RUTH RENDELL CHI MUORE E CHI MENTE (Some Lie Some Die, 1973) LET-ME-BELIEVE (Lasciami credere) Mi manca quel sorriso che...
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RUTH RENDELL CHI MUORE E CHI MENTE (Some Lie Some Die, 1973) LET-ME-BELIEVE (Lasciami credere) Mi manca quel sorriso che era un fiore Odio questa distanza e queste ore Non sento il vento, pioggia non mi tocca Mi manca lei, mi manca la sua bocca. Vieni, ti prego, torna accanto a me, Vieni, ti prego, spiegami perché C'è chi non sente e chi prova dolore C'è chi sa mentire e chi ne muore. Ricorda me, una pianta senza foglie, Torna una volta ad essere mia moglie, Regalami, ti prego, un'illusione Lasciami credere, inventa un'emozione. Vieni,... La casa sarà nostra come allora, Io crederò che tu mi ami ancora, Sarai con me nell'ombra della sera, La notte esaudirà la mia preghiera. Vieni,... Con la luce del giorno se n'è andata La notte di illusione è già passata. Io resto qui e aspetto in fondo al cuore Che mi dia un'altra briciola d'amore. Vieni,...
(di Zeno Vedast, tratta dagli LP "Let-me-believe" e "Sundays Album" - Ed. Galaphone) 1 «Ma perché qui? Perché devono venire proprio qui? Ce ne sono a migliaia di posti in cui potrebbero andare senza disturbare nessuno! Nelle Highlands, per esempio. A Dartmoor. Non vedo perché debbano venire proprio qui!» Era un mese che l'ispettore Michael Burden del dipartimento investigativo faceva queste rimostranze, o rimostranze analoghe, ma quella volta nella sua voce c'era una nota nuova, una nota di amaro sgomento. Già la prospettiva non era stata piacevole, ma la realtà adesso era proprio lì, sotto i suoi occhi, una decina di metri più in basso, in High Street. Aprì la finestra per vedere meglio e restare ancor più sconcertato. «Arrivano a migliaia dalla strada della stazione... e chissà quanti ne arriveranno con altri mezzi di trasporto. Una vera invasione! Oh, mio Dio, c'è un tipo gigantesco, con un'aria molto poco raccomandabile. Sapete cosa mi ricorda? Un enorme spaventapasseri. Dovreste vedere cos'ha addosso!» L'unica altra persona presente nella stanza non era intervenuta in alcun modo nella sua tirata. Era un omone robusto, più vecchio dell'ispettore di circa vent'anni, arrivato a quel punto della vita in cui si esita a definire un individuo "di mezza età" in quanto "anziano" sarebbe una definizione più esatta. La sua faccia non era mai stata bella, e gli anni, nonché la perdita quasi totale dei capelli, non ne avevano certo migliorato i tratti pesanti; eppure un'espressione non tanto bonaria quanto piuttosto tollerante nei confronti di tutto fuorché dell'intolleranza la riscattavano, rendendola quasi attraente. L'omone era seduto alla sua scrivania e stava cercando di stilare delle istruzioni per la prevenzione del crimine. Ad un certo punto scosse la testa con insofferenza e buttò giù la penna. «Se uno non sapesse come stanno le cose penserebbe che tu stia parlando di topi» sbottò l'ispettore capo Wexford. Spinse indietro la poltroncina e si alzò. «Di un'invasione di topi. Ma non ce la fai proprio ad avere una mentalità più aperta? Sono solo dei ragazzi che vengono qui per divertirsi!» «Parlerete diversamente quando cominceranno ad esserci macchine bruciate, furti nei negozi, onesti cittadini presi a botte, e... gli Angeli dell'Inferno.»
«Può darsi. Ma prima aspettiamo che ci sia tutto questo. Su, fammi dare un'occhiata.» Burden si spostò con aria imbronciata dalla sua posizione dominante e lasciò qualche centimetro di finestra anche a Wexford. Era uno splendido pomeriggio d'estate: il 10 di giugno. High Street era piena di movimento come sempre al venerdì: macchine che entravano o uscivano dai parcheggi, donne che spingevano carrozzine. I negozi avevano abbassato le loro tende a strisce per riparare i compratori da un sole quasi mediterraneo, e davanti al Dragon alcuni operai erano seduti sulle panche a bere birra. Ma non erano stati loro ad attrarre l'attenzione di Burden; osservavano l'afflusso di gente con altrettanto interesse, e in alcuni casi con altrettanta ostilità, di Burden stesso. Una fiumana di ragazzi e di ragazze stava attraversando la strada, diretta alla fermata dell'autobus, davanti alla chiesa battista: zaini in spalla e radioline a transistor appese alle braccia. Le macchine che si erano fermate alle strisce pedonali per lasciarli passare protestavano pigiando sui clacson, ma erano altrettanto impotenti delle onde del Mar Rosso contro i Figli di Israele. I giovani continuavano ad affluire - non saranno stati "migliaia" ma non erano certo meno di duecento - ridendo, sospingendosi, cantando. Uno di loro, un ragazzo con una maglietta su cui era stampata la faccia di un cantante rock, tirò fuori la lingua a un automobilista inferocito, alzando due dita. Erano quasi tutti in blue jeans. Non dovevano aver lasciato da molto la scuola - alcuni probabilmente ci andavano ancora «e avevano certo protestato animatamente contro l'obbligo di portare la divisa. Eppure adesso ne portavano una adottata volontariamente: jeans e maglietta, capelli lunghi e, in alcuni casi, piedi scalzi erano la loro uniforme. Alcuni poi avevano optato per una totale libertà dagli abiti convenzionali: una ragazza portava la parte superiore di un bikini rosso e uno sporco gonnellone alla caviglia, e il suo compagno, sudato ma felice, ostentava una tenuta di pelle nera. Su tutti torreggiava il gigantesco ragazzo su cui si era concentrata l'attenzione di Burden. Era uno splendido negro, altissimo, con una gran chioma crespa di un nero bruciato e il corpo bronzeo coperto dal collo alle caviglie da una lunga tunica tutta cosparsa di piume di gazza, bianche e nere.» «E questo non è che l'inizio!» esclamò Burden quando ritenne che Wexford avesse avuto il tempo di rendersi ben conto della situazione. «Continueranno ad arrivare per tutta la notte e per tutto domani. Ma perché fate quella faccia, come se... aveste perso qualcosa?»
«Ho perso davvero qualcosa... la mia giovinezza. Vorrei tanto essere uno di quei ragazzi che vanno a divertirsi al concerto. A te non piacerebbe?» «Francamente no. Non ci terrei proprio. Quei giovani combineranno un sacco di guai, faranno un chiasso infernale, e rovineranno il fine settimana a tutti i disgraziati che abitano sulla vecchia proprietà Sundays. Che Dio gliela mandi buona... non voglio dire altro!» Dopo di che, come spesso accade quando viene usata quell'espressione, Burden, avendo altro da dire, lo disse. «I miei genitori mi hanno insegnato ad avere riguardo per gli altri, e ne sono ben contento. Magari una puntatina alla sala da ballo locale, il sabato sera, qualche bicchierino, ma quanto a occupare tutti quegli acri di terra solo per fare i miei comodi a spese degli altri... no, non mi sarebbe proprio piaciuto. Non mi sarebbe sembrato giusto.» Wexford fece quel verso che i vittoriani, scrivendo, indicavano come "Puah!". «Il fatto che tu sia così maledettamente virtuoso non significa che non ci si debba più divertire! Immagino che impedirai al tuo ragazzo di andare a quel concerto.» «Gli ho detto che domani sera potrà andare a Sundays per un paio d'ore, giusto per sentire Zeno Vedast, ma che deve essere a casa per le undici. Non intendo certo lasciargli passare la notte là... ha solo quindici anni. Zeno Vedast! Non è certo il suo vero nome, sono pronto a scommetterci. Probabilmente si chiama Jim Blaggs, o qualcosa del genere. Dicono che sia di queste parti. Meno male che non c'è rimasto! Tutto questo fanatismo per la musica pop proprio non lo capisco. Perché John non può sentirsi dei dischi di musica classica?» «Come suo padre, eh? Dovrebbe starsene in casa, buono buono, a farsi deliziare da Mahler? Ma via, Mike!» «Ammetto che la musica pop non è il mio genere» disse Burden in tono risentito. «Tutta questa musica moderna non vale niente.» «Questo lo dici tu, Mike; così come pare a te. Nel loro gergo noi siamo già "maiali", "piedipiatti". Non c'è bisogno che ci chiamino anche "parrucconi"! E poi ne ho abbastanza di stare qui a guardare. Andiamo a Sundays anche noi?» «Ma dovremo già andarci domani, quando cominceranno le risse e gli incendi!» «Io ci vado adesso; tu fa' quel che ti pare. Ti dico una cosa sola, Mike: non essere così prevenuto, ti potresti anche sbagliare.» Dove adesso c'è la grande villa in stile Regency una volta c'era una casa
che risaliva ai tempi della dominazione normanna, e si chiamava Sundays. Perché proprio Sundays? Non lo sa nessuno. Probabilmente il nome non c'entrava affatto con "Sunday", domenica; probabilmente - e questa è la convinzione generale - Sundays era una storpiatura del nome del proprietario dell'antica casa, un certo Sir Geoffroy Beauvoir de Saint Dieu. Un tempo la proprietà si estendeva da Kingsmarkham a Forby e anche oltre, ma a poco a poco i campi e i boschi erano stati venduti e attualmente la casa aveva solo un piccolo giardino e alcuni acri di parco. Gli alti cedri e il viale dei carpini c'erano ancora, e la cava piena di arbusti era ancora tale e quale, ma il giardino all'italiana era scomparso; nell'aranciera l'attuale proprietario, Martin Silk, coltivava funghi, e il paesaggio era rovinato dalle nuove case costruite sull'ex terreno di Sundays. La strada che porta a Forby costeggia il parco e taglia in due la proprietà. L'autobus per Forby la percorre quattro volte al giorno, facendo una sosta facoltativa davanti al cancello che immette nel parco. Wexford e Burden fermarono la macchina sul bordo della strada e stettero ad osservare i primi giovani che scendevano a frotte dall'autobus 230 e si dirigevano verso il cancello con i loro zaini in spalla. I battenti erano aperti e sui gradini della portineria c'erano Martin Silk con un'altra mezza dozzina di persone che dovevano aiutarlo a controllare i biglietti. Wexford scese dalla macchina e lesse il manifesto attaccato al cancello: Proprietà Sundays - 11 e 12 giugno - Zeno Vedast, Betti Ho, The Verb To Be, The Acid, Greatheart, Emmanuel Ellerman. Mentre i ragazzi scesi dall'autobus entravano nel cancello e imboccavano il viale alberato, si avvicinò a Silk. «Tutto bene, signor Silk?» Silk era un uomo minuto, di avanzata mezz'età, con i capelli grigi lunghi fino alle spalle e il fisico di un ventenne - per lo meno finché non lo si guardava da vicino o non lo si vedeva camminare. Era ricco, eccentrico, uno di quei tipi che non si decidono mai a dire addio alla giovinezza. «Certo che va tutto bene!» rispose Silk in tono brusco. Non aveva tempo da perdere con quelli della sua età. «Andrà tutto benissimo se ci lascerete in pace.» Si scostò e andò a ritirare con un gran sorriso i biglietti di una mezza dozzina di ragazzi che avevano lasciato vicino al cancello un camioncino rosa, arancione e viola tutto pieno di scritte. «Benvenuti a Sundays, amici! Piantate pure le tende dove volete... chi prima arriva meglio si accomoda! Il camioncino potete lasciarlo vicino alla casa.»
Burden, che nel frattempo aveva raggiunto Wexford, seguì con lo sguardo il veicolo che risaliva il viale ad andatura un po' pazza, con la musica che usciva a tutto volume dai finestrini aperti. «Spero che sappiate quel che fate» disse in tono burbero. «Chissà perché volete fare una cosa del genere...» «La voglio fare, ispettore, perché a me i giovani piacciono molto. Mi piace la loro musica. Li hanno scacciati dall'Isola di Wight e nessuno li vuole, ma io sì. Questo concerto costerà migliaia di sterline, che usciranno per lo più dalle mie tasche. Ho dovuto vendere un altro pezzo di terreno per mettere insieme la cifra necessaria, non me ne importa niente di quel che dicono gli altri!» «Quelli che hanno a cuore la conservazione dell'ambiente ne avranno parecchie di cose da dire, signor Silk!» osservò Burden, scaldandosi. «A loro non va che si facciano tutte queste nuove costruzioni, e potrebbero farvi ritirare l'autorizzazione, lo sapete anche voi.» Vedendo la faccia di Silk farsi paonazza per la collera, intervenne Wexford. «Ci auguriamo tutti che il concerto sia un successo... per lo meno io lo spero davvero. Mi hanno detto che Betti Ho arriverà domani pomeriggio con il suo elicottero personale. È così?» Poi, vedendo Silk annuire, un po' rabbonito, aggiunse: «Vogliamo tener fuori gli Angeli dell'Inferno e cercare di ridurre al minimo i guai. Soprattutto non vogliamo violenza, moto incendiate, e così via, come era successo a Weeley. Prima che cominci il concerto voglio parlare alla folla, perciò domani sera dovreste lasciarmi salire sul palco... diciamo verso le sei?» «Non ho niente in contrario, purché non siate offensivo coi ragazzi» rispose Silk. Salutò con espressione raggiante un gruppetto di ragazze, facendo loro dei commenti lusinghieri sulle lunghe gonne vagamente vittoriane e sulle chitarre che portavano a tracolla. Le ragazze ridacchiarono alle sue spalle, pensò Wexford - ma l'incontro ebbe un effetto benefico sul suo umore. Quando infatti le ragazze si furono inoltrate nel parco, Silk chiese in tono più gentile ai poliziotti: «Volete dare un'occhiata in giro?» «Sì, se non vi dispiace.» Le tende andavano sistemate sul lato sinistro del viale, dove normalmente pascolava sotto i cedri una piccola mandria di cavalli frisoni. Adesso i cavalli erano stati trasferiti nel prato dietro la casa, e le prime tende erano già montate. In mezzo al parco era stato eretto un palco, davanti al quale erano state sistemate delle lampade ad arco. Wexford, che normalmente
detestava le recinzioni rinforzate, era invece ben contento che il parco Sundays fosse circondato da un muro sormontato da punte aguzze che avrebbe tenuto fuori quelli che Burden definiva "soggetti indesiderabili". Il muro era rotto solo in un punto, in prossimità della cava - una profonda fenditura nella zona più lontana, verso Forby. Wexford e Burden arrivarono fino alla casa, poi si fermarono sulla terrazza, e diedero un'occhiata circolare all'intorno. Nel viale c'era un furgoncino che vendeva bibite, patatine e dolciumi, e davanti si era già formata una coda di giovani affamati. I più attivi si erano accaparrati i posti migliori e adesso stavano piantando le loro tende. Dal cancello entrava una fila sottile ma continua di altri giovani - arrivati a piedi, in macchina o in moto. Wexford voltò la testa in direzione della cava e scese la gradinata. I più fortunati - quelli che si erano presi un giorno di vacanza dal lavoro o da scuola - erano arrivati in mattinata e avevano già sistemato le loro tende. Un ragazzo con un burnus marocchino stava friggendo delle salsicce su un fornello a gas, circondato da un gruppo di amici che, seduti a gambe incrociate, lo intrattenevano chiacchierando o suonando la chitarra. Il parco Sundays è attraversato da un torrente - il Kingsbrook - che passa sotto la strada per Forby e si snoda tortuoso sotto i salici e gli ontani, a breve distanza dal muro di cinta. I giovani si stavano già facendo il bagno, spruzzando acqua all'intorno: le ragazze in reggiseno e mutandine, i ragazzi in slip neri che fungevano sia da mutande che da costume da bagno. Attraversando il ponticello di legno Burden guardò altrove. Teneva gli occhi voltati in modo così puntiglioso che per poco non inciampò in una coppietta abbracciata nell'erba alta. Wexford rise. «"Come puoi rimpiangere le nere tende della tua tribù, tu che possiedi il rosso padiglione del mio cuore?"» citò. «Ne succederanno molte, di cose del genere, Mike, perciò è meglio che ti ci abitui. Bisognerà mettere un paio di uomini vicino alla cava per evitare che entrino degli abusivi.» «Ma non si può arrivare in moto fin lì» obiettò Burden. Poi aggiunse in tono astioso: «Personalmente non me ne importa un accidente se qualcuno entra a sbafo a sentire quel maledetto concerto di Silk! Basta che non combini dei guai.» Sul lato rivolto verso Sundays, in corrispondenza della breccia del muro, la cava non aveva nessuna protezione; sull'altro lato era protetta piuttosto debolmente da una rozza recinzione in legno di castagno e filo spinato, rotta anch'essa. Al di là della recinzione e di una stretta striscia di prato si ve-
devano i giardini di tre case costruite sul Sentiero. Ognuno di essi era stato recintato di recente e aveva un piccolo cancello. Wexford guardò nella cava. Era profonda circa sei metri e le sue sponde erano coperte da una fitta vegetazione di rovi e cespugli di roselline selvatiche in piena fioritura. Migliaia di fiorellini piatti di un rosa molto tenue spiccavano contro gli scuri cespugli sottostanti e il giallo intenso della ginestra spinosa. Qua e là si ergevano i sottili tronchi argentei delle betulle. Sul fondo della cava c'era un prato cosparso di campanule. Ad un certo punto Wexford ebbe l'impressione che una delle campanule si alzasse a spirale nell'aria, ma poi si rese conto che ciò che si era sollevato non era un fiore, ma una farfalla con le ah dello stesso azzurro intenso delle campanule. «Peccato che abbiano costruito quelle case! Rovinano il paesaggio, non trovi?» Burden annuì. «Al giorno d'oggi bisognerebbe andare in giro con gli occhi semichiusi o con la testa perennemente voltata, per non vedere certi scempi.» «Di notte però sarà ancora bello, specialmente con la luna. Non vedo l'ora di sentire Betti Ho. Canta delle ballate contro l'inquinamento, e su questo tema, Mike, non si può non essere d'accordo. Vedrai che Betty Ho ti piacerà. Comunque devo ammettere che sono curioso anche di sentire quel Vedast...» «Io lo sento già fin troppo a casa mia» replicò Burden in tono tetro. «John le suona in continuazione, le sue nenie sdolcinate.» Tornarono indietro, camminando sotto i salici. Dal torrente un ragazzo spruzzò Wexford, bagnandogli le gambe dei calzoni. Burden inveì in malo modo; Wexford si limitò a sorridere. 2 «Nel complesso si stanno comportando molto bene.» L'osservazione era stata fatta dall'ispettore Burden, con una sfumatura di incredulo stupore, mentre con Wexford se ne stava (per usare le parole di Keats) su una tonda collinetta ad osservare dall'alto la jeunesse dorée sottostante . Era la sera del sabato, l'ora era piuttosto tarda, e il cielo era una ciotola capovolta di un morbido blu-viola in cui la luna stava sospesa come una perla, circondata da luminose galassie. La luce delle stelle era particolarmente intensa, ma sempre insufficiente, ed il palco su cui si esibivano le altre "stelle", quelle della musica pop, era illuminato a giorno da grappoli
di lampade ad arco che sembravano lune artificiali. Le tende erano vuote perché i loro occupanti erano seduti o sdraiati nell'erba, adesso blu e imperlata di rugiada, e sotto la luce delle lune - sia quella naturale che quella artificiale - i bizzarri abiti del pubblico apparivano diversi, in sfumature più sobrie, zaffiro e fumo. E i capelli si erano fatti argentei, non per l'età ma per le luci della notte. I fornelli a gas adesso erano spenti, ma qualcuno aveva acceso dei fuochi da cui si alzavano sottili spirali, fili azzurrini che si fondevano col blu più intenso dell'aria sovrastante. Tutta la zona delle tende era blu, azzurra, verde giada nel punto in cui il parcheggio confinava col cielo variegato come le piume del martin pescatore; e i corpi sdraiati degli aficionados erano innumerevoli ombre color blu scuro. «Quanti saranno, secondo te?» chiese Wexford. «Settanta, ottantamila. Non fanno molto chiasso.» «"Il sommesso mormorio delle colombe tra gli annosi olmi e il ronzio di innumerevoli api"» citò Wexford. «Sì, forse non avrei dovuto paragonarli a dei topi... Sembrano più che altro delle api, uno sciame d'api.» Il ronzio sommerso della conversazione era iniziato non appena Betti Ho si era allontanata dal palco. Wexford non ne afferrava nemmeno una parola, ma dall'atmosfera intensa, concentrata, dall'impressione di totale accordo e di appassionata, anche se tranquilla, indignazione si rendeva conto che i giovani stavano parlando delle canzoni che avevano appena sentito e ne condividevano i sentimenti. La cinesina, graziosa, delicata e innocente come un fiore, aveva cantato di ondate di sporcizia, di veleni, di un tragico destino incombente. Sembrava strano sentire quelle cose dalle sue labbra, nella purezza di quella notte; eppure Wexford sapeva, come tutti, che la sporcizia esisteva, ed esistevano il veleno, la bruttura dei rifiuti e lo squallore dell'indifferenza. La ragazza era stata richiamata sul palco per cantare ancora una volta la canzone che tutti preferivano, la ballata delle farfalle destinate a scomparire, e l'aveva eseguita in mezzo alle volute del loro fumo di legna, con l'accompagnamento discreto delle acque del Kingsbrook. Durante l'esecuzione delle canzoni Burden aveva annuito con foga per esprimere la sua approvazione, ma adesso gettava qua e là delle rapide occhiate tra la folla che chiacchierava stando bocconi sull'erba. Ad un certo punto riuscì finalmente ad individuare suo figlio con un gruppo di altri ragazzi molto giovani, e si rilassò. A Wexford non sfuggirono i piccoli toc-
chi che John e i suoi amici avevano aggiunto ai loro abiti, la minuscola tenda che avevano piantato per adeguarsi in qualche modo agli altri e non essere bollati come novellini, come avventizi e non come frequentatori abituali. Burden schiacciò una zanzara che gli si era posata sul polso, e contemporaneamente guardò l'orologio. «Tra poco dovrebbe esserci Vedast» disse. «Appena avrà finito andrò a recuperare John e lo manderò immediatamente a casa.» «Guastafeste!» L'ispettore stava per replicare qualcosa quando all'improvviso il brusio della folla crebbe di volume, fino a diventare un frastuono di eccitata approvazione. Tutti si alzarono in piedi, e alcuni restarono dov'erano, altri si avvicinarono al palco. L'atmosfera era carica di tensione. «Eccolo!» esclamò Wexford. Zeno Vedast fu annunciato dal disc jockey che presentava il concerto come una star che non aveva bisogno di presentazione, e quando uscì dall'ombra e salì sul palco il chiasso del pubblico si trasformò in un unico, concentrato boato di gioia. Un'accoglienza ben diversa, pensò amaramente Wexford, dal coro di "Via! Via! Via!" che aveva accolto il suo ponderato discorso; un discorso di cui, concependolo, si era sentito orgoglioso per lo spirito tollerante e accomodante che lo informava: solo poche parole per assicurare i presenti che nessuno avrebbe interferito con la loro libertà purché non avessero esagerato. La polizia non voleva guastare il concerto, aveva detto, inserendo anche una battuta spiritosa; voleva solo che i fans fossero contenti, collaborassero, e non si disturbassero a vicenda, né disturbassero gli abitanti di Kingsmarkham. Ma il discorsetto non aveva funzionato. Lui era un poliziotto, e questo bastava. "Via! Via! Via!", gli avevano gridato. "Via, piedipiatti, via!" Pur non essendo affatto nervoso, si era preoccupato di che cosa sarebbe successo in seguito. Invece in seguito non era successo proprio niente. Con allegria ma correttamente i ragazzi si erano fatti i fatti loro, ascoltando la loro musica in quella notte di un blu opalescente. Adesso rumoreggiavano per Vedast. Il suono delle loro voci, il battito ritmico delle mani e dei piedi, assalì il cantante come un'ondata possente che sembrò investirlo e travolgerlo. Vedast se ne stette lì immobile, sotto i riflettori, a ricevere l'entusiastico tributo a testa china; i capelli luminosi gli spiovevano sulla faccia come un
argenteo cappuccio. Poi, all'improvviso, gettò indietro la testa e sollevò una mano. Il frastuono cessò, trasformato prima in un sommesso cicaleccio e poi in un totale silenzio. Nel silenzio generale una ragazza gridò "Zeno, ti amiamo!". Vedast sorrise. Qualcuno salì sul palco e gli consegnò uno strumento a corda a forma di bulbo. Vedast ne trasse un'unica nota bassa vibrante, una nota che per la folla doveva avere un significato esoterico perché provocò un gran sospiro e un brusio di soddisfazione. I giovani sapevano quale sarebbe stata la prima canzone, lo avevano capito da quella unica nota, e dopo i commenti di soddisfazione - un brivido di felicità che sembrò percorrere tutti gli ottantamila giovani presenti - tutti si accomodarono per ascoltare ciò che quella nota aveva fatto presagire. «S'intitola Let-me-believe» mormorò Burden. «John ce l'ha in un LP.» Poi aggiunse in tono piuttosto amaro: «In casa nostra la conosciamo meglio dell'inno nazionale.» «Io non la conosco» disse Wexford. Vedast fece vibrare di nuovo la stessa nota, e cominciò immediatamente a cantare. Era una canzone d'amore; parlava, per quanto Wexford riusciva a capire, di una ragazza che andava in casa del suo "ex", e non lo amava abbastanza, o qualcosa del genere, e le cose andavano male. Un tema non nuovo. Vedast cantava con voce bassa e chiara, con faccia inespressiva, ma la folla non lo lasciò andare oltre il primo verso. Riprese a rumoreggiare e a battere i piedi. Di nuovo Vedast restò immobile, a capo chino; di nuovo sollevò la testa, e suonò la prima nota. Questa volta lo lasciarono proseguire, facendo solo un brusio d'approvazione quando la sua voce si alzò di un'ottava per la seconda strofa. "Ricorda me, una pianta senza foglie, Torna una volta ad essere mia moglie, Regalami, ti prego, un'illusione Lasciami credere, inventa un'emozione." La musica era di tipo folk - orecchiabile, melodiosa, malinconica, adatta sia ai versi che alla tenera bellezza della notte. E anche la voce era perfettamente adeguata, una voce tenorile, non educata ma limpida. Vedast aveva quel che si dice "le physique du rôle": viso ossuto con un naso importante e una bocca grande, mobile; carnagione pallida sotto la luna; occhi molto chiari, forse nocciola chiaro o verde-azzurro. Le dita
lunghe, quasi scheletriche, non traevano dalle corde un vero accompagnamento, una vera melodia, ma una serie di note isolate, vibranti, cue sembravano echeggiare nel cervello di Wexford, e farlo nuotare. "Vieni ti prego, torna accanto a me, Vieni, ti prego, spiegami perché C'è chi non sente e chi prova dolore C'è chi sa mentire e chi ne muore." Quando ebbe finito di cantare, Vedast aspettò d'essere di nuovo investito dall'ondata di fragore, e l'ondata arrivò dal cuore della folla, una vera marea d'entusiasmo. La star restò mollemente immobile, a farsi travolgere dagli applausi, finché tre musicisti si unirono a lui, sul palco, e i primi accordi dei loro strumenti fecero cessare il frastuono. Vedast cantò un'altra ballata, che parlava di bambini al luna park, poi un'altra canzone d'amore. Benché non si fosse dimenato né agitato, aveva il petto - nudo e ornato di collane di perline colorate - lucido di sudore. Al termine della terza canzone restò di nuovo immobile, in posizione molle, sofferente, come se il suo cuore e la sua anima fossero esposti al pubblico e gli applausi e gli urli di entusiasmo lo stessero flagellando. Wexford si chiese come mai, nonostante la sua intensità, la sua semplicità, la sua serietà, Vedast non gli desse un'impressione di sincerità. Forse dipendeva solo dal fatto che lui, Wexford, stava diventando vecchio e cinico, ed era portato a sospettare che tutte le star mirassero solo a farsi pubblicità e riempirsi il portafoglio. Eppure una cosa del genere non l'aveva pensata a proposito di Betti Ho. I suoi toni aspri, e infantili, e la sua giusta rabbia gli erano piaciuti di più. Comunque doveva aver torto: a giudicare dal chiasso che stava facendo la folla mentre il suo idolo lasciava il palco, lui era l'unico a pensarla così - a parte, naturalmente Burden, che aveva deciso fin dall'inizio che non gli sarebbe piaciuto niente, e si era già allontanato in cerca di John. «Accidenti, quando ripenso alla mia giovinezza...» disse Wexford mentre insieme si dirigevano verso uno spiazzo dov'era arrivato un furgoncino che vendeva hot-dogs. «Quando penso alla convinzione generale che ci fosse qualcosa di sbagliato nel fatto di essere giovani... non vedevamo l'ora di essere più grandi, per poter competere con gli adulti, che erano esseri superiori e dominavano la situazione. Dicevano sempre: "Alla tua età non puoi capire, sei troppo giovane". Adesso sono i giovani che sanno tutto, che fanno testo in fatto di linguaggio e di comportamento e di abbiglia-
mento e i vecchi sono troppo vecchi per capire.» «Mah» rispose Burden. «Siamo di nuovo divisi in due categorie ben distinte: non i ricchi e i poveri, ma i giovani e i vecchi. Ti andrebbe un hot-dog?» «Magari.» Burden si mise in fila, ignorando con distacco le occhiate ostili che gli venivano lanciate, e comperò due hot-dogs da un ragazzo con un grembiule a righe. «Grazie.» «Grazie a te, papà» disse il ragazzo. Wexford rise di gusto. «Povero vecchietto! Spero che i tuoi vecchi denti ce la facciano a mangiare questa roba. Che effetto ti fa essere mio coetaneo?» E cercò di farsi largo tra gli altri in coda per raggiungere il furgoncino delle bibite, dicendo "Scusate". «Ehi, non spingere, nonno!» esclamò una ragazza. Questa volta toccò a Burden ridere di cuore. «Avevi detto "coetaneo"? Ce ne sono tre, di categorie: i giovani, i vecchi, e quelli di mezz'età. E ci saranno sempre. Andiamo a dare un'occhiata alla cava?» Per un'ora non ci sarebbe stata musica dal vivo. Adesso i giovani si erano messi a cucinare, o erano andati a comperarsi qualcosa da mangiare. Nell'aria c'erano un forte odore di fritto e degli sbuffi di fumo. Si vedevano già ragazzi e ragazze in maglietta rossa e gialla con la scritta "Concerto di Sundays" sul petto e sulle maniche. Il cerchio di luce delle lampade ad arco non era tanto grande da arrivare fino al torrente, ma di mano in mano che la notte si era fatta più fonda la luna era diventata via via più luminosa. Adesso nessuno faceva il bagno nelle acque limpide e poco profonde, ma chi lo aveva fatto prima aveva lasciato delle tracce dietro di sé - calzoncini, reggiseni e blue-jeans erano stesi sul parapetto del ponte ad asciugare. Wexford e Burden girarono attorno al bordo della cava: il fondo dei pantaloni s'impigliava nei rovi, la faccia era sferzata dai rami più bassi degli arbusti, le cui bacche a contatto della pelle sembravano perline di vetro ghiacciato. La zona sembrava completamente deserta, ma nella parte adiacente alle nuove costrizioni il filo spinato era stato tagliato e abbattuto. Il metallo contorto aveva riflessi argentei sotto la luna. Né Wexford né Burden riuscivano a ricordarsi se il filo era rotto anche il giorno prima. La cosa comunque non sembrava importante. Continuarono a camminare in silenzio, godendosi il piacere della notte, il profumo della spirea, e la musica sommessa, lamentosa che arrivava da lontano. Improvvisamente si aprì un cancello, nella recinzione dell'ultima casa del Sentiero, e ne uscì un uomo. Era un tipo alto, con una faccia dura ma
attraente, e un'aria inferocita. «Siete voi che fate tutto questo...» cercò la parola giusta «...tutto questo pandemonio?» «Come dite?» rispose Wexford, stupito. «No, sembrate troppo vecchi per far parte del pubblico.» «Siamo della polizia. C'è qualcosa che non va?» «Qualcosa che non va? Ce ne sono un sacco, di cose che non vanno! Mi chiamo Peveril, e abito lì.» L'uomo indicò la casa dal cui giardino era uscito. «Sono ormai ventiquattro ore che va avanti questa baraonda, e nelle ultime tre c'è stato il finimondo. Ho cercato di lavorare, ma non era assolutamente possibile. Che cosa intendete fare?» «Niente, signor Peveril, se nessuno infrange la legge.» Wexford piegò la testa da un lato. «Al momento non sento proprio niente, solo un brusio in lontananza.» «Allora si vede che state diventando sordo. Quaggiù gli alberi attutiscono il rumore... dovreste sentire dal mio studio!» «Siete stato preavvertito in anticipo. Domani sarà tutto finito. Abbiamo detto a quelli che abitano vicino a Sundays e che si preoccupavano per il concerto di andarsene via per il weekend, comunicandocelo prima.» «Già, per farsi invadere la casa da quei teppisti! So per esperienza che non ci si può aspettare un comportamento corretto da quella gente. Il peggio non è ancora arrivato.» Peveril rientrò nel suo giardino, sbattendo il cancello. «Avremmo dovuto chiedergli se aveva visto entrare degli abusivi» disse Burden sorridendo. «Per lui sono tutti degli abusivi.» Wexford annusò l'aria con gusto. Ci viveva, in quell'aria di campagna, c'era abituato. Per anni non si era curato d'assaporarla, ma adesso lo faceva non essendo sicuro di quanto sarebbe durata. La notte stava portando la sua umidità: nebbioline basse sulle distese erbose, bianchi vapori in movimento sulle pareti della cava. Una lepre uscì all'improvviso da un cespuglio di rose canine, si fermò un attimo a fissare i due uomini, poi partì a tutta velocità attraverso l'ampio prato argenteo, con le sue zampette goffe ma rapidissime. «Senti...» mormorò Wexford. «L'usignolo...» Ma Burden non ascoltava. Si era fermato a guardare nella macchia da cui era uscita la lepre, aveva guardato ancora un po' più in basso, si era sporto per vedere meglio, e si era voltato di scatto arrossendo per l'imba-
razzo. «Ma guardate che spettacolo! Questo è troppo! Oltre ad essere... be', disgustoso, è anche illegale. Dopo tutto questo è un luogo pubblico!» La coppia non era visibile dalla parte di Sundays. Era sdraiata in un piccolo avvallamento sul fondo della cava che formava una conca erbosa più o meno delle dimensioni di un letto matrimoniale. Burden aveva parlato ad alta voce, circa sei metri sopra le due teste, ma il suono non aveva disturbato il ragazzo e la ragazza, e la cosa ricordò a Wexford che secondo Kinsey in circostanze simili a volte non si sente nemmeno uno sparo a distanza ravvicinata. Stavano facendo l'amore. Erano entrambi nudi, sui diciotto, diciannove anni, fisicamente perfetti. Attraverso il lungo corpo inarcato del ragazzo le tremule foglie del frassino che li riparava disegnavano ombre leggere come piume. I due non facevano il minimo rumore. Erano completamente presi l'uno dall'altro, eppure sembravano al tempo stesso tutt'uno con l'ambiente circostante, come se la scena fosse stata creata proprio per loro da un dio benevolo, che l'avesse predisposta e avesse poi atteso impaziente che arrivassero degli innamorati a completarla. I capelli del ragazzo erano lunghi, inanellati, color oro; quelli della ragazza neri e sparsi, e sotto la luna la sua faccia sembrava intagliata nel cristallo. Wexford li fissò incantato; non riusciva a distogliere lo sguardo. Non era certo un voyeur, non provava nessuno stimolo erotico; ma si sentiva percorso da un brivido freddo, atavico, di fronte ad una scena che gli infondeva un antico timore riverenziale. Inondati dalla luce della luna, avvolti da una notte di un blu così intenso, quelli che aveva davanti agli occhi erano Adamo ed Eva, Venere ed Adone, "l'uomo" e "la donna" al principio del mondo. Argentea carne intrecciata su cui si proiettava il ricamo tremulo, in perenne movimento, dell'ombra delle foglie, quei due giovani corpi erano così belli, di una bellezza così struggente che Wexford si sentì prendere da un'emozione profonda, quasi di panico, di fronte al misterioso istinto della procreazione, di fronte a quella pulsione naturale in cui si avverte la presenza di un dio. Rabbrividì, e mormorò a Burden, quasi parafrasando le parole che l'altro aveva detto poco prima: «Andiamo via... questo è un luogo privato.» I due ragazzi non l'avrebbero sentito nemmeno se avesse urlato, proprio come non sentirono l'improvvisa vibrazione che arrivò dal palco né gli strilli, il battere di piedi, il fragore che accompagnò l'inizio di The Verb To
Be. 3 Non ci furono problemi. Un gruppo di Angeli dell'Inferno si presentò al cancello di Sundays, ma venne allontanato. Il muro non era abbastanza alto per impedire l'accesso, ma per lo meno non si poteva entrare in moto. Una tenda prese fuoco, ma nell'incendio non c'era niente di doloso - qualcuno aveva acceso un falò troppo vicino alla tela della tenda - e Silk alloggiò i "senzatetto" in una delle sue camere. Si continuò a cantare per tutta la notte: le canzoni malinconiche e quelle più vivaci si sentivano fino a Forby, e al posto di polizia di Kingsmarkham arrivarono in continuazione telefonate di protesta da parte degli esasperati cittadini, tra i quali Peveril. All'alba c'era un gran silenzio, quasi tutti dormivano. I falò erano spenti, e così pure le lampade ad arco, e il sole cominciava a brillare su Sundays in tutto il suo splendore. La giornata prometteva d'essere meno afosa, ma era sempre molto calda, tanto che ben presto i giovani cominciarono a fare il bagno nel ruscello e poi a far la fila davanti al furgoncino dei gelati. Entro mezzogiorno il viale si riempì di furgoncini che vendevano di tutto: cibo, bibite e souvenirs. Ad un certo punto sia la musica registrata che quella fatta da piccoli complessi di dilettanti cessò, ed Emmanuel Ellerman aprì la seconda giornata di concerto con la sua canzone di successo, High Tide. La nebbiolina che all'alba era vicino al suolo si era sollevata a formare una nuvolosità diffusa attraverso la quale filtrava, pallida, la luce del sole. C'era afa e si respirava a fatica. Il figlio di Burden, John, aveva avuto il permesso di tornare a sentir cantare Zeno Vedast per l'ultima volta. Si tenne alla larga da suo padre perché in quel contesto era imbarazzante avere per genitore un poliziotto. Mentre con Wexford si aggirava tra le tende. Burden fiutava l'aria, sospettoso. «C'è odore di marjiuana.» «Abbiamo già abbastanza cose a cui pensare senza starci a preoccupare anche di quelli che fumano l'erba» tagliò corto Wexford. «Il capo dice di chiudere un occhio, a meno che qualcuno troppo pieno d'acido vada in giro a disturbare gli altri o salti nella cava. Mi piacerebbe gustare il rumore che fanno quei musicisti ma non ce la faccio proprio... sono troppo vecchio, accidenti. Ah, hanno finito. E dopo chi c'è?» «A me sembrano tutti uguali sia nella musica che nell'aspetto.» Burden
continuava a cercare suo figlio, forse temendo che qualcuno potesse corromperlo, inducendolo a drogarsi, a far l'amore, e a farsi crescere i capelli. «Smettila di preoccuparti per il tuo ragazzo. Non è a lui che devi pensare. E poi l'ho visto poco fa davanti al furgoncino degli hamburger. Senti questo rumore? È l'elicottero di Betti Ho che viene a prenderla.» L'enorme elicottero giallo, come un insetto gigantesco di un film dell'orrore, si librò alto nell'aria, fece un piccolo giro, infine atterrò nel prato dietro la casa. I due poliziotti lo guardarono scendere, poi si unirono alla fiumana di gente che si dirigeva verso il punto d'atterraggio. La cantante cinese aveva un abito giallo - forse per essere in tinta con l'elicottero? - ed i capelli neri erano stretti in un codino. «Chissà quanti soldi le danno» osservò Burden. «Badate bene, ho detto "le danno", non "guadagna".» «Fa pensare la gente, perciò fa del bene. Meglio che li diano a lei, i soldi, piuttosto che a certi uomini politici. Ah, ecco il tuo John che è venuto ad assistere al decollo. No, non andare da lui, lascialo in pace. Si sta divertendo.» «Non volevo andare da lui. Non sono così stupido da non capire che preferisce ignorarmi. Ecco Vedast. Accidenti, sembra la conclusione di una visita di stato!» Wexford non trovò calzante il paragone. Moltissimi fans si erano ammassati tutt'attorno all'elicottero mentre Betti Ho, circondata da altri fans, parlava con Vedast, in jeans neri e sempre a petto nudo. Con loro c'era anche un'altra ragazza, e Vedast le teneva un braccio attorno alla vita. Wexford le si avvicinò per vederla meglio perché tra tutte le persone strane e vestite in modo stravagante che aveva visto a partire da quel venerdì quella era certo la più fantastica. Era alta quasi quanto Vedast e bella alla maniera vistosa, sensazionale, di una reginetta di bellezza. A Wexford sembrava impossibile che qualcuno potesse possedere naturalmente una tal massa di capelli: una criniera gonfia, spumeggiante, color biondo platino, che le faceva corona attorno alla testa e scendeva vaporosa fin quasi alla vita. Aveva un corpo perfetto, che le consentiva di portare ciò che indossava senza essere ridicola: aderentissima maglietta a canottiera, hot pants di maglia, stivali di pelle dorata alti fino alla coscia. Fin da dove si trovava, ad una ventina di metri di distanza, Wexford vedeva le ciglia finte e i lustrini multicolori che ornavano le palpebre. «Ma chi sarà?» disse rivolgendosi a Burden.
«Si chiama Nell Tate» spiegò Burden, stranamente informato. «È sposata con l'agente di Vedast.» «La vedrei meglio come moglie di Vedast. E tu come fai a saperlo?» «Come faccio a saperlo? Me l'ha detto John! Peccato che la musica pop non sia una materia scolastica... chissà che bei voti prenderebbe.» Wexford rise. Non riusciva a staccare gli occhi dalla ragazza, non perché lo attraesse o l'ammirasse, ma perché stava pensando al tipo di vita a cui faceva pensare il suo aspetto, un tipo di vita lontanissimo da tutto ciò che avevano conosciuto sia lui che la maggior parte dei presenti. Si diceva che Vedast fosse un ragazzo del posto che aveva fatto fortuna. E lei da dove veniva? E com'era arrivata ad essere, in quel momento, il centro di tanta attenzione, ad essere tenuta stretta in pubblico dal beniamino del pubblico? Vedast ritrasse il braccio e baciò Betti Ho su entrambe le guance. Era il tipico congedo dell'uomo di stato continentale, diventato di moda in una certa élite. Betti si voltò verso Nell Tate, e la baciò a sua volta. Poi salì sull'elicottero, e gli sportelli vennero richiusi. «Presto sarà tutto finito» disse Burden. «Che ore sono?» «Le quattro e mezzo. L'aria è molto pesante, ci sarà un temporale.» «Non vorrei proprio trovarmi in quell'aggeggio durante un temporale!» L'elicottero ronzò, fece ruotare l'elica, e si alzò. Betti Ho si sporse dal finestrino e salutò agitando una manica di seta gialla. I fans cominciarono a tornare nel parco, attratti da un suono amplificato di chitarre. Sul palco c'era un complesso di tre elementi. Ascoltandoli Burden cominciò a dare i primi segni d'approvazione dall'inizio del concerto. La specialità dei Greatheart erano delle rielaborazioni delle più famose canzoni di guerra, ma Burden non si era ancora reso conto che erano delle rielaborazioni e un sorrisetto tra il sentimentale e il sospettoso gli increspava le labbra. Martin Silk era seduto su un seggiolino da campeggio accanto alla cenere di un falò ormai spento e stava parlando con il giovane con la lunga tunica guarnita di piume. Faceva troppo caldo per portare una giacca, figurarsi poi una specie di pelliccia, ma il ragazzo non se l'era tolta dal suo arrivo, almeno per quanto risultava a Wexford. Forse la sua pelle bronzea era abituata a climi più tropicali. «Vedete? Neanche il più piccolo problema!» esclamò Silk sollevando lo sguardo. «Non direi proprio. C'è stato quell'incendio, è stata rubata una moto, e a quel tale che vende T-shirts hanno rubato un sacco di merce.» «Non c'è niente di male a rubacchiare qualcosa agli entrepreneurs» os-
servò il giovane in pelliccia, con voce morbida, sommessa. «Secondo la vostra filosofia, forse. Se la cosa non infrangesse la legge del paese, sarei d'accordo con voi.» «Succederà, amico, succederà. Ci sarà la rivoluzione.» Wexford non sentiva più parlare di un'auspicata rivoluzione come di un fatto seriamente prevedibile da quando era egli stesso un teenager, all'inizio degli anni '30. Evidentemente i giovani avevano sempre le stesse fissazioni. «Ma a quel punto non ci sarà più nessun entrepreneur, non è così?» Il giovane non rispose e si limitò a sorridere con dolcezza. «Louis studia filosofia all'Università del Sud» disse Silk con orgoglio. «Ed ha una sua teoria politica molto interessante. È disposto ad andare in prigione per le sue convinzioni.» «Be', non ci andrà certo per le sue convinzioni» assicurò Wexford sorridendo. «A meno che in base ad esse non crei dei disordini, voglio dire.» «Louis è il figlio maggiore di un grande capo. Un giorno il nome Louis Mbowele sarà legato alla storia degli stati africani emergenti.» «La cosa non mi sorprenderebbe» disse con convinzione Wexford. Nella sua mente vedeva già i titoli, il sangue, i disastri, la tirannia che sarebbero seguiti alle buone intenzioni. «Una laurea in filosofia, la teoria politica, la prigione britannica... presto avrà tutte le qualifiche necessarie. Vi auguro buona fortuna! Ricordatevi di me quando regnerete.» «La pace sia con voi» rispose l'africano con serietà. Burden si era fermato vicino al sovrintendente Letts della polizia in divisa. «Ormai hanno quasi finito, Reg» disse Letts. «Sì. Non per fare il guastafeste, ma non vedo l'ora che sia tutto concluso. Senza guai.» «E prima che arrivi il temporale. Sarebbe un bel problema far uscire tutta questa gente dal parco sotto un nubifragio.» Sul tetto della casa il cielo si era rabbuiato fino a farsi color indaco, e la stessa casa era immersa in quella luce livida, spettrale che c'è sotto una distesa di nubi prima di una tempesta. I carpini del viale, conici e robusti, erano troppo grossi per essere scossi dal vento crescente, ma i rami inferiori dei cedri avevano cominciato a gemere sbattendo contro l'erba, e le conifere accanto alla casa vibravano gemendo sotto la sferza del vento. Era un vento caldo, però, e quando Zeno Vedast salì sul palco era ancora seminudo. Cantò di nuovo la ballata Let-me-believe ad una folla silenziosa, resa tesa dall'aria densa, soffocante.
