QUANDO UN DIO MUORE MORTI E ASSENZE DIVINE NELLE ANTICHE TRADIZIONI MEDITERRANEE
a cura di
PAOLO XELLA Contributi di GABRIELLA SCANDONE MATTHIAE - PAOLA PISI ANNA MARIA POLVANI - PAOLO XELLA SERGIO RIBICHINI - MARIA GRAZIA LANCELLOTTI GIULIA SFAMENI GASPARRO - MARIA ROCCHI ILEANA CHIRASSI COLOMBO
ESSEDUE EDIZIONI
PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA ' Copyright 2001 by Essedue edizioni 37122 Verona- Corso Porta Nuova, 99
In copertina: Deposizione di Franco Pistoso (coll. priv.)
Stampato in Italia - Printed in Italy GRAFICHE FIORINI - VIA ALTICHIERO, I I - VERONA
SOMMARIO
PAOLOXELLA Prefazione Al.ITORI VARI
Il problema del "dio che muore"
5
GABRIELLA SCANDONE MATrniAE Osiride l'Africano, ovvero la morte re gale
15
PAOLAPISI Dumuzi-Tammuz, alla ricerca di un dio
31
ANNA MARIAPOLVANI Telipinu e gli dèi nascosti in Anatolia
63
PAOLOXELLA Da Baal di Ugarit agli dèi fenici: una questione di vita o di morte
73
SERGIO RIBICHINI La scomparsa di Adonis
97
MARIA GRAZIA LANCELLOTTI Attis, il caro estinto
115
GIULIA SFAMENI GASPARRO
Demetra e Kore-Persefone a Eleusi: assenze divine e destini umani
151
MARIA ROCCHI
Morte di Dioniso e nuova armonia delle sue membra
181
ILEANA CHIRASSI COLOMBO
Postfazione: Why a God Must Die
199
Elenco delle abbreviazioni
209
Gli Autori di questo libro
211
PREFAZIONE*
PAOLOXELLA
Come è ben noto, la novità del messaggio cristiano, la sua forza dirompente che mina nelle fondamenta i sistemi religiosi del mondo antico spazzandoli via nell'arco di pochi secoli, risiede nello "scandalo della croce", cioè nell'incredibile realtà dell'unico Dio che scende sulla terra acquistando la natura umana fino alle conseguenze più estreme. Ma alla Sua morte segue la Sua resurrezione, prototipo e garanzia della resurrezione di tutti gli uomini che in Lui avranno fede. Secondo le pa role di Paolo: «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture,
fu
sepolto e resuscitato il terzo giorno secondo le Scritture ( ...). Ora,
se
si predica che Cristo è resuscitato dai morti, come possono dire alcuni di voi che non esiste la resurrezione dei morti? Se non esiste la resurre zione dei morti neanche Cristo è resuscitato! ( ...)Ora, invece, Cristo è resuscitato
dai morti, primizia di coloro che sono morti. Poiché se a
causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la resurrezione dei morti; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti rice veranno vita in Cristo. Ciascuno però nel suo ordine: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono
di Cristo; poi
sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ri dotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza»
Corinzi 15, 3-24).
(/ Lettera ai
Per contro, la circostanza che altre religioni, diverse dal Cristiane simo, contemplano una (o più) divinità che muore, può essere causa di
•
Per quanto riguarda le grafie dei nomi dei personaggi divini e/o mitici, s i
è talvolta preferito adottare deliberatamente l a forma più consueta, pur se non perfettamente coerente rispetto alla traslitterazione dalla lingua origi nale: cf. ad esempio i casi di Attis, Adonis e Osiride che, a rigore, avreb bero dovuto essere citati come Attis/ Adonis/Osiris dvvero come Attide/ Adonide/Osiride. In ogni caso, si sono lasciati i singoli Autori liberi di decidere sui criteri specifici da adottare, fatta salva la coerenza interna, nell'ambito dei propri contributi.
incredulità o sconcerto, e non solo al giorno d'oggi. Già alcuni autori cristiani restarono colpiti da talune analogie - vere o presunte - tra certi culti pagani e la "vera" religione, additando i primi come tentativi dia bolici di generare confusione e fuorviare la fede. E' tuttavia fuori di dubbio che, nel mondo antico, la credenza in "morti" divine dai diversi esiti (inclusi resurrezioni e/o ritorni) e dalle varie conseguenze per l'umanità, fosse abbastanza diffusa. Per tenerci lontani dall'epoca elle nistica e romana, vanno ricordati - tra i casi non studiati in questo libro - quelli mesopotamici di Apsu nella cosmogonia dell'Enuma e/ish, di Kingu, il dio che viene sacrificato dalle altre divinità perché l'uomo riceva da lui la scintilla divina, o ancora della voluttuosa Inanna, ridotta a cadavere nell'aldilà ma che poi, fortunatamente, viene ripescata grazie al sacrificio di un suo sostituto. Tali esempi potreb bero agevolmente moltiplicarsi, e i saggi che seguono ne forniscono un'esemplificazione eloquente. Comunque stiano le cose, proprio la "passione" e la "morte" di al cune divinità sono state al centro di una riflessione profonda che non ha cessato di interessare tan�o gli studiosi delle religioni che quelli del Cristianesimo primitivo. Si tratta di un problema complesso e deli cato, nella misura in cui esso chiama in causa le radici stesse della no stra cultura e che può coinvolgere emotivamente tanto i credenti quanto i laici. Le domande di fondo, di rado formulate esplicitamente, sono più o meno le seguenti: se esistono prima di Cristo tradizioni relative a personaggi divini che hanno anch'essi sperimentato e superato la morte, e se questa loro vicenda ha conseguenze positive (talora addirittura salvifiche, a vario livello) per l'umanità, c'è un rapporto storico e genetico con la vicenda di Gesù? Qual è la consistenza, quali i limiti (se ve ne sono) della novità di quest'ultima e· del messaggio su di essa incentrato? Si tratta di un "modello" mitico rituale preesistente e confluito mutatis mutandis nella tradizione cristiana, oppure quest'ultima, con una metabasis eis allo genos, ha compiuto anche sul piano storico un incomparabile salto di qualità, segnando indelebilmente l'itinerario spirituale dell'umanità? L'ampiezza straordinaria e le profonde implicazioni di queste do mande sono tali da rendere impensabile che in un solo volume si possa anche solo presumere di dare delle risposte definitive. E non si tratta soltanto di limiti negli strumenti concettuali o nello spazio materiale, ma anche perché ci si propone qui di restare solidamente ancorati al
2
piano storico, rifiutando programmaticamente ogni indebita evasione nel campo delle valutazioni etiche e teologiche dei fatti studiati. Ma anche così l'impresa è impegnativa e irta di difficoltà di vario tipo. In questo volume ci si propone di indagare, con obiettività, rigore storico e coerenza metodologica, proprio alcune figure di questi "dèi morenti", nel tentativo di ricostruire, attraverso un'attenta analisi delle fonti, le tradizioni mitico-rìtualì che li concernono. Lo scopo è quello di fornire una messa a punto chiara, affidabile e aggiornata per ciascun personaggio preso in considerazione, nonché una valutazione storico religiosa d'insieme, che serva da riferimento per futuri ulteriori appro fondimenti. Il materiale esaminato è estremamente vario sia per la dispersione spazio-temporale delle fonti che per la tipologia delle stesse: dai testi cuneiformi mesopotamici, ittiti e siriani ai geroglifici egiziani; dalle iscrizioni alfabetiche semitiche alle testimonianze letterarie ed epigrafi che classiche; dalla documentazione archeologica e iconografica ai testi patristici. Ciò ha comportato la necessità di suddividere i temi e fare ri corso, per ciascuno di essi, a studiosi che fossero anche specialisti delle varie aree culturali, pur se tutti accomunati dalla sensibilità e dal l'interesse per i problemi storico-religiosi e dalla consapevole utilizza zione di una specifica metodologia. Non si è trattato soltanto di esporre "monograficamente" i dossiers relativi a ciascun personaggio, ma ogni Autore è stato posto di fronte ad un problema comune e specifico: valutare se e in quali modi, forme e tempi i vari personaggi
muoiano, avendo cura di distinguere tra morti vere e proprie (ma è le cito parlare di morte "umana" per un dio?) e scomparse, latitanze, as senze, ecc. Inoltre, si è cercato di indagare cosa avvenisse dopo tali eventuali morti/scomparse: se cioè il dio risorgesse, ritornasse o
re
stasse confinato nell'aldilà, e quali conseguenze avessero questi esiti per i loro fedeli e l'umanità in genere. La scelta dei personaggi qui presentati è tutt'altro che arbitraria. Si tratta, in primo luogo, dì tutte quelle figure che, nel corso degli ultimi due secoli, sono già stati chiamati dagli studiosi a far parte della cJi.. scutibile (e discussa) categoria degli "dèi morenti''. Proprio la necessità di ridìscutere i limiti e l'eventuale arbitrarietà di tale operazione ha comportato tuttavia l'esigenza di aggiungervi altri personaggi apparen temente affini ai primi, ma generalmente omessi (più o meno voluta-
3
mente) dalla suddetta "categoria". Ciò ha permesso non soltanto di ar ricchire il panorama dell'indagine, ma anche di verificare più a fondo la validità euristica di certe tipologie e di evitare discriminazioni arbitrarie talvolta inconsciamente finalizzate (sia consentito di avanzare questo sospetto) a "far tornare meglio i conti", nell'una o nell'altra direzione. Si prendono dunque le mosse dall'egiziano Osiride, mitico re del l'aldilà e prototipo del faraone defunto, per passare al mesopotamico Dumuzi-Tammuz, a sua volta identificato in epoca tarda con il bell' Adonis, l'amato dalle donne che lo piangono alle porte del tempio di Gerusalemme. L'Anatolia fornisce, attraverso il
dio Telipinu (ma
anche attraverso altre figure minori), un caso di personaggio che, indiscutibilmente,
non muore ma si
nasconde,
con
conseguenze
catastrofiche per il mondo divino e umano. Se vi è una tradizione consolidata di dèi che muoiono variamente e ritornano alla vita (in forma divina o divinizzata), la ritroviamo senza alcun dubbio in Siria Palestina, come testimonia esplicitamente il caso di Baal a Ugarit, alla fine del II millennio,
e poi quelli (meno espliciti ma comunque
sufficientemente chiari) di alcune divinità cittadine fenicie (Melqart, Eshmun, lo stesso Adonis, sia pure con gli opportuni "distinguo"). L'Attis trapiantato, per così dire, dalla Frigia in Grecia e quindi a Roma, forse un antico re divinizzato e rifunzionalizzato a fini cultuali e teologici, rappresenta in un certo senso il ponte di passaggio con l'Occidente. Qui Eleusi si segnala per la peculiarità della vicenda delle divine Madre e Figlia,
Demetra e Kore, la
cui
sorte alternante
condiziona il destino umano. Chiude il panorama Dioniso, un immor tale che condivide paradossalmente e tragicamente con gli eroi e gli uomini la prerogativa della morte. Il nostro obiettivo era di riflettere e far riflettere, proponendoci di fornire la più solida informazione storica possibile su un tema dalle implicazioni
inesorabili:
quell'ineluttabile destino mortale
in
cui
l'uomo ha voluto di volta in volta coinvolgere i suoi divini interlocu tori. Testimonianza, forse, di un'ambizione senza limiti e insieme di un'angoscia senza tempo, ma anche esigenza insopprimibile di fornire alla propria esperienza culturale il più sublime dei fondamenti.
4
IL PROBLEMA DEL "DIO CHE MUORE"
AUTORI VARI*
La definizione
di "dio che muore e risorge" (dying and rising god)
ha conosciuto un'enorme fortuna grazie all'opera di Sir James George Frazer' il quale, a sua volta, era debitore ai lavori etnografici di W. Mannhardt sul folklore contadino europeo, oltre che a certe correnti del pensiero romantico tedesco2• La teoria di Frazer concerneva alcuni personaggi maschili delle an tiche tradizioni religiose mediterranee (il "fenicio" Adonis, identificato col mesopotamico Tammuz), il frigio Attis, l'egiziano Osiride, tutti considerati protagonisti di una vicenda mitico-rituale di "morte" e "resurrezione" apparentemente connessa con l'alternarsi delle stagioni e il periodico rigenerarsi della natura. Queste figure sarebbero state mani festazioni di un unico "modello" mitico-rituale di cui sembrava abba stanza semplice delineare lo schema: personaggi soggetti a una crisi, caratterizzati da una morte e una discesa nell'aldilà, con un successivo periodico ritorno alla vita, tutti profondamente legati ad una dea da un rapporto amoroso. Ad essi Frazer aggiungeva anche Kore/Persefone e Dioniso, che mostravano caratteri specifici, ma che potevano in qual che modo assimilarsi ai primi. La vicenda del dio che stagionalmente muore e quindi ritorna
dal
mondo dei morti avrebbe dunque simbolizzato il processo naturale che veniva riattualizzato dall'uomo attraverso riti specifici, il cui scopo
era
quello di favorire il ritorno della vita in tutte le sue forme. Per lungo tempo la teoria frazeriana raccolse ampi consensi e pochi dubitavano dell'effettiva esistenza di un "archetipo" di dio morente e ri sorgente nelle antiche culture del Mediterraneo. Col progredire delle conoscenze, ai personaggi chiamati in causa da Frazer se ne aggiunsero
anzi degli altri: il babilonese Marduk, il sumerico Dumuzi controparte
(se fu invece prestata a una figura importantissima, cioè il dio siro
del più tardo Tammuz, l'anatolico Telipinu. Minore attenzione pure)
palestinese Baal, l'unico personaggio per il quale (come si vedrà me glio) è attestato senza ombra di dubbio un ritorno alla vita, senza con5
tare alcuni dèi fenici come Melqart e Eshmun, per i quali la documen tazione era oggettivamente molto meno abbondante, ma indubbia mente orientata in senso analogo. Col passare del tempo cominciarono ad affacciarsi dei dubbi e si re gistrarono progressive reazioni critiche all'impostazione frazeriana e al l'idea stessa che esistesse una categoria di "dèi morenti e risorgenti". La storia recente degli studi mostra che ci si
è confrontati con
l'impostazione del Frazer seguendo due direttrici tendenziali. Da un lato, ci si è posti di fronte a tale teoria nel suo impianto generale per verificame poi l'eventuale fondatezza e limiti attraverso specifiche esemplificazioni; dall'altro lato, vari studiosi interessati monografica mente a questo o a quel personaggio "morente" hanno compiuto un cammino inverso, partendo cioè dai singoli dossiers per riconfrontarsi poi con la teoria generale, modificando la o respingendola, a seconda dei casi. Si può aggiungere che, in generale, il primo approccio è più frequente presso gli storici delle religioni "di mestiere", laddove i l secondo h a più largamente caratterizzato l e ricerche degli specialisti dei vari settori.
Nell'uno come nell'altro caso, tuttavia,
della
teoria
frazeriana non è stato contestato tanto l'accostamento tra le figure selezionate, generalmente sempre analizzate a priori, quanto il comune simbolismo che esse avrebbero veicolato. Si è cercato di articolare i l concetto d i morte/rinascita della vegetazione criticando l a semplice equazione divinità
=
natura, senza abbandonare d'altronde del tutto
questa idea: non è raro verificare infatti che ci si continua talora a riferire a questi dèi come a delle figure legate ai cicli delle stagioni, caricandole però contemporaneamente di altre valenze simboliche. Attualmente gli studiosi sono tendenzialmente concordi sul fatto che l'interpretazione frazeriana è sorpassata e inadeguata, soprattutto perché chiama in causa personaggi le cui differenze sono forse più co spicue delle somiglianze e i cui rapporti con la sfera della fecon dità/fertilità - ammesso che esistano - sono limitati e, aggiungeremo noi, devono essere piuttosto considerati come elementi di un codice che va decifrato utilizzando una metodologia specifica. Questo però non significa che tutti i dubbi e i problemi siano stati risolti. In primo luogo, c'è ancora chi continua a restare pervicace mente attaccato ai vecchi schemi interpretativi, specie (ma non solo) in ambito biblico e vicino-orientale. All'estremo opposto, va segnalata la posizione di quanti, mirando ad eliminare ogni residuo dell'ingom brante impianto frazeriano, finiscono per dissolvere totalmente la pro6
blematica negando che si possa mai parlare di "morti" e "ritorni" i n vita per nessuna figura eroica e/o divina. Si deve infine registrare la posizione di chi, pur riconoscendo i limiti dell'impostazione frazeriana, recupera, per così dire, l'antica categoria degli "dèi morenti" in base a un'ottica diversa. A questi personaggi viene cioè riconosciuta una certa unità sostituendo la categoria degli "dèi morenti e risorgenti" con una macro-tipologia (che si presume storicamente fondata) che ravvisa i n essi dei cosiddetti "dèi in vicenda": personaggi soggetti a u n a crisi, ca ratterizzati da un rapporto intimo e privilegiato con i propri devoti che implica un'interferenza profonda tra il piano divino e quello umano,
senza negare i loro legami con il ciclo stagionale. A tali figure sarebbe per lo più connessa un'ideologia di salvezza (in questo mondo, nell'altro mondo) variamente orientata e diffusasi nelle culture mediter
ranee a partire dai culti cosiddetti mistici, ma i cui precedenti affonde rebbero in più antichi "culti di fecondità" (di problematica identifica zione e definizione i. Un cenno merita infine un altro approccio al problema, che man tiene in parte l'interpretazione frazeriana, ma ne ribalta i presupposti, proponendo di individuare precise situazioni storiche che avrebbero
prodotto personaggi del tipo dying gods. Questi ultimi troverebbero infatti la loro origine nell'accoglienza, in dell'istituto
regale
e
nella
conseguente
ambiente
aporia
politeistico,
provocata
dalla
circostanza che un uomo di rango "divino" come il sovrano (faraone, re) debba ugualmente subire la
sorte degli altri
mortali
e
non
condividere quella immortale delle divinità. Ricerche di questo tipo4 affrontano
il
problema
del
dying
god
ponendosi
in
decisa
contrapposizione alla teoria del "dema", resa popolare dagli studi di
A.E. Jensen, la quale sembrava offrire a etnologi e storici
delle
religioni una reale spiegazione alternativa all'origine del dying god 5 proposta dallo stesso Frazer. Jensen postulava infatti l'esistenza di un tipo di religione basata sul mito di un personaggio, maschile o femminile, che veniva ucciso e smembrato; i suoi resti venivano
sepolti e da essi spuntavano le prime piante alimentari.
A
tale
personaggio veniva esplicitamente ricondotto ad es. anche Osiride6•
Sulla
scia di Jensen,
altri
dying gods furono
interpretati
come
personaggi-dema, legati cioè ali' origine e al destino delle piante ali mentari. Appare dunque sempre più indispensabile interrogarsi sulla legitti mità di approcci che continuano a proporre l'accostamento - a vario ti7
tolo - di detenninate figure appartenenti a culture geograficamente e cronologicamente differenti: possiedono tali personaggi degli aspetti morfologici e funzionali veramente comuni che ne giustifichino la ri duzione a una tipologia unitaria? Ha senso un tale approccio dal punto di vista storico? Si possono mettere sullo stesso piano tennini (e av venimenti) come "morte", "scomparsa", "latenza" da una parte, e "resurrezione", "riapparizione" o "ritorno" dall'altra? E ancora: si può parlare dì "morte" per un dio o per un eroe nella stessa accezione (che andrebbe indagata scrupolosamente e caso per caso) che si usa per un essere umano? In altri tennini, quanto può una "tipologìa" fondata su queste basi costituire uno strumento enneneutico efficace per una mi gliore comprensione delle figure considerate? Ci si deve insomma in terrogare a fondo sulla liceità dì continuare ad accomunarle in una "categoria", magari non più legata ai vecchi e superati schemi fertili stici. Risulta queste
pertanto necessario riesaminare la
figure sia
usando
un
documentazione su
criterio rigorosamente
storico
sia
verificando - nella misura del possibile - cronologia e carattere delle fontì. Il materiale relativo ai vari personaggi è tutt'altro che omogeneo e non consente facili generalizzazioni. Parlare genericamente di
un
Osiride significa, ad esempio, ricostruire arbitrariamente a tavolino una figura unitaria che, come tale, non è mai esistita storicamente; la stessa figura di Dumuzi - troppo facilmente ( con)fusa con quella dì Tammuz - ha una storia plurimillenaria e, all'interno di questa, diverse sono ad esempio le tradizioni mitico-rituali concernenti il personaggio sumerico, da quelle accadiche che, specie a partire dal II millennio, sviluppano soprattutto gli aspetti del rituale che saranno molto più tardi recepiti dagli autori di lingua greca e latina. Oltre a questo, va tenuto conto del fatto che le figure in questione appartengono a tradizioni religiose diverse, testimoniate da fonti in va rie lingue: ìl dominio e il controllo diretto delle diverse documenta zioni da parte di un solo studioso appare perciò largamente utopistico. Lo storico delle religioni si vede costretto a "fidarsi" di volta in volta del sumerologo, dell'egittologo, del semitista, il che lo espone - se non proprio all'arbitrio altrui- certo all'utilizzo di traduzioni superate o eccessivamente disinvolte, su cui egli rischia poi di costruire interpre tazioni parzialmente o totalmente infondate. Partendo da una revisione critica delle fonti su ciascun personaggio, per ogni epoca e cultura, alla luce di conoscenze molto più approfon-
8
dite di quelle che aveva Frazer, questo libro si propone di verificare i fondamenti di tale "tipologia", le ragioni che ne hanno costituito il successo e quelle che eventualmente ne comprovano l'insostenibilità, parziale o totale. A tàle proposito, è importante tenere presente che lo stesso Frazer non si era inventato ex nihilo la sua teoria sui dying gods. Egli era stato indotto a focalizzare la sua attenzione su quelle specifiche figure da una tradizione tarda (cf. più avanti) che oggi siamo in grado di rico struire e che, appunto, accomunava i personaggi in questione in base ad una serie di pretese analogie. Lo studioso inglese quindi non si è mosso solamente sulla base di opzioni personali, ma ha recepito una scelta ed una valutazione in chiave allegorica sorta in un determinato momento culturale e storico e vi ha costruito una teoria storico-reli giosa. Il processo di identificazione tra le diverse figure si è mosso in epoca antica su due piani diversi che, successivamente, hanno finito per fondersi: da una parte, la riflessione razionalistica sui miti mirante ad attribuire alle divinità un "senso" naturistico e/o etico (cf. ad es. lo Stoicismo); dall'altra parte, lo sforzo compiuto dagli apologeti cristiani - per la potenziale pericolosità di figure cosl simili al Cristo di accentuare le somiglianze tra i diversi "dèi morenti", per creare una categoria "totalmente altra" da contrapporre in blocco alla figura del Salvatore. L'idea di una resurrezione di tali divinità legata a un qualche tipo di beneficio per gli uomini non era certo estranea ad alcune di queste tradizioni mitico-rituali, né occorre sempre e necessariamente pensare a un'influenza cristiana. Gli apologeti cristiani erano d'altra parte inclini a speculazioni razionalistiche sul divino, già operate dai filosofi precedenti. Essi si proponevano di dimostrare che i personaggi venerati non erano veri dèi, ma proiezioni di fenomeni naturali, vale a dire false rappresentazioni destinate a scomparire davanti alla verità cristiana dell'unico Dio. Nella stessa direzione, mutatis mutandis, andavano anche i Neoplatonici, ultimi difensori del paganesimo ormai al tramonto: nel loro caso, tuttavia, la rilettura dei miti e dei riti non eliminava la qualità divina dei protagonisti ma li
ipostatizzava,
considerandoli diverse manifestazioni di un unico principio articolato 1 nei vari livelli di realtà • Se le ragioni che hanno indotto certi autori antichi ad un accosta mento tipologico di questi personaggi si comprendono alla luce delle tendenze
culturali
e
religiose
della 9
loro
epoca,
è
più
difficile
giustificare l'attitudine di certi moderni a voler trovare a tutti i costi delle analogie (morte, resurrezione, nessi con il ciclo stagionale, eventi drammatici in generale affrontati) in figure che, a dispetto delle comuni radici mediterranee, sono molto differenti l'una dall'altra. A ben guardare, poi, un altro condizionamento è in agguato, con effetti forse non meno negativi sul piano scientifico. Si tratta dell'assunto che nega aprioristicamente l'esistenza di una sequenza morte/resurrezione nei dossiers
di
questi
personaggi,
e
comprensione storica di eventuali
che
impedisce
"resurrezioni"
ipso al
di
facto fuori
la del
Cristianesimo. In altri termini, si individua talora la tendenza - più evidente in chi è impegnato religiosamente, ma talvolta operante anche nei "laici" - a ritenere che a un solo dio nel corso della storia sia stato concesso di risorgere veramente, mentre per gli altri si tratterebbe, di volta in volta, di forme di "ritorno" di varia e differente natura. Valgano a titolo di esempio le osservazioni di K. Pri.imm, la cui acutezza di studioso sembra in questo caso essere superata dall'impegno fideistico. In un articolo dedicato proprio alle divinità "morenti e risor genti" egli criticava l'uso stesso della definizione (evidentemente derivata dalla terminologia cristiana), perché con essa «si afferma come storicamente accertato il fatto da provare, cioè la somiglianza del cristianesimo in un punto così centrale, risurrezione,
con
il
sostrato
qual è la
mitologico
di
dottrina della
questi
culti».
Egli
protestava contro l'applicazione ad altre figure, reali o mitiche, dell'idea di resurrezione. Per Pri.imm mancava, per questa vicenda, ogni paragone «non soltanto nell'ordine reale della storia, ma fino ad un certo grado anche in quello dell'ordine ideologico (per quanto era accessibile a Tertulliano, di cui si cita una celebre affermazione)». L'A. non escludeva però che l'idea di un dio morto e risorto potesse avere avuto una certa preistoria «almeno nel desiderio religioso dell'umanità antica». Reagiva
contro
l'affermazione
tout
court di
un
valore
soteriologico (da parte di non pochi storici della religione) attribuibile alla sorte degli eroi pagani, cosa che invece avrebbe potuto costituire un punto di partenza per un'indagine scientifica extra-teologica. Il valore soteriologico anzi non creerebbe difficoltà al Kerygma aposto lico della redenzione, che insegna il
fatto storico della salvezza
dell'uomo, avvenuto in un tempo e in un luogo determinato. Pri.imm sottolineava comunque (se pure ve ne fosse stato bisogno!) la libertà del teologo di affermare la trascendenza e 10
sublimità
dei misteri
cristiani, nonché di credere che i culti pagani avessero un valore sote riologico identico a quello cristiano7• In questo contesto pare allora quanto meno sospetta l'assenza, negli stu di di insieme sui dying gods, dell'ugaritico Baal, per cui i testi par lano esplicitamente di un ritorno in vita dall'aldilà come momento culminante della sua "vicenda", con tutte le implicazioni che essa
comporta per l'uomo. Tale personaggio resta quasi sempre ai margini
negli studi storico-religiosi, ovvero se ne mettono in dubbio i fonda menti documentari (in realtà inattaccabili), forse a causa dell'imbarazzo che può suscitare l'inclusione nella "tipologia" di un vero risorto, di ambiente siro-palestinese, la cui vicenda di "resurrezione" non può es sere ovviamente imputata all'influsso del Cristianesimo. Alla
luce
di
queste
riflessioni
si
rende
pertanto
necessario
riaffrontare il problema dei cosiddetti "dèi morenti e risorgenti" su nuove basi e con una nuova coscienza del condizionamento esercitato dal Cristianesimo e da una serie di scelte aprioristiche, connesse o no con quest'ultimo, vuoi di tipo polemico vuoi di tipo apologetico. In sede di esposizione specifica e di conclusioni si procederà a una valutazione generale e a una verifica delle analogie tra le diverse figure chiamate in causa, sia quelle citate tradizionalmente, sia quelle per lo più tenute fuori dall'indagine. Ma per essere ritenute tali, le eventuali analogie dovranno essere non solo di natura morfologica e funzionale, ma anche coerenti dal punto di vista storico. Solo a questo punto sarà possibile pronunciarsi sulla validità euristica del creare, per quello che
riguarda l'oggetto della presente ricerca (ma non solo per essa!), una "categoria" alla quale eventualmente far afferire - anche solo a scopo
euristico - i personaggi studiati. Ma, e questo vale la pena di sottoli
nearlo, proprio l'assenza di assunti aprioristici potrebbe condurci a una possibilità estrema, quella cioè che queste figure non permettano di proporre alcuna "tipologia". In questo caso sarà proprio la categoria 00. gli "dèi morenti" ad essere dichiarata morta per sempre.
11
•
Il testo di questo capitolo si fonda in gran parte su un lavoro ancora ine
dito di M.G. Lancellotti dal titolo "Le thème du 'dieu qui meurt' à l'époque perse: les aspects méthodologiques", presentato al Ve Colloque Internatio nal "La Transeuphratène à l'époque perse: religions, images", Parigi 30/3- 1/4/2000,
croyances, rites et
i cui Atti sono attualmente in corso di
stampa. Tale contributo è stato in qualche sua parte rielaborato e lieve mente modificato dal curatore, con il consenso dell'A., per essere adattato al presente volume, di cui costituisce un'ideale introduzione. Questo per quanto concerne la sua "storia" redazionale. Alcuni amici e più stretti col laboratori del volume (l. Chirassi Colombo,
S. Ribichini,
G. Scandone
Matthiae) ne hanno successivamente preso visione e hanno espresso la propria adesione al metodo e ai contenuti, oggetti del resto di discussioni e riflessioni comuni. E' dunque per tali ragioni che è apparso opportuno al curatore - d'intesa con gli interessati - adottare la formula "Autori vari" per la paternità di questo contributo: si rende così giustizia a chi vi ha concre tamente lavorato, ma se ne esplicita al contempo il carattere di riflessione comune aperta a molteplici apporti, diretti e indiretti, di vario tipo.
NOTE
J.G. Frazer, The Golden Bough, III ed., voli. IV-V, The Dying Gode Ado
nis Attis, Osiris, I ed., London 1890, 2 voli.; II ed., London 1900, 3 voli.; III ed., London 19 1 1- 1915, 12 voli. Per quanto riguarda la differenza tra le diverse edizioni cf. J.Z. Smith, Drudgery Divine, Chicago 1990, pp. 9 1-
92, nn. 12-13. 1
W. Mannhardt, Wald- und Feldkulte, 2 voli., Berlin 1875-1877 (Il ed.
1905). 2
Cf. U. Bianchi, "Initiation, mystère, gnose", in C.J. Bleeker (ed.), Initia
tion. Contribution to the Theme of the Study-Co nference of the Interna tional Association far the History of Religions Held at Strasbourg, Leiden
1965, pp. 154-171 =id., Selected Essays on Gnosticism, Dualism and Mysteriosophy, Leiden 1978, pp. 159- 176; id., "Lo studio delle religioni di mistero. L'intenzione del Colloquio", in U. Bianchi - M.J. Vermaseren (edd.), The Soteriology of the Orientai Cults in Roman Empire, Leiden
1982, pp. 1-15; id., "Epilegomena", in ibidem, pp. 9 17 -930; e altrove nella sua vasta produzione scientifica.
12
3
Cf. D. Sabbatucci, Il mito, il rito e la storia, Roma 1978; id., Da Osiride
a Quirino, Roma 1984, e altri luoghi della sua produzione scientifica, spe cie Mistica agraria e demistificazione, Roma 1986. Sul problema cf. infra la
Postfazione
di
l.
Chirassi
Colombo,
anche
sui
rischi
di
una
"demolizione" indiscriminata. 4
Cf. soprattutto A.E. Jensen, Das religiose Weltbild einer fruhen Kultur,
Stuttgart 1948, tr. it. Come
una
cultura primitiva ha concepito il mondo,
Torino 1952. 5
Id., Mythos und Kult bei Naturvolker, Wiesbaden 1951.
6
Sulla rielaborazione filosofica e cristiana dei miti classici cf. tra gli altri
F. Buffière, Les mythes d'Homère et la pensée grécque, Paris 1956; J . Pépin, Mythe e t allégorie, Paris 1976; I. Chirassi Colombo, "Modalità dell'interpretatio cristiana di culti pagani", in M. Pavan (ed.), Mondo Classico e Cristianesimo, Roma 1989, pp. 30-43. Come ha giustamente sottolineato J.Z. Smith, op. ci t. (n. l), la teoria del dying god è molto più importante per la storia degli studi che per la ricerca storico-religiosa
in
quanto tale. 7
Cf. K. Pri.imm, "I cosiddetti 'dei morti e risorti' nell'Ellenismo", Grego
rianum, 39, 1958, pp. 410-439.
13
OSIRIDE, L'AFRICANO ovvero la morte regale
GABRIELLA SCANDONE MATIHIAE
"Per i Greci il carattere di Osiride
in quanto re
morto era quasi privo di significato. Per gli Egi ziani
ne costituiva
la caratteristica
più
impor
tante... Tuttavia le credenze greche oscurano com ple tamente quelle egiziane". (H. Frankfort,
Kingship and the Gods, p. 292).
Osiride, il celeberrimo dio dell'aldilà e re dei defunti nel sistema
re
ligioso egiziano classico, compare piuttosto tardi nel pantheon del paese del Nilo: le sue prime attestazioni, infatti, risalgono alla fine della V- inizi della VI dinastia
(2500- 2270 a. C. ca.). Egli è menzio Testi delle Piramidi, raccolta
nato per la prima volta esplicitamente nei
di formule magiche e non, di varia origine e antichità, destinate ad as sicurare la vita eterna nell'oltretomba prima di tutto al sovrano defunto
e, in seguito, a pochi privilegiati della famiglia reale. I Testi delle Pi ramidi sono così chiamati dagli studiosi moderni perché iscritti sulle pareti interne delle piramidi dell'ultimo faraone della V dinastia, Unas, di quasi tutti i faraoni della VI e di alcune regine consorti dell'ultimo
re
della VI dinastia, Pepi Il. Essi furono raccolti e sistemati, sembra, dai sacerdoti di Heliopolis, città del dio Sole: quindi, in essi prevale una visione dell'aldilà fortemente influenzata dal culto solare e dall'idea del destino celeste ed astrale riservato al sovrano post mortem.
Osiride, esponente di un altro corso di pensiero mitico-religioso, non vi ricopre perciò un ruolo particolarmente significativo. Egli è, tuttavia, presente e, dalle formule in cui è nominato, si può compren dere, seppur non in modo dettagliato che, a quell'epoca, il mito che ne narra i patimenti e il martirio era già stato costituito. Osiride mu()_r:� � discende nel Mondo Inferiore, sotto la terra, là dove ; pr �a-�� a reg_�� ��� -�1 _ ?
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tato lo stesso destino, in contrasto, ma anche in Qarallelo, con l'asces�
af cielo ed il soggiorno nella barca di Rà o tra le stelle imperiture ri
servatogli dalla religione di i111postazione sol
presenza di una certa ambiguità nelle formule osiriane dei
Testi delle Piramidi: in alcune si augura al faraone di "diventare Osiride" nel mondo sotterraneo, mentre in altre (poche) formule il dio e la sua cer
chia di divinità sono palesemente disprezzati e, in un caso, insultati
() (Form.1267 dei
Testi delle Piramidi).
Ma questi pochi resti, derivati dall'ostilità degli ambienti religiosi
"solari", scompaiono nella successiva raccolta di formule redatta per tu
telare il morto nell'aldilà: i
Testi dei Sarcofagi, così chiamati perché
scritti ad inchiostro sulle pareti interne dei sarcofagi lignei soprattutto
del Medio Regno (2000 - 1800 a. C. ca.). In essi Osiride trionfa e la
sua presenza è assai più frequente di quanto lo fosse
ramidi.
nei Testi delle Pi
A questo punto è necessario compiere un passo indietro, per
spiegare il perché del "progresso" del dio. La fine dell'Antico Regno fu
seguita da una fase di forte instabilità politica dell'Egitto, caratterizzata, oltre che da infiltrazioni dei vicini asiatici, da pesanti lotte intestine.
Contemporaneamente il privilegio, dapprima esclusivamente regale e,
in seguito, di alcune regine, dell'identificazione con Osiride, venne, a poco a poco, avocato a sé dai grandi personaggi della corte e poi anche
da quei pochi comuni mortali che potevano permettersi il lusso di farsi
costruire una tomba bene equipaggiata.
Tale modificazione della situazione antecedente determinò, natural
mente, l'esecuzione di numerose stele recanti invocazioni di sovrani e
di privati ad Osiride, con la relativa raffigurazione del dio, che rimarrà
sostanzialmente invariata per tutta la lunga durata della storia egiziana. Osiride è rappresentato sempre in aspetto umano, strettamente avvolto
nelle bende della mummificazione. Le mani sono libere dalla costri
zione delle fasce: con una egli impugna il flagello e con l'altra uno
scettro, detto in egiziano
heka. Sul capo reca, all'epoca del Medio Re
gno, l'alta Corona Bianca, simbolo della signoria sull'Alto Egitto, il
Sud del paese. In seguito, durante il Nuovo Regno, oltre alla Corona Bianca, Osiride porterà assai spesso la grande corona chiamata in egi
ziano
atef, in origine caratteristica del faraone, come dimostrano vari
esempi dell'Antico Regno. Mentre la Corona Bianca è sicuramente il
simbolo della regalità altoegiziana, non altrettanto facile è comprendere il significato racchiuso nella corona
atef Forse si trattava, in origine,
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di un'acconciatura propria del sovrano defunto, che alludeva alla vita eterna nell'aldilà, come sembra potersi dedurre da passi dei Testi dei Sarcofagi: ma questa non è certo un'interpretazione sicura. Si tratta solo di un'ipotesi, che difficilmente potrà essere confermata. La fortuna di Osiride continuerà, sempre maggiore, nel Nuovo Re gno: ormai ogni defunto che ne abbia la possibilità tende ad identifi carsi con lui e, per la prima volta, abbiamo in questo periodo non solo allusioni, ma testi egiziani che parlano a lungo delle sue vicende dolo rose. Il più importante è la narrazione del processo, svoltosi davanti al dio-Sole Ra e all'Enneade, per decidere se si debba attribuire ad Horus, figlio postumo di Osiride e della sua sposa Iside, la sovranità sull'in tero Egitto, usurpata dal malvagio e turbolento dio Seth, fratello as sassino di Osiride e quindi zio di Horus. Inoltre, nel celebre Libro dei Morti (così chiamato dagli egittologi moderni perché presente nella maggior parte delle sepolture del Nuovo Regno: il suo titolo in egi ziano è Libro dell'Uscire di Giorno), Osiride è l'arbitro supremo, da vanti al quale, e ai suoi quarantadue giudici, il defunto deve discolparsi dei propri peccati, sottoponendosi alla pesatura del cuore. Sull'altro piatto della bilancia, l'immagine di Maat, entità divina che per gli antichi Egiziani impersonava la verità, la giustizia ed il giusto equilibrio dell'universo, garantisce la veridicità delle parole del defunto, destinan dolo, se è stato sincero e ha bene operato, alla felicità ultraterrena, ov vero consegnandolo alla Divoratrice infernale, mostro femmina mezzo coccodrillo e mezzo ippopotamo, se invece ha ardito mentire sulle pro prie passate azioni. Fino alll!_fiJ!e_j.el�_ti_ovo. Regno, Osiride seguita �-�§§(!re sem_p!i cemente il re dei mof!:j t!.d 11 signore dell'aldilà é quindi a conservare ca r�eristiche esclusi�(lf!l�l!�� �giziaf!�. Con il disgregarsi dell'Egitto unito e le -ripetute-Invasioni straniere nel corso del I millennio a. C., che culmineranno con l'avvento al trono faraonico della dinastia stra niera dei Tolomei nel IV sec. a. C., !�o, insi�me alla çonsorte-§,2rella Iside, diverrà protagonista _diU!ll! re_!igiQJ!� .s.i!lfreti�tiC:.Qsirid� _1!9!1.1 pi�_ l�en tità divina originaria, avendo diluito e mescolato le proprie peculiarità l"n-unàsorta di f!!:eJ!jllg pot J!l�dit(!mmè_o: In questa indagine si intende trattare prevalentemente dell'Osiride "egiziano", della genuina figura di 17
·"
"dio che muore", riservando solo alcuni accenni agli sviluppi della sua figura e del suo culto in epoca ellenistico-romana. Ritornando, dunque, al racconto-mito dell'uccisione e dello smem bramento di Osiride, vogliamo qui riassumerlo brevemente, per pun tualizzame gli elementi basilari. lnnanzitutto, dobbiamo ricordare che, seppure la letteratura egiziana farao11ica classica contiene fr�uenti allu sl.oiifenarrazioni parz.iali delle vicende deì dio, il mito in . folJlla com pletici è noto solo dlJ.lla.tardissiml! redazione di Plutarco.�Nel DelsùJe èf Osiridè lo storico di Cheronea, vissuto tra il I ed il II secolo d. C. (47�1:27 d. C.), narra de(t)iion re Osiride, eroe civilizzatore�·dr�ascita divinà-(erìi'f]glio di Nut/Rhea e di Geb/Kronos), che insegnò agli Egi ziani l'agricoltura, la legge,e la venerazione degli dèi. II perfido fratello gemello di Osiride, Seth (da Plutarco chiamato Tifone), lo uccise con uno stratagemma, rinchiudendolo in una bara, che fu poi gettata nel Nilo. Alla notizia dell'assassinio Iside, sorella e moglie affettuosissima di Osiride,iniziò una lunga e disperata ricerca del cadavere del consorte. Ella finì per ritrovare la bara sulle coste del Levante, 11 Biblo; la nascose in un luogo sicuro e raggiunse il fig _ lio Horusfche veniva ) allevato in segreto a Buto, nelle paludiÌmpenetrablfi del delta del Nilo. Seth scoprì la bara, l'aprì, fece il corpo del fratello in quattordici pezzi, che disperse. Iside li ritrovò e li riunì, ad eccezione di uno: il fallo, mangiato dai pesci. Ma la dea lo sostituì con uno finto, affinché la spoglia del marito fosse completa. Osiride fece !�J2!:2QfÌO ingresso nel t�ldilà,da cui_tornò solo per aiutare il figljQ.tlf>ru�nella lotta..éoni:fQ v �! th pe�il d()minìo sull'Egìt"fò� La battaglia durò molti giorni e si concluse con la vìttoria di Horus, sostenuto dagli altri dèi anche du rante il successivo processo intentatogli da Seth, che non voleva asso lutamente cedere la regalità al nipote. lsid�E.()1slllnÌ ad Osiride anche d�l consorte e ne ebbe un figl}9 pre!Ilaturo e rachitico: ate\ 0 La narrazione di Plutarco riproduce abbastanza fedelmente il mito originale; se ne discosta, tuttavia, in alcuni punti, decisamente impor tanti. Innanzitutto, secondo la tradizione egiziana classica, Osiride non è ucciso da Seth con il sistema di chiuderlo vivo in una bara, ma viene colpito con un'arma, o affogato nel Nilo. Poi, la ricerca del cadavere del dio è condotta non dalla sola Iside, ma da Iside e dalla-·sorella Nef' tis, c��.!:�'§É. ()�!!t cì�����<>.Pe� :4f1am�llt!).tr'ici., :�����-�1?-:=��if�e mo��.!:�.� ebr}J?.C!.t_t.J_t�-�1:\�llt:at!lf:i�lla �t()ri(l_�g�z !��: In terzo J ��n. /
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luogo, il corpo del dio è ritrovato in Egitto e non si fa menzione di Biblo; ����!!!�llt()J()!S_e_pi�_sis_lliftc_ �!ivo_�e.gli�!tr!1_�_si��� �af!l�!lle � Qsi:r:ìde Il!Ot!()Un solo fig_ljg1_ Ho!\!s X�!:�gi! ti��-�l_ f!��o.. ���z�apo�
_ _!!!��_!:lel!.U.!!:P I�1TI�E1:lone di due Horus, na..t:i__l'uno prima -�del p��. Horus pro��-��tto, �X�!tf()_.Q()Stl1I1_1<:L.(��l!�:li2!lls)..: Un ultimo im- / portante punto�i d�':'_e�S�I13:
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«E così Osiride fu sepolto nel Palazzo del Re (ossia nel tempio di Ptah) nel lato nord di questo luogo». Anche in quest'opera di alta teologia, dunque, Osiride è considerato morto per sempre, senza alcuna prospettiva di ritorno sulla terra. --A tale concettocorrispondono i riti in onore defaiO,Clie-slèelebra vano nelle due città a lui particolarmente sacre: Busiris, nel Delta cen trale e, soprattutto, Abido, in Alto Egitto. A Busiris, capitale del IX
·
19
t
nomo del Delta, il cui dio originario era l'antropomorfo Angiti, si svolgevano i cc.dd. "misteri" osirianì, di cui parte fondamentale erano le cerimonie consistenti nello "sminuzzare la terra" (con la zappa) e nell'erezione del pilastro Ged, considerato la colonna vertebrale del dio. Con la prima cerimonia sì alludeva all'aspetto di Osiride come provve ditore di cibo (se ne vedrà più tardi il motivo); con la seconda, al suo trionfo postumo sui nemici. Ad Abido, principale centro di culto di Osiride, che aveva preso il sopravvento sull'originaria divinità canina (lupo o sciacallo) funeraria indigena Khentiamentiu, il cui nome significa "Il Primo degli Occiden· tali" (ossia dei defunti) e si era con essa sincretizzata nella forma "Osiris-Khentiamentiu", si celebravano ugualmente riti "misterici" in onore del dio, dei quali abbiamo notizia sin dal Medio Regno. Infatti, la stele di Ikhemofret, alto funzionario del re Sesostris m della xn dinastia ( 1878 -1841 a. c. ca.), contiene una brevissima de scrizione di tali riti, in cui si fa cenno ad una "grande battaglia", alla sepoltura di Osiride a Peker ed alla sua successiva intronizzazione come Sovrano dei Defunti nel suo "Palazzo" di Abido, ossia nel principale tempio della città. Molto oltre nel tempo, a circa 1500 anni di distanza, abbiamo noti· zie più ampie sui "misteri" di Abido dai testi del tempio tolemaico di Dendara, che trattano delle celebrazioni osiriane nel mese di Khojak. Nel corso di esse, si rappresentavano i "patimenti" di Osiride (sincretiz zato con il menfita Sokaris, mummiforme dio-falco preposto all' aldilà), terminanti con la mummificazione, la sepoltura e la conse guente signoria sul regno dei defunti. l ci�l!e.dolo Con i! procedere del tempo, dunque, la commemo�aziQ'e rose vicende dl Osiride venne ad assumere l'aspetto di una ')aera rap presentazione", una sorta di "passione", che affondava le radici nel l'eterna speranza dlogrii essere umano: rinascere--ad una vita futura, c�lrnadi felicità e di tutte le soddisfazioni mai raggiunte in quella ter rena. Osiride, dopo tanto soffrire, diviene sovrano dei defunti e regna in un'eterna beatitudine, avendo inoltre trionfato sui nemici che sulla terra Ìoharirio così vilmente ingannato. Allo stesso modo, l'uomo onesto, buono elìberoillil peccato, identificandosi con il dio prima martire e poi trionfante, era sicuro di conseguire nella vita futura la ricompensa alle sofferenze ed alle delusioni di cui certo l'esistenza terrena gli era stata prodiga.
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Q_obbi aillO quin.di ribadire che Osiride muore e non risorge:_�egU è c( stato all'origine, prima della cosiddetta "democratizzazione" del cred0' osiriano, esclusivamente il simbolo per eccellenza, il prototipo, del re < morto, del faraone che ha terminato la propria funzione terrena. Se condo quanto ha scrittg l:egittologo inglese J.G. Griffiths, che ha di- � SteSaiiiente stiidTàto l'origine di Osiride, «la morte di Osiride è in realtà laffiòite del re». A lui deve, di necessità, succedere nel regno il figlio, < f[()rus, prototipo del faraone vivente, il cui primo e più sacro dovere éiadare una degna sepoltura al proprio padre, come afferma una serie numerosa di testi egiziani. La successione diretta Osirìde/padre - HO: rusffiglio era garanzia di un corretto svolgersi della vita del cosmo. Era la realizzazione terrena della Maat, questo concetto così peculiare alla mentalità dell'antico uomo egiziano che possiamo rendere, imperfetta mente, nella nostra lingua non con un solo termine, ma con diversi: equilibrio universale, giustizia, ordine, verità, armonia. Ma il "morto" Osiride continuava a vivere; o meglio, non a "vive re" nef senso' di resuscitare, ma ad essere presente sulla terra mediante alCune manifestazioni naturali. Già nei Testi delle Piramidi si dice che dalle linfe del corpo del dio deriva l'inondazione del Nilo, la cosiddetta "acqua pura" o "acqua giovane": «Horus viene per riconoscere in te suo padre, nel suo nome di "acqua giovane"» (Par. 589 dei Testi delle Piramidi) e «l corsi d'acqua sono colmi, i canali debordano a causa delle purificazìoni che vengono da Osiride» (Par. 848 dei Testi delle Pira
midi}.
Il concetto è più volte ribadito in numerosi testi posteriori, fino a Plutarco (De fs. et Os. 39, trad. M. Cavalli), il quale scrive: «
\ "'
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l '
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Q
dilà, continuava a prendersi cura degli uomini. Una seconda manifestazione di Q�ii:!Q�, aJ!c:b���sa .l!S§�i __significativa per comprenderne la-veriedultima essenza, si esplicava nello spuntare e-nellacrescitidei cereali: gràno,_ orzo, spelt�. Come scrivè H. Frank fort inun magistrale studio sull'origine divina della monarchia egiziana, sempre valido nonostante risalga a oltre cinquant'anni addietro, Osiride "riappare" nel grano già in testi assai antichi, come la contro versa "Teologia Menfita" e il "Mistero della Successione". Anche nella già citata "Contesa di Horus e Seth", forse risalente al Medio Regno, Osiride così risponde al dio-Sole Ra: «Perché si farebbe torto a mio fi glio Horus, poiché sono io che ho fatto l'orzo e tutto ciò che nutre gli dèi, e anche gli esseri viventi dopo gli dèi, mentre nessun altro dio, o dea, è stato capace di farlo?». Sempre secondo le parole di Frankfort, anche se è stato seppellito nella terra:Osiildè non è·un dìò dèHa terra -e dèlfe- messi, ma delle manifesta:il.onidella vita emananti dalla terra:In.::: fatti�--come abbiamo- ricorcÌat� per quanto riguarda -il Nilo, anche il grano era identificato ad una diversa e ben precisa divinità, Nepri, e le messi ricadevano sotto la sovranità di una dea, Renenutet. Quest'ultima aveva forma ofidica, come si conviene ad un'entità divina che presiede ai prodotti del suolo, habitat naturale dei serpenti. Una volta di più, dunque, si deve operare una distinzione tra Osiride che si manifesta nei cereali, ma non è i cereali, e gli dèi preposti specificamente ai grani e al raccolto: Nepri e Renenutet. Un'ulteri��-lllanifestazione di Osiride che, a prima vist�, sembre rebbe aliena da legami con la terra, è quella che lo vede risiedere in u_na stella: Orione. Già nei Testi delle Piramidi si dice: «Ecco che egli è ve nuto come Orione; ecco che Osiride è venuto come Orione» (Par. 819). Tuttavia, per quanto a noi moderni possa sembrare assurda, la spiega zione è quella che troviamo nella già citata opera di H. Frankfort sul l'origine della regalità egiziana: «Tutto ciò che sembra provenire dalla terra può essere considerato una manifestazione di Osiride. E, per quanto ciò possa sembrare paradossale, la nozione si applica a tutti i corpi celesti. Le stelle sorgono all'orizzonte, e così il sole e la luna, cosicché Osiride è chiamato "Colui dell'Orizzonte, da cui sorge Ra"». Ancora una volta, il dio si manifesta in quel che (apparentemente) emana dalla terra. A questo punto si potrebbe pensare che Osiride sia la Terra: ma non è così. La Terra, nel pensiero mitico egiziano, era di sesso maschile: Geb, consorte di Nut, la dea-cielo, e genitore di Osi 22
ride, lside, Seth e Neftis. Osiride sUt:Q.�a, come già si è detto, nelle mani���_!�!OJ1i vitali emananti dalllJ. terra; raÙ:biUSO perS.empr�i�_�SS�, fa se_n�i��l�_!?P.'i_�presc;:nza nel grano che germoglia, nell'inondazionè déffiume, nel sQ_r�t:t!_9L9Ii9n�,--�L!!:�tta, quindi, di un'èntità-(iiVliià éfleilonnco�e i_!1-_@aJ1tO _S� stessa _sulla terra, ma è rnsita nélÌe-sué �essiQI�j_�j _vitA_� di ri!lJl_o_val_!l_t!llto__,__c_eflg n(m _c:l!!finibili _'):�§,Yifi zioni". -osiride all'origine non è altri (e lo si è detto precedentemente) che la figura, l'icona, del faraone morto, contrapposto a Horus, il faraone vivente; nella loro successione che è, in ultima analisi, l'eterno avvi cendarsi della vita e della morte, risiede gran parte dell'attuazione della Maat nel cosmo, garantita dai riti che devono accompagnare la sepol tura del vecchio re e l'accessione al trono del nuovo. Osiride, in quanto re morto, continua, tuttavia, a possedere una forza vitale operante a be neficio degli esseri umani: egli è "detentore" delle acque fertilizzanti dell'inondazione e dell'impulso germinativo del grano, pur non essendo né il Nilo né il dio-grano Nepri. Non si può negare che Osiride sia una figura assai singolare: perso naggio divino sì, ma ricoprente una funzione che è stata umana, il quale conservava nell'aldilà alcune prerogative del sovrano vivente. E' noto, infatti, che nell'antico Egitto il faraone era colui che garantiva il buon andamento dell'esistenza, realizzando sulla terra la Maat mediante la propria opera di re giusto e di figlio devoto degli dèi. Così operando, egli contribuiva, naturalmente, anche al corretto svolgimento dei fe nomeni naturali e "produceva" nutrimento per i propri sudditi, come dice di se stesso Amenemhet I, fondatore della XII dinastia (1991 1962 a. C.): «Ero uno che produceva orzo e amava il dio-grano. Il Nilo mi rispettava ad ogni inondazione. Nessuno ebbe fame durante i miei anni (di regno), né sete». Tale convinzione era così diffusa, che durò molto tempo dopo che il faraone aveva perso ogni reale potere, quando il glorioso Egitto non era più che un ricordo: infatti, Ammiano Mar cellino sapeva ancora che gli Egiziani attribuivano al proprio sovrano la capacità di produrre abbondanza o, al contrario, di attirare sul paese la carestia. L'idea che il re conservi, anche dopo morto, potere sopra le forze della natura non è, tuttavia, esclusività dell'Egitto faraonico. Essa si ri trova (o meglio, si ritrovava, perché attualmente è difficile capire se credenze valide ancora sessanta o settant'anni addietro siano state o no __
23
spazzate via dall'occidentalismo imperante dovunque) in alcune culture di popoli africani moderni, estesamente studiate nei primi trent'anni del 1900 dall'illustre etnologo inglese C.G. Seligman. Seligman è stato il fondatore degli studi etnologici moderni relativi alla parte dell'Africa centro-orientale comprendente il Sudan ed i paesi limitrofi, abitati c:b popoli definiti "nilotici": Dinka, Shilluk e Nuer, fino all'Uganda e alla Tanzania. Egli riscontrò in queste genti l'esistenza di concetti, tradi zioni ed usanze che si potevano ricondurre a precedenti dell'Egitto fa raonico. Alcuni erano di tipo cultuale agrario, come l'estrema affezione per il bestiame bovino e l'abitudine di deformarne artificialmente le lunghe corna, in modo identico a quello visibile in raffigurazioni di buoi bene accuditi e ingrassati delle tombe dell'Antico Regno. Altri ri guardavano particolari di ornamenti personali; altri, infine, estrema mente significativi, concernevano modi di pensiero e convinzioni reli giose. Tra queste ultime, soprattutto due colpiscono vivamente coloro che studiano l'antica civiltà egizia: una è l'idea, tipicamente africana, che ritiene la perfezione consistente non nell'unità, come pensano ge neralmente i seguaci del pensiero filosofico greco, ma nella duplicità. Da tale idea derivano, come è stato più volte osservato, la costante di visione dell'Egitto faraonico in due monarchie, il dualismo-rivalità tra Horus e Seth, la credenza nel "doppio" di ciascun individuo (la forza vi tale chiamata in egiziano antico Ka, da non confondersi con il Ba, una sorta di "anima") e, addirittura, l'espressione designante la Sala del Su premo Giudizio ove siedono Osiride e i quarantadue giudici dell'aldilà: "Sala delle Due Verità", espressione che, per noi, suona come una vera e propria contraddizione di termini: la verità, come è noto, è una sola! L'altro importante concetto proprio di questi moderni popoli afri cani, rintracciabile nel modo di pensare degli antichi Egiziani, è la po sizione particolare di cui godeva il sovrano sia da vivo, sia post
mor
te m. Secondo quanto appurato da Seligman, alcune tribù Shilluk e Dinka consideravano divino il proprio re; quando egli moriva (il tra passo spesso avveniva in seguito a morte violenta: ma questo fatto ri guarda un altro aspetto della regalità africana), al momento della sepol tura nella sua mano destra si versava del latte e nella sinistra del mi glio. In tal modo, il sovrano portava con sé nella tomba il nutrimento della sua gente, rimanendone, in un certo senso, depositario e posses sore. Anche dopo morto, perciò, il re di alcune tribù Dinka e Shilluk continuava ad essere, secondo le parole degli antichi Egiziani «nutri24
m ento e abbondanza» per i propri sudditi. Tale situazione ha molti punti in contatto con quella di Osiride: possessore dell'acqua ma non fiume, suscitatore del grano ma non grano. Secondo l'opinione di Seligman, espressa in un'opera dedicata nel1934 allo studio della regalità divina africana, la causa delle singo lari affinità tra idee correnti ancora nei primi trent'anni del 1900 tra al cune genti africane centro-orientali e idee proprie dell'Egitto dei faraoni sarebbe da ricercarsi nell'influenza esercitata anticamente dalla cultura egiziana classica su quelle dei popoli vicini, estesasi poi lentamente verso l'Africa centro-occidentale, fino alla Nigeria, e conservatasi fino ai giorni nostri. Lo studioso inglese, infatti, ritiene che «una infiltra zione graduale di idee egiziane nell'Africa nera deve essere esistita fin da tempi remoti, probabilmente già dall'età delle Piramidi». Tuttavia, il medesimo Seligman, nella stessa opera, scrive: «(...) ma, nonostante queste somiglianze sorprendenti, fattori cronologici ci impediscono di credere che i Re Divini del Sudan siano dovuti direttamente all'influsso egiziano; dobbiamo piuttosto considerarli esempi di una antica e diffusa credenza hamitica». E' proprio questo riconoscimento dell'esi stenza di un remoto substrato nord-orientale africano comune che da rebbe ragione più realisticamente dell'esistenza di idee simili nel l'Egitto faraonico e in una vasta parte dell'Africa moderna. H. Frankfort, nella sua già citata opera sulla regalità egiziana an tica, accoglie favorevolmente questa seconda spiegazione del fenomeno data da Seligman e accosta l'Osiride dell'età delle piramidi e del Medio Regno al "Re Morto Divinizzato" degli Shilluk e dei Dinka, indivi duando la prima origine di questa particolare figura in un remoto e ba silare sostrato africano nord-orientale comune. Naturalmente, nel corso della lunghissima storia dell'Egitto faraonico l'originario ''re morto" africano, impersonato da Osiride, all'in_iz_i()- esc.(l1sivamente il "faraone defunto" contrapposto a Horus, re vivente, subì modificazioni ed evo luZlo!iJJ}Qo _a <:Iivenire dapprima ìl signore-e giudice dell'aldilà e poi la divinità salvifica diffusa ben oltre i confini dell'Egitto. --·La figura oi Osiride, dunque, si colloè.ain una posizione particolare, se paragonata a quelle dei cc.dd. "dèi che muoiono" del Vicino Oriente antico. Innanzitutto, egli rispecchia un prototipo umano e regale: la sua iconografia è, sin dall'origine, mummiforme e antropomorfa e solo in seguito ad accostamenti e sincretismi con divinità funerarie terio morfe (Khentiamentiu di Abido, Sokaris di Menfi) ne assumerà, talora, 25
dei tratti iconografici, solitamente la testa di animale. Poi, Osiride non risorge 11Uli: egli è il "re morto" per eccellenza, destinato a r:�1i.!M�_Còfl:: finato-neff'aldlià,.poiétié sufla terra regna, seéondo quanto esige Ma!!! , f:Iorus, suo legittimo successore. Tuttavia, egli non è escluso dalla vita quot:lC!hina di-coloro che Iùiono i suoi sudditi. Sotto la terra, egli .. m-allè.il possessore della forza vitale, che si esprime nell'acqua del l'inondazione, nello spuntare e nel crescere dei grani, nel sorgere degli astri. �a_sull mort�_è l_(l_':'_ita per gli uomini: secondo. 1�-p�ole d!_frank fort, «bisognava che il re morisse, per poter penetrare nella terra,_ e lì a profitto degli uomini, come dio ctonio; bisognava che i. I gt"ano _ seminato-morisse per far spuntare la messe;- bisog-nava che i-l Njlo decrescesse, per far ritornare l'inondazione>>. Tali poteri vitali, come abbiàmo già detto;-si ritrovano nelle figure dei "re morti" delle moderne tribù nilotiche; tra di essi Frankfort cita, seguendo Sir James Frazer, Nyakang, venerato dagli Shilluk. Di lui, come di Osiride, si racconta che fu un re, insegnò agli uomini a colti vare la terra e dall'aldilà continua ad aver cura di essi, inviando la piog gia e favorendo il raccolto. In lui si confondono tutti i sovrani defunti, proprio come tutti i faraoni trapassati erano sintetizzati in Osiride. Possiamo, dunque, concludere che l'originario Osiride-"re morto" dei Testi delle Piramidi e del Medio Regno fosse una figura divina deri vante dal sostrato africano, elemento certamente presente nella com plessa cultura dell'Egitto antico. In seguito, dopo "democratizzazioni", accrescimenti, sincretismi, l'Osiride "africano" e "re morto" si tra sformò e si sviluppò, fino a divenire il perno dì una credenza salvifica diffusa nei più remoti centri del mondo antico precristiano. Ma l'Osi ride primitivo, quello di cui si diceva «Tu possiedi la tua acqua. Tu hai il tuo flutto» (Par. 1291a dei Testi delle Piramidi) e «
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Un cenno almeno meritano infine gli sviluppi che ebbero a subire la figura, la mitologia e il culto di Osiride in epoca greco-romana. 26
Come precedentemente accennato, nel mondo ellenistico Osiride è al centr2__!!i �n.!i tr.a§fQ�azione che. finisce per proiettare fàntica divi ru.tà egiz.iaf!a in una dimensione extra-nazionale, facendone un dio difiè � �i91e.�niyersllJi_e idoneo a soddisf�e nu()ve istanze religiose. Solo al�l!!lL!'!! .tti tradizionali del mito e del çlllto osiriani Vt!ngpnò mantenuti� anche se sono ricontestualizzati all'interno di nuovi sisterrìl ideòJQ&!(;Lòrm�Ii molto lontani dall'antìca religione dei faraoni. Si tratta di una problematica complessa e in questa sede ci si limiterà solo ad alcuni accenni in stretta relazione con il tema trattato. La prima questione concerne i "misteri di Osiride". Testimonianze relativamente antiche parlano infatti di misteri in connessione con la coppia Iside-Osiride (cf. Erodoto, II 171; Diodoro Siculo, I 27,86) ma, come è ormai opinione diffusa tra gli studiosi, l'uso del termine "misteri" in questo caso sembra essere stato suscitato dalle analogie tra le vicende dei due dèi egiziani - rappresentata in cerimonie pubbliche e quindi non caratterizzate né da esoterismo né da iniziazione e quelle di Demetra e Kore nell'ambito della religiosità eleusina. In entrambi i casi, infatti, c'è il riferimento ad una ricerca del personaggio scomparso, al lutto e alla gioia conseguente al suo ritrovamento. Veri e propri misteri sono invece attestati in Grecia e a Roma durante l'epoca imperiale. Come ci racconta Apuleio attraverso il "romanzo" di Lucio, la dea Iside poteva chiamare a sé dei privilegiati che divenivano, attra verso delle cerimonie iniziatiche che restano parzialmente oscure, dei _ z�_fll�§i a? J .r.e....&!�lfl_i sem���2_nnet novelli Osiride. Il tipo di i>1!.lvez te_rsi tantQJ!lllLYita t.t:r:r��a ch.e._Ail'alfl.U�- Una seconda inizi azione, que 'sta volta ai misteri di Osiride, conferisce all'iniziato/Lucio ulteriori ga ranzie nell'esistenza terrena; un'ultima cerimonia gli consente infine di conoscere Osiride nel suo vero aspetto e partecipare così pienamente al l'attività cultuale entrando nel collegio dei "pastofori". Su un'altra testimonianza vale la pena di soffermarsi per cercare di capire meglio il carattere di Osìride nell'ambito della religiosità impe riale. Si tratta di un passo di Firmico Materno (De err. prof rei., 22) relativo ad una cerimonia cultuale di cui è protagonista una divinità non esplicitamente menzionata. Gli studiosi sono stati per lungo tempo divisi sull'attribuzione del culto in questione ad Attis o a Osi ride. Recentemente è stato dimostrato (J. Podemann S�rensen) come esso sia connesso alla tradizione rituale egiziana, con chiari riferimenti alle cerimonie osiriane, facendo così pendere la bilancia decisamente 27
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dalla parte di Osiride. Finnico riferisce che in una notte particolare un simulacro viene posto su una lettiga e lamentato con ripetuti pianti; dopo che i partecipanti si sono estenuati secondo le lamentazioni pre scritte, viene introdotta una luce e un sacerdote, dopo aver unto la gola di coloro che hanno partecipato al pianto, dichiara con voce lenta e sussurante: «Gioite, o misti del dio salvato; infatti anche per noi ci sarà la salvezza dalle pene». Segue il commento di Finnico: «Tu sep pellisci un idolo, tu piangi un idolo, tu porti fuori dalla tomba un idolo e tu, misero, nel fare ciò, ti rallegri. Tu liberi il tuo dio, tu com poni le giacenti membra di pietra, tu riassetti la pietra insensibile. A te faccia grazia il tuo dio, te con pari doni remuneri, ti voglia partecipe di sé. Così tu muoia come è morto, così viva come è vissuto». L'impalcatura misterica nella quale viene inserito Osiride costitui
sce un elemento di novità rispetto all'antica tradizione egiziana: qui ai essere eventualmente "osirizzato" non è il defunto ma il miste ancora in vita, anche se tale innovazione si colloca nel solco della religiosità più antica in cui tale personaggio non è considerato un "salvatore" bensì un "salvato". Sarà piuttosto la sua "salvatrice", Iside, a vedersi 0 assegnato nei culti misterici di età greco-romana un ruolo più attivo, coerentemente con il suo assurgere a divinità cosmica dalle prerogative pantocratiche. Le_pr()spettive che si aprono ai devoti non saranno però da imma g�n(lrsi nei termini di una "resurrezione", poiché essi non sono "salvati" dalla morte, bensì nella morte. -Nelle speculazioni filosofiche- dei primi secoli della nostra era,
siano esse "pagane" o cristiane, la figura di Osiride e degli altri perso naggi del suo mito vengono utilizzate quali metafore attraverso cui "spiegare" la realtà. Nel risulta un complesso schema il cui punto di ri ferimento è il Medioplatonismo e in cui il racconto mitologico è sot toposto ad un'esegesi serrata: è questo il caso di Plutarco (citato sopra), che fa di Osiride l'anima mundi positiva, di Iside la natura dal primo fecondata, di Seth l'anima mundi negativa, di Horus il cosmo. Tali
speculazioni saranno poi riprese dalla setta "eretica" dei Naasseni (lppolito, Ref omn. haer., V 6-11) e inserite all'interno di una cosmo logia e una teologia gnostiche. Non si tratta della negazione delle anti che tradizioni, ma di una loro rilettura tesa a scavare il fenomeno alla ricerca delle "verità" in esso nascoste. L'orizzonte mitologico-rituale più antico che fa da sfondo alle interpretazioni filosofiche medioplato-
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niche è invece completamente assente nel quadro della "teologia solare" dove Osiride, al pari di altre divinità, diventa un'ipostatizzazione del Sole, principio divino unico ma invocato con nomi diversi dai diffe renti popoli. Nella IV Orazione dell'Imperatore Giuliano accanto a Osi ride si menzionano Serapide, Apollo, Dioniso, Ares, Hermes, Ascle pio, Eracle, Attis, Horus, Adad e altri, nella testimonianza di Marziano Capella (De nupt. Philol. et Mercur., II 191-192) appaiono insieme Osiride, Attis, Adonis, Ammone e Serapide. Sempre alla tendenza enoteistica va ricondotto l'inno riportato dai Naasseni, in cui Osiride è identificato con altre divinità. Se si continuano a riportare nomi di person:1_g_gi antic_hi llEPartell�nt lù diversi sistemi religiosi del mondo mediterraneo, è però evidente che non si parla più di loro, bensì attraverso di loro, manifestazioni solo formalmente diverse di uno s_�ess? principi() divino che origina e informa tutta la realtà. Con ciò, è superfluo sottolinearlo, i legami con le figure originarie e in partico lare con l'antico Osiride, l'Africano, si sono definitivamente e irrime diabilmente dissolti.
