la partecipazione ai tribunali o alle magistrature », occorre, cioè, prendere parte all'amministrazione della giustizia e far parte dell'assemblea che legifera e governa la Città 11 • In questa definizione più che mai si riflette la peculiare caratteristica della polis greca, dove il cittadino si sentiva tale solo se partecipava direttamente al governo della cosa pubblica, in tutti i suoi momenti (far leggi, farle applicare, amministrare giustizia). Per conseguenza, né il colono né il membro di una città conquistata potevano essere o sentirsi • Cfr. Politica, A 10.
° Cfr. Politica, libro B.
1
" Politica,
r
l.
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« cittadini » nel senso veduto. Ma neppure gli operai potevano
essere veri cittadini, anche se erano uomini liberi (cioè anche se non erano meteci, né stranieri, né schiavi), perché costoro non avevano a loro disposizione il tempo, che occorre per esercitare quelle funzioni che agli occhi di Aristotele sono essenziali. E cosi i « cittadini » risultano molto limitati di numero, mentre tutti gli altri uomini della Città finiscono per essere, in qualche modo, mezzi che servono per soddisfare ai bisogni dei primi. Gli operai si differenziano dagli schiavi perché, mentre questi servono ai bisogni di una sola persona, essi servono ai bisogni pubblici, ma per questo non cessano affatto di essere mezzi 12 • E cosl doveva accadere che, mentre Aristotele affermava che « non sono da considerare cittadini tutti quelli senza i quali non sussisterebbe la città » 13 , la storia ha dimostrato essere vero il contrario: ma lo ha dimostrato solo compiendo una serie di rivoluzioni, e fatica tuttora a tradurre in atto questa verità, che pure, a livello teorico, ha definitivamente acquisito. 4.
L o Sta t o e l e su e p ossi h i li forme
Lo Stato, la cui natura e la cui finalità abbiamo già sopra stabilite, può attuarsi secondo differenti forme, ossia secondo differenti costituzioni. Precisa Aristotele: La costituzione è la struttura che dà ordine alla Città, stabilendo il funzionamento di tutte le cariche e soprattutto dell'autorità sovrana 14 •
Ora, è chiaro che, dal momento che questa autorità sovrana può realizzarsi in differenti forme, le costituzioni 12 13 1•
Politica, Politica, Politica,
r 5. r 5, r 6,
1278 a 3. 1278 h 8-10.
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saranno, fondamentalmente, tante quante sono queste forme. E il potere sovrano può essere esercitato: l) da un solo uomo, 2) da pochi uomini, 3) oppure dalla maggior parte degli uomini. Ma non basta. Ciascuna di queste tre forme di governo può essere esercitata sia in modo corretto sia in modo scorretto, e precisamente: Quando uno solo, i pochi o i più esercitano il potere in vista dell'interesse comune, allora si hanno necessariamente le costituzioni rette; mentre quando l'uno, o i pochi o i più esercitano il potere nel loro privato interesse, allora si hanno le deviazioni 15 • Si hanno cosl tre forme di costituzioni rette: monarchia, aristocrazia e politia, alle quali corrispondono altrettante forme di costituzioni degenerate: tirannide, oligarchia e democrazia. Ecco le precise parole dello Stagirita: Abbiamo l'abitudine di chiamare regno quel governo monarchico che si propone il bene pubblico e aristocrazia il governo di pochi (sia che il governo sia in mano dei migliori sia che si interessi di ottenere il maggior bene possibile per la città ed i cittadini) quando si propone il bene comune; quando la massa regge il governo in vista del bene pubblico, a questa forma di governo si dà il nome di politfa [ ... ]. Le degenerazioni delle precedenti forme di governo sono la tirannide rispetto al regno, l'oligarchia rispetto all'aristocrazia e la democrazia rispetto alla politfa. Infatti la tirannide è il governo monarchico esercitato in favore del monarca, l'oligarchia mira all'interesse dei ricchi, la democrazia a quello dei poveri; ma nessuna di queste forme mira all'utilità comune 16 • (Il lettore moderno deve tener presente, per ben orientarsi, che lo Stagirita intende con il nome di « democrazia » un governo che, trascurando il bene di tutti, mira a favorire gli interessi dei più poveri in modo indebito, e quindi dà al termine " Politica, ,. Politica,
r r
7, 1279 a 28-31. 7, 1279 a 32- b 10.
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l'accezione negativa che noi renderemmo piuttosto con il termine « demagogia »: infatti Aristotele precisa che l'errore in cui cade la democrazia è quello di ritenere che, poiché tutti sono uguali nella libertà, tutti possano e debbano essere uguali anche in tutto il resto). Qual è la migliore di queste tre costituzioni? La risposta di Aristotele è polivoca; innanzitutto, va detto che tutte e tre le forme di governo, quando sono rette, sono naturali e quindi buone, appunto perché il bene dello Stato consiste nel mirare al bene comune. È però evidente che, se in una città esistesse un uomo che su tutti eccellesse, a lui spetterebbe il potere monarchico; e, se esistesse un gruppo di individui veramente eccellenti per virtù, si imporrebbe un governo aristocratico. Ecco le esplicite parole di Aristotele: Se poi c'è una persona o un gruppo, tuttavia non tanto numeroso da costituire una città, che eccellano tanto, in virtù, che la sua virtù e la sua importanza politica (o la loro virtù e la loro importanza politica, se si tratta di un gruppo) non siano paragonabili con quelle degli altri, allora non bisogna più dire che costoro costituiscono una parte della città, perché riceverebbero un torto se fossero uguagliati agli altri, mentre eccellono tanto per capacità e per peso politico: essi sarebbero come un dio tra gli uomini. Donde è chiaro che necessariamente la legislazione deve riferirsi a quelli che sono uguali per stirpe e per capacità, mentre non è possibile imporre leggi a chi è superiore alla normalità, in quanto è esso stesso una legge 17 •
Dunque, la monarchia sarebbe, in astratto, la migliore forma di governo, qualora ci fosse in una Città un uomo eccezionale; e l'aristocrazia lo sarebbe, a sua volta, qualora ci fosse un gruppo di uomini eccezionali. Ma poiché tali condizioni normalmente non si verificano, Aristotele, con il suo forte senso realistico, indica sostanzialmente la politia come 11
Politica,
r
13, 1284 a 3-14.
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la forma di governo più conveniente per le Città greche del suo tempo, in cui non esistevano uno o pochi uomini eccezionali, ma molti uomini che, pur non eccellendo nella virtù politica, erano capaci a turno di comandare e di essere comandati secondo la legge. La politia è praticamente una via di mezzo fra la oligarchia e la democrazia o, se si vuole, una democrazia temperata con l'oligarchia: infatti chi governa è una moltitudine (come nella democrazia) e non una minoranza (come nella oligarchia), ma non si tratta di moltitudine povera (diversamente dalla democrazia), bensl di una moltitudine agiata quanto basta per poter servire nell'esercito e anche che eccella nelle abilità guerresche. (Come si vede, la politza contempera i pregi e toglie i difetti delle due forme degeneri e quindi nello schema generale tracciato dallo Stagirita risulta in posizione alquanto anomala, perché viene a trovarsi su un piano diverso sia rispetto alle prime due costituzioni perfette, sia rispetto alle tre imperfette). La politia, dunque, è la costituzione che valorizza il ceto medio che, appunto, in quanto «medio», offre la maggiore garanzia di stabilità. Ecco le esplicite affermazioni di Aristotele: Una città vuoi essere costituita, per quanto le è possibile, da cittadini uguali e simili tra loro e ciò accade soprattutto con cittadini che appartengano a classi medie: perciò la città meglio governata sarà quella in cui si realizzano quelle condizioni da cui per natura deriva la possibilità della comunità cittadina. Del resto proprio la classe che fonda questa possibilità, cioè la classe media, è quella la cui esistenza è garantita nella città. Infatti quelli che appartengono ad essa, in quanto non sono poveri, non desiderano la condizione degli altri, né gli altri desiderano la loro, come avviene per i ricchi la cui posizione è invidiata dai poveri. Perciò quelli, non tramando contro gli altri e non essendo oggetto di trame, passano la loro vita senza pericoli, tanto che Focilide giustamente invocava: «Molte cose sono ottime per la loro medietà ed in essa io vorrei essere nella città». È chiaro, dunque, che la miglior comunità politica è quella che si fonda sulla classe media e che le città che sono in queste condizioni possono essere ben
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governate, quelle - dico - in cui la claJse media è più numerosa e più potente delle due estreme, o almeno di una di esse 18 •
Anche nella politica, dunque, il concetto di « medietà », così come nell'etica, gioca un ruolo fondamentale.
5.
Lo Stato ideale
Delle analisi che Aristotele ci offre nei libri quarto, quinto e sesto della Politica (dedicati all'esame dei vari generi e specie di costituzioni, delle varie forme di rivoluzione, delle cause che le determinano e dei modi con cui è possibile prevenirle), in questa sede non è possibile parlare, dato il loro carattere particolareggiato e addirittura tecnico. Lo Stagirita ci offre in esse la prova di una conoscenza storica straordinaria, di una finezza di comprensione e di una sagacia nell'intendere i fatti e gli avvenimenti politici veramente eccezionale. Maggior interesse, per quanto concerne la problematica propriamente filosofica, presentano, invece, gli ultimi due libri dedicati alla illustrazione dello Stato ideale. E poiché, come si è visto, la concezione dello Stato per Aristotele è fondamentalmente morale, non è da meravigliarsi se egli palarizza il suo discorso più sui problemi morali ed educativi, che non sugli aspetti tecnici relativi alle istituzioni e alle magistrature. Si è visto nell'etica che i beni sono di tre generi differenti: beni esterni, beni corporei e beni spirituali dell'anima. E si è anche visto in che senso i primi due siano da considerarsi semplici mezzi per la realizzazione dei terzi. E questo vale - dice Aristotele - sia per l'individuo sia per lo Stato. Anche lo Stato deve ricercare i primi due tipi di beni in modo '8
Politica, A 11, 1295 b 25-38.
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limitato ed esclusivamente in funzione dei beni spirituali, perché solo in essi consiste la felicità. Ecco la pagina più significativa al riguardo: Tutti i beni esteriori, come ogni strumento, hanno un limite entro il quale adempiono la loro funzione di essere utili, come mezzi, ma oltre il quale diventano dannosi o inutili per chi li possiede. I beni spirituali, invece, quanto più sono abbondanti tanto più sono utili, se in essi si deve considerare oltre la bellezza anche l'utilità. In generale possiamo dire che la migliore disposizione, per la sua importanza rispetto alle altre, è quella che è disposizione della cosa che rispetto alle cose di cui le altre sono disposizioni occupa un posto privilegiato. Così se l'anima, e per noi e in assoluto, è cosa più degna dei beni esterni e del corpo, è necessario che le disposizioni dell'anima godano della corrispondente posizione di privilegio. Inoltre i beni si scelgono ponendo l'anima come fine e le persone assennate fanno appunto così, e si guardano bene dal sottomettere l'anima ai beni considerati essi come fini. Resti dunque stabilito da parte nostra che ciascuno merita tanta felicità per quante virtù, senno e capacità di agire in conformità egli possiede; e ne chiamiamo a testimonio dio che è felice e beato non per beni esteriori, ma per se stesso e per quello che è per natura. Perciò necessariamente la buona fortuna è diversa dalla felicità, in quanto dei beni esteriori all'anima causa può essere il ceso o la sorte, mentre nessuno è giusto o saggio per caso o per sorte. Di conseguenza - e valgano le stesse ragioni apportate precedentemente - possiamo dire che felice e fiorente è la città virtuosa. È impossibile che abbia esiti felici chi non compie buone azioni e nessuna buona azione, né di un individuo né di una città, può realizzarsi senza virtù e senno. Il valore, la giustizia, il senno di una città hanno la stessa potenza e forma la cui presenza in un privato cittadino fa sì che lo si dica giusto, assennato e saggio 19 •
Ed ecco quali sono le condizioni ideali che dovrebbero dar luogo allo Stato felice. a) Per quanto concerne la popolazione, che è la prima condizione dell'attività politica, essa non dovrà essere né troppo esigua né troppo numerosa, ma giustamente misurata. Infatti " Politica, H l, 1323 h 7-36.
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una Città che abbia troppo pochi cittadini non potrà essere autosufficiente, mentre la Città deve poter bastare a se medesima. Invece, quella che ha troppi cittadini sarà difficilmente governabile. Nessuno potrà essere generale di un numero troppo ingente di cittadini. Nessuno potrà essere araldo di una Città troppo numerosa, se non ha la voce di uno Stentore. I cittadini non si potranno conoscere l'un l'altro, e, quindi, non potranno distribuire con cognizione le varie mansioni. Insomma, Aristotele vuole una Città che sia a misura d'uomo 20 • b) Anche il territorio dovrà presentare delle caratteristiche analoghe. Esso dovrà essere grande quanto basta per fornire ciò che· occorre alla vita, senza produrre il superfluo. Dovrà essere abbracciabile a vista d'occhio. Dovrà essere difficilmente attaccabile e facilmente difendibile, in posizione favorevole sia rispetto al retroterra sia rispetto al mare 21 • c) Le qualità ideali dei cittadini sono - a parere di Aristotele - esattamente quelle che presentano i Greci: queste sono come una via di mezzo e come una sintesi delle qualità dei popoli nordici e dei popoli orientali: Quelli che abitano nei paesi freddi e nell'Europa sono pieni di impulsi, ma mancano d'intelligenza e non hanno fatto progressi nelle arti, ragione per cui godono di maggior libertà, ma non hanno un vero e proprio governo e non sono in grado di dominare sui loro vicini. I popoli dell'Asia sono intelligenti e abili nel progresso tecnico, ma sono privi di vivacità di spirito, sicché continuano a vivere da schiavi e da servi. La stirpe greca, così come occupa una posizione geografica intermedia tra l'Asia e l'Europa partecipa dei caratteri che contraddistinguono i popoli dell'una e dell'altra; perciò è intelligente e di spirito vivace, vive in libertà, ha le costituzioni migliori e potrebbe dominare su tutti se fosse unita sotto una sola costituzione 22 • 20 21 22
Politica, H 4. Politica, H 5-6. Politica, H 7, 1327 b 23-33.
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Inutile dire che in questo giudizio lo Stagirita è vittima di quegli stessi presupposti che gli hanno fatto credere che i << barbari » potessero essere schiavi « per natura ». d) Aristotele esamina quindi quali siano le funzioni essenziali della Città e quale la loro ideale distribuzione 23 • Per sussistere, una Città deve avere: l) coltivatori della terra che forniscano cibo, 2) artigiani che forniscano strumenti e manufatti, 3) guerrieri che la difendano dai ribelli e dai nemici, 4) commercianti che producano la ricchezza, 5) uomini che stabiliscano che cosa sia utile alla comunità e quali siano i diritti reciproci dei cittadini, 6) sacerdoti che si occupino del culto. Orbene, la buona Città impedirà che tutti i cittadini esercitino tutte queste funzioni. Intanto, nella Città ideale non si praticherà una forma di vita particolare, quale è quella di c'oloro che 'Praticano l'agricoltura, né quale è quella che pratica l'operaio o il commerciante: questi sono modelli di vita ignobili e contrari alla virtù e comunque tali da impedire l'esercizio della virtù, perché non lasciano sufficiente libertà e tempo. I contadini saranno pertanto schiavi e cosl anche gli operai e i commercianti non faranno parte dei« cittadini ». I veri cittadini si occuperanno dunque della guerra, del governo e del culto. Di per sé, in quanto queste funzioni richiedono virtù diverse (il guerriero deve avere la forza, il giudice e il legislatore l'assennatezza), bisognerebbe distribuirle a persone diverse; ma questo ben difficilmente sarebbe tollerato dai guerrieri, che, avendo la forza militare, vogliono anche il potere politico. La soluzione che Aristotele propone è la seguente. Le stesse persone eserciteranno queste mansioni in tempi diversi: Natura vuole che i giovani abbiano la forza ed i vecchi l'assennatezza, sicché è utile e giusto dividere i poteri politici tenendo conto di questo fatto 24 • 23 Cfr. Politica, H 8 sgg. •• Politica, H 9, 1329 a 14-17.
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Così i cittadini saranno prima guerrieri, poi consiglieri, infine sacerdoti. Tutti costoro saranno benestanti, e poiché contadini e operai e mercanti provvedono a ciò che occorre alle necessità materiali, essi avranno tutto il tempo necessario all'esercizio della virtù e alla piena attuazione della vita felice. E così il « vivere bene » e la felicità saranno concessi solo ai « cittadini » della Città ideale: tutti gli altri uomini che vivono in essa saranno ridotti a semplici « condizioni necessarie » e saranno condannati a una vita infraumana. Ci troviamo di fronte al solito condizionamento storico-sociale, che così pesantemente limita il pensiero aristotelico su questo argomento e lo colloca in una dimensione da noi ormai lontanissima, giacché, in sostanza, il filosofo ci dice che occorre che molti uomini vivano una vita infraumana o non perfettamente umana affinché altri uomini vivano la piena e perfetta vita umana, e che tutto ciò è « naturale ». e) Ma resta ancora un punto essenziale. La felicità della Gittà dipende dalla virtù, ma la virtù vive in ciascun cittadino, e perciò la Città può diventare ed essere felice nella misura in cui diventi e sia virtuoso ciascun cittadino. E come diventa virtuoso e buono ciascun uomo? In primo luogo, deve avere una certa disposizione naturale, poi su questa agiscono le abitudini e i costumi, quindi i ragionamenti e i discorsi 25 • Ora, l'educazione agisce appunto sull'abitudine e sui ragionamenti, ed è pertanto un fattore di enorme importanza nello Stato. I cittadini dovranno essere educati in modo fondamentalmente eguale, affinché possano essere capaci, a turno, di ubbidire e di comandare, dato che, a turno, dovranno appunto ubbidire (quando son giovani), e poi comandare (una volta divenuti uomini maturi) 26 • Ma, in particolare, poiché è 25 Cfr. Politica, H 13. "' Cfr. Politica, H 14.
