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CLIVE CUSSLER & PAUL KEMPRECOS ORO BLU (Blue Gold, 2000) PROLOGO Aeroporto di San Paolo, Brasile, 1991 Con una spinta possente dei motori turbogetto a doppio flusso, l'affusolata sagoma del jet privato si staccò dalla pista, scagliandosi come un dardo nel cielo immenso che s'inarcava a cupola sulla città di San Paolo. Salito rapidamente al di sopra della città più grande del Sudamerica, il Learjet raggiunse la quota di crociera di trentanovemila piedi e puntò verso nord-ovest alla velocità di ottocento chilometri orari. La professoressa Francesca Cabral lanciò uno sguardo malinconico attraverso il finestrino alla coltre di nuvole simili a fiocchi di cotone, scoprendo di sentire già la mancanza delle strade intasate di smog e della scoppiettante energia della sua città natale. Un sommesso russare proveniente dal lato opposto dello stretto corridoio centrale del velivolo interruppe le sue riflessioni. Lanciando un'occhiata all'uomo di mezz'età che russava, avvolto in un completo stropicciato, si domandò perplessa che cosa avesse in mente suo padre quando le aveva assegnato come guardia del corpo Phillipo Rodriques. Poi prese un fascicolo dalla ventiquattrore e cominciò a scarabocchiare note a margine della relazione che doveva leggere a un congresso internazionale di studiosi dell'ambiente in programma al Cairo. Aveva già rivisto la prima stesura una dozzina di volte, ma la meticolosità era una caratteristica del suo carattere. Francesca era un brillante ingegnere e una docente molto stimata, ma, in un settore e in una società dominati dagli uomini, una scienziata doveva dimostrarsi sempre più che perfetta. Le parole le apparivano come sfocate. La sera precedente aveva fatto tardi per preparare i bagagli e raccogliere la documentazione scientifica; era troppo eccitata per dormire. Scoccò uno sguardo d'invidia alla guardia del corpo che russava sonoramente e decise di concedersi a sua volta un sonnellino. Messo da parte il testo del discorso, abbassò lo schienale della poltrona e chiuse gli occhi. Cullata dal sussurro gutturale dei motori, ben presto scivolò nel sonno. E cominciarono i sogni. Galleggiava sul mare, sollevandosi e abbassandosi come una medusa sospesa nell'acqua e sospinta da lievi movimenti
ascensionali. Era una sensazione piacevole, finché un'onda non la sollevò, lasciandola poi andare come un ascensore in caduta libera. Francesca spalancò gli occhi con un sussulto, e si guardò intorno. Provava la bizzarra sensazione che qualcuno le avesse strizzato il cuore con una mano, eppure sembrava tutto normale. L'impianto stereo diffondeva le note ossessive di Samba de urna nota só di Antonio Carlos Jobim. Phillipo era ancora profondamente addormentato, ma la sensazione che qualcosa non andasse rifiutava di dissolversi. La giovane si protese in avanti per scrollare con delicatezza l'uomo per la spalla. «Phillipo, sveglia.» La mano della guardia del corpo corse subito alla fondina sotto la giacca, e Phillipo si destò di soprassalto. Poi, vedendo Francesca, si rilassò di nuovo. «Mi scusi, senhora», disse con uno sbadiglio. «Mi sono addormentato.» «Anch'io.» La giovane donna s'interruppe un istante, come se tendesse l'orecchio, in ascolto. «C'è qualcosa che non va.» «Che cosa vuol dire?» La donna rispose con un risolino nervoso. «Non lo so.» Phillipo sorrise con l'espressione saputa di un uomo svegliato dalla moglie convinta di aver sentito dei ladri e le assestò un buffetto sulla mano, come per rassicurarla. «Vado a vedere.» Si alzò, stiracchiandosi, poi si diresse verso la prua dell'apparecchio per bussare alla porta della cabina di pilotaggio. Il battente si aprì e lui fece capolino all'interno. Francesca sentì una conversazione sommessa e una risata. Al suo ritorno, Phillipo era tutto sorrisi. «I piloti assicurano che è tutto a posto, senhora.» Francesca ringraziò la guardia del corpo, abbandonandosi di nuovo sul sedile e respirando a fondo. I suoi timori erano infondati. La prospettiva di essere finalmente libera dalla tortura mentale che l'aveva tenuta prigioniera per due anni di lavoro massacrante le procurava una vertigine. Il progetto l'aveva logorata, facendole perdere la nozione del tempo e annientando la sua vita sociale. Lo sguardo le cadde sui divano che occupava il fondo della cabina, e s'impose di resistere all'impulso che le suggeriva di controllare se la sua valigetta di metallo era ancora al sicuro nello spazio dietro i cuscini. Amava considerare quella valigia un vaso di Pandora alla rovescia; aprendola, anziché tutti i mali del mondo ne sarebbero uscite solo cose positive. La sua scoperta avrebbe portato salute e prosperità a milioni di persone, e il pianeta non sarebbe stato più lo stesso.
Phillipo le offrì una bottiglietta di succo d'arancia, e lei lo ringraziò, rendendosi conto che nel breve periodo trascorso da quando lo aveva conosciuto aveva imparato ad apprezzarlo. Con quel completo marrone tutto sgualcito, i radi capelli sale e pepe, i baffetti e gli occhiali tondi, Phillipo sarebbe potuto passare per il classico scienziato distratto. Francesca non poteva sapere che l'uomo aveva dedicato anni a perfezionare quell'atteggiamento timido e incerto. L'abilità di non farsi notare, mimetizzandosi con l'ambiente come una carta da parati stinta, faceva di lui uno dei migliori agenti sotto copertura dei servizi segreti brasiliani. Rodriques era stato scelto da suo padre. Francesca, all'inizio, aveva protestato; era troppo grande per avere una baby-sitter che la scortasse ovunque. Poi, rendendosi conto che il padre era sinceramente preoccupato per la sua sicurezza, lo aveva accontentato, anche se aveva il sospetto che, più che da eventuali attentati alla sua incolumità, fosse intimorito dagli assalti di affascinanti cacciatori di dote. Francesca avrebbe attirato l'attenzione degli uomini in ogni caso, anche senza il patrimonio di famiglia. In un Paese dove predominavano i capelli neri e la carnagione più o meno scura, lei rappresentava una vistosa eccezione. Gli occhi a mandorla di un blu quasi nero, le ciglia lunghe e la bocca praticamente perfetta erano il retaggio del nonno giapponese, mentre la nonna tedesca le aveva trasmesso i capelli chiari, la statura alta e l'ostinazione teutonica rivelata dalla linea delicata della mascella. La sua figura ben tornita - aveva deciso da tempo - doveva essere un retaggio del Brasile, visto che le donne locali sembravano fatte apposta per la danza nazionale del Paese, la samba. Francesca, poi, aveva perfezionato il modello originale trascorrendo molte ore in palestra, con le quali allentava anche la tensione del lavoro. Il nonno, che da quando l'impero giapponese era tramontato sotto due nuvole a forma di fungo era diventato un diplomatico di basso rango, aveva deciso di restare in Brasile. Dopo il matrimonio con la figlia di un ambasciatore del Terzo Reich rimasto a sua volta privo di incarichi, aveva acquisito la cittadinanza brasiliana e si era dedicato al suo primo amore, il giardinaggio. Aveva trasferito la famiglia a San Paolo, dove il suo studio di architettura del paesaggio serviva i ricchi e i potenti del Paese, e aveva intrattenuto stretti rapporti con personaggi influenti del governo e dell'esercito. Suo figlio, il padre di Francesca, aveva sfruttato quei contatti per conquistarsi senza fatica una buona posizione nel ministero del Commercio. La madre, invece, era stata una brillante studentessa d'ingegneria che
aveva rinunciato alla carriera per diventare moglie e madre. Non si era mai pentita della sua scelta, almeno apertamente, ma era entusiasta della decisione di Francesca di seguire le sue orme nel mondo accademico. Era stato il padre a suggerirle di usare il suo jet privato per andare a New York, dove Francesca avrebbe dovuto incontrare alcuni rappresentanti ufficiali delle Nazioni Unite prima di raggiungere Il Cairo con un volo di linea. La prospettiva di tornare negli Stati Uniti, sia pure soltanto per una visita rapida, la rallegrava, e avrebbe voluto che il volo fosse ancor più breve. Gli anni che aveva trascorso in California, studiando ingegneria alla Stanford University, sarebbero rimasti per sempre fra i suoi ricordi più lieti. Notando che i piloti non avevano ancora fatto rapporto sullo stato del volo dopo il decollo da San Paolo, si scusò con Phillipo e andò ad affacciarsi alla porta della cabina di pilotaggio. «Bom dia, senhores. Mi chiedevo dove siamo e quanto durerà ancora il volo.» Ai comandi c'era il capitano Riordan, un americano scarno con capelli da marine color paglia e un forte accento texano. Francesca non lo aveva mai visto prima di allora, ma non era una circostanza insolita, né, del resto, lo era la nazionalità straniera di Riordan. Anche se il jet era privato, si appoggiava a una compagnia locale, incaricata di fornire i piloti. «Boum deiaa», replicò Riordan con un mezzo sorriso, straziando le orecchie di Francesca con l'accento strascicato e il tentativo di parlare portoghese. «Mi scuso con lei per non averla tenuta aggiornata, signorina. Vedendo che dormiva, non ho voluto disturbarla.» Strizzò l'occhio al suo secondo, un massiccio brasiliano il cui fisico gonfio di muscoli lasciava intuire un'assidua pratica del sollevamento pesi. L'uomo sogghignò, facendo scorrere lo sguardo sul corpo di Francesca. La giovane donna si sentì come una madre che sorprende i figli sul punto di giocare un brutto tiro a qualcuno. «Qual è l'ora stimata per l'arrivo?» domandò in tono pratico, da donna d'affari. «Ecco, stiamo sorvolando il Venezuela. Dovremmo essere a Miami fra tre ore circa. Potremo sgranchirci le gambe durante il rifornimento di carburante, dopodiché dovremmo arrivare a New York con altre tre ore di volo.» L'occhio scientifico di Francesca fu attirato dagli schermi luminosi sul cruscotto. Notando il suo interesse, il secondo pilota non seppe resistere all'opportunità di pavoneggiarsi agli occhi di una donna così attraente.
«Questo apparecchio è così intelligente che può volare da solo mentre noi guardiamo le partite di calcio alla TV», le spiegò, mostrando una dentatura piuttosto voluminosa. «Non si lasci abbagliare da Carlos», intervenne il pilota. «È tutto merito dell'EFIS, il sistema di strumentazione elettronica per il volo assistito. Gli schermi hanno preso il posto dei quadranti di una volta.» «Grazie», replicò Francesca in tono cortese, poi indicò un altro strumento. «Quella è una bussola?» «Sim, sim», rispose il secondo pilota, fiero del suo ruolo di istruttore. «Allora come mai indica che siamo diretti a nord?» domandò lei, corrugando la fronte. «Per raggiungere Miami non dovremmo andare un po' più a ovest?» I due si scambiarono un'occhiata. «Lei ha un grande spirito di osservazione, senhora», ribatté il texano. «Ha perfettamente ragione, ma in volo non sempre la linea retta è la via più breve per unire due punti. Si tratta di un problema legato alla curvatura della terra. Come quando si vola dagli Stati Uniti all'Europa: la via più breve è descrivere una grande curva. Inoltre dobbiamo fare i conti con lo spazio aereo cubano. Non vorremo scompigliare i capelli al vecchio Fidel!» Di nuovo quella rapida strizzata d'occhi fra i due, accompagnata da un sogghigno. Francesca annuì con un'espressione che voleva dimostrare apprezzamento per la spiegazione. «Vi ringrazio del tempo che mi avete dedicato, signori. È stato molto istruttivo. Ora vi lascio al vostro lavoro.» «Non c'è di che, signora. Siamo sempre a sua disposizione.» Francesca tornò al suo posto fumante di rabbia. Idioti! La credevano davvero tanto stupida? Loro e la curvatura della terra! Ma chi volevano prendere in giro? «Va tutto bene, come le dicevo, no?» chiese Phillipo, alzando la testa dalla rivista che stava leggendo. Lei si protese oltre il corridoio centrale che separava i loro posti, parlando in tono basso e pacato. «No, non va bene affatto. Penso che l'aereo non sia sulla rotta giusta.» Gli riferì il dettaglio della bussola. «Mentre dormivo ho avvertito qualcosa di strano. Ora penso che si trattasse dello spostamento del jet quando hanno virato per cambiare direzione.» «Forse si sbaglia.» «Può darsi, ma non credo.» «Ha chiesto spiegazioni ai piloti?» «Sì, e mi hanno raccontato un'assurda fandonia sul fatto che la distanza
più breve fra due punti non è una linea retta per via della curvatura terrestre.» Phillipo inarcò un sopracciglio, chiaramente colpito da quella spiegazione, ma non ancora convinto. «Non so...» Francesca rifletté alla ricerca di qualche altro dettaglio stonato. «Ricorda quello che hanno detto quando sono saliti a bordo, a proposito del fatto che sostituivano i piloti abituali?» «Certo. Hanno detto che i soliti due erano stati trasferiti su un altro volo, e loro ne avevano preso il posto per fare un favore ai colleghi.» Lei scosse la testa. «È un fatto insolito. Per quale motivo avrebbero dovuto sollevare la questione? È stato come se volessero prevenire qualsiasi domanda in proposito. Ma perché?» «Ho anch'io una certa esperienza in fatto di navigazione», osservò Phillipo con aria pensierosa. «Vado a vedere con i miei occhi.» Tornò in cabina di pilotaggio muovendosi con passo disinvolto. Qualche istante dopo Francesca udì delle risate maschili, poi la guardia del corpo fece ritorno sorridendo. Ma il sorriso svanì mentre riprendeva il suo posto. «Nella cabina di pilotaggio c'è uno strumento che indica il piano di volo originario, e noi non stiamo seguendo la linea azzurra come dovremmo. Inoltre aveva ragione per quanto riguarda la bussola: non siamo sulla rotta giusta.» «In nome di Dio, Phillipo, che sta succedendo?» Il viso dell'uomo assunse un'espressione grave. «C'è una cosa che suo padre non le ha detto.» «Non capisco.» Phillipo lanciò un'occhiata alla porta chiusa della cabina. «Gli erano giunte delle voci. Non tanto gravi da fargli ritenere che lei fosse in pericolo, ma quanto bastava per sentirsi più tranquillo sapendo che ci sarei stato io nei paraggi, se lei avesse avuto bisogno di aiuto.» «Si direbbe che abbiamo bisogno di aiuto tutti e due.» «Sim, senhora, ma a quanto pare dovremo cavarcela da soli.» «Ha una pistola?» chiese lei, brusca. «Certo», rispose lui, vagamente divertito da quella domanda brutale, rivolta a bruciapelo da una donna colta e bellissima. «Vorrebbe che sparassi ai piloti?» «Non intendevo questo, no davvero», replicò lei in tono tetro. «Ha qualche idea, per caso?» «Una pistola non serve solo a sparare», ribatté lui. «Si può usare per in-
timorire, sfruttando la minaccia che rappresenta per indurre gli altri a fare cose che non vorrebbero fare.» «Tipo pilotare l'apparecchio nella direzione giusta?» «Lo spero, senhora. Andrò a prua per chiedere cortesemente ai piloti di atterrare nell'aeroporto più vicino, sostenendo che questo è il suo desiderio. Se rifiuteranno di farlo, mostrerò loro la pistola, dicendo che non vorrei essere costretto a usarla.» «Non può usarla», ribatté Francesca. «Se facesse un buco nell'apparecchio a questa quota, provocherebbe una depressurizzazione immediata, e moriremmo tutti nel giro di pochi secondi.» «Ottimo argomento. Aumenterà la loro paura.» Le prese la mano, stringendola con forza. «Ho promesso a suo padre di vegliare su di lei, senhora.» Francesca scosse la testa, come nel tentativo di liberarsi da un incubo. «E se mi sbagliassi? Se fossero due piloti che fanno solo il loro lavoro?» «Semplice», rispose lui con un'alzata di spalle. «Chiediamo in anticipo la comunicazione via radio, atterriamo sulla pista più vicina, chiamiamo la polizia e sistemiamo le cose prima di riprendere il viaggio.» Il dialogo fu interrotto di colpo. La porta della cabina di pilotaggio si era aperta. Il comandante entrò nella carlinga e avanzò verso di loro, costretto a chinare la testa a causa del soffitto basso. «La barzelletta che ci ha raccontato poco fa era davvero spassosa», osservò Riordan, accennando un sorriso. «Ne conosce altre?» «No, senhor, mi dispiace.» «Allora ne ho una io per lei», ribatté il pilota. Gli occhi all'ingiù, con il taglio obliquo e le palpebre pesanti, conferivano a Riordan un'aria sonnolenta, ma non c'era nulla di torpido nel modo in cui l'uomo portò la mano dietro la schiena e sfoderò la pistola che teneva infilata nella cintola. «Mi consegni la sua», ordinò a Phillipo. «Con molta calma.» Phillipo aprì cautamente la giacca, in modo che la fondina fosse in piena vista, poi estrasse la pistola tenendola con la punta delle dita. Il pilota s'infilò l'arma nella cintura. «Oubrigheido, ameigo», disse poi. «È sempre un piacere aver a che fare con un professionista.» Sedendosi sul bracciolo di un sedile, si accese una sigaretta con la mano libera. «Il mio compagno e io abbiamo discusso, e siamo del parere che potreste averci smascherato. Quando lei è entrato per la seconda volta in cabina, abbiamo intuito che voleva fare un controllo, e così abbiamo deciso di mettere le cose in chiaro, per evitare malintesi.»
«Comandante Riordan, che succede?» intervenne Francesca. «Dove ci sta portando?» «Me lo avevano detto che lei era un tipo sveglio», ribatté il pilota con una risatina. «Il mio socio non avrebbe mai dovuto vantarsi a proposito della strumentazione dell'aereo.» Soffiò due sbuffi di fumo dalle narici. «Ha ragione, non stiamo andando a Miami. Siamo diretti a Trinidad.» «Trinidad?» «Mi dicono che è un gran bel posto.» «Non capisco.» «Le cose stanno così. C'è un piccolo comitato in attesa di darle il benvenuto all'aeroporto. Non mi chieda chi sono, perché non lo so. Tutto quello di cui sono al corrente è che siamo stati assunti per consegnarvi a quelle persone. La faccenda sarebbe dovuta filare liscia. Avremmo dovuto dirle che avevamo problemi meccanici ed eravamo costretti ad atterrare.» «Che cosa ne è stato dei piloti?» domandò Phillipo. «Hanno avuto un incidente», rispose l'altro con una lieve scrollata di spalle, schiacciando sul pavimento il mozzicone della sigaretta. «Ecco la situazione, signorina. Se resterà tranquilla, andrà tutto bene. Quanto a lei, cavaleiro, mi spiace metterla nei guai con i suoi superiori. Ora potrei legarvi, ma non credo che vogliate tentare una pazzia, a meno che non sappiate pilotare questo aereo da soli. Una cosa ancora. Si alzi, amico, e si volti.» Pensando che volesse perquisirlo, Phillipo obbedì senza fare obiezioni, e l'avvertimento di Francesca arrivò in ritardo. La canna della pistola balenò nell'aria come un lampo argenteo, abbattendosi sulla testa della guardia del corpo, sopra l'orecchio destro. Lo scricchiolio nauseabondo delle ossa incrinate fu sopraffatto dal grido di dolore dell'uomo, che si accasciò in avanti e crollò inerte sul pavimento della cabina. Francesca balzò in piedi. «E questo perché lo ha fatto?» esclamò in tono di sfida. «Ha la sua pistola. Lui non poteva farle del male.» «Mi spiace, signorina, ma sono un convinto assertore della necessità di una buona assicurazione.» Riordan scavalcò il corpo disteso nel corridoio centrale come se fosse un sacco di patate. «Non c'è niente che scoraggi un uomo dal mettersi nei guai quanto una bella botta in testa. Su quella paratia laggiù c'è una cassetta di pronto soccorso. Prendersi cura di lui dovrebbe tenerla occupata fino al momento dell'atterraggio.» Portandosi la mano al berretto, rientrò nella cabina di pilotaggio e chiuse la porta. Francesca s'inginocchiò vicino alla guardia del corpo priva di sensi. I-
numidì alcuni tovaglioli con l'acqua minerale e ripulì la ferita, poi premette sui vasi sanguigni per far cessare l'emorragia. Dopo aver applicato un antisettico sul taglio aperto nel cuoio capelluto e sulla pelle contusa tutt'intorno, avvolse del ghiaccio in un altro tovagliolo e lo tenne accostato alla tempia dell'uomo per prevenire il gonfiore. Seduta a fianco del ferito, tentò di ricostruire il rompicapo. Escludeva l'ipotesi di un rapimento allo scopo di chiedere un riscatto. L'unico motivo per cui qualcuno poteva aver organizzato quella messinscena era per appropriarsi della sua scoperta. Chiunque ci fosse dietro quel piano demenziale, voleva qualcosa di più che un modellino in scala e i progetti che illustravano il suo lavoro; per ottenerli avrebbe potuto organizzare un furto nel laboratorio o impadronirsi dei suoi bagagli all'aeroporto. Invece doveva avere bisogno di Francesca per interpretare quel progetto. Il procedimento ideato era così insolito, così diverso da ogni altro, che non aderiva del tutto alle regole scientifiche, ed era per quello che nessun altro ci aveva mai pensato prima di lei. Comunque tutta quella storia non aveva senso. Entro un paio di giorni lei avrebbe messo la sua scoperta a disposizione dei Paesi del mondo per niente. Niente brevetti, né copyright, né royalty. A titolo del tutto gratuito. Sentì l'ira ribollirle dentro. Quella gente spietata voleva impedirle di migliorare la sorte di milioni di esseri umani. Phillipo si lasciò sfuggire un gemito. Stava riprendendo i sensi, e batteva lentamente le palpebre per rimettere a fuoco la vista. «Tutto bene?» gli chiese lei. «Mi fa un male del diavolo, quindi devo essere vivo. Mi aiuti a mettermi seduto, per favore.» Francesca lo prese per un braccio e lo sollevò, mettendolo a sedere con le spalle contro una poltroncina dell'aereo, poi svitò il tappo di una bottiglia di rum presa dal bar e gliela accostò alle labbra. Lui mandò giù un goccio di liquore e riuscì a tenerlo nello stomaco, dopodiché bevve una generosa sorsata. Rimase seduto per un attimo, aspettando di vedere se lo stomaco si ribellava. Visto che non provava nausea né stimoli di rigetto, sorrise. «Mi rimetterò, grazie.» Lei gli porse gli occhiali. «Temo che si siano rotti quando quell'uomo l'ha colpita.» Phillipo li gettò via. «Sono semplici vetri. Ci vedo benissimo anche senza.» Lo sguardo fermo e diretto che rivolse a Francesca non era quello di un uomo spaventato. Guardò la porta chiusa della cabina. «Per quanto
tempo sono rimasto privo di sensi?» «Venti minuti, forse.» «Bene, c'è ancora tempo.» «Tempo per cosa?» La mano di Phillipo scivolò verso la caviglia. Quando riapparve, stringeva una rivoltella a canna corta. «Se il nostro amico non fosse stato così ansioso di procurarmi un emicrania, l'avrebbe scoperta», osservò Phillipo con un sorriso truce. Non era decisamente lo stesso uomo trasandato di poco prima, più simile a un professore distratto che a una guardia del corpo. L'euforia di Francesca fu mitigata dalla constatazione della realtà. «Che cosa può fare? Hanno almeno due pistole, e noi non sappiamo pilotare l'aereo.» «Mi perdoni, senhora Cabral. Un'altra mancanza di franchezza da parte mia.» Quasi in tono colpevole, Phillipo spiegò: «Ho dimenticato di accennare al fatto che prima di entrare nei servizi segreti facevo parte dell'aviazione brasiliana. La prego, mi aiuti ad alzarmi». Francesca rimase senza parole. Quali altri conigli avrebbe tirato fuori dal cilindro, quell'uomo? Lo sorresse finché non fu in grado di reggersi sulle gambe malferme. Un minuto dopo, il corpo di Phillipo parve animato da nuova forza e determinazione. «Resti qui finché non le dirò cosa fare», le ordinò, con il tono di chi è abituato a farsi obbedire. Si diresse a prua ed aprì la porta. Il pilota lanciò un'occhiata all'indietro e disse: «Ehi, guarda un po' chi è tornato dal regno dei morti viventi. A quanto pare, non ti ho colpito abbastanza forte». «E non avrai un'altra possibilità di farlo», replicò Phillipo, ficcando la canna della rivoltella sotto l'orecchio del texano con violenza sufficiente a fargli male. «Se sparo a uno di voi, l'altro potrà continuare a pilotare l'aereo. Chi di voi due vuol essere il fortunato?» «Cristo, ma non avevi detto di averlo disarmato?» esclamò Carlos. «Mi spiace, cavaleiro», rispose con calma il pilota. «Dovrai sparare a tutti e due, ma allora, chi piloterà l'apparecchio?» «Lo farò io, cavaleiro. Mi spiace di non avere con me il brevetto. Immagino che dovrete credermi sulla parola.» Voltandosi leggermente, Riordan notò il sorriso gelido sul viso della guardia del corpo. «Ritiro quello che ho detto a proposito dell'aver a che fare con un professionista. E adesso, socio?» «Dammi le due pistole. Una per volta.» Il pilota consegnò la sua arma e quella che gli aveva sottratto e Phillipo,
a sua volta, le passò a Francesca, immobile alle sue spalle. «Alzati dal sedile di pilotaggio», ordinò poi, arretrando nella cabina. «Lentamente.» Mentre si alzava, Riordan incrociò lo sguardo del secondo pilota e, servendosi del proprio corpo per nascondere il gesto, gli rivolse un rapido cenno della mano, con il palmo rivolto in basso. L'altro annuì in modo quasi impercettibile, per dimostrare di aver compreso. «Ehi, speravo proprio di farmi un pisolino», commentò poi Riordan. «Sei davvero gentile ad averci pensato.» Francesca era indietreggiata lungo il corridoio centrale, per lasciare spazio ai due uomini. Phillipo le chiese di prendere alcuni sacchetti di plastica per i rifiuti, stivati sotto un sedile, che intendeva usare per legare il pilota. Una volta messo fuori gioco Riordan, avrebbe dovuto occuparsi soltanto del secondo. La cabina era lunga circa tre metri e settanta. In quello spazio ristretto, Phillipo fu costretto a spostarsi di lato per far passare l'altro, e rammentò a Riordan di non tentare mosse azzardate a quella distanza ravvicinata, perché sarebbe stato impossibile mancarlo. L'altro annuì, avviandosi verso il fondo della cabina, ma erano a pochi centimetri di distanza quando Carlos virò bruscamente, facendo in modo che l'apparecchio restasse sospeso in verticale sull'ala sinistra. Riordan si aspettava quella mossa, ma non sapeva quando sarebbe stato il momento esatto, né che sarebbe stata così violenta. Perse l'equilibrio e fu scaraventato su un sedile, battendo con la testa contro la paratia. Phillipo, invece, fu sbalzato dal pavimento e scagliato attraverso la cabina, e finì con l'atterrare sul corpo di Riordan. Il pilota riuscì a liberare la destra, sferrando un violento pugno alla mascella della guardia del corpo, che vide roteare sopra di sé intere galassie e rischiò di perdere di nuovo i sensi. Tuttavia riuscì a mantenere la presa sulla pistola e, quando l'avversario tentò di sferrargli un nuovo pugno, lo bloccò con il gomito. I due uomini erano entrambi allenati nel corpo a corpo. Phillipo artigliò con le unghie gli occhi di Riordan, mentre il pilota lo addentava sulla parte carnosa del palmo. La guardia del corpo sferrò una ginocchiata all'inguine dell'avversario e, non appena Riordan aprì la bocca, scattò con la testa in avanti, frantumandogli la cartilagine del naso. Avrebbe potuto avere la meglio, se il secondo pilota non avesse scelto proprio quel momento per imbardare bruscamente sulla destra.
Gli uomini avvinghiati nella lotta volarono oltre il passaggio centrale per finire sul sedile opposto, ma adesso l'americano era sopra l'avversario. Phillipo tentò di colpirlo con la canna della pistola, ma il pilota gli afferrò il polso con entrambe le mani, torcendolo verso il basso. Phillipo era forte, ma non poteva resistere a una presa doppia, e la canna della pistola si spostò in direzione del suo diaframma. Il pilota teneva le mani sulla pistola, lottando per strapparla all'avversario. Phillipo tentò di trattenerla e riuscì quasi a recuperarne il controllo, ma il calcio era viscido per il sangue sgorgato a fiotti dal naso di Riordan. Con uno strappo improvviso, il pilota riuscì a impadronirsi dell'arma, inserì la punta dell'indice nella guardia del grilletto e sparò. Si udì uno schiocco sommesso e il corpo di Phillipo fu scosso da un sussulto, prima di accasciarsi inerte mentre il proiettile penetrava nel torace. L'apparecchio si raddrizzò tornando alla posizione normale e Riordan si rialzò, barcollando in direzione della cabina di pilotaggio. Poi si fermò di colpo e si voltò, intuendo che qualcosa non andava. La pistola che aveva lasciato dietro di sé si reggeva in precario equilibrio sul petto della guardia del corpo, che tentava di tenerla ferma per sparare. Riordan si slanciò in avanti come un rinoceronte ferito, ma l'arma esplose un colpo. Il proiettile colpì alla spalla Riordan che, tuttavia, continuò la sua corsa. Il cervello di Phillipo si spense, ma il suo dito si contrasse ancona due volte e il primo colpo centrò il texano al cuore, uccidendolo all'istante. Il secondo proiettile mancò completamente il bersaglio, perdendosi nell'aria. Nello stesso istante in cui il corpo del pilota si abbatteva sul pavimento, la pistola cadde dalla mano di Phillipo. La lotta nella carlinga si era protratta solo per pochi secondi. Francesca, scaraventata all'indietro fra i sedili, si era nascosta, mentre il pilota insanguinato rientrava nella cabina, ma gli spari la spinsero ad appiattirsi di nuovo sul pavimento. Subito dopo fece cautamente capolino nel passaggio centrale e vide il corpo immobile di Riordan. Strisciando al fianco di Phillipo, prese la pistola e si diresse verso la porta della cabina, troppo infuriata per provare paura. Ma l'ira si tramutò ben presto in shock. Il secondo pilota era riverso in avanti sui comandi, il corpo trattenuto in parte dalla cintura. Nella paratia che separava la cabina dal resto dell'apparecchio e nello schienale del sedile c'era un foro di proiettile: il terzo colpo di Phillipo. Francesca raddrizzò il corpo del pilota. Il suo gemito le fece capire che
era ancona vivo. «È in grado di parlare?» gli chiese. Carlos roteò gli occhi, mormorando un roco: «Sì». «Bene. Lei è stato ferito, ma non credo che il proiettile abbia leso gli organi vitali», mentì lei. «Ora cerco di arrestare l'emorragia.» Andò a prendere la cassetta del pronto soccorso, pensando che in realtà avrebbe avuto bisogno di una vera e propria unità d'intervento per i casi di emergenza. Rischiò di svenire, alla vista del sangue che scorreva dalla ferita sulla schiena dell'uomo, formando una pozza sul pavimento. La compressa che gli applicò assunse immediatamente una colorazione scarlatta, ma forse era servita a stagnare il sangue. Era impossibile dirlo: l'unica certezza, agli occhi di Francesca, era che il secondo pilota stava per morire. Guardò con ansia il cruscotto costellato di spie luminose, sconvolta al pensiero che quell'uomo moribondo fosse la chiave della sua sopravvivenza. Doveva tenerlo in vita a tutti i costi. Recuperò la bottiglia di rum e la inclinò sulle labbra del pilota. Il rum gli gocciolò lungo il mento, e quel poco che Carlos riuscì a inghiottire provocò un accesso di tosse, ma lui ne chiese dell'altro. Il forte liquore gli riportò il colorito sulle gote pallide, riaccendendo una scintilla di vita negli occhi già vitrei. Francesca gli accostò le labbra all'orecchio. «Deve pilotare l'aereo», gli disse con fermezza. «È la nostra unica speranza.» La vicinanza di una donna così bella ebbe l'effetto di un'iniezione di energia pura. Gli occhi del brasiliano erano sempre vitrei, ma svegli. Annuì e tese la mano tremante per accendere la radio che l'avrebbe messo in contatto con il controllo del traffico aereo di Rio. Francesca prese posto sul sedile del comandante, infilandosi la cuffia. Sentì finalmente la voce del controllore del traffico aereo e, quando Carlos le chiese aiuto con gli occhi, cominciò a parlare, esponendo la loro situazione. «Che cosa ci consiglia?» chiese alla fine. Dopo una pausa di una lunghezza esasperante, la voce rispose: «Proseguite il volo per Caracas». «Troppo lontana», gracchiò Carlos, compiendo uno sforzo per parlare. «Un posto più vicino.» Trascorsero ancora alcuni istanti. Si sentì nuovamente la voce dell'operatore radio. «C'è una piccola pista di atterraggio a San Pedro, nei pressi di Caracas, a circa trecentoventi chilometri dalla vostra posizione. Non ci sono attrezzature per l'avvicinamen-
to, ma le condizioni meteo sono perfette. Potete farcela?» «Sì», rispose Francesca. Il secondo pilota digitò a fatica dei dati sulla tastiera del computer di bordo. Facendo appello a tutte le sue energie, trovò l'identificatore internazionale di San Pedro e riuscì a insenirlo nel computer. Guidato dal pilota automatico, l'apparecchio cominciò la virata. Carlos abbozzò un sorriso. «Non gliel'avevo detto che questo apparecchio vola da solo, scnhora?» La sua voce aveva un tono torpido. Era evidente che la perdita di sangue lo stava indebolendo. Ormai era solo questione di tempo e avrebbe perso i sensi. «A me non importa chi lo pilota», ribatté Francesca. «Basta che ci porti a terra.» Carlos annuì, prima d'impostare sul computer di bordo il profilo della discesa automatica che avrebbe portato l'apparecchio alla quota di duemila piedi. L'aereo cominciò a scendere fra le nuvole e ben presto apparvero sotto di loro ampi tratti di terreno verde. La vista della terra rassicurò Francesca, ma nello stesso tempo l'atterrì, e il suo terrore aumentò quando Carlos fu squassato da un brivido intenso come una scossa elettrica. L'uomo si aggrappò alla mano di Francesca, stringendola in una presa mortale. «Non ce la farò a raggiungere San Pedro», le disse in un rantolo umido. «Deve farcela.» «Non c'è niente da fare.» «Dannazione, Carlos, siete stati lei e il suo compare a metterci in questo guaio, e ora lei deve tirarcene fuori!» Lui le rispose con un sorriso vacuo. «Che cosa vuole fare? Spararmi?» Gli occhi di Francesca scagliavano lampi. «Finirà per augurarselo, se non porta giù questo catorcio!» Lui scosse la testa. «Atterraggio d'emergenza. La nostra unica speranza. Trovi un posto.» Il grande finestrino della cabina di pilotaggio offriva una visuale della lussureggiante foresta pluviale. Francesca ebbe la sensazione di sorvolare un immenso campo di broccoli. Scandagliò di nuovo con lo sguardo quell'interminabile distesa verde. Era un'impresa disperata. Un momento. La luce del sole scintillò su una superficie riflettente. «Quello cos'è?» domandò, puntando il dito. Carlos disattivò i comandi automatici, prese la cloche e virò in direzione del riflesso, provocato dallo scintillio del sole su una gigantesca cascata. Comparve sotto di loro un fiume stretto e tortuoso. Lungo il corso d'acqua
si stendeva una radura di forma irregolare, coperta di vegetazione gialla e marrone. Pilotando a sua volta in modo quasi automatico, Carlos superò la zona libera e impostò una virata di trenta gradi a destra. Estese gli alettoni e preparò l'apparecchio alla discesa finale con una brusca virata a destra. Erano a milleottocento piedi di quota e stavano scendendo con una lunga planata. Carlos estese ancor più gli alettoni per rallentare ulteriormente la discesa. «Troppo basso!» gemette. Le cime degli alberi si avventavano verso di loro. Con una forza sovrumana, nata dalla disperazione, si protese per chiedere maggiore potenza alle manette. L'aereo cominciò a risalire. Con gli occhi ormai velati, cercò di inquadrare l'avvicinamento alla pista, e si sentì venire meno. Era una pista terribile, piccola e disseminata di gobbe, delle dimensioni di un francobollo. Stavano arrivando alla velocità di circa duecentocinquanta chilometri orari. Troppo in fretta. Gli sfuggì dalla gola un gemito vischioso, mentre la testa gli ciondolava sulla spalla. Dalle labbra sgorgò un fiotto di sangue. Le dita, che fino a pochi istanti prima avevano serrato così strettamente la cloche, erano irrigidite in un inutile spasmo di agonia. Fu un segno della sua abilità se, perfino in quegli ultimi istanti di vita, riuscì a mettere a punto l'apparecchio alla perfezione. Il jet mantenne l'assetto e, quando urtò il terreno, sussultò in aria alcune volte come un sasso che rimbalza sulle acque di uno stagno. Quando il fondo della fusoliera toccò terra, si udì un suono lacerante di metallo torturato. L'attrito fra l'apparecchio e il suolo rallentò la corsa, ma la fusoliera procedeva pur sempre a oltre centocinquanta chilometri all'ora, scavando un solco nel suolo come il vomere di un aratro. Le ali si staccarono con un fragore secco e i serbatoi di carburante esplosero, lasciando una doppia scia di fiamme nere e arancio lunga trecento metti, mentre l'aereo procedeva verso il fiume. Si sarebbe disintegrato, se il terreno coperto d'erba non avesse ceduto il posto al fango molle e paludoso lungo la riva. Privo delle ali, con il rivestimento bianco e azzurro chiazzato di fango, l'apparecchio sembrava un verme gigantesco che cercasse di scavare un tunnel nella melma. Sbandò sulla superficie del pantano e finalmente si fermò, con una serie di sussulti. L'impatto scaraventò Francesca in avanti contro il cruscotto, e la ragazza perse i sensi. A parte il crepitio dell'erba che bruciava, le increspature dell'acqua del fiume e il sibilo del vapore che si levò sfrigolando quando il metallo ar-
dente entrò a contatto con l'acqua, regnava un silenzio assoluto. Ben presto, dalla foresta emersero delle ombre. Silenziose come il fumo, si avvicinarono sempre più al relitto devastato dell'aereo. 1 San Diego, California, 2001 A ovest di Encinitas, sulla costa del Pacifico, l'elegante yacht a motore Nepenthe oscillava all'ancora, spiccando per la sua mole in mezzo a una piccola flotta che sembrava comprendere tutte le imbarcazioni a vela e a motore di San Diego. Il Nepenthe, uno yacht da sessanta metri, con il pennoncino a forma di lancia che sporgeva dall'audace prua affusolata come quella di un clipper e lo specchio di poppa svasato, aveva l'aria di un delicato vascello di porcellana bianca che galleggiava su un mare di maiolica. La vernice splendeva come uno specchio e le opere vive scintillavano sotto il sole della California, mentre bandiere e pennoni schioccavano al vento da prua a poppa. Ogni tanto qualche palloncino si staccava dal filo per salire ballonzolando nel cielo limpido. Nello spazioso salone dello yacht, arredato in stile Impero, un quartetto d'archi suonava un pezzo di Vivaldi per intrattenere la folla eclettica, composta da personaggi di Hollywood vestiti di nero, corpulenti politici e snelli annunciatori televisivi, che si affollavano intorno a un tavolo di mogano dalle gambe massicce, divorando pâté, caviale beluga e gamberetti con un appetito degno di vittime di una carestia. All'aperto, sui ponti inondati dal sole, c'era una folla di bambini che si muovevano su sedie a rotelle o appoggiati alle grucce, divorando hot dog e hamburger e godendosi l'aria di mare. Li vegliava una donna attraente sulla cinquantina premurosa come una chioccia. La bocca generosa e gli occhi color fiordaliso di Gloria Ekhart erano familiari ai milioni di persone che avevano visto i suoi film e la sua popolare sit-com televisiva. Tutti i suoi fan sapevano della figlia Elsie, la graziosa bambina con il viso spruzzato di lentiggini che scorrazzava da un capo all'altro del ponte sulla sedia a rotelle. All'apice della cartiera, Gloria aveva rinunciato a recitare per dedicare il suo patrimonio e il suo tempo ad aiutare bambini che si trovavano nelle stesse condizioni della figlia. Gli ospiti ricchi e influenti che tracannavano Dom Pérignon nel salone avrebbero ricevuto più tardi un invito ad aprire il libretto di assegni per la Fondazione Ekhart.
Gloria possedeva un grande talento per le iniziative promozionali, ed era per quello che aveva noleggiato il Nepenthe per il suo party. Nel 1930, quando l'imbarcazione era scesa in mare dalla rampa del cantiere navale G.L. Watson di Glasgow, era fra gli yacht più eleganti che avessero mai solcato i mari. Il primo proprietario, un pari inglese, lo aveva perduto in una partita a poker durata una notte intera con un produttore di Hollywood che aveva un debole per le carte, le feste interminabili e le stelline minorenni. La barca era passata per le mani di una serie di proprietari altrettanto indifferenti, prima di essere utilizzata per un tentativo fallito di trasformarla in peschereccio. Lo yacht ormai in disarmo, che puzzava di pesce morto e di esche, languiva nelle acque stagnanti di un bacino di carenaggio quando era stato salvato da un magnate della Silicon Valley che tentava di rifarsi dei milioni di dollari spesi per il restauro noleggiandolo per eventi come il party di beneficenza di Gloria Ekhart. Un uomo che indossava un blazer blu con un distintivo ufficiale appuntato sul taschino era intento a sbirciare con il binocolo la distesa piatta e verde del Pacifico. Si sfregò gli occhi prima di guardare di nuovo attraverso le lenti. In lontananza, s'intravedevano sottili pennacchi bianchi sullo sfondo del cielo azzurro, lungo la linea d'intersezione con le acque. L'uomo abbassò il binocolo, sollevò una bomboletta alla quale era fissata una piccola tromba di plastica e premette il pulsante tre volte. Pee... pee... pee. Il suono squillante del clacson echeggiò sulle acque come il richiamo di un mostro pronto all'accoppiamento. La flotta raccolse il segnale, e l'aria si riempì di una cacofonia di campane, fischietti e sirene tale da sopraffare le strida dei gabbiani affamati. Centinaia di spettatori presero eccitati il binocolo e la macchina fotografica, e le barche s'inclinarono pericolosamente mentre i passeggeri si spostavano da un lato all'altro. A bordo del Nepenthe gli ospiti si affrettarono a trangugiare il cibo per uscire a frotte dal salone, sorseggiando coppe di champagne. Facendosi ombra agli occhi, guardavano in lontananza, dove i pennacchi piumosi cominciavano a ingrossarsi, trasformandosi in baffi di spuma, mentre la brezza portava verso di loro un suono che somigliava a quello di uno sciame d'api inferocite. A bordo di un elicottero che volava in cerchio a mille piedi sopra il Nepenthe, un corpulento cameraman italiano di nome Carlo Pozzi batté sulla spalla del pilota, indicandogli un punto a nord-ovest. L'acqua era solcata da scie parallele di colore bianco che avanzavano come se fossero tracciate da un enorme rastrello invisibile. Pozzi controllò l'imbracatura di sicurezza
prima di avventurarsi fuori con un piede sul pattino dell'elicottero, issandosi in spalla una telecamera che pesava quasi quindici chili. Proteso nel vento che investiva con violenza il suo corpo, bilanciandosi con la destrezza data dalla pratica, puntò la straordinaria potenza dell'obiettivo sulle scie che avanzavano. Spostando la macchina da presa da sinistra a destra, offrì agli spettatori di tutto il mondo una panoramica della dozzina di motoscafi da corsa che incidevano dei solchi sul mare, poi zoomò su una coppia di barche che precedevano le altre di un quarto di miglio. Le imbarcazioni lanciate a tutta velocità sfioravano la sommità delle onde, planando con lo scafo lungo dodici metri, la prua rivolta in alto, come se cercassero di sfuggire alle leggi della gravità. La barca di testa era dipinta di uno sgargiante rosso fuoco, mentre la seconda, distanziata di mezzo miglio, scintillava come una pepita d'oro. La coppia di motoscafi ricordava dei caccia da combattimento, più che due imbarcazioni. Un ponte piatto univa due scafi da catamarano affilati come lame di coltello, chiamati sponson, e ali aerodinamiche che coprivano il vano motori. A due terzi della lunghezza dello scafo dalla doppia prua affusolata erano disposte due calotte trasparenti affiancate, simili a quelle degli F-16. Kurt Austin, compresso nella calotta di dritta della barca rossa, con il viso abbronzato teso in una maschera risoluta, si faceva forza per resistere agli scossoni, mentre la barca da otto tonnellate urtava contro la superficie dell'acqua, dura come il cemento. A differenza dei veicoli terrestri, l'imbarcazione non aveva un sistema di sospensioni per attutire la violenza dell'impatto, e ogni urto si trasmetteva alle gambe di Austin attraverso lo scafo monopezzo in kevlar e fibra di carbonio, facendogli battere i denti. Nonostante le spalle larghe, i potenti bicipiti e la cintura di sicurezza con cinque punti di attacco che tratteneva al suo posto i suoi novanta chili di peso, aveva la sensazione di essere una palla da basket palleggiata per tutto il campo da Michael Jordan. Tutta la forza del suo metro e ottantacinque di muscoli compatti era impegnata a controllare saldamente gli stabilizzatori che regolavano l'assetto dell'imbarcazione e le manette, mentre il piede sinistro premeva con decisione sul pedale del motore che controllava la pressione nei due possenti motori turbo che spingevano sulle onde la sua imbarcazione. José «Joe» Zavala era seduto nella calotta di sinistra, curvo in avanti sui comandi. Stringeva saldamente con le mani guantate la piccola ruota nera del timone che sembrava inadeguata al compito di tenere la barca puntata nella direzione giusta. Per la verità, gli sembrava di puntare la barca come
fosse un'arma, anziché pilotarla. Le labbra erano serrate a formare una linea sottile. I grandi occhi castano scuro avevano perso la consueta espressione malinconica per fissare intensamente il mare attraverso il visore di plexiglas affumicato, nel tentativo di decifrarne le condizioni e intuire cambiamenti nel vento o nell'altezza delle onde. Il movimento sussultorio della prua rendeva la cosa ancor più difficile. Attraverso l'interfono che collegava le due calotte, Austin gridò: «Qual è la nostra velocità?» Zavala controllò l'indicatore digitale. «Centoventidue.» I suoi occhi corsero al sistema GPS e alla bussola. «Teniamo perfettamente la rotta.» Austin controllò l'orologio e abbassò gli occhi sulla carta nautica che teneva fissata alla coscia destra. Il percorso della gara, lungo centosessanta miglia, partiva da San Diego, descrivendo due virate brusche intorno all'isola di Santa Catalina prima di tornare verso il punto di partenza, offrendo a migliaia di spettatori lungo le spiagge la possibilità di assistere al drammatico finale. L'ultima virata doveva avvenire di lì a poco. Socchiudendo gli occhi per vedere oltre la cupola spruzzata di salsedine, Austin scorse una linea verticale a dritta, e poi un'altra. Alberi di imbarcazioni a vela! La flotta degli spettatori era disposta a fianco di un vasto tratto di acque aperte. Una volta superati gli spettatori, i partecipanti alla gara avrebbero raggiunto la motovedetta della guardia costiera presso la boa di segnalazione della virata, per affrontare l'ultimo tratto del percorso. Austin lanciò una rapida occhiata all'indietro, oltre la spalla destra, scorgendo il riflesso del sole sull'oro. «Passiamo a centotrenta», ordinò. I violenti contraccolpi trasmessi dal timone indicavano che l'altezza delle onde stava aumentando. Zavala aveva notato delle creste bianche sull'acqua, che aveva la superficie marezzata, segno sicuro che il vento stava rinforzando. «Non so se sia opportuno», gridò, per sovrastare il frastuono dei motori. «Comincia un po' a beccheggiare. Dov'è Alì Babà?» «Praticamente nella nostra tasca di dietro!» «Se ci prova adesso, è davvero pazzo. Dovrebbe starsene tranquillo e lasciare a noi il compito di pagare lo scotto, come stiamo facendo, in attesa del tratto finale. Il mare e il vento sono troppo imprevedibili.» «Non gli piace perdere.» Zavala rispose con un grugnito. «E va bene, portiamola a centoventicinque. Forse ci ripenserà.»
Austin spinse avanti le manette con la punta delle dita e avvertì immediatamente una spinta terrificante. Un attimo dopo, Zavala riferì: «Ha raggiunto i centoventisette. Sembra tutto a posto». La barca dorata rimase indietro, poi accelerò per non farsi distanziare. Austin poteva leggere chiaramente la scritta in nero sulla fiancata: FLYING CARPET, cioè «tappeto volante». Il pilota della barca era nascosto dietro il vetro affumicato della sua calotta, ma Austin sapeva che sul viso del giovane sosia barbuto di Omar Sharif doveva essere stampato un sorriso che andava da un orecchio all'altro. Ali bin Said, figlio di un magnate dell'industria alberghiera di Dubai, era tra i concorrenti più agguerriti in uno degli sport più competitivi e pericolosi del mondo: le gare nautiche off-shore di Formula 1. L'anno prima, Austin aveva evitato di un soffio la disfatta di fronte ad Ali nel Gran Premio Dubai Duty Free. La sconfitta subita in casa, davanti al suo pubblico, era stata particolarmente cocente. Da allora Ali aveva aumentato la potenza dei due motori Lamborghini del Flying Carpet. Con qualche miglioria all'impianto di alimentazione, il Red Ink riusciva a spremere ancora qualche miglio l'ora in più, ma Austin riteneva che la barca di Ali fosse una degna avversaria della sua. Durante la riunione che aveva preceduto la gara, Ali aveva accusato scherzosamente Austin di fare ricorso alla National Underwater & Marine Agency per rendere più tranquille le acque sul percorso della barca. Austin, che comandava la squadra missioni speciali della NUMA, aveva a sua disposizione le risorse della potente agenzia, ma non intendeva certo usarle per trarne vantaggio in gara. Ali non era stato sconfitto dalla potenza dei motori, ma dall'affiatamento che esisteva fra Austin e il suo partner della NUMA. Zavala, con il colorito scuro e i folti capelli neri pettinati all'indietro, sarebbe potuto passare per il maître di un lussuoso albergo di Acapulco. Il lieve sorriso che gli aleggiava sempre sulle labbra mascherava una tempra d'acciaio, forgiata durante gli anni del college - quando aveva tirato di boxe fra i pesi medi - e affilata dalle continue sfide che affrontava nel corso delle missioni per la NUMA. Divenuto ormai ingegnere nautico, Zavala, uomo dotato di un carattere socievole e un tono di voce pacato, aveva al suo attivo migliaia di ore di volo su elicotteri, piccoli jet e prototipi a turbina, e non incontrava difficoltà a passare al comando di una barca da corsa. Lavorando d'intesa con Austin come se fossero due ingranaggi di un
macchinario di precisione, aveva preso il comando fin dall'istante in cui il giudice di gara aveva alzato la bandierina verde per segnalare la partenza. Erano pronti a planare sulle acque con un'angolazione quasi ideale, e avevano superato la linea di partenza alla velocità di centotrenta nodi. Le barche avevano corso per tutta la gara al massimo della potenza. Due concorrenti tra i più agguerriti avevano accusato guasti al motore durante il primo tratto del percorso; un altro si era capovolto alla prima virata, forse la parte più pericolosa in ogni gara, e gli altri erano stati semplicemente surclassati dalle due barche al comando. Il Red Ink sfrecciava sull'acqua, superando gli altri come se fossero rimasti incollati alla carta moschicida. Solo il Flying Carpet gli aveva tenuto testa ma, durante la prima curva intorno all'isola di Santa Catalina, Zavala aveva virato a ridosso della boa, costringendo Ali a girare al largo. Da allora il Flying Carpet era costretto all'inseguimento. Adesso aveva preso l'abbrivo e stava per affiancare il Red Ink. Austin sapeva che, all'ultimo minuto, Ali aveva optato per un'elica più piccola, più efficace con il mare mosso. Austin avrebbe voluto poter scambiare con quella la sua elica grande, adatta alle acque calme. Il concorrente aveva fatto bene ad ascoltare il suo fiuto per le condizioni del tempo, anziché fidarsi delle previsioni. «Sto per aumentare ancora un po' la velocità!» gridò Austin. «Adesso siamo a centoquarantuno», gridò di rimando Zavala. «Il vento si è alzato. Se non rallentiamo, la barca prenderà il volo come un aquilone.» Austin sapeva che virare ad alta velocità era un rischio, perché i due scafi del catamarano sfioravano la superficie senza incontrare praticamente alcuna resistenza da parte dell'acqua. Lo stesso design che consentiva alla barca una velocità elevata sulla cresta delle onde permetteva al vento di insinuarsi sotto gli scafi e sollevarla come un aquilone o, peggio ancora, rovesciarla. Il Flying Carpet continuava a guadagnare terreno. Le dita di Austin sfiorarono la sommità delle manette. Detestava perdere. Lo spirito competitivo era una qualità che aveva ereditato dal padre, insieme al fisico da giocatore di football e agli occhi dello stesso colore delle acque della barriera corallina. Prima o poi, quel tratto del suo carattere lo avrebbe portato alla morte, ma il giorno fatale non era ancora arrivato. Tirò indietro le manette, pensando che quella manovra avrebbe potuto salvarlo. Da sinistra stava per abbattersi un'onda maligna alta circa un metro e
venti, con la cresta bianca, che si avventava su di loro con un fragore simile a un ringhio. Zavala la vide arrivare di traverso e pregò che riuscissero a superarla, ma nello stesso istante si rese conto che i tempi erano tutti sbagliati. L'onda artigliò uno dei due scafi come la zampa di un felino, e il Red Ink fu proiettato roteando nell'aria. Con riflessi fulminei, Zavala manovrò per assecondare il movimento, come un automobilista che slitta su una lastra di ghiaccio. La barca ricadde in acqua su un lato, rovesciandosi in modo che le calotte finirono sotto la superficie; ma, dopo alcuni scrolloni, si raddrizzò. Ali rallentò ma, quando vide che gli avversari erano sani e salvi, tornò ad accelerare, gettando al vento ogni cautela. Voleva conquistare il maggior vantaggio possibile su Austin e, ignorando i consigli del veterano Hank Smith, che gli faceva da secondo regolando le manette, spinse la barca al limite delle sue possibilità. La gigantesca coda di schiuma s'inarcò nell'aria per alcune decine di metri, mentre le eliche gemelle aprivano nell'acqua una scia doppia e altrettanto lunga. «Mi dispiace», gridò Zavala. «Ho beccato un'onda.» «Grande salvataggio. Puntiamo al secondo posto.» Austin spinse le manette in avanti e, con un ululato dei motori, si lanciarono all'inseguimento. L'operatore italiano che riprendeva la gara dall'alto era riuscito a cogliere il drammatico avvicendamento fra le due barche in testa. Subito dopo l'elicottero descrisse un ampio cerchio, tornando a sorvolare la flotta per librarsi al centro del canale. Pozzi voleva un campo lungo della barca solitaria che sfrecciava oltre gli spettatori verso la boa che contrassegnava l'ultima virata e l'inizio del tratto finale, verso San Diego. Per orientarsi, il cameraman lanciò un'occhiata alla superficie del mare e vide delle increspature formarsi intorno a un grande oggetto grigiastro e lucente che sporgeva dalla superficie. Un'illusione ottica? No, c'era decisamente qualcosa. Attirando l'attenzione del pilota, gli indicò il tratto di mare sottostante. «Che diavolo è, quello?» domandò il pilota. Pozzi puntò sull'oggetto la telecamera, zoomando con una lieve pressione su un pulsante. «È una balena», rispose in italiano. «Parla in inglese, per amor del cielo.» Pozzi cercò il termine giusto in quella lingua, quindi ripeté la risposta. «Ah, sì», replicò il pilota. «Si vedono spesso, durante le migrazioni. Non preoccuparti, s'immergerà non appena sentirà le barche.»
«No», ribatté Carlo scuotendo la testa. «Penso che sia morta. Non si muove.» Il pilota inclinò leggermente l'elicottero per avere una visuale migliore. «Diamine, hai ragione. Ce n'è anche un'altra. Ne vedo tre... no, quattro. Dannazione, stanno spuntando in tutto il campo di gara.» Passò sul canale riservato alle segnalazioni d'allarme. «Guardia costiera di San Diego, mi sentite? Parla l'elicottero per le riprese televisive della gara. Emergenza!» Fra una scarica e l'altra, una voce rispose: «Stazione della guardia costiera di Point Cabrillo. Passo». «Vedo delle balene nel campo di gara.» «Balene?» «Sì, saranno una dozzina. Penso che siano morte.» «Ricevuto», rispose l'uomo alla radio. «Mandiamo la motovedetta sul posto a fare un controllo.» «Troppo tardi», ribatté il pilota. «Dovete interrompere la gara.» Seguì un silenzio teso, poi: «Ricevuto. Tenteremo». Un attimo dopo, in risposta a un ordine lanciato dalla radio, la motovedetta abbandonò la sua postazione vicino alla boa. Nel cielo azzurro sbocciarono razzi di segnalazione color arancio. Ali vide i razzi e la carogna gonfia e grigia che galleggiava sul suo percorso solo quando fu troppo tardi. Con un violento strattone al timone, riuscì a scansare il primo ostacolo di pochi centimetri, ne aggirò un secondo, ma non riuscì a evitarne un terzo. Virò comunque, gridando a Hank di ridurre la potenza. Le dita di Smith volarono sulla manetta, e lo scafo si abbassò sulle acque. Il Flying Carpet correva ancora a circa cinquanta nodi, quando colpì il corpo della balena e quello scoppiò come un enorme pallone di gomma, sprigionando un'ondata fetida. La barca restò sospesa su un solo scafo, si rovesciò e infine si raddrizzò miracolosamente. Soltanto il casco da gara risparmiò la frattura del cranio ad Ali e al suo secondo. Con la vista offuscata da una cappa nera, Ali tese le mani verso i comandi, cercando di virare, ma non ottenne nessuna reazione dal timone. Allora chiamò Hank, ma si accorse che era riverso in avanti sulle manette. A bordo del Nepenthe, il comandante aveva lasciato la plancia per scendere sul ponte a parlare con Gloria Ekhart, quando l'attrice si protese oltre la battagliola per dire: «Mi scusi, comandante, ma cosa sta facendo quella barca dorata?» Il Flying Carpet ballonzolava come un pugile sbronzo che cerca di rag-
giungere un angolo neutro; poi la doppia prua si girò e la barca si raddrizzò, acquistò velocità e assunse una traiettoria che la portava in rotta di collisione con lo yacht, esattamente a mezzanave. Il comandante si aspettava che virasse, ma la barca proseguiva imperterrita la sua corsa. Allarmato, si scusò con calma, allontanandosi da Gloria per estrarre dalla cintola un walkie-talkie. Il suo computer mentale stava calcolando quanto ci sarebbe voluto prima che la barca dorata li speronasse. «Parla il comandante», gridò nella ricetrasmittente. «Metta la nave alla via!» «Adesso, signore? Durante la gara?» «È sordo, per caso? Ritiri l'ancora e sposti questa nave. Subito!» «E dove dovrei portarla, signore?» Avevano le stesse probabilità di spostarsi in tempo di quelle che ha una palla di neve di resistere all'inferno, e il timoniere voleva fare il gioco delle venti domande. «Avanti», gridò il comandante, sull'orlo del panico. «Ma si muova!» Nello stesso momento in cui impartiva l'ordine, il comandante capì che era troppo tardi, perché la barca aveva già ridotto la distanza della metà. Cominciò a sospingere i bambini dalla parte opposta dello yacht; forse in quel modo sarebbe riuscito a salvare la vita a qualcuno di loro, anche se ne dubitava. Lo scafo di legno dell'imbarcazione si sarebbe ridotto in mille schegge, e il carburante fuoriuscito dai serbatoi avrebbe provocato una violenta deflagrazione, facendo colare a picco lo yacht nel giro di pochi minuti. Mentre afferrava lo schienale di una sedia a rotelle occupata da una bambina e la spingeva attraverso il ponte, gridò agli altri di fare altrettanto. Troppo atterrita per reagire, Gloria Ekhart si vide venire incontro quel siluro dorato e istintivamente fece l'unica cosa che poteva fare: cinse con un braccio le fragili spalle della figlia e la strinse a sé. 2 Austin non fu sorpreso di vedere che la barca di Ali bin Said perdeva il controllo; era come se Ali, con il suo comportamento, andasse in cerca di un rovesciamento o di una collisione. Era la natura dell'incidente a lasciarlo perplesso. Il Flying Carpet aveva virato di bordo bruscamente, sbandando in mezzo a un geyser di schiuma, poi, dimostrandosi all'altezza del suo nome, aveva spiccato il volo con una fiancata più in alto dell'altra, come una stunt-car da esibizione che si lancia su due ruote lungo una bassa
rampa in salita. Il catamarano era volato con la prua in avanti per parecchie lunghezze prima di precipitare in mare con uno scroscio spaventoso, scomparendo per un attimo per riaffiorare poi in superficie con lo scafo nuovamente in equilibrio. Austin e Zavala avevano accertato che una velocità di poco inferiore a cento nodi consentiva di mantenere il vantaggio sul gruppo, ma era abbastanza moderata da permettere loro di affrontare le condizioni mutevoli dell'acqua e del vento. Il mare era un misto di onde piccole e basse, alcune più lunghe delle altre ma per lo più sormontate da una cresta di schiuma bianca. Non era certo un mare forza dodici secondo la scala Beaufort, ma neanche da prendere sottogamba. Continuarono a tenere gli occhi aperti per individuare l'eventuale formarsi di un'onda anomala che avrebbe potuto capovolgere di nuovo la barca. Zavala aveva virato con un'ampia curva, puntando la prua verso il Flying Carpet per vedere se aveva bisogno d'aiuto. Quando la barca salì sulla cresta di un'onda e scivolò dalla parte opposta, fu costretto a virare bruscamente per evitare un oggetto grigio più lungo della barca, poi descrisse un gigantesco slalom acrobatico per evitare altri tre enormi ostacoli color ardesia. «Balene!» gridò sbalordito Zavala. «Sono ovunque.» Austin ridusse la velocità della metà. Passarono accanto a un altro corpo senza vita e a uno vicino, più piccolo, che poteva appartenere a un balenottero. «Balene grigie», osservò con stupore. «Un branco intero.» «Sembra che le cose non vadano molto bene per loro.» «Neppure per noi», ribatté Austin, tirando indietro le manette. «Là fuori sembra un campo minato.» La barca di Ali si era persa senza meta fra le onde, con l'elica sospesa in aria. Adesso la prua si alzò improvvisamente, le pale fameliche addentarono l'acqua e il Flying Carpet schizzò via come una lepre avvistata da un cane da caccia. Accelerò in fretta, cominciando ben presto a planare, e puntò dritto verso la flotta degli spettatori. «Macho hombre!» esclamò Zavala ammirato. «Rimbalza dal corpo di una balena e va a stringere la mano ai suoi ammiratori.» Anche Austin, sulle prime, era convinto che Ali volesse esibirsi in una sorta di inchino al pubblico. La sua barca era lanciata sulle acque libere come una freccia d'oro puntata verso il bersaglio. Austin tracciò a occhio una linea invisibile sulle acque, prolungando la rotta del Flying Carpet fino a incrociare una grande barca bianca ancorata parallelamente al percor-
so di gara. Le sue linee eleganti permettevano di riconoscere un lussuoso yacht d'epoca, e Austin ammirò l'abilità con cui i progettisti avevano saputo fondere forma e funzionalità nello scafo di legno. Lanciò ancora un'occhiata alla barca di Ali, che si muoveva sempre più in fretta, proseguendo verso lo yacht senza deviare. Come mai non lo hanno fermato o deviato? Austin sapeva che lo scafo di una barca da corsa era estremamente resistente, ma il timone e il tirante di connessione erano esposti: se il tirante aveva subito un colpo tale da deformarlo, era possibile che il timone fosse rimasto bloccato. E allora? Se anche il timone era bloccato, l'equipaggio non doveva fare altro che spegnere il motore e, nel caso che non potesse farlo l'addetto alle manette, il pilota poteva ricorrere all'interruttore d'emergenza, che si azionava manualmente mediante una cimetta. La barca aveva urtato la balena solo di striscio, ma l'impatto doveva essere stato comunque violento, soprattutto quando lo scafo aveva rimbalzato sull'acqua. Doveva essere stato come urtare contro una lastra di cemento. Nonostante il casco e la cintura di sicurezza, l'equipaggio di Ali poteva essere rimasto ferito o, peggio ancora, aver subito uno choc. Austin si voltò a guardare lo yacht e vide i volti infantili allineati sui ponti. Santo cielo! Bambini! Lo yacht era carico di bambini. Sul ponte ferveva un'attività frenetica: tutti ormai avev; o visto la barca in arrivo. Lo yacht stava levando l'ancora, ma avrebbe dovuto mettere le ali per evitare una collisione disastrosa. «La colpirà!» esclamò Zavala, più sbigottito che preoccupato. La mano di Austin parve animarsi di vita propria, abbassando le manette con la punta delle dita. Con un ruggito dei potenti motori, il Red Ink balzò in avanti come un purosangue da corsa punto da un'ape. Zavala fu colto alla sprovvista dall'accelerazione improvvisa, ma rinsaldò la presa sulla ruota del timone per dirigere il Red Ink verso la barca in fuga. La loro capacità d'intuire il pensiero dell'altro era stata determinante più di una volta per salvare la pelle mentre svolgevano una missione per conto della NUMA. Austin spinse in avanti le manette e il catamarano si sollevò, cominciando a planare come una freccia sulle acque libere. Filavano a una velocità doppia rispetto a quella del Flying Carpet, seguendo una rotta trasversale. Ormai mancavano pochi secondi all'intercettazione. «Teniamoci paralleli e accostiamo», gridò Austin. «Quando mi senti urlare, spingilo verso dritta.»
Le sue sinapsi cerebrali danzavano, alimentate da energia elettrica sufficiente a illuminare una città intera. Il Red Ink salì sulla dorsale di un'onda, volando nell'aria e ricadendo con uno scroscio spaventoso. Lo yacht avanzava lentamente, e ciò avrebbe offerto loro un lieve aumento nel margine di errore, ma non molto di più. Le due barche erano quasi affiancate. Zavala fece sfoggio della sua incredibile abilità di pilota, avvicinandosi con il Red Ink nonostante le onde sollevate dalla scia sempre più larga. Austin raggiunse il Flying Carpet e lo superò, poi lentamente tirò indietro le manette per eguagliare la velocità dell'altra barca. Erano distanti appena pochi metri. Austin era entrato in quella terra di nessuno fra intelletto e azione in cui ogni mossa è puramente istintiva, e tutti i suoi sensi erano all'erta. Il rombo assordante dei quattro potenti motori impediva ogni tentativo di riflessione razionale. Era diventato tutt'uno con il Red Ink, i muscoli e le articolazioni si fondevano con l'acciaio e il kevlar, entrando a far parte della barca come i pistoni e l'albero motore. Le due barche non erano in sincronia, e l'una balzava sulle onde quando l'altra sprofondava in basso, ma Austin riuscì a regolare la velocità del Red Ink in modo tale che finirono per sembrare due delfini che nuotassero affiancati, in formazione perfetta. Su. Giù. Su. «Ora!» gridò. Lo spazio fra le due barche in corsa si ridusse a pochi centimetri. Zavala girò il timone verso dritta. Era una manovra delicata. Se l'avesse eseguita troppo in fretta, gli scafi si sarebbero urtati e forse sarebbero volati in aria, in un intreccio mortale. Quando si toccarono, si udì un tonfo sordo e violento, seguito dallo stridio lacerante della fibra di carbonio torturata dall'urto, poi gli scafi si separarono di nuovo. Zavala riportò la barca in linea, tenendola saldamente in posizione, mentre la ruota minacciava di sfuggirgli dalle mani. Austin spinse con decisione le manette in avanti. Il frastuono del motore era spaventoso. Le barche si urtarono di nuovo. Era come tentare di catturare al laccio un toro di grossa taglia e di grande potenza. Alla fine il Flying Carpet cominciò a perdere lo slancio e a deviare verso dritta. Le due barche si allontanarono ancora una volta. Zavala, ormai appassionatosi al gioco, puntò di nuovo contro l'altra barca, e l'angolazione aumentò. «Disimpegnati, Joe!»
La barca di Ali si slanciò in avanti, su una rotta destinata a mancare di poco la poppa dello yacht, avventandosi contro il resto della flottiglia di spettatori, e le barche si sparpagliarono come foglie secche al vento d'autunno. Austin sapeva fin dall'inizio che spingere fuori rotta la barca di Ali significava lanciare il Red Ink come un pallino sul tavolo da biliardo, ma non aveva calcolato che ci sarebbe voluto tanto tempo per indurre il Flying Carpet a deviare. Adesso lui e Joe erano lanciati a loro volta verso lo yacht in movimento, e mancavano pochi secondi all'impatto. Riuscivano persino a vedere l'espressione inorridita della gente sul ponte. Il Red Ink filava a settantacinque nodi, e anche se avesse spento i motori in quel momento ci sarebbe voluto il raschietto per recuperare i suoi resti e quelli di Zavala dalle murate di legno del vecchio yacht. «E adesso?» gridò Zavala. «Mantieni la rotta», ordinò Austin. Zavala imprecò sottovoce. Nutriva la massima fiducia nella capacità di Austin di tirarli fuori dai guai, ma a volte le azioni del suo partner sfidavano ogni logica. Comunque, se pensava che quell'ordine equivalesse a un suicidio certo, non lo diede a vedere. Per la verità, l'istinto gli suggeriva di aggrapparsi al timone e affrontare i rischi della manovra, eppure mantenne ostinatamente quella rotta folle, come se lo yacht da sessanta metri che invadeva tutto il suo campo visivo come una grande muraglia bianca fosse solo un miraggio. Digrignando i denti, irrigidì tutto il corpo in previsione dell'impatto. «Sta' giù», ordinò Austin. «Tieni la testa bassa. Ho intenzione di passarci sotto.» Chinandosi in avanti, spinse i motori al massimo e nello stesso tempo regolò gli stabilizzatori e gli alettoni. La manovra che aveva in mente, definita in gergo nautico stuff, veniva considerata di solito un'eventualità da evitare a tutti i costi. Si verificava quando una barca superava un'onda e s'immergeva in quella successiva, e nella sua forma peggiore veniva detta sottomarino, perché era proprio ciò che la barca diventava quando s'infilava nella massa d'acqua a tutta velocità. Adesso Austin, anziché evitare quel risultato, contava proprio sul fatto che si verificasse, e trattenne il fiato mentre il catamarano puntava il muso verso il basso con una potente angolazione, affondava la prua nell'acqua e proseguiva così, scavando un solco nel mare come una talpa in un prato. Sospinto dai motori che giravano a pieno regime, il Red Ink si era trasformato in un sommergibile. La barca passò così al di sotto dello yacht in movimento, ma la profondi-
tà non fu sufficiente a evitare che le calotte trasparenti saltassero via. Si sentì un urto impressionante, per quanto attutito dall'acqua. Le eliche mancarono la testa dei piloti per pochi centimetri, poi il catamarano superò lo yacht e riemerse dalla parte opposta. Sbucando in superficie come un enorme pesce volante rosso fuoco, arrestò la sua corsa con i motori che entravano in stallo, sprigionando una nuvola di fumo violaceo. La struttura dell'imbarcazione comprendeva una gabbia interna capace di resistere a un branco di elefanti obesi, ma le calotte erano più vulnerabili, e le cupolette di plexiglas erano state divelte del tutto. Il mare invase i pozzetti di comando, mentre la barca dondolava fra le onde. Zavala tossì, sputando una boccata d'acqua di mare. «Stai bene?» domandò, con un'espressione stordita sul viso scuro e attraente. Austin si sfilò il casco, scoprendo la folta capigliatura di un biondo platino quasi bianco. Esaminando le cicatrici lasciate sul ponte dalle eliche dello yacht, si rese conto di quanto ci fossero andati vicini. «Sono ancora fra i vivi», rispose, «ma non credo che il Red Ink fosse progettato per diventare una decappottabile.» Zavala sentì che l'acqua gli arrivava alla cintola. «È ora di abbandonare la nave.» «Consideralo un ordine», disse Austin, slacciandosi la cintura di sicurezza, poi si gettarono in mare. Un cabinato passò a recuperarli, grondanti acqua, pochi minuti prima che il Red Ink colasse a picco. «Che ne è stato della barca dorata?» domandò Austin al proprietario del cabinato, un uomo di mezz'età con la pipa in bocca; era venuto da San Diego ad assistere alla gara, e ne aveva ricavato più emozioni di quanto avesse previsto. Con il cannello della pipa, l'uomo indicò un punto in lontananza. «Laggiù. È passato dritto in mezzo alle barche degli spettatori. Non so proprio come abbia fatto a evitare le altre.» «Le dispiace se controlliamo?» «Non c'è problema», rispose l'uomo, girando la ruota del timone. Qualche istante dopo, accostarono al Flying Carpet. Le cupole erano state spinte indietro. Austin si sentì sollevato nel vedere che gli uomini all'interno erano vivi, anche se Ali aveva la testa insanguinata nel punto in cui aveva urtato contro la copertura protettiva e Hank dava l'impressione di patire i postumi di una brutta sbornia. Austin gridò: «Siete feriti?» «No», rispose Ali, anche se non sembrava convinto di stare bene. «Che
diavolo è successo?» «Avete colpito una balena.» «Una cosa?» Vedendo l'espressione seria di Austin, Ali rimase a bocca aperta. «Immagino che non abbiamo vinto», osservò tetro. «Non se la prenda troppo», replicò Austin. «Almeno la sua barca non è finita in fondo al mare.» «Mi dispiace», disse Ali in tono mesto, ma poi si ravvivò subito, come illuminato. «Allora non avete vinto neanche voi.» «Au contraire», ribatté Austin. «Abbiamo vinto tutti e quattro il premio per gli uomini più fortunati del mondo.» Ali annuì. «Allah sia lodato», disse, un secondo prima di svenire. 3 Foresta pluviale venezuelana La fitta volta di rami intrecciati filtrava i raggi del sole, creando l'illusione che le acque scure della laguna fossero più profonde che nella realtà. Rimpiangendo di aver letto la notizia che il governo del Venezuela intendeva reintrodurre i coccodrilli mangiatori di uomini dell'Orinoco nel loro ambiente naturale, Gamay Morgan Trout tese il corpo atletico per scattare in un tuffo che le consentì d'immergersi in quell'oscurità degna dello Stige grazie a una potente spinta delle gambe snelle. Ecco che cosa doveva provare un animale preistorico sprofondando nella densa poltiglia delle fosse di catrame di La Brea in California, pensò Gamay. Accendendo le due luci alogene collegate alla videocamera Stingray, si spinse verso il basso. Mentre passava al di sopra della vegetazione che ricopriva il fondale come un campo di spinaci, oscillando alla leggera corrente come se ballasse a ritmo di musica, si sentì sfiorare le natiche. Si girò di scatto, più indignata che spaventata, allungando la mano verso il fodero del coltello che portava alla cintola, e si trovò a pochi centimetri dalla maschera un muso lungo e stretto che sporgeva da una testa rosea e informe, con gli occhi piccoli e neri. Il muso eseguì una serie di oscillazioni, simile a un dito scrollato in segno di rimprovero. Gamay aprì la mano, già serrata sull'impugnatura del coltello, e spinse di lato il muso. «Guai a te se ci riprovi!» La frase uscì dal regolatore sotto forma di un fiotto di bollicine d'aria. La bocca sottile dell'animale si aprì in un amichevole sorriso da down,
scoprendo i denti aguzzi. Poi il delfino fluviale ruotò su se stesso, guardandola di sotto in su. Gamay scoppiò a ridere, provocando una gorgogliante eruzione di bolle, e premette con il pollice la valvola che immetteva aria nel giubbetto ad assetto variabile. Pochi secondi dopo, la sua testa affiorò sulla superficie calma della pozza con la spinta di un pupazzo a molla. La giovane donna si rilassò, mantenuta a galla dal giubbetto, si sfilò il boccaglio di plastica e sorrise. A pochi metri da lei, Paul Trout era seduto a bordo del loro gommone Bombard lungo tre metri. Svolgendo il suo compito sull'imbarcazione d'appoggio all'immersione, Paul aveva seguito la scia di bollicine che segnalava gli spostamenti della moglie sott'acqua, e fu sorpreso di vederla emergere dalle acque nere, ma rimase ancor più sconcertato dalla sua allegria. Con una smorfia stupita, abbassò la testa, un atteggiamento che gli era caratteristico, quasi volesse sbirciare al di sopra di un paio di occhiali invisibili. «Stai bene?» le domandò, battendo le palpebre sui grandi occhi nocciola. «A meraviglia», rispose Gamay, anche se chiaramente non era vero. La sua risata fu rinfocolata dall'espressione incredula di Paul. La giovane donna inghiottì una boccata d'acqua, e la prospettiva di annegare dal ridere le provocò un accesso di risa ancor più incontrollabile. Si rimise il boccaglio. Paul si avvicinò pagaiando e si sporse fuori bordo per tenderle la mano. «Sicura di star bene?» «Sì, sto benissimo», replicò lei, ritrovando il sangue freddo e sputando il regolatore. Dopo una crisi di tosse causata dall'acqua ingerita, aggiunse: «È meglio che risalga a bordo». Aggrappandosi alla barca, consegnò l'attrezzatura da immersione a Paul, che si protese per issarla a bordo, sollevando senza sforzo i suoi sessanta chili di peso. Con i calzoni corti color nocciola, intonati alla camicia militare con le spalline e al cappello di popeline con la tesa floscia, aveva l'aria di un transfuga dell'Explorers' Club di epoca vittoriana. La grande farfalla tropicale posata sotto il pomo d'Adamo era in realtà uno dei suoi papillon preferiti. Trout non vedeva alcun motivo per non vestirsi in modo impeccabile ovunque, persino nel cuore della foresta tropicale del Venezuela, dove un perizoma veniva già considerato una tenuta formale. L'abbigliamento da dandy mascherava in realtà una straordinaria forza fisica, costruita ai tempi in cui aveva lavorato sui battelli da pesca a Cape Cod. I calli
spessi e duri sul palmo delle mani erano scomparsi, ma i muscoli che si era costruito trasportando a spalla innumerevoli casse di pesce erano in agguato sotto gli abiti dalla piega a lama di rasoio. Oltre a ciò, quando la situazione lo richiedeva Paul sapeva trarre vantaggio dai suoi due metri e sette centimetri. «Il profondimetro assicura che la profondità raggiunge appena i dieci metti, quindi la tua euforia non è causata dall'azoto», osservò con il suo abituale tono analitico. Gamay sciolse il fermaglio che tratteneva i capelli lunghi fino alle spalle, quei capelli che, con il loro rosso tiziano, avevano ispirato al padre, un intenditore di vini, l'idea di darle il nome del vitigno da cui si ricavava il Beaujolais. «Osservazione davvero acuta, mio caro», ribatté lei, torcendo i capelli per liberarli dell'acqua. «Stavo ridendo perché pensavo di dover fare la guardona, mentre in realtà ero io a essere guardata.» Paul batté le palpebre. «Che sollievo. Adesso sì che ho le idee chiare!» Lei gli rivolse un sorriso abbagliante. «Devi sapere che Cyrano il delfino mi ha sbirciato ben bene e mi ha affibbiato una pacca sul sedere con il muso.» «Non posso certo biasimarlo.» Paul squadrò i fianchi snelli della moglie con un sogghigno lascivo, sollevando le sopracciglia in un'imitazione di Groucho Marx. «E dire che la mamma mi aveva messo in guardia contro gli uomini che portano la cravatta a farfalla e la riga in mezzo.» «Ti ho mai detto che somigli a Lauren Hutton?» ribatté lui, tirando una boccata da un sigaro immaginario. «È che sono attratto dalle donne con quello spazio così sexy fra i denti davanti?» «Scommetto che lo dici a tutte le ragazze», ribatté lei, mentre nella sua voce, di solito tranquilla e distaccata, s'insinuava un tono roco alla Mae West. «Comunque l'amoroso buffetto di Cyrano mi ha ispirato una deduzione scientifica.» «Hai scoperto di essere afflitta da feticismo per i nasi?» Lei rispose marcando le sopracciglia come per ammonirlo a non dire sciocchezze. «No, anche se non lo escluderei. Ho imparato che i delfini d'acqua dolce forse sono esseri più primitivi dei loro cugini di mare, e in genere sono meno vivaci, ma sono anche loro intelligenti, giocherelloni e dotati di senso dell'umorismo.» «Se sei grigio e rosa, hai le pinne con tanto di dita all'estremità e la testa
che sembra un melone sformato, devi avere per forza il senso dell'umorismo.» «Non male come osservazione scientifica di un biologo marino.» «Sempre lieto di rendermi utile.» Lei lo baciò sulle labbra. «Apprezzo davvero il fatto che tu sia qui, e tutto il lavoro che hai svolto per creare il modello computerizzato del fiume. È stato un bel cambiamento. Mi dispiace quasi di dover tornare a casa.» Paul si guardò intorno, osservando l'ambiente tranquillo che li circondava. «Per la verità mi sono divertito. Questo posto sembra una cattedrale medievale. E gli animali, qui, sono davvero divertenti, anche se non so se ritenere positivo il fatto che si prendono delle libertà con mia moglie.» «Cyrano e io abbiamo un rapporto del tutto platonico», ribatté Gamay, sollevando il mento con un'espressione altezzosa. «Stava solo cercando di attirare la mia attenzione perché gli offrissi un bocconcino.» «Un bocconcino?» «Un bocconcino a base di pesce.» Gamay batté più volte con una pagaia sul fianco del gommone, e si sentì uno scroscio nel punto in cui la laguna si apriva sul fiume. Una gobba di un grigio rosato, con la pinna dorsale lunga e bassa, solcò le acque formando un'increspatura a V che puntava nella loro direzione, poi girò intorno al battello, emettendo una specie di starnuto dallo sfiatatoio. Gamay sparse del mangime a base di pesce, e il muso affusolato uscì dall'acqua, divorando il cibo con avidità. «Abbiamo verificato la validità di quelle storie apocrife di delfini che arrivano rispondendo a un invito. Posso quindi benissimo immaginare che aiutino gli abitanti del posto a pescare, come abbiamo sentito raccontare.» «Inoltre offrendogli uno spuntino hai dimostrato che Cyrano ha svolto un buon lavoro.» «È vero, ma queste creature dovrebbero costituire una versione incompleta dell'esemplare che vive nell'acqua salata, quindi per me è interessante constatare che il loro cervello ha fatto progressi più rapidi dell'aspetto fisico.» Per qualche minuto osservarono divertiti il delfino che girava intorno al gommone, poi, accorgendosi che la luce cominciava a diminuire, decisero di tornare indietro. Mentre Gamay riponeva l'attrezzatura per l'immersione, Paul avviò il motore fuoribordo e puntò fuori della laguna, verso la corrente placida del fiume. L'acqua passò dal color inchiostro a un verde tenue come il passato
di piselli. Il delfino li accompagnò, ma quando si rese conto che non gli sarebbero stati offerti altri spuntini sfrecciò lontano con la velocità di un caccia da combattimento. Di lì a poco la fitta vegetazione che ricopriva le rive si aprì per formare una radura. Un gruppo di capanne col tetto di paglia si stringeva intorno a una casa dalle pareti di stucco bianco, con il tetto di tegole rosse e la facciata ad arcate, nel tipico stile coloniale spagnolo. I due coniugi ormeggiarono il gommone a un piccolo molo, scaricarono il materiale e si diressero verso la costruzione, seguiti da un gruppo di piccoli indios seminudi e vocianti. I ragazzi furono dispersi dalla governante, una donna di sangue misto dall'aspetto temibile, che brandiva la scopa come se fosse un'ascia di guerra. Paul e Gamay entrarono, accolti da un uomo sulla sessantina con i capelli d'argento, che indossava una camicia bianca ricamata sul petto, calzoni di cotone e sandali fatti a mano. L'anziano sudamericano si alzò dalla scrivania alla quale stava lavorando, curvo su una pila di fogli, nella frescura dello studio. «Señor e señora Trout, sono lieto di vedervi. Il vostro lavoro è andato bene, spero.» «Molto bene, dottor Ramírez. Grazie», rispose Gamay. «Ho avuto la possibilità di catalogare altri comportamenti dei delfini, e Paul ha completato il modello computerizzato del fiume.» «In realtà ci ho messo ben poco di mio», precisò Paul. «Si trattava più che altro di segnalare ai ricercatori che si occupano del progetto sul bacino del Rio delle Amazzoni il lavoro svolto qui da Gamay e pregarli di orientare in questa direzione il satellite LandSat. Io potrò completare il modello computerizzato quando torneremo a casa, e Gamay lo userà per la sua analisi dell'habitat.» «Mi dispiacerà molto quando ve ne andrete. È stato un vero atto di cortesia, da parte della National Underwater & Marine Agency, prestarci i suoi esperti per il nostro modesto progetto di ricerca.» «Senza questi fiumi, per non parlare della flora e della fauna che si sviluppano qui, non ci sarebbe vita nell'oceano», asserì Gamay. «Grazie, señora Gamay. In segno di apprezzamento, ho preparato una cena speciale per la vostra ultima serata qui.» «È stato molto gentile», osservò Paul. «Faremo presto i bagagli, in modo da essere pronti per l'arrivo della barca dei rifornimenti.» «Se fossi in voi, non mi preoccuperei troppo. La barca è sempre in ritardo.» «Tanto meglio», replicò Paul. «Avremo tempo per discutere ancora un
po' del suo lavoro.» Ramírez ridacchiò. «Mi sento una specie di troglodita. Pratico ancora la mia disciplina, la botanica, alla maniera antica, tagliando piante, conservandole e confrontandole, per scrivere rapporti che poi nessuno legge.» La sua espressione s'illuminò. «Le nostre piccole creature del fiume non hanno mai avuto amici migliori di voi.» «Il nostro lavoro dimostrerà in quali punti l'habitat dei delfini è soggetto a una minaccia ambientale», dichiarò Gamay. «E forse sarà possibile escogitare un rimedio in proposito.» Ramírez scosse la testa con aria mesta. «In America Latina, il governo tende a muoversi lentamente, a meno che non abbia la prospettiva di riempirsi le tasche. I progetti di valore vengono insabbiati.» «È la stessa musica che sentiamo a casa nostra, solo che la nostra cava di sabbia si chiama Washington, D.C.» Stavano ancora ridendo della battuta, quando la governante introdusse nello studio un nativo. Si trattava di un tipo basso e muscoloso, coperto solo da un perizoma, e portava alle orecchie dei voluminosi cerchi di rame; i capelli neri e lucidi erano tagliati a frangetta, mentre le sopracciglia erano rasate. Parlò in tono rispettoso al dottor Ramírez, ma l'eccitazione trattenuta e gli occhi irrequieti facevano intuire che qualcosa lo aveva turbato. Puntava di continuo un dito in direzione del fiume, e infine lo studioso sudamericano afferrò i panama di paglia intrecciata appeso a un gancio. «A quanto pare hanno trovato un cadavere a bordo di una canoa», annunciò. «Vi chiedo scusa, ma, essendo l'unico rappresentante del governo nel raggio di centocinquanta chilometri, devo scoprire cos'è successo.» «Possiamo venire anche noi?» chiese Gamay. «Ma sicuro. Non sono certo uno Sherlock Holmes e sarei lieto di avere l'aiuto di occhi addestrati a osservare le situazioni in maniera scientifica. Potreste trovarlo interessante. Quest'uomo sostiene che il morto appartiene al popolo degli spettri.» Notando la reazione perplessa dei suoi ospiti, aggiunse: «Vi spiegherò poi». Uscirono di casa per dirigersi in fretta verso il fiume, superando le capanne. Gli uomini del villaggio si erano riuniti in silenzio sulla riva, con i bambini che sbirciavano fra le gambe degli adulti. Le donne, invece, erano rimaste indietro. La folla si divise in due quando il dottor Ramírez si avvicinò. Ormeggiata al molo c'era una canoa scolpita con motivi elaborati; era dipinta di bianco, a parte la prua, che era azzurra, con una striscia dello stesso colore acceso che correva sino a poppa.
All'interno dell'imbarcazione giaceva supino il corpo di un giovane indio. Come gli abitanti del villaggio, aveva i capelli neri tagliati a frangetta e il suo unico indumento era un perizoma. La somiglianza finiva lì. Gli uomini del villaggio si tatuavano il corpo o si tingevano di cremisi gli zigomi alti, per proteggersi dagli spiriti maligni che, stando alle loro credenze, non sopportavano il rosso. Invece il morto aveva il naso e il mento tinti di azzurro pallido, come le braccia, mentre il resto del corpo era di un bianco intenso. Quando il dottor Ramírez si chinò sulla canoa, la sua ombra disperse le mosche verde bottiglia che coprivano il torace del cadavere e che, alzandosi in volo, rivelarono la presenza di un forellino circolare aperto nel petto. Paul trattenne il fiato. «Si direbbe una ferita di arma da fuoco.» «Penso che lei abbia ragione», convenne il dottor Ramírez, con un'espressione seria negli occhi infossati. «Non sembra certo una ferita di lancia o di freccia.» Si rivolse agli abitanti del villaggio e, dopo qualche minuto di conversazione, tradusse a beneficio dei Trout. «Dicono che erano andati a pesca quando sul fiume è apparsa la canoa che andava alla deriva. Dal colore hanno riconosciuto che era una barca del popolo degli spettri e si sono spaventati ma, visto che sembrava vuota, si sono avvicinati. Vedendo il morto nella canoa, hanno deciso di lasciar andare la barca per la sua strada. Poi ci hanno ripensato, perché il suo spirito poteva tornare a perseguitarli e non gli avessero dato una sepoltura decente. Così lo hanno portato qui, ed è diventato un problema mio.» «Perché dovrebbero aver paura di questo... spettro?» domandò Gamay. Il dottor Ramírez si torse l'estremità dei folti baffi grigi. «Si dice che il territorio dei chulo - il nome locale della tribù alla quale appartiene questo signore - si estenda oltre le Grandi Cascate. I nativi sostengono che sono spiriti nati dalla nebbia. Quelli che sono entrati nel loro territorio non ne sono mai usciti.» Accennò alla canoa. «Come potete vedere, comunque, quest'uomo è fatto di carne e sangue come tutti noi.» Frugando nell'imbarcazione, raccolse una sacca di pelle animale che era posta vicino al cadavere, e i nativi del villaggio indietreggiarono come se brandisse un sacco pieno di stracci impestati. Lui allora si rivolse in spagnolo a uno degli indios, che gli rispose sempre più animatamente a mano a mano che parlavano. Ramírez troncò la conversazione per rivolgersi ai Trout. «Hanno paura di lui», spiegò, e in effetti gli uomini del villaggio stavano tornando dalle
loro famiglie. «Se volete essere tanto gentili da aiutarmi, tireremo in secco la canoa. Li ho persuasi a scavare una fossa, ma non nel loro cimitero. Laggiù, sulla riva opposta del fiume, dove comunque non mette piede nessuno. Lo sciamano li ha rassicurati dicendo che sarà possibile disporre sulla tomba dei totem sufficienti per impedire al morto di vagare per il villaggio.» Sorrise. «La vicinanza del cadavere conferirà un potere maggiore allo sciamano. Se qualcuno dei suoi incantesimi non funziona, può sempre sostenere che lo spirito del morto è tornato. Lasceremo andare la barca alla deriva sulla corrente, e lo spirito potrà seguirla.» Paul notò la perizia con la quale era stata realizzata la canoa. «È un vero peccato sprecare un così bell'esempio di artigianato, ma pur di mantenere la pace si fa di tutto.» Afferrò un'estremità della barca e in tre, tirando e spingendo, riuscirono in breve tempo a portarla a riva. Ramírez posò sul cadavere una coperta tessuta a mano presa dalla canoa, poi recuperò la borsa, che aveva all'incirca le dimensioni di una sacca da golf ed era chiusa da alcuni lacci. «Forse questo ci rivelerà qualcosa di più sul nostro spettro», soggiunse in seguito, guidando gli ospiti verso casa. Entrati nello studio, sistemarono la sacca su un lungo tavolo da biblioteca, dopodiché Ramírez sciolse i lacci, aprì la borsa con cautela e sbirciò all'interno. «Dobbiamo procedere con prudenza. Alcune tribù usano frecce o dardi da cerbottana avvelenati.» Sollevando il fondo della sacca, fece scivolare sul tavolo parecchi sacchetti. Aprendone uno, estrasse un disco di metallo lucente che porse a Gamay. «Mi risulta che, prima di diventare biologa, lei abbia studiato archeologia. Forse sa di che cosa si tratta.» Gamay assunse un'espressione assorta mentre esaminava l'oggetto piatto e rotondo. «Uno specchio? A quanto pare, la vanità non è solo delle donne.» Paul le prese di mano l'oggetto, rigirandolo per esaminare le decorazioni incise sul retro. Accennò un sorriso. «Ne avevo anch'io uno così, da ragazzo. È uno specchietto da segnalazione. Guarda: questi sono punti e lineette. Non somiglia a nessun codice di mia conoscenza, comunque non è male. Vedi queste figure-stecco, disegnate con semplici trattini? Formano un codice elementare. Un tipo che corre in una direzione dice 'vieni', mentre se va nella direzione opposta significa 'vai', direi. Ed eccone uno steso in orizzontale.» «'Resta dove sei'», azzardò Gamay. «Lo credo anch'io. Questi due tizi con la lancia potrebbero significare
'vieni a combattere con me'. Un piccoletto insieme con un animale potrebbe rappresentare il concetto di 'andare a caccia'.» Ridacchiò. «È pratico quasi come un cellulare.» «Meglio, direi», ribatté Gamay. «Non funziona con la batteria e non prevede una tariffa per ogni minuto di conversazione.» Paul chiese a Ramírez se poteva aprire un altro sacchetto, e il sudamericano lo accontentò. «Il necessario per la pesca», spiegò Trout. «Ami di metallo, lenza di fibra. Ehi», esclamò, esaminando un rudimentale paio di pinzette. «Scommetto che queste servono per estrarre gli ami.» «Ti ho battuto», disse Gamay, vuotando un altro sacchetto e tirandone fuori un paio di piccoli cerchi di legno coperti da superfici trasparenti scure, che applicò alle orecchie per mezzo di due anelli di fibra. «Occhiali da sole.» Per non essere da meno, anche Ramírez cominciò a sbirciare nei sacchetti, e sollevò una zucca lunga una quindicina di centimetri, con un tappo di legno che tolse per annusare. «Medicina, forse? Odora di alcol.» Al fondo della zucca era appeso un piattino in miniatura, insieme a una pietra piatta fissata a un'impugnatura di legno e a una ruota di forma irregolare collegata a un asse rotante. Paul osservò la zucca con aria pensosa, poi la tolse di mano a Ramírez: dopo aver riempito di liquido il piattino, avvicinò il meccanismo di legno e fece girare la ruota, che raschiò contro la pietra, sprizzando scintille. Il liquido prese fuoco con un lieve sibilo. «Voilà», esclamò con evidente soddisfazione. «Il prototipo dell'accendino Bic. Comodo anche per attizzare un fuoco da campo.» Seguirono altre scoperte più interessanti. Uno dei sacchetti conteneva delle erbe che Ramírez identificò come piante medicinali, alcune delle quali gli erano sconosciute. In un altro c'era una sottile foglia di metallo con le estremità appuntite. Quando la misero in un bicchiere d'acqua, girò su se stessa, finché un'estremità non indicò il nord magnetico. Trovarono anche un cilindro di bambù e, quando vi accostarono l'occhio, le lenti di vetro incastonate all'interno si rivelarono potenti come quelle di un telescopio a otto ingrandimenti. C'era anche un coltello a serramanico, chiuso in un sottile astuccio di legno, ma l'ultima scoperta fu un arco piuttosto corto, realizzato sovrapponendo delle strisce di metallo come nella molla delle sospensioni di un'automobile e incurvandole per ottenere il massimo della spinta possibile per una freccia. La corda era costituita da un filo metallico sottile e flessibile. Non era certo il design primitivo che ci si poteva
aspettare da un abitante della foresta pluviale. Ramírez fece scorrere la mano sul metallo levigato. «Incredibile», esclamò. «Non ho mai visto niente di simile. Gli archi usati dagli abitanti del villaggio sono semplici rametti incurvati e legati con un rudimentale pezzo di spago.» «Come avrà imparato a fabbricare questi oggetti?» chiese Paul, grattandosi la testa. «Non si tratta solo degli oggetti», ribatté Gamay, «ma del materiale di cui sono fatti. Da dove viene?» Rimasero seduti in silenzio intorno al tavolo. «C'è un problema ancora più grosso», osservò Ramírez in tono serio. «Chi l'ha ucciso?» «Certo», ammise Gamay. «Siamo rimasti tanto colpiti dalle sue capacità tecniche da dimenticare che questi oggetti appartenevano a un essere umano che è morto.» «Ha qualche idea su chi potrebbe averlo assassinato?» chiese Paul. Il volto di Ramírez si oscurò. «Cacciatori di frodo. Uomini che tagliano e bruciano la legna. Gli ultimi venuti, in ordine di tempo, sono quelli che raccolgono piante preziose per ricavarne medicinali. Ucciderebbero chiunque si mettesse sul loro cammino.» «Ma come potrebbe un solo indio rappresentare una minaccia?» Ramírez si strinse nelle spalle. «Io credo che un'indagine su un omicidio dovrebbe cominciare dall'esame del cadavere», suggerì Gamay. «E dove lo hai sentito?» chiese Paul. «Forse l'ho letto in un giallo.» «Mi sembra una buona idea. Diamo un'altra occhiata.» Tornati sul fiume, scoprirono il corpo, e Paul lo rovesciò in posizione prona. La presenza di un foro d'entrata, più piccolo, indicava che l'uomo era stato colpito alle spalle. Trout gli sfilò con delicatezza il pendente scolpito che portava al collo. Raffigurava una donna alata che teneva le mani riunite a coppa davanti a sé, come per versare qualcosa. Lo consegnò a Gamay, e lei disse che le ricordava i bassorilievi egizi che rappresentavano la resurrezione di Osiride. Paul stava esaminando da vicino i solchi rossastri sulle spalle del morto. «Si direbbe che sia stato frustato.» Girò di nuovo il corpo. «Ehi, guardate un po' questa strana cicatrice», disse, indicando una sottile linea chiara sull'addome dell'indio. «Se non fosse inverosimile, direi che ha subito un'ap-
pendicectomia.» Dalla riva opposta del fiume arrivarono due canoe. Lo sciamano, con la testa adorna di un vistoso diadema di piume, veniva ad annunciare che la fossa per la sepoltura era pronta. Trout pose di nuovo la coperta sul cadavere e, affidato il timone a Gamay, usarono il gommone per trascinare a rimorchio la canoa bianca e azzurra fino all'altra sponda. Trout e Ramírez trasportarono il corpo per alcune centinaia di metri, addentrandosi nella foresta, poi lo seppellirono in una fossa poco profonda. Lo sciamano piantò tutt'intorno alcuni totem simili a pezzi di pollo essiccati, prima di ammonire solennemente l'assemblea che quel luogo sarebbe stato tabù per sempre. Rimorchiarono la canoa vuota sino al centro del fiume, dove la corrente l'avrebbe trascinata via, e la lasciarono andare alla deriva. «Fin dove arriverà?» chiese Paul, osservando l'imbarcazione che si avviava lentamente. «Non lontano da qui ci sono delle rapide. Se non si sfascia sulle rocce o non resta impigliata fra le alghe, potrebbe continuare fino al mare.» «Ave atque vale», disse Trout, citando l'antico saluto romano ai defunti. «Addio per sempre.» Riattraversarono il fiume, ma Ramírez, sbarcando dal gommone, scivolò sul fango della riva. «Tutto bene?» chiese Gamay. Ramírez rispose con una smorfia di dolore. «Vede? Gli spiriti maligni si sono messi all'opera. Devo aver preso una storta. Ci metterò sopra un impacco freddo, ma forse avrò bisogno del vostro aiuto per camminare.» S'avviò verso casa zoppicando, sorretto dai Trout. Annunciò che avrebbe riferito dell'omicidio alle autorità regionali, anche se non si aspettava una risposta. Per molti, nel suo Paese, l'unico indio buono era un indio morto. «Bene», concluse, rischiarandosi in volto. «Quel che è fatto è fatto. Attendo con ansia la cena di stasera.» I Trout si ritirarono nella loro stanza per riposare e rinfrescarsi in vista della cena. In una cisterna sul tetto Ramírez raccoglieva l'acqua piovana, che poi veniva incanalata in una doccia. Gamay aveva continuato a riflettere sulla morte dell'indio. Mentre si asciugava, osservò: «Ricordi la storia di quell'uomo ritrovato congelato sulle Alpi?» Paul aveva indossato una vestaglia di seta e si era steso sul letto, con le mani incrociate dietro la nuca. «Certo. Ötzi, l'uomo dell'età della pietra che fu sorpreso da un'ondata di freddo e finì mummificato in un ghiacciaio. Che cosa c'entra?»