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DUMUZI-TAMMUZ Alla ricerca di un dio
PAOLAPrSI l. II nome di Tammuz, forma accadica di Dumuzi, ci è stato tra smesso anteriormènte alla decifrazione oel cunertorme dall'Antico Te stamento, e precisamente dal profeta Ezechiele, che descrive in una vi sione simbolica il Tempio di Gerusalemme profanato dagli idolatri: «Mi condusse all'ingresso del portico della casa del Signore che guarda a settentrione, e vidi donne sedute che piangevano Tammuz» (Ez. 8, 14). Nella traduzione dei LXX il nome del personaggio oggetto del la mento femminile non viene tradotto, ma soltanto traslitterato dal l'ebraico in lettere greche (ho thammouz), mentre nel testo latino di S. Girolamo il nome del dio compianto dalle donne suona diversamente:
et ecce ibi sedebant mulieres plangentes Adonidem.
L'identificazione tra Tammuz e Adonis non era però nuova. Il primo di una serie di esegeti di Ezechiele a omologare esplicitamente Tammuz con Adonis e���!��_9rig�ne, il quale ci informa che Ebrei e Siri chiamavano appunto Tammuz la divinità detta dai Greci Adonis (Sel. in Ez. 8, 12: PG XIII, 797 B - 800 B), aggiungendo che ogni anno veniva pia11ta � a morte -�L���Ili_s.:_!apf!l\:1.� �-J���egg!!J:t�J!'J:_�u� resurreziOB!��lJutt���COf!!par�-�-��dio.Jace������-u_ll_t2!uale o gioioso, durante il quale Adonis-Tammuz veniva celebrato «come se fosse risorto aai morti»(h]Js q_eq_�;I�kr6�Ji�!fi!l]l):··oilgeile"n� . o i i r� � � ! i � ,_, -�� � i. � �
� � �� ��rt1 � � �� � � ���� Jf�l�� .... .......�� . iil�iii, �..... all a, quan
bolo dei frutti dell� t�f!"�.:_�he ..':��E_ian.!l_ �-���� ç!g muoiono, _!Ile_nt!�.-�2'!Q ..l!!.?.�_j_U�i?._ia qu���-�����ç>_: sia nell'ap plicazione al culto di Adoms-Tammuz di uno schema di morte e resurrezione, sia nell'interpretazione allegorica del dio, Origene troverà, a partire appunto da Girolamo, diversi seguaci fra i commentatori anti chi di Ezechiele (e anche fra gli studiosi moderni). Fino alla decifrazione del cuneiforme, dunque, del dio mesopota mico si sapeva praticamente solo quanto ci avevano trasmesso i com mentari patristici e rabbinici dell'Antico Testamento: Tammuz era il --·-· ······· ·-···
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corrispondente semitico del greco Adonis (identificazione accettata dalla maggior parte degli studiosi, nonostante qualche dissenso), veniva ritualmente celebrato nel mese omonimo, e ogni anno moriva e risor gevi:\J_colllt!_Ì� �gr�_no di cui era una pe�onificazione: Nonostante la :_;; scarsità di dati non mancarono, già prima dell'accesso ai testi cunei formi, diverse teorie sull'origine e sul significato del dio, cui fu spesso attribuito, in analogia con la greca Persefone, un culto misterico. Nel '700, comunque, appariva ormai saldamente stabilita l'identità tra l'egi ziano Osiride, il caldeo Tammuz e il greco-fenicio Adonìs (cui a volte si aggiungeva "Bacco")5• Gli studi su Dumuzi-Tammuz, nell'epoca pionieristica dell' assirio logia, trassero impulso dal ritrovamento, neglì scavi di Ninive (la c.d. Biblioteca di Assurbanipal), del testo accadico della Discesa di /Star agli Inf!n"', che divenne oggetto di numerose trììduzionlaa-·parte-dei mag giori orientalisti della fine dell'800. Come scriverà Sayce - esprimendo un'opinione largamente condivisa da tutti gli specialisti dell'epoca dopo aver letto il mito sappiamo finalmente chi è il Tammuz pianto dalle donne di Gerusalemme, e ci risulta evidente che i babilonesi IStar e Tammuz sono le medesime divinità denominate dai Greci rispettiva mente Afrodite e Adonis7• L'affermazione di Sayce non corrisponde però del tutto al vero: come già abbiamo detto, non era stato certo necessario attendere ìl ri trovamento della Discesa di /Star per ipotizzare che nel Tammuz "assiro" si dovesse riconoscere il greco Adonis. Ben difficilmente, del resto, si sarebbe potuto dedurre l'identificazione delle due divinità dal mito, dì incertissima lettura, e in cui Tammuz compare solo, e assai enigmaticamente, nel finale. L'equivalenza Tammuz-Adonis era in realtà fondata sulle testimonianze deglì antichi, e in particolare dei Pa dri della Chiesa: piuttosto, fu proQrio [�§i!}lilaz;i?.�Jla divinità mesopotamica all'amante di Afrodite a guidare l'interpret_a.?iQI!� della ) Discesa di /Star. Subito, infa�nonostante le difficoltà di traduzione, apparve chiara la trama del mito: la -deaài'i0àvané1Fàlilll a·per ceréarell gloviìiie.anùinte, Cfie"verrà npòrtato.inorit'aìmente suflc:ùerra. Taie rico struzwne, iion'glustìfiéà1a1n'alèunmodo'<ìartesto,. vennè-aedoita'dJ_ ì fiiiUèTe"SCaiSe) noiiziésuilria"'i'flscésa agli Inl'erf;;. àfAfrOdite, pèr.otle ��-dii ���1()i1eTa résiTtùzione ai Adonis8• Nes�inciltre_�ìSeln V dubbio (e così sarà, tranne qualche rarà eccezione, per molto tem.E22J.a ..- "resurrezwn"aeraro.· Scoflìito fu. purè il significato natunstico del
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testo della ierogamia tra Inanna e Iddin-Dagan, l'interpretazione fraze.. riana da un lato sembrò così trovare una straordinaria conferma e dal l'altro costituì lo schema concettuale precostituito entro cui calare il testo. A seg':!ito delli!-_.Q!!.g_�liç�.z,iqm'<..J!eLBg _ mQ....Q.QrQ,J2Y.!!l�;I�.-c;liven� rapidame!Jte anche !.!i-1!EIQ�.�te_!!��215?.Bico_!L�()5!�1lo !!�! dio j�lla fecondità. nella cui !Jl()_rJ�-�.Eesu��one J>e!!oc!�9!.si espriméìf"'ritm .., 2 della vita vegetativ�_ e_�h�-qg�L�!!.Il�..ll.nÉ��-}.11...':!�-�!".2 !.u.!1.P.les�� con la Grande Dea, allo scopo di far rifiorire tutta la natura. E tale, con � ...... poche eccezioni, sarà destinato a rimanere fino ai giorni nostri. A partire dai primi del '900 si moltiplicarono le monografie su Dumuzi Tammuz, contemporaneamente alla pubblicazione di nuovi testi che lo vedono protagonista: Tammuz era, ed è rimasto, il dio mesopotamico che più ha appassionato gli studiosi moderni, nonostante non possa essere considerato una delle divinità più importanti del pantheon locale. La popolarità di Tammuz presso assiriologi e storici delle religioni non può evidentemente essere disgiunta dal successo del modello frazeriano del culto_ . di fesoJ1jitt.�h-�, .Jl,EL.P!illli 9:�".!!L -��I_:J_QO, C costituì la catç_a2[i���PE���!��-per..��-:_r�--�-��i..�-�!().&e!'�--��.�!�� riti dell'antichità. La soluzione frazeriana, con la conseguente riduzione del simbolismo mitico-rituale, nella sua fase originaria, ad una risposta ai bisogni primari dell'uomo (cibo e procreazione), sembrava infatti una ragionevole spiegazione della produzione religiosa "primitiva". Inoltre, il paradigma naturalistico del ciclo stagionale poteva essere visto come il livello esplicativo più elementare ed arcaico, ma non esclusivo, della vicenda di amore, morte e resurrezione di Tammuz. Nel clima culturale dei primi del '900 infatti risultava quasi scontata l'ipotesi di un passaggio aa-iiiiil"'nnaséTia"àcllanaturaooùii'i.l'visiOne o globale della pereiiiienascmnrerra·vìta ·aarra-morte e"ìiif"fne aa�ùna Soierlofogia-oltierrioriaana.·lr·e:orre-gamemo···trila''Sàfvezzarr·
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né la possibilità di ricostruire una Weltanschauung arcaica fondata sull'inesauribile alternanza di vita e morte, a determinare il trionfo del frazerismo, e la conseguente ipervalutazione negli studi assiriologici dell'importanza di Dumuzi-Tammuz: la teoria f�riana d�Idying g�tJ.: 1 nel suo duplice �p_c:�t!���-��iv����clifiçato_ritualmente per _ll! �· ��:�tà ��)_!�8!15'��--�i d��J�_�?rio.<:Ii�!ffiente morente e risor&_��costituisce una evidente ricodificazione in termini di ciclicità stagionale :> di unffi�(f�lTQ�ç�[i�Jtan_Q.dì -morte· e·resurre�ÌQJ}�. La_ <;�t��oria tipol ()gi� _� del "dio morente", infatti, da un lato rendeva universalizzabile la mo_:!��S.Ia n��na-dTiJfia-m orte ·e res�fliil()�e�pp�..I'_tat��i di salvezza (a diversi livelli: mondana, come nnascita annua della natura, �t!t_o_n��niJ.). d.a1t'altro-poteva racilmeriteessere' trà.sronÌlata ìnuna teoria sulle orig!ni del Cristianesimo. Dumuzi-Tammuz, la cui morte �a_ Siaj��p1;nia,"comeavveìià per-queirà �icrlst(),
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Come era IÌÌevita6ìie, la scoperta dell'inaspettato finale della !nanna indusse a rivedere molte teorie sulla figura di Dumuzi e, più in generale, a ìnterrogarsi sulla consistenza tipologìca del dying and risìng god. All'ìn�?.ì_? deg!i.__�Ei_:§.Q_!
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metà dell'anno». Nonostante la frammentarietà e oscurità del testo, secondo Kramer è possibile affermare «con ragionevole certezza» che tali parole siano pronunciate da !nanna, la quale, rendendosi conto che la presenza sulla terra di Dumuzi, dio pastore, era necessaria per assicurare la fertilità animale, decretò che egli rimanesse nell'aldilà solo per una metà dell'anno, e GeStinanna ne prendesse il posto per l'altra metà. A onor del vero - ammette Kramer - non vi è traccia nel testo di tale preoccupazione di Inanna per la prolificazione del bestiame, ma sì tratta di «una ragionevole ipotesi» da parte di Falkenstein, e possiamo essere certi che dovesse comparire, in un modo o in un altro, nella ) parte mancante del componimento. Sempre nella stessa parte mancante, in accordo con un'altra "ragionevole ipotesi" di Falkestein, GeStinanna doveva seguire il fratello nell'aldilà e offrirsi di sostituirlo nel regno dei defunti. Dunque,_}�-�<2.'!�lusi()�f!�Ui era giunto prece
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rappresentativo, era infatti incentrata la vita religiosa sumerica del N millennio a. C. Le prove documentarie però- come riconosce lo stesso studioso - scarseggiano: tutta la dimostrazione storico-filologica si riduce al cosiddetto "vaso di Uruk" (fine IV-inizio III millennio), di difficilissima interpretazion!!.L!D:él_l!!_.�!!l.�f...l.?�en _jndi�!_dua con _ ��a.?i9n..e della i�r9_gaJlli.�_fr:.él.!!1_�11!!l:l_�.-J?.�muzi. E' D sicurezza una raQprese evidente che tale incertissima testimonianza iconografica nòn._sarebbe stata sufficiente da sola per ricostruire una fase originaria della religione mesopotamica incentrata sul culto di «dying gods of fertility>/'. Ma, come spesso accade, dove fanno difetto le prove interviene la teoria, che, nel caso di Jacobsen, è il risultato di un improbabile connubio tra un irrazionalismo intuizionistico desunto m R. Otto - in base al quale a fondamento di ogni religione vi sarebbe l'esperienza del "numinoso", inteso come il ganz anderes, insieme fascinans e tremendum e un naturalismo evoluzionistico di matrice frazeriana. Di conseguenza i Sumeri, all'alba della propria cultura, percepivano il numinoso essenzialmente nei "poteri" da cui proveniva loro il cibo. Sulla base di tali premesse metodologiche, il culto di Dumuzi, «dying god of fertility», può venire proiettato da Jacobsen in epoca protodinastica, o addirittura nel IV millennio, pur sulla scorta di una documentazione neosumerica e paleobabilonese: l'arcaicità del dio è infatti desunta dalla sua "intransitività" (e cioè dalla non trascendenza rispetto al fenomeno naturale, e dalla conseguente mancanza di azione: tutta l'attività di Dumuzi si riduce al contrasto tra presenza e assenza). Non dotato di una personalità piena e attiva (e, di conseguenza, in un'ottica evoluzionistica, considerato anteriore rispetto agli dèi pienamente personificati), Dumuzi può essere così riguardato, nella ricostruzione di Jacobsen, come una delle divinità più antiche del pantheon mesopotamico, e come la più rappresentativa della religiosità del IV millennio. In realtà- continua Jacobsen - non possiamo neppure parlare di una figura unitaria del dio, ma dobbiamo distinguere quattro aspetti o "forme" di Dumuzi, tutte manifestazioni "numinose" o personificazioni di fenomeni naturali, e correlate con le diverse forme di produzione economica: avremo così un Dumuzi della palma m datteri (AmauSumgalanna), il cui culto è tutto centrato sui gioiosi rituali di ierogamia e non presenta aspetti funebri; un Dumuzi pastore, connesso sia con le festose nozze sacre che con le lamentazioni alla fine della stagione del latte; un Dumuzi legato ai cereali e alla birra e -�----..:...-, -�---�M....It'«'--.W.-..,.. .. ,....,..,.,...,.,,_
-
39
venerato dai coltivatori; e infine Damu, dio fanciullo originariamente indipendente rispetto a Dumuzì, collegato al succo fertile della piante e oggetto di ricerca rituale da parte della madre e della sorella". L'unità della figura del dio è comunque assicurata dal fatto che tutti i fenomeni in cui egli è presente «are foods or connected with foods»25: Dumuzi è oggetto - e non soggetto - di amore, rimpianto e desiderio, in quanto raffigura il cibo, perennemente desiderato in una società sempre esposta al rischio della fame e della carestia. E' dunque l'assunto teorico secondo cui la religione sumerica era espressione di un interesse pragmatico e in primo luogo alimentare a orientare l'analisi fatta dl Jacobsen del materiale relativo a Dumuzi (condotta peraltro egregiamente dal punto di vista strettamente filologico). Mai l'assiriologo danese ritiene dì dover dimostrare il legame di Dumuzì con la fertilità vegetale e animale. Egli si limita a postularlo, e i testi addotti servono sostanzialmente ad illustrare una tesi data per scontata, o forse per acquisita: tutti, dopo cento anni dì studi in cui si ripete la stessa cosa, sanno che lo sposo di Inanna è un dio della fecondità. , ;) L'autorevolezza e l'indubbio valore filologico degli studi di KraJl1er e Jacobsen hanno fatto sì ctie-Incampo asslriologico ìa-categorìa déì > ·'dl0ll1oreiiié--e--flsorgen-te"--cosiifiiìsca· iutiora -·ic·c:ì-iteiio-- Cii ··reitlii:-a privilegiato per i!Complesso�:�].l_c()�fì_iri/!l[.i·el��C la �ione ellenica . di una generica morfologia divina siro , palestinese:-alfrne-di�caràttenzzare--Pbii ènte. come--alieriià-negativa ) nspetio�f.�§:�_a -_(li_�:v-�lorf"�i��E�:se_,_aunque rfsur&-scorretto omologare meccanicamente Adonis ad uno specifico dio orientale, e non è individuabìle alcuna continuità Tammuz/Adonis, è però vero che l'eroe greco risulta tributario di uno specifico "tipo" divino siro__
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palestinese, le cui radici ultime devono essere rintracciate non nel dramma stagionale della vegetazione, bensl nel culto degli antenati reali, ampiamente documentati nella cultura ugaritica (i rpum), e da cui prese le mosse anche il processo di formazione delle divinità cittadine fenicie, quali Bmun e Melqart, annoverate anch'esse da Frazer, e dai suoi seguaci, fra gli "dei morenti" 28• �gli inizi d�IL'!!!!Ii. ��Q, __Q.ll n_qu,�....la C!lt_t?g()�i é:l_del ''diOf!l_2!:�I!�e�_le_i:k sorgente" Q_are ormai definitivamente in crisi: già nei primi anni del se §l<:_�cul!i�giJ{Q!.()gi avevat:to potut(l t:te.&�é -�ì.aJa:J e�urrezio_l)_ç_ dCQ�ride, sia la sua connessione con il ciclo stagionale , e successivamente uno dopo rafiio-Tttiiiis�é:..�2������!L!i����
funti, di cui sì configura come la proiezione sul piano divino32• Nel pe riodo sargonico scarsi sono i riferimenti nella documentazione ammi
nistrativa al culto di Dumuzi, e l'unica menzione del dio degna di nota è contenuta in un inno a Inanna composto dalla figlia di Sargon, Enkheduanna, sacerdotessa-en del dio Nanna: nella quattordicesima
stanza la dea viene invocata come «amata sposa di U!lumgalanna», in un contesto, comunque, astrale, e non ctonio-vegetativo (nin-me-Mr-ra, r. 111). La prima delle rare occorrenze del nome di Dumuzi in iscrizioni re gali è dovuta, intorno al 2200 a. C., a Urgì!lgigir - figlio di Urnigìn di
H. Steible, Die neusumerischen Bau- und Uruk (UET VIII, 15 Weihinschriften, Stuttgart 1991: Urnigin l) -, il quale reca il titolo di =
!lagina, e cioè «comandante (militare) l stratega» di Dumuzi: una
terminologia,
dunque,
che
rinvia
ad una sfera guerriera e non
naturistico-vegetativa. Dumuzi torna un secolo più tardi nella celebre iscrizione con cui Utukhegal, re di Uruk, celebra la propria vittoria sugli invasori Gutei. Rivolto ai concittadini, il sovrano, poco prima della battaglia decisiva, proclama che gli porteranno soccorso, oltre a Enlil,
sovrano degli dèi, le principali divinità di Uruk:
!nanna,
Dumuzi-Amau!lumgalanna e Gilgame!l (ed. F. Thureau-Dangin, RA, 9,
1912, pp. 111-120, rr. II 25 - III 2). Le funzioni degli dèi urukiti appaiono interconnesse e orientate a garantire a Utukhegal la vittoria e la riconquista della regalità sumerica: Inanna è il sostegno del sovrano nella futura battaglia, Dumuzi, attraverso un responso oracolare, ha «pronunciato il destino» del re (cioè ha espresso il proprio assenso all'impresa che Utukhegal si accinge a compiere) e gli ha dato come aiutante Gilgame!l, modello divino della regalità cittadina. �i uovo, dunque, Dum�zi mos_t� n --��.!�_si_�rli ,c_()!!.]�-��E�-E��ale e � belhca . Tale campo d'azione nsulta d'altronde coerente con la
tii:lizìòne
attestata dalla Lista reale sumerica, che registra due sovrani
recanti il nome di Dumuzi: il "pastore", re antidiluviano di Badtibira, e il
"pescatore"
postdiluviano,
nativo
di
Ku'ara,
successore
di
Lugalbanda e predecessore di Gilgame!l sul trono di Uruk>�. Al Dumuzi re di Uruk un duplicato della Lista reale proveniente da Nippur attribuisce la vittoria sul sovrano di Ki!l, Enmebaragesi, impresa che altre volte vede protagonista Gilgame�35• Benché la scarsità della documentazione non ci consenta di caratterizzare maggiormente il culto di Dumuzi a Uruk - dove il quarto mese prendeva il nome dal Dumuzi
42
di Badtibira, e cioè Lugal-é-mu!l* - le iscrizioni regali e la lradizione �flilQil}l,l_prjyi\�giano dunque J'(lspetto guerriero_ e r_egale del dio, �ss� i�-�vid-i�
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successore di Sulgi, anche nelle iscrizioni i sovrani iniziano a vantare le proprie nozze con la dea. La titolatura "sposo (amato) di lnanna" di...... ----- --.....,venterà u��a!e dura'!_�_)� dinas�i� Ealeo��bil�11esi di }�i_Il_ -� Larsa , per scomparire.fQ.!LI3..'!!Jlgt_l�l!.ll: 1.J?��J�lafi.1ent�_l1!l
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fatto che SRT l (r. 174) indichi probabilmente nel primo giorno del l'anno (zag-mu)"' il momento delle nozze tra lddin-Dagan e Inanna non implica che il rito venisse reiterato annualmente. L'individuazione del l'inizio dell'anno come momento della celebrazione della ierogamia rrequenTe-anélie�}[Sj��-·1?.!� re�_enti.- dip�!l�e!.
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3. La ierogamia del sovrano con Inanna, dunque, solo in senso lato può essere riferita al culto di Dumuzi che, con l'eccezione del rito nu ziale di Umma, sembra avere carattere principalmente funerario. Le numerose versioni della morte di Dumuzi, fra loro inconciliabili � �_E_rd�fl.'?.�-�la_E()_II���ione, .�1.2�.1!_! deful:i!iY��artita .-:( del dio , i!._cui.ti!grno__ dal!.:�ldi!tè lll:l!l:.l:l1.C>..�-�!C?._II�!. fl.IIa!�. Pt!��l�C?.}l_!� tilo e oi_ct.!It.��ile ��lllp_r����()?e_, del_I_a, �s�_:��-�iJ�"'!_'!_�.l.i ��[�!!_Le!_. <_ _
45
infra). Analogamente, non compare alcun cenno ad una possibile futura
) "resurrezione''.rìeQQ . ùré--ì"l efcan ii. driameriiazioii?';". in-cui Dumuzi - a volte id!!ilig�to c?�_ p_a������on-altre··_(fi"viiJ[f!_l_�f��li!P oitretOniba �ì (NlìlaZu, Ni_!!&�i�ll:·. �_t�_;_J:.':'iell_��ompianto da spos�-���1? � sorella.
Secondo Jacobsen il ritorno in vita ruì)UriiuzT-Damu sarebbe cele brato da un canto, probabilmente processionale57, in cui al cordoglio per la morte del dio farebbe seguito la gioia per il suo ritorno dall'al dilà. A rigore, il testo in questione non appartiene neppure, in senso proprio, al ciclo di Dumuzi, visto che la divinità oggetto del lamento non è mai chiamata né Dumuzi, né Amau1::umgalanna. In ogni caso, i canti di giubilo che compaiono verso il finale della composizione non sono motivati dal ritorno del dio dagli Inferi, di cui non vi è alcuna esplicita menzione, bensì dal fatto che Damu, assimilato (o accomu nato) ai sovrani defunti delle dinastie di Ur III e di Isin-Larsa, si reca dal "padre" (probabilmente Enki: rr. 191 ss.)58• Anche nelle litanie del lamento eden-na u-sag-ga («nel deserto alle prime erbe») - dove a Du muzi-Damu sono attribuiti i nomi di numerose divinità, specie "infere" - vengono enumerati i sepolcri dei re neosumerici e paleobabilonesi". Per giustificare tale nesso tra il dio e i sovrani defunti non è necessa rio, come fa Jacobsenro, ricorrere all'ipotesi che le tombe regali fossero venerate in quanto fonti di fertilità e cioè, di fatto, alla teoria frazeriana ' ) del re come garante magico della fecondità del suolo e degli armenti. Tanto nei riti ierogamici quanto nel culto funerario la relazione Du muzi-regalità risulta infatti primaria, e non dipende dalla mediazione simbolica della fertilità stagionale. Del resto, come abbiamo detto, già nella Laga1:: presargonica, nonostante le ovvie differenze rispetto all'età neosumerica e paleobabilonese, lo sposo
)
-
46
nizzato della III dinastia di Ur III, con ogni probabilità deve essere cor relata con l'aspetto astrale di Dumuzi-AmauSumgalanna63• Tutto questo non s!g!J:i_fic(l_cileJa _mgrte Qi_ Q.l;l!!l!!:Z:i cl�b.l��..����!.!! ,ti dotta in maniera univoca ed esclusiva ad una codificazione mitica della realizza, a morte del re: piuttosto, come ha mostrato Alster , Dumuzi vari live_!!�---�11.11 mediazione tra :�ni"\7ersr·sfll.i��licfopposti (viiaJ �dèi l u?_'!li_ni, città f spazio �xtr:aurbano\ e pertanto può fo!:&�� una soluzione alla contraddizione insita nella ineludibile mortalità di un· sovrario divirio. Moitol. _Il1a pure perèm1emente dio e sposo di �Qu.!I!�-�i (;2.��it_ uisce un p�_ijJ_ò·�:di_.[fefiiE�Jif�J?!lV.!J�gìato � < un'escat?.Is!�_<\1�-!-- (;��_sin �alla �l1gas _presargo11ica prevede la '-rs<)pravvivenza" degli antenati come fonte del potere del success'ore:·e clle'ìn-epoEa-neos-umeriCà deve necessariamente_ conciliaré moriant1té iiiViilTtr.''PJ�jn ��1ér2I�L�o�unqu�_.: jl: cE�@), �;5�P��:.! m1t1 di m�rte dil:>umuzi �L�2..11!is����-
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datata al mese di Dumuzi sono registrate offerte a divinità collegate con
la cerchia del dio o con l'aldilà (Ninegal, NingiSzida, Nungal e Andu
musag), ai sovrani defunti della città e alle loro spose, ma non allo stesso DumuziX>: benché sia impossibile trarre conclusioni definitive un solo documento (tanto più che sacrifici
di ai � ovemanti morti di LagaS
sono attestati anche in altre occasioni rituali \ è comunque degno di
nota che nel periodo neosumerìco a LagaS il mese della festa del dio
fosse occasione di un culto dinastico (analogo a quello del mese di Lugal-URUxKARki durante la prima dinastia lagaSìta)72• Il culto di
Dumuzi si ricollega in maniera univoca al culto ancestrale dei sovrani
neosumerici a Ku �ara, dove nel periodo di Ur
III il dio era tributario di
offerte nel tempio di Ninsun insieme con la stessa Ninsun e Lugal banda (considerati come i "genitori" divini dei dinasti di Ur
III),
GeStinanna e i predecessori defunti del re in carica. Purtroppo insuffi
cienti a definire la funzione del dio sono invece i documenti pervenutici
sul culto di Badtibira, dove Dumuzi, con il nome di Lugal-é-muS, era
sin dal periodo protodinastico titolare di un tempio, la cui attività con tinua in periodo paleobabilonese73• Nulla sappiamo di una "festa di
Lugal-é-muS" a Uruk, da cui prendeva nome il
IV mese del calendario
locale. Piuttosto, risulta scarsamente compatibile con un culto di fe
condità stagionale la discrasia fra le datazioni delle diverse "feste di Dumuzi" nei calendari dell'epoca di Ur
\
D
LagaS e
m (XII mese a Umma, VI a IV a Uruk). Della festa di Dumuzi abbiamo notizia anche di
alcuni componimenti letterari, che la mettono inequivocabilmente in connessione con il culto dei defunti: dall'Inno
a lnanna-Ninegal/a
(«Signora del palazzo»), di epoca paleobabilonese, apprendiamo che durante la festa dì Dumuzì, che doveva
danno,., la dea incontrava il proprio riceveva offerte funerarie
(rr. 65
cadere probabilmente a Capo
oso nel tempio di Enki a Eridu e sp ss.) . Tale circostanza trova conferma
in una più recente lamentazione-balag�, secondo la quale la festa di
Dumuzi cade nel mese di Abu77, e cioè in un periodo destinato al culto dei defunti: dal medesimo testo sembra di dover comprendere che Du
muzi, accanto a NingiSzida e GilgameS, ha un posto stabile fra le divi nità dell'aldilà.
Solo all'interno di tale quadro culturale e religioso può essere valu
tata adeguatamente la conclusione della
Discesa di /nomul'. Abbiamo
già detto della travagliata vicenda interpretativa di tale componimento:
dopo la ricostruzione di Falkenstein nessuno ha più dubitato che le ri-
48
ghe mancanti del testo dovessero contenere la generosa profferta di GeStinanna e il conciliante verdetto finale. La parte conclusiva della Discesa di !nanna ���t�J2�r2_��-�.rHemç_!lJ�t!!!!..l1!:>Ji&l!l'I..Q.Y.�àlllJWal mente da Alster -·-� �LQe!:!_!nann(l_n_!l.. vi -�-�lcU!!!_!!:l!ç,��.:. Le_!!g�� �a��� i_!iJ?.9E.a_nE__!LE!�!!!O r:_it}:!a!e. �L!!!L..&tllillLQ eli. (ln�I!I!�_!-� ���.U!.��ssa ��!l.�2..P�t;,.�l-�io�c��E��_Il�C..t!Lf��S.��j.!_ç �!: dialo�o tra Inann�.$..�_!!19���:})ns�ff() fì�çJ�_a.H;,_� dg::.ç,_sL!!'�':.a Dumuzi, ottenell.9..2.i!l..S�I!!!'.!�.!.ll1 d�stmQ.Lj�!f�eJse � non altro perché il carattere astrale di Dumuzi - a differenza della sua �!!�ss. ion-e·.��ifiTiili'�Icìt��-�e��-��It!<JeTI�::Q1a@! ·:-.è .�ifes!�to. �a / documentazione mesopota"!ic�t In_2gni c���1 !!..Er�gll._�il�.J!�..
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Tammuz, il suo amato»81• Altre fonti ci forniscono alcuni particolari sui rituali della fine del mese di Tammuz, quando si celebrava la "prigionia'��_fors�.L.�l!Il�_I!Q__�-�!PP��� seppelli�ento) . del dio; in numerose città assire le cerimonie implicavano anche l'esibizione della statua del dio morto . Lo sviluppo maggiore del culto di DumuziTammuz, in epoca post-Cassita, sembra comunque essere inerente al una sua sempre più marcata funzione esorcistica: il 27 del mese omo nimo Tammuz torna dall'aldilà insieme con i morti di famiglia, per es sere lamentato ritualmente, e il giorno successivo rientra nella sua sede infera, portando con sé anche spettri nocivi ed entità malefiche che du rante l'anno fossero risaliti sulla terra per arrecare danni e malattie"'. Un testo rituale assiro del I millennio riferisce che la morte di Tammuz co incideva con la tostatura di alcuni chicchi grano84: benché la succes sione delle azioni rituali non sia del tutto chiara, si tratta della prima esplicita associazione del dio con i cereali, anche se sarebbe sicura mente arbitrario dedurne un'interpretazione naturistica. L'identi:f!�_azio�� d�!la sorte di Tammuz con guell� _?-�1 �rano si rea /-, lizza invece ré'iìfmente nel rituale medievale delle donne di Harran, cb / cui è partita Ili moderna storia de���i�.�-'!.� ?f?�rifeYCiesénverè la festa di Ta)uz (Tammuz) ad Harran, celebrata in fùglio e denominata el Bùqat, )an-Nadim scrive: «Ta)uz. Alla metà di questo mese ha luogo la festa di el-Bùqat, ossia delle Lamentatrici, e questa è la festa di Ta)uz, celebrata in onore del dio Ta)uz. Le donne piangono il suo destino, poiché il suo signore lo uccise in maniera così crudele, macinò le sue ossa in un mulino e poi le sparse al vento. Le donne, durante questa festa, non mangiano niente che sia stato macinato in un mulino, ma limitano la loro dieta a grano macerato, alle cicerchie dolci, datteri, uva secca e simili»"'. Non è neppure il caso di insistere sul fatto che significato e conte sto del rito medievale non possono essere proiettati sulla Mesopotamia v del 3000 a. C. Piuttosto, è degno di nota che anche quando, al termine della sua storia plurimillenaria, il destino di Tammuz viene finalmente assimilato a quello del grano, non si tratta, come volevano i Padri della Chiesa, della "morte" stagionale del grano seminato che rinascerà a primavera, ma dell' "uccisione" culturale del cereale macinato, che mai verrà restituito alla terra per sorgere a nuova vita: pure in questo caso, dunque, una morte definitiva. _.._............ ....
............ u---··-·-·"·---
50
NOTE 1 Fonti in F. Lenormant, "Il mito di Adone-Tammuz nei documenti cunei formi", in Atti del IV Congr. Int. degli Orientalisti, Firenze 1880, I, p . 144ss. e W.W. Baudissin, Adonis und Esmun, Leipzig 1911, p . 94ss.
2 Già lo stoico Cornuto ( Theol. Graec. 54, 19 ed. Lang) aveva visto i n Adonis un simbolo del «frutto di Demetra>> . Sulle interpretazioni allegori che di Adonis nelle fonti antiche, cf. W. Atallah, Adonis dans la littérature et l'art grecs, Paris 1966, p. 320ss. 3 Sull'identificazione tra i due dèi cf. ad es. G.E.J.G. De Clermont-Lodève, Baron de Sainte-Croix, Recherches historiques et critiques sur le Mystères du paganisme, Paris 18172 (l ed. 1784), II, p. 101 e bibliografia citata. 4
Cf. De Clermont-Lodève, op. cit., II, p. l OOss.
5 Cf. D. Chwolson, Vber Tammuz und die Menschenverehrung bei den al ten Babyloniern, St. Petersburg 1860, p. 22ss. (la prima monografia dedi
cata a Tammuz). In un ponderoso saggio del 1856, Die Ssabier und der Ssa bismus, I-II, St. Petersburg 1856, Chwolson aveva analizzato una serie di
testi sui Sabei "pagani"' di Harran, in alcuni dei quali compare Tammuz: i n particolare l'Agricoltura Nabatea, composta nel X sec., e la relazione di >an-Nadim sulla festa di Ta>uz a Harran, celebrata in luglio e denominata ei-Bfiqiìt (Il, pp. 27s. e 20 l ss.; cf. infra). Quattro anni dopo Chwolson pubblica appunto un breve volume (Uber Tammuz, cit.) in cui raccoglie tutte le interpretazioni anteriori sul dio, dai commentari cristiani e rabbi nici su Ezechiele sino agli studi più recenti. Dal ricco dossier emerge un panorama interpretativo assai variegato e fantasioso, ma la linea esegetica dominante negli studi sette-ottocenteschi è quella dell'�olo��i!? E! !.fpglogica fra Osiride, Adonis e Tammuz, posizione peraltro respinta dallo stesso A., che vede.in Tammuz un «fondatore di religione>> e un «martire del nuovo culto>> . Il volumetto di Chwolson verrà comunque ben presto dimenticato: tre anni prima della sua pubblicazione era stato infatti "ufficialmente" decifrato il cuneiforme, e ben presto si poté accedere a fonti dirette sul dio mesopotamico. 6
La prima notizia del ritrovamento della Discesa di !Star venne data da Fox Talbot nel 1865. Negli anni successivi quasi tutti i principali orientalisti
si cimentafoii0i1ella traduzione e interpretazione del mito: bibliografia i n Lenormant, op. cit., p . 157, nota 4 . Già nel 1874 Lenormant (op. cit.,
P·h
51
163s.) aveva intepretato la Discesa di !§tar come una ricerca di Tammuz da parte della dea.
7 .... ,-----
A.H. Sayce, Lectures on the Origin and Growth of Religion as lllustrated
.À the Religion of Ancient Babylonians, London 1887, p. 227. �na catabasi di Afrodite alla ricerca dell'amato è testimoniata
solo da
/ qualche incerta notizia di autori cristiani: Aristldes: Ajj'QT Xl 3-4 p. 1 6 Geffcken; Cyril. Alex., PG 70, 4408-4418; Proc. Gaz., PG 87, 2137D2140B; Schol. Greg. Naz. (in J. Declerck, "Five Unedited Greek Scholia of Ps.-Nonnos", L'Antiquité Classique, 45, 1976, p. l 84s.).
9 Lenormant, "Il mito di Adone-Tammuz", p. 165; corsivo mio. Cf. anche id., La magie chez les Chaldéens et les origines accadiennes, Paris 1874, p. 121: «ces dieux qui meurent et ressuscitent périodiquement, propres aux cultes de l'Asie antérieure, sont des personnifications du soleil dans les phases successives de sa course diurne et de sa course annuelle>> (corsivo mio). Frazer conosce il saggio di Lenormant, che cita a p. 10, nota l, del I volume dt Adonis, Attis, O siris, del 1906. 10
Lenormant, "Il mito di Adone e Tammuz", p. 155.
11 Cf. F.C. Movers, Die Phonizier, I, Bonn 1841, p. 209ss.; H. Brugsch,
Die Adonisklage und das Linoslied, Berlin 1852, p. 15.
12 W. Mannhardt, Wald- und Feldkulte, II, Berlin 1876. Certo Mannhardt
venne precocemente conosciuto nel mondo degli antichisti: Roscher, s. v .
Adonis (del 1884, e cioè sei anni prima dell'uscita del Ramo d'oro), nel
Lessico mitologico da lui curato, fa più volte riferimento alla sua opera, accogliendone sostanzialmente le tesi. 13 Mannhardt, op. cit., 19052 (1876), p. 85.
�
\
14 Ovviamente il problema di Tammuz si i serì nel più ampio dibattito cul turale, di cui ci non si può occupare qui, sulle origini del Cristianesimo, e �Ila relazione tra soteriologia cristiana e "religioni" misteriche.
�S.N. Kramer,
J
16 Sulla ricostruzione del testo sumerico cf. S.N. Kramer, "Scoperta e deci frazione della 'Discesa di Inanna"', in D. Walkenstein - S.N. Kramer, Il mito sumero della vita e dell'immortalità, Milano 198.5·---(é·a: -or. /nanna en of Heaven and Hearth, New York).
� ì
-t
The Sacred Marriage Rite, Bloomington 1969, p. 133.
17
-·
.N. Kramer, "Introduction", in id. (ed.), Mythologies of the Ancient
orld, Garden City 1961, p. lOs.
52
18 La storicità di Dumuzi, ritenuta probabile da alcuni studiosi di inizio se colo, venne ribadita, con grande acribia filologica, da Falkenstein ("Was sagen die schriftlichen Quellen ii ber das Tammiiz-Problem aus?", i n CRRAI, Leiden 1954, pp. 41-65). Nonostante la ricchezza documentaria e l'accurata analisi delle fonti, l'ipotesi di Falkenstein si fonda sul presup posto indimostrato che tutti i mitici sovrani di Uruk, tramandati dalla
reale
sumerica e celebrati dall'epica, siano personaggi storici.
JSS,
7, 1962,
Lista
19 O.R. Gurney, 'Tammuz Reconsidered: Some Recent Developments", pp.
147-160.
'}f)A. Falkenstein, ree. di S.N. Kramer - C.J. Gadd,
t!!{st Part,
BiOr
22, 1965, p. 281.
LJS .N. Kramer, "Dumuzi's Annua) to 'Inanna's Descent'", BASOR,
riage, 22
p.
155.
Th. Jacobsen,
Ur Excavations Texts VI,
Resurrection: An Important Correction
183, 1966,
The Treasures of Darkness,
p.
31
e id.,
The Sacred Mar
New Haven-London
1976,
p.
24ss.
Fourth Millennium Metaphors. The Gods as Providers: Dying Gods of Fertility è il titolo del capitolo sulla fase più antica della religione meso potamica in Jacobsen, The Treasures of Darkness. 24 Jacobsen, The Treasures of Darkness, p. 26s. e id., Toward the lmage of Tammuz and Other Essays on Mesopotamian History and Culture, Cam bridge (Mass.) 1970, p. 73ss. 25 Jacobsen, Toward the lmage of Tammuz, p. 74. {26) f. B. Alster, Dumuzi's Dream, Copenhagen 1972; F.R. Kraus, "Das 'artbabylonische Konigtum", in P. Garelli (ed.), Le Palais et la Royauté (RAI XIX), Paris 1974, p. 244s.; J. Renger, "Heilige Hochzeit", RIA IV, �75, pp. 251-259. �f. M. Detienne, l giardini di Adone, Torino 19822 (ed. or. LesJ.ardins d'Adonis2.����-I97.�f1rPJ_§���iJ!�NBìE�!.:.§?i'i8C?iJìi!I,�]�li:r� gioniL Ro1_ 11a .!.?.��. p. 77ss.; .�:. ��-i�i�h.i�iL.���!'!�·. .A�P�!L :_qrien�qy::.f!i. un mito greco, Roma 1981. -23
28 Ribichini
·
-
. ��it: é:i.�i i contributi di P.
Xella e dello stesso S. Ribi
� ini. \_2 Cf. A.H. Gardiner, ree. di J. G. Frazer, The Golden Bough: Adonis, Attis, Osiris,
JEA,
2, 1915, pp. 121-126.
53
-<
30
Negli Inni za-mf compare AmauSumgal (r. 220; R.D. Biggs,
lnscrip
tions from Abu Saliibikh, Chicago-London 1974, p. 52), ma non è nomi
nato Dumuzi, assente anche dalla grande lista di Fara. Inoltre TSS 715 re
gistra offerte di farina sia per Dumuzi che per AmauSumgalanna, il che po
trebbe far ritenere che le due figure divine fossero all'epoca distinte. La più
antica documentazione relativa ad un luogo di culto del dio si trova in due
contratti provenienti da Suruppak, datati da Edzard al periodo di Fara: nel primo uno dei testimoni è Baza, portiere (l-dug) di Dumuzi; nel secondo i l tempio di Dumuzi è i l luogo i n cui il contratto è scritto. Circa nel mede
simo periodo compaiono i primi nomi teofori composti con l'elemento
ddumu-zi (cf. R. Kutscher, "The Cult of Dumuzi!fammuz", in J. Klein -A.
Skaist [edd.], Bar-flan Studies in Assyriology Dedicated to P. Artzi, Jerusa lem 1990, p. 30 e G. Selz, Untersuchungen zur Gotterwelt des altsumeri schen Stadtstaates von Laga:r, Philadelphia 1995, p. 114). 31
Nelle iscrizioni
regali Lugal-URUxKARki è chiamato <
lanna>> e <<sposo di Inanna>> ed è associato nel culto alle divinità del ciclo di Dumuzi nnanna e AmageStinanna, etc.: cf. P. Pisi, "Il dio Lugal URUxKARki e il culto degli antenati regali nella LagaS pre-sargonica",
Orientis Antiqui Miscellanea, II, 1995, pp. 1-40). Nelle liste di offerte
della LagaS presargonica ricorre anche una divinità indicata come ddumu zi: si tratta però dell'abbreviazione del nome di una dea, Dumuzi-apzu, del tutto irrelata rispetto allo sposo di Inanna: cf. Selz, op. cit., p. 114ss. 32 33
Cf. P. Pisi, "Il dio Lugal-URUxKARki", passim. Dumuzi non compare in alcuna iscrizione dei sovrani di Ur III e Isin, né
possiamo dedurre molto di significativo dalle due attestazioni del nome del
dio in iscrizioni del periodo di Larsa, ad opera rispettivamente di Siniddi
nam e Rim-Sin. Siniddinam dichiara di aver costruito il muro di Badtibira e di avere in tal modo rallegrato il cuore di Utu e Dumuzi (1. Karki, Die sume
rischen Konigsinschriften der friihaltbabylonischen Zeit in Umschrift und Ubersetzung, Helsinki 1968: Siniddinam 7, 34-35), mentre Rim-Sin de
dica un'iscrizione per celebrare la costruzione di un tempio di Dumuzi, pro
tettore delle stalle e degli ovili (UET I 42= I. Karki, op. cit.: Rim-Sin 9). 34
La domanda - ricorrente negli studi moderni - su quale dei due Dumuzi
vada identificato con lo sposo di Inanna, non pare metodologicamente
corretta. Tutta la tradizione sumerica conosce un solo Dumuzi, il pastore,
che a Badtibira aveva un celebre luogo di culto (nell'epiclesi di Lugal-é muS: cf. infra), ma che nel contempo risulta palesemente collegato con la
tradizione urukita e a volte viene considerato nativo di Ku'ara (ad es. in
/nanna e Bilulu). Piuttosto, occorrerebbe interrogarsi sul perché la figura
54
del dio, altrimenti unitaria, nella Lista reale risulti scissa in due diversi
sovrani. Alster, uno dei pochi studiosi a sollevare tale problema, sostiene
che tale duplice presenza è motivata dal fatto che Dumuzi si reincama con tinuamente in ogni re terreno (B. Alster, Studies in Sumerian Proverbs,
Copenhagen 1975, p. IOOs.).
Anche senza ricorrere a cicliche incarna
zioni del dio, sembra emergere dalla Lista reale una connessione strutturale tra istituto regale e Dumuzi: due volte la regalità «scende dal cielo» (prima
e dopo il cataclisma) e due volte deve realizzarsi nello sposo di lnanna. E'
inoltre degno di nota che nomi di sovrani antidiluviani di Badtibira e di
Larak compaiano in liste divine e testi di lamentazioni come epiclesi dello
stesso Dumuzi (cf. Jacobsen, Toward the lmage ofTammuz, p. 325).
35 J. Klein, "A New Nippur Duplicate of the Sumerian King List in the
Brockmon Collection, University of
Haifa", Au Or 9 (= Velles Paraules.
Ancient Near Eastern Studies in Honor of M. Civil), 1991, pp. 123-129. 36
Cf. M.E. Cohen, The Cultic Calendars of the Ancient
Bethesda 1993, p. 209.
37 BM 96739
=
Cf XXXVI 33-34, in D.A. Foxvog,
Near East,
"Astrai Dumuzi", i n
M.E. Cohen - D.C. Snell - D.B.Weisberg (edd.), The Tablet and the Scroll.
Near Eastem Studies in Honor of W. W. Hallo, Bethesda 1993, pp. 103108.
38 Si tratta dell'inno Sulgi X (rr. 15ss.). Un'allusione alla ierogamia è forse contenuta in un inno autocelebrativo di Ur- Nammu, padre di Sulgi e fonda
tore della III dinastia di Ur (TCL 15 no. 12, col. III
rr.
73-75), il che, co
munque, non porterebbe ad antedatare di molto la celebrazione del rituale. La lettura ierogamica del passo è comunque tutt'altro che sicura: cf. J.S.
Cooper, "Sacred Marriage and Popular Cult in Early Mesopotamia", in E.
Matsushima (ed.), Official Cult and Popular Religion in the Ancient Near
1!:\st, Heidelberg 1993, p. 85. O ltre al "Vaso di Uruk", l'unico
indizio a favore dell'esistenza in epoca
presargonica delle nozze sacre fra il re e lnanna è un'iscrizione di Mesan- D
nepada, nella quale il sovrano si proclama «sposo della nugig» (UE, p l .
191, U. 13607). Anche se nugig è frequente epiteto d i Inanna, nel caso i n questione può più verosimilmente trattarsi d i u n titolo della sposa del so
vrano, Ninbanda. Nel periodo sargonico è attestata per Naram-Sin la qua
lifica di mu-ut diNANNA An-nu-n'i-tum (1.1. Gelb - B. Kienast, Die alt akkadischen Koniginschriften des dritten Jahrtausends v.
C h r., Stuttgart
1990: Naram-Sin C 4): è possibile tanto la traduzione «sposo di lnanna (!Star) Annunitum», quanto quella «guerriero di lnanna (!Star) Annunitum».
In ogni caso, non è detto che la titolatura regale rimandi necessariamente a
55
celebrazioni rituali; piuttosto, è degno di nota che, nel caso in cui la tradu zione corretta dell'iscrizione di Naram-Sin debba essere «sposo di Inanna Anunnitum», la dea compaia con un'epiclesi che evoca un campo d'azione bellico, e non certo fertilistico: cf. I.J. Gelb, "Compound Divine Names in the Ur III Period", in F. Rochberg-Halton (ed.), Language, Literature, and History; Philological and Historical Studies Presented to Erica Reiner,
New Haven 1987, p.1 30ss.
40
P. Pisi, "L' 'ascensione' di Sulgi", SM SR, 62, 1996, p. 40 3s.
Il primo sovrano neosumerico divinizzato fu Sutgi, figlio del fondatore della dinastia, Ur-Nammu. In epoca anteriore erano stati divinizzati i so vrani accadici, a partire da Naram-Sin. Per quanto riguarda la differenza fra il modello regale sargonico e quello neosumerico (e la conseguente diversa valenza simbolica della divinizzazione), cf. M. Liverani, Antico Oriente. �ria società economia, Roma-Bari, 19952, p. 285ss. 41
"
�· stato giusta_fl.l.�!�to �-C!'JI_!I.P�im�!!!L�l!i!l!L��ri
di !nanna e Dumuzi, spesso triilfatJ unitariamente � studiosi, apparten goTi01:ilre aTtaage�encomp§Siflvl�ersF non di rado, infatti, non si è operata un'�d _ eguata distìnzione fra testi� destinati ad accompagnare i l nto Jerogam1co 12. i su�!��rativi ��l�LP!!!tY.,JI,).ffi2.J!!.:..!LYsill�!.r.iJmiti ai ciclo delle due divinità ançhe in assenza del loro nome (cf. le osserva zioni di B. Alster�''SumerianTove Song;.\R.A, 79,1985, pp. 127-159; J. Renger, op. cit., p. 255s., cui rinviamo anche per la descrizione del rito ierogamico, e Cooper, op. cit., p. 86). Senza pretendere di fissare precisi e definitivi criteri tassonomici - prematuri allo stato attuale della documen tazione -occorrerà dunque distinguere gli scarsi testi sicuramente (o al meno probabilmente) collegati con la celebrazione delle nozze sacre da composizioni (come i canti di corteggiamento) di cui non conosciamo l'eventuale contesto cultuale. 43
Y.
Sefati, Love
Songs in Sumerian Literature. Critìcal Edition of the Du
muzi-lnanna Songs,
44
Jerusalem 1998, p. 38.