Wexford, che si era di nuovo allontanato un po' dagli altri e adesso si trovava sotto il palco, si vide accanto Nell Tate. Questa volta Vedast cantava senza accompagnamento, e lei gli teneva lo strumento. Non c'era niente d'eccezionale nel fatto che i suoi occhi fossero fissi sul cantante - lo erano anche settanta-ottantamila altre paia di occhi - ma mentre gli altri esprimevano entusiasmo, ammirazione, persino un atteggiamento critico, i suoi avevano un'espressione di intenso desiderio. Le labbra di un rosso cupo, scintillante, erano socchiuse, e la testa leggermente rovesciata all'indietro dava al collo una curva da cigno. Un po' annoiato dalla canzone, Wexford si divertì ad osservarla, finché ad un certo punto, all'improvviso, lei si voltò e lo guardò in faccia. Wexford rimase sbalordito. La giovane donna aveva un'espressione tragica, disperata, come se fosse stata privata per sempre di ciò che più desiderava. La sofferenza era ben visibile sotto il pesante fondo tinta color avorio, il fard rosato, l'ombretto verde-azzurro, e l'assurdo scintillio dei lustrini che aveva sulle palpebre. Ma perché? Era meno giovane di quanto Wexford avesse pensato a prima vista, ma non doveva ancora aver raggiunto la trentina. Che fosse innamorata di Vedast e non potesse averlo? La cosa era piuttosto improbabile, perché quando Vedast terminò la prima canzone si avvicinò al bordo del palco, si accovacciò e prendendo lo strumento a corde dalle mani di Nell baciò d'impulso la ragazza, lentamente ed appassionatamente, sulla bocca. Poi quando Vedast riprese a cantare Wexford notò che la ragazza sembrava più calma. Per qualche attimo le palpebre scintillanti erano rimaste chiuse sui begli occhi. «È tutto?» disse l'ispettore capo tornando da Burden. «Voglio dire, il concerto è finito?» Burden accettò senza protestare la parte di esperto di musica pop anche se nessun altro aveva meno competenza o meno entusiasmo di lui. «Ancora due canzoni dei Greatheart» rispose «poi ce ne andiamo tutti a casa. Alcuni se ne stanno già andando. Aspettavano soltanto di sentire la Scimmia Nuda.» «Che parole provocatorie, Mike, addirittura sacrileghe! A me Vedast è sembrato piuttosto bravo. Oh, ecco il furgoncino rosa e arancione. Hai visto? È tutto coperto di scritte. Una dice: "Il furgoncino è disponibile anche in edizione paperback".» Stavano togliendo le tende. I fornelli, le padelle e le scatole di caffè istantaneo venivano infilati negli zaini; una ragazza scalza vagava qua e là per cercare tra i rifiuti le scarpe che si era tolte ventiquattro ore prima. Il
futuro leader di un emergente stato africano aveva abbandonato le polemiche e si stava dedicando all'attività più prosaica di arrotolare il suo sacco a pelo. Martin Silk si aggirava tra la folla, sorridendo con regale benevolenza ai suoi giovani ospiti e con una certa trionfale ironia a Wexford. «Poveri Greatheart! Ce la mettevano tutta ed il pubblico non li ascoltava nemmeno» osservò Wexford. «Era chiaro che i ragazzi erano lì solo per Vedast.» Burden non lo sentì nemmeno, e disse: «Eccoli lì, il ragazzo e la ragazza che abbiamo visto ieri sera. Stanno arrivando direttamente dalla cava. Be', la loro piccola luna di miele ormai è finita. E, dall'aria che hanno, hanno litigato o sono stati morsi da qualche animale. L'hanno sempre detto che nel terreno Sundays ci sono delle vipere.» «La cosa ti farebbe piacere, eh?» commentò Wexford. «Sarebbe una giusta punizione per avere fatto ciò che accade con tanta naturalezza nel Giardino dell'Eden.» Il ragazzo e la ragazza non avevano affatto l'aria di aver litigato, né di essere stati feriti. Correvano come centometristi, tenendosi per mano. Con la loro versione sporca e sgualcita dell'uniforme maglietta-jeans, con i capelli lunghi gonfiati dal vento, avevano perso la primigenia bellezza della sera prima. La straordinaria magia era svanita. Adesso erano solo una banale coppia che correva a perdifiato, però... terrorizzata. Wexford si mosse nella loro direzione, improvvisamente preoccupato. Poi, arrivato davanti a loro, si bloccò. La ragazza era pallidissima, il suo respiro affannoso. «Siete della polizia, vero?» disse il ragazzo prima che Wexford potesse parlare. «Venite, per favore! Venite a vedere cosa...» «Nella cava...» intervenne la ragazza con voce roca. «Oh, vi prego... È stato un tale choc! A terra nella cava, c'è una ragazza... morta. Proprio morta! La sua faccia... è piena di sangue... orribile! Oh, mio Dio...» Si gettò nelle braccia del ragazzo, singhiozzando. 4 Un vero attacco isterico. «Spiegami tu» disse Wexford rivolgendosi al ragazzo. «Eravamo nella cava, circa dieci minuti fa...» Parlava a scatti, incespicando nelle parole. «Io... noi... io sono con un gruppo e Rosie è con un altro e... non ci vedremo per un mese. Volevamo starcene un po' per conto nostro ed era ancora chiaro e volevamo stare in un posto dove non ci po-
tessero vedere... Oh, Rosie, no, non fare così! Smettila di piangere! Non puoi calmarti un po'?» Intorno a loro si era raccolta una piccola folla. Wexford si rivolse ad una ragazza dall'aria efficiente: «Portala in una tenda e preparale del tè. Fallo forte e ben caldo. E qualcun altro vada a cercare il signor Silk e a farsi dare un po' di cognac. Su, andate! La ragazza vi racconterà tutto... sarà uno sfogo per lei.» Rosie lanciò uno strillo acuto. L'altra ragazza, quasi a giustificare la fiducia che Wexford aveva riposto in lei, le diede uno schiaffo sulla guancia pallida e bagnata. Rosie si zittì di colpo e la fissò stupita. «Così va meglio» disse Wexford. «Su, andate nella tenda. Vedrete che qualcosa di caldo le farà bene.» Tornò a rivolgersi al ragazzo: «Come ti chiami?» «Daniel. Daniel Somers.» «Allora avete trovato il corpo di una ragazza nella cava...» Improvvisamente i Greatheart attaccarono un nuovo pezzo. «Accidenti, potessimo avere un po' di silenzio! Dove l'avete trovato?» «Sotto dei cespugli... be', delle specie di alberi... dalla parte dove c'è il filo spinato.» Daniel rabbrividì, spalancando gli occhi per l'orrore. «C'erano delle mosche...» aggiunse. «Tutta la faccia era coperta di sangue... sangue raggrumato, e c'erano delle mosche... che ci camminavano sopra!» «Fammi vedere il punto esatto.» «È proprio necessario?» «Non ci vorrà molto» disse Wexford in tono gentile. «Non c'è bisogno che tu la guardi di nuovo, basta che ci faccia vedere dov'è.» Ormai il timore che fosse successo qualcosa di grave si era diffuso tra le tende vicine, e si facevano mille congetture. Alcuni ragazzi uscivano dalle tende per guardare, altri si sollevavano da terra, appoggiandosi al gomito, senza più ascoltare i Greatheart. Un brusio corse tra i presenti; evidentemente si stavano chiedendo se ci sarebbe stata una perquisizione per vedere se circolava della droga. Daniel Somers, pallidissimo, con gli occhi altrettanto stralunati di quelli della sua ragazza, adesso sembrava ansioso di liquidare tutta la faccenda. Scese rapidamente il pendio, seguito dai poliziotti con passo meno agile. Fino a quel momento non c'era niente da vedere, niente di allarmante. Sotto il cielo plumbeo, minaccioso, da cui non traspariva neanche un angolo d'azzurro, l'erba della cava sembrava di un verde più cupo, più livido. La strana luce che filtrava obliquamente dai bordi delle nubi dava un'intensa
luminosità al rosa tenue delle roselline selvatiche e alla parte inferiore, argentea, delle foglie di betulla, mentre si sollevavano e vibravano nel vento. Sul prato sottostante le campanule si agitavano come veri campanellini che suonassero senza far rumore. Daniel si fermò, esitante, a breve distanza dal punto in cui una giovane betulla si alzava dal folto della vegetazione. Rabbrividì, e sembrò sul punto d'avere egli stesso un attacco isterico. «È lì dentro...» mormorò indicando il punto. «Io non l'ho toccata.» Wexford annuì. «Adesso puoi tornare da Rosie.» I cespugli non avevano spine e furono sollevati facilmente. Circondavano i piedi dell'albero come una tenda che si allargasse attorno ad un palo di sostegno. Sotto, raggomitolato attorno alle radici dell'albero, giaceva il corpo della ragazza. Era in posizione quasi fetale, con le gambe ripiegate e le braccia raccolte in modo tale che le mani si congiungevano sotto il mento. Persino il forte stomaco di Wexford restò disturbato quando comparve la faccia, o ciò che era rimasto della faccia. Era una massa di carne maciullata, incrostata di sangue ormai scuro e coperto di mosche, che sciamarono e ronzarono pigramente allorché vennero spostate le foglie che le ricoprivano. C'era del sangue anche tra i capelli gialli, stopposi; li rigava, impastandoli in alcuni punti in duri nodi. E probabilmente c'era del sangue anche sull'abito rosso scuro, anche se non era visibile in quanto la stoffa aveva proprio il colore del sangue rappreso. I Greatheart si stavano ancora esibendo. «È stata uccisa una ragazza» disse Wexford a Silk. «Dovete farli scendere dal palco. Lasciatemi usare un microfono.» Tra la folla corse un brusio d'irritazione allorché nel bel mezzo di una canzone i musicisti smisero di suonare e si allontanarono. E il brusio si fece più minaccioso quando Wexford salì sul palco. Alzò una mano, ma senza risultato. «Silenzio, per favore! Ho bisogno di un po' di silenzio!» «Via! Via! Via!» gridarono i ragazzi. D'accordo. Tanto valeva dirlo chiaro e tondo, e chissà che questo non riuscisse a zittirli. «È stata assassinata una ragazza» annunciò alzando il volume di voce. «Il cadavere è nella cava.» Le voci cessarono di colpo, e si creò il necessario silenzio. «Grazie. Non sappiamo ancora chi sia. Nessuno
deve lasciare Sundays finché io non darò l'autorizzazione. Capito?» Nessuno disse niente. Wexford provò una gran pena per quei ragazzi, per il loro concerto così rovinato, per le loro giovani facce prima così entusiaste e adesso fredde e sgomente. «Chiunque avesse notato l'assenza di una ragazza del suo gruppo... una ragazza bionda e vestita di rosso... è pregato d'informarmene.» Silk si comportò come se fosse stato Wexford stesso ad uccidere la ragazza e a metterla nella cava. «Andava tutto così bene...» gemette. «Perché doveva succedere proprio una cosa simile? Sarà una nuova arma nelle mani dei parrucconi che vogliono bloccare tutte le libere iniziative e imbavagliare i giovani... Vedrete se non ho ragione!» E guardò con aria assente il cielo, i minacciosi nuvoloni neri che stavano arrivando da ovest. Un ragazzo toccò il braccio a Wexford e gli disse: «Dal nostro gruppo è scomparsa una ragazza... Nessuno l'ha più vista da questa mattina. Pensavamo che fosse andata a casa, perché non si divertiva molto.» «Com'era vestita?» Il ragazzo ci pensò un momento, poi disse: «Indossava dei Jeans e un top verde, mi pare.» «Capelli biondi? Calze e scarpe lilla?» «No, no, è bruna, e non aveva addosso niente del genere.» «Allora non è lei.» Stava cominciando a piovere. L'ispettore capo ebbe una breve, angosciosa visione della pioggia che sarebbe scesa a fiumi, trasformando l'erba calpestata in un mare di fango, sferzando le fragili tende. E nel frattempo, certo per tutta la notte, lui e tutti i poliziotti che sarebbe riuscito a racimolare avrebbero dovuto interrogare teenagers fradici, infelici, e magari terrorizzati. Erano arrivati i fotografi. Wexford vide la loro macchina procedere sobbalzando sulle dure zolle e fermarsi al ponticello di legno. Una volta che la vittima fosse stata fotografata si sarebbe potuto rimuoverla e magari cominciare il lavoro d'identificazione. Sentì uno spruzzo d'acqua fredda sulla mano; le prime gocce avevano cominciato a cadere. «Mi stavo chiedendo se potremmo radunarli tutti nella casa» disse Silk. Ottantamila persone in una sola casa? D'altra parte era una grande costruzione... «Impossibile. Toglietevelo dalla testa.» Alle sue spalle una ragazza si schiarì la voce per attirare la sua attenzio-
ne. In realtà le ragazze erano due, e una di esse aveva in mano un soprabito di velluto nero. «Sì?» chiese Wexford con impazienza. «Non vediamo la nostra amica da ieri sera... ha lasciato il soprabito nella tenda ed è sparita. Non riusciamo a trovare né lei né il suo ragazzo, e abbiamo pensato... abbiamo pensato...» «Che potesse essere la ragazza che abbiamo trovato noi? Descrivetemela.» «Ha diciotto anni. Capelli molto scuri, molto carina. Era in bluejeans. Oh, non è lei, vero? Si chiama Rosie e il suo ragazzo...» «Si chiama Daniel.» Mentre la ragazza lo fissava sbalordita dalla sua onniscienza, Wexford aggiunse: «Rosie sta bene.» Indicò un punto dell'accampamento. «È là, in quella tenda.» «Grazie! Mio Dio, eravamo così spaventate...» Wexford si chiese quanti altri falsi allarmi ci sarebbero stati prima che si potesse dire "Sì, sembra proprio lei". Vide avvicinarsi con passo deciso il dottor Crocker: snello, elegante, energico. Il medico legale indossava un impermeabile bianco, e al braccio portava un ombrello oltre alla solita borsa. «Sono stato via per il weekend, Reg, seguendo il consiglio dei tuoi uomini. Volevo tenermi alla larga da tutto questo. Ma cos'è successo?» «Non te l'hanno detto?» «No, mi hanno detto solo che c'era bisogno di me.» «C'è una ragazza morta nella cava.» «Davvero? È una di loro?» chiese Crocker, indicando con un gesto vago la folla. «Non lo so. Andiamo a vedere.» La pioggia adesso cadeva leggera, ad intermittenza, come succede dopo un periodo di siccità e prima di un diluvio, come se ogni goccia venisse spremuta a fatica. Tre macchine della polizia erano riuscite a passare sul terreno accidentato ed erano ferme sul bordo della cava. All'interno della cava i fotografi avevano completato il loro lavoro, il sottobosco era stato tagliato ed era stata eretta una protezione di tela cerata per nascondere il cadavere. Nonostante questo, numerosi ragazzi e ragazze se ne stavano accoccolati o sdraiati tutt'attorno alla cava, a discutere tra loro con espressione disorientata. «Tornate tutti alle vostre tende!» disse Wexford. «Così vi bagnerete e
non vedrete niente.» Lentamente i giovani cominciarono a muoversi. «Su, da bravi! Lasciate che sia la gente ignorante ad avere il gusto del macabro. La vostra generazione dovrebbe essere al di sopra di queste cose.» Erano le parole giuste, e fecero il loro effetto. Qualcuno addirittura sorrise, senza allegria. Quando Wexford e il dottore arrivarono faticosamente sul prato in fondo alla cava - le campanule erano ormai ridotte ad una poltiglia - i curiosi si erano già dispersi. Crocker s'inginocchiò accanto al cadavere per esaminarlo. «È morta da almeno cinque giorni.» Wexford si sentì sollevato. «Era già morta prima che cominciasse il concerto» continuò Crocker. «E non era una ragazzina. Direi che doveva essere tra i ventisette e i trenta.» Sotto la protezione di tela cerata le mosche erano fitte e rumorose. Wexford ruotò il cadavere su un fianco, mettendo allo scoperto la grande borsetta di pelle lilla che vi stava sotto. Borsa, scarpe e collants erano tutti in tinta, e facevano a pugni con il rosso scuro dell'abito. Wexford aprì la borsa e ne rovesciò il contenuto su un foglio di plastica. Tra l'altro c'era una busta indirizzata alla signorina Dawn Stonor - 23 Philimede Gardens Londra, S.W.5. Dentro c'era una lettera con l'indirizzo del mittente - Lower Road, Kingsmarkham. Diceva: Cara Dawn, mi farà piacere vederti lunedì ma m'immagino che sii una delle tue solite visite lampo e che non ti vorrai fermarti a dormire. La nonna ha avuto una delle sue solite crisi ma adesso va meglio. Ho ritirato dalla tintoria i pantaloni e la camicetta malva che avevi lasciato qui, così quando vieni te li puoi portarteli via. Mi hanno fatto pagare 65 pence, che quelli li offro io. Ci vediamo lunedì. Ciao - mamma. Wexford notò le sgrammaticature ed il linguaggio approssimativo della lettera. E nella lettera lo colpì anche qualcos'altro, ma di quello avrebbe potuto occuparsi in seguito. La cosa più importante era che l'identificazione era stata inaspettatamente facile e rapida. «Fa' pure rimuovere il corpo» disse al sergente Martin. «Poi vorrei che fosse esaminata la cava.» Aveva del sangue sulla mano, sangue fresco. Com'era possibile che provenisse da un corpo morto da cinque giorni? Guardò meglio e si rese conto che il sangue era suo e usciva da una piccola ferita vicino alla base del pollice. «Ci sono frammenti di vetro sparsi dappertutto» osservò perplesso. «L'hai notato solo adesso?» Crocker fece una risatina aspra, senza allegria. «Così non devi starti a preoccupare di trovare un'arma.»
I ragazzi erano arrivati a frotte, allegri e rumorosi - chi in macchina, chi in treno, chi in autobus - in una bella giornata d'estate per sentire della musica, e portando con sé la propria musica, e adesso ripartivano mogi, in silenzio, sotto una pioggia battente. In genere non avevano dormito più di una dozzina di ore in tutto il weekend. Avevano la faccia stravolta, sporca e pallida. Nessuno correva. Nessuno faceva scherzi. Smontavano le loro tende bagnate e si mettevano in spalla i loro zaini, lasciandosi dietro una montagna di rifiuti. Dirigendosi verso il cancello in lunghe file disordinate sembravano profughi che si allontanassero dal luogo di un disastro. Daniel camminava al fianco di Rosie, con un braccio attorno alle sue spalle, e con l'altro braccio teneva ferma la tenda arrotolata che aveva sulla spalla e che urtava continuamente lo zaino color cachi. Louis Mbowele uscì dal cancello senza sollevare gli occhi dal libro che stava leggendo. I ragazzi masticavano dolci e si passavano in silenzio bottiglie di vino, noncuranti, nella loro intristita massoneria, di chi fosse a pagare e chi a bere. Stretti l'uno all'altro, s'accendevano sigarette riparando la fiammella del fiammifero dalla pioggia. I lampi squarciavano il cielo sopra Stowerton, e i tuoni borbottavano in direzione ovest. Dalle rapide nubi bluastre, nere e minacciosamente plumbee - la pioggia cadeva a scrosci sui giovani e sulle cose facendoli sembrare detriti trascinati da una marea. I cedri sollevavano le loro braccia nere, ricoperte di foglie appuntite, e le agitavano in su e in giù, colpendo quelle che prima erano state delle zolle erbose. Adesso non lo erano più: migliaia e migliaia di giovani piedi avevano rasato l'erba, lasciandone solo una traccia secca, senza vita. La pioggia cadeva su acri di bruno deserto. Una canadese rossa col telone strappato era stata abbandonata lì; continuò a sbattere nel vento come un'enorme farfalla sul punto di annegare, finché, impregnata di pioggia, crollò ai piedi del palco. Il torrente aveva cominciato a gonfiarsi e portava con sé, sotto la strada per Forby, una gran quantità di sobbalzanti relitti: carte, lattine, batterie per radioline a transistors, e scarpe scompagnate. 5 Con la pioggia arrivò una specie di falsa notte, un gocciolante crepuscolo anticipato, che fece rientrare tutti nelle proprie case; tutti, cioè, ad eccezione dei giovani in partenza che sotto la pioggia scrosciante procedevano
alla volta di Kingsmarkham. Fradice e tremanti, le lunghe processioni avanzavano verso gli autobus, verso la stazione. Alcuni restavano indietro, sulla strada per Forby, nella speranza di ottenere un passaggio; speranza frustrata ogni volta che una macchina li superava senza fermarsi, che un automobilista, allarmato dai loro abiti infangati e dai loro lunghi capelli bagnati, li respingeva. Si portarono verso il centro-città, aspettando in fila qualsiasi autobus arrivasse, formando code che si allungavano per tutta High Street. Un gruppo di giovani invase il centro, ma la periferia, le strade secondarie, erano deserte. In Lower Road, dove tutte le porte e le finestre erano chiuse, tutte le tende tirate, mentre la pioggia tambureggiava sulle file di macchine parcheggiate lungo i marciapiedi, sembrava d'essere in pieno inverno. Solo le rose nei giardinetti anteriori di quelle tozze case popolari in mattoni rossi, il fogliame abbassato dei ciliegi, facevano pensare che ci sarebbe dovuto essere il sole, che dopotutto era una sera di giugno. Il numero 15 corrispondeva ad una casa identica a quelle vicine, con la stessa pianta rampicante sopra la porta d'ingresso, gli stessi fiori rosa che facevano a pugni con il rosso-bruno dei mattoni, le stesse tende di rete bianca, incrociate come il corpino di un negligé, alle finestre. Dall'unico camino sporgeva un intrico d'antenne televisive che vibrava sotto il vento. Wexford risalì lentamente il vialetto d'accesso. La pioggia era così forte che dovette aprire l'ombrello anche per coprire il breve tragitto tra la macchina e la casa. Detestava interrogare i parenti delle vittime, si odiava per il fatto d'intromettersi nel loro dolore e di sentirsi irritato, pur senza darlo a vedere, allorché essi si lasciavano sopraffare dai ricordi e le lacrime impedivano loro di parlare. Adesso sapeva che Dawn Stonor era senza padre. Sua madre era una donna nella landa desolata dell'avanzata mezza età, sola e probabilmente distrutta dal dolore, e bisognava interrogarla. Bussò con delicatezza alla porta. Gli aprì l'agente investigativo Polly Davies. «Come sta la signora Stonor, Polly?» «Sta bene, signore. A quanto pare restava ben poco affetto tra lei e la figlia. Erano dieci anni che Dawn non viveva più con lei.» Terribile sentirsi sollevati per una mancanza d'amore... «Devo parlarle.» La signora Stonor era stata accompagnata all'obitorio e poi riportata a casa, con una macchina della polizia. Aveva ancora addosso il soprabito ed era seduta in salotto, sulla sua poltrona, a bere del tè. Il cappello di paglia
rossa era ancora sul bracciolo della poltrona. Era una donna robusta, dalla faccia grassoccia, sui cinquantacinque, con delle brutte vene varicose ed i piedi gonfi strizzati in scarpe scollate a tacco alto. «Ve la sentite di darmi delle informazioni, signora Stonor? Temo che sia stato un gran brutto colpo per voi.» «Che cosa volete sapere?» disse bruscamente la donna, con voce aspra e stridula. «Io non lo so perché è finita in quella cava. Lui l'ha conciata proprio male, eh?» Wexford non restò particolarmente sconcertato. Sapeva che in molte persone c'era una certa tendenza sadomasochistica, e che persino chi aveva da poco subito un lutto a volte aveva il gusto del macabro, il bisogno di soffermarsi con compiaciuto orrore sulle pene inflitte al proprio congiunto. Che tali sentimenti vengano espressi o meno dipende più dal grado di autocontrollo che dall'intensità del dolore. «A chi vi riferite dicendo "lui", signora Stonor?» La donna si strinse nelle spalle. «A qualche uomo. Ce n'era sempre uno, di uomo.» «Come si guadagnava da vivere vostra figlia?» «Faceva la cameriera in un club. In un locale chiamato The Townsman, a Londra, in qualche punto del WestEnd.» Poi la donna aggiunse con uno sguardo provocatorio, aggressivo: «È un locale per uomini. Le ragazze si mettono degli stupidi costumi che sembrano dei costumi da bagno con la gonna, e lasciano vedere tutto. "Disgustoso!" le ho detto una volta. "Non parlarmene, non voglio saperlo." Suo padre si sarebbe rivoltato nella tomba, se avesse saputo cosa faceva Dawn!» «Lunedì è stata qui?» «Sì.» Si tolse il soprabito. Era molto robusta e portava un busto molto rigido. Il suo viso aveva dei lineamenti duri, ostili, ed era difficile dire se in quel momento fossero più duri e ostili del solito. «Una ragazza per bene non ci va in una cava con un uomo» dichiarò con enfasi. «Lui le ha fatto qualcosa?» La domanda era grottesca tra persone che avevano visto il cadavere con i loro occhi, ma Wexford capì che cosa intendeva dire. «Non c'è stato né stupro né rapporto sessuale.» La donna arrossì violentemente. Wexford pensò che stesse per protestare per il suo modo brusco d'esprimersi, invece si lanciò spontaneamente a raccontare tutto ciò che lui desiderava sapere. «È venuta in treno... quello
che arriva qui alle undici e mezzo. Le ho preparato la cena, una bistecca... le piacevano le bistecche.» La voce aspra s'incrinò leggermente. «Poi abbiamo chiacchierato un po'... A dire la verità non avevamo più molto da dirci.» «Potete dirmi di che cosa avete parlato?» «Non certo di uomini, se è questo che intendete dire! Era arrabbiatissima per via di un bambino che c'era sul treno e che si era pulito le dita sul suo vestito. Era un vestito nuovo, una di quelle cose mini che fanno vedere tutte le gambe. Le ho detto che avrebbe dovuto toglierselo, e l'ha fatto.» «E si è messa il vestito rosso con cui è stata trovata?» «Nemmeno per sogno! Quello non era suo, non so nemmeno da dove arrivasse. Avevo un suo completo color lilla che era qui perché l'avevo ritirato dalla tintoria... un abito pantaloni, mi pare che si dica... e si è messa quello. Anche le scarpe che aveva addosso erano color lilla, perciò andava bene. Be', come ho già detto, abbiamo chiacchierato un po', poi lei è andata su a salutare la nonna... cioè mia madre, che vive con me... e poi se n'è andata, per prendere il treno delle quattro e un quarto. È uscita da qui poco prima delle quattro.» Wexford assunse un'espressione pensierosa. «Pensavate che sarebbe andata direttamente a Londra?» «Certo. Aveva detto così: "Devo essere al club per le sette". Si è portata via il vestito azzurro, in una borsa, dicendo che doveva correre se non voleva perdere il treno.» «Ancora un paio di cose, signora Stonor, poi vi lascerò in pace. Vorrei sentire la descrizione dell'abito pantaloni, se non vi dispiace.» «Molto vistoso, ecco com'era. Sembrava più in pigiama che una cosa che si porta in strada. Aveva dei pantaloni un po' a campana e una specie di tunica corta. Era di nylon color lilla, con un bordo un po' più scuro attorno alle maniche e in fondo alla tunica. A Dawn piaceva vestirsi in modo vistoso.» «Avete una sua fotografia?» chiese Wexford. La signora Stonor gli gettò un'occhiata sospettosa. «Come, con quel vestito?» «No, una foto qualsiasi.» «Ce n'era una che mi aveva mandato per Natale... Strana idea regalare una foto alla madre per Natale!, ho pensato. Posso farvi vedere quella, se volete.» Andò a prendere la fotografia, un ritratto fatto in uno studio fotografico.
Non era mai stata incorniciata, e dal suo stato perfetto Wexford intuì che non era mai stata mostrata con orgoglio alle amiche della signora Stonor, ma tenuta sempre in un cassetto. Dawn era una ragazza dai lineamenti pesanti, piuttosto volgare, e molto truccata. I capelli biondi erano rialzati in una pettinatura elaborata e cotonata, una voluminosa struttura che ricordava i bal-en-tête delle bellezze del diciottesimo secolo, o magari delle attrici che sostenevano tale parte. Portava un abito da sera di seta azzurra, molto scollato, che le lasciava scoperte buona parte del seno e le spalle. La signora Stonor guardò la foto con aria irritata, ostile, e Wexford si rese conto che doveva esser stato un regalo molto deludente per una madre del suo tipo. Dawn aveva ventotto anni. Per poter piacere alla signora Stonor la fotografia avrebbe dovuto mostrare non solo una figlia ma dei nipotini, una fede nuziale sulle dita atteggiate in modo così innaturale, e sullo sfondo una casa modesta ma ben tenuta, acquistata con un mutuo. Wexford provò un senso di pena per quella madre che non era più una madre, un'improvvisa solidarietà, che però svanirono di colpo allorché la donna gli disse mentre stava uscendo: «Per quell'abito pantaloni...» «Sì?» «Be', era quasi nuovo. L'aveva comperato solo l'inverno scorso. Voglio dire, conosco una signora che me lo pagherebbe cinque sterline...» Wexford la guardò con gli occhi stretti a fessura, cercando di non dare a vedere il suo disgusto. «Noi non sappiamo dove sia finito, signora Stonor. Forse a quella signora interesserebbero le scarpe e la borsetta... quelle potrete averle a suo tempo.» L'esodo continuava. Ormai si era fatto buio, una notte senza stelle sferzata dal vento e continuamente inondata dalla pioggia. Wexford tornò in macchina alla proprietà Sundays dove, su entrambi i lati della strada per Forby, macchine della polizia controllavano la zona o se ne stavano ferme in pozze di tremula acqua nera. Ad un certo punto Burden lo individuò, e salì in macchina al suo fianco. «Allora? Niente d'importante?» chiese Wexford. «Non molto, signore. Qui nessuno ricorda d'aver visto una ragazza vestita di rosso in tutta la settimana. Lunedì pomeriggio però pare che una donna di Sundays Grove, una certa signora Lorna Clarke, abbia visto una ragazza bionda che corrispondeva alla descrizione della vittima, ma che por-
tava...» «Un abito pantaloni color lilla?» «Giusto! Allora era lei? Me l'immaginavo dato che la signora Clarke aveva parlato di scarpe e borsetta color lilla... Ma allora da che parte arrivava il vestito rosso?» Wexford scosse la testa. «Comincio ad avere l'impressione che la ragazza sia morta lunedì. Quel pomeriggio è uscita dalla casa di sua madre poco prima delle quattro. Quando e dove l'avrebbe vista la tua signora Clarke?» «L'ha vista scendere dall'autobus delle cinque e venticinque, da Kingsmarkham, e attraversare la strada in direzione del Sentiero. E qualche minuto dopo l'ha vista anche qualcun altro, sul Sentiero.» «Quello dove ci sono le case che, sul dietro, danno sulla cava, vero? Continua.» «Sul Sentiero ce ne sono solo cinque, di case: due bungalows e tre case vere e proprie. Se vi ricordate, non hanno più costruito da quelle parti. La gente ha fatto un sacco di storie e il ministero si è rimangiato l'autorizzazione a costruire. La seconda donna che ha visto la vittima abita nell'ultima casa.» «Non sarà per caso la moglie di quel tale che ci ha fatto tutte quelle storie sabato sera?» Burden annuì. «È una certa signora Peveril, signore. Se ne stanno sempre in casa tutt'e due... Lui è un grafico, e lavora in casa. Sua moglie dice d'aver visto verso le cinque e mezzo una bionda vestita di lilla arrivare lungo il Sentiero e imboccare la stradina che porta a Stowerton attraverso i campi. Ha dato una descrizione molto dettagliata dell'abito pantaloni, delle scarpe e della borsetta, ma, naturalmente, non potevo essere sicuro che si trattasse proprio della vittima... Non riuscivo a capire come mai portasse un abito lilla. La signora Peveril ha anche detto che la ragazza aveva con sé un sacchetto della spesa.» «Era senz'altro Dawn. Si era tolta il vestito azzurro, per mettersi quello lilla, e ovviamente nel sacchetto della spesa ci sarà stato quello azzurro. A quanto pare si è cambiata parecchio, non trovi? Chissà poi perché. Nessun altro aiuto dal Sentiero?» «Non l'ha vista nessun altro. Ognuno dei due bungalows è abitato da una sola persona, e tutt'e due le persone erano fuori all'ora che interessa a noi. La signorina Mowler è un'infermiera in pensione , e lunedì è rimasta fuori fino alle otto. E Dunsand... insegna all'Università del Sud, filosofia o qualcosa del genere... è tornato a casa dal lavoro solo dopo le sei e mezzo. Non
sono riuscito a trovare nessun altro che l'abbia vista lunedì, o in qualsiasi altro momento. Secondo me la ragazza ha conosciuto casualmente qualcuno e gli ha dato appuntamento per quella stessa sera in qualche punto tra Sundays e Stowerton.» «S-sì. È probabile. Ha lasciato sua madre alle quattro, e deve aver preso l'autobus delle cinque e dodici... come sai, nel pomeriggio ce ne sono solo due, di autobus che vanno a Forby. E che cosa avrà fatto nei settanta minuti che le restavano? Dobbiamo scoprire se qualcuno l'ha vista in High Street. E poi c'è anche la pista di Londra, ma a Londra ho già provveduto a mettere in moto le cose.» «Volete parlare con la signora Peveril?» «Adesso no, Mike. Dubito che si possa combinare qualcosa questa sera. Aspetterò che finiscano d'interrogare la gente di casa in casa. Può darsi che scoprano qualcos'altro, che qualcuno l'abbia vista più tardi. Non voglio fare supposizioni per il momento.» Burden scese dalla macchina, riparandosi la testa con l'impermeabile, e si allontanò sotto la pioggia. Wexford invertì direzione di marcia e ripartì lentamente sotto la pioggia incessante, gettando un'altra occhiata a Sundays, dove gli ultimi ritardatari stavano lasciando mogi mogi il parco. 6 Nelle prime ore del mattino seguente si stabilì che la signora Margaret Peveril, abitante al numero 5 del Sentiero, era stata con ogni probabilità l'ultima persona a vedere in vita Dawn Stonor. Il 6 giugno, lunedì, Dawn aveva imboccato la stradina tra i campi, ed era sparita. Alle nove Wexford e Burden erano di nuovo sul Sentiero. Nel frattempo era già stata predisposta una sede d'emergenza per i colloqui col pubblico in un grande locale annesso alla chiesa battista, dove il sergente Martin e una squadra di agenti investigativi aspettavano di parlare con chiunque potesse aver visto Dawn il precedente lunedì pomeriggio. La fotografia della ragazza era stata ingrandita in dimensioni da poster per stimolare i ricordi, e ne era stata fatta un'altra a Polly Davies con una parrucca bionda e con un abito molto simile a quello lilla descritto dalla signora Stonor. Durante la notte la pioggia era cessata e la città ed i dintorni sembravano panni lavati a fondo e stesi ad asciugare. Tutto il calore estivo se n'era andato insieme al temporale, lasciando un cielo imbronciato e cosparso di nubi, un forte vento, e una temperatura invernale.
A Sundays, Silk stava bruciando l'immondizia lasciata da ottantamila persone durante il fine settimana. Una fila di falò ardeva a ridosso del muro di recinzione e il vento portava acri nubi di fumo bianco sulla proprietà Sundays, sulla strada per Forby e sulla spoglia distesa bruna del parco. La piccola mandria di cavalli frisoni era tornata al suo pascolo e se ne stava raccolta sotto i cedri, allarmata dal fumo. Il Sentiero ricordava un braccio col gomito piegato: la spalla era il punto d'incontro con la strada per Forby, il polso e la mano, o per meglio dire l'indice puntato, erano una stradina che arrivava fino a Stowerton passando tra dossi erbosi e boschi cedui. Lungo il braccio erano stati costruiti due bungalows e tre case, ma all'altezza della piega del gomito c'erano solo campi aperti. I due bungalows erano identici: piuttosto grandi, dipinti di rosa, col tetto di tegole rosse e un garage esterno. Erano "completamente circondati dal giardino", come dicevano gli agenti immobiliari, avevano cioè un pezzetto di giardino anche sui lati oltre che sul davanti e sul dietro. Distavano tra loro circa sei metri, e altri sei metri più in là c'era una casa a due piani. I suoi materiali di costruzione erano simili a quelli delle altre due case che si trovavano nella parte corrispondente all'avambraccio - mattoni rossi, pietra bianca, legno di cedro - ma le dimensioni e la forma erano diverse. Tutt'e tre avevano un prato piuttosto spelacchiato, e delle aiuole di fiori dall'aria un po' infelice. «I primi a stabilirsi qui sono stati i Peveril» spiegò Burden. «La loro casa è stata finita a gennaio. Sia la signorina Mowler che Dunsand sono arrivati in marzo. Dunsand veniva da Myringham, la signorina Mowler da Kingsmarkham, e i Peveril da Brighton. I Robson si sono ritirati qui, da Londra, in aprile, e gli Street sono arrivati il mese scorso, dal nord.» «Tutte le costruzioni hanno un cancello che dà su quel tratto di terra che le separa dalla cava?» chiese Wexford. «No, solo quella dei Peveril e i due bungalows. Avrebbero dovuto costruire una piccola strada anche sul retro, ma qualcuno ha impedito che venisse concessa l'autorizzazione.» «Andiamo a fare quattro chiacchiere con la signora Peveril.» Era una donna molto nervosa, molto tesa, che a Wexford sembrò vicina ai quaranta. Aveva un aspetto disordinato, e il suo non era il tipo di disordine che vuole la moda. Evidentemente seguiva ancora la moda della sua giovinezza: gonna ampia, un po' lunga, tacchi a spillo. Wexford la classificò immediatamente in una categoria particolare e tutt'altro che rara: quella della donna protetta e all'antica che, senza figli e completamente dipenden-
te dal marito per tutti i suoi bisogni emotivi, tende ad essere sospettosa nei confronti del mondo esterno. Donne così sono disposte a tutto pur di conservare la propria sicurezza e la propria assoluta tranquillità domestica, perciò Wexford fu piuttosto sorpreso dal fatto che la signora Peveril avesse offerto spontaneamente delle informazioni sulla vittima di un delitto. «Tutto quel fumo...» disse in tono lamentoso, facendo strada nel fin troppo ordinato soggiorno. «Non è terribile? Non potrò stendere il bucato per ore. Era già seccante aver qui quella gentaglia per tutto il weekend... non ho chiuso occhio. C'era un chiasso infernale. Non mi meraviglia proprio che sia stato ammazzato qualcuno!» «Il delitto è stato commesso vari giorni prima che avesse inizio il concerto» precisò Wexford. «Davvero?» La donna sembrava poco convinta. «Quando ho saputo che c'era stato un delitto ho detto a mio marito: "Evidentemente qualcuno si è imbottito di droga, e ha esagerato". Vi dispiace non sedervi su quel cuscino? Ci ho appena messo una fodera nuova.» Wexford si trasferì su una sedia col sedile di pelle. «Così avete visto la ragazza.» «Certo che l'ho vista! Su questo non c'è dubbio.» Una risatina nervosa. «Non conosco molta gente da queste parti, a parte la mia amica che abita in fondo alla strada, ma sono sicura che quella ragazza non era di qui... Qui la gente non va in giro vestita in quel modo.» «Che cosa in particolare ve l'ha fatta notare?» «Se avete intenzione di farmi un sacco di domande voglio che sia presente mio marito. Vado a chiamarlo. Sta lavorando ma non gli dispiacerà smettere per un po'. Potrei dire... be', potrei dire qualcosa di sbagliato se lui non fosse qui. Vado a chiamarlo.» Wexford si strinse nelle spalle. La "cosa sbagliata" poteva essere proprio quello che lui voleva farle dire; d'altra parte la signora Peveril aveva richiesto la presenza del marito così come altri chiedono quella del proprio avvocato, magari avendone minor necessità. Non c'era motivo di rifiutarle il permesso. Quando Peveril entrò nella stanza, Wexford si alzò con un sorriso accattivante. «Voi non l'avete vista, la ragazza, signor Peveril?» «No, stavo lavorando.» Peveril era uno di quei tipi che parlavano del lavoro e del fatto di lavorare come se ne avessero l'esclusiva, come se si trattasse di una pesante croce che solo loro devono portare, mentre il resto del mondo se ne sta beatamente in vacanza. «Io lavoro dieci ore al giorno... ci
sono costretto, con quel che mi costa questa casa! Ho saputo della ragazza solo quando me ne ha parlato mia moglie, ieri sera, dicendo che aveva fornito delle informazioni alla polizia.» Fissò Burden con espressione astiosa. «Quando siete venuti voi stavo lavorando.» «Noi non vorremmo impedirvi di lavorare...» «Oh, Edward, per favore, non andare via! Ieri sera hai detto che ero stata sciocca a dire quel che avevo detto, e adesso...» «Posso concedermi una piccola sosta» accondiscese Peveril con aria cupa. «È dalle otto che lavoro, dato che non sono riuscito a concludere niente in tutto il weekend per via di tutto quel caos. Sono stanchissimo.» Un po' rassicurata ma sempre nervosa, sua moglie attaccò immediatamente il suo racconto. «È stato un puro caso che io fossi qui. Avevo intenzione di andare al cinema... mio marito aveva visto quel film a Londra e mi aveva consigliato di andare a vederlo anch'io... ma era una giornata così bella! Ho guardato fuori dalla finestra, e l'ho vista... ho visto quella ragazza dirigersi verso il sentiero tra i campi.» «Descrivetemela nel modo più dettagliato possibile, per favore.» «Era alta più o meno come me e aveva una gran massa di capelli biondi ossigenati, tagliati in modo un po' disordinato come si usa adesso.» La donna si toccò con mano malferma i capelli bruni troppo arricciati dalla permanente. «Ed era molto prosperosa, molto appariscente. Aveva un abito pantaloni color lilla... un colore che faceva male agli occhi... con un bordo di un lilla un po' più scuro, e scarpe in tinta, col tacco alto. Anche la borsetta era color lilla... una borsa grande, vistosa, con una fibbia dorata. E aveva anche un sacchetto della spesa. L'ho osservata bene perché volevo spiegare com'era a mio marito... lui ha dei gusti molto particolari, dato che è una specie di artista... e molte piccole cose me le tengo in mente per raccontargliele quando finisce di lavorare.» «Invece poi non gliene avete parlato, vero, signora Peveril?» «Me ne sarò dimenticata.» Era arrossita di colpo. «Chissà perché non te ne avrò parlato, Edward?...» La "specie di artista" assunse un'espressione ancora più seccata. «Probabilmente perché ero troppo stanco per ascoltarti. Se avete finito di interrogarla, io me ne torno al lavoro.» «Ho quasi finito. Dov'è andata la ragazza?» «Attraverso i campi» rispose subito la signora Peveril. «Voglio dire, giù per il sentiero tra i campi. Sono rimasta alla finestra per un pezzo, ma non è più tornata.»