«Esaminando gli utensili e gli oggetti che portava con sé è stato possibile farsi un quadro del suo modo di vivere. Gli indios di queste parti sono a livello dell'età della pietra, mentre il nostro amico dalla faccia bianca e azzurra non corrisponde a tale modello. Come ha imparato a fare tutte queste cose? Se avessimo trovato quegli utensili addosso alla mummia delle Alpi, lo avremmo letto su tutti i giornali. Mi pare quasi di vederli: 'L'uomo del ghiaccio usa un accendino Bic'.» «Forse era abbonato a Popular Mechanics.» «Magari leggeva pure Boy's Life ma, anche se avesse ricevuto istruzioni ogni mese sul modo di fabbricare oggetti utili, dove ha trovato i metalli lavorati necessari per fabbricarli?» «Forse stasera a cena il dottor Ramírez potrà illuminarci sull'argomento. Spero che tu abbia fame.» «Una fame da lupi. Perché?» «Ho appena visto un paio di nativi trasportare un tapiro verso la fossa scavata per il barbecue.» 4 Non appena superata la grande porta basculante che immetteva nell'interno cavernoso della base navale di San Diego, Austin fu assalito dal fetore spaventoso sprigionato da tre carogne gigantesche, adagiate su altrettanti carrelli a fondo piatto disposti sotto la luce dei riflettori. Il giovane marinaio di guardia all'interno, scorgendo l'uomo dalle spalle larghe con i capelli di uno strano bianco, aveva dedotto dalla sua presenza imponente che doveva trattarsi di un ufficiale in borghese. Quando Austin andò a identificarsi, il marinaio scattò sull'attenti. «Marinaio Cummings, signore», si presentò. «Forse sarà meglio che usi questa», aggiunse, porgendo a Austin una mascherina da chirurgo simile a quella che portava a sua volta. «L'odore è diventato davvero mefitico, da quando hanno cominciato a estrarre gli organi vitali.» Austin ringraziò il marinaio, chiedendosi chi poteva aver offeso per vedersi assegnare quel compito così poco gratificante, e si applicò la mascherina sul viso. La garza era stata spruzzata di una sostanza disinfettante che non eliminava l'odore intenso, ma riusciva quantomeno ad attenuare la reazione istintiva di nausea. «Che cosa abbiamo?» «Una mamma e un papà con il loro cucciolo», rispose il marinaio. «Le
posso garantire che è stata una vera impresa trascinarli fin qui.» Il marinaio non esagerava, pensò Austin. Il totale complessivo era di quattordici balene, e l'eliminazione dei loro corpi sarebbe stata ardua anche senza i conflitti di competenza che si erano scatenati. La guardia costiera, che era stata il primo ente governativo ad arrivare sulla scena, si preoccupava dei rischi per la navigazione e progettava di trainare le balene in alto mare, per farle affondare a colpi di cannone. I servizi televisivi estremamente drammatici su quella strana ecatombe di cetacei avevano fatto il giro del mondo, suscitando le proteste veementi degli animalisti, più indignati per la morte delle balene di quanto non lo sarebbero stati all'idea che Los Angeles sprofondasse con tutti i suoi abitanti nell'oceano Pacifico. Volevano delle risposte, e le volevano al più presto. L'EPA, ovvero l'Environmental Protection Agency - l'ente statale per la protezione dell'ambiente -, era altrettanto curioso di sapere che cosa avesse ucciso i mammiferi posti sotto la sua protezione. La città di San Diego era inorridita di fronte alla prospettiva che quelle enormi carogne maleodoranti fossero sospinte dalle onde verso le spiagge, i porti turistici, gli alberghi e le case che si affacciavano sul lungomare. Il sindaco aveva convocato il rappresentante locale al Congresso che, guarda caso, faceva parte della commissione finanziaria del distretto, e, con incredibile rapidità, si era raggiunto un compromesso. Tre balene sarebbero state trasportate a riva per l'autopsia, mentre le altre dovevano essere rimorchiate al largo per essere usate come bersagli. Greenpeace aveva protestato, ma, prima che fosse stata in grado di mobilitare la sua flotta di barchette, i mammiferi erano già stati ridotti a brandelli dai cannonieri della marina. Nel frattempo un rimorchiatore oceanico aveva trainato le balene rimanenti fino alla base. Qui, prima di trasportarle in un magazzino libero, le gru della marina avevano prelevato dalle acque i loro corpi massicci grazie a enormi amache improvvisate. Non appena le balene erano giunte a destinazione, gli specialisti di esami necroscopici su mammiferi accorsi da parecchie università della California si erano messi al lavoro. Era stato installato un laboratorio improvvisato e i tecnici, protetti da incerate, guanti e stivali, sciamavano intorno alle carogne e vi si arrampicavano addirittura, come grossi insetti gialli. La testa di ogni animale era stata separata dal corpo, quindi erano stati prelevati campioni di tessuto cerebrale da sottoporre ad analisi sui tavoli per la dissezione. In quel magazzino erano le carriole ad assolvere la fun-
zione che, nelle autopsie umane, era svolta dai vassoi d'acciaio inossidabile. «Non è esattamente un lavoro da neurochirurgo, vero?» osservò Austin, ascoltando il ronzio delle seghe elettriche echeggiare sulle pareti metalliche del magazzino. «No, signore», ammise il marinaio. «E sarò lieto quando sarà finito.» «Speriamo che non ci voglia molto.» Austin si domandò per quale motivo avesse lasciato la sua confortevole stanza d'albergo per assistere a quello spettacolo allucinante. Se la gara di motonautica non fosse stata un fiasco, vincitore o vinto che fosse, in quel momento sarebbe stato intento a bere champagne per festeggiarne la conclusione insieme con gli altri concorrenti e con la schiera di belle donne che si aggiravano intorno ai circuiti di gara come splendide farfalle esotiche. Anche quella volta era stato stappato un discreto numero di bottiglie, ma i festeggiamenti si erano svolti in tono minore a causa dell'incidente che aveva coinvolto Kurt, Ali e i loro equipaggi. Ali si era presentato alla festa tenendo sottobraccio una modella italiana da una parte e una mademoiselle francese dall'altra, ma, nonostante ciò, non aveva un'aria particolarmente felice. Austin gli aveva strappato un sorriso, assicurando di essere ansioso di misurarsi di nuovo con lui. Zavala aveva reso onore alla sua reputazione di donnaiolo isolando una bellezza dai capelli castani dal gruppo di appassionate convenute a San Diego per la finale. Sarebbero andati a cena insieme, con la prospettiva di una rievocazione intima e dettagliata di quell'avventura, da cui era uscito incolume per un soffio. Austin, invece, si era trattenuto per poco, solo per dovere di cortesia; si era allontanato dal ricevimento per chiamare il proprietario del Red Ink, suo padre, che aspettava la telefonata. Aveva visto la gara alla televisione e sapeva già che Austin se l'era cavata, mentre la barca era finita in fondo all'oceano. Austin padre era il facoltoso proprietario di una società di recuperi navali che aveva sede a Seattle. «Non preoccuparti», gli aveva assicurato. «Ne costruiremo una migliore. Magari con il periscopio, stavolta.» Con una risatina maligna, aveva rievocato con dettagli ampi e del tutto superflui la notte in cui il figlio aveva riportato a casa la sua Mustang decappottabile con un paraurti ammaccato. La maggior parte delle gare di velocità si teneva in Europa o intorno a quel continente, ma il padre di Austin avrebbe voluto che fosse una barca
costruita in America a vincere nelle acque americane. Per quel motivo aveva finanziato la progettazione e la costruzione di una barca nuova e veloce, battezzata Red Ink, ossia «bilancio in rosso», per via del denaro che gli era costata, e aveva messo insieme un equipaggio e una squadra appoggio di primordine. Si era espresso con la sua tipica franchezza, dicendo: «È ora di smuovere le acque. Costruiremo una barca in grado di dimostrare a questa gente che possiamo vincere usando pezzi americani, know-how americano e anche un pilota americano. Tu». Aveva riunito un gruppo di sponsor: il loro peso economico era fondamentale per organizzare una corsa importante negli Stati Uniti. I promotori della gara erano ansiosi di sfruttare l'opportunità di attingere all'immenso potenziale del pubblico americano, e in breve tempo il primo SoCal Grand Prix era diventato una realtà. Il direttore della NUMA, l'ammiraglio James Sandecker, aveva brontolato quando Austin gli aveva annunciato che, fra una missione e l'altra, intendeva lavorare il più possibile per partecipare alle gare di qualificazione. Sandecker diceva di essere preoccupato per la possibilità che Austin restasse ferito in gara, ma lui gli aveva fatto notare che, con tutti i rischi che presentavano, le gare off-shore erano paragonabili a placide competizioni di canottaggio, rispetto alle missioni rischiose che Sandecker gli assegnava come capo della squadra missioni speciali della NUMA. Come asso nella manica, aveva messo in tavola il fiero patriottismo dell'ammiraglio, e alla fine Sandecker gli aveva concesso la sua benedizione, sostenendo che era tempo che gli Stati Uniti dimostrassero al resto del mondo che potevano competere con i migliori. Dopo il colloquio con il padre, Austin era tornato alla festa, ma presto si era stancato di quell'atmosfera di falsa allegria ed era stato ben lieto di essere invitato a bordo del Nepenthe per conoscere Gloria Ekhart, che voleva ringraziarlo. La bellezza matura e il calore dell'attrice lo avevano incantato. Quando si erano stretti la mano, lei non voleva lasciar andare la sua, e durante il colloquio si erano lanciati sguardi di reciproco interesse. Austin si era perfino trastullato con la fantasticheria d'intrecciare un flirt con una diva che aveva sempre ammirato sul grande e sul piccolo schermo; ma era destino che non andasse così, perché Gloria era stata costretta ad allontanarsi, sia pure scusandosi a più riprese, perché i bambini richiedevano la sua presenza. Ormai convinto che non fosse la sua giornata, Austin era rientrato in albergo per rispondere alle chiamate di amici e di colleghi della NUMA. In
seguito aveva ordinato la cena in camera gustandosi con calma un filet mignon mentre guardava le riprese della corsa trasmesse alla TV. Tutte le reti televisive non facevano che proporre e riproporre le scene della competizione al rallentatore. Austin, invece, era più interessato alla sorte delle balene morte. Un giornalista aveva annunciato che tre esemplari sarebbero stati esaminati nella base navale. Austin era tanto incuriosito quanto annoiato. Stando alle sue informazioni, le balene non presentavano segni da cui si potesse intuire la causa della loro morte. Il fatto che la situazione non fosse chiara e definita gli scottava più della perdita della barca costruita dal padre, perché offendeva il suo senso dell'ordine. Adesso sembrava che l'autopsia volgesse al termine. Austin pregò il marinaio di consegnare il suo biglietto da visita della NUMA a qualcuno dei responsabili, e il marinaio tornò di lì a poco in compagnia di un uomo sulla quarantina, con i capelli color sabbia, che si tolse l'incerata e i guanti macchiati di sangue, ma tenne la mascherina che gli copriva il viso. «Signor Austin», disse, tendendogli la mano. «Sono Jason Witherell, dell'EPA. Lieto di conoscerla, e di sapere che la NUMA è interessata. Potremmo aver bisogno delle vostre risorse.» «Siamo sempre pronti ad aiutare l'EPA», ribatté Austin, «ma il mio interesse è più personale che ufficiale. Oggi partecipavo alla gara, quando sono apparse le balene.» «Ho visto le riprese al telegiornale», replicò Witherell con una risata. «La sua è stata una manovra eccezionale. Certo, mi dispiace per la barca.» «Grazie. Mi stavo chiedendo se avete appurato la causa della morte.» «Certo, sono morte di DaNoSo.» «Prego?» Witherell sogghignò. «È semplice: Davvero Non So. DaNoSo.» Austin sorrise con pazienza. Sapeva che a volte i patologi coltivavano un bizzarro senso dell'umorismo per preservare la propria salute mentale. «Qualche ipotesi?» «Per quanto abbiamo potuto accertare fino a questo momento», rispose Witherell, «non ci sono segni di traumi né tracce di tossine. Abbiamo analizzato i tessuti in cerca di virus, anche qui con esito negativo. Una delle balene era rimasta impigliata in una rete da pesca in monofilamento, ma ciò non pare che abbia impedito all'animale di nutrirsi o che gli abbia inflitto danni letali.» «Quindi, almeno per ora, non ha alcun indizio sul modo in cui sono morte?»
«Oh, certo, sappiamo come sono morte. Sono rimaste soffocate. Hanno riportato gravi danni ai polmoni, che hanno provocato una polmonite. Si direbbe che i polmoni siano stati danneggiati da un calore intenso.» «Calore? Non sono certo di seguirla.» «Mettiamola così: presentavano gli organi interni parzialmente cotti, e anche la pelle era costellata di vesciche.» «Ma cosa può aver provocato un effetto simile?» «DaNoSo», rispose Witherell con un'alzata di spalle. Austin meditò sulla risposta. «Se non sa cosa, può dirmi almeno quando?» «È difficile stabilirlo. L'esposizione iniziale al calore potrebbe non essere stata fatale sul momento. I cetacei potrebbero essersi ammalati alcuni giorni prima della morte e aver continuato a nuotare lungo la costa. Probabilmente i più piccoli erano in condizioni peggiori, e forse gli adulti si sono fermati ad aspettarli. Bisogna calcolare il tempo che è stato necessario perché il corpo cominciasse a decomporsi e i gas della decomposizione iniziassero a gonfiare le carogne, facendole emergere proprio nel campo di gara.» «Quindi, se si riuscisse a ricostruire il loro percorso, si potrebbe accertare dov'erano quando sono morte. Bisognerebbe tenere conto dei loro spostamenti abituali e del tempo necessario per alimentarsi e delle correnti, naturalmente.» Scosse la testa. «Peccato che le balene non possano dirci dove sono state.» Witherell ridacchiò. «Chi lo dice che non possono? Venga, le mostro una cosa.» L'uomo dell'EPA lo precedette oltre i carrelli, aggirando le pozze d'acqua mista a sangue che veniva sospinta nei canali di scolo per mezzo di getti di idranti. Stando così vicino ai corpi delle balene, l'odore era forte come una mazzata, ma Witherell sembrava indifferente. «Questo è il maschio», disse, fermandosi vicino al primo animale. «Può vedere per quale motivo si chiamano balene grigie. La pelle è di colore scuro, ma chiazzata da cicatrici lasciate dai cirripedi e dai pidocchi delle balene. Ora è un po' malconcio, ma la prima volta che lo abbiamo misurato era lungo dodici metri e mezzo.» Si diressero verso il carrello vicino, sul quale c'era una versione in miniatura del primo cetaceo. «Questo cucciolo è anch'esso un maschio, nato appena qualche mese fa. C'erano anche altri piccoli, quindi non sappiamo se apparteneva proprio alla femmina che abbiamo qui.» Intanto si erano fermati davanti all'ultimo carrello. «Questa è
la femmina, più grossa del maschio. Come tutti gli altri esemplari, non presenta segni esterni di traumi o lacerazioni che possano essere stati fatali. Ecco un particolare che potrebbe interessarle, però.» Chiedendo in prestito un coltello a un collega, si arrampicò sul carrello prima di chinarsi sulla pinna della balena. Un minuto dopo, saltò di nuovo a terra e porse a Austin un pacchettino piatto e quadrato di metallo e plastica. «Un radarfaro?» chiese Austin. Witherell puntò il dito in alto. «Ogni mossa di questa piccola veniva seguita via satellite. Scopra chi la teneva d'occhio, e avrà trovato qualcuno che dovrebbe saperle dire dov'era al momento della morte e quando è avvenuta.» «Lei è un genio, signor Witherell.» «Soltanto un umile servitore del governo come lei, che cerca di fare il suo lavoro.» Riprese il piccolo congegno metallico. «Questo devo trattenerlo, ma sul retro c'è un numero telefonico da chiamare.» Austin trascrisse il numero su un taccuino e ringraziò il patologo per l'aiuto. Mentre Witherell lo scortava verso la macchina, Austin domandò: «A proposito, per quale motivo ha scelto proprio queste balene?» «È successo quasi tutto per caso. Ho chiesto alla marina di isolare tre esemplari rappresentativi del branco. Immagino che a bordo ci fosse qualcuno che ha preso sul serio la mia richiesta.» «Pensa che avrebbe avuto maggiori probabilità di scoprire la causa della morte, se avesse potuto sottoporre ad autopsia anche le altre?» «Ne dubito», rispose subito Witherell. «La causa della morte di queste balene è la stessa che ha ucciso le altre. In ogni caso, ormai è un po' tardi. Se non sbaglio, quando la marina ha finito il suo lavoro, degli altri animali non restava neppure di che preparare un piatto di sushi.» Il solito humour nero. Lanciando in un bidone la mascherina da chirurgo, Austin gettò ancora un'occhiata ai corpi macellati: erano tutto ciò che restava di creature marine un tempo magnifiche. Dopo avere ringraziato Witherell e il marinaio Cummings, uscì all'aperto, nell'aria pura della sera, e respirò a fondo, quasi potesse depurare la memoria, oltre che i polmoni, liberandoli di quell'odore rancido. All'altro capo del porto scintillavano le luci di una portaerei che sembrava una piccola città. Tornato in albergo, attraversò la hall camminando in fretta, ma non abbastanza da riuscire a evitare che qualcuno del personale e degli ospiti arricciasse il naso, cogliendo nell'aria quell'odore di morte che si lasciava dietro come una scia.
Rientrato nella sua stanza, Austin gettò i pantaloni e la camicia kaki che indossava in un sacco di plastica destinato alla lavanderia dell'albergo, poi si concesse una lunga doccia bollente accompagnata da un doppio shampoo e si cambiò, indossando un paio di calzoni puliti e una polo. Sprofondò in una comoda poltrona vicino al telefono e chiamò il numero indicato sul radarfaro. Come si aspettava, scattò una segreteria telefonica: il governo non avrebbe mai pagato qualcuno perché restasse seduto ad attendere notizie su una balena girovaga. Potevano trascorrere giorni interi prima che qualcuno lo contattasse, così non lasciò nessun messaggio e preferì chiamare un ufficio aperto ventiquattr'ore al giorno nel quartier generale della NUMA e presentare una richiesta. Il suo telefono squillò circa mezz'ora dopo. «Signor Austin? Mi chiamo Wanda Perelli, e lavoro per il Dipartimento degli Interni. Qualcuno ha chiamato dalla NUMA per dire che lei mi stava cercando. Hanno detto che era importante.» «Sì, e la ringrazio di avermi richiamato. Mi spiace disturbarla a casa, ma ha sentito parlare delle balene grigie in California?» «Sì. Mi chiedevo come ha fatto ad avere il mio numero.» «Era su un radarfaro applicato alla pinna di una balena femmina.» «Oh, poverina, era Daisy. Quello era il suo branco. La seguivo da tre anni, ed era come se fossimo diventate parenti.» «Mi spiace. In tutto c'erano quattordici balene, e Daisy è stata scelta a caso per l'autopsia.» La donna si lasciò sfuggire un sospiro rumoroso. «È una notizia terribile. Facciamo di tutto per proteggere le balene grigie, e stanno davvero riprendendosi. Siamo in attesa del referto necroscopico sulla causa della morte.» «Ho appena assistito all'esame. A quanto pare non c'erano tracce di virus o sostanze inquinanti. Le balene sono morte in seguito ai danni riportati ai polmoni a causa di un'esposizione a un calore intenso. Ha mai sentito parlare di un caso del genere?» «No, mai. Qualcuno ha idea di quale sia la fonte di tale calore?» «Non ancora. Pensavo che potremmo fare un po' di luce sull'incidente se sapessimo dove sono state di recente le balene.» «Ho una certa familiarità con il branco di Daisy. La loro migrazione è davvero notevole, perché compiono un periplo di circa diecimila miglia nautiche. Per tutta l'estate si nutrono nei mari dell'Artico, poi puntano a sud, lungo la costa del Pacifico per raggiungere le lagune della Baja California, in Messico, dove avviene la riproduzione. Cominciano a muoversi
verso novembre-dicembre e arrivano all'inizio dell'anno seguente. Aprono il gruppo le femmine incinte, seguite dagli adulti maturi e dai giovani, in fila indiana o per due. Passano piuttosto vicino alla linea costiera. Cominciano il ritorno verso nord in marzo, ma le femmine con i piccoli possono aspettare fino ad aprile. Ancora una volta seguono da vicino la linea costiera. Si spostano molto lentamente, in media alla velocità di circa dieci nodi.» «Prima della gara di motonautica c'è stata una riunione informativa. Ci hanno detto di fare attenzione alle balene, anche se la corsa era stata fissata per il periodo successivo al passaggio dell'ultimo branco. Per quanto ne sapevano loro, non dovevano essercene nelle vicinanze.» «L'unica spiegazione che mi viene in mente è che fossero rimaste indietro. Forse alcuni cuccioli si erano ammalati e gli adulti hanno aspettato un po' per dare ai piccoli il tempo di rimettersi.» «Il patologo mi ha esposto la stessa teoria. Per caso lei ha seguito la rotta della loro migrazione?» «Sì. Ha accesso a un computer portatile?» «Non potrei farne a meno.» «Bene. Se mi fornisce il suo indirizzo e-mail, mi collegherò alla banca dati e le manderò le informazioni alla velocità della luce.» «Grazie. Non potrei chiedere di più.» «Forse avrà l'occasione di ricambiare, se ci rivolgeremo alla NUMA per avere aiuto.» «Chieda di me personalmente, e vedremo che cosa si può fare.» «Grazie. Oh, mio Dio, ancora non posso credere che sia toccato alla povera Daisy.» Austin chiuse la comunicazione, poi accese il suo portatile IBM e lo collegò alla linea telefonica. Un quarto d'ora più tardi, aprì la posta elettronica e vide apparire una carta geografica che comprendeva gli Stati Uniti occidentali, il Canada e l'Alaska. C'era una linea punteggiata che correva dal mar dei Ciukci attraverso il mare di Bering e poi seguiva le coste del Nordamerica fino all'estremità della penisola della Baja, simile a un dito teso. La mappa recava l'intestazione: «Rotta migratoria generale delle balene». In allegato erano contenuti file specifici sui vari gruppi di balene. Austin li fece scorrere finché non trovò quello intitolato «Daisy». Un link collegava il file a un'altra mappa che indicava la rotta dettagliata del branco di Daisy. Era possibile constatare che il branco aveva mantenuto un ritmo sostenuto, prima di fermarsi al largo della costa della Baja, a sud di Tijuana.
Dopo una pausa in quelle acque, i cetacei erano ripartiti per il nord, ma da quel momento in poi i loro movimenti erano diventati più lenti. A un certo punto, anzi, avevano descritto un cerchio di forma irregolare, come se fossero disorientati. Austin seguì il loro percorso tortuoso fino a San Diego. Uscì dal file e aprì quelli relativi a vari altri siti. Dopo qualche minuto si mise più comodo in poltrona, facendo tamburellare fra loro i polpastrelli delle dita. Le balene avevano condotto una migrazione normale finché non avevano raggiunto una certa zona, poi qualcosa era cambiato. Stava meditando sul da farsi, quando sentì qualcuno alla porta. Era Zavala. «Già di ritorno dal tuo appuntamento?» «Be', le ho detto che dovevo tornare a casa per assistere il mio compagno di stanza che non stava troppo bene.» Austin parve allarmato. «Non avrai battuto la testa, per caso?» «Devo ammettere che andare sotto una barca è stata un'esperienza unica. Non vedrò mai più sotto la stessa luce le norme del codice nautico.» «Bene, per tua informazione mi sento benissimo, quindi puoi tornare e riprendere da dove ti sei interrotto.» Zavala si lasciò cadere sul divano. «Sai, Kurt, nella vita ci sono momenti in cui bisogna saper mostrare un certo autocontrollo.» Austin si domandò se quello che era entrato nella stanza non fosse per caso un clone di Zavala, privato della sua naturale carica sessuale. «Sono perfettamente d'accordo», ribatté in tono cauto. «Ora dimmi qual è il vero motivo.» «Rappresentava una violazione alla legge di Zavala. Io non esco mai con donne sposate.» «E come hai saputo che era sposata?» «Me lo ha detto il marito.» «Oh. Era grande e grosso?» «Leggermente più piccolo di una betoniera.» «Ebbene, in questi casi mostrare un certo autocontrollo mi sembra una decisione del tutto saggia.» Joe annuì, pur avendo un'espressione tutt'altro che convinta. «Dio, com'era bella», commentò con un sospiro. «Che cos'hai combinato?» «Ho assistito all'autopsia di una balena.» «E dire che credevo di aver avuto una serata nera. Ci devono pur essere passatempi più divertenti, a San Diego.» «Ne sono certo, ma ero curioso di scoprire che cosa ha ucciso quegli animali.»
«E hanno scoperto la causa?» «Avevano i polmoni danneggiati dal calore, e sono morti di polmonite.» «Strano.» «Lo penso anch'io. Guarda questa mappa sul computer. L'ho ricevuta attraverso un satellite meteorologico della NOAA. Vedi quel piccolo bernoccolo rosso nell'acqua al largo della Baja? Un improvviso sbalzo di temperatura.» «Stai dicendo che le nostre balene si sono ammalate poco dopo aver attraversato questa zona?» «Può darsi, ma ciò che m'interessa di più è scoprire cos'ha provocato quel cambiamento di temperatura.» «Immagino che tu stia per suggerire un viaggetto a sud del confine.» «Mi farebbe comodo un interprete, ma Paul e Gamay torneranno ad Arlington soltanto fra qualche giorno.» «Non è un problema. Per me è importante restare in contatto con le mie radici messicane.» Si alzò per dirigersi alla porta. «E ora dove vai?» gli chiese Austin. Zavala guardò l'orologio. «La notte è giovane. Che due scapoli diabolicamente attraenti e piacevoli stiano seduti nella loro stanza d'albergo a parlare di balene morte e acqua calda non è affatto sano, amigo. Passando, ho notato una bella donna nella hall dell'albergo. Aveva l'aria di non disprezzare un po' di compagnia.» «Credevo che intendessi rinunciare alle donne.» «Un'aberrazione momentanea causata dalle lesioni riportate. Inoltre mi pare che avesse un'amica», aggiunse Zavala. «E nella hall sta suonando una buona orchestra jazz.» La passione di Austin per il cool jazz era superata soltanto dall'amore per le belle donne e per le barche veloci. Un bicchierino della staffa a base di tequila e succo di lime sarebbe stato il modo ideale di concludere la giornata, per non parlare di un po' di compagnia femminile. Sorridendo, spense il computer portatile e lo chiuse. 5 «Cosa ne pensate della nostra cucina?» chiese il dottor Ramírez. Paul e Gamay si scambiarono un'occhiata. «È straordinaria», rispose lei. E lo era davvero, pensò con una certa sorpresa. Un giorno o l'altro avrebbe
dovuto parlare di quella cena esotica a St. Julien Perlmutter, storico navale e sofisticato gourmet. Le sottili fette di carne bianca e tenera erano insaporite da spezie locali e accompagnate da una ricca salsa scura, con un contorno di patate dolci appena colte. Il tutto era annaffiato da un discreto vinello bianco di produzione cilena. Oh, santo cielo! Pensare che era vissuta nella giungla tanto a lungo da riuscire ad apprezzare il tapiro arrosto! Ancora un po', e sarebbe diventata ghiotta di scimmie urlatrici. Paul diede una dimostrazione della sua insopprimibile franchezza yankee. «Sono d'accordo, è proprio fantastica. Non avremmo mai immaginato che fosse così buona, dopo aver visto gli uomini trasportare dalla foresta quella bestia dall'aspetto strano.» Ramírez posò la forchetta con aria stupita. «Bestia? Foresta? Temo di non capire.» «Il tapiro», spiegò Gamay in tono incerto, abbassando gli occhi sul piatto. Ramírez sembrava perplesso, poi i suoi baffi cominciarono a fremere e lui scoppiò in una risata profonda, portandosi il tovagliolo alle labbra. «E voi avete pensato...» Scoppiò di nuovo a ridere. «Scusatemi, sono un pessimo padrone di casa, se mi diverto a spese dei miei ospiti. Comunque vi assicuro che questo non è l'animale che avete visto portare legato al villaggio, dopo la caccia. Ho acquistato un maiale in un villaggio vicino.» Fece una smorfia. «Tapiro. Non riesco a immaginare che sapore possa avere, ma può anche darsi che sia molto gustoso.» Versò dell'altro vino nei bicchieri e levò in alto il suo per brindare. «Sentirò la vostra mancanza, amici miei. La vostra compagnia è stata deliziosa, e intorno a questo tavolo si sono svolte molte conversazioni piacevoli.» «Grazie a lei», replicò Gamay. «Per noi è stata un'esperienza affascinante. Oggi, poi, è stata forse la giornata più eccitante del nostro soggiorno.» «Ah, sì, il povero indio.» Paul scosse la testa. «Non riesco a capacitarmi della natura sofisticata di tutti gli oggetti che aveva con sé.» Ramírez allargò le braccia. «Il popolo degli spettri è una tribù misteriosa.» «Che cosa sa di loro?» chiese Gamay, sentendo ridestarsi la curiosità scientifica. Prima di conseguire un dottorato in biologia marina presso lo Scripps Institute of Oceanography, aveva svolto l'attività di archeologa subacquea e durante i suoi studi all'università del North Carolina aveva se-
guito molti corsi di antropologia. Ramírez bevve un sorso di vino, annuì con aria di apprezzamento e guardò nel vuoto, raccogliendo i pensieri. Dalle finestre schermate giungevano il ronzio e il frinire di milioni d'insetti tropicali, e quel concerto forniva un sottofondo ideale per parlare della foresta pluviale. Dopo un istante di riflessione, rispose: «Prima di tutto dovete tenere presente che qui ci troviamo in un'isola di civiltà, con la stufa a gas propano e il generatore elettrico. Sino a qualche anno fa, se ci fossimo avventurati in questa regione della foresta, avremmo trovato la morte entro pochi minuti. Era una zona abitata da indios feroci, dove cacciatori di teste e cannibali erano molto diffusi. Chiunque, fosse un missionario deciso a portare qui la Parola di Dio o un cacciatore in cerca di pelli animali, veniva considerato un intruso da uccidere. Solo di recente questi popoli sono stati civilizzati». «Fatta eccezione per i chulo», azzardò Gamay. «Esatto. Loro si sono ritirati nel cuore della foresta. Devo confessare che ho appreso di più sul loro conto oggi che in tre anni di permanenza qui. Dubitavo addirittura della loro esistenza. Parlando di questa tribù occorre separare i fatti dalla leggenda. Gli altri indios evitano le foreste oltre le Grandi Cascate. Dicono che tutti coloro che si avventurano nel territorio dei chulo non ne escono più, e i loro timori, come avete visto oggi, sono giustificati. I fatti nudi e crudi sono questi, e come vedete sono ben pochi.» «E la leggenda?» chiese Gamay. «Sanno rendersi invisibili», rispose Ramírez con un sorriso. «Sanno volare, sanno passare attraverso ostacoli solidi. Somigliano più a spiriti o fantasmi che agli esseri umani. Non possono essere uccisi da armi comuni.» «Eppure il foro di proiettile che abbiamo visto mette la parola fine almeno a questo mito», osservò Paul. «Si direbbe di sì», ammise Ramírez. «C'è un'altra storia, ancora più inquietante. La tribù è in apparenza matriarcale, guidata da una donna. Anzi, da una dea.» «Un'amazzone?» suggerì Gamay. Per tutta risposta, Ramírez trasse di tasca un oggetto: era il pendente che avevano trovato appeso al collo del morto. «Forse questa è la loro dea alata. Si dice che protegga la sua tribù e che la sua vendetta sia terribile.» «Colei che deve essere obbedita», esclamò Gamay in tono drammatico. «Prego?» Gamay sorrise. «È solo una battuta presa da una storia di avventure che leggevo da giovane. Parlava di una dea che viveva per migliaia di anni
senza invecchiare.» Paul prese in mano il pendente per studiarlo. «Dea o no, non ha saputo proteggere molto bene l'indigeno che abbiamo trovato.» Il viso dell'uomo più anziano s'incupì. «Sì, ma intanto...» «C'è qualcosa che non va?» chiese Gamay. «Sono un po' preoccupato. Uno degli abitanti del villaggio è venuto a riferirmi che nella foresta ci sono guai in vista.» «Che genere di guai?» chiese Paul. «Non lo sapeva, ma ha detto che avevano a che vedere con l'indio assassinato.» «In che modo?» volle sapere Gamay. «Non sono del tutto sicuro», rispose Ramírez, interrompendosi un istante. «In questo preciso momento ci sono innumerevoli creature che vengono uccise nella foresta. Insetti, animali e uccelli sono coinvolti di continuo in una violenta lotta per la vita. Eppure in questo caos cruento esiste un equilibrio.» I suoi occhi infossati s'incupirono ancora di più. «Ho paura che l'omicidio di quell'indio abbia turbato tale equilibrio.» «Forse la dea amazzone intende esigere vendetta», osservò Paul, restituendo il medaglione. Ramírez lo fece oscillare avanti e indietro, appeso al laccio, come Svengali in uno dei suoi esperimenti di ipnotismo. «Da uomo di scienza, devo considerare i fatti, ed è un fatto che qualcuno, là fuori, possiede un'arma da fuoco e non esita a usarla. Ó l'indio ha sconfinato dal suo territorio, o qualcuno armato ha invaso quello del popolo degli spettri.» «E lei ha idea di chi possa essere questa persona?» chiese Gamay. «Forse sì. Sapete qualcosa dell'industria della gomma?» I Trout risposero con un cenno di diniego. «Cent'anni fa, gli alberi della gomma crescevano soltanto nella giungla amazzonica. Poi uno scienziato inglese rubò dei semi per creare vaste piantagioni di gomma all'est. Lo stesso sta accadendo ora. Lo sciamano che ci ha accompagnato oggi nella spedizione per la sepoltura può anche essere un ciarlatano quando si tratta di scacciare i demoni maligni, ma conosce il valore medicinale di centinaia di piante della foresta pluviale. Gli esploratori vengono qui, spacciandosi per scienziati, ma in realtà sono biopirati a caccia di erbe che abbiano proprietà medicinali, e poi vendono i brevetti alle multinazionali farmaceutiche; anzi a volte lavorano direttamente per quelle società. In ogni caso, le società farmaceutiche guadagnano vere fortune, mentre i nativi che hanno messo a disposizione le loro
conoscenze non ricevono nulla. Peggio ancora, a volte arrivano degli uomini che s'impadroniscono delle loro piante medicinali.» «E lei pensa che uno di questi 'pirati' abbia torturato e ucciso l'indio?» chiese Paul. «È possibile. Quando ci sono in ballo interessi così forti la vita di un povero indio non conta niente. Per quale motivo gli abbiano sparato, non so. Può darsi che abbia semplicemente visto qualcosa che non doveva vedere. Questi segreti delle piante sono noti agli abitanti della foresta da generazioni e generazioni.» «Non c'è nessuno che cerchi di fermare questi pirati?» domandò Gamay. «È un problema. A volte i funzionari del governo sono in combutta con le società farmaceutiche. La posta è molto elevata, e i governi si curano ben poco della popolazione indigena. A loro interessa soltanto vendere al miglior offerente il patrimonio di conoscenze botaniche posseduto dai nativi.» «Quindi la pirateria regna incontrastata?» «Non del tutto. Le università inviano squadre di scienziati veri, con il compito di identificare i pirati. Gli scienziati fanno a loro volta ricerche sulle piante, ma nello stesso tempo parlano con gli indios e chiedono se in giro si sono visti estranei che fanno domande. I nostri vicini brasiliani hanno tentato di porre fine a questo furto ricorrendo al tribunale. Hanno citato in giudizio uno scienziato per aver catalogato semi e cortecce d'albero usati dagli indios per scopi terapeutici, accusandolo di rubare informazioni agli indigeni.» «Un'accusa difficile da provare», osservò Paul. «Infatti. Inoltre il Brasile sta adottando provvedimenti legislativi per la protezione della biodiversità, quindi stiamo facendo alcuni progressi, ma non molti. Tenete presente che stiamo parlando di attaccare società farmaceutiche che dispongono di risorse dell'ordine di alcuni miliardi di dollari. Non è una lotta alla pari.» Gamay ebbe un'idea. «La sua università è coinvolta in questa iniziativa?» «Sì», rispose Ramírez. «Di tanto in tanto abbiamo mandato delle squadre, ma non c'è denaro sufficiente per un lavoro di polizia a tempo pieno.» Non era la risposta che Gamay si aspettava di sentire, ma non insistette. «Vorrei che potessimo fare qualcosa.» «Qualcosa c'è, veramente», replicò Ramírez con un gran sorriso. «Vorrei chiedervi un favore, ma non dovete sentirvi in dovere di accettare.»
«Ci metta alla prova», ribatté Paul in tono amabile. «Molto bene. A qualche ora di viaggio da qui c'è un altro insediamento sul fiume, e l'olandese che vive laggiù non ha la radio. Può darsi che abbiano già saputo che un chulo è stato ucciso, ma in ogni caso è necessario informarli, qualora ci siano ripercussioni.» Distese la gamba, mostrando la caviglia avvolta in una spessa fasciatura. «Io riesco a stento a camminare. Non credo che sia fratturata, ma è una brutta lussazione. Mi domandavo se non poteste andare voi, al mio posto. Potreste farci un salto.» «E la barca dei rifornimenti?» domandò Gamay. «L'arrivo è previsto per domattina sul tardi, e si fermerà qui per la notte. Voi dovreste essere di ritorno prima che riparta.» «Non vedo perché no», disse Gamay, ma s'interruppe bruscamente quando notò l'espressione perplessa del marito. «Se per Paul va bene...» «Be'...» «Ah, vi chiedo scusa. La mia richiesta ha provocato un dissidio fra voi.» «Oh, no», lo rassicurò Paul. «È semplicemente la mia solita prudenza del New England. Certo che siamo disposti ad aiutarla.» «Splendido. Ordinerò ai miei uomini di raccogliervi delle provviste e rifornire la barca di carburante. Sul fiume viaggerete più rapidamente in questo modo che con il gommone. La barca dovrebbe fare andata e ritorno in giornata.» «Credevo che qui al villaggio aveste soltanto canoe ricavate dai tronchi», osservò Gamay. Ramírez sorrise. «Servono alla maggior parte delle mie esigenze, sì, ma ogni tanto sono necessari mezzi di trasporto più efficienti.» Lei si strinse nelle spalle. «Ci dica qualcosa di più su quest'uomo che chiama olandese.» «Per la verità Dieter è tedesco. È un mercante sposato a una donna del posto. Viene qui occasionalmente, ma per lo più manda i suoi uomini una volta al mese con una lista, e noi la portiamo alla barca dei rifornimenti. A mio parere è un individuo sgradevole, ma non c'è motivo per non avvertirlo del possibile pericolo.» Ramírez fece una pausa. «Non siete tenuti a farlo. In realtà queste cose non vi riguardano, e voi siete scienziati, non avventurieri. Soprattutto la bella señora Trout.» «Io penso che possiamo farcela», disse Gamay, guardando il marito con aria divertita. Non parlava per spavalderia: lavorando per la squadra missioni speciali della NUMA, lei e Paul avevano partecipato a un certo numero di opera-
zioni pericolose. E Gamay, per quanto attraente, non era un fiorellino delicato. A Racine, nel Wisconsin, dov'era nata, si era conquistata la fama di autentico maschiaccio che andava in giro con una banda di ragazzi, e in seguito si era sempre sentita a suo agio in mezzo agli uomini. «Bene, allora siamo d'accordo. Dopo il dessert prenderemo un bicchiere di brandy e ce ne andremo a riposare, in modo da poter essere in piedi all'alba.» Poco dopo i Trout erano nella loro stanza che si preparavano per andare a letto, quando Gamay chiese a Paul: «Perché esitavi ad aiutare Ramírez?» «Per un paio di ragioni. Cominciamo con il fatto che questa piccola deviazione non ha niente a che vedere con la missione che la NUMA ci ha affidato.» Paul schivò il cuscino che lei gli aveva lanciato addosso. «Da quando in qua segui le regole della NUMA?» esclamò Gamay. «Come te, ogni volta che mi fa comodo. Ho sempre adattato le regole alle mie esigenze, ma senza mai violarle.» «Allora adattiamole un po' anche stavolta, in base al principio che il fiume è parte integrante dell'oceano e che quindi qualunque persona uccisa sia trovata sulle sue rive o sulle sue acque dev'essere oggetto di un'indagine della squadra missioni speciali della NUMA. Devo ricordarti che la squadra è stata costituita proprio per indagare su questioni che nessun altro vorrebbe affrontare?» «Come fervorino non è male, ma non contare troppo sul tuo potere di persuasione. Se non avessi suggerito tu di indagare su questa faccenda, lo avrei fatto io. Per motivi altrettanto inconsistenti, potrei aggiungere. Ho una certa avversione per chi commette un omicidio e la fa franca.» «Anch'io. Hai qualche idea del punto da cui dovremmo cominciare?» «Già fatto. Non lasciarti ingannare dal mio lato di taciturno di Cape Cod.» «Neanche fra cent'anni, mio caro.» «Per tornare alla tua domanda iniziale, il motivo per cui ho esitato era la sorpresa. È la prima volta che Ramírez accenna a una barca. Ci ha dato l'impressione di usare solo canoe. Ricordi quante storie ha fatto per le dimensioni del nostro gommone gonfiabile? Un giorno stavo curiosando in giro e ho scoperto un deposito che contiene un idroscivolante.» Lei si sollevò su un gomito. «Un idroscivolante! Perché non ha detto niente?» «Mi sembra evidente. Voleva che nessuno lo sapesse. Credo che il no-
stro amico Ramírez sia un tipo più complesso di quanto non sembri.» «Ho la stessa impressione. Mi sembra molto sottile, da parte sua, inviare due scienziati sprovveduti come noi a compiere una missione potenzialmente pericolosa. Gli abbiamo parlato abbastanza della squadra missioni speciali perché sappia che cosa facciamo quando non contiamo delfini di fiume. Penso che voglia coinvolgere la NUMA in questa faccenda.» «Si direbbe che ci siamo messi nelle sue mani, ma non sono certo che sia tanto machiavellico.» «Ho un'idea», suggerì Gamay. «Parlava degli scienziati dell'università che si comportano come agenti per la protezione della biodiversità mascherati da botanici. Lui è uno scienziato che lavora per l'università, eppure ha cercato di eludere il discorso.» «Ho notato.» Paul si stese sul letto e chiuse gli occhi. «È così, tu pensi che in realtà sia un agente della bioprotezione mascherato da botanico?» «Certo che così avrebbe senso.» Gamay s'interruppe per riflettere. «Devo confessare che il vero motivo per cui voglio indagare sono quei sacchetti che abbiamo trovato sul corpo del chulo. Sono molto incuriosita dal fatto che un indio primitivo come lui avesse a disposizione tutti quei giocattoli di alto livello tecnologico. Tu no?» Dall'altra parte del letto non si sentiva provenire altro suono che un respiro sommesso e regolare. Paul stava esercitando il suo famoso talento che gli consentiva di addormentarsi a comando. Gamay scosse la testa, si tirò le lenzuola fino al collo e fece altrettanto. Dovevano alzarsi al levar del sole, e aveva il presentimento che li aspettasse una giornata molto lunga. 6 Il funzionario della dogana messicana si sporse dalla finestrella per controllare i due uomini a bordo del pick-up, un Ford bianco. Indossavano calzoncini e T-shirt piuttosto malconci, occhiali da sole Foster Grant e berretti da baseball con il logo di un negozio di articoli da pesca. «Scopo della visita?» chiese al tipo robusto seduto al volante. Questi indicò con un cenno della mano le canne da pesca e l'attrezzatura nel retro del camioncino, alle sue spalle. «Andiamo a pescare.» «Vorrei poter venire con voi», ribatté l'uomo con un sorriso, invitandoli con un gesto a proseguire per Tijuana. Mentre ripartivano, Zavala, seduto al posto del passeggero, disse: «Che
fine ha fatto la sceneggiata alla Spie come noi? Non dovevamo fare altro che esibire la tessera della NUMA». Austin sorrise. «Ma così è più divertente.» «È una fortuna che il nostro aspetto perbene non corrisponda al profilo di qualche terrorista o corriere della droga.» «Preferisco pensare che siamo assi del travestimento.» Austin lanciò un'occhiata a Zavala, scuotendo la testa. «A proposito, spero che tu abbia portato il passaporto americano. Non vorrei che restassi bloccato in Messico.» «Non c'è problema. Non sarebbe la prima volta che uno Zavala supera clandestinamente il confine.» I genitori di Zavala avevano guadato il Rio Grande negli anni '60 partendo da Morelia, in Messico, dov'erano nati e cresciuti. La madre, a quell'epoca, era incinta di sette mesi, ma non aveva lasciato che le condizioni in cui si trovava intaccassero la sua ferrea determinazione di cominciare una nuova vita al Norte insieme con il figlio che aspettava. Si erano diretti a Santa Fe, nel New Mexico; Zavala era nato là. L'abilità di ebanista e falegname aveva permesso al padre di trovare lavoro presso ricchi clienti che dovevano costruire le loro lussuose residenze in città, ed erano stati quegli stessi personaggi influenti ad aiutarlo quando aveva chiesto la carta verde e, in seguito, la cittadinanza americana. Il camioncino sul quale viaggiavano era un prestito della squadra appoggio del Red Ink, perché in Messico non si potevano introdurre veicoli a noleggio. Lasciando l'albergo, si erano diretti a sud di San Diego, attraversando Chula Vista, la cittadina di frontiera che non era né americana né messicana, ma un misto di entrambi i Paesi. Una volta entrati in Messico, costeggiarono la squallida periferia di Tijuana prima d'immettersi sulla MEX 1, la Carretera Transpeninsular che percorreva la penisola della Baja California per tutta la sua lunghezza. Superata Rosarita, con la sua concentrazione di negozi di souvenir, motel e bancarelle per la vendita di tacos, il bailamme di attività commerciali cominciò a diradarsi. Ben presto la strada prese a costeggiare campi coltivati e colline brulle sulla sinistra, sfiorando la baia di acque smeraldine nota sotto il nome di Todos Santos. Un'ora dopo aver lasciato Tijuana, imboccarono l'uscita di Ensenada. Austin conosceva quella cittadina che viveva di turismo e di pesca dai tempi in cui aveva partecipato alla regata Newport-Ensenada. La conclusione non ufficiale della regata aveva come sfondo proprio la Hussong's Cantina, un vecchio locale dall'aria malfamata con il pavimento cosparso
di segatura. Prima che la nuova strada portasse in Messico orde di turisti carichi di dollari, la vera frontiera era lì, a Baja California Norte. All'apice del suo splendore, Hussong's era il locale preferito da pittoreschi personaggi locali e individui stravaganti, nonché da marinai, pescatori e corridori automobilisti che conoscevano Ensenada da quando era l'ultimo avamposto della civiltà prima di La Paz, in quella penisola lunga milleduecentonovanta chilometri. Hussong's era uno di quei bar leggendari, come Foxy's nelle isole Vergini, o Capt'n Tony's a Key West, che tutti al mondo conoscono e hanno frequentato almeno una volta. Entrando, Austin si sentì rincuorato nel vedere alcuni beoni trasandati che forse si ricordavano dei bei tempi andati, quando la tequila scorreva a fiumi e la polizia gestiva un servizio navetta fra la cantina e la prigione locale. Si sedettero a un tavolo, ordinando huevos rancheros. «Ah, puro cibo per l'anima», disse Zavala, assaporando un boccone di uova strapazzate con salsa piccante. Austin stava osservando l'espressione mesta della testa di alce che, per quanto riusciva a ricordare, era appesa sopra il bar da sempre. Continuando a chiedersi come avesse fatto un alce a raggiungere il Messico, tornò a dedicare la sua attenzione alla mappa della Baja che era stesa sul tavolo davanti a lui, vicino alla foto scattata dal satellite sulla quale era evidenziata la temperatura dell'acqua. «È qui che dobbiamo andare», asserì, indicando la mappa. «L'anomalia della temperatura si è verificata nelle vicinanze di questa baia.» Zavala finì di mangiare con un sorriso di piacere, aprendo la guida Baedeker del Messico. «Qui dice che 'la ballena gris, o balena grigia, si aggira al largo della Baja da dicembre a marzo per accoppiarsi e mettere al mondo i piccoli. Le balene pesano fino a venticinque tonnellate e sono lunghe da tre a quindici metri. Durante l'accoppiamento, un maschio tiene in posizione la femmina mentre un altro maschio...'» Fece una smorfia. «Penso che salterà questa parte. 'Le balene sono state quasi sterminate dal commercio dei derivati, ma nel 1947 sono state dichiarate specie protetta.'» Fece una pausa nella lettura. «Lascia che ti faccia una domanda. So che provi molto rispetto per qualunque creatura nuoti nel mare, ma non ho mai avuto l'impressione che fossi un appassionato di balene. Come mai tutto questo interesse? Perché non lasci l'incarico all'EPA o alla Fish and Wildlife?» «Buona domanda. Potrei risponderti che voglio scoprire cosa ha innescato la catena di eventi che è finita con l'affondamento della barca di mio padre, ma c'è anche un altro motivo che non riesco a individuare.» Negli occhi di Austin apparve un'espressione pensierosa. «Mi fa pensare a certe e-
sperienze paurose che ho vissuto in immersione. Sai cosa intendo. Stai nuotando, e hai l'impressione che vada tutto bene, quando ti senti drizzare i capelli e gelare le viscere, e ti assale la sgradevole sensazione di non essere solo, perché qualcosa ti sta guardando. Qualcosa di famelico.» «Certo», osservò Zavala in tono meditabondo. «Ma di solito si va ancora oltre. Io immagino che lo squalo più grosso, cattivo e affamato che ci sia nell'oceano sia dietro di me, e stia pensando che è passato molto tempo dall'ultima volta che ha mangiato autentico cibo messicano.» Assaporò un altro boccone. «Ma quando mi guardo intorno non c'è niente, o tuttalpiù c'è un pesciolino grande quanto un dito che mi fissa di traverso.» «Il mare è circondato dal mistero», soggiunse Austin con un'espressione distante negli occhi. «E questo sarebbe un enigma?» «In un certo senso. È una citazione di Joseph Conrad. 'Il mare non cambia mai e le sue opere, per quanto gli uomini possano parlarne, sono circondate dal mistero.'» Austin batté col dito sulla mappa. «Ogni giorno ci sono balene che muoiono. Alcune le perdiamo per cause naturali, altre restano impigliate nelle reti da pesca e muoiono di fame, oppure vengono travolte da una nave, o le avveleniamo con l'inquinamento perché qualcuno ritiene giusto trasformare il mare in un deposito di scorie tossiche.» S'interruppe un istante. «Ma il nostro caso non rientra in nessuna di queste categorie. Anche senza interferenze da parte dell'umanità la natura è sempre fuori fase, e non fa che regolarsi e riaggiustarsi. Ma non è una cacofonia. È piuttosto l'improvvisazione che s'incontra in un buon gruppo jazz, come Ahmad Jamal che suona un assolo al piano e se ne va per conto suo, in attesa di ritrovarsi più tardi con la sezione ritmica.» Scoppiò in una risata sonora. «Diamine, non so se sto dicendo qualcosa di sensato.» «Non dimenticare che ho visto la tua collezione di jazz, Kurt. Stai dicendo che qui c'è una nota stonata.» «Piuttosto una dissonanza universale, direi.» Ci rifletté qualche istante. «Preferisco la tua analogia. Ho la sensazione che ci sia un grosso squalo cattivo che se ne sta in agguato e ha una fame mostruosa.» Zavala respinse il piatto ormai vuoto. «Come dicono dalle mie parti, il momento migliore per pescare è quando i pesci hanno fame.» «Se non sbaglio, sei cresciuto nel deserto, amigo», commentò Austin alzandosi in piedi. «Comunque sono d'accordo con te. Andiamo a pesca.» Da Ensenada, ripresero la MEX 1 per puntare al sud. Come a Tijuana, gli esercizi commerciali si diradarono e svanirono, e la strada si ridusse a
due corsie. Non appena superata Maneadero, svoltarono per imboccare una serie di strade secondarie che passavano attraverso campi coltivati, fattorie sparse qua e là e antiche missioni; infine raggiunsero un territorio accidentato e disabitato, con una serie di colline ondulate ammantate di nebbia che scendevano verso il mare. Zavala, che faceva da navigatore, controllò la mappa. «Siamo quasi arrivati. È appena dietro l'angolo», annunciò. Austin non sapeva che cosa aspettarsi. Anche così, restò sorpreso quando, superata la curva, vide un cartello scritto in spagnolo e in inglese con l'annuncio che si trovavano di fronte alla sede della Baja Tortilla Company. Frenò, accostando alla banchina stradale. Il segnale si trovava all'inizio di un lungo viale di terra argillosa fiancheggiato da alberi. In fondo al viale si scorgeva un edificio di grandi dimensioni. Austin si appoggiò al volante, spingendo sulla fronte gli occhiali Foster Grant. «Sei sicuro che sia il posto giusto?» Zavala porse la mappa a Austin perché la esaminasse. «È questo.» «A quanto pare abbiamo fatto un sacco di strada per niente.» «Forse no», disse Zavala. «Gli huevos rancheros erano eccellenti, e ho una nuova T-shirt della Hussong's Cantina.» Austin socchiuse gli occhi. «Le coincidenze m'insospettiscono. Il cartello dice che i visitatori sono benvenuti. Visto che siamo qui, prendiamoli in parola.» Svoltò, lasciando la carreggiata e proseguendo con il pick-up per qualche centinaio di metri fino a un parcheggio ben curato e ricoperto di ghiaia, con gli spazi contrassegnati per i visitatori. Davanti all'edificio, una struttura di lamiera ondulata con la facciata abbellita da un portale di adobe e il tetto di tegole in stile spagnolo, erano parcheggiate parecchie auto e un paio di pullman turistici con la targa della California. Attraverso i finestrini aperti del pick-up penetrava l'odore del granturco cotto al forno. «Una messinscena incredibilmente convincente», osservò Zavala. «Non mi aspettavo certo di vedere un'insegna al neon che dicesse: GLI ASSASSINI DI BALENE VI DANNO IL BENVENUTO.» «Vorrei che avessimo portato con noi almeno un'arma», soggiunse Zavala con finta gravità. «Non si sa mai quando potrebbe attaccarti una tortilla impazzita. Una volta ho sentito parlare di qualcuno che è stato malmenato da un burrito a Nogales...» «Risparmiati la storia per il ritorno.» Austin scese dal pick-up e precedette il compagno verso un portone di legno scuro scolpito con intarsi ela-
borati. Entrarono nella zona della reception, le cui pareti erano imbiancate a calce. Una giovane messicana si alzò dietro la sua scrivania e li accolse con un sorriso. «Buenos días», esclamò. «Siete fortunati. Sta per cominciare la visita guidata della fabbrica di tortillas. Non siete il gruppo sceso dalla nave da crociera?» Austin represse un sorriso. «Siamo soli. Stavamo passando di qui e abbiamo visto il cartello.» La giovane donna sorrise e li invitò a unirsi a un gruppo di anziani, per lo più americani che provenivano dal Midwest, a giudicare dall'accento. La segretaria, che faceva anche da guida, li precedette nello stabilimento. «Il mais era la vita, in Messico, e le tortillas sono, da secoli, l'alimento principale tanto degli indios quanto dei coloni spagnoli.» Li guidò oltre le pile di sacchi di granturco che venivano vuotati nelle macine. «Per molto tempo le tortillas sono state preparate in casa. Il granturco veniva macinato e mescolato con l'acqua per produrre la masa, poi impastato, tagliato, schiacciato e infornato a mano. Con l'aumento della domanda in Messico e soprattutto negli Stati Uniti, l'industria della tortilla è stata centralizzata. Questo ci ha consentito di modernizzare gli impianti di produzione, assicurando un funzionamento più efficiente e igienico.» Parlando sottovoce, mentre seguivano gli altri visitatori, Austin osservò: «Se il mercato delle frittelle messicane è negli Stati Uniti, come mai questo posto non è più vicino alla frontiera? Perché farle qui e poi trasportarle sull'autostrada?» «Buona domanda», replicò Zavala. «L'industria della tortilla in Messico è un monopolio molto esclusivo, gestito da persone che hanno stretti legami con il governo. È un'industria da miliardi di dollari. Anche ammesso che avessero una ragione valida per costruirla tanto a sud, perché proprio in riva all'oceano? È un bel posto per un albergo di lusso, ma per un'operazione del genere?» Il gruppo passò accanto alle impastatrici che alimentavano le macchine in grado di produrre centinaia di tortillas al minuto, sottili focacce piatte che uscivano su nastri trasportatori sorvegliati da operai in camice bianco e berretto di plastica. La guida stava conducendo il gruppo verso i reparti confezione e spedizione, quando Austin notò una porta con una scritta in spagnolo. «Riservato ai dipendenti?» domandò a Zavala. Joe annuì.
«Ho imparato tutto quello che desideravo sapere su burritos ed enchiladas.» Austin si fece da parte e cercò di aprire la porta. Non era chiusa a chiave. «Vado a fare un giretto.» Lanciando un'occhiata al fisico imponente e ai capelli quasi bianchi di Austin, Zavala osservò: «Con il debito rispetto per il tuo talento di ficcanaso, non sei esattamente il tipo giusto per mimetizzarsi con la gente che lavora da queste parti. Io potrei dare meno nell'occhio di un gringo gigantesco che si aggira nei corridoi». Zavala non aveva tutti i torti. «Okay, fa' pure, ma sii prudente», convenne Austin. «Ci vediamo alla fine del giro. Se la guida mi chiede qualcosa, le dirò che dovevi andare alla toilette.» Zavala gli strizzò l'occhio, sgusciando oltre la porta. Confidava nel fatto che il suo fascino gli avrebbe permesso di cavarsela in qualunque situazione e aveva già preparato una storiella per dire che si era perso andando in cerca del baño. Si trovò in un lungo corridoio senza finestre né aperture, tranne una porta d'acciaio in fondo. Lo percorse tutto, accostò l'orecchio alla porta e, non sentendo alcun rumore, tentò di aprirla. Era chiusa a chiave. Frugò in tasca e ne estrasse un coltellino svizzero che gli sarebbe valso l'arresto nei posti dove è illegale il possesso di strumenti da scasso: infatti gli accessori standard, come forbicine, lima per le unghie e apriscatole, erano stati sostituiti da grimaldelli in grado di aprire le serrature più comuni. Al quarto tentativo sentì scattare il chiavistello. Oltre l'apertura c'era un corridoio in discesa sul quale, a differenza del primo, si affacciavano parecchie porte. Erano tutte chiuse a chiave, tranne una che dava su uno spogliatoio. Gli armadietti erano bloccati, ma avrebbe potuto aprirli con i suoi strumenti, se ne avesse avuto il tempo. Consultò rapidamente l'orologio: la visita guidata stava per finire. Sulla parete di fronte c'erano alcune mensole sulle quali erano disposti dei camici bianchi ripiegati in modo ordinato. Ne trovò uno della sua misura e lo indossò. In un armadietto scovò un portablocco. Uscì nel corridoio e proseguì verso un'altra porta. Era chiusa anche quella, ma dopo qualche tentativo riuscì ad aprirla. Zavala si ritrovò su una piattaforma sopraelevata che dominava un locale di ampie dimensioni. La piattaforma era collegata a una serie di passerelle che s'incrociavano in una ragnatela di tubi orizzontali e verticali. Il ronzio basso dei macchinari sembrava permeare l'atmosfera, senza che lui riuscisse a individuarne la fonte. Discese una rampa di scale. I tubi usciva-
no dal pavimento, poi scomparivano ad angolo retto nella parete. Probabilmente erano le tubature della fabbrica di tortillas. A un'estremità del locale c'era un'altra porta. Aprendola pian piano, si sentì investire da una fresca brezza oceanica. Rimase sbalordito. Si ritrovò su una piccola piattaforma in cima alla parete di una scogliera, affacciata su una laguna che si trovava almeno sessanta metri più in basso. La vista era splendida, e per l'ennesima volta si domandò come mai non avessero costruito un albergo, in quel posto, anziché una fabbrica. Immaginava che l'impianto industriale si trovasse dietro il ciglio della scogliera, ma dal punto in cui si trovava non poteva vederlo. Abbassò di nuovo lo sguardo. L'acqua sciabordava contro le rocce frastagliate lungo la riva, formando increspature spumeggianti. A un'estremità della piattaforma una specie di cancello si apriva nel vuoto, senza scaletta. Strano. A qualche metro di distanza c'era una sorta di binario metallico che correva lungo la parete fino a scomparire nell'acqua. Lo seguì con gli occhi fino alla laguna. Un tratto delle acque sembrava più scuro di quello circostante, ma poteva trattarsi di fuco e alghe che aderivano alle rocce. Alla base della scogliera si sprigionò un gorgoglio intenso e all'improvviso emerse dall'acqua un grosso oggetto lucente a forma di uovo, che cominciò a salire lungo la parete. Ma certo! Il binario serviva per l'ascensore. L'uovo salì a velocità costante. Sarebbe arrivato di lì a pochi secondi. Zavala si rintanò nel grande locale pieno di tubi, lasciando socchiusa la porta. L'uovo, fatto di un materiale plastico o di vetro affumicato che si mimetizzava con la scogliera, si fermò all'altezza della piattaforma. Si aprì una porta e uscirono due uomini in camice bianco. Zavala sfrecciò verso le scale, e pochi secondi dopo era di nuovo nello spogliatoio. Si sfilò il camice, ripiegandolo meglio che poteva, e percorse in fretta i corridoi sino alla fabbrica di tortillas. Nessuno lo vide rientrare nell'area aperta al pubblico, dove si affrettò nella direzione che aveva preso Austin seguendo il gruppo. La guida lo vide avvicinarsi e gli rivolse un'occhiata interrogativa, tutt'altro che soddisfatta. «Stavo cercando il baño.» Lei arrossì e disse: «Oh, sì, glielo indico io». Batté le mani per attirare l'attenzione del gruppo. «Il giro è finito.» Consegnò a tutti una confezione omaggio di tortillas e li ricondusse nella zona della reception. Mentre automobili e pullman si allontanavano, Austin e Zavala si scambiarono le loro impressioni.
«A giudicare dalla faccia, direi che il tuo piccolo giro esplorativo ha avuto successo.» «Qualcosa ho trovato, ma non so di che si tratta.» Zavala, in breve, espose le sue scoperte. «Il fatto che abbiano nascosto qualcosa sott'acqua indica che non vogliono far sapere che cosa stanno combinando», commentò Austin. «Facciamo una passeggiata.» Girarono intorno alla fabbrica, cercando di avvicinarsi all'acqua, ma si trovarono di fronte a un'alta recinzione di rete metallica sormontata da filo spinato, qualche centinaio di metri prima del punto in cui la scogliera cadeva a precipizio sul mare. «Tanti saluti alla vista sull'oceano», disse Zavala. «Vediamo se si riesce a raggiungere l'altro lato della baia.» I due tornarono verso il pick-up, e si immisero di nuovo sulla strada. C'erano vari sentieri che scendevano verso il mare, ma la recinzione bloccava tutte le vie d'accesso possibili. Stavano per rinunciare, quando videro un uomo con una canna da pesca e una cesta piena di pesci risalire un sentiero. Zavala lo chiamò, chiedendogli se da lì si poteva raggiungere l'oceano. Sulle prime l'uomo sembrava diffidente, come se fosse convinto che avevano qualcosa a che fare con la fabbrica di tortillas, ma quando Zavala estrasse dal portafogli una banconota da venti dollari s'illuminò in volto e disse che, sì, c'era la recinzione, ma esisteva un punto in cui si poteva strisciare sotto la rete. Li guidò su un viottolo nascosto fra i cespugli alti fino alle spalle, indicò loro una sezione di rete metallica e se ne andò stringendo in pugno quella piccola fortuna inattesa. Una sezione di rete metallica era stata sollevata da terra e, al di sotto, era stata scavata una piccola buca. Zavala sgattaiolò facilmente dalla parte opposta, poi tenne sollevata la rete per far passare Austin. Seguirono il sentiero invaso dalla vegetazione fino a raggiungere la sommità di una scogliera, e si trovarono all'estremità del promontorio meridionale che chiudeva la laguna. Dal versante meno ripido del promontorio scendeva un sentiero che doveva essere stato aperto dai piedi di innumerevoli pescatori, ma agli uomini della NUMA interessava di più la visuale sul lato opposto della baia. Da quella angolazione la struttura di metallo scuro sembrava un sinistro fortino uscito da un film della serie di Conan il barbaro. Austin scrutò l'edificio con il binocolo che poi puntò sulla parete della scogliera. Il sole scintillò su qualcosa di metallico nel punto in cui Zavala aveva descritto la pre-
senza delle guide dell'ascensore. Lasciò scivolare lo sguardo verso l'ampia entrata della laguna, dove la risacca s'infrangeva sulle rocce, prima di riportarlo verso la fabbrica. «Ingegnoso», commentò Austin con una risatina. «Se costruisci un grande impianto a casa del diavolo, ecco che cominciano a parlarne tutti, come il nostro amico pescatore laggiù. Se invece lo metti in piena vista e inviti la gente a visitarlo ogni giorno, ti procuri una copertura impeccabile per ogni sorta di operazioni clandestine.» Zavala gli tolse di mano il binocolo per scrutare la scogliera dalla parte opposta. «Perché un ascensore a tenuta stagna?» «Non so che cosa rispondere», disse Austin, scuotendo la testa. «Penso che non riusciremo a vedere altro.» Sperando di scorgere segni di attività intorno all'edificio o alla scogliera, si trattennero sul posto ancora per qualche minuto, ma gli unici movimenti erano quelli degli uccelli marini che si alzavano in volo. Allontanandosi dal mare, qualche minuto dopo, strisciarono sotto la rete metallica. Zavala avrebbe voluto chiedere al pescatore se sapeva qualcosa dell'ascensore, o se aveva notato qualcosa d'insolito nella laguna, ma l'uomo aveva preso il denaro e se l'era filata. Risalirono sul pick-up per dirigersi a nord. Austin guidava in silenzio, e Zavala sapeva per esperienza che stava rimuginando un piano e che glielo avrebbe esposto con tutti i dettagli non appena lo avesse elaborato. Superata Ensenada, Austin domandò: «La NUMA sta ancora svolgendo quegli esperimenti sul campo al largo di San Diego?» «Sì, per quanto ne so. Pensavo proprio di controllare come andavano le cose, non appena finita la gara.» Austin annuì. Durante il viaggio di ritorno chiacchierarono allegramente, scambiandosi aneddoti sulle avventure del passato e sulle imprudenze giovanili commesse in Messico. La lunga fila di auto alla frontiera avanzava a passo di lumaca, così mostrarono la tessera della NUMA per risparmiare tempo e furono invitati a passare senza controlli. Non appena tornati a San Diego, si diressero verso la baia, raggiungendo un vasto porticciolo municipale. Parcheggiato il pick-up percorsero a piedi una banchina, superando decine di barche a vela e a motore. All'estremità di un molo riservato alle imbarcazioni più grandi trovarono un battello piuttosto tozzo e largo, lungo ventisei metri. Sullo scafo turchese era dipinta in bianco la scritta NUMA. Attraversata la passerella, chiesero a uno dei marinai che oziavano sul
ponte se a bordo ci fosse il comandante, e lui li guidò sulla plancia, dove un uomo snello dalla carnagione olivastra stava esaminando dei grafici. Jim Contos era considerato uno dei migliori skipper della flotta della NUMA. Figlio di un pescatore di spugne di Tarpon Springs, navigava fin da quando aveva imparato a camminare. «Kurt, Joe!» esclamò Contos con un caloroso sorriso. «Che bella sorpresa! Ho sentito che eravate nei paraggi, ma non avrei mai pensato che onoraste di una visita la Sea Robin. Che cosa state combinando?» Lanciò un'occhiata a Zavala. «Be', nel tuo caso so sempre che cosa stai combinando.» Le labbra di Zavala s'incurvarono nel suo sorrisetto tipico. «Kurt e io abbiamo partecipato alla gara di ieri.» Il viso di Contos si rannuvolò. «EH, ho sentito parlare di quell'incidente accaduto alla vostra barca, e mi dispiace molto.» «Grazie», replicò Austin. «Allora saprai anche delle balene grigie morte al largo della costa.» «Sì... una faccenda molto strana. Qualche idea su chi possa averle uccise?» «Forse potremmo scoprirlo, se ci fai un grosso favore.» «Certo, tutto quello che posso.» «Vorremmo prendere in prestito la Sea Robin e il minisommergibile per una piccola immersione a sud del confine.» Contos scoppiò a ridere. «Non scherzavi, parlando di un grosso favore.» Rifletté un momento, poi alzò le spalle. «Perché no? Abbiamo appena completato i test sul campo, qui. Se riuscite a ottenere un'autorizzazione verbale per operare in acque messicane, per me va bene.» Austin annuì e chiamò subito la NUMA. Dopo qualche minuto di conversazione passò il cellulare a Contos. Lui rimase in ascolto, assentì, pose qualche domanda e poi chiuse la comunicazione. «Pare che siamo diretti a sud. Gunn ha dato l'okay.» Rudi Gunn era il direttore delle operazioni della NUMA a Washington. «Due giorni al massimo. Vuole riavere al più presto a disposizione te e Joe, per rimettervi al lavoro. Una cosa, però. Dice che non avrà il tempo di chiedere l'autorizzazione al governo messicano, con un preavviso così breve.» «Se qualcuno farà domande, potremo sempre rispondere che ci siamo persi», ribatté Austin con aria di finta innocenza. Contos accennò con la mano allo schieramento scintillante di spie e quadranti sulla console della barca. «Potrebbe risultare un po' difficile, con
tutta la strumentazione elettronica di cui è dotata questa imbarcazione. La Sea Robin potrà anche essere brutta a vedersi, ma non si può negare che sappia cosa succede al mondo. Lasceremo al Dipartimento di Stato il compito di appianare i problemi che dovessero presentarsi. Quando volete partire?» «Andremo a prendere la nostra roba e torneremo il più presto possibile. Il resto dipende da te.» «Programmerò la partenza per le sette di domattina», stabilì Contos, voltandosi per impartire nuovi ordini all'equipaggio. Tornando verso il pick-up, Austin chiese a Zavala che cosa aveva voluto dire Contos osservando che sapeva sempre cosa stava combinando Joe. «Siamo usciti qualche volta con la stessa donna», spiegò Zavala alzando le spalle. «C'è qualche donna del Distretto di Columbia con la quale non sei uscito?» Zavala ci pensò. «La First Lady. Come sai, la mia regola è di non impelagarmi mai con le donne sposate.» «Mi sento davvero sollevato», osservò Austin, mettendosi al volante. «Ma se dovesse divorziare, certo...» Avviando il motore, Austin osservò: «Penso che questa sarebbe una buona occasione per raccontarmi la storia di quel tizio di Nogales che fu malmenato da un burrito». 7 Sotto il cielo limpido tipico degli Stati occidentali, l'elicottero McDonnell-Douglas con la fusoliera verde bosco superò le vette frastagliate del monte Squaw, si abbassò sulle acque glaciali del lago Tahoe e sfrecciò come una libellula spaventata verso la costa della California. Si librò nell'aria per un istante, prima di scendere in mezzo a un bosco di altissimi pini gialli e posarsi su una pista di cemento. Non appena i rotori si fermarono, una Chevy Suburban di proporzioni elefantiache accostò allo sportello. L'autista, che indossava una divisa dello stesso verde cupo dell'elicottero e del SUV, scese per accogliere il passeggero di riguardo che sbarcava dall'elicottero. Prendendogli la borsa da viaggio dalle mani, disse: «Da questa parte, deputato Kinkaid». Salirono a bordo dell'automezzo, che percorse una strada asfaltata nel
folto della foresta. Pochi minuti dopo si arrestò di fronte a un complesso di edifici che sembravano una versione in legno di sequoia del favoloso castello costruito da Hearst a San Simeon. Il sole del tardo pomeriggio investiva le torrette, le torri e le mura, disegnando una silhouette fantastica. Soltanto per realizzare la facciata doveva essere stata abbattuta un'intera foresta di alberi giganteschi. L'enorme edificio era in sostanza una grandissima capanna di tronchi, squadrata, con una serie di dépendance riunite intorno a un corpo centrale alto tre piani. Il deputato Kinkaid mormorò: «Questo posto è più grande del Tabernacolo dei Mormoni». «Benvenuto a Walhalla», ribatté il conducente senza sbilanciarsi. Parcheggiò il veicolo davanti alla costruzione, prese la borsa da viaggio del membro del Congresso e lo guidò su per un'ampia scala fino a un portico lungo quanto un salone da bowling, e di lì in un grande atrio rivestito di pannelli e travi di legno scuro, quasi nero. Seguirono una serie di corridoi rivestiti degli stessi pannelli scuri per fermarsi infine davanti a un'alta porta metallica a due battenti, sagomata come un arco gotico e decorata da bassorilievi. «Porterò il suo bagaglio nell'alloggio che le è stato destinato, signore. Gli altri la stanno già aspettando. Troverà una targhetta con il suo nome al posto che le è stato assegnato.» La guida premette un pulsante sulla parete, e la porta si aprì in silenzio. Kinkaid entrò e trattenne il fiato mentre i battenti della porta si richiudevano alle sue spalle. Si trovava in un salone imponente dal soffitto altissimo. Il locale era rischiarato dal fuoco che ardeva in un camino enorme e dalle torce accese alle pareti, che contendevano lo spazio a scudi e stendardi, lance, asce da combattimento, spade e altri strumenti di morte decorati in modo elaborato che ricordavano un'epoca in cui la guerra era un esercizio di macelleria. Persino quegli strumenti letali, comunque, impallidivano davanti all'oggetto che troneggiava al centro della sala: una nave vichinga lunga circa una ventina di metri, con il fasciame di rovere incurvato in modo che la poppa e la prua si protendessero verso l'alto. L'unica vela quadra, di pelle, era issata come per catturare la brezza. Una passerella vicina a poppa consentiva l'accesso al ponte e al lungo tavolo che vi era stato installato, lungo quanto la nave. Kinkaid era un veterano dei marine che aveva partecipato ad azioni di guerra nel Vietnam e non si lasciò intimorire da quell'ambiente. Irrigiden-
do la mascella in un'espressione inconfondibile di ferma determinazione, attraversò la sala per raggiungere la nave e salì la passerella. Intorno al tavolo erano sedute circa due dozzine di uomini che interruppero la conversazione per guardarlo con curiosità. Kinkaid prese posto sull'ultima sedia rimasta libera e fulminò gli altri con lo sguardo. Stava per attaccare discorso con il vicino di destra, quando i battenti della porta in fondo alla sala si spalancarono. Entrò una donna che si diresse verso la nave alla luce tremolante delle torce, coprendo in fretta la distanza con le gambe lunghissime. Mentre avanzava, la tuta verde e aderente metteva in risalto il suo corpo atletico, ma l'elemento più imponente del suo aspetto era la statura, visto che era alta circa due metri e dieci. Il corpo e il viso della donna erano perfetti, ma la sua era la bellezza algida di un iceberg, altrettanto raggelante. Era come se fosse venuta alla luce, perfetta così com'era, dal gelo eterno dell'Artico. I capelli di un pallido color lino erano pettinati all'indietro e raccolti sulla nuca, lasciando scoperta la pelle marmorea e mettendo in risalto i grandi occhi di un azzurro glaciale. Salì la passerella e girò intorno al tavolo, poi, con una voce sorprendente per il tono sommesso, salutò per nome tutti i presenti, ringraziandoli di essere lì. Quando fu la volta del membro del Congresso, si soffermò, fissando il suo viso rugoso con quegli occhi straordinari, e gli strinse la mano in una morsa d'acciaio. Prese posto davanti alla sedia con lo schienale alto all'estremità del tavolo diretta verso la prua e rivolse loro un sorriso tanto gelido quanto seducente. «Buona sera, signori», disse, alzando la voce per raggiungere il tono sonoro di un abile oratore. «Mi chiamo Brynhild Sigurd. Vi chiederete senza dubbio che posto sia questo. Walhalla è la mia casa e la sede del quartier generale della società, ma anche una celebrazione delle mie radici scandinave. L'edificio principale è una versione ingigantita di una delle tipiche 'case lunghe' dei vichinghi. Le dépendance sono destinate a usi speciali, come uffici, alloggi per gli ospiti, palestra e museo per la mia collezione di arte primitiva norvegese.» Inarcò un sopracciglio. «Spero che nessuno di voi sia soggetto al mal di mare.» Attese che la risata si calmasse, prima di proseguire. «Questo vascello è una riproduzione della nave vichinga Gogstad. È qualcosa di più che una riproduzione di scena, perché simboleggia la mia convinzione che si può raggiungere l'impossibile. L'ho fatta costruire perché ammiro la bellezza funzionale del progetto, ma anche perché serva da monito costante: i vi-
chinghi non avrebbero mai attraversato l'oceano se non fossero stati audaci e avventurosi. Forse il loro spirito potrà influenzare le decisioni che saranno prese qui.» Dopo un attimo di pausa, aggiunse: «Probabilmente vi starete domandando per quale motivo vi abbia invitato». Una voce ruvida e tagliente la interruppe. «Direi che abbia qualcosa a che fare con l'offerta di donare cinquantamila dollari a ciascuno di noi, o di versare a nostro nome la somma a un ente caritatevole di nostra scelta», osservò il deputato Kinkaid. «Io ho devoluto la sua offerta a una fondazione scientifica che indaga sui difetti genetici.» «Non mi sarei aspettata niente di meno, data la sua reputazione d'integrità.» Kinkaid commentò con un grugnito, mettendosi comodo sulla sedia. «Mi scusi se l'ho interrotta», concluse. «E la prego di proseguire la sua... affascinante presentazione.» «Grazie», replicò Brynhild. «Per continuare il discorso, voi, signori, provenite da tutte le parti del Paese e rappresentate molte imprese diverse. Fra di voi ci sono uomini politici, burocrati, accademici, lobbisti e tecnici. Ma voi e io apparteniamo a una confraternita unita da un vincolo comune: l'acqua. Un bene che oggi scarseggia, come ben sappiamo. Tutti sanno che ci troviamo alle soglie di quella che potrebbe essere la siccità più lunga della storia. Non è così, professor Dearborn? Come climatologo, vorrebbe essere così gentile da fornirci la sua stima della situazione?» «Ne sarei lieto», rispose un uomo di mezz'età che parve sorpreso di essere chiamato in causa. Prima di parlare, si passò le mani fra i radi capelli color zenzero. «Questo Paese è attualmente in una condizione di siccità medio-grave nella fascia mediana e lungo il settore meridionale, dall'Arizona alla Florida, e probabilmente la situazione potrebbe peggiorare. Inoltre l'acqua in tutti i Grandi Laghi ha raggiunto il minimo storico. È possibile una siccità prolungata a livello della Dust Bowl. Non è del tutto esclusa una megasiccità della durata di decenni.» Intorno al tavolo si levò un mormorio. Brynhild aprì una scatola di legno che aveva davanti a sé, vi infilò la mano lasciando scorrere una manciata di sabbia fra le lunghe dita. «Signori, la festa è finita. Questo è il futuro arido e desolato che ci attende.» «Con tutto il dovuto rispetto, signorina Brynhild», osservò un rappresentante del Nevada, parlando con il tipico accento strascicato di quello Stato, «non ci sta rivelando nulla di nuovo. Las Vegas si troverà in una
brutta situazione, ma anche Los Angeles e Phoenix non se la passeranno meglio.» Lei accostò le mani in un applauso sommesso. «D'accordo. Ma se vi dicessi che esiste un modo per salvare le vostre città?» «Mi piacerebbe sentire qual è», disse l'uomo del Nevada. Lei sbatté il coperchio sulla scatola con un gesto simbolico. «Il primo passo avanti è già stato fatto. Come quasi tutti voi saprete, il Congresso ha autorizzato il controllo da parte dei privati della distribuzione delle acque del fiume Colorado.» Kinkaid si protese in avanti sul tavolo. «E come lei sa, signorina Brynhild, io ho capeggiato l'opposizione al progetto di legge.» «Per fortuna, però, non è stato lei a prevalere. Se la legge fosse stata respinta, l'Ovest sarebbe stato condannato. I bacini artificiali contengono acqua soltanto per due anni, dopodiché saremo costretti a evacuare gran parte della California e dell'Arizona e buona parte del Colorado, del New Mexico, dello Utah e del Wyoming.» «Le dirò la stessa cosa che ho detto a quegli idioti di Washington: mettere la diga Hoover nelle mani dei privati non aumenterà le riserve d'acqua.» «Non è mai stato questo il punto. Il problema non era la riserva d'acqua, ma la distribuzione. Gran parte di quell'acqua veniva usata male. Mettere fine ai sussidi governativi per l'acqua e affidare la sua gestione al settore privato significa che non andrà sprecata, e per una ragione semplicissima: lo spreco non è redditizio.» «Io continuo a sostenere il mio argomento fondamentale», ribatté Kinkaid. «Un bene prezioso come l'acqua non dovrebbe essere controllato da imprese che non devono rendere conto all'opinione pubblica.» «Il settore pubblico ha avuto la sua occasione e ha fallito. Ora il prezzo dell'acqua sarà fissato dalla legge della domanda e dell'offerta. Sarà il mercato a dettare le regole. Solo chi potrà permettersi l'acqua la otterrà.» «È proprio quello che ho sostenuto durante il dibattito. Le città ricche diventeranno sempre più prospere, mentre le comunità povere moriranno di sete.» Brynhild era inflessibile. «E con questo? Provate un po' a soppesare le alternative. Se l'acqua continuasse a essere distribuita con il vecchio sistema della proprietà pubblica e i fiumi restassero in secca, l'Ovest, così come lo conosciamo, diventerebbe una distesa di polvere. Come ha detto il rappresentante del Nevada, Los Angeles, Phoenix e Denver diventerebbero città fantasma. Immaginate i cespugli di amaranto che rotolano attraverso i
casinò deserti di Las Vegas. Sarebbe il disastro economico. I mercati obbligazionari crollerebbero. Wall Street ci volterebbe le spalle. La perdita di potere finanziario significa perdita di influenza a Washington. I finanziamenti per le opere pubbliche affluirebbero in altre zone del Paese.» Lasciò che quella litania di disastri facesse il suo effetto sull'uditorio prima di continuare. «Gli abitanti dell'Ovest diventerebbero i nuovi Okies, come venivano chiamati i poveri emigranti in Furore. Solo che, invece di spostarsi a ovest per trovare la Terra Promessa, caricherebbero le famiglie a bordo di Lexus e SUV Mercedes per puntare a est.» Con una nota d'ironia nella voce, aggiunse: «Chiedetevi in che modo reagirebbe la costa orientale, già sovraffollata, trovandosi di fronte a migliaia, anzi milioni, di abitanti dell'Ovest disoccupati che invadono il suo territorio». S'interruppe un istante, per ottenere un effetto drammatico. «Non sarebbe interessante se la popolazione dell'Oklahoma si rifiutasse di accoglierci sotto le sue ali?» «Io non la biasimerei davvero», osservò uno speculatore edilizio della California meridionale. «Ci accoglierebbero esattamente come hanno fatto i californiani con i miei nonni, armati di fucili, squadre di gorilla e blocchi stradali.» Un allevatore dell'Arizona commentò con aria malinconica: «Se voi californiani non foste così maledettamente avidi, ci sarebbe acqua sufficiente per tutti». Nel giro di pochi minuti, la discussione degenerò in un confuso vociare. Brynhild lasciò che i suoi ospiti continuassero a parlare tutti insieme ancora per un poco, prima di battere le nocche sul tavolo. «Questa inutile discussione è un esempio delle chiacchiere futili che si fanno da decenni sull'argomento acqua. Ai vecchi tempi gli allevatori si sparavano per accaparrarsi i diritti sull'acqua. Oggi le nostre armi sono le cause legali. La privatizzazione metterà fine a questo inutile battibecco. Dobbiamo smetterla di lottare fra noi.» Nella sala echeggiò un suono di applausi. «Brava», esclamò Kinkaid. «Plaudo all'eloquenza della sua performance, ma sta sprecando il suo tempo. Intendo chiedere al Congresso di riaprire la questione.» «Potrebbe essere un errore.» Kinkaid era troppo agitato per riconoscere la velata minaccia. «Non credo. So da fonti autorevoli che le imprese che hanno rilevato il sistema del fiume Colorado hanno speso centinaia di migliaia di dollari per influenzare questa legge inaccettabile.»
«Le sue informazioni non sono esatte. Abbiamo speso milioni.» «Milioni. Lei...?» «Non io di persona. La mia società, che è l'organizzazione ombrello delle imprese alle quali lei alludeva.» «Sono sbigottito. Allora il fiume Colorado è sotto il suo controllo?» «Per l'esattezza, sotto il controllo di un ente creato espressamente a quello scopo.» «Scandaloso! Non posso credere che ammetta una cosa del genere.» «Non è stato commesso nessun atto illegale.» «È quello che dicevano a Los Angeles quando il dipartimento municipale delle acque si è impadronito del fiume che scorre nella Owens Valley.» «Mi ha tolto le parole di bocca. Non c'è niente di nuovo. Los Angeles è diventata la città più grande, ricca e potente del deserto che esista al mondo mandando in avanscoperta un esercito di ispettori delle acque, avvocati e speculatori terrieri per impadronirsi delle risorse idriche dei vicini.» Intervenne il professor Dearborn. «Scusatemi, ma temo di essere d'accordo con il collega deputato. Il caso di Los Angeles è stato un esempio classico di imperialismo delle risorse idriche. Se quello che sta dicendo è vero, lei sta gettando le basi per creare un monopolio idrico.» «Lasci che le prospetti uno scenario possibile, professor Dearborn. La siccità persiste. Il fiume Colorado non è in grado di soddisfare la richiesta. Le città muoiono di sete. Non ci sono avvocati che discutono dell'allocazione delle acque, ma scontri armati alla sorgente come ai vecchi tempi. Ci pensi un po': folle assetate per le strade, che attaccano ogni forma di autorità. Il crollo completo dell'ordine costituito. Al confronto, i tumulti razziali di Watts diventerebbero una rissa scolastica.» Dearborn annuì come se fosse in trance. «Ha ragione», ammise, chiaramente turbato. «È solo che... deve scusarmi, ma non mi sembra giusto.» Lei lo interruppe. «Questa è una lotta per la sopravvivenza, professore. Si tratta di vivere o morire, a seconda della decisione che prenderemo.» Sconfitto, il professor Dearborn si appoggiò allo schienale della sedia, con le braccia conserte, e scosse la testa. Kinkaid intervenne per sostenerlo. «Non si lasci confondere da questi falsi scenari, professor Dearborn.» «A quanto pare, non sono riuscita a farle cambiare idea.» Kinkaid si alzò in piedi e disse: «No, ma le dirò che cosa ha ottenuto, invece. Ha rinunciato a una parte delle munizioni che sarebbero potute tor-
narle utili quando porterò il problema all'attenzione della commissione. Non mi sorprenderebbe se venissero prese delle iniziative antitrust. Scommetto che i miei colleghi che hanno votato a favore della legge sul fiume Colorado cambierebbero idea, se sapessero che tutto il sistema è destinato a finire nelle mani di una sola società». «Mi dispiace sentirle dire queste parole», ribatté Brynhild. «Le dispiacerà molto di più quando avrò finito. Voglio lasciare subito questo parco giochi privato.» La donna lo fissò con aria dispiaciuta. Ammirava la forza, anche quando veniva usata contro di lei. «Molto bene.» Parlò al microfono della ricetrasmittente che teneva agganciata alla cintola. «Ci vorrà qualche minuto per mandare a prendere il suo bagaglio e approntare l'elicottero.» La porta della sala si aprì, e l'uomo che poco prima aveva scortato Kinkaid lo guidò fuori della sala. Quando furono usciti, Brynhild commentò: «Anche se alcuni potranno considerare questa siccità un disastro, in realtà ci offre delle occasioni d'oro. Il fiume Colorado rappresenta solo una parte del nostro progetto. Stiamo continuando ad acquisire il controllo dei sistemi idrici di tutto il Paese. Voi vi trovate tutti in una posizione tale da poter influire sul successo delle nostre operazioni nelle vostre comunità. Ci sono grandi ricompense in serbo per tutti i presenti, anzi saranno superiori a ogni immaginazione. E nello stesso tempo farete qualcosa anche per il bene comune». Fece scorrere gli occhi lungo i lati del tavolo. «Chiunque voglia andarsene ora può farlo. Vi chiedo soltanto di darmi la vostra parola che manterrete il silenzio su questa riunione.» Gli ospiti si scambiarono occhiate incerte e alcuni si dimenarono sulla sedia, a disagio, ma nessuno accettò l'offerta di abbandonare il campo, neanche Dearborn. Come per magia si materializzarono dei camerieri, che posero davanti a ciascuno dei presenti una caraffa d'acqua e un bicchiere. Brynhild si guardò intorno. «È stato William Mulholland a portare l'acqua a Los Angeles. Indicando la Owens Valley, disse: 'Ecco, prendetela'.» Come a un segnale, i camerieri riempirono i bicchieri e fecero un passo indietro. Sollevando il proprio, lei esclamò: «Ecco, prendetela». Si portò il bicchiere alle labbra e bevve un lungo sorso. Gli altri la imitarono, come in uno strano rituale di comunione.
«Bene», esclamò lei. «E ora, il prossimo passo. Tornate a casa e aspettate una chiamata. Riceverete una richiesta alla quale dovrete obbedire senza discutere. Nulla di ciò che è avvenuto durante questa riunione dovrà trapelare, neanche il fatto che siete stati qui.» Scrutò i loro volti, uno dopo l'altro. «Se non ci sono altre domande», disse poi, facendo capire che la discussione era finita, «vi esorto a divertirvi. La cena sarà servita in sala da pranzo fra dieci minuti. Ho fatto venire uno chef a cinque stelle, quindi non credo che resterete delusi. Dopo cena potrete assistere a uno spettacolo di Las Vegas, e infine sarete accompagnati nelle vostre stanze. Partirete domattina, dopo colazione, nello stesso ordine in cui siete arrivati.» Con quelle parole, si allontanò dal tavolo, attraversò la sala per uscire dalla stessa porta da cui era entrata. Entrò in una stanza dove c'erano due uomini, in piedi con le gambe larghe, le mani incrociate dietro la schiena e gli occhi neri e infossati fissi sugli schermi baluginanti che ricoprivano tutta una parete. Erano gemelli monozigoti, identici, vestiti allo stesso modo, con una giacca di cuoio nero. Avevano lo stesso fisico robusto, gli zigomi alti, i capelli color del fieno umido e le sopracciglia scure e folte. «Allora, che ve ne pare dei nostri ospiti?» esclamò la donna in tono di derisione. «Questi vermi serviranno al loro scopo, dissodando il terreno?» La metafora andò perduta per i due fratelli, che avevano in mente una sola idea. Parlando con un forte accento dell'Europa orientale, quello sulla destra disse: «Chi vuole...» «... farci eliminare?» completò l'uomo sulla sinistra. Anche le loro voci monotone erano perfettamente uguali. Brynhild era soddisfatta. La risposta confermava la sua convinzione di aver preso la decisione giusta strappando Melo e Radico Kradzik alle forze della NATO che volevano deferire i due famigerati fratelli alla Corte internazionale dell'Aia, sotto l'accusa di crimini contro l'umanità. I gemelli erano un caso classico di psicopatologia sociale, e si sarebbero distinti anche senza la guerra in Bosnia. Il loro stato paramilitare aveva conferito un carattere di semilegittimità agli assassini, agli stupri e alle torture che avevano compiuto in nome del nazionalismo. Era difficile immaginare che quei mostri fossero cresciuti nel grembo materno. Avevano acquisito reciprocamente la capacità d'intuire quello che l'altro pensava: erano lo stesso uomo, ma in due corpi separati. Il loro legame li rendeva doppiamente pericolosi perché potevano agire senza comunicare verbalmente fra loro. Brynhild aveva ri-
nunciato a tentare di dividerli. «Chi dovrebbe essere eliminato, secondo voi?» Uno dei due tese la mano, con le dita ad artiglio che sembravano fatte per infliggere dolore, per riavvolgere il nastro. L'altro gemello indicò un uomo vestito di blu. «Lui», risposero all'unisono. «Il deputato Kinkaid?» «Sì, non gli è...» «... piaciuto quello che lei ha detto.» «E gli altri?» I gemelli riavvolsero il nastro e indicarono di nuovo. «Il professor Dearborn? È un peccato, ma probabilmente il vostro istinto non s'inganna. Non possiamo permetterci che qualcuno abbia anche solo un vago scrupolo. Bene, eliminate anche lui, ma fate il vostro lavoro con la massima discrezione possibile. Ho intenzione di convocare presto una riunione del consiglio di amministrazione per meditare sui nostri piani a lungo termine. Voglio che prima di allora sia tutto in ordine. Non ammetterò errori come quelli commessi dagli idioti che dieci anni fa hanno fallito in Brasile.» Uscì dalla stanza come un turbine, lasciando soli i gemelli, che rimasero immobili, fissando lo schermo con gli occhi scintillanti e l'espressione avida di un gatto intento a scegliere per cena il pesce rosso più grosso fra tutti quelli che ha visto nella vasca. 8 Lo scenario del fiume non era cambiato granché da quando il dottor Ramírez li aveva salutati con la mano dal molo del suo insediamento, augurando loro buon viaggio. L'idroscivolante seguì per miglia e miglia quel nastro di acque verde intenso, che si snodava tortuoso e ininterrotto fra due pareti compatte di alberi: quelle barriere lo isolavano dalla notte eterna della foresta. A un certo punto i Trout dovettero fermarsi perché il fiume era ostruito dai detriti, e accolsero quasi con piacere quel pretesto che li costringeva a far tacere, almeno per una breve tregua, il ronzio ipnotico del motore del veicolo. Legando alcune cime intorno ai tronchi e ai rami intrecciati, i due coniugi riuscirono a smantellare la barriera; il lavoro richiese tuttavia molto tempo, ed era già pomeriggio inoltrato quando i bastioni di foglie cedettero il passo a brevi squarci di terreno aperto e campi colti-
vati lungo le rive. Poi la foresta si aprì, rivelando un gruppetto di capanne di fronde. Paul ridusse la velocità e diresse la prua smussata dell'imbarcazione verso la riva fangosa, in mezzo ad alcune canoe tirate in secco. Con un rapido colpo di manetta, spinse l'imbarcazione sulla riva e spense il motore. Si tolse il berretto da baseball con il logo della NUMA che portava a rovescio, e lo usò per sventolarsi la faccia. «Ma dove sono finiti tutti quanti?» Quella quiete irreale era in netto contrasto con l'insediamento del dottor Ramírez, dove i nativi si aggiravano indaffarati tutto il giorno. Il posto appariva deserto. I soli indizi della presenza umana erano offerti dai sottili fili di fumo grigio che si levavano dai fori aperti nel tetto delle capanne. «È molto strano», osservò Gamay. «Sembra che tutto il villaggio sia stato colpito dalla peste.» Paul aprì una delle cassette usate per custodire l'attrezzatura e ne estrasse uno zaino. Il dottor Ramírez aveva insistito con loro perché prendessero in prestito una rivoltella Colt a canna lunga. Muovendosi lentamente, Paul depose lo zaino in mezzo a loro, poi frugò all'interno, slacciò la fondina e strinse nella mano il calcio, solido e rassicurante. «Non è la peste che mi preoccupa», mormorò, guardando le capanne immerse nel silenzio. «Sto pensando a quell'indio morto nella canoa.» Gamay aveva visto Paul frugare nello zaino e condivideva la sua ansia. «Una volta lasciata la barca, potremmo avere difficoltà a tornarci», osservò. «Aspettiamo ancora qualche minuto e vediamo che succede.» Paul annuì. «Forse stanno facendo la siesta. Svegliamoli.» Portandosi le mani alla bocca, lanciò un richiamo sonoro, ma l'unica risposta che ottenne fu l'eco della sua voce. Ritentò. Ancora nessun risultato. Gamay scoppiò a ridere. «Devono avere il sonno profondo, per non sentire un ruggito del genere.» «Inquietante», ribatté Paul con una scrollata del capo. «Fa troppo caldo per starsene qui fermi. Io vado a fare un giro. Vuoi coprirmi le spalle?» «Terrò una mano sul cannone che ci ha dato il dottor Ramírez e l'altra sull'accensione. Non fare l'eroe!» «Mi conosci troppo bene per pensarlo. Se ci sarà qualche problema, arriverò al galoppo.» Trout districò il corpo allampanato dal sedile davanti allo schermo che lo proteggeva dall'elica, spostandosi sul ponte. Aveva la massima fiducia nella capacità della moglie di coprirlo. Da bambina, a Racine, aveva impa-
rato dal padre il tiro al piattello, ed era un'ottima tiratrice con qualunque tipo di arma da fuoco. Paul sosteneva che sarebbe stata capace di centrare l'occhio di una pulce in pieno salto. Scrutò il villaggio e scese con un balzo a terra, immobilizzandosi subito dopo. Aveva colto un movimento sulla soglia buia della capanna più grande. Un viso umano aveva fatto capolino dallo stipite, poi era scomparso. Eccolo di nuovo. Pochi istanti dopo, un uomo uscì agitando le braccia. Gridò una specie di saluto e si avviò verso di loro lungo la discesa. Arrivato in riva al fiume, si tamponò il viso madido con un fazzoletto di seta macchiato di sudore. Era un uomo alto, e il cappello di paglia a tesa larga contribuiva ad aumentare la sua statura. Indossava un paio di pantaloni larghi di cotone bianco, stretti intorno al ventre corpulento con un tratto di corda di nylon, e una camicia bianca a maniche lunghe abbottonata fino al collo. Il sole scintillava sul monocolo che portava all'occhio sinistro. «Salve», disse in un inglese venato da un lieve accento straniero. «Benvenuti nella Parigi della foresta pluviale.» Paul guardò lo squallido crocchio di tuguri alle sue spalle. «Non vedo la Tour Eiffel», replicò in tono disinvolto. «Ah-ah. La Tour Eiffel. Straordinario! Guardi laggiù, non è lontano dall'Arco di Trionfo.» Dopo quel lungo viaggio compiuto sotto la cappa dell'afa, Paul non era troppo incline alle battute. «Stiamo cercando una persona chiamata 'l'olandese'.» L'uomo si tolse il cappello, mostrando una frangia di capelli bianchi e ribelli che circondavano la chierica al centro della testa. «Eccomi qui, per servirvi, ma non sono olandese.» Scoppiò a ridere. «Sette anni fa, quando sono arrivato in questo luogo abbandonato da Dio, ho detto che ero tedesco, Deutsch, non Dutch... Mi chiamo Dieter von Hoffman.» «Io sono Paul Trout, e questa è mia moglie Gamay.» Von Hoffman puntò il monocolo su Gamay. «Un bel nome per una donna splendida», osservò con galanteria. «Qui non vediamo spesso donne bianche, belle o no che siano.» Gamay gli chiese come mai nel villaggio regnasse tanta quiete. Le labbra rosse e carnose di Dieter s'incurvarono verso il basso. «Ho suggerito agli abitanti di nascondersi. Non è mai sbagliato mostrarsi cauti con gli estranei. Usciranno allo scoperto quando si accorgeranno che siete amici.» Esibì di nuovo quel suo sorriso vacuo. «Allora, qual buon vento vi porta
nel nostro piccolo villaggio?» «Ci ha pregato di venire qui il dottor Ramírez. Siamo della NUMA, la National Underwater & Marine Agency», rispose Gamay. «Stavamo svolgendo delle ricerche sui delfini, ospiti del dottor Ramírez. Ci ha chiesto di venire qui al suo posto.» «Ho appreso dal telegrafo della giungla che un paio di scienziati degli Stati Uniti erano nei dintorni, ma non avrei mai pensato che ci degnaste di una visita. Come sta lo stimato dottor Ramírez, di questi tempi?» «Sarebbe venuto molto volentieri, ma si è infortunato a una caviglia e non ha potuto affrontare il viaggio.» «Peccato. Mi avrebbe fatto piacere vederlo. È molto tempo che non mi capita di avere compagnia, ma questa non è una buona scusa per mostrarsi poco ospitali. Vi prego, venite. Dovete essere molto accaldati e assetati.» Paul e Gamay si scambiarono un'occhiata come a dire: d'accordo, ma facciamo attenzione. Gamay scese dall'imbarcazione, si mise in spalla la sacca con la pistola e tutti insieme si avviarono verso il gruppo di capanne disposte a semicerchio sulla sommità di una piccola altura. Dieter gridò qualche parola in un'altra lingua, e da ogni capanna uscì un fiotto di uomini, donne e bambini indigeni. Uscirono timidamente e restarono in silenzio sull'attenti, poi Dieter impartì un altro ordine e tutti tornarono a dedicarsi ai propri compiti. Paul e Gamay si scambiarono di nuovo un'occhiata. In quel villaggio Dieter non suggeriva: ordinava. Una donna indigena sulla ventina uscì a testa bassa dalla capanna più grande. A differenza delle altre donne, che indossavano soltanto un perizoma, portava un sarong di stoffa rossa tessuta a macchina drappeggiato intorno al corpo sinuoso. Dieter ringhiò un ordine, e lei rientrò immediatamente. Davanti alla capanna c'era una tettoia di paglia sorretta da quattro pali, che riparava dal sole un rudimentale tavolo di legno circondato da sgabelli ricavati da ceppi d'albero. Dieter indicò gli sgabelli, prendendo posto su uno di essi, e si tolse il cappello. Asciugandosi con il fazzoletto la testa sudata, lanciò bruscamente un ordine verso la porta aperta della capanna. La donna uscì portando un vassoio con tre bicchieri, ricavati da pezzi di rami scavati e svuotati. Dopo aver posato i bicchieri sul tavolo, indietreggiò rispettosamente di alcuni passi, sempre a testa bassa. Dieter alzò il boccale. «Brindo all'incontro con i nuovi amici.» Si sentì un tintinnio argentino mentre faceva roteare il contenuto del boccale. «Esatto», confermò, «state ascoltando il suono delizioso dei cubetti di ghiac-
cio. Potete ringraziare i prodigi della scienza moderna, che mi consentono di possedere un apparecchio portatile che sforna ghiaccio. Non c'è bisogno di vivere come tanti Adamo ed Eva dalla pelle scura.» Paul e Gamay bevvero con cautela, scoprendo che la bevanda era fresca, dissetante e piuttosto alcolica. «Il dottor Ramírez sostiene che lei è un mercante. Quale genere di merci tratta?» «Mi rendo conto che agli occhi di un profano questo sembra un posto povero, eppure questa gente semplice è capace di creare manufatti artistici molto sofisticati. Io presto i miei servigi come intermediario per mettere in vendita le loro opere nei negozi di articoli da regalo e simili.» A giudicare dall'aspetto miserabile del villaggio, il mediatore doveva fare la parte del leone nella divisione degli utili, pensò Gamay. Fingendo di guardarsi intorno, domandò: «Ci risulta che lei è sposato. Sua moglie è partita, per caso?» Paul nascose il sorriso dietro il boccale. Gamay sapeva benissimo che l'indigena era la moglie di Dieter, e non le piaceva il modo in cui l'uomo la trattava. Dieter arrossì, poi chiamò a sé la donna. «Vi presento Tessa», grugnì. Gamay si alzò, tendendole la mano per salutarla, e la donna, sulle prime, la guardò sorpresa, poi, dopo un attimo di esitazione, accettò la mano che le veniva protesa. «Lieta di conoscerla, Tessa. Io mi chiamo Gamay, e questo e mio marito Paul.» Sul viso scuro di Tessa passò l'ombra di un sorriso fuggevole. Intuendo che Dieter si sarebbe rifatto su di lei, più tardi, se avesse spinto troppo oltre il gioco, Gamay annuì e si sedette, mentre l'altra indietreggiava di nuovo, tornando nella posizione di prima. Dieter mascherò l'irritazione con un largo sorriso. «Ora che ho risposto alle vostre domande... qual è lo scopo di questo viaggio piuttosto arduo?» Paul si protese in avanti sul tavolo. «Una canoa con il corpo di un indio è stata spinta a riva dalle acque, a monte del fiume.» Dieter allargò le braccia. «La foresta pluviale può essere pericolosa, e i suoi abitanti hanno rinunciato da una sola generazione alle loro tradizioni selvagge. Un indio morto non è un fatto insolito, purtroppo.» «Questo lo era», replicò Paul, «perché gli hanno sparato.» «Sparato?» «Peggio ancora, era un chulo.» «Questa sì che è una faccenda seria», osservò Dieter, scuotendo la pap-
pagorgia. «Qualunque fatto riguardi il popolo degli spettri, o delle nebbie come dicono alcuni, è sinonimo di guai.» «Il dottor Ramírez ha accennato al fatto che la tribù è guidata da una donna», aggiunse Gamay. «Ah, avete sentito le leggende. Molto colorite, vero? Naturalmente ho sentito parlare anch'io di questa dea-capotribù, ma non ho mai avuto il piacere di conoscerla.» «Non si è mai imbattuto in qualche membro della tribù?» gli chiese Gamay. «Non li conosco di persona, ma si sentono raccontare tante storie...» «Che genere di storie, signor von Hoffman?» «Si dice che i chulo vivano oltre la Mano di Dio. È il nome che i nativi danno alle Grandi Cascate che si trovano a una certa distanza da qui. Dicono che le cinque cascate consecutive somiglino a dita gigantesche. I nativi che si sono avvicinati troppo alle cascate sono scomparsi.» «Lei stesso ha detto che la foresta è pericolosa.» «Sì, possono essere stati sbranati da qualche belva, o morsi da un serpente velenoso. Oppure possono essersi smarriti.» «E i non indigeni?» «Di tanto in tanto, ci sono uomini che vengono qui in cerca di fortuna. Io ho offerto quel poco di ospitalità che ho potuto, dividendo con loro la mia conoscenza dell'ambiente circostante e, quel che più conta, avvertendoli di stare alla larga dal territorio dei chulo.» Fece il gesto di lavarsi le mani. «Tre spedizioni hanno ignorato i miei avvertimenti, e sono svanite senza lasciare tracce. Naturalmente ne ho informato le autorità, ma loro sanno bene che è impossibile trovare qualcuno, quando è stato inghiottito dagli alberi.» «Qualcuno di questi gruppi era alla ricerca di piante che potevano avere proprietà medicinali?» domandò Paul. «Sono venuti in cerca di gomma, legna, tesori, piante medicinali e città perdute, per quanto ne so. Sono ben pochi quelli che passano di qui e mi confidano i loro segreti, e io non faccio domande.» Mentre Dieter continuava il discorso, Tessa aveva sollevato la mano in silenzio per indicare il cielo. Alla fine lui notò lo strano gesto e l'espressione interdetta dei Trout. Il suo viso s'indurì, ma poi riapparve il solito sorriso mellifluo. «Come potete vedere, Tessa è rimasta colpita da un gruppo che è passato di qui non molto tempo fa in cerca di certi esemplari. Per sorvolare la di-
stesa degli alberi, utilizzavano un dirigibile in miniatura. I nativi ne sono rimasti molto impressionati, e anch'io, devo ammetterlo.» «Chi erano?» domandò Gamay. «So soltanto che rappresentavano un'azienda francese. Sapete come possono essere abbottonati i francesi.» «Che cosa ne è stato di loro?» «Non ne ho la minima idea. Ho sentito dire che si sono spostati più avanti. Magari sono stati catturati e divorati dai chulo.» Rise di cuore a quel pensiero. «Il che mi riporta allo scopo della vostra visita. Vi ringrazio molto di avermi messo in guardia ma, ora che sapete quali pericoli si annidano qui, confido che tornerete dal dottor Ramírez a porgergli i miei omaggi.» Gamay guardò il sole pomeridiano che volgeva al tramonto. Tanto lei quanto Paul sapevano che ai tropici il sole calava con la rapidità fulminea di una ghigliottina. «È un po' tardi per tornare indietro», gli fece notare. «Tu che ne pensi, Paul?» «Sarebbe pericoloso cercare di navigare sul fiume di notte.» Dieter si accigliò, poi, visto che non otteneva risultati, sorrise e disse: «Bene, allora siate miei ospiti. Domani potrete partire di buon'ora, dopo una nottata di sonno». Gamay lo sentì solo a metà. Tessa non teneva più gli occhi bassi, ma la fissava apertamente, scuotendo la testa in modo quasi impercettibile. Anche Paul intercettò quel gesto. Ringraziarono Dieter per il drink ristoratore e l'offerta di un posto in cui pernottare, e annunciarono che volevano tornare alla barca per prendere una parte dell'attrezzatura. Dirigendosi verso il fiume, si accorsero che i nativi stavano alla larga da loro, come se la coppia fosse circondata da un campo di forze invisibile. Gamay finse di controllare il livello dell'olio nel motore. «Hai visto Tessa?» disse al marito. «Voleva metterci in guardia.» «Impossibile non notare il terrore nei suoi occhi», rispose Paul, esaminando l'asticciola. «Cosa pensi che dovremmo fare?» «Non abbiamo scelta. Non sono entusiasta di trascorrere la notte qui al Campo dell'Allegria, ma non stavo scherzando. Sarebbe una follia navigare sul fiume di notte. Hai qualche suggerimento?» «Sì», rispose Gamay, osservando un pipistrello grande quanto un'aquila sorvolare il fiume nella luce ormai fioca del crepuscolo. «Suggerisco di
chiudere gli occhi a turno.» 9 Mentre scorrazzava nelle acque turchesi della Baja California inforcando un minisommergibile come se fosse uno scooter, Austin si domandava come avrebbe reagito un fotografo del National Geographic intento a filmare una migrazione di balene, se all'improvviso nel visore della sua camera fosse apparso un uomo che cavalcava uno scarpone gigante. Appollaiato all'esterno, come un passeggero sul sedile posteriore di una vecchia spider, vedeva la testa e le spalle di Joe profilarsi in controluce davanti alla luminescenza azzurrina dello schermo del computer di controllo, all'interno dell'abitacolo pressurizzato. La voce metallica di Zavala risuonò nella cuffia per le comunicazioni subacquee di Austin. «Com'è il tempo lassù, comandante?» Austin tamburellò sul cupolino di plexiglas, segnalando con le dita che andava tutto bene. «Una meraviglia. Questo affare è molto meglio della panca per gli addominali», aggiunse all'interfono. Zavala ridacchiò. «Contos sarà felice di saperlo.» Lo skipper della Sea Robin si era illuminato di orgoglio nel mostrare a Austin il nuovo minisommergibile sospeso alla gru sul ponte. Quel prototipo sperimentale era un veicolo straordinariamente compatto. L'operatore stava seduto nella cabina, asciutta e pressurizzata, nella stessa posizione di un pilota di Formula 1, con le gambe distese in avanti nello scafo lungo due metri e quaranta. La cabina in miniatura era fiancheggiata da due galleggianti e sul retro c'erano i serbatoi dell'aria e quattro propulsori a getto. Austin aveva fatto scorrere le dita sulla calotta dell'abitacolo, che sembrava una bolla trasparente, osservando: «Che mi venga un colpo, se questo aggeggio non sembra davvero un vecchio scarpone». «Avrei voluto portarti Ottobre Rosso», aveva replicato Contos, «ma al momento lo stava usando Sean Connery.» Austin aveva preferito saggiamente tacere. Gli uomini della NUMA erano noti per l'attaccamento personale che provavano nei confronti delle apparecchiature tecnologiche messe a loro disposizione. Più il veicolo era brutto, più quel rapporto diventava intenso. Austin non voleva mettere in imbarazzo Contos, spiegandogli che era perfettamente al corrente degli esperimenti sul campo ai quali veniva sottoposto il minisommergibile al largo della California, dove erano stati assemblati i componenti principali.