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LA POLITICA
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identica la virtù del cittadino buono e dell'uomo buono, l'educa:done dovrà sostanzialmente aver di mira la formazione di uomini buoni, cioè dovrà far in modo che si realizzi l'ideale stabilito nell'etica, cioè che il corpo viva in funzione dell'anima, e le parti inferiori dell'anima in funzione di quelle superiori, e in particolare che si realizzi l'ideale della pura contemplazione. Scrive espressamente il filosofo: Introducendo nelle azioni una distinzione analoga a quella fatta per le parti dell'anima potremo dire che sono preferibili quelle che derivano dalla parte migliore dell'anima, almeno per chi sappia paragonare tutte o almeno due delle parti dell'anima, perché tutti troveranno migliore ciò che tende al fine più alto. Ed ogni genere di vita può ancora essere diviso in due a seconda che tenda verso le occupazioni e il lavoro o verso la libertà da ogni impegno, verso la guerra o verso la pace; corrispondentemente a queste distinzioni, le azioni sono necessarie e utili o belle. Nello scegliere questi ideali di vita bisogna seguire le stesse preferenze che valgono per le parti dell'anima e per le azioni che da esse traggono origine, cioè bisogna scegliere la guerra avendo come scopo la pace, il lavoro ponendo come scopo la liberazione da esso, le cose necessarie ed utili per poter raggiungere quelle belle. Il legislatore deve tener presenti tutti questi elementi che abbiamo or ora analizzato, le parti dell'anima e le azioni che le caratterizzano, mirando sempre a quelle migliori e tali che possano fungere da fini e che non siano soltanto mezzi. Questo criterio deve guidare il legislatore nel suo atteggiamento di fronte alle varie concezioni della vita e ai vari tipi di azione: si deve sì poter attendere al lavoro, condurre la guerra, fare le cose necessarie ed utili, ma ancor più si deve poter praticare il libero riposo, vivere in pace e fare le cose belle [cioè contemplare] 'll.
Lo Stato, e non i privati, dovrà impartire l'educazione che, naturalmente, inizierà dal corpo, che si sviluppa anteriormente alla ragione, procederà con l'educazione degli impulsi, degli istinti e degli appetiti, e infine si concluderà con l'educazione dell'anima razionale. La tradizionale educazione gin" Politica, H 14, 1333 a 26- h 3.
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nico-musicale greca viene sussunta nello Stato aristotelico e con la descrizione di essa termina la Politica. È appena il caso di ribadire che tutte le classi inferiori sono escluse dall'educazione: un'educazione tecnico-professionale per Aristotele è un non-senso, perché educherebbe non tanto a beneficio dell'uomo, ma a beneficio delle cose che servono all'uomo, mentre la vera educazione è educazione ad essere veramente e pienamente uomo. Istanza bellissima, questa, e che avrebbe molto da suggerire agli uomini d'oggi, se non pretendesse che, affinché alcuni possano diventare ed essere perfettamente uomini, altri debbano restare inchiodati al destino di rimanere solo a metà uomini. Anche nella politica, in conclusione, la metempirica concezione dell'anima e dei valori dell'anima risulta la linea di forza secondo cui si svolge tutto il discorso aristotelico. Anche qui Aristotele è molto più vicino a Platone di quanto non si creda comunemente: sono certi aspetti aberranti della Repubblica platonica che lo Stagirita critica e respinge, non l'ideale di fondo che essa esprime.
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SEZIONE QUARTA
LA FONDAZIONE DELLA ux:;ICA, LA RETORICA E LA POETICA
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« Gli uomini sono sufficientemente dotati per il vero e raggiungono per lo più la verità ». Aristotele, Retorica, A l, 1355 a 15-17
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APIITOTE/\OYI ANA/\YTIKA
ARISTOTLE'S PRIOR AND POSTERIOR ANALYTICS A REVISED TEXT WITH INTRODUCTJON AND COMMENTARY
BY
W. D. ROSS
OXFORD AT THE CLARENDON PRESS
1949
È il frontespizio della edizione critica curata da Ross delle due opere più importanti della logica aristotelica, accompagnata da un chiaro commentario.
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I. LA FONDAZIONE DELLA LOGICA
Concetto di logica o «analitica»
l.
Nello schema in base al quale lo Stagirita ha suddiviso e sistemato le scienze non trova posto la logica, e questo non è casuale. Essa non considera, infatti, né la produzione di qualcosa (come le scienze poietiche), né l'azione morale (come le scienze pratiche), e neppure un determinato contenuto distinto da quello della metafisica o da quello della fisica o della matematica (scienze teoretiche). La logica considera, invece, la forma che deve avere qualsiasi tipo di discorso che pretenda di dimostrare qualcosa e, in genere, che voglia essere probante. La logica mostra, quindi, come proceda il pensiero quando pensa, quale sia la struttura del ragionamento, quali gli elementi di esso, come sia possibile fornire dimostrazione, quali tipi e modi di dimostrazione esistano, di che cosa siano possibili e quando. Naturalmente, sarebbe possibile dire che la logica è scienza essa stessa, nel senso che il suo contenuto è dato appunto dalle operazioni del pensiero, cioè da quell'ens tamquam verum (l'essere logico) che effettivamente lo Stagirita ha distinto 1• Tuttavia, questo solo in parte quadrerebbe con le affermazioni di Aristotele, che soltanto di sfuggita e quasi accidentalmente ha chiamato la logica « scienza » 2 , e l'ha conside' Cfr. Metafisica, E 2-4. Cfr. Retorica, A 4, 1359 b 10, dove si parla di «scienza analitica» (e analitica, come subito diremo, in Aristotele sta al posto di logica). 2
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rata piuttosto uno studio preliminare, cioè una propedeutica generale a tutte le scienze. Pertanto il termine organon, che significa « strumento », introdotto da Alessandro di Afrodisia per designare la logica nel suo complesso (e successivamente utilizzato anche come titolo per il complesso di tutti gli scritti aristotelici concernenti la logica), definisce bene il concetto e il fine della logica aristotelica, che vuole fornire appunto gli strumenti mentali necessari per affrontare qualsivoglia tipo di indagine 3 • C'è tuttavia ancora da osservare che il termine « logica » non è stato usato da Aristotele per designare quello che noi oggi con esso intendiamo. Esso risale all'epoca di Cicerone (e forse è di genesi stoica), ma si è consolidato probabilmente solo con Alessandro 4 • Lo Stagirita chiamava invece la logica col termine « analitica », e Analitici sono intitolati gli scritti fondamentali dell'Organon 5 • L'analitica (dal greco an!zlysis, che vuoi dire risoluzione) spiega il metodo con cui noi, partendo da una data conclusione, la risolviamo appunto negli elementi da cui deriva, cioè nelle premesse da cui scaturisce e, quindi, la fondiamo e la giustifichiamo. L'analitica è sostanzialmente la dottrina del sillogismo e, in effetti, essa costituisce il nucleo fondamentale, l'asse attorno a cui ruotano tutte le altre figure della logica aristotelica. Del resto, lo Stagirita ebbe perfettamente coscienza di essere lo scopritore del sillogismo, tant'è vero che con tutta chiarezza, alla fine delle Confutazioni Sofistiche ci dice che, mentre riguardo ai discorsi retorici c'erano già molte e antiche trattazioni, sul sillogismo non esisteva
3 Cfr. Th. Waitz, Aristotelis Organon, 2 voll., Lipsiae 1844-1846 (ristampato ad Aalen 1965), vol. n, pp. 293 sg. • Cfr. Ross, Aristotele, p. 29. 5 Aristotele cita questi scritti oltre che col titolo Analitici anche con l'espressione Scritti sul sillogismo; cfr. M. Mignucci, Aristotele, Gli Analitici Primi, Napoli 1969, p. 40 e nota 2.
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assolutamente nulla 6 • Il che equivale a dire che, dal momento che la logica (aristotelicamente intesa) è tutta palarizzata intorno al sillogismo, è stata appunto la scoperta del sillogismo che ha reso possibile allo Stagirita l'organizzazione, e, dunque, la enucleazione di tutta la problematica logica e pertanto 'la fondazione della logica.
2. I l d i segno genera l e d egli scritti l o g i ci e la genesi della logica aristotelica
Per poter meglio orientarci nell'esposizione della tematica logica, è opportuno tratteggiare, per sommi capi, il dise~ gno generale che emerge dagli scritti logici pervenutici. Essi non sono stati certamente composti nell'ordine in cui i posteri li hanno sistemati nell'Organon 7 ; tuttavia è proprio questo l'ordine sistematico in cui vanno letti. Al centro, come si è detto,· stanno gli Analitici (che Aristotele forse considerava un'unica opera) 8 , i quali furono ben presto distinti in Analitici Primi e Analitici Secondi. I primi trattano della struttura del sillogismo in generale, delle sue diverse figure e dei suoi differenti modi, considerandolo in maniera formale, cioè prescindendo dal suo valore di verità e studiando solo la coerenza formale del ragionamento. (Infatti può benissimo esserci un sillogismo formalmente corretto, il quale, partendo da determinate premesse, deduce le conseguenze che si impongono date quelle premesse; ma se quelle premesse non sono vere, il sillogismo, pur essendo corretto formalmente, approda a conclusioni non vere). Negli Analitici Secondi, invece, Aristotele si occupa del sillogismo, oltre che for• Confuta1.ioni Sofistiche, 34, 183 b 34 sg.; 184 a 8 sgg. Si veda lo stalus quaestionis in Mignucci, kistotele, Analitici Primi, pp. 19 sgg. Cfr. inoltre: V. Sainati, Storia dell'Organon aristotelico, Firenze 1968. • Cfr. Waitz, Organon, I, pp. 366 sg. 7
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malmente corretto, altresl vero, ossia del sillogismo scientifico, in cui consiste la vera e propria dimostrazione. Dico dimostrazione - scrive Aristotele - il sillogismo scientifico; dico scientifico quel sillogismo in base al quale, per il fatto di possederlo, abbiamo scienza. Allora, se avere scienza è quale abbiamo posto, è necessario che la scienza dimostrativa proceda da protasi vere, prime, immediate, più note, anteriori e cause delle conclusioni. In tal modo in effetti i principi saranno anche pertinenti al dimostrato. Il sillogismo, infatti, sussiste anche senza queste condizioni, mentre la dimostrazione non può sussistere senza di esse, giacché non produrrebbe scienza 9 •
Per conseguenza, gli Analitici Secondi si occupano altresl delle premesse, di come vengono conosciute e dei connessi problemi della definizione. Nei Topici Aristotele tratta invece del sillogismo dialettico, cioè di quel sillogismo che parte da premesse semplicemente fondate sull'opinione, ovvero su elementi che sembrano a tutti accettabili, o accettabili ai più, e che, quindi, offre tipi di argomentazioni puramente probabili. Ìnfine nelle Confutazioni Sofistiche, che in realtà dovevano essere l'ultimo libro dei Topici 10 , il filosofo si occupa delle argomentazioni sofistiche: Poiché i sillogismi sono costituiti da giudizi o proposizioni e questi, a loro volta, sono costituiti da concetti e termini, Aristotele dovette per conseguenza occuparsi sia dei primi sia dei secondi. In effetti, nelle Categorie e nel De Interpretatione si trovano, rispettivamente, analisi concernenti, in modo approssimativo, gli elementi più semplici della • Analitici Secondi, A 2, 71 b, 17-25 (trad. di M. Mignucci, Aristotele, Gli Analitici Secondi, Bologna 1970; è questa l'edizione minore. Il Mignucci la sta ora ripubblicando nella stessa collana in cui sono usciti gli Analitici Primi, Loffredo, Napoli, con co=entario). 10 Come ultimo libro (lota) dei Topici li considera senz'altro il Waitz, nella sua edizione dell'Organon; cfr. la giustificazione che egli fornisce nel vol. n, pp. 528 sg. Cfr. anche le indicazioni date da Mignucci, Aristotele, Analitici Primi, p. 19, nota 2.
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proposizione, cioè i concetti o termini primi e il giudizio e la proposizione; pertanto, sembrò ai sistematori dell'Organon del tutto naturale la collocazione di questi trattati all'inizio di esso, quasi fossero preliminari agli Analitici e ai Topici. Tale legame sussiste indubbiamente, ma è molto più tenue di quanto non si sia creduto in passato. In particolare, va notato che la dottrina del concetto e della proposizione quale viene presentata nei trattati di logica classica e in molta parte della manualistica è in gran parte frutto di rielaborazioni posteriori (specie medievali) di alcuni elementi desunti da Aristotele. Infine dobbiamo ricordare, per non !asciarci sfuggire il senso storico della logica aristotelica, che essa è nata da una riflessione intorno ai procedimenti che i precedenti filosofi avevano messo in atto, principalmente (come si è visto) a partire dai Sofisti, e soprattutto intorno al procedimento socratico, specialmente come era stato amplificato e approfondito da Platone. Certamente influì anche il metodo matematico, come la terminologia stessa usata ad indicare molte figure della logica dimostra. Ma la matematica non fu che una componente; né esistevano altre scienze i cui metodi potessero suggerire ad Aristotele le sue scoperte. La logica aristotelica ha pertanto una genesi squisitamente filosofica: essa segna il momento in cui il logos filosofico, dopo essere ormai completamente maturato attraverso la strutturazione di tutti i problemi, nel modo in cui abbiamo veduto, diventa capace di porre a problema se medesimo e il proprio modo di procedere, e così, dopo aver imparato a ragionare, giunge a stabilire che cos'è la stessa ragione, ossia come si fa a ragionare, come quando e su che cosa è possibile ragionare. È una scoperta, questa, che da sola basterebbe a dare ad Aristotele uno dei primissimi posti nella storia del pensiero occidentale.
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3.
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Le categorie, i termini, la definizione
Il trattato sulle Categorie contiene, come s'è detto 1 qualcosa che in qualche modo corrisponde allo studio dell'elemento più semplice della logica. Se noi prendiamo proposizioni come« l'uomo corre» oppure« l'uomo vince» e ne spezziamo il nesso, cioè sciogliamo il soggetto dal predicato, noi otteniamo parole« senza connessione »,ossia fuori da ogni legame con la proposizione, come « uomo », « vince», « corre » (ossia termini incombinati e che combinandosi danno origine alla proposizione). Ora, dice Aristotele: Delle cose che si dicono senza nessuna connessione, ciascuna significa o la sostanza o la quantità o la qualità o la relazione o il dove o il quando o l'essere in una posizione o l'avere o il fare o il patire 11 • Come ben si vede, si tratta delle categorie, che noi g1a ben conosciamo dalla Metafisica. Qui sono elencate in numero di dieci (forse in pitagorico omaggio al numero perfetto della decade), ma sappiamo che in verità il numero più esatto è otto, essendo « l'essere in una posizione » (o « giacere ») e l'« avere » sussumibili sotto altre categorie. Orbene se, come si è visto, dal punto di vista metafisica, le categorie rappresentano i significati fondamentali dell'essere, è chiaro che, dal punto di vista logico, esse dovranno essere (e di conseguenza) i supremi generi ai quali deve essere riportabile qualsiasi termine della proposizione. E dunque il passo sopra letto è chiarissimo: se noi scomponiamo una proposizione nei suoi termini, ciascuno e tutti i termini che otteniamo significano, in ultima analisi, una delle categorie. Pertanto, le categorie, come ridanno i significati ultimi dell'essere, così ridanno i significati ultimi cui sono ridu11 Categorie, 4, l b 25-27 (traduzione di D. Pesce, Aristotele, Le Categorie, Padova 1966).
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cibili i termini di una proposizione. Prendiamo la proposizione« Socrate corre » e scomponiamola: otteniamo « Socrate », che rientra nella categoria della sostanza, e «corre », che rientra nella categoria del « fare ». Cosl se dico « Socrate è ora nel Liceo » e scompongo la proposizione, « nel Liceo » sarà riducibile alla categoria del «dove », mentre « ora » sarà riducibile alla categoria del « quando », e cosl di seguito. Categoria è stata tradotta da Boezio con « predicamento »; ma la traduzione esprime solo in parte il senso del termine greco e, non essendo del tutto adeguata, dà origine a numerose difficoltà, in gran parte eliminabili mantenendo l'originale. In effetti, la prima categoria funge sempre da soggetto e solo impropriamente funge da predicato, come quando dico: « Socrate è un uomo» (cioè: Socrate è una sostanza); le altre fungono da predicato (o, se si vuole, sono le supreme figure di tutti i possibili predicati, i generi suprc;mi dei predicati). E naturalmente, poiché la prima categoria costituisce l'essere su cui si appoggia l'essere delle altre, la prima categoria sarà il soggetto e le altre categorie non potranno se non essere in questo soggetto, e quindi solo esse potranno essere veri e propri predicati. Quando noi ci fermiamo ai termini della proposizione isolati e presi ciascuno per sé, noi non abbiamo né verità né falsità. Dice Aristotele: Queste cose che abbiamo elencate, prese una per una, in sé e per sé, non costituiscono un'affermazione, la quale si genera invece dalla loro reciproca connessione; ed infatti ogni affermazione, come sembra, è vera o falsa, mentre delle cose dette senza nessuna connessione nessuna è vera o falsa, ad esempio: «uomo», « bianco », « corre », « vince » 12 •
Il che significa esattamente questo: la verità (o falsità) non è mai nei termini singolarmente presi, ma solo nel giu'2
Categorie, 4, 2 a 4-10.
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dizio che li connette, e nella proposizione che esprime tale connessione. Naturalmente, poiché le categorie non sono semplicemente i termini che risultano dalla scomposizione della proposizione, ma i generi ai quali essi sono riducibili o sotto i quali cadono, allora le categorie sono qualcosa di primo e non ulteriormente riducibile. Al massimo si può dire che sono «essere», ma l'essere non è un genere (come s'è visto), e quindi esse non sono definibili, appunto perché non esiste qualcosa di più generale cui possiamo ricorrere per determinarle. Abbiamo cosi toccato il problema della definizione, che Aristotele non tratta nelle Categorie, ma negli Analitici Secondi e in altri scritti. Tuttavia, poiché la definizione riguarda i termini e i concetti, è bene dire di essa a questo punto, come del resto richiede l'esposizione per problemi. Si è detto che le categorie sono indefinibili, perché sono generalissime, perché sono i generi supremi. Indefinibili sono anche gli individui, per ragioni opposte, cioè perché sono particolari, e stanno come agli antipodi delle categorie: di essi è possibile solamente la percezione, cioè un coglimento puramente empirico. Ma fra le categorie e gli individui c'è tutta una gamma di nozioni e di concetti, che vanno dal più generale al meno generale, e sono quelli che normalmente costituiscono i termini dei giudizi e delle proposizioni che formuliamo (il nome indicante l'individuo può comparire solo come soggetto). Tutti questi termini, che stanno fra l'universalità delle categorie e la particolarità degli individui, noi li conosciamo appunto tramite definizione (horism6s). Che cosa vuoi dire definire? Vuoi dire non tanto spiegare il significato di una parola, quanto determinare che cos'è l'oggetto che la parola indica. Perciò ben si spiega la definizione che Aristotele dà della definizione, come « il discorso che esprime l'essenza », o « il discorso che esprime la natura delle cose », o « il discorso che esprime la sostanza delle
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cose » 13 • E per poter definire qualcosa occorrono il « genere »e la« differenza », dice Aristotele, o, come con formula classica è stato espresso il pensiero aristotelico, il « genere prossimo » e la « differenza specifica » 14 • Se vogliamo sapere che cosa vuoi dire «uomo», dobbiamo, mediante l'analisi, individuare il « genere prossimo » in cui esso rientra, che non è quello di « vivente » (anche le piante sono viventi), ma quello di« animale »(l'animale ha, oltre che la vita vegetativa, anche la sensitiva), e poi dobbiamo analizzare le « differenze » che determinano il genere animale, fino a che troviamo la «differenza ultima » distintiva dell'uomo, che è « razionale ». L'uomo è dunque « animale (genere prossimo) razionale (differenza specifica)». L'essenza delle cose è data dalla differenza ultima che caratterizza il genere 15 • Naturalmente, vale per la definizione dei singoli concetti quanto si è detto per le categorie: una definizione sarà valida o non valida, ma mai vera o falsa, perché vero e falso implicano sempre una unione o separazione di concetti e questo accade solo nel giudizio e nella proposizione, di cui ora dobbiamo dire.