Accompagnò i poliziotti alla porta e li seguì nervosamente con lo sguardo mentre risalivano in macchina. L'autista di Wexford, sollevando gli occhi in modo del tutto innocente, si prese dalla donna un'occhiata così penetrante che arrossì e si affrettò a guardare altrove. «Be', Mike, non so ancora cosa pensare dei Peveril, ma lei però ha senz'altro visto la ragazza. La sua descrizione era troppo accurata per suscitare dei dubbi. L'ipotesi più probabile è che Dawn sia andata in mezzo ai campi per incontrarsi con un uomo. Dove avrebbe potuto incontrarlo?» «In aperta campagna, suppongo. Se avesse dovuto incontrarlo a Stowerton... be', tra le quattro e le sette c'è un autobus ogni dieci minuti. Tra qui e Stowerton, che io sappia, non c'è nessun luogo riparato, a parte la vecchia baracca delle pompe.» Wexford annuì. Conosceva il posto di cui parlava Burden, un capannone che conteneva delle vecchie pompe in disuso, nella fitta boscaglia sulle rive del Kingsbrook. «Lo faremo controllare. È una buona idea. Nel frattempo vorrei andare a vedere come vanno le cose in High Street.» Erano stati fatti notevoli progressi. Quando Wexford entrò nel salone accanto alla chiesa battista c'erano due persone che aspettavano di dare a Martin delle informazioni che avrebbero complicato il caso, anziché semplificarlo. La prima persona lavorava alla tintoria Snowdrop di Highstreet, a Kingsmarkham, ed era una donna cordiale, di mezza età, che conosceva Dawn fin dai tempi in cui Dawn andava a scuola e l'aveva rivista qualche volta in occasione delle sue rare visite a sua madre. «Ci conoscevamo di vista, insomma. È venuta da noi lunedì scorso, verso le quattro e un quarto.» «Indossava un abito color lilla?» «Esattamente. Un abito pantaloni molto elegante. Mi ricordo che gliel'avevamo pulito a Pasqua. Lunedì, quando è entrata in negozio, non ho capito se mi aveva riconosciuta o meno, però le ho chiesto come stava la mamma e la nonna, e lei ha risposto che stavano bene. Ci ha portato un vestito azzurro da lavare, e voleva sapere se potevamo farglielo subito. Voleva ritirarlo il mattino dopo. "Sì, possiamo farcela dato che l'avete portato prima delle quattro e mezzo", le ho detto. Se ce li portano dopo quell'ora, vedete, non possono ritirarli prima del pomeriggio dopo. "Dato che domani devo prendere il treno delle dieci e quindi, potrei venire a ritirarlo alle die-
ci?" mi ha chiesto.» «Aveva intenzione di venir da voi personalmente?» chiese Wexford. «Be', lei ha detto così. Non ha detto che lo avrebbe ritirato la sua mamma, come era successo altre volte. No, aveva intenzione di ritirarlo personalmente. Le ho detto che andava bene, e le ho preparato la ricevuta... potete vedere la parte che resta a noi, se volete, ce l'ho qui con me.» Wexford la ringraziò ed esaminò la copia carbone della ricevuta, notando il nome e la data. «Invece non è venuta a ritirarlo?» «No. Il vestito era lì pronto, ma lei non si è vista. Avevo intenzione di portarlo a sua madre in settimana, poi ho saputo quel che era successo. Una cosa orribile, vero? Quando l'ho saputo mi sono sentita gelare.» Poi Wexford parlò con il direttore del Luximart, un supermarket nuovo tra il Dragon e la chiesa battista, proprio di fianco alla fermata dell'autobus per Forby. Era giovane, volonteroso e disponibile. «La signorina è entrata da noi alle quattro e mezzo. Nel tardo pomeriggio del lunedì non abbiamo molti clienti perché al lunedì non vendiamo carne e la verdura non è fresca. La maggior parte della gente preferisce finire gli avanzi della domenica e fare la spesa al martedì. «È stata più o meno l'ultima cliente, e quando è uscita ha aspettato per quasi mezz'ora l'autobus per Forby, quello delle cinque e dodici. Se ne è stata là fuori tutto quel tempo e solo qualche attimo dopo che è salita sull'autobus, purtroppo, scopando nel negozio ho trovato la ricevuta della tintoria.» «Posso vederla?» «Ero sicuro che fosse caduta proprio a lei perché non c'era prima che lei entrasse, ed ero preoccupato perché temevo che potesse avere delle difficoltà a ritirare la roba lavata. Pensavo che sarebbe tornata in negozio, ma non l'ho più vista. Poi quando ho saputo della vostra convocazione e ho sentito il nome...» «Non la conoscevate?» «Mai vista prima, che io mi ricordi» rispose il direttore. Wexford confrontò le due copie dalla ricevuta, quella per la cliente e la copia carbone. Signorina Stonar, lesse, 15 Lower Road, Kingsmarkham abito azzurro - consegna rapida 46p. «Volete descrivermela, per favore?» «Una bella bionda, vestita con molta eleganza... una specie di camicia viola e pantaloni in tinta... non sono molto bravo a descrivere l'abbigliamento delle ragazze. Mi pare che avesse una borsa viola. Ricordo di aver
pensato....» il direttore alzò gli occhi con aria contrita e si morse il labbro «ricordo d'aver pensato che era un gran bel pezzo di ragazza, ma sembra orribile dirlo adesso che è morta...» «Che cosa ha comperato?» «Sapevo che me l'avreste chiesto. Ci ho pensato. Ero vicino alla cassa e lei mi ha chiamato vicino ai surgelati per chiedermi com'erano le coppe alla fragola. Io le ho detto che gliele consigliavo, e lei ne ha messe due nel carrello. Un momento, sto cercando di rivedere mentalmente la scena...» Wexford annuì senza dire niente. Sapeva che quel metodo, basato sulla libera associazione di pensieri, era il migliore. Fece silenzio lasciando che l'uomo chiudesse gli occhi, tornasse mentalmente nel supermarket, si fermasse accanto alla ragazza, rivedesse il carrello semivuoto... «C'era una lattina, in quel carrello...» Si concentrò ulteriormente. «Ecco, adesso mi ricordo cos'era! Della minestra in scatola, del tipo che si può consumare sia caldo che freddo. Adesso mi ricordo tutto. Ha preso dallo scaffale una confezione di filetti di pollo e dei pomodori... sì, una confezione di pomodori. Mi pare che abbia comperato anche del pane, del pane a fette. Forse avrà comperato anche del burro, ma non me ne ricordo. Ricordo però che ha preso una bottiglia di vino, del tipo più economico che teniamo. Del beaujolais francese, e delle sigarette. Non aveva una borsa, perciò le ho dato un sacchetto di carta.» Non c'era nessun altro da interrogare. Wexford tornò al posto di polizia, dove trovò Burden con il dottore. Il vento faceva vibrare le finestre ed una pioggia sottile sferzava i vetri. «Aveva intenzione di passare la notte qui» riferì. «Sarebbe dovuta andare a ritirare quel vestito martedì mattina. E, quando l'ha vista la signora Peveril, nel sacchetto della spesa aveva della roba da mangiare. Per due persone.» «Per lei e l'uomo dell'appuntamento» disse Burden. «Allora non si trattava di un incontro casuale! Un uomo incontrato casualmente o non le avrebbe chiesto di mangiare con lui o l'avrebbe invitata ad un ristorante. Non è pensabile che una ragazza fissi un appuntamento con uno sconosciuto e lo sconosciuto le dica: "Porta qualcosa da mangiare e facciamo un picnic". Lei doveva conoscerlo, e bene anche.» Wexford elencò i generi alimentari acquistati e disse: «Che cos'ha di particolarmente interessante quella roba, Mike?» «Che poteva essere mangiata così com'era o essere riscaldata. In altre parole, poteva essere consumata all'aperto, o essere riscaldata in una casa...
la minestra e il pollo, intendo dire.» Durante questo scambio di battute il dottore aveva disegnato un duodeno sul retro del foglio d'istruzioni anticrimine di Wexford. Quando i due tacquero, dichiarò: «Quel cibo non è stato mangiato. Mi sono fatto preparare per voi un rapporto medico provvisorio... naturalmente in seguito ce ne sarà uno definitivo, più dettagliato... e risulta che lo stomaco della ragazza era vuoto. Non aveva mangiato niente da cinque o sei ore. Magari si è mangiato tutto il suo amico.» «Oppure cibo, vino e sacchetto sono nascosti da qualche parte, insieme all'abito pantaloni color lilla.» «Il vino no» ribatté Crocker, facendosi improvvisamente molto serio. «La bottiglia di vino è stata usata. Reg, ti ricordi i pezzi di vetro che hai trovato... quelli che ti hanno tagliato la mano? E c'erano frammenti di vetro anche nella faccia e nel collo della ragazza. Il vestito era macchiato di vino, oltre che di sangue. Non credo di essere troppo melodrammatico se dico che il suo aggressore doveva essere completamente impazzito. Forse tu e Mike riuscirete a scoprire che cosa esattamente lo avesse fatto uscire dai gangheri a quel modo. Io posso solo dire che qualcosa nel comportamento della ragazza gli ha fatto perdere il lume della ragione. Lui l'ha uccisa a bottigliate, colpendola così selvaggiamente che il vetro si è rotto urtando contro le ossa della faccia.» Era buio nel capannone ingombro di macchinari ingombranti e arrugginiti, e gli uomini lavoravano alla luce delle lampade che avevano portato con sé. All'esterno il torrente ribolliva rumorosamente ed il vento faceva sbattere ritmicamente la porta contro il legno marcio dello stipite. «Se sono venuti qui, è stata una visita molto breve» osservò Wexford alla fine. «Niente sangue, né briciole, né mozziconi di sigarette.» Si toccò i capelli e nelle mani gli restarono impigliate delle ragnatele. «È una topaia, non certo un posto in cui dare appuntamento ad una ragazza come Dawn Stonor, che a quanto mi risulta ci teneva molto al suo aspetto.» Per qualche attimo osservò gli uomini che sollevavano vecchi sacchi e frugavano in rotoli di corda ormai marcia. «Vorrei proprio capire perché mai si era messa quel vestito rosso... Ho l'impressione che se riuscissi a capirlo avrei in mano la chiave di tutta la faccenda.» «Forse perché si era sporcata qui dentro?» azzardò Burden. «Facendo cosa? Non ha mangiato, né fumato, né fatto l'amore. Avrà parlato, magari. Ma da dove arrivava quel vestito? Non l'aveva con sé. Forse
l'aveva lui... ma mi sembra impossibile che in un solo giorno lei si sia sporcata al punto di doversi cambiare due volte. E poi non è credibile che lui, guarda caso, avesse con sé un vestito di ricambio, nel caso lei si sporcasse! E comunque, chi era quel "lui"?» «Quanto a questo, può darsi che da Londra ci arrivi qualche aiuto.» «Speriamo. Su, andiamo, tutta questa polvere mi fa tossire.» L'"aiuto" da Londra era effettivamente arrivato mentre Wexford e Burden erano nel capanno vicino al torrente. Non sotto forma di informazioni, dati, colloqui registrati, ma sotto forma di una bella ragazza, che aveva diviso con Dawn Stonor un appartamento del Philimede Gardens, in Earls Court. Wexford la trovò nella stanza dei colloqui, intenta a bere tè e - almeno a giudicare dal portacenere che aveva davanti, già traboccante di mozziconi - a fumare una sigaretta dopo l'altra. 7 «Mi chiamo Joan Miall» disse la ragazza. Le tremavano visibilmente le mani. «Questa mattina un agente è venuto a farmi un sacco di domande. Alla fine ha detto che voi avreste voluto parlarmi personalmente, e ho pensato che vi avrei facilitato le cose venendo direttamente qui.» Era bruna, e aveva un viso molto grazioso ed intelligente e dei profondi occhi azzurri. Dimostrava ventiquattro, venticinque anni. «Non riesco ancora a credere che Dawn sia morta! Mi sembra tutto così assurdo...» «Siete stata gentile a venire personalmente, signorina Miall. Dovrò farvi molte domande, perciò credo sia meglio salire nel mio ufficio, dove possiamo stare più comodi.» In ascensore la ragazza non parlò, ma si accese un'altra sigaretta. Wexford capì che tutto quel fumare era il suo modo di combattere lo choc. Approvava la gonna in tinta unita al ginocchio, la camicetta rossa, il viso dai tratti delicati truccato in modo molto leggero e incorniciato da capelli lunghi e lucidi, divisi nel mezzo. Non portava anelli, le unghie erano corte, con uno smalto rosa molto chiaro. L'arredamento simpatico, quasi da soggiorno, dell'ufficio di Wexford sembrò metterla più a suo agio. Si rilassò, sorrise, e spense la sigaretta. «Fumo troppo» disse. «Forse. Eravate molto affezionata a Dawn?» La ragazza esitò. «Francamente non lo so. Siamo vissute nello stesso appartamento per quattro anni, ci vedevamo ogni giorno, lavoravamo insieme. È stato uno choc.»
«Lavoravate tutt'e due al Townsman Club?» «Sì, è lì che ci siamo conosciute. Avevamo avuto tutt'e due un periodo difficile: Dawn era vissuta con un uomo quasi patologicamente geloso, e io vivevo con una sorella terribilmente possessiva. Abbiamo deciso di prendere insieme un appartamento, e abbiamo fatto un patto: nessuna delle due avrebbe interferito nella vita dell'altra, né si sarebbe preoccupata se l'altra qualche volta avesse passato la notte fuori casa. È per questo che non ero preoccupata. Per lo meno fino a sabato. Poi...» «Correte un po' troppo, signorina Miall» la interruppe Wexford. «Prima parlatemi di lunedì scorso.» La leggera tensione che provocò la domanda indusse la ragazza a prendersi un'altra sigaretta. L'accese, aspirò una boccata di fumo, e si appoggiò allo schienale della poltroncina. «Il sabato prima, 4 giugno, Dawn aveva cominciato una settimana di vacanza. Non riusciva a decidere se andar da qualche parte o meno. Il suo ragazzo... si chiama Paul Wickford e ha un garage vicino a noi... voleva che lei andasse a fare un giro nel Devon con lui, ma quel lunedì mattina Dawn non aveva ancora deciso.» «Pensavate che sarebbe rientrata il lunedì sera?» «In un certo senso sì. È uscita alla mattina per prendere il treno per Kingsmarkham, e non era molto allegra. Non lo era mai quando andava a trovare sua madre... non andavano d'accordo. Dawn andava più d'accordo con sua nonna» Joan Miall fece una pausa, come se stesse riflettendo. «Paul è venuto verso le sei, ma, dato che alle sette lei non era ancora rientrata, mi ha accompagnata al club, e poi è tornato a casa. Non vedendo tornare Dawn né il martedì né il mercoledì, e non vedendo nemmeno Paul, ho pensato che fossero andati insieme nel Devon. Vedete, noi non ci lasciavamo mai dei messaggi... avevamo quel patto di non interferenza.» «A sua madre ha detto che quella sera avrebbe lavorato.» Joan accennò un sorriso. «Me lo immagino! Era una buona scusa per andarsene. Non ce la faceva a stare più di quattro, cinque ore in compagnia di sua madre.» Spense la sigaretta, togliendosi con cura la cenere dalle dita. «Sabato... sabato scorso, intendo dire... Paul si è rifatto vivo. Non era stato nel Devon. Proprio quel lunedì sera era morta sua madre ed era dovuto andare su nel nord, per il funerale e per sistemare le cose. Non ne sapeva più di me su dove potesse essere Dawn. «Poi ieri, quando cominciavamo ad essere davvero preoccupati tutti e due... Dawn avrebbe dovuto riprendere il lavoro stasera... è venuta la polizia, a farmi un sacco di domande.»
«Signorina Miall, quando è stata trovata Dawn indossava un abito color rosso scuro.» A Wexford non sfuggì la rapida reazione di sorpresa della ragazza, ma preferì ignorarla per il momento. «Noi abbiamo qui quel vestito. È molto macchiato. Vorrei chiedervi se sareste tanto coraggiosa da dargli un'occhiata... vi avverto che potreste restarne impressionata. Allora ve la sentite di vederlo?» Joan Miall annuì. «Sì, se ritenete che la cosa possa esservi utile. Non mi risulta che Dawn si sia mai vestita di rosso... non era il suo colore. Comunque gli darò una occhiata.» L'abito era di rayon rosso scuro, con le maniche ampie e degli alti polsini, il corpino attillato e una cintura dello stesso tessuto. Per via del colore le macchie non si notavano se non in base all'indurimento del tessuto. La ragazza impallidì e strinse le labbra. «Posso toccarlo?» chiese con un filo di voce. «Sì.» Con dita un po' tremanti aprì il vestito all'altezza del collo e guardò l'etichetta. «È una taglia 12» disse. «Dawn era una ragazzona, portava la 14.» «Eppure indossava proprio questo vestito.» «Non era suo, e senz'altro le andava molto stretto.» Si voltò di scatto, rabbrividendo. «Sentite, forse voi non ve ne intendete, di moda, ma questo abito è vecchio, fuori moda... avrà sette o otto anni, o magari di più. Dawn invece seguiva molto la moda.» Wexford ricondusse la ragazza nel suo ufficio. Joan si sedette e sulle sue guance tornò un po' di colore. Wexford aspettò qualche attimo, confrontando mentalmente l'angoscia dell'amica con l'indifferenza della madre, poi disse: «Signorina Miall, volete descrivermi un po' il carattere di Dawn? Che tipo di ragazza era, chi conosceva, come reagiva all'altra gente?» «Ci proverò» rispose Joan Miall. «Non voglio darvi l'impressione che non fosse una persona simpatica» cominciò. «Era simpatica. Però aveva... be', aveva delle stranezze.» Sollevò la testa e guardò Wexford con un'espressione preoccupata, quasi aggressiva. «Non vi sto chiedendo una "dichiarazione ufficiale" sul carattere di Dawn. Quello che direte resterà tra noi, non lo diffonderò in giro.» «Certo, capisco. Ma, vedete, lei è morta e io ho delle idee un po' all'antica sul fatto di parlar male dei morti. Voi probabilmente penserete che una "pupa" che serve da bere in un club non ha il diritto di giudicare gli altri
dall'alto, di disapprovare il loro comportamento...» Wexford non disse niente. Si limitò a sorridere garbatamente e a scuotere la testa. «Comunque non è che proprio disapprovassi Dawn. Solo... be', non è facile vivere con una che mente in continuazione! Con tipi così non si sa mai come stanno realmente le cose. Non li si conosce, e il rapporto è inconsistente. So che qualcuno ha detto che persino un bugiardo incallito dice più verità che bugie, ma come si fa a sapere quali sono bugie e quali sono verità?» Wexford provò l'impulso di chiedere che cosa ci facesse una ragazza intelligente come Joan Miall al Townsman Club, ma si trattenne. «Così Dawn era una bugiarda?» disse, rendendosi conto che questo non avrebbe certo facilitato il suo compito. Guardò diritto negli occhi franchi, puliti, la ragazza che aveva di fronte. Era certo che fosse assolutamente sincera. «Secondo voi su che cosa mentiva?» «Be', si vantava e buttava là dei nomi per far colpo. Aveva avuto un'infanzia orribile: suo padre la maltrattava fisicamente e sua madre la maltrattava moralmente. Le diceva che era un'immorale e una poco di buono; poi, come niente fosse, le diceva che sentiva la sua mancanza, e l'implorava di tornare a casa e di sposarsi, di sistemarsi. La signora Stonor diceva sempre che loro... com'erano le parole esatte?... erano "gente comune", perciò Dawn non aveva nessun motivo di darsi tanto tono. E diceva anche che il lavoro che faceva era più o meno quello di una prostituta. «E questo la stimolava a cercare di dimostrare continuamente quanto valeva. Mi scuso per il fatto di parlare come uno psicologo dilettante, ma, vedete, a me interessano queste cose. Ho cercato di capire che cosa facesse comportare Dawn in modo così strano. All'inizio, quando abbiamo cominciato a vivere insieme, pensavo che conoscesse davvero un sacco di gente importante. Un giorno ha portato a casa un cane, dicendo che avrebbe dovuto badargli per un paio di settimane, mentre il suo proprietario era assente. Il proprietario, ha detto, era un attore famoso, conosciuto da tutti, uno che si vedeva sempre in televisione. «Poi, una sera, quando il cane era ormai tornato a casa sua, eravamo tutt'e due al club ed è entrato proprio quell'attore... l'aveva invitato qualche socio. Naturalmente io l'ho riconosciuto subito. Be', non la conosceva nemmeno, Dawn! Non che non si parlassero perché avevano litigato... non la conosceva proprio, era chiaro.» Joan si strinse nelle spalle. Mise via le sigarette, e richiuse con decisione
la borsetta. «Sfogliava i giornali e quando vedeva la fotografia di qualche personaggio famoso sosteneva di aver lavorato con lui, o di aver avuto una storia con lui. Io cercavo di non fare commenti... la cosa mi imbarazzava. Il nome più grosso che ha buttato là è stato quello di un cantante, una vera celebrità. Ha detto che lo conosceva da anni, che uscivano spesso insieme. Tutte parole. Poi, un paio di settimane fa, è squillato il telefono, ed ha risposto lei. Mi ha guardata e, coprendo con la mano il ricevitore, mi ha mormorato che era lui. Nel parlare però non l'ha mai chiamato per nome, si è limitata a dire "sì" e "no" e "sarebbe bello". Mai che abbia detto "Zeno"! Quando si riceve una telefonata, si può benissimo far finta che all'altro capo del filo ci sia chissà chi, non vi pare? La compagna di stanza non si mette certo ad ascoltare all'altro apparecchio!» «Avete detto "Zeno"?» si assicurò Wexford, interessato. «Intendete dire che sosteneva di conoscere Zeno Vedast?» «È proprio la parola giusta: "sosteneva". Lui non è mai venuto a casa nostra, io non l'ho mai vista con lui. No, era la stessa cosa dell'altra volta, con l'attore della televisione... aveva buttato lì il nome solo per far colpo, immagino.» «Signorina Miall, Dawn era il tipo di ragazza che può abbordare uno sconosciuto e passare la notte con lui?» Joan ebbe un attimo d'esitazione, poi disse d'impulso: «Avrebbe potuto farlo. Sembra orribile, ma Dawn era molto attaccata ai soldi. Da piccola era sempre stata a corto di quattrini... le davano uno scellino alla settimana o comunque una cifra ridicola, e doveva metterne la metà in uno di quei salvadanai che non si possono aprire. Anche se i suoi genitori non potevano poi essere così poveri, visto che lavoravano tutti e due. Vi dico questo per spiegarvi perché avrebbe potuto abbordare qualcuno, se avesse ritenuto di poterne ricavarne un guadagno. La prima volta che è venuta al club le è stato detto, come a tutte noi, che se avesse frequentato un cliente fuori dal locale avrebbe perso il posto immediatamente. Questo i clienti lo sanno, ma alcuni ci provano ugualmente. Be', una volta Dawn ha accettato l'invito di un socio, nonostante la regola. Lui le aveva detto che se avesse passato il weekend con lui le avrebbe regalato una pelliccia. Lei c'è andata, e lui se l'è cavata con dieci sterline. La pelliccia Dawn non l'ha mai avuta, e credo che la cosa l'abbia terribilmente umiliata, perché in seguito non ha più fatto una cosa del genere. Inoltre le piaceva molto essere ammirata, e se un uomo voleva andare a letto con lei, lei era convinta che... be', che questo significasse molto di più di quanto significasse in realtà. A volte quando non
lavorava passava la notte fuori casa, e credo che stesse con qualche uomo. Vedete, non poteva portarselo a casa perché c'era il rischio che arrivasse Paul. Comunque, come vi ho già detto, noi non ci facevamo molte domande.» «Questo signor Wickford era il suo uomo fisso?» La ragazza annuì. «Stavano insieme da due anni. Probabilmente, alla fine, lei lo avrebbe sposato. Il guaio, a quanto pare, era che lui non era abbastanza ricco per lei, né abbastanza famoso, o cose del genere. Ha circa trentacinque anni, divorziato, un ragazzo molto simpatico. Quando ha saputo cosa era successo a Dawn è rimasto tremendamente sconvolto e il dottore ha dovuto dargli dei sedativi. Sono sicura che Dawn lo avrebbe sposato se solo fosse riuscita a maturare, e a togliersi quella fissazione di conoscere gente famosa. Era una ragazza simpatica, generosa, spiritosa, sempre pronta a dare una mano. Il suo guaio era di non poter fare a meno di raccontare bugie...» «Un'ultima cosa, signorina Miall. Lunedì scorso, nel pomeriggio, Dawn ha comperato della roba da mangiare... minestra in scatola, pollo in scatola, e due confezioni di mousse alla fragola. È possibile che l'avesse comperata per portarla a casa, per il vostro pranzo di martedì?» «Assolutamente no.» «Come fate ad esserne così sicura?» «Per prima cosa... be', non pensate che non mi piaccia questo posto, è una città simpatica... ma nessuno che abiti dove abita... dove abitava Dawn comprerebbe altrove dei generi alimentari da portare a casa: siamo letteralmente circondati da negozi di alimentari e da supermarket. E poi Dawn non avrebbe mai comperato da mangiare per tutte e due. Io sono un po' fissata per quanto riguarda il cibo: mangio solo cibi genuini, che non nuocciono alla salute. Da come fumo non si direbbe che ci tenga tanto alla salute, vero?» aggiunse con una risatina. «Io non mangio mai cibo in scatola, e Dawn lo sapeva perfettamente. Ciascuna di noi due si preparava i propri pasti, a meno che una di noi facesse uno sformato o un'insalata. A Dawn non importava niente di quello che mangiava: odiava cucinare e diceva sempre che mangiava solo per vivere...» Trasalì sentendo il suono dell'ultima parola, che aveva detto automaticamente, senza riflettere. Sollevò gli occhi verso Wexford. Erano colmi di lacrime trattenute a stento. «Non è vissuta molto a lungo, vero?» osservò con voce alterata. Michael Burden era un vedovo che, avendo avuto una felice vita matri-
moniale, tendeva a considerare le relazioni di tipo sessuale o sublimemente romantiche o, quando erano illecite, squallidamente sordide. L'unica storia d'amore che aveva avuto dopo la morte della moglie, però, aveva allargato un po' le sue vedute: adesso era disposto ad ammettere che anche la gente non sposata poteva amarsi e consumare il proprio amore senza degradarsi. A volte queste sue vedute più ampie, acquisite così di recente, gli suggerivano romantiche teorie, e fu proprio una di queste teorie romantiche che propose a Wexford mentre prendevano insieme il caffè, il martedì mattina. «Siamo d'accordo sul fatto che l'assassino non poteva essere un conoscente occasionale, per via dei generi alimentari che sono stati acquistati. E sappiamo anche che non sono stati acquistati per Dawn e Joan Miall. Perciò Dawn conosceva quell'uomo, e lo conosceva tanto bene da accordarsi con lui per comperare la cena e incontrarlo quando lui avesse finito di lavorare. Il fatto che dovessero incontrarsi tra le cinque e mezzo e le sei indica che l'incontro doveva essere dopo l'orario di lavoro, no?» «Immagino di sì, Mike.» «Be', mi sono chiesto se tra la ragazza e quel tale non ci fosse per caso una di quelle lunghe amicizie intime che durano degli anni...» «Quale lunga amicizia intima? Di cosa stai parlando?» «Conoscete mia cognata Grace?» Wexford annuì con insofferenza. Certo che conosceva Grace! Era la sorella della moglie defunta di Burden; si era occupata dei bambini di Burden quando era morta la loro mamma e in seguito aveva sperato di diventare la seconda signora Burden, ma le sue speranze erano andate in fumo. Grace aveva sposato qualcun altro, e adesso aveva un bambino suo. «Be', è stata proprio la sua esperienza a suggerirmi l'idea. Quando si sono sposati lei e Terry si conoscevano da anni e si erano frequentati saltuariamente. C'era una specie di legame tra di loro, anche se non si vedevano spesso e ciascuno dei due aveva... be', le proprie amicizie. Terry si era addirittura fidanzato con un'altra.» «Intendi dire che questo potrebbe essere il caso di Dawn?» «È vissuta qui fino ai diciotto anni. Se avesse conosciuto quel tale quando erano tutt'e due molto giovani, e tra loro ci fosse stata una storia, e poi tutt'e due avessero lasciato Kingsmarkham e fossero andati a lavorare altrove... O magari lui è rimasto qui, e lei si è trasferita a Londra. Magari si sono tenuti in contatto, e tutte le volte che lei tornava a casa o lui andava a Londra si incontravano segretamente... segretamente perché lui era sposato e lei era quasi fidanzata con Wickford. Francamente a me pare che questo quadrerebbe con tutti gli aspetti del caso e appianerebbe tutte le difficoltà.»
Wexford mescolò il suo caffè, lanciò uno sguardo desideroso alla zuccheriera, e resistette alla tentazione di prendere un'altra zolletta. «Non quadra col vestito rosso insanguinato» obiettò malignamente. «Sì invece, se si sono incontrati in casa di lui! Dobbiamo ammettere la possibilità della coincidenza... la possibilità che lei si sia macchiata il completo lilla e si sia messa un vestito della moglie di lui.» «Presumibilmente la moglie è fuori. Lei va lì, lui la fa entrare in casa. Ma che cosa succede al completo color lilla? Non bevono né mangiano niente che lei possa rovesciarsi addosso, non fanno l'amore... stropicciandosi i vestiti (dico così, Mike, per non urtare la tua ipersensibilità). Forse a stropicciarle il vestito è la foga dell'abbraccio con cui lui l'accoglie, e lei ci tiene tanto al proprio aspetto che si precipita al piano di sopra e s'infila un vecchio vestito scartato dalla sua rivale. E lui è talmente sconvolto per il fatto che lei si preoccupa più dei propri abiti che di lui stesso che ha un raptus e la prende a bottigliate in testa. Non mi dirai che è andata così!» «Dev'essere successo qualcosa del genere» rispose Burden in tono piuttosto rigido. Wexford bloccava sempre con una doccia fredda i suoi voli di fantasia, e Burden non ci si era mai abituato. «E allora quale sarebbe stata la casa dell'incontro?» «Alla periferia di Stowerton, dalla parte di Forby. Lei ha preso il sentiero tra i campi perché lui l'avrebbe incontrata lì, per portarla a casa sua. Avevano combinato così nel caso la moglie avesse cambiato idea e non fosse uscita.» Burden fece una piccola smorfia di disgusto perché la parte sordida aveva temporaneamente preso il sopravvento sulla parte romantica. «Certa gente fa così, lo sapete anche voi.» «Comunque lo sai tu, a quanto pare. Perciò non ci resta che trovare un tale che abiti nella zona nord di Stowerton, che conosceva Dawn Stonor dai tempi della scuola, e che abbia una moglie che lunedì non era in casa. Ah, sì, e scoprire anche se a sua moglie manca un vestito rosso.» «Non sembrate troppo entusiasta, signore.» «Infatti non lo sono» ammise Wexford con franchezza. «La gente che conosci tu può anche comportarsi così, ma quella che conosco io no. Si comporta come gente vera, non come dei personaggi da film di terz'ordine messo insieme più per fare sensazione che per dare un'immagine vera dell'umana natura. Comunque, dal momento che io non ho nessun'altra idea, forse ci conviene chiedere alla signora Stonor chi conosceva Dawn dalle parti di Stowerton, e chi poteva avere una "lunga amicizia intima" con lei.»
8 «La gente di queste parti non era abbastanza fine per Dawn» disse la signora Stonor. «Lei era una vera snob, anche se il perché di tanto snobismo non l'ho mai capito.» Nonostante i sentimenti così poco materni, ed espressi con tanta franchezza, la signora Stonor era in lutto stretto. Lei e la vecchia che era con lei e che era stata presentata come "mia madre, la signora Peckham", erano sedute nella penombra creata dal pesante tendaggio. Quando i due poliziotti entrarono nella stanza fu accesa una luce. Wexford notò che uno specchio appeso alla parete era stato coperto con un panno nero. «Riteniamo possibile che lunedì sera Dawn sia andata a trovare un vecchio amico» disse. «Voglio che cerchiate di ricordare i nomi dei ragazzi con cui usciva quando viveva qui, o i nomi a cui può avervi accennato durante le sue visite.» Anziché rispondere, la signora Stonor si rivolse alla vecchia che nel frattempo si era piegata in avanti, interessata, prendendo i due bastoni che l'aiutavano a camminare. «Tu puoi pure tornartene a letto, mamma. Non c'entri con tutto questo. Sei già stata alzata fin troppo.» «Ma io non sono stanca!» replicò la signora Peckham. Era molto vecchia; doveva aver superato di parecchio gli ottanta. Aveva un corpo minuto e sottile, ed una faccia da scimmia, piena di rughe. I radi capelli bianchi erano raccolti alla sommità della testa in un nodo pieno di grosse forcine. «Io non voglio andare a letto, Phyllis. Non mi capita spesso qualcosa d'interessante.» «Di interessante! Buona questa! Bel modo di parlare, con Dawn che ha la testa sfondata da un maniaco! Su, andiamo adesso. Ti aiuto a fare le scale.» Per puro spirito di contraddizione Wexford disse d'istinto: «È meglio che la signora Peckham resti qui. Potrebbe essere d'aiuto.» Non era affatto convinto che la vecchia potesse fornire delle informazioni; voleva solo irritare la signora Stonor. La signora Peckham sorrise compiaciuta, scoprendo una fila di grossi denti finti. Soddisfatta della dilazione che le era stata accordata, prese una caramella dal sacchetto che aveva sul tavolino, accanto alla sua poltrona, e cominciò a masticarla accanitamente. Sua figlia abbassò gli angoli della bocca e si unì le mani nel grembo.
«Vi viene in mente qualche nome, signora Stonor?» Ancora risentita per il fatto d'essere stata contraddetta, la donna disse: «Suo padre non la lasciava mai uscire con i ragazzi, voleva che crescesse rispettabile. Avevamo già abbastanza problemi con lei, con tutte le bugie che diceva e quel vizio di stare fuori fino a tardi! Mio marito ha tentato di tutto per insegnarle la decenza.» «Più che altro ha usato la cinghia» intervenne la signora Peckham. Protetta dalla presenza dei poliziotti, rivolse alla figlia un sorrisetto di trionfo, tutt'altro che piacevole. Wexford si rese conto che era uno di quei vecchi pensionati che, dovendo dipendere per tutti i propri bisogni da un figlio detestato, si comportano in modo servile, codardo, provocatorio o cattivo a seconda delle circostanze. Vedendo che la signora Stonor non rispondeva ma si limitava a sollevare il mento con aria sdegnosa, sua madre azzardò un'altra stoccata. «Tu e George non avreste mai dovuto avere dei bambini. Sempre lì a picchiarla e a saltarle in testa! Sempre lì a tormentarla!» Wexford si schiarì la voce. «Così non si conclude molto. Non posso credere che Dawn non abbia mai accennato a qualche suo amico.» «Non ho mai detto che non l'abbia fatto. Mamma, se non lasci stare quelle caramelle ti tornerà il mal di stomaco! Il fatto è che con Dawn era tutta una bugia, perciò quello che diceva mi entrava da un orecchio e mi usciva dall'altro. Che avesse quell'uomo, quel Wickford, lo so perché ce l'aveva portato qui per capodanno. Non si sono fermati molto. Dawn lo vedeva bene che cosa ne pensavo io, di quello là: un uomo divorziato, che lavorava in un garage! Non era riuscita a trovare niente di meglio.» «E non c'è stato proprio nessun altro?» chiese Burden in tono gelido. «Ho già detto che non lo so. Non mi vorrete dire che si è fatta ammazzare da un suo ex compagno di scuola, eh? Qui non conosceva nessun altro.» La signora Peckham, dopo aver scartato in modo approssimativo una caramella, si stava togliendo dei pezzetti di carta dalla bocca. «C'era Harold Goodbody» farfugliò. «Non dire sciocchezze, mamma. Come se Harold potesse avere a che fare con una ragazza come Dawn! Harold è salito troppo in alto per una come lei.» «Chi è questo Harold?» chiese Wexford. Dopo essersi sistemata la caramella in un angolo della guancia avvizzita, smettendo di succhiare rumorosamente, la signora Peckham trasse un profondo ma non infelice sospiro. «Era un bel ragazzo, Harold... Un tempo lui e i suoi genitori vivevano in questa zona, nella strada dopo questa. Io non
abitavo qui allora, avevo la mia casa, ma vedevo sempre Harold quando facevo il mio lavoro e servivo i pranzi alla scuola. Era un gran bel tipo! Sempre pronto a fare scherzi, per lui era il primo d'aprile tutto l'anno. Lui e Dawnie erano amiconi, fin dal primo giorno di scuola. Poi sono venuta a vivere qui con Phyllis e George, e al ritorno da scuola Dawnie lo portava qui a prendere il tè.» «Io questo non l'ho mai saputo!» sibilò la signora Stonor. «George non l'avrebbe permesso.» «Ma George non c'era, vero? E tu lavoravi in quel negozio. Io non ci vedevo niente di male nel fatto che Dawnie portasse qui il suo amico.» Si rivolse a Wexford: «A guardarlo Harold era un ragazzo proprio strano, magro com'era e con i capelli quasi bianchi come i miei. Preparavo uova sode per tutti e tre, ma quando Dawnie e io cominciavamo a rompere le nostre trovavamo solo dei gusci vuoti... Harold si era portato un paio di gusci vuoti per farci lo scherzo. Oh, era così divertente! Aveva una finta macchia d'inchiostro, ed un ragno di gomma. E come ci faceva strillare con quel ragno! Un giorno l'ho scoperto a fare scherzi col telefono. Ha fatto un numero, gli ha risposto una donna, e lui le ha detto che era della società dei telefoni, un addetto alla manutenzione, e che c'era un'emergenza. Lei doveva versare dell'acqua bollente nel ricevitore, lasciarcela dieci minuti, e poi tagliare il filo con le forbici. E il bello è che lei stava per farlo, gli aveva creduto! Io però mi sono messa di mezzo, anche se morivo dal ridere. Harold era proprio fantastico.» «Ne sono convinto» disse Wexford. «Quanti anni aveva quando faceva tutti questi scherzi così divertenti?» «Circa quindici.» «E abita ancora da queste parti?» «Oh, no! Il signor Silk, quello di Sundays, l'ha portato là, e lui ha lasciato la sua casa e a diciassette anni se n'è andato a vivere a Londra e poi è diventato famoso.» «Famoso?» ripeté Wexford, sorpreso. «Harold Goodbody?» La signora Peckham agitò con insofferenza le mani nodose. «Quando è diventato un cantante ha cambiato nome. Come si fa chiamare?... Mi dimentico tutto! Ah, ecco: John Lennon.» «Non credo...» cominciò Wexford. La signora Stonor, che era rimasta zitta con aria sdegnosa, aprì la bocca e disse seccamente: «Zeno Vedast. Si fa chiamare Zeno Vedast.» «Dawn andava a scuola con Zeno Vedast?» chiese Wexford con faccia
inespressiva. Così non erano state solo vanterie, nomi buttati là per fare colpo! In alcuni casi per lo meno. «Erano amici?» «Non vorrete dar retta alla mamma!» reagì la signora Stonor. «Dawn l'avrà visto un po' quando andavano a scuola, ma non l'ha mai visto a Londra.» «Sì invece, Phyllis! Me l'ha detto lei lunedì scorso, quando era qui in casa. A me diceva delle cose che non diceva a te... Sapeva che avevi da ridire su tutto quello che faceva.» «Che cosa vi ha detto, signora Peckham?» «È venuta in camera mia, mentre io ero a letto. "Ti ricordi Hal, vero, nonna?", ha detto. Noi lo chiamavamo sempre Hal. "Be', venerdì sera sono andata fuori a cena con lui", ha detto!» «E tu le hai creduto?» La signora Stonor fece una risatina sarcastica, che non era affatto una risata. «Venerdì sera Harold Goodbody era a Manchester. L'ho visto io stessa alla televisione, in diretta. Dawn ti ha raccontato una storia, come al solito.» La signora Peckham sgranocchiò rumorosamente la sua caramella, con aria indignata. «Ha solo sbagliato giorno, povera Dawnie!» «Non dire sciocchezze. Lui è un cantante famoso... anche se non ho mai capito cos'abbia di così speciale la sua voce. Richard Tauber, lui sì che aveva una bella voce!» «I suoi genitori vivono ancora qui?» chiese Burden. La signora Stonor lo guardò per qualche attimo, come se stesse per dire anche a lui di non dire sciocchezze. Si trattenne, e rispose in tono acido: «Quando lui è diventato ricco ha comperato ai suoi genitori una casa di lusso, vicino a Londra. Ad alcuni le cose vanno proprio bene, eh? Io sono sempre stata una persona a posto, ho allevato bene mia figlia, e lei cos'ha mai fatto per me? Me la ricordo bene, Freda Goodbody, quando andava dai vicini a farsi prestare un po' di tè perché suo marito spendeva tutta la sua paga con i cani. Harold non ha mai avuto più di un paio di scarpe alla volta, e scartato da suo cugino. "Il mio caro ragazzo", "il mio prezioso Hal" diceva sempre sua madre, ma alla domenica a pranzo gli dava solo zuppa di fagioli!» Improvvisamente la signora Peckham si diede alle citazioni bibliche: «"Meglio un piatto di erbe condito dall'amore che un bue condito dall'odio!"» Prese l'ultima caramella e si mise a sgranocchiarla rumorosamente. «Visto, signore?» sbottò Burden appena furono in macchina. «Una vecchia amicizia, come vi avevo detto!»
«Be', non è esattamente come dicevi tu, Mike. Zeno Vedast non vive a Stowerton, non ha una moglie, e non credo che abbia l'abitudine di mangiare roba in scatola nei campi con le cameriere. La cosa strana è che lei lo conosceva davvero. Sembra confermare quello che ha detto Joan Miall, che fatalmente un bugiardo cronico dice più verità che bugie. La conosciamo tutti la storiella del ragazzo che gridava "Al lupo, al lupo!". Dawn Stonor dava la caccia ai leoni. Gridava "Al leone, al leone!", e questa volta il leone c'era davvero. Ma non abbiamo nessuna prova che colleghi Vedast al suo ultimo lunedì. Molto probabilmente lui era ancora a Manchester. Quel che posso dire al momento è solo che la cosa è strana, interessante.» «Pensate che dovremmo parlargli?» «Certo che dobbiamo parlargli. Dobbiamo parlare con tutti gli uomini che Dawn conosceva, a meno che abbiano un alibi di ferro per quel lunedì sera. Per esempio non sappiamo ancora che cosa ha fatto Wickford dopo le sette.» L'ispettore capo batté sulla spalla dell'autista. «Stephens, per favore torna al posto di polizia.» Il giovanotto ruotò leggermente la testa all'indietro. Era giovane, piuttosto timido, ed era stato trasferito di recente da Brighton. Quando Wexford gli si era rivolto era arrossito, così com'era arrossito sotto lo sguardo intenso della signora Peveril. «Vuoi forse dirmi qualcosa?» chiese Wexford in tono gentile. «No, signore.» «Allora, torna al posto di polizia. Non possiamo starcene qui immobili tutto il giorno.» Il mercoledì Paul Wickford era ormai scagionato da ogni sospetto. Dopo aver lasciato Joan Miall al Townsman Club, in Hertford Street, era andato in un pub di Shepherd Market dove aveva bevuto una vodka and tonic prima di tornare in Earls Court. A casa lo aspettava suo fratello, per informarlo delle gravi condizioni di salute della madre e per chiedergli di andare immediatamente con lui a Sheffield. Paul aveva chiesto all'inquilino del secondo piano di far sospendere la consegna del latte e dei giornali, e, nel caso avesse visto Dawn Stonor, di dirle dov'era andato. Poco dopo mezzanotte i due fratelli erano già a casa della madre, a Sheffield, e il mattino seguente la donna era già morta. Nonostante ci fossero ben pochi elementi per ritenere che l'assassino di Dawn abitasse nei dintorni di Stowerton, a partire dal martedì pomeriggio era stata svolta un'indagine capillare, di casa in casa, in tutta la zona. Nes-
suno aveva visto Dawn; nessuno aveva visto una ragazza con un abito lilla, sola o in compagnia di un uomo. Solo due mogli si erano assentate da casa la sera in questione: una era uscita col marito, e l'altra aveva lasciato il marito in casa a badare ai quattro bambini. Nessuna moglie era rimasta fuori per tutta la notte, e a nessuna mancava un vestito rosso. Era stato un lavoraccio perché aveva continuato a piovere, tanto che si temeva che il torrente potesse straripare. Le uniche due persone che avessero visto Dawn dopo le cinque e venti restavano sempre la signora Clarke e la signora Peveril, e la signora Peveril era stata l'ultima persona - a parte ovviamente l'assassino - ad averla vista ancora in vita. Wexford si concentrò sulle due donne, interrogandole a fondo, e gli ci volle parecchio tempo per riuscire a trovare qualcosa di strano nelle loro dichiarazioni. In precedenza non aveva pensato che le due donne potessero conoscersi, e fu solo sentendo la signora Clarke parlare al telefono del suo soggiorno che a Wexford venne in mente quella possibilità. «Adesso non posso parlare, Margaret, ti ritelefono dopo... Spero che Edward si rimetta presto.» La donna non aveva detto chi c'era all'altro capo del filo. Perché avrebbe dovuto farlo? Si sedette ostentando un sorriso poco sincero. «Scusatemi. Stavate dicendo?...» «Stavate parlando con la signora Peveril?» chiese Wexford a bruciapelo. «E voi come fate a saperlo? Sì, comunque.» «Immagino che siate l'unica sua amica in questa zona...» «Povera Margaret! È così nevrotica e ha tanti problemi con Edward... Sì, credo di essere la sua unica amica. Non fa amicizia facilmente.» «Signora Clarke, siete stata interrogata su Dawn Stonor per la prima volta domenica sera, vero? Abbiamo interrogato la gente partendo da questo lato della proprietà.» «Be', dovreste saperlo meglio di me» rispose seccamente la donna. Sembrava offesa, annoiata, ma per niente spaventata. Wexford rifletté. Burden, Martin e Gates avevano cominciato a fare le loro domande alle sette, e non erano arrivati al Sentiero fino alle nove. «Domenica sera avete telefonato alla signora Peveril prima delle nove?» chiese. La donna assunse un'espressione preoccupata, allarmata. «Vedo che l'avete fatto. Le avete detto che vi avevano interrogata e anche che avevate potuto essere d'aiuto. Era logico che ne parlaste alla vostra amica. Probabilmente le avete anche descritto la ragazza, e le avete detto in che direzione l'avevate vista andare.»
«Perché, c'è qualcosa di male?» «Sarebbe stato più saggio usare un po' di discrezione, ma non importa. Descrivetemi di nuovo Dawn Stonor, per favore.» «Ma l'ho già fatto centinaia di volte!» reagì la signora Clarke con ostentata esasperazione. «Ho continuato a ripeterlo.» «Fatelo ancora una volta... l'ultima.» «Stavo andando a prendere l'autobus per Kingsmarkham. L'ho vista scendere dall'autobus che andava in direzione opposta. Ha attraversato la strada e ha imboccato il Sentiero.» La signora Clarke parlava lentamente e in tono accondiscendente, come un genitore che sta spiegando per la decima volta qualcosa ad un bambino poco sveglio. «Era bionda, tra i venti e i trenta, con un abito pantaloni color lilla e scarpe in tinta.» «È questo che avete detto alla signora Peveril?» «Sì, e anche a voi e a tutti gli altri. Non avrei potuto dire altro perché non so altro.» «Non avete per caso notato una grande borsetta color malva, con una fibbia d'oro, o un bordo più scuro sul vestito?» «No, non li ho notati, e non me ne ricordo nemmeno sentendone parlare. Mi dispiace ma vi ho detto tutto quello che so.» Scosse la testa, non per negare ciò che aveva dichiarato ma per esprimere la sua perplessità. All'inizio, per un momento, quando aveva riattaccato il ricevitore del telefono, Wexford aveva avuto il dubbio improvviso che la signora Peveril non avesse affatto visto Dawn, che ciò che le aveva raccontato la sua amica avesse fatto scattare in lei il desiderio di far sensazione, di avere un momento di gloria. Tanto più che, pur avendo detto di aver osservato bene l'aspetto della ragazza per parlarne al marito, in realtà al marito non ne aveva parlato affatto. Adesso invece sapeva con sicurezza che la signora Peveril aveva visto davvero Dawn. Come avrebbe fatto altrimenti a sapere della borsetta e del bordo più scuro? Era la sola ad averli notati. 9 Tre case che, sul dietro, davano sulla proprietà Sundays; tre piccoli giardini con un cancello che si apriva su una stretta striscia di terra oltre la quale si trovava la cava... Ogni giardinetto separato da quelli adiacenti mediante un'alta, fitta graticciata in legno castagno; una striscia di terra piena di folti cespugli e di alberi piuttosto alti... Wexford pensò a quanto sarebbe stato facile, di notte, portare fuori un cadavere da una di quelle case e get-
tarlo nella cava. Eppure, se Dawn anziché attraversare i campi fosse entrata in una di quelle case e la signora Peveril l'avesse vista entrare e fosse stata davvero a caccia di sensazione, be', tutto questo non sarebbe stato più sensazionale? «Pensavo che mi avreste lasciata in pace, se vi avessi detto la verità» disse la signora Peveril, visibilmente nervosa. «Se mi continuate a tormentare finirò per star male. D'accordo, la signora Clarke mi ha telefonato, ma questo non significa che non l'abbia vista anch'io, quella ragazza! L'ho vista, e l'ho vista attraversare quei campi.» «D'altra parte non sarebbe potuta entrare comunque in una di quelle case» osservò poco dopo Burden. «A meno che non sia entrata proprio in quella della signora Peveril, nel qual caso però la signora Peveril, presumibilmente, non avrebbe nemmeno detto di averla vista. Dawn non può essere andata né nella casa di Dunsand né in quella della signorina Mowler. Abbiamo controllato a Myringham, all'università, e Dunsand non si è mosso da lì fino alle sei. Sarebbe già stata una fortuna per lui arrivare a casa alle sei e mezzo, ma è più probabile che non ci sia arrivato prima delle sette. E la signorina Mowler è stata con la sua amica, a Kingsmarkham, fino alle otto meno un quarto.» Tornarono al posto di polizia, e stavano per prendere l'ascensore quando una forte corrente d'aria fece capire a Wexford che la porta principale doveva esser stata spalancata con decisione. Si voltò e vide un tipo decisamente insolito. Era altissimo - molto più alto di Wexford, che superava già il metro e ottanta - con una gran massa di capelli neri. Portava una tunica coperta di piume lunga fino alla caviglia e una borsa di tela con dentro qualcosa di fradicio che aveva inzuppato d'acqua la borsa, facendola sgocciolare sul pavimento. Una volta nell'ingresso, il giovanotto si fermò, si guardò intorno con aria decisa, e si diresse verso il sergente Camb che stava bevendo del tè dietro al suo banco. Wexford lo bloccò. «Il signor Mbowele, vero? Ci siamo già conosciuti.»Wexford allungò la mano, che venne immediatamente stretta come in una morsa dalla manona color bronzo dell'altro. «Posso fare qualcosa per voi?» Il giovane africano era veramente bello. Possedeva quella grazia splendente, virile, che aveva indotto i disegnatori di moda e le agenzie di modelli ad adottare lo slogan "Nero è bello". Con un luminoso sorriso e uno sfavillio nei morbidi occhi scuri ritirò la mano, lasciò cadere la borsa fradicia a terra e slacciò la parte superiore della tunica. Sotto, il suo petto era nudo, e vi spiccava una lunga collana di piccole pietre verdi.