Infatti era stato lui a commissionare la progettazione e la costruzione del minisommergibile per conto della squadra missioni speciali, ed era stato Zavala a progettarlo. La NUMA disponeva di veicoli che potevano muoversi più in fretta e a una profondità maggiore, ma Austin voleva un mezzo piccolo e resistente, che fosse facile da trasportare in elicottero o in barca e anche poco vistoso, aveva specificato, per non attirare l'attenzione. Anche se aveva approvato i progetti, quella era la prima volta che vedeva il risultato finale. Zavala era un brillante ingegnere navale, che aveva diretto la costruzione di molti mezzi subacquei, azionati dall'uomo o no. Zavala si era ispirato al DeepWorker, un minisommergibile commerciale progettato da Phil Nuytten e dalla Zegrahm DeepSea Voyages, un'impresa che organizzava crociere avventurose per clienti in cerca di emozioni. Ne aveva esteso la portata e la potenza, aggiungendo sofisticate apparecchiature di analisi, e sosteneva che la strumentazione di bordo era in grado di riconoscere da quale fiume o ghiacciaio proveniva una singola goccia di acqua oceanica. In origine il minisommergibile si chiamava DeepSee, in omaggio al suo predecessore e alla funzione di veicolo esplorativo che avrebbe dovuto avere, ma, quando la designazione proposta era arrivata all'orecchio dell'ammiraglio Sandecker, quel tentativo di fare dello spirito lo aveva fatto rabbrividire. Di fronte al modellino in scala, aveva sorriso. «Mi ricorda uno di quei brogans che portavo da ragazzo», aveva commentato, utilizzando il vecchio termine che si usava in gergo per indicare gli scarponi da lavoro alti fino alla caviglia, e il nome gli era rimasto. L'imbarcazione della NUMA aveva puntato a sud, da San Diego fino alle acque del Messico, ma restando bene al largo. Solo nei pressi di Ensenada la Sea Robin aveva cominciato a seguire la costa più da vicino, superando parecchi pescherecci e un paio di navi da crociera. Ben presto si era trovata a circa mezzo miglio dall'imboccatura della baia che Austin e Zavala avevano già esplorato via terra. Austin aveva scrutato le scogliere frastagliate attraverso un potente binocolo, osservando il retro della fabbrica di tortillas. Non si notava niente di strano. Grandi cartelli disposti ai lati della laguna segnalavano la presenza di rocce nascoste e pericolose, e l'avvertimento era sottolineato da boe di segnalazione disposte davanti all'imboccatura. La Sea Robin aveva superato la baia, puntando verso una piccola insenatura vicina. Mentre gettava l'ancora, Zavala era salito a bordo del minisommergibile per compiere i controlli dell'ultimo momento. Una volta
chiusa la cupola trasparente, la cabina era a tenuta stagna e aveva un sistema di aerazione autonomo, perciò Zavala era vestito comodamente, con un paio di calzoncini e la nuova T-shirt viola di Hussong's. Austin invece si sarebbe trovato immerso nell'acqua, quindi aveva indossato la muta completa, con una bombola d'aria supplementare. Era salito sul dorso del Brogan con le pinne appoggiate sui galleggianti e si era assicurato all'imbracatura di sicurezza a sgancio rapido fissata allo scafo. La cupola venne chiusa ermeticamente e, al suo segnale, una gru aveva sollevato in aria il minisommergibile prima di calarlo in mare. Austin aveva sganciato le cime ormai lasche e aveva dato a Zavala il segnale che poteva immergersi. Pochi secondi dopo, scendevano in mare in mezzo a un'esplosione di bollicine. I propulsori a batteria entrarono in azione con un ronzio acuto e Zavala virò verso il mare aperto. Il veicolo doppiò il promontorio irto di rocce frastagliate per puntare dritto verso l'imboccatura della laguna. Mantennero una profondità di dieci metri, avanzando tranquillamente alla velocità di cinque nodi. Per navigare usavano una combinazione fra le osservazioni di Austin e la strumentazione di bordo. Austin teneva la testa bassa per ridurre la resistenza nei confronti dell'acqua, godendosi la gita e soprattutto la vista dei banchi di pesciolini coloratissimi che si spargevano come coriandoli sospinti dal vento non appena vedevano avvicinarsi il minisommergibile. Era contento di vederli anche per un motivo meno legato a valutazioni estetiche, visto che la loro presenza indicava che l'acqua era ancora sicura per gli esseri viventi. Non aveva dimenticato che forze ancora sconosciute avevano ucciso un branco intero di creature enormi ben più resistenti e adattabili all'ambiente marino di un insignificante essere umano. Anche se la superficie del minisommergibile aveva dei sensori che saggiavano e testavano automaticamente le acque circostanti, Austin sapeva che forse, se e quando avesse scoperto che le condizioni non erano favorevoli, sarebbe stato già troppo tardi. «Ci stiamo avvicinando all'imbocco della laguna. Passeremo esattamente al centro», annunciò Zavala. «C'è spazio in abbondanza su entrambi i lati. Cavo di ormeggio fissato a una boa di segnalazione a dritta.» Girandosi verso destra, Austin vide una sottile cima nera che correva dalla superficie verso il fondo. «La vedo. Noti qualcosa di strano?» «Si», rispose Zavala, mentre passavano oltre. «Sotto la boa non ci sono scogli sommersi.»
«Scommetto una bottiglia di Cuervo che anche gli altri segnali di avvertimento sono falsi.» «Accetto la bottiglia, ma non la scommessa. Qualcuno vuole tenere la gente lontano da qui.» «Questo è evidente. Come si comporta questo gingillo?» «Risente un po' del riflusso provocato dalla risacca che esce dalla laguna, comunque guidarlo è senz'altro più facile che viaggiare sulla Beltway», rispose Zavala, riferendosi alla tangenziale che separa Washington dal resto della nazione in senso geografico e politico. «È maneggevole come... uh-oh.» «Qualcosa che non va?» «Il sonar rileva bersagli multipli, a bizzeffe. Circa cinquanta metri a prua.» Austin si era lasciato incantare dall'atmosfera idilliaca di quella gita, cullandosi nell'idea che fosse tutto tranquillo. Adesso, con la fantasia, vide una linea di guardie in attesa di far scattare un agguato sottomarino. «Sub?» «Stando ai rilevamenti del sonar, sono troppo piccoli. Nessun movimento, o quasi.» Austin aguzzò la vista, nel tentativo di penetrare oltre quell'azzurro soffuso. Cercando di prevenire gli eventi, domandò: «Qual è la velocità massima del Brogan, se dovessimo filarcela alla svelta?» «Sette nodi, spingendo l'acceleratore a tavoletta. È fatto più per navigare in verticale che in orizzontale, e oltre tutto portiamo quasi cento chili di peso extra.» «Non appena torniamo a casa, vado a iscrivermi alla Weight Watchers», ribatté Austin. «Va' pure al rallentatore, ma tieniti pronto a scattare.» Avanzarono a mezza velocità, e pochi istanti dopo si materializzarono intorno a loro decine di oggetti scuri, disposti dalla superficie al fondo come una grande muraglia e oscillanti in entrambe le direzioni. Pesci. «Si direbbe una rete», osservò Austin. «Ferma tutto, prima che ci restiamo impigliati anche noi.» Il Brogan si fermò, librandosi nell'acqua senza procedere. Austin abbassò istintivamente la testa mentre una silhouette scura si profilava in controluce sulle acque, scendendo dall'alto alle sue spalle. Lo squalo rimase alla sua altezza solo un istante, quanto bastava perché lui
potesse vedere l'occhio bianco e rotondo e calcolare che quel predatore affamato era lungo più di un metro e ottanta. Le mascelle irte di denti si aprirono e si richiusero subito, strappando con un solo morso metà del corpo di un pesce che si dibatteva, prima di scomparire con un buffetto dell'alta pinna caudale. Zavala aveva assistito alla stessa scena. «Tutto bene, Kurt?» gridò subito. Austin scoppiò a ridere. «Sì, non preoccupanti. Chi ha voglia di sgranocchiare un vecchio umano coriaceo, quando ha a disposizione un intero buffet di pesce?» «Mi fa piacere sentire che la pensi così, visto che ha invitato qualche amico a cena.» Numerosi altri squali arrivavano sul posto descrivendo evoluzioni nell'acqua, mordevano al volo la preda e poi, diffidenti nei confronti del sub, si allontanavano in fretta. Più che un pasto avido e frenetico, sembrava una riunione di gourmet esigenti che si preoccupavano di scegliere i piatti migliori del menu. Nella rete sottile erano prigionieri centinaia di pesci, di tutte le taglie, forme e specie. Alcuni, ancora vivi, tentavano inutilmente di liberarsi, con l'unico risultato di attirare l'attenzione degli squali. Di altri ormai rimaneva soltanto la testa, e molti altri ancora erano ridotti a semplici lische. «Non c'è nessuno che venga a ritirare la rete», osservò Austin. «Forse qualcuno l'ha tesa qui solo per tenere alla larga i tipi curiosi come noi.» «Non credo», ribatté Austin dopo una breve riflessione. «Quella rete è in monofilamento. È possibile reciderla con un tronchesino per le unghie. Non ci sono fili elettrici, quindi non sembra collegata a un sistema d'allarme.» «Non ti seguo.» «Riflettiamo un momento. Qualunque cosa si trovi in quella laguna ha ucciso un branco di balene. I locali comincerebbero a farsi delle domande, se vedessero centinaia di pesci morti, e i produttori di tortillas non vogliono attirare l'attenzione. Così tendono qui la rete per tenere fuori i pesci vivi e trattenere dentro quelli morti.» «Mi sembra sensato», ammise Zavala. «E adesso che si fa?» «Proseguiamo.» Le dita di Zavala danzarono sullo schermo del computer che controllava le funzioni del minisommergibile, e i due bracci meccanici fissati alla parte
anteriore del Brogan si allungarono, protendendosi come uno strumento telescopico fino a pochi centimetri dalla rete. Gli artigli applicati all'estremità di ogni braccio afferrarono la trama sottile in monofilamento e la squarciarono con la stessa facilità di un attore che apre il sipario. Frammenti di pesci in vari stadi di decomposizione schizzarono in tutte le direzioni. Una volta completato il lavoro, Zavala ritirò i bracci metallici, riportandoli in posizione di riposo, e diede nuovamente gas. Con Austin sempre appollaiato sul dorso del minisommergibile, entrarono nella laguna attraverso il foro. La visibilità, inferiore ai dieci metri, era ridotta della metà dalla presenza nell'acqua di minuscole particelle di alghe in sospensione: penetrando nella baia, venivano ridotte a brandelli dalle rocce affilate come lame di rasoio. Il Brogan rallentò, mentre Zavala avanzava a tentoni come un cieco che si affida al suo bastone bianco. Non videro l'oggetto enorme che avevano davanti sinché non ci furono quasi sopra. Il minisommergibile si fermò di nuovo. «E questo cos'è?» esclamò Zavala. La luce che filtrava dalla superficie, come dalle vetrate di una cattedrale gotica, illuminava una struttura enorme. Doveva misurare almeno novanta metri in larghezza, secondo i calcoli di Austin, e nove in profondità, e si restringeva alle due estremità come una gigantesca lente di metallo posata su quattro massicci sostegni, anch'essi di metallo. Le zampe erano nascoste da strutture a forma di scatola nei punti in cui toccavano il fondo del mare. «O è un grosso ragno di metallo, oppure un UFO sprofondato in mare», mormorò Austin con rispetto. «In ogni modo, diamo un'occhiata più da vicino.» Seguendo le sue istruzioni, Zavala virò per girare tutt'intorno al perimetro fin dove era possibile, poi tornò indietro per fare altrettanto dalla parte opposta. La struttura era quasi perfettamente rotonda, tranne che nel punto più vicino alla scogliera, dove sporgeva verso l'alto, addossandosi alla parete. «Ehi, è incredibile. I rilevamenti indicano un intenso calore.» «Infatti lo sento attraverso la muta. Qualcuno deve aver alzato il riscaldamento.» «Gli strumenti indicano che proviene dai pilastri: devono essere anche condotti, oltre che sostegni. Niente di pericoloso, per ora.» «Parcheggia lo scooter, mentre vado a dare un'occhiata da vicino.» Il minisommergibile scese con leggerezza verso il fondo, posandosi sui galleggianti. Austin sganciò la cintura di sicurezza e si allontanò, dopo a-
ver impartito istruzioni a Zavala di accendere la luce di posizione stroboscopica di lì a quindici minuti. Nuotò in direzione del disco, passandovi al di sopra. A parte una sorta di lucernario circolare, la strana struttura era fatta di metallo dipinto di un verde opaco che sarebbe stato difficile individuare dalla superficie. Dopo essersi calato sulla cupola, Austin sbirciò con cautela attraverso il lucernario. Sotto di lui c'era un alveare di tubi e macchine. Uomini in Camice bianco si aggiravano in uno spazio vasto e ben illuminato. Si domandò perplesso quale poteva essere la funzione di quelle macchine, cercando di mettere insieme quello che vedeva con la presenza di scarichi d'acqua bollente, ma non approdò a nessun risultato. Staccando dalla cintura una videocamera portatile a tenuta stagna, filmò la scena sottostante, poi, soddisfatto del suo lavoro, decise di fare una panoramica. Si stava staccando dal disco, sempre riprendendo la scena con la videocamera, quando vide un movimento con la coda dell'occhio e rimase immobile, fluttuando nell'acqua al di sopra della struttura. L'ascensore a forma di uovo descritto da Zavala scendeva dalla superficie scintillante di sole, scorrendo lungo le guide fino a scomparire in un portello circolare che si apriva sul tetto della struttura subacquea nel punto più vicino alla parete della scogliera. Austin tornò a riprendere la scena con la videocamera, ma poco dopo fu interrotto di nuovo, questa volta da Zavala. «È meglio che torni subito indietro! La temperatura sta salendo a razzo!» La nota di urgenza nella voce di Zavala era inconfondibile. «Arrivo!» Austin sferzò l'acqua con il movimento possente delle gambe forti, mantenendo un ritmo che gli consentiva di divorare metri su metri. Zavala non scherzava, parlando dell'aumento della temperatura. Austin cominciava già a sudare, sotto la muta. Pensò che non avrebbe mai più avuto il coraggio di lessare un'aragosta. «Presto!» lo incitò Zavala. «La temperatura sta per far saltare i rilevatori!» Il faro argenteo del Brogan occhieggiava nell'oscurità del fondale. Austin protese la mano per accendere un piccolo segnalatore stroboscopico che pendeva dal giubbetto ad assetto variabile, e il Brogan si mosse per andargli incontro. Il calore continuava ad aumentare. Austin si aggrappò al dorso del minisommergibile in movimento e fece scattare la fibbia dell'im-
bracatura di sicurezza. Dopo averlo preso a bordo, il Brogan girò rapidamente su se stesso e puntò verso l'imboccatura della laguna, sospinto dai propulsori al massimo della velocità. «C'è qualcosa che non va, Kurt!» gli gridò Zavala dall'interno. «Ho sentito scattare l'allarme all'interno dell'impianto.» Pochi istanti dopo, Austin sentì un sonoro vuomp, leggermente attutito dall'acqua, e si voltò appena in tempo per vedere l'impianto esplodere in una sfera di fuoco. L'esplosione incenerì all'istante tutte le creature viventi racchiuse in quello spazio, e il gas surriscaldato si propagò verso l'alto, espandendosi nelle tubature della fabbrica di tortillas. Per fortuna era chiusa, perché era domenica. Il Brogan, invece, non fu altrettanto fortunato. Investito dall'onda d'urto, fu scaraventato lontano rotolando su se stesso, mentre Austin si teneva aggrappato allo scafo con la forza della disperazione. L'agente della NUMA ebbe l'impressione di ricevere in pieno il calcio di un mulo invisibile. Le cinghie dell'imbracatura cedettero e Austin si sentì proiettare in avanti, agitando disordinatamente gambe e braccia in mezzo al groviglio di fruste dell'erogatore, che si era staccato. Roteò su se stesso per un'eternità, e avrebbe forse proseguito fino al centro del Pacifico se non fosse andato a urtare contro la rete tesa all'imboccatura della laguna. Vi finì contro con i piedi in avanti, e fu una fortuna, perché probabilmente un impatto con la testa gli avrebbe spezzato il collo. In un primo tempo la rete cedette, poi scattò all'indietro, e Austin rimbalzò come un sasso in una fionda. Proprio sulla rotta del minisommergibile che stava arrivando. La calotta trasparente era stata divelta dall'esplosione, e Zavala non era più al posto di guida. Il veicolo era lanciato verso Austin, in rotta di collisione. Lui portò le ginocchia al petto, cingendole con le braccia e raggomitolandosi su se stesso. Si vedeva già destinato a finire schiacciato come un insetto sul parabrezza di un'automobile, quando il minisommergibile compì un piccolo saltello e passò al di sopra della sua testa. Austin avvertì un colpo doloroso quando uno dei galleggianti gli sfiorò la spalla, poi fu squassato dalle onde d'urto delle esplosioni multiple, che rallentarono la sua velocità e lo rilanciarono contro il minisommergibile. Il Brogan ormai era stato rallentato dal passaggio attraverso la rete, e stavolta non fu un problema fermarlo. Istintivamente, Austin scattò con il braccio in fuori per recuperare la frusta dell'erogatore, serrò il boccaglio fra i denti e inspirò una generosa boccata d'aria. L'erogatore funzionava ancora, mentre la maschera era ridotta a una ragnatela di incrinature che s'irradiavano dal punto in cui era stata col-
pita da una delle fruste. Meglio la maschera che il suo viso! Austin gettò via la maschera inutilizzabile, assunse una posizione verticale e fece un giro completo su se stesso. Sapeva che sarebbe stato meglio risalire in superficie, ma non intendeva farlo senza Zavala. Ancora un tentativo. Si girò lentamente. Senza maschera, vedeva in modo sfocato, ma gli parve di scorgere una macchia violacea e nuotò in quella direzione. Era davvero Zavala, che galleggiava a pochi metri dal fondo. Dalla bocca gli sfuggiva una scia di bollicine. Austin spinse l'erogatore verso il viso di Zavala, senza riuscire a capire se aveva raggiunto il bersaglio, perché la forza di volontà che aveva sfruttato per reagire veniva assorbita sempre più dalla nuvola nera di rabbia che si stava gonfiando nel suo cervello. Abbassando la mano, aprì la chiusura a sgancio rapido della cintura di zavorra e cercò a tentoni la valvola del dispositivo di gonfiaggio del giubbetto ad assetto variabile. Gli parve di sentire un'altra esplosione, poi vide tutto nero e perse i sensi. 10 Trout rimase immobile sulla porta della capanna, rigido come il palo di un totem, intento a guardare e ascoltare. Era di guardia da alcune ore, con lo sguardo fisso nell'oscurità e tutti i sensi all'erta nel tentativo di captare ogni minimo cambiamento nei ritmi della notte. Aveva sentito calare la brezza diurna e visto le ombre del crepuscolo mescolarsi alla falsa penombra creata dai fuochi che ardevano nelle cucine del villaggio. Ormai anche gli ultimi nativi si erano ritirati nelle capanne come fantasmi imbronciati, e sul villaggio era sceso il silenzio, rotto soltanto dal breve pianto sommesso di un neonato. Trout stava pensando che quello era davvero un luogo di malattia. Era come se lui e Gamay fossero finiti in un reparto di ospedale dove regnava la quarantena. L'olandese aveva cacciato a calci la famiglia che viveva nella capanna più vicina alla sua, invitando i Trout a entrare con un gesto regale della mano, come se fosse il portiere del Ritz. Schegge di luce filtravano all'interno attraverso le pareti di fronde, ma in quello spazio angusto e semibuio non entrava un alito d'aria. Il pavimento era di terra battuta, i letti consistevano in due amache appese ai pali di sostegno e l'arredamento era limitato a due rudimentali sgabelli e un banco da lavoro ricavato da alcuni ceppi d'albero. Trout non era impressionato dal caldo soffocante e dalla sistemazione primitiva; quello che lo impensieriva era la sensazione che lui e Ga-
may fossero in trappola. Arricciò il naso, un modo che aveva ereditato dal padre, un pescatore di Cape Cod. Gli sembrava quasi di vederlo arrivare in fondo al molo nell'oscurità che precedeva l'alba e fiutare l'aria come un vecchio segugio. Il più delle volte diceva: «È una bellezza, capo. Si va a pescare». Qualche volta, invece, arricciava il naso e puntava dritto verso la vicina caffetteria senza dire una parola. Qualunque dubbio sulle capacità olfattive del vecchio Trout fu dissipato una mattina in cui lui rimase in porto, mentre i sei pescatori che erano usciti in barca finirono dispersi in mare a causa di un'imprevista tempesta al largo. Aveva sentito nell'aria che qualcosa non andava, spiegò in seguito. E Trout provava la stessa sensazione, anche se era ben lontano dal mare, nel cuore della foresta pluviale del Venezuela. Il villaggio era troppo silenzioso. Non si udivano né voci né colpi di tosse, nessun rumore che indicasse una presenza umana qualsiasi. Finché era durata la luce del giorno, aveva cercato d'imprimersi ogni dettaglio dell'ambiente nella sua memoria quasi fotografica. A un certo punto cominciò a pensare che la popolazione del villaggio si fosse dileguata in silenzio nella notte. Indietreggiò all'interno della capanna e si chinò sulla figura immobile stesa su una delle amache. Gamay protese la mano per sfiorargli il viso con delicatezza. «Sono sveglia», disse a Paul. «Stavo solo riflettendo.» «A che proposito?» Lei si mise a sedere, posando i piedi sul pavimento. «Non so cosa pensare del nostro Olandese Volante, ma in ogni caso non mi fido di lui. Non lo toccherei neanche con le molle. Brrr.» «Sono perfettamente d'accordo con te. Penso che qualcuno ci stia sorvegliando.» Lanciò un'occhiata alla porta. «Questa capanna mi ricorda una nassa per le aragoste. Un solo ingresso e nessuna via d'uscita, se non nella pentola. Propongo di passare la notte a bordo della barca.» «Anche se detesto l'idea di lasciare questo albergo a cinque stelle, sono pronta, non appena lo sarai tu. Come facciamo a filarcela senza che qualcuno ci veda?» «Semplice, passiamo dalla porta sul retro.» «L'ultima volta che ho guardato non c'era nessuna porta sul retro.» «Immagino che tu non abbia mai sentito parlare della tipica ingegnosità yankee», ribatté Paul gongolante. «Se vuoi stare a vedere, te ne darò subito una prova.» Sfilando dal fodero che portava alla cintola un coltello da caccia, si diresse verso il fondo della capanna e, inginocchiatosi, passò la lama
lunga venti centimetri nella parete di canne intrecciate e cominciò a segare. Lo strofinio e lo scatto si udivano appena, ma per maggiore sicurezza sincronizzò il suo lavoro con il richiamo di una sconosciuta creatura della foresta che produceva un verso simile a una lima a coda di topo che sfrega sul metallo. Pochi minuti dopo, aveva già praticato nella parete di fondo un'apertura quadrangolare dai lati di poco più di mezzo metro. Tornato verso la parte anteriore della capanna, prese per un braccio Gamay, e la guidò verso l'apertura appena creata. Lei fece capolino con la testa per controllare, poi uscì in un baleno, e un attimo dopo sgattaiolò fuori anche il corpo snello da giocatore di basket di Paul. Rimasero a fianco a fianco dietro la capanna, con le orecchie tese per ascoltare la sinfonia di ronzii d'insetti e richiami di uccelli. In precedenza Gamay aveva notato un sentiero che passava dietro le capanne, scendendo sino al fiume, e anche nell'oscurità si vedeva la traccia appena accennata della terra battuta. Guidò Paul lungo il sentiero, e ben presto si lasciarono alle spalle le capanne, mentre alle loro narici arrivava l'odore putrido del fiume. Il viottolo conduceva ai campi coltivati che avevano visto dal corso d'acqua alla luce del giorno. Costeggiando la riva acquitrinosa, giunsero in vista della sagoma scheletrica dell'idroscivolante. Si fermarono, nel caso che Dieter avesse messo qualcuno di guardia all'imbarcazione, e Paul lanciò un sassolino nell'acqua, ma il suono che produsse ricadendo non attirò nessuno fuori del suo nascondiglio. Salirono a bordo e approntarono la barca per partire alle prime luci del giorno. Trout si sistemò sotto la testa un salvagente e si stese sul ponte, mentre Gamay faceva il primo turno di guardia, seduta al posto di guida. Paul scivolò ben presto nel sonno. Sulle prime fu un sonno irregolare, a causa del caldo e degli insetti. Poi la stanchezza finì per sopraffarlo e scivolò in un sonno profondo. Immerso in quel torpore, sentì la voce di Gamay chiamarlo, come da lontano. Dalle palpebre vide filtrare una luce e, aprendo gli occhi, scoprì che Gamay era ancora al suo posto, ma il suo viso era trasformato in una maschera grottesca dal riverbero giallo di una luce tremolante. Si erano affiancate al battello tre canoe cariche di indios dall'aria feroce, armati di lance acuminate e di machete. Le fiamme delle torce che tenevano in mano illuminavano in pieno i segni di un rosso sgargiante dipinti sui corpi e sui volti color bronzo. La frangetta nera arrivava fino al punto in cui si sarebbero trovate le sopracciglia, se non fossero state accuratamente depilate. Indossavano soltanto un perizoma, fatta eccezione per uno di lo-
ro, che portava un berretto della squadra di baseball degli Yankees di New York. Trout occhieggiò il fucile imbracciato dall'uomo. Una ragione in più per odiare gli Yankees, pensò. Rivolse loro un sorriso, accennando un: «Salve», ma l'espressione granitica degli indios rimase immutata. Quello armato fece segno ai Trout di scendere dal battello, e i due risalirono la riva, dove furono circondati dagli indigeni. Il tifoso degli Yankees indicò di nuovo con il fucile la direzione del villaggio, e il corteo si avviò lungo il pendio alla luce delle torce, con i Trout al centro. «Mi spiace, Paul», sussurrò Gamay. «Sono sbucati dal nulla.» «Non è colpa tua. Ero convinto che eventuali minacce sarebbero arrivate via terra.» «Anch'io. Cos'era quel sorriso?» «L'unica reazione che sono riuscito ad avere.» «Immagino che Dieter sia più sveglio di quanto pensassimo», ammise a malincuore Gamay. «Io non credo. Guarda.» Avvicinandosi alla radura dove sorgevano le capanne, videro Dieter, che alla luce delle torce appariva pallidissimo e terrorizzato. Ne aveva motivo, del resto, perché era circondato da altri indios che gli pungolavano con le lance il ventre prominente. Aveva il viso grondante di sudore, ma non poteva asciugarselo perché era costretto a stare con le mani in alto. Come se non bastasse, due bianchi gli puntavano la pistola al cuore. Erano vestiti allo stesso modo, con pantaloni di cotone, T-shirt e stivali alti di cuoio. Portavano entrambi una specie di cintura da guardalinee delle ferrovie, alla quale erano agganciati dei moschettoni metallici. Uno era un tipo trasandato e massiccio che avrebbe avuto un gran bisogno di una rasatura; l'altro era snello e piccolo di statura, con gli occhi scuri e opachi di un cobra. Il capo degli indios gli consegnò la Colt. Gli occhi duri studiarono per un attimo i Trout, poi tornarono a posarsi sull'olandese. «Ecco i tuoi corrieri, Dieter», dichiarò l'uomo, parlando con un forte accento francese. «E vorresti continuare a negare di aver tentato di fregarmi?» Dieter cominciò a sudare ancora di più, con il viso che grondava come una cascata. «Giuro su Dio che questi due non li ho mai visti prima di stamattina, Victor. Sono comparsi qui, sostenendo che li aveva mandati Ramírez per informarmi dell'indio morto e mettermi in guardia sulla possibilità che si stessero preparando dei guai.» I suoi occhi gialli assunsero un'e-
spressione subdola. «Non ho creduto alle loro parole, così li ho messi nella capanna per poterli tenere d'occhio.» «Si, ho notato le tue eccezionali misure di sicurezza», ribatté Victor con malcelato disprezzo. Rivolto ai Trout, domandò: «Voi chi siete?» «Mi chiamo Paul Trout, e questa è mia moglie Gamay. Siamo ricercatori e lavoriamo con il dottor Ramírez a un progetto di studio sui delfini del fiume.» «E perché siete qui? In questo tratto del fiume non ci sono delfini.» «È vero», ammise Paul. «Abbiamo trovato il corpo di un indio a bordo di una canoa, e il dottor Ramírez ha pensato che ci fossero guai in vista e ci ha incaricato di avvertire questo villaggio.» «E come mai non è venuto di persona?» «Si è fatto male a una caviglia e non poteva camminare. Inoltre noi volevamo esplorare un'altra zona della foresta pluviale.» «Comoda, come spiegazione.» Il francese sollevò la Colt. «E questa fa parte della vostra attrezzatura scientifica?» «No, appartiene al dottor Ramírez. Ha insistito perché la portassimo con noi, nel caso ci fossimo trovati nei guai. A giudicare dalle apparenze, non aveva tutti i torti.» Victor scoppiò a ridere. «La vostra storia è così assurda che potrebbe anche essere plausibile.» Squadrò Gamay, valutandola come solo un francese può fare. «Gamay. È un nome insolito, di origine francese.» Gamay fiutò la lascivia laddove Victor vedeva soltanto fascino, ma non si sentiva tanto superiore da non sfruttare anche le proprie doti femminili. «I francesi che ho conosciuto in passato si sarebbero già presentati, a quest'ora.» «Ah, deve perdonare le mie cattive maniere. Dev'essere il contatto con gente come questo cochon.» Dieter trasalì, mentre Victor gli ficcava la canna della pistola sotto il naso. «Mi chiamo Victor Arnaud. Questo è il mio assistente, Carlo», aggiunse, indicando il suo silenzioso compagno. «Siamo dipendenti di un cartello europeo che cerca di ottenere l'acquisizione di rare sostanze biologiche nella foresta pluviale.» «Allora siete botanici come il dottor Ramírez?» «No», rispose lui, scuotendo la testa. «Il lavoro necessario in questa fase è troppo gravoso per i botanici. Abbiamo una conoscenza operativa della botanica, naturalmente, ma formiamo la squadra avanzata di raccolta, incaricata di trovare esemplari interessanti per farli analizzare dagli scienziati. Loro arriveranno in seguito; quando avremo spianato la strada.»
«Quindi cercate sostanze farmaceutiche?» azzardò Paul. «Come prodotto secondario, magari», gli rispose Arnaud. «Non è un segreto che la prossima cura per il cancro potrebbe trovarsi proprio qui, in questo straordinario ambiente.» Si batté leggermente sul lungo naso, e poi sulle labbra. «Nel caso specifico, stiamo cercando soprattutto fragranze utili per ricavarne profumi ed essenze, o sostanze per l'industria alimentare. Se dovessimo imbatterci in qualche estratto dalle proprietà medicinali, tanto meglio. Abbiamo il permesso del governo venezuelano, e la nostra attività è del tutto legittima.» Paul lasciò vagare lo sguardo sui selvaggi dipinti dall'aria feroce, sui fucili spianati e su Dieter, che era chiaramente terrorizzato. Non poteva credere neanche per un istante che l'attività di quella manciata di uomini pronti a tutto fosse legittima. Non voleva provocare Arnaud mostrandosi troppo curioso, ma sapeva che sarebbe risultato strano se non avesse tradito neanche un briciolo di curiosità. «Non sareste sorpresi, vero?, se vi dicessi che siete piuttosto ben armati per essere una spedizione scientifica», osservò. «Ma è naturale», ribatté Arnaud, accogliendo con garbo il commento. «Le preoccupazioni di Ramìrez non sono del tutto infondate. Potete constatare voi stessi com'è pericolosa la foresta, dal momento che avete visto un uomo morto.» La sua bocca s'incurvò in un sorriso ironico. «Forse vi domanderete quali sono i miei rapporti con questo miserabile», osservò, riferendosi a Dieter. «Ci ha messo a disposizione gli uomini del suo villaggio perché ci aiutassero nella nostra ricerca. Loro conoscono la foresta meglio di chiunque altro. E oltre tutto viene pagato in modo principesco, potrei aggiungere.» Paul sogghignò. «Ho l'impressione che stia per licenziare il signor von Hoffman.» «E per valide ragioni. Anche se quello che dite è vero e non siete corrieri, questo non cambia il fatto che il nostro Dieter, qui, ha tentato di derubarci. Stavamo cercando una pianta molto preziosa che potrebbe valere milioni, forse miliardi di dollari, per l'industria farmaceutica, alimentare e dei profumi. È un autentico portento. Dovevamo mandare i campioni in Europa per le analisi. I nativi la usano da decenni, anche se non per profumarsi, purtroppo.» «A quanto pare, ha risolto il suo problema», osservò Gamay. «Ora ha tanto Dieter quanto gli esemplari.» «Vorrei che fosse così semplice», replicò Arnaud in tono tagliente. «È
vero, abbiamo questo porco, ma i nostri preziosi campioni di piante sembrano scomparsi.» «Temo di non capire.» «Abbiamo sentito i nativi parlare di una pianta straordinaria, ma nessuno di loro era in grado di localizzarla. Ci eravamo spinti ben oltre la nostra consueta zona di ricerca, in una parte della foresta non segnata sulle carte, che è quella dove ci siamo imbattuti nell'indio che in seguito avete trovato morto. L'uomo aveva in suo possesso dei campioni di piante. Ci siamo offerti di pagarlo per mostrarci dove li aveva trovati, ma si è rifiutato di farlo. Allora lo abbiamo trattenuto come ospite, nella speranza di riuscire a convincerlo a cambiare idea.» Paul si rammentò dei solchi sul corpo dell'indio. «E, quando non ha voluto parlare, gli avete sparato.» «Oh, no, niente di così semplice. Anzi stavamo facendo del nostro meglio per mantenerlo in vita. Dieter aveva il compito di fornirgli ospitalità e proteggere i campioni. Invece una sera si è ubriacato e lo ha lasciato fuggire. Quel povero diavolo è stato colpito mentre cercava di rubare una canoa, e noi abbiamo dato per scontato che se ne fosse andato con gli esemplari di piante. Nel qual caso li avrebbe avuti con sé quando lo avete trovato voi.» «Che aspetto avevano, questi esemplari?» chiese Paul. «Del tutto comune, per la verità. Sono foglie piccole e appuntite dalle nervature rosse che hanno fruttato alla pianta il suo nome locale, 'radice del sangue'.» «Noi abbiamo esaminato il contenuto della sacca dell'indio», disse Paul. «C'era un sacchetto di medicamenti a base di erbe, ma niente di simile a quello che lei ha descritto.» «Ecco», replicò Arnaud, lanciando un'occhiata sprezzante a Dieter. «Tu hai detto che l'indio se n'era andato con la pianta. Chi di voi dice la verità?» «Non so di che cosa parlano», ribatté Dieter. «L'indio ha portato via la sacca con tutto quel che c'era.» «Io non credo», obiettò Arnaud. «Se gli esemplari della pianta li avessero loro, non sarebbero tornati indietro, comportandosi in modo così stupido. Devi essere tu ad avere la pianta che vogliamo.» Armò il cane della rivoltella. «E se non mi dici dov'è, ti ucciderò.» «Ma così non la troveresti mai, Arnaud», replicò l'olandese, con un accenno di sfida. Aveva scelto male il momento, pero, perché l'altro chiaramente non era in vena di scherzare.
«È vero, ma prima di ucciderti ti consegnerei a questi miei amici dipinti. E loro non avrebbero il minimo scrupolo a scuoiarti come una scimmia.» Il colore svanì dal viso florido di Dieter. «Non intendevo dire che non te lo avrei rivelato. Volevo solo farti capire che ci dev'essere un margine per negoziare.» «Purtroppo il tempo per negoziare è scaduto. Sono stanco di questo affare. Sono stanco di te.» Sollevò la pistola, puntandola contro le labbra di Dieter. «Sono stanco della tua bocca dalla quale escono solo bugie.» Si udì una violenta detonazione, e la parte inferiore del viso dell'olandese scomparve, disintegrata in un'esplosione color cremisi dal colpo sparato a bruciapelo. Il monocolo sfuggì dall'occhio sbarrato per l'incredulità, e il corpo ricadde all'indietro come un albero abbattuto da una sega a motore. Il francese puntò su Paul l'arma ancora fumante. «Quanto a lei, non so se dice la verità o no. L'istinto mi fa propendere per il sì. È un vero peccato che sia venuto qui a trovare questo porco. Niente di personale, ma non posso permetterle di riferire l'accaduto.» Scosse la testa con aria malinconica. «Le assicuro che farò in modo che la sua bellissima moglie abbia una fine rapida.» Paul era rimasto scosso dall'esecuzione sommaria di Dieter, ma aveva capito subito quale sorte Arnaud aveva in serbo per Gamay e per lui. Niente testimoni. Il corpo allampanato di Trout e i suoi movimenti di solito pigri potevano trarre in inganno: ma se necessario, poteva muoversi con la velocità del lampo. Tese le braccia, pronto ad afferrare il polso di Arnaud per torcerlo verso terra. Sapeva che nella migliore delle ipotesi sarebbe stato colpito lui, mentre Gamay avrebbe potuto svignarsela in mezzo alla confusione; nella peggiore, sarebbero stati uccisi tutti e due. Mentre il dito di Arnaud si tendeva sul grilletto e Trout si preparava a compiere quella mossa disperata, l'indio con il berretto degli Yankees si lasciò sfuggire un suono a metà fra un grugnito e un colpo di tosse. Aveva lasciato cadere il fucile, e fissava inorridito l'asta di legno scuro di una freccia enorme che sporgeva di almeno sessanta centimetri dal suo torace, con la punta scintillante di rosso. Accennò ad afferrare la freccia, ma la terribile emorragia prodotta dalla ferita gli tolse le forze, e si accasciò sul terreno vicino al corpo di Dieter. Un altro indio lanciò un grido. «Chulo!» Una freccia gigantesca lo trafisse subito dopo che quella parola gli era uscita di bocca. I compagni ripeterono quel grido di terrore.
«Chulo! Chulo!» Si udì uno strano ululato, e fra i cespugli apparve un viso spettrale, dipinto in bianco e azzurro, seguito da un altro. Nel giro di pochi secondi quei volti simili a maschere erano ovunque. L'aria si riempì di un nugolo di frecce. Altri indios caddero, mentre le torce venivano gettate a terra per il panico. Nel buio e nella confusione Paul tese il braccio, afferrò Gamay per il polso scuotendola dallo stato di trance in cui era caduta. Chini per offrire meno bersaglio, corsero verso il fiume spinti dalla stessa idea. Raggiungere la barca. Nella frenesia della fuga, rischiarono di travolgere la figura snella che uscì dall'ombra, piantandosi sul loro cammino. «Fermi!» ordinò con decisione. Era la moglie di Dieter, Tessa. «Vogliamo raggiungere la barca», le disse Gamay. «Venga con noi.» «No», disse la donna, indicando il fiume. «Guardate!» Alla luce delle torce, videro decine di uomini col viso dipinto d'azzurro che sciamavano sulla riva, scendendo da grosse canoe. La donna tirò per un braccio Gamay. «Da questa parte è più sicuro.» Guidò i Trout lontano dalla radura, immergendosi nel folto della foresta buia. Si sentirono sferzare il viso e le gambe da rami e spine. Gli ululati divennero più fiochi. Per quanto ne sapevano, avrebbero potuto essere al centro della terra, tanto era buio e torrido l'ambiente in cui si trovavano. «Dove ci sta portando?» chiese Gamay, fermandosi a riprendere fiato. «Ora non possiamo fermarci. I chulo arrivano presto.» Strano a dirsi, il singolare grido di guerra cominciò ad aumentare d'intensità. Continuarono ad avanzare finché la moglie di Dieter non si fermò, dopo qualche minuto di marcia. Si trovavano in un folto di alberi che sembravano piccoli, a causa della presenza di enormi tronchi deformi che svettavano in alto per oltre una trentina di metri. Tessa s'intravedeva appena, al riverbero della luce lunare che filtrava dalle fessure nella volta di rami. Aveva alzato una mano, e i Trout seguirono la direzione del suo gesto fino alla cima degli alberi, ma non videro altro che oscurità, interrotta a tratti da squarci di cielo notturno di un color grigio argento. La donna intuì la loro confusione e, come una maestra che insegna ai bambini ciechi, aprì le loro mani, collocandovi qualcosa che somigliava a un serpente morto. Una spessa cima di nylon. Allora Paul si rammentò le cinture indossate da Arnaud e dal suo compagno e il commento di Dieter a proposito del dirigibile, e confezionò rapidamente un cappio da passare in-
torno alla vita sottile di Gamay. Lei si issò e cominciò a salire lungo gli alberi. Paul si guardò intorno. La moglie di Dieter era scomparsa, ed erano rimasti soli. «Va' pure avanti», disse a Gamay. «Io ti seguo.» Si legò alla cintola un'altra corda e con poche spinte possenti delle braccia si trovò a qualche metro da terra. A giudicare dal suono affannoso del suo respiro, Gamay era poco più avanti di lui. Dal basso giunse una serie di quelle strane grida gorgheggianti, e apparvero le torce dei chulo. Gli indios lanciarono in aria le fiaccole, che descrissero un arco prima di ricadere simili a comete. Gamay e Paul si aspettavano da un momento all'altro di essere infilzati come spiedini da quelle frecce enormi che potevano raggiungerli facilmente, ma proseguirono nella scalata. Proprio mentre pensavano di essere fuori della portata degli indios, guardarono in basso e si accorsero che due di loro si erano sollevati a loro volta da terra. Ma certo, pensò Paul. Se c'erano due corde sospese, dovevano essercene anche delle altre. Gamay lanciò un grido dall'alto. «Sono arrivata in cima!» Paul continuò a salire e sentì la mano della moglie protendersi verso il basso, per aiutarlo a salire su un ramo che aveva un diametro inferiore alla vita di un uomo. Con un grugnito affaticato, riuscì a issarsi su quel tronco e tese la mano verso un altro ramo, ma sfiorò una superficie liscia e gommosa. La luce color peltro della mezzaluna che splendeva nel cielo veniva ritratta e diffusa dalla caligine che aleggiava sugli alberi, ma riuscì ugualmente a scorgere una grande piattaforma di tubi e rete metallica sospesa sulla chioma degli alberi come una tela di ragno. Era una piattaforma di lavoro molto ingegnosa, pensò, ma avrebbe dovuto rimandare l'ammirazione a più tardi. Sotto di loro si sentiva già il respiro affannoso degli inseguitori. Paul fece per afferrare il coltello da caccia, ma si rammentò che gli era stato requisito da uno degli indios, insieme alla Colt. Gamay lanciò un urlo, indicando la silhouette rotonda di un piccolo dirigibile che fluttuava nell'aria sopra la loro testa. Sotto i loro piedi si sentì uno scricchiolio di rami spezzati. I chulo erano a pochi secondi di distanza. Paul si staccò dalla cima con la quale si era issato fin lassù e avanzò con una certa difficoltà sulla rete metallica dalla consistenza spugnosa per raggiungere una cima di ormeggio. Aggrappandosi alla fune, fece appello a tutte le sue energie per abbassare il dirigibile, finché questo non raggiunse un'altezza che consentiva a Gamay di arrampicarsi sulla navicella sospesa
al di sotto dell'erogatore di gas. Salì a sua volta a bordo del velivolo, stabilizzato dal peso della moglie. «Sai come funzionano questi aggeggi?» gli chiese Gamay. «Non sarà poi tanto difficile. Basta pensare che sia una barca. La prima cosa da fare è mollare le cime.» Da bambina Gamay aveva navigato a vela sui Grandi Laghi, quindi il paragone la rassicurò, anche se non era troppo convinta che fosse azzeccato. Mollarono in fretta anche le altre cime. Il velivolo parve vacillare, come esitante, quindi si portò con lentezza al di sopra degli alberi. Guardando in basso, i due sposi videro alcune ombre che spiccavano balzi nel tentativo di afferrare le cime penzolanti, ma ormai il dirigibile era al sicuro. Salirono ulteriormente, sopra le valli avvolte nella nebbia che si stendevano in tutte le direzioni, e cominciarono a vagare come polline in balia dei venti, chiedendosi se non avevano semplicemente barattato una serie di pericoli con un'altra. 11 «Señor? Señor!» Aprendo gli occhi, Austin si trovò davanti un viso coriaceo coperto da una peluria bianca, con la bocca sdentata aperta in un gran sorriso che andava da un orecchio all'altro. Era il viso del pescatore messicano incontrato il giorno prima sulla scogliera. Austin era steso supino sul fondo di una barca di legno, con la testa appoggiata su una cima arrotolata. Indossava ancora la muta, ma l'erogatore era scomparso. Si sollevò appoggiandosi sulle mani, un compito non da poco, perché aveva le giunture doloranti ed era steso su un mucchio di pesce viscido. Un pescatore che somigliava al primo, compresi i vuoti fra i denti, era seduto all'altro capo della barca, chino su Zavala. I capelli di Joe, di solito ben pettinati, puntavano in cento direzioni diverse, e i calzoncini e la Tshirt erano fradici. Sembrava stordito, ma in sé. «Stai bene?» gridò Austin. Un pesce cadde sulle ginocchia di Zavala, che lo raccolse tenendolo per la coda e lo lanciò in mezzo agli altri. «Non ho ossa rotte, ma ora so che cosa si prova a farsi sparare da un cannone. E tu?» «Qualche ammaccatura.» Austin si massaggiò i muscoli della spalla che pulsavano, poi riprese a lavorare sulle gambe. «Mi sembra di essere passato attraverso un autolavaggio e sento un telefono che mi squilla di continuo
nelle orecchie.» «La tua voce ha lo stesso timbro che assume quando parli all'interfono. Sai per caso cos'è successo? Stavo venendo a prenderti con il Brogan, quando si è scatenato l'inferno.» «C'è stata un'esplosione sott'acqua», spiegò Austin, lanciando un'occhiata al mare piatto come uno specchio. La barca si trovava al largo dell'ingresso della baia, mentre della Sea Robin non si vedeva alcuna traccia. Austin non riusciva a capire: eppure Contos e il suo equipaggio dovevano aver sentito l'esplosione. Come mai non si erano avvicinati per indagare? Riportò la sua attenzione sulla situazione precaria in cui si trovavano. «Chiedi per favore ai nostri amici come abbiamo fatto ad arrivare qui.» Zavala interrogò i pescatori in spagnolo. Era soprattutto uno dei due a parlare, sparando raffiche di parole mentre l'altro annuiva. Zavala lo ringraziò, traducendo subito dopo il dialogo. «L'uomo si chiama Juan. Ricorda di averci visto ieri sulla scogliera. L'altro è suo fratello Pedro. Stavano pescando, quando hanno sentito un forte rombo soffocato e l'acqua dell'insenatura ha cominciato a gorgogliare e fare schiuma.» «Sì, sì, la bufadora», intervenne Juan, allargando le braccia nell'aria con un ampio gesto, come un direttore d'orchestra che guida i musicisti in un crescendo. «Che significa questa pantomima?» chiese Austin. «Dice che il rumore somiglia a quello che produce la cavità nelle rocce non lontano da Ensenada quando il mare entra in una fenditura fra le rocce e produce un boato. Solo che questo è stato molto più forte. La scogliera alle spalle della fabbrica di tortillas si è disintegrata. Si sono alzate grosse onde, e la barca ha rischiato di capovolgersi. Poi siamo saliti a galla noi. Ci hanno issato a bordo come se fossimo due sardine giganti, ed eccoci qua.» Austin tornò a scrutare la superficie del mare. «Non hanno accennato alla presenza della Sea Robin?» «Poco fa hanno visto un'imbarcazione, che in base a ciò che descrivono doveva essere la Sea Robin. Ha doppiato l'altro promontorio, dopodiché non l'hanno più vista.» Austin cominciava a preoccuparsi per Contos e il suo equipaggio. «Per favore, ringrazia i nostri benefattori per la loro gentilezza e chiedi se sono disposti a portarci oltre il promontorio.» Zavala riferì la richiesta di Austin, e i pescatori avviarono il vecchio fuoribordo Mercury sprigionando una nuvola di fumo azzurrino. Il motore
cominciò a tossire come una macchinetta per il popcorn piuttosto asmatica, spingendo senza sforzo la barca sul mare liscio come seta. Con Juan al timone, doppiarono il promontorio e capirono subito per quale motivo la Sea Robin non aveva lasciato l'ormeggio. La nave della NUMA non sarebbe andata da nessuna parte. Non subito, almeno. Il ponte di coperta era ingombro di una montagnola di terriccio e sassi, e la nave era fortemente inclinata a dritta. La struttura ad A che si trovava a poppa e le gru sul ponte di poppa erano contorte come pretzel, schiacciate dal peso dei detriti. La ripida parete della scogliera che sovrastava la nave mostrava una patina gialla lasciata scoperta dalla frana di roccia. I membri dell'equipaggio stavano attaccando la massa di sassi con pale e palanchini, gettando fuori bordo tutti i detriti che riuscivano a smuovere, mentre un carrello elevatore spostava le rocce più grandi. Juan manovrò la barca da pesca per accostare alla nave della NUMA. Contos accorse alla battagliola e si sporse a guardare. Aveva le mani e il viso incrostati di terriccio, come se fosse appena uscito strisciando da una miniera. Austin unì le mani a coppa per gridare: «Ci sono feriti?» «Soltanto tagli e contusioni», gridò di rimando Contos. «Per fortuna il ponte di poppa era deserto. Avevamo sentito un gran botto provenire dalla parte della baia e stavamo per andare a controllare, poi tutta la parete della scogliera ci è crollata addosso prima che potessimo levare l'ancora. Ma dove diavolo eravate, voi due?» «Mi piace il tuo nuovo trucco», replicò Austin. Joe gli tenne subito bordone. «Estée Lauder, per caso?» Il tentativo di Contos di ripulirsi il naso non fece che peggiorare le cose. «Il vostro spiritoso commento dimostra che siete in forma perfetta. Quando avrete finito, vi dispiacerebbe spiegarmi cos'è successo?» «Quel botto che hai sentito era un'esplosione sottomarina», spiegò Joe. Contos scosse la testa con aria incredula. «Non sono al corrente di attività vulcaniche in questa zona. Che cosa l'ha provocata?» «Tutto quello che possiamo dire è che l'epicentro era l'installazione subacquea», rispose Austin. L'altro lo guardò senza capire. «Ti spiegheremo poi.» Austin scrutò le scogliere ricoperte da una patina gialla. «L'esplosione ha smosso le rocce, provocando una frana.» Contos corrugò la fronte, poi, colpito da un'idea, domandò: «Ma che cosa ne avete fatto del Brogan?»
Austin e Zavala si scambiarono un'occhiata colpevole, come due bambini che hanno rotto il barattolo dei biscotti. Austin cominciava a domandarsi se non era per caso un Giona, nome che alcuni marinai affibbiano a chi attira le calamità. Era già la seconda imbarcazione che perdeva in due giorni. «L'abbiamo perduto», rispose alla fine. «Mi dispiace, ma è stato inevitabile. Juan e Pedro ci hanno appena ripescato dalle acque.» «Lieto di conoscervi», disse Contos ai pescatori sorridenti. «Ormai non ci si può fare nulla. Vorrà dire che la NUMA dovrà costruirmene uno nuovo.» Austin fece scorrere lo sguardo sullo scafo della Sea Robin, vistosamente inclinato. «La tua nave pende da una parte. C'è rischio che affondi?» «Non credo. Non abbiamo individuato falle, almeno per ora. Vedremo che cosa succederà quando prenderemo il mare. La maggior parte dei danni riguarda il ponte di coperta e le sovrastrutture. Le gru sono inutilizzabili, come potete vedere, comunque il carrello elevatore può spostare i detriti più pesanti. Non abbiamo chiesto aiuto perché non vogliamo essere costretti a spiegare che cosa stavamo facendo in acque messicane.» «Abbiamo il tempo di dare un'occhiata alla baia?» Contos lanciò uno sguardo ai detriti ancora da rimuovere alle sue spalle. «Accomodatevi pure. Ci metteremo in moto non appena possibile.» Zavala pregò i pescatori di riportarli nell'insenatura, ma la richiesta suscitò una discussione animata tra i due fratelli. Pedro ne aveva abbastanza di quel posto maledetto con le sue strane esplosioni e gli strani uominisirena che sbucavano dall'acqua. Era chiaro che avrebbe voluto tornare a casa, ma il fratello riuscì a imporgli la sua volontà. La barca doppiò il promontorio. Non appena entrarono nella baia, notarono il fumo che si levava dalla fabbrica. Come la scogliera alle spalle della Sea Robin, anche la parete di roccia a picco che sorgeva dietro la fabbrica era coperta da una patina gialla nel punto in cui lo strato esterno di roccia era stato frantumato dall'esplosione. La frana di sassi aveva trascinato con sé ogni traccia dell'ascensore a monorotaia. La barca da pesca si aprì la strada fra i detriti e i pesci morti che coprivano la superficie dell'insenatura. Usando un secchio, Austin e Zavala raccoglievano dall'acqua campioni di plastica fusa e carta carbonizzata. Ricordando che un minuscolo frammento di metallo aveva aiutato a identificare la fonte dell'esplosione a bordo dell'aereo della TWA nel cielo di Lockerbie, in Scozia, Austin pensava che anche il pezzo più piccolo poteva
rivelarsi utile. Era un lavoro meticoloso, ma la loro tenacia fu ricompensata. Zavala recuperò un cilindro di metallo che galleggiava tra le onde. Era lungo circa sessanta centimetri, con un diametro di quindici. Sul metallo, Austin vide inciso un numero di serie e il nome del produttore. Joe attirò la sua attenzione sui movimenti in cima alla scogliera. Sul ciglio della parete si vedevano dei puntini che dovevano essere uomini. Austin non era in vena di rispondere alle domande delle autorità locali. I pescatori furono felici di tornare verso la nave. Quando accostarono alla Sea Robin, il ponte di coperta era praticamente sgombro e l'imbarcazione aveva ritrovato quasi il beccheggio normale. Austin prese in prestito un po' di denaro da Contos e tentò di pagare i pescatori per i loro servigi, ma i fratelli rifiutarono. Juan si servì di Zavala per spiegare loro che il foro nella rete era un servizio per il quale poteva accettare un pagamento, ma salvare gli uomini in mare era un dovere morale. Austin ci pensò, poi persuase i pescatori ad accettare un dono di amicizia. Dopo averne discusso con Contos, donarono ai pescatori felici un motore fuoribordo destinato a essere dismesso di lì a poco, ma ancora in ottime condizioni. Avviarono le macchine, e la nave puntò lentamente verso il mare aperto. Non furono scoperte falle, e Contos tracciò una rotta verso nord. Salparono appena in tempo. Mentre navigavano comparve dal nulla un elicottero verde scuro che girò più volte in cerchio sopra l'insenatura, poi si diresse verso nord alla stessa velocità con la quale era arrivato. Si mescolarono al traffico delle imbarcazioni intorno a Ensenada, dove avvistarono una motovedetta della guardia costiera messicana che sfrecciava a tutta velocità nella direzione opposta. Con la Sea Robin in navigazione, gli uomini poterono fare finalmente una doccia e indossate degli indumenti asciutti prima di salire in coperta a raggiungere Contos, che aveva appena preparato il caffè. «Okay, signori», disse il comandante, mentre riempiva due tazze fumanti. «Come skipper di questa nave, che avete requisito per una missione da commando, vi sarei grato se voleste aggiornarmi.» Austin bevve un sorso di quella miscela dal gusto potente, pensando che non aveva mai assaggiato una bevanda altrettanto deliziosa. «L'esplosione è stata una sorpresa per noi», esordì. «La nostra missione era piuttosto semplice, in partenza. Volevamo accertare quale fosse la fonte del calore che potrebbe aver causato la morte di quelle balene, e pensiamo di averla scoperta.» Proseguì descrivendo la struttura subacquea così
come l'avevano vista all'inizio, riferendo a Contos la fase di avvicinamento, le false boe di segnalazione, la rete da pesca e la temperatura elevata dell'acqua. Poi passò il testimone a Joe. Tornando con la fantasia sott'acqua, ai momenti che avevano preceduto l'esplosione, Zavala serrò le mani come se stringesse un timone immaginario. «Tutto va bene. Ci rendiamo conto che le letture elevate relative alla temperatura provengono dall'installazione. Tu ti allontani per dare un'occhiata, mentre io porto il minisommergibile sul fondo per aspettare il tuo ritorno. Le temperature cominciano a raggiungere valori che non rientrano neppure nei grafici, e io ti suggerisco di tornare verso il Brogan.» Austin frugò nella memoria. «Avevo appena sbirciato dentro un lucernario in cima alla struttura, quando ho ricevuto la tua chiamata. Dentro c'erano persone e macchinari. Sono tornato verso il minisommergibile, e poi... bum!» «Hai detto che la struttura era piena di tubature», gli rammentò Zavala. «Alcune dovevano essere condotti ad alta pressione, e questo potrebbe spiegare il potenziale rischio di esplosione.» «Non so. Può darsi che ci fosse una perdita nelle condutture, ma si trattava di un'operazione sofisticata. Dovevano avere strati su strati di valvole di sicurezza e congegni a mandata chiusa per impedire un accumulo di pressione. Da quel che ho potuto vedere non c'era niente di eccezionale. Nessuno che si agitasse in preda al panico, nessuna indicazione di guasti.» «E l'aumento della temperatura?» «Questa è una buona domanda, anche se le foto scattate dal satellite indicano che non è la prima volta che nella baia si verifica un rilascio di acqua a temperatura elevata, quindi probabilmente non aveva un nesso diretto con l'esplosione.» Austin aveva portato con sé un sacchetto di plastica, che aprì per mostrare il cilindro di metallo. «Lo abbiamo trovato che galleggiava nella baia. Hai qualche idea di cosa possa essere?» Contos esaminò l'oggetto, poi scosse la testa. «Non appena tornato a Washington, cercherò di rintracciare il produttore.» «Penso che il tuo istinto non sbagli, Kurt», commentò Zavala. «Ricordi quando da Hussong's mi hai detto che avevi la sensazione che qualcosa di grosso e malvagio ci tenesse gli occhi addosso?» Gli occhi di Austin s'indurirono. «Se ben ricordi, ho fatto anche un'altra acuta osservazione.» «E quale?»
«Ho detto che, qualunque cosa fosse in agguato nell'ombra, era terribilmente famelica.» «Voi due cominciate a farmi venire i brividi», esclamò Contos. «Mi sembra di sentirvi parlare di Godzilla.» Austin non replicò, ma volse lo sguardo verso la prua che solcava le onde, come se le risposte alle domande che gli turbinavano nella mente potessero trovarsi solo in fondo alle acque turchesi del mare. 12 La Mano di Dio L'aerostato fluttuava al di sopra della foresta pluviale come un'enorme lanterna di carta cinese dalla forma allungata, pulsante di una tenue luce color azzurro e arancio, mentre le lingue gemelle di fiamme che scaturivano dai bruciatori a gas propano scaldavano l'aria all'interno del voluminoso involucro. A parte qualche scoppio occasionale prodotto dal bruciatore, l'unica traccia dell'esistenza del velivolo era un'ombra silenziosa che oscurava la luna e le stelle come una nuvola passeggera. Quello che Paul e Gamay avevano giudicato un dirigibile era, in realtà, un aerostato termico, cioè un ingegnoso incrocio tra una mongolfiera e un dirigibile. I bruciatori ad aria calda fornivano la spinta ascensionale, ma, a differenza di una mongolfiera, che va dove la porta il vento, l'aerostato aveva un motore e quindi era possibile guidarlo. La consueta forma a pena della sacca che conteneva l'aria era stata sostituita da una linea più aerodinamica, simile a quella di uno Zeppelin. L'involucro conservava la sua forma grazie alla pressione interna dell'aria, anziché a uno scheletro rigido. I Trout sedevano a fianco a fianco nella parte anteriore della navicella in alluminio, assicurati ai comodi sedili imbottiti per mezzo di cinghie di sicurezza. Dalla posizione in cui si trovavano, semidistesi sotto il ventre dell'aerostato, il velivolo sembrava enorme. L'involucro in poliestere era lungo trenta metri e alto la metà. Nella parte posteriore aveva un vero e proprio timone per regolare i movimenti e dei grandi stabilizzatori simili a pinne. Dietro i sedili dei passeggeri erano collocati i serbatoi di propano necessario per alimentare i bruciatori, i contenitori del carburante per il motore Rotex a due tempi, il motore stesso e l'elica a tre pale che forniva la spinta laterale. Paul e Gamay si erano impratichiti a turno nell'uso dei comandi. En-
trambi avevano già volato a bordo di mongolfiere, per cui conoscevano i principi del sostentamento a base di aria calda. La manovra dell'aerostato era relativamente semplice. Una valvola azionata da un pedale controllava i bruciatori di acciaio inossidabile che indirizzavano l'aria calda nell'involucro attraverso un piano inclinato di metallo. Il cruscotto comprendeva soltanto mezza dozzina di quadranti. I Trout sorvegliavano l'altimetro con occhi di falco, mantenendo l'aerostato a circa duemila piedi, una quota che garantiva loro un ragionevole margine di sicurezza. Il solo sforzo di mantenere l'aerostato in volo aveva esaurito il contenuto di un serbatoio di propano, e adesso erano in riserva. Per usare il motore, avevano aspettato che facesse giorno, quindi avevano ancora una buona riserva di carburante per il motore a elica. Un chiarore perlaceo a oriente annunciò l'alba, e ben presto il cielo divenne rosa come i petali di un fiore, ma anche dopo il levar del sole la visibilità rimase limitata dalla nebbia. I vapori che si sprigionavano dalla volta della foresta assorbivano la luminosità del cielo e, fino all'orizzonte, si stendeva un mare di nebbia rossastra. Mentre Paul manovrava l'aerostato, Gamay frugò in una cassetta posta fra i due sedili. «È ora di fare colazione», annunciò in tono allegro. «La mia ordinazione è semplicissima», replicò Paul. «Bacon ben croccante, per favore, e mi raccomando che le patatine fritte siano bruciacchiate agli orli.» Gamay gli offrì un assortimento di barrette ai cereali integrali. «Puoi scegliere fra lamponi o mirtilli.» «Proverò con il servizio in camera.» Paul tentò di stabilire un contatto radio, ma non si sentiva altro che il crepitio dell'elettricità statica. «Scommetto che Phileas Fogg non ha mai dovuto subire queste privazioni», commentò accigliandosi. «E va bene, prenderò quella ai mirtilli.» Gamay gli porse una barretta e una bottiglia di acqua minerale tiepida. «È stata una nottataccia.» «Sì, direi che sostenere un incontro ravvicinato con un gruppo di spietati cacciatori di piante, assistere a un omicidio a sangue freddo e sfuggire all'inseguimento di una tribù di selvaggi ci diano il diritto a definirla una notte piuttosto impegnativa.» «Dobbiamo la vita a Tessa. Mi domando come mai si fosse legata a Dieter.» «Non è la prima donna che mostra di avere scarso giudizio in fatto di uomini. Se avessi sposato un avvocato o un medico, anziché il figlio di un pescatore, a quest'ora saresti a molo nella piscina di casa tua, invece di tro-
varti quassù.» «Che noia!» Gamay sgranocchiava la sua barretta con aria pensierosa. «Hai idea di dove siamo, signor Figlio di Pescatore?» Lui scosse la testa. «Vorrei che fosse qui mio padre, che aveva imparato a navigare alla maniera degli antichi, prima che cominciassimo a dipendere dagli apparati elettronici.» «E la bussola?» «Non serve granché, se non hai punti fermi o boe di posizione cui fare riferimento. È chiaro che quello è l'est», rispose, indicando il sole. «L'insediamento dell'olandese si trovava a sud-ovest del villaggio di Ramírez», disse Gamay. «E se puntassimo verso nord-est?» Paul si grattò la testa. «Potrebbe funzionare se fossimo sicuri di trovarci ancora nel punto esatto in cui eravamo quando siamo saliti a bordo, ma stanotte c'era brezza, e non so fin dove può averci spinto. Questo potrebbe fare una notevole differenza, e abbiamo soltanto una quantità limitata di carburante per i bruciatori. Se prendiamo una decisione, dev'essere quella giusta. I serbatoi del motore sono pieni, ma andare avanti non ci servirà, se perderemo quota.» Gamay osservò l'oceano verde che si stendeva sotto di loro. «Certo che è bello.» «Non altrettanto bello di tre uova al bacon con patate fritte.» Lei gli porse un'altra barretta ai cereali. «Usa l'immaginazione.» «È quello che sto facendo. Sto cercando d'immaginare in che modo hanno trasportato questo aerostato nella foresta. Potrebbero averlo portato fin qui in volo, ma ne dubito, perché non è abbastanza grande da contenere tutte le provviste necessarie e la riserva di carburante. La mia impressione è che lo abbiano fatto decollare da una base non lontano dal punto in cui lo abbiamo trovato.» «Visto che non ci sono strade», aggiunse Gamay, seguendo il filo della logica, «probabilmente sono arrivati navigando lungo le vie fluviali. Se trovassimo il fiume o l'affluente, potremmo tornare all'accampamento del dottor Ramírez. Forse, salendo più in alto, vedremmo un tratto più ampio della foresta.» «Idea brillante», decise Paul, azionando la manetta con il piede. I bruciatori risposero con un mormorio gutturale, e poco dopo l'aerostato cominciò a salire. A mano a mano che la quota aumentava, il calore del sole disperdeva la caligine, e la volta della foresta assunse l'aspetto di un collage di frammenti di tessuto verde. Sugli alberi crescevano a tratti dei fiori
rossastri che, dall'alto, sembravano formazioni corallifere. A tremila piedi, Gamay socchiuse gli occhi per scrutare il terreno oltre la foschia. «Vedo qualcosa laggiù.» Paul azionò il motore elettrico e girò il volante che controllava i cavi collegati al timone finché l'aerostato non eseguì una lenta virata. Con il motore raffreddato ad acqua che ronzava silenzioso, il velivolo acquistò gradualmente velocità, vincendo la forza d'inerzia, e di lì a poco l'elica li sospingeva alla velocità di quasi quindici chilometri l'ora. Gamay aveva trovato un binocolo, che usava per esplorare la zona verso la quale erano diretti. «Incredibile», mormorò quando la foschia cominciò a dissolversi. «Che cosa vedi?» Gamay rimase in silenzio per un attimo. «La Mano di Dio», rispose poi, abbassando la voce in tono di rispetto. Paul ebbe un attimo d'incertezza. Non aveva dormito molto, e fu lento ad afferrare. «Le Grandi Cascate di cui parlava l'olandese?» Gamay annuì. «Anche a questa distanza sono splendide.» Paul tentò di aumentare la velocità, ma si accorse che i comandi avevano qualcosa che non andava. Sembrava che l'aerostato fosse frenato. Sbirciando in basso, notò un oggetto triangolare rosso che pendeva dalle corde appese alla navicella. «Ehi, abbiamo compagnia.» Gamay abbassò il binocolo, seguendo la direzione del suo sguardo. «Somiglia vagamente a una zattera, fatta di tubi di gomma e rete metallica al centro. Forse la usavano per calare sugli alberi persone e rifornimenti.» «Si direbbe una spiegazione ragionevole. Dovremo fare attenzione, se vogliamo evitare che resti impigliata nelle cime degli alberi.» Alzò la testa per controllare la rotta, e quello che vide gli fece correre un brivido lungo la schiena. Si stavano avvicinando a un rilievo che troneggiava come un gigantesco gradino. Dalla foresta scorreva un fiume che scendeva verso il precipizio formato dall'altopiano nel punto in cui le formazioni rocciose suddividevano il corso d'acqua in cinque cascate. Con la luce del sole che si rifrangeva sull'acqua bianca, i cinque getti sembravano una manciata di gemme che scorressero tra le dita di un mercante di diamanti. Le cascate avevano la lentezza ingannevole che assume l'acqua quando precipita da una grande altezza. La forza esplosiva di migliaia di litri d'acqua che precipitavano in un lago ai piedi della parete rocciosa quasi verticale sprigionava una fitta
nube di condensa simile a nebbia. «In confronto a queste, le cascate del Niagara sembrano un ruscello.» «Tutta quell'acqua deve avere uno sbocco», osservò Gamay, scrutando il perimetro del lago. «Paul, laggiù! Posso vedere l'emissario che esce dal lago. Non dobbiamo fare altro che seguirlo.» «Purché tu riesca a vedere una stazione di rifornimento», ribatté lui, lanciando un'occhiata all'indicatore del livello del propano. Il serbatoio era praticamente vuoto. «Stiamo per cadere a precipizio.» «Possiamo ancora spostarci in avanti. Cerca di avvicinarti il più possibile al fiume. Abbandoneremo l'aerostato per usare la zattera.» Trout calcolò mentalmente gli effetti di una caduta. Il peso della navicella l'avrebbe fatta sprofondare sott'acqua, e il residuo di aria rimasto nell'involucro poteva impedire che sprofondasse subito, ma centinaia di metri quadrati di tessuto potevano rappresentare un rischio, intrappolandoli nelle loro pieghe. Era necessario che abbandonassero l'aerostato prima di toccare la superficie dell'acqua, facendo del loro meglio perché la zattera restasse intatta, visto che poteva costituire l'unico veicolo per lasciare la foresta. Paul espose in breve la sua analisi della situazione e il piano che aveva abbozzato. «Penso che dovremmo liberare la zattera prima di toccare l'acqua, altrimenti potremmo perderla.» Gamay diede un'altra occhiata. La zattera che penzolava dall'aerostato era sorretta da nove cime di nylon, tre per ogni angolo. «Nella cassetta degli attrezzi c'è un coltellino svizzero», rammentò al marito. Paul controllò con il pollice il filo della lama e infilò il coltello nell'ampia tasca dei calzoncini sportivi. «Portaci sul bersaglio», disse a Gamay. «Cerca di scendere il più possibile sul corso d'acqua. Io reciderò le cime della zattera.» «Dopodiché lascio il pallone sospeso a mezz'aria e abbandoniamo la nave per farci una nuotata.» «Facile come dire un-due-tre», ribatté Paul con un sorriso. Gamay gli diede il cambio alla guida, descrivendo una lenta virata che li portava lontano dalle cascate. La luce del sole, filtrando fra la nebbia che si alzava dal lago, creò una serie di arcobaleni multipli, e Gamay si augurò che fosse un buon segno. La navicella s'inclinò, appesantita dal corpo di Paul, non appena lui salì sul lato destro della struttura esterna. Guardando il triangolo rosso che ondeggiava circa dieci metri più in basso, si diresse verso il retro della navi-
cella, dietro i serbatoi e i bruciatori. Tagliò le corde fissate all'angolo posteriore sinistro della zattera, poi passò dalla parte opposta della navicella per ripetere l'operazione. La zattera, unita all'aerostato soltanto dalle corde fissate all'estremità anteriore, oscillava e dondolava al vento. Usando con leggerezza il piede sui comandi del bruciatore, Gamay puntò verso un tratto di foresta vicino al fiume, scendendo con una lunga scivolata quasi pigra. Cominciava a credere che quel folle piano potesse funzionare, ma il suo ottimismo svanì quando il bruciatore si spense con un pluf. Erano rimasti senza carburante a mille piedi. Non si notarono cambiamenti immediati nel comportamento dell'aerostato: l'aria calda manteneva la forma aerodinamica dell'involucro e l'elica garantiva la lieve inclinazione del velivolo. L'aerostato proseguì la corsa. A cinquecento piedi, la situazione cominciò a precipitare, nel vero senso della parola. A mano a mano che l'aria si raffreddava, l'aerostato perdeva quota e l'angolazione della discesa aumentava. La pressione diminuì anche dentro l'involucro, cosicché la parte anteriore cominciò a rientrare e l'aerostato assunse la forma di un pomodoro marcio, sbandando verso sinistra. Paul lavorava a pochi metri da Gamay, proprio di fronte a lei. Aveva tagliato due cime e stava per attaccare la terza. Sentendosi ormai fin troppo sicuro di sé, aveva lasciato la presa sulla struttura esterna, ma proprio in quell'istante l'aerostato ebbe un sussulto, virando in modo brusco, e lui, che non si aspettava quel movimento improvviso, perse l'equilibrio e cadde. Gamay gridò inutilmente. La navicella fu scossa da un sobbalzo e cominciò a puntare in basso. Lei, sporgendosi, vide Paul aggrapparsi alla cima poco più su della zattera, che scartò con violenza di lato, oscillando al vento come un'altalena. Il movimento in avanti dell'aerostato era rallentato fin quasi a fermarsi. Gamay alzò la testa per guardare l'involucro, che era diventato un ammasso informe, poi guardò di nuovo sotto la navicella. Paul era ancora aggrappato alla fune, ma non voleva trovarsi al di sotto dell'aerostato nel momento in cui sarebbe precipitato. Tagliò la cima e si tuffò in acqua con i piedi in avanti da un'altezza di circa quindici metri, ma proprio mentre risaliva a galla la zattera finì in acqua provocando uno scroscio immane. Gamay agì sotto l'effetto dell'adrenalina. Dopo avere sganciato la cintura di sicurezza, si arrampicò sul sostegno laterale della navicella, tirò un bel respiro profondo e si tuffò. Nonostante l'instabilità del trampolino e la velocità con cui scendeva verso l'acqua, eseguì un classico tuffo a cigno che
le avrebbe fatto guadagnare il massimo del punteggio in una gara olimpica. Entrò in acqua con le braccia tese e il corpo diritto, arrivò sino in fondo, poi risalì in fretta verso la superficie scintillante. Appena in tempo per vedere l'aerostato piombare direttamente sulla zattera. Essa scomparve sotto gli strati sovrapposti dell'involucro, insieme con la speranza di poterla utilizzare per tornare a casa. In quel momento, però, la giovane donna era preoccupata soprattutto per Paul e provò un indicibile sollievo quando si sentì chiamare dalla sua voce, anche se non riusciva ancora a vederlo. Appesantito dalla navicella, l'involucro affondò trascinando con sé la zattera. Gamay scorse la testa di Paul affiorare sull'acqua dalla parte opposta rispetto all'aerostato che affondava. Il marito agitò le braccia e nuotarono l'uno verso l'altra, incontrandosi a metà strada. Per qualche istante rimasero a galla, osservando con timoroso rispetto le cinque dita della Mano di Dio; poi, approfittando della spinta dell'acqua che si allontanava dalla base delle cascate, cominciarono a nuotare verso la riva lontana. 13 L'agente speciale dell'FBI Miguel Gomez spostò all'indietro il peso del corpo massiccio da lottatore, bilanciandosi meglio sulla poltroncina girevole, e intrecciò le dita dietro la nuca per fissare con aria perplessa i due uomini seduti dall'altra parte della scrivania. «Voi due dovete apprezzare molto le tortillas, se volete vedere Enrico Pedrález.» «Sorvoliamo sulle tortillas», replicò Austin. «Vogliamo soltanto rivolgere alcune domande a Pedrález.» «Impossibile», disse l'agente in tono piatto, scuotendo la testa per conferire maggiore enfasi alle sue parole. Aveva gli occhi scuri come l'uva passa, con l'espressione triste e diffidente che assumono i poliziotti quando hanno visto tutto. «Non capisco», ribatté Austin, con una punta d'impazienza nella voce. «Si prende appuntamento con la segretaria, si entra e si fanno quattro chiacchiere, come un qualsiasi uomo d'affari.» «L'Agricoltore non è un uomo d'affari qualsiasi.» «L'Agricoltore? Non sapevo che si occupasse anche di agricoltura.» Gomez non riuscì a trattenere un sorriso tutto denti. «Immagino che si possa definirla agricoltura. Avete sentito parlare della grande ricerca dei
corpi sepolti in un paio di ranch poco oltre il confine?» «Certo, era su tutti i giornali. Hanno ritrovato decine di cadaveri, probabilmente vittime dei trafficanti di droga.» «Io ero uno degli agenti dell'FBI autorizzati dai messicani a partecipare a quell'operazione. I ranch erano di proprietà di Enrico o, meglio, di alcuni prestanome di Pedrález.» Zavala, che era seduto sull'altra sedia, domandò: «Ci sta dicendo che il re delle tortillas è un trafficante di droga?» Gomez si protese in avanti sulla scrivania, contando sulle dita: «Droga, prostituzione, estorsione, rapimento, frodi sanitarie, borseggio e disordine pubblico. Fate voi. La sua organizzazione somiglia a un qualsiasi altro conglomerato finanziario, che non si limita certo a mettere tutte le uova in un paniere. I cattivi prendono esempio da Wall Street. Di questi tempi, diversificazione è la parola d'ordine della mafia messicana». «Mafia», ripeté Austin. «Questo in effetti potrebbe rappresentare un piccolo problema.» «Non c'è niente di piccolo», replicò l'agente, che cominciava a scaldarsi. «Al confronto con la mafia messicana, i siciliani fanno la figura dei chierichetti. La vecchia Cosa Nostra faceva fuori un uomo, ma la sua famiglia era tabù. La malavita russa è capace di spazzarti via moglie e figli, se fai tanto di sgarrare, ma anche in quel caso si tratta solo di affari. Niente di personale. Con i messicani, invece, è tutto personale. Chiunque si metta sulla loro strada offende il loro machismo. Enrico non si limita a uccidere i suoi nemici: tritura loro, i loro parenti e i loro amici fino a polverizzarli.» «Grazie dell'avvertimento», replicò Austin, senza lasciarsi impressionare dal monologo dell'agente. «Ora vuole dirci come possiamo incontrarlo?» Gomez proruppe in una risata sonora. Si era chiesto che tipi fossero quei due fin da quando erano entrati nel suo ufficio sbandierando la tessera della NUMA. Lui conosceva soltanto di nome la National Underwater & Marine Agency, che era l'equivalente subacqueo della NASA. Austin e Zavala non corrispondevano all'idea preconcetta che si era fatto degli oceanografi. L'uomo dalla carnagione color bronzo, con gli occhi penetranti che ricordavano il colore della barriera corallina vista attraverso le acque del fondo e i capelli da albino, dava l'impressione di poter abbattere le pareti, con quelle spalle possenti da ariete. Il compagno parlava a voce bassa, con un lieve sorriso sulle labbra, ma qualunque regista, vedendolo con una mascherina nera e una spada, lo avrebbe giudicato il candidato ideale per interpretare Zorro.
«E va bene», convenne Gomez, scrollando la testa nel riconoscersi sconfitto. «Dal momento che è ancora contro la legge assistere un aspirante suicida, mi sentirei meglio se mi spiegaste che cosa sta succedendo. Come mai la NUMA s'interessa a una fabbrica di tortillas di proprietà di un malavitoso messicano?» «Si è verificata un'esplosione sott'acqua nella baia retrostante la fabbrica che Pedrález possiede nella Baja California. Vogliamo chiedergli se ne sa qualcosa. Non siamo dell'FBI. Siamo semplicemente un'organizzazione scientifica che desidera avere alcune risposte.» «Non ha importanza: tutti i federali rappresentano il nemico. Fare domande sulle sue attività verrebbe considerato un atto di aggressione. Ha ucciso per molto meno.» «Mi stia a sentire, agente Gomez, non abbiamo certo l'esclusiva della temerarietà», ribatté Austin. «Prima abbiamo tentato altre strade. La polizia messicana sostiene che l'esplosione è dovuta a un guasto nelle condutture del vapore, quindi il caso è chiuso. Abbiamo pensato che il proprietario potesse dirci qualcosa, così ci siamo rivolti al Dipartimento del Commercio. Loro hanno detto: 'Ah, ma è la fabbrica di proprietà di Enrico', e ci hanno suggerito di metterci in contatto con Gomez, dell'ufficio locale di San Diego, che sarebbe lei. Ora vorremmo fare il prossimo passo. Pedrález ha un ufficio negli Stati Uniti?» «Non vuole superare il confine, perché sa che lo arresteremmo.» «Allora dovremo essere noi ad andare da lui.» «Non sarà facile. Pedrález ha fatto parte della polizia federale messicana, e metà degli agenti è sul suo libro paga. Lo proteggono e gli consegnano informatori, concorrenti, o chiunque possa causargli fastidi.» Gomez aprì un cassetto della scrivania, tirando fuori due voluminosi incartamenti che posò sul sottomano. «Questo è il fascicolo che riguarda gli affari sporchi di Enrico, mentre l'altro contiene le informazioni sulle sue attività legali. Deve pur riciclare in qualche modo quel denaro sporco, quindi ha fondato o acquistato imprese legittime su entrambi i lati del confine fra Messico e Stati Uniti. La più redditizia è la fabbrica di tortillas. Le tortillas valgono milioni di dollari, da quando si è aperto il mercato degli Stati Uniti e anche la popolazione da questa parte del confine ha cominciato a mangiarle. Le imprese che controllano il settore sono poche. Se non mi credete, vi basterà fare un giro al supermercato. Enrico ha sfruttato i suoi contatti nel governo, distribuendo bustarelle qua e là per entrare nel giro.» Spinse i fascicoli sul piano della scrivania. «Non posso autorizzarvi
a portarli fuori di questo ufficio, ma, se volete leggerli, accomodatevi pure.» Austin lo ringraziò, trasferendosi con i fascicoli in una piccola sala riunioni, nella quale lui e Zavala si sedettero ai lati opposti di un tavolo. Austin consegnò a Joe il fascicolo sulle attività legali, dicendogli di segnalargli se trovava qualcosa di interessante, e cominciò a scorrere l'altro. Voleva farsi un'idea dell'uomo con cui avrebbe dovuto trattare. Più leggeva, meno la prospettiva gli piaceva. Non avrebbe mai creduto che un solo uomo potesse racchiudere in sé tanto marciume. Enrico era responsabile di centinaia di omicidi, e ciascuna di quelle esecuzioni portava il suo inconfondibile tocco macabro. Si rallegrò quando Zavala gli fornì la scusa per interrompere la lettura. «Ci sono!» esclamò Joe, sventolando un paio di fogli di carta. «Questi sono i rapporti della sorveglianza sulla fabbrica di tortillas. La possiede da un paio d'anni. L'FBI è andato a dare una sbirciatina, ma non ha trovato niente di sospetto. Si direbbe che abbiano fatto la nostra stessa visita guidata, a parte la mia piccola esplorazione collaterale. Stando ai rapporti, sembrerebbe un'impresa perfettamente legale.» «Non c'è nessun accenno alla struttura subacquea?» Zavala si accigliò. «Neanche una parola.» «Non mi sorprende. Potrebbero averla installata nel giro di una notte, facendola arrivare via mare.» «È plausibile. E il tuo fascicolo? Hai scoperto qualcosa di nuovo?» «Sì, che è un gran figlio di puttana. Dovremo parlargli lo stesso.» «Gomez dice che è impossibile. Hai qualche idea?» «Può darsi.» Porse a Zavala un foglio di carta preso dal suo fascicolo. «Ecco una lista dei suoi hobby. Vino, donne, corse di cavalli, gioco d'azzardo, le solite cose, ma c'è un particolare che ha attirato la mia attenzione.» Zavala lo notò subito. «Colleziona armi da fuoco antiche. Come una certa persona di mia conoscenza.» Austin sorrise. Anche lui era un appassionato collezionista di pistole da duello. Le pareti della vecchia rimessa per le barche sul Potomac che aveva trasformato in abitazione erano ricoperte di quegli strumenti di morte realizzati con squisita perizia. Teneva in cassaforte i pezzi più preziosi, e possedeva una delle collezioni più belle del Paese. «Ricordi i nuovi pezzi che ho acquistato per la mia collezione il giorno prima della gara? Sono una bella coppia, ma rappresentano un duplicato di
quella che ho già. Progettavo di usarle per uno scambio con qualche altro collezionista.» «Penso di capire dove vuoi andare a parare. Come farai a informare Enrico che sono disponibili?» «Tutti gli antiquari hanno una lista di clienti, in modo da poter trovare facilmente dei compratori per ogni acquisizione. Non si sa mai quando si presenterà un pezzo insolito, o per quanto tempo un mercante potrà mantenere l'esclusiva sulla transazione. Chiamerò un paio di antiquari per informarli che devo disfarmi in fretta delle pistole, dando loro l'impressione che mi trovo con l'acqua alla gola. Un furfante non sa resistere alla tentazione di truffare il prossimo.» «E se Enrico avesse già delle pistole come queste?» «Sono relativamente rare. Ma se anche ne avesse un'altra coppia, potrebbe volerle per lo stesso motivo per cui le ho acquistate io, vale a dire in prospettiva di scambi futuri. Il punto essenziale è avere l'opportunità di parlargli. Vorrebbe comunque vederle, tenerle fra le mani. È l'istinto del collezionista.» «Tu dici che ogni mercante riceve parecchie richieste anonime. Come faremo a sapere qual è quella di Enrico?» «Sappiamo che non si sposta mai a nord del confine, quindi, se mi chiederanno di andare in Messico per concludere l'affare, sapremo che si tratta di lui.» Restituirono il fascicolo a Gomez, informandolo del piano. «Potrebbe funzionare, oppure no, ma in ogni caso è pericoloso. Non ci sono garanzie che si presenti all'incontro, anche se lei riuscisse a combinarlo.» «Abbiamo preso in considerazione questa possibilità.» Gomez annuì. «Senta, detesto l'idea che succeda qualcosa a un tipo simpatico come lei. Non posso proteggerla apertamente perché i messicani sono piuttosto ipersensibili verso poliziotti gringos che entrano nel loro territorio. Comunque posso fare in modo che, se vi ucciderà, la sua vita non valga più neanche un peso bucato.» «Grazie, agente Gomez. I miei discendenti ne saranno rassicurati.» «È il massimo che posso fare. Ricorrerò a qualcuna delle mie risorse, ma informatemi per tempo.» Si strinsero la mano, e gli uomini della NUMA tornarono in albergo. Austin prese dalla sacca l'astuccio di legno marrone scuro, sollevando il coperchio per estrarre una delle pistole.