Cf. Renger, op. cit., p. 258 e Kraus, op. cit., p. 244ss.
45
Cf. J.G. Westenholz, "Metaphorical Language in the Poetry of Love in the Ancient Near East", in D. Charpin -F. Joannès (edd.), La circulation
des biens, des personnes et des idées dans le Proche-Orient Ancien (RAJ
!f.XX \ VJJJ ), Paris 1992, pp. 381-387, e bibliografia ivi citata. �onostante lnanna sia stata presentata, _sin _çat gli inizi d,egli
studi assi riologìci, come una Signora d e_lla_ fecondità, arbitra �!.E�es�perire d1_ ogni forma dJ, vita, occorre_ rileVare'Clie nella d��umentazione mesopo-
�<J /
56
tamica mai la dea esercita un dominio sulla sfera della fecondità vegetale e i pete_�e(�[!nanna".:"'cnée'"Rrepos_!!! �tmale. n vastissimo sp�drcon principalmente alla guerra:...�la s�ani_�._jiJI'i!.I!.��ssuJll� .-!1J..J!�.�� ' pJù generale, ad ogni trasformazione �i status (cf. J.J. Glassner, "Inanna et < les me", in M. de Jong Ellis [ed.], Nippur at the Centennial (RAI XXXV), Philadelphia 1992, pp. 55-85) - esclude proprio l'ambito agrario, la ferti lità e la rieroduzione. Anc_l}�)!J?..�S�2._g��!Ll!Q��-�a..!l� !L !!R.J!!..:_f�.,..��L� litamente _addotto� ri�[ OVa_5!!�1!.�,�-�!!�J?��f!ili!�-E- ��- < sareìiifea1tà ntensce eScfusivamente che durante la catabasi di l!!tar cessano gliacèoppi��éfitì'�!1L��li . �- ii�ni: l'accttQtOè _P.os�o-:Pr!ffiari�tTi��� Sii.liiSes��l!�.r:! ..!l9.. . �':'l!!..!!J>rf!dllz.!<>.ne,. né vien.�.J'!tt()_.,�Jf!!P..<:.�lll1�� vegetazione. � Cf. Kuts her, op. cit., p. 33s.; Cohen, The Cultic Calendars, p. 186s. e W. Sallaberger, Der kultische Kalender der Ur J/J-Zeit, Berlin-New York
�
1993, l, p. 257ss.
48
Per il periodo di Ur III, cf. Sallaberger, op.cit., l, p. 210, nota 990. Per l'epoca paleobabilonese, cf. Kraus, op. cit., p. 244ss. 49
Sulla base di un'ampia documentazione amministrativa Sallaberger ha recentemente dimostrato che però, almeno nel periodo di Ur III, zag-mu non significa Capodanno, visto che può riferirsi a mesi differenti, e per tanto deve essere tradotto come «momento culminante dell'anno», con al lusione alla celebrazione di una grande festività (Sallaberger, op. cit., l, p. l 42s., nota 669 e ibid. p. 192, nota 912). E' possibile che anche durante il regno di Isin il valore di Capodanno per zag-mu non sia dunque così certo. Comunque, anche se zag-mu dovesse significare Capodanno, SRT l dimo strerebbe soltanto che la ierogamia, durante il regno di Iddin-Dagan, era stata celebrata all'inizio dell'anno, e non che veniva reiterata annual mente. 50 Kraus, in una radicale e opportuna revisione della documentazione pale obabilonese sulla ierogamia, giunge a mettere in discussione l'effettiva ce lebrazione del rito, che potrebbe essere esclusivamente «eine literarische Angelegenheit», finalizzata a dare un contenuto concreto alla titolatura regale "sposo di Inanna" (Kraus, op. cit., p. 249). Nonostante gran parte delle considerazioni di Kraus siano condivisibili, nelle conclusioni lo studioso - che comunque prende in esame solo la documentazione di Isin Larsa e non quella di Ur III- pare cadere in un'ipercritica: la descrizione del rituale risulta infatti nei componimenti ierogamici troppo puntuale per ri ferirsi ad un contesto esclusivamente letterario.
57
51
Cf. Renger, op. cit., p. 257 e Alster, "Sumerian Love Songs", p. 2 0 .
Tale ipotesi deve però essere avanzata con una certa cautela, visto che ci è
pervenuta la registrazione
amministrativa dell'incoronazione dell'ultimo
sovrano di Ur III, lbbi-Sin (cf. Pisi, "L' 'ascensione' di Sulgi", p. 422ss.), dalla quale non sembra emergere alcun indizio della celebrazione
delle
nozze sacre. 52 Prescindiamo
qui dalla vexata quaestio su chi interpretasse la parte della
dea nel rito ierogamico (su cui cf. Renger, op. cit., p. 256 e Cooper, o p . cit., p . 87s.): solitamente s i pensa a d un'operatrice rituale - en, lukur, etc. o alla regina. Dal testo delle "nozze" di lddin-Dagan pare però che !nanna
�e rappresentata dal suo idolo templare e non da un personaggio umano. l/nche le allusioni al rito ierogamico contenute nei poemi epici (specie m
quelli aventi come protagonista Enmerkar) indicano che la ierogamia
era funzionale all'acquisizione e al mantenimento del potere, e che i so vrani "sposavano" Inanna in prima persona, e non come rappresentanti ri-
r di Dumuzi. f. in particolare Il sogno di Dumuzi (in Alster, Dumuzi's Dream),
anna e Bilulu (in Jacobsen, Toward the lmage of Tammuz, p. 52 ss.), BM 100046 (in S.N. Kramer, "The Death of Dumuzi: a New Sumerian Version", AnSt, 30, 1980, pp. 5-13), e le sequenze narrative nei testi di lamenta . ne cit. nella nota successiva. f. le lamentazioni pubblicate da M.E. Cohen, Sumerian Hymnology:
he Er:remma, Cincinnati 1981, p. 71ss. e id., The Canonica/ I..amenta tions of Ancient Mesopotamia, Potomac 1988, p. 677ss. (e passim). Vedi anche Th. Jacobsen, "Religious Drama in Ancient Mesopotamia", in H. Goedicke - J.J.M. Roberts (edd.), Unity and Diversity, Baltimore-London
1975, p. 67ss.; id., The Treasures of Darkness, p. 47ss.; id., The Harps
That Once... Sumerian Poetry in Translation, New Haven-London 1987, p . 56ss. 5 6 Jacobsen, 57
The Treasures of Darkness, p. 68ss.
TRS no. 8 e duplicati;
cf. testo
e traduzione in W.H.Ph.
Rtimer,
"Sumerische Emesallieder", BiOr, 49, 1992, pp. 636-679. 58
Anche l'intenzione, espressa dai celebranti, di «rallegrare» il dio «che
esce dal fiume>> (rr. 232ss.) si riferisce con ogni probabilità ad una barca rituale, e non al ritorno di Damu dall'aldilà per via fluviale. Dal finale della composizione,
purtroppo
mutilo,
sembra
di comprendere che
Damu
«porti>> qualcosa, provocando il restauro e ripristino di templi e città. Il contesto rituale ci è ignoto.
58
59 In Cohen, The Canonica/ Lamentations, p. 677ss. e Jacobsen, The Harps That Once, p. 78ss. Jacobsen (Religious Drama, p.85), seguito, i n maniera più analitica, d a Sallaberger (op. cit., I , p . 233s.), h a individuato un collegamento tra la lamentazione eden-na u-sag-ga e un rito celebrato a
Umma nel I mese del calendario locale, e denominato u-sag-Sè è-a («escono nelle prime erbe>> , o <> , traduzione quest'ultima proposta da
Sallaberger). La presenza di due epiclesi di Inanna e di Gula fra le divinità tributarie di offerte potrebbe avvolorare l'ipotesi che il rito u-sag-Sè è-a
contemplasse lamentazioni per Damu, il quale però non è mai menzionato
nei testi economici relativi a tale festività. Riti u-sag sono documentati
anche a Ur, probabilmente in connessione con il culto dei sovrani defunti (cf. Sallaberger, op. cit., I, p. 183), e a Nippur, in un contesto non rico
struibile. 60
Jacobsen, Toward the lmage of Tammuz, p. 324s.; cf. anche B. Alster,
"Edin-na u-sag-ga: Reconstruction, History and Interpretation of a Sume
rian Cultic Lament", in K. Hecker - W. Sommerfeld (edd.), Keilschriftliche
Literaturen (RAI XXXII), Berlin 1986, p. 27. 61
Cf. ad es. La morte di Gilgame:r (S.N. Kramer, "The Death of
GilgameS",
BASOR, 94, 1944, pp. 2-12) e La morte di Ur-Nammu (id., "The Death of
Ur-Nammu and His Descent to the Netherworld", JCS, 21, 1967, pp. 104-
122): entrambi i sovrani, il mitico signore di Ur e il re storico fondatore
della III Dinastia di Ur, recano offerte agli dèi dell'aldilà, fra cui figura Du muzi.
62 C. Wilcke, "Konig Sulgis Himmelfahrt", Mi.inchner Beitrage zur Volker kunde, l ( Festschrift L. Vajda), 1988, pp. 245-255. =
63 Cf. Pisi, "L"ascensione' di Sulgi", passim. 64
Alster, Dumuzi's Dream, p. 14s.
65 Cf. ad es. Enki e l'ordine del mondo,
rr.
361 ss., dove però Dumuzi sem
bra avere come compito primario quello di rifornire di offerte - grazie ai
prodotti della pastorizia - i templi degli dèi (I'Eanna e I'Ekur), mentre la ri produzione degli animali è affidata a Sakan. Nell'iscrizione di Rim-Sin ci
tata supra, nota 33, a Dumuzi viene chiesto di moltiplicare greggi e ar
menti.
66Cf. B. Alster, "The Mythology of Mourning", ASJ, 5, 1983, pp. 1-16. 67 Sallaberger, op. cit., I, 257s.
68 A parere di Cohen (The Cultic Calendars, p. l 88) la "festa di Dumuzi" do
veva celebrare il ritorno del dio dagli Inferi, cui faceva seguito il ricon-
59
giungimento con la sposa e la celebrazione delle nozze; tale ipotesi non è
però suffragata da alcun dato, e nell Inno a /nanna Ninegalla (cf. infra) i l '
"ricongiungimento" fra Dumuzi e !nanna si realizza in un contesto infero,
ed è accompagnato da sacrifici per i defunti. Offerte per i sovrani diviniz zati (Sulgi defunto e Amar-Sin vivo) e per gli ensf morti sono del resto at
testate anche ad Umma durante il XII mese. Sallaberger (op. cit., I, p .
233s.) individua nel ciclo calendariale di Umma una continuità tra le fe
stività del XII mese, che avrebbero celebrato le nozze di Dumuzi, e il ri
tuale u-sag-�è è-a del I mese (cf. supra, nota 59), che invece ne avrebbe compianto la morte. Tale ricostruzione, benché non implausibile, rimane però fortemente ipotetica, tanto più, che, come abbiamo già rilevato, nel I mese non vengono menzionati
né Dumuzi, né Damu. Aggiungiamo che
tanto Cohen quanto Sallaberger utilizzano un taglio interpretativo naturi stico (Dumuzi come "dio della vegetazione"), che risulta sovrapposto
ai
dati e non dedotto dagli stessi. Un problema a parte costituisce il culto nel territorio di Umma di una divinità denominata ddumu-zi-URUxA-a, so litamente considerata negli studi moderni come una forma locale di Dumuzi (e cioè il Dumuzi venerato a URUxA-aki); contro tale identificazione si è
però pronunciato recentemente Sallaberger (op. cit., l, p. 240s.), secondo
cui si tratta di una divinità del tutto indipendente dallo sposo di !nanna. 69
Cohen, The Cultic Caldendars, p. 74.
70 B. Perlov, "The Families of the Ensf's Urbau and Gudea and their Fune
rary Cult", in B. Alster (ed.), Death in Mesopotamia (RAI XXVI), Copen hagen 1980, pp. 77-81. 71
Cf. Sallaberger, op. cit., p. 282 s.
72
A Laga� Dumuzi di Kinunir risulta avere un ruolo di un certo rilievo nelle
festività del V mese: in questo caso, potrebbe però trattarsi non dello
sposo di !nanna, bensì di una forma abbreviata per intendere la dea Du muzi-apzu (su cui cf. supra, nota 31 ), venerata all'epoca di Gudea appunto a Kinunir (dati e discussione del problema in Kutscher, op. cit., p. 36s. e Sallaberger, op. cit., I, p. 284). 73
Cf. Kutscher, op. cit., p. 37ss. e Cohen, The Cultic Calendars, p. 235.
74 Il termine impiegato è zag-mu, solitamente tradotto appunto con Capo danno: ma cf. supra, nota 49.
75 La traduzione di H. Behrens (Die Ninegalla-Hymne. Die Wohnungnahme
lnannas in Nippur in altbabylonischer Zeit, Stuttgart 1998, p. 32ss.), edi
tore dell'Inno, differisce in maniera considerevole da quella di Alster (''The Mythology of Mourning", p. lls.) - in particolare per quanto riguarda la
60
funzione di sacerdoti e personale di culto menzionati nelle
rr.
72ss., morti
e destinatari di offerte funebri secondo Behrens, vivi ed esecutori delle stesse secondo Alster -, ma è certo il contesto funerario della festa di Du muzi. Per il parallelismo tra la descrizione della festa di Dumuzi nell'Inno a Inanna-Ninegalla e quella dei funerali regali nella Morte di Ur-Nammu e
nella Morte di Gilgame�, cf. Behrens, op. cit., p. IOlss. 76
Cohen, The Canonica/ Lamentations, p. 565s.
77 In epoca neosumerica, ad Ur un'occasione rituale denominata abum è de dicata al culto dei sovrani defunti, senza che peraltro Dumuzi paia avervi alcuna parte (così come non compare nell'analoga celebrazione ab-è di Nippur): cf. Sallaberger, op. cit., I, p. 205ss. e Cohen, The Cultic Calen ders, p. 458ss. Successivamente Abu(m) comparirà come nome di mese
(Sallaberger, op. cit., I, p. 206). Nei calendari paleobabilonesi il mese di Abum è il quinto, e solitamente segue quello di Dumuzi!fammuz. Nella do
cumentazione amministrativa di Mari vengono registrate uscite per olio destinato alle statue di mar e Dumuzi nel mese di Abum (IV), e nel mede simo mese sono annotate uscite di notevoli quantità di grano per le Iamen tatrici (forse per il culto del dio): cf. Cohen, The Cultic Calendars, p. 289s. 78
Ed. più recente in W. G. Sladek, lnanna's Descent to the Netherworld s.), Ann Arbor 1974. . Alster, "!nanna Repenting:
The Conclusion of Inanna's Descent",
J, 18, 1996, pp. 1-18.
&l L'episodio della mosca era già noto prima della pubblicazione di Alster, il quale fa notare come si tratti di un testo parallelo all'er�emma CT 15, 19: 19ss., su cui cf. Cohen, Sumerian Hymnology, p. 87ss. 81
W. Farber, Beschworungsrituale an Utar und Dumuzi, Wiesbaden 1977,
p. 140 e Kutscher, op. cit., p. 41s. 82
Cohen, The Cultic Calendars, p. 315ss. e J.A. Scurlock, "K 164 (BA 2,
P. 635): New Light on the p. 58ss.
Mourning Rites for Dumuzi?", RA, 86, 1 9 9 2,
83 Cf. Farber, Beschworungsrituale e Scurlock, op. cit., e bibliografia ci tata. Scurlock, cui dobbiamo un'analisi dettagliata dei testi rituali relativi alla festa di Tammuz, dall'esame di un rituale di guarigione (K 194), con nesso con la funzione esorcistica del dio, deduce che il 26 di Tammuz Ge�tinanna dovesse sostituire il fratello agli Inferi: il testo in questione però non menziona la sorella di Dumuzi, bensì esclusivamente quella del malato di cui si vuole ottenere la guarigione.
61
84 Cf. Cohen, The Cultic Calendars, p. 217; vedi anche A. Livingstone, Explanatory Works of Assyrian and Baby
Mystical and Mythological
lonian Scholars, Oxford 1986, p. 160ss.
85 Cf. supra, nota 5. All'inizio della seconda metà dell'800 F. Liebrecht ("Tammuz-Adonis", ZDMG, 17, 1863, p. 399ss.) scrive che il racconto di
fondazione della festa di el-Biìqàt (<>) può essere facilmente
spiegato se, al seguito di Movers, si considera Tammuz (al pari di Adone) come un <> , e cioè come un «Bild des Samenkorn>> , visto che viene triturato in un mulino. Liebrecht mette in rilievo la somiglianza della sorte di Tammuz nel mito di fondazione della festa el-Biìqàt con quella
del John Barleycorn della poesia di R. Burns ( <
midolla su di un gran falò/e un mugnaio dentro al suo mulino lo triturò>> ): paragone fortunatissimo, che verrà utilizzato innumerevoli volte studi su Tammuz, per dimostrare
che
il
dio
mesopotamico
personificazione del grano. 86
Chwolson, Die Ssabier und der Ssabismus, Il, pp. 27s. e 20 l ss.
62
negli è
una
Il DIO "NASCOSTO" IN ANATOLIA
ANNA MARIA POLVANI
l.
Dèi "nascosti" in Anatolia: il problema generale
Il tema del "dio scomparso" è un motivo centrale nella mitologia anatolica in generale, ittita in particolare, ma non caratterizza un'unica figura divina; infatti esso si riscontra in miti diversi e ne sono prota goniste divinità differenti: Telipinu, il "Dio della tempesta", il Dio Sole, la dea Hannahanna, le dee Anzili e Zukki, la dea Inara. Ai miti che raccontano tali vicende è riservata dagli scribi ittiti una
definizione particolare: essi cioè sono chiamati mugawar l mugenar, termine che significa "invocazione", "evocazione", rivolte
ad una fi
gura divina percepita come lontana allo scopo di farla riavvicinare1• Questa circostanza, sia detto per inciso, ci invita a riflettere sull'uso indiscrirninato di un termine come "mito" che, se può valere in linea generale per definire racconti "sacri" dalle funzioni fondanti avvenuti in un tempo diverso da quello attuale, possiede evidentemente un senso troppo generico se usato all'interno di una tradizione complessa e ori ginale come quella anatolica. Per i miti di Telipinu, del "Dio della tempesta" e del Dio Sole è possibile ricostruire almeno in parte il racconto nelle sue linee fonda mentali; altri miti, invece, ci sono pervenuti in forma estremamente
frammentaria (come è il caso, ad esempio, di Hannahanna e di Inara).
In questa sede si prenderanno in considerazione i racconti miti ci re lativi a Telipinu, non soltanto perché essi sono ricostruibili con una certa completezza e coerenza, ma anche (e soprattutto) perché a tale personaggio si è guardato in passato, e in qualche caso anche attual mente, come a un "dio della vegetazione" con caratteristiche riconduci bili a quelle del frazeriano
dying gocf. C'è infatti chi ha voluto vedere
in Telipinu una specie di "antecedente" di Attis3 o, addirittura, della Kore eleusina4; da altri, invece, l'accento è stato posto prevalentemente sulle sue caratteristiche di dio della tempesta5 o della fertilità6• Questi due aspetti, in realtà, non si escludono vicendevolmente: proprio in 63
quanto divinità legata ai grandi fenomeni atmosferici, l'azione di Teli
pinu può produrre effetti tanto negativi - come distruzioni, inonda
zioni, incendi, etc. - quanto positivi - pioggia benefica per i campi e la
natura in genere, aumento delle acque irrigue, etc. - per l'umanità.
Nell'ambito delle tradizioni mitologiche riguardanti Telipinu, ci
concentreremo qui in particolare sull'episodio della sua scomparsa, sia
valutandolo sullo sfondo dell'intera vicenda, sia analizzandone le im plicazioni rituali.
2. Il mito di Telipinu nelle sue tre· redazioni
La circostanza che il mito di Telipinu ci sia giunto in tre diverse redazioni testimonia il processo continuo di rielaborazione a cui tale tradizione mitologica fu sottoposta in ambito ittita e ci consente una analisi comparativa di maggior respiro.
Dalle narrazioni giunte fino a noi emerge che Telipinu non è il
protagonista di una vicenda di morte e successiva "resurrezione"; il dio,
adirato, si sottrae di fatto ad ogni rapporto con gli esseri viventi, siano essi dèi, uomini o animali, che vanamente lo cercano per scongiurare
gli effetti della sua irreperibilità. Più che con una vera e propria scom
parsa, si ha perciò a che fare con una "latitanza" del dio, che sospende
ogni sua attività.
Fondamentale appare ancora la circostanza che il posto in cui il dio
irato si nasconde non è già l'oltretomba (tratto che ne potrebbe even tualmente giustificare una valutazione in termini di "dio morente"), bensì un luogo terreno più o meno preciso identificato, a seconda delle
versioni, in una palude ovvero nella città di Lihzina.
Le conseguenze catastrofiche provocate dal suo nascondersi sono di
una gravità tale da non potersi neppur paragonare alla lontana con le "crisi" temporanee che può comportare l'avvicendarsi del ciclo stagio nale. La situazione che si viene a creare da un lato investe drammati camente l'ordine naturale, sconvolto e sovvertito (siccità, carestia,
moti tellurici), dall'altro colpisce e travolge anche l'assetto politico sociale della comunità (il testo parla, tra l'altro, di madri che non allat tano più i propri figli) ed ha naturalmente ampie ripercussioni anche a livello divino7• In particolare, si dice che gli dèi bevono e mangiano
64
senza riuscire a dissetarsi o sfamarsi risultando coinvolti nel disastro
che incombe sull'umanità. Oltre che a una carenza oggettiva di
bevande e di cibi, imputabile tra l'altro all'inefficienza dei fedeli
travolti dalla situazione, si deve anche pensare, più in generale, ad una crisi radicale e terribile dovuta alla sottrazione, da parte di Telipinu,
della fonte stessa di ogni benessere. Questo emerge con grande evidenza dalle parole pronunciate dal Dio della tempe sta, in cerca di suo figlio Telipinu:
«(A I 20' )Telipinu, mio figlio, non c'è, egli si è adirato
e ha preso con sé tutto il bene!» •.
Si viene insomma configurando una sorta di "mondo alla rovescia", anticipato e simbolizzato nel modo più immediato dal comportamento dello stesso Telipinu che, in preda all'ira, calza le scarpe al contrario:
si tratta di un tema che, del resto, ricorre in altri racconti di scomparsa di altre divinità e che trova un ulteriore sviluppo nel mito delle 00! Anzili e Zukki dove si aggiunge la veste, il pettorale e il velo indos sati tutti all'incontrario dalle protagoniste:
«(A I l ') Telipinu [si adirò e gridò]: "Non devono esserci
parole che intimi[dano e nell'agitazione] indossò
[la
scarpa destra al piede] sinistro e la (scarpa) sinistra [al
piede destro ... ]))9•
Dall'analisi del mito si evince che alla base della crisi vi sono
tanto l'inattività del dio, quanto il suo furioso agire, che provoca dannose conseguenze; già prima che egli scompaia - cioè nella fase
dell'ira- si avvertono i primi sintomi della catastrofe che si consumerà all'atto della scomparsa: «(A I 5') La nebbia invase le finestre, il fumo [invase] la
casa e nel focolare i ceppi erano spen[ti, sull'altare] gli
dèi erano soffocati (dal fumo), nel recinto le pecore erano
soffocate, nella stalla i buoi erano soffocati, la pecora
trascurò il suo agnello, la mucca trascurò il suo vi tellm) .,.
65
La scomparsa del dio scatena quindi definitivamente la crisi: «(A I 10') Telipinu scomparve, portò via nelle paludi il grano, la fertilità, la crescita, lo sviluppo e il rigoglio (tolti) ai campi coltivati, ai pascoli; Telipinu se ne andò e si nascose nella palude e sopra di lui crebbe l'erba della palude e quindi grano e spelta non crescono più; buoi, pecore, uomini (15') non rimangono più quelli che sono
pregni non
pregni (e)
partoriscono più
[e
le
mon]tagne inaridirono, gli alberi seccarono e i germogli non spuntarono (più), i pascoli inaridirono, le fonti sec carono e nel paese venne la carestia e gli uomini e gli dèi morivano di fame»
11•
Oltre al mondo degli dèi e degli uomini, viene coinvolto e scon volto anche l'aldilà: «(A II 33') Telipinu infuriato venne tuonando e lampeg giando; già la nera terra (
=
oltretomba) è a soqquadro
12
...)) . I diversi interventi diretti di divinità o di animali da esse apposita mente inviati non sortiscono alcun effetto positivo. Anzi, nel caso del l'ape mandata da Hannahanna (un motivo presente in tutte e tre le ver sioni), le conseguenze sono addirittura nefaste, le sue punture destinate a svegliare Telipinu provocano un accrescimento della sua ira: «(B II l) [Andò] l'ape [esplorò] le alte montagne, esplorò le [prof]onde [valli esplorò le limpide] acque, nel (suo) [inter]no finì il miele finì [ ...], [la cera] fi[nì] e lo [trovò] su un prato nel bosco del pa[ese di Lihzi]na e (5) [lo] punse sulle mani e su i piedi ed egli si al[zò], e [così] (disse) Telipinu: "Io mi sono adirato! [ ...] perché voi [avete fatto alzare] me che dormivo e perché avete fatto parlare me [che ero adi]rato? [Telipinu] divenne [in]furiato e poi la fonte [ ...] fermò [ ...] (10) de[viò] i fiumi scorrenti [ ...] li trasformò in letti rocciosi [ ...] ro-
66
vesciò [...] le cit[tà], rove[sciò] le case. Egli fece morire [l'umani]tà, fece peri[re] i buoi e le pecore ( ...)» 13• Soltanto il rituale eseguito dall' «uomo del Dio della tempesta» ri uscirà a questo punto a placare il dio adirato, ristabilendo il corretto or dine della realtà. Il rituale in questione è costituito dall'esortazione af finché tutte le parti dell'edificio (finestra, cortile, portale, etc.) favori scano la scomparsa dell'ira del dio che non dovrà più contaminare i campi, le vigne e i boschi, ma dovrà finire nell'oltretomba del quale viene fornita una descrizione chiaramente derivata da modelli mesopo tamici: «(A IV ) Il portiere ha aperto i sette battenti, ha tirato i sette chiavistelli, (15) già nella nera terra stanno i calde roni di bronzo e i loro coperchi (sono) di piombo, la loro chiusura è di ferro, ciò che vi entra non torna più
su, ma vi muore dentro (...)» 14•
Se, come si evince dai testi, la scomparsa di Telipinu è causata dalla sua incontenibile ira, diventa fondamentale comprenderne le
ra
gioni per capire il rapporto che esiste fra la struttura narrativa del mito e il rituale che gli è connesso. Purtroppo le tavolette in nostro pos sesso sono mutile proprio nella parte relativa agli antefatti e siamo quindi costretti a procedere sul rischioso terreno delle ipotesi. Alcuni indizi nella parte finale del mito collegano tuttavia la solu zione della crisi al benessere della coppia reale: tale riferimento ai so vrani, se viene esaminato all'interno del passaggio in cui esso è ripor tato, getta qualche luce anche su quella che potrebbe essere la parte ini ziale del racconto. Il ritorno di Telipinu e la sua pacificazione sono rappresentati mediante un progressivo perfettamente
recupero
della
"normalità"
speculare, ma contrario, rispetto al passaggio iniziale
della narrazione in cui si fa riferimento alle conseguenze nefaste della sua ira. Si confronti: «(A I 5') La nebbia invase le finestre, il fumo [invase] la casa e nel focolare i ceppi erano spen[ti, sull'altare] gli dei erano soffocati (dal fumo), nel recinto le pecore erano 67
soffocate, nella stalla i buoi erano soffocati, la pecora trascurò il suo agnello, la mucca trascurò il suo vi tello» 15• con: «(A IV
20) Telipinu tornò a casa sua e si prese cura del
suo paese; la nebbia uscì dalla finestra, il fumo abban
donò la casa, furono allestiti gli altari degli dei, nel foco lare i ceppi bruciarono, nell'ovile le pecore furono libe rate (dal fumo), nella stalla i buoi furono liberi
(dal
fumo) e la madre accudì suo figlio, la pecora accudì i l 16 suo agnello, (25) l a mucca accudì il suo vitello» • a cui però si aggiunge: «e Telipinu (accudì) il re e la regina e li provvide di vita
e di forza per l'avvenire»17•
Vista la perfetta specularità dei due passaggi, non apparirà fuori luogo ipotizzare che, nella parte iniziale ora perduta, ci fosse un riferi mento alla coppia regale e si potrebbe immaginare che l'ira divina fosse indirizzata proprio contro il re e la regina, forse in seguito a una loro mancanza nell'adempiere ai doveri connessi alle celebrazioni del culto. Tale ipotesi sarebbe in perfetta sintonia con l'ideologia regale e religiosa degli lttiti, che che vede nel sovrano il garante dell'ordine non solo politico e sociale, ma anche cosmico. Interessante in questo senso è il convogliamento dell'ira di Telipinu nell'oltretomba, cioè proprio in quello spazio anti-cosrnico sul quale il sovrano non esercita alcun potere. Un tratto di estrema importanza nel mito di Telipinu è il fatto che non sono né gli dèi né gli animali da essi inviati (aquila, ape) a ripor tare il dio, bensì un particolare operatore sacrale, l' «uomo del Dio della tempesta», il solo a conoscere il rituale in grado di pacificare il dio adirato'•. L'intervento "umano" nella narrazione stabilisce una stretta correlazione tra mito e rito, e proprio il piano rituale è suscet tibile di farci capire pienamente il senso e la valenza della vicenda mi tica: le conseguenze dell'ira e della scomparsa del dio descrivono nel 68
mito una situazione di sconvolgimento che poteva essere impiegata funzionalmente in occasione del verificarsi di eventi disastrosi di vario genere, dalle epidemie alle carestie, alla siccità. Non va esclusa allora la possibilità che il mito di Telipinu si collocasse all'interno di un culto ufficiale nel corso del quale veniva recitato ritualmente. Sap piamo che in epoca imperiale erano celebrate molte feste per il dio e la preghiera del sovrano Mursili II ne attesta una in particolare che si svolgeva di primavera; tuttavia tale culto non doveva tanto svolgersi nell'ambito di una periodica crisi stagionale, quanto piuttosto in occa sione di calamità particolarmente disastrose per tutto il paese. Attraverso il rituale eseguito dall' "uomo del Dio della tempesta" Telipinu torna al suo tempio e con questo riattiva il normale dispie garsi della realtà. Però è di particolare interesse il fatto che il ritorno di Telipinu non coincide soltanto con una "normalizzazione" dei ritmi na turali prima sconvolti, ma è anche garanzia di prosperità e benessere. L'albero eya (probabilmente una specie sempreverde, forse una quercia o un tasso) elevato dinanzi al dio e colmo di ogni bene promette alr bondanza non solo per il presente ma anche per il futuro: «(A IV
25) ( ...) Telipinu si prese cura del re e davanti a
Telipinu si innalzò un albero eya, una borsa da caccia (fatta di pelle) di pecora è appesa all'albero eya e dentro c'è grasso di pecora e dentro
(30) c'è (il simbolo della)
fecondità animale e del vino e dentro c'è il bestiame e poi ci sono lunghi anni (dell'avvenire) e la progenie e poi dentro c'è il dolce messaggio dell'agnello, c'è ascolto ed esaudimento e poi dentro c'è il dio[...] ugualmente e poi dentro c'è la coscia destra
(35) e poi dentro c'è la
crescita, lo sviluppo e il rigoglio» 19• Anche quest'immagine mi sembra che possa essere letta nei termini di una "specularità rovesciata":
69
mancanza, paralizzato dalla
scomparsa del dio, in cui non solo si interrompono i ritmi naturali ma anche quelli psico-affettivi e sociali (si vedano gli animali che non nu trono più i propri piccoli, le madri che non si curano più dei propri fi gli). A questo mondo svuotato fa da contrappunto, dopo il ritorno del dio, l'immagine dell'albero eya a cui è appesa la borsa di cuoio piena di ogni simbolo di ricchezza e prosperità: un vero e proprio "albero della 22 Cuccagna", che reca con sé la promessa di un futuro migliore . 2 Il mito di Telipinu 3 apre così uno spiraglio sulla mentalità pro pria della cultura in cui tale mito fu prodotto e utilizzato: essa appare in bilico tra l'affannosa ricerca di un "ordine" in un mondo in cui care stia e/o epidemie rappresentano una minaccia costante e l'aspirazione a
una realtà libera da eventi minacciosi e colma di benessere; al centro di questa visione della vita vi è il sovrano che conferisce stabilità e assi
cura che ciascuna delle sue componenti si leghi armoniosamente con le altre. Nonostante il fatto che il tema del "dio irato che si nasconde" non
coinvolga solo Telipinu, dio legato ai grandi fenomeni atmosferici, ma anche altre divinità, è indubbio che il racconto riguardante questa figura rimanga il più articolato sia sul piano "letterario" sia su quello della piena integrazione all'interno del rituale a cui è collegato. Anche se non lo possiamo affermare con sicurezza, non sembra improbabile che esso abbia costituito una specie di modello, di prototipo, al quale si sono conformati con varianti maggiori o minori le versioni riguardanti altre divinità che "scompaiono" o meglio che, adirate, si "nascondono" temporaneamente prima di essere placate dalla
celebrazione di un
rituale che riparerà al motivo dell'ira. Il fatto stesso che il modulo narrativo dell' "ira e del nascondi mento" sia stato impiegato anche per divinità e per occasioni diverse, dimostra l'estraneità e l'infondatezza di interpretazioni che si colle ghino al tema del c.d. dying god.
70
NOTE l Cf. F. Pecchioli Daddi - A.M. Polvani, La mitologia ittita, Brescia 1990, pp. 13-14. 2
Cf. ad es. Th.H. Gaster, Thespis, New York 1961, passim; R. Gusmani,
"Le religioni dell'Asia Minore nel primo millennio a. C.", in P. Tacchi Venturi (ed.), Storia delle religioni, Torino 1970, p. 321; E. von Schuler, in H.W. Haussig (ed.), Worterbuch der Mythologie, Stuttgart 1983, p p . 201-202. 3
D.M. Cosi, "Aspetti mistici e misterici del culto di Attis", in U. Bianchi -
M.J. Vermaseren (edd.), The Soteriology of the Orientai Cults in Roman
E mpire, Leiden 1982, pp. 485-504: Telipinu sarebbe << ( . ..) un "genio della fecondità" soggetto a ritmi alternanti di presenza e di assenza (... )» (p. 494). 4
W. Burkert, Structure and History in Greek Mythology
and Ritual,
Berkeley- Los Angeles - London 1979, pp. 123-142. 5
H.-G. Gtiterbock, "Gedanken tiber das Wesen des Gottes Telipinu", in R.
von Kienle et a/ii (edd.), Fs. J. Friedrich zum 65.Geburtstag, Heidelberg
1959, p. 209; B. de Vries, The Style of the Hittite Epic and Mythology, Ann Arbor 1967, pp. 5-7.· 6
Come dio legato all'agricoltura Telipinu è interpretato da M. Popko, Re
ligions of Asia Minor, Warsaw 1995, pp. 71, 106; cf. anche V. Haas, Ge schichte der hethitischen Religion, Leiden - New York - Koln 1994, p . 442ss. 7
Tipica è nel Vicino Oriente siro-mesopotamico e anatolico la concezione
secondo cui le divinità abbiano, mutatis mutandis, bisogni materiali ana
loghi a quelli delle creature mortali e ad esse vengono prestate tutte quelle cure che mirano alloro benessere, a cominciare da una dimora adeguata i n cui ospitarle. Quasi ovunque vige infatti il concetto che l'uomo è stato creato dagli dèi per servirli e onorarli in cambio di protezione, benefici e, in alcuni casi (come in Egitto), della partecipazione almeno parziale alla loro sorte privilegiata. Questa idea di fondo non implica solo una sotto missione degli uomini alle divinità, ma prevede anche un coinvolgimento degli esseri soprannaturali nel destino di questo mondo. 8 9
Pecchioli Daddi - Polvani, op. cit., p. 79. lbid., p. 78.
71
10 Il
12
13 14 15 16 17 18
lbid., pp. 78-79. Jbid., p. 79. lbid., p. 81. lbid., pp. 86-87. Ibid., p. 83. Ibid., pp. 78-79. Ibid., p. 83. Ibid., p. 83. Per l'ipotesi che la celebrazione del mito contenesse un motivo eziolo
gico collegato alla città di Lihzina cf. A.M. Polvani, in Pecchioli Daddi Polvani, op. cit., p. 78. 19
20
Ibid., p. 84. ' E un modulo narrativo che abbiamo visto già ricorrere nella narrazione
sopra presentata. 21
Ancora attuale in proposito lo studio ormai classico di G. Cocchiara, Il
mondo alla rovescia, Torino 1963.
22
Si rimanda anche per questo tema a Cocchiara, op. cit., a cui deve ag
giungersi, dello stesso autore, Il paese di Cuccagna, Torino 1980.
23
Cf. da ultimo A.M. Polvani, "Temi di mitologia anatolica tra Oriente e
Occidente: il dio scomparso", in M. Rocchi - S. Ribichini - P. Xella (edd.),
La questione delle influenze vicino-orientali sulla religione greca: stato degli studi e prospettive della ricerca, Atti del Colloquio Internazionale, Roma, 20-22.5.1999, in stampa.
72
DA BAAL DI UGARIT AGLI DEI FENICI Una questione di vita o di morte
PAOLOXELLA
Intorno al terzo quarto del XIV secolo a. C., probabilmente tra gli
anni 1370 e 1350, si verificò in Siria un evento di importanza straor
dinaria per la storia culturale umana. In quest'epoca, infatti, Niqmaddu Il, re del piccolo stato di Ugarit (oggi Ras Shamra, sulla costa siriana prospiciente l'isola di Cipro)' decise di costituire un grande deposito di
archivi raccogliendovi i testi più importanti della tradizione mitologica e cultuale di quella regione.
Il luogo scelto fu, significativamente, l'acropoli della città, preci s�ente quell'edificio chiamato dagli archeologi "Biblioteca del Gran
Sacerdote" posto tra i due grandi templi urbici attribuiti convenzional
mente agli dèi Baal e Dagan2• Non conosciamo le ragioni precise che indussero il re Niqmaddu a prendere una tale decisione. E' teoricamente possibile che l'esigenza di costituire una sorta di "biblioteca sacra" sia
stata legata al cataclisma (terremoto e incendio) che aveva colpito Uga
rit nell'epoca di ei-Amarna. In questa occasione, il palazzo reale celebre in tutto l'antico Oriente era stato distrutto ed è plausibile che anche le altre precedenti "biblioteche" e "archivi" cittadini fossero stati danneg giati o addirittura distrutt{ Il re di Ugarit decise dunque di far registrare una selezione del pa trimonio religioso locale su tavolette d'argilla, secondo l'uso mesopo tamico; tuttavia, certo a causa del contenuto dei testi, non si usò la lingua accadica (lingua diplomatica e di cultura per eccellenza, a quest'epoca). I testi mitologici di tradizione siriana furono invece re
datti in ugaritico, la lingua locale (semitica occidentale), usandosi per
la prima volta un sistema grafico di tipo alfabetico, con trenta lettere rappresentate da segni cuneiformi. Nella vasta biblioteca dell'acropoli gli archeologi hanno scoperto i più importanti testi mitologici della religione ugaritica: gli episodi del c.d. ciclo di Baal, i racconti di Kirta, Danil e Aqhat, il testo mitico-ri tuale di Shahar e Shalim e quello relativo al dio lunare Nikkal,
73
insieme a tutta una serie di testi rituali e cultuali redatti sempre in ugaritico (oltre a vari testi lessicali mono- e multilingui). Di questa impresa voluta dal sovrano ugaritico noi conosciamo an cora un altro protagonista,
di cui ci sono documentati nome e
funzioni. Si tratta di Ili-malku, un importante personaggio responsa bile della redazione dei miti di Baal e di Kirta. Due colofoni4 ci documentano che non si trattava però di un semplice scriba, poiché Ili malku non si limitò soltanto a scrivere i testi ma, come suggeriscono i suoi numerosi titoli e la sua posizione a corte ("Indovino", "Capo dei Sacerdoti", "Capo dei Pastori", "Celebrante liturgico" del re di Ugarit) doveva essere la suprema autorità in materia di tradizioni religiose. Grazie a lui ci è stato trasmesso un materiale preziosissimo per la
conoscenza
della
mitologia
e
della
vita
religiosa
ugaritica,
rappresentativo però di un'area assai più vasta di quella ricoperta geograficamente dal piccolo regno di Ugarit. Ideologie, complessi di
credenze, riti, temi mitici che emergono da tali testi costituiscono una
sorta di "punta di iceberg" di un ricchissimo patrimonio culturale siro palestinese di alta antichità e larga diffusione, con molteplici varianti e
tradizioni locali andate purtroppo perdute. In questo senso, gli indizi sono numerosi e univoci sia riandando indietro nel tempo sino alla
civiltà di Ebla, nella Siria interna del lll millennio, sia scendendo verso il I millennio
e le tradizioni aramaiche, fenicie, ebraiche.
Personaggi, motivi, concezioni, gli stessi usi linguistici tradiscono una notevole continuità di
fondo
che
deve
essere
indagata
per
individuarvi modalità di trasmissione, adattamenti, innovazioni che caratterizzarono le varie civiltà e le diverse fasi all'interno della stessa cultura.
Non è necessario insistere troppo sul fatto che la tradizione mitolo
gico-rituale siro-palestinese merita un'attenzione particolare nella trat tazione del nostro tema: tra le varie ragioni, soprattutto perché essa fu la culla di quelle antichissime tradizioni che, attraverso complesse me diazioni, furono recepite almeno in parte dalla letteratura vetero- e neo testamentaria. Gli studi in questo campo hanno dimostrato quanto pro fondo fu l'influsso esercitato dalla cultura locale sulla religione ebraica e anche sul susseguente cristianesimo. Tra i vari esempi additabili, qui si rileva solo l'influsso esercitato dalle personalità e dai culti di El e Baal sulla figura del Dio d'Israele, che assimilò
molti
aspetti
e
prerogative di entrambi: nel caso del primo, addirittura una delle sue 74
denominazioni (El), del secondo una parte notevole della morfologia di "dio della tempesta", anche se al contempo Baal venne assunto come avversario emblematico e irriducibile di Yahweh. Questo a livello di teologia ufficiale, perché nella religione dei comuni mortali, almeno fino ad una certa epoca, predominava un sereno sincretismo nel quale la devozione per Yahweh doveva convivere accanto a quella per Asherah, la sua sposa cananea, per lo stesso Baal e per molte altre figure minori, il cui destino sarebbe stato di trasformarsi o in accoliti del Dio d'Israele, o in figure "demoniache" da lui stesso combattute, vinte, distrutte o asservite ai suoi ordini'. Ma torniamo alla nostra mitologia ugaritica, per ricordame breve mente due aspetti fondamentali. Da un lato, questo sistema religioso rivela che al vertice del pantheon esisteva una diarchia di poteri. L'autorità carismatica (ma spesso anche operativa) di El, antico crea tore del cosmo e padre delle generazioni divine, e la forza e il coraggio di Baal, campione degli dèi e difensore dell'ordine cosmico. L'armonica complementarità tra i poteri di El e Baal - diversi nella storia e nelle forme in cui si esplicano - sono la sola garanzia per l'organico attuarsi e preservarsi dell'assetto cosmico: dal punto di vista umano, questi due dèi devono cooperare affinché il modello culturale scelto da quella so cietà prosperi e possa perpetuarsi senza essere minacciato dalle forze del caos. Queste ultime sono rappresentate in primo luogo da Mot, i l dio della morte, quindi da Yam lo "spirito" delle acque libere e devastatrici,
oltre
che
da una
serie
di
figure
minori
ciascuna
apportatrice di flagelli ai livelli più diversi (malattia, carestia, siccità, guerra, etc.). Alcuni di questi arei-nemici sono già stati vinti,
in
un'epoca remota, da Baal spalleggiato da sua sorella Anat, come si evince specialmente da un passo mitologico in cui la dea ricorda le comuni, vittoriose imprese: «Quale nemico si è levato contro Baal, Quale rivale contro l'Auriga delle nuvole? Io ho già abbattuto l'amato di El, Yam, ho già annientato Nahar, dio delle acque immense, ho già messo la mordacchia a Tannin, ho serrato la sua bocca, ho già abbattuto il serpente tortuoso, Shaliyat dalle sette teste, ho abbattuto l'amato di El, Arish, 75
ho distrutto il vitello divino, Atik, ho abbattuto la cagna divina, Ishat, ho annientato la figlia di El, Dhabib»
(KTU 1.3 III 37-47). Un secondo aspetto fondamentale di questa tradizione mitologica merita di essere evidenziato, e cioè il
leit-motiv che percorre e caratte
rizza quasi ogni racconto: la dialettica tra la vita e la morte, tra le forze positive della continuità e quelle negative della distruzione. Non è pos sibile qui dilungarci in un'esposizione dettagliata di tutti gli episodi ma, nell'ottica del nostro tema, i cc.dd. dèi che muoiono e risorgono, è giocoforza riconsiderare brevemente la figura e le imprese del dio Baal, una figura talmente caratterizzata in questo senso (sui modi precisi si tornerà tra breve) che se Sir J.G. Frazer avesse potuto conoscere i testi di Ugarit (Ras Shamra non fu scoperta che nel dubbio inserito nel novero dei
1929) l'avrebbe senza dying gods, certamente come personag
gio altamente emblematico. Dobbiamo dunque raccontare succintamente la trama del suo mito, soffermandoci in particolare sugli episodi che ne determinano da un lato la sconfitta e la sparizione agli inferi, dali'altro il suo trionfale ri torno e la sua proclamazione definitiva a campione e re degli dèi. * *
*
Baal ha appena trionfato sul terribile Yam, il Principe-Mare, divi nità caotica legata trasparentemente alle acque marine e fluviali: ha così compiuto un'impresa fondamentale di ordinamento cosmico e stabilito al contempo la propria sovranità universale. Ha ottenuto che gli venisse costruito uno splendido palazzo, segno tangibile di una regalità conquistata a caro prezzo, e qui invita tutti gli dèi a un banchetto di festeggiamento. Ma la pace è solo momentanea. Una nuova
terribile
minaccia
si
profila,
nella
figura
di
Mot,
personificazione della Morte, che sta per penetrare nel palazzo di Baal attraverso un'apertura che lo stesso dio ha voluto. Mot, eternamente affamato di vita e di vite, viene a sfidare Baal col desiderio di imporre all'universo
la
sua
legge
di
dissoluzione
e
di
annientamento
indiscriminato. Egli vive in un luogo sotterraneo descritto come una
76
gigantesca, polverosa tomba; suo unico scopo è uccidere e divorare ogni essere vivente, senza riguardo per la sua natura umana o divina. Il suo minaccioso messaggio fa rabbrividire Baal e tutti gli altri dèi: «Io stesso ora ti divorerò, ti mangerò brano a brano, le interiora a spanne! Dovrai scendere nelle fauci del divino Mot, nella profondità dell'amato di El, il forte!» (KTU 1.5 I 33-35 e par.). Il destino di Baal è ormai segnato: egli deve arrendersi, discendere nel ventre di Mot, dire addio alla vita. Particolare importante, ciò av viene «quando è riarso l'olivo, i prodotti della terra e i frutti degli al beri» (KTU 1.5 II 4-6). Abbiamo qui un'esplicita allusione al tempo estivo, in cui la natura sembra sospendere la propria esuberante vita lità, e all'arrivo della siccità, un aspetto "fertilistico" innegabilmente presente nel mito, che però, come vedremo, è ben lungi dall'esaurire le diverse e profonde implicazioni della vicenda o dal costituirne la sola chiave di lettura. Baal dunque rinuncia a difendersi e si dichiara schiavo di Mot. No nostante varie lacune testuali, si comprende tuttavia che non tutto è fi nito. Da alcune allusioni frammentarie si può dedurre che Baal viene convocato da El e riceve dal saggio padre degli dèi una serie di ordini o consigli: questi sembrano finalizzati ad evitare che la scomparsa di Baal nella fauci di Mot provochi la fine della vita sulla terra, fatale per uomini come per dèi. Le prime parole leggibili dopo la lacuna menzio nano un "vitello" figlio di Baal che dovrà continuare a garantire la fe condità; quindi si allude a riti di sepoltura per Baal, che dovrà portare nell'aldilà le sue figlie, i suoi poteri, le sue energie vitali: «Tu però prendi le tue nubi, il tuo vento, la tua folgore, la tua pioggia, prendi con te i sette valletti, i tuoi otto servitori, prendi con te Pidray, figlia della luce, prendi con te Talay, figlia della pioggia. Quindi dirigiti 77
verso il monte Kankanay, scala il monte con le mani, l'altura con entrambe le palme e discendi nella "Dimora di reclusione" dell'aldilà. Sarai annoverato tra quelli che discendono nell'aldilà e gli dèi sapranno che sei morto» (KTU 1.5 V 7a-17a). Baal adesso è scomparso inghiottito da Mot, l'universo è in crisi. Gli uomini e gli dèi lo piangono per morto ed è lo stesso dio supremo El, in preda alla disperazione dei riti di lutto, ad affermare: «Baal è morto! Che ne sarà delle genti? Il figlio di Dagan! Che ne sarà delle moltitudini? Dietro Baal io stesso discenderò nell'aldilà!» (KTU 1.5 VI 23-25). E' fondamentale tenere presente qui che il testo usa esplicitamente il verbo che, nelle varie lingue semitiche, significa «morire». Natu ralmente morire, per un dio, è altra cosa che per un uomo. La rivincita, il ritorno si annuncia già ed è la fedele Anat che prepara la riscossa. Animata da un amore più forte della morte la dea, aiutata dalla divinità solare Shapash, cerca a lungo e ritrova il corpo del fratello tra le zolle della terra, lo trasporta sulle vette del monte divino, il Sapanu, e lo seppellisce celebrando un grandioso sacrificio funerario. Nel frattempo, privi di un re, gli dèi tentano di sostituire Baal mettendo sul trono Athtar; quest'ultimo, dotato più di intelligenza che di forza, è però inadeguato al compito. E' a questo punto che sopravviene la vendetta di Anat. Spinta dalla forza della disperazione, animata da una fede cieca, ella trova e affronta Mot faccia a faccia, distruggendolo senza una apparente resistenza da parte di quest'ultimo: «Afferra allora (Anat) il divino Mot: con il coltello lo taglia, col ventilabro lo vaglia, col fuoco lo brucia, con una mola lo stritola, nei campi lo disperde, 78
6• La sua carne la mangiano gli uccelli, i suoi brandelli li consumano i volatili: carne grida a carne!» (KTU 1.6 Il 30d-37). Ecco dunque create le premesse per il ritorno alla vita di Baal: sep pelliti i suoi resti, eseguiti i riti funerari, smembrata e dispersa nella terra e nel mare l'incredibile potenza della morte, il campione degli dèi si manifesta come di nuovo vivo (anche qui si usa il verbo appro priato, «vivere»), con immediato enorme sollievo di uomini e dèi, ma nifestato ancora dalle parole di El, che ha un sogno premonitore che si rivela immediatamente veritiero: «Se però fosse vivo il potente Baal, se fosse in vita il principe, signore della terra, in un sogno del benigno El, il misericordioso, in una visione del creatore delle creature, i cieli farebbero piovere olio, i torrenti scorrerebbero con miele: allora saprei che è in vita il principe, signore della terra! In un sogno del benigno El, il misericordioso, in una visione del creatore delle creature, i cieli facevano piovere olio, i torrenti scorrevano con miele! Si rallegrò il benigno El, il misericordioso, i suoi piedi sullo sgabello poggiò, distese la fronte corrucciata e sorrise, levò la sua voce ed esclamò: Ora potrò sederrni e riposare, riposerà nel petto l'anima mia! Perché è vivo il Potente Baal, è in vita il Principe, Signore della terra!» (KTU 1.6 III 14-21). Tornato dunque in vita, Baal affronta personalmente la Morte e in un duello senza vincitori né vinti stabilisce limiti e regole all'azione del suo avversario. Mot aveva tentato in un primo tempo di ottenere il
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dominio sul cosmo, divorando Baal e minacciando gli altri dèi e l'umanità. Dopo il trattamento inflittole da Anat, la Morte si è disin tegrata spandendosi nel mondo, simbolizzato meristicamente da terra e mare; il cielo, cioè gli dèi, non sono più toccati. Resta la minaccia, inevitabile e operante, contro il genere umano, essendo la morte un dato ineluttabile dell'ordine cosmico; ma l'azione di Baal non è senza conseguenze positive anche per l'umanità, giacché Mot sarà costretto ad operare con discernimento, avendo trovato dei limiti precisi ai suoi poteri. Questo avverrà sotto il controllo di Baal il quale, dopo la sua catabasi agli inferi e l'esperienza conseguita, prenderà sotto la sua pro tezione i defunti, cioè tutti coloro che sono caduti davanti al suo antico nemico. Non è possibile qui dare conto in tutti i dettagli dell'importanza del culto degli antenati a Ugarit, come nella tradizione siro-palestinese, c:b Ebla alle epoche posteriori. Sarà sufficiente sottolineare che Baal, pro prio per avere affrontato i rischi mortali della discesa nell'aldilà, viene chiamato nei testi ugaritici Baal-Rpu, "Baal il salvatore/guaritore". Sotto questa forma, egli è onorato nel culto come eponimo e leader 00. gli antenati, soprattutto i re e i grandi eroi della tradizione siriana, i quali saranno parimenti venerati come Rapiuma, cioè "salvatori/ guari tori" capaci di proteggere e aiutare i
vivi in
circostanze cruciali
dell'esistenza. Gli uomini, naturalmente, continueranno a morire, ma potranno (almeno alcuni di essi) sperare in una sorte non troppo ango sciosa nell'adilà, poiché diventeranno ritualmente Rapiuma, cioè eroi antenati, onorati dai vivi e a loro vicini come elargitori di fertilità, fe condità, oracoli e interventi salvifici. Anche l'ordine cosmico, al ri torno di Baal, riprende i suoi ritmi che non saranno più minacciati dalle forze del caos. La grandiosità dei temi e degli eventi narrati da questo mito si fonda precisamente sulla eterna dialettica tra la vita e la morte, le cui implicazioni sono talmente profonde che non possono essere ridotte alla sola dimensione fertilistica. Certo il mito di Baal e Mot si serve innegabilmente di un linguag gio agrario, poiché la vita dell'uomo e della divinità, che da lui di pende, è indissolubilmente legata ai cicli naturali, alla fertilità della terra, alla fecondità animale. Baal muore, scende nella fauci di Mot, proprio quando l'aridità minaccia la vita in ogni sua forma. Del resto, il legame tra il dio ugaritico e l'acqua pluviale benefica è confermato 80
anche dai testi rituali. Una tavoletta cuneiforme, in particolare, ristu
diata a fondo recentemente', apporta nuova luce in proposito. Essa ap
partiene alla letteratura esorcistica di ambito sacerdotale ed è probabil mente in rapporto con una festa di capodanno. L'azione vede come pro
tagonisti Baal e il suo servitore, il re, e prevede varie cerimonie di
idroforia e magia acquatica. Qui il dio El sembra agire contro Baal
provocando la nascita di due "uomini-toro" al di fuori del contesto delle terre agricole; questo pare il presupposto per una sconfitta di Baal;
descritto come un cacciatore, qui Baal riesce ad avere la meglio sui due
mostri, ma rimane lui stesso vittima del duello, cadendo morto a terra,
il che viene immediatamente riflesso dal morire della natura. El fu trascorrere 7/8 anni di siccità/carestia, finché gli accoliti (''stirpe") di
Baal lo cercano, lo trovano e gli danno sepoltura (questo passaggio non è certissimo, è solo un'ipotesi interpretativa). Con ciò si
è
identificata la ragione della carestia; il mito sembra avere come scopo di indicare la disavventura e la morte di Baal come ratio ultima della
carestia/siccità.
Con
Baal
scompare
indispensabile per la natura e gli uomini.
anche
l'acqua,
vitale
e
Anche se il mito si serve qui e altrove di un linguaggio prevalen
temente agrario, è però arbitrario ridurre il
suo
messaggio
alla
semplice sfera fertilistica. La realtà dell'alternarsi delle stagioni, del
languire e risorgere della natura,era ovviamente ben nota agli antichi, nel Vicino Oriente come in ogni angolo della terra. Al di là di ciò, il
linguaggio impiegato (il corpo di Baal viene ritrovato tra le zolle della terra, egli risorge sul monte Sapanu, cioè tra le nuvole, Mot sembra trattato come un cereale, ... ),era quello che meglio di tutti si prestava
a diventare la metafora dell'esperienza millenaria della morte ed è storicamente rilevante come tale realtà e il linguaggio che ne deriva siano stati usati culturalmente dall'uomo. E' infatti l'uomo, non
l'acqua benefica o la terra arida,ad essere al centro della vicenda. Se si
tiene adeguato conto delle implicazioni rituali degli eventi mitici, testimoniate da altri testi, è chiaro che la catabasi di Baal agli inferi
apre la strada al riconoscimento cultuale del semplice morto
che
diviene ritualmente antenato. Membro, cioè, di una comunità ritenuta
attiva e operante a favore dei vivi, presente nelle memorie e nel culto. Non più o non solo larve anonime e piene di rancore, ma esseri culturalmente utili
a una società che ha scelto di non !asciarli
nell'oblio. Attraverso l'avventura mitica esemplare di Baal e di M o t, 81
ìn questa originale formulazione del culto dei Rapiuma, uno dei tratti più caratteristici della relìgione in Siria-Palestina, l'uomo oppone la propria risposta all'annientamento perpetuo nella morte, che prevede tutt'al
più
una
penosa
sottoesistenza come
spirito
malefico
e
rancoroso. Reintegrando i morti, o almeno alcuni morti, in un sistema positivo di valori, la cultura siriana ha fatto di Baal una delle più affa scinanti e complesse figure di divinità mediatrice, schierata sempre e senza ambiguità dalla parte dell'uomo, dì cui ha condiviso la più drammatica delle esperienze. Ma Baal è davvero un "dio che muore e risorge"? Premesso che è metodologicamente scorretto partire da una categoria astratta per ritro varne conferme nella documentazione, si può comunque affermare che a lui viene davvero ascritta una "morte" (verbo mwt, «morire») e poi un ritorno in vita (verbo yhw, «vivere»); che il suo non è un ritorno in tono minore, né simbolico, ma prepotente, clamoroso, tale eh restaurare l'ordine naturale e confinare la morte in limiti più controllabili; egli è proclamato re su dèi e uomini, funzione che eserciterà senza concorrenti. Non è però questione
di alternanze
nell'aldilà, né di dipendenza da una dea, anche se Anat (sia pure col concorso di Shapash) gioca un ruolo fondamentale nella vicenda. Inoltre,
non è possibile
affermare che il momento forte
sia la
scomparsa/morte ma, al contrario, proprio il ritorno e la lotta contro 8 Mot appaiono essere i fulcri della vicenda • Resta da chiedersi perché Baal non venga fatto rientrare abitual mente nel novero di quegli dèi inseriti nella categoria dei dying gods. Se Frazer non poteva conoscerlo, i moderni non hanno questa scusa. Senza voler anticipare qui i risultati della ricerca collettiva e quanto si dirà in sede di conclusioni, sia lecito avanzare una risposta, che è anche un'ipotesi di lavoro sulla Weltanschauung degli studiosi contempora nei: Ugarit è molto, troppo vicina alla Palestina, geograficamente e culturalmente; il Baal della Bibbia combattuto dallo Yahwismo è da n conoscersi proprio in tale figura; e poi, last but not least, Baal sembra proprio l'unica figura divina che, indiscutibilmente, muore e risorge, legandosi al destino dell'uomo, venendo chiamato "Salvatore": pensate che non ve ne sia abbastanza?