«Non mi piace per niente questa pioggia» disse scuotendosi l'acqua dai capelli. «E questo sarebbe il mese di giugno?» «La responsabilità del tempo non è mia» disse Wexford. Poi indicando la borsa aggiunse: «E la responsabilità dell'alluvione che avete provocato non è della pioggia.» «L'ho ripescato dal torrente» spiegò Louis Mbowele. «Non qui. A Myringham. Adesso il vostro piccolo Kingsbrook è diventato un fiume in piena regola. Tutte le mattine vado a passeggiare lungo la riva... qui non riesco a pensare.» Stiracchiò le braccia. Era facile immaginarlo mentre camminava a grandi passi lungo il torrente in piena, con la mente altrettanto in tumulto delle acque e il corpo traboccante di vibrante energia. «Stavo pensando al principio dell'atomicità di Wittgenstein...» «A... cosa?» «Per un'esercitazione scritta, comunque non ha importanza. Ho guardato nel torrente e ho visto quell'affare di seta viola...» «È questo che c'è nella borsa?» «Non l'avevate capito? Io ho capito subito cos'era... avevo letto i giornali. Sono entrato nell'acqua, l'ho ripescato, l'ho messo nella borsa... è la borsa della mia ragazza... e l'ho portato qui.» «Non avreste dovuto toccarlo, signor Mbowele.» «Louis, chiamatemi Louis. Siamo tutti amici, no? Io non ho pregiudizi nei confronti della polizia. La polizia ha un suo posto in uno stato ben organizzato. Non sono un anarchico.» Wexford sospirò. «È meglio che tu venga di sopra, Louis, portandoti la borsa.» Nell'ufficio Louis si mise subito a suo agio togliendosi la tunica coperta di piume e asciugandosi i capelli con la fodera. Si sedette su una poltroncina con l'aria di uno che è più abituato a sedersi per terra, con una lunga gamba distesa e l'altra a cavalcioni del bracciolo. «Dove l'hai trovato esattamente, Louis?» «Nel torrente, tra Mill Street e la zona del college. Era stato trascinato fin lì dalla corrente. Sentite, perché mi avete rimproverato per averlo preso? Se l'avessi lasciato lì a quest'ora sarebbe finito in mare. Cercate di non perdere la testa, amico.» «Non sto perdendo la testa» replicò Wexford, senza riuscire a reprimere un sorriso. «E c'era qualcos'altro nel torrente?» «Pesci» rispose Louis ridendo. «E pezzi di legno e pietre e una gran quantità d'acqua.»
Era inutile chiedere del sacchetto con la spesa. Quale sacchetto di carta, quale confezione di cartone potrebbe sopravvivere per dieci giorni e quindici miglia in un torrente in piena? Certo le scatole di latta avevano resistito, ma solo un miracolo avrebbe potuto farle arrivare esattamente nello stesso punto del torrente in cui Louis Mbowele aveva trovato l'abito. Magari il principio di Wittgenstein avrebbe fornito anche una coincidenza di quel tipo, ma Wexford decise di non contarci. La borsa e, in grado minore, la tunica stavano inzuppando la moquette. «Be', te ne sono molto grato. Hai dimostrato molto senso civico.» Wexford mise di nuovo a repentaglio la sua mano e riuscì a non trasalire quando venne stretta nella morsa color bronzo. «Tra poco c'è un autobus per Myringham, dovresti fare in tempo a prenderlo.» «Lo spero proprio, altrimenti perderei il corso di Len.» Guardò in direzione della finestra. Stava diluviando. «Siete mai stato nel Marumi?» «Nel Marumi?» «È il mio paese. A volte non ci piove per tre anni di fila. Là sì che c'è un bel clima asciutto! Vi piace il sole?» «Sarebbe un ottimo cambiamento.» «Avevate detto che avrei dovuto ricordarmi di voi quando fossi stato a capo del mio regno. Be', non sarà un regno, ma avrò bisogno di un poliziotto veramente esperto, e mi troverei benissimo con voi se riusciste a liberarvi dai vostri impegni... Che cosa ve ne pare?» «A quel tempo sarò troppo vecchio, Louis.» «L'età è solo uno stato mentale» sentenziò il filosofo. Doveva avere circa vent'anni, pensò Wexford. «Non ci vorrà poi così tanto tempo, anzi ce ne vorrà ben poco. Pensateci.» Dalla finestra Wexford lo guardò attraversare la strada facendo dondolare la borsa vuota, fradicia. Ridacchiò. Quando Burden entrò nella stanza, sollevò gli occhi dal fagotto color lilla che stava osservando. «Sai, Mike, mi hanno appena offerto un posto di lavoro.» «Che tipo di lavoro'» «Il mio, esattamente quello che faccio adesso. Quando ne avrò abbastanza della pioggia e della noia di qui, posso andare a fare il capo della polizia in una specie di Ruritania nera. Mi ci vedi con le spalline e due Mauser sui fianchi?» «Oh, mio Dio» fu il commento di Burden. Toccò la stoffa strappata con un certo disgusto. «È il vestito scomparso?» Wexford annuì. «Corrisponde perfettamente all'accurata descrizione del-
la signora Peveril, persino nel bordo più scuro. L'ha trovato Louis Mbowele nel torrente, a Myringham. Evidentemente è stato trasportato fin là dalla piena.» «Da quei campi?» «Comunque da quella zona. La ragazza è stata uccisa lì. Ne sono sicuro quanto sono sicuro che non sarò mai il Maigret del Marumi.» Wexford si ricordava della signorina Mowler fin dai tempi in cui lei faceva l'infermiera distrettuale a Kingsmarkham. Sua moglie si era rotta una caviglia e la signorina Mowler andava da lei tre volte alla settimana, a farle il bagno e a controllare l'ingessatura. La donna lo accolse come un vecchio amico. «La signora Wexford non si sarà arrampicata su altre scale, spero! E come stanno le vostre belle figliole? La settimana scorsa ho visto Sheila alla televisione. Sta diventando famosa, vero? Ed è incredibilmente carina!» «Dite "incredibilmente" perché il padre sono io?» «Oh, signor Wexford, lo sapete bene che non intendevo dire questo!» rispose la signorina Mowler arrossendo, visibilmente confusa. Cercò di rimediare alla gaffe con tutta una serie di giustificazioni, ma Wexford rise e tagliò corto: «Sono venuto per parlarvi del delitto, signorina Mowler.» «Ma io non posso aiutarvi. Non c'ero.» «Certo, ma c'eravate più tardi. Se avete notato qualcosa di strano, anche una piccola cosa...» «Non posso proprio aiutarvi» ribadì la donna con serietà. «Abito qui solo da tre mesi e conosco appena i miei vicini.» «Allora ditemi quel che sapete di loro, e in particolare dei Peveril.» L'ingresso del bungalow era arredato in modo piuttosto vistoso, con una predominanza di nero e di oro. Il pavimento nero di bitume si incurvava all'insù lungo i bordi, fino ad incontrare l'orribile tappezzeria delle pareti. Wexford si stupì del fatto che alla signorina Mowler piacessero quei tralci di fiori rosso acceso, con petali a forma di pera, gambi neri a spirale e lucide foglie dorate. Non lo disse alla donna mentre veniva accompagnato nel soggiorno, ma evidentemente lei notò come fissava la tappezzeria perché si profuse in mille spiegazioni. «Orribile, vero? Il costruttore aveva finito completamente tutti e due i bungalows prima di venderli. Un gusto spaventoso! E qui, come vedete, la tappezzeria è a uccelli azzurri e gigli arancione. Credo che le tappezzerie del signor Dunsand siano identiche, ma mi sembra che lui intenda sosti-
tuirle tutte durante le vacanze. Purtroppo ritappezzare è così costoso e difficile per una donna sola come me... Il guaio è che la carta è di ottima qualità, perfettamente lavabile. Non so se anche quella dei Peveril sia così; credo che loro abbiano potuto scegliere la carta, ma io in casa loro non ci sono mai stata.» «La signora Peveril è una donna strana.» «Molto nevrotica, direi. Una volta l'ho sentita litigare in giardino con suo marito... una vera crisi isterica.» «Perché litigavano, signorina Mowler?» chiese Wexford. «Be', lei lo accusava di tradirla... non ho potuto far a meno di sentire...» Temendo tutta una nuova serie di giustificazioni da parte della donna, Wexford scosse la testa e sorrise. Incoraggiata, la signorina Mowler proseguì: «Be', dire queste cose ad un poliziotto è diverso... non si tratta di fare del pettegolezzo. Una volta la signora Peveril mi ha parlato in strada. Io non la conoscevo nemmeno, eppure questo non le ha impedito di dire... be', le cose più intime. Credo che sia un errore, per un uomo, lavorare in casa, non vi pare?» «Perché dite questo, signorina Mowler?» «Perché così sta sempre insieme alla moglie, e se la moglie è possessiva e gelosa ogni volta che lui esce senza di lei, lei se la prende e sospetta chissà cosa. La signora Peveril, a quanto pare, si appoggia completamente al marito, in tutto, e ovviamente quel pover'uomo non può esser sempre all'altezza. Non è un padreterno. Credo che non volesse nemmeno trasferirsi qui... è stata lei a spingerlo. È il tipo di donna che non è mai contenta, in nessun posto.» «Non esce mai senza suo marito?» «Be', lei è una di quei tipi "fate quello che dico e non quello che faccio"... Certo che esce! Tutti i lunedì sera va a scuola di cucito con la signora Clarke.» «Voi conoscevate Dawn Stonor, immagino.» Da una donna col carattere della signorina Mowler ci si poteva aspettare che un'allusione qualsiasi ad un rapporto con la vittima di un delitto potesse provocare chissà quante giustificazioni. Invece assunse un'espressione sprezzante e disse: «Una ragazza molto egoista e capricciosa. Conosco molto bene la famiglia... di tanto in tanto vado a trovare la nonna, la signora Peckham. Le cose sarebbero state molto diverse per quella povera donna se Dawn si fosse presa la briga di tornare a casa più spesso, ma che cosa ci volete fare, con i giovani di oggi? Quando ancora lavoravo lo dicevo sem-
pre a Dawn, ma lei replicava - e con che tono! - che non riusciva a sopportare né la casa né la madre. E diceva certe assurdità... per esempio che aveva avuto una infanzia infelice. Tirano sempre fuori la storia dell'infanzia infelice per giustificare un cattivo comportamento!» Buttò indietro la testa sdegnosamente e aggiunse: «Non la vedevo da due o tre anni, e non posso dire che la cosa mi dispiacesse.» Era così estraneo al suo carattere non poter dire che una cosa le dispiaceva che evidentemente le repliche di Dawn dovevano averla veramente seccata. Wexford ringraziò ed uscì. Il bungalow di Dunsand aveva l'aria segreta, poco ospitale, di una casa che è abitata raramente di giorno con tutte le finestre chiuse e la bottiglia del latte lasciata con un biglietto sulla soglia. Wexford intravide la signora Peveril, intenta ad innaffiare un vaso di fiori sul davanzale, in tuta da lavoro. Anche lei lo vide, ma fece finta di niente e si affrettò a rientrare in casa, sbattendo la porta. Era una donna robusta, vittima precoce dell'appesantimento tipico della mezza età; pesava certo di più della signorina Mowler che aveva venticinque anni più di lei. Wexford non ci aveva fatto caso prima, ma non poteva essere di certo una taglia 12, doveva portare la 16. D'altra parte in sette anni una donna può ingrassare molto, e Joan Miall aveva detto che l'abito era di sette o otto anni prima... Wexford si fece portare in macchina in Lower Road, e di nuovo si rese conto di una certa irrequietezza e di un certo disagio da parte del giovane Stevens. Da qualche giorno sembrava sempre sul punto di dirgli qualcosa, magari di alleggerirsi di qualche preoccupazione. Diceva "Sì, signore" e "No, signore", ma dietro quelle risposte c'era qualcosa che restava in sospeso, una vaga esitazione, e spesso passava qualche attimo, che sembrava carico di preoccupazione, prima che Stevens si decidesse a voltarsi e a mettere in moto la macchina. Wexford aveva cercato di chiedergli se ci fosse qualcosa che non andava, ma Stevens si limitava a scuotere rispettosamente la testa, e Wexford aveva concluso che il giovanotto doveva avere dei problemi di famiglia di cui avrebbe avuto voglia di parlare, ma che era troppo timido e riservato per esporre. La signora Stonor era in cucina, a stirare, e sua madre era seduta al suo fianco su una sedia a dondolo. La sedia cigolava ad ogni movimento e la signora Peckham, che quel giorno sembrava ancora più in vena di divertite cattiverie, la muoveva in continuazione, prendendo gusto al rumore che produceva «dicono che il rumore lo si fa sempre per seccare gli altri» e
sgranocchiando un'ennesima caramella. «Io non l'ho mai sentita nominare nessun Peveril» disse la signora Stonor, passando il ferro su un paio di mutandoni rosa di maglia che non potevano essere che di sua madre ma erano tanto grandi da contenere tutto quel corpo minuto, rinsecchito. «Si vantava di non conoscere nessuno di qui, diceva che erano tutti dei provinciali, o qualche altro complimento del genere. Prendete quella donna così simpatica della tintoria... conosceva Dawn da sempre, ma Dawn faceva finta di non averla mai vista in vita sua. Voi come lo giudicate, un comportamento così?» Wexford dovette tenere per sé i suoi pensieri. Si stava meravigliando, e non per la prima volta, di quanto potessero essere false certe credenze popolari. L'idea che sia naturale che i figli amino i propri genitori è tutt'altro che scomparsa, e il mondo è ancora convinto che i genitori amino i propri figli istintivamente, automaticamente, nel bene e nel male, a dispetto di qualsiasi delusione. Egli stesso era stato convinto fino a poco tempo prima che l'unico dolore insopportabile fosse la perdita di un figlio. Quando l'avrebbe capito, la gente, che la morte di un figlio o di una figlia, quando libera un genitore dall'obbligo di far buon viso e cattivo gioco, di mentire ai vicini, di presentare una falsa immagine, può anche essere un sollievo? «Se si fosse innamorata di uno del posto forse i suoi pregiudizi sarebbero passati in sott'ordine» osservò cautamente Wexford. Si rendeva conto di parlare una lingua straniera per la signora Stonor. La donna colse solo l'unico punto che le dicesse qualcosa. «Quella non sapeva voler bene a nessuno.» La signora Peckham sbuffò con insofferenza e con sorprendente acume psicologico disse: «Forse non sapeva come fare. I bambini non sanno fare le cose se nessuno gliele insegna. È così anche con i cani.» Passò a Wexford il sacchetto di caramelle e fece un sorrisetto ironico quando lui ne prese una. «E con le scimmie» aggiunse. «L'ho letto su Selezione.» «Ci stiamo chiedendo, signora Stonor, se Dawn non è andata in casa di un uomo.» Parlando con qualsiasi altra madre in lutto Wexford avrebbe addolcito le espressioni, ma con quella ogni forma di tatto sembrava un sentimentalismo inutile. «Pensiamo che possa aver avuto un appuntamento con un uomo del posto, mentre sua moglie non era in casa.» «La cosa non mi sorprenderebbe... Dawn non aveva senso morale. Ma non sarebbe certo andata lei a casa dell'uomo, questo lo capisco persino io. Sarebbe stato stupido, visto che lei aveva un appartamento tutto suo. Le ragazze come lei sono bravissime a tirarsi indietro se l'altro cerca di fare
qualcosa di strano.» Detto con molta crudezza, ma vero. «Dawn non aveva nemmeno la decenza di nascondermelo! Mi ha detto che c'era stata, con uomini così. Questo lo chiamava essere onesta e farsi la propria vita... come se lei sapesse cos'era l'onestà! Io sarei morta piuttosto di dire certe cose a mia madre.» Una risatina stridula arrivò dalla signora Peckham. «Tu non avevi niente da dire, Phyllis. Tu non sei umana.» «Non dire sciocchezze, mamma. Il sergente non vuole che tu ficchi continuamente il naso in quel che diciamo, ed è ora che tu vada a riposare. Sei tutta eccitata da quando è venuto quel giovanotto, stamattina, a farti un sacco di versi.» Divertito dal fatto di essere stato improvvisamente abbassato di grado, Wexford, che nel frattempo si era alzato per andarsene, rivolse alla vecchia un sorrisetto di complicità. «Un nipote, signora Peckham?» «No, non ho mai avuto altri figli oltre a Phyllis... purtroppo» rispose col tono di rimpiangere non un altro figlio come la signora Stonor ma un figlio ben diverso. «Però in un certo senso Hal era come un nipote.» «Allora ti decidi a fare quello che dico, mamma, e ad andartene a letto?» «Ci vado, Phyllis, ci sto già andando.» La consapevolezza di dipendere, dopotutto, dalla benevolenza della figlia per il vitto e l'alloggio aveva ammorbidito momentaneamente l'asprezza della signora Peckham; ma l'ammorbidimento non durò a lungo. Si alzò, afferrando il sacchetto delle caramelle. «Tu ce l'hai col povero Hal perché con te non è stato affettuoso come con me. Mi ha persino baciata» aggiunse con orgoglio. Si appoggiò ai bastoni, curvando le piccole spalle. «È venuto stamattina. Cercava una casa da queste parti, una di quelle grandi case che una volta chiamavano "da signori". Lui ha idee molto grandi, Hal. Ha tutto un appartamento in quel grande albergo nella Foresta, però è venuto a trovare la vecchia nonna Peckham senza darsi arie, è venuto a dirmi come gli dispiaceva per la povera Dawnie. È arrivato con una grossa macchina dorata, e mi ha baciata, e mi ha portato una scatola di Black Magic da un chilo.» Gli occhi le sfavillavano al pensiero di tutti quei cioccolatini che l'aspettavano probabilmente nella sua camera. Sospirò soddisfatta. «Adesso vado proprio a sdraiarmi.» 10 Ormai i figli di Burden erano abbastanza grandi per tornare in una casa
dove non c'era nessuno e farsi da soli una tazza di tè, ma più spesso, uscendo da scuola, andavano direttamente a casa della zia Grace, e durante le vacanze Pat Burden passava lì la maggior parte del tempo, a giocare col cuginetto. Suo fratello faceva la vita vagabonda del teenager, andando in giro per i campi con una piccola banda di coetanei, pescando nel Kingsbrook o suonando il juke-box nel bar del Carousel. Burden si rendeva perfettamente conto che la vita di suo figlio sarebbe stata ben poco diversa anche se nel bungalow di Tabard Road ci fosse stata una madre, e che una bambina ha bisogno di un adulto di sesso femminile su cui modellarsi: nel suo caso, Grace. Ma si preoccupava in continuazione per i ragazzi. John sarebbe diventato un delinquente se stava fuori dopo le nove di sera? Pat sarebbe rimasta traumatizzata per tutta la vita per il fatto che a tredici anni doveva di tanto in tanto aprire una scatola o farsi il tè? È le loro mance erano eccessive o troppo modeste? Avrebbe forse dovuto risposarsi per amor loro? Burden era oppresso dai sensi di colpa, pur non avendone proprio alcun motivo. Faceva tutto ciò che era possibile per assicurarsi che nessuno dei due fosse costretto a fare qualche lavoretto che non avrebbe dovuto fare se fosse stata ancora in vita la madre dei suoi figli. Per questo li portava fuori a mangiare o si precipitava a casa con dei costosi cibi già pronti e surgelati. Pat non doveva mai fare a piedi il mezzo miglio che separava la casa di Grace da Tabard Road. Se ci fosse stata Jean gliel'avrebbe fatto fare senza la minima preoccupazione, ma le bambine senza mamma dovevano essere portate a casa in macchina dal loro papà. Burden pativa le pene dell'inferno se faceva tardi per lavorare su un caso e Pat doveva aspettare un'ora in più, o magari essere lasciata a casa dalla zia per una sera. Wexford lo sapeva, e nonostante non esentasse certo Burden dal lavoro essenziale per questo, aveva a malincuore rinunciato all'abitudine di trattenerlo dopo l'orario di lavoro per discutere con lui i problemi del giorno all'Olive and Dove. Il contributo di Burden a quelle discussioni era diventato praticamente nullo: i suoi occhi erano sempre sull'orologio. Ogni bicchiere che beveva era "quello della staffa", e di tanto in tanto si alzava dalla sedia esprimendo ad alta voce la preoccupazione che lo tormentava: "John sarà già tornato a casa?". Ma le vecchie abitudini sono dure a morire. Wexford preferiva l'atmosfera dell'Olive al disordinato soggiorno del bungalow in cui regnavano i
teenagers. Si sentiva in colpa quando a Pat veniva impedito di fare i suoi esercizi di danza classica e John era costretto a spegnere il giradischi, ma a volte aveva proprio bisogno di parlare con Burden, di discutere alcune cose con lui dopo l'orario d'ufficio. Quella sera, avvicinandosi alla porta d'ingresso per suonare il campanello, sentì il tipico alternarsi di suoni assordanti e lamentosi della musica pop. Burden era in camicia a maniche corte e grembiule di plastica. Quando vide chi era il visitatore si affrettò a togliersi il grembiule. «Stavo finendo di lavare i piatti» spiegò. Poi aggiunse subito: «Faccio un salto a comperare un po' di birra.» «Non ce n'è bisogno, l'ho portata io. Cosa credevi che avessi nella borsa? Altri tesori ripescati dal torrente? Chi sta cantando, John?» «Zeno Vedast» rispose rispettosamente il ragazzo. Guardò suo padre. «Posso immaginare che adesso dovrò spegnere il giradischi.» «Se è per me, no» disse Wexford. «Non mi dispiace la sua voce.» Vedast non stava cantando una canzone del concerto ma un successo meno recente che era stato a lungo in testa alle classifiche, tanto che l'aveva sentito persino Wexford. Un paio di volte ne aveva addirittura canterellato sottovoce il motivo. Era una gradevole canzone folk che parlava di un matrimonio di campagna. «Papà mi comprerà l'album di Sundays per il mio compleanno.» «Ti costerà un sacco di soldi, Mike.» «Già, sei sterline» disse Burden in tono tutt'altro che allegro. «Chissà se qualcuna di queste canzoni resisterà al tempo? Noi stiamo già dimenticando certe canzoni che andavano per la maggiore ai nostri tempi. Invece, per esempio, l'aria delle Nozze di Figaro, di Mozart, che i fattorini fischiettavano per le strade di Vienna già alla fine del '700, è molto nota anche adesso.» «Davvero?» disse educatamente Burden, senza capire. «Adesso dovresti spegnere quel giradischi, John. Il signor Wexford non è venuto qui per parlare di Zeno Vedast, o Goodbody, o come diavolo si chiama.» «Invece sono qui proprio per questo!» Wexford andò in cucina, prese uno strofinaccio, e cominciò ad asciugare i bicchieri, nonostante i tentativi di Burden di bloccarlo. «Ho l'impressione che prima di procedere dovremmo parlare col leone di Dawn, quello che ruggisce come una colomba in amore.»
«Chissà dove sarà in questo momento.» «Nessun problema, Mike. È qui, o per lo meno è al Cheriton Forest Hotel.» Wexford bevve la birra che gli aveva versato Burden e riferì all'ispettore la sua conversazione con la signora Peckham. «Non so se la cosa significhi un gran che; può darsi che Vedast ci tenga ad andare a trovare le vecchie signore, proprio come i candidati al parlamento ci tengono a coccolare i bambini. Per cercare di accattivarsi le simpatie della gente. Ma può anche darsi che abbia voluto fare personalmente le condoglianze alla nonna di Dawn solo perché è un ragazzo simpatico. Questo non significa che abbia visto Dawn di recente.» John infilò la testa nella porta. «Io esco, papà.» Burden cominciò ad agitarsi. «Dove vai? Perché? Perché vuoi uscire?» «Faccio solo un salto al Carousel.» «Nessun problema, John, perché usciamo anche noi» intervenne Wexford in tono accomodante. «Tuo padre non tornerà a casa prima delle dieci e mezzo, perciò è meglio che tu ti prenda la chiave. Devi essere qui prima di lui, d'accordo?» Burden gli consegnò la chiave con aria un po' disorientata, e John la prese come se fosse stata qualcosa di prezioso e di fantastico. Quando il ragazzo fu uscito - in gran fretta, per paura che potesse esserci qualche ripensamento - Burden disse in tono sospettoso: «Gli avete parlato come se fosse un adulto...» «Non bere altra birra, Mike. Devi guidare tu.» «Andiamo a Cheriton Forest, immagino?» «Già, già. Stasera Vedast cena in albergo, ho controllato.» Wexford guardò l'orologio. «Ormai dovrebbe aver quasi finito.» «Mio Dio, non so come fare... Pat è a casa di Grace, e John...» «Il ragazzo è ben contento che tu esca. Non hai visto com'era sollevato? Tu non vuoi uscire per amor suo, e vorresti che lui non uscisse per amor tuo.» «A volte ho l'impressione che i rapporti umani siano impossibili. Che sia del tutto impossibile comunicare.» «Sei proprio uno sciocco» osservò Wexford, ma lo disse con affetto. La Foresta di Cheriton, una grande distesa di abeti, si trova due miglia a sud di Kingsmarkham. È intersecata da un certo numero di sentieri sabbiosi e da un'unica strada asfaltata lungo la quale, in un grande spiazzo erboso, sorge il Cheriton Forest Hotel.
È un albergo più nuovo e più alla moda dell'Olive and Dove di Kingsmarkham. L'edificio originale, costruito negli anni '30, vorrebbe essere una copia di una casa padronale Tudor; ma le travi sono in numero eccessivo, lo stucco è troppo bianco e le travi troppo nere, e le parti in legno sono più decorative che funzionali. Inoltre l'insieme, che sarebbe potuto diventare più gradevole col tempo, è guastato irrimediabilmente da un grande bar a vetri e dalle file di bungalows tipo motel aggiunte alla fine degli anni '60. Quando Wexford e Burden arrivarono all'albergo c'era ancora molta luce; una normale sera d'estate, fresca e ventosa. Il vento agitava gli alberi della foresta contro un cielo pallido le cui nubi grigie, bordate di rosa nella parte più a ovest, si spostavano, si raggruppavano, e cambiavano forma per effetto del vento. Se fosse stato sabato a quell'ora lo spiazzo antistante sarebbe stato ingombro di macchine e il bar sarebbe stato pieno di gente, ma quella era una sera di metà settimana. Attraverso una finestra a colonnine si vedevano delle persone che cenavano tranquille, e dei camerieri che si aggiravano senza fretta coi loro vassoi. La finestra era chiusa, così come tutte le altre della costruzione ad eccezione di una al piano superiore, una porta-finestra che dava su un balcone che stonava decisamente con lo stile dell'albergo. Il vento faceva aprire e chiudere in continuazione i due battenti con i vetri a rombi, e di tanto in tanto arrivava fino al tendaggio di velluto, facendolo svolazzare come bucato steso ad asciugare. Nel parcheggio c'era un sacco di posto per la mezza dozzina di macchine che vi si trovavano. Solo una era stata lasciata sullo spiazzo davanti all'albergo, una Rolls-Royce color oro parcheggiata di traverso, con la griglia infilata senza riguardi tra i gerani. Wexford fissò la macchina attraverso i finestrini della sua, che Burden stava infilando, secondo le regole, in uno spazio libero del parcheggio. Aveva sentito parlare della moda di rivestire internamente le macchine di finto pelo ma non ne aveva mai visto un esempio coi suoi occhi, se non nella pubblicità delle riviste di lusso. L'interno della Rolls-Royce era rivestito di ricca e morbida pelouche color oro cupo - lo stesso tono caldo del manto di un leone - e sul cofano, appena sopra la griglia, c'era un piccolo leone rampante che sembrava d'oro vero. «Continua a saltar fuori il leitmotiv dell'animale da preda» osservò Wexford. Si avvicinò alla macchina per vederla meglio, e contemporaneamente la portiera del posto di guida si aprì e scese a terra una ragazza. Era Nell
Tate. «Buonasera» disse l'ispettore capo. «Ci siamo già conosciuti.» «Non credo, non me ne ricordo.» Era la voce di una persona abituata a difendere una celebrità dall'invadenza dei fans. «Al concerto.» Wexford si presentò, e presentò anche Burden. «Vorrei parlare col signor Vedast.» Nell Tate assunse un'espressione decisamente allarmata. «Non potete parlare con Zeno. Sta riposando. Probabilmente dorme. Stiamo cercando tutti di passare una serata tranquilla. Io sono scesa a prendere qualcosa dalla macchina.» Dal suo aspetto si sarebbe detto che era lei quella che aveva bisogno di riposo. Elegantissima in un lungo abito aderente di pizzo color argento sotto il quale chiaramente non portava niente, con pesanti monili di platino al collo e ai polsi, aveva un'aria sfinita, angosciata. Sotto il pesante trucco argento e viola il suo occhio sinistro era molto gonfio, arrossato. Osservandolo senza farsi notare, Wexford pensò che c'era voluto un bel coraggio ad attaccarsi delle ciglia finte a quella membrana tumefatta, dolente. «Non c'è fretta, aspetteremo» dichiarò con calma. «Siete in uno dei bungalows?» «Oh, no.» La sua padronanza era falsa, e molto precaria. «Noi occupiamo il cosiddetto "appartamento elisabettiano". Potete dirmi perché siete qui?» «Per Dawn Stonor. Ditegli che vogliamo parlargli a proposito di Dawn Stonor.» La ragazza non fece nemmeno finta di stupirsi o di ignorare chi fosse Dawn. «Glielo dirò. Non potreste tornare domani?» «Penso che aspetteremo» rispose Wexford. Insieme a Burden seguì Nell Tate nella hall dell'albergo; un portiere si era precipitato ad aprirle la porta. Osservando il modo spavaldo in cui lei gli era passata davanti, sollevando la testa e tirando indietro le spalle, senza una parola né un cenno, Wexford decise di essere più duro. «Vi diamo un quarto d'ora, poi saliamo.» La ragazza si diresse verso l'ascensore. Il portiere, per niente seccato di essere stato trattato con tanta sufficienza, la seguì con uno sguardo decisamente ammirato. Prima che la porta dell'ascensore si richiudesse, l'immagine della ragazza si rifletté per un attimo su tutte e tre le pareti a specchio della cabina. «Bella!» commentò il portiere con convinzione. «Che cosa ci fanno qui?»
«Il signor Vedast è qui per comperare una proprietà di campagna, signore.» Chiunque altro, pensò Wexford, avrebbe semplicemente comperato una casa. Si cercò in tasca un paio di monete e ne trovò solo una da cinquanta pence. «E ha trovato niente?» «Grazie, signore. Vanno in giro tutti i giorni a cercare qualcosa di adatto, lui e i signori Tate. Alcuni suoi fans sono arrivati fin qui, ma sono rimasti delusi perché il signor Vedast consuma i pasti nel suo appartamento.» «Nell Tate era allarmatissima quando le avete detto chi eravamo» disse Burden quando il portiere non fu più a portata di voce. «Sì, me ne sono accorto, ma forse era allarmata solo perché non voleva che Vedast venisse disturbato. Chissà se è stato lui a farle quell'occhio nero?....» «È più probabile che sia stato suo marito, poveraccio. Il loro è proprio quello che si dice un ménage à trois. Secondo voi in quell'appartamento ce ne saranno due, di camere da letto, o una sola?» «Per essere un puritano dichiarato, Mike, t'interessi un po' troppo a queste cose ambigue! Ecco, leggiti Nova, e a me passa The Field.» Per un quarto d'ora sfogliarono le riviste patinate che offriva il salotto Shakespeare. Ad un certo punto entrò una coppia molto anziana e accese il televisore. Quando i due riuscirono a sintonizzarlo sui risultati del cricket urlati a gran voce, li ignorarono e si misero a leggere un romanzo. Entrò poi un cane dalmata, che girellò per un po', e alla fine si raggomitolò davanti alla stufa elettrica spenta. «Il tempo è scaduto» annunciò Wexford ad un certo punto. «Andiamo nella tana del leone.» 11 L'appartamento era al primo piano. Furono fatti entrare non da Nell ma da un elegante giovanotto bruno sulla trentina che, con un sorriso appena accennato, si presentò come Godfrey Tate. La sua immagine suggeriva un senso di scarsità, di parsimonia. Aveva capelli fini, appena un po' lunghi, baffi sottili, piedi minuti negli stivali stringati. Portava dei calzoni neri a tubo, una striminzita camicia nera, e aveva l'aria di una persona che razionasse i propri movimenti, le proprie parole, i propri modi fino al limite minimo consentito nei rapporti sociali. «Zeno può dedicarvi dieci minuti.» Erano in un piccolo ingresso disseminato di fiori di ogni tipo, il cui pro-
fumo impregnava l'aria in modo persino nauseabondo. Il soggiorno era grande e per niente elisabettiano, essendo arredato nello stile di un casinò di provincia, con specchi rosati alle pareti, nicchie che contenevano altri fiori in vasi dorati, tende di velluto alla porta-finestra che dava su un balcone. Lì dentro l'aria non era viziata né soporifera. Tutte le porte erano aperte, e lasciavano intravedere una stanza da bagno col pavimento cosparso di salviette bagnate e due camere, una con un enorme letto matrimoniale e l'altra con due letti singoli. Dalla biancheria in disordine era chiaro che tutti e tre i letti erano stati occupati fino a poco prima, ma da chi e con chi non era dato saperlo. Entrambe le camere, come il soggiorno, erano ingombre di abiti smessi, riviste, dischi e valigie traboccanti. Dalle portefinestre entrava un forte vento che scuoteva i fiori e faceva ondeggiare e sbattere le tende. Nell Tate era livida per il freddo, e aveva la pelle accapponata. Il suo compagno invece era seduto a petto nudo davanti a un tavolo accanto alla finestra, e mangiava del tacchino arrosto col gagliardo appetito di un ragazzo cresciuto a zuppa di fagioli. «Buonasera, signor Vedast. Mi dispiace disturbarvi durante la cena.» Vedast non si alzò, ma la sua faccia imberbe, levigata, tutta ossa sporgenti e piani quasi slavi, si aprì in un gran sorriso. «Salve! Prendete un po' di caffè.» La sua voce non era per niente affettata, aveva conservato la tipica commistione locale di suoni aspri del Sussex e toni più dolci londinesi. «Nelly, fa' mandar su dell'altro caffè, e portar via tutto questo.» Fece un ampio gesto circolare per indicare gli altri due piatti dai quali il cibo era stato appena spiluccato, i piatti di portata, e il cestino coi melba toast. «Su, telefona al servizio in camera.» Nessuno aveva toccato la zuppa inglese. Vedast prese tutta la ciotola e se la mise in grembo. «Forse preferirebbero bere qualcosa...» suggerì Godfrey Tate. «Vorrai dire che lo preferiresti tu, Goffy. Non sai che i poliziotti non possono bere quando sono in servizio?» Prendendo una gran cucchiaiata di zuppa inglese Vedast sorrise a Wexford. Il suo viso non era bello ma attraente, interessante, con quel pallore e quell'aria esposta, vulnerabile, emaciata. «Il guaio di Nelly e Goffy è che non leggono mai, non sono informati. Allora, miei cari, sbrigatevi a fare quella telefonata e a prendere da bere.» Come schiavi rassegnati, i Tate fecero ciò che era stato loro ordinato. Godfrey Tate prese una bottiglia semivuota di cognac da un mobiletto pseudo Luigi Quindici e si versò ciò che ne restava in un bicchiere. Bevve
restando in piedi e fissando con occhi cupi la moglie che telefonava per farsi mandare dell'altro caffè. Vedast rise. «Perché non vi sedete? Non fa troppo freddo qua dentro, vero?» Fece cenno a Nell di avvicinarsi increspando le labbra come per emettere un fischio. La ragazza gli si avvicinò immediatamente, ansiosa di soddisfarlo. Tremava dal freddo e batteva i denti. «L'aria fresca fa bene a Nelly e Goffy. Se non mi occupassi io della loro salute se ne starebbero sempre chiusi come galline nelle loro gabbie calde. Domani ci andremo a piedi, a caccia di case, Nelly.» «Allora non contate su di me» disse Godfrey. «Davvero? Non ti dispiace se Nelly viene con me, vero?» Con aria famelica Vedast finì il dessert che sarebbe dovuto bastare per tre persone. «Forse i nostri ospiti conoscono un sacco di case disponibili nella zona...» «Noi non siamo agenti immobiliari, signor Vedast; siamo venuti a fare delle domande, non a piazzare case» replicò Burden seccato. Prima che Vedast potesse ribattere arrivò il caffè. Godfrey gli diede un'occhiata, buttò giù il suo cognac e cercò un'altra bottiglia nell'armadietto. Mentre sua moglie versava il caffè, ne trovò una proprio in fondo al ripiano, già aperta ma ancora quasi piena. Si versò un'altra abbondante dose di cognac, e ne bevve avidamente un lungo sorso. Immediatamente cominciò a tossire convulsamente e si portò una mano alla bocca come se volesse rimettere. «Cristo!» Un rigagnolo di liquido gli scendeva tra le dita. «Non è cognac! Cosa diavolo è?» Vedast rise, piegando la testa da una parte. «Alcool denaturato e tè freddo, Goffy... solo un piccolo esperimento per vedere se notavi la differenza.» Nell fece una risatina sciocca, stretta contro il fianco di Vedast. «Il cognac l'ho buttato nel water... che è il posto più adatto.» Godfrey non disse niente. Se ne andò in bagno, sbattendo la porta. «Poverino! Non importa, domani lo porteremo a cena in quel bel locale di Pomfret. Un bacio, Nelly? Brava, Tu non te la prendi se io faccio degli scherzi al tuo vecchio, vero? Allora com'è il vostro caffè, ispettore capo?» «Be', è davvero caffè, signor Vedast. Evidentemente si corrono dei rischi a bere in casa vostra.» «Non oserei mai manipolare il vostro caffè... ho un grande rispetto per la polizia.» «Bene» rispose Wexford in tono asciutto. «Spero che ne abbiate abbastanza per dirmi com'erano i vostri rapporti con Dawn Stonor.»