«Sono quasi identiche a una coppia che fa parte della mia collezione. Sono state realizzate all'epoca della campagna napoleonica in Egitto da un armaiolo di nome Boutet, che ha incorporato nella canna la Sfinge e le piramidi. Probabilmente sono state realizzate per un inglese.» Puntò la pistola verso una lampada da terra. «Il calcio è arrotondato, anziché squadrato come nel modello in voga sul continente, ma la canna presenta una rigatura multipla, secondo lo stile francese.» Ripose la pistola nello spazio predisposto per contenerla, rivestito di panno verde. «Direi che è un'esca irresistibile per qualsiasi collezionista.» Consultò subito la sua lista di antiquari, cominciando un giro di telefonate. Si accertò che i mercanti sapessero che era estremamente interessato a vendere le pistole, anche rimettendoci, e che avrebbe lasciato San Diego il giorno dopo. Era convinto che le storie di copertura migliori fossero quelle vere, almeno in parte. Spiegò che la sua barca era affondata e aveva bisogno di denaro liquido per pagare i conti. Poi lui e Zavala esaminarono le possibili eventualità e il modo migliore per affrontarle. Un'ora dopo aver cominciato a tendere le antenne, Austin ricevette una telefonata eccitata da parte di un antiquario particolarmente astuto, con una reputazione non troppo limpida. Si chiamava Latham. «Ho un potenziale cliente per le sue pistole», annunciò Latham con entusiasmo. «È molto interessato e vorrebbe vederle il più presto possibile. Potrebbe incontrarlo oggi stesso a Tijuana? Non è lontano.» Austin curvò pollice e indice, formulando in silenzio una parola: bingo. «Non ci sono problemi. Dove vorrebbe incontrarmi?» L'antiquario gli disse di parcheggiare sul lato americano della frontiera e attraversare a piedi il ponte pedonale. Il segnale di riconoscimento sarebbe stato l'astuccio con le pistole. Austin disse che si sarebbe trovato sul posto di lì a due ore, poi attaccò e mise al corrente Zavala. L'amico commentò cupamente: «E se ti portasse in qualche posto in cui non possiamo aiutarti, come uno di quei ranch dove gli piace 'piantare' cadaveri?» «Allora limiterò la conversazione alle pistole e, se è davvero interessato, concluderemo la transazione. Se non altro, avrò avuto la possibilità di valutarlo di persona.» Austin chiamò subito Gomez. L'agente dell'FBI riferì che aveva già riunito una squadra in previsione dell'incontro: gli avrebbero guardato le spalle, ma senza avvicinarsi troppo, perché Pedrález avrebbe controllato che Austin non fosse seguito. Qualche minuto dopo, gli uomini della NUMA
erano diretti al sud a bordo del pick-up preso in prestito. Zavala lasciò l'amico in territorio americano prima di proseguire verso il Messico. Austin attese venti minuti, poi s'incamminò sul ponte, con l'astuccio delle pistole stretto sotto il braccio. Era appena arrivato all'altro capo, quando gli si avvicinò un uomo anziano e atticciato, con un vestito di qualità scadente. «Il signor Austin?» gli domandò. «Sì, questo è il mio nome.» L'uomo esibì un distintivo della polizia federale. «Scorta di polizia per lei e per i suoi preziosi», dichiarò con un sorriso. «Omaggio del capo. A Tijuana circolano troppi balordi.» Lo precedette, avviandosi verso una berlina blu e gli tenne aperta la portiera. Austin salì per primo, perlustrando rapidamente il parcheggio con gli occhi. Zavala non si vedeva da nessuna parte: sarebbe rimasto deluso se avesse dato troppo nell'occhio, ma si sarebbe sentito meglio sapendo che c'era qualcuno a guardargli le spalle. L'auto s'immerse nel traffico di Tijuana, zigzagando in un labirinto sconcertante di quartieri poveri e degradati. Mentre il conducente sbirciava una ragazza che attraversava la strada, Austin guardò attraverso il lunotto: l'unico veicolo dietro di loro era un taxi giallo vecchio e malandato. La vettura della polizia si fermò davanti a una cantina senza finestre, con l'esterno di stucco verde vomito, butterato di fori come se lo avessero usato per le esercitazioni di tiro con un AK-47. Il vecchio taxi proseguì a tutta velocità. Austin scese e rimase fermo vicino a un'insegna arrugginita della birra Corona, chiedendosi se si aspettavano che entrasse nella cantina e se sarebbe stata una buona idea. Una Mercedes color canna di fucile svoltò l'angolo, accostando al marciapiede. Un giovanotto con l'aria da duro e un berretto da chauffeur scese e aprì la portiera senza dire una parola. Austin salì a bordo e la macchina ripartì. L'auto uscì dai quartieri malfamati di Tijuana per attraversare una zona abitata dalla media borghesia, e si fermò davanti a un caffè all'aperto. Un altro giovane messicano aprì la portiera e scortò Austin verso un tavolo al quale era seduto un uomo solo. L'uomo tese la mano, rivolgendogli un largo sorriso. «La prego di accomodarsi, signor Austin», gli disse. «Mi chiamo Enrico Pedrález.» Austin si rivolse l'inevitabile domanda sulla banalità del male, constatando che perfino un mostro come quello poteva avere un aspetto così normale. Enrico era sulla cinquantina, calcolò, vestito in modo casual, con un paio di pantaloni di cotone nocciola e una camicia bianca a maniche
corte. Sarebbe potuto passare per uno qualsiasi dei commercianti che vendevano sombreri e coperte nelle botteghe di souvenir per turisti. Aveva capelli e baffi di un nero così intenso che sembravano tinti e portava una gran quantità d'oro, sotto forma di anelli, braccialetti e catena al collo. Un cameriere servì due bicchieri alti e gelati pieni di succo di frutta. Austin sorseggiò la bevanda, guardandosi intorno. C'erano otto uomini che sedevano ai tavoli vicini, due per ciascuno, ma senza parlare. Facevano finta di non guardarlo, ma lui con la coda dell'occhio captò rapidi sguardi nella sua direzione. Il signor Pedrález poteva anche fare lo spavaldo mostrandosi in pubblico, ma non intendeva correre rischi. «La ringrazio molto per essere venuto da me con un preavviso così breve, signor Austin. Spero che non sia un problema per lei.» Parlava l'inglese con un accento quasi impercettibile. «Niente affatto. Mi ha fatto piacere entrare in contatto con un potenziale acquirente così presto, visto che lascio San Diego domani.» «Il señor Latham ha detto che lei era fra i partecipanti alla gara di offshore.» «Sono uno dei concorrenti sconfitti, purtroppo. La mia barca è affondata.» «Un vero peccato», commentò Pedrález. Si tolse gli occhiali scuri, puntando gli occhi piccoli e avidi sull'astuccio delle pistole e sfregandosi le mani per l'ansia. «Posso vederle?» «Ma certo.» Austin fece scattare la chiusura della scatola di legno e sollevò il coperchio. «Ah, davvero magnifiche», esclamò Pedrález con il tono entusiastico di un vero conoscitore. Estrasse una delle pistole, puntandola contro uno degli uomini seduti a un tavolo vicino. L'uomo sorrise nervosamente. Poi il magnate della droga fece scorrere il dito sulla canna ben oliata. «Boutet. Realizzate in stile inglese per un ricco aristocratico, senza dubbio.» «Lo penso anch'io.» «La lavorazione è eccellente, come del resto mi aspettavo.» Ripose con cura la pistola nell'astuccio, con un sorriso teatrale. «Purtroppo ne ho già un paio simile.» «Oh. Ebbene, in tal caso...» Austin finse di mascherare la delusione, ma, mentre stava per richiudere l'astuccio, Pedrález posò la mano sulla sua. «Forse possiamo concludere lo stesso l'affare. Vorrei farne omaggio a un amico. Ha già pensato a un prezzo?» «Sì», rispose Austin con disinvoltura. Si guardò intorno, sperando che
Gomez avesse mantenuto la parola riguardo alla protezione, e aggiunse: «Mi servono delle informazioni». Il messicano socchiuse gli occhi. «Non capisco», replicò con diffidenza. «Anch'io sono in cerca di un buon affare. C'è una fabbrica di tortillas nella Baja, e mi risulta che potrebbe essere svenduta a prezzo di costo per via di un incendio.» «Si sbaglia», ribatté Pedrález in tono gelido. Fece schioccare le dita, e gli uomini che oziavano ai tavoli vicini parvero assumere un atteggiamento difensivo. «Lei chi è?» «Rappresento un'organizzazione ben più grande della sua.» «È della polizia? Dell'FBI?» «No, faccio parte della National Underwater & Marine Agency. Sono un oceanografo, e sto indagando su un'esplosione avvenuta vicino alla sua fabbrica. In cambio delle informazioni, sarei lieto di offrirle in dono queste pistole.» Il sorriso paterno era scomparso, e le labbra di Enrico erano arricciate in un sogghigno feroce, privo di umorismo. «Mi prende per un idiota? Sono il proprietario di questo ristorante. Questi uomini, i camerieri, il cuoco lavorano tutti per me. Lei potrebbe scomparire senza lasciare tracce, e loro giurerebbero che non è mai stato qui. Che me ne importa delle sue pistolas?» aggiunse in tono sprezzante. «Ne ho a dozzine.» Austin continuava a fissarlo negli occhi. «Mi dica, signor Pedrález, da collezionista a collezionista, qual è il fascino che esercitano su di lei queste armi antiche?» Il messicano parve divertito dalla domanda. Lo scintillio feroce dei suoi occhi diminuì d'intensità, sia pure di poco. «Rappresentano il potere e i mezzi del potere, ma nello stesso tempo sono belle come il corpo di una donna.» «Ben detto.» «E per lei?» «A parte la finezza della lavorazione, mi rammentano che la vita e il destino dell'uomo possono essere modificati dal caso. Un grilletto premuto troppo presto. Una pistola sollevata troppo in fretta. Un colpo che manca di pochi centimetri un organo vitale. Rappresentano la cecità della sorte nella sua forma più letale.» Il messicano parve colpito da quella risposta. «Deve ritenersi molto fortunato per mettersi così nelle mie mani, signor Austin.» «Non del tutto. Ho puntato sulla possibilità che fosse disposto a un col-
loquio.» «Ha giocato d'azzardo. Plaudo alla sua audacia, ma purtroppo questo non è il suo giorno fortunato. Ha perso», sentenziò Pedrález con freddezza. «Non m'importa chi è, o chi rappresenta. Lei ha estratto la carta della morte.» Fece schioccare di nuovo le dita, e gli uomini si alzarono dai tavoli, cominciando ad avvicinarsi. Austin si sentì come una volpe stanata dai cacciatori. Con un rombo assordante della marmitta sfondata e uno stridio di gomme torturate, il malandato taxi giallo si fermò davanti al ristorante. Era una vecchia vettura della compagnia Checker, che sussultava ancora sugli ammortizzatori logori quando il conducente scese dal posto di guida. A parte la giacca sporca di cotone a righe bianche e azzurre che portava sopra una T-shirt di Hussong's, il conducente con gli occhiali dalle lenti a specchio somigliava in modo incredibile a Joe Zavala. Si fermò sul marciapiede per gridare in un inglese dal forte accento spagnolo: «Qualcuno qui ha chiamato un taxi?» Uno degli uomini di Enrico si avvicinò a Joe, parlando in spagnolo. «Cerco un americano», insistette Zavala in inglese, alzando la voce e guardando oltre la spalla del gorilla. «Il sergente Alvin York.» L'uomo appoggiò il palmo della mano sul petto di Zavala per sottolineare il messaggio. «Okay, okay! Al diavolo questi gringos.» Tornò con aria battagliera verso il taxi e si allontanò, lasciando dietro di sé una scia violacea di gas di scarico. Il gorilla si voltò ridendo. Austin tirò un sospiro di sollievo. I suoi occhi vagarono sui tetti bassi delle case vicine, mentre lui sorrideva. Zavala stava trasmettendo un messaggio, in modo non molto sottile ma efficace. Il sergente York, protagonista di un vecchio film interpretato da Gary Cooper, era il tiratore scelto del Kentucky che era stato decorato con la Medaglia d'Onore per i prigionieri tedeschi catturati nel corso della prima guerra mondiale. «Che tipo spassoso, vero, signor Austin?» «Molto spassoso.» «Bene, ora devo andare. Adiós, signor Austin. Purtroppo non ci rivedremo più.» «Aspetti.» Il messicano lo guardò con aria torva, come se fosse un pelo che turbava
il candore della sua camicia immacolata. «Se fossi in lei, non mi muoverei. In questo momento è inquadrato nel mirino di un tiratore scelto. Una sola mossa sbagliata, e la sua testa esploderà come un melone maturo. Se non mi crede, provi a guardare su quel tetto, e su quell'altro laggiù.» Pedrález girò di scatto la testa, senza muoversi, come una mantide religiosa, per scrutare i tetti bassi. I tre cecchini, disposti in posizioni diverse, non fecero nessuno sforzo per nascondersi. L'uomo tornò a sedersi. «A quanto pare, non ripone tutta la sua fiducia nelle forze del fato. Che cosa vuole?» «Voglio semplicemente sapere chi è il proprietario della fabbrica Baja Tortilla.» «Io, naturalmente. Ed è anche molto redditizia.» «E il laboratorio subacqueo nella baia? Lei che cosa ne sa?» «Senta, signor Austin, sono un uomo molto occupato, quindi le racconterò la storia, e poi ognuno di noi se ne andrà per la sua strada. Due anni fa è venuto da me un tale, un avvocato di San Diego, che aveva una proposta da farmi. Qualcuno voleva costruire una fabbrica. Avrebbero pagato le spese della costruzione, e io mi sarei preso tutti i profitti. C'erano delle condizioni, però: lo stabilimento doveva essere isolato e doveva sorgere sull'acqua.» «Voglio sapere cosa è stato costruito nell'acqua.» «Non lo so. È arrivata una grossa nave, sotto scorta. Hanno portato qualcosa nella baia e lo hanno affondato di proposito. Sono stati stabiliti dei collegamenti con la fabbrica. C'era gente che andava e veniva, ma non ho fatto domande.» «Che cosa sa dell'esplosione?» L'altro alzò le spalle. «Subito dopo ha chiamato qualcuno per dire di non preoccuparsi. Mi avrebbero rifuso la perdita. È tutto quello che so. La polizia non ha fatto storie.» «Questo legale che ha curato la trattativa, come si chiamava?» «Francis Xavier Hanley. Ora devo andare. Le ho detto tutto quello che potevo dire.» «Sì, lo so, lei è un uomo molto occupato.» Pedrález agitò la mano. Gli uomini si alzarono dai tavoli, formando un corridoio sul marciapiede per proteggere il suo passaggio. La Mercedes comparve dal nulla; la portiera si aprì con precisione meccanica. Le guardie del corpo salirono a bordo di due Jeep Cherokee che precedevano e se-
guivano la berlina. «Signor Pedrález», esclamò Austin. «Un patto è un patto. Ha dimenticato qui le pistole.» Enrico rispose con un sorriso agro. «Le tenga pure», ribatté, aggiungendo qualche altra parola. Poi salì sul sedile posteriore dell'auto, sbatté la portiera e si allontanò veloce come il lampo. Austin stava sudando, e non solo per il caldo. Il taxi scassato si fermò davanti a lui, suonando il clacson. Austin salì al posto del passeggero, guardandosi intorno con stupore. «Dove hai preso questo macinino?» «L'agente Gomez è stato così gentile da farmelo trovare già pronto. Ha un motore che è una bomba, oltre ad apparecchiature radio di ogni genere che ho usato per far sapere ai nostri amici dov'eri finito. Detesto l'idea di doverlo restituire. Il signor Pedrález ha detto qualcosa?» Austin gli mostrò l'astuccio delle pistole. «Sì, mi ha detto che la prossima volta che vengo a Tijuana farò bene a controllare che siano cariche.» 14 Il paesaggio era così impressionante, nella sua spaventosa bellezza, che Trout per poco non dimenticò la situazione critica nella quale si trovavano lui e Gamay. Era seduto sul ciglio di una cengia rocciosa, circa sei metri al di sopra della superficie del lago, con le lunghe gambe penzoloni nel vuoto, e girava la testa di qua e di là per ammirare il panorama in tutta la sua ampiezza. Per arrivare a vedere la sommità del salto, doveva torcere il collo all'indietro. Sulle cinque cascate s'inarcavano arcobaleni multipli, prodotti dai raggi del sole intercettati dalle goccioline d'acqua sospese nella nuvola che s'innalzava nell'aria per centinaia di metri, torcendosi in mille volute. Il rombo sembrava quello di cento locomotive lanciate a tutta velocità. Trout non era un uomo religioso ma, se la Mano di Dio esisteva davvero, era lì, davanti a lui. Un gemito turbò le sue fantasticherie. «Che cosa stai facendo?» chiese Gamay con uno sbadiglio. Era distesa al suo fianco, all'ombra di un albero. «Sto pensando che sarebbe un posto meraviglioso per costruire un albergo.» «Uh», borbottò Gamay con aria truce. Si sedette, detergendosi il sudore dal viso. «Non dimenticarti l'aria condizionata, però.» Un'ora prima c'era stato un breve acquazzone, e il sole era tornato a
splendere con intensità rabbiosa. Il loro osservatorio era ben riparato dagli alberi e dai cespugli, ed erano riusciti a dormire per qualche ora, ma non c'era modo di sfuggire all'umidità soffocante. Paul era stato il primo a svegliarsi. «Ti prendo un po' d'acqua», disse a Gamay. Piegò una foglia di palma in modo da ricavarne una coppa, poi scese al lago per riempire quel contenitore improvvisato. Versò quasi metà dell'acqua prima di portarla a Gamay, che stava cercando di togliersi gli steli d'erba dai capelli scompigliati. Lei tracannò l'acqua con avidità, socchiudendo gli occhi per il piacere di quel refrigerio così a lungo desiderato, poi passò il resto a Paul. «Grazie», gli disse con un sorriso. «È stato un sollievo. Spero che non ti offenderai se faccio un tuffo nella nostra riserva d'acqua.» Scese fino al lago, s'immerse e cominciò a nuotare. Paul stava pensando di raggiungerla non appena placata la sete, quando un movimento vicino al corso dell'emissario attirò la sua attenzione. Lanciò un grido di avvertimento, ma Gamay non poteva sentirlo, a causa del rombo delle cascate; quindi scese fino in riva al lago, rischiando di ruzzolare per la fretta, e s'immerse nell'acqua. Raggiunta Gamay, che galleggiava placidamente distesa sulla schiena, l'afferrò per la maglietta. La moglie dapprima ne fu sorpresa, poi scoppiò a ridere. «Ehi, questo non è il momento di giocare.» «Zitta», sussurrò lui. «Torna verso la spiaggia. In fretta.» Era impossibile non cogliere il tono di urgenza nella sua voce. Senza dire una parola, Gamay obbedì, nuotando veloce sino a riva, seguita da Paul, poi cominciò ad arrampicarsi verso la cengia. Lui la spinse giù, al riparo di un cespuglio, portandosi un dito alle labbra e indicando nello stesso tempo il lago ai loro piedi. Sbirciando tra le foglie, Gamay s'irrigidì alla vista del sole che scintillava sulle pagaie umide di quattro canoe che stavano passando dal fiume al lago. Se fosse rimasta in acqua, le sarebbero finite addosso. Le imbarcazioni avanzavano in fila, e ciascuna ospitava tre indios. Due remavano, mentre il terzo brandiva un fucile, tenendo l'arco posato sulle ginocchia. Sembravano completamente concentrati sulla meta da raggiungere, ignari di essere osservati. Gli indios passarono a pochi metri dal nascondiglio, così vicini che era possibile distinguere chiaramente anche le goccioline di sudore sulle muscolature frementi. Avanzarono in silenzio sul lago, sinché non furono avvolti da tentacoli di nebbia, e un attimo dopo svanirono nella nuvola di va-
pori. «Ben riuscito, come esempio di sparizione», osservò Paul, espirando con tanta forza da sgonfiare le guance. «Ora sappiamo perché li chiamano anche 'popolo delle nebbie'.» Sfruttando il vantaggio conferitogli dalla statura che superava i due metti, Paul si alzò cautamente, controllando che non ci fossero ritardatari. «Via libera», riferì. «Sarà bene pensare ad andarcene da qui. Ho ancora il coltellino svizzero. Forse potremmo costruire una zattera con rami d'albero e liane per tentare la ventura.» Gamay teneva lo sguardo fisso su quella nebbia. «Io ho un'idea migliore.» Dopo una breve pausa, aggiunse: «Certo, potrebbe essere un po' rischiosa». «Un po' rischiosa?» Paul ridacchiò. «Non dimenticare che so bene come funziona la tua testolina. Stai per suggerire di seguire quei tizi e rubare una canoa.» «Perché no? Sta' a sentire: qui sono sul loro territorio, quindi non se lo aspettano. Con tutto il rispetto per la tua abilità con il coltellino svizzero, non posso credere che riusciremo a costruire una zattera in grado di trasportarci tutti e due per Dio sa quante miglia a valle senza affondare, o senza imbatterci in uno di quei loschi figuri. È stato già abbastanza difficile arrivare fin qui con l'aerostato. Non potranno pagaiare tutto il santo giorno; dovranno pur approdare, prima o poi. Basta trovarli, aspettare che faccia buio e prendere una canoa alla chetichella. Non si accorgeranno neppure della sua mancanza, scommetto.» Nei grandi occhi nocciola di Paul passò un lampo divertito. «Dalla tua proposta trapela anche una punta di curiosità scientifica, o sbaglio?» «E va bene, ammetto che non si tratta soltanto di una questione di sopravvivenza. Non dirmi che non ti sei chiesto anche tu come sia questa tribù altamente tecnologica, e se le chiacchiere su questa dea bianca corrispondano alla verità.» «Mi domandavo soprattutto se hanno qualcosa da mangiare», replicò Paul, battendosi una mano sullo stomaco e masticando uno stelo d'erba con aria pensierosa. «Sul serio, siamo in una situazione critica e non vedo molte possibilità. Non sappiamo dove ci troviamo e non abbiamo idea di come andarcene. Non abbiamo provviste. Come hai fatto notare tu, questo è il loro territorio. Suggerisco una ricognizione. Avanzeremo lentamente e, se la situazione dovesse presentarsi troppo pericolosa, ce la batteremo veloci come il vento.»
«D'accordo», convenne Gamay. «Ora, quanto al cibo, ho esaurito la riserva di barrette ai cereali. Ho visto alcuni uccelli mangiare le bacche di quel cespuglio, e non mi pare di vedere volatili morti stecchiti, quindi probabilmente non sono velenose.» «E bacche siano», concluse Paul. «Non saranno poi così cattive.» Si sbagliava: le bacche erano così amare che era impossibile mangiarne anche una sola senza arricciare le labbra. I Trout dovettero incamminarsi lungo la riva del lago a stomaco vuoto. Arrivati in un punto dove il fango assumeva la consistenza delle sabbie mobili, salirono più in alto, imbattendosi in un sentiero. La pista era invasa dalla vegetazione, come se fosse abbandonata da tempo. Comunque avanzarono con cautela, pronti a tuffarsi tra i cespugli nel caso avessero incontrato qualcuno. Proseguirono lungo il sentiero per circa ottocento metri, fino a raggiungere un punto in cui la nebbia sprigionata dal lago invadeva la foresta come il vapore prodotto da una macchina di scena. La vegetazione era bagnata, quasi fosse investita da uno scroscio d'acqua, e il rombo delle cascate somigliava al rullo di mille tamburi. Si resero conto che lo stesso rumore che attutiva i loro movimenti poteva dissimulare l'arrivo di un esercito in marcia. L'aria divenne fredda e così umida che dovettero tapparsi il naso, per evitare di cedere alla nausea. La visibilità era ridotta a pochi metri, e procedevano a testa bassa per poter distinguere il sentiero. Poi, tutt'a un tratto, si trovarono fuori della foresta. Se si aspettavano di entrare in una splendida valle, come gli esploratori finiti per caso a Shangri-La, rimasero delusi. Oltre il confine delle nebbie la foresta non era diversa, solo che il sentiero non costeggiava più il lago, ma deviava lungo un affluente, lo stesso che dovevano aver seguito le canoe. Pochi minuti dopo, Gamay si fermò scuotendo la testa. «Non ti sembra che ci sia qualcosa di strano in questo fiumiciattolo?» Paul si avvicinò alla riva. «Sì, è troppo rettilineo per essere naturale. Si direbbe che qualcuno abbia preso un corso d'acqua preesistente e lo abbia bonificato, ricorrendo a pala e piccone.» «Esattamente quello che penso io.» Gamay riprese a camminare. «Come ho già detto, questi chulo sono davvero affascinanti.» Continuarono a marciare per diverse ore. Si erano fabbricati dei cappelli con le foglie di palma e si fermavano spesso per placare la sete con l'acqua del fiume. A un certo punto sostarono per aspettare la fine di un acquazzone, poi divennero sempre più tesi e vigili a mano a mano che il sentiero si allargava e cominciavano a scorgere orme di piedi nudi sul terriccio scuro
e soffice. Dopo una breve discussione, decisero di seguire ancora per qualche tempo il corso del fiume, nascondendosi quindi nella foresta fino a sera. Erano esausti e avevano bisogno di recuperare le forze. Proseguendo, incontrarono un sentiero che sbucava dalla macchia, alla loro destra. Era costituito da migliaia di pietre piatte, e a Gamay ricordava le strade costruite dai maya e dagli inca. Era senz'altro all'altezza di quello che aveva visto sulla via Appia, a Roma. La curiosità ebbe la meglio, e seguirono il sentiero lastricato per altri cinque minuti, attirati da un baluginio luminoso in mezzo agli alberi. Il sentiero si allargava per formare una radura perfettamente circolare, del diametro di quindici metri circa, anch'essa tutta pavimentata di pietre. Al centro c'era un oggetto di grandi dimensioni. «Che mi venga un accidente», esclamarono all'unisono. Il jet era diviso in due sezioni. La parte anteriore era intatta, mentre la fusoliera era praticamente scomparsa. La sezione di coda, rimasta in buone condizioni, era stata spostata in avanti, a diretto contatto con la cabina di pilotaggio, il che conferiva all'apparecchio un aspetto tozzo, più corto del normale. La vernice era vecchia e sbiadita, ma non ricoperta da rampicanti o licheni come avrebbe potuto essere. Sbirciarono all'interno attraverso i finestrini incrinati della cabina di pilotaggio, aspettandosi di vedere degli scheletri, ma i sedili erano vuoti. Proprio davanti al muso dell'aereo c'era un pozzo poco profondo, che conteneva le braci annerite di vecchi fuochi e le ossa carbonizzate di piccoli animali. Intorno a quel cerchio di pietra erano disposti totem scolpiti, alti quanto un uomo e con un diametro simile. Le figure che adornavano ogni palo erano diverse. In cima a ogni totem era scolpita nel legno scuro una donna alata, con le mani unite a coppa davanti a sé. Era la stessa figura incisa sul pendente che avevano trovato sul corpo dell'indio morto. «Sembra una specie di santuario», sussurrò Gamay, avvicinandosi alla fossa piena di ceneri. «Dev'essere il punto in cui hanno bruciato le vittime sacrificali. Per lo più sono ossa di piccoli animali.» «Questo è senz'altro rassicurante per noi», commentò Paul. Alzò la testa al cielo prima di controllare l'orologio. «Hanno disposto l'apparecchio in modo che funzioni come una meridiana. Mi ricorda il modo in cui sono disposte le pietre di Stonehenge, con i cerchi concentrici che hanno la funzione di un calendario astronomico.» Gamay posò la mano sul muso dell'aereo. «Questo schema di colori, con
il bianco e l'azzurro, non ti sembra familiare?» «Come no? Sono i colori tradizionali dei chulo.» Gamay sbarrò gli occhi guardando oltre Paul, che voltava le spalle alla foresta. «Non è l'unica cosa che sia bianca e azzurra, da queste parti.» Voltandosi, Paul vide una ventina di indios sbucare dagli alberi, con il viso e il corpo dipinto con i colori del cielo e dell'osso. Si maledisse in silenzio per aver permesso che la scoperta dell'aereo lo spingesse a gettare al vento ogni cautela. Con la silenziosità degli spettri ai quali venivano paragonati, gli indios li circondarono. Non c'era via di scampo. Paul e Gamay erano completamente accerchiati. Gli indios avanzarono con la lancia puntata verso l'alto, ma poi fecero qualcosa di strano: aprirono il cerchio. Un indio li esortò con la punta della lancia ad attraversare il varco. I Trout si scambiarono un'occhiata per rassicurarsi a vicenda, poi, affiancati dagli indios silenziosi come una guardia d'onore, si allontanarono dal santuario, percorrendo il sentiero lungo il fiume. La via si allargò, trasformandosi in una strada che li condusse verso una palizzata. Si avvicinarono a un cancello abbastanza largo da consentire il passaggio di un camion. Da lontano avevano visto, ai lati del cancello, degli alti pali di legno sormontati da una sorta di sagoma rotonda, come le aste delle bandiere. Avvicinandosi all'entrata, Gamay strinse forte la mano del marito. «Paul, guarda», mormorò. Lui seguì la direzione del suo sguardo. «Oh, accidenti.» Gli oggetti rotondi che sormontavano i pali, in realtà, erano teste umane. I volti erano bruniti dal sole come mele al forno, senza contare che uccelli e insetti avevano fatto la loro parte, ma era ancora possibile distinguere i lineamenti di Dieter. Non sorrideva più, e neppure Àrnaud o il suo taciturno assistente, Carlo. La quarta testa apparteneva al loro scagnozzo indio; Trout lo riconobbe dal berretto degli Yankees. Furono sospinti oltre il cancello, superando quelle macabre decorazioni. Oltre il recinto sorgevano alcune decine di lunghe capanne, con il tetto ricoperto di paglia, riunite lungo il fiume. In giro non si vedevano né donne né bambini. Le guardie avevano abbassato le lance e deposto gli archi, limitandosi a sconsigliare con la loro presenza imponente di pensare a qualche sciocco tentativo di fuga. «Guarda quella ruota ad acqua», osservò Paul. «Ne abbiamo anche noi, nel New England.»
L'acqua era stata deviata dal fiume e incanalata in alcune chiuse di legno per far girare una ruota, ma non ebbero la possibilità di guardare più da vicino. Le guardie li scortarono verso una struttura al centro dell'abitato. Era grande il quadruplo di ogni altra capanna, e le pareti erano fatte di argilla color gesso, anziché di ramoscelli. Si fermarono davanti a un portale che somigliava a una grande bocca spalancata; sopra l'ingresso era sospesa la ventola a palette di un motore a reazione. Gli indios alle loro spalle serrarono i ranghi, deponendo le armi e inginocchiandosi fino a sfiorare il suolo con il naso. «E questo che significa?» esclamò Gamay, stupita dall'improvviso gesto di sottomissione dei feroci indios. «Non ti consiglio di fuggire. Non riusciremmo ad allontanarci neppure di tre metri, prima di finire inchiodati dalle lance. La mia idea è che vogliano farci entrare. Dopo di lei, madame.» «Entreremo insieme.» Tenendosi per mano, superarono la soglia avanzando nella penombra. Attraversarono due stanze piuttosto piccole, prima di accedere a un ampio spazio. All'estremità della capanna, visibile in un raggio di luce che penetrava da un foro nel soffitto, c'era una figura seduta, che alzò un braccio invitandoli ad avvicinarsi. Procedettero lentamente. In quel locale il pavimento era di legno, anziché di terra battuta come nelle capanne che avevano visitato fino a quel momento. La figura era seduta su un trono ricavato, a quanto pareva, da un sedile di aereo. Fatta eccezione per le gambe, tornite e abbronzate, quasi tutto il corpo era nascosto dietro una maschera ovale bianca e azzurra che sembrava uscita da un incubo. Sopra erano dipinti degli occhi enormi e una bocca larga con i denti acuminati, da squalo. I Trout si fermarono innervositi di fronte a quella figura bizzarra, non sapendo come reagire. Poi due mani sbucarono dalla maschera, sollevandola. «Accidenti, questo affare è soffocante», sbuffò la bellissima donna nascosta dietro quella maschera orribile, parlando in inglese. Rivolse un cenno di saluto prima a Paul e poi a Gamay. «I signori Trout, presumo?» Gamay fu la prima a riprendersi dallo stupore. «Come fa a conoscere il nostro nome?» «Noi dee bianche vediamo tutto e sappiamo tutto.» Notando la loro evidente perplessità, la donna scoppiò a ridere. «Non è bello che la padrona di casa si prenda gioco degli ospiti, lo so.»
Sorrise e batté leggermente le mani. C'era un'altra sorpresa in serbo per i Trout. La tenda di perline dietro il trono si aprì con un fruscio, e apparve Tessa, la moglie di Dieter. 15 Lo studio dell'avvocato Francis Xavier Hanley si trovava al dodicesimo piano di una torre di vetro azzurro che sovrastava il porto di San Diego. Austin e Zavala uscirono dall'ascensore nell'anticamera dell'ufficio e fornirono il loro nome a una segretaria giovane e attraente. La ragazza premette un pulsante sull'interfono e, dopo una breve conversazione sommessa, rivolse loro un radioso sorriso e li invitò a entrare. Sulla soglia li accolse un uomo dal viso arrossato, con una corporatura da buttafuori inflaccidito, che si presentò come Hanley e li invitò ad accomodarsi su una coppia di sedie stile Impero. Depositando la sua mole dietro una grande scrivania di mogano, si appoggiò allo schienale della poltroncina girevole imbottita, unì i polpastrelli delle dita e contemplò i suoi ospiti con l'espressione di un lupo che sbava di fronte a una coppia di capre legate a un paletto. Dopo il ritorno da Tijuana, Austin aveva chiamato l'ufficio di Hanley per chiedere un appuntamento. Aveva calcato un po' la mano, dicendo che lui e il suo socio «avevano fatto qualche sondaggio» sul mercato e volevano sapere dove investire una parte dei loro capitali, ottenendo un incontro immediato. Lo scintillio rapace negli occhi verde chiaro dell'avvocato suggeriva che l'esca aveva sortito il suo effetto. Hanley spostò lo sguardo dall'uno all'altro. «Sono un convinto assertore della necessità di venire subito al punto», disse in tono mellifluo. «Lei mi ha detto al telefono di essere intenzionato a investire all'estero.» «Siamo interessati soprattutto al Messico», spiegò Zavala. L'avvocato indossava un costoso abito grigio di lana pettinata, e aveva le mani grassocce cariche di oro e diamanti in quantità sufficiente a far colare a picco il Titanic. Tutti i sarti del mondo non sarebbero riusciti a nascondere il corpo massiccio, e nessun gioiello avrebbe potuto distogliere l'attenzione dalla grossolanità insita in ogni sua mossa e parola. Gli uomini della NUMA erano vestiti in jeans, T-shirt e giacche a vento. La loro era una negligenza studiata; in California, i soli che hanno l'aria di miliardari sono quelli che non lo sono. Hanley valutò con un'occhiata l'aspetto latinoamericano di Zavala. «È venuto nel posto giusto», annunciò in tono espansivo. Sorrideva, nel tenta-
tivo d'irradiare fascino, ma la bocca sagomata a V nel viso carnoso gli conferiva l'aspetto di un avvoltoio ben pasciuto. «Avevate in mente una zona in particolare?» «Ci piacciono le tortillas», dichiarò Austin, con la massima serietà. Sul viso florido di Hanley apparve un'espressione di totale incomprensione. «Prego?» mormorò, non troppo sicuro di aver capito bene. «Le tortillas, sa?» insistette Austin, facendo un gesto circolare con il dito. «Abbiamo sentito dire che è un settore in rapida espansione.» Recuperando in modo brillante, Hanley rispose: «Ed è vero. Un autentico boom nel fiorente settore dell'industria alimentare». Austin ebbe la sensazione che la risposta sarebbe stata la stessa anche se avessero detto a Hanley che erano interessati a produrre torte di fango. Lui e Zavala avevano deciso di ricorrere all'approccio diretto che aveva funzionato così bene con Pedrález. Zavala osservò sorridendo: «Abbiamo sentito parlare di una fabbrica di tortillas nella Baja California, poco lontano da Ensenada, che potrebbe costituire un buon affare». Hanley socchiuse gli occhietti acquosi sotto la sporgenza delle sopracciglia. «Dove lo avete sentito dire?» ringhiò. «In giro.» Gli angoli della bocca di Zavala s'incurvarono in un sorriso enigmatico. «Spiacente, signori. Non conosco nessuna fabbrica di tortillas nella Baja California.» Zavala si rivolse a Austin. «Dice che non gli è familiare.» Austin alzò le spalle. «La sua risposta ci sorprende. Enrico Pedrález sostiene che le è molto familiare. È stato proprio Pedrález a fare il suo nome e a rivelarci che l'affare l'ha organizzato lei.» Le difese di Hanley entrarono in stato di massima allerta alla sola menzione del boss della malavita messicana. Non sapendo fino a che punto poteva scoprirsi con quei due sconosciuti, passò rapidamente in rassegna tutte le categorie di possibili minacce - polizia, fisco, burocrazia statale - ma quegli uomini non rientravano in nessuna di tali caselle. Decise allora di passare all'offensiva. «Posso vedere qualche documento, signori?» «Non sarà necessario», rispose Austin. «In tal caso, se non sarete usciti da questo ufficio entro due secondi, vi butterò fuori di persona.» Austin non accennò ad alzarsi. «Può provarci», ribatté con freddezza
glaciale, «ma non glielo consiglio. Non mi disturberei neppure a chiamare gli amici messicani, se fossi in lei.» Vedendo che l'intimidazione non funzionava, l'avvocato allungò la mano verso il telefono. «Ora chiamo la polizia.» «Perché non chiama l'ordine degli avvocati, già che c'è?» replicò Austin. «Sono certo che sarebbero lieti di sapere che uno dei loro membri ha concluso affari con un famigerato esponente della mafia messicana. Quella licenza in cornice appesa alla parete non varrà la carta sulla quale è stampata.» La mano dell'avvocato si ritrasse, e Hanley osservò con maggiore attenzione i due uomini seduti davanti alla sua scrivania. «Ma chi siete?» Pronunciò quelle parole come sputandole. «Due persone che vogliono saperne di più su quella fabbrica nella Baja», rispose Austin. Hanley non sapeva come inquadrare quei due. Con la figura atletica e il viso abbronzato, avevano l'aria di due bellimbusti da spiaggia, ma, dietro l'immagine gioviale, l'avvocato intuiva una scorza da duri. «Anche se aveste l'autorità per farmi queste domande, non potrei aiutarvi», affermò infine. «Tutte le discussioni sull'argomento sono protette dal segreto professionale.» «È vero», convenne Austin in tono amabile. «Così com'è vero che potrebbe finire in carcere per avere concluso affari sporchi con un noto criminale.» La bocca di Hanley si distese in un sorriso falso. «E va bene, avete vinto. Vi dirò quello che posso, ma prima concludiamo un compromesso. Ditemi per quale motivo siete interessati a quella proprietà. Mi sembra giusto, non vi pare?» «È vero», ammise Austin, «ma questo è un mondo ingiusto.» I suoi occhi verdi come il corallo degli abissi fissarono Hanley con sguardo penetrante. «Voglio tranquillizzarla, comunque. I suoi loschi affari non ci riguardano. Quando ci avrà rivelato chi l'ha assunta per l'affare della Baja, è probabile che non debba rivederci mai più.» Hanley annuì, scegliendo un sigaro dall'umidificatore senza offrirne ai suoi ospiti. Lo accese e soffiò una nuvola di fumo nella loro direzione. «Sono stato contattato circa due anni fa da un mediatore di Sacramento. Aveva sentito parlare dei miei... contatti, diciamo, a sud della frontiera, e pensava che fossi l'intermediario perfetto per un affare estremamente lucroso che non comportava rischi e richiedeva poco lavoro.»
«Una di quelle offerte che non si possono rifiutare.» «Naturale. Comunque ero piuttosto diffidente. In California tutti hanno un piano segreto per diventare ricchi. Quel tale era al corrente dei miei legami con Enrico, quindi dovevo accertarmi che non lavorasse in veste ufficiale. L'ho fatto controllare da un investigatore privato, ed è risultato pulito.» Austin abbozzò un sorriso pensando all'ironia di un avvocato corrotto e disonesto che si preoccupa dell'onestà della sua controparte. «Che cosa voleva da lei?» «Le persone che rappresentava cercavano un terreno nella Baja che fosse isolato e vicino al mare. Poi volevano che mi occupassi delle pratiche e delle scartoffie necessarie per avviare un'impresa in Messico.» «La Baja Tortilla Company.» «Sì. Voleva che il proprietario effettivo dello stabilimento di produzione fosse messicano. Sosteneva che così era più facile. Sarebbe stata un'operazione chiavi in mano: lui avrebbe fornito le specifiche dell'impianto e portato sul posto la manodopera per la costruzione e poi, una volta completati i lavori, i suoi clienti volevano avere libero accesso alla fabbrica, impegnandosi nello stesso tempo a non interferire con la sua attività. Hanno detto che Enrico poteva tenersi i profitti, e dopo cinque anni lo stabilimento sarebbe stato libero da ogni vincolo.» «Non si è mai chiesto per quale motivo qualcuno fosse disposto a mostrarsi tanto generoso, facendo un investimento considerevole?» «Mi pagano lautamente per non fare domande di questo genere.» «Pare che i suoi amici volessero gestire un'attività illecita», osservò Zavala. «In effetti l'idea mi è passata per la mente. I giapponesi hanno incontrato forti resistenze, quando hanno tentato di costruire un impianto di desalinizzazione lungo la costa. Un gruppo di fanatici delle balene ha fatto un gran chiasso con il governo messicano. Ho immaginato che i clienti del mediatore avessero visto che cos'era capitato ai giapponesi e non volessero passare gli stessi guai.» «Chi era questo mediatore?» «Si chiamava Jones. Oh, sì, è il suo vero nome», aggiunse Hanley, vedendo le loro occhiate scettiche. «È un mediatore specializzato in compravendite.» «Chi rappresentava?» «Non me lo ha mai detto.»
Austin si protese in avanti, chinandosi sulla scrivania di Hanley. «Non cerchi di menarci per il naso, signor Hanley. Lei è un uomo prudente. Avrà certamente incaricato il suo detective di indagare su di lui.» Hanley si strinse nelle spalle. «Perché negarlo? I clienti hanno tentato di nascondere la propria identità dietro una serie di scatole cinesi.» «Ha detto che 'hanno tentato'. Chi sono?» «Sono riuscito ad arrivare soltanto a un'impresa chiamata Mulholland Group. È una società chiusa, che intrattiene rapporti con imprese coinvolte in progetti idraulici su vasta scala.» «Che altro?» «È tutto.» Hanley controllò l'orologio da polso di Cartier. «Se volete scusarmi, ora ho un appuntamento con un cliente vero.» «Vogliamo l'indirizzo e il numero di telefono del mediatore.» «Non vi servirà a niente. È morto qualche settimana fa. La sua macchina è finita fuori strada sulle montagne.» Austin stava guardando dalla finestra che occupava l'intera parete alle spalle di Hanley; un elicottero volava avanti e indietro sul porto, avvicinandosi a ogni passaggio. Alla notizia di quella morte sospetta, tornò a dedicare tutta la sua attenzione a Hanley. «Vorremmo avere comunque tutte le informazioni che ha su di lui, e tutto il suo fascicolo.» Hanley si oscurò in volto. Credeva di essersi finalmente liberato di quei due seccatori. «Non posso darvi l'originale. Lo farò fotocopiare. L'operazione potrebbe richiedere un paio d'ore.» «Va bene. Passeremo a ritirare la documentazione fra due ore.» L'espressione accigliata di Hanley peggiorò. Poi sorrise di nuovo, alzandosi dalla scrivania e accompagnandoli alla porta. Rientrando in ascensore, Austin commentò: «Chiameremo Hiram Yaeger. Hanley penserà senz'altro a censurare il materiale che ci darà, quindi potrebbe essere necessario condurre un'indagine autonoma su questo Mulholland Group». Hiram Yaeger era il mago del computer della NUMA. Il complesso computer che lui chiamava Max attingeva a un'enorme banca dati relativa alle conoscenze sull'oceano ricavate da tutte le fonti del mondo. Max eseguiva abitualmente operazioni di pirateria elettronica sulle banche dati esterne. Uscendo dall'atrio dell'edificio, si trovarono al sole della California meridionale. Quando Zavala si avvicinò al cordolo del marciapiede per chiamare al volo un taxi, si sentì un sonoro uap-uap che proveniva dall'alto,
esattamente sopra di loro. Un elicottero verde si librava sopra la strada, a una trentina di metri dalla facciata di vetro dell'edificio. Come gli altri passanti, anche loro fissarono il velivolo con curiosità, poi nella mente di Austin scattò il ricordo. Afferrò per un braccio Zavala. «Dobbiamo tornare indietro.» Lanciando un'occhiata all'elicottero, Zavala scattò verso la porta girevole alle spalle di Austin. Si precipitarono all'interno dell'ascensore aperto e premettero il pulsante del piano corrispondente allo studio dell'avvocato. Quando erano a metà strada, udirono un tonfo sordo, e le pareti del pozzo dell'ascensore furono scosse da un tremito. Austin premette il pulsante dello stop in corrispondenza con il piano sottostante all'ufficio di Hanley, poi, superando di corsa gli impiegati sorpresi, salirono le scale fino al piano superiore. La tromba delle scale era piena di un fumo acre e nero. Austin trovò a tentoni la porta dello studio legale. Non sentendo il calore rivelatore di un incendio dalla parte opposta, socchiuse il battente. Ne uscì un'altra nuvola di fumo. Aprirono la porta solo quanto bastava per passare, avanzando carponi, e strisciarono attraverso il fumo soffocante che aveva invaso l'anticamera. Era già scattato il sistema antincendio, e furono inzuppati da una pioggerella nebulizzata. La segretaria era priva di sensi, stesa sul tappeto vicino alla scrivania. «E Hanley?» gridò Joe. Dalla porta dell'ufficio uscì una nube carica di fumo. «Non pensarci. Ormai non c'è niente da fare.» Trascinarono la segretaria nella tromba delle scale, adagiando sul pavimento il suo corpo inerte, ma la ragazza si riprese dopo qualche minuto di respirazione bocca a bocca. Ben presto i vigili del fuoco raggiunsero il piano e i due affidarono la giovane donna a un paramedico. Preferirono scendere a piedi, invece di prendere un ascensore nel quale sarebbero rimasti bloccati, se fosse stata interrotta la corrente. Nell'atrio si riversarono altri pompieri. Era arrivata la polizia, che stava evacuando il palazzo. Si unirono alla folla che si era radunata intorno all'edificio, ma vedendo che non potevano fare niente percorsero un paio di isolati a piedi e fermarono un taxi. Il conducente, un senegalese, a giudicare dalla licenza esposta sul cruscotto, lanciò un'occhiata curiosa al loro viso coperto di fuliggine. «Eravate là dentro? Gente, ho appena sentito la notizia alla radio. C'è stata un'esplosione!»
Zavala guardò fuori dal lunotto posteriore, osservando il caos intorno all'edificio, dove la polizia bloccava il traffico e cominciava a transennare la zona. Si ripulì la faccia sporca di fuliggine. «Come hai fatto a capire che cosa stava per succedere?» «Non lo sapevo, ma ho notato l'elicottero che passava avanti e indietro sul porto mentre parlavamo con Hanley.» «L'ho visto anch'io, ma non ci ho fatto caso. Immaginavo che fosse un velivolo della polizia stradale.» «Da principio ho avuto la stessa reazione. Poi lo abbiamo visto da vicino, ed è scattato qualcosa. Lo stesso elicottero, o un altro molto simile, è passato sopra di noi dopo l'esplosione alla fabbrica di tortillas.» «Già, ricordo. Verde scuro. Ha sorvolato la baia, poi è volato via.» Zavala meditò sulle conseguenze. «Chiunque sia, il proprietario di quell'elicottero voleva a tutti i costi la morte di Hanley.» «Hanley frequentava cattive compagnie.» «Pensi che sia stato Enrico?» «È possibile. Sapeva che volevamo parlare con Hanley. Mi ha sorpreso il fatto che non avesse chiamato Hanley per avvertirlo del nostro arrivo.» «Io stavo pensando al signor Jones, il mediatore», disse Zavala in tono pensieroso. «Forse hanno chiuso la bocca anche a lui.» «Sarebbe in linea con l'ipotesi di Enrico, almeno finché non troveremo qualcosa di meglio», soggiunse Austin. In effetti trovarono qualcosa di meglio all'albergo. Mentre Austin entrava per ripulirsi e cambiarsi, Zavala accese il televisore per assistere al notiziario. La telecamera mostrava fiotti di fumo che eruttavano dall'ufficio, circondato dalle autopompe ferme all'esterno. Il portavoce del dipartimento dei vigili del fuoco dichiarò che c'erano persone ricoverate in ospedale con sintomi di asfissia, ma a quanto pareva si era avuta una sola vittima. Il nome sarebbe stato reso noto non appena informati i parenti. La causa dell'esplosione era sconosciuta. Il servizio finiva così, e Zavala stava per spegnere quando sullo schermo apparve un volto familiare. «Kurt, questo devi vederlo», gridò. Austin uscì dal bagno in tempo per vedere l'annunciatore con i capelli cotonati prendere la parola. «Abbiamo appena ricevuto la notizia che il noto trafficante di droga Enrico Pedrález è rimasto ucciso oggi nell'esplosione della sua auto a Tijuana. Nell'esplosione sono morti altri due uomini, probabilmente le sue guar-
die del corpo.» L'annunciatore proseguì leggendo la lunga lista di reati commessi dal messicano. «Si direbbe che quelli dell'elicottero verde non vogliano lasciare conti in sospeso», osservò Austin. Squillò il telefono, e Zavala sollevò il ricevitore. Rimase in ascolto per un istante, mormorando: «Non c'è di che», poi abbassò la cornetta. «Era l'agente dell'FBI Miguel Gomez.» «Che cosa voleva?» Zavala contrasse la bocca in un sorriso amaro. «Voleva solo ringraziarci per avergli facilitato almeno in parte il lavoro.» 16 Brynhild Sigurd dirigeva il suo vasto impero da un ufficio in cima alla torre che dominava l'enorme edificio in stile vichingo che lei chiamava Walhalla. La stanza senza finestre era a pianta circolare, la figura geometrica più vicina alla perfezione. Le pareti erano di un bianco assoluto, senza quadri appesi. Brynhild era seduta a una scrivania con un monitor a schermo piatto e una console telefonica di plastica bianca: non le occorreva altro per entrare in contatto immediato con le attività che gestiva in tutto il mondo. La temperatura veniva mantenuta costantemente intorno ai quattro gradi centigradi, estate e inverno. I pochi che venivano ammessi in quel nido d'aquila paragonavano l'esperienza all'ingresso in una cella frigorifera, ma lei vi si trovava a suo agio. Da bambina, in una fattoria isolata del Minnesota, aveva imparato ad amare il freddo, e godeva della purezza che si accompagnava alle temperature vicine allo zero. Aveva l'abitudine di sciare da sola per ore e ore, sotto le stelle, ignorando il gelo che le pungeva le guance. A mano a mano che cresceva in statura e forza, si sentiva sempre più distante dall'umanità, la «gente piccola», come la chiamava lei, che la considerava un fenomeno da baraccone. In seguito, quando era andata a scuola in Europa, la sua spiccata intelligenza le aveva consentito di eccellere negli studi anche frequentando di rado le lezioni. I momenti in cui non poteva sottrarsi agli sguardi altrui restando nascosta non facevano che accrescere la sua ambizione, alimentare il suo risentimento e piantare in lei i semi della megalomania. In quel momento stava parlando al telefono, con il vivavoce. «La ringrazio per il sostegno che ha fornito alla legislazione relativa al fiume Colora-
do, senatore Barnes. Il suo Stato trarrà grande profitto dal suo voto determinante, in particolare quando l'impresa di suo fratello comincerà ad aggiudicarsi i contratti per le opere che abbiamo progettato. Spero che lei abbia approfittato dei suggerimenti che le ho fornito.» «Sì, signora, grazie. Ho dovuto aggirare la legge sul conflitto d'interessi, naturalmente, ma mio fratello e io siamo molto vicini, se capisce cosa intendo.» «Certo, senatore. Ha parlato con il presidente?» «Ho appena concluso una telefonata con il suo capo di gabinetto. La Casa Bianca porrà il veto a qualsiasi legge che cerchi di abrogare le norme sulla privatizzazione che abbiamo approvato. Il presidente è fermamente convinto che il settore privato possa ottenere sempre risultati migliori di quello pubblico, che si tratti di gestire le prigioni o la previdenza sociale, o di pompare acqua.» «Che genere di appoggio ha il progetto di legge Kinkaid?» «Soltanto una manciata di voti, niente di serio. È un vero peccato che Kinkaid abbia avuto quell'incidente. Ho sempre apprezzato quell'uomo, ma senza di lui, e senza la sua capacità di arringare le truppe, ogni tentativo di rovesciare le posizioni è destinato a fallire.» «Eccellente. Come procedono le altre iniziative di legge per la privatizzazione?» «Molto bene. Vedrà che le strutture pubbliche per la distribuzione dell'acqua verranno privatizzate in tutto il Paese.» «Quindi non ci sono problemi?» «Uno solo, forse. Il problema più serio è il direttore del quotidiano della capitale del mio Stato. Sta facendo un gran chiasso, e temo che possa crearci delle difficoltà.» Brynhild chiese il nome del giornalista e prese nota mentalmente della risposta del senatore. La scrivania non era fornita di carta e penna, perché lei contava solo sulla memoria. «A proposito, senatore Barnes, il contributo alla campagna per la sua rielezione era sufficiente?» «Sì, signora, è stato molto generoso, tenuto conto che non ci sono altri candidati. Il fatto che io disponga di un discreto fondo per la campagna scoraggia l'opposizione.» Sulla console telefonica cominciò a lampeggiare una spia rossa. «Ci sentiremo di nuovo. Arrivederci, senatore.» Brynhild premette un pulsante che schiuse una porta nella parete, da cui
entrarono i fratelli Kradzik, come al solito vestiti di pelle nera. «Ebbene?» Le labbra sottili si distesero in un sorriso metallico, perfettamente identico. «Abbiamo eliminato l'Agricoltore messicano...» «... e l'avvocato, secondo i suoi ordini.» «Nessuna complicazione?» I due scossero la testa. «Le autorità non perderanno troppo tempo con il caso dell'Agricoltore», sentenziò lei. «Quanto all'avvocato, aveva parecchi nemici. E ora passiamo ad altro. Ci sono stati alcuni sviluppi riguardo alla nostra attività in Messico.» Sfiorò con un dito il monitor, e apparvero due foto. Una delle immagini, ripresa da una telecamera di sorveglianza, mostrava Austin e Zavala nell'area d'ingresso della fabbrica di tortillas. L'altra era un ingrandimento dei due uomini in piedi sul ponte della Sea Robin, al largo di Ensenada. Lo sguardo di Brynhild indugiò per un attimo sull'uomo dalle spalle larghe con i capelli d'argento, poi si spostò su quello attraente dai capelli scuri. «Sapete chi sono questi uomini?» I fratelli alzarono le spalle in segno di diniego. «Sono Kurt Austin, capo della squadra missioni speciali della NUMA, e José Zavala, un componente della sua squadra.» «Quando possiamo...» «... eliminarli?» La temperatura nella stanza gelida parve scendere ancora di quattro o cinque gradi. «Se la responsabilità della distruzione dell'impianto nella Baja è loro, pagheranno con la vita. Ma non ora», aggiunse Brynhild. «C'è un piccolo problema da risolvere.» Fornì loro il nome del direttore del giornale, poi concluse: «È tutto. Potete andare». I fratelli uscirono in gran fretta dalla stanza, come un paio di segugi lanciati sulle tracce di un osso, e Brynhild rimase di nuovo sola. Restò seduta a meditare sull'impianto della Baja. Quanto lavoro sprecato. Peggio ancora, la scorta di catalizzatore era andata distrutta nell'esplosione. Fissò con odio i volti dei due uomini sul monitor del computer. «Gente piccola», mormorò, quasi con un ringhio. A un gesto della sua mano, lo schermo si oscurò.
17 Trout chiuse il rubinetto della doccia per esaminarne di nuovo il funzionamento, pieno di ammirazione scientifica. L'acqua, che scorreva in un tubo di legno, veniva diffusa attraverso forellini minuscoli praticati nella buccia indurita di una zucca scavata. Il flusso era controllato da una semplice valvola di legno, mentre l'acqua defluiva attraverso un foro di drenaggio praticato nel pavimento di legno duro. Uscito dal box, si asciugò con un telo di cotone, se ne avvolse un altro intorno al corpo e si trasferì nella stanza attigua, illuminata da lampade di terracotta. Gamay era distesa su un comodo materasso riempito d'erba e disposto su un letto a piattaforma. Si era drappeggiata addosso l'asciugamano come una toga, pettinando a treccia i capelli rosso tiziano, e stava assaggiando uno dei frutti disposti in una grande ciotola, appoggiata su un gomito come una matrona dell'antica Roma. Squadrò Paul, addosso al quale l'asciugamano appariva ridicolmente piccolo. «Che cosa pensi di tutto questo, mio bel sirenetto?» «Che ho visto impianti idraulici peggiori nel cosiddetto mondo civile.» «Lo sapevi che il grado di civilizzazione di un popolo si può misurare dal livello di raffinatezza dei suoi sistemi idraulici?» «Non sono troppo entusiasta dell'abitudine incivile che hanno gli indigeni di infilzare le teste altrui su pali appuntiti, comunque tutto il villaggio è un autentico prodigio. Guarda come sono ben lavorate queste pareti», aggiunse, passando le dita sulla superficie dell'intonaco bianco. «Avrei mille domande da fare. Notizie della padrona di casa?» «La nostra ospite ha mandato Tessa ad avvertire che verrà a trovarci più tardi, una volta che avremo riposato. A proposito di tirar fuori un coniglio dal cappello a cilindro, credevo che la moglie di Dieter fosse stata catturata dai chulo.» La dea non aveva fornito spiegazioni. Dopo aver salutato i Trout chiamandoli per nome e aver presentato loro Tessa, si era limitata a dire: «Abbiate pazienza, a suo tempo vi spiegherò». Poi aveva battuto le mani, e dalla tenda erano uscite a testa bassa due giovani indigene. Le ancelle, tutt'e due in topless, avevano condotto i Trout nella camera da letto e, dopo aver fornito una dimostrazione del funzionamento della doccia, li avevano lasciati soli con una ciotola piena di frutta. «Mi guardo bene dal disobbedire agli ordini di una dea bianca», commentò Paul, sedendosi a fianco della moglie. «Che cosa ne pensi di lei?»
«Partiamo dalle considerazioni più ovvie», cominciò Gamay, enumerando le sue conclusioni sulla punta delle dita. «Di sicuro non è cresciuta da queste parti. Parla l'inglese con un leggero accento. È molto intelligente, è cordiale e conosce bene la frutta del suo territorio. Ecco, prova uno di questi piccoli frutti gialli. Hanno un sapore che ricorda l'arancio, con in più un tocco di cannella.» Trout assaggiò il frutto simile a una prugna e si trovò d'accordo con lei. Poi si stese sul letto, con i piedi che sporgevano all'estremità. Avevano intenzione di concedersi solo un breve riposo, ma, sfiniti dalla lunga marcia sotto il sole e rilassati dalla doccia, si addormentarono profondamente. Svegliandosi, trovarono una donna indigena seduta a gambe incrociate sul pavimento, con gli occhi fissi su di loro. Vedendoli riscuotersi dal sonno, uscì in silenzio dalla stanza. Su un tavolo trovarono i vestiti, che erano scomparsi mentre loro facevano la doccia. I calzoni corti e le camicie erano stati ripuliti dal sudore e dallo sporco e ripiegati con cura. Trout controllò l'orologio: avevano dormito tre ore. Si vestirono in fretta, sollecitati dall'aroma del cibo che cuoceva. Entrò Tessa, invitandoli a seguirla lungo un corridoio che portava in una grande sala. Il centro del locale era occupato da un tavolo di legno scuro con tre sgabelli. Un'indigena sorvegliava le pentole che gorgogliavano su un fornello di ceramica, il cui vapore veniva convogliato da alcuni tubi che passavano attraverso il soffitto. La dea bianca arrivò un istante dopo, preannunciata soltanto dal lieve tintinnio dei braccialetti di metallo che le circondavano i polsi e le caviglie. Portava una collana con un pendente simile a quello che avevano trovato al collo dell'indio assassinato e indossava un due pezzi in pelle di giaguaro che metteva in risalto le linee del corpo color bronzo. Aveva gli occhi dal taglio orientale e gli zigomi alti. I capelli, schiariti dal sole fino ad assumere un colore biondo miele, erano pettinati all'indietro, con una frangia simile a quella delle donne indigene. Prendendo posto al tavolo, osservò: «Avete l'aria più riposata». «La doccia è stata di enorme aiuto», replicò Gamay. «È un impianto notevole», aggiunse Paul. «Come nativo del New England, sono rimasto incuriosito dalla sua inventiva, degna di uno yankee.» «Grazie. Quello è stato uno dei miei primi progetti. L'acqua viene pompata con un mulino a vento e riversata in un serbatoio per mantenere la pressione. La cisterna è collegata a un sistema ventilato di tubazioni che passano attraverso le pareti e tengono fresco questo edificio anche nelle
giornate più calde. È stato il sistema migliore di condizionamento dell'aria che sono riuscita a escogitare, con il materiale che avevo a disposizione.» Anticipando la loro curiosità, aggiunse: «Ora mangiamo, e poi potremo parlare quanto volete». La cuoca portò in tavola uno stufato di carne e verdure, accompagnato da insalata verde e servito dentro piatti bianchi e azzurri. Gamay e Paul dimenticarono tutte le domande che avrebbero voluto fare per tuffarsi sul cibo, annaffiando il pasto con una bevanda dissetante e leggermente alcolica. Per dessert furono serviti dei dolci allo zucchero. La dea li guardava, divertita dal loro appetito. Non appena fu sparecchiata la tavola, dichiarò: «E ora è venuto il momento di guadagnarvi la cena». Sorridendo, spiegò: «Dovete raccontarmi tutto quello che è successo nel mondo esterno negli ultimi dieci anni». «È un prezzo modesto per una cena del genere», replicò Paul. «Forse non la penserete così, quando avrete finito. Cominciate dalla scienza, se non vi dispiace. Quali progressi, grandi o piccoli, sono avvenuti nell'ultimo decennio?» Paul e Gamay si alternarono per descrivere i progressi nel mondo dei computer, la diffusione di Internet e delle comunicazioni senza fili, le missioni spaziali dello Shuttle, il telescopio Hubble, le sonde spaziali automatiche, le scoperte della NUMA nel campo dell'oceanografia, e i progressi della medicina. La dea bianca ascoltava affascinata, con il mento appoggiato sulle mani intrecciate. Ogni tanto poneva qualche domanda dalla quale s'intuiva la sua formazione scientifica ma, per lo più, si limitava ad assimilare le informazioni con l'aria sognante di un drogato che aspira i fumi dell'oppio. «E ora parlatemi della situazione politica», li sollecitò alla fine. Anche stavolta, i Trout esposero tutti gli avvenimenti che riuscivano a ricordare: la politica dei vari presidenti degli Stati Uniti, i rapporti con la Russia, le guerre nel golfo Persico, i conflitti nei Balcani, siccità, carestie, terrorismo, Unione Europea. Lei chiese notizie del Brasile, e parve soddisfatta quando le risposero che era ancora una repubblica presidenziale. Parlarono di film e spettacoli teatrali, di musica e arte, della scomparsa di personaggi famosi. Persino Paul e Gamay constatarono sorpresi che il decennio precedente era stato estremamente intenso. Cominciavano a sentirsi stanchi, a furia di riferire tanti avvenimenti. «E il cancro? Hanno trovato una cura?» «Purtroppo no.»
«E l'acqua potabile è ancora un problema per tanti Paesi?» «Peggio che mai, fra lo sviluppo economico e l'inquinamento.» Lei scosse la testa con un'espressione malinconica. «Quante cose», mormorò in tono distante e trasognato. «Quante cose ho perduto. Non so neppure se i miei genitori siano ancora vivi. Mi mancano, soprattutto mia madre.» Negli occhi le scintillò una lacrima, che asciugò con il tovagliolo. «Devo scusarmi con voi per essere stata così esigente, ma non avete idea di quanto sia orribile restare così isolati nella foresta, senza comunicazioni con il mondo esterno. Siete stati molto gentili e pazienti. Ora tocca a voi ascoltare la mia storia.» Fece servire il tè, poi congedò le donne in modo da restare sola con loro. «Mi chiamo Francesca Cabral», cominciò, e per un'ora i Trout ascoltarono rapiti la storia della dea, cominciando dalle origini della sua famiglia e continuando con gli studi in Brasile e in America, per arrivare fino al momento in cui l'aereo era precipitato nella foresta. «Ero l'unica superstite del disastro», spiegò. «Il secondo pilota era un furfante, ma conosceva il suo mestiere. Il jet è atterrato slittando sull'acquitrino che costeggia il fiume, e il fango ha attutito l'impatto e impedito che scoppiasse un incendio. Al risveglio, mi sono trovata in una capanna dove mi avevano trasportato gli indios. Soffrivo molto per i tagli e le contusioni che avevo riportato, e inoltre avevo la gamba destra fratturata. Una frattura composta, del tipo peggiore. Per fortuna, come avrete appreso, le medicine della foresta pluviale possono essere molto efficaci. Gli indios hanno sistemato la frattura e mi hanno curato somministrandomi pozioni che lenivano il dolore e favorivano la guarigione. In seguito ho appreso che l'aereo era atterrato sulla casa del capo, uccidendolo, ma loro non mi hanno biasimato, al contrario.» «Hanno fatto di lei una dea», osservò Gamay. «Potete comprenderne la ragione. Molto tempo fa i chulo si sono ritirati nella foresta, arretrando di fronte all'avanzata dell'uomo bianco, e sono completamente isolati dal mondo. Poi arrivo io, piovendo dal cielo come una cometa ardente. Si ritiene che gli dei si comportino così per tenere in riga gli umani. Loro hanno immaginato che il capo avesse suscitato la collera degli dei, e io sono diventata il centro della loro religione.» «Uno di quei culti che prendono il nome di 'cargo'?» suggerì Gamay. «All'epoca della seconda guerra mondiale», spiegò Paul, «i nativi che vedevano gli aerei volare sopra la loro testa ne costruivano a terra delle riproduzioni da venerare.»
«Sì», confermò Gamay. «Ricorda quel film intitolato Ma che siamo tutti matti? in cui una bottiglia di Coca-Cola caduta da un aeroplano diventava oggetto di venerazione religiosa e dava origine a una catena di guai?» «Proprio così», confermò Francesca. «Pensate a come avrebbero reagito quei nativi se avessero avuto in loro possesso un apparecchio vero e proprio.» «Questo spiega il santuario con l'aereo al centro.» Lei annuì. «Hanno trasportato qui i relitti del jet e hanno fatto un lavoro discreto assemblandolo di nuovo. Una specie di 'carro degli dei'. Ogni tanto dobbiamo sacrificare un animale per evitare che gli dei possano scatenare ancora la distruzione sulla tribù.» «L'apparecchio era bianco e azzurro, e i nativi si dipingono il corpo con gli stessi colori», osservò Gamay. «Non è una coincidenza, vero?» «Ritengono che questo li protegga dai loro nemici.» «E come mai Tessa si trova qui?» «Tessa è chulo per metà. Sua madre fu catturata da una tribù vicina nel corso di una razzia e ceduta a un europeo, che è diventato il padre di Tessa. Lui è rimasto ucciso durante una faida tribale, e Tessa è rimasta nelle mani di Dieter. Lui sapeva dell'esistenza dei chulo e l'ha sposata quando era ancora giovanissima, pensando erroneamente che potesse facilitargli l'accesso alla tribù e alle sue erbe medicinali, delle quali faceva commercio.» «Per quale motivo è rimasta con Dieter?» «Riteneva di non avere scelta. Dieter le rammentava di continuo che era una mezzosangue, merce avariata. Una paria.» «E l'indio di cui abbiamo trovato il corpo?» «Tessa non era la primogenita. Sua madre aveva avuto un altro figlio, che era rimasto qui. Era deciso a ritrovare la sua famiglia e ha cominciato a compiere delle esplorazioni oltre le cascate, scoprendo che la madre era morta, ma che aveva una sorellastra, Tessa. Era andato a prenderla per portarla con sé, perché i chulo prendono molto sul serio l'onore della famiglia. I biopirati che lavoravano in combutta con Dieter lo hanno catturato, perché volevano farsi rivelare dove cresce la 'radice del sangue'.» «Sì, Arnaud ha accennato a questa pianta.» «È quel rimedio miracoloso che hanno usato per curarmi dopo l'incidente. La tribù lo considera sacro. Il fratellastro di Tessa si è rifiutato di rivelare dove potevano trovare la pianta, perciò lo hanno torturato. È stato ucciso mentre tentava la fuga, e così voi avete ritrovato il corpo. Dieter ha rubato gli esemplari della pianta. Io avevo inviato degli uomini alla ricerca del
fratello di Tessa. Lei stava cercando di tornare qui quando l'hanno incontrata per caso, e ha raccontato loro tutta la storia. Allora l'ho rimandata da Dieter con l'ordine di tenerci informati sulle novità. Poi siete arrivati voi all'improvviso. Tessa ha cercato di mettervi in guardia, poi, vedendo che non funzionava, vi ha aiutato a fuggire, o così credeva. Invece siete ricomparsi sulla nostra soglia.» «Siamo sani e salvi, ed è più di quanto non si possa dire per Dieter e compagni.» «Gli uomini della tribù hanno portato qui le teste per farmene omaggio.» Francesca fece scorrere lo sguardo sulle pareti della sala da pranzo, che erano ricoperte di immagini vivaci della vita del villaggio. «Le teste mummificate non s'intonavano al mio arredamento, così ho suggerito di esporle all'ingresso del villaggio.» «Anche la responsabilità del comitato di accoglienza è sua?» «Oh, sì. Dovete ammettere che quel grosso dirigibile azzurro e arancio sul quale volavate non era troppo discreto. Gli uomini mi hanno riferito che per poco non siete finiti nelle cascate. Avevo ordinato ai guerrieri di tenervi d'occhio, ma senza farvi del male; vi seguivano fin dall'inizio. Sono rimasta sorpresa quando vi siete avviati da questa parte. Non avreste dovuto smarrirvi.» «Per la verità, pensavamo di prendere in prestito una canoa.» «Ah, che audacia! Non avreste avuto la minima possibilità. La fama di questo popolo è ben meritata. Hanno seguito le vostre tracce per chilometri e chilometri. A volte penso che siano davvero un popolo di spettri. Riescono a mimetizzarsi nella foresta come la nebbia di cui gli altri indios li credono fatti.» Paul stava meditando sulla storia di Francesca. «Per quale motivo qualcuno poteva voler dirottare l'aereo e rapirla?» «Ho un'idea abbastanza precisa del motivo. Venite, vi faccio vedere.» Francesca si alzò da tavola per guidarli attraverso i corridoi rischiarati dalla luce delle torce fino a una grande camera da letto. Frugando in una cassapanca, ne estrasse una valigetta di alluminio ammaccata e segnata da lunghi graffi, che posò sul letto prima di aprirla. Conteneva un intrico di fili e circuiti devastati dall'incidente. «Questo era un modello dell'esperimento che intendevo presentare alla conferenza del Cairo. Non intendo addentrarmi nei dettagli tecnici, ma, mettendo dell'acqua di mare da questa parte, il sale viene estratto, e da quest'altra parte esce acqua potabile.»
«Un processo di desalinizzazione?» «Sì. Era un metodo rivoluzionario, diverso da qualunque altro escogitato in precedenza. Avevo impiegato due anni per metterlo a punto. Il problema delle desalinizzazione è sempre stato il costo. Questo processo, invece, è in grado di convertire centinaia di litri d'acqua al costo di pochi centesimi. Inoltre produce nello stesso tempo calore, che si può trasformare in energia.» Scosse la testa. «Avrebbe trasformato i deserti in giardini e offerto alla popolazione i vantaggi dell'energia elettrica.» «Io continuo a non capire», ribatté Paul. «Per quale motivo qualcuno dovrebbe cercare di evitare che un prodigio del genere sia messo a disposizione del mondo?» «Mi sono posta anch'io questa domanda, e più di una volta negli ultimi dieci anni, senza riuscire a trovare una risposta soddisfacente.» «Questo era l'unico prototipo?» «Sì», rispose lei in tono malinconico. «Avevo portato tutto con me da San Paolo, ma la mia documentazione è bruciata nell'incidente aereo.» Rischiarandosi in volto, aggiunse: «Comunque sono riuscita a mettere a frutto le mie conoscenze d'ingegneria idraulica qui nella foresta. Restare seduta tutto il giorno a farsi adorare può diventare noioso. In pratica sono prigioniera qui. Dopo l'incidente mi hanno tenuta nascosta alle spedizioni di soccorso, e l'unico posto in cui posso rimanere sola è questo palazzo, dove entra soltanto chi è invitato. I miei servitori sono stati scelti scrupolosamente per la loro lealtà, e fuori del palazzo sono sorvegliata dalla mia guardia pretoriana». «Essere una dea bianca non è poi tanto divertente», commentò Paul. «A dir poco. È per questo che sono felice che siate piovuti dal cielo. Stanotte dovete riposare. Domani vi farò da guida nel villaggio, e cominceremo a fare piani.» «Piani per cosa?» domandò Gamay. «Scusate, ma pensavo che fosse evidente. Piani di fuga.» 18 Austin fece colazione in fretta, consumando un piatto di prosciutto e uova strapazzate sul terrazzo della casa che aveva ricavato da una rimessa per le barche, ai piedi delle pareti rocciose che costeggiavano il Potomac a Fairfax, in Virginia. Fissò con desiderio il corso lento del fiume, pensando che un vigoroso allenamento sulla sua canoa sarebbe stato di gran lunga
preferibile al traffico mattutino sulla Beltway. Purtroppo si sentiva assillato dagli avvenimenti degli ultimi giorni. Da quando era sfuggito di stretta misura a due tentativi di omicidio, provava un interesse personale per il caso. Al volante di una Jeep Cherokee turchese della NUMA, Austin puntò a sud e poi a est, attraversando il Woodrow Wilson Memorial Bridge per entrare nel Maryland, dove uscì dalla Beltway. Raggiunto il sobborgo di Suitland, entrò in un complesso di edifici metallici così anonimi che potevano appartenere soltanto al governo federale. Un docente che lavorava nel centro visitatori prese nota del suo nome e fece una telefonata. Pochi minuti dopo arrivò un uomo di mezz'età in ottima forma fisica, con un blocco in mano. Indossava un paio di jeans macchiati di vernice, una camicia di tela denim e un berretto da baseball con il logo dello Smithsonian National Air and Space Museum. Strinse la mano a Austin prima di presentarsi. «Sono Fred Miller. Ci siamo sentiti al telefono.» «La ringrazio di avermi ricevuto con un preavviso così breve.» «Non c'è problema.» Miller inarcò un sopracciglio con aria interrogativa. «È lei quel Kurt Austin che ha scoperto la tomba di Cristoforo Colombo in Guatemala?» «Proprio io.» «Dev'essere stata una bella avventura.» «Ha avuto i suoi momenti di emozione.» «Lo immagino. Deve scusarmi, ma, a parte quello che ho letto sui giornali riguardo alle imprese sottomarine della NUMA, non conosco granché la sua agenzia.» «Forse potremo scambiarci informazioni sul nostro lavoro. Anch'io non so granché sul Paul E. Garber Centro di conservazione, restauro e deposito. Il vostro sito Web dice che restaurate apparecchi storici e aerei d'epoca.» «Questa è soltanto la punta dell'iceberg», precisò Miller, guidandolo verso la porta. «Venga, le farò da guida.» Condusse fuori Austin, continuando il discorso mentre passavano davanti a una fila di edifici identici, tutti con il tetto basso e grandi porte scorrevoli. «Paul Garber andava pazzo per gli aerei, e questa è stata la nostra fortuna. Da bambino vide Orville Wright pilotare il primo aereo militare della storia. In seguito lavorò per lo Smithsonian Institution, e il suo contributo fu determinante per la creazione del National Air Museum. L'aviazione e
la marina avevano collezionato esemplari degli apparecchi che avevano vinto la seconda guerra mondiale e alcuni degli aerei nemici che avevano sconfitto, ma volevano liberarsene. Con una ricognizione aerea, Garber individuò circa otto ettari e mezzo di terreno di proprietà federale, qui fra i boschi a casa del diavolo. Il complesso comprende trentadue edifici.» Si fermarono davanti a una delle costruzioni più grandi. «Questo è l'Edificio 10, il laboratorio in cui si svolgono le attività di restauro.» «Ho visto qualcuno dei vostri lavori grazie alla webcam installata nel laboratorio.» «Allora mi avrà anche intravisto. Uscivo proprio di lì. Ho lavorato per anni come capo progetto per la Boeing di Seattle, ma sono originario della Virginia, e non appena mi è stata offerta la possibilità di trasferirmi in questo centro l'ho colta al volo. Abbiamo sempre vari progetti in corso. Ora, per esempio, stiamo completando il restauro di un Hawker Hurricane, che ha subito dei ritardi a causa di un problema di pezzi di ricambio. Stiamo restaurando la fusoliera dell'Enola Gay, il B-29 che ha sganciato la bomba atomica su Hiroshima. C'è un piccolo biplano davvero interessante, il Pitts Special chiamato Little Stinker, che ha bisogno di una mano di pittura sul rivestimento in tessuto. Non ci occupiamo soltanto di aerei: abbiamo anche un missile aria-terra di fabbricazione russa, motori di aerei, e persino il modellino di astronave che è stato utilizzato per il film Incontri ravvicinati del terzo tipo. Se vuole, al ritorno possiamo fermarci a dare un'occhiata.» «Mi farebbe piacere. Sembra una collezione eclettica.» «Oh, in effetti lo è. Abbiamo apparecchi di tutto il mondo che stiamo mettendo a punto per l'esibizione nelle mostre e nei musei. Tre edifici sono riservati soltanto al restauro. Questo è un club esclusivo. Gli esemplari devono avere alle spalle una storia per giustificarne il restauro. Qualche aspetto storico o tecnologico, o magari il fatto che sono gli ultimi della loro specie. Ecco, quello che le interessa è qui.» Entrarono in un edificio che sembrava un magazzino. Da un capo all'altro correvano degli alti scaffali metallici, sui quali erano allineate in bell'ordine centinaia di scatole di cartone di tutte le misure, chiuse con il nastro adesivo. «Quella di deposito è la nostra terza funzione in ordine d'importanza, dopo il restauro e la conservazione», spiegò Miller. «Abbiamo oltre centocinquanta apparecchi e tonnellate di altri materiali sparsi in tutto il complesso. Qui dentro ci sono soprattutto pezzi di ricambio.» Consultando uno stampato di computer che aveva fissato su un portablocco a molla, s'incamminò lungo uno dei corridoi, seguito da Austin.
«Come fa a trovare quello che cerca?» chiese Austin, un po' sconcertato. Miller ridacchiò. «Non è difficile come può sembrare. Ogni pezzo importante di ogni aereo del mondo ha un numero stampato sopra. Noi abbiamo le registrazioni complete dei numeri di serie, dei numeri di registrazione o dei codici alfabetici. Ecco, quello che stiamo cercando è qui.» Tagliò con un temperino il nastro adesivo che sigillava una delle scatole di cartone e, frugando all'interno, ne estrasse un cilindro di metallo lungo circa sessanta centimetri. A Austin sembrava lo stesso che aveva spedito dalla California, ma era troppo scintillante, con la superficie priva di graffi e ammaccature. «Questo è identico al pezzo che lei ci ha inviato», dichiarò Miller, estraendo dalla scatola il cilindro di Austin. «Abbiamo confrontato i due oggetti in base ai numeri di serie. Il primo proviene da un apparecchio che è stato respinto alla consegna e smontato, ed è per questo che è in condizioni così buone.» Porse il cilindro a Austin, che lo soppesò. Come l'altro, anche quello era di alluminio e pesava appena un paio di chili. «A che cosa serviva?» «Era un contenitore ermetico a tenuta stagna. Questo è perfetto perché l'aereo non è mai entrato in servizio attivo. Abbiamo esaminato l'interno del suo, ma l'acqua di mare si è infiltrata attraverso il foro e ha contaminato il residuo del contenuto, ammesso che vi fosse contenuto qualcosa. Comunque possiamo stabilire da quale modello di apparecchio provenivano questi oggetti.» «Qualunque informazione mi sarebbe utile.» Miller annuì. «Ha mai sentito parlare delle 'ali volanti' di Northrop?» «Certo, ne ho viste delle foto. Rappresentano lo stadio iniziale degli apparecchi con l'ala a delta.» «Jack Northrop era in largo anticipo sul suo tempo. Se da un'occhiata al bombardiere e al caccia Stealth, si renderà conto che era su una buona strada.» «Che cosa c'entrano le ali volanti con questi cilindri?» «Provengono entrambi da ali volanti. Dove ha trovato il suo, se non le dispiace?» «È stato ritrovato nelle acque al largo della costa della Baja California.» «Hmm. Questo rende ancora più fitto il mistero dell'aereo fantasma.» «Fantasma?» Miller dispose i cilindri a fianco a fianco sullo scaffale. «Il nostro manu-
fatto proviene da un apparecchio che è stato rottamato dopo la guerra. Grazie ai numeri di serie che vi sono incisi sopra, possiamo ricostruirne la storia fino alla catena di montaggio.» Tamburellò col dito sul cilindro malridotto. «La designazione numerica su questa parte non corrisponde a quella di nessun apparecchio registrato. Proviene da un aereo che non esiste.» «Com'è possibile? Un errore?» «Possibile, ma poco probabile. Azzardando un'ipotesi, direi che il governo ha ordinato un apparecchio, ma forse voleva che nessuno lo sapesse.» «Potrebbe essere più preciso riguardo al tipo di apparecchio?» Miller ripose con cura i due cilindri nella scatola, chiudendola di nuovo col nastro adesivo. «Andiamo a fare due passi.» L'Edificio 20 era pieno zeppo di componenti di aerei, bombe e velivoli di ogni genere. Si fermarono di fronte a un apparecchio monoposto dalla forma bizzarra, con un'ala larga orientata all'in dietro. Aveva due eliche spingenti controrotanti montate sul bordo di uscita. «Questo è l'N1-M, il primo progetto di Jack Northrop. Voleva dimostrare che l'ala volante poteva volare senza tutte quelle superfici che producevano resistenza, come l'alloggiamento dei motori e le sezioni di coda.» Austin girò intorno all'apparecchio. «Sembra un boomerang gigante.» «Northrop lo aveva battezzato Jeep. Lo costruì nel 1940, facendone in sostanza un paradosso volante. In effetti ebbe dei seri problemi durante il volo, ma la performance fu abbastanza soddisfacente perché Northrop riuscisse a indurre l'aviazione a costruire il bombardiere B-35.» «Interessante, ma che cosa c'entra questo con il cilindro?» «Northrop utilizzò questo modello per convincere il generale Hap Arnold a finanziare degli apparecchi ad ala volante più grandi, fino a raggiungere le dimensioni di bombardieri. Dopo la guerra convertirono un palo di grosse ali B-35 a elica in apparecchi a reazione, battezzandoli serie B49. L'apparecchio superò tutti i record omologati di velocità e distanza. Possedeva otto motori a reazione che gli permettevano di raggiungere una velocità di crociera di seicentocinquanta chilometri orari alla quota di quarantamila piedi. Anche dopo che uno degli aerei era precipitato durante un volo di prova, l'aviazione ne ordinò trenta con diverse configurazioni. I piloti amavano quell'apparecchio, perché dicevano che si comportava più come un caccia che come un grosso bombardiere. Poi, nel 1949, appena pochi mesi dopo quella grande ordinazione, l'aviazione annullò il pro-
gramma optando per il B-36, anche se si trattava di un apparecchio inferiore. Un esemplare a sei motori si salvò e fu smontato. È questo l'apparecchio da cui proviene il nostro cilindro, mentre il suo appartiene a un altro bombardiere.» «L'aereo che non esiste.» Miller annuì. «Dopo la resa della Germania sono successe parecchie cose folli. La guerra fredda stava entrando in una fase critica e la gente vedeva ovunque comunisti sotto il letto. Si facevano esperimenti segreti di ogni genere, e il governo entrò ancor più in paranoia quando i russi ebbero a loro volta la bomba. La mia ipotesi è che abbiano costruito il suo apparecchio perché avevano in mente una missione ben precisa, senza dirlo a nessuno.» «Sì, ma quale genere di missione?» «Non lo so, ma posso tirare a indovinare.» «Faccia pure, amico mio.» Miller scoppiò a ridere. «Il bombardiere Northrop è stato il prototipo dello Stealth, il cosiddetto 'aereo invisibile'. A quell'epoca i radar erano ancora relativamente primitivi, e avevano difficoltà a rilevare una silhouette molto sottile. Nel 1948, l'aviazione portò un'ala volante sul Pacifico: al ritorno, l'apparecchio raggiunse la terraferma volando alla velocità di ottocento chilometri orari in linea retta, sorvolando il radar del comando costiero di Half Moon Bay, a sud di San Francisco. L'aereo fu individuato dal radar solo quando fu sopra la loro testa.» «Una caratteristica che poteva tornare utile, nel caso si volesse entrare e uscire da un territorio ostile.» «È questa la mia ipotesi, ma non ho elementi che possano confermarla.» «Che cosa potrebbe essere accaduto all'apparecchio?» «Anche con il suo basso profilo, potrebbe essere stato individuato dal radar e abbattuto. Comunque è più probabile che sia stato rottamato come gli altri, o sia precipitato durante un test o una missione. Stavano ancora cercando di eliminare i punti deboli del progetto.» «Nessuna delle due possibilità spiega come mai un pezzo di questo apparecchio sia finito in mare al largo del Messico.» Miller si strinse nelle spalle. «Forse riuscirò a trovare qualcosa fra i dati d'archivio», dichiarò Austin. «Buona fortuna. Si ricorda quello che le ho detto sulle cose folli che succedevano dopo la guerra? Dopo aver annullato il contratto per l'ultima serie di ali volanti, l'aviazione entrò nello stabilimento di produzione, fece
a pezzi tutti gli aerei che erano in costruzione e li portò via come rottami di metallo. Respinse persino la richiesta dello Smithsonian, che avrebbe voluto esporre un esemplare dell'apparecchio, e ordinò la distruzione di tutte le maschere di montaggio e degli stampi. Tutte le registrazioni ufficiali relative alle ali volanti andarono 'perdute', probabilmente per ordine diretto di Truman.» «Un sistema molto comodo.» Austin fissò l'ala volante come se tutte le risposte al rompicapo che lo assillava fossero racchiuse nella sua fusoliera aerodinamica, ma, come l'aereo, anche i suoi pensieri si rifiutavano di decollare. «Grazie per tutto l'aiuto che mi ha fornito», disse infine. «A quanto pare, sono finito in un vicolo cieco.» «Vorrei poterle essere di maggiore aiuto», replicò Miller. «Comunque ho un suggerimento da proporle, anche se piuttosto campato per aria. Non lontano da qui vive la vedova di uno dei piloti che hanno compiuto i test di volo. È venuta un giorno a chiedere informazioni sul marito, che era morto mentre provava uno dei modelli più grandi di ala volante. Voleva compilare un libro di ricordi da lasciare ai figli e ai nipoti. Le abbiamo fornito alcune fotografie, e si è accontentata di quelle. Chissà che cosa le avrà detto il marito. Magari non sapeva dell'apparecchio scomparso, ma, come sa, circolano sempre delle voci.» Austin lanciò un'occhiata all'orologio. Non aveva previsto di rientrare nel suo ufficio alla NUMA prima dell'ora di pranzo. «Grazie della dritta. Vedrò se mi riesce di rintracciarla.» Tornarono verso il centro visitatori per cercare il nome e l'indirizzo della donna, che aveva fatto una donazione generosa a nome del marito. Poi Austin ringraziò Miller e si diresse a sud, oltre i sobborghi che circondano Washington, finché il paesaggio non cominciò ad assumere un aspetto più rurale. L'indirizzo corrispondeva a una grande e appariscente casa vittoriana a due piani, che sorgeva su una strada secondaria. Davanti alla casa era parcheggiata una vettura. Austin si avvicinò al portone e suonò il campanello. Venne ad aprire un uomo sulla cinquantina dalla taglia atletica. Kurt si presentò. «Sto cercando la signora Phyllis Martin. È questo il suo indirizzo?» «Sì, questa è casa Martin, ma temo che lei sia arrivato troppo tardi. Mia madre è mancata qualche settimana fa.» «Mi dispiace molto», replicò Austin. «Spero di non averla disturbata.» «Niente affatto. Sono suo figlio, Buzz Martin, e sono venuto a prendere alcuni oggetti che sono qui in casa. Forse posso esserle utile io.»
«Può darsi. Io appartengo alla NUMA, la National Underwater & Marine Agency. Sto svolgendo delle ricerche storiche sulle ali volanti e speravo che sua madre fosse disposta a parlarmi di suo padre.» «Ma la NUMA non si occupa di oceanografia?» «È vero, ma queste informazioni potrebbero avere un nesso con il nostro lavoro.» Buzz Martin fissò a lungo Austin. «Non è affatto un disturbo, anzi sarei felice di parlare con lei. Sediamoci qui, sulle sedie a dondolo del portico. Stavo lavorando in cantina e non mi dispiacerebbe una boccata d'aria fresca. Ho appena preparato una caraffa di caffè freddo.» Rientrò in casa, tornando pochi minuti dopo con due bicchieri alti nei quali tintinnavano dei cubetti di ghiaccio. Presero posto su due sedie a dondolo Adirondack, e Martin cominciò a parlare, con lo sguardo fisso sulle querce che ombreggiavano il grande prato. «Io sono cresciuto qui, e non mi sono allontanato granché neppure per esigenze di lavoro o di famiglia. Dirigo un servizio di voli charter che ha sede a Baltimora.» Bevve un sorso di caffè freddo. «Ma ora basta parlare di me. Che cosa voleva sapere di mio padre?» «Tutto quello che riesce a ricordare e che, a suo giudizio, potrebbe contribuire a chiarire un mistero relativo all'ala volante che pilotava.» Il viso di Martin s'illuminò come un lampione, mentre batteva le mani in un gesto di esultanza. «Aha! Lo sapevo che prima o poi la copertura sarebbe saltata.» «Copertura?» «Esatto», confermò Martin con amarezza. «Tutta questa sporca faccenda di mio padre e del falso incidente.» Austin intuì che avrebbe saputo di più se si fosse limitato a dire il minimo indispensabile. «Mi racconti quello che sa», suggerì. L'invito era quasi superfluo. Martin attendeva da anni che un orecchio benevolo prestasse ascolto alla sua storia. «Mi scusi», esordì con un sospiro profondo, «ma è tanto tempo che rimugino su questa faccenda.» Si alzò in piedi, camminando avanti e indietro per tutta la lunghezza del portico, il viso stravolto da un'espressione angosciata. Respirò a fondo più volte per controllare meglio le emozioni, poi si sedette sulla balaustra, incrociando le braccia, e cominciò a raccontare. «Mio padre è morto nel 1949. Secondo mia madre, stava collaudando una delle nuove ali volanti. C'erano dei difetti nel progetto, e non facevano
che mettere a punto questo o quell'altro. Durante un volo l'apparecchio avrebbe cominciato a rollare e mio padre non sarebbe riuscito a riportarlo sotto controllo. Quando morì in quell'incidente, avevo sette anni.» «Dev'essere stata un'esperienza devastante, per lei.» «Ero ancora piccolo», ribatté Martin con una scrollata di spalle, «e tutta la situazione era eccitante, con tutti quei messaggi degli alti gradi dell'aviazione e del presidente. In ogni modo, non è che vedessi molto mio padre. Durante la guerra era stato lontano a lungo.» Fece una pausa. «Per la verità quello che mi colpì fu scoprire che non era morto.» «Sta dicendo che suo padre non è rimasto ucciso in un incidente aereo?» «Sembrava in perfetta forma, quando l'ho visto al cimitero di Arlington.» «Si riferisce a quando lo ha visto nella bara, immagino.» «No. Osservava il funerale stando a distanza.» Austin lo scrutò con attenzione, senza sapere neppure lui che cosa stava cercando. Non scorgendo indizi che potessero rivelare uno stato di demenza nell'uomo, gli disse: «Vorrei saperne di più». Martin rispose con un largo sorriso. «Sono più di cinquant'anni che aspetto di sentire queste parole.» Il suo sguardo vagò nel vuoto, come se potesse vedere la scena che si svolgeva su uno schermo invisibile. «Ricordo ancora i dettagli. Era primavera, e ovunque svolazzavano i pettirossi. Ricordo ancora lo scintillio del sole sui bottoni delle divise dell'aviazione, l'odore di erba appena tagliata e di terra. Io stavo in piedi vicino alla bara, a fianco di mia madre, dimenandomi perché portavo un vestito troppo pesante, con il collo della camicia troppo stretto. Il pastore non la finiva più di parlare, e tutti tenevano gli occhi fissi su di lui.» Tirò un respiro profondo, spingendosi nel passato con la memoria. «Vidi un movimento, forse il volo di un uccello, e guardai oltre la folla. In quel momento notai un uomo che si era appena staccato dal tronco di un albero. Era vestito di scuro. Era troppo lontano perché potessi vederlo in faccia, ma non potevo sbagliare: mio padre aveva un modo curioso di appoggiare una gamba, come se fosse storta. Una vecchia ferita che si era fatto giocando a football.» «Che cosa faceva?» «Niente. Si limitava a starsene lì. Capii che stava guardando me. Poi sollevò leggermente il braccio destro, come se volesse salutarmi, e alle sue spalle apparvero due uomini che gli si affiancarono. Parlarono fra loro, come se stessero discutendo. Poi se ne andarono tutti e tre insieme. Tentai di attirare l'attenzione di mia madre, ma lei mi zittì.»
«È certo che non si trattasse del pio desiderio di un bambino sconvolto?» «Sì. Ne ero certo al punto che dopo il funerale raccontai a mia madre quello che avevo visto. Servì soltanto a farla piangere. Era abbastanza giovane, e in seguito si è risposata. Il mio patrigno era un tipo simpatico. Aveva successo negli affari, e sono vissuti bene. Sono stati felici per molti anni.» Scoppiò a ridere. «Comunque io ero il degno figlio di mio padre. Mia madre cercò di dissuadermi dal volare, ma diventai un pilota, e quella storia ha continuato a bruciarmi dentro per tutto questo tempo. Ho svolto delle indagini, ma senza mai approdare a qualche risultato, così mi sono convinto che la verità non sarebbe mai venuta a galla. E ora arriva lei, e comincia a fare domande.» «Che cosa sa del lavoro di suo padre?» «Era un veterano del volo. Pur continuando a far parte dell'aviazione, era stato assunto dall'Avion Corporation, la società fondata da Northrop per costruire le ali volanti. Aveva visto la morte in faccia più di una volta. Il design dell'ala volante era un concetto grandioso, ma con i materiali e il know-how dell'epoca collaudare i prototipi era un mestiere rischioso. Ecco perché nessuno rimase sorpreso, quando il suo aereo precipitò.» «Lei era molto giovane, ma ricorda per caso qualcosa che le ha detto?» «Non molto. Mia madre mi disse che amava volare su quegli aggeggi, perché diceva che avrebbero rivoluzionato l'aviazione. Sembrava molto eccitato dalle missioni che gli venivano affidate. A un certo punto scomparve per alcune settimane. Non erano ammesse comunicazioni né contatti, se non in caso di grave emergenza. Mia madre mi ha detto che, quand'era tornato a casa, lei aveva commentato che sembrava scottato dal sole. Lui era scoppiato a ridere e aveva ribattuto che erano piuttosto scottature provocate dalla neve, ma non le spiegò mai che cosa volesse dire.» «Ha lasciato delle carte, un diario o qualcosa del genere?» «Niente, che io sappia. Comunque ricordo che dopo la sua morte vennero a casa nostra diversi rappresentanti dell'aviazione. Potrebbero aver prelevato tutto quello che aveva scritto. Queste informazioni le sono utili?» Austin ripensò al colloquio che aveva avuto con Fred Miller al centro Garber, e in particolare all'accenno alle prime fasi della tecnologia dello Stealth. «La mia ipotesi è che suo padre venisse addestrato per una missione segreta al Nord.» «Tutto questo risale a più di cinquant'anni fa. Perché mantenere ancora il segreto?» «I segreti hanno la caratteristica di giustificare la propria esistenza anche
oltre le reali esigenze di necessità.» Martin lanciò un'occhiata al prato ombreggiato dalle querce. «La cosa peggiore è sapere che mio padre potrebbe essere rimasto in vita per tutti questi anni.» Tornò a rivolgersi a Austin. «Anzi, forse è ancora vivo. A quest'ora dovrebbe avere un'ottantina d'anni.» «È possibile. E questo significa che potrebbe esserci qualcuno che conosce la vera storia.» «Vorrei che la verità venisse alla luce, signor Austin. Lei può aiutarmi?» «Farò il possibile.» Continuarono a parlare e, prima di separarsi, si scambiarono i recapiti telefonici. Austin promise di chiamare Martin, se avesse scoperto qualcosa. Ripartì per Washington. Come ogni buon detective, aveva bussato a molte porte e consumato la suola delle scarpe, ma quell'enigma era troppo antico e complicato per usare metodi normali. Era venuto il momento di fare visita al mago del computer della NUMA, Hiram Yaeger. 19 Il villaggio degli indios era un autentico prodigio di urbanistica. Aggirandosi nella rete di sentieri di terra battuta che collegavano fra loro le capanne dal tetto di paglia, i Trout rischiarono di dimenticare che il loro seguito comprendeva una misteriosa e bellissima dea bianca in bikini di giaguaro e una scorta silenziosa di sei indios chulo dipinti con i colori di un jet privato. Francesca guidava la processione, mentre i guerrieri, tre per lato, si tenevano a rispettosa distanza. Lei si fermò vicino al grande pozzo che sorgeva al centro del villaggio, dove le donne indigene riempivano d'acqua le giare, mentre bande di bambini nudi si rincorrevano felici tra le gambe delle madri. Francesca era raggiante di orgoglio. «Tutti i miglioramenti che vedete qui fanno parte di un progetto integrato», spiegò, allargando le braccia per indicare la scena. «L'ho programmato con cura, come avrei fatto per costruire delle nuove infrastrutture per San Paolo. L'ho progettato per mesi prima che fosse spostata anche una sola palata di terra, sistemando ogni cosa al suo posto, fino al punto di prevedere l'allocazione dei capitali, le fonti di rifornimento e la manodopera. Ho dovuto fondare una sussidiaria per produrre gli attrezzi specializzati necessari alla realizzazione di tubature, valvole e impianti di legno. Nello stesso tempo, era necessario che il villaggio continuasse a funzionare, senza in-
terrompere le attività di caccia e raccolta.» «Incredibile», commentò Gamay, guardandosi intorno e osservando le capanne ordinate e ben tenute. Non poteva fare a meno di confrontare quel villaggio con lo squallore del piccolo regno di Dieter o anche con l'insediamento relativamente civile in cui sorgeva la casa del dottor Ramírez. «Davvero incredibile», ripeté. «Grazie, ma, una volta completati i preparativi, non è stato difficile come sembra. L'essenziale è assicurare il flusso dell'acqua, che è cruciale per la vita qui come nel cosiddetto mondo civile. Ho affidato ad alcune squadre di manovali il compito di scavare per deviare il fiume. Abbiamo incontrato le stesse difficoltà di qualsiasi altro progetto. Gli artigiani addetti a fabbricare le pale si lamentavano che le ordinazioni erano troppo pressanti e la qualità ne risentiva.» Scoppiò a ridere. «È stato divertente. Abbiamo scavato un canale per creare un emissario del lago. Una volta ottenuta la riserva d'acqua, deviarla verso i pozzi comuni è stato semplice. Il mulino dei cereali è frutto di una tecnologia consolidata dal tempo.» «La ruota idraulica è perfettamente funzionale, come quelle che ho visto nelle vecchie città industriali del New England», commentò Paul, fermandosi di fronte a una capanna che aveva le dimensioni di un garage a un solo posto. «Ma quello che mi ha davvero colpito sono le condutture di questi bagni pubblici. Nella regione dove sono nato hanno continuato a usare le latrine esterne senza fognatura fino al XX secolo.» «In effetti sono particolarmente fiera dei gabinetti pubblici», ammise lei, mentre continuavano la visita guidata. «Quando infine mi sono rassegnata al fatto che il processo di desalinizzazione non avrebbe mai visto la luce, ho dedicato i miei sforzi a migliorare l'esistenza di questi poveri selvaggi che vivevano come all'età della pietra. Il livello di igiene era pietoso. Spesso le madri morivano durante il parto, e il tasso di mortalità infantile era incredibile. Gli adulti erano vittima di tutti i parassiti della foresta pluviale, e le loro piante medicinali tradizionali non erano in grado di proteggerli. L'alimentazione era poco nutriente. La disponibilità di un flusso regolare di acqua corrente pulita non solo li ha protetti dalle malattie, ma ha consentito di coltivare i prodotti necessari per mantenerli in buona salute.» «Ci stavamo chiedendo se i suoi talenti si estendano anche alla chirurgia», disse Gamay. «Il fratello di Tessa aveva sul corpo una cicatrice caratteristica.» Francesca batté le mani come una bambina felice. «Oh, l'appendicectomia! Se non fossi intervenuta, sarebbe morto. Le mie conoscenze si
limitavano al pronto soccorso, quindi devo ringraziare la farmacopea dei chulo. Loro immergono la punta dei dardi che lanciano con la cerbottana nella linfa ricavata da una pianta che serve a paralizzare la selvaggina, ma anche una piccola dose può mettere fuori combattimento un essere umano. Così l'ho spalmata su una grande foglia che ho applicato sulla pelle, e ha funzionato da anestesia locale. I punti che ho usato per chiudere la ferita erano fatti con le fibre di un'altra pianta che sembra resistente alle infezioni. Il coltello aveva la punta di ossidiana, più tagliente di un bisturi. Insomma, non è stato un intervento di alta tecnologia, purtroppo.» «Vorrei poter dire altrettanto delle armi che portano le sue guardie», osservò Paul, sbirciando le punte d'acciaio dei giavellotti di cui erano muniti i loro uomini di scorta. Ciascuno di loro portava anche un arco e una faretra piena di lunghe frecce. «Gli archi e le punte delle lance sono fatti di alluminio ricavato dall'apparecchio. L'arco corto è più maneggevole nella foresta, e il design consente alle frecce di arrivare più lontano.» «Se Arnaud e i suoi uomini fossero ancora vivi, potrebbero confermarne l'efficacia», osservò Paul. «Mi dispiace davvero per loro, ma sono stati artefici del proprio destino. I chulo sono una tribù relativamente piccola, e hanno sempre preferito fuggire anziché battersi. Oh, certo, ogni tanto tagliano una testa da mummificare e divorano un nemico, ma di rado si avventurano lontano per fare prigionieri. Vogliono soltanto essere lasciati in pace. L'uomo bianco li ha costretti a rifugiarsi nel cuore della foresta. Una volta superate le Grandi Cascate, credevano di essere al sicuro, ma gli sfruttatori bianchi hanno continuato a incalzarli. Sarebbero stati annientati, se non li avessi aiutati a migliorare le loro difese.» «Ho notato la disposizione del villaggio», disse Gamay. «La pianta mi ricorda la struttura di alcune antiche città fortificate.» «Lei è molto perspicace. Chiunque riuscisse a superare la recinzione esterna si troverebbe in una posizione estremamente scomoda. Il villaggio è pieno di cul-de-sac e vicoli ciechi che offrono ottime opportunità per tendere agguati.» «E se gli intrusi venissero a liberare lei?» domandò Paul. «Questi dispositivi di difesa non sarebbero controproducenti?» «Ho rinunciato da molto tempo a sperare nella liberazione. Mio padre avrà fatto certamente perlustrare la foresta da spedizioni di ricerca, ma ormai si dev'essere convinto che sono morta, ed è meglio così. Nell'incidente
sono rimasti uccisi tre uomini, e anche il capo del villaggio ha perso la vita a causa mia. Non vorrei essere responsabile di altre morti.» «Che ironia della sorte», rifletté Gamay. «Più si rende indispensabile a questa gente, minori sono le probabilità che si decidano a liberarla.» «È vero, ma mi avrebbero tenuto prigioniera anche se non avessi fatto altro che stare seduta e ingrassare, pronunciando sentenze divine. Visto che dovevo comunque stare qui, sarebbe stato un peccato non sfruttare il mio talento per migliorare la loro situazione. Quando finalmente arriveranno i bianchi, spero che i chulo sfrutteranno le loro conoscenze, anziché le armi, per affrontare l'impatto con la civiltà. Purtroppo per ora ho uno scarso controllo sugli istinti omicidi della tribù. Quando Arnaud e i suoi amici hanno manifestato intenzioni ostili, hanno segnato la propria condanna. Non avrei potuto salvarli in nessun caso. Per voi è stato più facile. Eravate così indifesi, in mezzo alla foresta, che non vi hanno mai considerato una minaccia fino a ora.» Gamay drizzò le orecchie. «Una minaccia?» «Cercate di non mostrarvi allarmati», rispose Francesca, con il sorriso sulle labbra, ma negli occhi un'espressione di mortale serietà. «Non capiscono quello che diciamo, ma intuiscono molte cose.» Si fermò per spiegare l'uso di un tubo dell'acqua che serviva da idrante antincendio, poi riprese a camminare senza fretta. «Sono preoccupati, perché pensano che siate degli dei di rango inferiore.» «Se siamo tanto insignificanti, perché si preoccupano?» obiettò Gamay. «Temono che siate qui per riportarmi nel cielo da cui sono piovuta.» «Glielo hanno detto?» «Non ce n'è bisogno. Conosco a fondo questa gente. Inoltre Tessa ha raccolto delle voci. Parlano di bruciarvi vivi. Il fumo dei vostri corpi inceneriti vi riporterà in cielo, e così il problema sarà risolto.» Paul azzardò un'occhiata in tralice alle guardie, ma senza notare alcun cambiamento nella loro espressione impenetrabile. «Non sono in grado di controbattere la loro logica, ma questo risolve il problema per loro, non per noi», osservò. «Sono perfettamente d'accordo. Ciò rende ancora più urgente la necessità di fuggire al più presto. Venite con me. Senza le guardie del palazzo che ci alitano sul collo sarà più facile discutere un piano.» Avevano raggiunto la via di pietra bianca che attraversava la foresta conducendo al santuario. Seguita dai Trout, Francesca entrò nella radura circolare al centro della quale si trovavano i resti dell'aereo e prese posto
su una panca di legno levigato di fronte al muso del Learjet, mentre i Trout sedevano a gambe incrociate sul terreno pavimentato. «Vengo qui per stare sola. Per il resto soltanto i sacerdoti sono ammessi nel santuario. I guerrieri saranno appostati nella foresta a osservare ogni nostra mossa, ma almeno potremo parlare dei nostri piani di fuga.» Gamay lanciò un'occhiata alla giungla nella quale sembrava che i guerrieri si fossero dissolti. «Spero che lei abbia qualche asso nella manica, perché noi non ne abbiamo davvero.» «La vostra intuizione iniziale era giusta: la nostra unica via d'uscita è l'acqua. Prima risalire l'affluente e il canale fino al lago, poi seguire il fiume principale. Attraverso la foresta non potremmo mai farcela. Ci prenderebbero subito, oppure finiremmo per smarrire la direzione.» «Ho visto come sanno manovrare la canoa i suoi ragazzi», ribatté Paul, «e penso che ci servirà un buon vantaggio iniziale.» «Avremo qualche ora, ma sono rematori abili e forti. Cominceranno appena a scaldarsi quando noi saremo già stanchi.» «Che cosa farebbero, se ci catturassero?» chiese Paul. «In via puramente teorica.» «Ci ucciderebbero, altro che teorie», ribatté Francesca. «Persino lei, che è la loro dea?» Francesca annuì. «Temo che la fuga provocherebbe la fine della mia condizione privilegiata. La mia testa finirebbe infilzata su un palo dello steccato insieme alle vostre.» Paul si massaggiò istintivamente il collo. Tutt'a un tratto non erano più soli. Nella radura era entrato un indio seguito da otto guerrieri armati. Era più alto dei suoi compagni di un buon palmo e, a differenza degli altri uomini della tribù, che avevano il tipico viso piatto, poteva vantare un profilo quasi aquilino. Il corpo muscoloso era dipinto di rosso, anziché di bianco e azzurro. Si avvicinò a Francesca per parlarle, gesticolando e indicando di tanto in tanto i Trout. Francesca si drizzò come un cobra pronto all'attacco, tagliando corto con una risposta affilata come una lama. Lui la fulminò con gli occhi, poi chinò leggermente la testa, imitato dai compagni. Arretrarono tutti di alcuni passi, poi si voltarono e lasciarono in fretta la radura, mentre Francesca li seguiva con gli occhi lampeggianti di collera. «Questo è un brutto segno», commentò. «Chi erano quegli uomini?» chiese Gamay.