82
Abbiamo così potuto verificare che Baal è un dio che "ritorna" deci samente con un ruolo, dopo la crisi, assai più attivo e universale di prima: forse per questo si è rivelato una figura "scomoda" da inserire in tipologie precostituite che non prevedono resurrezioni con tali conse guenze clamorose. Proprio per tali ragioni Baal merita di diritto un po sto preminente nel quadro dell'indagine sulle divinità che sono prota goniste di una "crisi" variamente definibile e più specificamente per due motivi fondamentali. 9 In primo luogo, si tratta - se si esclude parzialmente Dumuzi dell'unico dio le cui vicende ci siano pervenute attraverso una fonte di retta ed immediata (le tavolette ugaritiche); in secondo luogo, perché Baal deve considerarsi una sorta di "prototipo" (ci si passi il termine inadeguato) per l'antichità delle tradizioni che lo concernono (i testì sono redazionalmente della metà del II millennio a. C., ma devono ri salire nel contenuto molto più indietro nel tempo). Per queste ragioni Baal può considerarsi storicamente e morfologicamente correlato alle divinità cittadine fenicie che emergono (nella documentazione a noi di sponibile) nell'Età del Ferro e che, pur nella specificità dei culti locali, rientravano certamente in un'ideologia mitico-rituale affine a quella del loro "predecessore" ugaritico. E' a queste figure che è dedicata la se conda parte del presente contributo. * *
*
Nel I millennio le fonti, dirette e indirette, sul pantheon fenicio, documentano l'esistenza di alcune figure sovrumane (eroiche/divine) protagoniste di un'esperienza di morte/sparizione/latenza seguita da una riapparizione/ritorno/resurrezione. Si tratta di personaggi che vivono una crisi piuttosto drammatica, dallo svolgimento non identico, che va di volta in volta analizzata nelle sue specifiche implicazioni mitiche e rituali, senza lasciarsi condizionare da schemi preconcetti. Si tratta di Adonis, Eshmun e Melqart, legati dalla tradizione rispettivamente alle città di Biblo, Sidone e Tiro. Per quanto riguarda queste figure, prima di esaminare le fonti che le concernono, è opportuno anche in questo caso ricordare i quesitì fon damentali che occorre porsi affrontando il tema del presente volume. Si tratta davvero di personaggi che muoiono e risorgono? In altri termini, 83
si tratta nel loro caso di una vera e propria morte, rapportabile ali' esperienza umana, ovvero si ha a che fare con un "cambiamento"
di
natura diversa, una sorta dì passaggio verso un'altra dimensione? Si
tratta di una sopravvivenza miracolosa, ovvero di un'immortalità con
quistata come nei casi più celebri narrati dalla mitologia classica?
L'opportunità di una verifica è suggerita tra l'altro anche dallo stato degli studi più recenti, in cui si è ben lungi dall'aver raggiunto una
uniformità di opinioni. Vi è chi,
ad esempio, critica giustamente dèi morenti quasi onnicompren
l'esistenza storica di una categoria dì
siva, ma poi non prende in considerazione un caso abbastanza chiaro come il Baal di Ugarit appena esaminato, ovvero glissa rapidamente
sugli dèi fenici al centto della nostra attenzìone10• Altri si muovono nel solco dell'impostazione tradizionale senza prendere posizione11, altri ancora negano il carattere esemplare della vicenda di Baal ritendola trat tarsi di un semplice fatto letterario che riecheggerebbe l'ideologia reale
ugaritica12•
E' inutile qui soffermarcì sul personaggio dì Adonis, al centro
di
uno studio specifico di S. Ribichini in questo stesso volume13• Ricor deremo soltanto che esso è certamente reinterpretazione greca di un "modello" di divinità poliade fenicia, non senza aspetti che lo
acco
stano a Tammuz (specie le lamentazioni femminili) e a Osìride (la ri tualità dei "giardini"). Del resto, gli studi degli ultimi anni hanno indi cato la molteplicità di approcci con cui può essere studiato il suo
dos sier (da cacciatore fallito a simbolo di un Oriente "di maniera"), che
deve comunque sempre essere valutato equilibratamente in tutte le sue
componenti. Resta il fatto che una divinità con questo nome non è mai attestata nelle fonti semitiche e, se proprio si volessero trovare forti somiglianze con un personaggio vicino-orientale, si dovrebbe forse chiamare in causa più che un dio, un personaggio "umano"
protagonista di una vicenda mitica, cioè l'ugaritico Aqhat figlio
di
Danil. Studiosi dì varia impostazione hanno comunque ampiamente mostrato che i miti relativi ad Adonis non adombrano alcuna forma
di
salvezza extra-mondana e che tale figura si ricollega a quelle delle divinità cittadine fenicie,
con il
Baal ugaritico come
esponente e Melqart e Eshmun come casi chiari nel resto
più
antico
I millennio. Del
adon è nelle lingue semitico-occidentali un epiteto divino (oltre
84
che regale) spesso collegato a "Baal", designazione solo apparente mente generica di questi dèi-re della tradizione siro-palestinese. Riandando ad altre figure di Baal locali delle città fenicie, i due più
famosi ci sono noti - a differenza di Adonis - con il loro nome proprio, Eshmun e Melqart; pure ad essi le tradizioni attribuiscono variamente un'esperienza di crisi e relativo superamento. Eshmun era un dio pan-fenicio, legato però particolarmente alla
città di Sidone di cui era probabilmente originario14• Fin dagli inizi
della documentazione esso si presenta come un dio guaritore molto specializzato, aspetto confermato dalla sua identificazione classica con Asclepio [e Esculapio] e, più raramente, con Apollo e Iolao.
Se le fonti epigrafiche, archeologìche e letterarie su Eshmun atte
stano con chiarezza la sua inclinazione a guarire, non esiste alcun indi zio diretto (salvo quello che esamineremo subito) di una sua esperienza
di morte/resurrezione, né di suoi rapporti specifici con la sfera della fer
tilità/fecondità. Abbiamo comunque un testo abbastanza tardo (inizio
del VI sec. d. C.) attribuito al filosofo neoplatonico Damascio15, che
riporta un racconto mitologico dal carattere composito. Ecco il passo che ci interessa:
«L'Asclepio dì Berito non è né greco né egiziano, ma un altro, autenticamente fenicio. Da Sadykos nacquero infatti dei figli che essi interpretano come Dioscuri e Cabiri. Ottavo dopo di questi nacque Esmounos, che essi interpretano come Asclepio. Dato che egli era il più bello e il più giovane e tale da suscitare l'ammirazione a vederlo, Astronoe, dea fenicia, madre degli dèi, sì innamorò di lui, come narra il mito. Egli aveva l'abitudine di cacciare nelle valli del paese e, vedendo la dea che lo inseguiva nella fuga e stava per raggiungerlo, si tagliò i genitali con un colpo di ascia. La dea afflitta fece la lamentazione per lui e lo chiamò Peana (ovvero: invocò Peana). Dopo averlo risvegliato col calore vitale, lo fece diventare un dio. Egli fu chiamato Esmounos dai Fenici a causa del calore vitale. Altri invece ri tengono che Esmounos significhi "ottavo", poiché egli era l'ottavo figlio di Sadykos>>. Già molti anni or sono si era tentato di individuare gli elementi
"autenticamente" fenici di questo racconto'•, che presenta del resto al cune analogie con la versione usualmente definita "frigia" del mito di
85
Attìs17, in particolare l' autoevirazione e l'innamoramento della Madre degli dèi, qui chiamata Astronoe, cioè Astarte, insieme però a diffe renze notevoli, quali il motivo della misoginia del protagonista, as
sente nelle tradizioni sul pastore frigio. Quanto a Adonis, anche lui era
un giovane morto durante la caccia, animato
da una misoginia di
profonda verso una dea; il "risveglio" di Esmounos/Eshmun da parte
Astronoe/Astarte ricorda poi l'intervento di Iside nei confronti di Osi
ride, mentre tutto il racconto mostra infine analogie non trascurabili con il mito ugaritico del cacciatore Aqhat, il che ci orienta verso un'epoca molto più antica (almeno il Tardo Bronzo).
In ogni caso è ben probabile che questo testo abbia conservato un nucleo di tradizioni genuinamente fenicie su Eshmun, giovane caccia tore, principe e figlio di Sadykos, amato da Astronoe/Astarte, protago
nista di un episodio di "morte" e di "divinizzazione"
(= elevazione al
rango divino). Ma è forse il caso di entrare in maggiori dettagli, esa minando isolatamente i motivi più caratteristici del racconto.
Cominciamo dal .fUoco, che riveste un ruolo notevole nel mito i n questione. Secondo i l nostro testo, i l nome d i Esmounos deriverebbe o
dal termine semitico-occidentale per "fuoco" o da quello che indica i l numerale ordinale "ottavo". Entrambe l e etimologie antiche non hanno fondamento linguistico'", ma sono preziose perché ci consentono
di
meglio comprendere alcuni aspetti originali della personalità del prota
gonista, estranei tanto ad Attis che ad Adonis. La relazione col fuoco, individuabile (erroneamente) nel nome e nel "calore" vitale, richiama
da presso il ruolo rivestito da questo elemento nella mitologia di
Melqart, l'Eracle fenicio, di cui sono noti i rapporti con Eshmun. Si
tratta di un potente mezzo di trasformazione, capace di conferire
capacità straordinarie e addirittura l'immortalità19•
Un'altra tradizione vuole che Eshmun fosse l'ottavo figlio di Sa a> dykos . La circostanza di essere "ottavo" di una famiglia o di una dina stia ha un valore simbolico rilevante nelle tradizioni semitiche e carat terizza vari personaggi destinati a una sorte speciale (come David, ot tavo figlio di Jesse o, nei miti ugaritici, la figlia del re Kirta che si
chiama precisamente "Ottavia"). Esmounos, in più, è di origine reale e questo aspetto lo si ritrova neii'Eshmun fenicio che porta l'epiteto
di di suo padre, Sadykos, è il calco greco di un termine semitico (/idq), di "principe santo" nelle iscrizioni di Sidone d'età persiana21• Il nome
una radice che esprime la nozione di "giustizia", la virtù reale per
86
eccellenza. Questo personaggio
è dunque chiaramente la prmeztone
archetipale di un re, antenato e modello ideale di tutti i sovrani. Si
ritrova qui dunque il legame con la regalìtà che caratterizza i Baal
cittadini
della
tradizione
siro-palestinese
particolare.
in
generale,
fenicia
in
Un terzo aspetto che va sottolineato
Eshmun con la caccia. Egli
è il legame di Esmounos/ è descritto come un cacciatore profonda
mente misogino. Oltre alle analogie con Adonis, il motivo si ritrova anche nelle tradizioni sidonie su Eshmun, e precisamente nelle scene di caccia che decoravano le mura della cappella presso la piscina, che fa ceva parte del santuario di Bostan esh-Sheikh dedicato a Eshmun e,
forse, anche ad Astarte22• Ancora, non va dimenticato che la pratica ve
natoria era una prerogativa di re e principi nel Vicino Oriente anticon.
Restano da segnalare ancora alcuni tratti fondamentali che emer gono dal mito di Esmounos, caratterizzandolo fortemente, e cioè la sua misoginia, che lo induce a fuggire l'amore della dea, la morte che ne la conseguenza e la successiva elevazione al rango divino operata Astronoe/Astarte.
è cb
·
L'atteggiamento misogino deve essere considerato un aspetto origi
nale del personaggio, condiviso come
è anche da Aqhat e da Adonis.
Ad un'attenta lettura del testo, emerge che la morte del protagonista non
è menzionata esplicitamente. Sembra trattarsi di una perdita di
energia vitale, di un indebolimento della forza e del calore interno. E'
vero che Astronoe fa una lamentazione per lui, ma questo atto sembra far parte
di un rituale più complesso che implica l'intervento di Peana:w anazopyresasa)
che riesce a rigenerare, e "risvegliare" (dice il testo,
Esmounos e a farlo "diventare dio".
Non è agevole in questo caso parlare di morte e di resurrezione nel
senso convenzionale dei termini. Esmounos perde la virilità e allo stesso tempo tutte le sue energie vitali
(= calore), reintegrate poi dalla
dea che gli conferisce una pienezza di forze che coincide con una im
mortalità di tipo "divino". Questo aspetto si ritrova anche nelle tradi zioni concernenti Melqart e in quelle su Asclepio; quest'ultimo, come
è noto, venne colpito dalla folgore di Zeus poiché resuscitava i morti e divenne un dio immortale per aiutare il genere umano e lenime le sof ferenze.
Il carattere di guaritore attribuito a Eshmun appare del tutto compa
tibile con una tradizione mitologica in cui il protagonista, in origine
87
uomo mortale, diviene dio a seguito di un evento drammatico che non
può essere definito come una semplice morte e resurrezione. Si tratta proprio del meccanismo narrativo che caratterizza molte
vicende
eroiche della mitologia greca�: un mito di "trasformazione" che fonda
la nuova dimensione attinta da questi personaggi straordinaria�. Per concludere, Eshmun è un personaggio dalla personalità origi
nale e complessa, legato all'ideologia regale, specializzato in guari gioni ordinarie e straordinarie; una figura che non può rientrare negli "dèi morenti" dello schema di Frazer, tanto più che non mostra alcun rapporto con la fertilità e la fecondità della natura27• Questo personag gio ha conosciuto, a livello mitico, un'esperienza drammatica (in quanto essere umano), è sfuggito alla morte e agisce ormai come un dio, cioè nella nuova dimensione acquistata grazie all'intervento mira coloso della grande dea. Non vi è dubbio che Melqart fosse il signore (Baal) di Tiro e, in
sieme, la figura emblematica della colonizzazione fenicia in occidente.
La sua identificazione con Eracle testimonia un sincretismo semitico indoeuropeo che sta alla base del più celebre ciclo mitologico dell'an tico Mediterraneo. Studiato approfonditamente in una specifica mono grafia28, questo personaggio attira la nostra attenzione soprattutto per
gli episodi di "morte" e "resurrezione" ascrittigli da certe tradizioni, eh valutare appunto nell'ottica della nostra indagine. Il teonimo Melqart significa letteralmente, come è noto, "re della città", denominazione che allude al suo strettissimo rapporto con Tiro, qui intesa come
"città" per eccellenza. Come proiezione divina del re terreno Melqart (in cui
occorre riconoscere il Melkathros o
Melkarthos di certe
tradizioni)N mostra comunque aspetti ctonii nella sua personalità e continua la tradizione siro-palestinese degli antenati reali divinizzati
dopo la morte.
Come accennato, un elemento essenziale nel dossier di Melqart è costituito dalla tradizione - nota a livello sia mitico che rituale - con cernente una festa periodica in suo onore che le fonti greche defini scono egersis, cioè più o meno "risveglio", "resurrezione", un rito pubblico e solenne celebrato dal re in personal). Secondo l'interpreta zione più accreditata, in essa si commemorava un'esperienza mitica di
morte o scomparsa, seguita - come momento centrale - da un ritorno,
risveglio o resurrezione del protagonista in forma divina. Un personag88
gio detto mqm >[m(carica onorifica di primo piano nel mondo fenicio punico) aveva un ruolo importantissimo nella festa; esso significa più
o meno «resuscitatore della divinità» e corrispondeva al greco egersei
t es, una carica in rapporto al culto di Eracle. Esistono due passi dello storico Giuseppe Flavio3' che concernono la celebrazione del'egersis di
Melqart su cui occorre soffermarsi:
«Inoltre egli (= il re di Tiro, Hiram l) venne a tagliare legna sulla montagna chiamata Libano per i falegnami del tempio. Di ritorno, egli demolì gli antichi santuari e costruì un nuovo tempio a Eracle(= Melqart) e a Astarte. Per primo egli effettuò (la cerimonia del)l' egersis di Eracle nel mese di Peritios» ' (Ant. Jud., VIII V 3, 145-146). «Egli(= il re di Tiro, Hiram l) riempì I'Euricoro e dedicò la co lonna d'oro che si trova nel tempio di Zeus; andò a tagliare le gna di cedro sulla montagna chiamata Libano per i falegnami dei templi. Di ritorno, egli demolì gli antichi templi e ne co struì un altro, quello di Eracle e di Astarte. Per primo effettuò (la cerimonia del)l' egersis di Eracle nel mese di Peritios» (Contra Ap ionem, I 117-119). L'analisi critica di questi testi32 è giunta alla conclusione che il
passo meno contaminato è il primo e che, per i templi, la versione al singolare è quella da preferire. Il termine egersis designa la cerimonia, il verbo epoiesato significa «compiere», «effettuare»: abbiamo a che fare dunque con un rito solenne il cui nome è lo stesso che viene cor
rentemente usato dai Padri della Chiesa per designare la resurrezione (di Cristo, dei morti)33• Aggiungeremo che il verbo *qwm significa ap punto «(ri)sorgere» e le interpretazioni alternative proposte non sono né convincenti né esurienti34•
La festa era annuale e commemorava un evento speciale, accaduto
una volta per tutte nel tempo del mito e riattualizzato dal rito. Il suo carattere periodico esclude naturalmente che si trattasse di una cerimo
nia da celebrare in caso di necessità. Il «resuscitatore della divinità» per eccellenza era probabilmente il re in persona e la carica contrassegnava comunque personaggi eminenti della società. Questa interpretazione è avvalorata dalle tradizioni mitologiche sul l'Eracle fenicio, che si immola volontariamente sul rogo e ottiene in
89
seguito uno status divino. Un documento importante su questo evento 35 è il c.d. vaso di Sidone pubblicato da Barnett , che ci ha trasmesso ve rosimilmente la sequenza delle fasi del rito che si svolgeva in tre giorni. Le quattro scene rappresentano infatti la cremazione di Melqart sul rogo (primo giorno); i funerali e il seppellimento del personaggio, insieme alle lamentazioni e ai riti funebri compiuti
da una rea
(Astarte) e dal re (all'indomani della morte, secondo giorno); l'egersis di Melqart che ha la sua epifania post morte m all'interno del suo tem pio, all'alba del terzo giorno. Anche se il senso dell'iscrizione sul vaso,
bel
kr, («signore
della
fornace»
?)
è
incerto36,
l'oggetto
costituisce una fonte di primaria importanza su questo rito e le tradizioni soggiacenti. Vi sono dunque vari elementi importanti che fanno allusione con insistenza alla stessa tradizione: i dati sul culto di Melqart a Gades, in J1 Spagna , l'esistenza di credenze concernenti le vicissitudini dell'Eracle fenicio, alle quali forse si riferisce anche la festa detta «giorno del sep 38 pellimento della divinità» nell'iscrizione fenicia di Pyrgi , e ancora, le espressioni derisorie della Bibbia ebraica sull' "assenza" degli dèi cana nei e sulle assurde pretese del re di Tiro che si crede divino:JJ. Si tratta insomma di una serie imponente e omogenea di dati che, anche se non tutti allo stesso livello di sicurezza, rappresentano nell'insieme una do cumentazione impressionante e univoca, che ben si armonizza, in più,
con gli altri elementi concernenti Eshmun e Adonis, contribuendo a di segnare una tradizione coerente anche se con varianti locali. * *
*
Nel mito ugaritico del re Kirta, i figli del protagonista, un sovrano malato che sta per morire, si chiedono con angoscia e incredulità se il re loro padre, ritenuto pari a un dio, finirà per morire come i comuni mortali: «Ecco, padre, proprio come i mortali tu morirai?(...) Come si potrà dire che Kirta è figlio di El, prole del Misericordioso-e-Santo? Ahimè, gli dèi muoiono? La prole del Misericordioso non vivrà?» (KTU 1.16 II 41-44). 90
A questa drammatica domanda la religione siro-palestinese ha cer cato di dare una sua originale risposta con uno sforzo notevole, sul piano rituale e, più generalmente, cultuale. Nelle tradizioni di que st'area, come si è visto, il re delle origini, antenato mitico della dina stia, è protagonista di una sorte insieme tragica e privilegiata, una morte drammatica seguita dall'elevazione al rango divino, proprio come vari eroi della mitologia greca: non è certo casuale che Eracle e Asclepio, identificati rispettivamente con Melqart e Eshmun, siano i soli dèi della religione greca di origine umana. Morto come uomo, il re mitico raggiunge il suo status divino gra zie ad un passaggio in una nuova dimensione di forza e di vitalità otte nuta dal calore (del fuoco). Proprio come il suo modello umano«J, il Baal poliade sarà al contempo garante della salvezza degli uomini, della fecondità, della fertilità, del commercio, della navigazione, dell'espan sione coloniale, in breve, del benessere del paese in tutte le sue forme e manifestazioni. Si è più volte accennato al fatto che l'ideologia soggiacente a queste tradizioni affonda le proprie radici nella cultura siro-palestinese del III-II millennio, da Ebla a Ugarit, con il suo culto degli antenati, i Rapiuma. Nel I millennio, forse, i modelli rappresentati da Aqhat e Kirta non corrispondevano più alle esigenze contemporanee, ma il nucleo ideologico di fondo resta comunque ben percepibile. Eshmun, da un lato, sviluppa gli aspetti di guaritore in armonia con la humus dell'epoca ellenistica,
la crisi dell'individuo e dei culti
ufficiali;
Melqart, d'altro lato, mostra una personalità più complessa poiché passa a esprimere i valori dell'identità nazionale senza che un aspetto prevalga sull'altro. Che resta, a questo punto, del binomio morte-resurrezione presente nella teoria di Frazer e nelle interpretazioni moderne orientate in tal senso? A mio avviso, "morte" deve essere in questo caso interpretata come la fine della vita per un eroe del mito, in un senso fondamental mente biologico rapportabile all'esperienza del comune mortale: di qui il seppellimento, la tomba, il culto funerario. Non è questione qui di resurrezione in senso stretto del termine, poiché si tratta di un passag gio verso un'altra dimensione del tutto diversa che implica la conquista di nuovi poteri positivi per gli uomini, le cui implicazioni non riguar-
91
dano che la dimensione umana (e, naturalmente, le modalità della morte). Il "risveglio" implica dunque un ristabilimento di energie sospese o esaurite, una reintegrazione totale della forza vitale che consente a colui che sta per "diventare dio" di acquistare delle capacità straordinarie d'intervento nel cosmo. La vittoria di Baal su Mot e i sui poteri della morte, cantata dagli antichi miti di Ugarit, lungi dall'essere stata dimenticata, continuava dunque a fornire qualche speranza agli uomini del I millennio a. C.
N01E I Per una introduzione generale divulgativa su Ugarit si rinvia a P. Xella,
Dossier Ugarit, Archeo XVI/4, 182, 2000, pp. 53-87; più tecnico è W.G.E.
Watson- N. Wyatt (edd.), Handbook of Ugaritic Studies, Leiden 1999. La
migliore introduzione archeologica è quella di M. Yon, La cité d'Ougarit sur le tell de Ras Shamra, Paris 1977. Testi in traslitterazione: M. Dietrich
-O. Loretz - I. Sanmartfn, The Cuneiform Alphabetic Texts from Ugarit,
Ras lbn Hani and Other Places, Miinster 1995 (= abbr. KTU). 2
I nomi delle divinità e dei vari personaggi ugaritici vengono qui citati
nella loro forma più comune e convenzionale, Baal, El, Mot, Anat, Sha pash, etc., anziché nella grafia "scientifica" ma meno popolare (Ba
Di questi ultimi in ogni caso non è rimasta alcuna traccia ma, data
l'epoca,
ben difficilmente essi potevano
contenere testi redatti
nella
"nuova" scrittura cuneiforme alfabetica. 4
Versione breve: KTU 1.4.VIII, margine della tavoletta; cf. anche K1U
1.16 VI, margine; versione lunga: KTU 1.6 VI 54-58. 5
Temi trattati, tra l'altro, in P. Xella, Gli antenati di Dio, Verona 1982; s i
veda anche K. van der Toorn - B. Becking - P.W. van der Horst (edd.), Dictionary of Deities and Demons in the Bible, Leiden 19992; su Asherah, cf. P. Merlo, La dea A.\'era, Roma 1998.
6
Come dice testualmente lo stesso Mot in KTU 1.6 V 18b-19c, apportando
una fondamentale aggiunta al precedente passaggio che descrive il suo massacro da parte di Anat in cui manca la menzione del "mare". Questo ap pare un elemento di dissonahza rispetto al quadro "agrario" della distru zione di Mot, di cui va tenuto il debito conto, cf. infra.
92
7
In KTU 1.12 abbiamo una prima parte mitologica (l l - II 55a: probabil
mente una versione abbreviata e mancante del finale di un più ampio rac conto) e una seconda rituale (Il 55b-61). Il destino di Baal è strettamente legato a quello dell'acqua, e questo testo va forse posto in correlazione con il "ciclo di Baal", cf. M. Dietrich - O. Loretz, Studien zu den ugaritischen Texten-1. Mythos und Ritual, Miinster 2000. 8
Cf. più tardi !'egersis di Melqart, infra.
9
10
Cf. il contributo di P. Pisi in questo stesso volume. J .Z. Smith, "Dying and Rising Gods", in M. Eliade (ed.), The Encyclo
pedia of Religion, 4, New York 1987, pp. 521-527; cf. anche id., Drudgery Divine. On the Comparison of Early Christianities and the Religions
of
Late Antiquity, London 1988, p . 85ss. L e lacune testuali non impediscono
di comprenderne il senso di fondo, cf. supra.
11
Cf. ad esempio T.N.D. Mettinger, "The "Dying and Rising God". A Sur
vey of Research from Frazer to the Present Day", Svensk Exegetisk Ars bok, 63, 1998, pp. 111-123. 12
M.S. Smith, "'Ibe Death of "Dying and Rising God" in the Biblica!
World. An Uptodate, with Special Reference to Baal in the Baal Cycle", SJOT, 11, 1997, pp. 257-313 (cf. le critiche fondate di G. del Olmo Lete, "El Ciclo de Baal revisado", AuOr, 14, 1996, pp. 269-277). E' ben difficile accettare la teoria paradossale di M.S. Smith secondo cui il re, anziché le garsi attraverso il mito al destino del dio, si riterrebbe ab aeterno di natura divina e proietterebbe su Baal tale condizione. Si opererebbe così un ribal tamento dei rapporti tra mito-rito-realtà storica che è senza paralleli nella Storia delle religioni. Dal momento che l'ideologia veicolata dal mito ri flette in ogni caso (anche se variamente, in una dialettica dalla molte facce e direzioni), la Storia delle religioni mostra che si tratta comunque di un processo tendenzialmente opposto a quello supposto da Smith. A livello mitico si postula un modello al quale ci si sforza di conformarsi parteci pando (variamente) ai privilegi divini anche attraverso il rito, e non vice versa. Il destino dei Rapiuma ugaritici, pur privilegiato rispetto a quello dei comuni mortali, non può paragonarsi alla condizione divina, a cui fa al lusione tra l'altro la dea Anat nel celebre episodio (KTU 1.17 VI 16 ss.) i n cui offre a Aqhat l'immortalità (una vita come quella di Baal!) i n cambio del suo arco. 13
Cf. infra.
93
14
Cf. P. Xella, "Eschmun von Sidon. Der phtinizische Asklepios", in M.
Dietrich - O. Loretz (edd.), Mesopotamica - Ugaritica - Biblica. Fs. K. Ber gerhof, Kevelaer/Neukirchen-Vluyn 1993, pp. 480-498. 15
Dam., Vita Isidori Reliquiae, ed. Cl. Zintzen, Hildesheim 1967, fr. 348,
p. 283 (= Photh., Biblioth., 302, in Migne, SG 103 col. 1304 s.). 6
1
Così W.W.G. Baudissin Adonis und Esmun, Leipzig 1911, p. 339ss.
17
Secondo la definizione di H. Hepding, Attis.
Seine Mythen und sein
Kult, Giessen 1903, p. 98ss. Secondo Ph. Borgeaud, La Mère des dieux. De Cybèle à la Vierge Marie, Paris 1996, p. 203, n. l, si tratterebbe di una "variante orientalizzante" del mito di Attis. Su Attis, cf. il contributo di M.G. Lancellotti in questo stesso volume. 18
P. Xella, "Etimologie antiche del teonimo fenicio Eshmoun", Atti del
Sodalizio Glottologico Milanese, 29, 1988 (=1991), pp. 145-151. Il teo nimo Eshmun deriva dalla radice *Smn <<essere grasso (= sano, bello)». 19
Il lavoro di riferimento resta quello di M. Edsman, lgnis divinus. Le feu
comme moyen
de rajeunissement
mythes et rites, Lund 1949.
et d'immortalité:
La teoria ippocratica
contes,
légendes,
del "calore innato"
(émphyton thermon) può avere influenzato in parte il testo di Damascio, cf. E. Lipinski, "Eshmun, "Healer"", AION, 23, 1973, pp. 161-183,
p.
168 ss. 20
Dato confermato da Filone di Biblo, apud Eus., P.E. I IO, 38: l'Asclepio
fenicio era l'ottavo figlio di Sydyk. La tradizione che considera Eshmun come ottavo
dei Cabiri è confermata forse da una moneta
di Berito
dell'epoca di Elagabalo, sulla quale figurano otto personaggi, uno dei quali potrebbe essere teoricamente Eshmun, dati in P. Xella, op. cit. (nota 14), p. 149. 21
Cf. C. Bonnet- P. Xella, "Les inscriptions phéniciennes de Bodashtart
roi de Sidon", in Scritti in onore di Antonia Ciasca, in stampa.
22
Cf. R. Stucky, Tribune d'Echmoun, Base! 1984; id., "Il santuario di
Eshmun a Sidone e gli inizi dell'ellenizzazione in Fenicia", Scienze del l'antichità, 5, 1991, pp. 461-482. 23
M. Liverani, "Partire sul carro, per il deserto", AION, 32, 1972, p p .
403-41524
Il testo può interpretarsi in modo diverso: la dea invoca Peana ovvero,
come io credo più probabile, chiama il giovane Peana; si ricordi che paion è un epiteto di Asclepio e di Dioniso. 94
25
Cf. P.Merlo- P. Xella, "Da Erwin Rohde ai Rapiuma ugaritici. Antece
denti vicino-orientali degli eroi greci?", in S. Ribichini -M. Rocchi -P. Xella (edd.), La questione delle influenze vicino-orientali sulla religione greca. Stato degli studi e prospettive di ricerca (Atti del Congresso
di
Roma, 19-2115/1999), in stampa.
26
La definizione di "eroe-dio" proposta per Eshmun, Melqart e Adonis da
S. Ribichini si rivela appropriata, cf. id., Poenus advena. Gli dèi fenici e l'interpretazione classica, Roma 1985, p. 43ss. (cap.: "L'eroe divino"). La dimensione ctonia del culto di Eshmun potrebbe trovare un indizio nel to ponimo
libanese
(nei
dintorni
di
Beirut)
qahr �mun,
cioè
"tomba
d'(E)shmun", cf. S. Wild, Libanesische Ortsnamen, Beyrouth 1973, pp.
202-203. 27
Oltre alla morfologia del personaggio, anche la probabile etimologia
del suo nome non lascia intravedere particolari nessi con i processi della natura, ma riguarda precisamente il benessere fisico, la salute degli uomini,
da cui il carattere di Eshmun di guaritore dai mali che si afferma pro gressivamente. 28
C. Bonnet, Melqart. Cultes et mythes de l'Héraclès tyrien en Méditerra
née, Leuven-Namur 1988. 29
Eus., P.E., I 10, 18 et 27. Cf. S. Ribichini, "Le origini della città santa.
Biblo nei miti della tradizione classica", in. AA.VV., Biblo. Una città e la sua cultura, Roma 1994, pp. 215-230,
in particolare. su Malkandros i n
Plutarco, De fs. et Os., 15-16, 357 A-C. 30
Oltre
allo
studio
pionieristico
di.
Lipinski,
"La
de
fète
l'ensevelissement et de la résurrection deMelqart", in Actes de la XV/le RA/, Ham-sur-Heure 1970, pp. 30-58, cf. la discussione dettagliata in
C.
Bonnet, op. cit., p . 104ss.; più recentemente, cf. H.-P. Miiller, "Sterbende und auferstehende Gotter? Eine Skizze", in Fs. Jenni (= Theologische Zeitschrift,
53), 1997, pp. 74-82; id., "Unterweltsfahrt und Tod des
Fruchtbarkeitsgottes",
in R. Albertz (ed.), Religion
und Gesellschaft,
Miinster 1997, pp. 1-13. 31
Notizia diMenandro di Efeso.
32
Ch. Clermont-Ganneau, "L'Égersis d'Héraklès et le Réveil des dieux", i n
id., Recueil d'Archéologie Orientale Vlll, Paris 1921, pp. 149-166. anche C. Bonnet, op. cit., p. 34 ss.
95
Vedi
33
Cf. tra l'altro le voci egeiro, egersis, in H. Balz -G. Schneider (edd. ),
Exegetisches Worterbuch zum Neuen Testament, l, Stuttgart 19922, coli.
899-910 (J. Kremer). 34 35
Cf. i lavori di H.-P. Miiller citati supra, nota 30. R. D. Barnett, "Ezekiel and Tyre". Eretz-Israel, 9, 1969 (= Albright Me
moria! Volume), pp. 6-13; cf. in seguito le analisi di E. Lipinski, op. ci t. , p. 43 ss. e di C. Bonnet, op. cit., p. 78ss. 36
Status quaestionis in J. Hoftijzer - K. Jongeling,
North- West Semitic Jnscriptions, Leiden 1995,vol. I,
Dictionary of the
s. v. kq, p. 534.
37
Bonnet, op. cit., p. 203ss.
38
Recente messa a punto in S. Ribichini -P. Xella, La religione fenicia e
punica in Italia, Roma 1994, pp. 127-136.
39
I Re 18, 20-40 (cf. ancheGius. Fl., Ant. Jud. VIII, 8, l ss.) e Ezechiele
28, 1-19. 40
E' ormai tempo di interrogarsi a fondo su certi presupposti della teoria
evemerista, certo legata ad una specifica visione del mondo, ma anche fe dele, in certa misura, a una tradizione storica secondo cui gli dèi cittadini fenici sarebbero stati in un lontano passato uomini di rango reale.
96
LA SCOMPARSA DI ADONIS
SERGIO RmiCH!NI
l. Amore e morte
«Ecco che spira, o Citerèa, il tenero Adonis! Che cosa faremo? l Battetevi il petto, fanciulle, e strappate le vostre tuniche!». I due versi, attribuiti alla poetessa Saffo di Lesbo\ racchiudono e insieme riassu mono gli elementi essenziali del culto di Adonis nella Grecia antica. Ci sono, anzitutto, i due protagonisti del mito: da un lato Afrodite, qui invocata con l'epiteto che ne ricordava la nascita sulle rive dell'isola di Citera; dall'altro Adonis, il suo tenero e giovane amante, sempre descritto come bellissimo e desiderabile e sempre pianto per la sua troppo breve esistenza, spezzata, in un incidente di caccia, dalle zanne di un cinghiale, nel quale, secondo varie testimonianze, s'era trasfor
mato il dio Ares, geloso di quell'amore. C'è poi il lamento delle don
ne, che piangono la morte di Adonis e che sono le protagoniste del rito col quale si commemorava la fine del giovane. "Adonie" si chiamavano in Grecia tali celebrazioni, che Saffo te
stimonia per la città di Lesbo nel VII secolo a. C. e che altri scrittori
documentano per l'Atene della metà del V secolo. Qui le feste di
Adonis si celebravano d'estate, in forma privata, senza sacerdoti o
templi; le Adonie ateniesi, più precisamente, si svolgevano in abita zioni private e avevano le donne come attrici in primo piano. Secondo le fonti dell'epoca2, erano soprattutto cortigiane e concubine, che si ri univano di notte; recavano alla festa piccole figurine del giovane amante d'Afrodite, banchettavano, bevevano e danzavano allegra mente con i loro compagni; poi s'abbandonavano a manifestazioni di lutto, con grida e lamenti sulle terrazze delle case. Le partecipanti pre paravano inoltre, per l'occasione, piccoli vasi di coccio, nei quali se minavano grano, orzo, lattuga e finocchio, )asciandoli crescere per po
chi giorni; poi, durante le Adonie, le donne esponevano quei "giardinetti di Adonis" sui tetti, alla calura cocente del sole estivo che subito li faceva seccare. Neli'Atene del V secolo a. C. le Adonie presentavano dunque
un'atmosfera insieme allegra e luttuosa: con quei momenti di gioia le 97
donne ateniesi ricordavano l'amore di Adonis e di Afrodite; con quei pianti gridati, con quelle piantagioni forzate ed effimere esse richia mavano invece alla memoria la morte acerba di Adonis, troppo presto strappato ali' amore della sua dea. A volere quelle celebrazioni, del resto, era stata la stessa Afrodite, per consolarsi in tal modo della perdita dell'amato. Come avevano fatto molti altri eroi, narravano i miti, Adonis aveva voluto affrontare un cinghiale; preso però dai giochi d'amore, trascurata l'educazione ali' arte venatoria, egli era del tutto impreparato a quella prova. Invano peraltro, secondo Ovidio (nato nel 43 a. C.), la sua divina amante
l'aveva messo in guardia sui pericoli della caccia e gli aveva suggerito d'inseguire soltanto animali innocui, evitando le bestie che non fuggo
no davanti al cacciatore: lei lontana, con i cani che all'improvviso se guono la traccia di un cinghiale e spingono la belva davanti a lui,
l'Adonis di Ovidio è quasi costretto al confronto e subito rimane feri to. Ecco: l'eroe trema e cerca un riparo, ma il cinghiale l'insegue,
l'azzanna, lo lascia moribondo, immerso nel proprio sangue. Accorre Afrodite, ma non può fare altro che ricevere l'ultimo sospiro di Ado nis, gridare il proprio dolore e accusare la sorte: «"No", dice la dea nei versi del poeta latino, «"non di tutto il destino potrà disporre. Un ri cordo del mio dolore, rimarrà in eterno: la scena della tua morte, Ado nis, periodicamente rappresentata, ricorderà ogni anno i miei pianti; e il tuo sangue sarà mutato in un fiore. Che mai: se un giorno a Persefo ne fu permesso di trasformare il corpo di una donna in una pianta di
menta odorosa, perché io dovrei essere rimproverata se concedo a questo eroe una nuova forma?"». E a quelle parole la dea versa sul sangue del morto un nettare profumato; quello al contatto comincia a spumeggiare, come nel fango si formano sotto la pioggia bolle iride scenti. Un'ora non passa che dal sangue spunta un fiore dello stesso colore, simile a quello del melograno che nasconde i suoi grani sotto una duttile scorza»'. Adonis, dunque, era una vittima, per i Greci che celebravano le sue feste: ucciso dal cinghiale, ma anche dall'amore di Afrodite4, che lo aveva tenuto lontano da altre e più concrete occupazioni e che aveva
suscitato l'odio di Ares, geloso di quell'unione. Così, bellissimo cac ciatore fallito, Adonis era considerato ormai morto, defunto, scom parso, confinato per sempre nel mondo degli Inferi, come accadeva peraltro genericamente a tutti gli eroi greci, passati nell'aldilà dopo una vita di memorabili imprese.
98
Al regno dei morti, del resto, e a quell'esistenza strettamente vin colata ali'amore di Afrodite, Adonis era in un certo senso abituato fin dalla nascita, giacché, ancora neonato, era stato consegnato a Perse fone, la regina degli Inferi. I miti raccontavano infatti5 che egli fosse stato il figlio di un re orientale o cipriota, nato dall'amore incestuoso con la principessa sua figlia. Costei aveva osato offendere Afrodite, che l'aveva punita con un'insana passione per il proprio genitore. Con la complicità della nutrice e nell'oscurità della notte, la fanciulla era riuscita a giacere più volte col padre; poi, scoperta, era fuggita davanti a lui pronto ad ucciderla. Gli dèi, pietosi, avevano accolto la richiesta d'aiuto della fanciulla ormai gravida e l'avevano trasformata nell' al bero della mirra; a tempo debito, la corteccia s'era aperta, per lasciar uscire il frutto di quell'incesto. Così era nato Adonis, subito profumato con le lacrime della mirra, quasi "imbalsamato" con quella resina che s'usava per i cadaveri. Adonis, prosegue il mito, era così bello che A frodite lo volle tutto per sé; per evitare altri sguardi e ulteriori atten zioni divine su quel bambino, la dea lo racchiuse anzi in una cassa, che consegnò a Persefone. Questa però aprì il baule e viste le grazie di Adonis si rifiutò di restituirlo ad Afrodite. Non c'era modo di scioglie re la disputa tra le dee, su quel bambino conteso; intervenne infine Ze us, che decise: Adonis doveva trascorrere la terza parte dell'anno con Persefone, un'altra con Afrodite, mentre era libero di decidere per il tempo rimanente. Ma Adonis offrì anche questo ad Afrodite. Due parti dell'anno con la dea dell'amore, un terzo con la regina dei morti: con l'esistenza così divisa, Adonis apparteneva alla schiera6 di quegli esseri mortali dei miti greci che da vivi avevano potuto far ritorno dagli Inferi. La sua alternante presenza nell'oltretomba era dunque un'eccezione e al tempo stesso un preludio: ai morti egli ap parteneva da sempre, anche se, ancor vivo, periodicamente tornava a stare con Afrodite. Il mitografo Apollodoro, che registra nel I sec. d. C. il mito con le sue varianti, sembra ben conscio di questo aspetto, annotando, dopo la soluzione della contesa tra Afrodite e Persefone, che «in seguito, poi, Adonis morì, ucciso dal cinghiale». Stando ai racconti greci, insomma, l'alternante scomparsa e il periodico ritorno del bellissimo eroe, benché caratteristici di una sorte privilegiata, non erano successivi alla sua morte, bensì l'avevano preceduta. «Adonis è morto, perito, defunto», deplora del resto un Idillio at
tribuito a Bione (fine II sec. a. C }: lo piangono gli Amorini, i monti, i
boschi e le sorgenti; lo piange soprattutto Afrodite, che lo bacia e si 99
lamenta: «Ecco che sfuggi lontano, o beli'Adonis, te ne vai ali' Ache ronte, presso un sovrano orribile e duro; e io infelice vivo. Sono dea: non ti posso seguire». In epoca ellenistica s'indicava anche la sua tomba, tra i boschi del monte Libano e presso il fiume che portava il suo stesso nome8• Ancora in età cristiana Agostino (IV-V sec. d. C.)9 scriveva che i riti sacri a Venere celebravano con lamentazioni il suo amato Adonis, ucciso dal cinghiale. All'inizio del V secolo un altro Padre della Chiesa, Girolamo, annotava scandalizzato che perfino Be tlemme accoglieva il pianto per l'amato di Venere, nella grotta in cui il Cristo neonato aveva vagito10; più o meno nello stesso periodo, in fine, Ammiano Marcellino11 interpretava come un triste presagio i lu gubri pianti che si levavano da ogni parte della città di Antiochia, nella Siria del IV sec. d. C., per la festa annuale ivi celebrata secondo l'antico rito, in onore del compagno della dea, ucciso dalla zanna del cinghiale. Lo stesso Ovidio, del resto, che di Adonis ben conosceva il mito e le celebrazioni, non registra altro modo di sopravvivenza, per il gio vane esanime a terra nel proprio sangue, che la "memoria" annuale nel rito. Per il poeta, anzi, Afrodite s'era pur posta il problema, ma lo ave va risolto non già richiamando Adonis alla vita, bensì, come s'è visto, con la celebrazione periodica della sua festa e con la metamorfosi del sangue in un anemone, fiore rosso e bello, ma anche di vita breve, co me l'eroe: «fissato male, fragile e troppo leggero, esso rapidamente cade, strappato dal vento cui deve anche il nome» 12• Certo, questo panorama deriva da una messe d'informazioni di verse tra loro per natura e per epoca; ma queste sono tutte relative alle diverse varianti che circolavano nel mondo antico sulla morte di Ado nis e che, nel loro insieme, costituivano lo sfondo per la celebrazione delle sue feste. Queste, per concludere, commemoravano gli amori di Adonis, periodicamente tornato a stare con Afrodite, e unitamente ri cordavano la fine di quella dolce passione, replicando l'afflizione della dea per la perdita del giovane amato: v'erano così momenti di gioia, in riti sfrenati; e poi, a chiusura, momenti di grande tristezza, con grida e lamenti, per ricordare l'eroe ferito a morte dal cinghiale. «Celebrare le Adonie vuoi dire piangere Adonis», attestano con precisione vari les sicografi greci'\ spiegando in tal modo il contenuto della festa e sotto lineando l'importanza che aveva in essa il lamento rituale per l'eroe
defunto.
100
2. Oltre la vita Morte celebre, insomma, quella di Adonis, per i Greci che raccon
tavano la sua fine e celebravano le sue feste; ma anche morte inglo riosa, che di certo non si proponeva a modello né aveva valore salvi fico o significati cosmologici per i devoti che la ricordavano. Adonis
non si sacrifica per nessuno: è solo un cacciatore cacciato; e l' alter nante ritorno sulla terra, sempre secondo il mito, a nulla serve se non a restituire un bellissimo (e apparentemente passivo) compagno alla dea dell'amore. Di Adonis nell'oltretomba, per altro verso, non sono con servate notizie particolari che ne glorifichino la figura o ne esaltino il ruolo accanto a Persefone. Solo un'espressione proverbiale ricordava come "sciocca" la risposta che lui aveva dato a chi gli aveva chiesto cosa avesse lasciato di più bello sulla terra: «Il sole, la luna, i fichi e le mele»14• Sembra chiaro in breve che, per la tradizione classica, di Adonis, finita la sua breve esistenza terrena nel lontano tempo del mito, altro non rimaneva che una labile memoria; il suo rituale ritorno, al mo mento delle Adonie, era così funzionale soltanto alla celebrazione del rimpianto della dea per la scomparsa dell'amato giovane. Altri luoghi, in altre epoche, sono ancora teatro delle solennità per Adonis nel mondo antico, ripetendo l'immagine di un eroe defunto ma anche proponendo un diverso modo di festeggiarlo. Il poeta Teocrito è testimone ad esempio delle Adonie celebrate ad Alessandria, nell'Egitto del III secolo a. C.'5• Qui la festa si svolgeva nella reggia di Arsinoe, sposa di Tolomeo Filadelfo, e ci è presentata
come uno spettacolo, con coro e attori, dinanzi alle immagini dei due protagonisti del mito, Adonis e Afrodite, uniti sotto un chiosco di piante. Si portavano frutta, i "giardinetti" in cesti d'argento, profumi di Siria in ampolle dorate, dolci di farina impastata con olio e miele in figure d'animali; una solista cantava Adonis, restituito ad Afrodite di sei mesi in sei mesi. Nel giorno conclusivo, poi, un corteo funebre ac compagnava la statua di Adonis al mare e sulla riva le partecipanti salutavano lo scomparso. L'inno di commiato era anche un appunta mento per la festività dell'anno successivo: «Sii a noi propizio, Ado nis, e propizio il nuovo anno ritorna. Caro giungesti e caro sarai, Ado nis, quando tornerai!». Anche qui, come nella Grecia d'epoca arcaica o classica, la festa sembra svolgersi al di fuori del culto pubblico e ha come partecipanti privilegiate le donne; si osservino per contro,
101
l'ambientazione ufficiale nel palazzo reale, i diversi contenuti della celebrazione e la differente divisione del tempo che Adonis trascorre con Afrodite e con Persefone (sei mesi con ciascuna). Nel generale contesto dell'Idillio teocriteo sembra anche evidente una certa confu sione tra il ritorno periodico del giovane durante la sua vita (nel mito) e la sua sorte dopo la morte (con un ritorno ciclico al momento della festa). «Solo tu, dolce Adonis, unico tra i semidèi, alterni la vita tra l'Acheronte e la terra. Tanto non ottenne Agamennone, né Aiace fu rente, né Ettore, né Pirro o gli altri eroi della guerra di Troia». Sempre nel III secolo a. C., nella stessa Atene, alcuni Ciprioti del tiaso dell'Afrodite siriana celebravano le feste di Adonis in modo au tonomo ed originale16, distinguendo, verosimilmente, il personaggio celebrato dalle donne ateniesi sui tetti da quello al quale, con lo stesso nome, essi rivolgevano il proprio culto. Per Cipro, del resto, Pausania attesta nel II sec. d. C. l'esistenza di «un antico santuario di Adonis e di Afrodite» nella città di Amatunte, dove evidentemente la venera
zione di quell' Adonis s'inseriva nel culto pubblico. Stefano di Bisan zio dichiara poi che in questa stessa «antichissima città si onorava Adonis in quanto Osiride, il quale, benché egiziano, era stato fatto pro prio dai Ciprioti e dai Fenici»17• Varie e brevi informazioni, raccolte
soprattutto dai lessicografi, testimoniano inoltre che Adonis era vene rato sull'isola e altrove con varie denominazioni/identificazioni:
Gauas, ad esempio, spiegato con un riferimento al suo stato di morte; oppure Eoies o Aoios, che era anche il nome di un fiume cipriota; poi Kirris o Kyris e Pygmaion; e ancora Abobas (a Perge); Gingras (dai flauti usati dai Fenici per la sua lamentazione); infine Itaios e Phe rekles18. Il dossier del figlio (dell'albero) di Mirra, evidentemente, era ricco di varianti non sempre tra loro conciliabili. Di una certa varietà nello svolgimento dei riti per Adonis in altri luoghi, e conseguentemente dell'esistenza di diverse interpretazioni del racconto relativo alla sua morte, nonché di differenti valutazioni circa la sua natura sovrumana, sono del resto testimoni, con più detta gli, altri scrittori, in altre epoche. Biblo, una delle principali città della Fenicia, era ad esempio teatro nel II secolo d. C. di grandi feste annuali, sulle quali siamo bene in formati dal resoconto che ne ha lasciato l'autore del trattato Sulla dea
Siria, attribuito a Luciano di Samosata. A Biblo, diversamente da quanto avveniva molti secoli prima ad Atene, la festa delle Adonie coinvolgeva tutta la regione e si celebrava nel santuario di Afrodite; i
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momenti di gioia seguivano quelli di tristezza, con evidente riferi mento a una diversa esposizione del mito; le donne erano qui ancora protagoniste di primo piano, ma con il sacrificio della propria bel lezza; il segnale per la festa, infine, giungeva a Biblo da fatti prodi giosi, che portentosamente ogni anno si ripetevano. Gli abitanti di Biblo, stando a questo resoconto che conviene riper
correre nella sua interezza, raccontavano che Adonis fosse morto non lontano dalla città, sul monte Libano; in ricordo di tale accadimento essi ogni anno facevano la lamentazione, celebravano orgie e facevano gran lutto in tutta la contrada. «Quando hanno cessato di battersi il petto e di piangere - continua il testo - essi celebrano dapprima i fune rali di Adonis, come se fosse morto; poi, il giorno seguente, essi rac contano che egli vive e lo portano all'aria aperta [verosimilmente con
una processione; ma la frase si può tradurre anche: essi lo fanno salire al cielo]. Essi, inoltre, si radono il capo come fanno gli Egiziani per la morte di Apis. Le donne che non vogliono tagliarsi i capelli, si libe rano dall'obbligo con un'ammenda che così raccolgono: per un intero giorno esse devono essere disponibili a trarre profitto dalla propria bellezza; il luogo dove si trovano è accessibile soltanto agli stranieri e il denaro che si procurano in tal modo diventa una offerta per Afro dite. Taluni abitanti di Biblo credono che Osiride sia sepolto presso di loro e che tutti questi lutti e queste feste siano celebrate non per Ado nis ma per Osiride. E posso anche spiegare perché propongano quest'interpretazione degna di fede. Ogni anno una pignatta arriva dall'Egitto a Biblo galleggiando sulle onde e traversando in sette gior ni il mare. In questo divino viaggio sono i venti a portarla ed è ve ramente un prodigio miracoloso: essa non cambia mai percorso e sem pre prende terra a Biblo; avviene ogni anno ed è accaduto anche quan do ero lì e io ho visto l'evento. Nel territorio di Biblo si può ammirare anche un altro prodigio. C'è un fiume che scendendo dal monte Liba no19 scorre fino al mare; a tale fiume hanno dato il nome di Adonis. Ora, ogni anno il fiume s'insanguina e perdendo la sua colorazione originale crea tra le onde una larga chiazza rossastra e segnala agli abitanti di Biblo il momento per il lutto rituale. E raccontano che in quei giorni Adonis è ferito sul Libano e che il suo sangue, giungendo all'acqua, dà al fiume il colore e il nome che porta. Così almeno riferi sce la maggior parte; ma uno di loro, sincero all'apparenza, mi ha dato un'altra spiegazione del fenomeno, dicendo così: "Il fiume Adonis, o straniero, attraversa il monte Libano dove la terra è molto rossa. I
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venti violenti che si levano in questi giorni, trasportano nel fiume que sta terra, dando ad esso il colore del sangue". Tale fu la spiegazione che quello mi dette; e sebbene parlasse con spirito di verità, a me que sta coincidenza del vento parve non meno prodigiosa». Due, come si vede, sono i momenti fondamentali della festa di Adonis a Biblo: una cerimonia funebre, con lamentazioni e un sacrifi cio come quelli che si fanno a un morto; poi (verosimilmente) una processione, che scorta all'aria aperta un Adonis considerato vivente. Le donne non preparano i giardinetti di Adonis, ma si dedicano (almeno una parte di loro) a una prostituzione considerata alternativa al rito di lutto. C'è poi una certa confusione con Osiride, che fa di que sto Adonis un grande dio, al centro della venerazione e perfino della toponomastica, giacché tutto il territorio (monte, boschi, fiume) è per così dire segnato dal mito di Adonis; perfino il tempo, con i suoi pro digiosi accadimenti (arrossamento del fiume, arrivo della pignatta), ri percorre la sua vicenda. Sembra soprattutto chiaro, nella festa di Bi bio, che il momento gioioso non precede ma segue i riti di luttoa>: co munque s'interpreti la frase relativa, essa infatti parla a favore di un Adonis inteso quale personaggio glorioso, evidentemente vincitore sulla morte, diverso dall'eroe pianto in Grecia. Tale, del resto, Adonis si mostra negli scritti di vari autori cristiani, che parlano di un suo periodico "ritorno" dalla morte alla vita, o an che, più espressamente, di "resurrezione". Girolamo ad esempio, commentando il passo biblico in cui il profeta Ezechiele ricorda le donne che piangevano Tammuz sulla soglia del tempio di Gerusa lemme, scrive: «Coloro che parlano l'ebraico e il siriaco chiamano Tammuz quello che noi chiamiamo Adonis, e raccontano la storia dell'amante di Venere, bellissimo giovane, ucciso nel mese di giugno, che poi tornò a vivere. Essi chiamano con quel nome (Tammuz) lo stesso mese di giugno e celebrano la sua festa annuale, nella quale le donne lo piangono come se fosse morto e poi lo cantano e celebrano come se fosse risorto» 21• Cirillo, vescovo di Alessandria nel IV sec. d. C., attesta invece che ancora al suo tempo, nei templi di Alessandria, si recitava la scena del pianto di Afrodite per la morte del giovane e quella della gioia divina per l'avvenuto "ritrovamento" di Adonis nell'Ade. La concatenazione degli avvenimenti nel suo resoconto del mito diverge, rispetto a quelli sopra riferiti, in più particolari che in vece richiamano i racconti orientali su Tammuz. Per Cirillo, infatti, il neonato Adonis fu abbandonato sui monti dalla madre perché frutto di 104
un incesto; raccolto e allevato dalle ninfe, crebbe e si esercitò diligen
temente e con successo nella caccia. Era però bellissimo: da qui il de
siderio di Afrodite ma anche la gelosia di Ares, il quale, per toglier di mezzo il concorrente, si tramutò in cinghiale e in quella forma uccise
Adonis. Afrodite dapprima fece il lutto per lui, poi osò scendere negli Inferi per riavere Adonis, al quale, nel frattempo, s'era però interessata anche Persefone, che rifiutò di restituirlo: insieme, infine, le due dee s'accordarono per dividersi Adonis a tempi alterni. La festa pertanto, ad avviso del vescovo alessandrino, dapprima coinvolgeva i devoti nel lutto divino per la morte di Adonis, e quindi li faceva partecipi dell'esultanza della dea tornata dall'oltretomba con la notizia dell' av venuto ritrovamento dell'amato72• Eccoci insomma di fronte a un Adonis orientale "risorto" o "ritro vato", che ben poco mostra d'avere in comune con quello della Grecia d'epoche arcaica e classica e perfino con l'Adonis di Teocrito. Un Adonis che confonde la propria personalità con quella di altri per sonaggi del tempo del mito o del culto pubblico: quella di Osiris e di
Tammuz, in primo luogo, ma anche, verosimilmente, con quella di va ri personaggi locali, soprattutto ciprioti, che l'identificano con vari
nomi. Si tratta di un mutamento nella storia di un medesimo culto o piuttosto di un diverso modo di venerare personaggi diversi, sia pure simili e con lo stesso nome?
3. L'orientale Adonis Nella geografia dei miti greci, la vicenda di Adonis ha varie collo cazioni: Cipro, dapprima, che lo vede figlio di un mitico re dell'isola; poi l'Assiria, intesa come generica indicazione del mondo vicino
orientale, e ancora la Persia, l'Arabia, la Siria e quindi, più precisa mente ma anche più tardivamente, la regione di Biblo, in Fenicia, che per Strabone e altri scrittori d'epoca bizantina era addirittura "consa crata" ad Adonis21• Tale collocazione orientale del mito risponde evi dentemente al ruolo dell'Oriente nei miti greci, e non è di per sé ele mento sufficiente a garantire l'origine orientale del personaggio e dei suoi miti. Immaginando la vicenda di Adonis, in altri termini, i Greci l'hanno volutamente collocata in quel mitico mondo orientale nel quale situavano molti degli elementi caratteristici del racconto:
l'incesto, la mirra, la discendenza regale, l'atteggiamento subordinato 105
rispetto alla dea, e così via. In questa linea interpretativa si spiega an che l'origine del nome dell'eroe greco, ricalcato sull'epiteto Adon,
«Signore», che è tipico di molte divinità dei popoli semitici e più in
particolare di varie figure sovrumane della religione fenicia. Lo con ferma anche una glossa di Esichio, che osserva: «Adonis per i Fenici
vuoi dire Signore»:��. Non mancano, a dire il vero, tentativi di legare il nome greco a una precisa divinità orientale; nonostante gli sforzi di molti studiosi, risulta però difficile stabilire un solo "antenato" orien tale, o più propriamente fenicio, per l'eroe greco; o quanto meno la documentazione epigrafica e letteraria di cui disponiamo non consente
tale identificazione, né per Biblo né per altri centri fenici o vicino
orientali. Del resto, come s'è visto, nel mondo antico si conoscevano varie "interpretazioni" di Adonis, che ci dicono della ricchezza di per
sonalità sovrumane o non umane mascherate dietro quell'epiteto/nome proprio; ed è anche ormai chiaramente stabilito che nel quadro dei culti fenici varie divinità cittadine, eredi dei caratteri del Baal cananeo,
erano venerate quali protagoniste, nel tempo del mito, di un'avventura di morte e di ritorno alla vita25•
L' Adonis immaginato dai Greci, in definitiva, più che rappresen
tare un dio fenicio particolare, interpretava al modo ellenico (cioè co me un eroe defunto) un modello di essere sovrumano della tradizione siro-palestinese, concepito come un antico principe terreno�, protago nista di una passione che ne aveva altresì stabilito l'accoglimento tra gli antenati regali divinizzati. L'Adonis di Biblo, in questa prospettiva, così diverso dall'eroe greco e facilmente confuso con Osiride nel reso conto dello pseudo-Luciano, altro non doveva essere che l'erede del culto di un Baal locale, celebrato secondo la tradizione cananea come un dio vincitore sulla morte e come tale "interpretato" nel nome e
nella vicenda di Adonis. Lo stesso testo, d'altro canto, precisa che so no gli abitanti di Biblo ad affermare che l'incidente della caccia al cinghiale ebbe luogo nel loro paese e che, al contempo, alcuni fra di
loro interpretavano in modo diverso tutta la celebrazione, riferendola
al dio egiziano sepolto presso di loro. Nelle vesti e nel rango di una divinità, col proprio tempio, infine, Adonis si trova venerato, nel Il
sec. d. C., a Dura Europos, sull'Eufrate, dove il suo culto era proba
bilmente collegato a quello della dea Atargatis.