4.
Le proposizioni (il «De Interpretatione »)
Quando uniamo i termini (un nome e un verbo) fra loro e affermiamo o neghiamo qualcosa di qualcos'altro, allora abbiamo il giudizio. Il giudizio è dunque l'atto con cui affermiamo o neghiamo un concetto di un altro concetto e la espressione logica del giudizio è l'enunciazione o proposizione. Aristotele, per la verità, non ha una terminologia precisa al
13 Si vedano i vari luoghi in cui compaiono queste definizioni, indicati dal Waitz, Aristotelis Organon, II, pp. 398 sgg. •• Cfr. i passi in Waitz, Aristotelis Organon, II, p. 399. " Si veda in particolare Metafisica, Z 12.
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riguardo: quello che noi chiamiamo giudizio egli lo indica piuttosto con ap6phasis (negazione) e kataphasis (affermazione), cioè con termini indicanti le operazioni di cui consta il giudizio, e quello che chiamiamo proposizione egli lo indica col termine pr6tasis. Giudizio e proposizione costituiscono la forma più elementare di conoscenza, quella forma che ci fa conoscere direttamente un nesso fra un predicato e un soggetto. Il vero e il falso nascono, quindi, col giudizio, cioè con l'affermazione e con la negazione: il vero si ha quando col giudizio si congiunge ciò che è realmente congiunto (o si disgiunge ciò che è realmente disgiunto), il falso si ha invece quando col giudizio si congiunge ciò che non è congiunto (o si disgiunge ciò che non è disgiunto). La enunciazione o proposizione che esprime il giudizio esprime quindi sempre affermazione o neggzione, ed è quindi o vera o falsa 16 • (Si noti che non una qualsivoglia frase è una proposizione che interessa la logica: tutte le frasi che esprimono preghiere, invocazioni, esclamazioni e simili escono fuori dalla logica e riguardano il tipo di discorso retorico o poetico; rientra nella logica solo il discorso apofantico o dichiarativo) 17 • La prima distinzione che si deve fare dei giudizi è quella fra giudizi affermativi e giudizi negativi, dato appunto che giudicare è affermare o negare qualcosa di qualcos'altro. (E poiché ad ogni affermazione di una cosa s'oppone la sua negazione, e fra affermazione e negazione non c'è via di mezzo, allora necessariamente o l'una o l'altra è vera) 18 • Per quanto concerne quella che sarà chiamata la « quantità », cioè la estensione (maggiore o minore universalità del soggetto), i giudizi vengono divisi in universali, se riguardano un universale (per esempio: « tutti gli uomini sono bianchi»; oppure: « nessun uomo è bianco » ), individuali o singolari se 16 17
18
Cfr. De Interpretatione, capp. l e 9. Cfr. De Interpretatione, 4, 17 a 1-7. Cfr. De Interpretatione, 5-6.
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riguardano un individuo (per esempio: « Socrate è bianco», o « Socrate non è bianco » ). Inoltre ci può essere un giudizio che riguarda un universale, ma che non è universale, come nel caso: « un uomo è bianco » (o « alcuni uomini sono bianchi » e i corrispondenti negativi); questo giudizio è stato denominato particolare. (Negli Analitici Aristotele parlerà, invece, di giudizi indefiniti). Le proposizioni contraddittorie universali e quelle singolari sono sempre l'una o l'altra falsa; invece le proposizioni particolari contraddittorie possono essere vere insieme (un uomo è bianco, un altro è non bianco) 19 • Il De I nterpretatione, infine, considera il modo con cui si afferma o nega qualcosa di qualcos'altro, e quindi la modalità delle proposizioni. Noi non solo connettiamo un predicato con un soggetto e lo disgiungiamo, dicendo è o non è, ma, talora, specifichiamo anche in quale modo soggetto e predicato sono connessi o disgiunti: altro è infatti dire « il tal soggetto è cosiffatto », altro è dire« il tal soggetto deve essere cosiffatto », e altro ancora è dire « il tal soggetto può essere cosiffatto». (Facciamo un esempio particolarmente illuminante: altro è dire « Dio esiste », altro è dire « Dio deve esistere », altro ancora « Dio può esistere »). Aristotele riduce queste proposizioni implicanti necessità e possibilità alla forma assertoria, e cosi si ha, per la necessità, la proposizione « A è necessario che sia B » e per la possibilità « A è possibile che sia B ». Le negazioni di queste proposizioni saranno: «A non è necessario che sia B », e « A non è possibile che sia B ». Egli sviluppa poi ~ma complessa serie di considerazioni su queste proposizioni mod ali 20 • Invece, non si può dire che individui l'ulteriore distinzione del giudizio ipotetico e di quello disgiuntivo.
•• Cfr. De Interpreta/ione, 7. Cfr. De Interpreta/ione, 9 sgg.
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Il sillogismo
Quando noi affermiamo ovvero neghiamo qualcosa di qualcos'altro, cioè giudichiamo e formuliamo proposizioni, noi non ragioniamo ancora. E nemmeno, ovviamente, noi ragioniamo allorché noi formuliamo una serie di giudizi ed elenchiamo una serie di proposizioni fra loro sconnesse. Noi ragioniamo, invece, quando passiamo da giudizi a giudizi, da proposizioni a proposizioni che abbiano fra di loro determinati nessi, e che siano, in certo qual modo, le une cause di altre, le une antecedenti, le altre conseguenti. Non c'è ragionamento, se non c'è questo nesso, questa consequenzialità. Orbene, il sillogismo è precisamente il ragionamento perfetto, cioè quel ragionamento in cui la conclusione cui si perviene è effettivamente la conseguenza che scaturisce, di necessità, dall'antecedente. In generale, in un ragionamento perfetto, cioè in un sillogismo, vi devono essere tre proposizioni, di cui due fungono da antecedenti e sono quindi dette premesse, e la terza è il conseguente, cioè la conclusione che scaturisce dalle premesse. Nel sillogismo sono sempre in gioco tre termini, di cui uno funge come da cerniera che unisce gli altri due, come vedremo. Facciamo l'esempio classico di sillogismo: Se tutti gli uomini sono mortali, e se Socrate è uomo, allora Socrate è mortale. Come ben si vede, che Socrate sia mortale è conseguenza che scaturisce necessariamente dall'aver stabilito che ogni uomo è mortale e che Socrate è appunto uomo. Dove « uomo » è il termine su cui si fa leva per concludere. Si capisce, quindi, la celebre definizione data da Aristotele:
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Sillogismo è un discorso (cioè un ragionamento) in cui, posti alcuni dati (cioè le premesse) segue di necessità qualcos'altro distinto da essi, per il solo fatto che questi sono stati posti. E con l'espressione « per il fatto che questi sono stati posti » intendo il conseguire in forza di essi, e ulteriormente con l'espressione « conseguire in forza di essi » intendo il non aver bisogno di alcun termine estraneo in aggiunta perché abbia luogo la necessità 21 • Commenta bene questo passo uno studioso italiano: « Il sillogismo risulta quindi caratterizzato dal seguire di necessità del conseguente dall'antecedente, per il solo fatto che questo è posto. In tal senso le premesse sono causa non della verità o falsità, o in generale del contenuto, del conseguente in se stesso, ma della sequela, sl che, assunto l'antecedente, non può non seguire da esso il conseguente. Le premesse sillogistiche hanno perciò valore di ipotesi e devono, quindi, essere precedute dalla congiunzione 'se' » 22 • Nel sillogismo è in causa la coerenza del ragionamento, il contenuto di verità deve restare fuori questione, e sarà chiamato in causa, come vedremo, sotto altra prospettiva. E ora torniamo all'esempio di sillogismo fatto. La prima delle proposizioni si chiama premessa maggiore, la seconda premessa minore, la terza conclusione. I due termini che vengono uniti nella conclusione si chiamano, il primo (che è il soggetto, Socrate) estremo minore, il secondo (che è il predicato, mortale) estremo maggiore. E poiché questi termini sono uniti fra loro tramite un altro termine, che abbiamo detto fungere da cerniera, esso è detto termine medio, ossia termine che opera la mediazione 23 • Ma Aristotele non solo ha stabilito che cos'è il sillogismo,
" Analitici Primi, A l, 24 h 18-22 (ci scostiamo in parte dalla traduzione del Mignucci). :n M. Mignucci, La teoria aristotelica della scienza, Firenze 1965, p. 151. 23 Cfr. Analitici Primi, A 4.
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ma ha proceduto ad una serie di complesse distinzioni delle possibili diverse « figure » dei sillogismi e dei vari « modi » validi di ciascuna figura. Le diverse figure (schémata) del sillogismo sono determinate dalle differenti posizioni che il termine medio può occupare rispetto agli estremi nelle premesse. E siccome il medio a) può essere soggetto nella premessa maggiore, predicato nella minore, b) oppure può essere predicato sia nella premessa maggiore sia nella minore, c) oppure ancora può essere soggetto in tutte e due le premesse, allora tre saranno le figure possibili del sillogismo. L'esempio che sopra abbiamo fatto è di prima figura, la quale è, secondo Aristotele, la figura più perfetta perché è la più naturale, in quanto manifesta il processo di mediazione nel modo più chiaro. Ma siccome le proposizioni che fungono da premesse possono variare per« quantità »,cioè essere o universali o particolari, e per« qualità »,cioè essere affermative o negative, allora vi saranno molteplici combinazioni possibili per ciascuna delle tre figure. Aristotele, con puntuale analisi, stabilisce quali e quante siano queste possibili combinazioni. Sono questi i « modi » del sillogismo. Le conclusioni dello Stagirita sono le seguenti: vi sono quattro modi validi della prima figura, quattro della seconda e sei della terza. Delle ulteriori distinzioni fra sillogismi perfetti e imperfetti, del modo di ridurre i secondi ai primi, dei modi di ridurre i sillogismi delle altre figure a quelli della prima, e delle rego!~ riguardanti la conversione delle proposizioni per operare queste trasformazioni, non è qui il luogo di dire. :~é è il caso di addentrarci nelle questioni della sillogistica modale che lo Stagirita affronta, cioè nelle questioni relative ai sillogismi che tengono conto della modalità delle proposizioni che fungono da premesse (cioè a seconda che siano di semplice esistenza, oppure implichino la modalità della necessità, oppure quella della possibilità) con tutte le
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possibili combinazioni. È questa la parte più tormentata e criticata della sillogistica aristotelica 24 • Infine, come Aristotele non aveva riconosciuto le proposizioni ipotetiche e disgiuntive, cosl non ha potuto fornire una dottrina del sillogismo ipotetico e disgiuntivo.
6.
Il si 11 o g i s m o sci e n t i fico o d i mostra zio n e
Dunque, il sillogismo in quanto tale mostra quale sia l'essenza stessa del ragionare, cioè quale sia la struttura dell'inferenza, e come tale, si è visto, esso prescinde dal contenuto di verità delle premesse (e quindi delle conclusioni). Invece il sillogismo « scientifico » o « dimostrativo » si differenzia dal sillogismo in generale appunto perché riguarda, oltre che la correttezza formale dell'inferenza, altresi il valore di verità delle premesse (e delle conseguenze). Dice bene il MJgnucci: « Il procedimento sillogistico proprio della scienza si chiama dimostrazione; essa è un tipo particolare di sillogismo, che si differenzia dal sillogismo non ovviamente per la forma, altrimenti non pòtrebbe esser detto con verità sillogismo, ma per il contenuto delle premesse assunte. Nella dimostrazione, infatti, le premesse devono essere sempre vere, mentre ciò non è necessario che si verifichi nel sillogismo come tale, poiché in quest'ultimo interessa determinare solo se un certo conseguente segue o non segue dalle premesse poste, per il solo fatto che esse sono poste, indipendentemente dal valore di verità che possono avere. Nella dimostrazione invece, essendo essa il procedimento che conduce alla scienza del conseguente, a sapere cioè se il conseguente è veramente tale oppure no, si deve assumere un antece24 Su tuue le questioni qui solo accennate, il lettore troverà le necessarie esplicazioni e i necessari approfondimenti nell'Introduzione e nel commentario del Mignucci, più volte citato.
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dente vero, dato che solo dal vero segue necessariamente il vero» 25 • Dunque la scienza, oltre alla correttezza del procedimento formale, implica la verità del contenuto delle premesse. Ma leggiamo un passo degli Analitici Secondi su questo punto fondamentale, già parzialmente sopra riportato: Riteniamo di aver scienza di ciascuna cosa [ ... ] quando riteniamo di conoscere la causa in virtù di cui è la cosa, che essa è appunto causa di quella cosa e che non è possibile che ciò sia altrimenti [ ... ] . Di conseguenza è impossibile che ciò di cui vi è scienza in senso proprio stia diversamente da come è. Ora, se vi sia anche un altro modo di avere scienza lo diremo in seguito [allusione al sapere intuitivo con cui cogliamo i principi primi, come sotto vedremo] ; per il momento diciamo che aver scienza è sapere per dimostrazione. Dico dimostrazione il sillogismo scientifico; dico scientifico quel sillogismo in base al quale, per il fatto di possederlo, abbiamo scienza. Allora, se avere scienza è quale abbiamo posto [cioè conoscere la causa], è necessario che la scienza ·dimostrativa proceda da protasi vere, prime, immediate, più note, anteriori e cause delle conclusioni. In tal modo in effetti i principi saranno anche pertinenti al dimostrato. Il sillogismo infatti sussiste anche senza queste condizioni, mentre la dimostra-
zione non può sussistere senza di esse, giacché non produrrebbe scienza 26 •
Il passo rivela, in maniera paradigmatica, quale sia l'idea aristotèlica della scienza. Essa è, fondamentalmente, un processo discorsivo che tende a determinare il perché o la causa, e, delle quattro cause che ben conosciamo, soprattutto la causa formale o essenza. È questa, infatti, la causa fondamentale, in quanto, esprimendo essa l'essenza o natura della cosa, rappresenta precisamente quel « medio » in virtù del quale noi stabiliamo la necessaria connessione di certe proprietà con un dato soggetto. Si capisce, pertanto, quale sia 25 26
Mignucci, La teoria aristotelica della scienza, pp. 110 sg. Analitici Secondi, A 2, 71 b 9-25 (traduzione Mignucci).
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il significato di una celebre affermazione che lo Stagirita fa nella Metafisica: Come nei sillogismi, cosl il principio di tutti i processi di generazione è la sostanza; infatti i sillogismi derivano dall'essenza, e da essa derivano anche le generazioni 27 •
Dunque, la sostanza (o essenza o forma o eidos) cosl come è al centro della metafisica e della fisica, è al centro anche della teoria della scienza, cioè di tutto quanto il sistema aristotelico. Mentre il sillogismo aristotelico in generale implica un elevato grado di formalismo, il sillogismo scientifico, cioè la dimostrazione scientifica, risulta pressoché per intero legata alla concezione metafisica della sostanza, e la scienza aristotelica vuoi essere ricerca della sostanza e di tutti i nessi che essa implica. È questo un punto di vista notevolmente distante da quello fatto proprio dalle scienze esatte dell'età moderna. Il passo che abbiamo letto rivela inoltre un secondo punto fondamentale, cioè come debbano essere le premesse del sillogismo scientifico o dimostrazione. In primo luogo debbono essere vere, per le ragioni che abbiamo ampiamente illustrato; poi debbono essere prime, ossia non bisognose a loro volta di ulteriori dimostrazioni, più note e anteriori, ossia di per sé intelligibili e chiare e più universali delle conclusioni, e cause delle conclusioni, perché ne debbono contenere la ragione. E cosl giungiamo ad un punto delicatissimo della dottrina aristotelica della scienza. Infatti sorge il problema: come conosciamo le premesse? Non certo tramite ulteriori sillogismi, perché, altrimenti, si andrebbe all'infinito. Dunque, per altra via. Qual è questa via?
27
Metafisica, Z 9, 1034 a 30-32.
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7.
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La conoscenza immediata
Il sillogismo è un processo sostanzialmente deduttivo, in quanto ricava da verità universali verità particolari. Ma le verità universali come si colgono? Aristotele ci parla di induzione e di intuizione come di processi in certo senso opposti a quello sillogistico, ma che in ogni caso lo stesso sillogismo presuppone. L'induzione (htayw'Y'Ii) è il procedimento attraverso cui dal particolare si ricava l'universale. Malgrado Aristotele negli Analitici 28 tenti di far vedere come la stessa induzione possa essere sillogisticamente trattata, non solo non ci riesce, ma questo tentativo rimane del tutto isolato ed egli riconosce invece, solitamente, che l'induzione non è un ragionamento, ma un « essere condotto » dal particolare all'universale da una sorta di visione immediata o di intuizione o comunque voglia chiamarsi questo conoscere non mediato, o, se si vuole, da questo procedimento in cui il « medio » è dato in certo senso dalla esperienza dei casi particolari (in sostanza l'induzione è il processo astrattivo) 29 • L'intuizione è invece il coglimento puro dei principi primi. Dunque, anche Aristotele ammette l'intelletto intuitivo. Leggiamo negli Analitici Secondi: Poiché degli abiti razionali con i quali cogliamo la verità alcuni sono sempre veri, mentre altri ammettono il falso, come l'opinione e il calcolo, mentre la conoscenza scientifica e l'intuizione sono sempre veri, e poiché nessun altro genere di conoscenza è più esatto di quella scientifica tranne che l'intuizione, e d'altra parte i principi sono più noti delle dimostrazioni, e poiché ogni conoscenza scientifica si costituisce argomentativamente, non vi può essere conoscenza scientifica dei principi, e poiché non vi può essere nulla di più· vero della conoscenza scientifica tranne che la
28
29
Analitici Primi, B 23. Si vedano i passi indicati dal Bonitz, Index Aristotelicus, p. 264 a.