«L'uomo alto è il figlio del capo che ho ucciso involontariamente schiantandomi qui con l'aereo. L'ho soprannominato Alarico, come il re dei visigoti, perché è un uomo molto intelligente e un leader nato, ma tende a essere prepotente. Vorrebbe depormi e ha riunito intorno a sé un gruppo di giovani sostenitori. Il fatto che sia entrato nel terreno sacro al quale è proibito l'accesso indica che è diventato più ardito. Evidentemente sfrutta i problemi sollevati dal vostro arrivo. Dobbiamo tornare subito a palazzo.» Non appena lasciarono il santuario, le guardie si materializzarono dal folto della foresta, riprendendo il loro posto di scorta. Francesca camminava di buon passo, e in pochi minuti tornarono al recinto che circondava il villaggio. All'interno dell'abitato regnava un'atmosfera diversa. In giro c'erano capannelli di indios, che distolsero lo sguardo nel veder passare il corteo. Non ci furono sorrisi amichevoli come all'andata. Davanti al palazzo si era riunita una ventina di guerrieri, schierati intorno ad Alarico. Si divisero controvoglia a un cenno di Francesca, ma Gamay notò che lo facevano senza fretta. Non appena entrati, furono accolti da Tessa, che aveva gli occhi spalancati dal terrore. Lei e Francesca parlarono per un minuto nella lingua indigena, poi la dea bianca tradusse a beneficio dei Trout. «I sacerdoti hanno preso una decisione: sarete uccisi all'alba. Trascorreranno la notte facendosi coraggio e costruendo le pire sulle quali sarete bruciati vivi.» La bocca di Gamay s'irrigidì in una smorfia. «Spiacente, ma non possiamo trattenerci per il barbecue», replicò. «Se vuoi essere così gentile da indicarci la canoa più vicina, le porgeremo i nostri saluti.» «Impossibile! In questo momento non riuscireste a percorrere neanche tre metri.» «E allora che si fa?» Francesca salì sulla sua pedana e prese posto sul trono, con gli occhi fissi sulla porta della camera. «Aspettiamo», rispose. 20 La nave antica si librava nello spazio come se fosse appesa a fili invisibili, con lo scafo che comprendeva parecchi ponti, disegnati da linee scintillanti di un azzurro etereo. Le grandi vele quadre erano gonfie di vento e vessilli immateriali garrivano in cima agli alberi come se soffiasse una brezza tesa.
Hiram Yaeger si appoggiò allo schienale della poltrona girevole, esaminando l'immagine spettrale che aleggiava al di sopra di una piattaforma davanti alla sua console a ferro di cavallo. «È splendida, Max», commentò, «ma i dettagli richiedono una maggiore definizione.» Una voce femminile, sommessa e incorporea, si diffuse nella stanza attraverso una dozzina di altoparlanti fissati alle pareti. «Mi hai chiesto soltanto una cianografia, Hiram.» Nel tono c'era una lieve sfumatura petulante. «È vero, Max», ammise Yaeger, «e tu hai fatto molto di più, ma ora vorrei vedere quanto riusciamo ad avvicinarci al prodotto finito.» «Fatto», annunciò la voce. La chiglia della nave si materializzò nell'aria come un ectoplasma che prende forma. Lo scafo fu illuminato dall'oro che ricopriva gli intagli elaborati delle murate da poppa a prua. Lo sguardo di Yaeger indugiò sul rostro della nave, sormontato da un'immagine in legno di re Edgardo, con gli zoccoli del destriero che calpestavano i sette sovrani deposti le cui teste mozze bordavano il suo mantello. Poi studiò i pannelli astronomici che rappresentavano le glorie degli dei dell'Olimpo, risalendo verso l'alta poppa, ornata da figure bibliche. Tutti i dettagli erano perfetti. «Accidenti!» esclamò. «Non mi avevi detto di aver programmato l'immagine completa. Ora non ci manca altro che una coppia di delfini.» All'istante apparve sotto la nave un mare virtuale, con un paio di delfini che balzavano in aria intorno alla prua prima di ricadere nell'acqua. L'immagine tridimensionale cominciò lentamente a girare su se stessa, mentre l'aria risuonava dei fischi e dei sibili dei delfini. Yaeger batté le mani, ridendo di gioia come un bambino. «Max, sei straordinaria!» «Lo credo bene», replicò la voce. «Sei stato tu a crearmi.» Yaeger non solo aveva creato quell'enorme sistema di intelligenza artificiale, ma nel programma originale aveva anche inserito la propria voce; poi si era accorto che parlare con se stesso non gli piaceva e ne aveva modificato il timbro, facendola diventare femminile. Il sistema computerizzato aveva sviluppato in modo autonomo una personalità femminile. «L'adulazione non ti servirà a niente», ribatté Yaeger. «Grazie. E ora, se hai finito, mi prenderò una pausa per dare il tempo ai miei circuiti di raffreddarsi. Gli ologrammi mi lasciano sempre sfinita.» Yaeger sapeva che Max era propensa a esagerare e che la nave rappresentava soltanto una frazione infinitesimale della capacità dei suoi cir-
cuiti, ma insieme a una versione femminile della propria voce aveva inserito nel programma anche dei tratti umani, fra cui l'esigenza di riconoscimenti e apprezzamento. Agitò la mano in segno di saluto, e in un batter d'occhio la nave, il mare mosso e i delfini scomparvero. Udendo il suono di un applauso, Yaeger si girò e vide Austin sulla soglia che batteva le mani. «Ciao, Kurt», disse con un sorriso. «Accomodati pure.» «Un'autentica esibizione», commentò Austin, scegliendo una sedia vicino a Yaeger. «Compresa la sparizione finale. Dubito che persino David Copperfield possa far scomparire un'intera nave della flotta inglese.» Yaeger era un vero mago, ma realizzava i suoi prodigi al computer, anziché con il cappello a cilindro e la bacchetta. A vedersi, non sembrava affatto un mago, con il suo abbigliamento volutamente trasandato, che comprendeva un paio di jeans Levi's e una giacca di tela denim sopra una semplice T-shirt bianca. Completavano l'insieme gli stivali da cowboy logorati dall'uso. Eppure Yaeger dirigeva come un mago provetto l'immensa rete informatica che occupava quasi tutto il nono piano della sede della NUMA. Il centro oceanografico della National Underwater & Marine Agency immagazzinava ed elaborava la massa più enorme di dati digitali relativi all'oceanografia e alle scienze correlate che fosse mai stata custodita sotto un unico tetto. «Oh, non era niente», commentò con uno sprazzo di gioia infantile. L'eccitazione scintillava negli occhi grigi dietro le lenti rotonde degli occhiali con la montatura di filo metallico, appollaiati sulla punta del naso affilato. «Aspetta di vedere la chicca che Max e io abbiamo in programma per te.» «Non sto nella pelle. Quella era la Sovereign of the Seas, vero?» «Esatto. Varata nel 1637 per ordine di Carlo I. Uno dei vascelli più grandi costruiti all'epoca, destinato alla navigazione oceanica.» «E anche uno dei più sbilanciati per eccesso di peso nella parte superiore, se non ricordo male, tanto che dovettero decurtare il ponte di coperta. Più che appropriato, visto che anche Carlo fu decapitato.» «Aggiungerà le modifiche in seguito. Il nuovo programma sarà messo a disposizione del dipartimento di archeologia nautica di qualunque università lo richieda. Max sta compilando una lista di centinaia di vecchi vascelli. Noi inseriamo nel computer i loro progetti, insieme con le istruzioni dell'architetto, le dimensioni, la storia, insomma tutto ciò che sappiamo della nave, e Max mette insieme tutto per ottenere una ricostruzione olografica.
Quando le informazioni sono incomplete, è in grado perfino di inserire i dettagli mancanti. Max, ti dispiace spiegare a Kurt cos'hai scoperto nel materiale che ci ha fornito lui?» «Per il signor Austin, sono disposta a interrompere la pausa per il caffè in qualsiasi momento», rispose la voce in tono civettuolo. L'aria al di sopra della piattaforma cominciò a scintillare di una luminosità azzurrina prodotta dalla connessione dei laser inseriti nelle pareti. Un bullone dopo l'altro, un'asse dopo l'altra, ma a velocità impressionante, i fasci di luce dei laser ricostruirono sotto i loro occhi una lunga nave aperta con una sola vela quadra. «Andiamo», disse Yaeger alzandosi, e salirono insieme sulla piattaforma. Per un attimo, Austin ebbe l'impressione che gli si annebbiasse la vista. Quando si snebbiò, erano in piedi sul ponte del vascello, con lo sguardo rivolto verso la prua che puntava in alto con una curva aggraziata. Le murate erano adorne di scudi circolari in legno. «Questa è la prossima evoluzione del programma. Non soltanto potrai vedere le navi comprese nel nostro inventario, ma potrai anche fare un giro sui ponti. La prospettiva virtuale cambia a seconda dei tuoi movimenti. La semplicità del progetto rende abbastanza facile questo esempio.» «Direi che mi trovo sul ponte della nave Gogstad.» «Proprio così. Costruita in Norvegia fra l'anno del Signore 700 e l'anno 1000. La nave originale era lunga ventiquattro metri ed era tutta in legno di rovere: decisamente più robusta del solito fasciame leggero. Questo è un modello in scala uno a due.» «È bellissima», commentò Austin, «ma quale legame ha con il materiale che ti ho fornito?» «Ora ti faccio vedere ciò che ho scoperto.» Attraversarono le murate di particelle luminose sospese nell'aria per tornare verso la console. «Non è stato difficile procurarsi dei dati sul Mulholland Group», spiegò Yaeger. «Come ti ha detto il tuo defunto amico avvocato, la società è impegnata in progetti che riguardano l'idraulica. Ho dovuto scavare un po' in giro, ma ho scoperto che fa parte di una società più grande chiamata Gogstad. Il logo della compagnia madre è la nave che hai davanti a te.» L'ologramma scomparve e una versione stilizzata della nave apparve sul monitor. «Dimmi qualcosa di più.» «Ho pregato Max di cominciare a giocherellare con Gogstad. Non ho
trovato granché sulla compagnia, ma pare che si tratti di un'enorme multinazionale coinvolta in ogni sorta di affari. Finanza, ingegneria, attività bancarie, costruzioni.» Consegnò a Austin un dischetto. «Ecco tutto quello che ho trovato. Niente di eccezionale, comunque continuerà a cercare.» «Grazie, Hiram. Ora ci darò un'occhiata. Nel frattempo ho un altro favore da chiedere a te e a Max.» Riferì la visita che aveva fatto al centro Garber e il colloquio con il figlio del pilota. «Vorrei sapere se questo apparecchio è stato mai costruito e cosa ne è stato del pilota.» Max era stata di nuovo attenta, e sullo schermo apparve la fotografia di un grande apparecchio a forma di ala. «Questa è un'immagine tratta dall'archivio dello Smithsonian, che mostra l'YB-49A, l'ultimo bombardiere del tipo 'ala volante' costruito da Northrop che abbia effettivamente volato», spiegò la voce in tono sommesso e insinuante. «Posso fornirvi una versione tridimensionale, come per le navi.» «Per ora basta così. La designazione incisa nel numero di serie sul cilindro era YB-49B.» La fotografia fu rimpiazzata da un progetto. «Questo è l'YB-49B», disse Max. «Che differenza c'è fra questo modello e quello che ci hai mostrato poco fa, Max?» «I progettisti hanno eliminato il problema dell'oscillazione che infastidiva i bombardieri. Inoltre avrebbe volato a una velocità superiore del modello precedente, con un'autonomia maggiore. Non è mai stato costruito.» Austin conosceva troppo bene Max per intavolare una discussione. Preferì esaminare i dati statistici e le notizie relative alla performance dell'apparecchio che scorrevano sotto l'immagine. Nei dati c'era qualcosa che non lo convinceva. «Aspetta», esclamò. «Torna indietro. Vedi, a un certo punto dice che la velocità di crociera era di ottocentocinquanta chilometri orari. Come potevano sapere qual era la velocità, se non avevano mai eseguito dei collaudi?» «Può trattarsi di una velocità stimata», suggerì Yaeger. «È possibile, ma qui non dice che è stimata.» «Hai ragione. A quell'epoca dovevano eseguire dei collaudi, perché non avevano macchine intelligenti come Max che potessero simulare le condi-
zioni di volo.» «Grazie del complimento, anche se si limita a riconoscere ciò che è ovvio», disse Max. «Kurt ha segnato un punto, Hiram. Mentre stavate parlando ho eseguito un controllo, accertando che, in tutti i casi in cui un aereo è stato progettato senza essere costruito effettivamente, la sua velocità viene indicata come stimata, tranne che in questo.» Anche Yaeger conosceva troppo bene Max per intavolare una discussione. «Allora sembra che dopotutto questo aereo esistesse davvero. Ma che fine ha fatto?» «Forse per ora non potremo andare oltre», rispose Austin, «visto che gli archivi della Northrop e dell'aviazione sono andati perduti. Che cosa puoi dirci, Max, del pilota, Martin?» «Vuoi una ricerca rapida in economia, o un sondaggio a tutto campo?» replicò Max. «Che differenza c'è?» «Il giro rapido comprende il registro dei servizi militari del Pentagono, che contiene i nomi di tutti coloro che hanno prestato servizio nelle forze armate, vivi o morti che siano, mentre il sondaggio completo attinge ulteriori informazioni dai file riservati del Pentagono. Ci aggiungerò per buona misura anche il National Security Council, l'FBI e la CIA.» «Naturalmente so che è una pura questione formale, ma non è illegale inserirsi in quelle banche dati come un hacker?» «Hacker è una parola che non mi piace», ribatté Max. «Diciamo piuttosto che faccio una visita di cortesia agli altri sistemi informatici amici miei, così possiamo scambiarci un po' di pettegolezzi.» «In questo caso, fa' pure tutte le visite di cortesia che vuoi», concluse Austin. «Interessante», osservò Max un attimo dopo. «Ho cercato di aprire parecchie porte, ma Harry ha inserito ovunque un catenaccio.» «E Harry chi è, un altro computer?» domandò Yaeger. «No, sciocco. Harry Truman.» Austin si grattò la testa, perplesso. «Stai dicendo che tutti i file relativi a questo pilota sono stati sigillati per ordine del presidente?» «Proprio così. A parte le informazioni più elementari sul conto del signor Martin, tutto il resto è ancora classificato 'top secret'.» Ci fu una pausa insolita per Max. «Che strano», aggiunse poi. «Ho appena trovato una traccia. È come se qualcuno avesse aperto una porta che era chiusa ermeticamente. Ecco il vostro ragazzo.» Comparve sul monitor l'immagine di un
giovanotto in divisa dell'aviazione. «Vive nella parte settentrionale dello Stato di New York, non lontano da Cooperstown.» «È ancora vivo?» «Pare che su questo punto i dati siano discordanti. Il Pentagono sostiene che è morto in un incidente aereo nel 1949, mentre questa nuova informazione afferma esattamente il contrario.» «Un errore?» «Non mi sorprenderebbe. Gli esseri umani sono fallibili, io no.» «Ha un telefono?» «No, ma ho l'indirizzo.» Da una fessura nella console uscì un foglio stampato. Ancora perplesso, Austin guardò il nome e l'indirizzo che aveva sotto gli occhi come se fossero scritti con l'inchiostro simpatico e dovessero svanire da un momento all'altro, poi piegò il foglio e se lo mise in tasca. «Grazie, Hiram e Max. Mi siete stati di grande aiuto.» Si avviò verso la porta. «E ora dove vai?» domandò Yaeger. «A Cooperstown. Potrebbe essere la mia sola e unica speranza di entrare nella Baseball Hall of Fame.» 21 Sulla riva opposta del Potomac, nella nuova sede centrale della CIA che sorgeva a Langley, in Virginia, un analista della direzione dei servizi segreti si stava chiedendo se per caso il suo computer non avesse il singhiozzo. L'analista, un esperto dell'Europa orientale di nome J. Barrett Browning, si alzò per affacciarsi nel cubicolo adiacente, allungandosi al di sopra della parete divisoria. «Ehi, John, hai un secondo per dare un'occhiata a qualcosa di veramente bizzarro?» L'uomo pallido che lavorava a una scrivania ingombra di fogli di ogni genere mise da parte il quotidiano russo sul quale stava tracciando dei segni con un pennarello e si stropicciò gli occhi infossati. «Sesso, delitti e ancora sesso. Non so che cosa possa esistere di più bizzarro della stampa russa», ribatté John Rowland, un traduttore molto apprezzato che era entrato nella CIA dopo i giorni neri dell'agenzia, all'epoca di Nixon. «Sono come gli articoli sugli ormoni per le riviste che si vendono nei supermercati americani. Sento quasi la mancanza delle statistiche sulla produzione di trattori.» Alzandosi dalla sua postazione di lavoro, fece
il giro della parete per entrare nel cubicolo di Browning. «Qual è il problema, giovanotto?» «Questo assurdo messaggio sul mio computer», rispose Browning scuotendo la testa. «Stavo scorrendo del materiale storico sull'Unione Sovietica, ed è saltato fuori questo.» Rowland si protese in avanti e lesse: «Attivato protocollo per sanzione con estremo pregiudizio». Cominciò a tirarsi il pizzetto sale e pepe. «Estremo pregiudizio? Ma nessuno usa più un linguaggio del genere.» «Che significa?» «È un eufemismo che risale ai tempi della guerra fredda e del Vietnam. È un modo educato di riferirsi a un 'tiro'.» «Eh?» «Ma a Yale non v'insegnano proprio niente?» esclamò Rowland con un sogghigno. «'Sanzionare' qualcuno significa designarlo come bersaglio per un assassinio. È roba da James Bond.» «Oh, adesso ho capito», disse Browning, guardando gli altri cubicoli intorno a lui. «E ora vediamo quale dei nostri colleghi fa il burlone.» Rowland, immerso nelle sue riflessioni, non replicò. Sedutosi sulla sedia di Browning, studiò il numero di file sottolineato alla fine del messaggio, lo evidenziò e batté il tasto ENTER. Comparve una serie di cifre. «Se questo è uno scherzo, è ben studiato», borbottò. «Nessuno usa questa codifica da quando era direttore Allen Dulles, dopo la seconda guerra mondiale.» Rowland premette il pulsante che ordinava la stampa e portò con sé la copia del messaggio nel suo cubicolo, seguito dal collega perplesso. Fece una rapida telefonata, poi inserì il codice nel suo computer e digitò alcuni comandi. «Lo sto mandando a un collega della divisione decodificazione. È un codice piuttosto antiquato, quindi con i programmi disponibili oggi può decifrarlo nel giro di pochi minuti.» «Da dove pensi che provenga?» domandò Browning. «Che cosa stavi leggendo, quando è comparso il messaggio?» «Materiale d'archivio, per lo più rapporti diplomatici. Uno degli uomini dello staff del Senato ne aveva bisogno per il suo capo, che fa parte di una commissione sulle forze armate. Stava cercando di individuare schemi ricorrenti nel comportamento dei sovietici, probabilmente in modo da poter aumentare il budget della Difesa.» «Qual era il contesto di questi rapporti?»
«Erano diretti da agenti sul campo al direttore, e riguardavano lo sviluppo di armi nucleari da parte dei sovietici. Erano compresi nei vecchi fascicoli che Clinton ha fatto declassificare.» «Interessante. Questo ci fa capire che il materiale era riservato unicamente agli occhi di personaggi del livello più elevato.» «Sembra plausibile, ma che cosa c'entra questa faccenda del protocollo?» Rowland sospirò. «Non so che fine farà l'agenzia, quando andranno in pensione i veterani come me. Lascia che ti spieghi come funzionavano i protocolli ai vecchi tempi delle azioni segrete. Prima veniva approvata una linea politica, di solito ai livelli più elevati, con il direttore, la National Security Agency e i capi di stato maggiore riuniti che firmavano l'intesa. Ufficialmente il presidente veniva tenuto fuori, in modo da poter smentire di esserne al corrente, se necessario. La politica concordata generava una linea d'azione in risposta a una determinata minaccia, o a più minacce. Quello si chiamava protocollo. L'azione si traduceva in un ordine, e l'ordine veniva suddiviso in un certo numero di parti.» «Mi sembra sensato. In questo modo chi eseguiva l'ordine conosceva soltanto la minima parte che lo riguardava, e si preservava la segretezza.» «Ah, allora qualcosa te lo hanno insegnato, dopotutto, nelle aule dell'università, anche se è tutto sbagliato. È così che sono stati progettati quei piani assurdi per eliminare Castro o rovesciare il governo in Iran, e sono finiti tutti a carte quarantotto.» «Ma allora a che serve un protocollo?» «La ragione principale è che in questo modo chi sta al vertice può negare ogni responsabilità. Di solito il protocollo era riservato alle azioni più serie. In questo caso, per esempio, stiamo parlando di un assassinio. Non era una faccenda da prendere alla leggera. Si ritiene che i capi di Stato non debbano progettare l'eliminazione di altri capi di Stato o cittadini del loro Paese; sarebbe un precedente negativo. Quindi l'ordine dev'essere impartito a più livelli, in modo da non lasciare una scia di impronte digitali. Nessuno dava ordini dei quali si potesse rintracciare l'origine. Perché l'ordine fosse eseguito, era necessario che si verificasse un certo numero di circostanze predeterminate.» «Sembra il sistema fail-safe adottato per i bombardieri nucleari. Comportava una serie di fasi successive, e la missione poteva essere annullata fino all'ultimo momento.» «Qualcosa di simile. Lascia che ti suggerisca un'altra analogia. Viene
percepita una minaccia. Una mano estrae la pistola. La minaccia aumenta. Un'altra mano inserisce il proiettile. La minaccia si fa più grave. Una terza mano alza il cane dell'arma. Subito dopo si preme il grilletto e la minaccia viene eliminata. Tutte queste fasi della reazione sono indispensabili perché l'arma spari effettivamente.» Browning annuì. «Capisco quello che intendi dire, ma non riesco a comprendere in che modo quel dannato messaggio sia comparso sul mio computer.» «Forse non è tanto misterioso come sembra.» Rowland trascorreva quasi tutte le sue giornate dedicandosi al tedioso compito di leggere e analizzare quotidiani, e assaporava con gusto quell'occasione di esercizio intellettuale. Appoggiandosi allo schienale della sedia, alzò gli occhi al soffitto. «Il protocollo originario doveva essere registrato su carta, probabilmente diviso in più parti, ma non è mai stato messo in atto. Poi l'agenzia passa dalla carta ai computer, e il protocollo viene codificato nella banca dati dell'agenzia. Resta lì per decenni, finché non scattano tutti i meccanismi destinati ad attivarlo. Il direttore dev'essere informato automaticamente, solo che i file sono stati declassificati e il computer non sa che un umile analista leggerà un file destinato soltanto al direttore.» «Brillante», commentò Browning. «Ora dobbiamo capire che cosa può aver attivato un protocollo di cinquant'anni fa. Stavo guardando gli stessi file anche ieri, e quel messaggio non c'era.» «Questo significa che il protocollo è stato attivato nelle ultime ventiquattr'ore. Aspetta un momento...» L'icona della posta elettronica lampeggiava, e Rowland scaricò il messaggio. Caro Rowland, ecco il tuo messaggio, ma la prossima volta mandami qualcosa di più stimolante. Le parole sullo schermo dicevano semplicemente: Sanzione in atto. «È una risposta in codice da parte dell'uomo incaricato del colpo», tradusse Rowland. Browning scosse la testa. «Mi domando chi era il povero bastardo.» «Non credo che dobbiamo preoccuparci del passato; è il futuro che mi spaventa.» «Andiamo, John, questo protocollo è stato approvato mezzo secolo fa. Tutti gli interessati devono essere morti da tempo, tanto l'uomo incaricato del colpo quanto la vittima.» «Forse, o forse no», ribatté Rowland, tamburellando sulle parole scritte a video. «Questa risposta è stata appena inviata, il che significa che l'incari-
cato del colpo è ancora vivo, e così pure la vittima. Almeno per ora.» «Che vorresti dire?» Rowland allungò la mano verso il telefono, con un'espressione grave sul viso di solito allegro. «Il direttore non ha revocato l'ordine, quindi ora si passa alla fase successiva. L'omicidio.» Rowland alzò una mano per tagliare corto alle domande di Browning. «Per favore, mi metta in comunicazione con il direttore», disse al telefono, in tono brusco. «Sì, è urgente», insistette, alzando la voce in un insolito sfogo emotivo. «Maledettamente urgente!» 22 Quando Zavala rientrò nello studio di Hanley, il fuoco era stato già domato e i pompieri stavano asciugando le pozze d'acqua rimaste sul pavimento. Sventagliando con aria d'importanza la tessera della NUMA, riuscì a superare lo sbarramento di nastro giallo teso all'ingresso dalla polizia, poi ficcò la tessera laminata con tanto di foto sotto il naso dell'esperto in incendi dolosi, prima di riporla nel portafogli con un gesto fulmineo. Non aveva la minima voglia di spiegare per quale motivo un dipendente di un'agenzia federale che si occupava di oceanografia si trovasse sulla scena di un disastro a San Diego. L'investigatore, che si chiamava Connors, disse che i testimoni avevano parlato dell'elicottero che si librava in volo davanti all'edificio e gli avevano descritto uno strano lampo di luce prima dell'esplosione, ma dal canto suo non escludeva la possibilità che la detonazione fosse avvenuta all'interno. Zavala non se la sentì di biasimarlo: non capitava tutti i giorni che un elicottero armato attaccasse un edificio di uffici a San Diego. «Come sta la donna asfissiata dal fumo?» domandò Zavala. «Bene, l'ultima volta che ne ho avuto notizie», rispose Connors. «Un paio di uomini l'hanno trascinata fuori dell'ufficio prima che divampasse l'incendio.» Zavala ringraziò Connors e percorse un isolato a piedi prima di prendere un taxi. Mentre alzava la mano per fermarne uno, l'agente Miguel Gomez accostò al marciapiede al volante di una berlina, una Ford nera. L'uomo dell'FBI si protese sul sedile per aprire la portiera, e Zavala salì a bordo. Gomez gli lanciò la solita occhiata cinica. «La vita in città è diventata frenetica, da quando siete arrivati lei e il suo socio», osservò. «Sono passate appena poche ore da quando siete entrati nel mio ufficio, e già l'Agricol-
tore e il suo losco avvocato se ne sono andati in fumo. Perché non vi trattenete ancora qualche giorno? Finirà che tutta la mafia messicana si autodistruggerà insieme con i suoi alleati, e io resterò senza lavoro, con mia grande soddisfazione.» Zavala ridacchiò. «Grazie ancora per averci guardato le spalle a Tijuana.» «Visto che ho rischiato un incidente internazionale portando una squadra di cecchini oltre il confine, forse in cambio vorrà dirmi che cosa sta succedendo, in nome del cielo.» «Vorrei saperlo», ribatté Zavala stringendosi nelle spalle. «Com'è andata per Pedrález?» «Era a bordo della sua auto blindata e stava attraversando Colonia Obrera, un sobborgo malfamato a ovest di Tijuana. Le guardie del corpo erano a bordo dei SUV che lo precedevano e lo seguivano. Il veicolo di testa viene colpito per primo, e un attimo dopo la vettura di Pedrález esplode. Dev'essere stata centrata da qualcosa di molto potente, perché quella macchina era robusta come un carro armato. Il conducente del terzo automezzo fa una rapida inversione a U e se la fila.» «Potrebbe essere stato un missile anticarro.» Gomez scrutò Zavala con i suoi occhi scuri e penetranti. «La polizia messicana ha trovato in un vicolo il tubo di caricamento di un missile anticarro Gustav di fabbricazione svedese.» «Ma come, ora gli svedesi attaccano i signori della droga messicana?» «Magari! Sono armi disponibili sul mercato internazionale. Probabilmente le offrono in omaggio con i tagliandi delle scatole di cereali. Quel tipo di missile può essere lanciato da un uomo a piedi, si manovra come un fucile. Mi assicurano che due uomini possono lanciare sei razzi al minuto. Che cosa ne sa di questa storia di Hanley?» «Kurt e io eravamo appena usciti dal palazzo, quando abbiamo visto un elicottero verde librarsi in volo davanti alla finestra di Hanley. Siamo rientrati e abbiamo sentito l'esplosione mentre eravamo in ascensore. Alcuni testimoni hanno visto un lampo luminoso. Poteva benissimo provenire da un lanciamissili.» «Quanti missili ci vogliono per cancellare un leguleio dalla faccia della terra? Sembra una barzelletta sugli avvocati.» «Non mi pare che Hanley abbia molto da ridere.» «Quel tizio non ha mai avuto il senso dell'umorismo. E poi parlano di ammazzare una zanzara a cannonate. Qualcuno doveva volerlo morto a tut-
ti i costi, per sobbarcarsi tanti fastidi.» Gomez s'interruppe. «E per quale motivo siete rientrati nell'edificio?» «Kurt pensava che l'elicottero somigliasse a quello che abbiamo visto dopo l'esplosione nella Baja.» «Quindi avevate già parlato con Hanley?» Gomez poteva anche avere l'aria sonnolenta, ma non si lasciava sfuggire niente, rifletté Zavala. «Gli abbiamo chiesto della fabbrica di tortillas. Ci ha detto che un mediatore d'affari di San Francisco lo aveva contattato per conto di un cliente che voleva gestire un'attività in Messico sotto copertura. Hanley ha messo in contatto il suo cliente con Pedrález.» «E il mediatore come si chiamava?» «Jones, ma può risparmiarsi la telefonata perché è morto.» Gomez sogghignò. «Non me lo dica. La sua macchina è saltata in aria.» «È precipitato da una parete rocciosa. Il caso è stato archiviato come un incidente.» Un uomo vestito di blu scuro si avvicinò per bussare al finestrino dell'auto. L'agente annuì, prima di girarsi verso Zavala. «La mia presenza è richiesta sulla scena. Teniamoci in contatto.» Poi passò allo spagnolo. «Noi peperoncini ispanoamericani dobbiamo restare uniti.» «Senz'altro», convenne Zavala, aprendo la portiera per scendere. «Noi torniamo a Washington. Mi chiami alla sede centrale della NUMA, se posso esserle utile.» Zavala era stato sincero solo fino a un certo punto. Parlando con Gomez, aveva evitato volutamente di accennare alle rivelazioni fatte da Hanley sul Mulholland Group. Dubitava che l'FBI avrebbe fatto irruzione nella sede dell'azienda sfondando la porta con un mandato in mano, ma, in ogni caso, gli sembrava preferibile non complicare le indagini. Rientrato in albergo, chiamò il servizio informazioni della società telefonica di Los Angeles e provò il numero del Mulholland Group che gli indicarono. La segretaria dalla voce melodiosa che rispose al telefono gli fornì l'indirizzo dell'ufficio. Zavala chiese al portiere d'albergo di procurargli un'auto a nolo e, poco dopo, si mise in viaggio, diretto a nord di Los Angeles. Qualche tempo dopo uscì dalla Hollywood Freeway, ritrovandosi in un labirinto tipicamente californiano di isolati residenziali inframmezzati da centri commerciali. Non sapeva bene che cosa aspettarsi, ma dopo l'esplosione nella Baja e la bizzarra morte di Hanley e Pedrález provò una certa sorpresa quando si trovò dinanzi un ufficio del tutto normale, con la targa
in bella mostra all'ingresso di un edificio di studi professionali, incastrato fra un negozio di forniture per uffici e un locale della catena Pizza Hut. L'atrio era aperto e arioso. La vivace segretaria che lo accolse era la stessa che gli aveva fornito indicazioni al telefono. Zavala non fu costretto a sfoggiare il suo fascino latino, perché lei rispose senza esitare a tutte le domande che riguardavano la società, lo sommerse di dépliant e lo invitò a telefonare, se mai avesse avuto bisogno di servizi che riguardavano l'ingegneria idraulica. Lui tornò verso la macchina e prese posto al volante, fissando la facciata anonima dell'edificio e chiedendosi che cosa potesse fare a quel punto. In quel momento squillò il suo cellulare: era Austin dal suo ufficio nella sede centrale della NUMA. «Hai avuto fortuna?» gli domandò. «In questo istante sono seduto davanti alla sede del Mulholland Group», rispose Zavala, mettendolo poi al corrente delle sue scoperte. Austin a sua volta informò Joe della visita al centro Garber, della conversazione con Buzz Martin e delle rivelazioni di Max. «Hai ottenuto risultati più significativi dei miei», osservò Zavala. «Tutti vicoli ciechi, per ora. Questo pomeriggio andrò nella parte settentrionale dello Stato di New York per vedere se riesco a risolvere il mistero del pilota dell'ala volante. Visto che sei a Los Angeles, forse potresti scovare qualche elemento sulla Gogstad.» Si accordarono per confrontare i rispettivi appunti a Washington il giorno seguente. Zavala chiuse la comunicazione e chiamò subito l'ufficio informazioni del Los Angeles Times. Gli passarono la redazione e, dopo aver declinato il suo nome, chiese di Randy Cohen, che lavorava nella redazione finanziaria. Pochi istanti dopo, una voce giovanile rispose al telefono. «Joe Zavala? Che bella sorpresa! Come stai?» «Bene, grazie. E come sta il migliore giornalista investigativo a ovest del Mississippi?» «Faccio quello che posso con il limitato numero di cellule cerebrali che è sopravvissuto quando ci scolavamo tutti quei tequila sunrise. Sei ancora occupato a tenere a galla la NUMA?» «In effetti sono in città proprio per conto della NUMA, e mi chiedevo se non potresti darmi una mano.» «Sono sempre pronto a fare il possibile per un vecchio compagno di college.» «Te ne sono grato, Randy. Mi servono informazioni su una società che
ha sede in California. Hai mai sentito parlare della Gogstad Corporation?» All'altro capo del filo gli rispose il silenzio. Poi Cohen disse: «Hai detto proprio Gogstad?» «Esatto», confermò Joe, compitando il nome lettera per lettera, in modo da evitare equivoci. «Perché, ti fa squillare qualche campanello in testa?» «Richiamami a questo numero», ribatté Cohen, attaccando bruscamente. Zavala seguì le istruzioni, e il giornalista rispose subito sull'altra linea. «Scusami se ti ho sbattuto il telefono in faccia. Ora stiamo parlando sul mio cellulare. Dove sei?» Zavala descrisse il posto. Cohen conosceva bene la zona e gli fornì le indicazioni per raggiungere un caffè nelle vicinanze. Zavala stava sorseggiando il secondo espresso quando Cohen entrò e, vedendolo seduto al banco, gli rivolse un gran sorriso. Si avvicinò per stringergli la mano con energia. «Santo cielo, Joe, sei in gran forma. Non sei cambiato affatto.» «Nemmeno tu.» Zavala diceva la verità. Il giornalista aveva più o meno lo stesso aspetto dei tempi in cui avevano lavorato insieme al giornale del college. Aveva messo su qualche chilo, e la barba nera era screziata da ciocche grigie, ma camminava ancora con l'andatura caracollante di un'enorme gru, e gli occhi azzurri dietro le lenti con la montatura di tartaruga erano intensi come sempre. Cohen ordinò un caffè macchiato doppio prima di guidare Joe verso un tavolino appartato. Bevve un sorso di caffè, decretò che meritava un dieci e poi si protese in avanti per chiedere a bassa voce: «Allora, dimmi, vecchio mio, com'è che la NUMA s'interessa alla Gogstad?» «Probabilmente avrai sentito parlare del branco di balene grigie che sono state ritrovate morte al largo di San Diego.» Cohen assentì. «Abbiamo collegato la possibile causa della loro fine a un'attività industriale nella penisola della Baja California. C'è una connessione con il Mulholland Group, e la Gogstad è la società madre.» Cohen socchiuse gli occhi. «Quale genere di attività?» «Non ridere, ma si tratta di una fabbrica di tortillas.» «Non rido mai, quando si parla di questo gruppo.» «Allora lo conosci.» «Intimamente, ecco perché sono rimasto sbalordito quando mi hai chiamato. È quasi un anno che faccio parte di una squadra che indaga sulla Gogstad. Abbiamo intenzione di intitolare la nostra inchiesta 'I pirati dell'acqua'.»
«Credevo che la pirateria si fosse estinta con Capitan Kidd.» «Questa storia è più grande di qualsiasi impresa che Capitan Kidd possa aver immaginato.» «Che cosa vi ha messo su questa pista?» «Un puro caso. Stavamo indagando sulle fusioni aziendali, quelle che avvengono in sordina e non sempre fanno notizia, ma hanno ugualmente un impatto considerevole sull'esistenza del cittadino medio. Abbiamo cominciato a incrociare più volte la stessa pista, anche se poco definita. Come un cacciatore che, aggirandosi nei boschi, si ritrova di continuo di fronte alle stesse orme impresse sulla neve trasportata dal vento.» «E le orme erano quelle della Gogstad.» Cohen annuì. «Ci sono voluti mesi per arrivare a definire la traccia, e anche ora ne abbiamo soltanto un quadro parziale. La Gogstad è enorme! Con le sue società finanziarie, valutate nell'ordine di centinaia di miliardi di dollari, è possibile che sia il conglomerato globale più grande della storia.» «Ammetto che il Wall Street Journal non è la mia lettura preferita ogni mattina, ma mi sorprende di non aver mai sentito nominare questa impresa, se davvero ha raggiunto tali dimensioni.» «Non te la prendere. Hanno speso milioni di dollari per tenere segrete le loro attività. Usano accordi sottobanco, uomini di paglia e società fantasma; insomma, fanno ricorso a tutti i trucchi del mestiere. Sia ringraziato Dio per i computer! Abbiamo inserito tutto il materiale in un Geographic Information System, un sistema informatico che collega fra loro tutte le informazioni contenute nella banca dati mettendole in correlazione a una carta geografica. La polizia usa lo stesso sistema per tenere d'occhio i collegamenti fra le bande. Abbiamo dei grafici straordinari che illustrano le holding della Gogstad in tutto il mondo.» «Chi c'è dietro questa superimpresa?» «Siamo abbastanza sicuri che le redini del potere siano tenute da una persona sola, che si chiama Brynhild Sigurd.» Zavala godeva di una meritata fama di dongiovanni, quindi drizzò subito le orecchie, intuendo il coinvolgimento di una donna. «Parlami di questa Sigurd.» «Non c'è molto da raccontare. Non è mai entrata nella classifica delle donne più potenti del mondo redatta da Fortune, anche se meriterebbe di occupare il primo posto. Quello che sappiamo è che è nata negli Stati Uniti da genitori scandinavi, che ha studiato in Europa e in seguito ha fondato
un'impresa di consulenza ingegneristica chiamata Mulholland Group.» «Ci sono stato poco fa. Avrei dovuto chiedere alla signora di ricevermi.» «Non sarebbe servito a nulla. È sempre indicata come presidente della società, ma non si fa vedere da nessuno.» «Non capisco bene a che cosa si deve il nome della società. La sede non si trova su Mulholland Drive.» Cohen sorrise con aria d'indulgenza. «Hai mai sentito parlare dello scandalo della Owens Valley?» «Mi pare di ricordare che riguardasse il sistema idrico di Los Angeles.» «Proprio così. Oggi si stenta a crederlo ma, negli anni intorno al 1920, Los Angeles era ancora una cittadina sperduta nel deserto. La città aveva bisogno di acqua per crescere, e la fonte più vicina di acqua potabile era la piccola e sonnolenta Owens Valley, circa trecentoventi chilometri a nord. Los Angeles mandò dei rappresentanti nella valle per acquistare in sordina i diritti di sfruttamento sul fiume. Quando la popolazione della valle si rese conto di quello che stava succedendo, era già troppo tardi: la loro acqua era in viaggio per Los Angeles.» «Che cosa ne è stato della Owens Valley?» «È rimasta all'asciutto», rispose Cohen, con una risatina diabolica. «Quasi tutta l'acqua che i contribuenti pagavano veniva incanalata verso la valle di San Fernando, non in città. Un gruppetto di affaristi locali acquistò dei terreni nella zona a prezzi stracciati, ma non appena arrivò l'acqua i costi salirono alle stelle, fruttando milioni di dollari agli speculatori. L'uomo che aveva ideato il colpo si chiamava William Mulholland.» «Interessante. Che posto occupa il Mulholland Group nella Gogstad?» «È stato il nucleo iniziale della Gogstad. Ora è diventato una sussidiaria che fornisce servizi d'ingegneria idraulica alla società madre.» «Di cosa si occupa, esattamente, la Gogstad?» «Da principio acquisiva interessi in oleodotti, energia e imprese di costruzioni, ma in seguito ha diversificato la sua attività nel settore degli istituti finanziari, delle assicurazioni e dei media. Negli ultimi anni si sono concentrati su un unico prodotto: l'oro blu.» «A me suona familiare soltanto quello a diciotto carati.» Cohen sollevò il bicchiere alto posato sul tavolo davanti a lui. «L'oro blu sarebbe l'acqua?» «Già.» Cohen tenne il bicchiere esposto alla luce come se contenesse un vino pregiato, poi bevve una lunga sorsata. «L'acqua non è più un diritto naturale: è un bene che può fruttare un prezzo superiore al petrolio raffina-
to. La Gogstad ha un ruolo da protagonista nell'industria globale dell'acqua. Ha acquisito una quota di maggioranza nelle imprese del settore in centocinquanta nazioni sparse su cinque continenti, e distribuisce acqua a oltre duecento milioni di persone. Il loro colpo più riuscito è stato l'approvazione della legge di privatizzazione del fiume Colorado.» «Ho letto qualcosa sui giornali, ma vorrei che tu completassi il quadro.» «Il fiume Colorado è la fonte principale di approvvigionamento idrico per gli Stati dell'Ovest e del Sud-ovest. Il sistema è sempre stato gestito dai federali, che hanno realizzato grandi dighe e bacini artificiali lavorando d'intesa con i governi statali e le amministrazioni municipali. Ora la legge ha sottratto il controllo al governo, mettendolo nelle mani di imprese private.» «Di questi tempi la privatizzazione è un sistema diffuso. Ci sono persino penitenziari gestiti da privati. Perché non i sistemi idrici?» «È esattamente lo stesso argomento invocato a sostegno del progetto di legge poi approvato. Gli Stati hanno un contenzioso aperto da anni a proposito dei diritti sull'acqua, e sono state spese tonnellate di denaro per le cause legali. I promotori del progetto hanno fatto notare che la privatizzazione avrebbe posto fine a tutto questo. L'acqua sarebbe stata distribuita in modo più efficiente, e gli investitori si sarebbero accollati i costi dei grandi aumenti di capitale. L'argomento decisivo è stato la siccità. Le grandi città sono a corto d'acqua, e la popolazione ha paura.» «E la Gogstad che cosa c'entra?» «In base al progetto di legge, il sistema del fiume Colorado sarebbe gestito da un gruppo di società separate che operano in collaborazione.» «Per ripartire i profitti?» «L'idea era questa. Solo che tutte queste imprese sono segretamente di proprietà della Gogstad.» «Quindi la Gogstad ha in mano il controllo assoluto del fiume Colorado?» Il giornalista annuì. «È la stessa operazione che sta compiendo, su scala ridotta, in tutto il Paese. Hanno ottenuto contratti per ricavare l'acqua dai ghiacciai in Alaska. Hanno esteso il loro raggio d'azione al Canada, che possiede le più grandi fonti di approvvigionamento del Nordamerica. Hanno assunto il controllo della maggior parte delle riserve idriche della British Columbia. Ancora un po', e i Grandi Laghi diventeranno serbatoi della Gogstad.» Zavala si lasciò sfuggire un fischio sommesso. «È una prospettiva spa-
ventosa, ma quadra perfettamente con la globalizzazione, che concentra il potere economico nelle mani di un gruppo sempre più ristretto di persone.» «Sicuro. Che ci piaccia o no, impadronirsi delle risorse più preziose di una nazione è perfettamente legale, ma la Gogstad non rispetta le regole del gioco, e questo fa ancor più paura.» «Che cosa vuoi dire?» «Ti farò un esempio. Il deputato Jeremy Kinkaid si è opposto con le unghie e coi denti all'approvazione della legge sul Colorado, minacciando interrogazioni parlamentari per farla revocare, e ora è morto in seguito a un incidente.» «Tante persone muoiono in seguito a un incidente.» Il giornalista estrasse dalla tasca una carta geografica del mondo, che dispiegò sul tavolino. Parlando quasi in un sussurro, domandò: «Vedi questi quadratini rossi? Non perdere tempo a contarli, sono decine». «Tutte acquisizioni della Gogstad?» «Per così dire. Espandendosi, la Gogstad si è scontrata con i giocatori che occupavano già il campo, vale a dire le imprese e le amministrazioni locali che controllavano l'acqua in altri Paesi. In molti casi c'era un rivale che resisteva alle proposte della Gogstad.» Picchiettò con le dita sulla carta. «Abbiamo stabilito una correlazione fra i dati relativi alle acquisizioni e le informazioni sul personale delle imprese. In ognuna delle località contrassegnate da un quadratino rosso l'acquisizione ha coinciso con incidenti 'fatali' ai vertici della gerarchia aziendale. A volte i dirigenti di grado più elevato sono letteralmente scomparsi.» «O la Gogstad adotta i metodi delle bande di strada, oppure ha una fortuna sfacciata.» «Decidi tu. Negli ultimi dieci anni ha assimilato imprese multinazionali per la distribuzione dell'acqua in Francia, Italia, Inghilterra e Sudamerica. Si comporta come i Borg, quella razza aliena che in Star Trek aumenta il proprio potere assorbendo le altre specie nella propria identità collettiva. Ha acquisito concessioni per l'acqua in Asia e in Sudafrica...» Cohen interruppe l'elenco che stava recitando tutto d'un fiato per lanciare un'occhiata diffidente alla porta, poi si rilassò vedendo entrare una donna con un bambino. Zavala inarcò un sopracciglio, ma non fece commenti. «Scusami», fece Cohen, «ma tutta questa storia mi ha reso paranoico.» «Un pizzico di paranoia può essere salutare, amico mio.» Cohen abbassò di nuovo la voce. «Forse abbiamo una talpa in redazione,
ecco perché ti ho suggerito di chiamarmi sul cellulare.» Giocherellò nervosamente con il cucchiaino. «Al giornale sono successe parecchie cose strane.» «Di che genere?» «Niente che possa indicare con sicurezza. Fascicoli disposti in un ordine diverso da quello in cui li avevo lasciati. Estranei nell'edificio. Occhiate strane.» «Sei sicuro che non si tratti della tua immaginazione?» «Anche altri componenti della squadra hanno notato questi dettagli curiosi. Diavolo, si vede tanto che sono nervoso?» «Riesci a rendere nervoso perfino me.» «Bene, perché voglio che tu sia nervoso. Non credo che la Gogstad ci penserebbe due volte prima di eliminare chiunque la ostacoli nel raggiungimento del suo obiettivo.» «E quale sarebbe?» «Per me è chiaro che vogliono assicurarsi il controllo delle riserve di acqua potabile del pianeta.» Zavala rifletté su quella dichiarazione. «Come obiettivo mi sembra piuttosto arduo da raggiungere. Quello che hanno fatto in Nordamerica e in Europa è impressionante, ma è possibile che una sola impresa riesca a monopolizzare tutta l'acqua potabile della terra?» «Non è difficile come potrebbe sembrare. L'acqua potabile equivale a meno dello zero virgola cinque per cento dell'intera riserva idrica del mondo. Quella che rimane è acqua di mare, oppure è racchiusa nelle calotte glaciali o nel sottosuolo. Una gran quantità di acqua è troppo inquinata per essere utilizzabile, e il fabbisogno mondiale cresce di giorno in giorno.» «Ma la maggior parte dell'acqua non è controllata ancora da popolazioni e governi?» «Non più. La Gogstad individua una probabile fonte di rifornimento idrico, poi si offre di gestirla, facendo ogni genere di concessioni. Una volta infilato il piede nella porta, ricorre alla corruzione, all'estorsione o peggio per assumere la proprietà diretta. Negli ultimi cinque anni la Gogstad ha accelerato in modo incredibile il ritmo della privatizzazione, agevolata dal fatto che, in base ai nuovi accordi commerciali stipulati a livello internazionale, una nazione non è più proprietaria della propria acqua. Santo cielo, Joe, qui si ripete daccapo la storia della Owens Valley, ma a livello mondiale!» «La tua megacompagnia sembra molto simile a una piovra gigante.»
«Il paragone è efficace, anche se un po' scontato.» Cohen prese dalla tasca un pennarello rosso, tracciando sulla mappa linee e frecce. «Ecco qua i tentacoli. L'acqua defluirà dal Canada e dall'Alaska verso la Cina. Dalla Scozia e dall'Austria finirà in Africa e in Medio Oriente. L'Australia ha dei contratti per esportare acqua in Asia. In apparenza sono coinvolti interessi ben distinti, ma è la Gogstad che tiene le fila attraverso le sue società fantasma.» «Come intendono trasferire tutta quell'acqua?» «Un'impresa della Gogstad ha già messo a punto la tecnologia necessaria per trasportare milioni di litri attraverso gli oceani in enormi contenitori sigillati simili a sacche. Inoltre i cantieri navali della Gogstad stanno costruendo navi cisterna da cinquantamila tonnellate a doppio uso, cioè per il trasporto di petrolio e acqua.» «Sarà piuttosto costoso.» «Pare che l'acqua sia un prodotto che tira sul mercato. I clienti sono disposti a pagare qualunque prezzo. In ogni caso, non serve a placare la sete di qualche poveraccio che si ammazza di fatica per condurre una vita grama in una zona arida come la famigerata Dust Bowl in Oklahoma. Serve per l'industria ad alto livello tecnologico, che, guarda caso, è una delle cause maggiori di inquinamento.» «Tutta questa faccenda sembra incredibile.» «Reggiti forte, Joe, perché non è ancora finita.» Il giornalista puntò il dito sulla carta geografica del Nordamerica. «Ecco qual è il mercato davvero importante: gli Stati Uniti. Ti ricordi quello che ho detto a proposito del fatto che la Gogstad controlla le riserve d'acqua del Canada? Esiste un piano per deviare imponenti quantità d'acqua dalla baia di Hudson attraverso i Grandi Laghi fino alla cosiddetta 'Sun Belt' degli Stati Uniti.» Il dito si spostò verso l'Alaska. «La California e gli altri Stati del deserto hanno praticamente prosciugato il fiume Colorado, quindi un altro progetto prevede di prendere l'acqua dei ghiacciai dello Yukon e trasferirla nell'Ovest attraverso un enorme sistema di dighe, canali e bacini idrici giganteschi. Un decimo del territorio della British Columbia resterebbe sommerso, causando danni imponenti alle risorse naturali e umane. I nuovi impianti idroelettrici metterebbero a disposizione enormi quantità di energia. Indovina un po' chi si trova in una posizione strategica tale da beneficiare dell'energia elettrica e dei finanziamenti per le costruzioni?» «Credo di conoscere la risposta.» «Eh, già. Si metteranno in tasca miliardi di dollari. I progetti per questa
impresa gigantesca sono pronti da anni, ma non hanno fatto mai progressi perché sono costosi, oltre che distruttivi. Ora invece ricevono una spinta potente, ed è probabile che vengano approvati.» «C'è sempre di mezzo la Gogstad?» «Ora sì che cominci a capire.» Cohen era sempre più agitato. «Stavolta non ci sarà opposizione, perché la Gogstad ha già comprato l'appoggio dei giornali e delle stazioni televisive. È in grado di creare un battage pubblicitario al quale non sarà facile resistere. Il peso politico che la Gogstad può esercitare è straordinario: ha inserito nei consigli di amministrazione ex presidenti, primi ministri, segretari di Stato. Non c'è modo di sconfiggerla. Prova a mettere un potere politico e finanziario di questo genere nelle mani di qualcuno che non esita a ricorrere ai metodi dei delinquenti di strada, e capirai perché sono tanto nervoso.» Fece una pausa per riprendere fiato. Aveva il viso arrossato dall'eccitazione e la fronte imperlata di sudore. Fissò Zavala con aria di sfida, come per invitarlo a mettere in discussione le sue teorie. Poi tutto il suo corpo parve sgonfiarsi di colpo. «Scusami», mormorò. «È troppo tempo che sono alle prese con questa storia, e credo di essere sull'orlo di un collasso nervoso. È la prima volta che ho l'occasione di sfogarmi.» Zavala annuì. «Prima pubblicherete l'inchiesta e meglio sarà. Quanto tempo ci vuole ancora?» «Ormai manca poco. Stiamo mettendo a posto le ultime tessere del mosaico. Vogliamo sapere per quale motivo la Gogstad ha costruito tante supercisterne.» «Ma questo non concorda con i loro progetti per trasportare via mare enormi quantità d'acqua?» «Sì, sappiamo che hanno già ottenuto i contratti per trasferire l'acqua ricavata dai ghiacciai dell'Alaska, ma siamo riusciti a procurarci i dati numerici, e le navi cisterna sono troppo numerose in rapporto al mercato esistente, anche considerando la Cina.» «Per costruire una nave occorre molto tempo. Forse vogliono essere pronti, per cui tengono le navi in naftalina sinché i tempi non saranno maturi.» «È questo l'aspetto più strano: le navi non sono in naftalina. Ogni nave cisterna ha un comandante e un equipaggio. Sono all'ancora nelle acque dell'Alaska, come se fossero in attesa.» «In attesa di cosa?»
«È quello che vorremmo sapere anche noi.» «C'è qualcosa che bolle in pentola», mormorò Zavala. «Anche il mio fiuto di giornalista dà lo stesso responso.» Zavala provò una sensazione di gelo, come se uno dei viscidi tentacoli dei quali avevano parlato gli battesse sulla spalla. Si rammentò della conversazione che aveva avuto con Austin a proposito dei timori che a volte si provano in immersione. Come al solito, l'intuito di Kurt era infallibile. Anche a Zavala l'istinto diceva che, negli abissi, era in agguato una creatura gigantesca e affamata, che spiava e aspettava. E il suo nome era Gogstad. 23 Erwin Legrand, il direttore della CIA, sorrideva raggiante osservando Katherine, la figlia quattordicenne, avvicinarsi al trotto in sella al suo castrone sauro. Scivolando giù dalla sella, la ragazzina offrì al padre il trofeo appena conquistato, alla maniera inglese. «Questo è per il tuo ufficio, papà», disse emozionata, fissandolo con gli occhi azzurri come fiordalisi. «Te lo meriti, perché sei il padre migliore del mondo. Sei stato tu a comprare Val e a pagare tutte quelle costose lezioni di equitazione.» LeGrand raccolse il trofeo dalle sue mani prima di passarle un braccio intorno alle spalle, notando quanto somigliava alla madre. «Ti ringrazio, Katie, ma non sono stato io a impegnarmi tanto per dimostrare a Valiant chi era a comandare.» Le sorrise. «Lo accetto soltanto a condizione che sia un prestito. Non appena lo avrò sfoggiato con tutti quelli dell'agenzia, tornerà nella tua vetrina dei trofei, insieme a tutti gli altri.» L'orgoglio di LeGrand era misto al senso di colpa. Era vero che aveva finanziato la passione di sua figlia per l'equitazione, ma quello era il primo concorso cui assisteva da anni. Il fotografo del country club si avvicinò, e LeGrand si mise in posa con la figlia e il cavallo, pensando alla moglie. Quanto avrebbe desiderato che fosse ancora viva, per rendere completo il quadro! Katie riportò Val nelle scuderie mentre lui passeggiava sul prato chiacchierando con la sua assistente, Hester Leonard, una donna dall'aspetto insignificante ma dall'intelligenza molto vivace. A volte la stampa definiva LeGrand un Lincoln senza barba, adottando un paragone basato sulla sua reputazione di onestà, oltre che sulla somiglianza con il sedicesimo presidente degli Stati Uniti. A parte l'alta statura, aveva un'aria piuttosto scial-
ba, ma era impossibile ignorare la forza di carattere che traspariva dai suoi lineamenti. Si era guadagnato una fama d'integrità dirigendo la più grande organizzazione del mondo per la raccolta di informazioni e, in un'epoca in cui non fossero esistite la TV e le interviste in diretta, sarebbe stato preso in seria considerazione come candidato alla presidenza. Il cellulare di Hester Leonard cominciò a vibrare, e lei lo accostò all'orecchio. «Signore», disse poi in tono esitante, «una chiamata per lei da Langley.» LeGrand si accigliò, mormorando sottovoce che in terra non c'è pace per i peccatori, ma non accennò a prenderle di mano il telefono. «Non avevo chiesto di non essere disturbato almeno per due ore mentre ero a McLean, a meno che non fosse estremamente urgente?» «È John Rowland, e assicura che si tratta di una questione della massima importanza.» «Rowland? Ebbene, in tal caso...» Prese il telefonino, accostandolo all'orecchio. «Salve, John», disse, passando dal cipiglio al sorriso. «Non c'è bisogno di scusarsi. Hai chiamato al momento giusto per ricevere la buona notizia: Katie ha vinto il primo premio nella gara di dressage al country club... Grazie. Ora, che cosa c'è di tanto importante da interrompermi proprio adesso, nel momento forse più importante della vita di Katie?» Mentre ascoltava la risposta, corrugò la fronte. «No, mai sentito... sì, certo... aspettami nel mio ufficio.» Restituendo il cellulare alla sua assistente, guardò il trofeo e scosse la testa. «Ordini alla macchina di passare a prendermi subito davanti alle scuderie. Dobbiamo tornare immediatamente a Langley. Poi telefoni al mio ufficio e raccomandi a tutti di fornire a John Rowland qualunque forma di assistenza richieda. Io dovrò salutare e fare le mie scuse. Diamine, probabilmente questo mi costerà un altro cavallo.» Si allontanò subito per andare a scusarsi con la figlia. Venti minuti dopo, la limousine nera si fermò con grande stridore di freni davanti alla sede centrale della CIA. LeGrand scese dalla macchina, attraversando l'atrio a lunghe falcate. Non appena superata la soglia, vide un assistente che correva nella sua direzione. Gli prese di mano il fascicolo e studiò il materiale mentre saliva in ascensore. Pochi istanti dopo entrava nel suo ufficio. John Rowland lo aspettava in compagnia di un giovanotto nervoso che presentò come un altro analista di nome Browning. Rowland e il direttore si strinsero la mano come vecchi amici. Anni prima si trovavano tutti e due allo stesso livello nell'agenzia, ma LeGrand a-
veva l'ambizione politica e la motivazione necessarie per salire in cima alla scala gerarchica, mentre Rowland si era accontentato di restare al suo posto, dove godeva buona fama come mentore per i giovani analisti all'inizio della carriera. LeGrand riponeva una fiducia incondizionata in Rowland, che più di una volta lo aveva salvato da qualche passo falso. «Ho appena letto il materiale che hai scaricato dalla banca dati. Qual è la tua opinione?» Rowland non perse tempo nell'esporre la sua analisi. «Non si può fermare questo ingranaggio?» domandò LeGrand. «Il protocollo è stato attivato, e la sanzione verrà messa in atto.» «Dannazione! Quando avrò finito, vedrai rotolare parecchie teste. Chi è il bersaglio?» Rowland gli porse un foglio di carta. LeGrand lesse il nome, e il suo viso sbiancò di colpo. «Chiama i servizi segreti e avvertili che abbiamo appena appreso l'esistenza di un complotto per assassinare il portavoce della Camera. Ha bisogno di protezione immediata. Santo cielo», aggiunse, «c'è qualcuno che sa spiegarmi come può succedere una cosa del genere?» «Dovremo indagare un po' per ottenere tutti i dettagli», disse Rowland. «Sappiamo soltanto che il protocollo è stato attivato da richieste simultanee che sono giunte alla comunità dei servizi segreti dalla National Underwater & Marine Agency.» «La NUMA?» L'aria intorno alla testa di LeGrand crepitò di scintille azzurrine, mentre il direttore dell'agenzia dava una dimostrazione impressionante della sua nota inventiva nel campo del turpiloquio. Batté il pugno sulla scrivania con forza sufficiente a far schizzare via la penna e gridò all'assistente più vicino: «Mi metta subito in comunicazione con James Sandecker». 24 «Siamo a circa venti minuti da Albany», annunciò Buzz Martin. Austin guardò dal finestrino del bimotore Piper Seneca. La visibilità era illimitata, come al momento del decollo da Baltimora, nelle prime ore del pomeriggio. Riusciva addirittura a leggere i nomi delle barche in navigazione lungo il corso superiore del fiume Hudson. «Grazie ancora per il passaggio. Di solito è il mio collega Joe Zavala che mi fa da pilota nelle missioni di lavoro, ma in questo momento si trova an-
cora in California.» Martin gli rispose alzando il pollice. «Sono io che dovrei ringraziare lei. Sono certo che sarebbe potuto venire fin qui da solo.» «È probabile, ma le mie motivazioni non sono del tutto disinteressate. Ho bisogno che lei identifichi suo padre.» Martin lanciò un'occhiata ai monti Catskill, a ovest. «Mi domando perfino se riuscirò a riconoscerlo, dopo tutti questi anni. È passato molto tempo, e lui potrebbe essere cambiato.» Il suo viso solare si rannuvolò. «Accidenti, da quando mi ha telefonato per chiedermi di portarla quassù, non faccio che tentare di elaborare una specie di discorso da fargli. Non so se abbracciare o picchiare quel vecchio bastardo.» «Forse potrebbe stringergli la mano, per cominciare. Prendere a pugni un padre scomparso da tanto tempo non è il modo più adatto per riunire la famiglia.» Martin ridacchiò. «Sì, ha ragione. Ma non posso fare a meno di sentirmi in collera con lui. Voglio che mi spieghi per quale motivo ha lasciato mia madre e me, e soprattutto perché è rimasto nascosto per tanti anni, lasciandoci credere che era morto. È un bene che mia madre se ne sia andata. Era una donna all'antica, e l'avrebbe uccisa il pensiero di essersi risposata mentre il suo primo marito era ancora vivo. Diamine», aggiunse, con un fremito nella voce, «spero soltanto di non cominciare a frignare come uno scolaretto.» Staccato il microfono, chiamò la torre di controllo di Albany chiedendo istruzioni per l'atterraggio; pochi minuti più tardi erano a terra. Al banco dell'autonoleggio non c'erano file, e poco dopo si stavano già allontanando dalla città a bordo di un Pathfinder a trazione integrale. Austin puntò a sud-ovest sulla Route 88, raggiungendo Binghamton attraverso colline ondulate e piccole fattorie. A circa un'ora di viaggio da Albany, uscì dalla statale per proseguire a nord verso Cooperstown, un villaggio idilliaco in cui la strada principale sembrava il set di un film di Frank Capra. Da Cooperstown proseguirono verso ovest su una tortuosa strada di campagna a due sole corsie. Quella era la terra di Calza di Cuoio, il personaggio della saga di James Fenimore Cooper, e con un pizzico d'immaginazione Austin poteva immaginare Occhio di Falco che si aggirava furtivo per le valli boscose in compagnia dei suoi indiani. Case e città divennero sempre più rade. In quella parte del mondo le mucche erano più numerose degli esseri umani. Anche con la mappa era difficile trovare la loro meta. Austin si fermò a
una stazione di servizio che fungeva anche da emporio, e Buzz entrò a chiedere indicazioni, uscendone in preda a un'evidente agitazione. «Il vecchio là dentro dice che conosce Bucky Martin da anni. 'Un tipo simpatico, piuttosto chiuso.' Bisogna proseguire su questa strada per ottocento metri e poi svoltare a sinistra. La fattoria si trova a circa otto chilometri dal bivio.» Dalla biforcazione in poi, la strada diventava stretta e tutta buche, con l'asfalto steso senza troppa convinzione. Le fattorie si alternavano ad ampie zone di boschi fitti, e per poco non si lasciarono sfuggire la svolta. L'unica segnalazione era costituita da una cassetta di legno per la posta, senza nome né numero. Un vialetto di terra battuta si addentrava nei boschi a partire dalla cassetta postale. Imboccandolo, attraversarono un boschetto che nascondeva la casa a chiunque passasse per la strada. Alla fine gli alberi cedettero il passo ai pascoli, dove brucavano piccole mandrie di bovini. Infine, a quasi un chilometro dalla strada, raggiunsero la fattoria. La grande costruzione a due piani risaliva a un'epoca in cui almeno tre generazioni vivevano nella stessa casa per lavorare la terra e mandare avanti la fattoria. Le finestre decorative e i vetri colorati indicavano che il proprietario aveva ottenuto un successo sufficiente per concedersi qualche tocco in più. La facciata era abbellita da un portico e dietro la casa sorgevano una stalla rossa e un silo, mentre vicino alla stalla c'era un recinto con due cavalli. Nel cortile era parcheggiato un pick-up abbastanza nuovo. Austin percorse il vialetto circolare, parcheggiando davanti alla casa. Nessuno uscì a salutare. Dietro le finestre non apparvero facce curiose. «Forse è meglio che vada prima io», suggerì Austin. «Potrebbe essere utile un minimo di preparazione, prima che lei lo incontri a faccia a faccia.» «Per me va bene», assentì Buzz. «Mi sto perdendo d'animo.» Austin gli strinse il braccio in un gesto d'incoraggiamento. «Se la caverà benissimo.» Se fosse stato nei panni di Martin, non sarebbe riuscito a restare così calmo. «Mi presenterò, poi cercherò di introdurre l'argomento in modo graduale.» «Gliene sono molto grato.» Austin scese dalla macchina, si avvicinò alla porta e bussò parecchie volte, ma nessuno rispose, e non ottenne reazioni neppure quando girò la manopola del campanello all'antica. Si voltò, allargando le braccia in modo che Martin afferrasse la situazione, poi scese dal portico e girò dietro la casa per raggiungere la stalla. Gli unici suoni erano il chiocciare sommesso
delle galline e qualche grugnito di un maiale che grufolava sul terreno. La porta della stalla era aperta e lui entrò, pensando che le stalle di tutto il mondo avevano lo stesso odore, un misto inconfondibile di letame, fieno e grossi animali. Un cavallo sbuffò nel vederlo passare vicino al suo box, forse pensando che gli portasse uno zuccherino. Di Martin nessuna traccia. Alzò la voce per salutare, ma, non ottenendo risposta, uscì dalla porta sul retro. Polli e maiali si avvicinarono ai recinti, pensando che avesse del cibo per loro. Nel cielo volava in cerchio un falco solitario. Austin si voltò per rientrare nella stalla. «Posso esserle utile?» La figura di un uomo si stagliava in controluce sulla soglia. «Il signor Martin?» chiese Austin. «Sono io. E lei chi è?» ribatté l'uomo. «Parli forte, figliolo. Il mio udito non è più quello di una volta.» L'uomo si avvicinò di alcuni passi. A differenza del figlio, più basso di statura e tarchiato, Martin era alto, con un corpo solido e imponente; avrebbe potuto posare per la campagna pubblicitaria di un trattore. Indossava camicia e pantaloni color nocciola, stivali da lavoro con la suola pesante e un berretto da baseball piuttosto sporco, con il logo della Caterpillar, che copriva una chioma folta e candida. Il viso abbronzato era segnato da rughe profonde, con gli occhi azzurri infossati sotto le sopracciglia folte. Austin intuì che doveva avere fra i settanta e gli ottant'anni, ma era in ottima forma. Stringeva fra i denti un mozzicone di sigaro. «Mi chiamo Kurt Austin e lavoro per la National Underwater & Marine Agency.» «Che cosa posso fare per lei, signor Austin?» «Sto cercando Bucky Martin, che faceva il pilota collaudatore verso la fine degli anni '40. Potrebbe essere lei?» Gli occhi azzurri scintillarono, come se fosse divertito da uno scherzo segreto. «Sì, sono io.» Austin si chiedeva se non fosse il caso di andare subito al sodo e rivelare al vecchio che suo figlio era venuto a trovarlo, ma fu l'altro a parlare per primo. «È venuto da solo?» gli domandò. Era una domanda strana, che fece scattare un campanello d'allarme nella mente di Austin. C'era qualcosa che non gli suonava giusto, in quel vecchio. L'altro non attese la risposta, ma uscì dalla stalla, osservando l'auto a nolo. Apparentemente soddisfatto di quello che vedeva, lasciò cadere a ter-
ra il sigaro e lo schiacciò con il tacco dello stivale, poi rientrò nella stalla. Austin si chiese che cosa ne era stato di Buzz. «Bisogna fare attenzione quando si fuma, con tutto questo fieno asciutto in giro», osservò Martin con un sorriso. «Come ha fatto a trovarmi?» «Abbiamo controllato alcuni vecchi archivi del governo, ed è saltato fuori il suo indirizzo. Da quanto tempo manda avanti questa fattoria?» Martin sospirò. «Mi sembra un'eternità, figliolo, e forse lo è. Non c'è niente che ti faccia capire meglio per quale motivo la gente abbia abbandonatola terra, ai vecchi tempi, che coltivare i campi e badare al bestiame. È un lavoraccio. Bene, a quanto pare la mia condanna sta per terminare, anche se non pensavo che lei arrivasse così presto.» Austin rimase sconcertato. «Vorrebbe dire che mi aspettava?» Martin fece un passo di lato, allungando la mano dietro il cancelletto di un box, e tirò fuori un fucile a due canne, che puntò contro il diaframma di Austin. «Ho ricevuto una telefonata, proprio come prevedeva il protocollo. Non mi muoverei, se fossi in lei. La mia vista non è più quella di una volta, ma da questa distanza ci vedo benissimo.» Austin fissò la canna nera del fucile. «Forse dovrebbe mettere giù quell'arnese, prima che parta accidentalmente un colpo.» «Mi dispiace, ma non posso farlo», ribatté Martin. «E non cerchi di afferrare il forcone conficcato in quella balla di fieno. La taglierei in due prima che riesca a fare un solo passo. Come ripeto, è quel dannato protocollo che lo richiede, non io.» «Ancora non riesco a capire di che cosa parla.» «Lo credo bene. Probabilmente quel protocollo esisteva già prima che lei nascesse. Non credo che le farà male sapere di che si tratta, prima di morire.» Il cuore di Austin accelerò i battiti. Era indifeso, e non poteva fare altro che cercare di guadagnare tempo. «Penso che lei abbia commesso un errore.» «Nessun errore. È per questo che le ho chiesto che cosa faceva qui. Non volevo sparare a un turista passato per caso a comprare qualche dozzina di uova. Il fatto che lei cerchi Martin indica che è venuto qui per impedirmelo.» «Impedirle che cosa?» «Di onorare il contratto.» «Di contratti non ne so niente, ma lei, se non ho capito male, sta dicendo che non è Martin?»
«No, che diamine. L'ho ucciso tanto tempo fa.» «E perché? Era soltanto un pilota collaudatore.» «Niente di personale, proprio come nel suo caso. Io lavoravo per l'OSS ai tempi di 'Wild Bill' Donovan. Ero quello che oggi si chiama hit man, un killer a contratto. Dopo la guerra ho portato a termine alcune missioni, poi ho detto che volevo andarmene in pensione. Il capo ha risposto che non potevano permetterlo, perché sapevo troppe cose. Così abbiamo concluso un accordo. Mi avrebbero mantenuto in servizio attivo per un altro incarico. L'unico problema era che non si sapeva quando sarebbe venuto il momento di eseguire l'ordine: potevano trascorrere cinque mesi o cinque anni.» Ridacchiò. «Nessuno, e tantomeno io, poteva immaginare che ci sarebbe voluto tanto tempo.» Austin notò che, parlando, Martin aveva perso l'accento da campagnolo. «Chi doveva uccidere?» «Il governo aveva un grande segreto di cui voleva che nessuno venisse a conoscenza, quindi è stato escogitato un sistema per cui, se qualcuno cominciava a curiosare e ci si avvicinava troppo, attivava automaticamente il protocollo. È qui che sta il trucco davvero ingegnoso. Volevano fare in modo che fosse la potenziale opposizione a venire da me, e mi hanno piazzato quaggiù, a casa del diavolo. Quando lei ha cominciato a ficcare il naso in giro, ha fatto scattare una catena di ordini. Il primo serviva a dirle dove mi trovavo, mentre l'ultimo ordinava a me di eseguire la sanzione stabilita in origine contro il portavoce della Camera. Pare che lui sia venuto a conoscenza del segreto del governo e stia per divulgarlo.» «Questo protocollo di cui parla deve risalire a cinquant'anni fa, e l'uomo del Congresso che lei dovrebbe uccidere è già morto da anni.» «Non ha importanza», insistette l'uomo scuotendo la testa. «Sono pur sempre tenuto a eseguire gli ordini. Il lato triste della faccenda è che probabilmente un segreto così vecchio ormai non fa più paura a nessuno.» Era ricaduto nell'accento da contadino, mentre i suoi occhi diventavano duri e gelidi. «Comunque sono proprio contento che sia venuto, figliolo. Dopo, sarò ufficialmente in pensione.» Il fucile si sollevò, e Austin si fece forza per affrontare la detonazione assordante. Tese i muscoli dello stomaco, irrigidendosi come se, grazie alla pura forza di volontà, potesse impedire al proiettile di sfondargli la gabbia toracica. Se avesse avuto il tempo di pensarci, avrebbe rimuginato sull'ironia della sorte che, dopo averlo salvato nel corso di innumerevoli missioni quasi fatali, lo faceva morire per mano di un assassino ottuagenario,
mezzo sordo e semicieco. A un tratto, però, alle spalle di Martin si materializzò una figura. Era Buzz. Il vecchio aveva ancora la vista abbastanza acuta per scorgere un cambiamento involontario nell'espressione di Austin, e girò di scatto su se stesso, mentre Buzz lanciava un grido di sorpresa. «Questo non è mio padre!» Fino a quel momento, il corpo del vecchio gli aveva impedito di vedere il fucile che imbracciava, ma adesso gli occhi di Buzz si spostarono dal viso di Martin all'arma che teneva fra le braccia. Il finto agricoltore sollevò il fucile per appoggiarlo alla spalla, ma i riflessi erano appannati dall'età. Austin dovette prendere una decisione fulminea: poteva abbassare la testa e caricare la schiena del vecchio come un toro infuriato, ma stabilì che non c'era tempo sufficiente. «Martin!» gridò, lanciandosi nello stesso tempo verso il forcone infilzato nel fieno. Il vecchio si girò di nuovo verso di lui, che gli lanciò addosso il forcone come se fosse un giavellotto. Mirava al lato destro del corpo, verso il fucile, ma il vecchio avanzò verso il forcone e i rebbi gli perforarono il cuore e i polmoni. Lanciò un grido di dolore, mentre il fucile sparava, con la doppia canna rivolta al soffitto. Il cavallo s'imbizzarrì e cercò di abbattere a calci la parete della stalla. L'arma scivolò dalle dita dell'uomo, i suoi occhi rotearono verso l'alto e il corpo si accasciò sul pavimento di legno. Austin allontanò il fucile con un calcio, più che altro per la forza dell'abitudine. Buzz era rimasto paralizzato per lo shock, ma adesso si avvicinò, inginocchiandosi vicino al corpo. Austin lo girò in modo da poter osservare il viso. Buzz studiò per qualche istante i lineamenti dell'uomo e, con grande sollievo di Austin, disse sottovoce: «No, decisamente non è mio padre. Tanto per cominciare, è troppo alto. Mio padre era piuttosto piccolo e robusto, come me. E poi il viso non presenta nessuna somiglianza. Chi è, in nome del cielo?» «Ha detto di chiamarsi Martin, ma non è il suo vero nome. Non so chi sia.» «Perché voleva ucciderla... o meglio, voleva ucciderci tutti e due?» «In realtà non lo sapeva. Era come una di quelle trappole esplosive che i tedeschi lanciavano durante la guerra. Detonavano non appena gli artificieri cercavano di disinnescarle. A proposito, io credevo che mi aspettasse in macchina.»
«Ci ho provato, ma poi sono dovuto scendere per fare due passi. Ho fatto un giro sul retro della casa senza vedere nessuno, così sono entrato nella stalla a cercarla.» «Ne sono felice.» Austin piegò la testa di lato. «Mi sembra di sentire un rumore.» Lanciò ancora un'occhiata al corpo. «Auguri per la pensione, Bucky», concluse, avviandosi alla porta. Buzz lo seguì nel cortile proprio mentre un'autopattuglia bianca e nera con le luci blu che lampeggiavano sul tettuccio sbucava dai boschi e si fermava di colpo davanti alla fattoria con un grande stridore di freni. Sulla portiera era impressa in lettere giganti la scritta SHERIFF. Ne scesero due uomini in divisa blu, uno giovane e massiccio, l'altro snello, con i capelli grigi. Il primo avanzò tenendo la mano sulla fondina; il distintivo indicava che era un vicesceriffo. «Chi di voi si chiama Austin?» domandò. «Sono io», rispose Kurt. Il vice doveva aspettarsi una risposta evasiva, perché diede l'impressione di essere indeciso su come continuare. L'uomo più anziano lo spinse gentilmente da parte. «Sono lo sceriffo Hastings. Uno di voi ha visto Bucky Martin?» «È nella stalla.» Il vicesceriffo si precipitò all'interno e quando ne uscì, un attimo dopo, era bianco come un lenzuolo. «Cristo», esclamò, cercando a tentoni di estrarre la pistola, «il vecchio Bucky è morto stecchito, infilzato da un forcone. Chi di voi l'ha ridotto così?» Hastings ordinò al vice di calmarsi e chiamare la squadra omicidi della contea. «Può spiegarmi cos'è successo, signor Austin?» «Martin ha cercato di spararci con il fucile che troverete vicino al corpo, e io ho dovuto reagire. Volevo soltanto fermarlo, ma le cose sono andate in un altro modo.» «Grazie, ma quello che voglio dire è cosa sta succedendo sul serio. Non faccio che ricevere telefonate da Washington e così via.» «Washington?» «Ci può scommettere. Prima mi telefona l'ufficio del governatore per mettermi in attesa, poi mi passano un pazzoide che si qualifica come ammiraglio Sandecker e sbraita che il suo uomo, Austin, è in pericolo, e sarà meglio che vada a casa Martin, altrimenti ci sarà un delitto. Quando gli chiedo cosa gli faccia ritenere che qualcuno stia per essere ucciso, mi pro-
mette un ombelico nuovo di zecca se non la pianto di fare domande idiote e non mi metto in viaggio.» S'interruppe per sorridere con aria maliziosa. «Pare che avesse ragione, dopotutto.» Si rivolse a Buzz. «E lei come si chiama?» «Buzz Martin.» Lo sceriffo batté le palpebre, sorpreso. «Qualche parentela con il defunto?» Austin e Martin si scambiarono un'occhiata, non sapendo come rispondere alla domanda. Alla fine Austin scosse la testa e disse: «Spero che lei abbia tempo, sceriffo, perché è una storia lunga, molto lunga». 25 I tamburi rullavano ininterrottamente da un'ora. Da principio il suono era cadenzato e proveniva da un unico strumento, che pulsava regolare come il battito del cuore umano, poi, a poco a poco, si erano uniti anche gli altri. Il ritmo dei tonfi sordi accelerava progressivamente, e in sottofondo si udiva un canto monotono. Francesca non faceva che camminare avanti e indietro nella sala del trono come un leone in gabbia, con le mani intrecciate dietro la schiena e la testa bassa, assorta in preoccupate riflessioni. I Trout erano seduti accanto al trono, in paziente attesa delle sue conclusioni. Tessa era svanita un'altra volta come per magia. Si udì un trambusto all'ingresso del palazzo, e pochi istanti dopo due ancelle di Francesca entrarono a precipizio nella sala del trono, e si inginocchiarono farfugliando parole eccitate. Calmando le due giovani indigene con la sua voce pacata e sommessa, Francesca le aiutò a rialzarsi, scostando loro dal viso i capelli scarmigliati. Dopo averle ascoltate una dopo l'altra, prese due braccialetti confezionati con alcuni frammenti di aeroplano e glieli infilò ai polsi. Poi baciò le ancelle sulla fronte, congedandole. Subito dopo, rivolgendosi ai Trout, annunciò: «Gli avvenimenti si susseguono più in fretta di quanto avessi previsto. Le donne dicono che Alarico ha convinto la tribù a prendere l'iniziativa contro di noi». Gamay si accigliò. «Credevo che non osassero entrare nel palazzo.» «Ho sempre sostenuto che Alarico è intelligente. Ha mandato le mie ancelle ad avvertirmi in anticipo dei suoi piani, evidentemente per esercitare su di me una pressione psicologica. I tamburi sono opera sua.» Indicò il soffitto. «Le mura del palazzo sono fatte di argilla, ma il tetto è di fronde
seccate al sole. Hanno intenzione di appiccare il fuoco all'edificio. Lui sostiene che i veri dei risorgeranno dalle ceneri. Se correremo fuori per sfuggire alle fiamme, sarà la prova che siamo degli impostori come dice lui, e ci falceranno senza pietà.» «E farebbero del male alla loro regina?» domandò Gamay. «Non sarebbe la prima volta che i sovrani cadono in disgrazia. Ha dimenticato Maria Stuarda o Anna Bolena?» «Ho afferrato il punto», rispose Gamay. «E ora che facciamo?» «Fuggiamo. Siete pronti?» «Dal momento che abbiamo soltanto i vestiti che portiamo addosso, siamo sempre pronti, quando lo è lei», rispose Paul. «Ma come faremo a evitare la folla irrequieta là fuori?» «Ho ancora in serbo qualche trucco da dea bianca. Ah, bene, ecco Tessa che torna.» La donna indigena si era materializzata di nuovo al suo fianco, silenziosa come un'ombra. Pronunciò poche parole nella sua lingua madre, rivolta a Francesca, che rispose con un cenno di assenso. Tessa prese una delle torce affisse al muro ai lati del trono. «Dottor Paul, se vuol essere così gentile da aiutare Tessa...» disse Francesca. Trout si avvicinò alla donna, la prese per la vita e la sollevò. Era leggera come una piuma. Accostò la torcia a un angolo del tetto, nel punto in cui la parete d'argilla incontrava il tetto di paglia. Bastò qualche istante perché il soffitto prendesse fuoco, poi ripeterono la procedura con un'altra torcia sulla parete opposta. «Non posso dire che l'incendio doloso rientri fra i miei talenti, ma questo espediente rudimentale servirà a creare una distrazione al momento opportuno», spiegò Francesca. Si guardò intorno, osservando la sala del trono. «Addio», disse in tono malinconico, senza rivolgersi a nessuno in particolare. «Sotto certi aspetti, il mestiere di regina mi mancherà.» Poi si girò verso Tessa, parlando animatamente con lei. Quando la discussione finì, Tessa aveva l'aria soddisfatta, mentre Francesca tirò un gran sospiro. «Vedete che succede? I miei sudditi cominciano già a ribellarsi. Ho ordinato a Tessa di restare, ma lei vuole venire con noi. Ora non c'è più tempo per discutere. Seguitemi.» Francesca fece strada lungo i corridoi semibui della reggia fino alla sua camera da letto. Le due sacche di fibre posate sul letto spiegavano l'assenza temporanea di Tessa: aveva preparato i bagagli per la fuga. Francesca prese dalla cassapanca di legno la sua malandata valigetta di alluminio, munita di una cinghia che si mise a tracolla. Tendendo una delle sacche a
Paul e l'altra a Gamay, spiegò che contenevano cibo e provviste, più «alcuni generi di prima necessità». Gamay si guardò intorno: la stanza era priva di finestre. «Come facciamo a uscire di qui?» Il suono dei tamburi era sommesso, ma il ritmo era diventato ancora più frenetico. «Faremo la doccia, naturalmente», rispose Francesca. Accese con la torcia una piccola lampada di argilla prima di dirigersi verso il cubicolo della doccia, sollevando il pavimento di legno levigato per mettere allo scoperto un'apertura rettangolare. «C'è una scala, ma è molto ripida. Fate attenzione.» Scese per prima, in modo che gli altri potessero usufruire della luce della lampada. Arrivati in fondo alla scala, si trovarono stipati in uno spazio angusto, in piedi sulla ghiaia di drenaggio che era stata sparsa sul terreno per assorbire l'acqua della doccia. Da quel vano partiva un corridoio immerso nell'oscurità. «Le chiedo scusa, dottor Paul, ma non immaginavo d'incontrare un uomo alto come lei. Sono anni che scaviamo questo tunnel, trasportando fuori la terra un po' alla volta ed eliminandola senza dare nell'occhio. Questo passaggio sbocca in una trincea coperta che ho fatto costruire anni fa dagli uomini in vista della realizzazione di altri progetti idraulici.» Percorsero il passaggio in parte camminando, in parte strisciando, con Paul costretto a procedere piegato in due per non battere la testa. Il pavimento e le pareti erano levigati, e il soffitto era puntellato da travi disposte a intervalli regolari. Francesca aveva spento la lampada per evitare che il fumo li intossicasse, in quello spazio così ristretto, perciò furono costretti a proseguire al buio. Dopo una quindicina di metri la galleria deviò ad angolo per sfociare in un altro tunnel, leggermente più ampio. «Questa è la condotta dell'acqua», spiegò Francesca sottovoce. «Dobbiamo fare silenzio, perché il tunnel passa appena sessanta centimetri sotto il livello del suolo, e i chulo hanno l'udito molto fine.» Usando un accendino primitivo simile a quello che era in possesso del fratellastro di Tessa, Francesca accese di nuovo la lampada e ripresero ad avanzare. Procedevano lentamente, ma dopo un quarto d'ora circa raggiunsero la fine del tunnel. Francesca fece segno a Paul di accovacciarsi accanto a lei, poi prese dalla sacca una piccola pala e cominciò a scavare nella parete di terriccio finché l'utensile non colpì qualcosa che produsse un tonfo sordo. «Ora ho bisogno di nuovo della sua forza, dottor Paul. Spinga questo
portello. Non credo che sul fiume ci sia qualcuno, ma sia prudente.» Indietreggiò per lasciare più spazio a Paul, che accostò la spalla al legno, fece forza e spinse, aumentando gradualmente la pressione finché non lo sentì cedere. Spinse ancora più forte e il portello, di forma circolare, si aprì di un palmo. Sbirciando fuori con un occhio solo attraverso quello spiraglio, non vide altro che acqua. Quindi, con una spinta finale, aprì del tutto il portello. Lo sbocco del tunnel si apriva sulla riva erbosa di un corso d'acqua. Paul strisciò all'esterno, quindi aiutò le donne a uscire. Il passaggio dall'oscurità e dalla frescura della galleria alla luce accecante del sole e al caldo torrido fu uno shock, che li costrinse a battere le palpebre come talpe. Paul richiuse il portello e, mentre le sue compagne di fuga si occupavano di mimetizzarlo nuovamente, lui si stese supino sulla sommità del pendio, facendo capolino dalla parte opposta. Il recinto del villaggio, con la sua macabra decorazione di teste mummificate, era poco distante da loro: evidentemente il tunnel vi passava sotto. Oltre lo steccato si alzava nell'aria una colonna di fumo nero, che si gonfiava salendo nel cielo. Si udiva un suono che sembrava prodotto da uno stormo di uccelli selvatici, ma ad ascoltare meglio le strida di uccelli divennero voci umane. Paul arretrò scivolando sul terreno melmoso. «A quanto pare, il menu di stasera prevede arrosto di regina», annunciò con un sogghigno. Poi, rivolto a Francesca, aggiunse: «Non dica più che non ha il talento dell'incendiaria». Lei non replicò, invitandoli soltanto a seguirla lungo la riva del fiume. Si tennero bassi, nascosti dal pendio naturale della sponda, e pochi minuti dopo raggiunsero una dozzina di canoe ricavate da tronchi d'albero. Ne spinsero in acqua due. Trout pensò per un attimo di affondare le altre, ma lo scafo era spesso, per cui non era facile danneggiarlo. «Non c'è nessuno che abbia una sega elettrica?» esclamò. «Anche un'ascia andrebbe bene.» Francesca frugò nella sacca ed estrasse un vasetto chiuso da un coperchio, poi, servendosi di una pietra piatta presa dalla riva del fiume, versò sulle altre canoe il contenuto giallo-nerastro del vasetto, prima di appiccarvi il fuoco. Il legno fu avvolto subito dalle fiamme, nei punti in cui aveva versato quella poltiglia untuosa. «Fuoco greco», spiegò. «È una miscela di resine ricavate da alberi della foresta. Brucia con maggiore intensità del napalm e, se qualcuno cercasse di spegnere il fuoco con l'acqua, non farebbe altro che estenderlo.»
I Trout fissarono con reverente stupore le fiamme che divoravano la chiglia delle canoe. Sapevano che il sabotaggio sarebbe stato utile; tuttavia i nativi, quando si fossero resi conto che le canoe erano fuori uso, avrebbero potuto correre lungo il sentiero ben tenuto che costeggiava la riva. Si divisero in coppie, abbinando un rematore più forte a uno più debole. Gamay e Francesca salirono su una canoa, mentre Paul e Tessa prendevano l'altra, poi, spingendosi al centro del fiume, cominciarono a pagaiare con intensità spasmodica per salvarsi la vita. Un'ora dopo approdarono per bere un po' d'acqua e riposare per qualche minuto, quindi ripresero il viaggio. Le pagaie provocavano vesciche sul palmo delle mani, anche perché erano costretti a procedere controcorrente. Francesca distribuì un unguento medicinale attinto dalla sua sacca prodigiosa, e il rimedio servì ad alleviare il dolore. Proseguirono, cercando di mettere più distanza che potevano fra loro e il villaggio prima che calasse la sera. L'oscurità scese fin troppo presto, rendendo prima difficile e poi del tutto impossibile la navigazione sul fiume. Le canoe restavano impigliate nella fitta vegetazione, oppure s'insabbiavano, e i quattro fuggiaschi esaurirono rapidamente le forze senza fare progressi. Alla fine si diedero per vinti e diressero le canoe verso la riva, dove consumarono un pasto a base di carne affumicata e frutta secca. Tentarono di dormire, ma senza riuscirci, perché le canoe erano troppo scomode per servire da giaciglio, e accolsero con sollievo la luce grigia del giorno. Ripresero il viaggio con gli occhi annebbiati dalla stanchezza e le giunture irrigidite. Il suono dei tamburi li spronava a non rallentare, facendo passare in secondo piano tutti i dolori che li tormentavano. Quel rullare sinistro sembrava provenire da ogni punto della foresta, echeggiando nell'aria. Le canoe scivolavano in silenzio nella cortina di nebbia che si sprigionava dal fiume. Quello schermo li nascondeva agli occhi dei chulo, ma li costringeva anche a procedere lentamente per evitare gli ostacoli. Poi, quando si levò il sole, la caligine si dissolse, trasformandosi in una foschia impalpabile e traslucida. Adesso che il fiume era di nuovo visibile, pagaiarono con foga frenetica, finché il suono dei tamburi non si attuti. Continuarono per un'altra ora, non osando fermarsi; ma ben presto cominciarono a sentire un altro suono, del tutto diverso. Gamay tese l'orecchio. «Ascoltate.» In lontananza si udiva un rombo sommesso, come se un treno sfrecciasse attraverso la foresta.
Francesca, che aveva sempre la stessa espressione seria da quando avevano lasciato il villaggio, azzardò un lieve sorriso. «La Mano di Dio ci chiama.» Con rinnovato ottimismo, dimenticarono la stanchezza, la fame e le natiche intorpidite, e ripresero a pagaiare con slancio. Il rombo crebbe d'intensità, ma non al punto di cancellare un altro suono, un lieve ronzio simile al frullo d'ali di un uccello del fiume che si alzava in volo, seguito però da un sordo tunc. Abbassando gli occhi, quasi incredulo, Paul si accorse che una freccia lunga novanta centimetri si era conficcata nel fianco della sua canoa. Pochi centimetri più su, e gli avrebbe perforato la gabbia toracica. Guardò verso la riva e intravide corpi dipinti di bianco e azzurro che saettavano fra gli alberi. Nell'aria risuonava l'ululato che era il loro grido di guerra. «Ci stanno attaccando!» urlò, anche se l'annuncio era del tutto superfluo. Spronate dalle frecce che tempestavano l'acqua intorno a loro, Gamay e Francesca si piegarono per fare forza sulle pagaie, e le canoe scattarono fuori della portata dei dardi. Gli inseguitori avevano rapidamente guadagnato terreno, approfittando del sentiero che costeggiava il fiume. A un certo punto, però, la pista deviava verso l'interno per attraversare la foresta e, a quel punto, i nativi furono costretti ad aprirsi un varco in mezzo alla fitta vegetazione per poter mirare alle canoe senza impedimenti. Fecero vari tentativi, ma ogni volta le canoe riuscirono a distanziarli, sottraendosi alla loro portata; anche le armi ad alta tecnologia ideate da Francesca avevano i loro limiti. In ogni caso, era chiaro che quel gioco fra gatto e topo si sarebbe risolto in favore dei cacciatori. Le coppie di rematori erano esauste: perdevano colpi e non riuscivano più a mantenere un ritmo regolare. Quando ormai sembrava che ogni speranza fosse perduta, si ritrovarono finalmente fuori del corso del fiume, in mezzo al lago, e fecero una breve pausa per orizzontarsi e decidere un piano d'azione. Avrebbero attraversato la distesa d'acqua il più in fretta possibile, puntando verso l'emissario, che era un affluente del fiume principale della regione. La vegetazione impenetrabile che cresceva lungo il fiume li avrebbe protetti dalle frecce dei chulo. Rincuorati da quel piano semplice e realistico, ripresero a pagaiare con rinnovato vigore, tenendosi a metà strada fra la riva e le cascate. Il tuono prodotto dalle migliaia di tonnellate d'acqua che si riversavano nel lago era inimmaginabile. I quattro fuggiaschi a bordo delle canoe riuscivano a stento a distinguersi l'un l'altro, in mezzo alla nebbia fitta che si sprigionava
dalla base delle cascate. Paul si ripromise di comunicare a Gamay che aveva cambiato idea a proposito della costruzione di un albergo in quel punto. Poi sbucarono dalla nuvola di goccioline d'acqua, ritrovandosi in mezzo alla distesa di acque del lago, e quattro paia di occhi scrutarono la foresta impenetrabile in cerca del punto in cui cominciava il corso dell'emissario. Gamay, a bordo della canoa di testa, puntò la pagaia in direzione della riva. «Lo vedo, è laggiù, nel punto in cui la linea degli alberi s'interrompe. Oh, che diavolo...» Furono tutti in grado di comprendere la causa dello sconforto di Gamay: uno sprazzo di bianco e azzurro, prodotto da tre canoe che uscivano dal fiume. «È una spedizione di caccia», disse Francesca, socchiudendo gli occhi per vedere oltre il riflesso del sole sull'acqua. «Sono rimasti lontani dalla tribù, e non sono al corrente che siamo in fuga. Per quanto ne sanno loro, sono ancora la regina. Cercherò di passare ricorrendo a un bluff. Puntate direttamente verso di loro.» Accantonando ogni perplessità, Gamay e Paul puntarono le rispettive canoe verso i nuovi venuti. Gli uomini a bordo delle canoe che sopraggiungevano non mostravano alcun segno di ostilità, anzi un paio salutarono perfino con la mano. Poi si sentì gridare dalla riva: Alarico era sbucato dalla foresta insieme con i suoi uomini, che lanciavano grida alla spedizione di caccia, gesticolando freneticamente. Le canoe esitarono, poi, mentre le grida aumentavano d'intensità, puntarono verso la terraferma. Erano appena approdate, che i cacciatori furono estromessi e al loro posto s'insediarono gli inseguitori. Le loro prede avevano approfittato di quel breve ritardo e pagaiavano furiosamente in direzione del fiume, ma gli inseguitori ridussero ben presto le distanze, tagliando in diagonale. «Non riusciremo a raggiungere il fiume!» urlò Gamay. «Ci taglieranno la strada!» «Forse riusciremo a seminarli in mezzo alla nebbia», gridò Paul di rimando. Gamay voltò la canoa, puntando la prua verso le cascate. Paul e Tessa erano proprio dietro di lei. In prossimità del salto, l'acqua era agitata. Gli indios proseguivano ostinatamente la caccia e, grazie alla loro forza e abilità, stavano riducendo in fretta il distacco. Ormai le cascate incombevano su di loro, avviluppate in una cortina di caligine, ma era evidente che, se si fossero avvicinati ancora, sarebbero stati travolti e polverizzati.
Paul gridò per farsi sentire al di sopra del fragore dell'acqua. «Francesca, ci serve l'aiuto del suo arsenale di trucchi.» Lei scosse la testa. Fu Tessa a raccogliere l'implorazione frenetica di Paul. «Io ho un'idea», esclamò, porgendogli la sacca che aveva tenuto stretta fra le ginocchia. Paul introdusse la mano nella sacca, e le sue dita si chiusero su un oggetto metallico. Estrasse una pistola calibro 9. «E questa da dove viene?» esclamò sbalordito. «Era di Dieter.» Paul si voltò a guardare le canoe che sopraggiungevano, poi guardò in avanti verso le cascate. Non aveva molta scelta. Per quanto Francesca potesse desiderare che i suoi ex sudditi non fossero feriti, i fuggiaschi si trovavano fra l'incudine e il martello. Un nugolo di frecce volò nella loro direzione. Paul immerse di nuovo la mano nella sacca, cercando i proiettili per ricaricare, e stavolta estrasse un telefono satellitare GlobalStar. Dieter doveva averlo usato per tenersi in contatto con i compratori. Paul lo fissò per un attimo, prima di assimilare il significato di quella scoperta, poi lanciò un grido di gioia. Gamay, che si era avvicinata, vide il telefono. «Funziona?» Lui premette il pulsante, e il telefono si attivò. «Che mi prenda un colpo.» Lo consegnò a Gamay. «Prova a chiamare, mentre io vedo se mi riesce di spaventare quegli indios.» Gamay digitò un numero, e pochi secondi più tardi le rispose una voce familiare. «Kurt!» gridò Gamay. «Sono io.» «Gamay? Eravamo in pensiero per voi. Tu e Paul state bene?» Lanciando un'occhiata alle canoe in arrivo, lei deglutì a fatica. «Siamo in un gran pasticcio, per usare un eufemismo.» Doveva gridare per farsi sentire in mezzo al rombo delle cascate. «Senti, non posso parlare a lungo, sto usando un GlobalStar. Potresti ottenere un rilevamento della nostra posizione?» Crac! Paul aveva messo a segno un colpo sulla prua della canoa di Alarico, ma senza riuscire a rallentarne la corsa. «Era uno sparo, quello?» «Sì, era Paul.» «È difficile sentire qualcosa, con quel rumore di fondo. Resta in linea.»
I secondi scorrevano con la lentezza di anni. Gamay non si faceva illusioni su quella chiamata; anche se fossero riusciti a individuare la loro posizione, potevano trascorrere giorni interi prima che qualcuno giungesse in loro soccorso. Comunque almeno Austin avrebbe saputo qual era la loro sorte. Infine la voce di Kurt si fece sentire di nuovo, calma e rassicurante. «Vi abbiamo localizzato.» «Bene. Ora devo chiudere!» replicò Gamay, abbassandosi di scatto mentre una freccia ronzava nell'aria come un'ape furiosa. Dal momento che Gamay e Paul erano impegnati, le canoe si erano girate, offrendo il fianco alle onde. A quel punto tutti affondarono in acqua le pagaie per invertire la direzione. Le canoe beccheggiarono in modo allarmante, ma riuscirono a mantenere l'equilibrio avvicinandosi alle cascate, dove la nebbia che aleggiava sulle acque avrebbe potuto nasconderle. Gli indios ebbero un attimo di esitazione, poi, intuendo che la fine della caccia era vicina, cominciarono a lanciare il loro strano ululato. Gli arcieri erano in ginocchio a prua delle canoe, ma potevano alzarsi in piedi da un momento all'altro per colpire i loro bersagli inermi. Paul aveva perso la pazienza. Sollevando la pistola, prese la mira su Alarico. Se fosse riuscito a uccidere il capo, forse gli altri si sarebbero dati alla fuga. Francesca lanciò un grido. Lui pensò che volesse deviare la sua mira, invece la regina bianca stava indicando un punto verso la sommità delle cascate. Una sorta d'insetto enorme superò di slancio la cresta delle cascate e scese rapido come una saetta attraverso gli arcobaleni e la nuvola di nebbia, fino a restare sospeso nell'aria a una trentina di metri dalla superficie del lago. L'elicottero si librò per un attimo, poi si abbassò per sfiorare le canoe da guerra. Gli arcieri mollarono l'arco e afferrarono le pagaie, cominciando a remare freneticamente verso la riva. Paul abbassò la pistola sorridendo a Gamay, e tutti ripresero a pagaiare verso le acque più tranquille al centro del lago. L'elicottero descrisse un cerchio, quindi tornò indietro, restando sospeso sulle canoe. Da uno sportello laterale si protese a salutarli con la mano una figura sorridente con i folti baffi d'argento e gli occhi infossati. Era il dottor Ramírez. Squillò il telefono. Era Austin. «Gamay, state bene tutti e due?» «Stiamo bene, sì», rispose lei, ridendo di sollievo. «Grazie per averci mandato il taxi, ma dovrai spiegarci come hai fatto. Questa è davvero una magia, anche per il grande Kurt Austin.» «Ve lo spiegherò in seguito. Ci vediamo domani. Ho bisogno di voi, qui.