106
4. Letture antiche di Adonis Nel vocabolario greco, Adonis aveva vari significati, che trascura vano l'origine semitica del nome per sottolineare altri valori. Era an zitutto sinonimo di amante e di piacere: «Mio profumo, mio piacevole Adonis»,
dice
ad
esempio
una
cortigiana al
suo
compagno
nell'Antologia Patatina, Aristeneto lo vede come il «desiderio delle etère»; Fulgenzio lo collega al termine «dolcezza»; varie altre spiega zioni etimologiche lo accostano poi a termini come «piacere» o a verbi come «rallegrarsi», «godere>/', oppure al «cantare», specie in riferi
mento al triste rito della lamentazione"'. L'alternante presenza di Ado nis sulla terra serviva inoltre a spiegare perché avessero lo stesso no me un uccello29, che spariva e tornava come faceva l'eroe, oppure un pesce, l'esoceto, capace di uscire e di vivere fuori dall'acqua:n. La metamorfosi in anemone del sangue di Adonis morto, parimenti, giu stificava l'uso del suo stesso nome per indicare quel fragile fiore. In fine, i racconti che situavano la morte dell'eroe tra le piante di lattuga'1 erano chiamati in causa
ger
dare significato a un'erba, con lo stesso
nome, considerata nociva .
Giochi ed equivoci dei filologi antichi, si dirà, e almeno in parte a
ragione, dal momento che la derivazione del nome dall'appellativo semitico è quella più convincente, sul piano storico. E tuttavia tali spiegazioni etimologiche documentano la ricchezza d'interpretazioni che circolavano su Adonis e sulla sua sofferta vicenda. Gli analisti dei miti e dei riti, del resto, non furono da meno, decifrando la morte e l'alternante presenza dell'eroe, gli effimeri giardinetti preparati dalle sue devote, il pianto e la gioia delle sue feste come simboli d'altre realtà, quando ancora quei racconti e quelle celebrazioni appartene vano alla coscienza comune. Origene, ad esempio, riassume così l'interpretazione che se ne da va nel II secolo d. C.: «Il dio che i Greci chiamano Adonis, Ebrei e Si ri lo chiamano Tammuz. Sembra che ogni anno si svolgano certe ce rimonie sacre, in cui dapprima lo si piange come se avesse cessato di vivere e poi ci si rallegra per lui come se fosse resuscitato. Ma coloro
che sono esperti nell'interpretazione dei miti greci e di quella che chiamano teologia mitica, sostengono che Adonis sia il simbolo dei frutti della terra che vengono pianti quando si seminano, ma che spuntano e procurano gioia ai contadini quando nascono»". Su questa linea interpretativa si colloca parimenti il filosofo Porfirio, nel III sec. 107
d. C. 34: «Attis e Adonis hanno un rapporto analogo con la raccolta dei
campi [a quelli che hanno con le piante sia Kore sia Dioniso]; ma Attis
simboleggia i fiori che appaiono a primavera e cadono prima di dare frutto (da qui deriva l'evirazione che gli si attribuisce), mentre Adonis esprime la raccolta dei frutti giunti a maturazione». Anche Girolamo parla in tal senso, scrivendo che l'uccisione e la resurrezione di Ado nis ricordate col pianto e col successivo gaudio, raffiguravano il ciclo vegetativo, con le sementi che muoiono in terra e poi rinascono nelle messi. Per lui, oltretutto, i "giardinetti" di Adonis erano il simbolo dei piaceri e delle glorie di questo mondo, che, come la lussuria, celer mente trascorrono35• A conferma di queste letture dei miti e dei riti di
Adonis c'è anche un inno orfico36, nel quale i fedeli l'invocano in que sti termini: «Adonis talora spento talora luminoso, che favorisci la ve getazione. ( ... )Tu che sei caduto preda dei desideri di Persefone dalle belle trecce, tu che abiti in parte sotto ilTartaro triste e di già ritorni in frutti maturi verso l'Olimpo, vieni o felice e porta ai tuoi misti i frutti
della terra». Macrobio37 è poi testimone nel V sec. d. C. di un processo
di "solarizzazione" del personaggio, che ebbe un certo successo nel quadro dei sincretismi dell'antichità tardiva38; per lui
Adonis non è
altro che il sole, come anche il greco Apollo, il frigio Attis e l'egiziano Osiride: «Gli Assiri o i Fenici che rappresentano Venere in lutto quan do il sole entra nell'emisfero inferiore e i giorni sono meno lunghi,
credono che essa sia in lacrime come se avesse perduto il sole, rapito
da una morte temporanea e trattenuto da Proserpina, dea che raffigura l'emisfero inferiore. E diversamente si crede che Adonis è ridato a
Venere, quando il sole comincia a percorrere l'emisfero celeste e i giorni si allungano. Se poi s'è attribuita a un cinghiale la morte di Adonis, è perché questo animale, dalle setole rizzate e dure, simboleg
gia l'inverno e si nutre delle ghiande, frutti propri di quella stagione.
Venere che piange raffigura anche la terra durante l'inverno, coperta di
nubi,
priva
del
sole;
quando
il sole oltrepassa i confini
dell'equinozio di primavera e prolunga la durata dei giorni, allora Ve nere è gaia e bella, le spighe crescono nei campi, l'erba nei prati, le foglie sugli alberi». Nessun dubbio, insomma, che nei primi secoli d. C. Adonis fosse
avvertito come un demone della vegetazione: ma, per l'appunto, così
era nell'antichità tardiva e non è lecito estendere tale interpretazione
alle epoche precedenti. Anche l'Adonis venerato dagli Ateniesi del V
sec. a. C., per vero, s'iscriveva in un contesto di tipo agrario, ricono108
scibile soprattutto nei celebri giardinetti. E tuttavia questo Adonis non
poteva essere una figura della vegetazione; era anzi esattamente il contrario. Da Platone nel V sec. a. C. a Simplicio nel VI d. C.:», gli
antichi Greci considerarono queste colture come esempio di una anti agricoltura, come l'opposto della buona coltivazione nella terra disso data, dove lentamente maturano le sementi. Forzati a crescere in pochi giorni e subito lasciati seccare, essi evocavano piuttosto la morte pre matura del giovane adolescente, tanto da divenire un'immagine pro verbiale dell'effimero e dello sterile«!. Anche sul piano del mito, la na scita di Adonis da Mirra e la sua morte tra i vegetali corrispondono più ai valori delle specifiche piante coinvolte che non al simbolismo di uno spirito della vegetazione: nato tra la fragranza dell'albero della mirra (aroma dei cadaveri), Adonis muore tra le piante di lattuga•\ emblema proverbiale d'impotenza42, mentre il sangue si muta nel fiore che a primavera precede la maturazione dei cereali. Non si può del re sto trascurare che gli episodi salienti dell'esistenza di Adonis sono le gati piuttosto al mondo della caccia (dalla corteccia aperta da un cin ghiale per farlo nascere alla zanna della belva che lo ferisce a morte), benché l'importanza dell'arte venatoria nella sua vita sia strettamente collegata alla sua incapacità di uscirne vincitore. Per la sua qualità di cacciatore fallito, isolato in una relazione amorosa fuori dalla norma, Adonis rappresentava così per i Greci il mondo degli esclusi dalla so cietà degli uomini adulti, sedentari e coltivatori, che vivevano anche di caccia, secondo le buone regole, ma soprattutto di agricoltura e dei valori da questa rappresentati. Cacciatore fallito, "Signore" orientale, simbolo della primavera o dei frutti maturi, amante o piuttosto amato, eroe o invece dio, lamen tato perché morto oppure glorificato perché tornato alla vita; un fiore, un pesce, un uccello, un principe mai salito sul trono: Adonis è tutto questo, ma in tempi e modi diversi. Di fatto, la sua figura e la storia del suo culto sembrano resistere a ogni interpretazione unificante; in ogni luogo, in ogni epoca, occorre precisare contesti storici, valori re ligiosi e perfino motivazioni che giustifichino la menzione della sua "scomparsa": dall'ironia dei commediografi di Atene per i pianti delle donne sui tetti, fino al giudizio sferzante dei cristiani sul "ritrova mento" di un amante perduto, esempio classico, ai loro occhi, della vana morte degli dèi dei pagani.
109
NOTE l Sapph., fr. 140 Lobel-Page. 2
Soprattutto Aristofane (Lis., 387-97), che ironizza sulla dissolutezza delle donne che, ubriache, gridavano e piangevano Adonis sui tetti di Atene; ma cf. anche Alciphr., Epist., IV 10, 14 e 17, e Plut., Aie, XVIII 4-5, 200 C. 3
Cf. Ov., Met., X 705-37. Sulla trasformazione del sangue in un anemone
concordano con Ovidio vari mitografi; cf. ad es. Schol. in Theocr., V 92 per Nic. Col., fr. 65 Schneider. Lact. Plac., Narr. Fab., X 12; Hyg., Fab., 58 e altri parlano invece della metamorfosi in una rosa o, più semplicemente, della colo ritura di un fiore che prima era bianco. 4
Per Cosm. Hier., Ad carm. S. Greg. Naz 65, Adonis è vittima della propria .•
bellezza; muore a causa dell'amore di Afrodite per lo Schol. in Dion. Per., 509. 5
Si segue qui il racconto lasciato da Paniassi (fr. 25 Kinkel), conservato da
Apoll., Bibl., III 14, 3-4; vedere inoltre Ant. Lib., 34; Ov., Met., X 503ss.; Hyg., Fab., 58. I genitori hanno i nomi di Theias e Smyma o anche quelli di
Kinyras e Myrrha; la nascita è collocata generalmente a Cipro, ma anche al trove in Oriente. Varianti riguardano anche il momento della nascita: per Ant. Lib., 34, 4, ad es., la madre lo genera prematuramente, quando viene scoperta dal padre/amante, mentre per Serv., in V erg. Aen., V 72, è il padre che spacca la corteccia dell'albero nel quale si è trasformata la figlia incinta e secondo un'altra versione (Serv., in Verg. Ecl., X 18) è un cinghiale a svolgere tale compito. 6
Assai ridotta, per vero: cf. Hyg., Fab., 251, che cita gli esempi di personaggi
discesi da vivi negli Inferi cui era stata concessa la facoltà di tornare sulla ter ra. Per ps.-Clem., Recogn., X 25, il siriano Adonis è venerato come un dio, pur essendo stato uomo e pur essendo defunto, al pari dell'egiziano Osiride, degli eroi troiani Ettore, Achille, Patroclo, e di Alessandro il Macedone. 7
Cf. Bion., Epit. Adon., I 50ss.
8 Schol. in Dion. Per., 509; Lyc., Alex., 828-33: qui Adonis ha il nome cipriota di Gauas. 9
Cf. Aug., Civ. Dei, VI 7.
1° 1
1
12
Cf. Hier., Ep., LVIII 3; cf. anche Paul. Noi., Ep., XXXI 3. Cf. Amm. Mare., XIX l , Il; XXII 9, 14-15. Cf. Ov., Met., X 737-39. 110
13 Cf. ad es. Zon., Lex., s. v. Adonian agornen; Hesych., a 1227 e vedi anche Men., Sam., 31-37; Phot., s.v. Adonia
14 Il proverbio in questione era «più stupido dell'Adonis di Praxilla», poetessa
di Sicione che aveva narrato l'episodio di Adonis interrogato nell'oltretomba,
ed è riferito da vari scrittori (cf. ad es. ps.-Plut., Cent., II 18; Apost., VIII 53;
Diog., V 12; Zen., IV 21) con il commento: «E' sciocco infatti mettere insie
me sole e fichi». 15
16
Cf. Theocr., XV («Le Siracusane>> ). I dati provengono da un'iscrizione del Pireo, IG 112 1261 = SIG2 1098.
17 Cf. Paus., IX 41, 2-3; St. Byz., s.v. Amathous. 18
Cf. ad es. Kiris (An. Ox., II, p. 228; EM, 515,14-17: nome di un pesce e di
K 2769 e 4681); Gingris l Gingras (Ath., IV 174 F; Poli., IV 76 dai flauti usati dai Fenici per la lamentazione di Adonis;
Adonis presso i Ciprioti; Hesych.,
Eust., ad Horn., 1157), Abobas (EM, 4,53; Hesych.,
o:
234), Aoios (fiume di
Cipro e nome di Adonis e dei re dell'isola per !'EM, 117,33-44), Eoie
l 1077), Pygmaion 4281), Pherekles (Hesych., 4> 303); Gauas (Schol. in Lyc. Alex., 831: figlio del re cipriota Kinyras, padre di Priapo da Afrodite).
(Hesych., TJ 652: nome usato da Paniassi); Itaios (Hesych., (Hesych.,
rr
19 Dove Adonis e Afrodite si erano uniti per la prima e l'ultima volta, secondo EM, 175, 5-9. 0 2 La notizia del messaggio che prodigiosamente arrivava per mare dall'Egitto
fino a Biblo, con l'invito a porre termine al lutto si trova (confermata o utiliz
zata) anche in Cyr. Al., in fs., XVIII 1-2. 21 Cf. Hier., in Ez .• VIII 14. 22 Cf. Cyr. Al., in fs., XVIII 1-2. Afrodite scende negli Inferi per riavere Ado
nis ucciso dal cinghiale anche in Joh. Damasc., Bari. et Joas., XXVII 248. Ci
rillo è seguito anche da Proc. Gaz., in fs., XVIII 1-7.
23 Cf. Str., XVI 2,18, seguito da Eust., Cornrn. in Dion. Per., 912. 2 4 Cf. Hesych., o: 1229. Cic., Nat. deor., III 23, 59 conosce una Venere/Astarte concepita (d)a Tiro e sposa di Adonis.
25
26
Cf., in questo stesso volume, il contributo di P. Xella. Si deve valorizzare in questo senso la glossa dell' Etyrnologicurn Magnurn
(117, 33-44) che spiega il termine Aoios a questo modo: «nome di un fiume a Cipro. Ao, infatti, è il nome di Adonis e da lui lo ebbero i re di Cipro (ecc)>>.
27 Cf. Anth. Pal., V 113; Aristaen., I 8; Fulg., Myth., III 8; Schol. in Horn. Il.,
111
V 203; Mythogr., l 200; II 34 e III 11, 17. 2
8
29
Cf. ad es. E M , 19, 9-15 e 17; Hesych.,
a.
1227.
Cf. ad es. Clearch., fr. 101; Catuli., XXIX 6-8; E M, 19, 16; Hesych.,
a.
1226. a.
�:
3°
Cf. ad es. Hesych.,
31
Qui, secondo alcune varianti (ad es. Com. Nat., Mythol., V 16; Hesych.,
1229,
3991; Opp., Hai., I 155-67; Plin., N.H, IX 70. a.
1231 ) , Afrodite aveva adagiato Adonis morente. 32
Cf. ad es. E M , 19, 16; Hesych.,
33
Cf. Orig., Sei. in Ez., VIII 14. Cf. anche Amm. Mare., XIX l, 11: simula
a.
1226. Cf. anche Nic., fr. 120 Schneider.
crum essefrugum adultarum religiones mysticae docent. 34
Citato da Eusebio di Cesarea (P.E., III 12).
35
Cf. Hier., in Ez., VIII 14; in fs., LXV 3.
36
Cf. Orph. Hymni , 56, da Pergamo, II sec. d.C.
37
Macr., Sat., I 21.
3
8
Un'interpretazione stagionale del mito di Adonis è raccolta anche da Gio
vanni Lido nel VI sec. d. C. (De mens., IV 64-65: Afrodite è la primavera, Ares il mese di marzo, Adonis con cui la dea si congiunge è maggio) e nei mitografi vaticani (#ythogr., III Il , 17). Associazioni sincretistiche con altri personaggi sono poi testimoniate da Aus., Ep. 48; Hippol., Haer., V 9, 7-8 e altri scrittori dell'antichità tardiva. 39
Cf. Plat., Phaedr., 276 B eschol.; Simpl., in Arist. Phys., VIII 4.
4°
Cf. ad es. Zon., Lex. s.v. Adonideioi kepoi; Diog., l 14; Plut., De sera num.
vind., 17,560 B-0. 41
Cf. Com. Nat., Mythol., V 16; Hesych., a. 1231.
42
Cf. Cali., fr. 478 Pfeiffer; poiché Afrodite vi aveva adagiato Adonis, le lat
tughe erano cibo di morti, un <<mangiar cadaveri)) per Eub., fr. 14 Kock.
112
BIBLIOGRAFIA SELETTIVA I primi studi moderni sul personaggio risalgono al lavoro di J.G. Frazer, Adonis, Attis, Osiris. The Golden Bough, Londra 1914 e al suo successivo Adonis. Étude de religions orienta/es comparées, Paris
1921, dove l'eroe viene chiamato a svolgere una parte importante nella costruzione della categoria del "dio che muore e risorge", in sieme ad Attis e a Osiris. Qualche anno dopo comparve lo studio sull'Adonis orientale di W.W.G. Baudissin, Adonis und Esmun. Eine Untersuchung zur Geschichte des Glaubens an Auferstehungsgotter und an Heilgotter, Leipzig 1911. Ha raccolto tutto il materiale classico
W. Atallah, Adonis dans la littérature et l'art grecs, Paris 1966. La documentazione iconografica è stata poi ripresa e ben presentata da B. Soyez nella voce "Adonis" del Lexicon lconographicum Mythologiae
(1, pp. 222-29); la stessa studiosa è l'autrice di Byblos et la 1977. Sui giardini ha scritto anche G.J. Bau dy, Adonisgiirten. Studien zur antiken Samensymbolik, Frankfurt 1986. Classicae
fete des Adonies, Leiden
A M. Detienne (Les jardins d'Adonis. La mythologie des aromates en Grèce,
2a ed., Paris 1989) si deve una lettura dei miti e dei riti di Ado
nis, in chiave di contrapposizione ai miti e al culto di Demetra, dea dell'agricoltura. Da G. Piccaluga ("Adonis, i cacciatori falliti e l'avvento dell'agricoltura", in B. Gentili - G. Paione [edd.], Il mito greco, Roma
1977, pp. 33-48) è venuta invece un'accurata analisi de
gli aspetti fallimentari della caccia di Adonis. Chi scrive ha esaminato gli aspetti orientali del personaggio (S. Ribichini, Adonis. Aspetti "orientali" di un mito greco, Roma
1981) e poi curato gli "Atti" di un
convegno internazionale (Adonis. Relazioni del Colloquio in Roma,
22-23 maggio 1981, Roma 1984). Su Adonis come esempio peculiare di una tipologia storico-religiosa centrata sulla teoria degli "dèi in vi cenda", si vedano gli studi di U. Bianchi, in particolare "I "precedenti" di Adonis", Studi tardo-antichi, 2, 1986 = Hestfasis. Studi di tarda an tichità offerti a S. Calderone, pp.
293-313; id., "Repetita mortis imago
e rituale di vita inestinguibile. Il caso di Adonis", in AA.VV., Filolo gia e forme letterarie. Studi offerti a Francesco della Corte, V, Urbino
1989, pp. 121-36. I legami con Biblo, nel mito e nel culto, sono esa minati dai contributi di P. Xella e S. Ribichini nel volume di AA.VV., Biblo. Una città e la sua cultura (=Collezione di Studi Fenici,
113
34),
Roma 1994. La bibliografia più recente su Adonis comprende: J.J. Winkler, The Constraints of Desire. The Anthropology of Sex and Gender in Ancient Greece , New York - London 1990; J.Z. Smith, Drudgery Divine. On the Comparison of Early Christianities and the Religions of Late Antiquity, Chicago 1990; M. Barra Bagnasco, "Il culto di Adone a Locri Epizefiri", Ostraca, 3, 1994, pp. 231-43; E. Li pinski, Dieux et déesses de l'univers phénicien et punique, Leuven 1995; J.D. Reed, "The Sexuality of Adonis", Classical Antiquity, 14, 1995, pp. 317-4 7; E. Wili, "Adonis chez les Grecs avant Alexandre", Transeuphratène, 12, 1996, pp. 65-72; M. Torelli, "Le Adonie di Gra visca. Archeologia di una festa", in F. Gauthier - D. Briquel (edd.), Les Etrusques, !es plus religieux des hommes. Actes du Colloque in temational (Paris, 17-19 novembre 1992), Paris 1997, pp. 233-91; H. P. Miiller, "Sterbenden und auferstehende Vegetationsgotter? Eine Skizze", Theologische Zeitschrift, 53, 1997
=
Veritas Hebraica. Alt
testamentliche Studien, Fs. fiir E. Jenni zum 70. Geburtstag, pp. 7482; id., "Unterweltsfahrt und Tod des Fruchtsbarkeitsgottes", in R. Albertz (ed.), Religion und Gesellschaft. Studien zu ihrer Wechselbe ziehung in den Kulturen des Antiken Vorderen Orients, l , Keve laer/Neukirchen�Vluyn 1997, pp. 1-13; M.S. Smith, "The Death of "Dying and Rising Gods" in the Biblica! World. An Update, with Spe cial Reference to Baal in the Baal Cycle", SJOT, 12, 1998, pp. 257213; T.N.D. Mettinger, "The 'Dying and Rising God'. A Survey of Research from Frazer to the Present Day", Svensk Exegetisck Arsbok, 63, 1998, pp. 111-23.
114
ATTIS Il caro estinto
MARIA GRAZIA LANCELLOTTI
Ma più saggia, ma tanto Meno inferma dell'uom, quanto le frali Tue stirpi non credesti O dal fato o da te fatte immortali (G. Leopardi, La ginestra o il fiore del deserto)
Nelle tradizioni mitico-rituali relative ad Attis', la morte è un tema centrale che accompagna e caratterizza il personaggio dalle primissime
attestazioni fino alle più tarde rielaborazioni. Tale tema si presenta tut
tavia con formulazioni ed implicazioni diverse tanto sul piano mitico che su quello rituale a seconda delle epoche e dei luoghi di culto. Ap
pare quindi necessario procedere
ad un'analisi storica della documenta
zione mirante a distinguere, per quanto possibile, le diverse fasi e le varie motivazioni ideologiche che hanno di volta in volta influito sulle trasformazioni del personaggio, rendendolo "funzionale" alle specifiche esigenze delle culture in cui è nato e/o è stato accolto.
l.
Il
mito
L'analisi della documentazione relativa
ad Attis è stata profonda
mente influenzata dalla distinzione operata da H. Hepding2 sulla base delle testimonianze letterarie classiche, fra una versione definita "frigia"
e una versione definita "lidia" del mito per la loro ambientazione, ed è da qui che conviene prendere le mosse. Nella prima "versione" il tratto
caratterizzante sarebbe la morte del personaggio a seguito dell' autoevi razione, nella seconda la sua uccisione ad opera di un cinghiale.
La versione "frigia" del mito di Attis ha come autori di riferimento, in ordine cronologico, Ovidio, Pausania e Arnobio.
Nel racconto di Ovidio' Attis è un giovanetto frigio di straordinaria
bellezza che, amato castamente dalla Madre degli dèi, si consacra a lei 115
giurandole eterna fedeltà, ma la tradisce poi con la ninfa arborea Sagari tis, con conseguenze tragiche per i due amanti. La ninfa soccombe in
fatti sotto i colpi inferti dalla dea al suo albero, mentre Attis impazzito finisce con l'evirars{
Pausania\ da parte sva. riporta la storia definendola un «racconto
indigeno» (epichorikos logos) che si narrava a Pessinunte. Durante il
sonno Zeus ha un'emissione seminale che cade sulla terra fecondan
dola. Ne nasce un daimon chiamato Agdistis provvisto di organi ses
suali sia maschili che femminili. Gli dèi spaventati lo evirano. Dal
membro spunta un mandorlo carico di frutti: una figlia del fiume San
gario ne coglie uno e se lo pone sul grembo, il frutto scompare e la fanciulla è incinta. Il bimbo che nasce viene esposto, ma si salva gra
zie alle cure di un capro. Man mano che cresce egli si rivela di una bel
lezza senza pari e Agdistis se ne innamora. Giunto all'età delle nozze,
Attis viene inviato dai parenti a Pessinunte affinché sposi la figlia del
re. Proprio mentre sì sta intonando il canto nuziale compare Agdistis che provoca la pazzia negli astanti: in particolare Attis, in preda alla
mania, si evira6 seguito dal suocero. Agdistis si pente di ciò che ha fatto ad Attis e chiede a Zeus che il corpo del giovane non imputridisca
né deperisca.
Secondo la versione di Arnobio\ infine, in Frigia sarebbe esistita
una roccia enorme chiamata dagli abitanti del luogo Agdus. Pietre prese da essa, secondo l'oracolo di Themis, erano state gettate da Deu
calione e Pyrrha sulla terra, allora priva di mortali; da questa roccia fu formata anche la Grande Madre, poi animata «divinamente» (divinitus).
Mentre questa dormiva quietamente sulla sommità della roccia, venne concupita incestuosamente da Giove. Avendo lottato a lungo seriza ri
uscire a possederla, il dio frustrato eiaculò nella pietra. La pietra con
cepì e nacque Agdistis, così chiamato dal nome della madre (cioè la
roccia). Questi era particolarmente violento e feroce, androgino e ani
mato da un'insana libidine. Con la sua forza straordinaria egli deva
stava tutto ciò che incontrava non curandosi né degli dèi né degli uo mini. Gli dèi riunitisi si domandarono come si potesse ridurre tale vio
lenza. Alla fine l'incarico venne affidato a Liber il quale, conoscendo la
fonte alla quale era solito dissetarsi Agdistis, ne miscelò l'acqua con del vino. Bevendola, Agdistis cadde in un profondo sopore. Liber gli
legò allora gli organi sessuali alle piante dei piedi cosicché al suo ri
sveglio, muovendosi, egli finì per autoevirarsi. Dalla ferita fluì una quantità immensa di sangue che imbevve la terra, da cui subito nacque 116
un melograno carico di frutti. Nana, figlia del re Sangarius (o del fiume omonimo)8, prese un frutto e se lo pose nel grembo rimanendone in cinta. Ritenendola disonorata, il padre la recluse condannandola a mo rire di inedia. Ma la Madre degli dèi la sostentò con mele e altri ali menti e Nana partorì un figlio. Sangarius ordinò alllora che fosse esposto, ma il bimbo riuscì comunque a sopravvivere9, venendo nu trito con latte caprino e gli fu dato il nome di Attis. Dotato di straordi naria bellezza, egli divenne il prediletto della Madre degli dèi e di Agdi stis. Quest'ultimo si presentò al giovane, ormai cresciuto, come un compagno dai modi adulatori, conducendolo per selve e donandogli la selvaggina da lui cacciata, che Attis faceva passare per sua preda. Ma una volta, ubriacatosi, egli confessò sia l'amore di Agdistis che i suoi doni. Allora il re di Pessinunte, Midas, desiderando allontanare il gio vane da una tale relazione infamante, lo destinò al matrimonio con sua figlia e, affinché nulla potesse interrompere i festeggiamenti, fece chiudere la città. Ma la Madre degli dèi, che conosceva il destino dell'adolescente e sapeva che egli sarebbe stato salvo tra gli uomini fintanto che non si fosse sposato, con la sua testa sollevò le mura della città e vi penetrò. Vi penetrò anche Agdistis bruciante di rabbia e infuse furore e insania in tutti i convitati. I Frigi in preda al panico
ur
larono all'apparire delle dee, la figlia della concubina di Gallus si recise il seno e Gallus stesso si castrò; Attis prese la
fistula
con la quale
Agdistis incitava alla follia e pieno di furia si evirò sotto un pino. Con il fluire del sangue se ne andò anche la vita. La Grande Madre raccolse le parti tagliate e le seppellì avendole prima coperte ed avvolte nella veste del defunto. Dal sangue versato nacque una viola che circondò il pino. La promessa sposa, la, coprì il petto del giovane senza vita con morbida lana, lo pianse con Agdistis e infine si uccise. Il suo sangue venne trasformato in violette purpuree. Anche la Madre degli dèi sparse lacrime dalle quali spuntò un mandorlo, quindi portò nel suo antro il pino sacro sotto il quale Attis si era evirato e si unì alle lamentazioni funebri di Agdistis percuotendosi il petto e camminando intorno al tronco dell'albero. Agdistis implorò poi Giove affinchè Attis tornasse alla vita, ma ciò non venne consentito. Il dio accordò invece che il corpo di Attis non finisse in putredine, che i suoi capelli crescessero sempre e che il dito più piccolo si muovesse in eterno. Soddisfatta di questi favori Agdistis consacrò il corpo del defunto a Pessinunte e lo onorò con cerimonie annue e servizi sacerdotali. 117
Fin qui i tre racconti che costituirebbero, con altri testi minori, la "versione frigia". Come è evidente, solo alcuni elementi sono comuni ai racconti di Pausania e Arnobio che, a ben vedere, differiscono a loro volta in alcuni tratti fondamentali da quello di Ovidio, che non può quindi essere considerato una semplice variante della versione "frigia". Un dato, in particolare, richiama decisamente l'attenzione. Mentre nel caso di Pausania e di Arnobio le vicende di Attis appaiono caratteriz zate da una certa passività del protagonista che accetta (o addirittura su bisce) le attenzioni di Agdistis, o di Agdistis e della Grande Madre
(come la decisione dei parenti o del re Mida di farlo sposare), nella ver sione di Ovidio egli è autore dì una vera e propria trasgressione: l'unione, non consumata secondo le altre due versioni, qui invece si realizza ed è aggravata dal giuramento di fedeltà alla Grande Madre pre stato da Attis nel tempio della dea. Qui l'episodio dell'evirazione san cisce il fatto che una fedeltà esclusiva nei confronti della dea - giudicata impossibile a mantenersi poiché sempre e ovunque può comparire una ninfa tentatrice - possa realizzarsi solo attraverso il sacrificio estremo della propria virilità. Per quanto riguarda invece le versioni di Pausania e Arnobio, co mune ad esse è l'idea che il rapporto tra Agdistis e Attis sia rovinoso per quest'ultimo nel momento in cui sta per sposarsi. Conseguenza ne è l'autoevirazione che causa la morte del personaggio, pur mitigata parzialmente dall'incorruttibilità del suo corpo. Sembra mancare del tutto qui l'idea che il rapporto tra Agdestìs e Attis sia stato prima san cito da un qualsivoglia "patto" in seguito violato dal giovane10: Attis acconsente alle nozze senza alcuna prevenzione, è piuttosto Agdistìs a reagire violentemente scatenando la follia che spinge il giovane al ge sto fatalen. L'idea di un vincolo "sacro" tra Attis e la divinità femminile non è un'esclusiva di queste versioni, ma ritorna in una serie di testi che de scrivono Attis come il sacerdote iniziatore dei culti della Grande Madre, che spesso paga con la morte l'assoluta dedizione alla dea. Nel Carme CCXX del VI libro dell Anthologia Palatina (Dioscoride)12 il «puro» Atys è definito «curatore del talamo» (thalamepolos) di Cybele. Es '
sendo riuscito a mettere in fuga un leone battendo il tamburino sacro mentre si reca da Pessinunte a Sardi, egli promette dì edificare alla
Cybele, che viene presentato come "capo" dei Galli, cioè dei sacerdoti eunuchi della dea. Il li dio Attis come istitutore del culto di Rhea presso
Lidi, Frigi e Samotraci è ricordato dallo pseudo-Luciano14• Anche Er
menesiatte, secondo Pausania15, conosceva una tradizione relativa al
Attis come sacerdote fondatore del culto della Grande Madre, pur con un cammino inverso rispetto allo pseudo-Luciano, poiché si tratta di un frigio trasferitosi in Lìdia.
Secondo la versione di Servio16 Attis è un bellissimo fanciullo con
sacrato alla Grande Madre; in questo caso l'evirazione e la morte sono conseguenze del tentativo di sfuggire al re della sua città che Io concu
pisce: infatti il giovane evira il re che, morente, lo evira a sua volta. I sacerdoti della Grande Madre lo trovano agonizzante sotto un pino, lo
portano nel tempio e qui lo seppelliscono ed è in ricordo di questo evento che essi si evirano.
Anche nel caso della c.d. versione "lidia" ci troviamo di fronte a te
stimonianze tutt'altro che omogeneee, dai tratti molto differenti. Esa
miniamole
iù in dettaglio. � Erodoto1 narra di un certo Atys, figlio di Creso, ucciso nel corso di
una caccia al cinghiale per mano di un principe frigio di nome Adraste,
figlio di Midas e nipote di Gordieslll. L'antefatto della vicenda va
cercato nel crimine commesso da Gige che, uccidendo Candaule, ha
preso per sé la moglie di quest'ultimo e si è impossessato del regno di
Lidia. La Pythia profetizza che tale misfatto sarà vendicato sul quinto (quarto)19 discendente della stirpe mermnade21• Si tratta di Creso, so
vrano dalle immense ricchezze, il quale sembra aver attirato su di sé
l'ira di un dio poiché si ritiene il più felice degli uomini21• Egli è
padre
di due figli, uno eccellentissimo in tutto e molto amato, Atys, l'altro
invece sordomuto e non tenuto in alcun conto dal padre. Un sogno
rivela a Creso che perderà il figlio prediletto a seguito di una ferita eh punta di ferro. Egli cerca allora in tutti i modi di vanificare (o almeno ritardare) l'avvenimento nefasto: per prima cosa fa sposare suo figlio,
poi elimina dagli appartamenti degli uomini tutte le armi per evitare che il figlio possa accidentalmente ferirsi. Nel frattempo arriva alla corte uno straniero che chiede di essere purificato poiché ha commesso
un assassinio; si tratta di Adraste, un principe frigio che ha
ac
gative, è stato esiliato dal padre. Compiuti i riti catartici, Creso lo
ac
cidentalmente ucciso suo fratello e pertanto, spogliato delle sue prero coglie a corte. Una delegazione dalla Misia avverte il re che un enorme
119
cinghiale devasta i campi di quella regione e chiede un sussidio di uo
mini capitanati da Atys. Creso concede volentieri gli uomini ma rifiuta
di inviare il figlio col pretesto che è impegnato dal matrimonio. Venuto a conoscenza del fatto, Atys si reca dal padre e gli chiede perché sia stato privato di quelle imprese che sono motivo di onore, cioè la
caccia e la guerra. Il padre gli rivela allora il sogno, ma Atys fa notare a Creso come la caccia al cinghiale non rientri nelle azioni a rischio: si tratta di combattere un animale e non un uomo armato. Creso si convince, ma pone Atys
sotto
la protezione di Adraste; proprio
quest'ultimo durante la caccia manca il bersaglio e colpisce con la sua
asta Atys, che è così ferito mortalmente. La notizia scatena le lamenta
zioni del re, che comunque perdona Adraste poiché ri conosce in lui non la causa ma lo strumento della morte di Atys, voluta invece da una
divinità. La narrazione si conclude con il suicidio di Adraste sulla tomba del giovane principe. Lo scoliaste che commenta l'Alexipharmacon di Nicandro22 fa di Attis un giovane pastore frigio amato dalla Madre degli dei che lo ri
colma di onori al punto da suscitare l'invidia di Zeus, che ne provoca la morte inviandogli contro un cinghiale. Anche per Ermenesiatte Attis è un sacerdote che muore ucciso dalla bestia selvatica inviata da Zeus e la colpa è la medesima: i troppi onori che le conferisce la Meter suscitano l 'ira della divinità. Difficile infine
l'interpretazione del passo di Plutarco23 che parla di due Attis, un sirio e un arcade, entrambi uccisi da un cinghiale.
Va infine ricordata un'altra versione, a torto definita "evemeri stìca":��, che non può essere ascritta né alla tradizione "frigia" né a quella "lidia", il racconto di Diodoro Siculo (III 58, l - 59, 8). Cybele,
figlia di Maion, re di Frigia e Lidia, e di una donna chiamata Dyndi
mene, viene esposta alla nascita sul monte Cybelus. Tenuta in vita dal
latte delle belve feroci, la piccola è in seguito allevata da alcune donne che pascolano le greggi e che la chiamano Cybele. Crescendo, ella ri vela doti non comuni: bellissima e virtuosa, inventa strumenti musi cali e guarisce con riti di purificazione bambini e greggi e per questo viene chiamata "madre della montagna". Essa è amata di un amore
ca
sto da Marsia. Nel fiore della giovinezza si innamora di un giovane del luogo, chiamato Attis e, unitasi a lui, concepisce un figlio. Contem
poraneamente viene riconosciuta dai suoi e accolta nel palazzo; ma quando suo padre si accorge che non è più vergine, mette a morte il
120
giovane e le nutrici e lascia i corpi insepolti. In preda al dolore Cybele
vaga per il paese accompagnata da Marsia25, mentre pestilenza e carestia attanagliano la Frigia. Interrogato un dio (imprecisato) sul modo di
superare le disgrazie, questi risponde che il corpo di Attis deve essere sepolto e Cybele deve essere venerata come una divinità. Poiché non è più possibile recuperare la salma del giovane, i Frigi erigono una sta
tua davanti alla quale, nel tempo opportuno, intonano lamenti funebri
espiando così l'ira di colui che era stato ingiustamente punito. Tali riti, riferisce ancora Diodoro, continuano ad essere praticati anche al
suo tempo. Per quanto riguarda Cybele, nei tempi più antichi i Frigi le elevarono altari sui quali celebravano sacrifici annuali; successivamente essi eressero un tempio sontuoso
a
Pessinunte e furono introdotti riti
magnifici di cui fu promotore il re Midas.
Le diverse tradizioni mitiche su Attis qui presentate appaiono poi
ricordate o alluse in passi di altri autori e in alcuni casi reinterpretate alla luce di istanze filosofiche e religiose che, pur accordando loro si gnificati "nascosti" e rileggendole in chiave allegorica o naturistica, non ne modificano sostanzialmente le sequenze narrative. *
* *
Come si evince da questa rapida rassegna, la morte di Attis è una
costante delle tradizioni mitiche su di lui incentrate anche se con delle
significative varianti: proprio queste ultime devono essere attentamente
vagliate allo scopo di ricavare informazioni sui diversi momenti della "storia" del personaggio.
Una fonte forse troppo trascurata può costituire il bandolo di questa
complicata matassa. Si tratta del I libro delle Historiae di Erodoto nel quale lo storico riporta la tradizione secondo cui i più antichi regnanti
della Lidia discendevano da Lydus, a sua volta figlio di Atys. Esistono
altre varianti della lista, in cui Atys appare sempre con piena dignità regale. La lista riportata da Dionigi di Alicamasso26 è la più completa,
presentando la successione Zeus-Masnes-Kotys-Atys-Lydus. Tali tradi
zioni genealogiche, e quella di Dionigi in particolare, sottolineano
come la regalità lidia, quella dei Mermnadi, discenda direttamente m quella frigia. Si potrebbe anzi dire che, dal punto di vista dei Lidi che
elaborarono tale lista21, Atys rappresenti l'anello di congiunzione tra la 121
regalità "frigia" e quella "lidia", in un continuum genealogico deter
minato dal fatto che il potere passa da padre in figlio senza interru
zioni.
Se la versione "frigia" del mito fosse la più antica, bisognerebbe
pensare che i Lidi avessero scelto quale "padre" del loro eponimo
(Lydus) un dio castrato che muore prima di sposarsi. Ma, per quanto
paradossale possa apparire, il nome stesso di Attis, con le sue varianti più o meno grecizzate, significa in frigio proprio
«padre»2S.
Esso ap
pare dunque un tratto arcaico e originale di questo personaggio che permane anche in epoche successive, quando gli vengono attribuite funzioni addirittura opposte.
Se, come emerge dalla fonte erodotea, le prerogative regali attri
buite ad Attis caratterizzano questo personaggio in una delle attesta
zioni più antiche21, occorre allora volgere il nostro sguardo alla regalità nel mondo vicino-orientale in generale e anatolico in particolare, allo
scopo di rintracciare suoi eventuali "precedenti". A questo proposito, va sottolineato il �olo del r 7 io quale sommo ��rdote a �ervizio � . . della grande diVlnttà femmmile" , tratto che la Fngia condivide con
�
�
altre culture del Vicino Oriente, dalla Fenicia alla Mesopotamia. Ma è
particolarmente interessante notare che un importante ruolo cultuale del re e della famiglia reale è già bene attestato proprio nel mondo ittita3\
alcuni reperti archeologici anatolici, pur di non agevole lettura, farebbero addirittura pensare all'esistenza di quello speciale legame rituale tra dinasta e divinità femminile che va sotto
32 hierogamia •
il
nome di
In ambito mitologico ittita il fondamento di una regalità prototi
pica basata sul conferimento del regno al monarca da parte di una divi
nità femminile si ritrova chiaramente nell'episodio di Hupa�iya, che mostra d'altra parte interessanti analogie con alcune delle tradizioni mi
tiche relative ad Attis:n. Il rapporto famiglia reale/divinità femminile appare cosi come una sorta di filo rosso che lega l'antico mondo ittìta a quello frigio. D'altra parte le testimonianze epigrafiche e archeologi
che non offrono alcuna indicazione sulla presenza di un culto, o co
munque sulla natura divina di Attis in terra frigia in epoche antecedenti alla sua comparsa in Grecia (IV sec. a. C.). Attis appare invece come
un antroponimo piuttosto diffuso, anche se ripetute attestazioni in
contesti religiosi suggeriscono che si abbia a che fare con un per sonaggio di spicco della classe al potere, se non addirittura con il re
stesso a cui, in continuità con le tradizioni ittite, erano affidate le mas-
122
sirne incombenze religiose. In seguito tale nome dovette passare a:l indicare una carica sacerdotale o comunque un "agente del sacro", anche se la natura dei culti in cui il nome di Attis (nella variante paleofrigia Ates) è coinvolto sono di difficile valutazione14• Il nome appare inciso sul vasellame ritrovato nel tumulo D presso Bandyir, in un contesto inequivocabilrnente funerario". Con le strutture funerarie appare in
rapporto anche la divinità femminile anatolica {tipo "Grande Madre")31• Una conferma del legame tra grande dea e dinastia regale frigia è attestato dal monumento rupestre di Yazilikaya, altrimenti noto come "tomba di Midas": la struttura, nella cui nicchia verosimilmente si collocava una statua della Grande Madre, è dedicata da Ates a Midas31• Come emerge dai diversi racconti rnitici, non solo è importante la collocazione di Attis in Frigia, ma anche il suo stretto legame con un
luogo preciso di questa regione in cui, secondo il mito, egli muore e viene pianto, cioè Pessinunte. La tradizione più antica relativa al culto
di Attis in questo luogo sembra quella testimoniata dal racconto di Diodoro Siculo, che stabilisce un legame tra Cybele ed Attis che di verge sia dalla versione "Iidia" che da quella "frigia"; essa si ricollega piuttosto alla tradizione di cui è testimone Erodoto, che fa di Atys un re e, in quanto tale, oggetto di un culto particolare alla sua morte. Nel racconto di Diodoro è infatti possibile riconoscere le diverse fasi di una lotta dinastica tra il re M aion, padre di Cybele, e Attis, giovane "del luogo" amato dalla fanciulla, che viene ucciso. Tale evento priva la principessa del proprio marito che è, come tale, un possibile aspirante
al trono "di Frigia e Lidia" ma, soprattutto, priva il figlio nascituro del riconoscimento da parte del proprio padre rendendolo così irrirnediabil rnente "illegittimo". La morte di Attis provoca un sovvertirnento
dell'ordine cosmico che si riassesterà solo dopo che, attraverso una
consultazione oracolare, sarà fondato un culto tornbale di tipo regale
per Attis e un culto per Cybele; l'esistenza di una tomba di Attis a Pessinunte è attestata del resto anche da Pausania38• Negli eventi suc
cessivi alla morte di Attis sono presenti due terni che appaiono in con tinuità con l'ideologia e le pratiche rituali ittite: da una parte, il sovver tirnento delle leggi naturali (peste, carestia) determinato da un assassi nio, dall'altra la necessità di pacificare l"'ira del morto".!>. Infatti, pro
prio come nel racconto di Diodoro, le conseguenze che scatena un as sassinio nella cultura ittita possono provocare veri e propri stravolgi menti della realtà per l'impurità che ne consegue e l'ordine può essere ripristinato solo dali' intervento della divinità41; in altri casi l'azione ri123
tuale deve essere rivolta direttamente alla pacificazione dell' assassi nato41. Anche l'indagine oracolare, utilizzata nel rituale ittita per sco prire le cause di particolari eventi negativi, si ritrova nel racconto
ce
lata nella non meglio specificata interrogazione del dio e nella sua ri sposta"'. Ancora, interessante è la constatazione che, secondo i reso
conti oracolari ittiti, i morti chiamati in causa sono spesso di alta con dizione sociale, indizio del loro coinvolgimento in lotte per il potere, proprio come avviene nel conflitto tra Maion e Attis, che traspare chia ramente nel resoconto erodoteo sotto la vernice "ro-mantica" dell'amore ostacolato; infine, degna di nota è l'attestazione, sempre in ambito it
tita, della consacrazione di località come tentativo di pacificazione
dell'ucciso di alto lignaggio. L'alterazione dell'ordine cosmico nel rac conto di Diodoro può inoltre essere messa in connessione non solo con l 'ira di Attis, ma anche con quella della stessa Cybele: l'offesa a una dea e le sue conseguenze, il rapporto tra uccisione/peste/sterilità sono motivi che si ritrovano tanto nel Vicino Oriente che nel mondo greco43• La versione del mito riportata da Diodoro Siculo inserisce dunque
Attis all'interno di una lotta dinastica che si conclude con l'istituzione di un culto tombale. Ma tanto il legame tra divinità femminile e rega
lità, quanto l'istituzione permanente di un culto funerario legato al monarca, appartengono già al modello regale anatolico. Del primo si è
già detto; per quanto riguarda il secondo, il rituale relativo ai funerali reali ittiti pervenutoci da Boghazkoy44 attesta che la morte del re, in quanto garante dell'unità del paese, sommo
sacerdote e guardiano
dell'assetto cosmico, provoca uno sconvolgimento dell'ordine attuale che deve essere ripristinato attraverso una corretta esecuzione dei riti funerari. Il "grande peccato" (cioè lo sconvolgimento) che colpisce il paese avviene proprio nel momento in cui il re "diventa dio", cioè muore: la morte segna il passaggio a una dimensione diversa, quella divina"', che però non esclude che i regnanti defunti siano considerati e continuino ad essere trattati come dei morti. Il culto dei re defunti si
modella su quello riservato alle divinità anche se, a differenza di quanto avviene per i templi, i loro mausolei, le "Case di Pietra", sono delle
strutture "chiuse", gestite autonomamente e in
_ proprio" a tutte le necessità di un culto continuo .
rado di assolvere "in
La notizia di Diodoro sembra proprio fare riferimento ad un' istitu zione di questo tipo localizzata presso Pessinunte47• Si può quindi ipo tizzare con ragionevole fondatezza che il più antico culto tributato a:l 124
Attis fosse relativo ad un personaggio .di stirpe regale, sul tipo di quello prestato in epoca ittita, e probabilmente ancora in epoca frigia, ai re e principi defunti"". Agli inizi del VII secolo la perdita di indipendenza da parte della
Frigia comportò la destituzione della monarchia regnante4}, anche se il centro di Pessinunte continuò a mantenere un certo grado di autonomia che portò, con certezza a partire dal III sec. a. C., all'istituzione di un "tempio-stato" governato da una casta sacerdotale al cui vertice si tro
vava un sacerdote che portava il titolo sacro di "Attis"�. Se, come ri tengo di avere dimostrato, a Pessinunte si tributava un culto presso una tomba nella quale, verosimilmente, era sepolto un principe della casa regale frigia, le vicende politiche successive incisero probabil mente sull'ideologia soggiacente a tale culto, trasformando anche la struttura del luogo sacro, con cambiamenti rilevanti nel sacerdozio e nelle sue funzioni. Per quanto autonome, le antiche "Case di Pietra" it tite mantenevano stretti rapporti con l'apparato centrale dello stato, del quale erano esse stesse emanazioni. Il tempio-stato di Pessinunte, in vece, pur nella continuazione delle pratiche cultuali relative alla "tomba di Atti s", non avrà più come punto di riferimento la ormai scomparsa monarchia frigia; fondamento della sua teocrazia sacerdotale sarà piuttosto un "nuovo" e paradossale modello dinastico, quello di un
"anti-re", basato sulla
sterilità
e quindi sulla non-ereditarietà. E'
precisamente la c.d. versione "frigia" del mito a fondare questo nuovo modello: Attis, proprio come nel racconto di Diodoro, continua a ri manere un personaggio "che muore", anche se qui ciò avviene in con trapposizione al modello regale tradizionale, cioè senza discendenza. Il culto tombale originariamente riservato al re defunto si trasforma così
in un culto tombale riservato ad un non-re defunto51• A partire da una
concezione del personaggio come re (si riproduce ed è padre), si verifica dunque una trasformazione che fa di questi il "tipico" sacerdote di Pes
sinunte (il quale non può e non deve riprodursi né può, quindi, essere S2 padre) . In questo processo storico di riadattamento, il seppellimento di At
tis e il culto funerario a lui prestato non sono i soli elementi di conti nuità con la precedente tradizione mitico-rituale: si conserva anche il tema arcaico dell'amore esclusivo della dea per il giovane che, negativo per quanto riguarda l'esistenza dell'uomo e la sua normale vita biolo gica, permette che la morte sia la porta d'accesso alla "divinizzazione". 125
Muore il pastore Attis, sia esso re, sacerdote o entrambi, ma nasce il dio/eroe Attis53• L'interpretazione qui proposta sembra quella che, meglio di altre pur nell'ipoteticità cui costringe la documentazione - rende conto abba
stanza organicamente di una serie di temi e di elementi che altrimenti
resterebbero senza adeguata spiegazione. Incerta rimarrebbe, in partico lare, la funzione del culto di Attis nel periodo della teocrazia a Pessi nunte se non lo si immaginasse come un culto eroico-regale, pur sui generis, fondato appunto dalla versione "frigia" del mito. La versione "lidia" del mito di Attis, in cui il giovane muore uc ciso da un cinghiale e che appare una complessa rielaborazione di un più antico "mito di caccia", sembra invece ricollegabile all'ideologia
"regale", come indicano i numerosi paralleli in area vicino-orientale. I
miti di caccia, nati all'interno di società di cacciatori-raccoglitori, mi rano a fondare le regole che presiedono all'attività venatoria: la parte della preda che compete al/alla "Signore/a degli animali", il modo cor
retto di consumare la cacciagione, i divieti o le regole che si devono osservare per avere successo in un'attività dalle forti connotazioni sa crali. Nelle culture dei coltivatori sedentari tali miti possono conti
nuare ad esistere, ma appaiono rifunzionalizzati per esprimere attra
verso l'antico linguaggio, nuovi contenuti50. In questo ambito, la cac cia - così come avviene nella realtà storica - è ormai prerogativa preva
lente dei nobili, soprattutto principi e
re55•
Un mito di caccia, certo
profondamente rielaborato, è dunque ancora rintracciabile nelle sue li
nee essenziali nell'episodio di Adraste ed Atys riportato da Erodoto, e appare nelle altre testimonianze sottoposto
ad ulteriori reinterpreta
zioni. Nel racconto di Erodoto esso è ravvisabile sia nell'episodio della caccia al cinghiale, sia nella contrapposizione che si delinea tra attività venatoria e istituto matrimoniale, che impedisce di svolgere con suc cesso i propri doveri di cacciatore. Ali'interno del testo erodoteo il rac
conto tende piuttosto a dimostrare che occorre comportarsi con umiltà per non incorrere nella vendetta divina, accettando in ogni caso il pro prio destinoso.
Secondo la tradizione riportata dallo scoliaste di Nicandro, la predi
lezione della Grande Madre per Attis e la devozione di quest'ultimo per
la dea scatenano la gelosia di Zeus, che invia il cinghiale mortifero.
Qui l'episodio della caccia sembra restare in secondo piano, rimandando piuttosto la vicenda al noto tema delle conseguenze nefaste che implica 126
il rapporto d'amore tra una divinità e un essere umano57• L'intervento di Zeus costituisce la "normalizzazione" poiché sancisce la separazione tra i due livelli, un tema anch'esso largamente presente in vari miti di caccia. Il collegamento con un arcaico mito di caccia trapela piuttosto chiaramente anche nella tradizione riportata da Pausania (Ermenesiatte), in cui si racconta di una partecipazione di Attis ad una battuta di caccia dalle conseguenze tragiche. In tale tradizione troviamo connessi il tema dell'attività venatoria e quello del sacerdozio. Che si tratti di una so vrapposizione di due motivi diversi sembra deducibile dal particolare che Zeus, volendo sopprimere Attis, un sacerdote sterile e quindi pre sumibilmente poco "virile", crei la circostanza della caccia al cinghiale, certo non terreno ideale di prova per lui, ma adatto piuttosto ai veri uomini di stirpe regale. Si ha qui probabilmente il risultato di una con taminazione tra il tema del principe sfortunato e quello del sacerdote che dalla Frigia muove verso la Lidia, entrambi presenti nel dossier di Atti s. Se nella versione di Diodoro e in quella "lidia" la morte di Attis origina esclusivamenteun--cUito funerario, senza che si abbiano in formazionti��cosaavvengad.T lui dopo,-nella ver_!>igne _'.:__fijgia''esiste -< invece un seg_!lj_t_Q_gel!_�_ �ua sfortunata vicenda. Attis, dopo la morte, � iilailtleile_!'j_!!!egrità del corpo-(PimsanTa)�-aciil st_aggt��-][_!l1_2v l mento d�Ldito�migriofo e- fii cresCìti-ctelcapeifr(Arnobio ). Tutto ciò non de�� �lltta,v(� 'lì1ieipi��s(�i���lii��!�-..El�u��=�u�j>f�sii'!iJ!t "�jQn�·:_�j!l,_çQnserv(lzione del corp_()è con�epit���!.lll��()_ prop�<:! ...< c�_l!ntit�tiça_ad \l_nll _resurrezione. ç!'tJLYi�nejny_ece. c;::-;plici!�l!nt.� 11egata g_l! :fe!:'§· b_a m()rte di _1\tti§ cos!i_t�is<:;�_i.l. n()_
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"rìtomo", così sembra esclusa anche una convivenza di Attis con la
drài1de Madre in una dimensione oltremondana. Al contrario, è proprio
là drimdeMadre, aìmeno nella versione di Amobio, ad introdurre pro� totlpicamente una serie di prassi rituali funerarie che servono ad assicu rare adAtùs una corretta sepoltura e una permanenza stabile nell'aldìia. --
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2. Il culto
Anche sul piano del culto appare confermata la dimensione funebre di Attis: innumerevoli sono le testimonianze greche e latine relative ai un rituale funerario caratterizzato da pianti e lamentazioni, il quale ri calca il modello della lamentazione mediterranea pre-cristianaro. Quest' ultima, come è noto, ha come fine il recupero della morte che da dato naturale inaccettabile viene inserita nella sfera culturale e trasformata in valore. Secondo le parole di De Martino, «se il lamento non è reso, il morto non entra nel regno dei morti e resta nella rischiosa condizione di cadavere vivente, che tormenta i vivi tornando in modo irrelativo; d'altra parte nel corso della lamentazione le valenze di allontanamento si legano dialetticamente a quelle di riappropriazione, di interiozzazione e di rapporto sul piano dei valori morali, sociali, politici, poetici e conoscitivi»61• Un dato pressoché costante nella tradizione rituale relativa ad Attis è poi il riferimento delle fonti alla Frigia come luogo in cui furono istituite le celebrazioni di lamentazione. Lo scoliaste deli'Alexi pharmacon riferisce la versione "lidia" del mito di Attis<ì! a fondazione delle cerimonie primaverili dei Fri§i nelle quali il giovane viene pianto. Il racconto di Diodoro Siculo , come s'è visto, si conclude con l'istituzione a Pessinunte di un culto tombale in onore di Attis. Arri ano attesta che le celebrazioni romane relative a tale personaggio si rifanno ad una tradizione frigia61, sottolineando anche l'attenzione rì tuale verso il momento doloroso della vicenda. Anche Luciano testi monia in Frigia una lamentazione primaverile per Attis"'. Il permanere di tale tradizione viene documentata per il suo tempo anche da Euse bio"'. Per quanto riguarda gli autori latini, Stazio riferisce dei pianti ri tuali delle donne frigie67; Arnobio collega all'ambiente frigio, e a Pes sinunte in particolare, tanto le vicende mitiche quanto l'istituzione delle lamentazioni rìtuali, che però egli conosce nella versione
128
"romana"; Finnico Materno riferisce infine dell'esistenza a Pessinunte di lamentazioni annuali legate alla morte di Attis68• Per quanto concerne la Grecia, non vi sono prove certe che il culto
di Attis fosse legato ad una cerimonia funebre. AI Pireo esisteva un
metroon che, a partire dal III secolo a. C., era gestito dall'associazione (j) cultuale degli orgeones . Dei diversi decreti che ci sono pervenuti, due
sono particolarmente interessanti. Nel primo è questione dell' allesti
mento di una kline, cioè un giaciglio, in «entrambi gli Attùieia»""; nel secondo si menzionano invece «due troni»71• Si è pensato che i due de
creti alludessero alle medesime cerimonie di cui gli Attideia costitui 72 vano due feste distinte oppure due fasi diverse della stessa festa • Quale fosse il contesto in cui venivano utilizzati i giacigli e i troni non è dato saperlo, anche se i due aspetti fondamentali del culto frigio tributato ad Attis quello regale e quello funebre - non possono certo
essere esclusi a priori.
Sicuramente di carattere funerario era la celebrazione di marzo a
Roma della "settimana santa" che ricordava le vicende di Attis e che,
come s'è visto, gli antichi collegavano alle cerimonie frigie. Tali ce
rimonie, presumibilmente praticate precedentemente in forma privata, furono istituzionalizzate e rese pubbliche da Claudio. Il successivo in
tervento di Antonino Pio determinò un'ulteriore articolazione della prassi liturgica con l'istituzione del rito del taurobolio11 e della carica sacerdotale dell' Arcigallo"'. In tal modo si creava la possibilità per i cittadini
romani
di
rivestire
un'importante
funzione
all'interno
dell'istituto religioso metroaco e, al contempo, si enfatizzava l' impor tanza che tale istituto rivestiva per il benessere dell'Imperatore e dello stato75• L'inserimento degli Hi/aria nelle procedure rituali completò la "settimana santa". Il calendario di queste cerimonie, che ci proviene di
un testo tardo, relativo all'anno 365", è il seguente: Id. Mart.
Canna intrat
XI K. Apr.
Arbor intrat
IX K. Apr.
Sanguem
VIII K. Apr.
Hilaria
VII K. Apr.
Requetio
VI K. Apr.
Lavatio
V K. Apr.
Initium Caiani.