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intuizione, l'intuizione deve avere per oggetto i pnnc1p1. Ciò risulta nella indagine non solo a chi fa queste considerazioni, ma anche dal fatto che principio della dimostrazione non è una dimostrazione; di conseguenza principio della conoscenza scientifica non è la conoscenza scientifica. Allora, se non abbiamo alcun altro genere di conoscenza vera oltre alla scienza, l'intuizione sarà principio della scienza. L'intuizione allora può essere considerata principio del principio, mentre la scienza nel suo complesso sta nello stesso rapporto con la totalità delle cose che ha per oggetto 30 •
Una pagina, come si vede, che dà ragione all'istanza di fondo del platonismo: la conoscenza discorsiva suppone a monte una conoscenza non discorsiva, la possibilità del sapere mediato suppone di necessità un sapere immediato.
8.,
I principi della dimostrazione
Dunque, le premesse e i principi della dimostrazione vengono colti o per induzione o per intuizione. A questo proposito va notato che ciascuna scienza assumerà, innanzi tutto, premesse e principi propri, cioè premesse e principi che sono peculiari ad essa e ad essa soltanto. In primo luogo, assumerà l'esistenza dell'ambito, o meglio (in termini logici) l'esistenza del soggetto intorno a cui verteranno tutte le sue determinazioni, che Aristotele chiama il genere-soggetto. Per esempio, l'aritmetica assumerà la esistenza dell'unità e del numero, la geometria l'esistenza della grandezza spaziale, e cosl via; e ciascuna scienza caratterizzerà il suo soggetto per via di definizione. In secondo luogo, ciascuna scienza procederà a definire il significato di una serie di termini che le appartengono (la aritmetica, per esempio, definirà il significato di pari, dispari, etc.; la geometria definirà il significato di commen"' Analitici Secondi, B 19, 100 b 5-17.
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surabile, incommensurabile etc.), ma non assumerà la esistenza di questi, benslla dimostrerà, provando, appunto, che si tratta di caratteristiche che competono al suo oggetto. In terzo luogo, per poter far questo, le scienze dovranno far uso di certi« assiomi »,ossia di proposizioni vere di verità intuitiva, e sono questi i principi in forza dei quali avviene la dimostrazione. Esempio di assioma è questo: « se da uguali si tolgono degli uguali, rimangono degli uguali». Pertanto, conclude Aristotele: Ogni scienza dimostrativa è relativa a tre elementi, ossia a ciò che è posto che sia (cioè il genere del quale la scienza considera le affezioni per sé [cioè le caratteristiche essenziali]), agli assiomi cosiddetti comuni, dai quali primi si procede nelle dimostrazioni, e infine alle affezioni delle quali si assume che cosa significhi ciascuna di esse 31 •
Tra gli assiomi ve ne sono alcuni che sono «comuni» a più scienze (come quello citato), altri a tutte quante le scienze senza eccezione, quali il principio di non-contraddizione (non si può affermare e negare dello stesso soggetto nello stesso tempo e sotto lo stesso rapporto due predicati contraddittori), e il principio del terzo escluso, che è strettamente connesso a quello di non-contraddizione (non è possibile che ci sia un termine medio fra due contraddittori). Sono i famosi principi trascendentali, cioè valevoli per ogni forma di pensare in quanto tale (perché valevoli per ogni ente in quanto tale), per sé noti e quindi primi, di cui Aristotele espressamente e ampiamente discute nel celebre libro quarto della Metafisica. Essi sono le condizioni incondizionate di ogni dimostrazione (e sono ovviamente indimostrabili, perché ogni forma di dimostrazione strutturalmente li presuppone) 32 • Il principio di identità, implicito nella dot-
" Analitici Secondi, A 10, 76 b 11-16. Si veda Metafisica, r 3-8 e il nostro commento, voi
32
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I,
pp. 329-357.
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trina di Aristotele, non v1ene espressamente messo a tema. 9. Il sillogismo dialettico, i sillogismi eristici e i paralogismi Abbiamo visto che la teoria del sillogismo in generale riguarda la pura correttezza formale dell'inferenza: invece la teoria del sillogismo scientifico o dimostrazione riguarda anche il contenuto di verità dell'inferenza, il quale, come sappiamo, dipende dalla verità delle premesse. Il sillogismo scientifico si ha solo quando le premesse siano vere e abbiano le caratteristiche sopra esaminate. Quando le premesse anzi-
ché vere sono semplicemente probabili, cioè fondate sull'opinione, allora si avrà il sillogismo dialettico, che Aristotele studia nei Topici. Lo scopo di questo trattato è perfettamente spiegato da Aristotele come segue:
Il fine che questo trattato si propone è di trovare un metodo, onde poter costituire, attorno ad ogni formulazione proposta di una ricerca, dei sillogismi che partano da elementi fondati sulla opinione, e onde non dir nulla di contraddittorio rispetto alla tesi che noi stessi difendiamo. Anzitutto occorre allora dire che cos'è un sillogismo e quali differenze distinguano la sua sfera, affinché possa venir assunto il sillo?,ismo dialettico: nel presente trattato indaghiamo infatti quest'ultimo. Sillogismo è propriamente un discorso in cui, posti alcuni elementi, risulta per necessità, attraverso gli elementi stabiliti, alcunché di differente da essi. Si ha cosi da un lato dimostrazione, quando il sillogismo è costituito e deriva da elementi veri e primi, oppure da elementi siffatti che assumano il principio della conoscenza che li riguarda attraverso certi elementi veri e primi. Dialettico è d'altro lato il sillogismo che conclude da elementi fondati sull'opinione. Elementi veri e primi sono inoltre quelli che traggono la loro credibilità non da altri elementi, ma da se stessi: di fronte ai principi delle scienze, non bisogna cercare ulteriormente il perché, ed occorre invece che ogni principio sia per se stesso degno di fede. Fondati sull'opinione sono per contro gli elementi che appaiono accettabili a tutti, oppure alla grande maggioranza, oppure ai ·stJpienti, e tra questi
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o a tutti, o alla grande maggioranza, o a quelli oltremodo noti ed illustri 33•
Il sillogismo dialettico, secondo Aristotele, serve a renderei capaci di disputare e in particolare serve a individuare, quando discutiamo con la gente comune oppure con le persone dotte, quali siano i loro punti di partenza e quanto nelle loro conclusioni concordi con essi o no, non già ponendoci da punti di vista estranei ad essi, ma proprio dal loro punto di vista: ci insegna quindi a discutere con altri, fornendoci gli strumenti per metterei in sintonia con essi. Inoltre, serve alla scienza non solo per dibattere correttamente il pro e il contro di varie questioni, ma per accertare i primi principi, che, come sappiamo, essendo indeducibili sillogisticamente, possono essere colti solo induttivamente o intuitivamente; ma sia l'induzione sia la giustificazione di una intuizione suppongono una discussione con le opinioni dei più o dei dotti: Questo trattato - dice Aristotele - è poi utile altresl rispetto ai primi tra gli elementi riguardanti ciascuna scienza. Partendo infatti dai principi propri della scienza in esame, è impossibile dire alcunché intorno ai principi stessi, poiché essi sono i primi tra tutti gli elementi, ed è così necessario penetrar/i attraverso gli elementi fondati sull'opinione, che riguardano ciascun oggetto. Questa per altro è l'attività propria della dialettica, o comunque quella che più le si addice: essendo infatti impegnata nell'indagine, essa indirizza verso i principi di tutte le scienze 34 •
Come ben si vede, in Aristotele, « dialettica » assume un significato molto diverso che in Platone (o, se si vuole, mantiene il significato più debole e meno specifico che Pia33 Topici, A l, 100 a 18- b 23 (traduzione di G. Colli, Aristotele, Organon, Einaudi, Torino 1955; ora anche in Aristotele, Opere, Bari 1973). Dei Topici è stata di recente pubblicata una nuova traduzione, con introduzione e un commento, a cura di A. Zadro (Loffredo, Napoli 1974), che guida il lettore attraverso i complessi meandri del pensiero aristotelico. 34 Topici, A 2, 101 a 36- b 4.
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tone le dava, dato che, per lui, dialettica era specialmente la scienza dei rapporti fra le Idee). Ma i Topici non approfondiscono questo secondo punto, e si limitano prevalentemente al primo e per conseguenza sconfinano abbondantemente nella retorica 35 • Il termine « topici » ('t61toL) significa luoghi e indica metaforicamente i quadri ideali in cui rientrano e quindi da cui si attingono, gli argomenti, come sedes et quasi domicilia argumentorum, come dirà Cicerone 36 • I T opici descrivono cosi i « casellari da cui il ragionamento dialettico deve attingere i suoi argomenti », come ben dice il Ross, il quale giustamente cosi valuta quest'opera aristotelica, che è certamente di gran lunga la meno stimolante fra quelle che compongono l'Organon: «La discussione appartiene ad un sorpassato modo di pensare; è uno degli ultimi sforzi di quel movimento dello spirito greco verso una cultura generale, che tenta di discutere qualsiasi soggetto senza studiarne gli appropriati primi principi, e che noi conosciamo col nome di movimento sofistico. Quel che distingue Aristotele [se il.: per quello che egli dice nei T opici] dai Sofisti, almeno come ci sono dipinti da lui e da Platone, è che il suo scopo non consiste nell'aiutare i suoi ascoltatori e lettori a raggiungere il guadagno e la gloria con una falsa apparenza di sapienza, ma di discutere le questioni nel modo più sensato che sia possibile senza una speciale conoscenza. Ma egli stesso ha mostrato una via migliore, la via della scienza. Sono i suoi Analitici che hanno messo fuori moda i suoi Topici » 37• Infine, un sillogismo, oltre che da premesse fondate sull'opinione, può derivare da premesse che sembrano fondate 35 Per una puntuale esposizione della «dialettica» aristotelica cfr. C. A. Viano, La logica di Aristotele, Torino 1955, cap. IV, passim, 36 Cicerone, De oratore, 2, 39, 162 (dr, Aristotele, Topici, H, in fine). ' 7 Ross, Aristotele, pp. 86
sg.
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sull'opinione (ma che in realtà non lo sono), e si ha allora il smogismo eristico. E si dà anche il caso che certi sillogismi siano tali solo in apparenza e che sembrino concludere, ma che in realtà concludano solo a causa di un qualche errore, e si hanno allora dei paralogismi, ossia dei ragionamenti errati. Orbene, gli Elenchi Sofistici (che vengono considerati anche come nono libro dei Topici 38 ) studiano esattamente le confutazioni (élenchos vuoi dire appunto confutazione) sofistiche, ossia fallaci. (Come abbiamo visto nel primo volume, i Sofisti erano per lo più identificati con la parte peggiore di essi, cioè con gli Eristi, che non miravano ad altro che a confutare l'interlocutore con argomentazioni capziose). La confutazione corretta è un sillogismo la cui conclusione contraddice la conclusione dell'avversario; le confutazioni dei Sofisti, invece (e in genere le loro argomentazioni), erano tali da sembrare corrette, ma in realtà non lo erano e si avvalevano di una serie di trucchi per trarre in inganno gli inesperti. Gli Elenchi Sofistici studiano tutti i cespiti di questi possibili inganni con notevole perspicacia e studiano i paralogismi più caratteristici che ne conseguono.
10. La logica e la realtà
Si è detto e ripetuto a sazietà da molti studiosi che la logica aristotelica è in qualche modo divaricata rispetto al reale: la logica riguarda infatti l'universale, la realtà è invece sostanza individuale e particolare, l'universale non è reale, il reale non logicizzabile. Se cosi fosse, il reale sfuggirebbe per intero dalle maglie della logica. In verità non è cosi; infatti tale interpretazione suppone che la sostanza prima aristotelica sia l'individuo empirico, il che non è vero, come ben sappiamo. L'individuo è sinolo di materia e forma. E se, in 31
Cfr. sopra, la nota 10.
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un senso, sostanza è il sinolo, in senso più forte (in senso propriamente ontologico e metafisico e quindi primario) sostanza è la forma o l'essenza che determina la materia 39 • Il sinolo è un "t'6oE "t'L, cioè qualcosa di empiricamete determinato, ma anche la forma è un "t'60E "t'L, cioè un qualcosa di intelligibilmente determinato. In quanto colta dal pensiero, essa diviene universale, nel senso che da struttura ontologica che determina una cosa diviene concetto colto come capace di riferirsi a più cose e quindi capace di predicarsi di più soggetti (di tutti quelli aventi quella struttura). La forma antologica diventa, così, specie logica. Le ulteriori operazioni mentali, analizzando le forme, scoprono strutturali possibilità di comprenderle in generi; che rappresentano universali più ampi e che sono come una materia logica o intelligibile di cui la forma è specificazione, e i generi si allargano vieppiù in universalità fino alle categorie (generi supremi). E al di sopra delle categorie il pensiero scopre ancora un universale che non è dato più da un genere, ma da un rapporto analogico: tali sono l'essere e l'uno. Ma tali operazioni del pensiero non hanno valore meramente nominale, perché sono fondate sulla stessa struttura del reale, che è una struttura eidetica, come abbiamo visto nella metafisica in modo puntuale 40 • Come è noto, Kant ha sostenuto che la logica aristotelica (che egli intendeva come logica puramente formale) è nata perfetta. Dopo le scoperte della logica simbolica nessuno può più ripetere questo giudizio, dato che l'applicazione dei simboli ha agevolato enormemente il calcolo logico e 39 In Metafisica, Z 7, 1032 b l sgg. Aristotele dice, senza mezzi termini: «chiamo "forma" (eidos) l'essenza di ciascuna cosa e la sostanza prima». "" Rimandiamo, per tutti gli opportuni approfondimenti, al nostro commento al libro Z della Metafisica; il libro Z è veramente essenziale per capire l'intero pensiero aristotelico. La logica (cosl come ogni altra branca della speculazione aristotelica) non si capisce se non sulla base della dottrina della sostanza-forma cosl come viene calibrata in quel libro.
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ha modificato molte cose. Inoltre è ben difficile affermare che il sillogismo sia la forma propria di qualsiasi mediazione e di qualsiasi inferenza, come credeva invece Aristotele. Ma per quante siano le obiezioni che alla logica aristotelica sono state mosse o possono muoversi, e per quanto di vero possa esserci nelle istanze che vanno dal Nuovo Organo di Bacone al Sistema di logica di Stuart Mill, nonché nelle istanze che vanno dalla logica trascendentale kantiana alla hegeliana logica della ragione (logica dell'infinito) o, infine, nelle istanze logiche delle metodologie delle moderne scienze, è comunque certo che la logica occidentale nel suo complesso ha le sue radici nell'Organon di Aristotele, che, dunque, come sopra dicevamo, resta una pietra miliare nella storia del pensiero occidentale.
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Il. LA RETORICA
l. L a g e n e s i p l a t o n i c a d e 11 a r e t o r i c a a ri s t.o telica
Le indagini sulla retorica hanno una storia anteriore ad Aristotele assai considerevole, a cominciare da Gorgia (che per primo ha tentato una definizione e uno sfruttamento teoretico della medesima) fino a Platone (che dopo averla recisamente condannata, come vedemmo, ne tentò un successivo parziale recupero ). Anzi, fu proprio in tema di retorica che, come sappiamo, Aristotele esordi come scrittore, cÒmponendo e pubblicando il Grillo (che gli valse, ben presto, l'incarico d~ parte di Platone di tenere lezioni su tale materia nell'ambito dell'Accadémia). Nel Grillo Aristotele prendeva posizione contro Isocrate e contro la retorica isocratea, difendeva l'ideale filosofico della paideia platonica e sembrava accogliere quella prospettiva che Platone medesimo aveva espresso circa la retorica, soprattutto nel Fedro 1• Anche nel trattato di Retorica Io Stagirita mantiene quella concezione di fondo. La retorica, se ha da essere autentica retorica, non può andar disgiunta dal vero e dal giusto e non può fondarsi sulla mozione dei sentimenti. Il retore deve conoscere le cose intorno a cui vuoi convincere, cosl come deve conoscere l'anima degli ascoltatori nella quale deve ingenerare la persuasione. Insomma, la vera arte retorica deve pre-
' Per una ricostruzione del Grillo si veda Berti, La filosofia del primo 'Aristotele, pp. 159 sgg.
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supporre i valori teoretici e morali e su di essi, al limite, deve fondarsi. Da tempo gli studiosi si sono avveduti del fatto (e questo, a nostro avviso, non è che una particolare conferma della interpretazione generale che di Aristotele stiamo presentando) che la retorica aristotelica « può considerarsi il proposito di realizzare l'ideale esposto da Platone nel Fedro » 2 : e, in effetti, da un capo all'altro del suo trattato, lo Stagirita si mostra fermamente convinto che la retorica non possa e non debba se non essere al servizio dei valori del vero, del giusto e del buono. Egli scrive, infatti, espressamente: La retorica è utile per il fatto che per natura la verità e la giustizia sono più forti del loro contrario, cosicché se i giudizi non avvengono come si dovrebbe, è necessariamente perché si è inferiori ad essi 3 •
Ma vediamo, in particolare, quale sia la natura e quali siano i caratteri peculiari e i fini specifici della retorica.
2. L a d e fin i zio n e d e Il a retorica e i su o i r a p· porti con la dialettica, con l'etica e con la poli tic a
Aristotele, cosl come Platone, resta fermamente persuaso, in primo luogo, che la retorica non ha il compito di insegnare e di ammaestrare intorno alla verità o ai valori etico-politici in generale, né intorno a verità o a valori particolari: questo è, infatti, un compito che è proprio della filosofia, da un lato, e delle scienze e arti particolari, dall'altro. Lo scopo della retorica, invece, è quello di « persuadere » o, più esattamente, quello di scaprire quali siano i modi e i mezzi per /
___,-Gomperz, Pensatori greci, IV, p. 617. ' Retorica, A l, 1355 a 20-23.
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LA RETORICA
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persuadere in generale su qualsiasi argomento. Scrive lo Stagirita: Definiamo dunque la retorica come la facoltà di scoprire in ogni argomento dò che è in grado di persuadere. Questa infatti non è la funzione di nessun'altra arte; ciascuna delle altre arti mira all'insegnamento e alla persuasione intorno al proprio oggetto: cosl la medicina intorno ai casi di salute e di malattia, la geometria intorno alle variazioni che avvengono nelle grandezze, l'aritmetica intorno ai numeri, e parimenti le altre arti e scienze. La retorica invece sembra po.ter scoprire ciò che persuade, per cosl dire, intorno a qualsiasi argomento dato 4 • La retorica è dunque una sorta di metodologia del persuadere, un'arte che analizza e definisce i procedimenti con cui l'uomo cerca di convincere gli altri uomini e ne individua le strutture fondamentali. Pertanto, sotto l'aspetto formale, la retorica presenta analogie con la logica, la quale studia le strutture del pensare e del ragionare, e, in particolare, essa presenta analogie con quella parte della logica che Aristotele chiama « dialettica ». Infatti, come si è visto, la dialettica studia le strutture del pensare e del ragionare che muovono non da elementi fondati scientificamente, bensi da elementi fondati sull'opinione, ossia da quegli elementi che appaiono accettabili a tutti o alla grande maggioranza degli uomini. Analogamente la retorica studia quei procedimenti con cui gli uomini consigliano, accusano, si difendono, elogiano (queste, infatti, sono tutte attività specifiche del persuadere) in generale, non già muovendo da conoscenze scientifiche, ma da opinioni probabili. La retorica, però, se dal punto di vista della forma ha il suo riscontro nella dialettica, dal punto di vista del contenuto lo ha, invece, nell'etica e nella politica. Infatti, se è ver? che essa, di per sé, riguarda la struttura del persua• Retorica, A 2, 1355 h 26-34. La traduzione dei passi della Retorica che riportiamo è di A. Plebe ed è inclusa in Aristotele, Opere, Bari 1973.