Tenetevi pronti a tornare al lavoro.» Dall'elicottero venne calata una scaletta. Ramírez fece segno a Francesca di salire per prima. Lei esitò, poi afferrò l'estremità inferiore e, come si addiceva a una dea bianca, cominciò la risalita verso il cielo dal quale era discesa dieci anni prima. 26 Sandy Wheeler stava per salire a bordo della sua Honda Civic quando quell'uomo strano si avvicinò per chiederle, con un forte accento straniero, in che modo poteva raggiungere la sezione inserzioni commerciali del Los Angeles Times. Lei serrò istintivamente la presa sulla borsetta, stringendola al corpo mentre si guardava intorno, e si sentì sollevata nel constatare che non erano soli nel garage del quotidiano. Era cresciuta a Los Angeles, quindi era abituata ai tipi strani, ma negli ultimi tempi quell'inchiesta sull'acqua l'aveva messa in uno stato di tensione, e neppure l'elegante rivoltella calibro 22 con il calcio di madreperla che teneva nascosta nella borsetta era sufficiente a rassicurarla del tutto. Lo sconosciuto sembrava perfettamente in grado di spezzare in due la canna della rivoltella, con i suoi mostruosi denti d'acciaio. Sandy aveva la capacità tipica dei giornalisti di valutare il prossimo a colpo d'occhio, e l'uomo che aveva davanti sembrava l'interprete ideale del cattivo per gli spot del WWF. Era alto all'incirca quanto lei, ma sarebbe stato più alto, se avesse avuto il collo. Il completo verde scuro era di un paio di taglie più piccolo del corpo squadrato e possente, che sembrava messo insieme assemblando gli scomparti di un frigorifero. Il viso rotondo e sorridente, incorniciato dai capelli di un biondo sporco tagliati alla prussiana, le riportò alla memoria i mostri disegnati da Maurice Sendak, ma furono gli occhi a colpirla: avevano le iridi così nere che le pupille erano praticamente invisibili. Dopo avergli fornito indicazioni frettolose, Sandy salì in macchina, bloccando subito le portiere. Non le importava di apparire scortese. Mentre manovrava per uscire dal parcheggio, l'uomo le parve tutt'altro che ansioso di raggiungere la sezione inserzioni commerciali; anzi, rimase fermo a fissarla, con quegli occhi duri come biglie. Sandy era sulla trentina, con i capelli castani lunghi e un corpo atletico, in forma perfetta grazie al jogging e agli esercizi in palestra. Il viso dalla carnagione ambrata era teso e angoloso, ma non privo di attrattiva, dominato dai grandi occhi azzurro cielo.
Era abbastanza graziosa da attirare ogni tanto le attenzioni di qualche tipo che sembrava appena disceso dalle palme che circondavano la città, ma era anche smaliziata, e il lavoro di cronista di nera che aveva svolto prima di essere assegnata alla squadra investigativa le aveva permesso di sviluppare una sorta di corazza emotiva. Non si spaventava facilmente, eppure quel tipo le metteva i brividi. Non si trattava soltanto del suo aspetto; era l'impressione che, intorno a lui, aleggiasse un'atmosfera di morte. Controllando lo specchietto retrovisore, Sandy notò con sorpresa che l'uomo era sparito. Se n'era andato in fretta così com'era venuto, pensò, rimproverandosi perché non lo aveva notato mentre si avvicinava, e si era lasciata cogliere alla sprovvista. Crescendo in quella città aveva imparato presto a restare sempre all'erta, captando l'ambiente che la circondava, ma quella dannata inchiesta sull'acqua l'aveva completamente assorbita, turbandola e intaccando la sua capacità di percezione. Cohen le aveva assicurato che ormai mancavano soltanto un paio di giorni alla pubblicazione. Mai troppo presto, per lei. Cominciava ad averne abbastanza di portarsi ogni volta i dischetti a casa; d'altra parte Cohen aveva sviluppato un'autentica paranoia e non li lasciava mai in redazione. Ogni sera svuotava il disco fisso e trasferiva i file su dischetti di back-up, che la mattina dopo la giovane giornalista doveva caricare di nuovo. Non che Sandy lo biasimasse per quella mania di persecuzione. Quell'inchiesta aveva qualcosa di speciale, e la squadra aveva parlato addirittura di premio Pulitzer. Cohen coordinava il lavoro di tre collaboratori. A Sandy era toccato il Mulholland Group con la sua misteriosa titolare, Brynhild Sigurd, mentre gli altri due si concentravano rispettivamente sulle acquisizioni negli Stati Uniti e sulle connessioni internazionali. In più, la squadra aveva l'aiuto di un commercialista e di un legale. Il regime di segretezza era più severo di quello del progetto Manhattan, ai tempi della costruzione della bomba. Persino il caporedattore era al corrente soltanto dell'oggetto dell'inchiesta, ma non della sua portata. Sandy sospirò. Fra qualche giorno sarebbe stata di dominio pubblico, e lei avrebbe potuto prendersi quella lunga vacanza a Maui che sognava da tempo. Uscì dal garage, diretta verso il suo appartamento a Culver City, ma lungo la strada si fermò in un centro commerciale per acquistare una bottiglia di Zinfandel della California. Più tardi Cohen sarebbe passato per discutere di alcuni punti rimasti in sospeso, e lei aveva promesso di preparargli un piatto di penne all'arrabbiata. Mentre pagava alla cassa, notò qualcuno fermo davanti alla vetrina del centro commerciale, intento a sbirciare al-
l'interno. Era quel dannato tizio con i denti di metallo. Sorrideva. Non poteva essere una coincidenza; doveva averla seguita. Uscendo dal negozio, Sandy gli scoccò un'occhiata furiosa, dirigendosi con fermezza verso la macchina. Per prima cosa estrasse la rivoltella dalla borsa, infilandola nella cintura, poi chiamò Cohen con il cellulare. Lui le aveva consigliato di riferire qualunque particolare insolito. Sandy non ottenne risposta ma gli lasciò un messaggio sulla segreteria telefonica, riferendo che era diretta a casa ed era convinta che qualcuno la seguisse. Avviata la macchina, uscì lentamente dal parcheggio del centro commerciale, poi accelerò di colpo, superando un incrocio proprio mentre il semaforo passava al rosso. Le auto alle sue spalle si fermarono tutte. Visto che conosceva bene il quartiere, prese una scorciatoia tagliando attraverso il parcheggio di un paio di motel, poi imboccò una via laterale per raggiungere il suo appartamento seguendo vie traverse. Lungo il tragitto il cuore le batteva all'impazzata, ma il battito rallentò, ritornando alla normalità, quando frenò davanti al porto sicuro del condominio in cui abitava. Entrò aprendo con la sua chiave nell'androne dell'edificio e sali in ascensore al terzo piano, ma quando uscì dalla cabina per poco non lasciò cadere il sacchetto degli acquisti per la sorpresa. L'uomo con i denti di metallo era lì, in fondo al corridoio, e le rivolgeva quel sorriso folle, lo sguardo fisso su di lei. A quel punto Sandy si decise. Posò sul pavimento la borsa della spesa, estrasse la rivoltella dalla cintura e gliela puntò contro. «Prova ad avvicinarti, e ti faccio saltare i gioielli di famiglia», minacciò. Lui non si mosse. Se mai, il sogghigno si accentuò. Sandy si chiese come avesse fatto ad arrivare prima di lei. Ma certo. Doveva conoscere il suo indirizzo. Mentre lei correva a zigzag nel tentativo di scrollarselo di dosso, lui aveva raggiunto direttamente l'appartamento. Ciò comunque non spiegava come avesse fatto a entrare nel palazzo. Avrebbe dovuto reclamare con l'amministrazione del condominio per l'insufficienza delle misure di sicurezza; forse avrebbe potuto anche ricavarne un articolo. Sempre tenendolo sotto tiro, frugò nella borsetta in cerca della chiave, aprì la porta e la richiuse con una mossa fulminea. Finalmente al sicuro. Posò l'arma su un tavolino, facendo scattare il chiavistello e fissando la catenella, poi accostò l'occhio allo spioncino della porta. L'uomo era proprio lì davanti, con il viso deformato dalla lente in modo da apparire ancor più grottesco. Teneva in mano il sacchetto della spesa come se fosse un fattorino addetto alle consegne. Che faccia tosta. Sandy imprecò con veemenza.
Questa volta non avrebbe perso tempo con Cohen. Doveva chiamare il 911 per denunciare che qualcuno la molestava. A un tratto ebbe la strana sensazione di non essere sola. Voltò le spalle alla porta e sbarrò gli occhi increduli, raggelata dal terrore. L'uomo con i denti di metallo era lì, di fronte a lei. Impossibile. Era fuori, sul pianerottolo. Poi la risposta le balenò alla mente in un lampo. Gemelli. La rivelazione giunse troppo tardi. Mentre arretrava, addossandosi alla porta, l'uomo cominciò ad avanzare verso di lei, lentamente, con gli occhi che scintillavano come perle nere. La voce di Cohen, al telefono, suonava sconvolta. «Joe, per amor del cielo, è un'ora che cerco di raggiungerti!» «Mi spiace, non ero in casa», si scusò Zavala. «Che succede?» «Sandy è scomparsa. L'hanno presa quei bastardi.» «Calmati un momento», replicò Zavala con voce pacata. «Dimmi chi è Sandy e chi sono questi bastardi di cui parli. Comincia dal principio.» «D'accordo, d'accordo», disse Cohen. Ci fu una pausa, mentre cercava di dominarsi, e quando riprese a parlare aveva già ritrovato l'abituale compostezza, anche se la tensione che traspariva dalla voce lasciava intuire il panico in agguato sotto la superficie. «Sono tornato al giornale, perché avevo una strana sensazione, e tutto il nostro materiale sulle fonti era scomparso. Lo tenevamo in un classificatore chiuso a chiave. Vuoto.» «Chi aveva accesso al materiale?» «Soltanto i componenti della squadra, e sono tutti fidati. L'unico modo per indurii ad aprire il classificatore era puntare loro una pistola alla testa. Oh, mio Dio», aggiunse Cohen, rendendosi conto del significato di quello che aveva appena detto. Zavala comprese che stava per perdere di nuovo il contatto con l'amico. «Raccontami cos'è successo dopo», lo sollecitò. Cohen inspirò a fondo e poi espirò con forza. «Certo, scusami. Subito dopo ho controllato i file sul computer. Niente. Per accedervi era necessaria la password, e tutti i componenti della squadra la conoscevano. Alla fine di ogni giornata di lavoro facevamo una copia di back-up, a turno. Oggi è stata Sandy Wheeler, una giornalista, a portare a casa con sé i dischetti. Ho trovato sulla segreteria un messaggio in cui mi diceva che qualcuno la
seguiva. Si trovava in un parcheggio vicino al suo appartamento, dove stasera avremmo dovuto cenare insieme, rivedendo una parte del materiale per la prima bozza dell'inchiesta. Non appena ho sentito il messaggio l'ho richiamata, ma a casa non c'era nessuno. Sono andato da lei, perché Sandy mi aveva dato una chiave. La borsa della spesa era sul tavolo, con la bottiglia del vino ancora dentro, mentre so che lei mette sempre il vino sulla rastrelliera, non appena entrata in casa. È quasi un gesto automatico.» «Non c'è nessuna traccia di lei?» «Neanche l'ombra. Me ne sono andato più in fretta che ho potuto.» Zavala ebbe un'idea. «E gli altri della squadra?» «Ho provato a chiamarli, ma nessuno risponde. Che cosa devo fare?» Probabilmente Cohen si era salvato la vita andando a casa di Sandy e poi allontanandosi in gran fretta. Quelli che stavano rastrellando l'intera squadra investigativa erano già passati di lì, ma potevano tornare a controllare. «Da dove mi chiami? Sento della musica in sottofondo.» «Sono in un bar sadomaso, poco lontano dall'appartamento di Sandy.» Nonostante la paura, Cohen si lasciò sfuggire una risatina nervosa. «Mi sono infilato qui quando ho avuto l'impressione che qualcuno mi seguisse e ho pensato che fosse meglio stare in un luogo pubblico.» «Qualcuno ti ha seguito dentro?» «Non credo. Questo è un ritrovo frequentato da quei duri vestiti di pelle nera come motociclisti. Si farebbero notare.» «Puoi richiamarmi fra cinque minuti?» «Sì, ma fa' presto. C'è un travestito alto che mi fa l'occhiolino.» Zavala formò il numero che gli aveva lasciato Gomez, e l'agente dell'FBI rispose al terzo squillo. Zavala saltò saluti e convenevoli. «Sono a Los Angeles», annunciò. «C'è una persona che ha bisogno di uscire di scena alla svelta. Può aiutarmi? Niente domande, per ora, ma le prometto di aggiornarla sulla situazione al più presto.» «C'entra per caso la questione nella quale è stato coinvolto di recente?» «Questo e altro. Mi spiace di fare tanto il misterioso, ma può aiutarmi?» Una pausa, poi la voce di Gomez si fece sentire nuovamente, con un tono pratico e sbrigativo. «Abbiamo una casa sicura a Inglewood, con un custode. Lo chiamerò per avvertirlo che è in arrivo un pacco.» Fornì a Zavala le indicazioni per raggiungere la casa. «Grazie. Ci sentiamo poi», concluse Joe. «Lo spero», ribatté Gomez. Aveva appena attaccato, quando sentì squillare di nuovo il telefono. Ri-
ferì a Cohen l'indirizzo che gli aveva indicato Gomez, raccomandandogli di raggiungerlo in taxi. «Lascia la macchina dov'è», lo ammonì. «Potrebbe contenere una trasmittente.» «Ma certo. Non ci avrei mai pensato. Oh, Cristo, lo sapevo che questa era una faccenda grossa. Povera Sandy, e anche gli altri. Mi sento responsabile per loro.» «Non avresti potuto fare altro, Randy. Non sapevi di giocare su un terreno che non è il tuo.» «Che diavolo sta succedendo?» «Avevi visto giusto, la prima volta che abbiamo parlato», rispose Zavala. «Oro blu.» 27 La palla di gomma nera saettò sfocata nel suo campo visivo, come una meteora, ma Sandecker ne aveva previsto il rimbalzo e la racchetta di legno leggero scattò come la lingua di un serpente. Il colpo fulmineo di rovescio spedì la palla contro la parete di destra con un suono sordo. LeGrand si avventò, ma aveva calcolato male l'effetto e vibrò un colpo a vuoto, spazzando l'aria con la goffaggine di un principiante. «E con questo credo che la partita sia conclusa», commentò Sandecker, afferrando con destrezza la palla che continuava a rimbalzare. Era un fanatico della forma fisica e della dieta, e il suo severo regime a base di jogging e sollevamento pesi gli consentiva di mantenere un vantaggio competitivo su uomini molto più giovani e atletici di lui. Rimase in piedi con le gambe divaricate, ben piantate sul pavimento, e la racchetta appoggiata con disinvoltura nella piega del braccio. Non aveva una sola goccia di sudore sulla fronte, e non un capello rosso o un pelo della barbetta alla Van Dyck perfettamente curata erano finiti fuori posto. LeGrand, invece, grondava sudore come una fontana. Mentre si toglieva gli occhialoni di protezione e si tamponava il viso con la salvietta, si ricordò per quale motivo aveva smesso di giocare con Sandecker. Il direttore della CIA era in vantaggio per statura e muscoli sull'ammiraglio, che era alto all'incirca un metro e sessanta, ma ogni volta che scendeva in campo con lui era costretto a imparare che lo squash era un gioco di strategia, non di potenza. Per questo, in circostanze normali, avrebbe declinato l'invito dell'ammiraglio quando quest'ultimo gli aveva telefonato, il giorno dopo l'incidente nel nord dello Stato di New York.
«Ho prenotato un campo al circolo», gli aveva detto Sandecker tutto allegro. «Che ne dice di far rimbalzare un po' la pallina nera?» Malgrado il tono cordiale, LeGrand non aveva mai dubitato che quello fosse un ordine. Annullando gli altri appuntamenti del mattino, era passato al complesso Watergate per ritirare la tenuta di gioco. Sandecker lo aspettava al circolo, vestito con una tuta blu dai profili dorati; per quanto fosse firmata da uno stilista, non ci voleva un grande sforzo d'immaginazione per figurarsi Sandecker che camminava avanti e indietro sul ponte di un vascello da guerra dei tempi andati, lanciando l'ordine di ammainare le vele o scaricare una bordata contro qualche pirata di Barberia. Dirigeva la NUMA allo stesso modo, guardando con un occhio ai cambiamenti del vento e con l'altro agli avversari. Come ogni buon comandante, inoltre, si preoccupava molto del benessere della ciurma. Quando aveva appreso che Austin era stato in pericolo a causa di un contorto piano segreto andato per il verso sbagliato, aveva scatenato un'eruzione di collera tale da far impallidire quella di Krakatoa. Il fatto che fosse coinvolta la CIA aveva peggiorato la violenza della sua reazione. L'ammiraglio aveva simpatia per LeGrand, ma a suo giudizio l'agenzia era viziata e finanziata in modo del tutto sproporzionato alle reali esigenze. Oltre ad apprezzare quella possibilità di tenere sulle spine il direttore della CIA, la considerava un'opportunità di esprimere il suo scontento. Sandecker non era alieno dal ricorso alle manovre politiche, anzi ne era un convinto assertore. Uno dei suoi talenti più preziosi consisteva nella capacità di cavalcare la collera e sfruttarla a proprio vantaggio. I bersagli delle sue sfuriate non immaginavano che spesso, dietro la facciata della collera incandescente, lui era sereno, o addirittura allegro. Quella capacità gli aveva reso buoni servigi: i presidenti di entrambi i partiti lo trattavano con deferenza, senatori e parlamentari facevano di tutto per coltivare la sua conoscenza, e i membri del gabinetto davano istruzioni al loro staff di passare le sue telefonate senza esitazioni. LeGrand aveva accettato prontamente l'invito dell'ammiraglio perché si sentiva in colpa per l'incidente avvenuto nello Stato di New York e voleva cogliere al volo quell'occasione di fare ammenda, anche se ciò significava farsi umiliare sul campo di squash. Con sua grande sorpresa, Sandecker lo aveva accolto con un sorriso, senza nemmeno accennare all'incidente per tutta la durata della partita. Si era offerto persino di pagare il primo giro al bar, che offriva soltanto succhi di frutta e verdura. «La ringrazio per aver accettato di vedermi con un preavviso così bre-
ve», osservò con il suo tipico sorriso da alligatore. LeGrand bevve un sorso di succo di papaia, scuotendo la testa. «Forse uno di questi giorni la batterò.» «Prima dovrà lavorare un po' sul rovescio», gli suggerì Sandecker. «A proposito, visto che dispongo della sua attenzione, vorrei ringraziarla per aver evitato la tragedia che avrebbe potuto coinvolgere il mio collaboratore, Kurt Austin.» Forse non sarebbe andata male come si aspettava, pensò LeGrand. «Mi rammarico di quel deprecabile episodio. La piena portata di questo, ehm, problema non è apparsa subito evidente. Era una situazione molto complessa.» «Così mi dicono», ribatté Sandecker in tono leggero. «Ecco che cosa intendo fare, Erwin. Per il momento cercherò di dimenticare che un piano sballato architettato dall'OSS e portato avanti dalla CIA vi ha preso la mano, rischiando di eliminare il capo della squadra missioni speciali della NUMA insieme a uno spettatore innocente e mettendo in pericolo la vita del portavoce della Camera.» «Lei è molto generoso, James», disse LeGrand. Sandecker annuì. «Dalle mura della NUMA non uscirà neanche una parola su questa penosa esibizione da novellini dello spionaggio.» «L'agenzia apprezza la sua discrezione.» Sandecker inarcò un sopracciglio rosso fuoco. «Questo non significa che la passerete del tutto liscia», aggiunse in tono arcigno. «In cambio, voglio un resoconto completo su questo sordido affare.» LeGrand sapeva che ci sarebbe stato uno scambio di favori; con Sandecker andava sempre a finire così, e quindi aveva già deciso di mettere le carte in tavola. «È una richiesta pienamente giustificata», riconobbe. «Direi proprio di sì», decretò Sandecker. «Ricostruire tutta la storia è stata una vera impresa, soprattutto con un preavviso così breve, ma farò del mio meglio per spiegare quello che è accaduto.» «O meglio, in questo caso, quello che non è accaduto.» LeGrand abbozzò un sorriso tutt'altro che riuscito. «La storia comincia alla fine della seconda guerra mondiale. Dopo la sconfitta della Germania, la coalizione degli Alleati entrò in crisi. Churchill se ne uscì con il famoso discorso sulla 'cortina di ferro' e cominciarono i preparativi per mettere in scena la guerra fredda. Gli Stati Uniti si sentivano ancora al sicuro perché
erano l'unica nazione che avesse la bomba, ma quello stato d'animo di tronfio compiacimento s'incrinò quando anche i sovietici fecero esplodere un ordigno nucleare, ed ebbe inizio la corsa agli armamenti. Siamo riusciti a tornare in vantaggio con la bomba all'idrogeno, ma i russi ci alitavano sul collo, e chiaramente era solo questione di tempo prima che raggiungessero di nuovo la parità. Come sa, la bomba all'idrogeno utilizzava un processo diverso per scatenare un'esplosione.» «La bomba termonucleare sfrutta il processo di fusione, anziché quello di fissione», replicò Sandecker, che era un esperto nel campo della fisica atomica, poiché aveva comandato dei sommergibili a propulsione nucleare. «Gli atomi si uniscono, anziché scindersi.» LeGrand annuì. «L'atomo di idrogeno si fonde con l'atomo di elio. Il sole e le altre stelle utilizzano lo stesso processo per creare energia. Una volta accertato che il principale laboratorio di fusione sovietico si trovava in Siberia, il nostro governo prese in considerazione l'idea del sabotaggio. La sconfitta dell'Asse era ancora abbastanza vicina per alimentare una sensazione di onnipotenza, e qualcuno parlava con nostalgia del raid compiuto dai commando nell'impianto per la produzione dell'acqua pesante in Norvegia. Ma lei naturalmente conosce bene quella missione, ammiraglio.» «Si riferisce all'impianto che produceva un isotopo necessario alla produzione della bomba atomica tedesca», ribatté Sandecker. «Proprio così. Il raid provocò dei ritardi nello sforzo bellico dei tedeschi.» «Un raid del genere in Siberia sarebbe stato un'impresa a dir poco ambiziosa.» «In effetti sarebbe stato impossibile», riconobbe LeGrand. «Anche il raid in Norvegia, del resto, aveva presentato difficoltà incredibili nella fase organizzativa, nonostante l'accessibilità del bersaglio e l'appoggio dei partigiani. E poi c'era un altro fattore da prendere in considerazione.» Sandecker, che tendeva a vedere ogni situazione da un punto di vista globale, osservò: «All'epoca del raid in Norvegia, la Germania era in guerra con gli Alleati, mentre URSS e Stati Uniti non avevano dichiarato esplicitamente l'apertura delle ostilità. Entrambe le parti stavano bene attente a evitare uno scontro militare diretto. Un raid in un laboratorio sovietico sarebbe stato considerato un atto aperto di guerra che non era possibile ignorare». «È proprio questo il punto. Sarebbe stato come se i russi avessero distrutto un laboratorio nel New Mexico. Avrebbe scatenato una guerra aper-
ta.» Sandecker non era certo un ingenuo, quando si trattava di far tornare i conti in qualche situazione politicamente insidiosa. «Un raid sarebbe stato realizzabile, in realtà, ma richiedeva un segreto 'a prova di bomba', che non fosse possibile forzare.» LeGrand annuì. «È esattamente quello che disse il presidente, quando gli esposero la situazione.» «Un problema davvero spinoso», commentò Sandecker. «Senza dubbio, ma quelli non erano uomini comuni. Avevano creato praticamente da zero la più grande macchina da guerra della storia, usandola senza scrupoli per schiacciare due nemici formidabili in vari continenti e oceani del pianeta. Eppure neanche la loro determinazione e versatilità sembrava all'altezza di questa sfida. Per loro fortuna, due eventi privi di collegamento fra loro s'intrecciarono, indicando una possibile via d'azione. Il primo era lo sviluppo dell'apparecchio che divenne famoso sotto il nome di 'ala volante'. Il design presentava qualche problema, ma aveva una caratteristica non pianificata che risultò preziosa: la tecnologia stealth, che rendeva l'aereo invisibile al radar. Il profilo sottile e la superficie 'pulita' dell'apparecchio facevano sì che, nelle circostanze giuste, potesse passare inosservato.» «Ho l'impressione che lei si riferisca ai radar russi», osservò Sandecker. LeGrand si concesse un sorriso enigmatico. «In teoria tutte le ali volanti, comprese quelle ancora in produzione, furono distrutte dall'aviazione, ma il presidente autorizzò la costruzione di una versione modificata, che doveva avvenire nel massimo segreto. Quell'apparecchio aveva anche un'autonomia maggiore e una velocità superiore ai modelli originali. In breve, ecco un sistema per entrare e uscire dalla Siberia senza farsi scoprire.» «Che io sappia, i russi non sono un popolo ottuso», ribatté Sandecker. «Se il loro laboratorio fosse stato distrutto, avrebbero immaginato subito che dietro c'erano gli Stati Uniti.» «Certo, e qui entrava in gioco la seconda parte dell'equazione, quella determinante», replicò LeGrand. «Era la scoperta dell'anasazium, un prodotto secondario del lavoro svolto a Los Alamos. Lo scienziato che scoprì questa sostanza era un antropologo dilettante, affascinato dall'antica cultura pueblo, che un tempo viveva nel Sud-ovest degli Stati Uniti, e battezzò la sua scoperta con il nome del popolo anasazi. La sostanza aveva un certo numero di proprietà interessanti, ma quella che attirava maggiore interesse era la sua capacità di modificare in modo sottile l'atomo dell'idrogeno. Se
fosse stato possibile introdurre in segreto dell'anasazium in un laboratorio militare sovietico, questo avrebbe mandato a monte la ricerca sulla fusione. Stando alle stime degli scienziati, il progetto della bomba avrebbe subito ritardi calcolabili nell'ordine di alcuni anni. Gli Stati Uniti avrebbero guadagnato tempo utile per la costruzione di una flotta di bombardieri e missili intercontinentali, così avanzata che i sovietici non sarebbero mai riusciti a riguadagnare il tempo perduto. Il piano prevedeva il lancio di bombe munite di paracadute che dovevano esplodere in aria, rilasciando la sostanza in forma liquida, cosicché sarebbe entrata nei sistemi di ventilazione del laboratorio. In sé la sostanza era innocua come l'acqua per gli esseri umani, quindi chi era esposto all'attacco avrebbe creduto di sentire un temporale molto bizzarro, di durata estremamente breve.» «Non somiglia molto a quelli che oggi si chiamano 'bombardamenti intelligenti'.» «No, in effetti, ma, come si dice, a mali estremi, estremi rimedi.» «E se l'aereo fosse precipitato per cause meccaniche?» «Fu presa in considerazione anche una tale possibilità. Non erano previste capsule di veleno come quella che Francis Gary Powers non aveva preso quando si era schiantato con l'U-2, ma d'altronde nessuno voleva superstiti in grado di parlare. La soluzione adottata consisteva nell'assenza di paracadute per l'equipaggio; in sostanza, era impossibile lanciarsi dall'aereo con il paracadute: non erano stati montati seggiolini eiettabili e la cupoletta del pilota non poteva essere forzata. Se mai fosse stato ritrovato il relitto dell'aereo, si sarebbe sempre potuto dire che era un prototipo sperimentale finito fuori rotta per un tragico errore.» «E l'equipaggio lo sapeva?» «Erano volontari fortemente motivati e incapaci di prendere in considerazione l'idea del fallimento.» «Peccato che il piano sia realmente fallito.» «Al contrario», ribatté LeGrand. «La missione fu un successo su tutta la linea.» «In che senso? Se ben ricordo, i sovietici hanno costruito una bomba all'idrogeno poco dopo di noi.» «Verissimo. Hanno fatto esplodere il primo congegno termonucleare nel 1953, due anni dopo gli Stati Uniti, ma deve tenere presente quello che le ho detto a proposito della sensazione di onnipotenza. I nostri non potevano immaginare che un contadino ignorante come Stalin potesse superarli in astuzia. Estremamente sospettoso nei confronti di tutti, aveva ordinato a
Igor Kurčatov, l'equivalente sovietico del nostro Oppenheimer, di costruire un duplicato perfetto del laboratorio sui monti Urali, e le ricerche del secondo laboratorio furono coronate dal successo. Stalin pensò che il laboratorio siberiano avesse fallito e fece liquidare i tecnici.» «Mi sorprende che non sia stata ordinata la distruzione del complesso negli Urali.» «Era previsto un raid, ma la missione fu annullata. Forse era considerata troppo pericolosa, o forse l'ala volante presentava problemi tecnici insormontabili.» «Che cosa ne è stato dell'aereo?» «Fu sigillato nell'hangar insieme con il suo carico. La base in Alaska dalla quale era decollato fu abbandonata, e gli uomini che ci lavoravano furono dispersi in tutto il globo. Nessuno di loro aveva un quadro completo dell'operazione, e quella fu la fine, o quasi.» «Quasi. Si riferisce al protocollo e all'uccisione del pilota?» LeGrand si dimenò sulla sedia, a disagio. «Quello e altro. In realtà tutti i componenti dell'equipaggio di quel volo furono uccisi», rispose a bassa voce. «Erano i soli a conoscere bene la missione e il bersaglio, all'infuori dei politici. In tutto morirono quattro uomini. Alle famiglie fu comunicato che si trattava di un incidente, e gli uomini furono sepolti nel cimitero di Arlington con tutti gli onori militari.» «Un bel gesto.» LeGrand si schiarì nervosamente la gola. «Voi tutti sapete che ho fatto del mio meglio per bonificare l'agenzia, ma a volte grattare uno strato superficiale di sporco serve soltanto a farne emergere un altro ancora più lurido. Purtroppo gran parte del lavoro positivo che abbiamo svolto è rimasto segreto per ovvie ragioni, ma la comunità dei servizi segreti ha fatto cose di cui non c'è da essere fieri. Questo deplorevole episodio rientra appunto in tale categoria.» «Austin mi ha messo al corrente delle sue scoperte. Il pilota ha assistito al proprio funerale ad Arlington. Mi risulta che il figlio lo abbia visto.» «Ha insistito perché gli fosse concesso di rivedere ancora una volta la moglie e il figlio», spiegò LeGrand. «Gli avevano detto che sarebbe rimasto sotto protezione a tempo indefinito, ma naturalmente era solo una menzogna. Poco dopo l'inizio del programma di protezione, fu ucciso dal suo protettore.» «L'uomo che viveva nello Stato di New York.» «Esatto.»
Gli occhi azzurri di Sandecker assunsero una sfumatura dura. «Mi spiace, ma non riesco a provare alcuna compassione per l'assassino. Si è comportato come un killer a sangue freddo a un'età in cui si ritiene che dovremmo raggiungere la saggezza, e stava per uccidere Austin. Qual era la ragione del protocollo? Non era stato sufficiente uccidere gli uomini dell'equipaggio?» «Gli alti funzionari che presero questa decisione volevano evitare anche la minima possibilità che il segreto venisse a galla, pensando che potesse scatenare un'altra guerra. I rapporti fra noi e i sovietici erano già abbastanza tesi. Il protocollo fu predisposto per far scattare una reazione alla cieca contro ogni tentativo di riportare a galla il segreto. Erano tutti convinti che qualsiasi tentativo d'infiltrazione spionistica dovesse venire dall'estero. Nessuno si sognava che la minaccia venisse dal Congresso degli Stati Uniti. Era del tutto superfluo. Il portavoce della Camera fu sconfitto quando si presentò candidato alle nuove elezioni, e il suo esposto non venne mai reso noto. Probabilmente tutti davano per scontato che la piccola mina lasciata sul terreno in modo che esplodesse in faccia a chiunque seguiva la pista si sarebbe disattivata da sola. Non avrebbero mai creduto che sarebbe stata ancora pericolosa a cinquant'anni di distanza.» Sandecker si appoggiò allo schienale della sedia, congiungendo a piramide la punta delle dita. «Quindi è stato per colpa di un piano antidiluviano escogitato da un gruppo di cowboy affetti da machismo acuto che uno dei miei uomini ha rischiato di lasciarci la pelle. Mi risulta che l'assassino avesse già i bagagli pronti per andarsene, con esplosivi e un fucile da tiratore scelto. A quanto pare, progettava di dare una bella festa per celebrare il pensionamento. È un vero peccato che non si possa far sapere all'opinione pubblica americana in che modo sono stati usati i soldi dei contribuenti, e tutto in nome della democrazia.» «Sarebbe un errore», obiettò LeGrand. «Questo è ancora un terreno estremamente delicato. Per ridurre l'arsenale nucleare russo è stata necessaria una lotta strenua. Se venisse a galla, questa vicenda fornirebbe argomenti all'ala nazionalista, sempre pronta a sostenere che degli Stati Uniti non ci si può fidare.» «Tanto lo pensano comunque», ribatté asciutto Sandecker. «L'esperienza mi ha insegnato che c'è una sola cosa che i potenti temono, ed è l'imbarazzo.» Sorrise. «Posso confidare nel fatto che non ci siano altri protocolli pronti a scattare per cogliere di sorpresa gli sprovveduti?» Quelle parole costituivano un velato avvertimento.
«Ho già ordinato un esame completo dei file contenuti nei nostri computer proprio per impedire che si ripeta un'eventualità del genere», gli assicurò LeGrand. «Non ci saranno altre sorprese.» «Me lo auguro», concluse Sandecker. 28 Austin riempì una tazza alta di caffè nero e bollente preparato con la pregiata qualità giamaicana Blue Mountain, bevve un sorso di quel potente infuso stimolante e prese dalla scrivania il cilindro di alluminio. Lo soppesò nella mano grande e forte, fissando la superficie convessa e costellata di graffi e ammaccature come se fosse una sfera di cristallo. Quell'oggetto, però, non rivelava segreti, limitandosi a rimandargli un'immagine distorta del viso bronzeo e dei capelli chiarissimi. Posando il cilindro, tornò a studiare la carta geografica dell'Alaska che aveva dispiegato sulla scrivania. Era stato più volte da quelle parti, e l'immensità del cinquantesimo Stato della federazione non mancava mai di colpire la sua immaginazione. Individuare la vecchia base dell'ala volante in uno dei territori più accidentati della terra era un'impresa impossibile, come cercare un granello di sabbia sulla spiaggia di Malibu. Per complicare ancor più il problema, la base doveva essere stata costruita in modo tale da sfuggire a occhi indagatori. Austin lasciò scorrere il dito da Barrow, all'interno del circolo polare artico, verso sud fino alla penisola di Kenai. Il telefono squillò proprio nell'istante in cui nella sua mente cominciava a germogliare un'idea. Con gli occhi incollati sulla carta, sollevò il ricevitore, accostandolo all'orecchio e rispondendo con un «pronto?» distratto e puramente formale. Gli giunse la voce brusca di Sandecker. «Kurt, può salire nel mio ufficio?» «Può aspettare, ammiraglio?» rispose Austin, tentando di non perdere il filo dei suoi pensieri. «Ma certo, Kurt», concesse Sandecker in tono magnanimo. «Le bastano cinque minuti?» L'idea si spense, avvizzita come un fiore rimasto esposto al sole. Sandecker possedeva una forza irresistibile, quasi primordiale. La sua mente lavorava alla velocità della luce, e di conseguenza la sua nozione del tempo tendeva a essere compressa. «Sarò da lei fra due minuti.»
«Magnifico. A mio parere, scoprirà che ne vale la pena.» Entrando nell'ufficio di Sandecker, all'ultimo piano, Austin si aspettava di vedere il direttore della NUMA seduto dietro la sua immensa scrivania, ricavata da un portello di una nave che aveva violato il blocco confederato. Invece era seduto di lato, su una delle comode poltrone di cuoio nero destinate ai visitatori, vestito con un blazer blu marina rischiarato da un ricamo di ancore in oro sul taschino. Stava conversando con una donna che voltava le spalle a Austin, ma non appena lo vide entrare si alzò per salutarlo. «Grazie per essere venuto, Kurt. C'è una persona, qui, che vorrei farle conoscere.» La donna si alzò in piedi e l'assillo del rompicapo rappresentato dall'Alaska si dileguò dalla mente di Austin al primo sguardo. Era alta e snella, con gli zigomi alti e gli occhi a mandorla dell'eurasiana. In contrasto con l'aspetto esotico, aveva scelto un abbigliamento tradizionale, un tailleur bordeaux con la gonna al polpaccio. I capelli biondo scuro erano raccolti strettamente in una treccia che le scendeva fra le scapole. In lei c'era qualcosa che andava oltre la comune bellezza. Aveva il portamento eretto di una donna di sangue reale, ma nello stesso tempo si mosse con la flessuosa agilità di una pantera per avvicinarsi e stringergli la mano. Gli occhi di un azzurro cupo punteggiato di pagliuzze d'oro sembravano emanare un calore tropicale. Forse era immaginazione, ma la fragranza muschiata che si sprigionava da lei suggerì a Austin un rullare di tamburi lontani. A un tratto gli balenò alla mente chi poteva essere la donna. «Lei è la dottoressa Cabral?» Austin non sarebbe rimasto sorpreso se lei gli avesse risposto con il tono vibrante delle fusa di un felino. Invece aveva una voce bassa e melodiosa. «La ringrazio per essere venuto a conoscermi, signor Austin. Spero di non aver interrotto niente d'importante. Ho chiesto all'ammiraglio Sandecker di avere la possibilità di ringraziarla di persona per il suo aiuto.» «Non c'è di che. Sono stati Gamay e Paul a fare tutto il lavoro. Io mi sono limitato a rispondere al telefono e premere un paio di pulsanti.» «È troppo modesto, signor Austin», rispose lei con un sorriso che avrebbe sciolto un blocco di ghiaccio. «Se non fosse stato per la sua prontezza, temo che la mia testa e quella dei suoi colleghi sarebbero servite a decorare un villaggio a migliaia di chilometri da questi piacevoli ambienti.» Sandecker si frappose tra loro, guidando di nuovo Francesca al suo po-
sto. «Su questa nota lieta, dottoressa Cabral, le dispiacerebbe se facessimo valere la nostra autorità, chiedendole di raccontare la sua storia dall'inizio alla fine?» «Niente affatto», rispose lei. «Parlare con qualcuno della mia esperienza ha un valore terapeutico, e io stessa mi sorprendo a ricordare dettagli che avevo dimenticato.» Sandecker invitò con un gesto Austin a sedersi, poi prese posto alla scrivania e accese uno dei dieci sigari confezionati a mano che fumava ogni giorno. Insieme a Austin, ascoltò con attenzione assoluta Francesca che raccontava la storia appassionante del dirottamento, dell'incidente aereo e dell'incontro ravvicinato con la morte, che aveva evitato di un soffio, prima di essere elevata al rango di dea bianca dagli indigeni. Espose con grande ricchezza di dettagli i lavori pubblici realizzati nel villaggio dei chulo, di cui andava tanto fiera, e concluse con il resoconto dell'arrivo dei Trout, della fuga rocambolesca e del salvataggio compiuto dall'elicottero. «Affascinante», commentò Sandecker, «assolutamente affascinante. Mi dica, che cosa ne è stato della sua amica Tessa?» «È rimasta con il dottor Ramírez. La sua conoscenza delle piante medicinali sarà di valore incalcolabile per la ricerca che lui conduce. Ho parlato al telefono con i miei genitori, per essere sicura che stessero bene. Volevano che tornassi a casa, ma ho deciso di restare negli Stati Uniti perché ho bisogno di un periodo più lungo di decompressione, prima di tornare a inserirmi nell'intensa vita sociale di San Paolo. A parte questo, sono decisa a completare il lavoro interrotto dieci anni fa.» Sandecker osservò la linea ostinata della mascella di Francesca. «Sono fermamente convinto che il passato non è solo presente, ma anche futuro. Sarebbe utile per capire che cosa ci prospetta questo futuro, se lei accennasse agli avvenimenti che hanno preceduto il suo viaggio in aereo.» Francesca fissò gli occhi nel vuoto, come se potesse vedere oltre il tempo. «Tutto ha avuto inizio nella mia infanzia. Mi sono resa conto molto presto di appartenere a un ambiente privilegiato. Fin da bambina sapevo di vivere in una città che comprende dei quartieri degradati sino all'inverosimile. A mano a mano che crescevo e viaggiavo, scoprivo che la mia città non era altro che un microcosmo che rifletteva il mondo intero, nel quale i ricchi vivevano a fianco a fianco con gli indigenti. Inoltre ho scoperto che la differenza essenziale fra nazioni povere e ricche riguarda la sostanza più abbondante in natura, e cioè l'acqua. L'acqua potabile favorisce lo sviluppo. Senza acqua non c'è niente da mangiare, e senza cibo non c'è volontà di
vivere e di migliorare il proprio livello di vita. Perfino i Paesi ricchi di petrolio utilizzano gran parte delle entrate derivanti dall'oro nero per acquistare o produrre acqua. Noi diamo per scontato che quando si apre il rubinetto ne esca dell'acqua, ma non sarà sempre così. La rivalità in questo campo è diventata più che mai accesa.» «Gli Stati Uniti non sono estranei alle dispute per l'acqua», commentò Sandecker. «Ai tempi della frontiera i conflitti si scatenavano proprio per il diritto di utilizzarla.» «E questo non è niente in confronto ai problemi del futuro», osservò Francesca con un tono cupo. «Nel secolo appena iniziato le guerre non saranno combattute per il possesso del petrolio, come in passato, ma per l'acqua. La situazione sta diventando disperata. Le riserve idriche del pianeta sono insufficienti per la crescita della popolazione. Sulla terra non c'è acqua potabile in quantità superiore a duemila anni fa, quando la popolazione era pari al tre per cento appena di quella attuale. Anche senza le inevitabili siccità, come quella attuale, la situazione peggiorerà con l'aumentare della richiesta e dell'inquinamento. Alcune nazioni resteranno semplicemente a secco, provocando una crisi di profughi a livello globale. Decine di migliaia di persone si riverseranno in massa oltre i confini. La mancanza d'acqua significa il crollo degli allevamenti ittici, la distruzione dell'ambiente, conflitti e un abbassamento generale delle condizioni di vita.» S'interruppe un attimo. «Voi che vi occupate dell'oceano dovreste rendervi conto dell'ironia implicita nella nostra situazione: siamo di fronte a una carenza d'acqua in un pianeta la cui superficie è ricoperta d'acqua per due terzi.» «'Acqua, acqua in ogni dove, e neanche una goccia da bere'», commentò Austin, citando la poesia di Coleridge. «Proprio così. Ma supponiamo che il marinaio avesse avuto una bacchetta magica con la quale tracciare un segno su un secchio pieno d'acqua di mare, trasformandola in acqua potabile.» «La sua nave si sarebbe salvata.» «E ora proviamo a estendere l'analogia a milioni di secchi d'acqua.» «La crisi globale dell'acqua sarebbe risolta», concluse Austin. «Quasi il settanta per cento della popolazione mondiale vive a meno di ottanta chilometri dal mare.» «Esatto», confermò Francesca, illuminandosi. «Mi sta dicendo che lei possiede questa bacchetta magica?» «Qualcosa di altrettanto efficace, o quasi. Ho messo a punto un proce-
dimento rivoluzionario per estrarre il sale dall'acqua di mare.» «Come saprà meglio di me, la desalinizzazione non è certo un concetto nuovo», le fece notare Sandecker. Francesca annuì. «L'estrazione del sale dall'acqua di mare risale agli antichi greci. In tutto il mondo sono stati costruiti impianti di desalinizzazione, molti dei quali in Medio Oriente. Esistono vari metodi, ma sono tutti costosi. Per questo nella mia tesi di dottorato ho proposto un approccio radicalmente nuovo a questo problema, escludendo tutti i vecchi sistemi. Il mio obiettivo era un processo che fosse efficiente ed economico, alla portata del contadino più povero che cerca di ricavare di che vivere da una terra grama. Pensate alle possibili implicazioni di questa scoperta. L'acqua sarebbe praticamente gratuita. I deserti diventerebbero centri di civiltà.» «Sono certo che lei ha pensato anche agli effetti collaterali indesiderabili», osservò Sandecker, «come il fatto che la disponibilità di acqua a buon mercato stimolerebbe lo sviluppo, la crescita della popolazione e l'inquinamento che accompagna questi fenomeni.» «Ci ho pensato a lungo e intensamente, ammiraglio Sandecker, ma le alternative erano ancor meno gradevoli. Porrei come condizione per la concessione dell'uso del mio procedimento l'esigenza di uno sviluppo ordinato.» «Va da sé che il suo esperimento è stato coronato dal successo», replicò Austin. «Infatti è così. Stavo appunto portando alla conferenza internazionale del Cairo un modello funzionante dell'impianto. Da una parte entra l'acqua di mare, dall'altra esce acqua potabile. Il procedimento produce energia con una quantità minima di scorie.» «Un sistema del genere varrebbe milioni di dollari.» «Su questo non c'è dubbio. Avevo ricevuto offerte che mi avrebbero reso immensamente ricca, ma progettavo di offrire la scoperta al mondo intero a titolo del tutto gratuito.» «Sarebbe stato un gesto molto generoso da parte sua. Ha detto di avere ricevuto delle offerte: questo significa che qualcuno era al corrente dei suoi progetti e dei suoi piani?» «Da quando mi ero messa in contatto con l'ONU per partecipare alla conferenza, il procedimento non era più un segreto assoluto.» Francesca s'interruppe per qualche istante. «Proprio questo particolare mi ha sempre lasciato perplessa, e cioè che molti conoscevano la mia scoperta. Quelli che hanno tentato di rapirmi si sarebbero traditi subito, se avessero tentato
di trarre profitto dal mio lavoro.» «Esiste anche un'altra possibilità», suggerì Austin. «Forse volevano seppellire il suo lavoro e tenere segreto il processo al resto del mondo.» «Ma per quale motivo qualcuno potrebbe voler impedire un enorme progresso per l'umanità?» «Forse lei è troppo giovane per ricordarlo», osservò Sandecker, che ascoltava con profondo interesse. «Anni fa circolavano storie sull'esistenza di un inventore che avrebbe costruito un motore di automobile capace di percorrere centocinquanta chilometri con meno di quattro litri di benzina, o addirittura di funzionare ad acqua. I dettagli non contano: l'essenziale è che le società petrolifere avrebbero acquistato il segreto per seppellirlo nel silenzio, in modo da poter continuare a ricavare profitti dalle vendite. Non erano altro che leggende metropolitane, ma credo di averle chiarito il mio punto di vista.» «Chi può voler impedire che le nazioni povere usufruiscano dell'acqua potabile a buon mercato?» «Le indagini che abbiamo svolto ci offrono un vantaggio su di lei, dottoressa Cabral. Mi permetta di rivolgerle una domanda teorica. Poniamo che lei controlli le riserve idriche del mondo. Come accoglierebbe una scoperta che, da un momento all'altro, mette l'acqua potabile a disposizione di tutti con poca spesa?» «Il mio metodo porrebbe fine a questo ipotetico monopolio dell'acqua. Ma questo è un discorso del tutto teorico, visto che è semplicemente impossibile che qualcuno controlli le riserve idriche del mondo.» Sandecker e Austin si scambiarono un'occhiata. Raccogliendo l'imbeccata di Sandecker, Austin replicò: «Negli ultimi dieci anni sono accadute molte cose, dottoressa Cabral. In seguito potremo esporle con calma tutta la vicenda, ma il punto essenziale è che una multinazionale di dimensioni enormi, chiamata Gogstad Corporation, è sul punto di acquisire il monopolio delle riserve di acqua potabile del mondo intero». «Impossibile!» «Vorrei che lo fosse.» Gli occhi di Francesca s'indurirono. «Allora dev'essere stata questa Gogstad a tentare di rapirmi, a rubarmi dieci anni di vita.« «Non abbiamo elementi concreti», replicò Austin, «ma senza dubbio ci sono notevoli prove circostanziali che puntano in quella direzione. Mi dica, lei che cosa sa di una sostanza chiamata anasazium?»
Francesca rimase a bocca aperta per la sorpresa. Riprendendosi in fretta, disse: «C'è qualcosa di cui voi della NUMA non siete al corrente?» «Molte cose, purtroppo. In realtà sappiamo ben poco di questa sostanza, a parte il fatto che può avere strani effetti sulla struttura dell'atomo di idrogeno.» «Questa è la sua proprietà più importante. È un rapporto molto complesso. In effetti è proprio questo l'elemento essenziale del mio processo di desalinizzazione. Solo pochissime persone sono al corrente della sua esistenza, ed è estremamente raro.» «In che modo si è imbattuta in questa sostanza?» «Per puro caso. Ho letto un articolo quasi sconosciuto di un ex fisico del laboratorio di Los Alamos. Invece di provare a migliorare i metodi esistenti di desalinizzazione, volevo affrontare il problema a livello molecolare, o addirittura nucleare, ma la soluzione continuava a sfuggirmi finché non sono venuta a conoscenza di questa sostanza. Mi sono messa in contatto con l'autore dell'articolo, che possedeva una piccola quantità di materiale e si era detto disposto a separarsene quando gli ho spiegato per quale motivo ne avevo bisogno.» «Come mai è così raro?» «I motivi sono vari. Dal momento che in apparenza non aveva usi economici, la domanda era inesistente. Inoltre il processo di raffinazione è molto complicato. La fonte principale di minerale grezzo si trova in una zona travagliata del continente africano, dilaniata da guerre continue. Io ne avevo solo alcune decine di grammi, sufficienti per costruire un prototipo. Intendevo proporre che le nazioni del mondo unissero le loro risorse per produrre anasazium in quantità sufficiente per avviare dei progetti pilota. Lavorando in collaborazione, avremmo potuto ottenere in breve tempo quantità sufficienti di questa sostanza.» «La Gogstad gestiva un impianto sulla costa del Messico che è stato distrutto da una spaventosa esplosione.» «Mi dica qualcosa di più su questo impianto.» Austin le fece un rapido sommario, cominciando con la moria delle balene. Descrisse il contenitore cilindrico trovato subito dopo l'esplosione e il modo in cui lo aveva ricollegato all'ala volante, dopodiché Sandecker la mise al corrente della missione in Siberia al tempo della guerra fredda. «Una storia fantastica. È un vero peccato per le balene», commentò lei in tono triste. «In effetti, il mio metodo produce calore che si può trasformare in energia. Il materiale può rivelarsi instabile e, in determinate circo-
stanze, diventa un potente esplosivo. Queste persone devono aver tentato di riprodurre il mio processo di desalinizzazione senza essere al corrente dell'instabilità della sostanza. Ma dove possono aver trovato l'anasazium?» «Non lo sappiamo», rispose Austin. «Sappiamo che esiste una fonte piuttosto consistente, ma non ne conosciamo la posizione esatta.» «Dobbiamo trovarla, in modo che possa riprendere la mia ricerca», disse Francesca in tono pressante. «Esiste un'altra ragione, ancora più importante», ribatté Sandecker. «Non conosco altre ragioni più importanti che quella di continuare il mio lavoro», replicò lei, sulla difensiva. «A suo tempo, dottoressa Cabral, a suo tempo. Il suo lavoro servirà a ben poco, se la Gogstad riuscirà a realizzare i suoi piani. Chiunque controlli le riserve idriche del mondo controlla il mondo.» «Sembra quasi che lei parli di dominio globale, ammiraglio Sandecker.» «Perché no? Napoleone e Hitler hanno fallito, ma i loro tentativi erano fondati sulla forza delle armi. In entrambi i casi si sono trovati a combattere contro qualcuno più forte di loro.» Tirando una boccata dal sigaro, osservò la nube di fumo. «I contestatori della globalizzazione, con tutte quelle proteste contro l'Organizzazione mondiale per il commercio e il Fondo monetano internazionale, non hanno tutti i torti. Il pericolo non consiste in questi enti, ma nel fatto che oggi è più facile che qualcuno eserciti un controllo totale su un intero settore economico.» «Una specie di Al Capone globale?» suggerì Austin. «Esistono delle affinità. Capone era spietato nello sterminare i rivali e aveva un notevole talento organizzativo. Il potere economico gli assicurava influenza politica, ma il contrabbando di alcolici è ben diverso dal controllo dell'acqua. Il mondo non può fare a meno dell'acqua, e chi ne controlla il flusso in ultima analisi ha in mano il potere politico. Chi può opporsi a qualcuno che ha il potere di condannare te e il tuo Paese a morire di sete? Ecco perché, con tutto il dovuto rispetto, dottoressa Cabral, le dico che prima ci sono questioni più importanti da prendere in considerazione.» «Ha ragione, ammiraglio Sandecker», ammise Francesca. «Se la Gogstad dovesse scoprire una riserva consistente di anasazium, controllerebbe anche la mia invenzione.» «Intelligenza e bellezza sono una combinazione davvero ideale», commentò Sandecker con aperta ammirazione. «La dottoressa Cabral ha espresso in modo esplicito i miei stessi timori. È imperativo trovare questo deposito perduto da tempo prima che lo faccia la Gogstad.»
«Quando lei mi ha chiamato, stavo appunto cercando d'individuare la località», disse Austin. «Avrò bisogno di aiuto.» «Questo non è un problema. Usi pure tutte le risorse della NUMA che saranno necessarie, e se non ne abbiamo le troveremo altrove.» «Penso che Joe e io dovremmo partire al più presto per l'Alaska.» «Prima che vi precipitiate nello Yukon, c'è un altro problema che dobbiamo discutere. La costruzione delle navi cisterna di cui Joe è stato informato dal suo amico giornalista mi preoccupa. Lei che ne pensa?» «Come minimo, la Gogstad prevede di trasferire grandi quantità d'acqua dall'Alaska in qualche luogo che ne ha bisogno. Si è parlato di trasportare acqua in Cina.» «È possibile», commentò Sandecker, poco convinto. «Ne parlerò con Rudi Gunn. Forse lui e Yaeger riusciranno a fare luce su questo mistero. Mentre lei e Joe cercate di chiarire la questione dell'ala volante, loro vedranno che cosa si può fare a proposito delle navi cisterna.» Austin si alzò, dicendo: «Vado a mettere le cose in moto». Stringendo la mano a Francesca, le disse: «Le mostro l'uscita, dottoressa Cabral». «Grazie, ma mi chiamo Francesca, e vorrei che ci dessimo del tu», ribatté lei, mentre si avviavano agli ascensori. «Non ho nulla in contrario. Dimmi, quale cucina preferisci? Coreana, thailandese, italiana o americana?» «Non credo di capire.» «Non ti hanno ancora informato?» replicò lui, fingendosi stupito. «La cena rientra nel pacchetto di salvataggio marca Austin. Spero che non rifiuterai. Chissà per quanto tempo dovrò accontentarmi di grasso di balena e bistecche di tricheco, da oggi in poi.» «In tal caso, sarei felice di accettare l'invito. Va bene alle sette?» «Benissimo. In questo modo avrò tempo a sufficienza per cominciare i preparativi del viaggio in Alaska.» «A presto, allora. Come sai, alloggio a casa dei Trout. Quanto alla cucina, quella coreana sarebbe perfetta.» Austin salutò Francesca ai piedi dell'enorme globo che sorgeva al centro del pavimento verde mare nell'atrio della NUMA, un vasto spazio circondato da cascate e acquari pieni di forme di vita marina variopinte ed esotiche. Poi tornò nel suo ufficio al terzo piano, chiamò Zavala per informarlo dell'incontro con Sandecker e si dedicò a requisire mezzi di trasporto per il loro viaggio.
Quando Austin passò a prenderla a casa dei Trout, a Georgetown, Francesca era già pronta. Lui conversò con Paul e Gamay quanto bastava per rispettare le regole della cortesia, poi raggiunsero in macchina il suo ristorante coreano preferito, che si trovava in un edificio discreto di Alexandria. Le raccomandò di provare il belogi, strisce sottili di manzo marinato e arrostito su una piastra rovente al centro del tavolo. In genere era uno dei suoi piatti preferiti, ma quella sera non sentì quasi il sapore di quello che mangiava, tanto era concentrato su Francesca. La donna indossava un semplice abito di tela jeans délavé, che con il suo azzurro pallido faceva risaltare l'abbronzatura e i lunghi capelli fluenti che sembravano racchiudere la luminosità del sole. Per Austin era difficile conciliare l'immagine di quella donna colta e bellissima, chiaramente entusiasta di gustare il semplice piacere di un pasto civile, con la storia che aveva sentito del suo periodo di regno come una dea bianca fra indios selvaggi. Francesca sembrava rilassata e perfettamente a suo agio, ma, persino mentre ridevano della sua scarsa abilità con le bacchette, Austin non riusciva a liberarsi dalla sensazione che aveva provato nel vederla per la prima volta: nonostante la patina di civiltà, la giungla le era entrata nel sangue. Lo intuiva dalla grazia felina dei suoi movimenti e dallo sguardo vigile degli occhi azzurro cupo. Era una caratteristica che affascinava e attraeva Austin, che si augurò di rivedere Francesca al ritorno dalla sua missione. Per tale ragione gli riuscì ancora più penoso essere costretto a scusarsi, concludendo troppo presto la serata. Aveva molto da fare prima della partenza per l'Alaska, le spiegò. Lasciandola sulla porta di casa Trout, le chiese se era disposta a uscire di nuovo con lui, al suo ritorno. «Grazie, mi farebbe molto piacere», rispose lei. «Prevedo di restare a Washington per qualche tempo e spero che potremo conoscerci meglio.» «A presto, allora», disse Austin. «A tempo e luogo da destinarsi.» Lei sorrise, sfiorandogli le labbra con un bacio delicato. «È una promessa.» 29 Con l'appoggio di Sandecker, Austin non ebbe difficoltà a procurarsi un jet della NUMA. Dopo aver attraversato il Paese alla velocità di ottocento chilometri l'ora, il Cessna Citation Ultra turchese aveva fatto rifornimento a Salt Lake City prima di spingersi fino ad Anchorage. Dopo il viaggio notturno, giunsero a destinazione mentre la luce del mattino proiettava un
riverbero roseo sui monti Chugach, alla periferia della grande città dell'Alaska, che qualcuno degli abitanti ha ribattezzato Los Anchorage. Pochi minuti più tardi erano di nuovo in volo per l'ultima tappa, Nome. Poco dopo il decollo da Anchorage, Zavala uscì dalla cambusa dell'apparecchio con un paio di tazze fumanti di caffè. Austin stava studiando una vecchia carta geografica, stesa sul tavolino pieghevole compreso fra i sedili. La sua attenzione era rivolta verso un tratto di terreno che aveva la forma di un pugno con le nocche puntate verso l'ex Unione Sovietica, distante appena qualche chilometro, oltre lo stretto di Bering. Prendendo posto sul sedile di fronte a quello di Austin, Zavala sorseggiò il caffè, guardando dal finestrino l'immensa distesa di terra ai loro piedi. Attraverso la trama sfilacciata di cirri bianchi si scorgevano montagne nere orlate da fiumi e foreste impenetrabili. «È un grande Paese», osservò in tono indolente. «Hai un'idea del nostro prossimo scalo dopo Nome?» Austin si raddrizzò, incrociando le dita dietro la testa con lo sguardo fisso nel vuoto. La bocca larga s'incurvò in un sorriso. «Più o meno.» Zavala sapeva che il collega non voleva fare il misterioso: la semplice verità era che non amava le sorprese. Quando il tempo lo consentiva, raccoglieva con pazienza i fatti prima di fare qualsiasi mossa. Zavala puntò il dito in basso. «Sono certo che per te non sarà una sorpresa sapere che laggiù c'è molto più che meno.» «Qualcosa come un milione e cinquecentomila chilometri quadrati, l'ultima volta che ho controllato. Non mi faccio illusioni sulla portata del compito che ci attende. Potremmo cercare fino a raggiungere l'età pensionabile per la NUMA senza trovare un accidente.» Austin corrugò la fronte, soprappensiero. «È per questo che ho deciso di procedere in base a quello che sappiamo, anziché a quello che non sappiamo.» Zavala afferrò subito il principio. «Sappiamo che l'obiettivo si trovava nell'Unione Sovietica.» Puntò il dito sulla carta indicando la costa nordoccidentale dell'Alaska, nel punto in cui alcune dita monche di terreno, tutto ciò che restava del vecchio ponte intercontinentale, si protendevano verso l'Asia. «Qual era l'autonomia dell'ala volante, in base alle statistiche?» «Poco più di quattromilaottocento chilometri, alla velocità di crociera di ottocento chilometri orari. Parto dal presupposto che la capacità dei serbatoi di carburante sia stata estesa al massimo per aumentare il più possibile l'autonomia dell'apparecchio in vista di questa missione.» «C'è pur sempre la possibilità di un rifornimento in volo», gli rammentò
Zavala. «L'ho presa in considerazione, ma immagino che avranno preferito fare in modo che l'operazione fosse semplice e breve per evitare i rischi di essere scoperti.» Prendendo una matita ben temperata, Austin tracciò un arco che andava da Barrow al delta dello Yukon. Zavala si lasciò sfuggire un fischio sommesso. «Stai parlando di un viaggetto che potrebbe portarci nel raggio di oltre millecinquecento chilometri dall'obiettivo. È pur sempre un bel territorio da coprire.» «Più vasto della superficie di alcuni Stati», riconobbe Austin. «Per questo sono partito da una congettura: senza dubbio i ragazzi dei servizi segreti avranno voluto tenere segreto il più possibile questo piano assurdo. Costruire una nuova base era costoso e, oltre a richiedere tempo, rischiava di attirare un'attenzione indesiderata.» Zavala fece schioccare le dita. «Avranno usato una base già esistente.» Austin annuì. «Durante la seconda guerra mondiale, l'Alaska era disseminato di postazioni di artiglieria e piste di atterraggio, a causa del timore di un'invasione giapponese. Ogni puntino rosso su questa carta indica una pista di atterraggio della seconda guerra mondiale.» Zavala rifletté sul problema. «E se la base fosse segreta?» «Era segreta, almeno finora.» Austin piantò la punta della matita su Nome, tracciando poi un circolo intorno a quel puntino. «Quello che cerchiamo lo troveremo qui, anche se devo ammettere che, nonostante tutte le mie congetture, si tratta pur sempre di un colpo alla cieca.» Zavala studiò la carta, increspando le labbra nel sorriso che era il suo marchio di fabbrica. «Come puoi essere sicuro che questa sia la zona giusta? L'aereo sarebbe potuto decollare da decine di piste.» «Ho ricevuto un piccolo aiuto da un fantasma.» Austin introdusse la mano nella tasca, tirando fuori un taccuino a spirale. La copertina marrone era consunta, ma era ancora possibile leggere le parole «U.S. Army Air Force» e il nome tracciato sotto a inchiostro. Porse il taccuino a Zavala, spiegando: «Questo è il diario del padre di Buzz Martin, il pilota dell'ala volante nella sua ultima missione». Zavala rise, entusiasta. «Avresti dovuto fare il prestigiatore. Non ti saresti comportato diversamente per estrarre un coniglio dal cilindro.» «Questo coniglio mi è saltato fra le braccia da solo. Dopo l'incontro fra Sandecker e LeGrand, la CIA ha frugato un po' in giro e ha ritrovato gli effetti personali di Martin. Dovevano avere fretta di eliminare le prove in-
criminanti, e non hanno controllato con cura il materiale. Buzz ha scoperto il taccuino in una tasca dell'uniforme di suo padre e, pensando che potesse contenere qualche indizio importante, me lo ha consegnato prima della nostra partenza da Washington.» Zavala sfogliò le pagine con gli angoli consunti e arricciati dal tempo. «Non vedo una mappa dettagliata da seguire.» «Non avrai pensato che fosse così facile, vero?» Austin riprese in mano il taccuino per aprirlo a una pagina contrassegnata con un post-it. «Martin era un buon soldato e sapeva che le indiscrezioni possono affondare una nave. Gran parte del diario è dedicata alla nostalgia che provava per la moglie e per il figlio, comunque qua e là affiora qualche elemento. Ecco, lascia che ti legga il primo paragrafo: 'Alla mia adorata moglie Phyllis e a mio figlio Buzz. Forse un giorno leggerete queste righe. Avevo molto tempo libero e ho iniziato questo diario durante il viaggio verso No-Name'. Era così», osservò, sospendendo per un istante la lettura, «che aveva ribattezzato la base segreta: 'Senza nome'. 'Se i superiori sapessero che prendo appunti, mi troverei nei guai. Questa missione è ancora più segreta del progetto Manhattan. Come mi ricordano spesso i maghi dello spionaggio, io sono soltanto un ottuso fantaccino dei cieli che deve eseguire gli ordini e non porre domande. A volte mi sento un prigioniero. Sono tenuto sotto stretto controllo, insieme con il resto dell'equipaggio, quindi immagino che questo diario sia un modo di dire: "Ehi, sono una persona anch'io". Il cibo è buono, Phyllis, te lo dico perché so quanto ti preoccupi del modo in cui mangio. Carne e pesce fresco di buona qualità e in abbondanza. La baracca di lamiera non è fatta per resistere al gelo del Nord. La neve scivola dal tetto, ma il metallo non è un buon isolante termico, quindi dobbiamo tenere accesa giorno e notte la stufa a legna. Staremmo più al caldo in un igloo. L'aereo ha ricevuto la sistemazione migliore, nella sua tana. Comunque non dovrei lamentarmi. Sono felice di pilotare questo bebè! Non riesco a credere che un aereo con una mole del genere si possa manovrare come un caccia. Il futuro dell'aviazione è questo.'» Austin interruppe la lettura. «Continua dicendo quanto soffre di nostalgia e come sarà contento di tornare a casa.» «Peccato che Martin non abbia potuto godere di quel futuro. Non aveva idea di essere non solo un prigioniero ma anche un condannato a morte.» «Martin non è stato il primo e non sarà l'ultimo patriota sacrificato nell'interesse di quello che i pezzi grossi definiscono un bene superiore. Purtroppo non potrà avere la soddisfazione di sapere che questo piccolo diario
ci indicherà la via per No-Name.» «Certo che è ancora più enigmatico dell'intestazione che si usava per le lettere durante la guerra: 'Da una località del Pacifico'.» «Lo pensavo anch'io, finché non mi sono ricordato una storia che avevo sentito anni fa. Pare che un ufficiale della marina inglese, salpando dall'Alaska intorno al 1850, abbia visto una terra che non era segnata sulle carte, per cui scrisse sulla propria mappa? Name. Il cartografo dell'ammiragliato che ricopiò la carta scambiò il punto interrogativo per una 'e', e la 'a' di Name per una 'o'. Fu così che No Name divenne capo Nome, e poi Nome. Ecco un'altra nota: 'Volo senza storia da Seattle. L'apparecchio è un vero sogno. Atterraggio a trenta minuti da No-Name'.» «Qual era la velocità di crociera dell'ala volante?» gli domandò Zavala. «Da seicentocinquanta a ottocento chilometri orari.» «Questo vorrebbe dire che si trovavano a una distanza da Nome compresa fra trecentoventi e quattrocento chilometri.» «Esattamente quella che ho calcolato io. Ed ecco dove comincia a farsi interessante: 'Ho potuto dare un'occhiata per la prima volta alla nostra meta. Ho detto che somiglia al naso di Doug visto dall'alto'.» «Il naso di un cane?» «No, dev'essere il nome proprio di una persona.» «Questo restringe il campo a qualche milione di uomini», osservò Zavala con aria stanca. «Sì, lo so. Ho avuto anch'io la stessa reazione finché non ho letto il resto: 'Manca solo una pipa di granturco per fare il ritratto del vecchio Becco d'Aquila.'» «Douglas MacArthur. Chi potrebbe dimenticare quel profilo?» «Soprattutto un reduce di guerra. Inoltre, Nome dista soltanto duecentosessanta chilometri dalla Russia. Ho pensato che valesse la pena di ordinare qualche foto satellitare e, mentre tu ronfavi sorvolando il territorio degli Stati Uniti, ho esaminato le foto con la lente d'ingrandimento.» Porse le immagini satellitari a Zavala, che le studiò per qualche minuto prima di scuotere la testa. «Non vedo niente di simile al becco di un'aquila.» «Non l'ho trovato nemmeno io. Ti ho detto che non sarebbe stato facile.» Stavano ancora esaminando le foto e la carta, quando il pilota della NUMA annunciò che l'apparecchio stava per iniziare la discesa verso l'aeroporto di Nome. Raccolsero il materiale in un paio di sacche ed erano già pronti quando l'aereo si fermò sulla pista di un aeroporto piccolo ma mo-
derno. Un taxi li portò in città percorrendo una delle tre strade inghiaiate a due corsie di Nome. Il sole intenso non serviva granché a ravvivare il paesaggio monotono della tundra piatta e spoglia di alberi, anche se in lontananza si scorgeva la catena dei monti Kigluaik. Il taxi li condusse in Front Street, che costeggia le acque grigio-azzurre del mare di Bering, superando il municipio costruito all'inizio del Novecento, che segna il traguardo della corsa di slitte Iditarod, scaricandoli al porto delle chiatte e dei pescherecci, dove li attendeva l'idrovolante che avevano preso a nolo, con il serbatoio pieno di carburante. Zavala rimase più che soddisfatto dell'apparecchio, un monomotore Maule M-7 che poteva decollare e atterrare anche in uno spazio ridotto. Mentre lui controllava l'aereo, Austin andò a prendere un po' di caffè e panini alla tavola calda di Fat Freddie. Viaggiavano leggeri, portando con sé soprattutto indumenti, anche se Austin aveva messo nei bagagli la sua fidata rivoltella Bowen. Zavala, dal canto suo, aveva portato una pistola mitragliatrice Ingram, in grado di sparare centinaia di colpi al minuto. Quando Austin gli aveva chiesto a che cosa gli servisse una potenza di fuoco tanto micidiale nelle lande desolate del Nord, Zavala aveva borbottato qualcosa a proposito di orsi grizzly. Con Zavala ai comandi, il Maule decollò dirigendosi a nordest, seguendo la linea costiera. L'apparecchio volava basso, alla velocità di crociera di duecentottanta chilometri orari. La giornata era nuvolosa, ma senza la pioggia per la quale Nome andava famosa. Ben presto scivolarono nella routine: Austin indicava un tratto di terreno promettente, e Zavala lo sorvolava un paio di volte descrivendo un cerchio, dopodiché Austin ombreggiava con la matita sulla carta il tratto esaminato. L'eccitazione della caccia svanì ben presto, mentre l'idrovolante sorvolava chilometri e chilometri di costa frastagliata. Il terreno brullo era interrotto soltanto da fiumi orlati di pizzo bianco e laghetti poco profondi creati dal disgelo. Austin teneva banco recitando le poesie sullo Yukon di Robert Service, che Zavala traduceva in spagnolo, ma neppure The Shooting of Dan McGrew riuscì a ravvivare la monotonia della ricerca. Il consueto buon umore di Zavala cominciava a mostrare la corda. «Abbiamo visto becchi di pappagallo, becchi di piccione e persino un becco di tartaruga, ma nessun becco d'aquila», brontolò. Austin studiò le parti ombreggiate della carta: c'era ancora un buon tratto di costa da perlustrare. «Ci resta un territorio vastissimo da controllare, ma vorrei proseguire.
Tu che ne dici?» «Per me va bene, ma l'apparecchio avrà bisogno di fare rifornimento tra non molto.» «Poco fa abbiamo sorvolato un accampamento di pescatori. Che ne pensi di fare una pausa pranzo mentre riforniamo di carburante la vecchia Betsy?» Zavala rispose dando inizio a un'ampia virata. Ben presto ritrovarono il fiume che avevano sorvolato in precedenza e lo seguirono per una decina di minuti fino ad avvistare un gruppo di baracche di compensato. Sul fiume erano ormeggiati due idrovolanti. Zavala individuò una zona libera e si abbassò, sfiorando la superficie con un ammaraggio quasi perfetto prima di proseguire verso un molo piuttosto danneggiato dalle intemperie. Un giovanotto robusto con la faccia da luna piena li vide arrivare e gettò loro una cima di ormeggio. «Benvenuti nel villaggio di Tinook, abitanti centosessantasette, quasi tutti imparentati fra loro», esclamò con un sorriso abbagliante come il sole sulla neve fresca. «Mi chiamo Mike Tinook.» Tinook non parve sorpreso dal fatto che un paio di sconosciuti piovessero dal cielo in visita al suo villaggio isolato. Considerate le distanze enormi che devono coprire, gli abitanti dell'Alaska sono capaci di volare per centocinquanta chilometri solo per andare a far colazione. Forse si tratta di un fenomeno legato alla scarsità dei contatti umani al di fuori di Anchorage, comunque la maggior parte degli abitanti dell'Alaska è pronta a raccontare la storia della sua vita cinque minuti dopo aver fatto conoscenza. Mike, per esempio, riferì di essere cresciuto nel villaggio, aver lavorato come meccanico di aerei ad Anchorage e poi essere tornato a casa, deciso a restarci. Austin spiegò che loro due lavoravano per la National Underwater & Marine Agency. «Ho immaginato subito che foste del governo, in un modo o nell'altro», soggiunse Tinook con malizia. «Siete troppo puliti per essere dipendenti delle società petrolifere o cacciatori, e troppo sicuri di voi stessi per essere turisti. Qualche anno fa è passata di qui una squadra della NUMA. Stavano compiendo delle ricerche nel mar dei Ciukci. Che cosa vi porta nella terra del sole di mezzanotte?» «Stiamo svolgendo una specie di perlustrazione geografica, ma devo ammettere che finora non abbiamo avuto un gran successo», rispose Austin. «Stiamo cercando una punta che si protende in mare, a forma di becco
d'aquila.» Tinook scosse la testa. «Quello laggiù è il mio aereo, e volo parecchio quando non vado a pesca e non sono impegnato a curare il branco di renne, ma non mi sembra di ricordare nulla di simile. Comunque venite su in negozio. Possiamo controllare una mappa.» Salirono una scaletta traballante che portava all'interno dell'edificio di compensato. Era l'emporio tipico dell'Alaska, un incrocio fra drogheria, farmacia, negozio di ferramenta e di articoli da regalo, che offriva in più ogni genere di attrezzatura per la vita in quelle regioni selvagge. I clienti potevano scegliere fra repellente per insetti, cibi in scatola, pezzi di ricambio per le motoslitte e televisori. Tinook controllò una mappa della zona appesa alla parete. «No, non vedo niente che somigli a un becco d'aquila.» Si grattò la testa. «Forse dovreste parlare con Clarence.» «Clarence?» «Sì, mio nonno. Lui ha girato molto e ama le visite.» Austin fu assalito da una sensazione di fastidio e d'impazienza. Era ansioso di riprendere il volo, e stava cercando un modo diplomatico per rifiutare l'offerta di Tinook senza ferire i suoi sentimenti, quando notò un fucile appeso alla parete dietro il banco. Sì avvicinò per guardarlo meglio. Era un Carbine M1, il fucile pesante in dotazione agli uomini della fanteria americana durante la seconda guerra mondiale. Aveva già visto degli M1, ma quello era in condizioni eccezionali, come nuovo. «È il suo fucile?» domandò a Tinook. «Me lo ha regalato mio nonno, ma per andare a caccia uso il mio. Quell'arma ha una storia interessante. Siete sicuri di non voler fare quattro chiacchiere con Clarence? Potrebbe valerne la pena.» Zavala intuì l'interesse che si era appena acceso in Austin, e rispose: «A me non dispiacerebbe sgranchirmi ancora un po' le gambe. Se non altro, qui non dobbiamo preoccuparci di tornare a casa prima che faccia buio». Joe non aveva torto. In quella regione, la luce del giorno durava più di ventidue ore, e anche dopo il tramonto del sole, tecnicamente, la notte non costituiva che un breve periodo crepuscolare. Mike Tinook li guidò lungo una strada fangosa che costeggiava altre baracche simili alla sua, gruppi di bambini dalla faccia tonda, husky addormentati e rastrelliere sulle quali erano disposte strisce di salmone color cremisi, messe a seccare al sole. Si diresse verso la porta di una baracca più piccola delle altre e bussò. Una voce dall'interno li invitò a entrare, e si trovarono in una casa composta di un locale unico che odorava di fumo di
legna e di carne che cuoceva su un fornello da campo. Era arredato in modo spartano, con una brandina in un angolo e un tavolo coperto da una tela cerata a quadretti bianchi e rossi. Un uomo che sembrava antico quanto un ghiacciaio era seduto vicino al tavolo, intento a dipingere con estrema precisione una statuetta di legno alta una quindicina di centimetri che rappresentava un orso polare. Allineati da una parte c'erano parecchi altri modelli simili, raffiguranti lupi e aquile. «Nonno, questi signori vorrebbero sentire la storia del tuo fucile.» Un paio di occhi scuri dal taglio orientale scintillò di intelligenza e buon umore nel viso increspato da migliaia di grinze sottili. Clarence portava occhiali dalla montatura scura e i folti capelli d'argento erano divisi da una riga laterale. Allargò la bocca in un sorriso che andava da un orecchio all'altro. Anche se doveva avere perlomeno un'ottantina d'anni, strinse la mano ai due visitatori con tanta energia da stritolare le ossa e li guardò con il piglio di un uomo capace di atterrare un leone marino. Invece la voce, che avrebbe dovuto essere amplificata dalla corporatura possente, era sommessa e delicata come il sussurro del nevischio sollevato dal vento. Il nipote annunciò: «Io devo tornare al negozio. Vi farò trovare l'aereo rifornito di carburante, al vostro ritorno». «Li faccio per i negozi di souvenir di Anchorage», spiegò il vecchio, mettendo da parte la statuetta di orso polare e i colori. «Mi fa piacere che siate passati a trovarmi. Siete arrivati in tempo per il pranzo.» Indicò agli ospiti un paio di sedie traballanti e, nonostante le loro proteste, scodellò lo stufato dalla pentola direttamente in ciotole di porcellana un po' scheggiate, ornate con un motivo di salici dipinti. Ne mangiò per primo una cucchiaiata abbondante, come per dimostrare che non c'era niente da temere dalla sua cucina. «Com'è?» Austin e Zavala assaggiarono con prudenza e decretarono che lo stufato era molto buono. Il vecchio s'illuminò di piacere. «È carne di caribù?» domandò Zavala. Il vecchio frugò in un bidone dei rifiuti, tirando fuori una scatoletta di stufato di manzo Dinty Moore. «Mike è un bravo ragazzo», spiegò. «Lui e la moglie mi comprano da mangiare per evitarmi la fatica di cucinare. Sono preoccupati perché, dopo la morte di mia moglie, sono rimasto solo. Mi piacciono le visite, ma non voglio annotarvi.» Austin si guardò intorno. Le pareti della casa erano decorate con arpioni
primitivi e opere dell'arte popolare eschimese. Vicino a una maschera di tricheco dall'aria feroce spiccava, per la sua incongruenza, una stampa di Norman Rockwell raffigurante un bambino seduto nello studio del dentista. C'erano foto di famiglia, tra le quali molte di una donna robusta e attraente che probabilmente era stata la moglie del vecchio. L'oggetto più insolito era un computer sistemato in un angolino. Notando lo sguardo divertito di Austin, nonno Tinook osservò: «È incredibile. Abbiamo il collegamento satellitare per fare in modo che i ragazzi imparino a conoscere il resto del mondo, e grazie a quella macchina io posso parlare con chiunque, così non sono mai solo». Clarence non era un vecchio idiota che biascicava a vuoto, concluse Austin. Si pentì dell'impazienza che poco prima stava per spingerlo a evitare l'incontro con lui. «Se non le dispiace parlarne, ci farebbe molto piacere sentire la sua storia», gli disse. Nonno Tinook risucchiò rumorosamente l'ultima cucchiaiata di stufato, sistemò i piatti sporchi nell'acquaio e si sedette di nuovo a tavola. Socchiuse gli occhi come se gli riuscisse difficile evocare il ricordo, ma quando cominciò a parlare fu evidente che non era la prima volta che raccontava quella storia. «Un giorno, tanti anni fa, ero fuori a caccia. C'erano belle trote e salmoni da pescare, volpi da catturare con le trappole e branchi di caribù. Prendevo sempre qualcosa. Avevo una piccola barca con lo scafo in alluminio e un buon motore. Me ne andavo in giro che era una meraviglia. Ero troppo lontano per tornare a casa dopo la caccia, così sono rimasto un paio di notti nel vecchio aeroporto.» Austin lanciò un'occhiata a Zavala. L'Alaska era disseminato di campi di atterraggio che in genere non erano degni di quel nome. «Dove si trovava questo aeroporto?» gli domandò. «Lontano, su al Nord. Era rimasto dai tempi della Grande Guerra. Trasportavano gli aerei in Russia e lo usavano come scalo. Da lì partivano i dirigibili che cercavano d'individuare i sottomarini. Non è rimasto granché. C'era una baracca dove potevo accendere il fuoco e starmene al caldo e all'asciutto. Potevo tenerci la selvaggina e affumicarla sul posto finché non veniva il momento di tornare a casa.» «Quanto tempo fa succedeva tutto questo?» «Oh, cinquant'anni fa e rotti. La mia memoria non è più quella di una volta. Mi ricordo quando loro hanno detto che dovevo smettere di andarci, però.»
«Loro?» Il vecchio annuì. «Da mesi non vedevo nessuno. Poi un giorno, mentre stavo cucinando una trota, sono arrivati due uomini in aereo. Uomini bianchi, con l'aria da duri. Mi fanno vedere il distintivo, dicono che sono del governo e vogliono sapere che cosa faccio lì. Offro un po' di pesce e diventano molto più cordiali. Dicono che alla base ci sarà un grande segreto e non devo andarci più, ma compreranno tutta la carne e il pesce fresco che posso procurare. Uno di loro mi ha dato il fucile che avete visto perché potessi sparare alla selvaggina. Ho venduto una montagna di carne e pesce a quegli uomini, senza mai tornare alla base, però. Ci trovavamo a metà strada.» «Ha visto degli aerei?» «Certo, ce n'erano tanti che andavano e venivano. Una volta che ero a caccia ne ho sentito uno che sembrava il rombo di cento torrenti. Grande come tutto il villaggio, con una forma pazzesca.» «Che tipo di forma?» Il vecchio si avvicinò alla parete, da cui prese un arpione e, sfiorando col dito la punta acuminata di metallo, rispose: «Un po' come questa». Austin non distolse lo sguardo da lui. «Per quanto tempo è andato a caccia per questi uomini?» «Più o meno sei mesi, credo. Un giorno si sono presentati e hanno detto che non ne avevano più bisogno. Mi hanno raccomandato di stare lontano dall'aeroporto, perché non volevano che finissi su una mina. Hanno detto che potevo tenermi il fucile e sono andati via in gran fretta.» Intervenne Zavala. «Noi stiamo cercando una vecchia pista per gli aerei su un tratto di terreno che, visto dall'alto, dovrebbe somigliare a un becco d'aquila, ma non riusciamo a trovarla.» «Oh, certo, quel posto era così, ma il ghiaccio e il vento lo hanno trasformato. D'estate l'acqua dei fiumi straripa e sommerge la terra, e non ha più lo stesso aspetto di allora. Avete una mappa?» Kurt prese la carta dalla tasca della giacca, spiegandola sul tavolo. Nonno Tinook posò il dito tozzo su una sezione della costa all'interno della zona ombreggiata a matita. «Proprio qui», asserì. «Dobbiamo averla sorvolata», osservò Zavala. «Mi spieghi una cosa», riprese Austin, «quegli uomini le hanno mai rivelato come si chiamavano?» «Certo. Pippo e Pluto, hanno detto.» Zavala ridacchiò. «Si vede che Topolino aveva da fare», commentò.
Il vecchio alzò le spalle. «Ho letto Topolino quando lavoravo sulle navi mercantili che salpavano da Anchorage. Dovevano essere convinti che avessi mangiato grasso di balena per tutta la vita, e io gliel'ho lasciato credere.» «Probabilmente è stato un bene.» «Come ho già detto, erano uomini duri, anche se siamo diventati buoni amici. Dopo ci sono tornato, alla vecchia base. Penso che mi abbiano parlato delle mine solo per spaventarmi e tenermi alla larga. Sembrava piuttosto che qualcosa fosse stato contaminato e lasciato a marcire.» Nonno Tinook fece una pausa, riflettendo. «Forse voi potete spiegarmelo. C'è una cosa che mi sono sempre chiesto: qual era il grande segreto? Non dovevamo più combattere contro i giapponesi, perché la guerra era finita.» «Ci sono uomini che non sanno vivere senza guerre», rispose Austin. «Se non ne hanno una, ne inventano un'altra.» «Mi sembra pazzesco, ma io che cosa posso saperne? Comunque ormai sono passati tanti anni. Come mai volete andare in quel vecchio posto?» Austin si trovò a corto di parole, come gli accadeva di rado. Avrebbe potuto spiegare quanto fosse importante trovare una strana sostanza chiamata anasazium prima che ci mettesse sopra le mani la Gogstad, procurando guai al mondo intero, ma aveva il sospetto che le sue vere motivazioni fossero molto più viscerali. La storia del padre di Buzz Martin aveva continuato a covare dentro di lui come brace sotto la cenere, offendendo il suo senso della giustizia. La risposta migliore che gli venne in mente fu: «Una volta c'era un bambino che andò al funerale del padre, solo che il padre non era morto». Il vecchio annuì con aria solenne, come se la risposta di Austin fosse stata la quintessenza della chiarezza. Con la mente, Austin era già proiettato verso il compito che lo attendeva. «La ringrazio molto per averci raccontato la sua storia», gli disse, alzandosi. «E anche per il pranzo.» «Un momento», disse Clarence, poi scrutò le statuette che aveva scolpito nel legno, scegliendone due che consegnò una per ciascuno agli uomini della NUMA. «Prendete queste: l'orso per la forza e il lupo per l'astuzia.» Austin e Zavala ringraziarono il vecchio per la sua generosità. «Mi sento meglio offrendovi un pegno di buon augurio dopo avervi spiegato come raggiungere quel posto. Se arriverete in quella vecchia base, ho la sensazione che ne avrete bisogno.»
30 Il riflesso accecante del sole sulla superficie del mare, simile a uno specchio, aveva impedito loro di vedere bene il becco dell'aquila al primo passaggio. Si scorgeva soltanto una sottile e irregolare mezzaluna di tundra, che faceva parte di una pianura costiera sommersa protesa in un'insenatura a forma di pera. Zavala inclinò l'idrovolante in modo che il profilo scuro del naso del generale MacArthur fosse visibile sotto lo strato traslucido d'acqua, e Austin gli rivolse un cenno affermativo alzando i pollici. Ci siamo. Poi puntò un pollice in basso. Devi ammarare. Zavala guidò l'aereo in una virata bassa, sorvolando la penisola per tutta la sua lunghezza a una quota di circa duecento piedi. Il dito di terra leggermente piegato formato dall'estensione del terreno emerso era lungo oltre un chilometro e mezzo e largo poco meno di ottocento metri. Una laguna salmastra ne aveva intaccato i margini, contribuendo a peggiorare l'erosione del vento e del ghiaccio che avevano alterato la forma originaria. «Cerca di avvicinarti il più possibile a quei depositi morenici», gli suggerì Austin, indicando i bassi rilievi modellati dai ghiacci che cominciavano nel punto in cui la penisola si univa alla terraferma. Zavala batté sulla tesa del berretto da baseball con il logo della NUMA. «Niente paura. Questo gioiellino può atterrare sulla capocchia di uno spillo. Aspetta e vedrai un atterraggio da manuale.» Austin riponeva la massima fiducia nelle capacità di pilota del collega, e Zavala aveva al suo attivo centinaia di ore di volo su ogni modello possibile e immaginabile di aereo. Eppure c'erano momenti in cui alla sua mente si affacciavano visioni di Snoopy convinto che la sua cuccia fosse un Sopwith Camel della prima guerra mondiale. Respinse quell'idea, mentre Zavala descriveva ancora un cerchio sopra la pista, dava inizio a una lunga scivolata e riduceva la velocità fino a che i galleggianti dell'apparecchio non sfiorarono le acque basse. L'aereo stava per posarsi con la delicatezza di una piuma, quando sentirono sotto i piedi un tonfo sordo, seguito da un suono lacerante di metallo squarciato. L'apparecchio girò su se stesso come una macchinetta dell'autoscontro sulla pista di un luna park, sballottando i due uomini come fantocci di pezza, trattenuti soltanto dalle cinture di sicurezza. Alla fine l'idrovolante si fermò, restando inclinato come un ubriaco in equilibrio instabile. Zavala era rimasto senza fiato, ma riuscì comunque a spegnere il motore. Quando l'elica si fermò, Austin obbedì all'impulso di controllare se la te-
sta era ancora attaccata al collo. «Se quello era un atterraggio da manuale, preferisco non sapere com'è un atterraggio malriuscito. Che cosa ne è stato della capocchia dello spillo?» Zavala si aggiustò il berretto da baseball, raddrizzandosi sul naso gli occhiali con le lenti a specchio. «Chiedo scusa», rispose con insolita umiltà. «È evidente che oggigiorno si fabbricano spilli più grandi di una volta.» Austin scosse la testa, proponendo di andare a controllare i danni. Scesero sui galleggianti, accolti dal comitato locale di benvenuto: una nuvola di zanzare grosse come condor e assetate di sangue umano, tipiche dell'Alaska, li costrinse a cercare di nuovo riparo nella cabina di pilotaggio. Si avventurarono di nuovo fuori solo dopo un'applicazione di repellente per insetti Cutter in quantità industriale. Scendendo dall'apparecchio in una sessantina di centimetri d'acqua, esaminarono il metallo contorto intorno al galleggiante di destra. «Dovremo dare qualche spiegazione al noleggio, ma penso che ce la faremo a decollare», sentenziò Zavala. Rifece il percorso dell'atterraggio, sciaguattando con i piedi nell'acqua, e qualche istante dopo si chinò, esclamando: «Ehi, vieni un po' a vedere». Avvicinatosi, Austin esaminò un paletto di metallo coperto da alcuni centimetri d'acqua. Il metallo scintillava nel punto in cui la sommità era stata tranciata, lasciando penzolare dei fili elettrici di rame. «Congratulazioni», disse Austin. «Credo che tu abbia trovato una delle luci di segnalazione della pista di atterraggio.» «L'infallibile istinto di Zavala non si smentisce mai», ribatté Joe, come se avesse centrato di proposito il paletto. Estendendo il raggio della ricerca, di lì a pochi minuti localizzò un'altra luce di segnalazione, questa volta con la lente di vetro e l'alloggiamento della lampadina ancora intatti. Esaminando l'ambiente circostante, Austin cercò di orientarsi. Era facile capire come mai quella zona remota fosse stata prescelta per installarvi una pista di atterraggio segreta: il terreno era piatto per natura come il ponte di una portaerei e doveva avere richiesto ben pochi lavori di livellamento. Kurt guardò verso le colline, dove il sole scintillava su una rete di ruscelli che si riversavano nel lago che copriva la pista, trasformandola in una filigrana di pizzo argenteo. Scaricarono l'apparecchio, mettendosi lo zaino in spalla, e si avviarono a guado verso le colline distanti meno di quattrocento metri. Sebbene gli stivali che calzavano mantenessero i piedi asciutti, l'acqua arrivava a bagnare i pantaloni impermeabili di Gore-Tex, inducendo i due a rallegrarsi del fat-
to che la temperatura si aggirasse intorno ai dieci gradi. A poco a poco il livello dell'acqua diminuì e si trovarono a camminare in una melma spugnosa, poi sentirono scricchiolare sotto i piedi il permafrost mentre avanzavano fra chiazze di ranuncoli, crochi selvatici e papaveri. Avvistarono altre luci di segnalazione, tutte disposte in una linea che puntava verso le colline. A un certo punto si fermarono a guardare un enorme stormo di edredoni che galleggiavano sull'acquitrino come una nuvoletta scura di fumo. Immersi in quel silenzio ultraterreno, avevano la sensazione di trovarsi su un altro pianeta. Proseguendo il cammino, giunsero ai piedi di una scarpata che saliva brusca ad angolo retto dal terreno. La collina, di forma allungata, era rotonda sulla sommità e somigliava vagamente a un filone di pane. In mezzo alla fitta vegetazione che copriva gran parte della collina, s'intravedevano tratti di roccia nera chiazzata di muschi e licheni. Austin trovò singolare il fatto che il rilievo fosse isolato, distante qualche centinaio di metri dalle colline più vicine. Accennò con Zavala a quel particolare. «Hai notato che il terreno qui è pianeggiante, a parte questo rilievo isolato come un foruncolo?» «Se fossi un geologo, potrei ricavarne qualche deduzione.» «Io pensavo piuttosto alle luci della pista, che puntano proprio in direzione di questa collinetta.» Fissò per un attimo un tratto esposto, poi accostò il viso a pochi centimetri dalla superficie lucente e vi passò le dita sopra. Usando la lama larga del coltellino svizzero, intaccò la roccia per staccarne un frammento sottile, grande all'incirca quanto il palmo della sua mano. Dopo aver esaminato il materiale, sorrise e lo porse a Zavala. «Vernice», osservò lui meravigliato, poi passò la mano sull'area lucente messa allo scoperto dal coltello di Austin. «Lastra metallica e bulloni. Qualcuno si è dato molto da fare per nascondere qualcosa.» Austin indietreggiò di alcuni passi, sollevando lo sguardo verso la sommità del rilievo. «Ricordo che Clarence Tinook ha accennato a una vecchia base per dirigibili. Forse qui sotto c'è un hangar.» «Questa è un'ipotesi ragionevole, e oltre tutto concorda con la nostra teoria che abbiano usato una base preesistente. L'interrogativo che segue è: come entrare all'interno?» «Prova a dire: 'Apriti sesamo', e speriamo per il meglio.» Zavala si tirò indietro e lanciò il comando reso famoso da Alì Babà e i quaranta ladroni. Visto che non succedeva niente, lo ripeté in spagnolo,
anche stavolta senza esito. «Conosci altre parole magiche?» domandò a Austin. «Hai appena esaurito tutto il mio repertorio», ribatté Kurt, stringendosi nelle spalle. Fecero il giro dell'hangar, passando sul retro. Dal permafrost sporgevano le fondamenta di alcuni edifici di piccole dimensioni che potevano essere state baracche di lamiera. Una piccola discarica rivelò pile di scatolette arrugginite e vetri rotti, ma non si vedeva la minima traccia di una via d'accesso. Fu Zavala a inciampare, nel senso letterale della parola, nell'entrata. Austin lo precedeva di alcuni passi quando sentì un grido. Voltandosi di scatto, si accorse che Joe era scomparso, come se fosse stato inghiottito dalla terra. A conferma di quell'ipotesi, udì la voce incorporea di Zavala provenire dal sottosuolo con un effetto irreale, imprecando nella lingua dei suoi avi. Austin tornò sui suoi passi studiando il terreno con attenzione e trovò Zavala dentro uno scivolo che era stato ricoperto dalla vegetazione. Austin era passato vicino alla buca senza vederla. «Tutto bene?» gridò al compagno. Altre imprecazioni. «Sì, la sterpaglia che copriva questa dannata buca ha attutito la caduta. Vieni giù. C'è una piccola rampa di scale.» Austin raggiunse Zavala in fondo alla buca, che era profonda circa due metri e mezzo. Joe era in piedi, davanti al battente socchiuso di una massiccia porta d'acciaio. «Non dirmelo», brontolò. «L'infallibile istinto di Zavala.» «Che altro?» ribatté Joe. Austin tirò fuori dallo zaino una piccola ma potente torcia a luce alogena. La porta si aprì cigolando grazie alla forza di persuasione della sua spalla, e lui penetrò all'interno seguito da Zavala. Furono investiti in pieno da una zaffata di aria fredda e maleodorante, come se fossero davanti al condizionatore d'aria di un mausoleo. Il raggio di luce illuminava un corridoio con le pareti e il soffitto di cemento, insufficiente a isolare l'interno dal permafrost; anzi pareva quasi che in quell'ambiente il freddo fosse più intenso. Stringendosi intorno al collo il cappuccio della giacca a vento, si avviarono lungo il corridoio. Ai lati dell'ambiente principale di quel bunker sotterraneo si aprivano parecchie porte. Austin proiettò il raggio della torcia all'interno delle stanze. Reti rugginose e materassi marci attestavano che uno di quei locali era stato usato come camerata. Più avanti c'era una cucina, con la relativa di-
spensa. L'ultimo vano era servito da sala radio. «Se ne sono andati in gran fretta», commentò Zavala. Gli apparecchi radio con tutte le valvole erano stati distrutti, probabilmente a colpi di maglio. Proseguendo lungo il passaggio costeggiarono una grande buca rettangolare nel pavimento. La grata di metallo che in passato l'aveva ricoperta era stata corrosa quasi del tutto dalla ruggine. Austin puntò la torcia in basso, verso il pozzo profondo che nascondeva. «Un condotto di ventilazione o di riscaldamento, forse.» «Io stavo pensando a quello che ha detto Clarence Tinook a proposito delle mine», replicò Zavala. «Speriamo che fosse una panzana inventata per tenere alla larga cacciatori e pescatori», disse Austin. Il corridoio si arrestava a ridosso di una breve rampa di scalini che conducevano a un'altra porta d'acciaio. A quel punto calcolarono che dovevano trovarsi al di sotto dell'hangar. Non del tutto convinto della validità del suo ragionamento riguardo alle trappole esplosive, Austin inspirò a fondo, aprì la porta e passò oltre. Avvertì subito un cambiamento nell'atmosfera. Il freddo era meno pungente e il sentore di umidità meno intenso che nel bunker di cemento. L'odore stantio dell'aria era sopraffatto dal puzzo di benzina, olio lubrificante e metallo surriscaldato. Sulla parete a destra della porta c'era un interruttore, affiancato da un cartello scritto a mano che indicava: GENERATORE. Austin segnalò a Zavala di procedere, e Joe abbassò l'interruttore. Sulle prime non accadde nulla, poi si sentì un lieve scatto che proveniva da un punto imprecisato nell'oscurità, seguito da una serie di scoppiettii esitanti, mentre un motore tossicchiava tornando controvoglia alla vita. In alto si accesero delle luci, prima fioche poi intense, che illuminarono il soffitto a volta di una enorme caverna artificiale. Zavala rimase troppo sbigottito per aprire bocca. Sotto le luci al centro della scena, troneggiava una sorta di nero vendicatore alato uscito da una saga nordica. Joe si avvicinò fino a trovarsi ai piedi dell'apparecchio a forma di scimitarra, allungando la mano per sfiorare con un gesto esitante una delle pinne verticali che si protendevano in basso dalla parte inferiore della fusoliera. «Splendido», sussurrò come se parlasse di una bella donna. «Ho letto la descrizione di questo apparecchio, ne ho visto le foto, ma non avrei mai immaginato che fosse così splendido.» Austin si avvicinò, fermandosi accanto a lui e abbracciando con lo
sguardo l'ampia curva di alluminio. «O siamo finiti nella caverna di Batman, oppure abbiamo appena trovato l'ala volante di cui si erano perse le tracce», mormorò. Zavala avanzò, passando sotto la fusoliera. «Ho letto qualcosa a proposito di questo aereo. Le pinne sono state aggiunte in seguito, come stabilizzatori, quando sono passati dai motori a elica a quelli a reazione. È largo poco meno di cinquantadue metri, da un'estremità all'altra.» «Vale a dire la metà della lunghezza di un campo da football.» Zavala annuì. «Era l'apparecchio più grande dei suoi tempi, anche se è lungo appena quindici metri. Guarda bene quei motori a reazione. Nel prototipo erano inseriti tutti e otto nella fusoliera, mentre qui ne hanno sospesi due al di sotto dell'ala per guadagnare spazio da destinare al carburante. Questo quadra con le tue congetture a proposito delle modifiche apportate per aumentare l'autonomia di volo.» Girando intorno all'apparecchio, si fermarono davanti alla parte anteriore. Da quel punto di vista, le linee aerodinamiche protese all'indietro apparivano ancora più impressionanti. Sebbene l'aereo pesasse quasi cento tonnellate, sembrava librarsi leggero sul carrello, in perfetto equilibrio. «Jack Northrop ha avuto davvero un'idea geniale, quando ha progettato questo gioiello», osservò Austin. «Assolutamente. Guarda che silhouette snella. Non offre quasi nessuna superficie sulla quale il segnale del radar possa rimbalzare. Era persino dipinto di nero come lo Stealth attuale. Entriamo», suggerì Zavala, ansioso. Salirono una scaletta per raggiungere un portello nel ventre dell'aereo e proseguirono per una breve rampa. Come il resto dell'apparecchio, anche la cabina di pilotaggio era anticonvenzionale. Zavala prese posto sul seggiolino girevole del pilota e azionò un meccanismo manuale per farlo salire di un metro e venti circa, all'interno di un cupolino di plexiglas. Sbirciò fuori attraverso la bolla, che si trovava a sinistra della linea mediana dell'ala. Gli interruttori e gli strumenti principali erano disposti fra il pilota e il secondo pilota, che sedeva a un livello inferiore. I comandi delle manette erano sospesi in alto, in modo analogo a quanto avveniva negli apparecchi della marina come il Catalina. «Una visibilità fantastica», osservò Zavala. «Sembra di essere a bordo di un caccia.» Austin aveva preso posto sul sedile del copilota, a destra, e poteva guardare fuori attraverso i finestrini che si aprivano nel bordo anteriore dell'ala. Mentre Zavala faceva scorrere amorevolmente le dita sui comandi, lui an-
dò a esplorare il resto dell'aereo. Il posto del motorista di bordo si trovava di fronte a una serie impressionante di quadranti, circa tre metri più indietro del secondo pilota, ma rivolto in direzione opposta. Austin trovò scomoda quella disposizione, ma rimase colpito dall'abitacolo spazioso; la presenza di una piccola camerata, con tanto di servizi igienici e cucina, indicava che l'aereo era stato progettato per missioni a lungo raggio. Sedendosi al posto del bombardiere, guardò fuori del finestrino, cercando d'immaginarsi in volo sopra il paesaggio brullo della Siberia. Poi strisciò nell'alloggiamento riservato alle bombe. Quando rientrò nella cabina di pilotaggio, Zavala era ancora seduto al posto del pilota, con le mani sui comandi. «Hai trovato qualcosa, là dietro?» gli domandò. «Il punto è quello che non ho trovato», rispose Austin. «Le rastrelliere per le bombe sono vuote.» «Niente bombe?» «Neanche un palloncino ad acqua.» Austin sorrise a Zavala. «Ti sei innamorato irrimediabilmente di questa vecchia signora, non è vero?» Zavala sorrise con aria maliziosa. «Un caso di amore a prima vista. Le donne mature mi hanno sempre affascinato. Ora ti mostro una cosa. Questa qui ha ancora il fuoco nelle vene.» Le sue dita arpeggiarono sul cruscotto, e la fila di quadranti e spie davanti a lui si accese. «Ha i serbatoi pieni ed è pronto al decollo», esclamò Austin, incredulo. Zavala annuì. «Dev'essere collegato al generatore. Non c'è ragione per cui non debba funzionare ancora. Questo ambiente è freddo e asciutto, e l'apparecchio è stato mantenuto in condizioni perfette finché non hanno abbandonato la base.» «A proposito della base, diamo un'occhiata in giro.» Zavala abbandonò a malincuore la cabina di pilotaggio. Scendendo dall'apparecchio, perlustrarono il perimetro interno dell'hangar. Era evidente che lo spazio era stato progettato con cura per servire alle esigenze dell'aereo. A breve distanza dalla fusoliera c'erano gru e martinetti idraulici, apparecchiature per i test di controllo, pompe di carburante e olio lubrificante. Joe si soffermò ad ammirare una parete alla quale erano appesi gli utensili, tutti puliti come strumenti chirurgici. Austin fece capolino in una stanza che doveva servire da deposito e, dopo aver dato un'occhiata in giro, chiamò Zavala. All'interno erano accatastate dal pavimento al soffitto decine di cilindri lucenti identici a quello che avevano scoperto nelle acque della Baja, ai
piedi della fabbrica di tortillas. Austin prese con precauzione uno dei cilindri, soppesandolo. «Questo è molto più pesante del cilindro vuoto che ho lasciato nel mio ufficio.» «Anasazium?» «L'infallibile istinto di Zavala», disse Kurt con un sorriso. «Devi ammettere che è questo il vero motivo per cui abbiamo fatto tanta strada.» «Immagino di sì, ma posso capire come mai Martin si è innamorato di quell'aereo laggiù.» «Speriamo che questo non sia un altro caso di attrazione fatale. A questo punto dovremo decidere cosa fare.» Zavala sbirciò il contenuto del deposito. «Ci vorrà qualcosa di più grande del Maule per trasportare tutta questa roba.» «È stata una giornata lunga», disse Austin. «Torniamo a Nome, dove potremo chiedere rinforzi. Il modo in cui siamo entrati non mi entusiasma. Vediamo se ci è possibile trovare un'altra porta.» Girarono di nuovo intorno all'ala volante. L'apparecchio era rivolto verso la parete più ampia dell'hangar, che dava sulla pista di atterraggio. Tentarono una porta che doveva condurre all'esterno, ma la vegetazione che vi si era abbarbicata sopra ne impediva l'apertura. A quanto pareva, una vasta sezione della parete si alzava e si abbassava come la porta di un garage. Austin vide davanti a sé un interruttore con la scritta PORTA e, dal momento che con il generatore avevano avuto fortuna, provò ad azionarlo. Nell'aria risuonò il ronzio dei motori elettrici, poi si udirono cigolii e scricchiolii sonori, seguiti da stridori metallici. I motori stentavano a smuovere la porta, bloccata dalla vegetazione che si era sviluppata all'esterno, ma alla fine il battente si liberò con uno strappo e si alzò rumorosamente, aprendosi del tutto. Era quasi mezzanotte e il sole era tramontato, almeno in parte, lasciando sprofondare la tundra in una luce plumbea. Austin e Zavala uscirono dall'hangar, poi si voltarono a guardare lo strano velivolo parcheggiato in quella che il padre di Buzz Martin aveva definito «la sua tana». Proprio in quel momento sentirono avvicinarsi alle loro spalle il suono caratteristico delle pale di un rotore, e si girarono appena in tempo per vedere un grosso elicottero piombare giù dal cielo come un rapace. L'elicottero sorvolò l'idrovolante, poi si fermò, restando librato in aria a breve distanza, e girò su se stesso di trecentosessanta gradi. Dalla parte anteriore si sprigionò un lampo di luce, e l'idrovolante scomparve in un'e-
splosione accecante di fiamme rosse e gialle. Una nuvola di fumo nero si levò dalla pira funeraria che, fino a pochi secondi prima, era stata un aereo, e la tundra fu rischiarata dal riverbero delle fiamme per centinaia di metri. «Ho l'impressione che abbiamo appena perso il deposito sull'aereo preso a nolo», commentò Zavala. Non appena completata la prima commissione che doveva sbrigare, l'elicottero virò, puntando il muso verso l'hangar. Nei pochi secondi trascorsi da quando era arrivato e aveva dato inizio al suo lavoro di demolizione, Austin e Zavala erano rimasti paralizzati dallo stupore. Adesso, però, Austin si rese conto di quanto fossero vulnerabili. I due agenti della NUMA si slanciarono verso la porta rimasta aperta nello stesso istante in cui l'elicottero spiccava un balzo in avanti. Dalle armi montate ai lati dell'apparecchio sbocciarono fiammate bianche, e i proiettili sollevarono piccoli geyser di acqua e fango, disegnando linee punteggiate che miravano verso le due figure in fuga. Si tuffarono all'interno e Austin azionò l'interruttore della porta, che cominciò lentamente a chiudersi, tra lo sferragliare del meccanismo e il ronzio del motore. L'elicottero atterrò a poche centinaia di metri di distanza, riversando a terra uno sciame di uomini armati in divisa verde scuro, che avanzarono verso l'hangar spianando le armi automatiche. «Sarà meglio sprangare la porta sul retro», suggerì Austin, scattando verso il fondo dell'hangar, da cui erano entrati. Corsero lungo il corridoio verso l'apertura del bunker. Il chiavistello era arrugginito, quindi non potevano chiudere la porta. Nella speranza che gli aggressori fossero tanto stupidi quanto audaci, trascinarono fuori della camerata uno dei materassi e lo usarono per coprire il foro del condotto di ventilazione nel pavimento, improvvisando così una sorta di trabocchetto. Poi tornarono indietro di corsa, sprangando dall'interno la porta che immetteva nell'hangar. Fuori regnava il silenzio, ma i due amici non si facevano illusioni. Era evidente che gli aggressori non volevano danneggiare l'ala volante, ma qualche razzo ben piazzato o una carica di esplosivo potevano sbucciare le pareti metalliche dell'hangar come se fosse una scatola di sardine. «Ma chi sono questi uomini?» esclamò Zavala, sforzandosi di riprendere fiato. Si sentiva martellare con forza sulla superficie di metallo dell'hangar, come se qualcuno volesse saggiarne la resistenza. Gli occhi verdi di Austin esploravano l'hangar da un capo all'altro. «Se
non vado errato, stiamo per scoprirlo.» 31 L'assedio fu annunciato da un'esplosione assordante che risuonò in ogni centimetro quadrato di acciaio dell'hangar, come se l'involucro fosse un'enorme campana. Schegge di metallo incandescente e frammenti di vegetazione in fiamme piovvero da un foro che si era aperto nella parete anteriore. Lo squarcio lasciava entrare un raggio di luce dall'esterno, ma lo spesso cuscino di vegetazione e terriccio che si era accumulato intorno all'hangar aveva attutito l'esplosione. Alzando gli occhi verso la frastagliata lacerazione, Austin commentò: «Mirano alto in modo da non colpire l'apparecchio. Forse sperano di spaventarci». «In questo senso stanno facendo un buon lavoro», ribatté Zavala. «Io sono spaventato.» Per la verità, sembrava tutt'altro che impaurito. D'altronde, se fosse stato facile preda del panico, si sarebbe ritirato da tempo dalla squadra missioni speciali. Scrutava con calma l'interno dell'hangar, a palmo a palmo, in cerca di qualcosa che potesse offrire loro un appiglio, anche minimo. Il riverbero dello scoppio si era appena spento, quando cominciò un sonoro martellamento sulla porta d'acciaio in fondo all'hangar. «Ci voleva ben altro che un trabocchetto», sospirò Austin. Correndo sul retro dell'apparecchio, afferrarono cassette di attrezzi, panche e armadietti, spostando tutto ciò che si poteva spostare per accatastarlo contro la porta e costruire alla bell'e meglio una barricata che avrebbe potuto bloccare solo per qualche minuto degli aggressori determinati come quelli. Le preoccupazioni più grosse, comunque, riguardavano la parte anteriore dell'hangar, dove sembrava che si fosse concentrata la maggiore potenza di fuoco. Mentre correvano al di sotto della fusoliera, Zavala lanciò un'occhiata ai motori a reazione. Le bocche nere spalancate che sporgevano dalla parte posteriore dell'ala somigliavano ad altrettanti cannoni allineati in cima al muro di una fortezza. Joe trattenne Austin per un braccio. «Guarda, Kurt, quei jet sono puntati proprio contro la parete di fondo. Se riuscissimo ad avviare i motori, potremmo dare un caldo benvenuto a quella gente che entra dalla porta di dietro.» Austin s'incamminò con calma sotto la fusoliera dell'aereo, senza badare, almeno in apparenza, ai tonfi sordi che provenivano dal fondo dell'hangar.