Vedast prese una zolletta di zucchero e la succhiò. Aveva un'aria completamente rilassata, con le gambe accavallate in modo estremamente disinvolto. Wexford e Burden avevano ancora addosso l'impermeabile eppure non avevano per niente caldo; Vedast invece, pur essendo seminudo, sembrava non sentire affatto il vento freddo e umido che arrivava da fuori. La peluria bionda del petto era schiacciata dalla catena d'oro che portava al collo. «Quando vivevamo qui tutt'e due, era la mia ragazza.» «Intendete dire che eravate... amanti?» Vedast annuì con un sorriso accattivante. «Sì, sono stato il primo con cui ha fatto l'amore. Avevamo sedici anni. Piuttosto commovente, non vi pare? Poi mi ha scoperto Martin Silk, e mi sono successe tante cose eccitanti che non vi interessano di certo... e così Dawnie ed io abbiamo perso i contatti. Non l'ho più rivista fino a quest'anno.» «Dove l'avete rivista?» «Al Townsman Club» rispose con prontezza Vedast. «Ci ero andato con Nelly e Goffy, invitato da un mio amico, e ci ho trovato Dawnie, che serviva da bere. La mia povera piccola Dawnie in bustino di seta gialla e collants! Per poco non sono scoppiato a ridere, ma sarebbe stato poco gentile. Lei è venuta a sedersi al nostro tavolo e abbiamo fatto una chiacchieratina sui vecchi tempi. Si ricordava persino che cosa mi piaceva bere... succo d'arancia zuccherato.» «E in seguito vi siete più messo in contatto con lei?» «Solo una volta.» Vedast parlava con grande scioltezza, con disinvoltura, giocando con la catena d'oro. «Nelly e Goffy erano andati a trovare la madre di Goffy, e io mi sentivo un po' solo...» Sorrise con l'aria della star rimasta semplice, nonostante il successo. «Al club Dawnie mi aveva scritto il suo numero telefonico... a Nelly la cosa non era piaciuta per niente, potete immaginarvelo. Così ho pensato "Perché non telefono a Dawnie?".» «E l'avete fatto?» «Certo che l'ho fatto.» Adesso Vedast sorrideva quasi con l'aria di scusarsi - un sorrisetto un po' timido, il sorriso del divo dal cuore semplice che ha nostalgia degli amici dei suoi giorni più umili in quanto nel suo cuore è rimasto un bravo ragazzo di campagna. «Ma è piuttosto imbarazzante quando la gente, per così dire, ti travolge, vero? Sapete cosa intendo dire? Quando è troppo entusiasta, quando ti adula...» «Volete dire che ad un certo punto vi siete stancato?» intervenne bru-
scamente Burden. «Detto così sembra poco gentile. Diciamo che ho pensato che fosse meglio non cercare di far rivivere ciò che era morto e sepolto. Oh, mio Dio, che brutta espressione, date le circostanze! Volevo solo dire che ho scaricato Dawnie, dicendole che sarebbe stato bello rivederci un giorno, ma che al momento ero troppo occupato.» «Quando è stata fatta questa telefonata, signor Vedast?» «Tre o quattro settimane fa. Una semplice chiacchieratina che lascia il tempo che trova. Ve l'immaginate Dawnie che dice a nonna Peckham che ci siamo incontrati! Nelly e Goffy possono dirvi con precisione quando sono andati dalla madre di Goffy.» Fissò su Wexford i suoi occhi da gatto, stretti e gialli, poi all'improvviso li allargò, e Wexford vi vide un nuovo brillìo malizioso. «E possono anche dirvi dov'ero il 6 giugno... so già che sarà questa la prossima domanda che mi farete.» «Sì, avete ragione, dove eravate, signor Vedast?» «Nella mia casa di South Kensington, al Duvette Gardens. Eravamo lì tutti e tre, Nelly, Goffy e io. Eravamo tornati da Manchester la domenica notte e quel lunedì non abbiamo fatto altro che poltrire e dormile. Ecco Goffy, tutto rimesso a nuovo! Ve lo confermerà lui.» Godfrey Tate era uscito dal bagno; appariva stanco e la sua faccia era inespressiva, ma non mostrava nessun risentimento per lo scherzo umiliante che gli aveva fatto Vedast. «Chi nomina il mio nome invano?» disse cercando pateticamente d'essere spiritoso. «Di' ai poliziotti dov'ero il 6 giugno, Goffy.» «Con me e Nell. Siamo stati insieme, al Duvette Gardens, tutto il giorno e tutta la notte. Nell può confermarvelo. Nell!» La risposta era stata così pronta, così spigliata, che era chiaro che la formulazione dell'alibi era stata provata e riprovata. Wexford capì che la ragazza stava origliando dietro alla porta perché quando suo marito spalancò l'uscio fece una piccola esclamazione come se fosse stata urtata. «Certo che eravamo tutti lì» dichiarò. Si era infilata una lunga vestaglia ma aveva ancora freddo. Fece qualche passo verso la finestra, come per chiuderla, ma vedendo Vedast scuotere la testa, sempre sorridendo, si sedette obbedientemente, si strinse nella vestaglia, e a un'occhiata del cantante disse: «Non siamo usciti in tutto il giorno. Eravamo così stanchi dopo Manchester.» Una mano corse all'occhio dolente, esitò, poi ricadde nel
grembo. «E adesso» ordinò Vedast «dite ai signori quando siete andati a trovare la madre di Goffy.» Se Godfrey avesse avuto la coda, pensò Wexford, a quel punto si sarebbe messo a scodinzolare. Come un cane che ama e allo stesso tempo teme il suo padrone, e ne è completamente ipnotizzato, l'uomo drizzò le spalle e sollevò la testa, ansioso di obbedire. «È stato circa un mese fa, vero?» lo imbeccò Vedast. «Ci siamo andati il 22 maggio, e...» cominciò Nell. «E siamo tornati il 25, un mercoledì» concluse suo marito. Vedast sembrava compiaciuto. Per un attimo sembrò sul punto di dare una pacchettina affettuosa alla testa dei suoi due cani, ma si limitò a sorridere a Godfrey e a gettare un bacio a Nell. «Visto, ispettore? Noi facciamo una vita molto tranquilla. Io non ho ucciso Dawnie spinto dalla passione, Goffy non l'ha uccisa perché gliel'avevo ordinato io... anche se lo avrebbe fatto di sicuro se gliel'avessi chiesto... e Nelly non l'ha uccisa per gelosia. Perciò non possiamo esservi utili. Stasera dobbiamo esaminare un sacco di materiale delle agenzie immobiliari, perciò adesso potremmo dedicarci alla nostra ricerca di una casa?» «Certo che potete, signor Vedast. Ma non posso promettervi di non venire ancora a disturbarvi.» Vedast scattò in piedi con grande agilità. «Non dovete nemmeno promettermelo: sarà un piacere rivedervi! È stata una chiacchierata piacevole. Noi non vediamo molta gente... dobbiamo stare molto attenti.» Strinse con calore la mano di Wexford. «Accompagnali fuori tu, Goffy. E chiudi a chiave la macchina.» «Vi auguro di trovare una casa di vostro gusto, signor Vedast» disse Wexford. John Burden era già tornato a casa, e si era messo a letto dopo aver lasciato a suo padre un biglietto in cui diceva che Pat avrebbe passato la notte dalla zia. La chiave era stata lasciata sotto un vaso di fiori, e la cosa, se da una parte sbalordì il poliziotto che c'era in Burden, dall'altra fece compiacere il padre della previdenza del figlio. Burden tolse l'LP di Vedast dal giradischi e richiuse l'apparecchio. «Una di queste canzoni è intitolata "Fa' un fischio e io corro da te, amore mio"» disse. «Molto appropriata.» Wexford guardò la copertina del disco. «Deve a-
verla scritta pensando ai Tate.» «Hai proprio ragione! Come faranno ad accettare un trattamento del genere?» «Lei per amore, lui per i soldi, e tutt'e due per la gloria riflessa. Vedast diceva la pura verità quando ha dichiarato che "Goffy" avrebbe ucciso Dawn se gliel'avesse chiesto. Quei due farebbero qualsiasi cosa per lui... "Essendo tuo schiavo che cosa potrei fare se non accondiscendere a ogni tuo desiderio?" Ma non è solo per amore e per soldi e per la gloria riflessa; è anche per la forza della personalità di quel ragazzo. Una personalità sinistra, ben poco piacevole. In situazioni del genere l'alibi non ha nessun valore: un alibi confermato da degli schiavi non è un alibi. Al tempo degli antichi romani si era molto cauti nell'accettare la testimonianza degli schiavi.» Burden ridacchiò. «Avete proprio ragione... Cesare! Ma Vedast come faceva a sapere che gli occorreva un alibi per il 6 giugno? Noi non glielo avevamo detto.» «Gliel'avranno detto la signora Stonor o la signora Peckham. E ne hanno parlato anche i giornali, del fatto che secondo noi era quella la probabile data della morte. Io non credo che lui possa averci a che fare in qualche modo... gli piace giocare con noi, tutto qui. Gli piace sfruttare le occasioni per divertirsi, e soprattutto ci gode a far paura agli altri.» Poi aggiunse citando il Duca di Wellington: «Per Dio, fa paura anche a me!» 12 Le tappezzerie all'interno del bungalow di Leonard Dunsand erano identiche a quelle del bungalow della signorina Mowler. Stessa carta a macchie rosse sulle pareti dell'ingresso, stessi abominevoli uccelli e gigli nel soggiorno. La signorina Mowler, però, nonostante le sue critiche al cattivo gusto del costruttore, aveva dimostrato un gusto non certo migliore riempiendo la casa di mobili pacchiani e di quadri di serie. Il sobrio arredamento della casa di Dunsand, invece - le poltrone di pelle marrone del salotto, i tavolini tardo-vittoriani, e soprattutto il gran numero di scaffali pieni di libri impegnativi - appariva incongruente, fuori luogo. Sui davanzali c'erano vasi di cactus rinsecchiti e piccole piante grasse senza vita. Nell'ingresso c'era solo uno spoglio tavolo di mogano, e nessun tappeto. Era la tipica casa dell'intellettuale scapolo, con la sola differenza che era altrettanto pulita di quella della signora Peveril e che su un tavolo del soggiorno c'era una
pila di dépliants turistici a colori, ancora più sgargianti della tappezzeria. Dunsand, che era appena rientrato dal lavoro, disse a Wexford e Burden di accomodarsi con voce incolore ma ben impostata. Dimostrava circa quarant'anni, e aveva radi capelli color topo e una faccia flaccida, con le guance un po' troppo paffute per la bocca sottile. Delle spesse lenti gli deformavano gli occhi, facendoli sembrare sporgenti. Era vestito in modo impeccabile ma decisamente convenzionale: completo classico scuro, camicia bianca, cravatta sobria. Né ostile né disponibile, ripeté ciò che aveva già detto a Burden: cioè che il 6 giugno era tornato a casa verso le sei e mezzo e durante la serata non aveva notato niente di insolito sul Sentiero. «Mi sono preparato la cena, poi ho fatto un po' di pulizie. Questa casa, dentro, è molto brutta, ma non vedo perché dovrebbe essere anche sporca.» «Avete visto qualche vicino?» «Ho visto la signora Peveril risalire il Sentiero alle sette e mezzo. Credo che frequenti delle lezioni serali di artigianato.» «E voi non siete uscito? Era una bella serata.» «Davvero? No, non sono uscito.» «Siete in buoni rapporti con i vostri vicini, signor Dunsand?» «Oh, sì, ottimi.» «Andate a casa loro, per esempio? E loro vengono da voi?» «No. Credo di aver frainteso. Intendevo solo dire che se ci incontriamo per la strada ci salutiamo e scambiamo due parole.» Wexford sospirò segretamente. Trovava deprimente Dunsand, e compativa i suoi studenti. La filosofia - lo sapeva pur conoscendo la materia in modo molto approssimativo - non è solo etica, acuti sillogismi, aneddoti su Pitagora, ma anche logica, astrusa matematica, tesi e dimostrazioni, premesse epistemologiche. Figurarsi un tipo come quello che fa lezione per due ore di seguito su Wittgenstein! «Quindi non potete dirci niente sul tipo di vita che conducono i signori Peveril, sulle loro abitudini, sulle visite che ricevono, e così via?» «No, infatti» rispose Dunsand con la stessa voce educata ma incolore. A Wexford però sembrò di cogliere per un attimo una certa animazione nei suoi occhi, un segno di vita, forse un lampo di dolore. Ma un istante dopo l'animazione era già sparita e gli occhi ingranditi dalle lenti erano di nuovo fissi e inespressivi. «Credo di poter affermare, ispettore capo, di non sapere niente della vita privata di nessuno, ad eccezione della mia.» «E la vostra vita... com'è?» chiese Wexford in tono esitante. «Be', lo vedete.» Dunsand si schiarì la voce e aggiunse: «Sta ricomin-
ciando a piovere. Se non intendete farmi altre domande, ispettore, vado a metter via la macchina.» «Andate mai a Londra, signor Peveril?» «Certo che ci vado, per lavoro» rispose Peveril, sottolineando con aria seccata l'ultima parola. Era stato di nuovo costretto ad uscire dal suo studio, e aveva effettivamente le dita sporche d'inchiostro. Wexford non poté evitare di pensare che se le fosse macchiate di proposito, così come forse si era scomposto di proposito i capelli. «Ci vado di tanto in tanto, una volta ogni quindici giorni, una volta al mese.» «E vi fermate a dormire?» «A volte.» «Quando ci siete stato per l'ultima volta?» «Oh, mio Dio, dev'esser stato il primo di giugno, credo. Ma non mi sono fermato a dormire.» Peveril lanciò un'occhiata in direzione della porta chiusa che lo divideva da sua moglie. «Se oso passare una notte fuori dalle pareti domestiche sono scenate.» Pur essendo un misantropo e dando a vedere chiaramente quanto gli seccassero tutte quelle domande, non riuscì comunque a resistere alla tentazione di vuotare il sacco. «Ve l'immaginate una donna che ha tutto comodo e facile, che non si è mai guadagnata un centesimo da quando ha trovato uno che la mantiene, e si permette di negare qualche ora di libertà a chi guadagna il pane? Eppure è così. Se vado a Londra devo telefonarle appena arrivo e lasciarle un numero perché possa chiamarmi quando le garba, vale a dire almeno tre volte per sera.» Wexford si strinse nelle spalle. Quello che aveva descritto Peveril non era certo un tipo di matrimonio insolito. Lui era solo uno dei tanti che avevano scelto di fare il viaggio più lungo e più difficile con una donna gelosa e incomprensiva. Ma perché parlarmene? Forse per indurmi a credere che una sorveglianza del genere lo teneva lontano da altre donne? A Wexford venne da sorridere di fronte a tanta ingenuità. Sapeva che gli uomini piacenti e insoddisfatti come Peveril, gli uomini senza figli e senza più amore per la moglie, sanno sottrarsi con un'abilità degna di Houdini ai vincoli domestici. Lasciò perdere. «Quel lunedì sera vostra moglie è andata a una lezione. Vi dispiace dirmi quali sono stati i vostri movimenti?» «Mi sono mosso solo nel mio studio, per lavorare. Ne sono uscito solo quando è rientrata mia moglie, alle undici.» «Ma a quell'ora non ci sono più autobus. Aveva forse preso la vostra
macchina?» «Non sa guidare» rispose Peveril in tono un po' sprezzante. «È andata a piedi fino a Kingsmarkham, poi qualche amica le ha dato un passaggio.» «Non avete pensato di andarla a prendere in macchina? Era una bella serata, e non era andata troppo lontano.» «Maledizione!» esclamò Peveril, cominciando a perdere il controllo. «Perché mai dovrei accompagnarla e andarla a prendere quando si tratta di una stupida riunione di galline dove non s'impara un accidente? Sarebbe diverso se andasse a lavorare per portare a casa un po' di soldi, che ci farebbero tanto comodo!» Poi aggiunse con aria imbronciata: «Per la verità di solito l'accompagno.» «E perché non l'avete fatto quella sera?» «Perché la pazienza ha un limite, ecco perché! E adesso vi sarei grato se mi lasciaste tornare al lavoro.» Fu sul vestito rosso che Wexford si concentrò quel venerdì. Organizzò una riunione semi-informale che comprendeva, oltre a lui, Burden, il dottor Crocker, il sergente Martin e l'agente Polly Davies. Si sedettero nel suo ufficio, tutti in circolo attorno all'abito steso sulla scrivania. Poi però Wexford ritenne che, perché tutti potessero vederlo bene mentre conversavano, la cosa migliore sarebbe stata di appenderlo in bella vista; perciò Polly procurò un attaccapanni e il vestito venne appeso al filo della lampada centrale. Gli esperti della scientifica lo avevano esaminato accuratamente. Avevano appurato che era di fibra sintetica e che era stato indossato spesso, probabilmente dalla stessa persona, una donna bianca dai capelli castani e dalla pelle chiara. Nel tessuto erano state trovate tracce di un profumo non identificato, di borotalco, di deodorante e di tetracloruro di carbonio, un detergente liquido. Da altre indagini era risultato che l'abito era stato confezionato otto o nove anni prima da una fabbrica londinese per una piccola casa di moda che vendeva abiti di prezzo medio. Poteva essere stato acquistato a Londra, Manchester, Birmingham o in molte altre città grandi e piccole delle isole britanniche. Nessun negozio di Kingsmarkham aveva mai venduto abiti di quella ditta, ma le confezioni erano in vendita, già da parecchio tempo, a Brighton. L'abito era di un rosso porpora scuro, più scuro del magenta e più blu del borgogna. Il bustino era leggermente sciancrato, a girocollo, con maniche a tre quarti e cintura nello stesso tessuto, e la gonna era al ginocchio. Questo
indicava che era stato acquistato per una donna alta circa 1,77 e piuttosto snella, visto che era una taglia 12. Per Dawn Stonor era stretto, e di lunghezza sbagliata. «Voglio i vostri commenti» disse Wexford. «Comincia tu, Polly. Hai l'aria di aver qualcosa da dire.» «Be', stavo solo pensando che con quel vestito Dawn doveva essere penosa.» Polly era una brunetta vivace che normalmente vestiva alla "bambolina": minigonne, gilerini, e berrettini di velluto. La sua mania di usare un rossetto color fragola e di farsi i pomelli rossi la facevano sembrare meno intelligente di quanto non fosse. Adesso vedendo dall'espressione di Wexford che l'ispettore capo era un po' seccato per l'aggettivo impreciso che lei aveva usato, si affrettò a spiegarsi meglio: «Intendo dire che l'abito non era adatto a lei, che doveva farla sembrare sciatta... che doveva starle malissimo, insomma. So che suona male, detto così... è ovvio che doveva avere comunque un aspetto orribile quando è stata trovata... ma volevo dire che doveva avere un aspetto orribile fin da quando si è messa quel vestito.» «Vuoi dire che trovi brutto l'abito in sé? Lo chiedo in particolare a te, Polly, perché sei una donna e te ne intendi certo più di noi.» «È difficile dirlo quando un capo è fuori moda, signore. Forse con i gioielli e tutto il resto poteva anche star bene a una persona bruna che avesse quella taglia. Non poteva star bene a Dawn perché Dawn aveva i capelli biondo-rossi, e ci scoppiava dentro. Non posso credere che se lo si fosse messo per sua scelta. E un'altra cosa, signore... Avete detto che io me ne intendo più di voi di queste cose, ma... giusto per fare un esperimento, non potreste dire tutti che cosa ne pensate, di quel vestito? Per esempio, vi piacerebbe vederlo addosso a vostra moglie?» «Ti accontento subito. Dottore?» Crocker disincrociò le gambe e piegò la testa da una parte. «È un po' difficile disgiungerlo dalle cose spiacevoli a cui è collegato, ma ci proverò. Lo trovo piuttosto insignificante. Diciamo che se mia moglie lo indossasse mi sentirei al sicuro, non mi preoccuperei di chi possa incontrare. Ha un aspetto, come dire?, ordinato e discreto, che non mette troppo in risalto la figura. D'altro canto, se fossi uno di quelli che vanno in giro a pavoneggiarsi con le ragazze, non sarei troppo entusiasta se la mia ragazza si presentasse ad un appuntamento con quel vestito perché non sarebbe... be', non sarebbe abbastanza avventuroso.» «Mike?»
Ormai Burden non aveva più una moglie, ma ci si era abituato. Adesso riusciva a parlare delle mogli in generale senza soffrire intimamente e senza apparire imbarazzato. «Sono d'accordo col dottore sul fatto che mette a disagio immaginarselo addosso a qualcuno che ti è caro, per via delle circostanze a cui è collegato. Se mi sforzo di considerarlo solo come un abito in vetrina, posso anche dire che non mi dispiace. Certo, io non me ne intendo di moda, ma mi sembra elegante. Se fossi... ehm... un uomo sposato, mi piacerebbe vederlo su mia moglie.» «Sergente?» «Lo trovo elegante, signore» disse Martin con interesse. «Mia moglie ne ha uno simile, proprio di quel colore. Gliel'ho comperato io per Natale, l'ho scelto personalmente. Mia figlia... ha ventidue anni... dice che non se lo metterebbe neanche morta, ma sapete come sono le ragazze giovani... oh, scusami, Polly. Secondo me è un bel vestito, elegante, o per lo meno lo era.» «Quanto a me» disse Wexford «be', mi piace. Sembra comodo e pratico per tutti i giorni. Uno si sente piacevolmente "sposato" e sicuro se passa una serata in casa con una donna vestita così. E credo che alla persona adatta possa anche star bene. Come dice il dottore, è ordinato e discreto. Non troppo audace, né sensazionale, né imbarazzante. È tradizionale. Eccoti accontentata, Polly. Allora che cosa deduci dai nostri commenti?» Polly rise. «Posso trarne più deduzioni su voi che su quel vestito!» disse con impertinenza. «Comunque la conclusione più ovvia è che si tratta di un tipo di abito che piace ai mariti, che un uomo sceglie per la moglie perché è garbato, semplice e, come dite voi, dà un senso di sicurezza. Il dottor Crocker ha detto che non vorrebbe vederlo addosso alla sua ragazza. Ora, tutto questo non significa forse che si tratti di un vestito da moglie, che un marito sceglie anche perché, magari a livello inconscio, sa che la moglie, indossandolo, avrà l'aria di una signora per bene e qualsiasi altro uomo, vedendola, capirà subito che con lei non c'è niente da fare?» «Forse è così» convenne Wexford con aria pensierosa. La finestra era aperta e l'abito ondeggiava e ruotava, mosso dal vento. Se riesco a trovare la proprietaria è fatta, pensò. «Una deduzione intelligente, Polly, ma dove ci porta? Mi hai convinto del fatto che doveva appartenere a una donna che l'aveva comperato per far piacere al marito, e sappiamo già che non era di Dawn. Magari la sua proprietaria l'ha ceduto a un negozio di abiti di seconda mano, o a una vendita di beneficenza.» «Potremmo controllare da quelli che si occupano di vendite di benefi-
cenza, signore.» «Sì, sergente, faremo così. Mi sembra che la signora Peveril abbia dichiarato che non era suo...» «Magari mentiva. Quando glielo abbiamo mostrato per poco non è svenuta. Con quella macchia non è certo una vista piacevole, e poi ci sono le associazioni di idee, ma la sua reazione è stata comunque un po' eccessiva. D'altra parte sappiamo che è molto nervosa, e un po' isterica. Quindi poteva anche essere una reazione naturale, per lei.» «Hai parlato ancora con la signora Clarke?» «Ha detto che l'anno scorso la signora Peveril ha avuto un esaurimento nervoso ed è dimagrita parecchio, perciò sembra improbabile che in passato possa esser stata tanto snella da poter portare quel vestito. Però la signora Clarke la conosce solo da quattro anni.» «Otto anni fa i rapporti coi Peveril potevano essere ancora romantici» osservò Wexford, sempre con aria pensierosa. «Può darsi che lui le scegliesse ancora degli abiti di suo gusto. Comunque sono d'accordo con te sul fatto che la taglia rende improbabile che il vestito fosse suo. Be', non vi tratterrò oltre. Il piano che ho in mente è molto laborioso, ma credo non ci sia altro da fare. In un modo o nell'altro dovremo convocare tutte le donne di Kingsmarkham e di Stowerton tra i trenta e i sessant'anni, mostrar loro il vestito, e vedere come reagiscono. Dovremo chiedere a tutte se il vestito appartiene, o è appartenuto, a loro, e, in caso negativo, se l'hanno mai visto addosso a qualche loro conoscente.» Il suo annuncio fu accolto da un borbottìo di protesta da parte di tutti i presenti ad eccezione del dottore, che se ne andò in fretta dichiarando che la sua presenza era richiesta all'ambulatorio. 13 La reazione all'appello di Wexford fu enorme e immediata. Le donne fecero la fila davanti al salone della chiesa battista per vedere il vestito, né più né meno che se ci fosse stata una svendita eccezionale. Coscienza civica? Secondo Wexford tanto entusiasmo derivava più che altro dal desiderio di sentirsi momentaneamente importanti. Alla gente piace essere presa nel vortice di qualcosa di sensazionale, e le piace ancor di più se, anziché far semplicemente parte di una folla, ciascuno può essere, per qualche attimo, un individuo ascoltato con attenzione, con interesse, preso sul serio. Alla gente piace lasciare il proprio nome e indirizzo, veder registrare ciò
che dice. E probabilmente le piace anche concedersi il gusto di vedere con i propri occhi i resti di un atto di violenza. C era davvero qualcosa di male nel farlo? C'era qualcosa di morboso, come avrebbero detto i giovani frequentatori di concerti? O la cosa non dimostrava invece una forte vitalità, quella curiosità di vedere tutto, di sapere tutto, di prender parte attiva alle cose che, quando è affinata e indirizzata a interessi culturali, caratterizza lo storico e l'archeologo? Da molto tempo Wexford non consentiva più alla speranza di prevalere su ciò che gli diceva l'esperienza. Non pensava che qualche donna si sarebbe fatta avanti per dire che il marito le aveva, inaspettatamente e inspiegabilmente, sottratto quel vestito quel lunedì sera; né si aspettava qualche colpo di scena nel salone: una donna che urlasse o svenisse dopo aver riconosciuto il vestito e averne tratte le debite deduzioni. Nessuna donna che fosse a conoscenza di una colpa segreta si sarebbe fatta avanti spontaneamente. Una speranza l'aveva, però: che qualcuna dicesse d'aver visto quell'abito addosso ad un'amica o a una conoscente, o ammettesse di averlo avuto in passato e di averlo poi venduto o dato via. Non accadde niente del genere. Per tutto il pomeriggio del venerdì le donne restarono in fila lungo il corridoio dalle pareti di legno che odorava di libri di inni e di boys scout, entrarono nel cupo salone e si sedettero sulle sedie dell'Associazione Femminile a fissare gli annunci degli avvenimenti sociali. Poi, ad una ad una, superarono il paravento dietro il quale Martin e Polly avevano esposto l'abito su un tavolo appoggiato su cavalletti, e ad una ad una se ne allontanarono con l'espressione irritata, contrariata dei beneintenzionati che hanno avuto la sfortuna di veder sfumare la possibilità di rendersi utili in modo non solo negativo. «Può darsi che qualcuno le abbia dato un passaggio in macchina» suggerì Burden. «Un passaggio combinato in precedenza, ovviamente. L'uomo della macchina poteva arrivare da qualsiasi posto.» «Ma, in questo caso, perché Dawn avrebbe dovuto prendere un autobus per Sundays, e poi andare a piedi attraverso i campi? La signora Peveril ha detto di averla vista prendere il sentiero tra i campi, e la sua descrizione era così accurata che, secondo me, dobbiamo crederle. Può anche darsi che Dawn fosse in anticipo sull'ora fissata per l'appuntamento. .. come è stato già detto, quello era l'unico autobus... e fosse andata ad aspettare nei campi, per poi tornare indietro. Se le cose sono andate così, non è arrivata comunque molto lontano.» «Perché dite questo?»
«Quattro persone l'hanno vista tra il momento in cui è uscita dalla casa di sua madre e il momento in cui è entrata nei campi, alle cinque e mezzo. Non siamo riusciti a trovare nessuno che l'abbia vista dopo le cinque e mezzo, nonostante tutti gli appelli e gli interrogatori che abbiamo fatto. Perciò è quasi certo che sia entrata in qualche casa subito dopo le cinque e mezzo.» Burden aggrottò la fronte. «Nella proprietà Sundays, intendete dire?» «Per restringere il campo, sul Sentiero. Il cadavere era nella cava, Mike. È stato portato a braccia o trascinato fin lì, non ci è stato trasportato in macchina. Lo sai anche tu che fatica abbiamo fatto per farci arrivare le nostre vetture; e quando poi il cancello d'accesso è chiuso è del tutto impossibile arrivarci in macchina.» Wexford diede un'occhiata all'orologio. «Sono le cinque e mezzo e l'Olive è aperto. Non potremmo lasciare che Martin se la sbrighi da solo qui, e andarci a bere qualcosa? Vorrei proprio discutere questa faccenda davanti ad un bicchiere di birra.» Burden aggrottò ulteriormente la fronte e si morse le labbra. «E Pat? Dovrà prepararsi da sola il tè. Dovrà andare a piedi alla lezione di ballo. E John resterà in casa da solo.» In un tono che si suol definire paziente ma che in realtà indica un alto grado di controllata esasperazione Wexford disse: «Senti, Mike, è alto un metro e ottanta e ha quindici anni. Alla sua metà mio padre lavorava già fuori casa da diciotto mesi. Perché non può accompagnare lui sua sorella alla lezione di ballo, visto che, secondo te, se Pat si fa trecento metri a piedi in una chiara sera d'estate la rapiscono di sicuro?» «Telefonerò a casa» disse Burden con un sorrisetto un po' imbarazzato. Il bar dell'Olive and Dove era semivuoto, un po' tetro e poco invitante come lo sono sempre i locali deserti, col soffitto basso, quando all'esterno c'è pieno sole. Wexford portò le consumazioni in giardino, dove c'erano dei tavolini di legno e delle sedie sotto un ombroso pergolato. Era l'ora del rientro a casa, l'ora in cui la pace e il silenzio di quel luogo erano normalmente rotti dallo stridio dei freni e dai cambiamenti di marcia del traffico che attraversava il ponte sul Kingsbrook. Quel giorno tutti i rumori artificiali erano inghiottiti da quello del torrente in piena, che correva lungo il giardino. Era un rumore sordo, costante, sempre uguale, ma come tutti i suoni naturali non disturbava l'orecchio né la conversazione, anzi, era quasi distensivo. Parlava di forze senza tempo, pure e indomite, che in un mondo di brutture e di violenza resisteva all'indifferente contaminazione della terra da parte dell'uomo. Ascoltandolo in
silenzio, Wexford pensò alla bruttura, alla violenza di un mondo in cui una ragazza poteva essere aggredita e uccisa, gettata in un avvallamento che sembrava fatto per l'amore, buttata via come spazzatura. Rabbrividì. Non riusciva ad abituarsi alle cose sconcertanti che succedevano, allo spreco, all'inutilità. Ma adesso doveva pensare alle cose pratiche, cercare di spiegarsi come, e perché, fosse stata perpetrata quella particolare bruttura, e quando Burden si avvicinò al tavolo gli disse: «Tu hai parlato con quelli che abitano nelle altre due case del Sentiero e io no. Secondo te, è possibile scagionarli?» «Gli Street sono una coppia con quattro figli, che quella sera erano tutti in casa con i genitori. Nessuno di loro ha visto Dawn. La signora Street ha visto tornare a casa la signorina Mowler, alle otto. A parte questo, nessuno di loro ha visto i vicini quella sera. Non hanno sentito niente e sono rimasti nella parte anteriore della casa dalle sei alle dieci. La cucina della signora Street dà sul Sentiero. «I Robinson sono anziani. Lui è confinato in un letto, e hanno una vecchia governante molto rispettabile. La camera del signor Robinson dà sulla proprietà Sundays ma non sulla cava. Sua moglie come sempre ha passato la serata con lui, in camera sua, ed è andata a letto, in un'altra camera, alle nove e mezzo. Non ha visto né sentito niente. La governante ha visto tornare a casa Dunsand alle sette meno venti e la signorina Mowler alle otto. Non ha visto i Peveril, ed è andata a letto alle dieci.» Wexford annuì. «E Silk?» «È stato a Londra dal sei all'otto giugno, a fare gli ultimi preparativi per il concerto. Ha detto d'essere partito da Sundays verso le diciannove del giorno sei.» «Qualcuno può confermarlo?» «Sua moglie e i suoi due figli sono in Italia. Sono lì dalla fine di maggio, e non sono ancora tornati. Silk dice che d'estate vanno sempre all'estero per un paio di mesi, ma ho l'impressione che non ci tengano molto ai concerti pop.» «E la cava è sua» osservò Wexford con espressione pensierosa. «Nessuno ha più possibilità d'accedervi di lui. Inoltre immagino che vada spesso a Londra... Non era per caso un compagno di scuola di Dawn?» «Non credo proprio, visto che ha la vostra età!» esclamò Burden. «Poi aggiunse generosamente:» Anche se dimostra molti più anni di voi. Wexford rise. «Allora non starò a farmi crescere i capelli! Mi sembra improbabile che Dawn se la intendesse con lui; e poi, se fosse così, sareb-
be andata direttamente a casa sua, non ci sarebbe arrivata furtivamente, da dietro. A Sundays non c'era nessuna moglie da evitare.» «E nessuna ragione di portarsi un picnic.» «Già. Credo che si possa escludere Silk, sia per l'età sia per tutto il resto. Ci restano solo i Peveril, Dunsand e la signorina Mowler. Ma alle cinque e mezzo Peveril non era solo in casa, e la signorina Mowler e Dunsand non erano ancora rientrati. Eppure chi avrebbe potuto mettere il corpo di Dawn nella cava senza esser visto, a parte le persone che abitano in una di quelle tre case?» Burden diede una sbirciatina all'orologio, agitandosi nervosamente sulla sedia. «Allora vuol dire che Dawn è tornata indietro ed è stata fatta entrare in una di quelle case. Qualcuno le ha aperto la porta. Certo non Dunsand, né la signorina Mowler. Allora Peveril, o sua moglie? Questo vorrebbe dire che i Peveril ci sono dentro fino al collo. Ma in questo caso perché la signora Peveril avrebbe detto di aver visto la ragazza? Perché avrebbe dovuto parlare?» «Probabilmente perché lei non c'è affatto dentro fino al collo. Perché ha davvero visto Dawn entrare in quei campi e non sapeva di un legame tra la ragazza che aveva visto e suo marito. Dawn ha preso quell'autobus perché era l'unico che potesse prendere. Ha gironzolato tra i campi per un paio d'ore, visto che era una bellissima giornata, ed è tornata a casa di Peveril dopo che la signora Peveril è uscita per la sua lezione. Vorresti bere qualcosa d'altro?» «Oh, no, no!» si affrettò a dire Burden. «Allora tanto vale che andiamo insieme a casa tua. Non le sopporto, queste continue occhiate all'orologio!» Davanti alla chiesa battista la coda si era ulteriormente allungata. Alle casalinghe tornate a casa a preparare la cena erano subentrate le lavoratrici uscite dai negozi e dagli uffici. «È meglio che comperi qualcosa di speciale per la cena dei ragazzi» disse il coscienzioso Burden. «Il "Luximart" sta aperto fino a tardi il venerdì. Mangiate con noi?» «No, grazie. Mia moglie mi avrà già preparato qualcosa.» Entrarono nel supermarket, dove vennero immediatamente riconosciuti dal direttore, che insistette per mostrar loro gli articoli esatti che aveva comperato Dawn, dalla confezione con sei pomodori alla bottiglia di vino economico. Il negozio era pieno di gente e il direttore parlava a voce alta, come se volesse sfruttare quella particolare, macabra forma di pubblicità.
«Oh, gli stessi pomodori che ha comperato la vittima del delitto» ripeté sarcasticamente Wexford in tono disgustato. Burden evitò accuratamente di guardare sia i pomodori sia le mousses di fragola. «Nella vostra ipotesi non avete tenuto conto dei generi alimentari» disse sottovoce. «All'ora dell'appuntamento Peveril aveva già cenato di sicuro. Figurarsi se sua moglie non gli aveva preparato da mangiare prima di uscire!» Senza badare a spese, prese tre confezioni di boeuf bourguignon dallo scaffale dei surgelati. «E poi Dawn aveva intenzione di fermarsi anche a dormire, ve ne siete dimenticato? Non mi direte che Peveril l'avrebbe nascosta nel suo studio quando fosse tornata sua moglie, alle undici!» «Tutto a posto, signore?» chiese il direttore. «Non prendete anche una bottiglia di vino? Ci starebbe bene, col boeuf bourguignon.» «No, grazie.» Burden pagò, e uscì con Wexford. Dozzine di occhi li seguirono con curiosità. Il sole era ancora luminoso, il vento vivace. Martin stava affiggendo un'altra grande fotografia di Dawn, formato poster, alla porta del salone parrocchiale. «Ancora niente?» chiese Wexford. «Sono passate cinquecento donne, ma nessuna ha potuto essere d'aiuto.» «Continuate anche domani.» Percorsero tutta High Street, poi svoltarono a sinistra, in Tabard Road. A quel punto Burden affrettava sempre il passo. Solo dopo essersi assicurato che di fronte al suo bungalow non ci fossero macchine dei pompieri né ambulanze riusciva a rilassarsi e a respirare in modo più normale. «Pensate forse che Peveril avesse intenzione di tenerla nascosta tutta la notte?» insistette. «Può anche darsi che sia entrata in casa di Dunsand, passando per la finestra della dispensa... è un'idea. Il povero vecchio Dunsand, costretto a cavarsela da solo come me, a vivere di surgelati comperati tornando a casa!... La signorina Mowler conosceva di sicuro la ragazza... le infermiere conoscono tutti. Che Dawn sia rimasta nascosta nel suo giardino fino alle otto, e si sia provata un vestito che era steso ad asciugare, giusto per vincere la noia?...» «Sono io quello che fa lo spiritoso, non tu, te ne sei dimenticato? Questi cambiamenti di ruolo mi mettono a disagio.» Wexford notò con sorpresa le tre biciclette appoggiate al cancello dei Burden e il ciclomotore accostato al marciapiede. «A quanto pare il tuo ragazzo non si sta struggendo in solitudine» osservò. «Meno male che è stato prudente e ha chiuso le finestre.» I sei teenagers che stavano agitandosi con foga nel soggiorno di Burden si bloccarono imbarazzati non appena entrarono i poliziotti e Pat, che era
accanto al giradischi, premette subito il tasto "reject". Il verso di Vedast "Vieni, ti prego, torna accanto a me" si fece sempre più fievole, fino a diventare una specie di gemito. «Stasera la lezione di ballo si fa in casa, eh?» disse Wexford sorridendo. I due ragazzi Burden cominciarono a fornire affrettate giustificazioni mentre i loro amici scivolavano verso la porta con quella fretta silenziosa che può sembrare un tradimento ed è invece una forma di delicatezza nei confronti dell'amico che sta per incorrere nei rigori paterni e certo preferisce affrontarli senza un pubblico. Secondo Wexford non era nemmeno il caso che si giustificassero per un divertimento così innocente, perciò interruppe i rimproveri - peraltro non troppo convinti - di Burden, dicendo: «Fammi risentire l'ultima canzone, Pat.» Con mano esperta la ragazzina trovò il punto esatto dell'LP senza nemmeno guardare la copertina e abbassò con delicatezza il braccio del giradischi. «Non devi fare così!» protestò il fratello. «Così lo graffi.» «Non lo graffio. Sto più attenta di te, con i dischi. Ecco fatto!» I due ragazzi Burden erano sempre ai ferri corti e raramente si lasciavano sfuggire l'occasione di beccarsi. «E poi è una canzone orribile comunque. Sdolcinata e melensa. La musica folk dovrebbe avere un messaggio, e quella di Zeno Vedast non ne ha proprio.» «Che cosa intendi per "avere un messaggio", Pat?» chiese Wexford. «Be', essere contro la guerra, o sostenere l'amore per il prossimo, non parlare solo di una stupida ragazza. O essere contro le cose brutte e il caos, come le canzoni di Betti Ho. Le canzoni di Zeno Vedast riguardano solo lui, e basta.» Wexford ascoltò interessato la spiegazione, ma Burden sbottò in tono acido: «L'amore per il prossimo! Tutte parole!» Sbuffò con sufficienza. «Non m'incanta questa pretesa di mettere ordine nel mondo.» «Allora non dovresti fare il poliziotto» osservò Wexford. «Forza, fammelo sentire, Pat.» La canzone partì con un piccolo suono gracchiante che fece aggrottare la fronte e arricciare le labbra a John. Poi ci fu un vibrare di corde e la voce chiara, naturale di Vedast cominciò a cantare: "Mi manca quel sorriso che era un fiore Odio questa distanza e queste ore."
«Se le scrive lui, le canzoni?» chiese Wexford sottovoce. «Certo, sempre» rispose John in tono riverente. «Questa è di due anni fa, ma forse è la più bella.» «Non è altro che una lagna!» ribatté Pat, nascondendosi dietro il giradischi per evitare le ire del fratello. Non era una lagna. Ascoltando l'esile, delicata storia che raccontavano i versi e il ritornello, Wexford aveva la netta sensazione che il cantante parlasse di un'esperienza reale. All'improvviso l'accompagnamento diventò più forte e la voce di Vedast più amara: "Con la luce del giorno se n'è andata La notte di illusione è già passata. Io resto qui e aspetto in fondo al cuore Che mi dia un'altra briciola d'amore. Vieni, ti prego, toma a accanto a me, Vieni, ti prego, spiegami perché C'è chi non sente e chi prova dolore C'è chi sa mentire e chi ne muore. " Burden ruppe il silenzio che seguì. «Vado a scaldare la cena.» Andò in cucina ma Wexford non lo seguì. «Vedast ha mai scritto delle canzoni-scherzo, John?» «Delle canzoni-scherzo?» «Sì. Voglio dire... be', sono musicisti di tutt'altro genere, ma Haydn e Mozart a volte inserivano degli scherzi nella loro musica. Se uno è portato agli scherzi nella vita, spesso gli piace farli anche nel suo lavoro. Conosci la Surprise Symphony?» «Sì, l'abbiamo fatta a scuola» intervenne Pat. «Prima c'è una parte tutta tranquilla e delicata, poi, ad un tratto, arriva un baccano che ti fa saltare per aria.» Wexford annuì. «Mi stavo chiedendo se Vedast...» «Certe sue canzoni fanno un po' così» disse John. «Diventano rumorose all'improvviso, o hanno un brusco cambiamento di chiave. E dicono che tutte le sue canzoni raccontano sempre delle storie vere, o hanno un significato speciale per un suo amico.» Poi aggiunse con aria speranzosa: «Volete sentire qualcos'altro?» «Adesso no.» Burden rientrò per apparecchiare la tavola. Pat cercò di
togliergli di mano le posate, ma alla figlia che era stata rimproverata per non aver dimostrato sufficiente amore non si poteva permettere di dimostrarlo adesso, aiutando suo padre. Burden tenne ben strette le posate e scosse la testa con l'espressione del martire. «Tra cinque minuti è pronto. Lavati le mani e poi vieni a tavola.» Wexford lo seguì in cucina. «Ho saputo delle cose interessanti sul conto del nostro negriero. Chissà quanto tempo ha intenzione di fermarsi da queste parti?» «John dice per un tempo indefinito. Non penserete davvero che possa avere a che fare con questa storia?» Wexford si strinse nelle spalle. «Quel Vedast m'interessa. Non riesco a fare quello che consiglia Scott... non tener conto della sua attività di cantante. La sua canzone sta cominciando ad ossessionarmi, credo che domani comprerò il disco. Un singolo.» Burden spense il forno. «Già, così possiamo suonarlo e risuonarlo in ufficio» disse in tono sarcastico. «Ci portiamo un paio di ragazze e balliamo. Chissà che spasso! Tanto non ci sarà altro da fare se nessuno ha riconosciuto quel vestito.» «Io qualcosa da fare ce l'ho» dichiarò Wexford, congedandosi. «Vado a Londra, a fare un'altra chiacchieratina con Joan Miall.» 14 Wexford comperò un giornale locale da leggere in treno. Il Kingsmarkham Courier usciva al venerdì e il corpo di Dawn era stato trovato il lunedì precedente, perciò la notizia era ormai vecchia anche secondo il metro locale. Harry Wild, il capo redattore, aveva cercato di dare il massimo risalto possibile agli appelli di Wexford relativi al vestito rosso, ma gran parte della prima pagina era dedicata a Zeno Vedast. Una grande fotografia, scattata da un fotografo del Courier non troppo abile, mostrava il cantante e i coniugi Tate appoggiati al cofano della Rolls-Royce. Nell sorrideva con espressione distesa, accarezzando con la mano il leone del fregio. Wild aveva combinato le due notizie principali includendo nella didascalia della foto l'informazione, data dal cantante stesso, che lui e Dawn Stonor erano stati compagni di scuola. Leggendola Wexford si convinse ulteriormente che Vedast non poteva avere niente a che fare con la morte di Dawn, che non aveva niente da nascondere. Ma allora perché era rimasto nella Foresta di Cheriton anche se, come diceva la didascalia, aveva già
trovato la casa che intendeva comperare, ed era già in fase di trattativa? Che restasse lì per vedere come si sarebbe concluso il caso, per vedere come sarebbe andata a finire tutta la faccenda?... Joan Miall abitava al secondo piano di una grande casa mal tenuta tra Earls Court Road e Warwick Road. L'appartamento invece non era affatto mal tenuto, anzi era arredato in modo piuttosto elegante e anche con una certa eccentricità, e i soffitti erano dipinti di blu per ridurne l'altezza. Ad un attento osservatore non sarebbe sfuggito il fatto che, anche se i mobili non erano nuovi, le poltrone erano state rifoderate, nelle vecchie cornici erano state messe delle stampe nuove, e gli scaffali erano stati riempiti di libri tascabili dalle vivaci copertine. C erano anche moltissime piante, fresche e verdi per la recente innaffiatura. L'accoglienza di Joan fu semplice e naturale. La ragazza indossava un paio di calzoni rossi e una camicetta a pois, ed era senza un filo di trucco. Appena al di là della porta d'ingresso c'era un grosso, vecchio battitappeti, probabilmente scartato da qualche parente più ricco, con la spina inserita. Wexford aveva sentito spegnere il motore quando aveva suonato il campanello. Joan lo aspettava, e mise a bollire l'acqua per il caffè. «Mi manca Dawn» disse. «Specialmente all'ora di pranzo... a quell'ora eravamo quasi sempre insieme. Continuo ad aspettarmi di sentirla esclamare dalla sua camera da letto che sta morendo di fame... Oh, "morendo", che brutta espressione! Ma lei diceva sempre che "stava morendo"... di noia, di sete, e così via.» «Io so così poco di lei. Se sapessi qualcosa di più, forse riuscirei a capire come è morta, e perché. Vedete, signorina Miall, le vittime dei delitti sono di due tipi: quelle che vengono uccise da un estraneo a scopo di rapina o per qualche oscura ragione patologica, e quelle che vengono uccise da qualcuno che non è un estraneo, da qualcuno che magari è, o è stato, un amico. Ed è proprio in questo secondo caso che è molto importante sapere tutto quel che c'è da sapere sul carattere, i gusti, le particolarità della vittima.» «Sì, certo, capisco.» Joan fece una pausa, aggrottando la fronte. «Ma le persone sono dei piccoli mondi, no? Piccoli mondi con dentro tante cose, strati sovrapposti, profondità, strani paesi. Potrei involontariamente mostrarvi il paese sbagliato.» Le ci volle parecchio tempo per preparare il caffè. Era una "fissata", aveva detto lei stessa. Macinò i chicchi di caffè - non si accontentava del
caffè già macinato, in pacchetto - e quando finalmente entrò con il vassoio, Wexford vide che il caffè era in una caffettiera di terracotta. Non appena si sedette, però, Joan si accese una sigaretta, e sospirò con aria soddisfatta nell'emettere la prima boccata di fumo. La cosa ricordò a Wexford ciò che lei gli aveva detto a proposito degli strani paesi che si possono trovare nella personalità di ciascuno. Non si riferiva alle incongruenze che quelli che indagano nella psiche umana considerano altrettanto sconcertanti dell'ignoto. «Lavoravate tutte e due alla sera, al Townsman?» cominciò. «Le cose sono un po' più complicate di così. Lavoriamo anche all'ora di pranzo. I soci possono pranzare tra mezzogiorno e le tre, perciò noi facciamo dei turni, o dalle undici alle cinque o dalle sette di sera alle due di notte. Se si fa il turno di notte si è sicuri di non lavorare all'ora di pranzo, il giorno successivo; altrimenti è tutto affidato al caso. Abbiamo due interi giorni liberi alla settimana... non necessariamente il sabato e la domenica. Spesso io e Dawn facevamo lo stesso turno, ma non sempre. Moltissime volte lei era qui da sola, e vedeva gente e riceveva telefonate di cui io non sapevo niente.» «Però sapevate di quella particolare telefonata di cui mi avete parlato.» «Sì, ci ho pensato molto da allora, per cercare di capirci qualcosa, e mi sono ricordata un sacco di cose di cui non vi ho parlato. Ma le cose di cui mi sono ricordata non possono esservi utili. Dimostrano solo che non era Zeno Vedast la persona che le ha telefonato.» «Vorrei che me ne parlaste ugualmente.» «Mi sono dimenticata di dirvi che il suo nome era già saltato fuori parecchio tempo prima della telefonata. Sarà stato in marzo o in aprile. L'avevamo visto alla televisione, o avevamo letto qualcosa su di lui su un giornale, e lei ha detto che lo conosceva da anni; in realtà però non ha mai parlato di lui come di un amico con cui si vedeva. Poi una mattina, credo che fosse alla fine di marzo, Dawn ha detto che la sera prima lui era andato al Club. Quella sera io non lavoravo, e, francamente, non le ho creduto. Poi però ho interrogato una delle altre ragazze, e lei mi ha detto che effettivamente Zeno Vedast era stato al Club, e aveva anche scambiato qualche parola con Dawn. La cosa comunque non mi ha convinta, e non ne sono convinta nemmeno adesso... del fatto che fossero amici, voglio dire. Nel Club vengono molte celebrità, e chiacchierano un po' con noi... siamo lì per questo.» «Quando è arrivata quella telefonata, signorina Miall?»
«Era un lunedì...» Aggrottò la fronte, concentrandosi. «Quel giorno Dawn non lavorava, io invece facevo il turno di mezzogiorno. Vediamo un po'... non era l'ultimo lunedì di maggio. Credo che fosse il ventitré maggio, verso le otto e mezzo di sera. Eravamo sedute qui, da sole, a guardare la televisione. È squillato il telefono, ed ha risposto Dawn. Ha detto "pronto", poi qualcosa come: "Che carino sei stato a telefonarmi!". Poi ha coperto con una mano il ricevitore e mi ha sussurrato di abbassare la televisione. E ha aggiunto: "È Zeno Vedast". Io sono rimasta imbarazzata... secondo me doveva essere proprio un po' matta se le sue fantasie si spingevano così lontano.» Wexford accettò una seconda tazza di caffè. «Signorina Miall, se vi dicessi che Vedast l'ha davvero riconosciuta, nel Club, ed è stato proprio lui a telefonarle... voi che cosa direste?» «Che io la conoscevo e voi no» insistette la ragazza. «Sì, al Club ci è andato davvero, questo lo so. E le ha anche parlato. Una sera un maharaja ha parlato con me per una mezz'ora, ma questo non significa che siamo grandi amici! Quando qualche celebrità notava davvero Dawn... quando, per esempio, qualche attore del cinema le prestava attenzione al Club... lei era tutta elettrizzata e se ne vantava per giorni e giorni. Quando invece voleva semplicemente darla a bere... "lasciar credere", come dice la canzone... quando vedeva alla televisione o in una foto qualcuno che sosteneva di conoscere, faceva un breve commento, come se si ricordasse qualcosa, poi non ne parlava più. Dopo quella telefonata non era per niente elettrizzata. Ha detto solo "Te l'avevo detto che lo conoscevo", poi se n'è stata lì mogia mogia come quando riceveva una brutta lettera da sua madre o era stata scaricata da qualcuno.» «Allora, secondo voi, chi le aveva telefonato?» «Qualche nuovo conoscente» rispose Joan Miall con convinzione. «Qualcuno che era attratto da lei ma non era abbastanza ricco e conosciuto perché lei se ne potesse vantare.» Un'ombra di tristezza passò sul suo bel viso. «Dawn stava diventando un po' vecchia per il nostro tipo di lavoro, e i suoi anni non li portava nemmeno troppo bene. So che sembra ridicolo... aveva solo ventotto anni. Ma la cosa la preoccupava, perché sapeva che nel giro di un paio d'anni sarebbe stata fuori gioco. Avrebbe dovuto trovarsi un lavoro diverso, o... sposare Paul. Aveva un bisogno disperato di far credere a tutti d'essere attraente come prima, e nella sua mentalità il fascino si misurava in base al numero di uomini di successo che ti chiedono di uscire con loro.»