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dere in generale, è anche vero che gli uomini esercitano le loro attività di persuasione soprattutto nei tribunali (per accusare o difendere), nelle assemblee (per consigliare e far adottare determinate deliberazioni) e, in genere, per lodare o biasimare (intorno al bene e al male, alla virtù e al vizio); orbene tutto ciò, come è evidente, ha a che fare sia con l'etica che con la politica. In conclusione, diremo che la retorica è il corrispettivo analogico o l'equipollente della dialettica, se si riguarda il suo impianto teoretico, ossia il suo procedimento formale; essa risulta, invece, strettamente connessa con l'etica e con la politica (e in parte con la psicologia), se si riguarda la sua sfera di applicazione. Pertanto Aristotele può correttamente concludere come segue: La retorica è come una diramazione della dialettica e della scienza intorno ai costumi, che è giusto denominare politica 5 •
3.
I diversi argomenti di persuasione
La distinzione fra l'aspetto formale e l'aspetto contenutistico della retorica, oltre ad essere importante ai fini della comprensione dei rapporti dellà retorica con la dialettica da un lato e con le scienze etico-politiche dall'altro, è fondamentale per capire l'intera trattazione aristotelica della retorica e la mobilità con cui essa passa da un piano all'altro nonché il vario intrecciarsi di considerazioni metodologiche con considerazioni appunto etico-politiche e anche psicologiche. Facendo riferimento all'aspetto formale della retorica, Aristotele distingue, innanzitutto, gli argomenti persuasivi non tecnici da quelli tecnici. Le argomentazioni non tecniche (il te' Retorica, A 2, 1356 a 25-27.
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LA RETORICA
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sto delle leggi, le testimonianze, le convenzioni, le dichiarazioni sotto tortura, i giuramenti) ci sono già in partenza e non dobbiamo trovarle noi (ci possiamo servire di esse, senza bisogno di scoprirle) 6 • Invece le argomentazioni tecniche sono quelle specifiche del retore e sono di tre specie, a seconda che a) riguardino l'oratore e mirino a dargli credibilità, b) oppure tendano a disporre ,l'animo dell'ascoltatore a lasciarsi convincere facendo leva sulle emozioni, c) oppure puntino sulla intrinseca validità ed efficacia della stessa argomentazione. Ecco come Aristotele motiva questa distinzione: Delle argomentazioni procurate col discorso tre sono le specie: a) le une risiedono nel carattere dell'oratore, b) le altre nel disporre l'ascoltatore in una data maniera, c) le altre infine nello stesso discorso, attraverso la dimostrazione o l'apparenza di dimostrazione. a) Le argomentazioni attraverso il carattere avvengono quando il discorso è detto in maniera da rendere degno di fede l'oratore; infatti noi crediamo di più e più facilmente alle persone oneste intorno alle questioni generali e crediamo loro del tutto nelle questioni che non comportano certezza, ma opinabilità. Ma occorre che questa fiducia provenga dal discorso e non da un'opinione precostituita sul carattere dell'oratore [ ... ] . b) Le argomentazioni avvengono attraverso gli ascoltatori quando essi sono condotti dal discorso a una passione; infatti non pronunziamo in maniera uguale un giudizio se siamo addolorati oppure contenti, oppure in amicizia o in odio [ ... ] . c) Si danno argomentazioni attraverso il discorso, quando mostriamo il vero o il vero apparente da quello che ciascun argomento offre di persuasivo 7 •
Orbene, le trattazioni dei retori hanno scarsamente posto l'attenzione sul primo punto e hanno addirittura trascurato l'ultimo, concentrando tutta l'attenzione sul secondo, ossia sulla mozione dei sentimenti. Aristotele svolge invece • Cfr. Retorica, A 2, 1355 b 35 sgg.; A 15, 1375 a 22 sgg. 7 Retorica, A 2, 1356 a 1·20.
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la sua trattazione in tutte e tre le direzioni, mettendo però in rilievo la terza come quella più valida. Circa il primo punto, ossia circa il carattere dell'oratore, lo Stagirita rileva come, per essere credibile e persuasivo, un oratore debba essere o apparire fornito di queste tre doti: saggezza, onestà, benevolenza. Infatti, gii oratori possono sbagliare, nel parlare di qualcosa e nel consigliarla, o per mancanza di saggezza, oppure perché, pur sapendo ciò che sarebbe opportuno consigliare, non lo consigliano per disonestà, o, infine, perché, pur sapendo ciò che andrebbe consigliato e pur essendo onesti, non hanno benevolenza verso coloro con cui parlano. I mezzi che permettono di apparire con siffatti caratteri sono da trarre dalle trattazioni di etica, cui Aristotele fa rimando 8 • Il secondo punto viene invece approfondito mediante una analisi fenomenologica, assai ricca e vivace, delle emozioni e delle passioni che comunemente si trovano negli ·uditori. A soconda dello stato d'animo in cui l'ascoltatore si trova, egli giudica in modo diverso le medesime cose e perciò una conoscenza della psicologia delle passioni (quella conoscenza, cioè, dell'animo umano che già nel Fedro Platone poneva come uno dei fondamenti della vera retorica 9 ) è indispensabile all'oratore. Questa parte della Retorica, che si addentra non solo nelle analisi delle singole passioni ma nella descrizione delle differenti caratteristiche psichiche delle diverse età della vita umana (giovinezza, maturità e vecchiaia) e addirittura nella determinazione delle differenti disposizioni d'animo legate ai differenti caratteri che provengono agli uomini dai differenti beni di fortuna (ossia nella determinazione delle diverse psicologie dei ricchi, dei nobili e dei potenti), rivela una conoscenza degli uomini davvero sorprendente 10 • Retorica, B 4, 1378 a 5 sgg. Cfr. Platone, Fedro, 270 a sgg. 1° Cfr. Retorica, B 2-17. 8
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Il terzo punto riguarda invece le argomentazioni logiche, ed è quello che, come abbiamo già detto, Aristotele considera più importante e più nuovo. Esso è anche il più tecnico, ed è quello che riporta la retorica a congiungersi con la dialettica, come ora vedremo. 4. L'e n t i m e m a, l'es e m p i o e l e premesse d e l sillogismo retorico Come sopra abbiamo già visto, la retorica. non insegna, giacché questo è compito della scienza e la maggior parte degli uomini non è in grado di seguire un ragionamento scientifico. Le argomentazioni che la retorica fornisce dovranno, dunque, muovere non dalle premesse originarie da cui muove la dimostrazione scientifica, ma da quelle convinzioni comunemente ammesse da cui muove anche la dialettica. Inoltre la retorica non scandirà nella sua dimostrazione i vari passaggi, attraverso i quali il comune ascoltatore si perderebbe, ma dalle premesse trarrà rapidamente le conclusioni, appunto sottacendo la mediazione logica, per le ragioni dette. Questo tipo di ragionamento o sillogismo retorico si chiama « entimema ». L'entimema è dunque un sillogismo che muove da premesse probabili (da comuni convinzioni e non da principi primi) ed è conciso e non sviluppato nei vari passaggi. Oltre all'entimema la retorica si avvale dell'« esempio», il quale non implica mediazione logica di alcun genere, ma rende immediatamente evidente ciò che si vuole provare. Come l'entimema retorico corrisponde al sillogismo, cosl l'esempio retorico corrisponde all'induzione logica, in quanto risponde ad una funzione perfettamente analoga. Ecco alcuni passi significativi, che con molta chiarezza illustrano questi concetti: Poiché è evidente che il metodo tecnico riguarda le argomentazioni e l'argomentazione è una dimostrazione (infatti noi
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la sua trattazione in tutte e tre le direzioni, mettendo però in rilievo la terza come quella più valida. Circa il primo punto, ossia circa il carattere dell'oratore, lo Stagirita rileva come, per essere credibile e persuasivo, un oratore debba essere o apparire fornito di queste tre doti: saggezza, onestà, benevolenza. Infatti, gli oratori possono sbagliare, nel parlare di qualcosa e nel consigliarla, o per mancanza di saggezza, oppure perché, pur sapendo ciò che sarebbe opportuno consigliare, non lo consigliano per disonestà, o, infine, perché, pur sapendo ciò che andrebbe consigliato e pur essendo onesti, non hanno benevolenza verso coloro con cui parlano. I mezzi che permettono di apparire con siffatti caratteri sono da trarre dalle trattazioni di etica, cui Aristotele fa rimando 8 • Il secondo punto viene invece approfondito mediante una analisi fenomenologica, assai ricca e vivace, delle emozioni e delle passioni che comunemente si trovano negli ·uditori. A seconda dello stato d'animo in cui l'ascoltatore si trova, egli giudica in modo diverso le medesime cose e perciò una conoscenza della psicologia delle passioni (quella conoscenza, cioè, dell'animo umano che già nel Fedro Platone poneva come uno dei fondamenti della vera retorica 9 ) è indispensabile all'oratore. Questa parte della Retorica, che si addentra non solo nelle analisi delle singole passioni ma nella descrizione delle differenti caratteristiche psichiche delle diverse età della vita umana (giovinezza, maturità e vecchiaia) e addirittura nella determinazione delle differenti disposizioni d'animo legate ai differenti caratteri che provengono agli uomini dai differenti beni di fortuna (ossia nella determinazione delle diverse psicologie dei ricchi, dei nobili e dei potenti), rivela una conoscenza degli uomini davvero sorprendente 10 • 8 Retorica, B 4, 1378 a 5 sgg. • Cfr. Platone, Fedro, 270 a sgg. 1° Cfr. Retorica, B 2-17.
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Il terzo punto riguarda invece le argomentazioni logiche, ed è quello che, come abbiamo già detto, Aristotele considera più importante e più nuovo. Esso è anche il più tecnico, ed è quello che riporta la retorica a congiungersi con la dialettica, come ora vedremo. 4. L'e n t i m e m a , l ' es e m p i o e l e premesse d e l sillogismo retorico Come sopra abbiamo già visto, la retorica. non insegna, giacché questo è compito della scienza e la maggior parte degli uomini non è in grado di seguire un ragionamento scientifico. Le argomentazioni che la retorica fornisce dovranno, dunque, muovere non dalle premesse originarie da cui muove la dimostrazione scientifica, ma da quelle convinzioni comunemente ammesse da cui muove anche la dialettica. Inoltre la retorica non scandirà nella sua dimostrazione i vari passaggi, attraverso i quali il comune ascoltatore si perderebbe, ma dalle premesse trarrà rapidamente le conclusioni, appunto sottacendo la mediazione logica, per le ragioni dette. Questo tipo di ragionamento o sillogismo retorico si chiama « entimema ». L'entimema è dunque un sillogismo che muove da premesse probabili (da comuni convinzioni e non da principi primi) ed è conciso e non sviluppato nei vari passaggi. Oltre all'entimema la retorica si avvale dell'« esempio », il quale non implica mediazione logica di alcun genere, ma rende immediatamente evidente ciò che si vuole provare. Come l'entimema retorico corrisponde al sillogismo, cosl l'esempio retorico corrisponde all'induzione logica, in quanto risponde ad una funzione perfettamente analoga. Ecco alcuni passi significativi, che con molta chiarezza illustrano questi concetti: Poiché è evidente che il metodo tecnico riguarda le argomentazioni e l'argomentazione è una dimostrazione (infatti noi
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crediamo soprattutto ciò che riteniamo che sia stato dimostrato), e poiché la dimostrazione retorica è l'entimema e questo è, in generale, la più importante delle argomentazioni, e poiché l'entimema è un dato tipo di sillogismo e lo studio di ogni sillogismo è compito della dialettica, o di tutta essa o di una sua parte, è evidente che colui che meglio può conoscere donde e come si generi un sillogismo, questo sarà il più esperto di entimemi, purché conosca anche intorno a quali argomenti si svolgono gli entimemi e quali differenze hanno rispetto ai sillogismi logici. È infatti compito della stessa facoltà il discernere il vero e quello che è simile al vero; e inoltre gli uomini sono sufficientemente dotati per il vero e raggiungono per lo più la verità: quindi il mirare alla probabilità e il mirare alla verità appartengono alla stessa disposizione 11 • Quanto alle argomentazioni che avvengono attraverso il dimostrare o l'apparenza di dimostrare, come anche nella dialettica vi sono l'induzione, il sillogismo e il sillogismo apparente, anche qui accade similmente; infatti l'esempio è un'induzione, l'entimema un sillogismo ( l'entimema apparente un sillogismo apparente}. Denomino entimema il sillogismo retorico, esempio la induzione retorica. Tutti gli oratori forniscono le prove attrat>erso la dimostrazione o dicendo esempi o entimemi e null'altro oltre questi; perciò, se è necessario in generale che si dimostri qualsiasi cosa o per sillogismo o per induzione (questo ci risulta evidente dagli Analitici 12 ), è necessario che ciascuno di questi due metodi sia uguale nell'una e nell'altra arte. Quale sia la differenza fra l'esempio e l'entimema risulta chiaro dai Topici {là infatti si è parlato precedentemente del sillogismo e dell'induzione) 13 ; cioè il dimostrare partendo da molti casi simili che una cosa sta in un dato modo è colà induzione e qui esempio; invece quando, date certe premesse, risulta per mezzo di esse qualcosa di altro. e di ulteriore per il fatto che esse sono tali o universalmente o per lo più, questo colà è sillogismo e qui invece entimema 14 • Degli argomenti suscettibili di sillogismi e di inferenze alcuni son tratti da proposizioni già prima dedotte per sillogismo, altri invece da proposizioni non dedotte sillogisticamente, ma bisognose " " " "
Retorica, A l, 1355 a 3·18. Cfr. Analitici Primi, B 23 e Analitici Secondi, A l. Cfr. Topici, A l, 100 a 25 sgg.; A 12, 105 a 13 sgg. Retorica, A 2, 1356 a 35- b 17.
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LA RETORICA
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di sillogismo per il fatto che non sono di opinione comune. I primi non sono facili a seguirsi per la lunghezza della deduzione (nel caso che il giudice sia un uomo semplice); gli altri argomenti invece non sono persuasivi perché tratti da proposizioni su cui non si è d'accordo e che non sono di opinione comune; per cui è necessario che l'entimema e l'esempio siano su questioni che possono per lo più essere diversamente, e l'esempio sia un'induzione e l'entimema un sillogismo, e tratto da poche proposizioni e spesso meno numerose di quelle da cui si trae il sillogismo della prima figura. Se poi una di esse è conosciuta non occorre neppure enunciarla [ ... ] 15 • 5.
I tre generi di retorica
Se dalle considerazioni riguardanti la forma del discorso retorico si passa alle considerazioni riguardanti il suo contenuto, occorre distinguere tre generi differenti di retorica. Il discorso retorico, infatti, a) può essere rivolto o, nelle assemblee politiche, ai membri delle assemblee medesimi per indurli a prendere determinate deliberazioni; h) oppure può essere rivolto, nei tribunali, ai giudici per indurii a giudicare in un determinato modo; c) infine, può essere rivolto a semplici spettatori e uditori per celebrare determinati atti o eventi. Si hanno, cosl, i seguepti tre generi di retorica: il deliberativo, il giudiziario e l'epidittico (celebrativo). Proprio della retorica deliberativa è il consigliare e lo sconsigliare intorno a ciò che riguarda il futuro (in ogni assemblea politica si delibera su cose che riguardano il futuro e in genere chi consiglia o sconsiglia non può che riferirsi al futuro). Proprio della retorica giudiziaria è, invece, difendere o accusare, in riferimento ad atti e circostanze passati (per dimostrare che tali atti e circostanze non sono avvenuti o sono avvenuti contro ciò che è stabilito dalla legge). Infine, proprio della retorica epidittica o celebrativa è l'elogiare o il 15
Retorica, A 2, 1357 a 7-18.
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biasimare per lo più fatti o eventi presenti (per convincere che sono degni di lode ovvero di biasimo) 16 • Questa distinzione dei tre generi di retorica, oltre alla differenza dei tre generi di ascoltatori cui è rivolta (il membro dell'assemblea, il giudice del tribunale e il comune ascoltatore), oltre alla differenza degli atti con cui si esplica (consigliaresconsigliare, difendere-accusare, elogiare~biasimare) e oltre alla differenza dei tempi che presuppone (futuro, passato e presente), implica una ben precisa differenza dei fini che ciascuno di quei generi persegue. A ben vedere (come qualche studioso non ha mancato di rilevare 17 ), la vera motivazione della diversità dei generi di retorica è di carattere assiologico: la retorica deliberativa ha come fine il valore dell'utile, la retorica giudiziaria ha come fine il valore del giusto e la retorica celebrativa ha come fine il valore del bello-buono. Anche da questo punto di vista sono dunque innegabili le precise radici metafisiche della retorica aristotelica e le sue istanze squisitamente platoniche. Del resto ecco un testo quanto mai eloquente sull'argomento in questione: Ciascuno di questi generi ha un fine diverso; ed essendo essi tre, vi sono tre fini. Il consigliere ha come fine l'utile e il nocivo: chi infatti consiglia qualcosa lo raccomanda come migliore, chi sconsiglia lo depreca come peggiore, in aggiunta a questo fine egli aggiunge poi a rincalzo gli altri, il giusto o l'ingiusto, il bello o il brutto. I contendenti in giudizio hanno per fine il giusto e l'ingiusto; anche essi aggiungono a rincalzo a questo gli altri fini. Quelli invece che lodano e che biasimano hanno come fine il bello e il brutto [in senso etico]; anche essi riferiscono a questo gli altri
.. 18 • f lnl
Naturalmente, ciascuno di questi tre generi di retorica ha argomentazioni peculiari, che muovono da premesse egual" Cfr. Retorica, A 3, 1358 a 36 sgg. 17 Cfr. ad esempio O. Kraus, Neue Studien zur aristotelischen Rhetorik, Halle 1907. 18 Retorica, A 3, 1358 b 20-29.