129
Il giorno della Canna intrat segnava l'inizio delle cerimonie e il
collegio dei Cannophori era collegato a tale giorno festivo in cui, pro babilmente, venivano ricordati la nascita, l'esposizione ed il salvatag gio del piccolo Attis sulle rive del fiume Sangario77• Di più antica isti
tuzione e legato al fulcro dei rituali di Attis è il collegio dei dendro
phori, che si occupavano delle cerimonie relative all'introduzione dell'albero di pino, presumibile figura di Attis morto, nel tempio di
Cybele. Si riscontra una puntuale corrispondenza tra le operazioni
svolte durante tali cerimonie e quelle eseguite dalla Madre degli dèi e eh
la sul corpo del defunto Attis (Arnobio)'". Il giorno dell A rbor intrat era '
quindi quello delle lamentazioni per la scomparsa di Attis. Nel Dies
sanguinis invece si compiva probabilmente il cruento rito dell' autoe virazione da parte di una speciale categoria di devoti, i Galli11, che in
questo giorno si flagellavano sanguinosamente. In un necessario sus seguirsi di tristezza e felicità, sequenze entrambe ineludibili perché co stituenti il senso stesso del rituale, si situano gli Hilaria, introdotti più
tardi. Come si piange la triste sorte del giovinetto frigio (e lo piange
per prima la Madre degli dèi/Agdistis), così si gioisce per la sua posi zione particolare nel mondo dei morti (e gioisce per prima Agdistis di
questo regalo di Zeus). I giorni successivi sono dedicati al progressivo ritorno alla normalità: dopo il riposo la statua della Grande Madre sarà
immersa nel bagno purificatorio dell'Almo per essere pronta ad affron tare da sola i MegalensiafiJ.
Nella rapida rassegna dei momenti forti del rituale di marzo si è più
volte fatto cenno, come "modello" alla versione del mito "frigio" atte
stata da Arnobio: la Madre degli dèi è colei che per prima inaugura le
procedure funebri attraverso una serie di gesti e comportamenti che vengono poi eseguiti precisamente nel rituale81• Il legame tra mito e
rito è stato da alcuni interpretato in termini di prototicipitàltipicità. Nel mito il giovane muore miseramente, ma quella piccola parvenza di
vita costituita dalla conservazione del corpo, dalla crescita dei capelli e dal lieve movimento del dito lo preserverebbe da un annientamento to
tale. Egli, al pari di altri personaggi, tornerebbe dal mondo dei morti per le esigenze di un rito che si connette con la fecondità stagionale
che, anzi, proprio attraverso il suo ritorno viene riattivata112• Proprio il nesso con la fertilità sembra essere tuttavia quello più latitante nella figura di Attis che anzi, in tutta la sua storia (per lo meno a partire dalla versione "frigia" del mito) si presenta piuttosto in termini "anti
generativi"83. Gli aspetti vegetali di Attis come segno di un rapporto 130
con la sfera della fecondità/fertilità acquistano rilievo solo più tardi e in ambienti "dotti", dove il suo mito e il suo rito vengono riletti alla luce di ideologie filosofiche razionalizzanti, sia pagane che cristiane. Ma si tratta pur sempre di una fertilità immatura e quindi ancora una volta sterile84• D'altra parte, i due riferimenti vegetali più evidenti nel mito di Arnobio85, il pino e la nascita delle viole, trovano una precisa corri spondenza nel rituale romano che rimanda in entrambi i casi non già a una ciclicità stagionale e neppure a un più generico legame con la ve getazione, ma sottolineano piuttosto la natura funebre del rituale stesso. Le conifere - il pino, il lauro, il cipresso - sono nell'antica Roma tipici alberi funerari"' e il fusto della pianta, lamentato e portato fin dentro il tempio della Grande Madre, rappresenta molto verosi milmente Attis stesso nella sua condizione di morto, e di morto per !fl sempre . Lo stesso scorrere sul tronco del sangue dei Galli (che non a caso si percuotono, tra l'altro, anche con pigne e rami di pino)"' sem bra rispondere a quelle esigenze di "nutrimento" a cui aspirano gli anemici morti"'. All'albero vengono appese le bende di lana che un tempo la usò per coprire il petto ormai esangue di Attis ed esso viene infine adornato con viole. Nel mito queste viole nascono sia dal sangue
di Attis che da quello di la, ma l'utilizzo di fiori rossi quali simboli del sangue appartiene ad una tradizione ben più vasta"'. Le viole, poi, sono fiori tradizionalmente legati ai morti,
come documenta ad esempio
Ovidio nei Fasti91, a proposito delle offerte ai defunti; il 22 marzo,
quello dell arbor i n trat, era anche il dies violae in cui i fiori in que '
stione venivano gettati sui sepolcri92• In un'iscrizione il defunto rac comanda ai parenti di onorario die natalis sui et rosationis et violae et gj pa rentalibus . Il rituale sottolinea così, attraverso un simbolismo ine quivocabilmente funerario a sua volta riflesso nella versione del mito presentata da Arnobio, l'avvenuta morte di Attis e, cosa ancora più
importante, il riconoscimento della presenza definitiva del personaggio nell'aldilà attraverso la ripetizione annuale del suo funerale. I riti che annualmente si ripetono sulla tomba di Attis in Frigia o
presso il tempio della Madre degli dèi a Roma sono quindi commemo rativi: non provocano una riattualizzazione, ma ricordano una vicenda,
non la ripetono. Certo, nell'esportazione di Attis dalla Frigia a Roma,
il personaggio e le tradizioni ad esso legate, pur riprese nelle linee fondamentali, subiscono un processo di rilettura determinato dal di
verso contesto ideologico e socio-politico, venendo così ad assolvere a funzioni diverse. Nella terra d'origine e nelle fasi più antiche la com131
memorazione riguardava un arcaico personaggio regale defunto, i riti
periodici miravano ad assicurarsi la sua benevolenza che garantiva i l benessere del re e della nazione e, in senso più ampio, quello cosmico,
che veniva così periodicamente ristabilito. Tale funzione benefica del
personaggio permane a Pessinunte nonostante il trapasso dalla figura
del monarca a quella del sacerdote "anti-re". A Roma tuttavia, e non sorprendentemente, sono negati tanto l'istituto regale quanto la teocra
zia sacerdotale. Il primo è ormai relegato in un passato non più riattua
lizzabile mentre la seconda, fondata come era su norme antisociali e antistatali (autocastrazione, sterilità), appare concepibile solo se con
finata in un "oltre" lontano spazialmente quale può essere, agli occhi di
un romano, la remota città di Pessinunte94• Anche a Roma permane comunque il legame caratteristico e caratterizzante di Attis con la morte: la sua presenza definitiva nell'oltretomba continua ad essere,
proprio come in Frigia, connessa al benessere collettivo che, nella mu
tata situazione storica, si trova a coincidere con quello dell'Imperatore e
del cosmo che egli rappresenta nella sua interezza'll. Lo stesso processo di cosmicizzazione di Attis, iniziatosi nei primi secoli della nostra
era
e che lo trasforma in una potenza pantocratica - al di fuori delle speculazioni reinterpretative dei filosofi - non appare in contrasto con
l'idea della sua morte, come mostrano i ritrovamenti nel porto di
Ostia%.
Le celebrazioni degli Hilaria, che in epoca tarda seguono i giorni di
lutto e di lamentazione precedendo la Lavatio, rito conclusivo della "settimana santa", suscitano ulteriori riflessioni sulla possibile evolu
zione delle tradizioni mìtico-rituali nel senso dì una "resurrezione" di
Attis e, conseguentemente, dell'apertura di eventuali prospettive sote
riologiche per i suoi devoti97• Le testimonianze relative agli Hilaria sono tutte posteriori al IV secolo!,1!; esse ne sottolineano il carattere
gioioso, ma tacciono sulla prassi e sul contenuto, offrendo piuttosto
una reinterpretazione "dotta" della festa stessa. Tracce di una rielabora zione personale presenta il racconto di Firmico Materno: la sua ver
sione del mito segue sostanzialmente quella "frigia", caratterizzata dalla morte di Attis a seguito del suo rifiuto dell'amore di Cybelew e dalla
conseguente istituzione di un culto tombale per il giovane defunto. Il successivo parallelismo istituito tra la vicenda di Attis e la vicenda del
grano, la quale rimane un unicum, appare piuttosto un'interpretazione
di Fìrmico stesso: il ripetersi commemorativo delle cerimonie funebri
in primavera doveva aver suscitato tale speculazione'00• Anche il riferì132
mento a una "resurrezione" di Attis sembra essere più una interpreta zione di Firmico che un tratto originario. del culto frigio. Proprio il verbo revivere utilizzato per Attis- che sarebbe una sorta di "doppio" del grano
-
rende
particolarmente
evidente
la
distanza
tra
la
"resurrezione" di questi e la resurrezione di Cristo10'. I rischi che com
portano le eventuali analogie tra la vicenda di Attis e quella di Gesù vengono così superati proprio attraverso la dimostrazione che le appa renti "somiglianze"
nascondono
invece
un'incolmabile
differenza.
D'altro canto, la stessa menzione di un culto tombale permanente a Pessinunte implica che anche secondo la testimonianza di Firmico Ma terno, per i Frigi Attìs è veramente morto.
La menzione degli H ilaria in Sallustio filosofo e in Giulìano sono solo lo spunto per collegare la parte gioiosa del rituale romano con
l'ascesa dell'anima. Esse sono di estremo interesse per la conoscenza
delle speculazioni misteriosofiche sul mitp di Attis, ma non aiutano a:l approfondire le conoscenze sul rituale stesso'm. Infatti, come si può cJe.. durre dalle menzioni che i due neoplatonicì fanno dì altri aspetti del mito o del rito su cui siamo meglio informati, i riferimenti costitui scono solo spunti per la riflessione che si muove all'interno di una
teologia, di una cosmologia e di un'antropologia squisitamente neopla toniche.
Il fatto che gli Hi/aria venissero posti a simbolo del cammino
dell'anima ormai purificata verso l'iperuranio non implica necessaria mente che a questo rito fosse legata la "resurrezione" di Attis o anche solo un suo ritorno. In questo senso pare invece andare la testimo nianza di Damascio'rn, che racconta un'esperienza personale vissuta du rante un suo viaggio a Hierapolis di Frigia101• Egli scende nel barathron dal quale esalano effluvi letali e riesce a ritornarne vivo. In seguito egli fa un sogno che viene messo in relazione con l'esperienza avuta: nel sogno è Attis colui per il quale la Madre degli dèi compie la festa degli Hilaria e ciò significa che Damascio e il suo maestro Isidoro, che lo ha accompagnato nell'impresa, hanno sperimentato la «salvezza dall'Ad�>.
Questo passo è di particolare importanza poiché è stato addotto come prova che, almeno in epoca tarda, gli Hi/aria facessero effettiva mente riferimento ad una "resurrezione" di Attis. Per una sua corretta comprensione occorre tuttavia distinguere tre momenti, successivi e non accorpabili: la discesa dei due filosofi nel Plutonio, il sogno e l'interpretazione che del sogno fa Damascio. Innanzi tutto, va ricordato
133
che il Plutonio di Hierapolis era noto e frequentato già in epoca antica,
come attesta Strabone, e tale frequentazione dura fino ai tempi di Cas
sio Dione100• Il baratro era posto in relazione con Ade, come si evince
dal nome stesso di Plutonio'. Tale via di comunicazione tra aldiquà e
aldilà era però normalmente preclusa a tutti: gli effluvi mortiferi, che attiravano l'attenzione di curiosi e scienziati, erano così potenti che non permettevano ai visitatori di avvicinarsi troppo senza finire intos
sicati. Venivano perciò venduti piccoli volatili allo scopo di verificare l'efficacia dei gas sprigionati: gli uccelli, una volta lìberati sul baratro,
cadevano privi di vita. Un'eccezione è costituita dai Galli'111 che, per fettamente in linea con la loro caratteristica di mediatori tra questo mondo e !"'alterità", scendono e riemergono tranquillamente dalla vo
ragine'"'. Questa era la prova della protezione della Grande Madre nei
confronti dei suoi devoti prediletti'"'. Damascio e Isidoro riescono però
nell'impresa, appropriandosi in un certo senso di una funzione che non
compete loro: questo Ii pone in una situazione di squilibrio perché, pur
essendo uomini, agiscono da Galli. Successivamente Damascio sogna di essere Attis e di venire festeggiato negli Hilaria dalla Madre degli dèi. Nel sogno non vi è alcuna allusione ad una resurrezione che sia in
qualche modo legata alla festa stessa110,
piuttosto è Damascio a
stabilire una connessione tra il sogno e l'esperienza precedentemente
vissuta: «a Hierapolis, essendomi addormentato, mi parve in sogno di essere diventato Attis e per me era celebrata dalla Madre degli dèi la fe
sta chiamata Hilaria: ciò mostra che è avvenuta la nostra salvezza dal l'Ade>>.
L'affermazione di Damascio va presa proprio nel senso letterale:
egli ha ottenuto una salvezza dall'Ade, cioè è uscito vivo dal Plutonio,
evento evidentemente non comune. Il riferimento agli Hilaria, più che ad
una
"resurrezione"
di
Attis,
può
connettersi
con
quella
"benevolenza" che la Madre degli dei accorda ad Attis una volta che,
morendo il giovane, si stabilisce un rapporto di amore "corretto" tra i
due personaggi. Inoltre gli Hilaria nelle feste di marzo seguivano i l
dies sanguinis, giorno in cui s i commemoravano l'evirazione e la
morte di Attis e, attraverso queste, la sua riconciliazione con la Grande
Madre, mentre al contempo si inaugurava annualmente una nuova
schiera di Galli. Evirazione e morte mitica (Attis) ed evirazione rituale
(Galli), pur nella inevitabile sofferenza, erano entrambe necessarie. Gli
Hilaria, che a tale sofferenza seguono, esprimono la consapevolezza
che il sacrificio non è fine a sé stesso: ora Attis, morto nel cosmo ma 134
vivo nell'oltretomba, può veramente amare ed essere amato dalla dea, come non avrebbe mai potuto nella sua vita mortale; ora gli uomini prescelti sono diventati Galli e quindi, non più uomini, essi amano la Grande Madre e sono da lei amati venendo proiettati, attraverso l'evirazione, in una dimensione di "alterità". A differenza di Attis, che amò e fu amato dalla dea in modo "umano" oltrepassando così i limiti stabiliti dalla stessa condizione mortale e avviandosi ad un destino di morte, i Galli amano e sono amati dalla dea attraverso il rito, rapporto speciale sancito da un'evirazione non mortifera che però li condanna, rispetto alla società, ad una condizione di costante marginalizzazione.
Questo non esclude che la società stessa, proprio in virtù della loro "liminarità", se ne serva come mediatori privilegiati nella comunica zione con l'"altro". Benevolenza e rapporto privilegiato con la Grande
Madre di cui i Galli godono permanentemente, come dimostra appunto l'esperienza del baratro di Hierapolis. Per quanto riguarda la testimo nianza di Damascio, si può così verificare che attraverso la mediazione
di Attis-Hilaria (sogno) si stabilisce un'identificazione tra Damascio e Galli (esperienza vissuta): solo la protezione della Grande Madre, a lui
conferita come un novello Attis, poteva risparmiare al filosofo la morte per asfissia.
3. Le credenze funerarie e l'aldilà Il mito di Attis e la sua tragica fine occupano un certo spazio nelle raffigurazioni d'epoca romana. Alcune di esse lo rappresentano nel
momento più drammatico, quello della sua fine, oppure già nella fred dezza della morte, con gli occhi sbarrati, a volte con le gambe divari
cate per evidenziare l'avvenuta castrazione. In tali raffigurazioni egli è
spesso circondato da oggetti legati al simbolismo funerario quali i l fiore d i papavero, i l cipresso, l a palma"'. Ma a l d i l à della rappresen tazione della fine di Attis sono di particolare interesse quei documenti che collegano piuttosto il personaggio alla morte intesa come espe rienza umana. In altri termini, occorre interrogarsi sul senso da attri buire a quelle raffigurazioni o epigrafi funerarie in cui ci sia un riferi mento ad Attis o al culto metroaco più in generale. Figurine di Attis sono state ritrovate all'interno di tombe112, così
come esso appare raffigurato sui monumenti funerari11\ sue rappresen tazioni si trovano anche sui sarcofagi, in alcuni dei quali è immagine
135
dell'inverno'14• Come nel caso di Adonis, ciò che viene enfatizzato è soprattutto la sua condizione miserrima, la tristezza della sua fine115•
Anche nelle epigrafi funerarie che alludono al complesso metroaco non sembra esservi posto, tranne rare eccezioni, per prospettive trionfalisti che: l'accento è sempre posto su ciò che ormai il defunto ha irrimedia
bilmente perso116• Eppure accanto a tali testimonianze, che sembrano sottolineare l'accesso definitivo del defunto nell'oltretomba, se ne tro vano altre caratterizzate da una maggiore ambiguità. Si tratta delle rap presentazioni della pigna, del ramoscello, del fiore del papavero o della granata, interpretati dagli studiosi come simboli di immortalità117• Ma,
a ben vedere, tali simboli sono tutti assai frequenti nell'arte funeraria e
potrebbero alludere, piuttosto che all'immortalità, alla dimensione in fera cui accede il defunto. D'altro canto l'ambiguità è propria del sim
bolismo stesso che si serve di immagini per "significare", ma questo "significare" varia a seconda del sistema ideologico che utilizza il sim bolo stesso'".
In qualche iscrizione troviamo allusioni ad un soggiorno celeste
dell'anima dopo la morte. Ora, se è vero che nessuna di tali testimo nianze si connette in maniera esplicita con il culto metroaco e quindi
tale idea non doveva provenire necessariamente da esso, resta tuttavia il
fatto che, almeno in un certo periodo, le speculazioni sul destino dell'anima si intrecciavano con quelle sul culto della Grande Madre e di
Attis119• D'altra parte non si può negare che ad una certa epoca e in al cuni ambienti si cominciò a riflettere su Attis giungendo a letture della sua vicenda in chiave soteriologica';u. Ma, e questo è un dato che non va
assolutamente
sottovalutato,
quando
si
riscontra
nelle
fonti
un'associazione più o meno esplicita tra Attis e l'anima umana, il tratto
enfatizzato
non
è
mai
quello
della
morte
bensì
quello
dell'evirazione; paradossalmente, è la sterilità/infecondità piuttosto che l'incorruttibilità del suo corpo a qualificare in senso soteriologico At tis! Tale valorizzazione della sterilità come condizione coscientemente
ricercata deve naturalmente essere inserita ali'interno di quelle specula zioni che, in forme più o meno accentuate, implicavano una valuta zione negativa non tanto del cosmo quanto piuttosto dell'esistenza umana, intesa come permanenza nel mondo dell'elemento divinom. Tali speculazioni si nutrono comunque di suggestioni che già proven gono dalla tradizione mitico-rituale relativa ad Attis:
nella versione
"frigia" del mito l'evirazione mortale di Attis sancisce l'impossibilità
per un uomo di amare una dea, stabilendo i limiti della condizione 136
umana, ma al tempo stesso l'evirazione non mortale del suocero o di Gallus fonda la categoria dei Galli. L'autocastrazione, che in relazione ad Attis è indissolubilmente legata alla morte in quanto fonda la rega
lità sui generis pessinuntina, si pone per i Galli come passaggio ne
cessario per l'acquisizione dello status di mediatori tra mondo umano e mondo divino.
I riti taurobolici, "scavalcando" gli stessi Galli, permettono di
creare un rapporto più intimo e diretto tra i devoti e la coppia Grande
Madre-Attis. Ma è un ra porto che passa sempre attraverso l' evira g zione, per quanto fittizia' , e non attraverso la morte. Tanto nel mito
quanto nel rito Attis appartiene al mondo dei morti, dal quale non ri
torna, mentre è piuttosto la castrazione a funzionare come elemento di
mediazione tra due realtà, quella umana e quella extra-umana, altrimenti
incompatibili e "chiuse". Del resto l'eventuale presenza di "misteri"
nel culto non implica tout court delle prospettive soteriologiche, ché
anzi tale salvezza consiste proprio nell'accettazione stessa della realtà
esistente123• La soteriologia escatologica appare solo in epoca tarda e come conseguenza del disgregamento del sistema politeistico131: essa
occupa una posizione marginale nei misteri ed è piuttosto al centro
della riflessione teologica di ambienti filosofici, gnostici, ermetici che
si servono delle antiche tradizioni rileggendole in una prospettiva di
innovazione piuttosto che di continuità121• Tale prospettiva risponde
d'altra parte a quelle nuove esigenze soteriologiche che emergono nel
momento in cui la preoccupazione di una salvezza nel mondo è sostituita da quella di una salvezza dal mondo. Ma, come già sottoli
neato, tali esigenze rimangono appannaggio di cerchie ristrette che sot topongono le antiche tradizioni e i più recenti "misteri" a nuove inter pretazioni. Ne risulta un gioco di proiezioni che, senza un'attenta ana
lisi delle fonti e dei contesti cui appartengono, possono indurre a cre
dere che le prospettive soteriologiche costituissero un elemento fonda
mentale nei misteri. Nel caso di Attis, in particolare, i "misteri" ap
paiono in stretta connessione con i Galli'� e, in seguito, con il tauro boliom; essi sono volti, sia attraverso la mediazione del sacerdote evi rato sia attraverso il contatto diretto offerto dal sacrificio taurino, a ga
rantire un benessere e una salute di tipo intracosmicom. Ma le interpre
tazioni filosofiche e quelle cristiane interverranno in modo così deter
minante sui dati da rendere quasi impossibile distinguere con precisione
tra fenomeno ed esegesi. Se tale processo di rilettura investe molti per
sonaggi divini del "paganesimo" Attis, per le sue intrinseche caratteri137
stiche, si presenta come uno dei terreni privilegiati sui quali si con frontano pagani e cristiani. In un complesso processo di acquisizioni di dati, riletture e reinterpretazioni delle riletture, si cercherà da ambo le parti di comparare Attis e Cristo. Le prospettive soteriologiche attribuite al culto di Attis non costi tuiscono solo il tardo sviluppo di più antiche tradizioni ormai stravolte e trasformate. Un Attis soter per i "pagani" è l'ultimo baluardo da con trapporre all'invasione cristiana, da difendere ad ogni costo, fino al punto di farne un alter ego dello stesso Cristo; un Attis soter, i cui ri tuali di marzo e la morte violenta richiamano in maniera inquietante quella dello stesso Salvatore a cui Attis è, oltretutto, cronologicamente anteriore, è per i Cristiani un pericolo contro il quale occorre lottare senza esclusione di colpi 129• L'epilogo di questa lotta è a tutti noto: vincerà l'unico "vero" risorto, Cristo. Paradossalmente, proprio nella sconfitta Attis recupererà la sua dimensione più autentica, quella di un personaggio destinato a morire.
N01E
l Il presente contributo costituisce uno degli esiti di una mia più vasta ri cerca su Attis di prossima pubblicazione. 2
H. Hepding, Attis, seine Mythen und sein Kult, Giessen 1903 (ab br.:
Hepding). 3
Ov., Fast. IV, 221-244, in Hepding, pp. 18-19 .
4
La trasformazione di Attis in pino, che qui non è menzionata, viene in
vece narrata da Ovidio in Metamorph. X, l 03-105. 5
Paus., Perieg.VII, 17, 9-12, in Hepding, pp. 30 e 37-40.
6
La morte del personaggio non è menzionata esplicitamente.
7
Arnob., Adv. nat. V 5-7, in Hepding, pp. 37-41.
8
Tale oscillazione è in Arnobio stesso.
9
Qui il testo è corrotto e non è possibile desumerne altri particolari.
138
1
0
Anche se va notato che, nella versione di Arnobio, la "confessione" di
Attis ubriaco potrebbe implicare un preesistente patto di omertà tra il gio vane e Agdestis. 11
Sul tema della gelosia che causa la morte del giovane vedi anche Firm.
Mat., De err. prof rei. III, in Hepding, pp. 47-49. 12
In Hepding, pp. 7-8. Su questo epigramma e gli altri che da esso trag
gono ispirazione contenuti nell' Anthologia Pa latina cf. A.S.F. Gow, "The
Gallus and the Lion", JHS, 80, 1960, pp. 88-93. 1
3
In Hepding, pp. 13-15, sul quale cf. recentemente S.A. Takacs, "Magna
Deum Mater Idaea, Cybele, and Catullus' Attis", in E.N. Lane (ed.), Cybele,
Attis and Related Cults, Leiden-New York-Ktiln 1996, pp. 367-386. 14
Luc., De Syria dea, c. 15 , in Hepding, op. cit., p. 29.
15
Cit. in n. 5.
16
Serv., Ad Aen. IX, 115, in Hepding, p. 60.
17
Herod. I 34-45.
18
Questo racconto non è incluso nel repertorio documentario di Hepding,
che ne tratta nel commento considerandolo traccia di una tradizione più an tica. 19 Sul metodo di computazione per cui il quinto è in realtà il quarto cf. Ph. E. Legrand (ed.), Hérodote. Histoires, livre l, Paris 1970, nota ad loc.
20 21
22 23 24
I 6-13.
I 34 a partire da qui e fino al paragrafo 45 si svolge la vicenda di Atys. Schol. in v. 8, in Hepding, p. 9. P1utarc., Sertorius, l, in Hepding, p. 26. La vaga contestualizzazione storica della vicenda e dei personaggi n o n
inficia l a dimensione genuinamente mitica del racconto. 25
26 27
Si tralascia qui l'episodio del confronto musicale tra Marsia e Apollo. I 27. Sulle tradizioni genealogiche lidie e il loro significato politico cf. C.
Talamo, La Lidia arcaica, Bologna 1979.
139
8
2
Cf. C. Brixhe - T. Drew-Bear, "Trois nouvelles inscriptions
paléo
phrygiennes de çepni", Kadmos, 21, 1982, pp. 64-87, p. 70 e pp. 83-84. Nella testimonianza di Diodoro Siculo si dice esplicitamente che Attis «in seguito fu chiamato Papas» (58, 4), e i nomi Papas e Papias si ricollegano ad un ipocoristico
«padre» (T. Drew-Bear - C.
Phrygie", ANRW II 18/3, pp. 1907-2044,
Naour, "Divinitès
de
p. 2018; cf. anche Brixhe -
Drew-Bear, op. cit., p. 83 n. 45). 29
Talamo (op. cit., pp. 28-33) data l'elaborazione della lista agli anni nei
quali cui Gige saliva sul trono lidio. 3°
Cf. L.E. Roller, In Search of God the Mother, Berkeley-Los Angeles
London 1999, p. 246 a proposito di Midas e più in generale p. 252. 31
Cf. ad es. il principe (e poi re) Telipinu sacerdote a Kumanni. Su Ku
manni e Telipinu cf. A. Archi, "Città sacre d'Asia Minore. Il problema dei laoi e l'antefatto ittita",
PP, 30, 1975,
pp. 329-344; B. Virgilio,
Il
"tempio-stato" di Pessinunte fra Pergamo e Roma nel Il-I sec. a. C., Pisa 1980, p. 61 e n. 103, L. Boffo, I re ellenistici e i centri religiosi dell'Asia Minore, Firenze 1985, pp. 17-27. 32
Si tratta di due vasi, uno ritrovato ad Inandiktepe, l'altro a Bitik, sui
quali sembra appunto potersi riconoscere una scena di "nozze sacre", sul cui significato non è però possibile
pronunciarsi.
Sui vasi
cf. T. Ozgiiç,
Inandiktepe. An Important Cult Center in the 0/d Hittite Period, Ankara 1988, pp. 84-106 e ead., "The Bitik Vase",. Anatolia, 2, 1957, p. 62. 33
Sul mito di Hupa�iya vedi F. Pecchioli Daddi- A.M. Polvani, La mito
logia ittita, Brescia 1990, p. 39ss. 34
Cf. ad es. le iscrizioni di çepni (Brixhe - Drew-Bear, op. cit.), quelle di
Tyana (E. Varinlio�lu, "Eine neue altphrygische Inschrift aus Tyana", Epi graphica Anatolica, 5, 1985, pp. 8-11; M. Vassileva, "Notes on the 'Biack Stones" from Tyana", ibid., 19, 1992, pp. 1-3). 35
Cf. E. Varinlio�lu, 'The Phrygian Inscription from Bayindir", Kadmos,
31, 1992, pp. 10-20. 36
Cf. D.M. Cosi, "La simbologia della porta nel Vicino Oriente. Per una
interpretazione dei monumenti rupestri frigi", Ann. Fac. di Lett. e Fil. di Padova, l, 1976, pp. 113-152, S. Buluç, "The Architectural Use of the Animai and Kybele Reliefs found in Ankara and Its Vicinity", Source, 7 , 1988, pp. 16-23.
140
37
Già J.G. Frazer (Adonis, Attis, Osiris, London 1906, p. 178) aveva indi
cato nella parola "padre" il probabile riferimento etimologico del nome At tis e nel capitolo successivo lo aveva posto in correlazione con il monu mento a Midas e con la regalità frigia (id., p. 183). 38
Paus., Per. I 4, 5. Di un culto tombale per Attis a Pessinunte dà notizia
anche Finnico Materno, cit. n. 13. 39
Cf. G.F. Del Monte, "Il terrore dei morti", AION, 33, 1977, pp. 373-
385. 40
Id., pp. 374-377.
41
Id., p. 377.
42
Sui resoconti oracolari ittiti relativi all'ira dei morti cf. G.F. Del Monte,
cit., p. 377ss.; id., "Inferno e paradiso nel mondo hittita", in P. Xella (ed.), Archeologia dell'inferno, Verona 1987, pp. 95-115, p. 103ss. 43
Cf. P. Considine, "The Theme of the Divine Wrath in Ancient East Medi
terranean Literature", SMEA, 8, 1969, pp. 85-159 e P. Xella, Problemi del mito nel Vicino Oriente antico, Napoli 1976, pp. 80-81. 44
Tale rituale ci è noto attraverso numerose tavolette in cuneiforme. La
prima edizione critica si deve a H. Otten, Hethitische Totenrituale, Berlin 1958, trad. frane. di L. Christmann-Franck, RHA, 29, 1961, pp. 61-111. Cf. in seguito Th.J.P. van den Hout, "Death as Privilege. The Hittite Royal Funerary Ritual", in J.M. Bremmer - Th.J.P. van den Hout - R. Peters (edd.), Hidden Futures, Amsterdam 1994, pp. 37-75. 45
Testimonianza della divinizzazione del re defunto anche in un rituale di
sostituzione, cf. G.F. Del Monte, "La fame dei morti", AION, 35, 1975, pp. 319-346, p. 323. 46
Sulle "Case di pietra" cf. F. Imparati, "Le istituzioni cultuali del NA #fékur e il potere centrale ittita", SMEA, 18, 1977, pp. 19-64; Del Monte, La fame; van den Hout, op. cit., pp. 48-52.
47
Né fa problema che il corpo di Attis non sia di fatto ivi sepolto: le case
Hékur non contenevano necessariamente i corpi dei sovrani lì adorati (van den Hout, op. cit., p. 49). 48
Un processo di "eroizzazione" sembra essersi compiuto anche per Mi
das, cf. K. De Vries, "Gordion and Phrygia in the Sixth Century B.C.", Source, 7, 1988, pp. 51-59, pp. 57-58; L.E. Roller, "Phrygian Myth and
141
Cult", Source, 7, 1988, pp. 43-50, p. 48. Si tratta di un aspetto fondamen tale della religione nell'area siro-anatolica, sulla quale gli studiosi conti nuano ad attirare giustamente l'attenzione. 49
A seguito dell'invasione dei Cimmeri e alla susseguente sconfitta il re
Midas si uccide. L'evento si colloca nel 696-695 o nel 695-694 a. C.; sul problema della datazione cf. F. Càssola, "Rapporti tra Greci e Frigi al tempo di Mida", in R. Gusmani -M. Salvini - P. Vannicelli (edd.), Frigi e frigio, Roma 1997, pp. 131-152, p. 143. 5°
Cf. Virgilio, op. cit.; Boffo, op. cit., pp. 34-41.
51
L' autoevirazione intesa come rinuncia a riprodursi segna il distacco dal
modello dinastico che si basa sul passaggio della regalità di padre in figlio. 52
L'organizzazione del clero pessinuntino fu soggetta a notevoli cambia
menti nel corso del tempo. Le prime testimonianze pongono al suo vertice due Galli denominati "Attis" e "Battakes" (Il sec.). Successivamente una ri forma di epoca imperiale (probabilmente sotto Claudio) suddivise il potere tra dieci sacerdoti "Attis" a vita, cittadini romani (cinque frigi e cinque ga lati), sotto la supervisione di un archiereus. J. Carcopino (Aspects mysti ques de la Rome pai"enne, Paris 1941, p. 76ss.) pensa che così si ponesse
fine all'evirazione degli alti sacerdoti. Secondo S. Mitchell (Anatolia, I, Oxford 1993, pp. 47-50) a ciò avrebbe invece concorso l'immissione di elementi galati negli alti ruoli sacerdotali e quindi in un'epoca precedente. Ulteriore prova dell'abbandono
dell'eunuchismo sarebbe
l'attestazione,
nell'ambito dei "dieci", di un padre e di un figlio. Tali trasformazioni im plicano profondi cambiamenti all'interno dell'organizzazione sacerdotale ma non comportano, a mio avviso, la negazione del modello antidinastico precedente. Per quanto mi risulta, infatti, la carica non si trasmette mai di padre in figlio. E' probabile infine che al clero "romanizzato" di epoca im periale fosse affiancata una sorta di sacerdozio subalterno costituito Galli e presieduto da un "arcigallo"
da
(cf. P. Lambrechts - R. Bogaert,
"Asclépios, archigalle pessinontien de Cybèle", in Hommages à Marcel Renard, Bruxelles 1969, pp. 404-414, pp. 408-411). 53
Interessante a questo proposito è la tradizione riportata da Damascio e
relativa ad Esmounos (Eshmun), nella quale è stata vista una tarda versione orientalizzante (fenicia) del mito "frigio" (Ph. Borgeaud, La Mère des dieux, Paris 1996, p. 203 n. 101). Cf. in proposito il contributo di P. Xella
in questo volume.
142
54
I. Chirassi Colombo, Elementi di culture precereali nei miti e riti greci,
Roma 1968. 55
Cf. Xella, Problemi, pp. 90-91.
56
Sarebbe interessante indagare su tale motivo che potrebbe derivare da un
influsso egiziano su Erodoto. 57
Per l'arcaicità di tale motivo vedi G. Piccaluga, "La ventura di amare una
divinità", in ead., Minuta/. Saggi di storia delle religioni, Roma 1974, p p . 9-35; Xella, Problemi, p . 90. 58
Cf. in questo senso
l'interpretazione
di U.
Bianchi,
che
assegna
all'integrità del cadavere di Attis il valore di "permanenza della morte", piuttosto che di resurrezione, anche se tale integrità non è interpretabile come presupposto per un ritorno rituale del dio, cf. infra. 59
Cf. in generale il classico A. Brelich, Gli eroi greci, Roma 1958 e, da ul
timo, cf. P. Merlo - P. Xella, "Da Erwin Rohde ai Rapiuma ugaritici. Ante cedenti vicino-orientali degli eroi greci?", in S. Ribichini - M. Rocchi - P . Xella (edd.), La questione delle influenze vicino-orientali sulla religione greca. Stato degli studi e prospettive di ricerca (Atti del Congresso di Roma, 19-211511999), in stampa. 60
Rassegna delle fonti in Hepding; sul tema della lamentazione rituale cf.
E. De Martino, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Torino 19752 (1958). 1 6
De Martino, op. cit., p. 350.
2 6
Schol. in Alexiph. v. 8, in Hepding, p. 9.
63
Diod. Sic., Biblioth. histor. III, 58, in Hepding, p. 16.
64
Arrian., Tactic. 33,4, in Hepding, p.26.
65
Lucian., Tragodopodagra vv. 30-32, in Hepding, p. 29.
66
Eus., Praep. euang. II 2, 4 1 -45, in Hepding, pp. 46-47. Non può essere
inserita nel dossier la testimonianza di Plutarco (De lside et Osiride 69, i n Hepding, p. 26), il quale parla di un culto frigio prestato ad una divinità ad dormentata d'inverno con lamentazioni e svegliata d'estate con canti di tipo bacchico, senza alcuna menzione diretta di Attis; in un altro luogo Plu tarco fa esplicito riferimento ad Attis chiamando in causa la tradizione "lidia" (Sert. l p. 568, in Hepding, p. 26).
143
67
Stat., Silv. V 3, 242-245, in Hepding, p. 23.
68
Firm. Mat., De err. prof relig. III, in Hepding, p. 47ss.
69
Cf. W.S. Ferguson, "The Attic Orgeones", HTR, 37, 1944, pp. 62-144;
M.J. Vermaseren, CCCA Il, pp. 68-69; Borgeaud, op. cit., pp. 46-47. 70
Hepding, pp. 79-80, n. 9
71
Hepding, pp. 80-81, n. 10
72
Cf. Hepding, pp. 136-137.
73
=
Vermaseren CCCA II, n. 262.
=
Vermaseren CCCA Il, n. 263.
Si tratta di un sacrificio che prevede l'uccisione di un toro (a cui è spesso
associato anche un criobolio o sacrificio di un ariete) e uno speciale tratta mento dei suoi genitali che vengono infine sepolti. Se in epoca più tarda esso si sia o meno trasformato in una pioggia di sangue che dalla vittima s i riversava sul "tauroboliato", è discusso dagli studiosi. Esso comunque ap pare un rito di "sostituzione" rispetto al sacrificio dei Galli che consente di entrare in contatto con la Grande Madre e (successivamente) con Attis sia agli uomini che alle donne. Fonti in R. Duthoy, The Taurobolium, Leiden 1969, la cui articolazione del fenomeno in tre fasi distinte è però critica bile. 74
E' il sacerdote supremo del culto e, a differenza dei Galli, può essere un
cittadino romano, non è obbligato ad evirarsi e può perfino sposarsi. Su tale carica cf. Carcopino, op. cit., pp. 76-109; Lambrechts - Bogaert, o p . c it . 75
I l taurobolio era praticato dall' Arcigallo per ordine della divinità
e
molto spesso era finalizzato ad assicurare la salute dell'Imperatore. 76
Philoc. Fasti anno 365 p. C. conscripti, in Hepding, p. 51.
77
Jul., Or. V,165b, e Sali., De diis et mundo, IV.
78
Arn., Adv. Nat.V 7.
79
Fonti sui Galli in G.M. Sanders, s.v.
Gallos, RAC, 8, 1972, pp. 984-
1034. Sulla loro funzione cf. recentemente W. Roscoe, "Priests of the Goddess: Gender Transgression in Ancient Religion", HR, 35, 1996, p p . 195-230. 80
Una panoramica delle principali fasi del rituale di marzo a Roma in G.
Thomas, "Magna Mater and Attis", ANRW II 17, 3, pp. 1500-1535.
144
8
1
La lamentazione della Madre degli dèi è ricordata anche dallo scoliaste di
Nicandro, in Hepding, p. 9. Sulla gestualità rituale della lamentazione fu nebre antica e il suo valore storico-religioso e antropologico cf. De Mar tino, op. cit., pp. 195-235. 82
�
Tale interpretazione, la definizione di "dio in vicenda" per alc ne di que
ste figure e la proposta di una relativa tipologia
storica si devono a U.
Bianchi e alla sua scuola. Per ricordare solo alcuni studi: U. Bianchi, "Initiation,
mystère, gnose", in C.J. Bleeker (ed.), lnitiation,
Leiden
1965, pp. 154-171 id., Selected Essays on Gnosticism, Dualism and Mysteriosophy, Leiden 1978, pp. 159-176; id., La salvezza nei culti mi sferici dell'Impero romano, Faenza 1983, pp. 1-20; id., "Lo studio delle re =
ligioni di mistero. L'intenzione del Colloquio", in U. Bianchi - M.J. Ver maseren (edd.), The Soteriology of the Orientai Cults in Roman Empire, Leiden 1982, pp. 1-15; id., "Epilegomena", in ibid., pp. 917-930; G. Sfa meni Gasparro, Soteriology and Mystic Aspects in the Cult of Cybele and Attis, Leiden 1985; D.M. Cosi, "Salvatore e salvezza nei misteri di Attis", Aevum, 50, 1976, pp. 42-71. 83
Neanche la sterilità/carestia provocata dalla morte di Attis in Diodoro
Siculo può essere addotta come testimonianza in questo senso, poiché è un tema che nel mondo antico non è collegato alla fertilità, bensì al versa mento di sangue innocente. 84
Cf. l'inno di età adrianea citato dai Naasseni in cui Attis è detto «spiga
verde mietuta>> (in Hepding, p. 34) o Porfirio che fa del personaggio l'immagine del fiore senza frutto (immagine poi ripresa e rielaborata da Eu sebio e Agostino) (in Hepding, p. 47 e p. 69). Per l'eccezione costituita da Firrnico Materno che collega Attis al grano mietuto cf. infra. 85
La nascita di Attis dal frutto di un melograno (Arnobio) o di
un
mandorlo
(Pausania) rimanda al tema della nascita "miracolosa", presente in molti racconti mitologici di tipo "eroico", a cui si aggiunge qui la necessità di far nascere Attis senza padre e senza un rapporto sessuale. 8
6
Cf. F. Cumont, Recherches sur le symbolisme funéraire des Romains,
Paris 1942, p. 219. Di particolare interesse sono il taglio e il trasporto processionale di un abete nel funerale rumeno di Lazzaro Boia di cui ci dà notizia De Martino, op. cit., pp. 182-192, a cui viene anche dedicata una sorta di canto funebre. Si noti, tra l'altro, che l'abete viene addobbato con lana (p. 188) e che le donne piangono alla sua vista (p. 183).
145
87
L'immaginetta di Attis che veniva appesa probabilmente al pino (Firm.
Mat., De err. prof XXVII, l; il rilievo di Ostia [M.J. Vermaseren, The Legend of Attis in Greek and Roman Art, Leiden 1966, p. 35 e Pl. XXI, l]) sottolineano la stretta associazione fra il personaggio e l'albero. 88
Fonti in H. Graillot, Le eu/te de Cybele Mère des dieux a Rome et dans
l'empire Romain, Paris 1912, p. 127, n. 2. 89
F. Cumont, Lux perpetua, Paris 1949, p. 45,
9°
Cumont (Lux, p. 45 e n.l) riporta il passo di Servio (Ad Aen. V 79) i n
cui si sottolinea
come sulla tomba vadano preferibilmente deposti fiori
rossi ad sanguinis imitationem, ubi sedes animae. 91
Cf. Ovid., Fasti II: Tegula porrectis satis est velata coronis,/Et sparsae
fruges, parcaque mica salis,/ Inque mero mollita ceres, violae solutae:/Haec habeat media testa relicta via. 92
CIL VI 10234, cf. Cumont, Lux, p. 45.
93
CIL VI 10248 e anche CIL VI 10239, entrambe citate in H. Graillot, o p .
cit., p . 145 e n . 5. 94
Come già evidenziato sopra (n. 52), nonostante una riforma d'epoca im
periale escludesse gli eunuchi dalle alte cariche sacerdotali, non fu sop presso l'ordine dei Galli che, sotto un Arcigallo, continuavano a far parte dell'organico istituzionale del tempio. 95
Cf. Graillot, op. cit., p. 128.
96
Dallo stesso complesso provengono tanto la statua di Attis omnipo
tens, quanto quella in cui è rappresentata la sua agonia. 97
Sugli Hilaria sono state espresse opinioni diverse, ma l'interpretazione
più accreditata è quella di Vermaseren , per cui tali feste sono da collocarsi prima della lavatio e non sembrano note prima del IV secolo. Cf. M.J. Vermaseren, Cybele and Attis, London 1977, pp. 119-123. 98
Il racconto di Valerio Fiacco (Arg. VIII, 239-249, in Hepding, p. 22)
non può essere preso in considerazione poiché si limita a descrivere il ca rattere gioioso in cui si svolgeva il trasporto dell'immagine di Cybele at traverso la città dopo il bagno purificatorio nell'Almo. 99
Tale rifiuto è senz'altro assimilabile al "tradimento" di Attis che sceglie
di sposarsi.
146
100
A proposito dell'equazione Attis-grano proposta da Firmico scrive I. Chìrassi Colombo: <<E' un tipo di interpretazione che con ogni probabilità
coglie parzialmente un aspetto di Attis, quello economico-agrario appun tato sull'articolazione calendariale in funzione anche agricola. Ma certo non ne esaurisce e neppure definisce in maniera accettabile la più com plessa ratio teologico-ideologica>> ("Modalità dell'interpretatio cristiana di culti pagani>>, in M. Pavan [ed.], Mondo classico e Cristianesimo, Roma
1989, pp. 30-43, p. 41 ). 101
Paradossalmente, anche le vicende del Cristo furono lette in chiave di
passione vegetale, cf. E. De Martino, "La messe del dolore", SMSR, 28,
1957, pp. 1-53, che in chiusura del suo studio menziona la frase di una con tadina neogreca in occasione della Pasqua (XX sec.): <<Sono in ansia perché se domani Cristo non risorge, noi quest'anno non avremo grano>> (ripresa in Morte e pianto rituale, p. 344). 102
Anche se Giuliano (V Or., in Hepding, pp. 51-58) riferisce su uno
"squillo di tromba" che segue la dendrophoria e precede gli Hilaria (l69c) e Sallustio (de diis et mundo IV, in Hepding, pp. 58-59) allude alla consuma zione di un pasto a base di latte, essi li presentano già in una versione "rivisitata" non offrendo alcuna informazione sul significato che essi rive stivano nel rituale. 103 104
Vita Isidori excerpta a Photio, 131, in Hepding, p. 74. Su Hierapolis e il barathron cf. T. Ritti, "Hierapolis di Frigia: santuari e
dediche votive", Scienze dell'Antichità, 3-4, 1989-90, pp. 861-874. 105
Strab., 13, 4, 14; Plin. N.H. 2, 208, Amm. Mare. 23, 6, 18, Cassius
Dio, 68, 27. 106 107
Cf. Ritti, op. cit., p. 863. Qui non interessa attraverso quale espediente raggiungessero il risul
tato, quanto il risultato stesso ed il significato che se ne traeva. 108
Asklepiodotos, che narra a Damascio di aver compiuto una parziale di
scesa nella voragine, aggiunge che chi era enthousion, cioè posseduto da Cybele, poteva percorrere l'intero cammino (Vita Isidori, 131). Chi più dei Galli, che a seguito della mutilazione sono in rapporto permanente con la divinità, aveva diritto di procedere lungo tale percorso? 1 09
Cf. Strabo, 13, 4, 14.
147
11°
Che, a mio avviso, festeggia piuttosto il fatto che Attis continui a vi
vere, ma negli Inferi. 111
Cf. Vermaseren, The Legend, Leiden 1966, pp. 31-38; id., "L'icono
graphie d'Attis mourant", in R. van den Broeck -M. J. Vermaseren (edd.), Studies in Gnosticism and Hellenistic Religions,
Presented to
Gilles
Quispel, Leiden 1981, pp. 419-431. 112
Cf. Graillot, op. cit., p. 438 e 500; Vermaseren, The Legend, p. 18;
Cosi, "Salvatore e salvezza", p. 69 n. 169; Sfameni Gasparro, Soterio logy, pp. 90-92 (riferimenti bibliografici). 113
Cf. Sfameni Gasparro, Soteriology, pp. 92-93 e nn. 36-42 (riferimenti
bibliografici). 114
Cf. Cosi, "Salvatore e salvezza", pp. 70-71. Un'eccezione sarebbe co
stituita dal sarcofago in cui Attis personifica invece la primavera ma la per dita dell'oggetto, di cui si possiede attualmente solo un disegno, rende in controllabile la fonte (id., p. 71). 115
Cf. S. Ribichini, "Salvezza ed escatologia nella vicenda di Adonis?", in
Bianchi - Vermaseren (edd.), op. cit., pp. 633-648; A.D. Nock, "Cremation and Burial in the Roman Empire", HTR, 25, 1932, pp. 321-359, p. 356 = id., Essays on Religion and the Ancient World, I-11, Oxford 1971, l, p p . 277-307, p . 305. Secondo P . Boyancé, "Funus acerbus", REA, 54, 1 9 5 2, pp. 275-289 =id., Études sur la religion romaine, Roma 1972, pp. 73-89, sui monumenti funerari Attis sarebbe da ricondurre al tema dell' aoros, cioè colui che muore prima del tempo. 116
CIL VI 10098, in Hepding, p. 91 n. 43; CIG 6206; F. Biicheler, Car
mina latina epigraphica, Leipzig 1895, I, n. 513, p. 245ss.;
discusse i n
Sfameni Gasparro, Soteriology, pp. 94-96. 117
Rassegna delle fonti e delle interpretazioni in Sfameni Gasparro, Sote
riology, pp. 97-102. 118
Sul simbolismo funerario a Roma ancora fondamentali i lavori di
Cumont, cit. nn. 88 e 91. 119
Cf. l'iscrizione romana del I sec. d. C. in cui il defunto chiede alla sanc
tissima mater (di cui non è certa l'identità) di essere sollevato fino ai con fini del Tartaro; l'iscrizione funeraria relativa ad un vates frugae mater (forse un sacerdote della Grande Madre) in cui c'è un riferimento alla no zione dell'immortalità celeste dell'anima; un cippo funerario su cui è rap-
148
presentato Attis in atteggiamento malinconico e dove si dice che l'anima del defunto risalirà il sacro cielo (fonti e rassegna delle interpretazioni i n Sfameni Gasparro, Soteriology, pp. 97-98). 120
Mi riferisco in particolare alla posizione degli gnostici Naasseni di cui
ci dà notizia Ippolito nel V libro della Refutatio omnium haeresium (V 611); alla V Orazione, Alla rruulre degli dèi, dell'imperatore Giuliano e al trattato del filosofo Sallustio, De diis et mundo, c. IV. Cf. per i primi M.G. Lancellotti, The Naassenes. A Gnostic ldentity Among Judaism, Christia
Classica[ and Ancient Near Eastern Traditions, Miinster 2000; per
nity,
Giuliano (e Sallustio) cf. D.M. Cosi, Casta Mater ldaea, Venezia 1986. 121
Naturalmente con gli opportuni distinguo tra la posizione neoplatonica
di Giuliano e Sallustio e quella gnostica dei Naasseni. 122 123
E' il toro ad essere castrato. Cf. I. Chirassi Colombo, "Il sacrificio dell'essere divino e l'ideologia
della salvezza
nei
tre
più
noti
sistemi
misterici
dei primi
secoli
dell'Impero", in Bianchi - Vermaseren (edd.), op. cit., pp. 308-330, p . 326. 124
Cf. A. Brelich, "Politeismo e soteriologia", in S.G.F. Brandon (ed.),
The Saviour God, Manchester 1963, pp. 37-50. 125
Cf.
Chirassi
Colombo,
"Il
sacrificio",
pp.
326-327;
Ribichirii,
"Salvezza", pp. 636-637. 126
Ai quali secondo Prudenzio (Perist. X 1061-1065) e Agostino (De C i v.
Dei VII 26) era riservato un destino beato nell'aldilà. 127
Questo, al di là delle interpretazioni degli studiosi moderni, era quanto
pensavano gli antichi. 128
I Galli guariscono tanto la mente che il corpo, praticano ritruali di puri
ficazione, predicono il futuro, etc. (cf. Graillot, op. cit., pp. 306-312); i l
taurobolio è legato al benessere dell'individuo e/o dell'imperatore; n o n mancano nelle epigrafi tauroboliche riferimenti a d una salute più "elevata", ma anche questa rapportabile comunque all'esistenza attuale (Duthoy, o p . cit., nn. 1 3 e 33). La necessità della ripetizione del rito sembra implicare che si trattasse di una prassi essenzialmente purificatoria. Circa la dichiara zione del tauroboliato che afferma di essere in eternum renatus (Duthoy, op. cit., n. 23), va rilevato che il termine aeternus implica il concetto di pe
rennità, piuttosto che quello di eternità trascendente in senso cristiano (cf. R. Turcan, Les cultes orientaux dans le monde romain, Paris 1989, p. 58).
149
129
Sul pericolo parallelo e contrario, secondo cui gli autori evangelici sa
rebbero stati coscienti che Cristo avrebbe potuto facilmente essere caratte rizzato secondo un modello eroico, cf. H.-D. Betz, "Heroenverehrung und Christglaube.
Religionsgeschichtliche
Beobachtungen
zu
Philostrats
Heroicus", in H. Cancik- H. Lichtenberger- P. Schafer (edd.), Geschichte Tradition - Reflektion. Fs fiir Martin Hengel, II, Ttibingen 1996, pp. 119-
139 id., Antike und Christentum. Gesammelte Aufsiitze IV, Ttibingen 1998, pp. 128-151. =
150
DEMETRA E KORE-PERSEFONE A ELEUSI Assenze divine e destini umani GIULIA SFAMENI GASPARRO
«E la bionda Demetra sedendo nel tempio, rimaneva in disparte di tutti gli dèi, struggendosi nel rimpianto della figlia dalla vita sottile. E sulla terra feconda ella rese quell'anno infausto per gli uomini, tre mendo; né più il suolo lasciava germogliare i semi, poiché li teneva nascosti Demetra dalla bella corona»1• I versi dell' "Inno a Demetra", il secondo della raccolta di 33 canti in onore degli dèi olimpici tramandata sotto il nome di Omero, offrono la prima, vivida immagine di un penthos divino che tragicamente sconvolge l'equilibrio dei livelli divino e umano e dello scenario co smico in cui essi convergono ed esercitano le rispettive competenze. Il "mito" narrato in questo documento è uno dei più noti e diffusi in tut to l'arco temporale e geografico del mondo antico e quello su cui co stantemente si è impegnata l'esegesi degli interpreti moderni delle più diverse ispirazioni metodologiche, con risultati in varia misura utili a illustrarne le molteplici valenze. Una delle ragioni di tale popolarità e interesse, come è noto, è
data
dal rapporto imprescindibile della narrazione del poeta "omerico" con
l'istituzione cultuale dei Misteri di Eleusi che a sua volta rappresenta uno dei più antichi e vitali centri propulsori della vita religiosa della Grecia e, a partire dall'età ellenistica, dell'intera oikoumene mediterra nea. Tuttavia la medesima vicenda divina che costituisce l'oggetto
di
quel racconto si rifrange in innumerevoli versioni spesso legate a culti locali e in particolare risulta connessa con il rituale panellenico
dei
Thesmophoria che, pur con numerose e importanti varianti nel tempo
e nello spazio, rappresenta anch'esso una costante essenziale dell'uni verso religioso ellenico, sia nella Grecia sia nelle colonie orientali e occidentali. Nonostante la ricchezza degli interventi critici sul tema, esso conti nua a offrire materia di riflessione allo storico delle religioni soprat tutto in ragione della peculiarità del motivo centrale dell'intero quadro, nella sua duplice componente mitica e cultuale, ossia quello icastica mente evocato nei versi sopra citati: dolore divino espresso nella la151
tenza (Demetra chiusa nel tempio, lontana dall'Olimpo, invisibile a dei e a uomini) e causa di una mortale crisi a livello cosmico e umano. In sieme con la sofferenza e il nascondimento della dea "dalla bella co rona", anzi premessa e causa di essi, i versi omerici menzionano un'al tra decisiva assenza, con relativo penthos, quella della "figlia dalla vita sottile", la Kore divina, Persefone, protagonista in prima persona del dramma della scomparsa. Per una corretta analisi del motivo è necessario richiamare, sia pure per sommi capi, la trama del racconto anche se esso risulta familiare a chiunque abbia un sia pur minimo contatto con le tradizioni religiose classiche, al punto da apparire quasi ovvio se non banale. Il confronto diretto con le fonti, peraltro, permette di percepire tutta la complessità e densità del "mito" quale realtà mobile e dinamica, espressa in un nu mero ampio di varianti, ciascuna importante e aperta a sempre nuove dimensioni e significati, ancorata ad un particolare contesto storico e culturale. Di ciascuna pertanto è necessario misurare di volta in volta il valore e il rapporto con tutte le altre parallele o discordanti. In questa sede non è certo possibile procedere ad un'analisi compa rata delle numerose tradizioni mitiche pertinenti alla vicenda di Deme tra e della Figlia, spesso riflesse in fonti letterarie di carattere scolia stico e ipomnematico o contenenti soltanto brevi e cursorie allusioni a un tema universalmente noto, di valore documentario diverso in rela zione all'età e al grado di correttezza delle informazioni possedute ov vero della libertà nel riferirle, soprattutto nel caso di poeti che autono mamente elaborano i dati tradizionali. Anche le fonti monumentali, epigrafiche e figurate, offrono materiali importanti alla ricostruzione del panorama mitico e in alcuni casi integrano efficacemente le lacune della documentazione testuale ma in pari tempo propogono difficili questioni interpretative, che solo una paziente analisi comparativa permette di affrontare e in parte risolvere. Intendiamo piuttosto concentrare l'attenzione sull'ambito eleusino, costituente una sfera qualificata e storicamente definita del più ampio scenario demetriaco, al fine di individuare e circoscrivere le modalità di espressione e di funzionamento all'interno di esso del tema proposto, operando peraltro gli opportuni sondaggi comparativi in altre aree mi tico-cultuali di quello scenario che si rivelino utili alla valutazione sto rico-religiosa del tema medesimo. A tal fine l' "Inno a Demetra", per l'antichità (ca. 600 a. C.) e l'ampia articolazione narrativa, costituisce 152
il punto di partenza obbligato del discorso e un imprescindibile para metro di riferimento per tutto il resto della successiva tradizione rnitica che spesso e in diverse proporzioni mostra di averne subito l'influsso. La vicenda ha inizio nella "pianura di Nisa", luogo di una geografia mitica ma pure inteso a situare nella terra degli uomini gli accadimenti divini. In esso vaga la figlia di Demetra, insieme con altre fanciulle, le Oceanine, giocosamente intenta a raccogliere fiori: un narciso di straor dinaria bellezza attrae la fanciulla che lo strappa dal suolo. Il fiore, tut tavia, costituisce lo strumento di un inganno: fatto germogliare dalla "Terra, per volere di Zeus compiacendo il dio che molti uomini acco glie", esso provoca nel terreno una scissura da cui emerge Hades, il so vrano degli Inferi, alla guida del suo carro. Egli rapisce la fanciulla tra scinandola via sul cocchio, incurante delle grida di lei che invoca il pa dre Zeus, il quale peraltro non l'ascolta, chiuso in un suo tempio e in tento a ricevere le offerte degli uomin{ Solo due presenze divine per cepiscono il dramma : odono le grida la potenza ctonia Beate, "dal suo antro", e il dio celeste Helios. Ma esse giungono anche a Demetra che
istantaneamente subisce uno stravolgimento radicale del proprio statu to divino: «Un acuto dolore la colse nell'animo: sulle chiome divine lacerava con lè mani il suo diadema, si gettava sulle spalle un cupo ve lo, e si slanciò sopra le terra e il mare, come un uccello alla ricerca» (vv. 40-44).
Già in queste prime battute si delineano le direttrici essenziali del
quadro, che il resto della narrazione definirà sempre più nettamente nel senso di una duplice e convergente "latenza" divina, la quale si risol verà infine in un ritorno qualificato e differenziato per le due protagoni ste del dramma. Comunque il primo e significante elemento della si tuazione appare senz'altro proprio questa circostanza: non è soltanto la Fanciulla rapita ad essere coinvolta nel movimento di presenza-assenza
e ritorno, ma anche la Madre. Si vedrà anzi come, a fronte del carattere sostanzialmente passivo della Kore, il ruolo di Demetra è quello pre
minente ed efficacemente attivo: pur nella connotazione "patetica" che
l'autore dell'Inno sottolinea con tratti vivaci e che comunque risulta tema costante dell'intera tradizione mitica, la dea si mostra attrice con sapevole e determinata della vicenda, scegliendo di volta in volta l'epi fania e il nascondimento con effetti decisivi sull'Intero contesto divino, cosmico e umano.