Si fermò con le mani sui fianchi davanti all'apparecchio, dove il bordo anteriore dell'ala si assottigliava, alzando la testa verso la carlinga. «Anche se riuscissimo a trovare un modo di uscire dall'hangar, non sapremmo dove andare. Forse mi è venuta un'idea migliore», soggiunse pensieroso. Lavorando con Austin, Zavala aveva acquistato una certa familiarità con il modo tutt'altro che ortodosso in cui funzionava la sua mente, e intuì subito dove sarebbe andato a parare. «Stai scherzando?» esclamò sbigottito. Lo sguardo di Austin era mortalmente serio. «Lo hai detto tu che i sistemi dell'aereo funzionano. Se riusciamo davvero ad avviare i motori, perché sprecare carburante per arrostire una manciata di cattivi quando possiamo semplicemente lasciarli nella polvere? Ammettilo», concluse, scorgendo lo scintillio degli occhi di Zavala. «Tu muori dalla voglia di pilotare questo apparecchio.» «Ci sono parecchi 'se'. I motori potrebbero non accendersi, oppure il carburante potrebbe essersi deteriorato», obiettò Zavala. Elencò altre eventualità indesiderabili, ma dal modo in cui gli angoli della sua bocca s'incurvavano in un sorriso appariva chiaro che in realtà non riteneva possibile un esito disastroso di quel tentativo. Austin aveva fatto leva sul desiderio di Joe di pilotare qualunque tipo di apparecchio fosse mai stato costruito al mondo. «So che non sarà facile. Probabilmente quei camion laggiù venivano usati per trainare fuori l'aereo, trasportandolo fino al punto in cui poteva decollare, mentre noi non potremo usufruire di questo lusso. Dovremo lanciarlo da fermo.» «Sarei felice se solo potessimo lanciarlo, in un modo o nell'altro. Ti rendi conto che quei motori non vengono accesi da oltre cinquant'anni?» ribatté Zavala. «Pensa piuttosto alla scena di quel film di Woody Allen in cui la Volkswagen parte senza problemi dopo avere trascorso alcuni secoli in una caverna. Questo in confronto dovrebbe essere uno scherzetto.» Zavala sorrise. «Questa non è esattamente una Volkswagen», protestò, anche se dalla sua eccitazione era evidente che l'idea per lui non era più una questione di vita o di morte; era diventata una sfida. «Prima devo vedere se riesco ad avviare questo vecchio macinino. Con quelle gomme sgonfie non andremo da nessuna parte. Prima di tutto bisogna gonfiarle.» «Ho visto delle pompe per pneumatici, ma non abbiamo molto tempo.» «Cominceremo con le due ruote esterne sotto la fusoliera e la ruota del
muso, poi, se ne avremo il tempo, penseremo a quelle interne.» Srotolarono in fretta la manichetta della pompa ad aria compressa, provvedendo a gonfiare le gomme. Il ritmo del compressore era solo di poco più lento del loro battito cardiaco. A un certo punto Austin interruppe il lavoro per tendere le orecchie. I colpi all'esterno erano cessati, anche se la porta sul fondo era ancora saldamente chiusa. Austin s'insospettì: quella pausa poteva significare soltanto che gli aggressori si stavano preparando a far saltare la porta. Non ebbe neppure il tempo di preoccuparsi, perché un'altra esplosione spaventosa si verificò nella parte anteriore dell'hangar, e lo scoppio li scaraventò entrambi sul pavimento chiazzato d'olio. Gli aggressori avevano sparato un secondo razzo per ampliare il varco al di sotto dello squarcio iniziale. Vicino al soffitto si formò una nube di fumo prodotto dalla vegetazione in fiamme. «Non c'è tempo!» gridò Austin. «Dovremo fermarci a gonfiare le gomme a un distributore. Lascia aperto il portello sotto l'apparecchio. Non appena sentirò avviarsi i motori azionerò l'interruttore e, quando la porta comincerà ad aprirsi, raggiungerò di corsa l'aereo.» «Non dimenticarti di staccare dall'apparecchio il cordone ombelicale che lo collega al generatore», esclamò Zavala, correndo verso il portello sul ventre del velivolo. Austin si mise in posizione vicino alla parete, con la mano sull'interruttore. Sapeva che le probabilità erano contro di loro, ma sperava che gli ingegneri americani del tempo di guerra si rivelassero all'altezza della loro fama. Zavala si arrampicò fino al seggiolino alto riservato al pilota, aguzzando gli occhi per guardare oltre il tettuccio di plastica. I quadranti si annebbiarono davanti ai suoi occhi, mentre fissava il cruscotto con il quale non aveva alcuna familiarità. Sarebbe stato un caso di apprendimento eccezionalmente rapido. Batté le palpebre e cercò di rilassarsi, rammentando la procedura adottata quando pilotava il Catalina e raccomandando a se stesso di non guardare tutti i quadranti, ma soltanto gli indicatori che segnalavano guai. Tutti i sistemi dell'apparecchio sembravano in perfetto ordine. Il pannello centrale posto fra i due piloti conteneva la radio e gli indicatori del livello del carburante e della velocità dell'aria. Le sue dita volarono sugli interruttori, e i quadranti si accesero come i display di un biliardino. Trattenendo il fiato, azionò uno alla volta gli interruttori dell'accensione che governavano i motori. Le turbine si avviarono con un sordo brontolio, poi a poco a poco raggiunsero un timbro acuto.
Soddisfatto di scoprire che i motori funzionavano, agitò la mano in direzione di Austin, fermo vicino alla parete, e lui ricambiò il gesto. Mentre Zavala si spostava sul sedile del secondo pilota per regolare il flusso del carburante che alimentava i motori, Austin azionò l'interruttore della porta. Sotto il battente che si alzava cominciò a disegnarsi una linea sottile di luce. Kurt scattò al di sotto della fusoliera per staccare il cordone ombelicale, poi, usando il maglio che aveva preso con sé a quello scopo, allontanò con un colpo secco i tacchi delle ruote, ovvero i cunei di legno che le bloccavano. Avanzando a tentoni in mezzo al fumo, si issò a bordo e chiuse il portello. Il getto incandescente dei motori investì il retro della costruzione; tutto ciò che non era inchiodato al suolo fu scaraventato contro la parete da quella forza tremenda, oppure fuso dal calore intenso. Il fragore era così forte che era quasi impossibile pensare, e l'hangar si riempì di esalazioni soffocanti, miste a fumo. Ansimando, Austin si lasciò cadere di schianto sul sedile del secondo pilota. «Amico, adesso è tutto tuo.» Zavala replicò con un'espressione di ottimismo. «È un po' anchilosato, comunque non c'è male, per la sua età.» I suoi occhi erano incollati sulla porta che si stava sollevando. Lasciando inseriti i freni, spinse in avanti tutte le manette fino alla massima potenza. Se avessero potuto concedersi il lusso di un equipaggio completo, Zavala avrebbe fatto affidamento sul motorista di bordo per avere la certezza che i motori funzionassero a dovere, ma in quelle condizioni il massimo che poteva fare era affidarsi al suo orecchio esperto. Era impossibile distinguere i singoli motori, ma il fatto che emettessero un rombo continuo e ininterrotto era buon segno. La porta diede l'impressione di bloccarsi per un attimo, poi si spalancò del tutto. Zavala allentò i freni, e l'aereo balzò in avanti. Lui spinse nuovamente le leve delle manette e si lasciò sfuggire un grido di esultanza selvaggia quando la potenza di migliaia di chili di spinta proiettò l'apparecchio all'aperto. Ma la sua euforia fu di breve durata. Il grosso elicottero verde si trovava proprio sulla linea di decollo. Doveva essere atterrato nuovamente dopo aver lanciato il secondo missile, e in quel momento era posato sulla tundra a circa ottocento metri di distanza. All'esterno dell'hangar c'erano uomini in divisa verde scuro che si preparavano a un assalto, quando l'ala emerse come un mostruoso uccello nero che uscisse dall'uovo. La sorpresa degli uomini armati si tramutò ben pre-
sto in terrore, e si dispersero in tutte le direzioni come foglie al vento. Il pilota dell'elicottero stava fumando una sigaretta, appoggiato alla carlinga, quando vide il mostruoso aereo puntare nella sua direzione. Risali con un balzo a bordo, consapevole di dover prendere una decisione all'istante. Poteva restare dov'era e farsi speronare. Poteva lanciare i razzi che aveva in dotazione, o aprire il fuoco contro l'ala volante in arrivo, e sperare che quei colpi frettolosi colpissero la fusoliera snella. Oppure poteva alzarsi in volo. Austin fu colpito da un suono simile a quello di un picchio gigante che battesse sulla fusoliera. Zavala pensò che uno dei motori si fosse disintegrato, ma si sentì sollevato solo in parte quando Austin riferì: «Ci sparano addosso. Hai intenzione di far volare questo aggeggio o pensi di rullare per tutta la strada fino a Nome?» A causa della posizione insolita del pannello degli strumenti, Zavala non poteva controllare tutti i quadranti. Puntando sull'elicottero per tenere l'apparecchio in linea retta, gridò a Austin di controllare la velocità relativa. «Sessantacinque!» gridò di rimando Kurt. Zavala fu sorpreso dalla rapida accelerazione dell'aereo, nonostante la massa enorme e le gomme del carrello in parte sgonfie. Doveva tenere saldamente il controllo dei comandi per impedire al muso di sollevarsi. «Cento!» Il carrello raggiunse l'acqua del lago poco profondo che copriva la pista, ma la velocità dell'apparecchio continuò ad aumentare. «Centotrenta!» Mentre Austin gridava, Zavala avvertì la cloche che diventava quasi leggera tra le sue mani, come sempre accadeva nel momento in cui l'aereo si avvicinava alla velocità di decollo. «Centosessanta!» Zavala contò fino a dieci, poi tirò indietro la cloche. I due agenti puntarono praticamente i piedi contro il pavimento, come per premere a fondo un acceleratore immaginario. L'aereo, malgrado la sua mole, parve spiccare un balzo verso l'alto. Zavala aveva previsto di evitare facilmente l'elicottero, ma quando l'apparecchio iniziò la virata non riuscì a vedere altro che l'azzurro del cielo. Il pilota dell'elicottero aveva finalmente scelto una linea d'azione, ma era quella sbagliata. Presumendo per errore che l'enorme apparecchio a forma di pipistrello proseguisse nella sua corsa sul permafrost fino a colpire l'elicottero, se fosse rimasto a terra, si alzò in volo proprio nello stesso istante
in cui Zavala riusciva a far decollare l'ala volante. Dal sedile del secondo pilota, Austin aveva una chiara visuale dell'elicottero che si alzava proprio sulla traiettoria dell'ala volante, mentre Zavala, ignaro della collisione imminente, era completamente concentrato sul decollo. Grazie alle sue letture, sapeva che la rapida accelerazione dell'ala avrebbe fatto saltare le coperture del carrello d'atterraggio, troppo lento; infatti era stato progettato per i velivoli meno veloci dotati di motore a elica, e impiegava troppo tempo a rientrare. Di solito i piloti compensavano l'inconveniente ritirando il carrello quando l'aereo era a poche centinaia di piedi d'altezza e sollevando il muso con un'angolazione accentuata. Se non fosse stato per quella manovra insolita, l'aereo avrebbe centrato in pieno l'elicottero. Invece lo mancò di qualche metro, ma si udì uno spaventoso stridio metallico quando il carrello sfiorò i rotori in movimento. I rotori si disintegrarono e l'elicottero rimase sospeso nell'aria per un attimo prima di ricadere a terra, dove esplose in una sfera di fuoco. L'ala sussultò per l'impatto, ma Zavala riuscì a riportarla sotto controllo e cominciò a guadagnare quota, fino a stabilizzare l'apparecchio a cinquemila piedi. Zavala si rese conto che fino a quel momento aveva dimenticato di respirare. Sgonfiò le gote e si riempì i polmoni d'aria così in fretta che lo sforzo gli procurò le vertigini. Austin gli chiese di fare un rapido inventario dei danni, e Zavala compì un'ispezione visiva dall'alto del suo seggiolino. La fusoliera era crivellata di proiettili, frammenti di alluminio si staccavano in continuazione e un motore cominciava a emettere una scia di fumo. «Sembra una fetta di groviera, ma è una vecchia pellaccia.» Mise l'ala volante su una rotta che doveva portarli nelle vicinanze di Nome. Non c'era bisogno di salire di quota, e mantenne l'altitudine raggiunta. Poco dopo, cominciò a ridere. «Che c'è di tanto divertente, compadre?» gridò Austin dal suo posto, mentre armeggiava con la radio. «Mi chiedevo soltanto che cosa diranno quando ci vedranno arrivare così conciati a bordo di un bombardiere invisibile ai radar che risale a cinquant'anni fa.» «Semplice. Diremo che eravamo in volo per una missione e siamo stati rapiti dagli UFO.» Zavala scosse la testa. «La storia vera è quasi altrettanto inverosimile.» L'arrivo dell'ala volante crivellata di fori di proiettile era stato l'evento
più sensazionale che si fosse verificato a Nome dopo la corsa con le slitte trainate da cani che aveva dato origine all'Iditarod. La notizia dello strano aereo nero che era atterrato senza carrello su uno strato di schiuma si era sparsa con la rapidità di un incendio nella foresta, e ben presto l'apparecchio fu circondato dagli abitanti incuriositi. Austin aveva chiamato Sandecker dall'aeroporto per metterlo al corrente delle sue scoperte e chiedere rinforzi. Sandecker, a sua volta, si mise in contatto con il Pentagono e apprese che una squadra operazioni speciali stava svolgendo delle esercitazioni nella base aerea di Elmendorf, presso Anchorage. La squadra ricevette ordine di trasferirsi a Nome. Dopo una riunione strategica, nel corso della quale Austin aggiornò i capi della squadra operazioni speciali, fu presa la decisione d'inviare in avanscoperta un elicottero, seguito a breve distanza dal gruppo d'assalto principale. Fu una curiosa coincidenza che Austin e Zavala tornassero nella base segreta per dirigibili a bordo di un elicottero Pave Hawk. Quell'apparecchio, lungo diciannove metri e mezzo, era lo stesso modello che pattugliava l'Area 51, la località top secret che, secondo i convinti assertori dell'esistenza degli UFO, accoglie i resti di alcuni alieni insieme con la loro astronave precipitata nei pressi di Roswell, nel New Mexico. L'elicottero giunse sul posto con i suoi mezzi, alla velocità di duecentoquaranta chilometri orari, volando sulla tundra a bassa quota per non essere intercettato dai radar. Raggiunta la base, fece un passaggio sulla pista ricoperta d'acqua, esaminando il terreno con i sensori in grado di captare movimenti e vibrazioni. Non trovando segni di vita, l'elicottero cominciò a volare descrivendo un ampio cerchio. A bordo c'era un equipaggio di tre uomini delle operazioni speciali armati fino ai denti, più due passeggeri, Austin e Zavala, che scrutavano il cielo con trepidazione. Non dovettero attendere a lungo. Dalla parte del mare comparve un aereo ad ala fissa che sorvolò la base. Il quadrimotore a turboelica Combat Talon era progettato appositamente per trasportare una squadra operazioni speciali in qualsiasi condizione. Dalla fusoliera si staccarono degli oggetti scuri che, pochi secondi dopo, sbocciarono, trasformandosi in ventisei paracadute. Gli uomini che si erano lanciati scesero a terra sulle colline basse dietro l'hangar dell'ala volante. L'elicottero continuò a volare in cerchio. L'aereo aveva portato sul posto il primo contingente nell'ambito di un'operazione in due fasi. Se il primo gruppo d'assalto avesse incontrato dei guai, l'elicottero avrebbe eliminato
l'opposizione dall'alto con le sue mitragliatrici calibro 7,62, indirizzando la squadra di rincalzo là dove ce n'era più bisogno. Seguirono alcuni minuti di tensione, poi la voce del capo della squadra a terra risuonò gracchiante dalla radio dell'elicottero. «Tutto okay. Potete venire.» Il Pave Hawk scattò in avanti, sorvolando i resti dell'idrovolante sparsi sulla pista e il relitto annerito dalle fiamme dell'elicottero che era stato abbattuto dall'ala volante. Si posò proprio davanti all'hangar, la cui porta massiccia era spalancata come la bocca di un paziente sulla poltrona del dentista. Di guardia all'esterno c'era un contingente di uomini delle operazioni speciali in tuta mimetica, armati di fucili d'assalto M-16A1 e lanciagranate che trasformavano ciascuno di loro in una macchina omicida di spaventosa potenza, mentre un'altra squadra esplorava l'interno dell'immenso hangar. I militari a bordo dell'elicottero scesero dai portelli laterali non appena l'apparecchio si posò sul terreno, affrettandosi a raggiungere i loro compagni. Poi scesero anche i due uomini della NUMA, entrando a loro volta nell'hangar. Lo spazio sembrava ancora più smisurato, adesso che non ospitava più l'ala volante. Un po' ovunque erano sparsi i detriti carbonizzati e anneriti lasciati dal loro decollo e le pareti sul fondo, che erano state investite in pieno dalla violenza e dal calore dei gas di scarico dei jet, erano bruciacchiate, con la vernice sollevata in grosse bolle. Facendosi largo fra i resti ancora fumanti, puntarono direttamente verso il deposito. La porta era aperta, ma i cilindri erano scomparsi. «Vuoto come una bottiglia di tequila la domenica mattina», commentò Zavala. «Lo temevo. Devono aver inviato qui un secondo elicottero.» Uscirono all'aperto per allontanarsi dal fumo asfissiante che ristagnava nell'hangar. Il Talon aveva trovato una striscia di terra pianeggiante e asciutta e stava atterrando, a circa quattrocento metri di distanza da loro. I due agenti si diressero verso il relitto dell'elicottero, nella speranza che potesse fornire qualche indizio sull'attacco. Dentro la fusoliera bruciata e tutt'intorno si vedevano cadaveri carbonizzati. L'ufficiale che comandava il primo gruppo d'assalto si avvicinò per stringere la mano ai due agenti. «Non so per quale motivo abbiate chiesto il nostro intervento», osservò, indicando l'elicottero abbattuto. «Ve la siete cavata benissimo da soli.» «Non volevamo abusare della buona sorte», replicò Austin. L'ufficiale sorrise. «Questo posto è stato ripulito a fondo. Abbiamo con-
trollato il bunker sotterraneo, come ci avevate suggerito, e abbiamo trovato un paio di uomini morti in fondo al condotto che ci avete chiesto di ispezionare. Voi altri ne sapete qualcosa?» Austin e Zavala si scambiarono un'occhiata sorpresa. «Joe e io abbiamo sistemato una piccola trappola per tigri a beneficio dei nostri ospiti, ma non avremmo mai pensato che funzionasse.» «Oh, ha funzionato, eccome. Ricordatemi di non entrare mai in casa vostra dalla porta di servizio senza prima bussare.» «Lo terrò presente. Mi spiace che vi siate sobbarcati tutti questi fastidi per niente», ribatté Austin. «Non si è mai troppo prudenti. Sapete anche voi quello che è successo ad Atka e Kiska.» Austin annuì. Conosceva la storia delle due isole dell'arcipelago delle Aleutine occupate dai giapponesi. Le truppe americane, dopo aver subito un bagno di sangue durante l'invasione della prima isola, avevano programmato un'operazione su vasta scala per l'occupazione di Kiska, solo per scoprire che i giapponesi se l'erano svignata in silenzio la notte precedente. «Qui è successa la stessa cosa. I topi hanno abbandonato la nave.» L'ufficiale osservò di nuovo il relitto contorto, emettendo un fischio sommesso. «Gli avete tarpato le ali, a quanto pare.» Austin scosse la testa. «Purtroppo in quell'hangar c'era qualcosa che hanno portato via. Grazie comunque per l'aiuto, maggiore.» «È stato un piacere. Le esercitazioni sono un ottimo campo di prova, ma non potranno mai sostituire un'operazione in cui i rischi sono reali.» «Vedrà se posso organizzargliene una, la prossima volta.» L'ufficiale accennò un sorriso teso. «A giudicare dall'aspetto di quel vecchio bombardiere che avete portato a Nome, direi che probabilmente lei è un uomo di parola.» Visto l'esito negativo dell'operazione, Austin e Zavala accettarono un passaggio fino alla base di Elmendorf, da cui avrebbero potuto prendere un volo per Washington. Quando gli aerei fecero scalo a Nome per rifornirsi di carburante, Zavala si offrì volontario per usare il suo notevole fascino personale e il conto in banca della NUMA allo scopo di blandire il proprietario del Maule preso a nolo che era stato distrutto. Stava uscendo dall'ufficio dopo aver promesso di acquistare un nuovo apparecchio all'agenzia, quando vide Austin venirgli incontro con un'espressione grave, porgendogli un foglietto. «È appena arrivato.»
Zavala scorse in fretta il messaggio della NUMA: Gamay e Francesca rapite. Trout ferito. Tornate subito a casa. S. Senza scambiarsi neanche una parola, i due si precipitarono lungo la pista verso il Talon in attesa. 32 Paul Trout era disteso in un letto di ospedale, con il torace e il naso avvolti nelle bende, e si malediceva per non essere stato abbastanza pronto nell'intuire il pericolo. Quando lui e Gamay cercavano di schivare le frecce dei cacciatori di teste il loro istinto di sopravvivenza aveva raggiunto il massimo delle sue capacità, ma il ritorno al cosiddetto mondo civile aveva attutito i loro sensi. Non avevano immaginato che gli occhi che li sorvegliavano dal furgone parcheggiato davanti alla casa di Georgetown fossero molto più selvaggi di quelli che avevano incontrato nella giungla. Le lettere dipinte sugli sportelli del furgone, che lo identificavano come un automezzo del dipartimento dei lavori pubblici del Distretto di Columbia, erano ancora appiccicose al tatto. Il veicolo conteneva le apparecchiature più sofisticate del momento in fatto di comunicazioni e sorveglianza elettronica. Curvi sui monitor e sugli altoparlanti che sondavano i muri di mattoni della casa, c'erano i gemelli Kradzik. Osservare e aspettare non erano le loro attività preferite. In Bosnia avevano seguito una routine di una semplicità brutale. Prima sceglievano l'obiettivo, poi raggiungevano la casa nel cuore della notte, insieme con un paio di camion di truppe paramilitari, sfondavano la porta e trascinavano via dal letto gli abitanti terrorizzati. Gli uomini venivano portati via e fucilati, le donne violentate e assassinate, mentre la casa veniva saccheggiata in modo sistematico. Entrare nella residenza dei Trout presentava problemi del tutto diversi. La casa sorgeva in una strada secondaria ma ben frequentata da pedoni e automobili, che era ancor più movimentata da quando i Trout erano tornati. La scoperta di una dea bianca da parte degli scienziati della NUMA e la loro drammatica fuga, con un branco di selvaggi assetati di sangue alle calcagna, avrebbero costituito un soggetto ideale per un film di avventure. Da quando la CNN aveva raccontato la vicenda, i Trout erano braccati dai giornalisti. Fuori della loro porta si erano accampati giornalisti e fotografi intraprendenti del Washington Post, del New York Times, delle reti televisive nazionali e di una manciata di riviste scandalistiche. Gamay e Paul avevano deciso di alternarsi nel dire cortesemente che
stavano cercando di riposare per rimettersi in forze e avrebbero risposto a tutte le domande nel corso di una conferenza stampa indetta per il giorno seguente nella sede della NUMA. Tutte le richieste dovevano essere indirizzate all'ufficio stampa dell'agenzia. I fotografi scattarono foto della casa e i telecronisti registrarono servizi sullo sfondo della facciata. A poco a poco il fiume di attenzione si ridusse a un rivoletto. La stessa copertura giornalistica che aveva affascinato il pubblico di tutto il mondo attinse a fonti meno ufficiali. Paul era nello studio al primo piano, intento a stendere una sintesi delle loro esperienze da inserire in un rapporto per la NUMA. Nello studio al pianterreno, Francesca e Gamay discutevano del modo migliore per riavviare il progetto di desalinizzazione il più presto possibile. Da quando Francesca aveva rinviato il ritorno a San Paolo, i Trout le avevano offerto un rifugio dalle attenzioni dei media. Sentendo suonare il campanello della porta, Gamay si lasciò sfuggire un gran sospiro. Toccava a lei, stavolta, rispondere alle richieste del quarto potere. Le troupe televisive erano le più insistenti e, come aveva previsto, Gamay trovò sulla soglia un reporter con il taccuino in mano e un operatore con la telecamera in equilibrio sulla spalla, mentre un terzo uomo portava un riflettore e una valigetta di metallo. Gamay soffocò il primo impulso, che fu quello di mandarli al diavolo. Invece s'impose di sorridere e disse: «Evidentemente non siete al corrente della conferenza stampa di domattina». «Ci scusi, prego», replicò il giornalista. «Nessuno ha detto noi di conferenza.» Che strano, pensò Gamay. Il personale addetto alle pubbliche relazioni della NUMA era ben inserito negli ambienti della stampa e rispettato dai giornalisti per la disponibilità a divulgare le storie straordinarie legate alle attività dell'ente oceanografico. Quel tipo vestito con un completo scuro troppo stretto di almeno una taglia non somigliava affatto ai bei ragazzi dai capelli pettinati in modo impeccabile che leggevano il notiziario alla televisione. Era basso di statura e tozzo, con i capelli rasati, e per quanto sorridesse il suo viso aveva un'espressione feroce e poco raccomandabile. E poi, da quando in qua le reti televisive assumevano giornalisti con un accento dell'Est europeo e una scarsa padronanza dell'inglese? Guardò alle spalle dell'uomo, aspettandosi di vedere un automezzo della TV con una selva di antenne paraboliche sul tetto, ma vide soltanto un furgone dei lavori pubblici.
«Mi spiace», concluse, facendo il gesto di chiudere la porta. Il sorriso dell'uomo scomparve, e lui infilò il piede nella fessura per impedirle di chiudere il battente. Gamay, che sulle prime era rimasta sbalordita, si riprese in fretta e fece forza sulla porta con tutto il suo peso, strappando all'uomo una smorfia di dolore, poi tirò indietro il gomito, preparandosi a colpire l'intruso in piena faccia con il palmo della mano. In quel momento, però, gli altri due individui si slanciarono in avanti, assestando una spallata alla porta, e Gamay fu respinta di lato e finì con un ginocchio sul pavimento. Si rimise subito in piedi, ma ormai era troppo tardi per fuggire o per battersi: in mano al cosiddetto giornalista era apparsa una pistola, con la canna puntata nella sua direzione. Il cameraman depose la telecamera e si avvicinò a lei, afferrandola per il collo fino a lasciarla quasi senza fiato, poi la sbatté contro la parete con tanta violenza che lo specchio dell'Ottocento con la cornice dorata finì sul pavimento in mille pezzi. Gamay si sentì assalire dalla collera. Quello specchio le era costato settimane di ricerca, nonché migliaia di dollari, e lei accantonò ogni timore, sferrando una ginocchiata all'inguine dell'uomo. La stretta sulla sua gola si allentò per un attimo, prima che lui tornasse a farsi sotto, con uno scintillio omicida negli occhi. Gamay si preparò al peggio, ma il finto giornalista lanciò un ordine e l'aggressore si ritirò, non senza passarsi l'indice sul pomo d'Adamo con un gesto che era impossibile fraintendere. Lo fulminò con gli occhi, anche perché era l'unica cosa che poteva fare, ma non le sfuggì il significato di quel segnale nel linguaggio dei gesti: capì che l'uomo le avrebbe tagliato la gola senza esitare. Aveva visto giusto. Sebbene i Kradzik preferissero lavorare da soli, di tanto in tanto si avvalevano dell'aiuto di alcuni compatrioti. Quando Brynhild Sigurd aveva facilitato la loro fuga dalla Bosnia, i gemelli avevano insistito affinché facesse altrettanto per altri dieci dei loro seguaci più fedeli e spietati. Il gruppo si era ribattezzato la «sporca dozzina», dal titolo del film americano, ma i suoi misfatti facevano apparire quelli del cinema semplici bravate da boy scout. Insieme, si erano resi responsabili di omicidi, mutilazioni, torture e stupri ai danni di centinaia di vittime innocenti. Gli uomini del gruppo erano sparsi in tutto il mondo, ma potevano essere incaricati di un assassinio o convocati per qualche operazione nel giro di poche ore. Da quando erano al servizio della Gogstad, affrontavano il lavoro con entusiasmo sconfinato. Francesca aveva sentito lo specchio schiantarsi sul pavimento ed era uscita dallo studio nel piccolo ingresso della casa. L'uomo vestito di scuro
impartì un ordine e, prima di poter muovere un dito, anche lei si ritrovò immobilizzata contro la parete vicino a Gamay. L'uomo che teneva in mano la valigetta l'aprì, estraendo due pistole mitragliatrici Skorpion di fabbricazione ceca. Il falso giornalista aprì la porta d'ingresso, e un attimo dopo entrò un altro uomo. Il primo pensiero di Gamay fu che sembrava un troll dei boschi troppo cresciuto. Per quanto la giornata fosse mite, indossava una lunga giacca di pelle nera sopra i pantaloni con maglione a collo alto, sempre di colore nero, e un berretto nero di foggia militare. Il nuovo arrivato esaminò la situazione e disse agli altri qualcosa che dovette rallegrarli, perché risero di rimando, con un'espressione libidinosa. Gamay aveva girato il mondo per esigenze di lavoro, e intuì che aveva parlato in serbocroato. Subito dopo l'uomo abbaiò un ordine, e uno degli energumeni armati di Skorpion si avviò lungo il corridoio, con il calcio dell'arma stretto contro il bicipite. Si affacciò con prudenza in tutte le stanze ai lati del corridoio che portava verso il retro della casa, senza entrare, mentre il suo compagno saliva le scale che portavano al primo piano. L'uomo vestito di pelle nera si avvicinò allo specchio, osservò le schegge, poi si girò verso Gamay. «Sette anni di guai», commentò, con un sorriso che sembrava forgiato in una fonderia. «Chi è lei?» gli chiese Gamay. Lui ignorò la domanda. «Dove marito?» Gamay rispose con sincerità che non aveva idea di dove fosse suo marito, e lui annuì, come se sapesse qualcosa che lei ignorava, prima di costringerla a girarsi con la faccia contro il muro. Gamay si aspettava un colpo alla testa o un proiettile nella schiena, invece sentì una puntura al braccio destro, come quella di un'ape. Un ago. Bastardi! Un'iniezione ipodermica. Fece in tempo a voltarsi e a vedere la siringa affondare nel braccio di Francesca. Tentò di andare in aiuto dell'altra donna, ma era come se il suo braccio fosse paralizzato. In pochi secondi l'immobilità si estese al resto del corpo. La stanza cominciò a girarle intorno, e lei ebbe l'impressione di precipitare in un abisso. Paul sentì lo schianto dello specchio che cadeva sul pavimento e dall'alto delle scale vide l'uomo stringere la gola di Gamay. Stava per spiccare un salto, quando entrò in casa l'uomo con la giacca di pelle. Allora rientrò nel suo ufficio per chiedere aiuto, ma il telefono era muto. Dovevano aver interrotto la linea. In silenzio, scese in cucina lungo una scala di servizio
piuttosto stretta. Teneva una rivoltella nello studio, ma per arrivarci avrebbe dovuto percorrere il corridoio. Vide i due uomini armati dividersi, uno diretto al piano di sopra, l'altro verso di lui, e si rifugiò di nuovo in cucina. Si guardò intorno in cerca di un'arma. I coltelli erano lì in bella vista, ma erano un'arma difficile, che non aveva la minima probabilità di successo contro una pistola mitragliatrice. Anche se fosse riuscito ad avere la meglio su un uomo, gli altri sarebbero accorsi per finirlo al primo accenno di una colluttazione. Gli serviva un posto adatto per mettere l'uomo fuori combattimento facendo il minimo rumore possibile. L'ultima volta che lui e Gamay avevano rinnovato la casa, un anno di stipendio se n'era andato soltanto per ristrutturare la cucina, dove avevano fatto installare degli armadi nuovi di zecca in legno di quercia, insieme con un piano di cottura degno di un ristorante. L'innovazione più importante era stata una cella frigorifera con il soffitto abbastanza alto da consentire a Paul di entrare senza battere la testa. Non vedendo altre possibilità, s'infilò nella cella, lasciando la porta socchiusa di una quindicina di centimetri. Poi svitò la lampadina, posandola sul pavimento all'interno della porta, e si schiacciò contro la parete nell'angolo vicino al massiccio battente. Appena in tempo. Attraverso la finestrella di vetro smerigliato vide l'uomo entrare in cucina con l'arma spianata. L'intruso si fermò per guardarsi intorno, e la porta socchiusa attirò la sua attenzione. Si avvicinò con cautela, spingendo il battente con il gomito prima di entrare, e con la punta del piede fece rotolare rumorosamente la lampadina sul pavimento. Girò di scatto la canna dell'arma, serrando le dita sul grilletto. Poi il soffitto gli cadde sulla testa. Sentì le ginocchia piegarsi e crollò di schianto a terra. Trout posò il prosciutto affumicato della Virginia che aveva trovato nel congelatore e usato come clava, poi afferrò la pistola mitragliatrice e tornò in cucina, ben sapendo che lui e le due donne non erano ancora in salvo. Per prima cosa controllò la scala che portava dalla cucina al primo piano. Sentiva l'altro uomo muoversi di sopra, ma pensò di provvedere a lui dopo aver controllato che Gamay e Francesca fossero sane e salve. Sgattaiolò nel corridoio con prudenza, anche perché la pistola mitragliatrice gli offriva solo un vantaggio limitato. Non voleva che le donne si trovassero nel raggio d'azione dell'arma. Raggiunto l'ingresso, vide gli altri uomini chini sulle figure di sua moglie e Francesca, stese sul pavimento. Gettando al vento ogni cautela, si fece avanti, così intento a osservare la scena da non accorgersi dell'uomo
che gli si avvicinava alle spalle. Sentì la lama gelida di un coltello pungerlo fra le costole e tentò di girarsi verso l'aggressore, ma le gambe gli divennero di gelatina e cadde sul pavimento, battendo la faccia sul tappeto e fratturandosi il setto nasale. Melo stava perlustrando il retro in cerca di una possibile via di fuga quando aveva visto Trout sbucare dalla cella frigorifera e adesso, scorgendo la pozza di sangue che si formava intorno al suo corpo, lo scavalcò per battere sulla spalla del gemello. «Il tuo suggerimento di coprire il retro era indovinato, fratello.» «Pare di sì», rispose l'altro, guardando la figura distesa. «E ora che ne facciamo di lui?» «Lasciamolo morire dissanguato.» «D'accordo. Possiamo portare fuori le donne dal retro senza dare nell'occhio.» Richiamò l'uomo che era salito al primo piano, dopodiché caricarono le due donne prive di sensi su una Mercedes a trazione integrale che era in attesa, sistemandole sul sedile posteriore, e partirono, seguiti a pochi minuti di distanza dal falso furgone dei lavori pubblici. Lo shock iniziale della ferita di coltello si era tramutato in dolore, e Paul riprese i sensi per qualche istante. Ricorrendo a ogni stilla di forza che aveva in corpo, si trascinò nello studio, dove teneva un cellulare, e chiamò il 911. Quando si svegliò una seconda volta, era in un letto di ospedale. Imprecare stanca, e così scivolò di nuovo nel sonno. Al suo risveglio, si accorse che nella stanza c'era qualcun altro. Socchiudendo gli occhi cisposi, vide due figure in piedi vicino al letto e abbozzò a fatica un sorriso. «Come mai ci avete messo tanto?» «Abbiamo dovuto fare l'autostop con un paio di caccia da Elmendorf per arrivare qui all'Est il più presto possibile», rispose Austin. «Come ti senti?» «Il lato destro del corpo non va tanto male, ma il sinistro mi dà l'impressione di essere stato torturato con le tenaglie arroventate. E il naso mi fa vedere le stelle.» «Il coltello ha mancato il polmone di un soffio», gli disse Austin, indicando la distanza con il pollice e l'indice accostati. «Ci vorrà del tempo prima che il muscolo guarisca. Buon per te che non sei mancino.» «Immaginavo che fosse qualcosa del genere. Si sa niente di Gamay e Francesca?» domandò pieno di apprensione. «Riteniamo che siano ancora vive, ma sono state rapite dagli stessi de-
linquenti che ti hanno conciato così.» «La polizia ha controllato aeroporti e stazioni, come al solito», aggiunse Zavala. «Ora cominceremo a cercarle noi.» La sofferenza negli occhi azzurri di Paul cedette il posto a una determinazione ferrea. Abbassando le gambe dal letto e posando i piedi sul pavimento, disse: «Vengo con voi». Il dolore e lo sforzo gli procurarono le vertigini e dovette fermarsi qualche istante, mentre lo stomaco si ribellava. Cominciò ad armeggiare con il tubicino della flebo. «Forse dovrete darmi una mano con questa, ragazzi, ma non cercate di dissuadermi», annunciò, scorgendo l'espressione preoccupata di Austin. «La cosa migliore che potete fare è aiutarmi a uscire di qui. Spero che abbiate un po' d'influenza sulla caposala.» Austin lo conosceva abbastanza bene da sapere che sarebbe stato capace di uscire dall'ospedale trascinandosi carponi, se necessario. Lanciò un'occhiata a Zavala, che sorrideva, e capì che da lui non avrebbe ricevuto nessun aiuto. «Vedrò di fare il possibile.» Alzò le spalle. «Nel frattempo, Joe, forse puoi far indossare al tuo amico qualcosa di più decente della camicia da ospedale», aggiunse, prima di voltarsi per raggiungere la postazione delle infermiere. 33 L'atmosfera nella sala riunioni all'ultimo piano della sede della NUMA era tetra come quella che potrebbe regnare in un congresso d'impresari di pompe funebri. L'ammiraglio Sandecker non si era aspettato che Trout partecipasse a quella riunione d'emergenza, visti i bollettini emessi dall'ospedale sulle sue condizioni di salute. L'allampanato geologo marino aveva l'aria di uno zombie, ma Sandecker tenne per sé quel commento. Niente di quello che poteva dire sarebbe valso a dissuadere Paul dall'unirsi alla caccia per ritrovare Gamay e Francesca. Rivolse a Trout un sorriso rassicurante prima di guardare gli altri presenti riuniti intorno al tavolo. Ai lati di Paul, pronti a sorreggerlo nel caso cadesse dalla sedia, c'erano i suoi colleghi della NUMA Austin e Zavala. La quarta figura era quella di un uomo snello, dalle spalle strette, con un paio di occhiali spessi dalla montatura di tartaruga che gli conferivano un'aria professorale; era Rudi Gunn, il direttore delle operazioni della NUMA, secondo soltanto all'ammiraglio.
Sandecker controllò l'orologio. «Dov'è Yaeger?» domandò con una punta d'impazienza. L'eccezionale abilità di Yaeger con i computer gli consentiva di derogare al codice di abbigliamento in vigore alla NUMA, ma neanche il presidente degli Stati Uniti avrebbe osato presentarsi in ritardo a una riunione indetta da Sandecker, tanto più se era importante come quella. «Arriverà fra qualche minuto», spiegò Austin. «L'ho pregato di eseguire un controllo che potrebbe rivelarsi importante per la nostra discussione.» C'era un'idea che gli frullava in testa da un po' di tempo. Dopo il ritorno dall'Alaska si era concesso qualche ora di sonno, e il riposo doveva avergli giovato, perché durante il viaggio dalla Virginia era riuscito a catturare quell'idea sfuggente in una rete immaginaria. Qualche istante dopo, parlava già con Yaeger al cellulare. Il mago del computer stava arrivando dal quartiere alla moda del Maryland dove viveva con la moglie artista e due figlie adolescenti. Austin gli aveva esposto in breve la sua idea, chiedendogli una verifica e promettendogli di giustificarlo alla riunione. Sandecker venne subito al punto. «Signori, siamo di fronte a un mistero. Due persone sono state rapite e una terza ferita da aggressori sconosciuti. Kurt, vuole aggiornarci?» Austin annuì. «La polizia del Distretto di Columbia indaga su ogni pista possibile. Il furgone dei lavori pubblici è stato ritrovato abbandonato nei pressi del monumento a Washington. Era stato rubato qualche ora prima. Non c'erano tracce d'impronte digitali. Tutti gli aeroporti e le stazioni ferroviarie sono sotto sorveglianza. Con l'aiuto di Paul, l'FBI ha realizzato un identikit del capo della banda, che ora verrà diffuso tramite l'Interpol.» «Ho il sospetto che non approderanno a risultati utili», sentenziò Sandecker. «Abbiamo a che fare con dei professionisti. Spetta a noi trovare Gamay e la dottoressa Cabral. Come sapete, Rudi era all'estero per una missione. Io l'ho tenuto informato meglio che potevo, ma forse sarebbe utile se lei potesse fornirci una sintesi cronologica della situazione.» Austin era preparato alla domanda. «La storia è cominciata dieci anni fa con il fallito rapimento di Francesca Cabral. Il suo aereo è precipitato nella foresta pluviale del Venezuela, e si è dato per scontato che fosse morta. Ora spostiamoci in avanti di dieci anni. Joe e io finiamo letteralmente in mezzo a un branco di balene grigie morte al largo di San Diego. Le balene hanno perso la vita per essere rimaste esposte a un calore estremo emanato da un impianto sottomarino situato lungo la costa della Baja California, in Messico. L'impianto è stato distrutto da un'esplosione mentre lo stavamo
esaminando. Io ho parlato con un esponente della mafia messicana che faceva da prestanome al vero proprietario, un'impresa di consulenza della California chiamata Mulholland Group, e il legale del mafioso ha confermato che l'agenzia a sua volta fa parte di un conglomerato multinazionale chiamato Gogstad Corporation. Il criminale e il suo avvocato sono stati assassinati poco dopo che avevano parlato con noi.» «In modo piuttosto spettacolare, se ben ricordo», commento Sandecker. «Esatto. Non sono rimasti vittima di sparatorie casuali. Si è trattato di omicidi ben programmati, e gli esecutori hanno usato armi sofisticate.» «Questo farebbe pensare ad assassini ben organizzati che dispongono di notevoli risorse», osservò Gunn, che era stato anche direttore dei servizi logistici della NUMA e aveva familiarità con i problemi legati all'organizzazione di un'operazione. «Siamo arrivati anche noi alla stessa conclusione», convenne Austin. «Si trattava del tipo di organizzazione e di risorse che potrebbe essere fornito da una grande società fortemente motivata.» «La Gogstad?» Austin confermò con un cenno di assenso. «Non sono certo di capire il significato del nome Gogstad», disse Gunn. «L'unico nesso che sono riuscito a stabilire è con il logo dell'impresa, che rappresenta la nave vichinga Gogstad, scoperta nell'Ottocento. Ho chiesto a Hiram di cercare altri dati sulla società, ma non ce ne sono molti. Perfino Max incontra delle difficoltà a reperire informazioni, ma in sostanza si tratta di un enorme conglomerato che possiede holding in tutto il mondo. È diretto da una donna che si chiama Brynhild Sigurd.» «Una donna», ripeté Gunn in tono sorpreso. «Che nome interessante. Brynhild, o Brunilde, è una delle valchirie, le vergini delle saghe scandinave che hanno il compito di trasportare gli eroi caduti dal campo di battaglia al Walhalla, e Sigurd era il suo amato. Non crederete che sia il suo vero nome?» «Di lei non sappiamo molto.» «So che le megasocietà possono comportarsi in modo spietato nelle trattative d'affari», disse Gunn scuotendo la testa, «ma qui stiamo parlando di metodi criminali.» «Così sembra», ammise Austin. Subito dopo si rivolse a Zavala. «Joe, potresti informare Gunn delle tue scoperte?» «Kurt mi ha chiamato in California per informarmi della pista Gogstad», disse Zavala. «Dal canto mio, ho parlato con un giornalista del Los Ange-
les Times che conosceva molto bene la Gogstad, anzi guidava una squadra investigativa interessata alle attività dell'impresa. Mi ha rivelato che stavano realizzando un'inchiesta su quelli che ha definito 'pirati dell'acqua', destinata a rivelare che la Gogstad sta monopolizzando le riserve idriche del pianeta.» «Non posso credere che sia possibile a una sola compagnia controllare tutte le risorse idriche del mondo!» esclamò Gunn. «Ero piuttosto scettico anch'io», replicò Zavala. «Ma, stando a quel che mi ha detto il giornalista, non è una tesi così inverosimile. Le imprese della Gogstad hanno assunto legalmente il controllo della privatizzazione del fiume Colorado. In tutti i continenti l'acqua sta passando dal controllo pubblico a quello privato, e la Gogstad ha sbaragliato la concorrenza. Il giornalista mi ha confidato che negli ultimi anni si sono verificate morti e scomparse sospette in tutto il mondo. Le vittime erano tutte persone che erano in concorrenza con la Gogstad o si opponevano alle sue acquisizioni.» Gunn lanciò un fischio sommesso. «Questa storia dovrebbe fare sensazione, quando arriverà sulle prime pagine.» «Non accadrà tanto presto. Il giornale ha deciso di tenere segreta l'inchiesta sulla Gogstad senza una ragione plausibile. Gli altri tre componenti della squadra investigativa sono scomparsi, e il mio amico è stato costretto a nascondersi.» «Sei sicuro che non ci sia nessun errore?» disse Gunn, allarmato. Zavala scosse lentamente la testa. Nella sala scese il silenzio, poi Gunn prese la parola. «Allora è evidente che c'è sotto un piano», concluse. «Lasciatemi riflettere.» L'aspetto insignificante di Gunn poteva indurre in errore. Non era un caso, se era risultato primo del suo corso all'accademia navale. Era un autentico genio, e la sua capacità analitica era incredibile. Stringendosi il mento fra pollice e indice, s'immerse per un attimo in una profonda riflessione. «Qualcosa è cambiato», dichiarò bruscamente. «Che vuol dire, Rudi?» domandò Sandecker. «La loro metodologia ha subito un mutamento di qualità. Supponiamo che le nostre premesse siano valide e che dietro tutti questi delitti ci sia la Gogstad. Secondo Joe, finora hanno agito in sordina. La gente scompariva o restava uccisa in qualche presunto incidente. Tutto questo è cambiato con l'assassinio del messicano e dell'avvocato corrotto. Se non sbaglio, il termine usato dall'ammiraglio è stato spettacolare.»
Austin soffocò una risata. «Quelli erano solo buffetti affettuosi, in confronto all'attacco in Alaska. Joe e io abbiamo dovuto fronteggiare un intervento militare in piena regola.» «Anche l'attacco alla mia casa è stato massiccio», aggiunse Trout. «Penso di capire dove vuole arrivare, Rudi», dichiarò Sandecker. «Paul, quando si è diffusa la notizia che la dottoressa Cabral era viva?» «Quasi subito», rispose Trout. «Il dottor Ramírez ha chiamato Caracas dall'elicottero che ci ha tratto in salvo, e il governo venezuelano non ha perso tempo a divulgare la notizia. Credo che la CNN abbia trasmesso la storia in tutto il mondo mentre eravamo ancora nella foresta amazzonica.» «Da allora gli eventi si sono susseguiti a ritmo accelerato», osservò Sandecker. «Per me la situazione è chiara. Il catalizzatore è stato la notizia che Francesca Cabral era viva. La sua resurrezione dalla tomba voleva dire che il processo di desalinizzazione ridiventava possibile. Ora che la sua esperienza era di nuovo disponibile, l'unica cosa necessaria era la rara sostanza indispensabile al funzionamento del processo. La dottoressa Cabral aveva ancora intenzione di mettere la sua scoperta a disposizione del mondo intero. Quelli che erano contrari alla sua decisione si sono limitati a ricominciare da dove avevano smesso dieci anni fa.» «Solo che stavolta hanno avuto successo», osservò Austin. «Okay, questo spiega il rapimento di Francesca», replicò Trout. «Ma perché hanno preso anche Gamay?» «Questa società non fa niente a caso», rispose Austin. «Forse Gamay ha avuto fortuna. Se non avessero avuto bisogno di lei, probabilmente sarebbe stata uccisa. C'è qualche altro dettaglio del rapimento che riesci a ricordare, Paul?» «Non ho visto granché, dopo i primi minuti che hanno trascorso in casa. Il capo, il tizio vestito di pelle nera, parlava con un accento che non sono riuscito a riconoscere. I suoi compari avevano un accento ancora più marcato.» Sandecker si era rilassato sulla sedia, con le dita unite a piramide, per ascoltare quel dialogo, ma adesso si raddrizzò di scatto. «Questi delinquenti sono pesci piccoli, mentre noi dobbiamo arrivare al vertice. Dobbiamo trovare questa donna con il nome wagneriano che dirige la Gogstad.» «È un fantasma», ribatté Austin. «Nessuno sa dove vive.» «Lei e la Gogstad sono la chiave», ribadì con fermezza Sandecker. «Sappiamo almeno dove si trova la sede centrale?»
«Hanno uffici a New York, a Washington e sulla costa del Pacifico. Ci dev'essere una dozzina di altre sedi sparse in Europa e Asia.» «Una vera idra», commentò Sandecker. «Anche se sapessimo dove si trova la sede centrale, non servirebbe granché. La Gogstad è un'impresa legale a tutti gli effetti. Negheranno ogni accusa che lanceremo.» Hiram Yaeger entrò in silenzio nella sala, prendendo posto su una sedia. «Vi chiedo scusa, ma ho dovuto svolgere dei controlli per la riunione.» Guardò con aria interrogativa Austin, che colse al volo l'imbeccata. «Stavo riflettendo su una cosa che Hiram mi ha fatto vedere qualche tempo fa. Era un ologramma di una nave vichinga, la stessa che è al centro del logo della Gogstad. Ho pensato che quella nave doveva avere un significato importante, se le veniva assegnato un ruolo di primo piano. Così ho chiesto a Hiram di cominciare a occuparsi della Gogstad, di andare oltre lo scarso materiale relativo all'azienda che Max ha scovato per noi.» Yaeger annuì. «Dietro suggerimento di Kurt, ho chiesto a Max di andare a ritroso nel tempo e riesaminare tutte le connessioni di carattere storico e navale che prima avevo quasi ignorato. Come potete immaginare, esistono tonnellate di materiale sull'argomento. Kurt mi aveva suggerito di cercare un legame con la California, forse con il Mulholland Group. Max ha trovato un articolo di giornale interessante. Un progettista norvegese di navi antiche era venuto in California per costruire una riproduzione della nave Gogstad per un cliente molto ricco.» «Chi era il cliente?» chiese Austin. «L'articolo non lo menzionava. Ma è stato facile rintracciare il designer norvegese. L'ho chiamato qualche minuto fa per chiedergli notizie su quel lavoro. Aveva giurato di mantenere il segreto, ma ormai sono passati anni, e non ha avuto difficoltà ad ammettere che aveva costruito la riproduzione per una donna grande in una grande casa.» «Una donna 'grande'?» «Intendeva dire 'alta'. Una gigantessa.» «Questa comincia a sembrare una saga scandinava. Che significa quell'accenno alla casa?» «Ha detto che sembrava un villaggio vichingo dei giorni nostri, in riva a un grande lago della California circondato dai monti.» «Tahoe?» «È quello che ho pensato anch'io.» «Una grande casa vichinga in riva al lago Tahoe. Non dovrebbe essere
tanto difficile da rintracciare.» «Già fatto. Max ha stabilito il collegamento con un satellite commerciale.» Yaeger distribuì ai presenti copie delle foto satellitari. «Intorno al lago ci sono alcune grandi case, ville lussuose, complessi residenziali e alberghi, ma niente di simile a questo.» La prima foto mostrava le acque azzurro ghiaccio del lago Tahoe riprese da una notevole altezza, che lo faceva apparire simile a una pozzanghera. In un'altra foto l'obiettivo aveva zoomato su un puntino vicino al lago, ingigantendo i dettagli in modo tale che il vasto edificio e l'eliporto vicino apparivano nitidi. «E questa modesta casetta ha un proprietario?» chiese Austin. «Sono riuscito a inserirmi nella banca dati dell'ufficio delle imposte locale e del fisco», rispose Yaeger con un gran sorriso. Se avesse avuto la coda, avrebbe scodinzolato. «È di proprietà di un consorzio immobiliare.» «Questo non offre molti elementi in base ai quali proseguire.» «Che ne dite di questo, allora? Il consorzio fa parte della Gogstad Corporation.» Sandecker alzò la testa dalle foto. Fin dall'inizio della riunione aveva tenuto a freno la collera, ma era furibondo per il rapimento di uno dei suoi dipendenti preferiti e il ferimento di un altro. Era indignato anche per il fatto che la bella dottoressa Cabral fosse stata rapita, dopo tutto quello che aveva già sofferto. Per la seconda volta veniva sottratta al mondo una scoperta che avrebbe potuto salvare tante vite umane. «Grazie, Hiram.» Poi, facendo scorrere lo sguardo intorno al tavolo con gli occhi azzurri gelidi e imperiosi, concluse con una voce tagliente come un rasoio: «Ebbene, signori, sappiamo che cosa dobbiamo fare». 34 Gli uomini che sorvegliavano Francesca o erano gemelli, o erano frutto di qualche folle esperimento di clonazione mal riuscito. La loro qualità più spaventosa però non era tanto l'aspetto repellente, quanto il silenzio assoluto che erano in grado di mantenere. Erano seduti a pochi metri di distanza da lei, uno per parte, a cavalcioni di due sedie con lo schienale rivolto in avanti. Erano identici in tutto e per tutto, dall'aspetto da orco alla predilezione per i capi d'abbigliamento di pelle nera. Francesca si sforzava di non guardare gli occhi scuri, orlati di rosso, infossati sotto le sopracciglia folte, i denti di metallo e il pallore esangue dei
volti da psicopatici. Loro, invece, la fissavano con avidità, ma nella loro espressione non c'era neanche una sfumatura d'interesse sessuale. La loro non era la crudeltà selvaggia e ingenua alla quale si era abituata fra i chulo: era pura bramosia animale, fame di sangue e ossa. Francesca osservò la strana stanza bianca di forma circolare nella quale si trovava, con le pareti spoglie e la temperatura sgradevolmente bassa. Al centro c'era la console di un computer. Si era accorta che i mobili erano di una misura così grande da risultare assurda e si chiedeva se le sedie giganti, così come la temperatura bassa, fossero un espediente psicologico per far sentire persone come lei piccole e inadeguate. Avrebbe potuto trovarsi in un punto qualsiasi del mondo. Non aveva idea di come fosse arrivata in quella stanza sterile. Ricordava vagamente di essere stata trasferita da un posto all'altro. A un certo punto le sembrava di aver udito i motori di un jet, ma poi le avevano iniettato di nuovo della droga ed era ricaduta nell'incoscienza. Non aveva visto traccia di Gamay, e anche quello la impensieriva. Poi aveva avvertito una puntura al braccio e si era svegliata di colpo come se le avessero iniettato uno stimolante. Aprendo gli occhi aveva visto i gemelli, ma nessuno dei due le aveva rivolto la parola, e ormai erano trascorsi alcuni minuti. Si sentì sollevata quando la porta si aprì con un sibilo e la donna entrò, congedando con un cenno la coppia di grotteschi guardiani. A quel punto, però, Francesca si domandò se fosse finita in uno spettacolo del circo o sul set di un film di Fellini. Adesso capiva la ragione delle misure esagerate dei mobili: la donna, che indossava una divisa verde scuro, era un vero gigante. Sedendosi su un enorme divano, le sorrise in modo garbato ma privo di calore. «Sta bene, dottoressa Cabral?» «Che cosa ne avete fatto di Gamay?» «La sua amica della NUMA? È comodamente sistemata nella stanza che le è stata destinata.» «Voglio vederla.» La donna protese la mano, sfiorando con un gesto pigro lo schermo del computer, e sul monitor comparve Gamay, distesa di fianco su una brandina. Francesca trattenne il fiato. Poi Gamay si agitò, tentando di alzarsi, ma ricadde all'indietro sul letto. «Alla sua amica non è stato somministrato l'antidoto per contrastare gli effetti della droga che le abbiamo dovuto iniettare, come a lei. Continuerà a dormire e si sveglierà solo fra qualche ora.» «Voglio vederla di persona, per accertarmi che le sue condizioni siano
davvero buone.» «Più tardi, forse.» Era una risposta vaga. La donna sfiorò di nuovo il monitor, che si oscurò. Francesca si guardò intorno. «Dove siamo esattamente?» «Non ha importanza.» «Perché ci avete portato qui?» La donna ignorò la sua domanda. «Melo e Radko l'hanno spaventata?» «Si riferisce a quei funghi umani che sono appena usciti?» La gigantessa sorrise di quell'immagine. «Una metafora brillante, ma farebbe meglio a paragonarli a funghi velenosi. Malgrado la spavalderia, leggo la paura nei suoi occhi, ed è un bene. Lei deve averne paura. Durante la campagna per la pulizia etnica in Bosnia, i fratelli Kradzik hanno ucciso con le loro mani centinaia di persone e programmato la morte di altre migliaia. Hanno distrutto interi villaggi e perpetrato numerosi massacri. Se non fosse per me, siederebbero nel banco degli imputati di fronte alla Corte internazionale dell'Aia, accusati di reati contro l'umanità. Non esiste un crimine di guerra del quale non si siano macchiati. Non hanno coscienza, né morale, né rimorso per una qualsiasi delle azioni che hanno commesso. Per loro, mutilare e uccidere sono una seconda natura.» Fece una pausa, per lasciarle il tempo di assimilare quelle parole. «Mi sono spiegata?» «Sì, ha chiarito alla perfezione che non si fa scrupoli ad assumere degli assassini.» «Esatto. La loro natura di assassini è precisamente la ragione per cui li ho ingaggiati. Per me è stato come per un falegname acquistare un martello che serve a conficcare chiodi in una tavola di legno. I gemelli Kradzik sono il mio martello.» «Gli esseri umani non sono chiodi.» «Alcuni sì e altri no, dottoressa Cabral.» Francesca voleva cambiare discorso. «Come fa a conoscere il mio nome?» «Conosco e ammiro il suo lavoro da anni, dottoressa Cabral. A mio parere, la sua fama come ingegnere idraulico fra i migliori del mondo oscura senza fatica la sua recente fama di dea bianca.» «Lei sa chi sono. Ma chi è lei?» «Mi chiamo Brynhild Sigurd. Anche se il suo nome è più noto del mio, ci troviamo ambedue ai massimi livelli nel campo che abbiamo scelto per la nostra attività, e cioè il movimento della sostanza più preziosa della terra, l'acqua.»
«È ingegnere anche lei?» «Ho studiato nei migliori istituti tecnologici d'Europa. Dopo aver completato gli studi, mi sono trasferita in California, dove ho fondato una società di consulenza che ormai è una delle più grandi al mondo.» Francesca scosse la testa. Era convinta di conoscere tutti i professionisti attivi nel suo settore. «Non l'ho mai sentita nominare.» «Preferisco così. Ho sempre operato dietro le quinte. Sono alta quasi due metri e dieci, e la mia statura fa di me un fenomeno da baraccone, esposto alla derisione di persone che mi sono di gran lunga inferiori.» Nonostante la situazione, Francesca provò un moto di comprensione. «Ho dovuto subire anch'io le molestie di idioti che non riescono ad accettare l'idea di una donna in gamba nel loro campo, ma non mi sono mai lasciata influenzare.» «Forse avrebbe dovuto. A lungo andare, il mio risentimento per essere costretta a vivere nell'ombra si è trasformato in un vantaggio. Ho incanalato la mia collera, trasformandola in un'ambizione insaziabile. Ho acquisito altre imprese, sempre con un occhio rivolto al futuro. C'era una sola mosca nel bicchiere.» Di nuovo quel sorriso freddo. «Lei, dottoressa Cabral.» «Non mi sono mai considerata un insetto, signora Sigurd.» «Le chiedo scusa per la definizione, ma si tratta di una metafora calzante. Qualche anno fa ho capito che col tempo la domanda di acqua nel mondo avrebbe superato l'offerta, e ho deciso che sarei stata io a tenere la mano sul rubinetto. Poi ho sentito parlare del suo rivoluzionario processo di desalinizzazione. Se lei avesse avuto successo, avrebbe fatto saltare i miei piani progettati con tanta cura, e questo non potevo permetterlo. Ho preso in considerazione l'idea di farle un'offerta, ma dopo avere studiato la sua personalità ho capito che non sarei mai riuscita a distoglierla dal suo ingenuo idealismo. Così ho deciso d'impedirle di cedere il processo alla comunità internazionale.» Francesca si sentì avvampare. La voce le uscì come un sibilo, tanta era la rabbia che provava in quel momento. «È stata lei a progettare il mio rapimento, allora.» «Avevo sperato di persuaderla a lavorare per me. Le avrei costruito un laboratorio per consentirle di perfezionare il procedimento, ma purtroppo i miei piani sono falliti, e lei è scomparsa nel cuore dell'Amazzonia. Tutti la credevano morta. E ora ho letto con ammirazione delle sue imprese fra i selvaggi, di come è diventata la loro regina. Sapevo che eravamo entrambe destinate a sopravvivere in un mondo ostile.»
Francesca era riuscita a dominare il moto iniziale di collera, e la sua replica fu pacata. «Che cosa avrebbe fatto del processo, se lo avessi ceduto a lei?» «Lo avrei tenuto segreto finché non avessi consolidato il mio controllo sulle risorse idriche del mondo.» «Io avrei ceduto al mondo la mia scoperta a titolo del tutto gratuito», replicò Francesca con disprezzo. «Il mio intento era alleviare le sofferenze, non trarne profitto.» «Intento lodevole, ma autolesionistico. Grazie alla sua morte apparente, ho potuto costruire in Messico un impianto per duplicare il suo lavoro, ma è andato distrutto in un'esplosione.» Per poco Francesca non scoppiò a ridere. Conosceva la causa dell'esplosione e fu tentata di gettarla in faccia alla donna; invece replicò: «Non mi sorprende. Lavorare con alte pressioni e temperature molto elevate può essere insidioso». «Non importa. Il laboratorio principale, situato qui, stava lavorando a un altro aspetto del processo. Poi è giunta la buona novella della sua fuga dalla foresta amazzonica. Lei è scomparsa di nuovo, ma io ero al corrente dei suoi legami con la NUMA. Teniamo d'occhio i Trout fin da quando sono tornati.» «Peccato che lei stia sprecando di nuovo il suo tempo.» «Non credo. Non è troppo tardi per mettere il suo talento al mio servizio.» «Lei ha uno strano modo di reclutare i dipendenti. Il suo primo tentativo di rapimento mi ha costretto a trascorrere dieci anni nella giungla. Ora mi fa narcotizzare e rapire di nuovo. Per quale motivo dovrei fare qualcosa per lei?» «Posso offrirle un appoggio senza pari per la sua ricerca.» «Una dozzina di fondazioni sarebbe lieta di finanziare la mia ricerca. Anche se fossi propensa a lavorare per lei, e non lo sono, ci sarebbe un grave ostacolo: il processo di desalinizzazione comporta una metamorfosi complessa della molecola che funziona solo in presenza di una sostanza molto rara.» «So dell'anasazium. La mia riserva di questo materiale è andata distrutta nell'esplosione del laboratorio in Messico.» «Che peccato», disse Francesca. «Senza quello, il processo non funziona. Quindi, se vuol essere tanto gentile da lasciarmi andare...» «Sarà lieta di sapere che sono in possesso di tutto l'anasazium che le oc-
corre per mettere a punto il suo processo. Quando ho sentito parlare del suo ritorno, mi sono procurata una notevole quantità di sostanza raffinata. Appena in tempo, potrei aggiungere. La NUMA aveva inviato una parte della squadra missioni speciali con un incarico analogo. Ora posso portare a termine il mio piano per controllare le riserve mondiali di acqua potabile. Lei è la sola in grado di apprezzare l'ingegnosità del mio progetto, dottoressa Cabral.» Francesca si finse d'accordo, sia pure con riluttanza, come se fosse segretamente compiaciuta di quel complimento. «Ebbene, senza dubbio, in quanto studiosa dell'acqua, sarei curiosa di conoscere un'impresa tanto ambiziosa.» «Il mondo sta per affrontare una delle più gravi siccità della storia. Questa fase potrebbe durare anche un secolo, se dobbiamo basarci sulle esperienze del passato. L'impatto iniziale è stato già avvertito in Africa, Cina e Medio Oriente. L'Europa comincia a sperimentare una sete che è impossibile placare. Ho semplicemente intenzione di accelerare il processo per lasciare il mondo a secco.» «Perdoni il mio scetticismo, ma è assurdo.» «Davvero?» ribatté Brynhild con un sorriso. «Gli Stati Uniti non sono immuni. Le grandi città sorte nel deserto del Sudovest, come Los Angeles, Phoenix, Las Vegas, attingono acqua dal fiume Colorado, che ora è sotto il mio controllo. Fanno affidamento su una fragile rete di dighe, bacini idrici e deviazioni nel corso dei fiumi. Le loro riserve idriche sono appese a un filo. Qualunque incidente nella catena di rifornimento avrebbe effetti disastrosi.» «Non avrà intenzione di far saltare una diga?» esclamò Francesca allarmata. «Niente di così rozzo. Con il rifornimento regolare di acqua al limite dell'esaurimento, le città dipendono sempre più da fonti private. Le società di comodo della Gogstad non hanno fatto altro che acquisire sistemi idrici ovunque. Potremo creare una carenza d'acqua dove e quando vorremo, semplicemente chiudendo i rubinetti. Poi venderemo soltanto alle nazioni che si potranno permettere di acquistare l'acqua, alle grandi città e ai centri di alta tecnologia.» «E quelli che invece non se lo possono permettere?» «Nell'Ovest circola un vecchio detto: 'L'acqua scorre anche controcorrente pur di raggiungere il denaro'. I ricchi hanno sempre avuto una fonte d'acqua a buon mercato a spese altrui. Ora, con il mio piano, l'acqua
non sarà più a buon mercato. Lo faremo su scala mondiale, in Europa, Asia, Sudamerica e Africa. Sarà capitalismo nella forma più pura: il mercato determina il prezzo.» «Ma l'acqua non è un bene di consumo come la pancetta di maiale.» «Lei è vissuta troppo a lungo nella giungla. La globalizzazione non è altro che la promozione dei monopoli nei settori della comunicazione, dell'agricoltura, dell'alimentazione o del potere. Perché non dell'acqua? In base ai nuovi trattati internazionali, ormai nessuna nazione è proprietaria dei diritti sulle proprie risorse idriche. Queste spettano al miglior offerente, e la Gogstad sarà il miglior offerente.» «Se negherà l'acqua alle migliaia di persone che saranno escluse dal mercato, nelle nazioni che non potranno permettersi di acquistarla scoppieranno carestie e caos.» «Il caos tornerà a nostro vantaggio, perché spianerà la strada al controllo politico della Gogstad sui governi così indeboliti. Lo consideri una forma di darwinismo politico. I forti sopravvivranno.» Lo sguardo degli occhi azzurro ghiaccio di Brynhild era così penetrante da dare l'impressione che quella donna potesse leggere nella mente di Francesca. «Non deve pensare che questa sia la mia vendetta per tutti i torti che ho subito a causa della mia statura. Sono una donna d'affari consapevole che il clima politico è essenziale alla conclusione delle trattative d'affari. Questo ha richiesto non pochi investimenti da parte mia. Ho speso milioni di dollari per costruire una flotta di navi cisterna destinate a trasportare l'acqua dai luoghi dov'è disponibile, rimorchiando enormi sacche costruite per la navigazione oceanica. Sono anni che attendo questo momento. Non avevo osato muovermi perché temevo il suo procedimento di desalinizzazione, che avrebbe potuto distruggere il mio monopolio nel giro di poche settimane; ma, ora che ho in mano lei e l'anasazium, posso sferrare la mia offensiva. Fra pochi giorni, tutta la parte occidentale del Paese resterà senz'acqua.» «Questo è impossibile!» «Davvero? Vedremo. Quando il fiume Colorado non potrà essere più utilizzato come fonte di rifornimento, tutte le altre tessere del piano andranno rapidamente a occupare il loro posto. La mia società controlla la maggior parte delle risorse idriche nelle altre aree del mondo. Non faremo altro che chiudere il rubinetto, per così dire. Dapprima in modo graduale, poi con maggiore decisione. Se ci saranno proteste, risponderemo che viene distribuita la maggiore quantità possibile d'acqua.»
«Lei sa bene quali saranno i risultati», replicò Francesca, senza perdere la calma. «Sta parlando di trasformare gran parte del mondo in un deserto. Le conseguenze sarebbero terribili.» «Terribili per qualcuno, ma non per quelli che controllano le risorse idriche del mondo. Potremmo ottenere qualsiasi prezzo chiederemo.» «Da esseri umani disperati. Ben presto si verrebbe a sapere che razza di mostro è lei.» «Al contrario, la Gogstad dichiarerà che siamo pronti a trasferire l'acqua dall'Alaska, dalla British Columbia e dai Grandi Laghi in altre parti del mondo grazie alla flotta di navi cisterna che ho fatto costruire. Quando le splendide cisterne della Gogstad appariranno al largo della costa, saremo accolti come eroi.» «Mi sembra che lei sia già più ricca di quanto molti possano anche solo sognare di diventare. Per quale motivo desidera arricchirsi ancora di più?» «A lungo andare, tutto questo potrebbe tradursi in un beneficio per il mondo. Impedirò che si combattano guerre per l'acqua.» «Sarà una pace marchiata Gogstad e imposta con la forza.» «Non ci sarà bisogno di ricorrere alla forza. Ricompenserò coloro che si piegheranno alla mia volontà e punirò coloro che non lo faranno.» «Lasciandoli morire di sete.» «Sì, se necessario. Immagino che lei si starà chiedendo quale posto occupa il suo processo di desalinizzazione in questo quadro.» «Presumo che non potrebbe mai tollerare di vederlo mandare a monte il suo folle piano.» «Al contrario, il suo processo è un elemento importante del mio progetto. Non ho intenzione di tenere in mare per sempre le mie navi cisterna. Rappresentano soltanto una misura temporanea, da adottare mentre il mondo costruirà la straordinaria infrastruttura che ricaverà acqua dalla calotta polare. Immense aree agricole che oggi sono desertificate dovranno essere rese fertili con un'irrigazione su scala gigantesca.» «Nessun Paese si potrebbe permettere una spesa simile. Intere nazioni finiranno in bancarotta.» «Tanto meglio, così sarà possibile accaparrarsele a prezzo di svendita. Alla fine costruirò impianti di desalinizzazione utilizzando il metodo Cabral, ma sarò io sola a controllare la loro produzione.» «Destinandola sempre al miglior offerente.» «È naturale. Ora mi consenta di sottoporle la mia nuova offerta. La sistemerò in un laboratorio dove avrà a disposizione tutto ciò che le occor-
re.» «E se rispondessi di no?» «In tal caso consegnerò la sua amica della NUMA ai fratelli Kradzik, e le assicuro che non morirà in modo rapido né piacevole.» «Ma non ha fatto niente. Non c'entra affatto in tutto questo.» «Ciò nonostante è un chiodo che va preso a martellate, se necessario.» Francesca rimase in silenzio per un attimo, poi disse: «Come faccio a sapere se posso fidarmi di lei?» «Non può fidarsi di me, dottoressa Cabral. Ormai dovrebbe sapere che non ci si può mai fidare di nessuno. Comunque è abbastanza intelligente da capire che per me lei è molto più preziosa della vita della sua amica, e che sono disposta a trattare. Finché lei coopera, la sua amica resterà in vita. Accetta l'accordo?» Quella donna e i misfatti che racchiudeva nei recessi più oscuri della sua mente brillante ispiravano a Francesca un forte senso di repulsione. Era evidente che Brynhild era una megalomane e, come tanti dei suoi spietati predecessori, era indifferente alle sofferenze degli innocenti. D'altra parte, Francesca non era sopravvissuta per dieci anni in mezzo a selvaggi cacciatori di teste, pipistrelli-vampiri, insetti nocivi e piante dalle proprietà straordinarie senza possedere notevoli risorse interiori. Era capace anche lei di astuzie machiavelliche, e la vita nella giungla le aveva consentito di acquisire la ferocia silenziosa di un giaguaro in agguato. Da quando era riuscita a sfuggire ai chulo, si struggeva dal desiderio di vendicarsi. Sapeva che era un sentimento sbagliato e mal riposto, ma nello stesso tempo la sosteneva e l'aiutava a conservare la sanità mentale. Per il momento doveva accantonare la sete di vendetta: era necessario fermare quella donna. Trattenendo un sorriso, chinò la testa con aria sottomessa e, fingendo di avere un groppo in gola, rispose: «Ha vinto. L'aiuterò a mettere a punto il procedimento». «Affare fatto. Le mostrerò il laboratorio nel quale potrà lavorare. Ne resterà impressionata.» «Voglio parlare con Gamay per accertarmi che stia bene.» Brynhild premette un pulsante sull'interfono, e apparvero due uomini in divisa verde scuro. Francesca si accorse con sollievo che non erano i gemelli Kradzik. «Accompagnate la dottoressa Cabral in visita dall'altra nostra ospite», ordinò Brynhild. «Poi riportatela da me.» Si rivolse a Francesca. «Ha dieci minuti di tempo. Voglio che si metta subito al lavoro.»
Affiancata dalle guardie, Francesca fu condotta attraverso un labirinto di corridoi fino a un ascensore che li portò più in basso di alcuni piani. Gli uomini si fermarono poi davanti a una porta priva di contrassegni, che aprirono digitando un codice su una tastiera. Le guardie rimasero all'esterno, mentre Francesca entrava nella stanzetta senza finestre. Gamay era seduta sulla sponda della brandina e aveva un'aria stordita, come un pugile costretto a incassare troppi colpi. Si rianimò soltanto quando vide Francesca. Sorrise e tentò di alzarsi, ma le gambe non la sorressero e dovette sedersi di nuovo. Francesca si sedette sul giaciglio, passandole un braccio sulle spalle. «Ti senti bene?» Gamay si scostò i capelli dal viso. «Mi sento le gambe molli, comunque passerà. E tu?» «Mi hanno somministrato uno stimolante. Sono sveglia già da qualche tempo. Fra poco svanirà anche l'effetto della droga che ti hanno iniettato.» «Qualcuno ha accennato alle condizioni di Paul? Era al piano di sopra, quando i rapitori hanno fatto irruzione in casa.» Francesca scosse la testa. Accantonando le sue peggiori paure, Gamay domandò: «Hai qualche idea del luogo in cui ci troviamo?» «No. La nostra ospite non ce lo ha detto.» «Vuoi dire che hai parlato con il responsabile di questa splendida sistemazione che ci è stata riservata?» «È una donna, e si chiama Brynhild Sigurd. Sono stati i suoi uomini a rapirci.» Gamay fece per ribattere, ma Francesca si morse le labbra, spostando lo sguardo da sinistra a destra. Gamay afferrò il messaggio. Erano sorvegliate da microfoni nascosti e probabilmente da una telecamera. «Ho appena qualche minuto. Volevo solo farti sapere che ho accettato di collaborare con la signora Sigurd per mettere a punto il mio processo di desalinizzazione. Dovremo restare qui finché il progetto non sarà completo. Non so quanto tempo ci vorrà.» «Hai intenzione di collaborare con la persona che ci ha rapito?» «Sì», replicò Francesca, sollevando il mento con aria ostinata. «Ho già sprecato dieci anni della mia vita nella giungla. C'è da guadagnare molto, ma a parte questo credo che la Gogstad rappresenti la migliore occasione per mettere il mio procedimento a disposizione del mondo in modo ordinato e controllato.» «Sei sicura che sia proprio questo che vuoi fare?»
«Sì, ne sono assolutamente certa.» La porta si aprì, e una delle guardie fece segno a Francesca di uscire. Lei annuì e si chinò per abbracciare Gamay. Subito dopo si raddrizzò e uscì insieme con le guardie. Rimasta di nuovo sola, Gamay rifletté su quella visita. Nell'attimo in cui i loro sguardi si erano incontrati, Francesca le aveva strizzato l'occhio, su quello non c'erano dubbi. Gamay era felice di poter pensare che sotto l'annuncio di Francesca di essere pronta a lavorare per il nemico si nascondesse qualcos'altro, ma in quel momento aveva delle preoccupazioni più immediate. Si stese di nuovo sulla brandina, chiudendo gli occhi. La priorità essenziale consisteva nel concedere riposo al corpo e alla mente. Poi avrebbe cercato di escogitare un modo per fuggire. 35 L'uomo fluttuava nell'aria sopra le acque blu cobalto del lago Tahoe, sospeso a una sorta di vela formata da un ombrello di tessuto bianco e rosso che si gonfiava sopra di lui come un paracadute all'antica. Era in posizione semidistesa, agganciato con le cinghie a un seggiolino Skyrider fissato a un cavo di traino che lo collegava a una barca munita di verricello, sessanta metri più in basso. L'uomo azionò la radiotrasmittente. «Facciamo ancora un altro passaggio, Joe.» Zavala, che era al timone della barca, agitò la mano per indicare che aveva sentito le istruzioni di Austin e descrisse un'ampia e lenta virata con il battello da traino ParaNautique, per costeggiare di nuovo la riva del grande lago californiano. La manovra offrì a Austin una visuale panoramica del lago Tahoe, situato sulla Sierra Nevada, al confine tra California e Nevada, trentasette chilometri a sud-ovest di Reno. Circondato da monti impervi che d'inverno si coprivano di neve, il Tahoe era il più vasto lago di origine glaciale degli Stati Uniti, situato a un'altezza di oltre duemila metri e profondo quasi cinquecento metri. Lo specchio d'acqua era lungo trentacinque chilometri e largo diciannove e si trovava in un bacino di faglia creato da forze antiche che agivano sugli strati profondi della superficie terrestre. Due terzi della sua superficie, vasta circa cinquecentotrenta chilometri quadrati, appartenevano alla California. All'estremità settentrionale le sue acque defluivano nel fiume Truckee, mentre all'estremità meridionale un fiume di denaro si riversava nelle casse delle grandi case da gioco che sorgevano sulla fron-
tiera tra i due Stati. Il primo bianco a scoprire il lago fu John C. Fremont, durante una missione esplorativa. All'orecchio degli inglesi il nome attribuito al lago dagli indiani washoe, Da-ow, che significava «molta acqua», suonava «Tahoe», e fu quella la pronuncia che rimase nell'uso. Quando la vela che sorreggeva in aria Austin gli fece descrivere un ampio arco, l'agente concentrò la sua attenzione su un particolare tratto della riva e sulla cupa foresta che si stendeva all'interno, imprimendosi l'immagine nella memoria. Avrebbe preferito usare una videocamera o una macchina fotografica, anziché affidarsi alla memoria, sempre imperfetta, ma ogni movimento in una zona così vicina alla base della Gogstad doveva essere soggetto a un attento esame. Ogni interesse indebito da parte sua, come l'atto di puntare un obiettivo nella direzione sbagliata, avrebbe fatto scattare l'allarme. Sorvolò un lungo pontile che si protendeva nelle acque del lago dalla riva rocciosa. Vi era ormeggiato un potente motoscafo. Dietro una rimessa per le barche, o un capannone, le rocce nere s'innalzavano bruscamente, formando una ripida scarpata prima di raggiungere un tavolato naturale ricoperto di fitti boschi. A qualche centinaio di metri dalla riva il terreno riprendeva a salire, sempre ammantato da una foresta rigogliosa. Le torri, i tetti e le torrette che spuntavano dalle cime degli alberi rammentavano a Austin i bastioni di un castello degni delle fiabe dei fratelli Grimm. La sua attenzione fu attirata da un movimento improvviso. Alcuni uomini vestiti di scuro avevano raggiunto di corsa l'estremità del pontile. Era troppo lontano per distinguere i dettagli, ma non sarebbe rimasto sorpreso se le sue foto mentre era appeso al paracadute fossero apparse nell'album di famiglia della Gogstad. Il pontile scomparve mentre il battello da traino lo portava più a sud di un chilometro e mezzo. Quando furono ben lontani e fuori vista, Austin trasmise a Zavala l'ordine di farlo scendere, e il verricello riavvolse il cavo dello Skyrider come se fosse il filo di un aquilone. Il seggiolino reclinabile finì in acqua, galleggiando. Austin ringraziò il cielo che non si usasse più il vecchio sistema d'imbracatura, che lo avrebbe fatto sprofondare nel lago dove la temperatura dell'acqua, anche d'estate, si aggirava intorno ai quindici gradi. «Hai visto qualcosa d'interessante?» chiese Zavala mentre aiutava Austin a risalire sul battello. «Non c'è uno zerbino con la scritta BENVENUTI sulla soglia di casa, se è questo che intendi.»
«Mi pare di aver visto un comitato di accoglienza sul pontile.» «Si sono lanciati alla carica non appena abbiamo fatto il secondo passaggio. Abbiamo visto giusto riguardo ai sistemi di sicurezza.» Erano partiti dal presupposto che il terreno sarebbe stato strettamente sorvegliato, e non sarebbe servito a niente cercare d'infiltrarsi. Riflettendo che spesso l'approccio più evidente è anche il più innocuo, avevano esibito un fascio di banconote e la tessera della NUMA per indurre il proprietario del battello da traino e dello Skyrider a privarsi per qualche ora della sua attrezzatura. All'uomo avevano lasciato intendere di indagare sulla mafia, il che appariva plausibile, data la vicinanza del lago ai casinò dove si giocava d'azzardo. Visto che gli affari battevano la fiacca e accettando avrebbe guadagnato più del ricavato di una settimana intera, lui si era lasciato persuadere. Austin aiutò Zavala a riporre lo Skyrider e il paracadute, poi aprì un sacchetto a tenuta stagna e ne estrasse un taccuino e una penna. Scusandosi per la qualità del disegno, che in realtà era ottimo, tracciò alcuni schizzi di quello che aveva visto dall'aria. Aveva portato con sé le foto satellitari fornite da Yaeger, che confrontò con gli schizzi. In cima alla scarpata, la scala che saliva dal pontile si collegava con un vialetto, che, a sua volta, si allargava diventando una strada che conduceva al complesso principale. Una diramazione della strada raggiungeva l'eliporto. «Un attacco frontale in piena regola dalla riva del lago è da escludere», concluse. «Non posso dire di esserne deluso. Non ho dimenticato la sparatoria in Alaska», ribatté Zavala. «Avevo sperato di vedere il fondale. Una volta il lago era limpido come una lastra di cristallo, ma gli scarichi delle abitazioni sulle rive hanno intorbidito l'acqua, che pullula di alghe.» Zavala stava esaminando un'altra foto. Dopo la riunione strategica nella sede della NUMA, Austin aveva chiesto una foto satellitare NOAA del lago Tahoe. L'immagine indicava la temperatura delle acque del lago mediante una scala di colori. Il lago era quasi tutto blu, tranne un punto lungo la riva occidentale, dove la tonalità rossa della foto indicava la presenza di temperature elevate. L'acqua calda si trovava praticamente sotto il pontile della Gogstad, e ricordava l'emanazione di calore nell'oceano lungo la costa della Baja. «Le foto non mentono», commentò Zavala. «C'è sempre la possibilità di una sorgente di acqua termale calda.»
Austin si accigliò. «E va bene, diciamo che hai ragione tu e che qui esiste un'installazione subacquea come quella della Baja. C'è una sola cosa che non capisco: stiamo parlando di un impianto di desalinizzazione, ma queste sono le acque dolci di un lago.» «Lo ammetto, non ha senso. Comunque esiste un solo modo per accertarsene. Torniamo indietro, e vediamo se è arrivato il pacco che aspettavamo.» Austin avviò il motore, dirigendo il battello da traino verso South Lake Tahoe. Sfrecciarono veloci sulle acque di un azzurro intenso, e ben presto entrarono in un porticciolo turistico. In fondo a un molo lungo e stretto come un dito individuarono una figura allampanata che li salutava con la mano. Paul era rimasto a terra, perché la ferita era ancora troppo recente per consentirgli di affrontare i sobbalzi e gli scossoni di una barca. Quando accostarono al molo, afferrò la cima con la mano sana per ormeggiare la barca. «Il pacco è arrivato», annunciò. «È nel parcheggio.» «Hanno fatto presto», osservò Austin. «Andiamo a dare un'occhiata.» Kurt e Zavala si diressero verso il parcheggio. «Aspettate», esclamò Paul. Austin era ansioso di controllare la consegna. «Ti aggiorneremo poi», gridò senza voltarsi. Paul scosse la testa. «Poi non dite che non vi ho avvertito», borbottò. Il TIR era fermo di fianco all'area di parcheggio. L'oggetto caricato sul rimorchio aveva all'incirca la forma e le dimensioni di due automobili disposte una dietro l'altra. Era coperto da uno strato d'imbottitura protettiva su cui era teso un telo di plastica scura. Austin si era appena avvicinato per guardare meglio, quando nella cabina si aprì la portiera del passeggero, da cui scese a terra una figura familiare. Jim Contos, skipper della Sea Robin, si avvicinò con un gran sorriso. «Oh-oh», mormorò Zavala. «Jim», esclamò Austin. «Che bella sorpresa!» «Che diavolo succede, Kurt?» Il sorriso era scomparso dal viso di Contos. «Si trattava di un'emergenza, Jim.» «Già, me lo sono immaginato, quando Rudi Gunn mi ha chiamato nel bel mezzo delle prove d'immersione per ordinarmi di spedire il SeaBus sul lago Tahoe il più presto possibile. Per questo mi sono fatto dare un pas-
saggio da San Diego per vedere chi c'era a riceverlo.» Notando un tavolo da picnic nelle vicinanze, Austin suggerì di sedersi. Poi espose la situazione, illustrandola con l'aiuto delle foto e dei disegni. Contos rimase in silenzio per tutta la durata della spiegazione, con il viso abbronzato che assumeva un'espressione sempre più seria a ogni dettaglio che si aggiungeva al quadro. «Ecco a che punto siamo», concluse Austin. «Quando ci siamo resi conto che forse esisteva una sola via d'accesso, abbiamo controllato qual era il sommergibile più vicino in grado di eseguire questo lavoro. Purtroppo è saltato fuori che era quello che stai testando in mare.» «Perché giocare a moscacieca?» domandò Contos, usando la definizione adottata per le audaci operazioni subacquee compiute sotto copertura ai tempi della guerra fredda. «Perché non entrare a viso aperto?» «In primo luogo, quella proprietà ha un sistema di sicurezza superiore a quello di Fort Knox. Abbiamo controllato l'accesso via terra. Il complesso è circondato da una recinzione di filo spinato collegata a un sistema d'allarme che scatta anche soltanto a soffiarci sopra. Il perimetro è pattugliato da un servizio d'ordine molto attento. Esiste una sola via d'accesso in entrata e in uscita, che passa attraverso una fitta foresta ed è attentamente sorvegliata. Se mandiamo una squadra SWAT con le armi spianate è probabile che si faccia male qualcuno. Inoltre che succederebbe se ci sbagliassimo, se le donne non fossero prigioniere qui e se tutto quello che c'è oltre quelle recinzioni fosse perfettamente legale?» «Tu non lo pensi affatto, vero?» «No, io no.» Contos fissò le barche a vela che scivolavano placide sulle acque del lago, poi si rivolse a Paul, che li aveva raggiunti al tavolo da picnic. «Lei è convinto che sua moglie sia là dentro?» «Sì, e ho tutte le intenzioni di tirarla fuori.» Contos notò che Trout aveva un braccio al collo. «Penso che una mano in più potrebbe farle comodo. E i suoi amici, qui, avranno bisogno di aiuto per varare il SeaBus.» «Ma se l'ho progettato io!» protestò Zavala. «Lo so benissimo, ma non sei stato tu a collaudarlo, quindi non ne conosci le particolarità. Per esempio, le batterie dovrebbero durare sei ore, invece raggiungono a stento un'autonomia di quattro. Stando a quel che dici, questo impianto è piuttosto lontano. Avete pensato al modo migliore per portarlo nel punto in cui va calato in acqua?»
Austin e Zavala si scambiarono un'occhiata divertita. «Per la verità, abbiamo già escogitato un sistema di trasporto», rispose Austin. «Vuoi vederlo?» Contos annuì, e si alzarono da tavola per attraversare tutto il parcheggio e raggiungere la banchina. Più si avvicinavano alle acque del lago, più l'espressione di Contos appariva perplessa. Abituato com'era alle attrezzature all'avanguardia della NUMA, si aspettava di vedere qualcosa come una chiatta supertecnologica munita di gru. Invece non c'era niente di simile. «E dov'è il sistema di trasporto?» domandò. «Mi pare che stia arrivando proprio adesso», rispose Austin. Contos rivolse lo sguardo in direzione del lago, e spalancò gli occhi quando vide il vecchio battello turistico a ruota che avanzava nella loro direzione. L'imbarcazione era dipinta di rosso, bianco e blu, e tutta pavesata di bandiere che garrivano al vento. «Vuoi scherzare?» esclamò sbigottito. «E vorresti calarla in acque da quel battello? Sembra una torta nuziale galleggiante.» «È piuttosto vistosa, e fa il giro del lago tutti i giorni. Ormai nessuno la degna di una seconda occhiata. Non ti pare perfetta per un'operazione sotto copertura, Joe?» «Ho sentito dire che a bordo servono un'ottima colazione», ribatté Zavala, con estrema serietà. Contos fissò con aria truce l'imbarcazione che si avvicinava. Poi, senza dire una parola, girò su se stesso per tornare verso il parcheggio. «Ehi, comandante, dove vai?» gli gridò dietro Austin. «Torno sul camion a prendere il banjo.» 36 Francesca, in piedi sul ponte della nave vichinga, ne ammirava le lunghe linee dinamiche, il profilo aggraziato della prua e della poppa rivolte in alto, la vela quadra dipinta. Nonostante il fasciame spesso e la chiglia massiccia, aveva un aspetto quasi delicato. Guardandosi intorno e osservando l'enorme sala con il soffitto a volta, le torce fiammeggianti e le alte pareti di pietra ricoperte di armi medievali, si domandò come potesse un oggetto così bello trovarsi in un ambiente tanto bizzarro e sgradevole. Brynhild Sigurd, in piedi vicino al timone, scambiò il silenzio di Francesca per un segno di rispetto e ammirazione. «È un capolavoro, non è vero? I vichinghi la chiamavano skuta quando
costruirono l'originale, quasi duemila anni fa. Non era la più grande delle loro navi, come il drakkar, ma era la più veloce. L'ho fatta riprodurre alla perfezione in ogni sua parte, dal fasciame di rovere al crine di mucca che si usava allora per calafatare. È lunga più di ventiquattro metri e larga quasi cinque. L'originale si trova a Oslo, in Norvegia, ma un'altra riproduzione ha attraversato addirittura l'Atlantico. Immagino che si starà chiedendo per quale motivo mi sono presa la briga di farla costruire e sistemare in questo salone.» «C'è chi colleziona vecchi francobolli e chi auto d'epoca. Sui gusti non si discute.» «Non si tratta soltanto di un capriccio da collezionista.» Brynhild si staccò dal timone per avvicinarsi a Francesca, che rabbrividì nel sentirla così vicina. Anche se il corpo imponente di Brynhild era sodo e muscoloso, la minaccia che esprimeva non era soltanto fisica: quella donna sembrava capace di protendersi verso l'alto per strappare un fulmine dal cielo e appropriarsi del suo potere. «Ho scelto questa nave come simbolo della mia enorme società perché incarna lo spirito dei vichinghi. Coloro che navigavano su questa nave prendevano quel che volevano. Spesso vengo qui in cerca d'ispirazione. E così sarà per lei, dottoressa Cabral. Venga, le faccio vedere il laboratorio nel quale lavorerà.» Francesca era stata riportata nel nido d'aquila di Brynhild dopo la breve visita a Gamay. Brynhild l'aveva guidata attraverso un intricato labirinto di corridoi che a Francesca avevano ricordato l'interno di una nave da crociera. Erano senza scorta, ma l'idea della fuga non si affacciò neppure alla mente di Francesca. Anche se fosse riuscita a sopraffare la sua gigantesca ospite - una prospettiva poco probabile - si sarebbe smarrita nel giro di pochi minuti. Inoltre aveva il sospetto che le guardie non fossero mai lontane. Entrarono nella cabina di un ascensore che scese così veloce da far vacillare le ginocchia. La porta si aprì su un locale in cui le attendeva una vettura che correva su monorotaia. Brynhild fece segno a Francesca di sedersi davanti, poi salì dietro di lei, in un vano predisposto su misura per la sua statura eccezionale. Il loro peso attivò l'acceleratore, e la vettura superò un varco aperto nella parete, sfrecciando veloce in un tunnel illuminato. Quando sembrava già che la vettura stesse per sfuggire a ogni controllo, i computer che ne regolavano la velocità la fecero rallentare sino a fermarsi senza scosse in una stanza molto simile a quella di partenza. Anche lì c'era un ascensore, che, a differenza di quelli tradizionali, composti da una scatola metallica agganciata a un cavo, era a forma di uovo,
con le pareti di plastica trasparente. C'era posto per quattro persone di statura normale. La porta si chiuse con un sibilo e l'ascensore scese in un pozzo buio, che poi divenne di un azzurro intenso. Osservando il gioco fluido di luci e ombre attraverso le pareti trasparenti, Francesca si accorse che stavano scendendo nell'acqua. L'azzurro divenne ancora più cupo, finché, tutt'a un tratto, fu come se entrassero nel raggio di luce di un riflettore. La porta si aprì e loro uscirono. Francesca stentava a credere ai suoi occhi. Si trovavano in uno spazio circolare, fortemente illuminato, con un diametro di parecchie decine di metti. Era difficile valutare le dimensioni esatte del locale, perché era pieno di tubature di grosse dimensioni, serpentine e contenitori di tutte le capacità. Tecnici in camice bianco, una dozzina in tutto, si muovevano in silenzio fra condutture e serbatoi, oppure erano chini sui monitor dei computer. «Ebbene, che gliene pare?» domandò Brynhild, con evidente orgoglio. «È incredibile.» Questa volta il rispetto nella voce di Francesca era reale. «Dove siamo, in fondo al mare?» La gigantessa sorrise. «Questo è il laboratorio dove svolgerà il suo lavoro. Venga, le faccio vedere.» La mentalità scientifica di Francesca filtrò subito le impressioni caotiche ricevute in un primo momento. Anche se le condutture si diramavano in direzioni diverse, c'era decisamente del metodo in quella follia. Qualunque fosse la direzione dei tubi, prima o poi convergevano sempre verso il centro della stanza. «Questo controlla le varie condizioni che incidono sul materiale di base», spiegò Brynhild, indicando le spie che lampeggiavano su un pannello. «Questo laboratorio subacqueo si appoggia su quattro sostegni. Due dei supporti fungono da tubi di alimentazione, e gli altri due servono per il deflusso. Dal momento che siamo immersi in una massa di acqua dolce, per prima cosa immettiamo nel liquido che viene pompato in entrata una certa quantità di sale e minerali marini. Il risultato è identico all'acqua di mare vera e propria.» Si diressero verso il centro del locale, che era occupato da un imponente serbatoio cilindrico alto tre metri, con un diametro di sei. «Questo deve contenere l'anasazium», suppose Francesca. «Esatto. L'acqua circola intorno al nucleo, poi viene immessa di nuovo nel lago attraverso gli altri due supporti.» Tornarono verso la console principale. «Allora, quanto ci siamo avvicinati a riprodurre il processo Cabral?»