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LA RETORICA
mente peculiari; Aristotele ha cura di illustrarle in modo particolareggiato con ampi riferimenti all'etica e alla politica, cercando di dare un quadro il più possibile esauriente su ciò che deve conoscere sia l'oratore politico, sia l'oratore giudiziario, sia l'oratore che intende tenere discorsi celebrativi, per poter raggiungere adeguatamente lo scopo che ciascuno si prefigge e per poter riuscire perfettamente persuasivo 19 •
6.
L a t o p i c a d e 11 a retorica
Torniamo ora all'aspetto formale della retorica e alla sua struttura logica per concludere. Abbiamo visto come la retorica sia sostanzialmente imparentata con la dialettica, in quanto i suoi ragionamenti muovono da premesse probabili e verosimili (dalla dialettica la retorica differisce solo perché tende a persuadere e deve portare l'ascoltatore ad un giudizio, appunto mediante la persuasione). Abbiamo inoltre visto come l'esempio e l'entimema siano i procedimenti induttivi e deduttivi propri della retorica. Aristotele ulteriormente precisa che l'esempio può essere desunto da fatti veramente accaduti, ovvero inventati; in quest'ultimo caso costituisce una parabola (come ad esempio quelle dei discorsi socratici) o una favola (come ad esempio quelle di Esopo) 20 • La massima o sentenza, tanto cara alla saggezza greca (si ricordi l'importanza delle sentenze attribuite ai sette savi) 21 , altro non è che una premessa o una conclusione di un entimema o addirittUra un entimema, a seconda del modo in cui è formulata (se si include nella massima la ragione di ciò che si afferma si ha un vero e proprio entimema) 22 •
19 20
21 22
Cfr. Retorica, A 4-14. Cfr. Retorica, B 20. Si veda il volume I, pp. 208 sgg. Cfr. Retorica, B 21.
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L'entimema, come il sillogismo, può essere, inoltre, sia dimostrativo sia confutativo: l'entimema dimostrativo è quello che conclude da premesse su cui l'oratore e gli ascoltatori sono d'accordo, quello confutativo è quello che trae conclusioni discordanti da quelle dell'avversario 23 • Degli entimemi formalmente considerati, ossia prescindendo dal loro contenuto specifico, è possibile indicare alcuni generalissimi cespiti da cui derivano (o a cui risalgono); si tratta dei cosiddetti topoi o « luoghi » generali da cui essi si possono ricavare (o a cui si possono sistematicamente ricondurre). Lo Stagirita precisa che i topoi fondamentali della retorica sono quattro: a) il luogo del possibile e dell'impossibile, b) il futuro, c) il passato e d) la grandezza. Ecco il testo aristotelico che enuncia questi « luoghi ». Tutti coloro che parlano [ ... ] devono adoperare nei discorsi il luogo del possibile e dell'impossibile e cercare di dimostrare che una cosa accadrà o che è accaduta. Inoltre, un luogo comune a tutti i discorsi è quello della grandezza: tutti si servono dello sminuire e dell'amplificare quando consigliano, quando lodano, quando biasimano, quando accusano o quando difendono [ ... ] . Tra i luoghi comuni quello dell'amplificazione è il più proprio al genere epidittico [ ... ] ; quello del passato al genere giudiziario (giacché qui il giudizio avviene intorno a ciò); quello del possibile e del futuro al genere deliberativo 24 •
Esemplifichiamo in quale senso il possibile-impossibile sia luogo o cespite di entimemi. Se 'è possibile che esista o che sia esistita una cosa contraria ad un'altra, dovrà essere possibile altresl il suo contrario: per esempio, se è possibile che un uomo sia guarito, deve essere altresl possibile che (prima) sia stato ammalato. Se è possibile una cosa più difficile, è possibile una cosa più facile. Se è possibile una cosa o azione nella sua quaLità più eccellente, è anche possibile la medesima cosa o azione nella sua qualità normale. 23 24
Cfr. Retorica, B 22, 1396 h 23 sgg. Retorica, B 18, 1391 h 27 - 1392 a 7.
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LA RETORICA
Ed ecco alcune esemplificamoni che rientrano nel « luogo del passato »: se ciò che per natura è meno idoneo ad accadere è invece accaduto, può ben accadere anche ciò che per natura è più idoneo ad accadere; se è accaduto ciò che suole essere posteriore, è accaduto anche l'anteriore (se si è dimenticata una cosa, prima la si doveva sapere). Analoghi esempi illustrano H luogo del futuro: se sono avvenute cose che devono per loro natura precedere altre, è verosimile che avverranno anche quest'altre (se è molto nuvoloso, è verosimile che pioverà); se è avvenuto ciò che è finalizzato ad altro, è verosimile che avverrà anche quest'altro (se si son fatte le fondamenta di una casa, è verosimile che si farà la casa). Infine, per ottenere il suo scopo, l'oratore è solito ingrandire e rimpicciolire l'importanza di fatti e azioni che hanno rapporto con l'utile, il giusto e il bello, a seconda dei casi e dei generi di oratoria 25 • A questa topica generale, Aristotele fa seguire una topica particolare dell'entimema vero e dell'entimema apparente (cosl come, in sede dialettica, aveva trattato di tutti gLi inganni su cui si fondano i sillogismi apparenti). È una parte estremamente tecnica, ma interessante 26 •
7.
Conclusioni sulla «Retorica»
L'ultimo libro della Retorica tratta questioni particolari di stile e di composizione e affronta quindi problemi che, per quanto siano interessanti, rientrano nell'ambito della critica letteraria e della linguistica più che non in quello della Eilosofia. Cfr. Retorica, B 19. Cfr. Retorica, B 23-26. Sul tema cfr. A. Russo, La filosofia della retorica in Aristotele, Napoli 1962, pp. 111 sgg. 25
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Vogliamo invece dare un breve giudizio valutativo sulla retorica. Dopo la grande fortuna che la retorica conobbe nell'antichità, a poco a poco essa fu condannata al declino nei tempi moderni. Quali sono le ragioni di questo declino? Ecco i giudizi di due noti aristotelisti inglesi. Scrive il Ross: « Se la Retorica ha Ol1a meno vita della maggior parte delle altre opere aristoteliche, il motivo è probabilmente che al giorno d'oggi gli oratori sono, giustamente, propensi a fidarsi del talento naturale e dell'esperienza, anziché dell'istruzione, e gli ascoltatori, quantunque siano, come sempre, facilmente trascinati dalla retorica, sono piuttosto vergognosi del fatto, e non sono molto interessati a conoscerne il trucco »v. Scrive invece D. J. Allan: «La retorica, per tanto tempo elemento importante nell'educazione del gentiluomo, è quasi scomparsa oggi dai nostri programmi scolastici. È difficile dire s'essa è scomparsa anche dalla vita moderna o se si è trasformata soltanto in una disciplina molto più specialistica. Penseremo sia èompito del critico letterario più concreto codificare le regole dello scrivere bene su qualsiasi soggetto (ciò che corrisponde al libro III della Retorica di Aristotele). Non v'è invece tecnica generale che accomuni l'avvocato al docente universitario, il commerciante al predicatore; e parte dell'impegno degli antichi retori si direbbe essere proprio della pubblicità e della propaganda, arti che, temiamo, non rifuggono da quell'appello diretto e cinico alle emozioni che Aristotele rifiutò di introdurre nella sua Retorica » 28 • I due giudizi hanno molto di vero e specialmente quello di Allan individua correttamente quali siano i veri succedanei moderni della retorica, ossia la pubblicità e la propaganda.
71 Ross, Aristotele, p. 412. "' D. J. Allan, The Philosophy of Aristotle, Oxford 1970 (trad. italiana a cura di F. Decleva Caizzi, Lampugnani Nigri Editore, Milano 1973, pp. 173 sg.).
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LA RETORICA
Tuttavia a noi sembra che se si prescinde dai quadri socioculturali ed etico-politici, i quali hanno poco in comune con quelli moderni, e cioè dall'elemento che abbiamo chiamato contenutistico e se si considera l'aspetto che ·abbiamo chiamato formale, un elemento di validità la retorica aristotelica lo conservi tuttora. Infatti il problema di fondo della retorica aristotelica è questo: quali sono i meccanismi, ossia le strutture logiche che sorreggono le forme dei discorsi (dei messaggi) che mirano a persuadere. E se è vero che oggi sono la pubblicità e la propaganda che mirano a persuadere, non è men vero che la domanda aristotelica mantiene immutato il suo senso, se viene applicata a queste. Anzi diremo di più. Non solo ha senso la domanda aristotelica se applicata a queste nuove forme di persuasione, ma, a ben riflettere, la risposta ad essa porta a conclusioni analoghe a quelle cui è giunto Aristotele. Chi vuoi convincere facendo uso dei moderni mezzi di persuasione cerca pur sempre di crearsi in primo luogo una credibilità (che è il corrispondente analogico della credibilità dell'antico oratore, di cui parlava lo Stagirita). Inoltre sia la propaganda sia la pubblicità cercano di far leva sul pubblico in modo da disporlo in una certa maniera; e l'ingente apparato dei mezzi audio-visivi di cui si avvalgono non è che un massiccio strumento di pressione inteso a produrre nel pubblico le disposizioni desiderate. Infine il veicolo logico più tipico di cui propaganda e pubblicità si avvalgono, ossia lo slogan, a ben vedere, corrisponde all'antica massima ed è o premessa o conclusione di un entimema, o senz'altro un entimema. Il fatto, poi, che oggi si faccia leva proprio sull'emotività e sulla passionalità umane e su una serie di mezzi legati all'irrazionalità umana che Aristotele aborriva, ma che sapeva benissimo essere assai utili per convincere, significa solo che le tecniche del persuadere sono oggi diventate spesso amorali, mentre Aristotele intendeva agganciarle fermamente ai valori morali.
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III. LA POETICA
l.
Il concetto di scienze produttive
Abbiamo visto sopra che il terzo genere di scienze è dato dalle « scienze poietiche » o « scienze produttive ». Queste scienze, come fndica il loro nome, insegnano a fare e a produrre cose, oggetti, strumenti, secondo regole e conoscenze precise. Come è ovvio, si tratta delle varie arti o, come noi ancora diciamo con termine greco, delle tecniche. Il Greco, tuttavia, nel formulare il concetto di arte, puntava più di quanto noi facciamo sul momento conoscitivo che essa implica, sottolineando in maniera speciale la contrapposizione fra arte ed esperienza: questa implica, infatti, un ripetersi prevalentemente meccanico e non va oltre la conoscenza del che, cioè del dato di fatto, laddove l'arte va oltre il puro dato e tocca la conoscenza del perché o si avvicina ad essa, e come tale essa costituisce una forma di conoscenza. È pertanto chiara la ragione della inclusione delle arti nel quadro generale del sapere, ed è anche chiara la ragione della collocazione gerarchica di esse al terzo ed ultimo grado, in quanto esse sono sl un sapere, ma un sapere che non è né fine a se stesso e nemmeno un sapere volto a beneficio di chi agisce (come il sapere pratico), bensl volto a beneficio dell'oggetto prodotto. Le scienze poietiche, nel loro complesso, non interessano, se non indirettamente, la ricerca filosofica. Fanno eccezione le « arti belle », che si distinguono dal complesso delle altre sia nella loro struttura, sia nella loro finalità. Dice Aristotele:
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LA POETICA
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Alcune cose che la natura non sa fare l'arte le fa; altre invece le imita 1• Vi sono, pertanto, arti che completano e integrano in qualche modo la natura, e hanno dunque come fine la mera utilità pragmatica, e arti, invece, che imitano la natura medesima, riproducendone o ricreandone alcuni aspetti, con materiale plasmabile, con colori, suoni o parole, e i cui fini non coincidono con i fini della mera utilità pragmatica. Sono, queste, le cosiddette « arti belle », che Aristotele prende in esame nella Poetica. Per la verità, lo Stagirita si limita alla trattazione della sola poesia, e, anzi, della sola poesia tragica e subordinatamente della poesia epica (in una parte dell'opera, andata perduta, egli doveva trattare anche della commedia; tuttavia alcune cose che egli dice valgono per tutte le arti belle in generale, o quanto meno possono essere estese . anche alle altre arti be1le). La trattazione dell'arte poetica, se si sta allo schema delle scienze di cui abbiamo detto all'inizio, dovrebbe seguire alla trattazione delle scienze pratiche; ma poiché, come abbiamo notato, la poesia ha caratteristiche speciali e nella Poetica Aristotele imposta un tipo di discorso analogo a quello impostato nella Retorica, è più logico parlare di essa in questa sezione. La domanda che si pone lo Stagirita è questa: qual è la natura del fatto e del discorso poetico, e a che cosa esso mira? Due sono i concetti su cui va concentrata l'attenzione per poter comprendere la risposta data dal nostro filosofo al problema: a) il concetto di mimési e b) quello di catarsi.
' Fisica, B 8, 199 a 15-17.
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2.
ARISTOTELE E LA SISTEMAZIONE DEL SAPERE FILOSOFICO
La mimesi poetica
Incominciamo dall'illustrazione del concetto di mimesi. Platone aveva fortemente biasimato l'arte, appunto perché è mimesi, cioè imitazione di cose fenomeniche, le quali (come sappiamo) sono a loro volta imitazione degli eterni paradigmi delle Idee, si che l'arte diventa copia di copia, parvenza di una parvenza, che estenua il vero fino a farlo scomparire. Aristotele si oppone nettamente a questo modo di concepire l'arte, e interpreta la mimesi artistica secondo opposta prospettiva, si da fare di essa una attività che, lungi dal riprodurre passivamente la parvenza delle cose, quasi ricrea le cose secondo una nuova dimensione. Leggiamo il testo basilare al riguardo: Risulta chiaro [ ... ] che ufficio del poeta non è il descriver cose realmente accadute, bensì quali possono in date condizioni accadere: cioè cose le quali siano possibili secondo le leggi della verisimiglianza o della necessità. Infatti lo storico ed il poeta non differiscono perché l'uno scrive in versi e l'altro in prosa; la storia di Erodoto, per esempio, potrebbe benissimo esser messa in versi, e anche in versi non sarebbe meno storia di quel che sia senza versi: la vera differenza è questa, che lo storico descrive fatti realmente accaduti, il poeta fatti che possono accadere. Perciò la poesia è qualche cosa di più filosofico e di più elevato della storia; la poesia tende piuttosto a rappresentare l'universale, la . storia il particolare. Dell'universale possiamo dare un'idea in que-
sto modo: a un individuo di tale o tale natura accade di dire o fare cose di tale o tale natura in corrispondenza alle leggi della verisimiglianza o della necessità; e a ciò appunto mira la poesia, sebbene ai suoi personaggi dia nomi propri. Il particolare si ha quando si dice, per esempio, che cosa fece Alcibiade o che cosa gli capitò 2 • I] passo è per molti aspetti illuminante. 2 Poetica, 9, 1451 a 36 - b 11. Tutti i passi che riportiamo sono tratti dalla traduzione di M. Valgimigli, cfr. sotto nota 9.
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LA POETICA
a) In primo luogo, Aristotele capisce benissimo che la poesia non è poesia perché usa versi; potrebbe non .usare versi ed essere ugualmente poesia. Il poeta ha da esser poeta di favole anzi che di versi, in quanto egli è poeta solo in virtù della sua capacità mimetica o creatrice, e sono azioni che egli imita o crea, non versi 3 • E, in genel'ale, si può ben dire che non sono i mezzi usati dall'arte, i quali fanno sì che l'arte sia arte. b) In secondo luogo, Aristotele individua altrettanto bene che la poesia (e l'arte in genere) non dipende nemmeno dal suo oggetto, o meglio dal contenuto di verità del suo oggetto. Non è la verità storica delle persone, dei fatti e delle circostanze che essa rappresenta che le danno valore di ·arte. L'arte può bensì narrare anche cose effettivamente accadute, ma diviene arte solo se a queste cose essa aggiunge un certo quid che manca alla narrazione p~ramente storica (si ricordi che lo Stagirita intende la narrazione storica prevalentemente come cronaca, come descrizione di persone e di fatti solo cronologicamente legati). Se le Storie di Erodoto fossero messe in versi, con questo non si genererebbe poesia: tuttavia, cose effettivamente accadute e narrate da Erodoto potrebbero diventar poesia. Come? Ci risponde Aristotele: Se poi capiti a un poeta di poetare su fatti tealmente accaduti, costui non sarà meno poeta per questo: perocché anche tra i fatti realmente accaduti niente impedisce ve ne siano alcuni di tale natura da poter essere concepiti, non come accaduti realmente, ma quali sarebbe stato possibile e verisimile che accadessero; ed è appunto sotto questo aspetto della loro possibilità e verisimiglianza che colui che li prende a trattare non è il loro storico ma il loro poeta 4 . c) Risulta chiaro, in terzo luogo, che la poesia ha una superiorità sulla storia, per il diverso modo con cui essa 3 Cfr. Poetica, 9, 1451 h 27 sgg. • Poetica, 9, 1451 h 29-33.
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tratta i fatti. In effetti, mentre la storia resta agganciata interamente al particolare, e lo considera proprio in quanto particolare, la poesia, quando anche tocca gli stessi fatti che tocca la storia, li trasfigura, per così dire, in virtù del suo modo di trattarli e di vederli « sotto l'aspetto della possibilità e della verosimiglianza », e cosi li fa assurgere ad un più ampio significato, e in certo senso universalizza questo oggetto. Aristotele usa proprio il termine tecnico « universali » (-tà. xai>O).ou) 5 • Ma che tipi di « universali » possono mai essere questi della poesia, questi tipi di universali che (come abbiamo letto nel passo da cui siamo partiti) non disdegnano nomi propri? d) Evidentemente, non abbiamo qui a che fare con degli universali logici, del tipo di quelli di cui tratta la filosofia teoretica, e in particolare la logica. Infatti, se la poesia non deve riprodurre verità empiriche, non deve riprodurre neppure verità ideali di tipo astratto, verità logiche, appunto. La poesia non solo può e deve sganciarsi dalla realtà e presentare fatti e personaggi non come sono, ma come potrebbero o dovrebbero essere, ma, dice espressameqte Aristotele, può anche introdurre l'irrazionale e l'impossibile, e può perfino dire menzogne e far conveniente uso di paralogismi (cioè di ragionamenti fallaci); e può far questo a patto che renda l'impossibile e l'irrazionale verosimili 6 • Lo Stagirita arriva perfino a dire questo: L'impossibile verisimile è da preferire al possibile non credibile 7 • Riguardo alle esigenze della poesia, bisogna tener presente che una cosa impossibile ma credibile è sempre da preferire a una cosa incredibile anche se possibile 8 •
Naturalmente, così stando le cose, la poesia potrà benis• Poetica, 9, 1451 b 7. • Cfr. Poetica, 24, 1460 a 13 sgg. 7 Poetica, 24, 1460 a 26 sgg. • Poetica, 25, 1461 b 11 sgg.