153
La narrazione descrive quindi il vagabondaggio di Demetra sulla ter ra, che ella percorre per nove giorni agitando le "fiaccole ardenti", sen za prendere né ambrosia o nettare, cibo divino, né lavacro, fino a quan do Ecate le si fa incontro, anch'essa reggendo una torcia3, e l'informa di aver udito le grida di Persefone, senza tuttavia aver potuto scorgere il
suo rapitore. La Madre allora si rivolge a Helios che tutto osserva dal cielo per
conoscere finalmente la sorte della Figlia e il dio non si sottrae alla ri chiesta. Le sue parole, mentre chiariscono l'accaduto, delineano una si
tuazione perfettamente aderente alla visione olimpica dei rapporti di vini, fondati sulle alleanze matrimoniali e sul rispetto dei diversi am
biti di competenza delle grandi personalità del pantheon: Persefone è stata concessa come sposa dal padre Zeus al fratello Hades, sovrano de gli Inferi, ossia di quel terzo "dipartimento" che, con il cielo e la sfera
delle acque, rappresenta la totalità dell'universo spartito fra i tre mag
giori fratelli
Zeus, Poseidone e Hades - quando, cessate le lotte teo
goniche, si stabilirono gli attuali assetti divini e cosmici". Quest'annuncio, con la constatazione dell'avvenuta aggregazione nuziale della Figlia a un dio detentore di un essenziale "onore", appar tenente alla sua stessa famiglia, essendogli anzi fratello, dovrebbe met
tere fine all'angoscia della Madre. Al contrario, la reazione di Demetra
è tale da contraddire in radice la logica medesima della prospettiva
olimpica e da ribaltare il principio su cui essa si fonda, ossia il rispet to delle diverse e complementari timai delle figure che la compongono, rifiutando di accettare la volontà di Zeus e lo statuto di Persefone come sposa di Hades e sovrana degli inferi'. «E in seguito, adirata contro il figlio di Crono, dalle nere nubi, ab
bandonando il consesso degli dei e il vasto Olimpo, andava tra le città degli uomini e i pingui campi, celando il suo aspetto, per molto tem po» (vv. 91-94). Ha inizio in tal modo una fase della vicenda divina
che, fuori dagli schemi delle pur varie e complesse avventure di aspet
to antropomorfico degli dei greci e certo irriducibile a parametri logici, come vorrebbero alcuni interpreti6, instaura prospettive nuove. Essa ri sulta modulata tipicamente sul tema dell'assenza e della presenza, del
nascondimento e dell'epifania, del lutto legato ad una latenza che as
sume i caratteri di una morte (nella sua peculiare accezione divina di
soggiorno in una dimora intransitabile come è quella infera di Hades) e
154
della gioia per il ritrovamento e il ritorno alla luce del sole e al l'Olimpo. E' necessario dunque percorrere il filo del racconto quale si dipana nell'Inno e poi verificare se quel tema rappresenti un' "invenzione", sia pure sacralmente qualificata in quanto connessa in maniera funzionale all'istituzione misterica, ovvero rifletta concezioni e strutture mitiche più ampiamente panelleniche anche se in varia misura rimodulate in rapporto a quella istituzione che indubbiamente s'impone come qualifi cato parametro di riferimento dell'intero discorso del poeta omerico. Egli redige un'opera letteraria, priva di qualsiasi valenza "liturgica" o più latamente sacrale in rapporto al culto misterico. Tuttavia, secondo i canoni della poesia greca arcaica, il suo parlare di personaggi ed even ti divini obbedisce alle regole dell'adeguamento più o meno forte ad un patrimonio tradizionale di elementi miticì. Questi in particolare sono qui connessi con una sfera rituale
quella dei Misteri di Eleusi- che ri
sulta già solidamente costituita e che numerosi e qualificati indizi mo strano costantemente presente all'attenzione dell'autore nel dispie gamento del suo canto rivolto a celebrare «Demetra dalle belle chiome, dea veneranda... e con lei la figlia dalle belle caviglie» {v. l s.), se condo i più accreditati formulari della poesia epica. Demetra adirata si allontana dali'Olimpo e percorre le strade degli uomini. Ella pertanto è in una tipica situazione di "latenza" rispetto al suo statuto divino ma risulta tale, paradossalmente, anche rispetto alla sfera umana nella quale penetra, confondendosi con i suoi abitanti. In fatti cela il suo aspetto e non viene riconosciuta da alcuno: per una dea infatti, assumere una figura e un comportamento umani significa un' "assenza", un "non esserci", in quanto la sua identità è e rimane quella divina. Tale identità, pur nel travestimento e nel simpatetico coinvol gimento, nelle forme del lutto, nelle condizioni dì esistenza umane, non può mai assimilarsi a queste ultime. Si vedrà presto, infatti, come la partecipazione di Demetra alle attività degli uomini in funzione di nutrice di un piccolo fanciullo sarà motivo di crisi, minacciando di sconvolgere i rapporti fra uomini e dèi. L'equilibrio si stabilisce quan do la dea si fa presente e riprende intera e senza infingimenti la propria dimensione divina, esercitando sia la propria funzione cosmica di di spensatrice dei beni cerealicoli sia la peculiare funzione sacrale di isti tutrice di un culto. Fra questi termini estremi s'inserisce un'altra al-
155
ternanza di assenza-presenza, quella di Kore-Persefone che, a differenza della Madre, verrà a stabilizzarsi proprio in quel movimento alterno. La peregrinazione di Demetra si arresta ad Eleusi, rendendo scoperte le peculiari valènze di questa versione mitica, ossia le sue connotazioni "locali" di tradizione "eleusina", peraltro in perfetta conformità ad uno schema mitico panellenico che conosce numerose xenie demetriache,
spesso anch'esse collegate a impianti sacri e a culti locali. Si può af
fermare infatti che un aspetto tipico della vicenda delle due dee consiste proprio nella sua disponibilità ad aprirsi ad incontri sempre nuovi e a localizzazioni sempre diverse, configurando una "cartografia" senza confini, capace di abbracciare molteplici sedi di comunità umane, sa cralizzandole come luoghi di sosta della dea peregrina e in lutto ovvero 7 come scenari del ratto e del ritorno di Persefone • I momenti forti della sosta della dea ad Eleusi sono innanzi tutto il
suo sedere presso «il pozzo Partenio» in figura di anziana donna e l'in
contro con le figlie del re Celeo che la invitano nella loro casa, presso la madre Metanira, affinchè possa divenire nutrice dell'ultimo nato, Demoofonte. La dea, dopo aver presentato se stessa come proveniente da Creta, essendo stata rapita da pirati ai quali è sfuggita una volta ap
prodata al porto attico di Torico, acconsente di recarsi alla reggia. Qui l'accoglie Metanira che, pur ignorando l'identità della donna, ne intui sce il carattere eccezionale allorché, varcando la soglia, «riempì il ve stibolo di una luce sovrumana» (v. 189). Si ha quindi una scena in cui gli interpreti, pressoché concordi, ri conoscono una serie di allusioni ad atti rituali pertinenti al culto eleu sino, anche se non legati a quella componente esoterica che ne costi tuisce il nucleo essenziale rimasto sostanzialmente inviolato nono stante l'ampio arco, più che millenario, della sua storia e le migliaia di iniziati che vi hanno preso parte. Demetra rifiuta di prendere posto sul trono regale offertole da Metanira e siede invece su uno sgabello rico perto da una pelle di animale" in atteggiamento di lutto e con il capo e il volto velati, immobile, senza
cibo e bevanda. L'intervento di una
donna, «l'operosa lambe», riesce a infrangere il doloroso silenzio della dea inducendola al riso con i suoi motteggi9: respinta una coppa di vi no, che dichiara esserle vietato, Demetra ordina una bevanda composta di «acqua, con farina d'orzo, mescolandovi la menta delicata». Si tratta - come esplicitamente è affermato - del ciceone che le fonti ci mostra no essere sorbito dagli iniziati eleusini in una fase imprecisata del rito.
156
La connessione con quest'ultimo, del resto, è scoperta nelle parole del poeta che, con espressione per alcuni versi enigmatica, comunque evo ca la sfera del "sacro": con il suo gesto la dea «inaugurò il rito» (vv.
190-221). Segue il noto episodio della tentata immortalizzazione di Demoo fonte che ha attratto in maniera speciale l'attenzione degli studiosi e da to luogo a diverse e spesso contraddittorie interpretazioni: fra tutte, e senza pregiudizio della validità di analisi rivolte a indagare le possibili ascendenze storiche dell'uno e dell'altro elemento della prassi attuata dalla dea (riti di aggregazione alla famiglia, antiche procedure iniziati che etc.), riteniamo più pertinente quella, formalizzata con adeguate ar gomentazioni da U. Bianchi, che lo collega funzionalmente alla speci
fica "ideologia" dei misteri 10• Secondo tale interpretazione, infatti, la procedura immortalizzante rientra a pieno titolo nella prospettiva reli giosa "olimpica" che contempla una netta separazione fra gli dèi e gli uomini sotto il profilo del rispettivo statuto di immortalità beata degli uni e di dolorosa mortalità degli altri. Solo. per un eccezionale favore divino, riservato a qualche individuo privilegiato, è possibile travali care il confine fra le due condizioni e accedere, da parte dell'uomo, alla prerogativa degli dèi. La riuscita del processo di immortalizzazione nei confronti del proprio "alunno" da parte della divina nutrice avrebbe san zionato tale prospettiva a beneficio di un singolo individuo. A fronte di questa situazione, invece, si instaura la prospettiva "mistica"" propria della nuova istituzione misterica: essa -
come sarà
affermato a conclusione della vicenda - è aperta a tutti gli uomini che, mantenendo la propria identità di esseri patibili e mortali, potranno tuttavia godere di prospettive felici per la vita presente e per quella che li attende al di là della soglia della morte. La partecipazione ai riti se greti di Eleusi procura infatti a tutti coloro che piamente vi accedano il favore delle due dee, a cui è prestato il culto dovuto. L'episodio in questione, in pari tempo, assolve la funzione di rive lare la vera natura della nutrice e quindi porre le premesse per la solu zione definitiva della crisi: di fatto, l'assenza di Demetra dali'Olimpo e la sua
presenza, latente e "mascherata", fra gli uomini configurano
una situazione anomala, gravida di rischi e quindi destinata ad essere superata. Accade che il bambino affidato alle cure dell'anziana straniera cresce in maniera eccezionale, «simile a un essere divino, senza prendere ci-
157
bo, senza succhiare il bianco latte: Demetra lo ungeva d'ambrosia co me il figlio di un dio, dolcemente soffiando su di lui e stringendolo al seno. Di notte, lo celava nella vampa del fuoco, come un tizzone» (vv.
235-239). E' appunto quest'ultima azione che, spiata nottetempo m Metanira sospettosa, suscita lo spavento della madre che, lanciando un grido, interrompe la procedura immortalizzante. Demetra infatti, adi rata, allontana bruscamente da sé il fanciullo deponendolo a terra, ossia restituendolo alla sua natura mortale, e in pari tempo rivela la propria identità. Mentre al bambino è promesso un «privilegio imperituro» consistente in una pratica rituale in suo onore, per sé la dea chiede l'erezione di una sacra sede e promette l'istituzione di nuovi riti: «lo sono l'augusta Demetra, colei che più d'ogni altro agl'immortali e ai mortali offre gioia e conforto. Orbene: per me un grande tempio, e in esso un'ara, tutto il popolo innalzi ai piedi della rocca e del suo muro sublime, più in alto del Callicoro, sopra un contrafforte del colle; io stessa v'insegnerò il rito, affinché in futuro celebrandolo piamente pos siate placare il mio animo» (vv. 268-274). L'epifania della dea implica una chiara assunzione dei propri poteri nei confronti degli uomini ai quali richiede i dovuti omaggi, tradizio nalmente espressi nella prospettiva religiosa greca come offerta di una 12 sacra dimora e di un culto atto a propiziare il favore divino. Tuttavia, nel momento stesso in cui si configura una volontà di presenza effica ce a livello umano, si realizza una più radicale e tragica "assenza": do po il compimento dell'ordine divino da parte del re Celeo e dell'intero popolo eleusino, Demetra- secondo quanto affermato nei versi citati ad apertura del nostro discorso - si segrega nel tempio in preda al dolore e all'ira, lontana da dèi e uomini, e procura la scomparsa di ogni forma di fecondità vegetale. Questo evento si integra compiutamente nella logica tipica di una struttura religiosa di tipo politeistico, in cui le grandi personalità di vine risultano connesse ai grandi dipartimenti cosmici di cui garanti scono l'ordinato funzionamento. La dea in lutto ribalta questa logica, sospendendo- con la sua latenza- la funzionalità della sua sfera di atti vità, ossia la fecondità vegetale nella forma culturalmente definita di prodotto dell'attività agraria umana. Quest'ultima, di fatto, si fonda sul potere divino di Demetra senza il cui supporto perde qualsiasi efficacia: «Molti ricurvi aratri i buoi trascinavano invano sui campi, molto can dido orzo cadde a vuoto nei solchi» (vv. 308-309).
158
Ne risulta uno stravolgimento dell'intero ordine divino, cosmico e umano, una sorta di insorgenza del caos primordiale, anteriore allo sta bilimento delle rispettive sfere di competenze di dèi e uomini. Infatti, l'estinzione di questi ultimi minacciata dalla carestia avrebbe procurato la cessazione dello «splendido privilegio» (time') degli dèi, consistente nelle offerte sacrificali, ossia la perdita stessa dell'identità divina che si realizza attraverso il suo riconoscimento sacrale da parte degli uomini. Soltanto tenendo presente questa prospettiva, esplicitamente enunciata nel nostro testo", si può misurare tutto il significato storico-religioso del tema in esame e, attraverso l'analisi del complesso documentario, valutarne i rapporti con l'istituzione misterica da una parte e con il re stante quadro rnitico-cultuale demetriaco dall'altra. In conformità con la struttura dinastico-dipartimentale del pantheon greco, l'onere e il potere di intervenire per risolvere la crisi spetta
al
sovrano di quel pantheon medesimo, Zeus, il quale peraltro deve rispet tarne le regole strutturali: egli infatti non può imporre a Demetra il ri torno e il ripristino delle sue funzioni ma solo "persuaderla", con l'in vio di messaggeri che le offrano doni e "privilegi". In obbedienza al ti pico motivo dello "scambio" che regola i rapporti individuali all'in terno della società arcaica greca, esprimendo gli equilibri di potere in relazione agli onori ricevuti dalle parti in causa, consistenti in adeguati donativi tra di esse, il sovrano degli dèi, attraverso una serie di mes saggeri, propone a Demetra una composizione del conflitto garan tendole «molti magnifici doni e i privilegi che desiderasse ottenere tra gli immortali» (vv. 325-328). Tutti questi tentativi, peraltro, risultano inutili, poichè la dea non vuole altro dono che la figlia perduta: solo a questa condizione ella potrà riprendere il suo posto fra gli dèi olimpici e la sua funzione di dispensatrice dei beni agrari, ossia "ritornare" ai essere presente nello scenario divino, cosmico e umano. Zeus cede alla richiesta e invia Hermes nel regno infero di Hades, per convincerlo a lasciar riemergere Persefone «fuori dalla tenebra den sa ... alla luce del giorno, fra gli dei». Al di là dalle convenzioni del linguaggio mitico, l'iniziativa del so vrano olimpico implicante una sorta di resa totale alle richieste di De metra, anche a prezzo di smentire il proprio disegno originario che contemplava le nozze della figlia con Hades, ribadisce la nozione fon damentale del quadro in esame: l'assenza di Demetra, contestuale alla latenza infera di Persefone, configura un rischio mortale per l'intera
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realtà. Ciò dipende non solo dalla qualità genericamente divina di lei che, secondo il principio enunciato degli equilibri fra le competenze ri spettive degli dèi di un pantheon politeistico deve concorrere a garanti re l'ordine cosmico, ma dalla sua specifica qualità di promotrice della fecondità agraria, fondamento della vita di uomini e dei, questi ultimi "alimentati" dalle offerte sacrificali che ne sanzionano lo statuto esi stenzale, espresso dalle rispettive tima{4• La radicale anomalia della si
tuazione è rappresentata dall' "ira" della cb15 e dal suo rifiuto di
"unirsi" agli dèi, rimanendo nascosta «entro il tempio odoroso d'incen
SO» sull' «aspra rocca di Eleusi». Di fatto, come già notato, l'apparente
presenza demetriaca nel mondo umano è piuttosto un'assenza gravida di pericoli: il tempio non è in questo caso il sacro luogo della manifesta zione divina, tramite di contatto fra divinità che elargisce favori e uo mini che le prestano i dovuti omaggi, bensì chiuso cerchio di nascon dimento di un personaggio indispensabile ai ritmi vitali del cosmo, ora
fatto estraneo e nemico a uomini e dèi.
Raggiunto il diapason della crisi, la vicenda si avvia a soluzione secondo modalità che costituiscono l'originalità peculiare della visione greca a confronto con altre prospettive mitiche delle culture vicino orientali con le quali - come vedremo - pure presenta strutturali analo gie e verisimilmente contatti storici. Nelle parole rivolte a Persefone da Hades, al di là dell'abile costu zione letteraria del discorso, traspaiano nette le coordinate della nuova situazione che si stabilizzerà in maniera definitiva con la ricostituzione delle prerogative e delle funzioni delle divinità coinvolte nel dramma
Venuta una volta nella dimora infera, la Kore demetriaca è ormai legata ad essa e al suo sovrano: nel motivo mitico del cibo, un chicco di me lograno, preso dalla dea prima di allontanarsi sul carro di Hermes che la ricondurrà alla madre, si esprime chiara la nozione della pertinenza
non più modificabile di lei a quel livello. Persefone è la regina degli lnferi16 e come tale essa è percepita dalla coscienza religiosa dei Greci fin dai poemi omerici, che la presentano esclusivamente in questa ve ste. Tuttavia questo ruolo della dea viene a comporsi con la sua qualità di Figlia di Demetra, partecipe quindi delle prerogative di quest'ultima come dispensatrice dei beni agrari. A questo fine, di fatto, è finalizzata la narrazione mitica in esame che senza dubbio si collega specifica
mente alla prospettiva misterica eleusina ma che risulta conforme, nel le sue linee generali, all'intero corpus documentario demetriaco, nella
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sua duplice dimensione mitica appunto ma anche cultuale, con poche eccezioni di cui bisogna valutare peso e significato religiosi. La scena dell'incontro fra le due dee è descritta con abile perizia let ·
teraria e vivacità di notazioni psicologiche dall'anonimo autore: il nodo religiosamente qualificante è peraltro costituito dalle parole di Demetra che, nel chiedere alla Figlia se mai abbia gustato cibo nel regno infero, di fatto rende esplicito e sanziona il nuovo destino di Persefone, la sua «prerogativa onorifica» (timé) consistente nella contestuale funzione di sposa di Hades, e con lui sovrana del mondo dei morti, e di Kore di Demetra, legata con lei e per suo tramite alla vicenda stagionale e agra ria: «Se invece hai mangiato- dichiara la Madre- scendendo di nuovo nelle profondità della terra lì abiterai ogni anno per una delle tre sta gioni: le altre due, con me e con gli altri immortali. Ogni volta che la terra si coprirà dei fiori odorosi, multicolori, della primavera, allora dalla tenebra densa tu sorgerai di nuovo, meraviglioso prodigio per gli dei e gli uomini mortali» (vv. 398-403). Lunghe e non risolte dispute hanno impegnato autorevoli studiosi al fine di determinare i tempi e le modalità del "ritorno" di Persefone, non coincidente con il ciclo stagionale dei cereali se rapportato al lendario ufficiale dei Misteri eleusini, nel mese autunnale di
ca
Boedro
mione (settembre-ottobre), ìn cui esso era ritualmente celebrato, men tre l'Inno gli attribuisce un chiaro contesto primaverile. Tuttavia l'istanza
eccessivamente razionalistica cui obbediscono i tentativi di
una sistemazione "logica" del quadro mitico e dei suoi riflessi nelle numerose e diversificate prassi rituali che ad esso intendono collegarsi,
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tra cui in primo luogo, oltre i Misteri, i panellenici Thesmophoria , deve recedere a fronte del dato più essenziale e religiosamente qualifi cato che a nostro avviso costituisce il fulcro di quel quadro medesimo. Esso ci pare consistere nell'intreccio vitale delle prerogative e delle funzioni delle due personalità divine, caratterizzato dal ritmo alterno di presenza-assenza-presenza e posto sotto il prevalente segno demetriaco. Infatti, nonostante l'apparente centralità del tema mitico del ratto di Persefone con la conseguente "dipartita" della fanciulla divina che scompare nel regno infero, nella narrazione dell'Inno, come nelle in numerevoli versioni mitiche, spesso ancorate a culti locali, relative al le peregrinazioni e alle xenie di Demetra, è proprio costei ad essere la principale protagonista del dramma e comunque colei che ne determina
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la soluzione definitiva, sia pure nelle forme di un inevitabile compro messo. Quest'ultimo, del resto, al di là dei tratti antropomorfici tipici del l'affabulazione mitica, riflette una condizione obiettiva e funzional mente necessaria della sfera di competenza propria
nella prospettiva
politeistica in cui la vicenda si dispiega - della grande dea che presiede ai ritmi agrari. La ciclicità ordinata di questi ritmi è garantita dalla po tenza divina di Demetra che dunque è stabile nella sua funzione, pena lo sconvolgimento radicale di essi, quale si è verificato nell'illo tem pore del mito, allorchè quella potenza è stata coinvolta in una crisi drammatica, espressa nel nascondimento infero della Figlia e nel suo proprio nascondimento, contestuale e parallelo a quello. Ritorno della Kore e ritorno della Madre coincidono. Tuttavia il movimento alterno della presenza-assenza della prima, ormai sanzionato dalla volontà dì Demetra e da un patto divino non più modificabile, fonda e assicura, con la presenza stabile della grande dea, anche la benefica alternanza dei ritmi agrari con tutta una serie di garanzie per l'umanità, interlocutore indispensabile dello stesso mondo divino. La vicenda divina senza dubbio si collega ad uno scenario naturi stico ma non si esaurisce in esso né rappresenta la trascrizione delle sue leggi fisiche; al contrario, è quello scenario ad arricchirsi di una dimensione sacrale in quanto percepito come luogo dì manifestazione dì personalità divine potenti ed efficaci. Ciò è confermato dai molte plici e differenziati contesti cultuali che intendono collegarsi funzio nalmente a quella vicenda, per rendere omaggio alle potenze divine in essa operanti e goderne i benefici favori. L'originalità specifica del contesto misteri co, di cui l'Inno omerico si fa portavoce, si riflette nella peculiare qualità sia della pratica ritua le, che si vuole istituita dalla stessa Demetra, sia delle prospettive che essa apre agli uomini, definendone il destino. Infatti, mentre la prima si connota nella forma del culto iniziatico ed esoterico dei Mysteria, le seconde contemplano una duplice direzione, terrena e infera. La narrazione, dopo aver evocato nelle parole rivolte da Persefone alla madre ancora l'esperienza del ratto, si avvia rapidamente a descri vere la conclusione della vicenda con l'invio di Rhea da parte di Zeus, che sanziona con la sua autorità lo statuto ormai stabile della fanciulla nella sua alterna presenza presso lo sposo e presso la Madre. Il con senso di Demetra a questa soluzione è immediatamente seguito dal ri162
tomo di quella fecondità agraria che la dea aveva sospeso: « ... obbedì Demetra e subito fece sorgere le messi dai campi ricchi di zolle. Tutta l'ampia terra di foglie e di fiori era onusta» (vv. 470-474). Sì con ferma, ove fosse necessario, la piena consapevolezza da parte del poeta epico e del suo pubblico del legame dialettico fra il piano del dramma divino, felicemente risolto, e quello cosmico dell'attività agraria che impegna in sinergia armonica gli uomini e «Demetra dalla bella co rona». Ma la narrazione procede introducendo l'elemento specificamente sacrale dell'istituzione del culto misterico: la dea non ha dimenticato la promessa fatta al popolo di Eleusi quando, in lutto, ha chiesto l'ere zione di un tempio in suo onore. Ella rimane ancora sulla terra degli uomini per insegnare loro, nella persona degli autorevoli «re che ren dono giustizia - a Trittolemo, a Diocle agitatore di cavalli, al forte Eumolpo, a Céleo signore di eserciti - la norma del sacro rito; e rivelò i misteri solenni, venerandi, che in nessun modo è lecìto profanare, in dagare, o palesare, poiché la profonda reverenza per le dee frena la vo ce» (vv. 473-479). Definita la struttura esoterica del culto misterico, attingibile sol tanto da chi sia stato preparato adeguatamente ad esso e che rimane le gato all'obbligo del silenzio nei confronti di quanti non vi abbiano par tecipato, il poeta omerico continua dischiudendo, con un entusiastico macarismo, le buone prospettive che si aprono, per la vita presente e quella futura, a tutti coloro che celebrano «bei riti» di Demetra e Perse fone ad Eleusi: «Felice tra gli uomini che vivono sulla terra colui che ha veduto queste cose. Ma colui che non ha compiuto i riti, colui che non ne ha avuto parte, mai avrà un simile destino, quando se ne andrà laggiù nella squallida tenebra» (vv. 480-482)'" . E' così annunziata quella che fonti posteriori definiranno la "buona speranza" degli iniziati, caratterizzandola talora come una· pienezza di vita negli Inferi, in un contesto di luminosità, in contrasto con la so 19 pravvivenza umbratile nelle tenebre che attende l'uomo comune • Que sta prospettiva ultraterrena positiva, che ha rappresentato nei secoli uno dei fattori di attrazione del culto misterico, si compone con quella terrena, legata alla dimensione agraria e più ampiamente espressa in un'abbondanza di beni quale è rappresentata nella figura di Ploutos che, si afferma, le due dee inviano come nume tutelare presso la dimora di coloro che godono della loro benevolenza (vv. 485-489).
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Il destino umano risulta dunque favorevolmente determinato dal suo ancorarsi ritualmente alla coppia divina di Demetra e Kore, in quanto divinità che hanno sperimentato un pathos consistente nel movimento di assenzallatenza e di ritorno/epifania. Questo movimento, che nel tempo del mito ha avuto un carattere drammatico, nell'attualità per un verso definisce lo statuto ormai stabile e definitivo del secondo mem bro della coppia, che assolve armonicamente il duplice ruolo di sovra na degli inferi e di figlìa di Demetra. Per l'altro verso esso è rievocato dall'attività cultuale che, nel renderlo presente, ne esorcizza la carica di rischio e permette di controllarlo all'interno dell'istituzione rituale. Come è ben noto, il carattere esoterico dei Mysteria eleusini impe disce di conoscerne Io svolgimento, per la parte soggetta appunto al segreto iniziatico, che solo rare e problematiche fonti tarde di parte cri stiana hanno cercato di squarciare in parte. Tuttavia, da queste ultime e dalle numerose e allusive evocazioni dello scenario misterico da parte degli autori pagani risulta con sufficiente certezza che all'interno del santuario eleusino, durante la "sacra notte" del 21 Boedromione in cui culminava l'intero arco festivo, era rievocato l'evento divino del ratto e della ricerca della Kore divina. Le modalità di tale rievocazione riman gono ignote e, come da più parti si è giustamente notato, la struttura architettorica del Telesterion, la sala del santuario destinata ai riti se greti, non avrebbe permesso una "sacra rappresentazione" visibile
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luminosarum filiae inventionum remeacula, et cetera quae silentio te 21 git Eleusinis atticae sacrarium • Elemento centrale del mito e a tutti nota, la vicenda del ratto e del ritrovamento di Persefone costituiva pa rimenti il cuore dell'esperienza misterica e, ritualmente evocata, offriva fondamento alle "buone speranze" degli iniziati. Per valutare pienamente il significato religioso di questa nozione nel più ampio contesto dell'esperienza storica greca è necessario verifi care se il tema analizzato sia esclusivamente legato al culto misterico eleusino, nel senso che esso è stato "inventato" in rapporto e in conse guenza all'istituzione di quest'ultimo22, ovvero rifletta una concezione panellenica tale da connotare l'identità di Demetra e di Persefone in
quanto coppia Madre-Figlia, connessa con la sfera della fecondità cto
nia, in alcuni casi addirittura concentrandosi sulla figura di Demetra medesima. Di fatto, una sezione della tradizione mitica, non molto ampia ma di rilevante significato storico-religioso, conosce anche il tema di una katabasis infera di Demetra alla ricerca della Figlia.
E' difficile definire le valenze del motivo senza un'adeguata analisi
delle fonti relative, non proponibile in questa sede. Comunque a pre
scindere dalle motivazioni e dai risultati dell'evento quali sono presen tati dai nostri testimoni, spesso tardi e poco espressivi, ne risulta ac
centuata con forza la centralità della latenza demetriaca come nota do minante della visione religiosa in questione, e si pone il problema sto
rico dell'antichità e autenticità mitica del motivo medesimo. Ci si può chiedere infatti se esso non esprima, in conformità con i miti arcadi di
Demetra Erinys e Melaina, uno strato arcaico della vicenda, in cui
era
la stessa dea, invece della Kore, a essere la protagonista della discesa nel mondo sotterraneo. In questo caso, più qualificata e stringente ri
sulterebbe la comparazione tipologica e l'eventuale connessione storica
con un complesso mitico-cultuale come quello sumero-accadico di
Inanna-Ishtar, protagonista appunto di una "discesa agli Inferi", seguita dal ritorno ma a prezzo della consegna di un "sostituto", Dumuzi
Tammuz, che, oggetto di annuali lamentazioni funebri, sembra deter
minato ad un destino di alterna presenza nel mondo dei morti23•
Pur riconoscendo le difficoltà non interamente risolte nell'esegesi del vasto patrimonio documentario, letterario, monumentale e icono
grafico pertinente alla sfera demetriaca, ci sembra legittimo concludere che il tema del ritorno, nella dialettica organica del ritrovamento di
Persefone e del ristabilimento di una presenza efficace di Demetra nel
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quadro cosmico e umano, lungi dall'essere un' "invenzione" recente in funzione dei Mysteria di Eleusi, costituisce un elemento centrale e anzi
lo stesso nodo vitale dell'intera struttura mitico-rituale. La cessazione della crisi, costituita dal lutto della Madre e dal suo peregrinare sulla
terra alla ricerca della Figlia, è espressa solitamente nel motivo del do no largito agli ospiti umani, in ricompensa della notizia relativa ap
punto alla sorte della fanciulla rapita e alla sua catabasi infera, spesso
localizzata proprio nel territorio in cui l'episodio mitico è ambientato. Sebbene le fonti, di natura scoliastica o mitografica, ovvero - come nel caso della Periegesis di Pausania - interessate a registrare tradizioni mi tico-cultuali locali, non siano sempre esplicite nell'enunciare il motivo del ritrovamento di Persefone, il tema della ricompensa costituita di
solito dal dono del cereale )l ovvero di altri vegetali rende evidente il ca rattere positivo e produttivo della notizia ricevuta, che si configura come necessario e utile precedente per il ritrovamento della divina fan ciulla. Ma soprattutto la presenza di rituali di "richiamo" funzional mente connessi con la vicenda mitica nell'uno o nell'altro centro di culto demetriaco, permette di riconoscere con buona probabilità che il
vasto scenario panellenico, pur in
varia misura influenzato dalla
"vulgata" eleusina, fosse partecipe di un'antica e comune struttura reli giosa che aggregava alla figura di una grande dea legata al livello cto
nio e specificamente alla fecondità vegetale l'esperienza dell'assenza e della presenza, verificatasi nel tempo mitico e rievocata nel rito. Tra i numerosi esempi di tale situazione, basterà ora addurre i casi
delle città di Me gara e di Feneo in Arcadia, ricordate da Pausania come
"stazioni" del doloroso peregrinare di Demetra sulla terra alla ricerca della figlia scomparsa25• Nella prima città, importante centro di culto
demetriaco, dalla quale deriverebbe il nome attribuito agli stessi luoghi
di culto della dea detti megara
:r..
il Periegeta ricorda un singolare ri
tuale che si collega chiaramente con la festività esoterica femminile dei
Tesmophoria. Questa circostanza rafforza le nostre conclusioni, una
volta che il culto delle Tesmoforie, praticato dalle donne cittadine e le galmente sposate in forme diverse secondo i luoghi ma sostanzial mente riconducibili a un quadro omogeneo, è un culto panellenico, tra i più antichi e documentati in tutto l'ampio arco geografico e storico della grecità, nella madrepadria e nelle colonie microasiatiche, magno greche e siceliote. Il collegamento di tale complesso rituale con il mi
to del vagabondaggio di Demetra sulla terra alla ricerca di Persefone 166
scomparsa e soprattutto con il motivo del "richiamo" della figlia, pre messa del ritorno, conferma infatti le valenze antiche e panelleniche del tema in esame. Pausania di fatto dichiara: «Vicino al Pritaneo c'è una rupe: la chiamano Anaklethris perchè Demetra, se il racconto è credibile, quan do vagava in cerca della figlia, ne invocò il nome anche qui, affinchè tornasse. Ancor oggi le donne di Megara fanno una rappresentazione conforme a questo racconto» (I 43, 2). Un altro singolare rituale di "richiamo" in un contesto cultuale demetriaco è quello attestato ancora da Pausania nella località arcade di Pheneos, in cui intervengono elementi di carattere arcaico come l'as sunzione di una "persona" divina da parte del sacerdote attraverso l'uso della maschera e la battitura del suolo mediante delle verghe, finalizzata certo all'evocazione delle potenze ctonie. Sebbene non si menzioni esplicitamente il personaggio di Persefone come oggetto dell'evoca zione, il confronto con alcune scene raffigurate sui vasi attici, analiz
zate con perizia da C. Bérard17, nelle quali una figura divina, talora la stessa Persefone, emerge dal suolo percosso dai "satiri martellatori", permette di concludere con buona verisimiglianza che un rituale siffat to fosse funzionalmente connesso ad un "passaggio ctonio" di una di vinità emergente dal regno infero. Nel caso di Feneo, la circostanza che l'operatore del rito che si cele bra presso «il cosiddetto Petroma: due grandi pietre che si appoggiano l'una all'altra», assuma la maschera di Demetra Kidaris nel corso della festa misterica, nell'atto di colpire «con le verghe quelli del sottoterra», rende probabile che tale rito fosse inteso come un richiamo rivolto a favorire il ritorno della Figlia. In ogni modo il luogo si configura co me sede di una delle tante tappe del vagabondaggio di Demetra e delle
relative xenie da parte di ospiti umani. Pausania infatti riferisce che «vi è un racconto (logos) dei Feneati secondo cui prima di Naon giun se qui presso di loro Demetra nel suo vagabondare, e a quanti la rice vettero in casa e con doni la dea distribuì tutti i legumi, ad eccezione delle fave»28• Un ulteriore, importante elemento è fornito dal mitografo Conone, la cui opera perduta, costituita da cinquanta Narrazioni, sopravvive sol tanto nell'ampio resoconto del patriaca Fozio. Vi leggiamo dunque che «il quindicesimo racconto parla delle genti di Feneo, di Demetra e di Kore, che Plutone rapì e condusse via all'insaputa della madre nel suo
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regno sotterraneo. Le genti di Feneo indicarono a Demetra il luogo at traverso il quale si discendeva agli Inferi (c'era infatti una voragine a Cillene). Fra gli altri favori ella concesse loro quello per cui mai il l9 numero dei Feneati caduti in guerra avrebbe superato il centinaio» . Questa fonte localizza infatti nel territorio di Feneo l'evento stesso del la katabasis infera di Kore e conosce il motivo della notizia dell'evento fornita alla madre dagli abitanti del luogo. Il dono offerto dalla dea in ricompensa dell' informazione, in pari tempo, implica l 'utilità di que st'ultima ai fini della ricomposizione della crisi. Il motivo di una personalità divina segnata nel profondo dal modu larsi della sua attività e della sua funzione, nel mito e nel culto, nel l'alternanza di presenza-assenza con decisivi riflessi sulla vita cosmica e umana interviene in due contesti arcadi, ossia pertinenti ad una re gione greca che risulta a vario titolo caratterizzata da una notevole ar caicità culturale. Tale personalità divina reca nella nostra fonte, Pausa nia, il nome di Demetra ma risulta connotata da tratti singolari, quanto alle sue prerogative, alle vicende mitiche e al culto di cui è protagoni sta, sì da suscitare difficili problemi nella definizione della sua consi stenza storica e dei suoi rapporti con la panellenica signora della coltu ra cerealicola. Si tratta delle località di Telpusa e di Figalia, tra cui intercorre una complessa trama di rapporti mitico-rituali che parimenti le collegano, soprattutto la prima, anche al centro di Licosura sede di un grandioso santuario di una grande dea dal nome segreto, la Despoina, oggetto di un culto misterico di cui è difficile stabilire i contenuti e le modalità e soprattutto l'antichità della sua fondazione. Nell'area di Telpusa, presso il fiume Ladon, si levava uno hieron di Demetra Erinys, il cui appella tivo, a dire di Pausania, era interpretato dalla tradizione locale in rap porto ad una vicenda mitica di violenza subita dalla dea. Con riferi mento certo avventizio al mito panellenico del ratto di Persefone, si presenta la dea vagante alla ricerca della figlia che, giunta nella regio ne, è seguita da Poseidone desideroso di unirsi a lei. Demetra si tra sforma allora in una cavalla, mescolandosi alle mandrie di animali pa scolanti nel luogo, ma è ugualmente
raggiunta dal dio, anch'egli in
forma equina. Adirata per l'unione indesiderata, da cui sarebbe derivata la denominazione di Erinys, perchè - nota Pausania - «"nutrirsi di col lera" è detto erinyein dagli Arcadi», la dea successivamente si placa e si
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immerge nelle acque del fiume Ladon. Dalla cessazione dello stato d'ira le deriva poi l'appellativo di Lysia. Il Periegeta descrive le due immagini sacre, di legno e marmo, cu stodite nel naos, le quali raffiguravanò la dea nelle successive manife stazioni: la prima, con cista e fiaccola, avrebbe rappresentato Demetra Erinys. L'unione dei due dei aveva dato luogo a una figlia, dal nome
sconosciuto ai non iniziati, ossia evidentemente la Despoina venerata nei misteri di Licosura, e il cavallo Arion:D. Senza poter entrare ora nel merito della complessa questione del l'identità della Erinys di Telpusa e dei suoi rapporti con il personaggio omonimo venerato a Tilfossa in Beozia, basti notare il dato essenziale ai nostri fini della contestuale presenza nel personaggio delle due com ponenti dell'ira e della pacatezza, in rapporto ad un'esperienza di fuga, violenza e ritorno alla normalità.
Non è possibile misurare l'antichità e la maggiore o minore auten ticità della saldatura del personaggio e della sua vicenda allo schema demetriaco, quale si presentava già consolidata al tempo di Pausania. La consistenza mitico-cultuale della Demeter Erinys arcade, comunque, permette di constatare la pertinenza allo scenario greco di una o più fi gure di divinità femminili in varia misura omologhe alla Demetra eleusina sotto il profilo del coinvolgimento in avventure del tipo in esame. Ancora più significativo in questa direzione è lo scenario delineato da Pausania a proposito del centro di Figalia3' che in una caverna sul
monte Elaion aveva un'antica e singolare sede cultuale dedicata a De metra Melaina. Il Periegeta nota che anche alla dea Nera si riferisce il mito noto a Telpusa relativo all'unione teriomorfa con Poseidone, con la differenza che secondo gli abitanti di Figalia da essa non sarebbe na to il cavallo Arione ma la sola Despoina. Ciò che costituisce la sin golarità del complesso mitico-cultuale di Figalia e la pregnanza del suo significato religioso emerge dalla successiva narrazione del Periegeta relativa agli eventi legati a quell'unione e alla storia della sacra sede quali erano custoditi dalla memoria degli abitanti del luogo. Si raccon
ta infatti che «per rancore contro Poseidone e a causa del dolore procu rato dal ratto di Persefone, (la dea) indossò una veste nera, si recò in quella caverna e vi rimase nascosta a lungo». Al di là dell'evidente commistione dei due motivi, quello locale del la mixis in forma equina con Poseidone e quello panellenico del ra169
pimento della Figlia, la Demetra Nera di Figalia risulta implicata in un dramma di penthos e ira, con relativo nascondimento. La specificità del contesto arcade è data dalla dimensione di selvatichezza del quadro, espressa nel ricovero montano della dea e presto ulteriormente precisata dai successivi particolari del racconto e soprattutto dalle modalità del culto ancora praticato al tempo di Pausania. Alla latenza della dea in lutto segue una rovinosa carestia: «tutto ciò che la terra nutre deperiva, e la fame infliggeva alla stirpe umana perdite ancora più gravi». Tutti gli dei ignoravano il luogo in cui Demetra era nascosta. Solo il selva tico Pan, vagando a caccia per le montagne scopre il suo rifugio e lo comunica a Zeus che invia presso la dea le Moire. «Persuasa da costo ro Demetra lasciò cadere la collera e si liberò anche dal suo dolore». Senza alcuna controparte, dunque, l'ira e la sofferenza vengono meno e la dea placata "ritorna", ristabilendo gli equilibri naturali. A fronte della complessità del mito eleusino, anche in rapporto alla natura letterariamente assai elaborata del documento che
ce
l'ha conse
gnato, la tradizione di Figalia nella sua scarna semplicità mantiene tut tavia intera l'intensità espressiva di un autentico quadro religioso e ri sulta nelle sue linee portanti strutturalmente omologa alla più artico lata e "colta" tradizione eleusina. Anche qui, inoltre, è presente la di mensione cultuale indispensabile all' integrità di quel quadro: la ricono scenza degli uomini per la cessazione del lutto, riflessa nel ripristino della presenza divina, si manifesta nella dedica della caverna, luogo del nascondimento della dea, quale sede di culto, ossia spazio sacro della sua benefica epifania. Non si mancherà di notare il parallelismo della situazione rispetto a quella del naos eleusino, quale è delineata nel l'Inno omerico. La distanza rispetto al modello demetriaco si rivela tuttavia netta in relazione all'aspetto teriomorifico della dea di Figalia e alle speciali modalità del suo culto. Il Periegeta descrive la statua di legno dedicata alla Melaìna ma non più esistente al suo tempo, essendo stata distrutta da un incendio: essa raffigurava una donna seduta su una roccia, recante tuttavia una testa equina sormontata da serpenti e altre bestie selvati che. Rivestita da una tunica, ella recava un delfino in una mano e una colomba nell'altra. Aspetto teriomorfo e attributi animali pertinenti ai tre regni, terrestre, acquatico e aereo, configurano l'immagine di una "signora degli animali", una personalità dall'ampia dimensione co-
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smica, connessa alla fertilità ctonia ma in tennini diversi rispetto alla cerealicola Demetra panellenica. Con quest'ultima peraltro la dea Nera di Figalia continua a mante
nere legami di affinità che sembrano essere stati rafforzati nel corso
della sua storia. Ancora Pausania narra di un periodo di decadimento del culto, conseguente alla distruzione dell'antico idolo !igneo. In puni zione della trascuratezza degli uomini la dea manifesta per la seconda
volta la sua ira, ritraendosi dalle proprie funzioni e provocando la steri
lità del suolo. L'oracolo delfico cui il popolo si rivolge Io sollecita a
ripristinare i dovuti omaggi cultuali alla dea, evocata con il nome dì
Deo e configurata secondo il modello panellenico di istitutrice della vi ta culta attraverso la dispensazione del grano che ha pennesso al
l'umanità l'abbandono di una condizione di vita ferina. Gli abitanti dì
Figalia rischiano dunque di ricadere nella ferinità, con la pratica dell'an tropofagia, se non placheranno l'ira divina con le opportune offerte sa criticali adornando «l'antro con i dovuti onori divini».
Il Periegeta conclude la narrazione illustrando le peculiari modalità del culto, per osservare le qualì anzi dichiara dì essersi recato a Figalia. Nessuna vittima animale è offerta alla dea: soltanto i prodotti degli al beri coltivati, e in particolare l'uva, sono recati nella sacra grotta in sieme con favi di miele e lana allo stata naturale, ancora impregnata del grasso animale, e sono deposti sull'altare per essere cosparsi dì
olio. Una sacerdotessa aiutata da un giovinetto celebra i riti in uno
scenario di tipica selvatichezza montana: un sacro bosco di querce cir
conda la grotta e una sorgente di acqua fredda scaturisce dal suolo (VIII
11-12).
Il complesso mitico-cultuale della Melaina di Figalia, con la sua arcaica fisionomia teriomorfica, confenna l'antichità e l'autenticità reli giosa- nel mondo greco
del tema mitico della latenza divina, varia
mente motivata ma sempre espressa in tennini di corruccio e di lutto,
seguita da una manifestazione/ritorno e funzionalmente connessa ai
ritmi della fecondità naturale, sotto il profilo vegetale, con riflessi de
cisivi sulla vita umana e sull'intero scenario divino e cosmico. Questo tema mitico, come è noto, interviene in numerosi contesti culturali vi
cino-orientali almeno a partire dal n millennio a. C., da quello sume :n ro-accadico di Inanna-IStar a quello ittita di Telepinu33• Non entriamo
in questa problematica, oggetto di specifici contributi nel presente vo
lume. Ricordiamo soltanto il tentativo originale operato da Walter
171
Burkert, sul fondamento delle profonde analogie strutturali percepibili tra il mito arcadico di Demetra Erinys e Melaina da una parte e quei contesti religiosi dall'altra, per tracciare una linea di continuità storica che muove "da Telepinu a Telpusa":u. Lungo tale linea, a parere dello studioso, sarebbe possibile ricostruire anche il processo di formazione della figura di Demetra. Le argomentazioni a base linguistica elaborate dallo studioso per dimostrare il suo assunto non ci sembrano convincenti e comunque rimangono sempre parziali e inadeguate a "spiegare" la complessità e vastità delle trame e dei significati peculiari dei processi storici in que stione. Più legittima riteniamo piuttosto l'istanza comparativa tra il contesto greco da una parte e quelli vicino-orientali dall'altra, per inda gare affinità, eventuali rapporti storici ma anche ineliminabili diffe renze. Riprendendo le conclusioni a cui era pervenuta la nostra prece dente analisi del tema, rafforzate dalle argomentazioni fin qui svolte, ci sembra legittimo riconoscere che la figura di Demetra, sia nella sua dimensione eleusina che nelle numerose e varie "versioni" locali, di cui quelle arcadiche di Telpusa e di Figalia rappresentano per un verso le più differenziate ma per l'altro verso anche quelle più affini struttu ralmente, si definisca nella specifica dimensione di divinità legata ai un ritmo alterno di presenza - assenza- ritorno. In rapporto ai contesti mitico-rituali del Vicino Oriente antico la dea greca mostra specifiche analogie ma anche qualificate differenze soprattutto in relazione alla sua dimensione eleusina, in cui è legata in un rapporto di stretta sim biosi con Persefone. In questa dimensione, di cui partecipano numero se tradizioni affini, infatti è la Figlia ad essere infine
fissata in un
ritmo di alterna presenza-assenza, come sovrana degli Inferi e Kore di Demetra, mentre la Madre risulta ormai stabile nelle sue prerogative di dispensatrice del cereale, secondo ritmi non più modificabili. La sfera eleusina si connota in forme del tutto peculiari per l'istituzione dei Mysteria, "invenzione" originale che rimodella figure divine ed eventi
mitici e, senza snaturarne le antiche fisionomie, le pone in un rapporto di più intima familiarità con l'uomo e il suo destino, proiettando anche oltre la morte i benefici largiti dalla presenza divina durante l'esistenza terrena.
172
N01E
lfnno a Demetra, vv. 302-307, trad. di F. Càssola, Milano 19812, pp. 63, da cui citeremo anche in seguito, segnalando eventuali modifiche. N.J. Richardson, The Homeric Hymn to Demeter, Oxford 1974 e H.P. ley, The Homeric Hymn to Demeter, Translation, Commentary and terpretative Essay, Princeton 1993.
60Cf. Fo
ln
2 Non è forse superfluo notare la singolarità di questa notazione (vv. 2729): si sottolinea la prima "latenza" divina, quella del sommo degli dèi che
pure, con il suo consenso, permette il rapimento della Figlia. Zeus non ode il richiamo d'aiuto della fanciulla perchè ha momentaneamente lasciato la propria sede olimpica per occupare, nel tempio a lui dedicato, uno spazio terreno circoscritto, che in qualche misura limita anche il suo potere di v i n o. 3
L'attributo della fiaccola è uno dei più frequenti e distintivi elementi del
l'iconografia demetriaca: esso accompagna la dea e le varie figure del suo seguito, essendo pertinente in particolare proprio alla Figlia e alla stessa Ecate. Le fiaccole caratterizzano anche la sfera cultuale eleusina, in cui la funzione sacerdotale del daduco è una delle più antiche e importanti, ri flessa sul piano sovrumano nella figura di Iakchos dadoforo. In pari tempo la simbologia evoca il contesto notturno di una larga parte delle cerimonie misteriche. L'insistenza dell'A. omerico su questo attributo lungo tutto il corso della narrazione è una chiara spia del suo interesse a collegare allusi vamente il piano mitico a quello rituale. 4 5
Cf. Il. XV 187-193. Un'analisi
del tema in funzione del confronto
e dello
scontro
fra
"saggezza olimpica e mistica eleusina" nel nostro documento è stata for mulata con acute osservazioni da U. Bianchi, "Saggezza olimpica e mistica eleusina nell'inno omerico a Demetra", SMSR, 28, 1964, pp. 161-193. 6
Non si è infatti mancato di sottolineare, a vario titolo, le "incongruenze"
del comportamento della dea che, divenendo nutrice del bimbo Demoo fonte, sembra "dimenticare" il lutto per la figlia ovvero, dopo aver annun ziato la fondazione del culto misterico (v. 273), solo a conclusione dell'in tera vicenda fornisce le istruzioni relative. In proposito ci sembra icasti camente felice l'osservazione di Parker, secondo cui «Demeter would cease
173
to be Demeter if she had to explain herself to Wilamowitz>> (R. Parker, 'The Hymn to Demeter and the Homeric Hymns", Greece and Rome, 38, 1991, pp. 1-17, p. Il). La "logica" del mito è notoriamente obbediente a sue regole peculiari. 7
Un'indagine su questa tematica in G. Sfameni Gasparro, "Anodos e katho
dos: movimento nello spazio e ritorno al tempo mitico. Sedi sacre e atti
vità rituale nel culti di Demetra a carattere tesmoforico", in D. Pezzoli-01giati - F. Stolz (edd.), Cartografia religiosa. Organizzazione, codificazione e simbologia dello spazio nei sistemi religiosi, Bern et al. 2000, pp. 83106. 8 La scena trova un riscontro iconografico in due famosi monumenti figu rati, il Sarcofago di Torrenova e l'Urna Lovatelli, che ne mostrano il ri flesso sul piano cultuale. Cf. U. Bianchi, The Greek Mysteries, Leiden 1976, pp. 27-29, nn. 47-48 e 50. 9
Se per un verso questo evento richiama lo scambio di ingiurie e motteggi che avveniva nel corso della processione sacra da Atene ad Eleusi presso i l ponte del Cefiso e più ampiamente l'uso della aischrologia in numerosi cul ti demetriaci (soprattutto nelle Tesmoforie), parallele versioni mitiche configurano l'episodio in senso chiaramente scurrile, introducendo il per sonaggio di Baubo che compie un gesto osceno. 10
Bianchi, "Saggezza olimpica e mistica eleusina".
11
Usiamo questo termine nella sua accezione propria e culturalmente de terminata dall'essere aggettivo (mystikòs) pertinente appunto ai mysteria, e quindi atto a qualificare l'intera gamma delle nozioni e delle azioni cul tuali attinenti a questa sfera. In particolare, esso può essere utilizzato per caratterizzare la qualità del rapporto, di familiarità e di sympatheia, che s i instaura tra l'uomo e l a divinità protagonista della vicenda e del culto mi sterici.
12 Le indicazioni relative alla localizzazione del naos sono troppo detta gliate per non tradire la precisa volontà dell'Autore dell'Inno di fornire le coordinate topografiche del santuario eleusino quale doveva essergli fami liare. Sulla peculiarità degli impianti sacri demetriaci, solitamente disposti su alture o pendii collinari, nei pressi dell'elemento acquatico (fiumi, sor genti, pozzi o spiagge marine), si veda S. Guettel Cole, "Demeter in the Ancient Greek City and Its Countryside", in S.E. Alcock - R. Osborne (edd.), Placing the Gods. Sanctuaries and Sacred Space in Ancient Greece,
174
Oxford 1994, 19962, pp. 199- 216 e Sfameni Gasparro, "Anodos e katho dos". 13
<<E certo ella avrebbe distrutto interamente la stirpe degli uomini mortali
con la fame inesorabile, e lo splendido privilegio delle offerte e dei sacri
fici avrebbe sottratto a coloro che abitano le dimore dell'Olimpo... >> (vv. 310-312). 14
La prospettiva è ribadita nelle parole rivolte da Hermes ad Hades: <<0 Ade
dalle cupe chiome, che regni sui morti, Zeus, il padre, mi ordina di condurre fuori dall'Erebo, fra gli dei, l'augusta Persefone, affinché la madre riveden dola con i suoi occhi ponga fine al rancore e all'ira inesorabile contro g l i immortali; poiché medita u n grave progetto:
sterminare l a debole stirpe
degli uomini nati sulla terra tenendo il seme celato sotto la zolla, e distrug gendo le offerte che spettano agli immortali>> (vv. 347-354). 15
Il motivo è intenzionalmente sottolineato nel contesto in esame e i n
tutto i l corso della narrazione ira e corruccio sono i sentimenti ispiratori dell'azione di Demetra. 16
Tale qualità è sanzionata dalle parole di Hades: <
sposo indegno al cospetto degli immortali, io che sono il fratello del padre Zeus; e quando sarai quaggiù, regnerai su tutti gli esseri che vivono e s i muovono e avrai fra gli immortali gli onori più grandi; per sempre v i sarà un castigo per coloro che ti offendono, quelli che non placheranno con of ferte il tuo animo celebrando i sacri riti e offrendoti i doni dovuti>> (v v. 363-369). 17
Alla logica di uno stretto collegamento fra contesti mitico-cultuali de
metriaci e calendario agricolo attico obbedisce l'indagine di A. Chandor Brumfield, The Attic Festivals of Demeter and Their Relation to the Agri cultura[ Year, Salam, New Hampshire 1981, pervenendo a un riduzionismo naturistico dell'intera prospettiva religiosa. 18
Abbiamo proposto una traduzione di questi versi pregnanti diversa da
quella fin qui seguita del Càssola, per sottolineare la specificità dell'espe rienza eleusina, fondata sulla "visione" degli hierà, come risulta dall'intera documentazione e come l'autore dell'Inno mostra efficacemente quando de finisce la posizione del fedele come colui che «ha veduto>> i sacri riti. 19
Cf. U. Bianchi, "O �IMnA� AHJN " , in Ex orbe religionum.
Studia
Geo Widengren oblata, Leiden 1972, vol. l, pp. 277-286; G. Sfameni Ga sparro, Misteri e culti mistici di Demetra, Roma 1986, pp. 123-134.
175
20 Aristotile, in Sinesio, Dione, 48 (PG 66, coli. 1133 D- 1 136 A= N. Tur chi, Fontes historiae mysteriorum aevi hellenistici, Roma 1930, no 87): «coloro che vengono iniziati non devono apprendere qualche cosa ma pro vare delle emozioni, evidentemente dopo essere divenuti atti a riceverle». Infatti, si conclude, << .. . nelle feste eleusine ... l'iniziato riceveva delle im pressioni dagli spettacoli e non un insegnamento». 21
Apuleio, Met. 6, 2. Un'evocazione rituale della ricerca e del ritrova mento di Kore nella sfera misterica è presupposta nella notizia di Clemente Alessandrino che dichiara: «Deo e Kore sono divenute una mistica rappre sentazione e per loro Eleusi celebra con fiaccole il vagare, il ratto e il do lore» (Turchi, Fontes historiae, n° 122). In tal senso è espressivo anche un passo di Lattanzio (Div. Inst. Epit. 18 =Turchi, Fontes historiae, n° 124): his (se. ai riti di Iside) etiam Cereris simile mysterium est, in quo facibus accensis per noctem Proserpina inquiritur et ea inventa ritus omnis gratula tione et taedarum iactatione finitur. 22
In tal senso ha concluso, dopo una disamina delle tradizioni mitiche, A. Brelich, "Nascita di miti (Due studi mitologici). 2. Il mito di fondazione dei misteri eleusini e miti affini", Religioni e Civiltà, 2, 1976, pp. 47-80. 23
Cf. in questo stesso volume il contributo sul personaggio di P. Pisi.
24
Come è noto, in un ampio filone mitico, distinto da quello eleusino, s i afferma la nozione d i un inizio della pratica agricola solo dopo il ritorno di Persefone, con la consegna del cereale e delle tecniche di coltivazione a Trittolemo, che le diffonde in tutta l'oikoumene. 25 Ad Ermione, che Strabone conosce come luogo in cui <<Si trova il cam mino più corto per discendere nell'Ade» (Geogr. VIII 6, 12) sicché <
176
26
Pausania I 39,3.
27
C. Bérard,Anodoi. Essai sur l'imagerie des passages chthoniens, Roma
1974,pp. 75-87 e,per le scene di anodos riferibili a Kore, pp. 91-102. 28
A proposito di tale divieto Pausania aggiunge che esisteva uno hieròs
logos atto a spiegare le ragioni per cui le fave sono ritenute massimamente impure (VIII 14, 15, 1-4). 29
Fozio,Biblioth. Codex 186,15 ed. R. Henry,Paris 1962,T. III,p. 14s.
30
Pausania VIII 25,4-7.
31
Pausania VIII 42, 1-7.
32
Cf. S.N. Kramer in J. B. Pritchard,Ancient Near Eastern Texts Relating
to the Old Testament, Illrd Edition with Suppl., Princeton 1969, pp. 5257. 33
Cf. A . Goetze i n Pritchard,Ancient Near Eastern Texts, pp. 126-128. Su
questo personaggio, cf. il contributo di A.M. Polvani in questo volume. 34
W. Burkert,Structure and History in Greek Mythology and Ritual, Ber
keley 1979, trad. it. Bari 1987, pp. 197-225.
Bibliografia
selettiva
C. Bérard,Anodoi. Essai sur l'imagerie des passages chthoniens, Roma 1974.
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"
gren oblata, Leiden 1972, vol. l, pp. 277-286. Id., The Greek Mysteries, Leiden 1976.
177
A. Brelich, "Nascita di miti (Due studi mitologici). 2. Il mito di fonda zione dei misteri eleusini e miti affini", Religioni e Civiltà, 2, 1976, p p . 47-80. A. Chandor Brumfield, The
Attic Festivals of Demeter and their Rela
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1979, trad. it. Bari 1987. Id., Ancient Mystery Cults, Cambridge Mass.-London 1987, trad. i t . Roma-Bari 1989. M.B. Cavanaugh, Eleusis and Athen: Documents in Finance, Religion and Politics in the Second Half of the Fifty Century, B. C., Ann Arbor 1980. K. Clinton, Myth and Cult. The lconography of the Eleusinian Myste ries, Stockho1m 1992. Id., "The Sanctuary of Demeter and Kore at Eleusis", in N. Marinatos R. Hagg (edd.), Greek Sanctuaries. New Approaches, London-New York 1993, pp. 110-124. B.C. Dietrich, Death, Fate and the Gods. The Development of a Reli
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178
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179
MORTE DI DIONISO e nuova armonia delle sue membra
MARIA ROCCHI
«Qui giace morto Dioniso, nato da Semele». Un autore di età bi
zantina riferisce che a Delfi si leggeva questo epitaffio presso la statua aurea di Apollo, nella parte più interna del suo tempio alla quale pochi avevano accesso1• La tomba si trovava nel luogo presso il quale i Gre ci individuavano il centro della terra; anzi coincideva addirittura con l'ombelico
(omphalos) della Grecia, se fosse possibile dare credito a
quanto dice Taziano2•
Anche a Tebe, oltre che a Delfi, un sepolcro raccoglieva il corpo di
Dioniso fatto a pezzi in quella città3• Altra "tomba" era la palude di
Lerna nella quale Perseo, vincendolo, lo aveva fatto precipitare•.