Francesca esaminò i quadranti. «Refrigerazione, corrente elettrica, monitoraggio del calore... tutto bene. Eravate vicini, molto vicini.» «Abbiamo esposto l'anasazium al caldo, al freddo e alla corrente elettrica, ma con risultati molto limitati.» «Non mi sorprende, visto che manca la componente sonica.» «Ma certo! Le vibrazioni sonore.» «Avete afferrato il principio, ma il procedimento non funziona se il materiale non viene esposto a un certo livello di onde sonore in combinazione con le altre forze. È come togliere il violoncello da un quartetto d'archi.» «Ingegnoso. Come ha fatto a ideare questa tecnica?» «È bastato pensare in termini non convenzionali. Come sa, prima di questo esistevano tre metodi principali per la desalinizzazione. Nell'elettrodialisi e nell'osmosi inversa l'acqua sottoposta all'azione della corrente elettrica viene filtrata attraverso membrane che trattengono il sale. Il terzo metodo è la distillazione, che provoca l'evaporazione dell'acqua allo stesso modo in cui il calore del sole trasforma l'oceano in vapore. Tutti e tre richiedono un enorme dispendio di energie, che rende proibitivo il costo della desalinizzazione. Il mio metodo, invece, modifica la struttura atomica e molecolare, e nello stesso tempo produce energia, per cui si autoalimenta. La combinazione delle forze dev'essere assolutamente esatta; se è sbagliata anche solo di una percentuale infinitesimale, il processo non funziona.» «Ora che ha visto tutto, quanto tempo pensa che ci voglia per modificare questo laboratorio in modo da soddisfare i suoi standard?» Francesca alzò le spalle. «Una settimana.» «Tre giorni», ribatté Brynhild con voce inespressiva. «Perché questo limite di tempo?» «Il consiglio di amministrazione della Gogstad deve riunirsi qui. Convocherò persone che vengono da tutte le parti del mondo e voglio dare loro una dimostrazione del suo procedimento. Quando lo avranno visto in atto, torneranno a casa e noi potremo passare alla realizzazione del nostro grande piano.» Francesca rifletté un istante, poi disse: «Posso farlo diventare operativo in ventiquattr'ore». «C'è una bella differenza, rispetto a una settimana.» «Lavoro più in fretta quando ho un incentivo. C'è un prezzo da pagare.» «La sua posizione non le permette di porre condizioni.» «Me ne rendo conto, ma voglio che lei lasci libera la prigioniera. È stata
drogata, e non sa dove si trova né in che modo è arrivata qui. Non potrebbe mai identificarla o causarle dei problemi. Lei la tiene prigioniera solo per avere la certezza che farò funzionare questo impianto, ma una volta che il procedimento sarà attivo non avrà più bisogno di lei.» «D'accordo», convenne Brynhild. «La lascerò andare non appena lei mi avrà mostrato il primo quantitativo di acqua pura ottenuto con il suo processo di desalinizzazione.» «Che garanzie può darmi che manterrà la parola?» «Nessuna, ma lei non ha scelta.» Francesca annuì. «Avrò bisogno di alcune apparecchiature e di assistenza incondizionata.» «Avrà tutto ciò che vuole», assicurò Brynhild, convocando con un cenno alcuni tecnici. «La dottoressa Cabral otterrà tutto ciò di cui avrà bisogno, capito?» Impartì un ordine brusco, e un altro tecnico accorse tenendo in mano una valigetta di alluminio piuttosto malandata. Brynhild gliela tolse di mano per consegnarla a Francesca. «Credo che questa le appartenga. L'abbiamo trovata in casa della sua amica. Ora devo lasciarla. Mi chiami quando sarà pronta a effettuare un test.» Mentre Francesca passava amorevolmente la mano sulla valigetta che conteneva il modello originale dell'impianto da lei ideato, Brynhild si diresse a lunghe falcate verso l'ascensore. Pochi minuti dopo era di nuovo nella sua stanza sulla torre. Aveva chiamato sul cellulare i fratelli Kradzik, che al suo arrivo erano già lì ad aspettarla. «Dopo tanti anni di attesa e delusioni, presto il processo Cabral sarà nostro», annunciò trionfante. «Quanto tempo?» chiese uno dei due gemelli. «Dovrebbe essere funzionante entro ventiquattr'ore.» «No», intervenne l'altro gemello, con la luce che scintillava riflettendosi sui denti metallici. «Quanto tempo dovrà passare prima che possiamo avere le donne per giocarci?» Avrebbe dovuto saperlo. I gemelli erano programmati come due computer del male per torturare e uccidere. Brynhild non aveva intenzione di lasciare in vita Francesca dopo aver ottenuto da lei la messa a punto del processo. La decisione derivava in parte dall'invidia che provava per l'abilità scientifica e la bellezza di Francesca, in parte dal suo spirito vendicativo. La dottoressa brasiliana le era costata molto, in termini di tempo e denaro. Non aveva niente di particolare contro Gamay, solo che non amava lasciare cose in sospeso.
Il suo sorriso fece scendere di alcuni gradi la temperatura già rigida che regnava nella stanza. «Presto», rispose. 37 La guardia del turno di notte stava fumando una sigaretta in fondo al pontile di Walhalla, quando arrivò l'uomo che doveva dargli il cambio, chiedendogli un rapporto. Il corpulento ex marine socchiuse gli occhi, fissando il lago punteggiato dai riflessi del sole, e lanciò in acqua il mozzicone. «È stato più agitato di un uomo con una gamba sola in una gara di calci in culo», rispose, parlando con l'accento strascicato dell'Alabama. «Elicotteri che andavano e venivano tutta la notte.» L'uomo che doveva dargli il cambio, un ex berretto verde, alzò la testa per osservare un altro elicottero che si avvicinava. «Pare che stiano arrivando altri ospiti.» «Ma che succede?» domandò l'uomo dell'Alabama. «Non so mai niente, visto che lavoro di notte e dormo di giorno.» «Stanno arrivando un sacco di pezzi grossi per una riunione. Abbiamo tutti gli uomini in servizio, e la sicurezza intorno al complesso è stretta come il culo di una pulce.» Lanciò un'occhiata al lago. «Ecco il vecchio Tahoe Queen, in perfetto orario.» Sollevò il binocolo per metterlo a fuoco sulla poppa del battello a ruota che avanzava lentamente verso l'estremità nord del lago. Il Tahoe Queen sembrava uscito da un fotogramma di Show Boat. Era dipinto di bianco, candido come una glassa alla vaniglia, con una striscia azzurra che divideva il primo ponte dal secondo, entrambi coperti. Dalla parte anteriore spuntavano due alti fumaioli neri. Le ruote a pale che facevano spumeggiare le acque tranquille del lago e fornivano la propulsione al battello erano dipinte di rosso acceso, come un'autopompa dei vigili del fuoco. La balaustra del ponte superiore era pavesata di rosso, bianco e blu, con le bandiere che sventolavano alla brezza. «Hmm», mormorò la guardia, osservando il ponte. «Oggi non ci sono molti turisti a bordo.» Il suo atteggiamento sarebbe stato molto meno sprezzante, se avesse saputo che in quel momento era sotto osservazione da parte di quegli stessi occhi verdi che lo avevano scrutato il giorno prima dall'alto del paracadute. Austin era all'interno della plancia di comando, posata come una scatola di
sigari sull'estremità anteriore del ponte. Stava osservando le guardie e valutando il loro grado di prontezza. Poteva vedere che erano armate, ma la loro postura indolente lasciava intuire uno stato di noia. Al timone c'era il comandante del battello, un veterano del lago originario di Emerald Bay. «Vuole che riduca la velocità di un paio di nodi?» domandò. Il battello a ruota era un affascinante anacronismo, costruito tenendo presente il comfort, più che la velocità. Se avesse rallentato ancora un po', si sarebbe fermato, rifletté Austin. «Io manterrei una velocità costante, comandante. Calare il sommergibile in acqua non dovrebbe essere un problema.» Controllando di nuovo il pontile, vide che una delle guardie si allontanava, mentre l'altra si spostava al riparo di una tettoia. Austin si augurò che schiacciasse un pisolino. Tese la mano. «Grazie della collaborazione, comandante. Spero di non aver causato una delusione ai suoi clienti abituali, noleggiando il battello all'ultimo momento.» «Io non faccio che portare la barca avanti e indietro, chiunque ci sia a bordo. Inoltre questo è molto più emozionante che caricare un gruppo di gitanti.» L'emozione del comandante era costata cara alla NUMA. La compagnia di navigazione era restia a perdere una giornata di incassi, e si era dovuto ricorrere a tasche ben fornite e telefonate ad alto livello da Washington per indurla a cedere per un giorno il battello a ruota per una missione ufficiale. «Mi fa piacere averle allietato la giornata», concluse Austin. «Ora devo andare. Dopo che ci avrà calato in acqua, continui così.» «Come farete a tornare?» «Ci stiamo lavorando», rispose Austin con un sorriso. Lasciando la plancia, scese nell'ampio salone del ponte inferiore. In una giornata normale, il salone sarebbe stato affollato di turisti che mangiavano e bevevano, ammirando la splendida vista del lago. Quel giorno, invece, c'erano soltanto due persone, Joe e Paul. Zavala aveva già indossato la muta Viking Pro di tipo militare, nera, con il cappuccio, mentre Trout era intento a spuntare una lista. Austin non perse tempo e indossò la muta a sua volta. Poi, insieme a Zavala, uscì da un'apertura nella murata del battello che veniva utilizzata per imbarcare e sbarcare i passeggeri. Sarebbero finiti direttamente in acqua, se non fosse stato per una piattaforma di legno legata di fianco al battello. La zattera era sorretta da galleggianti cilindrici fatti di un tessuto di nylon resistente, in grado di sorregge-
re parecchie tonnellate di peso. L'assemblaggio era stato portato a termine nella tarda mattinata. Sulla zattera c'era già Contos, indaffarato a controllare che non avessero commesso qualche grave errore montando in fretta il tutto. «Che te ne pare?» chiese Austin. «Non regge il confronto con quella che Huckleberry Finn usava sul Mississippi», rispose Contos scuotendo la testa, «ma penso che ce la farà, se è proprio necessario.» «Grazie per l'appoggio incondizionato al nostro sforzo costruttivo», disse Zavala. Mentre si calava in acqua dalla zattera, Contos alzò gli occhi al cielo. «Sentite, ragazzi, cercate di non perdervi anche il SeaBus. È dura condurre un programma di collaudo senza avere qualcosa da collaudare.» Liberato dalla copertura protettiva, il SeaBus sembrava una grossa salsiccia di plastica. Era una versione da lavoro - e in dimensioni ridotte - di un sommergibile turistico che veniva utilizzato in florida, progettata per trasportare avanti e indietro gli addetti a impianti situati a una profondità moderata. Poteva contenere fino a un massimo di sei passeggeri, più la loro attrezzatura, in uno scafo trasparente pressurizzato di plastica acrilica. Lo scafo era sorretto da grossi pattini rotondi che racchiudevano la zavorra solida, gli stabilizzatori, i pesi sganciabili e i propulsori. Più in alto, ai lati, erano situati serbatoi addizionali per la zavorra e contenitori di aria compressa. Le strutture esterne erano unite allo scafo pressurizzato da una solida armatura circolare. La cabina di comando, a due posti, era situata nella parte anteriore, mentre nella sezione di poppa c'era il cuore elettrico, idraulico e meccanico del sommergibile, con una camera di equilibrio a tenuta stagna che consentiva ai sub di entrare e uscire mentre il SeaBus era in immersione. Trout si affacciò al parapetto. «Stiamo per raggiungere il bersaglio», annunciò, controllando l'orologio. «Tre minuti al via.» «Siamo più che pronti», ribatté Austin. «E tu, Paul?» «A meraviglia, capo», rispose lui con un accenno di sorriso. In realtà, Trout stava tutt'altro che bene. Nonostante la stoica facciata da yankee di poche parole, era preoccupato per Gamay e desiderava disperatamente partecipare alla missione, ma sapeva che, con un braccio fuori uso, avrebbe potuto solo intralciare i compagni. Austin lo aveva convinto che avevano bisogno di qualcuno che restasse in superficie e sapesse mantenersi lucido, in modo da poter chiedere rinforzi nel caso che la situazione
volgesse al peggio. Era stato necessario far venire una gru per sollevare il sommergibile dal camion e caricarlo sulla zattera, dopodiché il battello a ruota era salpato all'alba, prima che la banchina fosse affollata di turisti, e aveva indugiato al largo fino al momento di cominciare la solita traversata. Nonostante il pesante carico che trasportava, la zattera trainata dal battello rollava e beccheggiava. Austin e Zavala dovevano aggrapparsi ai sostegni restando in ginocchio nella parte posteriore, ciascuno su uno dei galleggianti. Al segnale prestabilito, perforarono contemporaneamente i galleggianti di nylon con i pugnali da sub. L'aria fuoriuscì con un sibilo rumoroso che ben presto si tramutò in un gorgoglio e i galleggianti, schiacciati fra l'acqua e la zattera, si sgonfiarono rapidamente. Mentre la parte posteriore della zattera sprofondava nel lago, i due agenti sganciarono le cime che assicuravano il SeaBus, poi si affrettarono a salire a bordo dal portello di poppa, verificarono che l'interno fosse a tenuta stagna e s'installarono nella cabina di comando. La parte anteriore della zattera era inclinata verso l'alto, ma, quando i galleggianti si sgonfiarono, si stabilizzò in orizzontale e cominciò ad affondare. Era un metodo piuttosto primitivo per calare in acqua un veicolo tanto sofisticato, comunque funzionava. Il SeaBus continuò a galleggiare, mentre la zattera affondava, e fu sospinto lontano dal moto del battello. Il sommergibile sobbalzò nella scia dell'imbarcazione più grande e sprofondò nella spuma sollevata dalla ruota di poppa. A mano a mano che scendevano in profondità, il colore dell'acqua passò da verde-azzurro a blu cupo. Austin regolò la zavorra e il sommergibile si stabilizzò alla profondità di circa sedici metri. I motori a batteria gemettero quando Zavala assestò una spinta alla manetta e diresse il battello verso la riva. Era una fortuna che la prua tondeggiante, quasi smussata, del sommergibile non incontrasse una corrente contraria e riuscisse ad avanzare alla velocità costante di dieci nodi. Mezz'ora dopo, avevano già coperto le cinque miglia che li separavano dalla sponda. Mentre Zavala virava, Austin controllava lo schermo del sonar. La riva rocciosa proseguiva sott'acqua con un salto verticale di oltre trenta metri, prima di estendersi in direzione orizzontale formando un ampio ripiano roccioso. Il sonar rilevò un oggetto di notevoli dimensioni posato sul ripiano esattamente al di sotto del pontile. Pochi istanti dopo, alzando gli occhi, videro la lunga sagoma del pontile con i galleggianti scuri in controluce rispetto al baluginio della luce in superficie. Austin si augurò che la sua va-
lutazione precedente fosse esatta e che l'uomo di guardia fosse troppo intorpidito dalla noia per notare la turbolenza, sia pur minima, causata dal sommergibile. Zavala scese, pilotando il SeaBus in una lenta spirale, mentre Austin alternava il controllo radar a quello visivo. «Stabilizzare profondità, presto», ordinò Kurt. Zavala eseguì subito, e il sommergibile cominciò a muoversi in cerchio come uno squalo affamato. «Eravamo troppo vicini al ripiano?» «Non si tratta di questo. Portalo più al largo e scendi di altri quindici metri.» Il SeaBus si allontanò dalla riva, girando su se stesso finché non si trovarono di fronte a una cornice di roccia. «Madre de Dios», mormorò Zavala, «l'ultima volta che ho controllato, l'Astrodrome era ancora nel Texas.» «Dubito che là dentro troverai le Dallas Cowgirls», ribatté Austin. «Somiglia molto a quello che è esploso nella Baja. Detesto ammetterlo, ma, come al solito, avevi ragione tu.» «Semplice fortuna.» «Non so quanto sei fortunato. Dovremo entrare in quel coso.» «Non avremo mai un'altra occasione migliore di questa. Suggerisco di dare un'occhiata alla parte inferiore.» Con un cenno della testa, Zavala spostò la manetta in alto e fece scivolare il SeaBus verso il basso, portandolo direttamente al di sotto di quell'imponente struttura. La superficie era fatta di un materiale verde trasparente che emetteva una luminosità fioca. A parte l'iperbole di Zavala, l'impianto avrebbe costituito un'impresa costruttiva impressionante anche sulla terraferma. Come l'impianto nella Baja, anche quella struttura era sorretta da quattro piedi cilindrici posti intorno al perimetro. «All'esterno dei supporti ci sono delle aperture», notò Austin. «Probabilmente servono per l'immissione e lo scarico, come quelli in Messico.» Zavala si accostò a un quinto supporto, situato al centro della struttura, accendendo i due riflettori del sommergibile. «Queste non sono aperture di condotti. Ehi, che cosa abbiamo qui?» Spinse il SeaBus ancora più vicino a una depressione ovale nella superficie liscia del supporto. «Si direbbe una porta. Anche qui, però, non vedo lo zerbino con la scritta BENVENUTI.» «Forse lo hanno dimenticato», replicò Austin. «Che ne dici di parcheggiare qui e fare una visita di buon vicinato?» Zavala fece scendere con delicatezza il SeaBus sul ripiano vicino al sup-
porto, poi i due si attrezzarono con le bombole dell'aria e gli auricolari per comunicare fra loro con il sistema Divelink. Austin infilò la grossa pistola Bowen e alcuni caricatori di ricambio in un marsupio a tenuta stagna, che conteneva anche una Glock calibro 9, per sostituire la pistola mitragliatrice che Zavala aveva perso in Alaska. Austin strisciò per primo nell'angusta camera di equilibrio, inondando d'acqua l'ambiente prima di aprire il portello esterno. Pochi minuti dopo, Zavala lo raggiunse fuori del SeaBus. Raggiunsero a nuoto il sostegno e salirono lungo il grosso cilindro fino ad aggrapparsi con le mani alle barre fissate ai lati della porta. A destra della guarnizione a tenuta stagna c'era un pannello con due grossi pulsanti incassati nella plastica trasparente, uno rosso e l'altro verde. Quello verde era luminoso. Esitarono per alcuni istanti. «Potrebbe essere collegato a un sistema d'allarme?» disse Zavala, facendo eco ai pensieri di Austin. «Mi stavo chiedendo la stessa cosa. Ma per quale motivo dovrebbero prendere tante precauzioni? Non si può dire che la zona sia infestata di ladri.» «Non abbiamo molta scelta», decise Zavala. «Forza, va' pure.» Austin premette il pulsante luminoso. Se fece scattare qualche allarme, non fu in grado di udirne la sirena. Una sezione del piede di sostegno scivolò di lato senza rumore, rivelando un'apertura che sembrava una bocca spalancata in uno sbadiglio. Zavala diede il segnale di okay ed entrò per primo, seguito da Austin. Si trovarono in un ambiente che sembrava l'interno di una cappelliera. Dal soffitto pendeva una scaletta metallica, mentre alla parete c'era un duplicato dell'interruttore che aveva aperto la porta esterna. Austin premette di nuovo il pulsante luminoso verde, ma distrattamente urtò la sacca con le armi, che cadde attraverso l'apertura della porta stagna. «Lascia perdere», disse, anticipando la domanda di Zavala. «Non abbiamo tempo.» La porta esterna si chiuse e all'interno si accese un cerchio di luci. L'acqua contenuta nel locale fu risucchiata in fretta e nel soffitto si aprì un portello circolare. Non c'era ancora alcun indizio che la loro presenza fosse stata notata. All'interno regnava il silenzio, fatta eccezione per un ronzio di macchinari in lontananza. Austin si arrampicò sulla scaletta, affacciandosi oltre il portello, poi esortò con un gesto Zavala a seguirlo e salì fino in cima. Si trovarono in un
altro ambiente di forma circolare, più grande. Alla parete erano appese alcune mute di colore verde scuro, e sulle mensole erano accatastate delle bombole d'aria. Un grande armadietto conteneva utensili speciali di varia natura. Austin si tolse auricolari, maschera ed erogatore, poi prese in mano una spazzola con il manico lungo e le setole rigide, d'acciaio. «Questa devono usarla per ripulire i condotti di immissione dell'acqua, altrimenti sarebbero intasati dalle alghe.» Zavala si diresse verso una porta nella parete ricurva, indicando un altro interruttore rosso-verde. «Comincio a sentirmi uno scimpanzé in uno di quei test d'intelligenza in cui la scimmia deve premere un pulsante per poter mangiare.» «Io no», ribatté Austin. «Uno scimpanzé sarebbe troppo intelligente per cacciarsi in un posto come questo.» Al suo segnale, Joe premette il pulsante verde. La porta si aprì, ed entrarono in una stanza stretta, che conteneva cabine per la doccia e scaffali. Austin prese da uno di essi un pacchetto con un involucro di plastica e lo aprì. Dentro c'era un completo bianco formato da una casacca e un paio di pantaloni di un leggero tessuto sintetico. In silenzio, i due si tolsero la muta, affrettandosi a indossare quella divisa bianca sopra la biancheria termica. I capelli color platino facevano spiccare Austin in mezzo alla folla, quindi fu lieto di trovare nel pacchetto anche un berretto di plastica ben aderente al cranio. «Come ti sembro?» chiese, ben sapendo che la divisa non era abbastanza ampia per le sue spalle possenti. «Un grosso e insipido fungo bianco.» «Proprio l'immagine che volevo ottenere. Andiamo.» Passarono in un locale enorme, con un alto soffitto a volta. Lo spazio era attraversato da tubature e condotti di diametro variabile. Il ronzio che avevano sentito anche prima era così intenso da risultare quasi doloroso per le orecchie, e si aveva l'impressione che provenisse da ogni punto della stanza. «Bingo», mormorò Austin. «Mi ricorda una scena di Alien», disse Zavala. «Vorrei tanto che questi fossero alieni», ribatté l'amico. Una figura vestita di bianco sbucò inaspettata da dietro un grosso condotto verticale. I due s'irrigidirono, rimpiangendo le armi perdute, ma il tecnico, che teneva in mano un rilevatore portatile, non li degnò neppure di
un'occhiata, scomparendo subito dopo nel labirinto di condutture. L'enorme locale comprendeva due livelli, separati da strutture e passerelle metalliche. Decisero di salire al piano superiore, da cui avrebbero goduto di una visuale migliore dell'intero impianto e dove avrebbero corso meno rischi d'imbattersi in altri tecnici. Salirono la scaletta più vicina, dirigendosi verso il centro. I tecnici al piano inferiore erano assorti nei loro compiti, e nessuno alzò la testa. Visto dall'alto, l'impianto era ancor più impressionante. Sembrava un alveare futuristico, brulicante di api operaie. «Potremmo perdere un giorno intero a perlustrare questo posto», commentò Austin. «Vediamo se ci riesce di trovare una guida.» Scesero da un'altra scaletta, che li riportò al piano principale, dove si nascosero dietro una voluminosa tubatura. Davanti a una console c'erano tre tecnici in piedi, con le spalle rivolte verso di loro, chiaramente impegnati nel proprio lavoro. Due dei tecnici si allontanarono, lasciando solo il terzo. Austin, dopo aver lanciato una rapida occhiata in giro per controllare che nessuno lo osservasse, si avventò con prontezza felina verso la figura ignara, passandole il braccio muscoloso intorno alla gola. «Non fiatare, o ti spezzo il collo», ringhiò, trascinando poi la preda dietro la tubatura. «Ti presento la nostra nuova guida», disse a Joe. Zavala fissò con stupore il tecnico. «Veramente ci siamo già conosciuti.» Austin costrinse il tecnico a voltarsi. Francesca. Il terrore sul viso della donna si trasformò in sollievo. «Che cosa ci fate qui, voi due?» Il piacere che provò Austin nel vedere Francesca fu superiore alla sorpresa. «Avevamo un appuntamento, non ricordi?» le disse con un sorriso. «Data e luogo da destinarsi.» Lei sorrise, nonostante il nervosismo. Più calma di prima, si guardò intorno dicendo: «Non possiamo restare qui. Seguitemi». Si addentrarono in un labirinto di passaggi fino a una stanzetta arredata con una semplice scrivania e una sedia di plastica. «Ho chiesto questo spazio tutto per me in modo da poter lavorare in pace. Saremo al sicuro per qualche minuto. Se entra qualcuno, fate finta di sapere quello che state facendo.» Scosse la testa, stupita. «Come diavolo avete fatto a entrare qui?» «Abbiamo preso l'autobus», rispose Austin. «Dov'è Gamay?» «Questo è l'impianto di desalinizzazione, mentre lei si trova nel corpo centrale del complesso. La tengono in una cella al primo livello, sotto stretta sorveglianza.»
«Come facciamo a raggiungerla?» «Ora vi mostro la via. C'è un ascensore che porta fuori del laboratorio, poi una monorotaia che passa attraverso un tunnel fino al corpo centrale. Lì, un ascensore vi porterà al primo livello. Pensate di poterla liberare?» «Non lo sapremo finché non avremo provato», rispose Zavala con un accenno di sorriso. «Sarà molto pericoloso. Comunque potreste averne l'occasione, perché le guardie sono molto occupate. È in programma una specie di convegno. Dovrete muovervi in fretta, però, prima che la gente cominci ad arrivare qui.» «Che genere di convegno?» «Non lo so, a parte il fatto che è di estrema importanza. Devo attivare questo impianto prima di allora, altrimenti uccideranno Gamay.» Si affacciò alla porta del piccolo ufficio per vedere se la via era libera, poi li guidò fino all'ascensore. Austin pensò che appariva esausta, con le occhiaie scure sotto gli occhi arrossati dalla fatica. Francesca augurò loro buona fortuna, prima di scomparire in mezzo all'intrico di tubature. Senza perdere tempo, i due uomini entrarono in uno strano ascensore a forma di uovo, che salì attraverso le acque del lago fino alla stanza da cui partiva la monorotaia descritta da Francesca. Salirono a bordo della vettura e sfrecciarono nel tunnel fino al capolinea. Di lì passarono in un corridoio. La porta dell'ascensore era distante solo alcuni passi e la luce sopra la porta indicava che la cabina era in discesa. «Come ci comportiamo, con le buone o con le cattive maniere?» domandò Zavala. «Vediamo se funzionano le buone.» La porta dell'ascensore si aprì e ne uscì una guardia con una pistola mitragliatrice. Guardò con sospetto prima Austin e poi Zavala. «Mi scusi», disse Joe in tono cortese, «potrebbe dirci dove si trova la donna della NUMA? È impossibile confonderla: è alta, con i capelli rossi.» La guardia fece per sollevare l'arma, ma quella mossa indusse Austin a colpirla all'altezza del diaframma con il pugno destro, grande come un prosciutto. L'uomo emise un suono simile a un pallone che si sgonfia, e le gambe cedettero. «Credevo che volessi usare le buone maniere», commentò Zavala. «E infatti è così», ribatté Austin. Afferrò l'uomo per le braccia, mentre Zavala lo teneva per i piedi, e insieme lo trascinarono nell'ascensore. Zavala fece salire la cabina a metà fra un piano e l'altro prima di bloccarla. Au-
stin s'inginocchiò, assestando una pacca leggera sulla guancia dell'uomo. La guardia roteò gli occhi, poi li spalancò scorgendo il viso sopra di sé. «Oggi ci sentiamo generosi e vogliamo concederti una seconda possibilità. Dov'è la donna?» La guardia scosse la testa. Austin non era in vena di cerimonie. Puntò la canna della pistola sulla sella del naso della guardia, tanto che i suoi occhi s'incrociarono per guardarla. «Non intendo perdere tempo», gli disse Austin a voce bassa. «Sappiamo che si trova al primo livello. Se non ci dirai dov'è, troveremo qualcun altro che può farlo, capito?» La guardia annui. «Bene», disse Austin. Poi sollevò l'uomo tenendolo per la collottola, e Zavala premette il pulsante del piano superiore. Non c'era nessuno in attesa, così sospinsero la guardia nel corridoio deserto. «Qual è il livello della sicurezza, da qui in poi?» La guardia alzò le spalle. «Quasi tutti gli uomini sono al piano di sopra, occupati con le misure di sicurezza per la riunione dei pezzi grossi che stanno arrivando.» Austin era curioso di conoscere lo scopo della riunione e di sapere chi fossero i VIP convenuti, ma era ancora più preoccupato per Gamay. Ficcò la pistola fra le costole dell'uomo. «Portaci da lei», ordinò. La guardia li precedette suo malgrado lungo un corridoio, fino a una porta controllata da una serratura a tastiera. Esitò, chiedendosi se poteva guadagnare tempo sostenendo di non conoscere la combinazione, ma una sola occhiata all'espressione corrucciata di Austin lasciò intendere che era meglio non provarci. Digitò il codice, e la porta si aprì, ma la stanza era vuota. «Questa è la sua stanza», ribadì l'uomo. Sembrava preoccupato. Lo spinsero all'interno per guardare bene in giro. Era evidente che la saletta veniva usata come cella, perché si poteva aprire solo dall'esterno. Zavala si avvicinò al letto, prese qualcosa dal cuscino e sorrise. «È stata qui.» Il capello rosso scuro che teneva fra le dita era inconfondibile: apparteneva a Gamay. Austin si girò di nuovo verso la guardia. «Dove l'hanno portata?» «Non lo so», rispose l'uomo, con aria imbronciata. «Fa' conto che le prossime parole che dirai siano le ultime, e pensaci molto bene.» La guardia capì che Austin avrebbe sparato senza esitare.
«Non intendo proteggere quei mostri», si decise infine. «Di chi stai parlando?» «Dei fratelli Kradzik. L'hanno portata nella sala grande.» «Chi sono?» «Una coppia di killer che fa il lavoro sporco per il capo», rispose l'uomo con palese disgusto. «Devi spiegarci come ci si arriva.» La guardia fornì loro le indicazioni, e Austin le disse di aspettarsi una seconda visita, se li aveva mandati a caccia di ombre. Lasciarono l'uomo nella stanza, sprangando la porta, poi corsero verso l'ascensore. Non sapevano chi fossero i fratelli Kradzik, e non se ne curavano. Una cosa era certa: qualunque sorte attendesse Gamay, non poteva essere lieta. 38 I cinquanta uomini riuniti intorno al tavolo sul ponte della nave Gogstad erano vestiti di scuro, anziché indossare mantello e armatura, ma la scena sembrava tratta da una celebrazione pagana di mille anni prima. La luce delle torce scintillava sugli spigoli metallici delle armi medievali che ornavano le pareti e proiettava ombre tremolanti sul volto degli uomini. L'effetto teatrale non era frutto del caso. Era stata Brynhild a progettare l'intera sala come un elaborato palcoscenico, del quale lei aveva concepito la regia. Il consiglio di amministrazione della Gogstad era composto da alcuni dei personaggi più in vista del mondo intero. Venivano da molte nazioni e da tutti i continenti. C'erano manager ad altissimo livello di società multinazionali, rappresentanti commerciali in grado d'intraprendere trattative segrete che conferivano loro un potere superiore a quello di alcuni governi, nonché politici del passato e del presente la cui carriera era legata alle plutocrazie, la vera classe dominante nelle rispettive nazioni. Quegli uomini rappresentavano tutte le razze e i colori, ma, nonostante le differenze di statura e di pelle, erano uniti da un denominatore comune: un'avidità insaziabile. Da ogni loro espressione e gesto di disprezzo traspariva la stessa levigata arroganza. Brynhild era in piedi sul ponte della nave vichinga, a capotavola. «Signori, vi do il benvenuto», esordì. «Vi ringrazio per essere venuti con un preavviso così breve. So che molti di voi hanno fatto un lungo viaggio, ma vi assicuro che ne è valsa la pena.» Li guardò a uno a uno, compiacendosi
dell'avidità che vedeva in agguato dietro i sorrisi disinvolti e gli occhi penetranti. «Noi che siamo riuniti in questa sala rappresentiamo il cuore e l'anima della Gogstad, un governo invisibile più potente di qualunque altro che il mondo abbia mai conosciuto. Voi siete più che un'élite economica: siete i sacerdoti di una setta segreta, come i templari.» «Mi scusi se interrompo proprio all'inizio la sua commovente tirata», intervenne Grimley, un mercante d'armi dallo sguardo diffidente. «Non ci sta dicendo niente di nuovo. Spero di non aver fatto un volo di novemilaseicento chilometri solo per sentirle ripetere di quale gruppo straordinario facciamo parte.» Brynhild sorrise. I componenti del consiglio di amministrazione erano le uniche persone al mondo che potevano permettersi di trattarla alla pari. «No, Lord Grimley. Vi ho riuniti per informarvi che i nostri piani hanno subito una drastica accelerazione.» L'inglese non sembrava affatto colpito. Fiutava l'aria con il lungo naso come se ci fosse un odore sgradevole. «Da principio parlava di anni per conquistare il monopolio delle riserve idriche del mondo. Ora vorrebbe dirci che si parla di mesi, immagino?» «No, Lord Grimley. Sto parlando di un obiettivo distante solo alcuni giorni.» Intorno al tavolo si levò un brusio sommesso. Sul viso di Grimley apparve un sorriso untuoso. «Ignori il mio commento precedente. La prego di continuare.» «Apprezzo la sua esortazione», replicò Brynhild. «Come sapete dai rapporti mensili che vi sono pervenuti, i nostri piani hanno fatto progressi costanti ma lenti. Ogni giorno abbiamo acquisito una nuova fonte di rifornimento, ma ci è voluto del tempo per costruire la flotta di navi cisterna. Le enormi sacche necessarie per il trasporto dell'acqua attraverso gli oceani hanno rappresentato un problema, e soltanto ora è stata acquisita la tecnologia utile per la costruzione di queste sacche. E infine il nostro progetto ha attirato l'attenzione della National Underwater & Marine Agency.» Un magnate americano delle proprietà immobiliari, di nome Howes, fu il primo a intuire il significato dell'ultima frase. «La NUMA? E come ha fatto a sapere di noi?» «È una storia complicata. Riceverete tutti dei rapporti dettagliati in merito all'interesse che la NUMA ha mostrato nei nostri confronti. Per ora basti dire che i loro uomini sono molto tenaci e fortunati.» «Questa è una faccenda seria», ribatté l'americano. «Prima l'inchiesta
giornalistica, e ora questo.» «Il giornale non pubblicherà l'inchiesta, e nessun altro lo farà. Tutti i dati relativi all'indagine sono stati distrutti. Quanto alla NUMA, anche quella minaccia è stata neutralizzata.» «Comunque è davvero seccante», commentò Howes. «Abbiamo fatto tutto il possibile per tenere segrete le nostre attività. Ora questa complicazione potrebbe renderle di dominio pubblico in un batter d'occhio.» «Sono perfettamente d'accordo», convenne Brynhild. «Abbiamo fatto tutto il possibile per difendere la nostra privacy, ma un'operazione di questa portata e durata non può restare segreta per sempre. La facciata che abbiamo eretto per nascondere le nostre attività alla vista del pubblico comincia a mostrare delle crepe. Era solo questione di tempo, quindi la cosa non mi sorprende, ma senza dubbio suggerisce la necessità di agire in fretta.» «Intende dire che vuole accelerare i tempi dei nostri progetti a causa della NUMA?» «No. Intendo dire soltanto che si è verificata una svolta positiva.» Un banchiere tedesco di nome Heimmler fu il primo ad afferrare il senso delle sue parole. «C'è una sola via che può aver determinato un progresso così notevole», affermò con l'aria di un boa al quale viene offerto un coniglio vivo. «Lei è riuscita a mettere a punto il processo Cabral per la desalinizzazione.» Brynhild attese che il brusio intorno al tavolo da riunione si spegnesse. «Meglio ancora», ribatté in tono trionfante. «La dottoressa Cabral lo sta mettendo a punto per noi.» «Cabral», ripeté il tedesco. «Ho letto sui giornali che era ancora viva, ma...» «Viva e vegeta. Ha accettato di collaborare con la Gogstad, visto che noi controlliamo l'unica riserva esistente al mondo di anasazium. In questo momento si trova nel nostro laboratorio, dove si prepara a offrirci una dimostrazione. Fra breve vi mostrerò questo miracolo. Ho parlato con la dottoressa Cabral prima della riunione, e lei mi ha detto che sarà pronta fra un'ora. Nel frattempo siete invitati ad approfittare del rinfresco che è stato preparato per voi nella sala da pranzo. Io devo controllare i preparativi per il trasporto, ma tornerò fra poco.» Mentre i consiglieri d'amministrazione uscivano in fila dal salone, Brynhild si diresse verso l'ingresso del corpo centrale del complesso. Davanti all'ampio portico, erano allineate numerose Suburban di colore verde
scuro, con un autista e una guardia armata a fianco di ogni automezzo. «È tutto pronto?» domandò all'uomo di guardia al veicolo di testa. «Sì, signora, possiamo trasferire gli ospiti non appena saranno pronti.» La monorotaia sotterranea era la via più veloce per raggiungere il laboratorio, ma era stata progettata soprattutto per trasportare avanti e indietro piccoli contingenti di tecnici. Per un folto gruppo di ospiti, come i componenti del consiglio di amministrazione, si faceva prima usando degli automezzi. Brynhild non lasciava niente al caso. Salì al posto del passeggero nel veicolo di testa, ordinando all'autista di portarla al lago. Pochi minuti dopo, il SUV frenò ai piedi della bassa collina che sovrastava le acque, e lei scese una breve rampa di scale per raggiungere il pontile ed entrare nella rimessa delle barche. Quella era in realtà una semplice copertura per gli ascensori che scendevano nel laboratorio. Superando l'ascensore rapido a forma di uovo, si avviò verso il grande montacarichi usato per le attrezzature, e pochi istanti dopo attraversava il laboratorio diretta verso il nucleo principale. Nella struttura a cupola regnava un'atmosfera di eccitazione quasi palpabile. Francesca stava lavorando alla console. Scorgendo Brynhild, le disse: «Stavo proprio per chiamarla. Posso compiere la dimostrazione prima del previsto». «Ed è assolutamente sicura che funzionerà?» «Posso offrirle un'anteprima, se vuole.» Brynhild meditò sull'offerta, poi disse: «No. Non vedo l'ora di guardarli in faccia quando assisteranno al nostro procedimento». Francesca ignorò l'uso dell'aggettivo «nostro» riferito alla proprietà del procedimento. «Sono certa che resteranno sbalorditi.» Brynhild utilizzò la piccola ricetrasmittente che portava alla cintola per ordinare alle navette di cominciare il trasporto dei consiglieri. Meno di mezz'ora dopo, l'intero consiglio di amministrazione era riunito nel laboratorio intorno al contenitore centrale. Brynhild presentò Francesca e, quando la bella scienziata brasiliana si fece avanti, fra i presenti corse un mormorio di ammirazione. Per quanto sorridesse agli uomini dal viso spietato riuniti intorno a lei, Francesca pensò che somigliavano a rettili affamati che aspettano le vittime intorno a un abbeveratoio. Non aveva bisogno di rammentare a se stessa che la responsabilità degli anni che aveva dovuto trascorrere nella foresta pluviale era da attribuire a loro e alla loro avidità di potere e denaro. Mentre lei viveva con i chulo in attesa di essere liberata, forse milioni di persone che avrebbero potuto beneficiare della sua ope-
ra morivano di sete. Non aveva mai visto una simile concentrazione di malvagità in una sola stanza, ma riuscì a mascherare bene la sua repulsione. «Non so quanti di voi abbiano una formazione scientifica, ma non è necessario essere uno scienziato per afferrare i principi basilari del fenomeno al quale state per assistere. Il procedimento che ho messo a punto, pur essendo di difficile esecuzione, è piuttosto semplice sul piano concettuale. I metodi di desalinizzazione sono diffusi fin dall'epoca degli antichi greci, ma quelle tecniche utilizzavano sempre un processo fisico, riscaldando l'acqua per farla evaporare, trattandola con la corrente elettrica o facendola passare attraverso membrane per filtrare il sale, allo stesso modo in cui un bambino setaccia la sabbia in cerca di conchiglie sulla spiaggia. Io ho pensato che, sotto certi aspetti, fosse più facile modificare la struttura molecolare della chimica dell'acqua salata a livello atomico e subatomico.» Il banchiere tedesco dal viso liscio e impassibile osservò: «Il suo procedimento fa pensare all'alchimia, dottoressa Cabral». «È un'analogia molto appropriata. Infatti è stata l'alchimia, pur senza mai raggiungere il suo intento, a gettare le basi della scienza chimica. Anch'io, come gli alchimisti, cercavo di trasformare in oro un metallo vile. Nel mio caso, però, si trattava di oro blu: l'acqua, più preziosa di ogni altra sostanza sulla terra. Avevo bisogno della pietra filosofale che rendesse possibile questa metamorfosi.» Si girò verso il nucleo che conteneva l'anasazium. «Qui dentro è racchiuso il catalizzatore che rende possibile il funzionamento di questo processo. L'acqua salata viene messa a contatto con questo materiale, che la purifica.» «Quando avremo una dimostrazione di questo miracolo?» domandò Lord Grimley. «Se volete passare da questa parte», rispose Francesca, guidandoli verso la console. Le sue dita volarono sulla tastiera. Si udirono un brontolio sommesso di pompe e un rumore di acqua che affluiva. «Questa è l'acqua salata che entra dal condotto sopra la vostra testa e scorre nel contenitore. Ci vuole qualche minuto.» Condusse il gruppo verso l'altra estremità del contenitore catalitico e rimase in silenzio qualche istante, lasciando che la tensione aumentasse. Poi controllò un quadrante e indicò un altro condotto. «Quello è il tubo di deflusso in cui scorre l'acqua potabile. Potete avvertire il calore prodotto durante la trasformazione.» L'americano commentò: «Se non ho capito male, questo calore si può u-
tilizzare per produrre energia». «Esatto. In questo momento, l'acqua viene pompata nelle acque fredde del lago, dove il calore si disperde, ma con qualche modifica questo laboratorio può essere trasformato in modo da riutilizzare il calore per far funzionare l'impianto. Si potrebbe produrre anche dell'energia in sovrappiù da destinare all'esportazione.» Fra i consiglieri d'amministrazione si levò un mormorio. A Francesca sembrava quasi di avvertire fisicamente l'aura di avidità che emanava dagli uomini mentre calcolavano i miliardi che sarebbe stato possibile ricavare producendo, oltre all'acqua, energia a basso costo. Lei si diresse verso una colonna verticale di serpentine che pendevano dalla tubatura in cui scorreva l'acqua potabile. Alla base di quella spirale c'era un rubinetto, con una pila di bicchieri di carta. «Questa è l'unità di raffreddamento che elimina il calore dell'acqua», spiegò. Rivolgendosi a un tecnico, domandò: «Com'era la qualità dell'acqua prodotta con questo processo prima di oggi?» «Mediocre, a voler essere generosi. Piuttosto salmastra», rispose l'uomo. Francesca aprì il rubinetto per riempire uno dei bicchieri di carta, quindi lo espose alla luce come se fosse un intenditore di vini, ne bevve un sorso e poi lo vuotò d'un fiato. «Ancora tiepida, ma perfettamente all'altezza dell'acqua sorgiva.» Brynhild fece un passo avanti, riempì a sua volta un bicchiere e lo bevve. «Nettare degli dei», esclamò trionfante. I componenti del consiglio di amministrazione si fecero avanti a spintoni come manzi impazziti dalla sete, lanciando esclamazioni di stupore a ogni bicchiere che bevevano. Ben presto parlavano tutti insieme. Mentre si affollavano intorno al rubinetto come se fosse la fonte dell'eterna giovinezza, Brynhild allontanò Francesca da quel vocio eccitato. «Congratulazioni, dottoressa Cabral. A quanto pare, il procedimento funziona.» «Lo sapevo già da dieci anni.» I pensieri di Brynhild erano rivolti al futuro, non al passato. «Ha istruito i miei tecnici sul funzionamento del processo?» «Sì. Ho dovuto fare soltanto qualche modifica alla procedura. Eravate già molto vicini a perfezionarlo, sa?» «Allora lo avremmo messo a punto in tempo?» Francesca rifletté un istante. «Probabilmente no. Il vostro processo e il
mio erano come due linee parallele: per quanto fossero vicine, non si sarebbero mai toccate. Ora che ho mantenuto la promessa, tocca a lei rispettare la sua parte dell'accordo.» «Ah, sì, l'accordo.» Brynhild staccò dalla cintura la ricetrasmittente e l'accese. Sorrise, fissando Francesca con i suoi gelidi occhi azzurri, e ordinò: «Puoi dire ai fratelli Kradzik che la donna della NUMA è tutta per loro». «Aspetti!» Francesca afferrò il braccio muscoloso di Brynhild. «Ma non mi aveva promesso...» Brynhild si liberò dalla stretta di Francesca, più minuta di lei, divincolandosi facilmente. «Le avevo anche fatto presente che di me non ci si può fidare. Ora che lei ha dimostrato l'efficacia del progetto, la sua amica non mi serve più.» Accostò di nuovo all'orecchio la ricetrasmittente, ma il sorriso svanì di colpo, rimpiazzato da un'espressione accigliata. «Che vuoi dire?» scattò, mentre la sua fronte ampia si rannuvolava. «Quanto tempo fa?» Infilò di nuovo la radio nella cintura. «Mi occuperò di lei in seguito», promise a Francesca. Girando sui tacchi con aria marziale, si diresse verso l'ascensore riservato al personale. La giovane scienziata era rimasta paralizzata dallo shock. Poi, quando la slealtà di Brynhild le apparve evidente in tutta la sua gravità, l'ira ardente che l'aveva sorretta per dieci anni tornò a divampare. Se Gamay fosse morta, non avrebbe fatto che rendere più facile la sua decisione. Serrando la mascella con rinnovata determinazione, si addentrò nel labirinto di condutture. 39 Gamay si sentì quasi sollevata quando i due robusti uomini di guardia vennero a prenderla. Si annoiava a morte, da quando aveva compreso che la sua cella era a prova di fuga, a meno che non riuscisse a ideare un sistema per svellere la porta dai cardini. Si ripromise, alla prima occasione utile, di parlare a qualcuno della NUMA della necessità di ideare dei gadget alla James Bond per situazioni del genere. Ma per quello ci sarebbe stato tempo. Ormai l'unica possibilità che le restava era attendere una possibilità di fuga non appena fosse uscita dalla cella. Mentre le guardie la scortavano attraverso un dedalo di corridoi, però, cominciò a sentirsi sempre più avvilita. Là dentro si sarebbe smarrita pri-
ma di essere riuscita a percorrere tre metri. I due uomini si arrestarono di fronte a una massiccia porta in bronzo a due battenti, che doveva essere alta almeno due metri e mezzo, e la cui superficie era scolpita con scene mitologiche. Si notava una certa insistenza sul motivo dei teschi, ma, per variare, c'erano anche nani e giganti, mostri bizzarri, cavalli selvaggi, alberi contorti, rune e fulmini che facevano capo al motivo centrale, una nave a vela dalla linea snella, con la prua e la poppa rialzate. Una delle guardie premette un pulsante sulla parete, e la porta si aprì senza rumore. L'altro uomo la spinse all'interno pungolandola con la canna dell'arma. «Non è una nostra idea», le disse in tono di scusa. La porta si richiuse con uno scatto, e lei si guardò intorno. «Affascinante», mormorò. Si trovava in un enorme salone, più grande di un campo di football. Di quell'ambiente simile a una caverna riusciva a distinguere i contorni solo grazie alle torce alle pareti. Al centro della sala, illuminata da quattro alti bracieri, c'era una nave con la vela quadra spiegata, che sembrava la gemella di quella scolpita sulla porta. Prima di diventare biologa marina, Gamay era stata un'esperta di archeologia nautica, e capì subito che si trattava di una nave vichinga, o quantomeno di un'ottima imitazione. Si domandò se era finita in un museo, ma poi decise di no. Sembrava piuttosto una cripta, anche se molto elaborata; forse la nave serviva da sepolcro, secondo le abitudini dei popoli del Nord. In parte per curiosità, in parte perché non aveva alternative, cominciò a dirigersi verso l'imbarcazione. Mentre avanzava da sola nella grande sala, due paia di occhi orlati di rosso seguivano nell'ombra i suoi spostamenti. Erano gli stessi occhi che prima l'avevano osservata avidamente sul monitor mentre languiva nella sua cella. I gemelli Kradzik avevano trascorso ore davanti allo schermo, studiando ogni particolare del suo aspetto fisico, dai caratteristici capelli rosso scuro alle gambe lunghe e snelle. Nel loro atteggiamento non c'era alcuna carica sessuale, come sarebbe stato fin troppo naturale; il loro interesse era rivolto unicamente al modo migliore d'infliggere dolore. Erano come cani addestrati a tenere un bocconcino ghiotto in equilibrio sul naso finché il padrone non permette loro di addentarlo. Adesso che Gamay li allettava con la sua vicinanza, venivano a galla le loro tendenze sadiche. Gamay e l'altra donna erano state promesse a loro e, visto che Brynhild era occupata nel laboratorio, avevano deciso di reclamare il primo dei loro giocattoli.
Avevano fatto portare Gamay nel grande salone, e le guardie avevano obbedito, sia pure con riluttanza. Il piccolo esercito che proteggeva la Gogstad e di tanto in tanto agiva per espanderne la portata, come in Alaska, era tutto composto da ex militari, selezionati fra le truppe scelte di tutto il mondo. Nei loro ranghi c'erano ex legionari francesi, uomini delle forze speciali degli Stati Uniti, SEAL della marina americana, soldati dell'Armata Rossa, paracadutisti inglesi e mercenari di altri eserciti assortiti. Nelle caserme che li ospitavano circolava la battuta scherzosa che un congedo con disonore era il requisito minimo indispensabile per lavorare al servizio della Gogstad, e un periodo trascorso in carcere equivaleva a una raccomandazione. Se ricevevano l'ordine di sparare per uccidere, lo facevano, ma si consideravano dei professionisti che si limitavano a svolgere il proprio lavoro. I Kradzik, invece, erano diversi. Tutti erano al corrente delle storie di massacri e omicidi in Bosnia, e correvano voci sulle loro missioni speciali per conto della Gogstad. Inoltre gli uomini sapevano dei loro stretti legami con Brynhild, perciò, quando avevano ricevuto l'ordine di consegnare la prigioniera, lo avevano eseguito senza discutere. Gamay era arrivata a metà strada dalla nave, quando udì un suono inconfondibile di motori che venivano avviati. Quel suono scandito diventava ancora più forte a causa dell'eco che si riverberava sulle pareti di pietra. A destra e a sinistra della nave apparvero due fari singoli, che cominciarono a spostarsi lentamente nella sua direzione. Motociclette. Riusciva a scorgere soltanto la silhouette dei motociclisti. Si sentiva come un cervo sorpreso ad attraversare un'autostrada. Poi sentì imballarsi i motori, che cominciarono a emettere un suono acuto, e le motociclette scattarono verso di lei come razzi gemelli. I suoi occhi furono calamitati dalle lance acuminate fissate sul manubrio delle moto. I centauri si lanciarono verso di lei come grottesche caricature di cavalieri impegnati in un torneo. Proprio quando si era ormai convinta che le lance l'avrebbero trafitta all'altezza del diaframma, le moto sterzarono, allontanandosi, poi invertirono rapidamente la direzione per attaccarla alle spalle. Gamay si voltò di scatto mentre sfrecciavano incrociandosi con precisione millimetrica. I due girarono su se stessi, mettendo il motore in folle, e ancora una volta la donna si trovò di fronte i fari, appaiati come gli occhi fosforescenti di un enorme gatto che fa le fusa. I Kradzik montavano le Yamaha 230 fuoristrada che le guardie della si-
curezza usavano per pattugliare il perimetro del gigantesco complesso, mentre le lance provenivano dalla collezione di armi che decorava il grande salone. I gemelli non avevano troppa fantasia e le loro attività, che la vittima fosse una ragazzina o un uomo anziano, seguivano sempre la stessa formula: intimorire, terrorizzare, infliggere dolore e infine uccidere. Una voce scaturì dal buio sulla sinistra: «Se corri veloce...» Un'altra continuò da destra: «... forse non ti prenderemo». Figuriamoci, pensò Gamay. Aveva intuito dalle voci che aveva a che fare con gli stessi mostri dai denti d'acciaio che avevano fatto irruzione in casa sua. Era evidente che volevano semplicemente divertirsi un po'. Rivolta a loro, gridò: «Fatevi vedere». Le rispose soltanto il borbottio dei motori che giravano al minimo. I Kradzik erano abituati a vedere le loro vittime rannicchiarsi atterrite e implorarli per avere salva la vita, quindi non sapevano come affrontare le richieste, specie se provenivano da una donna indifesa. Incuriositi, spinsero le moto più avanti, fermandosi a pochi metri da lei. «Chi siete?» domandò Gamay. «Siamo la morte», risposero i due all'unisono. La breve tregua era già finita. I motori s'imballarono e le moto s'impennarono sulle ruote posteriori. Poi le ruote anteriori ricaddero a terra e, con un duplice stridio di gomme bruciate, le Yamaha scattarono in avanti, s'incrociarono ancora e cominciarono a correre in cerchio. Avrebbero voluto che Gamay girasse su se stessa fino ad avere le vertigini e si accasciasse sul pavimento, ridotta a uno straccio inerme e farfugliante. Lei, invece, si rifiutò di stare al gioco e rimase ferma, tenendo testa ai due, con gli occhi fissi in avanti e le braccia tese lungo i fianchi. Lo spostamento d'aria creato dai loro passaggi le proiettava in faccia i gas di scappamento delle moto, e doveva fare appello a tutto il suo autocontrollo per non saltare di lato: allora le sarebbero piombati addosso, usando le lance per toglierle il terreno sotto i piedi, tranciandole le gambe. Quando capirono che non aveva intenzione di fuggire, cambiarono traiettoria. La punta di una lancia le passò tanto vicino da strapparle un brandello della parte anteriore della camicetta. Gamay ritrasse lo stomaco, trattenendo il fiato, ma si accorse che non bastava. Allora cominciò a camminare, muovendosi volutamente a passi misurati, in modo da non turbare il loro calcolo dei tempi. Entusiasti di quella nuova sfida, i gemelli si alternarono nel tagliarle la strada, ritraendo le lance all'ultimo istante. Lei proseguì, assordata dal rombo dei motori che le risuonava nelle orecchie,
sempre rifiutandosi di accelerare il passo. Comunque era consapevole che avrebbero potuto ucciderla a piacimento. Sentì una moto arrivare da destra e, correndo un notevole rischio, si fermò di colpo. Il conducente valutò male la distanza e passò troppo lontano da lei. Subito dopo invertì la direzione slittando, ma quella mossa incrinò l'intesa quasi magica fra i due centauri, che cominciarono a girare a vuoto, in preda alla confusione. Gamay superò correndo la prua alta della nave, con l'intenzione di saltare a bordo, ma si trovò la strada sbarrata da una fila di scudi rotondi appesi alla murata come protezione, al di sopra delle fessure destinate ai remi. Allora capì come mai i Kradzik le avevano permesso di avvicinarsi tanto alla nave: sapevano che non sarebbe riuscita a superare la barriera degli scudi. L'unica via d'accesso al ponte era una rampa verso poppa, e probabilmente speravano che lei corresse da quella parte. Finse di slanciarsi in quella direzione, e loro scattarono per bloccarla, invece Gamay afferrò uno degli scudi, staccandolo dalla murata, e si girò, voltando le spalle alla nave e tenendolo davanti a sé. I gemelli girarono in cerchio, incrociandosi e tornando ad attaccarla con le lance puntate in avanti. Il pesante scudo, di legno spesso rinforzato con lamine e borchie in ferro, era fatto per essere imbracciato da un robusto vichingo, non certo da una donna snella; per fortuna Gamay era alta e atletica e riuscì a infilare il braccio sinistro nelle cinghie della faccia interna, mettendosi al riparo dello scudo stesso. Appena in tempo. Tunc! Entrambe le lance colpirono la parte frontale dello scudo, e la violenza dell'impatto proiettò Gamay contro la murata della nave, lasciandola senza fiato. Le moto si allontanarono curvando a destra e a sinistra, fecero una conversione a U e tornarono indietro. Gamay posò lo scudo sul pavimento, puntandovi contro un piede, ed estrasse le lance. A differenza dello scudo erano incredibilmente leggere, con l'asta di legno sottile e la punta acuminata di bronzo. Con ogni probabilità erano fatte per essere scagliate, non impiegate in uno scontro frontale. Impugnò le lance in verticale, tenendo lo scudo pronto. Adesso che non avevano più le loro armi, immaginava che i fratelli avrebbero sferrato un attacco simulato, invece colse un movimento fulmineo, mentre sul suo scudo si abbatteva una sfera irta di punte di ferro fissata all'estremità di una catena. Pur essendo ben salda sulle gambe, Gamay si sentì sbalzare al-
l'indietro e fu costretta ad appoggiare a terra il ginocchio sinistro, ma riuscì a tenere alto lo scudo, e ciò le salvò la vita, quando un colpo letale sferrato dal secondo motociclista si abbatté sul robusto schermo di legno, frantumandone lo strato esterno. Per sostituire le lance, i fratelli Kradzik avevano scelto delle mazze da guerra, armi create per sfondare armature metalliche. Le moto piombarono di nuovo su di lei prima che riuscisse a rimettersi in piedi, e le sfere chiodate si schiantarono di nuovo sullo scudo. Il legno riuscì a proteggerla dall'urto vero e proprio, ma si disintegrò dopo il secondo colpo, lasciandole in mano soltanto le cinghie di cuoio e la cornice esterna, ormai inutile. Gamay afferrò una lancia e la tenne inclinata in avanti. I motociclisti sospesero l'attacco, limitandosi a incrociarsi davanti a lei, poi uno degli aggressori si fece sotto. La lancia puntò nella sua direzione come l'ago di una bussola. La ragazza trattenne il fiato, ma, all'ultimo istante, l'aggressore si allontanò, e fu il suo compagno ad attaccare realmente da sinistra. Gamay girò su se stessa per fronteggiarlo, ma subito dopo la sua attenzione fu distratta da un nuovo assalto sulla destra. Era un classico attacco laterale. I due bruti non erano ancora pronti a un assalto frontale in piena regola; probabilmente volevano soltanto saggiare la sua reazione. Una moto le passò davanti, con il conducente convinto di essere fuori della portata della lancia. Invece di puntarla contro di lui, Gamay la ritrasse, piegando il braccio sulla spalla, poi la scagliò contro il motociclista che correva veloce. Il tiro si rivelò troppo basso, e la lancia colpì i raggi della ruota anteriore. La spinta della rotazione frantumò l'asta, ma non prima che la ruota sottile, con il battistrada scolpito, si girasse bruscamente. La moto s'impennò, e il conducente volò via al di sopra del manubrio, mentre la motocicletta scivolava di lato sul pavimento, lasciando una scia di scintille rosse e bianche. Gamay vide l'uomo ricadere a terra e restare immobile. Il secondo motociclista interruppe l'assalto, puntando la luce del faro sulla figura inerte. Smontò, ma, prima ancora di accovacciarsi vicino al corpo riverso in una posizione innaturale, aveva già capito che il centauro era morto: aveva percepito il terrore e il dolore provati dal gemello quando gli si era spezzato il collo. A quel punto nella sala salì un gemito che aumentò di volume fino a trasformarsi in un grido angoscioso. Gamay avvertì un brivido lungo la spina dorsale quando il gemello superstite cominciò a ululare come un lupo. La giovane donna si diresse verso la murata della nave, sperando di trovare un'altra arma se fosse riuscita a salire sul ponte, ma il superstite intuì la sua mossa e risalì in sella all'istante. Gamay puntò
la lancia in fuori, ma quando lui si avvicinò lateralmente sentì uno scatto e un tintinnio metallico: aveva troncato di netto la punta della lancia con un colpo di un'ascia da combattimento col manico corto. Il motociclista si fermò, sollevando l'ascia sopra la testa, a due mani, poi si diresse verso di lei. Gamay corse verso la poppa della nave, ma lui la raggiunse in un attimo, investendola da dietro con la moto e facendola cadere. Gamay fu scossa da una serie di fitte lancinanti alle ginocchia e ai gomiti provocate dalla caduta, ma aveva ben altro di cui preoccuparsi. Vedeva troneggiare su di sé una figura minacciosa. «Mio fratello... è morto...» L'uomo parlava in tono incerto, come se fosse in attesa di una risposta a tono da parte del gemello. «Lo hai ucciso... e ora io ucciderò te. Comincerò... dalle gambe. Una alla volta. Poi passerò alle braccia.» Vestito di pantaloni e gilè di pelle, la guardava come il boia di fronte alla vittima designata. I denti, mentre sorrideva pregustando il seguito, emettevano uno sfavillio terrificante. Gamay tentò di rotolare lontano, ma lui le posò lo stivale su una caviglia, strappandole un grido. Proprio mentre l'ascia si alzava si udì un ronzio. L'uomo emise un grugnito di sorpresa, poi spostò la mano libera verso l'asta di un dardo di balestra che gli spuntava dalla tempia, ma ormai era già morto. Lo scintillio scomparve dai suoi occhi orlati di rosso, e lui cadde di schianto. Gamay rotolò via, mentre l'ascia cadeva fragorosamente sul pavimento. Poi udì dei passi rapidi. Braccia possenti la sollevarono di peso, e lei vide il sorriso familiare di Zavala. Quindi comparve anche Austin, che imbracciava un'antica balestra. «Stai bene?» chiese Austin. «Non ho niente che un buon trapianto di pelle non possa curare.» Notò che Joe impugnava una pistola mitragliatrice, quella presa all'altra guardia. «Non per essere ingrata, ma perché giocare a Guglielmo Teli, se avevi quella?» «Questo tipo di arma lancia una rosa di proiettili», rispose Zavala. «È straordinaria per bloccare un assalto in piena regola, ma non è il massimo per un lavoro di precisione. Sarei subentrato a Kurt, se avesse fallito il bersaglio.» S'inginocchiò vicino al gemello morto. «Avresti dovuto colpire la mela sopra la sua testa.» «La prossima volta mirerò più in alto», ribatté Austin, gettando via la
balestra. Lei diede un bacio sulla guancia a entrambi. «Mi fa piacere vedervi, anche se devo sopportare le vostre battute idiote.» Austin controllò il corpo del gemello rimasto vicino alla motocicletta. «Mi pare che te la cavassi benissimo da sola.» «Stavo per andare in pezzi», replicò Gamay, chiedendosi come poteva scherzare sul tentativo di smembrarla. «Dove siamo?» «Sulle rive del lago Tahoe.» «Tahoe! Come avete fatto a trovarmi?» «Te lo spiegheremo dopo che avremo rintracciato Francesca. Puoi camminare?» «Striscerei sulle ginocchia, pur di uscire da qui. Che bel completino», aggiunse, guardando il loro abbigliamento, corredato di berretto bianco. «È così che avete ingannato le guardie alla porta?» «Non c'erano guardie.» «Immagino che non volessero sentirsi corresponsabili con questi due bruti.» «La verità è che siamo capitati qui per caso. Abbiamo visto che stavi giocando una partita a guardie e ladri con il tuo amico ed eri destinata a perderla. Allora ho staccato una balestra dalla parete e ho aspettato che portassi quell'uomo nella posizione giusta per colpirlo.» Austin s'impadronì della pistola di uno dei morti. «Che ne dici di levare le tende prima che arrivi la banda dei cattivi?» Gamay annuì, avviandosi alla porta con passo claudicante, affiancata dai due uomini. In quel momento i battenti si aprirono, ed entrò Brynhild. Era sola, ma ciò non rendeva meno imponente il suo ingresso nella sala. Degnò appena di un'occhiata i due cadaveri mentre si avvicinava, fermandosi davanti a loro, con le gambe muscolose divaricate come due tronchi d'albero, i pugni sui fianchi. «Immagino che questa sia opera vostra», osservò. Austin alzò le spalle. «Mi spiace per il disordine.» «Erano due idioti. Se non li aveste uccisi voi, lo avrei fatto io. Hanno disobbedito ai miei ordini e profanato questo luogo sacro.» «D'altra parte so com'è difficile trovare personale affidabile, di questi tempi.» «Meno di quanto lei creda. Gli uomini che amano uccidere non scarseggiano mai. Come avete fatto a entrare?» «Siamo entrati dalla porta principale. Che posto è questo?»
«È il cuore e l'anima del mio impero.» «Allora lei dev'essere l'inafferrabile Brynhild Sigurd», disse Austin. «Esatto, e so chi è lei, signor Austin, e il suo amico Zavala. Vi teniamo d'occhio da quando avete fatto visita al nostro impianto in Messico. È gentile da parte vostra onorarci di una visita.» «Non lo dica neppure. Deve assolutamente rivelarci il nome del suo arredatore. Che ne pensi, Joe, primo stile Famiglia Addams o tardo transilvanico?» «Stavo pensando piuttosto a un gotico rivisto e aggiornato. Il tavolino da caffè a forma di nave mi sembra un tocco delizioso.» «Imparerete», ribatté la donna. «Quella nave simboleggia il passato, il presente e il futuro glorioso.» Austin scoppiò a ridere. «Un simbolo appropriato. Quella nave non va da nessuna parte, e lo stesso vale per il suo impero.» «Voi della NUMA cominciate ad annoiarmi.» «Stavo dicendo la stessa cosa a Joe, prima che arrivasse lei. Non vorremmo abusare della sua pazienza. Se vuole scusarci, togliamo il disturbo. Andiamo, ragazzi.» Zavala, che era in testa, tentò di aggirare Brynhild, rivolgendole un sorriso smagliante, com'era sua abitudine di fronte a qualsiasi rappresentante dell'altro sesso. Brynhild era un fenomeno da baraccone, rifletté, ma era pur sempre una donna. Purtroppo il tanto decantato fascino di Joe andò sprecato con la gigantessa, che protese una mano afferrandolo per il camice e lo scrollò come un terrier che ha catturato un ratto, e infine, con la sua forza enorme, lo scaraventò sul pavimento. Zavala si rimise subito in piedi. Sempre gentiluomo con le donne di tutte le misure e le età, sorrise di nuovo. «So quello che prova, ma questo non è un buon modo per mettere fine alla nostra relazione.» Brynhild replicò sferrandogli un manrovescio al viso. Joe indietreggiò di alcuni passi, barcollando e asciugandosi un rivoletto di sangue che gli scorreva dall'angolo della bocca, mentre Brynhild serrava il pugno destro, tirando indietro il braccio per prepararsi a un altro colpo. Austin intervenne per proteggere Joe. Teneva d'occhio le mani di Brynhild, quindi fu colto alla sprovvista quando lei scattò con la gamba sinistra in fuori, eseguendo un classico colpo di kickboxing, e lo colpì al torace con lo stivaletto. Lui sentì le costole incrinarsi sotto il tremendo impatto prima ancora di crollare a terra con una violenza tale da battere i denti. La vista di Austin a terra cancellò tutte le inibizioni che impedivano a
Zavala di colpire una donna. «E con questo fanno due colpi bassi», mormorò tra sé. Joe si era pagato gli studi al New York Maritime College tirando di boxe da professionista fra i pesi medi e aveva vinto quasi tutti gli incontri disputati, in molti casi per KO. Rispetto ai tempi del college, aveva messo su peso, ma riusciva ancora a restare sotto il limite dei settantanove chili. Era alto un metro e settantotto, il che voleva dire che Brynhild aveva un vantaggio in altezza di circa trenta centimetri, e probabilmente pesava una ventina di chili più di lui, ma non erano certo venti chili di grasso. Il calcio aveva consentito a Brynhild di mettersi in posizione ideale per sferrare a Zavala un destro potente che avrebbe potuto fargli saltare la testa dalle spalle, ma l'istinto acquisito sul ring cominciava a ridestarsi dentro di lui. Intuì il colpo e si abbassò di scatto, cosicché il destro gli sfiorò appena la testa, passando sopra di lui. A quel punto Joe assestò un sinistro al diaframma di Brynhild. Per poco non si fratturò il polso, ma riuscì a rompere il ritmo dell'avversaria. Lei sferrò un sinistro che andò a vuoto. Zavala, abbassando la testa e mettendosi in guardia, tentò una combinazione che, ai tempi del college, aveva atterrato più di un avversario, eseguendo un rapido jab di sinistro, seguito da un cross corto di destro e ancora da un gancio sinistro. Il destro andò a vuoto, ma il gancio sinistro centrò in pieno Brynhild alla mascella. I suoi occhi si velarono, ma solo per un attimo. Mentre Joe si faceva sotto, lei arretrò per scoccargli dall'alto un destro al cuore che gli tolse il respiro. Mentre lui ansimava, la donna riuscì a penetrare nella sua guardia e lo colpì duramente al diaframma. Zavala incassò bene il colpo, grazie ai muscoli tesi dello stomaco, e reagì con un destro e un sinistro alla mascella. Entrambi i colpi mancarono il bersaglio. All'inizio Brynhild era rimata sorpresa dalla reazione pronta ed esperta di Joe, ma ormai gli aveva preso le misure e si teneva a distanza, sfruttando la statura e l'allungo superiore per bersagliarlo di colpi da lontano. Zavala intuì tale strategia e tentò di avvicinarsi per mettere a segno un uppercut al mento, ma ogni volta lei gli sbarrava il passo con una grandinata di colpi da KO, tenendosi sempre a distanza di sicurezza. Ormai Joe aveva l'occhio sinistro semichiuso e il naso che sanguinava. Riuscì a mettere a segno un lungo sinistro alla gola di Brynhild, ma per farlo fu costretto a incassare un altro colpo secco alla testa. Malgrado la stazza, lei era agile e svelta più di qualsiasi peso medio che avesse mai incontrato. I vecchi aficionados del ring ripetevano sempre che un buon pugile alto può
sconfiggere quando vuole un buon avversario piccolo; Zavala sperava che quella massima non si applicasse anche a una donna alta. Continuò a battersi ostinatamente, del tutto fuori tempo, sferrando colpi ormai privi di forza, che andavano a vuoto. Ancora un minuto, e lei lo avrebbe finito con un paio di calci tanto violenti da spezzargli il collo. Poi, del tutto inaspettatamente, Brynhild abbassò la guardia e, prima che i riflessi ormai appannati di Zavala potessero approfittarne, la donna si accasciò al suolo di schianto. Joe rimase immobile, come istupidito, tergendosi la fronte dal sudore che gli colava negli occhi. Allora vide Gamay dominare dall'alto la figura distesa di Brynhild, tenendo a due mani uno degli scudi di legno che erano appesi alla nave. «Esiste più di un modo per atterrare una valchiria», esclamò, sprizzando collera dagli occhi. Austin, intanto, era riuscito a rimettersi in piedi; tenendosi con la mano le costole incrinate, guardò gli altri e commentò: «Spero che stiamo meglio di quanto non sembri dal nostro aspetto». «Mi sentirò infinitamente meglio quando saremo fuori di qui», ribatté Zavala, parlando a fatica con le labbra gonfie. «Un momento», disse Austin, guardandosi intorno. «Ci vuole un'azione diversiva.» Senza esitare, si diresse verso uno dei bracieri posti vicino alla barca, lo prese per i sostegni di metallo e rovesciò le braci ardenti sul ponte della nave. Poi salì a bordo e ammucchiò gli scudi, formando una pila. Le fiamme del falò improvvisato divamparono, estendendosi all'albero e arrivando a lambire l'estremità inferiore della vela di cuoio. In pochi secondi la vela quadra divenne una cortina di fiamme e il fumo nero e soffocante che si sprigionava dall'incendio salì verso il soffitto, dove cominciò a estendersi in orizzontale. Portato a termine il suo compito, Austin guidò gli altri verso la porta, dove rimasero in attesa di fianco agli stipiti, mentre il salone si riempiva di fumo. Pochi minuti dopo, i massicci battenti si aprirono e si riversò nella sala un gruppo di guardie che gridavano. La ventata di aria fresca alimentò le fiamme e fece salire verso il soffitto nuvole gonfie di fumo nero che invasero tutto il salone. Le guardie, correndo verso la nave, non si avvidero neppure delle tre ombre che sgattaiolavano fuori dalla porta aperta. 40
All'interno del laboratorio subacqueo, Francesca si sentiva assalire dalla frenesia. Sarebbe bastato collocare solo un'altra tessera al suo posto e il piano sarebbe stato completo, ma non osava compiere tale mossa senza prima aver saputo che gli altri erano al sicuro, soprattutto dopo l'uscita precipitosa di Brynhild. Si guardò intorno. I tecnici erano tutti impegnati ad accattivarsi la benevolenza dei componenti del consiglio di amministrazione, che si aggiravano nel locale tracannando bicchieri di acqua desalinizzata come se fossero coppe di Moët & Chandon. La festa non sarebbe durata per sempre. Qualcuno prima o poi avrebbe notato che lei continuava a dedicare tutte le sue attenzioni al quadro di controllo. Il brusio delle conversazioni cessò di colpo e Francesca, voltandosi, vide uscire dall'ascensore dei tecnici tre figure bizzarre. Alla vista degli amici rimase inorridita: erano quasi irriconoscibili. Gamay zoppicava, con gli splendidi capelli rossi che sembravano passati in un frullatore, le braccia e le gambe costellate di lividi e abrasioni. I camici bianchi di Austin e Zavala erano striati di sangue e nerofumo. Zavala aveva il viso gonfio e un occhio pesto e semichiuso. Facendosi largo tra la folla, raggiunsero Francesca, e Austin riuscì ad abbozzare un sorriso. «Scusa se ci abbiamo messo tanto. Abbiamo incontrato qualche... ostacolo.» «Grazie a Dio, siete qui.» Austin le passò un braccio intorno alle spalle. «Non intendiamo restare. Abbiamo un taxi che ci aspetta sotto questo impianto. Possiamo offrirti un passaggio?» «C'è ancora una cosa che devo fare», rispose Francesca. Avvicinandosi alla console, digitò una serie di cifre sulla tastiera del computer e osservò per un attimo gli indicatori digitali. Poi, soddisfatta di constatare che tutto andava come previsto, si voltò per dire: «Ecco, sono pronta». Zavala aveva tenuto sotto tiro gli uomini della Gogstad, nel caso che qualcuno di loro avesse un inatteso attacco di coraggio, mentre Austin squadrava con curiosità i componenti del consiglio di amministrazione, che ricambiavano con un'espressione di odio allo stato puro. A un certo punto si fece avanti Grimley. Piantando il naso in faccia a Austin, gli disse: «Esigiamo che lei ci dica chi siete e cosa fate qui». Austin si lasciò sfuggire una risatina sgradevole, posò la mano sul petto ossuto dell'uomo e lo spinse indietro insieme agli altri. «Chi è questo pagliaccio?» chiese a Francesca. «Lui e i suoi amici sono un simbolo di tutto il marciume del mondo.»
Austin, da filosofo dilettante qual era, meditava da tempo sui problemi legati al bene e al male, ma quello non era il momento d'intavolare discussioni metafisiche. Ignorando l'inglese, prese per un braccio Francesca, guidandola verso l'uscita che li avrebbe portati verso il portello a tenuta stagna e il sommergibile. Li seguiva Gamay, mentre Zavala copriva loro le spalle. Avevano compiuto appena pochi passi, quando le porte del montacarichi si aprirono e una ventina di guardie fece irruzione nel laboratorio, circondando subito i fuggiaschi e alleggerendo Zavala della sua arma. Dal montacarichi uscì per ultima Brynhild, e le guardie le fecero ala per lasciarla passare. Aveva i capelli biondi scarmigliati, in seguito alla botta dello scudo infertale da Gamay, e il volto pallido chiazzato di fuliggine, ma l'aspetto scomposto non intaccava l'imponenza fisica e la malevolenza degli occhi chiari. Fremente di rabbia, puntò l'indice contro i membri della NUMA come se volesse scagliare una folgore contro di loro. «Uccideteli», ordinò. Di fronte a quella svolta negli eventi, i componenti del consiglio di amministrazione della Gogstad si lasciarono sfuggire un mormorio soddisfatto, e i loro occhi scintillarono, mentre già pregustavano l'eliminazione dei ribelli. Ma, proprio mentre le guardie puntavano le armi e si preparavano a sparare una raffica letale, Francesca si parò davanti agli amici malridotti, facendo loro da scudo con il suo corpo. Con una voce che, per potenza e timbro, evocava il suo regno di dea bianca fra i selvaggi, gridò: «Fermi!» «Si tolga di mezzo, altrimenti uccideranno anche lei», ordinò Brynhild. Francesca le rivolse un'espressione di sfida. «Non credo proprio.» Brynhild parve addirittura ingigantirsi per la collera. «Chi è lei per sfidarmi?» ribatté con un ringhio. Per tutta risposta, Francesca si spostò davanti al quadro di controllo. Il pannello degli strumenti sembrava un biliardino impazzito, con tutte le spie accese. Battaglioni di cifre scorrevano sullo schermo del computer. Era impossibile ignorare il fatto che qualcosa andava decisamente per il verso sbagliato. Brynhild si avventò su Francesca con la furia di un angelo vendicatore. «Che cosa ha fatto?» «Guardi con i suoi occhi», rispose Francesca, facendosi da parte. Brynhild fissò il display a colori. «Che cosa sta succedendo?» «La strumentazione sta per avere un collasso nel tentativo di affrontare l'equivalente di una reazione a catena.» «Che cosa vuol dire? Me lo spieghi, oppure...»
«Mi ucciderà? Faccia pure. Io sono la sola che può arrestare la reazione.» Sorrise. «C'è qualcosa che lei non ha mai saputo dell'anasazium. Se viene lasciato inerte, non è più pericoloso del ferro. Ma i suoi atomi diventano molto instabili quando la sostanza viene sottoposta a certe condizioni.» «Che genere di condizioni?» «Esattamente la combinazione di temperatura, elettricità e vibrazioni soniche alla quale il nucleo è soggetto in questo momento. Se non modificherò le istruzioni, il nucleo esploderà.» «Sta bluffando.» «Ah, si? Guardi pure da sé. I livelli del calore stanno per uscire dai limiti del grafico. Non è ancora convinta?» aggiunse Francesca. «Allora pensi alla misteriosa esplosione avvenuta nell'impianto in Messico. Non appena mi ha parlato dello scoppio, ho capito che cosa lo aveva causato. Sono bastati pochi grammi di questa sostanza per distruggere il suo impianto. Pensi a quello che avverrà quando centinaia di chili raggiungeranno la massa critica.» Brynhild si rivolse ai tecnici che si erano riuniti intorno a loro, gridando che qualcuno interrompesse la reazione. Il capo dei tecnici osservava lo schermo impazzito del computer come se fosse affascinato. Si fece avanti, con la fronte madida di sudore, dichiarando: «Non sappiamo come fare. Tutti i nostri tentativi peggiorano la situazione». Brynhild strappò una pistola mitragliatrice dalle mani della guardia più vicina, puntandola contro Gamay. «Se non interrompe la reazione, ucciderò i suoi amici uno per uno. Lei per prima.» «Chi sta bluffando, adesso?» replicò Francesca. «Ha intenzione di ucciderli in ogni caso. Così moriremo tutti insieme.» La pelle bianca di Brynhild divenne ancora più pallida, e lei abbassò l'arma. «Cosa vuole?» ringhiò, con voce tesa per la collera. «Voglio che queste persone escano di qui sane e salve.» Da ingegnere, Brynhild era stata addestrata a raccogliere i dati di fatto, prima di prendere una decisione. Se non si arrestava la reazione, l'esplosione avrebbe distrutto l'impianto. Francesca era la sola che sapeva come disinnescare quella situazione mortale. Brynhild avrebbe lasciato andare quelli della NUMA, e poi, non appena la reazione si fosse stabilizzata, avrebbe ordinato agli uomini della sicurezza di catturarli. Poi avrebbe pen-
sato a Francesca. Voleva vendetta per la distruzione della sua nave, ma sapeva essere paziente. Aveva dovuto attendere anni per arrivare a quel momento. Restituì la pistola mitragliatrice alla guardia. «D'accordo», dichiarò. «Ma lei deve restare.» Francesca tirò un gran sospiro di sollievo e si girò verso Austin. «Hai detto che siete venuti dalla parte del lago?» «Sì. Abbiamo l'attrezzatura da sub e un sommergibile che ci aspetta proprio sotto il laboratorio.» «Non potete uscire da quella parte», replicò Francesca. «I livelli di calore sono già troppo elevati. Finireste bolliti vivi prima di raggiungere il sommergibile.» «Cercheremo di prendere l'ascensore per il pontile. Laggiù c'è una barca.» «È la via migliore.» «Non possiamo lasciarti qui.» «Va tutto bene. Non mi faranno del male, finché sarò utile per loro.» Gli rivolse un sorriso pieno di fascino. «Attenderò con ansia di essere salvata ancora una volta dalla NUMA.» Si girò di nuovo verso Brynhild. «Li accompagno all'ascensore.» «Niente scherzi», ammonì la gigantessa, ordinando a due guardie di scortare il gruppo. Francesca premette il pulsante che apriva la porta dell'ascensore a uovo. «Siete feriti. Vi aiuto io.» Quando furono tutti dentro, si protese verso di loro sussurrando: «Qualcuno di voi ha una pistola?» Le guardie che avevano alleggerito Zavala della pistola mitragliatrice davano per scontato che Austin non avesse armi, visto che non ne impugnava. Invece lui aveva ancora la rivoltella che aveva preso a uno dei fratelli Kradzik, nascosta sotto la casacca. «Ne ho una io», le rispose, «ma tentare di uscire di lì sparando sarebbe un suicidio.» «Non ho nessuna intenzione di farlo. Dammi la pistola, per favore.» Austin le consegnò a malincuore l'arma, e lei in cambio gli porse una busta di manila che teneva sotto il camice. «È tutto qui dentro, Kurt. Proteggila a costo della vita.» «Che cos'è?» «Lo vedrai quando la consegnerai al mondo.» Baciò Austin a lungo. «Mi dispiace, ma dovremo rinviare quell'appuntamento», aggiunse con un sor-
riso. Poi si rivolse agli altri. «Arrivederci, amici miei. Grazie di tutto.» Il tono definitivo della sua voce era inconfondibile. Austin comprese all'improvviso che non aveva alcuna intenzione di farsi salvare. «Entra!» gridò, afferrandola per un braccio, ma lei si sottrasse con facilità alla sua stretta, lanciando un'occhiata all'orologio. «Avete esattamente cinque minuti. Fatene buon uso.» Poi premette il pulsante della risalita. La porta scorrevole si chiuse e l'ascensore scomparve. Le guardie si distrassero per seguire con gli occhi la cabina, e Francesca ne approfittò per estrarre la pistola dal camice e sparare sul pannello dei comandi dell'ascensore; poi fece altrettanto con il montacarichi, prima di gettare via la pistola. Mentre Brynhild si precipitava verso di lei insieme con le altre guardie, risuonò nell'aria una sirena assordante, emessa dagli altoparlanti sistemati tutt'intorno alla cupola del laboratorio. «Che cos'ha fatto?» gridò Brynhild. «Questo è il preavviso dei cinque minuti», gridò di rimando Francesca. «Ormai la reazione è innescata, e niente potrà più fermarla.» «Aveva detto che avrebbe interrotto la reazione, se lasciavo andare i suoi amici.» Francesca scoppiò a ridere. «Ho mentito! Non me lo ha detto lei che non bisogna mai fidarsi di nessuno?» ribatté, rinfacciandole le sue stesse parole. I tecnici avevano intuito il pericolo prima di tutti gli altri e, mentre l'attenzione generale era rivolta altrove, sgattaiolarono via in silenzio per raggiungere una stretta scala d'emergenza che saliva a chiocciola in un pozzo separato a tenuta stagna, collegato alla superficie. I componenti del consiglio di amministrazione li videro tentare la fuga e cercarono di seguirli. Sotto l'effetto della paura, la disciplina delle guardie si dissolse istantaneamente, e gli uomini usarono il calcio delle armi per respingere gli altri, prima di aprire il fuoco su quelli che non erano disposti a ritirarsi. I corpi si ammucchiarono davanti alla porta d'accesso alla scaletta. Gli agenti del servizio di sicurezza scavalcarono il mucchio di cadaveri solo per trovarsi incastrati in uno spazio troppo angusto. Nessuno voleva cedere il passo, ma intanto altri spingevano da dietro, e nel giro di pochi secondi l'unica via di fuga fu intasata da corpi schiacciati e calpestati. Brynhild non poteva credere che il suo mondo si fosse disgregato così in fretta, e tutta la sua collera si concentrò su Francesca, che non aveva fatto il minimo tentativo di allontanarsi. Raccogliendo da terra l'arma abbando-
nata da Austin, la puntò contro di lei. «Morirà per questo!» gridò. «Sono già morta dieci anni fa, quando il suo folle piano mi ha fatto precipitare nella foresta pluviale.» Brynhild premette il grilletto, sparando tre colpi. I primi due andarono a vuoto, ma il terzo raggiunse Francesca al torace. Lei sentì le ginocchia cedere e scivolò a terra, con le spalle addossate alla parete. Quando avvertì scendere sugli occhi un velo nero, sorrise beata, e un attimo dopo era morta. Brynhild gettò via l'arma, dirigendosi verso il quadro dei comandi. Non potendo fare nulla, rimase ferma davanti allo schermo del computer, come se potesse arrestare la reazione grazie alla pura forza di volontà. Serrò i pugni, portandoli in alto sopra la testa, e il suo ululato di rabbia si unì al suono roco della sirena. Poi gli atomi e le molecole torturati e intrappolati nel nucleo dell'impianto si liberarono, scatenando una spaventosa esplosione di energia. Il contenitore del nucleo, dilaniato dalla pressione interna, si trasformò in una massa di metallo fuso. Brynhild fu incenerita all'istante da un'esplosione al calor bianco, e una gigantesca sfera di fuoco trasformò il laboratorio in un inferno. Il fumo surriscaldato salì attraverso il pozzo degli ascensori e il tunnel della monorotaia, invadendo il complesso, dove riempì tutti i corridoi, sboccando infine nel salone. Espandendosi, esplose in una raggiera di fiamme che resero l'aria ardente, appiccandosi alle bandiere appese alle pareti. Le ceneri grigie e fumanti della nave Gogstad, nel cuore di Walhalla, svanirono in un olocausto finale. 41 Il Boston Whaler sfrecciava sul lago planando, con la prua sollevata, mentre Austin spingeva al massimo i due motori fuoribordo Evinrude 150. Il suo volto era una maschera di bronzo che esprimeva collera e frustrazione. Aveva tentato di rientrare nel laboratorio, ma l'ascensore si era bloccato subito dopo l'arrivo nella rimessa delle barche, e anche il montacarichi non funzionava. Aveva appena cominciato a scendere lungo una scaletta, quando Gamay lo aveva afferrato e trattenuto. «Non serve a niente», gli disse. «Non c'è tempo.» «Da' retta a Gamay», confermò Zavala. «Ci restano meno di quattro mi-
nuti.» Austin sapeva che avevano ragione. Se avesse tentato un inutile salvataggio, sarebbe morto lui e avrebbe messo a repentaglio anche la loro vita, così li guidò fuori della rimessa, sul pontile. La guardia sonnecchiava, seduta al sole. Si alzò e tentò di imbracciare l'arma che portava a tracolla, ma Austin, che non era in vena di rispettare le regole del marchese di Queensberry, aggredì l'uomo terrorizzato, investendolo con una spallata in pieno diaframma e buttandolo giù dal pontile. Salirono a precipizio sulla barca. La chiave era inserita nell'accensione e i serbatoi erano pieni. I motori si avviarono subito. Mollarono gli ormeggi e Austin spinse al massimo la manetta, orientando il fuoribordo su una rotta diretta verso la riva che apparteneva al Nevada. Sentendo Zavala lanciare un grido, si voltò. Joe e Gamay guardavano verso il pontile alle loro spalle, dove il lago gorgogliava come l'acqua bollente in una pentola. Si udì un rombo soffocato, e un geyser rosso sangue sprizzò nel cielo come uno zampillo alto decine e decine di metti. Furono costretti a coprirsi il volto con le mani per proteggersi dalla pioggia incandescente e dalla nube di vapore che si sprigionò subito dopo. Quando si azzardarono a guardare di nuovo, il pontile era scomparso. Nella loro direzione avanzava un'onda alta almeno tre metri. «Queste barche dovrebbero essere inaffondabili», disse Zavala con voce tesa. «Lo dicevano anche del Titanic», gli rammentò Gamay. Austin girò la barca, in modo che la prua fosse puntata verso l'onda, e si fecero forza, aggrappandosi a tutti i sostegni disponibili e aspettandosi di essere sommersi. Invece l'onda si limitò a sollevarli in aria, passando sotto di loro. Austin si ricordò che anche uno tsunami non fa troppi danni finché non si abbatte sulla riva, e si augurò che la potenza dell'onda scemasse prima di colpire la sponda del Nevada. Anche a terra stava accadendo qualcosa, del resto. Dalla foresta dove Austin, dall'alto del paracadute da traino, aveva visto innalzarsi le torrette del complesso della Gogstad, si levò una colonna di fumo. Sotto i loro occhi, il fumo cambiò aspetto, diventando più scuro e denso. Allora ridusse la velocità per contemplare le grosse volute nere screziate di fiamme rosse e gialle che s'innalzavano al di sopra degli alberi. «Götterdämmerung», mormorò. Gamay lo sentì. «Il crepuscolo degli dei?» «Io pensavo più che altro a una dea.»
Rimasero tutti in silenzio. Gli unici suoni erano il ronzio dei motori e il sibilo della prua che solcava le acque. Poi udirono un segnale sonoro che sembrava il verso di un gufo impazzito e, voltandosi, videro una torta nuziale rossa, bianca e blu che navigava a vapore verso di loro. Il Tahoe Queen fece sentire di nuovo il suo fischio. Si vedeva la figura alta di Paul che agitava la mano dal ponte superiore. Austin rispose al gesto di saluto, spinse la manetta sino in fondo, e puntò il Whaler in direzione del battello. EPILOGO Deserto della Libia, sei mesi dopo L'anziano del villaggio era esile come una cicogna e il suo viso coriaceo era tanto segnato da decenni di vita trascorsa sotto il sole del deserto che sarebbe stato impossibile trovare spazio per un'altra ruga. Anni di denutrizione avevano ridotto il suo arsenale di denti a due soltanto, uno sopra e uno sotto, ma questo non gli impediva di sorridere con orgoglio. A vederlo così, in piedi al centro del suo dominio, un grappolo di tuguri di argilla giallastra e qualche albero di palma che contrassegnava la presenza di un'oasi melmosa, si sarebbe detto che fosse il sindaco di una metropoli che si accingeva a presenziare al taglio del nastro di un progetto di opere pubbliche da inaugurare. Il villaggio si trovava a occidente della Grande Piramide di Giza, in una delle regioni meno ospitali del mondo. Fra Egitto e Libia si stendevano migliaia di chilometri quadrati di sabbia arida e rovente, interrotti qua e là dallo scheletro di panzer risalenti alla seconda guerra mondiale. Alcuni insediamenti sparsi si aggrappavano tenacemente alla vita, attorno a oasi dall'affidabilità imprevedibile. A volte le oasi si prosciugavano, e in quel caso i raccolti andavano a monte e il villaggio era assediato dalla carestia. Il ciclo che alterna sussistenza e inedia rappresentava lo standard normale di vita da secoli, ma tutto ciò stava per cambiare, finalmente. In segno di festa per i progressi futuri, il villaggio era stato addobbato con bandiere multicolori. Strisce di tessuto colorato erano intrecciate alla coda dei cammelli, e una grande tenda a strisce bianche e blu - i colori dell'ONU - era stata innalzata in mezzo alla piazza, poco più che uno spiazzo polveroso al centro dell'abitato. Allineati ai margini del villaggio c'erano parecchi elicotteri. All'ombra della tenda erano riuniti diplomatici dell'ONU e di varie nazioni del Medio Oriente e dell'Africa.
L'anziano del villaggio era fermo vicino a una struttura che nessuno si sarebbe aspettato di trovare in mezzo al deserto. Era una fontana circolare di marmo, formata da una grande vasca che ne racchiudeva una più piccola, sormontata dalla statua di una donna alata. La fontana era fatta in modo che l'acqua scorresse dal palmo delle mani tese della figura. L'anziano era pronto. Con aria cerimoniosa prese una tazza di latta che portava appesa al collo, la riempì d'acqua e ne bevve un sorso. Il sorriso sdentato si allargò ancora di più, e l'uomo intonò in arabo, con una voce fragile e acuta: «Elhamdelillah lilmayya». Fu raggiunto da altri uomini del villaggio che bevvero uno dopo l'altro dalla tazza di stagno, come se quella, e non la fontana, fosse la fonte magica dell'acqua. Le donne che erano in attesa si precipitarono a riempire gli orci di terracotta che servivano al trasporto dell'acqua, e i bambini che si aggiravano intorno alla fontana interpretarono i gesti delle madri come il segnale che era venuto il momento di rinfrescarsi. Ben presto la vasca più grande si riempì di bambini nudi che ridevano e sguazzavano. I diplomatici e i funzionari dei vari governi lasciarono la protezione della tenda per riunirsi intorno alla fontana. Assistevano divertiti alla scena, restando all'ombra di una palma, anche la squadra missioni speciali della NUMA e lo skipper della Sea Robin. «Qualcuno sa che cosa ha detto il vecchio?» domandò Zavala. «Il mio arabo è piuttosto limitato», rispose Gamay, «ma credo che stia ringraziando Allah per l'acqua, il dono meraviglioso della vita.» Paul passò sulle spalle della moglie il braccio destro, quello sano. «Peccato che Francesca non sia qui a vedere la sua immagine scolpita nel marmo. Mi fa pensare ai vecchi tempi della dea bianca.» Austin annuì. «Se ho capito bene il carattere di Francesca, non la guarderebbe due volte. Controllerebbe il serbatoio dell'acqua e l'impianto d'irrigazione, si accerterebbe che la conduttura dell'impianto di desalinizzazione non perda, e poi se ne andrebbe a installare altri impianti.» «Penso che tu abbia ragione», convenne Paul. «Quando le altre nazioni constateranno come sia efficace il processo Cabral per l'impianto pilota nel Mediterraneo, verranno tutte di corsa con la tazza di latta in mano. Bahrein e Arabia Saudita hanno dichiarato di essere pronti a finanziare qualche progetto del genere, ma l'ONU ha promesso di rispettare la richiesta allegata da Francesca ai progetti che ti ha consegnato, promuovendo questa iniziativa nei Paesi dell'Africa sub-sahariana.» «Ho sentito dire che anche gli Stati del Sud-ovest americano e il Messi-
co prenderanno l'iniziativa di costruire impianti sulla costa della California», aggiunse Austin. «Questo dovrebbe diminuire la domanda che grava sul fiume Colorado.» «Penso che Francesca sarebbe felice di vedere come alcuni Paesi che prima lottavano fra loro per accaparrarsi l'acqua ora collaborano per portarla nei luoghi colpiti dalla siccità», disse Gamay. «È nato un nuovo spirito di collaborazione. Forse c'è ancora speranza per la specie umana.» «Io sono ottimista», disse Austin. «L'ONU ha promesso anche di snellire l'iter burocratico. Hanno svolto un buon lavoro istituendo uno stabilimento di raffinazione per quel nuovo giacimento di anasazium scoperto in Canada. I progetti di Francesca sono incredibilmente semplici. Se si deve giudicare dalla costruzione di questo impianto, così rapida ed economica, qualunque nazione potrà produrre acqua potabile a basso costo.» «Che ironia, non è vero?» osservò Gamay. «E pensare che l'anasazium è stato isolato a Los Alamos, dove progettavano armi per la distruzione di massa.» «E ha rischiato di diventare uno strumento di morte nelle mani della Gogstad», aggiunse Austin. Gamay rabbrividì, sebbene la temperatura fosse superiore ai quaranta gradi. «A volte quella gigantessa, i suoi terribili carnefici e quel nido d'aquila spaventoso mi sembrano un sogno.» «Purtroppo erano molto reali, e quella da cui siamo fuggiti per il rotto della cuffia non era la città di Smeraldo del Mago di Oz.» «Spero che non sia sopravvissuta qualche cellula maligna che potrebbe trasformarsi in un bubbone.» «È poco probabile», replicò Austin. «La Gogstad non ha più il suo capo, la sua esperienza scientifica e gli uomini potenti che erano il motore di questa iniziativa. I popoli di tutto il mondo hanno capito il valore di ciò che rischiavano di perdere, e ora rivendicano la propria sovranità sui diritti d'uso delle riserve idriche.» Jim Contos aveva ascoltato con interesse quel dialogo. «Grazie per avermi invitato. Almeno ora so che i miei due sommergibili sono affondati per una degna causa.» «Mi fa piacere che tu lo abbia detto. Joe?» Zavala sorrise, tirando fuori dal taschino della camicia un foglio di carta che spiegò davanti agli occhi dello skipper. «Questo è soltanto uno schizzo preliminare», avvertì, «ma serve a darti un'idea di quello che abbiamo in
mente.» Contos spalancò gli occhi per lo stupore. «Accidenti, che bello.» Zavala fece una smorfia. «Ora non esageriamo. Sembra un pesce rosso deforme, ma scenderà più in profondità e più in fretta, porterà un maggior numero di strumenti e svolgerà più funzioni meccaniche di qualunque altro sommergibile che navighi in mare. Richiederà dei collaudi approfonditi.» «Quando si comincia?» «Il lavoro preliminare è già cominciato. Ho un impegno con lo Smithsonian. Stanno progettando un monumento in memoria degli ultimi piloti dell'ala volante, e mi hanno chiesto di eseguire alcuni voli per pubblicizzare la campagna, ma subito dopo sarò libero di collaborare ai collaudi.» «Che cosa aspettiamo?» intervenne Gamay. «Questa è una buona domanda», osservò Austin. «Il procedimento di Francesca trasformerà questa buca di sabbia in un giardino, ma non è posto per un branco di studiosi dell'oceano.» Si avviò verso un elicottero turchese con la scritta NUMA dipinta in nero sulla fiancata. «Ehi, Kurt, ma dove vai?» gli gridò dietro Zavala. Austin si girò. «Su, andiamo», rispose con un gran sorriso che rischiarava il viso bronzeo. «Andiamo in qualche posto dove ci si possa bagnare i piedi.» RINGRAZIAMENTI Grazie di cuore ai piloti Bill Along, Carl Scrivener e «Barefoot» Dave Miller, che si sono mostrati tanto generosi del loro tempo e della loro esperienza. FINE