Wexford sospirò. Quando si hanno venticinque anni, quelli di trenta sembrano già vecchi. Una cosa logica, naturale. Ma allora perché quando se ne hanno quaranta non si dovrebbe considerare giovane chi ne ha trenta? Lo faceva star male il pensiero che quella ragazza e la sua amica morta si fossero messe in un mondo in cui per un uomo di cinquant'anni una ragazza di ventotto è quasi "fuori gioco". «Questo nuovo conoscente» riprese Wexford «non avete nessun elemento per credere che esistesse davvero? A parte quella telefonata, che però io vi dico che è stata fatta proprio da Vedast?» «Sì che ne ho. La settimana dopo Dawn è uscita con lui.» «Questo avreste dovuto dirmelo prima, signorina Miall!» esclamò Wexford in tono piuttosto severo. «E questa sarebbe una delle cose che vi siete ricordata e che secondo voi non possono esserci utili?» «Sì, è una delle cose che dimostrano che non era Vedast. Però non so come si chiamasse quell'uomo. Non sono nemmeno sicura che non fosse un'altra invenzione di Dawn.» Sulla mensola del camino c'era una fotografia incorniciata, l'ingrandimento di un'istantanea in cui figuravano un giovanotto bruno e una ragazza su una spiaggia. Wexford prese in mano la foto e l'osservò attentamente. «È Paul» disse Joan Miall. Gli ci volle qualche attimo per rendersi conto che la ragazza era Dawn. In calzoncini corti e camicia sportiva, con i capelli gonfiati dal vento, era completamente diversa dalla creatura eccessivamente truccata e vestita in modo troppo ricercato che compariva negli ingrandimenti che erano stati affissi ai muri di tutta Kingsmarkham, come poster pubblicitari di una stella del cabaret. Per lo meno era riuscita ad ottenere una certa notorietà, pensò sarcasticamente. Anche se troppo tardi, era diventata un personaggio pubblico. Nell'istantanea però aveva un'aria più felice. No, felice non era la parola giusta. In pace con se stessa, piuttosto, tranquilla, e magari anche un pochino annoiata... Evidentemente non c'era niente di esaltante, di eccitante per lei nel fatto di essere su una spiaggia con il suo scialbo fidanzato. Ci aveva pensato la signora Stonor a toglierle il gusto delle cose normali. Sminuendo continuamente sua figlia, confrontandola sfavorevolmente con le altre ragazze, negandole il suo amore, aveva talmente distorto la sua personalità che il semplice affetto non significava niente per lei. Dawn considerava l'amore solo in funzione del denaro e del successo; l'unico tipo d'amore che le inte-
ressava era quello di un uomo che potesse farla diventare ricca e far arrivare il suo nome sui giornali. Be', qualcuno ce l'aveva fatto arrivare davvero, il suo nome sui giornali... «Proseguite, signorina Miall» disse Wexford, rimettendo al suo posto la fotografia. «Il giorno di cui intendo parlarvi è il primo di giugno. Era un mercoledì, e il compleanno di Paul.» La data significava qualcosa per Wexford. Annuì, e si accinse ad ascoltare attentamente. «Il martedì, cioè il giorno prima, sia Dawn che io avevamo il giorno libero. Nel pomeriggio lei è uscita e si è comperata un vestito azzurro, quello che indossava quando è andata a trovare sua madre. Mi ricordo che le ho chiesto se l'aveva comperato per portarselo in vacanza, con Paul. Lei ha detto che non riusciva a decidersi. Era incerta se andar via con Paul o no, ma non sapeva nemmeno lei perché non ci volesse andare; forse era solo perché sarebbe stato noioso. Comunque non avevano litigato. Paul ha passato la serata con noi, e la notte con Dawn. Sembravano molto felici.» «Arriviamo al primo di giugno.» «Paul è andato a lavorare prima che noi ci alzassimo. Sarebbe dovuto tornare per il pranzo di compleanno che gli voleva preparare Dawn, e poi si sarebbe preso il pomeriggio di libertà. Sia Dawn che io avevamo il turno della sera. Lei è uscita a comperare qualcosa per il pranzo... bistecche e insalata, perché io insistevo per il cibo fresco... e dopo che è rientrata, mentre io apparecchiavo la tavola, è squillato il telefono. Ho risposto io, e una voce maschile ha chiesto di parlare con Dawn. Io non ho chiesto chi fosse, e lui non l'ha detto. Ho passato il telefono a Dawn e non sono stata a sentire quel che diceva. Ho continuato a preparare il pranzo. Poi lei è tornata in cucina ed era tutta rossa ed eccitata, ma anche un po'... come dire?... risentita. Mi spiego male, ma me lo ricordo bene, com'era! Era eccitata e al tempo stesso mortificata. Si vedeva che non voleva dire chi le aveva telefonato, perciò non gliel'ho chiesto.» «E l'avete mai scoperto?» «No. Ma c'è dell'altro. Paul doveva arrivare all'una e mezzo, e alle dodici meno un quarto era già tutto pronto per il pranzo. C era solo da cuocere le bistecche, quando fosse arrivato Paul. Dawn era già vestita e truccata, ma a mezzogiorno è andata a cambiarsi e quando è uscita dalla sua camera aveva addosso il suo vestito nuovo e si era rialzata i capelli, ed era anche molto più truccata di prima. Insomma, aveva strafatto, e si era anche messa
troppo profumo. Io ero qui seduta, a leggere una rivista. Lei è entrata e mi ha detto "Devo uscire per un'oretta. Se arrivasse Paul prima che io sia rientrata raccontagli qualche storia... digli che mi ero dimenticata il vino, o qualcosa del genere". Come ho già detto, noi non ci facevamo domande. Non mi andava molto di dir bugie a Paul, tanto più che il vino era già in tavola, perciò non potevo prendere quella scusa. Speravo solo che Dawn non tardasse troppo.» «Invece ha tardato?» chiese Wexford. «Era uscita tra le dodici e le dodici e mezzo, e quando è arrivato Paul, un po' in ritardo, alle due meno venti, lei non era ancora tornata. Io gli ho detto che Dawn aveva dovuto andare a comperare qualcosa all'ultimo momento, ma ho capito che lui c'era rimasto male. Dopo tutto era il suo compleanno, e loro erano più o meno fidanzati...» «Quando è tornata?» «Alle tre e dieci. Ricordo l'ora esatta perché quando è entrata ho capito subito che doveva esser stata in un pub, e i pub chiudono alle tre. Comunque aveva bevuto troppo. Aveva la faccia gonfia e farfugliava. Paul ha un gran buon carattere, ma quella volta è stato sul punto di esplodere.» «Dove ha detto di essere stata?» «Ha detto d'aver incontrato una ragazza che una volta lavorava al Club e adesso faceva la modella... Povera Dawn, non resisteva alla tentazione di metterci sempre un pizzico di fama e di splendore!... Ha detto di essere andata con lei in un pub, e di aver perso la nozione del tempo a forza di chiacchierare.» «E voi non le avete creduto?» «Figurarsi! Più tardi, dopo che Paul se n'è andato, Dawn ha scritto a sua madre per dirle che sarebbe andata a trovarla il lunedì seguente.» «Non avete messo in rapporto la sua puntata al pub con quella lettera?» «Al momento no» rispose la ragazza con aria pensierosa «ma adesso sì. Vedete, non era da lei decidere all'improvviso qualcosa che avesse a che fare con sua madre. Sapeva di dover andare a Kingsmarkham di tanto in tanto, ma normalmente ci metteva intere settimane per decidersi. Sapeva di doverci andare, ma non aveva nessuna voglia di farlo e continuava a rimandare. Poi scriveva una lettera, e la stracciava, borbottando. Passavano settimane prima che la lettera venisse realmente scritta e imbucata! Quella volta invece no. Si è seduta, e l'ha scritta di getto.» «E in seguito non ha più accennato a quello che era successo il primo di giugno?»
Joan annuì con aria infelice. «Sì, il sabato, il suo primo giorno di vacanza. Ha detto: "Che cosa ne penseresti di un tale che prima sostiene di morire dalla voglia di vederti e poi non trova niente di meglio da proporti che portarti a bere qualcosa in un pub all'ora di pranzo?". È andata davanti a quello specchio e ci ha avvicinato la faccia, fissandosi e tirando la pelle sotto gli occhi. "Se tu fossi realmente pazza di un uomo non te ne importerebbe, vero? Ti basterebbe la sua compagnia, non te la prenderesti se lui è troppo spaventato o troppo tirchio per passare la notte con te in un albergo." Non riuscivo a capire se si riferisse a me o a se stessa. Pensavo che probabilmente si riferiva a me, perché il mio ragazzo è povero. Poi è arrivato Paul e l'ha portata fuori, e io ho pensato che Dawn avesse deciso d'andare in vacanza con lui.» Joan Miall sospirò. Cercò un'altra sigaretta ma il pacchetto era vuoto. L'aria della stanza era azzurra per il fumo rimasto sospeso. Wexford ringraziò, e uscì. In Earls Court Road entrò in un negozio di dischi e comperò un singolo di "Let-me-believe". 15 L'abito rosso era di nuovo nell'ufficio di Wexford. Migliaia di donne lo avevano guardato, toccato, controllato, ma nessuna l'aveva riconosciuto. Era sulla scrivania di legno di rosa, un legno curiosamente in tinta col vestito. Un vecchio abito stropicciato, sporco, che conservava implacabilmente il suo segreto. Wexford lo toccò, guardò un'altra volta l'etichetta e le tracce biancastre di cipria attorno al collo. Era stato indossato da Dawn, ma non era mai stato suo. Dawn l'aveva trovato a Kingsmarkham e per qualche oscura ragione se l'era messo, nonostante fosse così sensibile alla moda e indossasse già un abito perfettamente intonato alle scarpe e alla borsa. Lo aveva trovato a Kingsmarkham ma, a meno che non fosse stata detta la verità, nessuna donna di Kingsmarkham o di Stowerton l'aveva mai posseduto. Una donna non dimentica mai i propri abiti, anche se li rivede cinquant'anni dopo averli smessi, figurarsi se li rivede a distanza di soli sette, otto anni. Burden entrò nell'ufficio, guardò Wexford, poi guardò il vestito come per dire "Perché preoccuparsene? Perché lasciarsi confondere, lasciarsi bloccare da una cosa così?", infine disse ad alta voce: «Come sono andate le cose con la Miall?» «Pare che Dawn avesse un altro amico. Mi sto chiedendo se poteva esse-
re Peveril. Il primo di giugno lui era a Londra, e proprio quel giorno Dawn si è incontrata con un uomo, ha bevuto con lui. È uscita furtivamente anche se aveva un impegno piuttosto importante a casa sua, e l'incontro è avvenuto solo cinque giorni prima della sua morte.» «Interessante» commentò Burden. «Dawn era a Kingsmarkham a Pasqua, e i Peveril a Pasqua abitavano già sul Sentiero. Che Peveril l'abbia abbordata a Kingsmarkham, le abbia offerto qualcosa da bere e si sia fatto dare il suo numero di telefono...?» «Vi risulta che le abbia telefonato?» «Secondo Joan Miall, il 23 maggio, un lunedì, Dawn ha ricevuto una telefonata piuttosto misteriosa. Magari era proprio Peveril: il lunedì sera sua moglie esce, quindi la cosa era possibile.» «Sembra una pista promettente.» «Purtroppo non lo è. Sappiamo che Zeno Vedast ha telefonato a Dawn più o meno a quell'ora. Ce l'ha detto lui stesso, e non appena ha risposto al telefono Dawn ha detto a Joan Miall che era Vedast. Joan non le ha creduto perché dopo la telefonata non era euforica né elettrizzata; d'altra parte Vedast stesso ha ammesso d'averla scaricata con delle vaghe promesse. Dawn non era una stupida: ha capito che lui si era stancato, e la cosa l'ha talmente scossa che dopo non è nemmeno riuscita a vantarsi del fatto di conoscerlo o ad inventare una delle sue solite storie. Perciò credo che si possa concludere che è stato proprio Vedast a telefonarle quella sera e che, dopo, non ha più avuto contatti con lei. È fuori da questa faccenda. Questo però non significa che non le abbia telefonato anche Peveril. Potrebbe benissimo averlo fatto quando Joan non era in casa. «Durante il weekend successivo, quello che ha preceduto la sua morte, Dawn ha lasciato capire a Joan di essersi imbarcata in una storia con un uomo troppo tirchio o troppo spaventato per portarla in un albergo. La descrizione quadrerebbe con Edward Peveril, un uomo che disponeva di una casa da cui la moglie si assentava per varie ore il lunedì sera; un uomo che, quando eravamo al concerto, appena ci ha visti è uscito di casa per cercare di distogliere la nostra attenzione dalla cava; un uomo a cui non importa niente della moglie, e che, stando a quanto ha detto la signorina Mowler, di tanto in tanto la tradisce.» Burden rifletté per qualche istante. «E allora, secondo voi, che cosa è successo quella sera?» «Qualunque cosa sia successa, la signora Peveril dev'esserne al corrente.»
«Non vorrete dire che gli ha tenuto corda!» «Prima che la cosa succedesse no. Prima avrà avuto forse dei sospetti... se ti ricordi ha detto che solo per puro caso era in casa alle cinque e mezzo. Suo marito aveva cercato di convincerla ad andare a vedere un film a Kingsmarkham, nel pomeriggio, e a fermarsi là per la sua lezione serale. E perché lei non l'ha fatto? Forse perché sospettava che ci fosse sotto qualcosa? Certo d'esser riuscito a convincerla, Peveril ha chiesto a Dawn di andare a casa sua, portandosi una cena per due; invece sua moglie non è uscita, e alle cinque e mezzo, l'ora fissata per l'appuntamento, ha visto Dawn e Dawn ha visto lei. Per questo se n'è andata tra i campi, portandosi il sacchetto della spesa! Aspettava che Margaret Peveril uscisse. «Poi, quando sua moglie è andata alla lezione, Peveril l'ha fatta entrare in casa. Dawn ha cominciato a preparare la cena, dopo essersi messa un vecchio abito che le aveva dato Peveril per non sporcarsi quello lilla. Ad un certo punto, prima che la cena fosse pronta, ha chiesto a Peveril se avrebbe potuto fermarsi a dormire, come lui le aveva promesso pur sapendo che la cosa sarebbe stata impossibile, per convincerla ad andare da lui. Quando Peveril le ha detto che non c'era niente da fare, c'è stata una scenata, lei ha minacciato di fermarsi e di affrontare la moglie, e lui, in preda al panico, l'ha uccisa.» «E quando la signora Peveril è rientrata Peveril si è appellato al suo buon cuore e l'ha supplicata d'aiutarlo a ripulire la casa e a liberarsi del cadavere» concluse Burden. «Non lo so, Mike... non ci credo troppo, a questa ipotesi. Se tutto questo fosse vero, perché la signora Peveril avrebbe dovuto dire di aver visto la ragazza? Non posso ottenere un mandato in base a questi elementi, ma domani andrò a chiedere a Peveril l'autorizzazione a perquisire la casa. Domani è domenica, ed è il tuo giorno libero.» «Verrò, verrò» promise Burden. «No, la domenica passala coi ragazzi. Se scopriremo qualcosa te lo farò sapere immediatamente.» Gli occhi di Wexford caddero di nuovo sul vestito, che adesso era colpito in pieno dal sole del tramonto, come fosse stato sotto un riflettore di scena. Cercò d'immaginarsi Margaret Peveril snella, ringiovanita, ma riuscì a vederla solo com'era, più grossa e grassa di Dawn, con una struttura che faceva chiaramente capire che mai avrebbe potuto indossare quel vestito, nemmeno da ragazza. Si strinse nelle spalle.
Non cercò nemmeno di ottenere un mandato di perquisizione. Il mattino seguente - una di quelle mattine fresche, un po' nebbiose che normalmente preludono a una bella giornata - andò direttamente al Sentiero con Martin e tre agenti. La luce del sole era come raso dorato sotto un velo di tulle. Borbottando che il suo lavoro sarebbe stato disturbato, Peveril acconsentì senza protestare troppo a far perquisire la casa. Wexford restò deluso: si sarebbe aspettato una resistenza molto maggiore. Sollevarono la moquette ed esaminarono gli zoccoli di legno e il bordo inferiore dei tendaggi. La signora Peveril li guardò lavorare mordendosi le unghie. Quella finale dissacrazione della sua casa l'aveva indotta ad una specie di fuga, a ritirarsi completamente nell'apatia e nel silenzio. Suo marito restò seduto nel suo studio, circondato da uomini che strisciavano sul pavimento e sbirciavano sotto i mobili; scarabocchiava qualcosa sul tavolo da disegno - degli schizzi insignificanti, e assolutamente invendibili. Tornando dalla chiesa, la signorina Mowler si avvicinò a Wexford, sul cancello, e gli chiese se gli uomini avrebbero bevuto volentieri del tè. Wexford rifiutò l'offerta. Notò, e non per la prima volta, che le donne che vanno in chiesa, e che potrebbero portarsi più comodamente il libro di preghiere nella borsa, lo tengono invece ostentatamente tra le mani, come segno visibile della propria superiorità spirituale. Dunsand stava falciando il suo prato, e mettendo l'erba tagliata in una piccola, linda carriola. Wexford rientrò in casa. Dopo un po' guardò fuori dalla finestra e, con sua grande sorpresa, vide avvicinarsi Louis Mbowele; la tunica aperta gli lasciava scoperto il petto bruno, ornato di collane. Louis entrò nel giardino di Dunsand, che smise di falciare e rientrò nel bungalow col suo ospite. La cosa non era poi così sorprendente dato che Louis studiava filosofia a Myringham, dove Dunsand insegnava filosofia. «Allora?» chiese a Martin. «Non è stata uccisa qui, signore. A meno che la cosa non sia successa nel bagno... in quel bagno si potrebbe sventrare un maiale senza lasciare tracce.» «Allora possiamo anche andarcene. Questo dovrebbe essere un giorno di riposo, perciò me ne torno a casa.» «Una cosa sola, signore... Il giovane Stevens mi ha detto di chiedervi se potevate passare da lui, prima che finisse il servizio. È al posto di polizia. Me l'aveva detto ieri sera, ma con tutte queste cose mi è uscito dalla testa... Ha in mente qualche cosa, ma non mi ha detto cosa.» La casa fu rimessa in ordine, con qualche asciutta scusa di Wexford alla
signora Peveril. «Ve l'avevo detto che non era venuta qui!» esclamò la donna in tono risentito. «Ve l'avevo detto che era andata direttamente nei campi!» Wexford salì in macchina al fianco di Martin. «Mi auguro che continui a ripeterlo senza un motivo preciso» commentò. Chiuse energicamente la portiera. Martin lo ascoltava educatamente perché era suo dovere farlo, ma la sua mente era rivolta al pranzo domenicale, che probabilmente era ormai rovinato. «Ma perché lo dice se non è vero?» aggiunse Wexford. «Forse è vero, signore.» «E allora perché nessun altro l'ha vista dopo le cinque e mezzo? Pensa a quanta gente tornava a casa per cena verso le sei, a Sundays e a Stowerton... Avrebbero dovuta vederla. Gli uomini lo notano, quel tipo di ragazza.» L'accenno alla cena rese il sergente Martin ancora più ottuso del solito. «Forse se n'è stata seduta nei campi per ore, finché non si è fatto buio.» «Oh, mio Dio!» sbottò Wexford esasperato. «Se avesse dovuto starsene in giro per delle ore sarebbe rimasta da sua madre, o se proprio non se la sentiva, sarebbe andata al cinema, a Kingsmarkham!» «Ma l'ultimo autobus...?» «Da qui a Kingsmarkham c'è meno di un miglio, e lei era sana e forte. Avrebbe certo preferito farselo a piedi, più tardi, che starsene per tutto quel tempo seduta in un campo!» «Allora la signora Peveril non l'ha mai vista.» «Sì che l'ha vista, invece. L'ha osservata per bene, in ogni dettaglio.» La macchina si fermò e i due uomini scesero a terra: Martin per andare a gustarsi finalmente il suo meritato pranzo; Wexford per andare a parlare con Stevens, che lo stava aspettando nel suo ufficio. Il timido poliziotto se ne stava rigidamente sull'attenti, e la cosa irritò ulteriormente Wexford, e al tempo stesso gli fece venire voglia di sorridere. Wexford gli disse di sedersi, e Stevens lo fece, sentendosi ancora più a disagio seduto che sull'attenti. L'ispettore capo evitò di sorridere, e disse in tono gentile: «Abbiamo un addetto all'assistenza, Stevens, se gli uomini hanno dei problemi familiari o personali che interferiscono con il loro lavoro.» «Ma è proprio il lavoro che interferisce col mio lavoro, signore...» balbettò Stevens. «Non capisco che cosa intendi dire.» Stevens deglutì. «Signore...» Si bloccò, poi riattaccò: «Signore. ..» Ar-
rossì, e le parole gli uscirono di getto: «Si tratta della signora Peveril. Erano giorni che desideravo parlarvene, ma non osavo farmi avanti, non sapevo cosa fare...» «Se sai qualcosa della signora Peveril che è bene che io sappia, devi parlarmene subito. Questo lo sai, Stevens. Su adesso, calmati.» «Sono stato trasferito qui da Brighton l'anno scorso...» Aspettò un cenno d'incoraggiamento da parte di Wexford, che glielo concesse con una certa impazienza. «L'estate scorsa c'è stata una rapina ad una banca, e la signora Peveril ha visto la scena ed è... ed è venuta spontaneamente a dare la sua testimonianza. L'hanno interrogata a lungo, e ha anche dovuto cercare d'identificare i colpevoli. Non li abbiamo mai presi.» «L'hai riconosciuta dal nome o dalla faccia?» «Dalla faccia, signore; poi quando ho sentito il suo nome mi sono ricordato anche quello. Anche lei mi conosceva. Era molto isterica, un cattivo testimone, continuava a dire che tutto la faceva star male. È una settimana che ci penso... Mi dicevo: "In fondo non l'ha svaligiata lei, la banca". E continuavo a pensarci, a pensarci, finché... be', ho dovuto dirvelo, signore.» «Stevens» sospirò Wexford «hai ancora molte cose da imparare. Be', non importa, alla fine hai parlato. Va' pure a mangiare. Controllerò tutto con Brighton.» Cominciava ad intuire che cosa poteva essere successo, ma doveva controllare prima di tornare sul Sentiero. Per lui non ci sarebbe stato nessun pranzo domenicale. I Peveril stavano finendo il loro. A Wexford venne fatto di pensare che era la prima volta che incontrava Peveril senza che stesse lavorando, o arrivasse direttamente dal lavoro, o non vedesse l'ora di tornarci. «Che cosa c'è questa volta?» chiese Peveril, sollevando gli occhi dal suo roast-beef con Yorkshire pudding. «Mi spiace disturbare proprio all'ora di pranzo, signor Peveril, ma vorrei parlare con vostra moglie.» Peveril si affrettò a raccogliere il suo piatto, infilarsi il tovagliolo nello scollo del golf, e dirigersi verso la porta del suo studio, dopo essersi soffermato un attimo a prendere il vasetto della senape. «Non lasciarmi, Edward!» esclamò sua moglie, con una vocetta stridula, sottile che se avesse avuto un tono più alto sarebbe stata uno strillo. «Tu non mi dài nessun aiuto! Starò male di nuovo. Non sopporto di essere in-
terrogata. Ho paura!» «Tu hai sempre una maledetta paura. Non aggrapparti» disse Peveril, respingendola «non vedi che ho in mano il piatto?» «Edward, non lo capisci? Mi farà dire chi è stato! Mi farà indicare un colpevole!» «Sedetevi, signora Peveril. Per favore. Vi sarei grato se non ve ne andaste, signor Peveril. Non voglio interferire tra moglie e marito, ma credo che la signora sarebbe meno spaventata se voi cercaste di darle l'appoggio che desidera. Per favore, fate come vi dico.» Il tono di Wexford era molto serio, imperioso. E risultò efficace. I bulli cedono facilmente se ci si impone loro con decisione. Pur senza avvicinarsi alla moglie e senza guardarla, Peveril si sedette, appoggiò il piatto sul bordo del tavolo e incrociò le braccia con aria imbronciata. La signora Peveril gli scivolò vicino, esitante, mordendosi l'unghia del pollice, e rivolse a Wexford il tipico sguardo, al tempo stesso furtivo e disperato, dell'isterica che cerca di tenere sotto controllo il proprio cumulo di nevrosi. «Adesso vi prego di ascoltare entrambi con attenzione quello che sto per dirvi. D'accordo?» Nessuna risposta. «Signora Peveril, lasciate che vi dica che cosa è successo, secondo me. A Brighton avevate testimoniato a proposito di una rapina in banca.» La donna dilatò gli occhi per la sorpresa, mormorando qualcosa d'incomprensibile. «È stata una esperienza sconvolgente per voi, ma, giustamente, vi siete fatta avanti per dare delle informazioni alla polizia. Eravate un testimone chiave. Naturalmente la polizia vi ha interrogata a fondo. Voi vi siete sentita perseguitata e vi siete spaventata, forse siete stata male per la paura, sia a causa delle continue visite della polizia sia per la possibilità che qualcuno potesse vendicarsi su di voi per le informazioni che avevate dato. E vi siete trasferita qui per fuggire da quella situazione angosciosa. Non è così?» La signora Peveril non disse niente. Suo marito, che non si lasciava mai sfuggire un'occasione di attaccarla, disse: «Certo che è così! A lei che cosa importava di dove avessi le mie radici, le mie conoscenze, il mio studio ideale? La signora voleva scappare, e siamo scappati.» «Vi prego, signor Peveril.» Wexford si rivolse alla donna, rendendosi conto che doveva usare molta prudenza, molto tatto. La sua immobilità, il suo continuo mordersi le unghie, l'espressione angosciata della sua faccia facevano presagire il peggio. «Eravate qui solo da pochi mesi quando vi siete resa conto che, a causa di ciò che avevate visto, presto avreste potuto trovarvi coinvolta in un altro caso criminale, forse ancora più angoscioso
del precedente. Signora Peveril, noi sappiamo che lunedì, sei giugno, voi avete realmente visto Dawn Stonor. Ce ne avete dato una descrizione accurata, molto più precisa di altre che ci sono state fornite. Io suppongo. .. vi prego di non allarmarvi... che voi o l'abbiate fatta entrare in casa vostra o l'abbiate vista entrare in un'altra casa. Ci avete detto di averla vista attraversare i campi solo perché pensavate che quello sarebbe stato il modo più sicuro di distogliere la nostra attenzione... quell'attenzione che vi fa così paura... da voi e dai vostri vicini.» Forse sarebbe andata bene. La donna si allontanò la mano dalla bocca, prese a mordersi il labbro, poi fece un piccolo mormorio preparatorio. Sarebbe andato tutto bene se Peveril non fosse scattato in piedi, gridandole: «Cristo, è vero? Ma allora sei proprio stupida! Avevo la sensazione che ci fosse qualcosa di poco convincente, lo sapevo! Hai raccontato delle storie alla polizia, e io per poco non le ho bevute! Che razza di...!» La donna cominciò a strillare. «Io non l'ho mai vista! Io non l'ho mai vista!» Uno schiaffo in piena faccia sarebbe stato efficace; invece suo marito cominciò a scuoterla in modo tale che gli strilli si trasformarono in uno strozzato ansimare. La donna crollò a terra. Peveril fece un passo indietro, pallidissimo. «Andate a chiamare la signorina Mowler» ordinò Wexford. Quando Peveril tornò con l'infermiera, sua moglie era seduta con aria abbandonata su una poltrona, e gemeva sottovoce. La signorina Mowler le rivolse un sorriso rassicurante, tutto denti. «Vi porteremo a letto, cara, poi vi farò una tazza di tè, bello forte.» La signora Peveril si ritrasse spaventata. «Andate via! Non vi voglio, voglio Edward!» «D'accordo, cara. Come volete. Può portarvi a letto Edward, mentre io preparo il tè.» Sentendosi chiamare confidenzialmente per nome, Peveril assunse un'espressione seccata, ma offrì ugualmente il braccio alla moglie e l'aiutò a salire le scale. La signorina Mowler si diede da fare: tolse dalla tavola i piatti pieni di cibo ormai freddo, mise a bollire dell'acqua, cercò delle aspirine. Una donnina esile, ma rapida nei movimenti e molto efficiente. Lavorando, continuava a parlare e scusarsi di colpe inesistenti. Peccato che non fosse presente al momento della crisi! Se solo fosse stata nel suo giardino... Peccato che avesse dovuto lavarsi le mani e togliersi la tuta prima di arrivar lì col signor Peveril! Wexford disse ben poco. Pensava che per quel giorno non sarebbe stato possibile cavar di bocca altro dalla signora Peve-
ril. Il tè fu portato al piano superiore. Peveril non ricomparve. Wexford riaccompagnò la signorina Mowler al suo bungalow, dove la moquette dell'ingresso era tutta cosparsa di giornali, come se fossero in atto delle pulizie di primavera fuori stagione. «Ho rovesciato una tazza di cioccolata sulla parete. Menomale che la tappezzeria è lavabile! Chissà che cosa penserete di me! Lavare le pareti alla domenica...» «Migliore è il giorno, migliore è il risultato» disse cortesemente Wexford. «Vorrei dare un'altra occhiata alla cava. Posso passare dal vostro giardino?» Ottenne il permesso di farlo solo dopo aver rifiutato insistenti offerte di tè, caffè, sherry, e tartine. Dopo essersi assicurata che Wexford non avesse bisogno d'essere accompagnato fino al cancello, la signorina Mowler tornò al suo lavoro. Wexford uscì dal giardino, e sbucò nella striscia di terra di nessuno che separava le case del Sentiero dalla proprietà Sundays. 16 Era piovuto molto e adesso il sole era tornato caldo e luminoso come prima, ma era ancora troppo presto perché rispuntasse l'erba, perché si riformasse quel tappeto verde che prima dell'autunno avrebbe ricoperto di nuovo la distesa brulla in cui si era trasformato il parco Sundays. Wexford si sedette sul bordo della cava. Lì la natura trionfava, perché i fiori e gli arbusti, la delicata ma già rigogliosa erba di giugno erano stati calpestati solo da una mezza dozzina di piedi. Nuove rose, nuove campanule stavano sbocciando in sostituzione di quelle danneggiate. Wexford guardò il filo spinato spezzato, il muro di cinta, i tre cancelli, ma tutto questo non gli diceva più niente, e a poco a poco l'aria profumata, resa più calda e morbida dal sole, gli allontanò dalla mente le preoccupazioni relative al caso Dawn Stonor. Una farfalla gli volò davanti languidamente e si posò su una rosa dai petali di un bianco rosato ancor più delicato del roseo colore delle sue ah. Ormai non c'erano più tante farfalle come quando lui era un bambino, o come quando erano piccoli i suoi figli. Si scoprì a canterellare un motivo a fior di labbra. Dapprima pensò che fosse quella canzone di Vedast che gli era rimasta impressa nella mente e lo disturbava, poi si accorse che si trattava invece di una ballata di Betti Ho, quella in cui profetizzava che i suoi figli non avrebbero mai visto una farfalla, tranne che nei musei. La farfalla
riprese a librarsi, a galleggiare nell'aria... «Siete entrato in una proprietà privata!» Wexford scattò in piedi, scuotendosi dal sogno. «Siete entrato in una proprietà privata» ripeté Silk, tra il serio e l'ironico. «Non vedo perché la polizia debba continuamente calpestare il mio terreno!» Fissando il viso bianco, irritato di Silk e quello nero sorridente che gli stava vicino, Wexford rispose: «Non stavo calpestando proprio niente. Ero seduto a pensare. Che cosa state progettando voi due, un altro concerto?» «No, stiamo cercando di organizzare una comune, qui a Sundays, durante le vacanze dell'università. Louis, io, la sua ragazza, e una mezza dozzina di altre persone. Louis vuol vedere come funziona perché ha intenzione di instaurare un sistema tipo kibbutz nel Marumi.» «Davvero?» disse Wexford con faccia inespressiva. Non riusciva a capire come il fatto di raccogliere un gruppetto di persone in una casa padronale fornita di tutto e ben arredata potesse costituire una specie di prova generale per dei kibbutz in uno stato equatoriale, ma evitò di dirlo. «Be', credo che adesso me ne andrò... calpestando l'erba.» «Anch'io» disse inaspettatamente Louis. Regalò a Silk il suo radioso sorriso e gli diede un colpetto affettuoso sulla testa grigia, che arrivava appena alla sua spalla. «La pace sia con te.» Wexford e Louis Mbowele costeggiarono insieme la recinzione dei Peveril e sbucarono nella parte terminale del Sentiero. Le tende della camera da letto della signora Peveril erano chiuse. Dunsand stava ripulendo dalle erbacce le sue aiuole senza fiori. Accanto alla macchina della signorina Mowler c'era un secchio abbandonato, pieno di acqua saponata. Era una calda, radiosa giornata di sole. Gli inglesi non si rilassano sulle sdraio nei loro giardini, perciò, a parte la curva figura del professore di filosofia, la zona era deserta. Louis salutò l'ispettore capo agitando la mano. «Vuoi un passaggio fino a Kingsmarkham?» «Oh, grazie! Forse così ce la faccio a prendere l'autobus delle tre e mezzo per Myringham.» La macchina di Wexford era piuttosto grande, ma nessuna macchina, tranne forse la Rolls-Royce di Vedast, sarebbe stata abbastanza ampia per contenere comodamente Louis Mbowele. Ridendo, il giovane si strinse intorno al corpo la tunica a piume e tirò indietro al massimo il sedile accanto al posto di guida. «Quando arriverai al vertice, hai davvero intenzione di far vivere la tua
gente in comuni?» «È l'unico sistema di vita possibile.» «E vorresti obbligare i tuoi concittadini ad essere tutti uguali, vorresti stabilire tu dove devono abitare e cosa devono studiare, e applicare un sistema di censura, mettendo fuori legge gli altri partiti politici?» «Per un po', solo per un po'. È necessario. Devono imparare. Quando avranno visto come funzionano le cose e sarà cresciuta la nuova generazione e avremo la pace e le pance piene, allora sì che potremo cominciare a rilassarci! È necessario costringerli a fare quello che al momento non se la sentirebbero di fare spontaneamente. È per il loro bene!» «Conosci quella frase di James Boswell... "Noi non abbiamo il diritto di far felice la gente contro la sua volontà?"» Louis annuì, senza più sorridere. «La conosco, amico, e so a che proposito è stata detta. A proposito della tratta degli schiavi. I mercanti si giustificavano dicendo che la mia gente sarebbe stata più felice nelle piantagioni che nella giungla. Ma in questo caso la cosa è diversa: è davvero per il loro bene, e poi sarà solo per un periodo di tempo limitato.» «Oh, Louis!» disse Wexford, imboccando la strada per Forby. «Questo è quello che dicono tutti...» Proseguirono verso Kingsmarkham in silenzio. Wexford era oppresso dal caldo e dalla sua incapacità di venire a capo di qualcosa. Per quel pomeriggio sembrava che non ci fosse altro da fare che tornarsene a casa, a mangiare del cibo ormai vecchio, e a far magari un sonnellino. Poi, mentre si stavano ormai avvicinando alla fermata degli autobus per Myringham, Wexford si rese improvvisamente conto del lungo silenzio e si chiese se il giovane africano non si fosse offeso. Louis aveva l'aria d'avere un gagliardo appetito, e l'Olive and Dove alla domenica offriva degli ottimi pranzi... «Hai mangiato?» chiese. «Sicuro. Ho scroccato un po' di pane e formaggio a Len.» «Al signor Dunsand? E perché dici che gliel'hai "scroccato"? Dunsand è poco ospitale?» Louis rise. Evidentemente non era offeso, era solo un po' intontito dal sole. «È un recluso» disse. «Gli riesce difficile comunicare con gli altri. Però un paio di settimane fa l'ho portato fuori a cena, a Myringham, quindi in fondo me lo doveva, un pasto! Gli ho chiesto di far parte della nostra comune, ma non è abbastanza equilibrato per farlo.» «Strano. Ci si aspetterebbe che un professore di filosofia...»
«Debba essere una persona equilibrata, in pace con se stessa?» Louis balzò fuori dalla macchina e a grandi passi girò intorno alla vettura per aprire la portiera a Wexford. «È un errore molto comune, amico. È la vita, un gran numero d'esperienze di vita, che insegnano a vivere, non la filosofia. La filosofia insegna a pensare.» L'autobus era in ritardo. A Louis non andava di mettersi in coda con gli altri, perciò si sedette sui gradini della tintoria Snowdrop, e Wexford lo seguì, lasciando la macchina sul bordo della strada. «Vai d'accordo con lui?» Louis ci pensò un momento. Le persone che erano in fila gli gettavano degli sguardi pieni d'intensa, anche se repressa, curiosità. In quella cittadina se ne vedevano pochi, di uomini e donne di colore, e agli abitanti la sua tunica, le sue collane, e il fazzoletto di seta azzurra che gli cingeva la testa - pur essendo diventati una "tenuta" di moda, sia tra i negri sia tra i bianchi - dovevano sembrare degli addobbi tribali. Louis ricambiava i loro sguardi col sorriso accondiscendente di un principe, di un Rasselas dalla pelle scura, e disse a Wexford: «Come insegnante è in gamba, sa il fatto suo, ma a quanto pare non gli piace la gente. Ne ha paura.» «Di cos'altro si può aver paura?» chiese Wexford. L'idea gli era venuta all'improvviso, chissà come. «A parte, naturalmente, le tempeste, le inondazioni, e tutte quelle cose che le compagnie di assicurazione chiamano "calamità naturali". Se si ha paura delle bombe e della guerra, fondamentalmente è degli uomini che si ha paura.» «Avete ragione. La gente è tanta, e fa paura. Ed è ancora peggio quando tra le persone che ti fanno paura ci sei tu stesso.» Louis fissò il sole del tardo pomeriggio. «Mi hanno detto che era in condizioni migliori quando sua moglie viveva con lui. Allora andava in vacanza... un salto a Mallorca, qualche giorno sulla Costa Brava. Adesso non fa altro che leggere, e pitturare la casa, e falciare l'erba. Ma è difficile immaginarselo sposato proprio con lei, vero?» Louis si alzò e allungò la mano. «Ecco il mio autobus.» «Con lei... chi? Io non la conosco. E tu?» Louis aiutò a salire sull'autobus una vecchietta dall'aspetto fragile, sostenendola col suo enorme braccio bruno. Con l'aria di chi ha visto finalmente realizzarsi i suoi sogni di ragazza cadendo nelle mani di uno sceicco, la vecchietta arrossì, fece una risatina sciocca, e fu quasi presa dal panico. Gli altri passeggeri li guardavano, facendo sottovoce dei commenti. «Allora, andiamo!» esclamò il conducente. «Non possiamo star qui tutto
il giorno.» Louis rise. Le sue spalle e la sua testa svettavano su tutti i presenti. Pagò il biglietto guardando Wexford al di sopra di un minuscolo cappellino femminile. «Non la conosco nemmeno io. Ma me l'ha indicata Silk, al concerto, mentre Zeno Vedast stava cantando. Era proprio vicino a voi.» «A me?» L'autobus si mise in moto. «La pace sia con voi!» gridò Louis. «E anche con te» rispose Wexford. La macchina dorata non c'era. Forse era stato sciocco da parte di Wexford pensare che ci sarebbe stata. Dato che il pomeriggio era così bello probabilmente erano andati tutti a vedere la casa che stava comperando Vedast. Nel grande spiazzo semivuoto davanti all'albergo, in pieno sole, la macchina dell'ispettore capo aveva un'aria abbandonata. L'Hotel Cheriton Forest sembrava addormentato. Il portiere che aveva tanto ammirato Nell Tate, però, era sveglio. Era seduto nella hall deserta, a leggere il Sunday Express e a fumare una sigaretta, che si affrettò a spegnere non appena comparve Wexford. «Temo di no» disse, rispondendo alla domanda dell'ispettore capo. «Il signor Vedast e la signora Tate sono usciti dopo il pranzo con la macchina del signor Vedast.» «Non sapete quando torneranno?» Il ricordo di una moneta da cinquanta pence si affacciò alla mente del portiere, rendendogli difficile negare qualcosa a Wexford. «Il signor Tate sta prendendo il caffè in giardino. Volete che io...» «No, lo troverò da solo.» «Come volete, signore» disse l'uomo, guardando un po' deluso la moneta più piccola che gli avevano guadagnato i suoi sforzi. Wexford girò attorno all'edificio pieno di timpani, borchie, montanti e rose rampicanti. Non c'era in giro nessuno. Gli uccelli cantavano con voce sonnolenta tra gli alberi decidui che cingevano il bosco di abeti. Arrivato sul retro dell'albergo, Wexford vide l'anziana coppia che era con lui nel salotto Shakespeare. Sonnecchiava sulle sedie a sdraio della terrazza. Un sentiero di ghiaia passava tortuosamente tra i cespugli di rose e raggiungeva un praticello rotondo in mezzo al quale c'era un ombrellone, con un tavolino e una sedia. Sulla sedia era seduto un uomo, con le spalle rivolte al-
la terrazza. Il portiere aveva detto con tatto che Tate stava prendendo il caffè in giardino, ed effettivamente sul tavolo c'era qualcosa che assomigliava un po' ad una tazza. Ma era un bicchiere, e ciò che stava bevendo Tate era cognac. Una mano vogliosa si era appena allungata verso la bottiglia di Courvoisier per versare un'altra dose di liquore. «Buongiorno, signor Tate.» Se Wexford aveva sperato di veder trasalire Tate restò senz'altro deluso. L'uomo non si mosse. Riempì il bicchiere, rimise il tappo alla bottiglia, e disse: «Oh, buongiorno! Volete un po' di cognac?» Ricordandosi di dover guidare e di non aver ancora pranzato, Wexford rifiutò. «Vorrei parlarvi. Vi dispiace se vado a prendermi una sedia?» «No» rispose laconicamente Tate. Wexford andò a prendersi la sedia e la sistemò sotto l'ombrellone. Godfrey Tate non disse niente. Con faccia assolutamente inespressiva osservava il panorama: la foresta folta e nera, il cielo azzurro, senza nubi. Non era affatto ubriaco. Gli alcolizzati non si ubriacano mai. Wexford pensò che doveva essere una sfortuna per Tate aver bevuto così tanto, in forma così cronica, che, perennemente ubriaco, ormai non riusciva più a godere quella forma di felicità che la gente chiama ubriacatura. La sua pelle era color mattone, gli occhi erano pieni di venuzze rosse con i bordi delle palpebre vermigli e umidi. Eppure era ancora giovane, senza rughe, snello, non brutto, senza un filo di grigio nei capelli. «Signor Tate, in verità volevo parlare con vostra moglie.» «È andata con Zeno a vedere la nuova casa.» Proprio come aveva pensato Wexford. «Allora il signor Vedast ne ha trovata una di suo gusto?» Tate annuì. Bevve un sorso di cognac, poi disse: «Si chiama Cheriton Hall.» «Ah, sì, credo di conoscerla. Sul lato della foresta che dà verso Pomfret. E vivrete tutti lì?» «Noi andiamo dove va Zeno.» Tirando a indovinare, sperando d'azzeccarla anche se brancolava nel buio, Wexford azzardò: «Non sarà un po' imbarazzante per vostra moglie abitare così relativamente vicino al suo ex marito?» Il rosso malsano della faccia di Tate si fece più cupo. Non rispose, ma fissò su Wexford un'espressione bellicosa e al tempo stesso disorientata. «Ho ragione nel ritenere che un tempo vostra moglie fosse sposata con il signor Dunsand?» Tate si strinse nelle spalle. Il gesto implicava più un'in-
differenza per le opinioni di Wexford che un dubbio sulla loro veridicità. «Nell'ultima settimana ho continuato a cercare un rapporto tra Dawn Stonor e qualcuno che abitasse nella proprietà Sundays, e in particolare sul Sentiero, e fino ad ora non ci ero riuscito.» «Il mondo è piccolo» osservò Tate, visibilmente a disagio. «Davvero? A me sembra enorme. Secondo me, è straordinario che Dawn sia stata vista per l'ultima volta proprio sul Sentiero, dove abita l'ex marito della signora Tate. E la cosa mi sembra ancora più strana adesso che so che Dawn un tempo era molto amica di Zeno Vedast, che adesso è... ehm... molto amico di vostra moglie. Eppure devo liquidare la cosa dicendo semplicemente che il mondo è piccolo.» Tate si strinse di nuovo nelle spalle. «Quella sera Zeno, Nell e io eravamo al Duvette Gardens.» A Wexford non sfuggì che Tate aveva messo il nome di Vedast prima di quello di sua moglie e del suo. «Eravamo tutt'e tre insieme, e verso le dieci Silk è venuto a parlarci del concerto.» Poi con espressione cupa aggiunse: «Non ci siamo mai andati nemmeno vicino, a quel posto.» «Be', vicino ci siete andati di sicuro, visto che eravate al concerto. Vostra moglie non vi ha indicato la casa del signor Dunsand?» Era una trappola, e il poco accorto Tate ci finì dentro. «Certo, ha detto: "Quella è la casa di Len".» Wexford si avventò sulla sua preda. «Allora la conosceva! Dunsand ci viveva solo da poche settimane, eppure lei la conosceva! Non è che sapesse solo l'indirizzo, sapeva anche che aspetto aveva!» «Non vorrei proprio fare il vostro lavoro... mettere il naso nella vita privata degli altri.» «E io non vorrei certo fare il vostro, signor Tate!» ribatté Wexford. Si piegò in avanti sul tavolo, costringendo l'altro a guardarlo in faccia. «Di chi è vostra moglie? Vostra o di quel cantante che servite come uno schiavo? Vostra o dell'uomo da cui ha divorziato? Che sporco gioco state facendo? O fate semplicemente quello che vi viene ordinato... mentite, fatte il ruffiano, chiudete gli occhi su tutto solo perché ve lo ordinano quei due?» Tate aveva in corpo troppa poca vitalità e troppo alcool per reagire violentemente a quegli insulti. Si passò una mano sugli occhi arrossati, come se gli facesse male la testa, e con voce acida, a fior di labbra mormorò: «Cristo, come la fate lunga! Non ve ne deve importare, di mia moglie. A lei ci penso io!»