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simo rappresentare gli Dei in modo fallace, perché cosl se li figura il volgo, e come. credenza del volgo fanno parte della vita. e) L'universalità della rappresentazione della poesia nasce dalla sua capacità di riprodurre gli eventi « secondo la legge della verosimiglianza e della necessità », cioè da quella sua capacità di ridare gli eventi in maniera tale che essi risultino legati in connessione perfettamente unitaria, quasi come in un organismo in cui ogni parte ha un suo senso in funzione del tutto di cui è parte. Il Valgimigli ha colto meglio di tutti questi punti in una pagina che vogliamo riportare testualmente, perché assai illuminante: «La storia ha una coesione estrinseca e cronologica, la poesia intrinseca e spirituale. Ciò che la storia narra è il nudo fatto inquadrato a suo luogo nella serie cronologica; ma serie o disposizione cronologica può essere semplicemente giustapposizione, non è necessario sia coordinazione e dipendenza. Ciò che la poesia rappresenta è tutto cosi serrato e stretto in una sua consequenzialità e coesione e concentrazione di parti che nulla puoi muovere o togliere senza aprire un vuoto onde si disgreghi e rovini l'insieme. Perché altro è che una cosa accada in conseguenza di un'altra, - poesia; altro che accada dopo un'altra, - storìa. Dunque non possiamo più dire che oggetto della mimesi è un dato della realtà. Se anche_è, non vale in quanto è, ma in quanto è concepito nel suo essere e nel suo divenire, secondo la legge del verisimile e del necessario. Legge di unità, di coerenza, di coesione, di concentrazione, onde tutti .gli elementi che compongono il mito, cioè la mimesi dell'azione, aderiscono l'uno all'altro, sono l'uno all'altro necessari, si compenetrano l'un l'altro per interna e fluida reciprocità, e intendono concordemente verso un unico fine che si concreta in un atteggiamento di vita, in una forza attiva e presente, come un vivo e perfetto organismo. E questa è la legge fondamentale che sostiene saldamente tutta la Poetica aristotelica, che ne interpreta a parte a parte ogni proposizione, che ne illumina ogni oscurità,
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che ne abolisce le contraddizioni, che s'insinua perfino nei più sottili particolari della tecnica poetica, e che ancor oggi, oso dire, è ben sicura scorta a chi tenti il mistero della poesia e dell'arte » 9 • Allora, dice il Valgimigli con terminologia crociana, l'universale dell'arte è « l'universale concreto, anzi nel massimo della sua concretezza» 10 • Si potrebbe anche dire l'« universale fantastico», usando moduli più vichiani. Ma è ovvio che questa terminologia porta decisamente oltre Aristotele. Ciononostante è chiaro, dalle considerazioni sopra svolte, che nel celebre passo da cui siamo partiti, lo Stagirita ha, sia pure vagamente e confusamente, intuito questo: la poesia è più filosofica della storia, ma non è filosofia; l'universale della poesia non è l'universale logico e, dunque, è qualcosa a sé stante, avente un suo valore, pur non essendo questo né il valore del vero storico né il valore del vero logico. La posizione platonica è pertanto nettamente superata.
3. Il bello L'estetica moderna ci ha abituati a considerare i problemi dell'arte in una maniera tale che ci riesce difficile pensare che sia possibile una ·definizione di essa prescindendo da una adeguata definizione del bello. In realtà, già vedemmo come questo concetto non fosse altrettanto chiaro agli antichi. Platone, come sappiamo, collegò il bello con l'erotica più che non con l'arte; e Aristotele, che pure lo collegò con l'arte, non lo definì se non incidentalmente nella Poetica. Ed ecco la definizione che ne diede: • M. Valgimigli, Aristotele, Poetica, Bari 1968' pp. 13 sg. La traduzione della Poetica del Valgimigli è stata pubblicata sia nella collana «Filosofi antichi e medievali » sia nella « Piccola biblioteca filosofica Laterza », in edizione ridotta (ora è inclusa anche in Aristotele, Opere, Bari 1973). IO lvi, p. 28.
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Il belle, sia esso un essere animato o sia un qualunque altro oggetto purché egualmente costituito di parti, non solo deve presentare in codeste parti un certo suo ordùte, ma anche deve avere, e dentro determinati limiti, una sua propria grandezza; difatti il bello consta di grandezza e di ordine; né quindi potrebbe esser bello un organismo eccessivamente piccolo, perché in tal caso la vista si confonde attuandosi in un momento di tempo quasi impercettibile; e nemmeno un organismo eccessivamente grande, come se si trattasse, per esempio, di un essere di diecimila stadi, perché allora l'occhio non può abbracciare tutto l'oggetto nel suo insieme e sfuggono a chi guarda l'unità e la sua organica totalità [ ... ] 11 •
Lo stesso concetto egli espresse nella Metafisica, dove il bello è collegato con le matematiche: Poiché il bene ed il bello sono diversi (il primo infatti si trova sempre nelle azioni, mentre il secondo si trova anche negli enti immobili), errano coloro i quali affermano che le scienze matematiche non dicono nulla intorno al bello e intorno al bene. In effetti le matematiche parlano del bene e del bello e li fanno conoscere in sommo grado: infatti, se è vero che non li nominano mai esplicitamente, ne fanno tuttavia conoscere gli effetti e le ragioni, e quindi non si può dire che non ne parlino. Le supreme forme del bello sono: l'ordine, la simmetria e il definito, e le matematiche le fanno conoscere più di tutte le altre scienze 12 •
Il bello, allora, per Aristotele, implica ordine, simmetria di parti, determinazione quantitativa; in una parola potremmo dire: proporzione. E si capisce quindi come, applicando questi canoni alla tragedia, Aristotele la volesse né troppo lunga né troppo corta, ma capace di essere colta con la mente come in uno sguardo dal principio alla fine. E la stessa cosa certamente varrebbe, per lui, per ogni opera d'arte 13 • " Poetica, 7, 1450 h 34- 1451 a 4. " Metafisica, M 3, 1078 a 31 - h 2. " Cfr. Poetica, 7.
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È un modo di concepire il bello, questo di Aristotele, che reca la chiara impronta ellenica del « nulla di troppo » e della « misura » ed in particolare la chiara cifra del pensare pitagorico, che nel « limite » poneva la perfezione.
4.
L a c a tar si
Abbiamo detto che Aristotele tratta fondamentalmente della tragedia e che in relazione alla tragedia svolge la sua teorica dell'arte. Qui non possiamo addentrarci nei dettagli dell'argomento; ma un punto resta da rilevare che, pur presentato in stretta connessione con la definizione della tragedia, vale per l'arte in generale. Scrive lo Stagirita: [ ... ] Tragedia dunque è mimesi di un'azione seria e compiuta in se stessa, con una certa estensione; in un linguaggio abbellito di varie specie di abbellimenti, ma ciascuno a suo luogo nelle parti diverse; in forma drammatica e non narrativa; la quale, mediante una serie di casi che suscitano pietà e terrore, ha per effetto di sollevare e purificare l'animo da siffatte passioni 14 • Il testo originale usa l'espressione catarsi delle passioni -twv 'ltCI~T)IJ.ti-twv), la quale risulta alquanto ambigua, ed è stata, per conseguenza, oggetto di differenti esegesi. Alcuni ritennero che Aristotele parlasse di purificazione delle passioni in senso morale, quasi di una loro sublimazione ottenuta mediante l'eliminazione di ciò che esse hanno di deteriore. Altri, invece, intesero la « catarsi delle passioni » nel senso di rimozione o eliminazione temporanea delle passioni, in senso quasi fisiologico, e quindi nel senso di liberazione dalle passioni 15 • (xti~apO'Lc;
" Poetica, 6, 1449 b 24-28. " Fra i molti scritti sull'argomento indichiamo l'articolo di W. J. Verdenius, Kai)apcnc; 'tWV 'ltai)l]J.la'twv (in Autour d'Aristate, Louvain 1955, pp. 367-373), che discute in modo succinto e chiaro tutti gli element occorrenti alla comprensione della questione.
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Aristotele doveva spiegare più a fondo il senso della catarsi, nel secondo libro della Poetica, il quale, purtroppo, è .andato perduto. Tuttavia ci sono due passi nella Politica che ne fanno cenno e che vogliamo riportare, data l'importanza dell'argomento. Nel primo passo si legge: Inoltre il flauto non è strumento che favorisca le qualità morali, ma suscita piuttosto emozioni sfrenate, tanto che lo si deve .usare soltanto in quelle occasioni in cui l'ascolto di esso produce catarsi più che accrescimento di sapere 16 •
Nel secondo passo, più ampio e più circostanziato, si precisa ulteriormente: Noi accettiamo la distinzione, fatta da alcuni filosofi, tra melodie aventi un contenuto morale, quelle stimolanti all'azione e quelle suscitatrici di entusiasmo; in esatta corrispondenza vengono classificate le armonie. A ciò si aggiunga che secondo noi la musica non va praticata per un unico tipo di beneficio che da essa può derivare, ma per usi molteplici, poiché può servire per l'educazione, per procurare la catarsi [ ... ] e in terzo luogo per il riposo, il sollevamento dell'animo e la sospensione dalle fatiche. D~ tutte queste considerazioni evidentemente risulta che bisogna far uso di tutte le armonie, ma non di tutte allo stesso modo, impiegando per l'educazione quelle che hanno un maggiore contenuto morale, per l'ascolto di musiche eseguite da altri quelle che incitano all'azione o ispirano la commozione. E queste emozioni come pietà, paura ed entusiasmo, che in alcuni hanno una forte risonanza, si manifestano però in tutti, sebbene in alcuni di più ed in altri di meno. E tuttavia vediamo che quando alcuni, che sono fortemente scossi da esse, odono canti sacri che impressionano l'anima, allora si trovano nelle condizioni di chi è stato risanato o purificato. La stessa cosa vale necessariamente anche per i sentimenti di pietà, di paura ed in genere per tutti i sentimenti e gli affetti di cui abbiamo parlato, che possono prodursi in chiunque per quel tanto per cui ciascuno ne ha bisogno: perché tutti possono provare una purificazione ed un piacevole alleggerimento. Analogamente, le musiche particolarmente adatte a produrre purificazione danno agli uomini una innocente gioia 17 • 16
17
Politica, 0 6, 1341 a 21-24 (traduzione di A. Viano). Politica, 0 7, 1341 b 32- 1342 a 16.
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Da questi passi risulta chiaramente che la catarsi poetica non è certamente una purificazione di carattere morale (giacché viene da essa espressamente distinta), ma risulta altrettanto bene che essa non può ridursi a un fatto puramente fisiologico. È probabile o in ogni caso possibile che, pur con oscillazioni e incertezze, Aristotele intravvedesse in quella piacevole liberazione operata dall'arte qualcosa di analogo a quello che noi oggi chiamiamo « piacere estetico ». Platone aveva condannato l'arte - tra l'altro - anche per il motivo che essa scatena. sentimenti ed emozioni, allentando l'elemento razionale che le domina. Aristotele capovolge esattamente l'interpretazione platonica: l'arte non ci carica, ma ci scarica dell'emotività, e quel tipo di emozione che essa ci procura, non solo non ci nuoce, ma ci risana.
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SEZIONE QUINTA
CONCLUSIONI SULLA FILOSOFIA ARISTOTELICA
« d J.J.ÈV q>~Àoa'oq>TJ-rÉov q>~Àocroq>TJ'tÉov q>~ÀOO'O(j)T]'tÉOV q>~ÀOO"O(j)TJ'tÉOV o "ltaV'tWç O"Oq>Tj'tÉOVo EL J.l.ÈV yàp EO"'t~, "ltav-rwc; cp~Àocroq>E~v ova'TJ<; o:u-riic; o EL BÈ J.l.TJ ov-rwc; Oq>ELÀOJ.J.EV ~TJ'tEiv ovx ~O''t~ ~TJ-rovv-rEc; Bè cp~Àoa'ocpovJ.J.Ev, É"ltE~BiJ at-rLa -rijc; cp~Àoa'ocpLac; ÉO'-rLv >>o
xat EL J.l.TJ if.pa q>~ÀO· oq>ELÀOJ.l.EV l11-r~. xat cp~Àotrocp{a, -rò ~TJ'tE~v
« [ 000] se si deve filosofare, si deve filosofare, e se
non si deve filosofare, si deve ugualmente filosofare; in ogni caso dunque si deve filosofare; se infatti la filosofia esiste, siamo tenuti in tutti i modi a filosofare, dato appunto che essa esiste; se invece non esiste, anche in questo caso siamo tenuti a cercare come la filosofia non esiste; ma, cercando, filosofiamo, perché il cercare è la causa della losofia ~o Aristotele, Protrettico, fro 2
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I. LA FORTUNA DELLA FILOSOFIA ARISTOTELICA
La speculazione aristotelica ha avuto un influsso di portata storica e anche sovrastorica che :non ha forse paragoni nell'ambito di tutto l'arco dell'intera esperienza culturale occidentale. Se immediatamente dopo la sua morte Aristotele tacque e non fu più inteso nell'ambito dello stesso Peripato (come, del resto, Platone stesso finl assai presto per non essere più inteso nella sua stessa Accademia), rinacque, già alla fine dell'età antica, nell'ambito dello stesso pensiero greco, con la stagione dei grandi commentatori greci che in lui cercarono un sicuro punto d'appoggio: da Alessandro di Afrodisia (200 d. C.) alla schiera dei vari commentatori neoplatonici. Già nel secolo VI d. C. Boezio faceva conoscere all'Occidente la logica, traducendo l'Organon (di cui, però, la cultura assorbi, in un primo momento, soprattutto le Categorie e il De Interpretatione) e fino al secolo xn sulla logica aristotelica si imperniò fondamentalmente tutto l'interesse degli Occidentali. Ma già all'inizio del secolo IX gli Arabi (dal Medio Oriente alla Spagna) riportarono in primo piano tutto quanto il pensiero aristotelico, commentandolo e ripensandolo a fondo. E in gran parte per influsso degli Arabi l'interesse per il pensiero dello Stagirita riflul in Occidente, e nei secoli XIII e XIV assistiamo, con la Scolastica, al più grandioso fenomeno di rifioritura che l'aristotelismo abbia conosciuto: in questo periodo Aristotele perse, però, quasi tutti i suoi contorni storici di uomo di una data epoca, e divenne sim-
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bolo del « philosophus » per eccellenza, divenne « il maestro di color che sanno», divenne quasi emblema di tutto quanto la ragione può dire con le sue pure forze, al di qua della fede. E dopo la fioritura scolastica venne il ripensamento rinascimentale, che dal secolo xv si protrasse fino alla fine del secolo XVII (soprattutto nell'Università di Padova), e che nel tentativo di ritornare all'Aristotele genuino, cioè all'Aristotele spogliato dai panni di cui l'aveva rivestito la Scolastica, in realtà, finì per identificare Aristotele con il naturalista antiplatonico, come già sappiamo. Nel secolo XIX, in seguito alla fioritura di studi filologici e alla grande edizione di tutte le opere del nostro filosofo curate dal Bekker, Aristotele si inserisce ancora, anche se parzialmente, nel vivo della cultura filosofica: da Brentano, uno dei più profondi conoscitori dello Stagirita, attinge sia la fenomenologia sia Heidegger, il cui capolavoro Essere e tempo muove esattamente dal libro del Brentano: I molteplici significati dell'essere secondo Aristotele. E un punto di riferimento Aristotele è considerato, poi, dalle correnti della Neoscolastica. Della rinascita di studi di carattere storico-filologico promossa dal nuovo metodo jaegeriano avutasi nel corso del Novecento, abbiamo già detto quanto occorre nella sezione introduttiva. Ebbene, è proprio a causa di questa signoria spirituale troppo spesso esercitata dal pensiero aristotelico e dalla figura di Aristotele che si scatenarono, oltre che indiscriminati amori che raggiunsero veri e propri parossistici atti di latrfa (uno degli ultimi aristotelici all'inizio dell'età moderna giunse a rifiutare di guardare nel cannocchiale, pur di non dover dar torto ad Aristotele), altresì avversione e disprezzo altrettanto indiscriminati ed ostilità irrazionali e viscerali veramente assurde, e non solo nell'ambito dei teoreti, ma addirittura in quello degli storici. Per conseguenza non accade di frequente di leggere una corretta e misurata valutazione complessiva del pensiero dello Stagirita. Vogliamo riportare, a ragion d'esempio, uno dei più cap-
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ziosi e partigiani giudizi dato proprio dal maggior storico francese della filosofia antica degli ultimi tempi, in modo che il lettore possa farsi un'idea adeguata di quanto stiamo dicendo: « Forse si potrebbe definire senza ingiustizia Aristotele - scrive Léon Robin - dicendo che fu troppo e troppo poco filosofo: dialettico sapiente e abile, non fu né profondo né originale. La parte più importante delle sue invenzioni consiste in formule ben tornite, in distinzioni verbali facili da maneggiare; egli costrul una macchina i cui ingranaggi, una volta messi in moto, dànno l'illusione di una riflessione penetrante e di un sapere reale. Malauguratamente, di tale macchina egli si servi per combattere tanto Democrito che Platone. Cosl egli stornò per lungo tempo la scienza dalle vie in cui essa avrebbe potuto compiere abbastanza rapidamente decisivi progressi. Invece [ ... ] egli fu un poderoso enciclopedista e un gran professore: padroneggiò l'universalità delle cognizioni del suo tempo e seppe esporle sistematicamente con grande abilità in lezioni e trattati. La vastità e la varietà della sua opera, alcune innegabili qualità di elaborazione e presentazione (che sono però cosa ben diversa dallo spirito di ricerca in materia di scienza come di filosofia): ecco, prescindendo dalle speciali circostanze storiche, ciò che procurò un'incomparabile fortuna alla sua filosofia e al suo nome » 1• Naturalmente, il Robin stesso finisce di fatto per smentire se medesimo, tant'è che, nell'economia del suo lavoro, deve dedicare ad Aristotele più spazio che agli altri pensatori, e in particolare più spazio che allo stesso Platone, e quanto egli dice esponendo Aristotele puntualmente capovolge il suo giudizio finale. Ma noi abbiamo voluto leggere questo giudizio a mo' di paradigma, ossia per mostrare quanta acredine e inimicizia, cioè quanto di irrazionale condizbni perfino il giudizio degli storici, che dovrebbero essere sempre « oltre la mischia ». ' Robin, Storia del pensiero greco, pp. 374 sg.