I dati relativi alla sepoltura di Dioniso rinviano a luoghi e tradi
zioni diverse e provengono da testimonianze di autori ai quali gli stu diosi moderni riconoscono diversa attendibilità. Una parte dei riferi menti si trova in opere di autori cristiani che rispondono a precise fina
lità: istigare gli imperatori cristani all'intolleranza verso i pagani o
convertire questi al Cristianesimo. Avviene pertanto che la notizia del la presenza della tomba sia, con altre, inserita in un elenco al fine di scandalizzare per fare polemica o, al contrario, rinvii
ad insostenibili
analogie richiamando l'attenzione su un Dioniso morto, risorto e asce so al cielo. Alcune testimonianze, le più numerose, risultano ispirate all'uti lizzo del mito da parte degli
Orfid. Il morto è un dio dei Greci che già
nel II millennio ha il suo nome registrato in lingua greca sulle tavolet
te rnicenee6• Le difficoltà che si incontrano nell'osservare l'insieme del materiale tradizionale che lo riguarda sono già espresse da Diodoro Si
culo: «Ma poiché gli antichi mitografi e poeti che hanno scritto su
Dioniso hanno messo per iscritto narrazioni discordi le une rispetto al le altre e molti prodigiosi racconti, è difficile parlare con chiarezza del la nascita di questo dio e delle sue imprese. Alcuni infatti hanno tra
mandato che vi fu un solo Dioniso, altri che ve ne furono tre, e ci so181
no alcuni i quali affermano che non vi è stata assolutamente una sua
nascita in forma umana, ritenendo che Dioniso altro non sia che i l do no del vinO>/ Proseguendo il discorso, Diodoro fa riferimento a Dio niso, che nasce da Zeus e Demetra; da Zeus e Persephone; da Zeus e
Semeles. Quest'ultimo ha una vicenda di nascita ampiamente narrata,
tra gli altri, da Apollodoro9: «Zeus si innamora di Semele e si unisce a lei di nascosto da Era. Ma Semele, tratta in inganno da Era, poiché Zeus le aveva promesso di esaudire tutto quello che avesse chiesto,
domanda al dio di recarsi da lei cosl come era andato a unirsi con Era
Zeus non può rifiutare e giunge alla stanza di Semele sopra il carro, con i tuoni e i fulmini, e scaglia la folgore. Semele morì di terrore; al
lora Zeus sottrasse alle fiamme il figlio di sei mesi che lei aveva abor
tito e lo cucì nella sua coscia. Morta Semele, le altre figlie di Cadmo sparsero la voce che la sorella si era unita ad un uomo mortale e aveva
mentito accusando Zeus, e per questo era stata fulminata. A tempo 00-
bito Zeus scioglie le cuciture, fa nascere Dioniso e lo affida a Hermes.
Hennes lo porta da In o [sorella di Semele] e Atamante e li persuade a crescerlo come se fosse una fanciulla. Ma Era si adirò e li fece impaz
zire ... Zeus sottrasse Dioniso alla collera di Era mutandolo in capretto:
Ermes lo prese e lo portò presso delle ninfe che vivevano a Nisa i n
Asia».
Dioniso non condivide quindi il destino di tanti altri che, essendo
figli di dèi e mortali, nascono eroi e in quanto tali sono inseriti nell'
ampia schiera di mortali vissuti al tempo del mito10• Egli ha una sorte diversa. Esiodo dice che la mortale Semele generò un immortalell.
Dioniso non corre solo il rischio di morire, come ad esempio Ares, ma muore ed è sepolto in una tomba a Delfi e a Tebe e la ventura della morte lo riguarda sia che egli abbia per madre l'eroina Semele sia che sia prole di Zeus e di una dea. Dioniso dunque è un immortale che par tecipa di una tra le prerogative fondamentali degli eroi e degli uomini:
la morte.
Le vicende relative alla sua nascita comportano che nel momento in cui Semele lo genera nel fuoco12, egli sia liberato dalla condizione di mortale ed esca vivo dal rogo di quel fulmine che, stando all' afferma zione di gran parte degli autori antichi, non spaventa, come dice Apol
lodoro, ma incenerisce Semele.
182
Il dio ha un'esistenza nel corso della quale avviene che egli sia ge nerato due o tre volte, il che vuole dire che egli torna a vivere dopo avere superato la fine di una precedente esistenza. La morte è per lui un evento che non incide sull'immortalità. Egli è in grado di condividere temporaneamente le condizioni di un morto, ma anche di superarle in una vicenda che vanifica i dubbi che nel mito riconoscono affliggere la maternità di Semele, e lo qualifica "a dispetto" di tale madre come di vinità in grado di passare dall'uno all'altro mondo. La tradizione più documentata e discussa è quella che riguarda la sepoltura a Delfi del dio, morto in varie circostanze e ad opera di di versi personaggi. C'è una morte che Dioniso, figlio di Semele, affronta Il dopo esse
re stato allevato e cresciuto a Nisa, quando si aggira ancora sulla terra ed è vinto da avversari armati che si oppongono alla sua volontà di es sere sovrano a Tebe e di divulgare i riti in suo onore. L'epitaffio di Delfi «qui giace morto Dioniso, nato da Semele» viene riferito dallo storico bizantino Malala che, a sua volta, dichiara di apprendere le notizie relative alla morte e sepoltura da altri autori, Dinarco, Filocoro e Cefalione13• Nella sua Cronaca Malata presenta
Dioniso come un mortale che merita di essere innalzato al rango di dio a motivo dei suoi meriti per avere scoperto il vino. Dopo essere dive nuto esperto in misteri e capace di operare prodigi e dopo avere rag giunto Persia e India e varie altre regioni con un esercito di armati, il dio si reca a Tebe per ottenere il regno che Cadmo suo nonno aveva ceduto a Penteo. Segue uno scontro nel quale Dioniso ha la peggio, ma Agaue, sua zia e madre di Penteo, convince il figlio a Iiberarlo. Dioniso con il suo esercito uccide in un agguato Penteo e rientra a Te be per regnarvi. Non riesce nell'intento perché gli abitanti della città si rivolgono a Licurgo e questi con un esercito lo espelle dalla Beozia. Dioniso fugge e arriva a Delfi dove muore dopo avere offerto le sue armi nel tempio. Il suo corpo giace in una tomba e questa si trova vi cino al simulacro aureo di Apollo. Nella Cronaca l'epitaffio è inserito in un contesto nel quale acqui sta un valore particolare. Essa offre della persona del dio una storia alla maniera di Evemero: Dioniso che discende da Zeus, ma non è suo fi glio, acquista per i suoi meriti il riconoscimento divino. La morte, che
183
secondo Malala viene ad opera di Licurgo, è da altri attribuita a Per seo14, l'eroe che sconfigge Dioniso presso la palude di Lerna.
La tradizione riferisce di un'altra morte che Dioniso fanciullo subi sce ad opera dei Titani, che fanno a pezzi il suo corpo. Da un fram mento di Callimaco apprendiamo che «anche Dioniso era venerato a Delfi insieme ad Apollo, per questa ragione: i Titani, avendo dilaniato le membra di Dioniso, le affidarono a suo fratello Apollo gettandole in un calderone, e lui le pose presso il tripode, come dice Callimaco»15• La passione che Dioniso soffre ad opera dei Titani trova grande eco tra gli Orfici per i quali è anche modello della morte di Otfeo16• Due
frammenti orfici contenuti in un'opera di Clemente Alessandrino17 rife
riscono che: «Quando Dioniso era ancora bambino, mentre i Cureti eseguivano intorno a lui la danza armata, i Titani, insinuatisi di sop piatto e adescato il bimbo con dei balocchi, lo fecero a pezzi, lui che era ancora piccolino, come dice il poeta della telete, il tracio Orfeo: «la
pigna e il rombo e i balocchi articolati e i bei pomi d'oro provenienti dalle melodiose Esperidi». Ma non sarà inutile farvi conoscere gli inu tili oggetti che fanno da simboli in questa iniziazione: un gioco di aliossi, una palla, una trottola, dei pomi, un rombo, uno specchio, della lana (un vello?). Atena dunque, sottratto il cuore di Dioniso, fu
chiamata Pallade perché tenne tra le mani il cuore. I Titani intanto, che
avevano fatto a pezzi Dioniso, posero un paiuolo su un treppiedi, vi gettarono le membra e poi le bollirono, poi le passarono allo spiedo e le esposero alla fiamma di Efesto. Ma poi Zeus si manifesta [ ...], fol gora i Titani e consegna a suo figlio Apollo le membra di Dioniso perché le seppellisca. Apollo non disobbedisce a Zeus e portato il ca davere smembrato sul Parnaso, là lo seppellisce». Firmico Materno18 offre la seguente interpretazione evemeristica del mito: Dioniso è figlio di un re a Creta e i Cretesi, popolazione servile,
volendo compiacere il proprio tiranno, fanno un dio di colui che non
poteva avere sepoltura. Liber, questo è il nome latino di Dioniso, è il
figlio che luppiter, un re cretese, ha avuto da una madre adultera
(Proserpina). Iuno, moglie di Iuppiter, prepara insidie per uccidere
l'infante. Partendo per un viaggio, il padre affida a guardiani che ritiene sicuri la tutela del figlio dopo avergli consegnato scettro e trono. luno, irritata ancora di più per questo gesto, comincia a corrompere i guar diani, poi colloca le sue guardie del corpo nelle parti più interne del pa lazzo. E' lei stessa ad attirare con sonagli e specchio il fanciullo in 184
modo che abbandoni il palazzo e raggiunga il luogo dell'agguato. Il fanciullo è ucciso e, affinché il delitto rimanga nascosto, la banda delle guardie divide le membra, le cuoce in modi diversi e si nutre di queste, cosa mai avvenuta fino ad allora. Minerva, la sorella della vittima, par tecipa al delitto e conserva il cuore, che è la parte assegnatale, sia per avere una prova del delitto e poterlo denunciare sia per mitigare l'ira paterna. II padre, una volta tornato, si vendica facendo perire i Titani in vario modo e non potendo sopportare il dolore, fa una statua di gesso e colloca nel petto di questa il cuore. Successivamente eleva un tempio e Sileno, il pedagogo di Liber, ne diviene il sacerdote. Stando a quanto racconta lo stesso Firmico Materno, «l Cretesi, per mitigare la crudeltà del tiranno infuriato, decretarono giornate di lutto e istituirono un cul to annuale [accompagnato da consacrazione biennale] in cui ripetono in regolare successione tutto ciò che il fanciullo fece e subì quando fu uc ciso. Essi lacerano con i denti un toro vivo dando luogo in queste commemorazioni annuali a festini atroci nel fitto delle foreste, levando un coro dissonante di lamenti simulano la pazzia di un'anima furente per fare credere che il
delitto fu compiuto non
con la perfidia
dell'inganno ma per demenza. Viene portato in processione lo scrigno in cui la sorella aveva nascosto il cuore; e con la musica dei flauti e il tintinnio dei cembali imitano il rumore dei sonagli con i quali era sta to ingannato il fanciullo» 19• La passione del dio è un evento che, oltre ad essere variamente 00scritto, è anche messo in relazione dagli autori antichi con il tratta mento dell'uva nel processo di viticoltura e vinificazione. Un commento all'opera di Clemente di Alessandrian dà notizia di un mistico canto relativo allo smembramento del dio, cantato durante la vendemmia. Diodoro Siculo riferisce che Dioniso «il dio generato da Zeus e Demetra, fu dilacerato e cotto dai figli della terra, [i Titani], ma che le membra furono nuovamente messe insieme da Demetra e che
egli sarebbe di nuovo rinato giovane: e questi racconti li riportano al
alcune cause naturali. Egli sarebbe detto figlio di Zeus e Demetra per
ché la vite produce il vino spremuto dal grappolo prendendo il nutri mento per la sua crescita dalla terra e dalle piogge; e il fatto di essere
smembrato, giovane, dai figli della terra indicherebbe la raccolta dei frutti da parte dei contadini. La cottura delle membra sarebbe un mito creato per il fatto che i più cuociono il vino e mescolandolo ne ren185
dono la natura piò odorosa e migliore. Il fatto che le membra scem piate dai figli della terra siano state rimesse insieme a ricostruire la precedente natura vorrebbe mostrare che la terra ricostituisce la vite, spogliata e tagliata al sopraggiungere annuale delle stagioni, riportan dola al precedente stato di fioritura che essa ha al momento della pro duzione dei frutti))21• Il significato che la tradizione mitica attribuiva alla morte di Dio niso è da cercare nella varietà dei dati finora proposti e nelle conferme che a questi altre testimonianze offrono. Il tempo in cui si svolge l'azione è quello del mito, è il tempo del le origini quando gli dèi nascevano, trascorrevano l'infanzia e si ag giravano sulla terra. L'esistenza degli dèi è caratterizzata da una crescita che li porta a raggiungere piò o meno rapidamente la condizione di adulti, che coincide per loro con la facoltà di vivere ed esercitare il loro dominio in Olimpo. Di Dioniso, in particolare, si diceva che avesse raggiunto la dimora urania dopo la campagna in armi, condotta in In. dia�. Alcuni dicono Dioniso inseguito fino a Delfi e morto alle falde del Parnaso e collocano questi eventi in una fase della sua vita in cui, non piò bambino, si aggira sulla terra con l'intenzione di affermare la pro pria identità e di ottenere un riconoscimento terrestre sia rivendicando in Tebe la sua ascendenza regale sia mostrando a quanti abitano la terra le sue capacità e i suoi riti. Altri invece dicono che è smembrato quando è un infante. Intorno a lui i Cureti danzano e nel tentativo di evitargli la collera di Era produ cono con le armi che indossano un rumore tale da non fare giungere al le orecchie di questa i vagiti del piccolo. A quell'epoca sono ancora at tivi i Titani, i figli di Urano e Gaia, Cielo e Terra, i fratelli di Krono, gli dèi della generazione precedente contro i quali Zeus deve combattere per imporsi sul trono uranio. Il cosmo è allora ancora in via di forma zione. Interessa notare che il luogo ove è sepolto - oltre a essere annove rato nella tradizione mitica tra quelli privilegiati per le comunicazioni tra la terra e i mondi uranio e infero - è in qualche modo messo anche in relazione con la nascita o con l'infanzia del dio. Una "coincidenza" non casuale se si considera il susseguirsi di morte e nascita che caratte186
rizza la vicenda del dio. E' noto infatti che Tebe- considerata Olimpo
terrestre per avere ospitato tutti gli dèi in occasione delle nozze dei ge
nitori di Semele
è la città dove Dioniso è generato per la prima volta
da sua madre, dove, nato una seconda volta da Zeus, è affidato da Her mes alle cure delle zie, e dove è smembrato e sepolto.
Il centro della terra presso Delfi è particolarmente aperto a collega
menti con il mondo infero ed uranio e la tomba del dio è nel santuario
situato alle falde di quel monte Parnaso. presso il quale la tradizione ambientava momenti di vita �'infantile" comuni a Dioniso e Apollo.
Una cima del Parnaso, infatti, già baccheggiava per Dioniso quando Apollo vi arriva, recato sulle braccia dalla madre21• E Dioniso era pres
so l'oracolo prima che Apollo lo ereditasse in quanto figlio di Latona e successivamente ne prendesse possesso come figlio e profeta di Zeus:l!.
Il mito riconosce in questo modo tra Dioniso e Apollo una rela zione che era tra l'altro fondamento della locale religiosità. Questa ri chiedeva che Dioniso avesse parte degli onori, che gli fossero dedicati
tre mesi invernali nel calendario21 e la decorazione di un timpano nel tempio:!S. D'altronde Apollo che esercitava il suo dominio in quel luo go risultava essersi imposto in qualche modo a chi raveva n prece duto. Diverse sono le azioni di violenza che portano Dioniso alla morte. Non è detto, per esempio, in quale modo Dioniso, dopo avere egli stesso offerto ad Apollo le proprie armi, trovi la morte a Delfi durante un conflitto nel quale i suoi avversari non gli riconoscono l'eredità del regno che egli pretende e lo ostacolano nella diffusione dei riti. E' noto che i Titani agiscono per invidia nei confronti di Dioniso,
figlio di Zeus e Persefone, o per collaborare ad un piano destabilizzante di Era indicata, dai più, come l'istigatrice dello smembramento di Dio
niso11. Il suo movente è la gelosia che, da sposa di Zeus, nutre nei confronti dei figli del marito nati al di fuori del suo matrimonio e che
secondo alcuni esplode nel momento in cui quel figlio si trova nelle condizioni di erede del potere. Nonno dice appunto che Dioniso è uc
ciso dopo che è salito nella dimora paterna e si è impadronito dei ful
mini, le armi del padre, e dice anche che Era istiga Gaia perché scateni prima i Titani contro il figlio di Zeus e Persefone poi i Giganti affin ché portino guerra contro il figlio di Semele28• Il conflitto culmina in un infanticidio:- Dioniso è attirato subdola
mente dai Titani, che si tingono il viso di bianco e ricorrono a giochi 187
puerili per raggirarlo29• Essi fanno a pezzi il suo corpo e si servono an che di un coltellolJ. All'infanticidio segue la cottura delle membra, che secondo alcuni è finalizzata a un banchetto e si trasforma in una pro
vocazione. I Titani mettono in un lebete i pezzi del corpo per bollirli e successivamente li passano sul fuoco per arrostirli. Zeus è allettato dal
buon profumo delle carni in cottura e, non invitato, irrompe durante il pasto, scopre quanto è grave ciò che sta accadendo, punisce col ful
mine, fa precipitare nelle profondità del Tartaro i Titani31 che avevano anche gustato le carni del morto32• Così facendo egli si dimostra supe
riore, riconoscendo "cosa bolle in pentola" ed è effettivamente in grado
di affermare la sua superiorità mediante la punizione.
Successivamente avviene che Zeus stesso, con la collaborazione dei
figli o di altri, assicuri nuova vita al morto grazie anche a certe parti del suo corpo ritenute particolarmente vitali.
Il cuore del figlio di Persefone, che Atena aveva preso durante lo
smembramento, è da Zeus introdotto in un simulacro di gesso33 o of
ferto come pozione a Semele che rimane così incinta del nuovo Dio
mso . •
34
I tendini del dio, che per l'intervento dei vari personaggi sono mes
si in condizione di rinsaldare le ossa ricomposte nel giusto ordine, re stituiscono capacità di movimento e vita al corpo. Dioniso giace a ter
ra ferito mortalmente, gli hanno reciso il tendine che lega la caviglia al malleolo. Zeus lo fa rialzare destandolo da un sonno che, simile alla
morte, sospendeva momentaneamente la sua condizione sovrumana3.'5.
Demetra ricrea l'armonia delle sue membra, lo fa nascere giovane come
la prima volta36; Rhea ricompone il corpo e il dio rivive, per la terza volta: la prima da Semele, la seconda da Zeus, la terza dopo lo smem
bramento ad opera dei Titanf'.
Apollo riceve dai Titani o da suo padre Zeus l'ordine di seppellire
Dioniso. Egli obbedisce e si reca al Parnaso per deporlo alle falde del
monte a Delfi presso il tripode38• La sua azione produce effetti non di
versi da quelli ottenuti dagli altri artefici della nuova armonia delle
membra di Dioniso. Riunendo le parti del corpo che i Titani avevano
smembrato, Apollo lo fa risalire dal mondo inferiore, gli dà nuova vita ed è il vero salvatore di Dioniso, celebrato in un inno come Diony sodotes «colui che dona Dioniso»�.
188
Gli stessi carnefici, dopo avere fatto a pezzi la vittima e averla se polta ricomponendo nell'ordine le membra vedono Dioniso risuscitare vivo ed integro'"' e raggiungere la divina celeste dimora41• La \(icenda per la quale Dioniso raggiunge una nuova vita ha, nel mito, anche altre conseguenze. Atena da allora in poi è chiamata Pal
lade per il fatto che il cuore del dio ha palpitato nelle sue mani. I Ti
tani raggiungono il Tartaro, loro definitiva collocazione nel cosmo. Secondo alcuni solo allora Atlante trova posto in occidente ove ha i l compito d i sostenere l a volta celeste42• L a punizione dei Titani causa la comparsa del genere umano, che ha origine dai vapori fuligginosi emessi dai loro corpi colpiti dalla folgore di Zeus..,. Per gli Orfici ac cettare una tale antropogonia comportava il subirne le conseguenze. Da un lato essi si consideravano gravati dalla colpa dei Titani e per puni zione di Persefone, madre offesa del fanciullo divino, costretti, ad avere più vite44, dall'altro ritenevano che l'iniziazione ai misteri accrescesse in loro la partecipazione alla natura del dio del quale i Titani si erano cibati. Quanto il mito narra è ritenuto fondamento di regole per la celebra uali i partecipanti si imbiancavano il viso come � avevano fatto i Titani e usavano gli strumenti con i quali era stato at
zione di riti durante i
tirato il dio bambino46; le donne, come avveniva nel corso della festa Thesmophoria, si astenevano dal mangiare i frutti del melograno per i l fatto che aveva avuto origine dalle gocce del sangue versato da Dio
niso47. Firmico Materno, come s'è visto, indica in certi riti cretesi che
comportavano lacerazione e consumazione di carni crude (sparagmos e omophagia) della vittima animale l'illustrazione della vicenda di morte di Dioniso. Plutarco propone un confronto tra Osiride e Dioniso: «i miti sui Titani e i riti notturni concordano con gli smembramenti di Osiride e la sua resurrezione e rinascita. Altrettanto si dica riguardo alle sue varie sepolture. Gli Egizi, infatti, mostrano dovunque tombe di Osiride, come è già stato precisato; così parallelamente i Delfi credono che le reliquie di Dioniso siano serbate da loro presso il loro oracolo; e i (sacerdoti denominati) "santi" offrono un sacrificio segreto nel tempio di Apollo, quando le Tiadi svegliano il Liknites»48•
189
Dioniso Liknites, «del liknon» o «che è nel liknon», si fregia di
un epiteto che nella spiegazione offerta da Esichio deriva dai likna nei quali i fanciulli dormono"-'. Liknon è il nome usato per indicare un ce sto, un canestro, una culla, un ventilabro, ovvero uno strumento usato in agricoltura per raccogliere i chicchi di grano, agitarli al vento, sepa rarli dalla pula, è un contenitore di frutti, di oggetti, in cerimonie sa cra! i".
La celebrazione menzionata da Plutarco aveva ricorrenza biennale5',
un intervallo temporale che caratterizzava, come dice Diodoro Siculo, le feste per la comparsa del dio tra gli abitanti della Beozia, tra gli altri Elleni e i Tracl e traeva origine dal tempo trascorso nell'impresa con dotta in India e nel ritorno a Tebe52• Per quanto riguarda la morte, diversamente da Osiride, Dioniso è un fanciullo, è smembrato vivo, le sue membra sono cotte, la sua pre senza nell'Ade è solo un passaggio. Il numero delle tombe e la pre senza di una di queste a Delfi porta Plutarco a fare riferimento al rito delle Tiadi, che si inquadra nella religiosità delfica e nel rapporto che unisce Dioniso ad Apollo in quel luogo, ma non risulta trarre fonda mento dal mito della morte e sepoltura di Dioniso. Vediamo ora alcune tra le principali interpretazioni che antichi e moderni hanno dato della tradizione mitica: Clemente Alessandrino afferma che Dioniso meriterebbe di essere
chiamato Attis per il fatto che nello smembramento
era
stato mutilato
degli organi genitali successivamente trasportati dai Coribanti/Cabiri in una cesta e affidati ai Tirreni come oggetto di venerazione53. La relazione che gli antichi individuavano tra viticoltura, vinifica zione e passione del dio è per i moderni una semplice allegoria o può avere radici nell'esperienza agraria della passione della vite al momento
della vendemmia e trovare un fondamento in antiche credenze, essendo riconducibile a un ruolo da dema mediterraneo attribuito a Dionisoso.
All'inizio del ventesimo secolo la vicenda era interpretata come
morte e resurrezione di un dio della vegetazione che si supponeva tra
scorresse una certa parte di ogni anno sotto terra per riemergere a una certa stagione dal mondo sotterraneo e assicurare la rigenerazione delle piante e la proliferazione degli animali. Per resurrezione si è anche in
tesa la nascita di un neonato considerato rappresentazione antropomorfa dei frutti della terra. Tra le diverse applicazioni del Iiknon si privile-
190
giava quella che lo vedeva come ventilabro impiegato nella sfera agra ria e permetteva di sostenere il rapporto tra morte, mietitura e rinascita primaverile del grano. A sostegno di tale interpretazioni si faceva an che appello alle origini "tracie" del dio, e a una sua invenzione della birra che avrebbe preceduto quella del vino. Per superare la difficoltà del ritmo biennale dei riti in suo onore, che risultava difficilmente conciliabile col ciclo annuale della vegetazione, si è fatto anche riferi mento alla pratica di lasciare riposare i terreni destinati alla cerealicol tura. Da tempo è stato osservato che il valore di un dio dalle ampie pre rogative non è circoscrivibile alla crescita stagionale. Nel risveglio del Liknites si preferisce riconoscere l'epifania di Dioniso che ascende dal regno dei morti; o la manifestazione, in occasione del risveglio della natura, di un dio che nel rito non risulta morire e risorgere periodica mente. Diverso è l'approccio al problema del significato della vicenda mi tica da parte di chi riconosce in particolare nella giovane età del dio e nel comportamento dei Titani elementi significativi, determinanti per cercare argomenti che leghino la vicenda di morte e di nascita a riti di iniziazione. Continua ad essere oggetto di discussione il rapporto e l'eventuale incidenza che la vicenda mitica avrebbe su alcuni comportamenti ri tuali. Una condanna della thysia da parte degli Orfici sarebbe denuncia ta dalla cottura delle carni di Dioniso ad opera dei Titani ovvero m quella bollitura che
precede
l'esposizione diretta sul fuoco e contrasta
con le regole del sacrificio nel quale è prevista la consumazione delle carni della vittima. Firmico Materno propone il mito non come fon damento ma come modello e didascalia di atti rituali in onore di Dioni so, in realtà non facilmente sovrapponibili ai dati tradizionali.
191
N01E
l Malalas, Chr. II p. 45,1-1O Bonn. 2
Tatianus, Contra Graecos 8.
3
Ps. Clemens Romanus, Horn. 5, 2, 3; Recognit. IO, 24.
4
Sch. Townl. Horn Il. 14, 319, cf. M. Piérart, "La mort de Dionysos à Ar
gos", in The Role of Religion in the Early Greek Polis, Proceedings of the Third International Seminar on Ancient Greek Cult, Athens, I6- I 8 October I992, Stockholm 1996, pp. 141-151. 5
Cf. Orphicorum Fragmenta ed. Kern, Berlin 1922; G. Ricciardelli (ed.),
Inni orfici, Milano 2000.
6Th. G. Palaima, "Linear B and the Origins of Hellenic Religion: di-wo-nu so" in The History of Hellenic Language a. Writing From the Second to the First Millennium. Break or Continuity?, Ohlstadt 3-6 Oktober I996, Al tenburg 1998. 7
Diodorus Siculus, 3, 62, 2, trad. A. Corcella in Diodoro Siculo, Biblio
teca Libri I- V, introd. L. Canfora, Palermo 1986. 8
Diodorus Siculus 3, 62, 6-64, 7.
9
Apollodorus, 3, 4, 3 trad. M.G. Ciani, in P. Scarpi (ed.), Apollodoro, I
miti greci (Biblioteca), Milano 1996. 10
A. Brelich, Gli eroi greci, Roma 1958, in particolare sul carattere eroico
di Dioniso, pp. 365-368. 11
Hesiodus, Theog. 940-942.
12
Cf. Euripides, Ba 1-3.
13
Sulla questione delle origini di questa tradizione e sulle fonti letterarie cf.
M. Piérart, "Le tombeau de Dionysos à Delphes", in llotK{Àa, Hommage à O. Scholer, Luxembourg 1996, pp. 137-154. 14
Cf. Dinarchus, FHG IV 391.
15
Callimachus, F. 643 (da Callimaco vol. 2. Aitia Giambi e altri fram
menti, t�ad. G.B. D'Alessio, Milano 1996); Etym. Magnum. s. v. Delphoi (255, 12). 16
Proclus in Plat. Rempubl. l , 175.
192
17
Orph. F. 34; 35 (Ciemens Alexandrinus, Protr. 2, 15P) (trad. M. Di Mar
co in id., "Dioniso e Orfeo nelle Bassaridi di Eschilo", in A. Masaracchia [ed.], Orfeo e l'Orfismo, Roma 1993, p. 135). 18
Orph F. 214 (Firmicus Maternus, De errore profanarum religionum
6, 1-
5). 19
Trad. M. Di Marco, cit. p.l39; salvo il testo tra [ ].
"' 21
Sch. in Clemense Alexandrinus, Protr. 4, 4. Diodorus Siculus, 3, 62, 6-7 (trad. A. Corcella); Cornutus, Theologia
graeca, p. 58 Lang. 22
Nonnos, Dion. 13, 19-24.
23
Euripides, /T 1234-1248; cf. M. Rocchi, '"I Monti grandi' e il Parnas
sos", in in S. Ribichini - M. Rocchi - P. Xella (edd.), La questione delle in
fluenze vicino-orientali sulla religione greca. Stato degli studi e prospetti ve di ricerca (Atti del Congresso di Roma, 19-211511999), in stampa. 14
Hypoth Pi. Pyth.
25
Plutarchus, De E delph. 9 [389 C].
7ti
Pausanias, l O, 19, 4.
v
Orph. F. 21O (Nonnos Abbas in orat. II contra Iulian. 35); F. 220
(Oiympiodor. in Platonis Phaedonem 6lc). 28
Nonnos, Dion. 6, 155-205; 48, 23-3Q.
N
Orph. F. 34.
�
Nonnos, Dion. 6, 169-173.
31
32
Orph. F. 34 (Arnobius, Adv. nationes 5, 19). 0rph. F. 210 (Piutarchus, de esu carnium I 996c); F. 214 (Firmicus Ma
ternus, cit.) F. 220 (Oiympiodor. cit.). 33
Orph. F. 35 (Ciemens Alexandrinus, cit.); F. 214 (Firmicus Maternus,
cit.); F. 216 (Proclus in Platonis Cratylum 406c). J4
Hyginus Fab. 167; h. Procl. VII Minerv.
35
Orph F. 214 (Himerius, Orat. 9,4); cf. per i tendini recisi a Zeus: M. Roe
chi, "I neura di Zeus", SMEA, 21, 1980, pp. 353-375. 36
Diodorus Siculus 3, 62, 6.
'57
Orph. F. 36 (Philodem. De pietate 44).
193
38
Callimachus F. 643; Orph. F. 35 (Clemens Alexandrinus).
YJ
Orph. F. 209; 211 (Oiympiodorus); cf. per il Dionysodotes: Paus. l, 3 1 ,
4. ..,
Orph F. 240 (Macrobius,
in somnium
Scipionis I 12,
11); F. 213
(Mythogr. Vat. III 12,5). 41
Origenes, Contra Celsum, 4,17; Justinus, Dialogus cum Tryphone 294D-
295A. 42
Orph. F. 215 (Simplicius).
43
Orph. F. 220; 224.
44
Pindarus F. 133 [Maehler].
45
Harpocratio, s. v. apomatton; Nonnos Dio n. 6, 169-173, 27, 205; 228;
47, 732-733. 46
Orph. F. 31 (Papiro Gurob).
41
Clemens Alexandrinus, Protr. 2, 16, P.
48
Plutarchus, de lside 35 [364F-365B]; V. Cilento (ed.), Plutarco, Diatriba
/siaca e Dialoghi Delfici, Firenze 1962; cf. Orph. H. 46, 1;52, 3. 49
Hesychius, s. v. liknites, cf. Sophocles, l chn. 275 [Radt].
"'
h. Horn. ad Mercurium 150; Callimachus. H 1,47; Scholium ad loc; AP
6,165; Suidas, Photius; Harpocratio, s . v. to liknon. "
Pausanias, 10, 4,3
.
52
Diodorus Siculus, 3, 65, 7-8; 4, 3, 1-3.
53
Clemens Alexandrinus, Protr. 2, 16 P.
54
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197
POSTF AZIONE Why a god must die
ILEANA CHlRASSl COLOMBO
La stimolante raccolta di saggi qui presentata, tutti affidati a specia listi di settore, vuole meritoriamente mettere una serie di punti fermi nella pletora di informazioni, analisi, interpretazioni ruotanti intorno all'apparente paradosso di una mortalità divina, un'esperienza di morte, presente nelle biografie mitiche ma anche nelle prassi rituali di vari es seri extra-umani dei politeismi precristiani, del Mediterraneo greco-ro mano, delle antiche culture del Vicino Oriente e deii''"Egitto:)L'inte resse di fondo, come è facile intuire, sta nel rapportarsi implicito
crl
esplicito di questi complessi mitico-cultuali al mistero. della ·morte e
resurrezione del Figlio di Dio assolutamente centrale per l'euaggelion cristiano. Le pagine di premessa mi esimono dal tracciare un profilo lineare della storia degli studi e delle problematiche connesse, )asciandomi così libera per una serie di postille di arricchimento. Il titolo - per così dire - scelto per questa
Postfazione non è un
omaggio alla richiesta di una simultanea in inglese, ma è quello effet tivamente scelto per una mia
lecture di una decina di anni fa tenuta
presso il "Department of Near Eastern Studies" dell'Università di Ber keley. Completo, il titolo precisava: "The so-called death of the super natural Being in Near Eastern and Mediterranean polytheistic pan theons". L'argomento, sia pure strizzato nelle dimensioni di un incon tro seminariale, ricalcava apparentemente le tematiche del nostro vo lume. In realtà, l'interesse in quel momento era sollecitato non tanto da una riflessione comparativa sul tema dei
dying gods tradizionali
(quelli di Frazer, per intenderei), quanto da un interesse più specifico, legato alla rilettura in chiave storico-religiosa del
dossier relativo
all'assassinio politico di Giulio Cesare raccontato come una messa a morte sacrificale di un "figlio di dio", nel caso lo stesso Giulio che, come figlio di Ares e di Afrodite, compare nelle iscrizioni onorarie del 199
koinon delle città dell'Asia Minore. La morte violenta di Cesare, ese
guita secondo un modello rituale, si prestava ad essere vista come ga ranzia dell'acquisizione di uno statuto regale che non poteva essere di sgiunto da quello divino, sul tipo di quella assimilazione Romulus Quirinus del quale lo stesso Cesare si era proclamato contubemalis. Nella Roma di fine repubblica l'efficacia nell'inconscio culturale di un modello con radici lontane poteva essere motivo di partenza per svi luppi di più vasta portata (Chirassi Colombo 1993). Non possiamo quindi fare a meno di ricordare qui quella «scoperta dell'etnologia storica» alla quale sarebbe «necessario rivolgersi per la comprensione di almeno un certo numero di dying gods». Questa os servazione è di Angelo Brelich in un articolo molto denso (pubblicato su SMSR del 1960), nel quale mette a fuoco la morfologia e il ruolo di Quirinus, il dio romano della terza funzione nella prospettiva du méziliana di dio strutturalmente agrario (Brelich 1960). La scoperta alla quale ci si riferisce sta nel volume di A. E. Jensen, Das religiose Weltbild einer friihen Kultur (Stuttgart 1948), citato da Brelich nell'
edizione tedesca anche se, su proposta di Ernesto De Martino, nel 1952 era già comparsa la traduzione italiana con il titolo Come una cultura primitiva ha concepito il mondo, in quella "Collana Viola" di Einaudi
che aprì in modo significante la cultura italiana al confronto con le proposte "altre", al di fuori dei campi strettamente previsti. Brelich, a questo punto, aveva già alle spalle il volume importante sugli eroi greci (Brelich 1958), dove aveva affrontato lo specifico della vasta categoria degli esseri extra-umani, non dèi, che nel politeismo greco muoiono e sono onorati con rito funebre e si contrappongono alla categoria dominante, gli dèi, contraddistinti da quella imprescindi bile qualità che è l'immortalità. Una qualità che la cultura greca in par ticolare sottolinea continuamente proponendo l'insolubile contraddi zione thnetos - athanatos, mortale vs immortale, uomo vs dio, con traddizione comunque presente anche negli altri sistemi politeistici. Ora, proprio la presenza nei sistemi politeistici di divinità che passano attraverso l'esperienza della morte o addirittura la incamerano nel pro prio essere, pone per Brelich anzitutto problemi di prospettiva storica. Perché alcuni dèi nei sistemi politeistici muoiono? Gli esempi anno tati sono in gran parte quelli di Frazer: Osiride, Dumuzi-Tammuz, Dioniso, Persefone (ma non sua madre Demeter), Soma, Y ama, Mot 200
(e non Baal!). La categoria univoca dei dying gods, soprattutto nella proiezione di allegoria agraria, appariva insostenibile - ne aveva già 00. nunciata l'inadeguatezza anche H. Frankfort, uno dei grandi patrons delle tesi sulla "regalità sacra" - in un articolo (tra gli altri) pubblicato nel1958 (Frankfort 1958), che Brelich puntualmente cita ma dal quale sottilmente dissente. Anche l'etnologia storica di Jensen, l'allievo di Leo Frobenius, era stata criticata poco prima e dallo stesso De Martino nelle premesse di un importante studio pubblicato sulla stessa rivista "Studi e materiali di storia delle religioni" (De Martino 1957). Ma Jen sen offre a Brelich ciò che in quel momento gli interessa, la possibilità di spiegare perché tra le due versioni della morte di Romolo, primo re di Roma assimilato a Quirinus, quella che racconta come il cadavere fu fatto a pezzi portati a casa dai Senatori sotto la toga (Livio, I 16, 4) doveva essere la più arcaica. Non perché questo trattamento rimandasse ad una situazione genericamente "più selvaggia", ma perché permetteva di inserire questa tessera di mito
in un mosaico più
completo
nell'ambito di una comparazione a vasto raggio, alla ricerca di quella che potremmo demartinianamente definire la ierogenesi di un nesso mitico-rituale. La comparazione poteva avvenire con quella cultura melanesiana dei Marind-anim della Nuova Guinea sfruttata da Jensen: agricoltori, o meglio, orticoltori papuasi che sino agli inizi del XX secolo coltivavano ignami, patate dolci, banane, cocco, con il bastone
da scavo e avevano una ricca mitologia imperniata sulle azioni fondanti di esseri extra-umani, definibili con una glossa dai significati multipli, dema. Con il loro sacrificio, messa a morte violenta seguita spesso dallo smembramento, essi avevano dato origine a molti aspetti dell'attualità, dalle piante alimentari agli astri, ad esempio la luna. L'habitat nel quale si era sviluppata la ricca mitologia dei dema, cioè
degli esseri extra-umani martirizzati, basato sulla pratica di un'agricol tura semplice, un'orticoltura, poteva autorizzare su basi concrete una comparazione con un habitat mediterraneo preistorico, prepoliteistico, di tipo altoneolitico. Qui un sistema simbolico religioso che raccon tava di esseri mitici destinati ad un'utile morte violenta e specializzati spesso nel ruolo di morti importanti, antenati cianici, avrebbe potuto precedere i più tardi e diversi modelli politeistici. Diversi sondaggi po tevano autorizzare una ricerca in questo senso, anche se appariva im proponibile l'accettazione in blocco della realtà esemplare di quel 201
mondo arcaico e statico ricostruito da Jensen, così dipendente dalla si tuazione del suo ciclo culturale. E' la critica di fondo di De Martino! Pur consapevole dell'utilità della comparazione proprio per capire il senso della differenza, Brelich avvertiva il rischio di dover accettare la possibilità di utilizzare modelli categoriali comparabili sul piano di una morfologia storico-culturale per permettere di comprendere i per corsi storici dei modelli "religiosi" senza ricorrere agli archetipi, alle "ierofanie". «La salutare reazione contro le generalizzazioni affrettate non deve condurre all'eccesso opposto, cioè al disconoscimento di quanto, mal grado i caratteri specifici sia comparabile nei singoli casi, essa non deve mirare ad abolire ma a correggere la comparazione», scriveva Bre lich sempre in quell'articolo del 1960. Il de ma jenseniano continuava a rimanere importante per cercare di capire in chiave comparata il perché di quella messa a morte violenta dell'essere divino ed il perché dello smembramento del corpo, il perché dell'effusione di sangue come mo mento necessario per la creazione di vita, anzi di nuova vita, di una nuova realtà, o meglio di attualità. Questo anche al di là del rapporto tra la morte dell'essere extra-umano (dio) e la messa a morte violenta, sacrificate del re, come modello di legittimazione della permanenza della regalità quale istituzione oltre la natura umana della persona re gale, tesi che è comunque già frazeriana. Il modello "regale" non poteva tuttavia esaurire ìl senso più com pleto del nesso mitico-cultuale. Nell'ottica analitica dell'ipotesi com parativa di Brelich si sviluppava, per suo diretto suggerimento, verso la fine degli anni '60, la mia ricerca sui dema mediterranei ristretti ri gorosamente all'area greca e confluita nel volume Elementi di culture precereali nei miti e riti greci (Chirassi Colombo 1968). Ricerca tutt'altro che conclusa, che premetteva comunque già nel titolo il suo obiettivo: un sondaggio in quella che potremmo definire con De Mar tino la ierogenesi, il percorso storico di formazione, non la ierofania, di ricorrenti nessi mitico-rituali presenti nel politeismo greco e am piamente aperti alla possibilità di comparazione con altri analoghi presenti in altri sistemi politeistici. I nessi mitico-rituali riguardavano proprio i temi di morte e resurrezione-ricomparsa sotto forma meta morfica soprattutto vegetale di vari esseri delle origini fissati nello sta tuto di eroi ed eroine ed il loro rapporto con le divinità polìteistiche. 202
La ricerca avrebbe dovuto andare oltre, proseguire secondo quel per corso indicato dallo stesso Brelich nel lontano articolo del '60, per il quale proprio «lo studio comparato delle religioni delle cc.dd. civiltà superiori avrebbe potuto condurre sino alla soglia del problema storico delle divinità morenti, ma la comparazione delle civiltà superiori tra loro è ancora in buona parte tra i compiti dell'avvenire)), Molti anni sono passati dal momento nel quale furono scritte que ste parole. Dal linguaggio della ricerca sono progressivamente spariti i derna, non solo quelli di Jensen, anche per uno spostamento di inte resse dal processo ierogenetico in sé alle problematiche di funziona mento e trasmissione dei modelli religiosi storicamente acquisiti e l' attenzione alle tipologie. Si è insomma lasciato eventualmente alle teologie, non alla storia, il compito di riflettere sui perché e sui come, sulla genesi storica delle immagini e dei comportamenti simbolici che costituiscono gli orizzonti di riferimento delle religioni e delle culture. Sono spariti i dema dunque - anche per la demolizione operata intorno agli anni '80 da Dario Sabbatucci - sono rimasti tuttavia quei modelli di fondo per i
quali rimane possibile
e forse
utile
riutilizzare
l'etichetta, per quegli esseri dell'immaginario mitico che devono subire nel proprio corpo uno strazio totale per rinascere come fondatori di una nuova realtà, o rinascere loro stessi come altri. Rimangono dunque sempre irrisolti quei miti di scempio sacrificate, di sbranamento di un mitico corpo, sul quale si era soffermata la volontà di capire di Angelo Brelich riflettendo sull'esempio del primo re e dio, fondatore di Roma. Non si trattava di una riflessione per capire le radici di una inevita bilità della violenza, del mistero della necessità del sacrificio, soffe renza ecc. ecc. che riempiono gli scaffali di letteratura di ogni tipo ali mentando pericolose suggestioni, ma del desiderio di dare a questo mo dello così ripetuto, dalla Nuova Guinea al Mediterraneo, una serie di giustificazioni storiche che ne misurino e valutino le differenti applica zioni e ne riqualifichino la portata nell'immaginario culturale. Una recente attenzione a riconsiderare tematiche di questo tipo in chiave storica e antropologica ha portato alla realizzazione di questo interessante e sotto molti aspetti nuovissimo volume, che segna un importante passo avanti nell'ambito di quella comparazione storica auspicata da Brelich. Collocati uno accanto all'altro in precise prospet tive gli esseri morenti delle culture del Mediterraneo antico rivelano le 203
diversità e le analogie che si fanno rilevanti soprattutto rispetto agli esiti della loro vicenda e definiscono di volta in volta i diversi tipi di funzione nei quali sono coinvolti. Si profilano così i distinguo per i quali l'ittita Telipinu certamente non muore ma solo si assenta a suo capriccio, determinando con la sua latitanza quell'arresto dello svolgimento normale della vita cosmica che si registra anche in altri casi nei quali l'essere divino non è più al suo posto. Ad esempio, quando Demetra vagabonda sulla terra alla ricerca della fig lia, ma anche quando Btar scende negli Inferi magari non per cercare Dumuzi. Muore di morte violenta e viene fatto a pezzi Osiride, definito an che in alcuni testi lo «smembrato», per esistere nello stato di morto potente e dare così garanzia totale alla permanenza del cosmo che com prende e si impernia sulla infrangibilità della regalità dinastica, nel passaggio del potere al figlio Horus, ma anche sulla certezza del ripetersi della piena del Nilo e della produzione dei cereali proposti come emissione dal suo corpo. Muore smembrato Mot, l'avversario più temibile di Baal, frantu mato come cereale da Anat, ma solo per essere ridimensionato come custode di una mortalità umana controllata. Muore
ma
non
è
smembrato
Dumuzi,
che
ha
comunque
interessanti relazioni almeno con un prodotto derivato dal cereale, la birra, ed altri legami con liquidi vegetali che farebbero supporre anche per lui un trattamento di martirio. Come morto, Dumuzi ritorna comunque correttamente in
occasione delle feste dei defunti
che
ritmano il rapporto tra vivi e morti nelle scansioni calendariali. Ma non rivive! Muore smembrato, bollito, arrostito e persino mangiato Dioniso, figlio di Zeus, dio olimpico, anche se nato «immortale da mortale», come dice Euripide all'inizio delle Baccanti, ma costretto a passare at traverso molteplici nascite, uccisioni, trasformazioni, ritorni, senza mai perdersi totalmente, senza mai morire definitivamente, dal mo mento che la sua tomba segnalata a Delfi prevedeva il rituale periodico della sua egersis, letteralmente risveglio, ma anche richiamo in vita. Legato attraverso rapporti di metonimia con il vino, il prodotto deri vato dalla manipolazione dell'uva, ma anche all'edera, al fico, alla li quidità, agli animali erbivori, capretto, toro, animali sacrificali per ec204
cellenza, Dioniso è garante di quella metà del cosmo nella quale ir rompono quei modelli di comportamento incoscienti, non attuali, to talmente liberatori di ogni vincolo, di ogni legge, in quello stato altro, modificato di coscienza, determinato dalla possessione divina, metafo rizzata anche dal vino, bevanda-droga per eccellenza e metonimia del sangue sacrificale del dio. E' la sfera sulla quale non ha giurisdizione quella divinità che a Dioniso è complementare, simmetrica ed insieme antitetica, non Apollo ma la cerealicola Demetra. Un rapporto tutto dl riconsiderare. Muore di morte violenta ma autoprocurata o almeno autovoluta (anche nella versione della controparte dell' Atys lidio) l'Attis amato dalla Grande Madre, la Madre degli dèi, e rimane imprigionato nello statuto di non morte realizzato dalla sua metamorfosi nel sempreverde albero di pino, ma anche dalla sua situazione di eunuco che lo preserva dal coinvolgimento nel tempo misurato dalla generazione che offre come viene opportunamente puntualizzato - un exemplum per un mo dello di regalità antidinastica realizzabile
a
livello sacerdotale. Oltre a
diventare un possibile modello per quegli orientamenti antimondani e sottilmente anti-femminili che attraversano in modo incrociato nel tardo antico le interpretazioni di neoplatonici, gnostici e cristiani. Muore di morte violenta Adonis che, come Attis, non è un dio ma un eroe, quindi "deve" morire, e trova il suo paradosso nella possibile rinascita-ritorno, non solo nella metamorfosi vegetale dell'anemone, il fiore di vento che lo rappresenta. Almeno nel rituale di Biblo, Adonis realmente ritorna vivente, vive, zoei. Ed ancora ritorna per immorta lizzarsi tra le braccia della divina amante nel rituale degli "Adonia" di Alessandria, sullo sfondo di un modello di "apoteosi" regale che si fa strada nel mondo ellenistico. Si tratta di due casi che si staccano dalla tipologia del ritorno parziale, costante nel dossier adonico. Accanto alla metamorfosi floreale, c'è per Adonis un ritorno ciclico che sfugge alla banalità naturistica, legata ad un modello speciale di spartizione equa del tempo tra vita e morte, che - come è stato opportunamente sottolineato - proprio ad Adonis Zeus offre come modo concordato per sottrarlo ai rischi dei desideri esagerati suscitati dalla sua esagerata avvenenza. Analoga distribuzione del tempo tra vita e morte entra nella codifi cazione del destino di Kore-Persefone separata dalla madre e nel suo 205
corpo oggetto di violenza, ma violenza che non è lo smembramento di Osiride, di Dioniso (e neanche della Hainuwele di Jensen, la fanciulla dema tratta dai miti dei Wemale dell'isola di Ceram), bensì quello di una fanciulla strappata alla madre per un matrimonio forzato che la co stringe a uno stupro nuziale con un potente, il Signore dell' Oltre tomba. Kore non rinasce in nessun fiore, la sua assimilazione alla spiga di grano deriva tutta dalla ricostruzione della Kornmutter e Kornmiidchen di Mannhardt. Il ritorno temporaneo della figlia alla ma dre variamente ritmato non interrompe quel legame infrangibile con
quel regno dei morti dal quale, in almeno una variante del mito, nella variante romana di Proserpina, la figlia, sceglie di non ritornare mai più (Chirassi Colombo 1995). Ancora soluzioni varianti, circostanziali, dipanate nella storia in tomo a nuclei narrativi, mitici, sacri, dati ma mai immutabili. Rimane il dossier di Baal, il Baal ugaritico e dei suoi più tardi ana loghi, Eshmun e Melqart. E' il Baal-Rpu, il Baal-Salvatore che scende nel mondo dei morti, muore portandosi dietro la scomparsa dell'acqua pluviale, fonte di vita, ma poi ovviamente, come conviene a un dio politeistico, risale, rivive e forte dell'esperienza diventa amministra tore, protettore del mondo dei defunti, non come dio dell'oltretomba ma come responsabile dei rapporti importanti tra morti e vivi in un mondo coeso,
un cosmo dove la morte
non
può
rappresentare
un'invalicabile barriera. Nell'analisi puntuale qui proposta, proprio i l dio siro-palestinese, possiamo dire, ben rappresenta l a categorie degli dèi che muoiono e rinascono. Anzi, è l'unico a veramente "rinascere" portando con sé un progetto salvifico su piani diversificati, da quello della salvezza-salute, rappresentato dal più tardo Eshmun assimilato al guaritore Asclepio, al piano della salvezza data dalla difesa dell'ordine attuale assicurato dal dio cittadino Melqart, problematicamente identi ficato con l'eroe-dio greco Eracle, per il quale le testimonianze epigra fiche parlano esplicitamente di un rituale di morte e di egersis, risve glio, rialzamento, resurrezione. Il dossier siriano è sicuramente il più importante e il più scottante. Riconduce infatti la "tipologia" del dio che muore ed eventualmente risorge al di fuori delle maglie delle inter pretazioni precostituite e dalle seduzioni dei giochi sempre comunque indicativi, creativi, delle metafore e lo ricostituisce come antefatto sto rico importante per la ierogenesi del mistero cristiano. Un mistero che, 206
come tutto ciò che appartiene al bricolage del mito e della storia, dovrà essere comunque un mistero diverso. Questo rapido attraversamento del dossier raccolto e delle sue pro blematiche non ne esaurisce certo i segreti, i pregi, le suggestioni. Il volume si presenta quindi come un testo di grande interesse non solo per una fruizione immediata dei risultati di ricerca proposti, ma anche per una riconsiderazione critica innovativa alla luce delle nuove acqui sizioni di tematiche classiche degli studi storico-religiosi.
Bibliografia Brelich 1958 A. Brelich, Gli eroi greci. Un problema storico-religioso, Roma 1958. Brelich 1960 A. Brelich, Quirinus: una divinità romana comparazione, SMSR, 31, 1960, pp. 63-119.
alla
luce
della
Chirassi Colombo 1968 I. Chirassi Colombo, Elementi di culture precereali nei miti e riti greci, Roma 1968. Chirassi Colombo 1993 I. Chirassi Colombo, "Il mestiere di dio e i suoi rischi. Riflessioni in chiave storico-religiosa intorno a SIG 760", in La cultura in Cesare. Atti del Convegno Internazionale di Studi, Macerata-Matelica, 30.044.05./990, Roma 1993, pp. 397-426. Chirassi Colombo 1995 I. Chirassi Colombo, "Il paradigma patetico", in G. Buzzatti - A. Salvo (edd.), Corpo a corpo. Madre e figlia nella Psicanalisi, Bari 1995, pp. 47-82.
207
De Martino 1957 E. De Martino, "La messe del dolore", SMSR, 28, 1957, pp. 1-53. Frankfort 1958 H. Frankfort, "The Dying God". Inaugurai Lecture as Director of the Warburg Institute and Professor of the History
of Pre-Classical
Antiquity in the University ofLondon, 10th November 1949, Joumal of the Warburg and Courtauld Institutes", 11, 1958, pp. 141-151.
208
ELENCO DELLE ABBREVIAZIONI
AION ANRW A nSt ASJ AuOr BASOR BM BiOr CCCA CIG CIL Cl Q (CR)RAI CT FAOS FHG HR HTR IG JCS JEA JHS JSS KTU
Annali dell'Istituto Universitario Orientale di Napoli. H. Temporini - W. Haase (Hg.), Aufstieg und Nieder gang der romischen Welt, Berlin/New York 1976--. Anatolian Studies. Acta Sumerologica, Hiroshima. Aula Orientalis. Bulletin of the American Schools o/Orientai Research. Sigla di documenti e monumenti conservati nel British Museum.
Bibliotheca Orientalis. M.J. Vermaseren (ed.), Corpus Cultus Cybelae Attidi sque, 7 voli., Leiden 1977-1989. Corpus Inscriptionum Graecarum. Corpus Inscriptionum Latinarum. Classica/ Quarterly. (Compte-rendu de la) Rencontre Assyriologique lntema tionale. Cuneiform Texts from Babylonan Tablets in the British Museum. Freiburger Altorientalische Studien, Freiburg. C. Miiller, Fragmenta Historicorum Graecorum, Paris
1841-70. History of Religions. Harvard Theological Review. lnscriptiones graecae, Berlin 1873--. Joumal of Cuneiform Studies. Journal of Egyptian Archaeology. Joumal of Hellenic Studies Journal of Semitic Studies. M. Dietrich- O. Loretz - J. Sanmartfn, The Cuneiform Alphabetic Texts from Ugarit, Ras lbn Hani and Other Places, Miinster 1995.
209
LA MH PG pp RA RAC RB REA RHA RIA SIG SJOT SMEA SMSR TCL TSS UET ZDMG ZPE
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Revue biblique. Revue des études anciennes. Revue hittite et a�Janique. Reallexikon der Assyriologie . Sylloge Inscriptionum Graecarum (ed. W. Dittenberger). Scandinavian Joumalfor the Old Testament. Studi micenei ed egeo-anatolici. Studi e materiali di storia delle religioni. Textes Cunéiformes du Louvre. R.R. Jestin, Tablettes sumériennes de Suruppak au Musée d'Istanbul, Paris 1937. Ur Excavations Texts, London/Philadephia 1928--. Zeitschrift der Deutschen Morgenliindischen Gesell schaft. Zeitschrift fiir Papyrologie und Epigraphik.
GLI AUTORI DI QUESTO LIBRO
Ileana
Chirassi
delle religioni
Colombo
presso il
è professore ordinario di Storia
«Dipartimento di Scienze dell'antichità»
dell'Università di Trieste. Maria Grazia Lancellott i, dottore di ricerca in Storia delle religioni presso l'Università
di Roma
"La Sapienza", è borsista
dell'Accademia Nazionale dei Lincei. Paola Pisi è ricercatore presso il «Dipartimento di Studi storico religiosi» dell'Università di Roma "La Sapienza". Anna
Maria
Poi vani
è professore associato di Storia del
Vicino Oriente antico presso il «Dipartimento di Studi storici e geografici» dell'Università di Firenze. Sergio
Ribichini
è
primo
ricercatore
del
C.N.R.
presso
l' «Istituto per la civiltà fenicia e punica 'Sabatino Moscati'» di Roma. Maria Rocchi è primo ricercatore del C.N.R. presso l' «Istituto per gli studi micenei ed egeo-anatolici» di Roma. Gabriella Scandone Matthiae è primo ricercatore del C.N.R. presso l'«<stituto per la civiltà fenicia e punica 'Sabatino Moscati'» di Roma. Giulia Sfameni Gasparro è professore ordinario di Storia delle religioni presso il «Dipartimento di Studi tardo-antichi, medievali e umanistici» dell'Università di Messina. Paolo Xella è primo ricercatore del C.N.R. presso l' «Istituto per la
civiltà
fenicia
e
punica
Auj3erplanmiissiger Professar
'Sabatino
Moscati'»
di
presso l' «Altorientalisches
dell'Università di Tiibingen (Germania).
211
Roma
e
Seminar»
Molte religioni dell'antico Mediterraneo conoscono clivinita cui e ascritta una esperienza di morte dalle diverse conseguenze per l'umanita. Sulla passione, morte e destino di tali figure hanno riflettuto a lungo autori antichi e studiosi moderni. Se esistono tradizioni su personaggi divini che hanno sperimentato e variamente superato la morte, e se illoro destino ha in qualche modo influito su quello umano, c' e un rapporto tra tali personaggi e la vicenda di Gesu? Si tratta di un pili antico modello mitico-rituale confluito nella tradizione cristiana, oppure tale vicenda ha rappresentato anche sui piano storico (oltre che teologico) un incomparabile salto di qualita segnando l'itinerario spirituale dell'umanita in modo indelebile? In questo volume si studiano gli anti chi "dei morenti": 1' egiziano Osiride, il mesopotamico Dumuzi-Tammuz, l'anatolico Telipinu, il siriano Baal, i fenici Melqart, Eshmun e Adonis, il frigio Attis e i greci Demetra e Kore e Dioniso. Essi sono al centro di un'indagine che ci obbliga a misurarci con quel destino mortale in cui l'uomo ha voluto coinvolgere anche gli dei. Contributi di Ileana Chirassi Colombo, Maria Grazia Lancellotti, Paola Pisi, Anna Maria Polvani, Sergio Ribichini, Maria Rocchi, Gabriella Scandone Matthiae, Giulia Sfameni Gasparro, Paolo X ella.
ISBN 88-85697-53-4
essedue edizioni
L. 26.000 € 13,42 (i.i.)