«Facendole un occhio nero?» «Ve l'ha detto lei? Ma scommetto che non ve l'ha detto, il perché.» «Credo che sia perché avete scoperto che si vedeva con Dunsand. L'avete capito quando lei vi ha indicato la casa, al concerto. Di Vedast non ve ne importava, con lui era diverso. Forse avete scoperto che lei aveva la chiave di quella casa, e c'è stata una discussione, e voi le avete fatto un occhio nero.» Tate fece un mezzo sorriso. Era il sorriso di chi è abituato a sottostare a una mente superiore, un sorriso di forzata ammirazione. Tirò fuori qualcosa dalla tasca dei pantaloni e l'appoggiò sul tavolo. Era una chiave. «L'ho trovata nella sua borsetta. Sarà più al sicuro con voi. Nell potrebbe rubarmela, e usarla ancora.» Bruscamente si alzò, prese la bottiglia e con passo cauto ma regolare risalì i gradini della terrazza e rientrò nell'albergo. Wexford s'infilò in tasca la chiave. Passò in punta di piedi davanti alla coppia anziana, risalì un fresco, ombroso corridoio, e si diresse verso l'uscita. Poi, vedendo che era rientrata la macchina dorata, tornò furtivamente nel portico, e aspettò. Nell e Zeno Vedast scesero dalla macchina. L'occhio della ragazza era meno gonfio e la sua faccia pesantemente truccata era più serena. I capelli, lavati di recente, erano una nube gialla, ma sotto l'intensa luce le radici apparivano più scure. Vedast, in blue-jeans e gilè finemente ricamato, si diresse con passo elastico verso la macchina di Wexford, poi si fermò ad osservarla sorridendo, con la testa piegata da un lato. La sua faccia aveva la stessa espressione che Wexford aveva notato poco prima che Tate bevesse il finto caffè, e Wexford gli sentì dire: «La multa che ci hanno dato al parcheggio... perché non gliela mettiamo sul parabrezza?» «A che scopo?» «Per divertirci, mia cara! Per fare uno scherzo. Lui lo scoprirà in due secondi, ma pensa come si arrabbierà al primo momento! Vai a prenderla, Nelly. È sul sedile posteriore.» La ragazza aprì la portiera della Rolls-Royce. Come ipnotizzata, obbediente come sempre, consegnò il biglietto a Zeno. Poi, però, mentre lui stava sollevando un tergicristallo, sbottò: «Ne ho abbastanza, di scherzi! Perché non cresciamo, perché non facciamo le cose seriamente? Non ne posso più di giocare!» «Dici davvero, Nelly? Sei proprio strana.» Vedast infilò la multa sotto il tergicristallo, poi buttò indietro la testa e i suoi occhi gialli ebbero uno sfa-
villio. «Non ti credo. Sono convinto che ti piaceva esser vestita per benino, far finta d'essere una brava ragazza, e fare tutti quei progettini casalinghi...» Le prese la mano e le diede un bacio leggero sulla guancia. «È per questo che andiamo così d'accordo, tu ed io, con le nostre piccole fantasie! Allora, andiamo a svegliare Goffy dal suo torpore domenicale?» Nell annuì, aggrappandosi al suo braccio. Si diressero verso il giardino di rose. Quando furono scomparsi dietro l'angolo dell'albergo, Wexford riemerse con aria pensierosa. Odiando disseminare rifiuti, sistemò il foglietto della multa sotto le zampe del leone dorato, poi salì in macchina e ripartì. 17 Qualcosa di buono era derivato dalla crisi isterica della signora Peveril: le informazioni che adesso era disposta a dare arrivavano troppo tardi per essere utili - Wexford le conosceva già, almeno in gran parte - ma la sua disperazione aveva colpito il marito, inducendolo a preoccuparsi per lei. «Per la verità siete stato molto garbato, molto paziente» disse Peveril con serietà. «Non mi ero reso conto che le condizioni di mia moglie fossero così gravi. Lei pensa che dovrà testimoniare in tribunale?» «Non lo so, signor Peveril. Non ho ancora ben capito che cosa abbia visto esattamente. Devo parlarle ancora un'ultima volta.» «Se è proprio necessario, sarò presente... non si agiterà così tanto se ci sarò anch'io. Il fatto è che io sono sempre troppo preso dal mio lavoro. Ho lasciato che affrontasse da sola tutta quella brutta faccenda, a Brighton, ed è stato troppo per lei. Quando tutto questo sarà finito racimolerò un po' di soldi e le farò fare una bella vacanza.» La tenerezza per la moglie non sarebbe durata a lungo, Wexford lo sapeva bene. Voltafaccia del genere si verificano spesso nei momenti di crisi di un matrimonio, ma solo nei racconti romantici il cambiamento è duraturo. Peveril infatti lasciò capire quanto fosse effimero il suo allorché, salendo con Wexford in camera della moglie, mormorò: «Certe donne bisogna tenerle a balia tutta la vita! Se non ci sarà bisogno di me nella prossima mezz'ora chissà che un po' di lavoro non riesca a farlo...» La signora Peveril, pallida ma calma, era a letto, in posizione seduta, avvolta in una stropicciata vestaglia di tipo economico. «Era proprio come dicevate voi» ammise subito. «Volevo far pensare a tutti che quella donna fosse andata molto, molto lontano da qui. Volevo es-
ser lasciata in pace. Appena l'ho vista, la mia intenzione era di riferire tutto a Edward, ma poi non l'ho fatto perché lui si arrabbia se faccio dei pettegolezzi. Dice che lui lavora tutto il giorno per me, e io non so fare altro che starmene tutto il giorno alla finestra, a mettere il naso nelle faccende dei vicini.» Fece un gran sospiro. «Poi, quando mi ha telefonato la signora Clarke, quella domenica sera, e mi ha detto che stavate venendo a interrogarmi, ho deciso di dirvi che la ragazza era andata nei campi. Se avessi detto che era entrata nella casa accanto non mi avreste più lasciata in pace! Mi sembrava che dichiarare di non averla vista per niente fosse falsa testimonianza.» Wexford scosse la testa. Era inutile farle notare che anche quel che aveva detto era falsa testimonianza. «L'avete vista entrare in casa del signor Dunsand? A che ora?» «Alle cinque e mezzo... Come effettivamente avevo detto» rispose la signora Peveril, ansiosa di riabilitarsi in qualche modo. «L'ho vista alle cinque e mezzo. L'ho osservata bene. L'ho vista entrare nel portico, e qualcuno deve averle aperto la porta perché poi non è più uscita.» Aveva smesso di dire bugie, e adesso sciorinava con disinvoltura, anche se in ritardo, tutte le informazioni che aveva. Wexford sapeva che quel che diceva adesso era la verità. «La cosa mi interessava, perché, vedete, non riuscivo a immaginare chi potesse essere quella donna. Il signor Dunsand non riceveva mai nessuno, a parte, qualche volta, i suoi studenti.» «Non riceveva mai visite?» «Oh, no, l'avrei notato!» rispose ingenuamente la donna. «Quando Edward è nel suo studio io passo un sacco di tempo alla finestra, e in queste sere così chiare si vede tutto, no? È per questo che quella ragazza mi ha incuriosito tanto.» Fu ripresa dalla paura e si fece più pallida. «Voi mi proteggerete, vero? Voglio dire, quando avrò testimoniato in tribunale non lascerete che mi venga fatto del male, vero?» «Quando avrete detto la verità in tribunale, signora Peveril» precisò Wexford «faremo in modo che siate perfettamente al sicuro.» Wexford andò in macchina in Tabard Road, e nel passare davanti al bungalow di Dunsand gettò un'occhiata pensierosa alle finestre chiuse. Trovò Burden e i ragazzi nel giardino, e per una volta non si sentiva nessuna musica. Burden era troppo per bene e troppo riguardoso nei confronti degli altri per permettere che si suonassero dei dischi all'esterno. I due ragazzi erano seduti a un tavolo di vimini, a discutere e a far finta di fare i compiti. John, a cui faceva sempre piacere vedere l'ispettore capo in quan-
to lo considerava un alleato e un amico della sua oppressa gioventù, andò a prendergli una sedia e disse: «Potreste darmi una mano, signor Wexford? Devo fare una ricerca sulla Rivoluzione Francese, e il papà non mi è di nessun aiuto. Non ha studiato.» «Non essere villano!» reagì Burden. Suo figlio lo ignorò. «Ho lasciato a scuola il mio libro e non riesco a ricordarmi i nomi che la Convenzione aveva dato ai mesi. Devo saperli, e pensavo...» «Ci proverò» disse Wexford con una certa esitazione. «Dunque, questo è il mese di Messidor, cioè giugno. Ma si dovrebbe iniziare da settembre. Vediamo un po'... Vendemiaire, Brumaire, Frimaire, Nivose, Pluviose, Ventose; poi Germinal, come il libro di Zola, Floreal e Prairial; Messidor, Thermidor, e... aspetta un momento...» «Fructidor!» esclamò John. Wexford ridacchiò. «Ecco, adesso puoi scriverli nella tua ricerca e, magari, prenderti un bel voto.» Il ragazzo cominciò a ringraziarlo, ma Wexford tagliò corto: «Una mano lava l'altra! Adesso sei tu che devi venirmi in aiuto.» «Io?» «Già. A proposito di Zeno Vedast. O, più precisamente, a proposito di Godfrey Tate. Saprai senz'altro qualcosa di lui, visto che hai detto a tuo padre chi era sua moglie.» «Sì, l'ho letto sul Musical Express. C'è scritto tutto quello che riguarda Zeno.» John depose la penna e gettò un'occhiata di trionfo a suo padre. «Che cosa volete sapere, signor Wexford?» «Qualsiasi cosa a proposito di Zeno. Quello che hai letto.» «Be', Zeno l'ha investita con la macchina...» «Lui ha fatto... cosa?» «Proprio così. È andato a Myringham per fare un concerto... era sponsorizzato da quel Silk... e dopo c'era una gran folla davanti al teatro, e lei è stata investita dalla sua macchina ed è rimasta ferita. Sul giornale c'era scritto che Silk le ha pagato una camera privata in ospedale, e le ha mandato fiori, frutta e cose del genere. Probabilmente era una buona forma di pubblicità per Zeno, non vi pare? È successo un paio d'anni fa, forse tre. Papà» aggiunse il ragazzo in tono risentito «non mi lascia conservare i giornali vecchi, dice che fanno confusione. Allora lei era sposata con un altro... mi pare che si chiamasse Dunn, o qualcosa del genere.»
«Continua.» «Quando si è risposata ne hanno parlato i giornali perché alla cerimonia erano presenti anche Zeno e il signor Silk. Secondo me, però, lei avrebbe preferito sposare Zeno.» «Probabilmente hai ragione, John; ma siccome lui non voleva sposarla, lei si è accontentata... Non si può avere tutto.» «Santo cielo, dovete proprio fargli lezione di cinismo?» Wexford strizzò ostentatamente l'occhio al ragazzo, e per il momento non disse altro. Stava pensando alla storia disinvolta che gli era stata raccontata, e in particolare ai vuoti della storia che solo una persona più matura, con più esperienza di vita, poteva riempire. Nell era ancora giovane, perciò doveva essere davvero molto giovane quando aveva sposato Dunsand. Wexford si chiese come mai si fosse arrivati a un matrimonio così mal assortito, che cosa potesse aver indotto Nell a sposare il riservato, introverso cattedratico. Forse un'infelice vita in famiglia, come quella di Dawn Stonor? Il bisogno di uscire da qualche situazione difficile? Ma in questo caso era proprio caduta dalla padella nella brace! A Wexford sembrava di vedere Nell tra le altre mogli della facoltà, tanto più vecchie di lei, costretta a passare lunghe serate in casa con Dunsand... Le poltrone di pelle, Wittgenstein, e la motofalciatrice... ragazzina com'era, chissà come sentiva la mancanza di gente della sua età, di musica, di divertimenti! Eppure in lei c'era una strana tendenza naturale ad essere schiava. Era stata schiava anche di Dunsand? Forse. Ma era fuggita... in un mondo affascinante, movimentato, lussuoso che era pur sempre una forma di schiavitù. Circa due anni prima, quando era stata scritta la canzone. "Vieni, ti prego, torna accanto a me Vieni, ti prego, spiegami perché C'è chi non sente e chi prova dolore C'è chi sa mentire e chi ne muore." Senza rendersene conto Wexford aveva cantato il ritornello ad alta voce, e gli altri lo fissavano sorpresi. Pat ridacchiava. «Ma che bravo, signor Wexford!» commentò John. «Non mi guadagnerei certo grosse cifre così, John» scherzò Wexford. «A parte il fatto che non so cantare, non ho nemmeno il fisico adatto.» Sollevò il corpo massiccio dalla poltrona e disse in tono un po' brusco all'ispettore: «Su, entriamo in casa.»
«Domani per prima cosa devi farti dare un mandato di perquisizione per la casa di Dunsand.» «Come? Un'altra inutile perquisizione?» «Può darsi che non sia così inutile.» Burden tolse le scarpette da ballo di Pat da una sedia e la racchetta da tennis di John da un'altra. «Si può sapere in base a quali prove?» «Se si deve dar credito alla testimonianza della signora Peveril, Dawn Stonor è entrata in casa di Dunsand. Ci è entrata, e non è più stata vista uscire. Mai più. A occhio la recinzione posteriore di Dunsand è più vicina alla cava di tutte le altre. Dawn è stata uccisa in quella casa, Mike.» «Chiederete prima il consenso di Dunsand?» «Sì, ma lui lo rifiuterà, immagino. Comunque gli chiederò di non andare all'università domani, tanto non credo debba fare niente di urgente in questo periodo.» Burden sembrava sconcertato. «Eravate altrettanto sicuro che l'omicidio fosse stato commesso nella casa dei Peveril, signore... Secondo voi, Dawn conosceva Dunsand, ed è con lui che si è incontrata in quel pub il primo di giugno?» «No, non si è incontrata con lui: so che il primo di giugno Dunsand era a Myringham, me l'ha detto Louis Mbowele.» «E non è possibile che Dunsand l'abbia fatta entrare in casa sua. Non c'era nemmeno, alle cinque e mezzo! E sappiamo con sicurezza che Dawn non lo conosceva. Ve lo immaginate, Dunsand che abborda una ragazza e le chiede di andare a casa sua?» «Non dimenticarti che Dunsand non è l'unica persona che potesse aprirle la porta. Nell Tate aveva una chiave.» «Andava regolarmente a trovare il suo ex marito?» chiese Burden in tono poco convinto. «Non credo» rispose lentamente Wexford. «Altrimenti la signora Peveril l'avrebbe vista, e noi sappiamo che non è così. Forse Dunsand le ha mandato la chiave nella speranza che lei andasse a trovarlo. Resta il fatto che Nell aveva quella chiave e poteva essere in casa di Dunsand alle cinque e mezzo. L'hai controllato quell'alibi del Duvette Gardens?» Burden assunse un'espressione un po' offesa. Era scrupoloso, e orgoglioso della propria meticolosità. «Certo che l'ho controllato! Anche se la cosa non sembrava molto importante, visto che i vostri sospetti erano concentrati su Peveril. Ho chiesto alla polizia londinese di occuparsene.»
«E allora?» «La macchina di Vedast è restata là fuori tutto il giorno e tutta la notte, prendendosi le solite multe, ma nessuno può testimoniare che i tre fossero davvero nella casa. Può anche darsi che uno di loro ci fosse. Non si può sapere.» Wexford annuì. «I Tate mentirebbero senza ritegno pur di proteggere il loro padrone; e Vedast mentirebbe di sicuro per coprire i suoi protetti... anche se ho l'impressione che ci tenga più a "Goffy" che a "Nelly", non pare anche a te? Vorrei riuscire a trovare un movente. Si potrebbe pensare che Nell fosse gelosa del rapporto tra Dawn e Zeno Vedast, ma ormai il rapporto era finito. O magari Vedast aveva un appuntamento con Dawn da quelle parti, e Nell l'ha scoperto e ha attirato Dawn nella casa per ucciderla... Ti sembra possibile?» «No di certo.» «O magari Tate si è innamorato di Dawn quando si sono incontrati al Townsman Club, e ha preso la chiave alla moglie per usare la casa di Dunsand come nido d'amore, al che Vedast ha ucciso Dawn per impedirle di rovinare il loro piccolo ménage à trois. Ti sembra più probabile?» «Be', credo che con gente del genere tutto sia possibile.» «Certo. Nell ha fatto in modo d'incontrarsi lì con Dawn perché aveva sulla coscienza la solitudine di Dunsand. Pensava che Dawn potesse andar bene come seconda moglie... per lo meno non sarebbe stata più disadatta della prima... ma quando Dawn le ha confessato che Vedast le aveva telefonato, le aveva mostrato dell'interesse, Nell ha perso il lume della ragione. Naturalmente aveva consigliato a Dawn di portarsi un vestito rosso di seconda mano perché Dunsand aveva un debole per i vestiti di seconda mano, specie se stretti, e il rosso era il suo colore preferito.» «Non vedo a cosa serva tutto questo, signore» osservò Burden in tono distaccato. «Non vi sembra di contraddirvi? In fondo siete voi che volete perquisire la casa, non io.» «Probabilmente è così, Mike» convenne Wexford. «Non ho idea di come siano andate le cose, ma di due cose almeno sono certo: che domani in casa di Dunsand troveremo delle tracce di sangue, e che Dunsand confesserà di aver ucciso Dawn Stonor allo scopo cavalleresco di proteggere la sua sempre adorata ex moglie. Sarà una giornata pesante, perciò penso che adesso me ne andrò a casa.» 18
Mentre il bungalow veniva perquisito, Wexford era seduto con Dunsand nell'austero soggiorno. Quando gli era stato mostrato il mandato di perquisizione, Dunsand lo aveva letto attentamente, scrupolosamente, in assoluto silenzio. Poi aveva alzato le spalle, aveva annuito, e aveva seguito Wexford nel soggiorno, fermandosi un attimo davanti alla finestra per staccare un fiore ormai secco da un cactus disidratato. Infine si era seduto e aveva incominciato a sfogliare uno degli opuscoli turistici, come fanno i pazienti nella sala d'attesa di un medico. La luce gli colpiva gli occhiali, trasformandoli in scintillanti ovali senza trasparenza. Gli occhi erano invisibili, la bocca serrata, l'insieme della faccia inespressivo. Quando però arrivò ad una pagina sul margine della quale era scritto qualcosa a matita, i muscoli della guancia flaccida s'irrigidirono in una specie di smorfia. «Vostra moglie aveva una chiave della casa, signor Dunsand.» L'uomo alzò gli occhi. «Sì, gliel'ho mandata io. Ma non è più mia moglie.» «Scusatemi. Siamo convinti che il sei giugno lei sia stata qui.» «No. Oh, no!» Wexford ebbe l'impressione che Dunsand avesse chiuso gli occhi, anche se non poteva esserne sicuro. Si rendeva conto di una terribile immobilità nella stanza, di un profondo silenzio, che i movimenti nell'ingresso e al piano superiore sottolineavano anziché disturbare. Dunsand non assomigliava affatto a Tate, né nell'aspetto né nel modo di fare, eppure i due avevano in comune la stessa strana laconicità. Entrambi i mariti di Nell possedevano la rara qualità di saper rispondere a una domanda precisa con un semplice sì o un semplice no. Nell li aveva scelti per questo, o era stata lei a farli diventare così? E poi, si poteva davvero dire che li avesse "scelti"? L'uomo che certamente aveva scelto era un tipo loquace, verboso, estroverso che qualcuno poteva trovare affascinante. Wexford decise di ritentare. «Non vedete mai la vostra ex moglie?» «No.» «Proprio mai, signor Dunsand?» «Adesso no. Non la vedrò mai più.» «Sapete che alloggia all'Hotel Cheriton Forest?» «Sì. L'ho letto sul giornale. C'era una fotografia con tanti fiori... lei riempiva sempre la casa di fiori.» Diede un'occhiata al cactus moribondo, poi riprese a sfogliare il dépliant. L'opuscolo successivo della pila reclamizzava delle lavapiatti, e l'altro ancora delle attrezzature da giardino. «A-
desso preferirei non dire altro, se non vi dispiace.» Poi stranamente aggiunse: «Non sono obbligato a parlare, vero?» Wexford si allontanò, ed entrò in una delle camere da letto. Bryant, Gates e Loring stavano strisciando sul pavimento per esaminare la moquette. «Negli armadi ci sono degli abiti da donna?» «No, signore. E non c'è nessuna traccia di sangue, abbiamo controllato tutta la casa. Questa è l'ultima stanza. Siamo stati anche in solaio.» «Vi ho sentiti. Cosa c'è nel frigorifero?» «È vuoto. Si sta sbrinando. Quello sì che è un uomo meticoloso con la sua casa! Se state pensando ai generi alimentari che aveva comperato la ragazza, i bidoni dell'immondizia sono stati svuotati due volte dal sei giugno.» Deluso e improvvisamente stanco, Wexford mormorò: «Eppure lo so che è stata uccisa qui!» «Il pavimento dell'ingresso è di bitume, il tipo di materiale che si versa liquido e poi si lascia seccare. Non ci sono giunture, comunque credo che si possa staccarlo. E potremmo far staccare anche le piastrelle delle pareti del bagno.» Wexford tornò nella stanza in cui c'era Dunsand. Si schiarì la voce, poi scoprì di non riuscire a trovare le parole. I suoi occhi non riuscivano a incontrare quelli di Dunsand; vedevano solo le spesse lenti che li proteggevano. Dunsand si alzò e gli consegnò due chiavi identiche. «Una delle due è mia» disse con voce sommessa, incolore. «L'altra l'avevo mandata alla mia ex moglie, ma lei me l'ha restituita per posta.» Wexford guardò le chiavi, la prima delle quali era graffiata e segnata dall'uso quotidiano, mentre l'altra era praticamente nuova. «La signora Tate» proseguì Dunsand con sconcertante precisione «non è mai stata in questa casa. Voglio che sia ben chiaro.» Le cose si stavano svolgendo, almeno fino a un certo punto, proprio secondo le previsioni di Wexford. Dunsand deglutì, fissando il pavimento. «Quando sono tornato a casa, il sei giugno, ho trovato qui quella ragazza. Doveva essere entrata da una finestra... quella della cucina non era bloccata. Me la sono vista davanti appena sono entrato in casa. Stava facendo quella che i ladri, credo, definiscono una "perlustrazione". Abbiamo lottato e... l'ho uccisa. L'ho colpita con una bottiglia di vino che lei aveva lasciato sul tavolo dell'ingresso.» «Signor Dunsand...» cercò d'interromperlo Wexford, preoccupato. «No, aspettate. Lasciatemi finire. Si era portata anche altre cose, oltre al
vino... della spesa in un sacchetto, e degli indumenti. Forse pensava che la mia casa fosse vuota e ci si voleva "accampare"... si dice così? Quando si è fatto buio ho portato il cadavere nella cava, ho gettato le altre cose nel torrente, sotto il ponte, infine ho lavato il pavimento e le pareti.» Fissò Wexford, poi chiese all'improvviso: «Non mi date gli avvertimenti del caso? Non dovrebbero esserci dei testimoni per registrare quel che dico?» «Questa confessione... siete sempre deciso a farla?» «Certo. È la verità. Sono stato io ad ucciderla. Sapevo che era solo una questione di tempo, e poi mi avreste arrestato.» Si tolse gli occhiali e se li sfregò sulla manica. I suoi occhi nudi facevano paura. Nelle loro profondità c'era qualcosa di terribile, eppure di indefinibile, una luce che suggeriva passione, cieco fanatismo sotto il flaccido esterno. Era un uomo abituato a insegnare, a dare istruzioni, e proprio con voce da insegnante passò a istruire Wexford sul da farsi. «Secondo me, la cosa migliore è che io vada al posto di polizia a rilasciare una dichiarazione formale.» Si rimise gli occhiali, asciugandosi una goccia di sudore dalla palpebra sinistra. «Posso andarci con la mia macchina, oppure con voi, se lo ritenete più prudente. Sono pronto.» «Be', avevate proprio ragione» riconobbe Burden, ammirato. «Solo fino a un certo punto. Non abbiamo trovato nessuna traccia di sangue.» «Dev'essere proprio un pazzo, o un santo, per assumersi la responsabilità di una cosa del genere per scagionare una donna come Nell Tate!» Burden prese a camminare in su e in giù per l'ufficio, accalorandosi via via sempre di più. «La confessione che ha fatto non quadra minimamente coi fatti. Tanto per cominciare, Dawn è stata fatta entrare in quella casa, non è passata da dietro. E poi perché avrebbe dovuto pensare che la casa era vuota... non occupata da nessuno, intendo dire? E anche se l'avesse pensato, perché avrebbe dovuto accamparsi lì? Ce l'aveva, una casa! Ve lo vedete, Dunsand, a picchiare a morte una donna solo perché è entrata furtivamente in casa sua? Un tipo così flemmatico che dà in escandescenze all'improvviso?» «Sia lui sia Tate sono entrambi flemmatici solo in apparenza. Sono acque chete che possono nascondere gorghi pericolosi. Strano che Dunsand non abbia chiesto un avvocato, non abbia opposto la minima resistenza... Si è comportato quasi da fanatico. Quella donna distrugge gli uomini che non vuole, ma non riesce ad intaccare nemmeno la superficie dell'uomo
che vuole.» Burden scosse la testa con impazienza. «E adesso cosa facciamo? Cosa possiamo fare?» «Torniamo a casa di Dunsand, direi. A dare un'altra occhiata in giro, e a fare qualche piccolo esperimento con quelle chiavi.» Il luminoso sole del mezzogiorno inondava il Sentiero; era la giornata più calda che ci fosse stata fino ad allora, in un'estate che prometteva d'essere bellissima. Il sole aveva fatto sbocciare minuscoli fiorellini rosa sulle piante del giardino della signorina Mowler; nei prati della parte di strada che formava una specie di gomito, qualcuno stava tagliando l'erba da fieno, piena di fiori più forti e rigogliosi di quelli piantati dall'uomo. Il rosa deciso del bungalow di Dunsand appariva stinto, di un pallore rosaceo, sotto l'intensa luce del sole. Wexford si avvicinò alla porta d'ingresso e provò le chiavi di Dunsand. Funzionavano entrambe. La terza chiave, quella che gli aveva dato Tate, aveva un aspetto diverso, e ormai Wexford era sicuro che non avrebbe aperto la serratura. Infatti non l'aprì. «È una chiave molto più vecchia delle altre» osservò Burden. «A che gioco sta giocando Tate?» «Entriamo.» Venne perquisita tutta la casa, non alla ricerca di qualche prova di un crimine, ma di qualche prova di una vita. Wexford si ricordava che Dunsand aveva intenzione di rifare le tappezzerie, e la cosa doveva avere un significato. Forse nel giro di una settimana quell'orribile carta da parati, quei gambi neri attorcigliati, quei fiori dorati, sarebbero stati rimossi. Li avrebbe tolti Dunsand, li avrebbe sostituiti lui. Ma Dunsand aveva confessato... Controvoglia, detestando ciò che doveva fare, Wexford entrò nel soggiorno dove c'erano i cactus, dove era stato seduto Dunsand a studiare i suoi dépliants senza vederli, e aprì i cassetti della scrivania. Non trovò nessuna lettera, solo dei conti; nessun certificato di matrimonio, nessun album di fotografie. Ma in un piccolo cassetto sotto la ribaltina scoprì un'agenda per gli indirizzi, un libriccino rilegato in pelle marrone su cui era scritto ben poco. Sotto la lettera T figurava un numero telefonico di Londra - solo un numero seguito da un trattino e dal nome Helen. In base al prefisso, Wexford pensò che dovesse essere il numero di Vedast. Guardò sotto la lettera S e poi sotto la D, ma non trovò nessun riferimento a Dawn Stonor.
Fu a quel punto che si rese conto all'improvviso che proprio lei, la ragazza morta che aveva provocato l'indagine, da qualche giorno sembrava completamente uscita di scena. Era come se Dawn, come persona reale, come individuo specifico, avesse perso importanza, e lui, Wexford, stesse cercando di risolvere un altro puzzle, nel quale la morte della ragazza fosse solo incidentale. E improvvisamente la vide - una visione vivida ma breve - come una pedina, una creatura usata da altri, la cui vita, dopo aver inciampato in altre vite, molto più brillanti, era caduta rovinosamente a causa della propria follia e vanità. Ma la visione svanì senza lasciare niente di concreto, e Wexford infilò di nuovo le mani negli scomparti della scrivania. Alla fine ne uscì un mazzo di fotografie. Erano in una busta infilata in una fessura laterale, nella parte interna della ribaltina, e per lo più erano delle istantanee di Dunsand quando era molto più giovane, con delle persone che evidentemente erano i suoi genitori, ma sotto c'erano due fotografie molto più grandi, che Wexford si portò davanti alla finestra. In piena luce, vide che la prima era una foto di nozze - Dunsand, ancora giovane, sorrideva senza riserve alla sposa che, in abito bianco di taglio piuttosto approssimativo, col velo gonfiato dal vento, stringeva tra le giovani mani ossute un piccolo bouquet di roselline. A meno che si fosse sposato due volte, la sposa doveva essere Nell. Il tempo e gli artifici l'avevano completamente trasformata negli anni - otto? dieci? - intercorsi da quando era stata fatta la fotografia, fino a renderla quasi irriconoscibile. I capelli erano scuri, corti, il viso fresco e infantile, ma era proprio Nell. I grandi occhi bramosi erano sempre gli stessi, e così pure il labbro superiore leggermente sollevato, che disegnava anche allora la sua curva un po' petulante. Wexford passò a guardare l'altra fotografia, l'ultima, che era sotto la precedente. Ancora Nell, appena un po' più matura, con i capelli ancora corti e naturali, la pelle ancora apparentemente priva di make-up. La foto di studio aveva sfumature avorio, rosa, seppia, azzurro-ghiaccio, e prugna. La nuova fede nuziale brillava contro il rosso opaco del vestito, e sul semplice corpino, appena sotto la scollatura girocollo, spiccava una catenina d'oro con una perla a goccia. 19 Burden stava esaminando a quattro zampe il pavimento e l'orrenda, lucida tappezzeria a fiori dorati e foglie color cremisi disposti a intervalli rego-
lari, che si univa direttamente al pavimento rialzato lungo i bordi, senza listello di legno. «Alzati, Mike. È inutile. Tutto questo l'abbiamo già fatto.» «Si deve pur fare qualcosa!» replicò Burden in tono irritato. Si alzò da terra, sfregandosi le mani. «Cosa c'è, avete trovato qualcosa?» «Questo.» «È il vestito! Ma la ragazza chi è?» «Nell Tate.» Burden guardò con espressione incredula il ritratto, poi lo mise accanto alla foto di nozze, annuì, e guardò l'ispettore capo. «Era più carina prima» disse con calma. «La maggior parte degli uomini sarebbe d'accordo con te, ma forse lei non se ne rende conto.» Wexford rimise le due fotografie nella busta. «Mike, ho la strana sensazione di star perdendo i contatti con Dawn Stonor, come se mi stesse svanendo dalla mente e io stessi mettendo le mani su qualcosa di più strano, di più terribile della sua morte. Devono essere molte le vittime di delitti che incontrano la morte senza minimamente sapere perché devono morire...» «Quasi tutte, direi. Le vittime di avvelenamenti, i vecchi negozianti che sanno che la cassa è vuota, i bambini.» «Lei non era una bambina. Forse la tua lista non è completa. Non lo so, Mike. Sto solo lavorando di fantasia, senza approdare a niente di concreto. Questa casa è tetra, non trovi? Le finestre sono molto grandi, eppure sembra che non entri luce. Naturalmente è solo un'impressione, qualcosa che ha a che fare con la personalità soporifera, deprimente dell'uomo che la abita.» Tornarono nel soggiorno, dove i libri così seri facevano un contrasto stridente con gli uccelli azzurri e i gigli arancione che coprivano le pareti. «Stiamo diventando troppo sognatori per i miei gusti» disse Burden. «Sarei più contento se riuscissi a capirci qualcosa, di quelle chiavi. Se riuscissi a capire come ha fatto Dawn Stonor ad entrare.» «Qualcuno le ha aperto la porta. Qualcuno le ha chiesto di venire qui, e quel qualcuno era qui, ad aprirle la porta, quando è arrivata alle cinque e mezzo. E non era Dunsand.» «Però è stato lui a ripulire la casa e ad eliminare il cadavere che aveva trovato, tornando a casa.» «Credo di sì. Ma ha ripulito la casa... da che cosa, Mike? Dal sangue? Ma dov'è il sangue? Dove sono le tracce? Che ci sia capitato il primo as-
sassino di tutta al nostra carriera che sia riuscito a commettere un delitto così cruento senza lasciar la minima traccia di sangue? No, Mike, non ci credo.» «Bisognerà smontare questa casa» disse Burden, attraversando il corridoio ed entrando nel bagno. «Se il crimine è stato commesso senza lasciare tracce visibili dev'esser stato commesso qui dentro.» Guardò i rubinetti scintillanti, la vasca e il lavabo immacolati. La luce del sole non rivelava nessuno strato di polvere sui vetri, nessuna ditata sugli specchi. Wexford annuì. «Sì, bisogna togliere le piastrelle, staccare i tubi. E se non si trova niente, bisogna fare la stessa cosa anche in cucina.» «Può darsi che Dunsand crolli, che ci dica quello che adesso fa di tutto per nascondere.» «Supposto che abbia qualcosa da nascondere.» «Ma via! Deve sapere molto di più di quello che ci ha detto. Deve sapere perché sua moglie ha ucciso una ragazza sconosciuta in casa sua, com'è successo, in quali circostanze. È impossibile che non lo sappia!» «Chissà» disse Wexford. «Forse sa solo che sua moglie... la donna che considera ancora sua moglie... può essere in pericolo. Secondo me, Mike, lui sa ben poco di tutta la faccenda, proprio come la ragazza che è morta.» Fissò il soffitto, percorse con lo sguardo le lisce, lucide pareti. Tutta la stanza odorava di sapone. Troppa pulizia. «State attento a non inciampare» disse Burden. «Vi si è slacciata una stringa. È inutile guardare qua dentro. È inutile guardare in qualsiasi altro posto. Se la ragazza è stata uccisa in questa casa, qualcuno è riuscito a compiere un delitto davvero perfetto.» Wexford si chinò per riallacciarsi la scarpa. Un piccolo cerchio d'oro un raggio rifratto attraverso un vetro della finestra - illuminava la parete accanto alla sua gamba sinistra. Wexford fissò la tremula macchia di luce. I fiori dorati erano disposti sulla carta in file verticali distanti tra loro circa cinque centimetri, con una sottile striscia nera tra una fila e l'altra, e le foglie rosse, a forma di pera, erano riunite a gruppi di tre, tra un fiore e l'altro. Un fiore, tre foglie, un fiore, tre foglie si susseguivano a distanza regolare fino ad incontrare il bordo di bitume. In certi punti il disegno era un po' scolorito, forse in seguito al lavaggio della tappezzeria, ma non era stato cancellato niente. Tre foglie, un fiore, tre foglie... «Mike!» esclamò Wexford con una strana voce. «Tu ci vedi meglio di me... Dai un'occhiata qui.» «Ho già guardato prima, e voi mi avete fatto smettere. La tappezzeria è
stata lavata. E con questo?» «Tu cercavi tracce di lavatura, magari qualche tratto di disegno mancante. Prova a riguardare!» Un po' seccato, Burden si mise in ginocchio e si concentrò sulla macchia di luce. «Non cercare le foglie mancanti» l'avvertì Wexford. «Nell'ultimo mazzetto le foglie non sono tre, ma quattro.» I due uomini si abbassarono l'uno accanto all'altro ed esaminarono da vicino la tappezzeria. «Vedi?» disse Wexford in tono eccitato. «In questo mazzetto e in quell'altro ci sono tre foglioline a forma di pera, come quelle dei gigli; invece in quello che stiamo guardando c'è una quarta foglia sotto quella centrale.» «E non è nemmeno dello stesso colore. È più scura, più marrone.» «È sangue» disse Wexford. E aggiunse con aria perplessa: «Una sola, piccola macchia di sangue.» «Devo...?» «No, non toccarla. Verranno qui i tecnici della scientifica a prelevare il campione. È troppo preziosa per combinare dei pasticci. Mike, ti rendi conto che è l'unica vera prova che abbiamo?» «Se è proprio sangue, e se è proprio della ragazza.» «Sono sicuro che è suo. Per forza!» Uscirono dalla casa. Il sole inondava la strada sciogliendo il catrame e creando, laddove finiva l'asfalto e cominciavano i campi, un miraggio, una specie di velo d'acqua scintillante. L'interno della macchina era rovente, i sedili scottavano. Burden abbassò il finestrino e guidò in maniche di camicia. «Adesso controlliamo la chiave.» «Quale chiave, signore? Quella che non funziona?» «Sì. Qualche porta l'aprirà pure.» Sudando abbondantemente, Wexford abbassò l'aletta parasole. «Trovarla sarà facile... un lavoro per Martin.» «Non vi seguo» disse Burden, mettendosi dietro all'autobus che, col suo carico di passeggeri della proprietà Sundays, procedeva lungo l'assolata strada per Kingsmarkham. «Non capisco quale porta dovrebbe aprire, secondo voi.» Wexford sorrise. «Nella mia testa se ne stanno aprendo tante, di porte, Mike, ma quella a cui mi riferisco, quella concreta, si trova a Myringham. È la porta della casa in cui viveva Dunsand prima di trasferirsi qui.»
Col passare delle ore il pomeriggio si fece sempre più caldo, fino a raggiungere i trenta gradi verso le quattro. Wexford si chiuse nel suo ufficio, con le finestre aperte e gli scuri abbassati. Restò seduto lì, da solo, ad aspettare, a pensare; poi, in base al principio che è meglio accantonare momentaneamente un problema quando non si riesce a risolverlo, riprese a lavorare sulle istruzioni anticrimine che non erano più state toccate da prima che avesse inizio il concerto. Cominciarono ad arrivare i rapporti. Il sangue era umano, e dello stesso gruppo di Dawn Stonor. La chiave che era stata consegnata da Tate nel giardino dell'albergo apriva la porta dell'ex casa di Leonard Dunsand, a Myringham. Sul Sentiero, però - dove per tutto il pomeriggio si era continuato a interrogare la gente - non si era trovato nessuno che potesse dire d'aver visto Nell Tate, e tanto meno d'averla vista entrare nella casa di Dunsand. L'autobus delle 5 e 12 si fermò davanti alla chiesa battista. Wexford osservò i passeggeri che salivano a bordo. Una ragazza uscì dal "Luximart" con una borsa della spesa. Non era vestita di lilla, non assomigliava affatto a Dawn, e era diretta alla sua nuova casa sul terreno Sundays, non alla sua morte. Wexford telefonò all'Hotel Cheriton Forest. Sì, il signor Vedast era ancora lì, sarebbe partito quella sera stessa. La centralinista non era in grado di dire altro - d'altra parte se era Vedast che le faceva tenere la bocca chiusa aveva già detto fin troppo... Wexford mise di nuovo da parte i fogli con le istruzioni anticrimine, e tornò ad occuparsi del suo problema mentre la giornata cominciava a farsi più fresca e i raggi del sole più obliqui. Alle sette attraversò la strada e si diresse verso il Carousel, dove trovò Burden e i suoi ragazzi intenti a mangiare bistecche e insalata mentre gli altoparlanti diffondevano a tutto volume le note dell'ultimo successo di Emmanuel Ellerman, High Tide. «Peccato che tu abbia già mangiato» disse Wexford. «Avevo intenzione di portarti a cena al Cheriton Forest.» Ordinò un panino. «Dovremo accontentarci di prendere il caffè con Zeno Vedast.» «Non potrei...» azzardò John, roso dal desiderio. «Temo proprio che tu non possa venire, John. È una visita seria, ufficiale.» «Pat e io avevamo intenzione di fermarci in High Street per vederlo passare. Stasera torna a Londra.» «Non credo proprio che parta per il momento» disse Wexford.