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II. VERTICI E APORIE DELLA FILOSOFIA ARISTOTELICA
. Chi ci ha fin qtii seguito, si sarà reso pienamente conto che la fortuna dell'aristotelismo ha ben altri motivi che non siano le semplici «circostanze storiche», o, peggio, l'« enciclopedismo », o, peggio ancora, le « ben tornite formule ». In primo luogo, ricorderemo i vertici della metafisica. La riforma della platonica concezione delle Idee e insieme l'approfondimento dell'esito fondamentale della« seconda navigazione » portarono Aristotele alla grande scoperta del Motore Immobile, vale a dire alla scoperta dell'Assoluto concepito non come suprema realtà intelligibile, bensl come suprema Intelligenza (autointelligenza, autopensiero ). E a questa scoperta ha attinto tutto l'Occidente, in diversa maniera: dai teologi medievali, che_ la poser0 alla base del ripensamento filosofico dell'idea di Dio di cui parlano le Scritture, allo Hegel, che non esitò a considerare quest'idea speculativa quanto « v'ha di migliore e più libero », e a vedere in essa la prima intuizione storica dell'Assoluto come autopensiero. Le aporie cui diede luogo questa scoperta sono altrettanto notevoli: la sua assoluta trascendenza, sdegnosa di qualsiasi fattivo legame con il mondo e con gli uomini, doveva rendere assai difficilmente comprensibili i legami del mondo (e lo stesso strutturarsi del mondo) e degli uomini con essa. Il mondo esiste da sempre e per sempre, e da sempre e per sempre tende al Principio Primo, ma non perché Egli voglia o progetti questo, ma so-
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lo perché, essendo il Bene supremo, come tale non può non attrarre; ma se è così, Egli attrae in modo fatale e quasi meccanico (quasi come attrae il magnete). Senza contare, poi, le aporie teologiche che nascono dall'aver Aristotele ammesso altre Intelligenze (sia pure inferiori) accanto e al di sotto della Prima. Da tutte queste difficoltà solo il teorema della creazione avrebbe potuto offrire una via d'uscita: ma si tratta di un teorema rimasto sconosciuto a tutta la grecità. In ogni caso, l'aver colto l'Assoluto come spirito e come pensiero, come sostanza immateriale e intelligenza, resta la più alta conquista della metafisica antica. E accanto alla scoperta principale dobbiamo sottolineare, sia pure solo di passaggio, l'importanza delle figure speculative particolari della metafisica, quali: essere, categoria, sostanza, accidente, materia, atto, forma, potenza e tutte le altre a queste legate, intorno alle quali si polarizzerà la discussione per secoli interi (anche quando, come nell'età del razionalismo e dell'empirismo, si tenterà di dare ad esse significati completamente nuovi). E per quanto concerne la fisica aristotelica (compresa la cosmologia), il discorso non muta: sappiamo che la fisica dello Stagirita è, in realtà, una metafisica del sensibile e che, come tale, essa va valutata: essa svolge un discorso diverso rispetto a quello con cui Galileo aprirà la grande stagione della scienza moderna: e quando gli storici rimprovereranno alla fisica aristotelica di aver appunto inceppato la scienza fino a Galileo, dimenticheranno esattamente questo essenziale rilievo di struttura, e dimenticheranno, anche, quanto abbia contribuito questa metafisica della natura ad affinare quel logos che creerà la vera scienza della natura. Anche nella psicologia i guadagni aristotelici sono stati essenziali. Ancora una volta tali guadagni hanno poco a che fare con la moderna scienza empirica che porta lo
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stesso nome, dato che la psicologia dello Stagirita ha una base fortemente metafisica e non è stata affatto sostituita da quella, che procede su altri binari. La spiegazione della conoscenza come progressiva smaterializzazione della forma, che comincia dai sensi e termina con l'intelletto, resta probabilmente il contributo maggiore dato dallo Stagirita in questo ambito. Le aporie implicate nella platonica dottrina della anamnesi vengono superate con un sapiente uso dei concetti di potenza e atto, come s'è visto. Ma rispunta una ulteriore aporia a più alto livello: in noi c'è un Nous, uno Spirito, un Pensiero che agisce mettendo in atto la più alta conoscenza (che è poi la più alta forma di smaterializzazione). Esso viene « dal di fuori » ed è immortale, anzi è il « divino in noi »: ma come esso venga dal di fuori di noi, quale ne sia l'origine e quale il destino, Aristotele non dice. E tutte le successive interpretazioni tentate sono fuori strada, perché Aristotele non lo poteva strutturalmente dire: o avrebbe dovuto riprendere i miti escatologici di Platone, da lui accolti nei giovanili scritti essoterici, ma poi lasciati completamente cadere, oppure, daccapo, avrebbe dovuto far appello a un principio creazionistico. Essenziali furono le acquisizioni delle Etiche e grandissimi i loro influssi, in tutti i tempi. Nel pensiero morale Aristotele, per la verità, è assai più platonico di quanto non si riconosca comunemente. L'idea base dell'etica aristotelica è fondamentalmente quella socratico-platonica secondo cui la essenza dell'uomo è data dalla sua anima e quindi i veri valori sono i valori dell'anima, rispetto ai quali gli altri beni assumono solo un significato strumentale. Manca, invece, all'etica aristotelica la dimensione religiosa ed escatologica che è propria di Platone ed è questa mancanza (insieme all'attenta fenomenologia di carattere realistico che Aristotele profonde a piene mani) che la fa apparire più diversa da quella platonica di quanto non lo sia in realtà. La socratico-platonica «cura dell'anima » resta l'idea di fondo: la virtù è solo la
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virtù dell'anima, così come la felicità è solo la felicità dell'anima. Dalla distinzione delle parti dell'anima è dedotta la principale distinzione delle virtù e nella parte più alta dell'anima è posta la più alta virtù. Resta in ogni caso fondamentale che Aristotele dimostri come, anche a prescindere dai motivi religiosi platonici, quel tipo di etica regga, altresì su basi puramente filosofiche. Aristotele tenta, inoltre, spingendosi oltre Socrate e Platone, di spiegare la psicologia dell'atto morale, rivalutando quegli elementi volitivi che Platone introdusse nell'anima a partire dalla Repubblica, ma che poi non seppe sfruttare a fondo. Ma, questa volta, il successo è relativo; Aristotele capisce che nel nostro agire morale è determinante la libertà: ma, poi, che cosa siano la volontà ed il libero arbitrio non riesce a determinarlo e ripetutamente il libero arbitrio gli sfugge fra le mani nell'istante stesso in cui tenta di afferrarlo. Anch'egli, come Platone, pone nella conoscenza (o, per dirla con il suo stesso linguaggio, nelle virtù intellettive) la più alta areté dell'uomo, e nella contemplazione del vero pone ciò che fa essere !'uomo pienamente e perfettamente se medesimo. Aporetica resta, nell'etica aristotelica, la determinazione del vero cespite dell'agire morale: le virtù· etiche, da un lato, suppongono, per realizzarsi, la virtù intellettuale della saggezza (phr6nesis), ma la saggezza può esserci solo se ci sono le virtù etiche (e viceversa). Inoltre, per diventare buoni occorre volere fini buoni; ma riconosce i veri fini buoni solamente chi è già buono; sicché, daccapo, si gira in circolo. E la scelta razionale in cui soprattutto gli studiosi hanno creduto di rinvenire la volontà e la libertà, in verità per Aristotele è solamente scelta di mezzi e non di fini (che sono voluti anteriormente alla scelta). Anche l'etica aristotelica è in larga misura intellettualistica: la cifra che caratterizza l'uomo perfetto (così come caratterizza Dio) è la ragione e la conoscenza, non la volontà. Ancor più accentuate sono le aporie della politica (che -
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si ricordi è parte integrante dell'etica). Accanto a splendide intuizioni (come la definizione dell'uomo come animale strutturalmente politico e una serie di proposizioni da questa scaturienti) noi ritroviamo la teorizzazione dello schiavismo e perfino del razzismo. Aristotele non sa vedere al di là della polis e continua acredere che la polis sia l'istituzione politicamente più perfetta. Il suo discepolo Alessandro andava ellenizzando i barbari e apriva nuove vie alla storia, ma lo Stagirita non poteva capire nulla di tutto questo: i barbari erano, per lui, per natura esseri inferiori e, quindi, non potevano né essere parificati all'uomo greco, né essere ellenizzati, né essere veri soggetti attivi di organismi politici differenti dalla polis. Vedemmo con ampiezza come, per la verità, queste aporie derivino più che dai principi del filosofo, dalle ipoteche storico-culturali da cui egli era condizionato. Ma, questo, è tanto più interessante, perché mostra come nella comprensione adeguata dell'uomo e dei suoi destini non siano solo le componenti speculative che entrano in gioco. Applicati all'uomo, i principi puramente filosofici si dimostrano suscettibili di un largo margine di manipolabilità e di plasticità. In particolare, Aristotele non ha potuto dare un vero significato all'uomo, perché non lo ha posto in connessione con Dio: poiché il suo Dio non è creatore, non si interessa degli uomini ed Egli resta estraneo sia al destino dei singoli sia al destino dei popoli. Gli uomini esistettero da sempre ed esisteranno per sempre (giacché né il mondo né le specie viventi hanno avuto una origine), ma varranno, più che come concreti individui, come portatori e trasmettitori del loro eidos, cioè della razionalità che incarnano e nella misura in cui la incarnano; ma il singolo uomo, sotto il profilo della individualità, finisce per risultare insignificante. Solo la rivoluzione del Cristianesimo saprà rivalutare l'uomo appunto come singolo e saprà spiegare qual è la vera radice del bene e del male, cioè della responsabilità morale: e solo il concetto di « figli di Dio » offrirà lo strumento per abbattere defi-
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VERTICI E APORIE DELLA FILOSOFIA ARISTOTELICA
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nitivamente le distinzioni uomo-donna, libero-schiavo, grecobarbaro e tutte le altre a queste connesse e saprà far capire in che cosa consista la vera uguaglianza di ciascuno e di tutti gli uomini. Del significato e della portata della logica aristotelica abbiamo già a lungo detto: difficilmente si potrebbe sostenere e dimostrare che le nuove logiche dell'età moderna, potrebbero sussistere se Aristotele non avesse scritto il suo Organon. Il che non significa affatto, com'è evidente, che dunque il sillogismo costituisca, come pretende Aristotele, la forma di ogni e qualsiasi corretto argomentare e anche la struttura propria di qualsivoglia mediazione e inferenza. Del resto, nelle varie branche del sapere filosofico, Aristotele stesso si avvale largamente di altri procedimenti, che non sono propriamente quelli deduttivi. E abbiamo anche visto come l'induzione e la stessa platonica intuizione ,indichino, in Aristotele, i dichiarati limiti della deduzione sillogistica. Ma la logica aristotelica rimane, in ogni caso, come il ceppo di cui le successive logiche sono le ramificazioni. Infine, circa i rapporti di Aristotele con Platone abbiamo detto tutto quanto occorre nel paragrafo iniziale. Qui, a conclusione, vogliamo solo aggiungere questo: l'immanentizzazione delle Idee e la loro trasformazione in essenze (ossia in strutture intelligibili del sensibile), che, come abbiamo visto, ha portato non già alla negazione dell'esistenza di sostanze soprasensibili, ma ad una più alta concezione delle sostanze soprasensibili come intelligenze (invece che come intelligibili), apriva una ulteriore aporia: quale rapporto esiste fra queste essenze intelligibili immanenti e l'Intelligenza (e le Intelligenze) trascendente? L'intelligibile immanente dipende o no dall'Intelligenza trascendente? E se dipende, in quale modo dipende? Bisognava fare delle essenze intelligibili i pensieri stessi dell'Intelligenza creatrice e considerarli cause esem-
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ARISTOTELE E LA SISTEMAZIONE DEL SAPERE FILOSOFICO
plari, sfruttando quell'intuizione solo vagamente balenata a Platone con la dottrina del Demiurgo, ma tosto compromessa nel contesto del pensiero platonico stesso, dato che il Demiurgo non è che un Dio inferiore, ben al di sotto del mondo delle Idee. Anche da queste aporie si sarebbe potuto uscire solamente con il teorema della creazione. E per terminare l'esposizione e l'interpretazione del pensiero di Aristotele, che è certamente la più compiuta espressione e quasi la sintesi della filosofia classica, la quale a sua volta è la forma di filosofia speculativamente e metafìsicamente più impegnata, vogliamo, chiudendo il discorso in cerchio rispetto a quanto abbiamo detto nella Introduzione, ribadire ancora un punto. Difendendo la filosofia contro i negatori di essa, Aristotele scriveva nel Protrettico: « Sia che si debba filosofare, sia che non si debba filosofare, bisogna filosofare; ma poiché fra il filosofarè e il non filosofare non si dà altra scelta, si deve in ogni caso filosofare » 1 • Il che vuoi dire: se si deve filosofare, si filosofa senz'altro; se non si deve filosofare, allora bisogna filosofare per dimostrare che non bisogna: ma questo è in ogni caso filosofare. Dal filosofare non è dunque strutturalmente possibile prescindere. Ebbene, quando Arsitotele esprimeva queste sacrosante· verità, era ben lungi dal sospettare che proprio la sua filosofia sarebbe stata in larga parte determinante nella storia dei contenuti dell'umano filosofare: sono stati proprio concetti, principi e categorie aristoteliche ad esser più volte invocati pro o contro il filosofare, ma con gli esiti che il dilemma sopra letto a-priori dimostra essere inevitabili. E non creda l'uomo di oggi, dopo Marx e dopo Freud, di aver lasciato definitivamente alle spalle la aimensione classica della filosofia, di cui la formulazione aristotelica è la più tipica:. se non si rifugerà rigorosamente negli stretti ambiti delle ' Traduzione di E. Berti.
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VERTICI E APORIE DELLA FILOSOFIA ARISTOTELICA
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scienze empiriche, se non si limiterà esclusivamente all'impegno politico o se non si consegnerà per intero all'ansia esistenziale, e tenterà qualsivoglia asserto di carattere meta-settoriale e meta-empirico, si ritroverà puntualmente in quell'inesorabile dile!Jlma sopra riferito, e per di più - lo sappia o no - si ri-_ troverà a muovere categorie, che, per diretta figliazione o per dialettica e mediata trasformazione e contrapposizione, derivano da Aristotele e da quella filosofia classica che in lui ha trovato la forma più compiuta. E allora, non solo è follia rinunciare a filosofare, ma è altresl follia, dovendo inesorabilmente filosofare, credere di potersi limitare all'oggi, giacché il presente non è intelligibile senza il passato da cui nasce ed inoltre non è mai veramente attuale o è solo illusoriamente attuale: perché attuale è non già il momento che fugge, ma ciò che resiste al di là del momento, e, al limite, attuale veramente è solo l'eterno.
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Stampato dalla Tipolitografia Queriniana - Brescia Settembre 1988
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ILLUSTRAZIONE DELLE FIGURE DI PLATONE E ARISTOTELE DELLA «SCUOLA DI ATENE» DI RAFFAELLO RIPRODOTTE IN COPERTINA Le due figure riprodotte nella copertina, ormai divenute emblematiche, che rappresentano Platone e Aristotele, occupano la parte centrale del grande affresco di Raffaello intitolato «La Scuola di Atene», che si trova nelle Stanze Vaticane. Mediante la metafora pittorica della mano destra alzata con l'indice puntato verso il cielo, Raffaello esprime, in maniera splendida, il supremo messaggio metafisico di Platone fondato per intero sulla trascendenza. Il filosofo porta nell'altra mano il Timeo, che, in larga misura, è stato il suo dialogo più letto e più influente. Comunemente si ritiene che i tratti del volto con cui Raffaello ha rappresentato Platone siano quelli di Leonardo. Ma la cosa suscita problemi. K. Oberhuber e L. Vitali rilevano, a buona ragione, che il tipo di testa di Platone riproduce l'ideale tipico del filosofo greco quale si era formato e diffuso nell'Italia umanistica sotto l'influsso dei Greci, e precisano che tale ideale tipico era stato «adoperato spesso per ritrarre Aristotele, tanto che Leonardo, che di Aristotele si considerava seguace, stilizzò il proprio ritratto su quel modello». È evidente che è proprio per questo motivo che si è connesso il Platone di Raffaello con Leonardo. Che sia stata appunto questa l'intenzione di Raffaello, di per sé non solo è possibile, ma è anche molto probabile (per il motivo, appunto, che ripete lo schema di quei tratti con cui Leonardo stesso si è autoritratto); tuttavia quella intenzione rimane, in certa misura, un poco problematica. La figura di Aristotele (che, come da alcuni studiosi è stato ben rilevato, rappresenta la figura ideale dell'uomo di corte rinascimentale) punta la mano verso il mondo sensibile, e sembra, quindi, esprimere il tipico atteggiamento filosofico del . «salvare i fenomeni». Di conseguenza, noi ci aspetteremmo che tenesse nell'altra mano la sua Fisica; invece, tiene la sua Etica.
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Raffaello l'ha scelta indubbiamente per il fatto che fu una delle opere più lette di Aristotele, e molto amata in età umanistica. Nella contrapposizione fra l'indice della mano destra di Platone puntato verso il cielo e la mano destra di Aristotele puntata verso la terra viene indubbiamente rappresentata la tipica interpretazione rinascimentale dei due filosofi, come abbiamo spiegato nell'Awertenza. In realtà, mentre l'interpretazione pittorica emblematica di Platone risulta perfetta, quella di Aristotele risulta parziale, come abbiamo dimostrato sulla base dei suoi testi. Una interpretazione obiettiva di Aristotele implicherebbe la fusione sintetica dei due atteggiamenti: i fenomeni si salvano solo guadagnando le cause ultimative metafenomeniche. Peraltro, è anche da rilevare che la vicinanza di Aristotele a Platone rappresentata in modo così armonico e lo sguardo di Aristotele sulla mano alzata di Platone potrebbero anche suggerire la bella e corretta idea che lo Stagirita ha "salvato" i fenomeni, e lo ha fatto proprio in quel modo in cui lo ha fatto, essendo stato appunto il grande discepolo di colui che aveva scoperto il metafenomenico. Nel retro di copertina riproduciamo il particolare del «Cartone per la Scuola di Atene» (conservato nella sua interezza e in maniera pressoché perfetta nella Pinacoteca della Biblioteca Ambrosiana di Milano), evidenziando specialmente Platone e il gioco della mano di Aristotele. - La fotografia a colori delle figure di Platone e Aristotele è stata eseguita appositamente per quest'opera tramite i Musei Vaticani, mediante le più moderne tecniche. - La fotografia del particolare del Cartone è stata eseguita dai tecnici della casa editrice «Silvana Editoriale d'Arte» (che ha fornito a «Vita e Pensiero» i materiali tecnici occorrenti). Si può trovare la riproduzione del Cartone, nella sua completezza e in tutti i suoi particolari, nello splendido volume: K. Oberhuber - L. Vitali, Raffaello, Il Cartone per la Scuola di Atene («Fontes Ambrosiani in lucem editi cura et studio Bibliothecae Ambrosianae», XLVII), Silvana Editoriale d'Arte, Milano 1972.
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