20 La receptionist parlò con l'"appartamento elisabettiano", poi riferì: «Il signor Vedast dice se potete aspettare.» Era giovane, aveva l'età giusta per essere tra gli adoratori di Vedast. «Se volete accomodarvi nel salotto Shakespeare, è là in fondo, sulla...» «Conosciamo la strada» tagliò corto Wexford. Nel salotto c'era solo il cane. Quando i due entrarono si alzò, li fissò con ostilità, poi si lasciò cadere un paio di metri più in là, dov'era sdraiato prima. «Non ci capisco niente» disse Burden, rifiutando con aria seccata le riviste che gli passava Wexford. «Credo che dovreste dirmi perché siamo qui.» «Perché andiamo in giro normalmente?» sospirò Wexford. «Per fare domande, dedurre, concludere, e arrestare la gente. Solo che questa volta le cose sono un po' diverse.» «Oh, gli indovinelli, la filosofia. Quel che voglio sapere è...» «Aspetta.» Godfrey Tate era entrato molto silenziosamente nella stanza, con la solita tenuta nera attillata che gli faceva un torace da adolescente e degli arti da ragno. «Zeno sta parlando con Silk» disse senza salutare, senza preamboli. «Ha detto di chiedervi che cosa volete.» «Voglio dirgli che cosa penso di lui» rispose Wexford con calma. Tate era intontito dall'alcool. Per niente euforico, anzi mogio, assente, quasi sonnambolico. «Devo riferirgli questo?» «Signor Tate, non me ne importa proprio niente di quel che gli riferite. Perché è qui Silk?» «Ha saputo che è stato arrestato Dunsand. È venuto a informare Nell.» «E adesso state festeggiando?» Tate lo guardò sbattendo gli occhi. Si voltò, e si trascinò verso la porta. «Ci vediamo tra dieci minuti» disse Wexford, guardando l'orologio. Ma prima che fossero passati i dieci minuti - durante i quali Burden aveva preso una rivista dopo l'altra, scartandole tutte, e Wexford era rimasto immobile, con gli occhi fissi sulla hall - Martin Silk uscì dall'ascensore. Ad un uomo anziano i capelli lunghi danno l'aria di uno statista dell'800, ma nel caso di Silk la somiglianza finiva all'altezza del collo. Portava una maglietta bianca con un grappolo d'uva ricamato sul petto. Passando davanti
al bureau camminò lentamente, gettando i fianchi in avanti, con un'andatura da bullo, come un adolescente che vuol fare il duro, ma avvicinandosi alla porta del salotto cominciò ad affrettare il passo, come un vecchietto che vuole allontanarsi al più presto dai guai. «Signor Silk!» Silk si fermò e si sforzò di fare un gran sorriso, increspando la faccia in una miriade di rughe, stringendo gli occhi fino a farli quasi scomparire tra la pelle incartapecorita. «Spero di non aver abbreviato la vostra visita» disse Wexford. «Per noi potete benissimo fermarvi.» Camminando di traverso, Silk entrò nel salotto e si appollaiò sul bracciolo di una poltrona, facendo dondolare una gamba e producendo uno strano scricchiolio all'altezza del ginocchio. «Era solo una visita di cortesia» disse. «Ho fatto una capatina per dire a Zeno che c'è un sacco di gente che lo aspetta a Kingsmarkham, per salutarlo.» Poi aggiunse in tono falso: «Lo vedrò spesso, adesso che ha comperato la sua bella proprietà.» «Ma l'avete sempre visto spesso, non è così, signor Silk? Si potrebbe dire che siete stato una specie di...» Wexford guardò in modo significativo gli scomposti capelli grigi «...una specie di eminenza grigia nella sua vita. O siete anche voi uno schiavo?» «Non capisco che cosa intendete dire.» «Se non fosse per voi, Vedast sarebbe ancora Harold Goobody, e non avrebbe mai conosciuto Nell Dunsand.» Silk spalancò gli occhi per la sorpresa. «Io ho agito per il meglio... non si può prevedere quali tragedie possono derivare dalle nostre piccole azioni. Io ho dato ai giovani un genio musicale. Se poi a Dunsand ha dato di volta il cervello, se certe persone erano... be', sfruttabili...» «È così che la vedete? Signor Silk, voi interferite troppo. Organizzate troppo. Vi avverto: non interferite con Louis Mbowele. Questa volta potreste provocare una guerra.» «Secondo me, siete contorto, aggrovigliato. Mancate di equilibrio. D'altra parte chi è equilibrato, alla vostra età?» Silk sbuffò con sufficienza. «La generazione complessata!» «Se ci appartengo io ci appartenete anche voi» reagì Wexford. «Abbiamo la stessa età. Solo che io l'accetto e voi no. Accetto il fatto che l'epoca del divertimento sia finita, che sia iniziata la parabola discendente. E, considerando in che cosa consiste il "divertimento" per certa gente, non posso
dire che la cosa mi dispiaccia.» Sentendo le parole di Wexford, e in particolare quelle che gli ricordavano la sua vera età, Silk assunse un'espressione d'autentica sofferenza. Gli specchi ci mostrano ciò che noi vogliamo vedere, ma a volte ci capita di guardarci in specchi vivi, umani, e siamo costretti, almeno per breve tempo, a smettere d'illuderci. Wexford era grasso, Silk magro; uno portava un vecchio abito tradizionale stropicciato, l'altro era in maglietta e blue jeans, ma erano entrambi dei sessantenni. Nonostante fossero estremamente diversi, li accomunava l'età, e la stanchezza dei muscoli e delle ossa, e Silk era costretto a prenderne dolorosamente atto. Disse con voce stridula, petulante: «Che cosa ci fate qui?» «Al momento sto parlando con voi. Poi andrò di sopra, a parlare col vostro genio.» «Ma avete già preso Dunsand! Zeno non c'era nemmeno: era con i Tate e me, a Kensington. Dunsand è già stato assicurato alla giustizia!» «Ma che espressione fuori moda» lo schernì Wexford. «Non riuscite ad esprimervi in un modo più moderno? Su, andiamo, Mike. Abbiamo già perso fin troppo tempo.» I due poliziotti si allontanarono, e Silk restò ai piedi della scala a fissarli, esitante, combattuto forse tra la paura che venisse fatto del male al suo protetto e una paura ancor maggiore di altre crudeli frecciate riguardanti la sua età. «Lui non sa niente» disse Wexford. «Ne sa ancor meno di Dunsand.» Fece un sorrisetto un po' misterioso e bussò alla porta dell'appartamento elisabettiano. Stavano facendo i bagagli. Finalmente stavano tornando a casa. Tate era in ginocchio, con la faccia di un rosso ancor più intenso del solito, a cercare di chiudere una valigia troppo piena, mentre Vedast lo osservava standosene seduto a gambe accavallate su un mobiletto laccato. Senza dire una parola, Nell fece strada ai due poliziotti attraverso pile di bagagli e montagne di cianfrusaglie, riviste e dischi. Molti fiori morti, e fetidi, erano ammucchiati sul balcone. Altri fiori dovevano essere arrivati quel giorno stesso, magari nel pomeriggio - rose, gigli, garofani - ma stavano morendo anche quelli. Nessuno si era preso la briga di metterli nell'acqua. Nell era vestita e truccata con la stessa cura del solito, ma gli sforzi fatti nel gran caldo la facevano sembrare in disordine; l'aria della sera infatti era
ancora afosa, non c'era un alito di vento, e il sole era una sfera infuocata, bassa sulla foresta. La ragazza fissò con aria imbronciata i poliziotti, incontrò gli occhi gelidi di Vedast, e si voltò immediatamente a guardarsi in uno specchio. Vedast fece una risatina. «Deciditi a chiudere quella valigia, Goffy. Muovetevi un po', miei cari. Perché non vai a ordinare un po' di caffè, Nelly?» Poi ruotando mollemente il corpo verso Wexford, aggiunse in tono sarcastico, come se lei non ci fosse: «Così avrà la possibilità di restaurarsi quella povera faccia.» Burden, che, seguendo l'esempio dell'ispettore capo, si era liberato una sedia, disse in tono brusco: «Per noi niente caffè.» «Come volete.» Vedast schioccò le dita in direzione di Nell, che, ancora davanti allo specchio, stava cincischiando apaticamente con i capelli e guardando l'immagine riflessa dei poliziotti. Sentendo quello schiocco si voltò di scatto, come se fosse stata frustata, e si affrettò ad andare a prendere il succo d'arancia del cantante e a portarglielo con l'aria di scusarsi. Vedast tolse dal bicchiere un cubetto di ghiaccio e cominciò a leccarlo. «Che aria da funerale avete tutti quanti!» esclamò, passando in rivista le quattro facce. «State spaventando i miei piccoli, ispettore capo! Perché non diamo la cosa per scontata? Io so quel che è successo e, presumibilmente, lo sapete anche voi... ormai. Ce ne avete messo, di tempo! Però non potete provarlo. Perciò perché non ci congratuliamo semplicemente a vicenda, come gatti e topi intelligenti, e voi non ve ne tornate subito a casa?» «"Perché dovremmo temere chi sa, se nessuno può farci rendere conto dei nostri gesti?"» citò Wexford. I Tate lo guardarono senza capire. Nell si avvicinò a Vedast, che disse: «Macbeth. A volte penso di passare al teatro vero... ho avuto un sacco di offerte.» Ingollò ciò che restava del cubetto di ghiaccio. «Ma non intendo cominciare adesso, grazie tante. Nessuno di noi si sente abbastanza forte per i drammi.» «Volete dire che ne avete abbastanza? Avete fatto la vostra tragedia e adesso siete sfinito? La funzione della tragedia, come certo sapete, signor Vedast, è di purificare attraverso la pietà e il terrore, ed è proprio questo che sto cercando di fare con voi... o con qualcuno di voi. Perciò sedetevi, signor Tate, e anche voi, signora Tate, e ascoltatemi.» Sia Nell che suo marito guardarono Vedast con espressione incerta, in attesa di istruzioni. Vedast fece un piccolo cenno d'approvazione. «Fate quel che dice il signore, miei cari.» Nell si diresse nervosamente verso il divano, e spostò una montagna d'a-
biti sporchi e una pila di lettere, presumibilmente di ammiratori. Godfrey Tate le si avvicinò silenziosamente con un bicchiere colmo nella mano tremante. La ragazza fece un rapido gesto di rifiuto, voltando la spalla e contemporaneamente allargando l'ampia, rigida gonna ricamata in modo che al marito non restasse più spazio per sedersi. Tate le rivolse uno sguardo ostile, di cupo rimprovero, sotto le palpebre gonfie e arrossate. Stringendo il suo bicchiere come se fosse stato un talismano, si appollaiò su un bracciolo del divano. Vedast li osservava, divertito dal fatto che gli obbedissero così facilmente. Libero di fare il comodo suo, scese dal mobiletto e andò a mettersi davanti alla finestra aperta. Col calar del sole si era alzata una leggera brezza che gli scompigliava i capelli, sollevandoli in un'aureola dorata. All'esterno, l'azzurro del cielo stava oscurandosi, trasformandosi in un viola sfrangiato di rosso. Il bicchiere ghiacciato, pieno di liquido arancione, gli splendeva nella mano come una lampada. L'atteggiamento era quello immobile, rilassato che assumeva sempre prima di cantare - mento sollevato, fianchi portati in avanti. «Una tragedia... in due atti» disse Wexford. «Riguarda due persone che con il loro aspetto fisico e con la forza della loro personalità erano in grado d'imporre un amore ossessivo. Voi, signor Vedast, e voi, signora Tate. Non vi sto adulando. Chiunque può diventare oggetto di quel tipo d'amore e, in base alla mia esperienza, generalmente si tratta di persone superficiali, narcisiste, ed egocentriche.» «E tu lasci che mi dica cose simili, Godfrey?» reagì Nell con voce stridula. Con le spalle curve sul suo bicchiere, Tate la guardò con rancore e non disse niente. Il vento lo gelava, facendogli rizzare la peluria dei polsi. «Il bisogno d'amare in questo modo è tipico della gente che si attacca alla prima persona desiderabile che incontra. Le si attacca, e le resta attaccata. Purtroppo chi è fatto oggetto di tanto attaccamento ne approfitta e se ne serve per i propri scopi, per esercitare la propria crudeltà, per creare delle vittime. Nel caso la signora Tate non avesse ben capito a chi mi riferisco quando parlo dell'uomo che la ama in modo ossessivo, nel caso fosse tanto ottusa da credere che io mi riferisca al signor Vedast, le preciso che mi riferisco al suo primo marito, Leonard Dunsand. Un uomo intelligente e colto ma sciocco, insignificante e convenzionale, che l'ama da quando lei aveva diciotto anni, da quando l'ha sposata...»
Certe persone sono disposte a sopportare qualsiasi insulto purché contenga qualcosa di lusinghiero; perciò Nell non poté resistere alla tentazione di sentirsi lusingata da ciò che era stato detto. Accavallò le gambe affusolate e guardò Vedast con la coda dell'occhio. Vedast si fece scorrere tra le dita il filo di perline che portava attorno al collo. «Un uomo tanto bravo a illudere se stesso» proseguì Wexford «da amarla sinceramente... cosa che nessun altro farà mai.» Aspettò una reazione qualsiasi da parte dell'attuale marito di Nell. Tate reagì in modo caratteristico, comportandosi come faceva sempre nei momenti di crisi, o quando prevedeva una crisi: senza alzarsi allungò la mano verso la bottiglia di cognac. «Il vostro unico vantaggio, signor Tate... supposto che sia un vantaggio... è il fatto di essere più sofisticato, e di avere gli occhi per vedere. Peccato che li abbiate tanto ottenebrati da quella robaccia!» «So badare a me stesso» replicò Tate sottovoce. «Non ho mai visto nessuno che fosse meno capace di farlo, a parte il signor Dunsand.» «A Goffy baderò io.» Vedast si voltò pigramente, sorridendo, raffreddandosi le mani sul bicchiere, accarezzando il vetro gelato. «E adesso diteci chi è innamorato di me. Muoio dalla voglia di saperlo.» «Migliaia di ragazze, immagino. Quella particolare di cui sto parlando è morta. È "morta" troppo spesso per voi, ed ha finito per morire davvero. Siete stato il suo primo uomo. Questo dovrebbe avere un profondo effetto su una donna, e indubbiamente ha avuto un profondo effetto su Dawn Stonor. Chissà quanto ne sanno i signori Tate, di questa storia?...» Mentre Vedast riprendeva a fissare il cielo in cui era comparsa qualche pallida stella, Wexford si piegò verso i Tate. «Andavano a scuola insieme, Dawn e un ragazzo di nome Harold Goodbody... un ragazzo che andava a prendere il tè dalla nonna della sua ragazza perché a casa sua mangiava solo zuppa di fagioli; un ragazzo, questo Harold Goodbody, che portava le scarpe smesse da suo cugino e aveva un padre che spendeva nei cani i soldi con cui avrebbe dovuto mantenere la famiglia; che faceva sempre scherzi per far divertire i suoi amici; che senza dubbio portava la cartella alla giovane Dawn. Un rustico idillio, non vi pare? Dawn Stonor e il suo primo amore, Harold Goodbody.» «Preferirei che non mi chiamaste così» disse Vedast, cupa in volto, e per la prima volta Wexford sentì una punta di collera nella sua voce. «Preferireste anche che io me ne andassi» ribatté Wexford «ma non lo farò. Avete detto che morivate dalla voglia di sentire, e sentirete.» Si ap-
poggiò allo schienale della sedia, compiaciuto del disagio che avevano provocato le sue parole in Nell, compiaciuto nel vedere Tate farsi piccolo piccolo. «Avete lasciato la vostra ragazza e ve ne siete andato a Londra. Per voi l'idillio era finito. Poco dopo si è trasferita a Londra anche lei, ma ormai voi eravate già fuori della sua portata. Eppure non vi ha mai dimenticato. Diceva alle sue amiche... forse più per ingannare se stessa che per darla a bere agli altri... che eravate ancora amanti, che tra voi c'era un legame stabile.» Wexford guardò Burden e fece un piccolo cenno d'assenso, come per riconoscere all'ispettore il merito d'aver avuto per primo quell'idea - un'idea sulla quale, all'inizio, Wexford aveva persino fatto del sarcasmo. «In realtà» proseguì «vi siete rivisti solo dopo una decina d'anni. Nel frattempo voi eravate diventato molto famoso, vi erano successe molte cose elettrizzanti. A lei invece era successo ben poco: faceva la cameriera in un club, ed era sempre rimasta una cameriera. «Peccato che siate entrato in quel club! Se non l'aveste fatto, forse in questo momento Dawn starebbe facendo dei progetti matrimoniali col suo fidanzato. Come mai ci siete andato?» Vedast si strinse nelle spalle. «Ci aveva invitati un tale, e non avevamo niente di meglio da fare.» «Non avreste potuto fare niente di peggio.» «Ma non sono stato io a ucciderla! Non l'ho nemmeno toccata.» Wexford si voltò verso i Tate, verso Godfrey Tate, i cui occhi arrossati erano ben aperti e lo stavano fissando. 21 «Adesso tornerò a uno degli episodi eccitanti della vostra vita... anche se non credo che lo considererete uno dei vostri momenti migliori quando scriverete le vostre memorie» proseguì l'ispettore capo. «Mi riferisco al vostro incontro con la signora Tate, e per descriverlo devo tornare all'altra storia d'amore.» Una semplice occhiata di Vedast bastò a far scattare in piedi Nell e a farla andare ad accendere le lampade schermate di rosa. Si muoveva rigidamente, e ad un certo punto inciampò in una valigia rossa e imprecò sottovoce. Vedast si fece poi riempire il bicchiere vuoto, e lo ritirò senza ringraziare, come un duca che ricevesse quanto ordinato a una cameriera. «Ghiaccio, Nelly.» La ragazza prese col cucchiaio due cubetti di ghiaccio da un secchiello
appoggiato al mobile laccato. Tate era chino sul suo cognac, con gli occhi fissi sul liquido dorato. La luce rosata gli ammorbidiva il nero intenso dei capelli. Nell porse di nuovo il bicchiere a Vedast, tenendolo ben stretto fra le mani perché le dita di lui sfiorassero le sue nel ritirarlo. Le dita di Vedast la sfiorarono appena, come fossero estranee, senza soffermarsi. Nell sembrava morire dalla voglia di stargli accanto, su quel balcone fresco e sempre più scuro. La ringhiera, prima arrossata dal sole del tramonto, adesso era una specie di filigrana nera dietro il mucchio di fiori morti. «Vattene, Nelly. Mi dai fastidio.» A testa bassa Nell rientrò silenziosamente nella stanza e si lasciò cadere su una poltrona, a braccia abbandonate. «Così va bene, signora Tate. Così posso vedervi. Siete una donna molto bella, ma siete molto cambiata da quando vi siete sposata per la prima volta. Tra le altre cose vi siete tinta i capelli. E il vestito color rosso scuro... non lo mettete più vero? «Al signor Dunsand piacevate con i capelli naturali, corti e scuri. Gli piacevate con i vestiti semplici, da brava moglie. Mi risulta dalle informazioni che sono state raccolte oggi a Myringham che eravate considerata una mogliettina tranquilla a cui piacevano i fiori, una brava cuoca e una brava donna di casa, che tendeva però ad annoiarsi nel mondo che la circondava. Erano tutte tanto più vecchie di voi le altre mogli della facoltà! Avreste preferito la compagnia degli studenti di vostro marito. Quelle mattine interminabili, quei pomeriggi vuoti erano così noiosi! Eppure erano sempre meglio delle serate in cui, dopo aver preparato il tipo di cena che piaceva al signor Dunsand, dovevate starvene lì seduta per ore solo con lui, col giradischi spento, a progettare insieme la vostra vacanza annuale, a fare i vostri conti, a decidere quale elettrodomestico o quale mobile potevate permettervi quell'anno. «Per il signor Dunsand quella era l'essenza stessa della felicità. Quanto a voi... be', immagino che recitaste molto bene la vostra parte. Le donne come voi, servili per natura, normalmente lo fanno, mentre aspettano segretamente una possibilità di fuga. L'occasione buona si è presentata quando Zeno Vedast, il vostro idolo, ha dato un concerto a Myringham. Probabilmente il signor Dunsand non voleva che andaste a quel concerto. L'idea che sua moglie, la moglie che dipendeva in tutto da lui, potesse divertirsi con una folla di ragazzi a un concerto pop, non gli andava di certo. No, non poteva certo piacergli l'idea che voi folleggiaste in mezzo ai suoi studenti. Eppure voi ci siete andata lo stesso. Se non ci foste andata, oggi Dawn Stonor sarebbe ancora viva e farebbe progetti matrimoniali con il
suo fidanzato. «Non penso che vi siate gettata di proposito sotto la macchina di Vedast... non ne avreste avuto il coraggio. Diciamo che è stato un impulso a livello inconscio, a cui non siete riuscita a resistere. «Il signor Vedast vi ha fatto sistemare in una camera singola, in ospedale. Chissà quanto avrete pregato in cuor vostro perché il signor Vedast si presentasse di persona, con l'uva e i cioccolatini! Non lo conoscevate... e non lo conoscete nemmeno adesso. Lui vi ha mandato invece il suo tirapiedi, e per voi quella era già una via d'uscita. Ma non crediate d'essere un caso unico, signora Tate: in passato ce n'erano tanti di padroni che facevano sposare a un servo la ragazza sui cui avevano messo gli occhi, per potersela spassare senza problemi!» «Non avete il diritto d'insultarmi!» scattò Nell. Aspettò che il marito la difendesse; poi, vedendo che Tate non diceva niente e Vedast sorrideva sorseggiando il suo succo d'arancia, passò all'attacco: «Perché non avrei dovuto lasciare mio marito? Perché non avrei dovuto risposarmi? Non sono l'unica! Non ne potevo più di vivere con Len.» Vedast si voltò e disse con disinvoltura: «Come dicono i giudici, qui non si fa il processo alla morale, signor Wexford.» «Sì, invece. Lo si deve fare perché qui non siamo in tribunale.» «In questo caso...» disse Nell alzandosi «... in questo caso io me ne vado. Su, andiamo, Zeno! Non può tenerci qui.» «Fa' quel che vuoi, Nelly.» Vedast le gettò un'occhiata furtiva, di sottecchi. Nell non poteva fare ciò che voleva, non ne era mai stata capace. «Tu vai pure, se vuoi» proseguì Vedast con la sua solita voce gentile e sgarbata al tempo stesso. «Io resto. Sono affascinato. Quanto a te, Goffy, porti via tua moglie o resti qui, a dar man forte al tuo vecchio amico?» «Il signor Tate resta» intervenne bruscamente Burden. Wexford si limitò a guardarlo con aria sorpresa. «Facciamo un intervallo per rilassarci. Se avessi una voce migliore mi offrirei di cantare una certa canzone, ma in questa compagnia...» Esitò poi aggiunse: «La canzone la conoscete tutti. È stata scritta al tempo del secondo matrimonio della signora Tate. Sarebbe ingenuo da parte mia pensare che non racconti una storia vera, che non esprima la reale sofferenza di qualcuno. È stata scritta apposta! Dicono che i poeti traggano ispirazione dai loro grandi dolori. Voi...» gli occhi dell'ispettore capo corsero alla finestra «...voi invece vi siete divertito, e vi siete anche riempito il portafoglio, traendo ispirazione dal dolore di un altro.»
Vedast si voltò di scatto. Rientrò nella stanza, con i penetranti occhi gialli stretti a fessura. «La canterò io, visto che non ho problemi di voce» disse. Wexford annuì. Sapeva che Burden stava certamente pensando che suo figlio, che qualsiasi fan presente al concerto, avrebbe dato una settimana di paga, il sussidio di un mese, le mance di un anno, per essere nei loro panni. Vedast, che attirava migliaia di persone a ogni concerto, avrebbe cantato solo per loro, in forma privata. Wexford provò un leggero senso di nausea. Nella pallida, morbida luce rosata Vedast sembrava molto giovane, un teenager. Era immobile in un angolo della stanza, con i gomiti nudi appoggiati a un ripiano da cui spiovevano delle rose ancora in boccio e già morte per disidratazione. Aspettò nel silenzio della sera, nel silenzio della foresta che li circondava. La prima parola della canzone uscì in tono deciso, come una nota vibrante prodotta da una corda, poi la voce alta e chiara si fece più sommessa, e riempì la stanza di dolce malinconia. Per tutta la prima strofa e il ritornello Nell continuò a fissare il cantante con aria rapita, battendo il tempo. Ad un certo punto, notando che Wexford la guardava con la fronte corrugata, buttò indietro la testa e si lasciò cadere con aria insolente contro il cuscino. Wexford non provava più il senso di nausea di poco prima. Ascoltava le parole come se non le avesse mai sentite, come se non avesse mai capito appieno il loro significato. "Ricorda me, una pianta senza foglie, Torna una volta ad essere mia moglie, Regalami, ti prego, un'illusione Lasciami credere, inventa un'emozione. Vieni, ti prego, torna accanto a me, Vieni, ti prego, spiegami perché C'è chi non sente e chi prova dolore C'è chi sa mentire e chi ne muore. " Non ci furono applausi. Vedast lasciò cadere la testa sul petto, poi la gettò all'indietro, scuotendo i capelli. «Grazie» disse seccamente Wexford. «In quella canzone c'è tutto, vero? Tutto il dolore del signor Dunsand, intendo dire... Immagino, signora Tate, che quel pover'uomo vi abbia implorata di non rompere del tutto con lui, di non lasciarlo del tutto senza vita, di... lasciargli credere, solo di tanto in
tanto, che foste ancora sua moglie. E voi l'avete riferito al signor Vedast, dandogli così un buono spunto per una canzone.» Tate alzò gli occhi, corrugò la fronte. Un rivoletto di cognac gli scorreva sul mento. Si asciugò la bocca con la manica. «Perché avete acconsentito a fare ciò che vi chiedeva il signor Dunsand?» «Per non ferirlo troppo» rispose Nell. A Burden sfuggì una risatina gelida, senza allegria - a cui, sorprendentemente, fece eco Tate. Wexford non rise. «Proprio voi dite una cosa del genere, signora Tate? Quando mai vi siete curata di chi ferivate? Proprio voi che avete sempre calpestato i sogni degli altri! Se non mi dite la vera ragione sarò costretto a indovinarla...» «Per far dispetto a me» intervenne Tate. «Ma voi l'avete saputo solamente dopo il concerto» ribatté Wexford. Stupito, Tate disse: «Questo è vero. Lo vedeva due o tre volte all'anno... andava a casa sua, e andava a letto con lui, maledizione! Per questo le ho fatto quell'occhio nero.» «Me l'avevate detto. E mi avete anche consegnato una chiave. Solo che non apriva la casa di Dunsand sul Sentiero, ma la sua vecchia casa di Myringham. Nella casa sul Sentiero la signora Tate non c'era mai stata. La conosceva solo perché il signor Dunsand gliel'aveva descritta per telefono, dicendole che si trovava in mezzo ad altre due. E quella chiave gliel'aveva mandata solo per indurla a conservare l'abitudine dei tempi di Myringham.» Tate disse lentamente: «Quale abitudine? Di cosa state parlando?» «Io vi credo, signor Tate, quando dite che fin dopo il concerto eravate all'oscuro di quelle visite di vostra moglie. Lei vi ha fatto la sua "confessione" perché era spaventata da ciò che aveva fatto, ma non al punto di confessare tutto. Sono convinto che siate del tutto innocente per quanto riguarda questo crimine, che non vi abbiate avuto la minima parte. Vi avevano tenuto all'oscuro, di questo come di molte altre cose.» Tate si strinse nelle spalle, impacciato. Il livello del liquore dorato scendeva continuamente. Se ne versò dell'altro, in silenzio. «E non credo che avreste preso parte a questa sporca faccenda se ne foste stato al corrente» aggiunse Wexford. «Il signor Vedast invece non era affatto all'oscuro della cosa. Lui sape-
va. Gliel'aveva detto la signora Tate, di aver promesso queste... queste briciole di se stessa al signor Dunsand. E così torniamo alla ragione che l'ha spinta a farlo. Perché l'ha fatto? Voi non siete una donna molto felice, vero, signora Tate? Apparentemente avete tutto ciò che volevate, ma solo apparentemente. Credo che subito dopo il vostro secondo matrimonio vi siate accorta che avevate sì ottenuto il lusso e una vita eccitante, ma... a quale prezzo! Un altro marito ben poco entusiasmante... vi prego di scusarmi, signor Tate... anche se compiacente, e un padrone condiscendente, persino gentile, se vi mostravate obbediente. Per questo avete aderito alla richiesta del signor Dunsand, per apprezzare il contrasto. Le poche sere, le poche notti che passavate con lui vi dimostravano che quello che avevate adesso era se non altro preferibile alla vostra precedente vita matrimoniale. Dopo una notte a Myringham potevate tornarvene a Londra, in Europa, alle Bermuda, confortata, per così dire, dal ricordo dell'alternativa.» «È così, Nell? Non lo sapevo.» «Mi fa piacere potervi dire qualcosa che non sappiate già signor Vedast. La parte che recitava quando andava là invece la sapevate, vero? Sono certo che la signora Tate vi forniva tutti i dettagli, gli accorgimenti tecnici, i costumi di scena... non è così? Sono certo che vi descriveva l'ambientazione della piccola commedia che lei e Dunsand recitavano due o tre volte all'anno, il rituale, sempre identico, che seguivano gli attori che sostenevano il ruolo dei "coniugi Dunsand". Ne sono sicurissimo. Altrimenti non avreste potuto fare il vostro... scherzo.» «Dammi qualcosa da bere, Godfrey» disse Nell. «Prenditela.» Nell si versò da bere facendo tintinnare il collo della bottiglia contro il bicchiere, rovesciando il vermouth sull'elegante ricamo della gonna di lino bianco. Restò una macchia rossa, come sangue. «Immagino che abbiate trovato tutto questo molto divertente, signor Vedast» riprese Wexford «finché non si è presentato il pericolo che la rappresentazione della commedia potesse interferire con i vostri programmi. Circa un mese fa la signora Tate vi ha detto che aveva fissato la sua prima visita alla nuova casa del signor Dunsand per il lunedì sei giugno, nel pomeriggio. La cosa però non vi andava bene, perché quel giorno voi e i signori Tate sareste già rientrati da Manchester, dove dovevate tenere un concerto.» Tate scosse la testa. «No, non è così. Lui intendeva fermarsi là fino a lunedì compreso. Sono stato io a dirgli all'ultimo momento che sarebbe stato
troppo stancante per lui.» «Ah.» Wexford sospirò. «Ancora meglio... o peggio. Quando la signora Tate vi ha parlato dell'appuntamento, voi pensavate che il giorno sei lei, voi, e il signor Tate sareste stati tutti lontano da qui.» Guardò Nell, la macchia rossa sul vestito che lei non aveva nemmeno tentato di togliere, il rosso che le accendeva la faccia. «Perché non avete semplicemente spostato la data dell'appuntamento col vostro primo marito, signora Tate? Avreste senz'altro potuto rimandare di qualche giorno.» Per qualche attimo la ragazza sembrò cercare una scusa. Allungò una mano tremante verso Vedast, che l'ignorò e continuò a sorridere con la testa piegata da una parte. «Forse perché la cosa avrebbe "ferito" il signor Dunsand?» incalzò Wexford, implacabile. «O perché avete semplicemente fatto quello che fate sempre... perché avete obbedito al signor Vedast?» Con un filo di voce Nell disse: «Ho lasciato fare a Zeno.» «E lui cosa avrebbe dovuto fare? Mettersi in contatto con il signor Dunsand? Lui, un cantante famoso in tutto il mondo, l'idolo della musica pop, avrebbe dovuto telefonare al signor Dunsand e dirgli che per il lunedì non vi era proprio possibile e bisognava spostare, diciamo, al mercoledì?» Nell stava per scoppiare in lacrime. Si stringeva le mani così convulsamente che le unghie le si affondavano nella carne. «Voi lo sapete che le cose non sono andate così... Lo sapete che mi state solo tormentando...» «Non tutti hanno i vostri riguardi per la sensibilità degli altri. Non tutti sono ansiosi come voi di non ferire la gente. Comunque è vero che so come sono andate le cose.» Wexford si alzò e si avvicinò a Vedast, che aveva assunto una posizione yoga, quasi la posizione del loto, sul pavimento accanto alla finestra aperta. Si fermò accanto al cantante, fissandolo negli occhi color ambra. «No, signor Vedast» disse. «Per uno come voi era molto più divertente non spostare l'appuntamento, cambiare non il giorno ma la protagonista.» Tate ruppe il silenzio. «Che cosa intendete dire? Non vi seguo. Che cosa significa "cambiare la protagonista"?» Wexford gli si avvicinò e gli spiegò con calma: «Significa, signor Tate, che il vostro datore di lavoro ha trovato un modo per liberare la signora Tate dall'appuntamento, e magari da altri appuntamenti analoghi, e fare al tempo stesso uno scherzo che si prospettava molto divertente.
«Ha deciso di mandare al Sentiero un'altra donna al posto di vostra moglie. Dapprima, immagino, avrà pensato di mandarci una ragazza squillo; ma perché prendersi tutto quel disturbo se poteva mandarci Dawn Stonor, che aveva rivisto qualche settimana prima, e a cui aveva telefonato il ventitré maggio?» 22 Wexford si sedette nel centro della stanza. «Non so perché abbiate telefonato a Dawn quella sera» continuò, rivolgendosi direttamente a Vedast. «Credo che lo abbiate fatto più o meno per la stessa ragione per la quale la signora Tate andava a trovare il suo ex marito. Probabilmente al Townsman Club avete confrontato mentalmente l'umile condizione di Dawn col vostro successo, ricordandovi che i vostri inizi erano stati analoghi, che in partenza avevate le stesse possibilità di conquistare soldi e celebrità... ma voi ce l'avevate fatta e lei no. «Il ventitré maggio i signori Tate non erano con voi. Vi annoiavate, magari vi sentivate anche un po' insicuro. Perché non telefonare a Dawn, fare una piccola rimpatriata, in modo d'avere, dopo, la soddisfazione di valutare appieno cosa eravate, e cosa avreste potuto essere? Direi che la conversazione telefonica ha avuto proprio l'effetto desiderato su di voi: ben presto vi siete stancato della sua adorazione e disponibilità e avete riattaccato, dopo aver accennato vagamente alla possibilità di rivedersi 'in futuro', senza avere in realtà nessuna intenzione di rivederla. «Proprio quella settimana, immagino, la signora Tate vi ha detto della visita che intendeva fare al signor Dunsand nella sua nuova casa. Probabilmente durante la vostra telefonata avevate parlato a Dawn della casa che volevate comperare vicino a Kingsmarkham, perciò... perché non fare un bello scherzo, lo scherzo più grosso della vostra carriera?» «I miei processi mentali non sono così rapidi» replicò Vedast. «Piantala di svolazzare, Nelly. Va' a sederti da qualche parte.» L'unico punto della stanza in cui Nell avrebbe voluto essere era al suo fianco. Guardò il divano su cui era seduto suo marito, a spalle curve, le due poltrone già occupate, quelle vuote, vicino a suo marito o ai poliziotti. E come un insetto dotato d'antenne, di ah percettive, continuò a vagare per la stanza, a "svolazzare", come aveva detto Vedast, finché si posò - con i suoi tacchi a spillo - su un altro punto della moquette, altrettanto vicino al cantante di quello in cui si trovava quando Vedast l'aveva allontanata.
L'insetto era tornato accanto alla fiamma. Quando Vedast l'aveva interrotto, Wexford aveva fatto una pausa; dopo una breve esitazione, però, riprese a parlare in fretta senza badare alla ragazza. «Il primo di giugno» disse, rivolgendosi a Vedast «era il compleanno dell'uomo che probabilmente Dawn avrebbe sposato se voi l'aveste lasciata in pace. Dawn era in casa ad aspettare che lui arrivasse per il pranzo. Questo voi non lo sapevate, ma ve ne sarebbe importato anche se l'aveste saputo? Quella mattina voi le avete telefonato, proponendole di andare a bere qualcosa insieme.» Burden si agitò sulla poltrona, inarcando le sopracciglia. «La proposta non l'ha entusiasmata. Forse si rendeva conto che se un uomo come voi, ricco come voi, che si sarebbe potuto permettere molto facilmente il ristorante più caro di Londra, offriva semplicemente da bere a una ragazza, questo significava che la disprezzava, che non riteneva che meritasse di più. Comunque si è messa ugualmente in ghingheri per voi: gli abiti che indossava, e che sarebbero andati benissimo per un normale fidanzato, non le sembravano all'altezza. «Poi, quando è cominciata a svanire l'eccitazione per quello strano appuntamento all'ora di pranzo, Dawn ha cominciato a chiedersi... esprimendo la sua perplessità alla ragazza che divideva con lei l'appartamento... se era proprio perché la disprezzavate che con lei volevate avere solo una storia segreta, clandestina, tanto che intendevate nasconderla in una casa appena comperata di cui nessuno era a conoscenza, anziché portarla in un albergo. «In quel pub, tra la una e le tre, voi le avete chiesto, senza dubbio dopo un po' di corteggiamento preliminare, di passare con voi la notte del lunedì seguente nella "vostra" nuova casa. Naturalmente lei ha detto di sì. Sarebbe stata in vacanza; sarebbe andata a trovare sua madre, poi sarebbe venuta da voi, nella casa sul Sentiero. Che lei e Dunsand fossero delle persone, con dei sentimenti, non vi è mai passato per la testa, vero? Non ve ne importava niente né dei sentimenti di lui né di quelli di lei. Il fatto che in quelle occasioni la signora Tate avesse l'abitudine di preparargli un pasto speciale, di cucinargli i suoi cibi preferiti, di portargli del buon vino e dei bei fiori... magari per riempire il vuoto, per voi non aveva la minima importanza. Avete detto a Dawn di comperare delle cose qualsiasi da mettere sotto i denti, per voi due. E quanto al vino, prendesse pure il più economico. «Lei sarebbe dovuta arrivare alla casa per prima, ed entrare usando la
chiave che il signor Dunsand aveva mandato alla signora Tate e che la signora Tate aveva dato a voi. Nessuna responsabilità, signora Tate? Voi avete solo lasciato fare a Zeno, vero?» Wexford tornò a rivolgersi a Vedast. «Voi l'avreste raggiunta verso le sei e mezzo. Non appena fosse entrata nella casa, lei sarebbe dovuta salire al piano superiore, dove avrebbe trovato un abito rosso. «L'abito era stato steso sul letto dal signor Dunsand. Durante la sua vita matrimoniale lui aveva sempre avuto un debole per quel vestito. Quando Nell lo indossava e si metteva a tavola con lui e si faceva raccontare i fatti della sua giornata e gli raccontava i suoi, il signor Dunsand si sentiva protetto dalla dura realtà, si sentiva di nuovo al sicuro e felice con sua moglie. «Dawn non sapeva niente di tutto questo, non le era stato detto niente. Voi le avete chiesto di mettersi quel vestito perché era di moda quando eravate ancora insieme, ancora amanti, e quindi vi avrebbe riportato ai vecchi tempi.» Con aria sofferente - tutto il colore se n'era andato dal suo viso, lasciando solo un bruno pallore - Tate scattò in piedi. Girò attorno al divano e chiese a Vedast: «È vero?» «Non volevamo fare niente di male.» «Niente di male? Cristo! Certo che facevi del male, e lei lo sapeva! Oh, mio Dio, mi sembra di non avervi mai conosciuti, di non avervi mai visti...» «Godfrey...» Nell protese una mano incerta. «Io non ho fatto niente. Gli ho solo detto..., be', lo sai anche tu.» «Bevi ancora qualcosa, Goffy» disse Vedast, strascicando le parole. «Mi è passata la voglia di bere» disse Tate con voce impastata ma carica di tensione. Poi si rivolse a Wexford: «Allora, continuate! Che cos'è successo? Ditemi il resto. Lui...» indicò Vedast come se non volesse pronunciare il suo nome «...lui e lei erano con me, quella sera. C'erano davvero. Non possono averla uccisa loro.» «Chi è l'assassino, signor Tate? Chi impugna il coltello, o chi dice "Colpisci!", o chi manda la vittima nel posto fissato? Quale delle tre Parche è responsabile dei nostri destini? Quella che svolge il filo, quella che lo taglia, o quella che porge le forbici?» Dalla sua espressione disorientata, vuota, Wexford capì che Tate non lo seguiva affatto. «Forse potrebbe dircelo il signor Dunsand. È lui il filosofo.» Tenendo d'occhio Burden, sperando che non avesse nessuna reazione di sorpresa, proseguì: «Certo, è sta-
to lui ad uccidere la ragazza. L'ha già ammesso. Non è tipo da mentire a lungo. Ha detto alcune bugie solo per spirito di cavalleria, per evitare che fosse coinvolta...» gli occhi sprezzanti di Wexford si posarono su Nell «...la sua adorata ex moglie. «Quanto a quello che ha fatto, ve lo dirò adesso. È tornato a casa, pregustando la serata e la notte che lo aspettavano. È entrato usando la sua chiave, alle sette meno venti. A quell'ora Dawn doveva sentirsi molto imbarazzata. C'erano molte cose che la mettevano a disagio: le dimensioni modeste della casa, l'arredamento austero, la sovrabbondanza di libri di cultura. E poi quel vestito... un vestito troppo piccolo per lei, che le stava male, che le andava stretto. Per forza era a disagio! Per forza quando ha sentito aprire la porta è uscita timidamente dal soggiorno ed è rimasta lì immobile, senza dire una parola! «Al posto di Vedast si è trovata davanti un estraneo di mezza età. E Dunsand, al posto della moglie, si è trovato davanti... che cosa? Che cosa, signora Tate?» «Dawn Stonor» rispose Nell con un filo di voce, in tono quasi risentito. «Oh, no! Lei per Dunsand non esisteva nemmeno. Dunsand si è trovato davanti sua moglie, che però non era sua moglie; una ragazza dell'età di sua moglie ma più grossa, più volgare, ancor più truccata, con dei capelli ancor più vistosi, che però indossava l'abito di sua moglie, quello che lui preferiva. «Forse non ha creduto alla realtà di ciò che aveva sotto gli occhi. Anche a un uomo più equilibrato di Dunsand la figura che era apparsa nell'ingresso sarebbe sembrata un'allucinazione. Per lui non era solo una sconosciuta travestita da sua moglie, ma una specie di materializzazione diabolica prodotta della sua mente capace ma contorta per tormentarlo. Ha sentito il bisogno di distruggere ciò che vedeva, e l'ha fatto, aggredendo la figura allucinatoria con la prima arma che ha trovato a portata di mano... la bottiglia di vino che la visitatrice aveva lasciato sul tavolo dell'ingresso.» Vedast si alzò e buttò indietro la testa come aveva fatto al concerto, scuotendo la criniera leonina. «E io come facevo a sapere che le cose sarebbero andate così?» Allungò il bicchiere che aveva in mano. «Dammene ancora un po', Goffy.» «Scordatelo. Prenditelo da solo, maledizione.» «Calma, calma.» Le sopracciglia dorate si sollevarono, i denti si scoprirono in una specie di sorriso.
«Ma non potete fargli niente?» chiese Tate, esasperato. «È stato lui a ucciderla! È lui il vero assassino!» «Lo so, signor Tate, ma non posso fargli niente. Cosa si potrebbe fargli? La sua mente è altrettanto malata di quella del signor Dunsand, è un megalomane che vive di fantasie.» «Non raccontate frottole! Lo si dovrebbe fucilare. Impiccarlo sarebbe troppo poco.» «"Non c'è collera più terribile dell'amore tramutato in odio"... Voi non siete obbligato a restare unito a loro, signor Tate. Non c'è bisogno che, per il semplice fatto di averla sposata, anche voi imitiate l'esempio del suo primo marito e facciate l'eroe cavalleresco.» «Giustissimo, maledizione! Non ce n'è bisogno.» Lo choc aveva fatto diventare Tate perfettamente lucido, e gelido. Stando in ginocchio, gettò bracciate di indumenti nella valigia rossa, poi si alzò, afferrò la valigia e un'altra più piccola, e disse a Vedast: «Me ne vado. Mi licenzio. Mi devi cento sterline, fammele avere a casa di mia madre. Lei lo conosce, l'indirizzo.» «Non puoi andartene!» esclamò Vedast. Finalmente non recitava più. La sua voce aveva perso la disinvoltura. «Siamo insieme da otto anni... che cosa farò senza di te?» «Tagliati la gola, maledizione! Prima però tagliala a lei.» Tate porse la mano a Wexford. «Una volta chiamavo voi poliziotti "maiali", e forse lo farò ancora, ma adesso devo ringraziarvi. Mi avete fatto voltar pagina. Può anche darsi che adesso ce la faccia, a smettere di bere.» Poi usò la prima espressione forbita che Wexford avesse mai sentito uscire dalle sue labbra, anche se nel sentirla l'ispettore capo capì che l'aveva imparata pappagallescamente dall'"ambiente" che lo aveva circondato fino a quel momento. «Quei due mi avrebbero annientato completamente.» «Di questo sono convinto, signor Tate.» Quando se ne fu andato sbattendo la porta, la schiava rimasta afferrò il braccio di Vedast. «Che liberazione! Io mi sento sollevata, e tu?» Vedast non rispose. Sollevò con aria imbronciata il ricevitore del telefono e chiese un facchino. Nell capì al volo, e cominciò immediatamente a ficcare montagne di vestiti nelle valigie, nelle borse, e nei sacchi. Wexford e Burden, ormai pronti ad andarsene, la osservarono impotenti. I bagagli furono fatti nel giro di cinque minuti. Vedast era fermo in piedi, davanti alla finestra, con espressione impenetrabile. Guardò una volta oltre la balaustra del balcone, forse in direzione di Tate che si allontanava. Il facchino
arrivò, prese due valigie e se ne ficcò un'altra sotto il braccio. Nell si gettò sulle spalle un soprabito bianco. «Mi sembra che non abbiate più bisogno di noi» disse. «Ci sarà bisogno di voi al processo del signor Dunsand. E prima dovrete rilasciare delle dichiarazioni scritte.» «Chi, io?» disse Vedast. «Non posso certo venire in tribunale, sarebbe una pessima pubblicità! Accidenti, perché Goffy se n'è andato così? Avrebbe potuto pensarci lui...» «Ci penserò io» si offrì Nell in tono affettuoso. «Andiamo, adesso. È quasi mezzanotte. Su, andiamo.» Vedast la respinse. «Io vado. Da solo. Tu puoi prenderti un taxi e farti portare alla prima stazione. Ce ne sarà pure una in questo dannato posto.» «Ma abbiamo la macchina!» Con un'arroganza da ragazzino, Vedast replicò: «È la mia macchina, e la uso io. È meglio che guardi in faccia la realtà, Nelly: senza Godfrey non mi servi a niente. Lui si prendeva cura di me, e tu... venivi in più.» Poi aggiunse con espressione un po' meno dura: «Comunque eri decorativa.» La carne di Nell sembrò cedere di colpo. Il labbro superiore si rialzò, gli occhi si dilatarono, tirandole la pelle, rivelando delle rughette sottili. «Non puoi dirlo sul serio, Zeno. Zeno, non lasciarmi! Ti adoro da quando avevo vent'anni, non ho mai pensato a nessun altro uomo...» «Lo so, mia cara. Li hai solo sposati.» Mentre il facchino tornava a prendere gli altri bagagli, Vedast cercò di togliersi le mani della ragazza dalle spalle. «Nelly, fai quel che ti dico. Lasciami stare. Pago il conto, poi me ne vado.» Si avvicinò a Wexford, in un atteggiamento non più canzonatorio per via di ciò che aveva da dire e della presenza imbarazzante del facchino. «Immagino che si possa mettere tutto a tacere...» Una mano lunga e magra s'infilò nella tasca dei jeans. «Immagino...» «Noi ce ne andiamo, signor Vedast.» «Scendo con voi.» «Zeno!» strillò Nell. «Zeno, ti amo!» I due poliziotti si erano allontanati di un paio di passi dal cantante, con aria disgustata. Nell si gettò addosso a Vedast, lasciandosi scivolare il soprabito dalle spalle, gettandogli le braccia al collo, infilandogli le dita tra i capelli d'oro, premendo il corpo contro il suo. «E io dove vado?... Dove posso andare?...» Lottando, Vedast cercò di scrollarsela di dosso. «Puoi andare dalla
mamma di Godfrey. Va' dove ti pare, ma stai alla larga da me. Vattene! Cristo, Dawn Stonor era meglio di te. Vattene!» Un vero corpo a corpo. Nell strillava e non mollava la presa, Vedast era forte e muscoloso ma non riusciva a liberarsi, nonostante facesse volare pugni e calci e le strappasse i capelli. Caddero a terra continuando a lottare tra i fiori appassiti, le bottiglie vuote, facendo cadere e andare in frantumi il bicchiere di succo d'arancia. «Andiamo» disse laconicamente Wexford. Lungo il corridoio si erano aperte cautamente delle porte e si erano affacciati dei visi assonnati. Sulle scale i poliziotti incrociarono quattro o cinque dipendenti dell'albergo che stavano correndo al piano superiore, messi in allarme dagli strilli e dai tonfi sul pavimento. Le luci cominciarono a riaccendersi mentre il sonnolento albergo si rianimava. La notte era limpida e dello stesso morbido blu-viola della notte del concerto, ma ormai la luna stava impallidendo. E lì non c'erano ballate da sentire, nessuna suggestiva nota di corda pizzicata con controllata energia. Wexford sentiva ancora la voce di Vedast, ma adesso era acuta e stridula come quella di un pazzo, una voce che nessuno dei suoi fans avrebbe riconosciuto. Al posto dei vibranti suoni metallici si sentiva il fragore di mobili che volavano; al posto della melodia si sentiva il singhiozzare isterico di Nell; e al posto degli applausi c'era la voce seria, e del tutto inefficace, del direttore che pregava i suoi ospiti di smetterla. «Magari si ammazzano» disse Burden, passando davanti alla macchina d'oro, foderata di peluche. «Magari. E a chi importa?» sospirò Wexford. «A Vedast non piacerà certo presentarsi in tribunale. Chissà se la cosa influenzerà la sua carriera?» Ancora una volta Burden veniva interpellato come esperto in materia. «Ne dubito» disse mettendo in moto la macchina. «Questi cantanti finiscono sempre in tribunale per questioni di droga, e si è mai saputo che, dopo, i loro dischi si vendessero meno?» «La droga è un'altra cosa. Se uno non la smercia, la droga danneggia solo chi la prende. Ma attualmente i giovani sono molto sensibili all'amore per gli altri, al fatto di non far del male agli altri, all'idea che le persone sono persone. Non credo che la prenderanno bene, quando sapranno che il loro idolo se n'è dimenticato, anzi non ci ha badato affatto.» «Povero vecchio Dunsand... Cosa ne sarà di lui?» «La sua carriera sarà rovinata, ma non finirà in prigione. Magari in una
clinica psichiatrica... ma è forse meglio? La donna che ha ucciso, secondo lui, era solo una materializzazione diabolica. Purtroppo, però, noi sappiamo che non esistono materializzazioni diaboliche... che sono persone in carne ed ossa.» Nel bungalow di Burden si vedeva una sola luce. John si era addormentato su una poltrona del soggiorno, con i capelli scomposti e un bicchiere di latte semivuoto sul tavolino. Il segnalatore rosso del giradischi era ancora acceso. «Mio Dio, mi ero dimenticato dei ragazzi!» Burden si piegò con tenerezza sul figlio, ma il ragazzo non si mosse. «Voleva aspettarmi alzato» disse stupito. Wexford fece un sorrisetto un po' triste. «Povero John... ho l'impressione che adesso non riceverà più il suo album di Sundays per Natale.» «Questo è certo!» Burden si avvicinò al giradischi, e la sua faccia si arrossò per la collera nel vedere qual era il disco sul piatto. Rabbiosamente afferrò "Let-me-believe" con entrambe le mani e sembrò sul punto di deformarlo, di piegarlo in due, quando Wexford lo bloccò appoggiando delicatamente una mano sul braccio. «No, Mike. Non farlo. Lascia che decidano John e... tutti gli altri. Lascia che siano loro a giudicare.» FINE